sabato 2 febbraio 2019


DIVORZIO ALLA TURCA
Esmahan Aykol
Adelphi
Terzo caso per l’avventurosa Kati Hirschel, la libraia di Istanbul, venuta dalla natia Germania ma ormai più stambuliota di chiunque altro, investigatrice per vivacità. Del suo personaggio colpisce subito che non riesce a stare ferma. Gira in continuazione, indugia in situazioni di ogni genere, si ferma a parlare con chi capita, va curiosando ovunque soprattutto dove è più pericoloso mettere il naso. Avendo poco tempo, lo perde generosamente. Istanbul, la porta d’Asia e d’Europa è la sua giostra.
Esmahan Aykol predilige muovere la sua eroina – di modi, per altro, molto spicci e disponibili – in delitti che coinvolgono soprattutto le classi alte e i loro ambienti raffinati. Ma a Kati, nel suo correre, si apre una metropoli luccicante e tenebrosa, piena dei tanti tipi che si incontrano per strada di tutte le categorie. Così le sue indagini diventano una specie di spaccato della società turca, dando l’idea di un vivo cambiamento, di un fermento che è quasi un ribollire del nuovo nell’antico.
Da poco tempo proprietaria di una nuova casa, giunta al negozio Kati riceve la telefonata del suo collaboratore, il mondano Fofo che le dice che su internet c’è una notizia che potrebbe interessarla. È morta Sani Ankaralıgil, la «nuora degli Ankaralıgil», sposa del rampollo di una delle casate più in vista del paese. La signora aveva appena avviato le pratiche di divorzio. «Fantastico! Come una pantera pronta al balzo non vedevo l’ora di lanciarmi in una nuova indagine per far luce su un presunto delitto. Al diavolo il lavoro e i debiti!». E sostenuta dall’allegra autoironia che l’aiuta nei momenti belli e in quelli brutti, la libraia si prepara a fare ciò che la diverte di più: scompigliare le carte, smontare le soluzioni facili. Infatti la versione iniziale è: incidente. Ma chi ci crede? Con quel contorno di denaro e di potere. La prima pista da battere è questa: la donna presiedeva un’associazione ambientalista. Una strana associazione, con due soli soci, e i cui uffici sono devastati proprio nel giorno in cui la protagonista, con il collaboratore, va con una scusa a visitarli. Poi però tutto diventa più oscuro, minaccioso e complicato.


Esmahan Aykol, nata nel 1970 a Edirne, Turchia, vive tra Berlino e Istanbul. Durante gli studi universitari in giurisprudenza ha lavorato come giornalista per radio e giornali turchi. Oggi, dopo una parentesi come barista, si dedica completamente alla scrittura. Della serie con protagonista Kati Hirschel questa casa editrice ha pubblicato Hotel Bosforo(2010) e Appartamento a Istanbul(2011).
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  Istanbul è una città pericolosa. Da un po’ di tempo questa affermazione valeva in particolar modo per la zona di İstiklal Caddesi. Presto quel superstizioso di Fofo avrebbe cominciato a rovesciare un secchio d’acqua alle mie spalle ogni volta che uscivo di casa. Normalmente si fa solo quando si parte per un lungo viaggio. I giorni in cui dovevo recarmi dalle parti di İstiklal Caddesi il mio amico si alzava di buonora, mi preparava una fantastica colazione, elogiava la mia bellezza e il mio aspetto da ragazzina ed evitava accuratamente le solite discussioni. Alla fine, prima di lasciarmi andare, mi abbracciava e mi baciava come se non dovessimo vederci più. Ma in fondo era comprensibile, non si sa mai cosa può succedere. Anzi, si sa fin troppo bene! Avrei potuto lasciarci le penne in qualunque momento, magari finendo in una delle numerose buche scavate per ordine del comune oppure sotto le ruote di uno dei tanti camion che sfrecciavano nella zona pedonale.

  Avevo preso l’abitudine di indossare pantaloni con enormi tasche. Non potevo affrontare la quotidiana lotta per la sopravvivenza con una borsa che penzolava dalla spalla rallentandomi nei movimenti, quindi ero costretta a infilare le entrate della settimana e tutte le mie cose – cellulare eccetera – proprio nelle tasche dei pantaloni. E per avere il passo sicuro mettevo solo scarpe da ginnastica. All’inizio me ne vergognavo, ma col tempo mi ci ero abituata e non avrei mai smesso di lodarle per la loro comodità.

  Avevo fatto incredibili progressi. Prima, quando l’amministrazione di Beyoğlu aveva appena dato il via al rifacimento delle strade, scivolavo e cadevo continuamente nel fango. A un anno di distanza, però, mi muovevo come una pattinatrice esperta. Prima non sarei mai riuscita a superare con un balzo una buca larga due metri arrivando sana e salva dall’altra parte. Non ci avrei neanche provato. Queste vecchie paure mi sembravano ormai ridicole. L’unica cosa che mi dava ancora fastidio erano i pedoni che ciondolavano per İstiklal Caddesi come fosse una zona a loro riservata! Ogni volta che un’escavatrice, un camion o un’autogru ti veniva incontro a tutta velocità dovevi spostare la gente a gomitate per farti da parte e non essere investito. Ci volevano riflessi pronti, muscoli d’acciaio, mente sveglia, una buona dose di sfacciataggine e un abbigliamento adatto.

  Incredibile ma vero: era già la seconda volta che rifacevano la pavimentazione nel giro di un anno! A sentire Fofo anche in Spagna le strade vengono spaccate in continuazione. È il modo in cui ogni governo sostiene la sua ricca imprenditoria edile. In Turchia funzionava così da quando gli uomini con la barba e le loro donne velate avevano smesso di usare gli autobus urbani per andare in giro con l’ultimo modello di fuoristrada.

  Dal mio trasferimento a Kuledibi mi avventuravo dalle parti di İstiklal Caddesi solo il venerdì, per andare in banca a depositare l’incasso settimanale. Ma era comunque più che sufficiente per una donna della mia età. Più si va avanti con gli anni, più diventa difficile schivare i pericoli.

  Anche quel giorno mi ero spinta fino a İstiklal Caddesi. Sulla via del ritorno, dopo essere stata in banca, mi fermai al Şimdi in Asmalı Mescit Caddesi e presi un caffè senza zucchero per festeggiare il fatto che ormai il peggio era passato: una volta superata l’ambasciata svedese e percorso senza danni il ripido tratto nei pressi del liceo tedesco, in cinque o sei minuti – salvo imprevisti – avrei raggiunto Pelin e Fofo nel mio adorato negozio.

  Forse alcuni di voi ricordano ancora quanto mi sono arrabbiata quando Fofo, per seguire un nuovo amore, è scomparso da un giorno all’altro. A questo punto vi starete chiedendo perché continuo a nominarlo. Beh, è presto detto: lui e il compagno si sono lasciati. Dopo la separazione Fofo è rimasto un paio di giorni in uno squallido albergo da quattro soldi, poi, raccogliendo tutto il suo coraggio, mi ha chiesto se poteva tornare da me. E io, cedevole come il più morbido degli impasti, non sono riuscita a rimanere indifferente alla sua richiesta d’aiuto.

  Okay, forse «cedevole come il più morbido degli impasti» è un po’ esagerato. In ogni caso sono una brava persona. Anche se dopo il suo ritorno in negozio Fofo si è messo a lavorare con una lena mai vista, non ho pensato neanche per un istante di licenziare Pelin. La mia aiutante ha dovuto addirittura promettermi di finire l’università entro l’anno. Spero manterrà la parola data. Ogni estate i turchi aspettano con ansia l’invasione dei turisti e credo che questo valga anche per lei, se non altro perché si è iscritta a una serie di corsi per diventare accompagnatrice turistica per anglofoni. Qualcuno dovrebbe farle presente che in Turchia nessuno si arricchisce lavorando nel turismo e che quei poveretti che fanno da guida agli stranieri finiscono quasi sempre per cercare conforto nell’alcol. Comunque non sarò certo io a dirle queste cose; non spetta a me infrangere i suoi sogni di ragazza.

  Il mio compito è quello di vendere gialli. La mia libreria si trova a Kuledibi ed è – per il momento – l’unica di tutta Istanbul specializzata appunto in gialli. «Come le è venuta quest’idea?» mi domandano a volte i clienti. Personalmente non ci vedo niente di strano, è normale che uno voglia occuparsi di ciò che ama. E io amo alla follia i gialli.

  Se avete seguito le mie precedenti avventure saprete già che sono riuscita ad acquistare a buon prezzo un bell’appartamento nelle vicinanze della libreria, anche se ho dovuto penare un po’ per averlo. Nel frattempo ho investito i miei ultimi risparmi nella ristrutturazione e mi sono trasferita. Atakan, il cugino della mia amica Candan, ha sistemato tutto più velocemente del previsto e a un prezzo più basso. Mi ha consegnato le chiavi esattamente il giorno concordato. Il suo lavoro mi ha lasciato molto soddisfatta e ora gli faccio buona pubblicità dappertutto. Dopo un paio di brutte esperienze con artigiani e architetti mi ero convinta che il settore edile fosse allo sbando e che non ci si potesse più fidare di nessuno. Poi mi sono pentita di aver generalizzato, un errore imperdonabile, soprattutto perché io stessa ho dovuto combattere fin dall’inizio contro i cliché. Bisogna tenere ben presente che non è mai tutto bianco o nero.

  Le bionde rappresentano però un’eccezione. Sono fermamente convinta che nel loro caso si possa anche generalizzare. In effetti credo di poter affermare in tutta tranquillità che il titolo dell’inquietante film Gli uomini preferiscono le bionde corrisponde al vero. Gli uomini hanno davvero un debole per le bionde, non c’è niente da fare. Prendiamo ad esempio la mia amica Lale: si è schiarita i capelli e in men che non si dica, ancor prima di dover rifare la tinta, si è trovata un nuovo fidanzato. Possibile che sia stata solo una coincidenza? Volete sapere chi è l’uomo che è caduto ai suoi piedi? Nientemeno che Erol, il barbuto che abita sopra di me. Anzi, l’ex barbuto. A Lale la barba non piaceva e così lui se l’è tagliata. Non sta male rasato. Ormai siamo diventati buoni amici. Sta con Lale da più di un anno.

  Invece io sono di nuovo libera. Da parecchio tempo. In turco esiste una bella espressione per indicare una donna non accoppiata: pistola solitaria. Fofo però non ama le parole che hanno a che fare con la violenza e insiste per farmi usare il termine single.

  Potrei tingermi anch’io, ma ho paura che coi capelli biondi somiglierei troppo alla classica tedesca. Cioè, a quella che per i turchi è la classica tedesca. Sto cercando di sradicare quest’idea, non perdo occasione per spiegare che i tedeschi non sono un popolo di biondi. Da un’indagine è emerso che solo il cinquantun per cento delle donne e il cinquantaquattro per cento degli uomini hanno i capelli chiari.

 

  Pelin non era ancora arrivata quando raggiunsi il negozio, mentre Fofo mi stava aspettando tutto agitato.

  «Perché ci hai messo così tanto? Cominciavo a pensare che ti fosse successo qualcosa!» strillò. Il mio amico ha imparato la lingua guardando certe orribili serie televisive, di conseguenza è convinto che strilli e gesti teatrali facciano parte del normale modo di esprimersi dei turchi.

  «Non urlare!» replicai. «Ho già mal di testa per quei bulldozer là fuori».

  «Guarda!». Fofo mi schiaffò in mano un giornale ripiegato. Come forse ricorderete, non sono una grande lettrice di giornali. Piuttosto che ammazzare il tempo con attività inutili, preferisco leggere un giallo. Ma l’articolo che mi stava indicando risvegliò subito il mio interesse. O meglio, più che l’articolo fu la piccola foto che lo corredava ad attirare la mia attenzione. Raffigurava una donna bionda e sorridente. Impossibile non notarla. Sembrava fatta apposta per confermare la mia teoria sull’attrattiva delle bionde. Era di una bellezza tale che veniva spontaneo chiedersi: «Com’è possibile? Come fa a essere così bella?». Aveva un’aria familiare, ma non era una di quelle persone che si incontrano una volta e non si dimenticano più. L’avevo forse vista in uno dei locali dove venivo trascinata da Fofo il sabato sera e dove, a causa della musica assordante, della confusione e del denso fumo di sigaretta, mi sembrava di guardare il mondo attraverso un velo?

  «Dove ho già visto questa donna?».

  «Guardala bene. Dove puoi averla vista?».

  «Vuoi farmi diventare matta? Dimmelo tu!».

  «Nel localino dove andiamo sempre a pranzo».

  Senza distogliere lo sguardo da Fofo mi sedetti pesantemente sulla sedia a dondolo.

  «Ma i capelli… La donna del locale non era bionda».

  «No, era scura».

  «Quindi si è tinta».

  «Già. Quest’anno va di moda il biondo».

  Da quando avevamo deciso di seguire un’alimentazione più sana andavamo a pranzare sempre nello stesso locale a Tünel. E alcune volte, non essendoci altri posti liberi, avevamo diviso il tavolo proprio con quella che il giornale identificava come «Sani Ankaralıgil, 32 anni». La donna ordinava sempre un piccolo piatto di insalata. Lessi velocemente l’articolo.

  La nuora dei famosi Ankaralıgil, una delle famiglie più ricche di tutta la Turchia, aveva lasciato il marito sei mesi prima e alla fine del mese precedente aveva presentato domanda di divorzio. Dopo la separazione si era trasferita in una villa con piscina a Paşabahçe, un quartiere isolato di Istanbul, e lì era stata trovata morta il giorno prima intorno all’ora di pranzo. Stando all’articolo, la signora Ankaralıgil aveva perso la vita per un tragico incidente. Gli inquirenti avevano già parlato con Cem Ankaralıgil, il vedovo affranto, che aveva dichiarato di aver avuto l’ultimo contatto con la moglie la settimana precedente.

  «E allora? È una storia che non ci riguarda».

  «Però è interessante. Quella donna è morta all’improvviso dopo aver avviato le pratiche per il divorzio».

  «Se vuoi saperlo, sono molto più interessata al mutuo da pagare. Quanti libri hai venduto oggi?».

  «Che ne è stato del tuo fiuto? Se una donna che vuole divorziare dal suo ricco marito…».

  Lo interruppi e con voce pacata dissi: «Ormai il mio fiuto funziona solo con i soldi. Non mi interessa altro. Ma per i miei collaboratori non è così, a quanto pare».

  «Può darsi che l’abbiano uccisa!».

  «Sai quante donne vengono uccise ogni minuto nel mondo? Di queste cose si occupano le organizzazioni femminili, che sostengo puntualmente anche se non navigo certo nell’oro, e la polizia, che in fondo viene pagata coi soldi dei contribuenti, me compresa. Mi sembra più che sufficiente».

  «Oggi non si può proprio parlare con te! Scusa se ti ho disturbato». Offeso a morte, Fofo si alzò con un sorrisetto sarcastico e scomparve dietro la tenda a righe verdi e arancioni che separava il ripostiglio dal resto del negozio. Un attimo dopo riapparve con in mano lo straccio per la polvere e si mise a pulire i libri negli scaffali. Mi sedetti davanti al computer per controllare la contabilità dell’ultima settimana.

  Non si può mai sapere come andrà il venerdì. Certe volte i clienti sono talmente numerosi che non si riesce neanche a respirare; altre volte, invece, ci mettiamo a litigare senza motivo solo per ingannare il tempo. Quel venerdì lavorammo parecchio, sia con i gruppi di turisti che passeggiavano per il quartiere dopo aver ammirato il panorama dalla torre di Galata, sia con gli stambulioti che facevano il pieno di libri prima di approfittare della bella giornata autunnale per una gita in barca nel Mar Egeo. Un giorno fantastico per gli affari. Se solo fossero stati tutti così.

  Ormai in negozio eravamo in tre. Oltre a pagare i miei due assistenti dovevo restituire puntualmente alla banca i soldi che avevo chiesto per l’appartamento e dovevo anche mettere da parte qualcosa per la vecchiaia.

  All’inizio dell’estate avevo quindi annunciato: «D’ora in avanti terremo aperto anche nel weekend». Fofo e Pelin si erano scambiati un’occhiata furtiva. «Per prima cosa l’atmosfera di Kuledibi è molto più piacevole quando tutti quei ridicoli negozi di lampadari sono chiusi. E poi la maggior parte dei nostri potenziali clienti viene da queste parti proprio nel weekend, per prendere un tè o ammirare il panorama dalla torre».

  Erano rimasti entrambi in silenzio.

  «Obiezioni?».

  «Dovremo dividerci il lavoro in modo diverso» aveva osservato Pelin.

  «Hai ragione. Dato che tu durante la settimana vai all’università, nel weekend ti occuperai di aprire il negozio. Le altre mattine ci penseremo io e Fofo».

  Lei si era subito detta d’accordo. Fofo aveva invece annuito con aria mesta. Se potesse, il mio caro amico non muoverebbe neanche un dito.

 

  Ormai nei weekend Pelin e Fofo gestivano il negozio da soli. All’inizio della settimana ero io ad alzarmi presto per tirare su la saracinesca. Quel lunedì avevo già aperto e stavo aspettando che l’acqua per il tè verde si scaldasse quando suonò il telefono.

  «Sei già collegata?» gridò Fofo all’altro capo della linea.

  D’istinto allontanai il ricevitore dall’orecchio e risposi di sì. Avevo acceso il computer appena arrivata in negozio, come sempre.

  «Vai subito su skyrat.com.tr, parlano della nostra Sani!».

  Skyrat.com.tr è il sito d’informazione più visitato dagli stambulioti. Per “motivi di sicurezza” gli amministratori tengono segreta la loro identità, ma in città gira voce che dietro il sito si nascondano due cronisti giudiziari licenziati in tronco e il caporedattore della rivista «City-Life», che fa furore con i suoi articoli sui personaggi famosi.

  Attraverso skyrat.com.tr avevamo saputo che la cantante Binnur Baran, insignita del titolo di «donna più bella della Turchia», era stata tradita dal marito, per di più con la domestica romena. Lo stesso sito aveva anche rivelato l’identità della persona che aveva procurato la droga alla giovane e bellissima modella Gül Arkan, trovata morta in strada l’anno prima. Dalle pagine web di skyrat.com.tr era stata diffusa una grande quantità di informazioni e documenti, dalle foto di nudo di un’attrice famosa ancora agli inizi della carriera ai filmini porno con professori universitari e commentatori televisivi girati di nascosto.

  Tenendo il ricevitore tra orecchio e spalla digitai l’indirizzo.

  Comparve immediatamente un sito pieno di scritte lampeggianti.

  Scoop!

  Squarciato il velo di mistero intorno all’improvvisa morte di Sani Ankaralıgil. Continua…

  Cliccai con il mouse sull’ultima parola.

  Il velo di mistero intorno all’improvvisa morte di Sani Ankaralıgil, trovata cadavere nella sua villa di Paşabahçe, è stato squarciato. Secondo una delle nostre fonti, alcuni giorni prima del tragico incidente la signora Ankaralıgil aveva mangiato con un caro amico del marito nell’esclusivo ristorante Shining Sun. Come è noto, Sani Ankaralıgil aveva già avviato la pratica di divorzio da Cem Ankaralıgil, unico figlio di Bahri Ankaralıgil, armatore e famoso capo dell’omonima holding, e della sua elegante consorte Tamaşa. Di cosa avranno mai parlato Sani e l’amico del marito? Skyrat.com.tr vi fornirà presto tutti i dettagli del loro incontro. Continuate a seguirci!

  «Allora? Che c’è di tanto interessante?».

  «Tutto!» rispose lui con voce piena di entusiasmo. «Come vedi non siamo gli unici che vogliono arrivare in fondo a questa faccenda. Non credi che dovremmo parlare con quelli di skyrat? Chissà cos’altro c’è dietro».

  «Mi sembra una bellissima idea, tesoro, ma chi ti ha detto che vogliamo arrivare in fondo alla faccenda? Devo occuparmi del negozio, guadagnare abbastanza per pagare il mutuo e mettere da parte qualcosa per i periodi di magra. Non ho tempo per dare la caccia a un assassino!». In realtà la faccenda aveva già risvegliato il mio interesse. Dopo tanto tempo avevo di nuovo la possibilità di mettere alla prova il mio fiuto. Come potete immaginare, non capita tutti i giorni che una libraia specializzata in gialli possa far luce su un omicidio.

  «Comunque, anche se fossimo d’accordo sul fatto di vederci chiaro, come potremmo parlare con quelli che gestiscono il sito? Non li conosce nessuno!».

  «Caspita, Kati, a volte sei proprio ingenua» ribatté Fofo divertito. «Credi davvero che i responsabili di un sito come skyrat possano rimanere nell’anonimato? A Istanbul?».

  «Cosa vuoi dire?».

  «Che li conosco. Tutte le volte che vado al Pakize li trovo che si scatenano sulla pista da ballo. Li hai visti anche tu due o tre volte. Quello più alto ha i capelli biondo scuro e porta un paio di occhiali con la montatura nera».

  La descrizione non mi disse niente.

  Per non ammettere la mia ignoranza risposi con un semplice «mmh». Fofo proseguì. «Quando balla è davvero scatenato. Una volta si è perfino tolto la camicia e l’ha agitata per aria…».

  A poco a poco nella mia mente si formò un’immagine, che però non riguardava tanto un viso quanto un corpo muscoloso e ben proporzionato. Di sicuro il suo proprietario andava in palestra almeno quattro volte alla settimana e faceva sollevamento pesi guardandosi allo specchio per vedere i muscoli che si gonfiavano. Dove trovava il tempo di trasformare notizie da una riga in storie che si allungavano all’infinito come una gomma da masticare?

  «Credo di aver capito a chi ti riferisci».

  «Vedi che lo conosci anche tu» replicò lui sospirando. «Dicono sia etero al centocinquanta per cento, ma sono sicuro che sotto sotto…».

  Non era una novità. Il mio amico Fofo è fermamente convinto che tutti i maschi siano perlomeno bisessuali dalla nascita. Finora neanche gli occhi pesti e le smentite più dure sono bastati a fargli cambiare idea.

  «Sai anche come contattarlo?».

  «Allora, le cose stanno così». Negli ultimi tempi era diventata una delle sue espressioni preferite.

  «Non ho il suo numero di telefono, ma so chi frequenta. Uno dei suoi amici è amico del mio amico Taner. Che ne dici?».

  «Fantastico! Chiama subito il tuo amico». Come una pantera pronta al balzo, non vedevo l’ora di lanciarmi in una nuova indagine per far luce su un presunto delitto. Al diavolo il lavoro e i debiti da saldare!

  «Old habits die hard». Fofo mi guardò ridacchiando. «Come lo tradurresti?».

  «Il lupo perde il pelo, ma non il vizio».

  «Già. Però hai ragione anche tu: chi si occuperà del negozio?». All’improvviso si era fatto serio. «Puoi chiamare Pelin? Se per caso il nostro uomo è nei dintorni, potremmo incontrarlo subito».

  «La chiamo immediatamente».

  «E se non può venire?».

  «Non preoccuparti» risposi. «Organizza un incontro e io ci sarò. Sicuro come la morte».

  «Brrr» fece lui. «Che brutta espressione!».

 

  Dieci minuti dopo, quando suonò di nuovo il telefono, avevo già chiamato Pelin e con le minacce l’avevo convinta a venire in negozio il più velocemente possibile. Avevo anche riletto un paio di volte il fiume di parole su skyrat.com.tr.

  «Corri al Kaktüs, Kati. Ci vediamo là tra un quarto d’ora. Non fare tardi, c’è voluto del bello e del buono per convincere quello del sito a incontrarci». Naturalmente era Fofo.

 

  Invece di farmi strada a fatica tra la folla di İstiklal Caddesi, presi un taxi a Şişhane e raggiunsi il Kaktüs per prima. Quando arrivò il mio amico, tutto trafelato, ero già seduta a uno dei tavoli all’aperto e stavo sfogliando delle riviste sorseggiando una limonata.

  Avvicinando la sua sedia alla mia, Fofo sussurrò: «Ho detto che siamo investigatori privati e ho lasciato intendere al tipo che gli saremo molto grati per il suo aiuto».

  «Cosa? Sai benissimo che non ho soldi da buttar via!». Nel dirlo alzai un po’ troppo la voce e la ragazzina che da qualche minuto si aggirava nelle vicinanze del nostro tavolo, pronta a cogliere la prima occasione per venderci dei fazzoletti di carta, mi lanciò uno sguardo piuttosto contrariato.

  «Non ho ancora saldato i debiti accumulati con la carta di credito! Dovrò pagare un sacco di interessi. Sono rovinata, al verde, non ho più neanche un soldo. Sono rimasta a secco, dovrò patire la fame. Lo capisci?».

  «I soldi non fanno la felicità» mi ricordò lui con un pizzico di perfidia.

 

  D’un tratto qualcuno si fermò accanto al tavolo. Interrompemmo la discussione e alzammo lo sguardo. Mentre fissavo il viso dell’uomo pensai che la descrizione di Fofo – alto, capelli biondo scuro, occhiali con montatura nera – non era certo la più calzante. Avrebbe dovuto parlare di un bellimbusto, un damerino, un tipo supercool. In quale altro modo si può descrivere una persona che puzza di soldi già da lontano? Provai un’avversione immediata nei suoi confronti.

  «Fofo?» domandò l’uomo come se non si fossero mai visti prima.

  «Ci siamo già incontrati al Pakize…». Il mio amico stava morendo d’invidia per gli abiti firmati del tizio che aveva di fronte.

  «Al Pakize vado solo quando sono completamente ubriaco, non mi ricordo mai delle persone che incontro in quel posto». Sembrava quasi che a suo giudizio i frequentatori del Pakize non meritassero di essere ricordati.

  Che uomo irritante! Come ho già detto, mi risultava insopportabile.

  «Quella volta che l’abbiamo vista ballare all’alba, però, sembrava molto presente. Oserei dire che ci ha offerto uno spettacolo indimenticabile…». Le parole mi uscirono di bocca senza che lo volessi.

  Fofo e il tipo supercool mi fulminarono all’unisono con lo sguardo.

  «E questo che significa?» domandò Mr Fico grattandosi una basetta.

  «Niente». Armeggiai con lo chignon.

  L’uomo si aggiustò gli occhiali. «Se non sbaglio, non ci hanno ancora presentato».

  «Lei è Kati Hirschel, la mia socia» intervenne Fofo. Ma da quando in qua eravamo soci?

  «Sono Kati Hirschel, il suo capo» rettificai.

  «Ha un’agenzia investigativa? Non so perché, ma il suo nome mi è familiare».

  «Mi occupo anche di investigazione. È una delle mie tante attività». Come se fossi a capo di una holding e avessi le mani in pasta un po’ ovunque.

  «Cosa vuole da me?» chiese l’uomo guardandomi dritto negli occhi. D’un tratto mi accorsi che i suoi non erano niente male. Marroni con sfumature verdi, anche se per notarle dietro le lenti bisognava osservare attentamente.

  «È stato lei a scrivere di Sani Ankaralıgil sul sito?» intervenne di nuovo Fofo.

  «Può darsi. Perché?».

  Il mio amico gli si avvicinò con la sedia.

  «Deve promettermi che quello che le dirò ora rimarrà confidenziale» bisbigliò. Se non era una frase che aveva imparato a memoria guardando uno dei soliti polizieschi in TV, allora le capacità linguistiche di Fofo erano davvero notevoli. Mi sentii improvvisamente in colpa per aver sottovalutato la sua conoscenza del turco. Nello stesso tempo mi domandai cosa volesse raccontare.

  «Le cose stanno così» continuò. «Stiamo indagando sulla morte di Sani Ankaralıgil per conto dei parenti».

  «Dopo questa bugia il nostro uomo canterà come un uccellino» pensai beffarda.

  «Ah» fece quello del sito.

  «Crediamo che riguardo alla morte di quella povera donna si possa anche formulare un’ipotesi di omicidio».

  Di colpo non ebbi più dubbi: queste strane frasi non erano farina del suo sacco, le aveva imparate a memoria. Una persona normale non usava espressioni così stupide!

  «Ah!» fece di nuovo l’uomo e si girò di scatto verso di me. Con aria soddisfatta disse: «Ho capito perché il suo nome mi suona familiare. Non è la proprietaria di quella libreria specializzata in gialli a Kuledibi?».

  Scimmiottai la sua risposta di poco prima: «Può darsi. Perché?».

  «La conosco. È un’amica di Lale, no?».

  Io e Fofo ci scambiammo un’occhiata.

  «Cinque o sei anni fa qui a Istanbul è stato ucciso un regista tedesco. Se lo ricorda?».

  Io e Fofo ci guardammo nuovamente negli occhi.

  «Dopo l’omicidio un paio di nostri colleghi che si occupano di servizi segreti e affini le hanno passato delle informazioni su richiesta di Lale. Se non sbaglio, una delle persone coinvolte in quella faccenda era sua amica».

  «Già. Un omicidio tuttora irrisolto» risposi, cercando di apparire dispiaciuta. In effetti il caso era stato archiviato tra i delitti irrisolti, ma sia io che voi, cari lettori, sappiamo bene che… No, lasciamo perdere. Non ho l’abitudine di autoincensarmi.

  «Se sapesse quanti delitti irrisolti vengono archiviati ogni anno, rimarrebbe a bocca aperta» disse lui.

  Scrollai leggermente la testa.

  «Sarò sincero con lei» continuò l’uomo.

  Avrei voluto chiedergli come si chiamava perché, oltre ai suoi occhi, cominciavo ad apprezzare anche le sue parole, ma non era il momento di interromperlo. Rimasi in silenzio.

  «Devo ringraziare Lale per questo lavoro. Nell’ambiente giornalistico è praticamente impossibile trovare un posto senza raccomandazione. I posti di lavoro sono pochi e si finisce per assumere il nipote di un conoscente anche solo per fare il tè. Nel mondo dei media non si va da nessuna parte senza una cazzo di raccomandazione. Scusi l’espressione, ma quando ci vuole ci vuole. Perfino l’ultimo degli scribacchini è il fratello, la sorella, il figlio o la figlia di qualcuno. Lale non ha mai accettato questo sistema. “Ho bisogno di persone che sappiano fare il loro lavoro” diceva sempre. In fondo è anche per questo che non ha ricevuto alcun sostegno dai colleghi. È una donna ostinata e combattiva e segue solo le sue regole».

  Come potete immaginare, ero felicissima di sentir lodare in questo modo la mia migliore amica. Il tipo con gli occhiali mi piaceva sempre di più. La mia prima impressione si stava rivelando totalmente errata.

  «Ha ragione» dissi.

  «Sono rimasto in contatto con Lale. Ogni tanto la chiamo per sapere come va».

  Per un attimo ci fu silenzio. Naturalmente mi riferisco al tipo di silenzio che si può avere in pieno giorno a Beyoğlu, tra escavatrici che affondano i denti nel cemento e un’infinità di passanti rumorosi che si fanno strada a forza in İstiklal Caddesi.

  «Ero ancora molto giovane quando ho iniziato a lavorare al “Günebakan”. Avevo appena finito l’università in Anatolia. Non conoscevo neanche l’inglese. Per chi lavora nei media è un must, se non conosci la lingua sei uno zero assoluto. Non mi facevo illusioni, ero sicuro che nessuno mi avrebbe preso. Mio padre fa il meccanico a Söke, non ha conoscenze nel settore, non poteva chiamare nessuno per farmi avere un posto. Insomma, per farla breve, è stata Lale a darmi il mio primo lavoro. È una cosa che non dimenticherò mai. E dato che lei è una sua amica, può farmi tutte le domande che vuole. Le dirò quello che so e cercherò di scoprire quello che non so».

  Aveva parlato con emozione e gratitudine, come uno scolaro durante la recita del discorso alla gioventù di Atatürk.

  Fofo riuscì a rovinare l’atmosfera con una domanda davvero stupida. «Quindi l’inglese l’ha imparato dopo?».

  «Cosa?». Lo guardai accigliata. «Che importanza ha?».

  «Sono solo curioso. Leggo le interviste di skyrat alle modelle straniere che vengono a visitare la Turchia».

  «Sì, nel frattempo ho imparato l’inglese. Ho anche passato un periodo in Inghilterra. Ora conosco la lingua abbastanza bene da cavarmela in ogni situazione. Ma non trovo comunque lavoro. Ah già, non l’ho ancora detto: naturalmente sono stato licenziato appena Lale ha lasciato il giornale. Se non hai uno zio al posto giusto, appena possono ti cacciano via perché fuori c’è la fila di quelli con la raccomandazione. Dato che in quel periodo anche il mio migliore amico era disoccupato, siamo andati insieme in Inghilterra. Al nostro ritorno abbiamo creato il sito web. Internet era molto meno diffuso rispetto a oggi e così ci siamo detti: pubblicheremo notizie speciali, scaveremo a fondo e scriveremo quello che gli altri non scrivono. Il primo anno eravamo solo noi due, poi si è aggiunto un terzo amico. In seguito abbiamo assunto altre persone perché da soli non ce la facevamo più. E questo è tutto, Kati».

  Si era offerto di rispondere a tutte le nostre domande. Invece di perdere altro tempo parlando del più e del meno, gli chiesi quello che volevo sapere. «Proprio oggi sul suo sito è comparsa la notizia che Sani era andata al ristorante con qualcuno. Chi era?».

  «L’avvocato Demir Soylu, un vecchio amico di Cem Ankaralıgil. Non è stato lui a dircelo, ma non ha neanche smentito la notizia».

  «È per questo che non avete fatto il suo nome sul sito? Perché dovevate ancora avere la conferma?».

  «No, l’abbiamo chiamato appena saputo dell’incontro con Sani e lui ha confermato. Facciamo sempre così, divulghiamo le notizie poco per volta, formuliamo domande nella home page… Vogliamo che i nostri lettori visitino il sito più volte al giorno. Sono i trucchi del giornalismo informatico».

  «Sa anche di cosa hanno parlato in quel ristorante?».

  «Demir Soylu ha tralasciato i dettagli, però ci ha detto che la coppia aveva firmato un contratto prematrimoniale. Pare che a tavola abbiano parlato di cosa sarebbe successo con il divorzio».

  «Soldi?».

  «Certo. Alimenti, indennità compensative e tutto il resto. Hanno parlato anche di eredità. Ora comunque sarà Cem Ankaralıgil a ereditare i beni della moglie».

  «Da chi ha avuto queste informazioni?».

  «Da una persona che era seduta vicino al loro tavolo allo Shining Sun. Naturalmente non posso rivelare l’identità delle mie fonti. Neanche a lei».

  «Può dirmi almeno se riceve spesso informazioni in questo modo o se è stata un’eccezione?».

  «Un’eccezione? No, tutt’altro! Funziona così in questo settore. È chiaro che non legge né il nostro sito né le varie riviste di gossip. Se qualcuno vede un personaggio famoso al ristorante o sorprende un uomo sposato mentre balla con una sconosciuta in un locale notturno, ci chiama subito. La maggior parte dei nostri articoli è basata su informazioni fornite da terzi».

  «D’ora in poi mi guarderò intorno con più attenzione e se andando da qualche parte vedrò qualcosa di interessante vi informerò subito» s’intromise Fofo. «Diventerò un collaboratore volontario».

  L’uomo guardò l’orologio. Non sembrava particolarmente ansioso di lavorare con il mio amico.

  «Se per voi va bene, potremmo spostarci nel mio ufficio. È qui vicino, in Süslü Saksı Sokak. È il posto ideale per continuare la nostra conversazione. Inoltre in questo momento non c’è nessuno e preferirei non lasciarlo incustodito a lungo».

  Di colpo mi tornò in mente la libreria, che avevo abbandonato in fretta e furia. Se solo Pelin avesse mantenuto la parola!

  «Perché non beviamo qualcosa prima?» domandai vedendo arrivare Şükran, la cameriera del Kaktüs.

  «D’accordo» rispose lui senza farsi pregare. «Per me una limonata».

 

  L’ufficio era accogliente e luminoso. Murat – così aveva detto di chiamarsi l’uomo – sparì subito per andare a preparare il caffè. Io e Fofo ci accomodammo su due poltrone e cominciammo a sfogliare le riviste di gossip sparse tutt’intorno.

  Su una pagina già sgualcita dalle molte letture trovai le foto di un matrimonio eccellente che era stato celebrato in estate nel palazzo di Esma Sultan. In una delle immagini si vedeva anche la coppia Tamaşa-Bahri Ankaralıgil. La didascalia recitava così: «Grazie a un abito lilla firmato Valentino, ancora una volta Tamaşa Ankaralıgil, una delle donne più raffinate ed eleganti dell’alta società, ha attirato su di sé tutti gli sguardi».

  Mostrai l’immagine a Fofo, che dopo un attento esame sentenziò: «Non è il mio tipo. Troppo botulino. Quello iniettato alla radice del naso per distendere le rughe può anche andare, ma quello per alzare le sopracciglia…».

  «Come fai a sapere dove si inietta il botulino?» chiesi stupita.

  «Ho un amico medico. Si chiama Mustafa».

  Annuii. Avevo conosciuto il dottor Mustafa una volta che era venuto a prendere Fofo a casa.

  «Usa anche il botox, come tutti i dermatologi. Mi ha raccontato come si fa».

  Per un attimo considerai la possibilità di prendere appuntamento con Mustafa. «Cos’altro ti ha raccontato?».

  «Beh, secondo lui bisogna cercare di ottenere un risultato naturale. Non trasformare il viso in una maschera».

  «E perché certa gente vuole farsi alzare le sopracciglia?».

  «Per tendere la pelle intorno agli occhi» spiegò Fofo, tirandosi un sopracciglio verso l’alto. «Adesso capisci perché in giro si vedono un sacco di persone con le sopracciglia ad arco?».

  Al suo ritorno Murat ci trovò di nuovo concentrati sulle riviste. Prese la poltrona a rotelle che usava per lavorare alla scrivania e la avvicinò alle nostre.

  «Fate pure le vostre domande».

  Presi immediatamente la parola; non volevo lasciare a Fofo il tempo di aprir bocca.

  «A dire il vero sappiamo ben poco di questa faccenda. In pratica solo quello che abbiamo letto sul giornale».

  «Capisco».

  Cominciai a rosicchiarmi le unghie.

  Fofo sgranò gli occhi e muovendo le labbra senza emettere suono mi ordinò di smetterla. Sono fortunata ad avere un amico come lui, se non altro non mi fa sentire la mancanza di mia madre.

  Ovviamente non gli diedi retta e continuai a rosicchiare. Non accetto di essere ripresa da un furbastro come Fofo.

  «Avete detto che i parenti di Sani Ankaralıgil vi hanno incaricato di indagare…» ricordò Murat.

  «Beh… non è proprio così. Non abbiamo ricevuto nessun incarico. La verità è che conoscevamo la signora Ankaralıgil. La vedevamo quasi tutti i giorni».

  «Non capisco».

  «A pranzo andiamo sempre in un piccolo locale di Tünel. Solo cucina casalinga. Non offrono mai più di due o tre piatti, ma si mangia davvero bene». Mentre parlavo mi accorsi di avere una gran fame.

  «Sani pranzava nello stesso locale alla stessa ora. Prendeva solo un’insalata, ma ci incontravamo spesso. Naturalmente non sapevamo chi fosse, l’abbiamo scoperto solo vedendo la sua foto sul giornale».

  Murat si aggiustò sulla poltrona. «Tutto qui?».

  Feci cenno di sì con la testa.

  «Non vorrei sembrarvi troppo curioso, ma perché vi interessa tanto la sua morte? Se non è stata la famiglia a chiedervi di indagare…».

  Fofo mi guardò con le sopracciglia inarcate e sempre senza emettere suono disse: «Fantastico! Vediamo come te la cavi adesso!».

  «Il motivo è sempre lo stesso» risposi. «La curiosità».

  Murat scoppiò a ridere. Fofo si sentì autorizzato a citare un proverbio inglese: «La curiosità uccise il gatto».

  «Vedrò cosa posso fare per voi» disse Murat. «Ma prima di tutto vi porto il caffè».

  Poco dopo tornò con un vassoio. Il caffè era scurissimo e amaro; non riuscii a berne più di due sorsi. Tenendo la tazza in una mano, il nostro ospite spinse la poltrona a rotelle fino alla scrivania e si sedette. Io e Fofo lo seguimmo con lo sguardo.

  «Cerco nel nostro archivio. Abbiamo una cartella per ogni persona interessante. Controlliamo anche la stampa per raccogliere e conservare tutte le informazioni che potrebbero servirci. Avendo sposato Cem Ankaralıgil, anche Sani è finita sotto la nostra lente d’ingrandimento. Ah, ecco! Aveva affittato uno spazio al quarto piano di uno stabile commerciale a Tünel. Per questo la incontravate regolarmente al ristorante. Posso farvi un riassunto della sua vita con le informazioni che ho estratto da diversi articoli. Nata nel 1974 a Kayacık, non lontano da Lüleburgaz, da genitori contadini. Nome da ragazza: Kaya. Frequenta le elementari nel suo paese, poi, essendo una ragazzina molto sveglia, si trasferisce a Istanbul da uno zio per fare le medie. Prosegue con l’istituto tecnico e il corso di laurea in economia aziendale al politecnico di Istanbul. Ottiene poi una borsa di studio statale e va in America per il dottorato in scienze economiche. In quel periodo conosce Cem Ankaralıgil. Nel 2003 tornano insieme in Turchia, Cem prende il posto del padre e un paio di mesi più tardi sposa Sani contro il volere della famiglia. Sembra che la più contraria di tutti sia la madre, Tamaşa. Ha perfino rilasciato una dichiarazione al riguardo. Una cosa decisamente insolita, in genere la famiglia Ankaralıgil è molto riservata». Murat staccò gli occhi dallo schermo del computer e si voltò verso di noi. «Le persone famose si dividono in due categorie: ci sono quelle che cercano visibilità in ogni modo, continuamente, e quelle che non concedono interviste, non accettano quasi mai gli inviti e non fanno sapere niente a nessuno. Tamaşa Ankaralıgil appartiene alla seconda categoria. Odia la stampa. Eppure, quando ha saputo che il figlio si sarebbe sposato, ha sentito il bisogno di fare una dichiarazione».

  «Cos’ha detto di preciso?» chiese Fofo.

  «Cos’ha detto?» ripeté Murat pensieroso. «Una sola frase: “La signorina Saniye è senza dubbio una donna di grande valore, ma non credo sia adatta alla nostra famiglia”».

  «La signorina Saniye?».

  «Sì. Sani è un diminutivo».

  «Proprio come Kati» osservò quell’impertinente di Fofo.

  «Katharina è un nome lungo e difficile da pronunciare, Saniye no» obiettai.

  «Ma Saniye non si addice a una donna dell’alta società. È troppo provinciale. Sani suona più moderno» chiarì Murat.

  «In ogni caso Sani è molto più bello» aggiunse Fofo. «Ma lasciamo perdere il nome. Che significa “non credo sia adatta alla nostra famiglia”? Solo perché sono ricchi si credono chissà chi».

  «Non è solo questione di ricchezza. Tamaşa Ankaralıgil è la pro-pro-pro-pronipote del gran visir Abdullah Pascià, morto in esilio. La sua è una famiglia molto antica. Suo padre è il famoso professore Lütfullah Mısırlı, quello che ha istituito la prima cattedra turca di ginecologia e che è stato anche ministro della Salute. Quando i genitori si sono separati, Tamaşa è stata mandata in Svizzera, in un collegio cattolico. Conosce francese, inglese, tedesco e italiano. E colleziona pezzi d’antiquariato. Forse pensate che sia una nuova ricca, ma non è così».
  «Direi che le è molto simpatica» azzardai.
  «Simpatica? No, credo solo che sia diversa dalla maggioranza delle persone. Non passa le sue giornate facendo compere e andando in giro stracolma di pacchi con un esercito di giornalisti al seguito. Non è Paris Hilton. Si comporta in modo molto diverso e credo abbia anche valori ben diversi».
  «E poi cos’è successo? La signora Ankaralıgil ha interrotto i rapporti col figlio a causa del matrimonio?» domandai.
  «No, non credo. Non ha più parlato coi giornalisti. Probabilmente il contratto prematrimoniale l’ha un po’ tranquillizzata. Forse ha anche capito che i due si amavano davvero e che non sarebbe mai riuscita a far cambiare idea al figlio. In ogni caso, dopo quell’unica frase non ha più detto niente. Certo, il fatto che ora volessero divorziare potrebbe significare qualcosa. Forse la signora ha continuato a pungolare il figlio in privato. Sapete come sono le madri coi figli maschi...».
  «Già, soprattutto le turche» confermai. Dovete sapere che tanti anni fa, quando mi sono trasferita a Istanbul, l’ho fatto anche per il mio ragazzo. Beh, la madre non ha mai accettato che lui stesse con una “straniera”. Ha tentato di separarci in ogni modo, ma è finita sottoterra prima di poter cantare vittoria.
  «Cosa faceva Sani? A cosa le serviva l’ufficio che aveva affittato a Tünel?».
  «Le persone con tanti soldi non sanno mai cosa fare» rispose Murat in tono freddo. Era forse invidioso? «Cem Ankaralıgil è un appassionato di sport estremi. Bungee jumping, alpinismo e cose simili. Credo che la moglie si sia adeguata, insieme hanno scalato un sacco di cime».

  «Quindi l’ufficio di Tünel le serviva per organizzare viaggi?».

  «Cosa? No! Andando spesso in montagna lei e il marito hanno cominciato a interessarsi di tutela ambientale. Sani ha fondato un’associazione ambientalista che si chiama YeTer. Per combattere l’inquinamento in Tracia».
  «Interessante. Hanno ottenuto qualcosa?».
  «Ha mai sentito parlare del bacino dell’Ergene? Ha presente la situazione?».
  «Certo. Concerie senza impianti di depurazione, puzza insopportabile, terreni agricoli completamente rovinati…».
  «Allora hanno sicuramente ottenuto qualcosa. Un paio di anni fa la stragrande maggioranza delle persone non sapeva nemmeno dov’è il bacino dell’Ergene».

2






Appena lasciato l’ufficio di Murat chiamai Pelin. Volevo assicurarmi che fosse in negozio, e in effetti la trovai al suo posto. Mi raccontò che un gruppo di turisti provenienti dalla Spagna aveva appena comprato tutti i nostri gialli spagnoli.
«Ti sei perso un gruppo di turisti del tuo paese» dissi a Fofo dopo aver chiuso la telefonata. Il mio amico ama intrattenersi con i connazionali.
«Non importa. Allora, che ne pensi di questa storia?».
«Cosa vuoi che ti dica? È strana. Laurea in economia aziendale, dottorato in America… Sani avrebbe potuto fare una splendida carriera».
«Come membro della famiglia Ankaralıgil non poteva accettare posti di comando nelle aziende della concorrenza. E a quanto pare non voleva lavorare sotto il marito».
«Probabilmente hai ragione» risposi soprappensiero. Avevo qualche difficoltà a concentrarmi su Sani Ankaralıgil, riuscivo a pensare solo al mio stomaco che brontolava.
«Forse dovremmo dare un’occhiata al suo ufficio» continuò Fofo.
«Va bene, ma prima fermiamoci a mangiare qualcosa. Ti prego».
«Dai, ci vorranno due minuti! Cerca di resistere una volta ogni tanto».
«Okay, ma non passiamo da İstiklal Caddesi. Tagliamo per le vie secondarie».
«Perché? Credi siano meglio? Se ti viene addosso un camion in İstiklal Caddesi, almeno hai lo spazio per spostarti. Su, muoviti!». Mi tirò per il maglioncino, rischiando di rovinare il costoso filato di cotone.

