lunedì 14 maggio 2018


NOVELLE
di Arthur Schnitzler 
[Sigmund Freud in una lettera a Schnitzler del 14 maggio 1922, confessava di aver fino allora evitato di leggerlo per una specie di «timore del sosia», scriveva fra l’altro: «Il Suo determinismo come il Suo scetticismo - che la gente chiama pessimismo -, la Sua penetrazione nelle verità dell’inconscio, nella natura pulsionale dell’uomo, la Sua demolizione delle certezze convenzionali della civiltà, l’adesione dei Suoi pensieri alla polarità di amore e morte, tutto ciò mi ha colpito con una inquietante familiarità» in: S. Freud, Lettere 1873-1939, a cura di Ernst L. Freud, Torino 1960, p.312]

Ricchezza
Il mattino presto Weldein, ancora sonnecchiante, udì la voce di sua moglie. Già vestita per uscire, stava accanto al letto e diceva: «Buon giorno, Karl, io vado al lavoro». Lavorava infatti da sarta fuori casa. Weldein tirò la coperta fin sul mento, vagamente ricordava di essersi buttato a letto vestito. «Buon giorno» le rispose. Lei lo guardava con compassione, rassegnata. «Il piccolo è già a scuola… e tu, che fai?»
«Oggi non ho lavoro. Lasciami dormire.»
Se ne andò. Tutto questo non era per lei nulla di nuovo. Alla porta si voltò. «Non dimenticarti, oggi bisogna pagare l’affitto. I soldi sono nel cassetto, contati.» Poi guardò di nuovo il marito, parve ricordarsi di qualcos’altro. Si diresse verso il canterano, aprì il cassetto e prese il denaro… «Preferisco pagare io.»
«Va bene, paga tu» disse lui ridendo.
Se ne andò con un ultimo, triste sguardo. Karl Weldein rimase là, disteso, solo, a metà sveglio, gli occhi aperti. La stanza era povera, ma ben tenuta. Dalle due finestre lucenti balenavano i raggi mattutini del sole primaverile. L’orologio da parete ticchettava monotono…
All’improvviso Weldein saltò giù dal letto. Era in frac e cravatta bianca; la camicia stropicciata, le scarpe coperte di polvere, i corti capelli in disordine, gli occhi segnati di rosso. S’avvicinò al semplice specchio appeso sopra il cassettone. Si scrutò e sorrise. «Buon giorno, signor Weldein» disse, «buon giorno.» Poi saltellò per la stanza e prese a fischiettare una canzone. Infine si sedette sulla sponda del letto, accavallò le gambe e cominciò a pensare… A poco a poco doveva ricordarsene. Che non fosse stato un sogno, era sicuro: se no, come sarebbe arrivato a letto con quell’abito? Quindi l’aveva vissuto, era vero.
Di nuovo si vide in quell’osteria dove era cominciata l’avventura. Si vide seduto a un tavolo, con quella gente dai vestiti miseri, mentre giocava a carte, come aveva fatto tante altre volte. Addirittura sentì di nuovo l’odore della solita lampada fumante sul tavolo, e gli apparve la tonda figura dell’oste, appoggiata all’uscio mentre quegli sconosciuti entravano. Era successo la sera prima…! Ma era possibile?
Aveva perso il suo denaro, tutto, tutto! E gli sconosciuti, che, incuriositi, si divertivano a osservare il gioco, gli avevano prestato dei soldi perché potesse continuare a giocare, e… allora era cominciata la fortuna, l’incredibile e misteriosa fortuna.
…Weldein si alzò e prese a camminare su e giù per la stanza. I suoi occhi ardevano rivivendo nel pensiero quella vicenda… Si vide mentre con i due sconosciuti lasciava la cupa stanza dell’osteria, là non aveva più nulla da cercare; gli altri giocatori, ai quali vincendo aveva portato via tutti i soldi, si erano alzati infastiditi.
Ora se ne stava nello stretto vicolo del sobborgo e osservava più da vicino i due sconosciuti, che gli erano apparsi come gli gnomi benevoli delle fiabe!… Doveva raccontare loro chi avevano aiutato. Ah sì! chi! Un povero imbianchino che una volta sarebbe dovuto diventare pittore e al quale tutto ciò che aveva intrapreso era andato storto… ma proprio tutto! Ora doveva mantenere moglie e figlio, e tirava avanti con fatica e onestà. Solo di tanto in tanto era come se si avventasse su di lui un destino malvagio: erano quelle settimane in cui non poteva fare a meno di giocare e bere, sì, proprio non poteva farne a meno, lo volesse o no. E anche nel gioco sempre la stessa sfortuna! E oggi di nuovo, come ogni volta!
Ma chi erano gli sconosciuti? Glielo aveva chiesto con semplicità, ed essi si erano presentati: uno era il conte Spaun, l’altro il barone von Reutern, cosa che non gli sembrò per nulla strana: che fossero giovani della nobiltà, l’aveva capito al primo sguardo.
…E ora, mentre camminavano per i vicoli del sobborgo immersi nella quiete della notte, si decideva la sorte di Weldein! I due uomini al suo fianco erano infatti ingegnosi, allegri e arditi. Sarebbe mai passato loro per la mente, altrimenti, un piano tanto straordinario? Avrebbero mai escogitato lo scherzo in cui lo coinvolgevano?
Gli passavano dinanzi, l’una dopo l’altra, le singolari immagini di quella notte. Si scorse nella bottega del barbiere, dove la barba e i capelli arruffati gli erano stati acconciati con cura; si vide nel guardaroba del conte, dove aveva ricevuto l’elegante abito da sera che ancora indossava. E poi… poi si vide seduto al tavolo verde, tra tutti quei ricchi e distinti signori, nella grande, sontuosa sala da gioco del circolo, ricca di specchi lucenti, e si ricordò come, fedele all’intesa, avesse impersonato un americano di poche parole che, nel corso dei suoi viaggi, si fosse trovato qui a visitare i vecchi amici, conosciuti… ma dove?… a Mosca… o a Parigi. I due signori che lo avevano preso con sé non avevano certo immaginato come sarebbe finito il loro scherzo di carnevale… Con assoluta chiarezza Weldein rivide tutto scorrere innanzi a sé; gli pareva di sentire le lisce carte in mano; scorse le monete d’oro, le banconote che gli si ammucchiavano davanti; si ricordò che sulla sedia accanto si trovava un secchiello ricolmo di ghiaccio con una bottiglia di champagne e che lui aveva tracannato, un bicchiere dopo l’altro, l’inebriante bevanda. Rammentava molto bene anche la strana espressione sui volti degli altri giocatori: la meraviglia per la fortuna che mai gli si negava, voltasi in sgomento allorquando aveva preso a vincere con ogni carta… infine, muto e attonito per l’avventura, con lo sguardo luccicante, si era alzato: un uomo ricco!
Il conte lo aveva poi accompagnato giù per la larga scala ricoperta di tappeti, senza pronunciar parola. Erano al portone aperto. Innanzi a loro la strada era deserta. I lampioni ardevano luminosi, un’aria meravigliosamente tiepida soffiava nella notte. «Andate… signor Weldein… andate a casa…» disse il conte. E Weldein si trovò in strada, solo… con un patrimonio in tasca. Si voltò, il suo amico di illustre lignaggio scompariva proprio allora per le scale, senza più voltarsi a guardare… Le fiamme danzavano nei lampioni, e Weldein si allontanò barcollando…
E adesso, quando si metteva a pensare che cosa gli fosse poi successo quella notte, i suoi pensieri si arrestavano. Si ricordava appena di come era giunto a casa. Ma tutto questo egli lo aveva vissuto, vissuto davvero, ed era un uomo ricco, non vi era più da dubitarne… E mentre andava su e giù per la stanza, mormorava fra sé:
«E ora?… Questa notte sarà il mio segreto… questa notte è solo l’inizio di una nuova vita… Tra qualche giorno sparisco dalla città, sì certo, sparisco dalla città… Mia moglie non ha da temere, le scriverò dove potrà raggiungermi. Nel Sud… a Montecarlo… dove non sono l’imbianchino Weldein, dove non mi conosce nessuno!…» Sprofondò in pensieri.
«Bene, molto bene…» Si levò il frac, fece un fagotto di tutto ciò che la sera prima aveva fatto di lui una persona elegante. Poco dopo era innanzi allo specchio in tenuta da lavoro. Rise di nuovo… «Buon giorno, signor Weldein» gridò forte, quasi esultante. Si avvicinò alla finestra, guardò in strada. Un primaverile giorno di sole! Aprì le imposte. Il mattino soffiava dolce sulla sua fronte. Respirò profondamente, con un orgoglioso sguardo di conquista guardò in alto… Nella casa di fronte tutto era come sempre: ad alcune finestre le tende erano ancora abbassate; ad altre si vedevano signore in vestaglia pulire e spolverare e poi di nuovo sparire verso il fondo delle stanze. Giù, accanto alla porta aperta della bottega, il ciabattino lavorava col martello… Tutti si davano d’attorno, tutti lavoravano.
