sabato 19 maggio 2018





BOTTE DA RE
Estratto
Alice Munro
Chi ti credi di essere
La promessa arrivava da Flo. Adesso te le prendi, e saranno botte da re.
Indugiando sulla lingua di Flo, l’espressione si caricava di decorative gualdrappe. Rose aveva un bisogno di immaginare le cose, di pedinare assurdità, che superava anche quello di tenersi lontano dai guai, perciò, invece di prendere la minaccia sul serio, si perdeva a rimuginare: ma come saranno le botte da re? Si inventò un viale alberato, una folla di spettatori eleganti, dei cavalli bianchi, degli schiavi neri. Qualcuno si inginocchiava e il sangue schizzava copioso come stendardi al vento. Una cerimonia selvaggia e stupenda. Nella vita vera neanche si avvicinavano a tanto splendore; c’era giusto Flo che tentava di conferire all’evento un’aria di rincresciuta ineluttabilità. Rose e suo padre invece varcavano subito la soglia del presentabile.
Era suo padre il re delle botte da re. Quelle che passava Flo non arrivavano mai a tanto; erano lesti ceffoni o sberle rifilate con l’attenzione sempre rivolta altrove. Levati dai piedi, diceva. Fatti gli affari tuoi. Togliti quell’espressione dalla faccia.
Abitavano in un retrobottega ad Hanratty, nell’Ontario. Erano in quattro: Rose, suo padre, Flo, e Brian, il fratellastro minore di Rose. Il negozio in realtà era una casa, acquistata dai genitori di Rose ai tempi del loro matrimonio, quando avevano avviato l’attività di tappezzieri e restauratori di mobili. Sua madre era brava a tappezzare. Rose avrebbe dovuto ereditare da entrambi le mani d’oro, un innato gusto per i tessuti e un occhio acuto e pratico nelle riparazioni, ma cosí non era andata. Era maldestra e se si rompeva qualcosa non vedeva l’ora di spazzare i cocci e buttare via tutto.
Sua madre era morta. Quel pomeriggio aveva detto al padre di Rose: – Non so se riesco a spiegare come mi sento. È come se avessi un uovo sodo nel petto, con il guscio e tutto –. Prima di sera era morta: aveva un grumo di sangue in un polmone. Al tempo Rose era una neonata in culla, perciò di tutto questo non ricordava niente. L’aveva sentito raccontare da Flo, che a sua volta doveva averlo sentito da suo padre. Flo era comparsa di lí a poco, a tirar su lei dalla culla, sposare il padre e trasformare il tinello in un negozio di alimentari. Per Rose, la casa era sempre stata cosí e Flo era da sempre sua madre, quindi immaginava i circa sedici mesi che i suoi genitori avevano passato insieme come un tempo armonioso, di gran lunga piú educato e pacifico, con piccoli tocchi di abbondanza. Non aveva granché a cui rifarsi, tranne certi portauovo comprati dalla madre, con un delicato decoro di uccelli e foglie di vite, e disegnati con una specie d’inchiostro rosso che, peraltro, cominciava a sbiadire. Non restavano libri né vestiti né foto di sua madre. Il padre doveva aver eliminato tutto quanto, o forse era stata Flo. L’unico racconto su sua madre, quello del modo in cui era morta, stranamente suonava come una concessione fatta contro voglia. A Flo piacevano i particolari delle morti: le cose che la gente diceva, il modo in cui si ribellava, cercava di scendere dal letto, imprecava o rideva (succede qualche volta); eppure, quando ricordava l’episodio dell’uovo sodo, lo faceva sembrare un po’ cretino, come se sua madre fosse il tipo di persona che davvero crede sia possibile ingoiare un uovo intero.
Suo padre aveva un capanno dietro il negozio dove andava ad aggiustare e restaurare i mobili. Impagliava sedili e schienali di sedie, riparava arredi in vimini, stuccava crepe, montava gambe rotte; il tutto con perfetta maestria, e a prezzi contenuti. Era il suo vanto: strabiliare la clientela con lavori ben fatti a costi bassi, per non dire ridicoli. Magari durante la Grande Crisi nessuno poteva permettersi di pagare di piú, ma lui continuò quella pratica anche durante la guerra, e negli anni di prosperità che la seguirono, fino a quando morí. Con Flo non discuteva mai di quanto si faceva pagare o di quanto gli era dovuto. Alla sua morte, Flo dovette aprire la porta chiusa a chiave del capanno e tirare giú dai micidiali ganci dove lui teneva appeso il suo archivio tutti i vari foglietti e le buste stropicciate. Molte delle cose che trovò non erano affatto conti o ricevute, ma bollettini sul clima, informazioni sparse sull’orto, pensieri che aveva avuto voglia di annotare.
Mangiato prime patate novelle 25 giugno. Un record.
Giorno di Buio del 1780, niente di sovrannaturale. Nuvole di cenere da foreste in fiamme.
16 agosto 1938. Tremendo tempor. verso sera. Fulmine colp. Chiesa presb. di Turberry Twp. Volontà di Dio?
Scottare fragole per eliminare acidità.
Tutte le cose sono vive. Spinoza.
Flo pensò che Spinoza fosse un ortaggio nuovo che il marito voleva coltivare, tipo broccoli o melanzane. Capitava spesso che volesse sperimentare. Mostrò il foglietto a Rose e le chiese se sapeva che cosa era una spinoza? Rose lo sapeva, almeno a grandi linee – al tempo era già ragazza –, ma negò. Aveva raggiunto un’età in cui le sembrava di non voler conoscere meglio né il padre, né Flo; ogni nuova scoperta veniva scartata con imbarazzo e orrore.
C’era una stufa nel capanno e molti scaffali nudi, ingombri di latte di pittura e vernice, gommalacca e trementina, barattoli coi pennelli a bagno e un certo numero di flaconi scuri e appiccicosi di sciroppo per la tosse. Cosa poteva spingere un uomo che tossiva in continuazione, perché si era aspirato una boccata di gas durante la guerra (quella che, nella prima infanzia di Rose, veniva definita non già la Prima Guerra, bensí l’Ultima), a passare le giornate respirando i vapori di vernici e solvente? Allora certe domande si facevano meno di oggi. Sulla panca fuori del negozio di Flo, nella bella stagione, venivano a sedersi parecchi anziani della zona, per chiacchierare o appisolarsi, e anche tra loro c’era qualcuno che tossiva di continuo. Il fatto è che, piano piano e senza troppo scalpore, morivano di quello che allora veniva definito in tono relativamente neutro «mal di fabbrica». Avevano lavorato una vita alla fonderia in paese e ora se ne stavano lí seduti con le loro facce itteriche e sciupate, a tossire e sghignazzare, tra insulse oscenità sulle passanti o sulle ragazze in bicicletta.
Dal capanno non usciva solo il suono della tosse, ma anche una voce, un parlottio continuo ora severo, ora incoraggiante, di solito appena troppo basso per poter distinguere le parole. Piú lento, quando suo padre era concentrato su un lavoro difficile, e piú allegro e spedito quando faceva qualcosa di poco impegnativo, come dipingere o scartavetrare. Ogni tanto qualche parola si liberava e restava cosí, chiara e insulsa, a mezz’aria. Se si rendeva conto che loro erano fuori, lui dava un rapido colpo di tosse di copertura, seguito da un trangugio e da un silenzio vigile, innaturale.