Una volta raggiunto lo stabile commerciale di Tünel in cui si trovava l’ufficio di YeTer, ci perdemmo due volte nell’oscuro labirinto di corridoi.
«Chissà cosa significa YeTer».
«È sicuramente un acronimo. Secondo me sta per “Turchia verde”. Cos’altro potrebbe significare?».
«Tu sai sempre tutto, eh?» replicò Fofo in tono vagamente ironico.
Su una delle tante porte marroni trovammo infine una piccola targa con la scritta YeTer. Feci un ultimo tentativo. «Bene, ora possiamo anche andare a mangiare. L’ufficio è qui, non scappa».
«Quante volte mangia il professor Langdon in Angeli e demoni?».
«Ma che razza di domanda è? Dovrei tenere il conto delle volte in cui i personaggi di Dan Brown mettono in bocca qualcosa?».
«Alla pagina tre il professore beve una tazza di cioccolata bollente e qualche centinaio di pagine dopo mangia per la prima volta qualcosa. Per buona parte del libro non fa che correre da una parte all’altra, senza mai lamentarsi per la fame. Salta addirittura da un aereo con il paracadute, sempre a stomaco vuoto. Con questo voglio dire che le persone decise e disciplinate…».
«Ho capito. Il problema è che non stai parlando con una protestante. Non sono nata per imporre al mio corpo una rigida disciplina».
«Neanche il professor Langdon era protestante. Dai, bussa. Prima lo fai, prima ce ne possiamo andare».
Allungai il braccio e rimasi pietrificata.
«Guarda!». Gli diedi una gomitata nel fianco.
Fofo fissò la mia mano senza capire, poi ebbe la brillante idea di abbassare lo sguardo e rimase a bocca aperta.
Qualcuno aveva forzato la porta, la serratura penzolava nel vuoto.
«Qualcuno ci ha preceduto» bisbigliai.
«Te l’avevo detto» rispose lui in un sussurro.
«Cosa?».
«Che in questa storia c’è qualcosa di strano».
Non mi sembrava il momento adatto per litigare, quindi bussai.
La porta si spalancò all’istante, come se dall’altra parte stessero aspettando proprio noi. Ci trovammo davanti una ragazza con gli occhi gonfi di pianto. Capii immediatamente che si trattava della segretaria. In seguito mi sono interrogata su questa cosa, mi sono chiesta il perché di questa rapida identificazione. Credo di averla etichettata subito come segretaria per l’atteggiamento distaccato verso l’ambiente circostante. In lei c’era qualcosa di strano. Era come se sentisse di non appartenere all’ufficio. Non vorrei spingermi troppo in là con la mia interpretazione, ma ero sicura che la ragazza non avrebbe mai ricevuto una medaglia per le sue capacità da segretaria. Quando i collaboratori non si sentono legati al posto di lavoro, per il capo sono guai. Sotto questo aspetto la mia situazione non è certo migliore; potrei passare alla storia come la prima datrice di lavoro rimasta disoccupata a causa di dipendenti troppo solerti. Ma questa è un’altra faccenda.
L’ufficio era ridotto quasi peggio della ragazza. Era tutto sparso sul pavimento: raccoglitori, fogli, carte… La giovane mi guardò con aria interrogativa, in attesa che dicessi qualcosa.
Mi schiarii la voce, consapevole della piccola bugia che stavo per proferire. «Buongiorno. Vorremmo diventare membri di YeTer». Poi, come se all’improvviso mi fossi accorta della confusione che regnava nell’ufficio, spinsi la testa oltre la soglia. «Ma… cos’è successo?» domandai, sforzandomi di usare un tono preoccupato.
«Pensavo foste della polizia» spiegò lei.
Che idea! Solo una segretaria distratta poteva scambiare me e Fofo per due poliziotti. Non mi dilungherò in dettagli sul nostro aspetto, ma credetemi, è così.
«Sto aspettando la polizia» aggiunse la ragazza. «Hanno detto di non toccare niente».
«È chiaro che qualcuno si è introdotto nell’ufficio e ha frugato dappertutto» intervenne Fofo. «Ma perché? Qui non c’è niente da rubare».
«Invece sì. Hanno preso i computer».
«All’ingresso abbiamo visto una guardia. Non c’è nessuno di notte?» chiesi, spostando delicatamente la giovane per entrare.
«Può anche darsi che siano venuti di giorno. Non lo so. Sabato l’ufficio è rimasto chiuso, siamo andati al funerale della nostra presidentessa».
«Le sventure non arrivano mai da sole» replicai. E Fofo con aria innocente: «Era una donna anziana?».
Dovetti fare uno sforzo per non scoppiare in una sonora risata.
«Oh no, era ancora giovanissima. Forse avete letto della sua morte sul giornale. Si chiamava Sani Ankaralıgil».
«Ma certo! Condoglianze. E in questo momento terribile arriviamo noi a chiedere di diventare membri di YeTer!» proseguì Fofo.
«Non importa. Tanto non accettiamo nessuno».
«Cosa? Non è possibile! Le associazioni sono sempre alla ricerca di nuovi membri che contribuiscano alla causa. Cercano di coinvolgere tutti nelle loro attività per raggiungere gli obiettivi, organizzano pranzi e cene di beneficenza, invitano a riunioni con caffè e dolci, allestiscono mercatini per la vendita di lampioncini e calze fatte a mano…». Fofo stava parlando a ruota libera.
«Perché non accettate nessuno?» m’informai.
«Siamo sempre state in tre: la signora Ankaralıgil, la sua vice Aylin Aköz e io, che rispondo al telefono e mi occupo delle scartoffie… cioè di tutto quello che ora è sparso sul pavimento».
«Questo non spiega perché non accettate nuovi membri».
«Non lo so, vi ripeto quello che hanno detto a me» rispose la ragazza nella speranza di chiudere il discorso.
«Le hanno detto così? E non ha mai chiesto spiegazioni?».
«Tra l’altro è illegale non accettare membri» intervenne Fofo in tono minaccioso.
La segretaria guardò prima lui e poi me con aria interrogativa, quindi si lasciò cadere sull’unica poltrona libera. Il pensiero di aver fatto qualcosa di “illegale” aumentò la sua agitazione. Come poteva essere così ingenua? E comunque stava esagerando, non c’era motivo di agitarsi tanto!
«Scusate, non so più quello che dico, è da ieri che sono in questo stato. Forse è meglio se tornate un’altra volta».
«Se non vuole rimanere sola, possiamo aspettare con lei finché non arriva la polizia» proposi. Sono o non sono un angelo?
Il viso della giovane si rischiarò.
«Oh sì, mi farebbe molto piacere. Ho anche mal di testa…». All’improvviso, come se qualcuno avesse premuto un tasto sulla sua schiena, cominciò a piangere disperata. «Ho paura che sospetteranno di me. Solo noi tre avevamo la chiave» farfugliò tra un singhiozzo e l’altro.
«La signora Ankaralıgil, la signora Aköz e lei, giusto?».
La segretaria annuì.
«È chiaro che i responsabili di questo disastro non avevano la chiave, per entrare hanno forzato la serratura. Perché dovrebbero sospettare di lei?».
Era davvero ingenua. Nessuno recita così male.
«Ha ragione. Se non avevano la chiave, non dovrebbero sospettare di me. Ma i ricchi sono fatti così, trovano sempre il modo di farti sentire in colpa. Si comportano come se i meno fortunati fossero sempre pronti a derubarli. Forse non dovrei, ma ho paura».
«Lei non c’entra niente, non si preoccupi». Fofo le posò delicatamente una mano sulla spalla. «La capisco. Anch’io lavoro con una donna che mi rende la vita impossibile».
«Un capo donna può essere davvero insopportabile» concordò la segretaria.
Fantastico! Non ce l’aveva solo con i capitalisti, ma anche con le donne!
Fofo tentò nuovamente di strapparle qualche informazione. «Quindi sono state le altre due donne a decidere di non accettare nuovi membri…».
«Esatto. Comunque hanno fatto bene. Ho lavorato anche per altre associazioni e so come vanno queste cose: i membri sono tutti amici, conoscenti o familiari. Si uniscono all’associazione uno dopo l’altro e una volta raggiunta la maggioranza decidono di cambiare il direttivo. E naturalmente scelgono qualcuno del loro gruppo».
«Come succede nei partiti» osservai. La segretaria non capì; era un riferimento troppo “alto” per lei. Mi rivolsi quindi a Fofo.
«Nei partiti funziona così: i membri scelgono dei delegati che poi, a loro volta, eleggono il segretario generale. Cosa fa allora il segretario generale per rimanere in carica finché campa? Ammette nel partito solo persone che gli sono vicine e lo sostengono. Sennò come si spiega il fatto che dei perfetti buoni a nulla vengano rieletti continuamente?».
«È vero. Ognuno pensa a se stesso» disse la giovane.
«Cosa c’era nei computer che hanno rubato?».
«Tutto. Tutte le nostre informazioni».
«Cioè?».
«I nomi di fabbriche e laboratori che inquinano il bacino dell’Ergene, le lettere che abbiamo scritto ai proprietari, gli esposti presentati alla procura… La signora Ankaralıgil voleva portarli tutti quanti in tribunale. Ha bussato a tutte le case della zona e ha parlato con la gente che ci abita. Il padre e la sorella vivono ancora là, si battono anche loro per difendere l’ambiente. La signora andava laggiù una, due volte alla settimana. S’impegnava al massimo».
«E naturalmente nei computer c’erano anche nomi e indirizzi di tutte le persone della zona che si sono schierate con l’associazione».
Lei annuì.
«È difficile ottenere l’appoggio degli abitanti?».
«Oh sì, è la cosa più difficile. Anche la signora Ankaralıgil ha incontrato molte difficoltà, nonostante fosse nata proprio in quella zona. Le persone più anziane non capiscono il problema e i loro figli si guadagnano da vivere lavorando per quelli che inquinano. Nessuno vuole entrare in conflitto con il proprio datore di lavoro. A pensarci bene, il loro atteggiamento è più che comprensibile. Il mondo è dei ricchi».
«La faccenda era già nelle mani di un avvocato?».
«Doveva occuparsene Remzi Aköz, il marito di Aylin. Dopotutto lei è la nostra vicepresidentessa».
«Immagino che l’abbia informata del furto. Sa se oggi ha intenzione di venire in ufficio?».
«No, è andata all’estero subito dopo il funerale. Ho informato il signor Aköz, ma anche lui è troppo occupato, non ha tempo per venire. Sa, la signora Ankaralıgil e suo marito si sono conosciuti proprio grazie ad Aylin Aköz. Ho sentito per caso che ne parlavano. In America il padre della signora Aköz aveva…».
Dalla porta entrarono due uomini in uniforme che ci squadrarono come fossimo delinquenti.
«Avete chiamato la polizia?» chiese il più basso rivolgendosi a me.
«Accidenti, guarda che disastro!» lo interruppe l’altro.
La segretaria si alzò di scatto dalla poltrona. «Sì, vi ho chiamato io. Hanno scassinato la porta».
«Ci dispiace. Cos’hanno rubato?».
«I computer. Ma hanno anche frugato nei raccoglitori. Hanno messo tutto sottosopra, non si trova più niente».
«Contanti? Oro?».
«No, non abbiamo cose simili in ufficio. YeTer è un’associazione».
«Il nome non mi dice niente. Di cosa vi occupate?».
«Tutela ambientale. Lottiamo contro l’inquinamento».
L’agente più basso si mise una mano davanti alla bocca e fece una risatina.
«Scusi se glielo dico, ma non sarebbe meglio lottare contro la povertà? È un problema che riguarda un sacco di persone. Combattere l’inquinamento mi sembra molto meno urgente».
«Ognuno ha le sue priorità» rispose la ragazza, chiaramente convinta che la lotta all’inquinamento fosse un passatempo per persone ricche. «Io sono solo un’impiegata. Per me è un lavoro come un altro».
«Il responsabile dell’associazione deve presentarsi al distretto di polizia e sporgere denuncia. Dopodiché una squadra verrà qui a rilevare le impronte. Non fatevi troppe illusioni, però. Non capita spesso di riuscire a trovare i colpevoli».
«La maggior parte dei ladri è abbastanza intelligente da indossare i guanti» aggiunse il basso con un’altra risatina.
«Ma questo caso è diverso» mi lasciai sfuggire. Avrei voluto tenere la bocca chiusa, ma non riuscii a controllarmi.
«Nei computer rubati potrebbero esserci informazioni rilevanti per un presunto omicidio».
«Questa signora lavora qui con lei?» domandò il basso alla segretaria.
Sembrava che tutti volessero sapere chi ero.
«Sono qui solo perché volevo entrare nell’associazione» spiegai.
«È un’ambientalista?».
Feci cenno di sì e i due poliziotti mi guardarono come se avessi appena risposto a tutte le loro domande.
«Quale omicidio?» chiese il basso, sempre rivolto alla segretaria.
«Presunto omicidio» sottolineai. «Sto parlando di Sani Ankaralıgil, la presidentessa dell’associazione».
«Quella famiglia Ankaralıgil?».
«Sì. Sani era la nuora. La notizia della sua morte era sul giornale di venerdì. L’hanno trovata nella sua casa».
I due agenti si scambiarono un’occhiata, poi, mentre il basso mi guardava con espressione irritata, l’altro tirò fuori il cellulare dalla tasca della giacca.
«Akif, sono l’agente Gündüz. Passami il commissario capo». Un attimo dopo proseguì in tono più serio. «Buongiorno, signor commissario. Sono sul luogo del reato con l’agente Serkan. I responsabili sono scappati. Sì, signor commissario. Se posso rubarle un minuto, ci sarebbe un’altra cosa. Abbiamo qui una donna…».
Si rivolse a me. «Come si chiama?».
«Kati Hirschel». In che razza di guaio mi ero cacciata?
«La signora Kati Hirschem…».
«Hirschel» lo corressi.
L’agente mi zittì con un gesto sgarbato. «Dice che il luogo del reato è l’ufficio di Sani Ankaralıgil, che è stata trovata morta nella sua casa qualche giorno fa… Un’associazione ambientalista, signor commissario».
Spostò l’attenzione sulla segretaria. «Com’è il nome dell’associazione?».
«YeTer. Sta per “Turchia verde”».
L’agente ripeté l’informazione al telefono. «Hanno rubato dei computer, signor commissario. Forse hanno preso anche dei documenti cartacei. Qui con noi c’è un’impiegata dell’associazione». Per un po’ rimase in ascolto, disse solo «Sì, signor commissario» e «Va bene, signor commissario», annuendo come se il superiore potesse vederlo. Alla fine della telefonata annunciò: «Il commissario capo informerà i colleghi che si stanno occupando della morte di Sani Ankaralıgil. Dobbiamo rimanere tutti qui finché non arrivano».
«Anche noi?» chiese Fofo preoccupato. Finalmente sentivo di nuovo la sua voce, dall’ingresso dei due poliziotti non aveva più aperto bocca.
«Tutti» ripeté l’agente Serkan.
«Non potremmo almeno liberare una poltrona?» domandai. «Vorrei tanto sedermi».
«Non dobbiamo toccare niente» risposero i due in coro.
Per fortuna la giovane segretaria decise di alzarsi e di offrirmi il suo posto. «Si sieda qui. Ordino tè per tutti. Scusate, avrei dovuto pensarci prima. Non so proprio dove ho la testa».
«Se può, ordini anche un panino per ciascuno. Offro io» dissi. «Quanto ci metteranno i vostri colleghi?».
«Potrebbe volerci un po’» rispose laconicamente Gündüz.

Facendo molta attenzione a non toccare niente, aspettammo in silenzio per quasi un’ora. Ogni tanto la segretaria mi fissava come se volesse chiedermi qualcosa, ma bastava che i nostri sguardi si incrociassero e distoglieva subito gli occhi per concentrarsi sul paesaggio fuori dalla finestra. Forse era intimidita dalla presenza dei due poliziotti.
Lottai per tutto il tempo contro la tentazione di ricominciare a fumare; avevo smesso da appena otto mesi. Cercai di autoconvincermi che le sigarette non sarebbero state di nessun aiuto in una situazione così spiacevole, ma era difficile resistere con vicino due agenti che ne fumavano una dopo l’altra. Se almeno avessi avuto un libro! Purtroppo avevo lasciato il negozio in tutta fretta e l’idea di mettere in borsa qualcosa da leggere non mi aveva neanche sfiorato.

La nostra pazienza aveva ormai raggiunto il limite quando finalmente la porta si aprì.
«Ci siamo» pensai.
Non so se definirla fortuna o sfortuna, fatto sta che mi ritrovai davanti lui. Con tutti gli agenti della squadra omicidi di Istanbul, era incredibile che fosse proprio una mia vecchia conoscenza a occuparsi del caso.
Avete già capito di chi sto parlando, vero? Batuhan!
Non ci vedevamo da quasi quattro anni.
Era ancora un bell’uomo.
Aveva qualche capello bianco all’altezza delle tempie, che però gli donava. Aveva anche messo su un po’ di pancetta. Giusto un filo. I turchi più religiosi portano la fede alla destra, la mano benedetta, mentre quelli meno religiosi la portano alla sinistra, vicino al cuore. Dato che negli ultimi anni Batuhan poteva aver compiuto una nuova scelta ideologica, diedi un’occhiata a entrambe le mani. Niente fede.
«Kati, che sorpresa! Adesso a Tünel e dintorni arrivi prima tu della polizia!» esclamò, scoppiando poi in una fragorosa risata.
Fofo, i due poliziotti e la segretaria ci fissavano stupiti.
«Commissario Batuhan?» chiese infine il mio amico.
«Capo della squadra omicidi» precisò il diretto interessato.
Se pensiamo che sono stata io a risolvere i due omicidi su cui abbiamo indagato insieme… In polizia avrei sicuramente fatto carriera.
Ma sarei stata felice? No. Prima di tutto perché non sopporto i poliziotti. La collaborazione con Batuhan mi ha portato a vedere le cose in modo leggermente diverso, ma non potrò mai dimenticare la violenza con cui la polizia di Berlino ci costringeva a liberare le case occupate.
Quelli della squadra omicidi sono tutta un’altra cosa, naturalmente. Anche nei film sono sempre i più bravi e intelligenti.
«Non sei cambiata neanche un po’» disse Batuhan. «Se non sbaglio, sono più di tre anni che non ci vediamo».
«Già».
Si rivolse agli agenti Serkan e Gündüz, che ci stavano ancora osservando meravigliati. «Siete del distretto di Karaköy?».
«Sì, signor commissario» rispose Gündüz.
«Potete andare. Fatemi avere il vostro rapporto. Voi lavorate qui?». L’ultima domanda era per Fofo e la segretaria.
«Lui è Fofo, lavora con me» spiegai, mettendo una mano sulla spalla del mio amico.
La segretaria, che a ogni minuto sembrava diventare più pallida, confermò: «Io lavoro in questo ufficio».
«Perché siete qui, Kati? Cosa c’entrate?».
«Niente. Abbiamo letto della morte di Sani Ankaralıgil sul giornale».
«Ah, avete letto il giornale e vi siete detti: “Ecco un altro omicidio da chiarire, proprio quello che fa per noi”».
«Omicidio? Non è stato un incidente? Credevo che la signora Ankaralıgil fosse semplicemente scivolata» intervenne la segretaria, ma nessuno di noi le diede ascolto.
«Uscite tutti, dobbiamo esaminare l’ufficio. Quando avrò finito, verrò a parlare con voi».
«Non abbiamo toccato niente» feci notare.
«Sì, però avete camminato in giro, avete bevuto il tè, aperto la finestra, fumato diverse sigarette…».
«Io non fumo più» precisai.
Mentre uscivamo, Batuhan si affacciò sulla porta e fece entrare tre uomini con la scritta POLIZIA SCIENTIFICA sul retro della giacca.

Come imputati ci sistemammo uno accanto all’altro nel corridoio buio, in attesa di essere interrogati.
La segretaria si piegò verso di me e mi sussurrò all’orecchio: «Perché crede che la signora Ankaralıgil sia stata assassinata?».
«Veramente ho detto che forse è stata assassinata. Non è la stessa cosa».
«Okay, ma perché?».
«È solo una possibilità, non capisco perché si agita tanto» replicai.
«La signora Ankaralıgil mi piaceva. Il solo pensiero che l’abbiano uccisa mi fa stare male. È normale che mi agiti».
Quindi aveva un buon rapporto con la sua datrice di lavoro. Evidentemente non ero molto brava a giudicare le persone.
Batuhan ci raggiunse con in mano un taccuino.
«Che ruolo ha nell’associazione?».
«Sono la segretaria. Rispondo al telefono, evado la corrispondenza…».
Credeva davvero che un commissario non sapesse in cosa consiste il lavoro di una segretaria? Telefonate, corrispondenza…
«Come si chiama?».
«Sevim Mercan».
«Può dirmi esattamente cos’hanno rubato?».
«I computer. Hanno anche frugato tra le nostre carte, ma non so se manca qualcosa».
«Cosa contenevano i computer? Avete una copia dei dati?».
«Erano tutte cose di lavoro. La signora Ankaralıgil non si separava mai dal suo portatile. Non usava mai carta e penna. Diceva sempre che a mano faceva fatica anche a mettere una firma. Tutto quello che scriveva qui in ufficio lo salvava anche sul suo portatile».
«Quindi aveva un computer personale».
«Sì. Probabilmente è a casa sua» disse la giovane guardandolo con aria interrogativa. Poi, in mancanza di una sua reazione, aggiunse: «Era un Toshiba».
Batuhan prese nota sul taccuino.
«Di cosa si occupa l’associazione? Che significa YeTer?».
Sevim Mercan si raddrizzò come se dovesse fare un discorso pubblico. Sembrava avesse imparato tutto a memoria. «YeTer sta per “Turchia verde”. Combattiamo l’inquinamento, piantiamo alberi, ci diamo da fare perché le aziende che inquinano l’ambiente vengano punite e costrette a dotarsi di impianti di depurazione, vogliamo che il parlamento approvi una legge di tutela ambientale all’altezza degli standard europei… Finora ci siamo concentrati sull’inquinamento nel bacino dell’Ergene».
«E perché proprio il bacino dell’Ergene? Perché non Yatağan e la sua centrale a carbone o Dilovası e le sue numerose fabbriche?».
Sevim Mercan si prese un attimo per riflettere sulla risposta. «La signora Ankaralıgil era di Lüleburgaz. Forse è per questo che ha scelto il bacino dell’Ergene. La sua famiglia vive ancora là. Diceva sempre che presto il bacino sarebbe diventato come Dilovası».
«Lavoravate solo voi due qui in ufficio?».
«No, eravamo in tre. La signora Ankaralıgil era la presidentessa dell’associazione, ma era affiancata da una vice. Aylin Aköz».
«Può darmi il suo numero di telefono?».
«La signora Aköz è andata all’estero subito dopo il funerale. Se vuole il suo numero deve portarmi la borsa che ho lasciato là dentro. Non lo so a memoria».
Batuhan chiamò uno degli agenti che stavano lavorando alacremente nell’ufficio. «Recep, porta la borsa alla signora!».
«È sulla scrivania» aggiunse lei.
Recuperata la borsa, tirò fuori il cellulare e dalla rubrica lesse il numero di Aylin Aköz e quello del marito.
«Dove abita?».
«A Bakırköy».
«Mi servirebbe l’indirizzo completo».
«Mektep Sokak 21/6».
«Se può darmi anche il suo numero di telefono… Poi la lascio andare».
Dato che non potevo prendere nota del numero mentre il commissario capo mi guardava dritto negli occhi, cercai di memorizzarlo. Presto o tardi avrei dovuto parlare con la segretaria a quattr’occhi, senza polizia. Il numero di Aylin Aköz e quello del marito si potevano chiedere al servizio informazioni.

«E adesso veniamo a noi» disse il commissario non appena la segretaria scomparve nell’ascensore. «Da quanto siete qui?».
«Un’eternità. Ho perso il conto delle ore» risposi con una risata. Anche Batuhan rise. Mamma, com’era bello col sorriso sulle labbra! Certe cose non cambiano mai. Altre sì. Era chiaro che il suo atteggiamento nei miei confronti era un po’ più distaccato rispetto a prima.
«Come siete finiti in questa storia?».
«Chiedilo a Fofo, è stata una sua idea». Con la mia risposta impertinente speravo di sciogliere il ghiaccio, ma non fu così. Batuhan rimase serio.
«Non ci siamo ancora presentati» osservò il mio amico.
Il commissario non reagì, si limitò a stringergli la mano con scarso entusiasmo.
«Allora, mi spieghi come siete finiti in questa storia».
«Venerdì ho letto sul giornale di una donna morta improvvisamente dopo aver chiesto il divorzio da un uomo molto ricco. Mi è sembrata subito una cosa sospetta. Poi ho capito che la morta in questione era una donna che conoscevo e…».
Di colpo l’interesse di Batuhan si risvegliò. «La conosceva?».
«Il mio amico ha un po’ esagerato. La conoscevamo solo di vista» spiegai. «Qui sotto c’è un ristorante dove la incontravamo spesso all’ora di pranzo. Quando abbiamo saputo della sua morte abbiamo deciso di indagare».
«Quindi è stata lei, tra un boccone e l’altro, a dirvi dove trovare il suo ufficio…».
Si stava prendendo gioco di noi, ma ero ben decisa a non lasciarmi innervosire.
«Come ho già detto, dopo aver saputo della sua morte ci siamo messi a indagare».
«Con i soliti metodi, immagino».
«Abbiamo usato Google e fatto qualche domanda a un paio di persone».
«E cosa avete scoperto oltre all’indirizzo dell’ufficio?».
«Che poco prima di morire era andata al ristorante con l’avvocato del marito e aveva discusso con lui del suo contratto prematrimoniale».
«Un contratto prematrimoniale?». Batuhan socchiuse gli occhi e mi fissò. Lo conoscevo abbastanza bene da sapere che l’argomento aveva catturato il suo interesse. «Come si chiama l’avvocato del marito?».
«Eh no, ora tocca a te rispondere» replicai con intimo piacere. «Cosa dice il referto dell’autopsia? Si tratta di omicidio?».
«Ti aspetti davvero che riveli i nostri segreti d’ufficio?».
In effetti era proprio quello che mi aspettavo. Ma non ero tanto ingenua da credere che sarebbe bastato un mio sguardo per farlo cantare come un usignolo. Dovevo dargli tempo.
«Se hanno rubato anche il portatile… Puoi dirmi almeno se qualcuno si è introdotto in casa sua?». Tanto valeva tentare la fortuna.
«No, non è entrato nessuno».
«L’avvocato si chiama Demir Soylu. Hanno mangiato insieme lo scorso lunedì». Con questa rivelazione volevo dimostrare a Batuhan la mia buona volontà.
Purtroppo lui non si sentì in dovere di ricambiare il favore. Non riuscii a cavargli nient’altro.

In negozio, soprattutto nei giorni più frenetici, parlo con decine e decine di clienti, quindi dovrei essere abituata al contatto con molte persone, ma quel giorno avevo ormai raggiunto il limite. Quando lasciammo l’ufficio di YeTer mi accorsi di avere un unico desiderio: tornare subito a casa e sedermi a guardare il soffitto.
«Vado a casa» dissi a Fofo mentre scendevamo lungo Galip Dede Caddesi. Naturalmente non si trattava di una semplice passeggiata. A Istanbul – e in particolare a Beyoğlu – non c’è niente di semplice. Dato che lo stretto marciapiede era occupato da venditori ambulanti, i pedoni dovevano camminare in mezzo alla strada, scartando continuamente a destra e a sinistra per non essere investiti dalle auto.
«No!» esclamò Fofo. «Dobbiamo preparare un piano, decidere con chi parlare…».
«Possiamo farlo stasera».
«Per prima cosa dobbiamo andare a casa di Sani».
«A che pro? Tanto non riusciremmo a entrare. Meglio andare a Lüleburgaz».
«Chi ha scoperto il cadavere? Dev’esserci un custode o un vicino che tiene sempre d’occhio la situazione. Il tuo Batuhan non ci ha raccontato neanche un decimo di quello che sa».
«Non ti preoccupare di Batuhan. Se riusciamo a scoprire qualcosa, poi sarà lui a mettersi in ginocchio per ottenere informazioni da noi. Pensi che la gente si confidi col primo poliziotto che incontra? Noi partiamo decisamente avvantaggiati».
Quando bisogna far luce su un delitto, è un vantaggio non essere della polizia. Lo so per esperienza.

3






Il mattino seguente avevamo già un piano d’azione. Gemendo e sospirando Fofo aveva accettato di aprire il negozio al mio posto. Doveva inoltre procurarsi un’auto per raggiungere Lüleburgaz; per comprare il nuovo appartamento avevo venduto tutto, anche la mia adorata Peugeot.
Il martedì veniva Fatma per le pulizie. Mentre facevamo colazione insieme mi raccontò per filo e per segno dei suoi cari nipotini e si lamentò del marito, che da quando era andato in pensione trascorreva le giornate seduto in casa. Con i nuovi turni di lavoro ero sempre fuori casa quando arrivava Fatma e così sotto il mio letto si erano moltiplicate le ragnatele. Lo spostammo insieme. Sinceramente non so proprio che farmene di un letto così grande, ormai dormo sempre da sola. Sembra un enorme mostro piantato in mezzo alla stanza. Essendo più alta, dovetti anche salire sulla scala per prendere i kilim che avevamo stipato sopra l’armadio all’inizio dell’estate. Poi, per evitare che Fatma mi assegnasse altri compiti, mi vestii in fretta e uscii.
Sulla porta del negozio incontrai Fofo; aveva un sorriso che andava da un orecchio all’altro. «Un amico che vive a Cihangir ci ha messo a disposizione la sua Renault Clio. Va bene?» sparò. Come se potessimo permetterci di fare gli schizzinosi riguardo alla marca dell’auto.
«Quando possiamo prenderla?».
«Quando vogliamo. Ho anche chiamato la segretaria e fissato un appuntamento per stasera. Le chiederò dei parenti di Sani e mi farò spiegare dove possiamo trovarli».
«Dobbiamo solo andare a Lüleburgaz, proseguire per Kayacık e chiedere della famiglia Kaya. Facile» dissi con tono da saputella.
«Come sai che vivono a Kayacık?».
«È il paese d’origine di Sani Ankaralıgil, ce l’ha detto ieri Murat! Caro Fofo, devi imparare a tenere occhi e orecchie sempre aperti». Come potete ben immaginare, lui si arrabbiò molto per questa osservazione.
«L’avevo dimenticato» rispose, facendo spallucce come se fosse del tutto irrilevante. Comunque sapevo benissimo cosa stava pensando: uno a zero per te.
«Hai fatto bene a fissare un incontro con Sevim, ma…».
Incredibile! Che io avessi memorizzato il numero di telefono era assolutamente normale, ma il fatto che ci avesse pensato anche quel bell’addormentato del mio amico… «Come hai avuto il suo numero?».
«L’ho mandato a memoria ieri, quando l’ha detto a Batuhan». Sembrava avesse riacquistato sicurezza. Gli diedi una pacca sulla spalla.
«Bravo, ben fatto!». Stavo per farlo arrabbiare di nuovo. «Credo che dovrei andare io all’appuntamento. Da sola».
Fofo mi guardò come se volesse farmi a pezzi. Aveva ragione. Aveva organizzato tutto lui e ora gli dicevo che non poteva partecipare.
«È per il bene delle indagini. Sai, da donna a donna si parla meglio. Ma se ci tieni tanto…».
Lui si avvicinò alla vetrina e guardò fuori riflettendo.
«Credi che con te si aprirebbe?».
«Sì. Sai che le persone cresciute in un ambiente conservatore comunicano più facilmente con quelli dello stesso sesso».
«Anche in Spagna è così. Sia mia madre che le mie zie hanno sempre avuto amiche femmine» borbottò. «Va bene, vai pure da sola. Poi però mi racconti tutto. Promettilo!».
«Fofo, non ti fidi di me?».
Lui fissò gli occhi nei miei e guardò in profondità, come se potesse leggere nel mio cuore.
«No» disse infine.
Possibile che attraverso gli occhi di una persona si riesca davvero a leggere nel suo cuore? «Sciocchezze! Siamo una squadra, Fofo, lavoriamo insieme».
Suonava credibile?

Fofo e Sevim, la segretaria, si erano dati appuntamento per le cinque al Palazzo del simit in piazza Taksim. Dovete sapere che questo cosiddetto palazzo si estende su diversi piani - quattro o cinque - e quindi nessuno fa caso a chi entra o esce. Fino a quel giorno non ci avevo mai messo piede. Ci vanno quelli che abitano fuori Istanbul e che ogni tanto sentono il bisogno di fare un giretto a Beyoğlu. Non fa per me. È pieno di simit1 scadenti, tè da quattro soldi e persone di ogni età. Qualche anno fa, all’improvviso, questi palazzi sono spuntati come funghi in tutta Istanbul. Prima le ciambelline al sesamo venivano cotte nei forni a carbone, sistemate su vassoi di legno e vendute per strada.
Durante il mio ultimo soggiorno a Berlino ho scoperto un Palazzo del simit vicino a Kottbusser Tor. Il giorno di Natale sono anche entrata (tutti gli altri erano chiusi) e ho preso una delle loro ciambelle coi semi di sesamo. Sembrava proprio di stare a Istanbul. Non so come sia la situazione in altre città tedesche, ma per quanto riguarda Berlino il più grande successo gastronomico dei turchi sta nel fatto che siano riusciti a “importare” döner kebab, simit, frutta disidratata e patate ripiene dal loro paese d’origine e che ora nei loro chioschi, segnalati dalla scritta Imbiss, vendano la versione senza maiale di una specialità berlinese come i würstel al curry.
In mezzo alla folla di visitatori del Palazzo del simit stavo cominciando a chiedermi preoccupata se avrei riconosciuto Sevim quando vidi una donna piuttosto scialba venire verso di me con il tipico sorriso di chi incontra inaspettatamente un parente stretto. Mi rilassai e di colpo capii che il giorno prima - un po’ per la fame, un po’ perché ero tutta concentrata su Sani - non l’avevo guardata molto bene. Non mi ero accorta di quanto fosse, come dire, trascurata.

Ci fermammo al self-service per prendere del tè e un pandispagna all’arancia duro come i sassi, che sarebbe diventato mangiabile solo una volta inzuppato, poi ci spostammo al terzo piano, in una zona per non fumatori. Ho già detto che ho abbandonato il vizio delle sigarette, vero? Non sono ancora un’antitabagista convinta, ma preferisco i luoghi dove non si può fumare. Fofo non perde occasione per ripetere che lo faccio solo per non ricordare i bei tempi in cui anch’io fumavo. Ma lasciamo perdere…
«Vorrei farle qualche domanda, Sevim. Ieri abbiamo avuto poco tempo per parlare».
«Scusi, non ho capito bene il suo nome».
«Kati».
«Kati, prima di tutto vorrei chiarire un paio di cose. Forse non ci crederà, ma stanotte non sono riuscita a chiudere occhio. Mi sono girata e rigirata nel letto fino all’alba, continuavo a pensare a lei e a come avrei potuto rintracciarla. È stato un vero sollievo ricevere la chiamata del suo amico. La storia dell’adesione a YeTer era solo una scusa, vero? Volevate dare un’occhiata all’ufficio».
Come potete immaginare, non cominciai a sudare freddo per il semplice fatto che la segretaria avesse smascherato il nostro piccolo inganno.
«Sì, in un certo senso ha ragione. Ma la tutela ambientale mi interessa davvero, i progetti di questo tipo hanno tutto il mio sostegno». Stavo dicendo la verità. Per esempio, dato che normalmente si usa il cianuro per purificare l’oro, non compro gioielli fatti con questo metallo.
«Ieri ha detto che Sani potrebbe essere stata uccisa. Era presente anche lei al funerale? C’era un sacco di gente, impossibile ricordare tutti. Mi sono guardata un po’ in giro, ma non mi sembra di averla vista».
Scossi il capo.
«Stando alle voci che ho sentito, si è trattato di un incidente. Anche i giornali hanno parlato di morte accidentale. Sono rimasta scioccata quando ieri ha tirato fuori l’ipotesi dell’omicidio».
«Non so se Sani è stata davvero uccisa, dico solo che è una possibilità. Magari mi sbaglio». All’improvviso inorridii. Continuavo a battere sul tasto dell’omicidio, ma in realtà non avevo la minima idea di come fosse morta la povera Sani.
«Al funerale si è parlato anche del tipo di incidente che ha avuto?».
«È caduta in casa».
«Tutto qui?».
«Già. Una vera sfortuna. È inciampata e cadendo ha battuto la testa. La conosceva?».
«No, non proprio. L’ho incontrata un paio di volte».
«Di sicuro le sarebbe piaciuta. Chi può averla uccisa?».
«Beh, la polizia ha interrogato il marito».
«Sospettano di Cem Ankaralıgil?». Si premette una mano sulla bocca come se avesse detto qualcosa di molto sconveniente.
«In caso di morte sospetta bisogna sempre chiedersi chi ci guadagna. Il più delle volte è il coniuge».
«È impossibile, Cem Ankaralıgil non farebbe male a una mosca. È un uomo così distinto… Un vero signore. E poi perché avrebbe dovuto uccidere Sani? Stavano già divorziando».
«Sa anche lei che dopo un divorzio bisogna pagare gli alimenti e le indennità compensative. Inoltre c’è stata una riforma del diritto civile, adesso l’incremento patrimoniale realizzato durante il matrimonio viene diviso tra i coniugi. E sicuramente Cem Ankaralıgil ha guadagnato bene in questi anni. Parlo di cifre che noi due non vedremo mai in tutta la nostra vita».
«Posso fare un’osservazione?» domandò Sevim, terribilmente seria.
«Certo» risposi io con altrettanta serietà.
«Anche per un miliardo di lire, il signor Ankaralıgil non ucciderebbe nessuno. Come ho già detto, è un vero signore. Un uomo perbene… Innamoratissimo della moglie, per di più. Non può essere stato lui».
Lo disse con una tale convinzione che per un attimo quasi mi vergognai di aver pensato il contrario.
«La mia è solo un’ipotesi. Non sappiamo neanche con certezza se la signora Ankaralıgil è stata uccisa».
«Se non fosse così» replicò lei roteando gli occhi, «i poliziotti di ieri non avrebbero fatto tutta quella scena. Telefonare al superiore, far venire il capo della squadra omicidi… Quello che lei già conosceva. Come si chiama?».
«Batuhan».
«Giusto. È chiaro che è un suo vecchio amico. Ho avuto l’impressione che vi conosciate bene. Ho un sesto senso per queste cose. Sa, sono dei Pesci. Le interessa l’astrologia?».
«Non particolarmente, ma so sotto quale segno sono nata».
«Non me lo dica, provo a indovinare». Sevim sembrava entusiasta all’idea di giocare. «Scommetto che è…» - puntò l’indice verso di me e rifletté un attimo - «… dell’Acquario».
«Brava, non ci è andata lontano. In effetti sono Scorpione ascendente Acquario».
La segretaria ritirò immediatamente il dito, come se la potessi pungere. «Anche Sani Ankaralıgil era dello Scorpione. Nel suo caso l’ascendente compensa il segno zodiacale, ma Sani era Scorpione ascendente Scorpione. Una combinazione molto pericolosa. Sa com’è, gli scorpioni finiscono sempre per pungersi da soli».
L’ultima osservazione mi lasciò un po’ perplessa. Presi un pezzo del pandispagna che ci eravamo divise.
«Se la signora Ankaralıgil è stata uccisa, dovete assolutamente scavare nella sua vita privata».
«La sua vita privata?».
«Esatto. I suoi amanti e tutto il resto».
Amanti? Al plurale? Io faticavo a trovarne uno e Sani ne aveva diversi?
«L’assassino è sicuramente l’amante!» esclamò lei.
Il pezzetto di dolce che stavo masticando mi andò di traverso, scatenando un attacco di tosse. Prima ancora di riprendermi chiesi: «Quale amante?».
«È diventata tutta rossa» osservò Sevim, quasi le facesse piacere.
«Colpa della tosse. Allora, di chi sta parlando?».
«Di chi? Dell’attuale amante della signora Ankaralıgil, ovviamente. Nella sua vita c’era un altro uomo. Va da sé che non sono stata io a dirglielo».
«Sa anche come si chiama?».
«Sinan. È il leader degli Sniff».
Sinan? Gli Sniff? Mai sentiti. Ma non significava nulla, potevano anche essere bravissimi e famosi. La verità è che m’intendo solo di musica classica.
«Che tipo di musica fanno?».
«Rock. Mia sorella più piccola li adora. È innamorata persa di Sinan e non si perde neanche un concerto. Una volta sono andata anch’io».
Per un momento restammo in silenzio. La mia mente era un turbinio di pensieri. Se Sani tradiva il marito, forse lui l’aveva uccisa per gelosia. Non potevo certo cancellare Cem Ankaralıgil dalla mia lista dei sospetti solo perché Sevim lo riteneva incapace di far del male a una mosca.
O era stato Sinan? Forse l’aveva spinta giù da una scala durante una violenta lite.
«Ha detto che Sani è caduta in casa. Per caso è rotolata giù dalla scala?».
«Perché? In casa di Sani c’è una scala?». Com’era possibile che Sevim sapesse degli amanti della signora Ankaralıgil, ma che non conoscesse la sua casa e non potesse dire se c’era una scala?
«Chi altro sapeva di Sinan?».
«Nessuno».
«Nemmeno Aylin Aköz? Credevo fossero molto amiche».
«Infatti lo erano, ma neanche Aylin sapeva della relazione con Sinan».
«E lei come fa a saperlo?».
«Lo so e basta. Scusi, per chi mi ha preso?».
Per chi l’avevo presa? Che razza di domanda era? Semplicemente mi sembrava strano che Sani Ankaralıgil avesse raccontato un segreto del genere alla segretaria anziché alla migliore amica. Io farei esattamente il contrario.
«Sono solo stupita del fatto che Sani si sia confidata con lei anziché con la sua amica Aylin».
«Non si è confidata con me. È solo che, volenti o nolenti, certe cose vengono fuori quando si lavora a stretto contatto con una persona da mattina a sera».
Ancora una volta, come se qualcuno avesse premuto un tasto, cominciò improvvisamente a piangere. Non era tanto normale.
«Non avrei dovuto parlargliene» disse, tirando su col naso. «Non volevo».
«Non si preoccupi, ha fatto bene. Capisco che non abbia voluto dire una cosa del genere alla polizia, ma non poteva tenersela dentro, doveva confidarsi con qualcuno».
«Già, lo penso anch’io. Ma a un certo punto si è messa a parlare come se volesse accusarmi di qualcosa…».
Evidentemente era una donna ipersensibile. «Non la accuso di niente, stiamo solo chiacchierando». Per dimostrarle tutta la mia simpatia posai una mano sulla sua, piccola e morbida come quella di un bambino. Era il massimo che potessi fare per strapparle qualche informazione in più. «Se non ha parlato con Aylin Aköz, forse l’ha fatto con qualcun altro. È possibile?».
«Ha detto che, a parte me, non lo sapeva nessuno. E io ho mantenuto il segreto». Tirò fuori un fazzoletto di carta e si soffiò il naso.
«Non l’ha raccontato neanche a sua sorella?».
«No. Non proprio. La signora Ankaralıgil mi ha fatto giurare che avrei tenuto la bocca chiusa, ma quando mia sorella ha capito che conoscevo Sinan…».
«Lo conosce?».
«Sì, l’ho incontrato. È così che ho scoperto la loro relazione».
«Com’è andata?».
«Un sera ho dimenticato il cellulare in ufficio. Quando me ne sono accorta ero già ad Aksaray. Ci ho messo un po’ a tornare indietro e quando ho aperto la porta ho visto… Beh, chiaramente non avevano altro posto dove incontrarsi, quindi si davano appuntamento nel nostro ufficio. Sani aveva una paura folle che il marito lo venisse a sapere, ma io le ho promesso che non avrei detto niente a nessuno. Gliel’ho giurato. E adesso lei è morta… Sinan non è neanche venuto al funerale. Non si fa così. Prima rovina il loro matrimonio e poi non viene nemmeno a darle l’ultimo saluto. Uomini! Una volta ottenuto quel che vogliono, se ne fregano di te. Purtroppo sono loro a comandare il mondo».
«Che tipo è Aylin Aköz?».
Sevim parve contrariata dalla mia domanda. Non aveva nessuna voglia di cambiare argomento, voleva continuare a parlare di Sinan e di quegli uomini che usano le donne per poi buttarle via come fazzoletti sporchi. Probabilmente erano questi i temi di conversazione preferiti da lei e dalla sorella. In ogni caso decise di non insistere e si concentrò su Aylin Aköz.
«Cosa vuole che le dica? È una donna dell’alta società. Prima lo shopping, poi, se rimane tempo, l’associazione. Suo padre è stato ambasciatore in America. Come le ho già spiegato, Cem Ankaralıgil e sua moglie si sono conosciuti proprio grazie a lei. La signora Aköz non è certo bella come Sani, ma cura molto il suo aspetto. Indossa solo cose comprate all’estero. Se lo può permettere, visto che ha un sacco di soldi. Lo farei anch’io se avessi un ricco…».
«Potrebbe ripetermi il numero di cellulare della signora Aköz? Ieri, quando l’ha dato al commissario Batuhan, non ho potuto prendere nota».
«Non so quando rientrerà in Turchia. Soffre di emicrania ed è in cura da un medico che opera all’estero. Ci va tutti i mesi».
«Che combinazione! Anch’io soffro di mal di testa». In effetti cominciavo ad avvertire i primi sintomi.

Il mattino dopo partimmo. Ero elettrizzata; in fondo non mi capita tutti i giorni di lasciare Istanbul. Per buona parte del tragitto viaggiammo su un’ampia e comoda autostrada fiancheggiata su entrambi i lati da campi di girasoli e dopo due ore arrivammo a Lüleburgaz. Parcheggiammo e andammo subito in cerca di qualcosa da mangiare. È strano, ma basta che mi allontani di mezz’ora da Istanbul e il mio pensiero va immediatamente allo stomaco da riempire. Come se potessi morire di fame. Anche in città possono servire due ore per giungere a destinazione, eppure non mi preoccupo così.
Scoprimmo che la specialità di Lüleburgaz è la zuppa a base di trippa. Ovunque si vedevano minuscoli locali che offrivano esclusivamente questo piatto. Dato che non volevo emanare zaffate d’aglio mentre parlavo con i parenti della defunta Sani Ankaralıgil, proibii a me stessa e a Fofo di assaggiare l’appetitosa zuppa. Ci fermammo in una sala da tè dove i clienti sedevano su sgabelli quasi rasoterra e chiedemmo informazioni al vecchio gestore. L’uomo ci consigliò un ristorante con un menu un po’ più vario. Probabilmente era il più lussuoso della città. Dopo un pasto a base di carne arrosto ci rimettemmo in viaggio per Kayacık.
Restammo molto colpiti dal fatto che tutti sembravano perfettamente in grado di fornirci indicazioni stradali. Chi ha provato almeno una volta a cercare l’ingresso dell’autostrada in un quartiere periferico di Istanbul può sicuramente capire il mio stupore. Si incontra sempre qualcuno gentile e volenteroso che ti si siede accanto e ti indica la via fino alla strada principale, ma in certi quartieri è difficile trovare una persona con un livello d’istruzione sufficiente a fornire indicazioni tipo «Vada dritto fino al semaforo, poi giri a destra e dopo cinquanta metri a sinistra». Grazie agli abitanti di Lüleburgaz trovammo senza problemi la strada per uscire dalla città e imboccammo la diramazione per Kayacık. Il primo impatto con la Turchia a ovest di Istanbul ci aveva messo di buonumore.
«Dovremmo lasciare Istanbul più spesso» disse Fofo.
«Non sono mai stata neanche a ü̈rgüp e Pamukkale» confessai.
«Beh, figurati che io non ho mai visto Smirne».
«Se Pelin riuscirà a diventare una guida turistica, potremo visitare…». M’interruppi bruscamente e mi tappai il naso. All’improvviso in macchina si era diffuso un odore terribile. «Senti anche tu questa puzza?».
«Purtroppo sì». Anche lui si turò il naso.
«Che sia il famoso Ergene?». Accostai. Non lontano scorreva un fiumiciattolo fangoso intorno al quale si muovevano a fatica cicogne e cornacchie dall’aspetto malsano. La piccola strada provinciale - deserta - passava proprio accanto. Scendemmo dall’auto. Tutt’intorno aleggiava un odore indescrivibile. Provate a immaginare migliaia di uova marce e carcasse di animali lasciate per mesi sotto il sole. Ecco, l’odore che sentivamo era ancora peggio.
Dopo una ventina di minuti raggiungemmo Kayacık; l’effluvio pestilenziale ci aveva guidato nella direzione giusta. Poco prima del paese incontrammo delle povere tende. Ci passammo accanto a velocità ridotta.
«Cos’è? Un campo profughi?» domandò Fofo.
«Boh. Forse sono lavoratori stagionali».
Ci sedemmo nel più animato dei tre bar - per uomini - nella piazza del paese. Dopo due minuti ci raggiunse il proprietario. «Benvenuti! Chi cercate?». Evidentemente non era un posto frequentato da turisti.
«Il vostro sindaco si chiama Kaya, giusto?». Era il padre di Sani; l’avevo scoperto cercando in Internet.
«Rıfat? Mando subito qualcuno a chiamarlo».
«Ci porti anche due tè, per favore».
Poco dopo nel locale entrò un uomo con un berretto in testa, guance scavate e viso segnato dal dolore. Si avvicinò al nostro tavolo.
«Buongiorno. Avete chiesto di me?».
«Veniamo da Istanbul. Volevamo collaborare con sua figlia Sani, combattere insieme l’inquinamento nella zona dell’Ergene. Oggi passavamo da queste parti e abbiamo pensato di venire a conoscere anche lei». A volte mi sorprendo da sola per la facilità con cui riesco a mentire.
«Ho capito» disse semplicemente l’uomo.
«Prima di tutto vorrei farle le mie più sentite condoglianze». Gli strinsi la mano.
«Grazie, molto gentile. Dicono tutti che non c’è dolore più grande della morte di un figlio. È vero. È una cosa che non augurerei neanche al mio peggior nemico».
«Pare sia stato un incidente».
«Già, così pare. Un incidente».
Osservai le sue mani congiunte, poi lo scrutai in volto. Teneva la testa bassa anche mentre parlava con me. Aveva dei dubbi riguardo alla morte della figlia?
«La polizia sta ancora indagando» continuai.
Lui annuì. L’atteggiamento e l’espressione del viso non cambiarono minimamente. Polizia, indagini… non avevano nessuna importanza. Rıfat Kaya era un padre distrutto dal dolore, non aveva più neanche la forza di nutrire dei sospetti.
Nel frattempo alcuni uomini avevano lasciato i loro tavoli e si erano seduti intorno al nostro. Tutti maschi, ovviamente. Come ho già accennato, non era un locale per donne.
«Benvenuti» disse un biondo dalla corporatura robusta. Aveva un forte accento della Tracia, un particolare che mi piaceva.
«Stiamo effettuando un’indagine sull’inquinamento dell’Ergene» spiegai. Sembrava che Fofo non avesse nessuna intenzione di aprire bocca. Diventa sempre timido quando si trova davanti persone che non conosce.
«Siete giornalisti?» chiese il biondo. «Abbiamo già parlato con tutti quelli che sono arrivati prima di voi. Ne sono venuti tanti, ma qui non è cambiato niente. La situazione è sempre la stessa».
«No, siamo ambientalisti».
«Anche di ambientalisti ne abbiamo visti tanti» s’intromise un altro. «Ma nessuno ha ottenuto niente».
«Naz le ha provate tutte. Come sua sorella, che il Signore la benedica. Se solo fosse riuscita a trovare una soluzione!» aggiunse il biondo.
Rıfat Kaya aveva le lacrime agli occhi.
«C’è un odore terribile qui intorno. Da quant’è che va avanti così?».
«Se c’è uno che soffre per questa puzza, sono io» disse il proprietario del bar arrivando con i nostri tè. «Apro alle cinque del mattino, quando l’odore è più forte che mai. Di notte non c’è nessun controllo e così le fabbriche ne approfittano per buttare le loro schifezze nel fiume».
«Si sente anche adesso?» chiese il biondo.
«Bella domanda!» esclamò un altro uomo. «Io non sento niente».
«Ormai ci siamo abituati alla puzza, non ci facciamo più caso».
«Per questo nelle perizie si parla di “odore sopportabile”. Perché la gente ci si è abituata» replicò un cliente che sedeva a una certa distanza dal nostro tavolo, ma che stava comunque seguendo la conversazione.
«Il vero problema non è l’odore, ma il terreno. È completamente rovinato» proseguì il solito biondo.
«Venendo qui abbiamo visto parecchi campi di girasoli» dissi.
«Girasoli, grano, orzo, mais… In pratica non seminiamo altro. Solo cose che non richiedono tanta acqua».
«La nostra terra è molto fertile. È ottima, ci si potrebbe coltivare anche il riso. Suolo agricolo di prima classe, così lo chiamano. Una volta qui si producevano barbabietole da zucchero, fagioli, cavoli e porri. Ma adesso la terra è rovinata e l’acqua è piena di schifezze. Non va assolutamente bene».
«Non possiamo nemmeno stare con i piedi a mollo mentre zappiamo. La pelle comincia subito a bruciare».
«Perché il fiume è avvelenato dagli scarichi delle fabbriche, giusto?».
«In Tracia ci sono esattamente 1406 fabbriche. Più di mille non hanno nessuna autorizzazione, sono totalmente illegali. Pompano l’acqua dalla falda, la usano per la produzione e alla fine, senza depurarla, la buttano nel fiume. Ormai l’Ergene è completamente inquinato» disse un giovane che si era appena unito al nostro gruppo. «Siete giornalisti?».
«No» rispose il biondo al nostro posto.
«Da quant’è che va avanti così?» domandai di nuovo.
«Vent’anni. È cominciato tutto sotto Özal. Quel fiume» - il biondo fece un cenno in direzione del corso d’acqua, al di fuori del nostro campo visivo ma non di quello olfattivo - «era pieno di tartarughe e rane. C’erano pesci siluro lunghi come una gamba. Un giorno, all’improvviso, abbiamo visto i pesci venire a galla. Tutto il paese è corso a prenderli, a raccoglierli come frutta dagli alberi. Erano storditi, agonizzanti. Il medico dell’azienda sanitaria locale ci ha messo in guardia, ha detto che era meglio non mangiarli, ma naturalmente non tutti gli hanno dato ascolto. Allora ha prelevato un campione d’acqua e l’ha mandato ad Ankara per le analisi. Rıfat, come si chiamava il medico? Era piuttosto giovane».
Rıfat Kaya non rispose.
«Non si chiamava Selçuk?» suggerì un altro.
«Esatto! Dottor Selçuk. Ha mandato l’acqua ad Ankara, ma dalle analisi non è emerso niente. Sembrava fosse tutto a posto. E il nostro medico ha detto: “Questo paese farà una brutta fine. Lasciate perdere, non provate nemmeno a opporvi. I ricchi si sono presi la vostra terra”. Ora nel fiume non c’è più niente. Ogni forma di vita è morta. Non possiamo neanche usare l’acqua per irrigare i campi, altrimenti si rovina tutto».
«Cioè? Cosa succede?».
«Si forma una specie di schiuma».
«Una volta ho provato a bagnare le mie barbabietole. Il terreno ci ha messo cinque, sei anni per riprendersi».
«I campi producono molto meno. Prima un ettaro ci dava dodici tonnellate di barbabietole, adesso poco o niente. E infatti non c’è più nessuno che le coltiva».
«Prima ne avevamo tremila ettari. Quest’anno, invece, solo due famiglie su duecento hanno piantato barbabietole, per un totale di venticinque ettari. Solo per non perdere la quota».
«E di cosa vivete?».
«D’aria e d’amore. Non abbiamo altro» rispose il biondo dal bell’accento. Scoppiarono tutti a ridere.
«E come fate a irrigare quel poco che avete?».
«Ci pensa madre natura. Ora tutto dipende da lei. Dalla pioggia».
«Potremmo pompare anche noi l’acqua dalla falda, che qui si trova a nove, massimo quindici metri di profondità, ma non ne vale la pena. Il carburante per le pompe costa troppo».
«Non ce lo possiamo permettere. Invece le fabbriche non hanno problemi a tirar su l’acqua di falda. Poi, dopo averla usata, la scaricano nel fiume. A mezzanotte e nelle prime ore del mattino, quando non c’è nessuno che controlla».
«E quand’è che controllano? Non è vero che scaricano nel fiume solo la mattina presto, lo fanno a qualunque ora».
Io e Fofo ci guardammo inorriditi.
«Perché non hanno impianti di depurazione?» domandai e tutti mi fissarono come se non riuscissero a credere a tanta ingenuità.
«Gli impianti di depurazione sono molto costosi. Ci vogliono tanti soldi anche per farli funzionare, infatti i pochi che ne hanno uno non lo usano. Scaricare direttamente nel fiume non costa niente» spiegò il giovane, che nel frattempo si era seduto.
«Ma d’ora in poi non potranno più inquinare la nostra acqua» disse l’uomo che stava a una certa distanza dal gruppo. «Hanno creato una commissione parlamentare e approvato una legge per la tutela ambientale. Inoltre adesso c’è un’unità speciale della gendarmeria che si occupa proprio di queste cose. Hanno concesso un po’ di tempo agli imprenditori della zona, così quelli senza impianto di depurazione potranno installarne uno. Non spargeranno più le loro schifezze qui intorno, poco ma sicuro».
«Sei un povero illuso» borbottò Rıfat Kaya, prendendo finalmente parte alla conversazione. «Le leggi vengono approvate solo per poter entrare nell’Unione europea. È tutta una messinscena. Cos’hanno fatto davvero per noi? Qui intorno ci sono più di mille fabbriche illegali, te ne sei dimenticato? Concerie, colorifici, tessiture, vetrerie, aziende farmaceutiche… Attività di ogni tipo. E cosa fa lo Stato? Un bel niente! Basta che gli imprenditori comprino una Mercedes al governatore e la faccenda è risolta. Una mano lava l’altra. Quelli che inquinano di più vengono eletti imprenditori dell’anno. Di gente così non ci si può fidare. Apri gli occhi e guardati un po’ in giro».
«Una Mercedes?» ripetei stupita.
«Sì, gli imprenditori si sono messi insieme e hanno comprato una Mercedes al governatore di Kırklareli per continuare a fare i loro comodi senza essere disturbati. Dovrebbe saperlo, ne hanno parlato tutti i giornali».
Peccato che io non li legga.
«Non potete mettervi tutti insieme e fare qualcosa contro questo scempio?».
Il biondo posò una mano sulla spalla di Rıfat Kaya. «Naz e la povera Saniye ci stavano provando».
«Gli abitanti della zona non hanno né la voglia né il coraggio di agire. Hanno paura di far arrabbiare il governo. È più forte di loro. Non ci pensano proprio a ribellarsi. Non vogliono perdere il lavoro. Con persone così non si può fare niente!». Rıfat era indignato. Non somigliava minimamente all’uomo avvilito di poco prima. Il tizio seduto a una certa distanza spostò la sedia un po’ più lontano, quasi si sentisse minacciato.
«Il lavoro l’avete perso comunque».
«Non esattamente. La gente si lamenta degli imprenditori che inquinano, ma gran parte dei nostri giovani lavorano proprio per loro. Ci sarebbero tante fabbriche qui intorno se i contadini non avessero venduto la terra? Hanno rinunciato a questo terreno così fertile e pregiato e si sono fatti assumere come operai. Poi sono stati licenziati e adesso passano tutto il loro tempo al bar. Sono quasi tutti pentiti, ma ormai è troppo tardi».
«Lei e Sani avete fatto il giro dei paesi insieme?». In me stava crescendo il sospetto che gli imprenditori avessero tolto di mezzo la signora Ankaralıgil per paura che organizzasse una rivolta di contadini. Se si erano coalizzati per comprare una Mercedes al governatore di Kırklareli, forse erano anche capaci di commettere un omicidio.
«Sì, io e Sani siamo andati paese per paese e casa per casa, bussando a tutte le porte per spiegare il problema alla gente. Non si tratta solo di inquinamento, ma anche di immigrazione e crescita demografica».
«Abbiamo visto le tende all’ingresso del paese».
Rıfat sorrise.
«Quelli non sono immigrati, sono rom. Vivono a Lüleburgaz e vengono qui a fare la stagione nei campi. Negli altri paesi della zona non possono montare le tende, solo qui glielo permettiamo. C’è voluto un po’, ma alla fine i nostri contadini hanno deciso di fare questa concessione. Qualcuno dice che i rom sono tutti ladri. Beh, quelli che ci governano sono molto peggio, rubano il pane anche a chi deve ancora nascere. Un rom ruba al massimo una gallina. E comunque qui non hanno mai preso niente».
«Vengono pagati meno degli altri?».
«È ovvio. D’altronde non hanno scelta. Nei campi lavorano solo turchi di Bulgaria e rom. I primi prendono venti lire, i secondi quindici».
«Perché ha parlato di crescita demografica?».
«Il governo vuole trasformare tutta questa zona in un distretto industriale. I giornali dicono che nel giro di dieci anni la popolazione della Tracia aumenterà di quattro milioni. Sembra che a Gebze e Çorlu vogliano costruire diecimila nuovi appartamenti. Ci manderanno tutti gli abitanti in eccesso di Istanbul. Nessuno si chiede se la Tracia è in grado di accogliere tante persone. Come si presenterà questa regione con quattro milioni di abitanti in più?».
Era una prospettiva decisamente inquietante. Come se non bastasse, stavo morendo di sete. Avevo troppa paura che le sostanze inquinanti fossero finite anche nell’acqua potabile per ordinare un altro tè; non riuscivo nemmeno a bere quello che avevo davanti.
«Signor Kaya, potrebbe mostrarci i dintorni?» chiesi a bassa voce. Intorno al nostro tavolo si stava formando un gruppo sempre più numeroso, non era la situazione ideale per parlare di Sani.
«Vengo anch’io!» esclamò il biondo.
«Sarebbe meglio se andassimo da soli» sussurrai a Rıfat. «Vorrei parlare a quattr’occhi con lei».
«Di cosa? Niente di grave, spero».
«Sani».
Lui rimase spiazzato. Si sistemò il berretto, infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, le tirò fuori…
«Vuole parlare di Sani?».
Annuii.
«Aspetti qui, vado a prendere la macchina».
«Non è necessario, possiamo usare la nostra». Gli indicai la Renault Clio.
«Allora andiamo».
«Un attimo, dobbiamo pagare il tè».
«Non se ne parla neanche. Siete nostri ospiti» disse l’uomo con un movimento della mano che non ammetteva repliche. Poi si rivolse al biondo. «Ahmet, rimani qui. Non ci vorrà molto».

