domenica 18 aprile 2021

IL CANONE OCCIDENTALE Harold Bloom

 


IL CANONE OCCIDENTALE 

Harold Bloom

Leggere bene è uno dei grandi
piaceri che la solitudine
può concederci.
— Harold Bloom

Quali sono i testi e gli scrittori su cui la civiltà occidentale ha edificato la sua letteratura? Come conciliare il gusto personale con il bisogno di condividere un patrimonio comune? Da Dante a Shakespeare, da Molière a Goethe, da Cervantes a Tolstoj, Harold Bloom ha individuato ventisei autori, prosatori e drammaturghi che non si può non conoscere e dedica loro pagine di studio diventate un patrimonio straordinario.

Opera profondamente personale, controversa, discussa, letta in tutto il mondo, Il Canone occidentale è un saggio sui classici diventato, a sua volta, un classico degli studi letterari.


IL CANONE OCCIDENTALE 

Harold Bloom


INSEGNARE LA SOLITUDINE

La teoria della poesia è la teoria della vita.
WALLACE STEVENS

Aroldo l’Agonista

I suoi problemi con Delphine Roux erano iniziati durante il primo semestre dell’anno in cui Coleman aveva ripreso a insegnare, quando una delle sue studentesse che per caso era anche una delle allieve predilette della professoressa Roux era andata da lei, nella sua veste di capo dipartimento, a lagnarsi delle opere di Euripide nel corso di Coleman sulla tragedia greca. Una di queste opere era Ippolito, l’altra Alcesti; la studentessa, Elena Mittrick, le trovava «degradanti per le donne».

Lo scontro con la giovane Delfina Ribelle dell’anziano e prestigioso professore di Lettere classiche che cinque anni prima l’ha assunta al college di Athena, fresca della graduate school di Yale, destando le perplessità dei colleghi (gli stessi che di lì a poco, proprio al fine di contestare la sua idiosincratica autocrazia, la faranno capo del dipartimento di Humanities), rappresenta l’inizio della fine per Coleman Silk, il protagonista della Macchia umana di Philip Roth. Dopo una serie di altre vicissitudini il Principe degli Umanisti verrà clamorosamente estromesso dall’Università che per decenni s’era identificata con la sua persona, e imboccherà la china dell’emarginazione: affrontando uno spossessamento e un’ascesi che ne metteranno in discussione la stessa identità (quella cui si riferisce il segreto che si porta dietro da una vita).

Non so se il personaggio di Coleman Silk sia stato modellato da Roth, almeno in parte, sulle fattezze del Grande Umanista di Yale da lui ben conosciuto – se sia insomma anche una controfigura di Harold Bloom (che di Silk è all’incirca coetaneo e sfoggia un carisma paragonabile al suo). Quel che conta è che l’inizio dell’Agone, nel college di Athena, riguardi precisamente la questione alla quale Bloom, negli anni in cui Roth scrive (il romanzo esce nel 2000 ma è ambientato nel ’98, all’ombra dello scandalo Lewinsky), ha pubblicamente legato il suo nome: mettendo in gioco a viso aperto, con l’aggressività e il coraggio che sempre lo hanno contraddistinto, proprio quello status e quel prestigio. Il Canone, certo.

Se il profilo di Silk non può coincidere del tutto con quello di Bloom, la figura di Delphine Roux incarna invece a meraviglia, infatti, i connotati intellettuali (e temperamentali) di quella contro la quale Bloom s’è scagliato con incoercibile veemenza – nel Canone occidentale e nei libri seguenti – definendola Scuola del risentimento. Imbevuti di cultura europea (o, come preferisce dire Bloom sprezzante, «gallica»: lacanizzante derridizzante e soprattutto foucaultizzante) a partire dagli anni Ottanta i Giovani Turchi Multiculturalisti hanno conquistato l’egemonia nei campus più prestigiosi dell’Ivy League, o almeno hanno preso a contenderla a quelli come Silk (o come Bloom): ai Grandi Umanisti, ai Titani della Vecchia Scuola. E lo hanno fatto contestando il nucleo stesso del loro potere intellettuale e culturale, il suo centro sacro e (in precedenza) inconcusso: appunto il Canone. Rivendicando, contro la preminenza in esso dei «Maschi Europei Bianchi Defunti», un’adeguata rappresentazione di tutte le possibili minoranze: etniche, religiose e, ovviamente, di genere.

All’inizio della Conclusione elegiaca del Canone occidentale Bloom si guarda alle spalle, misurando la distanza che separa i suoi inizi dall’oggi (da ora in avanti le citazioni dall’opera saranno date, qui, direttamente con la sigla C seguita dal numero di pagina della presente edizione: C 555):

Dopo una vita trascorsa a insegnare Letteratura in una delle maggiori università americane, ho poca fiducia nella possibilità che l’istruzione letteraria sopravviva al suo attuale malessere.

Iniziai la mia carriera didattica oltre cinquant’anni fa in un contesto accademico in cui predominavano le idee di T.S. Eliot, idee che mi mandavano su tutte le furie e contro le quali ho lottato con tutte le mie forze. Oggi mi ritrovo circondato da professori di hip-hop, da cloni della teoria gallico-germanica, dagli ideologi del genere e di vari credi sessuali, da innumerevoli multiculturalisti, e mi rendo conto che la balcanizzazione degli studi letterari è irreversibile.

Passare dall’aristocrazia di Eliot e seguaci al multiculturalismo hip-hop significa per un uomo della generazione di Bloom, nato nel 1930, quasi venire deportati su un altro pianeta. Un passaggio non certo indolore: parlare di balcanizzazione nel ’94, infatti, allude evidentemente a uno stato di guerra. Guerre culturali, beninteso: di quelle in cui Bloom l’Agonista dà il meglio di sé. Per capire le sfuriate polemiche che costituiscono la cornice (e il dichiarato movente) di questo libro occorre in ogni caso cercare di ricostruire un contesto – quello della politica accademica americana – che dal nostro punto d’osservazione, altrimenti, rischia di risultare incomprensible. La voga dei Cultural Studies (icasticamente ipostatizzati nei professori di hip-hop), nelle Università degli Stati Uniti al suo culmine nei primi anni Novanta (e che oggi appare in declino, o quanto meno in stato di approfondito ripensamento disciplinare), in effetti da noi non è mai davvero arrivata. Viene anzi da pensare che, di fronte al conservatorismo esasperato che tuttora domina gran parte dei nostri programmi universitari, ai nostri Atenei forse qualche Delphine Roux non farebbe poi così male.

In un suo vivacissimo resoconto delle Guerre Culturali d’Oltreoceano, ha raccontato Remo Ceserani come a cavallo della pubblicazione del Canone occidentale (che negli Stati Uniti esce nel ’94), in due dei più prestigiosi atenei d’America, l’Agone del Canone avesse consumato i suoi ludi più fieri. In California, nell’87, una manifestazione studentesca guidata dal reverendo Jesse Jackson aveva occupato i viali fioriti del campus di Stanford al grido di «Hey hey, ho ho, Western culture’s got to go». Coi loro slogan e volantinaggi gli studenti chiedevano appunto di rivedere la lista degli autori obbligatori nei corsi di Letteratura: per infine ottenere la sostituzione di quell’unica lista con otto canoni alternativi fra i quali fosse possibile scegliere. Dall’altra parte della nazione, nel ’95, proprio a Yale, aristocratica cittadella di Harold Bloom, s’era consumato uno scandalo non meno imbarazzante quando un ex allievo miliardario (si immagina esaltato dalla lettura del libro del Professore) aveva condizionato un proprio enorme lascito, all’Ateneo, alla creazione di un corso di Western Civilization. I docenti si erano divisi per ricompattarsi, però, quando il provocatorio magnate aveva chiesto di intervenire anche sulla scelta dei corsi, e addirittura degli insegnanti: rifiutando una montagna di dollari in nome di valori, come la Libertà e l’Indipendenza del Sapere, dei quali proprio Bloom non aveva mai mancato di farsi portabandiera. Appena due esempi: che mostrano chiaramente, però, come la questione del Canone, nelle Università d’oltre oceano, sia stata negli ultimi vent’anni un tema centrale. Se non proprio la questione politica in gioco.

La Delphine Roux di Roth si è laureata a Parigi, all’École Normale Supérieure, con una tesi dal soggetto che pare fatto apposta per mettere in imbarazzo un Coleman Silk alle prese con problemi dei quali nulla lei può sapere: Georges Bataille e la negazione di sé. Quando la giovane francesista si presenta al colloquio ad Athena, Coleman distrattamente la ascolta parlare di strutture narrative e temporalità, narratologia e diegesi. Non si fa impressionare: «sa, nell’originario senso greco, cosa significano tutte le parole di Yale e cosa significano tutte le parole dell’École Normale Supérieure»; sa pure che «Delphine rappresentava proprio quel genere di prestigiosa trombonaggine accademica di cui gli studenti di Athena avevano bisogno come di un buco in testa». Eppure decide di assumerla. Forse perché così «avrebbe mostrato la propria larghezza di vedute». O forse perché «era così seducente».

Fatto sta che, cinque anni dopo, è proprio sul casus belli dell’Euripide sessista che Delphine comincia a far leva, col preciso progetto di demolire Coleman: il quale è infatti emblema di tutto quanto lei ha sempre desiderato invano di essere. Lui all’inizio sottovaluta l’insidia (e lo fa con terminologia squisitamente bloomiana, mio il corsivo…): «Il fraintendimento di queste due tragedie da parte della signorina Mitnick […] si basa su preoccupazioni ideologiche così anguste e limitate che non si presta ad alcuna correzione». Al che Delphine ribatte, con acida ironia: «Coleman Silk, unico sul pianeta, non ha altra prospettiva che la prospettiva letteraria totalmente disinteressata». Qui non ci si può sbagliare: la contorta psicologia di Silk adombra la figura, diversamente ma non meno sfaccettata della sua, proprio di Harold Bloom. La sua polemica contro la Scuola del risentimento, negli anni del Canone occidentale, è stata condotta proprio in nome di una prospettiva letteraria totalmente disinteressata, ossia contro tutti quegli “interessi” identitari – non solo ideologici e sessuali – che, dal punto di vista dei Risentiti antagonisti, possono e devono far agio sui valori squisitamente estetici dei testi letterari. Nella Prefazione e preludio del Canone occidentale, infatti, ecco Bloom dichiarare con elegiaca quanto stoica fierezza: «Oggi credo di essere l’unico a difendere l’autonomia dell’estetico». Per aggiungere, col solito aristocratico sprezzo: «Il fatto di essere considerati eccentrici perché si sostiene che il letterario non dipende dal filosofico e che l’estetico non è riducibile all’ideologia o alla metafisica indica quanto siano degenerati gli studi letterari» (C 17).

Tutto ciò ricordato, si faccia attenzione a non commettere l’errore di classificare il senz’altro conservatore Bloom tra i neo-cons: i reazionari che dopo le perturbazioni degli anni-Clinton (e Lewinsky), e dopo l’uscita del Canone occidentale, inopinatamente si sono ripresi il potere non solo e non tanto nelle Università quanto, più in generale, negli Stati Uniti (anche se non va sottovalutato il fatto che proprio da certe roccaforti accademiche sia partita l’onda lunga della reazione: Condoleeza Rice, per esempio, è un prodotto di cui oggi va significativamente fiera quella stessa Stanford che negli anni Ottanta, s’è visto, era stata invece all’avanguardia della neo-contestazione). Altrove Bloom ha definito il clima degli anni Novanta come improntato a un «contropuritanesimo». È lo spettro della «correttezza politica» che lo soffocava, in quegli anni, come un leone in gabbia; lo stesso che finirà per mettere fuori gioco il Coleman Silk di Roth (accusato di razzismo, come si ricorderà, per aver definito due suoi studenti di colore spooks – “spettri” appunto – ma con un termine usato anche, spregiativamente, nel senso di “negracci”).

Ma non si trascuri il timore, espresso sempre all’abbrivo vichiano del Canone (C 7) e che oggi ci appare non meno che profetico, di un ritorno dell’«Età teocratica» dopo quella del Caos corrispondente alla deregulation valoriale da Bloom così aspramente combattuta. Gli eccessi di «apertura» antagonisticamente multiculturale del Canone hanno infatti avuto come esito politico, non solo negli Stati Uniti, l’esatto contrario di quanto auspicato dagli apostoli del Risentimento. Il clima culturale di inizio millennio è all’insegna del Clash of Civilizations; e il Presidente succeduto allo scollacciato e carnevalesco Clinton, il New Born Christian George W. Bush, è per l’appunto un «Teocratico» della più bell’acqua, esponente di una Monocultura WASP tutt’altro che tollerante e politicamente corretta (oltre che, va sans dire, armata fino ai denti). In un’opera recente di Bloom, La saggezza dei libri(che rappresenta spesso una vera e propria palinodia di tesi professate in precedenza), è sintomatico come la figura di Ralph Waldo Emerson, come vedremo per lui decisiva, venga caratterizzata con inquietanti – e per Bloom decisamente inediti – chiaroscuri:

Nato il 26 agosto del 1803, Emerson è oggi più vicino a noi di quanto sia mai stato. Negli Stati Uniti, continuiamo ad avere emersoniani di sinistra (il post-pragmatista Richard Rorty) [è il caso di ricordare che proprio a Rorty, quasi coetaneo di Bloom – nato nel 1931, il filosofo è scomparso l’anno scorso –, è dedicato La saggezza dei libri] e di destra (frotte di libertari repubblicani, che esaltano il presidente Bush Jr.). La concezione emersoniana della «Fiducia in se stessi» ha ispirato sia il filosofo umanitario John Dewey sia il primo Henry Ford (che diffuse i Protocolli dei Saggi di Sion). Emerson rimane la figura centrale nella cultura americana, e la sua influenza pervade tanto la nostra politica quanto la religione che di fatto seguiamo in America.

Dice oggi Bloom: «“Tutte le forme di potere sono di un unico tipo, una partecipazione alla natura del mondo”: è un’altra delle massime di Emerson, soggetta a cupe interpretazioni negli Stati Uniti di oggi (determinati a metter le mani sulla natura di tutto il mondo)». E, per essere ancora più espliciti, aggiunge che l’atteggiamento prepotentemente egolatrico e spregiudicatamente utilitaristico di Emerson lo si può ritrovare «in chiunque oggi (scrivo questa frase il 24 febbraio del 2003), a Washington, faccia pressioni per la questione del potere nel Golfo Persico. […] Trovo molto più piacevole pensare all’influenza di Emerson su Whitman e Frost, Wallace Stevens e Hart Crane, che non a quella sulla geopolitica americana; ma temo che, in ultima analisi, i due ambiti siano difficili da separare». Ammissione, quest’ultima, che chi conosce Bloom – sferzantemente polemico, in passato, contro ogni pretesa di condizionamento della sfera estetica da qualsivoglia contesto storico e sociale – può trovare persino sconcertante (meno lo apparirà a chi, a differenza di lui, da sempre ritiene che ogni pretesa di autonomia della sfera estetica, nella storia, ha regolarmente preteso consistenti contropartite in termini di assai extraestetiche conseguenze: a ben vedere lo stesso Coleman Silk di Philip Roth aveva tratto, dalla propria esperienza, un insegnamento non troppo diverso). Ma che denota, in lui, una sensibilità politica genericamente liberal, ancorché perfettamente alternativa rispetto ai radicalismi europeizzanti, ben radicata in certa sfera intellettuale americana (una sensibilità che col tempo, per esempio, in un suo amico come Gore Vidal s’è sempre più radicalizzata).

Davvero una strana tempra di conservatore (e sessista), quella di questo ebreo che – per dirne una – nel ’91 scrive Il libro di J per dimostrare che gran parte dell’Antico Testamento è stato scritto da una donna vissuta sotto il regno di Davide, di Salomone e di Roboamo (nel Canonegiungerà a definirla «il più blasfemo di tutti gli autori mai vissuti»: C 11). In un’importante intervista dell’87 (l’anno è quello di Rovinare le sacre verità, che fra i diversi motivi di scandalo comincia ad analizzare i testi biblici alla ricerca di «J») Bloom discute con la consueta franchezza le accuse, mossegli dal più intelligente dei Risentiti, Edward Said, di essere «alla destra della destra». La sua visione critica, si difende,

non ha niente a che vedere con il fascismo […] sarebbe come ritenere Nietzsche un antesignano di Hitler. Nietzsche non era un antisemita, non era un totalitario. Era un individualista, cercava di insegnare l’individualismo. Ma sapeva cos’era l’elitarismo, che non ha niente a che vedere con il protofascismo. L’elitarismo è la condizione dello spirito, così come della letteratura.

Anche Nietzsche, come vedremo, è tra i capisaldi dell’edificio concettuale di Bloom; e alla sua difesa d’ufficio non obietterò chiedendogli ragione di come mai proprio il lascito del Filosofo col Martello abbia attratto mis-readingscatastrofici come quello nazista (se non altro perché la medesima obiezione è stata posta da quello divenuto col tempo uno degli idoli polemici di Bloom, Jacques Derrida). In questa intervista nega quanto finirà per ammettere, Bloom, quasi vent’anni dopo nella Saggezza dei libri: che dall’individualismo assoluto dell’altro suo mentore Emerson, cioè, discendano le inquietanti disinvolture dello spauracchio d’allora, Ronald Reagan. Ma nel ’92 con La religione americana si scaglierà lancia in resta contro la destra repubblicana e il suo fondamentalismo religioso.

A più riprese, del resto, proprio al fondamentalismo cristiano della Yale dov’è cresciuto negli anni Cinquanta fa riferimento, Bloom, per spiegare le origini del proprio atteggiamento culturale (e dunque, aggiungiamo a suo contraggenio, politico). Sono gli anni in cui spopola Northrop Frye, maestro al quale Bloom deve moltissimo (fra l’altro proprio l’accezione di Canone: prima dell’Anatomia della critica infatti, ha fatto notare Robert Scholes, in inglese il termine designa per lo più il «corpo di testi correttamente attribuibili a questo o a quell’autore» – il Canone shakespeariano, ecc. – mentre a partire dagli anni Sessanta indica per lo più «una lista di testi che costituiscono la nostra eredità culturale e, come tali, sono il patrimonio da cui devono trarre i loro testi i curricula accademici per lo studio letterario»: che è appunto il senso in cui lo intende Bloom) ma la cui ortodossia religiosa (Frye era sacerdote della United Church of Canada) non poteva bastargli. Non è un caso che molte delle scelte a venire di Bloom (dall’interpretazione “eretica” di William Blake, oggetto di alcune delle sue prime pubblicazioni, sino come vedremo alla stessa teoria dell’Agone) si lascino leggere come non sempre esplicito contraddittorio col decisivo precedente di Frye.

Ma come s’è già accennato soffriva soprattutto, Bloom negli anni della sua formazione, una cappa ben più pervasiva e incombente: quella del «neocristianesimo dogmatico» (C 165), appunto, di Thomas S. Eliot. Lo stima, Bloom, il poeta Eliot – ancorché con palpabile freddezza. Ma è sul piano teorico che scende in Agone con lui. È anzi un meta-Agone, questo, perché in palio c’è proprio la questione dell’Influenza di un poeta sull’altro, dunque appunto dell’Agone. Cioè il nucleo stesso della riflessione alla base del Canone occidentale.

Ribellarsi è giusto

La formulazione più esplicitamente “politica” (in senso molto lato) della propria teoria dell’Influenza Bloom la espone, con paradosso tipicamente suo, in uno dei suoi libri più densi e criptici, I vasi infranti dell’82:

la lettura, se attiva e interessante, non è meno aggressiva del desiderio sessuale o dell’ambizione sociale o professionale. […] Quando si legge, si affronta se stessi e altri e in ciascun confronto si va in cerca di potere. […] Potentia, il pathos di una vita più intensa, o per esprimersi in modo riduttivo, il linguaggio del possesso.

A leggere queste righe, si potrebbe persino pensare a un Bloom non così distante dall’odiato Foucault. Ma è solo un effetto ottico: alle spalle di entrambi i contendenti, infatti, c’è il medesimo Nietzsche (naturalmente, qui, quello ominoso della Volontà di potenza). Il vero antagonista, però, appare in scena qualche pagina dopo: quando Bloom si scaglia – con violenza insolita persino per lui – contro «la perniciosa influenza di T.S. Eliot che tuttora permane in gran parte delle versioni contemporanee della tradizione letteraria». Il punto è il saggio più celebre, e appunto più influente, tra quelli raccolti da Eliot nel 1920 nel Bosco sacroTradizione e talento individuale. Che mostra effettivamente molte affinità con la teoria esposta da Bloom, nel ’73, nel suo libro decisivo L’angoscia dell’influenza; specie quando in Eliot si legge:

Nessun poeta, nessun artista di nessun’arte, preso per sé solo, ha un significato compiuto. La sua importanza, il giudizio che si dà di lui, è il giudizio di lui in rapporto ai poeti e agli artisti del passato. Non è possibile valutarlo da solo; bisogna collocarlo, per procedere a confronti e contrapposizioni, tra i poeti del passato. […] L’ordine esistente è in sé concluso prima che arrivi l’opera nuova; ma dopo che l’opera nuova è comparsa, se l’ordine deve continuare a sussistere, deve tutto essere modificato, magari di pochissimo; contemporaneamente tutti i rapporti, le proporzioni, i valori di ogni opera d’arte trovano un nuovo equilibrio; e questa è la coerenza tra l’antico e il nuovo. Chiunque approvi questa idea di un ordine, di una forma che è propria della letteratura europea, della letteratura inglese, non troverà assurda l’idea che il passato sia modificato dal presente, come non lo è che il presente trovi la propria guida nel passato.

Ecco invece la prima pagina dell’Introduzione di Bloom a L’angoscia dell’influenza: «la storia della poesia […] dev’essere considerata indistinguibile dall’influenza poetica, poiché i poeti forti costruiscono tale storia travisandosi l’un l’altro, in modo da liberare un nuovo spazio alla propria immaginazione». In entrambe le formulazioni, il passaggio chiave è quello che ribalta il vettore tradizionale della storiografia (letteraria e non): non tanto e non più il presente guidato dal passatoma, attraverso il travisamentoil passato modificato dal presente.

Per Bloom questo punto resterà saldo sino al Canone occidentale. In un libro del ’75, Una mappa della dislettura, su questa base troviamo già nitidamente prefigurato il traliccio teorico che innerverà, quasi vent’anni dopo, il Canone:

La formazione di canoni non è un processo arbitrario e non è, per più di una o due generazioni, socialmente o politicamente determinata, neanche dalla più intensa delle politiche letterarie. I poeti sopravvivono a causa della forza loro inerente; questa forza si manifesta attraverso la loro influenza su altri poeti forti e un’influenza che attraversi più di due generazioni di poeti forti tende a divenire parte della tradizione, a divenire persino la tradizione stessa.

Quando nella Prefazione e preludio al libro del ’94 si legge che «la tradizione non è soltanto un retaggio o un processo di benevola trasmissione; è anche un conflitto tra il genio passato e l’aspirazione presente, un conflitto il cui premio è la sopravvivenza letteraria o l’inclusione nel Canone» (C 15), non è difficile a questo punto notare tanto gli echi che la distanza da Eliot, il cui nome però viene nell’occasione taciuto. Non lo è, invece, nei Vasi infranti: qui la polemica, al contrario assai esposta, è con l’Eliot «ufficiale» di Tradizione e talento individuale, reo di aver sì individuato il problema cruciale della trasmissione ma di averlo anestetizzato in un processo di benevola trasmissione. Non è un caso che nel saggio di Eliot la parola-chiave sempre ricorrente sia ordine (coi correlati equilibrio e coerenza tra l’antico e il nuovo). Ma sempre nei Vasi infranti Bloom – facendosi per l’occasione anche filologo e detective – scopre anche un Eliot “ufficioso” e segreto, molto più in sintonia con la propria visione. Nello stesso 1919 esce infatti un altro suo saggio, da lui mai più ripubblicato, che s’intitola Reflections on Contemporary Poetry. Qui il conflitto non si presenta affatto anestetizzato; l’Agone si presenta in tutta la sua virulenza emotiva, in tutta la sua evidenza plastica e drammatica, di corpo a corpo violento e senza esclusione di colpi: «la consapevolezza del nostro debito ci conduce naturalmente a odiare l’oggetto imitato». Altro che riduzione di sé! Altro che pacato commisurare il talento individuale alla durata lunga e solenne della tradizione (così nel saggio “ufficiale”: «il poeta procede a una continua rinuncia al proprio essere presente, in cambio di qualcosa di più prezioso. La carriera di un artista è un continuo autosacrificio, una continua estinzione della personalità»). Qui si scopre, invece, un Eliot persino capace di metafore sessuali, addirittura in sospetto di perversione necrofila. Un Eliot agonista, insomma:

il fatto che si possieda questa conoscenza segreta, questa intimità con il morto […] è motivo di sviluppo. Come i rapporti intimi della vita, essa può scomparire e probabilmente finirà per farlo, ma sarà incancellabile. […] Non imitiamo, siamo mutati; e la nostra opera è quella di un uomo mutato; non abbiamo preso a prestito, siamo stati destati e diventiamo latori di una tradizione.

Commenta Bloom: «Questo linguaggio di metamorfosi e risveglio è quello del romanzo familiare e non di un ordine simultaneo che sfida la temporalità». Non ordine ma lotta senza quartiere: Agone, appunto. Come viene detto in quello che – nel percorso fra il palinsesto teorico dell’Angoscia dell’influenza e il grande affresco performativo del Canone occidentale – va indicato come libro-chiave di Bloom, Poesia e rimozione: «Un “testo” poetico, come lo interpreto io, non è una raccolta di segni sulla pagina, ma un campo di battaglia psichico, su cui combattono autentiche forze per l’unica vittoria degna di vittoria, il divinante trionfo sull’oblio».

Libro-chiave, Poesia e rimozione, perché rispetto alla fantasmagoria di immagini dell’Angoscia dell’influenza (dal punto di vista della scrittura senz’altro il capolavoro del suo autore, nonché in assoluto uno dei libri di critica più belli che sia dato leggere) Bloom vi fa i conti coi propri predecessori: a partire da quel Vico che poi innerverà lo schema tripartito del Canone occidentale (Età Aristocratica, da Dante a Goethe con Shakespeare totalitario archimandrita; Età Democratica, da Wordsworth a Ibsen; Età Caotica, da Freud a Beckett) per poi concentrarsi sulla partita decisiva, sulla quale dovrò ovviamente tornare: quella con Freud. Soprattutto vi chiarisce come l’armamentario erudito religioso e misteriosofico sciorinato nell’Angoscia dell’influenza, facente capo alla gnosi ebraica codificata nel Cinquecento da Isaac Luria (e ampiamente commentata nel successivo La Kabbalà e la tradizione critica), abbia una valenza in primo luogo metaforica. Gli gnostici di Bloom sono fondamentalmente Ribelli: «la loro ribellione contro la tradizione religiosa […] divenne la profezia di tutti i successivi dissidi con la tradizione poetica» (infatti «i massimi scrittori dell’Occidente sovvertono tutti i valori, i nostri e i loro»: C 36). L’angoscia dell’influenzaavanza a un certo punto un parallelo tra l’Influenza Poetica, «parte del più vasto fenomeno del revisionismo intellettuale», e l’Eresia. Ma è in Poesia e rimozione che si legge come la ricerca spasmodica di libertà, da parte degli gnostici, non fosse tanto nei confronti di istituzioni secolari o dottrine ricevute ma, più alla radice, nei confronti di loro stessi: «il loro dissidio con le parole, che li divideva dalla propria Parola, era essenzialmente il dissidio di ogni creatore tardivo con il precursore». Una Ribellione solo individuale: dunque antipolitica. Se ogni vero Poeta è uno gnostico è perché non può che trovarsi in perenne dissidio con la tradizione. E dunque anche con se stesso: per essere più precisi, con la parte di sé ereditata dalla tradizione. Quello in cui è impegnato il Poeta, dall’inizio alla fine, è un Agone col proprio stesso linguaggio: in gioco – come nel Coleman Silk di Roth – è la sua stessa identità.

Non stupisce che il grande lettore di Milton usi spesso la metafora demonica. Nell’Angoscia dell’influenza una delle sei tipologie di rapporto tra poeti (la altre sono Clinamen o fraintendimento; Tessera o compimento; Kenosis o ripetizione differente; Askesis o purgazione e solipsismo; Apophrades o il ritorno dei morti) è intitolata alla Demonizzazione. Sono forse le pagine più tese e visionarie che Bloom abbia mai scritto. La demonizzazione è l’atto di svalutazione aggressiva del predecessore, da parte del poeta successivo (quello che Bloom chiama «efèbo»); ed è anche il momento in cui il poeta stesso si trasforma a sua volta in Demone. Ma ricorda Bloom come l’etimo di Demone (da daeomai) rinvii all’atto della divisione: «I demoni operano rompendo, […] comunque tutto ciò che hanno sono le loro voci, e questo è anche tutto ciò che hanno i poeti». Ciò che fa di un uomo un poeta è la Divisione che lo attraversa («nessun poeta moderno è unitario. […] I poeti moderni sono necessariamente miseri dualisti)».

La lotta del Demone – l’Io Diviso – con l’Angelo dell’Ordine e della Tradizione è il mito fondativo, il mito d’origine di Bloom. Nel suo repertorio poetico d’elezione la fonte dichiarata è Blake: il quale nel breve poema epico Miltonpresenta l’Influenza dell’autore del Paradiso perduto, appunto, come «Cherubino Protettore» che si rivela, però, splendore paralizzante, «agente ostruttore» e «demone della continuità» che «imprigiona il presente nel passato e riduce il mondo delle differenze al grigiore dell’uniformità». Ma nell’intervista dell’87, che abbiamo già incontrato, Bloom racconta come questa immagine – nucleo generatore dell’Angoscia dell’influenza e, dunque, di tutto il resto – avesse per lui una valenza ben più urgente e personale. L’11 luglio del 1967 aveva avuto un incubo: «avevo la sensazione di essere soffocato da una grande creatura alata che mi era addosso. Mi svegliai il giorno dopo e iniziai a scrivere un lungo ditirambo intitolato The Covering Cherub, or Poetic Influence» (the Covering Cherub è appunto la definizione che Blake dava della Milton’s Shadow).

Un’immagine-sigla, quella della Lotta con l’Angelo, che lo stesso Bloom ricorda connotare il Frye tardo del Grande codice; ma che a noi lettori italiani fa venire in mente piuttosto un’immagine splendida – ancorché decisamente meno cupa di quella bloomiana – di un altro grande lettore ebreo, Giacomo Debenedetti:

io credo che il lavoro del critico somigli, in piccolo e in maniera tutta laica e profana, alla lotta notturna di Giacobbe. Per tutto il durare delle tenebre, Giacobbe combatte con un avversario, che crede un uomo e che gli impone gli stenti, le contrizioni, i pericoli di un corpo a corpo con un proprio simile. Ma, al tornare della luce, Giacobbe si accorge che l’altro era un Angelo. Nel nostro caso il critico scorge, riconosce, intero integro, e ancora più splendente il poeta. Quella poesia che egli aveva ferita con i suoi colpi, straziata con le proprie analisi, si ricompone nella sua più vera ed efficace figura. E come l’Angelo di Giacobbe, il poeta in quel momento tramuta le angosce della notte in benedizione, benedizione per tutti, della quale il critico nella sua qualsiasi misura, diventa un poco il tramite, l’amministratore.

Ad accomunare le due forme di Agone – come fece anche un lettore d’eccezione dell’Angoscia dell’influenza, Paul de Man – è la consapevolezza dell’attraversamento del negativo, necessario tanto da parte dello scrittore (in lotta coi propri predecessori) che del lettore (in lotta con l’opera), perché alfine si realizzi la promesse de bonheur dell’arte. Un negativo che, persino per Bloom, può coincidere con le circostanze storiche (C 34):

Ecco un concetto della critica marxista che mi sembra utile: nella scrittura solida vi è sempre un conflitto, un’ambivalenza, una contraddizione tra soggetto e struttura. Il punto su cui dissento dai marxisti sono le origini del conflitto. Da Pindaro ai giorni nostri, lo scrittore che lotta per la canonicità può lottare per una classe sociale, come fece Pindaro per gli aristocratici, ma soprattutto ogni scrittore ambizioso scende in campo solo per se stesso e non di rado tradirà o trascurerà la sua classe per promuovere i propri interessi, che si incentrano interamente sulla sua individuazione.

L’uso di quest’ultimo tecnicismo psicoanalitico (junghiano, per una volta) ribadisce infatti che per Bloom l’essenza dell’Agone è tutta interna al soggetto, al suo «campo di battaglia psichico». Uno degli assunti più saldi del suo pensiero, a più riprese ripetuto e variato, è che «il valore estetico scaturisce dalla memoria, e dunque (come osserva Nietzsche) dal dolore, il dolore di rinunciare a piaceri più facili per altri molto più ardui» (C 46), dal momento che «il significato autentico – la comprensione autentica della realtà – è doloroso, e che il dolore stesso è il significato» (sintesi, questa, di passi della Genealogia della morale – senza dubbio l’opera nietzscheana da Bloom più citata – commentati nella Saggezza dei libri). L’Agone che porta all’individuazione del soggetto è e non può non essere, dunque, un conflitto doloroso, crudele: un confronto che ferisce e strazia. Solo dopo l’angoscia della notte può risplendere la luce dell’arte.

Date queste premesse non può stupire che, malgrado la descritta vicinanza in termini concettuali, Bloom temperalmente scelga di costruire la propria identità di critico in opposizione a Eliot. Se in Eliot (e in Frye, come viene detto sempre in Poesia e rimozione) le «relazioni […] fra tradizione e talento individuale» sono «mutuamente benigne», è perché esse sono fatte oggetto di «idealizzazioni». La pagina inaugurale, e anzi il primissimo attacco dell’Angoscia dell’influenza, pur non nominando gli avversari, suona a questo punto come una vera e propria dichiarazione di guerra (il corsivo è mio): «Questo libro intende proporre una teoria della poesia attraverso la descrizione del modo in cui opera l’influenza poetica: […] essa vuole deidealizzare le spiegazioni correnti su come un poeta contribuisce a formarne un altro».

Alla Genealogia della morale Bloom fa insomma seguire una Genealogia della letteratura. Al classicismo eliotiano contrappone un’idea anticlassicista di tradizione: fondata sullo sregolamento anziché sull’ordine, sulla discontinuità anziché sulla continuità(nell’Angoscia dell’influenza si legge: «I critici, nel segreto dei loro cuori, amano le continuità, ma colui che vive di sola continuità non potrà mai essere un poeta. […] La maggior parte di ciò che chiamiamo poesia – perlomeno dall’Illuminismo in poi – è questa ricerca del fuoco, cioè della discontinuità. […] La discontinuità è libertà»). Sulla contaminazione anziché sulla purezza («la contaminazione è il banco di prova pragmatico per la formazione del Canone»: C 561). Non è affatto un caso che il canone di Bloom sia «aperto», se non nel senso auspicato dalla Scuola del risentimento, certo nell’ammettervi autori strettamente contemporanei, e tutt’altro che unanimemente accettati, quali John Ashbery e Thomas Pynchon. (Scelte che, per quel che può valere, condivido in pieno.)

Da tutto ciò consegue, ha sottolineato Giulio Ferroni, che

il canone secondo Bloom non ha nulla di educativo e di moraleggiante, non proietta modelli di comportamento sociale, come è accaduto per tutte le forme storiche e «canoniche» di classicismo: esso è invece qualcosa di immanente al farsi stesso della letteratura, il principio dinamico di una storia letteraria che si sviluppa nel tempo con la vita delle grandi opere, che sempre si modifica, si aggiusta, si ridefinisce, si dilata e si restringe.

Se col Canone occidentale Bloom arriva a proporre in qualche modo una sua Storia, insomma, essa non potrà che presentarsi come antistoricista. Che è poi, forse, il solo modo di fare storia oggi.

L’invenzione della tradizione

L’autore dell’Angoscia dell’influenza non poteva evitare di affrontare i propri Demoni e Angeli. Le proprie Angosce, insomma. Come ha scritto Giovanna Franci, Bloom «diventa lui stesso, nella consapevolezza della propria tardività, un esempio vivente del paradigma dell’angoscia dell’influenza». Di Eliot s’è detto. Alla Scienza nuova Bloom non deve solo il disegno tripartito del Canone occidentale; più in profondità agisce nel suo pensiero (come si vede dalle prime pagine di Poesia e rimozione) il tempo ciclico di Vico: che ovviamente s’incontra con l’Eterno Ritorno di Nietzsche. Più sottile il rapporto di revisione che lega Bloom a Borges. Inserire quest’ultimo – quasi mai citato nei libri precedenti – nel Canone occidentale significa per Bloom assolvere a un debito importante. È proprio lui infatti, insieme a Eliot (non a caso citato da Borges), il maggior precursore della teoria agonistica e revisionistica esposta nell’Angoscia dell’influenza: nelle brevi e lampeggianti pagine di Altre inquisizioni su Kafka e i suoi precursori, in cui si trova un «capovolgimento delle precedenti descrizioni dell’influenza» (C 504), di uno scrittore sull’altro, appunto molto simile a quello che ritroviamo in Bloom. Borges passa in rassegna pagine “kafkiane” – dai classici della filosofia orientale e occidentale a Kierkegaard, da Browning a Bloy – che hanno in comune praticamente solo una cosa: l’essere state scritte prima di Kafka. E commenta:

Se non erro, gli eterogenei testi che ho enumerato somigliano a Kafka; se non erro, non tutti si somigliano tra loro. Quest’ultimo fatto è il più significativo. In ciascuno di quei testi è la idiosincrasia di Kafka, in grado maggiore o minore, ma se Kafka non avesse scritto, non la avvertiremmo; vale a dire, essa non esisterebbe. […] Il fatto si è che ogni scrittore crea i suoi precursori. La sua opera modifica la nostra concezione del passato, come modificherà il futuro.

Borges è l’emblema di una condizione tardiva per Bloom connaturata alla letteratura in quanto tale; ma anche di una pronunciata consapevolezza, di tale tardività, e di un suo uso scientemente letterario (unico possibile termine di paragone è una rara, brevissima pagina di Tommaso Landolfi precedente a quella di Borges su Kafka, la «moralità» del ’41 intitolata Dell’immagine letteraria: «La storia letteraria […] ha questo almeno di buono: che tutti i rapporti contenutivi si possono immaginare (e sono) perfettamente reversibili»: per cui da Pasternak a ben vedere discende Blok, da questi viene Dostoevskij e poi, passando per Gogol’ e Pusˇkin, si arriva al «Canto della schiera di Igor, l’espressione […] più autentica e compiuta della letteratura contemporanea»; Bloom non può conoscere questa chicca, ma è sintomatico il penchant per la tardività di Landolfi, denotato dalla breve lettura della Moglie di Gogol’ in Come si legge un libro e perché). Proprio come Kafka ha messo per sempre il marchio di fabbrica sul “suo” mondo, Borges ha messo il proprio sulla creazione dei precursori: «se leggete Borges con frequenza e attenzione, divenite in un certo senso borgesiani, perché leggerlo significa alimentare una consapevolezza della letteratura in cui questo autore si è spinto più lontano di qualsiasi altro» (C 506). Già solo per questo – e prescindendo dalla quantità di riferimenti alle credenze gnostiche contenuta nella sua opera – lo si potrebbe considerare, Borges, autore bloomiano per eccellenza.

C’è invece un aspetto della sua personalità che decisamente respinge Bloom: un paradossale «idealismo nichilistico» (C 504) – condannato, si noti, con la medesima formula usata contro Eliot: «idealizzazione dei rapporti di influenza» – in virtù del quale i grandi “anonimi”, Omero e Shakespeare, realizzano quella che per Borges è la condizione ideale dell’autore, quella cioè di fondersi in un «unico labirinto vivente di letteratura»: «tutti gli scrittori sono uguali, […] cosicché la personalità è un mito superato» (C 507; sempre in Kafka e i suoi precursori si legge, infatti, che «la parola precursore è indispensabile, ma bisognerebbe purificarla da ogni significato di polemica o di rivalità»).

Nulla quanto la messa in discussione del soggetto-autore (tratto comune, infatti, alle odiate mitologie «galliche» di Foucault, Lacan e Derrida) mette in crisi il modello di Bloom. Significativo che, nel suo Agone con Freud, le pagine più violente le dedichi a mettere in ridicolo la credenza, da parte del fondatore della psicoanalisi, che «a scrivere i drammi e le poesie erroneamente attribuite a Shakespeare era stato il conte di Oxford», Edward de Vere, seguendo una tesi allora accreditata di J. Thomas Looney: «come si spiega che Freud, forse la mente più acuta del nostro secolo, sia caduto in un errore così grossolano?» (C 401). La risposta che si dà Bloom risponde infallibilmente al suo paradigma: il «desiderio […] che Shakespeare non fosse Shakespeare», e più in generale il «terribile bisogno di tenere alla larga l’ignorante attore di Stratford» (C 416), si devono all’angoscia dell’influenza di Freud nei suoi confronti: dal momento che tutti i suoi principali concetti si ritroverebbero già nei drammi shakespeariani (in particolare il complesso di Edipo sarebbe stato più giusto, secondo Bloom, intitolarlo ad Amleto: «Amleto non soffriva del complesso di Edipo, ma Freud soffriva senza dubbio del complesso di Amleto, e forse la psicoanalisi è un complesso di Shakespeare»: C 404): «l’ansia dell’influenza non ha vittima più illustre del padre della psicoanalisi, che scopriva di continuo che Shakespeare l’aveva preceduto, e troppo spesso non riusciva a sopportare quell’umiliante verità» (C 418).

In effetti l’autorialità del corpus ascritto a Shakesperare è ancor oggi tutt’altro che pacifica, e l’importanza dell’esempio di Amleto tutt’altro che sottaciuta da Freud. Ma l’aggressività di Bloom, qui, serve a sintomaticamente coprire la più cruciale angoscia dell’influenza propria: appunto quella nei confronti di Freud. Perché con tutta evidenza il modello revisionistico, se come si è visto ha i suoi antecedenti letterari in Eliot e in Borges, dal punto di vista psichico è una filiazione proprio dell’Edipo freudiano. Ha scritto infatti, ottimamente, Aldo Tagliaferri: «La tradizione, che Bloom qualifica come aggressione del precursore, […] in termini psicanalitici, rientra in quel complesso di ammirazione e di avversione, di emulazione e di desiderio di diversificazione, di eternamento e di uccisione, che va sotto il nome di complesso edipico».

Un’angoscia dell’influenza nei confronti di Freud è stata peraltro a più riprese ammessa da Bloom. Già dal titolo un libro come Poesia e rimozione si pone tutto all’insegna del modello freudiano; e le sue pagine più tese sono dedicate al concetto di negazione elaborato da Freud nel ’25 (ma valorizzato in misura decisiva, negli anni Cinquanta, da Lacan). È la Verneinung (termine che nell’edizione italiana di Poesia e rimozioneviene invece reso con «diniego», mentre questa è semmai traduzione invalsa per Verleugnung): in cui «l’io esprime un pensiero o desiderio rimosso, ma continua la difesa da rimozione rinnegando il pensiero o desiderio proprio mentre questo è reso esplicito» (a questo palinsesto va allora attribuita anche una delle pagine più brillanti dell’Angoscia dell’influenza, quella che cita – anziché Freud – Lichtenberg: «Fare il contrario è anch’esso una forma di imitazione»). Dopo aver impiegato questo concetto – senza esplicitarlo – nell’interpretazione del «sublime gnostico di Yeats», Bloom ammette: «sembra che la mia rimozione del Diniego freudiano sia trasalita in un diniego mio».

Nei Vasi infranti con compiacimento blasfemo definirà la propria, addirittura, imitatio Freudi: perché la critica è freudiana «che lo voglia o no. Essa si fonda su modelli freudiani anche quando finge di essere asservita a Platone, Aristotele, Coleridge o Hegel». Più di recente, nella Saggezza dei libri dirà che «siamo tutti freudiani, che lo vogliamo o no»; e del resto l’Edipo nei suoi confronti è giustificato dal fatto che «Freud è diventato per la cultura occidentale una generica figura paterna». Dunque va interpretata come formazione difensiva, da parte di Bloom, la sin troppo ribadita insistenza (sulla scorta di una famigerata intemperanza di Wittgenstein, il cui rapporto con la psicoanalisi era però tutt’altro che lineare) a leggere in Freud solo il grande scrittore, il «poderoso mitologista, il grande creatore di miti dei nostri tempi, degno rivale di Proust, Joyce e Kafka come centro canonico della letteratura moderna» (C 412).

Bloom, che pure come s’è visto s’ispira a lui, non è Borges: del quale invece davvero si può dire che «essendo uno scettico che nutriva maggiore interesse per la letteratura di fantasia che per la filosofia o la religione, ci ha insegnato il modo di leggere tali speculazioni soprattutto per il loro valore estetico» (C 499). Né la filosofia né la religione, per Bloom, sono semplici favole belle: tanto meno la psicoanalisi. Di Freud la definizione più equa e sincera si legge nella Saggezza dei libri: «egli è al contempo il principale scrittore e il principale pensatore del nostro secolo». Di sicuro è quello al quale deve di più.