«Maccheroni, salamini, Botticelli, fagiolini…»
Che cosa poteva voler dire? Rose ripeteva spesso quelle cose tra sé e sé. Non ebbe mai il coraggio di chiederglielo. La persona che pronunciava tali parole e quella che si rivolgeva a lei in veste di padre non erano la stessa, anche se apparentemente occupavano il medesimo spazio. Sarebbe stato di pessimo gusto dar retta a qualcuno che non doveva esserci affatto; sarebbe stato imperdonabile. Ciononostante, si tratteneva nei paraggi e ascoltava.
Una volta gli sentí dire: le torri incappucciate di nubi. «Le torri incappucciate di nubi, i palazzi sfarzosi».
Per Rose fu come se qualcuno le assestasse una manata sul petto, non per farle male, ma per strabiliarla, per toglierle il fiato. Dovette proprio mettersi a correre quella volta, fu costretta a scappare. Sapeva di aver già sentito abbastanza, e poi, se l’avesse sorpresa? Sarebbe stato terribile.
Era un po’ come con i rumori in bagno. Flo aveva messo da parte dei soldi per far installare il bagno, ma l’unico vano disponibile per costruirlo era un angolo della cucina. La porta non si chiudeva, le pareti erano di truciolato. Perciò perfino strappare un foglio di carta igienica e cambiare appoggio sull’asse produceva rumori che non sfuggivano a chi intanto, in cucina, lavorava, mangiava o chiacchierava. Si conoscevano bene, anche nelle manifestazioni sonore piú private, non solo quelle dei momenti di furia esplosiva, ma anche nei singhiozzi, i gemiti, le suppliche e le dichiarazioni intime. Ed erano tutti quanti gente assai pudica. Perciò fingevano di non sentire, di non prestare ascolto, e nessuno faceva mai commenti. La persona che produceva i rumori nel gabinetto non aveva niente a che fare con quella che ne usciva.
Abitavano in una zona povera del paese. C’erano Hanratty centro e West Hanratty, con il fiume che scorreva in mezzo. Loro stavano a West Hanratty. La piramide sociale di Hanratty centro vedeva al vertice medici, dentisti e avvocati, per scendere fino a manovali, operai della fonderia e birocciai; quella di West Hanratty, invece, partiva dagli operai e dai manovali per arrivare fino a miserabili famiglie numerose di contrabbandieri occasionali, prostitute, e ladri falliti. Rose pensava alla propria famiglia come a una comunità a cavallo del fiume, senza un preciso luogo di appartenenza, ma non era cosí. Stavano a West Hanratty perché lí era il negozio, e pure loro: all’estrema propaggine dello stradone. Di fronte, c’era la bottega di un fabbro con le assi inchiodate ai vetri sin dall’inizio della guerra, e un edificio che a suo tempo aveva ospitato un altro negozio. L’insegna «Salada Tea» non era mai stata tolta dalla vetrina; restava a far bella mostra di sé, sebbene da un pezzo non vendessero piú tè di nessuna marca là dentro. Rimaneva giusto un pezzetto di marciapiedi, troppo inclinato e sconnesso per poterci schettinare sopra, anche se Rose desiderava tanto un paio di pattini a rotelle e spesso immaginava di sfrecciare agile nei paraggi in un’elegante gonnellina scozzese. C’era un unico lampione, un fiore di latta; dopodiché gli arredi urbani finivano e restavano giusto strade sterrate e pantani, discariche nei cortili e case bislacche. A renderle tali erano gli sforzi messi in atto per cercare di prevenirne la rovina completa. Nei casi in cui non si era neanche fatto quel tentativo, gli edifici risultavano grigi, diroccati e sbilenchi, quasi risucchiati dentro un paesaggio di fossi colmi di sterpaglie, stagni abitati da rane, distese di stiance e di ortiche. Ma perlopiú le case mostravano rattoppi di carta catramata, qualche assicella nuova, tubi della stufa spianati col martello, fogli di lamiera, cartone, addirittura. Tutto ciò accadeva, naturalmente, nei giorni prima della guerra, tempi di quella che sarebbe poi diventata una miseria leggendaria, e di cui Rose avrebbe conservato ricordi in gran parte deprimenti: formicai minacciosi, scalini di legno, e il mondo immerso in una luce torbida, difficile e interessante.
Ci fu una lunga tregua tra Flo e Rose, al principio. Il carattere di Rose cresceva ispido come un ananas, ma in modo lento, segreto, foderato da strati di orgoglio e scetticismo che rendevano l’effetto sorprendente ai suoi stessi occhi. Prima di raggiungere l’età scolare, quando Brian era ancora in passeggino, Rose stava con loro in negozio: Flo seduta sullo sgabello alto dietro il banco, Brian addormentato dietro la vetrina e lei inginocchiata o sdraiata sulle larghe assi scricchiolanti del pavimento, tutta presa a disegnare con le matite colorate su pezzi di carta marrone troppo malconci o irregolari per incartarci qualsiasi merce.
In negozio veniva soprattutto gente che abitava nei dintorni. Qualche contadino, ogni tanto, di ritorno a casa dal paese, e qualcuno di Hanratty centro, che aveva attraversato il ponte. Certi stazionavano per giornate intere sullo stradone, entrando e uscendo dalle botteghe, come se star sempre in bella mostra fosse il loro mestiere e tutti dovessero servirli e riverirli. Becky Tyde, per esempio.
Becky Tyde si appendeva sul banco di Flo, si faceva largo fino alla scatola aperta di paste frolle alla marmellata.
«Sono buone? – chiedeva e senza tanti complimenti se ne mangiava una. – Quando ce lo dai, Flo, un lavoro?»
«Perché non vai a lavorare in macelleria, – rispondeva candidamente Flo. – Potresti dare una mano a tuo fratello».
«A Roberta? – ribatteva Becky, mettendo su un’aria sdegnata. – Ma come ti viene in mente che lavorerei per lui?» Suo fratello gestiva la macelleria e si chiamava Robert, ma spesso lo soprannominavano Roberta per via delle sue maniere miti e tremebonde. Becky Tyde rideva. Aveva una risata forte e fragorosa come un motore che t’investe.
Era una nana con il testone e la voce grossa, un incedere spavaldo e asessuato da mascotte, un basco di velluto rosso, il collo storto che la obbligava a tenere il capo piegato da una parte e a guardare sempre in su e di sbieco. Portava lustre scarpette con il tacco, da vera signora. Rose si fissava su quelle, perché tutto il resto di lei, dalla risata al collo, la spaventava. Sapeva da Flo che Becky Tyde aveva avuto la polio da piccola ed era per quello che il collo le era cresciuto storto e lei era rimasta cosí bassa. Si faticava a credere che fosse mai stata diversa, che fosse nata normale. A detta di Flo non era bacata, aveva tanto cervello quanto chiunque altro, ma sapeva di riuscire sempre a farla franca.