Feci cenno a Fofo di sistemarsi dietro.
«Voi due non siete ambientalisti. Cosa volete?».
«Beh…». Lui mi interruppe subito.
«Mostratemi i documenti, per favore».
Era una richiesta un po’ insolita. Senza senso. Cosa sperava di scoprire dai nostri documenti?
Pregai Fofo di passarmi la borsa, che si trovava sul sedile posteriore.
«Non siamo della polizia» spiegai, mentre gli davo il mio documento.
«E chi ha detto che siete della polizia?» rispose lui. Devo ammettere che la sola idea di essere scambiata per una poliziotta mi dà molto fastidio.
«Kati Hirschel» lesse l’uomo, poi si girò verso il mio amico. «E lei?».
«Sono spagnolo» disse Fofo, consegnandogli il passaporto.
Rıfat lesse anche il suo nome ad alta voce.
«Allora, cosa volete da me?».
«Stiamo cercando di scoprire se sua figlia è morta davvero per un incidente».
«Perché?».
Una domanda semplice e logica. Non potendo dare una risposta altrettanto sensata, girai la chiave e accesi il motore.
«Da che parte andiamo?».
Lui indicò una strada sulla destra. Era evidente che stava facendo uno sforzo per mantenere il controllo.
«Perché vi interessa tanto la morte di Sani?».
Non fraintendetemi, non mi diverto a raccontare bugie. Mi hanno insegnato che non si fa. Ma non avevo scelta.
«Siamo investigatori privati».
«Chi vi ha assunto?» domandò lui. Poi, senza darmi il tempo di rispondere, aggiunse: «Sani è stata uccisa?».
«È possibile. Stiamo indagando per scoprire com’è andata».
Rıfat inarcò le sopracciglia. «E la polizia? Credono anche loro che sia stato un omicidio?».
«Immagino che abbiano qualche sospetto, altrimenti avrebbero già chiuso le indagini».
Nel frattempo avevamo raggiunto la fine della strada. Ci fermammo in mezzo a un campo.
Lui prese un pacchetto di sigarette dalla tasca. Ne offrì una a entrambi, ma rifiutammo. Tirò giù il finestrino e accese la sua.
«Quindi mia figlia è stata ammazzata».
«È solo una possibilità».
«Chi può aver fatto una cosa simile?».
«Forse gli imprenditori della zona. Pare che Sani volesse portarli in tribunale».
«Qualcuno vi ha chiesto di indagare?».
«No».
«Non c’è nessuno che vi paga?».
«No».
«Eravate amici di mia figlia?».
Risposi con un altro no.
«Perché lo fate se nessuno vi paga?».
«E lei perché combatte contro gli inquinatori?».
Rıfat mi guardò in silenzio. Probabilmente nei miei occhi riusciva a vedere qualcosa che conosceva bene. Anch’io vedevo il fuoco nel suo sguardo. Eravamo decisi, pronti ad andare fino in fondo. Che si trattasse di un presunto omicidio o di un’azienda che inquinava senza ritegno, dovevamo difendere il nostro senso della giustizia e tutti i valori in cui credevamo. Per sentirci a posto con la coscienza dovevamo combattere le ingiustizie. Era chiaro a entrambi.
«La mia figlia più piccola, Naz, lavora come medico all’ospedale pubblico di Lüleburgaz. Parlate con lei prima di tornare a Istanbul. È quella più interessata all’ambiente nella nostra famiglia. È stata proprio lei a coinvolgere Sani. Vi sarà senz’altro più utile di me».
Detto questo uscì dall’auto e a testa bassa s’incamminò sulla via del ritorno, ripiegandosi su se stesso passo dopo passo.
  
1Ciambelle salate ricoperte con semi di sesamo.

4






«Questo odore mi dà il voltastomaco» si lamentò Fofo, tirando su il finestrino che Rıfat aveva abbassato per fumare.
«Eppure lo definiscono “sopportabile”».
«Chi può sopportare questa puzza? Io no di certo. L’acqua che scorre da queste parti è avvelenata e si sente! Non dovevamo prendere il tè».
«Non credo che un bicchiere di tè ci ucciderà» replicai, anche se io stessa l’avevo considerato veleno fino a poco prima. Dovevo tranquillizzare il mio amico.
«Parli così perché sei mezza turca, ma io vivo a Istanbul da molto meno tempo di te e sono ancora spagnolo fino al midollo». Si tappò il naso. In effetti aveva ragione, in generale i turchi non hanno paura di niente, né dei prodotti alimentari esposti alle radiazioni di Černobyl’, né dell’influenza aviaria, né dell’AIDS.
Restammo in silenzio fino a Lüleburgaz. Dovevamo digerire quello che avevamo appena scoperto.
In ospedale mi rivolsi all’infermiera che sedeva dietro il vetro con la scritta ACCETTAZIONE, dicendole che volevamo parlare con Naz Kaya.
«La dottoressa Kaya è in ferie fino alla fine della prossima settimana. La sostituisce il dottore…».
«Si tratta di una faccenda privata. Ci manda suo padre».
«Forse la trovate a casa».
Avremmo dovuto chiedere a Rıfat Kaya il numero di telefono della figlia. Al pensiero di tornare indietro e perdere altro tempo mi si rizzarono i capelli. Sentii svanire la speranza di rientrare a Istanbul prima dell’ora di punta serale.
«Non potrebbe provare a chiamarla?» domandai in tono supplichevole.
«Certo che posso» rispose la donna. «Che nome devo dire?».
«Mi chiamo Kati. Le spieghi che ci manda suo padre».
Naz Kaya ci diede appuntamento per mezz’ora dopo al Nehir Kahvesi, di fronte alla moschea di Sokullu Mehmet Paşa.

Naz somigliava molto alla sorella in versione bionda, quella della foto sul giornale. Senza dubbio era altrettanto bella.
«Già, lo dicono tutti che siamo uguali». C’era un che di beffardo nella sua voce e nell’espressione del viso, qualcosa che non riuscivo a spiegarmi. Decisi comunque di non dare troppo peso a questo particolare.
«Quindi suo padre l’ha avvertita che saremmo venuti? Poteva darci il suo numero di telefono» intervenne Fofo.
«Si è ricordato che ero in ferie solo dopo la vostra partenza. Per questo mi ha chiamato, temeva che non mi avreste trovato. Lüleburgaz è una piccola città, non è poi così difficile trovare qualcuno, ma un uomo che ha passato tutta la vita in un paesino non può certo saperlo».
«Immagino che le abbia anche detto che stiamo indagando sulla morte di sua sorella».
«Ha detto che secondo voi gli imprenditori della zona l’hanno fatta uccidere. È così?» chiese sottovoce, anche se non c’erano altri clienti ai tavoli del locale.
«Non ne siamo ancora sicuri. Per il momento stiamo prendendo in considerazione diverse ipotesi. Crede che siano capaci di fare una cosa simile?».
«Mio padre ha detto che lei è di Istanbul» fece Naz invece di rispondere alla mia domanda. «E lei spagnolo».
«Ha voluto vedere i nostri documenti» spiegai.
«Davvero?». Scosse la testa. «Questo vi dice quanto sia spaventato. A Kayacık hanno tutti paura della loro ombra. Anche mio padre».
«Perché? Di che cosa hanno paura?».
«Dei mulini a vento, ovvio. Prima o poi salteranno le protezioni e finiremo tutti maciullati».
Io e Fofo ci scambiammo un’occhiata. La paura degli abitanti del luogo ci stava contagiando.
Si avvicinò un cameriere e con un ampio sorriso ci chiese: «Cosa vi porto?».
Ordinammo tre acque minerali.
«Sono nata a Lüleburgaz, ma i miei genitori sono di origine albanese» continuò Naz dopo che il cameriere se ne fu andato. «Albanesi di Macedonia, tutti e due. Anche loro sono nati qui, ma abbiamo ancora dei parenti al di là del confine. Dall’altra parte del fiume Meriç. Come sapete, in Tracia vivono molti rifugiati provenienti dai Balcani».
Non capivamo dove volesse andare a parare, ma la ascoltammo in silenzio.
«Hanno avuto tante brutte esperienze, non solo durante le diverse guerre che hanno insanguinato i Balcani, ma anche dopo. Il ricordo di queste sofferenze è impresso nella mente di tutti. Negli anni Ottanta, poi, i turchi di Bulgaria hanno cominciato a essere perseguitati per motivi religiosi ed etnici e così anche loro si sono trasferiti, almeno in parte, qui in Tracia».
«Sono compatrioti» disse Fofo.
«Sì, qualcuno li ha definiti così, e da allora tutti usano questo termine. A volte lo uso anch’io, ma sinceramente non mi piace».
Nel frattempo il cameriere ci aveva portato l’acqua. Naz ne bevve un sorso, poi tornò al tema principale della nostra conversazione.
«Volete sapere se gli imprenditori possono aver ordinato la morte di mia sorella. Beh, io sono una cardiologa, dovreste parlare con un oncologo per avere informazioni più precise, comunque vi posso dare qualche dato. Il trenta per cento dei decessi in questa zona è dovuto a cancro. Tre volte la media nazionale. I tumori maligni più diffusi sono quelli allo stomaco e ai polmoni e sono causati dalle sostanze tossiche presenti nell’ambiente».
«Tre volte la media nazionale?» ripeté Fofo allibito, mentre io non potevo fare a meno di rosicchiarmi le unghie.
«Impressionante, vero? Eppure non siamo riusciti a mobilitare i contadini contro i proprietari delle fabbriche. Questo vi fa capire quanto siano spaventati e intimiditi. Per rispondere alla sua domanda, credo che con questa industrializzazione selvaggia non passi giorno, minuto o secondo senza che venga commesso un delitto. Gli imprenditori che inquinano l’ambiente uccidono non solo gli abitanti di oggi, ma anche le generazioni future. Pompando l’acqua dalla falda, avvelenando l’Ergene, distruggendo i boschi e i terreni agricoli. Volete sapere se avrebbero potuto uccidere mia sorella. Credo di avervi risposto».
Il suo discorso mi aveva ipnotizzato. Impiegai qualche secondo a uscire dalla trance.
«Non capisco dov’è il problema con l’acqua di falda» ammise Fofo.
«Se vanno avanti così, consumeranno tutta l’acqua sotterranea della Tracia centrale. Presto potremmo trovarci ad affrontare una grave siccità».
Naz fece una pausa.
«Comunque il pompaggio dell’acqua di falda non è la cosa peggiore. Mi preoccupa molto di più il fatto che, una volta inquinata con sostanze dannose anche per la salute umana, l’acqua venga riimmessa nell’ambiente. Vi faccio un esempio. Prendiamo le concerie. Le pelli si possono conciare in due modi: con le piante o con il cromo. Se si usano sostanze vegetali, il processo dura circa quattro mesi. Se invece si utilizza il cromo, basta una settimana. Però il cromo è una sostanza altamente nociva per l’uomo, provoca ulcere gastriche e cancro ai polmoni. Naturalmente i proprietari delle concerie preferiscono questo metodo perché così risparmiano tempo. E comunque non usano solo il cromo, ma anche altre sostanze chimiche: zolfo, solfato di sodio, solfidrato alcalino, dimetilammina… Poi sciacquano le pelli conciate con l’acqua di falda. Capite?».
A dire il vero parlava in modo un po’ troppo rapido e concitato.
«Sì, è tutto chiaro. Per te, Fofo?».
Lui annuì. Stava ascoltando con grande attenzione.
«Alla fine l’acqua carica di sostanze chimiche e soprattutto di cromo viene ripompata nel sottosuolo, inquinando la falda in maniera irreversibile».
«Mio Dio! Ma perché lo fanno?».
«Perché buttandola nel fiume corrono il rischio di essere scoperti. Certo, i controlli sono piuttosto rari, ma per quelli non in regola è prevista una multa. E così, per non rischiare, hanno smesso di scaricare l’acqua nel fiume e hanno cominciato a ripomparla nella falda. Una volta anche a Istanbul c’erano delle concerie, nel quartiere di Kazlıçeşme…».
«Sì, me le ricordo. Le hanno smantellate prima che Fofo si trasferisse a Istanbul».
«In realtà le hanno spostate in una zona industriale dalle parti di Tuzla. Là hanno tutti un impianto di depurazione. Ma un po’ di tempo fa i conciatori hanno cominciato a protestare. Volete sapere perché?».
«Perché?».
«Per i costi dell’elettricità che serve a far funzionare i depuratori. E perché devono pagare l’acqua anziché attingerla dalla falda. In effetti hanno ragione a dire che non possono competere con quelli della Tracia, le pelli conciate qui sono molto più economiche. Gli imprenditori fanno quello che vogliono e noi ne subiamo le conseguenze».
«È spaventoso! Non riesco a crederci!» esclamò Fofo, pallidissimo in volto.
«Lo so che è spaventoso. E questa è solo una parte della storia. In Tracia non ci sono solo concerie, ma anche vetrerie, tessiture, aziende farmaceutiche… Attività di ogni tipo, insomma. E ognuna inquina l’ambiente in modo diverso. L’industrializzazione selvaggia è iniziata venti anni fa e io mi batto per fermarla da circa un decennio. Succede tutto davanti ai nostri occhi, ma abbiamo le mani legate. Comunque ci sono anche sviluppi positivi, bisogna ammetterlo».
«Cioè?».
«Negli ultimi anni il sostegno da pare della popolazione è aumentato. Dieci anni fa, quando abbiamo cominciato, eravamo solo in cinque: tre ragazzi di Lüleburgaz e due di Çorlu. Poco a poco abbiamo coinvolto nella lotta le nostre famiglie. Io, per esempio, ho convinto subito i miei genitori. Naturalmente non si sarebbero mai schierati contro l’industrializzazione in generale, ma quella senza regole è un’altra cosa e non piace neanche a loro. Ho sempre cercato di non pretendere troppo. Bisogna tenere presente che le industrie hanno portato un certo benessere in Tracia e che molte famiglie ne hanno tratto vantaggio. Mia madre dice sempre: “Adesso vediamo le cose in modo più chiaro”. Ed è vero. Non è stato facile arrivare fin qui, ma ce l’abbiamo fatta».
«Mi sembra che il vostro paese sia quello meglio organizzato».
«Merito dei miei genitori, che ci mettono tutto il loro impegno. Col passare del tempo la gente ha acquistato consapevolezza, le persone hanno capito che l’ambiente va difeso e in generale hanno cambiato il loro modo di vedere le cose. Si sono messi tutti in discussione e adesso sono più critici. Nei dintorni di Lüleburgaz ci sono tantissimi paesini, ma solo gli abitanti di Kayacık permettono ai rom di piantare le loro tende. Lo considero un successo. Avete visto le tende all’ingresso del paese?».
«Sì».
«Come ho già detto, lottiamo contro i mulini a vento e sappiamo bene che potrebbero farci a pezzi in qualunque momento. Cerchiamo di accontentarci dei nostri piccoli successi. Finora non siamo riusciti a ottenere molto. Non importa se introducono una nuova legge, tanto poi nessuno la rispetta. Meglio rallegrarsi per due tende».
«Non mi sembra un gran successo, visto che i rom vengono pagati meno. Quando avranno lo stesso trattamento degli altri, allora sì che si potrà festeggiare».
«Si è informata sulla paga giornaliera?» domandò Naz sorpresa. «Come mai? Come le è venuto in mente?».
«Negli anni Ottanta in Germania mi sono battuta contro la discriminazione. So cosa chiedere, più o meno».
«Quindi ha una certa esperienza in questo campo. All’inizio per noi la mancanza di esperienza è stata un grosso problema. Siamo andati avanti per tentativi, imparando dagli errori. C’è voluto tanto tempo, ma adesso so che non si possono affrontare certi argomenti coi contadini. Sarebbe inutile. Quando si tratta di soldi, non sono disposti a fare cambiamenti. Non ne vogliono neanche parlare».
«Non succede solo nei paesini, è così anche in città» osservai con un sorriso amaro.
«La paga giornaliera dei rom è senz’altro un problema. Spero che prima o poi riusciremo a cambiare le cose. Quest’anno mio padre ha accettato per la prima volta di dare ai rom la stessa paga che dà ai “compatrioti”. Magari l’anno prossimo qualcun altro seguirà il suo esempio».
Il mio telefonino si mise a squillare. «Scusi» dissi, alzandomi per rispondere alla chiamata. Era Pelin. Mi allontanai dal tavolo per parlare più liberamente. Batuhan mi cercava; la mia aiutante voleva sapere se doveva pregarlo di aspettare.
«Non gli hai detto che sono a Lüleburgaz, vero?».
Lei rispose di no.
«E cosa gli hai detto?».
«Sei ancora da Lale?».
«Ho capito, è lì vicino a te».
Pelin confermò.
«Okay, passamelo».
Spiegai a Batuhan che non sarei tornata a Kuledibi prima di sera. Non era il caso che mi aspettasse. Potevamo vederci il giorno dopo.
«Domani non posso, facciamo venerdì» replicò lui.
Fissammo un incontro per il tardo pomeriggio del venerdì, in negozio.

Tornai al tavolo, dove il mio caro amico stava conversando amabilmente con Naz. Per la precisione le stava dicendo che Istanbul è una città bellissima e che non se ne sarebbe mai andato.
Presi la palla al balzo e mi rivolsi alla dottoressa Kaya. «Viene mai a Istanbul?».
«Sì, vengo spesso a trovare i miei amici. Ho fatto lì le scuole e l’università. A dire il vero sto pensando di trasferirmi per un po’. Dopo il funerale di mia sorella sono tornata a Lüleburgaz per stare in pace, ma… Devo andare a prendere il rapporto dell’autopsia. E poi ci sono delle persone che vorrei vedere».
«Danno il rapporto dell’autopsia ai familiari?».
«Dovrebbero. Comunque ho degli amici all’Istituto di medicina legale, se ci saranno problemi mi rivolgerò a loro».
«Quel rapporto servirebbe anche a noi. Se potesse mostrarcelo…».
«A voi non lo darebbero mai, vero? State indagando per conto vostro. Mio padre ha detto che non siete della polizia. Beh, si vede lontano un chilometro».
Naz e il padre erano due persone intelligenti. La loro famiglia cominciava davvero a piacermi. Prendendo il coraggio a due mani dissi: «Vorremmo anche vedere la casa di Sani».
«La polizia ha messo i sigilli. Credo sia la prassi. Devono proteggere eventuali indizi».
«Avranno anche messo i sigilli, ma la serratura è sempre la stessa».
«I miei dovrebbero avere una copia della chiave. Ve la porto domani. Andremo insieme a casa di mia sorella».
«Sani usava un computer portatile. Sevim, la sua segretaria, ci ha detto che non se ne separava mai».
«È vero, erano incollati come gemelli siamesi. Che fine ha fatto?».
«Pare sia scomparso».
«Cosa?». Naz inarcò le sopracciglia.
«Non l’hanno trovato né a casa né in ufficio. La polizia non ha ancora parlato con voi?».
«No. Al funerale mia madre è svenuta, quindi siamo tornati subito a Lüleburgaz. Può darsi che abbiano provato a contattarci, non lo so».
Se devo essere sincera, mi sembrava che Batuhan non stesse facendo un gran lavoro. Doveva ancora parlare con la famiglia della defunta! Ma chi ero io per dare consigli alla polizia turca?
«Forse ha lasciato il portatile in auto».
«No, non aveva la macchina. Aveva appena venduto quella vecchia per prendere un nuovo modello. È davvero molto strano che il portatile non si trovi. Probabilmente è stato rubato. Quindi c’era qualcun altro in casa quando mia sorella è morta?».
«Non necessariamente. Forse è entrato qualcuno dopo. O forse gliel’hanno rubato poco prima che morisse e non ha avuto il tempo di dirlo a nessuno. Non possiamo escludere niente. Ma sono sicura che il rapporto dell’autopsia ci aiuterà a chiarire un po’ di cose».
Erano già passate le sei.
«Dobbiamo andare» annunciai. «A quest’ora rimarremo sicuramente imbottigliati nel traffico, ma con un po’ di fortuna saremo a casa per mezzanotte».
«Ci vorrà più tempo a entrare a Istanbul che a fare il pezzo da qui a là» confermò Fofo.
«Ma no, non è possibile».
«Oh sì» insistetti. «E la situazione peggiora di giorno in giorno. Durante il ramadan si blocca tutto già due o tre ore prima della fine del digiuno».
Naz ci accompagnò alla macchina. «Ripensandoci, domani non credo di farcela. Meglio dopodomani».
«Va bene». Le diedi il mio numero di telefono e una serie di indicazioni per raggiungere il negozio. Ci saremmo riviste venerdì mattina.

Durante il viaggio di ritorno ci mettemmo a litigare più di una volta. Fofo era impazzito: voleva insegnarmi come si guida! Okay, forse ogni tanto torno alle vecchie abitudini e vado un po’ troppo forte. Ma non è colpa mia se sulle autostrade tedesche non esistono limiti di velocità!
Stanchi e innervositi dal traffico serale di Istanbul, alla fine arrivammo a casa. Mi infilai sotto la doccia e ci rimasi per un bel po’, guardando l’acqua scorrere lungo il mio corpo.
Il giorno dopo dovevo alzarmi presto, quindi, oltre alla sveglia tradizionale, impostai anche quella del telefonino. Poi, mentre pensavo che a una giornata stancante seguiva sempre una notte di sonno profondo, mi addormentai di colpo.

La mattina successiva, appena arrivata in negozio, mi collegai a Internet per cercare maggiori informazioni sugli Sniff e sul loro frontman. Dal sito della band appresi che venerdì sera si sarebbero esibiti al Kara Bar di Beyoğlu. Poteva essere una buona occasione per scambiare qualche parola con Sinan. Decisi che io e Fofo saremmo andati al concerto.
Diedi un’occhiata a skyrat.com.tr. Niente di interessante. Già che c’ero, inserii prima “famiglia Ankaralıgil” e poi “Aylin Aköz” più “marito” in Google. Dopodiché cercai informazioni sull’inquinamento nel bacino dell’Ergene e proseguii con il sito web di YeTer e con il governatore che aveva ricevuto in dono una Mercedes… Una volta cominciato a navigare in Internet, non si riesce più a smettere. Per liberarmi chiamai Lale. Era in ufficio, ma non aveva tempo per le chiacchiere, doveva partecipare a una riunione. Ci lasciammo con un appuntamento per il weekend.
Finalmente in negozio arrivò anche Fofo, ancora impastato di sonno. «Come hai fatto ad alzarti così presto? Io mi sono appena svegliato. Ha chiamato Hasan. Deve portare sua madre all’aeroporto, gli serve la macchina. Mi dai la chiave?».
«Okay, ma vedi di non perdere tempo. Non posso rimanere qui tutto il giorno».
Naturalmente le mie parole gli entrarono da un orecchio e gli uscirono dall’altro, come sempre. Due ore dopo era ancora chissà dove. Alla fine, quando si degnò di ricomparire, lasciai il negozio e tornai a casa.

Il mattino dopo, come promesso, sulla soglia apparve Naz.
«Una libreria che vende solo gialli! Che bella!» esclamò, accomodandosi sulla mia sedia a dondolo. Normalmente non l’avrei permesso, ma per lei feci un’eccezione.
«Posso offrirle un tè?».
«Sì, grazie. Si potrebbe avere anche qualcosa da mangiare? Sono partita senza fare colazione per non arrivare tardi».
«Cosa preferisce? Panino con formaggio o salsiccia, döner kebab, fagioli bianchi stufati…». Le elencai ciò che offriva Kuledibi.
«Un panino con la salsiccia» rispose lei.
Vi ricordate Recai, vero? Il proprietario della sala da tè vicino alla libreria. È andato in pensione circa un anno fa, lasciando l’attività al figlio Müslüm. Quest’ultimo però è terribilmente pigro, passa le giornate seduto nel ripostiglio a scommettere sui cavalli e se ne frega dei clienti. Prima, quando qualcuno veniva a trovarmi in negozio, non facevo in tempo a ordinare il tè che Recai era già davanti alla vetrina della libreria col suo vassoio. Adesso, invece, devo chiamare e richiamare per qualunque ordinazione. Una cosa davvero irritante. Ogni tanto Recai dà al figlio una bella lavata di capo e il servizio migliora leggermente, ma dopo un paio di giorni Müslüm torna alle sue abitudini. Quel venerdì erano sicuramente passati più di due giorni dall’ultima ramanzina di Recai: quando arrivò il panino che avevo ordinato al Petek Büfe, Müslüm non si era ancora fatto vedere. Spazientita, decisi di arrangiarmi da sola e andai a prendere due bicchieri di tè.
Mentre ero impegnata a servire la mia ospite, ricevetti un messaggino sul cellulare: «Sei sola?».
Evidentemente Fofo era curioso di sapere se Naz era arrivata. Non risposi. Non posso certo perdere tempo a soddisfare la sua curiosità, ho cose ben più importanti da fare!
Naz si pulì dalle briciole di pane e chiese: «C’è qualcun altro in negozio?». Credeva forse che avessi nascosto qualcuno dietro la tenda dell’angolo cucina?
«No, ci siamo solo noi due. Perché?».
Nel frattempo si era avvicinata alla vetrina e si era messa a guardare i passanti. Sembrava la scena di un film sulla guerra fredda e lei una spia del KGB preoccupata che il nemico la stesse seguendo.
«Voglio raccontarle una cosa, ma deve rimanere tra noi».
Cioè? Stava dicendo che non potevo riferirla neanche a Fofo?
Questa idea mi irritava non poco. È vero che non racconto sempre tutto a Fofo, che lo sgrido anche senza motivo e che mi arrabbio spesso con lui, ma solo perché lo decido io. È inaccettabile che qualcuno mi vieti di raccontare qualcosa al mio amico. Forse il mio caro Fofo non è degno di fiducia? E comunque sono io che stabilisco cosa raccontare e a chi. Non mi interessa il parere degli altri al riguardo.
«Non posso prometterle niente. Come sa, lavoro con Fofo» risposi in tono secco.
«Non c’è problema, con lui può parlare. Vorrei solo evitare che queste informazioni diventassero di dominio pubblico. Potrebbero mettere a rischio la vita di una persona che mi è molto cara».
Ah!
«Ne parlerò solo con Fofo» la rassicurai. Forse voleva raccontarmi della relazione tra la sorella e Sinan. Ne era a conoscenza anche lei? Era questo il grande segreto? Non vedevo però in che modo potesse mettere a rischio la vita di una persona a lei molto cara. Poi ebbi una folgorazione: forse si riferiva a Sinan. Forse erano buoni amici e Naz voleva evitare che Cem Ankaralıgil venisse a sapere della relazione perché temeva che avrebbe tentato di uccidere il cantante. Un delitto d’onore.
Sembrava che i pezzi del mosaico si incastrassero alla perfezione.
Però non ero sicura che Cem Ankaralıgil fosse il tipo da commettere un delitto d’onore. Per quanto ne sapevo, quelli che si macchiavano di un simile reato erano per lo più individui poco istruiti con una mentalità arretrata. I turchi “normali” si comportavano come la maggioranza degli uomini nel resto del mondo: per un po’ aspettavano che la moglie tornasse da loro, poi, se non succedeva, sceglievano il divorzio.
Che si trattasse della relazione clandestina tra Sani e Sinan o di qualcosa di ancora più importante, Naz non voleva che si sapesse in giro. Nessun problema, io i segreti li so mantenere.
«Non si preoccupi, il suo segreto sarà al sicuro. Glielo garantisco».
«Bene» disse lei, anche se non sembrava affatto tranquillizzata.
«Se qui non si sente a suo agio, possiamo andare a parlare a casa mia. Abito nelle vicinanze».
«Sì, forse è meglio. Questo posto è molto carino, ma è comunque un negozio. Potrebbe entrare qualcuno da un momento all’altro».
«Okay, chiamo Fofo e gli dico di venire a sostituirmi. Dovrebbe essere a casa. Ci metterà un attimo ad arrivare».
«D’accordo. A questo punto direi che possiamo anche darci del tu, no?».
«Certo!» risposi, componendo il numero di Fofo sul cellulare.

Appena arrivate a casa, andai in cucina per fare il caffè. Naz mi seguì. «Mio padre vorrebbe pagarvi per quello che state facendo. Coprirvi almeno le spese».
«Non se ne parla neanche».
«Ma non è giusto, non potete pagare tutto di tasca vostra».
«Certo che possiamo. Anche voi pagate di tasca vostra le iniziative contro gli inquinatori. Credevo che tuo padre e io ci fossimo già chiariti. A me e a Fofo interessa solo scoprire se Sani è stata uccisa». A dire il vero il mio amico non aveva ancora tirato fuori un centesimo, ma preferivo tenere questo particolare per me. «Abbiamo cominciato a indagare per pura curiosità, ma ora…».
«Ora?».
«Beh, abbiamo conosciuto te e tuo padre, abbiamo visto quello che fate…».
«Purtroppo non c’è molto da vedere, finora non abbiamo ottenuto granché» replicò tristemente Naz.
«Però ci state provando. È già qualcosa. E poi in un certo senso conoscevo anch’io Sani. La vedevo spesso al ristorante».
«Intendi quel piccolo locale sotto il suo ufficio?».
«Sì, lo conosci?».
«Certo, mi ci portava tutte le volte che venivo a Istanbul».
«Mi sarebbe piaciuto conoscerla meglio. So che dopo le elementari si è trasferita da uno zio per frequentare le medie. A Kayacık non c’erano, vero?».
«No, sarebbe dovuta andare a Lüleburgaz. Come hai visto, non ci vuole molto. C’era anche uno scuolabus che faceva il giro dei paesi. Ma dato che gli zii non avevano figli, si sono offerti di ospitare mia sorella per tutto il tempo necessario e i miei genitori hanno accettato. Poi sono stati ripagati per la loro generosità: un paio di anni dopo sono finalmente riusciti ad avere un bambino».
«Tu hai frequentato le medie a Lüleburgaz?».
«No, ho studiato qui a Istanbul presso il famoso Galatasaray Lisesi. In convitto».
Il caffè era pronto. Ci spostammo in soggiorno.
«Posso fumare?» chiese Naz.
«Certo. Io ho appena smesso. Il posacenere è là sul mobile».
«Eh, dovrei smettere anch’io… In realtà non sono una grande fumatrice».
Ci sedemmo agli angoli del grande divano rosso, una di fronte all’altra con il vassoio e le tazze di caffè nel mezzo.
«Allora, cosa volevi raccontarmi?».
«Hai mai sentito parlare dell’UÇK? È un’organizzazione armata nata durante la guerra del Kosovo».
Annuii. È vero che non leggo i giornali, ma non sono così disinformata da non conoscere l’UÇK.
«L’organizzazione è rimasta attiva fino al 1999. In pratica la fine della guerra ha segnato anche la sua fine. Un paio di membri sono stati processati, alcuni ricoprono oggi importanti cariche in Kosovo, o almeno così pare, altri sono stati reclutati dall’esercito americano… Gli Stati Uniti hanno inserito l’UÇK nella lista delle organizzazioni terroristiche nel 1997 e l’hanno tolta già all’inizio del 1998. Più tardi si è saputo che i servizi segreti americani avevano addirittura addestrato gli uomini dell’UÇK. Anche i tedeschi hanno ammesso di aver sostenuto l’organizzazione per tutelare gli interessi della Germania nella zona dei Balcani».
«Okay, ma che c’entra?».
«Un attimo, ora te lo spiego. Gli uomini dell’UÇK sono diventati una specie di mito, anche se sono state dette cose molto negative sul loro conto: che si rifornivano di armi da bin Laden, che uccidevano gli albanesi contrari alla lotta armata… Secondo alcuni, erano anche a capo della mafia albanese. Ma erano comunque considerati degli eroi».
«I serbi controllavano l’esercito e l’apparato statale, la minoranza albanese era oppressa. È normale che l’UÇK abbia trovato tanti simpatizzanti».
«Già. Hanno raccolto molti consensi tra la loro gente».
«Quindi?».
«Come ti ho già detto, la mia famiglia è di origine albanese».
«Sì». Avevo ascoltato il suo racconto senza capire dove volesse andare a parare, ma finalmente intravedevo un possibile collegamento.
«In Turchia vivono tantissime persone di origine albanese. E non solo. Ci sono immigrati provenienti da tutti i Balcani: bosniaci, pomacchi… Non si sa esattamente quanti siano, ma si trovano un po’ in tutto l’Egeo settentrionale, a Smirne, Manisa, Istanbul… E soprattutto in Tracia. La maggior parte si è integrata perfettamente e ha dimenticato la lingua d’origine. Moltissimi sono nati in Turchia. Siamo già alla seconda, terza, quarta generazione. I loro antenati sono fuggiti per lo più durante le guerre di inizio Novecento. Allora i Balcani erano molto più sviluppati dell’Anatolia e le persone avevano un livello d’istruzione migliore. Quasi tutti quelli che si sono rifugiati nella neonata repubblica turca hanno trovato buone opportunità di lavoro. Probabilmente è per questo che finora non ci sono stati problemi di tipo etnico o culturale».
Sentendo l’ultima frase trasalii. Perché finora? Le cose stavano cambiando? In un attimo misi insieme tutti i pezzi del puzzle.
«Stai dicendo che in Tracia è nata un’organizzazione simile all’UÇK?».
«Esattamente. Si chiama TÖZ» rispose lei, bevendo un sorso di caffè.
«Cioè?».
«Gruppo di liberazione della Tracia. Ma loro stessi si definiscono TÖZ».
Non sapendo cos’altro fare, aggiustai il cuscino che avevo dietro la schiena e chiesi: «Cosa c’entra l’UÇK?».
«È il loro punto di riferimento. Spero non ci siano altri legami. Il TÖZ è un’organizzazione locale, o almeno così dicono loro».
«Non ne ho mai sentito parlare».
«Perché non sono ancora entrati in azione. Sempre che non siano stati loro a uccidere mia sorella».
«Alt! Perché mai avrebbero dovuto uccidere Sani?».
«Quelli dell’UÇK uccidevano gli albanesi che si rifiutavano di appoggiarli. Quelli del TÖZ potrebbero aver fatto la stessa cosa».
«Tua sorella si era schierata contro il TÖZ?».
«Non proprio. Diciamo che non approvava i loro metodi. Il TÖZ è un’organizzazione armata. I suoi membri sono convinti che il tempo delle parole sia finito e che ora si debbano usare le maniere forti. Sani era contraria alla violenza, proprio come lo sono io. I nostri obiettivi sono più o meno gli stessi: industrie che non danneggino l’ambiente e controllo dell’immigrazione. Noi però non vogliamo imboccare la strada della violenza. Non si sa mai dove può portare. Chi ci assicura che un domani non si abbandoneranno gli obiettivi attuali per seguire una linea separatista? Quando si scelgono metodi radicali, spesso si radicalizzano anche le idee. Noi non vogliamo niente del genere. Né ora né mai».
«E come hanno fatto quelli del TÖZ a sapere che non siete con loro?».
Potevo sicuramente formulare meglio la mia domanda, comunque Naz ne intuì il senso. «Vuoi sapere se il TÖZ si è messo in contatto con noi?».
«Esatto».
«Hanno contattato prima me – sei, sette mesi fa – e poi mia sorella. Per quanto ne so, l’organizzazione esiste da circa un anno. Fin dall’inizio si sono messi a cercare nuovi membri in tutta la Tracia. Vogliono sapere chi li appoggia e chi potrebbe appoggiarli. Parlano con tutti quelli impegnati nella difesa dell’ambiente e in generale con chi non è soddisfatto della situazione attuale. Per questo ci hanno contattato. Forse con noi sono stati un po’ più pressanti, ma si sono comportati così con…».
«Pressanti? In che senso?».
«Hanno chiamato più di una volta e hanno lasciato del materiale propagandistico nel mio ufficio in ospedale».
All’improvviso sentii di aver ascoltato anche troppo. Non ce la facevo più, mi serviva una pausa per “digerire” tutto quello che mi aveva raccontato.
«Vado a prendere un po’ d’acqua. La vuoi anche tu?».
Stare un attimo da sola in cucina mi fu utile. Tornai in soggiorno con la convinzione che Naz non fosse per niente pazza, anche se diceva cose apparentemente assurde. Se fosse stata pazza, di sicuro non avrebbe potuto esercitare la professione medica.
«Telefonate e materiale propagandistico» ripetei tra me e me.
«Sì. Vuoi sapere cosa dicevano i volantini? O c’è qualcosa che non ti è chiaro?».
In realtà ero troppo confusa per formulare una qualunque domanda di senso compiuto. Non sapevo nemmeno io cosa volevo.
«Allora, vediamo se ho capito bene. In Tracia è nata un’organizzazione armata che vuole uno Stato indipendente».
«No» mi corresse subito Naz. «Per il momento non vogliono l’indipendenza. Chiedono di mettere fine all’industrializzazione selvaggia, di trasferire alcune fabbriche altrove, di limitare l’immigrazione e di ampliare le competenze delle autorità provinciali. Insomma, puntano al federalismo».
«Che poi è il primo passo verso l’indipendenza».
«Nei loro discorsi questo termine non compare. O almeno finora non l’ho mai sentito. Chiedono tutta una serie di diritti per le minoranze linguistiche, anche se le cose fondamentali, secondo me, sono altre. Hanno una lunga lista di rivendicazioni, ma ora non me le ricordo tutte. Dicono che il loro obiettivo principale è lo sviluppo della regione».
«E hanno molti sostenitori?».
«Li stanno cercando. In Tracia sono tutti molto preoccupati per quello che è successo negli ultimi vent’anni. Quasi nessuno si fida più dei politici, di qualunque schieramento siano. Molti credono che la regione sia stata sfruttata e saccheggiata. Quelli che ora vivono in Tracia hanno perso la loro patria e hanno rischiato la vita a causa delle guerre nei Balcani. Non vogliono sentirsi di nuovo minacciati».
«E credi che potrebbero schierarsi con un’organizzazione armata?».
«È possibile. In realtà non so cosa potrebbe succedere. La gente ha paura, questo è certo».
«Chi rischia di perdere qualcosa ha sempre paura» osservai, rosicchiandomi distrattamente le unghie.
«D’altra parte, con tutti i governi che si sono succeduti, i nostri problemi non sono ancora stati risolti. Al contrario, aumentano di giorno in giorno. In Tracia le persone capiscono abbastanza bene quel che succede, più che nel resto della Turchia. Il livello d’istruzione è alto, la regione è molto sviluppata, i paesi hanno scuole e strade asfaltate».
«Cosa potrebbe fare un’organizzazione armata per guadagnarsi le simpatie della gente?».
«In questo paese i grandi inquinatori ricevono medaglie e onorificenze perché con le loro attività imprenditoriali sostengono l’economia. Immagina che uno di questi imprenditori venga ucciso. Secondo te come reagirebbe una persona che ha visto il padre morire di cancro a causa dell’inquinamento industriale? Credi che piangerebbe? E se saltasse in aria una di quelle fabbriche che scaricano le loro acque avvelenate nel fiume o nella falda? Azioni di questo tipo avrebbero un forte impatto sulla gente, che ormai è stufa marcia di certe cose».
Mi premetti le dita sulle tempie: mi stava venendo il mal di testa.
«Okay, ma…».
«Tra l’altro la Tracia sarebbe economicamente indipendente anche senza industrie. Ci sono fiumi importanti come il Meriç, il Tunca e l’Ergene. Dappertutto si trovano valli e bacini ricchi d’acqua. E quasi ogni giorno si scoprono nuovi giacimenti di gas naturale. Abbiamo anche una buona università. Se non fosse per l’inquinamento e per l’immigrazione sempre più massiccia, sarebbe un posto fantastico. La Tracia ha degli standard mitteleuropei. È l’unica regione turca abbastanza sviluppata per poter entrare nell’Unione europea. Sono tutti argomenti che vengono usati con molta abilità dal TÖZ».
«Stai dicendo che la Tracia dovrebbe davvero diventare una repubblica indipendente?».
«No, voglio solo farti capire che quelli del TÖZ usano argomenti piuttosto convincenti».
«In negozio hai detto che una persona a cui tieni molto potrebbe rischiare la vita».
«Ho il sospetto che il mio ex ragazzo abbia a che fare con loro».
«E nonostante questo credi che possano aver ucciso tua sorella?».
«Non ho idea di come prendano le loro decisioni. Non so nemmeno qual è il ruolo del mio ex nell’organizzazione. Magari non c’entra niente».
«Okay, da una parte abbiamo gli imprenditori e dall’altra il TÖZ. A questo punto dobbiamo rispondere a una domanda importante».
«Quale?».
«A chi avrebbe aperto tua sorella? Secondo la polizia non ci sono segni di effrazione sulla porta d’ingresso. Se si tratta davvero di omicidio, allora è stata proprio Sani a far entrare l’assassino. Evidentemente lo conosceva bene».
«Vivendo a Istanbul si diventa malfidenti, vero? Si perde fiducia nella gente. Qui non si apre la porta al primo che bussa».
«Diciamo che si diventa un po’ più cauti. In una grande città può succedere di tutto, bisogna stare sempre in guardia».
Lo sguardo di Naz si fissò nel vuoto. Sul suo viso, illuminato dai raggi autunnali che entravano dalla finestra, vidi delle rughe che fino a quel momento non avevo notato. Intorno agli occhi, sulla fronte… Quanta sofferenza! Sembrava che tutte le battaglie, tutti i successi e gli insuccessi, tutti i sogni e le perdite della sua vita le avessero lasciato una ruga sul volto.
«Anch’io sto perdendo fiducia» disse. «Da quando mia sorella è morta, ogni giorno, anzi ogni ora che passa perdo sicurezza in me stessa e nella mia capacità di curare i malati, di salvare l’Ergene, di essere felice… Non credo più a niente. Provo solo una grande stanchezza».
«Come mai questo cambiamento improvviso? L’altro ieri stavi bene, sembravi calma».
«Davvero? Beh, non è così. Ognuno affronta il lutto alla propria maniera. Mi sento completamente svuotata, come se mi avessero succhiato via tutte le emozioni. Vedere i miei distrutti dal dolore mi fa stare ancora peggio. Cosa succederà adesso? Come faremo ad andare avanti?».
«Qui ci vuole un piano» suggerii, come faceva spesso Fofo con me. Non era certo la risposta che voleva, ma personalmente credo sia meglio non cedere troppo ai sentimentalismi. «Tu vai all’Istituto di medicina legale. Io ho appuntamento per stasera con il commissario che si occupa delle indagini, o meglio, con il capo della squadra omicidi. Vedrò di scoprire a che punto sono. D’accordo?».
«Sì» rispose laconicamente lei.
«Ti va un tè verde? O preferisci qualcosa di forte?».
Guardò l’orologio. «Non è un po’ presto per gli alcolici?».
«Allora usciamo e andiamo a mangiare. Una passeggiata ti farà bene».
«Possiamo andare tra un po’?».
«Certo, quando vuoi».
Aprii la finestra e l’aria profumata di sole inondò la stanza.
«Andrà tutto bene» pensai. Mi faceva male la zona intorno all’occhio sinistro, come se mi avessero dato un bel pugno. Maledetta emicrania.

5






«Dov’è Fofo?» domandai a Pelin non appena misi piede in negozio. Erano quasi le cinque. Dopo che Naz mi aveva salutato per andare all’Istituto di medicina legale, avevo acceso il televisore e cercato invano un programma decente. Mi ero allora immersa nella lettura di un romanzo che non prendevo in mano da giorni.
«Aveva appuntamento con un amico. Credo siano andati a mangiare insieme» rispose lei. «Ha detto che vi vedrete stasera a casa».
«Veramente stasera dobbiamo andare a un concerto».
«Ah sì? Chi andate a sentire?».
«Gli Sniff. Li conosci?».
«Sì, sono bravi. Dov’è il concerto?».
«Al Kara Bar».
«Mmh, brutto locale. Sarà un delirio. Gli Sniff attirano sempre un sacco di gente».
Delirio o meno, non potevo mancare. Chiamai Fofo e gli diedi appuntamento per quella sera al Kara Bar.
«Non ce la faccio più, sono distrutta» si lamentò Pelin. «So che anche voi siete molto impegnati, ma in pratica il negozio è tutto sulle mie spalle».
«Dai, vai a casa».
«È venerdì, stasera mi vedo con i miei amici qui a Beyoğlu. Non posso andare a casa. Ci vogliono due ore tra andata e ritorno».
Capii immediatamente cosa voleva: che le mettessi a disposizione il mio appartamento.
«Se vuoi, puoi andare da me. Rilassati un po’ e magari fatti una dormita, così stasera sarai bella riposata».
Lei scattò in piedi. «Grazie, sei fantastica!».
Le diedi la chiave. Un attimo dopo era già sparita.

