giovedì 1 aprile 2021

VOCI DEL VERBO ANDARE Jenny Erpenbeck

VOCI DEL VERBO ANDARE
Jenny Erpenbeck
1 Forse ha ancora molti anni davanti a sé, forse soltanto pochi. D’ora in poi, almeno, Richard non dovrà più alzarsi puntualmente per andare tutte le mattine in Istituto. Adesso quello che non gli manca è proprio il tempo. Tempo per viaggiare, dicono gli altri. Tempo per leggere dei libri. Proust, Dostoevskij. Tempo per ascoltare la musica. Non sa quanto gli ci vorrà per abituarsi all’idea di avere tempo. La sua testa, in ogni caso, continua a lavorare, come sempre. Che cosa se ne farà, adesso, della testa? Di quei pensieri che, nella sua testa, continuano a prodursi? Il successo lo ha avuto. E sarebbe? Ciò che si definisce successo. I suoi libri sono stati pubblicati, riceveva inviti per le conferenze, alle sue lezioni c’era sempre stata buona affluenza sino all’ultimo, gli studenti avevano letto i suoi libri, si segnavano certi brani e agli esami li sapevano a memoria. Dove sono i suoi allievi, adesso? Molti sono assistenti in questa o in quell’altra università, alcuni nel frattempo sono diventati professori anche loro. Di altri è da un pezzo che non sa più nulla. Uno ha mantenuto con lui rapporti costanti e cordiali, qualcun altro si fa sentire, di tanto in tanto. Tutto qui. Dalla scrivania vede il lago. Richard si prepara un caffè. Con la tazza in mano va in giardino e controlla che le talpe non abbiano scavato nuove buche. Il lago è lì tranquillo, come sempre quell’estate. Richard aspetta, ma non sa che cosa. Il tempo ora è tutto un altro genere di tempo. Da un giorno all’altro. Pensa. E poi pensa che, naturalmente, non può smettere di pensare. Il pensiero è lui stesso e, nel contempo, la macchina alla quale lui è assoggettato. Anche quando se ne sta tutto solo con la sua testa, naturalmente non può smettere di pensare. Anche quando non ci sono nemmeno quattro gatti a dargli retta, lui continua a pensare. Per un istante si immagina un gatto che, con la zampina, sfoglia il suo saggio sulla Concezione del mondo nell’opera di Lucrezio. Rientra in casa. Si domanda se non faccia troppo caldo per la giacca. Ma ha proprio bisogno di tenersi addosso la giacca per girare in casa tutto solo? Anni prima, quando aveva casualmente saputo che la sua amante lo tradiva, non era riuscito a superare in altro modo la delusione se non trasformandola in lavoro. Per mesi la condotta dell’amante era divenuta oggetto delle sue analisi. Aveva scritto quasi cento pagine per scandagliare tutti i preliminari di quel tradimento, e anche il modo in cui la giovane donna lo aveva messo in atto. Ai fini della relazione con lei, quel lavoro era stato tutt’altro che proficuo perché, di lì a poco, l’amante lo lasciò definitivamente. Ma grazie alle sue analisi aveva per lo meno superato i primi mesi successivi alla scoperta, mesi nei quali si era sentito davvero a pezzi. La miglior medicina contro l’amore, lo diceva già Ovidio, è il lavoro. A tormentarlo adesso non era però il tempo occupato da un amore effimero, bensì il tempo in quanto tale. Il tempo dovrebbe passare, ma anche non passare. Per un istante ha la visione di un gatto inferocito, dal pelo arruffato, che con le unghie e con i denti strappa il suo libro, il cui titolo è: Saggio sull’attesa. Forse lì in casa un cardigan è davvero più adatto di una giacca. Per lo meno più comodo. E adesso che non doveva più incontrare gente ogni giorno, non aveva certo bisogno di farsi la barba tutte le mattine. Lasciar crescere quel che vuol crescere. Basta non far più resistenza, o questo invece sarebbe già cominciare a morire? Crescere è cominciare a morire? No, non può essere così, pensa. A tutt’oggi non hanno ancora ritrovato l’uomo che giace in fondo al lago. Non un suicidio, era annegato mentre faceva il bagno. Da quel giorno, di giugno il lago è tranquillo. Giorno dopo giorno, sempre tranquillo. Tranquillo a giugno. Tranquillo a luglio. E adesso, che siamo già quasi d’autunno, ancora tranquillo. Non una barca a remi, non bambini che schiamazzano, non un pescatore. Se durante l’estate qualcuno si è tuffato in acqua dal pontile della spiaggia pubblica, poteva esser stato solo un forestiero, ignaro della disgrazia. Mentre quello si stava asciugando, avrebbe potuto rivolgergli la parola una donna del posto, che portava a spasso il cane, oppure un ciclista appena sceso dalla bicicletta, ed entrambi per domandargli: Non sa nulla, dunque? Richard non ha mai raccontato della disgrazia a chi ne era all’oscuro: perché rovinare la giornata a uno che vuole solo trascorrere una bella giornata? Lungo la recinzione di casa sua i gitanti percorrono, allegri come all’andata, anche la via del ritorno. Ma quando è seduto alla scrivania, non può non vedere il lago. Il giorno in cui era successo, si trovava in città. Ancora all’Istituto, benché fosse domenica. Possedeva ancora il passepartout, che nel frattempo ha riconsegnato. Era uno di quei fine settimana in cui cercava di svuotare a poco a poco il suo ufficio. I cassetti, gli armadi. Verso le due meno un quarto. Stava per l’appunto togliendo i libri dallo scaffale, dal pavimento, dal sofà, dalla poltrona e dal tavolino per metterli negli scatoloni. Venti, venticinque libri in ogni scatolone e poi, sopra, gli oggetti più leggeri: relazioni, lettere, fermagli, cartelline, vecchi ritagli di giornale. Matite, penne a sfera, gomme, la bilancia per la corrispondenza. Nei pressi c’erano due barche a remi, ma nessuno degli occupanti aveva pensato che stesse accadendo una disgrazia. Sembra che avessero visto l’uomo fare dei cenni, ma avevano creduto si trattasse di uno scherzo. Si erano persino allontanati, aveva sentito dire. Chi fossero gli occupanti della barca però non si sa. Dei giovani, pare. E addirittura robusti, avrebbero potuto soccorrerlo. Ma chi fossero esattamente, non si sa. O forse era stata la paura che l’uomo finisse per trascinarli giù con sé, chissà. La sua segretaria si era offerta di aiutarlo a sgomberare. Molte grazie, ma meglio di no. Aveva come l’impressione che tutti – anche o forse proprio quelli che gli erano affezionati – non volessero altro ormai che levarselo di torno il più presto possibile. Perciò aveva preferito lavorare da solo, di sabato e di domenica, quando l’Istituto è immerso nella quiete. Si era reso conto che gli occorreva molto tempo per tirar giù dallo scaffale o fuori da un cassetto tutto ciò che, a volte, era rimasto lì per anni, come dimenticato, e poi decidere se bisognava infilarlo nel sacco blu della spazzatura o in uno degli scatoloni che intendeva portarsi a casa. Senza volerlo si era messo a sfogliare certi scritti e così, leggendo, era rimasto in piedi al centro della stanza per interi quarti d’ora o mezze ore. Il lavoro di uno studente sull’XI Canto dell’Odissea, il lavoro di una studentessa, della quale a suo tempo era stato un po’ innamorato, sui Livelli di significato nelle Metamorfosi di Ovidio. Un giorno, a inizio agosto, in occasione del suo collocamento a riposo c’era stato un rinfresco, accompagnato da alcuni discorsi, la segretaria, parecchi colleghi e anche lui avevano le lacrime agli occhi, ma nessuno, nemmeno lui, aveva pianto davvero. D’altronde, prima o poi, tutti invecchiano. Prima o poi, tutti sono vecchi. Negli anni precedenti era stato spesso compito suo tenere il discorso di commiato, compito suo discutere con la segretaria quante tartine ci volessero, e se si dovesse servire vino, spumante, succo d’arancia o acqua. Questa volta ci aveva pensato qualcun altro. Tutto andrà avanti anche senza di lui. Anche questo era merito suo. Negli ultimi mesi gli era più volte toccato sentir dire che degno successore avrebbe avuto, quanto felice fosse stata la scelta che lo aveva ancora visto partecipe; anche Richard, quando ci si trovava a parlare dell’argomento, lodava il giovane come se quell’attesa gioiosa riguardasse ancora lui; senza la minima esitazione ne pronunciava il nome, che presto sarebbe subentrato al suo nell’intestazione della carta da lettera dell’Istituto, dall’autunno il successore avrebbe ereditato il suo corso e si sarebbe attenuto al programma di insegnamento che lui – ora Professore emerito – poco prima di andare in congedo aveva ancora scritto per il tempo in cui avrebbero fatto a meno di lui. Chi esce di scena deve organizzare personalmente la propria uscita di scena, è la consuetudine, ma solo adesso si rende conto di non aver mai capito sul serio, prima, che cosa questo di fatto significhi. E neppure adesso lo capisce. Altrettanto poco riesce a capire che quel prendere congedo da lui è, per gli altri, parte di una quotidianità, mentre solo per lui è davvero un evento finale. Quando negli ultimi mesi qualcuno gli aveva detto quanto fosse triste, dispiaciuto, quasi da non crederci, che presto lui se ne sarebbe andato, aveva avuto difficoltà nel manifestare la commozione che l’interlocutore si attendeva, perché il rammarico di chi si dimostrava scosso non voleva dire altro che il triste, incredibile fatto del suo congedo – che peccato! – era già stato messo agli atti da un pezzo come qualcosa di irreversibile. Dei cibi freddi, che furono serviti all’Istituto in occasione del suo collocamento a riposo, alla fine rimasero, oltre al prezzemolo, solo alcune tartine al salmone, probabilmente perché, con quel caldo, molti diffidavano del pesce. Il lago, che adesso vedeva davanti a sé in tutto il suo luccichio, ha sempre saputo – così almeno gli sembra – molte più cose di lui, il cui mestiere peraltro è riflettere. O lo è stato? Per il lago non fa differenza che, a decomporsi sul suo fondo, sia un pesce oppure un uomo. Il giorno successivo al ricevimento, l’Istituto aveva chiuso per la pausa estiva, tutti partivano, chi per una meta chi per un’altra, solo lui non aveva programmato viaggi perché lo sgombero del suo ufficio, riempitosi oltre misura in quegli anni, era entrato nella fase finale. Due settimane dopo, i ripiani della libreria, legati con uno spago, poggiavano contro la parete, gli scatoloni pieni erano accatastati dietro la porta, e i pochi mobili che intendeva farsi portare a casa formavano un piccolo mucchio ingombrante al centro della stanza. Vi era appoggiata una scopa dalle setole appiattite, sul davanzale della finestra accanto a una busta da lettera tutta impolverata c’era un paio di forbici, in un angolo si trovavano quattro grossi sacchi della spazzatura interamente pieni e un quinto pieno solo a metà, sul pavimento c’era un rotolo di scotch, dalla parete spuntavano ancora alcuni chiodi, ai quali non erano più appesi i quadri. Da ultimo aveva restituito la chiave dell’Istituto. Adesso dovrebbe cercare il posto giusto per i mobili lì in casa, aprire gli scatoloni e incorporare tutto quello che ci stava dentro nel suo ménage privato. Osso a osso, sangue a sangue, sì che tutto unito torni. Le formule magiche di Merseburg, come no. Anche tutto ciò che si chiama cultura, tutto ciò che lui sa e ha imparato, d’ora in poi non è altro che una sua proprietà privata. Da ieri è tutto in cantina e aspetta. Ma come dovrebbe presentarsi la giornata giusta per cominciare a rimettere a posto? Non certo come quella odierna. Magari domani? O in seguito? Una giornata in cui non abbia altro da fare. Ammesso che valga la pena rimettere a posto, è questo il problema. Che valga ancora la pena. Se avesse dei figli. O almeno dei nipoti, figli di un fratello. Ma così, di tutto quello che un tempo sua moglie chiamava le sue cianfrusaglie, può goderne solo lui. E prima o poi, quando lui non ci sarà più, non ne godrà più nessuno. Certo, qualche antiquario prenderà probabilmente i libri, e questo o quell’altro volume – una prima edizione o un esemplare firmato – finirà magari per trovare ancora un amatore. Uno come lui, che può concedersi il lusso, finché vive, di accumulare cianfrusaglie. In continuazione. Ma tutto il resto? Tutto quello che attorno a lui forma un sistema e ha un senso solo finché, lì in mezzo, lui segue la sua strada, fa i suoi lavoretti, si ricorda di questo o di quello – tutto ciò si disperderà e andrà perduto, quando lui non ci sarà più. In merito potrebbe anche scrivere qualcosa, qualcosa sulla forza di gravità che lega tra loro, sino a farne un unico mondo, gli oggetti inanimati e gli esseri viventi. È forse un sole lui? Deve stare attento a non impazzire, se comincia a trascorrere intere giornate così in solitudine, senza parlare con nessuno. Eppure. Dopo la sua morte la credenza rustica, alla quale manca un listello, non andrà di sicuro a finire nella stessa casa della tazza in cui lui, di pomeriggio, si prepara sempre il caffè turco, così come la poltrona, nella quale siede a guardare la televisione, verrà spostata tutte le sere da mani diverse da quelle che apriranno i cassetti della sua scrivania, mentre il telefono non avrà lo stesso proprietario del coltello affilato con cui lui taglia solitamente le cipolle, e lo stesso varrà per il rasoio elettrico. Molte cose che Richard apprezza, che funzionano ancora benissimo o semplicemente gli piacciono, verranno gettate via. Tra la discarica, in cui finirà ad esempio la sua vecchia sveglia, e la casa di chi potrà permettersi il suo servizio di porcellana di Meissen, ci sarà allora un legame invisibile, creato dal fatto che un tempo entrambe le cose gli erano appartenute. Solo che, naturalmente, quando lui non sarà più in vita, nessuno saprà di quel legame. Oppure un simile legame permane comunque nel tempo, in modo per così dire oggettivo? E se così fosse, quale sarebbe il metro per misurarlo? Se fosse stato proprio il senso, che lui vi ha infuso, ad aver tramutato in un universo tutti gli oggetti della sua vita domestica, dallo spazzolino da denti sino al crocifisso gotico appeso alla parete, si porrebbe subito la successiva domanda fondamentale: ma ha una massa il senso? Richard deve davvero stare attento a non impazzire. Forse si sentirebbe meglio se finalmente trovassero il morto. Pare che lo sventurato usasse occhiali da immersione. Un particolare che potrebbe sembrare buffo. Ma, di quelli che lo sapevano, lui quest’estate non ne ha mai visto nessuno mettersi a ridere. Di recente, alla festa del villaggio che ha avuto comunque luogo, senza il ballo però, aveva sentito il presidente del Circolo della pesca dire più volte di seguito: Con gli occhiali da immersione! Con gli occhiali da immersione! Come se proprio questo dettaglio fosse la cosa più difficile da accettare nella morte del nuotatore, e in effetti tutti gli altri uomini, che stavano lì anche loro con il boccale di birra in mano, per un pezzo non avevano replicato, ma si erano limitati a guardare in silenzio la schiuma nel bicchiere e ad annuire. Anche lui si dedicherà sino alla fine a quello che gli piace. Avanti a testa alta sino alla tomba. Riflettere. Leggere. E se un giorno non ci starà più con la testa, a sapere che cosa manca non ci sarà nemmeno più una testa. Può durare finché il corpo non riaffiora, hanno detto. Dura già da quasi tre mesi. Può anche darsi che non riemerga più, hanno anche detto. Che si sia impigliato nelle alghe o sia stato sommerso per sempre dal fango, di cui pare ci sia uno strato spesso metri e metri sul fondo del lago. È un lago profondo, diciotto metri. Incantevole alla vista, ma in realtà un baratro. Tutti quelli che abitano lì vicino, lui compreso, da allora guardano un po’ esitanti il canneto, un po’ esitanti la superficie a specchio del lago nei giorni in cui c’è calma di vento. Dalla scrivania lui può vedere il lago. Bello come nelle altre estati, ma quest’estate la cosa conta poco. Finché il morto non verrà ritrovato e portato via, è a quel morto che adesso appartiene il lago. Già per un’estate intera, e presto sarà autunno, il lago è appartenuto a un morto. 2 Un giovedì di fine agosto dieci uomini si radunano davanti al Municipio rosso, a Berlino. Hanno deciso, corre voce, di non mangiare più. Dieci giorni più tardi decidono che si asterranno anche dal bere. Hanno la pelle nera. Parlano inglese, francese, italiano. E altre lingue ancora che lì nessuno capisce. Che cosa vogliono questi uomini? Lavoro, vogliono. E vivere del loro lavoro. Vogliono restare in Germania. Ma voi chi siete? domanda la polizia, domandano i funzionari mandati apposta dal Senato del Land di Berlino. Non ve lo diciamo, dicono gli uomini. Ma dovete dircelo, rispondono gli altri, se no come facciamo a sapere se la vostra presenza è legale e potete quindi restare e lavorare? Non vi diciamo chi siamo, insistono gli uomini. Ma se voi foste al nostro posto, accogliereste un ospite che non conoscete? dicono gli altri. Gli uomini tacciono. Dobbiamo verificare che siate davvero in stato di bisogno, dicono gli altri. Gli uomini tacciono. Magari, dicono gli altri, siete dei criminali, dobbiamo verificare. Gli uomini tacciono. O semplicemente degli scrocconi. Gli uomini tacciono. Non ce n’è neanche per noi, dicono gli altri. Ci sono regole qui, dicono, alle quali dovete attenervi se volete restare. E alla fine dicono: Non potete ricattarci. Ma gli uomini dalla pelle nera non dicono chi sono. Non mangiano, non bevono, non dicono chi sono. Stanno lì, semplicemente. Il silenzio degli uomini che preferiscono morire piuttosto che dire chi sono, si unisce all’attesa degli altri – quelli che aspettano di ricevere una risposta alle loro domande – sino a creare una grande quiete al centro di Alexanderplatz a Berlino. Una quiete totalmente estranea al grande frastuono che – per via del traffico e per le opere di scavo in vista della nuova stazione della metropolitana – domina costantemente Alexanderplatz. Come mai Richard, che quel pomeriggio passa davanti agli uomini neri e agli uomini bianchi, a quelli seduti e a quelli in piedi, non si accorge della quiete? Sta pensando a Rzeszów. Un suo amico, un archeologo, gli ha raccontato delle scoperte durante gli scavi in Alexanderplatz e lo ha invitato a visitare l’area dei lavori. Di tempo ormai ne ha a sufficienza, e per via di quell’uomo non può nemmeno fare il bagno nel lago. Una volta, tutt’attorno al Municipio rosso, c’erano vasti scantinati, gli ha raccontato l’amico. Spazi sotterranei dove nel Medioevo si teneva un mercato. Mentre aspettava la conclusione di una vertenza, l’ora dell’appuntamento o che le venisse data una risposta, la gente faceva la spesa, non diversamente da oggi, tutto sommato. E in quelle catacombe il commercio riguardava gli alimenti che si conservano meglio al fresco – pesce, formaggio e vino. Proprio come a Rzeszów. Negli anni Sessanta, quand’era studente all’università, nell’intervallo fra due lezioni Richard si sedeva talvolta sul bordo della Fontana di Nettuno, i pantaloni arrotolati fino alle ginocchia, i piedi nell’acqua, un libro in grembo. Anche allora quelle caverne erano già lì sotto, solo un paio di metri le separavano dai suoi piedi, senza che lui lo sapesse. Alcuni anni prima, quando c’era ancora sua moglie, una volta in vacanza avevano visitato la cittadina polacca di Rzeszów, al di sotto della quale correva fin dal Medioevo tutto un sistema di gallerie. Come una seconda città, che chi si guarda attorno di fretta non nota, quel labirinto era cresciuto sotto terra, riflesso speculare delle case visibili in superficie. Attraverso la cantina ogni casa di abitazione aveva accesso a questo mercato pubblico, illuminato solo da fiaccole. E quando sopra c’era la guerra gli abitanti della cittadina si