mercoledì 7 aprile 2021

PONZIO PILATO Aldo Schiavone

 

1. Due figure si fronteggiano, rischiarate dalla luce del primo mattino. Sono vicine, si parlano, condividono il medesimo spazio. L’una è quella di un prigioniero, forse in catene; l’altra, del suo inquisitore.

La scena è sospesa ed elettrica – tutto deve ancora accadere – ma i rapporti di forza appaiono sbilanciati e schiaccianti: si capisce che la situazione può degenerare in un niente, la violenza esplodere in ogni momento; come infatti sarà. Non è un colloquio. È un interrogatorio.

Eppure, l’uomo che sembra al comando, dall’attimo in cui ha incontrato il suo inquisito, è caduto nell’abisso di un’inferiorità senza scampo, che lo annienta (ai nostri occhi) rispetto alla potenza invisibile di chi gli sta davanti inerme e solo.

Il capovolgimento, tuttavia, per quanto sconvolgente, non traspare. È come frenato, occultato: il quadro rimane drammatico e il contrasto vibrante. Non stiamo assistendo a una finzione: c’è davvero una vita in gioco. La rivelazione è trattenuta, rinviata, e non cancella le condizioni che fissano i due personaggi ai loro ingannevoli ruoli. È come se i suoi effetti si producessero in un’altra dimensione, per ora lontana, pur se già essenziale: sarà infatti solo richiamandola al nostro sguardo che potremo chiarire, a tempo debito, la svolta cruciale che avrebbe segnato quel confronto. Ma per adesso è proprio la scissione tra i due opposti piani – quello che appare e quello che si nasconde – ad addensare sulla scena il suo particolarissimo pathos.

Al centro continua a vedersi solo l’incontrastato controllo di chi sta conducendo l’inchiesta, anche se noi sappiamo che la realtà di quel dominio è parziale, incompleta. Esiste solo in funzione di un sovvertimento totale, che trasformerà il soccombente in un trionfatore assoluto. Accettando sino in fondo quel che l’aspetta, quest’ultimo sta costruendo per se stesso un’apoteosi senza confini.

Consideriamo la posizione del giudice.

Può capitare, talvolta, di trovarsi a ricoprire un ruolo di gran lunga al di sopra dei propri mezzi: e di esserci finiti per caso, senza averlo in alcun modo cercato, o almeno non rendendosene conto.

Di solito, piú la sproporzione è significativa, meno è frequente: quel che ci accade, per la ragione stessa che ne siamo al centro, è quasi sempre alla nostra portata. Un ferreo principio di congruità regola abitualmente la meccanica delle nostre esistenze, su qualunque scala esse si svolgano.

Se però il metro arriva a spezzarsi, allora si producono conseguenze dirompenti; tanto piú se tutto si consuma in velocità, e dura pochissimo, non oltre una manciata di ore. Lo squilibrio può esaltare chi lo subisce, facendolo entrare in un nuovo ordine di grandezze; oppure lo distrugge, o lo sprofonda solo nel ridicolo. Insomma: l’epico o il tragico o il comico, anche mescolati insieme, a seconda del variare delle circostanze e delle differenti inclinazioni degli attori in campo.

Piú raramente può verificarsi qualcosa di ancora piú estremo e, a ben guardare, di veramente terribile. Chi si trova nella tenaglia dell’asimmetria potrebbe non rendersi conto di esservi precipitato dentro, e non avvertire, se non in modo nebuloso, l’eccezionalità di ciò che lo sta travolgendo. È inquieto, adotta una linea di condotta per lui non consueta, ma continua in fondo a credere di non essersi molto allontanato dalla sua normalità; e invece sta sperimentando l’indicibile. Poi tutto sembra ricomporsi e riprendere il ritmo abituale, mentre nulla piú sarà come prima.

Alla mancanza di proporzione si congiungerebbe in tal caso una completa assenza di percezione, con l’inconsapevolezza come sigillo dell’intera vicenda.

Come potrebbe prodursi un simile offuscamento?

Basterebbe una semplice sfasatura. Se, cioè, l’evento che ha determinato lo sbilanciamento avesse mostrato la sua autentica qualità soltanto dopo, a cose ormai compiute, e unicamente nello sguardo retrospettivo di chi, in seguito, l’avrebbe ricostruito e ripensato, conferendogli proprio con questa elaborazione il suo eccezionale statuto. Se quel fatto, voglio dire – al di là del suo nudo accadere – fosse diventato straordinario e spiazzante solo piú tardi, grazie alla memoria condivisa e trasfigurante di una collettività in vertiginosa crescita; per entrare poi, partendo da quel ricordo, sempre piú irresistibilmente nella grande storia, sino a darle una nuova forma.

Ed è esattamente questo, quel che si abbatté sul quinto governatore romano della Giudea quando, nell’esercizio delle sue funzioni, gli fu condotto un prigioniero chiamato Gesú di Nazareth, e dovette decidere in meno di una giornata del suo destino.

È di lui, di Ponzio Pilato, che vogliamo raccontare. Dei suoi anni spesi al servizio dell’impero, lasciando dietro di sé poche, ma non insignificanti tracce. Di una carriera ai margini (sebbene non al di fuori) dei piú importanti circuiti del potere romano, ma che avrebbe, all’improvviso, incluso una decisione dagli esiti incalcolabili, capace di segnare il futuro del mondo: maturata peraltro in un modo che continua a sembrare enigmatico e contraddittorio, e che ha finito con l’accrescere l’ambigua oscurità del personaggio. Come se la sua intera vita ci dovesse apparire non altrimenti che concentrata in una singola azione, con tutto il resto coperto dal riverbero di quell’unico gesto: la condanna dell’ombra, per la troppa luce.

2. Da duemila anni Pilato è una figura di intersezione fra la memoria e la storia1, come – sia pure in un equilibrio ogni volta diverso fra i due piani – Romolo, o re Artú, o Giovanna d’Arco.

I Vangeli non sono libri di storia, né vogliono esserlo. Sono i grandi laboratori del ricordo religioso cristiano, che hanno inaugurato un nuovo modello di comunicazione letteraria, sconosciuto fino ad allora al mondo classico, con un rapporto mai prima sperimentato fra composizione scritta e tradizione orale. Ed è proprio in questi testi che incontriamo Pilato: a proposito della morte di Gesú, un tema di importanza primaria nelle loro strategie narrative. Lo scopriamo soprattutto nel Vangelo di Giovanni, che, fra i quattro, è senza dubbio quello piú vicino alla realtà della Palestina del secolo: una coincidenza fortunata.

Di storia (e di filosofia), si occuparono invece Flavio Giuseppe e Filone di Alessandria: due intellettuali del I secolo che hanno scritto di Pilato nel contesto delle vicende della Giudea romana durante i principati di Tiberio e di Caligola; Giuseppe ricordando anche la morte di Gesú, in un passaggio famoso e molto tormentato dai critici.

Oltre, non ci è rimasto nulla di davvero significativo, sia pure con un paio di rilevanti eccezioni: un breve riferimento di Tacito (anch’esso con un richiamo a Gesú, ed egualmente molto discusso), e un’importante epigrafe scoperta a Cesarea negli anni sessanta del Novecento.

Il nostro racconto sarà dunque in gran parte una specie di viaggio nella prima memoria cristiana, condotto rimanendo sempre nell’orbita del suo punto culminante, la morte di Gesú, che è anche – e non per caso – quello dell’intersezione fra ricordo evangelico e storia imperiale. Nell’interpretazione che propongo ho cercato di mettere a frutto, per quanto possibile, entrambi questi nuclei: la rammemorazione cristiana e la storia giudaico-romana.

La memoria religiosa, innanzitutto. Essa – e in particolare quella dei Vangeli – è molto piú orientata al significato e alla comprensione teologica degli eventi cui allude, e alla difesa del loro valore nel presente di chi racconta, che alla registrazione del passato in quanto tale. La moderna critica neotestamentaria per un verso, e gli studi sul funzionamento della memoria culturale antica per un altro, hanno insegnato molto su questi meccanismi. Rispetto a quello che a noi risulta come il piano degli accadimenti storicamente accertati, il ricordo religioso può persino ricorrere a ciò che appare come pura invenzione, se essa facilita il raggiungimento di obiettivi didascalici e teologici ritenuti essenziali; e l’unica coerenza che dobbiamo aspettarci è quella interna all’orizzonte dei pensieri, delle suggestioni e dei comportamenti che vengono di volta in volta richiamati.

Non dobbiamo tuttavia esagerare la distanza fra storia e memoria, come a volte si tende a fare, sia pure con le migliori intenzioni: dare cioè alla memoria culturale uno statuto di assoluta autonomia e dignità rispetto al racconto propriamente storico. Né soprattutto dobbiamo mai sovrapporre al binomio fra storia e memoria quello fra autentico e falso, rispetto al piano degli eventi.

Ogni elaborazione della memoria, anche la piú audace, ha inevitabilmente il suo retroscena, che ci riporta sempre in qualche maniera a una ferma ossatura di dati – sia materiali, sia mentali – sospesi tra chi racconta e la vicenda che viene raccontata. Come d’altra parte ogni fonte storica – anche quella che riteniamo piú affidabile – interpone comunque il filtro di una rappresentazione soggettiva rispetto ai fatti che vengono descritti. Per certi versi, si potrebbe dire (senza tuttavia forzare troppo l’analogia) che la memoria sta alla storia come il sogno alla realtà che trasfigura: nel senso che ne è sempre una trascrizione decifrabile. Le sue finzioni non implicano, necessariamente, falsificazioni, ma tendono piuttosto a modificare le reti di circostanze che avvolgono i nudi fatti.

La memoria poi, una volta fissata e diffusa, può essere a sua volta produttrice di storia: spesso, un motore formidabile, soprattutto quella religiosa. Cosa sarebbe la storia dell’Occidente senza il ricordo di Abramo, di Mosè o di Gesú? E il mondo arabo e le civiltà orientali senza quelli di Maometto o di Buddha?

In questi casi però, e in ragione del suo stesso clamoroso successo, la memoria religiosa complica ancora di piú il rapporto con la trama storica da cui emerge. Il giudizio sulla sua verità tende infatti a staccarsi completamente da ogni verifica di corrispondenza con una trama originaria e accertabile di accadimenti. Finisce col trasformarsi solo in una conseguenza della sua capacità di produrre a sua volta grandi eventi. Il Gesú della storia sbiadisce rispetto al Gesú predicato e creduto. E la verità dei Vangeli risiede ormai molto di piú nella potenza millenaria del cristianesimo che nella riscontrabilità oggettiva del loro racconto. Uno slittamento che rende ancor piú complesso il lavoro di chi cerca gli indizi per far affiorare in quelle narrazioni la determinata densità dei personaggi che vi compaiono.

La morte di Gesú ci viene incontro, nello specchio di tutti e quattro i Vangeli, come il culmine della sua predicazione e della sua testimonianza. Non è un trauma che interrompe un cammino, ma un avvenimento che lo compie e lo perfeziona, e lo proietta verso l’eterno. La riforma duale – il Padre e il Figlio – dell’originario e rigidissimo monoteismo biblico comincia a stabilizzarsi proprio in quell’episodio; come anche il misterioso rapporto fra Dio e Tempo, mentre il completamento trinitario che tutti conosciamo sarà sancito solo piú tardi, a marcare l’irresistibile presenza e la fascinazione del Tre nelle architetture teologico-filosofiche fra Egitto, Grecia e India. E soprattutto in quell’evento – e nei momenti che lo preparano – si stabilisce il nucleo genetico della teologia politica dell’Occidente, su cui poi avrebbero cominciato a lavorare Paolo e Agostino. È da quella morte, insomma, che comincia davvero il cristianesimo.

È stato autorevolmente sostenuto2 che i testi evangelici – al di là della loro attendibilità storica – non sono utilizzabili sommando i loro nuclei biografici per costruire un racconto unitario della vita di Gesú, e che una scelta si imporrebbe in particolare per Giovanni rispetto ai cosiddetti Sinottici. Ritengo si tratti di un giudizio fondamentalmente corretto, che dà il giusto peso a differenze strutturali spesso non ricomponibili. Ma nel nostro caso esso ha meno valore, poiché credo sia altrettanto fondata l’ipotesi secondo cui un resoconto scritto abbastanza particolareggiato della morte di Gesú – che cuciva insieme fonti e testimonianze diverse – abbia preceduto le stesure che vanno sotto il nome dei quattro evangelisti, imponendo in una certa misura il suo modello; e ritengo che questo strato originario abbia influito almeno per un punto essenziale (di cui diremo) anche su Giovanni, nonostante alcune varianti di rilievo.

L’insieme della tradizione cristiana – ma anche Tacito e Flavio Giuseppe – lega al ricordo della Passione la notizia di sette nomi: Giuda, Anna, Caifa, Barabba, Erode Antipa, Giuseppe di Arimatea, Pilato. Il primo, l’apostolo traditore, è solo una figura della memoria, senza riscontri sul piano della storia, e lo stesso accade per Barabba. Gli altri cinque sono invece personaggi storici: i sommi sacerdoti sadducei a capo del sinedrio, il tetrarca di Galilea, il prefetto romano della provincia di Giudea, e probabilmente anche Giuseppe di Arimatea. Fra tutti loro, è però a Pilato che tocca il ruolo decisivo. Sarà sua l’ultima parola circa il destino del prigioniero.

La valutazione del suo comportamento, già non univoca nel ricordo cristiano – e del peso che su di esso ebbero le contingenze del momento – ha provocato lungo i secoli scontri e lacerazioni senza fine, che hanno condensato, e non smettono di farlo nemmeno oggi, interi universi di idee e di valori. Siamo al crocevia fra due religioni che sono state in grado di raccogliere nel corso dei millenni risorse imponenti: intellettuali, morali, identitarie. Un punto nevralgico battuto infinite volte, attraverso il quale sarebbero passati fiumi di storia, anche tempestosi e dolorosamente cruenti.

A chi andava attribuita la «responsabilità» della croce? Erano stati gli ebrei – il popolo «deicida» dell’intransigenza cristiana – o i Romani a volere la morte di Gesú? E di conseguenza, quale fu veramente il ruolo di Pilato? Di un despota? di un complice? di un inetto?

Domande stereotipate da una tradizione lunghissima – sia giudaica, sia cristiana – irrigidite nelle semplificazioni di polarità che sembravano non ammettere vie d’uscita. Piuttosto che interrogarsi in modo radicale sulla loro legittimità, una ricerca sterminata ha cercato, negli ultimi due secoli, di offrire risposte attendibili alle alternative che esse ponevano: prospettando soluzioni sempre piú in linea con la moderna critica storica e con le nuove conoscenze che abbiamo acquisito sulla realtà giudaica e su quella romano-imperiale del I secolo (sociale, amministrativa, giuridica) nell’Est del Mediterraneo.

All’interno di questa storiografia si può trovare di tutto: relitti di remoti pregiudizi, sudditanze ideologiche, incombenti sensi di colpa successivi all’orrore senza nome della shoah, seria filologia e rigorosa ermeneutica, apologetica, intuizioni di assoluto rilievo, scontri fra contrapposte ortodossie, intenti piú o meno lodevoli di riconciliazione religiosa, tentativi di sottrarsi a vecchie e ingiuste accuse; insomma, un accumulo da cui è difficile uscire. Anche la letteratura si è esercitata sul tema, offrendoci, fra XIX e XXsecolo, almeno due Pilato memorabili, per quanto diversissimi: quelli di Anatole France e di Michail Bulgakov.

Sarebbe impossibile ignorare la portata di una simile mole; anche se bisogna dire che i lavori esclusivamente dedicati a Pilato non sono poi tantissimi, e non ci sottrarremo dal dar conto dei debiti che abbiamo contratto in particolare con alcuni di essi, piú o meno recenti.

Tuttavia, proveremo ad accostarci al nostro tema come se fosse la prima volta. Senza prefiggerci altro intento – né teologico, né politico – se non di descrivere e spiegare ciò che potrebbe essere accaduto: di districare ed estrarre un filo di trama ragionevolmente solido da quel labile e frammentario amalgama, insieme aggrovigliato e lacunoso, in cui sembra annegare ogni ricostruzione plausibile. Piú siamo sovrastati dalla quantità dei tentativi che si trovano alle nostre spalle, piú bisogna riuscire a non restarne prigionieri, e a evitare la polverosità di vie troppo battute e di propositi anche encomiabili, ma che nulla hanno a che fare con il racconto del passato.

Pilato è l’unico personaggio storico – a noi noto anche al di fuori della tradizione protocristiana – cui la memoria evangelica abbia attribuito un dialogo con Gesú. Avrebbe pronunciato (e ascoltato) parole, e compiuto (e assistito a) gesti che ci hanno accompagnato per duemila anni. Frasi e comportamenti di fondazione e di confine. Proveremo ad accostarci a lui cercando di rinnovare l’intatta freschezza di un’attenzione coltivata senza obblighi, per il solo piacere del racconto e dell’interpretazione, in solitudine e in libertà.

1. Pilato si trovava quel giorno a Gerusalemme. Vi era arrivato – non sappiamo esattamente quando – da Cesarea1, capitale amministrativa della Giudea romana e sua residenza abituale: a nord-ovest della piccola provincia, sulla costa del Mediterraneo, quasi al confine con la Siria.

Scendeva la sera, e in una grande stanza già pronta2, al piano superiore di una casa che non doveva trovarsi troppo lontano dalla dimora del governatore, un gruppo di viandanti, anch’esso giunto da poco in città, stava imbandendo la sua mensa. Dobbiamo a Marco e a Luca il salvataggio di questo dettaglio: un evidente relitto di memoria orale, trasferitosi in un primo nucleo di scrittura precedente ai Vangeli, autentico e prezioso nella sua irrilevanza rispetto ai fini della narrazione, sopravvissuto e trasportato sino a noi sul filo di quel primo ricordo. Nel testo di Marco il particolare è congiunto a un probabile spostamento di data; ma l’errore, forse volontario, è dell’autore, non della tradizione che stava riprendendo.

Alla testa della piccola schiera c’era un uomo il cui nome latinizzato suonava come Iesus Nazarenus: coloro che lo stavano accompagnando erano stati scelti da lui come i piú fedeli discepoli; era infatti un predicatore religioso e un maestro di dottrina e di vita. Quella sarebbe stata ricordata per sempre come la loro ultima cena.

Non riusciamo a localizzare in modo attendibile il posto dove si raccolsero i commensali. Una tradizione3 che risale al IVse-colo lo colloca sull’altura di Gareb (la nuova Sion dei cristiani), ma – tenuto conto della sequenza degli avvenimenti – bisogna forse pensare a una casa meno lontana dalla riva del Kedron, l’impetuoso torrente che scorreva per un tratto parallelo alle mura; Pilato invece risiedeva nello splendido palazzo fatto costruire da Erode il Grande, che sovrastava l’intero altopiano dal promontorio, sul lato opposto rispetto alla fortezza Antonia. Gerusalemme4, allora, non aveva piú di quarantamila abitanti: molti per un sito antico, soprattutto in quella regione; ma le distanze erano sempre brevi entro la cerchia delle fortificazioni.

Gli storici hanno eseguito calcoli complicati5, persino astronomici, per individuare con precisione la data di quella serata. L’anno, con ogni probabilità, era il 30, anche se c’è chi ne propone uno diverso (il 33 sarebbe plausibile, di meno il 31, e meno ancora il 32, o il 29). Il mese, senza dubbio, quello di Nisan, secondo la nomenclatura del calendario ebraico. Il giorno è assai controverso, e dipende da un conteggio che vede la tradizione in disaccordo: da un lato i Sinottici, dall’altro Giovanni, che riterrei piú attendibile. Ma in ogni caso l’indicazione aveva un valore teologico molto piú che quello di fissare una cronologia; serviva a collocare l’evento che stava per accadere rispetto alla simbologia rituale del calendario ebraico: nell’immediata prossimità della Pasqua, o in esatta coincidenza con il suo avvento. Doveva probabilmente trattarsi del tredicesimo o, meno verosimilmente, del quattordicesimo giorno del mese (bisogna tenere a mente che, nel calendario ebraico, i giorni si contano da una sera all’altra): per noi sarebbe il 6 di aprile, e comunque, accogliendo l’ipotesi che riterrei migliore, un giovedí.

Era il periodo di Pesach e degli Azimi: festività importanti, distinte e contigue, che celebravano l’esodo (e la liberazione) dall’Egitto, e l’insediamento del popolo eletto nella Terra promessa. Gerusalemme, come sempre per l’occasione, rigurgitava di fedeli giunti da ogni parte della Palestina; non solo dalla Giudea, ma dalla Samaria, dall’Idumea, dalla Galilea, e anche da piú lontano. Gli abitanti allora si moltiplicavano6: la città costituiva da un’età remotissima il centro spirituale d’Israele, e ospitava il ricostruito Tempio di Salomone (il cosiddetto «Secondo Tempio», completato, stando alla tradizione, nel 515 a. C.), da poco ampliato, sempre da Erode. Nessuno che fosse stato appena in grado di farlo, avrebbe rinunciato al privilegio di ritrovarsi lí per le cerimonie. Quel ristretto gruppo di seguaci, raccolti a cena intorno al loro Maestro, era solo una piccola scheggia di una folla brulicante e multiforme.

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1. Gerusalemme agli inizi del I secolo.

La religione mosaica rappresentava da gran tempo il tessuto connettivo dell’identità ebraica: una pratica totalizzante che tendeva a ridurre a sé ogni altro aspetto della vita, politica compresa, e determinava un’appartenenza sentita in modo fortissimo, fino allo straniamento etnico e culturale nei confronti delle popolazioni vicine. La Bibbia ne era al centro, con un’importanza determinante: per il popolo d’Israele non era solo il libro della rivelazione teologica, ma della propria costruzione «nazionale», attraverso il patto con Dio – nessun’altra società aveva qualcosa di simile. Il sentimento di una fede cosí profonda era la base di un’intransigenza identitaria con venature apocalittiche e con un’evidente vocazione teocratica (solo Dio può governare Israele), di un legame comunitario cogente e senza concessioni, molto rari con questa intensità. Nelle civiltà del Mediterraneo antico forse solo Roma avrebbe sviluppato un autoriconoscimento altrettanto marcato rispetto al resto delle genti italiche; ma temperato, nel suo caso, da una tendenza non meno accentuata (e in apparenza contraddittoria) all’inclusione e all’apertura. Era una rassomiglianza incandescente e foriera di sventure fra conquistati e conquistatori: ebrei e Romani, un piccolo popolo e un grande impero; anche se nel caso di Roma la religione aveva giocato un ruolo meno invadente nel conservarsi di una cosí esigente percezione di sé, e bisogna guardare in altre direzioni per spiegare il fenomeno.

Abbiamo motivo di ritenere che per Pilato lo spostamento da Cesarea – un percorso non lungo, non piú di una settantina di miglia – fosse abituale per le festività, e facesse parte dei suoi doveri di routine. La Giudea era una provincia non vasta ma inquieta, attraversata da continue tensioni e da mai spenti fremiti insurrezionali, dove la presenza romana era ben lungi dall’essere accettata come altrove nell’impero e nello stesso Oriente; pochi decenni piú tardi, i contrasti sarebbero esplosi in una rivolta violentissima, soffocata a fatica e nel sangue: la seconda ondata della diaspora.

Era normale, perciò, che in giorni delicati come quelli di Pesach – quando si concentravano a Gerusalemme masse che a occhi romani dovevano sembrare pericolosamente inclini a improvvisi scatti di fanatismo irredentistico religioso – il prefetto fosse sul posto a sorvegliare e controllare da vicino. E vi era, forse, anche da amministrare la giustizia ordinaria. I governatori romani erano soliti, infatti, per adempiere i loro doveri giurisdizionali, spostarsi periodicamente nelle principali città del territorio loro assegnato: una prassi che piú tardi sarebbe stata rigidamente disciplinata dall’amministrazione imperiale e dai giuristi. Pilato poteva anche aver approfittato dell’occasione per assolvere insieme due compiti egualmente importanti.

Quella volta – si tratti del 30 o del 33 – non c’erano particolari pericoli nel mantenimento dell’ordine pubblico a preoccuparlo. Tutto sembrava abbastanza tranquillo.

Bisognava comunque fare molta attenzione, e soffocare sul nascere qualunque occasione di rischio. Pilato sapeva fin troppo bene che il dispositivo militare su cui poteva contare in caso di emergenza era lontano dall’essere imponente. A differenza della vicina provincia di Siria, una regione molto piú vasta ed esposta, dove a disposizione del legato imperiale erano spiegate ben quattro legioni – la VI «Ferrata», la X «Fretensis», la III «Gallica» e, dal 18, la XII «Fulminata» – ai suoi ordini erano stanziate probabilmente soltanto un’unità di cavalleria (un’«ala I gemina Sebastenorum», press’a poco un reggimento) e cinque coorti di fanteria: una forse romana, e le altre reclutate sul posto (ma non fra i giudei, esentati dal servizio), al comando di ufficiali di origine orientale. Queste truppe7erano in gran parte acquartierate a Cesarea. A Gerusalemme, nell’imponente fortezza Antonia, a ridosso del Tempio, si trovava di regola solo una coorte (da cinquecento a mille uomini) appoggiata da un piccolo distaccamento di cavalleria, agli ordini di un tribuno, con funzioni di polizia. Forse qualche unità in piú veniva schierata in città quando vi risiedeva il governatore, accampata nel palazzo di Erode e nelle sue immediate vicinanze, ma si trattava sempre di numeri esigui: la prudenza sconsigliava quantità maggiori, che, proprio nei luoghi sacri al loro culto, sarebbe stata vissuta dai giudei come una ingiustificata provocazione. E del resto era questa la strategia romana: dovunque possibile, dovevano bastare un velo d’apparati e un pugno d’uomini. Governare molto piú col consenso che con le armi.

Anche per Gesú quella non era la prima «salita» a Gerusalemme8 (come scrive Giovanni), nonostante i Sinottici non ricordino altri viaggi. Non possiamo dire quante volte vi fosse già stato; questo dipende anche dalla durata che attribuiamo alla sua vita pubblica: non meno di due anni e non piú di quattro.

In quella circostanza egli si trovava comunque in città già dalla domenica precedente (l’inizio ebraico della settimana); vi era arrivato in groppa a un’asinella, festeggiatissimo9, accolto da una folla di curiosi e di seguaci osannanti, che stringevano in mano rami di palme. Aveva speso le sue giornate a predicare nel Tempio, a misurarsi, a dibattere, a scontrarsi anche: la sua fama era molto cresciuta, e tutto lascia pensare che Gesú fosse ormai una figura nota e discussa fra la Galilea e la Giudea, al centro di molte attenzioni, non solo popolari: un personaggio che si stava imponendo nel pulviscolo di predicatori, profeti, taumaturghi che percorrevano senza sosta da un capo all’altro la Palestina del I secolo, contribuendo a rendere ansioso e febbrile l’anelito religioso della sua gente.

2. Pilato aveva deciso di farlo arrestare, quella sera. Tutto sarebbe dovuto avvenire con una rapida azione di sorpresa, una specie di colpo di mano notturno. E non possiamo escludere che proprio l’esecuzione della cattura fosse stata per lui una ragione in piú per fermarsi a Gerusalemme.

Come era arrivato a questa scelta?

Che il governatore fosse a conoscenza di quel che si stava preparando, è fuori questione. Lo svolgimento stesso degli eventi di quella notte ce ne rende certi, offrendocene (come vedremo) quasi una prova diretta. E anche se è bene diffidare sempre di ragionamenti che si concludono con il «non poteva non sapere» – di solito l’estremo rifugio di chi è senza altri argomenti – in questo caso bisogna concedere che fu proprio cosí: sarebbe stato impossibile per lui non essere informato.

Piú difficile, a prima vista, sembrerebbe invece valutare il diretto coinvolgimento di Pilato nell’operazione. È molto verosimile, per non dir certo, che l’idea, in origine non fosse stata sua. I Vangeli – che in questo punto essenziale riflettono evidentemente la loro fonte comune sulla Passione – l’attribuiscono senza incertezze all’aristocrazia sacerdotale giudaica, e ne contestualizzano la definitiva messa a punto negli ultimi giorni passati da Gesú a Gerusalemme: quando il suo comportamento e le sue parole erano sembrati in piú occasioni una sfida aperta alle autorità religiose della città. «I capi dei sacerdoti e gli scribi avevano udito [il riferimento è all’episodio dei venditori scacciati dal Tempio] e cercavano il modo di farlo morire; e infatti avevano timore di lui, perché la folla era ammirata per il suo insegnamento», scrive Marco10.

Ma è altrettanto sicuro che se Pilato avesse voluto impedire, o quanto meno rinviare, anche indefinitamente, il precipitare degli eventi, avrebbe avuto tutti i mezzi per farlo. Egli rappresentava il potere politico romano nella Giudea, una provincia dell’impero, e niente poteva accadere in quel territorio che fosse di rilevante importanza dal punto di vista del mantenimento dell’ordine, senza il suo consenso. Le autorità giudaiche godevano di un’ampia autonomia in tema di repressione penale in materia religiosa, ma la sicurezza della regione era un affare solo romano. E quell’arresto, dopotutto, non era certo un episodio trascurabile: si trattava di fermare un uomo diventato molto popolare, con un seguito difficilmente circoscrivibile. Quelle ultime giornate lo avevano confermato: dall’arrivo trionfale in città («tutta la città domandava: chi è costui?», cosí Matteo)11, all’asprezza di un confronto con le autorità ebraiche – culminato nell’episodio tramandato come la cacciata dei mercanti dal Tempio – che Gesú non aveva voluto mitigare («i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di eliminarlo, perché temevano il popolo», leggiamo ancora in Luca)12.

Dunque Pilato non solo era informato, ma condivideva la decisione, e stava anche facendo molto di piú.

Gesú sapeva quel che lo aspettava. L’intera sua vita era stata una lunga preparazione di quel momento – l’appassionata ricerca della strada sentita come l’unica che l’avrebbe ricondotto al Padre – l’arrivo della sua «glorificazione», come dice Giovanni13. È ben possibile che la memoria cristiana abbia retrospettivamente enfatizzato, per evidenti motivi teologici e scritturali, la potenza e la chiarezza della premonizione. Ma in ogni caso è ragionevole supporre che il Maestro, scegliendo di tornare per le festività a Gerusalemme, fosse consapevole di gettarsi in una trappola da cui non sarebbe uscito.

Tutta la cena era stata un alto e doloroso commiato: «Ecco, l’ora [...] è venuta, in cui […] mi lascerete solo»14, racconta Giovanni. Un congedo drammatico, appena rischiarato dalla promessa di un ricongiungimento futuro. È il motivo conduttore della Passione, che si ripete, sia pure secondo prospettive diverse, in ognuno dei Vangeli. Il disegno del Padre, riflesso nella mente di chi, pur ritenendosi suo Figlio, si sentiva fino in fondo uomo, non poteva che ridursi esso stesso nei confini dell’umano, e dunque velarsi d’incertezza e di dubbio: diventare emozione e mistero, incrinarsi di intermittenze, di angoscia, di smarrimento. Dei quattro, Luca è forse il piú attento a questa densità esistenziale di Gesú – del Gesú storico – al momento della prova.

È ormai notte alta: il Maestro esce dalla casa che lo aveva ospitato e, con i suoi commensali, raggiunge in breve un luogo che gli era familiare, un piccolo podere oltre la valle del Kedron, nei pressi del monte degli Ulivi: l’orto o il giardino di Getsemani – era infatti sua abitudine passare la notte fuori città. Si allontana poi di qualche passo dai suoi («un tiro di sasso», scrive Luca)15, che non hanno capito (o non hanno voluto capire), nonostante le parole appena ascoltate, la gravità del momento. Sono stanchi, distratti, incupiti. Dormono.

Gesú invece veglia e prega nel buio, schiacciato dallo «sgomento» e dall’«angoscia»16. Appena prima, aveva detto a Pietro, Giovanni e Giacomo, che aveva voluto piú vicini: «L’anima mia è triste da morire»17, mentre «il suo sudore divenne come gocce di sangue che cadevano a terra»18, scrive ancora Luca. Vorrebbe respingere da sé quel che sta per accadere: «Padre, se tu vuoi19, allontana da me questo calice», avrebbe chiesto. Quest’ultima frase è un’invenzione letteraria, probabilmente, anche se non sappiamo di chi. Gesú in quel momento era solo, e nessuno poteva averlo udito, ammesso che pregasse a voce alta; e nessuno poteva aver visto, nella notte, il tramutarsi del suo sudore – un fatto raro, sebbene fisiologicamente non impossibile in condizioni di stress particolarmente duro e prolungato – sempre che l’immagine di Luca non abbia solo un valore metaforico.

Ma in ogni caso la pena e l’affanno – la tensione estrema della sua condizione psicologica – erano stati evidenti già durante e dopo la cena, e gli eventi successivi ne avrebbero spiegato i motivi e fissato l’immagine nella prima memoria cristiana. Comprensibilmente, Marco, Matteo e soprattutto Luca proiettano questo stato mentale sugli ultimi istanti che Gesú aveva passato in libertà. Sotto il peso della catastrofe che avverte imminente, nel loro racconto l’umano e il divino si lacerano e si separano in lui: i due piani si sconnettono in un lago di sofferenza solo umana – dove tutto, confondendosi, vacilla – e sembrano non poter piú coincidere.

L’attesa non dura a lungo. Scatta l’agguato. Il giardino è circondato da uomini armati, muniti di torce. Non c’è piú scampo.

L’operazione era stata pianificata con una certa cura. Sia i Sinottici, sia Giovanni, come abbiamo visto, serbano piú di una traccia del costruirsi progressivo della macchinazione. Si sfruttano abilmente la notte e il luogo appartato per evitare sguardi indiscreti e possibili movimenti di popolo in difesa del ricercato: una preoccupazione costante dei sacerdoti.

A eseguire l’arresto, e dunque a farsi incontro a Gesú, sono uomini alle dipendenze del sinedrio, appoggiati da una squadra della cosiddetta «polizia del Tempio»: un’unità giudaica in servizio permanente con compiti di sorveglianza e repressione, generalmente all’interno e intorno al luogo di culto; forze comunque equipaggiate in modo piuttosto sommario (i Vangeli parlano anche di bastoni), e probabilmente anche male addestrate: il che spiegherebbe una certa concitazione al momento della cattura, nonostante ogni cosa fosse stata predisposta con attenzione.

Ma con loro, sebbene non in prima fila, e dunque non a diretto contatto con il ricercato, quella notte c’era anche un distaccamento di truppe romane.

I Sinottici non fanno cenno a questa presenza, molto discussa dagli storici20, che sono arrivati anche a negarla, o, per ragioni opposte e simmetriche, ad attribuirle un ruolo eccessivo. È Giovanni a riferirne con puntualità, e non c’è ragione per non prestargli fede, mentre possiamo spiegare il silenzio di Luca anche con il suo atteggiamento cautamente filoromano rispetto alla responsabilità del martirio; quanto alle versioni di Marco e di Matteo, esse appaiono su questo punto assai piú sommarie, pur se non possiamo escludere un’omissione voluta.

Gli effettivi imperiali sono consistenti, e il loro dislocamento rivela un’indubbia regia sull’intera operazione. Giovanni allude con precisione e proprietà lessicale a una coorte, al comando del suo tribuno: esattamente l’ammontare dell’intera guarnigione ordinaria di Gerusalemme. È probabilmente un’esagerazione (pur se la coincidenza è significativa, e accresce la credibilità del racconto), dovuta alla volontà di sottolineare il coinvolgimento romano. Molto piú verosimile pensare a uno spiegamento piú ridotto, forse un manipolo, sia pure agli ordini del tribuno in persona (specificamente ricordato da Giovanni). E non con il compito di eseguire materialmente l’arresto – circostanza che sembra da escludersi a causa della sequenza stessa degli eventi, nonostante una frase ambigua di Giovanni21, che stava però riepilogando i partecipanti all’azione, non indicando gli esecutori effettivi della cattura – bensí piuttosto di proteggere l’operazione, e di sorvegliare che non sorgessero problemi di ordine pubblico, dovuti alla popolarità di Gesú, forse prudentemente sopravvalutata. Dobbiamo pensare perciò a un dispositivo abbastanza complesso, sicuramente messo a punto da professionisti, e dunque dai Romani; a una manovra di tipo quasi militare: con le truppe imperiali schierate a bloccare gli accessi alla zona, secondo il protocollo di un assedio, e in avanti la polizia del Tempio, con il compito di assicurare il ricercato alle autorità.

Se la situazione sul terreno era questa – ed è una ricostruzione ragionevole, che mette ordine nella maniera piú sensata alle informazioni disponibili – essa ci fornisce un’evidenza ulteriore e decisiva di quanto Pilato fosse implicato nella vicenda. È impensabile che un significativo contingente di truppe, guidate dallo stesso ufficiale responsabile della piazza, si muovesse dalla fortezza Antonia per una delicata missione notturna senza un preciso ordine. Il prefetto dunque era a conoscenza del piano, ne aveva probabilmente discusso con il tribuno i risvolti piú strettamente militari (la tempistica, i luoghi) e aveva dato il via libera a un intervento di polizia congiunta, in cui elementi locali agivano con lo scudo di forze imperiali.

E non solo. Possiamo fondatamente supporre a questo punto qualcosa di piú. E cioè che l’intera operazione fosse stata concepita e poi realizzata sulla base di un accordo esplicito fra il prefetto e le autorità religiose giudaiche. Un’intesa, evidentemente sollecitata dai sacerdoti (impossibile pensare altrimenti), che rappresentava il culmine del loro disegno: coinvolgere i Romani nell’eliminazione di Gesú, usarli per farsi schermo di loro rispetto al popolo di cui, come abbiamo visto, temevano le reazioni.

Avranno perciò insistito con Pilato enfatizzando il pericolo che Gesú ormai costituiva per l’ordine pubblico nella provincia. Nella sua attività (questa doveva essere la tesi: l’anticipiamo sin d’ora), una predicazione religiosa scandalosa – che i vertici sacerdotali avrebbero dovuto comunque reprimere, anche da soli, e ne avevano la facoltà – era apertamente sconfinata nella sobillazione politica. La questione perciò non riguardava piú soltanto le autorità giudaiche, ma investiva anche quelle romane. La vicenda si era spostata ormai su un altro piano. Togliere di mezzo il mestatore era un primario interesse comune. Giocavano d’astuzia, per realizzare un piccolo capolavoro politico: servirsi dei Romani per raggiungere un risultato vantaggioso solo per loro. Non sarebbe stata una novità, del resto. Nella lunga partita che le autorità imperiali quotidianamente ingaggiavano con le aristocrazie provinciali, soprattutto in Oriente, c’era posto per molte di queste strategie.

È probabile che la risposta del prefetto fosse stata abbastanza cauta. Forse non aveva informazioni attendibili e di prima mano su Gesú, o forse non a sufficienza. Non si fidava piú di tanto dei sacerdoti, nonostante la lunga dimestichezza con il loro capo, e temeva un passo falso, se non addirittura una trappola. Ma esitava anche a opporre un rifiuto. Gesú poteva essere davvero pericoloso, e poi non voleva scontentare del tutto i suoi interlocutori. Si poteva procedere dunque per ora a un arresto giudaico, operato nell’ambito dell’autodeterminazione locale in materia religiosa – e anche di repressione di crimini religiosi – appoggiato tuttavia a distanza dalla presenza romana. Ma prima che il prefetto interrogasse – ed eventualmente condannasse – il presunto sovversivo, occorreva che il sinedrio si assumesse la responsabilità pubblica di un’accusa precisa, valida sul metro della giustizia imperiale: e dunque ritenesse Gesú responsabile non solo di un delitto religioso, ma di un attentato politico. Nell’attesa che questa responsabilità venisse proclamata, i Romani non avrebbero toccato il prigioniero.

La spiegazione è puramente congetturale, devo sottolinearlo. Ma ogni ricostruzione diversa non darebbe conto dello svolgimento dei fatti. Se l’idea dell’arresto fosse stata originariamente romana, come pure è stato sostenuto22, il prefetto ben poteva realizzarla da solo: non aveva certo bisogno di una presenza giudaica per giustificarla, e tantomeno della guardia del Tempio. E non sarebbe stato nemmeno pensabile che, una volta catturato, i soldati della coorte non avessero preso subito in consegna il prigioniero, per rinchiuderlo nella fortezza, a disposizione di Pilato. L’unico modo di spiegare la doppia partecipazione, romana e giudaica, all’operazione, con la cattura operata dalla sola guardia ebraica che poi avrebbe trattenuto con sé il prigioniero, è supporre un’originaria iniziativa dei sacerdoti, sostenuta dai Romani, che tuttavia restavano per il momento un passo indietro, in attesa che la situazione si chiarisse in modo definitivo.

Quanto all’idea estrema23 (anche questa prospettata) che la guardia giudaica fosse uscita – in armi! – nel tentativo di sottrarre (almeno per il momento) Gesú ai Romani, mi sembra assolutamente inverosimile, in quel contesto. Le truppe imperiali non avrebbero tollerato alcuna intromissione di uomini armati sul luogo di una loro operazione, e la presenza non (da loro) preventivamente autorizzata della guardia del Tempio sarebbe stata considerata alla stregua di un atto di sfida e di aperta rivolta, e come tale avrebbe provocato una reazione adeguata. Ogni opposizione sarebbe stata spazzata via in pochi attimi.

Non c’è dunque altra possibilità: l’arresto va considerato come un intervento giudaico, condotto però con il consenso attivo del prefetto. Si saldava cosí per il momento un precario intreccio fra decisione imperiale (nelle mani del governatore) e volontà delle aristocrazie religiose locali (rappresentate dal sommo sacerdote), sulla base, diciamo cosí, delle rispettive competenze – politiche e religiose – nel quale i confini fra le due componenti, romana e giudaica, diversissime per mentalità, cultura, obiettivi, e tutt’altro che fiduciose l’una nell’altra, non potevano che presentare margini ampi di incertezza, come si sarebbe visto ben presto.

Secondo la versione24 su questo punto unanime dei Vangeli, all’esecuzione del piano partecipò anche un apostolo traditore, che avrebbe condotto sul posto a colpo sicuro le forze romano-ebraiche, e avrebbe favorito l’identificazione del ricercato.

La figura di Giuda non ha riscontri sul piano storico. Eppure non c’è motivo di credere a un’invenzione, costruita magari per mettere ancor piú in risalto l’abbandono in cui si sarebbe trovato Gesú, con la doppiezza e l’inganno insinuatosi persino all’interno della cerchia piú ristretta dei suoi. Meglio pensare che il tema del tradimento del discepolo facesse parte della piú antica tradizione orale intorno alla morte del Maestro e poi della fonte comune utilizzata per il racconto della Passione, e per questo fosse presente in tutti i Vangeli. Che si trattasse, per dir cosí, di un elemento costitutivo del ‘realismo’ originario della narrazione, e come tale debba essere da noi considerato.

Appena dopo l’arrivo a Gerusalemme, il discepolo infedele si sarebbe dunque recato25in segreto dai sacerdoti: evidentemente vi pensava da tempo, e non gli erano sfuggiti né il loro atteggiamento ostile, né (probabilmente) le loro intenzioni. Si sarebbe offerto allora di consegnare il Maestro: un aiuto importante nell’esecuzione del piano; ed è plausibile che la delazione abbia accelerato ancor piú i tempi dell’arresto, facendo superare gli ultimi indugi.

Fino ad allora nessuno aveva dubitato dell’apostolo, e solo Gesú, durante la cena, aveva dimostrato di essere a conoscenza del suo gesto, esortandolo addirittura ad affrettarsi nell’opera del tradimento («quel che stai per fare, fallo al piú presto», cosí Giovanni)26: un dialogo che accresce – soprattutto nel racconto di Matteo – la fosca atmosfera del momento, accentuando la straziante e presaga solitudine di Gesú.

Le ragioni della condotta di Giuda appaiono tuttavia oscure: nessuno dei Vangeli vi spende nemmeno una parola. È difficilmente credibile si trattasse solo di denaro, anche se con il denaro Giuda doveva avere un’avida dimestichezza (gli era stata affidata la cassa comune, dalla quale peraltro rubava). La ricompensa che avrebbe ottenuto era modesta, probabilmente non piú della somma abitualmente pagata dalle autorità giudaiche per questo tipo di delazioni, ed è arduo immaginare che fosse stata sufficiente a spingerlo da sola verso un passo cosí estremo. Bisogna pensare ad altro: motivazioni piú complesse, che rimandano ai rapporti interni alla piccola comunità che circondava Gesú.

Resta comunque il fatto che, nella dinamica degli eventi di quella notte, la presenza di una spia non appare per niente fuori posto, come non lo risulta nella fase di preparazione romano-ebraica del piano: i delatori erano un elemento essenziale nella capillarità del controllo imperiale sul territorio, soprattutto nelle grandi città. È molto plausibile che prima di uscire in forze, i Romani volessero essere sicuri sui tempi e sugli itinerari, e che i sacerdoti autori della macchinazione avessero loro garantito di poter contare su informazioni fresche e attendibili – come quelle che solo Giuda era in grado di dare, dall’interno della cerchia piú vicina a Gesú – quasi in tempo reale.

Quando la guardia ebraica – che lo ha individuato forse ancora con l’aiuto di Giuda – gli muove incontro, Gesú appare ricomposto, del tutto padrone di sé; e resterà cosí, perfettamente in controllo, sino alla fine. Il cedimento durante la preghiera è superato, risolto nel pieno riconoscersi in ciò che avverte, di nuovo limpidamente, come la volontà del Padre. L’intermittenza si è richiusa, il piano umano e quello divino si sono ricongiunti ancora una volta nel sentire del Figlio.

Gesú, nel racconto di Giovanni27, affronta con pacata fierezza gli uomini che vengono verso di lui. Chiede loro chi cerchino, e quando quelli pronunciano il suo nome, non esita a identificarsi e a consegnarsi, domandando in cambio di lasciar liberi i suoi. I discepoli ormai sono svegli. Qualcuno abbozza una reazione. Una spada, forse di Pietro, ferisce una delle guardie («il servo del sommo sacerdote», scrive Giovanni)28. Gesú impone di smettere. Luca non spiega questa scelta29 (Marco non racconta nemmeno l’episodio). Invece, in Matteo e in Giovanni30troviamo due interpretazioni diverse, che possono tuttavia non escludersi. La prima è un ripudio della violenza («tutti quelli che prendono la spada, di spada periranno»), e non stupisce. La seconda, quella di Giovanni, è piú inattesa: «Rimetti la spada nel fodero. Non debbo io bere il calice che il Padre mi ha dato?», un riferimento evidente e lapidario all’ineluttabilità del suo destino umano. Gesú è certo di sapere che piú nulla potrà ormai sottrarlo alla morte. E soprattutto che nulla dovrà essere tentato in questo senso, da chiunque. Dobbiamo tenere a mente questo stato d’animo. Ci servirà piú avanti.

«Siete venuti a prendermi come un brigante, con spade e bastoni»31, dice quindi dolorosamente agli armati. Questi lo catturano. Probabilmente lo legano. Gli apostoli fuggono nell’oscurità. Nessuno li insegue. L’operazione prevedeva un solo arresto.

Possiamo supporre che Pilato vegliasse, nella sua residenza, in attesa di notizie. Sarebbe sorprendente il contrario: c’erano reparti romani impegnati sul campo, e proprio a Gerusalemme, in giorni rischiosi, di festa.

Le buone nuove saranno arrivate quasi subito: l’organizzazione romana, quanto a efficienza nel trasmettere informazioni, non perdeva un colpo. Tutto era andato secondo i piani. La sorpresa era riuscita e l’arresto eseguito senza intoppi: il prigioniero era nelle mani dei sacerdoti, come previsto dagli accordi.

La città, tutt’intorno, era quieta, immersa nel sonno. Nessuno si era mosso in difesa di Gesú. Le truppe rientravano nella fortezza. Per il prefetto di Giudea quella notte poteva considerarsi finita.

3. Secondo il piano dei sacerdoti, condiviso dai Romani, Gesú doveva essere allontanato subito dal luogo dell’arresto, e portato senza indugi, da quelli stessi che lo avevano catturato, in un posto sicuro, entro Gerusalemme e non lontano dalla residenza di Pilato. E cosí accadde.

La soluzione migliore32, come racconta Giovanni, sembrò la casa di Anna, figlio di Seth, l’autorevolissimo suocero del sommo sacerdote allora in carica, Caifa, e sommo sacerdote egli stesso a suo tempo, fra il 6 e il 15. Era stato nominato dal legato di Siria Publio Sulpicio Quirino. I governatori romani – di Siria o di Giudea – si erano arrogati questo importante potere, esercitato scegliendo all’interno dell’aristocrazia sadducea: il che avrebbe dovuto assicurare un certo grado di sottomessa collaborazione delle autorità giudaiche nei confronti di quelle imperiali. Anna era stato poi deposto da Valerio Grato, l’immediato predecessore di Ponzio Pilato nella prefettura di Giudea, arrivato a Cesarea proprio nel 15. Giuseppe33(che lo chiama Ananos) descrive il sacerdote come un uomo «felice», padre di cinque figli diventati tutti, a loro volta, sommi sacerdoti; un fatto mai accaduto, nota sempre Giuseppe: si trattava di una ricca e potente famiglia aristocratica, di antico e consolidato prestigio. La sua casa34 doveva trovarsi anch’essa nella parte sud-orientale della città, ed è possibile che fosse all’interno dello stesso palazzo che ospitava Caifa. Gesú, ormai prigioniero e sotto nutrita scorta (solo giudaica, possiamo supporre), avrebbe quindi compiuto press’a poco il percorso inverso rispetto a quello che lo aveva condotto poche ore prima a Getsemani.

Cosa poi accadde esattamente non è del tutto chiaro, e ha fatto discutere a lungo gli studiosi.

Molti di loro – e in particolare gli storici dei diritti antichi che si sono occupati del problema – sono caduti in quello che considero come un deformante e ostinato pregiudizio formalistico. Hanno ritenuto cioè che l’unica chiave per ricostruire gli avvenimenti fosse quella di inquadrarli nel paradigma del «processo a Gesú», prima ebraico, poi romano. Secondo questa interpretazione, sarebbe del tutto ragionevole ritenere che, dopo la cattura, Gesú avesse subito un regolare processo, o almeno qualcosa di molto simile a un regolare processo, innanzitutto da parte delle autorità religiose di Gerusalemme, e successivamente nel tribunale del prefetto romano: il primo sulla base della legge ebraica, il secondo nel rispetto del diritto romano. In questo senso, alcuni si sono spinti sino a ipotizzare l’esistenza di un procedimento unitario, distinto in due fasi, separate ma connesse: giudaica e romana. E in ogni caso, anche senza arrivare a tanto, si finiva comunque con il proiettare sulla realtà culturale e istituzionale giudaica – dove ogni funzione che indichiamo come ‘giuridica’ era in realtà integrata, senza alcuna autonomia, all’interno di dispositivi religiosi, e quel che chiamiamo ‘processo’ era in effetti una celebrazione teocratica – modelli che le erano del tutto estranei. Vale a dire quelli a noi familiari dalla storia del diritto romano, dove invece le procedure della repressione criminale – almeno per quanto riguardava i cittadini – avevano avuto, già a quell’epoca, una lunga elaborazione che possiamo ben definire come propriamente giuridica.

Si è dovuto perciò compiere ogni sforzo per piegare i racconti evangelici – sia dei Sinottici, sia di Giovanni – entro lo schema prestabilito del «processo», e quando i conti non tornavano (cioè quasi sempre), non si è esitato a far ricorso a ogni genere di espedienti – pressione sui testi, capziosità legalistiche, ragionamenti privi di ogni verosimiglianza storica – pur di far emergere intorno a Gesú le forme e i contenuti di un’attività definibile (secondo i nostri parametri) come strettamente giudiziaria.

Credo invece che le narrazioni di cui disponiamo ci orientino in una direzione molto diversa. Sarebbe interessante vedere quando e in quale preciso ambiente culturale sia nato il mito del «processo» a Gesú – una categoria che troviamo già perfettamente formata nel XVII secolo35. Mi sembra comunque fondato pensare a una forte influenza della cultura giuridica medievale, fra teologia e diritto canonico, che rielaborava a sua volta spunti propri già al legalismo tardoantico, tesa a stringere il destino terreno di Gesú nel campo magnetico di una giuridicità umana minuziosa e implacabile nel suo perseguimento dell’ingiustizia. Insomma, una specie di estremo summum ius, summa iniuria. Ma questo sarebbe un altro discorso, che qui non possiamo sviluppare.

Lasciamo per adesso da parte quel che accadde la mattina dopo innanzi a Pilato: ne diremo piú tardi. Fermiamoci a considerare gli eventi delle prime ore dopo la cattura.

Gesú arriva nella casa di Anna non prima di mezzanotte, forse anche dopo. Di sicuro era atteso: sia da Anna, sia dal genero, Caifa, il sommo sacerdote in carica, nominato dallo stesso Valerio Grato nel 18 o nel 19, ricordato anch’egli da Flavio Giuseppe36, e di cui è probabile sia stata di recente ritrovata la tomba, in un antico cimitero nella parte meridionale di Gerusalemme. Il suo vero nome era Giuseppe: Caifa era solo un soprannome, come usava spesso. La sua provenienza era anch’essa di solida aristocrazia sadducea; era nato negli anni di Erode – non sappiamo quando esattamente – e aveva sposato una figlia di Anna, di cui non conosciamo il nome: una strategia matrimoniale che ne favorí certamente la carriera, legandolo a una famiglia ancora piú importante, da tempo ai vertici della comunità. La sua permanenza nella carica fu insolitamente lunga: fino al 36, quando fu rimosso dal legato di Siria Vitellio (vi ritorneremo piú avanti). È impossibile pensare che Pilato ne abbia accettato la presenza durante tutto il suo mandato senza supporre un regolare rapporto di collaborazione, pur nei limiti che le diversità culturali rendevano inevitabili. È ragionevole credere che fossero stati proprio i due sacerdoti a discutere con Pilato il piano per arrestare Gesú, se era stato Caifa stesso a dire, come ricorda Giovanni37, «conviene che uno solo muoia per [la salvezza di] tutto il popolo». Ritorneremo su questa frase.

Caifa aveva provveduto, in previsione della cattura imminente, a chiamare d’urgenza presso di sé i componenti del sinedrio: un consiglio di settantuno notabili, farisei e sadducei – sacerdoti, scribi, anziani, secondo la descrizione di Giuseppe38, che conferma i Vangeli – di evidente impronta teocratica, con compiti molto vari, inclusi quelli di un tribunale, ma pur sempre nei limiti dell’autonomia amministrativa concessa dai Romani.

In realtà le funzioni di questa assemblea sono assai incerte per gli anni che ci riguardano, mentre c’è perfino chi dubita – ma non credo si debba arrivare a tanto – della stessa sopravvivenza formale di un simile organismo dopo la riduzione della Giudea allo stato di provincia imperiale. E in ogni caso una convocazione notturna, o al piú alle primissime luci dell’alba, e per giunta in casa di Caifa e nel giorno che precedeva la Pasqua, è assai difficile potesse avere comunque il carattere di una seduta ufficiale, per svolgere qualcosa di simile a quel che noi definiamo un processo, nel rispetto anche solo sommario della legge ebraica. Se di questo si fosse trattato, le prescrizioni religiose sarebbero state clamorosamente violate per aspetti essenziali: perché la riunione era indetta al di fuori dello spazio del Tempio; per la non considerazione sia dell’ora notturna, sia del carattere particolare di quel giorno di preparazione alla festa; per la mancanza dei rituali previsti per le prove testimoniali.

Ma il fatto è che, come abbiamo visto, a un «processo», o a qualcosa di simile, non accenna alcuno dei Vangeli. Nel resoconto di Giovanni39 (che molti studiosi peraltro hanno sostenuto riveli qualche disordine testuale su questo punto), manca addirittura ogni riferimento alla riunione. In Luca, si descrive un interrogatorio a Gesú40 condotto all’alba dai sacerdoti, concluso con la constatazione della sua evidente colpevolezza. In Matteo si presenta un interrogatorio41 abbastanza caotico, che comprende l’ascolto di testimoni disposti a parlare contro Gesú. E anche la versione isolata di Marco42, che di solito si adduce come prova dell’esistenza di una «sentenza», direbbe questo solo forzando il testo, che basta leggere con occhi sgombri da pregiudizi per rendersi conto di come non provi nulla (senza nemmeno la necessità di supporre in questo punto una falsificazione del dettato originario).

Non c’è che da ammetterlo: in nessuna delle nostre fonti si accenna a una condanna formale, ma solo a un’accusa generalmente condivisa dai presenti, e al formarsi di una larga convinzione di colpevolezza, indotta anche (e forse soprattutto) dal comportamento stesso di Gesú.

Sarebbe difficile definire tutto questo un «processo», al di là dell’ulteriore problema – peraltro non di poco rilievo – della nostra scarsità di informazioni sulle reali modalità di esercizio della repressione criminale in materia religiosa secondo l’ordinamento ebraico negli anni di Gesú. Tutto lascia piuttosto pensare alla concitata seduta di un’assemblea di notabili svolta in uno stato d’eccezione, in una casa privata, per quanto prestigiosa, fra la tarda notte e l’alba, per assolvere in tempi rapidi un adempimento – la formulazione di un atto d’accusa – inderogabilmente sollecitato dal potere romano come condizione indispensabile per intervenire, e a cui non era possibile opporre alcun rifiuto.

Possiamo a questo punto prospettare una ricostruzione plausibile, che non interpone i nostri preconcetti fra i testi e la loro lettura.

Una volta arrivato nella residenza di Anna, di sicuro il primo incontro di Gesú sarà stato con lo stesso padrone di casa. È probabile che prima – durante il tragitto e poi nell’attesa del sacerdote – avesse già subito maltrattamenti: viene bendato (secondo il racconto di Luca) e poi insulti, dileggi, percosse da parte delle guardie e dei servi, che bivaccavano nel cortile e tutt’intorno alla casa, forse anche per ragioni di sicurezza; avevano acceso un fuoco, la notte era fredda. Pietro, che aveva seguito a distanza Gesú con un altro dei discepoli, raggiunge questi uomini e si ferma con loro: sarà l’occasione per rinnegare tre volte il Maestro, con cui dichiara ripetutamente di non avere alcun legame.