Provai a sistemare i conti della settimana, ma non riuscivo a concentrarmi. Il mio sguardo correva continuamente alla porta e ai passanti al di là del vetro. Non c’era da stupirsi, in fondo stavo aspettando Batuhan. Alla fine gettai la spugna, misi da parte la contabilità e diedi un’occhiata ai giornali on-line. Dappertutto le stesse noiosissime notizie. Chi ha detto cosa su questo e quest’altro. Entrarono tre clienti a distanza di trenta secondi l’uno dall’altro e comprarono cinque libri senza che dovessi usare le mie arti persuasive.
Presi un foglio e disegnai una serie di chiocciole, impegnandomi il più possibile perché fossero tutte della stessa grandezza. Continuai fino a riempire completamente il foglio, poi ne presi un altro e con la stilografica di madreperla rosa di Pelin cominciai a disegnare margherite. Queste ultime, però, si rivelarono meno divertenti delle chiocciole. Il vecchio lustrascarpe che lavorava vicino alla libreria, di fronte a un edificio fatiscente, staccò e si diresse verso casa. Mentre passava davanti al mio negozio, bussò alla vetrina e mi fece un cenno di saluto che ricambiai. Guardavo l’orologio più o meno ogni sette minuti. Il figlio di Recai si presentò in libreria per dirmi: «Kati, sto chiudendo. Vuoi qualcosa?». Sicuramente si era appena preso una bella ramanzina. «No, grazie. Saluta tuo padre da parte mia, Müslüm». Rimasta di nuovo sola, aprii il solitario che avevo nel computer per richiuderlo un minuto dopo. Non avevo la pazienza necessaria.
Arrivò Dursun, il venditore di DVD. All’inizio svolgeva la sua attività in un minuscolo negozio in Galip Dede Caddesi, ma quando la polizia aveva cominciato a sequestrargli la merce sempre più spesso si era trasferito nella cantina del negozio di lampadari di fronte alla sinagoga. Poi l’avevano trovato anche lì e gli avevano confiscato tutti i DVD masterizzati illegalmente. In seguito si era spostato di nuovo, dalla cantina all’ingresso di una casa nella galleria Çeşmeli. Io ero tra i suoi migliori clienti. Mi spiegò che aveva preparato un CD con le informazioni principali sui film del suo catalogo. Questo mi avrebbe facilitato la scelta. Per ordinare qualcosa potevo mandargli un’e-mail in qualunque momento; il giorno dopo avrei ricevuto quello che volevo.
«Non posso continuare come ho fatto finora, Kati. La polizia mi crea troppi problemi. Quei rompiscatole mi hanno preso di mira» si lamentò. La settimana precedente gli avevano confiscato quasi duecento DVD e gli avevano fatto passare una notte in cella.
«La consegna a domicilio conviene solo se gli ordini sono piuttosto consistenti. Non vale la pena di andare da qualcuno per uno o due DVD. Vediamo come va. Se non funziona, mi metterò a vendere succhi». Mi raccontò che in autunno e in inverno la vendita di succhi di frutta aumentava vertiginosamente. Al momento andavano per la maggiore il succo di melagrana e quello di arancia e pompelmo.
«Ho uno zio con un carretto che vende fette di cocco e ananas in Galip Dede Caddesi. Gli affari vanno bene. Potrei affittare un piccolo negozio, che tra l’altro ho già individuato, e vendere frutta come fa lui. In ogni caso» concluse Dursun «spero di averla ancora come cliente». Poi se ne andò.
Chiusi a chiave la porta del negozio e andai in bagno. Al mio ritorno Batuhan era in attesa davanti all’ingresso.
«Ancora un po’ e non mi avresti più trovato» dissi.
«Ho dovuto lavorare fino a tardi. Ci sono due colleghe in maternità, dobbiamo fare anche la loro parte. Dovremmo assumerti. Ci saresti di grande aiuto». Scoppiò a ridere.
«Okay. Adoro la polizia turca».
«E la polizia turca adora te. Ci sei mancata negli ultimi tempi, sai». Altra risata.
«Non è mica colpa mia se a Istanbul non succede più niente».
«Cosa? Il numero dei delitti è aumentato. Diciamo che non è successo niente in grado di attirare la tua attenzione. Il tuo interesse è piuttosto localizzato: ti occupi solo di Beyoğlu e dintorni».
«Questa volta si tratta di Paşabahçe. Il mio campo d’azione si è esteso fino al Mar Nero».
«Caspita, ti stai dando da fare. Vuoi rubarci tutto il lavoro?». Ahahah.
Il suo tono beffardo cominciava a innervosirmi.
«Sei venuto per lamentarti, Batuhan?».
«È così che la vedi? Forse dovremmo scambiarci di posto». Ahahah.
Feci anch’io una bella risata.
«Quanto sei spiritoso!».
Silenzio. Io sulla mia sedia a dondolo, lui sulla poltrona di fronte.
«Vuoi un tè?».
«No, grazie, per oggi ne ho bevuto fin troppo».
«Vuoi qualcos’altro?».
«No, davvero, sto bene così. Gli affari vanno a gonfie vele, eh?».
«Lo deduci dal fatto che ti ho offerto un tè?».
«No, più che altro dai tuoi due aiutanti. Oltre alla ragazza, ora c’è anche il giovane che ho conosciuto l’altro giorno. Come si chiama?».
«Fofo».
«Ma che razza di nome è? Vuole far sapere a tutti che è frocio?».
Mio Dio, che idiota!
«È spagnolo» spiegai, fingendo di non aver sentito l’ultima parte. «Comunque gli affari vanno discretamente, non mi posso lamentare».
«Si vede che gli amanti del giallo sono in aumento. Quando andrò in pensione scriverò le mie memorie. Trent’anni nella squadra omicidi. Che ne dici? Ti piace come titolo?».
«Troppo lungo».
«Okay, allora Trent’anni di delitti».
«Meglio. Parlerai anche del caso Ankaralıgil?».
«Non lo so, ma di sicuro parlerò di te. Ti dedicherò un intero capitolo: Una detective tedesca in cerca di fama per le vie di Beyoğlu».
«Sarà sicuramente uno dei capitoli migliori, si capisce già dal titolo». Non sembra anche a voi che un simile talento letterario sia un po’ troppo per un poliziotto, soprattutto in combinazione con un certo acume?
«Mi faccio un tè verde. Se ne vuoi un po’, devi solo dirlo».
«Bah, troppo amaro per i miei gusti».
«Sarà anche amaro, ma fa bene. Allora, ne vuoi?».
«Va be’, mi hai convinto. Fanne un bicchiere anche per me».
Mentre aspettavo che l’acqua bollisse, sentii la porta del negozio aprirsi e richiudersi. Doveva essere un cliente. Che tempismo! D’altronde succede sempre così: quando sei sola, non entra nessuno per ore. Si trattava di due austriaci che non vedevano l’ora di raccontare le loro avventure a qualcuno. Il viaggio della coppia in terra turca era iniziato dalla Cappadocia, quindi avevano abbastanza materiale per chiacchierare fino all’indomani mattina. Con gentile fermezza li feci uscire e chiusi la porta a chiave. Certo, chiudere fuori i clienti mentre si è in negozio non è una mossa molto intelligente, ma non volevo che Batuhan perdesse la pazienza.
Scaldai di nuovo l’acqua e feci il tè.
«Dov’eravamo rimasti?» chiese lui.
«Al libro di memorie che scriverai quando sarai in pensione. Parlerai anche di Sani?».
Batuhan appoggiò la testa a una mano e mi fissò in modo irresistibile. «Forse. Il capitolo potrebbe intitolarsi Una morte sospetta».
«Quindi non è stato un incidente?».
Lui strabuzzò gli occhi. «Di’ un po’, stai cercando di estorcermi qualche informazione?».
«Ma come ti viene in mente?». Era chiaro che negli ultimi anni la sua perspicacia era notevolmente aumentata.
«Okay, comincia tu. Cosa sai?».
«Niente» risposi. «Ho solo qualche sospetto sugli imprenditori traci che rischiavano di dover pagare una bella multa per colpa di Sani».
«Non stiamo parlando di un’organizzazione criminale».
«Beh, se si sono messi insieme per comprare una Mercedes al governatore, possono anche aver assoldato un killer».
«Credi davvero che si siano accordati per far uccidere Sani? A me sembra un’assurdità».
«Stavo solo rispondendo alla tua domanda. Se non vuoi sentire le mie teorie, possiamo anche continuare a prenderci in giro».
«Sani Ankaralıgil è morta, ma non è stata assassinata». Batuhan si era fatto un po’ più serio, ma la stupida espressione di poco prima non era ancora scomparsa del tutto dal suo viso.
«Cosa cavolo significa? Vuoi dire che è morta per una banale caduta?».
«Esatto. Può succedere, perché ti sorprendi tanto?».
«Se ha perso l’equilibrio da sola, va bene. Ma se è caduta perché qualcuno le ha dato una spinta, è comunque omicidio. Non puoi sapere com’è andata». Feci una pausa per bere un sorso di tè. Il tè verde è molto utile. Non sono sicura che i suoi antiossidanti facciano bene alla pelle, ma non ho dubbi sul fatto che rendano più furbi.
«Per caso avete una registrazione con tutta la scena?».
«Sei davvero incredibile». Batuhan si appoggiò allo schienale e accavallò le gambe. «Dovresti scriverlo tu un libro. Con la fantasia che ti ritrovi, uscirebbe un giallo coi fiocchi».
Mi chiedevo come fosse possibile stabilire se una persona morta in seguito a caduta avesse ricevuto o meno una spinta. Come venivano risolti certi casi nei miei adorati gialli? Quali erano gli strumenti tecnologici a disposizione degli investigatori? Si potevano analizzare capelli, minuscole gocce di sangue, peli di cane, frammenti di tessuto rimasti sotto le unghie… Con tracce di questo tipo la polizia avrebbe senz’altro potuto dimostrare che Sani era stata uccisa. Secondo Batuhan, però, si trattava di una morte accidentale. Come poteva saperlo? Esisteva forse la registrazione di una telecamera che escludeva la presenza di qualcun altro al momento della morte di Sani?
Lui mi stava guardando come se volesse dire: «Mi implorerai in ginocchio». Evidentemente non aveva ancora dimenticato la tensione dei nostri incontri di qualche anno prima. Revenge is a dish best served cold, avrebbe detto Fofo. La vendetta è un piatto che va servito freddo, come il gazpacho.
Improvvisamente Batuhan si alzò.
«Te ne vai? Stavo pensando di offrirti un kebab».
«Un’altra volta, magari. Adesso devo tornare in ufficio, ho un sacco di cose da fare».
«Okay».
«Visto che devi tenere in allenamento il cervello, ti dico ancora una cosa: sappiamo che Sani non è stata assassinata, ma c’era comunque qualcun altro in casa con lei».
«Fantastico. Indovina indovinello chi fa l’uovo nel cestello…».
Lui scoppiò in una risata sincera, come quelle di una volta. Forse stava cominciando a sciogliersi.
«Accidenti al lavoro! L’avrei mangiato volentieri un piatto di kebab con te».
«Aspetta un attimo. Se c’era qualcun altro in casa con Sani, avrebbe potuto tentare di salvarla».
«È proprio questo il punto. Senza dubbio avrebbe potuto fare qualcosa. Forse non sarebbe riuscito a salvarla, ma doveva almeno chiamare un’ambulanza. Invece non l’ha fatto».
«Non è omicidio, ma…».
«Non è omicidio, ma dobbiamo scoprire chi c’era con lei e perché non ha mosso un dito per aiutarla».
«Come fate a sapere che non era sola?». Di colpo mi tornò in mente il computer portatile. Ma certo! «È per il portatile, vero? In casa non si trova, quindi qualcuno l’ha rubato».
Per usare un’espressione da romanzo, lui non batté ciglio.
«Abbiamo i nostri metodi» disse semplicemente.
«Credevo che la tortura fosse stata vietata» replicai. Un secondo dopo me n’ero già pentita. Era un colpo basso.
«Mi dispiace, ora devo proprio andare». Forse si era offeso.
«Quali metodi?» domandai.
«Eh no, ti ho già detto troppo». Sorrise.
La sua reazione mi tranquillizzò. Non volevo inimicarmi il capo della squadra omicidi nel bel mezzo di un’indagine. Lasciammo il negozio insieme.

Pelin era seduta in soggiorno davanti al televisore.
«Ho fatto il riso» m’informò appena entrai in casa. «Non ho trovato nient’altro».
In realtà non avevo molta fame.
«Non mangio» risposi. «A che ora te ne vai?».
Lei si drizzò sul divano. «Se ti do fastidio devi solo dirlo, posso andarmene anche subito». Certe persone sono davvero suscettibili!
«Ma no, non mi dai nessun fastidio. L’ho chiesto così, tanto per sapere».
«Dobbiamo incontrarci alle undici». Ah! Avrebbe fatto in tempo ad andare e tornare da casa sua almeno dieci volte. Mi sentivo raggirata, ma non avevo voglia di arrabbiarmi.
Naz non si era più fatta sentire. Aveva promesso di chiamarmi non appena avesse avuto in mano il rapporto del medico legale. Detto tra noi, i giovani d’oggi non hanno nessun senso di responsabilità.
Comunque, se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto. Decisi di prendere l’iniziativa e chiamarla. Tirai fuori il cellulare dalla borsa e… il display era completamente nero! La batteria aveva esaurito la carica e l’apparecchio si era spento. Meglio così, significava che Naz non era necessariamente un’irresponsabile.
Mi misi a cercare il caricabatterie. Ogni volta che divido un oggetto con Fofo devo rinunciare a usarlo perché sparisce subito nel nulla. Guardai dappertutto: nelle prese di corrente in camera del mio amico, sulla sua scrivania, sotto il letto, in soggiorno, nelle prese in camera mia e nella toilette, nel mio studio, nella camera degli ospiti, dove non c’era altro che un letto, sopra il frigorifero (un paio di volte l’avevo trovato proprio lì) e in bagno, nella presa che usavamo per il fon. Niente.
Ogni volta che cerco disperatamente qualcosa mi viene da fare lo stesso ragionamento. Se non trovi il cellulare, basta che chiami il tuo numero e voilà. Semplice e veloce. Dovrebbe essere così per tutto: ogni oggetto dovrebbe avere un meccanismo di segnalazione attivabile a distanza.
Perdo il libro che sto leggendo? (Dove diavolo è? Devo assolutamente sapere come va a finire, sennò impazzisco!). Non c’è problema. Lo chiamo ad alta voce: «Ingrid Noll: Selige Witwen». Macché, non risponde. (Libro duro d’orecchi!). Lo chiamo di nuovo a voce più alta: «Ingrid Noll: Selige Witwen!». Ed eccolo sotto il comodino. Dev’essere caduto. Per tutto il tempo ha cercato di attirare la mia attenzione emettendo una specie di bip, ma evidentemente sono io quella dura d’orecchi.
Perdo il rossetto? Lo cerco dappertutto; niente, non si trova. (Sulle guance ho già applicato un fard color terracotta, non posso usare un rossetto scarlatto. Arriverò tardi all’appuntamento. Dove diavolo è?). Provo a chiamarlo: «Rossetto! Rossetto!». No, devo essere più precisa, altrimenti potrebbero rispondere tutti i rossetti che ho in casa. Sarebbe il caos. «Chanel rosso n. 06!». Ah, eccoti qui. Nella borsa che non ho più usato dall’inverno scorso.
Di sicuro chi ha una donna delle pulizie come Fatma sente particolarmente la necessità di un simile sistema di segnalazione. Lei se ne va solo dopo aver rimesso in ordine l’appartamento secondo le sue regole. Viene una volta a settimana e rimane per circa otto ore, eppure ritiene di avere più diritti di chi nell’appartamento ci abita. L’ambiente che riordina più volentieri è senz’altro la cucina. Se l’apribottiglie sta in un posto che non le sembra adatto, per esempio un cassetto, lo prende e lo sposta senza pensarci due volte. Non capisco perché, ma lo fa.
Poi una sera mi metto a guardare un film e in una pausa mi alzo per andare a prendere una bottiglia d’acqua minerale. Nessun problema, a parte il fatto che l’apribottiglie non è più al suo posto e perdo mezz’ora per cercarlo. È sparito. Sparito, sparito, sparito. Guardo in tutti i cassetti, per terra, sotto il lavandino, nel secchio della spazzatura, nella dispensa… Senza successo.
Quando si facevano ancora le vacanze in campeggio con gli amici, c’erano sempre dei ragazzi capaci di aprire le bottiglie con l’accendino. Lo tiravano fuori dalla tasca dei pantaloni e con grande abilità stappavano una bottiglia di birra dopo l’altra. Purtroppo vivo con Fofo, non con uno di quei ragazzi; l’apribottiglie mi serve. Alla fine lo trovo. Volete sapere dove? In un bicchiere su un ripiano. Che senso ha? Perché non lasciarlo nel suo bel cassetto?
Se esistesse un sistema di segnalazione come quello che ho descritto, non dovrei fare altro che chiamare: «Apribottiglie! Apribottiglie!». E l’apribottiglie mi risponderebbe con un bip dal bicchiere sul ripiano. Così potrei fare con calma e di certo non mi perderei le scene più avvincenti del film.
Per non lasciare nulla di intentato, chiamai: «Caricabatterie! Caricabatterie!». Ma fu inutile. Perché non avevo appuntato il numero di Naz? Se l’avessi scritto da qualche parte, avrei potuto chiamarla senza problemi dal telefono fisso. Chi vive in una specie di buco nero dove le cose spariscono da un giorno all’altro dovrebbe almeno prendere precauzioni e scriversi tutti i numeri di telefono.
Dal soggiorno arrivò una voce: «Si può sapere che c’è? Perché corri in giro starnazzando come una gallina spaventata?». Purtroppo non era il caricabatterie, bensì Pelin.
«Aiutami a cercare il caricabatterie del cellulare» risposi.
«Ah, stai cercando quello? L’ho preso io. Dovevo mettere in carica il mio telefono. È nella presa dietro il televisore».
Accidenti a lei! Avrei voluto spaccarle il telefono in testa; così mi sarei calmata almeno un po’. Mi trattenni, ma a fatica.
Alla fine riuscii a contattare Naz.

«Ti ho chiamato, ma avevi il cellulare spento» disse subito, come mi aspettavo.
«Si è scaricata la batteria» spiegai. «Dove sei?».
«Sono andata a bere una cosa con un amico dell’Istituto di medicina legale. Adesso sono a Beyoğlu».
«Se vuoi, puoi venire da me. Sei riuscita a farti dare il rapporto?».
«Sì. E tu? Hai parlato con quel poliziotto?».
Risposi anch’io con un sì. In effetti ci eravamo seduti l’uno di fronte all’altra e avevamo parlato, ma era stato un incontro piuttosto breve, non avevo ottenuto molto. Questo lo tenni per me.
«Okay, arrivo. Appartamento numero…».
«Ventidue. Prima casa sull’angolo. Stai attenta lungo la discesa, potrebbe esserci qualche borseggiatore in agguato».
Naz promise di fare attenzione.
I negozi di Galip Dede Caddesi erano tutti chiusi, la strada era immersa nel buio. Circa un anno prima qualcuno era saltato fuori dall’ombra all’altezza del supermercato e aveva tentato di scippare la borsa alla mia amica svizzera Liz. Non ci era riuscito, ma lei era caduta e si era fratturata il bacino. Era stata subito operata a Istanbul, però c’erano voluti mesi di riabilitazione in una clinica elvetica perché riprendesse a camminare normalmente. Credevo che non avrebbe più messo piede a Istanbul e che avrebbe scelto un altro posto per trascorrere la vecchiaia, invece, terminata la riabilitazione, era tornata immediatamente nella sua casa con vista panoramica.

Quando arrivò la mia ospite, ordinai a Pelin di spegnere il televisore e andare nello studio.
«Dai, fammi restare qui. Non aprirò bocca».
Mi rivolsi a Naz. Era un problema che qualcun altro ascoltasse quello che aveva da dire?
«No, nessun problema» fece lei alzando le spalle.
«Okay, ma vedi di non fiatare, Pelin. Se ti lasci sfuggire anche solo una parola, te ne vai».
In realtà ero quasi sicura che la mia minaccia non sarebbe servita a niente. E così fu.
«Allora, cosa dice il medico legale?».
«Gli esami eseguiti finora non indicano eventi fatali».
Cioè? Cos’era, una frase in codice “medicalese”?
«Non indicano eventi fatali? Che significa?».
Lei si alzò per prendere la borsa che aveva lasciato sul mobile vicino all’ingresso, tirò fuori dei fogli e me li porse.
«Leggi l’ultima parte».
Obbedii.
In base al rapporto n. 8334 del 21 settembre 2006 del laboratorio analisi chimiche, nel sangue e nell’urina non sono stata rilevate tracce di alcol, sonniferi o narcotici né di tossine derivanti dall’assunzione di tali sostanze. L’esame istologico di cervello, midollo spinale, cuore, reni, fegato e polmoni non ha evidenziato anomalie patologiche. L’esame del pancreas è stato pregiudicato dal processo di autolisi.
In base al rapporto n. 6879 del laboratorio analisi biologiche del 21 settembre 2006, nei campioni 1 e 2, prelevati dalla biancheria intima del soggetto, sono state riscontrate tracce di sperma.
L’esame esterno del cadavere ha messo in evidenza una serie di escoriazioni sul gomito destro (1x1 cm), sul gomito sinistro (0,5x1 cm) e sul ginocchio destro (1x2 cm) nonché un foro di siringa nel lato superiore del braccio sinistro, vicino alla piega del gomito. Durante l’autopsia, sotto il cuoio capelluto e precisamente nella zona parietale è stato individuato un ematoma di 7x10 cm. Sotto le unghie erano presenti residui di colorante marrone per pellami.
Non è stato possibile stabilire in modo univoco la causa della morte. Per determinare con certezza cosa abbia causato il decesso si consiglia di raccogliere informazioni sul precedente stato di salute del soggetto, di mettere insieme tutti i documenti e le cartelle cliniche reperibili e di fornire questo materiale per una valutazione definitiva.
«Un ematoma nella zona parietale?» ripetei ad alta voce.
«Sì. Cadendo ha battuto il lato destro della testa. Ma non è morta per questo».
«E la puntura sul braccio?».
«In effetti si parla di un foro di siringa, ma nel sangue non sono state trovate tracce di narcotici o droghe».
«Credevi che tua sorella si drogasse?».
«Non lo so, come altro si può spiegare quella puntura?». Ci scambiammo un’occhiata perplessa.
Diedi una scorsa alle prime pagine del rapporto. «A quanto pare è stata con un uomo poco prima di morire. Se riuscissimo a sapere chi era…». Mi bloccai. «E il marrone sotto le unghie?».
«Proviene da un oggetto in pelle. Qualcosa che ha perso colore. La sua borsa, le sue scarpe, una poltrona… Magari non significa niente».
«Potrebbe anche essere importante, solo che ora non ce ne rendiamo conto».
Posai il rapporto sul tavolino; Pelin se ne impossessò immediatamente.
«Non è stata uccisa».
«No, non è stata uccisa. Però non sappiamo ancora qual è la causa del decesso. Possiamo escludere la ferita alla testa, l’avvelenamento e il soffocamento. Non ha neanche avuto un attacco di cuore. Eppure è morta».
Considerato che leggo almeno un libro alla settimana da quando avevo quindici anni, possiamo dire che ho all’attivo migliaia di gialli. Ma una morte come quella di Sani Ankaralıgil… Un decesso apparentemente naturale, anche se la donna presentava una ferita alla testa. Nel suo organismo non c’erano né droghe né veleni, eppure sul braccio era presente il segno di un’iniezione. No, non mi ero mai imbattuta in un caso simile.
Perché nessuno dei miei autori aveva mai fatto morire un personaggio di morte “naturale”? Perché non potevo trarre consiglio dalle mie innumerevoli letture?
Semplice: perché un giallo non può ruotare intorno a qualcuno morto per cause naturali. Non c’è giallo senza delitto.
I gialli sono razionali, logici e privi di dettagli inutili; portare il lettore fuori strada è tabù, tutti gli elementi della trama si accordano perfettamente. Nella vita reale non è certo così.
D’altra parte il destino e la fortuna, che nella vita vera hanno un ruolo piuttosto importante, nei romanzi gialli non sono visti di buon occhio. Così come le contraddizioni e gli strani complessi che risultano inverosimili quando riguardano i personaggi di un libro, ma che nella vita si riscontrano in tante persone…
In un romanzo sarebbe impossibile, ma nella vita reale può succedere che una detective dilettante e il suo più caro amico si mettano a indagare su un caso misterioso anche se non è stato commesso alcun omicidio.
«C’era qualcun altro in casa quando è morta».
«Come lo sai?» chiese Naz, stupita. «Te l’ha detto il poliziotto?».
«Sì. Sono praticamente sicuri che non fosse sola».
«Come fanno a esserne sicuri?».
«Non ne ho idea. Dobbiamo assolutamente scoprire chi c’era con lei».
«Se era là quand’è caduta, perché non ha chiamato aiuto?».
«È proprio questo il punto. Avrebbe dovuto chiamare aiuto, ma non l’ha fatto. Probabilmente voleva rimanere nell’ombra. Forse era qualcuno del TÖZ».
«Cos’è il TÖZ?» domandò Pelin, senza ottenere risposta.
«Oppure qualcuno che si trovava là per ucciderla. Un sicario assoldato dagli imprenditori. Ha visto Sani cadere e se n’è andato, pensando che sarebbe morta comunque».
«E infatti è morta» s’intromise Pelin. «Ma perché?».
«Se lo sapessimo, sarebbe più facile trovare il colpevole» risposi.
«La polizia sa già cos’è emerso dagli esami?» chiese ancora la mia aiutante.
«Certo. Il procuratore ha inviato subito il corpo all’Istituto di medicina legale e quello stesso pomeriggio, alle quattro e mezza, hanno iniziato l’autopsia. Gli investigatori si sono rivolti direttamente ai medici per conoscere i risultati, senza aspettare il rapporto» spiegò Naz.
«E come mai i giornali hanno parlato fin dall’inizio di un incidente? Qualcuno ha passato volutamente quest’informazione?».
«Sembra che il procuratore sia andato a casa di Sani con un medico generico dell’azienda sanitaria di Paşabahçe. Non essendo abituato ai giornalisti, il dottore si è lasciato sfuggire qualche parola di troppo».
«Perché il procuratore si è portato un medico? Ha avuto subito qualche sospetto?».
«Secondo il mio amico che lavora all’Istituto di medicina legale, quando una giovane donna viene trovata morta nella sua casa, si parte sempre dal presupposto che ci sia qualcosa di sospetto. In caso di incidente bisogna comunque appurare che il decesso non sia avvenuto per altre cause. La polizia deve informare subito il procuratore e senza il suo permesso nessuno può mettere piede sul luogo del decesso. Quando poi si esamina la scena, dev’essere presente anche un medico legale. È la procedura standard. Ogni zona di Istanbul ha il suo medico legale, solo che quello di Paşabahçe aveva appena ricevuto un’altra chiamata quel giorno. Per questo hanno dovuto usare un medico generico dell’azienda sanitaria locale».
«Ho capito: se una persona muore a casa, il procuratore si presenta sul posto con un medico legale. Fin qui tutto chiaro. Ma l’autopsia? Rientra nella procedura standard?».
«Se la persona deceduta non aveva una malattia mortale, o meglio, se non si trovano farmaci né testimoni attendibili a sostegno di questa tesi, allora è normale richiedere l’autopsia per accertare la causa della morte. Se poi la faccenda riguarda una famiglia importante come quella degli Ankaralıgil… beh, l’autopsia è d’obbligo. Anche se la persona è chiaramente morta di vecchiaia o di malattia».
«Anche ad Aziz Nesin hanno fatto l’autopsia» intervenne di nuovo Pelin. «Quindi non vale solo per i ricchi. Nesin era vecchio e malato, quand’è morto era insieme ad alcuni amici, a nessuno è passato per la testa che potesse essere un omicidio, eppure gli hanno fatto l’autopsia».
«Avevi promesso di non immischiarti» le ricordai.
«Però ha ragione» disse Naz. «Lascia perdere l’autopsia. Non importa perché l’hanno richiesta. Lo fanno spesso».
«Sto solo cercando di chiarirmi le idee. Incidente, autopsia, morte naturale, imprenditori arrabbiati, TÖZ… Che confusione! Mi ci vuole un tè». Mi ritirai in cucina.
Quando tornai, Naz e Pelin stavano guardando la televisione.
«Ho bisogno di staccare la spina» dichiarò la sorella di Sani.
Mi unii a loro per guardare il thriller che era appena cominciato.

6






«Ci diamo alla vita notturna?».
«Sta’ zitto, Fofo! Hai quasi mezz’ora di ritardo!» lo rimproverai. Non pretendo assolutamente che sia puntuale come un tedesco, ma mi scoccia che arrivi sempre tardi. Una volta ogni tanto potrebbe anche essere in orario, no?
«Scusa, non sono riuscito a liberarmi prima. A che ora inizia il concerto?».
«È appena cominciato. Volevo arrivare in anticipo». Il concerto non mi interessava, volevo scambiare qualche parola con Sinan. «Conosci gli Sniff?».
«So che fanno impazzire le ragazzine. Come band non sono niente male».
«Allora andiamo». Mi alzai, ma nello stesso momento Fofo si lasciò cadere su un’altra sedia dicendo: «Ho bisogno di bere».
«Berrai là. Ma non sei appena stato a cena col tuo amico?».
«Ho bisogno di un caffè».
«Alzati! Lo prenderai al Kara Bar».
«Là non servono caffè» borbottò lui, rimettendosi in piedi. Lo costrinsi a pagare la mia consumazione. In fondo me lo doveva, mi aveva fatto aspettare mezz’ora. Nella vita bisogna sempre rivalersi su qualcuno.

Il Kara Bar si trovava in uno scantinato di Sıraselviler Caddesi. Gli addetti alla selezione e alla sicurezza, piantati all’ingresso, esaminavano con occhio critico tutti quelli che entravano e uscivano. Ancora una volta obbligai Fofo a pagare per me. Se lo meritava!
Il locale era gremito fino all’inverosimile, quasi non si respirava. Mi schiacciai in un angolo. Ero troppo lontana per distinguere i membri della band, ma non avevo scelta. Non vedevo l’ora di conoscere Sinan. Mi ero dimenticata di cercare una sua foto con Google Images.
Poco a poco Fofo si lasciò prendere dal ritmo e cominciò a ballare. Si muoveva in modo strano, ma con un’energia sorprendente. A dire il vero gli Sniff erano piuttosto bravi. Certo, la loro musica non era del genere che avrei ascoltato volentieri a casa, però non era male.
Alla prima pausa cercai di farmi strada tra la folla per raggiungerli dietro le quinte. Naturalmente non ci riuscii. Avevo davanti una muraglia umana. Come se non bastasse, il mix di odori – fumo di sigaretta, sudore e profumi vari – cominciava a darmi la nausea.
«Dove vuoi andare?» mi gridò Fofo in un orecchio, come se il rumore non fosse già abbastanza assordante.
«Dietro le quinte».
«Perché?».
«Per parlare con il cantante».
«O Signore! Queste cose le fanno le ragazzine! Perché non mi hai detto niente?».
Povero Fofo, così duro di comprendonio. Credeva che avessi una cotta per il frontman della band!
«Non ne ho avuto il tempo» risposi con tutta l’innocenza di cui ero capace. Sempre che si possa fare qualcosa di innocente in un locale dove ognuno si ritrova incollato al proprio vicino.
«Usciamo» gridò lui.
«No, non voglio uscire. Devo andare dietro le quinte».
«Fidati di me, so quello che faccio. Almeno questa volta».
Fuori la situazione non era meno rumorosa. Le sirene delle ambulanze che si precipitavano verso il vicino ospedale con i casi più urgenti si sovrapponevano al concerto di clacson dei taxi in cerca di clienti. Fofo si rivolse a uno degli addetti alla sicurezza che stavano sulla porta e chiese di un certo Ruhi.
«Adesso è impegnato» rispose l’uomo senza neanche guardarci.
Tirai il mio amico da una parte. «Chi è questo Ruhi?».
«Il direttore del locale. Se vogliamo arrivare agli Sniff, abbiamo bisogno del suo aiuto. Per un po’ ha preso lezioni di spagnolo da Alfonso, per questo lo conosco».
Non dovette spiegarmi chi era Alfonso, lo sapevo benissimo. Ma forse volete saperlo anche voi. Beh. È l’ex compagno di Fofo, quello che per un certo periodo me l’ha portato via.
«Veramente Ruhi ci sta aspettando. Gli dica che c’è Fofo».
L’addetto alla sicurezza non fece una piega.
«Fantastico! Potrebbe almeno guardarci in faccia!». Indirizzai tutta la mia irritazione verso Fofo.
«Che razza di cafone! Non ci ha neanche degnato di uno sguardo!».
«Non è colpa sua. Ci sono tante persone che cercano di entrare gratis in questi locali facendo il nome di qualcuno del giro. Lui non può sapere se conosciamo davvero Ruhi. Sta solo eseguendo gli ordini, lascerebbe fuori anche suo padre. Non prenderla sul personale».
«Okay, va bene, ma adesso cosa facciamo? Hai voluto uscire dal locale».
«Non preoccuparti, possiamo rientrare in qualunque momento». Mi mise sotto il naso il timbro che ci avevano apposto sul braccio all’ingresso.
«Ti ricordo che la pausa sta per finire. Se non ti rinventi subito qualcosa, rimarremo qui fuori fino alla fine del concerto». Non avevo nessuna voglia di rituffarmi in quella bolgia infernale.
«Tranquilla, ora chiamo Alfonso e gli chiedo il numero di cellulare di Ruhi».
L’idea mi piacque.
«Però, anche se ti aiuto, non credere che non sia arrabbiato con te» aggiunse vedendomi un po’ più calma.
«Perché sei arrabbiato con me?».
«Perché mi hai attirato qui con la scusa del concerto quando in realtà vuoi solo incontrare il cantante».
«È che non abbiamo avuto il tempo di parlare. Dai, Fofo…». Gli accarezzai i capelli, o meglio, i pochi peli che gli rimanevano in testa. La capigliatura del mio caro Fofo stava diventando sempre più rada.
Chiamò prima Alfonso e poi Ruhi, camminando avanti e indietro sul marciapiede per tutto il tempo. Alla fine tornò da me e disse: «Allora, le cose stanno così: Ruhi è disposto ad aiutarci, ma gli Sniff sono già tornati sul palco. Dovremo aspettare».
«Nessun problema, aspetteremo». Attendere faceva parte del nostro lavoro.
L’addetto alla sicurezza che non ci aveva degnato di uno sguardo parlò a una specie di walkie-talkie, poi venne verso di noi.
«Vi accompagno dal signor Ruhi».
Aprì una piccola porta e ci condusse in un lungo corridoio mal illuminato. Poi bussò a un’altra porta. Aspettammo finché dall’interno non giunse una voce: «Avanti!».
«Fofo, querido». Ruhi abbracciò il mio amico.
«È un peccato che tu abbia smesso con le lezioni di spagnolo, sei portato!».
«Eh, purtroppo mi manca il tempo. Le cose sono cambiate, stiamo per inaugurare altri due locali. Non ce la faccio a fare tutto. Ho saputo che tu e Alfonso vi siete lasciati. È vero?».
«Già. Per me è stato come rinascere». Rimasi un po’ sorpresa; non immaginavo che la vita con il suo ex compagno fosse diventata tanto pesante.
«Anche noi ci siamo lasciati. La settimana scorsa».
«Oh, voi tornerete sicuramente insieme. Non è la prima volta che vi lasciate». Dal tono di voce del mio amico capii che non pensava davvero quello che stava dicendo; non era poi così sicuro che i due sarebbero tornati insieme, anzi voleva proprio scoprire se si trattava di una rottura seria.
Ruhi abboccò all’amo. «No, questa volta è una cosa definitiva. Mi ha lasciato per una donna». Si vedeva chiaramente che stava soffrendo. Cercò comunque di nasconderlo con una risata. «E che donna! Una virago! Se proprio voleva cambiare sponda, poteva almeno scegliere qualcosa di meglio…».
«Cos’è una virago?» domandò Fofo.
Ferma vicino alla porta ancora aperta, avevo l’impressione di essere trasparente.
«Una donna grande e grossa, sgraziata e decisamente brutta… Hai presente?».
«Ruhi conosce un sacco di parole interessanti» disse Fofo rivolto a me.
Sì, proprio interessanti.
«Non ci hai ancora presentato» gli fece notare il direttore del locale.
«Lei è Kati, il mio capo, la mia coinquilina, la mia migliore amica… Insomma, il mio tutto».
«Vive a Cihangir, vero? Se non sbaglio, ci siamo visti un paio di volte al bar a Firuzağa». Si rivolse di nuovo al mio amico. «Credo di aver conosciuto la signora prima di te».
«Adesso vivo a Kuledibi» precisai.
«Prego, accomodatevi. Posso offrirvi qualcosa? Un whisky?».
«Sì, grazie». Mi sedetti su una delle poltrone di pelle che arredavano l’ufficio.
«A cosa devo l’onore di questa visita?» chiese Ruhi, tirando fuori una bottiglia di Lagavulin da un armadio a muro vicino alla scrivania e versando il whisky nei bicchieri.
«Vorremmo conoscere il cantante della band che si sta esibendo nel tuo locale» spiegò Fofo.
«E chi non vorrebbe conoscerlo?» rispose Ruhi facendogli l’occhiolino. «Purtroppo non è pane per i nostri denti. Ghiaccio?».
Ghiaccio nel Lagavulin? Ecco come rovinare un ottimo whisky.
Rifiutai gentilmente l’offerta.
«Cosa volete da Sinan?».
«Kati è una sua fan».
«È vero» confermai.
«Che tipo è?».
«Uno a posto. In questo ambiente se ne incontrano pochi come lui. Non lo conosco bene, ma posso dire che è un tipo decisamente affascinante».
«Può davvero farcelo conoscere?».
Fofo e Ruhi scoppiarono a ridere all’unisono, come se avessi fatto una domanda ridicola.
«Non c’è problema. Vado a dare un’occhiata di là e torno subito. Sapete com’è, i dipendenti vanno sorvegliati».
Non appena Ruhi ebbe lasciato l’ufficio, rivelai a Fofo il vero motivo per cui volevo conoscere Sinan. Non mi andava di prenderlo in giro.
«Sinan aveva una relazione con Sani. Per questo voglio conoscerlo. Non sono una sua fan».
«Una relazione con Sani? In che senso?».
«Nel senso più ovvio. Una normale relazione tra uomo e donna».
«E mi hai trascinato qui per questo? Perché non me l’hai detto subito? Perché me l’hai tenuto nascosto?». Mi fece la stessa domanda più volte. Quando si arrabbia, diventa sempre un po’ ripetitivo.
«Non te l’ho tenuto nascosto» replicai, cercando freneticamente un modo per trarmi d’impaccio.
«E perché non me l’hai detto prima?».
«Non ne ho avuto l’occasione».
«Ma fammi il piacere! Credi che sia stupido?» gridò lui, tutto rosso in viso.
«Dico davvero, non c’è stata l’occasione. Anch’io l’ho appena saputo». Cosa avrei dovuto fare? Se gli avessi detto la verità, cioè che avevo saputo della relazione tra Sani e Sinan qualche giorno prima, mi avrebbe staccato la testa. «Volevo parlartene in privato, ma non ne ho avuto la possibilità. Se non fossi arrivato con mezz’ora di ritardo, ti avrei raccontato tutto prima di venire qui».
«Potevi parlarmene mentre venivamo».
«In İstiklal Caddesi? O in Taksim Meydanı? Certo che sei un bel tipo, invece di scusarti per il ritardo...».
«Okay, lasciamo perdere. Con te non si può proprio litigare, vuoi sempre avere ragione».
«Potrei dire la stessa cosa di te!».
«Basta!» esclamò lui, incrociando le braccia sul petto.
E così ci tenemmo il broncio finché non tornò Ruhi.

«Venite» disse il direttore. «Dovete sbrigarvi se volete conoscere Sinan. Stanno per uscire dalla porta sul retro». Ci alzammo di scatto per seguirlo, ma prima di lasciare l’ufficio afferrai il bicchiere e bevvi l’ultimo sorso di whisky. Sprecare anche solo una goccia di Lagavulin sarebbe stato un delitto. Ruhi ci guidò lungo il solito corridoio, poi aprì una porta e ci spinse dentro. «Sinan, ci sono due miei amici che vorrebbero tanto conoscerti. Sono tuoi fan».
Ci venne incontro un giovane di alta statura con i capelli corti di un bel biondo scuro e due basette che arrivavano fino al mento. Aveva indosso una maglietta tutta sudata che gli aderiva al corpo come una seconda pelle. Uno spettacolo…
«Wow!» feci tra me e me. «Certo che Sani se l’è scelto bene».
Ci presentammo e lui ci salutò con un lieve cenno del capo.
«Potrebbe dedicarci qualche minuto? Vorremmo parlare di una cosa importante» dissi.
«Mi fermerei volentieri a fare quattro chiacchiere con voi, ma ora non posso. Stiamo andando via. Volete una foto?».
«Cosa?». Rimasi interdetta. Il ruolo della fan non mi si addice, non ci sono abituata.
«Una foto con autografo».
«Veramente siamo venuti qui per parlare di Sani» sussurrai. Ero già stufa di recitare la parte dell’ammiratrice.
Di colpo la sua espressione cambiò. Si trasformò in una specie di smorfia. La rockstar sicura e arrogante che si abbassa a parlare con i fan lasciò il posto a qualcosa di diverso e indefinibile. Non fraintendetemi: sembrava comunque un dio. Quando uno è bello, è bello.
«Chi siete?».
«Tranquillo, non siamo della polizia».
«Questo lo vedo anch’io, ma chi siete?».
«È una lunga storia» intervenne Fofo. Era chiaro come il sole che avrebbe voluto passare il resto della vita a chiacchierare con Sinan. Purtroppo l’uomo che avevamo di fronte era coinvolto in un presunto omicidio. Dovevamo trattarlo da sospettato! La mancanza di serietà del mio amico mi innervosì e mi spinse a prendere l’iniziativa. «Dobbiamo assolutamente parlare. Quando possiamo vederci?».
Lui si morse le labbra e ci pensò un attimo.
«Domani. A casa mia. Facciamo alle tre?».
«Va bene» rispondemmo insieme io e Fofo.
«Abito a Rumelihisarı. Quando siete in zona, chiamatemi. Manderò mio fratello a prendervi. La strada per arrivare a casa mia è un po’ complicata, da soli vi perdereste. A domani». Si girò e fece per andarsene.
«Non ci ha dato il numero di telefono» gli gridò Fofo.
«Ah, già. Non l’ho fatto apposta. È che sono molto stanco, ho avuto una settimana davvero stressante...».
La storia del fratello che doveva venire a prenderci mi aveva già messo in allarme. Quando provò a sparire senza lasciarci il numero di telefono non ebbi più alcun dubbio: non aveva nessuna voglia di rivederci il giorno seguente.
«Scommetto che domani, quando chiameremo, il cellulare sarà spento» mormorai mentre uscivamo dalla stanza.
«Dici?».
«Sì. Avrebbe potuto darci l’indirizzo!».
Fofo era ancora sotto l’incantesimo di Sinan e faticava a concentrarsi. Lo colpii al fianco per riportarlo alla realtà.
«Quindi?» domandò, come svegliandosi da un sogno.
«Ci facciamo dare il suo indirizzo da Ruhi. Ammesso che ce l’abbia».
«Se non ce l’ha, se lo procurerà».
In effetti fu così.

Il mattino dopo – sabato – mi chiamò Lale. All’improvviso mi tornò in mente che ci eravamo date appuntamento proprio per il weekend.
«Scusa, mi ero completamente dimenticata del nostro appuntamento. Stasera esco con Fofo. E prima andiamo a correre insieme sul Bosforo».
«Spiegami una cosa, Kati: credi davvero che troverai un altro uomo passando tutto il tuo tempo con Fofo e con i suoi amici gay?».
«Okay, sentiamo: tu cosa mi proponi?».
«Un amico di Erol ha organizzato un köfte party nel suo giardino».
Perché, appena trovato un compagno, le donne devono abbandonarsi a certi sogni piccolo-borghesi? Proprio non lo capisco. Tanto meno se si tratta della mia migliore amica.
«Stai dicendo che è meglio mangiare polpette in un giardino pieno di bisbetiche, marmocchi e cani?».
«No, non sto dicendo che è meglio. Però dovresti provare, potrebbe anche piacerti».
«Scusa, ma la mia lista di cose da fare per trascorrere piacevolmente il sabato sera non comprende i köfte party a Kemerburgaz» replicai.
«Non ho detto che è a Kemerburgaz».
«Beh, è il primo quartiere che mi viene in mente quando si parla di casa col giardino. Dov’è la festa?».
«A Paşabahçe. Comunque non c’è problema, se stasera non puoi faccio un salto da te la prossima settimana. Devo già venire dalle tue parti».
«Aspetta un attimo. Dove si trova precisamente la casa di questo amico?».
«Non ne ho idea. Cos’è, all’improvviso ti è venuta voglia di mangiare polpette in un giardino pieno di bisbetiche? Solo perché è a Paşabahçe?».
Dovete sapere che Paşabahçe è un ex villaggio di pescatori situato sulla sponda asiatica del Bosforo, a metà strada tra il centro di Istanbul e il Mar Nero. Una volta c’erano vetrerie e fabbriche di rakı che davano lavoro alla maggioranza degli abitanti, ma ultimamente il posto è stato scoperto dalla gente di città e grandi pezzi di bosco sono spariti per fare spazio alle abitazioni. Quante villette avevano già costruito? Quante persone ci vivevano? Quella sera alla festa ci sarebbe stato sicuramente qualche “vicino” che moriva dalla voglia di spettegolare su cose che nemmeno skyrat.com.tr avrebbe mai pubblicato. Non potevo lasciarmi sfuggire un’occasione simile.
«No, è che mi hai convinto. Sono stufa della vita notturna di Beyoğlu, è ora di cambiare. Magari mi faccio accompagnare da Fofo».
«Tu stai tramando qualcosa» fece lei sentendo puzza di bruciato.
È terribile avere amici che ti conoscono così bene. Come si fa a mantenere un segreto?
«Poi ti racconto tutto» risposi.
«Okay, allora passiamo a prendervi più tardi. Paşabahçe è un po’ fuori mano».
«Ma no, possiamo arrivarci in autobus o in taxi».
«Perché perdere tempo? Ci vediamo a Üsküdar».