rintanavano nel sottosuolo. Più tardi, al tempo del nazismo, furono gli ebrei a nascondersi lì. Ai nazisti per primi venne l’idea di invadere di fumo i corridoi di accesso. Rzeszów. Invece, dei sotterranei attorno al Municipio rosso, persino i nazisti non seppero mai nulla. Negli ultimi giorni di guerra allagarono soltanto le gallerie della metropolitana berlinese. Forse per annegare il proprio popolo, che si era rifugiato lì per proteggersi dai bombardamenti alleati. Meglio il cibo per traverso che lasciarlo andare perso. Uno degli uomini non ha per caso già avuto un collasso? domanda una giovane donna con il microfono in mano, alle sue spalle c’è un gigante con una telecamera in spalla. No, dice uno dei poliziotti. Vengono nutriti artificialmente? Per adesso non ancora, dice il poliziotto, guardi pure. Qualcuno è già stato portato in ospedale? Ieri uno, credo, interviene un altro agente, ma prima del mio turno. Potrebbe dirmi in quale? No, questo non siamo autorizzati a dirlo. Ma così non riesco a tirar giù il pezzo. Eh, risponde il primo, noi purtroppo non possiamo farci nulla. Lei mi capisce, dice la giovane donna, se non succede niente di speciale, non riesco a tirar fuori una storia. Sì, sì, lo capisco. E il mio reportage non lo prende nessuno. L’altro: Magari oggi succede ancora qualcosa, magari questa sera. La donna: Ma io ho al massimo un’ora di tempo. Il montaggio. C’è una deadline. Capisco, dice l’agente con un sorrisetto. Anche due ore dopo, mentre sta tornando alla stazione, Richard non guarda dall’altra parte verso il Municipio, guarda a sinistra verso le fontane, vede i bacini disposti a scalinata, che conducono diritti al basamento della torre della televisione. Costruzione di epoca socialista, estate dopo estate masse d’acqua traboccanti e zampillanti, un ardimento per i bambini che, tutti felici, stavano in equilibrio al centro delle passerelle, con i genitori lì attorno che ridevano, fieri, mentre sia gli uni sia gli altri levavano di tanto in tanto lo sguardo alla sfera argentea in cima alla torre, assaporando la vertigine che li coglieva: Cade! Cade su di noi! Trecentosessantacinque metri fino in cima, i giorni di un intero anno misurati in metri, dice il papà, e: No, non cade, sembra solo che cada, dice la mamma ai bambini gocciolanti. Il padre racconta ai bambini – ma soltanto se vogliono ascoltare – la storia del muratore che, mentre si stava costruendo la guglia della torre, era caduto di lassù: essendo però la torre così alta, la caduta del muratore durò talmente a lungo che, mentre l’operaio cadeva, gli abitanti delle case vicine riuscirono a radunare in fretta i materassi, un’intera pila di materassi mentre lui cadeva, cadeva e cadeva, e la pila fu completa nel momento esatto in cui, dopo quella lunga caduta, l’operaio arrivò giù per atterrare sul morbido – come la principessa sul pisello della fiaba! – e rialzarsi senza nemmeno un graffio. I bambini sono contenti per il miracolo dell’operaio salvato, ma adesso vogliono rimettersi a giocare. A Berlino accanto alle fontane di Alexanderplatz l’umanità, estate dopo estate, lasciava già trasparire una soddisfazione e una contentezza tali, quali venivano promesse in genere solo per l’avvenire, per quel tempo lontano e pienamente felice, chiamato comunismo, cui prima o poi tutti gli uomini sarebbero approdati, nel loro progresso disposto a scalinata fino ad altezze vertiginose e a dir poco inimmaginabili, fra cento, duecento o trecento anni al massimo. Contrariamente alle attese però, il committente delle fontane, lo Stato che apparteneva al popolo, quarant’anni dopo era di colpo venuto meno, e con lo Stato anche l’avvenire promesso, solo i giochi d’acqua disposti a scalinata continuavano a traboccare e a zampillare, anche adesso un’estate dopo l’altra zampillavano ad altezze vertiginose, a dir poco inimmaginabili, mentre bambini ardimentosi e felici continuavano a tenersi in equilibrio sulle passerelle, con i genitori che, fieri, li ammiravano e ridevano. Che cosa racconta in realtà un’immagine simile, che è sfuggita al racconto? A che cosa aspirano oggi le persone felici? Il tempo si è fermato? Ci resta ancora qualcosa da desiderare? Agli uomini, che preferiscono morire piuttosto che dire chi sono, si sono uniti alcuni simpatizzanti. Una ragazza si è seduta per terra a gambe incrociate accanto a uno dei neri, gli parla a bassa voce, fa dei cenni con il capo e intanto si arrotola una sigaretta. Un giovane discute con i poliziotti, ma non abitano nemmeno qui, sta dicendo il giovane, e il poliziotto dice che non sarebbe neanche permesso, appunto, dice il giovane. I neri sono sdraiati o accovacciati per terra, alcuni hanno steso sotto di sé un sacco a pelo, altri una coperta, altri ancora assolutamente nulla. Hanno montato un tavolino da campeggio come sostegno per un cartello. Il cartello appoggiato al tavolino è un grosso cartone dipinto di bianco sul quale c’è scritto a caratteri neri: We become visible. Sotto, con il pennarello, qualcuno ha riportato la traduzione a caratteri più piccoli, verdi: Diventiamo visibili. Magari è stato il giovane oppure la ragazza. Di Richard, che sta passando giusto adesso, gli uomini dalla pelle nera, se per caso lo guardassero, ormai non vedrebbero altro che la schiena: un signore dalla postura eretta, che si sta dirigendo verso l’edificio della stazione, che nonostante il caldo torrido indossa la giacca e adesso scompare in mezzo ai passanti, parecchi dei quali hanno fretta e sanno esattamente dove vogliono andare, mentre altri vanno soltanto a zonzo con la piantina della città in mano, vogliono vedere l’Alex, il centro di quella parte di Berlino che si è chiamata per tanto tempo zona russa, e che ancor oggi molti per scherzo chiamano zona est. Sullo sfondo di quel brulichio, anzi un po’ più in alto, gli uomini che tacciono vedrebbero, se levassero lo sguardo, anche le finestre del Fitnesscentrum, situato giusto alla base della torre sotto una tettoia molto spiovente. Dietro i vetri, vedrebbero persone in bicicletta, e persone che corrono, le vedrebbero pedalare e correre un’ora dopo l’altra verso i giganteschi finestroni, quasi volessero arrivare, al di là del Municipio, il più in fretta possibile lì da loro, dagli uomini dalla pelle nera, oppure dalla polizia, e dichiararsi solidali con gli uni o con gli altri; quasi fossero pronte addirittura a spaccare i vetri e a colmare l’ultimo tratto di strada al volo o con un balzo, se ciò fosse necessario per arrivare lì. Ma è ovvio che le biciclette e i tapis roulant sono saldamente fissati, e le persone che praticano sport si muovono sul posto senza avanzare. È plausibile che, mentre si allena, la gente veda quanto sta accadendo sulla piazza, ma che sia comunque troppo lontana per leggere, ad esempio, la scritta sul cartello. 3 Per cena Richard si prepara panini al prosciutto e al formaggio, come contorno un’insalata. Oggi al supermercato, che una volta si chiamava grande magazzino alimentare, il formaggio era in offerta per via della data di scadenza ormai prossima. Lui non ha bisogno di risparmiare, la pensione gli basta, ma perché dovrebbe pagare più del necessario? Per l’insalata affetta delle cipolle, è tutta la vita ormai che affetta cipolle, ma solo da poco ha letto in un libro di cucina come vanno tenute, se non vuoi che ti scivolino di mano mentre le stai affettando. Per ogni cosa esiste una forma ideale, per le banalità della vita così come per il lavoro e l’arte. In fondo, pensa, per tutta la vita non cerchiamo altro, probabilmente, se non di ottenere questa forma perfetta. E quando per alcune cose l’abbiamo infine ottenuta, veniamo cancellati dalla faccia della terra. Sia come sia, è passato da un pezzo ormai il tempo in cui, con i risultati conseguiti, voleva dimostrare qualcosa agli altri, quegli altri adesso non ci sono nemmeno. E quel qualcosa sua moglie non lo vede più. Quanto alla sua amante, avrebbe mostrato ben poco interesse all’arte di affettare le cipolle. L’unico che può ancora gioire se gli riesce qualcosa o se ha capito qualcosa è proprio lui. Lui in effetti ne gioisce. E la sua gioia non persegue più alcuno scopo. Questo è il primo vantaggio del vivere soli: la vanità rivela la sua natura di mera zavorra. E il secondo vantaggio: non c’è più nessuno che possa turbare l’ordine. Il pane vecchio tagliato a dadini viene abbrustolito e messo nell’insalata, quando si tira fuori la bustina del tè dalla teiera, le si gira attorno il filo e la si spreme per bene un’ultima volta, d’inverno le giovani rose ad alberello vengono piegate verso il basso e ricoperte di terra – e così via. Il piacere per ciò che è al posto giusto, che non va perduto, che viene trattato nel modo giusto senza essere sprecato, il piacere per ciò che riesce, senza essere d’impedimento alla riuscita di qualcos’altro, è in realtà – così Richard vede la cosa – il piacere per un ordine che non è stato stabilito da lui, ma che lui deve solo rintracciare, un ordine che si trova al di fuori della sua persona, ma che proprio per questo lo lega a ciò che cresce, vola o scorre via, allontanandolo per contro da molte altre persone, ma questo gli è indifferente. Allora, quando la sua amante aveva cominciato a prenderlo in giro e poi a mostrarsi sempre più spesso irritata per i suoi moniti, lui non aveva comunque smesso di perseverare in questa o in quella occupazione che, una volta per tutte, gli era parsa giusta. Con la moglie, almeno da questo punto di vista, era quasi sempre andato d’accordo. Lei stessa, da bambina, mentre verso la fine della guerra cercava di mettersi in salvo dai panzer russi, era stata colpita alle gambe da aerei tedeschi che volavano a bassa quota. Se allora suo fratello non l’avesse trascinata via dalla strada, non sarebbe sicuramente sopravvissuta. Quando manca la visione d’insieme il rischio è mortale, questo sua moglie lo aveva già imparato a tre anni. Lui stesso durante il trasferimento della famiglia dalla Slesia alla Germania era ancora in fasce e, nel trambusto della stazione, aveva corso il rischio di venir separato dalla madre, se sul marciapiede sovraffollato del treno in partenza un soldato russo non fosse riuscito a farlo arrivare sino a lei, che era già dentro lo scompartimento, oltre le teste degli innumerevoli altri slesiani in procinto di essere evacuati. La madre gli aveva raccontato così spesso quella storia che lui ormai la considerava quasi un suo ricordo personale. Il caos della guerra lo aveva chiamato lei. Anche suo padre probabilmente aveva contribuito al caos della guerra, quando era soldato sul fronte norvegese e su quello russo. Quanti bambini suo padre – lui stesso a quell’epoca ancora quasi un bambino – avrà separato lassù dai loro genitori? Oppure, all’ultimo momento, li avrà riuniti alle loro famiglie? Soltanto due anni dopo il reduce aveva ritrovato la propria famiglia, che nel frattempo si era trasferita a Berlino, e aveva visto per la prima volta suo figlio. Appelli della Croce Rossa in favore dei dispersi vennero trasmessi alla radio ancora per molti anni, quando già da un pezzo suo padre era di nuovo seduto sul divano accanto alla mamma, davanti a una fetta di torta alle mandorle e miele e a una tazza di vero caffè, quando il neonato, che aveva corso il rischio di andar smarrito nel caos della guerra, frequentava già da tempo la scuola. A suo padre quel bambino non poté mai fare domande sulla guerra. Lascia perdere – la mamma scuoteva la testa, faceva cenno di no, lascia in pace papà. E il padre sempre zitto. Che cosa ne sarebbe stato di quel bimbo in fasce, se il treno si fosse messo in moto due minuti prima? Che cosa ne sarebbe stato della bambina, divenuta in seguito la moglie di Richard, se il fratello non l’avesse trascinata via dalla strada? In ogni caso – questo è certo – non ci sarebbero state nozze tra un orfano e una morta. Non rovinare i miei cerchi: è ciò che Archimede, intento a disegnare sulla sabbia figure geometriche, sembra avesse detto al soldato romano che poi lo avrebbe ucciso a fil di spada. Che la confusione non abbia il sopravvento è cosa tutt’altro che ovvia, al riguardo Richard fu sempre d’accordo con la moglie. Per questo probabilmente lei capiva molto meglio della sua giovane amante che cosa stava a cuore al marito, quando in ogni situazione egli andava alla ricerca di ciò che era davvero giusto. Le piaceva anche bere. Ma questa è un’altra storia. Si siede a tavola e accende la televisione, al telegiornale della sera trasmettono le notizie locali: la rapina a una banca, lo sciopero del personale dell’aeroporto, la benzina rincara di nuovo, in Alexanderplatz si sono radunati dieci uomini, evidentemente profughi, e stanno facendo lo sciopero della fame, uno di loro ha avuto un collasso ed è stato portato in ospedale. In Alexanderplatz? Si vede un uomo su una barella, che viene caricato in ambulanza. Proprio là dove oggi è passato Richard? Una giovane giornalista parla al microfono, sullo sfondo alcune figure accucciate o sdraiate, si vede un tavolino da campeggio con un cartello: We became visible. Sotto, a caratteri più piccoli, in verde: Diventiamo visibili. Come mai non ha visto la manifestazione? Nel primo panino ha messo del formaggio da taglio, ora arriva il secondo con il prosciutto. Gli è già capitato di provare vergogna a cenare, mentre sullo schermo scorrono immagini di uomini uccisi, cadaveri delle vittime di terremoti, di aerei precipitati, qui la scarpa di qualcuno dopo un attacco suicida, là i corpi delle vittime di un’epidemia avvolti in teli, distesi l’uno accanto all’altro in una fossa comune. Si vergogna anche oggi, e tuttavia continua a mangiare, come sempre. Da bambino ha conosciuto la miseria. Ma non per questo, perché oggi un disperato fa lo sciopero della fame, deve morire di fame anche lui. Si sta dicendo. E nemmeno aiuterebbe chi sta facendo lo sciopero della fame. Se quell’altro si trovasse al posto suo, si preparerebbe la cena e mangerebbe, esattamente come lui. Alla sua età gli tocca ancora scuotersi di dosso l’eredità protestante della madre, uno stato d’animo alla base del quale c’è il rimorso. Dei lager però, non aveva mai saputo nulla nemmeno lei. Così sembra. Ma prima che arrivasse Lutero che cosa c’era al posto di quell’anima, da cui s’era poi diffusa la coscienza sporca? Una certa sordità d’animo, dopo l’affissione delle Tesi, è diventata una semplice forma di legittima difesa, probabilmente. Infila la forchetta nella ciotola colma di insalata e, mentre mastica, dice fra sé che sarebbe disonesto anche intellettualmente se un giorno smettesse pure lui di mangiare per solidarietà con uno qualsiasi dei poveri o dei disperati che ci sono al mondo. E tuttavia dalla gabbia della libera decisione non riuscirebbe mai a fuggire. Rinchiuso nel lusso del poter scegliere, il suo astenersi dal mangiare sarebbe non meno capriccioso di una gozzoviglia. Gli piacciono le cipolle nell’insalata. Cipolle fresche. E gli uomini continuano a rifiutarsi di dire il proprio nome, sta riferendo la giovane donna. Sembra in ansia per gli uomini che fanno lo sciopero della fame, la sua ansia sembra autentica. Che il tono ansioso della voce sia diventato materia d’esame per i giornalisti? E la ripresa dell’uomo sulla barella sarà avvenuta proprio in Alexanderplatz? Summa si chiamavano nel Medioevo le opere universali di consultazione, in quei libri la piantina di Madrid era esattamente uguale a quella di Norimberga e di Parigi – la piantina raccontava soltanto che il referente di questo o quel nome era una città. È probabile che oggi le cose non vadano poi molto diversamente. Un corpo come quello che veniva portato via in barella non l’aveva forse già visto in innumerevoli servizi del telegiornale sulle più diverse parti del mondo e in occasione di catastrofi d’ogni genere? Perché mai dovrebbe essere così importante che quelle immagini, guizzanti sul teleschermo per poche frazioni di secondo, condividano realmente il luogo e il tempo con l’orrore che la notizia ha suscitato? Poteva valere come prova un’immagine? E andava considerata in questo senso? Quale racconto stava oggigiorno alla base di immagini scelte a caso? O non si trattava nemmeno più di un racconto, ormai? Nella sola giornata odierna sei uomini sono affogati nei laghi attorno a Berlino in modo puramente accidentale, dice ora il conduttore a conclusione del notiziario, un triste record lo definisce e passa subito la linea al meteo. Sei uomini, come l’uomo che è ancora laggiù in fondo al lago. We become visible. Perché Richard non ha visto gli uomini in Alexanderplatz? 4 Durante la notte si alza per andare in bagno e poi non riesce più a riaddormentarsi, e non è la prima volta in questi ultimi mesi. È lì disteso al buio e intanto tiene d’occhio i suoi pensieri che prendono vie traverse. Pensa all’uomo là sotto nel lago, proprio giù in fondo, dove persino d’estate fa ancora freddo. Pensa al suo ufficio vuoto. Alla giovane donna con il microfono. Prima, quando riusciva ancora a dormire senza interruzioni, la notte gli dava il senso di una sosta. Adesso non più, e da tanto tempo ormai. Tutto continua ad andare avanti e non smette, nemmeno al buio. Il giorno successivo tosa l’erba, a pranzo mangia una zuppa di piselli in scatola, poi risciacqua il barattolo e si fa un caffè. Prende una compressa per il mal di testa. Stal di mela. Una volta con la sua amante facevano di questi giochetti, che consistevano nel cambiare l’ordine delle sillabe all’interno delle parole. Oppure ripetevano ad alta voce gli errori di battitura. Antico diventava atnico, corto diventava croto e così via. Come mai non ha visto gli uomini? We become visible. Manco per sogno. Prende dalla libreria la traduzione in prosa dell’Odissea e legge il suo canto preferito, l’undicesimo. Più tardi sale in macchina, va al bazar del quartiere, dove porta ad affilare la lama del tosaerba. La sera si prepara dei panini e, per contorno, un’insalata. Telefona al suo amico Peter, l’archeologo, il quale gli racconta che, lungo il perimetro degli scavi, sulla benna dell’escavatore si è improvvisamente materializzata una statua moderna. Faceva parte dell’esposizione nazista Arte degenerata, dice. Pensa un po’. Magari durante i bombardamenti un ufficio della Camera della cultura del Reich è sprofondato e l’armadio dei veleni è finito, per così dire, nel Medioevo. Richard dice che non sembra neanche vero, e l’amico risponde che la terra è piena di prodigi. Richard pensa, senza dirlo però, che la terra ricorda piuttosto una discarica, le varie epoche – con la bocca piena di terra – precipitano l’una sopra l’altra nell’oscurità, si accoppiano l’una con l’altra, ma senza frutto, e il progresso consiste sempre e solo nel fatto che chiunque vada in giro sulla superficie di questa terra, di tutto ciò non sa nulla. L’indomani piove, lui quindi resta a casa e riordina finalmente la pila dei vecchi quotidiani. Fa alcuni bonifici al telefono, e poi compila la lista della spesa che gli servirà più tardi: 1 chilo di cipolle 2 confezioni d’insalata ½ pane bianco ½ pane nero 1 panetto di burro formaggio, salame? 