Certamente il clima intorno al prigioniero era pesante. Con l’arresto e la fuga dei suoi, il carisma che sino a quel momento aveva avvolto e protetto Gesú, assicurandone l’inviolabilità, pare essersi dissolto, almeno per quelli che avevano preso parte – o assistito – alla spedizione notturna. La cattura aveva spezzato l’incanto. In modo irreversibile, per quella notte. Pietro deve aver percepito con particolare acutezza la rapidità inattesa del mutamento. Il suo triplice sottrarsi segna con un indimenticabile e ripetuto stacco drammatico il tempo dell’intera sequenza. L’insegnamento del Maestro sembra concludersi nella piú completa delle catastrofi. D’ora in poi egli sarà solo, e in totale balia – innanzitutto fisica – dei suoi persecutori.

Di un interrogatorio da parte di Anna racconta solo Giovanni43, che poi però non parla di una riunione del sinedrio. Per i Sinottici, invece, Caifa introduce direttamente Gesú di fronte all’assemblea, e non c’è traccia di un interrogatorio preliminare, né suo, né di Anna.

Credo che le due versioni non debbano reciprocamente escludersi, ma integrarsi. Anzitutto bisogna dire che il solo interrogatorio di Anna, senza un successivo passaggio innanzi all’assemblea (la versione di Giovanni), non regge. Sarebbe stato inutile portare Gesú unicamente davanti al suocero del sommo sacerdote, per quanto potente e influente. E per che fare? Pilato doveva per forza aver domandato qualcosa di ben diverso: un’accusa formulata in modo collettivo, non una congiura. Tutta la dinamica di quella notte, e i suoi precedenti, non possono che avere come unica conclusione logicamente accettabile la necessità di tradurre Gesú – prima di consegnarlo ai Romani – di fronte al corpo di un’assemblea che fosse in grado (per occhi romani) di rappresentare il sentire religioso dell’intera comunità. Anna, da solo, non poteva bastare.

E d’altra parte è anche molto verosimile credere che, prima di questo incontro decisivo, Anna, e forse anche lo stesso Caifa, abbiano voluto avere un immediato e piú riservato contatto con il prigioniero, per verificarne le reazioni e sondarne lo stato d’animo. C’era da decidere come comportarsi subito dopo, una volta riunita l’assemblea, e quelle informazioni, ottenute per cosí dire di prima mano, potevano risultare indispensabili. Senza aggiungere, poi, che sarà di sicuro passato del tempo – forse ore – fra l’arrivo di Gesú prigioniero e la presenza nel palazzo di Caifa di un numero sufficiente di partecipanti all’assemblea, che saranno stati convocati senza un ampio preavviso (anche per proteggere la segretezza dell’operazione), e si saranno presentati alla spicciolata, potendo ancora contare sul favore della notte.

Anna interroga dunque Gesú, forse già in presenza di Caifa: con una certa veemenza, possiamo supporre. Non sono soli. Ci sono guardie, e probabilmente anche chi trascrive. Gli chiedono – secondo Giovanni – dei suoi discepoli e del suo insegnamento. Non è un processo, e nessuno lo descrive come tale; eppure a noi lo ricorda in qualche modo; e quell’avvio ha un che di dolorosamente familiare, per quanto completamente fuori contesto: richiama, con un’associazione quasi irresistibile, il funzionamento di un tribunale della coscienza, l’esordio di una procedura dell’Inquisizione, nell’Europa fra Medioevo e prima età moderna.

Gesú risponde in modo memorabile44, con coraggio e abilità: «Io ho parlato apertamente al mondo; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel Tempio, dove si riuniscono insieme tutti i giudei, e non ho detto mai nulla in segreto. E dunque perché mi interroghi? Domanda a coloro che hanno ascoltato […]; loro sanno ciò che ho detto». Nella replica la situazione si rovescia rispetto all’accusa: le ragioni dell’inchiesta notturna e nascosta vengono meno di colpo. Non c’è nulla da inquisire. La luce della parola predicata contro il buio della macchinazione segreta. L’enormità dell’arresto non può essere piú mascherata. Il mondo intero è chiamato come testimone, e quella presenza appena evocata basta a rischiarare e abbattere ogni improvvisata prigione. L’insegnamento di Gesú è sempre stato rivolto all’intera comunità e, attraverso di essa, a ogni donna e a ogni uomo della terra. Tutti lo hanno udito, nelle sinagoghe e nel Tempio. Non c’è bisogno di nessuna inchiesta e di nessun ulteriore accertamento sulla sua dottrina. L’universalità dell’insegnamento di Gesú capovolge i rapporti di forza, e riporta l’interrogato, libero, al centro della scena.

L’inquisitore è spiazzato. Tace, probabilmente. Non si aspettava questa forza. L’interrogatorio si interrompe.

Si innesta, al suo posto, la violenza: una delle guardie presenti colpisce il prigioniero: «Cosí rispondi al sommo sacerdote?», dice45.

Gesú a questo punto smette di seguire Anna. Si rivolge invece direttamente a chi ha alzato la mano contro di lui: «Se ho parlato male, mostrami dov’è il male; se ho parlato bene, perché mi colpisci?»46 Non gli interessa piú il dialogo con i vertici del sinedrio, una volta svelata l’impostura dell’inchiesta. Adesso è l’arbitrarietà della sopraffazione fisica che sente il bisogno di denunciare: quando essa cerca di sostituirsi agli argomenti, e prova a riempire quel vuoto con l’umiliazione e l’annientamento di chi non si riesce in altro modo a ridurre al silenzio.

Giovanni non aggiunge piú nulla. Evidentemente l’interrogatorio è stato meno breve del tempo di queste due repliche, e forse le percosse e le intimidazioni molte di piú. Ma il piano narrativo che viene proposto non è il verbale di una seduta, e nemmeno il suo riassunto. È tutto concentrato intorno a un solo tema: rendere evidente la capacità di Gesú, attraverso il suo comportamento e le sue risposte, di svelare, passo dopo passo, il carattere mistificatorio del dispositivo che lo sta stritolando, la pretestuosità dell’inchiesta e l’arbitrarietà irragionevole della violenza.

Questa scelta, mi pare, spiega anche perché Giovanni abbia sorvolato sulla successiva riunione del sinedrio, anche se probabilmente ne aveva trovato traccia nella sua fonte. Secondo la prospettiva adottata nel suo racconto, quel che andava ricordato di quella notte – vale a dire il tentativo di costruire un’incriminazione, e la pacata forza di Gesú nel sovvertire, in circostanze drammatiche, le accuse che gli venivano mosse dalle autorità giudaiche – era stato già detto. Dopo l’interrogatorio di Anna non fu pronunciata alcuna «sentenza» che dovesse necessariamente andar riferita, né era stato compiuto alcun rituale che non si potesse tacere. E tantomeno, per quel modo di raccontare, c’era un obbligo di completezza da rispettare. Si poteva dunque passare oltre, e andare direttamente verso il culmine della vicenda. Certo, in questo modo l’intero impianto della narrazione finiva con l’essere compromesso da un punto di vista strettamente storico, poiché (come abbiamo già notato) la traduzione di Gesú nelle case di Anna e di Caifa non si giustificava omettendo il passaggio davanti all’assemblea. Ma queste non erano preoccupazioni che riguardassero chi aveva composto quella versione. A lui – come del resto ai lettori cui pensava di rivolgersi – era altro che la coerenza storica a stare a cuore.

Lasciamo adesso Giovanni, e seguiamo la ricostruzione dei Sinottici, che presenta un impianto narrativo comune, sia pure con alcune divergenze.

Doveva mancare poco all’alba quando Gesú venne portato nel palazzo di Caifa (che forse, come abbiamo detto, era un’ala dello stesso edificio dove abitava Anna).

Qui c’era, ormai raccolta, una parte rilevante, probabilmente la maggioranza, dei componenti del sinedrio, sotto la guida del sommo sacerdote in carica. Sapevano bene chi stavano per trovarsi di fronte. Nelle settimane precedenti si erano già riuniti per decidere cosa fare di Gesú: dell’incontro vi è una traccia precisa in tutti e quattro i Vangeli – risalente alla loro fonte comune sulla Passione – e fu in quella circostanza, secondo quanto racconta Giovanni, che Caifa avrebbe detto (lo abbiamo appena ricordato) come convenisse la morte di uno solo, pur di non far perire l’intero popolo.

È una dichiarazione per noi molto importante, perché ci rivela la linea tenuta dal sommo sacerdote, e fatta propria dal sinedrio: lo slittamento della colpa di Gesú dal piano religioso a quello politico, per coinvolgere Pilato. Nelle sue parole quella predicazione rappresentava ormai una minaccia per tutte le genti d’Israele; il suo contenuto sovversivo avrebbe spinto irresponsabilmente la comunità contro i Romani, provocando da parte dei conquistatori una repressione disastrosa. Ed era perciò una strategia che già conteneva l’indicazione con cui presentarsi al governatore romano: Gesú è un pericoloso fomentatore di disordini; non costituisce piú solo un problema religioso, ma politico. Va fermato al piú presto, prima che produca danni maggiori.

Gesú venne dunque introdotto innanzi all’assemblea e interrogato di nuovo. La riunione non durò a lungo. La decisione era stata già presa. Ma la macchinazione non poteva che concludersi dove era iniziata.

Abbiamo due versioni di questo epilogo: quella di Luca e quella di Marco (da cui quasi certamente deriva Matteo).

Il racconto di Luca47 ruota intorno a due domande che gli astanti avrebbero rivolto al prigioniero, istruiti probabilmente da Caifa, che lo aveva già inquisito. Prima: dicci chi sei. Poi ancora, alla replica allusiva ma non inequivocabile del prigioniero – «Se ve lo dico, non mi crederete; se vi interrogo, non mi risponderete. Ma d’ora in poi il Figlio dell’uomo sarà seduto alla destra della potenza di Dio», ek dexion tes dynameos tou Theou – insistono ancora: «Tu dunque sei il figlio di Dio?» E qui Gesú ribatte: «Voi lo dite che io lo sono», hymeis legete oti ego eimi.

La rottura è completa. Tutte le possibili mediazioni da parte dell’assemblea – ammesso che ve ne fosse ancora il tempo – sono bruciate. Una distanza incolmabile si produce d’improvviso fra gli uomini del sinedrio e chi sta loro di fronte. Un autentico abisso, che rende inimmaginabile continuare l’inquisizione. E infatti i notabili replicano solo: «Che bisogno abbiamo ancora di testimonianza? Noi stessi l’abbiamo udito dalla sua bocca»48. Luca non aveva accennato alla ricerca di testimoni da parte del sinedrio. Lo fa solo ora, con una ellissi molto efficace, per constatarne l’inutilità dal punto di vista dell’assemblea, preso atto delle parole di Gesú. L’inchiesta è finita. Non c’è nessuna pronuncia formale. Ma i presenti sono convinti che un uomo cosí non possa piú rimanere né libero né vivo. La congiura è uscita allo scoperto, ed è diventata un pronunciamento nel nome d’Israele. L’assemblea si alza. È ormai mattina. Il prigioniero, sempre in catene, è condotto da Pilato.

La scena descritta da Marco, molto piú mossa, è invece centrata sull’ascolto da parte dell’assemblea di un certo numero di testimoni, per poter formulare un’accusa contro Gesú: il riferimento lucano cui abbiamo appena accennato trova qui la sua spiegazione. Chi erano queste persone? Uomini convocati anch’essi durante la notte, e tenuti in attesa aspettando Gesú? Potrebbe essere andata cosí, astrattamente. Ma quanti erano? Marco dice: «Molti», polloi49. Possibile che ne avessero chiamati cosí tanti? È difficile crederlo. E in questo caso, come erano stati scelti? Forse erano stati già sentiti per controllare la loro versione? E da chi? Ma ammesso pure che le cose fossero andate cosí, ci sarebbe stato da aspettarsi testimonianze in qualche modo manipolate – selezionate e ascoltate in precedenza – e dunque pronte alla bisogna. Invece non fu cosí. I testimoni non risultarono concordi, e non poterono essere presi in considerazione. E allora?

Mi chiedo se non si debba pensare a qualcosa di diverso, per superare queste non lievi incongruenze.

E cioè, semplicemente, che le voci che si levarono contro Gesú, come leggiamo in Marco, non fossero – o almeno non fossero tutte – di testimoni esterni all’assemblea, ma (anche) di membri dello stesso sinedrio, i quali, con una certa confusione, assolutamente spiegabile data l’ora e l’inevitabile concitazione, si fossero alzati a parlare accusando variamente il prigioniero di crimini religiosi.

Probabilmente un incrociarsi di dichiarazioni contro Gesú da parte di presenti sia interni sia (pochi) esterni al sinedrio resta alla fine l’ipotesi piú plausibile. Cosí si spiegherebbe anche una frase di Matteo («da ultimo se ne presentarono due»)50, che sembra riferirsi esplicitamente alla presenza di testimoni (almeno un paio) estranei all’assemblea: ed è in effetti ben possibile che qualcuno – ma non i «molti» di Marco – fosse stato in effetti convocato. Anche se si può credere che qui Matteo abbia solo frainteso il testo di Marco (o quello della sua fonte), da cui di sicuro dipendeva, e lo abbia interpretato nel senso di dar corpo a una presenza di testimoni in realtà inesistente.

Senza dubbio questa lettura non sarebbe proponibile se il sinedrio si fosse riunito come un tribunale, per celebrare quello che noi chiameremmo un regolare processo. Ma, lo ripeto, nulla di quel che sappiamo va in questa direzione, e dobbiamo considerare il garbuglio che è emerso solo come un altro segno delle difficoltà che incontriamo nel sovrapporre agli eventi di quella notte lo schema del «processo a Gesú». Non resta che riconoscerlo: non fu un procedimento giudiziario quel che si tenne in quelle ore convulse, ma la riunione d’emergenza di un organismo teocratico, preceduta da una sommaria inquisizione da parte di un alto sacerdote, con lo scopo di trasformare una congiura appena consumata in un atto d’accusa politico-religioso accoglibile da Pilato, proposto legittimamente nel nome d’Israele.

Sta di fatto che le testimonianze, da chiunque portate, non approdarono a nulla. Gesú non risponde: e forse questo silenzio sarebbe piú plausibile se quelle accuse fossero state avanzate dallo stesso sinedrio, cui il prigioniero non aveva piú nulla da dire, che se fossero venute da voci nuove, cui forse egli avrebbe sentito l’esigenza di replicare.

Si rischiava lo stallo. Ed è allora che Caifa riprende in pugno la situazione. Interroga di nuovo Gesú; e lo fa a colpo sicuro, ponendogli, in modo (forse) ancor piú solenne, la stessa decisiva domanda che Anna gli aveva posto poco prima, nell’interrogatorio segreto (e che abbiamo già letto in Giovanni e in Luca): «Ti scongiuro per il Dio vivente di dirci se tu sei il Cristo, il figlio di Dio»51. E Gesú non lo delude, ribadendo, con eguale enfasi: «Tu lo hai detto. Anzi vi dico: ormai vedrete il Figlio dell’uomo sedere alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo». Non sappiamo cosa Anna avesse replicato, nel primo interrogatorio. Ma ora, di fronte all’assemblea riunita, Caifa interpreta sino in fondo la sua parte. Forse è davvero inorridito dalla blasfemia della risposta. Si straccia le vesti – questo era un gesto rituale – per sottolineare l’enormità che era stata appena pronunciata, e suggerisce l’epilogo. «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Voi avete udito la bestemmia. Che ve ne pare?»

La conclusione è scontata. Tutti i presenti ritengono Gesú condannabile a morte. Cominciano a coprirlo di insulti, gli sputano; lo percuotono, insieme alle guardie.

Pilato lo stava già aspettando. Sarà stato avvertito degli eventi della notte, e che i giudei si preparavano a trasferire il prigioniero. Per il governatore era arrivato il momento di conoscere l’uomo che aveva impaurito l’intero sinedrio di Gerusalemme. Forse era incuriosito. Di certo sapeva che doveva essere prudente. Per la fantasia geniale di Bulgakov52 si era svegliato con un gran mal di testa.

1. Pilato si trovava in Giudea dal 261. Vi sarà arrivato per mare, se la stagione lo permetteva, com’era consuetudine per gli uomini del suo rango, e sarà sbarcato a Cesarea, nel porto artificiale dedicato ad Augusto – «della grandezza del Pireo», scrive Giuseppe – fatto costruire da Erode il Grande, che aveva rifondato la città sul sito di un vecchio insediamento fenicio, noto come Torre di Stratone. L’ambizioso sovrano le aveva dato anche il nuovo nome, sempre in onore di Augusto, e l’aveva arricchita di monumenti sfarzosi, con un’evidente impronta ellenistico-romana, di cui restano ancora alcune tracce.

Da dove Pilato venisse, non sappiamo. La sua vita prima dell’incarico in Giudea è per noi cancellata: informazione perduta. Nemmeno il prenome conosciamo, anche se, come vedremo, forse si chiamava Lucio, o Tito. Siamo portati a supporre un’origine italica, come per la maggior parte dei funzionari della sua posizione, ancora in quegli anni. È possibile, come è stato ipotizzato, che la sua famiglia fosse di origini sannite2. Un Ponzio Telesino, sannita, che aveva già partecipato alla guerra sociale, aveva comandato i contingenti italici che sostenevano i seguaci di Mario nella battaglia di Porta Collina, nel novembre dell’82 a. C., trovandovi la morte; e prima, un altro Gavio Ponzio Telesino, nel 321 a. C., avrebbe guidato l’esercito sannita che aveva disfatto i Romani nello scontro delle Forche Caudine, se dobbiamo credere alla tradizione annalistica raccolta da Livio. Epigrafi risalenti all’epoca repubblicana3 testimoniano l’esistenza di Pontii fra la Campania e il Lazio, con ruoli minori nella politica locale; ma nulla ci autorizza a immaginare qualcuna di queste figure come un antenato del governatore.

Possiamo dire con certezza solo che apparteneva all’ordine equestre: nell’organizzazione dell’epoca, la provincia di Giudea era amministrata infatti sempre da cavalieri.

Per un suo remoto carattere – peraltro comune nell’antichità – la società romana era piú una società di ordini e di status che di classi: patrizi e plebei; liberi, schiavi e liberti; cavalieri e senatori; peregrini, latini e romani, e cosí via. Naturalmente, anche le differenze di condizione economica avevano un grande peso, ma non erano il punto di riferimento esclusivo, né determinavano da sole collocazioni e gerarchie. Prima, contavano altre appartenenze, stabilite dalle tradizioni e dalla nascita.

Alla sommità del sistema sociale imperiale ritroviamo cosí due ordini le cui origini risalgono al cuore dell’età repubblicana: quello equestre e quello senatorio, che costituiva la nobiltà in senso stretto. Un’analogia un po’ sommaria, per quanto fortunata, vorrebbe riconoscere nel primo una specie di «borghesia» di speculatori, commercianti e affaristi, mentre identificherebbe nel secondo i tratti di una vera e propria aristocrazia della terra e del lignaggio; ma si tratta di assimilazioni che vanno accolte con prudenza. Sta comunque di fatto che i due gruppi si erano contrastati a lungo, e l’asprezza dello scontro aveva contribuito non poco a disgregare le istituzioni repubblicane. Uno dei primi obiettivi di Augusto fu perciò di ristabilire fra loro una certa armonia (concordia ordinumgià nel lessico costituzionale di Cicerone)4, in grado di riportare la pace politica e sociale nei ceti dirigenti, o quanto meno di regolarne la competitività. Con il compromesso che ne era scaturito, la nobiltà perdeva una parte dei suoi privilegi, ma riacquistava in cambio tranquillità e sicurezza.

Un punto essenziale nella ricerca di questo nuovo equilibrio fu l’individuazione di una carriera pubblica riservata appunto ai cavalieri, che affiancasse quella tradizionale, destinata all’ordine senatorio: entrambe consentivano di raggiungere posizioni di altissima responsabilità. I gradi di questi percorsi – e soprattutto di quello equestre – si vennero definendo solo nel corso del tempo, grazie al peso dei precedenti: ed è non prima dell’età adrianea, in pieno II secolo, che la progressione prevista per i cavalieri si fissò in una forma stabile e articolata. Nei decenni iniziali del secolo, quest’ultima era ancora caratterizzata da una certa fluidità, in cui molto era deciso volta per volta, in base alle circostanze del momento: e spesso il rango di una posizione dipendeva piú dalla persona che la ricopriva, che dal livello del posto in sé.

La carriera del cavaliere Ponzio Pilato si svolse per intero all’interno di questo quadro ancora non ben definito, ma comunque di ritrovata unità nel governo dell’impero.

Negli stessi anni, Augusto si era dedicato anche a un altro compito essenziale: aveva riorganizzato l’amministrazione delle province5, sviluppatasi fino ad allora in modo frammentario e improvvisato, sotto l’incalzare vorticoso delle conquiste. Questo lavoro sarebbe poi continuato molto a lungo, ben oltre il principato augusteo. Vi avrebbero partecipato con notevole impegno sia la cancelleria imperiale sia i giuristi fra I e IIsecolo, e lo sforzo si sarebbe protratto fino all’età severiana. Il risultato fu la costruzione di un ordine amministrativo, per l’Italia e per le province, dettagliato e rigoroso, sotto il segno di una cultura giuridica la cui elaborazione formale – sebbene in origine pensata solo per il diritto privato – si rivelava sempre di piú come uno strumento di straordinaria potenza ed efficacia per gestire poteri, popoli e territori. Ma al tempo di Tiberio questa impresa – che potremmo definire di giuridicizzazione del quadro politico e istituzionale dell’impero – era solo agli inizi, e bisogna stare attenti a non proiettare sulla realtà di quell’epoca esiti ed equilibri che si sarebbero raggiunti solo molto piú tardi.

Un punto fermo subito introdotto fu comunque la distinzione fra province imperiali e senatorie («Augusto divise l’intero territorio [dell’impero] in due parti, e una l’assegnò a se stesso, l’altra al popolo», nell’efficace descrizione di Strabone6, un geografo ed etnografo del I secolo). Per queste ultime, il governatore era indicato dal senato all’interno del proprio ordine, fra ex consoli o ex pretori. Per le prime (quasi sempre quelle dove vi era una maggiore concentrazione di grandi unità militari), la nomina veniva fatta invece direttamente dall’imperatore, come espressione di un rapporto del tutto peculiare – progressivamente definito nella prassi amministrativa e nella riflessione giuridica – con le «sue» province. In questi casi la scelta dell’imperatore poteva cadere ancora su uomini di rango senatorio (cosí per la Siria), oppure, per alcune province che ebbero sin dall’inizio uno spiccato carattere di domini personali del principe, come la Giudea – poiché già appartenenti a sovrani vassalli, dei quali l’imperatore appariva direttamente come l’immediato successore – su esponenti dell’ordine equestre.

Dei dodici governatori di rango equestre che si successero a Cesarea durante l’età giulio-claudia, Pilato era il quinto: prima di lui c’erano stati Coponio, dal 6 al 9; Ambibulo, fra il 9 e il 12 (circa), Annio Rufo, dal 12 al 15, Valerio Grato fra il 15 e il 26, come riporta diligentemente Flavio Giuseppe7.

Di nessuno di loro possiamo purtroppo ricostruire funzioni e compiti precedenti, prima dell’incarico in provincia: nemmeno in questo modo indiretto riusciamo a squarciare il buio che circonda la vicenda di Pilato. Sappiamo però che gli esordi di una carriera equestre erano ancora in questa età quasi sempre militari: e non c’è ragione di dubitare che ciò sia accaduto anche per il nostro governatore, forse prefetto d’ala (e prima, in questo caso, prefetto di coorte o tribuno militare) in qualche legione stanziata fuori d’Italia. Questo non faceva di lui, necessariamente, un uomo d’armi in senso professionale – non è escluso che abbia coltivato altre vocazioni e talenti – ma di sicuro gli dava una certa esperienza di cose militari.

E allora: sarebbe possibile congetturare che, nell’adempimento dei suoi doveri, egli avesse conosciuto personalmente Tiberio, o almeno fosse entrato in contatto con la cerchia piú stretta dei suoi collaboratori sul campo – del suo stato maggiore – e fosse stato da loro segnalato al futuro principe? Non abbiamo purtroppo nessuna prova conclusiva in questo senso. Tiberio, succeduto ad Augusto nel 14, era stato certo un ottimo comandante militare, intuitivo e prudente, con indubbie capacità di visione strategica e di conduzione tattica. Ma le sue fortunate imprese – in Armenia, in Germania, in Illiria – coincidono solo marginalmente (perché troppo anteriori) con le date di un probabile impegno militare di Pilato. Le campagne del futuro principe, infatti, si concentrano fra il 25 e il 6 a. C. e fra il 4 e il 12. Dovremmo pensare che nel corso di queste ultime – per esempio in Germania fra il 9 e il 12 – egli abbia notato un Pilato giovane ufficiale in una delle sue legioni, e che questa conoscenza abbia pesato piú tardi, dopo l’ascesa al principato, e abbia portato – forse in seguito al buon esito di una ulteriore prova in un incarico meno esposto – al comando in Giudea. È ipotetico, ma non implausibile. In questo caso, Pilato avrebbe avuto circa quarant’anni al momento del suo arrivo a Cesarea.

D’altra parte, un rapporto dovette pure in qualche modo stabilirsi, se non con Tiberio in persona, almeno con qualcuno a lui molto vicino: non si otteneva la conduzione di una provincia, e non la si manteneva tanto a lungo (dieci anni: una durata non consueta, eguagliata in quell’incarico solo dal predecessore Grato, anche lui nominato da Tiberio appena diventato principe), senza un legame solido e diretto con i vertici imperiali.

Se questo è vero, è però forse proponibile anche una ricostruzione diversa. Quando Pilato ottenne la prefettura di Giudea, il principato di Tiberio era a una svolta cruciale. Dodici anni dopo l’investitura, l’imperatore lasciava Roma accompagnato solo da un piccolo gruppo di amici, per stabilirsi poco piú tardi e per sempre a Capri, scoperta tempo prima grazie ad Augusto, e mai piú uscita dal suo cuore. Il principe aveva un carattere riservato e difficile, ed era molto attratto dall’isolamento e dall’ombra: già una volta, nel pieno della maturità (almeno secondo l’idea romana della vita: a trentasei anni), aveva abbandonato Roma, per segregarsi ben otto anni a Rodi, un’altra piccola isola da lui molto amata. Era stato duramente segnato da rapporti tempestosi e contorti con Augusto, e piú tardi dalla morte drammatica e prematura di suo figlio Druso, avvelenato nel 23, sembra con la complicità della moglie Livia Drusilla: i Giulio-Claudii erano davvero una famiglia maledetta, travolti fino all’autoannientamento dallo sconfinato potere finito nelle loro mani.

Da Capri, Tiberio continuava a occuparsi regolarmente della gestione dell’impero (disponeva di un servizio di comunicazioni straordinariamente efficiente), ed è assai improbabile si abbandonasse solo alle dissolutezze che gli avrebbero poi attribuito Tacito e Svetonio. Ma fu per lui inevitabile delegare una parte dei suoi compiti: e il prescelto fu Lucio Elio Seiano, anch’egli cavaliere, e anch’egli, come Tiberio, un uomo dell’oscurità, prefetto del pretorio dal 14 al 31.

È possibile – pur restando anche questa solo una congettura – che la scelta di Pilato fosse opera di Seiano, e non direttamente di Tiberio. Mentre non è sufficientemente provato che la sua nomina rientrasse in una chiara strategia antiebraica perseguita sin da allora dal prefetto del pretorio, e che Pilato fosse stato inviato in Giudea con lo specifico mandato di allargare il raggio di questa azione persecutoria fino al paese d’origine del popolo colpito. C’era stato, certo, nel 19, un provvedimento – forse un senatoconsulto – che allontanava da Roma una parte della nutrita comunità giudaica della capitale, insieme a qualche migliaio di proseliti, soprattutto liberti: Tacito ce ne parla rapidamente8. Ma dovette trattarsi di una decisione ispirata da esigenze di tutela della pubblica moralità – punizione di pretese licenziosità femminili: vi era tutta una tradizione romana in questo senso, che risaliva fino allo scandalo dei Baccanali – e di repressione di pratiche cultuali ritenute potenzialmente pericolose: veniva colpito insieme ai giudei anche il culto di Iside. Possiamo supporre con qualche fondamento che in Seiano vi fossero atteggiamenti antigiudaici; assai meno probabile che si trattasse del disegno, protratto nel tempo, di una vera e propria persecuzione. Filone sembra crederlo9, ed è un’opinione che non va sottovalutata, ma è possibile riferire l’inasprirsi dell’ostilità solo all’ultimo periodo del potere del prefetto.

L’episodio comunque non lasciò tracce durevoli, e nel giro di pochi anni la comunità ebraica di Roma tornò a ricostituirsi ancora piú ampia e radicata di prima.

In ogni caso, se Pilato andasse davvero considerato come un uomo di Seiano, dovremmo ritenere che la morte di quest’ultimo, nell’ottobre del 31, destituito ed eliminato con un abile colpo di mano dallo stesso Tiberio (una specie di colpo di Stato «passivo», a favore di sé medesimo), avesse coinciso con un momento di difficoltà del governatore, privato d’improvviso del suo piú importante riferimento nella capitale. Ma, se anche vi fu, la crisi venne superata rapidamente e senza danni, visto che Pilato sarebbe rimasto in carica altri cinque anni, sino alla fine del 36: segno che – chiunque l’avesse messo in quel posto – Tiberio continuava a fidarsi di lui.

2. Pilato disponeva di poteri molto ampi. Il suo titolo era, allora, quello di prefetto di Giudea (praefectus Iudeae): anche se vi sono oscillazioni nella nomenclatura attribuita a questa carica dalle fonti letterarie ed epigrafiche, che hanno a lungo diviso gli studiosi10; mentre Tacito, che in un celebre passaggio di cui diremo chiama Pilato procurator, usa solo – con un anacronismo – la qualifica abituale dai tempi dell’imperatore Claudio in poi, e dunque anche al momento in cui scriveva.

Gli storici hanno discusso di una possibile subordinazione del governatore di Giudea rispetto a quello della vicina Siria: una provincia anch’essa gestita direttamente dall’imperatore, ma molto piú vasta, dove, come abbiamo visto, era dislocata una guarnigione imponente, la piú cospicua di tutto l’Oriente romano, al cui vertice si trovava un delegato dell’imperatore (legatus Augusti) di ordine senatorio e di rango proconsolare. In realtà, una dipendenza gerarchica giuridicamente riconosciuta tra i due governatori in quest’epoca è difficilmente configurabile, tranne, forse, che in ambito strettamente militare. La conduzione ordinaria della Giudea era un affare che riguardava il solo Pilato. Ciò non toglie, tuttavia, che di fatto, nei concreti rapporti di potere che si venivano stabilendo all’interno dell’amministrazione romana nello scacchiere orientale, il legato di Siria avesse un peso di gran lunga maggiore rispetto al prefetto della piccola e quasi disarmata Giudea. Quest’ultimo doveva considerare il suo importante vicino come una specie di collega maggiore, cui potersi rivolgere in particolari circostanze, e da cui aspettarsi un atteggiamento se non proprio di diretto controllo, salvo in qualche caso eccezionale, quanto meno di attenzione e di supervisione. Ciò accadrà, come diremo, anche nei confronti dello stesso Pilato, che durante il suo decennio vedrà succedersi in Siria tre governatori: Lucio Elio Lamia, probabilmente già in carica all’arrivo di Pilato, che vi sarebbe rimasto fino al 32, e dunque al momento (piú probabile) della morte di Gesú; Lucio Pomponio Flacco, fino al 35; e infine, dal 35 al 39 circa, Lucio Vitellio, che, come abbiamo visto, non aveva esitato a nominare egli stesso il successore di Caifa.

I Romani definivano imperium il generale potere di comando, militare e civile, dei loro magistrati maggiori (consoli e pretori). Secondo un modello carico piú di valore ideologico che di effettività costituzionale, e che serviva a mantenere per il nuovo regime una continuità con l’ordinamento repubblicano, lo stesso principe ne veniva investito, ricevendolo simbolicamente dalle mani del popolo riunito nel comizio. Attraverso una serie di transizioni e di analogie, questo medesimo potere veniva in genere riconosciuto ai governatori delle province, nei limiti spaziali e temporali del mandato ricevuto. Una tarda testimonianza di Ulpiano11 – un grande giurista dell’età dei Severi – ci assicura che ciò valesse (e, possiamo credere, fin dall’inizio) anche per il prefetto d’Egitto, di rango equestre ma cui veniva attribuito per legge un imperium«simile a quello di un proconsole».

Era egualmente vero anche per gli altri prefetti? Non lo sappiamo. Giuseppe12, nelle Antichità, ci dice di Coponio – il primo governatore della Giudea romana – che resse la provincia «con pieni poteri»; e prima, nella Guerra, aveva scritto che «fu investito da Cesare anche del potere di condannare a morte»: non v’è motivo di credere che i suoi successori abbiano subito un restringimento di queste attribuzioni. Ma non è affatto sicuro che ciò significasse per il pensiero romano una identificazione di tali incarichi con la titolarità dell’imperium. Voleva dire però certamente che i governatori di quella provincia disponevano di poteri molto incisivi – compreso quello di mettere a morte un loro suddito – modellati in qualche modo sull’imperium dei proconsoli e dei propretori. Questo doveva valere anche per Pilato.

Sta di fatto in ogni caso che, qualunque ne fosse il rango e la qualifica formale del comando, per tutti gli alti funzionari di quel livello, i contenuti concreti e i confini della propria capacità di intervento e di coercizione furono sempre molto elastici, regolati piú dalla prassi che da rigidi impianti normativi, e tanto piú agli inizi del I secolo. I loro compiti riguardavano, solitamente, la giurisdizione, sia civile sia criminale, la fiscalità – il diritto cioè di imporre e riscuotere tributi in nome e a vantaggio di Roma – e infine l’ordine pubblico e la difesa militare della provincia, per i quali il governatore era a capo delle truppe ivi stanziate.

In particolare per la repressione criminale, una distinzione risultava significativa, a seconda che essa si esercitasse sui sudditi provinciali, privi di cittadinanza romana, o invece nei confronti di cittadini romani. L’esistenza di questo doppio regime era, all’epoca del nostro racconto, un punto incontrovertibile. La giustizia nei riguardi dei provinciali, soprattutto quella penale, era gestita molto di piú nel rispetto di quello che doveva apparire ai Romani il raggiungimento di un’equità sostanziale – per quanto sempre dal punto di vista dei conquistatori – che dell’osservanza di una legalità procedurale rigidamente predeterminata dal diritto. Bisogna anche tener presente che in questa età nemmeno a Roma esisteva qualcosa di simile a un vero e proprio «diritto penale» nel senso moderno dell’espressione, ma solo una serie di leggi pubbliche, interpretate dagli oratori forensi e (ancora marginalmente) dai giuristi. Si trattava perciò di saper dosare una possibilità di decisione quasi sconfinata, che comprendeva il potere di vita e di morte, e non incontrava alcun vincolo dal punto di vista strettamente legale.

Esistevano argini, naturalmente, che avrebbero dovuto impedire ogni deriva verso l’arbitrio, ma erano solo e specificamente politici. Roma governava innanzitutto attraverso il consenso, e, quando possibile, attraverso l’integrazione, facendo leva su alleanze privilegiate con le diverse aristocrazie locali: fedeltà in cambio di legittimazione nella tutela dei propri privilegi.

Questo valeva anche per la Giudea, e Pilato lo sapeva benissimo. Era un equilibrio che presupponeva un uso moderato e, se possiamo dire cosí, pedagogico del potere di coercizione. Il governatore (come abbiamo appena ricordato) aveva alle sue spalle, e non poteva dimenticare, la smagliante persuasività regolatrice di una tradizione giuridica prestigiosa, senza eguali in altre culture. La «maestà» del popolo romano – noi diremmo la sua riconosciuta autorità e la sua capacità egemonica – non riposava solo sulle armi, ma anche sul ius: una parola e una nozione intraducibili in qualunque lingua antica. «La forza priva di saggezza rovina sotto il suo stesso peso», aveva scritto poco prima Orazio13, e si trattava di un atteggiamento condiviso nelle élite imperiali; anzi, possiamo considerarlo come l’espressione della loro politica. Era perciò che gli intellettuali greci in dimestichezza con i gruppi dirigenti della capitale – da Polibio a Elio Aristide – avrebbero sempre visto i Romani come gli straordinari inventori di un ordine del mondo fondato sulla ragione e sulla misura: ogni funzionario a capo di una provincia doveva cercare di adeguarsi a quest’attesa e a questo giudizio. Ed era in fondo ancora un simile ordine di pensieri che avrebbe ispirato per un tempo lunghissimo il modello ideale del buon governatore, costruito con sapiente efficacia: «Conviene al buono e assennato governatore aver cura che la provincia affidatagli sia pacifica e tranquilla. Ed egli lo otterrà facilmente se agirà con sollecitudine per togliere di mezzo i delinquenti, dando loro la caccia ovunque si trovino: dovrà dunque far ricercare dappertutto i sacrileghi, i banditi, i plagiari, i ladri, e punirli ciascuno a seconda del delitto commesso, e dovrà anche castigare i favoreggiatori, senza il cui aiuto nessun fuorilegge può restare a lungo latitante». Ulpiano14 – è ancora lui a scrivere – lavorava agli inizi del III secolo, ma ricapitolava, come era solito fare, una tradizione, anche amministrativa, ormai stabilizzata, e non v’è ragione per non considerare la sua precettistica già valida anche al tempo di Pilato (naturalmente, non tutti si uniformavano a questa prassi virtuosa, e non erano certo mai mancate figure di governatori corrotti, avidi e dispotici: come Verre, per esempio, almeno nella descrizione di Cicerone. Ma la riprovazione per questi comportamenti era sempre stata un punto indefettibile nella cultura e nel sistema di valori dell’amministrazione romana).

Le cose cambiavano, invece, se, per chi presiedeva una provincia, si fosse trattato di esercitare la giurisdizione criminale nei confronti di un cittadino romano (non militare) residente nel suo territorio. In questo caso, egli doveva tener conto di quelle consolidate garanzie istituzionali – le cui origini rimandano ancora una volta al cuore della storia repubblicana, e al remoto dispositivo dell’appello al popolo – che proteggevano ogni cittadino, a Roma o in Italia, dall’abuso di un magistrato.

Nei decenni del nostro racconto, il processo criminale romano stava subendo però un mutamento profondo, legato in gran parte all’avvento del regime di Augusto e dei suoi successori, e all’introduzione di una nuova procedura, svincolata dalle magistrature repubblicane e affidata a funzionari del principe. Questo passaggio – reso ancor piú complicato dal fatto che il nuovo sistema non si sostituiva al precedente, ma si limitava ad affiancarlo e a svuotarlo progressivamente, secondo un’abitudine tipicamente romana – rende per noi la materia molto aggrovigliata, in particolare per l’età giulio-claudia e per le lontane periferie dell’impero, come la Giudea. Ma è certo, comunque, che il cittadino incriminato poteva pretendere di essere processato a Roma e non in provincia, e poteva arrivare sino a chiedere lo stesso intervento del principe.

Senza dubbio, quindi, un governatore come Pilato, se credeva di ravvisare problemi di ordine pubblico, o se comunque valutava che fosse stata violata la prescrizione di una legge applicata in madrepatria – vi era stato da poco, per esempio, un importante provvedimento augusteo proprio sulla repressione della violenza – era perfettamente autorizzato a comportarsi nei confronti dei provinciali secondo modalità che in sostanza stava a lui stabilire. E se le circostanze lo imponevano, e soprattutto se aveva di fronte un inquisito di bassa condizione sociale (questa discriminazione valeva anche per i cittadini romani che vivevano in Italia), poteva anche procedere in modi assai sbrigativi, non diversamente da quanto facevano a Roma i tresviri capitales, i capi della polizia della città. Possiamo ben dire perciò che ancora in quest’epoca ogni problema di repressione criminale finiva con l’essere, nei territori dell’impero fuori d’Italia, soprattutto e quasi esclusivamente un problema di ordine politico: una questione di misura e di coerenza nell’uso discrezionale della forza di coercizione.

3. I gruppi dirigenti romani erano consapevoli da tempo che uno dei principali elementi di forza dell’impero si trovava nella sua ineguagliata capacità di assorbimento di popoli diversi, attraverso un itinerario che andava dalla conquista alla sottomissione e infine (dove ne maturavano le condizioni) all’assimilazione.

Le regole che avrebbero governato per secoli questo percorso erano tuttavia molto diversificate, e si sarebbero sempre prudentemente combinate con un ulteriore principio di portata generale, solo apparentemente in contrasto con la pratica dell’integrazione, ma in realtà concorrente con essa: quello dell’autonomia. In ogni caso possibile, e soprattutto in presenza di tessuti urbani abbastanza sviluppati, le comunità locali dovevano continuare a reggersi secondo le proprie tradizioni e le proprie leggi: suis moribus legibusque suis uti, nella lapidaria formulazione che sarebbe stata adottata meno di un secolo dopo dall’imperatore Adriano, in un discorso riportato da Gellio15.

Secondo una elementare ma efficace antropologia imperiale della conquista e della dominazione – già chiara all’epoca di Cicerone16 – era anche opportuno distinguere a seconda del livello culturale e organizzativo dei popoli da governare. A occidente e a nord dell’Italia la sottomissione non aveva significato altro che romanizzazione e urbanizzazione di territori «barbarici» non densamente popolati. Ma a oriente, nei grandi spazi mediterranei già attraversati dall’onda ellenizzatrice – lingua, emigrazione, forme politiche – e in cui si erano radicate civiltà molto piú antiche di Roma, con una fitta rete di strutture urbane, occorreva procedere con cautela ben maggiore, e fare in modo che la sottomissione e l’inclusione seguissero vie piú complesse. Questo valeva per la Grecia, naturalmente; ma anche per l’Egitto, la Siria o la provincia d’Asia. E valeva anche per il territorio governato da Pilato.

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2. La provincia romana della Giudea, 6-41 d. C.

La Giudea romana era davvero una regione di dimensioni molto esigue: piú o meno centosessanta chilometri da nord a sud, da Cesarea a Gaza, e settanta da est a ovest, fra Gaza e il Mar Morto: piú piccola del Piemonte o della Sicilia; press’a poco estesa quanto il Connecticut. Comprendeva i territori della Giudea propriamente detta, con Gerusalemme, dell’Idumea e della Samaria, con Cesarea e Sebaste, ma non della Perea e della Galilea: non includeva cioè nemmeno l’intera Palestina, che a sua volta, nell’insieme, arrivava appena a circa ventimila chilometri quadrati. Spazi angusti, poche città; molto meno di un milione di abitanti. Un paese di piccoli agricoltori liberi con una forte densità di insediamenti sotto forma di una miriade di villaggi di contadini, di pastori, di pescatori; una ristretta aristocrazia terriera spesso legata alle funzioni sacerdotali; un’economia piú votata all’autoconsumo e al mercato di prossimità che al grande commercio su lunghe distanze. Ma, già a quei tempi, un sovraccarico pressoché incredibile di memoria religiosa e di trasfigurazione simbolica dei luoghi e dei ricordi – strutturato intorno alla presenza della Bibbia e del Tempio di Gerusalemme – che si imponeva di continuo a scandire i ritmi della quotidianità e del suo vissuto mentale. Era la Palestina al tempo dei Vangeli.

In questo lacerante contrasto fra la modestia degli scenari materiali e delle forze che vi operavano, e la potenza quasi incalcolabile di un’elaborazione religiosa che li trascendeva e li annientava in un bisogno mai abbastanza appagato di unicità e di assoluto – un solo Dio e un solo popolo «eletto», in rapporto diretto ed esclusivo con Lui – era un’intera antropologia che si formava e veniva alla luce. Una struttura di pensieri, di comportamenti e di relazioni di cui l’esistenza della Bibbia era insieme causa ed effetto, presupposto e risultato. Negli ambienti imperiali romani, Posidonio17 – un filosofo greco del secolo a. C., appassionato di viaggi etnografici e perfettamente integrato nei gruppi dirigenti della capitale – fu forse il primo ad averne una qualche percezione.

Era un divario, risalente probabilmente a traumi collettivi remoti e profondi, fra la povertà della storia e la straordinaria ricchezza della memoria; o, se vogliamo, fra la normalità della storia reale e l’eccezionalità della storia solo pensata: immaginata e ricordata18. Con quest’ultima chiamata a riscattare la pochezza della prima mescolando insieme, in un accumulo tumultuoso e affascinante, strutture teologiche e catene inventate di personaggi e di eventi. Una contraddizione in cui si esprimeva per intero il dramma politico e la potenza culturale dell’antico Israele, dell’ethnos ton Ioudaion, con il suo ricorrente fremito identitario e la sua irrefrenabile vocazione teocratica: almeno dall’esilio babilonese e dalla diaspora in poi, per come oggi possiamo riconoscerlo. Era il passaggio al monoteismo, alla prima religione «secondaria» della storia umana, nel cuore dell’età «assiale». La memoria religiosa, indisgiungibile dalla storia politica, morale, intellettuale dell’intero popolo – anzi l’unico modo perché quest’ultimo prendesse corpo, e si riconoscesse come tale – diventava cosí un fatto sociale totale, da cui tutto dipendeva. Anche la vicenda di Pilato e del suo incontro con Gesú fu segnata da questa tensione.

Arrivando a Cesarea, il nuovo governatore avrà avuto di sicuro il tempo di familiarizzare con un po’ di storia giudaica, almeno la piú recente. Era quanto bastava per assolvere i suoi compiti piú importanti: curare la stabilità sociale della regione, e sovraintendere al suo impianto amministrativo, soprattutto dal punto di vista fiscale.

I Romani erano entrati in contatto con la Giudea fin dagli inizi del II secolo a.C., dopo la vittoria su Antioco III e la pace di Apamea, nel 188 a. C.: negli anni in cui la scelta imperiale compiuta dai gruppi dirigenti aristocratici stava prendendo i tratti irreversibili di un dominio mondiale. Nel 161 a. C. si arrivò a un vero e proprio trattato di amicizia e di alleanza – della cui esistenza si è a torto dubitato – formalmente paritario, che aiutava i giudei in rivolta a sottrarsi con ancor maggiore decisione all’orbita dei sovrani seleucidi, accelerando la disintegrazione definitiva di quell’impero, come era nel disegno politico romano. L’accordo fu rinnovato molte volte, fra II e I secolo a. C., e accompagnò la lunga lotta condotta dalla dinastia asmonea per la piena indipendenza della Giudea. Grazie al suo successo, il paese riuscí a conquistare di fatto, come entità politica riconosciuta, una posizione completamente autonoma, mentre il rapporto con Roma diventava sempre piú asimmetrico a vantaggio della potenza d’oltremare, autoproclamatasi garante delle libertà giudaiche, e interessata ormai senza remore a stabilire una forte egemonia su tutto l’Oriente ellenistico.

Ma intanto la tradizionale organizzazione teocratica e gerarchica della società stava subendo l’impatto sempre piú forte della penetrazione culturale di lingua greca – indotta in particolare dai Seleucidi, che avevano anche favorito cospicui insediamenti stranieri – assorbita in modo relativamente tranquillo nel secolo precedente.

Il confronto con l’ellenismo è senza dubbio l’aspetto piú tormentato e complesso della storia giudaica in questa età: un campo, nonostante molte importanti ricerche19, ancora da esplorare a fondo. Anche se all’interno del mondo giudaico – e nella stessa Gerusalemme – esistevano ambienti e forze favorevoli a un rinnovamento della religiosità di Abramo e di Mosè, cristallizzata dalla consuetudine e dall’osservanza, possiamo ben dire che la saldatura fra le due culture non avvenne mai. L’incontro fu un’occasione quasi del tutto mancata, nonostante fosse comunque destinato a lasciare molte tracce. L’impatto si frastagliò e si esaurí in un moltiplicarsi di focolai e di occasioni di attrito, a sfondo anche etnico, nei quali la possibile riforma ellenistica della particolarità giudaica finí con l’essere percepita – e in conclusione lo fu davvero – come un vero e proprio tentativo di «abolizione della Torah». L’editto di Antioco IV, che, nel 168, sollecitato dalle frange piú estreme del movimento ellenizzante, proibiva di fatto la pratica stessa del giudaismo, diede l’avvio alla lotta di liberazione dai Seleucidi: un conflitto in cui il carattere popolare e identitario del contrasto si fondeva con la battaglia per la restaurazione religiosa, e per il primato dell’ethnos giudaico sull’elemento greco.

Lo scontro culturale che si svolse in quel piccolo scenario di periferia – grecità ed ebraismo, con la potenza romana sullo sfondo: la triade che ha dato forma a tutto il cammino dell’Occidente – fu comunque una partita decisiva. Noi non possiamo dire cosa sarebbe accaduto se il contatto fra l’ellenismo e quella «saggezza straniera»20 avesse avuto risultati diversi, meno conflittuali e piú sincretici: se gli intellettuali greci avessero imparato l’ebraico e l’aramaico, e se la cultura religiosa ebraica avesse guardato con maggiore disponibilità al pensiero ellenistico. Certamente il percorso dell’intero Occidente sarebbe cambiato, e sarebbe stato di sicuro diverso, piú tardi, il rapporto del giudaismo con il cristianesimo, per il quale invece l’incontro con la cultura greca ebbe esiti – da Paolo in poi – inclusivi e vincenti: per certi versi, addirittura strepitosi. Ma questa è, come si dice, un’altra storia.

Sotto l’incalzare di pressioni dirompenti, nel corso della prima parte del I secolo i contrasti interni alla società giudaica divennero sempre piú laceranti, e da allora non si sarebbero mai spenti. Ed è anche per questo che la rivolta antiromana del 66 avrebbe poi assunto l’aspetto di una sanguinosa resa dei conti tra le fazioni. Gli Asmonei, che pure avevano riconquistato la libertà per i giudei – arrivando anche a ricostituire in un’unica funzione regalità e sommo sacerdozio, a restaurare cioè in pieno l’impianto teocratico – non furono in grado però di difenderla. La loro politica finí solo con il provocare ulteriori fratture all’interno dell’aristocrazia sacerdotale e con l’attirare ancor piú l’attenzione romana. Nel 63 a. C., cogliendo l’occasione di un contrasto interno agli ultimi eredi della dinastia, Ircano e Aristobulo, Pompeo, che aveva già preso la Siria, entrò a Gerusalemme, e profanò il Tempio, penetrandovi da straniero. Da allora, scrive Giuseppe, «finisce la libertà [della Giudea] e inizia la soggezione ai Romani»21.

Pompeo tuttavia non creò per il momento una nuova provincia: si limitò ad accentuare l’asimmetria dell’alleanza, trasformando la Giudea in una specie di protettorato: una soluzione che la duttile prassi imperiale romana conosceva da tempo. Concesse a Ircano II il titolo di etnarca (non di re) e di sommo sacerdote, rese il suo popolo tributario di Roma, e tolse alla Giudea l’accesso al mare, staccandole la fascia costiera: nei «Salmi di Salomone»22 il condottiero conquistatore è presentato come un inconsapevole strumento della punizione divina per i peccati dell’Israele asmoneo, condannato in blocco e senza riserve. Un intero ciclo storico, iniziato nel segno della riscossa, si concludeva cosí in un completo disastro.

L’assetto pompeiano comunque non durò a lungo. Nel 57 a. C. Aulo Gabinio, proconsole di Siria, spezzò la Giudea in cinque territori distinti – «toparchie» – ciascuno retto da un sinedrio locale, mantenendo per Ircano solo il sommo sacerdozio: la vita religiosa continuò infatti unitaria anche in questi anni; l’assenza di strutture urbane significative e la frammentazione del tessuto agrario sembrava giustificare una simile sistemazione. Ma nemmeno questa resistette. Cesare, nel 47 a. C., ripristinò l’unità della Giudea, ne reintegrò il controllo sulla fascia costiera, ribadí il diritto del suo popolo a vivere secondo la propria religione e le proprie leggi, e ne affidò il governo ancora a Ircano II (sempre come etnarca), con al fianco il suo consigliere Antipatro – un notabile dell’Idumea molto ben visto dai Romani, che in qualche modo rappresentava – continuando a mantenerla tributaria di Roma. Questo era ormai un punto da cui non si recedeva, anche se il prelievo fiscale era assai gravoso per i giudei.

Le vicende seguite alla morte di Cesare, nel 44 a. C., ebbero conseguenze anche in Giudea. Antipatro morí avvelenato nel 43; Ircano, prima prigioniero dei Parti, che avevano invaso il paese, fu estromesso dal potere dopo il 40 (sarebbe poi morto nel 30). Ma suo figlio, Erode (poi detto il Grande), profugo a Roma, fu proclamato re dal senato, e nel 37 a. C., aiutato dalle truppe di Antonio, riconquistò Gerusalemme e la Giudea, che mantenne, come un sovrano vassallo dei Romani, fino alla morte, nel 4 a. C.

Credo si debba considerare Erode per molti versi come un continuatore, con altri mezzi e strategie, del disegno ellenizzatore seleucidico, ma con una realistica presa d’atto dell’irriformabilità della religione giudaica. Con un’intuizione felice, egli cercò di separare il sentimento religioso popolare, in gran parte d’ispirazione farisaica – di cui si atteggiò a difensore e protettore – dai destini dell’aristocrazia sacerdotale, che avversò fin dall’inizio con fredda determinazione: nel 37 a. C., appena ritornato, mise a morte quarantacinque componenti del sinedrio, quasi tutti sadducei, e ne confiscò i beni. In questa prospettiva, la mancata assunzione del sommo sacerdozio (non era ebreo, anche se cercava di farsi passare come tale, e non avrebbe potuto), pur arrogandosi il diritto di scegliere chi dovesse ricoprirlo, e limitando i poteri del sinedrio, risultò un gesto di rispetto delle tradizioni e della sensibilità delle masse popolari giudaiche, e insieme una decisione che gli lasciava mano libera per una linea di forte laicizzazione delle strutture politiche e della vita pubblica, secondo le aspirazioni delle minoranze pagane di lingua greca. I suoi programmi di accelerata urbanizzazione – Cesarea, Sebaste – e di edilizia pubblica, compreso l’ampliamento e l’abbellimento grandioso del Tempio gerosolimitano, e la ricostruzione della fortezza di Masada, nella Giudea sud-orientale, erano tipici di una regalità ellenistica: venivano incontro ai bisogni del proletariato urbano, e favorivano un rapporto carismatico fra sovrano e popolo ai danni degli ambienti aristocratici.

Era la riforma piú profonda che, dall’interno stesso della Giudea e non per imposizione straniera, fosse mai stata tentata dall’esilio babilonese: un’ellenizzazione a metà, centrata sulla separazione fra regalità e tradizione religiosa; rispettando quest’ultima, ma trapiantandole intorno un tessuto politico (e in parte sociale) del tutto rinnovato. E accanto, una fedeltà assoluta ai Romani e ad Augusto, di cui finí per considerarsi una specie di mandatario: le sue riforme fiscali furono sempre attente a non intaccare minimamente gli interessi e le aspettative imperiali, nella convinta percezione che la Giudea era ormai parte integrante di un sistema di dominazione mondiale cui sarebbe stato impensabile opporsi.

Anche questa strada si rivelò tuttavia impraticabile, e il suo percorso si interruppe con la scomparsa di Erode. Alla sua morte, Augusto decise di confermarne il testamento, che divideva il regno fra i suoi figli: Filippo ed Erode Antipa ne ricevettero circa un quarto ciascuno (ad Antipa toccarono la Galilea e la Perea), mentre la metà rimasta, compresa la Giudea, fu destinata ad Archelao. Ma quest’ultimo apparve ben presto ai Romani assolutamente inadeguato – nessuno degli eredi valeva in effetti minimamente il padre: i contrasti che Erode aveva saputo evitare durante tutto il suo regno ridivennero violenti, e Augusto, nel 6, fu costretto a destituirlo e mandarlo in esilio. L’aristocrazia sacerdotale, che aveva lavorato per l’estromissione, pensò a questo punto che, per restaurare almeno in parte il suo potere, il diretto controllo imperiale fosse la soluzione preferibile: meglio un governatore straniero che un altro incontrollabile re. E fu cosí che Roma – anche di fronte a una crisi evidente degli erodiani, e in mancanza di un leader affidabile – si decise a far nascere la nuova provincia, per il cui ordinamento Augusto (e i suoi prefetti) figuravano come gli immediati successori di Erode, subentrando in tutte le sue prerogative.

4. Negli anni di Pilato le differenze religiose continuavano a determinare i rapporti di forza dell’intera società giudaica, non diversamente da come sarebbe accaduto molto piú tardi in alcune epoche e paesi dell’Europa cristiana (in Francia, per esempio, o in Inghilterra fra Cinque e Seicento, sia pure entro contesti del tutto inconfrontabili). Distinzioni che rendevano quel microcosmo poliedrico e frammentato, attraversato da continue tensioni: non solo fra pagani e giudei, ma all’interno dello stesso universo ebraico. Secondo Giuseppe23, che ritorna su questo tema sia nella Guerra sia nelle Antichità, i giudei del I secolo si dividevano in tre scuole «filosofiche»: i sadducei, i farisei, gli esseni. In realtà non si trattava di «filosofie», come diceva Giuseppe24per farsi capire dai suoi lettori grecoromani, ma di stili e scelte di vita che riflettevano comportamenti collettivi, appartenenze politiche e relazioni di potere; in una parola: modi di organizzazione sociale. La sua descrizione è comunque per noi una radiografia indispensabile, per accostarci a quel mondo.

Ai sadducei – che forse non credevano nell’immortalità dell’anima (ma è un punto controverso, non confermato dalle evidenze archeologiche delle loro tombe), consideravano vincolante solo quanto tramandato nella Torah senza prestar fede alla tradizione orale, e avevano, secondo Giuseppe, un modo di condursi aspro e scostante25 – faceva capo, per quel che sappiamo, una minoranza abbastanza esigua della popolazione. Essa comprendeva tuttavia le grandi famiglie aristocratiche che amministravano il Tempio, tra le quali veniva scelto il sommo sacerdote. Erano i piú favorevoli a una collaborazione attiva con i Romani, come forse erano stati, a suo tempo, i meno ostili a prudenti aperture ellenistiche: probabilmente, erano i piú tiepidi nel sostenere l’eccezionalismo della loro religione. Molti di loro furono perciò le prime vittime della resa dei conti interna al giudaismo dopo l’insurrezione del 66: il loro gruppo fu completamente spazzato via, abraso anche dai ricordi della tradizione ebraica successiva. Ma al tempo di Pilato avevano ricostituito (dopo gli anni di Erode) un potere considerevole, ed erano un elemento essenziale nel sistema romano di controllo e di formazione del consenso sul territorio e nella società della Palestina.