Quel pomeriggio uscimmo di casa in perfetto orario per andare da Sinan. Dato che era una bella giornata, scendemmo dal taxi ad Arnavutköy e proseguimmo a piedi. Alle tre in punto ci sedemmo su una panchina sul lungobosforo e chiamammo il cantante.
Segnale di libero.
«Ehi, sta squillando!» esclamai sorpresa. Forse dovevo fidarmi un po’ di più degli altri.
«Vedi, l’abbiamo giudicato male» disse Fofo.
Il telefono continuò a suonare per un bel po’ e alla fine cadde la linea.
«Comunque non risponde nessuno» aggiunsi.
«Riprova. Magari non trova il cellulare».
Feci un altro paio di tentativi. Niente.
«Non l’abbiamo giudicato male» conclusi. «Prendiamo un taxi e facciamoci portare a casa sua».
«Ti sembra giusto piombargli così tra capo e collo?».
«Preferisci tornare indietro senza aver combinato nulla? E poi hai mai visto un detective che si preoccupa del galateo? Probabilmente siamo gli unici che per parlare con un sospettato fissano un appuntamento!».
«Ma noi non siamo come gli altri detective. Non invadiamo la vita privata delle persone, neanche quella dei sospettati. Per questo ci adorano».
«Ci adorano?».
«Sì, beh, in teoria. Potremmo farci un nome lavorando così».
«E non risolveremmo neanche un caso. Prova a guardare le cose da un altro punto di vista. Sinan potrebbe essere un assassino. Se lo è, ovviamente cercherà in tutti i modi di evitarci. Cosa facciamo? Lo lasciamo in pace solo perché siamo fanatici della privacy e non vogliamo disturbare?».
Il mio discorso funzionò.
«Okay, andiamo. Ma prima fai ancora un tentativo».
Ricomposi il numero e aspettai, ma non rispose nessuno.
«Mi dispiace, non abbiamo scelta».
Mentre in taxi cercavo di chiarire il concetto di privacy a Fofo, mi arrivò una chiamata sul cellulare. Numero sconosciuto.
«Mi ha chiamato?» chiese una voce assonnata.
«Sinan?».
«Sì».
«Sono Kati. Ieri sera ci siamo dati appuntamento per questo pomeriggio».
«Ah, sì. Stavo dormendo e non ho sentito il telefono».
Mi sorprendo sempre quando incontro qualcuno che riesce a dormire più di me.
«Siamo in taxi, stiamo venendo a casa sua».
«Vi ho dato il mio indirizzo?».
«No, ce lo siamo procurato».
«Potete darmi mezz’ora? Vorrei fare la doccia». Non sembrava irritato dal fatto che avessimo cercato l’indirizzo.
Accettai la sua richiesta. Cos’altro potevo fare?
Scendemmo dal taxi, ci sedemmo in un giardino da tè di Rumelihisarı e restammo in silenzio a guardare il mare. Speravo di poter fare un salto a casa per cambiarmi prima di andare all’appuntamento con Lale ed Erol, ma probabilmente non ne avrei avuto il tempo. Questo pensiero mi infastidì. Non avevo nessuna voglia di sottostare ai capricci di una star. Neanche di una tanto bella da mozzare il fiato.
Prendemmo di nuovo il taxi. Purtroppo l’autista non conosceva minimamente la zona e ci volle un bel po’ per trovare la casa giusta. Fummo costretti a fermarci più di una volta per chiedere indicazioni a negozianti e macellai. Alla fine scendemmo in una viuzza senza uscita.
«Sinan aveva ragione, non è facile arrivare a casa sua».
«Colpa dei tassisti! Non trovano neanche piazza Taksim!».
«Ti prego, non ricominciare con questa storia. Lascia in pace i tassisti».
«Però ho ragione!».
Invece di rispondere, Fofo suonò il campanello.
La porta si aprì e ci trovammo davanti un ragazzo con un asciugamano intorno ai fianchi. Sembrava un po’ più giovane di Sinan, ma in quanto a bellezza non era certo da meno. Ero praticamente sicura che Fofo non avrebbe aperto bocca per la sorpresa, quindi feci uno sforzo e tirai fuori qualche parola.
«Abbiamo appuntamento con Sinan».
La voce mi uscì velata.
«Prego. Io sono Alkan, il fratello».
«Piacere». Una volta tanto non era un semplice modo di dire; era davvero un piacere. Uomini del genere non si incontrano tutti i giorni.
I fratelli abitavano in una stretta casa unifamiliare. Alkan ci condusse al primo piano.
«Accomodatevi, torno subito. Vado a fare il caffè». Con l’asciugamano che gli accarezzava i fianchi, ridiscese al pianterreno.
Oltre a lunghi scaffali pieni di CD, in soggiorno c’erano due poltrone e un divano. Alkan riapparve pochi minuti dopo, sempre mezzo nudo, con due grosse tazze di caffè.
«Vi porto latte e zucchero».
«A me non servono» dissi.
«A me sì» saltò su Fofo.
Il ragazzo tornò di sotto e il mio amico si piegò verso di me per sussurrare: «E se gli cade l’asciugamano?».
Gli lanciai un’occhiata di rimprovero. Certe persone dovrebbero sempre dividere il letto con qualcuno, altrimenti diventano un po’ maniache.
Alkan ci raggiunse con lo zucchero in una mano e il latte nell’altra. «Vado a vedere cosa sta combinando Sinan» disse e scomparve di nuovo.
«Siamo qui dalle tre» osservai un po’ spazientita, ma Fofo non mi diede retta e bevve il suo caffè tutto contento.
Quando finalmente in cima alla scala apparve Sinan, ero quasi al limite della sopportazione. Forse ci aveva fatto aspettare tanto nella speranza che gettassimo la spugna.
«Scusate il ritardo».
Fofo si affrettò a rassicurarlo: «Nessun problema». Come si fa a essere così accondiscendenti?
Per non rovinare l’atmosfera cacciai indietro la rispostaccia che avevo sulla punta della lingua.
«Okay, non giriamoci intorno. Ieri sera volevate parlare di Sani».
«Non vuole più sapere chi siamo?» domandai. Era meglio chiarire subito questo punto. «Lavoriamo per la famiglia Kaya». In un certo senso era vero, il padre di Sani ci aveva addirittura offerto dei soldi.
«Quindi siete investigatori privati? Come mai la famiglia si è rivolta a voi? Non c’è niente su cui indagare, è stato un incidente».
«In realtà abbiamo una libreria a Kuledibi» precisai, ignorando la sua domanda. Meglio procedere per gradi e toccare l’argomento “omicidio” un po’ più avanti.
«A Kuledibi? Per caso è una libreria che vende solo gialli?».
«Esatto! Non mi dica che è nostro cliente!». Fofo era sbalordito. Se avessimo avuto un cliente del genere, ce ne saremmo sicuramente accorti!
«No, non io. Mia madre. Adora i gialli, credo sia una delle vostre clienti più affezionate».
Si girò verso la scala. «Alkan! Sono i proprietari della libreria che piace tanto a nostra madre!».
«Me la descriva».
«Sulla cinquantina, bionda, capelli raccolti. Porta sempre un grosso paio di occhiali scuri, anche quando non c’è il sole».
Capii subito di chi stava parlando.
«Legge anche in inglese, giusto?».
«Soprattutto in inglese. Dice che le traduzioni turche sono quasi tutte da buttare».
«Si chiama Perihan?». La donna che avevo in mente era bella, ma mi sembrava comunque impossibile che avesse messo al mondo due figli così perfetti.
«Sì, Perihan. Che memoria!».
«In effetti è una delle nostre migliori clienti» confermai, mentre Fofo tentava di metterla a fuoco.
«Che c’è? Che hai da urlare?» domandò Alkan raggiungendoci in soggiorno. Aveva sostituito l’asciugamano con un paio di jeans sdruciti, ma era ancora a torso nudo.
«Sono i proprietari della libreria di Kuledibi che vende solo gialli. Nostra madre è una delle loro migliori clienti» spiegò Sinan.
«Veramente il negozio è di Kati, io sono solo un dipendente» specificò Fofo. Voleva forse suscitare compassione?
«Potrebbe ripetermi il suo nome?» chiese il cantante.
«Fofo».
«Ha un bell’accento…». Ecco un ottimo metodo per scoprire da dove viene qualcuno senza fare una domanda diretta.
«Sono spagnolo, ma vivo a Istanbul da diversi anni».
«Complimenti, ha imparato benissimo il turco». Sentendo queste parole il mio amico si gonfiò come un tacchino e mi guardò con aria trionfante.
Cercai di riportare la conversazione al tema che più mi interessava. Dopo un’ora di attesa non volevo perdere altro tempo in chiacchiere. «Torniamo alla sua relazione con Sani».
«Come sa che avevo una relazione con lei? Chi gliel’ha detto?».
«Mi dispiace, non posso rivelare l’identità della mia fonte».
«Certo, è comprensibile». Sembrava che mi capisse davvero.
«Questa persona le ha detto anche che ci eravamo lasciati?».
«Vi eravate lasciati?». I casi erano due: o stava mentendo o l’uomo con cui Sani aveva avuto un rapporto il giorno della sua morte era un altro.
«Abbiamo rotto il 19 giugno». Questa poi! Ricordarsi la data del proprio matrimonio è normale, ma tenere a mente quella della rottura con l’amante… Bisogna essere proprio pignoli.
«Il giorno del mio compleanno». Tirai un sospiro di sollievo. Preferisco non avere niente a che fare con i maniaci delle date. «Quella sera ci siamo incontrati qui a casa mia, come sempre. Non uscivamo mai insieme, lei aveva paura che il marito venisse a saperlo. Dopo cena mi ha detto che tra noi era finita. Non l’ho più rivista. L’ho chiamata un paio di volte, ma era sempre molto distaccata. Alla fine mi sono dovuto arrendere».
Sembrava ancora arrabbiato per quella rottura. O forse era solo triste.
«Non è andato al funerale».
«Certo che no. Cos’avrei detto ai giornalisti? Mi avrebbero sicuramente chiesto che ci facevo al funerale di una donna sposata. Sani ha fatto di tutto per tenere segreta la nostra relazione. Per la differenza d’età, ma soprattutto per suo marito».
«Quanti anni c’erano tra voi?». Una domanda inutile ai fini delle indagini. Ero solo molto curiosa.
«Otto».
Quindi Sinan aveva venticinque anni. Stava entrando nel periodo di massimo splendore.
«Sani era sempre in ansia. Perché il marito la faceva pedinare, perché la stampa non ci dava tregua, anche se per motivi diversi, perché rischiavamo di essere scoperti… Aveva paura. Era convinta che il marito avrebbe usato qualunque mezzo per non pagarle gli alimenti. Non che avesse bisogno di essere mantenuta. Con i suoi studi e le sue capacità non ci avrebbe messo molto a trovare un buon lavoro. Avrebbe potuto fare qualunque cosa, anche se non ci voleva credere. Si sentiva così impotente».
Le sue parole non si addicevano all’immagine che avevo di Sani. Quella di una donna di successo forte e combattiva.
«Questa sua debolezza ha stupito anche me. Vuole sapere cosa penso? Probabilmente ognuno di noi nasce con una certa dose di forza. Una dose che deve durare tutta la vita. Se una persona è costretta a combattere fin da piccola, prima o poi la sua riserva di energia si esaurisce. Credo che Sani non avesse più la forza di lottare. Si era abituata in fretta ai vantaggi materiali che le offriva il marito e non riusciva più a immaginare di vivere diversamente».
«Ma non voleva più stare col marito».
«Non so cosa sia successo tra loro due, non me ne ha mai parlato. E io non le ho mai chiesto niente. Non mi interessava. Non mi piace che in una coppia si parli dei precedenti rapporti. Comunque si capiva che aveva sofferto, era una donna ferita e chiusa in se stessa. Per questo mi sorprende che lei abbia saputo della nostra relazione. Sani ha raccontato di noi alla sorella?».
Non risposi.
«È stata la segretaria dell’associazione? Una volta ci ha visto insieme».
Ancora nessuna risposta.
«Adotta la tattica del silenzio?».
«Come le ho già spiegato, non posso dirle da chi ho saputo della relazione».
L’atmosfera si fece tesa. Per un attimo rimasi sulle spine; temevo che ci avrebbero congedato, come si fa di solito con gli ospiti quando si creano certi silenzi imbarazzati.
«Conosce qualcuno che avrebbe voluto fare del male a Sani?» domandai infine per superare l’impasse.
Sinan buttò indietro la testa e scoppiò a ridere, subito imitato dal fratello. Sembravano entrambi molto divertiti.
«Voi lettori di gialli siete tutti uguali. Mia madre ragiona esattamente come lei. Quando qualcuno passa a miglior vita, pensa subito a un omicidio. È successo anche quando è morta mia zia, che aveva già ottantasette anni. Continuava a dire che l’aveva uccisa l’infermiera. Ogni volta che legge di un incidente stradale pensa che ci sia dietro chissà cosa. E poi mi chiede perché non sono un amante dei gialli!».
«Anche una persona un po’ paranoica può avere ragione» gli fece notare Alkan. «Forse Sani è stata uccisa dal marito che non voleva pagarle gli alimenti».
Sinan osservò prima lui e poi noi in silenzio.
«Credete che possa essere stato il marito?».
«Si sospetta sempre delle persone più vicine alla vittima» dissi. I lettori di gialli lo sanno bene. «Chieda a sua madre. Sicuramente glielo confermerà».
«Se tutti gli uomini che non vogliono pagare gli alimenti alla moglie dovessero ricorrere all’omicidio, sarebbe una strage! Dubito fortemente che Cem Ankaralıgil abbia fatto una cosa simile solo per i soldi. Dopo aver rotto con me, Sani si è messa con qualcun altro. Forse il marito è venuto a saperlo… La gelosia sarebbe un motivo più comprensibile».
«Soldi, gelosia, vendetta, rancore, orgoglio ferito… Sono tutti possibili moventi».
Lui socchiuse gli occhi.
«Aspetti un attimo. Ora che le ho detto che Sani mi aveva lasciato, non sospetterà anche di me?».
«No, stia tranquillo». Come potete ben immaginare, fui costretta a rassicurarlo. Non potevo stare seduta in casa sua a bere caffè e contemporaneamente dargli dell’assassino. Sarebbe stato molto sconveniente.
«È vero, ero arrabbiato con lei. Mi piaceva molto e ci sono rimasto davvero male quando mi ha lasciato. Ammetto di aver provato a farle cambiare idea, ma non l’avrei mai uccisa. Né le avrei augurato di morire. Non...».
«Cosa?». Pendevamo dalle sue labbra. Soprattutto Fofo.
«Non sarei mai arrivato a tanto. Non ero così innamorato da ucciderla». Si alzò e fece un giro per la stanza, poi, con gli occhi umidi, si risedette sulla poltrona.
Mi sembrava sincero, ma non per le lacrime o per le cose sdolcinate – da venticinquenne – che aveva detto. Non saprei spiegare perché, gli credevo e basta.
«Togliamo il disturbo. Se le viene in mente qualcos’altro, mi chiami».
«Siamo stati insieme poco tempo» aggiunse lui. «Quando ci siamo conosciuti, Sani si stava già separando dal marito. È successo tutto così in fretta… La nostra storia è iniziata e finita nel giro di tre mesi».
«Come vi siete conosciuti?» chiese Fofo. Una buona domanda.
«Mia zia Aylin lavorava con lei. Hanno chiesto agli Sniff di fare un concerto di beneficenza per la loro associazione. Così ci siamo conosciuti. Avete già parlato con Aylin?».
«Volevamo farlo, ma ci hanno detto che era all’estero. Sa se nel frattempo è tornata?».
«Non sapevo nemmeno che fosse partita».
Avevo l’impressione che Sinan non sapesse altro e non potesse aiutarci più di così, quindi feci cenno a Fofo di andare. Il mio amico non aveva voglia di alzarsi. Era chiaro che avrebbe preferito rimanere lì un paio di giorni ad ammirare i due fratelli.
«Dai, Fofo, sai che dobbiamo andare a una festa. Non possiamo fare tardi».
Finalmente si mise in piedi.
«Memorizzo il suo numero nel cellulare» mi disse Sinan. «Magari la chiamo nei prossimi giorni per sapere come va».
«Se viene in libreria, le facciamo uno sconto» promise Fofo.
Davo per scontato che non si sarebbe fatto né sentire né vedere in negozio.

«Non abbiamo scoperto molto, ma quei due sono fantastici» commentò il mio amico mentre percorrevamo una strada in discesa, diretti verso il mare. «In vita mia ho visto pochissimi uomini così belli, star di Hollywood comprese».
«Dai, non esagerare».
«Non sto esagerando! Alkan è dieci volte meglio di Brad Pitt».
«Non sono d’accordo. E comunque una cosa l’abbiamo scoperta».
«Cioè?».
«Che il marito di Sani la faceva pedinare. Se è vero, chi la teneva d’occhio potrebbe anche sapere se al momento della morte era sola o meno. Come mai Cem Ankaralıgil non ha informato la polizia?».
«Vedo che hai già abbandonato la teoria degli imprenditori che inquinano e si coalizzano per togliere di mezzo un fastidio».
«Forse non te ne sei accorto, ma non abbiamo ancora escluso nessuna possibilità. Sto solo formulando un’altra teoria».
«Credi davvero che la facesse pedinare? Secondo me è la classica storia che una donna matura rifila al giovane amante. Poteva sicuramente inventarsi qualcosa di meglio». Scosse la testa con aria di disapprovazione.
«Che vuoi dire? Non ti capisco».
«Per come la vedo io, la cara Sani ha tirato fuori questa storiella solo per rendersi più interessante agli occhi di Sinan. Della serie “tutti mi vogliono, ma solo tu puoi avermi”. Dammi retta, è un vecchio trucco. Povero ragazzo, si è lasciato infinocchiare. Avrà pensato: “Wow! Il marito non la lascia andare, ma lei vuole me”. Gli sarà sembrata la donna più desiderabile di questo mondo».
«Fofo, sei terribile!» esclamai con una risata.
«Terribile? Io?».
«Come ti vengono in mente certe cose?».
«Beh, Sani aveva il mio stesso target. So come ci si comporta. Certo, tu che ti fai venire i capelli bianchi per un avvocato qualunque non puoi capire». A Fofo non piacevano i miei uomini tanto quanto a me non piacevano i suoi, ma se c’era uno che gli stava particolarmente antipatico era Selim, col quale avevo rotto ormai da parecchio tempo. A chi altro poteva riferirsi con l’espressione «un avvocato qualunque»?
«Va bene, verrò a lezione da te e prenderò all’amo uno molto meglio di Selim. Vedrai. Adesso però ascolta la mia teoria».
«Non posso ascoltarti, Kati. Mi dà troppo fastidio che tu non abbia capito subito il giochetto di Sani. Mi serve un po’ di tempo per ritrovare la fiducia che avevo in te».
«Non scherzare».
«Guarda che dico sul serio».
«Piantala!» gli strillai nell’orecchio. Non aveva mica l’esclusiva, anch’io potevo rompere i timpani agli altri.
«Okay, ti ascolto».
«Partiamo dal presupposto che Cem Ankaralıgil abbia fatto davvero pedinare la moglie. Chi ne era al corrente? Aylin? Naz?».
«Al posto di Sani ne avrei sicuramente parlato con mia sorella. Comunque dammi retta, ti stai scervellando per niente. Questa storia del pedinamento non regge».

Il köfte party si teneva nel giardino di una villetta situata in un elegante e nuovo complesso di abitazioni unifamiliari. Com’era prevedibile, tutti gli invitati maschi si presentarono con mogli, figli e cani al seguito. Non che questo fosse un problema per me. In confronto a Sinan e Alkan, gli uomini presenti alla festa facevano una pessima figura; con i rotoli di grasso strizzati nei jeans sembravano tanti salsicciotti.
Finite le polpette, dopo che i bambini più piccoli si furono addormentati, la conversazione al tavolo delle donne si spostò – come mi aspettavo – su Sani. Gli uomini si trovavano in un altro angolo del giardino, impegnati a discorrere di politica e a raccontare barzellette sconce, mentre Fofo era seduto in salotto a guardare la televisione.
«Conosceva Sani Ankaralıgil?» chiesi a una signora dai capelli scuri con una grande bocca e una pettinatura a forma di paracadute.
«No, non di persona. Ma il marito di Simin la conosceva da tanti anni, da quando frequentavano entrambi il politecnico di Istanbul. È stato lui a dirmi che si era trasferita da queste parti».
«Io la vedevo la mattina, quando andavo a correre. Ci salutavamo sempre» aggiunse una donna con i capelli corti che sedeva proprio accanto a me. Era l’unica carina tra le presenti. Escludendo me e Lale, naturalmente.
«Qui a Paşabahçe non ci sono molte possibilità per chi vuole praticare sport» mi spiegò. «Si può solo correre».
Per un attimo pensai di risponderle che la mia Beyoğlu è un vero paradiso per gli sportivi. Salto in lungo, sci, corsa a ostacoli, inseguimenti, guardie e ladri… C’è tutto quello che si può desiderare. Alla fine però tenni la bocca chiusa; non volevo distoglierla dall’argomento principale.
«Questa zona non è particolarmente ambita. La città sembra lontanissima. Eppure in venti minuti si arriva a Levent, basta attraversare il secondo ponte sul Bosforo».
«Fare la spesa è un bel problema. Per non parlare delle difficoltà che si incontrano con i bambini piccoli» intervenne un’altra donna, che poi si piegò verso la signora con la pettinatura a paracadute. «Ho sentito che il marito di Simin ha avuto una relazione con Sani prima di sposarsi» bisbigliò. Beh, in realtà parlò a voce più bassa, ma in modo che tutte la sentissero.
«Davvero? Non lo sapevo» rispose quella con il paracadute in testa. «Avete visto le rose nel giardino di Simin? Rose d’inverno, si chiamano. Sono bellissime. Fiori d’importazione». Voleva forse cambiare discorso?
«Simin ha un giardino splendido. Come fa?».
«Ci lavora tutti i giorni. Toglie una cosa, ne aggiunge un’altra… Non ha il giardiniere, fa tutto da sola». Eh sì, la signora era riuscita a spostare la conversazione su un altro argomento. Fui presa dal panico.
«Ma è proprio vero che il marito di Simin ha avuto una relazione con Sani?» domandai, senza preoccuparmi di ciò che avrebbero pensato sul mio conto.
«Sì, in effetti l’ho sentito anch’io. Credo che per un po’ ne abbiano parlato tutti all’università. Sembrava un grande amore» disse un’altra con i capelli tagliati all’altezza delle orecchie e fonati verso l’interno. Un’acconciatura anni Cinquanta decisamente démodé.
«Lei era molto bella» osservò quella simpatica con i capelli corti.
«Secondo me si era fatta troppi ritocchi» ribatté la signora con la pettinatura a paracadute.
«Purtroppo al giorno d’oggi i ritocchi sono indispensabili. Demi Moore si è fatta rifare le ginocchia» commentò un’altra ancora.
Seguì un rapido esame delle ginocchia altrui e all’improvviso fui contenta di non aver avuto il tempo di passare da casa per togliere i pantaloni con le tasche e indossare qualcosa di più adatto alla serata. Certo che la vita è piena di sorprese. Chi avrebbe mai immaginato che mi sarei rallegrata di una cosa simile?
«La mia pancia ha perso forma dopo il secondo parto. Hanno dovuto farmi il cesareo» si lamentò una delle presenti.
«Ma no, cara, stai benissimo!» rispose la taglia 46 che sedeva accanto al “paracadute”.
«Gli interventi di addominoplastica sono molto pericolosi» avvertì Lale. Lei sa sempre tutto.
«Con un buon chirurgo nessun intervento è pericoloso» replicò la solita signora con i capelli a paracadute.
«L’importante è accettare il proprio corpo» affermò la taglia 46. Poi, dato che nessuna le dava ragione, si spinse oltre: «Grasso è bello!».
Mi rivolsi alla donna coi capelli corti che mi sedeva a fianco. «Chi è Simin?» chiesi sottovoce per non farmi sentire dalle altre.
«Non conosce Simin e Orhan Soner? Lui è uno dei più famosi architetti turchi. Ha progettato il grattacielo di Levent, l’hotel Venüs di Bodrum e il museo dei mosaici di Zeugma ad Antep… Abitano in quella casa di legno in stile ottomano». Fece un cenno del capo in direzione della casa, di cui si vedeva solo il tetto. «Perché vuole sapere di Simin?».
«Per curiosità. L’avete nominata più di una volta».
«Che vuole, qui si sa tutto di tutti. Il posto è piccolo».
«Anche Sani Ankaralıgil viveva qui, no?».
Lei si tirò su e guardò in direzione della casa che mi aveva appena indicato.
«Da qui non si vede, comunque stava proprio di fronte ai Soner, in un complesso in gran parte disabitato. Credo ci sia qualche problema con la concessione edilizia, le vendite sono bloccate. In casi eccezionali, però, le case vengono date in affitto».
«È un po’ strano che si sia trasferita proprio di fronte al suo ex. Come se non ci fossero altre case libere in tutta Istanbul…».
«Mmh, non ci avevo mai pensato».
«Non le sembra strano?».
«Il passato è passato. Stiamo parlando di una relazione finita da tempo. Anch’io sono rimasta in contatto, anzi in ottimi rapporti con alcuni dei miei ex. Non vedo perché due persone che si sono volute bene debbano diventare nemiche».
Ovviamente non le chiesi se il marito sapeva che era rimasta amica dei suoi ex. Non solo perché sarebbe stato fuori luogo, ma anche perché non aveva nulla a che fare con Sani.
«Se tutti e due considerano la storia finita, allora ha ragione lei. Ma non è sempre così».
«Crede che Orhan fosse ancora innamorato di Sani? O viceversa? Beh, questo non possiamo saperlo».
Non potevamo saperlo, ma di sicuro l’avrei scoperto.

7






«Cosa sai della vita sentimentale di tua sorella?» chiesi dopo che ci ebbero portato i due caffellatte che avevamo ordinato.
Naz e io ci eravamo rifugiate in un locale per sfuggire all’invasione maschile della domenica. A Beyoğlu c’è sempre tantissima gente, ma queste orde domenicali di uomini sono talmente fastidiose che in confronto le gru, i camion e i bulldozer di İstiklal Caddesi sono quasi piacevoli. Tanto per cominciare non vanno mai in giro da soli, bensì a gruppi di tre o più; sembrano soldati di ventura pronti alla rapina e all’omicidio. Se sulla loro strada incontrano una donna non accompagnata, di qualunque età, cominciano a infastidirla incitandosi a vicenda. La poveretta non ha scampo.
Questi uomini molesti arrivano ogni domenica dalla periferia, scendono dall’autobus a Karaköy, visitano i bordelli del mio quartiere e dopo essersi lavati all’hammam in fondo alla strada si riversano in İstiklal Caddesi per spogliare le donne con gli occhi, infastidirle e terrorizzarle.
Com’è ovvio, non hanno il minimo interesse per i begli edifici antichi, per i cortili e i passaggi che si aprono inaspettatamente qua e là e per gli scorci di mare che si possono ammirare da alcune viuzze. Per paura di perdersi in questo mondo sconosciuto percorrono sempre e solo la strada principale, senza alcuna deviazione, e non appena adocchiano una donna sola smettono di ridere e di darsi di gomito, focalizzano l’attenzione sulla malcapitata e cominciano a dire cose indecenti fingendo di rivolgersi ai compagni, parlando però a voce abbastanza alta perché lei possa sentire. Poi, prima che diventi buio, riprendono l’autobus e se ne tornano a casa a difendere l’onore di madri, sorelle e mogli.
«Perché ti interessa la vita sentimentale di mia sorella?».
«Mi interessa tutto. A volte un dettaglio apparentemente insignificante fornisce un buon punto di partenza per arrivare alla soluzione». Per lo meno nei gialli è così. Avete mai letto un giallo in cui l’assassino scoppia a piangere e confessa tutto subito dopo il delitto?
«Conosci Orhan Soner?».
«Sì» rispose Naz, distogliendo lo sguardo. Stavamo parlando di un vecchio amore della sorella, perché si comportava come se la stessi costringendo a ricordare un momento intimo faticosamente rimosso? E come mai non riusciva a nascondere questa cosa a una detective dilettante?
Se avessi potuto accompagnare le mie tante domande con una sigaretta, di sicuro sarei arrivata a una conclusione molto più velocemente. Purtroppo non avevo scelta, dovevo sopportare pazientemente l’annebbiamento dovuto alla mancata assunzione di nicotina. Con un po’ di fortuna i sintomi da astinenza sarebbero presto scomparsi.
«Orhan è stato il grande amore di mia sorella. Nessuno immaginava che si sarebbero lasciati».
«E come mai è successo?».
«Subito dopo la laurea Sani ha ottenuto una borsa di studio per fare il dottorato negli Stati Uniti. Orhan voleva rimanere a Istanbul, anche perché aveva già un posto in un ottimo studio di architettura, ma ha deciso comunque di seguirla. I soldi della borsa non bastavano per tutti e due, quindi lui ha cominciato a guardarsi in giro e alla fine ha trovato lavoro come benzinaio. Ma non ha resistito molto, dopo cinque o sei mesi di quella vita è tornato in Turchia. Credeva che sarebbe tornata anche Sani, invece lei è rimasta negli Stati Uniti. Per Orhan è stata una brutta delusione».
Per qualche motivo non riusciva a guardarmi negli occhi.
«E così si sono lasciati».
«Non lo definirei proprio un grande amore».
«Sani non poteva tradire se stessa, non poteva mollare tutto per tornare in Turchia». Non le chiesi come si sarebbe comportata al posto della sorella perché ero quasi sicura che avrebbe fatto la scelta opposta. Le donne disposte ad annullarsi per amore mi fanno paura. Non siamo tutti indifesi di fronte a una donna pronta a rinunciare a tutto per seguire il suo cuore? Boh, forse con l’età sto diventando troppo sentimentale.
«Sapevi che Sani viveva proprio di fronte a Orhan Soner? A Paşabahçe, intendo».
«Davvero?». Un tremolio nella voce. O era la mia immaginazione? Mi sembrava strano che sapesse così poco di Sani, ma poteva anche essere. Due sorelle non devono per forza comportarsi come migliori amiche e confidarsi tutto.
«È possibile che avesse ripreso la relazione con Orhan?».
«Non ne ho idea. Mia sorella era un tipo imprevedibile».
«In amore?».
«In tutto. Non era una persona molto coerente. Ha detto addio a un uomo che l’amava perdutamente solo per rimanere in America a finire il dottorato, ma due o tre anni dopo ha rinunciato a tutto per sposare Cem e fare la casalinga. E alla fine ha lasciato anche lui. È stata una cosa improvvisa. Da un giorno all’altro ha deciso di mandare all’aria il matrimonio. Per questo non posso parlare della sua vita sentimentale. Non ho mai capito le sue scelte». Di colpo mi tornarono in mente le parole di Sinan: ogni persona nasce con una certa dose di forza… Evidentemente Sani aveva esaurito la sua, dopo il dottorato non se la sentiva più di lottare, di combattere per farsi strada.
«Conosci un certo Sinan?».
«No. Chi è?».
«Uno con cui Sani ha avuto una breve relazione. Più o meno nel periodo della separazione da Cem».
«Vuoi dire che ha lasciato il marito per questo Sinan? Come fai a saperlo?».
«Scoprire certe cose è il mio mestiere».
«Con me non ne ha mai parlato. Ma non c’è da stupirsi, non si è mai confidata». L’ultima frase la rivolse più che altro a se stessa.
«Forse ha raccontato qualcosa alla sua migliore amica. Aylin, giusto?».
«Non credo. Secondo me non ne ha parlato con nessuno. Non sai com’era fatta mia sorella».
«Ma ognuno di noi ha un confidente, qualcuno a cui raccontare i propri segreti».
«Se Sani aveva un confidente, allora non so chi sia. Aylin è amica di Cem, sarebbe stata una follia raccontarle certe cose. E poi mia sorella era piuttosto riservata riguardo ai suoi rapporti personali. Non ne parlava mai e faceva in modo che nessuno sapesse niente. Anche vivendo nella stessa casa e trascorrendo con lei ventiquattr’ore su ventiquattro, probabilmente non avrei saputo chi frequentava. È sempre stata così, parlava poco anche da bambina. Scriveva tutto nel suo diario».
«Teneva un diario? Perché non l’hai detto prima?». Ero elettrizzata. «Magari aveva ancora quest’abitudine».
Naz storse la bocca. «È una cosa da bambini. Una donna adulta non ha tempo per tenere un diario».
«Tu non l’hai mai fatto?».
«Ci ho provato un paio di volte, ma mi sono sempre stancata in fretta. Non fa per me».
«Neanch’io ho mai tenuto un diario. Ma le persone che lo fanno, spesso continuano per tutta la vita. Diventa una specie di necessità». Stavo pensando ai famosi diari di Patricia Highsmith. Decine di quaderni e taccuini che sistemati uno accanto all’altro riempivano uno scaffale lungo tre metri.
«Credi davvero che diventi un’abitudine?».
«Un’abitudine o una necessità, sì. Ti assicuro che ci sono persone che continuano a scrivere nel diario per tutta la vita».
Lei rifletté guardando il soffitto. «In effetti… Forse hai ragione. Mi è appena venuta in mente una cosa».
«Cosa?».
«Sani ha passato un lungo periodo da sola in America. Orhan era tornato in Turchia e Cem non era ancora entrato nella sua vita. Non aveva neanche un amico; conosceva poche persone e non dava confidenza a nessuno. Ci scrivevamo spesso e ricordo che in una delle sue mail diceva: “I giorni passano sempre uguali, non ho niente da scrivere nel diario. Quando non lavoro in biblioteca dalla mattina alla sera, sto a casa a dormire”. Ricordo anche di essermi stupita scoprendo che teneva ancora un diario».
«Quand’è successo?».
«Un bel po’ di tempo fa. Sei o sette anni».
«Però questo ci dimostra che ha continuato a tenere un diario anche da adulta. Hai la chiave per entrare in casa sua?».
«Dici che dovremmo andare a casa di Sani?».
«No, dico che ci andiamo subito».

Con la metropolitana arrivammo fino a Levent, poi prendemmo un taxi. Raggiunto il complesso dove abitava Sani, mi accorsi che la sorella era agitata.
«Cerchiamo il custode» suggerì.
«Se ce lo mettiamo alle costole, non ci lascerà più in pace. Entriamo direttamente in casa».
Il complesso comprendeva sette abitazioni unifamiliari costruite su una collinetta e una grande piscina in posizione centrale. Solo tre delle villette mostravano segni di vita, le altre erano chiaramente disabitate.
«È questa» disse Naz, fermandosi davanti alla casa più vicina alla strada.
Tra il telaio e il battente della porta c’era un foglio stampato con un sigillo rosso. Sulla carta erano elencate le sanzioni applicabili a chiunque avesse rotto il sigillo per entrare. Come sapete, cari lettori, i sigilli della polizia non mi hanno mai fermato, ma... la porta di Sani era perfettamente visibile sia dalla strada sia dalla casa dei Soner. Era troppo rischioso anche per me.
«E adesso? Andiamo a cercare il custode?». Mio Dio, ancora con questo custode!
«No, non ci farebbe mai entrare» replicai. «Ma non possiamo restare qui a fissare l’ingresso».
Girai intorno alla villetta. Era piuttosto grande.
«Una villa così non può avere una sola porta. Non ce n’è un’altra sul retro?».
«Non lo so. Sono stata qui solo una volta. I miei genitori hanno passato qualche giorno con Sani e alla fine sono venuta a prenderli. Comunque, se c’è un’altra porta sarà sigillata come quella sul davanti».
«Beh, controlliamo».
In effetti dietro la casa c’era un’altra porta. E, incredibile ma vero, si erano dimenticati di apporre il sigillo! Batuhan stava dando il meglio di sé.
«Speriamo che Sani abbia dato a mio padre anche una copia di questa chiave».
Tirò fuori il mazzo e provò una chiave dopo l’altra, mentre io tenevo d’occhio la situazione. Non vidi nulla di strano: nessun movimento dietro le tende, nessuna finestra aperta, nessun vicino allarmato. Tutto tranquillo come al nostro arrivo. Poi una delle chiavi scivolò nella serratura e tirammo entrambe un sospiro di sollievo.
Una volta aperta la porta, percorremmo il corridoio e ci trovammo in un salotto completamente vuoto. Dalla stanza, rivolta verso la strada, si vedeva il mare.
«Viveva di sopra. Qui ha lasciato tutto com’era».
Entrando nel soggiorno al piano superiore, Naz si aggrappò al mio braccio come se cercasse in me la forza di andare avanti. Sul parquet spiccava la silhouette del corpo di Sani. Gli oggetti erano ricoperti da uno strato di polvere nera, quella utilizzata per rilevare le impronte digitali. L’aria era viziata, forse appesantita dall’odore della morte.
Una parte dell’enorme soggiorno era occupata da una pedana che consentiva una vista ancora migliore del Bosforo. A giudicare dalla posizione del cadavere, Sani aveva battuto la testa proprio su uno dei gradini che portavano alla zona rialzata.
Naz mi strinse il braccio in una morsa d’acciaio.
Mi sfuggì un lamento.
«Oh, scusa! Mi dispiace, non volevo». Mollò immediatamente la presa, ma nello stesso istante cominciò a barcollare come se non riuscisse a stare in piedi senza il mio sostegno. La presi sottobraccio.
«Ti porto un bicchiere d’acqua?».
«No, non è necessario».
«Siediti. Ma non toccare niente, mi raccomando».
«Non preoccuparti, sto bene» mi rassicurò, poi si diresse verso la scrivania. I cassetti erano aperti, tutto il loro contenuto era sparso sul piano. Forse perché la polizia aveva fotografato ogni cosa. Anche la borsa di Sani era stata svuotata; alla rinfusa sulla scrivania c’erano un rossetto, un elegante specchietto, delle sigarette, un accendino, una stilografica nera e una boccetta di profumo mezza vuota. Avevano portato via i documenti e tutti gli altri oggetti che potevano servire alle indagini. Se Sani teneva ancora un diario, probabilmente era già nelle mani di qualche poliziotto.
«Che tipo di diario usava?».
«Da bambina aveva un quaderno rosa con il lucchetto. Un regalo dello zio di Istanbul. Ma da adulta… Sinceramente non so cosa potrebbe aver usato».
«Sei stata tu a dirmi che non scriveva mai a mano? Che faceva addirittura fatica a mettere una firma?».
Naz scosse leggermente la testa. «Dove vuoi arrivare?».
«Sei sicura che il diario fosse scritto a mano? Forse tua sorella non usava più un quaderno».
Lei continuò a fissare la scrivania.
«Credi che usasse il computer?».
«Perché no?».
La mia accompagnatrice ebbe un altro attimo di sbandamento e cercò di appoggiarsi per non cadere. Le bloccai la mano a mezz’aria.
«Non dobbiamo toccare niente. Sai se in cucina ci sono dei guanti di gomma?».
Non rispose. La presi di nuovo sottobraccio e insieme lasciammo il soggiorno. La cucina era lucida come uno specchio, sembrava non fosse mai stata usata. Di fianco al lavandino erano appoggiati un tostapane e una macchina per il caffè espresso, più due tazzine.
Era come se il peso della morte rallentasse i nostri movimenti. Per un attimo restammo immobili, due donne che si tenevano sottobraccio in una cucina. Avevo una domanda sulla punta della lingua, ma non ebbi il coraggio di farla.
«Andiamo via» disse infine Naz, staccando il braccio dal mio e puntando verso la scala che portava al piano inferiore.
«No!» gridai. «Guarda».
Lei si fermò sul primo gradino. «Cosa?».
«Sai come funziona la macchina per l’espresso?».
«Vuoi farti un caffè?» mi domandò sbalordita. Era chiaro che il solo pensiero le sembrava estremamente inappropriato. In effetti lo era, visto che stavamo frugando nella casa e nella vita di una morta…
Indicai le tazzine accanto alla macchina.
«Sembra che Sani volesse fare due caffè».
«Sì, può essere». Nel frattempo Naz aveva recuperato il controllo.
«Puoi vedere se ha usato la macchina? No, aspetta, prima mettiamo i guanti».
«Comunque con questo modello non si possono fare due caffè contemporaneamente. Bisogna cambiare la capsula».
«Cioè? Come funziona?».
«Si prepara una tazzina per volta. Si accende la macchina, si fa il caffè, poi si butta la capsula vuota e se ne inserisce una nuova».
«Ho capito. Quindi abbiamo due tazzine, ma non possiamo essere sicure che volesse fare due caffè. Giusto?».
Lei annuì.
«Dove teneva le capsule?».
«Non lo so».
«Però sai come funziona la macchina».
«Perché ne ho una uguale».
Evidentemente le macchine per il caffè espresso andavano di gran moda. Ce l’avevano tutti. Tranne me, ovvio.
«Diamo un’occhiata alle altre stanze prima di andare».
«Pensaci tu. Ho bisogno di sedermi».
«Okay, ma ricordati di non toccare niente. Quelli della polizia potrebbero tornare e rilevare di nuovo le impronte».
Feci il giro del primo piano, passando dalla camera da letto al bagno, alle altre stanze inutilizzate. Speravo di notare qualche particolare sfuggito alla polizia. Ma se davvero c’era qualcosa, non me ne accorsi. Alla fine tornai da Naz, che era seduta a gambe incrociate sul pavimento del soggiorno.
«Allora, scoperto qualcosa?» mi chiese.
Risposi di no.
«Sai cos’è questo?».
Mi porse un piccolo oggetto metallico di colore giallo. Sembrava una minuscola bombetta. Lo rigirai tra le mani cercando di indovinare a cosa potesse servire. Forse era il tappo di una bottiglia.
«Dove l’hai trovato?».
«Sul pavimento, tra la scrivania e la parete. Era seminascosto, l’ho visto solo quando mi sono seduta».
«Potrebbe essere il tappo di una bottiglia».
«Un tappo di lusso» commentò lei.
Avendo l’abitudine di annusare qualunque cosa mi capiti in mano, mi portai l’oggetto al naso. Odorava di fiori e spezie.
«Credo sia il tappo di un profumo. A Sani piacevano quelli forti». Il Samsara di Guerlain appoggiato sulla scrivania mi dava ragione.
«Andiamo» dissi, dandole la mano e aiutandola ad alzarsi.
Una volta uscite, mi fermai per controllare che la porta fosse ben chiusa. «Visto che siamo già qui, potremmo fare un salto dai vicini».
«Quali vicini?».
«I Soner. Abitano proprio qui davanti, magari hanno visto…».
Naz m’interruppe bruscamente.
«No, non ci vengo».
«Ma stanno qui a due passi».
«No!». Era inutile insistere, non voleva saperne. Per quale motivo? Era ancora arrabbiata con Orhan perché era tornato a casa lasciando Sani da sola in America? Okay, niente visita ai Soner, ma non mi sarei accontentata di due tazzine. Visto che ormai ero a Paşabahçe, volevo di più.
«Potremmo parlare con il custode».
«D’accordo».
«Sai dove possiamo trovarlo?».
«Credo abiti qui intorno».
«Scommetto che in quel negozio lo sanno. Andiamo».
Nella misera bottega vicino al complesso trovammo una ragazza seduta davanti a uno scaffale pieno di alcolici. La giovane non ebbe problemi a indicarci la strada per arrivare a casa del custode.
«Incredibile!» esclamai una volta uscita. «A Kuledibi c’è soltanto un negozio che vende alcolici, mentre qui basta entrare nella prima bottega…».
«È normale, a Paşabahçe gli alcolici sono di casa» rispose Naz. «Non senti questo odore?».
Certo che sentivo il delizioso profumo di anice proveniente dalle vicine fabbriche di rakı, chiuse in tempi recenti. In effetti veniva voglia di bere.
«I musulmani non vogliono vivere vicino a una fabbrica di rakı, quindi le persone che abitano qui sono tutte piuttosto liberali».
«Scherzi?».
«No, è davvero così. Almeno stando a quello che mi hanno raccontato. In fondo è logico: se bere alcolici è peccato, forse non si può neanche inspirarne l’odore».
Avevamo raggiunto una casetta che corrispondeva perfettamente alla descrizione della giovane bottegaia. Naz suonò il campanello.
«Conosci il custode?» chiesi a bassa voce.
«No, come potrei? Ti ho già detto che sono stata qui solo una volta per prendere i miei genitori».
Quando sulla soglia apparve una donna, immaginai che fosse la moglie del custode. Dimostrava più o meno cinquantacinque anni, ma probabilmente ne aveva solo quarantacinque. Le donne che vivono in periferia e per lavoro fanno le pulizie sembrano sempre più vecchie di almeno dieci anni.
La signora ci guardò aggiustandosi il fazzoletto che aveva in testa.
«Buongiorno, sono la sorella di Sani Ankaralıgil» disse Naz.
«Ah, ecco perché mi ricordava qualcuno! Le somiglia tantissimo. Prego, entrate».
Ci levammo le scarpe e le lasciammo su un giornale aperto vicino alla porta.
«Scusate, ma è quasi ramadan e ho un sacco di cose da fare».
«Ci scusi lei se la disturbiamo così, all’improvviso...».
«No, nessun disturbo. A proposito: condoglianze».
Ci condusse in un ampio soggiorno. Al centro della stanza era situata una piccola stufa, circondata da cuscini su cui sedersi. Su una parete faceva bella mostra di sé un enorme televisore al plasma, sicuramente l’oggetto più costoso di tutta la casa. Beh, anche nel mio appartamento un televisore del genere sarebbe stato l’oggetto più costoso, ma questa è un’altra storia.
«Volete che accenda la stufa?».
«Non fa freddo» risposi.
«Allora preparo subito il tè. Di solito c’è anche la nostra nuora più giovane, che vive qui con noi, ma oggi è andata a trovare lo zio».
«È molto gentile, ma non c’è bisogno che faccia il tè. Stiamo bene così» intervenne Naz.
In realtà io ne avrei bevuto volentieri un bicchiere, ma non fiatai.
«No, un bicchiere di tè dovete assolutamente berlo. È il minimo!» ribatté la donna con un sorriso, scomparendo poi in cucina.
Poco dopo era di nuovo con noi in soggiorno. «Mi dispiace davvero per sua sorella. Una donna così giovane e bella… Qualcuno le ha fatto il malocchio, poco ma sicuro. È caduta proprio in modo da battere la testa...».
«È stato suo marito a trovarla?».
«Sì. Io non c’ero. Il giovedì vado sempre da una signora anziana che abita a Kandilli. Sono tanti anni che la aiuto, non vuole nessun altro».
«Quindi suo marito è andato da solo a casa di Sani».
«Ha ricevuto una chiamata della signora Aylin e ha detto: “Vado subito a controllare”. Io faccio le pulizie a casa della signora Sani due volte a settimana, per cui ho la chiave. Ma non la lascio mai in giro. Qui figli e nipoti vanno e vengono in continuazione, non voglio correre il rischio di perderla. Quel giorno mio marito non riusciva a trovarla, quindi mi ha chiamato al cellulare – me l’ha regalato il mio figlio più grande l’anno scorso – e mi ha chiesto dove l’avevo messa. Poi è andato a casa della signora Sani e l’ha trovata lunga distesa sul pavimento. Ma non ha toccato niente. I poliziotti sono stati contenti, hanno detto: “Bravo, ha fatto bene”. Mio marito è uno sveglio. Non ha studiato, ma la testa la sa usare. Non a caso l’hanno fatto custode. Gli altri vogliono sempre sapere da chi ha avuto il lavoro. Da nessuno! Non conosciamo persone che possono procurare un lavoro. Hanno scelto lui perché è sveglio».
«In quali giorni andava a fare le pulizie da Sani?».
«Martedì e venerdì. Poi vado dalla signora Sibel il lunedì e il mercoledì. E a Kandilli il giovedì. Il tempo che mi avanza lo passo coi miei nipoti».
«È andata anche quel martedì?».
«Certo. Non ho mai saltato un giorno. Per un paio di settimane ho avuto mal di denti, ma sono andata comunque».
«Ha incontrato Sani?».
«No. La signora non voleva essere disturbata la mattina presto, quindi sono sempre andata più tardi. Non c’era molto da fare, visto che viveva sola. Di solito mezza giornata era più che sufficiente».
«A che ora ha finito martedì?».
«Prima di sera».
Cosa significava esattamente?
«Non ha visto Sani neanche prima di lasciare la villa?».
«No, non era ancora tornata».
«In genere a che ora rincasava?».
«Mai prima della chiamata serale. A volte neanche prima di quella notturna».
Ci misi un attimo, ma poi capii: la signora usava come punto di riferimento le chiamate alla preghiera del muezzin. Ma come poteva pretendere che sapessi a che ora venivano lanciate?
«A che ora viene fatta la chiamata della sera?» sussurrai all’orecchio di Naz.
«Adesso più o meno alle sei e mezza, credo».
«Sì, alle sei e mezza» confermò la moglie del custode. «Ogni giorno si anticipa di qualche minuto».
Considerando quest’ultimo particolare, il giorno della morte di Sani il muezzin doveva aver lanciato la chiamata serale intorno alle sette.
«Sa se quella sera Sani è rientrata?».
«Ho visto la luce accesa».
«Dopo la chiamata serale?».
«Sì, era già tardi quando l’ho vista. La madre della mia nuora più grande era appena tornata dal paese e così siamo andati a farle visita. Proprio quel martedì. Mentre tornavamo a casa, ho notato che dalla signora Sani c’era la luce accesa. Il giorno dopo, quando mi sono alzata per la preghiera mattutina, era ancora accesa. L’ho detto anche a mio marito».
«E poi?».
«È rimasta così. Mercoledì sera era accesa e anche giovedì mattina».
«Sa se c’era qualcun altro con Sani? Magari ha portato a casa un amico».
«Si vergogni!» rispose la donna, scandalizzata dal fatto che mettessi in dubbio la moralità della defunta. «La signora Sani era una brava persona, non l’abbiamo mai vista con nessuno. La gente è sempre pronta a immischiarsi e a sparlare, soprattutto se una donna è separata. Non si fermano neanche di fronte alla morte. Allah mi è testimone, io non dico bugie. A casa della signora Sani non c’è mai stato nessun amico».
«Magari non se n’è accorta. Non può vedere tutto» azzardò Naz.
«Invece sì, con l’aiuto di Allah» ribatté la signora. Non diedi molta importanza alla sua risposta; credevo avesse detto così tanto per dire.
«Perché giovedì mattina, vedendo che la luce era ancora accesa, non ha fatto niente?».
«Non ho fatto niente? Ho avvisato mio marito, che ha chiamato il signor Cem».
«Davvero?». Era la prima volta che sentivo questa cosa.
«Sì».
«Tu lo sapevi?» chiesi a Naz, che però sembrava sorpresa quanto me.
«Poi, mentre ero al lavoro, la signora Aylin ha chiamato mio marito e gli ha chieso di andare a controllare».
«Ma voi avevate telefonato a Cem».
«Sì, è quello che ho detto».
«E come mai avete il suo numero di telefono?».
«Ce l’ha dato lui».
Cem Ankaralıgil aveva dato il suo numero di telefono al custode del complesso in cui abitava la moglie in attesa di divorzio. Forse era normale. Di sicuro era stato utile.
«Quando è successo?».
«Un giorno. È venuto qui, ha preso un tè e ci ha lasciato il numero di telefono. Anzi, del cellulare. Mio marito ha detto che è davvero un brav’uomo. Voleva addirittura offrire un lavoro al mio figlio più piccolo. Lui lavora già per un fabbricante di bottoni, ma la paga è troppo bassa, non ci basta».
«Perché vi ha lasciato il numero?».
«Perché quando cucino sono sempre davanti alla finestra. Mi occupo io dei pasti. A mia nuora ho detto: “Tu potrai cucinare a casa tua, quando ne avrai una”. Non mi piacciono le cose che cucinano gli altri. Ognuno si regola a modo suo con il sale e con l’olio».
Cominciavo a provare un senso di angoscia.
«Dalla finestra della cucina vede la porta di Sani, giusto?».
«Sì. Se guardo fuori dalla finestra vedo proprio la sua porta d’ingresso. Il signor Cem mi ha detto: “Fa’ attenzione a tutti quelli che entrano o escono dalla villetta. Una donna separata è una specie di calamita per gli uomini. E poi lei è ancora giovane e bella. Non vorrei che qualcuno…».
«Quindi Cem le ha dato il numero di cellulare perché lo avvisasse in caso di movimenti sospetti. Ho capito bene?».
«Sì».
«Posso guardare fuori dalla finestra?».
«Certo, venga». Usando un ginocchio come punto d’appoggio, la signora si alzò dal cuscino su cui era seduta.
In effetti dalla finestra della cucina si vedeva bene la porta d’ingresso della villa di Sani. Mentre la moglie del custode versava l’acqua bollente sulle foglie di tè, tornai in soggiorno da Naz e mi accorsi che aveva le lacrime agli occhi.
«Perché Cem si è messo d’accordo con queste persone per controllare mia sorella? Perché?».
«Dalla cucina si vede solo la porta principale. Se qualcuno ha usato quella sul retro, qui nessuno se n’è accorto».
«Probabilmente mio cognato ha incaricato qualcun altro di tenere d’occhio quella porta. Credi che la signora si sia fatta pagare per questa cosa?».
«Se non lei, quel furbone di suo marito».
«Non vuoi parlare anche con lui?».
«Di sicuro l’ha già fatto la polizia. E poi la signora ci ha già detto tutto».
«Allora andiamo via».
La moglie del custode rientrò in soggiorno con un vassoio tra le mani.
«Ho preparato il börek2 per fare colazione durante il ramadan. Ve ne ho portato qualche pezzo da mangiare mentre il tè è in infusione».
«Ce ne andiamo» disse Naz.
«Cosa? Non potete. Non avete bevuto neanche un sorso!».
«Non vogliamo il suo tè» replicò Naz. Poi si alzò di scatto, s’infilò le scarpe e uscì come se avesse qualcuno alle calcagna.
Tornammo all’abitazione di Sani. Effettivamente la porta posteriore era visibile solo dalle case di fronte, che però sembravano vuote, e da una villetta con le tende di tulle un po’ spostata di lato.
«Chiediamo alle persone che abitano in quella villa» proposi.
«Credi che siano anche loro spie di Cem?» domandò Naz.
Sinceramente non m’importava. Che fossero o non fossero spie, volevo sapere se tra martedì sera e giovedì mattina qualcuno era entrato o uscito dalla casa di Sani usando la porta sul retro. Un “testimone oculare” mi avrebbe semplificato molto le cose.
Ci aprì una donna piuttosto anziana ma dall’aspetto energico con i capelli a caschetto.
«Buongiorno. Sono Naz Kaya, la sorella di Sani Ankaralıgil».
«Oh, condoglianze».
«Grazie».
«Se ha un po’ di tempo, vorremmo farle qualche domanda» spiegai.
«Il giorno dopo la scoperta del cadavere è venuto un poliziotto. Ho già raccontato tutto a lui».
«Se potesse parlare anche con noi, ci farebbe un grande favore. Non ci vorrà molto…».
«Ma certo, non volevo mandarvi via. Prego, accomodatevi».
La pianta della casa era identica a quella di Sani. Nella zona rialzata del soggiorno c’erano un divano e delle poltrone.
«Sono Leyla Kantar» disse la donna. Ci presentammo e le stringemmo la mano.
«Cosa posso offrirvi?».
«Niente, non ci tratterremo molto» risposi. Farle preparare il tè e non berlo sarebbe stato un vero spreco. E poi ci sarebbe rimasta male, come la moglie del custode.
«Mio marito è nella sua sala hobby. Se permettete, vado a chiamarlo. In due vi saremo senz’altro più utili».
Appena la signora ebbe lasciato la stanza, Naz si piegò verso di me. «Non credo che siano spie di Cem».
«Possono comunque aver visto qualcosa» le feci notare.
Poco dopo Leyla Kantar tornò con un vassoio su cui erano appoggiati quattro bicchieri e una bottiglia di vino.
«Spero che il vino rosso vi piaccia. Dicono che uno o due bicchieri al giorno facciano bene alla salute. Per noi ormai è un’abitudine: a fine giornata ci sediamo sempre qui e ne beviamo un po’ ammirando il panorama. Lo facciamo da quando siamo in pensione. Prima naturalmente non era possibile».
«Siete in pensione?». In realtà avrei voluto chiederle che lavoro faceva in precedenza, ma sapendo che i turchi di ceto medio non amano certe domande mi trattenni.
«Sì, da due anni» precisò lei.
«Io ho una libreria» dissi, sperando così di spingerla a rispondere alla domanda che mi frullava in testa.
«Che bello! Se le serve una mano, sono a disposizione». Scoppiammo a ridere. Era ovvio che stava scherzando; una donna come lei non si sarebbe mai offerta seriamente come aiutante di una libraia. «Quando lavoravo non avevo tempo per leggere» continuò. «Adesso invece non faccio altro. I libri mi sono sempre piaciuti, ma quando si lavora tanto…».
La curiosità ebbe il sopravvento. «Cosa faceva?».
«La pediatra. E mio marito è chirurgo».
In Turchia non mancano certo i medici. Eppure ogni tanto si sente dire che bisogna importarli dall’estero.
«Io sono cardiologa. Ho studiato a Cerrahpaşa» disse Naz.
«Noi a çapa. Ma ormai sono passati tanti anni».
«State parlando delle nostre avventure universitarie?» domandò un uomo alto e magro entrando in soggiorno. Ci strinse la mano con forza, strattonando il braccio come se volesse staccarlo dal corpo, e si presentò come Gani Kantar. Poi si rivolse a Naz. «Lei è la sorella di Sani, giusto? Le mie condoglianze».
«Grazie».
«Immagino che vogliate sapere se abbiamo notato qualcosa di strano».
«Esatto!» esclamai. «Cos’avete visto?». Era un comportamento da maleducata, ma non avevo tempo da perdere in convenevoli.
«Alla polizia non abbiamo detto niente perché non volevamo violare la privacy della nostra giovane vicina. E poi sembrava che l’omicidio fosse escluso».
«In effetti non sembra sia stato un omicidio. Però si tratta di una morte sospetta».
«Davvero?». Il signor Kantar guardò la moglie con aria perplessa, se non addirittura preoccupata. Forse per quello che avevano taciuto alla polizia.
«Visto che lei è la sorella, il procuratore le ha sicuramente fatto avere il rapporto dell’autopsia».
A dire il vero non ci era neanche venuto in mente di chiedere il rapporto al procuratore.
«Sì, ho letto il rapporto» rispose Naz, senza specificare da chi l’aveva ottenuto.
«I giornali parlavano di un incidente, quindi non abbiamo… Qual è la causa della morte?».
«Non si sa. Forse una malattia».
Gani Kantar inarcò le sopracciglia e accese una sigaretta.
«Quindi dall’autopsia non è emerso niente di rilevante».
«Secondo lei quale può essere la causa della morte?» domandai, felice di poter ascoltare il parere di un medico esperto. È proprio vero che le cose capitano quando meno te le aspetti.
«Beh, tutto è possibile. Può anche essere morta per un infarto di cui non si sono accorti durante l’autopsia» spiegò lui. «Ma la dottoressa Kaya lo sa senz’altro meglio di me».
In verità la dottoressa Kaya non sapeva un bel niente. Non aveva idea di quale fosse la causa della morte di Sani.
«Le hanno trovato un foro di siringa nel braccio» rivelò Naz. «Ma nel sangue e nell’urina non c’erano tracce di veleni o droghe».
«Questo non significa nulla. Ai miei tempi quelli di medicina legale cercavano una quarantina di sostanze tossiche. Ora saranno un po’ di più, diciamo quarantacinque. Cercano solo le più comuni. Se si utilizza una sostanza che non è mai stata usata negli ultimi cinquant’anni, le analisi di routine non la rilevano. Prendiamo per esempio un veleno estratto dalla radice di una pianta africana. Se qualcuno viene ucciso con una sostanza del genere, di sicuro dalle analisi non emergerà niente e nel rapporto del medico legale si leggerà che il soggetto è morto per cause imprecisate. In un secondo momento magari si scoprirà che il decesso è stato causato da una sostanza inizialmente non rilevata».
«Wow!» mormorai tra me e me.
«Sta dicendo che secondo lei è stata avvelenata?».
«No, sto solo dando ragione alla dottoressa Kaya, che trova sospetto il foro di siringa». In realtà la dottoressa non aveva espresso alcun sospetto; il signor Kantar voleva solo essere gentile.
«Veramente non avevo considerato la possibilità di un veleno insolito» confessò Naz.
«Non si preoccupi» disse la signora Kantar. «Ha appena perso sua sorella, è ancora sotto shock. Ci vuole tempo per superare un trauma del genere e tornare alla normalità. Anche sapendo bene come funzionano certe cose, nessuno riuscirebbe a ragionare con lucidità nella sua situazione». Oltre a Naz, queste parole tranquillizzarono anche me. Preferisco avere accanto una persona sotto shock piuttosto che una completamente fuori dal mondo.
«Quindi il rapporto non…».
«All’inizio si somigliano un po’ tutti. Sono formulati in modo da non escludere nessuna possibilità. Bisogna fare indagini più approfondite».
E così eravamo di nuovo al punto di partenza. Se non si può escludere niente, non è facile arrivare a una soluzione.
«Comunque non è detto che sia stata uccisa» proseguì lui. E in tono scherzoso aggiunse: «Certi delitti sono difficili da dimostrare. Qui la vera esperta è mia moglie».
«Dice così solo perché leggo tanti gialli».
«La capisco, nella mia libreria vendo soltanto quelli. Ma torniamo al motivo della nostra visita. Avete visto qualcosa di sospetto, vero?».
A rispondere fu l’uomo. «Non ci sembrava sospetto. Adesso che sappiamo che la signora Ankaralıgil non è morta per un incidente, ci dispiace di non aver raccontato tutto alla polizia».
«Possiamo sapere di che si tratta?».
«Magari non c’entra niente con la morte della signora».
«È possibile, ma vorremmo comunque sapere cos’avete visto».
«Il fatto è che alla nostra età non si riesce più a dormire tanto. Io mi alzo quasi sempre presto e vado nella sala hobby. La signora Ankaralıgil usciva spesso per fare jogging e la domenica prima della sua morte l’ho vista tornare a casa dopo l’allenamento. Non ci conoscevamo bene, ma ci salutavamo sempre da buoni vicini. Quella domenica non si è accorta di me».
«Però lei l’ha vista».
«Sì. Avevo già notato una Mercedes Classe A parcheggiata sul marciapiede. Sa, ho un debole per le auto e quella ha attirato la mia attenzione perché non è molto che viene venduta in Turchia. Guardandola bene mi sono accorto che c’era qualcuno al volante».
«Sembra che non abbiamo niente di meglio da fare che tenere d’occhio il circondario» osservò la moglie.
«Ma no, è stato un caso» replicò lui senza scomporsi.
«E poi? Sani è tornata a casa dopo aver fatto jogging e c’era quest’auto…». Stavo diventando impaziente.
«Vedendo arrivare la signora Ankaralıgil, la persona seduta al volante è uscita dalla macchina. Era un uomo piuttosto giovane. Credo che lei l’abbia riconosciuto. Si è arrabbiata e hanno cominciato a discutere. Non ho sentito cosa dicevano perché avevo le finestre chiuse, ma la signora non sembrava affatto contenta di vederlo. Poi sono venuti alle mani, o meglio, è stata lei a colpirlo e a spingerlo via. Lui non ha reagito, ma ho sentito comunque il dovere di intervenire. Quando sono uscito, la signora stava già aprendo la porta di casa e la Mercedes non c’era più».
«Era il marito di Sani?».
«Non credo. Non mi è sembrato lo stesso uomo che ho visto diverse volte sui giornali. Però non ne sono sicuro, mi ha dato le spalle per quasi tutto il tempo. Ho intravisto la faccia quando è uscito dalla macchina».
«Non vogliamo accusare nessuno» puntualizzò la signora Kantar.
«Cem Ankaralıgil ha più o meno trentacinque anni, no?».
Annuii.
«Quello della Mercedes era più giovane. Anche nel modo di vestire. Aveva dei pantaloni quasi uguali ai suoi».
«Era un tipo alto con i capelli biondo scuro?».
«Non saprei, era troppo lontano».
«In che punto era parcheggiata l’auto?».
Possibile che la moglie del custode non si fosse accorta di niente?
«La sala hobby è al pianterreno, rivolta verso la strada. Se volete dare un’occhiata…».
Ci spostammo nella stanza dove il padrone di casa coltivava i suoi hobby e guardammo fuori dalla finestra.
«Vedete il fico là in fondo? La macchina era parcheggiata più o meno a quell’altezza. Non so quand’è arrivata, comunque, dopo che me ne sono accorto, l’uomo ha aspettato ancora una ventina di minuti. Forse di più».
«Siete collegati a Internet?» domandai.
«Sì, ma attraverso la linea telefonica. Purtroppo in questa zona non è ancora disponibile l’ADSL».
«Devo solo mostrarle un paio di foto».
«Va bene, si sieda pure. Accendo il computer».
Cinque minuti dopo stavamo guardando le immagini che avevo trovato con Google.
«Sì, gli somiglia molto. L’ho visto solo di sfuggita, ma…». Si aggiustò gli occhiali sul naso.
«Ma…» ripetei per incoraggiarlo a finire la frase.
«Potrebbe essere lui».
«Grazie. Ci siete stati molto utili».
Era vero. Il signor Kantar mi aveva appena aiutato a smascherare un bugiardo. Perché mentire riguardo a un fatto del genere? Forse perché quel breve incontro con Sani era più importante di quanto potesse sembrare. 
2 Sfogliata ripiena tipica della cucina turca.