3 barattoli di zuppa (piselli o lenticchie) pasta pomodori viti da 16 vernice per la barca 2 ganci Dopo pranzo si distende per una ventina di minuti. La coperta di autentico pelo di cammello, con la quale si copre, gliel’aveva regalata anni prima sua moglie per Natale. Per mettersi a svuotare gli scatoloni in cantina preferisce aspettare un giorno in cui ci sia più luce. La studentessa, di cui lui ha conservato la relazione sui Livelli di significato nelle Metamorfosi di Ovidio, durante il suo seminario talvolta si addormentava, il viso nascosto dietro le mani. Ma quello che aveva scritto era comunque un buon lavoro. Nel pomeriggio ha quasi smesso di piovere, prende la macchina e va al supermercato, grande magazzino alimentare si chiamava una volta, domani è domenica, non deve dimenticare niente, poi va anche al bazar di quartiere per tutto il resto. Al bazar c’è odore di concime, segatura e vernice, vendono anche vermi per pescare, occhiali da immersione, e uova, arrivate fresche fresche dalla campagna. Occhiali da immersione. La sera, nel notiziario locale, trasmettono anche un breve comunicato: I profughi di Alexanderplatz, che facevano lo sciopero della fame, sono stati allontanati. Lo sciopero è finito. Peccato, pensa lui. L’idea di acquistare visibilità non dicendo apertamente chi si è, gli era piaciuta. Ulisse aveva detto di chiamarsi Nessuno, per poter evadere dalla caverna del Ciclope. Chi ti ha cavato l’occhio? domandavano da fuori gli altri giganti al Ciclope cieco. Nessuno, urlava il Ciclope. Chi ti percuote? Nessuno! Ulisse, quel Nessuno, di cui il gigante urla il falso nome che annulla se stesso, si aggrappa al ventre di un montone e fugge via, senza essere scoperto, dalla caverna del mostro che mangia gli uomini. Adesso il cartello con la scritta We become visible è finito probabilmente in un cestino per la carta straccia, oppure, se era troppo grande per starci dentro, è là a terra, zuppo di pioggia. 5 Nelle due settimane successive Richard fa sostituire la porta della rimessa e riparare la canna fumaria del camino, trapianta le peonie, pittura i remi con la vernice per le barche, sbriga la corrispondenza che era rimasta in attesa durante l’estate, va una volta dal fisioterapista e tre volte al cinema. La mattina a colazione legge il giornale, come sempre. Di mattina beve tè, Earl Grey, con latte e zucchero, mangia una fetta di pane e miele e un’altra di pane e formaggio, talvolta anche un pezzetto di cetriolo, e la domenica, ma solo la domenica, c’è l’uovo. Adesso può prendersela comoda tutti i giorni, come prima poteva fare solo di domenica. Ma l’uovo lo vuole solo di domenica. Come sua abitudine. La novità è che può restare seduto quanto gli pare davanti alla sua tazza di tè, e quindi ora legge a fondo molte notizie, alle quali prima avrebbe dato solo un’occhiata frettolosa. Gli sarebbe piaciuto sapere dove avevano portato i dieci uomini dell’Alex, ma il giornale non ne parla. Legge che in Italia, davanti all’isola di Lampedusa, sono affogati 64 migranti dei 329 che occupavano il barcone, tra loro persone provenienti dal Ghana, dalla Sierra Leone e dal Niger. Legge che un uomo del Burkina Faso si era nascosto nel carrello di un aeroplano ed era precipitato da qualche parte in Nigeria, quando il velivolo si trovava a circa 3.000 metri di quota, legge di una scuola nel quartiere di Kreuzberg che africani subsahariani occupano da alcuni mesi, legge di Oranienplatz dove – a quanto pare – i profughi vivono da un anno sotto le tende. Dove si trova di preciso il Burkina Faso? Qualche tempo prima persino il vicepresidente americano aveva definito l’Africa una nazione, mentre le nazioni africane sono 54, c’era scritto nell’articolo che menzionava la gaffe. Cinquantaquattro? Nemmeno lui lo sapeva. Qual è la capitale del Ghana? E della Sierra Leone? O del Niger? All’inizio del primo anno di università molti dei suoi studenti non sapevano recitare in greco nemmeno i primi quattro versi dell’Odissea. Ai tempi in cui era studente lui, questo sarebbe stato inconcepibile. Si alza e va a prendere l’atlante. La capitale del Ghana è Accra, la capitale della Sierra Leone è Freetown, la capitale del Niger Niamey. Ha mai conosciuto prima i nomi di queste città? Il Burkina Faso si trova a ovest del Niger. E il Niger? Al dipartimento di germanistica, nel suo stesso corridoio all’università, solo due o tre stanze più avanti, negli anni Settanta c’erano stati spesso studenti originari del Mozambico e dell’Angola, studiavano ingegneria meccanica o agraria, ma prendevano lezioni di tedesco dai suoi colleghi. La collaborazione con i paesi africani, allora fratelli, si era interrotta con la fine, lì in Europa, del socialismo. Chissà se era stato per via di quegli studenti che allora si era comprato il libro sulla «Letteratura dei negri»? Non se ne ricorda più, però sa esattamente dov’è adesso quel volume nella sua libreria. I libri aspettano, dice sempre quando i visitatori gli chiedono se ha già letto tutti i libri che si trovano negli scaffali. La capitale del Mozambico è Maputo, quella dell’Angola è Luanda. Chiude l’atlante e va nell’altra stanza, al ripiano dove c’è il Libro sui negri. Ormai la parola negro nessuno la userebbe più, mentre allora si stampava perfino un libro con un titolo simile. Ma che cosa significa allora? Quando lui era bambino, dopo la guerra, sua madre doveva leggergli sempre qualche filastrocca dalla Mongolfiera di Hatschi Bratschi, che lei aveva trovato in una valigia a Berlino tra le macerie. In fretta, grida la signora cannibale, in fretta, l’acqua è già bella calda. Svelto, grida il bambino cannibale, svelto, tienilo con mano salda. Nelle illustrazioni, allora, gli piaceva in particolare il bambino cannibale: gli ossicini dell’ultimo pasto infilati in mezzo ai capelli. Prima o poi sua madre doveva aver dato via il libro, e in seguito, quando lui da adulto lo aveva cercato nelle librerie, era venuto a sapere che in effetti si pubblicava ancora, ma ormai solo in una nuova edizione politicamente corretta con un’Africa senza cannibali, e che l’edizione originale, se mai la si riusciva a trovare, aveva un prezzo da mettere i brividi, quasi fosse un oggetto d’antiquariato. Anche in questo caso la proibizione era riuscita soltanto a tramutare l’oggetto proibito in uno particolarmente richiesto. Gli effetti sono indiretti, non diretti, pensa, come negli ultimi anni gli è già capitato di pensare più volte e nelle più diverse occasioni. Ma il libro sulla «Letteratura dei negri» è al suo posto nello scaffale, dove è sempre stato ad aspettare lui. E giustappunto, il titolo è del 1951. Lo sfoglia e legge qualche riga. La terra è rotonda e interamente circondata da acquitrini, c’è scritto. Laggiù c’è il paese degli spiriti arborei. Sotto terra c’è sempre e soltanto terra. Quello che viene dopo, non lo sa nessuno. 6 Quando Richard trova finalmente la scuola nel quartiere berlinese di Kreuzberg, sta già scendendo la sera. Quello che una volta era il cortile della scuola manca di illuminazione, e lui perciò fa fatica a distinguere, dall’aria notturna, le ombre nere che gli vengono incontro. Nella tromba delle scale c’è puzza. Sulle pareti ci sono schizzi di vernice. Al primo piano, attraverso una porta aperta, Richard dà un’occhiata alla toilette degli uomini, entra per vedere quale aspetto ha lì una toilette degli uomini: ci sono quattro gabinetti, tre dei quali sigillati con strisce adesive bianco-rosse. Dall’altra parte è tutto vuoto, forse prima c’erano le docce. Le tubature sono state smontate, restano solo le mattonelle. La puzza è spaventosa. Torna indietro. Non si vede nessuno, non un nero, non un bianco. Alla parete soltanto un foglio scritto a mano: Aula magna recita la scritta, e accanto una freccia con l’indice verso l’alto. Da sopra, adesso, sente venire delle voci. Magari sono già tutti all’assemblea. È un po’ in ritardo, nel tratto dalla S-Bahn alla scuola ha subito sbagliato strada, perché nella zona ovest di Berlino continua a non sapersi orientare. Il Senato del Land invita residenti e profughi nell’aula magna della scuola occupata di Kreuzberg per discutere la situazione, ha letto sul giornale. Ma che cosa fa qui lui – lui che non è né un residente né un profugo? E se la caduta del Muro gli avesse offerto solo la libertà di andare nei luoghi dei quali ha paura? L’aula magna è piena di gente, alcuni stanno in piedi, altri siedono per terra, sulle seggiole, sui tavoli. I materassi dei profughi sono stati spinti lungo il perimetro della sala. Nel mezzo ci sono alcune tende, saldamente avvitate al pavimento di legno posato a spina di pesce. Che cosa è fuori qui, che cosa è dentro? Anche l’ex palcoscenico dell’aula magna è occupato da materassi vicinissimi gli uni agli altri, il sipario sospeso tra le bianche colonne corinzie è alzato, di modo che lo sguardo può posarsi liberamente su giacigli, coperte, lenzuola, borse e scarpe. E qua e là, sotto le coperte non c’è per caso ancora qualcuno che sta dormendo? Richard non ne è sicuro. Eppure, ah. L’uno dopo l’altro dicono il proprio nome, precisando chi sono e come mai sono lì. E tutto viene tradotto in altre due lingue. In vita sua Richard ha partecipato a molte assemblee, ma a una così mai. Mi chiamo, vengo da, sono qui perché. My name is, I come from, I’m here because. Je m’appelle, Je suis de, Je suis ici. Circa 70 persone dicono chi sono. Filosofia, / giurisprudenza e medicina, / e purtroppo anche teologia! / Da capo a fondo le ho studiate / con tutto l’ardore. Il soffitto è decorato con stucchi, al centro è appeso un lampadario, pareti rivestite di legno scuro. Non molto tempo fa questo era un liceo. Dal Mali, dall’Etiopia, dal Senegal. Da Berlino. From Mali, Ethiopia, Senegal. From Berlin. De Mali, Éthiopie, Sénégal. De Berlin. Alle intelaiature delle finestre sono appese alcune giacche e T-shirt. Per farle asciugare, forse? Ma dove si laverà mai la biancheria in una ex scuola? Sul palcoscenico, ancora non molto tempo fa, si tenevano discorsi e si suonava il pianoforte, si dava il benvenuto ai nuovi studenti e si premiavano coloro che avevano avuto i voti migliori alla maturità. Si allestivano spettacoli teatrali. Il sipario veniva tirato da una parte. Si vedeva Faust seduto al suo scrittoio. E mi è chiaro che nulla possiamo conoscere! E in effetti anche adesso, durante l’assemblea, sotto molte di quelle coperte sono distesi degli uomini e dormono. Dal Niger. Dal Ghana. Dalla Serbia. Da Berlino. From Niger. From Ghana. From Serbia. From Berlin. De Niger. De Ghana. De Serbie. De Berlin. Verrà mandato via perché non risiede nel quartiere? Lui non vuole dire chi è. O perché si trova lì. Dato che non lo sa nemmeno lui. Tra i pochi bianchi presenti, ci sono residenti a Kreuzberg, membri di associazioni di sostegno ai profughi, operatori umanitari e membri di un comitato che vorrebbe fare della scuola un polo culturale, ci sono funzionari amministrativi del distretto urbano e assistenti sociali per minori. C’è una giornalista, che però viene allontanata perché l’assemblea può tenersi solo a porte chiuse. Fra i numerosi neri ci sono persone che vivono lì, dentro la scuola, da otto mesi, e persone che ci vivono da sei, e altre che sono arrivate da soli due mesi. I profughi qui dicono il proprio nome e raccontano da dove vengono, a differenza di quelli in Alexanderplatz, e tuttavia non sembra che questo contribuisca alla soluzione del problema. La capitale del Ghana è Accra, la capitale della Sierra Leone è Freetown, la capitale del Niger è Niamey. No, Richard non vuole dire il proprio nome. Mentre sta maturando la sua decisione, proveniente dalla tromba delle scale si ode all’improvviso uno scoppio assordante, una specie di esplosione, che di colpo annulla qualsiasi pensiero e lascia tutti in balia del puro e semplice istinto. All’operatore umanitario l’istinto dice: Siamo al secondo piano. Al profugo del Ghana: L’accesso all’altra scala è sbarrato. Al residente: Eppure io sono bianco. Alla residente: Che ne sarà di mio figlio? A molti fra i neri: Ma allora sono arrivato fin qua solo per morire. E a Richard l’istinto dice: Ci siamo. Ma poi tutti quelli che si erano tappati le orecchie, compreso Richard, abbassano le mani, tornano a respirare e ricominciano a pensare, e pensano: Non era una bomba. E pensano anche: Poteva benissimo esserlo. E proprio in questo momento, in cui tutti vorrebbero cancellare in fretta dai loro pensieri la paura che hanno avuto, o piuttosto quella che li ha avuti in pugno, proprio adesso di colpo va via la luce, e per un istante tutte le persone nella sala sono nere. Che cosa succede ora? Che cosa accade? mormorano alcuni. Mio Dio, si sente. Poi torna la luce. Come se in quei due minuti non ci fossero stati abbastanza imprevisti, ecco che, appena è di nuovo chiaro, uno degli africani si mette improvvisamente a urlare, si dimena, impreca, scaraventa via un cuscino, e poi anche una coperta. Che cosa sta capitando? Che cos’altro ha quello? È sotto choc? No, dicono, pare che durante l’esplosione o subito dopo, mentre era buio, gli abbiano rubato il computer portatile sfilandoglielo da sotto il guanciale. Ma come fa un profugo ad avere un portatile, si domanda adesso il residente. Sarà di sicuro uno di quelli che spacciano droga a due passi da qui nel parco, pensa la residente. In effetti la proprietà privata non funziona, se ciascuno possiede solo una coperta e un guanciale, pensa Richard, che per motivi a lui stesso non molto chiari è arrivato lì dalla periferia della città. Passa davanti all’uomo che urla e agli altri che tentano di calmarlo, si lascia alle spalle il trambusto e la sala, nella quale l’assemblea non è ancora davvero cominciata, ed esce sul pianerottolo dove continua a esserci il fumo del petardo, acceso magari da un provocatore berlinese che voleva lanciare un segnale all’amministrazione del distretto urbano, oppure da un ragazzino nero che non aveva niente di meglio da fare che spaventare il prossimo con un petardo, o da un neofascista che odia i profughi e i loro simpatizzanti, o da un povero diavolo nero che, approfittando di un momento di panico, voleva rubare il portatile a un altro povero diavolo nero. Richard scende le scale che, in mezzo a tutto quel fumo, vede a mala pena e, passando davanti alla toilette degli uomini illuminata a giorno, ma vuota, arriva fin sotto. Se non camminasse così lentamente per non correre il rischio di mancare qualche gradino, si potrebbe dire che sta volando. 7 È bello quando d’autunno si sente l’odore delle foglie. Foglie umide che si mescolano alla terra e restano appiccicate alla suola delle scarpe. Aprire il cancello del giardino, inspirare profondamente l’aria scura, Richard lo fa da vent’anni quando arriva a casa tardi la sera. Per vent’anni era tornato l’autunno in quel giardino, si era sentito quell’odore, e lui aveva aperto in quel modo il cancello per poi richiuderselo alle spalle. Il tempo qui è come un grande paese nel quale, stagione dopo stagione, si può di nuovo tornare a casa. E qui lui si orienta bene. A differenza di molti suoi vicini, non ha montato un rilevatore a infrarossi in mezzo agli alberi, per avere luce quando cammina verso casa passando fra i tronchi. Qualche volta c’è la luna, ma non gli dà fastidio nemmeno quando è buio pesto come oggi, perché così i suoi passi appartengono più al bosco che non a lui, e in luogo della vista subentra la vigilanza. L’oscurità, persino l’oscurità addomesticata di un giardino, trasforma per un istante un uomo come lui in un animale vulnerabile. E allora gli viene di nuovo in mente l’uomo che anche adesso, dondolando appena, è sospeso da qualche parte là sotto, nel lago. Era stato pavido, poco fa, a Kreuzberg? Può darsi. Lì nel giardino gli era sempre sembrato che fosse proprio il velo della paura a legarlo più strettamente a quel luogo. Lì nel giardino non ha mai avuto paura della paura. In città è diverso. I suoi amici lo prendono in giro perché, ancora adesso, si rifiuta di andare in centro con la macchina. Ma da quando è caduto il Muro, lui in città non si orienta più. Da quando non c’è più il Muro, la città è grande il doppio e talmente cambiata che spesso non riesce nemmeno a capire a quale incrocio si sia fermato. Ha conosciuto gli squarci prodotti dalle bombe, prima con le macerie e, più tardi, anche senza. E ancora più tardi, al loro posto, c’era magari la bancarella delle salsicce o il venditore di abeti, e spesso non c’era semplicemente più nulla. Negli ultimi anni invece i vuoti sono tornati a riempirsi di case, agli angoli rosicchiati dalle bombe ci sono nuove costruzioni, e di muri spartifuoco non se ne vedono più. Da bambino, prima che costruissero il Muro, andava a raccogliere i mirtilli per poi venderli alla stazione di Berlino Ovest Gesundbrunnen, e così si era comprato il suo primo pallone di gomma laccata. I palloni di gomma laccata esistevano solo a Ovest. Quando aveva rivisto per la prima volta la stazione dopo la caduta del Muro, i binari che conducevano a Est erano invasi dall’erba alta, sulle banchine erano cresciute le betulle e dondolavano al vento. Se il piano regolatore della città fosse stato di sua competenza, quel luogo lui lo avrebbe lasciato così. In ricordo della città divisa e come segno della caducità di tutto ciò che gli uomini costruiscono, ma forse anche semplicemente perché è bello vedere un boschetto di betulle su una banchina. Richard si versa un bicchiere di whisky e accende la televisione. Ci sono parecchi talkshow, un vecchio western, notiziari, un film ambientato in un alpeggio, documentari sugli animali, quiz, film d’azione, di fantascienza, polizieschi. Lascia acceso il televisore, ma senza il sonoro, e va a sedersi allo scrittoio dall’altra parte. Mentre alle sue spalle una commissaria di polizia scuote la porta di una cantina, lui esamina alcuni documenti: assicurazioni, contratti telefonici, il conto di una carrozzeria. Poco prima, all’assemblea, non ha voluto dire il proprio nome, come mai? Un’assemblea, dove 70 persone si presentano una ad una – gli sembra davvero una cosa assurda. Ancora adesso, seduto allo scrittoio, scuote il capo solo a pensarci, mentre la commissaria di polizia alle sue spalle parla con un’adolescente, che è seduta sul pavimento in un angolo e piange. Dire il proprio nome, così gli era sembrato, sarebbe stata una sorta di ammissione, quanto meno l’ammissione di essere lì, all’assemblea. Ma che cosa gliene importa alla gente che lui ci sia o meno. Lui non intende aiutare nessuno, non abita vicino alla scuola e non fa nemmeno parte del Senato. Vuole semplicemente stare a guardare e, mentre guarda, essere lasciato in pace. Non appartiene ad alcun gruppo, l’interesse che prova è solo suo, una sua proprietà privata ed è, per così dire, totalmente spassionato. E se, nel corso di tutta la sua vita professionale, lui non fosse stato così spassionato, non avrebbe potuto maturare conoscenze tanto vaste. Probabilmente il tentativo di sapere chi fosse presente in aula magna aveva a che fare con lo stato di guerra in cui si trovava la scuola. Ma alla fine che cosa rivela un nome? Chi vuole mentire può sempre mentire. Bisogna conoscere ben più del solo nome, altrimenti tutto resta privo di senso. Richard si alza, si dirige verso il sofà e si siede ancora un attimo davanti al televisore muto per bere l’ultimo sorso di whisky. Un giovane sta giusto tenendo per il colletto un uomo più vecchio di lui e lo schiaccia contro una parete, entrambi urlano, poi il giovane lascia la presa, l’altro si allontana e il giovane gli grida ancora dietro qualcosa. Cambia la scena. L’ufficio della commissaria. Pareti di vetro, veneziane, tazze di caffè, documenti, etc.