«Sai che una volta io abitavo qui? – diceva Becky, vedendo Rose. – Ehi, com’-è-che-ti-chiami! Vero, Flo, che una volta qui ci stavo io?»
«Se è vero, era prima di me», rispondeva Flo, come se non ne sapesse niente.
«Era prima che il quartiere decadesse cosí. Scusa, sai, se te lo dico. Mio padre si era costruito la casa e il macello, e avevamo anche mezzo acro di terra coltivata».
«Ma pensa! – ribatteva Flo, in tono ironico, falsamente cortese, per non dire umile. – E come mai, allora, ve ne siete andati?»
«Te l’ho detto, perché il quartiere era decaduto», diceva Becky. Se ne aveva voglia, si ficcava in bocca un biscotto tutto intero e gonfiava le guance come una ranocchia. Non aggiungeva mai altro.
Flo comunque la sapeva la storia; la sapevano tutti. Conoscevano la casa, di mattoni rossi con la veranda divelta e l’orto, o quello che ne restava, ingombro dei soliti rottami: sedili d’auto, lavatrici, resti di letti e immondizia varia. Quella casa non avrebbe avuto mai un’aria desolata, nonostante quello che vi era successo, proprio grazie a tutto il caos e il ciarpame che la circondavano.
Secondo Flo, il vecchio padre di Becky era stato un macellaio ben diverso dal fratello. Un inglese intrattabile. Diverso anche da Becky, in quanto a lingua lunga. Lui non apriva mai bocca. Spilorcio fino all’osso, un padre tiranno. Dopo che Becky si ammalò di polio, non le permise piú di tornare a scuola. La si vedeva poco fuori di casa; mai oltre il cortile. Non voleva dare agli altri la soddisfazione. Cosí disse Becky, al processo. A quel punto la madre era morta e le sorelle si erano sposate. A casa erano rimasti solo Becky e Robert. La gente fermava Robert per la strada e gli chiedeva: «Come sta tua sorella, Robert? Sta un po’ meglio?»
«Sí».
«Fa i lavori di casa? Ti prepara da mangiare?»
«Sí».
«E vostro padre è bravo con lei, Robert?»
Correva infatti voce che il padre li picchiasse, che avesse picchiato tutti i figli e pure la moglie, e che adesso se la prendesse ancora di piú con Becky per via della deformità che alcuni pensavano fosse opera sua (non avevano idea di che cosa fosse la polio). Col tempo le dicerie crebbero, anziché cessare. A un certo punto si supponeva che Becky fosse tenuta al riparo da sguardi indiscreti per via di una gravidanza, e che il padre del bambino fosse il suo stesso padre. Poi si disse che il bambino era nato e che l’avevano fatto fuori.
«Che cosa?»
«Fatto fuori», ripeteva Flo. «Al tempo si diceva, va’ a comprare le costolette d’agnello da Tyde, che ce le ha belle tenere! Probabilmente erano tutte fesserie», aggiungeva delusa.
Quando la voce di Flo assumeva quel tono cauto, dispiaciuto, Rose si lasciava distogliere dalla contemplazione del vento che straziava il vecchio tendone lacero, impigliato nello strappo. Se si metteva a raccontare una storia – e quella di Becky non era né l’unica né la piú terribile – Flo piegava un po’ la testa e si concedeva un’aria beata e riflessiva, irritante, minacciosa.
«Non dovrei proprio raccontartele, queste cose».
E ovviamente arrivava il seguito.
Tre giovinastri perdigiorno che bazzicavano la stalla si erano riuniti – o erano stati convocati dalle personalità piú influenti e rispettabili del paese – e si preparavano a rifilare al vecchio Tyde una bella lezione, a beneficio della pubblica morale. Si dipinsero la faccia di nero. Furono dotati di una frusta e di un litro di whisky a testa, per farsi coraggio. Erano: Jelly Smith, uno che correva a cavallo e beveva pesante; Bob Temple, un gran forzuto che giocava a baseball, e Bombetta Nettleton, che lavorava in paese come carrettiere e si era guadagnato il soprannome perché aveva sempre quel cappello in testa, un po’ per vanità e un po’ per far ridere la gente. Il carrettiere lo faceva ancora, in effetti; aveva conservato il soprannome, se non la bombetta, e lo si vedeva in giro, quasi quanto Becky Tyde, a consegnare sacchi di carbone che gli imbrattavano di nero mani e faccia. Il che avrebbe dovuto riportare alla memoria la vicenda, ma cosí non era. Presente e Passato, il passato vago e a tinte forti dei racconti di Flo, erano del tutto distinti, almeno per Rose. Le persone del presente non riuscivano a trovare posto in quel passato. La stessa Becky, curiosità locale e pubblica mascotte, innocua e maliziosa, non poteva corrispondere alla prigioniera del macellaio, la figlia sciancata, fugace pallida visione alla finestra: muta, picchiata, ingravidata. Come per la casa, il collegamento era soltanto formale.
I giovanotti ingaggiati per la fustigazione si presentarono a tarda sera davanti a casa Tyde, dopo che tutti erano andati a letto. Avevano un fucile, ma lo scaricarono sparando colpi in cortile. Chiamarono a gran voce il macellaio e batterono colpi sulla porta, fino ad abbatterla. Tyde pensò che fossero venuti per i soldi, perciò avvolse delle banconote in un fazzoletto e spedí Becky da basso, magari sperando che quelli si sarebbero inteneriti o spaventati alla vista della ragazzina nana dal collo torto. Ma non bastò a soddisfarli. Salirono e trascinarono il macellaio fuori dal nascondiglio sotto il letto, in camicia da notte. Lo portarono fuori e lo piazzarono in piedi nella neve. C’erano quattro gradi sotto zero, un dettaglio in seguito sottolineato in tribunale. L’intenzione era di inscenare un finto processo, ma non si ricordavano la procedura. Perciò si misero a picchiarlo, e lo pestarono finché non cadde a terra. Urlavano «Carne da macello!» e continuavano a infierire, mentre camicia da notte e neve tutto intorno si tingevano di rosso. Il figlio Robert dichiarò in tribunale di non aver assistito al pestaggio. Becky sostenne che Robert aveva guardato all’inizio, ma che poi era scappato a nascondersi. Lei invece era rimasta fino all’ultimo. Aveva visto gli uomini andarsene alla fine, e suo padre arrancare sanguinante nella neve e su per i gradini della veranda. Non era uscita ad aiutarlo e non aveva aperto la porta finché lui non ci era arrivato davanti. Come mai?, le domandarono al processo, e lei rispose che non era uscita perché aveva addosso solo la camicia da notte e che non aveva aperto per non far entrare il freddo in casa.