L’invenzione della solitudine

La messa a punto della sua lunga fedeltà a Shakespeare, seguita quattro anni dopo il Canone occidentale, Bloom ha voluto intitolarla L’invenzione dell’uomo. Più precisamente, quello che Bloom ritiene abbia inventato Shakespeare è il dialogo dell’uomo con se stesso: i suoi personaggi «si origliano mentre parlano da soli o con altri. Questo modo di autoascoltarsi è la via principale all’individualizzazione». Shakespeare del Canone occidentale è il «centro», oltre che il vertice, proprio perché «supera tutti gli altri nel mettere in risalto una psicologia della mutevolezza» attraverso, appunto, «la capacità di origliare se stessi». Lezione che serve anzitutto alla nostra vita (a dispetto del nichilismo morale spesso sbandierato da Bloom sulla scorta di Wilde): «Shakespeare aggiunge alla funzione della scrittura immaginativa, cioè insegnarci a parlare con gli altri, la lezione – ormai dominante anche se più malinconica – della poesia: insegnarci a parlare con noi stessi» (C 55). Ascoltare noi stessi serve a mutare noi stessi, cioè a scrivere noi stessi: così come fanno Amleto e altri personaggi di Shakespeare. «Origliando i propri discorsi e riflettendo su quelle espressioni, mutano e passano a contemplare un’alterità nell’io, o la possibilità di tale alterità» (C 79).

La divisione “demonica” dell’interiorità in un’alterità (o in una «spaccatura tra essere e coscienza», come Bloom la definisce a proposito di Kafka, C 398; si ricordi l’etimo di demonediscusso nell’Angoscia dell’influenza) è la linea più trasversale, ma anche la più profondamente innervante, fra le molte che percorrono l’intreccio del Canone occidentale. Tanto che la figura che si deve davvero rimarcare mancante, fra quelle iper-canonizzate da Bloom, è senz’altro Petrarca (basti pensare al Secretum, più ancora che al Canzoniere): del quale si dice infatti, a un certo punto, che ha preceduto Shakespeare nell’invenzione del «solipsismo moderno» (C 148). A parte questa lacuna (alla quale si dovranno aggiungere almeno quelle di Rousseau, Stendhal e del Je est un autre di Rimbaud: ma in generale la letteratura «gallica» appare piuttosto bistrattata), Bloom non manca di visitare i capitoli fondanti di questa storia, segreta quanto affascinante. È la chiave del bellissimo capitolo dedicato a Montaigne e, soprattutto, del più bello in assoluto: quello su Walt Whitman e sulla «cartografia psichica» che tripartisce l’io nel Canto di me stesso delle Foglie d’erba (C 295). Qui la consueta spregiudicatezza di Bloom gli ispira fra l’altro uno «scandaloso» excursus sulla «musa della masturbazione»: tutt’altro che gratuito, però, dal momento che è la lettura dei testi a dimostrare che «il permanente scandalo di Whitman ha una vitale componente autoerotica» (C 301; ancora più trasgressiva, ma anche più sottilmente acuta, è in tal senso la lettura del Faust di Goethe: cfr. C 244 sgg.).

Questo nucleo egologico, diciamo, è senz’altro legato alla sempre maggiore esemplarità che col tempo, nel percorso di Bloom, ha acquistato la figura di Ralph W. Emerson. In un sorprendente excursus autobiografico dei Vasi infranti, dice Bloom che «Emerson […] ha cambiato il mio modo di pensare su quasi ogni cosa quando ero a metà del mio viaggio, intorno al 1965» (dove la data serve a collocare il limen all’altezza topicamente dantesca dei trentacinque anni d’età, ma anche a collocare la svolta in coincidenza dell’insorgenza anti-autoritaria dei campus americani). Pastore unitariano (come sarà Frye nel secolo successivo…), a un certo punto abbandonò il sacerdozio – si legge nella Saggezza dei libri – «perché riconosceva soltanto il Dio interiore, quel Dio che definiva come la migliore e la più antica parte del suo io». Bloom definisce la sua scrittura, dichiaratamente ispirata a quella di Montaigne, «oratoria interiore» piuttosto che saggistica: e il suo autore «più un drammaturgo dell’io che non un mistico».

Di Emerson al discepolo piace citare l’aforisma (in Agone definito degno di un «Vico americano») secondo il quale «gli originari non erano affatto originali»; ma in effetti il suo influsso sulla cultura americana va in direzione diametralmente opposta. Come si legge in Una mappa della dislettura, «la guerra dei poeti americani contro l’influenza è parte della nostra eredità emersoniana»: l’individualismo assoluto enunciato in un saggio celebre come Fiducia in se stessi (sin dall’esergo, tratto dalla prima satira di Persio, «Ne te quaesiveris extra»: “non cercarti fuori di te”) è quello che porterà Bloom all’affermazione idiosincratica, più volte ripetuta, per cui «l’unico metodo è l’io» (C 202); ma è anche quello che proclama: «Insisti su te stesso; non star mai ad imitare. In ogni momento potrete presentare il vostro proprio dono con la forza accumulata della dedizione di tutta una vita; mentre, invece, del talento che hai preso a prestito da un altro hai solo un’estemporanea e dimezzata padronanza»; e: «tu non scorgerai le impronte di nessun altro; non vedrai faccia d’uomo; non udrai il nome di nessuno: il modo, il pensiero, il bene, tutto sarà completamente inconsueto e nuovo; escluderà esempi ed esperienze».

Al Canone occidentale Emerson consegna un criterio-guida che in parte si combina e in parte entra in contraddizione con l’Agone e il revisionismo: quello della rappresentatività. È dal suo saggio Uomini rappresentativi appunto, ultimo anello di una catena iniziata con le Vite paralleledi Plutarco e proseguita con Gli eroi di Carlyle, che deriva l’isolamento cronologico (posto com’è in testa alla serie) nonché ontologico, la vera e propria divinizzazione di Shakespeare («Shakespeare è escluso dalla categoria degli autori eminenti quanto lo è dalla folla, […] Shakespeare è unico»: C 48). Ma in tutto il libro assistiamo poi, ha scritto gustosamente Guido Guglielmi, a «una specie di gigantomachia» in cui «figure prime si richiamano e rispondono attraverso i secoli». È così. Ma sino al Canonequesti Giganti vengono rappresentati, appunto, in lotta fra loro: s’è visto a quanti livelli diversi e con quale grado di sottigliezza l’impianto del libro sottenda, infatti, il modello teorico dell’Agone. Otto anni dopo, in quella teratologica gigantografia che è Il genio, veniamo invece introdotti a una rosa mistica di cento Titani perfettamente immobili, raggelati nelle loro pose trionfali.

Se nel Canone Emerson è presente con discrezione, principalmente quale spirito-guida di Emily Dickinson e Walt Whitman, nel Genios’installa proditoriamente al centro del proscenio: qualificato come «genio dell’America», divenuto il cantore del «sublime americano» che «gettò le basi della nostra vera religione». Le conseguenze sono non meno che disastrose. Nulla più di questa parata di monadi sublimi e irrelate (se non nell’artificiosa architettura cabalistica che al Genio fa da cornice) contraddice il principio relazionale e dialettico che nell’Angoscia dell’influenza veniva espresso con assoluta e condivisibile chiarezza:

Tutti i tipi di critica che si autodefiniscono primari oscillano tra la tautologia – per cui la poesia è e significa soltanto se stessa – e la riduzione – in cui la poesia significa qualcosa che non è esso stesso una poesia. Una critica antitetica deve per prima cosa negare sia la tautologia sia la riduzione, una negazione meglio espressa dall’affermazione che il significato di una poesia può essere costituito solo da una poesia, ma da un’altra poesia – non dalla medesima poesia.

E poi:

Si potrebbe obiettare a una tale teoria che non leggiamo mai un poeta quale è in sé, ma leggiamo soltanto un poeta in un altro poeta, o addirittura trasformiamo quel poeta in un poeta diverso. La mia risposta può essere molteplice: io nego che ci sia, ci sia stato o magari che ci possa essere un poeta quale è in sé, per il lettore.

Ancora nel Canone occidentale viene ribadito che «i libri parlano necessariamente di altri libri e possono rappresentare l’esperienza soltanto trattandola dapprima come l’ennesimo libro» (C 473), e che «la grande scrittura è sempre una riscrittura o un revisionismo» (C 17). Anzi, la polemica contro i Critici Risentiti ne fustiga in primo luogo la pretesa di «affermare la propria libertà dall’angoscia della contaminazione», presentando ciascun autore come un «Adamo allo spuntare del giorno», «autocreato, autogenerato, dotato di una forza propria» (C 14).

L’angoscia dell’influenza si spingeva oltre l’ominosa sentenza di Nietzsche, «i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni»: proclamando che «non ci sono interpretazioni ma solo mis-interpretazioni». In conseguenza di ciò «poesia è angoscia dell’angoscia, è fraintendimento, è perversità disciplina. Poesia è malinteso, mis-interpretazione, mésalliance». Nulla di tutto questo, evidentemente, nella parata d’inconcusse superstar del Genio: tutti Adami allo spuntare del giorno, ciascuno emersonianamente oltremodo fiducioso in se stesso e, tutti insieme, robustamente inquadrati in compatta falange. C’è da chiedersi cosa sia successo al nostro critico antiteticoagonistico e angosciato (nonché, certe volte, un po’ angosciante). Ho paura che – come capita a chi intenda autodivulgarsi a tutti i costi – abbia finito per credere nella letteralità delle proprie metafore di un tempo. Quando proprio lui, invece, ci aveva insegnato che nell’Agone le metafore, i tropi, sono essenziali armi di difesa: laddove, come si legge in una pagina folgorante di Poesia e rimozione, «la morte è il più proprio o letterale dei significati e il significato letterale partecipa della morte».

Ma non importa. Aroldo l’Agonista ci lascia, col Canone occidentale e coi bellissimi libri che l’hanno preceduto e preparato – L’angoscia dell’influenza in testa, opera geniale se ce n’è una nella critica letteraria degli ultimi decenni –, un patrimonio straordinario. Che sta a noi, da ora in poi, mis-interpretare: superandone l’angoscia. Fra i suoi tanti insegnamenti, infatti, c’è quello per cui la cosa più importante è «a cosa sia destinato un poema», «quale sia l’uso della poesia o della critica» (Agone).

La domanda che risuona a un certo punto del Canone (C 557), «Come si fa a insegnare la solitudine?», credo sia solo in apparenza elegiaca. È agonistica, invece (come la «purgazione mediante solitudine» di Wallace Stevens, di cui si legge nell’Angoscia dell’influenza). «Sbagliare nella vita è necessario alla vita», infatti, come «sbagliare in poesia è necessario alla poesia». L’Agone è appena cominciato.

ANDREA CORTELLESSA, settembre 2008


NOTA BIBLIOGRAFICA

AROLDO L’AGONISTA

La macchia umana (The Human Stain) di Philip Roth è del 2000; la traduzione di Vincenzo Mantovani, pubblicata da Einaudi, è dell’anno seguente (le citazioni sono dalle pp. 199, 203, 205-7). L’articolo di Remo Ceserani sulle guerre culturali per il Canone negli Stati Uniti s’intitola Cannonate (riprendendo il calembour Canonadedi Jerome Mc Gann, in «New Literary History», 25, estate 1994, pp. 487-504) ed è uscito sul numero di «Inchiesta letteratura» dedicato ai Classici nella cultura e nell’editoria italiana contemporanea (XXV, 110, ottobre-dicembre 1995, pp. 67-74). La definizione di «Contropuritanesimo» per la political correctnessimperante negli Stati Uniti Bloom la impiega in Come si legge un libro e perché (How to read and why, 2000; traduzione di Roberta Zuppet, BUR, Milano 2001), p. 22. Il nuovo giudizio in chiaroscuro, circa l’influenza di Emerson sulla cultura americana contemporanea, è contenuto nella Saggezza dei libri (Where Shall Wisdom Be Found?, 2004; traduzione di Daniele Didero, BUR, Milano 2007), pp. 198 sgg. Il libro di J (The Book of J, 1991) è uscito, nella traduzione di Francesco Saba Sardi, da Leonardo nel 1992; Rovinare le sacre verità (Ruin the Sacred Truths. Poetry and Belief from the Bible to the Present, 1987), in quella di Claude Béguin, da Garzanti nel 1992. Il discorso di Derrida sui rapporti fra i nazisti e Nietzsche è nel suo Otobiographies. L’insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio (1984; traduzione di Riccardo Panattoni, premessa di Maurizio Ferraris, il Poligrafo, Padova 1993), pp. 78 sgg. La religione americana. L’avvento della nazione post-cristiana (The American Religion, 1992; traduzione di Serena Luzi) è uscito da Garzanti nel 1994. L’intervista (anche) “politica” è di Imre Salusinszky ed è contenuta nel volume a sua cura Criticism in Society (Methuen, London 1987): i passi che cito sono riportati da Gino Scatasta nell’assai interessante Postfazione a Harold Bloom, I vasi infranti (The Breaking of the Vessels, 1982), a cura di Giovanna Franci e Vita Fortunati, Mucchi, Modena 1992, pp. 131-48: 140-1. La precisazione riguardo al termine canone prima e dopo Frye (l’Anatomia della critica, del ’57, esce in Italia, nella traduzione di Paola Rosa-Clot e Sandro Stratta, da Einaudi nel ’69) è di Robert Scholes, Canonicity and Textuality, in Introduction to Scholarship in Modern Languages and Literatures, a cura di Joseph Gibaldi, MLA, New York 1981 (cit. in Remo Ceserani, Cannonate, cit., p. 69).

RIBELLARSI È GIUSTO

Le citazioni dai Vasi infranti sono dalle pp. 35 e 40-3. Eliot pubblica Tradizione e talento individuale nel 1919, e l’anno dopo lo raccoglie nel Bosco sacro. Saggi sulla poesia e la critica (io cito dalla traduzione di Vittorio Di Giuro e Alfredo Obertello, pubblicata da Bompiani nel ’67, pp. 69-70 e 73); l’altro saggio di Eliot è Reflections on Contemporary Poetry ed esce sul numero di luglio del ’19 di «The Egoist» (le citazioni sono tratte dalle pp. 41-2 di Vasi infranti). L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia (The Anxiety of Influence, 1973) esce da Feltrinelli, nella traduzione di Mario Diacono, nel 1983 (le citazioni alle pp. 13, 36, 103, 42-3, 46, 82-3 e 47); Una mappa della dislettura (A Map of Misreading, 1975; il libro è dedicato a Paul de Man) da Spirali nella traduzione di Alessandro Atti e Filippo Rosati, nel 1988 (la citazione è a p. 204); Poesia e rimozione. Il revisionismo da Blake a Stevens (Poetry and Repression, 1976) da Spirali nella traduzione di Alessandro Atti e altri, nel 1996 (le citazioni alle pp. 12, 22 e 112); La Kabbalà e la tradizione critica (Kabbalah and Criticism, 1975) da Feltrinelli nella traduzione di Mario Diacono, nel 1981. L’intervista è quella citata di Imre Salusinszky, pp. 50-1 (cit. da Gino Catasta, Postfazione, cit., p. 135). Il grande codice. La Bibbia e la letteratura di Frye (The Great Code, 1982) è uscito da noi, nella traduzione di Giovanni Rizzoni, da Einaudi nel 1986. Di Giacomo Debenedetti è citata la conferenza del ’63 A proposito di «Intermezzo» (in «L’Approdo letterario», XIII, 39, 1967, pp. 5-18; poi in Id., Saggi. 1922-1966, a cura di Franco Contorbia, Mondadori, Milano 1982, pp. 50-63): pagina assai ben valorizzata da Angela Borghesi che ne ha tratto il titolo della sua monografia La lotta con l’angelo. Giacomo Debenedetti critico letterario, Marsilio, Venezia 1989 (l’immagine di Genesi32:25-31 Debenedetti l’aveva usata almeno un’altra volta, alla fine della recensione ai Contemporanei di Giuseppe Ravegnani, compresa nella Verticale del ’37 dei Saggi critici. Nuova serie: cfr. Id., Saggi, progetto editoriale e saggio introduttivo di Alfonso Berardinelli, Mondadori, Milano 1999, pp. 475-9: 479). La recensione di Paul de Man all’Angoscia dell’influenza apparve in «Comparative Literature», XXVI, 3, Summer 1974. I passi della Genealogia della morale di Nietzsche sulla memoria e il dolore, sull’ascesi e la volontà d’illusione nell’arte (1887; traduzione di Ferruccio Masini, nota introduttiva di Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1984, pp. 48-9, 114-5, 148 e 156-7) sono commentati da Bloom nella Saggezza dei libri, pp. 218-23 (la citazione a p. 218). Di Giulio Ferroni è citato Harold Bloom in Id., I confini della critica, Guida, Napoli 2005, pp. 129-33: 130.

L’INVENZIONE DELLA TRADIZIONE

Di Giovanna Franci è citata l’Introduzioneall’edizione italiana cit. dei Vasi infranti, pp. 7-24: 18. Kafka e i suoi precursori di Jorge Luís Borges è citato dalla versione di Francesco Tentori Montalto contenuta nel primo volume di Tutte le opere, a cura di Domenico Porzio, Mondadori, Milano 1984, pp. 1007-9 (la citazione è a p. 1009; il testo, del ’51, viene raccolto nel ’60 in Altre inquisizioni; la traduzione italiana esce nel ’63 da Feltrinelli). Landolfi pubblica il frammento Dell’immagine letteraria in un gruppo di testi brevi scritti nel ’37 e designati Varietà non letterarie su «Letteratura», luglio-settembre 1941 (pp. 48-56; mai più ripubblicato dall’autore, si legge ora in «Quel libro senza uguali». Le Operette morali e il Novecento italiano, a cura di Novella Bellucci e Andrea Cortellessa, Bulzoni, Roma 2000, pp. 420-1); Borges parla di lui (citando Borges!) in Come si legge un libro e perché, pp. 69-71. Di Aldo Tagliaferri è citato Tra innovazione e tradizione: Harold Bloom [1982], in Id., L’invenzione della tradizione. Saggi sulla letteratura e sul mito, Spirali, Milano 1985, pp. 137-45: 139. Il saggio di Freud La negazione, del 1925, è compreso (nella traduzione di Elvio Fachinelli pubblicata una prima volta nel ’65) nel X volume dell’edizione delle Opere diretta da Cesare L. Musatti (Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti 1924-1929, Boringhieri, Torino 1978, pp. 197-201); il discorso di Bloom, al riguardo, si legge in Poesia e rimozione, pp. 262-3 (cfr. anche I vasi infranti, p. 33); la citazione da Lichtenberg nell’Angoscia dell’influenza, è a p. 39. Di imitatio Freudi si parla nei Vasi infranti, pp. 63-4 (le citazioni seguenti dalla Saggezza dei libri, pp. 229-30).

L’INVENZIONE DELLA SOLITUDINE

Shakespeare. L’invenzione dell’uomo (Shakespeare. The Invention of the Human, 1998) è stato tradotto da Roberta Zuppet, per Rizzoli, nel 2001 (la citazione è da p. 15). A proposito di Emerson le citazioni sono tratte dai Vasi infranti, p. 48; dalla Saggezza dei libri, pp. 200-1; da Agone, p. 31; da Una mappa della dislettura, p. 165. Di Emerson Fiducia in se stessi (originariamente pubblicato in Essays. First series, 1841) è citato dall’edizione a cura di Tommaso Pisanti di Natura e altri saggi, BUR, Milano 1990, pp. 91-126 (le citazioni a p. 121 e a p. 111; Uomini rappresentativi, 1850, è stato tradotto varie volte: l’ultima edizione disponibile è quella a cura di Angiolo Biancotti, Utet, Torino 1971; da segnalare la recente proposta dei saggi specificamente letterari di Emerson, Essere poeta, a cura di Beniamino Soressi, Moretti & Vitali, Bergamo 2007). Di Guido Guglielmi è citato Letteratura, storia, canoni, in «Allegoria», X, 29-30, maggio-dicembre 1998, pp. 83-90: 90 (dove è interessante l’intera sezione Sul canone, dichiaratamente occasionata dalla traduzione italiana del Canone occidentale di Bloom e comprensiva, oltre a quello di Guglielmi, di interventi di Romano Luperini, Christian Rivoletti, Hans-Robert Jauss, Andrea Battistini, Remo Ceserani, Giulio Ferroni, Niccolò Pasero e Cesare Segre). Il genio. Il senso dell’eccellenza attraverso le vite di cento individui non comuni(Genius. A Mosaic of One Hundred Exemplary Creative Minds, 2002) è stato tradotto da Daniele Didero, Roberta Zuppet e altri, per Rizzoli, nel 2002 (le citazioni sono dal paragrafo su Ralph Waldo Emerson, pp. 396-406). Le citazioni dall’Angoscia dell’influenza sono dalle pp. 75 e 98-9. Lo slogan arcinoto di Nietzsche è nei Frammenti postumi 1885-1887, traduzione di Sossio Giametta, Adelphi, Milano 1975, p. 299. La citazione da Poesia e rimozione è a p. 21, quella da Agone a p. 50, le ultime dall’Angoscia dell’influenza alle pp. 140 e 124.

A.C.


PREFAZIONE E PRELUDIO

Il presente libro prende in considerazione ventisei scrittori, inevitabilmente con un certo rimpianto, poiché cercherò di identificare le caratteristiche che hanno reso tali autori canonici, vale a dire autorevoli nella nostra cultura. Il «valore estetico» è a volte considerato una creazione di Immanuel Kant anziché una realtà, ma non è stata questa la mia esperienza nel corso di una vita di letture. Le cose tuttavia si sono disgregate, il centro non ha tenuto e la mera anarchia sta per scatenarsi su quello che si usava definire «il mondo erudito». Le finte guerre culturali non mi interessano granché; quanto ho da dire a proposito delle nostre attuali abiezioni è contenuto nel primo e nell’ultimo capitolo. Qui desidero descrivere la struttura del presente libro e spiegare perché ho scelto proprio questi ventisei scrittori tra le molte centinaia che un tempo erano considerate parte del Canone occidentale.

Nei Principi della scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni, Giambattista Vico postula un ciclo di tre fasi – teocratica (età degli dei), aristocratica (età degli eroi), democratica (età degli uomini) – seguito da un caos dal quale, alla fine, emergerà una nuova Età teocratica. Joyce fa uno splendido uso seriocomico di questa idea nell’organizzazione della Veglia di Finnegan e io mi sono collocato nella scia della Veglia, salvo omettere la letteratura dell’Età teocratica. La mia sequenza storica comincia con Dante e si conclude con Samuel Beckett, benché io non abbia sempre rispettato un ordine strettamente cronologico. Così, per esempio, ho iniziato l’Età aristocratica con Shakespeare, perché quest’ultimo è la figura primaria del Canone occidentale, e poi l’ho messo in relazione con quasi tutti gli altri (da Chaucer a Montaigne) che lo influenzarono, con i molti che ne furono influenzati (Milton, il dottor Johnson, Goethe, Ibsen, Joyce e Beckett per citarne solo alcuni) e con coloro che tentarono di rifiutarlo: Tolstoj in particolare, insieme a Freud, che si appropriò di Shakespeare pur sostenendo che era stato il conte di Oxford a redigere gli scritti per «l’uomo di Stratford».

La scelta degli autori in questo volume non è arbitraria come può sembrare. Sono stati selezionati sia per la loro sublimità sia per il loro carattere rappresentativo: se è possibile un libro su ventisei scrittori, non lo è un libro su quattrocento. Certo, qui sono presenti i maggiori scrittori occidentali da Dante in poi: Chaucer, Cervantes, Montaigne, Shakespeare, Goethe, Wordsworth, Dickens, Tolstoj, Joyce e Proust. Ma dove sono Petrarca, Rabelais, Ariosto, Spenser, Ben Jonson, Racine, Swift, Rousseau, Blake, Pusˇkin, Melville, Giacomo Leopardi, Henry James, Dostoevskij, Hugo, Balzac, Nietzsche, Flaubert, Baudelaire, Browning, Čechov, Yeats, D.H. Lawrence e tanti altri? Ho tentato di rappresentare i canoni nazionali mediante i loro protagonisti: Chaucer, Shakespeare, Milton, Wordsworth e Dickens per l’Inghilterra; Montaigne e Molière per la Francia; Dante per l’Italia; Cervantes per la Spagna; Tolstoj per la Russia; Goethe per la Germania; Borges e Neruda per l’America Latina; Whitman e Dickinson per gli Stati Uniti. Qui sono presenti i principali drammaturghi (Shakespeare, Molière, Ibsen e Beckett) e i romanzieri più importanti (Austen, Dickens, George Eliot, Tolstoj, Proust, Joyce e Woolf). Il dottor Johnson compare come massimo critico letterario dell’Occidente, cui sarebbe difficile trovare un rivale.

Vico non postula un’Età caotica prima del ricorso o del ritorno di una seconda Età teocratica; ma il XIX secolo, pur fingendo di proseguire l’Età democratica, non può essere definito altro che caotico. I suoi scrittori chiave sono Freud, Proust, Joyce e Kafka, che incarnano lo spirito letterario dell’epoca. Freud si autodefiniva uno scienziato, ma sopravviverà come grande saggista della portata di Montaigne o Emerson, non come il fondatore di una terapia già screditata (o elevata) a uno dei tanti episodi nella lunga storia dello sciamanesimo. Vorrei che qui ci fosse spazio per poeti più moderni di Neruda e Pessoa, ma nessun poeta del nostro secolo ha raggiunto i livelli di Alla ricerca del tempo perduto, di Ulisse o della Veglia di Finnegan, dei saggi di Freud o delle parabole e dei racconti di Kafka.

In quasi tutti e ventisei i casi, ho tentato di circoscrivere direttamente la grandezza, chiedendomi che cosa rendesse canonici l’autore e le sue opere. La risposta è stata per lo più la singolarità, un tipo di originalità che non può essere assimilata o che ci assimila al punto da indurci a non considerarla più singolare. Walter Pater definisce il Romanticismo come la capacità di aggiungere la bizzarria alla bellezza, ma a mio giudizio questa definizione non comprende solo i romantici, bensì tutta la scrittura canonica, il ciclo di produzione che va dalla Divina CommediaFinale di partita, di singolarità in singolarità. Chi legge per la prima volta un’opera canonica si imbatte in un estraneo, in una misteriosa sorpresa anziché nella realizzazione di un’aspettativa. Per chi li affronta per la prima volta, la Divina Commedia, il Paradiso perduto, il Faust – Parte secondaChadzˇi-MuratPeer GyntUlisse e il Canto general sono accomunati solo dalla misteriosità, dalla capacità di far sentire il lettore un estraneo a casa sua.

Shakespeare, il massimo scrittore che mai conosceremo, dà spesso l’impressione opposta: quella di farci sentire a casa quando siamo lontani, all’estero, in un luogo sconosciuto. Le sue capacità di assimilazione e contaminazione sono uniche e rappresentano una continua sfida per la produzione e la critica universale. Trovo assurdo e deplorevole che gli attuali esercizi critici su Shakespeare – «materialista culturale» (neomarxisti), «neostoricista» (Foucault), «femminista» – abbiano abbandonato la ricerca per affrontare quella sfida. La critica shakespeariana si stacca dalle opere e dalla supremazia estetica del drammaturgo, tentando di ridurlo alle «energie sociali» del Rinascimento inglese, come se non vi fosse alcuna vera differenza tra i meriti estetici del creatore di Lear, Amleto, Iago e Falstaff e quelli di discepoli come John Webster e Thomas Middleton. Nel suo Forme d’attenzione (1985), Frank Kermode, il miglior critico inglese vivente, esprime il più chiaro monito a me noto sul destino del Canone, cioè, in primo luogo, sul destino di Shakespeare:

Anche i canoni, che negano ogni distinzione fra conoscenza e opinione, e che sono strumenti di sopravvivenza contro gli assalti del tempo, non contro quelli della ragione, possono essere sottoposti a operazioni decostruzioniste; basta pensare che cose del genere non dovrebbero esistere, e si farà presto a trovare i mezzi per demolirli. La loro difesa non può essere affidata a forti istituzioni centrali; essi non possono più essere obbligatori, anche se è difficile capire come la normale attività delle istituzioni culturali, ivi compreso il reclutamento di nuove forze, possa farne a meno.

Come afferma Kermode, i mezzi per distruggere i canoni sono a portata di mano e il processo è ormai ben avviato. Come ripeto più volte nel presente libro, non sono interessato all’attuale dibattito tra i difensori di destra del Canone, che mirano a preservarlo per i suoi presunti (e inesistenti) valori morali, e la rete accademico-giornalistica che ho denominato Scuola del risentimento, ansiosa di sovvertire il Canone per promuovere i suoi presunti (e inesistenti) programmi di cambiamento sociale. Spero che questo libro non si riveli essere un’elegia del Canone occidentale e che forse, a un certo punto, si verifichi un’inversione e il gruppo di coloro che sono inclini al suicidio di massa smetta di scagliarsi giù dalla rupe. Nel catalogo alla fine del volume ho azzardato una modesta profezia riguardo alle possibilità di sopravvivenza degli autori canonici, soprattutto quelli del nostro secolo.

Un’originalità capace di assicurare lo statuscanonico a un’opera letteraria è una singolarità che non viene mai assimilata del tutto o che diviene un dato di fatto così abituale da impedirci di vederne le peculiarità. Dante è il massimo esempio della prima possibilità e Shakespeare l’esempio insuperabile della seconda. Walt Whitman, sempre contraddittorio, presenta entrambi i lati del paradosso. Dopo Shakespeare, il maggiore rappresentante dei dati di fatto è il primo autore della Bibbia ebraica, il personaggio chiamato Jahvista o J dagli studiosi ottocenteschi della Bibbia (la «J» viene dalla pronuncia tedesca dell’ebraico Yahweh, o Jehovahin inglese, il risultato di un antico errore di ortografia). A quanto pare, J (come Omero, una o più persone smarrite nei bui recessi del tempo) visse a o vicino Gerusalemme circa tremila anni fa, molto prima che Omero nascesse o venisse inventato. Probabilmente non sapremo mai chi sia stato il J primario. Basandomi su considerazioni letterarie di carattere puramente interno e soggettivo, penso che J possa tranquillamente essere stato una donna alla corte di re Salomone, un luogo di alta cultura, di notevole scetticismo religioso e di grande raffinatezza psicologica.

Un avveduto recensore del mio Libro di j mi ha rimproverato per non aver avuto l’audacia di spingermi sino in fondo, identificando J con Betsabea, la regina madre, l’ittita che re Davide prese in moglie dopo aver fatto in modo che Uria, suo marito, cadesse opportunamente in battaglia. Sono ben lieto di seguire il suggerimento, anche se in ritardo: Betsabea, madre di Salomone, è una candidata papabile. La sua pessima opinione di Roboamo, il tremendo figlio e successore di Salomone, sottintesa in tutto il testo jahvistico, risulta allora perfettamente spiegabile; lo stesso vale per la sua ironica descrizione dei patriarchi ebrei e per il suo affetto verso alcune delle loro mogli e verso escluse come Agar e Tamar. Inoltre, è una magnifica ironia jahvistica il fatto che il primo autore della successiva Torah non sia un israelita, bensì una donna ittita. Da qui in avanti mi riferirò allo Jahvista ora come J, ora come Betsabea.

J fu l’autore originale di quelli che oggi chiamiamo Genesi, Esodo e Numeri, ma ciò che scrisse fu censurato, modificato e spesso cancellato o travisato da una serie di revisori nel corso di cinque secoli, culminanti in Esdra o in uno dei suoi seguaci all’epoca del ritorno dall’esilio babilonese. I revisionisti in questione erano sacerdoti e scribi del culto e, a quanto sembra, si scandalizzarono per l’ironica libertà con cui Betsabea aveva ritratto Jahveh. Il Jahveh di J è umano, fin troppo umano: mangia e beve, spesso perde la pazienza, gongola al pensiero delle proprie malefatte, è geloso e vendicativo, si definisce imparziale pur continuando a fare favoritismi e fornisce un esempio lampante di ansia nevrotica quando osa trasferire la propria benedizione da un’élite all’intera moltitudine israelita. Quando guida quella folla impazzita e sofferente attraverso il deserto del Sinai, è ormai così folle e pericoloso per se stesso e per gli altri che J merita di essere definito il più blasfemo di tutti gli autori mai vissuti.

A quanto ne sappiamo, la saga di J si conclude quando Jahveh seppellisce con le sue mani il profeta Mosè in una tomba anonima dopo aver concesso al longanime capo degli israeliti non più di un’occhiata alla Terra Promessa. Il capolavoro di Betsabea è la storia dei rapporti tra Jahveh e Mosè, una narrazione al di là dell’ironia o della tragedia che si snodano dalla sorprendente scelta del profeta riluttante da parte di Jahveh al suo immotivato tentativo di uccidere Mosè e alle successive vessazioni che affliggono sia Dio sia il suo strumento.

L’ambivalenza tra il divino e l’umano è una delle grandi invenzioni di J, un altro esempio di originalità così duratura che la riconosciamo a fatica, perché le storie narrate da Betsabea ci hanno assorbiti totalmente. Il profondo turbamento implicito in questa originalità creatrice di canoni si manifesta quando ci rendiamo conto che l’adorazione occidentale di Dio – da parte di ebrei, cristiani e musulmani – è l’adorazione di un personaggio letterario, del Jahveh di J, seppur adulterato da pii revisionisti. Gli unici traumi paragonabili a me noti si manifestano quando ci rendiamo conto che il Gesù amato dai cristiani è un personaggio letterario in gran parte inventato dall’autore del Vangelo di Marco e quando leggiamo il Corano e udiamo un’unica voce, la voce di Allah, registrata con precisione e per esteso dall’audacia del profeta Maometto. Un giorno, nel XXI secolo, quando il mormonismo sarà diventato la religione dominante almeno nell’Occidente americano, coloro che verranno dopo di noi subiranno forse un quarto turbamento analogo incontrando la temerarietà di Joseph Smith, l’autentico profeta americano, nelle sue visioni definitive, The Pearl of Great Price e Doctrines and Covenants.

La singolarità canonica può esistere senza il turbamento di una simile sfrontatezza, ma il tocco dell’originalità deve sempre aleggiare nella versione iniziale di qualunque opera vinca incontestabilmente la sfida con la tradizione ed entri a far parte del Canone. Oggi le istituzioni scolastiche sono zeppe di idealisti risentiti che denunciano la rivalità sia nella letteratura sia nella vita, ma secondo gli antichi greci – e secondo Burckhardt e Nietzsche, che recuperarono questa verità – l’estetico e l’agonistico sono una cosa sola. Omero insegna una poetica di conflitti, una lezione imparata innanzi tutto dal suo rivale Esiodo. Come osserva il critico Longino, Platone è tutto contenuto nel suo incessante conflitto con Omero, che viene esiliato invano dalla Repubblica; infatti, fu Omero, e non Platone, a diventare il punto di riferimento dei greci. Secondo Stefan George, la Divina Commedia di Dante fu «il libro e la scuola di tutte le ere», sebbene questo giudizio sia più valido per i poeti che per chiunque altro e venga giustamente applicato ai drammi di Shakespeare, come dimostrerà il presente libro.

Agli scrittori contemporanei non piace sentirsi dire che devono competere con Shakespeare e con Dante, eppure, per Joyce, quella battaglia fu uno stimolo per raggiungere la grandezza, per raggiungere un’eminenza condivisa, tra gli autori occidentali moderni, solo da Beckett, Proust e Kafka. L’archetipo fondamentale della compiutezza letteraria sarà sempre Pindaro, che celebra le vittorie quasi divine dei suoi atleti aristocratici comunicando al tempo stesso la sensazione implicita che le sue odi alle vittorie siano esse stesse vittorie su ogni possibile concorrente; Dante, Milton e Wordsworth riprendono la sua metafora chiave della gara per la conquista della palma, che rappresenta un’immortalità secolare stranamente in antitesi con ogni pio idealismo. L’«idealismo», un argomento su cui ci si sforza di non essere ironici, è ora in gran voga nelle nostre scuole e nei nostri college, dove tutti i criteri estetici e gran parte di quelli intellettuali vengono abbandonati in nome dell’armonia sociale e della riparazione delle ingiustizie storiche. Sul piano pragmatico, l’«espansione del Canone» è coincisa con la distruzione del Canone, poiché gli insegnamenti proposti non comprendono affatto gli scrittori più bravi – che, guarda caso, sono donne, africani, ispanici o asiatici – bensì gli autori che hanno ben poco da offrire oltre al risentimento sviluppato come parte del loro senso di identità. In quel risentimento non vi sono né singolarità né originalità, e anche se ve ne fossero, non basterebbero a creare eredi dello Jahvista e di Omero, di Dante e Shakespeare, di Cervantes e Joyce.

Essendo l’ideatore di un concetto critico che a suo tempo ho definito «ansia da influenza», ho apprezzato l’affermazione ripetuta più volte dalla Scuola del risentimento, secondo cui un’etichetta di questo genere è applicabile solo ai maschi europei bianchi defunti, e non alle donne o a coloro cui abbiamo attribuito la bizzarra denominazione di «multiculturalisti». Le femministe più entusiastiche asseriscono così che le scrittrici collaborano amorevolmente tra loro come confezionatrici di trapunte, mentre gli attivisti letterari ispanici e afroamericani si spingono ancora più in là, affermando la propria libertà dall’angoscia della contaminazione: ciascuno di loro è Adamo allo spuntare del giorno. Non conoscono un periodo in cui non fossero come sono ora: autocreati, autogenerati, dotati di una forza propria. Come asserzioni pronunciate da poeti, drammaturghi e scrittori di narrativa, queste tesi sono salutari e comprensibili, anche se illusorie. Come dichiarazioni di presunti critici letterari, queste affermazioni ottimistiche non sono tuttavia né vere né interessanti e sono contrarie sia alla natura umana sia a quella della letteratura di fantasia. Senza influenza letteraria, un processo fastidioso da subire e difficile da comprendere, non può esistere una scrittura solida e canonica. Non sono mai riuscito a riconoscere la mia teoria dell’influenza quando qualcuno l’ha attaccata, perché ciò che viene attaccato non è mai neppure una parodia accettabile delle mie idee. Come dimostra il capitolo su Freud contenuto nel presente volume, sono favorevole a una lettura shakespeariana di Freud, e non a una lettura freudiana di Shakespeare o di qualsiasi altro scrittore. L’ansia da influenza non è un’ansia riguardante il padre, reale o letterario, bensì un’ansia raggiunta dal e nel romanzo, dramma o componimento poetico. Ogni opera letteraria solida fraintende il testo o i testi precursori in maniera creativa, e dunque li interpreta erroneamente. Un autentico scrittore canonico può oppure no interiorizzare l’ansia della sua opera, ma ciò non ha molta importanza: l’opera solida e compiuta è l’ansia. Nel suo libro Towards Historical Rhetorics, Peter de Bolla esprime con chiarezza questo concetto:

Il romanzo familiare freudiano come descrizione dell’influenza è una lettura estremamente debole. Per Bloom, «influenza» è insieme una categoria tropologica, una figura retorica che determina la tradizione poetica e un complesso di rapporti psichici, storici e imagistici […] l’influenza descrive le relazioni fra i testi ed è un fenomeno intertestuale […] la difesa psichica interiore – l’esperienza di ansia del poeta – e i rapporti storici esterni fra i testi sono il risultato del fraintendimento o dell’omissione poetica, non la loro causa.

Questa sintesi accurata sembrerà senza dubbio complessa a chi non conosce i miei tentativi di riflessione sul problema dell’influenza letteraria, ma de Bolla mi fornisce un buon punto di partenza all’inizio di questa discussione sull’ormai minacciato Canone occidentale. Occorre portare il fardello dell’influenza se si vuole conquistare e riconquistare un’originalità significativa nell’ambito della ricca tradizione letteraria occidentale. La tradizione non è soltanto un retaggio o un processo di benevola trasmissione; è anche un conflitto tra il genio passato e l’aspirazione presente, un conflitto il cui premio è la sopravvivenza letteraria o l’inclusione nel Canone. Quel conflitto non può essere risolto dalle problematiche sociali, dal giudizio di una particolare generazione di idealisti impazienti, dai marxisti impegnati a urlare: «Lasciate che i morti seppelliscano i morti» o da sofisti che cercano di sostituire il Canone con la biblioteca e lo spirito sagace con l’archivio. Le poesie, i racconti, i romanzi e le opere teatrali nascono in risposta a poesie, racconti, romanzi e opere teatrali precedenti, e quella risposta dipende da atti di lettura e interpretazione compiuti dagli scrittori successivi, atti che sono identici alle nuove opere.

Queste letture degli scritti precedenti hanno necessariamente un carattere in parte difensivo; se fossero soltanto piene di gratitudine, la nuova creazione verrebbe soffocata, e non solo per ragioni psicologiche. Il problema non è la rivalità edipica, bensì la natura delle fantasie letterarie solide e originali: il linguaggio figurativo e le sue vicissitudini. L’invenzione di nuove metafore o di tropi fantasiosi comporta sempre un distacco dalle metafore precedenti e quel distacco dipende dall’allontanamento o dal rifiuto almeno parziale di una figurazione anteriore. Shakespeare prende Marlowe come punto di partenza e i primi antieroi shakespeariani, per esempio Riccardo III e Aronne il Moro in Tito Andronico, sono un po’ troppo simili a Barabba, l’ebreo di Malta ideato da Marlowe. Quando Shakespeare crea Shylock, il suo ebreo di Venezia, il fondamento metaforico dei discorsi di questo antieroe farsesco viene radicalmente mutato e Shylock è un solido travisamento o un’interpretazione scorretta e creativa di Barabba, mentre Aronne il Moro è un po’ più simile a una riproduzione di Barabba, soprattutto sul piano del linguaggio figurativo. Quando Shakespeare scrive Otello, ogni traccia di Marlowe è ormai scomparsa: la perfidia autocompiaciuta di Iago è, a livello cognitivo, assai più sottile e, in termini di imagismo, assai più raffinata degli eccessi autocelebrativi dell’esuberante Barabba. Il travisamento creativo di Marlowe da parte di Shakespeare ottiene un pieno trionfo nel confronto tra Iago e Barabba. Shakespeare è un caso unico di invariabile mortificazione del predecessore. Il Riccardo IIIrivela un’ansia da influenza nei confronti dell’Ebreo di Malta e di Tamerlano il Grande, ma all’epoca il drammaturgo stava ancora cercando la sua strada. Con l’avvento di Falstaff nell’Enrico IV – Parte prima, la trovò una volta per tutte e Marlowe divenne soltanto la strada da non percorrere, tanto sul palcoscenico quanto nella vita.

Dopo Shakespeare vi sono solo pochi autori che combattono mostrando una relativa libertà dall’ansia: Milton, Molière, Goethe, Tolstoj, Ibsen, Freud, Joyce; e per tutti loro, ad eccezione di Molière, Shakespeare rimane l’unico problema, come cerca di dimostrare questo libro. La grandezza riconosce la grandezza e ne viene ottenebrata. Venire dopo Shakespeare, che scrisse sia la miglior prosa sia la miglior poesia della tradizione occidentale, è un destino difficile, perché l’originalità diviene particolarmente ardua in tutto ciò che conta di più: la rappresentazione degli esseri umani, il ruolo della memoria nella conoscenza, la capacità della metafora di indicare nuove possibilità linguistiche. Queste sono le maggiori doti di Shakespeare e nessuno l’ha uguagliato come psicologo, pensatore o retore. Wittgenstein, che disapprovava Freud, ce lo ricorda nella sua reazione sospettosa e difensiva verso Shakespeare, che costituisce un affronto tanto il filosofo quanto per lo psicoanalista. Nell’intera storia della filosofia non esiste un’originalità cognitiva paragonabile a quella di Shakespeare ed è insieme ironico e affascinante ascoltare Wittgenstein che si domanda se vi sia davvero una differenza tra la rappresentazione shakespeariana del pensiero e il pensiero stesso. Come osserva il poeta e critico australiano Kevin Hart, è vero che «la cultura occidentale ricava il proprio lessico di intelligibilità dalla filosofia greca e tutti i nostri discorsi sulla vita e sulla morte, sulla forma e sullo scopo, sono segnati dai rapporti con quella tradizione». Tuttavia, sul piano pragmatico, l’intelligibilità trascende il proprio lessico e non dobbiamo dimenticare che Shakespeare, poco abituato a fare affidamento sulla filosofia, è più importante per la cultura occidentale di quanto lo siano Platone e Aristotele, Kant e Hegel, Heidegger e Wittgenstein.

Oggi credo di essere l’unico a difendere l’autonomia dell’estetico, ma la sua miglior difesa è l’esperienza di leggere il Re Lear e poi vederne una valida rappresentazione teatrale. Il Re Lear non deriva da una crisi della filosofia e la sua forza non può essere giustificata accennando a una mistificazione promossa in qualche modo dalle istituzioni borghesi. Il fatto di essere considerati eccentrici perché si sostiene che il letterario non dipende dal filosofico e che l’estetico non è riducibile all’ideologia o alla metafisica indica quanto siano degenerati gli studi letterari. La critica estetica ci riporta all’indipendenza della letteratura di fantasia e alla sovranità dell’anima solitaria, al lettore inteso non come individuo nella società, bensì come io profondo, come nostra suprema interiorità. In uno scrittore poderoso, la profondità dell’interiorità è la forza che tiene lontano il massiccio peso delle conquiste passate per paura che l’originalità venga schiacciata prima di manifestarsi. La grande scrittura è sempre una riscrittura o un revisionismo e si fonda su una lettura che lascia spazio all’io o che agisce in modo da riaprire le vecchie opere alle nostre nuove sofferenze. Gli originali non sono originali, ma questa ironia emersoniana cede il posto al pragmatismo emersoniano, che l’inventore sa come prendere in prestito.