    8
  A colazione Earl Grey. Con latte e zucchero. Insieme una fetta di pane e miele e una di pane e formaggio. Alla radio Bach, le Variazioni Goldberg. Anni prima Richard aveva tenuto una conferenza sulla lingua come sistema di segni. Parole come segni in luogo delle cose. Lingua come pelle, come pellicola. E alla fine le parole restavano sempre e solo parole. Non erano mai la cosa stessa. Bisognava sapere molto più del solo nome, altrimenti tutto restava privo di senso. In che modo una superficie diventa superficie? Che cosa la separa da ciò che le sta sotto e che cosa dall’aria? Quand’era bambino tirava sempre via la pellicola dal latte caldo, quella pellicola che gli dava la nausea e che poco prima però era ancora latte. Di che cos’è fatto un nome? È un suono? O nemmeno questo, quando è semplicemente scritto? Ecco perché forse gli piace tanto ascoltare Bach, perché in Bach non c’è superficie, solo molti racconti che si intersecano. Si intersecano, si intersecano – ad ogni istante, e da tutte queste intersezioni nasce la cosa che, in Bach, si chiama musica. Ogni istante è come un taglio in un pezzo di carne, un taglio nella cosa stessa. Quest’anno si procurerà di nuovo un biglietto per l’Oratorio di Natale al Duomo. Per la prima volta, da quando è morta sua moglie. Toglie il piatto da tavola, versa le briciole nel secchio della spazzatura. Poi prende il soprabito, infila le scarpe marroni, quelle più comode, never brown in town, dicono, ma a lui non importa. Quando correndo al galoppo cadi da cavallo, rimontaci subito sopra e riprendi a cavalcare, altrimenti non ti toglierai più la paura di dosso. Ieri nella scuola occupata lui ha avuto paura. Dunque gas chiuso, luce spenta, chiavi e abbonamento mensile ai trasporti.
    Se non altro, andare di giorno fino a Oranienplatz è più facile che una visita notturna in una scuola a soqquadro. Poco dopo la caduta del Muro, Richard e sua moglie erano stati per la prima volta in vita loro a Kreuzberg. A quei tempi tutte le domeniche facevano una passeggiata in uno dei quartieri occidentali della città. La sera precedente leggevano la guida e la domenica mattina andavano a passeggio. Profughi ugonotti erano stati i primi residenti nelle strade attorno a Oranienplatz, quando quella era ancora periferia, pare che molti fossero giardinieri. E poi, due secoli fa, Lenné aveva progettato la piazza, lì a quei tempi c’era ancora un canale, la piazza era una sponda del canale e quella che adesso è la strada era un ponte. In seguito Richard aveva mostrato la piazza anche alla sua amante e le aveva spiegato chi fosse Lenné, lì a due passi c’erano una buona libreria, un cinema d’essai e un bel caffè.
    Adesso la piazza sembra un cantiere. Un paesaggio fatto di tende, baracche e teloni: bianco, blu e verde. Richard si siede su una panchina, si guarda attorno e ascolta i discorsi. Lì nessuno gli chiede come si chiama. Che cosa vede? Che cosa sente? Vede striscioni ed espositori con slogan scritti a mano. Vede uomini neri e simpatizzanti bianchi. I neri con pantaloni lavati di fresco, giacche variopinte, camicie a righe, pullover chiari dalle scritte colorate, ma dove mai si lavano gli indumenti in una piazza occupata? Uno indossa scarpe da ginnastica dorate, che sia Ermes? I simpatizzanti hanno la pelle bianca, per contro indossano abiti neri e logori, pantaloni, T-shirt, pullover. I simpatizzanti sono giovani e pallidi, si tingono i capelli con l’henné, non credono che questo sia un mondo felice e vogliono che tutto cambi, perciò si infilano anelli nelle labbra, nelle orecchie o nel naso. I profughi, invece, vogliono entrare una buona volta in quello che ai loro occhi si presenta in modo abbastanza plausibile come un mondo felice. Lì sulla piazza s’incrociano due generi di desideri e speranze, c’è un insieme intersezione, ma l’osservatore silenzioso dubita che sia molto ampio.
    Prima di trasferirsi in campagna, Richard e sua moglie avevano abitato in un alloggio in città a soli duecento metri in linea d’aria da Berlino Ovest. E lì vivevano tranquilli, più o meno come avrebbero vissuto dopo, in campagna. Il Muro aveva fatto della loro strada un vicolo cieco. Ci venivano i bambini con i pattini a rotelle. Quando nel 1990 il Muro fu rimosso un pezzo dopo l’altro, all’apertura di ogni nuovo passaggio arrivavano puntualmente e in gran numero i berlinesi dell’Ovest, tutti commossi, per dare il benvenuto ai fratelli e alle sorelle dell’Est. Una mattina alle nove e mezzo, con le lacrime agli occhi, diedero il benvenuto anche a lui, il berlinese dell’Est che, residente per caso in quella strada rimasta divisa in due per ventinove anni, si stava ora incamminando verso la libertà. Lui però quella mattina non si stava affatto incamminando verso la libertà, bensì verso l’università – grazie all’apertura di questa parte del Muro voleva raggiungere puntualmente la stazione della S-Bahn, che si trovava sul lato ovest della strada. Senza alcuna commozione e di gran fretta aveva sgomitato in mezzo alla folla commossa, uno dei liberatori delusi gli aveva lanciato pure un insulto, ma per la prima volta Richard era riuscito ad arrivare all’università in meno di venti minuti.
    Solo un anno prima la panchina su cui lui siede adesso era una normalissima panchina in un giardino pubblico di Kreuzberg. Quelli che andavano a passeggio si sedevano lì, si rilassavano, si riposavano. Il canale dei tempi di Lenné era stato di nuovo riempito di terra negli anni Venti su ordine dell’amministrazione cittadina, perché puzzava troppo. Chissà se, sul fondo, l’acqua continua ancora a scorrere in mezzo ai granelli di sabbia?
Adesso, in ogni caso, nessuno si siede più lì per rilassarsi. E se Richard non si rialza subito, è solo perché non è lì per rilassarsi. Sedersi sulla panchina di un parco, come fosse la cosa più naturale del mondo, ha smesso di essere qualcosa di naturale da quando la gente dalla pelle nera ha cominciato ad accamparsi nelle aree verdi dietro le panchine. I berlinesi che, fin dai tempi di Lenné, sapevano come bisognava comportarsi quando ci si sedeva su una panchina, adesso non lo sanno più: non ci sono più le vecchiette che danno da mangiare ai passeri, le mamme che dondolano piano le carrozzelle, gli studenti che leggono, gli ubriaconi che organizzano lì i loro incontri mattutini, gli impiegati che consumano lo spuntino di mezzogiorno, le coppiette che si tengono per mano. «La metamorfosi dello stare seduti» sarebbe un bel titolo per un saggio. Richard rimane seduto, nonostante tutto. Tutte le volte che compare un «nonostante tutto» – questa è la sua esperienza – le cose si fanno interessanti. «La nascita del nonostante tutto», anche questo sarebbe un bel titolo.
 L’unica persona dalla pelle bianca, che lì sulla piazza sembra essere nel suo ambiente esattamente come i profughi, è una donna ossuta sulla quarantina. Indica a un turco dove portare la focaccia di cui l’uomo vuol fare dono. Poco dopo ritira una bicicletta da un tizio con la barba e la consegna a uno dei profughi, entrambi lo stanno a guardare mentre pedala via senza inciampi. Eppure ha un proiettile conficcato nel polmone, dice ancora la donna, il barbuto annuisce, Libia, dice lei, lui annuisce, poi tacciono tutti e due, prima o poi ci vorrei tornare, dice l’uomo. Una giovane con il microfono in mano si avvicina alla tizia ossuta.
    Per ora non rilascio alcuna intervista, dice la donna.
    Ma è importante che i berlinesi...
    Forse lei sa che è in corso una trattativa per alloggiarli da qualche parte durante il prossimo inverno.
    È proprio per questo che sono qui, dice la giovane.
   Ha forse già l’aspetto di un barbone, si domanda lui, dal momento che siede a neanche mezzo metro di distanza dalle due donne, sta ad ascoltare, e questo non le disturba?
    Allora forse saprà anche che l’offerta del Senato di Berlino, da adesso ad aprile, è di 18 euro a testa per notte.
    Sì, l’ho sentito dire.
    Ebbene, dice la donna, l’unico che è disposto a offrire una casa a questi uomini, chiede già adesso il doppio. Se lei dovesse dunque scrivere: qui ci sono i topi e ormai solo quattro gabinetti, e talvolta, anche per tre giorni di seguito, nessun pasto caldo; se dovesse scrivere: già lo scorso inverno le tende sono crollate sotto il peso della neve – allora posso assicurarle che, contento del suo articolo, sarà solo quel tale.
    Già, dice la giovane, capisco, dice, e abbassa il microfono.
    Ancora un volta Richard pensa, come ha già pensato spesso negli ultimi anni, che gli effetti delle nostre azioni sono quasi sempre imprevedibili, e spesso addirittura l’esatto contrario di quanto in origine volevamo ottenere con esse. Che anche in questo caso sia così, dipende forse dal fatto, pensa, che il confronto fra il Senato e i profughi riguarda in ultima analisi un problema di limiti, e in prossimità dei limiti, a voler formulare la cosa in termini matematici, i segni spesso si invertono. Non c’è da stupirsi, pensa, che la parola trattare sia strettamente imparentata tanto con l’agire quanto con il vendere.
    Senza accendere il microfono, spogliatasi della sua veste professionale, la giovane chiede ancora alla donna ossuta:
    Ma questi uomini, che cosa fanno qui tutto il giorno, se non possono lavorare?
    Niente, risponde l’altra. E mentre si allontana dice ancora: Quando il non far niente diventa troppo gravoso, organizziamo una manifestazione.
   Capisco, dice la giovane e fa un cenno d’intesa alla donna che adesso si allontana.
    Poi riprende il microfono, dando le spalle a Richard continua a stare in piedi proprio davanti alla sua panchina, senza rendersi conto d’aver avuto per tutto quel tempo uno spettatore muto. Frattanto la donna ossuta si dirige dall’altra parte della piazza verso la tenda aperta, dove dovrebbe esserci la cucina, a mezza strada si accorge che un espositore di legno è caduto, provocando un buco in una delle tende, e lo tira su.
    Richard vede un nero che va incontro a un altro nero e nel salutarlo gli stringe la mano. Vede un gruppo di cinque uomini, in piedi, stanno parlando, e uno di loro telefona. Vede quello che ha avuto in regalo la bicicletta: pedala intorno alla piazza, talvolta anche sui vialetti di ghiaia, dove compie curve mozzafiato in mezzo agli altri. Vede tre uomini in una tenda aperta, seduti dietro un tavolo, davanti a loro una scatola con la scritta: Offerte. Ne vede uno più vecchio, seduto da solo sullo schienale di una panchina, ha un occhio malconcio. Ne vede uno con un tatuaggio blu in faccia dare una pacca sulla spalla ad un altro e allontanarsi. Vede uno degli uomini parlare con una simpatizzante. Ne vede uno dentro una tenda dal telone alzato, seduto su una branda, tiene in mano un telefono e sta pigiando sui tasti. Di quello che siede sulla branda vicina vede solo i piedi. Ne vede altri due discutere fra loro in una lingua per lui incomprensibile, ma adesso uno dei due alza la voce e colpisce l’altro al petto, facendolo barcollare all’indietro, e il ciclista è costretto a un’ampia curva per non prenderli sotto. Vede la tizia ossuta parlare con un uomo che tiene in mano una pentola. Vede la sontuosa casa d’angolo che costituisce lo sfondo dell’intera scena. Dovrebbe risalire all’epoca in cui lì, dove siede lui adesso, c’era ancora il canale. Si presenta come uno di quei grandi empori che esistevano un tempo, ma adesso al pianterreno c’è una banca. Quando lì scorreva il canale, la Germania aveva ancora le colonie. Negozio di generi coloniali, si poteva ancora leggere in caratteri sbiaditi su parecchie facciate di Berlino Est sino a vent’anni fa, prima che l’Ovest cominciasse a ristrutturare. Generi coloniali e i fori d’entrata dei proiettili, risalenti alla Seconda guerra mondiale, sulla stessa facciata, e nella vetrina polverosa di una casa del genere, già sgomberata per i lavori di ristrutturazione, magari anche un cartello socialista: Frutta, ortaggi, patate. Sul mappamondo che tiene a casa nello studio è ancora riportata l’Africa orientale tedesca. Sopra la Fossa delle Marianne il cartone di cui è rivestito il globo è un po’ scollato, ma ciò nonostante il mappamondo ha ancora un ottimo aspetto. Richard non sa come si chiami oggi l’Africa orientale tedesca. Al tempo in cui lì dove adesso è seduto lui scorreva un canale, chissà che non si potessero comprare degli schiavi nell’emporio situato giusto dirimpetto? E non saranno stati magari proprio dei servitori negri quelli che portavano su il carbone fino al quarto piano ai contemporanei di Lenné? L’idea lo fa ridacchiare, ma quando un signore di una certa età siede tutto solo su una panchina e ridacchia fra sé può mettere in sospetto gli altri. Che cosa sta aspettando, in definitiva? Crede sul serio che, dopo un intero anno durante il quale gli uomini sono stati accampati su quella piazza, accadrà qualcosa di imprevisto proprio oggi, in questo giorno qualsiasi in cui lui è arrivato lì dalla periferia? Non accade nulla e, dopo due ore e mezzo, quando comincia a sentire i primi brividi di freddo Richard si alza dalla panchina e torna a casa.
    Spesso era come se all’inizio di un progetto egli non sapesse che cosa lo spingeva avanti, come se i suoi pensieri avessero una loro vita autonoma e una loro volontà e aspettassero soltanto di essere finalmente pensati da lui; come se già prima di dedicarvisi esistesse la ricerca che lui avrebbe avviato, e come se anche la via, attraverso la quale ciò che vedeva o sapeva, ciò che incontrava o gli capitava, fosse in realtà già sempre esistita per essere percorsa da lui non appena fosse arrivato finalmente a quel punto. E probabilmente era così, anche perché non si poteva far altro che scoprire ciò che già c’era. Perché tutto c’è già da sempre. Quel pomeriggio rastrella per la prima volta le foglie secche. La sera al telegiornale dicono che ormai è solo questione di tempo perché si arrivi a risolvere l’insostenibile situazione dei profughi in Oranienplatz. Richard ha già sentito spesso simili frasi, in riferimento a tutte le possibili situazioni insostenibili. Anche che le foglie ridiventino terra o che l’annegato venga trascinato a riva da qualche parte oppure si decomponga nel lago è, in linea di principio, solo questione di tempo. Ma questo che cosa significa? Lui non sa nemmeno se il tempo sia fatto per depositare gli uni sugli altri diversi strati e diverse vie, oppure, al contrario, per tenerli separati, ma forse lo sa il conduttore del telegiornale. Richard si arrabbia, anche se non saprebbe dire perché. Dopo, quando è già a letto, gli viene in mente la frase della tizia ossuta: Quando il non far niente diventa troppo gravoso, organizziamo una manifestazione. E adesso all’improvviso sa perché oggi è rimasto seduto due ore in Oranienplatz. Lo sapeva già ad agosto, quando aveva sentito parlare di quelli che facevano lo sciopero della fame e non volevano dire come si chiamavano, e lo sapeva anche il giorno prima, quando era entrato nel cortile buio della scuola, ma soltanto adesso, in questo momento, lo sa davvero. Parlare di ciò che il tempo è veramente, lui riuscirebbe a farlo, forse meglio che con chiunque altro, con coloro che sono caduti fuori dal tempo. Oppure – volendo – che ne sono prigionieri. Accanto a lui, sulla metà del letto con la coperta ancora ben tesa, là dove prima dormiva sua moglie, ci sono alcuni pullover, pantaloni e camicie, che Richard ha indossato negli ultimi giorni, ma non ha ancora rimesso a posto.