I farisei – Giuseppe si considerava uno di loro – godevano invece di un seguito assai vasto, certamente maggioritario, tra le masse popolari, a Gerusalemme e nei villaggi. L’immagine dei Vangeli li presenta come miopi e inflessibili formalisti, molto piú attenti al compimento scrupoloso dei rituali che all’interiorità morale delle prescrizioni religiose. «Voi farisei purificate l’esterno della coppa e del piatto, ma il vostro interno è pieno di rapina e di iniquità», scrive Luca26. C’era però molta esagerazione in questo quadro, che serviva a mettere in risalto per contrasto l’aspetto piú dirompente del pensiero di Gesú: un sostanzialismo etico di cui non si era mai visto l’eguale. Nella loro dottrina – che rappresentava per molti versi il senso comune giudaico all’epoca della dominazione romana – la Torah non era che una parte della Legge di Yahweh, che andava completata con lo studio e il rispetto piú scrupoloso della tradizione orale, stratificatasi dai profeti pre-esiliaci fino all’insegnamento rabbinico contemporaneo. Su questo fondo condiviso si inserivano poi orientamenti ancora diversi, come c’era da aspettarsi in un ambiente cosí ideologicamente reattivo per un raggruppamento che raccoglieva adesioni tanto ampie e articolate: dagli strati sociali piú modesti, sino agli «scribi» interpreti della Torah, e a esponenti (per quanto minoritari) della stessa cerchia aristocratica. Nell’età di Pilato i farisei esprimevano in genere un accentuato sentimento antiromano, con forti connotazioni identitarie, non insensibili alle mille suggestioni revansciste che emergevano di continuo, alla minima occasione.

Un’influenza molto minore avevano invece gli esseni, un piccolo gruppo di devoti, dediti allo studio e a una intransigente testimonianza di vita comunitaria, ai quali Giuseppe nella Guerra (ma non nelle Antichità) dedica molte pagine piene di ammirazione: «Essi respingono i piaceri come un male, mentre considerano virtú la temperanza e il non cedere alle passioni […]. Non curano la ricchezza ed è ammirevole il modo in cui praticano la comunione dei beni»27. È controverso se a questo movimento si debba ascrivere anche la setta di Qumran28, autoesiliatasi in una località desertica della Giudea, nei pressi del Mar Morto. Di sicuro l’ascesi e la purezza di vita – e anche il divieto di portare le armi – non impedí agli esseni di condividere tendenze fortemente ostili ai Romani, né di partecipare in prima linea alla rivolta del 66: la distruzione dell’insediamento qumranico da parte delle truppe imperiali, nel 68, rende evidente che una qualche connessione fra le due correnti dovette comunque esistere.

La Giudea era stata da sempre una terra di predicatori e di profeti. E continuava a esserlo tanto piú al tempo di Pilato. Voleva dire anche questo, la certezza condivisa di un rapporto privilegiato con Dio: il moltiplicarsi dei suoi interpreti e degli annunci della sua volontà. Dal II secolo a. C. in poi – in corrispondenza con i momenti piú contrastati della dominazione seleucide – questa vocazione profetica aveva cominciato ad assumere con sempre maggior forza tonalità e accenti apocalittici: la redazione del Libro di Daniele può essere considerata come il momento della svolta. Era, come è stata definita, «una letteratura di combattimento»29, che immaginando come imminente una catastrofica conclusione dei tempi, in coincidenza con il giudizio finale di Dio, doveva confortare chi si batteva contro l’oppressione straniera: seleucidica o romana. Escatologia e politica si congiungevano cosí ancora una volta: l’estremo riscatto identitario si sovrapponeva adesso, per il popolo d’Israele, con il compimento definitivo e tragico della storia dell’umanità. E la prospettiva dell’apocalisse favoriva il fiorire del messianismo, che sembrava anche trovar fondamento in un oscuro enunciato di Daniele30, dove si accennava al prossimo avvento del «Figlio dell’Uomo».

Questa teologia militante contribuiva a rendere febbrile il clima mentale della Giudea agli inizi del I secolo. Essa alimentava non poco quella che Giuseppe chiama prudentemente31 – e con qualche ipocrisia – la «quarta filosofia» giudaica, che ispirava il gruppo degli zeloti: un movimento apertamente sovversivo rispetto all’ordine romano, che riteneva di dover combattere subito e senza esitazioni, anche con azioni di vera e propria guerriglia e di autentico terrorismo politico (Giuseppe parla di «un ardentissimo amore per la libertà, convinti [gli zeloti] che Dio solo è loro guida e padrone»)32. Era un modo estremo e disperato per far tornare i conti – sia pure in quello che si fantasticava come l’orlo dell’apocalisse – storia reale e storia solo immaginata. Una scelta che, come spesso accade in simili casi, rendeva i suoi adepti spesso quasi indistinguibili rispetto ai semplici fuorilegge, in una zona grigia di ribellismo e di illegalità dove si confondevano criminalità comune, insurrezionalismo politico, rivolta sociale e ansia escatologica. Il banditismo, del resto, era una piaga che affliggeva da tempo le campagne della Palestina, e che le forze imperiali d’occupazione cercavano di fronteggiare con la massima durezza repressiva.

I governatori romani tentavano di gestire come sapevano e come potevano – e cioè non sempre al meglio – uno stato di cose cosí instabile e ribollente. La loro cultura imperiale non li preparava a venire a capo di problemi tanto specifici e delicati, diciamo anche unici nel loro genere: nessuna delle popolazioni sottomesse aveva mai prodotto qualcosa di simile alla Bibbia. Cercarono perciò di ‘normalizzare’ la situazione ricorrendo al modello piú familiare: stringendo cioè alleanze con l’aristocrazia locale disponibile al compromesso – in questo caso con gli ambienti sadducei e con quel che restava degli erodiani: religiosità meno intransigente e circoli laici ellenizzati – secondo lo schema consueto dello scambio fra collaborazione e conservazione dei propri privilegi.

I prefetti imperiali avevano acquisito da Erode il potere di indicare il sommo sacerdote, pur nel rispetto dei requisiti che questi doveva possedere per tradizione: un diritto che Pilato non avrebbe mai esercitato, decidendo di confermare Caifa (nominato da Valerio Grato) per tutti gli anni del suo mandato. L’investitura imperiale metteva il prescelto in una luce del tutto particolare. Egli era il rappresentante supremo dell’identità giudaica – religiosa e politica, in una cultura cosí accentuatamente teocratica – ma anche il fiduciario della potenza che occupava il paese. Un ruolo intrinsecamente ambiguo, esposto di continuo su entrambi i fronti: quello del possibile discredito popolare innanzi a un atteggiamento troppo rinunciatario o subalterno verso i Romani, a vantaggio semmai di un interprete dell’emotività popolare piú carismatico e meno compromesso; e insieme quello del possibile venir meno del rapporto con le autorità romane, in seguito a comportamenti eccessivamente autonomi o addirittura irredentistici.

I suoi poteri – e quindi anche quelli di Caifa – erano sostanzialmente quanto i Romani gli consentivano. Certamente una completa giurisdizione in materia religiosa, senza però il diritto di emanare sentenze capitali (questo è un punto discusso, ma credo che la soluzione negativa sia la piú attendibile); un pieno controllo sulla gestione (anche finanziaria) del Tempio, retto come una specie di micro città-stato autonoma nell’ambito del governo di Gerusalemme, perfino con un suo corpo di «polizia»: quello stesso che abbiamo visto in azione al momento dell’arresto di Gesú. E infine, talune competenze amministrative su tutto il territorio della Giudea.

Accanto al sommo sacerdote continuava a funzionare abbastanza regolarmente il sinedrio di Gerusalemme (anche questo è controverso, ma ritengo vadano respinte ricostruzioni piú radicali, che ipotizzerebbero una sua abolizione in epoca imperiale, di cui però non si vedono le ragioni), accettato dai Romani come il piú importante organismo collegiale dell’autogoverno locale, secondo un modello molte volte sperimentato in Grecia e in Oriente. Ne facevano parte gli ex sommi sacerdoti (quello in carica lo presiedeva), una parte dei sacerdoti del Tempio, insieme a esponenti dell’aristocrazia non sacerdotale (gli «anziani» e gli «scribi», i dotti interpreti della Torah e della tradizione rabbinica). La maggioranza del consiglio era quasi certamente farisea. In questo essa rifletteva un’istanza popolare, se non proprio ‘democratica’, e gli esponenti sadducei che ne erano al vertice, come sommi sacerdoti o influenti ex sommi sacerdoti, dovevano tener conto di questo non facile equilibrio. Le attribuzioni erano incerte, al tempo di Pilato: possiamo presumere che fungesse da tribunale in materia religiosa, e forse anche per alcuni crimini ordinari, e che gli fossero riconosciute alcune piú generali funzioni amministrative rispetto all’intera Giudea. Ma non vi erano confini precisi, né tantomeno garanzie; tutto era rimesso ancora una volta alla valutazione romana. La tendenza era quella di lasciar fare, sin quando non venivano toccati interessi imperiali, politici o fiscali, oppure compiuti atti che sembravano violare la legislazione romana.

5. I governatori risiedevano di solito a Cesarea, insieme al grosso della guarnigione della provincia. Gerusalemme rimaneva il cuore della vita del paese, ma tutta l’attività amministrativa legata alla presenza romana si svolgeva nella città costiera. I prefetti abitavano in un palazzo, sontuoso e marmoreo, fatto costruire da Erode. La città – che difficilmente avrà superato i venti-trentamila abitanti – era a maggioranza pagana, come Sebaste; aveva l’aspetto, molto piú familiare per i Romani, di un centro urbano greco, e disponeva (abbiamo detto), di un grande porto: tutti elementi favorevoli dal punto di vista imperiale.

Cosí fu anche per Pilato, e della sua lunga presenza nel luogo oggi abbiamo, grazie a un fortunato ritrovamento epigrafico, una traccia incontrovertibile.

Durante gli scavi eseguiti, fra il 1959 e il 1964, da una missione archeologica italiana nel sito dell’antico teatro – un monumento anch’esso ricordato da Giuseppe come esempio della sfarzosità di Cesarea – fu ritrovata per caso un’iscrizione con le parole: [---]S TIBERIÉVM | [---]NTIVS PÌLATVS | [---]ECTVS IUDAE[A]E | [---]É[---] 33

Quattro righe, sulla parte anteriore di un blocco danneggiato di pietra calcarea, di ottantadue centimetri per sessantotto: probabilmente, in origine, un elemento architettonico compreso nella parete di una torre, poi riutilizzato (era una pratica consueta, e in questo caso forse non si trattava nemmeno del primo reimpiego) come gradino di uno scalone in uno dei rifacimenti del teatro cittadino, nel IV secolo. Ed ecco che ci troviamo di fronte quel nome, leggibile in una scrittura che risale direttamente al suo tempo: forse l’epigrafe piú famosa di tutto il mondo romano.

Dalla sua pubblicazione, nel 1961, gli studiosi non hanno mai smesso di discutere né sulla sede originaria dell’iscrizione, né su come integrarla in modo da dare un senso compiuto alle parole e alle lettere che riusciamo a individuare.

L’iscrizione, evidentemente, serviva a dedicare un edificio a Tiberio. Vi emerge, intatto, un frammento dell’attività di governo e di amministrazione del prefetto: Pilato che onorava il suo principe. Di sicuro, nella seconda linea, c’è il nome del dedicante: Ponzio Pilato, appunto. Lo spazio rimasto a sinistra non è ampio, e fa pensare che l’immancabile indicazione del prenome, che non conosciamo – abbreviato come di consueto alla sola iniziale – debba essere stata una T. o una L., ma non, per esempio, una M. Ed è per questo che si è supposto un Lucio o un Tito (come abbiamo già ricordato). Egualmente certo, nella terza linea, il titolo, riferito sempre al dedicante: «prefetto di Giudea». Piú difficile l’identificazione del «Tiberieo», nella prima. Di cosa si trattava esattamente? Un tempio per il culto imperiale? una biblioteca? un portico? un edificio imprecisabile, ma con il nome di Tiberio? È quasi impossibile rispondere con sicurezza. Ma un’ipotesi, prospettata di recente34, mi sembra particolarmente elegante e abbastanza convincente: un bell’esempio di uso combinato di documenti storici e archeologici.

Secondo questa ricostruzione, la parola, mai usata altrove (per quel che ne sappiamo), deve essere riferita a una torre-faro situata all’imboccatura del porto, simile e contigua – anche se forse piú modesta – a quella detta «Druseum», ricordata da Giuseppe e chiamata cosí in onore di Druso, il fratello di Tiberio morto in giovane età: due torri per i due fratelli, l’uno scomparso, l’altro diventato principe. Oltretutto il teatro, dove la pietra fu riusata ed è stata ritrovata, non era lontano, come ci dice sempre Giuseppe, dal porto e dalla linea delle torri, il che rende plausibile lo spostamento. In questo caso, Pilato non sarebbe stato il costruttore del monumento (che era Erode), ma solo il rifacitore e il dedicante: la E dell’ultima riga andrebbe perciò completata in REFECIT («rifece»); mentre la S della prima linea sarebbe appartenuta alla parola NAUTIS («ai marinai», che della torre si sarebbero evidentemente giovati, anche perché forse, come l’altra maggiore, ospitava un rifugio).

Qualunque cosa significhi esattamente, quel breve testo semicancellato su una pietra dilavata dal tempo e dall’uso è la piú forte delle prove – irresistibile pur nella sua unicità – che in quegli anni un prefetto di Giudea chiamato Ponzio Pilato era davvero lí, esattamente come ci dicono i Vangeli e come raccontano Flavio Giuseppe e Filone di Alessandria: a fare il suo lavoro.

In che modo Pilato governò la Giudea? Della sua amministrazione abbiamo un giudizio – il solo sull’insieme del suo operato – dovuto a Filone35, l’intellettuale ebreo della diaspora, capo della comunità giudaica di Alessandria.

È un’opinione drammaticamente negativa36: «uomo dall’indole inflessibile, testarda», di una «crudeltà infinita e selvaggia», «sprezzante e irascibile», il cui mandato era stato segnato da «corruzione, violenze, rapine, torture, abusi, frequenti esecuzioni senza processo». Insomma, una condanna senza appello.

Filone scriveva cosí nel 4137, agli inizi del principato di Claudio, in un’opera parzialmente autobiografica, la Legatio ad Gaium («Ambasceria a Gaio Caligola»), in cui si combinano, non senza qualche originalità e qualche contraddizione, ortodossia giudaica, lealismo verso i Romani e influenze filosofiche ellenistiche, stoiche soprattutto. Una valutazione tanto aspra veniva proposta in rapporto a un episodio del governo di Pilato, di cui diremo piú avanti perché riguarda verosimilmente l’ultimo periodo trascorso dal prefetto in Giudea; anche se in realtà non c’è, nella struttura del racconto di Filone, una connessione precisa tra il fatto descritto e il ritratto che lo completa. Quest’ultimo è presentato come un dato del tutto indipendente dall’effettiva dinamica dell’episodio riferito.

Si tratta di un giudizio inattendibile, come è stato già molte volte sostenuto. Piú che un personaggio reale, vi viene raffigurato l’idealtipo del cattivo governatore, cosí come si era venuto cristallizzando almeno dall’età di Cicerone in poi, fatto corrispondere all’autentico Pilato solo sulla base di una prevenzione teologica. Le parole usate sono altrettanti stereotipi nella lingua di Filone: non delineano un carattere, evocano solo un modello, che per l’autore si attaglia a Pilato; nessuna circostanza appena determinata emerge dalla genericità dell’invettiva. Ma tuttavia non dobbiamo aver fretta di liberarcene. Perché, nonostante tutto, proprio la sua parzialità finisce con il rivelarci qualcosa di molto importante.

Seguiamo la costruzione di Filone. Egli parte da un assunto che regge tutta la sua scrittura: chi non rispetta, o addirittura profana, la religiosità giudaica è un uomo empio, capace di commettere ogni crimine, e prima o poi meriterà il castigo divino. Pilato è un esempio di questa attitudine malvagia: e perciò alla fine caduto in disgrazia e punito; e quindi non potrà essere stato, necessariamente, che un pessimo governatore, corrotto e sanguinario come tutti i cattivi governatori. La deduzione è indimostrata, per quanto ci risulta: sia dai Vangeli, sia da Giuseppe sembra affiorare una figura ben diversa.

Ma era infondato anche il suo presupposto? In altri termini: che ragioni avrebbe avuto Filone per attribuire a Pilato la maschera del governatore indegno, per avvolgerne il profilo in una nuvola oscura di misfatti? Evidentemente una soltanto, ma decisiva: il fatto di essere a conoscenza di un atteggiamento del prefetto nettamente ostile alla religione giudaica. Questa premessa gli bastava per trasformarlo in un funzionario scellerato e malvagio, e noi evidentemente non possiamo seguirlo in un simile arbitrio. Ma questo non vuol dire affatto che fosse infondato anche il punto d’avvio. Anzi. Filone si sarebbe comportato cosí – avrebbe cioè inserito senza esitazione Pilato nella lista degli empi – se l’atteggiamento del prefetto verso la religiosità giudaica fosse stato notoriamente tollerante e benevolo? Non abbiamo nessun motivo di pensarlo. L’inconsistenza storica del ritratto finisce col tradire cosí il fondamento ben piú solido del motivo che ha spinto alla sua invenzione. Un falso, ma costruito su una verità.

Niente in effetti ci conferma che Pilato abbia commesso le atrocità di cui lo incolpa Filone; e anzi, come vedremo, abbiamo addirittura qualche ragione positiva per escluderlo. Ma di sicuro il prefetto non doveva capire la religiosità giudaica, quell’intreccio febbrile e (per lui) incomprensibile di teologia e di politica, né avere alcuna simpatia per le sue cerimonie, le sue prescrizioni, i suoi divieti. È possibile, per giunta, che a questo rifiuto si aggiungesse un carattere spigoloso, tendente alla diffidenza e all’asprezza. E si può anche credere che un’opinione non proprio favorevole sulle inclinazioni e sulle chiusure del governatore dovesse essere comune già fra i suoi contemporanei, e che proprio da un tale giudizio condiviso Filone muovesse per le sue arbitrarie accuse. Era una diffamazione che ormai si poteva permettere. Adesso c’era Claudio sul soglio imperiale, e come molti altri anche le comunità giudaiche – a Roma e ad Alessandria – potevano finalmente tirare un sospiro di sollievo.

6. Il primo episodio che riusciamo a ricostruire dell’attività di Pilato in Giudea lo dobbiamo invece a Giuseppe38, che lo riferisce sia nella Guerra, sia, riscrivendolo ma senza modifiche sostanziali, nelle Antichità.

Il governatore non doveva essersi insediato da molto: tutto, nel racconto, lascia presupporre che ci si trovi agli inizi del suo mandato. Cogliendo l’occasione di uno spostamento di truppe che rientrava nella routine della guarnigione – un’unità, forse una coorte di fanteria, che si muoveva da Cesarea per acquartierarsi a Gerusalemme – Pilato ordinò ai soldati di fare ingresso in città con una marcia notturna portando, come stabiliva il protocollo romano in simili circostanze, le insegne accompagnate dal ritratto dell’imperatore. Era una violazione della legge giudaica, che nel nome di un rigidissimo aniconismo proibiva l’esibizione di qualunque immagine («Non confezionerai alcuna immagine scolpita né alcuna rappresentazione di quello che è su in cielo, né di quello che è quaggiú sulla terra»)39. Si può discutere se questo dovesse valere anche per i non giudei. Ma evidentemente l’interpretazione accettata era che esporre comunque immagini entro Gerusalemme doveva intendersi come una profanazione.

Il prefetto sapeva benissimo del divieto. Come sapeva altrettanto bene che nessuno dei suoi predecessori lo aveva mai infranto, adeguandosi alla tradizione giudaica. La sua era evidentemente una scelta deliberata, compiuta a freddo. Non un’inutile provocazione – una bravata arrogante – ma un gesto studiato. Pilato stava saggiando la capacità di reazione popolare, e nello stesso tempo cercava di capire fin dove potesse spingersi nell’imporre sul territorio, fin dentro Gerusalemme, a due passi dal Tempio – i soldati sarebbero arrivati di sicuro alla fortezza Antonia – i segni tangibili della sovranità romana.

Era insomma una specie di prima ricognizione dei rapporti di forza. La strategia era chiara: Pilato stava provando a varcare la linea invisibile fissata dai precedenti governatori, per conquistare equilibri piú vantaggiosi. Per circoscrivere la religiosità giudaica di fronte alla maestà imperiale. Ma si comportava con una certa circospezione, e molta cautela. Non a caso, fece entrare in città le truppe inattese e di notte, come non manca di sottolineare Giuseppe: per mettere gli abitanti di fronte al fatto compiuto.

Ma il piano non riesce. Fattosi giorno, lo scandalo esplode. La scena si sposta da Gerusalemme a Cesarea. È lí infatti che «una moltitudine»40 di giudei si reca rapidamente, supplicando Pilato di rimuovere le insegne con i ritratti. È una risposta molto abile, adeguata al calcolo del governatore, il che fa pensare a un’attenta ponderazione da parte di un ispiratore, piuttosto che un gesto spontaneo. Alla presenza delle insegne non si replica con un tumulto, con azioni che avrebbero potuto turbare l’ordine pubblico, o comunque mettere in discussione l’autorità romana, provocandone la reazione, ma chiedendo al governatore di recedere dalla sua decisione, e dunque riconoscendo implicitamente che egli solo aveva il diritto di annullare la decisione già presa. Vi era stato, in una cosí attenta gestione della crisi, un ruolo del sinedrio, o del sommo sacerdote? Non sappiamo. Giuseppe – nella Guerra come nelle Antichità – concentra lo sguardo esclusivamente sul rapporto fra prefetto e popolo, senza alludere ad altre presenze. È una prospettiva di cui possiamo intuire il significato ideologico, ma non apprezzare la verosimiglianza storica. È assai difficile che dietro il comportamento dei dimostranti non vi fosse una regia: forse un punto d’incontro fra élite sacerdotale e movimenti popolari di ispirazione farisaica; è possibile che l’aristocrazia sadducea cercasse di ricomporre la lacerazione apertasi con Erode.

I giudei arrivati da Gerusalemme e dalle campagne rimangono cinque giorni a Cesarea, sempre raccolti, anche di notte, intorno alla residenza del governatore: senza tumulti, ma insistendo invano nella loro richiesta. Pilato appare irremovibile. Se avesse accettato, avrebbe oltraggiato l’imperatore.

Poi c’è la svolta. Seguiamo Giuseppe. Il sesto giorno, dunque, Pilato si reca allo stadio – uno spazio destinato alle corse, forse situato nei pressi dell’ippodromo – e sale su una tribuna, fatta costruire per l’occasione. La folla dei giudei lo segue, per rinnovare la supplica. Ma Pilato era ormai deciso a forzare gli eventi, e aveva fatto schierare sul posto un distaccamento di truppe in assetto di combattimento, nascosto però alla vista della folla grazie allo schermo della sua stessa tribuna e forse di altri edifici. A un segnale, i soldati, in triplice fila, circondano i dimostranti, con le spade sguainate. Segue l’intimazione di interrompere immediatamente la protesta e di sciogliere l’assembramento. In caso contrario, chi fosse rimasto sarebbe stato passato per le armi.

I giudei resistono. Non si oppongono con la violenza, ma si gettano in terra bocconi, i colli nudi protesi in avanti, pronti a morire, come in un sacrificio, piuttosto che assistere alla violazione della loro legge. È una scelta vincente. Pilato rimane interdetto. Si trova di fronte a un’alternativa imprevista: cedere oppure ordinare un bagno di sangue. Decide di cedere, e dispone che i ritratti vengano ritirati da Gerusalemme.

Non c’è motivo di dubitare del racconto, almeno per le linee essenziali della sua dinamica. Giuseppe è di solito ben informato, usa con diligenza i documenti di cui dispone, e in particolare per gli anni di Pilato aveva accesso a buone fonti, sia orali, sia scritte. In questo caso, avrà tutt’al piú ritoccato qualche dettaglio, per far meglio risaltare la propria tesi di fondo, e cioè che se i giudei sanno distinguere fra scrupolo religioso e sottomissione ai Romani, e questi ultimi a loro volta sanno dimostrarsi tolleranti, purché non venga messa in questione la loro sovranità, tutto può sempre finire per il meglio.

In realtà, Pilato esce sconfitto da questa prima prova. Aveva egli stesso provocato la crisi, pensando di segnare un punto a suo favore, e ne è dovuto venir fuori nel modo peggiore: arretrando. Si sarà reso conto in modo diretto e drammatico che la religione era per quel piccolo popolo qualcosa di passionale e di decisivo, e avrà valutato quanto stretto fosse per quella gente il confine fra osservanza rituale e orgoglio identitario, fra irredentismo politico e rispetto della Torah. Se poi la risposta popolare aveva dietro di sé qualcuno a orientarla, se non proprio a gestirla – come abbiamo congetturato – e se queste figure andavano individuate, almeno in parte, all’interno dei gruppi sacerdotali, Pilato si sarà reso conto ancora meglio di quanto sarebbe stato difficile il suo governo, e come fossero ambigui gli alleati su cui contare. Insomma, che complessa partita egli aveva appena iniziato con un passo falso.

Aveva dimostrato però di saper cambiare idea al momento giusto – dunque di saper valutare e decidere in emergenza, adeguandosi con elasticità al mutare delle situazioni – e di non cercare a tutti i costi un esito cruento pur di vincere (non era perciò né un testardo né un sanguinario come avrebbe detto di lui Filone). Era di sicuro un governatore molto preso dal proprio ruolo, convinto di poter far meglio dei suoi predecessori, che stava imparando, in un ambiente e in circostanze difficili, a esercitare la sua funzione.

7. Nello stesso contesto di racconto, Giuseppe ci restituisce una seconda rapida sequenza41 – sempre in una doppia e quasi eguale versione, nelle Antichità e nella Guerra– che ferma per noi un altro episodio dell’attività di Pilato in Giudea.

Siamo «tempo dopo» la crisi dei ritratti: non sappiamo esattamente quando, ma se collochiamo il primo fatto agli esordi del mandato del prefetto, dunque fra il 26 e il 27, e questo – sempre seguendo la cronologia di Giuseppe – prima dell’arresto di Gesú, dovremmo essere fra il 28 e il 29-30.

Pilato aveva deciso di far costruire un grande acquedotto per l’approvvigionamento idrico di Gerusalemme. L’identificazione archeologica del tracciato è controversa – e Giuseppe dà anche due cifre diverse per la sua lunghezza – ma l’impianto comunque si sviluppava verso sud, partendo forse da Ain Arrub. Erode, nei suoi imponenti programmi edilizi, non aveva preso nessuna iniziativa del genere, e la città, periodicamente gremita di visitatori in occasione delle feste, soffriva probabilmente di questa mancanza. D’altra parte, la costruzione di opere pubbliche rientrava perfettamente tra i compiti di un buon governatore, e gli acquedotti erano un punto di forza nel modello romano di urbanizzazione.

Per far fronte ai costi dell’impresa, Pilato si rivolse al patrimonio del Tempio: una risorsa imponente, stimata duemila talenti all’epoca di Pompeo. Il tesoro era custodito all’interno dell’edificio da sacerdoti amministratori, ed era alimentato, oltre che da donativi di ogni genere, da un’imposta di mezzo siclo che ciascun giudeo maschio, compiuti vent’anni, era tenuto periodicamente a pagare, si trovasse in Palestina o fuori di essa (sappiamo che Augusto ne aveva facilitato la raccolta e l’invio regolare a Gerusalemme). La ricchezza veniva impiegata per finanziare i sacrifici e per la manutenzione del Tempio, ma poteva essere anche utilizzata per i bisogni collettivi della città.

Che Pilato quindi decidesse di attingervi per il suo acquedotto non poteva suscitare scandalo: rientrava perfettamente nella tradizione. Né è pensabile – e del resto Giuseppe non ne fa il minimo cenno – che avesse compiuto un atto di violenza per entrare in possesso del denaro: che avesse violato in qualche modo la sacralità del luogo ove il tesoro era custodito. Al piú, avrà esercitato pressioni sul sinedrio e sul sommo sacerdote perché condividessero il suo progetto. È evidente perciò che tutta l’operazione di prelievo era stata compiuta con la collaborazione – non sappiamo quanto entusiasta – degli amministratori del Tempio, e quindi del sommo sacerdote.

Ma poi le cose si complicarono. Giuseppe è elusivo su questo punto, e non si capisce bene cosa accadde. Forse, in una parte dell’opinione pubblica giudaica si diffuse la sensazione di uno sperpero ingiustificato del denaro prelevato dal Tempio; o forse non fu condivisa – non sappiamo perché – l’idea stessa di costruire un acquedotto. È anche possibile che vi siano stati contrasti fra i sacerdoti. In ogni caso la situazione precipitò. E in un giorno in cui Pilato si trovava a Gerusalemme, probabilmente per amministrarvi la giustizia, una folla in tumulto ne circondò il tribunale. Non si trattava di uno scatto repentino di collera popolare. Era una manifestazione preparata in anticipo: una specie di agguato in cui far cadere il prefetto. Ma Pilato non fu colto di sorpresa. Venuto a conoscenza in anticipo del piano – aveva di sicuro i suoi informatori – fece infiltrare tra i dimostranti un distaccamento di soldati, in abiti civili e muniti di bastoni, che, senza usare le spade, intervennero in modo pesante ed efficace, forse andando anche al di là degli ordini ricevuti, ponendo però fine in breve alla sommossa. Molti morirono per i colpi ricevuti, altri furono travolti da chi fuggiva terrorizzato.

Questa volta il comportamento di Pilato appare del tutto adeguato, almeno dal punto di vista del buon governo della provincia. Nessun giurista romano – un Giuliano, un Ulpiano – vi avrebbe trovato qualcosa di riprovevole. L’obiettivo – la costruzione dell’acquedotto – era apprezzabile: rispondeva probabilmente a un bisogno reale, ed era in linea con la politica urbanistica imperiale. Formalmente corretto il prelievo dal tesoro del Tempio, in linea anche con le regole giudaiche. Stando cosí le cose, la protesta – certamente manovrata e non sappiamo quanto estesa – non poteva essere tollerata dai Romani. Pilato si muove bene per fronteggiarla. Evita uno spiegamento di truppe in città – mai consigliabile a Gerusalemme – e ricorre a un metodo diverso: impiegando il minimo della forza e realizzando il massimo dell’efficacia repressiva. Certo, vi furono dei morti; alcuni forse semplici passanti (come si lascia intravedere nelle Antichità)42: ma l’ordine pubblico andava mantenuto. Senza inutili crudeltà, ed esercitando la minore pressione possibile, e tuttavia senza alcun cedimento: tanto piú se Pilato aveva intravisto nella dinamica degli eventi l’ombra di un tranello, e qualche ambiguità sacerdotale. L’impero era anche questo: non esattamente una democrazia.

D’altra parte Giuseppe sembra rendersi perfettamente conto della situazione: e, soprattutto nelle Antichità, credo affianchi i due episodi delle insegne e dell’acquedotto soprattutto per mostrare come i due esiti diversi – felice per i dimostranti nel primo caso, cruento e doloroso nel secondo – fossero dipesi dal diverso atteggiamento della folla giudaica: fermo nelle proprie buone ragioni ma pacifico e rispettoso dell’autorità romana a Cesarea, inutilmente violento e in tumulto a Gerusalemme. Con i Romani si poteva convivere insomma, senza essere costretti a rinnegare la propria religione (ecco la tesi): ma stando attenti a rimanere nei confini della legalità imperiale, di cui Pilato, tutto sommato, sembrava essere un interprete accettabile, e – pur se certamente diffidente e lontano dalla religiosità giudaica – non troppo prevenuto.

8. Dopo questi due brevi racconti, nelle Antichità (ma non nella Guerra) Giuseppe accenna velocemente alla morte di Gesú43: e per un tratto brevissimo la sua scrittura incrocia quella degli autori dei Vangeli. Sul testo si sono addensati i sospetti di chi lo vorrebbe attribuire a una piú tarda interpolazione eseguita sulla versione greca. E se certamente nella stesura che oggi leggiamo sono presenti aggiunte dovute a una successiva mano cristiana, che probabilmente effettuò anche elisioni di frasi ritenute offensive per la nuova religione, non vi sono motivi – se non frutto di pregiudizi che risalgono sino alla critica cinquecentesca44 – per non ritenere autentico il resto della scrittura, presente in tutti i manoscritti, perfettamente corrispondente allo stile e al lessico dell’autore, e che doveva press’a poco svilupparsi cosí45: «Circa nello stesso tempo [dei due episodi appena raccontati] visse Gesú, un uomo saggio. Era infatti autore di opere sorprendenti, maestro di uomini che accoglievano con gioia la verità, e conquistò molti giudei e molti greci. Era chiamato il Cristo. Quando Pilato, avendo sentito che egli era accusato dai nostri uomini piú importanti, lo condannò a essere crocifisso, coloro che fin dall’inizio lo avevano amato non smisero di essergli legati. E la tribú dei cristiani, chiamati cosí dopo di lui, non è scomparsa fino a oggi».

Non c’è qui nulla che non ci sia nei Vangeli. Ma un particolare attira la nostra attenzione: «Quando Pilato sentí che egli era accusato dai nostri uomini piú importanti», scrive Giuseppe. Dunque una fonte, o piú fonti, indipendenti dalle tradizioni che fanno capo alla redazione dei Sinottici e di Giovanni, e della cui accuratezza non c’è ragione di dubitare – quelle cui attingeva Giuseppe – confermano un punto essenziale: l’arresto e la condanna di Gesú avevano avuto un impulso giudaico, ben all’interno dell’élite sacerdotale: un’iniziativa che Pilato aveva creduto opportuno seguire, se non proprio incoraggiare. Le due autorità – quella romana e quella giudaica – avevano proceduto fianco a fianco.

Anche Tacito46, in un passaggio ancor piú conciso, ricorda Gesú e la sua morte: non aveva letto Giuseppe, ma forse aveva con lui una fonte in comune47, ed era per lo piú ben informato sulle cose della Giudea, sugli ebrei della diaspora, e anche sul mandato di Pilato. Se potessimo leggere il settimo libro degli Annali avremmo un quadro piú preciso delle sue conoscenze. «L’origine di quel nome [cristiani] è Cristo, che durante il principato di Tiberio era stato mandato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato. Questa esecrabile superstizione, repressa per il momento, sarebbe però nuovamente scoppiata, non solo in Giudea, origine di quel male, ma anche a Roma, dove confluiscono da ogni dove le cose piú orribili e vergognose, e vi fanno scuola».

Di nuovo, bisogna respingere sospetti di interpolazioni che avrebbero stravolto l’originale: chi avrebbe pensato di aggiungere il nome di Gesú in un contesto cosí violentemente anticristiano! È invece la voce severa dello storico che si fa sentire con chiarezza: il disprezzo della ragione imperiale romana, sicura del suo fondamento e del suo buon diritto, nei confronti dell’aberrazione di una setta pericolosa, uscita dal fondo oscuro della storia giudaica. Qui non si vede altro, ed è già abbastanza.

Per Tacito, Pilato era stato dunque nel giusto, come i sacerdoti che avevano chiesto il suo intervento risolutore. A distanza di circa un secolo dall’evento, il conflitto – antropologico e di civiltà, molto piú che solo culturale – si manifestava in tutta la sua violenza. Erano due mondi che si stavano scontrando, veramente.

Andando da Pilato, a piedi e in catene, dopo una notte di tempesta e di affanno, Gesú doveva saperlo.

1. Il prigioniero arrivò alla residenza del governatore nelle prime ore del mattino. Il tragitto era stato breve: fra il palazzo di Caifa e quello di Erode la distanza era piccola. Doveva essere stanco e provato; per l’intera notte aveva subito insulti, minacce, percosse. Aveva dovuto fronteggiare Anna, Caifa e i sacerdoti del sinedrio, che lo avevano incalzato con interrogatori pesanti. Ma era del tutto padrone di sé, come si sarebbe visto ben presto, e possiamo immaginarlo teso e concentrato. Oltre a un drappello della guardia del Tempio – probabilmente lo stesso che aveva proceduto all’arresto della sera precedente – lo accompagnavano i componenti del sinedrio che avevano partecipato alla riunione notturna, forse con il loro seguito di servitori: i sacerdoti piú importanti, ma possiamo supporre (seguendo Luca) anche anziani e scribi. Caifa e Anna non vengono piú nominati, ma tutto lascia pensare che non fossero lontani, almeno per una parte della mattina.

La versione piú accurata di quello che sarebbe accaduto si trova in Giovanni, e seguiremo in primo luogo proprio lui. Non credo tuttavia – come pure è stato sostenuto da storici importanti1 – che questa scelta ci obblighi a ignorare le voci di Matteo, di Marco e di Luca; non trovo cioè convincente l’alternativa radicale «o Giovanni, o i Sinottici». Certo, in alcuni punti le narrazioni sono drasticamente incompatibili, e in questi casi penso anch’io sia preferibile la versione di Giovanni2. Ma per altri particolari le informazioni sono sovrapponibili e comunque non in contrasto. Fondere i testi arricchisce la nostra prospettiva, e non vedo perché dovremmo rinunciarvi.

Gesú fu introdotto nel palazzo, che Giovanni chiama praetorion3, come si era soliti fare per indicare la residenza del governatore. Chi lo aveva accompagnato, invece – guardie, sacerdoti, scribi, anziani e quanti altri – rimase fuori, in attesa. Giovanni dice che fu «per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua»4: era venerdí, e la festa sarebbe iniziata la sera stessa. Si fa tuttavia fatica a rintracciare, nella precettistica ebraica, la regola che sarebbe stata violata se i devoti giudei avessero varcato la soglia: sotto quel tetto non c’era alcun cadavere, né si trattava di un luogo destinato all’adorazione di false divinità; e d’altra parte anche gli impuri – nonostante la loro condizione – erano ammessi alla cena pasquale. Forse, i giudei non entrarono su richiesta degli ufficiali romani, che avevano avuto disposizioni in tal senso per consentire al prefetto di interrogare il prigioniero in modo riservato. Comunque, nessuno si allontanò, e fuori del palazzo si formò cosí una piccola folla che aspettava lo sviluppo degli eventi.

Intanto, in una sala predisposta per l’occasione – probabilmente al piano terra, contigua all’esterno (come si deduce dalla dinamica degli eventi successivi) – Gesú, sempre in catene, fu portato al cospetto di Pilato.

Come abbiamo già detto a proposito della riunione nella notte, anche quello che stava per svolgersi non fu un «processo» nel significato moderno, che allude comunque al rispetto di una procedura svolta secondo regole rigidamente prefissate. E non fu un processo nemmeno nel senso, meno impegnativo, che attribuiamo a questo termine quando lo riferiamo alla repressione criminale romana5 (di un «diritto» penale non è ancora il caso di parlare): e cioè un procedimento condotto secondo l’«ordine» (ordo) di leggi pubbliche votate nei comizi, o regolato «fuori dell’ordine» (extra ordinem) dalla nuova prassi dei funzionari del principe. Gesú non era un cittadino romano, e nemmeno un notabile provinciale che meritasse un trattamento di riguardo. Era un predicatore di umili origini, diventato estremamente pericoloso agli occhi sospettosi dei sacerdoti del sinedrio, ma che non poteva invocare alcuna garanzia né di status né di censo; forse un sovversivo, che attentava all’ordine costituito. Per lui bastava una cognizione sommaria – per quanto non dimentica della legislazione e della prassi romane – che ne accertasse la colpevolezza, e (semmai) una condanna, anche capitale, inflitta sulla base dei poteri coercitivi di cui disponeva il governatore, per delega diretta del principe. La sua incriminazione poteva tutt’al piú diventare un caso politico, ma non certo un problema di leggi e tantomeno di diritto.

Pilato era evidentemente informato di cosa Gesú fosse ritenuto responsabile dalle autorità giudaiche, e per questo ne aveva autorizzato l’arresto. I sacerdoti lo giudicavano un grave pericolo, per loro stessi e forse anche per i Romani, e fin qui il governatore li aveva seguiti. Ma questo bastava per un’operazione di polizia; per portare il prigioniero pubblicamente innanzi al prefetto e ottenere da lui una condanna occorrevano accuse piú precise, in qualche modo riconducibili a crimini puniti da leggi romane. Sarebbe stato impensabile venisse addebitato a Gesú un fatto di sangue; né era possibile contestargli solo una colpa religiosa, perché essa non avrebbe riguardato la giurisdizione imperiale. Una sola strada era praticabile per i persecutori: incriminarlo per un comportamento che ledeva la maestà del popolo romano e la sua sovranità sulla Giudea. E fu quella che, alla fine, si scelse.

Il governatore voleva però che l’accusa fosse resa pubblica: questa della pubblicità dei suoi atti fu per lui una preoccupazione costante nelle ore successive. Egli intendeva sottrarre l’arresto e la probabile condanna all’apparenza di una complicità romana in una congiura sadducea, con il pericolo di un sollevamento di popolo in difesa di Gesú e, in questo caso, di un possibile doppio gioco dei sacerdoti, che avrebbero anche potuto dichiararsi estranei alla punizione eventualmente inflitta al prigioniero. Temeva insomma che tutto potesse risolversi in un tranello teso ai suoi danni: con il rischio di essere prima usato dai sacerdoti sadducei per liberarsi di un pericoloso avversario, e poi scaricato di fronte all’indignazione popolare. E forse aveva i suoi buoni motivi per essere cosí guardingo.

Prima di iniziare l’interrogatorio, Pilato – cauto, professionale, forse moderatamente incuriosito – uscí quindi dal palazzo, e si rivolse ai giudei che sostavano fuori, perché fosse apertamente dichiarato il capo d’imputazione: «Quali accuse sostenete contro quest’uomo?»6

La risposta fu a prima vista sorprendente: «Se non fosse un malfattore, non te lo avremmo consegnato»7 – un’affermazione che potrebbe suonare addirittura irriguardosa rispetto alla domanda di Pilato. Ma dobbiamo stare attenti nel leggere questo dialogo, come i successivi riportati da Giovanni. Essi non hanno alcuna pretesa di costituire una specie di verbale di tutto quanto fu detto in quelle circostanze. E come avrebbero potuto, del resto? Sono solo frasi isolate, trattenute a galleggiare in superficie dal filo della memoria cristiana, in un insieme di parole pronunciate e di gesti compiuti in quell’occasione, ma affondati invece nell’oblio. Frammenti salvati solo perché ritenuti rivelatori di un pensiero, un atteggiamento, un carattere, o di una piega che stavano prendendo gli avvenimenti.

I sacerdoti evidentemente fecero presente a Pilato – in pubblico, nello spazio aperto innanzi alla sua residenza ufficiale, dopo averglielo detto molte volte in segreto – come ritenessero pericoloso Gesú, e di quali e quante colpe, religiose e politiche, si fosse macchiato. In quest’atto d’accusa probabilmente confusero di nuovo, trascinati dalla foga, ma anche perché i due campi si sovrapponevano davvero nella loro cultura, religione e politica, ordine pubblico e timor di Dio. La scrittura di Luca qui integra bene la versione di Giovanni: «Abbiamo trovato costui che sobillava la nostra gente, impediva di versare i tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re»8, avrebbero risposto i sinedriti. Ma il governatore non fu ancora soddisfatto: aveva bisogno della massima chiarezza dal punto di vista romano. Voleva coprirsi le spalle. E fu per questo che a un certo punto, forse di fronte a un’ambiguità dei sacerdoti, per obbligarli a uscire del tutto allo scoperto, dovette replicare: «Prendetelo <allora> voi, e giudicatelo secondo la vostra legge»9, la quintessenza del modo romano di governare, il rispetto dell’autonomia dei sudditi: kata ton nomon hymonsecundum legem vestram.

Fu una mossa abile, eseguita al momento giusto. La trappola cosí minacciava di scattare per gli accusatori, che si sarebbero ritrovati tra le mani, in pieno giorno, con la Pasqua ormai imminente, a dover gestire l’ingombrante presenza di Gesú, mentre volevano a tutti i costi che il prigioniero diventasse un problema romano, da risolversi con una condanna romana. Ed è cosí che, messi alle strette, non sappiamo nel contesto di quale argomentazione, i sacerdoti furono obbligati a ricordare e a ribattere: «A noi non è lecito dare la morte ad alcuno»10. Perché era la morte – e quella sola – che volevano per l’accusato.

Gli storici hanno discusso a lungo circa la natura del divieto invocato dai notabili giudei: se fosse una limitazione permanente, imposta dal potere romano ai tribunali della comunità (sostanzialmente al sinedrio) – come sarei fortemente propenso a ritenere – oppure se l’impedimento avesse solo un carattere temporaneo, connesso all’imminenza della Pasqua; o infine se esso andasse ricondotto a una proibizione generale fissata dalla stessa legge mosaica («tu non ucciderai»)11. Resta il fatto che in ogni caso, in quelle circostanze, erano solo i Romani a poter pronunciare una condanna a morte.

Pilato cosí aveva raggiunto il suo obiettivo, e segnato un punto a proprio vantaggio. Aveva costretto i sacerdoti ad ammettere pubblicamente che volevano la morte del prigioniero, e li aveva costretti a formulare, sempre in maniera manifesta, un’accusa accettabile dal punto di vista romano. E questa fu, come sarà evidente subito dopo, che Gesú si era proclamato re dei giudei – del popolo di una provincia imperiale! – turbando cosí in modo grave ed evidente l’ordine pubblico, e perpetrando un crimine che, se commesso a Roma, sarebbe stato punito secondo quanto disponeva la lex Iulia maiestatis12.

La prima scena si conclude qui. Il prefetto allora rientrò nel palazzo, si fece condurre innanzi Gesú, e cominciò a interrogarlo, rendendo chiara, dalla sua domanda, quale dovesse essere stata l’incriminazione proposta infine dai sacerdoti: colpevole del crimen maiestatis, passibile a Roma della pena di morte (e anche, probabilmente, di sedizione, e di incitamento a sottrarsi all’obbligo del tributo).

«Sei tu il re dei giudei?»13 chiese quindi all’inquisito, una domanda che troviamo riportata anche dai Sinottici.

Non sappiamo in che lingua Pilato e Gesú si parlassero. È possibile in aramaico, l’idioma locale, se Pilato lo aveva imparato negli anni trascorsi in Giudea. Meno probabilmente, in greco, poiché non ci risulta che Gesú lo conoscesse, mentre Pilato di sicuro lo padroneggiava e lo avrà usato quotidianamente a Cesarea. Non possiamo nemmeno escludere la presenza di un interprete, chiamato dalla cancelleria del governatore. Comunque dobbiamo presumere che i due non siano restati mai soli. Con Pilato, oltre al servizio di sicurezza, che aveva in custodia l’accusato, c’erano i subalterni che lo affiancavano di regola nella sua attività di giurisdizione. Quanto si dissero ebbe di sicuro dei testimoni, e forse ebbe anche una sommaria verbalizzazione.

2. Il prigioniero rispose. Noi però, prima di fermarci sulle sue parole, dobbiamo porci a nostra volta una domanda che ritengo essenziale, ma su cui, invece, tutti stranamente sorvolano. Nell’affrontare una prova tanto drammatica quanto aspettata e prevista – il compimento della sua missione non poteva che passare dall’esito di quell’incontro – Gesú stava seguendo una strategia alla quale adeguava la sua condotta? Aveva degli obiettivi? O semplicemente improvvisava, travolto dalla disperazione e dall’affanno?

Quel confronto cosí apparentemente diseguale era il culmine della sua predicazione e della sua testimonianza; il punto di convergenza in cui confluivano le linee di forza che avevano dato forma e significato alla sua esistenza. Egli sapeva che da quanto sarebbe successo nelle prossime ore dipendeva l’immagine definitiva che avrebbe consegnato di sé al mondo e alla storia, per sempre; il valore ultimo del suo annuncio. Tutto si concludeva in quel solo quadro: due uomini di fronte, l’uno in catene, l’altro nell’incontrastata pienezza del suo potere. Nessuno dei due rappresentava solo se stesso. Entrambi erano lí nel nome di un altro, del cui volere si consideravano interpreti ed esecutori. Pilato, dell’imperatore, «padrone del mondo»14, e questo era stabilito e noto a tutti. Gesú, nel nome del Padre suo, e di questo egli era altrettanto certo, ma di una certezza solitaria, esposta al dubbio e all’angoscia. Nell’immagine che si era formata nei suoi pensieri, e nella visione che ne avrebbe trasmesso alla memoria cristiana, nel pretorio di Gerusalemme non si trovavano un imputato e il suo giudice, ma erano Dio e Cesare che si stavano finalmente parlando.

Questa trasfigurazione di un interrogatorio quasi di routine nell’atto fondativo di un’epoca domina l’interiorità di Gesú in quelle ore, determina le sue parole e (come vedremo) finirà con il coinvolgere anche Pilato. Nulla di quanto dice il prigioniero è perciò improvvisato, nulla è abbandonato all’emozione del momento. C’era una missione da portare a compimento, e dunque un disegno da realizzare, che la scrittura dei Vangeli permette ancora di restituire.

Gesú aveva dunque una strategia, e con essa si proponeva di raggiungere due risultati. Il primo lo potremmo definire di carattere teologico-politico: c’era per lui un cammino da concludere. Il secondo era piú personale – se possiamo dire cosí – ma ancor piú importante, e riguardava il suo destino. In ogni caso non disse nemmeno una parola con il solo scopo di difendersi. Aveva da portare a termine un compito, e fu quel che fece.

«Dici questo da te, oppure altri te l’hanno riferito sul mio conto?»15, replicò dunque il prigioniero. Era una risposta cauta, per ora interlocutoria. La domanda di Pilato era stata forte, conteneva una parola cruciale – basileus, re, nella lingua dei Vangeli – e metteva direttamente in questione la posizione dell’inquisito rispetto all’accusa. Ma Gesú voleva sgombrare il campo da ogni equivoco, capire bene il senso di quello che gli veniva chiesto: si trattava di una deduzione del governatore, o questi si faceva portatore di un’opinione altrui? Egli sapeva bene, dopo la notte passata nelle loro mani, cosa pensassero di lui i sacerdoti; ma voleva rendersi conto di quel che poi avevano riferito a Pilato, e cioè di come avessero tradotto in politica – vale a dire in termini di repressione criminale romana – le accuse religiose che gli erano state mosse negli interrogatori notturni.

Pilato capisce perfettamente l’intenzione di Gesú, e, sorprendentemente, non ha difficoltà a rispondergli, sia pure con qualche giustificata (almeno dal suo punto di vista) altezzosità. Tanta condiscendenza non era un comportamento consueto, date le circostanze. Un inquisito come colui che gli stava di fronte – un suddito di umili origini, su cui pendeva un’accusa gravissima avanzata dal consiglio della sua comunità kata ton nomon hymon – non era in condizioni di porre alcuna domanda, e men che mai al governatore in persona. Avrebbe dovuto solo rispondere, fosse anche sotto tortura. Pilato invece accetta subito di instaurare un rapporto meno schiacciante. È possibile fosse rimasto già colpito dalla personalità del prigioniero. Tutta la vicenda della predicazione di Gesú testimonia di un magnetismo eccezionale, con una forza carismatica immediatamente irradiata. E d’altra parte il prefetto doveva saper ben valutare, a colpo d’occhio, chi si trovava di fronte: non sarebbe rimasto a lungo dov’era, altrimenti.

L’interrogatorio si trasformò cosí, almeno per il momento, in un vero e proprio dialogo. La sua eccezionalità non sembra un’invenzione della memoria cristiana – l’andamento è troppo oscuro e intermittente per essere il risultato di un artificio – ma è piuttosto la ragione della sua conservazione.

«Sono forse un giudeo?16 Il tuo popolo e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?17», disse Pilato.

L’esordio serviva a ristabilire in qualche modo le misure, sia pure in una maniera inedita e quasi colloquiale. Il governatore era il rappresentante del principe, e non poteva certo curarsi di dicerie popolari, dalle quali peraltro non avrebbe avuto niente da dedurre. Piú che sprezzatura verso Gesú, in quella constatazione in forma di domanda retorica e beffarda – «sono forse un giudeo?» – c’era il segno di una presa di distanza totale rispetto all’ambiente e alla religione del paese che pure Pilato governava: quella stessa che doveva aver motivato il pessimo giudizio di Filone, e che in fondo emergeva, sia pure frenata dalla prudenza e dalla duttilità, anche nell’episodio delle insegne. Per la cultura del prefetto romano – che mai avrebbe detto con eguale asprezza «sono forse greco?» – la sensibilità religiosa giudaica era un universo opaco e lontano, rispetto al quale l’incomprensione era nello stesso tempo un modo di autoproteggersi e una maniera per riaffermare la superiorità romana. Non sappiamo se Pilato avesse mai letto la Bibbia, almeno in parte, nella versione greca che circolava ormai da tempo fra Siria ed Egitto, ma certo non ne era rimasto catturato.

Poi il governatore scopre le sue carte: Gesú è lí perché altri lo hanno consegnato, dichiara. Il prigioniero lo sapeva bene, naturalmente. Ma quell’affermazione ovvia, sulle labbra di Pilato – seguita poi dalla domanda che conclude questo segmento del dialogo – acquistava un significato diverso dall’inutile constatazione di un dato di fatto. Giovanni, forse, la ricorda proprio per questo. Diventava una prima, impegnativa ammissione che l’autorità romana, fino al momento dell’interrogatorio, non aveva niente di davvero rilevante contro l’inquisito. Tutto era ancora sospeso.

Nonostante l’intensa pressione cui doveva essere stato sottoposto negli ultimi giorni da Anna, da Caifa e dai loro seguaci del sinedrio, è dunque un Pilato riluttante e ancora restio che ribadisce come l’iniziativa dell’arresto non sia stata sua. Le sue parole suonano quasi come una giustificazione, una prima rivendicazione di estraneità.

Colpisce la formula che, secondo Giovanni, avrebbe usato il governatore: «Il tuo popolo e i capi dei sacerdoti». Viene in mente l’antica clausola romana per indicare l’interezza della comunità cittadina – senatus populusque, senato e popolo – adattata alla realtà giudaica, con i capi dei sacerdoti al posto dei senatori. Pilato potrebbe aver detto proprio queste parole. Se lo avesse fatto, ci troveremmo tuttavia di fronte a una consapevole forzatura, rivelatrice, come in un lampo, di un suo stato d’animo. «Il tuo popolo», egli avrebbe affermato (è cosí che dobbiamo tradurre ethnos, e non la «tua gente», nel senso di una semplice sottolineatura dell’identità etnica fra accusato e accusatori; altrimenti l’endiadi con i sacerdoti non avrebbe avuto senso): eppure in tutta la vicenda, per come si era svolta fino ad allora, il popolo non era comparso affatto. Niente si era visto di paragonabile alla folla che si era recata a Cesarea a supplicare di rimuovere le insegne, e nemmeno a quella, forse oscuramente sobillata, che aveva protestato per l’affare dell’acquedotto. In questa occasione erano scesi in campo solo i sacerdoti, raccolti intorno ad Anna e Caifa, e con loro la maggioranza del sinedrio, che Pilato certamente sapeva convocato in una precaria riunione notturna, e che ora sostavano in attesa, nella spianata davanti al palazzo. Erano loro «il popolo»?

Sarebbe stato difficile da sostenere, anche pensando alla componente farisea del consiglio. Dobbiamo perciò dedurre che Pilato lo stesse affermando pur sapendo bene che quell’organismo costituiva in realtà un ristretto collegio oligarchico e non un’autentica assemblea popolare – un tipo di istituzione, quest’ultima, che i Romani non incoraggiavano nelle città del loro impero, e non solo in Giudea, preferendovi consessi con un piú tranquillizzante connotato aristocratico.

Il prefetto, tuttavia, aveva le sue ragioni per un riferimento cosí improprio: con la sua dichiarazione, voleva ancora una volta sottrarre l’arresto all’ombra di una congiura sadducea, e farlo apparire – perfino allo stesso Gesú – come giustificato da un consenso popolare che invece temeva non vi fosse. E questa era stata una sua preoccupazione, forse la piú insistente, fin dall’inizio: che cioè il potere romano potesse finire con il diventare lo strumento inconsapevole di una resa di conti tra fazioni, cercata solo dai sacerdoti, e forse nemmeno da tutti loro.

«Che cosa hai fatto?», concluse poi Pilato, riprendendo le fila dell’interrogatorio. Ora non domanda a Gesú soltanto se si proclami re dei giudei. Cerca piuttosto di allargare il raggio dell’indagine, e gli si rivolge in un modo piú generico, che chiama in causa l’insieme delle sue azioni e delle sue parole. Invece di incalzarlo su un punto preciso – quello cruciale della regalità, enfatizzato evidentemente dai sacerdoti – gli sta chiedendo perché i giudei lo abbiano trascinato davanti a lui. È una specie di passo indietro – di nuovo una scelta inattesa. Vuole mettere a confronto la versione dei sacerdoti e quella del prigioniero. È come se facesse ripartire da zero l’inchiesta. Il dossier del sinedrio evidentemente non basta. Non abbiamo elementi per affermare che Pilato non intendesse tenerne conto. Ma piú ha di fronte il prigioniero, meno lo trova sufficiente.

3. Non siamo sicuri di cosa abbia ribattuto Gesú. Nella versione di Giovanni sembra ci sia a questo punto un salto. «Gesú rispose»18, leggiamo, ma ci accorgiamo subito che quanto dice non si riferisce all’ultima domanda di Pilato («che cosa hai fatto?»); e non sappiamo se questo accade perché la richiesta del prefetto restò senza una replica diretta da parte del prigioniero, o piuttosto perché (come ritengo verosimile), il resoconto giovanneo qui si interrompe, per continuare da un tratto successivo del dialogo.

Quando riprende, vediamo Gesú tornare alla questione da cui era iniziato l’interrogatorio, e che prima aveva eluso («sei il re dei giudei?») Adesso invece, dopo quanto detto da Pilato, gli sembra venuto il momento di sciogliere il nodo.

«Il mio regno19 (he basileia he eme) non è di questo mondo (tou kosmou touto). Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei sottoposti si sarebbero battuti perché io non fossi consegnato ai giudei. Ma il mio regno non è di qui», risponde.