Poi, a quanto pare, il vecchio Tyde recuperò le forze. Mandò Robert a imbrigliare il cavallo e ordinò a Becky di scaldare dell’acqua per lavarsi. Si vestí, prese tutti i soldi e, senza fornire ai figli la minima spiegazione, montò sulla slitta e andò a Belgrave; qui lasciò il cavallo legato al gelo e prese il primo treno del mattino per Toronto. A bordo, si comportò in modo strano, imprecando e lamentandosi come un ubriaco. Lo trovarono ventiquattro ore dopo nelle strade di Toronto, che delirava per la febbre alta, e lo portarono in ospedale, dove morí. Aveva ancora con sé tutti i soldi. Si disse che a causare la morte fosse stata una polmonite.
Ma alle autorità giunse una soffiata, diceva Flo. Il caso arrivò in tribunale. I tre responsabili furono condannati a pene severe. Una farsa, secondo Flo. In capo a un anno grazie a un’amnistia erano già tutti fuori e con un lavoro che li aspettava. E per quale motivo? Perché c’erano di mezzo troppi pezzi grossi. E poi pareva che a Robert e a Becky non importasse che fosse fatta giustizia. Avevano ereditato una bella sommetta. Si comprarono casa ad Hanratty centro. Robert prese in mano il negozio. Becky, dopo tanti anni di reclusione, diede inizio a una carriera fatta di visibilità e socievolezza.
Tutto qui. Flo metteva il coperchio su quella storia, come se non ne potesse piú. Non ne usciva pulito nessuno.
«Pensa un po’», commentava.
Al tempo, Flo doveva aver passato da poco i trenta. Era giovane. Si vestiva esattamente come una donna di cinquanta, per non dire sessanta o settant’anni: abiti da casa a fantasia larghi intorno al collo, al giro manica e in vita; grembiuli, stampati anche quelli, che si sfilava uscendo dalla cucina per andare in negozio. Si usava cosí allora, tra le donne povere anche se non poverissime; ma in un certo senso era anche una scelta deliberata e severa. Flo disapprovava i pantaloni, sdegnava i vestiti di chi cercava di seguire i dettami della moda, deplorava il rossetto e la permanente. Portava i capelli neri tagliati diritti, di una lunghezza sufficiente a tirarli dietro le orecchie. Era alta ma aveva le ossa minute, con polsi e spalle sottili, testa piccola, viso smorto, lentigginoso e mobile come quello di una bertuccia. Se avesse ritenuto che ne valeva la pena e non le fossero mancati i mezzi, avrebbe potuto coltivare una grazia delicata giocata sul colorito chiaro e i capelli neri; Rose se ne rendeva conto. Ma allora sarebbe stata tutt’altra persona; avrebbe dovuto imparare a non fare smorfie, né agli altri né a sé.
I primi ricordi che Rose aveva di Flo erano un misto di estrema morbidezza e del suo contrario. Capelli soffici, guance pallide, morbide, affusolate, una peluria quasi invisibile sul labbro e sotto le tempie. Ginocchia spigolose, bacino ossuto, seno piatto.
Quando cantava:
Oh, il verso delle civette nell’albero di sigarette
E sulla fontana di acqua di seltz…
a Rose veniva in mente la vita di Flo prima che sposasse suo padre, quando faceva la cameriera al caffè di Union Station, andava a Centre Island con le sue amiche Mavis e Irene, e gli uomini la seguivano nelle vie buie e lei sapeva come funzionavano i telefoni a gettone e gli ascensori. Nella sua voce, Rose sentiva la vita rischiosa e incauta delle grandi città, e il tono brusco di battute pronunciate masticando gomma.
E quando cantava invece:
Poi piano piano lei si alzò
E piano piano gli si avvicinò
E non gli disse altro, gli disse solo questo,
Amico mio tu stai morendo, mi sa!
Rose pensava a una vita che Flo pareva avere avuto oltre e prima di quella, una vita affollata e leggendaria, in compagnia di Barbara Allen e del padre di Becky Tyde, piena di scandali e dolori mescolati nel caos.
Le botte da re. Che cosa le aveva scatenate?
Pensate a un sabato di primavera. Le foglie non sono ancora nate, ma le porte sono aperte per far entrare il sole. Corvi. Bialere piene d’acqua. Un clima che fa ben sperare. Spesso di sabato Flo lasciava Rose a guardia del negozio – è già passato del tempo ormai, stiamo parlando di quando Rose aveva nove, dieci, undici o dodici anni – e lei attraversava il ponte di Hanratty (o, come si diceva, andava in centro) per fare spese, incontrare qualcuno e farsi raccontare le novità. Tra le persone che ascoltava c’erano la moglie dell’avvocato Davies, quella del rettore anglicano Henley-Smith, e quella del veterinario McKay. Tornata a casa, Flo ne imitava le voci stridule. Le faceva sembrare dei mostri di stupidità, esibizionismo e compiacimento.
Dopo aver fatto la spesa, andava al caffè del Queen’s Hotel e si prendeva una coppa di gelato. Una coppa come? Al suo ritorno Rose e Brian volevano saperlo, e ci rimanevano male se erano solo guarnite all’ananas o al caramello, mentre erano soddisfatti se si trattava di granellati di arachidi o di variegato al cioccolato amaro. Poi si fumava una sigaretta. Se ne portava da casa alcune già pronte, per non doverle rollare in pubblico. Fumare era la sua unica abitudine che, in chiunque altro, avrebbe giudicato ostentazione. Risaliva ai tempi di Toronto, quando lavorava là. Sapeva che voleva dire andare a cacciarsi nei guai. Una volta, il prete cattolico le si era avvicinato proprio al Queen’s Hotel sfoderando l’accendino senza darle il tempo di tirar fuori i fiammiferi. Lei lo ringraziò, ma evitò di conversare, per paura che cercasse di convertirla.
Un’altra volta, sulla via di casa, fermo sul ponte al fondo del paese, vide un ragazzo in giacca blu che apparentemente osservava il fiume. Avrà avuto diciotto, diciannove anni. Uno che non conosceva. Pelle e ossa, mingherlino, vide subito che qualcosa non andava. Che stesse pensando di buttarsi? E proprio quando lei lo raggiunge, quello che fa? Si volta e si apre la giacca, coi calzoni aperti. Chissà che freddo doveva aver patito, visto che Flo girava tenendosi il collo del cappotto ben stretto intorno alla gola.
A tutta prima, vedendo quel che aveva in mano, Flo riuscí solo a pensare, ma che ci fa quello con un salame?
Poteva dire cose del genere. Le spacciava per verità, non per battute. Sosteneva di detestare le parolacce. A volte usciva dal negozio e strillava ai vecchi seduti là fuori:
«Se volete stare qui, dovete sciacquarvi la bocca!»
Sabato, dunque. Per qualche ragione, Flo oggi non va in centro; ha deciso di restare a casa a lavare il pavimento della cucina. Magari questo l’ha messa di cattivo umore. O magari lo era già prima, per via dei clienti che non pagano i conti, o di un certo nervosismo di stagione. Il conflitto con Rose è già cominciato, dura da sempre, come un sogno che si rifà ad altri sogni precedenti, che supera colline e attraversa cancelli, un sogno irritante, vago, pieno di comparse, familiare, sfuggente. Stanno sgomberando la cucina da tutte le sedie per poter lavare, e devono anche spostare della merce di scorta del negozio, casse di cibo in scatola, latte di sciroppo d’acero, taniche di cherosene, bottiglie d’aceto. Portano tutto fuori nella legnaia. Brian, che ha già cinque o sei anni, dà una mano a trascinare le latte.