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    Richard dedica le due settimane successive alla lettura di alcuni libri sull’argomento e ad abbozzare un questionario per le conversazioni che vorrebbe avviare con i profughi. Dopo colazione si mette al lavoro, all’una pranza, poi dorme un’ora, quindi torna a sedersi alla scrivania oppure legge fin verso le otto o le nove di sera. È importante porre le domande giuste. E le domande giuste non sono necessariamente quelle che uno formula.

    Per capire in che cosa consista il passaggio da una vita quotidiana interamente occupata e prevedibile alla vita quotidiana aperta in ogni direzione, esposta per così dire alle correnti, ossia quella che conduce un profugo, Richard deve sapere come stavano le cose all’inizio, come stavano a metà e come stanno adesso. Là dove la vita di una persona confina con l’altra vita della stessa persona, deve pur rendersi visibile il passaggio che, ad un esame attento, di per sé non è nulla.
    Lei dove è cresciuto? Qual è la sua lingua materna? Quale religione professa? In quanti eravate in famiglia? Com’era l’alloggio, la casa in cui è cresciuto? Come si sono conosciuti i suoi genitori? C’era la televisione? Dove dormiva lei? Che cosa c’era da mangiare? Da bambino qual era il suo nascondiglio preferito? È andato a scuola? Che vestiti indossava? Avevate animali domestici? Ha imparato un mestiere? Ha già messo su famiglia? Quando ha lasciato il suo paese? Perché? Ha ancora contatti con la sua famiglia? Qual era la sua meta quando se n’è andato? Come ha preso congedo? Che cos’ha portato con sé quando è partito? Come si immaginava l’Europa? Che cosa c’è di diverso? Come trascorre le sue giornate? Che cosa le manca di più? Che cosa desidera? Se avesse dei figli, e crescessero qua, che cosa racconterebbe loro del suo paese d’origine? Riesce a immaginare di invecchiare qui? Dove vorrebbe essere sepolto?

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    In una delle giornate che Richard trascorre seduto alla scrivania o a leggere in poltrona, le tende e le baracche di Oranienplatz vengono smantellate e i profughi ripartiti fra svariate istituzioni benefiche della città o degli immediati dintorni che adesso, con una temperatura notturna talvolta già sotto i meno dieci, si sono dichiarate disposte ad accoglierli. Richard non lo viene a sapere, perché proprio il giorno in cui ciò accade lui si sta documentando sulla colonizzazione della costa sud-occidentale dell’Africa avviata dall’uomo d’affari Lüderitz. Dopo la sua prima bancarotta in Messico il signor von Lüderitz aveva fatto un buon matrimonio, aveva preso poi contatto con il figlio di un uomo che era stato missionario sulla costa occidentale dell’Africa e, seguendo le sue indicazioni, aveva acquistato due lotti di terreno. Uno per 100 libbre in oro e 200 fucili, il secondo per 500 libbre e 60 fucili. Calcolando al quadrato le miglia tedesche, che sono più lunghe di quelle inglesi in base alle quali il capo indigeno fissa le sue misure. Sarebbe bello però creare una fascia continua fin dall’altra parte sull’Oceano Indiano! Inizialmente l’Impero tedesco non vuole proteggere la recinzione che segna i confini dell’impero di Lüderitz, solo quando gli inglesi, resisi conto che è la cosa più semplice del mondo, occupano anche loro alcuni porti, Bismarck manda due navi da guerra. D’ora in poi le proprietà terriere del mercante Lüderitz si chiameranno colonie e verranno difese dallo Stato. Ancora durante la cena Richard scuote il capo, pensando a come hanno agito i tedeschi in quell’occasione. Anche lo scuotere il capo è un segno? Ma rivolto a chi, se lì non c’è nessuno tranne lui? Sopra un sasso è seduta mia madre / e le vacilla il capo. L’indomani andrà per la prima volta dai profughi con il suo questionario.
    E il giorno dopo arriva giusto in tempo per vedere, sulla piazza sbarrata e circondata dalla polizia, gli ultimi cartelli, teloni, assi e materassi che vengono spinti gli uni accanto agli altri da un escavatore, caricati su un autocarro e portati via. È rimasta solo una donna africana arrampicata su un albero, la quale evidentemente si rifiuta di lasciare la piazza, ma né la squadra incaricata dello sgombero né la polizia si preoccupano dell’albero o della donna. In giro non v’è più traccia di profughi. Là dove si vede di nuovo la terra, perché le tende e le baracche sono stata smantellate, è venuto alla luce il sistema di gallerie costruito dai topi che, a quanto pare, hanno approfittato delle provviste dei profughi, scarsamente protette. Richard pensa a Rzeszów. Un poliziotto gli racconta che i profughi stessi hanno aiutato a smantellare le baracche, faceva parte dell’Intesa con il Senato di Berlino. E in cosa consisteva l’Intesa? Questo il poliziotto purtroppo non sa dirglielo. E adesso i profughi dove sono? Suddivisi in tre centri di accoglienza. Ah, uno di essi è un po’ ai margini della città, vicinissimo a dove abita Richard, certo lo sa, conosce quell’edificio di mattoni rossi dai vetri impolverati, che appartiene al complesso della Casa di riposo e da quasi due anni è vuoto.
    Sulla via del ritorno in S-Bahn, a ogni stazione, come sempre, una voce registrata avvisa i passeggeri di stare attenti allo spazio vuoto tra la vettura e il marciapiede, e come sempre Richard pensa che non lo dicono perché si preoccupano davvero dei passeggeri, ma solo affinché l’assicurazione paghi nel caso di un incidente.  Adesso gli africani sono dunque ospitati nella Casa di riposo. Perché no, dal momento che in quella struttura c’è un edificio vuoto. Richard scende dalla S-Bahn e torna a casa.
mai comprati, nemmeno al tempo dell’aviaria. A casa compila la lista della spesa nello stesso ordine degli scaffali al supermercato, quello che sta seguendo adesso attraversando il locale. Persino sul letto di morte saprà ancora qual è il ripiano della birra.

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Il giovedì Richard raduna i documenti relativi alle imposte, telefona alla Cassa malattia e si fa montare i pneumatici invernali dal gommista. Solo il venerdì torna all’edificio di mattoni rossi, la carta d’identità, Wsio w poriadkie, il tavolo verde senza le palle da biliardo, lì accanto come l’altra volta gli uomini neri, nero-verde, i colori della società calcistica di Hannover che, dando adito a equivoci, viene chiamata I rossi, come se nella Bundesliga ci fosse una frazione comunista. La signora di una certa età lo accompagna in silenzio al piano di sopra e, su sua richiesta, lo lascia davanti alla porta della stanza 2020.

    Una porta verde chiaro come le altre.

    Bussa e attende, Awad apre.

    How are you?

    Bene, che cos’altro potrebbe dire.

    How are you?

    Anche Awad sta bene.

    Parole di cortesia in una lingua che non è quella di nessuno dei due.

    Awad ora apre di più la porta per lasciarlo entrare. Gli piacerebbe raccontargli di sé, dice dopo averla chiusa alle spalle del visitatore. Perché se vuoi che un mondo diventi davvero il tuo mondo, non devi nascondere nulla.

    È proprio così? domanda Richard.

    Ma certo! risponde Awad e gli offre una sedia.

    Richard ringrazia, si siede e pensa a Ulisse-Nessuno e agli uomini silenziosi davanti al Municipio rosso, quell’estate. E pensa anche che lui, alla moglie, ha tenuto nascosta l’amante e, all’amante, nel contempo, la sua vita quotidiana con la moglie. In vita sua nessun mondo era dunque mai diventato il suo mondo?

    Anche se la risposta affermativa di Awad vuole solo significare che la sua offerta era sincera: adesso infatti sta dicendo di aver già raccontato tutto di sé alla psicologa.

    Alla psicologa?

    Se lui, il visitatore, lo preferisce, può anche telefonare alla psicologa, solo un attimo, ha il suo biglietto da visita con il numero di telefono, ma non è assolutamente il caso, dice Richard, no, davvero volentieri, nessun problema, solo un attimo, il biglietto dev’essere qui, da qualche parte. Awad cerca il biglietto da visita della psicologa, alla quale ha raccontato tutto di sé, prima sul tavolo, poi sul davanzale della finestra, sul ripiano, nell’armadio e infine nel borsone che tiene sotto il letto. Davvero, non è necessario, dice Richard, non fa nulla, dice, mentre segue con lo sguardo gli spostamenti di Awad alla vana ricerca del biglietto da visita, magari un’altra volta, per ora va benissimo così, ma Awad non smette di cercare quel biglietto: dev’essere qui da qualche parte, poco fa ce l’avevo ancora, ma dove sarà finito?

    Richard vede che davanti alla finestra è tirata a metà una tenda a quadretti blu. L’avranno lasciata le persone che vivevano lì prima, quelle non autosufficienti?

    Eccomi, eccomi, un attimo, dice Awad, la psicologa sa tutto di me. Intanto lui, Richard, non telefonerà mai alla psicologa, ma questo non può dirlo all’uomo, che si agita sempre più, mentre continua a frugare sui ripiani e nella sua borsa da viaggio, mentre prende in mano per la quarta volta le carte posate sul davanzale e guarda addirittura sotto le coperte, mentre a ogni giro che, con sguardo smarrito, fa per la stanza riapre e richiude l’armadio.

    Alla parete è appeso un foglio con le istruzioni per la lavastoviglie che si trova nella cucina comune. Nella stanza gli altri tre letti sono vuoti, rifatti a puntino.

    Dove sono gli altri? domanda Richard.

    Al biliardo, dice Awad, e finalmente smette di cercare, ha l’aria stanca quando si volta verso il suo visitatore dicendo, scusa, purtroppo non riesco a trovare il biglietto.

    Mi chiamo Richard, dice Richard.

    Awad è nato in Ghana. Sua madre è morta nel metterlo al mondo. Come Biancofiore, pensa Richard, come la madre di Tristano. Il primo giorno della mia vita, dice Awad, è stato anche il giorno in cui ho perso mia madre. E suo padre? Awad non risponde. Fino a sette anni è vissuto con Nana, la nonna, in Ghana. È ancora viva la nonna? Da allora l’ha ancora rivista? Ricorda che aspetto aveva? No, Awad non ricorda. Quando aveva compiuto sette anni, suo padre lo aveva portato con sé in Libia. La nonna, la cui figlia era morta mettendo al mondo il suo primo bambino, il cui nipote aveva imparato da lei a parlare e che lei, tutte le sere, lavava prima di metterlo a dormire, tenendolo ritto su un asse, per evitare che si bruciasse i piedi sulla terra rovente – quella donna, nel frattempo invecchiata e probabilmente già morta, cerca di farsi strada dallo spazio privo di ricordi del nipote nel mondo di ciò che può essere raccontato, ma non ci riesce; il nipote la chiama solo Nana, così come si chiamano tutte le nonne ghanesi, e lei non ha altro nome, resta sotto lo strato che separa quei due mondi e, in silenzio, torna a sprofondare. Che cosa accadrà all’uomo nel lago, quando tra poco il lago sarà gelato?

    E lui, è mai ritornato in Ghana da allora?

    No, mai.

    Il padre lavora a Tripoli, fa l’autista per una compagnia petrolifera. Awad inizia la scuola. Vivono in due in una casa con otto stanze. Hanno spesso ospiti. Quando torna a casa dal lavoro, il padre cucina per tutti. Il padre gioca con lui a pallone. Il padre gli compra i giocattoli. Gli passa la paghetta, e non gli dà nemmeno tanto poco. Durante le vacanze vanno insieme in Egitto, il volo fino al Cairo dura solo trenta minuti. Al Cairo mi oriento davvero molto bene, dice Awad, siamo stati spesso di là. Di là, ai tempi della DDR, voleva dire Germania Ovest, vista da Est. Solo alla sera il padre tira su le veneziane sul lato sud della casa, quello su cui batte tutto il giorno il sole. Il padre insegna al figlio come asciugarsi la schiena dopo la doccia, con l’asciugamano tenuto di traverso sul dorso. Suo padre gli insegna a cucinare. Suo padre gli regala il primo rasoio elettrico.

    Mio padre mi ha detto chi ero, dice Awad.