L’ansia da influenza paralizza i talenti più deboli ma stimola il genio canonico. A collegare intimamente i tre più vitali romanzieri americani dell’Età caotica (Hemingway, Fitzgerald e Faulkner) è il fatto che nascono tutti dall’influenza di Joseph Conrad, ma la attenuano con astuzia mescolando Conrad con un precursore americano: Mark Twain per Hemingway, Henry James per Fitzgerald, Herman Melville per Faulkner. La stessa astuzia traspare nella fusione di Whitman e Tennyson operata da T.S. Eliot e nella sovrapposizione di Whitman e Browning compiuta da Ezra Pound, come pure nella deviazione da Eliot effettuata da Hart Crane con un’altra svolta verso Whitman. Gli scrittori più abili non scelgono i loro precursori principali; ne vengono scelti, ma possiedono l’intelligenza necessaria per trasformare i predecessori in esseri compositi e dunque parzialmente immaginari.

Nel presente libro non mi occupo direttamente dei rapporti intertestuali tra i ventisei autori presi in esame; il mio proposito è di considerarli come rappresentanti dell’intero Canone occidentale, ma senza dubbio il mio interesse per i problemi legati all’influenza emerge quasi ovunque, talvolta forse senza che me ne renda conto. La letteratura solida, agonistica che lo si voglia oppure no, non può essere separata dalle sue ansie riguardo alle opere dotate di priorità e autorità nei suoi confronti. Sebbene gran parte dei critici si rifiuti di comprendere i processi dell’influenza letteraria o tenti di idealizzarli definendoli totalmente generosi e benevoli, le oscure verità della rivalità e della contaminazione continuano a rafforzarsi man mano che la storia canonica si prolunga nel tempo. Per quanto ansiosi di affrontare direttamente le problematiche sociali, una poesia, un dramma o un romanzo nascono necessariamente da opere anteriori. La contingenza governa la letteratura come ogni altra impresa cognitiva e la contingenza costituita dal Canone letterario occidentale si manifesta soprattutto come ansia da influenza che forma e deforma qualunque nuova scrittura aspiri all’eternità. La letteratura non è solo linguaggio: è anche volontà di rappresentazione, lo stimolo alla metafora che, una volta, Nietzsche definì come il desiderio di essere diverso, il desiderio di essere altrove. Ciò significa in parte essere diversi da se stessi, ma, credo, essere diversi soprattutto dalle metafore e dalle immagini delle opere contingenti che costituiscono il proprio retaggio: il desiderio di scrivere bene è il desiderio di essere altrove, in un tempo e in un luogo propri, in un’originalità che deve combinarsi con il retaggio e l’ansia da influenza.


PARTE PRIMA

SUL CANONE

1.

UN’ELEGIA PER IL CANONE

In origine, il termine «Canone» designava i libri usati nelle nostre istituzioni scolastiche e, nonostante la recente politica del multiculturalismo, resta la vera domanda del Canone: in un momento storico così tardo, che cosa deve provare a leggere l’individuo che ha ancora voglia di leggere? I settant’anni biblici bastano appena per leggere una selezione dei grandi scrittori appartenenti alla cosiddetta tradizione occidentale, per non parlare poi di quelli appartenenti a tutte le tradizioni mondiali. Chi legge deve fare una scelta, poiché non vi è il tempo materiale di leggere tutto, nemmeno se non si fa altro che leggere. Lo splendido verso di Mallarmé («La carne è triste, ahimè! E ho letto tutti i libri») è divenuto un’iperbole. La sovrappopolazione e la replezione malthusiana sono il vero contesto delle angosce canoniche. Di questi tempi non passa istante senza che nuove schiere di esponenti accademici inclini al suicidio di massa si buttino giù dalla rupe in cui intravedono le responsabilità politiche del critico, ma alla fine tutto questo moraleggiare si placherà. Ogni istituzione scolastica avrà la propria facoltà di studi culturali, un bue da non macellare, e fiorirà un substrato estetico capace di ripristinare in parte il fascino della lettura.

Recensire libri scadenti, osservò una volta W.H. Auden, è nocivo per il carattere. Come tutti i bravi moralisti, Auden idealizzava suo malgrado e sarebbe dovuto sopravvivere fino all’epoca odierna, in cui i nuovi commissari del popolo ci dicono che leggere bei libri è nocivo per il carattere, cosa che, a mio avviso, è probabilmente vera. Leggere gli scrittori più bravi (per esempio, Omero, Dante, Shakespeare e Tolstoj) non farà di noi cittadini migliori. Secondo il sublime Oscar Wilde, che aveva ragione su tutto, l’arte è perfettamente inutile; questo scrittore ci dice anche che tutta la poesia mediocre è sincera. Se ne avessi il potere, ordinerei di incidere queste parole sopra l’ingresso di ogni università, affinché ciascuno studente possa riflettere sulla profondità di quell’intuizione.

La poesia di Maya Angelou, scritta per la cerimonia di insediamento del presidente Clinton, è stata lodata in un editoriale del «New York Times» come opera di grandezza whitmaniana e la sua sincerità è davvero travolgente; il testo si unisce a tutte le altre opere che inondano le nostre accademie diventando subito canoniche. La triste verità è che non riusciamo a trattenerci; possiamo resistere fino a un certo punto, ma oltre quel punto persino le nostre università si sentirebbero costrette ad accusarci di razzismo e sessismo. Ricordo che uno di noi, senza dubbio in tono ironico, disse a un intervistatore del «New York Times»: «Siamo tutti critici femministi». Questa è la retorica adatta a un Paese occupato, un Paese che non si aspetta la liberazione dalla liberazione. Le istituzioni possono sperare di seguire il consiglio che il principe dà ai suoi pari nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: «Cambiare tutto per non cambiare nulla».

Purtroppo, è impossibile che le cose non cambino, poiché l’arte e la passione di leggere bene e in profondità, i due elementi alla base della nostra impresa, dipendevano da individui che erano lettori entusiastici fin da bambini. Oggi, persino i lettori devoti e solitari sono necessariamente in difficoltà, perché non possono avere la certezza che le nuove generazioni preferiranno Shakespeare e Dante a tutti gli altri scrittori. Le ombre si allungano nella nostra terra della sera e siamo entrati nel secondo millennio aspettandoci altre tenebre.

Non deploro queste situazioni; a mio giudizio, l’estetica è un problema individuale anziché sociale. In ogni caso, non ci sono colpevoli, anche se alcuni di noi preferirebbero non sentirsi dire che non abbiamo la visione sociale aperta, libera e generosa dei nostri successori. La critica letteraria è un’arte antica; secondo Bruno Snell, il suo inventore fu Aristofane e io tendo a concordare con Heinrich Heine quando afferma che «c’è un dio, e il suo nome è Aristofane». La critica culturale è l’ennesima deprimente scienza sociale, ma la critica letteraria, essendo un’arte, è sempre stata e sempre sarà un fenomeno elitario. Fu un errore credere che la critica letteraria potesse diventare la base dell’istruzione democratica o del miglioramento sociale. Quando le nostre facoltà di letteratura inglese o di altre lingue rimpiccioliranno fino ad avere le dimensioni delle nostre attuali facoltà di studi classici, cedendo le loro funzioni più grossolane alle legioni degli studi culturali, forse saremo in grado di tornare allo studio dell’inevitabile, a Shakespeare e ai suoi pochi pari, che, in fin dei conti, hanno inventato tutti noi.

Il Canone – se lo consideriamo come il rapporto di un singolo lettore e scrittore con ciò che si è conservato di quanto è stato scritto, e se dimentichiamo il Canone come elenco di libri per le materie obbligatorie – andrà a coincidere con l’Arte letteraria della memoria, e non con l’accezione religiosa del termine. La memoria è sempre un’arte, anche quando opera involontariamente. Emerson contrapponeva il partito della Memoria al partito della Speranza, ma ciò accadde in un’America molto diversa. Oggi il partito della Memoria è il partito della Speranza, benché la speranza si sia affievolita. Tuttavia, è stato sempre pericoloso istituzionalizzare la speranza e non viviamo più in una società in cui sarà lecito istituzionalizzare la memoria. Dobbiamo insegnare in maniera più selettiva, cercando i pochi che possiedono la capacità di diventare lettori e scrittori molto peculiari. Gli altri, assoggettabili a un programma di studi politicizzato, possono essere abbandonati a quest’ultimo. Dal punto di vista pragmatico, il valore estetico può essere riconosciuto o vissuto, ma non può essere veicolato a chi è incapace di coglierne le sensazioni e le percezioni. Litigare a causa sua è sempre un errore.

Ciò che più mi interessa è la fuga dall’estetico diffusa fra tanti esponenti della mia professione, alcuni dei quali avevano almeno esordito con la capacità di vivere il valore estetico. In Freud, la fuga è la metafora della rimozione, dell’oblio inconscio ma intenzionale. Nella fuga che caratterizza la mia professione, l’intenzione è abbastanza evidente: attenuare una colpa rimossa. In un contesto estetico, dimenticare è dannoso, perché, nella critica, la conoscenza si basa sempre sulla memoria. Longino avrebbe detto che il piacere è ciò che i rancorosi hanno dimenticato e Nietzsche l’avrebbe definito dolore, ma avrebbero pensato entrambi alla stessa esperienza insuperabile. Coloro che la vivono con un’inclinazione al suicidio di massa intonano la litania secondo cui la letteratura si spiega meglio come mistificazione promossa dalle istituzioni borghesi.

Ciò riduce l’estetica all’ideologia o tutt’al più alla metafisica. Una poesia non può essere letta come poesia, perché è soprattutto un documento sociale o, eventualità rara ma possibile, un tentativo di superare la filosofia. Contro questo approccio vi esorto a una resistenza ostinata il cui unico scopo è preservare la poesia nella sua massima pienezza e purezza. Le nostre legioni disertrici rappresentano una corrente che, all’interno delle nostre tradizioni, è sempre stata in fuga dall’estetico: il moralismo platonico e la scienza sociale aristotelica. Gli attacchi esiliano la poesia etichettandola come distruttiva del benessere sociale oppure la tollerano purché assuma la funzione di catarsi sociale sotto i vessilli del nuovo multiculturalismo. Sotto la superficie del marxismo, del femminismo e del neostoricismo accademici continuano a scorrere l’antica polemica del platonismo e l’altrettanto arcaica medicina sociale aristotelica. Suppongo che il conflitto tra queste tendenze e i sostenitori dell’estetico – questi ultimi sempre in difficoltà – non finirà mai. Oggi stiamo perdendo e senza dubbio continueremo a perdere; è una situazione spiacevole, perché molti dei nostri migliori studenti ci abbandoneranno per altre discipline e altre professioni, un abbandono già molto marcato. Sono giustificati perché non siamo stati in grado di proteggerli dalla perdita, così accentuata nella nostra professione, dei criteri intellettuali ed estetici di talento e valore. Ora possiamo solo mantenere una certa continuità con l’estetico ed evitare di cedere alla menzogna secondo cui siamo contrari all’avventura e alle nuove interpretazioni.

È risaputo che Freud definì l’ansia come Angst vor etwas o come aspettative ansiose. Vi è sempre qualcosa che attendiamo con ansia, fossero anche solo le aspettative che saremo chiamati a soddisfare. L’Eros, probabilmente la più piacevole delle aspettative, riversa le sue ansie sulla consapevolezza riflessiva, l’argomento di Freud. Anche un’opera letteraria suscita alcune aspettative e deve soddisfarle se non vuole correre il rischio di non essere più letta. Le angosce più profonde della letteratura sono letterarie; anzi, a mio avviso, definiscono il letterario e giungono quasi a coincidere con esso. Una poesia, un romanzo o un dramma contraggono tutte le malattie dell’umanità, compresa la paura della morte, che, nell’arte della letteratura, si tramuta in ricerca della canonicità, con la speranza di entrare nella memoria comune o sociale. Nei suoi sonetti migliori, persino Shakespeare si accosta a questa pulsione o desiderio ossessivo. La retorica dell’immortalità è anche una cosmologia e una psicologia della sopravvivenza.

Da dove scaturì l’idea di concepire un’opera letteraria che il mondo non lasciasse morire volutamente? Non fu certo inserita nelle Scritture dagli ebrei, secondo cui i testi canonici erano quelli capaci di contaminare le mani che li toccavano, probabilmente perché le mani mortali non erano adatte a stringere i testi sacri. Gesù sostituì la Torah per i cristiani e, in Lui, ciò che contava era la Resurrezione. In quale momento nella storia della scrittura secolare gli uomini cominciarono a definire immortali le poesie e i racconti? Questa idea ingegnosa compare in Petrarca, viene meravigliosamente sviluppata da Shakespeare nei sonetti ed è già latente nella lode dantesca della Divina Commedia. Non possiamo affermare che Dante abbia secolarizzato questo concetto, perché il poeta racchiudeva ogni cosa e pertanto, in un certo senso, non secolarizzò nulla. Per lui, il suo poema era una profezia, proprio come lo era il testo di Isaia, sicché possiamo forse dire che Dante inventò la moderna concezione del canonico. L’eminente medievalista Ernst Robert Curtius sottolinea che Dante considerava autentici solo due viaggi nell’aldilà intrapresi prima del suo: quello di Enea nel libro sesto del poema di Virgilio e quello di san Paolo narrato in 2 Corinti 12, 2. Da Enea discese Roma e da Paolo il cristianesimo dei gentili; da Dante sarebbe venuta, se il poeta fosse vissuto fino all’età di ottantun anni, l’attuazione della profezia esoterica celata nella Commedia, ma Dante morì a cinquantasei anni.

Curtius, sempre attento alle sorti delle metafore canoniche, fa una divagazione sulla Poesia come perpetuazione, facendo risalire l’origine dell’eternità della fama poetica all’Iliade(6.359) e, più in là, alle Odi di Orazio (4.8,28), dove leggiamo che sono l’eloquenza e l’affetto della Musa a permettere all’eroe di non morire mai. Jakob Burckhardt, in un capitolo sulla fama letteraria citato da Curtius, nota che Dante, il poeta-filologo del Rinascimento italiano, aveva «la profonda consapevolezza di essere un elargitore di fama, anzi di immortalità», consapevolezza che Curtius individua tra i poeti romanzi della Francia già nel 1100. A un certo punto, tuttavia, questa consapevolezza si allacciò all’idea di una canonicità secolare, cosicché non fu più l’eroe celebrato ma la celebrazione stessa a essere salutata come immortale. Il Canone secolare, termine con cui si designa un repertorio di autori approvati, non comincia davvero fino alla metà del XVIII secolo, durante il periodo letterario della Sensibilità, del Sentimentalismo e del Sublime. Le Odi di William Collins ricollegano il Canone del Sublime ai precursori eroici della Sensibilità, dagli antichi greci a Milton, e sono tra le prime poesie in lingua inglese composte per proporre una tradizione secolare di canonicità.

Il Canone, parola di origini religiose, è divenuto una scelta fra testi in lotta per la sopravvivenza, a prescindere dal fatto che la scelta venga attribuita a gruppi sociali dominanti, a istituzioni scolastiche, a tradizioni critiche o, come faccio io, ad autori ritardatari che si sentono eletti da particolari figure ancestrali. Alcuni moderni paladini del cosiddetto radicalismo accademico arrivano a ipotizzare che le opere entrino nel Canone grazie a efficaci campagne pubblicitarie e propagandistiche. Talvolta i compagni di questi scettici si spingono ancora più in là e mettono in discussione persino Shakespeare, la cui preminenza sembra loro una sorta di imposizione. Chi adora il dio composito del processo storico è destinato a negare la palpabile supremazia estetica di Shakespeare, l’originalità davvero scandalosa dei suoi drammi. L’originalità diviene l’equivalente letterario di termini come competizione, iniziativa personale e fiducia in se stessi, termini che non rallegrano i cuori delle femministe, degli afrocentristi, dei marxisti, dei decostruttivisti e dei neostoricisti di ispirazione foucaultiana, di tutti coloro, insomma, che ho indicato come membri della Scuola del risentimento.

Un’illuminante teoria sulla formazione del Canone viene presentata da Alastair Fowler nel suo Kinds of Literature (1982). Nel capitolo «Hierarchies of Genres and Canons of Literature», Fowler osserva che «i cambiamenti del gusto letterario possono spesso essere riferiti alla rivalutazione dei generi rappresentati dalle opere canoniche». In ogni epoca, alcuni generi vengono considerati più canonici di altri. Nei primi decenni della nostra era, il romance americano in prosa venne esaltato come genere, il che contribuì a fare di Faulkner, Hemingway e Fitzgerald i principali scrittori di narrativa in prosa del XX secolo, degni successori di Hawthorne, Melville, Mark Twain e dell’aspetto di Henry James che trionfa nella Coppa d’oro e nelle Ali della colomba. L’effetto di questa esaltazione del romance rispetto romanzo «realistico» fu che narrazioni visionarie come Mentre morivo di Faulkner, Signorina Cuorinfrantidi Nathanael West e L’incanto del lotto 49 di Thomas Pynchon godettero di maggiori consensi critici rispetto a Nostra sorella Carrie e a Una tragedia americana di Theodore Dreiser. Ora è cominciata un’ulteriore revisione dei generi con l’affermazione del romanzo giornalistico, per esempio A sangue freddo di Truman Capote, Ilcanto del boia di Norman Mailer e Il falò delle vanità di Thomas Wolfe. Una tragedia americanaha ritrovato gran parte del suo lustro nell’atmosfera di queste opere.

Il romanzo storico sembra essere stato definitivamente svalutato. Una volta, Gore Vidal mi disse con amara eloquenza che la sua esplicita insistenza sulla sfera sessuale gli aveva negato lo status canonico. Sembra più probabile che le migliori opere narrative di Vidal (ad eccezione del sublime e irriverente Myra Breckenridge) siano ottimi romanzi storici – LincolnBurr e molti altri – e che questo sottogenere non sia più suscettibile di canonizzazione, il che aiuta a spiegare il triste destino dell’esuberante e fantasioso Antiche sere di Norman Mailer, una meravigliosa anatomia della buggeratura e dell’inganno che non è riuscita a sopravvivere alla sua ambientazione nell’antico Egitto del Libro dei morti. La scrittura storica e la finzione narrativa si sono scisse e la nostra sensibilità non sembra più capace di conciliarle.

Fowler spiega con chiarezza perché non tutti i generi siano disponibili in ogni epoca:

Dobbiamo accettare il fatto che la gamma completa dei generi non sia mai disponibile in maniera uniforme, né tanto meno piena, in ogni periodo. Ciascuna epoca ha un repertorio relativamente limitato di generi cui i suoi lettori e i suoi critici possono reagire con entusiasmo, e ancora più limitato è il repertorio facilmente accessibile ai suoi scrittori: il Canone temporaneo viene fissato per tutti tranne che per gli scrittori più grandi, più vigorosi o più arcani. Ogni epoca procede a cancellare nuovi nomi dal repertorio. In un certo senso, tutti i generi esistono forse in tutte le epoche, misteriosamente incarnati in eccezioni bizzarre e capricciose. […] Ma il repertorio dei generi attivi è sempre stato modesto e soggetto a cancellature e aggiunte adeguatamente significative […] alcuni critici hanno avuto la tentazione di concepire il sistema dei generi quasi come un modello idrostatico, come se la sua sostanza totale restasse costante ma fosse soggetta a una serie di ridistribuzioni.

Queste speculazioni che non hanno tuttavia una base solida. Faremmo meglio a trattare i movimenti dei generi semplicemente in termini di scelta estetica.

Seguendo in parte Fowler, vorrei aggiungere che la scelta estetica ha sempre guidato ogni aspetto secolare della formazione del Canone, ma che questa è una tesi difficile da sostenere in un’epoca in cui la difesa del Canone letterario, proprio come l’attacco nei suoi confronti, ha subito una politicizzazione così marcata. Le difese ideologiche del Canone occidentale sono perniciose per i valori estetici quanto gli assalti degli aggressori che cercano di distruggere il Canone o, come affermano, di «aprirlo». Nulla è indispensabile per il Canone occidentale quanto i principi di selettività, che sono elitari solo nella misura in cui si fondano su criteri rigorosamente artistici. I detrattori del Canone sostengono che la formazione di canoni implica sempre un’ideologia; anzi, si spingono oltre e parlano dell’ideologia della formazione dei canoni, suggerendo che creare un Canone (o perpetuarne uno) è un atto ideologico in sé e per sé.

L’eroe di questi anticanonizzatori è Antonio Gramsci; nei suoi Quaderni del carcere, nega che l’intellettuale possa affrancarsi dal gruppo sociale dominante affidandosi solo alla «qualifica» condivisa con la categoria dei suoi colleghi (per esempio, gli altri critici letterari): siccome queste varie categorie di intellettuali tradizionali, prosegue Gramsci, sentono con «spirito di corpo» la loro ininterrotta continuità storica e la loro qualifica, così essi pongono se stessi come autonomi e indipendenti dal gruppo sociale dominante.

Essendo un critico letterario in quella che ormai considero la peggiore di tutte le epoche per la critica letteraria, non trovo pertinente la limitazione di Gramsci. Lo spirito di corpo della professionalità, stranamente così caro a tanti sommi sacerdoti degli anticanonizzatori, non mi interessa per nulla e sono incline a ripudiare qualsiasi «ininterrotta continuità storica» con l’accademia occidentale. Desidero e affermo una continuità con un gruppetto di critici prima del XX secolo e con un altro gruppetto durante le ultime tre generazioni. Quanto alla «particolare qualifica», la mia, a differenza di quella di Gramsci, è puramente personale. Anche se «il gruppo sociale dominante» dovesse essere identificato con la Yale Corporation oppure con il consiglio d’amministrazione della New York University o delle università statunitensi in generale, non riesco a individuare nessuna connessione interna tra un qualsiasi gruppo sociale e i precisi modi in cui ho trascorso la vita a leggere, ricordare, giudicare e interpretare quella che un tempo chiamavamo «letteratura di fantasia». Per scoprire i critici al servizio di un’ideologia sociale, basta volgere lo sguardo verso coloro che desiderano demistificare o aprire il Canone oppure ai loro avversari, caduti in una trappola capace di trasformarli in ciò che hanno osservato. Nessuno di questi gruppi, tuttavia, è davvero letterario.

La fuga dall’estetico o la sua rimozione sono endemiche nelle istituzioni di quella che si spaccia ancora per istruzione superiore. Shakespeare, la cui supremazia estetica è stata confermata dal giudizio unanime di quattro secoli, viene ora «storicizzato» in una riduzione pragmatica, proprio perché la sua arcana forza estetica è uno scandalo per qualsiasi ideologo. Il principio cardine dell’attuale Scuola del risentimento si può affermare con sorprendente schiettezza: il cosiddetto valore estetico emana dalla lotta di classe. Questo principio è così generico da non poter essere totalmente confutato. Ribadisco che il singolo io è l’unico metodo e l’unico criterio per cogliere il valore estetico. Tuttavia, lo ammetto mio malgrado, il «singolo io» si definisce solo rispetto alla società e una parte della sua lotta con l’aspetto comunitario rientra inevitabilmente nel conflitto tra le classi sociali ed economiche. Figlio di un operaio tessile, ho avuto tantissimo tempo per leggere e meditare sulle mie letture. L’istituzione che mi ha sostenuto, la Yale University, fa inevitabilmente parte di un establishmentamericano e la mia lunga meditazione sulla letteratura è pertanto vulnerabile di fronte alle più tradizionali analisi marxiste dell’interesse di classe. Tutte le mie appassionate affermazioni sul valore estetico dell’io isolato vanno necessariamente interpretate ricordando che occorre comprare il lusso della meditazione dalla comunità.

Nessun critico, neppure il sottoscritto, è un Prospero ermetico che opera la magia bianca su un’isola incantata. La critica, come la poesia, è (in senso ermetico) una sorta di furto dal patrimonio comune e se, quando ero giovane, la classe al comando ti autorizzava a essere un sacerdote dell’estetico, aveva senza dubbio un interesse in quel sacerdozio. Si tratta tuttavia di una ben misera concessione. La libertà di comprendere il valore estetico può derivare dal conflitto di classe, ma il valore non coincide con la libertà, anche se quest’ultima non può essere raggiunta senza quella comprensione. Il valore estetico scaturisce, per definizione, da un’interazione fra artisti, da un’influenza che è sempre un’interpretazione. La libertà di essere artisti o critici nasce necessariamente dal conflitto sociale, ma la fonte o l’origine della libertà di percepire, seppur indispensabile per il valore estetico, non coincide con quest’ultimo. Vi è sempre una colpa nel raggiungimento dell’individualità: è una variante della colpa di essere sopravvissuti e non produce alcun valore estetico.

Senza una risposta alla triplice domanda dell’agone (più di, meno di, uguale a?) non può esservi alcun valore estetico. Il quesito si inserisce nel linguaggio figurativo dell’Economico, ma la risposta si affrancherà dal principio economico di Freud. Non può esservi una poesia in sé e per sé, ma nell’estetico permane qualcosa di irriducibile. Il valore che non può essere ridotto del tutto si costituisce tramite il processo dell’influenza interartistica, un’influenza che contiene componenti sociali, spirituali e psicologiche, ma il cui elemento principale è estetico. Uno storicista marxista o di ispirazione foucaultiana può ripetere all’infinito che la produzione dell’estetico è una questione di forze storiche, ma qui il problema non è la produzione in sé e per sé. Sono lieto di concordare con il motto del dottor Johnson («Nessuno che non sia stupido ha mai scritto un rigo se non per denaro»), ma l’innegabile economia della letteratura, da Pindaro ai giorni nostri, non pone problemi di supremazia estetica. I tradizionalisti e i fautori dell’apertura del Canone sono abbastanza d’accordo sull’autore in cui cercare la supremazia: Shakespeare. Shakespeare è il Canone secolare, se non addirittura la scrittura secolare; ai fini canonici, i predecessori e gli eredi vengono definiti solo rispetto al drammaturgo. Questo è il dilemma che devono affrontare i paladini del risentimento: devono negare l’incomparabile preminenza di Shakespeare (scelta dolorosa e difficile) oppure spiegare come e perché la storia e la lotta di classe abbiano prodotto proprio gli aspetti dei suoi drammi che hanno determinato la centralità di questo autore nel Canone occidentale.

Qui incappano nell’insuperabile difficoltà della più stravagante particolarità shakespeariana: chiunque siate e ovunque vi troviate, Shakespeare è sempre più avanti, sul piano tanto concettuale quanto immaginario. Vi rende anacronistici perché vi contiene; contenerlo è impossibile. Non si può illuminarlo con una nuova dottrina, sia essa il marxismo o il freudismo o lo scetticismo linguistico demaniano. Al contrario, sarà Shakespeare a illuminare la dottrina, non mediante una prefigurazione ma, per così dire, mediante una postfigurazione: tutti gli aspetti essenziali di Freud sono già presenti in Shakespeare, accompagnati da una persuasiva critica dello stesso Freud. La mappa freudiana della mente è di Shakespeare; pare che Freud l’abbia solo messa in prosa. In altre parole, una lettura shakespeariana di Freud illumina e trascende il testo di Freud; una lettura freudiana di Shakespeare riduce Shakespeare, o meglio lo ridurrebbe se riuscissimo a sopportare una riduzione che superasse il confine dell’assurdo. Il Coriolano è una lettura del 18 brumaio di Luigi Napoleone di Marx assai più convincente di quanto potrebbe sperare di esserlo una lettura marxista del Coriolano.

La preminenza di Shakespeare è, ne sono certo, lo scoglio su cui, alla fine, si arenerà la Scuola del risentimento. Come possono i suoi membri salvare capra e cavoli? Se è arbitrario affermare che Shakespeare è al centro del Canone, devono spiegare perché la classe sociale dominante abbia scelto il drammaturgo anziché, per esempio, Ben Jonson per svolgere quel ruolo arbitrario. O, se a esaltare Shakespeare è stata la storia e non i gruppi al comando, che cos’aveva Shakespeare per affascinare e cattivare a tal punto il potente Demiurgo, ossia la storia economica e sociale? Chiaramente, questo tipo di indagine comincia a sconfinare nel fantastico: sarebbe assai più semplice ammettere che esiste una differenza qualitativa, una differenza di natura, tra Shakespeare e ogni altro scrittore, persino Chaucer, persino Tolstoj o chiunque altro. L’originalità è il grande scandalo che il risentimento non è in grado di accettare e Shakespeare rimane lo scrittore più originale che mai conosceremo.

L’originalità artistica incontestabile diviene sempre canonica. Qualche anno fa, durante una burrascosa notte a New Haven, mi sono accinto a leggere per l’ennesima volta il Paradiso perduto di John Milton. Dovevo preparare un intervento su quell’autore per una serie di conferenze che avrei tenuto a Harvard, ma sentivo il bisogno di un nuovo approccio al poema: il bisogno di leggerlo come se non l’avessi mai letto prima, anzi come se nessuno l’avesse mai letto prima di me. Farlo significava dimenticare un’intera biblioteca di critica miltoniana, un’impresa quasi impossibile. Tuttavia, ho tentato perché volevo vivere l’esperienza di leggere il Paradiso perduto come l’avevo letto per la prima volta una quarantina di anni addietro. Mentre leggevo, finché non mi sono addormentato nel cuore della notte, la familiarità iniziale del poema ha cominciato a dissolversi. Ha continuato a dissolversi anche nei giorni successivi, man mano che mi avvicinavo alla fine, e sono rimasto stranamente sbalordito, un po’ alienato, ma anche così coinvolto da avvertire una punta di paura. Che cosa stavo leggendo?

Sebbene quest’opera sia un poema epico biblico in forma classica, mi ha comunicato la curiosa impressione che di solito attribuisco al fantasy letterario e alla fantascienza, non al poema epico eroico. L’effetto travolgente è stato quello della bizzarria. Mi sono sentito pervadere da due sensazioni collegate ma diverse: la forza competitiva e trionfante dell’autore, meravigliosamente esibito in una lotta sia implicita sia esplicita contro ogni altro autore e ogni altro testo (Bibbia compresa) e anche la stranezza, a volte spaventosa, di ciò che veniva presentato. Solo dopo essere giunto alla fine, mi sono ricordato (almeno a livello conscio) del vigoroso libro di William Empson, Milton’s God, con la sua cruciale osservazione secondo cui il Paradiso perduto sembra dotato di un barbaro splendore simile a quello di certe sculture primitive africane. Empson imputa la barbarie di Milton al cristianesimo, una dottrina che giudica ripugnante. Sebbene, dal punto di vista politico, Empson sia marxista e mostri una grande solidarietà verso i comunisti cinesi, non è affatto un precursore della Scuola del risentimento. Storicizza la libertà stilistica con singolare abilità e, pur essendo sempre consapevole del conflitto tra classi sociali, non ha la tentazione di ridurre il Paradiso perduto a un’interazione di forze economiche. Come dovrebbe accadere per ogni critico letterario, il suo principale interesse rimane estetico e Empson si sente libero di spostare il proprio disgusto morale verso il cristianesimo (e verso il Dio di Milton) in un giudizio estetico contro il poema. L’elemento barbaro mi ha colpito come aveva colpito Empson; mi interessava di più il trionfalismo agonistico.

Vi sono, suppongo, solo alcune opere che sembrano ancora più essenziali del Paradiso perduto per il Canone occidentale: le maggiori tragedie di Shakespeare, I racconti di Canterburydi Chaucer, la Divina Commedia di Dante, la Torah, i Vangeli, il Don Chisciotte di Cervantes e i poemi epici di Omero. Ad eccezione forse del poema di Dante, nessuna di esse è fortificata quanto l’oscura opera di Milton. Shakespeare ricevette senza dubbio alcuni stimoli da drammaturghi rivali, mentre Chaucer fu così astuto da citare autorità fittizie e nascondere i suoi veri debiti verso Dante e Boccaccio. La Bibbia ebraica e il Nuovo Testamento greco, entrambi rivisti e corretti, assunsero la loro forma attuale grazie a revisori che forse avevano pochissimo in comune con gli autori originali. Cervantes parodiò i suoi predecessori cavallereschi con ironia ineguagliabile, mentre non abbiamo i testi dei precursori di Omero.

Milton e Dante sono i più pugnaci tra i massimi scrittori occidentali. Gli studiosi riescono in qualche modo a evitare l’implacabilità dei due poeti e li definiscono addirittura pii. Così, C.S. Lewis scoprì il suo «semplice cristianesimo» nel Paradiso perduto e John Freccero ritiene che Dante sia un agostiniano fedele, contento di emulare le Confessioni nel suo «romanzo dell’io». Come inizio appena a capire, Dante corresse creativamente Virgilio (oltre a molti altri) con la stessa profondità con cui Milton corresse tutti i suoi predecessori (Dante incluso) mediante la sua creazione. A prescindere dal fatto che, durante la lotta, lo scrittore assuma un atteggiamento giocoso come quello di Chaucer, Cervantes e Shakespeare o aggressivo come quello di Dante e Milton, la gara è tuttavia sempre presente. Ecco un concetto della critica marxista che mi sembra utile: nella scrittura solida vi è sempre un conflitto, un’ambivalenza, una contraddizione tra soggetto e struttura. Il punto su cui dissento dai marxisti sono le origini del conflitto. Da Pindaro ai giorni nostri, lo scrittore che lotta per la canonicità può lottare per una classe sociale, come fece Pindaro per gli aristocratici, ma soprattutto ogni scrittore ambizioso scende in campo solo per se stesso e non di rado tradirà o trascurerà la sua classe per promuovere i propri interessi, che si incentrano interamente sulla sua individuazione. Dante e Milton sacrificarono entrambi molto per quello che consideravano un orientamento politico spiritualmente esuberante e giustificato, ma nessuno dei due sarebbe stato disposto a sacrificare il suo grande poema per una causa. La loro soluzione fu identificare la causa con il poema anziché il poema con la causa. Così facendo, crearono un precedente che oggi non è molto seguito dalla marmaglia accademica impaziente di legare lo studio della letteratura alla ricerca del cambiamento sociale. Troviamo i moderni seguaci statunitensi di questo aspetto di Dante e Milton dove ci aspetteremmo di trovarli, nei nostri poeti più poderosi dopo Whitman e Dickinson: i reazionari sociali Wallace Stevens e Robert Frost.

Coloro che producono un’opera canonica vedono invariabilmente nei loro scritti una forma più grande di qualsiasi programma sociale, per quanto esemplare. Il problema è il contenimento e la grande letteratura insisterà sulla sua indipendenza anche dalle cause più importanti: il femminismo, il culturalismo afroamericano e tutte le altre iniziative politicamente corrette della nostra epoca. La cosa contenuta varia; il poema solido si rifiuta, per definizione, di essere contenuto, anche dal Dio di Dante o di Milton. Il dottor Samuel Johnson, il più accorto di tutti i critici letterari, conclude giustamente che la poesia devozionale è impossibile rispetto alla devozione poetica: «Il bene e il male dell’eternità sono troppo grevi per le ali dell’arguzia». «Grevi» è una metafora di «incontenibili», che è una metafora a sua volta. I nostri contemporanei favorevoli all’apertura del Canone condannano la religione esplicita, ma chiedono versi devozionali (e una critica devozionale!) anche se l’oggetto della devozione si è trasformato nel progresso delle donne, dei neri o del più ignoto fra tutti gli dei ignoti, la lotta di classe negli Stati Uniti. Dipende tutto dai valori di ciascuno, ma io non smetterò mai di trovare strano che i marxisti riescano a individuare la rivalità in ogni altro luogo e non capiscano che è intrinseca nelle arti superiori. Si ha qui un curioso misto di sovraidealizzazione e sottovalutazione della letteratura di fantasia, che ha sempre perseguito i suoi obiettivi egoistici.

Il Paradiso perduto divenne canonico prima che fosse istituito il Canone secolare, nel secolo successivo a quello di Milton. La risposta alla domanda: «Chi ha canonizzato Milton?» è, in primo luogo, Milton stesso, ma quasi a pari merito vi sono anche altri bravi poeti, dal suo amico Andrew Marvell a John Dryden, via via fino a quasi tutti i poeti cruciali del XVIII secolo e del periodo romantico: Pope, Thomson, Cowper, Collins, Blake, Wordsworth, Coleridge, Byron, Shelley e Keats. I critici, il dottor Johnson e Hazlitt contribuirono senza dubbio alla canonizzazione; ma Milton, come Chaucer, Spenser e Shakespeare prima di lui, e come Wordsworth dopo di lui, travolsero semplicemente la tradizione e la racchiudono. Questo il banco di prova più affidabile della canonicità. Solo pochissimi riuscirono a travolgere e a racchiudere la tradizione, e oggi forse nessuno ne è più in grado. L’interrogativo odierno è dunque il seguente: potete costringere la tradizione a farvi spazio spingendola, per così dire, dall’interno anziché dall’esterno, come vorrebbero fare i multiculturalisti?

Il movimento all’interno della tradizione non può essere ideologico né mettersi al servizio di un obiettivo sociale, per quanto moralmente ammirevole. Si irrompe nel Canone solo mediante la forza estetica, che si compone innanzi tutto di un amalgama: originalità, conoscenza, capacità cognitiva, esuberanza espressiva e padronanza del linguaggio figurativo. La suprema ingiustizia dell’ingiustizia storica è la tendenza a dotare le vittime solo di un senso di vittimizzazione. Qualunque cosa sia il Canone occidentale, non è un programma di redenzione sociale.

Il modo più sciocco per difendere il Canone occidentale è riconoscervi l’incarnazione di tutte e sette le insopportabili virtù morali che compongono la nostra presunta gamma di valori normativi e principi democratici. Questa idea è palesemente sbagliata. L’Iliade insegna la gloria ineguagliabile della vittoria armata, mentre Dante gioisce degli eterni tormenti che infligge ai suoi nemici personali. La particolare versione del cristianesimo di Tolstoj accantona quasi tutto ciò che ciascuno di noi conserva e Dostoevskij predica l’antisemitismo, l’oscurantismo e la necessità della schiavitù umana. La politica di Shakespeare, per quanto riusciamo a circoscriverla, non sembra molto diversa da quella del suo Coriolano e la concezione miltoniana della libertà di parola e della libertà di stampa non preclude l’imposizione di limitazioni sociali di ogni genere. Spenser si rallegra del massacro dei ribelli irlandesi, mentre l’egocentrismo di Wordsworth esalta la sua mente poetica al di sopra di ogni altra fonte di splendore.

I massimi scrittori dell’Occidente sovvertono tutti i valori, i nostri e i loro. Gli studiosi che ci invitano a individuare la fonte della nostra moralità e della nostra politica in Platone o in Isaia non sono in contatto con la realtà sociale in cui viviamo. Se leggiamo il Canone occidentale per plasmare i nostri valori morali, sociali o politici, sono fermamente convinto che diverremo mostri di egoismo e sfruttamento. Leggere al servizio di un’ideologia significa, a mio parere, non leggere affatto. La percezione della forza estetica ci insegna a parlare con noi stessi e a sopportare noi stessi. La vera utilità di Shakespeare e Cervantes, di Omero e Dante, di Chaucer e Rabelais, è ampliare il nostro crescente io interiore. Leggere in profondità nell’ambito del Canone non farà di nessuno una persona migliore o peggiore, un cittadino più utile o più dannoso. Il dialogo della mente con se stessa non è innanzi tutto una realtà sociale. L’unica cosa che il Canone occidentale può donarci è l’uso adeguato della nostra solitudine, della solitudine la cui forma definitiva è il confronto con la mortalità.

Possediamo il Canone perché siamo mortali e anche piuttosto in ritardo. Il tempo a nostra disposizione è limitato e deve subire una battuta d’arresto, mentre c’è più da leggere di quanto ce ne sia mai stato prima. Partendo dallo Jahvista e da Omero per arrivare a Freud, Kafka e Beckett, il viaggio dura quasi tre millenni. Poiché quel viaggio supera porti infiniti come Dante, Chaucer, Montaigne, Shakespeare e Tolstoj – ciascuno dei quali compensa ampiamente una vita di riletture – ci troviamo di fronte al dilemma pragmatico di escludere qualcos’altro ogni volta che leggiamo o rileggiamo con attenzione. Per il canonico, rimane inesorabilmente valido un antico banco di prova: l’opera non è canonica a meno che non richieda una rilettura. L’analogia inevitabile è quella erotica. Se siete Don Giovanni, e a tenere l’elenco è Leporello, un breve incontro sarà sufficiente.

A differenza di quanto sostengono certi parigini, il testo esiste per dare non piacere, bensì l’elevato dispiacere o il piacere più difficile che un testo minore non fornirà. Non sono disposto a contraddire gli ammiratori di Meridian, un romanzo di Alice Walker che mi sono costretto a leggere due volte, ma la seconda lettura è stata una delle mie esperienze letterarie più interessanti. Ha prodotto un’epifania in cui ho scorto chiaramente il nuovo principio implicito negli slogan di coloro che desiderano l’apertura del Canone. Il giusto banco di prova della nuova canonicità è semplice, chiaro e capace di generare magnifici cambiamenti sociali: l’opera non deve e non può essere riletta, perché il suo contributo al progresso sociale è la disponibilità a offrirsi per un rapido consumo e un’eliminazione altrettanto rapida. Da Pindaro a Yeats e Hölderlin, la grande ode autocanonizzatrice ha proclamato la sua immortalità agonistica. L’ode socialmente accettabile del futuro ci risparmierà senza dubbio le pretese di questo genere, concentrandosi invece sull’adeguata umiltà della sorellanza, la nuova sublimità del confezionamento di trapunte che oggi è il tropo preferito della critica femminista.

Tuttavia, dobbiamo scegliere: poiché non abbiamo molto tempo, rileggiamo Elizabeth Bishop o Adrienne Rich? Mi rimetto in cerca del tempo perduto con Marcel Proust, oppure tento un’altra rilettura della commovente denuncia di tutti i maschi, bianchi e neri, proposta da Alice Walker? I miei ex studenti, molti dei quali sono ora illustri membri della Scuola del risentimento, affermano di insegnare l’altruismo sociale, che comincia imparando a leggere in modo altruistico. L’autore non ha un io, il personaggio letterario non ha un io e il lettore non ha un io. Dobbiamo forse riunirci sulla riva del fiume con questi generosi fantasmi, liberi dalla colpa delle autoaffermazioni passate, e farci battezzare nelle acque del Lete? Che cosa dobbiamo fare per essere salvati?

Lo studio della letteratura, comunque venga effettuato, non salverà gli individui più di quanto migliorerà la società. Shakespeare non ci renderà migliori e non ci renderà peggiori, ma forse ci insegnerà a origliarci quando parliamo con noi stessi. In seguito, potrebbe insegnarci ad accettare il cambiamento, in noi stessi e negli altri, e forse persino la forma suprema del cambiamento. Per noi, Amleto è l’ambasciatore della morte, forse uno dei pochi ambasciatori mai mandati dalla morte che non mente sul nostro inevitabile rapporto con quel mondo inesplorato. Questo rapporto è del tutto solitario, nonostante gli osceni tentativi compiuti dalla tradizione per conferirgli una dimensione sociale.

Il mio compianto amico Paul de Man amava l’analogia tra la solitudine di ciascun testo letterario e di ciascuna morte umana, un’analogia che un giorno ho contestato. Gli avevo suggerito che un tropo più ironico sarebbe stata l’analogia tra ciascuna nascita umana e la creazione di una poesia, un’analogia che avrebbe connesso i testi come sono connessi i neonati, un mutismo legato a voci passate, un’incapacità di parlare legata a quanto era stato detto dai morti, che avevano parlato a tutti noi. Non ho vinto quella discussione critica perché non sono riuscito a convincerlo del più grande analogo umano; Paul de Man preferiva l’autorità dialettica dell’ironia di natura più heideggeriana. L’unica cosa che un testo, per esempio la tragedia dell’Amleto, condivide con la morte è la solitudine. Ma quando la condivide con noi, parla con l’autorità della morte? Qualunque sia la risposta, vorrei sottolineare che l’autorità della morte, sia essa letteraria o esistenziale, non è in primo luogo un’autorità sociale. Il Canone, ben lungi dall’essere il lacchè della classe sociale dominante, è il ministro della morte. Per aprirlo, occorre persuadere il lettore che si è liberato un nuovo spazio all’interno di uno spazio più ampio, affollato di morti. Che i poeti defunti acconsentano a farsi da parte per noi, esclamava Artaud; ma è proprio ciò che non accetteranno di fare.