8






Come al solito, il lunedì mattina fui io ad aprire il negozio. Dopo circa mezz’ora trascorsa bevendo tè e navigando in Internet, la mia adorata libreria cominciò a sembrarmi una prigione. Inutile sperare che arrivasse qualche cliente; di primo mattino non entrava mai nessuno. La gente non pensa ai libri appena si sveglia, soprattutto il primo giorno di ramadan…
Vi capita mai, quando siete a casa o al lavoro, di sentire il tetto incombere su di voi in modo opprimente? Il mio vicino parrucchiere aveva sistemato una sedia sul marciapiede e si era seduto all’aria aperta. Normalmente non avrei seguito il suo esempio, ma non resistevo più in negozio. Portai fuori la sedia di legno che tenevamo nell’angolo cucina e mi sedetti davanti alla libreria.
Poco dopo qualcuno mi salutò dicendo: «Selamün aleyküm». Alzai gli occhi e vidi una coppia di uomini con baffi e capelli scuri. Indossavano due completi di colore beige sporco mal confezionati e sgualciti e cravatte simili a finimenti da cavallo. Avevano entrambi un enorme tamburo appeso davanti alla pancia.
«Sì?». Non mi sembrava giusto rispondere «Aleyküm selam», come fanno i musulmani.
«Siamo i vostri tamburi del ramadan» spiegò uno dei due, mettendomi in mano un foglio. «Mi raccomando, se viene qualcun altro e ti chiede dei soldi, non gli dare niente, sorella».
Sinceramente chiunque mi svegli all’alba a colpi di tamburo rischia di prendersi qualcosa di molto diverso da una mancia. Anche se è mio fratello. In ogni caso questo pensiero potevo tenerlo per me. Appena se ne andarono, diedi un’occhiata al foglio. Era la fotocopia di un avviso scritto a mano, con tanto di immagine dei due suonatori di tamburo. Diceva:
Cari abitanti di Bereketzade, anche quest’anno siamo noi i vostri tamburi del ramadan (vedere foto sopra).
Purtroppo negli ultimi anni persone che non c’entravano niente hanno fatto il giro del quartiere, spacciandosi per nostri parenti e raccontando che il nostro gruppo era composto da tre o addirittura da cinque elementi, e con questa scusa hanno intascato le vostre offerte. Come potete vedere dalle foto qui sopra, i vostri tamburi del ramadan sono solo due! Non date soldi a nessun altro, verremo noi a raccogliere le mance. Se si presentano altre persone, chiedete di vedere il permesso del sindaco, del consiglio distrettuale o della polizia. Vi ringraziamo in anticipo per la collaborazione e vi auguriamo un buon ramadan.
La commessa del negozio di articoli da regalo mi vide sorridere durante la lettura e si avvicinò senza esitazione. Evidentemente per gli altri sedersi davanti alla porta significava cercare compagnia.
«Non era vietato suonare i tamburi a Beyoğlu?» mi domandò.
Devo ammettere di non essere molto aggiornata al riguardo.
«Non lo so».
«Non c’è più nessuno che si fa svegliare dai tamburi» insistette lei.
A dire il vero preferisco non immischiarmi in certe cose. Gli stranieri e gli appartenenti alle varie minoranze devono accettare e rispettare le usanze turche, senza criticarle. Anche perché i turchi che vivono in Germania potrebbero protestare contro la frenesia degli acquisti che scoppia mesi prima di Natale e contro il fatto che la sera della vigilia e nei giorni successivi non si trova un bar aperto da nessuna parte.
«Quelli che rispettano il digiuno e vogliono alzarsi presto possono usare una normale sveglia, no? Perché disturbare quelli che non digiunano?».
Non avevo nessuna intenzione di esprimermi contro i suonatori di tamburo.
«È pur sempre un lavoro» osservai. «Gli uomini che suonano il tamburo sono in gran parte rom o disoccupati che vengono da fuori. Non è male che per un certo periodo possano guadagnarsi da vivere».
Il mio atteggiamento populista irritò leggermente la ragazza.
«A me sembra solo inquinamento acustico! Per fortuna in alcune zone hanno cominciato a organizzare dei concorsi per trovare i suonatori più bravi. Possiamo sperare che le cose migliorino».
Era la prima volta che sentivo questa storia dei concorsi.
«Cioè? I suonatori si esibiscono e una giuria dà i voti?».
«Non lo so, dico solo quello che ho letto sul giornale. Speriamo sia vero, così non dovremo più sentire questi che fanno solo un terribile fracasso».
Non risposi. La ragazza rimase dov’era ancora un attimo, poi capì che non avevo voglia di fare conversazione e se ne andò.

Verso mezzogiorno chiamò Naz.
«Credevo fossi a Lüleburgaz!» dissi.
«Aylin è tornata giovedì, abbiamo appuntamento oggi alle quattro. Spero che per te vada bene».
Certo che mi andava bene!
«Dove?».
«Alla Nişantaşı Brasserie».
A tutti quelli prevenuti contro i turchi consiglio di approfittare del primo viaggio a Istanbul per fare un salto in questo locale di Nişantaşı. Bisogna vestirsi in modo elegante, però. Se non volevo essere bloccata sulla porta e cacciata via come una pezzente, per qualche ora avrei dovuto rinunciare ai miei pantaloni larghi e alle scarpe da ginnastica.
Fofo era rimasto fuori fino a tardi; quando avevo spento la luce, a notte fonda, non era ancora rientrato. Lo chiamai e dalla voce capii subito che l’avevo svegliato. Fantastico! Mi trascinava in una nuova indagine, ma poi preferiva poltrire anziché darmi una mano.
«Si può sapere dove sei? Ti ricordo che il lunedì dovresti presentarti in negozio alle dieci. Cosa diavolo hai fatto ieri sera?».
«Credo di aver bevuto troppo. Comunque arrivo subito».
Lo rimproverai ancora un po’ e dopo un quarto d’ora lo vidi entrare in libreria. Non si era neanche lavato.
Gli misi sotto il naso l’orologio che avevo al polso. «È questa l’ora di venire al lavoro? Vergogna!».
«Hai ragione. Domani mattina apro io, va bene?».
«No, non va bene per niente!». Il martedì veniva Fatma. Non volevo che mi trovasse a casa, altrimenti mi avrebbe fatto lavorare come un somaro.
«Come mai stanotte sei tornato così tardi?».
«Ho conosciuto una persona».
«Ah! Io fatico e tu ti diverti!» gridai strabuzzando gli occhi. Poi cercai di calmarmi. Sapevo di non poter fare nulla per impedire che Fofo perdesse la testa per un nuovo amore, quindi, mezza curiosa e mezza rassegnata, chiesi: «Ti sei innamorato?».
«Ma no, era un tipo da wham bam thank you ma’am. Non ci si può innamorare di uno così».
«Non sono sicura di aver capito». In realtà una mezza idea ce l’avevo…
«E come te lo devo spiegare? Un tipo da una botta e via. Ti preparo un tè verde?».
«No, scappo subito. Devo incontrare Aylin alla Brasserie».
«Forse se avessi un paio di pantaloni Gucci e scarpe di Stella McCartney. Con quello che hai indosso non riuscirai neanche ad avvicinarti alla Brasserie». Mi guardò con aria di compatimento.
«Proprio per questo devo andare subito a casa a cambiarmi».
«Ti consiglio di mettere i pantaloni neri che hai comprato l’anno scorso durante i saldi, la camicetta bianca e le scarpe rosse con il tacco a spillo. Farai un figurone».
«Scherzi? Con quelle scarpe non arriverei neanche alla fermata dei taxi!».
«Usa il servizio Pera Taksi, così vengono a prenderti sotto casa».
Il mio Fofo è bravissimo a trovare soluzioni semplici a problemi apparentemente complicati. Adesso capite perché gli voglio tanto bene?
«L’autista mi tirerà qualche accidente se lo costringo ad affrontare il traffico infernale di Nişantaşı. Il primo giorno di ramadan, per di più. Magari non ha mangiato niente tutto il giorno…».
«Ah già, oggi è iniziato il ramadan. L’avevo dimenticato. Non importa, basta che gli dai la mancia. E poi quelli di Pera Taksi sono molto gentili».
«Okay, mi hai convinto». Normalmente non do la mancia ai tassisti di Istanbul. Il servizio fa schifo, perché dovrei pagare più del dovuto?
Per fortuna Fofo mi aveva tranquillizzato. Il pensiero di dovermi vestire elegante per poi girare mezza Kuledibi in cerca di un taxi mi metteva ansia.
«Vado, ci vediamo più tardi. Stasera ti trovo a casa, vero?».
«Eh, sto diventando vecchio…».
«E questo che c’entra?». Come potete immaginare, non avevo tempo per i problemi esistenziali del mio amico. Mi stavo arrabbiando di nuovo quando il mio dolce Fofo se ne uscì con questa frase: «Le serate in cui mi sento meglio sono quelle che passo a casa con te».
Avevo l’impressione che l’avesse tradotta da un’altra lingua. Non era sbagliata, ma suonava strana. Lasciai il negozio cercando tra me e me una forma migliore per esprimere lo stesso concetto.
Le serate più belle sono quelle in cui sto a casa con te.
Preferisco stare a casa con te piuttosto che uscire. È più piacevole.
Sei una donna molto piacevole. Non c’è niente di meglio che trascorrere una serata con te.
Oltre che piacevole, sei anche bella. In una parola: fantastica.

Mentre aprivo la porta di casa mi suonò il telefonino. Per trovarlo dovetti rovistare nella mia enorme borsa. Era Fofo.
«Che c’è?».
«Mettiti anche la collana d’argento. Quella lunga».
Mio Dio! Non dovevo mica andare a una sfilata di moda!
«Okay, ciao».

Appena imboccata Abdi İpekçi Caddesi ci ritrovammo in coda. E che coda! Eravamo bloccati, non si avanzava neanche di un millimetro. Tutt’intorno c’era gente che urlava. Qualcuno era uscito dal parcheggio con una jeep grande quanto un transatlantico e nella manovra aveva urtato il paraurti di un’auto in sosta (una lussuosa Porsche grigio fumo, se vi interessa). La donna al volante della macchina in fila davanti a noi continuava a suonare il clacson, mentre i parcheggiatori illegali non la smettevano di imprecare l’uno contro l’altro.
«È l’ora di punta prima della rottura del digiuno» disse il tassista.
«Meglio che scenda qui» risposi. «Così può girare e tornare indietro».
Nişantaşı non è certo paragonabile a Berlino, ma, diversamente dal resto di Istanbul, ha dei marciapiedi degni di questo nome. Raggiunsi la Brasserie avvolta in una nuvola di profumo proveniente dalle due donne che mi camminavano davanti. Naz e Aylin non erano ancora arrivate. Mi accomodai a un tavolo nell’angolo in fondo a destra. Grazie alle pareti ricoperte di specchi potevo osservare tranquillamente sia le persone già sedute nel locale sia quelle che entravano. I clienti della Nişantaşı Brasserie amavano guardare e farsi guardare, quindi non c’era bisogno che mi controllassi.
A parte i pochi uomini che frequentavano il locale all’ora di pranzo o la sera subito dopo il lavoro, la clientela era composta principalmente dalle classiche “donne di Nişantaşı”. Non importava che avessero diciassette o settant’anni, sembrava fossero andate tutte dallo stesso chirurgo estetico a farsi raddrizzare il naso, gonfiare le labbra e tirare il viso. Avevano gli stessi abiti firmati, gli stessi lineamenti ridefiniti dal botulino, la stessa pelle rivitalizzata da iniezioni di cocktail vitaminici. Due o tre volte alla settimana, poi, andavano al centro di abbronzatura. Sinceramente trovo abbastanza ripugnante il colorito rosso-aranciato di chi si fa la lampada, ma guardare certe donne è uno spasso.
Decisi di prendere un caffellatte, anche se stavo esagerando col caffè e lo sapevo. Per non sentirmi troppo in colpa optai per un decaffeinato.
«Un caffellatte decaffeinato e un bicchiere d’acqua» dissi alla cameriera.
Lei ripeté l’ordine in inglese, come se avesse capito che non ero turca e volesse farmi un favore.
«Non c’è bisogno che parli inglese, conosco bene il turco».
«Sorry, I don’t speak Turkish, I’ll call my colleague» replicò lei, facendo un cenno in direzione del collega fermo vicino al bancone.
Non fraintendetemi, non ho niente contro gli stranieri, ma vi sembra normale che in un locale di Istanbul ci sia una cameriera che non sa il turco?
Poco dopo arrivarono Naz e Aylin. Rimasi molto sorpresa vedendo che la migliore amica di Sani era una perfetta donna di Nişantaşı con capelli lunghi e lisci tinti di biondo, nasino all’insù e taglia da modella. Portava un paio di jeans a vita bassa e scarpe con il tacco talmente alto da scoraggiare chiunque. Naturalmente si era messa anche una buona dose di profumo; una fragranza dolce e inebriante, anche se non saprei dire quale.
Per entrambe fu antipatia al primo sguardo. Comunque, se le avessi fatto buona impressione, di sicuro non me ne sarei accorta. Le donne di Nişantaşı si sentono superiori a tutti gli altri e non fanno niente per nasconderlo. Se per esempio urtano qualcuno per strada, invece di scusarsi reagiscono con una smorfia disgustata. Capiamoci: non si comportano così solo con le persone normali, ma anche tra di loro. Probabilmente esiste una regola non scritta secondo cui il più arrogante è anche il più ricco.
Servire una donna del genere doveva essere una tortura. Forse era per questo che avevano assunto una cameriera che non conosceva il turco. La ragazza era senz’altro meno stressata e infelice di chi capiva ogni singola parola.
Mi venne in mente Sevim, la segretaria dell’associazione. Una come lei non aveva nessuna possibilità contro Aylin. Chissà cosa aveva dovuto sopportare al lavoro. In fondo non c’era da stupirsi che fosse un po’ rincitrullita.
Forse Sani era come la sua amica. In questo caso c’erano sicuramente molte persone che avrebbero assistito volentieri alla sua morte senza muovere un dito.
«È vero che il giorno in cui è stato scoperto il corpo ha ricevuto una chiamata da Cem Ankaralıgil?» chiesi alla bionda Aylin.
«Sì, Cem mi ha chiamato e ha detto che Sani era scomparsa da un paio di giorni e non rispondeva al cellulare. Ho chiamato l’ufficio, ma non si era fatta vedere neanche là. Allora Remzi, mio marito, mi ha consigliato di avvisare la polizia. E così ho fatto. Quando siamo arrivati a casa di Sani, loro erano già sul posto». Parlava in modo nasale, arrotando la erre alla maniera delle ricche stambuliote.
«Naz le avrà spiegato che…».
«No, non mi ha spiegato niente» m’interruppe lei.
Naz le raccontò in poche parole com’era morta Sani.
«È assurdo! Questa persona l’ha vista cadere e se n’è andata lasciandola dov’era? Ma in che razza di mondo viviamo?».
La scrutai in volto per capire se era davvero dispiaciuta. E in effetti mi sembrò così. Fu una sorpresa.
Aylin e Naz ordinarono rispettivamente un tè alla mora e un caffè espresso. In inglese, ovvio.
«Dovreste parlare con Remzi» disse la signora Aköz, rivolgendosi alla sorella di Sani. «Il suo numero ce l’hai, vero?».
«Ma voi due eravate amiche. Forse sa qualcosa che potrebbe aiutarci» m’intromisi.
«Cosa dovrei sapere?».
«Pare che Sani e Cem avessero un accordo prematrimoniale. Cosa può dirci al riguardo?».
«Ve lo ripeto: dovreste parlare con Remzi. Si stava occupando lui del divorzio».
«E come stava andando? C’erano problemi tra Sani e il marito?».
«Problemi?». La signora fece una risatina beffarda. «Certo che c’erano! Lui non voleva darle una lira. Era disposto a tutto pur di non pagarla».
«Ma non l’avrebbe lasciata morire in questo modo…».
«Oh sì! Forse non l’avrebbe uccisa con le sue mani, ma l’avrebbe sicuramente guardata morire con estremo piacere».
Sbalordita, lanciai un’occhiata a Naz. Non mi aveva detto che Aylin era amica di Cem? E lui non era una specie di angelo? Non capivo più niente.
La signora Aköz spostò indietro i capelli e osservò le persone sedute agli altri tavoli.
Avevo perso il filo, non sapevo più cosa chiederle.
Poi lei concentrò di nuovo l’attenzione su di noi e chiarì: «Gli uomini sono capaci di tutto».
«È successo qualcosa?» domandò Naz, confusa quanto me. «Qualcuno ti ha fatto arrabbiare?».
«Arrabbiare?». Si portò una mano alla fronte. «Sì, e anche parecchio».
«Cos’è successo?».
Come se stesse aspettando solo questa domanda, Aylin cominciò a raccontare.
«Il giorno della morte di Sani sono andata a Paşabahçe con Remzi. Al ritorno – erano le sei passate – lui ha voluto fare un salto in ufficio per prendere dei documenti e io l’ho accompagnato. Appena ho messo piede nello studio, la segretaria è impazzita. Ha cominciato a correre di qua e di là, poi mi ha offerto una poltrona in anticamera e ha fatto di tutto per tenermi fuori dall’ufficio di mio marito. Anche lui sembrava molto nervoso. Alla fine, quando ha cercato di portarmi via, mi sono insospettita, ho spostato tutti e due e sono entrata. Dentro c’era una donna. Sembrava la copia di Kylie Minogue. Remzi si è affrettato a presentarmela dicendo: “Questa è la signorina Şelale, una mia cliente”. Şelale. Che nome orribile!».
Non c’era bisogno che aggiungesse altro, avevamo capito benissimo chi era quella signorina. O meglio, cos’era. Per un attimo restammo sedute in silenzio. La storia di Aylin ci aveva toccato nel profondo. Non so perché. Forse per l’espressione sul suo viso mentre raccontava.
«Ha intenzione di divorziare?» m’informai.
«Ci sono donne che perdonano e vanno avanti, ma io non ci riesco. Sì, voglio il divorzio. Mi sono già trovata un avvocato».
«Sei sicura?» chiese Naz.
«Non ho scelta, non posso continuare così. A dire il vero, prima di venire qui sono stata proprio dall’avvocato. Presto sarò una povera divorziata. Volete sapere cos’ha detto lui? “Ho una casa e un’auto a trazione integrale. Se si accontenta della metà, bene. Altrimenti peggio per lei”. Insomma, vuole farmi credere che non ha nient’altro. Sembra quasi che debba essere io a mantenere lui. Ma scherziamo? Oltre a fare l’avvocato si occupa anche di edilizia. Putroppo tocca a me dimostrare che possiede molto più della casa e della macchina. Come faccio a sapere dove ha nascosto i soldi? Tra l’altro, se voglio un risarcimento, devo anche provare che mi ha tradito».
«Quindi? Cosa farai?».
«Non ne ho idea. È chiaro che vuole farmi rinunciare al divorzio. “Deve tornare da me e fare pace, altrimenti non vedrà più di quello che adesso dà al parrucchiere come mancia”. Così ha detto al mio avvocato. Che bastardo!».
«Immagino che tu non abbia nessuna intenzione di fare pace».
«No, infatti. Preferisco pagare un investigatore privato per avere le prove del tradimento».
Sicuramente Naz le aveva raccontato che mi occupavo di investigazioni. Dato che Aylin mi stava fissando con sguardo penetrante, mi sentii obbligata a dire qualcosa.
«Non mi occupo di tradimenti».
Magari avrà pensato che volevo spuntare un prezzo più alto, in ogni caso non insistette. «Certo che la vita è strana. Vedevo Sani e Cem litigare e pensavo: “A me non capiterà, Remzi è diverso. Non ci saranno mai amanti o problemi di soldi tra di noi”. È stato bruttissimo scoprire che mi sbagliavo».
Per anni aveva vissuto come Alice nel paese delle meraviglie e all’improvviso… Beh, sono cose che succedono. Non auguro a nessuno di uscire dal bozzolo e andare a sbattere contro la dura realtà, ma in quel momento non avevo voglia di ascoltare Aylin che si lamentava di quanto fosse crudele la vita.
«Mi parli ancora un po’ di Cem. Lo considera davvero un potenziale assassino?».
«Non so se sarebbe capace di uccidere, ma ha minacciato Sani in modo molto esplicito. Magari gli uomini si comportano tutti così quando devono divorziare. Le donne strillano e loro ricorrono alle minacce. Una volta ha detto: “Se Sani vuole il divorzio, lo avrà. Ma poi dovrà tornarsene in quel buco di paese da cui è venuta”».
«Gliel’ha raccontato Sani?».
«No, l’ho saputo da Remzi. Ma può darsi che Cem l’abbia detto anche a lei. Non lo so, Sani non parlava mai del divorzio. Non parlava di niente».
«Perché?».
«Era molto riservata. Anzi, più che riservata. Non si fidava di nessuno, forse perché aveva avuto un’infanzia e un’adolescenza piuttosto difficili… Tu che dici? Sei d’accordo?».
Naz annuì.
«Proprio quando cominciavo a pensare che avrebbero presto avuto un figlio, Remzi è venuto a dirmi che lei voleva il divorzio. Non immaginavo che il loro rapporto fosse in crisi. Con me Sani non si è lasciata sfuggire neanche una parola. Tu lo sapevi?».
Naz scosse la testa.
«Si è rivolta a mio marito perché fa l’avvocato e poteva darle un consiglio, ma a me non ha detto niente. Era fatta così. Può darsi che sia stata anche colpa mia. Forse le facevo un po’ pesare il fatto che non venivamo dallo stesso ambiente».
«Cioè? La guardava dall’alto in basso?».
«No, però sapevo che eravamo diverse. Le esperienze che avevamo alle spalle erano diverse».
«E sulla base di queste esperienze si sentiva avvantaggiata rispetto a Sani».
«Esatto. Ha espresso benissimo il concetto».
Beh, quando si ha una padronanza assoluta della lingua…
Ero sorpresa e incuriosita da questa donna di Nişantaşı che all’improvviso aveva cominciato a dire cose intelligenti. Dov’era finita Alice nel paese delle meraviglie?
«Non importa chi siamo e da dove veniamo» continuò Aylin. «Quando mettiamo il nostro destino nelle mani di un altro, ci ritroviamo tutte nella stessa situazione. Remzi mi ha detto: “Ti farò tornare a Şişli, nel misero appartamento di tuo padre”. Ma vi sembra possibile? Mio padre era ambasciatore. Devo vergognarmi perché con quello che ha guadagnato in vita sua non ha potuto permettersi niente di meglio che un appartamento a Şişli?».
Mi sembrava strano che un ambasciatore guadagnasse così poco, ma non volevo indagare. Magari aveva perso tanti soldi al tavolo da gioco. E comunque non mi riguardava.
«Sa se Sani teneva un diario?».
«Un diario? No, non lo so. Perché me lo chiede?».
«Perché da piccola ne aveva uno» spiegò Naz.
«Ha saputo del furto nell’ufficio di YeTer, vero?».
«Cosa? No. Dev’essere successo mentre ero all’estero. Sono partita subito dopo il funerale di Sani. Due shock in un giorno solo sono troppi, avevo bisogno di allontanarmi per un po’. Ma nell’ufficio di YeTer non c’era niente da rubare. Cos’hanno preso?».
«I computer. Forse contenevano qualche informazione ricollegabile alla morte di Sani».
«In memoria c’erano solo cose di lavoro, dati sull’inquinamento. Niente di personale. Tutto il resto sarà nel suo portatile. Perché avrebbe dovuto memorizzare le sue cose in un computer accessibile a tutti?».
«Anche il portatile è sparito».
«Era in ufficio?».
«No, probabilmente era a casa di Sani. Qualcuno l’ha portato via».
«Interessante. Perché prendere… Un attimo, forse il diario era proprio nel portatile!». Non male. Non credevo avesse un simile intuito. Forse ero troppo prevenuta nei confronti delle donne di Nişantaşı.
«Dice?».
«Sani non sapeva neanche più tenere in mano una penna. Si portava sempre dietro una stilografica, ma si lamentava ogni volta che la doveva usare. Chi tiene un diario ci scrive spesso, un giorno sì e uno no. Ma se gli viene un attacco di nervi ogni volta che stringe una penna… Di sicuro Sani non scriveva a mano».
«Sono d’accordo» dissi. «Ma è evidente che qualcun altro è giunto alla stessa conclusione prima di noi. Dopo che i computer sono spariti…».
«Dev’essere stato qualcuno che la conosceva bene».
«Comunque non è detto che avesse un diario e che fosse in uno dei computer rubati. Il furto potrebbe anche essere legato all’attività dell’associazione…».
«In che senso?» domandò Aylin.
«Mi riferisco agli imprenditori che inquinano la Tracia. Forse c’entrano qualcosa. Forse nei vostri computer c’erano informazioni che avrebbero potuto metterli in ginocchio».
«Se è così, non ne so niente. Dovete parlarne con Remzi. Ha fatto una ricerca approfondita per capire come procedere contro gli inquinatori. Ci voleva qualcosa che avesse valore anche in tribunale».
«Cosa mi può dire della segretaria?».
«Non molto. Suo fratello ha problemi mentali. È malato, devono tenerlo sotto controllo. Lei ha chiesto diversi permessi per accompagnarlo dal medico e ogni volta il lavoro si è accumulato. Io l’avrei licenziata subito, ma Sani si è lasciata intenerire. E questo è tutto quello che so».
«Come ha conosciuto Cem Ankaralıgil?».
«Mio padre ha svolto il suo ultimo incarico da ambasciatore a Washington. Cem e io ci siamo conosciuti là, grazie all’associazione degli studenti turchi. Sa, sono stata proprio io a presentargli Sani».
«Conosce i genitori di Cem?».
«Li ho visti due o tre volte. Sono persone piuttosto schive, non fanno vita mondana. La madre è una signora molto gentile, viene da un’antica famiglia stambuliota. Il padre è un uomo d’affari di successo. Però non li conosco bene».
«Hanno altri figli?».
«So che Cem ha una sorella più grande che vive a Bodrum. Fa la pittrice, ma i suoi quadri… beh, diciamo che non sono esattamente il mio genere. Non la sto criticando, è solo che dipinge sempre lo stesso soggetto».
«Cioè?».
«Clown. Sorridenti, in lacrime, felici, malinconici… Ho sentito che sta con un uomo molto più vecchio di lei, un ex cantante da taverna che ora si esibisce nei locali notturni di Bodrum».
«Immagino che la madre non sia tanto contenta di questa cosa. Se non sbaglio, era contraria anche al matrimonio tra Cem e Sani».
«La madre? Intende Tamaşa Ankaralıgil?».
Feci cenno di sì. Perché era tanto sorpresa?
«La sorella di Cem non è figlia della signora Tamaşa, è nata dal primo matrimonio di Bahri Ankaralıgil».
«Ah!». Era una notizia molto interessante. Senza dubbio la sorellastra “ribelle” mi avrebbe raccontato volentieri i segreti più nascosti della famiglia Ankaralıgil.
«Come si chiama?».
Aylin corrugò la fronte e si sforzò di ricordare il nome. «Ora non mi viene. Naz, aiutami tu».
«Non posso, è la prima volta che sento parlare di questa sorella».
«Va be’, vedrò di scoprire come si chiama e ve lo farò sapere. Volete qualcos’altro? Io prendo un’insalata».
Ordinai un tè. «Allora, torniamo a Cem e Sani. Cosa sa del loro accordo prematrimoniale?». Avevo l’impressione di aver già fatto questa domanda.
«Come le ho già detto, dovrebbe parlarne con Remzi» rispose lei. Poi, appoggiando il mento su una mano, rifletté un attimo e aggiunse: «Comunque questi accordi sono tutti uguali. In caso di divorzio ognuno si tiene la sua parte, ovvero ciò che è registrato a suo nome. Non si possono avanzare pretese sui beni dell’altro. Normalmente il patrimonio viene invece diviso in parti uguali. Gli accordi prematrimoniali servono a tutelare gli interessi degli uomini».
«A quelli delle donne non ci pensa nessuno, ovviamente».
«In certi casi si può fare qualcosa. Per esempio, se io riuscissi a dimostrare che Remzi mi ha tradito, avrei comunque un risarcimento. Ma la mia situazione è molto diversa da quella di Sani. Cem non aveva nessuna colpa e non voleva divorziare. Qui in Turchia si può ottenere un risarcimento solo dimostrando la colpa del marito. In Europa funziona diversamente, la donna ha sempre diritto a ricevere dei soldi. Una somma mensile oppure un unico pagamento al momento del divorzio. Almeno così dice il mio avvocato. Sapete quanto ha preso la ex moglie di Luciano Pavarotti?».
«Non ne ho la più pallida idea» confessai.
«Cento milioni di euro».
«Pavarotti il tenore?».
«Proprio lui. E provate a indovinare quanto vuole la signora McCartney».
Ci provammo, ma senza successo.
«Trecento milioni di euro. Il patrimonio di Paul McCartney è stimato in 1 miliardo e 200.000 euro e lei ne vuole un quarto».
«E il patrimonio di Cem?».
«Non lo so, ma la sua famiglia possiede una delle dieci holding più importanti della Turchia. Secondo me, Cem non aveva nessuna intenzione di divorziare, le sue erano minacce a vuoto».
«Scusate» disse Naz, «ma a sentirvi sembra che le donne vogliano solo i soldi dei mariti».
«Vogliono quel che è giusto» risposi.
«Non sono d’accordo. Non mi piace questo modo di vedere le cose».
«Quale modo?» domandò Aylin.
«Prendiamo Sani. Qui in Turchia avrebbe potuto trovare un ottimo lavoro in una grande azienda. Oppure sarebbe potuta rimanere in America, dove aveva già ricevuto un paio di offerte».
«Hai ragione».
«Invece cos’è successo? Cem ha storto il naso. Ha cominciato a dire che non la capiva, che non aveva nessun bisogno di lavorare… E alla fine Sani si è lasciata convincere, ha deciso di rinunciare al lavoro e si è dedicata ad altro».
Aylin annuì.
«Lo stesso vale per te, no? Prima di sposarti facevi l’interprete, il lavoro non ti mancava. Perché hai smesso?».
«Non potevo continuare. Ero sempre in viaggio. Frequenti soggiorni all’estero, due o tre volte a settimana ad Ankara…».
«Però ti piaceva e guadagnavi bene. Adesso sei costretta a mendicare due lire da Remzi».
«Già, è la cosa peggiore. Finisci per non credere più in te stessa».
«Sono molte le donne che smettono di lavorare dopo il matrimonio e perdono la fiducia in se stesse. Tra l’altro dopo un periodo di inattività non è facile ricominciare. E quando sei scoraggiata…».
«… non hai la forza di ripartire da capo» terminò Aylin. «Allora, secondo te cosa dovrei fare?».
«Riprendi la tua vecchia attività».
«Mmh, non credo che potrei tornare ai livelli di un tempo, comunque ci proverò. Forse riuscirò a conquistarmi un piccolo spazio sul mercato».
«Andiamo?». Non mi interessavano le chiacchiere di una donna in procinto di divorziare.
«Aylin non ha ancora mangiato la sua insalata» mi fece notare Naz. Diedi un’occhiata al piatto: era ancora pieno.
«Spesso incrociavo Sani al ristorante. A pranzo anche lei mangiava solo insalata».
«Era sempre a dieta» spiegò la sorella. «Non va bene, non è salutare. Gliel’ho detto un sacco di volte che non poteva stare in piedi mangiando così poco».
«Non mangiare è l’unico modo per dimagrire». Naturalmente queste parole uscirono dalla bocca di Aylin.
«Non è vero!» ribatté Naz. «Ma tanto fate quello che volete, è inutile che sprechi il fiato».
«In linea di principio hai ragione tu, la fame rende nervosi. Tra il divorzio e la dieta rigidissima, ultimamente Sani era piuttosto provata».
«Ah, ecco, quasi me ne dimenticavo. Vorrei chiederti ancora una cosa. Avevo consigliato a mia sorella di andare da uno psichiatra. Sai se l’ha fatto?».
«Ti ha detto che è venuta alle mani con un tassista?».
La risposta fu un no.
«Posso capirla» m’intromisi. «Certi ti tirano proprio fuori dai gangheri».
«È andata dallo psichiatra?» chiese di nuovo Naz.
«Sì, da uno di Nişantaşı. Aveva appuntamento con lui il venerdì prima dell’incidente. Ci siamo incontrate qui e poi è andata direttamente nel suo studio».
«Sai anche come si chiama?».
«Non gliel’ho chiesto. Però posso scoprirlo, so chi gliel’ha consigliato».
«Puoi informarti subito, per favore?».
Mentre Aylin digitava sulla tastiera del cellulare con le unghie alla francese, mi piegai verso Naz.
«Perché ti interessa lo psichiatra?».
«Per il foro di siringa che hanno trovato sul braccio di Sani. Magari lui ne sa qualcosa».
«Ma non ci dirà niente, c’è il segreto professionale».
«Voglio semplicemente la sua opinione. Non dovrà violare nessun segreto».
«Si chiama Ethem Tuğlacı» annunciò Aylin. «Tra un attimo avrò anche il numero di telefono dello studio». Un secondo dopo il suo cellulare si mise a suonare.
«Ripeti il numero a voce alta, così lo scrivo» suggerì Naz.
«Lo studio è in Rumeli Caddesi» disse Aylin e le dettò il numero.
«Chiama subito» la incitai. «Magari può riceverci oggi stesso».
«Okay, vado fuori».
«Ma fuori c’è troppo rumore».
«Può darsi, ma almeno posso parlare senza problemi».
Una volta rimasta sola con me, Aylin cominciò a tormentare l’insalata nel piatto. Non aveva voglia di mangiare e infatti poco dopo posò la forchetta.
«Non conosceva Sani, vero?».
«Come ho detto, ci vedevamo spesso a pranzo. Ma non la definirei una vera conoscenza».
«Secondo me era gelosa di Naz».
Non mi aspettavo un’affermazione simile; per un istante rimasi senza parole. «È normale che tra sorelle ci sia un po’ di gelosia» osservai, come se stessimo parlando di due bambine. In realtà non ho la minima idea di come funzionino certi rapporti. Mio fratello è molto più grande di me e se n’è andato di casa quando ero ancora piccola.
«Non parlo di normale gelosia. Sani era terribilmente invidiosa, sembrava quasi che la odiasse».
«Addirittura?».
«Sì. La invidiava in tutto. Una volta Naz si è tinta i capelli di scuro. Tempo un mese e anche Sani è passata dal biondo chiaro al castano. Casualmente».
Come vedete, la gente può trarre strane conclusioni anche dagli eventi più insignificanti.
«Forse è stata davvero una coincidenza».
«Allora perché si è disperata quando Naz è tornata al biondo?».
«Non lo so». Cos’altro potevo rispondere?
«Mi creda, non è stata una coincidenza. Un’altra volta Naz ha firmato un appello in difesa degli animali e una settimana dopo Sani si è schierata contro l’allevamento in batteria dei polli. Stesso discorso per le brutte esperienze di Naz. Quando le hanno portato via la borsa per strada, sono passati due o tre giorni e anche Sani si è scontrata con dei borseggiatori. Non le sembra un po’ troppo?».
«In effetti…».
«Ha notato l’incredibile somiglianza tra Sani e Naz?».
«Non ci trovo niente di strano, in fondo sono sorelle».
«Se vedesse le foto di quand’erano bambine, rimarrebbe a bocca aperta».
«Perché?».
«Pare che Sani si sia sottoposta a diversi interventi di chirurgia estetica per somigliare alla sorella. È andata dai dottori con una foto di Naz e ha detto: “Voglio diventare uguale a lei”».
«Ma non è così facile somigliare a qualcuno!».
«Forse, ma non è neanche impossibile. Si guardi intorno. Non le sembra che ci somigliamo un po’ tutte?». Indicò le altre donne presenti nel locale e infine se stessa. Aveva ragione, non c’erano grandi differenze. «Si dice che Sani si sia fatta operare quando era ancora all’università. Evidentemente aveva un problema che si portava dietro da tempo. Una specie di malattia».
Ero a dir poco sbalordita.
«Non credo avesse molti soldi ai tempi dell’università. E ce ne vogliono tanti per un’operazione di chirurgia estetica, no?». Perché non approfittare dell’occasione per informarsi sul costo di certi interventi?
«Dava ripetizioni di matematica e chimica agli studenti delle superiori» spiegò Aylin. «Un po’ di soldi li aveva».
«Come fa a saperlo?».
«Qui la gente chiacchiera, si sa tutto di tutti. È come vivere in una piccola città. Immagino che lei non sia di Istanbul…».
Secondo i suoi criteri di sicuro non lo ero.
«No» confermai. «Si parlava molto delle operazioni di Sani? Del fatto che volesse somigliare a Naz?».
«No, ma in certi ambienti si sapeva. Si diceva addirittura che avesse soffiato il ragazzo alla sorella».
«Orhan? Era il ragazzo di Naz?». La diretta interessata tornò al tavolo prima che potessi ottenere una risposta.
«Il dottor Tuğlacı è disposto a riceverci» disse. «Ma dobbiamo andare subito. Scusaci, Aylin. Vogliamo risolvere questa storia il prima possibile».
«Ma certo, non c’è problema. Kati, può lasciarmi il suo numero di telefono? Potrebbe servirmi il suo aiuto».
«Come ho già detto, non mi occupo di pedinamenti».
«Ho capito, ma non si sa mai».
Controvoglia le diedi il mio numero e memorizzai il suo nel cellulare.

Lo studio si trovava al terzo piano di un bell’edificio in stile liberty. I gradini d’ingresso erano coperti da una passatoia bordeaux. C’era anche un servizio di portineria; l’uomo dietro il bancone sedeva però a gambe talmente divaricate che i pantaloni del completo grigio gli arrivavano sopra la caviglia. Che volete, qui il materiale umano è quello che è. Difficile trovare un vero concierge.
Ad aprire la porta dello studio fu una giovane donna dai capelli dorati. Sì, un’altra. A Nişantaşı qualcuno potrebbe davvero convincersi che i turchi sono un popolo di biondi.
«Prego, il dottore vi sta aspettando». La seguimmo attraverso una porta a vetri e ci trovammo nell’ufficio dello psichiatra. Ethem Tuğlacı ci salutò con una stretta di mano e ci offrì le due poltrone davanti alla scrivania, poi si accomodò sul divano.
Si rivolse subito a Naz. «Al telefono ha detto che lavora come cardiologa all’ospedale pubblico di Lüleburgaz».
«Sì, ma sono qui per mia sorella. Sani Ankaralıgil. Credo fosse una sua paziente. Stava affrontando un brutto divorzio ed era molto provata, quindi le ho consigliato di rivolgersi a uno specialista».
«Ho saputo della sua morte leggendo il giornale. Mi dispiace». Se volete il mio parere, il dottore aveva una gran faccia da babbeo. Ma nel suo lavoro doveva essere piuttosto bravo. Aveva pazienti di un certo livello.
«Durante l’autopsia hanno trovato un foro di siringa nel braccio sinistro di Sani. Ne sa qualcosa?».
«Non avevamo ancora iniziato la terapia. Non le avevo prescritto nessun farmaco. Mentre vi aspettavo ho riguardato la sua cartella. In effetti negli ultimi tempi era molto stressata, lamentava giramenti di testa, sudorazione eccessiva… Una volta è anche svenuta».
«Davvero?».
«Sì, ha perso i sensi ed è caduta».
Ci guardammo tutti e tre in silenzio. Cosa poteva provocare un simile episodio? Un improvviso calo di pressione? Un tumore al cervello? Non mi veniva in mente nient’altro.
«Come mai è svenuta? Quale può essere la causa?» domandai.
«Non posso dirlo con certezza, le possibilità sono tante». Tipica risposta da medico. Tutt’altro che tranquillizzante. Possibile che nessun dottore riesca a dire che un paziente soffre di questo o quel disturbo, di questa o quella malattia?
«Aveva un tumore al cervello?».
Tuğlacı non gradì la mia impulsività, o almeno così parve. Mi fissò con occhi gelidi.
«È possibile. Ma partendo dai sintomi della paziente – nervosismo, senso di malessere, sudorazione eccessiva, occhi iniettati di sangue, giramenti di testa – direi piuttosto che soffriva di un disturbo ormonale. Una forma di diabete, una disfunzione della tiroide o qualcosa legato al ciclo. Infatti le avevo consigliato di andare da uno specialista in medicina interna e di farsi fare tutti gli esami necessari. L’ho mandata da Hale Gürsel, all’Ospedale americano».
«Ci è andata lo stesso venerdì in cui è stata qui? Subito dopo il vostro colloquio?».
«No, quando è uscita da qui era troppo tardi, in ospedale avevano già finito le visite. Ho chiesto alla mia segretaria di fissarle un appuntamento. Gliel’ha preso per il lunedì seguente, alle due. Ma non so se la signora Ankaralıgil ci è andata…».
Naz si alzò dalla poltrona. «Grazie, ora sono molto più tranquilla».
Un bravo psichiatra, senza dubbio.