    E poi Awad resta lì per un attimo, semplicemente seduto, senza dire nulla, e guarda il laminato di finto legno sul piano del tavolo. Anche quel tavolo, venticinque anni prima, si trovava magari in un ufficio della Solidarietà popolare o nella Casa dell’amicizia tedesco-sovietica, ma questo Awad non può saperlo, né tanto meno può sapere che cosa fosse la Solidarietà popolare o la Casa dell’amicizia tedesco-sovietica.

    E poi?

    Ho cominciato a lavorare come meccanico in una carrozzeria. Avevo degli amici. Si viveva bene.

    E poi?

    Fuori, per strada, un camion sta facendo marcia indietro, si sente il segnale d’allarme, un bip acuto e a più riprese. Nell’alfabeto Morse equivarrebbe allo zero. In tutti i giorni dispari vengono a svuotare il cassonetto della plastica. Oppure è un furgone che trasporta mobili e sta cercando di entrare nel passo carraio.

    Poi mio padre fu ucciso.

    Adesso Richard vorrebbe dire qualcosa, ma non gli viene in mente nulla.

    Alla gamba del tavolo è incollato un cartellino giallo con il numero d’inventario 360/87.

    Quando era mancato suo padre, Richard lo aveva visto ancora una volta in ospedale, con una benda le infermiere avevano già stretto la mandibola del morto al resto del capo, affinché la bocca non restasse aperta per l’eternità. Con quella benda suo padre sembrava una suora, Richard non lo aveva quasi riconosciuto.

    Awad siede curvo in avanti, si tiene su con le braccia e, mentre continua a parlare, sembra voglia insinuarsi con lo sguardo fin dentro il piano del tavolo.

    Un amico di mio padre mi ha chiamato al telefono. Sono stati da noi in azienda! ha urlato. E: Tuo padre! Nient’altro. Ho detto che non capivo cosa volesse dire. Allora ha di nuovo urlato. Lui, che non gridava mai, che con me era sempre gentile. Mi ha urlato contro e detto di correre a casa il più in fretta possibile e di sbarrare la porta. Poi di colpo è caduta la linea. Sono scappato via. Ma quando sono arrivato a casa, la porta era già stata scardinata, i vetri erano in frantumi. Dentro, la devastazione: l’ingresso, le camere, la cucina. Cocci dappertutto, mobili rovesciati, il televisore fracassato, tutto. Sono uscito da una delle finestre sul retro e ho cercato di rintracciare al telefono l’amico di mio padre. Ho cercato più volte. Ma non ci sono riuscito. E una volta ho anche fatto il numero di mio padre.

    Niente.

    È finita così.

    Finché non è scesa la notte ho aspettato per la strada. Che mi restava da fare? Era la stessa strada che avevo sempre percorso per andare a scuola e, dopo, al lavoro. Poi è arrivata una pattuglia. Mi hanno costretto a salire sul pianale del camion e mi hanno portato in un campo pieno di baracche. Ho visto i morti per le strade. Alcuni uccisi a fucilate, altri accoltellati. Quel giorno ho visto la guerra. Quel giorno ho visto la guerra.

    Nelle baracche c’erano già centinaia di persone. La maggior parte provenivano dall’Africa nera, ma c’erano anche alcuni arabi, originari della Tunisia, del Marocco, dell’Egitto. E non solo uomini, anche donne, bambini, neonati, vecchi. Ci hanno portato via tutto: denaro, orologi, telefoni, persino le calze, dice, e ride. Ride, e ride ancora. It’s not easy, dice, e smette di ridere. It’s not easy, ripete, e scuote la testa, it’s not easy, come se avesse finito di raccontare la sua storia.

    E poi?

    Quando ho provato a lamentarmi, mi hanno picchiato in testa con il calcio del fucile. Ecco qui la cicatrice: Awad divide i capelli in un punto e mostra la cicatrice al professore emerito con il quale oggi sta parlando per la prima volta in vita sua. Se vuoi che un mondo diventi il tuo mondo, non devi nascondere nulla, aveva detto all’inizio della conversazione con Richard.

    Se hai fortuna ti picchiano, se hai sfortuna ti ammazzano, mi aveva detto qualcuno per consolarmi. Poi hanno estratto le SIM card dai telefoni e le hanno distrutte sotto i nostri occhi. Broke the memory, dice Awad. La memoria distrutta. Non ci hanno lasciato altro, se non la T-shirt, i pantaloni o la gonna. Siamo rimasti per due giorni nelle baracche, mentre su Tripoli cadevano le bombe europee. Avevamo paura che una ci colpisse, eravamo pur sempre in un campo militare. Il terzo giorno ci hanno trasferiti al porto e ci hanno spinti su una barca. Chi di voi sa manovrare questa barca? Due o tre arabi si sono offerti. Sull’albero hanno issato una bandiera di Gheddafi, dice Awad, e ride, una bandiera di Gheddafi!

    Era dunque gente di Gheddafi? O erano ribelli?

    Non lo sapevamo. Avevano tutti le stesse divise. Come distinguerli?

    Che i militari oppositori del governo portassero ancora la divisa del loro Stato, questo Richard fino a quel momento ancora non lo sapeva.

    In ogni caso non c’era nessuno che stesse dalla nostra parte. Eppure io sono cresciuto in Libia. La Libia era la mia patria.

    Awad annuisce fra sé e sé e, per qualche istante, non dice più nulla.

    E poi?

    Poi hanno sparato in aria a salve e ci hanno detto: Chi cerca di tornare indietro a nuoto verrà preso a fucilate. Non sapevamo dove fosse diretta la barca. Forse a Malta? Forse in Tunisia? Solo dopo lo abbiamo capito: in Italia. Eravamo seduti stretti gli uni accanto agli altri, potevi alzarti in piedi solo per qualche minuto, lì dove c’era il tuo spazio, poi dovevi di nuovo sederti sempre allo stesso posto. La donna dietro di me ha semplicemente fatto pipì lì dove stava, da seduta. Era tutto bagnato attorno a me, quando volli appoggiarmi con le mani. Siamo stati in barca per quattro giorni. C’erano solo poche bottiglie d’acqua, le abbiamo tenute per i bambini. Noi adulti, quando la situazione si è fatta grave, abbiamo bevuto acqua di mare. It’s not easy, Richard, it’s not easy. Con i denti abbiamo allargato l’apertura di una bottiglia di plastica vuota, abbiamo unito alcune stringhe delle scarpe, vi abbiamo attaccato la bottiglia, per poi calarla giù e attingere acqua di mare. Alla fine bisogna pur bere. Alcuni sono morti. Erano seduti in mezzo a noi, quando con un filo di voce hanno detto: La mia testa, la mia testa, poi hanno chinato il capo, così, e un istante dopo erano morti. I morti sono stati gettati in mare.

    Richard pensa a quante volte, in aereo, ha guardato giù dagli oblò verso il mare. Pensa alle onde che, viste dall’alto, erano perfettamente immobili e alla schiuma bianca che sembrava pietra. A metà del secolo scorso la costa della Libia era appartenuta per un breve periodo all’Italia. Adesso la Libia è un altro paese e, ai profughi che lasciano la Libia su un barcone, l’Italia appare dapprima sotto forma di una piccola sporgenza rocciosa, circondata da moltissima acqua. Se mai ci arrivano.

    La guerra distrugge tutto, dice Awad: la famiglia, gli amici, il luogo in cui sei vissuto, il lavoro, la vita di tutti i giorni. Da straniero, dice Awad, non hai più scelta. Non sai dove stai andando. Non sai più nulla. Non riesco più a vedermi, non riesco a vedere il bambino che sono stato. Di me stesso non ho più alcuna immagine.

    Mio padre è morto, dice.

    E io – io non so più chi sono.

    Diventare uno straniero. Per se stesso e per gli altri. In questo consisteva dunque il passaggio.

    Qual è il senso di tutto ciò? domanda, e adesso per la prima volta guarda di nuovo Richard.

    Ora è Richard quello che dovrebbe rispondere, ma non sa la risposta.

    Non è che a ogni adulto, chiede Awad – non importa se uomo o donna, se ricco o povero, se abbia un lavoro o meno, se abiti in una casa o sia un senzatetto – non è che a ogni uomo toccano i suoi pochi anni di vita e poi deve morire?

    Sì, è così, dice Richard.

    Poi Awad dice ancora alcune cose, quasi volesse rendere più facile il silenzio a Richard. Per nove mesi era stato in un centro di accoglienza in Sicilia, erano dieci in una stanza. Poi se n’era dovuto andare. Dal momento in cui ti buttano fuori di casa, devi trovarti da solo un letto per dormire, sei libero! Senza lavoro, senza ticket, senza viveri, non puoi affittare un posto dove alloggiare. Mi dispiace, poco lavoro. Non c’è lavoro. E alla fine della giornata sei ancora per strada. Se i tuoi genitori non ti hanno educato bene, diventi un ladro. Se hai avuto dei bravi genitori, ti metti a lottare per sopravvivere. Poco lavoro, poco lavoro. E allora, Richard, che cosa si mangia? Richard ha letto Foucault e Baudrillard e anche Hegel e Nietzsche. Ma che cosa si mangia quando non si hanno i soldi per comprarsi da mangiare, questo nemmeno lui lo sa. Non puoi lavarti, cominci a puzzare. Sempre poco lavoro. Questa era la nostra vita per strada. Dormivo alla stazione. Durante il giorno andavo in giro, e la sera tornavo alla stazione a dormire. Non ricordo come ho trascorso quelle giornate. Richard, credimi, io ti vedo, but I don’t know where my mind is. I don’t know where my mind is.

    Che bella espressione, peccato solo che sia intraducibile, pensa Richard, e questo nonostante la ricchezza della lingua tedesca. Sono altrove con i miei pensieri? Non so dove sia la mia mente? La mia anima? O più semplicemente: Questo non sono io?

    Una volta, tre giorni di fila, Awad aveva lavorato in una cucina a far pulizia e a lavare i piatti, per un compenso di 80 euro. Con il denaro era entrato in un’agenzia di viaggi a prenotare un volo per la Germania. Che cosa avrebbe dovuto rispondere, quando l’impiegata dell’agenzia gli aveva chiesto se voleva un volo per Colonia, oppure per Amburgo, per Monaco o per Berlino? Non conosceva né Colonia, né Amburgo, né Monaco e nemmeno Berlino. Bastava che fosse un volo per la Germania. L’impiegata dell’agenzia aveva cominciato a spazientirsi, ma a lui non importava, la sua mind was not there, eccola di nuovo quella bella espressione intraducibile: era immerso nei suoi pensieri, assente, non in sé, al di là di tutto?

    Guerra dopo guerra, fin dal 1613 i bambini tedeschi hanno sempre lasciato che, dal dorso della mano, i maggiolini potessero proseguire il loro volo nell’aldilà:

    Vola, maggiolino, vola!

    Papà è in guerra

    Mamma in Pomerania

    Vola, maggiolino, vola!

    E anche l’Ifigenia di Goethe, emigrante nella Tauride, è nel contempo presente e assente, va cercando con l’anima il paese della sua infanzia. A guardar le cose in questo modo, era addirittura ridicolo misurare un passaggio sulla base della presenza di un corpo. A guardar le cose in questo modo, per un profugo l’inabitabilità dell’Europa si trova d’un tratto congiunta all’inabitabilità del suo stesso involucro di carne, quello che, allo spirito di ogni persona, viene propriamente assegnato come dimora per l’intera durata della sua vita. E vada per Berlino. Senza essersi potuto lavare, aveva preso posto in aereo. All’arrivo tutti attorno a lui parlavano la nuova lingua straniera, lui non capiva più niente, non poteva far altro che annuire. Aveva visto delle persone prendere un autobus. Andrà in centro? Tre notti all’Alex. Un uomo gli aveva detto che lì un posto c’era. Con degli africani come me? Lì allora potrò finalmente lavarmi. L’uomo gli aveva comprato un biglietto dalla macchinetta. Una macchina dalla quale esce un biglietto? La Germania is beautiful!

    Poi aveva visto le tende.

    Ero rimasto solo. L’uomo se n’era andato. In vita mia non avevo mai dormito in una tenda.

    Avrebbe dovuto abitare lì?

    In una tenda?

    Era in mezzo alle tende e stava piangendo.

    Ma poi aveva sentito qualcuno che parlava arabo, era un dialetto libico.

    In Oranienplatz ebbe da mangiare. E un posto per dormire.

    Oranienplatz si prese cura di lui, come suo padre in Libia.

    Suo padre, non lo dimenticherà mai e lo onorerà sempre.

    E allo stesso modo, non dimenticherà mai nemmeno Oranienplatz e la onorerà sempre.

    Questo è ciò che Awad dice alla fine della conversazione, e dopo non c’è davvero più niente da dire.

    15

    Ma in che periodo Richard aveva letto Gottfried von Straßburg? Prima di quel giorno in cui era rimasto sul retro della casa nel caldo torrido, ad attendere che anche sua moglie scendesse? Oppure – non ricorda esattamente quando – negli anni successivi? Era comunque stato di sicuro dopo la morte della moglie che, talvolta, gli erano tornati in mente i versi sull’amore tra Biancofiore e Rivalen: Lui era lei e lei era lui. / Lui le apparteneva e lei gli apparteneva. Biancofiore amava a tal punto Rivalen, il padre di Tristano che, dopo la morte dell’amato in battaglia, resistette solo fino alla nascita del figlio e poi le si spezzò il cuore. Quale nome bisognava dare al bambino? Il maresciallo tacque a lungo, si dice nel poema. Rifletté profondamente. Concepito nella tristezza e nato nella tristezza, il bambino ricevette infine il nome di Tristano, derivato da «triste», da «tristezza». A Richard torna difficile ricordare i nomi stranieri degli africani, e perciò, quando la sera mette giù i suoi appunti, tramuta Awad in Tristano e il ragazzo di due giorni prima in Apollo. Così, anche dopo, non rischia di sbagliare.

    L’indomani a colazione gli frullano per la testa svariate domande. Perché a questi uomini viene negato il diritto di lavorare proprio in un paese in cui dal lavoro dipende persino il diritto al paradiso nell’aldilà? Perché non vengono interrogati sulla loro storia e accolti quindi come vittime di guerra? Trascorre l’intera giornata a esaminare il regolamento chiamato Dublino II e, solo quando è di nuovo ora di accendere la lampada sulla scrivania, capisce che quella legge regola soltanto questioni di competenza.

    Nel regolamento non ci si preoccupa affatto di chiarire se quegli uomini sono o meno vittime di guerra.

    La competenza per il contenuto della loro storia ce l’ha esclusivamente il paese in cui hanno messo per la prima volta piede sul suolo europeo. Solo lì sono autorizzati a chiedere asilo, da nessun’altra parte. Quale trattamento debba però riservare loro il paese in questione, è cosa che non dipende da regole comuni.

    Quando nei Balcani c’era ancora la guerra, Austria e Svizzera furono per qualche tempo le frontiere più ambite. Adesso che in Africa la situazione è molto diversa rispetto alle previsioni, sono la Grecia e l’Italia a dover accogliere la maggioranza dei profughi. Se un giorno scoppiasse ad esempio una guerra tra Alaska e Islanda, e gli islandesi fossero costretti a fuggire, sarebbero probabilmente Norvegia e Svezia che, alle persone impossibilitate a rientrare nel paese d’origine, dovrebbero fornire passaporti, un lavoro e la possibilità di risiedere stabilmente entro i loro confini – oppure no.

    Richard capisce: Con Dublino II tutti i paesi europei che non si affacciano sul Mediterraneo hanno acquisito il diritto di non dover dare ascolto ai profughi che arrivano dal Mediterraneo.

    Un cosiddetto «truffatore di asilo» sarebbe dunque anche chi raccontasse una storia vera là dove non si ha il dovere di ascoltarla, né tanto meno quello di cercare per essa una soluzione. E con il nuovo sistema delle impronte digitali, così si legge, ben presto si elimineranno alla radice gli equivoci relativi a chi appartiene al gruppo cui va dato ascolto e chi all’altro gruppo.

    Gli tornano in mente le parole di Tristano il giorno prima, di Tristano che non si toglie più dalla testa le immagini dei morti sulle strade di Tripoli. Quando diventi uno straniero, non puoi più scegliere. Qui sta il problema, pensa Richard: che le storie vissute sono una zavorra di cui non ti puoi sbarazzare, mentre coloro che sono autorizzati a scegliere fra le storie, operano una selezione. Dopo essere uscito dalla camera di Tristano, scendendo le scale verde chiaro Richard aveva incontrato la signora di una certa età e le aveva chiesto come mai Awad fosse stato da una psicologa. Crisi di pianto, aveva detto lei. Talvolta anche per ore. Nessuno di noi qui sapeva che cosa fare.

    Mentre è seduto alla scrivania e legge, e la sua immagine riflessa nel vetro scuro della finestra mostra solo la sua chioma grigia, Richard capisce ancora un’altra cosa. Le leggi italiane hanno in mente confini diversi rispetto a quelli delle leggi tedesche. E questo lo interessa: infatti, sino a quando un confine, come quello che ha conosciuto lui per gran parte della sua vita, corre lungo una determinata striscia di terra e si può attraversare nell’una o nell’altra direzione solo dopo aver passato i controlli – sino a quel momento le intenzioni dei due paesi sono chiaramente riconoscibili dall’assetto del filo spinato, dal posizionamento dei cavalli di Frisia e da altre cose del genere. Ma non appena i confini dei paesi vengono stabiliti esclusivamente dalle leggi, la chiarezza scompare, e uno risponde per così dire a una domanda che l’altro non ha mai posto, e il secondo a sua volta parla di tutto, ma non di ciò che il primo vorrebbe sapere.