Karl Weldein si allontanò dalla finestra, accese un sigaro e si distese sul letto. Era ricco, era felice. Riposò forse per un’ora. Al suo risveglio il sigaro si trovava, consumato, sul pavimento accanto al letto. Si alzò con una sensazione confusa… Gli era venuto in mente qualcosa di importante. Dov’era il suo denaro?… Ne aveva fatto qualcosa. Ma che cosa? Ah sì! certo… quando, uscito da quel portone, s’era messo a vagare barcollando per le strade, si era all’improvviso accorto di non poter portare il denaro a casa con sé… era troppo!… Allora gli era venuta la folle idea di nascondere la propria ricchezza…
Nella notte, gli era parso del tutto naturale – in quei momenti in cui la testa gli girava e ardeva per il vino gagliardo – di dover nascondere il denaro alla moglie, ai vicini, a tutti!… Aveva avuto una strana sensazione di paura, quasi di colpa, mentre barcollava per le strade, una sensazione che ora gli sembrava quasi più strana di tutta la sua avventura…
…Ma che cosa cambiava?… In fin dei conti sua moglie avrebbe trovato il denaro anzitempo… e allora… sarebbe potuto rimanere in un cassetto ad arrugginire… Dunque, era successo… aveva nascosto la sua ricchezza e non aveva da fare altro che riprendersela. Certamente non ora… bisognava aspettare la notte. Quella notte doveva andare… andare… andare… Si prese la fronte tra le mani… Ma andare dove?… Allora… dall’edificio del circolo per quella lunga strada… e poi… sì, poi dove?… ecco, a sinistra… e poi… sì, dove? Dov’era andato?… a sinistra… a sinistra… a sinistra… E Weldein cercò nella memoria. Si passò le mani tra i capelli. Batté i piedi sul pavimento. Mormorò… dove?… Gridò… dove?… Andava a testa china per la stanza, in tondo. Cominciò a dire tra sé, canticchiando: «Dove… dove… dove?».
Ora si trovava di nuovo alla finestra aperta. Carrozze sferragliavano passando. Richiuse le imposte. Sferragliare di carrozze. Lo aveva sentito anche quella notte, poco prima… «Dunque, calma adesso!» si disse. «Allora… le carrozze sferragliavano per la strada… bene… e poi sono andato a sinistra.» Se ne stava là fermo, la fronte sulla crociera della finestra, a rimuginare. Si ricordava bene della buia, lunga strada… poi un incrocio… aveva proseguito a sinistra… quindi… dove?…
Rimase immobile, per minuti, di un pallore mortale, la fronte coperta di sudore. C’era da impazzire! Prese il cappello appoggiato sul tavolo e se lo mise. Si precipitò fuori della porta, giù per le scale e via, via… laggiù!
Eccola innanzi a lui, la lunga, lunga strada, alla chiara luce del mattino, ed egli continuava ad affrettarsi lungo le case. Poi, infine, giunse l’incrocio… e poi… poi era andato a sinistra, di nuovo per una bella strada, ma molto più larga! La conosceva, naturalmente, ma non si ricordava di esserci stato quella notte. D’altra parte era talmente buio. E ora si rammentò di un momento importante… si era chinato. Lo sapeva con certezza… ma quando si era chinato? Quanto era andato lontano? per minuti? per un’ora?… «Calma, calma!» si disse di nuovo, fermandosi. Rimase là e lasciò che la vita della strada gli scorresse intorno… Vestiti da estate, giovani e vecchi passeggiavano, tutti si rallegravano della nuova, bella giornata. Nessuno si curava di lui… Cercò di fischiettare un motivo che proprio allora gli veniva alle labbra. Non ci riusciva, aveva la gola serrata. «Perché sei così agitato?» si disse poi… «Sei andato a sinistra, per un bel tratto… e poi ti sei chinato. Quindi è in basso, in basso da qualche parte… questo è già molto… molto saperlo… ieri a quest’ora, infatti, eri ancora un povero diavolo… Ma… perché ci si china?… per sotterrare qualcosa… Allora l’ho sotterrato… oh… so dell’altro ancora… vi era un mormorio tra gli alberi… Allora l’ho sotterrato in un giardino… No… non era un giardino… riecheggiava… era una fontana… sì, una fontana, e mormorava… io scesi, per questo riecheggiava.» Continuò ad andare su e giù per la stessa strada, dicendo fra sé mille volte: «Mormorava… riecheggiava…». Dopo un po’ s’interruppe… «E se era una fontana… dove?… dove?… Ma no, fa ridere, non era una fontana… certo che no! Ed è bene che non fosse una fontana, non potrei proprio trovarla, è bene…» Rise. Batteva i denti, credeva di impazzire. Poi riprese: «Mormorava e riecheggiava…» Si trovava dinanzi a una mescita di liquori… Entrò e si fece riempire un bicchierino… Guardò di nuovo in strada attraverso le finestre, le persone passavano indifferenti e liete… Non faceva che bere… «Ora mi deve venire in mente… nell’ebbrezza l’uomo ci vede più chiaro… Certo… questa notte ho trovato la via nell’oscurità… solo perché ero ubriaco… così ora la ritroverò.» Quando uscì barcollava un po’, ma il suo cuore era più leggero… «Ora sono allegro» mormorò… «Trallallera, trallallà… allegro… E perché sono allegro?… perché sento che mi torna la memoria… A sinistra… sì, a sinistra! Eccomi qui… e sono andato… da qualche parte, dove mormorava e riecheggiava… Ora, allegro!… Lo troverai, Weldein!»
Era giunto in fondo alla strada e si trovò all’entrata di un grande parco; un vento leggero soffiava tra le foglie…
«Vedi, Weldein… già si sente un mormorio…» Avanzò barcollando… per un largo viale di ghiaia, ai cui lati alti alberi si pavoneggiavano nel loro splendore di foglie. Sulle verdi panchine sedevano bambinaie e giovani madri; vecchi signori e studenti passavano loro accanto; bambini giocavano con cerchi e sassi. Weldein imboccò un sentiero laterale; presto giunse a una libera distesa d’erba, sulla quale ardeva il sole… Il prato non era recintato; qui, nell’ombra della sera, solevano giocare i bambini; ora vi erano distesi a dormire alcuni giovanotti. Weldein lo attraversò barcollando. Le fronde si muovevano leggere; piano sussurravano le foglie… «Mormora, mormora…» canticchiava Weldein. Poi si lasciò cadere sull’erba infocata, e un cupo sonno lo colse. Dopo breve tempo si mise a sedere e guardò fisso innanzi a sé… La sua testa era più libera, e di nuovo prese a riflettere. «Certo è mezzogiorno passato, e ieri ero un povero diavolo… Tutto dipende dal fatto, ma sì, certo, dipende solo dal fatto che io sia calmo abbastanza da ricordarmi tutto. Che sciocchezza! Alla fine dovrò pur ricordarmi… Adesso fa troppo caldo… non si può pensare col sole di mezzogiorno che brucia sulla testa… Allora calma!… e aspettiamo che torni un po’ di fresco.» Si alzò e camminò lentamente per i viali del parco. Di tanto in tanto gli sembrava di doversi gettare a terra e scavare con le unghie nella sabbia. Digrignava i denti; si morsicava le labbra. Ogni tanto si sedeva su una panchina, ma non vi resisteva a lungo. Aveva l’impressione di dover urlare e imprecare. All’improvviso corse via… fuori da quel parco dove gli alberi mormoravano senza tregua. Non capiva cosa fosse rimasto là a fare, per tutto quel tempo… Camminò per viuzze e vicoli, ora lento, ora veloce; non pensava che non aveva ancora mangiato un boccone… Percorse in tutte le direzioni mezza città, rapido, con lacrime d’ira negli occhi, e quando giunse la sera si trovò di nuovo in quella lunga strada, di fronte alla mescita, stanco morto. E di nuovo entrò, si sedette a un piccolo tavolo e si fece versare un bicchiere dell’acquavite più forte. E quando lo ebbe innanzi a sé e lo volle portare alle labbra, non riuscì a bere; le lacrime gli scorrevano sulle guance e, il volto tra le mani, singhiozzò e pianse come un uomo che avesse perso la cosa più cara al mondo! Dapprima cominciarono a guardarlo: la graziosa fanciulla che stava al banco, e anche la gente che là cercava nuove forze o una nuova sbornia; nessuno però se ne diede pensiero, e lasciarono che il buon uomo piangesse in pace, come gli piaceva. Dopo un bel po’ Weldein si asciugò le lacrime sul viso e vuotò il bicchiere d’acquavite… Se ne fece dare un altro, e un altro ancora; bevve almeno per un’ora. Sulla strada i lampioni ardevano; scese la notte. Cadde una pioggia sottile, calda. Lo sferragliar di carrozze divenne più debole, il viavai di persone più rado. E Weldein uscì di nuovo, si tolse il cappello, lasciò che la pioggia gli gocciolasse sui capelli. L’aria della sera gli rinfrescava la fronte… Prese a camminare lento… dal mattino non si era più sentito tanto tranquillo… «Ora, al lavoro!» si disse… «Ora lo troverai.» E per la centesima volta si ripeté… «A sinistra… mormorava e riecheggiava…» Scosse il capo… «Non è tutto… è troppo poco.» Guardò innanzi a sé… e all’improvviso un lampo di speranza passò sul suo volto… «Sono partito dal palazzo del circolo… aspettiamo ancora un po’, e poi facciamo proprio come ieri. Sì, sì, bisogna fare così, e ora calma… calma!» E di nuovo cominciò a passeggiare su e giù; prese la pipa dalla tasca, la riempì e l’accese… Il tempo passerà… E Weldein attraversò ancora la città. «Dovrei passare un attimo da casa… Ah, è meglio lasciar stare… Ehm… ma, e per mangiare?… Nell’osteria dove mi hanno trovato ieri i signori? No, no, più tardi, quando avrò fame…»