– Sí, – dice Flo, ripartendo da un inizio che ormai è perduto. – Sí, e quelle porcherie che hai insegnato a Brian?
– Quali?
– E lui neanche le capisce.
C’è un gradino dalla cucina alla legnaia, coperto con un pezzetto di tappeto talmente logoro che Rose non ricorda di averne mai visto il disegno. Brian lo scolla trascinandoci sopra una latta.
– Due Vancouver, – dice sottovoce.
Flo è tornata in cucina. Brian sposta lo sguardo da Flo a Rose, e Rose ripete un tantino piú forte una cantilena incoraggiante: – Due Vancouver…
– Fritte nel moccio! – conclude Brian, incapace di trattenersi oltre.
– Due culi in carpione…
– … dentro il cartoccio.
Eccole lí. Le porcherie.
Due Vancouver fritte nel moccio!
Due culi in carpione dentro il cartoccio!
Rose la conosce da anni, dai primi giorni di scuola. Tornò a casa e domandò a Flo, che cos’è una Vancouver?
– È una grande città. Che sta molto lontano.
– E cos’altro, a parte una città?
In che senso, cos’altro, le disse Flo? Ma come si fa a friggerla allora, ribatté Rose, pregustando il piacere di dover sciorinare la filastrocca completa.
– Due Vancouver fritte nel moccio! | Due culi in carpione dentro il cartoccio!
– Guarda che te le prendi! – esclamò Flo prevedibilmente arrabbiata. – Prova a ripeterlo e ti rifilo uno schiaffone che te lo ricordi!
Rose non riuscí a fermarsi. Continuò a canticchiarla pianissimo, cercando di alzare la voce sulle parole innocenti, e di mormorare le altre. Non erano solo i culi e il moccio a darle soddisfazione, anche se, quelle, è ovvio, la entusiasmavano. C’era anche l’idea di carpione e cartoccio, e delle misteriose Vancouver. Se le immaginava fatte a forma di polipo, e le vedeva arricciarsi in padella. La disfatta del senso logico; una scintilla, una goccia di pura follia.
Di recente si è ricordata quella filastrocca e l’ha insegnata a Brian per vedere se fa lo stesso effetto anche a lui, come appunto è accaduto.
– Ehi, ho sentito! – fa Flo. – Ti ho sentita! E ti avverto…
Già, la avverte. Brian coglie il pericolo. Scappa dalla legnaia e fa quel che gli pare. Essendo un maschio, è libero di aiutare e di partecipare solo quando ne ha voglia. Non è mai precettato per le faccende domestiche. Di lui non hanno bisogno comunque, se non per usarlo una contro l’altra, perciò neanche si accorgono che è andato via. Loro intanto continuano a tormentarsi, non possono farne a meno. Quando sembra che vogliano lasciar perdere, in realtà sono solo in pausa per ricaricarsi.
Flo tira fuori secchio, spazzola, straccio e poggia-ginocchia, un lurido cuscinetto di gomma rossa. Comincia a fregare il pavimento. Rose si siede sul tavolo di cucina, l’unico posto rimasto, e fa sforbiciare le gambe. Sente il fresco della tela cerata, perché è in pantaloncini corti, quelli sbiaditi dell’anno scorso, tirati fuori dal sacco dei vestiti estivi. Sanno un po’ di muffa, dopo tutto l’inverno.
Flo striscia sotto il tavolo, fregando con lo spazzolone prima di asciugare con lo straccio. Ha le gambe lunghe, bianche e muscolose, tutte striate di vene azzurre, come se qualcuno le avesse disegnato dei fiumi sulla pelle con la matita copiativa. Il modo in cui la spazzola morde il linoleum, e il rumore che fa lo straccio esprimono una mostruosa energia, un disgusto violento.
Che cos’hanno da dirsi? Non ha importanza, in effetti. Flo parla dell’atteggiamento di Rose, la definisce sfacciata, sciatta, superba e maleducata. Una che ha solo voglia di far lavorare gli altri, che non sa che cosa sia la riconoscenza. Paragona l’ingenuità di Brian alla malizia di Rose. Oh, quante arie ti dai, dice Flo, e un attimo dopo, Ma chi ti credi di essere, poi? Rose la contraddice e risponde, con una docilità e un buon senso letali, ostentando teatrale indifferenza. Flo supera il livello consueto di concitata indignazione e diventa teatrale anche lei, sostenendo di aver sacrificato l’intera vita per Rose. Ha conosciuto suo padre con quella neonata in braccio e si è detta, come se la caverà quest’uomo? Perciò l’ha sposato e adesso eccola, ridotta letteralmente in ginocchio.
In quel momento si sente il campanello: è entrato un cliente in negozio. Visto che la lite è in corso, a Rose non è concesso di andare a servire il nuovo venuto. Flo si alza e si sfila il grembiule, sbuffando – ma non in modo comunicativo; si tratta di un’esasperazione che Rose non deve e non può condividere –, e va in negozio. Rose la sente sfoderare il tono di sempre.
– Era ora! Altro che!
Flo è di ritorno, si rimette il grembiule ed è pronta a ricominciare.
– Sei solo capace a pensare a te stessa! Neanche ti passa per la testa quello che faccio io.
– Io ti ho mai chiesto di fare niente? E vorrei che non avessi mai fatto niente. Sarei stata tanto meglio.
Rose pronuncia queste parole sorridendo rivolta a Flo, che non si è ancora inginocchiata. Alla vista di quel sorriso, Flo afferra lo strofinaccio appeso al secchio e glielo tira. Forse voleva prenderla in faccia, ma lo straccio finisce sulle gambe di Rose; lei solleva un piede e si fa svogliatamente ciondolare lo strofinaccio sulla caviglia.
– Va bene, – dice Flo. – Questa volta te la sei voluta. Va bene.
Rose la guarda dirigersi verso la legnaia, sente che l’attraversa a grandi passi e si ferma sulla soglia: la zanzariera non è ancora stata montata e la doppia porta è tenuta aperta da un mattone. Flo chiama il padre di Rose. Piú ancora che chiamarlo, lo convoca con un tono imperioso, come se, suo malgrado, dovesse prepararlo a una cattiva notizia. Lui deve sapere cosa è accaduto.
Il pavimento della cucina ha cinque o sei linoleum diversi. Tutti avanzi di magazzino che Flo ha avuto quasi gratis e che ha ingegnosamente ritagliato e sistemato, rifinendoli con strisce fermate con le puntine. Seduta sul tavolo in attesa, Rose osserva il pavimento, quell’accostamento gradevole di rettangoli, triangoli e altre forme geometriche di cui si sforza di ricordare il nome. Sente Flo che ritorna dalla legnaia facendo scricchiolare le assi disposte sulla terra battuta. Anche lei indugia, in attesa. Da sole, non ce la fanno piú a sostenere la scena, oramai.