    La legge si trasferisce, di fatto, dalla realtà fisica alla sfera linguistica.

    E allora lo straniero, che non risiede in nessuno di questi paesi, finisce tra due fronti diventati invisibili in una discussione tutta interna all’Europa; una discussione che non ha minimamente a che fare con lui e con la guerra, quella vera, che lui vuole lasciarsi alle spalle.

    L’Italia ad esempio lascia passare i profughi, e persino di buon grado, perché ne ha troppi. La legge italiana concede loro la libertà di andare in Francia, in Germania e in qualsiasi paese europeo per cercare lavoro. Ma la Germania – per motivi che fino adesso Richard non è ancora riuscito a capire a fondo – non li vuole, e così i profughi, dopo tre mesi di soggiorno come turisti, devono rientrare in Italia per almeno altri tre mesi. Avranno diritto di cercare lavoro in Germania solo dopo cinque anni ininterrotti di asilo in Italia – e anche in questo caso solo se, dopo quei cinque anni, avranno ricevuto dagli italiani una cosiddetta Illimitata, un documento che, dal punto di vista del diritto di soggiorno, li equipara agli italiani. Finché non hanno una Illimitata, possono certamente lasciare l’Italia per non morirvi di fame, ma non possono essere accolti da nessun’altra parte.

    Per un istante Richard prova a immaginarsi qualcuno che gli spiega queste leggi in arabo.

    Poi si alza in piedi, esegue cinque flessioni, per recuperare un po’ di agilità dopo essere rimasto seduto così a lungo alla scrivania, e si fa il nodo alla cravatta. Questa sera è invitato, tre giardini più in là, dal suo amico Detlef che compie gli anni. Sylvia, la moglie del suo amico, era stata malata dalla fine dell’anno scorso, sicché oggi per la prima volta si sono affidati a un servizio di catering per il buffet. In contenitori di acciaio inox tenuti in caldo c’è arrosto di cinghiale, pesce, riso e patate al verde, a fianco una terrina con una zuppa asiatica, su piatti da portata i cibi freddi, come spiedini di pollo e Quiche Lorraine, dentro le ciotole olive verdi e nere, pomodori secchi, capperi e cipolle caramellate, una crema rosa e una verdina decorate con prezzemolo, e poi insalata di riso, petto d’anatra affettato, pane bianco e pane nero, senape, maionese, ketchup e insalata verde. E come dessert frutta a scelta, dolce al cioccolato e mascarpone con lamponi. Non sa se ha proprio tutta questa fame.

    E allora, Richard, che cosa si mangia?

    Suonano di nuovo alla porta, un mazzo di fiori, un cappotto, tieni pure le scarpe. Quella del catering non è davvero una cattiva idea. Lo pensavamo anche noi. E si riportano via le stoviglie, così come sono, non lavate. Ma davvero?

    Lui e i suoi amici sono ancora impegnati a indagare i benefici di quest’altro mondo che da quasi venticinque ormai è sempre più strettamente legato al loro. Per i residenti di una via che un tempo si chiamava Ernst-Thälmann-Straße, dal nome del presidente del partito comunista tedesco, non è ovvio che le fiammelle dai guizzi azzurrini mantengano davvero per due ore il cibo perfettamente caldo, come se arrivasse giusto adesso dalla cucina.

    È proprio buono, e io avevo paura che non bastasse, solo la torta al cioccolato è un po’, ma va’, neanche per idea.

    Dei dodici o quindici amici che si ritrovano ogni anno a quella festa, Richard ne conosce la maggior parte da moltissimo tempo e alcuni quasi da una vita. Con il padrone di casa è amico fin da quando andavano a scuola. La prima moglie di Detlef, Marion, che adesso è sul terrazzo a fumarsi in pace una sigaretta, ha conosciuto Detlef alla festa per i venticinque anni di Richard, allora era violoncellista e suonava nella stessa orchestra in cui a quel tempo la moglie di Richard, Christel, suonava la viola. Durante gli anni di università Richard e Christel avevano spesso badato al loro bambino, quando i due volevano uscire la sera. Nel frattempo, da quasi quarant’anni, Detlef e Marion non sono più una coppia, ma sono rimasti amici, il figlio costruisce ponti in Cina. Dopo che l’orchestra era stata sciolta, Marion aveva aperto una sala da tè e ora vive con il suo attuale marito nei dintorni di Potsdam. La fotografa Anne, che adesso è seduta sul divano, era un tipo scatenato. Poco dopo la maturità, Richard aveva passato con lei due o tre notti; dopo la caduta del Muro, Anne era vissuta per qualche tempo in Francia, ma da due anni è rientrata per prendersi cura dell’anziana madre. Quello che hanno costruito là davanti è una colossale schifezza, ormai ciò che conta è proprio solo il denaro. Il tipo corpulento, seduto sulla panca, ha studiato storia economica e poi ha insegnato all’università, ma a Ovest la storia dell’economia socialista non era la materia giusta, adesso ripara computer, la moglie gli raziona le sigarette, tre pacchetti alla settimana, non è del tutto chiaro se per avarizia o perché in pensiero per la sua salute, alla festa comunque lui viene sempre da solo. Un impianto di allarme non è affatto una cattiva idea. Sai, a dicembre vado fuori città per una terapia. Fai bene, e dove? Ormai molti degli amici di Detlef, quando guardano i libri sul tavolo dei doni, hanno bisogno degli occhiali per leggere il testo sulla quarta di copertina. Con Monika, la germanista, e suo marito, il baffuto Jörg – la coppia è appoggiata al davanzale della finestra –, Richard e Christel erano andati spesso in vacanza, quasi sempre sul Baltico. Non posso più prendere con me la nipotina, a mia nuora non fa piacere. Fino a due settimane fa ero di là, a Chicago, visiting professor. Sylvia, la seconda moglie del suo amico, è un tipo silenzioso. Glielo leggi in faccia che l’ultimo anno non è stato facile per lei. Quando era venuta ad abitare con Detlef, molto prima della Wende, portava ancora la coda di cavallo e sembrava una ragazzina. Talvolta, alla fine di quella festa che si ripeteva da anni, Christel l’aiutava a lavare i piatti, dopo che tutti se n’erano già andati e mentre Richard e Detlef riportavano le sedie in soprannumero nelle altre stanze. Prendo volentieri ancora un po’ di vino. Sì, quello rosso. Per me dell’acqua per favore, lievemente frizzante, se ce l’avete. Dopo la Wende molti di questi amici avevano investito il loro denaro nel ramo immobiliare, pensando che adesso a Ovest si faceva così. Non avevano mai visto le orrende topaie di Colonia, Duisburg, Francoforte, che nessuno voleva prendere in affitto, e così avevano perso tutto. La loro amica seduta laggiù, che lavora come grafica, avrebbe voluto avere dei bambini, ma si era sempre imbattuta negli uomini sbagliati. In vita mia ho viaggiato davvero a sufficienza. Qualcuno vuole ancora una birra? La Merkel è laureata in fisica, comunque, non bisogna dimenticarlo. Se Detlef porta già la dentiera? Ma non sono domande da farsi nemmeno a un amico di lunga data! Avete sentito, la settimana scorsa è morto Krause. Con Krause Christel aveva avuto una relazione, prima che arrivasse lui. Un dentista. Quest’estate ho visto le piramidi. Il giornalista talvolta lo porta con sé alle prime dell’Opera con la sua tessera, la primavera scorsa, per esempio, alla prima della Carmen. E Andreas, il tipo serio che è appoggiato alla credenza, due anni fa ha avuto un ictus, da allora ha un attestato di invalidità e si è messo a scrivere poesie, che di tanto in tanto legge agli amici. Ma cercare un editore, ah, per carità, con la quantità di libri che ci sono oggi sul mercato, non avrebbe senso. Alla festa dell’anno precedente aveva detto che ormai legge solo Hölderlin. Tutto il resto puoi dimenticartelo. Quando c’era ancora il Muro, la capitale della Repubblica era un sistema facile da gestire, noi qui sappiamo tali e tante cose l’uno dell’altro che ci ritroviamo in un intreccio lungo quanto la vita. La vostra siepe è cresciuta moltissimo, ma come fate? Dipende dalla terra. L’operazione l’ho fatta a marzo, ma grazie a Dio niente chemioterapia, vedrai, andrà tutto bene. Quasi tutti questi amici sono nati, come lui, alla fine della guerra o nei primi anni di pace. Sua madre, con lui in fasce, era stata ancora nei rifugi antiaerei. Suo padre era al fronte. Ai tempi della DDR questo sarebbe stato impensabile. Ma è chiaro ciò che accade adesso in Medio Oriente: quelli che un tempo erano paesi socialisti vengono sistematicamente abbattuti, l’uno dopo l’altro. Già i primi morti nella cerchia di amici, e lì in Europa c’è ancora la pace. Se il compleanno del suo amico fosse d’estate, potrebbero fare una grigliata sul prato, invece così devono sempre stare al chiuso. E Joachim, che cosa fa? Non ha una vita facile, gli piace bere, ma anche questo è tutt’altro che strano.

    16
Il lunedì successivo Richard si dirige verso l’edificio di mattoni rossi quasi con la stessa naturalezza con cui, nella prima metà dell’anno, s’incamminava ancora in direzione dell’università. Attraversa la strada dall’acciottolato gibboso, quali carcerati avranno tagliato e levigato il granito? Passa davanti al terreno sgombro, dove sino a poco tempo fa c’era una casa piuttosto grande con i bovindi, una veranda tutta vetri e decori di legno intagliato, adesso lì c’è solo sabbia chiara e tra poco costruiranno un nuovo edificio, basta un nulla per far sparire la Storia, se solo si lascia mano libera al denaro, il denaro che corre liberamente morde più di un cane da combattimento, come se niente fosse si mangia una casa intera, pensa Richard, ed è già arrivato all’altezza del cartello che, situato sul ciglio della strada davanti alla Casa di riposo, segnala la velocità: 30 all’ora è consentito qui, ma appena passa una macchina vedi luccicare a caratteri digitali 70, 55, 60, e subito dopo una frenata. Eh, si sa bene come vanno queste cose: vergogna e rimorso, quella coppietta ingobbita che aveva indotto anche lui ad abbassare la testa, ma sempre troppo tardi, come era successo allora ad esempio, quando la moglie aveva già in mano una lettera della sua amante, che lui non aveva nascosto bene, ed era lì in piedi che urlava. Dalla Casa di riposo, nella quale finirà magari per trascorrere anche lui la sera della sua vita, esce una vecchia signora che si appoggia a un deambulatore, la borsa della spesa penzola dal manico grigio del carrello, e dalla lentezza con cui avanza è facile immaginare che far la spesa sia il suo unico programma per la mattinata.

    Quando entra nell’edificio di mattoni rossi, Richard viene avvisato dal Servizio di sicurezza che gli uomini oggi sono a lezione di tedesco: come sempre di lunedì e di giovedì. Non avrebbe voglia di andare anche lui ad assistere alla lezione? Certo, solo se l’insegnante è d’accordo. Giù per il corridoio e poi subito dietro l’angolo. L’insegnante, diversamente da quello che si era immaginato, è una giovane donna etiope che, chissà come mai, parla un ottimo tedesco. La donna è d’accordo, e così accade che quel lunedì mattina un professore emerito assista alla sua lezione. Richard si è seduto nella penultima fila del grande locale e ha infilato le ginocchia sotto il banco, Apollo siede due file davanti a lui e, dai suoi fogli, legge sedere, sedetti, seduto, un po’ più avanti c’è Tristano, che lo ha notato e adesso gli fa un cenno con la testa. In risposta fa anche lui un cenno. Che, curvo là davanti, ci sia Abdusalam, quello che la settimana scorsa gli ha cantato una canzone, non ne è proprio sicuro. Ma Abdusalam non aveva tante treccioline? In generale è difficile per Richard ricordarsi di qualcuno, i capelli e i volti sono tutti così neri. Solo Rashid lo riconoscerebbe subito perché è grande e grosso, ma Rashid non c’è.

    La giovane donna fa esercizio di lettura con i suoi allievi adulti. Prima le lettere. Poi le parole. Mima in ordine alfabetico che cos’è un Auge, un occhio, che cosa un Buch, un libro, e che cosa un Daumen, un pollice, lascia da parte la C, le parole Auge e Daumen le danno la possibilità di parlare dei dittonghi, au, eu, ei, da «ei» passa a parlare del lungo «ie», hier, qui, dice, hi-i-i-i-ier, pronuncia, e con la mano accompagna tutta quell’aria che, per emettere un suono così lungo, deve far uscire dalla bocca. Mentre tiene lezione, le porte restano aperte. Di tanto in tanto arriva qualche ritardatario. Di tanto in tanto qualcuno mette via le sue cose, si scusa e nel bel mezzo della lezione se ne va. Nell’ultima mezz’ora la giovane insegnante si dedica agli esercizi con i verbi ausiliari essere e avere, destinati agli allievi di livello avanzato. Vado, dice, e fa qualche passo con le braccia piegate ad angolo da destra a sinistra, poi indica all’indietro, alle spalle, là dove c’è il passato, e dice: Ieri sono andata. In tedesco i verbi di movimento, come ad esempio andare, volare e nuotare, dice ancora, utilizzano per lo più l’ausiliare essere. Io sono, tu sei, egli è, e così via. Ich bin gegangen, ich bin geflogen, ich bin geschwommen. Torna indietro camminando con le braccia ad angolo, poi le allarga come stesse volando e infine passa davanti alla lavagna nuotando.

    Ich bin super, dice d’un tratto Apollo. Sì, sì, dice lei, sei super, sei fantastico, ma adesso stiamo coniugando i verbi al passato.

    Finita la lezione, prima di uscire gli uomini passano davanti a Richard, alcuni gli fanno un cenno con il capo: Zair? Ithemba, lo spilungone? Apollo gli dà la mano e anche Tristano, come va, I’m fine, come va, I’m okay, I’m a little bit fine.

    Lei è una brava insegnante, dice Richard alla giovane etiope, dopo che gli uomini sono usciti.

    E anche carina, pensa.

    In realtà lei ha studiato agraria, dice mentre ripone le lettere dell’alfabeto dipinte su cartoncini, ma non si sa quando comincerà finalmente, in una vera scuola, il corso di tedesco promesso dal Senato.

    Molto carina.

    In Oranienplatz c’era odore di marijuana. E lei aveva capito che bisognava fare qualcosa, prima che quella povera gente si perdesse per sempre.

    Che abbia voglia di un uomo dalla pelle nera e sia venuta a insegnare qui solo per questo?

    Ha bisogno di qualcosa con cui riempire il suo tempo, dice.

    Il «Suo» tempo? Per qualche istante Richard è confuso perché crede che la donna si stia rivolgendo a lui. Ma poi si rende subito conto che quel «suo» è l’aggettivo possessivo di terza persona singolare e va riferito non a lui, bensì a quella povera gente.

    Sì, capisco.

    Se si vuol capire che cosa una persona intende o dice, bisogna aver già sempre saputo, in fondo, ciò che quella persona intende o dice. Un dialogo riuscito è quindi solo un’operazione di riconoscimento? E capire è dunque non una specie di cammino, quanto piuttosto una condizione?

    L’insegnante adesso chiude le finestre, nel farlo si distende tutta e i suoi seni diventano perfettamente piatti. Dalle intelaiature in legno stillano sul pavimento scaglie di vernice bianca.

    Con i suoi studenti si era sempre lasciato alle spalle simili interrogativi, per approdare rapidamente a temi di tutt’altro genere: al concetto di progresso, alla questione di che cosa sia davvero la libertà e al quadrato della comunicazione, un modello linguistico secondo il quale parlare è sempre anche tattica e, in linea di principio, ha un doppio fondo, perché il parlare parla anche di se stesso, ossia della presenza o meno del parlare, e proprio in questo modo l’interlocutore capisce sempre molto di più che non le semplici parole; nell’ascolto è sempre contenuta la domanda: Che cosa c’è da capire, che cosa si vuole capire, e che cosa non si capirà mai, pur volendone avere conferma?

    Il riscaldamento non si può spegnere, dice l’insegnante.

    Da quanto tempo insegna?

    Ho cominciato quest’estate, quando gli uomini erano ancora in piazza. Studiare li tiene occupati anche oltre le ore di lezione, questo è l’importante. Ma a volte non riescono a concentrarsi.

    L’insegnante cancella dalla lavagna ciò che era rimasto scritto: Auge, Buch, Daumen.

    Magari fanno fatica con la pronuncia, dice lui, e poi i verbi irregolari.

    Non è questo il motivo. Nella loro vita c’è una tale inquietudine che in testa non hanno posto per i vocaboli. Non sanno che ne sarà di loro. Hanno paura. È difficile imparare una lingua quando non si sa a che scopo.

    Da quanto tempo non era più stato con una donna?

    Quello di cui questi uomini hanno assoluto bisogno per sentirsi tranquilli è la pace, dice lei.

    Non aveva ancora mai considerato le cose da quel punto di vista: ciò che lì ai suoi occhi è pace, per quegli uomini è in linea di principio sempre e ancora guerra, finché essi non avranno il diritto di considerare quel mondo il loro mondo.

    L’insegnante prende la borsa, lui riaccosta la propria sedia al tavolo.

    Prima di uscire spegne la luce, per favore? Ha già detto Arrivederci ed è fuori. Non si dilunga, questo gli piace.

    Quella luce al neon, eternamente vacillante, che diluisce il chiarore del giorno.

    Spenta.