Era un’affermazione che sarà suonata molto sorprendente per Pilato; certo lontana da quanto poteva aspettarsi, anche se non dissonante rispetto a quello che era stato sino ad allora l’insegnamento di Gesú.

La religione ebraica ruotava intorno a un centro essenziale, che era insieme teologico e politico: l’alleanza – concepita come un vero e proprio contratto, alternativa rispetto alla ricerca di qualsiasi altra forma di potenza – fra un Dio-persona unico e solitario e il popolo d’Israele, che diventava cosí il popolo «eletto». Veniva instaurata in tal modo una forma particolare di rapporto fra comunità politica e ordinamento religioso, o, come è stato detto20, fra potere e salvezza. Dietro questa concezione agiva un nucleo culturale straordinariamente ricco e produttivo. La sua formazione – la sua archeologia – non ci è ancora abbastanza chiara, nonostante molte recenti e importanti ricerche; ma esso va considerato come l’autentico motore di quella che abbiamo definito come la storia pensata (immaginata) d’Israele, e dunque della scrittura della Bibbia.

In un simile contesto, il monoteismo figura come un’acquisizione piuttosto che come un elemento originario: ma, una volta impiantato, esso divenne capace di elaborare, a differenza di tutte le altre religioni primarie dell’area mediterranea, un esigente rapporto critico tra verità e falsità – fra vera e falsa religione – e di sviluppare l’idea radicalmente nuova di un Dio che, non potendo essere «rappresentato» (di qui il rigoroso aniconismo), si faceva direttamente legislatore. Il principio della «regalità di Dio» si sostituí cosí alla regalità propriamente politica, che finí con l’esserle completamente subordinata, fino a dissolversi. Dio doveva regnare senza mediazioni.

Fu questo processo a rendere la Bibbia nello stesso tempo un libro di teologia e il fondamento dell’identità «nazionale» giudaica. E fu sempre all’interno di un simile nucleo – come suo presupposto e come sua conseguenza – che si consolidarono i caratteri piú forti della religiosità ebraica: l’intransigenza del suo monoteismo, la sua esclusività identitaria – con la conseguente costruzione teologica (e potenzialmente violenta) del rapporto politico fra amico e nemico, fra seguaci della verità e seguaci della menzogna – la sua incontenibile vocazione teocratica («Dio stesso ed egli soltanto è colui che governerà su di voi»)21. Non a caso, «teocrazia» sarà proprio una parola inventata da Giuseppe22 per descrivere la peculiarità della tradizione politica del proprio paese.

Gli storici moderni hanno giustamente sottolineato l’intreccio, nel funzionamento storico di questo dispositivo, fra teologia e politica: nel senso di una teologia che, nata originariamente dalla politica (tutti i concetti teologici non erano che forme politiche travestite), finiva con il prenderne il posto, sostituendola completamente dopo averne fatto propri i caratteri. Teologia e politica si fondevano cosí in una sola «macchina»: la «teopolitica»23 del popolo ebraico, che consentiva il potere umano solo in forme subalterne. Ciascuno dei due termini produceva (o aveva prodotto) i suoi effetti sull’altro, trasformandone il significato e la portata: la sacralizzazione dell’etica e la teologizzazione dell’idea di giustizia furono tra le prime conseguenze di questa fusione e di questo scambio. L’incessante e mai abbastanza appagata aspirazione teocratica era dunque per il popolo giudaico il risultato di un lungo cammino.

Il Gesú dei Vangeli interviene con forza su questo impianto. Non lo rinnega, ma lo trasforma. La sua predicazione sarebbe incomprensibile fuori del quadro della cultura ebraica, che aveva completamente assorbito, e di cui deve essere considerato come una diretta proiezione. Ma sceglie di riformare in profondità il patrimonio di emozioni e di idee che aveva ricevuto. Non di azzerarlo, bensí di elaborare in modo nuovo quella relazione fra potere e salvezza che ne costituiva il cuore pulsante, ricucendo finalmente lo scarto fra storia pensata e storia reale d’Israele, e provando a riconciliare il passato (solo pensato) con il presente (duramente tangibile) della sua gente. La tradizione giudaica veniva sciolta entro un disegno diverso: non diciamo piú maturo (ogni evoluzionismo come metro di giudizio per la storia religiosa ebraico-cristiana sarebbe qui del tutto improprio e infondato), ma certamente piú flessibile e potenzialmente piú inclusivo. Era una svolta, poi completata dal pensiero cristiano successivo, non diciamo un progresso.

Innanzitutto, Gesú apre la via per incidere sulla struttura teologica del monoteismo, introducendo dal suo interno la presenza rivoluzionaria del Figlio, cioè di se stesso. Questo trasforma l’Uno in Padre24, dividendolo in Due attraverso la presenza del Figlio – due Persone in Una – secondo una figura di inclusione escludente destinata a segnare attraverso innumerevoli elaborazioni, da quelle cristiano-ellenistiche fino a Hegel, tutto il pensiero dell’Occidente. Il Dio-persona rimane ben fermo – e questo sarà decisivo – ma ormai scisso. Non solo. Gesú porta il Due anche all’interno di se stesso, sdoppiandosi come il Padre, ma questa volta a causa della sua duplice natura umana e divina, in Uomo e in Dio. Ora è attraverso di lui, e solo di lui – e dunque attraverso il Due – che Dio, l’Uno, entra nel tempo e nella storia. Paolo avrebbe lavorato con forza su questa indicazione.

Sarebbe stata una riforma di portata incalcolabile, che innesta la tensione del movimento, della negazione, della contraddizione perfino – in una parola, della storicità – dove prima, nella tradizione monoteista, era impensabile cercarla: nella costituzione unitaria del divino. Il monoteismo non è messo in dubbio – il Padre e il Figlio hanno la medesima sostanza – ma ora esso appare, per cosí dire, non piú bloccato su se stesso, ingabbiato in una configurazione staticamente riflessiva. Adesso è possibile ritrovare al suo interno la diversità, la variante, la differenza delle attitudini e delle disposizioni: e tutto questo proprio in rapporto all’umano; perché è solo rispetto all’umano che il Padre si è diviso in Due e ha generato il Figlio, la cui (a sua volta) doppia natura è il sigillo di una nuova alleanza di Dio con le sue creature.

Certo, la separazione fra Padre e Figlio presuppone comunque l’unità. Il principio monoteista è salvo, e l’esclusione – il Figlio separato dal Padre – ha sempre la capacità di includere nuovamente. Ma il gioco delle alternative moltiplica possibilità e prospettive. Raffigura intrinsecamente Dio come un Dio Dialettico – e dialettico in funzione dell’umano. L’alleanza con Dio esalta l’umano, ma modifica anche la forma stessa di Dio.

Il nuovo assetto binario del monoteismo si riflette sulla relazione fra potere e salvezza, o, se vogliamo dirlo in modo diverso, sulla struttura e sul funzionamento della macchina teologico-politica ebraica (il concetto di «teologia politica»25 non è moderno e tantomeno nasce con Spinoza, come solitamente si crede; è invece ellenistico-romano, sviluppatosi in un ambiente culturale fra II e I secolo a. C., dal circolo del filosofo Aezio, al giurista Quinto Mucio Scevola, all’erudito e antiquario Marco Terenzio Varrone).

Al Due che adesso riempie il cielo, corrisponde una scissione speculare sulla terra. Il dogma teocratico si spezza: il dispositivo teologico-politico produce ora la duplicazione dei mondi (kosmos nella lingua di Giovanni) e dei poteri che li reggono: in cielo e in terra. E però quando Gesú dice «il mio regno non è di questo mondo» sta tracciando un confine, non sta scavando un abisso insormontabile. Se lo facesse, finirebbe in un vicolo cieco, e con lui il cristianesimo. Invece, nello stesso modo in cui il Due esclude per includere (e tuttavia esclude), cosí la separazione fra i regni – quello di Dio e quello di Cesare – divide per connettere, distingue per interferire: e tuttavia divide.

È vero, come è stato sostenuto con autorevolezza e dottrina26, che l’itinerario di ogni teologia politica che si ispiri al monoteismo – e particolarmente di quella moderna, aggiungerei – non può prescindere da entrambe queste formulazioni: quella escludente («il mio regno non è di questo mondo»), e quella inclusiva («Dio solo governerà su di voi»). Tuttavia una simile affermazione non può far dimenticare che è solo rielaborando la prima delle due – la teologia dell’esclusione inaugurata dal Gesú dei Vangeli all’interno del suo monoteismo riformato – che l’intera storia dell’Occidente ha assunto i caratteri e la consistenza che le riconosciamo. In questo senso, ebraismo e cristianesimo non sono riconducibili al medesimo «punto archimedico»27, per riprendere la formulazione di Assmann. Il cambiamento introdotto da Gesú, consegnato alla memoria evangelica e poi – non senza strappi e oscillazioni – al pensiero cristiano che l’avrebbe sviluppato da Paolo a Tertulliano, a Eusebio, ad Agostino, sino alla Scolastica medievale e alla riflessione luterana, aveva aperto un varco – che possiamo anche definire per semplicità come una breccia di secolarizzazione – attraverso il quale sarebbe passato tutto il cammino d’Europa (e poi d’America), e l’impianto complessivo dello Stato moderno con il suo intero apparato ideologico. Questo non vuol dire che il cristianesimo segni un passo in avanti rispetto all’antico ebraismo. Indica solo una strada diversa nel rapporto fra politica e religione monoteista: un percorso che è stato molto battuto, e di cui noi siamo i diretti eredi.

Quando Gesú dice che il suo regno non è di questo mondo sta letteralmente capovolgendo su se stessa la tradizione della teocrazia giudaica. Il potere di Dio non si riflette piú senza mediazioni nel potere mondano: questa novità metteva in questione tutta la storia raccontata nella Bibbia, e lo stesso contenuto politico dell’antica alleanza. Non li smentiva: ma obbligava a guardarli attraverso una luce nuova; la luce di un Dio che non doveva piú coincidere con il Dio degli eserciti e prendere il posto del sovrano legislatore.

Nella sua risposta, Gesú non ha esitato a far sua la parola che gli viene rinfacciata come un tremendo capo d’accusa: «regno», basileia. Ancora una volta la teologia svela la sua matrice politica. Non si erano quindi del tutto sbagliati i capi dei sacerdoti nell’imputargli quel titolo. Egli è davvero «il re dei giudei». Ma pure, i Romani non hanno nulla da temere da questa rivendicazione, perché il potere che fonda la sua regalità, «non è di qui» (ouk estin enteuthen). Proprio perché incommensurabile rispetto a ogni potenza terrena, esso ha un’altra origine, e si sviluppa secondo un progetto che guarda alle cose del mondo da un punto di vista diverso e alternativo, e traccia rispetto a esse un confine che non può mai essere dimenticato.

La distinzione coinvolgeva il rapporto fra potere e violenza: un punto essenziale, nella tradizione ebraica. Nelle parole di Gesú non c’è alcun nesso diretto fra potenza di Dio (nei cieli) e uso mondano della violenza per imporne il rispetto sulla terra: si apriva in questo modo la strada a una prima – essenziale – «depoliticizzazione» del monoteismo. «Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei sottoposti si sarebbero battuti…» dice Gesú. È un richiamo fortissimo alla drammaticità della sua condizione attuale – non è stato difeso da nessuno – e nello stesso tempo l’affermazione della sua parzialità e provvisorietà. Mentre viene umiliato dal potere mondano, continua tuttavia a essere re in quell’altro regno. La maestà di Dio non si misura dalla forza delle armi: Gesú è in catene, e tuttavia ciò non gli impedisce di presentarsi come Figlio dell’Onnipotente.

Questo concetto per lui capitale l’aveva del resto già proposto, sia pure in maniera meno netta e definitiva, in un episodio celebre, riferito in termini pressoché identici nei Sinottici, ma non presente in Giovanni: un precedente che illumina e chiarisce la portata dell’affermazione enunciata innanzi a Pilato. «Quel che è di Cesare, rendetelo a Cesare, e quel che è di Dio, a Dio»28, aveva risposto, dopo essersi fatto mostrare l’effigie dell’imperatore su una moneta, a chi – erodiani, farisei, ma forse anche spie infiltrate da Gerusalemme – gli chiedeva, per tendergli una trappola, se si dovesse o no pagare il tributo ai Romani.

Il senso della frase sembra del tutto coincidente con l’affermazione circa i due regni. Ma in realtà ne chiarisce il significato, perché fissa una gerarchia. Essa va infatti interpretata in modo meno conciliante di quanto solitamente si pensi. Gesú non stava semplicemente dicendo che le imposte imperiali vanno pagate, sulla base di una pacifica e tranquilla distinzione fra quel che appartiene a Cesare o invece compete a Dio. Stava piuttosto esortando a lasciare come inutile peso a Cesare quel che sembra appartenergli – il denaro, con la sua effigie – per dedicarsi con maggior impegno alle cose di Dio, cioè all’interiorità dell’uomo e alla sua salvezza. «Abbandonate pure a Cesare…», è come se avesse esclamato, dando a quell’imperativo – apodote, che ricorre in tutti e tre i Sinottici – il valore incalzante del richiamo a una dismissione radicale e a un brusco allontanamento – una lettura peraltro già proposta e molto antica29.

I «regni» dunque – quello di Dio e quello di Cesare – non sono sullo stesso piano; tra loro non c’è simmetria. Non hanno eguale dignità, e il rapporto che li lega rimane intrinsecamente problematico. Quel che è di Cesare può essere dismesso senza danni e non mette in questione la salvezza. Quel che è di Dio, no. Richiede una dedizione totale. L’esistenza sovrastante del primo regno si incunea per cosí dire nel secondo, riducendone e relativizzandone il valore e le prospettive, anche quando quest’ultimo sembra vincere in modo schiacciante. Ciascuno di noi è sempre sospeso tra i due – ecco che ritorna il tema della scissione: del Padre, del Figlio, dell’uomo – e deve scegliere; l’autonomia dei due mondi sul piano della storia è, nello stesso tempo, garanzia di libertà e condizione di un laceramento continuo.

Fra i due livelli si costituiva inevitabilmente un ininterrotto campo di interferenze. In una di esse – quella decisiva – Dio si era fatto Uomo. Nell’affermarne la duplicità e la separata esistenza, il Gesú della predicazione evangelica stabiliva perciò anche, per ora implicitamente, ma già con estrema chiarezza, una ferma gerarchia fra i due mondi, di cui però non definiva né le forme né gli ambiti, anche se è evidente che essa non poteva risolversi nell’annientamento dell’uno rispetto all’altro. Il punto rimaneva drammaticamente incerto, un cruciale «non finito» che lasciava un immenso territorio da esplorare: esattamente quello che la storia, nei due millenni successivi, si sarebbe incaricata di fare.

La forza dell’annuncio di Gesú stava anche nel concreto contesto della sua proclamazione. Il suo insegnamento si stava concludendo di fronte a Pilato (è un’intuizione giustissima che questi «vi figuri per ragioni essenziali»30): l’ultimo momento della sua predicazione è per l’ascolto del prefetto. Bisognava avere innanzi la potenza dispiegata di Cesare, per poterne dichiarare la relatività e la finitezza. La presenza, come ascoltatore esclusivo, del suo delegato è una parte costitutiva nella comunicazione del messaggio.

In un certo senso, è come se Gesú avesse qui bisogno di Pilato per poter dare compimento al suo pensiero, e tutto lascia credere che ne fosse consapevole. È soltanto davanti al prefetto romano nel pieno esercizio della sua funzione e della sua rappresentanza che Gesú, inerme e in catene, può proclamare davvero la separazione fra i due regni: una lontananza che per lui avrà tra poco la piú tragica delle conseguenze; e nello stesso tempo affermare, come ha già fatto e sta ancora per fare, il primato assoluto del mondo da cui viene rispetto a quello che si prepara a fare scempio di lui.

La scena è di una potenza simbolica senza eguali: nella scarna economia di mezzi espressivi cui si fa ricorso nel racconto di Giovanni, si concentra una forza evocativa che non dà tregua. La sterminata mole di riflessioni e di eventi che quella breve sequenza di immagini e di pensieri non ha smesso per due millenni di generare retroagisce sulla sua luce originaria, e la rende abbagliante in modo quasi insopportabile. Ed è una scena, come ci stiamo rendendo sempre meglio conto descrivendola, storicamente del tutto persuasiva. Nulla vi appare fuori posto. Che sia anche accaduta – nei fatti e non solo nella memoria, e per giunta nei termini in cui la raccontiamo – potrebbe anche essere, fra tutte, la cosa meno importante.

Gesú non si ribella a Pilato, e non ne contesta il ruolo. Sfiora questa possibilità («se [...] allora i miei sottoposti combatterebbero»)31, per escluderla subito e definitivamente. Non è uno zelota in rivolta, e nemmeno il profeta di un’apocalisse che sta precipitando per travolgere tutto. Non ha un obiettivo politico immediato da raggiungere: non ne ha mai avuti. E sa – per averlo detto – che il momento della fine dei tempi è ignoto a tutti tranne che al Padre. Lo stesso Figlio non lo conosce: un esempio della dialettica instaurata all’interno dell’Uno. Egli sa solo che verrà («Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno sa, neppure gli angeli in cielo, neppure il Figlio, ma soltanto il Padre»: cosí Matteo)32. Ma per ora il suo annuncio deve fare i conti con il mondo che c’è. La sua lezione piú guarda lontano, al di là degli stessi orizzonti della storia, piú è piena di realismo.

I Romani non sono per lui gli oppressori del suo popolo. Niente ci induce a crederlo: è un discorso che non gli appartiene, e sarà anche per questo che l’esito catastrofico della rivolta del 66 non travolgerà la nascente tradizione cristiana. Pilato deve averlo percepito subito, e deve essersene sentito tranquillizzato (come vedremo): non è un insorto né un sobillatore che ha di fronte.

Per Gesú i Romani sono piuttosto i padroni del mondo, che possono disegnare l’effigie del loro imperatore sulle monete dei giudei, e portare i propri soldati da un capo all’altro della terra, fino alle soglie del Tempio. Sono l’incarnazione per eccellenza del potere mondano, coloro che hanno reso universale sulla terra quel regno cui si è appena riferito per riconoscerne l’esistenza e l’autonomia.

Due punti sono centrali nel suo insegnamento: che il momento del suo ritorno nel mondo – la parusia – non è predittibile, né è prevedibile quando avverrà lo scontro finale con il Male; mentre si apre invece per l’uomo il tempo dell’attesa. E che in questa durata, il potere mondano ha una consistenza e un impianto non immediatamente riconducibili al regno di Dio. La presenza del Figlio in catene di fronte a Pilato è la prova di questo spessore, di questa irriducibile sporgenza dell’umano.

Gesú, con il suo comportamento, accetta un simile sdoppiarsi di piani; in qualche modo lo legittima. Non rifiuta il potere di Pilato; si limita a mostrarne i confini, innalzandogli di fronte l’altro regno. Il passo successivo è breve: se il potere mondano, nella forma piú alta che esso aveva assunto in quel tempo, e cioè in quella dell’impero romano, non viene contestato in quanto tale, è perché gli si riconosce – o gli si attribuisce – un ruolo, una funzione, un compito. Ma quale?

Gesú – almeno il Gesú dei Vangeli – non lo dice. Ma crea tuttavia, con le sue parole e i suoi comportamenti, uno spazio di senso in cui quel discorso possa e debba essere completato, perché il cristianesimo si radichi nella storia. Se si vuol restare nel solco dell’insegnamento e dell’esempio del Maestro, occorre dare una risposta.

Già nella Seconda lettera ai Tessalonicesi33, Paolo (o chi per lui, se dobbiamo dubitare dell’autenticità dello scritto), si rivela perfettamente consapevole di questa urgenza. E in un passaggio molto oscuro, in diretto contatto con il testo di Matteo prima riportato, sembra assegnare al potere costituito degli uomini – in continuità con il pensiero di Gesú – il compito di «trattenere», attraverso il suo ordine, la vittoria terrena di quel che definisce il «mistero dell’anomia». Solo quando «chi trattiene» – ho katechon – verrà messo da parte, l’avvento apocalittico di «colui che è senza legge» – ho anomos – potrà compiersi, e questo a sua volta aprirà la strada al ritorno vittorioso di Cristo – alla sua parusia – che sconfiggerà definitivamente il Male.

Per opposizione34, il katechon sembra dunque doversi identificare con un provvisorio sistema di ordine e di regole, sostenuto da un potere in grado di imporlo, che l’arrivo dell’Anticristo rovescerà nel suo contrario – la totale anomia – prima che Gesú, ritornato, lo annienti con il «soffio della sua bocca». Stava forse pensando l’ellenizzato Paolo (o qualcuno dei suoi allievi) all’impero di Roma, sostenuto da una capacità senza eguali di unificare gli uomini dettando loro un nomos universale (che era poi il modo con cui i Greci, da Polibio in poi, si raffiguravano Roma)? È difficile dirlo con certezza, ma la soluzione affermativa mi sembra probabile. Se fosse cosí, potremmo avere una traccia di cosa pensasse di Pilato Gesú, che lo aveva di fronte, nel praetorion di Gerusalemme: lo avrebbe visto come il rappresentante di un ordine imperfetto e transeunte, e tuttavia necessario nel disegno del Padre, prima dell’avvento del Caos e prima della vittoria finale sul Male assoluto. Sarebbe iniziata cosí, già da quell’incontro, la lunga, ambigua e complessa partita che, per duemila anni, la Chiesa di Cristo non avrebbe mai smesso di giocare con il potere di Cesare.

4. «Dunque tu sei re?»35, tornò a chiedergli Pilato. Doveva essersi sorpreso non poco dei discorsi di Gesú. Al prigioniero non sembrava importasse granché difendersi dalle gravissime accuse che gli erano state contestate dai giudei, ma pareva seguire un suo disegno, per il quale era piú importante approfittare dell’occasione per ribadire e chiarire in modo alto e forte alcuni punti del suo insegnamento, che rendere meno disperata la sua posizione. E d’altra parte Gesú non aveva esitato a usare anche lui quella parola pericolosa: regno. Certo, vi aveva attribuito un significato diverso e spiazzante, ma si trattava pur sempre di un terreno minato rispetto al crimine che gli veniva imputato. Il prefetto ritenne perciò opportuno tornare ancora sull’argomento. Non poteva non farlo, ma vi insiste quasi esitando. Non trae egli stesso le conclusioni; piuttosto invita Gesú a ricavarle per lui. Non allude (almeno in quanto riportato da Giovanni) alla distinzione fra i regni di cui ha appena ascoltato. Essa tuttavia lo ha confuso. In quel «dunque» – oukoun – che introduce la domanda si nasconde un’esitazione evidente. Tutto diventa sospeso. Davvero non è piú un interrogatorio che precede una condanna; è un colloquio in cui Pilato appare sempre piú coinvolto e turbato.

«Tu dici che sono re. Io per questo sono nato, e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza della verità. Chiunque è dalla parte della verità ascolta la mia voce»36, replicò Gesú (la prima parte della risposta – «Tu dici…» – è anche nei Sinottici). L’argomento della regalità è chiuso rapidamente. La domanda viene capovolta su se stessa: che io sia re, sei tu ad affermarlo, e cosí sia. Per Gesú non c’era piú nulla da dire intorno a quella questione: quel che bisognava chiarire era stato già messo in luce.

Poi c’è ancora uno stacco. Gesú sembra cambiare d’improvviso argomento, e anche qui non possiamo dire se la cesura sia dovuta a un’interruzione del resoconto giovanneo, o se davvero, nella sequenza del dialogo, il prigioniero – sempre piú incurante, con l’aperta complicità del suo giudice, di restare nei limiti di quanto gli veniva richiesto, come ci aspetteremmo in un’inquisizione – sia bruscamente passato a parlare d’altro.

Il tema che irrompe cosí nel dialogo è la verità, he aletheia. Il problema della regalità era stato Pilato a imporlo. Ora è chiaramente Gesú che si impadronisce delle redini del colloquio. Sta seguendo un filo ben definito. Prima aveva spiegato in che senso egli fosse davvero re, e aveva distinto i due campi, di Dio e di Cesare. Adesso sta dando una sostanza e un contenuto al proprio regno, fissandone definitivamente il primato. Egli è venuto dal suo mondo in quello degli uomini, facendosi uomo egli stesso («per questo sono nato, e per questo sono venuto nel mondo…»), solo per portarvi la verità («per rendere testimonianza della verità»). La connessione con quanto aveva detto prima è inevitabile. Il suo è dunque il regno della verità, cosa che non può dirsi di quello di Cesare. Ecco perché chiunque sia dalla parte della verità non può che seguirlo («ascolta la mia voce»).

La verità viene in tal modo identificata con il centro della predicazione di Gesú e della sua presenza tra gli uomini. Il primato del suo regno non è quindi una questione di potere. Il regno di Dio non è superiore perché esprime maggiore potenza, ma perché è il regno della verità. La teologizzazione della morale raggiunge qui il suo culmine. La potenza è semmai una conseguenza della verità, ma questo nesso apparirà evidente solo alla fine dei Tempi, nell’ultimo scontro con il Male. Per ora Gesú, nel mondo degli uomini, è soltanto il «testimone» della verità (il verbo usato è martyrein), non colui che la impone. La verità per adesso divide: non tutti la seguono.

L’insistenza di Gesú su questa parola, e l’uso che ne fa come se indicasse una conoscenza rivelata e assoluta, da accogliere o rifiutare in blocco, ma non da valutare criticamente secondo dubbio e intelletto – come prescriveva il cauto eclettismo ellenizzante dei gruppi dirigenti imperiali, oscillante tra scettico disincanto relativistico e piú fiducioso razionalismo stoico – disorienta ancora una volta Pilato. Si è reso conto che non ha di fronte un esaltato, un uomo accecato da quella «superstizione» di cui avrebbe piú tardi detto Tacito37, ma una figura che si staccava nettamente dallo sfondo inquieto e febbrile – e per lui difficilmente comprensibile, abbiamo visto – della religiosità giudaica del tempo. Innanzi al prefetto, Gesú parla poco: in Marco e in Matteo si fa riferimento a suoi lunghi silenzi in quella mattina drammatica, e anche in Giovanni (ma piú tardi) si racconta del suo tacere. È ben possibile che Pilato lo abbia incalzato con altre domande, non riportate nel quarto Vangelo, e che di fronte al suo ostinato rifiuto gli abbia detto a un certo punto con impazienza: «Non senti quante cose dichiarano contro di te?»38

In questo tipo di interrogatori, di fronte alla reticenza dell’accusato, si poteva ben arrivare alla tortura da parte del carnefice (quaestionarius): «È interrogato in rapporto ai suoi crimini. È sottoposto a tortura…»39: cosí nel resoconto di un processo davanti a un governatore provinciale in una fonte tardoantica, quando queste prassi si erano semmai, e per molte ragioni, addolcite, rispetto all’età di Pilato. Niente di tutto questo ci viene riferito a proposito di Gesú. Fin dall’inizio il governatore sembra aver scelto un altro modo di condurre l’inchiesta. Piú che inquisire, indaga. La pressione è psicologica, non fisica.

Ed è perciò che, come per spezzare la vertigine dell’assoluto che sembra aver rapito nel suo vortice il prigioniero, gli chiede, forse interrompendolo: «Che cosa è verità?»40ti estin aletheia? È il punto piú alto di tutto il confronto. Non siamo piú in un interrogatorio. Progressivamente, quasi senza accorgercene, siamo stati trasportati da un pretorio di Giudea in un dialogo di Platone. Solo falsificazione della memoria? Può darsi. Eppure, non c’è nulla di inautentico o di artificiosamente costruito in questo quadro. La domanda affiora del tutto naturale, spontanea, dopo quanto appena detto da Gesú. Il comportamento di Pilato era stato del resto fin dall’inizio piú morbido di quanto l’abitudine avrebbe suggerito in casi del genere, per cui la sua battuta adesso non stride, né appare fuori posto.

Non possiamo dire con che tono Pilato l’avesse pronunciata. Ma credo proprio che non interpreti bene Nietzsche41 quando, in una pagina celebre, vi vede «il nobile sarcasmo di un romano dinanzi al quale si sta facendo un vergognoso abuso della parola “verità”». Pilato sta cercando di rendersi conto, non di sopraffare. Non ne avrebbe alcun bisogno. Non c’è sprezzatura; né, tantomeno, c’è l’«annullamento» (come ancora scrive Nietzsche) della posizione di Gesú e delle sue parole, anzi addirittura di tutto il Vangelo. Il prefetto avrebbe potuto facilmente ridurre al silenzio l’inquisito: un reo in catene, pronto a subire la tortura, che pretende di parlare di verità! E invece se ne guarda bene. Lo prende molto sul serio, e si limita a manifestare piuttosto la perplessità di chi non ha capito. Gesú testimonia (come egli stesso ha detto) il possesso di una certezza assoluta di cui Pilato non comprende l’origine e il fondamento. Le oppone perciò la problematicità di un buon senso nutrito di ragione. L’empiria di chi sa che ci sono piú cose al mondo – un mondo di cui i Romani hanno piena padronanza, avendolo conquistato – di quante non ne possa racchiudere qualunque filosofia (e qualunque religione). La sua domanda non è distruttiva, come vorrebbe Nietzsche; è genealogica. Contrappone la curiosità della conoscenza e il valore del dubbio alla proclamazione assertiva della fede. Ma accetta nello stesso tempo il terreno che gli sta proponendo l’interlocutore. Anzi, con la sua domanda Pilato cede in modo definitivo a Gesú il protagonismo del dialogo. Si riduce, per cosí dire, a giocare di rimessa. Le parti sono invertite.

Non sappiamo se e cosa abbia replicato Gesú: nel racconto di Giovanni il dialogo qui si interrompe. In realtà, egli aveva, a modo suo, già risposto; ma questo Pilato non poteva saperlo.

Prima dell’arresto, a Tommaso, smarrito, che gli chiedeva quale fosse la via da seguire, visto che i discepoli sarebbero stati presto lasciati soli – piú o meno la stessa domanda di Pilato: come trovare la verità – aveva detto: «Io sono la via e la verità e la vita, ego eimi he odos kai he aletheia kai he zoe. Nessuno viene al Padre se non attraverso di me. Se mi avete conosciuto, conoscerete anche il Padre»42.

Era dunque Gesú stesso la verità. La sua presenza di Figlio era rivelazione di verità per gli uomini: non la sua dottrina come organo separato di conoscenza e di sapere, ma egli medesimo nella sua totalità, la sua essenza, il suo esempio, le sue scelte, il modo del suo agire nel mondo, in questo mondo. La sua persona rappresentava il punto di interferenza in cui Dio aveva incontrato la storia, facendosi uomo egli stesso. Per lui, via (verso la salvezza), verità (di Dio) e vita (eterna) erano tutt’uno, perché è cosí che appaiono nella mente di Dio: come il riflesso unitario di se stesso. Ma osservata dal punto di vista degli uomini – e dell’uomo Gesú – quell’unità si articolava irradiandosi nella storia, ed era percepibile solo attraverso una pluralità di indicazioni. Le tre parole – in cui molti esegeti hanno creduto di scorgere (credo a torto) un’anticipazione trinitaria – risultavano cosí, nello stesso tempo, distinte e innestate l’una nell’altra: la salvezza appariva come un percorso verso la verità, la cui conquista immetteva nell’eterno. L’impianto teologico che sottende il trinomio – la qualità del rapporto tra il Padre e il Figlio – si trasformava in un cruciale ammaestramento pratico, in un richiamo semplice e potente alla fedeltà nell’ora del distacco (se vorrete salvarvi, io non dovrò uscire mai piú dai vostri cuori).

La verità, e non altro, era la comune sostanza del Padre come del Figlio. Ed era questa che Gesú predicava; o meglio: il riflesso di essa nella storia degli uomini. «Vi do un comandamento nuovo, – aveva detto appena prima, sempre nel racconto di Giovanni, – che vi amiate l’un l’altro; come io ho amato voi, anche voi amatevi l’un l’altro»43. Per ripetere poco dopo: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate l’un l’altro come io ho amato voi». E ancora, in conclusione: «Questo vi comando: amatevi l’un l’altro». Un incalzare martellante e inaudito, che svelava la percezione – fortissima – che Gesú aveva di se stesso: testimone della verità, in quanto la verità è amore. Il Dio che, attraverso Gesú, entra nella storia degli uomini, per mostrar loro la strada, è un Dio d’amore. L’amore è l’unico modo possibile per Lui di farsi storia. Se gli uomini fossero capaci di seguire il suo precetto fino in fondo, non vi sarebbe la necessità del katechon – di una potenza che regola e trattiene nell’attesa del ritorno di Cristo – né il disordine del caos («il mistero dell’anomia»)44 rischierebbe di vincere, come annunciavano le previsioni apocalittiche. È la mancanza d’amore ad aprire nella storia il varco per la lacerazione del Male.

Ma Gesú, quella sera – la sera che precedeva l’incontro con Pilato – aggiunse ancora qualcosa45: «Nessuno ha amore piú grande di questo: offrire la vita per i propri amici». La morte imminente prendeva in tal modo il posto di un elemento completamente interno alla sua predicazione; un dato intrinseco al suo essere testimone di verità: la morte come verità estrema dell’amore. Poco dopo, come abbiamo già visto, egli avrebbe impedito a Pietro di sguainare la spada in sua difesa («non dovrei io bere la coppa che mi ha dato il Padre?») Se la morte diventava per Gesú trasfigurazione dell’amore, diventava, per questa sua stessa metamorfosi, una morte necessaria.

In Marco e in Matteo46 c’è un preciso riferimento allo «stupirsi» di Pilato di fronte alla condotta del prigioniero (thaumazein è il verbo che ricorre in entrambi: si tratta dunque di uno stupirsi che include nel suo campo semantico anche l’ammirazione). In Giovanni questo ricordo manca, ma tutto il suo racconto è, in un certo senso, una conferma della sorpresa crescente del prefetto, che altrimenti mai avrebbe adottato, in simili circostanze, il comportamento che invece decise di seguire.

Ed è proprio dalla sua meraviglia che nasce la prima svolta di quelle ore. Evidentemente, nulla era andato sino a quel momento secondo quanto Pilato aveva potuto immaginare, in base a ciò che avevano riferito Anna e Caifa. Si aspettava un esaltato, un agitatore, un pericoloso sovversivo, un rivoltoso. È possibile che i suoi informatori sul campo – che probabilmente avevano avuto modo di ascoltare in precedenza Gesú, o almeno avevano raccolto informazioni di prima mano su di lui – gli avessero adombrato una realtà un po’ diversa, e meno prevenuta. Ma quel che era accaduto si presentava come assolutamente imprevisto. La personalità del prigioniero doveva essergli apparsa, nel confronto diretto, di una potenza perturbante e inattesa. Era bastato parlargli, perché tutto il castello di accuse predisposto dai sacerdoti, che probabilmente non avevano mai del tutto convinto Pilato, rivelasse la sua inconsistenza. Il sospetto, che forse non lo aveva mai abbandonato, di essere stato coinvolto in una resa dei conti tra fazioni giudaiche da cui il potere romano avrebbe fatto bene a tirarsi fuori, era diventato ormai quasi una certezza. Si era creata una situazione inaspettata, da cui si doveva venir fuori con il minor danno possibile.

Nel solo Vangelo di Matteo è raccontato come l’orientamento del prefetto fosse stato influenzato anche da un messaggio fattogli pervenire dalla moglie, nel corso dell’inquisizione: «Non ci sia nulla fra te e quel giusto [Gesú], perché oggi ho molto sofferto in sogno a causa sua»47. Non sappiamo nulla della moglie del governatore: nemmeno se ne avesse una (nell’apocrifoCiclo di Pilato, di cui diremo piú avanti, dove l’episodio ritorna, è chiamata Procla48). E comunque, in quell’epoca, non era consuetudine romana che le spose degli alti funzionari seguissero i mariti nei loro incarichi in provincia. Né possiamo ipotizzare da dove Matteo abbia attinto il particolare, sempre che non si tratti di una tarda interpolazione.

Tuttavia, anche al di là di questi dubbi, è assai difficile considerare attendibile un simile ricordo, che sembra piuttosto riprendere il topos religioso-letterario – anche biblico – del sogno rivelatore della volontà divina, per insistere sull’innocenza di Gesú: un tema caro a Matteo. Ed è anche possibile che qui l’autore stesse rielaborando in chiave cristiana il modello narrativo della matrona romana vicina al giudaismo, che troviamo, per esempio, in Giuseppe49 (ripetuto anche nel Vangelo apocrifo di Nicodemo)50.

Come è altrettanto arduo credere a un altro episodio, riferito questa volta dal solo Luca51– nemmeno qui sappiamo attingendo da dove, esattamente –, secondo cui Pilato, dopo aver ascoltato il prigioniero, avrebbe deciso di inviarlo a Erode Antipa, figlio di Erode il Grande (vi abbiamo già accennato), messo dai Romani a capo della Galilea come un principe vassallo, con il titolo di tetrarca. Era la stessa regione in cui era nato Gesú, e questo figurava come la spiegazione del deferimento. Antipa si sarebbe trovato anch’egli in quei giorni per la Pasqua a Gerusalemme; e poiché aveva espresso il desiderio di vedere Gesú, avendone sentito parlare, Pilato avrebbe deciso di accontentarlo. Il trasferimento sarebbe avvenuto cosí seduta stante, seguito da un lungo interrogatorio da parte di Antipa, nel quale il prigioniero avrebbe sempre taciuto. Poi, dopo averlo volgarmente schernito, il tetrarca l’avrebbe rimandato dal prefetto, senza concludere nulla, ma consolidando in tal modo il loro rapporto («Erode e Pilato divennero amici, mentre prima c’era inimicizia fra loro»)52.

Nulla regge in questo racconto. La sequenza cronologica, innanzitutto: perché in quella mattina già cosí piena di eventi, stando sia agli stessi Sinottici sia alla versione di Giovanni, non vi sarebbe stato il tempo per un simile spostamento, cui si deve aggiungere la durata di un interrogatorio protrattosi a lungo, con il seguito di dileggi e di insulti – anche ammesso che la residenza di Antipa fosse molto vicina a quella di Pilato. E poi l’incongruità della vicenda. Pilato non aveva alcuna ragione di deferire il prigioniero ad Antipa. E per farne che? Gesú era stato arrestato sul territorio di una provincia romana, e non poteva essere sottratto alla coercizione romano-giudaica. Decidere diversamente sarebbe stato un atto di rinuncia all’esercizio del proprio potere d’imperio (potremmo anche dire: della propria giurisdizione) inammissibile per un governatore romano. Inoltre Antipa era ospite in territorio imperiale; sulla base di quale autorità avrebbe potuto prendere una decisione su Gesú? Senza dire che non esisteva alcuna regola romana che decideva della giurisdizione fondandosi sul luogo di nascita dell’accusato. D’altra parte, nulla viene detto circa un’eventuale decisione di Antipa. Aveva anch’egli trovato Gesú non colpevole? Oppure dovremmo pensare che l’invio al tetrarca non fosse stato eseguito per fargli giudicare il prigioniero, ma solo per consentirgli di conoscerlo, dando per scontato che Gesú sarebbe ritornato poi da Pilato. Ma si sarebbe trattato di un modo di procedere ben singolare, quello di spezzare l’accertamento della colpevolezza del prigioniero – con i notabili giudei fuori, in attesa – per fargli effettuare una specie di visita di cortesia, senza conseguenze sul piano dell’inquisizione.

Credo invece che si debba guardare in un’altra direzione, per rintracciare i motivi di questa inverosimile descrizione: nel desiderio di Luca (o della sua fonte) di allungare fin dove possibile il raggio della responsabilità ebraica nella condanna di Gesú, coinvolgendo nell’esito ultimo della vicenda non solo le autorità giudaiche, ma anche quelle della Galilea, della terra dove Cristo era nato; insomma, dell’intero Israele. Senza nemmeno dimenticare la probabile volontà dell’autore di stabilire, con il suo racconto, un parallelo fra il «processo» (inventato) di Antipa a Gesú e quello (storicamente vero) di Agrippa I all’apostolo Paolo: per mostrare come i due piú importanti erodiani – Antipa e Agrippa – fossero stati simmetricamente coinvolti all’origine della repressione anticristiana.

Pilato lascia dunque Gesú, ed esce di nuovo dal pretorio, verso i sacerdoti in attesa. Il sole doveva essere ormai già alto, e si annunciavano ore difficili.

1. Il prigioniero arrivò alla residenza del governatore nelle prime ore del mattino. Il tragitto era stato breve: fra il palazzo di Caifa e quello di Erode la distanza era piccola. Doveva essere stanco e provato; per l’intera notte aveva subito insulti, minacce, percosse. Aveva dovuto fronteggiare Anna, Caifa e i sacerdoti del sinedrio, che lo avevano incalzato con interrogatori pesanti. Ma era del tutto padrone di sé, come si sarebbe visto ben presto, e possiamo immaginarlo teso e concentrato. Oltre a un drappello della guardia del Tempio – probabilmente lo stesso che aveva proceduto all’arresto della sera precedente – lo accompagnavano i componenti del sinedrio che avevano partecipato alla riunione notturna, forse con il loro seguito di servitori: i sacerdoti piú importanti, ma possiamo supporre (seguendo Luca) anche anziani e scribi. Caifa e Anna non vengono piú nominati, ma tutto lascia pensare che non fossero lontani, almeno per una parte della mattina.

La versione piú accurata di quello che sarebbe accaduto si trova in Giovanni, e seguiremo in primo luogo proprio lui. Non credo tuttavia – come pure è stato sostenuto da storici importanti1 – che questa scelta ci obblighi a ignorare le voci di Matteo, di Marco e di Luca; non trovo cioè convincente l’alternativa radicale «o Giovanni, o i Sinottici». Certo, in alcuni punti le narrazioni sono drasticamente incompatibili, e in questi casi penso anch’io sia preferibile la versione di Giovanni2. Ma per altri particolari le informazioni sono sovrapponibili e comunque non in contrasto. Fondere i testi arricchisce la nostra prospettiva, e non vedo perché dovremmo rinunciarvi.

Gesú fu introdotto nel palazzo, che Giovanni chiama praetorion3, come si era soliti fare per indicare la residenza del governatore. Chi lo aveva accompagnato, invece – guardie, sacerdoti, scribi, anziani e quanti altri – rimase fuori, in attesa. Giovanni dice che fu «per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua»4: era venerdí, e la festa sarebbe iniziata la sera stessa. Si fa tuttavia fatica a rintracciare, nella precettistica ebraica, la regola che sarebbe stata violata se i devoti giudei avessero varcato la soglia: sotto quel tetto non c’era alcun cadavere, né si trattava di un luogo destinato all’adorazione di false divinità; e d’altra parte anche gli impuri – nonostante la loro condizione – erano ammessi alla cena pasquale. Forse, i giudei non entrarono su richiesta degli ufficiali romani, che avevano avuto disposizioni in tal senso per consentire al prefetto di interrogare il prigioniero in modo riservato. Comunque, nessuno si allontanò, e fuori del palazzo si formò cosí una piccola folla che aspettava lo sviluppo degli eventi.

Intanto, in una sala predisposta per l’occasione – probabilmente al piano terra, contigua all’esterno (come si deduce dalla dinamica degli eventi successivi) – Gesú, sempre in catene, fu portato al cospetto di Pilato.

Come abbiamo già detto a proposito della riunione nella notte, anche quello che stava per svolgersi non fu un «processo» nel significato moderno, che allude comunque al rispetto di una procedura svolta secondo regole rigidamente prefissate. E non fu un processo nemmeno nel senso, meno impegnativo, che attribuiamo a questo termine quando lo riferiamo alla repressione criminale romana5 (di un «diritto» penale non è ancora il caso di parlare): e cioè un procedimento condotto secondo l’«ordine» (ordo) di leggi pubbliche votate nei comizi, o regolato «fuori dell’ordine» (extra ordinem) dalla nuova prassi dei funzionari del principe. Gesú non era un cittadino romano, e nemmeno un notabile provinciale che meritasse un trattamento di riguardo. Era un predicatore di umili origini, diventato estremamente pericoloso agli occhi sospettosi dei sacerdoti del sinedrio, ma che non poteva invocare alcuna garanzia né di status né di censo; forse un sovversivo, che attentava all’ordine costituito. Per lui bastava una cognizione sommaria – per quanto non dimentica della legislazione e della prassi romane – che ne accertasse la colpevolezza, e (semmai) una condanna, anche capitale, inflitta sulla base dei poteri coercitivi di cui disponeva il governatore, per delega diretta del principe. La sua incriminazione poteva tutt’al piú diventare un caso politico, ma non certo un problema di leggi e tantomeno di diritto.

Pilato era evidentemente informato di cosa Gesú fosse ritenuto responsabile dalle autorità giudaiche, e per questo ne aveva autorizzato l’arresto. I sacerdoti lo giudicavano un grave pericolo, per loro stessi e forse anche per i Romani, e fin qui il governatore li aveva seguiti. Ma questo bastava per un’operazione di polizia; per portare il prigioniero pubblicamente innanzi al prefetto e ottenere da lui una condanna occorrevano accuse piú precise, in qualche modo riconducibili a crimini puniti da leggi romane. Sarebbe stato impensabile venisse addebitato a Gesú un fatto di sangue; né era possibile contestargli solo una colpa religiosa, perché essa non avrebbe riguardato la giurisdizione imperiale. Una sola strada era praticabile per i persecutori: incriminarlo per un comportamento che ledeva la maestà del popolo romano e la sua sovranità sulla Giudea. E fu quella che, alla fine, si scelse.

Il governatore voleva però che l’accusa fosse resa pubblica: questa della pubblicità dei suoi atti fu per lui una preoccupazione costante nelle ore successive. Egli intendeva sottrarre l’arresto e la probabile condanna all’apparenza di una complicità romana in una congiura sadducea, con il pericolo di un sollevamento di popolo in difesa di Gesú e, in questo caso, di un possibile doppio gioco dei sacerdoti, che avrebbero anche potuto dichiararsi estranei alla punizione eventualmente inflitta al prigioniero. Temeva insomma che tutto potesse risolversi in un tranello teso ai suoi danni: con il rischio di essere prima usato dai sacerdoti sadducei per liberarsi di un pericoloso avversario, e poi scaricato di fronte all’indignazione popolare. E forse aveva i suoi buoni motivi per essere cosí guardingo.

Prima di iniziare l’interrogatorio, Pilato – cauto, professionale, forse moderatamente incuriosito – uscí quindi dal palazzo, e si rivolse ai giudei che sostavano fuori, perché fosse apertamente dichiarato il capo d’imputazione: «Quali accuse sostenete contro quest’uomo?»6

La risposta fu a prima vista sorprendente: «Se non fosse un malfattore, non te lo avremmo consegnato»7 – un’affermazione che potrebbe suonare addirittura irriguardosa rispetto alla domanda di Pilato. Ma dobbiamo stare attenti nel leggere questo dialogo, come i successivi riportati da Giovanni. Essi non hanno alcuna pretesa di costituire una specie di verbale di tutto quanto fu detto in quelle circostanze. E come avrebbero potuto, del resto? Sono solo frasi isolate, trattenute a galleggiare in superficie dal filo della memoria cristiana, in un insieme di parole pronunciate e di gesti compiuti in quell’occasione, ma affondati invece nell’oblio. Frammenti salvati solo perché ritenuti rivelatori di un pensiero, un atteggiamento, un carattere, o di una piega che stavano prendendo gli avvenimenti.

I sacerdoti evidentemente fecero presente a Pilato – in pubblico, nello spazio aperto innanzi alla sua residenza ufficiale, dopo averglielo detto molte volte in segreto – come ritenessero pericoloso Gesú, e di quali e quante colpe, religiose e politiche, si fosse macchiato. In quest’atto d’accusa probabilmente confusero di nuovo, trascinati dalla foga, ma anche perché i due campi si sovrapponevano davvero nella loro cultura, religione e politica, ordine pubblico e timor di Dio. La scrittura di Luca qui integra bene la versione di Giovanni: «Abbiamo trovato costui che sobillava la nostra gente, impediva di versare i tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re»8, avrebbero risposto i sinedriti. Ma il governatore non fu ancora soddisfatto: aveva bisogno della massima chiarezza dal punto di vista romano. Voleva coprirsi le spalle. E fu per questo che a un certo punto, forse di fronte a un’ambiguità dei sacerdoti, per obbligarli a uscire del tutto allo scoperto, dovette replicare: «Prendetelo <allora> voi, e giudicatelo secondo la vostra legge»9, la quintessenza del modo romano di governare, il rispetto dell’autonomia dei sudditi: kata ton nomon hymonsecundum legem vestram.

Fu una mossa abile, eseguita al momento giusto. La trappola cosí minacciava di scattare per gli accusatori, che si sarebbero ritrovati tra le mani, in pieno giorno, con la Pasqua ormai imminente, a dover gestire l’ingombrante presenza di Gesú, mentre volevano a tutti i costi che il prigioniero diventasse un problema romano, da risolversi con una condanna romana. Ed è cosí che, messi alle strette, non sappiamo nel contesto di quale argomentazione, i sacerdoti furono obbligati a ricordare e a ribattere: «A noi non è lecito dare la morte ad alcuno»10. Perché era la morte – e quella sola – che volevano per l’accusato.

Gli storici hanno discusso a lungo circa la natura del divieto invocato dai notabili giudei: se fosse una limitazione permanente, imposta dal potere romano ai tribunali della comunità (sostanzialmente al sinedrio) – come sarei fortemente propenso a ritenere – oppure se l’impedimento avesse solo un carattere temporaneo, connesso all’imminenza della Pasqua; o infine se esso andasse ricondotto a una proibizione generale fissata dalla stessa legge mosaica («tu non ucciderai»)11. Resta il fatto che in ogni caso, in quelle circostanze, erano solo i Romani a poter pronunciare una condanna a morte.

Pilato cosí aveva raggiunto il suo obiettivo, e segnato un punto a proprio vantaggio. Aveva costretto i sacerdoti ad ammettere pubblicamente che volevano la morte del prigioniero, e li aveva costretti a formulare, sempre in maniera manifesta, un’accusa accettabile dal punto di vista romano. E questa fu, come sarà evidente subito dopo, che Gesú si era proclamato re dei giudei – del popolo di una provincia imperiale! – turbando cosí in modo grave ed evidente l’ordine pubblico, e perpetrando un crimine che, se commesso a Roma, sarebbe stato punito secondo quanto disponeva la lex Iulia maiestatis12.

La prima scena si conclude qui. Il prefetto allora rientrò nel palazzo, si fece condurre innanzi Gesú, e cominciò a interrogarlo, rendendo chiara, dalla sua domanda, quale dovesse essere stata l’incriminazione proposta infine dai sacerdoti: colpevole del crimen maiestatis, passibile a Roma della pena di morte (e anche, probabilmente, di sedizione, e di incitamento a sottrarsi all’obbligo del tributo).

«Sei tu il re dei giudei?»13 chiese quindi all’inquisito, una domanda che troviamo riportata anche dai Sinottici.

Non sappiamo in che lingua Pilato e Gesú si parlassero. È possibile in aramaico, l’idioma locale, se Pilato lo aveva imparato negli anni trascorsi in Giudea. Meno probabilmente, in greco, poiché non ci risulta che Gesú lo conoscesse, mentre Pilato di sicuro lo padroneggiava e lo avrà usato quotidianamente a Cesarea. Non possiamo nemmeno escludere la presenza di un interprete, chiamato dalla cancelleria del governatore. Comunque dobbiamo presumere che i due non siano restati mai soli. Con Pilato, oltre al servizio di sicurezza, che aveva in custodia l’accusato, c’erano i subalterni che lo affiancavano di regola nella sua attività di giurisdizione. Quanto si dissero ebbe di sicuro dei testimoni, e forse ebbe anche una sommaria verbalizzazione.

2. Il prigioniero rispose. Noi però, prima di fermarci sulle sue parole, dobbiamo porci a nostra volta una domanda che ritengo essenziale, ma su cui, invece, tutti stranamente sorvolano. Nell’affrontare una prova tanto drammatica quanto aspettata e prevista – il compimento della sua missione non poteva che passare dall’esito di quell’incontro – Gesú stava seguendo una strategia alla quale adeguava la sua condotta? Aveva degli obiettivi? O semplicemente improvvisava, travolto dalla disperazione e dall’affanno?

Quel confronto cosí apparentemente diseguale era il culmine della sua predicazione e della sua testimonianza; il punto di convergenza in cui confluivano le linee di forza che avevano dato forma e significato alla sua esistenza. Egli sapeva che da quanto sarebbe successo nelle prossime ore dipendeva l’immagine definitiva che avrebbe consegnato di sé al mondo e alla storia, per sempre; il valore ultimo del suo annuncio. Tutto si concludeva in quel solo quadro: due uomini di fronte, l’uno in catene, l’altro nell’incontrastata pienezza del suo potere. Nessuno dei due rappresentava solo se stesso. Entrambi erano lí nel nome di un altro, del cui volere si consideravano interpreti ed esecutori. Pilato, dell’imperatore, «padrone del mondo»14, e questo era stabilito e noto a tutti. Gesú, nel nome del Padre suo, e di questo egli era altrettanto certo, ma di una certezza solitaria, esposta al dubbio e all’angoscia. Nell’immagine che si era formata nei suoi pensieri, e nella visione che ne avrebbe trasmesso alla memoria cristiana, nel pretorio di Gerusalemme non si trovavano un imputato e il suo giudice, ma erano Dio e Cesare che si stavano finalmente parlando.

Questa trasfigurazione di un interrogatorio quasi di routine nell’atto fondativo di un’epoca domina l’interiorità di Gesú in quelle ore, determina le sue parole e (come vedremo) finirà con il coinvolgere anche Pilato. Nulla di quanto dice il prigioniero è perciò improvvisato, nulla è abbandonato all’emozione del momento. C’era una missione da portare a compimento, e dunque un disegno da realizzare, che la scrittura dei Vangeli permette ancora di restituire.

Gesú aveva dunque una strategia, e con essa si proponeva di raggiungere due risultati. Il primo lo potremmo definire di carattere teologico-politico: c’era per lui un cammino da concludere. Il secondo era piú personale – se possiamo dire cosí – ma ancor piú importante, e riguardava il suo destino. In ogni caso non disse nemmeno una parola con il solo scopo di difendersi. Aveva da portare a termine un compito, e fu quel che fece.

«Dici questo da te, oppure altri te l’hanno riferito sul mio conto?»15, replicò dunque il prigioniero. Era una risposta cauta, per ora interlocutoria. La domanda di Pilato era stata forte, conteneva una parola cruciale – basileus, re, nella lingua dei Vangeli – e metteva direttamente in questione la posizione dell’inquisito rispetto all’accusa. Ma Gesú voleva sgombrare il campo da ogni equivoco, capire bene il senso di quello che gli veniva chiesto: si trattava di una deduzione del governatore, o questi si faceva portatore di un’opinione altrui? Egli sapeva bene, dopo la notte passata nelle loro mani, cosa pensassero di lui i sacerdoti; ma voleva rendersi conto di quel che poi avevano riferito a Pilato, e cioè di come avessero tradotto in politica – vale a dire in termini di repressione criminale romana – le accuse religiose che gli erano state mosse negli interrogatori notturni.

Pilato capisce perfettamente l’intenzione di Gesú, e, sorprendentemente, non ha difficoltà a rispondergli, sia pure con qualche giustificata (almeno dal suo punto di vista) altezzosità. Tanta condiscendenza non era un comportamento consueto, date le circostanze. Un inquisito come colui che gli stava di fronte – un suddito di umili origini, su cui pendeva un’accusa gravissima avanzata dal consiglio della sua comunità kata ton nomon hymon – non era in condizioni di porre alcuna domanda, e men che mai al governatore in persona. Avrebbe dovuto solo rispondere, fosse anche sotto tortura. Pilato invece accetta subito di instaurare un rapporto meno schiacciante. È possibile fosse rimasto già colpito dalla personalità del prigioniero. Tutta la vicenda della predicazione di Gesú testimonia di un magnetismo eccezionale, con una forza carismatica immediatamente irradiata. E d’altra parte il prefetto doveva saper ben valutare, a colpo d’occhio, chi si trovava di fronte: non sarebbe rimasto a lungo dov’era, altrimenti.

L’interrogatorio si trasformò cosí, almeno per il momento, in un vero e proprio dialogo. La sua eccezionalità non sembra un’invenzione della memoria cristiana – l’andamento è troppo oscuro e intermittente per essere il risultato di un artificio – ma è piuttosto la ragione della sua conservazione.

«Sono forse un giudeo?16 Il tuo popolo e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?17», disse Pilato.

L’esordio serviva a ristabilire in qualche modo le misure, sia pure in una maniera inedita e quasi colloquiale. Il governatore era il rappresentante del principe, e non poteva certo curarsi di dicerie popolari, dalle quali peraltro non avrebbe avuto niente da dedurre. Piú che sprezzatura verso Gesú, in quella constatazione in forma di domanda retorica e beffarda – «sono forse un giudeo?» – c’era il segno di una presa di distanza totale rispetto all’ambiente e alla religione del paese che pure Pilato governava: quella stessa che doveva aver motivato il pessimo giudizio di Filone, e che in fondo emergeva, sia pure frenata dalla prudenza e dalla duttilità, anche nell’episodio delle insegne. Per la cultura del prefetto romano – che mai avrebbe detto con eguale asprezza «sono forse greco?» – la sensibilità religiosa giudaica era un universo opaco e lontano, rispetto al quale l’incomprensione era nello stesso tempo un modo di autoproteggersi e una maniera per riaffermare la superiorità romana. Non sappiamo se Pilato avesse mai letto la Bibbia, almeno in parte, nella versione greca che circolava ormai da tempo fra Siria ed Egitto, ma certo non ne era rimasto catturato.

Poi il governatore scopre le sue carte: Gesú è lí perché altri lo hanno consegnato, dichiara. Il prigioniero lo sapeva bene, naturalmente. Ma quell’affermazione ovvia, sulle labbra di Pilato – seguita poi dalla domanda che conclude questo segmento del dialogo – acquistava un significato diverso dall’inutile constatazione di un dato di fatto. Giovanni, forse, la ricorda proprio per questo. Diventava una prima, impegnativa ammissione che l’autorità romana, fino al momento dell’interrogatorio, non aveva niente di davvero rilevante contro l’inquisito. Tutto era ancora sospeso.