Rose sente entrare suo padre. Si irrigidisce, le corre un brivido su per le gambe, un tremito a contatto con la tela cerata. Distolto dal suo lavoro pacifico che lo assorbiva, e dalle parole che gli ronzavano in testa, suo padre è costretto a dirle qualcosa. E dice: – Allora? Che problema c’è?
Ecco che arriva una delle tante voci di Flo. Intensa, ferita, dolente, sembra costruita apposta per la circostanza. Le rincresce di averlo interrotto mentre lavorava. Non l’avrebbe mai fatto, se Rose non l’avesse portata all’esasperazione. In che modo? Rispondendo sfacciata con quella sua lingua lunga. Se mai si fosse permessa di dire a sua madre quello che Rose ha detto a lei, suo padre l’avrebbe ammazzata di botte.
Rose cerca di intervenire, per smentirla.
Come, non è vero?
Suo padre alza una mano, nemmeno la guarda e dice: – Zitta tu.
Quello che Rose vuol dire è che la faccenda non è partita da lei, che lei ha solo reagito, che è stata Flo a provocarla, e che ora, a suo giudizio, si sta inventando un mucchio di storie, cambiando le carte in tavola. Rose mette da parte l’altra certezza, e cioè che quel che hanno fatto e detto lei e Flo, in effetti c’entra assai poco. Ciò che conta è il conflitto in sé e per quello ormai c’è ben poco da fare perché è inarrestabile, e arriverà dove deve arrivare.
Flo ha le ginocchia sporche, nonostante il cuscinetto. Lo strofinaccio è ancora appeso al piede di Rose.
Il padre si pulisce le mani e ascolta Flo. Prende tempo. Fatica a entrare nello spirito della questione, è già stanco in anticipo, forse sul punto di rifiutare il ruolo che gli si affibbia. Non degna Rose di uno sguardo, ma solleva la mano a ogni minimo gesto o rumore da parte sua.
– Aspetta, non abbiamo di sicuro bisogno di pubblicità, no? – dice Flo, e va a chiudere a chiave la porta del negozio, affiggendo in vetrina il cartello torno subito che le ha scritto Rose con tanto di svolazzi e lettere sfumate a matita rossa e nera. Di ritorno, chiude anche la porta tra la cucina e il negozio, poi quella che dà sulle scale, e infine quella della legnaia.
Ha lasciato le impronte sulla parte di pavimento appena lavata.
– Non so piú cosa fare, – riprende, con tono piú fiacco, dopo la massima concitazione di prima. – Non so cosa fare con lei –. Abbassa lo sguardo (seguendo quello di Rose) e si vede le ginocchia sporche; prende a strofinarle forte con le mani nude, riuscendo solo ad allargare la macchia.
– Risponde male, – dice, raddrizzandosi. Ecco, è arrivata la spiegazione. – Risponde male, – ripete soddisfatta. – Mi manca di rispetto.
– Non è vero!
– Zitta, tu! – esclama il padre.
– Se non avessi chiamato tuo padre, te ne staresti ancora seduta lí con quel sorriso in faccia. Non c’è un altro modo per farti abbassare la cresta.
Rose coglie in suo padre un velo di disapprovazione, accompagnata da riluttanza e imbarazzo, per la retorica di Flo. Si sbaglia, e dovrebbe sapere che è un errore pensare di poterci contare. Il fatto che lei l’abbia percepito e che lui se ne sia reso conto, non migliora affatto le cose. Suo padre sta cominciando a scaldarsi. Le lancia un’occhiata. Da principio soltanto gelida e minacciosa. La informa del suo giudizio, le toglie ogni speranza di avere un margine d’azione. Poi però l’occhiata si modifica riempiendosi d’altro, come una fonte che, liberata dalle foglie secche, può finalmente raccogliere acqua. Lo sguardo va accumulando odio e piacere. Rose lo vede benissimo, lo capisce. Sarà solo una manifestazione di collera, è collera quella che gli va riempiendo gli occhi? No. Odio è proprio la parola giusta. E anche piacere. Gli è cambiata la faccia, è diversa, ringiovanita, e lui finalmente solleva la mano per far tacere Flo.
– Allora, – dice, intendendo che ne ha avuto abbastanza, piú che abbastanza; quella parte è conclusa, si può procedere oltre. Incomincia a slacciarsi la cinghia.
Flo si è zittita, comunque. Ha la stessa difficoltà di Rose; entrambe faticano a credere che quel che ha da succedere succederà, perché arriva il momento in cui tirarsi indietro è impossibile.
– Beh, dài, adesso, non esagerare con lei –. Si aggira nervosa, come se avesse in mente di aprirle una via di fuga. – Non è il caso di usare la cinghia. Devi proprio usare la cinghia?
Lui non risponde. La cinghia si sfila, con calma. Viene impugnata nel punto giusto. Allora, a noi due. Si avvicina a Rose. La spinge giú dal tavolo. Faccia e voce sono completamente fuori personaggio. Sembra un pessimo attore che rende grottesca la parte. Come se dovesse assaporare e calcare solo il lato terribile e vergognoso della scena. Il che non significa che stia fingendo, recitando e che non faccia sul serio. Recita, ma fa anche sul serio. Rose lo sa, perché sa tutto di lui.
Da allora ha riflettuto spesso sugli omicidi, e su chi li commette. Sarà che alla fine bisogna arrivare in fondo, in parte per dimostrare al proprio pubblico formato da un’unica persona – la quale, tra l’altro, non potrà mai riferire, ma solo registrare la lezione – che certe cose succedono davvero, che non c’è nulla che non possa accadere, che anche la piú atroce assurdità ha ragione di esistere, e sentimenti dai quali dipendere?
Cerca ancora di guardare per terra verso quell’accostamento geometrico ingegnoso e rassicurante, anziché verso di lui e la sua cinghia. Come è possibile che si verifichi tutto questo di fronte a simili testimoni del quotidiano: il linoleum, il calendario con il mulino, il torrente e gli alberi d’autunno, le vecchie padelle e i tegami cosí accomodanti?
Stendi la mano!
Nessuna di quelle cose l’aiuterà, nessuna la può salvare. Sono diventate blande e superflue, per non dire ostili. Un tegame può rivelare perfidia, il disegno sul pavimento guardarti con aria di scherno: è il tradimento, l’altra faccia del quotidiano.
Alla prima, o forse la seconda fitta di dolore, ritira la mano. Non è disposta ad accettarlo. Si mette a correre per la stanza, cerca di guadagnare una delle porte. Il padre le blocca la strada. Non ha un minimo di coraggio o di stoicismo, a quanto pare. Rose scappa, urla, implora. Il padre la insegue, le dà una cinghiata appena può, poi lascia perdere e passa alle mani. Un ceffone su un orecchio, uno sull’altro. Andata e ritorno; le ronza la testa. Una sberla in faccia. La mette al muro e gliene dà un’altra. La scuote e la sbatte di nuovo al muro, le prende a calci le gambe. Lei è fuori di sé, farnetica, strilla. Perdono! Ti prego, perdonami!
Intanto strilla anche Flo. Basta! Basta!