I minuti e i quarti d’ora passavano lenti… il tempo si dilatava senza fine. Di tanto in tanto Weldein si riposava per brevi istanti su una panchina, poi si alzava di nuovo; la mezzanotte non voleva arrivare. Le strade si fecero deserte… La pioggia cadeva più fitta di prima… Poi la città riprese vita; le carrozze passarono più numerose, si incontrava anche più gente; i teatri avevano chiuso. Le dieci erano passate, dunque… Ancora due ore… E cosa fare sino a mezzanotte?… Di nuovo, senza che egli potesse opporre resistenza, qualcosa lo spinse in quella lunga strada. Mangiare? No, non poteva. Ma bere, sì!… Bere dà sempre un po’ di calma. Allora, di nuovo alla mescita! Ma no, non in quella dove già lo conoscevano… Meglio in qualche osteria, a mangiare un boccone. Così si beve meglio… Allora… qui. Ed entrò in una piccola osteria, si fece portare una pietanza e bevve del vino. Mangiava lentamente, indugiava tra un boccone e l’altro. Sopra la porta c’era un orologio… certamente si era fermato… No, no, solo che le lancette si muovevano così lente. Fuori sentì rintoccare l’orologio di un campanile. Contò… nove… dieci… undici… Oh… le undici! ma qui fa appena le undici meno un quarto… Ah! l’oste! Certo! Così si rimane più a lungo e si consuma di più. Si fece portare un giornale, lo lesse dall’inizio alla fine, con gli occhi ardenti, con la ferma volontà di pensare unicamente a quanto leggeva, ma non capì una sola parola… Pagò e uscì. L’orologio segnava le undici e un quarto… dunque mancava mezz’ora alla mezzanotte… Deserta, senza vita, la strada. Lentamente si diresse al circolo… Eccolo… dinanzi a lui. Il portone era spalancato, le finestre illuminate, splendenti nella strada rischiarata dalla tenue, tremolante luce dei lampioni… Il cuore gli batteva mentre, dal lato opposto della strada, osservava il palazzo. Gli parve qualcosa di immenso, una potenza di pietra. Si guardavano l’un l’altro… Le finestre sfolgoranti erano cento occhi ardenti che lo divoravano. E il momento gli ritornò alla memoria… Il grande momento in cui aveva fatto saltare il banco e si era trovato con pari diritti fra tutti quei distinti signori che sedevano allo stesso tavolo… Lassù, sì… Quelle erano le finestre. E ora via!… ancora una volta, ancora una volta a vincere quel denaro!
Procedette con circospezione… girò l’angolo… la lunga, lunga strada… oltre, ancora oltre… a sinistra… cercava di non pensare a nulla… così… bene. Dev’essere da questa parte… e adesso un’altra strada… bene… era qui… qualcosa infatti lo spingeva oltre… così… e ora… sì… là… mormorava… mormorava… davvero… cos’è… ah! il fiume!… forse era qui… certo… no… sì! Si fermò… Innanzi a lui, leggermente spumeggiante, rilucente per i riflessi dei lampioni lungo le rive, scorreva il fiume che attraversava la città. E dall’altra parte altre file di case… e lassù il cielo della notte, coperto di nuvole, dal quale senza tregua gocciolava la calda pioggia. Il rumore delle gocce cadenti si fondeva stranamente col pigro sussurrare delle onde. Allora qui?… E camminò lungo la riva; a sinistra… poi tornò indietro… a destra… e si fermò vicino a un imponente leone di pietra, una statua alla fine del ponte. Vi s’incamminò, proprio allora passava una pesante carrozza…
Il rumore si perse. Tutt’intorno silenzio, solo la pioggia e, in basso, le onde. Appoggiandosi al parapetto guardò giù, confuso, tremante… «Che cosa mi ha condotto qui… Non dovevo venirci? E adesso?» Continuava a guardare giù… lo colsero le vertigini. All’improvviso un pensiero orribile lo fece sobbalzare. «Forse… l’ho gettato nell’acqua!» E cominciò a gemere come un bambino. «Gettato nell’acqua… perché ero ubriaco… Mi sono ubriacato! E perché poi? Lassù! E perché poi l’ho voluto nascondere? A mia moglie? A mio figlio? Me l’avrebbero forse rubato? Ma ero pazzo! Che cosa ho fatto?… Che cosa ho fatto?… Lo so che il bere mi confonde… Là dentro, là sotto, il denaro! Inseguilo Weldein, stupido, ubriacone, canaglia che non sei altro!»
E si teneva stretto al parapetto, mentre gridava furioso… «Nasconderlo! Ho dovuto nasconderlo… Nel fiume… Sul fondo?… No! Non posso averlo gettato lì dentro! Tanto pazzo non lo è nemmeno il più pazzo al mondo!… Ma dov’è?… Dove? Dove? Dove?…»
La pioggia cessò… nel cielo si mostrarono scure strisce azzurre, qua e là apparvero delle stelle. La città, immersa nella notte, giaceva in un sonno profondo; di tanto in tanto un suono giungeva di lontano, appena percettibile; il canto via via più debole di bevitori che tornavano a casa… di nuovo silenzio; e sotto di lui, via da lui, verso i monti nascosti, il fiume con il suo monotono mormorio… A lungo, molto a lungo rimase là appoggiato; gli occhi erano ormai asciutti; in lui era tornata la calma… E di nuovo un soffio di vita… dall’altra parte del ponte… carretti tirati da grassi cavalli, prima uno, poi due o tre insieme: i contadini arrivavano dalla campagna per il mercato… L’orologio di un campanile vicino scoccò le ore… un colpo… due… E poi di nuovo una profonda, immensa pace. Weldein lasciò il ponte, e il mormorio si perse dietro di lui… Quando non riuscì più a udirlo, volle tornare indietro… Ma scosse il capo e proseguì il suo cammino… privo di pensieri, avanti… Guardò i ciottoli del selciato ai suoi piedi… cominciò a contare i passi… Continuò a contare, giunse fino a cento… trecento… seicento… Poi smise. Quel pensiero lo assalì di nuovo: dovette di nuovo pensarci… «Si può continuare a vivere così?» si domandò. «E che cosa ne sarà di me, ora? Sono ricco? Sono povero? Lo troverò? Non devo nemmeno trovarlo? Ma sì, è naturale… Verrà il momento in cui mi tornerà in mente. Mentre sono a letto… o domani… tra alcuni giorni… quando sarò di nuovo tranquillo…»
Avanti… fino al solito sobborgo. A oriente la grigia luce del mattino… Presto tutto si risveglierà al nuovo giorno, al nuovo lavoro. «E io?» pensò Weldein. «Anch’io di nuovo al lavoro? Io, il milionario?… Salire di nuovo sulla scala e pitturare?… E ancora stamattina mi apparteneva il mondo intero?…» Là, innanzi a lui, c’era la casa dove abitava… Si spaventò scorgendola all’improvviso… lassù la sua finestra era aperta, le tende abbassate si muovevano leggermente. Weldein si appoggiò un attimo al portone, poi prese la chiave e spalancò l’uscio. Gli sembrò un suono orribile quando si richiuse da solo. Ogni speranza, ogni fortuna era ormai alle sue spalle! Lentamente salì per le scale… tornando all’antica miseria.
E gli anni passarono. Karl Weldein pitturava soffitti e pareti, a volte si ubriacava, ma non giocava più. Lui, l’uomo ricco, per qualche misero soldo! E di tanto in tanto, quando l’acquavite gli dava alla testa, allora gli balenava di averlo trovato. Poi, all’improvviso, tutto si faceva di nuovo oscuro. Talvolta lo coglieva uno stupore immenso di non essere impazzito. Ma, superati i primi giorni, andò già meglio. Dapprima, ripercorreva ogni sera il cammino di quella notte… ma con sempre maggior tranquillità, e a volte solo con il pensiero di una passeggiata davvero bella. Tuttavia giungevano altre sere, e giornate, e notti intere, in cui si sentiva vicino alla follia. Allora… l’acquavite. Per alcuni istanti la speranza, un riverbero di felicità. Ogni tanto, quando si trovava sulla scala con il grande pennello a tinteggiare i soffitti, si augurava di cadere, quella stupida vita sarebbe così finalmente giunta al termine. Era infatti vita quella? A casa la moglie malaticcia, che con il suo lavoro di sarta guadagnava ben poco e intanto diveniva sempre più pallida e sottile. E il ragazzo, con i vestiti rattoppati, che si precipitava a casa dalla scuola sempre affamato. E poi il misero pranzo, nella stanza spoglia, senza la possibilità di dire nulla di buono. All’osteria i compagni, che pensavano soltanto a sé. E fuori, nel mondo, tutta quella felicità, tutta quella bellezza che lui, l’uomo ricco, doveva lasciar passare. E quell’affanno, doveva tenerselo per sé. Se avesse gridato al mondo: «Sono ricchissimo… infinitamente ricco… soltanto non so dov’è il mio denaro!», come lo avrebbero deriso! Deriso? Rinchiuso in manicomio!