Sulle scale chiesi a Naz cosa pensasse del colloquio col dottor Tuğlacı.
«È stato utile. Probabilmente in ospedale le hanno fatto subito un prelievo di sangue, il che spiegherebbe il foro nel braccio. Ne sapremo di più domani mattina».
«Ma l’Ospedale americano è qui vicino, potremmo farci un salto ora».
«A quest’ora la dottoressa se ne sarà già andata».
«Ma non dobbiamo parlare con la dottoressa, ci servono solo i risultati degli esami del sangue».
«Non ce li daranno».
«Perché? Non abbiamo mica il nome scritto in fronte, una di noi due potrebbe essere Sani. Vedrai che non ci chiederanno la carta d’identità. Troveremo senz’altro un’infermiera».
«Sicura?».
«Sì».
Andò esattamente come avevo predetto. Uscimmo dall’ospedale che pioveva, quindi ci rifugiammo in un negozio che vendeva börek. Naz era incredibilmente serena. Guardò i risultati degli esami e annuì.
«Meglio questo dell’avvelenamento. Credo sia morta per uno shock ipoglicemico».
«E cosa sarebbe?».
«È quello che succede quando il livello di zuccheri nel sangue è troppo basso. Il paziente deve mangiare a intervalli regolari, ma Sani era perennemente a dieta. Inoltre…».
«Sì?».
«La nostra teoria è che non fosse sola a casa. Se ha litigato con qualcuno, se si è agitata… la glicemia si sarà abbassata ulteriormente».
«Quindi, in definitiva, è morta perché mangiava troppo poco».
«Esatto».
Sani Ankaralıgil era morta perché mangiava troppo poco. Chi l’avrebbe mai detto?

9






Mi sembrava che il ramadan stesse influenzando pochissimo la vita della città. Molto meno che in passato. Se pensiamo che ancora negli anni Novanta nelle università di provincia si picchiavano gli studenti che non digiunavano… Devo ammettere che a Istanbul non è mai stato troppo difficile superare il periodo del digiuno. Non è mai successo niente di grave, però regnava un’atmosfera tesa.
Un’atmosfera che non percepivo più. Come mai? Forse perché quelli che digiunavano erano sempre meno? O perché stavano diventando più tolleranti? La gente cominciava a credere davvero che si potesse convivere pacificamente? Perfino i suonatori di tamburo erano scomparsi dopo la distribuzione dell’avviso scritto a mano. L’unica cosa di cui potevo lamentarmi era il traffico, che ogni giorno, poco prima della rottura del digiuno, si bloccava completamente.
Era arrivato il momento di rincontrare Batuhan per un vero scambio di informazioni. Nel corso della mattinata gli mandai diversi messaggini, ma lui mi chiamò solo dopopranzo.
«Si può sapere dov’eri?» gli domandai a bruciapelo. «Dobbiamo parlare».
«Abbiamo tanti di quei corsi di aggiornamento che quasi non ci rimane tempo per il lavoro vero e proprio» rispose il commissario. Era appena tornato da Bolu, dove aveva partecipato a un seminario di tre giorni presso la “Casa del Poliziotto”.
«Possiamo vederci?».
«Vieni in questura. Mi troverai nell’ufficio 423».
«A che ora?».
«Quando vuoi. Sarò qui fino alle dieci».
Credetemi, il fatto che un poliziotto turco si sacrificasse tanto per il lavoro mi commosse fino alle lacrime.
Come ho già detto, l’inizio del ramadan aveva influito ben poco sulla vita della città. Purtroppo il mio ristoro preferito, il Petek Büfe, era chiuso. Per molti gestori è un’abitudine: durante il ramadan si chiude tutto e si torna al paese d’origine. Dato che non avevo nessuna intenzione di diventare una taglia XS dopo la morte di Sani non volevo più sentir parlare di dieta almeno per un po’, mi fermai al Minik Büfe per mangiare un toast al formaggio. Poi, in taxi, raggiunsi la questura.
Il poliziotto di guardia all’ingresso volle vedere un documento. Dopo averlo esaminato attentamente, informò il capo della squadra omicidi del mio arrivo.
Quando la porta dell’ascensore si aprì al quarto piano, il mio caro Batuhan era già lì ad aspettarmi.
«Cosa bevi?» mi chiese una volta arrivati in ufficio.
«Non digiuni?».
«Non posso, soffro di iperacidità».
Strano, sembrava che questo disturbo colpisse un sacco di persone durante il ramadan. Anche il tassista aveva detto di non poter digiunare per problemi di stomaco; se n’era lamentato per quasi tutto il tempo.
«Se lo prendi anche tu, un tè».
«Ti conviene scegliere qualcos’altro, a quest’ora il tè non è più tanto fresco».
«Allora un’acqua minerale».
Batuhan si sedette sulla poltrona di fronte a me. «Sentiamo, di cosa mi volevi parlare?».
«Abbiamo scoperto la causa della morte di Sani».
«Cosa?».
Mi guardò incredulo. Avrebbe dovuto stupirsi del fatto che stessi condividendo questa informazione, per di più di mia spontanea volontà e nel suo ufficio. Invece era stupito semplicemente perché avevo scoperto di cosa era morta Sani Ankaralıgil.
«Qual è la causa?».
«Shock ipoglicemico». Durante il tragitto in taxi mi ero allenata per pronunciare questo termine senza impappinarmi.
«Ipo-cosa?».
«Ipoglicemico».
«Cioè? Cosa sarebbe?».
«Un problema delle donne che portano la XS. Non mangiano niente, il livello di zuccheri nel sangue si abbassa e questo provoca uno shock. La persona perde i sensi e se non viene soccorsa entro dieci, quindici minuti… non si sveglia più».
«Caspita, questa non la sapevo».
«Forse perché in Turchia la taglia XS non è ancora di moda. Quando le aspiranti modelle cominceranno a svenire per strada, una dietro l’altra, te ne accorgerai. Pensa che a New York si registrano già parecchi ritardi in metropolitana a causa di questi svenimenti. Chissà a quante donne capita ogni giorno».
«Qui non succederà mai, ai turchi non piacciono le donne scheletriche. A proposito, ti trovo un po’ ingrassata».
Ingrassata? Io? Mi alzai e mi guardai le gambe. «No, sono i pantaloni che mi fanno sembrare più grossa».
«Girati».
Santo cielo! Eravamo in questura!
«Comunque anche tu sei ingrassato. Guarda che pancia».
Batuhan ci batté sopra una mano.
«È segno di benessere, no?».
«Oh sì, un fantastico segno di benessere» confermai. In un mondo dove le donne ricche morivano di fame…
«Hai messo su un paio di chili, ma stai benissimo» continuò lui.
Basta, era ora di finirla con questa stupida conversazione sul peso.
«Non vuoi sapere come ci siamo arrivate?».
«Eh?».
«Alla causa della morte».
«Prima di tutto vorrei sapere perché usi il plurale. Chi ti ha aiutato?».
«Naz, la sorella di Sani».
«Non è possibile! I miei uomini la stanno cercando! Dille che deve venire qui per la deposizione».
«Non sembri molto interessato a questo caso».
«In effetti sono più interessato a te». Ahahah.
Bevvi un sorso d’acqua e aspettai che si ricomponesse.
«Non importa se un caso m’interessa o meno, Kati. Un capo non può mettere da parte tutte le questioni amministrative per dedicarsi soltanto alle indagini. Credimi, è meglio che non ti racconti come occupo le mie giornate. Faccio il lavoro più noioso del mondo».
Capii immediatamente che i bei tempi erano finiti. Niente più divertimento.
«Come ci siete arrivate? Allo shock, intendo».
«Abbiamo scoperto che era andata all’Ospedale americano per un esame del sangue. Gliel’hanno fatto martedì pomeriggio».
«Hai qui i risultati?».
Certo che li avevo.
«Puoi tenerli».
«Okay, dimmi cosa vuoi sapere».
Una mano lava l’altra. Eh sì, ormai mi conosceva abbastanza bene.
«Perché sei sicuro che Sani non fosse sola al momento della morte?».
Batuhan prese una delle cartelle appoggiate sulla scrivania, ne estrasse un paio di fogli e me li consegnò.
«Leggili. Io torno subito». Uscì dall’ufficio e un attimo dopo lo sentii chiamare qualcuno ad alta voce.
Quello che mi aveva messo in mano era il rapporto della scientifica.
[…] sia i graffi sul pavimento visibili nelle fotografie all’ultravioletto n. 1, 2 e 3 sia le tracce di colore individuate in questi graffi mediante analisi chimica sono compatibili con le scarpe femminili nere a tacco alto, misura 38, trovate ai piedi del cadavere e successivamente sottoposte a indagini di laboratorio. Si ritiene perciò che i sopraccitati graffi siano stati causati dalle scarpe da donna nere misura 38 (allegato 2006/221) […]
È stato accertato che le impronte visibili nelle fotografie UV n. 4, 5 e 6 sono state lasciate da scarpe piatte misura 40 (v. dettagli nell’allegato 2006/222).
Quindi la persona che aveva guardato Sani morire indossava scarpe numero quaranta.
«Hai letto?» chiese Batuhan rientrando in ufficio.
«Sì. A quanto pare in casa c’era un’altra donna».
«O un uomo coi piedi piccoli. Il quaranta non è un numero esclusivamente femminile».
«Tutto qui?».
Il commissario spostò lo sguardo da me ai fogli che tenevo in mano, poi cercò di nuovo nella cartella.
Mi diede l’allegato 2006/222, che però non conteneva niente di nuovo. Appresi soltanto che sulla suola delle scarpe numero quaranta c’era la scritta XOXO.
Se non ricordavo male, era una marca di abbigliamento e calzature sportive.
«E il custode? E la moglie che faceva le pulizie per Sani? Anche loro sono entrati in casa. Come mai non avete trovato segni del loro passaggio?».
«Vuoi vedere anche le foto con le impronte del custode e della moglie? Non te le ho date perché credevo fossero irrilevanti».
«No, lascia stare. Volevo solo sapere se c’erano. Comunque non pensavo che la polizia turca usasse le fotografie UV».
«Certo che le usiamo! Come in Europa e in America. Non siamo così indietro».
«Però non potete perquisire la casa di tutti quelli con il quaranta di piede nella speranza di trovare un paio di scarpe XOXO, giusto?».
Lui scoppiò in una fragorosa risata. «Non puoi immaginare quanto mi piacerebbe! Purtroppo ho le mani legate, devo rispettare la legge. Per ottenere un mandato di perquisizione ci vogliono elementi concreti».
«Anche per cercare delle semplici scarpe? Probabilmente sono già finite in qualche cassonetto».
«Magari non ci hanno pensato. In fondo neanche a te era venuto in mente che potessi avere delle fotografie UV». Di colpo si fece estremamente serio. «Sai che non devi farne parola con nessuno, vero?».
«Sì, tranquillo». Scossi i capelli per spostarli dal viso. «Avete già sentito Cem Ankaralıgil?».
«Più di una volta. Tu?».
«No. Non credo che sarebbe disposto a parlare con me. Come dovrei presentarmi?».
«Puoi anche lasciar perdere. Ha un alibi di ferro. Martedì nel tardo pomeriggio è andato all’Associazione spedizionieri marittimi per un incontro. È uscito verso le nove e ha raggiunto subito il ristorante di Bebek dove aveva appuntamento con gli amici».
«E poi? Cos’ha fatto dopo aver salutato gli amici?».
«Non si sono salutati. Dopocena sono andati tutti da uno del gruppo e hanno continuato a bere. Cem è tornato a casa all’alba. Mercoledì mattina, alle nove e mezza, aveva una riunione nella sede centrale della holding. Poi è andato al cantiere di İzmit e ha preso parte a una cena organizzata da uno sport club che lo annovera tra i membri del direttivo. Alla fine si è fatto portare dall’autista a casa dei genitori ed è rimasto da loro fino al mattino seguente».
«Ha più impegni lui del primo ministro» commentai. «È possibile che i suoi amici abbiano mentito. Non è detto che martedì sera fosse davvero con loro».
«Quelli come loro non possono mentire».
L’affermazione di Batuhan mi lasciò interdetta. Le persone mentono. Tutte quante. O almeno tutte quelle che conosco io.
«Non si fanno comprare» aggiunse lui. Un’altra frase senza senso. Con quello che avevo scoperto negli ultimi giorni, mi riusciva difficile credere che esistessero persone incorruttibili.
«E chi sarebbero questi amici?» domandai incuriosita. Come si fa a non essere curiosi in simili circostanze?
«I più importanti uomini d’affari del nostro paese, un diplomatico straniero e il capo di una grande azienda. Non è possibile che tutti abbiano mentito».
«Perché no?». Era più forte di me, non riuscivo ad avere fiducia negli altri.
«Non mentirebbero per nascondere il fatto che Cem è andato dalla moglie e l’ha guardata morire per uno shock da carenza di zuccheri. Stiamo parlando di uomini con una posizione da difendere. Gente così non rischia di finire in prigione per complicità». Fece una breve pausa. «E comunque Cem non ha il quaranta».
Dal mio punto di vista, questo particolare era molto più importante di qualunque testimonianza. Ma non escludeva che Cem fosse in qualche modo colpevole. Poteva aver mandato a casa della moglie qualcuno che calzava il quaranta.
«E i tuoi imprenditori? Hai già abbandonato la teoria del complotto?».
«No, sto solo cercando di prendere in considerazione ogni possibilità» spiegai. «E dato che Cem ha chiesto al custode e alla moglie di tenere d’occhio Sani…».
«E questo da chi l’hai saputo?».
«Dalla moglie del custode».
«Te l’ha detto chiaro e tondo? Ha confessato?».
«Non parlerei proprio di una confessione». Quella donna non riusciva neanche a capire che spiare qualcuno era un comportamento moralmente inaccettabile. Come poteva confessare una colpa di cui non era nemmeno consapevole?
«La morte di Sani rappresenta un enorme vantaggio materiale per il marito, quindi non possiamo non sospettare di Cem. Il problema è che non ci sono prove, non abbiamo niente contro di lui».
«Veramente mi sembra che non abbiate prove contro nessuno. Per tua fortuna ho scoperto anche qualcos’altro. Credo di sapere perché hanno rubato il portatile di Sani e i computer dell’ufficio» dissi trionfante.
«Davvero? Sono tutt’orecchi».
Batuhan sembrava molto interessato alla storia dei computer.
Dato che non eravamo più in competizione, gli raccontai quello che sapevo o credevo di sapere al riguardo. Non tutto, naturalmente.

Tornai a casa verso sera con la testa piena di nuove idee. Dovevamo chiedere a Murat, il nostro amico di skyrat.com.tr, di scoprire il nome della sorellastra di Cem e come potevamo raggiungerla. Inoltre dovevamo parlare il prima possibile con l’avvocato Remzi Aköz per farci raccontare tutti i dettagli dell’accordo prematrimoniale. «Io provo a fissare un incontro con Remzi» dissi a Fofo. «Tu chiama Murat. Subito, domani mattina. Chiedigli anche se ci sono novità. Magari gli è arrivata qualche notizia interessante».
«Agli ordini, capo!».

Il mattino seguente mi svegliai prestissimo e anche se non era il mio turno decisi di andare subito in negozio. Volevo fare qualche ricerca in Internet, per raccogliere altre informazioni. Su Orhan Soner, per esempio.
Tanto per cominciare scoprii che era amico intimo di Cevad Redzeposki, l’ex sindaco architetto di Tirana che tre o quattro anni prima aveva cambiato il volto della città con una spesa minima. Tutta la stampa, da quella britannica di sinistra a quella tedesca più conservatrice, si era espressa in termini entusiastici, affermando che Redzeposki era riuscito ad arginare lo strapotere della mafia locale. Visto che il progetto del nuovo teatro comunale di Tirana, lodato dalle più importanti riviste di architettura, portava sia la firma del sindaco che quella di Orhan Soner, non rimasi particolarmente stupita nell’apprendere che quest’ultimo aveva progettato anche un albergo fatto costruire nella capitale albanese da una grande catena del settore.
In altre circostanze un curriculum del genere mi avrebbe colpito positivamente, ma i riferimenti ad Albania, albanesi e Tirana mi fecero venire in mente il TÖZ e all’improvviso sentii il forte bisogno di una sigaretta. Quando Pelin – con tutta calma – arrivò in negozio, mi trovò accigliata e pensierosa sulla sedia a dondolo.
Forse Naz si riferiva proprio a Orhan quando aveva parlato di un suo ex ragazzo appartenente al TÖZ. Ma perché avrebbe dovuto proteggere qualcuno che l’aveva lasciata per mettersi con Sani? Forse avevo interpretato male le sue intenzioni; forse non voleva affatto proteggerlo, voleva far ricadere i sospetti proprio su di lui. Possibile che il vecchio amore tra Sani e Orhan si fosse riacceso e che questo l’avesse fatta infuriare?
Ero così confusa che una sigaretta non mi sarebbe stata di nessun aiuto. Suonò il telefono.
«Pronto, sono Sinan. Si ricorda di me? Ci siamo incontrati questo sabato».
Credeva davvero di essere una persona di cui ci si dimentica facilmente? O voleva solo fare il modesto?
«Mi ricordo» risposi.
«Ho dimenticato di raccontarle un paio di cose. Possiamo vederci?».
Veramente ero interessata solo a chi portava scarpe XOXO numero quaranta. Non volevo incontrare nessun altro. Neanche il ragazzo più bello del mondo.
«Oggi?».
«Se per lei va bene…».
«Sì, non c’è problema».
«Facciamo a Bebek? Al Lucca?».
Mi stava dando appuntamento in uno dei locali più apprezzati di Bebek. Non sapevo dove si trovasse esattamente, ma lo conoscevo. Me ne aveva parlato Fofo.
«Okay. Alle tre?».
«Meglio alle quattro».
Non erano ancora le undici. Non sapevo cosa fare fino a metà pomeriggio. E poi non volevo rimanere imbottigliata nel traffico serale.
«Ho un altro appuntamento nel tardo pomeriggio». Era una bugia, ma avevo tutte le intenzioni di trasformarla in verità.
«Allora ci vediamo alle tre» concluse Sinan.
Dovevo assolutamente fare una telefonata. Per poter parlare in pace, senza nessuno che mi ascoltasse, chiesi a Pelin di andare al Minik Büfe a prendermi una spremuta di melagrana. Male non mi avrebbe fatto; la melagrana è ricca di antiossidanti, che combattono i radicali liberi e aiutano a mantenere un aspetto giovane.
«Se non la trovi al Minik Büfe, vai a Tünel. C’è un bar che ha appena messo fuori il cartello “Spremuta fresca di melagrana”. La prendi e me la porti, okay?».
Appena la mia aiutante se ne andò, il negozio si riempì di clienti e naturalmente dovetti occuparmene io. Che sfortuna! Nonostante l’avessi mandata lontano, Pelin tornò prima che potessi telefonare. Presi il bicchiere di plastica con la spremuta, lo vuotai tutto d’un fiato e dissi: «Vado a casa».
Una volta arrivata, mi attaccai subito al telefono.
«Che combinazione!» esclamò Aylin. «Stavo proprio per chiamarla».
«Le è venuto in mente qualcosa?».
«In che senso?».
«A proposito di Sani». Sennò perché avrebbe dovuto chiamarmi?
«No, volevo solo informarla che non divorzio più. Remzi mi ha fatto cambiare idea». Seguì una risatina.
Sinceramente non mi chiesi cosa avesse fatto il marito per convincerla. È vero che sono curiosa, ma non fino a questo punto. Le informazioni inutili non m’interessano.
«Non credo che avrò più bisogno del suo aiuto» aggiunse Aylin. Era decisamente dura di comprendonio. Per non dire di peggio.
«Le avevo già spiegato che non mi occupo di certe cose».
«Sì, lo so». Evidentemente non dava alcuna importanza a ciò che veniva detto. Forse credeva che fossero tutti come lei, pronti a cambiare idea.
Meglio tornare al motivo della mia chiamata. «Avrei ancora un paio di domande».
«Va bene, dica pure».
«Sa se Sani aveva amici stretti?». Esitai un attimo, poi decisi di specificare: «A parte lei». In verità non mi sembrava che tra le due ci fosse un’amicizia stretta.
«Mmh… Direi di no».
«Strano. Tutti abbiamo almeno un amico o un’amica cui siamo particolarmente affezionati».
«Non Sani».
«Ha detto che con la sorella non andava molto d’accordo».
«Confermo. Era terribilmente gelosa di Naz».
«Ma non sarebbe stato più logico il contrario? Cioè che Naz fosse gelosa di Sani?».
«La gelosia ha ben poco a che fare con la logica. Guardi quello che è successo a me. Quando ho visto quella donna nell’ufficio di Remzi… Non ho creduto neanche per un minuto che fosse davvero una cliente. Il che non è per niente razionale. La gelosia è irrazionale per natura».
Credeva di sapere tutto.
«L’altro giorno ha detto che in passato Sani ha portato via il ragazzo a Naz».
«Sì, Orhan Soner». Quindi avevo ragione, era proprio lui. «È un famoso architetto. Forse ne ha sentito parlare».
In effetti, sì.
«È possibile che Sani abbia ricominciato a frequentare Orhan prima del divorzio?».
«Non lo so. Orhan Soner è sposato, ma… Può anche essere».
«Non circolava nessuna voce sul loro conto?».
«Mi creda, se Sani ha cominciato a frequentare un altro uomo prima del divorzio, ha preso tutte le precauzioni necessarie per non farlo sapere in giro».
Su questo avevo qualche dubbio. Prendere in affitto una casa proprio di fronte a quella dell’ex non mi sembrava una mossa tanto cauta.
«Non le sono stata molto utile» si scusò Aylin.
«Beh, visto che ha fatto pace con suo marito, potrebbe aiutarmi a fissare un appuntamento?».
«Ma certo, cara! Dirò alla sua segretaria di chiamarla».
«Se fosse possibile per stasera…».
«Non si preoccupi, parlerò subito con Remzi. Poi la segretaria le darà conferma».
La ringraziai.
Aylin Aköz poteva anche sembrare la classica donna di Nişantaşı, ma non era né stupida né antipatica. Forse le signore di Nişantaşı erano tutte come lei e io avevo troppi pregiudizi. Chissà.

Invece di rimuginare, mi preparai un tè verde e feci una lista con tutte le domande senza risposta. Una lista di sette punti. Eh sì, c’erano ancora molte cose da chiarire.
Purtroppo mi ero dimenticata di chiedere ad Aylin se aveva scoperto come si chiamava la sorellastra di Cem. Era già passato un po’ di tempo e né Fofo né la segretaria di Remzi si erano ancora fatti vivi. Cominciavo a diventare nervosa. Decisi di tenermi impegnata con le pulizie; il giorno prima Fatma aveva sicuramente tralasciato qualcosa, come sempre.
Iniziai dai vetri del soggiorno. Non erano molto sporchi, ma una volta lustrati perbene avrebbero fatto entrare più luce. Questa è l’impressione che ho di solito, almeno.
Non ero neanche a metà lavoro quando sentii la chiave girare nella serratura. Era Fofo.
«Ti ho appena cercato in negozio. Cosa fai a casa a quest’ora?».
«Pulisco le finestre. Perché, non si vede?».
«Smetti subito e tieniti forte. Ho delle novità sensazionali!».
Andai in cucina a buttare la carta usata per i vetri. Quando sto per scoprire qualcosa di interessante, a volte mi piace prolungare la suspense. Sento l’emozione ardermi dentro come una fiamma. L’emozione per ciò che mi aspetta. Come… Come a un primo appuntamento, quando con mani e gambe intrecciate ci si gusta il momento dell’attesa. Dopo le prime volte diventa tutto meno emozionante, come una bistecca tigliosa. Non voglio offendere quelli che masticano per anni lo stesso pezzo di carne, sono senz’altro consapevoli della loro scelta, ma io sono fatta diversamente. Forse non dovrei esprimere alcun giudizio al riguardo, però non riesco proprio a capire quelle persone che al ristorante ordinano sempre bistecca o che dal macellaio ne comprano ogni volta mezzo chilo. Perché lo fanno? Perché non prendono il filetto? Sembra strano, ma persone così esistono davvero. O non sanno che sapore ha il filetto o trovano piacevole masticare e rimasticare della carne che non si ammorbidisce mai.
«Arrivi?» gridò Fofo dal soggiorno.
«Sì, sì, eccomi».
«Allora, c’è questa sorella che vive a Bodrum».
«E fin qui niente di nuovo».
«Non è stato facile trovarla. Murat ha dovuto chiamare un sacco di persone, ma alla fine l’ha rintracciata».
«Quindi?».
«Si chiama Jasmin Gil. È una pittrice che dipinge solo clown».
«Non porta il cognome del padre».
«No, l’ha cambiato. Sono in pochi a conoscere la sua vera identità. È la “figlia difficile” di Bahri Ankaralıgil. Per di più sua madre è tedesca».
Per di più? C’era forse una relazione tra la madre tedesca e il fatto che Jasmin Gil non avesse combinato niente di buono?
«I bambini che crescono divisi tra due culture sono sempre un po’ strani» spiegò Fofo.
«Questo lo dici tu» replicai. «Secondo me crescere tra due mondi è una bella cosa. Un arricchimento. Significa parlare perfettamente due lingue, assimilare gli aspetti positivi di ogni cultura e rifiutare quelli negativi. I bambini che crescono così diventano persone molto creative».
«Va bene, non voglio litigare per questa cosa. Forse la nazionalità della madre non c’entra niente, comunque la nostra pittrice è decisamente strana».
«Perché? Cos’ha fatto?».
«Fai prima a chiedermi cosa non ha fatto. A sedici anni è finita in clinica per disintossicarsi. Un paio di anni dopo ha aggredito il padre con un rasoio e l’ha ferito al collo. Per fortuna in modo non grave. Naturalmente i giornali hanno raccontato una storia diversa, secondo la versione ufficiale il signor Ankaralıgil si è tagliato facendo la barba».
«Mmh. Cos’altro?».
«Hai mai sentito parlare di un concorso letterario austriaco dove i partecipanti salgono sul palco per leggere i loro testi e poi vengono votati dalla giuria?».
«Sì, lo conosco. Che c’entra?».
«Ha partecipato anche lei. E mentre leggeva sul palco si è tolta i vestiti. Si è spogliata completamente, si è messa sul tavolo e ha cominciato a masturbarsi».
«Ah sì, questa storia me l’hanno già raccontata. O forse l’ho letta da qualche parte. Però è successo un po’ di tempo fa. Dopo che l’hanno portata via dal palco, è rimasta seduta per giorni completamente nuda davanti alla porta d’ingresso. Per protesta».
Fofo sembrava un po’ deluso. Il fatto che conoscessi già la storia gli aveva rovinato il divertimento.
«Guarda cosa vai a ripescare!» esclamai, aumentando ulteriormente la sua delusione.
«Aspetta, la vera bomba deve ancora arrivare».
«Cioè?».
«Le cose stanno così». Una delle sue frasi preferite.
«Sì?».
«Quella donna odia Bahri Ankaralıgil perché ha lasciato sua madre e si è rifatto una famiglia. Ma non parlo di odio normale. Una sera, mentre lui e la moglie uscivano dal ristorante, ha gettato dell’acido muriatico addosso a Tamaşa. Se le guardie del corpo non si fossero messe in mezzo all’ultimo momento, l’avrebbe sfigurata per sempre».
Avrei tanto voluto sapere che numero di scarpe aveva questa Jasmin.
«Odia anche il fratellastro?».
«Certo, lo odia a morte. Pare che abbia dipinto un clown agonizzante, con una spada ficcata nella pancia, e che abbia attaccato una foto di Cem al posto del viso. Odia tutta la famiglia».
«Forse ce l’aveva anche con Sani».
«Molte gallerie turche non espongono le sue opere per non contrariare gli Ankaralıgil. E per lo stesso motivo i critici la ignorano. All’estero però ci sono molte persone che la considerano addirittura un genio, o almeno così pare. Dicono che i suoi quadri sono molto espressivi».
Genio o non genio, se portava il quaranta poteva essere la persona che stavo cercando. Una donna così era sicuramente capace di lasciar morire qualcuno senza muovere un dito.
«Come la raggiungiamo?».
«Abita a Bodrum con il compagno, un vecchio cantante da taverna, ma vengono spesso a Istanbul perché la madre di lui vive qui. Con un po’ di fortuna…».
«Hai il numero di cellulare?».
«Ho tutto: cellulare, e-mail…».
«Bravo, Fofo, ottimo lavoro!». Gli diedi una pacca sul ginocchio.
«E non hai ancora visto niente. Posso fare molto meglio di così» rispose orgogliosamente.
La telefonata tanto attesa arrivò mentre mi dirigevo in taxi verso Bebek.
«Chiamo dallo studio legale di Remzi Aköz» disse una voce femminile. «L’avvocato può riceverla questa sera tra le sette e le otto. Va bene?».
«Benissimo». Remzi Aköz era senza dubbio un uomo molto impegnato; non potevo far altro che accettare. «Ma non so dov’è lo studio».
Mi accorsi che non avevo neanche una matita per prendere appunti. Accidenti a me! Un detective senza carta e penna è come un’insalata di rucola senza limone: può esistere, ma non ha senso.
«Le mando un messaggino con l’indirizzo» promise la segretaria. Una persona dotata di senso pratico. Meritava tutto il mio apprezzamento.

Una volta arrivata a Bebek seguii esattamente le istruzioni di Fofo: scesi dal taxi, alzai lo sguardo e cercai il Lucca dall’altra parte della strada. Lo individuai subito; era proprio dove doveva essere. Avevo ancora un po’ di tempo, quindi andai alla ricerca di un cartolaio. Dovevo assolutamente procurarmi una penna o una matita.
Era stata una vera e propria impresa convincere Fofo a rimanere in negozio. Come potete immaginare, avrebbe preferito venire all’appuntamento con Sinan. Qualcuno doveva però occuparsi della libreria; l’anno accademico era iniziato e Pelin non poteva perdere le lezioni del pomeriggio, quindi il mio caro amico aveva dovuto fare buon viso a cattivo gioco.
Entrai nel locale in perfetto orario. Avrei voluto sedermi in un angolo per non dare nell’occhio, ma al Lucca non era possibile. Forse perché la clientela era composta da persone che non volevano affatto nascondersi, bensì guardarsi intorno e vedere un sacco di gente. I tavoli erano sistemati in modo che chi passava all’esterno potesse vedere chi stava all’interno e viceversa. Mi sedetti, ma dopo un quarto d’ora cominciai ad annoiarmi. Arrivare in ritardo non era certo la fine del mondo, purché non si esagerasse. Poteva almeno farmi una telefonata. Dopo aver finito il tè che avevo ordinato, chiesi il conto e uscii.
Mi fermai davanti alla porta del locale, indecisa sul da farsi. Potevo prendere un taxi e tornare a casa oppure, dato che ormai ero a Bebek, potevo andare al Gloria Jean’s e ammirare per un po’ lo spendido panorama del Bosforo. All’improvviso sentii un tocco sul braccio. E che tocco! Praticamente una carezza.
Mi girai di colpo e mi trovai davanti Sinan.
«Strada bloccata per un incidente» spiegò.
Guardai l’orologio. Immersa com’ero nei miei pensieri, non mi ero accorta che erano già passati dieci minuti da quando avevo pagato il conto. Erano quasi le tre e mezzo.
«Trenta minuti di ritardo» osservai.
«Non succederà più, giuro».
Non succederà più? Aveva forse intenzione di darmi appuntamento tutti i giorni e raccontarmi una cosa per volta?
«Andiamo al Gloria Jean’s. Questo posto è un po’ troppo…». Cercai la parola giusta, ma non la trovai. «È per i giovani come lei».
«Non potremmo darci del tu? Per me sarebbe molto più facile».
Accettai volentieri.
I tavoli all’ingresso del Gloria Jean’s erano tutti occupati, perciò andammo al piano di sotto, che si trovava allo stesso livello del Bosforo. Io ne approfitto spesso, soprattutto in primavera, quando ci si può sedere all’aperto senza il rischio di un’insolazione. Naturalmente a inizio ottobre faceva troppo freddo per stare fuori.
«Allora, cosa volevi raccontarmi?».
Lui mi guardò con aria dispiaciuta. «Devo andare subito al sodo? Hai fretta di tornare a casa? Pensavo che prima avremmo fatto quattro chiacchiere».
O Signore! Ci stava provando con me? Non sapevo se ridere o piangere. Comunque ero lusingata dal fatto che un ragazzo così bello volesse conoscermi meglio. Non sono solo gli uomini di una certà età ad avvertire il fascino della gioventù. Grazie a Dio i tempi sono cambiati, oggi la società accetta anche le donne mature che scelgono compagni più giovani.
D’altra parte è risaputo che le donne “più grandi” – per usare un eufemismo – esercitano un fascino particolare sui ragazzi. È così da sempre. Al liceo noi ragazze impazzivamo per i compagni di classe, ma loro avevano occhi solo per la professoressa di latino o biologia.
«Ah già, tu hai un altro appuntamento» continuò Sinan, imbronciato. «Non hai tempo da perdere».
«No, un po’ di tempo ce l’ho».
«Mia madre mi ha prestato un romanzo di Elmore Leonard. L’ho iniziato ieri e devo dire che mi ha preso subito. Mi sa che devo proprio venire da te a comprare un paio di libri. Cosa mi consiglieresti?».
I miei gialli preferiti?
«Non saprei, dipende da cosa ti piace».
«Non potremmo fare una lista insieme?».
Gli spiegai che sono contraria alle liste. L’idea che certi libri vadano letti per forza mi fa venire l’orticaria, non si tratta mica di preparare un esame! La lettura deve essere un piacere, non un obbligo. A dire il vero sono convinta che i lettori siano persone migliori rispetto ai non lettori, ma è solo la mia opinione e non ha nessuna importanza.
«Non è vero. A me importa» replicò lui.
Dopodiché la conversazione si spostò sulla musica rock. In questo campo Sinan era un vero esperto, ma in generale ascoltava anche musica classica. Parlammo dei nostri piatti preferiti, delle città visitate… e del fumo. Gli raccontai che con tutte le sigarette che avevo fumato nella mia vita avrei potuto coprire la circonferenza terrestre più di una volta. Parlammo poi dei film che avevamo visto, dei volti che ci dicevano qualcosa, delle strade che avevamo imboccato e successivamente abbandonato…
«A che ora è il tuo appuntamento?» mi domandò a un certo punto.
«Alle sette» risposi, guardando istintivamente l’orologio. Erano quasi le sei.
«Meglio muoversi, allora. Posso darti un passaggio? Dove devi andare?».
«A Nişantaşı. Ma non c’è bisogno che mi dai un passaggio, perderesti un sacco di tempo. Manca poco alla rottura del digiuno, a quest’ora le strade sono tutte bloccate».
«Non preoccuparti, per me non è un problema. Ho un paio di amici dalle parti di Nişantaşı. Quanto pensi di metterci?».
«Più o meno un’ora. Dalle sette alle otto».
«Andiamo a mangiare insieme dopo?».
Se devo essere sincera, mi mettono un po’ d’ansia i rapporti che evolvono così in fretta, a prescindere dall’età dell’altra persona. Senza dubbio Sinan intuì qualcosa dalla mia espressione perché si affrettò ad aggiungere: «Non ti ho ancora raccontato tutto».
«Già, ti sei dimenticato di dirmi che la domenica prima della morte di Sani sei andato a Paşabahçe e l’hai aspettata davanti a casa».
«Come fai a saperlo?» chiese lui, confuso e sorpreso.
«Ho parlato con altre persone. Perché non l’hai detto quando ci siamo visti a casa tua?».
«Non lo so». Abbassò la testa e si fissò le mani, che teneva congiunte in grembo. «Forse perché, dopo tanto tempo, non volevo ammettere di essere ancora interessato a Sani».
Posò di nuovo lo sguardo su di me. «Mi capisci?».
Annuii. Era più che comprensibile che un ragazzo di venticinque anni avesse il suo orgoglio. «Non c’è bisogno che mi accompagni a Nişantaşı. Ci vediamo un altro giorno».
«Come vuoi» disse abbacchiato.
Mentre tirava fuori il portafoglio per pagare il conto, mi chinai leggermente e diedi un’occhiata ai piedi sotto il tavolo. Per citare Lenin: fidarsi è bene, controllare è meglio.
Aveva due fette enormi. Di scarpe portava come minimo il quarantatré. Dopotutto uno della sua altezza con il quaranta non sarebbe stato in piedi, si sarebbe cappottato.
Insistette per accompagnarmi almeno alla fermata dei taxi. «Se domani riesci a fare un salto in negozio, ti preparo la lista» azzardai mentre mi aiutava a salire in macchina.
«Certo che vengo! Non vedo l’ora di farmi una bella scorpacciata di gialli» rispose tutto sorridente. Poi chiuse la portiera.
Ora sarete convinti che durante il tragitto da Bebek a Nişantaşı non abbia fatto altro che pensare a lui. In effetti ero talmente emozionata che provavo un senso di vertigine; in testa mi frullavano strane idee. Riuscii comunque a mantenere il controllo. Il mattino dopo, al risveglio, sarei stata assalita dai dubbi, ma di questo casomai vi parlerò più avanti. Tutto a suo tempo.

Scesi dal taxi di fronte all’edificio che ospitava lo studio legale di Remzi Aköz. Avevo solo cinque minuti di ritardo. Col traffico dell’ora di punta poteva andare molto peggio. Suonai il campanello; una voce femminile mi chiese il nome, poi mi invitò a raggiungere il terzo piano e aprì il portone.
«Mia moglie è rimasta molto colpita da lei» disse l’uomo che mi accolse poco dopo nello studio. Aveva il classico aspetto da avvocato. Avendo conosciuto diversi colleghi di Selim (il mio ex compagno, per chi se lo fosse dimenticato), so bene come si presentano i membri della categoria. Riuscirei a identificarne uno anche per strada. Lascio i dettagli alla vostra immaginazione, però mi chiedo: li selezionano in base all’aspetto quando fanno l’esame di ammissione a legge o sono i quattro anni di università a renderli tutti uguali?
«Prego, si accomodi nel mio ufficio. Cosa posso offrirle da bere?».
«Niente, grazie».
«Neanche un whisky? Ho un single malt».
Tè e cose simili si possono rifiutare facilmente, ma col whisky è tutta un’altra storia.
«Beh, se proprio insiste…».
Buttai giù il primo sorso e per la centesima volta in un giorno mi maledissi per aver smesso di fumare.
«Allora, come posso aiutarla? Cosa vuole sapere da me?».
Gli chiesi del famoso contratto prematrimoniale.
«Come può immaginare, non ci è consentito divulgare informazioni di questo tipo» rispose lui. «Ma dato che è nell’interesse di tutti scoprire come è morta la signora Ankaralıgil…».
Nell’interesse di tutti? Davvero? Decisi di non approfondire la questione. Se un avvocato riteneva che fosse così, probabilmente aveva ragione.
«Il contratto che hanno firmato stabilisce la separazione dei beni per tutta la durata del matrimonio. Inoltre, in caso di divorzio, nessuno dei due coniugi può chiedere un risarcimento o un assegno di mantenimento all’altro».
Ero un po’ confusa.
«Un attimo» lo interruppi. «Non sono sicura di aver capito bene».
«Cosa non le è chiaro?».
«Sta dicendo che dopo il divorzio Sani non avrebbe visto neanche una lira?».
«Esatto. È quello che stabilisce il contratto».
«Niente risarcimento. Niente alimenti. Niente di niente?».
«I termini sono questi. Naturalmente si può sempre chiedere una verifica legale. I contratti si possono impugnare. Sarebbe succes… Sarebbe potuto succedere anche in questo caso».
«E come sarebbe andata a finire?».
Lui si fermò davanti alla finestra con il bicchiere di whisky in mano. Sembrava la scena di un brutto telefilm turco. Mancava solo che al mio posto ci fosse una donna dai capelli ossigenati…
«Sono convinto che in tribunale avremmo vinto noi».
«E su cosa basa questa convinzione?».
«Nel diritto turco non ci sono precedenti di questo tipo, ma…».
Vedendo il mio sguardo perplesso tornò alla scrivania e cercò di spiegarsi meglio.
«Alla fine del 2001 c’è stata una riforma del diritto civile. Prima i coniugi dovevano per forza avere un regime patrimoniale di separazione dei beni. Era l’unica possibilità prevista dalla legge, non si poteva fare altrimenti».
«Con la separazione dei beni, in caso di divorzio ognuno prende ciò che è intestato a suo nome, giusto?». Era normale che non ne sapessi molto e volessi dei chiarimenti. Non avevo nessuna esperienza in campo matrimoniale!
«Sì, per immobili e auto si guarda l’intestazione del bene. Per il resto, cioè per i beni mobili, di solito è piuttosto facile stabilire a chi appartiene cosa».
«Con “beni mobili” intende anelli di diamanti e spilli da cravatta?».
«Complimenti per l’esempio. Davvero azzeccato. Ovviamente, in caso di separazione dei beni, alla donna vanno gli anelli e all’uomo gli spilli da cravatta. Con la riforma cui accennavo poc’anzi, però, è stato adottato un diverso regime legale, ovvero la comunione differita degli incrementi patrimoniali. Per tutti quelli che si sono sposati dopo la riforma, questa è stata la regola. Salvo pattuizione contraria».
«Firmando il contratto prematrimoniale, Sani e Cem hanno scelto un regime diverso da quello standard».
«Proprio così. In questo caso ci si può rivolgere a un giudice, cui spetta stabilire se l’accordo è legalmente valido».
«Mmh. Credevo che gli accordi privati fossero sempre validi».
«Ma allora non è poi così digiuna di diritto…».
«In effetti mio padre era un giurista. Si occupava di diritto penale».
«Se ha lavorato a Istanbul, magari lo conosco. Mi dica il nome».
«Abraham Hirschel». Di sicuro se lo sarebbe ricordato. Mio padre era uno di quegli intellettuali ebrei che avevano trovato rifugio in Turchia prima del nazismo.
«Cosa?». Si alzò di scatto. «Questa sì che è una sorpresa! Non avevo associato il suo cognome a… Quindi è la figlia di Abraham Hirschel? Suo padre è stato un ottimo giurista. Gli dobbiamo l’Istituto di diritto penale dell’Università di Istanbul!».
«Ma non è stato un suo studente, vero?». L’uomo che avevo di fronte era troppo giovane per aver studiato con mio padre.
«Purtroppo no, ma tutti quelli che hanno frequentato l’Università di Istanbul conoscono Abraham Hirschel. L’auditorium principale porta il suo nome. I suoi studenti sono diventati i nostri professori. Come potrei non conoscerlo? A dire il vero, avevo sentito che la figlia viveva in Turchia. Lui però è tornato in Germania, no?».
«Nel 1965».
«Sono arrivati in tanti in quel periodo, ma nessuno ha lasciato tracce come le sue. Intere generazioni di studenti… Se non sbaglio, è stato uno degli ultimi ad andarsene».
Annuii. Se mia madre non l’avesse costretto, non se ne sarebbe mai andato dalla Turchia. Comunque, quel che era stato era stato.
«Ha insegnato anche in Germania?».
«Sì». Erano praticamente le otto, il tempo a mia disposizione stava finendo. Meglio mettere da parte mio padre e tornare al contratto prematrimoniale di Sani e Cem. «Tra un attimo se ne deve andare, sono già…».
«Non si preoccupi, usciamo insieme. Passiamo a prendere Aylin e andiamo a mangiare qualcosa. D’accordo? O ha già altri programmi?».
«No, nessun programma. Ma non vorrei rovinare i vostri».
«Figuriamoci! Per me è un onore cenare con la figlia di Abraham Hirschel» replicò tutto contento.
Ecco una delle cose che mi piacciono dei turchi. Remzi Aköz era nato lo stesso anno in cui la mia famiglia aveva lasciato Istanbul per Berlino, eppure conservava nella memoria il ricordo di mio padre e ci teneva a onorarlo. Dopotutto aveva tratto beneficio in prima persona dal fatto che Abraham Hirschel avesse fondato l’Istituto di diritto penale e formato tanti giuristi. Per tutta la sera mi riservò un trattamento principesco e rispose ben volentieri a ogni mia domanda.
Dopocena, quando lui e la moglie mi portarono a casa, ero leggermente ubriaca, ma di ottimo umore

10






Di per sé un testo di legge non significava molto, aveva detto Remzi. L’importante era che avvocati e giudici lo adottassero nella pratica. Il problema del nuovo codice civile era proprio questo: ancora non veniva applicato.
Cosa sarebbe successo se il contratto prematrimoniale tra Cem e Sani fosse stato impugnato? Nessun giudice aveva ancora deciso se un accordo del genere era legalmente valido. Remzi voleva stabilire un precedente in tal senso, cioè voleva essere il primo avvocato a portare la questione in tribunale. Per questo, anche se esulava dal diritto di famiglia, aveva accettato il caso.
In Turchia si trattava di una riforma recente, ma in Germania e in Svizzera erano in vigore da anni norme simili. Remzi si era documentato su come veniva applicata la legge in questi paesi, aveva fatto tradurre le relative sentenze in turco ed era piuttosto soddisfatto di ciò che aveva scoperto.
Il Bundesgerichtshof, ovvero la corte di cassazione tedesca, tendeva a invalidare gli accordi secondo cui la moglie non aveva diritto a niente dopo il divorzio. Questo perché li considerava contrari allo spirito della legge, che nella fattispecie era evidentemente proteggere la donna. Lo scopo difensivo della legge non poteva essere annullato da un accordo firmato prima del matrimonio. Remzi era convinto che il tribunale gli avrebbe dato ragione e avrebbe dichiarato nullo l’accordo prematrimoniale. In effetti ne ero convinta anch’io. Cem avrebbe perso il processo e si sarebbe visto costretto a pagare gli alimenti a Sani.
Ciò nonostante, il fatto che tutti gli indizi fossero contro Cem non mi quadrava.
«Piantala di arrovellarti. Cosa c’è che non va?» chiese Fofo.
«Non mi piace che tutti i sospetti cadano su Cem» spiegai.
«Ma l’hai detto tu che il coniuge dev’essere sempre il primo sospettato in caso di omicidio».
«Hai ragione, ma pare che il marito di Sani abbia un alibi di ferro. E poi non mi va l’idea di aver fatto tanta fatica per arrivare a una soluzione così ovvia».
«Fatica? Per il viaggio a Lüleburgaz?».
«Per tutto! Lüleburgaz, Paşabahçe…».
«Credi che non ne sia valsa la pena? Solo perché il colpevole potrebbe essere il marito? Sinceramente non ti capisco».
«Non mi capisco neanch’io, però questa cosa non mi torna».
«Il tuo famoso sesto senso, eh?» fece lui in tono beffardo. Non è un mistero che il mio sesto senso non funziona sempre benissimo. Lo sapete anche voi, cari lettori.
«Sono solo indizi, non c’è nessuna prova contro Cem».
«Trovare le prove è compito della polizia. Sappiamo che Cem Ankaralıgil ha pagato delle persone per tenere la moglie sotto controllo, inoltre siamo quasi sicuri che avrebbe dovuto passarle gli alimenti… Secondo me è più che sufficiente per dire che l’ha guardata morire senza alzare un dito».
«E come la mettiamo con Sinan? Perché all’improvviso si mostra così interessato a me?».
«Forse perché sei una bellissima donna. Se non fossi gay, ci avrei già provato anch’io».
Era una bella risposta, ma non poteva bastarmi.
«Potrei essere sua madre».
«E allora? Conosco un sacco di uomini che stanno con ragazze di cui potrebbero essere benissimo i padri. Posso nominartene almeno una ventina senza pensarci troppo».
«Okay, ma sono tutti uomini ricchi, famosi o con cariche importanti. Io sono solo una libraia che abita in una vecchia casa di Kuledibi. Non c’è motivo per cui un ragazzo bellissimo dovrebbe farmi la corte. No, nessun motivo».
«Ti sbagli. La vera bellezza non conosce età. Sei una donna piacevole e divertente… E scommetto che sei anche brava a letto».
«Fofo, adesso stai esagerando! Come fai a dire una cosa simile? Che ne sai? Non ce l’ho mica scritto in fronte».
«Fidati, si capisce» fu la sua misteriosa risposta. «Smettila di chiederti perché gli uomini ti vengono dietro. Casomai ne riparliamo tra una decina d’anni».
«Ti vedo particolarmente in forma oggi. Come mai?».
«Forse perché sento odore di vacanza». Mi mise il telefono in grembo. «Prova a chiamare Jasmin Gil. Se è disposta a incontrarci, partiamo per Bodrum. Sarà come andare in villeggiatura. Questo è senz’altro il periodo migliore. Le orde di turisti non ci sono più, il tempo è ancora bello…».
«Non illuderti, non ho nessuna intenzione di andare fino a Bodrum». Troppo costoso. Benzina, taxi… No, avevo già speso abbastanza. Avevo anche rinunciato all’idea di fare qualche piccolo acquisto durante i saldi invernali. «Ora la chiamo, ma solo per parlare al telefono».
«Anche quello costa. Dammi retta, ci conviene andare a Bodrum».
«Basta!» sbottai. «Ho detto che non ci andiamo!».

In effetti non ci andammo. Non so dire se sia stato un caso o un capriccio del destino, fatto sta che Jasmin Gil ci fu servita su un vassoio d’argento. Quando rispose al telefono, mi spiegò che si trovava a Istanbul. Sarebbe tornata a casa il giorno seguente, ma se volevamo incontrarci subito non c’era problema, avrebbe trovato volentieri un po’ di tempo per noi, c’era sicuramente qualcosa di strano dietro la morte di Sani, non capiva perché nessuno l’avesse informata, dopotutto faceva parte della famiglia… Capii subito una cosa: era una di quelle donne che parlano a raffica, senza neanche prendere fiato.
Prima di interrompere la comunicazione, cambiò discorso.
«Come ha detto che si chiama? Hirschel?».
Confermai.
«Mmh, strano cognome. Per caso è tedesca?». Lo chiese proprio nella mia lingua.
«Veramente sono cresciuta qui. Mi sento stambuliota».
«Però la sua famiglia è tedesca».
«Sì».
«Lo sapevo!» esclamò in tono allegro, di nuovo in tedesco. Non riuscivo a capire il motivo della sua contentezza. Non stavamo parlando del Liechtenstein, che ha solo trentamila abitanti. La Germania è la nazione più popolosa d’Europa, i suoi cittadini sono circa ottanta milioni. E sono dappertutto. Di solito, quando due tedeschi s’incontrano all’estero, non si lasciano andare a manifestazioni di gioia incontrollata.
«Hirschel è comunque un cognome insolito» proseguì. Sembrava che con me volesse parlare solo tedesco. Forse perché non usava la sua madrelingua da un bel po’ e ne sentiva la mancanza.
«È il cognome di mio padre, che era ebreo» spiegai in turco. Io parlo la lingua che voglio. Non vengo mica pagata per tenere in allenamento i connazionali che vivono in Turchia. Credete che a me non manchi mai il tedesco? Certo che mi manca, ma non mi sembra un buon motivo per rompere le scatole a una perfetta sconosciuta. Quando capita, chiamo mia madre.
Inoltre cominciavo a essere un po’ stufa di dover raccontare la storia della mia famiglia a tutti quelli che incontravo.
«Anch’io sono mezza tedesca» disse lei. Poi, contentissima di aver trovato un altro argomento di discussione per il nostro incontro, mise fine alla telefonata.