Non ancora. La sbatte per terra. O forse è Rose a buttarsi. Le prende ancora a calci le gambe. Lei ha rinunciato alle parole, ma emette un suono, che fa esclamare a Flo, E se la sente qualcuno? Si tratta di un verso estremo, di umiliazione e sconfitta, perché sembra che Rose debba recitare la propria parte in questa scena con la stessa volgarità, la stessa esagerazione che ci sta mettendo suo padre. Si sottomette con un tale vittimismo da suscitare, forse perfino apposta, il suo assoluto, nauseato disprezzo.
Sembrano decisi a metterci tutto quello che ci vuole, a fare del loro meglio.
Non proprio. Lui non è mai riuscito a farle davvero male, anche se a volte Rose ha ovviamente pregato che succedesse. La colpisce sempre a mano aperta, i calci mancano di energia.
Ora si ferma, col fiato grosso. Permette a Flo di farsi avanti, agguanta Rose per un braccio e la spinge in direzione della donna, emettendo un verso sdegnato. Flo la trascina via, apre la porta, la scaraventa su per le scale.
– Fila in camera tua! Subito!
Rose sale inciampando, compiacendosi di inciampare, di crollare sui gradini. Non sbatte la porta, perché un gesto simile potrebbe scatenarle di nuovo appresso suo padre e perché non ce la farebbe comunque. Si sdraia sul letto. Dal tubo della stufa, sente Flo tirare su col naso, lamentarsi, e suo padre arrabbiato risponderle che allora doveva starsene zitta, che non avrebbe dovuto chiamarlo, se poi non voleva che la punisse. Flo replica di non avere mai voluto delle botte del genere.
Per un po’ litigano su questo punto. La voce spaventata di Flo si va facendo piú forte, recuperando fiducia. Piano piano la discussione li riporta ai loro ruoli di sempre. Di lí a poco Flo resta sola a parlare; lui tace. Rose si è dovuta imporre di smettere di singhiozzare per ascoltarli, e quando perde interesse in quello che dicono e vorrebbe riprendere il pianto scopre di non riuscirci. Ha raggiunto uno stato di calma nel quale l’oltraggio è vissuto come inappellabile e definitivo. In queste condizioni, eventi e prospettive assumono i contorni di una stupenda semplicità. Le alternative risultano misericordiosamente chiare. Le parole che le passano per la mente non sono equivoche, fanno quasi a meno del condizionale. Mai è quella che all’improvviso domina a pieno titolo la situazione. Non parlerà mai piú con nessuno dei due, non li perdonerà mai. Li punirà; li vuole vedere morti. Al riparo nei suoi obiettivi e nel dolore fisico, galleggia verso uno strano benessere che trascende la sua persona e le sue responsabilità.
E se ora morisse? Se si ammazzasse? O scappasse di casa? Ciascuna di queste soluzioni sarebbe appropriata. Si tratta solo di scegliere quale, e come procedere. Si lascia cullare dalla certezza pura della propria superiorità, come dolcemente drogata.
E proprio come quando, da drogati, si passa dalla sensazione di essere perfettamente al sicuro e irraggiungibili, a quella improvvisa e immediata in cui ci si rende conto che la protezione si è incrinata una volta per tutte, anche se si continua a fingere di conservarla intatta, cosí anche adesso arriva il momento – quello preciso in cui Rose sente i passi di Flo su per le scale – che contiene per lei sia la pace e la libertà del presente, sia l’assoluta inesorabilità della spirale discendente che prenderanno gli eventi.
Flo entra in camera senza bussare, ma con un fare cosí esitante da lasciar credere che ci abbia pensato. Ha con sé un vasetto di pomata. Finché può, Rose si aggrappa al vantaggio acquisito e resta sdraiata a faccia in giú, rifiutandosi di reagire alla presenza di Flo o di risponderle.
– Su, dài, – dice Flo imbarazzata. – Non fare tragedie. Mettiti un po’ di questa e vedrai che stai subito meglio.
Sta bleffando. Non può conoscere la gravità dei danni. Ha svitato il tappo della pomata. Rose lo sa perché ne sente l’odore. Quell’odore intimo. Da neonato, umiliante. Non le permetterà di avvicinarsi. Ma per evitarlo, per sottrarsi al fiocco di crema già pronto sulla mano di Flo, è costretta a muoversi. Si dibatte, resiste, perde contegno e permette a Flo di vedere che non ha niente di serio.
– Va bene, – dice Flo. – Hai vinto tu. Te la lascio qui e te la metti quando vuoi.
E qualche tempo dopo compare un vassoio. Flo glielo deposita accanto senza proferire parola, e sparisce. Sopra c’è un bicchiere di latte al cioccolato, fatto con il Vita Malt preso in negozio. Sul fondo del bicchiere si vedono ricchi strati di Vita Malt da sciogliere. Tramezzini, ben fatti e appetitosi. Salmone in scatola di prima scelta, di un bel rosso carico, maionese abbondante. Un paio di paste frolle di pasticceria e biscotti al cioccolato farcito alla menta. Il meglio del meglio per Rose, in fatto di tramezzini e biscotti. Decide di voltarsi dall’altra parte, di non degnarli di uno sguardo, ma una volta rimasta sola con quel bendiddio da mangiare si sentirà miseramente tentata, sollecitata, distolta dai buoni propositi di suicidio o di fuga per colpa del profumo di salmone, del desiderio di quel cioccolato friabile, e allungherà un dito, giusto una passatina intorno al bordo di un tramezzino (ha perfino tagliato la crosta!) per raccogliere solo l’eccesso, per assaggiare. Poi si dirà che ne mangia uno, per trovare la forza di rifiutare il resto. Uno solo non sarà neanche notato. Poco dopo, impotente di fronte al tentativo di corruzione, se li mangerà tutti. Berrà il latte al cioccolato, divorerà paste frolle e biscotti. Raccoglierà con il dito lo sciroppo appiccicoso in fondo al bicchiere, pur sospirando per la vergogna. Troppo tardi.
Flo salirà a ritirare il vassoio. Magari commenterà: «Vedo che non hai perso l’appetito», oppure: «Piaciuto il latte? C’era abbastanza sciroppo?», a seconda di quanto si sentirà mortificata. In ogni caso, il vantaggio sarà perduto. Rose dovrà rassegnarsi all’idea che la vita continua, che si ritroveranno di nuovo seduti a tavola insieme, ad ascoltare il notiziario della radio. L’indomani mattina, se non la sera stessa. Per quanto assurdo e improbabile possa sembrare. Saranno imbarazzati, ma meno di quanto ci si potrebbe aspettare, date le circostanze. Sentiranno una strana indolenza, una pigrizia convalescenziale, non molto lontana dall’appagamento.
Una sera, dopo una scenata come questa, erano tutti in cucina. Doveva essere estate, o comunque faceva caldo, perché suo padre ce l’aveva coi vecchi seduti sulla panchina davanti al negozio.
– Sapete di che cosa parlano adesso? – domandò con un cenno rivolto al negozio per indicare a chi si riferiva, anche se naturalmente ormai non c’era piú nessuno, perché con il buio tornavano tutti a casa.