Un giorno lesse sul giornale il necrologio del barone von Reutern. Fu per lui una consolazione. Sì, infine si muore. Gli venne in mente di aver del tutto dimenticato questa piacevole soluzione. Ora rimaneva soltanto una persona a conoscere la storia di quella sera, il conte Spaun. Weldein lo odiava. Una volta lo sgomentò un pensiero: che fare se il conte Spaun, a un tratto impoverito, si fosse ricordato di lui e gli si fosse presentato dicendo: «Mio caro Weldein, io ti ho reso ricco, ora dammi una parte della tua ricchezza!»… Il pensiero non lo abbandonò più. Tremava al ricordo del conte Spaun. E se quello, in un momento di spensieratezza, lo avesse raccontato agli amici? E questi, tutti, fossero andati da lui, per deriderlo? Ehi, signor imbianchino, non siate così avaro! Non si lascia patir la fame alla moglie e al figlio quando si ha denaro nel cassetto! E lui, che cosa avrebbe potuto dire? Io nel cassetto non ho nulla… io l’ho… non so dove! Chi crederebbe a una simile sciocchezza! Poi tornava a riflettere: la cosa migliore sarebbe stata cercare il conte e confidargli la sua sventura!… La sua sventura! Altro che sventura! La disgrazia più assurda che potesse capitare a un uomo.
Ma che importava di lui al mondo? Se ne stava sulla sua scala a tinteggiare. I capelli gli si fecero grigi sulle tempie; diventò grasso, cominciò a respirare a fatica e a tossire: i bevitori invecchiano anzitempo.
Quando il figlio ebbe dodici anni, la mamma morì. Non era stata malata a lungo; si era messa a letto soltanto quando ormai era vicina alla morte. Era dolce e buona gli ultimi giorni: baciava la mano del marito che le sedeva accanto; accarezzava i capelli del suo ragazzo.
«Karl» disse ancora l’ultimo giorno di vita, «lascia che il ragazzo faccia quel che più desidera… avrà più fortuna di te e di me.» Entrambi piangevano in silenzio al suo capezzale, il ragazzo in ginocchio, il padre seduto su una sedia traballante, che di tanto in tanto scricchiolava. E venne sera, una sera di primavera, così mite, profumata di maggio come quella sera fatale di sei anni prima. Weldein ci pensava… si vide di nuovo su quel ponte e sentì mugghiare le onde, cadere la pioggia. Aveva vegliato già due notti… ora si addormentò… Era tutto buio quando si destò; il ragazzo lo aveva scosso con delicatezza e timore. «Cosa c’è?» domandò Weldein… Dal cuscino non giungeva più alcun respiro… «Fai luce!» esclamò con voce soffocata, balzando in piedi e chinandosi sulla moglie. Esclamò: «Ehi… ehi, ehi… ehi… mi senti?». Il ragazzo giunse con il lume. Non osava avvicinarsi. Il padre gli prese il lume di mano e lo portò alla testata del letto. Forse per un minuto guardò fisso il pallido volto sul cuscino bianco. Dietro, il ragazzo piangeva… Weldein appoggiò il lume sul comodino, si voltò verso di lui e, sottovoce, disse: «Hai ragione, Franz, di piangere: la mamma è morta».
IV

Il giovane Weldein voleva diventare pittore, e il padre ne era orgoglioso. «Che sia lui a raggiungere quel che a me non è riuscito» pensava. Ma i primi tempi furono alquanto difficili! L’apprendistato cominciò con l’espulsione del ragazzo dalla scuola. Non era buono a nulla; disegnava durante le ore di lezione e non si curava delle cose che gli venivano richieste. E a casa! Talvolta sedeva innanzi a un pezzo di carta, esercitando il suo talento; ma per lo più se ne stava a oziare alla finestra, guardando per aria. Scendeva anche in cortile, a fare il diavolo a quattro con ragazzi e ragazze. Il padre tornava la sera tardi; dopo il lavoro veniva l’osteria, e infine la famiglia. Certe sere, quando il denaro non bastava per bere, prendeva con sé il ragazzo, e insieme passeggiavano per la città. Quasi ogni giorno lo stesso cammino… davanti al circolo… per la lunga strada… a sinistra… a sinistra… fino al fiume. E pensava: «Che possibilità avrebbe, se avessi quel denaro! E ora dovrà ammazzarsi di fatica perché qualcuno si accorga della sua esistenza… dovrà fare la fame prima di distinguersi.» E insieme camminavano su e giù sulla riva, tutti e due poveri, il padre che invecchiava, gli occhi semispenti nel volto gonfio, e il ragazzo al suo fianco con lo sguardo sognante… E talvolta il padre lo guardava, e si ricordava di come egli stesso, un giorno, avesse desiderato qualcosa di così stupendo, e il mondo gli fosse apparso bello e immenso. E ancora una volta, quella sera in cui era diventato ricco, sì, ancora una volta così bello e immenso. Di nuovo lo coglieva una quieta disperazione… non voleva finire tutto ciò? Ed era costretto a ripercorrere lo stesso cammino fino allo stesso ponte. Oh! era meglio ubriacarsi che pensarci sempre!… Franz continuò a disegnare e a dipingere, per lo più volti, nei quali era una certa espressione appassionata; il padre credeva di vederci del talento; sì, alcune volte gli disse: «Va’, mostrali all’Accademia, forse ti prendono!…». Ma il ragazzo non si decideva, i fogli si sparpagliavano, e per settimane, mesi interi, non faceva nulla, proprio nulla… Qualche volta, poi, aiutava il padre nel lavoro. E accadeva anche che nel misero tinteggiare sentisse destarsi il suo vero genio; allora gettava il rozzo pennello, i colori, la paga giornaliera, correva a casa e si chiudeva in camera a disegnare o a dipingere. Rimaneva là per ore e ore, gli pareva di dover compiere qualcosa di grande, di meraviglioso. E quando giungeva alla fine, era un altro fallimento. Gettava tutto in un angolo e riprendeva a non fare nulla; e sperperava il suo denaro bevendo e giocando, in compagnia di giovani sconsiderati.
Così passavano i mesi e gli anni, e la vita dei Weldein padre e figlio si trascinava di giorno in giorno tra gli stenti. Una volta Franz – aveva allora vent’anni – giunse a casa la mattina presto, quando il sole già sbirciava nella stanza. Il padre non era nel letto: era disteso a terra, respirava a fatica, aveva il viso arrossato e i capelli grigi gli cadevano spettinati sulla fronte. Franz lo guardò a lungo. Gli doleva la testa, anch’egli era tornato da una notte di gozzoviglie; aveva perso al gioco gli ultimi soldi come il padre li aveva persi nel bere… Un leggero brivido percorse il giovane. Che vita lo aspettava! Che vuota e misera vita! Dopo un po’ spinse il tavolo alla finestra, e su un pezzo di carta cominciò a buttar giù uno schizzo… All’inizio la mano era impacciata; via via che le ore passavano andava meglio. Sentiva che era qualcosa di importante. E continuò a lavorare, sempre più dimentico del mondo, come se intorno a lui non vi fosse nulla che potesse dargli pensiero. Il foglio era troppo piccolo… lo strappò, ne prese uno più grande e ricominciò dal principio. E l’entusiasmo, con tutte le sue meraviglie, si impadronì di lui. Il lavoro era tanto facile, senza più fatica. E le ore correvano, si era fatto tardo pomeriggio… Lo schizzo era terminato… Un piccolo tavolo d’osteria, intorno a esso un paio di bevitori e di giocatori, tutto qui. E, come sempre, la cosa più riuscita era l’espressione delle passioni sui volti. Osservò l’opera con sguardo ardente. Era almeno una parte di quanto aveva desiderato. Si volse, il padre era in piedi dietro di lui. «Buon giorno… Franz» balbettò.
«Buona sera» rispose Franz.
«Ah… già sera… è stato un buon sonno.» Rise. «Ci si è divertiti ieri… sì… E tu, hai di nuovo fatto qualcosa? Fa’ vedere… Così…» Guardò con attenzione lo schizzo… «Così…» Si fece serio… un sentimento di orgoglio paterno si risvegliò in lui… «Ehi!… è bello, molto bello… Una cosa così… Franz…» e tacque.
«Cosa pensi, papà?»
«Una cosa così… non mi è mai toccata… nemmeno nei tempi migliori!»
Ed entrambi, padre e figlio, indugiarono con lo sguardo sullo schizzo.
Dopo un po’ il padre prese il foglio dal tavolo e, porgendolo al figlio, disse: «Questo però portalo… in ogni caso. Portalo all’Accademia.»