Se fossimo letteralmente immortali, o se la durata della nostra vita venisse raddoppiata a centoquarant’anni, potremmo rinunciare a qualsiasi discussione sui canoni. Tuttavia, abbiamo a disposizione solo un intervallo, poi il nostro luogo non ci riconoscerà più, e colmare quell’intervallo con una scrittura scadente in nome di una qualsiasi giustizia sociale non mi sembra il compito del critico letterario. Il professor Frank Lentricchia, apostolo del cambiamento sociale tramite l’ideologia accademica, è riuscito a leggere l’Aneddoto della giara di Wallace Stevens come poesia politica che dà voce al programma della classe sociale dominante. L’arte di disporre una giara è, secondo Stevens, affine all’arte delle composizioni floreali, e non vedo perché Lentricchia non dovrebbe pubblicare un modesto volume sulla politica delle composizioni floreali, intitolato Ariel and the Flowers of Our Climate. Ricordo ancora il mio sconcerto, quando, circa trentacinque anni fa, qualcuno mi ha portato per la prima volta a una partita di calcio. Ero a Gerusalemme, dove gli spettatori sefarditi facevano il tifo per la squadra ospite di Haifa, appartenente alla destra politica, mentre la squadra di casa era legata al partito laborista. Perché smettere di politicizzare lo studio della letteratura? Sostituiamo i giornalisti sportivi con i sapientoni politici come primo passo verso la riorganizzazione del baseball, con la Squadra repubblicana che incontra la Squadra democratica nell’ambito nella World Series. Avremmo così una variante del baseball in cui non potremmo rifugiarci, come facciamo adesso, per trovare un po’ di sollievo bucolico. Le responsabilità politiche del giocatore di baseball sarebbero idonee, né più né meno delle responsabilità politiche del critico letterario, oggi tanto strombazzate.

Il ritardo culturale, oggi una condizione pressoché universale, si manifesta con particolare intensità negli Stati Uniti d’America. Siamo gli ultimi eredi della tradizione occidentale. Un’istruzione fondata sull’Iliade, sulla Bibbia, su Platone e su Shakespeare continua a essere, in forma distorta, il nostro ideale, sebbene l’influenza di questi monumenti culturali sulla vita nei nostri quartieri più degradati sia inevitabilmente piuttosto scarsa. Coloro che sono ostili a tutti i canoni soffrono di un rimorso elitario fondato sulla constatazione, abbastanza corretta, secondo cui i canoni servono sempre gli interessi e gli obiettivi sociali, politici e persino spirituali delle classi benestanti di ciascuna generazione della società occidentale. Sembra evidente che il capitale è necessario per coltivare i valori estetici. Pindaro, l’ultimo superbo maestro della lirica arcaica, investì la sua arte nella composizione di odi in cambio di somme consistenti, un esercizio celebrativo con cui lodava i ricchi per il loro generoso sostegno alla sua generosa esaltazione del loro lignaggio divino. Questa alleanza tra la sublimità da una parte e il potere finanziario e politico dall’altra non ha mai smesso di esistere e probabilmente non lo farà o non potrà mai farlo.

Naturalmente, vi sono profeti – da Amos a Blake e, più in là, Whitman – che si ribellano a questa alleanza e, senza dubbio, prima o poi comparirà un altro grande personaggio del livello di Blake; ma chi continua a essere la norma canonica è Pindaro, non Blake. Persino profeti come Dante e Milton si compromisero come Blake non poteva o non voleva fare, nella misura in cui si può affermare che le aspirazioni culturali pragmatiche tentarono i poeti della Divina Commedia e del Paradiso perduto. Mi è occorsa un’intera vita di immersione nello studio della poesia prima di capire perché Blake e Whitman fossero stati costretti a diventare i poeti ermetici, anzi esoterici, che erano stati. Se si rompe l’alleanza tra ricchezza e cultura – una rottura che segna la differenza tra Milton e Blake, tra Dante e Whitman – si paga l’alto prezzo ironico di coloro che tentano di distruggere le continuità canoniche. Si diventa gnostici ritardatari che ingaggiano una guerra contro Omero, Platone e la Bibbia mitologizzando il proprio travisamento della tradizione. Una simile guerra può offrire vittorie limitate; Quattro Zoas o Canto di me stesso sono trionfi che definisco limitati perché spingono i loro eredi a distorsioni disperate del desiderio creativo. I poeti che percorrono con maggior successo la strada aperta di Whitman sono quelli che gli assomigliano in profondità ma non in superficie, poeti rigidamente formali come Wallace Stevens, T.S. Eliot e Hart Orane. Coloro che cercano di emulare le sue forme apparentemente aperte muoiono tutti nel deserto, rapsodi principianti e impostori accademici che arrancano nella scia di un padre dalla delicata ermeticità. Non si fa nulla per nulla e Whitman non farà il lavoro al vostro posto. Un blakeano minore o un whitmaniano dilettante è sempre un falso profeta che non spiana la strada a nessuno.

Non sono affatto felice di queste verità sulla dipendenza della poesia dal potere terreno; seguo semplicemente William Hazlitt, il vero critico di sinistra fra tutti i grandi esponenti della sua professione. La sua splendida trattazione di Coriolano in Characters of Shakespeare’s Playsinizia con una triste ammissione: «In effetti, la causa del popolo viene tenuta in scarsa considerazione come argomento della poesia: si presta alla retorica, che si addentra in argomentazioni e spiegazioni, ma non fornisce alla mente immagini immediate o distinte».

Tali immagini, sostiene Hazlitt, sono presenti ovunque accanto ai tiranni e ai loro strumenti.

Questa chiara concezione della turbolenta interazione tra il potere della retorica e la retorica del potere ha una possibile valenza illuminante nel buio che oggi va tanto di moda. La politica di Shakespeare può oppure no essere quella di Coriolano, proprio come le ansie di Shakespeare possono essere oppure no quelle di Amleto o di Lear. Shakespeare non è nemmeno il tragico Christopher Marlowe, la cui vita e la cui produzione sembrano avergli indicato la strada da non imboccare. Shakespeare conosce implicitamente ciò che Hazlitt rende esplicito con ironia: la Musa, sia essa tragica o comica, si schiera con l’élite. Per ogni Shelley o Brecht vi sono decine di poeti ancora più poderosi che gravitano naturalmente verso le classi dominanti della società. L’immaginazione letteraria è contaminata dallo zelo e dagli eccessi della competizione sociale, perché, in tutta la storia occidentale, l’immaginazione creativa ha concepito se stessa come lo strumento più competitivo, simile al corridore solitario che gareggia per la propria gloria.

Saffo e Emily Dickinson, le donne più energiche tra i grandi poeti, sono agoniste ancora più determinate degli uomini. La signorina Dickinson di Amherst non aiuta Elizabeth Barrett Browning a confezionare una trapunta. Invece, le fa mangiare la polvere, anche se il trionfo è più impalpabile della vittoria di Whitman su Tennyson in Quando i lillà fiorivano l’ultima volta nel prato davanti alla casa, dove una chiara eco dell’Ode in morte del duca di Wellington costringe il lettore attento a riconoscere la superiorità dell’elegia per Lincoln rispetto alla lamentazione per il Duca di ferro. Non so se la critica femminista riuscirà nel suo tentativo di cambiare la natura umana, ma dubito che un idealismo, per quanto tardivo, possa mutare l’intero fondamento della psicologia occidentale della creatività, sia essa maschile o femminile, dalla gara di Esiodo contro Omero all’agone tra Dickinson e Elizabeth Bishop.

Mentre scrivo queste righe, lancio un’occhiata al giornale e noto un articolo sul dilemma delle femministe costrette a scegliere tra Elizabeth Holtzman e Geraldine Ferraro per una candidatura al Senato, una decisione di natura non diversa da quella di un critico che ha la necessità pragmatica di scegliere tra la compianta May Swenson, una poetessa abbastanza brava, e la veemente Adrienne Rich. Una presunta poesia può presentare le idee più incontestabili o la politica più infervorata, e può anche non essere granché come poesia. Un critico può avere responsabilità politiche, ma il suo primo obbligo è riproporre il triplice interrogativo – antico e assai sgradevole – dell’agonista: più di, meno di, uguale a? In nome della giustizia sociale, stiamo distruggendo tutti i criteri intellettuali ed estetici delle discipline umanistiche e delle scienze sociali. Le nostre istituzioni dimostrano così di essere in cattiva fede: ai matematici e ai neurochirurghi non si impone alcun quorum. A essere stato svalutato è l’apprendimento come tale, come se l’erudizione fosse irrilevante nella dimensione del giudizio esatto o errato.

Il Canone occidentale, nonostante lo sconfinato idealismo di chi vorrebbe aprirlo, esiste proprio per imporre dei limiti, per stabilire un criterio che sia tutto fuorché politico o morale. So che ora vi è una sorta di alleanza segreta tra la cultura popolare e la cosiddetta «critica culturale», e so che, in nome di questa alleanza, la conoscenza stessa può senza dubbio acquisire lo stigma dell’erroneo. La conoscenza non può esistere senza la memoria e il Canone è la vera arte della memoria, l’autentico fondamento del pensiero culturale. Detto con la massima semplicità, il Canone è Platone e Shakespeare, è l’immagine del pensiero individuale: Socrate che medita sulla sua morte o Amleto che contempla quella regione inesplorata. La mortalità si unisce alla memoria nella consapevolezza della verifica che il Canone induce a eseguire sulla realtà. Per sua stessa natura, il Canone occidentale non si chiuderà mai, ma non può essere aperto a forza dai nostri attuali sostenitori entusiastici. Soltanto il vigore riuscirà ad aprirlo, il vigore di un Freud o di un Kafka, tenaci nelle loro negazioni cognitive.

Il sostegno entusiastico è la forza del pensiero positivo trasposto nell’ambito accademico. Uno studioso serio del Canone occidentale rispetta l’energia delle negazioni implicite nella conoscenza, si abbandona ai difficili piaceri della comprensione estetica e impara le strade nascoste che l’erudizione ci insegna a percorrere anche mentre rifiutiamo piaceri più facili, tra cui gli incessanti richiami di chi afferma una virtù politica che trascenderebbe tutti i nostri ricordi dell’esperienza estetica individuale.

Ora siamo ossessionati dalle immortalità facili perché il principale nutrimento della nostra cultura popolare non è più il concerto rock, che è stato sostituito dal video rock, la cui essenza è un’immortalità istantanea, o meglio la sua possibilità. Il rapporto tra la concezione religiosa e letteraria dell’immortalità è sempre stato osteggiato, persino tra gli antichi greci e romani, dove l’eternità poetica e l’eternità olimpica si mescolavano in modo piuttosto promiscuo. Questa ostilità era tollerabile, se non addirittura vantaggiosa, nella letteratura classica, ma divenne più infausta nell’Europa cristiana. Le distinzioni cattoliche tra immortalità divina e fama umana, saldamente ancorate a una teologia dogmatica, rimasero abbastanza precise fino all’avvento di Dante, che si considerava un profeta e pertanto conferì implicitamente alla Divina Commedia lo status di nuova Scrittura. Dante svuotò pragmaticamente la distinzione tra formazione del Canone secolare e formazione del Canone sacro, distinzione che non è mai ricomparsa del tutto, il che è un’altra causa del nostro osteggiato senso del potere e dell’autorità.

I termini «potere» e «autorità» hanno significati pragmaticamente opposti nella sfera della politica e in quella che dovremmo ancora chiamare «letteratura di fantasia». Se ci riesce difficile scorgere il contrasto, forse la colpa è della dimensione intermedia che si autodefinisce «spirituale». È risaputo che il potere spirituale e l’autorità spirituale allungano la loro ombra sulla politica e sulla poesia. Dobbiamo pertanto distinguere il potere e l’autorità estetici del Canone occidentale da qualunque conseguenza spirituale, politica o persino morale possa esserne scaturita. Sebbene leggere, scrivere e insegnare siano necessariamente atti sociali, persino l’insegnamento ha una componente solitaria, una solitudine che, per usare le parole di Wallace Stevens, solo due possono condividere. Gertrude Stein afferma che scriviamo per noi stessi e per gli sconosciuti, una superba intuizione che vorrei ampliare in un apoftegma parallelo: leggiamo per noi stessi e per gli sconosciuti. Il Canone occidentale non esiste per rafforzare le élite preesistenti sociali. Esiste per essere letto da voi e da altri, cosicché voi e coloro che non conoscerete mai possiate imbattervi nell’autentico potere estetico e nell’autorità di quella che Baudelaire (e Erich Auerbach dopo di lui) definì «dignità estetica». Uno dei marchi ineluttabili della canonicità è la dignità estetica, che non può essere presa a noleggio.

L’autorità estetica, come il potere estetico, è il tropo o la figurazione di energie sostanzialmente più solitarie che sociali. Molto tempo fa, Hayden White osservò che il grande difetto di Foucault era una cecità verso le proprie metafore, una debolezza ironica per un individuo dichiarava di essere un discepolo di Nietzsche. Foucault sostituì i suoi tropi a quelli della storia delle idee di Lovejoy e non sempre ricordò che i suoi «archivi» erano ironie, volontarie o involontarie. Lo stesso vale per le «energie sociali» del neostoricista, perennemente incline a dimenticare che l’«energia sociale» non è più quantificabile di quanto lo sia la libido freudiana. Anche l’autorità estetica e il potere creativo sono tropi, ma ciò che sostituiscono (chiamiamolo «il canonico») ha un aspetto più o meno quantificabile; in altre parole, William Shakespeare scrisse trentotto drammi, ventiquattro dei quali sono autentici capolavori, mentre l’energia sociale non ha mai scritto nemmeno una scena. La morte dell’autore è un tropo, e per giunta piuttosto pernicioso; la vita dell’autore è un’entità quantificabile.

Tutti i canoni, compresi i controcanoni in voga oggi, sono elitari, e poiché nessun Canone secolare si chiude mai, quella che ora viene acclamata come l’apertura del Canone è, a rigor di termini, un’operazione ridondante. Sebbene i canoni, come tutti gli elenchi e i cataloghi, abbiano la tendenza a essere inclusivi anziché esclusivi, ormai siamo arrivati al punto in cui nemmeno una vita di letture e riletture permette di esaurire il Canone occidentale. Oggi, infatti, è quasi impossibile padroneggiare il Canone occidentale. Ciò significherebbe non solo leggere più di tremila libri – molti dei quali, se non quasi tutti, caratterizzati da autentiche difficoltà cognitive e immaginative – ma anche ricordare che i rapporti tra questi libri vengono sempre più osteggiati man mano che le nostre prospettive si allungano. Vi sono inoltre le enormi complessità e contraddizioni che costituiscono l’essenza del Canone occidentale, che è tutto fuorché un’unità o una struttura stabile. Nessuno ha l’autorità di dirci che cosa sia il Canone occidentale, certamente non dal 1800 circa fino ai giorni nostri. Esso non è, non può essere, esattamente l’elenco che vi possiamo fornire io o chiunque altro. Se così fosse, quella lista sarebbe un semplice feticcio, una merce fra tante. Non sono tuttavia disposto ad affermare con i marxisti che il Canone occidentale è un altro esempio del cosiddetto «capitale culturale». Non vedo come una nazione contraddittoria come gli Stati Uniti d’America possa essere il contesto di un «capitale culturale», eccezion fatta per quei frammenti di alta cultura che contribuiscono alla cultura di massa. In questo Paese, non abbiamo un’alta cultura ufficiale dal 1800 circa, una generazione dopo la Rivoluzione americana. L’unità culturale è un fenomeno francese e, in certa misura, una questione tedesca, ma non una realtà americana nel XIX o nel XX secolo. Nel nostro contesto e dalla nostra prospettiva, il Canone occidentale è una sorta di elenco dei superstiti. Secondo il poeta Charles Olson, l’elemento centrale dell’America è lo spazio, ma Olson scrisse quella frase come incipit di un libro su Melville, e quindi sul XIX secolo. All’inizio del XXI, il nostro elemento centrale è il tempo, perché la terra della sera si trova ora nel tempo occidentale della sera. Qualcuno sarebbe disposto a definire feticcio l’elenco dei superstiti di una guerra cosmologica che dura da tremila anni?

Il problema è la mortalità o l’immortalità delle opere letterarie. Là dove sono diventate canoniche, sono sopravvissute a un’accanita lotta nell’ambito dei rapporti sociali, ma quei rapporti hanno pochissimo a che vedere con la lotta di classe. Il valore estetico emana dalla lotta fra testi: nel lettore, nel linguaggio, nell’aula scolastica, nelle discussioni all’interno di una società. I lettori della classe operaia che determinano la sopravvivenza dei testi sono pochissimi e i critici di sinistra non possono leggere al posto della classe operaia. Il valore estetico scaturisce dalla memoria, e dunque (come osserva Nietzsche) dal dolore, il dolore di rinunciare a piaceri più facili per altri molto più ardui. Gli operai hanno già abbastanza preoccupazioni e cercano sollievo nella religione. La convinzione che, per loro, l’estetica sia solo una preoccupazione in più ci insegna che le opere letterarie efficaci sono angosce compiute, non liberazioni dalle ansie. Anche i canoni sono ansie compiute, non arredi scenici unificati della moralità, sia essa occidentale o orientale. Se fosse possibile immaginare un Canone universale, multiculturale e polivalente, il suo unico libro essenziale non sarebbe una scrittura – sia essa la Bibbia, il Corano o un testo orientale – bensì Shakespeare, che viene letto e rappresentato ovunque, in ogni lingua e in ogni circostanza. Qualunque siano le convinzioni dei nostri attuali neostoricisti, secondo cui Shakespeare è solo un significante delle energie sociali del Rinascimento inglese, per centinaia di milioni di individui che non sono europei bianchi il drammaturgo è un significante del loro pathos, del loro senso di identificazione con i personaggi cui Shakespeare diede vita tramite il linguaggio. Per loro, la sua universalità non è storica ma fondamentale; Shakespeare mette in scena la loro vita. Nei suoi personaggi, quegli individui osservano e affrontano le loro angosce e le loro fantasie, non le palesi energie sociali dall’antica Londra mercantile.

L’arte della memoria, con i suoi antecedenti retorici e le sue magiche fioriture, è in gran parte una questione di luoghi immaginari o di luoghi reali tramutati in immagini visive. Sin da quando ero piccolo, possiedo un’ottima memoria per la letteratura, ma è una memoria puramente verbale, priva di qualsiasi componente visiva. Solo di recente, in età avanzata, ho capito che la mia memoria letteraria si basava sul Canone come sistema mnemonico. Se sono un caso particolare, è solo perché la mia esperienza è una versione più estrema di quella che, a mio avviso, è la principale funzione pragmatica del Canone: il ricordo e l’organizzazione delle letture di una vita. I massimi autori assumono il ruolo di «luoghi» nel teatro mnemonico del Canone e i loro capolavori occupano il posto riempito dalle «immagini» nell’arte della memoria. Shakespeare e l’Amleto, un autore centrale e un dramma universale, ci costringono a ricordare non solo ciò che accade nell’Amleto, ma anche e soprattutto ciò che accade nella letteratura e la rende indimenticabile, prolungando così la vita dell’autore.

La morte dell’autore, annunciata da Foucault, Barthes e da molti cloni dopo di loro, è un altro mito anticanonico, simile al grido di battaglia del risentimento che vorrebbe eliminare «tutti i maschi europei bianchi morti», cioè, per citarne solo tredici, Omero, Virgilio, Dante, Chaucer, Shakespeare, Cervantes, Montaigne, Milton, Goethe, Tolstoj, Ibsen, Kafka e Proust. Più vitali di voi, chiunque voi siate, questi autori erano indubbiamente maschi e, suppongo, «bianchi». In confronto a qualsiasi autore vivente, non sono tuttavia morti. Ora, tra noi, vi sono García Marquez, Pynchon, Ashbery e altri che probabilmente diverranno canonici quanto Borges e Beckett tra quelli scomparsi negli ultimi tempi, ma Cervantes e Shakespeare appartengono a un altro ordine di vitalità. Il Canone è infatti uno strumento di valutazione della vitalità, una misura che cerca di mappare l’incommensurabile. Qui è pertinente l’antica metafora dell’immortalità dello scrittore, che rinnova per noi la forza del Canone. Curtius fa una divagazione sulla «poesia come perpetuazione» in cui cita la fantasticheria di Burckhardt sulla «fama nella letteratura» come equivalenza tra fama e immortalità. Burckhardt e Curtius, tuttavia, vissero e morirono prima dell’era di Warhol, in cui così tante persone sono famose per un quarto d’ora ciascuno. Oggi il quarto d’ora di immortalità viene concesso spontaneamente e può essere considerato come una delle conseguenze più divertenti dell’«apertura del Canone».

La difesa del Canone occidentale non è affatto una difesa dell’Occidente o di un’impresa nazionalistica. Se per multiculturalismo intendessimo Cervantes, chi potrebbe dissentire? I maggiori nemici dei criteri estetici e cognitivi sono sedicenti difensori che cianciano dei valori morali e politici della letteratura. Non viviamo secondo l’etica dell’Iliade né secondo la politica di Platone. Coloro che insegnano interpretazione hanno più cose in comune con i sofisti che con Socrate. Che cosa possiamo aspettarci che faccia Shakespeare per la nostra società quasi distrutta, se la funzione del teatro shakespeariano ha così poco a che fare con la virtù civica o la giustizia sociale? Gli attuali neostoricisti, con il loro curioso miscuglio di Marx e Foucault, sono solo un episodio secondario nella storia infinita del platonismo. Platone sperava che, decretando il bando al poeta, avrebbe bandito anche il tiranno. Bandire Shakespeare, o meglio ridurlo ai suoi contesti, non ci libererà dai tiranni. In ogni caso, non possiamo liberarci di Shakespeare o del Canone di cui il drammaturgo costituisce il centro. Anche se preferiamo dimenticarlo, Shakespeare ci ha in gran parte inventati; se aggiungete il resto del Canone, allora Shakespeare e il Canone ci hanno completamente inventati. Emerson, in Uomini rappresentativi, esprime questo concetto con precisione:

Shakespeare è escluso dalla categoria degli autori eminenti quanto lo è dalla folla. È inconcepibilmente saggio, gli altri lo sono concepibilmente. Un buon lettore può, fino a un certo punto, rannicchiarsi nel cervello di Platone e pensare da lì, ma non in quello di Shakespeare. Siamo ancora fuori. In termini di facoltà esecutiva, di creazione, Shakespeare è unico.

Nulla di quanto potremmo dire ora su Shakespeare può anche solo sperare di essere importante quanto l’intuizione di Emerson. Senza Shakespeare, niente Canone, perché, senza Shakespeare, niente io riconoscibile in noi stessi, chiunque siamo. A Shakespeare non dobbiamo solo la nostra rappresentazione della conoscenza, ma anche gran parte della nostra capacità di conoscenza. La differenza tra Shakespeare e i suoi rivali più vicini è sia di natura sia di grado e questa duplice differenza definisce la realtà e la necessità del Canone. Senza il Canone, smettiamo di pensare. Si può speculare all’infinito sulla possibilità di sostituire i criteri estetici con considerazioni etnocentriche e di genere, e i vostri obiettivi sociali possono essere davvero ammirevoli, ma, come dimostrò sempre Nietzsche, solo il vigore può unirsi al vigore.

PARTE SECONDA

L’ETÀ ARISTOCRATICA

2.

SHAKESPEARE, IL CENTRO DEL CANONE

Nell’Inghilterra elisabettiana, gli autori erano, per legge, simili a mendicanti e ad altri reietti, il che addolorava senza dubbio Shakespeare, che lavorò sodo per tornare a Stratford come gentiluomo. Ad eccezione di questo desiderio, non sappiamo quasi nulla delle concezioni sociali di Shakespeare, a parte ciò che possiamo dedurre dai drammi, dove tutte le informazioni sono ambigue. Essendo un attore e un drammaturgo, Shakespeare dipendeva necessariamente dal mecenatismo e dalla protezione degli aristocratici e la sua politica – se mai ne aveva una sul piano pragmatico – era adeguata al culmine della lunga Età aristocratica (in senso vichiano), che, come ho precisato, va da Dante fino al Rinascimento e all’Illuminismo, concludendosi con Goethe. La politica del giovane Wordsworth e di William Blake è quella della Rivoluzione francese e preannuncia l’età successiva, quella democratica, che raggiunge l’apoteosi in Whitman e nel Canone americano e acquista la sua espressione definitiva con Tolstoj e Ibsen. Alle origini dell’arte di Shakespeare troviamo, come postulato fondamentale, un senso aristocratico della cultura, benché il drammaturgo trascenda quel senso, come trascende ogni altra cosa.

Shakespeare e Dante sono il centro del Canone perché superano tutti gli altri scrittori occidentali in termini di acume cognitivo, energia linguistica e capacità inventiva. Forse queste tre doti si fondono in una passione ontologica che coincide con la capacità di gioire o con quello cui Blake accennava nel suo Proverbio dell’inferno: «Esuberanza è bellezza». Le energie sociali esistono in ogni epoca, ma non sono in grado di comporre drammi, poesie e opere narrative. La capacità di creare è un dono individuale, presente in tutte le ere, ma senza dubbio largamente incoraggiato da particolari contesti, slanci nazionali che continuiamo a studiare solo a segmenti, poiché, in genere, l’unità di una grande era è un’illusione. Shakespeare fu un caso fortuito? L’immaginazione letteraria e i metodi per incarnarla sono solo entità capricciose come la produzione di un Mozart? Shakespeare non è uno di quei poeti che non hanno bisogno di subire uno sviluppo, che sembrano pienamente formati fin dall’inizio. Non fa parte, dunque, della ristretta cerchia che comprende Marlowe, Blake, Rimbaud e Crane. Sembra che questi scrittori non si evolvano nemmeno: Tamerlano il Grande – Parte primaSchizzi poetici, le Illuminazioni e White Buildings sono già insuperabili. Ma lo Shakespeare dei primi drammi storici, delle commedie farsesche e del Tito Andronico è solo una remota prefigurazione dell’autore di AmletoOtelloRe Lear e Macbeth. Talvolta, leggendo insieme Romeo e Giulietta e Antonio e Cleopatra, non riesco quasi a convincermi che il drammaturgo lirico del primo abbia creato le glorie cosmologiche del secondo.

Quando Shakespeare diviene per la prima volta Shakespeare? Quali dei suoi drammi sono canonici fin dall’inizio? Nel 1592, a ventott’anni, il drammaturgo aveva già scritto le tre parti dell’Enrico VI e il loro seguito nel Riccardo IIInonché La commedia degli equivociTito AndronicoLa bisbetica domata e I due gentiluomini di Verona vengono non più di un anno dopo. Il suo primo successo assoluto è lo stupefacente Pene d’amor perdute, forse scritto nel 1594. Marlowe, che aveva sei mesi più di Shakespeare, venne assassinato in una taverna il 30 maggio 1593, all’età di ventinove anni. Se Shakespeare fosse morto allora, avrebbe sfigurato accanto a Marlowe. L’ebreo di Malta, le due parti del Tamerlano, l’Edoardo II e persino il frammentario La tragica storia del dottor Faust si collocano su un piano di gran lunga superiore a quello raggiunto da Shakespeare prima di Pene d’amor perdute. Cinque anni dopo la morte di Marlowe, Shakespeare aveva superato il suo precursore e rivale con una magnifica serie di opere: Sogno di una notte di mezza estateIl mercante di Venezia e le due parti dell’Enrico IV. Bottom, Shylock e Falstaff aggiungono al Faulconbridge di Re Giovanni e al Mercuzio di Romeo e Giulietta un nuovo tipo di personaggio teatrale, lontano anni luce dalle capacità e dagli interessi di Marlowe. Questi cinque personaggi, nonostante la disapprovazione dei formalisti, escono dai loro drammi per entrare nello spazio di quella che A.D. Nuttall definisce giustamente «una nuova mimesi».

Nei tredici o quattordici anni dopo la creazione di Falstaff, assistiamo alla nascita dei suoi degni successori: Rosalinda, Amleto, Otello, Iago, Lear, Edmund, Macbeth, Cleopatra, Antonio, Coriolano, Timone, Imogene, Prospero, Calibano e tanti altri. Nel 1598, Shakespeare viene confermato e Falstaff è l’angelo di quella confermazione. Nessun altro scrittore ha mai posseduto nulla di simile alle risorse linguistiche di Shakespeare; queste ultime, in Pene d’amor perdute, sono così rigogliose da comunicarci l’impressione che, una volta per tutte, siano stati raggiunti molti dei limiti del linguaggio. La massima originalità di Shakespeare risiede tuttavia nella rappresentazione di personaggi: Bottom è un trionfo malinconico; Shylock, un’inquietudine perennemente equivoca per ciascuno di noi; ma Sir John Falstaff è così originale e travolgente che, per suo tramite, Shakespeare dà un nuovo significato all’idea di creare un uomo con le parole.

Falstaff contrae, per Shakespeare, un unico vero debito letterario e non lo fa certo con Marlowe, con il Vizio delle morality playsmedievali né con il soldato sbruffone della commedia antica, bensì con il più vero, perché più intimo, precursore di Shakespeare: il Chaucer dei Racconti di Canterbury. Vi è un legame tenue ma vibrante tra Falstaff e l’altrettanto irriverente madonna Alice, la Comare di Bath, assai più degna di saltare la cavallina con Sir John che con Doll Tearsheet o la signora Quickly. La Comare di Bath ha spossato cinque mariti, ma chi potrebbe spossare Falstaff? Gli studiosi hanno notato le curiose mezze allusioni a Chaucer esemplificate da Falstaff: anche Sir John, all’inizio, viene avvistato sulla strada per Canterbury e sia lui sia Alice giocano ironicamente con il versetto della Prima lettera ai Corinzi, in cui san Paolo esorta i seguaci di Cristo ad aggrapparsi alla loro vocazione. La Comare di Bath proclama la sua vocazione al matrimonio: «Nello stato che Dio ci ha assegnato, io voglio perseverare, ché non son puntigliosa». Falstaff la imita nella difesa della sua condizione di bandito: «Ebbene, Hal, è la mia vocazione: e davvero non è peccato, Hal, per un uomo, lavorare secondo la propria vocazione».

Questi due magnifici ironisti e vitalisti predicano un’immanenza travolgente, una giustificazione della vita con la vita, qui e ora. Individualisti ed edonisti agguerriti, negano entrambi la morale comune e anticipano il grande Proverbio dell’inferno di Blake: «Una medesima legge per il leone e per il bue è una oppressione». Leoni della passione, e senza dubbio dell’intensità solipsistica, offendono soltanto i virtuosi, come dice Falstaff riferendosi ai ribelli che insorgono contro Enrico IV. Quella che Sir John e Alice ci impartiscono è la lezione dell’intelligenza feroce mitigata dall’arguzia sfrenata. Falstaff, «non sono soltanto arguto per me stesso, ma sono anche la cusa dell’arguzia che si trova negli altri uomini», viene eguagliato dalla Comare, la cui sovversione dell’autorità maschile ha luogo a livello sia verbale sia sessuale. Talbot Donaldson, in The Swan at the WellShakespeare Reading Chaucer, coglie il parallelo più sorprendente tra questi soliloquisti e monologhisti inesauribili, una qualità che li accomuna a Don Chisciotte, cioè un’immersione infantile nella dimensione del gioco: «La Comare ci dice che il suo unico intento è giocare, il che, il più delle volte, vale forse anche per Falstaff. Ma, come nel caso della Comare, spesso non sappiamo con esattezza dove inizi o finisca il gioco di Falstaff».

Già, non lo sappiamo, ma Alice e Sir John lo sanno. Falstaff potrebbe dire, con la Comare, «d’aver goduto del mondo al tempo mio», ma Sir John è così completo (persino più completo di Alice) che Shakespeare ha potuto risparmiarsi quella che sarebbe stata una ridondanza. Il crescente segreto chauceriano della rappresentazione, che fa della Comare di Bath la precorritrice di Falstaff, e dell’Indulgenziere un fondamentale precursore di Iago e Edmund, mette in relazione la dimensione del gioco sia con il personaggio sia con il linguaggio. Alice e l’Indulgenziere ci vengono mostrati mentre origliano se stessi e mentre, grazie a questo gesto, cominciano a uscire rispettivamente dalla dimensione del gioco e dell’inganno. Shakespeare fu così perspicace da capire l’antifona e, da Falstaff in avanti, estese in larga misura l’effetto di questo origliare se stessi ai suoi maggiori personaggi, e soprattutto alla loro capacità di cambiare.

Individuerei qui la chiave della centralità di Shakespeare nel Canone. Proprio come Dante supera tutti gli altri scrittori, precedenti o successivi, nel sottolineare una suprema immutabilità in ciascuno di noi, una posizione fissa che dobbiamo occupare in eterno, Shakespeare supera tutti gli altri nel mettere in risalto una psicologia della mutevolezza. Questa è solo una parte dello splendore shakespeariano; il drammaturgo non solo surclassa tutti i rivali, ma inaugura anche la rappresentazione dell’autocambiamento tramite la capacità di origliare se stessi, attingendo solo allo spunto chauceriano per creare la più straordinaria di tutte le innovazioni letterarie. Si può ipotizzare che Shakespeare, evidentemente un profondo conoscitore di Chaucer, ricordò la Comare di Bath quando arrivò l’eccezionale momento dell’invenzione di Sir John. Amleto, il più grande origliatore di se stesso di tutta la letteratura, non dialoga con se stesso molto più di quanto faccia Falstaff. Ora tutti noi ce ne andiamo in giro parlando incessantemente con noi stessi, origliando ciò che diciamo, per poi riflettere e agire in base a quanto abbiamo imparato. Questo non è tanto il dialogo della mente con se stessa, o il riflesso di una guerra civile nella psiche, quanto la reazione della vita a ciò in cui la letteratura si è necessariamente trasformata. Da Falstaff in avanti, Shakespeare aggiunge alla funzione della scrittura immaginativa, cioè insegnarci a parlare con gli altri, la lezione – ormai dominante anche se più malinconica – della poesia: insegnarci a parlare con noi stessi.

Nel meraviglioso corso delle sue vicissitudini teatrali, Falstaff ha suscitato un coro moraleggiante. Alcuni dei critici e dei pensatori più validi sono stati particolarmente maligni; tra i loro epiteti si annoverano «parassita», «vigliacco», «spaccone», «corruttore», «seduttore» e i più obiettivi «ingordo», «ubriacone» e «puttaniere». Il giudizio che preferisco è quello di George Bernard Shaw («un vecchio miserabile sbronzo e disgustoso»), una reazione che attribuisco in gran parte alla consapevolezza segreta di Shaw: non potendo uguagliare Falstaff in arguzia, lo scrittore non poteva preferire la propria mente a quella di Shakespeare con la tranquillità e la sicurezza di cui si vantava così spesso. Come tutti noi, Shaw non poteva affrontare Shakespeare senza una consapevolezza antitetica a se stessa, senza il riconoscimento simultaneo dell’estraneità e della familiarità.

Accostandomi a Shakespeare dopo aver scritto dei poeti romantici e moderni e dopo aver meditato sulle questioni dell’influenza e dell’originalità, ho vissuto il turbamento della differenza, la differenza di natura e grado, che è unicamente di Shakespeare. Questa differenza ha poco a che vedere con il teatro in quanto tale. Una rappresentazione mediocre di Shakespeare, affidata a un regista incompetente e recitata da attori incapaci di declamare i versi, si distingue per natura e per grado anche dalle rappresentazioni buone o cattive di Ibsen e Molière. Vi è il turbamento di un’arte verbale più grande e più definitiva di qualsiasi altra, così persuasiva da non sembrare affatto arte, bensì qualcosa che è sempre esistito.

È senza dubbio una forma di scrittura: Shakespeare è il Canone. Shakespeare fissa il criterio e i limiti della letteratura. Ma dove sono i suoi limiti? Riusciamo a individuare in lui una cecità, una rimozione, un venir meno dell’immaginazione o del pensiero? In Dante, probabilmente il suo rivale più immediato, non riusciamo a individuare alcun limite poetico, ma possiamo scoprire senza dubbio alcune delimitazioni umane. Altri poeti, precedenti e contemporanei, non inducono il poeta Dante ad accessi di generosità. I poeti affollano la Divina Commedia e ciascuno viene messo al suo posto, proprio dove Dante vuole che sia. Strana è l’assenza di Guido Cavalcanti, il miglior amico di Dante in gioventù, ma bandito da Firenze dallo stesso Alighieri in un ironico preludio al suo esilio. Il padre e il suocero di Cavalcanti, il formidabile Farinata degli Uberti, compaiono con vividezza nell’Inferno, dove il padre esprime il proprio rammarico all’idea che sia Dante, e non suo figlio Guido, ad avere l’onore di essere il Pellegrino dell’eternità. Nell’undicesimo canto del Purgatorio, Dante allude al fatto di aver assunto il posto di Guido come «gloria de la lingua». Il Guido Cavalcanti di Shakespeare ricorda una fusione tra Christopher Marlowe e Ben Jonson. Nella sua commedia terrena, il drammaturgo non poteva ritrarli direttamente, ma, non essendo uno studioso di Shakespeare, non esito a ipotizzare che il Malvolio della Dodicesima notte sia una satira di alcune posizioni morali jonsoniane e che l’Edmund del Re Lear sia una visione nichilistica fondata su aspetti, non solo degli eroi marlowiani, ma anche dello stesso Marlowe. Nessuna delle due figure è priva di fascino. Nella Dodicesima notte, Malvolio è una vittima comica, ma abbiamo la sensazione che sia finito nel dramma sbagliato. Altrove, potrebbe prosperare e conservare la dignità e l’autostima. Edmund è al posto giusto, surclassando Iago nell’abisso del cosmo fatiscente di Lear. Per amarlo, bisogna essere Goneril o Regan, ma ciascuno di noi può trovarlo pericolosamente affascinante, libero dall’ipocrisia e intento ad affermare la propria e la nostra responsabilità per qualunque cosa diventeremo.

Edmund possiede grinta, una grande arguzia, un’intelligenza superiore e una gioia gelida, che sposta il suo entusiasmo tra le file della morte. Non prova inoltre alcun affetto caloroso e forse è il primo personaggio letterario a incarnare le qualità di nichilisti dostoevskiani come lo Svidrigailov di Delitto e castigo e lo Stavrogin dei Demoni. Rappresentando un enorme progresso rispetto al Barabba dell’Ebreo di Malta, Edmund porta il Machiavel marlowiano a nuova sublimità ed è al tempo stesso un ironico tributo al grande Marlowe e un suo trionfale superamento. Come Malvolio, Edmund è un tributo ambiguo, ma, in fondo, anche una testimonianza – per quanto ironica – della generosità shakespeariana.

Non sappiamo quasi nulla di concreto sulla vita interiore di Shakespeare, ma se dedicate molti anni alla sua lettura incessante, comincerete a capire ciò che non è. Calderón de la Barca è un drammaturgo religioso e George Herbert, un poeta devozionale; Shakespeare non è né l’uno né l’altro. Marlowe il nichilista manifesta un’antitetica sensibilità religiosa e La tragica storia del dottor Faust può essere letta in contrapposizione a se stessa. Le più cupe tragedie di Shakespeare, Re Lear e Macbeth, non cedono alla cristianizzazione, così come i grandi drammi equivoci, Amleto e Misura per misura. Secondo Northrop Frye, Il mercante di Venezia va interpretato come un’esemplificazione seria della seguente tesi cristiana: la misericordia del Nuovo Testamento contro la presunta insistenza del Vecchio Testamento sulla necessità di avere un vincolo e una vendetta. Shylock, l’ebreo del Mercante di Venezia, viene concepito come un antieroe comico, perché evidentemente Shakespeare condivideva l’antisemitismo dell’epoca; in quel dramma non trovo tuttavia traccia dell’allegoria teologica di Frye. È Antonio, la cui vera natura cristiana si palesa attraverso gli sputi e le imprecazioni contro Shylock, a proporre che la sopravvivenza dell’ebreo dipenda dalla sua immediata conversione al cristianesimo, una conversione obbligata cui, per quanto possa sembrare inverosimile, Shylock acconsente. La proposta di Antonio è un’invenzione di Shakespeare e non rientra nella tradizione della «libbra di carne». Comunque si interpreti questo episodio, io stesso esito a definirlo una tesi cristiana. Anche nei suoi momenti di moralità più dubbia, Shakespeare smentisce subito la nostra aspettativa e tuttavia non rinuncia alla sua universalità, che evidentemente ha i suoi risvolti pericolosi.

Un’amica che è nata in Bulgaria e insegna all’Università ebraica di Gerusalemme mi ha raccontato di una rappresentazione della Tempesta nella versione bulgara di Petrov, cui aveva assistito di recente a Sofia. Era stata recitata come una farsa – una scelta efficace, a suo giudizio – ma aveva lasciato il pubblico insoddisfatto, perché, ha detto, i bulgari identificano Shakespeare con il classico o il canonico. Amici e studenti mi hanno descritto Shakespeare come lo avevano visto in russo, italiano, spagnolo, giapponese e indonesiano e, a detta di quasi tutti, gli spettatori erano stati unanimi nel ritenere che Shakespeare rappresentasse loro sul palcoscenico. Dante è stato il poeta dei poeti, come Shakespeare è stato il poeta della gente; ciascuno dei due è universale, anche se Dante non è per gli individui incolti. Non conosco alcuna critica culturale e alcuna dialettica materialistica capace di spiegare l’universalismo senza classi di Shakespeare e quello elitario di Dante. Nessuno dei due è esattamente una casualità o il prodotto di un eurocentrismo sovradeterminato. Evidentemente esiste davvero il fenomeno di una superba eccellenza letteraria, di una capacità di metafora, pensiero e caratterizzazione così grande da sopravvivere trionfalmente a traduzioni e trasposizioni e da catturare l’attenzione in quasi tutte le culture.

Dante era un poeta autocosciente quanto Milton; ciascuno dei due cercò di gettarsi alle spalle una struttura profetica che il futuro non sarebbe stato disposto a lasciar morire. Shakespeare ci sconcerta con la sua apparente indifferenza al destino postumo del Re Lear; disponiamo di due versioni molto differenti del dramma e infilarle insieme nell’amalgama che generalmente leggiamo e vediamo in teatro non è molto soddisfacente. Le uniche opere di cui Shakespeare abbia mai corretto le bozze e che abbia seguito da vicino furono Venere e Adone e Il ratto di Lucrezia, nessuna delle quali è degna del poeta dei Sonetti, per non parlare poi di Re LearAmletoOtello e Macbeth. Come può essere esistito uno scrittore per cui la forma definitiva del Re Lear era una faccenda da trattare con noncuranza o disinteresse? Shakespeare è simile all’arabo nella stanza di Wallace Stevens, che «sparge stelle in terra», sebbene la profusione dei suoi talenti fosse così ricca da permettergli di essere noncurante. L’esuberanza o la verve shakespeariana rientra in ciò che abbatte le barriere linguistiche e culturali. Non si può relegare Shakespeare al Rinascimento inglese più di quanto si possa tenere Falstaff entro i limiti dell’Enrico IV o il principe di Danimarca nell’azione del suo dramma.

Shakespeare è, per la letteratura mondiale, ciò che Amleto è per la sfera immaginaria del personaggio letterario: uno spirito che si insinua ovunque, che è impossibile da imprigionare. La libertà dalla dottrina e dalla moralità semplicistica è senza dubbio uno degli elementi che caratterizzano la facilità di spostamento di quello spirito, sebbene quella libertà innervosisse il dottor Johnson e indignasse Tolstoj. Shakespeare possiede la vastità della natura stessa e grazie a quella vastità avverte l’indifferenza della natura. In quella vastità, nulla di fondamentale è legato alla cultura o limitato al genere. Se leggete e rileggete Shakespeare senza posa, forse non arriverete a conoscerne il carattere o la personalità, ma imparerete senza dubbio a riconoscerne il temperamento, la sensibilità e la conoscenza.

La Scuola del risentimento è costretta dai propri dogmi a considerare la supremazia estetica, soprattutto nel caso di Shakespeare, come una prolungata cospirazione culturale volta a proteggere gli interessi politici ed economici della Gran Bretagna mercantile dal XVIII secolo ai giorni nostri. Nell’America contemporanea, la polemica si sposta su uno Shakespeare utilizzato come centro di potere eurocentrico per contrastare le legittime aspirazioni culturali di varie minoranze, tra cui le femministe accademiche, che ormai sono tutt’altro che una minoranza. Si capisce perché Foucault goda di tanto favore tra gli apostoli del Risentimento: sostituisce il Canone con la metafora della biblioteca, che cancella le gerarchie. Ma se non esiste alcun Canone, John Webster, che scrisse sempre all’ombra di Shakespeare, potrebbe tranquillamente essere letto al posto di Shakespeare, sostituzione che avrebbe sbalordito lo stesso Webster.

Non esiste sostituto di Shakespeare, neppure nel gruppetto di drammaturghi, antichi o moderni, che possono essere letti e recitati con lui o contro di lui. Che cosa uguaglia le quattro grandi tragedie shakespeariane? Nemmeno Dante, come confessato da James Joyce, ha la ricchezza di Shakespeare, il che significa che la lettura del personaggio risulta infinita in Shakespeare, ma indica anche che i trentotto drammi e i Sonetti formano una Terrena commedia discontinua assai più completa di quella di Dante e piacevolmente libera dall’allegoria dantesca dei teologi. La molteplicità di Shakespeare supera di gran lunga quella di Dante e Chaucer. Il creatore di Amleto e Falstaff, di Rosalinda e Cleopatra, di Iago e Lear, si distingue per grado e natura. Se riusciremo a definire questa differenza, saremo più vicini a capire perché Shakespeare abbia costituito necessariamente il nuovo centro del Canone occidentale e perché continuerà a costituirlo nonostante i peggioramenti dovuti alle considerazioni politiche.