Nonostante l’intensa pressione cui doveva essere stato sottoposto negli ultimi giorni da Anna, da Caifa e dai loro seguaci del sinedrio, è dunque un Pilato riluttante e ancora restio che ribadisce come l’iniziativa dell’arresto non sia stata sua. Le sue parole suonano quasi come una giustificazione, una prima rivendicazione di estraneità.

Colpisce la formula che, secondo Giovanni, avrebbe usato il governatore: «Il tuo popolo e i capi dei sacerdoti». Viene in mente l’antica clausola romana per indicare l’interezza della comunità cittadina – senatus populusque, senato e popolo – adattata alla realtà giudaica, con i capi dei sacerdoti al posto dei senatori. Pilato potrebbe aver detto proprio queste parole. Se lo avesse fatto, ci troveremmo tuttavia di fronte a una consapevole forzatura, rivelatrice, come in un lampo, di un suo stato d’animo. «Il tuo popolo», egli avrebbe affermato (è cosí che dobbiamo tradurre ethnos, e non la «tua gente», nel senso di una semplice sottolineatura dell’identità etnica fra accusato e accusatori; altrimenti l’endiadi con i sacerdoti non avrebbe avuto senso): eppure in tutta la vicenda, per come si era svolta fino ad allora, il popolo non era comparso affatto. Niente si era visto di paragonabile alla folla che si era recata a Cesarea a supplicare di rimuovere le insegne, e nemmeno a quella, forse oscuramente sobillata, che aveva protestato per l’affare dell’acquedotto. In questa occasione erano scesi in campo solo i sacerdoti, raccolti intorno ad Anna e Caifa, e con loro la maggioranza del sinedrio, che Pilato certamente sapeva convocato in una precaria riunione notturna, e che ora sostavano in attesa, nella spianata davanti al palazzo. Erano loro «il popolo»?

Sarebbe stato difficile da sostenere, anche pensando alla componente farisea del consiglio. Dobbiamo perciò dedurre che Pilato lo stesse affermando pur sapendo bene che quell’organismo costituiva in realtà un ristretto collegio oligarchico e non un’autentica assemblea popolare – un tipo di istituzione, quest’ultima, che i Romani non incoraggiavano nelle città del loro impero, e non solo in Giudea, preferendovi consessi con un piú tranquillizzante connotato aristocratico.

Il prefetto, tuttavia, aveva le sue ragioni per un riferimento cosí improprio: con la sua dichiarazione, voleva ancora una volta sottrarre l’arresto all’ombra di una congiura sadducea, e farlo apparire – perfino allo stesso Gesú – come giustificato da un consenso popolare che invece temeva non vi fosse. E questa era stata una sua preoccupazione, forse la piú insistente, fin dall’inizio: che cioè il potere romano potesse finire con il diventare lo strumento inconsapevole di una resa di conti tra fazioni, cercata solo dai sacerdoti, e forse nemmeno da tutti loro.

«Che cosa hai fatto?», concluse poi Pilato, riprendendo le fila dell’interrogatorio. Ora non domanda a Gesú soltanto se si proclami re dei giudei. Cerca piuttosto di allargare il raggio dell’indagine, e gli si rivolge in un modo piú generico, che chiama in causa l’insieme delle sue azioni e delle sue parole. Invece di incalzarlo su un punto preciso – quello cruciale della regalità, enfatizzato evidentemente dai sacerdoti – gli sta chiedendo perché i giudei lo abbiano trascinato davanti a lui. È una specie di passo indietro – di nuovo una scelta inattesa. Vuole mettere a confronto la versione dei sacerdoti e quella del prigioniero. È come se facesse ripartire da zero l’inchiesta. Il dossier del sinedrio evidentemente non basta. Non abbiamo elementi per affermare che Pilato non intendesse tenerne conto. Ma piú ha di fronte il prigioniero, meno lo trova sufficiente.

3. Non siamo sicuri di cosa abbia ribattuto Gesú. Nella versione di Giovanni sembra ci sia a questo punto un salto. «Gesú rispose»18, leggiamo, ma ci accorgiamo subito che quanto dice non si riferisce all’ultima domanda di Pilato («che cosa hai fatto?»); e non sappiamo se questo accade perché la richiesta del prefetto restò senza una replica diretta da parte del prigioniero, o piuttosto perché (come ritengo verosimile), il resoconto giovanneo qui si interrompe, per continuare da un tratto successivo del dialogo.

Quando riprende, vediamo Gesú tornare alla questione da cui era iniziato l’interrogatorio, e che prima aveva eluso («sei il re dei giudei?») Adesso invece, dopo quanto detto da Pilato, gli sembra venuto il momento di sciogliere il nodo.

«Il mio regno19 (he basileia he eme) non è di questo mondo (tou kosmou touto). Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei sottoposti si sarebbero battuti perché io non fossi consegnato ai giudei. Ma il mio regno non è di qui», risponde.

Era un’affermazione che sarà suonata molto sorprendente per Pilato; certo lontana da quanto poteva aspettarsi, anche se non dissonante rispetto a quello che era stato sino ad allora l’insegnamento di Gesú.

La religione ebraica ruotava intorno a un centro essenziale, che era insieme teologico e politico: l’alleanza – concepita come un vero e proprio contratto, alternativa rispetto alla ricerca di qualsiasi altra forma di potenza – fra un Dio-persona unico e solitario e il popolo d’Israele, che diventava cosí il popolo «eletto». Veniva instaurata in tal modo una forma particolare di rapporto fra comunità politica e ordinamento religioso, o, come è stato detto20, fra potere e salvezza. Dietro questa concezione agiva un nucleo culturale straordinariamente ricco e produttivo. La sua formazione – la sua archeologia – non ci è ancora abbastanza chiara, nonostante molte recenti e importanti ricerche; ma esso va considerato come l’autentico motore di quella che abbiamo definito come la storia pensata (immaginata) d’Israele, e dunque della scrittura della Bibbia.

In un simile contesto, il monoteismo figura come un’acquisizione piuttosto che come un elemento originario: ma, una volta impiantato, esso divenne capace di elaborare, a differenza di tutte le altre religioni primarie dell’area mediterranea, un esigente rapporto critico tra verità e falsità – fra vera e falsa religione – e di sviluppare l’idea radicalmente nuova di un Dio che, non potendo essere «rappresentato» (di qui il rigoroso aniconismo), si faceva direttamente legislatore. Il principio della «regalità di Dio» si sostituí cosí alla regalità propriamente politica, che finí con l’esserle completamente subordinata, fino a dissolversi. Dio doveva regnare senza mediazioni.

Fu questo processo a rendere la Bibbia nello stesso tempo un libro di teologia e il fondamento dell’identità «nazionale» giudaica. E fu sempre all’interno di un simile nucleo – come suo presupposto e come sua conseguenza – che si consolidarono i caratteri piú forti della religiosità ebraica: l’intransigenza del suo monoteismo, la sua esclusività identitaria – con la conseguente costruzione teologica (e potenzialmente violenta) del rapporto politico fra amico e nemico, fra seguaci della verità e seguaci della menzogna – la sua incontenibile vocazione teocratica («Dio stesso ed egli soltanto è colui che governerà su di voi»)21. Non a caso, «teocrazia» sarà proprio una parola inventata da Giuseppe22 per descrivere la peculiarità della tradizione politica del proprio paese.

Gli storici moderni hanno giustamente sottolineato l’intreccio, nel funzionamento storico di questo dispositivo, fra teologia e politica: nel senso di una teologia che, nata originariamente dalla politica (tutti i concetti teologici non erano che forme politiche travestite), finiva con il prenderne il posto, sostituendola completamente dopo averne fatto propri i caratteri. Teologia e politica si fondevano cosí in una sola «macchina»: la «teopolitica»23 del popolo ebraico, che consentiva il potere umano solo in forme subalterne. Ciascuno dei due termini produceva (o aveva prodotto) i suoi effetti sull’altro, trasformandone il significato e la portata: la sacralizzazione dell’etica e la teologizzazione dell’idea di giustizia furono tra le prime conseguenze di questa fusione e di questo scambio. L’incessante e mai abbastanza appagata aspirazione teocratica era dunque per il popolo giudaico il risultato di un lungo cammino.

Il Gesú dei Vangeli interviene con forza su questo impianto. Non lo rinnega, ma lo trasforma. La sua predicazione sarebbe incomprensibile fuori del quadro della cultura ebraica, che aveva completamente assorbito, e di cui deve essere considerato come una diretta proiezione. Ma sceglie di riformare in profondità il patrimonio di emozioni e di idee che aveva ricevuto. Non di azzerarlo, bensí di elaborare in modo nuovo quella relazione fra potere e salvezza che ne costituiva il cuore pulsante, ricucendo finalmente lo scarto fra storia pensata e storia reale d’Israele, e provando a riconciliare il passato (solo pensato) con il presente (duramente tangibile) della sua gente. La tradizione giudaica veniva sciolta entro un disegno diverso: non diciamo piú maturo (ogni evoluzionismo come metro di giudizio per la storia religiosa ebraico-cristiana sarebbe qui del tutto improprio e infondato), ma certamente piú flessibile e potenzialmente piú inclusivo. Era una svolta, poi completata dal pensiero cristiano successivo, non diciamo un progresso.

Innanzitutto, Gesú apre la via per incidere sulla struttura teologica del monoteismo, introducendo dal suo interno la presenza rivoluzionaria del Figlio, cioè di se stesso. Questo trasforma l’Uno in Padre24, dividendolo in Due attraverso la presenza del Figlio – due Persone in Una – secondo una figura di inclusione escludente destinata a segnare attraverso innumerevoli elaborazioni, da quelle cristiano-ellenistiche fino a Hegel, tutto il pensiero dell’Occidente. Il Dio-persona rimane ben fermo – e questo sarà decisivo – ma ormai scisso. Non solo. Gesú porta il Due anche all’interno di se stesso, sdoppiandosi come il Padre, ma questa volta a causa della sua duplice natura umana e divina, in Uomo e in Dio. Ora è attraverso di lui, e solo di lui – e dunque attraverso il Due – che Dio, l’Uno, entra nel tempo e nella storia. Paolo avrebbe lavorato con forza su questa indicazione.

Sarebbe stata una riforma di portata incalcolabile, che innesta la tensione del movimento, della negazione, della contraddizione perfino – in una parola, della storicità – dove prima, nella tradizione monoteista, era impensabile cercarla: nella costituzione unitaria del divino. Il monoteismo non è messo in dubbio – il Padre e il Figlio hanno la medesima sostanza – ma ora esso appare, per cosí dire, non piú bloccato su se stesso, ingabbiato in una configurazione staticamente riflessiva. Adesso è possibile ritrovare al suo interno la diversità, la variante, la differenza delle attitudini e delle disposizioni: e tutto questo proprio in rapporto all’umano; perché è solo rispetto all’umano che il Padre si è diviso in Due e ha generato il Figlio, la cui (a sua volta) doppia natura è il sigillo di una nuova alleanza di Dio con le sue creature.

Certo, la separazione fra Padre e Figlio presuppone comunque l’unità. Il principio monoteista è salvo, e l’esclusione – il Figlio separato dal Padre – ha sempre la capacità di includere nuovamente. Ma il gioco delle alternative moltiplica possibilità e prospettive. Raffigura intrinsecamente Dio come un Dio Dialettico – e dialettico in funzione dell’umano. L’alleanza con Dio esalta l’umano, ma modifica anche la forma stessa di Dio.

Il nuovo assetto binario del monoteismo si riflette sulla relazione fra potere e salvezza, o, se vogliamo dirlo in modo diverso, sulla struttura e sul funzionamento della macchina teologico-politica ebraica (il concetto di «teologia politica»25 non è moderno e tantomeno nasce con Spinoza, come solitamente si crede; è invece ellenistico-romano, sviluppatosi in un ambiente culturale fra II e I secolo a. C., dal circolo del filosofo Aezio, al giurista Quinto Mucio Scevola, all’erudito e antiquario Marco Terenzio Varrone).

Al Due che adesso riempie il cielo, corrisponde una scissione speculare sulla terra. Il dogma teocratico si spezza: il dispositivo teologico-politico produce ora la duplicazione dei mondi (kosmos nella lingua di Giovanni) e dei poteri che li reggono: in cielo e in terra. E però quando Gesú dice «il mio regno non è di questo mondo» sta tracciando un confine, non sta scavando un abisso insormontabile. Se lo facesse, finirebbe in un vicolo cieco, e con lui il cristianesimo. Invece, nello stesso modo in cui il Due esclude per includere (e tuttavia esclude), cosí la separazione fra i regni – quello di Dio e quello di Cesare – divide per connettere, distingue per interferire: e tuttavia divide.

È vero, come è stato sostenuto con autorevolezza e dottrina26, che l’itinerario di ogni teologia politica che si ispiri al monoteismo – e particolarmente di quella moderna, aggiungerei – non può prescindere da entrambe queste formulazioni: quella escludente («il mio regno non è di questo mondo»), e quella inclusiva («Dio solo governerà su di voi»). Tuttavia una simile affermazione non può far dimenticare che è solo rielaborando la prima delle due – la teologia dell’esclusione inaugurata dal Gesú dei Vangeli all’interno del suo monoteismo riformato – che l’intera storia dell’Occidente ha assunto i caratteri e la consistenza che le riconosciamo. In questo senso, ebraismo e cristianesimo non sono riconducibili al medesimo «punto archimedico»27, per riprendere la formulazione di Assmann. Il cambiamento introdotto da Gesú, consegnato alla memoria evangelica e poi – non senza strappi e oscillazioni – al pensiero cristiano che l’avrebbe sviluppato da Paolo a Tertulliano, a Eusebio, ad Agostino, sino alla Scolastica medievale e alla riflessione luterana, aveva aperto un varco – che possiamo anche definire per semplicità come una breccia di secolarizzazione – attraverso il quale sarebbe passato tutto il cammino d’Europa (e poi d’America), e l’impianto complessivo dello Stato moderno con il suo intero apparato ideologico. Questo non vuol dire che il cristianesimo segni un passo in avanti rispetto all’antico ebraismo. Indica solo una strada diversa nel rapporto fra politica e religione monoteista: un percorso che è stato molto battuto, e di cui noi siamo i diretti eredi.

Quando Gesú dice che il suo regno non è di questo mondo sta letteralmente capovolgendo su se stessa la tradizione della teocrazia giudaica. Il potere di Dio non si riflette piú senza mediazioni nel potere mondano: questa novità metteva in questione tutta la storia raccontata nella Bibbia, e lo stesso contenuto politico dell’antica alleanza. Non li smentiva: ma obbligava a guardarli attraverso una luce nuova; la luce di un Dio che non doveva piú coincidere con il Dio degli eserciti e prendere il posto del sovrano legislatore.

Nella sua risposta, Gesú non ha esitato a far sua la parola che gli viene rinfacciata come un tremendo capo d’accusa: «regno», basileia. Ancora una volta la teologia svela la sua matrice politica. Non si erano quindi del tutto sbagliati i capi dei sacerdoti nell’imputargli quel titolo. Egli è davvero «il re dei giudei». Ma pure, i Romani non hanno nulla da temere da questa rivendicazione, perché il potere che fonda la sua regalità, «non è di qui» (ouk estin enteuthen). Proprio perché incommensurabile rispetto a ogni potenza terrena, esso ha un’altra origine, e si sviluppa secondo un progetto che guarda alle cose del mondo da un punto di vista diverso e alternativo, e traccia rispetto a esse un confine che non può mai essere dimenticato.

La distinzione coinvolgeva il rapporto fra potere e violenza: un punto essenziale, nella tradizione ebraica. Nelle parole di Gesú non c’è alcun nesso diretto fra potenza di Dio (nei cieli) e uso mondano della violenza per imporne il rispetto sulla terra: si apriva in questo modo la strada a una prima – essenziale – «depoliticizzazione» del monoteismo. «Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei sottoposti si sarebbero battuti…» dice Gesú. È un richiamo fortissimo alla drammaticità della sua condizione attuale – non è stato difeso da nessuno – e nello stesso tempo l’affermazione della sua parzialità e provvisorietà. Mentre viene umiliato dal potere mondano, continua tuttavia a essere re in quell’altro regno. La maestà di Dio non si misura dalla forza delle armi: Gesú è in catene, e tuttavia ciò non gli impedisce di presentarsi come Figlio dell’Onnipotente.

Questo concetto per lui capitale l’aveva del resto già proposto, sia pure in maniera meno netta e definitiva, in un episodio celebre, riferito in termini pressoché identici nei Sinottici, ma non presente in Giovanni: un precedente che illumina e chiarisce la portata dell’affermazione enunciata innanzi a Pilato. «Quel che è di Cesare, rendetelo a Cesare, e quel che è di Dio, a Dio»28, aveva risposto, dopo essersi fatto mostrare l’effigie dell’imperatore su una moneta, a chi – erodiani, farisei, ma forse anche spie infiltrate da Gerusalemme – gli chiedeva, per tendergli una trappola, se si dovesse o no pagare il tributo ai Romani.

Il senso della frase sembra del tutto coincidente con l’affermazione circa i due regni. Ma in realtà ne chiarisce il significato, perché fissa una gerarchia. Essa va infatti interpretata in modo meno conciliante di quanto solitamente si pensi. Gesú non stava semplicemente dicendo che le imposte imperiali vanno pagate, sulla base di una pacifica e tranquilla distinzione fra quel che appartiene a Cesare o invece compete a Dio. Stava piuttosto esortando a lasciare come inutile peso a Cesare quel che sembra appartenergli – il denaro, con la sua effigie – per dedicarsi con maggior impegno alle cose di Dio, cioè all’interiorità dell’uomo e alla sua salvezza. «Abbandonate pure a Cesare…», è come se avesse esclamato, dando a quell’imperativo – apodote, che ricorre in tutti e tre i Sinottici – il valore incalzante del richiamo a una dismissione radicale e a un brusco allontanamento – una lettura peraltro già proposta e molto antica29.

I «regni» dunque – quello di Dio e quello di Cesare – non sono sullo stesso piano; tra loro non c’è simmetria. Non hanno eguale dignità, e il rapporto che li lega rimane intrinsecamente problematico. Quel che è di Cesare può essere dismesso senza danni e non mette in questione la salvezza. Quel che è di Dio, no. Richiede una dedizione totale. L’esistenza sovrastante del primo regno si incunea per cosí dire nel secondo, riducendone e relativizzandone il valore e le prospettive, anche quando quest’ultimo sembra vincere in modo schiacciante. Ciascuno di noi è sempre sospeso tra i due – ecco che ritorna il tema della scissione: del Padre, del Figlio, dell’uomo – e deve scegliere; l’autonomia dei due mondi sul piano della storia è, nello stesso tempo, garanzia di libertà e condizione di un laceramento continuo.

Fra i due livelli si costituiva inevitabilmente un ininterrotto campo di interferenze. In una di esse – quella decisiva – Dio si era fatto Uomo. Nell’affermarne la duplicità e la separata esistenza, il Gesú della predicazione evangelica stabiliva perciò anche, per ora implicitamente, ma già con estrema chiarezza, una ferma gerarchia fra i due mondi, di cui però non definiva né le forme né gli ambiti, anche se è evidente che essa non poteva risolversi nell’annientamento dell’uno rispetto all’altro. Il punto rimaneva drammaticamente incerto, un cruciale «non finito» che lasciava un immenso territorio da esplorare: esattamente quello che la storia, nei due millenni successivi, si sarebbe incaricata di fare.

La forza dell’annuncio di Gesú stava anche nel concreto contesto della sua proclamazione. Il suo insegnamento si stava concludendo di fronte a Pilato (è un’intuizione giustissima che questi «vi figuri per ragioni essenziali»30): l’ultimo momento della sua predicazione è per l’ascolto del prefetto. Bisognava avere innanzi la potenza dispiegata di Cesare, per poterne dichiarare la relatività e la finitezza. La presenza, come ascoltatore esclusivo, del suo delegato è una parte costitutiva nella comunicazione del messaggio.

In un certo senso, è come se Gesú avesse qui bisogno di Pilato per poter dare compimento al suo pensiero, e tutto lascia credere che ne fosse consapevole. È soltanto davanti al prefetto romano nel pieno esercizio della sua funzione e della sua rappresentanza che Gesú, inerme e in catene, può proclamare davvero la separazione fra i due regni: una lontananza che per lui avrà tra poco la piú tragica delle conseguenze; e nello stesso tempo affermare, come ha già fatto e sta ancora per fare, il primato assoluto del mondo da cui viene rispetto a quello che si prepara a fare scempio di lui.

La scena è di una potenza simbolica senza eguali: nella scarna economia di mezzi espressivi cui si fa ricorso nel racconto di Giovanni, si concentra una forza evocativa che non dà tregua. La sterminata mole di riflessioni e di eventi che quella breve sequenza di immagini e di pensieri non ha smesso per due millenni di generare retroagisce sulla sua luce originaria, e la rende abbagliante in modo quasi insopportabile. Ed è una scena, come ci stiamo rendendo sempre meglio conto descrivendola, storicamente del tutto persuasiva. Nulla vi appare fuori posto. Che sia anche accaduta – nei fatti e non solo nella memoria, e per giunta nei termini in cui la raccontiamo – potrebbe anche essere, fra tutte, la cosa meno importante.

Gesú non si ribella a Pilato, e non ne contesta il ruolo. Sfiora questa possibilità («se [...] allora i miei sottoposti combatterebbero»)31, per escluderla subito e definitivamente. Non è uno zelota in rivolta, e nemmeno il profeta di un’apocalisse che sta precipitando per travolgere tutto. Non ha un obiettivo politico immediato da raggiungere: non ne ha mai avuti. E sa – per averlo detto – che il momento della fine dei tempi è ignoto a tutti tranne che al Padre. Lo stesso Figlio non lo conosce: un esempio della dialettica instaurata all’interno dell’Uno. Egli sa solo che verrà («Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno sa, neppure gli angeli in cielo, neppure il Figlio, ma soltanto il Padre»: cosí Matteo)32. Ma per ora il suo annuncio deve fare i conti con il mondo che c’è. La sua lezione piú guarda lontano, al di là degli stessi orizzonti della storia, piú è piena di realismo.

I Romani non sono per lui gli oppressori del suo popolo. Niente ci induce a crederlo: è un discorso che non gli appartiene, e sarà anche per questo che l’esito catastrofico della rivolta del 66 non travolgerà la nascente tradizione cristiana. Pilato deve averlo percepito subito, e deve essersene sentito tranquillizzato (come vedremo): non è un insorto né un sobillatore che ha di fronte.

Per Gesú i Romani sono piuttosto i padroni del mondo, che possono disegnare l’effigie del loro imperatore sulle monete dei giudei, e portare i propri soldati da un capo all’altro della terra, fino alle soglie del Tempio. Sono l’incarnazione per eccellenza del potere mondano, coloro che hanno reso universale sulla terra quel regno cui si è appena riferito per riconoscerne l’esistenza e l’autonomia.

Due punti sono centrali nel suo insegnamento: che il momento del suo ritorno nel mondo – la parusia – non è predittibile, né è prevedibile quando avverrà lo scontro finale con il Male; mentre si apre invece per l’uomo il tempo dell’attesa. E che in questa durata, il potere mondano ha una consistenza e un impianto non immediatamente riconducibili al regno di Dio. La presenza del Figlio in catene di fronte a Pilato è la prova di questo spessore, di questa irriducibile sporgenza dell’umano.

Gesú, con il suo comportamento, accetta un simile sdoppiarsi di piani; in qualche modo lo legittima. Non rifiuta il potere di Pilato; si limita a mostrarne i confini, innalzandogli di fronte l’altro regno. Il passo successivo è breve: se il potere mondano, nella forma piú alta che esso aveva assunto in quel tempo, e cioè in quella dell’impero romano, non viene contestato in quanto tale, è perché gli si riconosce – o gli si attribuisce – un ruolo, una funzione, un compito. Ma quale?

Gesú – almeno il Gesú dei Vangeli – non lo dice. Ma crea tuttavia, con le sue parole e i suoi comportamenti, uno spazio di senso in cui quel discorso possa e debba essere completato, perché il cristianesimo si radichi nella storia. Se si vuol restare nel solco dell’insegnamento e dell’esempio del Maestro, occorre dare una risposta.

Già nella Seconda lettera ai Tessalonicesi33, Paolo (o chi per lui, se dobbiamo dubitare dell’autenticità dello scritto), si rivela perfettamente consapevole di questa urgenza. E in un passaggio molto oscuro, in diretto contatto con il testo di Matteo prima riportato, sembra assegnare al potere costituito degli uomini – in continuità con il pensiero di Gesú – il compito di «trattenere», attraverso il suo ordine, la vittoria terrena di quel che definisce il «mistero dell’anomia». Solo quando «chi trattiene» – ho katechon – verrà messo da parte, l’avvento apocalittico di «colui che è senza legge» – ho anomos – potrà compiersi, e questo a sua volta aprirà la strada al ritorno vittorioso di Cristo – alla sua parusia – che sconfiggerà definitivamente il Male.

Per opposizione34, il katechon sembra dunque doversi identificare con un provvisorio sistema di ordine e di regole, sostenuto da un potere in grado di imporlo, che l’arrivo dell’Anticristo rovescerà nel suo contrario – la totale anomia – prima che Gesú, ritornato, lo annienti con il «soffio della sua bocca». Stava forse pensando l’ellenizzato Paolo (o qualcuno dei suoi allievi) all’impero di Roma, sostenuto da una capacità senza eguali di unificare gli uomini dettando loro un nomos universale (che era poi il modo con cui i Greci, da Polibio in poi, si raffiguravano Roma)? È difficile dirlo con certezza, ma la soluzione affermativa mi sembra probabile. Se fosse cosí, potremmo avere una traccia di cosa pensasse di Pilato Gesú, che lo aveva di fronte, nel praetorion di Gerusalemme: lo avrebbe visto come il rappresentante di un ordine imperfetto e transeunte, e tuttavia necessario nel disegno del Padre, prima dell’avvento del Caos e prima della vittoria finale sul Male assoluto. Sarebbe iniziata cosí, già da quell’incontro, la lunga, ambigua e complessa partita che, per duemila anni, la Chiesa di Cristo non avrebbe mai smesso di giocare con il potere di Cesare.

4. «Dunque tu sei re?»35, tornò a chiedergli Pilato. Doveva essersi sorpreso non poco dei discorsi di Gesú. Al prigioniero non sembrava importasse granché difendersi dalle gravissime accuse che gli erano state contestate dai giudei, ma pareva seguire un suo disegno, per il quale era piú importante approfittare dell’occasione per ribadire e chiarire in modo alto e forte alcuni punti del suo insegnamento, che rendere meno disperata la sua posizione. E d’altra parte Gesú non aveva esitato a usare anche lui quella parola pericolosa: regno. Certo, vi aveva attribuito un significato diverso e spiazzante, ma si trattava pur sempre di un terreno minato rispetto al crimine che gli veniva imputato. Il prefetto ritenne perciò opportuno tornare ancora sull’argomento. Non poteva non farlo, ma vi insiste quasi esitando. Non trae egli stesso le conclusioni; piuttosto invita Gesú a ricavarle per lui. Non allude (almeno in quanto riportato da Giovanni) alla distinzione fra i regni di cui ha appena ascoltato. Essa tuttavia lo ha confuso. In quel «dunque» – oukoun – che introduce la domanda si nasconde un’esitazione evidente. Tutto diventa sospeso. Davvero non è piú un interrogatorio che precede una condanna; è un colloquio in cui Pilato appare sempre piú coinvolto e turbato.

«Tu dici che sono re. Io per questo sono nato, e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza della verità. Chiunque è dalla parte della verità ascolta la mia voce»36, replicò Gesú (la prima parte della risposta – «Tu dici…» – è anche nei Sinottici). L’argomento della regalità è chiuso rapidamente. La domanda viene capovolta su se stessa: che io sia re, sei tu ad affermarlo, e cosí sia. Per Gesú non c’era piú nulla da dire intorno a quella questione: quel che bisognava chiarire era stato già messo in luce.

Poi c’è ancora uno stacco. Gesú sembra cambiare d’improvviso argomento, e anche qui non possiamo dire se la cesura sia dovuta a un’interruzione del resoconto giovanneo, o se davvero, nella sequenza del dialogo, il prigioniero – sempre piú incurante, con l’aperta complicità del suo giudice, di restare nei limiti di quanto gli veniva richiesto, come ci aspetteremmo in un’inquisizione – sia bruscamente passato a parlare d’altro.

Il tema che irrompe cosí nel dialogo è la verità, he aletheia. Il problema della regalità era stato Pilato a imporlo. Ora è chiaramente Gesú che si impadronisce delle redini del colloquio. Sta seguendo un filo ben definito. Prima aveva spiegato in che senso egli fosse davvero re, e aveva distinto i due campi, di Dio e di Cesare. Adesso sta dando una sostanza e un contenuto al proprio regno, fissandone definitivamente il primato. Egli è venuto dal suo mondo in quello degli uomini, facendosi uomo egli stesso («per questo sono nato, e per questo sono venuto nel mondo…»), solo per portarvi la verità («per rendere testimonianza della verità»). La connessione con quanto aveva detto prima è inevitabile. Il suo è dunque il regno della verità, cosa che non può dirsi di quello di Cesare. Ecco perché chiunque sia dalla parte della verità non può che seguirlo («ascolta la mia voce»).

La verità viene in tal modo identificata con il centro della predicazione di Gesú e della sua presenza tra gli uomini. Il primato del suo regno non è quindi una questione di potere. Il regno di Dio non è superiore perché esprime maggiore potenza, ma perché è il regno della verità. La teologizzazione della morale raggiunge qui il suo culmine. La potenza è semmai una conseguenza della verità, ma questo nesso apparirà evidente solo alla fine dei Tempi, nell’ultimo scontro con il Male. Per ora Gesú, nel mondo degli uomini, è soltanto il «testimone» della verità (il verbo usato è martyrein), non colui che la impone. La verità per adesso divide: non tutti la seguono.

L’insistenza di Gesú su questa parola, e l’uso che ne fa come se indicasse una conoscenza rivelata e assoluta, da accogliere o rifiutare in blocco, ma non da valutare criticamente secondo dubbio e intelletto – come prescriveva il cauto eclettismo ellenizzante dei gruppi dirigenti imperiali, oscillante tra scettico disincanto relativistico e piú fiducioso razionalismo stoico – disorienta ancora una volta Pilato. Si è reso conto che non ha di fronte un esaltato, un uomo accecato da quella «superstizione» di cui avrebbe piú tardi detto Tacito37, ma una figura che si staccava nettamente dallo sfondo inquieto e febbrile – e per lui difficilmente comprensibile, abbiamo visto – della religiosità giudaica del tempo. Innanzi al prefetto, Gesú parla poco: in Marco e in Matteo si fa riferimento a suoi lunghi silenzi in quella mattina drammatica, e anche in Giovanni (ma piú tardi) si racconta del suo tacere. È ben possibile che Pilato lo abbia incalzato con altre domande, non riportate nel quarto Vangelo, e che di fronte al suo ostinato rifiuto gli abbia detto a un certo punto con impazienza: «Non senti quante cose dichiarano contro di te?»38

In questo tipo di interrogatori, di fronte alla reticenza dell’accusato, si poteva ben arrivare alla tortura da parte del carnefice (quaestionarius): «È interrogato in rapporto ai suoi crimini. È sottoposto a tortura…»39: cosí nel resoconto di un processo davanti a un governatore provinciale in una fonte tardoantica, quando queste prassi si erano semmai, e per molte ragioni, addolcite, rispetto all’età di Pilato. Niente di tutto questo ci viene riferito a proposito di Gesú. Fin dall’inizio il governatore sembra aver scelto un altro modo di condurre l’inchiesta. Piú che inquisire, indaga. La pressione è psicologica, non fisica.

Ed è perciò che, come per spezzare la vertigine dell’assoluto che sembra aver rapito nel suo vortice il prigioniero, gli chiede, forse interrompendolo: «Che cosa è verità?»40ti estin aletheia? È il punto piú alto di tutto il confronto. Non siamo piú in un interrogatorio. Progressivamente, quasi senza accorgercene, siamo stati trasportati da un pretorio di Giudea in un dialogo di Platone. Solo falsificazione della memoria? Può darsi. Eppure, non c’è nulla di inautentico o di artificiosamente costruito in questo quadro. La domanda affiora del tutto naturale, spontanea, dopo quanto appena detto da Gesú. Il comportamento di Pilato era stato del resto fin dall’inizio piú morbido di quanto l’abitudine avrebbe suggerito in casi del genere, per cui la sua battuta adesso non stride, né appare fuori posto.

Non possiamo dire con che tono Pilato l’avesse pronunciata. Ma credo proprio che non interpreti bene Nietzsche41 quando, in una pagina celebre, vi vede «il nobile sarcasmo di un romano dinanzi al quale si sta facendo un vergognoso abuso della parola “verità”». Pilato sta cercando di rendersi conto, non di sopraffare. Non ne avrebbe alcun bisogno. Non c’è sprezzatura; né, tantomeno, c’è l’«annullamento» (come ancora scrive Nietzsche) della posizione di Gesú e delle sue parole, anzi addirittura di tutto il Vangelo. Il prefetto avrebbe potuto facilmente ridurre al silenzio l’inquisito: un reo in catene, pronto a subire la tortura, che pretende di parlare di verità! E invece se ne guarda bene. Lo prende molto sul serio, e si limita a manifestare piuttosto la perplessità di chi non ha capito. Gesú testimonia (come egli stesso ha detto) il possesso di una certezza assoluta di cui Pilato non comprende l’origine e il fondamento. Le oppone perciò la problematicità di un buon senso nutrito di ragione. L’empiria di chi sa che ci sono piú cose al mondo – un mondo di cui i Romani hanno piena padronanza, avendolo conquistato – di quante non ne possa racchiudere qualunque filosofia (e qualunque religione). La sua domanda non è distruttiva, come vorrebbe Nietzsche; è genealogica. Contrappone la curiosità della conoscenza e il valore del dubbio alla proclamazione assertiva della fede. Ma accetta nello stesso tempo il terreno che gli sta proponendo l’interlocutore. Anzi, con la sua domanda Pilato cede in modo definitivo a Gesú il protagonismo del dialogo. Si riduce, per cosí dire, a giocare di rimessa. Le parti sono invertite.

Non sappiamo se e cosa abbia replicato Gesú: nel racconto di Giovanni il dialogo qui si interrompe. In realtà, egli aveva, a modo suo, già risposto; ma questo Pilato non poteva saperlo.

Prima dell’arresto, a Tommaso, smarrito, che gli chiedeva quale fosse la via da seguire, visto che i discepoli sarebbero stati presto lasciati soli – piú o meno la stessa domanda di Pilato: come trovare la verità – aveva detto: «Io sono la via e la verità e la vita, ego eimi he odos kai he aletheia kai he zoe. Nessuno viene al Padre se non attraverso di me. Se mi avete conosciuto, conoscerete anche il Padre»42.

Era dunque Gesú stesso la verità. La sua presenza di Figlio era rivelazione di verità per gli uomini: non la sua dottrina come organo separato di conoscenza e di sapere, ma egli medesimo nella sua totalità, la sua essenza, il suo esempio, le sue scelte, il modo del suo agire nel mondo, in questo mondo. La sua persona rappresentava il punto di interferenza in cui Dio aveva incontrato la storia, facendosi uomo egli stesso. Per lui, via (verso la salvezza), verità (di Dio) e vita (eterna) erano tutt’uno, perché è cosí che appaiono nella mente di Dio: come il riflesso unitario di se stesso. Ma osservata dal punto di vista degli uomini – e dell’uomo Gesú – quell’unità si articolava irradiandosi nella storia, ed era percepibile solo attraverso una pluralità di indicazioni. Le tre parole – in cui molti esegeti hanno creduto di scorgere (credo a torto) un’anticipazione trinitaria – risultavano cosí, nello stesso tempo, distinte e innestate l’una nell’altra: la salvezza appariva come un percorso verso la verità, la cui conquista immetteva nell’eterno. L’impianto teologico che sottende il trinomio – la qualità del rapporto tra il Padre e il Figlio – si trasformava in un cruciale ammaestramento pratico, in un richiamo semplice e potente alla fedeltà nell’ora del distacco (se vorrete salvarvi, io non dovrò uscire mai piú dai vostri cuori).

La verità, e non altro, era la comune sostanza del Padre come del Figlio. Ed era questa che Gesú predicava; o meglio: il riflesso di essa nella storia degli uomini. «Vi do un comandamento nuovo, – aveva detto appena prima, sempre nel racconto di Giovanni, – che vi amiate l’un l’altro; come io ho amato voi, anche voi amatevi l’un l’altro»43. Per ripetere poco dopo: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate l’un l’altro come io ho amato voi». E ancora, in conclusione: «Questo vi comando: amatevi l’un l’altro». Un incalzare martellante e inaudito, che svelava la percezione – fortissima – che Gesú aveva di se stesso: testimone della verità, in quanto la verità è amore. Il Dio che, attraverso Gesú, entra nella storia degli uomini, per mostrar loro la strada, è un Dio d’amore. L’amore è l’unico modo possibile per Lui di farsi storia. Se gli uomini fossero capaci di seguire il suo precetto fino in fondo, non vi sarebbe la necessità del katechon – di una potenza che regola e trattiene nell’attesa del ritorno di Cristo – né il disordine del caos («il mistero dell’anomia»)44 rischierebbe di vincere, come annunciavano le previsioni apocalittiche. È la mancanza d’amore ad aprire nella storia il varco per la lacerazione del Male.

Ma Gesú, quella sera – la sera che precedeva l’incontro con Pilato – aggiunse ancora qualcosa45: «Nessuno ha amore piú grande di questo: offrire la vita per i propri amici». La morte imminente prendeva in tal modo il posto di un elemento completamente interno alla sua predicazione; un dato intrinseco al suo essere testimone di verità: la morte come verità estrema dell’amore. Poco dopo, come abbiamo già visto, egli avrebbe impedito a Pietro di sguainare la spada in sua difesa («non dovrei io bere la coppa che mi ha dato il Padre?») Se la morte diventava per Gesú trasfigurazione dell’amore, diventava, per questa sua stessa metamorfosi, una morte necessaria.

In Marco e in Matteo46 c’è un preciso riferimento allo «stupirsi» di Pilato di fronte alla condotta del prigioniero (thaumazein è il verbo che ricorre in entrambi: si tratta dunque di uno stupirsi che include nel suo campo semantico anche l’ammirazione). In Giovanni questo ricordo manca, ma tutto il suo racconto è, in un certo senso, una conferma della sorpresa crescente del prefetto, che altrimenti mai avrebbe adottato, in simili circostanze, il comportamento che invece decise di seguire.

Ed è proprio dalla sua meraviglia che nasce la prima svolta di quelle ore. Evidentemente, nulla era andato sino a quel momento secondo quanto Pilato aveva potuto immaginare, in base a ciò che avevano riferito Anna e Caifa. Si aspettava un esaltato, un agitatore, un pericoloso sovversivo, un rivoltoso. È possibile che i suoi informatori sul campo – che probabilmente avevano avuto modo di ascoltare in precedenza Gesú, o almeno avevano raccolto informazioni di prima mano su di lui – gli avessero adombrato una realtà un po’ diversa, e meno prevenuta. Ma quel che era accaduto si presentava come assolutamente imprevisto. La personalità del prigioniero doveva essergli apparsa, nel confronto diretto, di una potenza perturbante e inattesa. Era bastato parlargli, perché tutto il castello di accuse predisposto dai sacerdoti, che probabilmente non avevano mai del tutto convinto Pilato, rivelasse la sua inconsistenza. Il sospetto, che forse non lo aveva mai abbandonato, di essere stato coinvolto in una resa dei conti tra fazioni giudaiche da cui il potere romano avrebbe fatto bene a tirarsi fuori, era diventato ormai quasi una certezza. Si era creata una situazione inaspettata, da cui si doveva venir fuori con il minor danno possibile.

Nel solo Vangelo di Matteo è raccontato come l’orientamento del prefetto fosse stato influenzato anche da un messaggio fattogli pervenire dalla moglie, nel corso dell’inquisizione: «Non ci sia nulla fra te e quel giusto [Gesú], perché oggi ho molto sofferto in sogno a causa sua»47. Non sappiamo nulla della moglie del governatore: nemmeno se ne avesse una (nell’apocrifoCiclo di Pilato, di cui diremo piú avanti, dove l’episodio ritorna, è chiamata Procla48). E comunque, in quell’epoca, non era consuetudine romana che le spose degli alti funzionari seguissero i mariti nei loro incarichi in provincia. Né possiamo ipotizzare da dove Matteo abbia attinto il particolare, sempre che non si tratti di una tarda interpolazione.

Tuttavia, anche al di là di questi dubbi, è assai difficile considerare attendibile un simile ricordo, che sembra piuttosto riprendere il topos religioso-letterario – anche biblico – del sogno rivelatore della volontà divina, per insistere sull’innocenza di Gesú: un tema caro a Matteo. Ed è anche possibile che qui l’autore stesse rielaborando in chiave cristiana il modello narrativo della matrona romana vicina al giudaismo, che troviamo, per esempio, in Giuseppe49 (ripetuto anche nel Vangelo apocrifo di Nicodemo)50.

Come è altrettanto arduo credere a un altro episodio, riferito questa volta dal solo Luca51– nemmeno qui sappiamo attingendo da dove, esattamente –, secondo cui Pilato, dopo aver ascoltato il prigioniero, avrebbe deciso di inviarlo a Erode Antipa, figlio di Erode il Grande (vi abbiamo già accennato), messo dai Romani a capo della Galilea come un principe vassallo, con il titolo di tetrarca. Era la stessa regione in cui era nato Gesú, e questo figurava come la spiegazione del deferimento. Antipa si sarebbe trovato anch’egli in quei giorni per la Pasqua a Gerusalemme; e poiché aveva espresso il desiderio di vedere Gesú, avendone sentito parlare, Pilato avrebbe deciso di accontentarlo. Il trasferimento sarebbe avvenuto cosí seduta stante, seguito da un lungo interrogatorio da parte di Antipa, nel quale il prigioniero avrebbe sempre taciuto. Poi, dopo averlo volgarmente schernito, il tetrarca l’avrebbe rimandato dal prefetto, senza concludere nulla, ma consolidando in tal modo il loro rapporto («Erode e Pilato divennero amici, mentre prima c’era inimicizia fra loro»)52.

Nulla regge in questo racconto. La sequenza cronologica, innanzitutto: perché in quella mattina già cosí piena di eventi, stando sia agli stessi Sinottici sia alla versione di Giovanni, non vi sarebbe stato il tempo per un simile spostamento, cui si deve aggiungere la durata di un interrogatorio protrattosi a lungo, con il seguito di dileggi e di insulti – anche ammesso che la residenza di Antipa fosse molto vicina a quella di Pilato. E poi l’incongruità della vicenda. Pilato non aveva alcuna ragione di deferire il prigioniero ad Antipa. E per farne che? Gesú era stato arrestato sul territorio di una provincia romana, e non poteva essere sottratto alla coercizione romano-giudaica. Decidere diversamente sarebbe stato un atto di rinuncia all’esercizio del proprio potere d’imperio (potremmo anche dire: della propria giurisdizione) inammissibile per un governatore romano. Inoltre Antipa era ospite in territorio imperiale; sulla base di quale autorità avrebbe potuto prendere una decisione su Gesú? Senza dire che non esisteva alcuna regola romana che decideva della giurisdizione fondandosi sul luogo di nascita dell’accusato. D’altra parte, nulla viene detto circa un’eventuale decisione di Antipa. Aveva anch’egli trovato Gesú non colpevole? Oppure dovremmo pensare che l’invio al tetrarca non fosse stato eseguito per fargli giudicare il prigioniero, ma solo per consentirgli di conoscerlo, dando per scontato che Gesú sarebbe ritornato poi da Pilato. Ma si sarebbe trattato di un modo di procedere ben singolare, quello di spezzare l’accertamento della colpevolezza del prigioniero – con i notabili giudei fuori, in attesa – per fargli effettuare una specie di visita di cortesia, senza conseguenze sul piano dell’inquisizione.

Credo invece che si debba guardare in un’altra direzione, per rintracciare i motivi di questa inverosimile descrizione: nel desiderio di Luca (o della sua fonte) di allungare fin dove possibile il raggio della responsabilità ebraica nella condanna di Gesú, coinvolgendo nell’esito ultimo della vicenda non solo le autorità giudaiche, ma anche quelle della Galilea, della terra dove Cristo era nato; insomma, dell’intero Israele. Senza nemmeno dimenticare la probabile volontà dell’autore di stabilire, con il suo racconto, un parallelo fra il «processo» (inventato) di Antipa a Gesú e quello (storicamente vero) di Agrippa I all’apostolo Paolo: per mostrare come i due piú importanti erodiani – Antipa e Agrippa – fossero stati simmetricamente coinvolti all’origine della repressione anticristiana.

Pilato lascia dunque Gesú, ed esce di nuovo dal pretorio, verso i sacerdoti in attesa. Il sole doveva essere ormai già alto, e si annunciavano ore difficili.

1. Al dialogo con Gesú si affianca ora per Pilato la discussione con i notabili giudei, radunati innanzi al palazzo. Si era creata una situazione imprevista, determinata dalla condotta del prigioniero, dalle risposte che aveva dato, e dalla forza – evidentemente perturbante – della sua personalità. Pilato non era piú pronto ad ammettere la colpevolezza dell’inquisito, come forse si era preparato a fare, e aveva ritenuto di informarne gli accusatori. Prima di uscire, avrà avvertito anche Gesú della convinzione che stava maturando? Quest’ultimo dunque sapeva dell’orientamento del governatore? Non possiamo affermarlo, ma è difficile credere – anche a voler supporre il silenzio o la reticenza del prefetto – che comunque non avesse intuito qualcosa, non si fosse reso conto che l’interrogatorio stava prendendo una piega diversa e non favorevole all’accusa. In che modo Gesú avrà reagito alla svolta? Se ne sarà forse rallegrato, come chi veda d’improvviso diradarsi le nuvole addensate sul suo capo? È una domanda cruciale – lo vedremo – ma che, per adesso, lasciamo sospesa.

Pilato ora si rivolge ai giudei: «Io non trovo in lui alcun motivo di condanna»1, dice secondo Giovanni; mentre Luca è ancora piú dettagliato: «Mi avete portato quest’uomo come un corruttore del popolo, ma io, avendolo esaminato davanti a voi, non ho trovato […] nessuna delle ragioni per cui lo accusate»2 (non deve trarre in inganno quel «davanti a voi», enopion hymon: non significa necessariamente che Pilato debba aver condotto il suo interrogatorio alla presenza degli accusatori – contraddicendo la versione di Giovanni – ma solo che l’inchiesta si stava svolgendo mentre i giudei erano fuori, in attesa; altrimenti, lo stesso racconto di Luca secondo cui il prefetto avrebbe parlato «convocati i capi dei sacerdoti, e le autorità e il popolo»3, non avrebbe senso, se tutti fossero stati già lí).

Quella di Pilato era una dichiarazione interlocutoria, non un verdetto. Comunicava un orientamento, non una decisione. Gesú era ancora nel pretorio, e l’inquisizione poteva riprendere in ogni momento, come infatti sarà. Sarebbe stato possibile, per il prefetto, spingersi oltre, e procedere subito alla liberazione del prigioniero? Certo che sí: ne aveva il pieno potere. Decise però di non farlo, di non forzare troppo lo stato delle cose. I suoi rapporti con Anna e Caifa erano delicati e complessi; la Giudea un paese difficile, ed egli sapeva bene di trovarsi sul filo del rasoio. Ma già cosí la sua era una pronuncia assolutamente inattesa per gli esponenti del sinedrio, e soprattutto per i due sommi sacerdoti, dopo le trattative che avevano preceduto l’arresto, condotto peraltro con la collaborazione romana, e dopo l’affannosa riunione notturna in casa di Anna.

Si stava creando una situazione di stallo, carica di una tensione che possiamo facilmente immaginare. Le parole del governatore, per quanto caute, erano state pesanti, e si rischiava di avvicinarsi a un punto di non ritorno. D’altra parte, i sacerdoti non potevano recedere dalle loro accuse senza una rovinosa caduta di ruolo e di prestigio, dalle conseguenze imprevedibili. Non sappiamo cosa Pilato si fosse sbilanciato a promettere, e in che termini lo avesse fatto, né di quali strumenti di pressione disponessero Anna e Caifa nei suoi confronti (anche senza pensare all’evocazione di passate, e forse non trasparenti, complicità), ma di sicuro i sacerdoti non si aspettavano un simile colpo di scena. Il pericolo era grave: che si aprisse una crisi seria nei rapporti fra autorità romana e aristocrazia giudaica – l’incubo di ogni buon governatore (era questo che quasi certamente spingeva Pilato alla prudenza), ma anche la grande paura di ogni notabilato locale.

È cosí che Pilato ebbe un’idea, tutta politica: cercare una soluzione che potesse permettere di salvare Gesú, consentendo nello stesso tempo agli accusatori di fare un passo indietro senza che la loro credibilità ne risultasse (troppo) compromessa.

La trovata fu di proporre uno scambio. La vita di Gesú contro quella di un altro prigioniero che si chiamava Barabba; un personaggio ricordato solo nei Vangeli.

Anche i Sinottici – e non solo Giovanni4, che anzi è il piú succinto su questo punto – riferiscono l’episodio. Gli storici del diritto hanno discusso a lungo per individuare il fondamento legale dell’offerta di Pilato. A me pare che l’ipotesi piú attendibile5 sia di ritenere che esistesse una consuetudine – forse di ascendenza asmonea ed erodiana – che rendeva possibile graziare un condannato in occasione delle festività della Pasqua, e che questa tradizione fosse stata accolta già altre volte da Pilato, in osservanza degli usi locali. Il prefetto cercava adesso di volgerla a proprio vantaggio, sulla base di un calcolo non privo di sottigliezza. Che cioè i suoi interlocutori giudei non avrebbero mai chiesto all’autorità romana di liberare, al posto di Gesú, un altro condannato, se veniva proposta come alternativa una figura per loro inaccettabile.

Non possiamo pensare infatti che l’indicazione di Pilato fosse stata casuale: di sicuro vi erano in quel momento piú detenuti in attesa di essere giudicati; lo stesso Gesú sarebbe stato poi mandato al supplizio con due briganti. Né possiamo supporre che ci fosse già stato un primo pronunciamento a favore di Barabba: e che proporlo fosse una strada obbligata. Niente lo lascia pensare; l’alternativa fra i due prigionieri fu tutta un’improvvisazione del prefetto, di cui vi è una traccia precisa e credibile in Matteo6: «Essendo dunque essi radunati, Pilato disse loro: “Chi volete che vi rilasci, Gesú Barabba o Gesú detto il Cristo?”» (anche se nei manoscritti piú importanti il nome «Gesú» non è riportato per Barabba, che è un patronimico, il suo ripetersi anche per quest’ultimo sembra un particolare da non rifiutare, e l’omissione nei testi principali è probabilmente dovuta a ragioni di rispetto per il figlio di Dio nella tradizione dei copisti cristiani). Altrimenti, seguendo la consuetudine, il governatore avrebbe scelto da solo chi graziare, rendendo nota successivamente la sua decisione: una fugace osservazione, sempre di Matteo, secondo cui sarebbe stata «la folla»7 a decidere chi liberare («quello che volevano»)8 mi sembra non avere fondamento, e rientra invece nel quadro di una deliberata falsificazione su questo punto da parte della tradizione raccolta dallo scrittore, come subito diremo.

Perché allora Pilato scelse proprio Barabba? Questi, stando sempre ai Vangeli, non era un comune bandito, fra i tanti in campo in Giudea, in Samaria, in Galilea. Era qualcosa di piú: un prigioniero «famoso»9episemon (Matteo), che aveva ucciso durante una sommossa avvenuta in città (Marco e Luca)10; semplicemente un «ladro», lestes, solo per Giovanni11. Era, cioè, un personaggio coinvolto nella resistenza antiromana: un insorto, forse uno zelota. Certamente quindi una figura molto lontana dai gruppi aristocratici sadducei, accusati proprio dai ribelli come lui di un’infamante e sacrilega connivenza con lo straniero, sebbene non si possa escludere12 che all’interno di questi ambienti si intrattenessero talvolta relazioni oscure con frange del banditismo, per assoldarvi uomini pronti a tutto, da manovrare secondo il bisogno. Trent’anni dopo, dagli stessi circuiti che avevano prodotto per decenni figure del tutto simili a Barabba – una strisciante insurrezione permanente – sarebbero usciti gli uomini che, nella rivolta del 66, avrebbero sterminato la nobiltà giudaica filoromana. Pilato, dunque, credeva di aver scelto la persona giusta da contrapporre a Gesú per salvarlo: un sovversivo che i capi del sinedrio (egli pensava) mai avrebbero risparmiato.

Ma a chi, esattamente, Pilato rivolse la sua proposta?

Secondo uno stereotipo entrato ormai a far parte dell’immaginario dell’Occidente, la scelta fra Gesú e Barabba fu posta dal governatore al popolo di Gerusalemme – presente per l’occasione – che si sarebbe pronunciato senza esitare a favore di Barabba, contro Gesú. Uno dei piú grandi giuristi del secolo scorso, Hans Kelsen13, fondandosi (come dice) proprio sul racconto che leggiamo nel Vangelo di Giovanni, ha fatto di questo episodio, su cui è piú volte ritornato, un doloroso ma limpido esempio del carattere intrinsecamente relativistico e avalutativo di ogni democrazia. Lo «scettico» Pilato, di fronte al dogmatismo fideistico di Gesú, avrebbe coerentemente agito da democratico: si sarebbe «appellato al popolo» e avrebbe organizzato un «plebiscito» per scegliere quale salvare tra i due inquisiti, attenendosi poi in maniera scrupolosa al suo risultato.

È stata un’interpretazione che ha fatto scuola, aprendo una discussione che è arrivata a sfiorare (senza però mai affrontarlo veramente) un tema cruciale: quello del rapporto intrinseco fra quantità (della maggioranza) e verità, fra numero (dei votanti per un certo provvedimento) e ragione, come presupposto quasi metafisico14di ogni legittimità democratica.

Ma in Giovanni, per quanto incredibile possa sembrare, di questo «popolo» evocato con tanta sicurezza non c’è la minima traccia. Ci sono «i giudei», oi ioudaioi, nominati ben cinque volte in un breve spazio di testo15. Ma essi sono individuati esattamente e senza ombra di dubbio soltanto come coloro che avevano scortato Gesú da Pilato: dunque i componenti del sinedrio, semmai accompagnati dai loro servi e da un distaccamento della guardia del Tempio. Nessun altro. Ed è un’identificazione, del resto, che ritorna con assoluta precisione in altri due luoghi del racconto di Giovanni: una prima volta16 quando vengono ricordati «i capi dei sacerdoti e le guardie» (e solo loro) come quelli che gridarono «crocifiggilo, crocifiggilo» riferendosi a Gesú (vi ritorneremo); e una seconda17, quando sono indicati ancora «i capi dei sacerdoti» (e solo essi) come gli autori di una dichiarazione di completa fedeltà a Cesare (riparleremo anche di questo). È dunque solo a loro che Pilato propone la sua alternativa.

Il «popolo», per Giovanni, non è mai coinvolto nella vicenda. Ed è un’assenza che dobbiamo prendere molto sul serio, visto che il quarto Vangelo è la nostra fonte migliore per la ricostruzione degli eventi che portarono alla morte di Gesú. Per Giovanni, tutto si compie all’interno di una cerchia ristretta: Pilato, Gesú e i sinedriti – una triangolazione serrata ed esclusiva.

È invece nei Sinottici che la scena sembra allargarsi ad altri protagonisti. Vediamo come. In Luca18, all’inizio del racconto, si accenna a una «moltitudine», plethos, che conduce Gesú da Pilato: ma si vogliono certamente indicare solo i componenti del sinedrio e le guardie. Si racconta poi19 che Pilato, quando dichiarò per la prima volta l’innocenza di Gesú, prima di deferirlo a Erode Antipa, si rivolse «ai capi dei sacerdoti e alla folla», tous archiereis kai tous ochlous: una presenza indistinta e passiva, che probabilmente indica, ancora una volta, solo gli accompagnatori dei sacerdoti – il plethosprima nominato – e che fa da semplice sfondo all’azione dei leader del consiglio giudaico.

Si dice infine20 che Pilato, al ritorno del prigioniero dalla residenza di Antipa, avrebbe convocato «i capi dei sacerdoti, e i maggiorenti e il popolo», tous archiereis kai tous archontes kai ton laon, per insistere ancora sull’innocenza di Gesú. E qui senza dubbio sembra apparire un soggetto nuovo. Ma il richiamo è in realtà chiuso all’interno di una formula di rito: una clausola che doveva precedere ogni annuncio pubblico del governatore, senza che ciò implicasse davvero una presenza popolare attiva; e infatti nel seguito del racconto sono sempre e solo i sacerdoti e i maggiorenti quelli cui Luca chiaramente si riferisce.

In Marco e Matteo – soprattutto in quest’ultimo – siamo invece senza dubbio di fronte a un nucleo narrativo diverso. Per loro il popolo, la folla (laosochlos), svolge un ruolo meno marginale. Si tratta sempre, tuttavia, di masse manipolate dai sacerdoti («ora i capi dei sacerdoti e gli anziani persuasero le folle…», in Matteo21; e «i capi dei sacerdoti istigarono la folla», in Marco22). Come questo sia potuto accadere, tenuto conto dei rapporti non facili, in quegli anni, tra sacerdoti e popolo, tra aristocrazia sadducea e strati sociali piú bassi, sia urbani sia contadini, è difficile da dirsi, e induce un’altra domanda: ammesso che ci fosse davvero, da chi era composta questa evanescente folla tanto facilmente manovrabile dai vertici del sinedrio? La risposta piú plausibile è che si trattasse solo di gruppi relativamente ristretti, magari addirittura prezzolati, mobilitati in anticipo dai sacerdoti per dar loro man forte innanzi al prefetto romano, se mai ve ne fosse stato bisogno. In ogni caso, quindi, una presenza irrilevante, che non modificava in nulla il carattere degli avvenimenti.

Ma io credo che, in fin dei conti, la soluzione migliore sia di continuare a fidarsi della versione di Giovanni. Tutti i Vangeli insistono sulla popolarità di Gesú in quei giorni a Gerusalemme, dove (lo abbiamo visto) sarebbe entrato in modo trionfale. Se davvero vi fossero state masse a lui ostili raccolte innanzi alla residenza di Pilato, un cambiamento di umori cosí repentino sarebbe inspiegabile, e nessuno infatti è davvero riuscito a darne conto in modo persuasivo.