V

Un paio d’anni più tardi, un piccolo dipinto del giovane Weldein era all’esposizione. Si cominciava a parlare del suo talento particolare e significativo. Una cosa tuttavia sorprendeva in lui: pareva potesse dipingere soltanto bevitori e giocatori. Era come un destino. Certo, metteva alla prova la sua arte anche su altri temi, ma nessuno voleva riuscirgli tanto bene. Talvolta sedeva come disperato innanzi al cavalletto, quando voleva evocare l’immagine dell’amore e della felicità… musi ridicoli lo fissavano, non volti angelici. Infine dovette rassegnarsi, una forza ineffabile agiva su di lui. «Sono pazzo» si domandava talvolta, «o è così perché io stesso sono schiavo di quel vizio?»… E cercava di dominarsi, voleva sottrarsi al vino e alle carte. Non era possibile… sì, non appena si allontanava per alcuni giorni dal giro degli amici, dove il giocare e il bere lo seducevano, si sentiva annientato e sfinito. Gli mancava ogni impulso alla creazione. Allora si affrettava di nuovo al tavolo da gioco, alla bottiglia… E quando poi tornava a casa a mattino inoltrato, come quella volta che aveva trovato il padre steso in terra, era di nuovo il grande artista, in grado di provare il vero piacere e la vera potenza. Doveva rassegnarsi. Suo padre era ormai vecchio e malato. Era rimasto nell’appartamento di un tempo, mentre il figlio aveva preso in affitto nello stesso sobborgo una piccola e luminosa stanza al quarto piano, vicino al cielo e alla luce. Ogni tanto il vecchio gli faceva visita e, stanco per aver salito le scale, si sedeva alla finestra e rimaneva là in silenzio, mentre Franz dipingeva o stava disteso sul divano a fumare. Talvolta parlavano e si lamentavano… Il vecchio guadagnava poco, e la fama e la ricchezza del giovane non procedevano a grandi passi…
Qualche volta il padre diceva: «Se sei capace di dipingere soltanto certe cose, il colpevole sono io. Il mio sangue è avvelenato, sì, avvelenato». Il figlio non replicava nulla e continuava a dipingere.
Nel silenzio della stanza, mentre Weldein sedeva così per ore, il pensiero dell’età, doloroso, intenso, lo coglieva. Là, davanti a sé, vedeva uno al quale non era toccato nulla di meglio… E ciò con cui avrebbero potuto essere felici, dov’era? Come un sogno, quella notte gli passava talvolta per la mente.
Poi il figlio interrompeva quel suo pensare e gli raccontava cosa stava dipingendo… Ora… una compagnia di giocatori in una casa malfamata… un paio di donne fra i tavoli da gioco, i bicchieri di champagne in mano. Era quasi finito. Poi un dipinto piccolo… un camino… lui e lei… giocano a bazzica; le carte in mano, si sorridono… Un altro quadro stava nell’angolo, non terminato… una scena medievale… Mercenari che giocano a dadi… Non voleva riuscire, non era abbastanza attuale… Il vecchio stava ad ascoltare, e intanto calava la notte. E anche il giovane pittore si metteva alla finestra, spalancandola perché potesse entrare l’aria della sera.
Era una sera d’estate, umida e triste. Il rumore della strada saliva affievolito; sempre uguale continuava la sciocca vita. Sempre il solito monotono rumore. Qualunque cosa facciano quelli là sotto, sale sempre lo stesso pigro brusio. Gli ultimi raggi di sole scivolavano lievi sui pinnacoli dei tetti e lassù si spegnevano a poco a poco, ombre si allungavano, nuvole sparse apparivano nel cielo, gettate là con noncuranza; si disegnavano strisce bianche… Durava a lungo, il tramonto. Il vecchio Weldein guardava il cielo, dove un altro dei suoi tristi giorni volgeva al termine.
Più spesso ora lo coglieva il pensiero: finirà presto? E sentiva i segni della vecchiaia, che gli si era avvicinata anzitempo.
Già da un po’ tenevano lo sguardo fisso nella sera, quando il padre ruppe il silenzio.
«Hai una nuova idea?»
«Nuova?»
«Sì, per un grande quadro, voglio dire.»
«A grandi linee… sì.»
«Davvero? E che cosa sarebbe?»
«Voglio dipingere il circolo.»
«Il circolo?»
«Sì, la sala da gioco del circolo nobiliare.»
Il vecchio Weldein si alzò di scatto. «Vuoi fare questo…?»
«Pensi che sia troppo difficile?…»
«Oh no! Ma da dove prenderai i personaggi?»
«Ma dal circolo, è semplice…»
«E come, se non ci sei mai stato?»
«Oh sì! Già due volte.»
«Là?… Nella sala da gioco?… Come hai fatto?»
«Mi ci ha portato un socio. Lo stesso signore che ha comprato il mio ultimo quadro…»
«La pallina nera?»
«Sì… Di recente è venuto alla mostra e mi ha detto che il mio talento lo interessava… poi è stato quassù a guardare i miei schizzi. In quell’occasione l’ho pregato di ottenere per me il permesso di entrare al circolo, a raccogliere osservazioni per il mio nuovo grande dipinto.»
«Ah!… E come ha fatto ad accorgersi di te?»
«Mah…, evidentemente ha visto il mio quadro alla mostra…»
«Come si chiama questo signore?»
«Conte Spaun.»
Weldein trasalì e si lasciò ricadere sulla poltrona. Era ormai notte fonda, e il figlio non s’avvide del turbamento sul volto del padre.
«Spaun… hai detto…»
«Sì, un uomo sulla cinquantina, un buon intenditore d’arte e non privo di fantasia.»
«Fantasia… in ogni caso… ha chiesto di me?…»
«Di te, papà?» ripeté il figlio sorridendo.
«Beh, dicevo, della tua famiglia.»
«Sì, di sfuggita. Se ho ancora i genitori, se sono di famiglia ricca…»
«E tu cos’hai risposto?»
«Ma che domande fai? Ho detto la verità.»
«Era molto stupito, il conte?»
«Stupito? Perché?»
«Beh, che un ragazzo con una famiglia così povera sia arrivato tanto lontano.»
«Tanto lontano! Lo pensi davvero, papà?»
«Certo! Il tuo nome è conosciuto. Si dice: il pittore Weldein.»
Il giovane sorrise di nuovo. Quella che pensava essere vanità paterna lo colmò di una dolce malinconia… Si allontanò dalla finestra e, interrompendo bruscamente la conversazione, disse: «Ora faccio luce».
«Cosa? Rimani a casa?»
«Aspetto ancora un po’.»
«Chi?»
«Il conte Spaun.»
Il vecchio Weldein si alzò. «Viene qui? Il conte Spaun?» Sembrava un grido di paura.
«Che hai, papà?»
«Niente… Ma io… non posso avere a che fare con questi signori… No, no, lasciami… Sono contento… ti gioverà molto. Stai bene, Franz.»
«Che ti ha preso?» E guardò con stupore il vecchio, sul quale cadeva un debole raggio del lume.
«Ma niente… Franz… Sei ridicolo, cosa vuoi che mi abbia preso? Me ne vado, come faccio sempre la sera; sono mai rimasto così a lungo? I miei amici mi aspettano già all’osteria! Tu andrai…»
«Vado con il conte al circolo.» E ridendo soggiunse: «Ed è un bene che io non possa giocare… E’ impressionante, papà, guardare… Ma tu non hai mai giocato, vero?»
«No, mai…»
Entrambi guardarono verso la finestra, nel buio, nel vuoto. E a entrambi apparve la stessa immagine. Uno sfolgorio di festa… Nel mezzo il grande tavolo verde; carte giocate e patrimoni che vanno ora di qua, ora di là… Li colse l’ebbrezza… l’ebbrezza dei giocatori che ricordano. L’ebbrezza delle persone che pensano basti un capriccio del caso a farle ricche e davvero felici. Un soffio d’aria fece guizzare il lume… Il tavolo verde sprofondò, lo splendore delle luci si dissolse…

Il vecchio prese il cappello e uscì. «Buona sera, figlio mio» disse ancora sulla porta. E scese le scale il più in fretta possibile. Aveva fatto in tempo. Era appena uscito dal portone quando dall’altra parte si avvicinò la figura dell’uomo che non aveva più visto da quella sera, ma che non aveva dimenticato. Con gli occhi spalancati, rimase fermo a guardare… Lo vide entrare nel portone, salire i primi gradini e sparire… come allora per la scala del circolo, quando nel cuore della notte era stato abbandonato in strada con la sua ricchezza. Weldein si allontanò dal portone, guardò su verso la finestra del figlio e aspettò. Sulle pareti di fronte apparvero delle ombre che si muovevano. Suo figlio e il conte Spaun… Rabbrividì… Perché? Un pensiero lo colse all’improvviso… Gli porterà sfortuna! Voleva tornare su, salvare il suo Franz… La luce chiara del pianerottolo lo riportò in sé… Si trattenne… «Pazzo» si disse. E se ne andò all’osteria.