Il primo componimento pubblicato da Milton, scritto quando il poeta aveva poco più di vent’anni, venne stampato anonimo come uno dei tributi introduttivi al secondo in-folio di Shakespeare (1632). Il drammaturgo era morto da sedici anni, e pur non essendo assolutamente caduto nell’oblio, non aveva ancora subito il processo di canonizzazione che sarebbe continuato per tutto il XVIII secolo, da Dryden a Pope e al dottor Johnson, giù giù fino alle fasi iniziali del Romanticismo, un movimento che deificò Shakespeare. Il giovane Milton parla del suo predecessore con una certa possessività, chiamandolo «il mio Shakespeare», identificandolo con una Musa maschile («caro figlio di Memoria») e insinua con delicatezza che Shakespeare, «grande erede della fama», sarà, in un certo senso, parte della sua eredità. Milton sarà tra coloro che diranno:

Hath from the heavens of thy unvalued book,

These Delphic lines with deep impression took,

Then thou our fancy of itself bereaving,

Dost make us marble with too much conceiving.

[Del tuo libro preziosissimo dal cielo,

Questi delfici versi son pregnanti,

Colpendoci sì da star senza inventiva,

Fatti marmo dal tuo troppo immaginare.]

Nel 1632, «unvalued book» significava «invaluable book» (libro inestimabile), ma ciò non basta a eliminare l’ambiguità o l’ambivalenza di questi versi. Milton e gli altri sagaci lettori sono divenuti un monumento a Shakespeare. Trasformati in marmo e privati della fantasia, avevano ceduto alla forza del «conceiving» (concepire, immaginare) shakespeariano. Ma, con astuzia miltoniana, Shakespeare ha fatto la stessa cosa. Milton anticipa Borges presentandoci uno Shakespeare che, divenendo tutti, non è più nessuno, anonimo come la natura. Se i tuoi lettori e il tuo pubblico, e i tuoi personaggi e i tuoi attori, diventano la tua opera, il tuo libro, vivi soltanto in essi. Artista della natura, Shakespeare diviene un lascito anonimo concesso a Milton, una risorsa così sua da rendere ridondante la citazione. Shakespeare è il vigore di Milton, che, a sua volta, quest’ultimo lascia generosamente in eredità a Shakespeare, suo predecessore ma, in qualche modo, anche suo successore. Qui, nel suo esordio pubblico, Milton annuncia già il suo destino canonico come l’ennesimo monumento senza tomba, destinato a vivere nei suoi lettori. Shakespeare, tuttavia, aveva avuto un vastissimo pubblico, idoneo e inidoneo, mentre Milton afferma con ansia che il suo pubblico, almeno al confronto, sarà idoneo ma modesto. Intercanonica, la poesia dedicata a Shakespeare è, sul piano pragmatico, anche autocanonizzante.

Il «canonico» è sempre anche «intercanonico», poiché il Canone non deriva solo da una competizione, ma è anche una competizione in corso. L’energia letteraria scaturisce dalle vittorie parziali all’interno di quella competizione e anche nel caso di un poeta poderoso come Milton è evidente che il vigore è agonistico e pertanto non può essere interamente suo. A mio giudizio, i casi limite di quella che sembra un’autonomia più piena sono Dante e, ancora di più, Shakespeare. Dante è, in un certo senso, un Milton più forte e il suo superamento di tutti i rivali, antichi e contemporanei, è ancora più convincente del trionfo di Milton, non fosse altro perché Shakespeare continua a indugiare in Milton. Dante determina il modo con cui leggiamo Virgilio e Shakespeare può modificare profondamente il nostro approccio a Milton. Virgilio, tuttavia, ha scarsa influenza sulla nostra comprensione di Dante, perché l’effettivo Virgilio epicureo è stato abrogato da Dante. Milton non può aiutarci con l’analisi di Shakespeare, perché la sua riduzione del drammaturgo all’anonimato non fa che riprodurre e distorcere la tattica shakespeariana della perdita dell’io nell’opera.

Questa procedura shakespeariana, più efficace di ogni esplicita autocanonizzazione precedente o successiva, ci riporta alla neutralità di Shakespeare come centro canonico. Esiste una solida tradizione biografica secondo cui l’uomo William Shakespeare non era affatto eccentrico, a differenza di personalità formidabili come Dante, Milton e Tolstoj. I suoi amici e conoscenti lasciarono testimonianze di una persona amabile, apparentemente abbastanza comune: aperta, socievole, spiritosa, gentile, spontanea, insomma qualcuno con cui bere tranquillamente un drink. Tutti concordano nell’affermare che era bonario e per nulla presuntuoso, anche se un po’ brusco negli affari. In vero stile borgesiano, è come se il creatore di decine di splendidi personaggi e centinaia di vivide figure minori non abbia investito alcuna energia immaginativa nell’inventare un personaggio per se stesso. Al centro del Canone vi è il meno autocosciente e il meno aggressivo fra tutti i grandi scrittori che abbiamo conosciuto.

Esiste un rapporto inversamente proporzionale, un po’ al di là delle nostre capacità analitiche, tra la natura quasi incolore di Shakespeare e le sue soprannaturali doti teatrali. All’epoca, i suoi due quasi rivali erano uomini di acume straordinario: il violento e atticciato Ben Jonson e Christopher Marlowe, doppiogiochista e superatore di limiti faustiano. Erano entrambi grandi poeti e oggi sono quasi famosi tanto per la loro vita quanto per le loro opere. Shakespeare ha affinità personali con il sottomesso Cervantes, che tuttavia condusse involontariamente un’esistenza di comportamenti bizzarri e sventure catastrofiche. Vi sono poi alcuni tratti caratteriali che accomunano Shakespeare a Montaigne, ma la vita di isolamento creativo abbracciata dall’autore francese fu segnata dall’alta politica e dalla guerra civile. Molière è forse il sosia di Shakespeare per temperamento e genio comico, ma, sul piano professionale, il secondo era un attore mediocre mentre il primo era un grande attore e, nonostante il Don Giovanni, Molière evitò la tragedia proprio come Racine rifuggì dalla commedia. Nonostante la sua innegabile socievolezza, Shakespeare soffre dunque di una peculiare solitudine tra i massimi scrittori. Percepiva più di chiunque altro, pensava in maniera più profonda e originale di chiunque altro e aveva una padronanza quasi naturale del linguaggio, un ambito in cui superava tutti, persino Dante.

Una parte del segreto della centralità canonica di Shakespeare è il suo disinteresse; nonostante tutte le sferzate dei neostoricisti e di altri fautori del risentimento, il drammaturgo è libero dalle ideologie quasi quanto i suoi eroici e arguti personaggi: Amleto, Rosalinda, Falstaff. Non ha alcuna teologia, alcuna metafisica, alcuna etica e molta meno teoria politica di quanta gliene attribuiscano i critici attuali. I Sonetti dimostrano che, a differenza di Falstaff, non era per nulla privo di super-io; che, a differenza dell’Amleto delle ultime scene, non era per nulla trascendente; e che, a differenza di Rosalinda, non era per nulla in grado di controllare sempre ogni aspetto della sua vita. Ma, poiché inventò tutti questi personaggi, possiamo concludere che si sia rifiutato di spingersi al di là dei suoi limiti. Per fortuna, non è Nietzsche o Re Lear e si rifiutò di impazzire sebbene avesse l’immaginazione della follia, come di qualsiasi altra cosa. La sua saggezza si trasferisce senza sosta in tutti i nostri saggi, da Goethe a Freud, anche se Shakespeare si rifiutò di presentarsi come saggio.

Secondo una frase memorabile di Nietzsche, troviamo le parole solo per ciò che è già morto nei nostri cuori, cosicché vi è sempre una sorta di disprezzo nell’atto del parlare. Quell’aforista antitetico deve essersi reso conto di aver parafrasato sia Amleto sia il re attore, proprio come Emerson doveva sapere di aver imitato Lear quando aveva formulato la legge della compensazione, secondo cui «niente si ottiene per niente». Anche Kierkegaard scoprì che era impossibile non essere postshakespeariani, ossessionato com’era dal suo inimitabile precursore nei panni del malinconico danese il cui rapporto con Ofelia presagiva il suo con Regina. «Fa scempio delle nostre originalità» fu il commento di Emerson su Platone, ma lo stesso Emerson avrebbe ammesso che Shakespeare gli aveva insegnato per primo a gridare allo scempio quando si trattava di originalità.

Il più illustre detrattore di Shakespeare fu il conte Lev Nikolaeviˇc Tolstoj, uno degli antenati non riconosciuti della Scuola del risentimento. Eccolo in Shakespeare e il dramma (1906), caustico postludio al famigerato Che cos’è l’arte?(1898):

Il soggetto delle opere teatrali di Shakespeare, quale risulta dalle affermazioni dei suoi massimi ammiratori, è un’infima, volgarissima concezione dell’esistenza che considera la grandezza esteriore dei signori del mondo un genuino merito, che disprezza le folle, vale a dire la classe lavoratrice, che ripudia non soltanto ogni religione, ma anche ogni sforzo umanitario volto al miglioramento dell’ordine esistente.

La fondamentale causa interna della fama di Shakespeare era ed è che i suoi drammi […] corrispondevano al modo di pensare irreligioso e immorale delle classi superiori della sua epoca e della nostra.

[…] Quando si saranno liberati da questo stato di ipnosi, gli uomini capiranno che le opere triviali e immorali di Shakespeare e dei suoi imitatori, volte meramente alla ricreazione e al divertimento degli spettatori, non possono certo rappresentare l’insegnamento della vita e che, siccome in esse non c’è vero dramma religioso, l’insegnamento della vita andrebbe attinto da altre fonti.

Il saggio di Tolstoj è volto in gran parte a ridicolizzare il Re Lear, il che è una triste ironia, poiché Tolstoj, giunto all’ultima stazione della sua via crucis, si era trasformato senza volerlo in Re Lear. Un rappresentante raffinato della Scuola del risentimento non proporrebbe Bertolt Brecht come vero teatro marxista né Paul Claudel come vero teatro cristiano con l’intenzione di preferirli a Shakespeare. La protesta di Tolstoj ha tuttavia la causticità della sua sincera indignazione morale e tutta l’autorità del suo splendore estetico.

È chiaro che il saggio di Tolstoj (come il suo Che cosa è l’arte?) è un vero disastro, e ci spinge a chiederci seriamente come uno scrittore così grande abbia potuto commettere un simile errore. Tra gli adoratori di Shakespeare, Tolstoj indica in tono di disapprovazione un eminente gruppo che comprende Goethe, Shelley, Victor Hugo e Turgenev. Avrebbe potuto aggiungere Hegel, Stendhal, Pusˇkin, Manzoni, Heine e decine di altri autori, anzi quasi tutti i principali autori capaci di leggere, con qualche spiacevole eccezione come Voltaire. L’aspetto meno interessante della ribellione di Tolstoj all’estetico è l’invidia creativa. Si avverte un particolare accanimento quando lo scrittore russo si rifiuta di mettere Shakespeare sullo stesso piano di Omero, paragone che riservò al suo Guerra e pace. Assai più interessante è la repulsione spirituale di Tolstoj per il Re Lear, una tragedia immorale e irreligiosa. Preferisco questa repulsione a qualsiasi tentativo di cristianizzare il teatro volutamente precristiano di Shakespeare e Tolstoj ha perfettamente ragione quando osserva che Shakespeare non è, come drammaturgo, né cristiano né moralista.

Rammento di essermi trovato davanti al dipinto di Tiziano raffigurante lo scorticamento di Marsia da parte di Apollo quando è stato esposto a Washington. Inorridito e turbato, sono riuscito solo ad assentire in segno di approvazione davanti al commento del mio accompagnatore, il pittore americano Larry Day, secondo cui il quadro aveva qualcosa della forza e dell’effetto dell’ultimo atto di Re Lear. L’opera di Tiziano era conservata a San Pietroburgo, dove Tolstoj aveva avuto modo di vederla; non mi sovviene alcun suo commento specifico, ma probabilmente avrà concepito anch’egli l’immagine tizianesca di quell’orrore, la fine annunciata. Che cosa è l’arte? rifiuta non solo Shakespeare, ma anche Dante, Beethoven e Raffaello. Se si è Tolstoj, forse si può fare a meno di Shakespeare, ma siamo in debito con lo scrittore russo, che ha il merito di aver individuato le vere fondamenta della forza e dell’irriverenza di Shakespeare: la libertà dalle sovradeterminazioni morali e religiose. Evidentemente Tolstoj non intendeva tutto ciò in senso banale, poiché neanche la tragedia greca, Milton e Bach avevano superato la prova tolstojana della semplicità popolare, superata invece da alcune opere di Victor Hugo e Dickens, da Harriet Beecher Stowe e da alcuni testi minori di Dostoevskij nonché da Adam Bede di George Eliot. Quelli erano esempi di arte cristiana e morale, sebbene anche la «buona arte universale» fosse accettabile in un curioso raggruppamento secondario che comprendeva Cervantes e Molière. Tolstoj pretende «la verità» e, dalla sua prospettiva, il problema di Shakespeare era la mancanza di interesse per la verità.

Queste osservazioni sollevano senza dubbio un’altra questione: fino a che punto è pertinente la critica di Tolstoj? Il centro del Canone occidentale è forse una pragmatica esaltazione della menzogna? George Bernard Shaw era grande ammiratore di Che cosa è l’arte? e probabilmente preferiva Il viaggio del pellegrino di Bunyan a Shakespeare, più o meno come Tolstoj collocava La capanna dello zio Tom al di sopra del Re Lear. Questo tipo di pensiero, tuttavia, ci è oggi tristemente familiare; una delle mie colleghe più giovani mi ha rivelato di preferire Meridian di Alice Walker all’Arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon, perché quest’ultimo mentiva mentre Walker incarnava la verità. Con la correttezza politica che sostituisce la rettitudine religiosa, torniamo alla polemica di Tolstoj contro l’arte difficile. Tuttavia, anche se Tolstoj si rifiutava di capirlo, Shakespeare è quasi unico nella capacità di dare vita a un’arte insieme difficile e popolare. A mio avviso, era quello l’elemento che racchiudeva la vera irriverenza di Shakespeare e la massima spiegazione del perché e del come Shakespeare sia al centro del Canone. Ancora oggi, Shakespeare è così multiculturale da attirare quasi ogni genere di pubblico, a prescindere dal ceto sociale. Ad aprirgli la strada verso il centro canonico fu una modalità di rappresentazione che, direi, era universalmente disponibile, eccezion fatta per alcuni detrattori francesi.

Quel modo di rappresentare gli uomini e le donne era o è vero? La capanna dello zio Tom è più sincera della Divina Commedia, qualunque cosa significhi questa affermazione? Forse Meridian di Alice Walker è più sincero dell’Arcobaleno della gravità. Il Tolstoj maturo è senza dubbio più sincero di Shakespeare o di chiunque altro. La sincerità non ha una strada privilegiata verso la verità e la letteratura di fantasia si colloca da qualche parte tra la verità e il significato, un luogo che una volta ho paragonato al kenóma degli antichi gnostici, il vuoto cosmologico in cui, per usare le parole di William Blake, vaghiamo e piangiamo.

Shakespeare fornisce una rappresentazione del kenóma più persuasiva di quella fornita da chiunque altro, in particolare quando narra l’antefatto di Re Lear e di Macbeth. Là, ancora una volta, il drammaturgo si pone al centro del Canone, perché dobbiamo sforzarci molto per individuare una rappresentazione che non sia più convincente in Shakespeare che in qualsiasi altro autore, sia egli Omero, Dante o Tolstoj. Sul piano retorico, Shakespeare non ha eguali; non esiste una gamma di metafore più stupefacente. Se cercate una verità che sfidi la retorica, forse dovreste studiare l’economia politica o l’analisi dei sistemi e lasciare Shakespeare agli esteti e agli incolti, che furono i primi a unirsi per esaltarlo.

Continuo a tornare al mistero del genio di Shakespeare, consapevole che l’espressione «il genio di Shakespeare» induce la Scuola del risentimento a pensare che mi sbagli. Il problema della morte dell’autore proposta da Foucault è tuttavia il fatto di alterare i termini retorici senza creare un nuovo metodo. Se furono le «energie sociali» a scrivere il Re Lear e l’Amleto, perché le energie sociali furono più produttive nel figlio dell’artigiano di Stratford che nell’atticciato muratore Ben Jonson? Il critico neostoricista o femminista esasperato ha una curiosa affinità con le esasperazioni che continuano a trovare nuovi consensi a favore dell’idea secondo cui il vero autore del Re Lear fu Sir Francis Bacon o il conte di Oxford. Sigmund Freud, il maestro di tutti coloro che sanno, ribadì fino alla morte che Mosè era egiziano e che era stato Oxford a scrivere Shakespeare. Looney, il fondatore degli oxfordiani – il cui nome, che ricorda l’inglese loony («matto») non potrebbe essere più azzeccato – trovò un discepolo nell’autore dell’Interpretazione dei sogni e dei Tre saggi sulla teoria sessuale. Non potremmo essere più amareggiati se Freud fosse entrato a far parte della Flat Earth Society, sebbene vi siano abissi sotto gli abissi, e se non altro possiamo dirci grati che Freud abbia scritto solo qualche frase sull’ipotesi di Looney.

In qualche modo, per Freud fu di grande conforto credere che il suo precursore Shakespeare non fosse una comune personalità di Stratford, bensì un aristocratico enigmatico e potente. In gioco vi era qualcosa in più del semplice snobismo. Per Freud, come per Goethe, le opere di Shakespeare erano il centro secolare della cultura, la speranza di una gloria razionale nell’umanità ancora a venire. Per Freud, vi era addirittura di più. A un certo livello, sapeva che Shakespeare aveva inventato la psicoanalisi inventando la psiche, nella misura in cui Freud era in grado di riconoscerla e descriverla. Non può essere stata una constatazione piacevole, poiché sovvertì la sua dichiarazione: «Ho inventato la psicoanalisi perché non aveva alcuna letteratura». La vendetta arrivò con la presunta dimostrazione secondo cui Shakespeare era un impostore, dimostrazione che soddisfece il risentimento freudiano anche se, sotto il profilo razionale, non bastò a sminuire i drammi shakespeariani. Il drammaturgo aveva fatto scempio delle originalità dì Freud; ora Shakespeare era stato smascherato e si era coperto di vergogna. Possiamo essere grati del fatto di non avere Oxford e lo shakespearianesimodi Freud da mettere nelle nostre librerie accanto all’Uomo Mosè e la religione monoteistica e ai vari classici dello Shakespeare neostoricista, marxista e femminista. Il Freud francese era abbastanza sciocco; e ora abbiamo il Joyce francese, il che è difficile da accettare. Non vi è tuttavia un ossimoro più contraddittorio dello Shakespeare francese, come dovrebbe essere chiamato il neostoricismo.

Il vero stratfordiano scrisse trentotto drammi in ventiquattro anni, quindi tornò a casa a morire. All’età di quarantanove anni compose il suo ultimo dramma, Due nobili congiunti, dividendo il lavoro con John Fletcher. Morì tre anni dopo, poco prima del suo cinquantaduesimo compleanno. Dopo una vita monotona, il creatore di Lear e di Amleto non morì di una morte molto avventurosa. Non esistono grandi biografie di Shakespeare, non perché non sappiamo abbastanza, ma perché non c’è abbastanza da sapere. Nella nostra epoca, tra gli scrittori di prim’ordine, solo la vita di Wallace Stevens sembra sbiadita quanto quella di Shakespeare in termini di eventi o emozioni esteriori. Sappiamo che Stevens odiava l’imposta progressiva sul reddito e che Shakespeare non ci pensava due volte prima di intentare cause presso la corte di giustizia per proteggere i suoi investimenti immobiliari. Sappiamo, più o meno, che, una volta superata la fase iniziale, nessuno dei loro due matrimoni fu particolarmente appassionato. Dopo di che, cerchiamo di conoscere i drammi, o di conoscere le elaborate variazioni di Stevens sulle estasi meditative della comprensione.

Per l’immaginazione, è molto appagante essere costretta a rifarsi alla produzione quando sembra non esserci alcun turbine autoriale. Nel caso di Christopher Marlowe, rifletto sull’uomo, che, a differenza dei suoi drammi, può essere oggetto di infinite meditazioni; nel caso di Rimbaud, medito sull’uomo e sulle sue opere, sebbene il poeta sia ancora più enigmatico della sua poesia. L’uomo Stevens evitò se stesso con tanta accuratezza che non avvertiamo quasi l’esigenza di cercarlo; l’uomo Shakespeare non può essere definito evasivo o qualsiasi altra cosa. Nei drammi non ha alcun portavoce incontestabile: non Amleto, non Prospero, certamente non il fantasma del padre di Amleto, di cui pare abbia recitato la parte. Neppure i suoi studiosi più attenti tracciano con sicurezza i confini tra il convenzionale e il personale nei sonetti. Cercando di comprendere l’uomo o la produzione, torniamo sempre all’indiscutibile preminenza centrale dei drammi maggiori, quasi dall’epoca in cui vennero messi in scena per la prima volta.

Un modo per affrontare la preminenza della superiorità di Shakespeare è negarla. Da Dryden a oggi, è singolare che siano in pochi ad aver imboccato questa strada. La novità o lo scandalo voluto del neostoricismo attuale afferma di risiedere altrove, ma, in realtà, dimora in questa negazione, generalmente implicita ma a volte esplicita. Se le energie sociali (supponendo che queste ultime siano più di una metafora storicizzante, cosa di cui dubito) del Rinascimento inglese scrissero in qualche modo il Re Lear, si può mettere in discussione la singolarità di Shakespeare. Forse, tra una generazione o giù di lì, l’«energia sociale» come autrice del Re Lear sembrerà illuminante quasi quanto l’ipotesi che a scrivere la tragedia siano stati il conte di Oxford o Sir Francis Bacon. L’impulso soggiacente è più o meno lo stesso. Ridurre Shakespeare al suo contesto, qualunque esso sia, è semplice quanto ridurre Dante alla Firenze e all’Italia dei suoi giorni. Nessuno, qui o in Italia, si alzerà per dichiarare che Cavalcanti era il corrispondente estetico di Dante, e sarebbe altrettanto vano proporre persino Ben Jonson o Christopher Marlowe come autentici rivali di Shakespeare. Jonson e Marlowe, in modi assai diversi, furono grandi poeti e talvolta drammaturghi straordinari, ma il lettore o l’attore entra in un’altra dimensione artistica quando incontra il Re Lear.

Qual è la differenza shakespeariana che impone, come compagni estetici, solo Dante, Cervantes, Tolstoj e pochi altri? Formulare questa domanda significa intraprendere la ricerca che costituisce lo scopo ultimo dello studio letterario, la ricerca di un valore che trascenda i pregiudizi e le esigenze particolari delle società in precisi momenti temporali. Secondo tutte le ideologie attuali, una simile ricerca è illusoria; ma lo scopo di questo libro è, in parte, combattere contro le politiche culturali, siano esse di destra o di sinistra, che distruggono la critica e che, di conseguenza, potrebbero distruggere la letteratura. Nella produzione di Shakespeare vi è una sostanza che prevale e che si è rivelata multiculturale, compresa in tutte le lingue in maniera così universale da istituire un multiculturalismo pragmatico in tutto il mondo, un multiculturalismo che supera già di gran lunga i nostri maldestri tentativi politicizzati di raggiungere un simile ideale. Shakespeare è il centro dell’embrione di un Canone mondiale, non occidentale né orientale e sempre meno eurocentrico; torno così, ancora una volta, al grande interrogativo: qual è la singolare eccellenza di Shakespeare, la differenza di natura e grado che lo distingue da tutti gli altri scrittori?

La padronanza linguistica di Shakespeare, per quanto travolgente, non è unica ed è suscettibile di imitazione. La poesia scritta in inglese diviene shakespeariana abbastanza spesso da testimoniare la capacità di contaminazione dell’alta retorica di Shakespeare. La peculiare magnificenza del drammaturgo consiste nella sua capacità di rappresentare la personalità e il carattere umani e le loro mutevolezze. L’elogio canonico di quella magnificenza venne inaugurato dalla Prefazione a Shakespeare scritta da Samuel Johnson nel 1765 ed è insieme rivelatrice e fuorviante: «Shakespeare è – sopra tutti gli scrittori, o almeno sopra tutti gli scrittori moderni – il poeta della natura, il poeta che mostra ai suoi lettori un fedele specchio degli atteggiamenti e della vita».

Johnson, in un tributo a Shakespeare, riprende l’elogio agli attori fatto da Amleto. Alle sue parole possiamo contrapporre Oscar Wilde: «Il deprecabile aforisma dell’Arte che regge lo specchio alla Natura è intenzionalmente pronunciato da Amleto per convincere gli spettatori della propria assoluta follia in tutte le questioni artistiche».

In realtà, Amleto sosteneva che gli attori reggevano uno specchio alla Natura, ma Johnson e Wilde assimilavano gli attori al poeta-drammaturgo. La «natura» di Wilde era un elemento di disturbo che tentava invano di sovvertire l’arte, mentre Johnson considerava la «natura» un principio di realtà capace di annegare il particolare nel generale, nella «progenie della comune umanità». Shakespeare, più saggio di entrambi questi critici saggi, vedeva la «natura» da prospettive contrastanti, quelle di Lear e Edmund nella più sublime delle tragedie, quelle di Amleto e Claudio in un’altra tragedia, quelle di Otello e Iago in un’altra ancora. Non si può reggere uno specchio a nessuna di queste nature né convincersi che la propria concezione della realtà sia più completa di quella della tragedia shakespeariana. Non esistono opere letterarie capaci di superare quelle di Shakespeare nel rammentarci che nulla può essere come un dramma se non un altro dramma, sottolineando al tempo stesso che un’idea tragica non è simile solo a un’altra idea tragica (benché possa esserlo), ma anche a una persona, o al cambiamento di una persona, o alla forma definitiva del cambiamento personale, cioè la morte.

Il significato di una parola è sempre un’altra parola, poiché le parole sono simili alle altre parole più di quanto possano essere simili alle cose o alle persone, ma Shakespeare suggerisce spesso che le parole sono più simili alle persone di quanto lo siano alle cose. La rappresentazione shakespeariana del personaggio ha una ricchezza soprannaturale perché nessun altro scrittore precedente o successivo ci illude maggiormente che ciascun personaggio parli con una voce diversa da quella degli altri. Johnson, rilevando questa caratteristica, la attribuì all’accurato ritratto shakespeariano della natura generale, ma forse Shakespeare avrebbe messo in discussione la realtà di una simile natura. La sua misteriosa capacità di presentare le voci coerenti, diverse e apparentemente autentiche di esseri immaginari deriva in parte dal più fecondo senso della realtà che abbia mai invaso la letteratura.

Quando tentiamo di isolare la coscienza shakespeariana della realtà (o, se preferite, la versione della realtà proposta dai drammi), probabilmente restiamo sconcertati. Quando si prendono le distanze dalla Divina Commedia, la stranezza del poema è sconvolgente, ma il teatro shakespeariano sembra insieme del tutto familiare e troppo ricco per essere assorbito tutto e subito. Dante interpreta i suoi personaggi per voi; se non riuscite ad accettare i suoi giudizi, il poema vi abbandona. Shakespeare apre i suoi personaggi a prospettive così molteplici da trasformarli in strumenti analitici atti a giudicarvi. Se siete moralisti, Falstaff vi riempie di indignazione; se siete rancorosi, Rosalinda vi smaschera; se siete dogmatici, Amleto vi sfugge per sempre. E se siete in cerca di spiegazioni, i grandi antieroi shakespeariani vi porteranno alla disperazione. Iago, Edmund e Macbeth non sono privi di moventi; anzi, traboccano di moventi, immaginandoli o inventandoli quasi tutti. Come i grandi personaggi arguti (Falstaff, Rosalinda, Amleto), questi mostruosi prevaricatori sono artisti dell’io o, come affermava Hegel, liberi artefici di se stessi. Amleto, il più fecondo tra loro, riceve da Shakespeare qualcosa di molto simile alla coscienza autoriale, una coscienza che non è quella di Shakespeare. Interpretare Amleto diventa difficile quanto interpretare aforisti come Emerson, Nietzsche e Kierkegaard. «Hanno vissuto e hanno scritto», vorrebbe protestare qualcosa dentro di noi, ma Shakespeare ha trovato il modo di darci Amleto, autore delle aggiunte che hanno tramutato L’assassinio di Gonzago in La trappola per topi. La più sconcertante conquista di Shakespeare è aver indicato più contesti per spiegarci di quanti noi siamo in grado di proporne per spiegare i suoi personaggi.

Per molti lettori, i limiti dell’arte umana vengono raggiunti nel Re Lear, che, con Amleto, sembra essere il culmine del Canone shakespeariano. La mia preferenza va al Macbeth, in cui non supero mai il mio stupore per la spietata economia del dramma, per il suo modo di rendere importante ogni discorso, ogni frase. Tuttavia, il Macbeth ha solo un personaggio imponente e persino l’Amleto è così dominato dal suo eroe che tutte le altre figure minori sono accecate (come lo siamo noi) dal suo splendore trascendente. La capacità shakespeariana di individualizzazione tocca i suoi vertici nel Re Lear e, per quanto possa sembrare curioso, in Misura per misura, due drammi in cui non vi sono personaggi minori. Con il Re Lear, siamo al centro dei centri di eccellenza canonica, proprio come in alcuni canti dell’Inferno o del Purgatorioo in un romanzo tolstojano come Chadzˇi-Murat. qui, semmai, le fiamme dell’invenzione bruciano qualsiasi contesto e ci offrono la possibilità di quello che potrebbe essere definito valore estetico originario, libero dalla storia e dall’ideologia e disponibile per chiunque possa essere istruito a leggerlo e a contemplarlo.

I fautori del Risentimento potrebbero ribattere che soltanto un’élite può ricevere una simile istruzione. Come ci dimostrano i nostri momenti di maggiore sincerità, con il passare del tempo diventa sempre più difficile leggere in maniera approfondita. Che la causa siano i media o altre distrazioni dell’Età caotica, persino l’élite tende a deconcentrarsi mentre legge. Forse la lettura attenta non è finita con la mia generazione, ma è stata senza dubbio eclissata nelle generazioni successive. Il fatto che io abbia comprato il mio primo televisore quando avevo quasi quarant’anni non conta forse nulla? Non posso esserne certo, ma a volte mi chiedo se una preferenza critica per il contesto rispetto al testo non sia il riflesso di una generazione esasperata dalla lettura approfondita. La tragedia di Lear e Cordelia può essere spiegata persino a spettatori o lettori superficiali, perché la stranezza di Shakespeare consiste nella capacità di distrarre l’attenzione a quasi tutti i livelli. Ma, recitata come si deve e letta come si deve, chiederà più di quanto un’unica coscienza sia in grado di dare.

Il dottor Johnson è famoso per la sua intolleranza verso la morte di Cordelia: «Molti anni fa rimasi così sconvolto dalla morte di Cordelia che non so se sia mai riuscito a rileggere le ultime scene del dramma fintantoché non ne intrapresi la revisione come curatore».

Come osserva Johnson, vi è una terribile desolazione nell’ultima scena della Tragedia di Re Lear, un effetto che supera qualunque altra cosa nel suo genere, in Shakespeare e in ogni altro scrittore. Forse Johnson considerava la morte di Cordelia come una sineddoche di quella desolazione, della visione del vecchio re che, spinto ancora verso la follia dal dolore, entra in scena con Cordelia morta tra le braccia. Questa scena ha la forza di un’immagine che capovolge tutte le aspettative naturali ed è oggetto di un famoso travisamento da parte di Sigmund Freud nel suo Motivo della scelta degli scrigni (1913):

La scena di Lear che porta sul palcoscenico il corpo esanime di Cordelia.

Cordelia è la Morte. Se si capovolge la situazione, la cosa ci appare comprensibile e familiare. È la Dea della Morte la quale porta via dal campo di battaglia l’eroe caduto, come la Valchiria nella mitologia germanica. La saggezza eterna, rivestita dei panni di un mito antichissimo, consiglia al vecchio di dire no all’amore, di scegliere la morte, di familiarizzarsi con la necessità del morire.

A cinquantasette anni, Freud ne aveva ancora ventisei da vivere, ma non riusciva a parlare dell’«eroe» senza calarsi in quel ruolo. Dire no all’amore, scegliere la morte e familiarizzarsi con la necessità del morire è nello stile del principe Amleto, ma non fa per Re Lear. I re sono duri a morire, in Shakespeare come nella vita, e Lear è la più grande di tutte le rappresentazioni dei re. Il suo precursore non è un monarca letterario, bensì il modello di tutti i sovrani: Yahweh, il Signore in persona, a meno che non scegliate di considerare Yahweh come un personaggio letterario, incontrato da Shakespeare nella Bibbia di Ginevra. Lo Yahweh dello scrittore J, che domina il filone originario della Genesi, dell’Esodo e dei Numeri, è irascibile e, a tratti, folle quanto Lear. Quest’ultimo, immagine dell’autorità paterna, non è tra i personaggi preferiti dei critici femministi, che lo definiscono senza esitazione l’archetipo della coercizione patriarcale. Il suo potere, persino nella rovina, sembra essere ciò che quei critici non riescono a perdonare, poiché lo interpretano come l’unione di dio, re e padre in un unico temperamento spazientito. Quel che trascurano è il dato di fatto del dramma: Lear non viene solo temuto e venerato da chiunque, nel dramma, stia dalla parte del bene, ma viene amato veramente dal buffone e da Cordelia, Gloucester, Edgard, Kent, Albany e, evidentemente, dal suo popolo in generale. In termini di personalità, deve molto a Yahweh, ma è assai più benevolo. Il suo principale errore nei confronti di Cordelia è un amore eccessivo che, in cambio, esige un eccesso. Di tutta la vasta schiera dei personaggi shakespeariani, Lear è di gran lunga il più appassionato, una caratteristica che forse è attraente in sé e per sé ma che non si adatta alla sua età né alla sua posizione.

Anche le più rancorose interpretazioni di Lear, che demistificano la sua presunta capacità di compassione sociale, lasciano intatta la sua intensità appassionata, una qualità condivisa dalle sue figlie, Goneril e Regan, che non possiedono però la sua pulsione confusa verso l’amore. Sono ciò che sarebbe stato il loro padre se non avesse posseduto anche le caratteristiche di sua figlia Cordelia. Shakespeare non compie nessun tentativo esplicito di spiegare la differenza tra Cordelia e le sue sorelle o il contrasto, altrettanto sorprendente, tra Edgard e Edmund. È tuttavia così magistrale da conferire a Cordelia e Edgard una titubanza assai maggiore della loro renitenza comune. In questi due personaggi caratterizzati da un amore sincero, vi è qualcosa che va contro la loro natura, qualcosa di ostinato, una forza la cui musica di sottofondo è la cocciutaggine. Cordelia, che conosce bene sia suo padre sia le sue sorelle, potrebbe impedire la tragedia con un pizzico di diplomazia iniziale, ma non lo fa. Edgard sceglie un travestimento autopunitivo assai più umile e modesto di quanto sia strettamente indispensabile e mantiene tutti i suoi camuffamenti anche quando potrebbe sbarazzarsene. Il suo rifiuto di rivelarsi a Gloucester fino a poco prima di uccidere anonimamente Edmund è curioso quanto rifiuto di Shakespeare di rappresentare la scena della rivelazione e della riconciliazione tra padre e figlio. Udiamo il racconto di Edgard, ma non vediamo la scena. A mio parere, avvertiamo che Edgard può essere il rappresentante personale di Shakespeare nel dramma, a differenza del marlowiano Edmund. Quest’ultimo è un genio, sagace come Iago ma più freddo, la figura più fredda in tutta la produzione shakespeariana. È nelle antitesi tra Edmund e Lear che individuerei una delle fonti dell’insuperabile vigore estetico del dramma. In questa antitesi vi è qualcosa dell’anima di Shakespeare, qualcosa che il cuore dello spettatore o del lettore non coglie nel dramma, qualcosa che rende l’opera incapace di consacrare noi o se stessa. Al centro della più poderosa opera letteraria in cui mi sia mai imbattuto, vi è una lacuna terribile e deliberata, un vuoto cosmologico in cui veniamo scaraventati. Una comprensione sensibile della Tragedia di Re Lear ci regala la sensazione di essere stati scagliati verso l’esterno e verso il basso, fino ad arrivare al di là di qualsiasi valore, del tutto smarriti.

A differenza di quanto accade quando muore Amleto, alla fine del Re Lear non vi è alcuna trascendenza. La morte di Lear è una liberazione per il re, ma non per i superstiti: Edgard, Albany e Kent. E non è una liberazione neppure per noi. Lear incarna troppi elementi perché la sua morte possa essere accettabile per i suoi sudditi e il nostro investimento nelle sofferenze del re è divenuto troppo grande perché sia possibile un freudiano «familiarizzarsi con la necessità del morire». Forse Shakespeare tenne la morte di Gloucester dietro le quinte cosicché il contrasto tra il Lear moribondo e l’Edmund moribondo conservasse tutta la sua intensità. Edmund compie uno sforzo strenuo per evitare una morte insignificante tentando di revocare l’ordine di uccidere Cordelia e Lear. Arriva troppo tardi e né noi né Edmund sappiamo come interpretare la sua morte fuori scena.

La grandezza del dramma è strettamente legata alla grandezza patriarcale di Lear, un aspetto dell’uomo che ora viene nettamente svalutato in un’età critica di femminismo, di marxismo letterario e delle diverse varianti di crociata antiborghese che abbiamo importato da Parigi. Shakespeare è tuttavia troppo astuto per dedicare la sua arte a una politica patriarcale, al cristianesimo o persino all’assolutismo monarchico del suo mecenate, re Giacomo I, e ora il risentimento nei confronti di Lear è per lo più infondato. Il vecchio re stordito prende posizione a favore della natura, una natura del tutto diversa da quella invocata come dea dal nichilistico Edmund. In questo vasto dramma, Lear e Edmund non si rivolgono mai la parola, sebbene dividano il palco per due scene fondamentali. Che cosa potrebbero dirsi, quale dialogo è possibile tra il personaggio più appassionato di Shakespeare e quello più freddo, tra un individuo che dà troppa importanza alle cose e uno che non gliene dà alcuna?

Nella concezione della natura proposta da Lear, Goneril e Regan sono streghe contro natura, mostri degli abissi, ed è davvero così. Nella concezione della natura sostenuta da Edmund, le sue due amanti demoniache sono perfettamente naturali. Il teatro di Shakespeare non ci offre una posizione intermedia. Rifiutare Lear non è un’opzione estetica, per quanto ci si sappia difendere dai suoi eccessi e dal suo misterioso potere. Qui Shakespeare si ricongiunge allo scrittore J, il cui Yahweh fin troppo umano è insieme incommensurabile e impossibile da evitare. Se vogliamo una natura umana che non logori se stessa, ci rivolgiamo all’autorità di Lear, per quanto difettosa, per quanto compromessa nel suo potere nocivo. Lear non può guarire noi o se stesso e non può sopravvivere a Cordelia. Nel dramma, tuttavia, pochissimi sopravvivono al re: Kent, che desidera solo congiungersi al suo signore nella morte; Albany, che emula Lear abdicando; Edgard, superstite apocalittico, che evidentemente parla sia per Shakespeare sia per il pubblico alla fine della tragedia: «Dobbiamo rassegnarci al peso grave di questi tristi tempi, e dir quello che in noi sentiamo, non quello che dovremmo. Il più vecchio è colui che ha sopportato più cose: ma noi che siam giovani non ne vedremo altrettante, né vivremo tanto a lungo».

La natura e lo Stato sono quasi feriti a morte e i tre personaggi sopravvissuti escono di scena con una marcia funebre. A contare sono soprattutto la mutilazione della natura e la nostra idea di ciò che è o non è naturale nella nostra vita. L’effetto alla fine del dramma è così travolgente che ogni cosa sembra contraddire se stessa. Perché veniamo colpiti insieme con tanta forza e con tanta ambivalenza dalla morte di Lear?

Nel 1815, all’età di sessantasei anni, Goethe scrisse un saggio su Shakespeare che tentava di riconciliare i suoi atteggiamenti antitetici verso il massimo poeta occidentale. Aveva cominciato come idolatra di Shakespeare, aveva sviluppato un presunto «classicismo» che non trovava Shakespeare del tutto adeguato e aveva «corretto» Shakespeare con una versione alquanto severa di Romeo e Giulietta. Sebbene il suo giudizio finale sia stato a favore di Shakespeare, il saggio continua a essere una fuga e una fonte di confusione. Contribuì a rafforzare la fama di Shakespeare in Germania, ma l’ambivalenza verso un genio poetico e drammatico superiore al suo impedì a Goethe di approdare a una definizione chiara dell’unico e costante interesse di Shakespeare. Fu Hegel, nelle conferenze pubblicate postume con il titolo Estetica, ad acquisire una profonda comprensione della rappresentazione shakespeariana del personaggio, comprensione che dobbiamo continuare a elaborare se vogliamo produrre una critica degna di lui.

Hegel tenta essenzialmente di distinguere la natura dei personaggi di Shakespeare da quella dei personaggi di Sofocle e Racine, di Lope de Vega e Calderón de la Barca. L’eroe tragico greco deve opporsi a un Potere etico superiore con un’individualità, un pathos etico, che si fonde con ciò che gli sta di fronte, perché fa già parte di quel pathos superiore. In Racine, Hegel individua uno stile astratto di caratterizzazione dei personaggi, uno stile in cui le passioni specifiche vengono rappresentate come pura personificazione, cosicché il contrasto tra il Potere superiore e quello individuale tende all’astrazione. Lope de Vega e Calderón de la Barca godono di una maggiore approvazione da parte di Hegel, che vede anche in loro uno stile astratto di caratterizzazione del personaggio, ma scorge anche una certa solidità e un certo senso della personalità, per quanto inflessibile. Nemmeno le tragedie tedesche ottengono un giudizio così positivo: Goethe, nonostante lo shakespearianismo iniziale, si allontana dalla caratterizzazione per passare a un’esaltazione delle passioni, mentre Schiller viene rifiutato perché ha sostituito la violenza alla realtà. In contrasto a tutti questi scrittori, a un’altezza salutare, Hegel colloca Shakespeare, nel miglior brano critico sulla rappresentazione shakespeariana che sia mai stato scritto:

Quanto più Shakespeare, nell’infinito abbraccio del suo palcoscenico mondiale, procede a sviluppare i limiti estremi del male e della follia, tanto più […] egli concentra questi personaggi nelle loro limitazioni. Tuttavia, così facendo, conferisce loro intelligenza e immaginazione; e per mezzo dell’immagine nella quale essiin virtù di quell’intelligenzacontemplano se stessi obiettivamentecome un’opera d’artene fa liberi artefici di se stessi, ed è pienamente capace, tramite l’assoluta virilità e verità della sua caratterizzazione, di risvegliare il nostro interesse per i criminali, non meno che per gli zoticoni e gli stupidi più volgari e ottusi. [Il corsivo è mio.]

Iago, Edmund e Amleto contemplano se stessi obiettivamente in immagini forgiate dalla loro intelligenza e sono così in grado di vedersi come personaggi teatrali, come artifici estetici. Divengono così liberi artefici di se stessi, dunque sono liberi di scrivere se stessi e di produrre cambiamenti nel loro io. Origliando i propri discorsi e riflettendo su quelle espressioni, mutano e passano a contemplare un’alterità nell’io, o la possibilità di tale alterità.

Hegel ha visto ciò che occorre vedere in e su Shakespeare, ma lo stile gnomico delle sue conferenze richiede qualche spiegazione. Come esemplificazione hegeliana prendiamo Edmund, il figlio illegittimo, il Machiavel marlowiano della tragedia di Lear. Edmund è il limite estremo del male, la prima, ma anche la massima, raffigurazione assoluta di un nichilista che la letteratura occidentale si conceda. Da Edmund, ancora più che da Iago, trarranno origine i nichilisti di Melville e Dostoevskij. Come dice Hegel, Edmund eccelle sia per immaginazione sia per intelligenza; assai più di Iago, potrebbe quasi uguagliare Amleto, il maggiore tra gli anti-Machiavelli. In virtù della sua straordinaria intelligenza (sempre fertile, rapida, fredda e precisa), Edmund proietta un’immagine di se stesso come un seguace bastardo della dea Natura, e per mezzo di quell’immagine contempla obiettivamente se stesso come un’opera d’arte. Lo fa anche Iago prima di lui, ma Iago immagina emozioni negative e poi prova, se non addirittura subisce, quelle emozioni. Edmund è un artefice più libero di se stesso: non prova nulla.