Jasmin Gil mi aveva dato un indirizzo di Kurtuluş. Naturalmente, dopo tutto quello che mi aveva raccontato Fofo, non mi passò neanche per l’anticamera del cervello di andare all’appuntamento da sola.
Un tempo a Kurtuluş vivevano moltissimi armeni. Oggi in tutta la Turchia ne rimangono solo sessantamila, per lo più vecchi. Una parte di loro abita ancora a Kurtuluş. Si tratta di un tipico quartiere del ceto medio con lunghe file di case, drogherie, verdurai e venditori di sottoli e sottaceti.
Gli affitti sono piuttosto bassi. Il quartiere si trova nelle vicinanze di Taksim Meydanı, quindi in centro, e ultimamente sta attirando un numero sempre maggiore di single, gay e travestiti.
Ergenekon Caddesi è una strada a senso unico. Dato che il nostro taxi arrivava dalla parte sbagliata, scendemmo a Pangaltı e continuammo a piedi.
«È qui» disse Fofo fermandosi davanti a un bell’edificio in stile moderno, apparentemente anni Cinquanta.
Arrivati al primo piano, la trovammo in attesa sulla soglia. Era un tipo di donna che si vedeva spesso in Germania e che mi piaceva: statura media, fisico aggraziato, capelli lisci e lunghi fino alle spalle di colore biondo scuro. Era vestita di nero dalla testa ai piedi; oltre a un paio di scarpe eleganti che potevano senza dubbio corrispondere a un quaranta, indossava dei pantaloni e un maglioncino con scollo a V. Aveva il doppio mento, le borse sotto gli occhi e diverse rughe. Le diedi una cinquantina d’anni. Il corpo poteva essere quello di una ragazza, ma il viso mostrava chiaramente i segni dell’età. Ogni volta che incontro una donna di questo tipo, non posso fare a meno di domandarmi che aspetto avesse da giovane. Non riesco a immaginarmelo. Per quanto riguarda Jasmin Gil, era come se non fosse mai stata giovane. Non saprei dire come me l’ero immaginata da ciò che avevo sentito, ma di sicuro non me l’aspettavo così.
Varcando la soglia rimasi piuttosto delusa. L’esterno dell’edificio era molto bello e anche le scale avevano il loro fascino, ma le pareti storte e le porte di cartone dell’appartamento creavano un effetto baracca… Mi veniva da piangere.
Dopo averci fatto accomodare sul divano, la nostra ospite si sedette sul bordo di una sedia, come se dovesse alzarsi e scappare da un momento all’altro.
«È un piacere avervi qui» disse in tedesco.
«Il mio amico non capisce» obiettai. «Meglio parlare turco».
«Lei è turco?» chiese la donna a Fofo.
«No, spagnolo».
«Davvero? Ho vissuto un paio d’anni a Barcellona, ma ormai è passato tanto tempo. Era appena morto Franco. Un periodo di grandi cambiamenti per la Spagna».
«Io sono di Granada».
Jasmin annuì, poi, come se non avesse niente da aggiungere su Granada, passò ad altro. «Posso offrirvi un tè? Un caffè?».
«Un bicchiere d’acqua, grazie». Non volevo che sparisse in cucina per mezz’ora. Volevo tornare il prima possibile in negozio; mi ero dimenticata di avvisare Sinan.
«Io un tè lo berrei volentieri» rispose Fofo. Gli lanciai un’occhiataccia. Perché sempre nei momenti meno opportuni?
Per fortuna Jasmin Gil tornò quasi subito da noi.
«In questa cucina non trovo niente. È l’appartamento di mia suocera, o meglio, della madre del mio compagno. Adesso è in ospedale per una piccola operazione, per questo siamo qui. Purtroppo Istanbul mi fa tornare in mente un bruttissimo periodo della mia vita. Ecco perché ho deciso di partire domani, non ce la faccio a restare. Però mi dispiace, mi sento in colpa ad abbandonare il mio compagno. Voi che dite? Devo rimanere qui con lui?».
Come potevo darle un consiglio su una faccenda così personale? Ci conoscevamo da appena cinque minuti!
«Sono sicura che lui sarebbe contento di averla accanto, ma se proprio non se la sente…» azzardai, mentre Fofo faceva scena muta.
«Capisce anche lei che è una decisione difficile… Beh, torno di là a cercare il bollitore».
«Lasci stare, va bene anche un bicchiere d’acqua» intervenne il diretto interessato.
«Oh no, mi ha chiesto un tè e lo avrà. Prima o poi il bollitore salterà fuori».
Per un bel po’ dalla cucina giunsero rumori di pentole e stoviglie che sbattevano. La mia rabbia nei confronti di Fofo aumentò. Avevamo già perso un quarto d’ora per colpa della sua voglia di tè.
Alla fine Jasmin tornò in soggiorno con due bicchieri pieni d’acqua.
«Niente bollitore. Si vede che Nefise non lo usa. O magari l’ha nascosto. Ha il vizio di nascondere tutto, non potete neanche immaginare cosa combina. Ogni volta che veniamo a trovarla fa sparire la carta igienica, forse perché secondo lei ne uso troppa. Che volete, è l’età. Mi tocca sopportarla. Allora, se non sbaglio volevate parlare di Sani». Oh, finalmente! Dopo tante chiacchiere inutili si parlava di cose serie.
«La conosceva?».
«No, non ci siamo mai incontrate. Ho saputo della sua morte dal giornale. E ho pensato subito che ci fosse qualcosa di strano».
«Perché?».
«Perché? Non mi sembra tanto normale che una donna così giovane muoia in casa per un incidente».
Esatto. Come inizio non era male.
«Quindi non vi conoscevate» ripetei.
«Sa in che rapporti sono con la famiglia di mio padre?».
«Più o meno» s’intromise Fofo.
«Si comportano come se non esistessi. Come se non fossi mai nata» continuò Jasmin, concentrando l’attenzione su di me.
«I suoi genitori hanno divorziato» osservai.
«Questa è la versione ufficiale, ma la verità è un’altra. Mia madre è stata uccisa e io sono stata etichettata come pazza. E adesso, qualunque cosa dica, tutti credono che sia fuori di testa».
«Come sarebbe che sua madre è stata uccisa?».
«Le interessa? Allora parto dall’inizio». Se mi interessava? Aveva appena tirato fuori un altro possibile omicidio!
«Nei primi anni Sessanta, dopo la laurea in ingegneria meccanica, mio padre si trasferì in Germania e imparò la lingua. Riuscì quasi subito a trovare un buon lavoro, anche perché in quel periodo in molti settori c’era carenza di personale qualificato. Lui si occupava di costruzioni navali. Mia madre apparteneva a una ricca famiglia di Amburgo e lavorava come segretaria per uno spedizioniere marittimo. A un certo punto le loro strade si incrociarono. Dopo il matrimonio lui chiese un prestito al padre di lei e fondò la sua prima azienda. All’inizio era solo una piccola impresa di spedizioni, ma in poco tempo mio padre riuscì ad ampliare enormemente il giro d’affari. E nel 1966 arrivai io».
La guardai attentamente. Se aveva solo quarant’anni, li portava malissimo.
«In quegli anni i tedeschi vivevano piuttosto isolati. Non si andava ancora in vacanza all’estero e in Germania s’incontravano pochi stranieri. I turchi erano personaggi da romanzo. Mio padre non ce la faceva più a sopportare i pregiudizi della gente, voleva tornare in Turchia, ma mia madre non ne voleva sapere. Per lei i turchi, anzi tutti gli orientali e i musulmani erano… Beh, la pensava esattamente come i suoi connazionali. Non voleva trasferirsi in un paese di selvaggi. Alla fine si trovò un compromesso: lui sarebbe tornato in Turchia, lei sarebbe rimasta in Germania con me e ogni due o tre mesi la famiglia si sarebbe riunita ad Amburgo o a Istanbul».
«E sua madre non ha cambiato idea neanche dopo essere stata qui?». La domanda di Fofo era più che legittima. Era impensabile che negli anni Settanta qualcuno non volesse vivere nella splendida Istanbul. Per rinunciare a un’occasione del genere bisognava essere pazzi o chissà che.
«La famiglia di mia madre e tutti i suoi amici vivevano ad Amburgo. E poi lei non sapeva una parola di turco» spiegò Jasmin. «Comunque dopo un paio d’anni capì che non si poteva più continuare, che mio padre si stava allontanando… E così, nonostante tutto, si trasferì a Istanbul».
«Ma ormai era troppo tardi» la interruppe Fofo, lo specialista dei rapporti sentimentali.
«Già. Mio padre era già caduto nella rete di Tamaşa e stava cercando un modo per liberarsi di mia madre. Dato che vivevano separati da anni, riuscì a far sciogliere il matrimonio. Anche se lei non voleva assolutamente divorziare».
I divorzi stavano diventando un punto fermo nella mia vita. Negli ultimi giorni avevo avuto a che fare con un sacco di donne che avevano dato o ricevuto il benservito.
«Non ci ha ancora detto perché crede che sua madre sia stata uccisa» le feci notare.
«Mio padre non la voleva più, ma lei lo amava ancora. Al suo posto cos’avrebbe fatto?».
Cominciavo a intuire come sarebbe finita la storia.
«Non lo so. Probabilmente mi sarei rivolta a uno specialista per superare il trauma e sarei andata avanti senza di lui».
«Non è così facile. Non sono tutte decise come lei».
Decisa io? Magari!
«Si è suicidata, vero?».
«Sì, in un modo terribile. Sono stata io a trovarla» disse con una tristezza così profonda da far pensare che la macabra scoperta fosse avvenuta poco prima del nostro arrivo.
«Per questo sostiene che sua madre è stata uccisa? Perché l’hanno spinta al suicidio?».
«È tutta colpa di quella donna. Tamaşa. Ha portato via il marito a mia madre e ora, grazie all’azienda fondata con i soldi di mio nonno, fa la bella vita. Se la spassano come se non fosse successo niente, non hanno il minimo senso di colpa».
Jasmin Gil mi sembrava più stupida che pazza. Senza dubbio non è facile accettare il suicidio di un parente prossimo, nel suo caso addirittura un genitore, ma sprecare la propria vita nel tentativo di danneggiare la persona cui si addossa ogni responsabilità non è un comportamento molto intelligente. Così non si ottiene niente, solo tanta infelicità.
«Cosa può dirci riguardo alla morte di Sani?».
«La responsabile è sempre lei». Jasmin si piegò verso di noi. «Credete che sia pazza?».
Come ho appena spiegato, non mi sembrava una svitata. E comunque non avrei mai dato della pazza a una pazza.
«No, per niente. Quindi ha informazioni precise sulla morte di Sani?».
«Sì, e loro non sanno che le ho» rispose in un sussurro. Poi si alzò di scatto. «Vado a fare il caffè».
Non appena ci lasciò soli, Fofo ne approfittò per chiedermi: «Che ne pensi?».
«Boh». Non sapevo cos’altro dire.
Jasmin tornò da noi portando un vassoio con tre tazze. Dentro c’era un intruglio a base di caffè solubile, latte in polvere e zucchero. Se beveva tutti i giorni una simile schifezza, era normale che dimostrasse dieci anni di più! Per non essere scortese buttai giù un piccolo sorso, poi rimisi la tazza sul tavolino.
«Volete che vi racconti quello che so? Siete curiosi?».
«Oh sì, molto». In realtà il suo strano gioco cominciava ad annoiarmi.
«È omosessuale» disse finalmente in tedesco.
Questa sì che era una sorpresa!
«Chi è omosessuale?» domandai, usando a mia volta il tedesco per essere sicura di aver capito bene.
«Cem, è ovvio».
«Ehi, fate capire anche a me». Fofo moriva dalla voglia di sapere cosa stavamo dicendo.
«Secondo la signorina Jasmin, Cem è gay».
«Eh no, può essere solo bisessuale. Se va sia con gli uomini che con le donne…». Quando si parla di sessualità, il mio caro Fofo pretende che si usino i termini corretti. E fa bene. Se qualcuno dicesse che io sono un uomo, mi arrabbierei.
«Conosco la differenza tra omosessuale e bisessuale» ribatté Jasmin. «E Cem rientra assolutamente nella prima categoria».
«Ma era sposato con Sani».
«Un matrimonio di facciata. Non c’era niente di vero nella loro unione. Sani è stata pagata profumatamente per vivere con lui. Ed è stata quella donna a organizzare tutto».
Possibile? In effetti non avevamo ancora sentito nessuno parlare di “grande amore” tra Cem e Sani, ma… è proprio necessario amarsi alla follia per diventare marito e moglie?
Quanto mi mancavano le sigarette!
Avevo vissuto abbastanza per sapere che non tutte le persone sposate si considerano anime gemelle.
Però i coniugi litigano, sentono la mancanza l’uno dell’altro, si scrivono lettere e bigliettini, si rivolgono sguardi affettuosi… Sto parlando di tutte quelle piccole e insignificanti cose che caratterizzano il rapporto tra marito e moglie. Perché sembrava che tra Sani e Cem non ci fossero mai state?
Avevo mille domande che mi vorticavano in testa. Ne sparai una a caso.
«Ma Tamaşa non era contraria al loro matrimonio?».
Jasmin proruppe in una risata che la lasciò quasi senza fiato. «Non dovrebbe credere a tutto quello che le raccontano. In un modo o nell’altro Tamaşa doveva pur spiegare il matrimonio del suo unico figlio con una donna così inadeguata. Ha fatto finta di non sopportarla, ha rilasciato una sola dichiarazione e poi ha scelto la tattica del silenzio».
Aveva ragione. Non dovevo credere a tutto quello che mi veniva raccontato.
«Però lei è l’unica a dire che Cem è omosessuale».
«Ovviamente è un segreto. Non lo sa nessuno».
«Allora, più che omosessuale, dovremmo definirlo asessuale» osservò Fofo ridacchiando.
Lei sembrò infastidita dal commento. «Intendevo che lo sanno in pochissimi» precisò.
«Come l’ha scoperto? E poi, soprattutto, perché vogliono mantenere il segreto?».
«Davvero non ci arriva? Dovrebbe conoscere questo paese. Se si sapesse che a Cem piacciono gli uomini, sarebbe la fine per la holding degli Ankaralıgil. Nel migliore dei casi subirebbe gravi perdite. Ha mai visto un uomo d’affari gay?».
«Che sciocchezza» si lasciò sfuggire Fofo.
«Cosa? Non è una sciocchezza!» gridò Jasmin. Avevo la netta impressione che il mio amico non le piacesse.
«Non importa se esistono uomini d’affari gay» intervenni. «Qui stiamo parlando di Cem. Come ha saputo della sua omosessualità?».
«Faccio parte della famiglia».
Mi sembrava poco probabile che avessero raccontato un segreto del genere proprio a lei.
«Gliene ha parlato suo padre?».
«Dopo la maturità hanno spedito Cem all’estero in tutta fretta e per un anno gli hanno impedito di tornare in Turchia. La cosa mi ha insospettito».
«Okay, forse è meglio se ci chiariamo. È sicura che sia gay o è solo un sospetto?».
«Sono sicurissima!». Cominciava a provare un po’ di antipatia anche per me. «Cem aveva una relazione con il suo insegnante di educazione fisica! Per questo l’hanno mandato via. Hanno messo tutto a tacere prima che scoppiasse uno scandalo».
«In questi giorni trascorsi a Istanbul ha per caso incontrato suo padre?».
«Perché me lo chiede?».
«Non so, magari è stato lui a farle pensare che Tamaşa c’entri in qualche modo con la morte di Sani».
«Sono sei anni che mio padre non vuole vedermi. Quella donna gliel’ha vietato».
«Tamaşa?».
Jasmin annuì.
«È vero che ha tentato di sfigurarla con l’acido muriatico?».
«A quanto pare ha preso informazioni su di me. Credevo che questa storia fosse finita da tempo nel dimenticatoio».
«E dopo quell’episodio suo padre non ha più voluto vederla?» insistetti.
Invece di rispondere, girò la testa verso la finestra e osservò gli edifici che si scorgevano dietro le tende di tulle.
«Come si veste Tamaşa?».
«In che senso?».
«Preferisce lo stile classico-elegante? O porta anche cose moderne, tipo scarpe piatte?».
«Mio padre è un uomo piuttosto basso. Un figlio dell’assolata Anatolia, dice lui. Però gli piacciono le donne alte, almeno a giudicare dalle due che conosco io. Mia madre lo superava di una decina di centimetri. E lo stesso vale per quella con cui sta adesso».
«Quindi Tamaşa porta scarpe senza tacco».
«Non so se gliel’ha chiesto mio padre, comunque non l’ho mai vista coi tacchi alti».
«Non la conosce bene, vero? Immagino che non abbiate mai vissuto sotto lo stesso tetto».
«Dopo la morte di mia madre ho vissuto con mio nonno. Le vacanze, però, le ho sempre trascorse qui a Istanbul. Sennò come avrei fatto a imparare il turco? È ovvio che conosco Tamaşa. La conosco fin troppo bene. È una di quelle persone che pensano solo a se stesse, un tipo terribilmente egocentrico. Scommetto che non immagina nemmeno quante cose so di lei».
«Allora conosce Cem dalla nascita».
«Sì».
«E ultimamente non ha più visto neanche lui?».
«No. Ci siamo frequentati fino a sei anni fa, poi, dopo l’episodio dell’acido, hanno rotto tutti i ponti con me».
All’improvviso la voce di Jasmin aveva cominciato a tremare. Forse era pentita di ciò che aveva fatto.
«Le dispiace?».
«Cosa?».
Si coprì il viso con le mani e fece un respiro profondo.
«Sì, certo che mi dispiace. Ho perso mio padre per questa brutta storia. Dovevo accettarlo con tutti i suoi difetti, ma ero troppo arrabbiata con lui. Non riuscivo a capire perché si fidasse di quella donna».
Aveva le guance rigate di lacrime. Sembrava molto triste.
«Noi tedeschi non siamo capaci di scendere a compromessi. Una volta pensavo fosse meglio così, ma ora sapersi accordare mi sembra una cosa positiva. Una virtù» spiegò in tedesco. «Come si dice “virtù” in turco?».
«Meziyet».
«Meziyet» ripeté lei. «Dobbiamo cercare di andare d’accordo con gli altri, anche se non approviamo tutto quello che fanno. Solo così si può essere felici. La famiglia non si sceglie, quindi è normale che ci siano delle divergenze. La cosa più importante è imparare a superarle».
Per un attimo restammo tutti e tre in silenzio, lo sguardo fisso davanti a noi, concentrati sulle nostre famiglie e sulle divergenze irrisolte.
«Vuole sapere come si veste Tamaşa?». Le lacrime le avevano rovinato il trucco, una riga nera di mascara le scendeva lungo la guancia. Tuttavia sembrava che la crisi fosse passata.
«Sì».
«Si veste bene, ha buongusto. Completi giaccia-pantalone per il giorno e abiti classici per la sera».
Non era esattamente quello che volevo sapere.
«Sceglie anche marche giovanili?».
«Tipo?».
«Marche sportive».
«Non saprei. Mi faccia un esempio».
Non volevo rivelarle la marca che m’interessava. Era un’informazione top secret.
«Può darsi che ultimamente sia cambiato qualcosa, ma prima non era una di quelle che vanno sempre in giro con tailleur e ballerine. Metteva anche jeans e scarpe sportive. Di un certo livello, ovvio, non scarpe da due soldi. Come ho detto, ha buongusto». Si guardò istintivamente le scarpe.
«Lei che numero ha?». Ero sicura che la domanda le sarebbe suonata un po’ strana, ma non potevo non farla.
«Il quaranta. Da ragazza avevo l’abitudine di mettere le sue scarpe. Una cosa che la faceva infuriare».
«Anche Tamaşa ha il quaranta?».
«I vestiti non potevo rubarglieli perché lei aveva la trentotto e io la trentasei, ma di piede avevamo lo stesso numero. Anche se lei è più alta di me. Per quanto riguarda la statura, sono una via di mezzo tra mia madre e mio padre».
«Quindi Cem ha sposato Sani solo per nascondere la sua omosessualità?» chiesi, tornando al discorso precedente. Ero fermamente intenzionata a trovare una logica in tutto quello che ci stava raccontando.
«È stata un’idea della madre» confermò Jasmin. «Credetemi, la conosco abbastanza bene da sapere come ragiona. Per lei è sempre e solo una questione di soldi. Era sicura che una povera ma ambiziosa ragazza di provincia avrebbe accettato volentieri un matrimonio che poteva cambiarle la vita. In effetti, chi non lo penserebbe?».
«Mi sembra un po’ poco per dire che ha organizzato tutto lei».
«Quella donna ha un affetto morboso per il figlio. S’immagini che da bambino lo lavava con l’acqua in bottiglia! Quella del rubinetto non era abbastanza pura, poteva contenere qualche pericoloso microbo… Si faceva portare litri e litri di acqua minerale. E poi la matta sono io».
Di nuovo silenzio.
«Non mi credete?».
«Purtroppo la sua parola non basta» spiegai.
«Avete già parlato con lei?».
Avevo notato fin dall’inizio che Jasmin cercava di usare il meno possibile il nome della signora Ankaralıgil, ma dovevo assicurarmi che si riferisse proprio a Tamaşa.
«Lei chi?».
«La madre di Cem».
«No, non le abbiamo ancora parlato. Che scusa potevamo inventarci?».
«Non pensavo che vi servisse una scusa, siete investigatori privati. Secondo me dovete solo chiederle un incontro. Si crede molto furba, è convinta di poter manipolare chiunque. Non avrà problemi a incontrarvi, anzi accetterà volentieri. Per il solo piacere di abbindolarvi con un paio di bugie. Chiamatela, chiamatela tranquillamente. Vedrete che ho ragione».
«Crede che Cem sappia qualcosa di tutta questa storia?».
«Quale storia?». I casi erano due: o il suo turco era peggio di quanto pensassi o aveva il cervello che funzionava a intermittenza.
«Parlo del fatto che la madre potrebbe aver ucciso Sani». Il mio accenno all’ipotesi di omicidio la fece sbiancare. Proprio per questo avevo usato il verbo “uccidere”: per vedere la sua reazione. Sapevo benissimo che Sani non era stata assassinata.
«Ucciso? Aspetti un attimo: com’è morta Sani?». Forse avrebbe dovuto chiedermelo prima, ma meglio tardi che mai. «Il giornale non parlava di omicidio. Pensavo si fosse suicidata».
Ah, ecco! Jasmin credeva che Tamaşa avesse “ucciso” Sani come aveva fatto con sua madre, cioè spingendola a togliersi la vita. A volte, anche quando si parla la stessa lingua, è così difficile capirsi.
«Tecnicamente non è stato un omicidio» precisai. «Sani non era sola quand’è morta. A casa sua c’era qualcun altro che avrebbe potuto salvarla, ma che non l’ha fatto».
«Mio Dio! Sta dicendo che questa persona ha guardato morire una donna così giovane senza chiamare un’ambulanza? Se non è omicidio questo…».
«Dal punto di vista tecnico non lo è» ribadii.
«E quale sarebbe il punto di vista tecnico?» continuò lei. «Quella donna è davvero tremenda! Appena Sani ha smesso di esserle utile, se n’è sbarazzata».
«Crede che Cem sia coinvolto?».
«Cem? No, non credo proprio. Non commetterebbe mai un omicidio né lo farebbe commettere a qualcun altro. Sembra impossibile che sia il figlio di quella donna. Somiglia tutto a mio padre. È un brav’uomo, solo un po’ ingenuo».
E così anche per la sorellastra era un brav’uomo. Okay, ma… «Non ha dipinto un clown con il viso di Cem e una spada nella pancia?».
«L’ha visto?».
Scossi la testa.
«Quella nella pancia non è una spada, sono le unghie di sua madre. Lui sanguina copiosamente, ma allo stesso tempo cerca di sorridere».
«Cem faceva spiare la moglie. Dal custode del complesso in cui si era trasferita». Non mi sembrava tanto ingenuo.
«Dal custode?».
«Già. Voleva sapere chi entrava in casa sua».
«Un’altra idea della madre, senza dubbio. A lui non verrebbe mai in mente una cosa del genere. È come un bambino. Un bel bambino lavato con l’acqua minerale». Jasmin sorrise e si perse nei ricordi.
«Si è fatto tardi, dobbiamo andare» dissi. Erano quasi le sei. Forse Sinan era già passato dal negozio. «Ha deciso qualcosa per domani? Parte o non parte?».
«Non lo so. Non me la sento di partire, ma non mi va neanche di rimanere a Istanbul».
«È qui già da un po’, vero?» chiesi con grande nonchalance, come se la risposta non avesse alcuna importanza. Dovesse andarmi male come detective, potrei sempre fare l’attrice.
«Siamo arrivati più di due settimane fa. Erano sei anni che non passavo tanto tempo a Istanbul».
«Beh, capisco che se ne voglia andare».
Intanto avevo scoperto che era in città il giorno della morte di Sani.

11






Sul taxi che ci riportava a Kuledibi fui assalita dai dubbi. Dovevo fare un salto dal parrucchiere per una messa in piega veloce? O era meglio una coda di cavallo?
«Che ne pensi?» chiesi al mio amico, tentando contemporaneamente di guardarmi nello specchietto retrovisore.
«Secondo me non riusciranno a mantenere il segreto ancora per molto. Se Cem è davvero gay, presto si saprà».
«Ma no, mi riferivo ai capelli…».
Fofo rimase un po’ perplesso.
«Cosa dovrei dirti? Sono a posto».
«Guarda bene!».
Lui obbedì senza capire.
«Vuoi sapere cosa vedo? Una bella donna con una normalissima coda».
Ecco il problema: una normalissima coda.
«Lo sapevo! Dovrei andare dal parrucchiere e farmi fare una pettinatura anni Ottanta…».
Fofo rispose con uno sbuffo. «Non vengo in negozio. Vado a Cihangir e chiedo ai ragazzi se circola qualche voce su Cem».
«Ma così ti perdi Sinan!».
«E allora?».
«Allora? Pensavo ti piacesse».
«Non ho nessuna intenzione di tagliarti la strada».
«Mmh. Non sono sicura di voler rimanere sola con lui».
«Vuoi che ti tenga la manina mentre flirti?».
Ci rinunciai. «Va bene, vai dove ti pare». A volte è davvero antipatico.
In Tarlabaşı Bulvarı, poco prima di scendere dal taxi, aggiunse: «Mi raccomando, avvisami se stasera non devo tornare a casa».
«Non dire sciocchezze! Dovresti sapere che non sono il tipo…».
«Ti conosco fin troppo bene» tagliò corto.

Appena arrivata in negozio, mandai Pelin a casa. Erano le sei passate e Sinan non si era ancora fatto vivo. Forse aveva dimenticato il nostro appuntamento. Un’ipotesi un po’ deprimente, ma anche tranquillizzante. Se avessi potuto evitare…
Okay, lo ammetto: avevo paura. Non era la differenza d’età a spaventarmi, ma l’idea di un nuovo rapporto… Forse era tutta colpa di Selim.
Possibile?
Provavo ancora qualcosa per il mio ex? Non volevo sentirmi una traditrice?
No, era assurdo.
Troppo assurdo.
Purtroppo a volte i sentimenti sono proprio così. Non posso farci niente se ogni tanto la natura umana è illogica. Ovviamente preferirei comportarmi, sentirmi e vivere come una persona matura, ma…
Era passato un bel po’ da quando avevamo rotto. Nel frattempo Selim aveva sicuramente trovato un’altra donna. Ecco un altro problema: non avevamo neanche un amico comune, non potevo chiedere informazioni a nessuno. Chissà come se la passava. Chissà se si divertiva con la sua nuova compagna, se trascorreva i weekend in ufficio o sonnecchiando sul divano…
Avevo dimenticato l’odore della sua pelle. Eppure mi piaceva tanto appoggiargli la testa su una spalla e inspirare il suo profumo. Se lo baciavo mentre parlava, faceva l’offeso e diceva che non lo ascoltavo. Si capiva che non era veramente arrabbiato, ma era tanto ingenuo da credere che non me ne accorgessi. Dopo avermi sgridato, si lasciava cadere su una poltrona e fingeva di tenermi il broncio. Non immaginava che sapessi la verità. Inforcava gli occhiali e si metteva a leggere, sicuro del suo bluff. O forse sapeva che sapevo, ma non lo dava a vedere. Era così dolce.
Sembrava incredibile, ma mi batteva forte il cuore al ricordo dei nostri momenti felici, delle giornate che avevamo trascorso insieme.
Quando da piccola piangevo per un brutto voto a scuola, per le prese in giro dei compagni che mi trovavano “esotica” o per la nostalgia di Istanbul e della mia amica Behice, mio padre mi diceva sempre: «Da grande non te ne ricorderai più. Il cervello umano è programmato per dimenticare le cose brutte e conservare quelle belle». In effetti lui era riuscito a dimenticare, aveva cancellato dalla mente i ricordi dolorosi. E di sicuro non erano pochi. Una zia e due cuginetti morti in un campo di concentramento e chissà cos’altro.
Rimangono solo i ricordi positivi. Tutto il resto – o quasi – finisce nel dimenticatoio.
All’improvviso capii che aveva ragione. Non ricordavo un solo momento infelice con Selim. Era come se una grossa scopa avesse fatto piazza pulita, eliminando tutte le cose negative. Erano rimasti solo l’amore e i ricordi positivi, che conservavo nel mio cuore.
«Quando si dice essere soprappensiero». Una voce maschile.
Non mi ero accorta di avere compagnia. Non avevo neanche sentito la porta che si apriva.
Con le lacrime agli occhi, alzai lo sguardo.
Batuhan? Stavo forse sognando? Avevo le allucinazioni? Non mi aspettavo di rivederlo in negozio.
Eppure quello che avevo davanti era proprio il capo della squadra omicidi. In carne e ossa.
«Ero da queste parti e ho pensato di venire a farti un saluto» spiegò.
«Bravo». In realtà non ero tanto contenta. Non volevo che incontrasse Sinan.
«Andiamo a mangiare qualcosa? Conosco un bel posticino proprio dietro l’angolo. E poi ho una fame… Non butto giù niente da stamattina».
«Andiamo in una kebaberia. Offro io» rispose Batuhan.
«È l’ora di punta, dobbiamo aspettare che le strade si liberino un po’. Direi di fare comunque un salto al bar». Presi la borsa e spensi il computer. Dovevamo andarcene il più in fretta possibile.
«Hai già in mente un posto?».
«Sì, a Tünel».
«Allora lascio qui la macchina».
«Come vuoi». Col suo aiuto tirai giù la saracinesca.
Dato che nessuno dei due aveva voglia di passare da İstiklal Caddesi, ancora sottosopra per i lavori stradali, ci avviammo lungo Asmalı Mescit Caddesi.
«Questa zona è molto migliorata negli ultimi anni» osservò lui.
«Eh sì, adesso ci sono tanti bei locali. Possiamo rinunciare al kebab e scegliere un ristorante di pesce. È il periodo ideale».
«Sai che non me ne intendo, di solito mangio carne. Decidi tu».
«Okay, pesce. Per cambiare un po’. Ma prima un bel caffè».
Nel frattempo avevamo raggiunto il Şimdi.
«Devo chiederti un favore» disse Batuhan non appena ci fummo seduti. «Te lo dico subito, così poi non se ne parla più».
«Va bene».
«Dopo il nostro incontro ho mandato i miei uomini dai vicini di Sani e ho fatto un paio di ricerche. È stato Orhan Soner a progettare la villetta e a fare in modo che lei potesse prenderla in affitto. Sembra ci sia stato qualche problema tra l’ufficio tecnico competente per quella zona e il proprietario del complesso residenziale. Hai visto che non ci abita quasi nessuno, vero? Le case dovevano essere vendute, non affittate, ma è stato emesso un provvedimento che ha bloccato tutto fino alla soluzione del contenzioso».
«Orhan si è mosso per aiutare la sua vecchia fiamma».
«Per averla a disposizione».
Il suo modo di esprimere il concetto mi lasciò inorridita. Perché diavolo perdevo il mio tempo con un poliziotto?
Lui capì di aver sbagliato qualcosa e si corresse.
«Per starle più vicino, volevo dire».
Beh, così suonava molto meglio.
«Credi che avessero una relazione?». Io lo pensavo già da un po’.
«Sì, è la mia ipotesi. Ma i miei uomini non sono riusciti a fargli ammettere niente. Pare che non fosse neanche a Istanbul il giorno in cui è morta Sani. I timbri sul passaporto confermano la sua versione: dice di essere stato dieci giorni all’estero per lavoro. Ho controllato la lista delle partenze e il suo nome c’è, sembra tutto in ordine. Uno così è troppo furbo per i miei uomini. Non potresti pensarci tu? Sono quasi sicuro che ci sta nascondendo qualcosa».
«Quindi la polizia turca ha bisogno dell’aiuto di una straniera?».
«Come “una straniera”? Tu sei una di noi!». Mi diede una pacca sul braccio e insieme scoppiammo a ridere.
«D’accordo, ci penso io. Mi sembra di capire che i tuoi sospetti si concentrano su di lui».
«Non parlerei di sospetti. Sai che abbiamo trovato tracce di sperma sulla biancheria intima di Sani».
«Potresti chiedere l’esame del DNA».
«Con quali motivazioni? Non ho niente di concreto contro Orhan Soner. Le mie ipotesi non bastano, bisogna convincere il procuratore».
«Forse con un testimone…».
«Non c’è nessun testimone. Potremmo provare che sono stati insieme tanti anni fa, ma si tratta di una cosa vecchia. Lui non dice che avevano ricominciato a frequentarsi. Potrebbe anche ammetterlo, no?».
«Ti ricordo che è sposato. Se aveva una relazione con Sani, vorrà tenerla nascosta».
«Credi che la moglie non sappia niente? Secondo te non si è fatta neanche una domanda quando ha visto l’ex ragazza del marito trasferirsi nella casa di fronte?».
«Magari non sapeva che era la sua ex».
«Ne riparliamo la prossima volta, dopo che l’avrai incontrato».
«Okay».
«Adesso godiamoci la serata. Ne ho abbastanza di queste cose, nella vita non esiste solo il lavoro».
«Allora non ti racconto cos’altro ho scoperto…».
«No, grazie. Ho bisogno di staccare la spina» rispose stancamente. «I morti non scappano».
«Ma gli assassini sì» obiettai.
Nel caso di Sani non c’era un vero e proprio assassino, ma bisognava comunque trovare la persona che l’aveva guardata morire senza fare nulla. Avevo già messo sul banco degli imputati tutti quelli che in un modo o nell’altro erano legati alla vittima: gli imprenditori traci, i membri del TÖZ, Cem, Naz, Orhan, Tamaşa, Jasmin, Sinan… Ciò nonostante non avevo ancora individuato il colpevole.

Il mattino dopo, sentendomi accarezzare i capelli, aprii un occhio per vedere chi era. In realtà avrei dovuto immaginarlo: chi poteva essere se non Fofo?
«A che ora sei tornata?» chiese. «Non ti ho sentito rientrare».
«Era già tardi».
«Dai, racconta. Vi siete divertiti?».
Divertiti?
«Abbastanza. Cena di pesce e poi ballo» dissi, seppellendo di nuovo il viso nel cuscino.
Lui aprì le tende.
«Sveglia! Voglio sapere tutto. Dormirai dopo».
«No, adesso» farfugliai.
«A quanto pare i ragazzi ti lasciano senza energia. Strano, pensavo il contrario».
«Quali ragazzi?». Batuhan non si poteva certo definire così, anche se era più giovane di me. Il mio amico si stava sicuramente riferendo a qualcun altro… Ma certo! Sinan! Credeva che avessi cenato con lui.
«Sinan non si è fatto vedere. Non ha neanche telefonato».
«E con chi hai passato la serata?».
«Batuhan. Ha fatto un salto in negozio e siamo andati insieme in Asmalı Mescit Caddesi».
«Ti ho chiamato verso le undici per sapere se potevo tornare a casa, ma non hai risposto».
«Non ho sentito la suoneria. C’era un sacco di gente nel locale».
«Magari ha chiamato anche Sinan e non te ne sei accorta».
«Vuoi proprio spingermi tra le sue braccia, eh?».
Sapevo benissimo perché il mio caro Fofo stava cercando di trovare una giustificazione a Sinan. Non voleva che ci rimanessi troppo male per il fatto che mi aveva dato buca.
«Dico sul serio» insistette e uscì dalla camera ciabattando. «Dove hai messo la borsa?».
«Non lo so. In soggiorno, credo».
Due minuti dopo ricomparve con quello che era andato a cercare.
«Controlla le chiamate perse».
Il telefonino non era al suo posto, quindi rovesciai la borsa e feci cadere tutto sul letto: il mio taccuino, due matite, il balsamo per le labbra, la crema mani, il portafoglio…
«Non lo trovo! Forse me l’hanno rubato».
«E questo cos’è?» domandò lui, rigirando tra le mani un oggetto metallico di colore giallo.
Già, cos’era?
«Da dove è uscito?».
«Da dove vuoi che sia uscito? Dalla tua borsa».
«Boh, non l’ho mai visto».
«Ha un odore forte. Sembra profumo».
Profumo?
«Ah sì, ora ricordo» mormorai. Avevo un gran mal di testa. «L’abbiamo trovato a casa di Sani. A dire il vero l’ha trovato Naz. Sul pavimento». Nella fretta dovevo averlo infilato in borsa.
«Sembra un tappo».
«È quello che ho pensato anch’io. Dove diavolo sarà il cellulare?».
«Provo a chiamare il tuo numero».
Detto fatto. Dall’altra parte rispose qualcuno.
«L’hai lasciato in negozio. Ci sono sette chiamate perse, ma non so di chi. Non ho chiesto a Pelin di guardare».
«Meglio così. Puoi portarmi un’Alka-Seltzer?».
«Cos’hai bevuto ieri sera?».
«Rakı. Rakı. Rakı. Rakı. Whisky. Whisky. Tequila».
«Quattro rakı, due whisky e una tequila?».
«Se non ricordo male».
«Forse dovresti fare la doccia».
«Forse dovrei dormire ancora un po’».
«Alzati!». Fofo mi prese un braccio e se lo mise intorno alle spalle per aiutarmi a scendere dal letto. Se fosse riuscito a sollevarmi, sarei stata la donna più felice del mondo. Perché sarei stata magra. Tanto magra da indossare la XS. Certo, gli uomini turchi con una predilezione per le forme generose non mi avrebbero più guardato. Un aspetto da non sottovalutare. In fondo vivevo ancora a Istanbul.
«Mi stai staccando il braccio!» protestai.
«Beh, adesso sei sveglia. Ho grandi novità. Secondo i miei amici è un po’ che circola la voce che Cem Ankaralıgil è gay».
«Lasciami in pace».
Alla fine dovetti arrendermi. Dopo la doccia buttai giù un caffè nerissimo, un succo di pompelmo e un’Alka-Seltzer. Mi sembrava di avere un oceano nello stomaco; a ogni movimento si sentiva uno strano sciabordio. Mi rannicchiai in un angolo del divano.
«Devi mangiare qualcosa» disse Fofo, avvicinandosi con un piatto.
«Non ho fame».
«Non importa, sforzati. Dobbiamo fare in modo che l’alcol venga smaltito più in fretta».
Che ne sapeva della velocità di smaltimento dell’alcol? Dove aveva imparato certe cose? Forse dovevo cominciare a leggere i giornali.
«Cosa c’è nel piatto?».
«Pane e formaggio».
«Pane e formaggio» ripetei e all’improvviso la situazione mi sembrò davvero comica. Scoppiai a ridere e lo stesso fece il mio amico (forse perché ero in uno stato pietoso). Risi senza sosta finché una parte del liquido che avevo nello stomaco mi salì fino al naso. Allora smisi di colpo. Non fu tanto piacevole. In realtà mi veniva da piangere.
Negli ultimi tempi avevo perso l’abitudine di bere. Al massimo mi concedevo un doppio whisky ogni tanto o un paio di bicchieri di vino rosso a tavola. Il risultato era che non reggevo più l’alcol. Stavo veramente da cani.
«Torno a letto».
Anche Fofo capì che era la cosa migliore.
«Sì, dormi ancora un po’. Io vado in negozio».

Ero a tavola con Selim. Avevamo ordinato il filetto con salsa al pepe, ma mancavano le posate. Lui chiamò il cameriere, che arrivò subito. Con mia grande sorpresa vidi che era Sinan.
«Questo locale fa schifo!» gridò Selim.
L’altro, che portava un grembiule da cucina, infilò una mano in tasca e tirò fuori una gran quantità di coltelli e forchette. Dopo aver gettato tutto sul tavolo, si mise a parlare di cinesi che mangiano con le bacchette e di mediorientali che prendono la carne con le mani. Disse che erano tutti molto più educati di noi, per quanto le loro abitudini ci sembrassero ripugnanti. Gli occidentali che sedevano a tavola e usavano coltello e forchetta erano i peggiori! «Vergogna! Vergogna!» strillò una donna da lontano.
Selim cercò di tagliare la carne, ma non ci riuscì.
«Questa è una bistecca. Avevamo chiesto il filetto!» si lamentò.
Sinan gli rise in faccia, poi guardò me.
«Mi dispiace, non serviamo filetto alle coppie che stanno insieme da più di tre anni».
A queste parole scoppiai in singhiozzi. Ero stata io a paragonare i rapporti di lunga durata a una bistecca dura e insipida.
«Come puoi pensare una cosa del genere?» mi domandò Selim.
Tentai di difendermi con una piccola bugia, dicendo che ancora non lo conoscevo quando mi era venuta questa idea. Poi però mi sentii ancora più in colpa, perché gli avevo mentito e perché avevo paragonato il nostro rapporto a una cosa tutt’altro che piacevole.
Mi svegliai di soprassalto, in preda al rimorso. Mi dispiaceva di aver flirtato con un altro uomo, mi dispiaceva di essermi lanciata in un’altra indagine…
Fisicamente non stavo meglio. Forse mi ero scatenata troppo e mi ero presa una bella infreddatura. In ogni caso mi sentivo uno straccio. Mi faceva male anche la gola. Decisi di chiamare Fofo, ma quando arrivai in soggiorno lo trovai seduto sul divano.
«Ah, ti sei svegliata. Come va?».
«Ho la febbre» mentii. Se mi avesse creduto febbricitante, di sicuro si sarebbe occupato di me in modo più attento. Era il mio unico desiderio: che mi accudisse con ogni premura.
«Stenditi qui sul divano, ti porto una coperta».
Seguii il suo consiglio e poco dopo lo vidi tornare con la coperta a disegni blu che odiavo.
«Voglio quella gialla».
«Lo so, ma è sparita».
«L’avrà messa via Fatma. Guarda in mezzo ai maglioni».
Qualche minuto dopo, quando rientrò in soggiorno, aveva ancora in mano l’orrenda coperta blu.
«Mi dispiace, non la trovo».
«Quella lì non la voglio!» gridai, sforzando la gola già infiammata. Ero così depressa che d’un tratto cominciai a piangere.
«Che c’è?». Fofo si sedette al mio fianco e mi accarezzò i capelli.
«Sinan ha chiamato sei volte ieri sera. Puoi controllare se non mi credi».
«Non me ne frega niente di Sinan» singhiozzai. Volevo Selim, ma non lo dissi. Al mio amico non era mai piaciuto.
«Ti misuro la febbre».
Il termometro gelato a contatto con la pelle non fu una bella sensazione.
«Torno di là a cercare la coperta». Ancora una volta ricomparve dopo qualche minuto. In mano aveva il mio copriletto.
«Non so che dire, quella gialla è proprio sparita. Ti copro con questo, okay?».
«Okay».
«Ti ho fatto il brodo di pollo. Devi mandare giù qualcosa».
«Non ho voglia».
«Devi sforzarti. Poi ti sentirai meglio, vedrai. Dammi il termometro».
Lo girò tra le dita per leggere la temperatura.
«Neanche trentasette. Bene. Per domani sarai di nuovo in forma».
«Che schifo di giornata» borbottai portandomi alla bocca il cucchiaio con il brodo. Poi mi riaddormentai.

Il mattino seguente stavo molto meglio, ma Fofo non mi dava tregua. Insisteva perché telefonassi a Sinan.
«Adesso no, ho da fare».
«Ti ha chiamato sei volte! Devi per forza richiamarlo, anche solo per dirgli che non vuoi più vederlo».
Non avevo nessuna voglia di dirgli una cosa del genere.
«Lo chiamo più tardi».
Fofo prese il telefono e lo posò vicino al mio piatto.
«Allora vuoi che mi ammali di nuovo!».
«Una telefonata non ti farà tornare la febbre. Dai, ci vorranno due minuti».
«No».
«Faccio il numero».
«E poi ci parli tu. Da questa bocca non uscirà più una parola».
Serrai le labbra.
«Non fare la bambina, Kati».
Silenzio.
«Comportati da persona matura».
Silen…
«Digli che avevi perso il cellulare e che l’hai ritrovato solo oggi».
Sile…
«Prova a metterti nei suoi panni».
Sil…
«Non è bello giocare con i sentimenti di quel povero ragazzo».
Si…
«Non hai nessun senso di responsabilità».
Era incredibile quello che gli stava uscendo dalla bocca. Anzi, più che incredibile era comico.
«Se comincerà a odiare gli stranieri, sarà tutta colpa tua!».
Non riuscii più a trattenermi e scoppiai a ridere.
«Una persona come te, di solito così responsabile...».
«Va bene, hai vinto! Fai il numero e passamelo».
Sinan non rispose. Probabilmente stava dormendo; era ancora troppo presto per lui.

Dopo la schermaglia Fofo s’informò sulle mie intenzioni per la giornata.
«Voglio procurarmi una foto di Tamaşa Ankaralıgil per mostrarla ai vicini di Sani. Magari l’hanno vista da quelle parti».
«Allora ti serve qualcuno che vada da Murat per quella rivista che ha in ufficio» osservò lui spostandosi in cucina per fare il tè.
«Te ne occupi tu?» gli gridai. Il mal di gola si era notevolmente attenuato, ma provavo ancora fastidio quando alzavo la voce.
«Okay. A pensarci bene, però, in quella foto ha un abito di Valentino… Non sarebbe meglio un’immagine un po’ più normale? Non credo che girerebbe mai per le ripide strade di Paşabahçe truccata e vestita in quel modo». Nel frattempo era tornato in soggiorno col mio bicchiere di tè. Lo posò sul tavolo senza la minima accortezza.
«Ehi, attento!».
«Scusa, mi è scivolato».
Presi un tovagliolo di carta per pulire gli schizzi finiti sul piattino col formaggio e ridendo commentai: «Hai ragione, per Paşabahçe sono meglio le scarpe XOXO».
«Non mi hai ancora detto di cosa avete parlato tu e Batuhan a cena».
Gli raccontai per filo e per segno la serata. Alla fine avevamo mangiato del tonno, niente di particolare. L’altro pesce era già finito. Comunque la parte più interessante non era stata la cena, bensì il dopocena sulla pista da ballo. E proprio su questo si concentrarono le domande del mio caro Fofo.
«Fortuna in amore» disse infine. «Sarà che ormai manca poco al tuo compleanno».
Il riferimento al compleanno mi fece pensare al mio segno zodiacale e quindi a Sevim, la segretaria appassionata di astrologia.
«Hai fatto bene a ricordarmelo, Fofo. Dobbiamo richiamare Sevim».
«La segretaria dell’associazione? Perché?».
«Credo che abbiano chiesto anche a lei di tenere d’occhio Sani. Se la mettiamo un po’ sotto pressione, senza dubbio ci dirà tutto».
«Posso partecipare anch’io questa volta?».
Annuii.
«Quindi dobbiamo chiamare Sevim e Murat».
A un mio nuovo cenno di assenso si attaccò al telefono.

Nel pomeriggio incontrammo la segretaria nello stesso Palazzo del simit della volta precedente. Ci disse che aveva intenzione di cercare un altro lavoro, anche se non si faceva troppe illusioni. Voleva un impiego con tutela previdenziale, qualcosa che le garantisse una certa sicurezza in caso di nuova crisi economica. Purtroppo erano tempi difficili, il mercato del lavoro non offriva grandi opportunità e l’assicurazione sociale era solo un sogno. Naturalmente le sarebbe piaciuto trovare un posto non lontano da casa…
Io e Fofo la ascoltammo piluccando un dolce piuttosto cattivo. Dopo un po’, raggiunto il limite di sopportazione, la interruppi. «Credo che in qualunque altro posto guadagnerebbe molto meno. Dovrebbe rivedere le sue pretese».
«Non si guadagna granché lavorando per YeTer» replicò lei.
«Forse lo stipendio non è altissimo, ma ci sono i bonus…».
«I bonus?». Stava cercando di non sbilanciarsi; voleva prima scoprire cosa sapevo.
«Va bene, giù la maschera. Sappiamo che qualcuno della famiglia Ankaralıgil l’ha pagata per controllare Sani. Chi è stato?». La mia idea era sfruttare l’effetto sorpresa.
Funzionò.
«Non capisco, si spieghi meglio» chiese Sevim, tutta rossa in viso.
«Non ha parlato di Sinan solo a me e a sua sorella, vero?». Sarebbe stato meglio darle del tu, per mostrarle che la consideravo davvero poco.
Lei si alzò di scatto e afferrò la borsa che aveva appeso allo schienale della sedia.
«Non sono una spiona!».
«Rimettiti subito seduta, altrimenti chiamiamo la polizia. E scommetto che loro saranno molto meno pazienti di noi». In effetti c’era voluta una gran pazienza per sopportare tutte le sue chiacchiere sulla ricerca del lavoro.
«Chi ti ha chiesto di tenere d’occhio Sani?» domandò Fofo.
«So che tuo fratello è malato. Hai bisogno di soldi per curarlo. Se ci racconti tutto, non ti denunceremo».
Era il vecchio trucco del poliziotto buono e del poliziotto cattivo. Ognungo doveva recitare la propria parte, altrimenti l’interrogato si confondeva. Ma io ero il buono o il cattivo?
«Non so niente» balbettò lei con la voce piena di paura.
«Parla» ordinò Fofo.
Sevim si risedette e strinse la borsa in grembo.
«Non è colpa mia se la signora Ankaralıgil è stata uccisa».
«A chi hai raccontato di Sinan?».
Con un’occhiata la segretaria misurò la distanza tra il tavolo e la scala. Voleva capire se c’era una possibilità di fuga.
«Scappare sarebbe inutile» continuò Fofo. «Sappiamo dove abiti».
Si era calato perfettamente nella parte. Aveva un atteggiamento molto deciso.
«Tranquilla, non sei stata l’unica informatrice. Si sono rivolti anche ad altre persone».
«A chi?».
Pensava veramente che avremmo condiviso le nostre informazioni?
«Non importa, non vogliamo fare nomi. Non faremo neanche il tuo se ci aiuti».
«Davvero?». Era sul punto di cedere; voleva fidarsi di noi e lasciarsi tutto alle spalle. O almeno questa era la mia impressione.
«Davvero» la incoraggiai. «Quello che ci racconti rimarrà tra noi. Non lo saprà nessuno».
«Non ho fatto niente di male» disse lei e cominciò a cantare.

Uscendo dal Palazzo del simit mi accorsi che Fofo era arrabbiato. Mi rispondeva a monosillabi.
«Che c’è?».
«Niente».
«Sei arrabbiato con me?».
«Mmh».
«Posso sapere perché?».
Silenzio.
«Per l’amor di Dio, cosa ti ho fatto?».
Silenzio.
Poi si decise a sputare il rospo.
«Sevim ti ha detto che Sani aveva una relazione con Sinan. E tu me l’hai tenuto nascosto».
«O Signore!» pensai.
Sapevo cosa mi aspettava. E infatti litigammo fino a casa.