– Quei vecchi babbei? – disse Flo. – No, di cosa?
Si manifestava tra loro due una cordialità non precisamente falsa, ma un po’ piú enfatica del normale, in assenza di estranei.
Il padre disse loro che i vecchi, chissà come, si erano convinti che quella che aveva tutta l’aria di essere una stella nel cielo di ponente, la prima stella visibile dopo il calar del sole, fosse in realtà un’aeronave ferma sopra Bay City in Michigan sul lato opposto del lago Huron. Un’invenzione americana, lanciata nello spazio a rivaleggiare con i corpi celesti. E si trovavano d’accordo sul punto, l’idea risultava congeniale a tutti. La credevano illuminata da diecimila lampadine elettriche. Il padre aveva espresso un dissenso impietoso, precisando che quello era il pianeta Venere, inquilino del cielo da ben prima che fosse inventata la lampadina elettrica. Loro, però, del pianeta Venere non avevano mai sentito parlare.
– Che ignoranti, – disse Flo. E Rose seppe, e seppe che anche suo padre sapeva, che Flo a sua volta non aveva mai sentito parlare del pianeta Venere. Per distrarli dall’argomento o anche un po’ per scusarsi, Flo posò la tazza del tè, e si stirò fino ad avere la testa sulla sedia che stava occupando e i piedi appoggiati su un’altra (in qualche modo riuscí anche a sistemarsi pudicamente il vestito tra le gambe), e si distese rigida come una tavola, facendo esclamare a Brian con entusiasmo: – Dài, fallo! Fallo ancora!
Flo era snodata e molto forte. Durante le feste, o in casi di emergenza, era capace di esibirsi in numeri da circo.
Rimasero zitti mentre lei si girava senza usare le braccia, ma solo ed esclusivamente i piedi e le gambe robuste. Poi sbottarono in un grido di trionfo, benché avessero già visto quel gioco in passato.
E mentre Flo si torceva, Rose ebbe una visione dell’aeronave, una specie di bolla oblunga e trasparente con fili di luci brillanti, a spasso nel prodigioso cielo d’America.
– Il pianeta Venere! – esclamò suo padre, applaudendo Flo. – Diecimila lampadine elettriche.
Si respirava, in quella stanza, un’aria serena, permissiva, quasi un brivido di felicità.
Anni dopo, parecchi anni dopo, una domenica mattina, Rose accese la radio. Fu quando abitava a Toronto da sola.
Allora, signore.
Era un posto diverso, ai nostri tempi. Decisamente diverso.
C’erano solo i cavalli. Cavalli e birocci. Il sabato sera facevano le gare di calessi sullo stradone.
– Come le corse con le bighe, – commentò la voce pacata e suadente del conduttore, o cronista che fosse.
Mai viste, di quelle.
– No, signore, mi riferisco alle corse con le bighe degli antichi romani. È stato prima dei suoi tempi.
Deve essere stato prima. Eppure ho centodue anni, eh, io.
– Un’età straordinaria, signore.
Eh, già.
Rose lasciò accesa la radio mentre girava per la cucina dell’appartamento e si faceva il caffè. Le pareva che si trattasse di un’intervista fasulla, tratta da qualche commedia, e avrebbe voluto sapere da quale. La voce del vecchio era talmente vanesia e aggressiva, e quella dell’intervistatore cosí inerme e allarmata, sotto la patina di consumata disinvoltura e cortesia. Chiaramente l’ascoltatore era chiamato a immaginarselo mentre reggeva il microfono a un centenario sdentato, presuntuoso e incontrollabile, domandandosi che diavolo ci facesse lí e che cosa sarebbe stato capace di dire ancora.
– Dovevano essere anche pericolose, no?
Che cosa?
– Le gare di calessi.
Può dirlo forte. Si facevano con cavalli bradi. Capitavano un fracco di incidenti. Gente trascinata sulla ghiaia con la faccia aperta in due. Non importava granché, se ci rimettevi la pelle. Eh…
Certi cavalli erano focosi. Certi dovevano averci la mostarda sotto la coda. Certi altri non ne volevano proprio sapere di muoversi. È cosí che funziona con i cavalli. Ce n’è di quelli che si danno da fare e son capaci di tirare finché son morti, e di quelli che non ti caverebbero manco l’uccello dal burro.
L’intervista doveva essere vera. Altrimenti quello non ce l’avrebbero messo, non avrebbero mai rischiato. Se lo dice il vegliardo, va bene. Un po’ di colore locale. Diventa tutto innocuo e spassoso grazie ai suoi cento anni.
Incidenti ce n’erano in continuazione, allora. In fabbrica. Alla fonderia. Nessuno prendeva precauzioni.
– Immagino che non si facessero tanti scioperi, eh? Non esistevano tanti sindacati, giusto?
Oggigiorno vogliono tutti la vita comoda. Noialtri invece lavoravamo e ci bastava cosí. Lavoravamo e ci bastava cosí.
– La televisione non c’era.
Non c’era la televisione. Non c’era la radio. E nemmeno il cinematografo.
– Vi inventavate da soli i divertimenti.
Allora si usava cosí.
– Lei deve aver avuto molte esperienze che un giovane d’oggi non conoscerà mai.
Esperienze.
– Ce ne vuole ricordare una?
Una volta mi sono mangiato della carne di marmotta. Un inverno. A lei non sarebbe piaciuta, secondo me. Eh, eh.
Ci fu una pausa, di apprezzamento si sarebbe detto; dopodiché il conduttore spiegò che la precedente era stata un’intervista con Mr Wilfred Nettleton di Hanratty, in Ontario, realizzata il giorno del suo centoduesimo compleanno, due settimane prima della sua morte, la primavera scorsa. Un legame vivente con il nostro passato. Mr Nettleton era stato intervistato nella casa di riposo di Wawanash.
Bombetta Nettleton.
Da frustacavalli a vegliardo. Fotografato il giorno del compleanno, vezzeggiato dalle infermiere, senz’altro baciato da una giovane reporter. Lampi di flash addosso. Il registratore che succhia il suono della sua voce. Il degente piú vecchio. Il frustacavalli piú vecchio. Il legame vivente con il nostro passato.
Guardando il lago gelido dalla finestra della cucina, Rose avrebbe tanto voluto poterlo dire a qualcuno. Era Flo quella che si sarebbe divertita di piú a saperlo. Immaginò di sentirla dire «Ma tu pensa!» con un tono che indicava la formidabile conferma dei suoi peggiori sospetti. Ma Flo si trovava nello stesso posto dove era morto Nettleton, e non c’era modo in cui Rose potesse raggiungerla. Quando l’intervista era stata registrata, lei era già lí, ma di sicuro non ne aveva saputo né sentito nulla. Dopo che Rose l’aveva fatta ricoverare nella casa di riposo, un paio d’anni prima, Flo aveva smesso di parlare. Si era isolata e passava la maggior parte del tempo seduta in un angolo del suo lettino, con un’aria furba e antipatica, senza rispondere mai a nessuno, anche se qualche volta esprimeva il suo stato d’animo mordendo un’infermiera.