    Ora che si guarda alle spalle, la sala sembra davvero vuota. La vergine Astrea, ultima fra le divinità, lo ha abbandonato. Questi banchi, ai quali sino a poco prima erano ancora seduti i profughi e pure lui, sono in effetti troppo piccoli per studenti adulti – lo nota solo adesso. Saranno andati a recuperarli in una scuola per ragazzi, probabilmente in quella che adesso si chiama Scuola primaria Lungolago e che un tempo era l’Istituto politecnico omnicomprensivo Johannes R. Becher. Il poeta Johannes R. Becher aveva scritto il testo dell’Inno nazionale della DDR e, in seguito, era stato ministro della Cultura. A lato dei banchi Richard vede ancora i ganci per gli zaini degli scolari di trent’anni fa, dei giovani Pionieri che, da tempo ormai, sono commesse, ingegneri, disoccupati, divorziati una o due volte, con figli da zero a quattro. Le sedie sono scompagnate, molte hanno l’imbottitura gialla, molte color vinaccia, ce ne sono alcune di legno e altre di metallo. Lui, quelle sedie, le conosce bene. Sedie che risalgono al tempo delle riunioni di partito, dei ritrovi di quartiere, delle feste aziendali per l’anniversario della Repubblica. Ovunque fosse arrivato l’Ovest, la prima cosa a finire tra i rifiuti era stato quel mobilio socialista. E perfino adesso, quasi venticinque anni dopo la cosiddetta riunificazione, là dove si sgombera e si ricostruisce capita talvolta di veder ancora spuntare in grandi quantità, dai bidoni dei rifiuti ingombranti, le gambe di legno o di metallo incastrate fra loro di queste sedie ormai fuori moda. Sua madre avrebbe detto: Ma vanno ancora bene. È da un pezzo che non sente più questa frase. Forse oggi avrebbe dovuto indossare la camicia azzurra.

    17

    Per il giorno successivo Richard si era ripromesso di andare a cercare Rashid e Ithemba. Quelli della Sicurezza ormai lo conoscono e lo lasciano salire da solo. Il tavolo verde senza le palle da biliardo, le scale con la ringhiera arcuata, al primo piano manca sempre l’acqua.

    Nel momento stesso in cui arriva di fronte alla porta verde chiaro del secondo piano, quella segnata con il numero 2017, e sta per bussare, la porta stessa gli si spalanca davanti con fracasso e un Rashid furioso si precipita fuori alla cieca, seguito da altri tre o quattro uomini che, sfiorandolo, corrono verso le scale. Da quella parte Richard sente adesso provenire grida incomprensibili di innumerevoli voci e i passi rapidi e pesanti di chi sale e di chi scende. Il battente della porta dondola ancora nelle cerniere, all’interno della stanza non c’è nessuno, perciò Richard segue il gruppo che corre all’impazzata su e giù per le scale, sono saliti, ma adesso stanno già tornando indietro. E lui ha giusto il tempo di ripararsi nel corridoio. Tremendo è l’Olimpio da combattere! / E già un’altra volta, mentre volevo difenderti, / presomi per un piede mi gettò dalla soglia sacra; / e tutto un giorno piombai, ma col tramonto del sole / caddi in Lemno; e poco avevo ancor di respiro. Rashid scende rumorosamente, senza nemmeno notare Richard, dietro di lui dieci o dodici giovani, fra i quali Apollo, i cui riccioli, a causa del vivace movimento, saltellano su e giù, come fosse un gran divertimento. La luce al neon per le scale vacilla di nuovo, la penombra verdina è quindi solo a tratti rischiarata dal guizzo di lampi luminosi. Ma che cosa c’è lassù al terzo piano dove Richard non è mai stato, proprio sotto il tetto? Sale e, alla fine della scala, si trova davanti una porta spalancata, con il battente che ancora dondola nelle cerniere: dentro, un locale spazioso dove, attorno a un tavolo rotondo, sono sedute tre o quattro persone. A parte il gorgoglio di una caffettiera, regna un grande silenzio. Avvicinandosi, Richard constata che una delle persone è la signora di una certa età, quella che all’inizio lo accompagnava sempre dagli uomini. Questo dev’essere l’ufficio degli assistenti incaricati dal Senato. In mezzo alla stanza c’è una sedia rovesciata con le gambe piegate. Lui vi gira attorno, poi dà la mano a tutti. Nessuno gli chiede che cosa faccia lì, forse la signora di una certa età li ha informati. Mi sa che qualcosa bolle in pentola, dice, gli altri annuiscono, allora torno un’altra volta, soggiunge, e saluta. Uscendo cerca di tirare su la sedia, che però, avendo una gamba piegata ad angolo retto, ricade subito a terra. Scusandosi per questo tentativo fallito di mettere ordine, torna a girarsi verso il gruppo che non fiata, uno degli assistenti ha ripreso a sorseggiare il caffè. È stato Rashid? domanda Richard e indica la sedia, gli altri fanno cenno di sì con la testa. Nel frattempo l’illuminazione per le scale si è normalizzata, il Fulminatore non lo si vede né lo si sente più.

    Sotto, all’uscita, uno degli addetti alla sicurezza sta telefonando, Richard chiede all’altro che cosa succede, e viene a sapere che l’indomani gli uomini dovrebbero essere trasferiti, e precisamente in un Centro di accoglienza situato nel bel mezzo della foresta, a sette chilometri e mezzo di distanza da Buchow.

    Da Buchow? E domani?

    Non ne ho idea, io qui mi occupo solo della sicurezza.

    Per arrivare a Buchow, Richard ci impiega almeno un’ora, persino se prende la macchina, e solo se non c’è traffico. Ma non è possibile, dice. L’addetto alla Sicurezza alza le spalle.

    Oggi pomeriggio alle 14 tengono un’assemblea, ecco il foglio con l’avviso. Magari viene qualcuno anche dal Senato.

    A dir la verità oggi Richard avrebbe voluto andare a far la spesa, ma adesso è troppo infuriato per pensare alla spesa. Quelli che annunciano decisioni simili non hanno certo idea di che cosa voglia dire dedicarsi sul serio alla ricerca. Ha appena cominciato i suoi incontri con i profughi, e subito gli mettono i bastoni fra le ruote. Anche all’università c’erano funzionari convinti che fosse più importante stampigliare le pezze giustificative di un viaggio, riempire il nuovo questionario per l’assicurazione malattia, riportare in un elenco il numero delle ore trascorse in ufficio – invece che svolgere il lavoro vero: ad esempio indagare se esistessero rapporti numerici altrettanto importanti per la bellezza di un verso quanto per la stabilità del guscio di una lumaca. O scoprire dove, nella letteratura dell’età augustea, Gesù avesse fatto la sua comparsa come ultimo dio greco. Certo, potevi cambiare anche otto volte la password per l’indirizzo mail del tuo ufficio, ma potevi anche chiederti come riuscisse a manifestarsi nel testo di un autore ciò che l’autore stesso non sapeva di sé. E chi parlava dunque in simili casi?

    Per questo, benché non ne possa più ormai di tutte queste riunioni che gli assorbono per intero la vita, alle due meno venti Richard si mette in cammino per partecipare a quella maledetta assemblea.

    L’aula è piena, non c’è un solo posto libero, molti uomini sono seduti in quei banchi troppo piccoli, con le ginocchia che vi passano sotto a fatica, lungo il perimetro ci sono gli assistenti e il personale della Sicurezza, la discussione è stata appena aperta. Il rappresentante del Senato, un signore mingherlino, dalla scriminatura bionda, è in piedi là davanti, ma poiché non parla né inglese, né francese, né italiano, né tanto meno arabo, c’è una sorta di traduzione consecutiva, simile a quella cui Richard aveva assistito qualche tempo prima nella scuola occupata. Possiamo già essere contenti di avere almeno un rappresentante del Senato, gli sussurra uno degli uomini che aveva visto seduti al muto tavolo degli assistenti quella stessa mattina a mezzogiorno. In un tedesco da scriminatura bionda si sentono adesso queste parole: Abbiamo piena comprensione per lo stato in cui vi trovate! Avete dato un grande contributo alla soluzione pacifica di una situazione insostenibile come quella di Oranienplatz! E altre frasi simili. Il funzionario non sembra molto contento di essere stato incaricato di trattare con quella gente spuntata da chissà dove, che avanza sempre e solo pretese e non sarà mai soddisfatta. È presumibile che, rispetto ad altri dipendenti dell’amministrazione del Senato, il tizio ricopra un ruolo decisamente di secondo piano, a meno che non lo stiano mettendo alla prova con questo incarico. A Richard fa quasi pena. Ma che cosa vogliono di nuovo questi piantagrane, ai quali il Senato, senza alcun obbligo di legge, paga comunque 300 euro al mese a testa sino alla definizione dei singoli casi, ai quali la città, almeno per un certo periodo, regala abbonamenti mensili ai trasporti e offre dodici assistenti part time, per aiutarli quando devono andare dal medico o in qualche ufficio?

    Il Centro nell’area di Buckow è una buona soluzione per tutti, credetemi, dice l’uomo del Senato. Non siete gli unici qua a Berlino e nei dintorni a cercare alloggio, e se volete restare tutti insieme non c’è molta scelta.

    Vogliamo restare visibili, finché il problema nel suo complesso non avrà trovato una soluzione politica, dice Rashid, il Fulminatore di questa mattina, e si alza in piedi. Che cosa andiamo a fare nella foresta? A che scopo l’accordo con il Senato? Voi finora non avete soddisfatto neanche un punto di quel documento, dice.

    La bestia è colpita, il colpo costa a testa 300 euro al mese più l’abbonamento ai trasporti e gli assistenti, ma è sempre pericolosa, non si sa quanta forza abbia ancora e se non sia pronta a scagliarsi su qualcuno, anzi magari è più imprevedibile di prima.

    Non sono cose che si risolvono da un giorno all’altro, dice l’uomo del Senato e sta pensando come mettersi al sicuro, nel caso che la bestia ferita voglia comunque saltargli addosso.

    Un altro profugo si intromette: Ho sentito che il campo laggiù dista cinque chilometri dalla più vicina fermata dell’autobus.

    L’importante è guadagnare tempo, così il sangue continua tranquillamente a scorrere dalla ferita, e questo indebolisce l’avversario.

    Adesso parla un terzo: E poi – da un giorno all’altro!

    E ancora un quarto: Abbiamo bisogno di docce chiuse, altrimenti si va contro le nostre leggi.

    La bestia sussulta ancora, ma sono solo movimenti riflessi.

    E un quinto: Più di quattro persone per stanza – è inaccettabile!

    L’uomo del Senato aspetta che le dichiarazioni e le domande gli vengano tradotte, poi dice: Vi capisco benissimo, prendo nota di tutto.

    Da straniero non hai più scelta, ha detto Tristano. Aveva forse torto? No, pensa Richard, ma nutrire dei desideri è indice del fatto che si vive ancora in un mondo in cui si ha il diritto di desiderare. Desiderio come nostalgia. Non c’è da stupirsi, pensa, che i prigionieri di guerra mezzo morti di fame, appartenenti a tutte le nazionalità e rinchiusi in tutti i possibili campi di prigionia di tutte le possibili guerre, si tenessero in vita parlando di ricette di cucina. In realtà dal Senato i profughi non vogliono né una stanza a quattro letti, né una doccia con le cabine che si possano chiudere, né un tragitto più breve per arrivare a piedi dal Centro di accoglienza alla fermata dell’autobus. In realtà dal Senato non vogliono nulla. Quello che vogliono veramente è andare alla ricerca di un lavoro e potersi organizzare la vita da soli, come chiunque sia in buone condizioni fisiche e mentali. Ma gli abitanti di questo territorio, che solo da centocinquant’anni circa si chiama Germania, difendono la loro giurisdizione con i paragrafi di legge, danno addosso ai nuovi venuti con l’arma prodigiosa del tempo, cavano loro gli occhi con giorni e settimane, li investono con il peso dei mesi, e se quelli ancora non si acquietano, magari consegnano loro tre recipienti di diversa grandezza, un completo di biancheria da letto e un documento, su cui c’è scritto Attestato finzionale.

    Conflitti etnici, si potrebbe anche commentare.

    A casa, in un cofanetto di legno su un ripiano della libreria, Richard ha ancora la sua vecchia carta d’identità e la sua vecchia tessera dell’assicurazione. Nel 1990 si era ritrovato, dalla sera alla mattina, ad essere cittadino di un altro Stato, solo la vista dalla finestra era rimasta la stessa. Quel giorno, in cui era divenuto un cosiddetto cittadino della Repubblica federale, i due cigni che lui conosceva benissimo nuotavano da sinistra a destra esattamente come il giorno precedente, quando lui poteva ancora definirsi cittadino della Repubblica democratica tedesca, e alcune anatre erano accoccolate, esattamente come il giorno precedente, su un angolo del pontile, di quel pontile per la cui costruzione lui stesso aveva rimediato a suo tempo alcune traversine dalla Ferrovia del Reich tedesco. D’altra parte, la Ferrovia del Reich tedesco aveva dovuto conservare il suo nome fascista anche sotto la Repubblica socialista, si trattava probabilmente del passaggio di proprietà e di altre questioni formali. Ma faceva differenza chiamarsi in un modo piuttosto che nell’altro? Quando, nel contesto della problematica del diritto d’asilo, Richard s’era imbattuto per la prima volta su internet nella parola Attestato finzionale, sulle prime aveva creduto che fosse un concetto nato nel mondo della letteratura, in inglese d’altronde la narrativa si chiama fiction, ma che venisse concesso un simile attestato a quelli tra i profughi, che sono anche scrittori, affinché potessero entrare più facilmente nel mercato librario internazionale, questo, tutto sommato, gli sembrava poco plausibile. Come di lì a poco ebbe modo di appurare, si trattava solo di un certificato attestante l’esistenza di una persona che non aveva ancora il diritto di chiamarsi profugo. I diritti non si fondavano su attestati finzionali di quel genere.

    I due partiti, quello del rappresentante del Senato dalla scriminatura bionda e quello di Rashid, che parla anche a nome degli altri, sono sempre in conflitto, non c’è alcuna soluzione in vista, la discussione è impantanata nell’andirivieni delle traduzioni, quand’ecco che all’improvviso – come il Messaggero a cavallo – arriva il direttore dell’Istituto. Ha appena avuto notizia che nella struttura ci sono due casi di varicella. A questo punto la discussione odierna è superflua perché il trasferimento in un altro Centro va sospeso per tutto il tempo dell’incubazione, così prescrive la legge. Gli africani non sanno che cosa sia la varicella. Si diffonde una certa inquietudine. Che adesso il Senato voglia sbarazzarsi di loro contagiandoli con una diabolica malattia? Il tizio dalla scriminatura bionda si domanda, in cuor suo, se la notizia sia proprio vera o se per caso il direttore non faccia comunella con i neri e voglia semplicemente aiutarli a guadagnare tempo. Agli occhi del direttore dell’Istituto, invece, l’insorgere della malattia significa solo che l’inizio dei lavori di ristrutturazione riguardanti l’intero edificio ritarderà ancora e si chiede come sia possibile che uomini adulti contraggano di punto in bianco una malattia infantile.

    Quando andava a scuola negli anni Cinquanta, Richard aveva dovuto aiutare anche lui a raccogliere, nei campi, le dorifore della patata. Secondo il Ministero dell’Agricoltura della DDR, erano gli americani che, lanciando dal cielo i coleotteri, tentavano di sabotare il raccolto. I bambini, ciascuno di loro con in mano un barattolo per la conserva, erano stati sguinzagliati per i campi in lunghe file, a controllare ogni singola pianta e a gettare le dorifore nell’aceto. Solo più tardi Richard aveva saputo che, già al tempo dei nazisti, non soltanto gli scolari, ma anche le SA e persino i militari erano stati impiegati per annientare la strisciante arma prodigiosa degli americani, con le sue strisce gialle e nere. Grazie al lancio delle dorifore gli americani avevano dunque combattuto prima contro i fascisti e poi, subito dopo, contro gli antifascisti? Oppure un simile esercito di coleotteri decide un bel giorno di propria iniziativa che cos’è di suo gusto? Dalla prospettiva dei coleotteri un campo di patate nel 1941 è altrettanto verde quanto un campo di patate nel ’53. Dopo la caduta del Muro poi, durante il suo primo viaggio di lavoro a Londra, una sera, mentre sorseggiava un bicchiere di whisky insieme con un collega inglese più anziano di lui, questi gli aveva raccontato che, quando andava a scuola, aveva dovuto passare in rassegna le coltivazioni di patate nelle campagne inglesi per sterminare le dorifore, a quel che si diceva infiltrate dalla Germania come arma biologica durante la Seconda guerra mondiale. Anzi, la Germania avrebbe fatto addirittura esperimenti sull’azione devastatrice dei coleotteri, aveva dichiarato quel germanista inglese, e verso la fine della guerra i tedeschi avrebbero lanciato, a puro scopo sperimentale, migliaia di esemplari di questi parassiti sul Palatinato, dunque sul loro stesso paese! Anyway, I love the German language, aveva detto il professore a conclusione del racconto bevendoci sopra un abbondante sorso di whisky, ed era stato solo per via del suo finale criptico che Richard ricordava ancora quella conversazione.

    Quanto alla varicella, si tratta comunque di un’infezione virale, su questo non ci sono dubbi, un’infezione che, quando si diffonde fra adulti, può restare contagiosa per due settimane. Il giorno successivo quindi il trasferimento non avrà luogo, e così rimane tempo per cercare una sistemazione più consona per i profughi. Uscendo Richard rivolge la parola al Fulminatore, che ora si è calmato, e gli chiede se ha voglia di incontrarsi con lui l’indomani per il loro primo colloquio. No problem, dice l’altro, e sembra proprio che non ricordi di essersi imbattuto nel professore quella mattina stessa, quando era corso fuori dalla sua stanza schiumante di rabbia.

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