Non resta dunque che prenderne atto: in quelle ore nessuna parte significativa del popolo di Gerusalemme si radunò fuori del pretorio; oltretutto, non abbiamo alcuna evidenza archeologica per supporre che lí vi fosse un luogo adatto per contenerla. All’esterno del palazzo di Erode il governatore amministrava pubblicamente la giustizia, teneva il suo tribunale: c’era evidentemente uno spazio aperto – forse un cortile – capace di accogliere un certo assembramento, non la piazza per un’assemblea. Era un posto per riunioni relativamente piccole e facilmente controllabili, non piú di qualche centinaio di persone, è stato suggerito23; non per organizzare «plebisciti» (come supponeva Kelsen).

Infine, non vi sarebbero stati il tempo né i motivi per una convocazione di massa: Gesú era stato arrestato in segreto, con un colpo di mano notturno, proprio per evitare una sommossa in suo favore. Come credere che adesso i sacerdoti desiderassero – o quanto meno accettassero – un bagno di folla?

Si potrebbe pensare a gente convenuta non per Gesú, ma semplicemente per assistere alla tradizionale liberazione di uno dei prigionieri, come sembrerebbe ricavarsi da una rapida frase di Marco24; forse di amici dello stesso Barabba, che sapevano del suo arresto e speravano per l’occasione in un atto di clemenza: ma anche in questo caso si tratterebbe di numeri ristretti – la guarnigione romana non avrebbe certo tollerato grandi concentrazioni in sostegno di un arrestato – con una composizione del tutto particolare, e comunque non rappresentativa dell’intera comunità. Parlare di una consultazione «democratica» – e di un Gesú messo innanzi al popolo di Gerusalemme – è del tutto privo di senso, sia logico, sia storico.

Credo invece vi siano fondati motivi per supporre che Marco e Matteo avessero introdotto nella loro scrittura il tema della «folla» – abbiamo appena visto che Matteo la richiama impropriamente anche a proposito della consuetudine della liberazione del prigioniero – per una ragione precisa, pur rischiando di contraddirsi rispetto a quanto avevano prima riferito sulla popolarità del loro Maestro. A entrambi premeva molto, infatti, ricordare ai lettori come la morte di Gesú fosse responsabilità dell’intero popolo ebraico, e non solo di un piccolo gruppo di sacerdoti e dei loro accoliti: un passaggio di Matteo (su cui ci fermeremo tra poco) mi sembra rivelatore in questo senso.

2. L’alternativa fra Barabba e Gesú fu proposta dunque solo a quella schiera di sacerdoti, di notabili e di scribi che aveva accompagnato, con le guardie del Tempio, il prigioniero nel palazzo del governatore. Tutt’al piú possiamo pensare che a essi si fosse aggiunto un qualche sciame di servitori, di clienti, di amici facilmente manovrabili dagli esponenti del sinedrio, e probabilmente da loro stessi fatti accorrere.

Ma Pilato aveva fatto male i suoi calcoli, come del resto doveva capitargli non di rado, quando si trattava di sondare e di valutare i sentimenti e le reazioni di quel popolo (per lui) cosí enigmatico, sottile e imprevedibile, educato a una cultura potente, con un’identità debordante, e anche abissalmente lontana dalla visione romana della vita e del mondo. Alla fine, egli sottovalutò la forza dell’ostilità che la maggioranza del sinedrio provava nei confronti di Gesú.

I sacerdoti, messi alle strette, scelsero infatti Barabba.

Non dovette trattarsi di una decisione semplice: stavano regalando la vita a un nemico; a un uomo che, probabilmente, non aveva esitato a prendere le armi contro gli aristocratici vicini al potere romano: nel banditismo giudaico, in gran parte composto da ex contadini in rovina, e anche all’interno del gruppo dei cosiddetti «sicarii», erano presenti indubbie motivazioni sociali, insieme a evidenti spinte antiromane25. Ma questo ci fa capire molto bene quanto i massimi esponenti del sinedrio, arrivati al punto in cui si era, temessero la predicazione di Gesú. Come ritenessero un pericolo mortale per la sopravvivenza del loro ruolo e della loro funzione che quell’uomo ispirato e carismatico continuasse a circolare libero per la Giudea. E c’è di piú. Non dobbiamo infatti necessariamente supporre, per dare un senso agli avvenimenti, che a muovere la maggioranza del sinedrio fossero solo ristretti interessi di ceto e di potere. Questi verosimilmente non mancavano; e tuttavia c’era probabilmente anche qualcos’altro a spingere i sacerdoti nella loro implacabile avversione. Essi si erano convinti – e non a torto – che l’insegnamento di Gesú stesse mettendo in pericolo qualcosa di profondo della religione mosaica, di cui si ritenevano legittimamente i custodi. Che ne investisse alcuni nodi essenziali, fino a minacciarne la stessa esistenza, a cominciare dalla forma medesima del monoteismo, e dal suo rapporto con la tradizione del popolo d’Israele. Era la relazione cruciale tra struttura teologica e storia «nazionale» che essi sentivano compromessa; come dire il cuore pulsante dell’identità ebraica. Lo scontro era forte, e la posta altissima.

Scelsero quindi il male minore: lasciar libero un sovversivo pronto a uccidere, ma tutto sommato di secondo piano, e in fin dei conti controllabile, pur di eliminare uno straordinario agitatore di coscienze, la cui libertà avrebbe potuto avere conseguenze incalcolabili. Che Barabba vivesse pure, se questo serviva a far morire Gesú. È probabile inoltre che i sacerdoti avessero intuito il calcolo di Pilato, e volessero anche far capire al prefetto che ormai era troppo tardi per qualunque tentativo di confondere i giochi. Adesso non c’era che da arrivare sino in fondo.

Nel racconto di Luca26, che segue su questo punto Marco e Matteo27, un Pilato incredulo e sconcertato avrebbe ripetuto ben tre volte la sua richiesta ai giudei («Di nuovo, volendo liberare Gesú, rivolse loro la parola»; e: «per la terza volta disse loro: “Che cosa ha fatto dunque di male? Non ho trovato in lui alcun motivo per cui debba morire”»), ottenendo sempre la stessa risposta: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!» È un’iterazione che non troviamo in Giovanni – che ha qui un racconto piú asciutto e piú rapido, come già attratto verso gli sviluppi successivi – ma che considero abbastanza credibile, pur togliendole qualche esagerazione, presente nella versione di Marco e di Matteo, che rischia di farla apparire persino petulante. Il governatore, di fronte all’ostinazione dei giudei, avrà insistito con forza per far valere le sue ragioni, in un crescendo di animosità e di concitazione. Si rendeva conto che si stava profilando un drammatico braccio di ferro.

Ed è a questo punto che Matteo – e solo lui – inserisce nella sua narrazione una scena, peraltro celeberrima, che illumina sugli intenti ideologici della tradizione ripresa dai Sinottici (ma non da Giovanni, e dallo stesso Luca con una certa prudenza), chiarendo una volta per tutte le ragioni che avevano spinto all’invenzione della «folla».

Al terzo rifiuto dei giudei di liberare Gesú, Pilato, ormai scoraggiato28, «presa dell’acqua, si lavò le mani di fronte alla folla, dicendo: “Io sono innocente di questo sangue; vedetevela voi!” E tutto il popolo, rispondendo, disse: “Il suo sangue su di noi e sui nostri figli!”»

Non si può credere29 a una sola parola di questo racconto: anche se l’immagine da esso proposta è entrata con indicibile forza nella piú popolare iconografia cristiana, indissolubilmente connessa al sacrificio di Gesú – mille volte rappresentata come il segno perenne dell’abdicazione e dell’irresolutezza, in cui la proclamata e impotente innocenza del prefetto non riesce a sottrarsi all’ombra della colpa. Malamente nascosto, vi affiora invece, nettissimo, un sovraccarico di pregiudizio e di ideologia, che ci riporta dritto a quello che potremmo definire come il punto zero nella genealogia dell’antisemitismo cristiano, alle origini di una tragedia dell’Occidente.

Innanzitutto è impensabile che un prefetto romano avesse scelto, per proclamare la propria estraneità rispetto alla vicenda che si stava svolgendo, di affidarsi a un rituale come la lavanda delle mani, specificamente ebraico e del tutto estraneo alla propria cultura, sia religiosa sia giuridica, e che peraltro, secondo la tradizione biblica, avrebbe dovuto essere compiuto dopo l’uccisione della vittima, e non prima. A Pilato, come a ogni alto funzionario romano, mai sarebbe venuta in mente una simile mortificante stravaganza, ammesso anche (e non è affatto scontato) che egli fosse a conoscenza di una tale pratica.

E poi: quel gesto, se fosse stato davvero compiuto, avrebbe dovuto avere come ovvia conseguenza il rifiuto da parte di Pilato di occuparsi ancora della questione (e infatti nel frammento del cosiddetto Vangelo di Pietro30, secondo cui Gesú sarebbe stato condannato da Erode Antipa, Pilato, dopo essersi lavate le mani, si allontana dal luogo del giudizio). Il prigioniero avrebbe dovuto quindi essere immediatamente consegnato ai giudei, che peraltro non potevano ucciderlo, come abbiamo visto.

Ma nulla di questo invece accade. Gesú – anche nella stessa versione di Matteo – continua a restare in mani romane, e Pilato rimane coinvolto sino alla fine, decidendo della sua sorte: un’incongruenza gravissima, che toglie ogni plausibilità all’intera narrazione.

In realtà, nell’abile composizione di questa scrittura l’episodio – costruito per essere proposto a lettori non ben consapevoli delle diversità culturali romane – serviva solo come premessa e come contrappunto alla dichiarazione successiva, che doveva costituire il culmine del racconto: la drammatica e solenne pronuncia ebraica «il suo sangue su di noi e sui nostri figli». Gli ebrei dovevano essere a tutti i costi isolati nella loro colpa: bisognava che Pilato rimanesse fuori. Ed ecco quindi i due quadri simmetrici e contrapposti, entrambi in linea con la tradizione biblica: la lavanda di Pilato (Deuteronomio, 21, 1-9) da un lato, e di fronte la completa accettazione ebraica della responsabilità di quanto stava per accadere a Gesú, secondo una formula anch’essa rituale (Genesi, 2, 19; Deuteronomio, 19, 10).

Ma perché tutto avesse il suo senso piú forte, occorreva che la solenne dichiarazione ebraica non fosse pronunciata da un piccolo gruppo di congiurati accompagnato forse da una manciata di seguaci, bensí da «tutto il popolo»31 – pas ho laos – di Gerusalemme. La scena che ne risulta è però ancora una volta completamente implausibile. Una folla sterminata – tutto il popolo – e fino ad allora in tumulto (è cosí che l’aveva appena descritta Matteo32alla mallon thorybos ginetai), di fronte allo spettacolo inaudito di un governatore romano che compiva con assoluta padronanza un rituale per lui del tutto straniero, avrebbe risposto in coro, all’unisono, con un’altra formula biblica, perfettamente simmetrica rispetto a quella appena sentita dal prefetto: un’artificiosità che non ha paura del grottesco.

Non altro che a questo, dunque, serviva la fantasiosa evocazione della «folla» e del «popolo» nella tradizione che si riflette nella scrittura di Marco e, soprattutto, di Matteo: ricondurre la morte di Gesú – il deicidio – a una scelta esclusiva del popolo ebraico, di tutto il popolo ebraico (e della sua discendenza), che si immaginava presente in massa e da protagonista sulla scena del crimine. Gesú non sarebbe stato vittima di una congiura, né tantomeno sarebbe morto a causa dei Romani – anzi escludere ogni diretta responsabilità imperiale premeva probabilmente a Marco e Matteo – ma era stato ucciso da un intero popolo, che se ne era assunta piena e collettiva responsabilità. In una parte della prima memoria cristiana, reggendosi su un evidente falso la cui genesi non sta a noi qui né indagare né ripercorrere, si radicava il rovello di una tenace pulsione antigiudaica, che nessuna acrobazia esegetica può cercare di sminuire: un fondo di veleni che si sarebbe trasmesso intatto e nefasto attraverso i secoli, custodito nel cuore di un ricordo che diventava sempre piú prezioso e intoccabile.

3. Pilato allora rientrò nel pretorio. Secondo Giovanni, non aveva ancora preso alcuna decisione. Per Luca33, invece, prima di ritirarsi, avrebbe manifestato le sue intenzioni: «Perciò lo rilascerò [Gesú] dopo averlo punito». Non mi sembra un passaggio attendibile. Pilato aveva appena dichiarato che trovava il prigioniero del tutto innocente: come poteva confermare questa convinzione fino alle sue estreme conseguenze («lo rilascerò»), e nello stesso tempo annunciare che lo avrebbe punito, sia pure non con la morte? È meglio credere che il governatore avesse per il momento taciuto, e che qui Luca stesse solo anticipando in modo un po’ maldestro il seguito degli avvenimenti.

È verosimile che il prefetto fosse incerto e irritato. Il suo piano non era riuscito. Non aveva previsto tanta ostinazione da parte giudaica, e soprattutto che i sacerdoti osassero contrastarlo, dopo aver manifestato la sua convinzione circa la non colpevolezza di Gesú, sfiorando una crisi rischiosa nei rapporti con l’autorità romana.

Cercò allora un’altra strada. L’obiettivo, cui non aveva rinunciato, era ancora di trovare un compromesso: salvare Gesú, e insieme non umiliare i sacerdoti e il sinedrio, che si erano clamorosamente esposti nel chiedere l’esecuzione del prigioniero. Possiamo supporre che fosse non poco contrariato dall’ostinazione dei notabili. Ma ancora una volta il calcolo politico prevalse sul personale fastidio.

Decise perciò di infliggere a Gesú un castigo che potesse risparmiargli la vita, e insieme offrire ai giudei un qualche motivo per ritenersi almeno in parte soddisfatti: la flagellazione, una pena propria della repressione criminale romana nell’età del principato, soprattutto nelle province, che poteva essere inflitta sia in modo accessorio, prima dell’esecuzione, sia in maniera autonoma, come unica condanna. La violenza che già era apparsa a tratti, per quanto in modo non eccessivamente pesante, nell’interrogatorio della notte, ma che era stata finora lontana dal pretorio di Pilato, ritornava adesso a esplodere per mano romana in una forma piú invasiva e brutale.

Che l’idea di Pilato fosse ancora quella di salvare Gesú è evidente nel racconto di Giovanni34, e anche nell’accenno di Luca che abbiamo prima richiamato: ed è l’ipotesi piú verosimile. In Marco e Matteo35 invece la flagellazione sembra figurare solo come un preliminare rispetto al supplizio della croce: ma dobbiamo pensare di essere di fronte a una versione piú concisa – concentrata sui nudi fatti piuttosto che sulla spiegazione delle loro connessioni – che avendo ormai raccontato quello a cui piú teneva, correva senza altri indugi verso la fine.

La flagellazione era uno spettacolo terribile. Nudo e legato, il condannato veniva battuto a sangue con strumenti che potevano variare: bastoni, se la vittima era di rango sociale elevato, o fruste, se si trattava di schiavi o di persone di bassa condizione. Non vi era una durata prestabilita, né un numero prefissato di colpi, e poteva accadere che durante la punizione sopravvenisse la morte.

Possiamo supporre che Pilato assistesse al supplizio – era un uomo d’armi: quella per lui era routine – e che Gesú fosse legato a una colonna, circondato dai suoi aguzzini, come lo immagina la realistica fantasia di Caravaggio36. E dobbiamo anche credere che – sicuramente per volontà dello stesso prefetto – il tormento non sia durato a lungo, né sia stato insopportabilmente pesante: se, subito dopo, il prigioniero fu in grado di rimanere in piedi, e, piú tardi, di riprendere con lucidità il dialogo con Pilato. In genere, dopo simili torture accadeva ben altro.

La punizione era avvenuta all’interno del palazzo. Nel disegno di Pilato occorreva che i giudei in attesa fuori ne vedessero le conseguenze, che si rendessero conto di avere di fronte un uomo ormai distrutto. Ed ecco che alla sofferenza, al sangue e alle ferite il governatore decise di aggiungere l’umiliazione dello scherno: di rovesciare l’accusa piú pericolosa che era stata mossa a Gesú – di aspirare al regno – trasformando questa pretesa in una patetica e ridicola farsa, da non prendersi sul serio. I soldati di guardia misero cosí in testa al prigioniero, ormai probabilmente coperto di sangue, una corona di acanto, e lo rivestirono con un mantello di porpora; e lo percossero ancora, gridandogli: «Salve, re dei giudei»37 (questo particolare c’è anche in Marco e Matteo38, sebbene spostato un po’ in avanti, subito prima dell’invio alla crocifissione).

È probabile che tutto avvenisse per ordine di Pilato. Siamo nel pretorio di Gerusalemme, alla presenza del governatore: è difficile pensare agli eccessi di una soldataglia fuori controllo. Era l’estremo tentativo di Pilato di venir fuori senza troppi danni da un vicolo cieco: esibire la devastazione di Gesú per salvargli la vita, e far passare alla fine l’idea che a quel punto fosse inutile insistere nell’accusa e chiedere ancora la sua testa.

Cosí il prefetto tornò dai giudei in attesa: «Ve lo porto fuori39, affinché sappiate che non trovo in lui alcun motivo di condanna», avrebbe dichiarato. Poi mostrò loro Gesú, uscito anch’egli, probabilmente scortato dai suoi aguzzini. Aveva la corona e il mantello. «Ecco l’uomo»40 – disse ancora Pilato – idou ho anthropos. È il momento piú drammatico di tutti i Vangeli. Nella sua disadorna essenzialità, la prosa di Giovanni raggiunge risultati di grande efficacia espressiva. Nulla, se non un corpo ferito e oltraggiato: e in quel corpo, la maestà e l’onnipotenza di Dio, scempiate dai carnefici. Era la storia stessa d’Israele – quella reale e quella solo immaginata – che precipitava per intero in quell’attimo, ma trasfigurata in un messaggio universale di speranza e di riscatto.

Additando Gesú ai giudei, è possibile che Pilato abbia ancora proclamato la sua innocenza, come racconta Giovanni41. Ma forse è piú probabile che il prefetto abbia cercato di far valere altri argomenti: l’inoffensività del prigioniero, almeno dal punto di vista politico e dell’ordine pubblico; era proprio per questo che lo aveva fatto flagellare e umiliare con la messa in scena dei finti paramenti regali. E poi, che comunque egli era stato già severamente e ignominiosamente punito, e che poteva bastare. L’insistenza nella proclamazione dell’innocenza di Gesú – che troviamo anche nei Sinottici – doveva invece appartenere a uno strato precedente di scrittura, forse a quel racconto della Passione che gli autori di tutti i Vangeli hanno di sicuro avuto fra le mani.

Ma anche quest’ultimo tentativo si infranse contro l’irremovibile durezza dei giudei. L’estrema mortificazione sociale e fisica di Gesú non bastava ancora. «Crocifiggilo, crocifiggilo» è l’unica risposta che venne data42. A questo punto, sempre nel racconto di Giovanni, troviamo attribuita a Pilato un’affermazione del tutto incongrua: «Prendetelo voi e crocifiggetelo, – egli avrebbe ribattuto agli accusatori – perché non trovo in lui motivo di condanna»43. Il riferimento alla crocifissione non ha senso: quella era una pena romana, che solo l’autorità romana – cioè egli stesso – poteva infliggere. Tutto il contrasto con i sacerdoti verteva proprio su questo punto: che la morte – che essi pretendevano – poteva essere comminata solo dai Romani. È impossibile che Pilato abbia mai pronunciato una frase simile. La sua tradizione probabilmente rimanda ancora al testo pregiovanneo già prima richiamato, meno attento alle differenze istituzionali e culturali fra ebrei e Romani.

Quel che invece il prefetto dovette prospettare – e spiega perfettamente la successiva replica dei suoi interlocutori (che altrimenti non starebbe in piedi) – fu solo l’eventualità di una riconsegna di Gesú al sinedrio, perché ne facesse quel che voleva: senza tuttavia la facoltà di ucciderlo, che era esclusa per i giudei. E fu evidentemente perché posti di fronte a una possibilità come questa, che i sacerdoti furono costretti a uscire allo scoperto, e ad ammettere la reale natura del crimine commesso ai loro occhi da Gesú: «Noi abbiamo una legge – nomon echomen», essi affermarono, «e secondo la legge – kata ton nomon – deve morire, perché si è fatto figlio di Dio – hyion Theou»44.

È la prima volta che davanti a Pilato gli accusatori dicono quello che per loro era l’indicibile: «figlio di Dio»; ed emerge cosí in piena luce quell’intreccio che li dominava fra teologia e politica – il motore della rovina di Gesú, ma velato dai sacerdoti per presentare al prefetto un’accusa compatibile con le leggi romane, del tutto insensibili ai fondamenti della religiosità giudaica.

Nella concitazione del momento, messi alle strette dall’imprevisto atteggiamento del governatore, sgomenti di fronte all’idea che Gesú potesse essere loro restituito vivo, nell’indifferenza del potere romano – la soluzione per loro peggiore – essi finalmente manifestano fino in fondo il loro pensiero. Gesú è un blasfemo sacrilego, che con la sua bestemmia si è posto al di fuori del popolo d’Israele, si è allontanato irrevocabilmente da una comunità che è insieme teologica e politica, e per questo deve morire. Ora i sacerdoti non si nascondono piú dietro le ragioni dell’ordine pubblico nella provincia, né dietro quelle della legalità imperiale. Adesso, invocano ciò che era per loro l’assoluto. E chiedono con forza ascolto dai Romani, che avevano sempre dichiarato, sin dai tempi di Pompeo, di voler proteggere il culto giudaico.

4. Racconta Giovanni45 che Pilato, nell’udire queste parole, ne rimase «spaventatissimo» (mallon efobethe). Prima, sia Marco, sia Matteo46 (abbiamo visto) avevano riferito di un suo «stupore» di fronte alla condotta di Gesú. È evidente che la memoria cristiana, anche attraverso tradizioni distinte, ha conservato la traccia di un insolito coinvolgimento emotivo del prefetto nella vicenda di cui si stava occupando. E del resto, tutta la prima parte dell’interrogatorio, nella versione del quarto Vangelo, ci mostra un inquisitore sempre meno insensibile e lontano rispetto alle risposte del prigioniero.

Ma a quel punto Pilato era veramente cosí intimorito? E perché il precedente stupore si era trasformato in qualcosa di diverso e piú intenso?

Io credo che qui Giovanni non vada preso alla lettera, e che dobbiamo interpretare il verbo usato – fobein – come un segno linguistico abbreviato e facilmente comprensibile – in linea con l’essenzialità della sua scrittura – per riassumere, semplificandola, una condizione psicologica in realtà piú complessa.

Intanto, quello scandaloso «si è fatto figlio di Dio» gridato dai sacerdoti avrà sicuramente colpito il governatore. Egli lo avrà comparato d’istinto al comportamento del prigioniero, all’eccezionale magnetismo della sua persona, alla forza d’impatto delle sue parole. Si sarà chiesto, non senza un’ombra di timore, se quel Gesú dal tratto cosí carismatico fosse davvero uno di quei cosiddetti uomini divini47 di cui si sentiva parlare, soprattutto in Oriente, in grado di stabilire un contatto con l’invisibile; se avesse misteriosi poteri magici.

Pilato era un romano del secolo, un uomo dell’establishment imperiale: abbastanza colto da interrogarsi sulla verità, abbastanza curioso da lasciarsi stupire da Gesú, abbastanza intelligente e lucido per ricoprire incarichi politici (e prima, quasi certamente, militari) che comportavano responsabilità, discernimento e prontezza di decisioni. È probabile che non avesse alcun solido convincimento religioso; semmai qualcosa di molto vicino a uno sfumato eclettismo politeista, forse venato di scetticismo: era l’aria del tempo. Questo non gli avrà impedito di essere superstizioso e suggestionato dal soprannaturale, come molti romani, non solo della sua epoca. La razionalità degli antichi era granulare e intermittente, rispetto alla forza totalizzante della ragione moderna, e la superstizione un tratto mentale di lunga durata nella storia di Roma. Era frequente, anche nei ceti superiori, che convivessero senza troppo contrasto credulità e realismo critico; timore dell’occulto e disincanto materialistico; la logica implacabile del calcolo giuridico, insieme all’affollarsi di incubi minacciosi e di remote paure notturne. La diffusione di dottrine pitagoriche, che avevano allora molta fortuna, favoriva queste oscillazioni, consentendone una rielaborazione colta e alla moda. Era il mondo di Apollonio di Tiana, ma anche del quindicesimo libro delle Metamorfosi di Ovidio, per non dire di molti personaggi presenti alla cena di Trimalcione, nel Satyricon di Petronio, per i quali l’apparizione notturna di spettri sembrava costituisse un vero problema.

Il prefetto non era in sintonia con la religione ebraica: tutta la sua vicenda in Giudea ce lo dimostra. Non riusciva a comprenderne l’anima e la potenza, e doveva diffidare di quella moltitudine di profeti, predicatori e taumaturghi che percorrevano senza sosta la sua provincia: un sottobosco di figure ai margini della legalità che doveva sembrargli ambiguo ed equivoco; e nemmeno doveva apprezzare l’intransigente dottrinarismo di molti ambienti sacerdotali, anche di quelli a lui piú vicini. Ma si era subito reso conto della diversità di Gesú; dell’alone di sospeso mistero che ne circondava la figura. E soprattutto quell’accusa finale, di essersi fatto figlio di Dio, ascoltata per la prima volta in modo cosí diretto – durante l’inchiesta il prigioniero non era arrivato a tanto, aveva solo detto di un «regno» invisibile – gli avrà fatto comprendere come fosse ormai invalicabile la distanza che lo divideva dai suoi accusatori, e come ogni tentativo di compromesso non avesse piú alcuna speranza.

A una penetrante sensazione d’inquietudine – se vogliamo, alla confusa ma persistente percezione che qualcosa di fuori dell’ordinario si stesse consumando sotto i suoi occhi, uno scontro di cui non riusciva ad afferrare tutte le implicazioni, pur sentendone oscuramente la portata – si univa anche una preoccupazione tutta politica. Pilato si era molto esposto nel sostenere l’innocenza del prigioniero. I notabili giudei non avevano a loro volta ceduto di un millimetro. Al centro della contesa, la presenza ispirata e sempre piú enigmatica di Gesú. Come venirne fuori?

Giovanni aveva in fin dei conti ragione; forse «paura» suona per noi come una parola eccessiva, ma vi sono molti buoni motivi (di un altro diremo fra poco) per credere che fosse un Pilato scosso e turbato quello che rientrò nuovamente nel pretorio, dove l’inquisito era stato già ricondotto dopo l’inutile esibizione del suo scempio.

L’interrogatorio riprende, ma è come un ripartire da zero. Tutto è cambiato rispetto alla scena precedente. Paradossalmente, è come se l’aver subito violenza – la tortura, l’umiliazione fisica – avesse agito a favore dell’inquisito, senza riuscire a comprometterne minimamente la dignità, a disperdere l’efficacia delle sue parole e dei suoi silenzi.

Pilato non sa cosa fare. È ancora del tutto convinto dell’innocenza di Gesú, si sente inspiegabilmente coinvolto dalle sue parole e dalla sua condotta, e forse è anche tentato di risolvere con un gesto di forza il braccio di ferro con i sacerdoti, ma valuta con attenzione i rischi di una simile soluzione. Si rivolge di nuovo al prigioniero perché ha voglia di capire di piú, forse sperando anche di ottenere in qualche modo la soluzione del problema. Che esca definitivamente rafforzata l’idea di salvarlo, o che al contrario emerga qualche elemento finora non messo a fuoco, che renda piú accettabile la posizione degli accusatori.

«Di dove sei?»48 – pothen ei sy? – chiede il prefetto. Anche se Giovanni non ci avesse detto niente dello stato d’animo di Pilato, basterebbe questa sola domanda a farci rendere conto in pieno della sua smarrita incertezza, forse addirittura della sua angoscia. Dal punto di vista dei fatti e delle cose – le coordinate topografiche, la condizione sociale, gli spostamenti attraverso la Palestina – è evidente che Pilato aveva appreso ormai su Gesú tutto quello che c’era da sapere. Non è questo che vuole conoscere. Sono altre le origini che vorrebbe scoprire: da dove arrivano i suoi pensieri, la forza d’attrazione, la padronanza di sé, la potenza evocatrice delle sue parole, l’odio implacabile che muove i suoi nemici. C’è un’esplicita risonanza metafisica nella domanda. È la richiesta di chi, non senza apprensione, sta intuendo la presenza dell’ignoto innanzi a lui. Se Pilato l’ha pronunciata davvero – e il rapporto tra coerenza del racconto e verosimiglianza concettuale e storica dei fatti narrati ci spinge a ritenerlo possibile – l’indagine non ruotava piú ormai intorno all’accertamento di un crimine, ma alla natura e alla missione di chi gli stava di fronte.

Gesú aveva capito benissimo cosa cercasse di sapere Pilato, e tace («non gli rispose»)49, come altre volte durante l’interrogatorio. Aveva già detto abbastanza. Non sentiva di dover spendere ulteriori parole su quel punto.

Il silenzio esaspera il prefetto, evidentemente già teso. «Non mi parli? – gli rinfaccia. – Non sai che ho potere di rilasciarti e ho potere di crocifiggerti?»50 – exousian echo apolysai se kai exousian echo stayposai se? – ed è ancora un segno di poco controllo, se non proprio di autentica debolezza, da parte di Pilato; l’indizio di quanta fatica facesse ormai a tenere in pugno la situazione. Egli non aveva alcun bisogno di sottolineare quanto fosse illimitato il suo potere. Era il prefetto romano, nel suo palazzo, circondato dai suoi soldati. Non aveva altri vincoli se non quelli che egli stesso accettava di darsi, per opportunità politica o per senso di equità. Era evidente che la vita e la morte del prigioniero dipendevano completamente da quanto avrebbe deciso. Che avvertisse la necessità di ribadirlo, dimostrava soltanto quanto crescente fosse l’insicurezza che avvertiva, e come sentisse che gli eventi rischiavano di sfuggirgli di mano. Quelle parole erano innanzitutto rivolte a se stesso: un tentativo di ristabilire i rapporti di forza.

«Non avresti alcun potere contro di me, se non ti fosse stato dato dall’alto»51 – ei me en dedomenon soi anothen – gli risponde Gesú, per aggiungere poi: «Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato piú grande».

La realistica eventualità della morte – per la prima volta evocata da Pilato e non solo dagli accusatori – sembra non avere alcun effetto sul prigioniero. È come se la desse per scontata. Era il fondamento del potere ostentato da Pilato – il potere di Cesare – che gli interessava. E proprio mentre stava per rovesciarsi su di lui nel modo piú violento e brutale, egli ne distrugge in radice l’autonomia e l’assolutezza. Cesare e il suo rappresentante credono di aver tutto nel loro dominio, ma questo accade solo perché gli viene «dato dall’alto».

Gesú però qui non sta riprendendo, da un altro punto di vista, il tema dei due regni, e del primato del primo sul secondo. Non sta affrontando un problema teologico di portata generale, come ha fatto nella prima parte dell’interrogatorio. Ora sta parlando di se stesso e di quel che gli accadrà. È lo specifico potere di Pilato su di lui che (ai suoi occhi) è niente, se non fosse per l’intenzione di Dio. Il comportamento del prefetto e la sua posizione di comando sono ricompresi in un disegno – questo sta dicendo Gesú – che li oltrepassa completamente. La forza della profezia, la capacità del Figlio di leggere nel volere del Padre e di identificarsi con esso, annienta l’incertezza – ma non la tragicità – che circonda la scelta che sta per compiersi. Torna qui il Gesú che, la sera prima, al momento dell’arresto, aveva fermato l’apostolo che stava sguainando la spada per difenderlo: «Non dovrei io bere la coppa che mi ha dato il Padre?»; non c’è rassegnazione, né c’è negazione della libertà degli uomini di decidere della loro storia. Ci sono solo la volontà e la sicurezza di sapere: per l’occhio di Dio il tempo non è un fiume che scorre imprevedibile, ma un immobile blocco di ghiaccio, interamente percettibile con un unico sguardo.

Si spiegherebbe cosí la frase successiva, l’ultima del dialogo con Pilato («chi mi ha consegnato […] ha un peccato piú grande»). Gesú, che crede di conoscere al di là del tempo, alla fine rovescia completamente il rapporto con il suo inquisitore: è lui ora, in conclusione, a giudicare; non il prefetto. Non pensa di stabilire una gradazione nelle colpe. Sta solo ricordando quanto fosse stata lunga la via che lo aveva condotto sin lí, e come molti altri avessero avuto un ruolo ancora maggiore nella congiura, perché vi avevano dato l’avvio. È anche possibile però che Gesú non abbia mai pronunciato quelle parole, forse attribuitegli da una tradizione che riteneva sempre utile ricordare, ogni volta che se ne presentasse l’occasione, la responsabilità giudaica di quanto stava accadendo.

5. Ci avviciniamo cosí al punto cruciale della nostra storia, e in coincidenza con questo culmine il resoconto di Giovanni non regge piú. C’è come una sconnessione, una smagliatura nella trama narrativa che a prima vista non si spiega. Conviene aver presente l’intero squarcio52: «Da questo momento Pilato cercava di rilasciarlo53ezetei apolysai. Ma i giudei gridavano, dicendo: “Se rilasci costui54, non sei amico di Cesare. Chiunque si fa re si oppone a Cesare”55. Pilato, udite queste parole, condusse fuori Gesú in giudizio nel luogo chiamato Litostrato, in ebraico Gabbata. Era la preparazione della Pasqua, circa l’ora sesta. E disse ai giudei: “Ecco il vostro re”. Quelli gridarono: “A morte, a morte! Crocifiggilo”. Pilato disse loro: “Crocifiggerò il vostro re?” I capi dei sacerdoti risposero: “Non abbiamo altro re che Cesare”. Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso». La prima impressione è di un mutamento di ritmo nel racconto, che si fa d’improvviso, giunto al passaggio decisivo, troppo contratto e veloce, quasi ansioso di precipitarsi verso la sua conclusione. Ma vediamo piú da vicino.

C’è innanzitutto la segnalazione di una cesura: «da questo momento» – ek toutou –, dice Giovanni (meno probabilmente: «da ciò», «in conseguenza di questo», con un valore causale e non temporale; ma non cambia molto); seguita subito dopo da un’affermazione che non quadra. La svolta sarebbe consistita nel fatto che Pilato – da quel momento – «cercava di rilasciare» Gesú. Ma come? Il prefetto stava cercando di rilasciare il prigioniero da molto prima, almeno dall’episodio di Barabba. Dove sarebbe la novità sottolineata da Giovanni, se al suo posto troviamo invece un’espressione che sembra alludere solo a un ennesimo tentativo, dall’esito ancora una volta incerto?

Il fatto nuovo vi sarebbe stato se Pilato avesse a quel punto davvero deciso – senza condizioni – di liberare il prigioniero, come nulla poteva impedirgli di fare. Ma ove Giovanni avesse voluto dir questo, perché quel riferimento cosí preciso e inspiegabile a un «cercare di…»? Se invece si voleva alludere solo a un ulteriore tentativo del prefetto, che sarebbe dovuto passare ancora attraverso una trattativa con gli accusatori (che bisognava «cercare» di persuadere), non vi sarebbe stato nulla di nuovo: questo Pilato l’aveva già fatto, senza peraltro ottenere alcun risultato. In questo caso dov’era la svolta cosí puntualmente sottolineata?

Poi Giovanni aggiunge: «Ma i giudei gridavano, dicendo: “Se rilasci costui, non sei amico di Cesare. Chiunque si fa re si oppone a Cesare”». E qui i nostri dubbi aumentano, sia per quanto riguarda la plausibilità della scena, sia per la collocazione e il peso della dichiarazione degli accusatori nello svolgimento della vicenda.

Per cominciare: dov’erano i giudei che gridavano? Abbiamo lasciato Pilato nel pretorio, con Gesú. Gli accusatori erano fuori. Sono forse entrati? Difficile crederlo. Oppure Pilato è uscito di nuovo, come però Giovanni – che finora non ha mancato di registrare tutti gli spostamenti del prefetto – questa volta non dice? E perché mai il prefetto sarebbe andato di nuovo fuori? Per «cercare» ancora di persuadere i giudei a lasciar andare Gesú? Sembrerebbe l’unica possibilità per dare un senso al racconto, dimenticando l’inspiegabile riferimento alla novità (si potrebbe anche pensare che quell’ek toutou appartenga a uno strato di scrittura pregiovanneo, e sia rimasto lí come un relitto). Questo vorrebbe dire però che Pilato aveva deciso di tentare ancora la strada della trattativa. Ma è arduo crederlo. Il negoziato era già fallito due volte – prima con Barabba, poi con la flagellazione – e il prefetto adesso non aveva piú nulla da offrire; continuare a insistere non avrebbe portato da nessuna parte, e rischiava solo di sminuire il suo ruolo. Come si fa a supporre che avesse ancora scelto di seguire questa via? Al punto in cui era, Pilato poteva solo accogliere la richiesta dei sacerdoti, o metterli di fronte al fatto compiuto della sua inappellabile decisione, liberando il prigioniero. Ogni diversa possibilità appare del tutto irrealistica.

C’è poi l’intervento degli accusatori («Se rilasci costui…»), lasciando da parte per ora dove l’abbiano pronunciato, dentro o fuori del pretorio. Con quelle parole i giudei velatamente, ma in modo abbastanza chiaro, cercano di intimidire Pilato: se non condanna Gesú, non si dimostra «amico di Cesare» (si trattava di un’espressione tipica del lessico imperiale), e questo avrebbe potuto anche dar luogo a una sua denuncia al legato di Siria da parte delle autorità giudaiche, o addirittura a Tiberio in persona, per inadempimento dei suoi doveri, e per scarso zelo nella tutela della sovranità del principe.

Nella narrazione di Giovanni l’allusione a questa minaccia sarebbe stata da sola sufficiente a capovolgere l’orientamento di Pilato, e a farlo immediatamente passare dal fermo proposito di liberare il prigioniero (come Giovanni stesso aveva appena riferito), all’opposta e irrevocabile decisione della sua condanna a morte. Nell’economia del racconto del quarto Vangelo vi sarebbe cioè un nesso di causalità diretto ed esclusivo fra minaccia e condanna: l’esito dell’intera vicenda si reggerebbe tutto sulle conseguenze di quella sola frase.

Ma anche questo è un passaggio cui si fa molta fatica a prestar fede. La condizione di Pilato in Giudea era allora, per quanto ne sappiamo, ancora ben solida: se i fatti si svolgono nel 30, come è molto probabile, il governatore sarebbe rimasto per altri sei anni nella sua provincia, segno di una indubbia saldezza nell’esercizio del suo incarico. Egli doveva perciò sentirsi abbastanza al sicuro. Oltretutto, si era in quel momento nel pieno della campagna antiebraica condotta da Seiano, di cui ci informa Filone56, e una lettera o una delegazione giudaica avrebbero difficilmente trovato una buona accoglienza. Questo Pilato doveva ben valutarlo. Il quadro cambierebbe senza dubbio se collocassimo (come non credo si debba) la morte di Gesú piú tardi, per esempio nel 33, dopo la caduta di Seiano. Ma non abbastanza.

È certo possibile che l’idea indirettamente ventilata dai sacerdoti possa aver infastidito il prefetto; non però sino a fargli rinnegare di colpo una convinzione che aveva maturato in lunghe ore di interrogatorio dell’inquisito e di discussione con i sacerdoti. E poi Pilato sapeva benissimo che cedere, dopo un confronto cosí lungo e teso, di fronte a quello che doveva apparirgli come un velato ricatto – peraltro quanto mai improbabile – lo avrebbe molto indebolito rispetto ai sacerdoti, e non si vede perché avrebbe dovuto accettare, trovandosi in una indubbia posizione di forza, una cosí clamorosa diminuzione di ruolo e di autorevolezza.

Non resta che ammetterlo: la vaga minaccia contenuta nelle parole degli accusatori è troppo poco per reggere da sola il peso della decisione di Pilato, per come la storia si era svolta sino ad allora.

In realtà, io non credo che le cose siano andate come dice Giovanni. Penso piuttosto che qui il suo racconto sia costruito per nascondere qualcosa di importante e di decisivo, l’autentico culmine di quelle ore. Una svolta c’era stata davvero, che avrebbe determinato, essa sí, la conclusione della vicenda, ma non viene riportata. Qualcosa che la memoria cristiana conosceva, ma che Giovanni ha omesso di rivelare, occultandolo non nelle profondità, ma nella superficie della sua scrittura, dove piú facilmente poteva sfuggire.

Per rendercene conto, facciamo un passo indietro nel dialogo fra Pilato e Gesú, e torniamo per l’ultima volta a porci una domanda essenziale, che abbiamo già anticipato in due occasioni, senza rispondervi.

Che cosa si aspettava Gesú dal suo incontro con Pilato? Si prefiggeva un obiettivo, aveva una strategia? Forse di provare a salvarsi? E come avrà accolto l’orientamento di Pilato, favorevole alla sua liberazione? Qual era il suo stato d’animo?

Gesú non desiderava affatto morire, e aveva paura – come abbiamo visto – di quello che lo aspettava. Ma non aveva mai pensato a nessuna via d’uscita rispetto al suo ruolo e al suo annuncio, che non fosse l’estremo e totale sacrificio di sé. Egli non riusciva a immaginarsi, vecchio, in Giudea. Temeva di affrontare la prova che vedeva incombere su di lui, ma era certo di sapere che non aveva alternative. Era solo la morte – e quella morte – che poteva eseguire il montaggio finale della straordinaria sequenza della sua vita. Era solo la morte che poteva consegnare definitivamente alla storia il suo insegnamento. Negli anni della predicazione, la sua vita – l’esempio quotidiano – era stata indisgiungibile dal suo messaggio. E dunque morire cosí – innocente, straziato dai carnefici – ne era parte integrante, irrinunciabile. Anzi, ne era l’unico possibile suggello. La morte era un segno fortissimo e definitivo, che avrebbe fissato per sempre le sue parole. La sua fatica sarebbe stata niente, se non si fosse conclusa con quell’epilogo. Era questo il disegno del Padre che egli era sicuro – sicuro come può esserlo un uomo – di dover rispettare: la morte del Figlio, diventato uomo per la salvezza di tutti gli uomini.

Perciò Gesú, di fronte a Pilato, non cercò in alcun modo di sfuggire alla condanna. E tutte le volte che la situazione sembrava volgere al meglio per lui – nel senso che andava verso la sua salvezza – non partecipò mai al tentativo di alleggerire la propria posizione. Egli sapeva che non sarebbe finita cosí, e sentiva di non dover muovere un dito per favorire un esito diverso dalla sua morte. L’aveva già fatto al momento dell’arresto, e ancor prima, scegliendo di andare a Gerusalemme, dove lo aspettavano i suoi nemici. Un caso esemplare di profezia che – letteralmente – si stava autodeterminando: il piú strepitoso e carico di conseguenze nella storia dell’Occidente.

Ebbene, io credo che, a partire da un certo momento, quello stesso indicato (e poi nascosto) da Giovanni – ek toutou – il governatore abbia collegato in un unico quadro tutti gli elementi, si sia reso definitivamente conto dell’atteggiamento del prigioniero, e si sia persuaso – fortemente suggestionato da lui – a non contrastarne il disegno. Che cioè, da un certo momento in poi, tra Pilato e Gesú si sia stretto come un tacito e indicibile patto, che spinse Pilato nella direzione che Gesú riteneva inevitabile. Fu questa specie di intesa, scattata con una forza irresistibile, a determinare l’esito della vicenda.

È molto probabile che il prefetto si fosse accorto sin dall’inizio del comportamento anomalo dell’arrestato: una sensazione diventata sempre piú netta con il procedere degli interrogatori. Ma fu solo da un istante preciso che una simile percezione si trasformò per Pilato nella chiara consapevolezza che Gesú, lungi dal volersi proteggere, sembrava piuttosto precipitarsi verso la condanna. E fu quando, di fronte all’insistenza dell’inquisitore sulla sua innocenza, forse di fronte all’annuncio della sua liberazione (adombrato in qualche modo nelle contraddittorie parole di Giovanni), il prigioniero, senza manifestare la minima soddisfazione o gratitudine per un simile inatteso sostegno, decise piuttosto di ignorarlo. Preferí invece contestare il fondamento del potere che pure si stava pronunciando in suo favore, mettendo in crisi la fonte stessa della sua legittimità, e richiamando un imperscrutabile disegno di Dio come unica spiegazione di quanto stava accadendo. Forse si spinse ancora piú avanti; disse (o fece) anche dell’altro, per rendere evidente come egli fosse certo che il suo destino non prevedesse la salvezza.

E fu cosí, io credo, che Pilato prese atto – senza alcuna possibilità di dubbio – di quale fosse la meta dove il suo inquisito voleva arrivare. Capí che Gesú non era stoicamente superiore a quanto poteva capitargli. Che la sua non era indifferenza di fronte alla fine, ma che vedeva invece con lucida passione la morte sulla croce come l’unico esito possibile della propria predicazione, l’ultimo cruciale atto della sua esistenza terrena, e non voleva a nessun prezzo sottrarvisi. Pilato dovette nebulosamente avvertire tanta fermezza come una potenza ignota e misteriosa («di dove sei?») che si stava dispiegando di fronte a lui, come un segno numinoso che non riusciva a interpretare sino in fondo, ma a cui non era possibile sfuggire, e decise infine di accogliere l’inspiegabile volontà di chi gli stava innanzi. E morte dunque sarebbe stata.

Gesú, dal canto suo, interpretava l’incontro con Pilato come il tassello ancora mancante nel disegno della propria missione. Il punto estremo dove riunire, ancora una volta, predicazione e vita. La presenza innanzi a lui del prefetto romano – il rappresentante di Cesare, che aveva conquistato il mondo – gli permetteva di ribadire con una solennità e una chiarezza mai prima ottenute alcuni punti cruciali del suo messaggio, e di concluderlo nel modo piú alto possibile, nelle condizioni date. Era questa la sua strategia: era questo che si aspettava dall’incontro. Pilato non era per Gesú il padrone del suo destino: questi era solo il Padre. Ma gli forniva l’occasione per un confronto che giudicava a ragione essenziale: il momento in cui sciogliere una volta per tutte il nodo che teneva avvinta come in un groviglio tutta la storia d’Israele – la concezione del rapporto di Dio con il potere degli uomini – e liberarla in un orizzonte che sentiva infinitamente piú vasto. Fare della Bibbia non (solo) il libro di un’identità «nazionale», sia pure d’eccezione, ma di una fede universale, senza piú confini.

Di questa soggezione di Pilato alla volontà di Gesú, Giovanni doveva in qualche modo sapere. E forse doveva saperlo anche la prima memoria cristiana riflessa nei Sinottici e condensata in quel racconto originario della Passione cui abbiamo già accennato. Coloro che assistettero agli interrogatori di Gesú probabilmente la afferrarono subito, se non fu addirittura lo stesso Pilato a renderla evidente, nell’ultimo turbinoso tratto del suo dialogo con il prigioniero. Ma era una storia difficilmente raccontabile, che avrebbe spostato la nuda fattualità e l’essenziale potenza delle narrazioni evangeliche su un piano di intenzionalità e di introspezioni da cui invece si tengono deliberatamente lontane; avrebbe messo in gioco il delicato rapporto fra predestinazione e libertà; e avrebbe anche oscurato quel che invece doveva restare chiarissimo in quel racconto: la responsabilità dei giudei nella morte del Figlio di Dio.

L’elemento rimosso non venne però completamente cancellato. E le sue tracce rimasero sulla superficie di quelle scritture: nelle contraddizioni di Giovanni, nell’irriducibile ambiguità che circonda la figura di Pilato e il suo rapporto con Gesú, nell’imbarazzata sospensione del giudizio su di lui, nel «non finito» che sembra segnare il suo profilo, fino alla nascita della leggenda – che in qualche modo i Vangeli stessi rendono possibile – di un Pilato cristiano «nel cuore»57.

Giovanni, che offre la ricostruzione piú attendibile, ricca e dettagliata della Passione, è il piú vicino a rivelare la realtà. Egli registra il momento di una svolta nel rapporto fra Pilato e Gesú. Ma poi ne copre il significato con un’affermazione incongrua. E non basta: nel tentativo di tenere in piedi quanto aveva appena detto, immagina che i giudei siano intervenuti con una larvata minaccia che sarebbe bastata da sola a convincere il prefetto a un completo cambiamento di posizione. Dimentica però, nell’ansia di nascondere, che i giudei erano fuori del pretorio; né può dire (come prima ha sempre fatto) che Pilato ne esce per iniziare una nuova trattativa, per la semplice ragione che quella ulteriore fase del negoziato non c’era mai stata, perché ogni ricerca di compromesso si era già conclusa nel fallimento della flagellazione.

In effetti, è del tutto plausibile che i sacerdoti quella frase densa di veleno l’avessero pronunciata davvero, per alludere all’eventualità, realisticamente abbastanza remota nel contesto di quegli anni, ma non del tutto impossibile, di accusare Pilato. Ma dovevano averlo fatto in precedenza, insieme all’annuncio che il prigioniero aveva osato proclamarsi figlio di Dio, prima che Pilato entrasse per l’ultima volta nel pretorio per rivolgere a Gesú la domanda metafisica sulla sua provenienza. Avevano congiunto cosí, non senza efficacia retorica, crimine teologico (ebraico) e crimine politico (romano), per esercitare sul prefetto un’ultima pressione decisiva, senza tuttavia isolare l’improbabile minaccia, trasformandola quasi in una provocazione, come appare nella versione di Giovanni. Ed è verosimile che nel turbamento di Pilato, prima che egli si rendesse conto fino in fondo della reale volontà di Gesú, e decidesse di accettarla – quello che Giovanni definisce come «spavento» – ci fosse stata anche la consapevolezza di quest’ultimo rischio: una denuncia delle autorità ebraiche, semmai al legato di Siria piuttosto che all’imperatore in persona. Un pericolo che non poteva di sicuro essere tanto forte e imminente da far cambiare idea a Pilato, ma che poteva bastare ad accrescere il suo nervosismo.

6. Ora la situazione precipita. Pilato ha scelto, e non v’è ragione di aspettare ancora. Il prefetto esce dal palazzo (adesso sí, e Giovanni non manca di ricordarlo: un altro indizio che il governatore prima non si era mosso), conducendo con sé Gesú, e «siede in giudizio»58kai ekathisen epi bematos.

È l’unico momento in cui la sequenza degli eventi sembra irrigidirsi nel formalismo di un vero atto di giurisdizione: si sta per decidere della vita di un uomo. Pilato è sul palco (bema), dove evidentemente era solito amministrare la giustizia quando si trovava a Gerusalemme, in un luogo – forse un cortile esterno al pretorio – «lastricato di pietre» (da cui il nome, Litostrato), lo stesso in cui i giudei erano stati finora in attesa. È circa mezzogiorno (l’ora sesta). Il prefetto dice agli accusatori: «Ecco il vostro re»59. C’è sfida nelle sue parole, piú che sarcasmo, come è stato suggerito. Pilato vuol dimostrare di non temere di pronunciare quel nome – re – di fronte ai sacerdoti, e per giunta riferito a Gesú come un dato di fatto, dopo l’insinuazione fatta balenare dai sinedriti che egli non tenesse abbastanza in conto il crimine contenuto nelle pretese regali dell’accusato. I giudei gridano «A morte, a morte!60 Crocifiggilo!» Pilato risponde61: «Crocifiggerò il vostro re». Nel testo di Giovanni, dopo queste parole c’è un punto interrogativo62. Credo vada soppresso. Pilato ha deciso. Sta annunciando, non chiedendo. Ogni domanda sarebbe ormai fuori luogo; né si può ipotizzare63 che avesse aperto cosí la procedura di una specie di condanna per acclamazione popolare, come talvolta sembra accadesse nelle giurisdizioni provinciali, nell’Oriente greco: per la completa mancanza del popolo, in questo caso. Giovanni sino alla fine non fa che ricordare come presenti solo «i capi dei sacerdoti». Quel punto interrogativo è probabilmente l’aggiunta di un copista troppo zelante, se non è stata voluta dallo stesso autore del quarto Vangelo, per addolcire la crudezza di quell’annuncio estremo e terribile con la prospettazione di un ultimo, tardivo e inutile dubbio, e rinviare ancora una volta ai sacerdoti «il peccato piú grande». Questi replicano64: «Non abbiamo altro re che Cesare», dimenticando, nella concitazione del momento e nella loro studiata foga lealista, che, per loro, Dio soltanto era l’unico vero re d’Israele. Avevano dunque colto la sfida di Pilato, e gliela ritorcevano contro, ribadendo la sottomissione all’imperatore; come dire: sei tu che hai rischiato di farti del male a causa di quel nome; non noi, che ti abbiamo consegnato Gesú nella piena obbedienza a Cesare.

Racconta poi Giovanni65 che Pilato a questo punto «lo consegnò loro [ai capi dei sacerdoti, nominati appena prima], affinché fosse crocifisso»: ed è di nuovo un’indebita chiamata in causa dei giudei. La crocifissione non poteva essere eseguita che dai Romani, come infatti sarà. E Giovanni stesso non mancherà di ricordarlo quando, piú avanti, indicherà «i soldati»66 come gli autori del supplizio.

Ma l’ultima parola sulla regalità di Gesú l’avrà Pilato, ulteriore segno che intorno a quel titolo si era davvero svolta una sorda e silenziosa battaglia fra il prefetto e i giudei.

Dopo la condanna, Pilato volle scrivere, o probabilmente dettare, un breve testo – in ebraico, latino e greco, come precisa scrupolosamente Giovanni – per una tavoletta da far apporre sulla croce, con questa dicitura: «Gesú il Nazareno67, il re dei giudei». I capi dei sacerdoti68 vorrebbero tuttavia opporsi: «Non scrivere “il re dei giudei”, ma che costui ha detto: sono il re dei giudei». Avevano dunque inteso bene il senso dell’uso che Pilato stava facendo di quel nome, riferito a Gesú: in qualche modo un riconoscimento, sia pure paradossale (con quel «vostro re» ripetuto due volte), come a marcare un’irresistibile superiorità della vittima rispetto ai suoi accusati, che nessuna condanna poteva cancellare.

Ma Pilato è sprezzante. Ha accolto come un mistero la volontà di Gesú di non potersi sottrarre alla morte, vi si è acconciato forse con timore, è stato infastidito e preoccupato dall’ostinazione dei sacerdoti, e tuttavia resta sempre il prefetto di Giudea; nessuno potrà impedirgli quell’estremo gesto di rispetto e insieme di insolenza: «Quel che ho scritto, ho scritto»69, dice, forse addirittura direttamente in latino: quod scripsi, scripsi. La sua giornata è finita. Non ancora quella del prigioniero.

Riferiscono tutti i Vangeli – sia pure con qualche differenza e forse con qualche interpolazione nel testo di Giovanni – che dopo la crocifissione, Giuseppe di Arimatea, un notabile giudeo membro del sinedrio e vicino segretamente a Gesú, «fattosi coraggio»70 (cosí Marco) chiese a Pilato la restituzione del corpo del Maestro, per dargli sepoltura. Il prefetto non esitò a concederla, e fu questo, per lui, il modo di congedarsi dal prigioniero. Secondo Matteo71, autorizzò anche una sorveglianza sulla tomba, sino al terzo giorno.

1. Appena dopo gli eventi di quella mattina, la vita di Pilato torna a scivolare per noi in un buio non meno fitto dell’oscurità che l’aveva avvolta in precedenza.

La condanna e la morte di Gesú erano state senza dubbio – nella percezione che se ne era formato il prefetto – un fatto significativo, e forse anche qualcosa di piú, del suo lavoro in Giudea: possiamo supporre che la figura di quel predicatore coinvolgente e magnetico, e le emozioni che gli aveva suscitato, siano rimaste a lungo impresse nei suoi pensieri. Che l’intero vertice sacerdotale di Gerusalemme si mobilitasse per chiedere all’autorità romana di eseguire una condanna capitale non doveva accadere di frequente; per non dire dell’impressione che Gesú doveva aver lasciato di sé. Nulla ancora poteva far intuire l’importanza senza eguali di quel che era accaduto – la nuova religione stava appena iniziando il suo cammino, raccolta intorno a prime memorie non ancora fissate nella scrittura dei Vangeli; ma non vi sono motivi per prestar fede alla feroce fantasia anticristiana di Anatole France1quando immagina che, da vecchio, per quanto si sforzi, Pilato nemmeno ricordi piú quell’episodio lontano.

È molto probabile perciò che il governatore ne abbia subito informato Tiberio, inviandogli un rapporto circostanziato. Un passaggio di Tertulliano2, uno dei primi grandi autori cristiani, in un’opera composta alla fine del II secolo, presenta come nota e scontata l’esistenza di questa relazione, da non confondersi né con gli apocrifi conosciuti con il nome di Acta Pilati, risalenti al IV secolo (e a noi pervenuti), né con un altro ipotetico testo di Pilato – di assai dubbia esistenza – a cui sembra riferirsi, quasi negli stessi anni, Giustino (anch’egli un importante pensatore cristiano).

La testimonianza tertullianea non si deve in alcun modo sottovalutare, come pure hanno cercato di fare alcuni studiosi. Lo scrittore è di solito ben al corrente circa le abitudini dell’amministrazione imperiale; e del resto la prassi di informare direttamente il principe degli avvenimenti rilevanti accaduti nel proprio territorio, e delle decisioni prese rispetto a essi, era tutt’altro che infrequente per i governatori provinciali fra I e II secolo (nell’epistolario di Plinio3 è conservato un esempio molto noto, e proprio riguardo ai cristiani). Vi era poi una certa attenzione per la Giudea e per la sua religione in quel periodo4 a Roma: Pilato doveva saperlo, e tacere gli sarà sembrato certamente inopportuno.

Egli aveva oltretutto un altro motivo per informare Tiberio: precedere una possibile iniziativa dei notabili locali che, come abbiamo appena visto, avevano alluso indirettamente a questa eventualità, sia pure solo nel caso di una conclusione a loro sfavorevole. C’è da credere che i fatti di quella mattina – con il teso confronto fra prefetto e sacerdoti – avessero lasciato qualche spiacevole ruggine nella collaborazione fra autorità romana e vertici sacerdotali, e il governatore avrà ritenuto prudente cautelarsi, prendendo per primo l’iniziativa.