Ho già osservato che Lear, l’eroe tragico, e Edmund, il principale antieroe, non si rivolgono mai la parola. Dividono il palco in due scene cruciali, all’inizio e verso la fine, ma non hanno niente da dirsi. In realtà, non possono parlarsi perché l’uno non riuscirebbe a destare l’interesse dell’altro neppure per un istante. Lear è tutto sentimento, Edmund è assenza di sentimenti. Quando Lear si infuria con le sue figlie «contro natura», Edmund, nonostante tutta la sua intelligenza, non riesce a capire, perché giudica «naturale» il proprio comportamento nei confronti di Gloucester e quello di Goneril e Regan nei confronti di Lear. Edmund, il più naturale di tutti i figli illegittimi, diviene inevitabilmente l’oggetto delle rapaci passioni omicide di Goneril e Regan, entrambe gratificate da lui ed entrambe incapaci di commuoverlo finché non ne vede portare in scena i cadaveri mentre si spegne pian piano per la ferita mortale infertagli dal fratello Edgard.

Contemplando i mostri morti degli abissi, Edmund affronta la vera immagine di se stesso e se ne libera diventando l’artefice assoluto dell’io: «Ero promesso ad entrambe. Tra un istante ci sposiamo tutti e tre». Il tono è sorprendentemente distaccato, l’ironia quasi senza eguali, sebbene Webster e altri scrittori vissuti durante il regno di Giacomo I abbiano tentato di imitarla. La contemplazione di Edmund passa dall’ironia a un tono che riesco a percepire ma non a classificare: «Eppure Edmund è stato amato. Una ha avvelenato l’altra per amor mio e poi si è uccisa». Edmund non si rivolge tanto a Albany o a Edgardo quanto a se stesso, parlando a voce alta per riuscire a origliarsi. Il linguaggio di Shakespeare trasmette la dolorosa condizione di questo insuperabile antieroe, che descrive a se stesso il suo stato d’animo, affinando la propria immagine per ampliare la sua libertà di essere artefice di se stesso. Non udiamo orgoglio né meraviglia, tuttavia emerge un senso di confusione di fronte all’idea del legame, anche se solo con le due terribili sorelle.

Hazlitt, con cui condivido il mio affetto stupito per Edmund, sottolinea la gradevole mancanza di ipocrisia in questo personaggio. Anche qui non vi sono né falsità né affettazione da parte di Edmund. Quest’ultimo origlia se stesso e la sua reazione è la volontà di cambiare, una reazione che, se ne rende conto, sarà una trasformazione morale positiva anche se la sua natura non muterà: «Mi manca il fiato; ma del bene voglio farlo malgrado la mia natura». L’ironia tragica di Shakespeare richiede che questo capovolgimento avvenga troppo tardi per salvare Cordelia. Così non ci resta che chiederci: perché, allora, Shakespeare rappresenta questa straordinaria metamorfosi di Edmund? A prescindere dal fatto che esista oppure no una risposta a questo interrogativo, consideriamo il cambiamento in sé e per sé, sebbene Edmund abbandoni il palcoscenico con la convinzione che la Natura sia la sua dea.

Che cosa significa, che cosa può significare l’affermazione secondo cui un personaggio fittizio è «un libero artefice di se stesso»? Non riscontro questo fenomeno nella letteratura occidentale prima di Shakespeare. Achille, Enea, Dante il pellegrino e Don Chisciotte non mutano origliando le proprie parole e, su quella base, grazie alla loro intelligenza e alla loro immaginazione, fanno un’inversione di marcia. La nostra convinzione, ingenua ma cruciale sul piano estetico, che Edmund, Amleto, Falstaff e decine di altri personaggi possano, per così dire, alzarsi e uscire dai loro drammi, magari persino contro la volontà di Shakespeare, è legata alla loro natura di liberi artefici di stessi. Come illusione teatrale e letteraria, come effetto del linguaggio figurativo, questo vigore shakespeariano resta senza eguali, sebbene venga imitato in tutto il mondo ormai da quattro secoli. Quel vigore non sarebbe possibile ad eccezione del soliloquio shakespeariano, proibito a Racine dalla dottrina critica francese, che non poteva permettere all’attore tragico di rivolgersi direttamente a se stesso o al pubblico. I drammaturghi spagnoli dell’età dell’oro, in particolare Lope de Vega, modellano il soliloquio come sonetto, in una sorta di trionfo barocco che opera contro l’interiorità. Non si può tuttavia trasformare un personaggio in un libero artefice di se stesso negando la sua interiorità. Shakespeare non è possibile in modalità barocca, ma la libertà tragica è più un ossimoro shakespeariano che una condizione in Lope de Vega, Racine o Goethe.

Capiamo perché Cervantes abbia fallito come drammaturgo e abbia trionfato come autore del Don Chisciotte. Esiste un’affinità ermetica tra Cervantes e Shakespeare: Don Chisciotte e Sancio non sono liberi artefici di se stessi; si collocano totalmente nella dimensione del gioco. È nella singolare forza di Shakespeare che i suoi protagonisti tragici, siano essi eroi o antieroi, cancellano i confini tra la dimensione della natura e quella del gioco. La peculiare autorità di Amleto, la sua ostentazione persuasiva di una coscienza autoriale, va ben al di là della trasformazione dell’Assassinio di Gonzago nella Trappola per topi. La mente di Amleto è, in ogni istante, un dramma nel dramma, perché Amleto, più di ogni altro personaggio shakespeariano, è il libero artefice di se stesso. La sua euforia e la sua angoscia scaturiscono dalla continua meditazione sulla sua immagine. Shakespeare è, almeno in parte, al centro del Canone perché lo è anche Amleto. La coscienza introspettiva, libera di contemplare se stessa, rimane la più elitaria di tutte le immagini occidentali, ma senza di essa il Canone non è possibile e, per dire le cose come stanno, non lo siamo neppure noi.

Molière, nato solo sei anni dopo la morte di Shakespeare, scrisse e recitò in una Francia che non era ancora esposta all’influenza shakespeariana. Le alterne fortune di Shakespeare in Francia cominciano a imporre uno schema verso la metà del XVIII secolo, quasi tre generazioni dopo la morte di Molière. Shakespeare e Molière hanno tuttavia una vera affinità, per quanto sia improbabile che il secondo avesse sentito parlare del primo. Sono simili per temperamento e per la libertà dall’ideologia, sebbene si siano rifatti a tradizioni formali della commedia un po’ discordanti. Voltaire inaugura la tradizione francese della resistenza a Shakespeare in nome del neoclassicismo e delle tragedie di Racine. L’avvento tardivo del Romanticismo francese causò una forte influenza shakespeariana sulla letteratura francese, influenza riconoscibile soprattutto in Stendhal e Victor Hugo; ma nell’ultimo terzo dell’Ottocento, la moda di Shakespeare si era ormai in gran parte esaurita. Benché oggi venga rappresentato in Francia non meno di Molière e Racine, si è sostanzialmente riaffermata la tradizione cartesiana e la Francia conserva una cultura letteraria relativamente a-shakespeariana.

È difficile sopravvalutare il continuo influsso di Shakespeare sui tedeschi, e persino su Goethe, che stava così attento a non lasciarsi influenzare. Manzoni, il principale romanziere dell’Italia ottocentesca, è in larga misura uno scrittore shakespeariano, come, del resto, Leopardi. Nonostante la furiosa polemica di Tolstoj contro Shakespeare, l’arte dello scrittore russo dipende dalla concezione shakespeariana del personaggio, sia nei suoi due grandi romanzi sia nel capolavoro maturo, il romanzo breve Chadzˇi-Murat. Dostoevskij deve i suoi magnifici nichilisti ai loro precursori shakespeariani, Iago e Edmund, mentre Pusˇkin e Turgenev figurano tra i fondamentali critici shakespeariani del XIX secolo. Ibsen compì enormi sforzi per sottrarsi all’influenza di Shakespeare, ma per sua fortuna non ci riuscì. Forse l’unica cosa che accomuna Peer Gynt e Hedda Gabler è l’intensità shakespeariana, la capacità ispirata di cambiare origliando se stessi.

Fino all’era moderna, la Spagna non ha avuto molto bisogno di Shakespeare. Le maggiori figure dell’età dell’oro spagnola (Cervantes, Lope de Vega, Calderón de la Barca, Tirso de Molina, Rojas, Góngora) conferirono alla letteratura nazionale un’esuberanza barocca che era già in qualche modo shakespeariana e romantica. Il celebre saggio di Ortega y Gasset su Shylock e il libro di Madariaga sull’Amleto sono i testi iniziali decisivi: giungono entrambi alla conclusione che l’era di Shakespeare è anche l’era della Spagna. Purtroppo abbiamo perduto il Cardenio, un dramma cui Shakespeare e Fletcher lavorarono insieme per tradurre in inglese una storia di Cervantes; molti critici hanno tuttavia avvertito le affinità tra Cervantes e Shakespeare e io desidero da sempre che un nuovo drammaturgo geniale riunisca Don Chisciotte, Sancio e Falstaff sullo stesso palcoscenico.

L’influenza di Shakespeare sulla nostra Età caotica continua a essere convincente, soprattutto per quanto riguarda Joyce e Beckett. Sia l’Ulisse sia Finale di partita sono essenzialmente rappresentazioni shakespeariane, ciascuna delle quali evoca, seppur in modo diverso, l’Amleto. Nel Rinascimento americano, Shakespeare emerse con chiarezza in Moby Dick e negli Uomini rappresentativi di Emerson, ma esercitò un influsso più impercettibile su Hawthorne. È impossibile tracciare i confini dell’influenza di Shakespeare, ma non è l’influenza a far sì che il Canone occidentale orbiti intorno al drammaturgo. Se si può affermare che Cervantes ha inventato l’ironia letteraria dell’ambiguità, poi destinata a trionfare ancora in Kafka, si può anche affermare che Shakespeare ha inventato l’ironia emotiva e cognitiva dell’ambivalenza, poi dominante in Freud. Mi sconvolge sempre di più osservare le originalità di Freud che svaniscono in presenza di Shakespeare, ma ciò non avrebbe sconvolto Shakespeare, consapevole che la letteratura e il plagio erano difficilmente distinguibili. Il plagio è una distinzione legale, non letteraria, proprio come il sacro e il profano sono una distinzione politica e religiosa, e non due categorie letterarie.

L’universalità è la vera caratteristica di un modesto gruppo di scrittori occidentali: Shakespeare, Dante, Cervantes e forse Tolstoj. Goethe e Milton sono stati oscurati dal cambiamento culturale; Whitman, così popolare in superficie, è sostanzialmente ermetico; Molière e Ibsen si dividono ancora il palcoscenico, ma sempre dopo Shakespeare. Dickinson è di una sorprendente difficoltà a causa della sua originalità cognitiva e Neruda è forse un populista brechtiano e shakespeariano meno di quanto desiderasse. L’universalismo aristocratico di Dante inaugurò l’era dei massimi scrittori occidentali, da Petrarca a Hölderlin; ma solo Cervantes e Shakespeare, autori populisti nella più grande tra le ere aristocratiche, raggiunsero un’universalità totale. Nell’Età democratica, il miglior tentativo di avvicinarsi all’universalità è il miracolo imperfetto di Tolstoj, insieme aristocratico e populista. Nella nostra epoca caotica, Joyce e Beckett vi arrivano vicinissimi, ma le elaborazioni barocche del primo e i disfacimenti barocchi del secondo sono entrambi ostacoli l’universalità. Nella loro sensibilità, Proust e Kafka hanno la stranezza di Dante. Sono d’accordo con Antonio García-Berrio nell’affermare che l’universalità è la caratteristica fondamentale del valore poetico. Essere il centro del Canone per altri poeti fu il ruolo unico di Dante. Shakespeare, con il Don Chisciotte, continua a essere il centro del Canone per i semplici lettori. Forse possiamo spingerci oltre; per Shakespeare, ci occorre un termine più borgesiano di «universalità». Insieme tutti e nessuno, tutto e niente, Shakespeare è il Canone occidentale.

3.

LA SINGOLARITÀ DI DANTE: BEATRICE E ULISSE

I neostoricisti e gli altri rappresentanti della Scuola del risentimento hanno tentato di ridurre e disperdere Shakespeare, con l’intenzione di distruggere il Canone dissolvendone il centro. Per quanto possa sembrare strano, Dante – che, per così dire, è il secondo centro del Canone – non è sottoposto ad attacchi analoghi, né in America né in Italia. L’assalto arriverà sicuramente, poiché i vari multiculturalisti avrebbero difficoltà a trovare un grande poeta più contestabile di Dante, il cui spirito indomito ed energico tocca i vertici della scorrettezza politica. Dante è il più aggressivo e polemico tra i massimi scrittori occidentali, capace, da questo punto di vista, di eclissare persino Milton. Come quest’ultimo, era un partito politico e una setta formata da un solo uomo. La sua intensità eretica è stata oscurata dai commenti degli eruditi, che, anche nei loro momenti migliori, lo trattano spesso come se la Divina Commedia fosse sostanzialmente una riduzione in versi di Sant’Agostino. È tuttavia meglio cominciare sottolineando la straordinaria audacia di Dante, che non ha eguali nell’intera tradizione della presunta letteratura cristiana, Milton compreso.

Nel lungo periodo che va dallo Jahwista e da Omero fino a Joyce e Beckett, la letteratura occidentale non presenta nulla di sublime e irriverente quanto l’esaltazione di Beatrice da parte di Dante, elevata da simbolo del desiderio a status angelico, ruolo in cui diviene un elemento di importanza cruciale nella gerarchia ecclesiastica della salvezza. Poiché, all’inizio, Beatrice è solo uno strumento della volontà di Dante, la sua apoteosi implica necessariamente anche l’elezione di Dante. Il suo poema è una profezia e assume la funzione di un terzo Testamento, per nulla subordinato al Vecchio e al Nuovo. Dante non vuole riconoscere che la Commedia è un frutto della fantasia, della suainsuperabile fantasia. Il poema, invece, è la verità, universale e non temporale. Ciò che il pellegrino Dante vede e dice nel racconto del poeta Dante mira a persuaderci di continuo dell’inevitabilità poetica e religiosa di Alighieri. Gli atti di umiltà del poema, da parte del pellegrino o del poeta, stupiscono gli studiosi, ma sono assai meno persuasivi del sovvertimento di tutti gli altri poeti compiuto dalla Divina Commedia e della sua tenacia nel dare risalto al potenziale apocalittico di Dante.

Queste osservazioni, mi affretto a precisarlo, si rivolgono contro gran parte degli studiosi di Dante e non contro quest’ultimo. Non vedo come potremmo sganciare la travolgente forza poetica di Dante dalle sue ambizioni spirituali, che sono inevitabilmente stravaganti e non appaiono blasfeme solo perché il poeta vinse la sua scommessa con il futuro nel giro di una generazione dopo la sua morte. Se la Commedianon fosse l’unico vero rivale poetico di Shakespeare, Beatrice sarebbe un insulto per la Chiesa e persino per i cattolici letterari. Il poema è troppo vigoroso per poterlo rinnegare; per un poeta neocristiano come T.S. Eliot, la Commediadiviene un’altra Scrittura, un altro Nuovo Testamento che integra la Bibbia cristiana canonica. Charles Williams – un guru per neocristiani come Eliot, C.S. Lewis, W.H. Auden, Dorothy L. Sayers, J.R.R. Tolkien e altri – arriva ad affermare che il credo di Attanasio («l’assunzione dell’umanità in Dio») non trovò piena espressione fino a Dante. La Chiesa dovette attendere Dante e la figura di Beatrice.

Ciò che Williams sottolinea nell’intenso studio The Figure of Beatrice (1943) è il grande scandalo dell’impresa di Dante: l’invenzione più spettacolare del poeta è Beatrice. Nessun personaggio di Shakespeare, neppure il carismatico Amleto o il divino Lear, è un’invenzione audace ed esuberante quanto Beatrice. Soltanto lo Yahweh dello scrittore J e il Gesù del Vangelo di Marco sono rappresentazioni più sorprendenti o affascinanti. Beatrice costituisce il fulcro dell’originalità di Dante e la sua trionfante collocazione nel meccanismo cristiano della salvezza è l’atto più audace che il poeta potesse compiere per trasformare la fede ereditata in qualcosa di molto più personale.

Gli studiosi di Dante respingono immancabilmente queste mie asserzioni, ma vivono così tanto all’ombra del loro soggetto da perdere spesso la piena consapevolezza della singolarità della Divina Commedia. Quest’ultima continua a essere la più misteriosa di tutte le opere letterarie che il lettore ambizioso possa incontrare, e sopravvive sia alla traduzione sia allo studio approfondito. Tutto ciò che permette al lettore comune di leggere la Commedia deriva da caratteristiche spirituali di Dante che sono tutto fuorché pie nel senso più tradizionale del termine. In fondo, Dante non ha nulla di davvero positivo da dire sui suoi precursori o contemporanei poetici e fa un uso davvero poco pragmatico della Bibbia, ad eccezione dei Salmi. È come se pensasse che re Davide, antenato di Cristo, fosse l’unico predecessore alla sua altezza, l’unico altro poeta davvero capace di esprimere la verità con coerenza.

Come scoprirà ben presto il lettore che si accosta a Dante per la prima volta, nessun altro autore secolare nutre la convinzione così ferma che la sua opera sia la verità, la verità più importante. Milton, e forse il Tolstoj maturo, ci ricordano l’incrollabile sicurezza di Dante, ma entrambi riflettono realtà contrastanti e sembrano più inclini alla visione isolata. Dante è così poderoso – sul piano retorico, psicologico e spirituale – da minare la loro fiducia in se stessi. La teologia non è la sua sovrana ma la sua risorsa, una delle tante. Nessuno può negare che Dante creda nel soprannaturale e sia un cristiano e un teologo, o almeno un allegorista teologico. Tutte le concezioni e le immagini ricevute subiscono tuttavia straordinarie trasformazioni in Dante, l’unico poeta la cui originalità, inventiva e straordinaria fecondità facciano davvero concorrenza a quelle di Shakespeare. Un lettore non italiano che affronta Dante per la prima volta, leggendo una traduzione in terza rima come quella di Lawrence Binyon o la lucida versione in prosa di John Sinclair, subisce una perdita immensa perché non ha modo di studiare l’originale, ma può esplorare ugualmente il cosmo creato dal poema. L’essenziale sono tuttavia la singolarità e la sublimità di ciò che resta, l’assoluta unicità delle capacità di Dante, con l’unica eccezione di Shakespeare. Come nel drammaturgo inglese, in Dante troviamo un’enorme forza cognitiva unita a una creatività che non ha limiti puramente pragmatici.

Quando leggete Dante o Shakespeare, vi scontrate con i limiti dell’arte, per poi scoprire che quei limiti sono stati allargati o violati. Dante rompe tutti gli schemi in maniera molto più personale ed esplicita di Shakespeare e, se crede nell’esistenza del soprannaturale più di quanto faccia il drammaturgo, la sua capacità di trascendere la natura è una caratteristica inconfondibile quanto il naturalismo unico e stravagante di Shakespeare. I due poeti si sfidano a vicenda soprattutto nelle rappresentazioni dell’amore, il che ci riconduce là dove l’amore inizia e finisce in Dante, ossia alla figura di Beatrice.

La Beatrice della Commedia occupa, nella gerarchia celeste, una posizione difficile da decifrare. Non abbiamo indizi che ci aiutino a comprenderla e nella dottrina non vi è nulla che giustifichi la celebrazione di questa particolare donna fiorentina, di cui Dante fu eternamente innamorato. Il commento più ironico su questa situazione è contenuto nell’Incontro in un sogno(Altre inquisizioni,1937-1952) di Jorge Luis Borges:

Innamorarsi significa creare una religione che ha un dio fallibile. Che Dante professi un’ammirazione idolatrica per Beatrice è una verità che non ammette contraddizioni; che in un’occasione Beatrice si sia fatta beffe di lui, e che in un’altra lo abbia respinto, sono fatti esposti nella Vita Nuova. Secondo alcuni, si tratta di fatti che ne simboleggiano altri. Se ciò fosse vero, rafforzerebbe ancora di più la nostra certezza di un amore infelice e superstizioso.

Borges, se non altro, riporta Beatrice alla sua origine di «incontro illusorio» e alla sua enigmatica alterità per tutti i lettori di Dante: «Beatrice esistette infinitamente per Dante; Dante esistette pochissimo, e forse non esistette affatto, per Beatrice. La nostra devozione, la nostra venerazione, ci inducono a dimenticare quella penosa disarmonia, che fu indimenticabile per Dante».

Poco importa che Borges proietti la propria passione assurda e ironica per Beatrice Viterbo (si veda il suo racconto cabalistico, L’Aleph). Ciò che lo scrittore sottolinea astutamente è la scandalosa sproporzione tra qualunque cosa Dante e Beatrice abbiano vissuto insieme (quasi nulla) e la visione dantesca della loro reciproca apoteosi nel Paradiso. La sproporzione è la strada privilegiata di Dante verso il sublime. Come Shakespeare, Alighieri riesce sempre a farla franca, perché entrambi trascendono i limiti di altri poeti. L’ironia (o allegoria) dilagante dell’opera dantesca è racchiusa nel fatto che l’autore dichiara di accettare i limiti proprio mentre li viola. Tutto ciò che, in Dante, è vitale e originale è anche arbitrario e personale, ma viene presentato come la verità, conforme alla fede, alla tradizione e alla razionalità. Viene quasi sempre frainteso finché si fonde con il normativo, e alla fine ci troviamo di fronte a un successo che Dante non poteva vedere di buon occhio. Il Dante teologico dei moderni studiosi americani è una fusione di Agostino, Tommaso d’Aquino e i loro compagni. È un Dante dottrinale, così pio ed erudito da poter essere compreso appieno solo dai suoi professori americani.

Tra gli scrittori, gli eredi di Dante sono i suoi veri canonizzatori, e non sempre si tratta di individui espressamente devoti: Petrarca, Boccaccio, Chaucer, Shelley, Rossetti, Yeats, Joyce, Pound, Eliot, Borges, Stevens, Beckett. Dante è quasi l’unico elemento che accomuna questi dodici autori, sebbene nel suo oltretomba poetico divenga dodici Dante diversi, il che è del tutto comprensibile per uno scrittore della sua forza; esistono tanti Dante quasi quanto esistono tanti Shakespeare. Il mio Dante si allontana sempre più da quello che è divenuto il Dante squisitamente ortodosso della moderna dottrina e critica americana, rappresentate da T.S. Eliot, Francis Fergusson, Erich Auerbach, Charles Singleton e John Freccero. Una tradizione alternativa è rappresentata dal filone italiano che iniziò con lo speculatore napoletano Vico e continuò con il poeta romantico Foscolo e con il critico romantico Francesco De Sanctis, per culminare, all’inizio del XX secolo, nello studioso di estetica Benedetto Croce. Se si combina questa tradizione italiana con alcune osservazioni del tedesco Ernst Robert Curtius, un illustre storico letterario moderno, emerge un’alternativa al Dante di Eliot, Singleton e Freccero: un poeta profetico anziché un allegorista teologico.

Vico esagerò magnificamente la sua tesi quando affermò che, se Dante «non avesse saputo affatto né della scolastica né di latino, sarebbe riuscito più gran poeta; e forse la toscana favella arebbe avuto da contrapporlo ad Omero». Nonostante ciò, il giudizio di Vico è rassicurante quando ci si aggira nella selva oscura degli allegoristi teologici, dove la caratteristica saliente della Commedia diviene la presunta conversione agostiniana di Dante dalla poesia alla fede, una fede che comprende e subordina l’immaginazione. Né Agostino né Tommaso d’Aquino consideravano la poesia più di un gioco infantile, da accantonare con gli altri balocchi. Come avrebbero interpretato la Beatrice della Commedia? Curtius nota con acume che Dante la presenta non solo come uno strumento di salvezza, ma anche come un mediatrice universale disponibile per chiunque sia d’animo gentile. Dante si converte a Beatrice, non ad Agostino, e Beatrice manda Virgilio, non Agostino, a fargli da guida.

È innegabile che Dante preferisce Beatrice, o la sua creazione, all’allegoria di altri teologi, ed è altrettanto chiaro che il poeta non desidera trascendere la propria poesia. Agostino e Tommaso d’Aquino hanno lo stesso rapporto con la teologia di Dante che Virgilio e Cavalcanti hanno con la poesia di Dante: tutti i predecessori vengono eclissati dal poeta-teologo, dal profeta Dante, che è l’autore del testamento definitivo, la Commedia. Se volete leggerla come un’allegoria dei teologi, cominciate dall’unico teologo cui Dante tenesse davvero: lo stesso Dante. Come tutte le massime opere canoniche, la Commediademolisce la distinzione tra scrittura sacra e scrittura secolare. Ora, per noi, Beatrice è inoltre l’allegoria della fusione di sacro e secolare, l’unione di profezia e poema.

Le straordinarie caratteristiche di Dante come poeta e come persona sono l’alterigia anziché l’umiltà, l’originalità anziché il tradizionalismo, l’esuberanza o l’entusiasmo anziché il riserbo. Il suo atteggiamento profetico è un atteggiamento di iniziazione anziché di conversione, per usare le parole di Paolo Valesio che pone l’accento sugli aspetti ermetici o esoterici della Commedia. Non si viene convertiti da Beatrice e non ci si converte a Beatrice; il viaggio verso di lei è un’iniziazione perché Beatrice, come disse per primo Curtius, è il centro di una gnosi personale, e non dell’universale ecclesiastico. Dopo tutto, chi manda Beatrice da Dante è Lucia, una santa siciliana piuttosto oscura, così oscura che gli studiosi di Dante non sanno spiegare perché quest’ultimo l’abbia scelta. John Freccero, il miglior critico americano vivente di Dante, ci informa che «in un certo senso, lo scopo dell’intero viaggio è scrivere il poema, raggiungere la condizione di Lucia e di tutti i beati».

Già, ma perché Lucia? La risposta a questa domanda non può certo essere: perché no? Lucia di Siracusa visse e fu martirizzata mille anni prima di Dante e oggi sarebbe caduta nell’oblio se non avesse avuto un’importanza esoterica per il poeta e per il suo poema. Non sappiamo tuttavia nulla riguardo a quell’importanza; ignoriamo persino chi sia l’anima femminile superiore che mandò Lucia da Beatrice. Questa «donna nel ciel» viene solitamente identificata con la Vergine Maria, ma Dante non ne cita il nome. Lucia viene definita «nimica di ciascun crudele», probabilmente un attributo condiviso da tutte le donne nel ciel. «Grazia illuminante» è, in genere, l’astrazione applicata alla Lucia di Dante dai commentatori; ma nemmeno questa sembra essere una qualità esclusiva di una particolare martire siciliana il cui nome significa «luce». Mi dilungo su questo aspetto per sottolineare come Dante si ostini a essere arbitrario. Nella Commedia vi è del materiale nascosto; il poema ha senza dubbio alcuni aspetti ermetici che non possono essere ritenuti di secondaria importanza, poiché sono tutti incentrati su Beatrice. Leggendo la Commedia, torniamo sempre alla figura di Beatrice, non tanto perché quest’ultima sia una sorta di Cristo quanto perché è l’oggetto ideale del desiderio sublimato di Dante. Non sappiamo neppure se la Beatrice di Dante abbia avuto un’esistenza storica. L’eventualità che l’abbia avuta e che la si possa identificare con la figlia di un banchiere fiorentino, ha poca importanza nel poema. La Beatrice della Commedia è importante non perché sia una prefigurazione di Cristo, ma perché è la proiezione idealizzata che Dante propone della propria singolarità, il punto di vista sulla sua opera come autore.

Permettetemi di essere così blasfemo da mescolare Cervantes e Dante per confrontare i loro due protagonisti eroici: Don Chisciotte e Dante il pellegrino. La Beatrice di Don Chisciotte è l’ammaliante Dulcinea del Toboso, la visionaria trasfigurazione di Aldonza Lorenzo, una ragazza di campagna. Beatrice Portinari, la figlia del banchiere, ha, con la Beatrice di Dante, lo stesso rapporto che Aldonza ha con Dulcinea; è vero, la gerarchia di Don Chisciotte è secolare: Dulcinea si colloca nel cosmo di Amadigi di Gaula, Palmerino d’Inghilterra, del Cavaliere del sole e altre celebrità della cavalleria mitologica, mentre Beatrice accede alla dimensione di san Bernardo, san Francesco e san Domenico. Se si predilige la poesia alla dottrina, non è detto che questa sia una differenza. Come i santi, i cavalieri erranti sono metafore per e in un poema, e la Beatrice celeste, in termini di cattolicesimo istituzionale e storico, non ha un maggiore o minore status di realtà rispetto all’irresistibile Dulcinea. Il trionfo di Dante consiste tuttavia nel far sembrare abbastanza blasfemo il mio paragone.

Forse è vero che Dante era insieme pio e ortodosso, ma Beatrice è una figura sua e non della Chiesa; fa parte di una gnosi privata, di un’alterazione operata da un poeta nello schema della salvezza. Una «conversione» a Beatrice può essere abbastanza agostiniana, ma non è una conversione a Sant’Agostino più di quanto la devozione a Dulcinea del Toboso sia un atto di adorazione diretto a Isolda dalle Bianche Mani. Dante fu sfacciato, aggressivo, altero e audace più di tutti i poeti precedenti o successivi. Impose la sua visione dell’eternità e ha pochissimo in comune con il gregge dei suoi esegeti pii e eruditi. Se tutto è in Agostino o in Tommaso d’Aquino, allora leggiamo Agostino o Tommaso d’Aquino. Dante voleva tuttavia che leggessimo Dante. Non compose il suo poema per illuminare le verità ereditate. La Commediasostiene di essere la verità e credo che deteologizzare Dante sarebbe inutile quanto teologizzarlo.

Quando Don Chisciotte, in punto di morte, si pente della propria pazzia eroica, torna alla sua identità originale di Alonso Quijano il Buono e ringrazia la misericordia divina per quella conversione a una pia salute mentale. Ogni lettore si unisce a Sancio Panza nella protesta: «Ah! Non se ne muoia vossignoria, padron mio, ma dia retta a me: viva ancora a lungo. […] Chissà che al di là di qualche siepe non troveremo la signora donna Dulcinea disincantata, tanto bella che non ci sia da andare più in là».

Alla fine del poema di Dante, non vi è alcun Sancio a sperare, con il lettore, che la forza del poeta non tradisca la nobile fantasia del cielo cristiano. Suppongo vi siano lettori che si accostano alla Divina Commedia come via verso l’amore divino che muove il sole e le altre stelle, ma la maggior parte di noi vi si accosta per Dante, per una personalità poetica e un personaggio drammatico che neppure John Milton riesce a eguagliare del tutto. Nessuno vuole trasformare la Commedia in Don Chisciotte, ma un pizzico di Sancio avrebbe potuto ammorbidire persino il pellegrino dell’eternità, rammentando forse ai suoi studiosi che un’invenzione è un’invenzione, anche se è la prima a non considerarsi tale.

Ma che genere di invenzione è Beatrice? Se, come insiste Curtius, è un’emanazione di Dio, Dante creò qualcosa che non siamo in grado di decifrare pur avvertendone la presenza. La rivelazione di Dante non può essere definita personale, come quella di William Blake, ma non perché sia meno originale di quella del poeta inglese. È più originale ed è pubblica perché è così efficace; ad eccezione di Shakespeare nei suoi momenti di massimo splendore, nella letteratura occidentale non vi è nulla di altrettanto articolato. Dante, il più singolare e indomabile di tutti i temperamenti raffinati, si rese universale non perché aveva assorbito la tradizione, ma perché l’aveva piegata fino ad adeguarla alla propria natura. Con un’ironia che trascende qualsiasi cosa analoga di mia conoscenza, la forza usurpatrice di Dante è sfociata in letture leggermente travisate nell’uno o nell’altro senso. Se la Commedia è una profezia veritiera, i suoi studiosi sono tentati di leggerla alla luce della tradizione agostiniana. In quale altro luogo è possibile trovare la giusta interpretazione della rivelazione cristiana? Talvolta, persino un interprete sottile come John Freccero cade nella conversione della poetica, come se solo Agostino potesse offrire un paradigma di autocontrollo. Un «romanzo dell’io» come la Commedia deve dunque trarre origine dalle Confessioni di Agostino. Con molta più energia dei romantici che lo adoravano e imitavano, Dante inventa la sua origine e domina il suo io con Beatrice, la figura della sua conversione, che non mi sembra un personaggio molto agostiniano. Beatrice potrebbe essere l’oggetto di un desiderio, per quanto sublimato, in un racconto agostiniano della conversione? Freccero afferma con eloquenza che, per Agostino, la storia è il poema di Dio. La storia di Beatrice è forse un componimento lirico di Dio? Poiché anch’io, a seconda delle mie esigenze, sono propenso a trovare la voce di Dio in Shakespeare, Emerson o Freud, non ho difficoltà a giudicare divina la Commedia di Dante. Non parlerei tuttavia delle Confessioni divine e non sento la voce di Dio in Agostino, né sono convinto che Dante abbia udito Dio in una voce che non fosse la sua. Per definizione, si può dire che un poema incline a preferire se stesso alla Bibbia preferisce se stesso anche ad Agostino.

Secondo Charles Williams, che non nutriva grande simpatia per lo gnosticismo, Beatrice è la conoscenza di Dante. Per conoscenza, Williams intende la strada da Dante il conoscitore a Dio il conosciuto. Il poeta non voleva tuttavia che Beatrice fosse solo la sua conoscenza. Il poema non sostiene che ciascuno di noi deve trovare una conoscenza solitaria, bensì che Beatrice deve svolgere un ruolo universale per tutti coloro che riescono a trovarla, poiché, presumibilmente, il suo intervento a favore di Dante tramite Virgilio sarà unico. Pur essendo l’invenzione centrale di Dante, il mito di Beatrice esiste solo dentro la sua poesia. La sua singolarità non può essere colta davvero, perché non conosciamo alcuna figura paragonabile a Beatrice. L’Urania di Milton, la musa celeste del Paradiso perduto, non è una persona e l’autore ci tiene a precisare di averne invocato il significato, non il nome. Shelley, imitando Dante, celebrò Emilia Viviani nel suo Epipsychidion, ma la passione tardoromantica non prevalse e alla fine, per il suo ammiratore deluso, la signora Viviani divenne un «piccolo demone bruno».

Per cogliere qualcosa della singolarità di Dante, dobbiamo esaminare il trattamento che il poeta riserva a una figura universale. Nessun personaggio letterario occidentale è eterno quanto Odisseo, l’eroe omerico meglio conosciuto con il nome latino di Ulisse. Da Omero a Nikos Kazantzakis, la figura di Odisseo/Ulisse subisce straordinarie trasformazioni in Pindaro, Sofocle, Euripide, Orazio, Virgilio, Ovidio, Seneca, Dante, Chapman, Calderón de la Barca, Shakespeare, Goethe, Tennyson, Joyce, Pound e Wallace Stevens, per citarne solo alcuni. Nel suo raffinato saggio The Ulysses Theme (1963), W.B. Stanford contrappone il trattamento debole ma negativo di Virgilio all’identificazione positiva di Ovidio con Ulisse, un contrasto da cui scaturiscono due delle principali concezioni che probabilmente si contenderanno in eterno le metamorfosi di questo eroe o antieroe. L’Ulisse di Virgilio diverrà quello di Dante, ma così trasformato che il ritratto virgiliano, piuttosto evasivo, tenderà a sbiadire. Poco propenso a condannare direttamente Ulisse, Virgilio lascia quel compito ai suoi personaggi, che identificano l’eroe dell’Odissea con l’astuzia e l’inganno. Ovidio, esule e autore di testi d’amore, si fonde con Ulisse in un’identità composita, lasciandoci così in eredità l’idea ormai indelebile di Ulisse come il primo dei grandi donnaioli vagabondi.

Nel XXVI canto dell’Inferno, Dante creò la più originale versione di Ulisse che ci sia mai pervenuta, un Ulisse che non cerca una casa e una moglie a Itaca, ma si congeda da Circe per violare tutti i limiti e avventurarsi nell’ignoto. La terra inesplorata di Amleto, dai cui confini nessun viaggiatore mai ritorna, diviene la meta pragmatica di questo eroe, il più sorprendente di tutti i personaggio pronti a sfidare la sorte. Il XXVI canto dell’Inferno contiene un passo straordinario ma di difficile comprensione. Ulisse e Dante sono in rapporto dialettico perché il secondo teme la profonda identità tra se stesso come poeta (non come pellegrino) e Ulisse come viaggiatore trasgressivo. Forse questa paura non è del tutto conscia, ma, a un certo livello, Dante deve averla avvertita, perché ritrae Ulisse come un individuo mosso dall’alterigia, e mai è esistito poeta più altero di Dante, neppure Pindaro, Milton, Victor Hugo, Stephan George o Yeats. Gli studiosi vogliono udire Beatrice o i santi parlare per Dante, ma né l’una né gli altri si fanno suoi portavoce. La voce di Ulisse e quella di Dante mostrano una pericolosa somiglianza e forse questo è il motivo per cui Virgilio fornisce una spiegazione insufficiente quando afferma che forse il greco disprezzerà la voce del poeta italiano. Né Dante si concede una reazione al magnifico discorso che scrive per Ulisse, descritto come una voce che parla dalla fiamma.

[…] Quando

mi diparti’ da Circe, che sottrasse

me più d’un anno là presso a Gaeta,

prima che sì Enea la nomasse,

né dolcezza di figlio, né la pièta

del vecchio padre, né ’l debito amore

lo qual dovea Penelopè far lieta,

vincer poter dentro da me l’ardore

ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,

e delli vizi umani e del valore;

ma misi me per l’alto mare aperto,

sol con un legno e con quella compagna

picciola dalla qual non fui diserto.

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,

fin nel Morrocco, e l’isola de’ Sardi,

e l’altre che quel mare intorno bagna.

Io e’ compagni eravam vecchi e tardi

quando venimmo a quella foce stretta

dov’Ercule segnò li suoi riguardi,

acciò ché l’uom più oltre non si metta;

dalla man destra mi lasciai Sibilia,

dall’altra già m’avea lasciata Setta.

«O frati», dissi, «che per cento milia

perigli siete giunti all’occidente,

a questa tanto picciola vigilia

de’ nostri sensi ch’è del rimanente,

non vogliate negar l’esperienza,

di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza.»

Li miei compagni fec’io sì aguti,

con questa orazion picciola, al cammino

che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,

dei remi facemmo ali al folle volo,

sempre acquistando dal lato mancino.

Tutte le stelle già de l’altro polo

vedea la notte, e ’l nostro tanto basso

che non surgea fuor del marin suolo.

Cinque volte racceso e tante casso

lo lume era di sotto dalla luna,

poi che ’ntrati eravam nell’alto passo,

quando n’apparve una montagna, bruna

per la distanza, e parvemi alta tanto

quanto veduta non avea alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;

ché della nova terra un turbo nacque

e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;

alla quarta levar la poppa in suso

e la prora ire in giù, com’altrui piacque,

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso.

Questo straordinario discorso provoca forse nel lettore comune qualcosa di simile alla seguente riflessione, scritta dal più illustre critico di Dante? «Ciò che distingue l’annegamento definitivo di Ulisse dal battesimo di Dante verso la morte e la successiva risurrezione è l’evento di Cristo nella storia, ovvero la grazia, l’evento di Cristo nella singola anima.»

Un passo molto meno vigoroso potrebbe sicuramente suscitare la stessa riflessione con altrettanta giustizia. Vi è una sproporzione tra una dottrina o una devozione che cancellano ogni differenza ad eccezione dell’assenso e un testo poetico quasi senza rivali. Evidentemente c’è qualcosa che non va in una lettura di Dante che cede tutta l’autorità alla dottrina cristiana, sebbene il poeta sia in parte responsabile di questa riduzione. Nell’architettura dantesca dell’inferno, ci troviamo nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio, non troppo lontano da Satana. Ulisse è un consigliere fraudolento, innanzi tutto per via dell’inganno e dell’astuzia con cui ha proceduto alla conquista di Troia, antenata di Roma e dunque dell’Italia, come asseriva in particolare Virgilio. Dante non parla con Ulisse perché, in un certo senso, è Ulisse; per scrivere la Commedia, occorre fare vela verso un mare inesplorato. Dante ci dice inoltre con grande chiarezza ciò che non vuole far raccontare a Ulisse: la morte di Achille, il cavallo di Troia, il furto del Palladio, tutti eventi che giustificano la dannazione del viaggiatore.

A prescindere dal suo esito, l’ultimo viaggio non rientra in quella categoria. Infiammato a sua volta, Dante si china verso la fiamma di Ulisse con desiderio, con sete di conoscenza. La conoscenza che riceve è quella della pura ricerca, compiuta a spese di un figlio, di una moglie e di un padre. La ricerca è, tra l’altro, una metafora dell’alterigia e della caparbietà dimostrate da Dante quando quest’ultimo prolungò l’esilio da Firenze rifiutando le condizioni che lo avrebbero riportato in seno alla sua famiglia. Provare come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ’l salir per l’altrui scale, è il prezzo da pagare per la ricerca. Ulisse è disposto a pagarne uno ancora più alto. Quale esperienza è davvero più simile a quella di Dante, la trionfante conversione di Agostino o l’ultimo viaggio di Ulisse? Secondo la leggenda, Dante veniva additato per la strada come l’uomo che, in qualche modo, era tornato da un viaggio all’inferno, come se fosse una sorta di sciamano. È lecito supporre che credesse alla realtà delle sue visioni; un poeta della sua forza, che si riteneva un vero profeta, non avrebbe considerato la discesa all’inferno come una semplice metafora. Il suo Ulisse parla con assoluta dignità e terribile causticità, comunicandoci non il pathos della dannazione, bensì l’alterigia consapevole che l’alterigia e il coraggio non bastano.

L’Enea di Virgilio è un po’ un saccente ed è ciò in cui molti suoi studiosi trasformano o vorrebbero trasformare Dante. Ma Dante non è Enea; Dante è indomito, egocentrico e impaziente quanto il suo Ulisse e, come Ulisse, arde del desiderio di essere altrove, di essere diverso. Probabilmente la distanza che lo separa dal suo doppio raggiunge il massimo livello quando il poeta fa parlare Ulisse in maniera così toccante di «questa tanto picciola vigilia de’ nostri sensi ch’è del rimanente». Anche qui dobbiamo ricordare che Dante, morto a cinquantasei anni, avrebbe voluto vivere un altro quarto di secolo, perché, nel Convivio, aveva fissato la durata ideale della vita a ottantun anni. Solo allora sarebbe stato completo e forse la sua profezia si sarebbe avverata. Fermo restando che Ulisse fa vela per il «mondo sanza gente» mentre i viaggi cosmici di Dante conducono il poeta in luoghi pieni di morti, c’è una differenza tra i due cercatori, e Ulisse è senza dubbio il più estremo. Il cercatore di Dante è come minimo un antieroe, simile all’Achab di Melville, un altro uomo insieme empio e simile a un dio. Un eroe gnostico o neoplatonico è assai diverso da un eroe cristiano, ma l’immaginazione di Dante non si ispira sempre agli eroismi cristiani, a meno che non celebri il suo avo crociato, Cacciaguida, che lo contraccambia con generosità profondendosi in elogi sul coraggio e sull’audacia del suo discendente. È questo il significato recondito della visione dantesca di Ulisse: ammirazione, compartecipazione, orgoglio famigliare. Si rende onore a uno spirito affine, benché quest’ultimo risieda nell’ottavo cerchio dell’inferno. È Ulisse ad affermare che il suo viaggio finale è stato un «folle volo», probabilmente in contrasto con il volo di Dante sotto la guida di Virgilio.

Considerato rigorosamente come un poema, nessun volo potrebbe essere più folle di quello della Commedia, che Dante non vuole tuttavia considerare solo un poema. Quello è il privilegio di Dante, ma non il privilegio dei suoi studiosi, né dovrebbe essere il punto di vista dei suoi lettori. Se vogliamo individuare ciò che rende canonico Dante, il vero centro del Canone dopo Shakespeare, dobbiamo recuperare la sua singolarità compiuta, la sua perpetua originalità. Quella caratteristica ha ben poco a che fare con la descrizione agostiniana di come il vecchio io muore e di come nasce quello nuovo. Ulisse sarà anche il vecchio io e Beatrice sarà il nuovo, ma l’Ulisse di Dante è solo di Dante e lo stesso vale per Beatrice. Non potendo migliorare ciò che aveva fatto Agostino, Dante fece in modo che la Commedia non divenisse più agostiniana di quanto fosse virgiliana. Il poema è ciò che il suo autore voleva che fosse: esclusivamente dantesco.

Jesus ben Sira, autore dello splendido Ecclesiastico, un testo relegato per sempre tra gli apocrifi non canonici,1 afferma di venire come uno spigolatore sulla scia di uomini famosi, i padri che ci hanno generato. Forse è questo il motivo per cui è il primo scrittore ebraico a insistere sulla propria identità di autore del libro. Non ripeteremo mai troppo spesso che Dante non venne come uno spigolatore per lodare gli uomini famosi che l’avevano preceduto: li distribuisce, secondo il suo giudizio, nel limbo, nell’inferno, nel purgatorio e nel paradiso, perché è il vero profeta e pretende di essere riconosciuto come tale nella sua epoca. I suoi giudizi sono assoluti, spietati e talvolta inaccettabili sul piano morale, almeno per molti di noi. Dante ha deciso di avere l’ultima parola, e mentre lo leggete, non avete certo voglia di contraddirlo, soprattutto perché volete ascoltare e visualizzare ciò che ha visto per voi. In vita, non deve essere stato una persona facile con cui litigare e si è sempre dimostrato agguerrito.