VI

La mattina presto, Franz Weldein tornò a casa; colmo d’impressioni, sì, quasi con entusiasmo si sedette a buttar giù alcuni schizzi. E tuttavia… c’era qualcosa che lo disturbava. «So cos’è» diceva. «So cosa mi manca… Sì, se potessi sedermi in mezzo a quella gente e provare ciò che loro provano, allora sarebbe diverso! Allora potrei farne un quadro! Sì, solo allora!»
Intanto continuava a tracciare schizzi. Dopo un’ora si sentì stanco. «Voglio riposare un po’» pensò… «Non mettermi a letto… voglio solo riflettere…» Si allungò sul divano… Chiuse gli occhi e il dipinto prese a svilupparsi dinanzi a lui. Ecco la sala nella sua orgogliosa semplicità. I quattro grandi specchi nelle cornici d’oro… Singolari riflessi dall’uno all’altro. Un alto signore dai biondi baffi sulla porta, una gardenia all’occhiello… Un gruppo di spettatori a una delle grandi finestre, mentre chiacchierano e fumano sigarette… E poi i giocatori al tavolo… Il signore con la barba nera. No… non dovevano essere riconoscibili… Soltanto un piccolo accenno a ciascuno… In ciascuno la passione del gioco trova una propria particolare espressione. Quasi tutti appaiono calmi, tuttavia lui, l’artista, vede ciò che è nascosto agli altri… intorno alle labbra di uno, agli occhi di un altro, sulla fronte di un altro ancora, egli riconosce il riverbero dello stesso fuoco.
Franz Weldein stava disteso con gli occhi chiusi, sentiva di avvicinarsi al vero. Il rumore di passi pesanti lo fece sobbalzare, spaventandolo. Qualcuno era entrato. Il pittore aprì gli occhi. «Chi c’è?» Era un giovanotto sconosciuto. Weldein si alzò in fretta.
Il giovanotto parlava precipitoso, tenendo il cappello in mano. «Vi prego… signor Weldein, vostro padre si è… vengo da casa… si è ammalato… Venite.»
«Malato? Ma come?… Cos’è successo?»
«Questa notte, quando vostro padre è rientrato…»
«Allora?»
«Ha gridato e cantato tutta la notte, e ora ha la febbre…»
«La febbre? E il dottore è già arrivato?»
«No, a casa hanno detto che prima dovevo venire da voi…»
«Venite!»
Tutti e due si affrettarono a scendere. Per la scala, Franz Weldein disse:
«Nella casa accanto abita un dottore… Andate a chiamarlo, intesi?»
«Sissignore.»
Il giovane artista corse alla casa del padre, non molto distante. Pochi minuti dopo si trovava al letto del malato. Una vicina aveva fino allora vegliato su di lui.
Il vecchio era disteso sul letto con gli occhi chiusi e si lamentava. Il volto era molto arrossato… Non riconobbe il figlio. Questi lo chiamava: «Papà, papà!» La vicina, una buona vecchia, volle consolare il giovane. «Ora è già più tranquillo» disse. «Sì, sì…» disse Franz. Entrambi rimasero per un po’ a guardare il vecchio senza sapere che fare. «Ecco il dottore» disse la vicina.
«Oh finalmente!» esclamò Franz, andando incontro al medico che stava entrando, un uomo ancora giovane che egli stesso, qualche volta, aveva consultato. «Allora, che c’è?» domandò il medico. «È vostro padre, mi è stato detto.»
«Sì, signor dottore, mio padre»… e rivolto alla signora… «Vi ringrazio molto. Forse più tardi ci sarà ancora bisogno di voi, se sarete così gentile!» La donna se ne andò.
Il dottore si era avvicinato al letto e osservava attento e serio il vecchio. Il figlio stava lì ansioso… Guardò il dottore posare l’orecchio sul petto del malato, tese l’orecchio mentre quello gli prendeva il polso e contava i respiri. Dopo alcuni minuti, la visita parve essere terminata…
«È in pericolo?» chiese il figlio.
«Vostro padre ha una polmonite.»
«Una polmonite… allora ne può uscire…»
«Certo che può. Ma sembra… Vostro padre amava gli alcolici… non è vero?»
«È così. Può avere importanza?»
«Purtroppo sì, signor Weldein. Del resto non c’è ancora motivo di scoraggiarsi. Beh… staremo a vedere…»
«Allora è in pericolo» sussurrò Franz.

Il dottore non rispose, diede prescrizioni e consigli. Il giovane ascoltò attento e triste. Il medico si congedò con parole cordiali, e Franz rimase solo con il malato. Ora il vecchio sembrava tornare in sé e, come in sogno, prese nelle sue la mano che il figlio gli porgeva. «Vuoi qualcosa, papà?… papà… vuoi qualcosa?» Muoveva le labbra… Il figlio si chinò cercando di leggervi qualche parola. In quel momento, però, il vecchio Weldein disse, chiaramente ma con voce rauca: «Bere!»… Poi cominciò a tossire, a lungo, con pena…
VII

Per i primi giorni la malattia fu sopportabile; ma la terza notte la tosse aumentò, i lamenti divennero angosciosi, il viso stravolto. Il malato parlava nel sonno, voleva saltar giù dal letto. Non tentò una volta sola, forse una decina; soltanto verso il mattino migliorò. Anche la giornata successiva fu difficile. La sera del quinto giorno il dottore disse al figlio: «Mio caro signor Weldein, la situazione è seria. Dovete prepararvi, è mio dovere dirvelo.» «Prepararmi…» ripeté Franz con profonda costernazione… «Prepararmi.» «Calmatevi, amico mio… Siete un uomo.» E, detto questo, se ne andò… Il giovane Weldein rimase là, inchiodato, a guardarlo… per minuti. Il lume a capo del letto guizzava, nel centro della stanza, sul tavolo, si trovava una lampada a olio che ardeva a fatica.
Franz andò un paio di volte su e giù per la stanza, come cercando qualcosa, poi si mise ai piedi del letto, appoggiando le braccia alla spalliera; era spossato, talvolta vicino ad appisolarsi… Il suo braccio non lo reggeva più e il letto scricchiolava… Allora trasalì e si allontanò di nuovo. Andò per un po’ nel corridoio, dove, dalla finestra aperta, entrava l’aria fresca. La luna piena illuminava le mattonelle. Nel morbido e dolce splendore vi era qualcosa di carezzevole e confortante. Al giovane venne allora l’idea di lasciare che quella luce si diffondesse nella stanza del malato, tornò di là e alzò le tende della finestra… La luce fluì sul davanzale, sul pavimento, sul letto; le bianche tele di lino splendettero di un chiarore azzurro. Tra esse il volto emaciato del vecchio riluceva pallido… così pallido… e le labbra bianchissime… Sul canterano brillavano le bottigliette vuote delle medicine… Il giovane Weldein rimase alla finestra, stanco, triste, senza forze. E allora, proprio allora, per la prima volta dall’inizio della malattia del padre, pensò a qualcos’altro… Gli riapparve il quadro, e si vide seduto innanzi al cavalletto… a dipingere. Pennellata dopo pennellata, lo abbozzava nella mente… Per alcuni istanti dimenticò quanto aveva intorno… All’improvviso udì la voce del padre. Si era destato! Parlava! Com’era possibile? E ancora: «Franz! figlio!». «Chiami, papà? papà!» E già era vicino al letto a prendere la mano del malato che lo guardava con gli occhi spalancati, ma non parlava più. «Vuoi qualcosa, papà?»
Il vecchio Weldein chinò la testa. «Come? Che vuoi dire?» domandò Franz. Si sedette sulla sponda del letto, guardando il malato con occhi interroganti. «Un miracolo, figlio, un miracolo» disse questi.
«Come? Ti senti di nuovo bene… guarito?»
«No… o no… morirò… ma… oh… se solo riesco a dirlo.» Chiuse gli occhi, respirò profondamente; con tutte le sue forze pareva voler trattenere la vita che gli sfuggiva.
«Figlio… vieni più vicino… più vicino alla mia bocca… un miracolo… per vent’anni l’ho dimenticato, ora me ne ricordo. Ascolta…»
«Ascolto…»
«Franz, tu sei ricco… Nascosto sottoterra c’è un tesoro per te.»
Il figlio guardava il malato con compassione e spavento… ora gli era chiaro: il vecchio delirava. Ma questi notò l’espressione sul volto del figlio e disse: «Dico la verità… un tesoro… presso il ponte… il Ponte dei leoni… Ho vinto quel denaro… l’ho seppellito; l’ho vinto al circolo e poi l’ho nascosto.»
«Al circolo? Del denaro?»
«Sì, il conte Spaun… domandaglielo… ti racconterà che una sera mi prese con sé e io vinsi tanto… E poi ho bevuto… molto… moltissimo… E poi ho nascosto il denaro. Ho dimenticato dove… È stato un tormento… Tu lo sai che tormento è stato. Per tutta questa vita… E ora… ora…»
Si era alzato a sedere sul letto; la voce era diventata più energica; più energica anche la pressione della mano con la quale stringeva quella del figlio, che ascoltava con il fiato sospeso.