Cosa avesse scritto il governatore a Tiberio non possiamo indovinare. Ma che nel suo dispaccio mettesse la figura di Gesú in una luce non completamente sfavorevole, pur dovendo evidentemente giustificare la condanna, è un’ipotesi da non scartare: Pilato non pensava come Tacito; altrimenti Tertulliano non avrebbe avuto ragione di ricordare il documento. Il prefetto avrà probabilmente sottolineato l’accanimento dei sacerdoti giudei, e l’inevitabilità del supplizio, omettendone certo la ragione per lui dominante. Ma avrà anche badato a non dir troppo male di Caifa, che egli avrebbe mantenuto in carica come sommo sacerdote sino alla fine del proprio mandato, e con cui quindi, se una crisi vi fu in seguito a quella giornata, dovette essere ben presto superata, in nome della reciproca convenienza e di un cauto realismo politico.

La nebbia che circonda gli ultimi anni di Pilato in Giudea si squarcia brevemente due sole volte. E il raggio di luce riguarda sempre il suo difficile rapporto con la religione del luogo.

La prima occasione la dobbiamo a un ricordo di Filone, di cui abbiamo già detto all’inizio di questo libro5: la testimonianza piú antica su Pilato, databile al 41, anno di pubblicazione dell’Ambasceria a Gaio. Il pamphlet teologico-storico prendeva spunto (e titolo) da una missione compiuta da Filone stesso presso l’imperatore Gaio Caligola fra il 39 e il 40, con lo scopo di persuadere il principe a esentare i giudei da alcuni obblighi legati al culto imperiale. In un passaggio, viene riportata una lettera che sarebbe stata inviata a Caligola da Agrippa I, nipote di Erode il Grande ed erede di Erode Antipa nella tetrarchia di Galilea (avrebbe poi brevemente governato, fino al 44, sulla stessa Giudea), in cui, accanto al duro giudizio sulla prefettura di Pilato che abbiamo già discusso, viene descritto in particolare un episodio a riprova del suo malgoverno.

Non c’è dubbio che l’epistola rifletta il pensiero di Filone, anche se è molto probabile che essa non sia una sua invenzione (Agrippa stesso, che Filone conosceva personalmente, ed era un amico di famiglia, avrebbe potuto smentirlo), ma debba essere considerata solo come rielaborata da lui sulla base di una stesura effettivamente attribuibile al tetrarca.

Secondo quanto riportato nella lettera, Pilato avrebbe fatto installare alcuni scudi dorati nel palazzo di Erode a Gerusalemme – lo stesso luogo dell’incontro con Gesú. Essi «non recavano immagini6, né altro che fosse proibito [dalla legge giudaica], tranne una brevissima iscrizione che indicava due cose: il nome del dedicante [Pilato] e quello di chi era onorato [Tiberio]». Ma i giudei, venutolo a sapere – «ormai il fatto era sulla bocca di tutti»7 – se ne ritennero offesi, e formarono una delegazione di altissimo rango per chiedere al governatore di rimuoverli. Pilato – continua il racconto – si sarebbe rifiutato, per non compromettere il suo omaggio a Tiberio, provocando nuove rimostranze giudaiche – «Non scatenare una rivolta! Non provocare la guerra! Non distruggere la pace!»8 – accompagnate dal proposito di inviare un’ambasceria a Tiberio. Il prefetto, temendo che una delegazione giudaica potesse rivelare anche il resto delle sue malefatte, a questo punto avrebbe voluto cedere, pur non sapendo come fare. I giudei, intanto, avevano pensato di scrivere all’imperatore, supplicandolo di venir loro incontro in questa difficile circostanza. Il principe (conclude la lettera)9, dopo aver aspramente rimproverato Pilato, avrebbe deciso per il meglio: lo spostamento degli scudi da Gerusalemme a Cesarea, dove non avrebbero dato piú scandalo.

Come si vede a prima vista, l’episodio ricorda per molti aspetti quello delle effigie imperiali sulle insegne delle truppe fatte arrivare a Gerusalemme; e infatti vi è stato chi ha congetturato di essere di fronte allo stesso avvenimento, raccontato in modi e con particolari diversi da Filone (Agrippa) e da Giuseppe: un’ipotesi che non mi sentirei di escludere.

Il primo elemento che si ricava dal testo è un dato biografico, indubbiamente significativo. Quando lo scritto è stato composto da Filone, ma probabilmente anche quando Agrippa aveva spedito la sua lettera (e dunque intorno al 38-39), Pilato doveva essere sicuramente già morto, o comunque in una tale condizione di emarginazione e di disgrazia, da non potersi piú difendere dalle accuse che gli venivano mosse. Altrimenti c’è da supporre che Filone, e tanto piú lo stesso Agrippa, uomini di corte molto attenti a questi equilibri, sarebbero stati ben piú cauti.

Quanto alla collocazione cronologica delle vicende ricordate – se si deve ammettere che si tratti di un episodio diverso rispetto a quanto troviamo in Giuseppe – condividerei l’opinione di chi pensa a una datazione piuttosto tarda10, successiva alla morte di Gesú. Nel racconto si accenna alla possibilità di un’ambasceria giudaica a Tiberio, e si riferisce di una risposta favorevole da parte dello stesso principe alla petizione inviatagli dai notabili ebrei di Gerusalemme: eventi non facilmente immaginabili negli anni precedenti la morte di Seiano, e dunque fino al 31, tenuto conto degli atteggiamenti antigiudaici prevalenti nella politica imperiale di quel periodo (è un dato cui siamo informati attraverso lo stesso Filone: vi abbiamo fatto cenno piú volte, da ultimo a proposito della minaccia fatta balenare dai sacerdoti a Pilato durante l’inquisizione di Gesú). E poi nella lettera di Agrippa si presuppone un’ormai lunga presenza del prefetto in Giudea, ingiustificabile se i fatti fossero avvenuti agli inizi, o comunque nella prima parte del suo mandato (quest’ultima osservazione è anche un indizio a favore della novità dell’episodio, rispetto alla vicenda delle insegne). Credo quindi che gli anni piú plausibili debbano essere quelli immediatamente successivi alla fine di Seiano: diciamo dopo il 32.

Come abbiamo detto a suo tempo, il nucleo narrativo di Filone (Agrippa) tendeva a sovrapporre al profilo storico di Pilato – mai preso veramente in considerazione – l’immagine stereotipa del cattivo governatore. Non veniva descritto un personaggio, ma fissato un carattere: l’alto funzionario nemico della religione giudaica. Dietro la scelta di condannare irrimediabilmente il prefetto ricorrendo a un giudizio di maniera, emergeva perciò un dato reale: l’evidente difficoltà di Pilato nell’entrare in sintonia con il mondo della Bibbia e della sua tradizione. Abbiamo visto infatti che tutta la sua vicenda in Giudea era stata segnata da questa incapacità. E non possiamo escludere che anche la fascinazione esercitata su di lui da Gesú fosse dovuta alla distanza che intravedeva rispetto alla religiosità sadducea o farisaica.

Stride, se confrontata con il quadro disegnato da Filone, l’esilità della colpa attribuita a Pilato, che nemmeno Filone (Agrippa) riesce piú di tanto a esagerare. Il governatore (dopo l’affare delle insegne, dobbiamo presumere) era stato questa volta molto cauto: gli scudi non recavano alcuna immagine, né altro che potesse turbare i giudei, come lo stesso Filone ammette. A offendere sarà stato probabilmente il riferimento, nella dedica, alla divinità di Augusto, nominato a proposito di Tiberio (indicato, secondo consuetudine, come divi Augusti filius11, figlio del divino Augusto). Una mancanza non grave, che lo stesso Pilato, forse dopo aver un po’ tergiversato, si era dichiarato del resto pronto a riparare. Ma intanto i notabili si erano rivolti a Tiberio. I toni della risposta del principe vengono palesemente esagerati da Filone, sempre per motivi scopertamente ideologici: mostrare la simpatia dell’imperatore – libero ormai dall’influenza nefasta di Seiano – per i suoi interlocutori. Se Tiberio fosse stato davvero colpito dal comportamento di Pilato, non avrebbe esitato a rimuoverlo; e invece non ebbe dubbi nel lasciarlo al suo posto ancora per anni.

Sembra cosí riproporsi un motivo che ormai conosciamo bene: ipersensibilità giudaica – forse in questo caso anche esagerata a fini politici – e sordità culturale di Pilato: qualcosa di simile a un vero rifiuto antropologico. Il passare del tempo, e l’inevitabile familiarizzarsi del governatore con gli usi della sua provincia, non riuscivano ad addolcire un’incomprensione di fondo che si riproponeva a ogni occasione. Questa incapacità avrebbe marcato per sempre il profilo di Pilato agli occhi della cultura dei suoi governati: piú velatamente in Giuseppe, con piú forza in Filone; mentre agli occhi della prima tradizione cristiana quella stessa insensibilità non sarebbe sembrata poi tanto grave. Ed è per questo che Filone tende a consegnarci un’immagine del prefetto speculare rispetto a quella che, del mondo giudaico, si era probabilmente formato quest’ultimo: il segno di una reciproca e insuperata difficoltà di capirsi.

2. L’ultimo episodio a noi noto della vita di Pilato ci rimanda di nuovo al racconto di Giuseppe, che ne parla sempre nel diciottesimo libro12 delle Antichità (non vi è un parallelo nella Guerra), dopo aver riferito gli altri eventi riguardanti il prefetto. Siamo alla fine del suo mandato, e dunque fra il 35 e il 36. Il luogo è questa volta la Samaria, una regione prevalentemente montuosa nel Nord della provincia, fra la Giudea propriamente detta e la Galilea. Giuseppe non mette in buona luce13 i suoi abitanti: apostati pronti a cambiare bandiera a seconda delle circostanze, egli scrive raccogliendo probabilmente un pregiudizio diffuso.

Ed ecco i fatti. Un uomo – di cui non è ricordato il nome, descritto come un bugiardo demagogo – radunò una moltitudine di fedeli e la spinse a salire sul monte Garizin, vicino alla città di Samaria, sacro secondo le tradizioni popolari. Andava dicendo che avrebbe mostrato reliquie preziose, sepolte un tempo in quel luogo dallo stesso Mosè. Gli uomini si armarono (una decisione inopinata, nel contesto del racconto), e crescendo intanto sempre di numero, si accamparono a una certa distanza dalla montagna, in una località chiamata Tirathana, organizzandosi per salirvi al piú presto. Ma furono prevenuti da Pilato che, occupata la cima con reparti pesantemente armati – sia di fanteria sia di cavalleria – li attaccò con successo, in parte uccidendoli, in parte mettendoli in fuga.

Iniziò poi la repressione: molti di coloro che avevano partecipato al raduno furono ridotti in schiavitú, mentre i capi vennero direttamente messi a morte.

Di fronte a questa reazione, il consiglio dei samaritani (l’assemblea dei notabili della regione, riconosciuta dal potere romano) decise di recarsi in missione dal legato di Siria, Vitellio, per accusare Pilato di aver compiuto un massacro indiscriminato. Sostenevano che quanti si erano raccolti non lo avessero fatto contro Roma, ma solo per sottrarsi alle angherie del governatore.

Questa volta l’aspetto religioso della vicenda è meno in evidenza, anche se non manca del tutto. Certo, l’origine del movimento sembra ancora determinata da ragioni di culto, ma la guida che l’aveva ispirato non aveva – almeno nel giudizio di Giuseppe – alcuna credibilità su questo piano. E soprattutto, c’era il particolare decisivo delle armi. Non si vede perché dovessero essere prese, per andare alla ricerca di reliquie lasciate da Mosè.

Di conseguenza, il comportamento di Pilato, almeno in questa prima fase, risulta assolutamente corretto. Dal punto di vista del governatore romano, che una folla piú o meno numerosa si riunisse, armata, per scopi poco chiari, al comando di un uomo ambiguo e screditato, era assolutamente intollerabile, e non poteva essere interpretato in altro modo se non come un tentativo d’insurrezione. Del resto, era il consiglio stesso dei samaritani a riconoscere il significato politico di quel che era accaduto, quando, nell’ambasceria a Vitellio, non richiamava piú i pretesi motivi religiosi dell’adunata, ma ne ammetteva la ragione esplicitamente politica: contestare, anche con la forza, il governo di Pilato.

La risposta militare del governatore appare perciò senza dubbio adeguata: si stava creando una situazione di pericolo per l’ordine pubblico della provincia, le cui cause andavano stroncate sul nascere. Rispetto a questo obiettivo, l’intervento si rivelò tempestivo ed efficace, e l’azione militarmente ben condotta, anticipando le mosse delle forze ostili rapidamente sbaragliate, secondo i migliori protocolli operativi romani: una prova ulteriore della dimestichezza di Pilato con la guerra.

È possibile invece che la successiva – e almeno in parte inevitabile – attività repressiva ordinata dal prefetto in Samaria avesse oltrepassato il segno, dimostrandosi eccessivamente brutale e spietata. Forse sarà stato proprio il ricordo di quest’ultimo episodio a spingere Filone ad accentuare la tempestosa cupezza del suo ritratto.

Secondo i notabili sarebbe stata compiuta addirittura «una strage»14 – la parola usata da Giuseppe è sfage. La loro argomentazione innanzi a Vitellio è sottile e ben condotta. Essi non nascondono la natura esplicitamente politica dell’evento, ma ne indirizzano abilmente la portata in una direzione meno rischiosa e non eversiva: i samaritani non avrebbero inteso con il loro gesto contestare la maestà di Roma, ma solo sottrarsi al governo irragionevolmente duro e sopraffattorio del governatore.

Non abbiamo elementi per giudicare la fondatezza dell’accusa: Giuseppe stesso la riporta con una certa prudenza, senza commentarla né aggiungervi alcuna personale valutazione. La linea difensiva adottata dai samaritani avrebbe anche potuto contenere qualche tratto di verità, e cosí deve essere sembrato al legato di Siria. Pilato viene subito allontanato – sia pure forse solo provvisoriamente – dal suo incarico, dopo dieci anni, e inviato a Roma, per render conto all’imperatore dell’accaduto. Il suo posto viene preso, per un breve periodo, da un Marcello di cui non sappiamo altro, presentato da Giuseppe come «un amico»15 di Vitellio – probabilmente uno dei funzionari a lui piú vicini.

Non è affatto detto che il legato di Siria ritenesse Pilato colpevole: i rinvii al principe non avevano questo valore. Egli avrà piuttosto pensato che bisognava comunque dare una qualche soddisfazione ai samaritani – un equilibrato buon senso, non privo di un fondo di ipocrisia, che era intrinseco alla politica imperiale in Oriente. È possibile che gli fossero arrivate altre rimostranze sui comportamenti del governatore, i cui rapporti con il mondo della sua provincia – anche con gli ambienti aristocratici e tendenzialmente filoromani – non erano stati sempre tranquilli, come ci ha rivelato la stessa condanna di Gesú. Forse vi erano state altre esecuzioni non giustificate. In un passo di Luca16 si accenna «a quei galilei il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici». Ma è un ricordo troppo fugace – e senza altri riscontri – per poterne ricavare alcun dato affidabile. Possiamo dire solo che il fatto doveva essere avvenuto prima della morte di Gesú – quindi in un tempo ormai lontano e sfocato rispetto a quello della delegazione samaritana – probabilmente in occasione di un pellegrinaggio a Gerusalemme. Ce lo fa pensare il riferimento ai sacrifici; e poi la Galilea non faceva parte della provincia di Giudea: lo spargimento di sangue quindi si sarà verificato fuori della terra d’origine delle vittime, e l’episodio potrebbe anche essere stato la causa di quell’inimicizia tra Pilato e il tetrarca della Galilea cui accenna sempre Luca nel racconto – inventato – dell’invio di Gesú ad Antipa17.

In realtà, non possiamo dire quale opinione si fosse formata Vitellio su quanto gli veniva riferito. Era da poco in carica (forse da non piú di un anno), e non gli sarà stato sgradito che anche in Giudea vi fosse un nuovo prefetto. Dal racconto di Giuseppe, si ha l’impressione che il legato di Siria abbia colto al volo l’occasione fornitagli dai samaritani per accelerare i tempi di una proposta nel ricambio del governo della piccola provincia limitrofa, che forse riteneva indispensabile. Approfittando probabilmente della difficoltà di Pilato, aveva anche deciso di rimuovere Caifa dal sommo sacerdozio, come abbiamo già ricordato: doveva sembrargli un uomo troppo compromesso con il precedente governatore. Un decennio era in effetti un periodo lungo per un comando in provincia, anche se non inusuale: segno di un lavoro giudicato ben fatto, ma che non escludeva il pericolo di troppe incrostazioni, di eccessive stratificazioni di contrasti e di rancori, o che si consolidassero reti di interessi e di privilegi in contrasto con i doveri di una buona amministrazione. Sarà sembrato giusto al proconsole richiamare l’attenzione dell’imperatore su una durata cosí notevole, e insieme fornirgli un buon motivo per una sostituzione giudicata quanto meno opportuna.

3. Racconta Giuseppe18 che Pilato si affrettò subito verso Roma, obbedendo all’indicazione di Vitellio. Si era d’inverno – quello fra il 36 e il 37; il mare era «chiuso», come di consueto in quella stagione, e il prefetto fu costretto ad affrontare un lungo e faticoso viaggio terrestre, attraverso il Medio Oriente e l’Europa. Cosí, prima che potesse giungere nella capitale – viene riferito sempre nelle Antichità – sopravvenne la fine di Tiberio, il 17 marzo del 37. Da quel momento, di Pilato non sappiamo piú nulla. Esce semplicemente dalla storia: d’improvviso, come vi era entrato. La sua visibilità coincide per noi con la sua presenza in Giudea. L’unico dato affidabile è che, come abbiamo detto, intorno al 40 doveva essere già morto, o almeno ridotto al silenzio.

Il vuoto è riempito di leggende e di apocrifi, che accompagnano il diffondersi del cristianesimo e poi il suo definitivo affermarsi, in Occidente e nel mondo bizantino: un giudizio fortemente positivo di Tertulliano (nel testo appena citato, su cui ritorneremo) sembra stemperarsi nella tradizione successiva – da Origene19, a Eusebio20, ad Ambrogio21, a Giovanni Crisostomo22, per non dire dello stesso Agostino23 – che condivide una valutazione piú sfumata e prudente. In particolare sulla fine di Pilato cominciarono presto a circolare storie diverse, in cui si riescono ancora a distinguere strati di folklore popolare da elaborazioni piú colte, con complesse architetture allegoriche. In una di queste invenzioni24, l’imperatore avrebbe condannato il suo antico funzionario a vivere in una caverna, dove un giorno lo stesso principe sarebbe capitato per caso, inseguendo una gazzella. L’animale si fermò esattamente innanzi al recluso: Cesare lanciò subito una freccia per colpire la preda, ma il dardo invece attraversò l’ingresso della grotta e uccise Pilato.

Secondo un’altra tradizione25, nota anche a Eusebio26 (ma non a Origene, il che forse è un indizio per datarla), il prefetto si sarebbe suicidato: «È bene conoscere quanto si racconta di Pilato, che visse al tempo del Salvatore. Si dice che sotto Caligola […] fu colpito da tante disgrazie che si vide costretto a suicidarsi, a divenire il punitore di se stesso, poiché la divina giustizia non parve tarda a raggiungerlo». Anche il suo corpo senza vita attira sguardi e fantasie: sarebbe stato gettato nel Tevere, ma poi ripescato e trasportato a Vienne, nel Sud della Francia, nella Gallia Narbonese, per finire nel Rodano, e poi di lí ancora nel territorio di Losanna27: e ognuno di questi passaggi sarebbe stato segnato da eventi nefasti e diabolici. In una versione ancora differente28, Pilato sarebbe stato decapitato per ordine dell’imperatore, per venir poi perdonato da Gesú, che lo avrebbe accolto in cielo con sua moglie Procla, quella stessa ricordata, senza indicarne il nome, nel Vangelo di Matteo.

Quanto agli apocrifi che vanno sotto il suo nome, il primo che sembra conoscere l’esistenza di Atti di Pilato – un insieme di documenti attribuito al prefetto, da non confondersi con il rapporto, che abbiamo supposto autentico, inviato da Pilato a Tiberio e ricordato da Tertulliano – è Giustino, nell’Apologia29: ma egli non li ha consultati direttamente, e la sua testimonianza prova solo che quando scriveva, intorno alla metà del II secolo, esisteva già un falso, o almeno circolavano voci intorno a esso. Nel IV secolo, Eusebio e Rufino accennano poi a un dossier dai contenuti fortemente anticristiani, che andava anch’esso sotto il nome di Pilato – un’altra falsificazione – di cui però non ci è noto nulla.

Gli Atti di Pilato30 giunti sino a noi vengono di solito inclusi dagli editori, insieme a un altro testo sulla «discesa all’inferno», nel cosiddetto Vangelo di Nicodemo, e sono sostanzialmente un resoconto della Passione, Resurrezione e Ascensione di Gesú con forti tratti antigiudaici, composto verosimilmente fra V e VI secolo. Ci sono arrivati attraverso due tradizioni manoscritte, indicate come A – piú completa – e B, narrativamente piú povera, di cui esistono versioni in latino, copto (queste due seguono soprattutto il testo greco A), siriaco e armeno.

Pilato vi svolge un ruolo positivo: vorrebbe condurre un’inchiesta rigorosa, tende a privilegiare le testimonianze favorevoli a Gesú, e cede soltanto di fronte all’esasperarsi delle pressioni giudaiche. Ma in questo modesto, confuso e cupo racconto non riusciamo a trovare nemmeno una notizia significativa per la ricostruzione della biografia del prefetto o dei suoi atteggiamenti. Siamo solo di fronte a un documento che illustra il fervore delle battaglie ideologiche che si svolgevano in Oriente intorno al cristianesimo tardoantico: probabilmente scritto con l’intento di contrastare altri apocrifi, di cui non sappiamo nulla.

Esiste infine un’ulteriore serie di apocrifi – nota come Ciclo di Pilato31, che abbiamo già incontrato nel nostro racconto – redatta fra il VII secolo e il Rinascimento, che riproduce, fra l’altro, scambi di lettere tra Pilato, Tiberio ed Erode Antipa, una specie di resoconto dell’arresto di Pilato da parte di Tiberio, e la relazione che il prefetto avrebbe inviato al principe per la morte di Gesú (ma è solo un maldestro riassunto di alcuni capitoli del Vangelo di Nicodemo). Scritti, tutti, come gli altri, di ben poco valore per lo storico dell’antichità.

Eppure, uno sguardo sull’insieme di questi testi non è inutile. Attraverso il lavorio – spesso ingenuo e scopertamente tendenzioso – di chi li ha costruiti, esce confermata in modo ancor piú insistente una sensazione sottile, ma percepibile, che accompagna fin dall’inizio chi si accosta alla figura del Pilato dei Vangeli. Come se i falsari, alle prese con le poche fonti disponibili sul prefetto di Giudea, avessero assorbito la medesima patina degli originali, e ne trasmettessero, dilatandola attraverso i rifacimenti, la stessa, inconfondibile, tonalità. Voglio dire l’impressione di un’insuperabile ambiguità che si riproduce di continuo intorno a Pilato, appena se ne parli; quasi la sua cifra non potesse essere altro dall’indefinito, dalla nebbia; e aleggiasse su di lui l’ombra di un non detto, di un taciuto che intercetta ogni volta la luce, o la deforma.

Questo è vero soprattutto per il Vangelo di Giovanni, non a caso quello che i falsificatori, lungo i secoli, hanno avuto piú presente. Come se la piú antica tradizione cristiana fosse stata custode di un segreto, a proposito di Pilato, che non si poteva rivelare, ma nemmeno completamente rimuovere; un segreto che è andato poi sbiadendosi nel tempo, fino a risultare completamente perduto, ma che tuttavia aveva lasciato dietro di sé una lunga linea di opacità.

La vittoria del cristianesimo, la sua affermazione come religione universale del mondo romano, hanno prodotto effetti incalcolabili sul regime della sua prima memoria32. In pochi decenni, tutto è cambiato per i cristiani: da perseguitati a protagonisti assoluti della vita culturale e politica di quello che rimaneva ancora un grande impero. Il loro intero passato venne cosí ripensato nella prospettiva del capovolgimento verificatosi agli inizi del IV secolo.

Nel trauma di una riconversione cosí improvvisa e profonda, la verità su Pilato, la verità del suo comportamento di fronte a Gesú – forse già da qualche tempo meno presente – andò definitivamente smarrita. Ma rimase invece, a evocarla, quella scia di mistero che non si sarebbe mai piú dissolta, quella percezione d’intermittenza e come di sospensione che avrebbe avvolto per sempre agli occhi dei posteri la figura del quinto prefetto di Giudea.

Tertulliano aveva definito Pilato, nel testo prima richiamato, «un cristiano nel cuore», pro sua coscientia christianus. Era una valutazione impegnativa. Perché veniva proposta? Cosa voleva dire? Da dove ricavava Tertulliano gli elementi per un simile giudizio? La sola lettura dei Vangeli non poteva autorizzarlo a spingersi sino a tanto. Da dove stava attingendo le sue informazioni?

Io credo che egli sapesse cose che noi non conosciamo. Che gli fosse nota una tradizione in cui il comportamento di Pilato veniva spiegato per quello che era stato: un arrendersi alla potenza della profezia di Gesú su se stesso – all’inevitabilità della morte del prigioniero. Era una verità complicata da raccontarsi, che poteva essere facilmente fraintesa, e spezzare quel delicato bilanciamento fra libero arbitrio e precognizione del disegno di Dio – fra natura umana e divina di Gesú – che faceva del sacrificio del Figlio una tragedia senza confronti, e non la recita di un copione prestabilito. Perché questo rischio venisse evitato, occorreva che fossero indicati chiaramente e senza dubbi i responsabili di quella morte, che erano stati liberi di decidere: fra Pilato e i sacerdoti la scelta non poteva che restare ambiguamente aperta; senza dire dell’idea, maturata subito, di spostare sull’intero popolo di Giudea la colpa per quanto era accaduto. Se si fosse ammesso che il prefetto aveva ceduto a quel che aveva ritenuto la manifesta volontà di Gesú, si sarebbe aperta la strada a mille interpretazioni, tutte potenzialmente fuorvianti rispetto all’impianto teologico della nuova religione, che avrebbero potuto sminuire il valore di quel gesto letteralmente senza eguali: il martirio del Figlio di Dio per la salvezza dell’intera umanità.

Quella sconvolgente eppure cosí ragionevole verità – la verità di una tacita intesa, favorita dalla stessa asimmetria fra i due interlocutori – doveva essere celata, occultata da racconti che cercassero di sviare dalla sua scoperta, anche se al prezzo di rendere l’intera vicenda quasi inspiegabile, e di gettare su di essa, almeno dal lato del suo protagonista minore – Pilato – l’ombra dell’enigma e dell’incomprensibilità.

Ma io credo che la sua decifrazione avesse continuato a rimanere per un certo tempo nell’aria, invisibile per la sua stessa trasparenza, ma non del tutto cancellata. E quando, alla fine del IV secolo, nella riformulazione costantinopolitana del Simbolo niceno33 si stabilí di aggiungere al ricordo della morte di Gesú il nome di Ponzio Pilato – «fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato» – senza peraltro indicarlo come responsabile della croce, ritengo che questo non accadde, come si è soliti dire, solo per fissare una cronologia (sarebbe stato forse meglio, a questo fine, nominare anche Tiberio), ma per qualcosa di piú sostanziale. In quella scelta c’era l’eco, ormai lontana, di un ricordo, di un conto da chiudere, di una verità da non perdere del tutto. Quei nomi dovevano stare insieme, come in quella mattina in cui si consumò l’indicibile. Per sempre.

I. La tradizione antica

Su Ponzio Pilato le fonti piú importanti sono Flavio Giuseppe e i Vangeli, cui si devono aggiungere Filone, Tacito, Tertulliano e un’epigrafe ritrovata a Cesarea.

I testi di Giuseppe citati di seguito non presentano problemi critici particolari, tranne uno, il cosiddetto testimonium Flavianum, che verrà discusso piú avanti (infra, le note al cap. II). Essi appartengono sia alla Guerra giudaica, in sette libri – composta originariamente in aramaico, e poi riscritta in greco fra il 75 e il 79, con l’aiuto di collaboratori che padroneggiavano la lingua piú dell’autore – sia soprattutto alle Antichità giudaiche, in venti libri, anch’esse scritte in greco con l’aiuto di assistenti e terminate fra il 94 e il 95. L’edizione fondamentale resta quella di B. Niese, Flavii Iosephi Opera, 6 voll., Berlin 1887-89, rist. 1955 (Antiquitates Iudaicae, voll. I-IV; Bellum Iudaicum, vol. VI), seguita poco dopo da quella di S. A. Naber, nella «Bibliotheca teubneriana», Flavii Iosephi opera omnia, 6 voll., Leipzig 1889-93 (Antiquitates Iudaicae, voll. I-IV; Bellum Iudaicum, voll. V-VI). Ottima anche l’edizione Loeb, con traduzione di H. St J. Thackeray per la Guerra giudaica [1a edizione 1927, rist. Cambridge (Mass.) 2004], e con traduzione di L. H. Feldman per le Antichità giudaiche [Cambridge (Mass.) 1965], che abbiamo tenuto presente soprattutto per la traduzione inglese. Per la traduzione italiana abbiamo utilizzato, per la Guerra giudaica, la versione a cura di G. Vitucci, Fondazione Valla, Milano 1974, rist. 2012, e, per le Antichità giudaiche, quella in 2 voll. a cura di L. Moraldi, Torino 1998, rist. 2006.

Per avvicinarsi al mondo di Giuseppe: S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, Bari 1966, vol. II/2, pp. 95 sgg.; P. Vidal-Naquet, Flavius Josèphe ou du bon usage de la trahison, Paris 1977 [trad. it. Il buon uso del tradimento. Flavio Giuseppe e la guerra giudaica, Roma 1980, con una introduzione di A. Momigliano]; S. J. D. Cohen, Josephus in Galilee and Rome, Leiden 1979; T. Rajak, Josephus. The Historian and his Society, London 1983; P. Bilde, Flavius Josephus between Jerusalem and Rome. His Life, his Works and their Importance, Sheffield 1988; J. Carleton Paget, Some Observations on Josephus and Christianity, in «Journal of Theological Studies», LII (2001), pp. 539 sgg.

Sui Vangeli – la struttura, l’invenzione della loro forma e la stratificazione delle loro fonti – la moderna critica neotestamentaria ha compiuto un lavoro imponente. Per un primo orientamento, R. E. Brown, An Introduction to the New Testament, New York 1997 [trad. it. Introduzione al Nuovo Testamento, Brescia 2001]; G. Theissen, Das Neue Testament, München 2002 [trad. it. Il Nuovo Testamento, Roma 2003]. Noi abbiamo accolto l’opinione – oggi largamente diffusa – secondo cui il testo piú antico sarebbe quello di Marco, il piú breve. Esso fu composto fra il 60 e il 70 (si discute se prima o dopo la grande rivolta giudaica), in un luogo che non individuiamo con certezza (Gerusalemme, Alessandria, Antiochia, addirittura Roma), e va considerato come il piú vicino alla tradizione orale, nella quale già si era probabilmente verificato il primo passaggio dall’aramaico al greco, in seguito alla conversione di comunità che parlavano (solo) questa lingua. Documenti scritti, comunque, dovevano circolare da qualche tempo, sia in aramaico, sia in greco: collezioni di detti di Gesú, parabole, resoconti dei suoi miracoli, e un racconto della Passione – la prima delle tradizioni su Gesú a trasformarsi in un autentico impianto narrativo – che tutti gli evangelisti hanno avuto presente: M. Dibelius, Die Formgeschichte des Evangeliums, Tübingen 1919, spec. pp. 15 sgg. e 56 sgg. [trad. ingl. From Tradition to Gospel, London 1934] è un libro importantissimo, non solo dal punto di vista della «critica delle forme», che va letto insieme a R. Bultmann, Die Geschichte der synoptischen Tradition, Göttingen 1921 [trad. ingl. The History of the Synoptic Tradition, Oxford 1963], anch’esso di particolare rilievo; non vanno dimenticati poi K. L. Schmidt, Der Rahmen der Geschichte Jesu, Berlin 1919; V. Taylor, The Formation of the Gospel Tradition, London 1935, spec. pp. 44 sgg.; Id., The Gospel According to St. Mark, London 1963; W. Marxen, Der Evangelist Markus. Studien zur Redaktionsgeschichte des Evangeliums, Göttingen 1956 [trad. it. L’evangelista Marco. Studi sulla storia della redazione del Vangelo, Casale Monferrato 1994]. Piú di recente, R. Pesch, Das Markusevangelium, 2 voll., Freiburg im Breslau 1977-78 [trad. it. Il Vangelo di Marco, Brescia 1980-82]; J. Gnilka, Das Evangelium nach Markus, 2 voll., Zurich-Neukirchen 1978-79; W. H. Kelber, The Oral and the Written Gospel. The Hermeneutics of Speaking and Writing in the Synoptic Tradition, Mark, Paul and Q, Philadelphia 1983; M. Hengel, Studies in the Gospel of Mark, London 1985.

In Matteo e Luca – che, con Marco, compongono il blocco dei cosiddetti Sinottici – c’è sia il nucleo di Marco, sia, per gli ampliamenti, una fonte comune (ignota a Marco), abitualmente indicata come «Q» (Quelle, «fonte»), per noi perduta, probabilmente proprio perché assorbita completamente nei Vangeli. Ciascuno dei due ha poi anche avuto presente altro materiale, di provenienza incerta: S. Kloppenborg, L’Évangile «Q» et le Jésus historique, in D. Marguerat, E. Norelli e J.-M. Poffet (a cura di), Jésus de Nazareth. Nouvelles approches d’une énigme, Genève 1998, pp. 225 sgg. Il Vangelo di Matteo è stato composto in un ambiente urbano – forse Antiochia, forse meglio una città della Palestina, magari Cesarea – in anni intorno all’80. Quello di Luca – molto piú elaborato, nello stile e nell’impianto concettuale – probabilmente ad Antiochia, sempre negli anni 80: E. E. Ellis, The Gospel of Luke, London 1966; J. D. Kingsbury, Matthew. Structure, Christology, Kingdom, London 1976; L. H. Marshall, The Gospel of Luke, Exeter 1978; R. Maddox, The Purpose of Luke-Acts, Edinburgh 1982; R. H. Gundry, Matthew. A Commentary on his Literary and Theological Art, Grand Rapids 1982; A. Fitzmayer, The Gospel According to Luke, 2 voll., New York 1983-85; E. Schweizer, Das Evangelium nach Lucas, Göttingen 1986 [trad. it. Il Vangelo secondo Luca, Brescia 2000]; P. F. Esler, Community and Gospel in Luke-Acts. The Social and Political Motivations of Lucan Theology, Cambridge 1987; A. F. Segal, Matthew’s Jewish Voice, in D. L. Balch (a cura di), Social History of the Matthew Community.Cross Disciplinary Approaches, Minneapolis 1991, pp. 3 sgg.

Molto diversa, invece, la struttura narrativa del Vangelo di Giovanni, fino a far dire, in una formulazione ormai classica, «o i Sinottici, o Giovanni» (cfr. infra, le note al prologo e al cap. I). Esso fu scritto probabilmente per una comunità cristiana separatasi dal giudaismo – ad Alessandria, ad Antiochia, a Efeso (ipotesi piú attendibile) – fra l’85 e il 95. M. Hengel, Die johanneische Frage, Tübingen 1993, preceduta dall’edizione inglese, The Johannine Question, London 1989 [trad. it. La questione giovannea, Brescia 1998], è un libro molto bello e utile. Anche O. Cullmann, Der johanneische Kreis, Tübingen 1975 [trad. it. Origine e ambiente dell’evangelo secondo Giovanni, Casale Monferrato 1976], è un lavoro suggestivo, come tutti quelli di quest’autore. Da prendere poi in considerazione: C. H. Dodd, Historical Tradition in the Fourth Gospel, Cambridge 1965 [trad. it. La tradizione storica nel quarto vangelo, Brescia 1983]; D. Resenberger, The Politics of John: The Trial of Jesus in the Fourth Gospel, in «Journal of Biblical Literature», CIII (1984), pp. 395 sgg.; B. Lindars, The Gospel of John, London 1972 (ma cfr. anche Id., Essays on John, a cura di C. M. Tuckett, Leuven 1992); C. K. Barret,The Gospel According to St. John, London 19782; R. E. Brown, The Gospel According to John, 2 voll., London 1978; R. A. Culpepper, Anatomy of the Fourth Gospel. A Study in Literary Design, Philadelphia 1983; J. A. T. Robinson, The Priority of John, Oak Park (Illinois) 1985; J. Ashton, Understanding the Fourth Gospel, Oxford 1991 [trad. it. Comprendere il quarto vangelo, Città del Vaticano 2000].

Per i testi del Nuovo Testamento (Vangeli e Paolo) ho seguito l’edizione di A. Merk, Novum Testamentum Graece et Latine, Roma 199211, confrontata con l’edizione Nestle-Aland, Stuttgart 196124. Un’ottima traduzione italiana è quella a cura di G. Gaeta, I Vangeli, Torino 2009 (con un ricco saggio introduttivo del curatore).

Per il testo greco dell’Antico Testamento, ho seguito l’edizione di A. Rahlfs, Septuaginta, id est Vetus Testamentum Graece iuxta LXX interpretes, Stuttgart 19525.

Per gli Apocrifi del Nuovo Testamento, ho utilizzato l’edizione ormai classica di C. von Tischendorf, Evangelia Apocrypha, Leipzig 18762, e quella di M. R. James, The Apocryphal New Testament, Oxford 1924. Due ottime traduzioni italiane sono quelle a cura di M. Craveri, I Vangeli apocrifi, Torino rist. 2005 e di L. Moraldi, Tutti gli apocrifi del Nuovo Testamento, Casale Monferrato 20076. Per i testi di Qumran, cfr. infra, note al cap. II (p. 165).

L’opera di Filone che ci interessa è la Legatio ad Gaium, che ho visto nell’edizione Cohn-Reiter, in Philonis Alexandrini opera quae supersunt, vol. VI, Berlin rist. 1962 (ho avuto anche presente l’edizione di A. Pelletier, in Les Œuvres de Philon d’Alexandrie, Paris 1972). Cfr. D. R. Schwartz, Josephus and Philo on Pontius Pilate, in «The Jerusalem Cathedra», III (1983), pp. 26 sgg.

Il testo di Tacito che riguarda Pilato, dal libro XV degli Annales, è molto controverso: ho avuto come riferimenti l’edizione oxoniense di C. D. Fisher, Oxford 1906, e quella di H. Heubner per la «Bibliotheca teubneriana», Stuttgart 1983 (cfr. infra, note al cap. II, p. 167), e anche R. E. Van Voorst, Jesus Outside the New Testament: An Introduction to the Ancient Evidence, Grand Rapids 2000. Non cosí quello di Tertulliano, dall’Apologeticum, per il quale ho utilizzato l’edizione Waltzig-Severyns, Paris 2003 («Les Belles Lettres»).

L’epigrafe ritrovata a Cesarea, che reca il nome di Pilato, rinvenuta durante una campagna di scavi condotta dall’Accademia di Scienze e Lettere dell’Istituto Lombardo, è stata pubblicata per la prima volta da A. Frova, L’iscrizione di Ponzio Pilato a Cesarea, in «Rendiconti dell’Istituto Lombardo. Classe di Lettere e Scienze morali e storiche», vol. XCV (1961), pp. 419-34 = L’Année épigraphique, 1963, 104, e poi ripresa piú volte, per esempio: 1971, 477; 2008, 1542. Cfr. J. Vardaman, A New Inscription Which Mentions Pilate as ‘Prefect’, in «Journal of Biblical Literature», LXXXI (1962), pp. 70 sgg.; J. H. Ganze, Ecclesia, CLXXIV (1963), p. 137; A. Degrassi, Sull’iscrizione di Ponzio Pilato, in «Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei», 8aserie, Classe di scienze morali, storiche e filologiche, vol. XIX, Roma 1964, pp. 59 sgg. (= Id., Scritti vari di antichità, vol. III, Venezia-Trieste 1967, pp. 269 sgg.). Cfr. anche infra, nota al cap. II, p. 166.

II. La storiografia moderna

Sui temi oggetto di questo libro esiste una bibliografia sterminata. Quella che segue è solo l’indicazione dei lavori che ho avuto maggiormente presenti, e che possono rappresentare per il lettore un utile filo di ricerca e di approfondimento.

Ho ritenuto opportuno dividere i richiami in tre sezioni, corrispondenti ai temi principali da me affrontati: la vita e la carriera di Pilato; la Giudea romana; l’incontro di Pilato con Gesú (storia, politica, teologia). L’ordine seguito, all’interno di ciascuna sezione, è quello cronologico.

a. La vita e la carriera di Pilato.

I libri interamente dedicati a Pilato non sono poi molti. Possiamo considerare la prima monografia davvero moderna su di lui, prodotto di una critica storica già sufficientemente sperimentata, quella di G. A. Müller, Pontius Pilatus, der fünfte Prokurator von Judäa und Richter Jesu von Nazareth, Stuttgart 1888: un lavoro che si legge ancora oggi con qualche interesse (nonostante l’impianto positivistico ormai datato), con un’ampia bibliografia che risale fino al XVI secolo, e caratterizzato da un’evidente simpatia dell’autore per il personaggio studiato: un’interpretazione accolta successivamente sia da E. von Dobschütz, Pilatus, in Real-Enzyclopädie für protestantische Theologie und Kirche, vol. XV, Leipzig 1904, pp. 397 sgg., sia da H. Peter, Pontius Pilatus, der römische Landpfleger in Judäa, in «Neues Jahrbuch für das klassische Altertum, Geschichte und deutsche Literatur», XIX (1907), pp. 1 sgg., ma non condivisa da E. Schürer, History of the Jewish People in the Time of Jesus Christ (175 B.C. - A.D. 135), a cura di G. Vermes e F. Millar, vol. I, Edinburgh 1973, pp. 357 sgg., spec. 383 sgg. [ed. or. Geschichte des jüdischen Volkes im Zeitalter Jesu Christi, 3 voll., Leipzig 1886-90; 1901-114; trad. it. La storia del popolo giudaico al tempo di Gesú Cristo, vol. I, Brescia 1985, pp. 441 sgg., spec. 471 sgg.], una ricerca di assoluto rilievo. Essa fu poi messa in crisi anche da E. Stauffer, in un libro molto noto e piú volte ripubblicato, Christ und die Caesaren: historische Skizzen, Hamburg 1948 [trad. ingl. Christ and the Caesars, London 1955, pp. 118 sgg.]; cfr. anche Id., Zur Münzprägung und Judenpolitik des Pontius Pilatus, in «La Nouvelle Clio», I-II [1949-50], pp. 495 sgg.; sempre utile M. Stern, The Province of Judaea, in Id. e S. Safrai (a cura di), The Jewish People in the First Century: Historical Geography, Political History, Social, Cultural and Religious Life and Institutions, Assen 19872, vol. I, pp. 308 sgg. (un’opera da aver presente anche nel suo insieme).

Non di particolare rilievo per la nostra ricostruzione alcuni libri successivi: G. Lippert, Pilatus als Richter. Eine Untersuchung über seine richterliche Verantwortlichkeit an der Hand der den Evangelien entnommenen amtlichen Aufzeichnung des Verfahrens gegen Jesus, Wien 1923; F. Morison (ma in realtà A. H. Ross), And Pilate Said, London 1939; E. Fascher, Das Weib des Pilatus (Matthäus 27,19). Die Auferweckung der Heiligen (Matthäus 27, 51-53). Zwei Studien zur Geschichte der Schriftauslegung, Halle 1951; P. L. Maier, Pontius Pilate, Garden City (New York) 1968. Importante e accurato invece J.-P. Lémonon, Pilate et le gouvernement de la Judée. Textes et monuments, Paris 1981 (su cui H. R. Moehring, in «Journal of Biblical Literature», CII [1983], pp. 490 sg.) e cfr. anche Id., Ponce Pilate: documents profanes, Nouveau Testament et traditions ecclésiales, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, vol. II, 26.1, 1992, pp. 741 sgg. Come anche da non perdere H. K. Bond, Pontius Pilate in History and Interpretation, Cambridge 1998, rist. 2000 [trad. it. Ponzio Pilato. Storia e interpretazione, Brescia 2008 (su cui R. J. Karris, in «Journal of Biblical Literature», CXIX [2000], pp. 762 sgg.): insieme con il lavoro di Lémonon due punti di riferimento obbligati (di questa autrice è anche da tener presente Caiphas. Friend of Rome and Judge of Jesus?, Louisville-London 2004). Da vedere poi R.-P. Märtin, Pontius Pilatus: Römer, Ritter, Richter, München 1989, e M. Centini, Ponzio Pilato, Casale Monferrato 1994. Di qualche interesse, anche se discutibile, A. Wroe, Pilate. The Biography of an Invented Man, London 1999. Piú di recente, è utile leggere K. Jaroš, In Sachen Pontius Pilatus, Mainz 2002; W. Carter, Pontius Pilate: Portraits of a Roman Governor, Collegeville (Minnesota) 2003, a proposito del quale va considerato anche R. S. Sugirtharajah, Postcolonial Criticism and Biblical Interpretation, Oxford 2002, spec. pp. 79 sgg., e soprattutto A. Demandt, Pontius Pilatus, München 2012 (e già prima Id., Hände in Unschuld. Pontius Pilatus in der Geschichte, Köln 1999), e il piccolo libro di G. Agamben, Pilato e Gesú, Roma 2013. Da ultimo, l’antologia a cura di J.-M. Vercruysse, Ponce Pilate, Artois 2013.

A questi libri devo poi aggiungere un saggio, che non è propriamente un libro di storia – qualcosa tra un’opera di finzione e l’interpretazione storica di un carattere – ma che mi ha accompagnato in tutta la mia ricerca: un lavoro non dedicato a Pilato, ma a Giuda: Mario Brelich, L’opera del tradimento (1975), Roma 20083.

La figura di Pilato è stata poi al centro di almeno tre grandi rielaborazioni letterarie, fra XIX e XXsecolo:

– quella di Anatole France, Le procurateur de Judée (1892), in Œuvres (coll. «Pléiade»), vol. I, Paris 1984, pp. 877 sgg. [trad. it. Il procuratore della Giudea, Palermo 1980];

– quella di M. Bulgakov, Il Maestro e Margherita(completato dalla moglie nel 1941, ma pubblicato solo nel 1966-67, e poi, in un’edizione completa, nel 1973), che conosco dalla traduzione italiana di M. Olsoufieva, Milano 1973, e da quella inglese di M. Glenny, London 1967. Bulgakov aveva letto la monografia di Müller, a cui si ispira con totale libertà e assoluta genialità: tre bei saggi, fra i tanti, sono quelli di R. W. Pope, Ambiguity and Meaning in “The Master and Margarita”: The Role af Afranius, in «Slavic Review», XXXVI [1977], pp. 1 sgg.; G. Rosenshield, The “Master and Margarita” and the Poetics of Aporia: A Polemical Article, ivi, LVI [1997], pp. 187 sgg., spec. pp. 191 sgg. (anche se non sempre condivisibile), e S. Amert, The Dialectics of Closure in Bulgakov’s “Master and Margarita”, in «Russian Review», LXI (2002), pp. 599 sgg.;

– e infine quella di F. Dürrenmatt, Pilatus, Olten 1949 [trad. it. Pilato, in Id., Racconti, Milano 1988, ristampa 1996], delle tre interpretazioni, quella che amo di meno.

Non piú che accenni a Pilato, invece, nei due bei romanzi di José Saramago, O Evangelho segundo Jesus Cristo, Lisboa 1991 [trad. it. Il Vangelo secondo Gesú Cristo, Milano rist. 1998], e di Emmanuel Carrère, Le Royaume, Paris 2014 [trad. it. Il Regno, Milano 2015].

Né si può fare a meno di ricordare almeno due grandi ricostruzioni della «vita di Gesú» del XIXsecolo, in entrambe le quali si parla di Pilato: quella giovanile di Hegel, Das Leben Jesu (1795), in Hegels Theologische Jugendschriften, edizione a cura di H. Nohl, Tübingen 1907, pp. 75 sgg. [trad. it. Scritti teologici giovanili (a cura di E. Mirri), Napoli 1972, pp. 107 sgg.] e quella di E. Renan, Vie de Jésus(1863) [trad. it. Vita di Gesú, Milano 1972].

Molti di piú, invece, gli articoli e le voci di enciclopedie e di dizionari su Pilato, alcuni di rilievo significativo, o le pagine a lui dedicate in saggi sul cosiddetto «processo» di Gesú. Per queste ultime, rinvio ai libri che ricorderò piú avanti, nella terza sezione di questa rassegna. Per gli altri, possiamo cominciare da alcuni lavori ormai lontani nel tempo – anche molto brevi, ma che credo ancora utile non dimenticare – su questioni affrontate in questo libro: M. J. Olliver, Ponce Pilate et les Pontii, in «Revue Biblique», V (1896), pp. 244 sgg.; G. F. Abbott, The Report and Death of Pilate, in «Journal of Theological Studies», IV (1903), pp. 83 sgg.; M. Dibelius, Herodes und Pilatus, in «Zeitschrift für die Neutestamentliche Wissenschaft», XIX (1915), pp. 113 sgg.; U. Holzmeister, Wann war Pilatus Prokurator von Judaea?, in «Biblica», XIII (1932), pp. 228 sgg.; P. L. Hadley, Pilate’s Arrival in Judaea, in «Journal of Theological Studies», XXXV (1934), pp. 56 sg.; S. J. de Laet, Le successeur de Ponce Pilate, in «L’Antiquité Classique», VIII (1939), pp. 413 sgg.; A. D. Doyle, Pilate’s Career and the Date of the Crucifixion, in «Journal of Theological Studies», XLII (1941), pp. 190 sgg.; C. H. Kraeling, The Episode of the Roman Standards at Jerusalem, in «Harvard Theological Review», XXXV (1942), pp. 263 sgg.; S. Liberty, The Importance of Pontius Pilate in Creed and Gospel, in «Journal of Theological Studies», XLV (1944), pp. 18 sgg.

Dagli anni cinquanta del Novecento in poi i lavori si moltiplicano – per lo piú brevi note – e qui non posso indicarne che una selezione ristretta: E. M. Smallwood, The Date of the Dismissal of Pontius Pilate from Judaea, in «Journal of Jewish Studies», V (1954), pp. 12 sgg.; J. Blinzler, Der Entscheid des Pilatus: Exekutions-befehl oder Todesurteil?, in «Münchener Theologische Zeitschrift», V (1954), pp. 171 sgg.; S. Garofalo, L’imprevedibile carriera di Ponzio Pilato, in «Historia», II (1958), pp. 12 sgg.; E. Haenchen, Jesus vor Pilatus (Joh. 18, 28 - 19,15), in «Theologische Literaturzeitung», LXXXV (1960), pp. 93 sgg.; P. Winter, A Letter from Pontius Pilate, in «Novum Testamentum», VII (1964), pp. 37 sgg. (un piacevole divertissement, ma di questo autore un lavoro ben piú importante sarà ricordato piú avanti, nell’ultima sezione di questa rassegna); A. Bajsic, Pilatus, Jesus and Barabba, in «Biblica», XLVIII (1967), pp. 7 sgg.; S. G. F. Brandon, Pontius Pilate in History and Legend, in «History Today», XVIII (1968), pp. 525 sgg.; P. L. Maier, Sejanus, Pilate, and the Date of the Crucifixion, in «Church History», XXXVII (1968), pp. 3 sgg.; Id., The Episode of the Golden Roman Shields at Jerusalem, in «Harvard Theological Review», LXII (1969), pp. 109 sgg.; J. F. Quinn, The Pilate Sequence in the Gospel of Matthew, in «Dunwoodie Review», X (1970), pp. 154 sgg.; J. E. Allen, Why Pilate?, in E. Bammel (a cura di), Trial of Jesus. Studies in Honor of C. F. D. Moule, London 1970, pp. 78 sgg.: quest’ultimo autore sarà ricordato anche piú avanti, nella terza sezione di questa rassegna; H. W. Hoenher, Why Did Pilate Hand Jesus Over to Antipas?, in Bammel (a cura di), Trial cit. pp. 84 sgg.; B. C. McGing, Pontius Pilate and the Sources, in «Catholic Biblical Quarterly», LIII (1991), pp. 416 sgg. (una sintesi utile); D. R. Schwartz, Pontius Pilate’s Appointment to Office and the Chronology of Josephus’ Antiquities, Books 18-20, in «Studies in the Jewish Background of Christianity», Tübingen 1992, pp. 182 sgg.; K. S. Krieger, Pontius Pilatus: ein Judenfeind? Zur Problematik einer Pilatusbiographie, in «Biblische Notitien», LXXVIII (1995), pp. 63 sgg.; J. E. Taylor, Pontius Pilate and the Imperial Cult in Roman Judaea, in «New Testament Studies», LII (2006), pp. 555 sgg.

E ancora alcune voci dedicate a Pilato in enciclopedie, lessici, dizionari, anch’esse quasi sempre molto brevi: G. T. Purves, in Hastings Dictionary of the Bible, vol. III, 1900, pp. 875 sgg.; A. Souter, in J. Hastings (a cura di), Dictionary of Christ and the Gospels, vol. III, 1908, pp. 363 sgg.; E. Fascher, in Pauly -Wissowa Real-Encyclopädie der classischen Altertumwissenschaft, vol. XX, Stuttgart 1950, coll. 1322 sg.; E. Bammel, in Religion in Geschichte and Gegenwart, 19613, pp. 383 sg.; S. Sandmel, in Interpreters’ Dictionary of the Bible, vol. III, 1962, pp. 811 sgg.; J. Blinzler, in Lexicon für Theologie und Kirche, vol. VIII, 1963, pp. 504 sg.; A. E. Hilliard e H. Clavier, in J. Hastings (a cura di), Dictionary of the Bible, Edinburgh 1963, pp. 771 sgg.; F. J. Buckley, in New Catholic Encyclopaedia, vol. XI, 1967, pp. 360 sgg.; L. Roth, in Encyclopaedia Judaica, vol. XIII, 1971, p. 848; H. W. Hoehner, in Dictionary of Jesus and the Gospels, Leicester 1992, p. 616.

Per ricostruire la carriera di Pilato sono infine importanti: H. G. Pflaum, Les procurateurs équestres sous le Haut-Empire romain, Paris 1950, e Id., Les carrières procuratoriennes équestres sous le Haut-Empire romain, Paris 1961, vol. III, p. 1082; S. Demougin, L’ordre équestre sous les Julio-Claudiens, Roma 1988, spec. pp. 275 sgg., 323 sgg., 712 sgg., 830; Id., Prosopographie des chevaliers romains Julio-Claudiens, Roma 1992, pp. 17 e 246 sg.; R. Haensch, Capita provinciarum. Statthaltersitze und Provinzialverwaltung in der römischen Kaiserzeit, Mainz 1997, pp. 227 sgg.; A. Magioncalda, I governatori delle province procuratorie: carriere, in S. Demougin, D. Hubert e M.-Th. Raepsaet-Charlier (a cura di), L’ordre équestre. Histoire d’une aristocratie, Roma 1999, pp. 391 sgg. Cfr. anche D. Faoro, Praefectus, procurator, praeses. Genesi delle cariche presidiali equestri nell’Alto Impero Romano, Milano 2011, pp. 10, 72, 88 sg., 94, 105, 112, 114 sg. e 137 sgg.

b. La Giudea romana.

Sulla Giudea romana sono essenziali, per cominciare, due libri: F. Millar, The Roman Near East. 31 BC - AD 337, Cambridge-London 1993, 20014, specialmente pp. 337 sgg.; M. Sartre, D’Alexandre à Zénobie. Histoire du Levant antique IVe siècle avant J.-C. – IIIe siècle après J.-C., Paris 2001, pp. 305 sgg., 337 sgg., 383 sgg., 530 sgg. Subito dopo, bisogna aver presenti: A. H. M. Jones, Studies in Roman Government and Law, Oxford 1968, pp. 115 sgg.; E. M. Smallwood, The Jews under Roman Rule. From Pompey to Diocletian, Leiden 1976, spec. pp. 144 sgg. e 160 sgg. (ma di questa autrice cfr. anche Id., Some Notes on the Jews under Tiberius, in «Latomus», XV [1956], pp. 314 sgg.; Id., High Priests and Politics in Roman Palestine, in «Journal of Theological Studies», XIII [1962], pp. 14 sgg.; Id., Behind the New Testament, in «Greece and Rome», 2a serie, XVII [1970], pp. 81 sgg.), e uno studio giovanile di A. Momigliano, prezioso ma molto poco citato, Ricerche sull’organizzazione della Giudea sotto il dominio romano (63 a.C.-70 d.C.), in «Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa», 2a serie, III (1934), rist. Amsterdam 1967, da cui cito (ma il saggio è ora anche in Id., Nono contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, a cura di R. Di Donato, Roma 1992, pp. 227 sgg.). Un quadro d’insieme pieno di suggestioni si ricava anche dal libro recentissimo di S. Schama, The Story of the Jews. Finding the Words. 1000 BC – 1492 AD, New York 2013, pp. 88 sgg., 173 sgg. (discusso da G. W. Bowersock, in «The New York Review of Books», LXI [2014], pp. 41 sgg.), e dal lavoro di M. Liverani, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Roma-Bari 2003, pp. 223 sgg. e 275 sgg. (pur se non riguarda specificamente il periodo storico considerato in questo libro). Da tenere infine presenti: E. Gabba, The Social, Economic and Political History of Palestine 63 BCE to - CE 70, in W. Horbury e W. D. Davies (a cura di), The Cambridge History of Judaism, vol. III: The Early Roman Period, Cambridge 1999, pp. 94 sgg.; A. Giardina, La Palestina greca e romana, in Id., M. Liverani e B. Scarcia (a cura di), La Palestina, Roma 1987, pp. 73 sgg., e, piú in generale, I. Shatzman, L’integrazione della Giudea nell’impero romano, in A. Lewin (a cura di), Gli ebrei nell’impero romano, Firenze 2001, pp. 17 sgg.; V. Marotta, Conflitti politici e governo provinciale, in F. Amarelli (a cura di), Politica e partecipazione nelle città dell’impero romano, Roma 2005, pp. 121 sgg.