Pur essendo morto, bianco, maschio ed europeo, Dante è la più vitale di tutte le personalità letterarie e, da questo punto di vista, compete con l’unico scrittore che riesca a superarlo, Shakespeare, la cui personalità ci sfugge sempre, persino nei sonetti. Shakespeare è tutti e nessuno; Dante è Dante. Checché ne dicano tutti i dogmi parigini, la presenza nel linguaggio non è un’illusione. Dante ha impresso se stesso in ogni verso della Commedia. II suo personaggio principale è Dante il pellegrino e, in seconda battuta, Beatrice, non più la fanciulla della Vita Nuova, ma una figura centrale della gerarchia celeste. Ciò che manca in Dante è l’ascesa di Beatrice; ci si può chiedere perché, nella sua audacia, il poeta non abbia rivelato anche il mistero della sua elezione. Forse dipende dal fatto che tutti i modelli a sua disposizione non erano stati solo eretici, ma avevano addirittura aderito all’eresia delle eresie, lo gnosticismo. Da Simon Mago in avanti, gli eresiarchi avevano elevato le loro seguaci più fedeli alle gerarchie celesti, mentre l’irriverente Simon Mago, il primo Faust, aveva preso Elena, una puttana di Tiro, e aveva dichiarato che, in una delle sue precedenti incarnazioni, era stata Elena di Troia. Dante, il cui eros era stato sublimato pur restando permanente, non rischiò alcun confronto.

Tuttavia, in senso più poetico che teologico, il mito dantesco di Beatrice è più vicino allo gnosticismo che all’ortodossia cristiana. Tutte le prove a favore di quella che potremmo definire l’apoteosi di Beatrice non sono semplicemente personali (come è necessario che sia), ma derivano da un mondo visionario simile allo gnosticismo del II secolo. Beatrice dev’essere una scintilla non creata del divino e un’emanazione della divinità, oltre che una fanciulla fiorentina morta all’età di venticinque anni. Non è soggetta alle categorie religiose del giudizio che conducono alla beatitudine e alla santità, ma sembra passare direttamente dalla morte alla gerarchia della salvezza. Nella Vita Nuova e nella Commedia, nulla fa pensare che Beatrice fosse soggetta al peccato o anche solo all’errore. Invece fu, fin dall’inizio, ciò che dice il suo nome: «Colei che rende beati». Dante dice che, a nove anni, era «uno de li bellissimi angeli del cielo», una figlia di Dio, e dopo la sua morte il poeta parla di «quella benedetta Beatrice, la quale gioiosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus».

Non possiamo concludere che Dante si abbandona a un’iperbole erotica; la Commedia è inconcepibile senza Beatrice, la cui gioiosa ammissione nelle regioni superne era garantita da sempre. Petrarca, nel tentativo di prendere le distanze dal poeta più formidabile della generazione di suo padre, inventò (o almeno così credeva) un’idolatria poetica verso la sua amata Laura, ma, al di là della scandalosa autorità di Dante, che cosa ci impedisce di vedere, nell’adorazione di Beatrice, l’idolatria più poetica di tutte? Esercitando la sua autorità, Dante integra Beatrice nella tipologia cristiana, o forse sarebbe più esatto dire che integra la tipologia cristiana nella sua visione di Beatrice. Quest’ultima, e non Cristo, è il poema; Dante, non Agostino, ne è l’artefice. Con questo non voglio negare la spiritualità di Dante, ma semplicemente sottolineare che l’originalità non è, di per sé, una virtù cristiana e che Dante conta a causa della sua originalità. Come ogni altro poeta, ad eccezione di Shakespeare, Dante non ha alcun padre poetico, sebbene affermi che Virgilio svolge questo ruolo. Virgilio, tuttavia, viene convocato da Beatrice e scompare dal poema quando la donna fa il suo ritorno trionfale, nei canti conclusivi del Purgatorio.

Quel ritorno, di per sé straordinario, è preceduto da un’altra delle grandiose invenzioni di Dante, Matelda, descritta mentre raccoglie fiori in un nuovo paradiso terrestre. La visione di Matelda fu cruciale nella poesia di Shelley e non è un caso che quel passo di Dante sia stato tradotto da Shelley in quella che forse è la migliore versione inglese di un brano della Commedia. Ecco qui il punto culminante dello stralcio reso da Shelley, che poi passò a comporre una diabolica parodia di quella visione nel Trionfo della vita, la sua dantesca poesia sulla morte:

I moved not with my feet, but mid the glooms

Pierced with my charmèd eye, contemplating

The mighty multitude of fresh May blossoms

Which starred that night, when, even as a thing

That suddenly, for blank astonishment,

Charms every sense, and makes all thought take wing, —

A solitary woman! and she went

Singing and gathering flower after flower,

With which her way was painted and besprent.

«Bright lady, who, if looks had ever power

To bear true witness of the heart within,

Dost bask under the beams of love, come lower

Towards this bank. I prithee let me win

This much of thee, to come, that I may hear

Thy song: like Proserpine, in Enna’s glen,

Thou seemest to my fancy, singing here

And gathering flowers, as that fair maiden when,

She lost the Spring, and Ceres her, more dear.

Ecco il testo di Dante, contenuto nel XXVIII canto del Purgatorio:

Coi piè ristetti e con li occhi passai

di là dal fiumicello, per mirare

la gran variazion di freschi mai;

e là m’apparve, sì com’elli appare

subitamente cosa che disvia

per maraviglia tutto altro pensare,

una donna soletta che si gìa

cantando e scegliendo fior da fiore

ond’era pinta tutta la sua via.

«Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore

ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti

che soglion esser testimon del core,

vegnati in voglia di trarreti avanti»,

diss’io a lei, «verso questa rivera,

tanto ch’io possa intender che tu canti.

Tu mi fai rimembrar dove e qual era

Proserpina nel tempo che perdette

la madre lei, ed ella primavera.»

Nel canto precedente, Dante aveva scritto: «Giovane e bella in sogno mi parea donna vedere andar per una landa cogliendo fiori; e cantando», ma la sconosciuta si era identificata come Lia, la prima moglie del Giacobbe biblico, e si era contrapposta alla sorella minore, Rachele, divenuta la seconda moglie del patriarca di Israele. Lia prefigura Matelda, mentre Rachele anticipa Beatrice, ma è un po’ difficile leggerle come un contrasto tra vita attiva e vita contemplativa.

«Sappia qualunque il mio nome dimanda

ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno

le belle mani a farmi una ghirlanda.

Per piacermi allo specchio qui m’addorno;

ma mia suora Rachel mai non si smaga

dal suo miraglio, e siede tutto giorno.

Ell’è de’ suoi belli occhi veder vaga

com’io dell’addornarmi con le mani;

lei lo vedere, e me l’ovrare appaga».

Queste metafore sono forse state distrutte dal tempo? Hanno forse ceduto alla critica del femminismo? O accade forse che, in un’era postfreudiana, rifuggiamo dall’esaltazione del narcisismo? Nella nostra epoca, il commento di Charles Williams, di solito molto acuto, sembra senza dubbio un po’ imbarazzante:

Dante sogna per l’ultima volta: sogna Lia intenta a raccogliere fiori – quale altra azione viene descritta? – e Rachele impegnata a guardarsi allo specchio – quale altra contemplazione viene descritta? – giacché ormai l’anima può gioire di se stessa, dell’amore e della bellezza.

La visione di Lia o di Matelda intenta a cogliere fiori come simbolo dell’azione o della vita attiva mi ricorda purtroppo una vignetta di James Thurber in cui due donne ne osservano una terza intenta a raccogliere fiori, e una dice all’altra: «Ha il vero spirito di Emily Dickinson, solo che talvolta si stufa». L’immagine di Rachele o Beatrice impegnata a contemplarsi nello specchio richiama l’infelice momento in cui Freud paragona il narcisismo delle donne a quello dei gatti. Le mie associazioni sono senza dubbio arbitrarie, ma la tipologia, con qualunque spiegazione erudita, non rende sempre un buon servizio a Dante. Dubito molto che volesse trasformare la Commedia in un poema «circa» la sua conversione, «circa» il suo diventare cristiano. Se fosse così, potrebbe accadere solo nel significato obsoleto della parola «circa», ossia «intorno a, alla periferia di». Al suo interno, la Commedia parla della chiamata di Dante al ruolo di profeta.

Si può diventare cristiani senza accettare il mantello di Elia, ma non se si è Dante. La visione di Matelda, che sostituisce Proserpina in un nuovo paradiso terrestre non appare al cristiano appena convertito, bensì al poeta-profeta la cui vocazione è stata confermata. Shelley, che non era un profeta-poeta cristiano bensì lucreziano, subì una metamorfosi a causa del passo su Matelda perché, per lui, quei versi illuminarono la passione della vocazione poetica, il ripristino della natura paradisiaca che aveva abbandonato Wordsworth, il suo grande precursore. Matelda è la prefigurazione di Beatrice perché la Proserpina resuscitata rende possibile il ritorno della Musa. Beatrice non è un’imitazione di Cristo, bensì la creatività di Dante che anela a identificarsi con un vecchio amore, sia esso reale o in gran parte immaginario.

L’idealizzazione dell’amore perduto è un’abitudine umana quasi universale; ciò che si ricorda nel corso degli anni è una possibilità perduta per l’io, anziché per l’altro. L’associazione di Rachele e Beatrice è così efficace non perché ciascuna delle due rappresenta un tipo di vita contemplativa, ma perché ciascuna è un’immagine appassionata dell’amore perduto. Rachele è importante per la Chiesa perché quest’ultima la interpreta come un simbolo contemplativo, ma è importante per i poeti e i loro lettori perché un abile narratore, lo Jahwista o scrittore J, tramutò la sua prematura morte di parto nel grande dolore della vita di Giacobbe. Nella tipologia poetica, Rachele precede Beatrice come immagine della morte prematura della donna amata, mentre Lia è collegata a Matelda come visione del compimento rimandato. Giacobbe servì Labano per conquistare Rachele e invece ricevette prima Lia. Dante spera nel ritorno di Beatrice, ma il viaggio nel purgatorio lo conduce prima da Matelda. Sebbene sia l’ora della stella mattutina, del pianeta Venere, a comparirgli è Matelda, non Beatrice. Matelda canta come una donna innamorata e Dante cammina con lei, ma si tratta solo di una preparazione, proprio come Lia era stata una preparazione a Rachele.

Ciò che si rivela improvvisamente al poeta è una processione trionfale, incentrata, per quanto possa sembrare sorprendente, sulla visione del cocchio divino e della figura seduta su un trono, visione descritta dal profeta Ezechiele. Dante evita il turbamento invitando i lettori a consultare il testo biblico per i particolari più inverosimili, anche se segue l’Apocalisse di Giovanni nell’interpretare l’Uomo di Ezechiele come Cristo. Per Dante, il cocchio è il trionfo della Chiesa, non com’era, ma come avrebbe dovuto essere; il poeta circonda questa militanza idealizzata con i libri dei due Testamenti, ancora una volta non per basarsi su questi ultimi, ma toglierseli di mezzo. Tutto questo, persino il grifone simboleggiante il Cristo, ha importanza solo a causa della bellezza che preannuncia, il ritorno di un antico amore, non più perduto irrimediabilmente.

L’arrivo concreto di Beatrice nel XX canto del Purgatorio comporta la scomparsa definitiva di Virgilio. Beatrice rende superfluo Virgilio, non perché la teologia sostituisca la poesia, ma perché ora la Commedia di Dante sostituisce totalmente l’Eneide. Pur dicendo espressamente il contrario, Dante (ora nominato, dalla stessa Beatrice, per la prima e unica volta nel poema) celebra le sue capacità di poeta intronizzando Beatrice. Che cos’altro potrebbe fare sul piano pragmatico? Persino Charles Singleton, il più teologico tra i maggiori esegeti di Dante, sottolinea che la bellezza di Beatrice «viene definita superiore a qualsiasi bellezza creata dalla natura o dall’arte». Se volete assimilare Dante all’allegoria dei teologi (come cercò invariabilmente di fare Singleton), solo Dio potrebbe, attraverso la Chiesa, creare e conservare uno splendore al di là della natura e dell’arte. Come dobbiamo ricordare di continuo a noi stessi, Beatrice è tuttavia una creazione esclusiva di Dante, proprio nel senso in cui Dulcinea lo è di Don Chisciotte. Se Beatrice è più bella di ogni altra donna nella letteratura o nella storia, Dante celebra la propria capacità di rappresentazione.

Nelle palesi intenzioni di Dante, il Purgatorioesplora la tesi cattolica secondo cui il desiderio di Dio, essendo stato deviato verso canali sbagliati, va ripristinato mediante l’espiazione. In tutta la sua produzione, Dante tocca il suo momento di massima audacia quando indica che il suo desiderio di Beatrice non fu mai deviato, bensì lo condusse sempre a una visione di Dio. La Commedia è un trionfo, e dunque è probabilmente il massimo esempio occidentale di poesia religiosa. È senza dubbio il massimo esempio di poema totalmente personale che induce molti lettori a credere di aver trovato la verità suprema. Persino Teodolinda Barolini, in un libro scritto espressamente per deteologizzare Dante, afferma così che «la Commedia, forse più di ogni altro testo mai scritto, cerca consapevolmente di imitare la vita, le condizioni dell’esistenza umana».

Giudizio sconcertante. L’Inferno e il Purgatorio, per non parlare poi del Paradiso, cercano forse di «imitare la vita» più consapevolmente del Re Learo addirittura dei Racconti di Canterbury, che subirono l’influenza di Dante? Qualunque sia il realismo di Dante, esso non ci dà ciò che ci offrono Chaucer e Shakespeare: personaggi che cambiano proprio come cambiano gli esseri umani nella realtà. Nella Commedia, Dante è l’unico a cambiare e a maturare; tutti gli altri personaggi sono fissi e immutabili, e devono esserlo, poiché sono già stati sottoposti al giudizio definitivo. Quanto a Beatrice – intesa come personaggio in un poema, l’unico ruolo che può interpretare – è, per forza di cose, ancora più lontana dall’imitazione della vita. Che cos’ha a che fare, infatti, con le condizioni dell’esistenza umana? Nonostante i suoi atteggiamenti da guru, Charles Williams è, su questo punto, più sincero di quanto lo siano gli studiosi di Dante, quando parla della Commedia osservando: «Persino quel poema era necessariamente limitato. Non cerca infatti di affrontare il problema della salvezza di Beatrice e la funzione che Dante svolge al suo interno».

Trovo questa affermazione un po’ assurda, ma un’assurdità di questo genere è sempre meglio del tentativo di soffocare Dante con la dottrina o scambiare il suo poema per un’imitazione della vita. Per quanto riguarda Dante come poeta, la salvezza di Beatrice non rappresentava assolutamente un problema. Beatrice salvò Dante fornendogli la sua massima immagine poetica e Dante salvò Beatrice dall’oblio, sebbene, forse, la donna non desiderasse quel tipo di salvezza. Williams si abbandona a riflessioni mistiche sul «matrimonio» tra Beatrice e Dante, ma quello è Williams e non Dante. Quando Beatrice entra nel Purgatorio, non si rivolge al poeta come un’innamorata o una madre, bensì come una divinità che parla a un mortale, seppur un mortale con cui ha un rapporto molto particolare. La sua severità nei confronti di Dante è un’altra autocelebrazione capovolta da parte del poeta, poiché Beatrice è il superbo segno della sua originalità, la messaggera della sua profezia. In realtà, a rimproverarlo è il suo genio, perché quale altro rimprovero potrebbe mai accettare il più fiero di tutti poeti? Suppongo che non sarebbe stato contrario alla discesa diretta di Cristo, ma neppure Dante avrebbe rischiato una simile rappresentazione.

La musa interviene, ma il poeta la chiama «beatitudine» e le attribuisce un ruolo che potrebbe recare vantaggio a chiunque altro. Beatrice non scenderà per e verso altri, ma solo per la poesia di Dante; quest’ultimo è dunque il suo profeta, una funzione che si era preparato fin dalla Vita Nuova. Nonostante i suoi complessi rapporti con molte tradizioni – poetica, filosofica, teologica, politica – Dante non deve Beatrice a nessuna di esse. La donna si può distinguere da Cristo ma non dalla Commedia, perché è il poema di Dante, l’unica immagine tra le immagini che non raffigura Dio, bensì il risultato ottenuto da Dante. Mi sto abituando a sentirmi dire dagli studiosi che Dante era interessato al risultato come strada verso Dio e mi rifiuto di crederci. Esiliato dalla sua città, testimone del fallimento dell’imperatore in cui aveva riposto le sue più fervide speranze, alla fine aveva solo il suo poema da opporre alla rovina cui sembrava destinato.

Il filosofo George Santayana, nel suo Three Philosophical Poets (1910), fa una distinzione tra Lucrezio, Dante e Goethe, rispettivamente sulla base del naturalismo epicureo, del soprannaturalismo platonico e dell’idealismo romantico o kantiano. A proposito di Dante, Santayana afferma che «divenne per il platonismo e il cristianesimo ciò che Omero era stato per il paganesimo», aggiungendo tuttavia che l’amore, come Dante «lo sente e lo esprime, non è un amore normale o sano». Sembra sacrilego giudicare anormale o malsana la passione di Dante per Beatrice solo perché oppone così poca resistenza a una trasformazione mistica dell’amata in una parte dell’apparato divino della redenzione. Tuttavia, Santayana si dimostra acuto e innovativo quando fa questo commento, e anche quando elogia ironicamente Dante per aver precorso i tempi con il suo tenace egocentrismo.

Quando Santayana osserva che Dante era un platonico diverso da tutti gli altri, avrebbe dovuto azzardare una formulazione più audace: Dante era anche un cristiano diverso da tutti gli altri e Beatrice è il segno di quella differenza, il segno di ciò che il poeta aggiunse alla fede della Chiesa. Sul piano pragmatico, almeno per i poeti e i critici, la Commedia divenne il terzo Testamento profetizzato da Gioachino da Fiore. La resistenza più indefinibile al criterio pragmatico non è quella opposta dalla scuola di Auerbach, Singleton e Freccero, bensì quella opposta da A.C. Charity nel suo studio della tipologia cristiana, Events and Their Afterlife(1966), e da Leo Spitzer, in cui Charity scorgeva un predecessore. Charity sostiene che Beatrice è un’immagine di Cristo, ma non è Cristo né la Chiesa, e ricorda che, secondo Kenelm Foster, «non sostituisce Cristo, bensì lo riflette e lo trasmette». Questa sarà anche devozione, ma non è la Commedia, in cui, quando Dante guarda Beatrice, vede Beatrice e non Cristo. L’amata non è uno specchio bensì una persona, e nemmeno Leo Spitzer, nei suoi Representative Essays del 1988, supera del tutto la difficoltà di questo status individualistico, anzi di questa unicità:

Il fatto che Beatrice sia l’allegoria, non solo della rivelazione, ma anche della rivelazione personale, è dimostrato sia dall’origine autobiografica di questa figura sia dal suo status nell’aldilà: non è un angelo, bensì l’anima beata di un essere umano che, proprio come influenzò la vita di Dante sulla terra, è chiamata a rendere al poeta, nel corso del suo pellegrinaggio, servigi di cui solo lei è capace; non è una santa, bensì una Beatrice, non una martire, bensì una donna morta in giovane età e rimasta sulla terra solo per mostrare a Dante la possibilità dei miracoli. La licenza dogmatica che Dante si concede qui appare meno audace se consideriamo il fatto che la rivelazione può presentarsi al cristiano in forma individuale, personalizzata […] Beatrice è […] la controparte degli […] individui storici che, nati prima del Redentore, lo prefigurano.

Per quanto Spitzer fosse ingegnoso, la sua tesi non regge e non diminuisce per nulla l’«audacia» di Dante. Secondo il poeta, Beatrice è molto più di una semplice rivelazione personale o individuale. All’inizio si accosta a Dante, il suo poeta, ma attraverso di lui si accosta ai lettori. Nell’Inferno, Virgilio le dice:

O donna di virtù, sola per cui

l’umana spezie eccede ogni contento

di quel ciel c’ha minor li cerchi sui,

tanto m’aggrada il tuo comandamento

che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi.

Versi che Curtius spiega come segue: «Solo tramite Beatrice, l’umanità supera tutto ciò che è terreno, qualunque sia il significato di questo termine: Beatrice, e solo Beatrice, possiede una dignità metafisica per tutti gli uomini».

Spitzer è inoltre troppo frettoloso nel liquidare la differenza tra essere una prefigurazione di Cristoed essere un’imitazione di Cristo. Se Beatrice fosse venuta prima di Cristo, la si potrebbe definire come uno dei suoi tanti predecessori, ma, naturalmente, viene dopo, e ciò di cui Dante si innamorò non fu l’imitazione di Cristo. Come osserva Santayana, Beatrice è come minimo una platonizzazione del cristianesimo, che non ha mai smesso di essere platonizzato prima e dopo Dante. Al massimo, Beatrice è ciò che sosteneva Curtius: il centro di una gnosi poetica, della visione di Dante.

Ciò ci riporta a Beatrice come segno dell’originalità di Dante, come cuore della sua forza e della sua singolarità. L’alterigia non è una virtù cristiana, ma è sempre stata una virtù fondamentale per i massimi poeti. Shakespeare è forse la grandiosa eccezione a questa regola, come a molte altre. Non sapremo mai quale fosse la sua posizione verso il fatto di aver scritto AmletoRe Lear o Antonio e Cleopatra. Forse non aveva bisogno di alcuna posizione, perché il riconoscimento e il successo commerciale non gli mancarono mai. Doveva essere del tutto consapevole di quanto fosse originale ed enorme il risultato che aveva ottenuto, ma la ricerca di autocelebrazioni nei drammi è un’impresa vana, e i sonetti, che pur ne contengono alcune, esprimono anche una notevole modestia. Shakespeare avrebbe forse potuto parlare senza ironia del talento o della portata di un poeta rivale, oppure credere nella «vela altera» del «gran verso» di George Chapman? Dante salpa con alterigia verso il paradiso e celebra se stesso per aver celebrato Beatrice. Nel Paradiso perduto, l’alterigia di Satana, seppur legata a quello di Milton, trascina il demonio verso il basso. Nella Commedia, l’alterigia di Dante porta il poeta in alto, verso Beatrice e oltre.

Beatrice emana dall’alterigia del poeta ma anche da una sua esigenza. Gli studiosi interpretano ciò che la donna simboleggia o rappresenta; io propongo di cominciare a considerare che cosa Beatrice abbia permesso a Dante di escludere dal poema. Vico deplorò con garbo la vasta conoscenza teologica di Dante. Il problema non è tuttavia l’erudizione spirituale del poeta, bensì quella dei suoi esegeti. Togliete Beatrice dalla Commedia, e Virgilio sarebbe costretto a farsi sostituire dall’uno o dall’altro santo come guida di Dante dal paradiso terrestre alla Rosa dei beati. La resistenza religiosa del lettore, che forse è già più tenace di quanto gli studiosi angloamericani di Dante siano disposti ad ammettere, si acuirebbe senza dubbio se Sant’Agostino prendesse il posto di Beatrice. Particolare ancora più importante, si acuirebbe anche la resistenza del poeta alla dottrina ricevuta. Tra la visione di Dante e la fede cattolica esiste una sovrapposizione più apparente che reale, ma Dante si concentra su Beatrice anche per evitare di investire energie creative in una sterile controversia con l’ortodossia.

Sono la presenza e la funzione di Beatrice a trasformare Agostino e Tommaso d’Aquino in qualcosa di molto più ricco sul piano figurativo, aggiungendo la singolarità alla verità (se credete che sia la verità) o all’invenzione (se la considerate tale). Personalmente, essendo uno studioso della gnosi poetica e religiosa, ritengo che il poema non sia la verità né un’invenzione, bensì la conoscenza di Dante, che quest’ultimo scelse di chiamare Beatrice. Conoscere con la massima intensità non significa necessariamente decidere se qualcosa sia verità o invenzione; si sa innanzi tutto di possedere davvero quella conoscenza. Talvolta chiamiamo quella conoscenza «amore», quasi sempre nella convinzione che l’esperienza sia permanente. Molto spesso ci abbandona e ci lascia nello sconcerto, ma noi non siamo Dante e non possiamo scrivere la Commedia; dunque, alla fine, l’unica cosa che conosciamo è la perdita. Beatrice è la differenza tra l’immortalità canonica e la perdita, perché, senza di lei, oggi Dante sarebbe l’ennesimo scrittore italiano prepetrarchesco morto in esilio, vittima del proprio zelo e della propria alterigia.

Provo un profondo disgusto per Charles Williams, a prescindere dal fatto che scriva fantasy cristiano, poesia grottesca o una sfacciata apologetica cristiana come in He Came Down from Heaven e The Descent of the Dove. Williams non è nemmeno quello che considero un critico letterario disinteressato. A modo suo, è un ideologo quanto i neofemministi, gli pseudo-marxisti e i riduzionisti francofili che compongono l’attuale Scuola del risentimento. Si distingue tuttavia perché è quasi l’unico a leggere Dante soprattutto come creatore della figura di Beatrice:

L’immagine di Beatrice esisteva nel suo pensiero; rimase là e venne volutamente rinnovata. Questa parola, immagine, è utile per due motivi. Primo, il ricordo soggettivo dentro Dante riguardava qualcosa che era oggettivamente fuori di lui, era l’immagine di un fatto esteriore e non di un desiderio interiore. Era vista e non invenzione. L’asserzione di Dante era che non avrebbe potuto inventare Beatrice.

L’asserzione di un poeta è un poema e Dante non è né il primo né l’ultimo grande poeta ad affermare che la sua invenzione è stata uno schiarimento visivo. Forse Shakespeare avrebbe potuto dire lo stesso di Imogene nel Cymbeline. Williams paragona Beatrice a Imogene, ma Beatrice – a differenza di Dante il pellegrino e di Virgilio la guida, a differenza dell’Ulisse dell’Inferno – non è un personaggio letterario. È dotata di qualità drammatiche, compresi alcuni lampi di evidente disprezzo; ma, essendo più l’intero poema che un personaggio al suo interno, può essere compresa solo quando il lettore ha letto e assorbito l’intera Commedia, il che spiega forse la curiosa opacità (non intesa assolutamente come difetto estetico) della figura di Beatrice. Il suo atteggiamento altero, persino nei confronti del suo poeta-innamorato, è assai maggiore di quanto creda Williams ed è attentamente orchestrato da Dante; esso culmina nell’intenso passo del Paradiso in cui il poeta la vede da lontano:

Sanza risponder, li occhi sù levai,

e vidi lei che si facea corona

reflettendo da sé li etterni rai.

Da quella regïon che più su tona

occhio mortale alcun tanto non dista,

qualunque in mare più giù s’abbandona,

quanto lì da Beatrice la mia vista;

ma nulla mi facea, ché sua effige

non discendea a me per mezzo mista.

«O donna in cui la mia speranza vige,

e che soffristi per la mia salute

in inferno lasciar le tue vestige,

di tante cose quant’ i’ ho vedute,

dal tuo podere e da la tua bontate

riconosco la grazia e la virtute.

Tu m’hai di servo tratto a libertate

per tutte quelle vie, per tutt’ i modi

che di ciò fare avei la potestate.

La tua magnificenza in me custodi,

sì che l’anima mia, che fatt’hai sana,

piacente a te dal corpo si disnodi.»

Così orai; e quella, sì lontana

come parea, sorrise e riguardommi;

poi si tornò all’etterna fontana.

Commentando questo sorprendente passo in un altro libro, ho osservato che Dante si rifiutò di accettare la cura dalla mano di qualsiasi uomo, per quanto santo, ma la accettò solo dalla mano di Beatrice, la sua creazione. Un critico letterario cattolico mi ha accusato di non aver compreso la fede e almeno uno studioso di Dante ha dichiarato che la mia affermazione era romantico-satanica (qualunque cosa questa espressione significhi nella nostra epoca). Chiaramente, mi riferivo alla lamentosa ed eloquente sintesi freudiana Analisi terminabile e interminabile, in cui il fondatore della psicoanalisi si lagna dicendo che i suoi pazienti non accettano la cura dalle sue mani. Dante, più altero di tutti noi, era disposto ad accettare la cura solo da Beatrice ed è a lei che rivolge la sua preghiera. La sua audacia profetica non è agostiniana, proprio come la sua politica imperiale ripudia la convinzione agostiniana che la Chiesa abbia sostituito l’impero romano. La Commedia è un poema apocalittico e Beatrice è un’invenzione possibile solo per un poeta che pretendeva di veder realizzata la sua profezia prima di morire. Che cosa avrebbe pensato Agostino del poema di Dante? Immagino che la sua principale obiezione sarebbe stata a Beatrice, un mito privato che fa passare il cielo in secondo piano, proprio come Dante distoglie l’attenzione dal Regno di Dio.

Quali furono gli eventuali modelli per la creazione di Beatrice? Quest’ultima è una musa cristiana che entra nell’azione del poema e dunque si fonde con il poema al punto da impedirci di concepirlo senza di lei. Il precursore designato di Dante era Virgilio, e se nell’Eneideesiste un parallelo a Beatrice, quel parallelo non può che essere Venere. La Venere di Virgilio, come sottolinea Curtius, è una figura molto più simile ad Artemide o a Diana che ad Afrodite. È severa e controllata, stranamente sibillina, e non sembra affatto la madre di Eros rispetto al semidio Enea. A sua volta stoico ed epicureo, il vero Virgilio (rispetto al palese travisamento di Dante) non aspira alla grazia e alla redenzione, se non come tregua dalla visione senza fine della sofferenza e della sua insensatezza. Se Dante fosse stato più preciso, Virgilio si sarebbe ritrovato con il superbo Farinata nel sesto cerchio dell’Inferno, riservato agli epicurei e agli altri eretici.

Il precursore di Virgilio era Lucrezio, il più vigoroso tra tutti i poeti materialisti e naturalisti, e più epicureo di Epicuro. Dante non aveva mai letto Lucrezio, che tornò in auge solo negli ultimi decenni del XV secolo. Mi rincresce molto, perché Dante avrebbe trovato un degno rivale della sua forza. Non possiamo sapere se Lucrezio avrebbe fatto inorridire il poeta, ma quest’ultimo si sarebbe indignato se avesse scoperto che, per spirito se non per sensibilità, Virgilio era molto più vicino a Lucrezio che a lui. Senza dubbio la Venere di Virgilio si allontana volutamente dalla Venere di Lucrezio, così – se la mia ipotesi secondo cui la Venere virgiliana è la diretta antenata di Beatrice è corretta – si crea la situazione ironica in cui Lucrezio è, per così dire, il nonno malvagio di Dante. George Santayana considera correttamente la Venere del De rerum natura come un amore empedocleo che esiste nella tensione dialettica con Marte:

Il Marte e la Venere di Lucrezio non sono forze morali, incompatibili con il meccanismo degli atomi; sono quel meccanismo, nella misura in cui esso ora produce e ora distrugge la vita o ogni impresa importante, come quella compiuta da Lucrezio quando compose il poema della sua redenzione. Marte e Venere, abbracciati l’uno all’altra, governano insieme l’universo; nulla nasce se non dalla morte di qualcos’altro.

La formula empedocleo-lucreziana «morire l’uno la vita dell’altro, vivere l’uno la morte dell’altro» affascinava quel mistagogo pagano di W.B. Yeats, ma sarebbe stata rifiutata con disprezzo da Dante. L’indubbia reazione di Virgilio, sulla base della sua Venere, fu ambivalente. Virgilio riprese da Lucrezio, di cui evidentemente aveva studiato il poema con attenzione, l’idea secondo cui il più autentico atto vivificante compiuto da Venere si era rivolto ai romani, tramite suo figlio Enea, loro antenato e fondatore. La sua Venere non è tuttavia stretta in un eterno abbraccio con Marte. Curioso, perché, dopo tutto, è la dea dell’amore, mentre la Venere di Virgilio è casta quanto Beatrice. A differenza di Dante, Virgilio non nutrì una profonda passione per alcuna donna e probabilmente (nelle intenzioni di Dante) meritava di comparire non solo nel X canto dell’Inferno con l’epicureo Farinata, ma anche nel XV con il sodomita Brunetto Latini, l’onorato maestro del poeta fiorentino.

Notiamo un’ironia squisita nel fatto che Beatrice, la suprema musa cristiana, possa trovare la sua probabile origine nella figura di una Venere simile a Diana, in parte come reazione-formazione alla lussuriosa Venere epicurea, in parte perché il predecessore di Dante non provava desiderio verso le donne. La principale figura femminile dell’epopea virgiliana è la spaventosa Giunone, dea terribile e contrappeso alla Venere di Virgilio, anzi contromusa di Venere. Dante ha una contromusa? Freccero la individua nella Medusa del IX canto dell’Inferno, riallacciando questa figura alla Madonna Petra delle Rime petrosedantesche, compresa la splendida sestina che esordisce con: «Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra». Freccero contrappone Dante a Petrarca, il suo successore dissenziente, la cui Laura è, in realtà, insieme una musa e una contromusa, Beatrice e Medusa, Venere e Giunone. Secondo Freccero, il paragone ha un esito favorevole per Dante, poiché Beatrice rimanda al di là di se stessa, probabilmente a Cristo e a Dio, mentre Laura resta rigorosamente all’interno del poema. A mio parere, sul piano pragmatico, questa è una differenza che non fa differenza, nonostante le rigidità agostiniane di Freccero:

Come Pigmalione, Petrarca si innamora della sua creazione e ne viene creato a sua volta: il gioco di parole lauro/Laura allude al processo autonomo che costituisce l’essenza della creazione. Con la sua poesia, Petrarca crea Laura, che a sua volta crea la reputazione di Petrarca come poeta laureato. La donna non è dunque una mediatrice che rimanda al di là di se stessa, bensì è chiusa entro i confini dell’esistenza di Petrarca come poeta, cioè entro i confini del poema. È proprio ciò che Petrarca ammette quando, nella preghiera conclusiva, confessa il peccato di idolatria, l’adorazione verso l’opera delle sue mani.

Se non siamo persuasi da Dante sul piano teologico – e ormai quasi nessuno di noi lo è – che cosa alimenta la convinzione di Freccero secondo cui il poeta è, in qualche modo, libero dagli inevitabili dilemmi estetici di Petrarca? Essendo l’antenato della poesia sia rinascimentale sia romantica, e dunque anche della poesia moderna, Petrarca deve forse condividere i presunti peccati di coloro che arrivano dopo la dissoluzione della sintesi medievale? Dante, come Petrarca, si innamora della sua creazione. Che cos’altro può essere Beatrice? Poiché quest’ultima è la massima originalità della Commedia, non si può forse dire che, a sua volta, crea Dante? Dante è l’unico a farci credere che Beatrice rimandi al di là di se stessa, e la donna è senza dubbio confinata all’interno della Commedia, a meno che non riteniate che la gnosi personale di Dante sia vera non solo per lui, ma anche per chiunque altro.

Ad eccezione di Dante, il pellegrino dell’eternità, esiste qualcuno che rivolga le sue preghiere a Beatrice? Petrarca era lieto di confessare la propria idolatria perché, come ha dimostrato Freccero con estrema chiarezza, la confessione lo aiutò a prendere le distanze dal suo schiacciante precursore. Ma Dante non adora forse la Commedia finita, la stupefacente opera delle sue mani? L’idolatria è una categoria teologica e una metafora poetica; Dante, come Petrarca, è un poeta, non un teologo. Petrarca riconobbe senza dubbio che Dante era un poeta superiore alla vittima di Laura; ma tra i due è stato il Petrarca a esercitare una maggiore influenza sui poeti successivi. Dante scomparve fino al XIX secolo, dopo aver goduto di scarsa stima durante il Rinascimento e l’Illuminismo. Petrarca aveva preso il suo posto, realizzando così il suo astuto programma di conversione all’idolatria poetica o di invenzione della poesia lirica. Dante era morto nel 1321, quando Petrarca aveva diciassette anni. Allorché, intorno al 1349, Petrarca aveva steso la prima versione dei sonetti, sembrava sapere di aver inaugurato una scrittura che trascendeva la forma del sonetto, e che non accenna a scomparire nemmeno sei secoli e mezzo dopo. Una seconda Commedia non è stata possibile più di quanto lo sia stata la tragedia dopo che Shakespeare smise di scriverla. Per l’ultima volta, la grandezza canonica di Dante non ha nulla a che vedere con sant’Agostino o con le verità – sempre ammesso che siano verità – della religione cristiana. Nel triste momento attuale abbiamo bisogno soprattutto di recuperare il nostro senso di individualità letteraria e autonomia poetica. Come Shakespeare, Dante è una risorsa fondamentale per quel recupero, purché riusciamo a ignorare le sirene che ci cantano l’allegoria dei teologi.

1 Libro deuterocanonico accolto dalla Chiesa cattolica, mentre la Bibbia luterana lo considera non canonico [n.d.c.].

4.

LA COMARE DI BATH, L’INDULGENZIERE E IL PERSONAGGIO SHAKESPEARIANO

Escluso Shakespeare, Chaucer è il più grande tra gli scrittori di lingua inglese. Questa affermazione, che si limita a ripetere il giudizio tradizionale, acquista un valore ancora più grande all’inizio del nostro secolo. La lettura di Chaucer o dei suoi pochi rivali letterari dopo gli antichi – Dante, Cervantes, Shakespeare – può avere il felice esito di ripristinare prospettive che forse tutti noi siamo tentati di abbandonare. Siamo infatti minacciati dall’assalto di capolavori istantanei in un momento in cui Chaucer incarna la giustizia culturale, imponendo l’eliminazione delle considerazioni estetiche. Quando si passa da ciò che viene sopravvalutato a ciò che non può essere sopravvalutato, i Racconti di Canterbury sono un tonico infallibile. Si passa da nomi scritti su una pagina a quella che sono costretto a definire la realtà virtuale dei personaggi letterari, uomini e donne convincenti e persuasivi. Che cosa diede a Chaucer la capacità di rappresentare i suoi personaggi in quel modo e di renderli permanenti?

In una magnifica biografia pubblicata nel 1987, il compianto Donald R. Howard tenta di rispondere a questa domanda pressoché impossibile. L’autore ammette che non abbiamo una conoscenza approfondita di Chaucer al di là delle sue opere, ma poi ci ricorda il contesto umano del poeta:

Nel tardo Medioevo, la proprietà e l’eredità erano preoccupazioni costanti – anzi, autentiche ossessioni –, soprattutto tra la classe mercantile cui appartenevano i Chaucer, e il sequestro, la rapina a mano armata e le false cause legali erano strumenti tutt’altro che insoliti per venirne in possesso. Gli inglesi dell’epoca di Chaucer non assomigliavano agli introversi inglesi stereotipici dei tempi moderni, figli dell’Illuminismo e dell’Impero; assomigliavano di più ai loro antenati normanni, irascibili e dediti agli eccessi quando erano tra pari (erano invece riservati dinanzi a individui inferiori o superiori). Piangevano senza vergogna in pubblico, si abbandonavano all’ira, usavano sfilze di imprecazioni fantasiose e si dedicavano a interminabili battaglie legali e a sanguinose faide dal sapore quasi melodrammatico. In epoca medievale, il tasso di mortalità era elevato, e la vita più precaria; troviamo più spietatezza e terrore, più rassegnazione e disperazione, e una maggiore tendenza a sfidare la sorte. Troviamo anche più violenza, o meglio una violenza più vendicativa, più appariscente: teste decapitate esibite su pali o corpi appesi alle forche erano nello stile di quegli uomini, mentre le foto segnaletiche negli uffici postali sono nel nostro.

Il nostro stile, ahimè, cambia rapidamente, con i pacchi bomba che esplodono nelle università, il terrorismo musulmano fondamentalista che scoppia a New York e le sparatorie che riecheggiano a New Haven anche mentre siedo qui a scrivere. Howard afferma che Chaucer visse tra guerre, pestilenze e ribellioni, e nessuno di quegli eventi sembra troppo improbabile nell’America contemporanea, dove persino Howard è caduto vittima dell’attuale versione della peste poco prima che il suo libro venisse pubblicato. Il suo messaggio generale resta valido: i tempi di Chaucer non erano sereni, i suoi connazionali non erano pacifici e i suoi pellegrini di Canterbury avevano molto per cui pregare una volta raggiunto il santuario di san Thomas Becket. La personalità dell’uomo Chaucer, non solo quella del pellegrino Chaucer descritto con ironia, risalta con grandissima forza in tutta la sua produzione poetica. Come nel caso dei suoi diretti precursori, Dante e Boccaccio, la grande originalità di Chaucer emerge con massima chiarezza sia nei suoi personaggi sia nella sua voce, nella sua maestria di tono e figurazione. Come Dante, Chaucer inventò nuovi modi di rappresentazione dell’io e ha, con Shakespeare, più o meno lo stesso rapporto che Dante aveva con Petrarca; la differenza è l’incredibile fecondità di Shakespeare, capace di trascendere persino ciò che John Dryden disse dei Racconti di Canterbury: «Qui c’è l’abbondanza di Dio». Nessuno scrittore, né Ovidio né l’«Ovidio inglese» (Christopher Marlowe), esercitò su Shakespeare un’influenza determinante come quella di Chaucer. I motivi chauceriani, sviluppati solo in parte da Chaucer, sono il punto di partenza per la più grande originalità di Shakespeare, il suo modo di rappresentare la personalità umana. Prima di delineare l’eredità che Chaucer lasciò al drammaturgo, occorre tuttavia descrivere e spiegare la grandezza di questo poeta.

Il mio critico prediletto di Chaucer rimane G.K. Chesterton, che osserva: «A volte l’ironia chauceriana è così grande da essere troppo grande per essere vista» e riassume come segue gli elementi centrali di quell’ironia:

In essa vi sono alcune tracce delle idee enormi e profondissime legate alla natura stessa della creazione e della realtà. In essa vi è qualcosa della filosofia di un mondo fenomenico, ed è a questo che alludevano i saggi, per nulla pessimisti, secondo cui viviamo in un mondo delle ombre di Chaucer, e secondo cui, quando quest’ultimo si colloca su un certo piano, si scopre altrettanto nebuloso. In essa vi è tutto il mistero del rapporto tra il creatore e le cose create.

Chesterton, con il suo caratteristico senso del paradosso, riallaccia lo straordinario realismo di Chaucer, la sua profondità psicologica, a un’ironica consapevolezza del tempo perduto, di una realtà superiore, che è fuggita abbandonando i suoi resti ai rimpianti e alla nostalgia. La buona volontà esiste, ma in Chaucer è sempre compromessa, e l’allontanamento dalla generosità cavalleresca è ravvisabile ovunque. L’interesse di Chesterton per un mondo romantico ormai scomparso, interesse ereditato da Chaucer, viene confermato da Donald Howard come «idea» che informa i Racconti di Canterbury. Questi ultimi ci forniscono «il quadro di una società cristiana disordinata in uno stato di obsolescenza, declino e incertezza; non sappiamo in quale direzione si muova». Solo un ironista sarebbe stato in grado di presentare un quadro del genere.

Nella sua biografia, Howard individua la causa dell’alienazione o dell’ambivalenza di Chaucer nella tensione tra l’appartenenza al ceto mercantile e l’educazione aristocratica poi impartita al giovane poeta-cortigiano. Nonostante il suo continuo attaccamento all’allegoria dell’Età teologica, Dante inaugurò l’Età aristocratica della letteratura, ma Chaucer, a differenza di Dante, non apparteneva neppure alla piccola nobiltà. Diffido sempre delle spiegazioni sociali proposte per l’atteggiamento ironico di un grande poeta in cui il temperamento e lo sfarzo resistono a qualsiasi sovradeterminazione. La coscienza di Chaucer è così grande, la sua ironia è così dilagante e personale, che la tesi secondo cui sono un semplice prodotto delle circostanze sembra inverosimile. Il precursore inglese di Chaucer fu l’amico John Gower, un poeta più vecchio di una decina d’anni e, al confronto, senza dubbio secondario. L’inglese è la lingua che Chaucer parlava da bambino, ma il poeta parlava anche l’anglofrancese (l’antico normanno) e, durante i suoi studi da cortigiano, aveva imparato a parlare, leggere e scrivere l’italiano e il francese di Parigi.

Accorgendosi ben presto di non avere precursori inglesi abbastanza validi, si rivolse prima a Guillaume Machaut, il maggior poeta (e compositore) francese vivente. Dopo che quella prima fase era culminata nella straordinaria elegia Il libro della duchessa, si recò tuttavia in Italia per ordine del sovrano, e nel febbraio del 1373 era ormai nella Firenze prerinascimentale, nel momento in cui la grande epoca letteraria della città si avviava verso il declino. Dante era morto in esilio da oltre mezzo secolo e i suoi successori della generazione seguente, Petrarca e Boccaccio, erano già anziani; morirono entrambi nei due anni successivi. Per un poeta della forza e della portata di Chaucer, quegli scrittori – o, per essere più precisi, Dante e Boccaccio – erano inevitabili fonti di ispirazione e, dunque, causa di molte preoccupazioni. Per lui, Petrarca significava qualcosa come figura rappresentativa, ma non come vero scrittore. A trent’anni, Chaucer il poeta sapeva ciò che voleva, ma non lo trovò in Petrarca e lo riscontrò solo marginalmente in Dante. Boccaccio, il cui nome non viene menzionato nella produzione chauceriana, divenne l’origine di cui il poeta aveva bisogno.