«Ora, all’improvviso, mentre ero qui disteso, mi è tornato in mente. Tutta quella notte! Il ponte, sì! Il ponte… Era là, lo sapevo! Sotto il ponte… sotto le pietre… vicino c’era un martello… scavai in terra… nascosi il denaro, poi battei con il martello… per questo sentivo mormorare e riecheggiare.»
«Papà! Dove? Non capisco! Un tesoro… sotto il ponte, dove?»
«Il Ponte dei leoni… la stradina da questo lato, sotto il ponte, vicino al fiume… di questa stagione a due passi dall’acqua. Là una stradina stretta arriva fino al punto d’attracco… è lastricata. La stavano facendo proprio allora, era appena terminata. Con un martello feci saltare il lastricato… Là c’è il denaro!»
«Ma…»
«Non ci credi. È così…»
«Sotto il Ponte dei leoni?»
«Sotto la stradina lastricata… sarà là di sicuro!… Lo vedo. Vedo anche me stesso mentre lo metto sotto le pietre. Non possono averlo portato via, no… lo troverai, sarai ricco e felice.»
«Papà!… Sogni ancora.»
«No, non sogno! Lo so.»
«Ma la stradina sotto il ponte è lunga.»
«Oh no, non è lunga… al secondo pilastro, lo troverai con un colpo di martello.»
Franz si prese il capo tra le mani, non comprendeva ancora bene.
«Figlio mio… fa’ in fretta… vai!»
«Adesso?»
«Sì, adesso che è notte. Prendi il mio camiciotto da lavoro… e il martello… è di là… vicino alla stufa… sì… vai subito… voglio fare in tempo a vederlo… è in un fazzoletto, banconote e oro. Vai… vai!»
Il figlio si alzò, senza sapere ciò che faceva si affrettò fuori. Nell’ingresso prese dall’attaccapanni il camiciotto bianco del padre, prese il martello che era là, e lo nascose sotto la giacca. Ora non pensava ad altro che al tesoro… per il moribondo non aveva più pensieri… innanzi a lui il denaro danzava e vorticava, il denaro… oro che danzava luccicante! E in fretta se ne andò. Le strade erano vuote, corse attraverso di esse… poi giunse alla lunga via per la quale molti anni prima il vecchio Weldein aveva portato il denaro vinto… e presto fu al ponte sul quale il padre, il giorno successivo, era rimasto disperato e afflitto, mentre tutta la ricchezza che lo avrebbe reso felice giaceva sotto i suoi piedi. Qui, dunque… e già era arrivato al secondo pilastro… Su di lui correvano le arcate del ponte, di fianco mormorava il fiume, portando sulle onde i raggi della luna.
Franz Weldein si mise all’opera. Dopo pochi minuti aveva tolto due strati di pietre. Niente… niente. Adesso una carrozza sferragliava di sopra, sul ponte… cupa… pesante… Franz riprese… Qui… sì… qualcosa che sembrava il capo di un fazzoletto… e ora… ancora una pietra… Di nuovo si sentiva mormorare e riecheggiare… e questo? eccolo! Sotto il ponte era buio, con entrambe le mani Franz afferrò qualcosa di bianco che era là. Un fazzoletto… fatto su. Allarghiamolo. Disfece i nodi… oro… banconote… Sì, era lui! Il tesoro! La ricchezza, la felicità! E Franz nascose tutto sotto il camiciotto… le mani tremavano… Era possibile? E quando venne fuori di sotto il ponte e la luce della notte lo circondò benevola con il suo splendore, avrebbe voluto cadere sulle ginocchia, piangere… per la gioia… per la felicità. Si mise a correre… all’improvviso si fermò… Si guardò intorno. Nessuno nelle vicinanze? Sì, un paio di persone tranquille a passeggio… Ma camminare tanto in fretta nel pieno della notte poteva suscitare sospetti. Sospetti? Aveva commesso un’azione ingiusta? Ma… tuttavia… E così proseguì con passo lento, la mano sinistra disinvoltamente in tasca, la destra a custodire il suo tesoro sotto la blusa.
A poco a poco un sentimento di pace infinita s’impadronì di lui… Ora tutto andava per il meglio. E il suo dipinto era come se fosse già terminato… Pace, ricchezza… tutte le delizie della terra! E il vecchio uomo che doveva morire? Il giovane Weldein affrettò il passo… chissà, forse la vista del denaro ritrovato lo avrebbe fatto guarire. Che cosa lo aveva fatto ammalare? La povertà, la disperazione, la miseria. Da lui, allora! In fretta, a portargli la felicità e la certezza di giorni migliori. Quando giunse nell’ingresso tutto era tranquillo. Niente precipitazione! Si cambiò la giacca, appese il camiciotto da lavoro al solito posto. Infilò il fazzoletto con il denaro sotto la camicia. Poi entrò nella stanza. «Papà!» gridò, «eccolo! l’ho trovato!» Si precipitò al letto, il malato era privo di coscienza, il respiro affannoso. Sudore freddo sulla fronte. Certo, era prossimo alla fine.
«Papà!» gridò Franz… Nessuna risposta!
Invano Franz si affaticava a svegliare il malato… lo chiamò, gridò, gli accarezzò i capelli in disordine. Gli fece vento soffiando… Gli strofinò con le mani calde le braccia e le gambe fredde… Una volta gli parve che gli occhi facessero per aprirsi. Niente… niente… Il respiro divenne più debole… Nessun movimento, nessuna risposta, il tempo passava, Franz rimase lì seduto, senza sapere che fare… «Papà!… Il denaro! L’ho qui.»
Verso mattina venne il dottore. Rapido si diresse al letto, salutando in modo appena percettibile… Prese il polso… «Non si sente più…» disse.
«Come… volete dire che…»
«Vi prego…» sussurrò il dottore portando il dito alle labbra. Voleva silenzio, per sentire il respiro. Stava là in piedi… poi si chinò sul petto del vecchio e vi pose l’orecchio… Dopo dieci, venti secondi si rialzò lentamente porgendo la mano destra al figlio, che ai piedi del letto guardava con sguardo ansioso il dottore. Silenzio… poi Franz proruppe prendendogli la mano: «È morto?»

«Ha finito di soffrire» disse il dottore commosso. Franz si lasciò cadere su una sedia, e intanto sentì le monete risuonare sul suo petto. Trasalì, le afferrò con una mano. Poi guardò il dottore, se n’era accorto? No! Era andato alla finestra. L’aprì. «È così umido qui» disse piano. Il sole del mattino brillava sui tetti delle case vicine.
VIII

Due uomini salivano insieme la scala che portava al circolo… il conte Spaun e Franz Weldein.
«Siete davvero nella giusta disposizione?» chiese il conte…
«Ve ne stupite?»
«È comprensibile! Pensate: lasciate il sepolcro appena chiuso di vostro padre e venite di corsa da me scongiurandomi di condurvi oggi qui, in questo luogo di splendore e di gioia.»
«Per me non è questo! Per me è il luogo dei miei studi… E proprio questo quadro mi sta a cuore, devo dipingerlo, devo dipingerlo in fretta…»
«Ma avete già fatto molto, no?»
«Schizzi… sì… mi manca ancora qualcosa… sì, qualcosa.» Erano intanto giunti nell’anticamera, e andarono diritti nella sala da gioco.
«E cos’è che vi manca?» domandò il conte.
«Forse vi metterete a ridere.»
«Mai del capriccio di un artista, mio caro.» Erano entrati nella sala da gioco e si trovavano vicinissimi al tavolo verde intorno al quale sedevano i giocatori.
«Ecco, signor conte» riprese il giovane Weldein, mentre il suo sguardo era rivolto alle carte. «Mi manca ancora l’ispirazione per il dipinto.»
«Ah… Questo non è affatto strano. Troverete di certo il momento felice!»
«Quando?»
«Questo non lo posso sapere» disse il conte sorridendo.
«Ma io lo so» proruppe l’artista con tanto impeto che il conte lo guardò sorpreso.
«Ebbene?» domandò questi.
«Io stesso, sì, signor conte, io stesso devo provare una volta quel che provano queste persone.»
«Come?»
«Cercate di capirmi, signor conte! Purtroppo… io lo so, nella mia arte vi è qualcosa di malato… lo sapete… sono in grado di dipingere solo determinate cose, e ciò non è proprio normale.»
«Sì, sì» disse il conte, «questo è un po’ folle.»
«Folle» sottolineò Weldein, «sì, è la parola giusta… e io sono così folle» prese a sillabare… «così folle da voler giocare qui…»
Il conte Spaun lo guardò fisso, tranquillo… «Qui?»
«Sì…»
«Ehm!»
«Devo potermi impossessare delle scintille di questo fuoco… Voi di certo mi capite; di queste… proprio di queste scintille ho bisogno!…»
«La vostra idea, caro amico, è difficilmente realizzabile… In sé, non la troverei così folle… Sì… vi è dietro una profonda riflessione… Ma sapete, quanto siete visto volentieri qui come artista di cui si sa che cerca respiro e vita per la propria opera, tanto…»
«Come, signor conte? Una vostra parola non basterebbe a concedermi per… per una sera soltanto il diritto di sedere a questo tavolo…»
«Ma certo, questo non potrebbero rifiutarmelo… ma…»
«Cosa vi trattiene?» Con sguardo ardente, intanto, il pittore seguiva le enormi somme che andavano di qua e di là per il tavolo e che venivano puntate sulle carte.