Anche da vedere: I. H. Eybers, The Roman Administration of Judaea between AD 6 and 41, with Special Reference to the Procuratorship of Pontius Pilate, in «Theolo-gica Evangelica», II (1969), pp. 131 sgg.; D. Piattelli, Ricerche intorno alle relazioni tra Roma e l’ethnos ton Ioudaion dal 161 a. C. al 4 a. C., in «Bullettino dell’Istituto di diritto romano Vittorio Scialoja», LXXIV (1971), pp. 219 sgg.; M. Grant, The Jews in the Roman World, London 1973; S. Safrai, Jewish Self Government, in Id. e Stern (a cura di), The Jewish People cit., pp. 337 sgg.; G. B. Bowersock, Old and New in the History of Judaea, in «Journal of Roman Studies», LXV (1975), pp. 180 sgg. (un’importante recensione al libro di Schürer cit.); S. Applebaum, Judaea as a Roman Province. The Countryside as a Political and Economic Factor, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, vol. XI, 8, 1977, pp. 355 sgg.; J. R. Bartlett, Jews in the Hellenistic World, Cambridge 1985; M. Goodman, The Ruling Class of Judaea: The Origins of the Jewish Revolt against RomeAD 66-70, Cambridge 1987 [trad. it. Iudaea Capta. Il ruolo dell’élite ebraica nella rivolta contro Roma (66-70 d. C.), Genova 1995]; A. J. Saldarini, Pharisees, Scribes and Sadducees in Palestinian Society, Edinburgh 1989 [trad. it. Farisei, scribi e sadducei nella società palestinese, Brescia 2003]; G. Firpo, I Giudei, in A. Schiavone (a cura di), Storia di Roma, vol. II, 2, Torino 1991, pp. 527 sgg. (in questo volume non va dimenticato nemmeno il saggio di G. W. Bowersock, La Grecia e le province orientali, pp. 409 sgg.). Utili, da ultimo, anche B. Isaac e Y. Shahar, Judaea-Palestina, Babylon and Rome: Jews in Antiquity. Texts and Studies in Ancient Judaism, Tübingen 2012, e S. C. Mimouni, Le judaïsme ancien. Des prêtres aux rabbins, Paris 2012, pp. 415 sgg.

Sulla città di Gerusalemme in età romana, un primo quadro lo si può trovare in S. Sebag Montefiore, Jerusalem. The Biography, London 2011, rist. 2012, pp. 86 sgg. Resta essenziale J. Jeremias, Jerusalem in the Time of Jesus. An Investigation into Economic and Social Conditions during the New Testament Period, London 1969 [trad. it. Gerusalemme al tempo di Gesú. Ricerche di storia economica e sociale per il periodo neotestamentario, Roma 1989]. Da vedere anche: J. Wilkinson, Ancient Jerusalem: Its Water Supply and Population, in «Palestine Exploration Quarterly», CVI (1974), pp. 33 sgg.; M. Broshi, La population de l’ancienne Jérusalem, in «Revue Biblique», LXXXII (1975), pp. 5 sgg.; B. Lifshitz, Jérusalem sous la domination romaine. Histoire de la ville depuis la conquête de Pompée jusqu’à Constantin, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, vol. II, 8, 1977, pp. 444 sgg.

Sulla storia culturale della Giudea dall’età asmonea al I secolo, e sui rapporti con la tradizione ellenistica, due libri di cui non si può fare a meno sono M. Hengel, Judaism und Hellenism, Philadelphia 1974 [ed. or. Judentum und Hellenismus, Tübingen 1959; trad. it. Giudaismo ed ellenismo, Brescia 2001] (su cui F. Millar, The Background to the Maccabean Revolution: Reflexions on Martin Hengel’s “Judaism and Hellenism”, in «Journal of Jewish Studies», XXIX [1978], pp. 1 sgg.) e Id., The Hellenization of Judaea in the First Century after Christ, London 1989 [trad. it. L’«ellenizzazione» della Giudea nel sec. d.C., Brescia 1993] (ma di questo autore bisogna anche aver presente Id., Between Jesus and Paul, London 1983). Prezioso è sempre A. Momigliano, Alien Wisdom. The Limits of Hellenization, Cambridge 1975, specialmente pp. 97 sgg. [trad. it. Saggezza straniera. L’ellenismo e le altre culture, Torino 1980, spec. pp. 78 sgg.]. Cfr. poi: M. Simon, Les sectes juives au temps de Jésus, Paris 1960; A. N. Sherwin White, Roman Society and Roman Law in the New Testament, Oxford 1963, un libro importante; L. H. Feldman, How Much Hellenism in Jewish Palestine?, in «Hebrew Union College Annual», LVII (1986), pp. 83 sgg. e poi Id., Studies in Hellenistic Judaism, Leiden 1996; E. P. Sanders, Judaism. Practice and Belief: 63 BCE - 66 CE, London 1992 [trad. it. Il giudaismo. Fede e prassi (63 a. C. - 66 d. C.), Brescia 1999].

c. L’incontro di Pilato con Gesú.

Impossibile dar conto della bibliografia sul cosiddetto «processo di Gesú» – ma io preferisco parlare dell’«inchiesta» di Pilato su Gesú, e della sua condanna. In questo oceano di scrittura, ho sempre tenuto fermi due punti, nel corso della mia ricerca: J. Blinzler, Der Prozess Jesu, 1951; Regensburg 19603, di cui esiste una versione inglese [The Trial of Jesus, Westminster (Mass.) 1959] condotta sulla 2a edizione tedesca, mentre la traduzione italiana [Il processo di Gesú, Brescia 1966] si basa sulla 3a edizione tedesca; C. Cohn, The Trial and Death of Jesus, New-York 1971 (esiste una prima versione, in ebraico, 1968); l’edizione tedesca Der Prozess und Tod Jesus aus judischer Sicht, Berlin 1997, è invece alla base della traduzione italiana [Processo e morte di Gesú, Torino, rist. 2010]. Accanto a questi libri, considero di assoluto rilievo il lavoro di F. Millar, Reflections on the Trial of Jesus, in P. R. Davies e R. T. White (a cura di), A Tribute to Geza Vermes. Essays on Jewish and Christian Literature and History, Sheffield 1990, pp. 355 sgg. [trad. it. Riflessioni sul processo di Gesú, in Lewin (a cura di), Gli ebrei nell’impero romano cit., pp. 77 sgg.]. Altri tre lavori da mettere in prima fila sono quelli di P. Winter, On the Trial of Jesus, Berlin 1961 (su cui S. Zeitlin, The Trial of Jesus, in «The Jewish Quarterly Review», LIII [1962], pp. 78 sgg.); S. G. F. Brandon, The Trial of Jesus of Nazareth, London 1968; e soprattutto R. E. Brown, The Death of the Messiah. From Gethsemane to the Grave. A Commentary on the Passion Narratives in the Four Gospels, 2 voll., New York 1994 [trad. it. La morte del Messia. Dal Getsemani al Sepolcro. Un commentario ai Racconti della Passione nei quattro vangeli, Brescia 1999]. Un eccellente quadro d’insieme è poi quello che emerge dai primi tre capitoli di C. Freeman, A New History of Early Christianity, New Haven - London 2009 [trad. it. Il cristianesimo primitivo. Una nuova storia, Torino 2010], e da F. Amarelli e F. Lucrezi (a cura di), Il processo contro Gesú, Napoli 1999. Si dovrebbero anche tener presenti: S. Légasse, The Trial of Jesus, London 1997, e, prima, T. A. Burkill, The Trial of Jesus, in «Vigiliae Christianae», XII (1958), pp. 1 sgg.; P. W. Walaskay, The Trial and Death of Jesus in the Gospel of Luke, in «Journal of Biblical Literature», XCIV (1975), pp. 81 sgg. Restano infine sempre importanti le considerazioni di N. Sherwin-White, Roman Society and Roman Law in the New Testament, Oxford 1963, spec. pp. 24 sgg. (su cui T. A. Burkill, The Condemnation of Jesus: A Critique of Sherwin-White’s Thesis, in «Novum Testamentum», XII [1970], pp. 321 sgg.). Un libro pieno di informazioni è anche quello di W Bösen, Der letzte Tag des Jesus von Nazareth, Freiburg 1994 [trad. it. L’ultimo giorno di Gesú di Nazareth, Torino 2007, spec. pp. 108 sgg. e 233 sgg.].

Per gli aspetti teologici che emergono durante l’inchiesta di Pilato, ho avuto innanzitutto presenti i lavori di J. Assmann: Herrschaft und Heil. Politische Theologie in Altägypten, Israel, und Europa, München-Wien 2000 [trad. it. Potere e salvezza. Teologia politica nell’antico Egitto, in Israele e in Europa, Torino 2002]; e anche Id., Die Mosaische Unterscheidung oder der Preis des Monotheismus, München-Wien 2003 [trad. it. La distinzione mosaica ovvero Il prezzo del monoteismo, Milano 2011]; Id., Of God and Gods: Egypt, Israel and the Rise of Monotheism, Madison 2008 [trad. it. Dio e gli dei. Egitto, Israele e la nascita del monoteismo, Bologna 2009]; Id., Monotheismus und die Sprache der Gewalt, Wien 2006 [trad. it. Non avrai altro Dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza, Bologna 2007]; e insieme le interpretazioni di C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, München-Leipzig 1922 [trad. it. Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Id., Le categorie del «politico», Bologna 1972, pp. 61 sgg.]; Id., Politische Theologie II. Die Legende von der Erledigung jeder politischen Theologie, Berlin 1970 [trad. it. Teologia politica II, Milano 1992]; di E. Peterson, Was ist Theologie (1925), ora in Ausgewälte Schriften, vol. I: Theologische Traktate, Würzburg 1994 [trad. it. Che cos’è la teologia?, in «Bailamme», II (1987), pp. 201 sgg.]; Id., Der Monotheismus als politisches Problem (1935), ora in Ausgewälte Schriften cit. [trad. it. Il monoteismo come problema politico, Brescia 1983]; di J. Taubes, Die politische Theologie des Paulus, München 1993 [trad. it. La teologia politica di san Paolo, Milano 1997]; Id., Theology and Political Theory, in «Social Research», XXII (1955), pp. 57 sgg., ora in A. e J. Assmann, W.-D. Hartwich e W. Menninghaus (a cura di), Vom Kult zur Kultur. Bausteine zu einer Kritik der historischen Vernunft. Gesammelte Aufsätze zur Religions- und Geistesgeschichte, München 1996, pp. 255 sgg.; e di R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Torino 2013 (un libro ricco di dottrina e di idee), specialmente pp. 54 sgg. Ho anche avuto presente E. Kantorowicz, The King’s Two Bodies. A Study in Medieval Political Theology, Princeton 1957 [trad. it. I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino 1989] – un vero capolavoro. Un libro, infine, da cui c’è sempre da imparare è quello di O. Cullmann, Christ und die Zeit (1946), ed. Zürich 1962 [trad. it. Cristo e il tempo, Bologna 19673]. Altri riferimenti nelle note ai capp. III e IV.

PROLOGO

1 Storia e memoria: J. Assmann, Das kulturelle Gedächtnis. Schrift, Erinnerung und politiche Identität im frühen Hochkulturen, München 1992 [trad. it. La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Torino 1997]; Id., Moses the Egyptian. The Memory of Egypt in Western Monotheism, Cambridge (Mass.) 1997, ed. tedesca München-Wien 1998 [trad. it. Mosè l’egizio, Milano 2000].

2 «È stato autorevolmente sostenuto»: da Millar, Reflections on the Trial of Jesus (cit. a p. 157), pp. 355 sgg. [trad. it. Riflessioni sul processo di Gesú cit., pp. 77 sgg.].

CAPITOLO PRIMO In una notte del mese di Nisan

1 Cesarea: R. J. Bull, Césarée maritime, in «Revue Biblique», LXXXII (1975), pp. 278 sgg.; I. Levine, Roman Caesarea: An Archeological-Topographical Study, Jerusalem 1975.

2 «Già pronta»: Mc, 14, 15; Lc, 22, 12-13.

3 «Una tradizione»: attribuita a Epifanio, vescovo di Salamina, morto nel 403.

4 Gerusalemme: Sartre, D’Alexandre à Zénobie (cit. a p. 155), p. 312; M. Broshi, La population de l’ancienne Jérusalem, in «Revue Biblique», LXXXII (1975), pp. 5 sgg.; J. Wilkinson, Ancient Jerusalem: Its Water Supply and Population, in «Palestine Exploration Quarterly», CVI (1974), pp. 33 sgg.; Lémonon, Pilate et le gouvernement de la Judée (cit. a p. 152), pp. 117 sgg.

5 «Calcoli complicati»: J. K. Fotheringham, The Evidence of Astronomy and Technical Chronology for the Date of the Crucifixion, in «Journal of Theological Studies», XXXV (1934), pp. 146 sgg. Accetto la data accolta da Blinzler, Der Prozess Jesu (cit. a p. 157) [trad. it. Il processo di Gesú cit., pp. 85 sgg.] e da moltissimi altri da lui ricordati: Millar, Reflectionscit., pp. 355 e 380, nota 1 [trad. it. cit., p. 76, nota 1] trova convincenti gli argomenti di N. Kokkinos, Crucifixion in AD 36: the Keystone for Dating the Birth of Jesus, in J. Vardaman e E. M. Jamauchi (a cura di), Chronos, Kairos, Christos: Nativity and Chronological Studies Presented to Jack Finegan, Winona Lake 1989, p. 133, ma una datazione cosí tarda mi sembra del tutto implausibile. La data del 33 è accolta da P. L. Maier, Sejanus, Pilate and the Date of the Crucifixion (cit. a p. 154), pp. 3 sgg., con argomenti seri, ma per me non del tutto convincenti.

6 «Si moltiplicavano»: dai 125 000 ai 180 000 visitatori nell’ipotesi, che mi sembra ragionevole, di A. M. Rabello, E Gesú venne in Gerusalemme ed entrò nel Tempio, in F. Amarelli e F. Lucrezi (a cura di), Il processo contro Gesú (cit. a p. 157), p. 55. Incredibile invece la cifra che si ricaverebbe da Giuseppe, Guerra giudaica, 5, 423-26.

7 Truppe romane in Siria e Giudea: M. P. Speidel, The Roman Army in Judaea under the Procurators. The Italian and the Augustan Cohort in the Acts of the Apostles, in Id., Roman Army Studies, Stuttgart 1992, vol. II, pp. 224 sgg.; E. Dabrowa, The Commanders of Syrian Legions I-III c. AD, in D. Kennedy (a cura di), The Roman Army in the East, Ann Arbor 1996, pp. 277 sgg.; Id., Legio X Fretensis. A Prosopographical Study of its Officers, Stuttgart 1993; anche Sartre, D’Alexandre à Zénobie cit., pp. 480 sgg.

8 «“Salita” a Gerusalemme»: Gv, 11, 55; ma anche Lc, 10, 28.

9 «Festeggiatissimo»: Gv, 12, 12-28; meno espliciti Lc, 19, 29-39 e Mc, 11, 1-10; piú chiaro Mt, 21, 1-11.

10 «“I capi dei sacerdoti” [...] scrive Marco»: Mc, 11, 18.

11 «“Tutta la città domandava” [...] cosí Matteo»: Mt, 21, 10-11.

12 «“I capi dei sacerdoti” [...] leggiamo ancora in Luca»: Lc, 20, 19. Cfr. anche Lc, 19, 47-48: «Ma i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano di farlo morire, e cosí pure i capi del popolo. Ma non trovavano come fare, perché tutto il popolo pendeva dalle sue labbra».

13 «“Glorificazione”, come dice Giovanni»: Gv, 17, 1; cfr. anche 13, 31: il verbo è doxazo.

14 «Ecco, l’ora»: Gv, 16, 32. Sui dubbi di Gesú considero insuperabile l’analisi di M. Brelich, L’opera del tradimento (cit. a p. 153).

15 «Un tiro di sasso»: Lc, 22, 41.

16 «Dallo sgomento e dall’angoscia»: Mc, 14, 33, ekthambeisthai kai ademonein.

17 «L’anima mia è triste da morire»: Mt, 26, 38.

18 «Il suo sudore»: Lc, 22, 44.

19 «Padre, se tu vuoi»: Lc, 22, 42 = Mt, 26, 39 = Mc, 14, 36.

20 «Molto discussa dagli storici»: la nega per esempio Blinzler, Il processo di Gesú cit., pp. 77 sgg.; ne fa invece il centro della sua ricostruzione C. Cohn, The Trial and Death of Jesus (cit. a p. 157), pp. 71 sgg. [trad. it. Processo e morte di Gesú cit., pp. 101 sgg.]. Sembra ammettere la presenza dei Romani Millar, Reflections cit., p. 370 [trad. it. cit., p. 89].

21 «Una frase ambigua di Giovanni»: Gv, 18, 12: «La coorte, il tribuno e le guardie dei giudei presero dunque Gesú e lo legarono». La presenza romana era stata riferita in Gv, 18, 3.

22 «Come pure è stato sostenuto»: per esempio da Cohn, The Trial and Death of Jesus cit. pp. 86 sgg. [trad. it. cit., pp. 117 sgg.].

23 «L’idea estrema»: sempre di Cohn, ibid., pp. 89 sgg. [trad. it. cit., pp. 121 sgg.].

24 «Secondo la versione»: Mc, 14, 10-11 e 18-20; 43-45; Mt, 26, 21-23 e 46-50; 27, 3-5; Lc, 22, 3-6, 21 e 47-48; Gv, 13, 2-3 (ma c’è una difficoltà nel testo); 21, 27-29; 18, 2-5. In Mc, 14, 43, in Mt, 26, 47 e in Lc, 22, 47 si fa riferimento a una «folla» presente sul posto (ochlosin tutti e tre i casi) ma è evidente che non c’erano altri se non la guardia del Tempio e i soldati romani. Ritornerò piú avanti sull’uso di questa parola nei Sinottici, a proposito della condanna di Gesú: cfr. infra, note al cap. IV (p. 171).

25 «Si sarebbe dunque recato»: Mc, 14, 10-11.

26 «Quel che stai per fare»: Gv, 13, 27.

27 «Nel racconto di Giovanni»: Gv, 18, 4-9.

28 «Il servo del sommo sacerdote»: Gv, 18, 10.

29 «Luca non spiega»: Lc, 22, 49-51, dove non è indicato l’autore del gesto.

30 «Invece, in Matteo e in Giovanni»: Mt, 26, 51-52 (anche qui senza indicazione del nome); Gv, 18, 10-11 (anche con il nome del servo colpito: Malco).

31 «Siete venuti»: Lc, 22, 52 = Mt, 26, 55 = Mc, 14, 48.

32 «La soluzione migliore»: Gv, 18, 13.

33 «Giuseppe»Antichità giudaiche, 20, 198; cfr. anche 18, 27 e 34.

34 «La sua casa»: H. K. Bond, Caiphas (cit. a p. 153), pp. 154 sgg.

35 «Nel XVII secolo»: D. R. Catchpole, The Trial of Jesus. A Study in the Gospel and Jewish Historiography from 1770 to the Present Day, Leiden 1971. Un libro essenziale è A. Balthasar von Walther, Juristisch-historische Betrachtungen über das Leyden und Sterben Jesu Christi. Darinnen Die merckwürdigsten von den vier Evangleistein beschriebne Umstände dieser Geschichte. Aus den Römischen wie auch Jüdischen Rechten und Alterthümern erläutet werden, Breslau-Leipzig-Pietsch 1738.

36 «Ricordato anch’egli da Flavio Giuseppe»Antichità giudaiche, 18, 35 e 95.

37 «Come ricorda Giovanni»: Gv, 11, 47-53.

38 «Secondo la descrizione di Giuseppe»: cfr. H. Mantel, Studies in the History of the Sanhedrin, Cambridge (Mass.) 1965.

39 «Nel resoconto di Giovanni»: Gv, 18, 13-27.

40 «In Luca [...] interrogatorio»: Lc, 22, 66-71.

41 «In Matteo [...] interrogatorio»: Mt, 26, 59-68; 27, 1-2.

42 «La versione isolata di Marco»: Mc, 14, 53-65.

43 «Di un interrogatorio [...] racconta solo Giovanni»: Gv, 18, 13-14; 19-24.

44 «Gesú risponde»: Gv, 18, 20-21.

45 «Cosí rispondi…»: Gv, 18, 22.

46 «Se ho parlato»: Gv, 18, 23.

47 «Il racconto di Luca»: Lc, 22, 67-70.

48 «Che bisogno abbiamo…?»: Lc, 22, 71.

49 «“Molti”, polloi»: Mc, 14, 56.

50 «Da ultimo se ne presentarono due»: Mt, 26, 60.

51 «Ti scongiuro…»: Mt, 26, 63-66.

52 BulgakovIl Maestro e Margherita, pp. 18 sgg.

CAPITOLO SECONDO La Giudea romana e il lavoro del quinto prefetto

1 «Si trovava in Giudea dal 26»: non convincono datazioni diverse, per esempio quella del 19. Ha ragione H. K. Bond, Pontius Pilate in History and Interpretation (cit. a p. 152), p. 1, nota 1 [trad. it. Ponzio Pilato. Storia e interpretazione cit., p. 25, nota 1].

2 «Di origini sannite»: E. T. Salmon, Samnium and the Samnites, Cambridge 1967, p. 121; Lémonon, Ponce Pilate (cit. a p. 152), pp. 744 sgg.; R. Scopacasa, Ancient Samnium. Settlement, Culture and Identity between History and Archeology, Oxford 2015, pp. 50, 136 sgg., 211 sgg. e 289.

3 «Epigrafi risalenti»: A. Degrassi, Inscriptiones Latinae liberae rei publicae, 2 voll., Firenze 1965, per esempio nn. 231, 515, 524, 772, 775, 943. Cfr. anche R. Syme, Personal Names in ‘Annales’ I-VI, in Id., Ten Studies in Tacitus, Oxford 1970, p. 71.

4 «Concordia ordinum»: Cicerone, Pro Cluentio, 55, 152; De coniuratione Catilinae, 4, 15; Ad Atticum, 1, 17, 10; 1, 17, 8; 1, 18, 3; 2, 3, 4; H. Strasburger, Concordia ordinum, Leipzig 1931, pp. 12 sgg. e 31 sgg. è un classico.

5 «L’amministrazione delle province»: tre libri molto diversi, che costituiscono insieme un ottimo punto di partenza, sono F. De Martino, Storia della costituzione romana, vol. IV, 2, Napoli 19752; F. Millar, The Emperor in the Roman World (31 BC - AD 337), Ithaca (New York) 1977, rist. 1992; G. W. Bowersock, Augustus and the Greek World, Oxford 1966.

6 «Strabone»Geografia, 17, 3, 25, pp. 839-40 C.

7 «Come riporta [...] Giuseppe»Antichità giudaiche, 18, 31-35.

8 «Tacito ce ne parla»Annales, 2, 85, 4. Anche Filone, Legatio ad Gaium, 160; Giuseppe, Antichità giudaiche, 18, 83-84; Svetonio, Vita Tiberi, 36.

9 «Filone sembra crederlo»Legatio ad Gaium, 159-60.

10 «Diviso gli studiosi»: ne parla già A. Momigliano, Ricerche sull’organizzazione della Giudea sotto il dominio romano (cit. a p. 155), p. 77.

11 «Una tarda testimonianza di Ulpiano»: 15 ad edictum, in Digesta, 1, 17, 1; O. Licandro, La prefettura d’Egitto fra conservazione e innovazione istituzionale, in Studi per Giovanni Nicosia, vol. IV, Milano 2007, pp. 387 sgg.

12 «Giuseppe»Antichità giudaiche, 18, 2: te epi pasin ekousiaGuerra giudaica, 2, 117. Va tenuto presente in modo particolare, anche per quanto diremo in seguito, B. Santalucia, «Lo portarono via e lo consegnarono al governatore Ponzio Pilato» (Matth., 27, 2): la giurisdizione del prefetto di Giudea, in Amarelli e Lucrezi (a cura di), Il processo contro Gesú cit., pp. 87 sgg.; Id., Diritto e processo penale nell’antica Roma, Napoli 19982, pp. 183 sgg. Utile anche C. Giachi, Un brano della traduzione russa del «Bellum Judaicum» di Flavio Giuseppe e i rapporti tra il sinedrio e il governatore romano nel I secolo, in D. Mantovani e L. Pellecchi (a cura di), Eparcheia, autonomia e civitas Romana. Studi sulla giurisdizione criminale dei governatori di provincia (II sec. a.C. - II d.C.), Pavia 2010, pp. 89 sgg. Cfr. anche infra, p. 167.

13 «Orazio»Carmina, 3, 4, 65.

14 «Ulpiano»: 7 de officio proconsulis, in Digesta, 1, 18, 13 pr. Cfr. D. Mantovani, Il «bonus praeses» secondo Ulpiano, in «Bullettino dell’Istituto di diritto romano Vittorio Scialoja», 96-97 (1993-94), pp. 203 sgg.

15 «Riportato da Gellio»Noctes Atticae, 16, 13, 4. Cfr. F. Grelle, L’autonomia cittadina fra Traiano e Adriano, Napoli 1972, pp. 65 sgg. Ma cfr. anche i rilievi di M. Talamanca, Aulo Gellio ed i ‘municipes’. Per un’esegesi di Noctes Atticae, 16, 13, in L. Capogrossi-Colognesi ed E. Gabba (a cura di), Gli statuti municipali, Pavia 2006, pp. 443 sgg.

16 «All’epoca di Cicerone»: penso a Cicerone, Ad Quintum fratrem, 1, 1, 27-28; A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino 2005, pp. 257 sgg.

17 Posidonio: A. Momigliano, Alien Wisdom. The Limits of Hellenization, Cambridge 1975, pp. 22 sgg., spec. pp. 32 sgg. [trad. it. Saggezza straniera. L’ellenismo e le altre culture, Torino 1980, pp. 25 sgg.].

18 «Immaginata e ricordata»: la mia ricostruzione tiene conto di M. Liverani, Oltre la Bibbia (cit. a p. 155), spec. pp. VIII sgg., 223 sgg., 273 sgg. e, naturalmente, di J. Assmann, Herrschaft und Heil (cit. a p. 157) [trad. it. Potere e salvezza cit., pp. 40 sgg. e 186 sg.]; Id., Die Mosaische Unterscheidungoder der Preis des Monotheismus (cit. a p. 157) [trad. it. La distinzione mosaica ovvero Il prezzo del monoteismo cit., pp. 13 sgg. e 47 sgg.]; Id., Of God and Gods (cit. a p. 157) [trad. it. Dio e gli dei. Egitto, Israele e la nascita del monoteismo cit., pp. 17 sgg. e 111 sgg.]. Il concetto di «età assiale» (Achsenzeit), che qui presuppongo, si deve a K. Jaspers, Vom Ursprung und Ziel der Geschichte, Zurich-München 1949 [trad. it. Origine e senso della storia, Milano 1965, pp. 19 sgg.].

19 «Molte importanti ricerche»: penso soprattutto al lavoro di Hengel, Judaism and Hellenism (cit. a p. 156) [trad. it. Giudaismo ed ellenismo cit.].

20 «Saggezza straniera»: è il titolo del libro di Momigliano già citato.

21 «Scrive Giuseppe»Antichità giudaiche, 14, 77-78.

22 «Nei “Salmi di Salomone”»: 2, 26-27. I Salmi sono un apocrifo dell’Antico Testamento, composti probabilmente alla fine del I secolo a. C.: il loro greco induce a ipotizzare un originale ebraico; cito dall’ed. Holm-Nielsen, Die Psalmen Salomos, Güterlosh 1977 [trad. it. in E. Sacchi (a cura di), Apocrifi dell’Antico Testamento, vol. II, Novara 2013, pp. 41 sgg.].

23 «Secondo Giuseppe»Guerra giudaica, 2, 119-66; Antichità giudaiche, 18, 11-25.

24 «Come diceva Giuseppe»Antichità giudaiche, 18, 2; cfr. anche Guerra giudaica, 2, 119.

25 «Secondo Giuseppe, un modo di condursi»Guerra giudaica, 18, 166.

26 «Scrive Luca»: Lc, 11, 39 (è Gesú che parla).

27 «Essi respingono…»: Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, 2, 120 e 122.

28 La setta di Qumran: G. Vermes, The Dead Sea Scolls: Qumran in Perspective, Cleveland 1978; F. García Martinez, The Dead Sea Scrolls Translated. The Qumran Texts in English, Leiden - New York - Köln 1994 (la versione che ho tenuto presente).

29 «Una letteratura di combattimento»: cosí Sartre, D’Alexandre à Zénobie cit. pp. 367 sgg.

30 «Un oscuro enunciato di Daniele»: Dn, 7, 13: S. C. Mimouni, Le judaïsme ancien (cit. a p. 156), p. 637.

31 «Giuseppe chiama prudentemente»Antichità giudaiche, 18, 23-24. Un efficace quadro d’insieme, sin troppo suggestivo, in R. Aslan, Zealot. The Life and Time of Jesus of Nazareth, New York 2013, pp. 34 sgg. [trad. it. Gesú il ribelle, Milano 2013, pp. 63 sgg.]. Cfr. anche M. Hengel, Die Zeloten, Tübingen 1989, 20122 [trad it. Gli zeloti, Brescia 1996].

32 «Giuseppe parla di un “ardentissimo amore per la libertà”»Antichità giudaiche, 18, 23.

33 «Un’iscrizione»: alle indicazioni date in Fonti e storiografia (supra, p. 151)bisogna aggiungere Lémonon, Pilate cit., pp. 15 sgg. e Bond, Pontius Pilate cit., pp. 11 sgg. [trad. it. cit., pp. 38 sgg.].

34 «Un’ipotesi, prospettata di recente»: G. Alföldy, L’iscrizione di Ponzio Pilato: una discussione senza fine?, in G. Urso (a cura di), Iudaea Socia – Iudaea Capta, Pisa 2012, pp. 137 sgg., e prima cfr. Id., Pontius Pilate und das Tibereium von Caesarea Maritima, in «Scripta Classica Israelitica», XVIII (1999), pp. 85 sgg.

35 «Dovuto a Filone»Legatio ad Gaium, 299-305.

36 «Drammaticamente negativa»ibid., 301-2.

37 «Nel 41»: cfr. le indicazioni in Fonti e storiografia(p. 151), e le note al cap. V (p. 173).

38 «Lo dobbiamo invece a Giuseppe»Guerra giudaica, 2, 169-74; Antichità giudaiche, 18, 55-59. Cfr. anche E. R. Goodenough, Jewish Symbols in the Greco-Roman Period, vol. IV, New-York 1954, pp. 11 sgg.

39 «Non confezionerai…»: Es, 20, 4.

40 «Una moltitudine»: Giuseppe, Antichità giudaiche, 18, 57 (kata plethyn).

41 «Giuseppe ci restituisce»Guerra giudaica, 2, 175-77; Antichità giudaiche, 18, 60-62.

42 «Si lascia intravedere»Antichità giudaiche, 18, 62.

43 «Giuseppe accenna»Antichità giudaiche, 18, 63, e si tenga anche presente 20, 200, meno noto e discusso.

44 «Critica cinquecentesca»: Giuseppe Giusto Scaligero e la filologia luterana a lui contemporanea (Hubert van Giffen e Lucas Osiander); Schürer, A History of the Jewish People, vol. I (cit. a p. 152) [trad. it. La storia del popolo giudaico al tempo di Gesú Cristo, vol. I cit., pp. 524 sgg., spec. 529 sgg. e 538 sgg. Cfr. anche l’edizione Loeb di Giuseppe (cit. a p. 149), vol. XII, pp. 48 sg., note a e b; R. Eisler e A. Hogarthy, The Messiah Jesus and John Baptist according to Flavius Josephus’s Recently Discovered ‘Capture of Jerusalem’ and Other Jewish and Christian Sources, New York 1931, pp. 36 sgg.

45 «Svilupparsi cosí»: accolgo in sostanza la proposta di restituzione di Bond, Caiphas cit., p. 61 (e di altri), non lontana a sua volta da quella di A. Pelletier, L’originalité du témoignage de Flavius Josèphe sur Jésus, in «Recherches de Science Religieuse», LII (1964), pp. 177 sgg. Cfr. anche G. F. Brandon, Jesus and the Zealots. A Study of the Political Factor in Primitive Christianity, London 1967, pp. 121 sgg.

46 «Anche Tacito»Annales, 15, 44, 3. Cfr. H. Fuchs, Tacitus über die Christen, in «Vigiliae Christianae», IV (1950), pp. 65 sgg., su cui A. Kurfess, Tacitus über die Christen, ivi, V (1951), pp. 148 sgg.

47 «Aveva con lui una fonte in comune»: l’accuratezza dell’informazione di Tacito sulla tradizione giudaica – R. Syme, Tacitus, Oxford 19632, vol. II, pp. 467 sgg. [trad. it. Tacito, vol. II, Brescia 1971, pp. 622 sgg.] – rende l’ipotesi ben plausibile.

CAPITOLO TERZO Dio e Cesare

1 «Da storici importanti»: la formulazione classica dell’alternativa è in A. Schweitzer, Geschichte der Leben-Jesu-Forschung, Tübingen 1906 [trad. it. Storia della ricerca sulla vita di Gesú, Brescia 1986, p. 326], sostanzialmente ripresa da Millar, Reflections cit., pp. 355 e 359 [trad. it. cit., pp. 77 e 81].

2 «Preferibile la versione di Giovanni»: Gv, 18, 28 - 19, 16a. È opinione consolidata che il quarto Vangelo si componga di due parti distinte, il racconto della vita pubblica di Gesú (1-12) e quello della Passione (13-20).

3 «Che Giovanni chiama “praetorion”»: Gv, 18, 28.

4 «Per non contaminarsi»: Gv, 18, 28.

5 «Repressione criminale romana»: instradano nella giusta direzione i lavori di Santalucia cit. (supra, p. 164), dove è indicata ulteriore bibliografia, cui si può aggiungere Id., «Praeses provideat». Il governatore provinciale fra «iudicia publica» e «cognitiones extra ordinem», in Mantovani e Pellecchi, Eparcheia, autonomia e civitas Romana cit., pp. 69 sgg., spec. p. 83; A. Bellodi Ansalone, Riflessioni sulla condotta processuale di Gesú davanti a Pilato, in Studi per Giovanni Nicosia, vol. I, Milano 2007, pp. 443 sgg. Sempre utile, poi, il vecchio libro di R. W. Husband, The Prosecution of Jesus: Its Date, History and Legality, Princeton 1916 (su cui G. A. Barton, On the Trial of Jesus before the Sanhedrin, in «Journal of Biblical Literature», XLI [1922], pp. 205 sgg.). Ancora, per quanto riguarda gli studi degli storici del diritto romano sul tema, si deve tener presente l’insieme dei saggi raccolto nel volume a cura di Amarelli e Lucrezi, Il processo cit., e anche gli scritti di M. Miglietta, I.N.R.I. Studi e riflessioni intorno al processo a Gesú, Napoli 2011. Un lavoro da non dimenticare è infine quello di P. De Francisci, Brevi riflessioni intorno al processo di Gesú, in Studi in onore di Giuseppe Grosso, vol. I, Torino 1968, pp. 4 sgg.

6 «Quali accuse…»: Gv, 18, 29.

7 «Se non fosse un malfattore»: Gv, 18, 30.

8 «Abbiamo trovato»: Lc, 23, 2.

9 «Prendetelo <allora> voi»: Gv, 18, 31.

10 «A noi non è lecito»: Gv, 18, 31. Cohn, Trial cit., pp. 147 sgg. [trad. it. cit., pp. 187 sgg.].

11 «Tu non ucciderai»: Es, 20, 13.

12 «Lex Iulia maiestatis»: R. A. Bauman, The Crimen Maiestatis in the Roman Republic and Augustan Principate, Johannesburg 1970, rimane un lavoro importante. Anche C. Venturini, La giurisdizione criminale in Italia e nelle province nel primo secolo, in Amarelli e Lucrezi, Il processo cit., pp. 1 sgg.

13 «Sei tu il re dei giudei?»: Gv, 28, 33.

14 «Padrone del mondo»: come avrebbe detto di se stesso, circa un secolo e mezzo dopo, Antonino Pio: ego men tou kosmou kyrios, attraverso la testimonianza di Volusio Meciano, ex <de> lege Rhodia, in Digesta, 14, 2, 9.

15 «Dici questo da te…»: Gv, 18, 34.

16 «Sono forse un giudeo?»: Gv, 18, 35.

17 «Che cosa hai fatto?»ibid.

18 «Gesú rispose»: Gv, 18, 36.

19 «Il mio regno…»ibid.

20 «Come è stato detto»: da Assmann, Herrschaft und Heil cit. [trad. it. cit., p. 3 sgg.].

21 «Dio stesso...»ibid. [trad. it. cit., pp. 40 sgg., 247 sgg].; Monotheismus cit. [trad. it. cit., pp. 25 sgg.].

22 «Inventata da Giuseppe»: Contra Apionem, 2, 16 (ed. Naber, vol. VI). In verità, il suo è solo il primo uso testimoniato della parola; che l’abbia anche inventata è una congettura.

23 «La “teopolitica”»: la definizione (Theopolitik) è di M. Buber, Das Königtum Gottes (1932), in Id., Werke, vol. II: Schriften zur Bibel, München-Heidelberg 1964, pp. 485 sgg., spec. pp. 689 sgg. [trad. it. La regalità di Dio, Genova 1989, pp. 49 sgg.].

24 «Questo trasforma l’Uno»: quanto sto dicendo presuppone un importante libro di R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Torino 2013, spec. pp. 25 sgg., 61 sgg. e 82 sgg. La sua interpretazione sviluppa in modo acuto e innovativo un tema hegeliano: Vorlesung über die Philosophie der Geschichte, in Id., Werke (1832-45), a cura di E. Moldenhauer e K. M. Michel, Frankfurt am Main 1972 [trad. it. Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di G. Calogero e C. Fatta (sull’ed. Lasson), vol. III, Firenze 1963, pp. 54 sgg., 108 sgg., 161 sgg.] e cfr. anche, sempre di Hegel, la Religionphilosophie, vol. I: Die Vorlesung von 1821, a cura di K. H. Ilting, Napoli 1978, pp. 209 sgg., 525 sgg.

25 «Il concetto di “teologia politica”»: Schiavone, Iuscit., pp. 198 sgg.

26 «Sostenuto con autorevolezza»: da Assmann, Herrschaft und Heil cit. [trad. it. cit., p. 16].

27 «Punto archimedico»ibid., p. 22.

28 «Quel che è di Cesare»: Mc, 12, 13-17; Mt, 22, 15-22; Lc, 20, 20-26. Sulla struttura del testo di Marco (che ha fatto da modello per gli altri), W. A. Meeks, The Origins of Christian Morality. The First Two Centuries, New Haven - London 1993, pp. 74 sg.

29 «Una lettura […] già proposta»: è giusta l’interpretazione di M. Cacciari, Il potere che frena, Milano 2013, pp. 54 sgg., dove è possibile trovare altri riferimenti. Da tener presente O. Cullmann, Der Staat im Neuen Testament, Tübingen 1956 [trad. it. Lo stato nel Nuovo Testamento, Milano 1957].

30 «Vi figuri per ragioni essenziali»: C. Schmitt, Drei Möglichkeiten eines christlichen Geschichtbildes, apparso, ma con un altro titolo (Drei Stufen historischer Sinngeburg), in «Universitas», VIII (1950), pp. 927 sgg. [trad. it. Tre possibilità di una immagine cristiana della storia, in Id., Un giurista davanti a se stesso. Saggi e interviste, a cura di G. Agamben, Vicenza 20122, pp. 249 sgg. (la nostra cit. è a p. 253)]; Schmitt riferisce la sua osservazione al «Credo» cristiano, (ne diremo infra, cap. V); ma il contesto in cui viene proposta ne dilata chiaramente la portata: è la stessa presenza di Pilato nella storia della Passione che appare essenziale per l’autore.

31 «Se […] allora i miei sottoposti»: Gv, 18, 36.

32 «Quanto a quel giorno»: Mt, 24, 36.

33 «Nella Seconda lettera ai Tessalonicesi»: Paolo, 2Ts, 2, 5-7 (ed. Merk).

34 «Per opposizione»: la mia interpretazione presuppone Cacciari, Il potere che frena cit., spec. pp. 22 sgg. ed Esposito, Due cit., pp. 83 sgg. Cfr. anche M. Cacciari e R. Esposito, Dialogo sulla teologia politica, in «Micromega», II (2014), pp. 3 sgg. Diversa (e, a mio avviso, non condivisibile) l’interpretazione di O. Cullmann, Christus und die Zeit, Zürich 19623 [trad. it. Cristo e il tempo, Bologna 1965, pp. 197 sgg.].

35 «Dunque tu sei re?»: Gv, 18, 37.

36 «Tu dici che sono re»ibid.

37 «Tacito»Annales, 15, 44, 3: «exitiabilis superstitio».

38 «Non senti quante cose…»: Mt, 27, 13.

39 «È interrogato…»Hermeneumata di Sponheim (ed. Dionisotti), 11, 73-77: «Reus sistitur latro, interrogatur secundum merita; torquetur…»

40 «Che cosa è verità?»: Gv, 18, 38. Vanno considerate le pagine di O. Spengler, Der Untergang des Abendlandes, München 1923 [trad. it. Il tramonto dell’Occidente, Parma 1978, pp. 967 sgg. e 1175 sg.], su cui G. Agamben, Pilato e Gesú, Roma 2013, pp. 24 sg. Cfr. anche, in una prospettiva completamente diversa, M. Miglietta, «Est vir qui adest», in C. Cascione e C. Masi, «Quid est veritas?» Un seminario su verità e forme giuridiche, Napoli 2013, pp. 277 sgg.

41 «Nietzsche»Der Antichrist. Fluch auf das Christentum (1895) (ed. Schlechta, 1956) [trad. it. L’Anticristo. Maledizione del Cristianesimo, in Opere(ed. Colli-Montanari), vol. VI, 3, Milano 1970: io cito da un’edizione ricavata da questo volume, che contiene solo il nostro testo, Milano 2011, p. 65].

42 «Aveva detto: “Io sono la via...”»: Gv, 14, 5-7.

43 «Vi do un comandamento nuovo»: Gv, 13, 34; 15, 12 e 17.

44 «Il mistero dell’“anomia”»: Paolo, 2Ts, 2, 6: to gar mysterion […] tes anomias.

45 «Gesú [...] aggiunse ancora qualcosa»: Gv, 15, 13.

46 «In Marco e in Matteo»: Mc, 15, 5; Mt, 27, 14.

47 «Non ci sia nulla…»: Mt, 27, 19. Cfr. Lémonon, Pilate cit., p. 267, nota 99 e p. 182 (con affermazioni non concordanti).

48 «È chiamata Procla»: cfr. infra note cap. V, p. 174.

49 «In Giuseppe»: cfr. Antichità giudaiche, 18, 81-83.

50 «Nel Vangelo apocrifo di Nicodemo»: in 2, 1.

51 «Dal solo Luca»: Lc, 23, 6-12; J. B. Tyson, The Lukan Version of the Trial of Jesus, in «Novum Testamentum», III (1959), pp. 249 sgg. è un lavoro ancora utile; cfr. anche Id., Jesus and Herod Antipas, in «Journal of Biblical Literature», LXXIX (1960), pp. 239 sgg.; H. W. Hoehner, Herod Antipas, Cambridge - New York 1972, per quanto non sempre attendibile. L’idea che si tratti di un’invenzione era già in M. Dibelius, Herodes und Pilatus, in «Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft und die Kunde des Urchristentums», XVI (1915), pp. 113 sgg., seguito da T. A. Burkill, The Condemnation of Jesus. A Critique of Sherwin-White’s Thesis, in «Novum Testamentum», XII (1970), pp. 321 sgg., e da Bond, Pontius Pilate cit., p. 149 [trad. it. cit., p. 207].

52 «Erode e Pilato divennero amici…»: Lc, 23, 12; cfr. anche infra, note al cap. V, p. 173.

CAPITOLO QUARTO Il destino del prigioniero

1 «Io non trovo in lui alcun motivo»: Gv, 18, 38.

2 «Mi avete portato»: Lc, 23, 13-14.

3 «Convocati i capi dei sacerdoti»: Lc, 23, 13.

4 «Anche i Sinottici – e non solo Giovanni»: Mc, 15, 6-15; Mt, 27, 15-23; Lc, 23, 18-19 (con un racconto un po’ sconnesso, perché evidentemente si sta ricongiungendo in modo brusco alla versione di Marco, prima abbandonata per riferire dell’episodio di Erode); Gv, 18, 39-40.

5 «L’ipotesi piú attendibile»: Momigliano, Ricerchecit., p. 79.

6 «Una traccia […] in Matteo»: Mt, 27, 17.

7 «La folla»: Mt, 27, 15, to ochlo.

8 «Quello che volevano»ibid.: on ethelon.

9 «Famoso»: Mt, 27, 16. Cfr. R. A. Horsley e J. S. Hanson, Bandits, Prophets, and Messiahs: Popular Movements at the Time of Jesus, Minneapolis - Chicago - New York 1985.

10 «Marco e Luca»: Mc, 15, 7; Lc, 23, 19.

11 «Solo per Giovanni»: Gv, 18, 40.

12 «Sebbene non si possa escludere»: Goodman, The Ruling Class cit. [trad. it. Iudea Capta cit., p. 308]. Cfr. anche Acta Apostolorum, 22, 30 - 23, 22.

13 «Hans Kelsen»Vom Wesen und Wert der Demokratie (1920), Tübingen 1929 [trad. it. Essenza e valore della democrazia, in Id., La democrazia, Bologna 19845, pp. 143 sg.]; Id., Staatsform und Weltanschauung, Tübingen 1933 [trad. it. Forme di governo e concezioni del mondo, in Id., Il primato del Parlamento, Milano 1982, pp. 39 sgg.]; Id., Absolutism and Relativism in Philosophy and Politics, in «The American Political Science Review», XLII (1948), pp. 906 sgg. [trad. it. Assolutismo e relativismo nella filosofia e nella politica, in Id., La democrazia cit., pp. 452 sg.]; Id., Foundations of Democracy, in «Ethics», LXVI (1955-1956), pp. 1 sgg. [trad. it. I fondamenti della democraziaibid., pp. 264 sgg.]. In Italia questi testi sono stati al centro di un dibattito recente, alimentato soprattutto dagli interventi di G. Zagrebelsky, Il ‘crucifige’ e la democrazia (1995), Torino 20072, e La democrazia di Barabba, in «Micromega», 1995, n. 1, pp. 17 sgg.

14 «Quasi metafisico»: ho sviluppato altrove questo punto: cfr. A. Schiavone, Non ti delego. Perché abbiamo smesso di credere nella loro politica, Milano 2013, pp. 29 sgg.; Id., Crise de la réprésentation et démocratie en Europe, in «Incidence», X (2014), pp. 57 sgg.; Id., Political Theory of Democracy from an Italian Perspective, in S. Grundmann e J. Thiessen (a cura di), Recht und Sozialtheorie im Rechtsvergleich / Law in the Context of Disciplines, Tübingen 2015, pp. 69 sgg.

15 «In un breve spazio di testo»: Gv, 18, 31; 36; 38; 19, 7; 14.

16 «Una prima volta»: Gv, 19, 6.

17 «E una seconda»: Gv, 19, 15.

18 «In Luca»: 23, 1.

19 «Si racconta poi»: Lc, 23, 4. Non dimentichiamo che Luca ha usato la stessa parola – ochlos – anche a proposito del drappello di guardie del Tempio che avevano arrestato la sera prima Gesú: è molto probabile che stia ripetendo adesso il medesimo termine per indicare piú o meno una eguale quantità di uomini.

20 «Si dice infine»: Lc, 23, 13.

21 «In Matteo»: 27, 20.

22 «In Marco»: 15, 11. Anche in Matteo, come in Marco, la parola è sempre ochlos: la stessa che entrambi avevano usato, come Luca, per indicare i partecipanti all’arresto di Gesú. Possiamo dedurne che tutti stessero riprendendo da Marco, per entrambi gli episodi – quello dell’arresto e quello di Barabba – e che dunque il testo di Marco abbia dato per primo a quella parola un’impronta semantica quanto meno ambigua, nel cui spettro vi era certo la possibilità di indicare gruppi anche esigui, purché i loro componenti non fossero singolarmente individuabili.

23 «È stato suggerito»: cfr. anche Cohn, Trial cit., pp. 148 sg. [trad. it. cit., p. 189].

24 «Una rapida frase di Marco»: Mc, 15, 8: «e la folla, salita, cominciò a chiedere che facesse loro come al solito», cioè che Pilato rilasciasse un prigioniero.

25 «Evidenti spinte antiromane»: Goodman, The Ruling Class cit. [trad. it. Iudea Capta cit., pp. 308 sgg.]; Aslan, Zealot cit., pp. 41 sgg., 51 sg., 76 sgg. [trad. it. Gesù il ribelle cit., pp. 69 sgg., 80 sgg. e 104 sgg.].

26 «Nel racconto di Luca»: Lc, 23, 13; 20; 22.

27 «Che segue [...] Marco e Matteo»: Mc, 15, 9-15; Mt, 27, 17-23.

28 «Pilato [...] “presa dell’acqua”»: Mt, 27, 24-25.

29 «Non si può credere»: non prova nulla Didascalia apostolorum, 2, 52, 1-2 (ed. F. Funk, Paderborn 1905, pp. 148-51), perché riflette una tradizione piú tarda, che non comprende peraltro la lavanda delle mani. Cfr. L. Loschiavo, Tra legge mosaica e diritto romano, in D. Maffei (a cura di), A Ennio Cortese, vol. II, Roma 2001, pp. 269 sgg., spec. p. 272.

30 «Vangelo di Pietro»: in 1, 1.

31 «Da “tutto il popolo”»: Mt, 27, 25.

32 «L’aveva appena descritta Matteo»: Mt, 27, 24.

33 «Per Luca»: Lc, 23, 16.

34 «Nel racconto di Giovanni»: Gv, 19, 1-4.

35 «In Marco e Matteo»: Mc, 15, 15; Mt, 27, 26.

36 «Fantasia di Caravaggio»: il quadro cui mi riferisco è a Napoli, nel Museo di Capodimonte.

37 «Salve, re dei giudei»: Gv, 19, 3.

38 «In Marco e Matteo»: Mc, 15, 18; Mt, 27, 29.

39 «Ve lo porto fuori»: Gv, 19, 4.

40 «Ecco l’uomo»: Gv, 19, 5.

41 «Come racconta Giovanni»: Gv, 19, 4.

42 «Crocifiggilo»: Gv, 19, 6. Cosí anche i Sinottici: Mc, 15, 13-14; Mt, 27, 22-23; Lc, 23, 21.

43 «Prendetelo voi»: Gv, 19, 6.

44 «Noi abbiamo una legge»: Gv, 19, 7.

45 «Racconta Giovanni»: Gv, 19, 8.

46 «Sia Marco, sia Matteo»: Mc, 15, 5; Mt, 27, 14.

47 «Uomini divini»: L. Cracco Ruggini, Imperatori e uomini divini (I-VI secolo), in Id. (a cura di), Governanti e intellettuali. Popolo di Roma e popolo di Dio (I-VI secolo), Torino 1982, pp. 9 sgg.

48 «Di dove sei?»: Gv, 19, 9.

49 «Non gli rispose»ibid.

50 «Non mi parli?»: Gv, 19, 10.

51 «Non avresti alcun potere»: Gv, 19, 11.

52 «L’intero squarcio»: Gv, 19, 12-16a.

53 «Cercava di rilasciarlo»: Gv, 19, 12, ezetei apolysai auton.

54 «Se rilasci costui»ibid.

55 «Amico di Cesare»: Millar, The Emperor cit., pp. 110 sgg.

56 «Di cui ci informa Filone»Legatio ad Gaium, 160; cfr. anche note al cap. II (p. 164); per la datazione di questa politica agli anni fra il 28 e il 31, cfr. Lémonon, Pilate cit., p. 223, che mi sembra da accogliere.

57 «Cristiano “nel cuore”»: cfr. note al cap. (p. 173).

58 «Siede in giudizio»: Gv, 19, 13.

59 «Ecco il vostro re»: Gv, 19, 14.

60 «A morte, a morte!»: Gv, 19, 15, aron aron.

61 «Pilato risponde»ibid.

62 «Un punto interrogativo»… stauposo.

63 «Né si può ipotizzare»: è l’idea prospettata da J. Colin, Les villes libres de l’Orient gréco-romain et l’envoi au supplice par acclamations populaires, Bruxelles-Berchem 1965, pp. 9 sgg.

64 «Questi replicano»: Gv, 19, 15.

65 «Racconta poi Giovanni»: Gv, 19, 16a.

66 «I soldati»: Gv, 19, 23.

67 «Gesú il Nazareno»: Gv, 19, 18.

68 «I capi dei sacerdoti»: Gv, 19, 21.

69 «Quel che ho scritto…»: Gv, 19, 22. Cfr. anche Apuleio, Florida, 9, 11.

70 «Fattosi coraggio»: Mc, 15, 43.

71 «Secondo Matteo»: Mt, 27, 62-65.

CAPITOLO QUINTO Nell’ombra

1 «Anatole France»: cfr. la rassegna storiografica.

2 «Un passaggio di Tertulliano»Apologeticum, 21, 24 (cfr. anche 21, 18): «Et omnia super Christo Pilatus, et ipse iam pro sua conscientia Christianus, Caesari tunc Tiberio nuntiavit».

3 «Nell’epistolario di Plinio»Epistulae (ed. Schuster), 10, 96 (97).

4 «In quel periodo»: sono gli anni in cui si esercitò con piú forza la pressione antigiudaica di Seiano: cfr. nota al cap. IV (p. 166), e piú avanti in questo capitolo.

5 «All’inizio di questo libro»: cfr. cap. II e Fonti e storiografia.

6 «Non recavano immagini»: Filone, Legatio ad Gaium, 299.

7 «Ormai il fatto…»ibid., 300.

8 «Non scatenare…»ibid., 301.

9 «Conclude la lettera»ibid., 301-6.

10 «Datazione piuttosto tarda»: Lémonon, Pilate cit., pp. 205 sgg.; Bond, Pontius Pilate cit., pp. 45 sgg. [trad. it. cit., pp. 80 sgg.].

11 «Divi Augusti filius»: ricostruisce bene Bond, ibid.,pp. 37 sgg. [trad. it. cit., pp. 72 sgg.].

12 «Nel diciottesimo libro»: Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, 18, 85-89.

13 «Giuseppe non mette in buona luce»ibid., 9, 291.

14 «Una strage»ibid., 18, 88: cosí almeno sostengono i samaritani di fronte al legato di Siria.

15 «Un amico»ibid., 18, 89.

16 «In un passo di Luca»: Lc, 13, 1.

17 «Invio di Gesú ad Antipa»: Lc, 23, 6-12: cfr. cap. III(pp. 100 sg.) e note (p. 170).

18 «Racconta Giuseppe»Antichità giudaiche, 18, 89.

19 «Da Origene»Contra Celsum (ed. Koetschau), 2, 34.

20 «A Eusebio»Historia ecclesiastica (ed. Schwartz), 2, 7.

21 «Ad Ambrogio»Expositio Evangelii secundum Lucam (ed. Adriaen), 22, 63 - 23, 25.

22 «A Giovanni Crisostomo»Homiliae in Matthaeum(ed. Field, in Migne, Patrologia Graeca), 86, 1; 87, 1.

23 «Dello stesso Agostino»Sermones (ed. Maurini, in Migne, Patrologia Latina), 214, 7. Cfr. ancheEnarrationes in Psalmos (ed. Dekkers-Fraipont), 63, 4, 8.

24 «In una di queste invenzioni»Ciclo di Pilato, Lettera di Tiberio a Pilato, 8 e 10 = ed. Moraldi (cit. a p. 151), p. 741 = ed. Craveri (cit. a p. 151), pp. 399 sg. = J. Armitage Robinson, Apocripha Anecdota II, in Texts and Studies. Contribution to Biblical and Patristic Literature, Cambridge 1899, pp. 78-81. Si tenga anche presente J. K. Elliot, The Apocriphal New Testament, Oxford 1993, rist. 1999, pp. 164 sgg., spec. 216 sg. Un contributo da leggere è quello di G. Dragon, Pilate après Pilate. L’Empire chrétien, les juifs, les images, in G. Jori (a cura di), Ponzio Pilato. Storia di un mito, Firenze 2013, pp. 31 sgg.(ma l’intero volume è da prendere in considerazione).

25 «Secondo un’altra tradizione»: ricordata da Moraldi, p. 726.

26 «Nota anche a Eusebio»: sempre in Historia ecclesiastica, 2, 7.

27 «Nel territorio di Losanna»Morte di Pilato che condannò Gesú, sempre nel Ciclo di Pilato, ed. Moraldi, p. 753 = ed. Craveri, p. 391.

28 «In una versione ancora differente»Ciclo di Pilato cit., Paradosis di Pilato, 10 = ed. Moraldi, p. 750 = ed. Craveri, p. 388.

29 «Giustino, nell’Apologia»Apologia (ed. Rauschen) 1, 35, 9 e 48, 3 (siamo in anni intorno al 155); Lémonon, Pilate cit., pp. 250 sg.

30 «Gli “Atti di Pilato”»: C. Tischendorf, Evangelia Apocrypha (cit. a p. 151), pp. LXX-LXXI; ed. Moraldi, pp. 593 sgg. = ed. Craveri, pp. 299 sgg. Cfr. anche E. Volterra, Di una decisione del Senato romano ricordata da Tertulliano, in Id., Scritti giuridici, vol. IV, Napoli 1993, pp. 419 sgg., spec. 421 sgg.

31 «Nota come “Ciclo di Pilato”»: che si ricollega al Vangelo di Nicodemo, e lo completa: ed. Craveri, pp. 380 sgg.; ed. Moraldi, pp. 725 sgg.

32 «Sul regime della sua prima memoria»: un libro suggestivo è quello di P. Veyne, Quand notre monde est devenu chrétien (312-394), Paris 2007.

33 «Del Simbolo niceno»Staurothenta te hyper emon epi Pontiou Pilatou (cito dall’ed. Dossetti, Roma 1967). Attira giustamente l’attenzione sulla presenza di Pilato in questo testo Agamben, Pilato e Gesú cit., pp. 7 sgg.