«Lo vedete da voi, mio giovane amico, qui si giocano somme…»
«Oh signor conte… Questo non è un motivo.»
«Non è un motivo? A me pare di sì.»
«Possiedo tanto denaro quanto…» e guardò il conte diritto negli occhi, «quanto mio padre ha vinto a questo tavolo.» Il conte rimase per un attimo senza parole… Poi indietreggiò di un passo e, sotto voce e in fretta, disse al giovane Weldein: «Da quando lo sapete?».
«Dalla sua ultima ora!» «Certo. Lo pensavo! Dapprima credevo lo avesse perso al gioco, scialacquato… Invece, l’aveva messo sotto chiave! Era diventato un taccagno!»
«No, signor conte… non è così… è andata diversamente… Più tardi ve lo racconterò… è sufficiente che io lo abbia ereditato, che io lo possieda.»
Senza aggiungere una parola, il conte si diresse con l’artista al tavolo da gioco e disse: «Signori, il nostro giovane amico, il pittore Weldein che voi tutti conoscete… desidera avere l’onore di prender parte per una volta al vostro gioco».
«Con piacere… certo, prego, venite qui…» risuonò tutt’intorno a lui. Si sedette. Era vero!
Al tavolo verde! Lo prese una deliziosa eccitazione… Tirò fuori le banconote e le pose innanzi a sé… Poi… qualcosa passò veloce davanti a lui… una carta. Fece per prenderla. «Scusate» disse il cartaio, «è per il vostro vicino.»
Ah, sì, naturalmente… non toccava ancora a lui… il vicino perse. Era una fortuna per lui, per Weldein. Poteva osare una somma più consistente, perché ora ben più grande era per lui la probabilità di vincere. Dunque… davanti a lui si trovava la carta.
Perse… Ah! la prima mano! La si recupera presto… Puntò di nuovo, una somma più grande di prima. La carta di Weldein perse di nuovo. Una terza mano… ancora di più… di nuovo perso.
I giocatori guardavano stupiti il giovane: non lo avevano pensato così ricco.
Egli sedeva sorridente, ma con lo sguardo stranamente fisso… Il conte Spaun gli disse sottovoce: «Ora avete di certo abbastanza spunti. Vero?».
Ma il giovane non si mosse… continuò a giocare e a perdere ininterrottamente. Si erano raggruppati degli spettatori; ci si stupiva del gioco ardito del pittore. Presto fu chiaro a tutti che aveva ricevuto una grande eredità, e che una buona parte di essa era già persa. Allora il conte disse: «Non volete riposarvi un poco?».
Ma Weldein continuò a giocare. Perdeva una mano dopo l’altra. Cominciarono a compiangerlo, scuotevano il capo per le sue folli giocate. La sua sfortuna era incomprensibile… Solo per un istante sembrò che la cosa volesse prendere un altro verso. Ma no. Tornò subito la sfortuna di prima. Ed egli sorrideva sempre, alla fine si mise addirittura a ridere! Poi si alzò. Aveva finito. «Buona sera, signori» disse. Gli fecero largo, come a una persona la cui sfortuna merita rispetto. Si diresse all’uscita. Lo seguirono con lo sguardo. Il conte gli tenne dietro. Weldein si affrettò giù per la scala, poi per la strada. All’angolo lo raggiunse il conte.
«Weldein… Weldein!»
«Ah… voi, signor conte!»
«Dove andate così di fretta?»
«Non lo so…»
«Non fate nessuna pazzia. Capito? Nessuna pazzia. Non è andato perso niente.»
«No, niente!»
«Denaro vinto! Se fosse stato guadagnato, sudato lavorando…»
Il giovane artista non rispose nulla, andò avanti rapido, incamminandosi per il lungo vicolo… come un tempo suo padre. A fatica il conte riusciva a restargli al fianco. Ripeté: «Ma dove correte? Venite con me… a bere ancora un bicchiere.»
«Siete molto gentile, signor conte; ma, se volete seguirmi… devo andare in un luogo strano, devo andare.»
«Dove?»
«Dove? Dove mio padre quella sera ha sotterrato il denaro.»
«Ah, sotterrato!»
«Sì… e poi dimenticò il posto.»
«Lo dimenticò?»
«Sì, lo dimenticò? Per vent’anni visse come un uomo ricco che però non sapeva dove si trovasse il suo denaro. Magnifico, non è vero? E sul letto di morte gli tornò in mente.»
«Come? Ma che storia è questa?»
«No, è la verità, signor conte! E che vita! L’eterna miseria… essere ricco e vivere di stenti… E io! All’improvviso è toccato a me! Ed ero un uomo libero…»
«E adesso dove mi conducete?»

«Venite, presto saremo arrivati!»
«Sì, e che cosa volete andare a fare là, adesso?»
«Un capriccio.»
Per un po’ proseguirono rapidi, in silenzio. Giunsero alla riva.
«Qui… il ponte.»
«E ora?» domandò il conte.
«Seguitemi!» Si affrettò giù per la stradina sotto il ponte… Si gettò a terra accanto al pilastro ed esclamò: «Qui! Qui!»
«Cosa…?»
«Era qui… Qui l’ho dissotterrato. E… vedete… vedete…»
«Ma che cosa? Io vedo che le pietre sono umide per gli spruzzi.»
«Come? Ma guardate qui!» Stava appoggiato su un ginocchio e prendeva con la mano le pietre.
«Ma cosa devo vedere?»
«Qui c’è ancora denaro!»
«Come?»
«Oh, che quantità! che somma!»
«Ma cosa vi passa per la mente?»
«Oh…» e frugò con le unghie nella sabbia, tra le pietre, «sono di nuovo ricco.»
«Weldein! Non siate così pazzo!»
«Eh, che fortuna… che fortuna», intanto si riempiva la tasca di sabbia e piccole pietre.
«Ma… Weldein! Siete fuori di voi! Riprendetevi! Pensate che avete ancora qualcosa da fare al mondo! Raccogliete i vostri pensieri! Vi aspetta una grande opera! Il vostro quadro!» Ma il pittore non lo stava ad ascoltare. Scavava e si metteva le pietre in tasca. Il conte lo prese per le spalle ed esclamò: «Basta! Venite! Venite!». Weldein si sollevò lentamente. «Oh, vengo… riportatemi là… signor conte!»
«Dove?»
«Ma al circolo! Ora posso di nuovo giocare!»
L’altro rimase lì senza sapere che fare. Era possibile? La perdita lo aveva fatto impazzire? Tutti e due risalirono e si fermarono accanto al ponte. Il conte prese la mano del giovane artista: «Calmatevi». «È tardi… dobbiamo tornare in fretta» replicò Weldein.
«Ma…!»
Weldein si liberò con uno strattone, e in una folle corsa si addentrò per i vicoli deserti. Il conte lo seguiva chiamandolo ad alta voce. Dopo alcuni minuti il giovane era così lontano che l’inseguitore non poté più raggiungerlo. Dov’era corso, ora, il folle? Proprio al circolo… E il conte affrettò di nuovo i suoi passi. «Si sarà calmato» pensava lungo la strada. «Quell’improvvisa eccitazione è comprensibile. Ma dov’è andato ora? Lo ritroverò! Se lui stesso… No!» E si affrettò. Presto giunse nelle vicinanze del circolo. L’altro gli stava venendo incontro.
«Eccovi, Weldein… E allora?»
«Oh, signor conte, signor conte!» Sembrava piangesse.
«Cosa c’è? Siete di nuovo tranquillo. Vero?»
«Oh, signor conte. Guardate.» E dalla tasca vuotò la sabbia e le pietre.
«Beh?» domandò l’altro, agitato.
«Non vedete? Pietre… sabbia!»
«Sì… ora ve ne rendete conto! Non è vero? Come sono felice! Ho davvero avuto paura per voi!… Ora va di nuovo tutto bene.»
«Oh, signor conte!» e di nuovo si lamentava, «il mio denaro, il mio denaro!»
«Sì, certo, è una sventura, è perso!»
«Perso!»
«Ma voi avete qualcos’altro, qualcosa di meglio del denaro.»
«Il mio denaro!»
«Su, calmatevi.» Della gente passò per la strada immersa nella notte e si voltò a guardare.
«L’ho sotterrato! L’ho sotterrato!»
«Come? Ma cosa vi viene in mente adesso?»
«Sotterrato! Nascosto, e non so più dove!»
«Perso al gioco! Weldein… Ascoltate, l’avete perso al circolo!»

«Oh no, no, ho vinto tanto, tanto! Poi l’ho nascosto e non so più dove. Oh, la mia povera moglie! Il mio bambino! Il mio Franz!» Il conte fu percorso da un brivido… Era come se all’improvviso i tratti del pittore cambiassero in modo strano, come se fosse davvero il vecchio Weldein a guardare fisso nel vuoto con gli occhi privi di lacrime, a gemere piano: «Mio figlio, il mio povero figlio!».