Dante, la cui altezzosità spirituale era travolgente, aveva composto un terzo Testamento, una visione della verità, del tutto inadatta al temperamento ironico di Chaucer. Le differenze tra Dante il pellegrino dell’eternità e Chaucer il pellegrino di Canterbury sono sbalorditive, e chiaramente volute da parte del secondo. La casa della fama si ispira alla Divina Commedia, ma se ne fa amabilmente beffe, e I racconti di Canterbury costituiscono, a un livello, una scettica critica di Dante, e in particolare del rapporto tra quest’ultimo e la sua visione. Era il temperamento a differenziare Chaucer e Dante, due personalità poetiche incompatibili.

Boccaccio, grande ammiratore ed esegeta di Dante, era un altro paio di maniche; lassù, nel paradiso dei poeti, non sarebbe stato molto felice di essere definito «il Chaucer italiano», proprio come Chaucer, che evitava persino di menzionare il nome Boccaccio, avrebbe detestato sentirsi chiamare «il Boccaccio inglese». A parte le appropriazioni meravigliose ed enormi di Chaucer, le affinità erano tuttavia autentiche, quasi inevitabili. Qui l’opera cruciale è il Decamerone, che Chaucer non cita mai e che forse non lesse mai per intero, ma che è il modello più probabile dei Racconti di Canterbury. La narrazione ironica il cui argomento è la narrazione è in gran parte un’invenzione di Boccaccio e lo scopo di questa innovazione era liberare i racconti dal didatticismo e dal moralismo, cosicché fosse l’ascoltatore o il lettore, e non il narratore, a divenire responsabile del loro uso, nel bene o nel male. Chaucer riprese da Boccaccio l’idea secondo cui le storie non devono necessariamente essere vere o illustrare la verità; invece, le storie sono «cose nuove» o, per così dire, novità. Poiché Chaucer era un ironista più abile e uno scrittore ancora più vigoroso di Boccaccio, la trasformazione del Decamerone nei Racconti di Canterbury fu un processo radicale, una revisione totale del progetto boccaccesco. Lette insieme, le due opere presentano un numero relativamente modesto di somiglianze, ma lo stile maturo di Chaucer non avrebbe visto la luce senza la mediazione inconfessata di Boccaccio.

Secondo Chaucer, il suo capolavoro era Troilo e Criseide, uno dei pochi grandi poemi lunghi in lingua inglese, che però oggi viene letto di rado in confronto ai Racconti di Canterbury, senza dubbio la sua opera più originale e canonica. Forse il poeta sottovalutò la sua creazione più sorprendente proprio per via della sua originalità, anche se dentro di me qualcosa si oppone con forza a questa ipotesi. L’opera è incompiuta e, tecnicamente, si compone di giganteschi frammenti; ma il lettore non ha quasi l’impressione di trovarsi davanti a qualcosa di incompiuto. Anzi, potrebbe essere uno di quei libri che l’autore non si aspetta mai di finire, perché è divenuto tutt’uno con la sua vita. L’immagine dell’esistenza come pellegrinaggio, non tanto verso Gerusalemme quanto verso il discernimento, si fonde con il principio organizzativo chauceriano del pellegrinaggio verso Canterbury, con trenta pellegrini che raccontano storie lungo il cammino. Il poema è tuttavia decisamente secolare e intriso di un’ironia pressoché inesauribile.

Il narratore è Chaucer, ridotto a una totale semplicità: dotato di brio e di infinita bonarietà, crede a tutto ciò che sente e ha la straordinaria capacità di ammirare anche le caratteristiche più riprovevoli di alcuni dei suoi ventinove compagni. E. Talbot Donaldson, il più saggio e umano dei critici chauceriani, sottolinea che Chaucer il pellegrino tende a essere «assolutamente inconsapevole del significato di ciò che vede, a prescindere dalla nitidezza con cui lo vede», benché, al tempo stesso, esprima una costante e «sincera ammirazione per la furfanteria». Forse Chaucer il pellegrino non è tanto un Lemuel Gulliver, come suggerisce Donaldson, quanto una parodia più maligna di Dante il pellegrino, accanito, implacabile, spesso consumato dall’odio e, in realtà, una sorta di moralista apocalittico incline a essere fin troppo consapevole del significato di ciò che vede con una nitidezza così terribile. Sarebbe un’ironia tipicamente chauceriana sottoporre a una beffa così geniale il poeta la cui fantasiosa arroganza riempiva senza dubbio di raccapriccio l’autore della Casa della fama.

Il vero Chaucer, l’ironista comico che manipola il pellegrino apparentemente innocuo, manifesta un distacco, un disinteresse rassegnato che è già shakespeariano, nella misura in cui riusciamo a isolare uno degli atteggiamenti di Shakespeare. In entrambi i poeti, il distacco contribuisce a creare un’arte dell’esclusione: spesso è difficile spiegare perché, nella descrizione di ciascun individuo, Chaucer il pellegrino ricordi determinati particolari, ma ne dimentichi o ne ometta altri. Nelle due figure più interessanti, la Comare di Bath e l’Indulgenziere, quest’arte della memoria selettiva aiuta a produrre alcune eco shakespeariane. Come osserva Howard con sagacia, Chaucer rivede Boccaccio accorgendosi «che il racconto narrato da ciascuno potrebbe raccontare una storia sul suo narratore»; è inoltre lecito supporre che quest’ultimo racconto potrebbe colmare parte delle lacune lasciate da Chaucer il pellegrino. Almeno in alcuni casi, dobbiamo credere al racconto e non al narratore, soprattutto quando il narratore è formidabile come la Comare di Bath o l’Indulgenziere. Ma, naturalmente, Chaucer il pellegrino è ancora più formidabile, perché non possiamo mai avere la certezza che sia ingenuo come vuole apparire. Secondo alcuni critici, il narratore è terribilmente raffinato e, in realtà, è Chaucer il poeta, intento a mascherarsi dietro una banalità così astuta da essere pericolosa, una banalità cui non nulla sfugge.

Credo che, per leggere un ironista completo e affascinante come Chaucer, occorra tornare indietro fino allo Jahwista oppure correre avanti fino a Jonathan Swift. Uno dei miei attacchi preferiti rivolti al Libro di J è venuto da uno studioso della Bibbia che si è domandato: «Che cosa induce il professor Bloom a pensare che l’ironia esistesse già tremila anni orsono?». Poiché Chaucer non è un testo sacro, vi sono minori resistenze ad accettare la difficile verità che un narratore universale come l’autore dei racconti dei pellegrini di Canterbury scriva di rado un passo non ironico. Può darsi che il vero genitore letterario di Chaucer fosse lo Jahwista e che la sua vera figlia fosse Jane Austen. Tutti e tre gli scrittori fanno dell’ironia il loro principale strumento di scoperta o invenzione, costringendo i lettori a scoprire da soli ciò che hanno inventato. A differenza della ferocia dell’ironia swiftiana, che è un corrosivo universale, l’ironia di Chaucer è di rado inumana, anche se non possiamo avere certezze sulla depravazione dell’Indulgenziere e anche se quasi tutti i presunti pellegrini si rivelano non essere affatto tali. Come doveva sapere anche Shakespeare, «onesto Iago», la terribile formula che ritorna in tutto l’Otello, è un’ironia chauceriana. Il diretto antenato dell’«onesto Iago» è il «mite Indulgenziere». Jill Mann, nella migliore analisi dell’ironia chauceriana in cui mi sia mai imbattuto, afferma che le ambiguità di quella caratteristica sono incentrate sulla sua mobilità: essa spicca incessanti salti comici verso un’altra visione delle cose, negandoci così in continuazione la possibilità del giudizio morale, poiché l’illusione si nasconde nell’illusione. Ciò mi riporta alla mia ipotesi, secondo cui l’ironia chauceriana è una reazione all’arroganza dell’atteggiamento profetico di Dante.

Di fronte alla Comare di Bath, all’Indulgenziere e ad altri pellegrini di Canterbury, Dante (se ne avesse voglia) non esiterebbe a collocarli nei cerchi più adatti dell’Inferno. Il loro interesse riguarderebbe semmai il dove e il perché dimorino nell’eternità, poiché Dante si concentra solo sulle realtà ultime. Per Chaucer, la finzione letteraria non è un mezzo per rappresentare o esprimere una verità suprema, bensì è perfetta per descrivere l’affetto e qualunque altro elemento sia legato alle illusioni. Forse Chaucer resterebbe sorpreso se sapesse che lo consideriamo in primo luogo un ironista; a differenza di Dante, che amava solo la sua creazione (Beatrice), Chaucer sembra aver nutrito un amore cauto per l’intera commedia della creazione. Alla fine, non dobbiamo dividere Chaucer l’uomo, Chaucer il poeta e Chaucer il pellegrino: si fondono tutti e tre in un amorevole ironista la cui maggiore eredità è una schiera di personaggi letterari che, nella lingua inglese, sono secondi solo a quelli di Shakespeare. In loro vediamo sbocciare quella che sarà la principale capacità immaginativa di Shakespeare: la rappresentazione del cambiamento all’interno di particolari personalità drammatiche.

Chaucer anticipa di secoli l’interiorità che associamo al Rinascimento e alla Riforma: i suoi uomini e le sue donne cominciano a sviluppare un’autocoscienza che solo Shakespeare seppe trasformare in capacità di origliarsi, stupirsi e desiderare il cambiamento. Accennata qua e là nei Racconti di Canterbury, l’anticipazione di quella che, dopo Freud e in contrapposizione alla psicologia morale, chiamiamo psicologia del profondo raggiunse, in Shakespeare, una pienezza che Freud, come ho già notato, poté solo codificare e mettere in prosa. Torniamo così alla domanda di Howard, sebbene il suo interesse si concentrasse sulla storia e il mio sul personaggio: che cosa diede a Chaucer la capacità di trascendere le sue ironie e dunque di rendere i suoi personaggi con una vitalità superata solo da Shakespeare, e per giunta con l’aiuto di Chaucer? Per quanto il quesito sia arduo e speculativo, proverò a tratteggiare una risposta.

Seppur in modo molto diverso, i due personaggi chauceriani più profondi e individuali sono la Comare di Bath e l’Indulgenziere, rispettivamente una grande vitalista e qualcosa di molto simile a un autentico nichilista. I critici moraleggianti non amano la Comare di Bath più di quanto amino il suo unico figlio, Sir John Falstaff; l’Indulgenziere – come Iago e Edmund, i suoi discendenti un po’ più remoti – è invece al di là di qualsiasi tentativo moraleggiante, ancora una volta come i suoi discendenti supremi, Svidrigailov e Stravrogin – i due nichilisti piuttosto shakespeariani di Dostoevskij –, i cui attributi devono qualcosa soprattutto allo Iago di Shakespeare. Senza dubbio la Comare di Bath e l’Indulgenziere sono molto più comprensibili e gradevoli se li paragoniamo a Falstaff e Iago, anziché confrontarli con le loro possibili fonti nel Roman de la Rose, il principale poema medievale prima di quello chauceriano. Gli studiosi derivano il personaggio della Comare di Bath dalla Vecchia, l’anziana tenutaria di un bordello all’interno dell’opera francese, mentre riallacciano l’Indulgenziere a Falso Sembiante, un ipocrita che vivacizza il Roman. A differenza della Comare di Bath e di Falstaff, la Vecchia è tuttavia più acrimoniosa che vitalistica, e Falso Sembiante non ha nulla della pericolosa intelligenza che contraddistingue sia il mite Indulgenziere sia l’onesto Iago.

È difficile comprendere perché molti illustri critici di Chaucer e Shakespeare mostrino un moralismo più disperato di quello dei loro poeti, e sospetto che questo fenomeno sia legato all’attuale malattia del compiacimento morale, che distrugge lo studio letterario in nome della giustizia socioeconomica. Eredi del platonismo anche quando non conoscono Platone, gli studiosi tradizionali e i rappresentanti del risentimento tentano di separare il poetico dalla poesia. Le massime creazioni di Chaucer sono la Comare di Bath e l’Indulgenziere, cosa di cui evidentemente Shakespeare si accorse e da cui trasse vantaggio, molto più di quanto abbia tratto vantaggio da qualsiasi altro stimolo letterario. Capire che cosa abbia commosso Shakespeare significa tornare sul vero sentiero della canonizzazione, lungo il quale i maggiori scrittori eleggono i loro inevitabili precursori. Fu Edmund Spenser a definire Chaucer la «pura sorgente dell’inglese incontaminato», ma fu Shakespeare a diventare, come osserva con eleganza Talbot Donaldson, «il cigno della sorgente», intento a bere ciò che era tipico di Chaucer, un nuovo tipo di personaggio letterario, o forse un nuovo modo di descrivere un vecchio tipo, sia nell’ambiguità morale della voglia di vivere mostrata dalla Comare di Bath sia nell’ambivalenza immorale della voglia di ingannare e di essere smascherato mostrata dall’Indulgenziere.

Apprendiamo che Chaucer era orgoglioso di aver creato la Comare di Bath da una breve poesia matura dedicata all’amico Bukton, un testo che parla delle «cure di chi è sposato» e cita questo personaggio come un’autorità:

La Comare di Bath, vi prego, parliamo

di questa materia che abbiamo tra le mani.

Dio vi conceda di condurre liberamente una vita

in libertà, ché assai duro è essere legati.

Quando incontriamo per la prima volta la «brava Comare», nel Prologo generale dei Racconti di Canterbury, restiamo senz’altro colpiti, ma non siamo affatto preparati ai fuochi d’artificio che troveremo nel prologo del suo racconto, nonostante gli accenni iniziali del narratore alla sua esuberante sessualità. È un po’ sorda, per motivi che scopriremo più avanti; ha le calze scarlatte e ha un volto bello, impertinente e di colorito acceso, come le calze. Ha i denti radi – un probabile segno di lussuria –, è sopravvissuta a cinque mariti, senza contare altre amicizie di gioventù, ed è una pellegrina famigerata a livello nazionale e internazionale, perché i pellegrinaggi erano l’equivalente delle «crociere dell’amore» tipiche della nostra epoca corrotta. Tuttavia, ciò indica solo che aveva «parecchia pratica di viaggi» e che era esperta nell’«antica danza» dell’amore. La sua arguzia falstaffiana, il suo femminismo (come potremmo chiamarlo oggi), e soprattutto la sua incredibile voglia di vivere, non sono ancora emersi con chiarezza.

Howard ci ricorda che quando Chaucer inventò la Comare di Bath, era vedovo, e aggiunge con sagacia che, dopo gli antichi, nessuno scrittore dimostrò una conoscenza così profonda della psicologia femminile e riuscì a descrivere le donne con tanta solidarietà. Sono d’accordo con Howard quando quest’ultimo afferma che, qualunque rimprovero le rivolgano i moralisti, la Comare è un’assoluta delizia, anche se sono ossessionato dal suo avversario più formidabile, William Blake, che trovò in lei l’incarnazione della Volontà femminile (per usare le sue parole). Il commento di Blake alla sua illustrazione dei pellegrini di Canterbury è piuttosto duro nei confronti della Comare, ma evidentemente quest’ultima lo spaventava: «È anche un flagello e una calamità. Non dirò altro di lei, né rivelerò ciò che Chaucer ha lasciato nascosto; che il giovane lettore studi quanto il poeta disse di lei: è utile quanto uno spaventapasseri. Di personaggi del genere ne nascono troppi per la pace del mondo».

Tuttavia, senza personaggi del genere, vi sarebbero meno vita nella letteratura e meno letteratura nella vita. Il prologo della Comare di Bath è una sorta di confessione, ma ancor più una trionfante difesa o apologia. Inoltre, a differenza del prologo dell’Indulgenziere, la sua fantasticheria simile a un monologo interiore non ci dice sul suo conto più di quanto sappia lei stessa. Nella prima frase del prologo la Comare cita l’«esperienza» come sua autorità. Restare vedova per cinque volte, seicento anni fa o oggi, conferisce una certa aura a una donna e la Comare ne è consapevole; ma dichiara allegramente di volere un sesto marito, invidiando al tempo stesso il saggio re Salomone per le sue mille compagne di letto (settecento mogli, trecento concubine). A incutere soggezione nei confronti della Comare sono la sua inesauribile vitalità e il suo entusiasmo: sessuale, verbale, polemico. La sua esuberanza non ha precedenti letterari e fu uguagliata finché Shakespeare creò Falstaff. Immaginare un incontro tra la Comare e il grasso cavaliere è una fantasia letteraria legittima. Falstaff è più intelligente e più arguto della Comare, ma nemmeno lui, con tutto il suo brio, sarebbe riuscito a zittirla. Particolare affascinante, in Chaucer è lo spaventoso Indulgenziere a interromperla, ma soprattutto per incoraggiarla a continuare, e lei continua. Nell’Enrico V, Shakespeare scrisse una presunta (non effettiva) scena di morte per Falstaff; neppure Chaucer avrebbe saputo immaginare una scena analoga per la Comare, e questo è il massimo tributo che possiamo renderle, dimenticando il coro degli studiosi moraleggianti: la Comare ha in sé solo la vita, la perpetua benedizione di altra vita.

Come dice il Frate, quello della Comare è un lungo preambolo per un racconto: prosegue per oltre ottocento versi, mentre il racconto vero e proprio ne contiene solo quattrocento e, ahimè, ci dà una piccola delusione estetica dopo la rivelazione di un io tanto irresistibile. Il lettore, a meno che non sia incline a moraleggiare, vorrebbe tuttavia che il prologo fosse ancora più lungo e il racconto ancora più breve. Chaucer è chiaramente affascinato dalla Comare, come, su un altro piano, è ammaliato dall’Indulgenziere; sa che questi due personaggi si sono liberati e proseguono misteriosamente da soli, miracoli di un’arte capace di rappresentare gli aspetti grotteschi della natura. Nella letteratura occidentale, non conosco un personaggio femminile più incontestabile della Comare quando deplora le conseguenze del fatto che siano stati gli uomini a scrivere quasi tutti i libri:

Perdio, se le femmine avessero scritte le storie,

come han fatto i chierici nei loro oratori,

avrebbero narrate maggiori malvagità di uomini,

che tutta la generazione non possa ristorare.

È stata la sua efficace miscela di sincerità confessionale e sessualità incontenibile a spaventare molti degli studiosi uomini che l’hanno diffamata. La sua critica, implicita e puramente pragmatica, della scala morale usata dalla Chiesa per misurare la perfezione è tanto sottile quanto comica e anticipa gran parte dei dissidi che dividono la Chiesa e le femministe cattoliche mentre scrivo queste righe. In parte, la Comare ha offeso i moralisti semplicemente perché ha una personalità energica, e Chaucer, come tutti i grandi poeti, credeva nella personalità. Poiché la Comare è anche una sovvertitrice di armonie prestabilite, molti la relegano nella categoria del grottesco, dove risiede legittimamente l’Indulgenziere. Sebbene la Comare accetti la struttura della concezione ecclesiastica della moralità, conserva un profondo impulso a dissentire dall’attaccamento alla Chiesa. Giudica assurda una scala della perfezione che colloca la vedovanza al di sopra del matrimonio, come aveva fatto san Gerolamo, e non condivide neppure la dottrina secondo cui i rapporti sessuali tra coniugi sono sanciti solo per la procreazione.

Nonostante i suoi cinque mariti defunti, la Comare sembra essere senza figli e non dice nulla in proposito. L’argomento su cui si scontra con l’ideologia della Chiesa medievale è il predominio all’interno del matrimonio. La sua fede incrollabile nella sovranità femminile è il centro della sua ribellione, e non sono d’accordo con Howard quando afferma che il racconto della Comare «mina le sue concezioni femministe, rivelando qualcosa che avremmo solo potuto intuire, qualcosa che nemmeno lei sa». Secondo questa logica, la Comare desidera solo una sottomissione esteriore o verbale da parte del marito, ma ciò equivale a sottovalutare la dose di ironia chauceriana che la caratterizza. Due versi non costituiscono un racconto e non distruggono ottocento versi di prologo appassionato: «E lei gli obbedì in ogni cosa che potesse dargli piacere o godimento».

A mio parere, la Comare intende l’espressione «in ogni cosa» in senso esclusivamente sessuale. Questi versi vengono subito dopo il passo in cui il marito bacia la moglie mille volte di seguito, e l’idea di ciò che, secondo la Comare di Bath, potrebbe dare piacere a un uomo è piuttosto monolitica. Questa donna vuole la sovranità, d’accordo, ovunque tranne che a letto, come dovrà imparare il suo inevitabile sesto marito. Come ci spiega, i suoi primi tre mariti erano buoni, ricchi e vecchi, mentre il quarto e il quinto erano giovani e turbolenti. Il quarto, che aveva osato frequentare un’amante, ha subito la giusta punizione di venire tormentato fino alla morte da sua moglie; e il quinto, che aveva la metà dei suoi anni, l’ha resa sorda a forza di ceffoni quando gli ha strappato alcune pagine dal libro antifemminista che si ostinava a leggerle. Quando finalmente l’uomo si è arreso, bruciando il libro e cedendole la sovranità, hanno vissuto felici e contenti, ma non per sempre. L’implicazione ironica di Chaucer è che la Comare ha sfiancato l’amato quinto marito con la sua lussuria furibonda, proprio come aveva stremato i primi quattro.

Gli altri pellegrini comprendono con chiarezza ciò che dice la Comare. Che il lettore sia un uomo o una donna, solo la sordità o l’avversione per la vita potrebbero resistere ai più sublimi momenti di desiderio e autocelebrazione della Comare. Nel bel mezzo del racconto riguardante il quarto marito, la donna riflette sul suo amore per il vino e sullo stretto rapporto che esso ha con il suo amore per l’amore. Poi, all’improvviso, esclama:

Ma, Cristo Signore, quando mi sovviene il ricordo

della mia gioventù e della mia gaiezza,

mi trema il cuore alla radice!

Ancora oggi mi giova al cuore

d’aver goduto del mondo al tempo mio.

Ma la vecchiezza che tutto avvelena

mi ha diserta di beltà e di succo.

E lasciamola andare, buon viaggio e che il diavolo la segua.

La farina se n’è ita, con ciò è detto tutto:

non mi resta che vender la crusca quanto meglio possa.

Nondimeno intendo procurare di starmene in piena letizia.

Qui non ci sono nuove rivelazioni, nulla che contribuisca a completare la portata e la struttura dei Racconti di Canterbury. Questi undici versi mescolano la memoria e il desiderio della Comare, riconoscendo simultaneamente che il tempo l’ha trasfigurata. Se, in Chaucer, vi è un passo che si apre un varco tra le sue ironie, quel passo è questo, in cui l’ironia appartiene tutta al tempo, invincibile avversario di tutti i vitalisti eroici. A quella ironia, la Comare di Bath, che è ancora eroica, contrappone il più grandioso di tutti i suoi versi: «D’aver goduto del mondo al tempo mio». Il suo trionfo è l’espressione «al tempo mio»; per quanto la sua vitalità possa essere ridotta a un mucchio di scarti, la vera essenza della Comare risiede nella sua allegria falstaffiana. Il rimpianto abbonda e conferma un realistico senso della perdita: forse l’asprezza di una lussuria invecchiata non è lontana, ma la Comare sa che ormai le si addice solo una deliberata giocosità, e questa consapevolezza rappresenta la saggezza secolare o empirica capace di completare la sua critica degli ideali ecclesiastici che potrebbero condannarla. Chaucer, che, vicino alla sessantina, si sentiva davvero vecchio, le ha conferito un’eloquenza degna sia del personaggio sia del suo creatore.

La Comare di Bath subisce forse un cambiamento durante la lunga confessione che costituisce il suo prologo? L’ironia chauceriana non è un modo per rappresentare il mutamento. Noi ascoltiamo il monologo della Comare di Bath, e i pellegrini fanno lo stesso, ma questa donna origlia se stessa? Restiamo molto colpiti quando scopriamo che ai suoi tempi se l’è goduta. Non resta colpita anche lei? Questo personaggio non possiede l’autoconsapevolezza colta e brillante dell’Indulgenziere, che, in genere, è cieco solo all’effetto che ha su se stesso. L’affinità più profonda tra la Comare e Falstaff risiede nella capacità di cogliere il proprio apprezzamento di sé. Poiché non desidera cambiare, manifesta in tutto il prologo una grintosa resistenza alla vecchiaia e dunque alla morte, la forma definitiva del cambiamento. Ciò che muta in lei è la qualità della sua allegria, che si trasforma da esuberanza spontanea in vitalismo del tutto autocosciente.

Quel cambiamento, mi sembra, non viene trattato ironicamente da Chaucer, forse perché, a differenza di molti dei suoi studiosi, il poeta nutre un affetto troppo profondo per la sua straordinaria creazione e le permette di rivolgersi direttamente al lettore. La sua deliberata giocosità è diversa da una giovialità forzata; il suo parallelo più vicino è il brio di Sir John Falstaff, ancora più bistrattato da parte dei critici eruditi. L’arguzia di Falstaff non diminuisce nell’Enrico IVParte seconda, ma abbiamo la sensazione che il personaggio vada incupendosi man mano che si avvicina il rifiuto da parte di Hal. L’entusiasmo falstaffiano continua a esistere, ma la gaiezza comincia a indurirsi, come se la voglia di vivere acquisisse una punta di ideologia vitalistica. La Comare di Bath e Falstaff divengono entrambi meno simili al Panurge di Rabelais. Sono ancora portatori della benedizione e chiedono entrambi altra vita, ma hanno imparato che il tempo non è infinito e accettano il loro nuovo ruolo di agonisti che lottano per una fetta sempre più piccola di benedizione. Sebbene la Comare abbia un’incredibile padronanza della retorica e un’arguzia pericolosa, in questo campo non può competere con Falstaff. La sua amara consapevolezza di vitalità sempre più scarsa e la sua ferma decisione a conservare la propria allegria sono i paralleli più vicini al più grande personaggio comico di Shakespeare.

La Comare e Falstaff sono ironisti, prima e dopo, e, come osserva Donaldson, riescono a dominare la loro sicurezza di sé. Con Don Chisciotte, Sancio Panza e Panurge, formano una comitiva o una famiglia devota alla dimensione del gioco, in contrapposizione alla dimensione della società o dello spirito organizzato. Entro i suoi rigidi limiti, la dimensione del gioco conferisce libertà, la libertà interiore di non essere più assillati dal proprio super-io. Suppongo sia questo il motivo per cui leggiamo Chaucer e Rabelais, Shakespeare e Cervantes. Per qualche tempo, il super-io smette di tormentarci per la nostra presunta aggressività. L’impulso retorico della Comare e di Falstaff non è altro che aggressivo, ma lo scopo pragmatico è la libertà: dal mondo, dal tempo, dalle moralità dello Stato e della Chiesa, da qualunque cosa, nell’io, ostacoli i trionfi dell’autoespressione. Persino alcuni ammiratori della Comare di Bath e di Falstaff insistono nel considerarli solipsisti, ma l’egocentrismo non coincide con il solipsismo. La Comare e Falstaff sono consapevoli della presenza del prossimo e del sole, ma, in confronto a questi due affascinanti vitalisti, pochissimi degli individui che li avvicinano suscitano il nostro interesse.

Molti studiosi hanno evidenziato il rapporto equivoco che la Comare e Falstaff hanno con il testo della Prima lettera ai Corinzi, in cui Paolo esorta i cristiani a persistere nella loro vocazione. La versione della Comare è: «Nello stato che Dio ci ha assegnato, io voglio perseverare, ché non son puntigliosa», e Falstaff le fa eco e la supera: «Ebbene, Hal, è la mia vocazione, Hal: e davvero non è peccato, per un uomo, lavorare secondo la propria vocazione». Schernendo Paolo, la Comare e Falstaff non sono in primo luogo irriverenti. Essendo individui arguti, sono entrambi capaci di disilluderci, ma restano credenti. La Comare rammenta con astuzia ai religiosi che non deve necessariamente essere perfetta, mentre Falstaff è ossessionato dal destino del ricco epulone. Falstaff è più ansioso della Comare, ma quest’ultima non ha avuto la sventura di considerare il futuro Enrico V come una sorta di figlio adottivo. Appartenendo più a Shakespeare che a Chaucer, Falstaff subisce, mediante l’interiorizzazione, più cambiamenti di quanti possa subirne la Comare. Entrambi i personaggi ascoltano se stessi, ma solo Falstaff origlia davvero se stesso. Ho il sospetto che, per Shakespeare, il principale personaggio chauceriano non fosse la Comare di Bath, bensì l’Indulgenziere, l’antenato di tutti i personaggi letterari occidentali condannati al nichilismo. Mi separo con riluttanza dalla Comare di Bath e da Falstaff, ma passare da questi ultimi all’Indulgenziere e alla sua progenie shakespeariana equivale solo ad abbandonare il vitalismo positivo per quello negativo. Nessuno potrebbe amare l’Indulgenziere o Iago, ma nessuno resiste alla loro esuberanza negativa.

È un luogo comune critico stabilire un legame tra la Comare di Bath e Falstaff, ma non ho visto alcuna speculazione sulla plausibile discendenza dei grandi antieroi shakespeariani (Iago nell’Otello e Edmund nel Re Lear) dall’Indulgenziere. Gli antieroi di Marlowe (Tamerlano il Grande e, ancora di più, Barabba, lo scaltro ebreo di Malta) esercitarono senza dubbio una profonda influenza sulla descrizione di Aronne il Moro nella prima tragedia di Shakespeare (quel carnaio del Tito Andronico) e su quella di Riccardo III. Tra Aronne e Riccardo da un lato e Iago e Edmund dall’altro, si insinua un’ombra che sembra appartenere all’Indulgenziere antitetico, il reietto dei Racconti di Canterbury. Persino il suo prologo e il suo racconto si collocano fuori dall’evidente struttura del grande poema incompiuto di Chaucer. Essendo una sorta di galleggiante, il racconto dell’Indulgenziere è il mondo di questo personaggio; non assomiglia a nient’altro nella produzione di Chaucer, ma mi sembra che sia il suo culmine poetico e che, per certi versi, sia insuperabile e si collochi ai limiti dell’arte. Donald Howard, meditando sulla differenza tra l’Indulgenziere e la sua storia da una parte e il resto dei Racconti di Canterbury dall’altra, paragona l’intrusione di questo personaggio al «mondo marginale dell’estetica medievale, ai disegni lascivi o banali nei margini dei manoscritti seri», tutti precursori di Hieronymus Bosch. La presenza dell’Indulgenziere e il suo racconto sono così pungenti che, in Chaucer, il marginale diviene centrale, inaugurando quello che Nietzsche avrebbe definito «l’ospite più inusitato», la rappresentazione del nichilismo europeo. Il legame tra l’Indulgenziere e le grandi negazioni shakespeariane, Iago e Edmund, mi sembra profondo quanto la propensione di Dostoevskij a ispirarsi agli antieroi intellettuali di Shakespeare come modelli per Svidrigailov e Stavrogin.

L’Indulgenziere compare per la prima volta con il suo orribile compagno, il grottesco Cursore, verso la fine del Prologo generale. Il Cursore è l’equivalente della polizia del pensiero che oggi affligge l’Iran, un laico che trascina i presunti trasgressori spirituali dinanzi a un tribunale religioso. Impicciandosi delle relazioni sessuali altrui, intasca una percentuale dei guadagni di tutte le prostitute che lavorano nella sua diocesi e ricatta i loro clienti. Essendo il narratore del Prologo generale, Chaucer il pellegrino apprezza la bonarietà dei suoi ricatti: per un quarto di buon vino rosso permette a un amico di tenersi una concubina per un anno. Per una volta, l’ironia sembra essere sopraffatta dalla riluttanza di Chaucer a reagire di fronte allo squallore morale del Cursore, il che contribuisce solo a creare il contesto per l’Indulgenziere, un personaggio molto più spettacolare. Il Cursore è solo un amabile bruto, un degno compagno dell’Indulgenziere, capace di sprofondarci in un inferno della coscienza più shakespeariano che dantesco, perché mutevole al massimo grado. Chaucer eredita l’identità degli indulgenzieri e dei ciarlatani dalla letteratura e dalla realtà dei suoi tempi, ma l’incredibile personalità dell’Indulgenziere mi sembra la sua invenzione più straordinaria.

Gli indulgenzieri andavano in giro vendendo indulgenze per i peccati in violazione del diritto canonico ma, naturalmente, con la connivenza della Chiesa. Essendo laici, non avrebbero dovuto predicare, ma lo facevano, e l’Indulgenziere di Chaucer è un predicatore magnifico, capace di eclissare qualsiasi predicatore televisivo presente oggi in America. I critici non sono concordi sulla natura sessuale dell’Indulgenziere: è un eunuco, un omosessuale, un ermafrodita? Nulla di tutto ciò, oserei dire; e in ogni caso, Chaucer ha fatto in modo di non fornirci la risposta a questa domanda. Forse l’Indulgenziere la conosce, ma non abbiamo neppure questa sicurezza. Dei ventinove pellegrini, è senza dubbio il più discutibile, ma senza dubbio anche il più intelligente, capace, da questo punto di vista, di tenere quasi testa a Chaucer, il trentesimo pellegrino. Le doti dell’Indulgenziere sono infatti così formidabili che non possiamo fare a meno di meravigliarci del suo lungo passato, di cui non ci rivela nulla. Sagace ipocrita religioso, che vende finte reliquie e osa commerciare la redenzione tramite Gesù, è tuttavia un’autentica coscienza spirituale con una vivace immaginazione religiosa.

Il cuore di tenebra, che, in Joseph Conrad, è una metafora oscurantista, è una figura retorica fin troppo adatta al demoniaco Indulgenziere, che contende ai suoi discendenti fittizi il ruolo di abisso problematico, depravato e tuttavia fantasioso al massimo grado. A proposito di questo personaggio, R.A. Shoaf, un critico di Chaucer, osserva con acume: «Vende se stesso, il suo atto, in ogni giorno di lavoro; ma, a giudicare dallo schema della sua ossessione, ne è consapevole, perché rimpiange di non potersi ricomprare». Ciò di cui è consapevole è che le sue imprese, per quanto stupefacenti, non potranno redimerlo e, riflettendo sulla sua tirata e sulla sua storia, cominciamo a sospettare che a spingerlo verso la carriera di imbroglione professionista sia stato qualcosa che va al di là dell’avidità e dell’orgoglio di saper predicare con efficacia. Non sapremo mai che cosa, in Chaucer, abbia creato questo primo nichilista, almeno nella letteratura, ma trovo suggestivo un caratteristico paradosso di G.K. Chesterton:

Geoffrey Chaucer era proprio ciò che il «mite Indulgenziere» non era: un mite Indulgenziere. Ma fraintenderemo tutti gli uomini di quella società curiosa e piuttosto complessa se non capiremo che, in un certo senso, le loro eccentricità erano legate allo stesso centro. La venalità ufficiale dell’Indulgenziere cattivo e l’amabilità assai ufficiosa dell’Indulgenziere buono derivavano entrambe dalle peculiari tentazioni e dalle difficili diplomazie del medesimo sistema religioso. Presero forma perché, in senso puritano, non si trattava di un sistema semplice. Esso era abituato, anche in menti assai più serie di quella chauceriana, a scorgere (per così dire) le due facce di un peccato: ora come peccato veniale completamente e indicibilmente diverso, nella sua direzione ultima, da un peccato mortale. Fu dall’abuso di distinzioni di quel genere che nacquero le distorsioni e le corruzioni, rese vivide nell’inequivocabile figura dell’Indulgenziere: la pratica delle indulgenze che era una degenerazione della teoria delle indulgenze. Ma era stato dall’uso di distinzioni di quel genere che, in origine, un uomo come Chaucer aveva raggiunto un atteggiamento mentale equilibrato e delicato, l’atteggiamento mentale che lo spingeva a guardare tutti i lati della stessa cosa; la capacità di comprendere che persino un male ha diritto di avere il suo posto nella gerarchia dei mali e, di comprendere, se non altro, che nelle abissali relatività dell’inferno e del purgatorio vi sono cose persino più imperdonabili dell’Indulgenziere.

Chesterton attribuisce a Chaucer un prospettivismo reso possibile solo dalla travolgente realtà della fede cattolica medievale. Qualunque sia la sua radice, il prospettivismo conta, sul piano poetico, più della fede. L’ambivalenza del prospettivismo libera l’Indulgenziere, una figura che segna il limite dell’ironia chauceriana. In generale, Chaucer è un vero comico, nel nostro senso (quello shakespeariano) di comicità. Il prologo e il racconto dell’Indulgenziere non sono comici, bensì letali. Questo personaggio è, come egli stesso dice, «un uomo pieno di vizi», ma è anche un genio; un termine più moderato non sarebbe adatto né a lui né a Iago dopo di lui. Come Iago, l’Indulgenziere unisce in sé le doti del drammaturgo o narratore, dell’attore e del regista; e, ancora una volta come Iago, è insieme un eccellente psicologo morale e uno dei primi psicologi del profondo. L’Indulgenziere, Iago e Edmund gettano un incantesimo sulle loro vittime, noi compresi. Tutti e tre confessano apertamente la loro falsità, ma solo a noi o, nel caso dell’Indulgenziere, ai pellegrini di Canterbury come nostri sostituti. Il loro compiacimento per la malvagità e le capacità intellettuali che li caratterizzano ci affascina, come sempre accade con la sublime irriverenza letteraria. L’esuberanza negativa dell’Indulgenziere, di Iago e di Edmund è irresistibile quanto l’esuberanza positiva della Comare di Bath, di Panurge e di Falstaff. Noi reagiamo all’energia, come sottolinea William Hazlitt nel suo saggio On Poetry in General:

Vediamo la cosa e la mostriamo agli altri come pensiamo che esista e come, nostro malgrado, siamo costretti a pensarla. L’immaginazione, incarnandoli e trasformandoli in forma, conferisce un palese rilievo ai desideri indistinti e importuni della volontà. Non desideriamo che la cosa sia così, ma desideriamo che appaia com’è. La conoscenza è infatti potere consapevole, e la mente non è più, in questo caso, lo zimbello, sebbene possa essere vittima del vizio o della follia.

A proposito di Iago, Hazlitt scrive: «È del tutto o quasi indifferente al proprio destino quanto lo è a quello degli altri; corre rischi di ogni genere per un vantaggio dubbio e insignificante; ed è lo zimbello e la vittima della sua passione dominante».

Tutte considerazioni valide anche nel caso dell’Indulgenziere. Come avevano previsto Shakespeare e Chaucer, Iago e l’Indulgenziere ci contaminano. Ci divertiamo di fronte alle invenzioni dell’Indulgenziere, alle sue «reliquie» (guanti magici e bottiglioni di vetro pieni di stracci e ossi), e condividiamo l’entusiasmo con cui rinnega qualsiasi conseguenza morale della sua predicazione:

Le mie mani e la lingua vanno allegramente così,

che è una gioia il vedere le mie attività.

La mia predica non tratta che dell’avarizia

e di simili malvagità, per indurre i fedeli ad essere liberali

de’ lor propri soldi e appunto verso di me.

Poiché il mio scopo non è che far quattrini, e

non di correggere peccati, anche se

le loro anime vadano ramighe in malora.

Per noi è una gioia udire queste parole e vederle attraverso l’udito, ed è una gioia ancora più profonda leggere il magnifico racconto dell’Indulgenziere, in cui tre giovinastri che bazzicano sempre per taverne – ragazzi chiassosi che oggi potrebbero essere motociclisti dell’Hells Angels – si ripromettono di uccidere Morte, molto attivo in quel periodo di pestilenza. Si imbattono in un uomo povero e vecchissimo che cerca solo di tornare da sua madre, la terra:

Me ne vo girando pel mondo e mattino e sera

batto col mio bastone la terra […]

e dico: «Madre mia, aprimi».

Minacciato dagli scapestrati, il misterioso vecchio li indirizza verso il luogo in cui troveranno Morte, sotto forma di un mucchio di monete d’oro ai piedi di una quercia. Due dei tre gozzovigliatori decidono di pugnalare il più giovane, ma non prima che quest’ultimo sia stato così prudente da avvelenare loro il vino. La profezia del vecchio si compie, ma noi continuiamo a domandarci chi sia quell’uomo. Evidentemente fu un’invenzione di Chaucer, il che significa che, all’interno dei Racconti di Canterbury, è il prodotto del genio dell’Indulgenziere. Un vecchio vagabondo, apparentemente in combutta con la morte benché, pur desiderandolo, non possa morire, pronto a indirizzare gli altri verso la ricchezza che disdegna o che ha abbandonato: gli studiosi identificano giustamente questa figura con la leggenda dell’Ebreo errante. L’Indulgenziere, che è consapevole di andare incontro alla dannazione, teme forse di diventare un vagabondo di quel tipo? Essendo la proiezione dell’Indulgenziere, l’enigmatico vecchio mette a nudo la vacuità delle sue millanterie, secondo cui l’avidità è l’unico movente della sua carriera di impostore. Il suo impulso autentico è quello dell’autosmascheramento, dell’autodistruzione, dell’autocondanna. L’Indulgenziere aspetta con impazienza la propria condanna, oppure avverte l’esigenza di rimandare la disperazione e l’autoimmolazione sopportando la piccola morte dell’umiliazione inflittagli dal burbero Oste davanti agli altri pellegrini.

Nell’Indulgenziere si verifica il passaggio dall’attesa impaziente della condanna, vista come condizione, all’autodistruzione vista come atto, perché questo personaggio origlia se stesso mentre parla e, su quella base, esprime una volontà negativa. Trovo questo momento molto emozionante, perché credo che, per Shakespeare, abbia segnato una fondamentale fase di revisionismo poetico, da cui sgorgarono molti elementi originali della rappresentazione del carattere, della conoscenza e della personalità umani. Pandaro, l’astuto intermediario del Troilo e Criseide di Chaucer, non era un predecessore degno di Iago e Edmund; pur essendo scaltro, è infatti troppo bonario e più che benevolo nelle sue intenzioni. Ma ecco l’Indulgenziere che reagisce alla propria eloquenza concludendo il suo solenne racconto e offrendo i suoi servigi professionali agli altri pellegrini:

Uno o due di voi per esempio, potrebbe cascare

da cavallo e rompersi il collo.

Vedete dunque che guarentigia è per voi

che io sia capitato qui con voi in brigata, giacché tutti,

grandi e piccini, io vi posso assolvere,

nel momento in cui l’anima vostra volerà via dal corpo.

Io consiglio il nostro oste ad esser lui il primo,

come quegli che ha sulla coscienza più peccati di tutti gli altri.

Qua, dunque, ser oste, tu sarai il primo ad offrire

qualche cosa, ed io, sì per soli quattro soldi ti farò baciare

tutte le mie reliquie. Coraggio, slaccia la borsa.

L’inequivocabile irriverenza di questo discorso invita a una reazione violenta e addirittura la esige quando l’esortazione si rivolge l’Oste, che, fra tutti i pellegrini, è il più incline ad annientare l’Indulgenziere ossessionato. In questo momento, quest’ultimo è in preda a una vertigine disperata e ha perduto il controllo, trascinato dalla sua capacità evocativa verso un’irrefrenabile esigenza di punizione. Quando l’Oste si offre brutalmente di tagliare e trasportare i testicoli dell’Indulgenziere, il volubile predicatore laico viene ridotto al silenzio: «Rimase così colpito che non volle più parlare». Non riesco a scindere queste parole dal voto finale di silenzio pronunciato da Iago: «Da questo momento non mi caverete più una sola parola di bocca». Queste due grandiose negazioni condividono una concezione di paura con cui ci contaminano pur non conoscendo personalmente la paura a livello conscio. Il genio di Iago è stranamente fuori luogo in uno spirito che conosce solo la guerra, proprio come l’Indulgenziere è uno spirito fuori posto, intento a crogiolarsi nell’inganno mentre trascura il proprio genio per evocare i terrori dell’eternità. Come le straordinarie capacità cognitive di Edmund o dello Svidrigailov di Dostoevskij, l’elemento malevolo dell’Indulgenziere e di Iago è un’intelligenza soprannaturale tesa solo a tradire la fiducia altrui. Alla fine, la grandezza canonica di Chaucer, l’unico che abbia avuto la forza di insegnare a Shakespeare i segreti della rappresentazione, si ferma nella sinistra e profetica descrizione dell’Indulgenziere, la cui progenie è ancora tra noi, nella vita come nella letteratura.

5.

CERVANTES: IL DRAMMA DEL MONDO

Sappiamo più sull’uomo Cervantes di quanto sappiamo su Shakespeare, e senza dubbio c’è ancora molto da scoprire, perché la sua vita fu ardua, eroica e movimentata. Shakespeare ebbe un enorme successo finanziario come drammaturgo e morì ricco, dopo aver realizzato le sue ambizioni sociali (qualunque esse fossero). Nonostante la popolarità del Don Chisciotte, Cervantes non incassò alcun diritto d’autore ed ebbe scarsa fortuna con i mecenati. Oltre a mantenere se stesso e la sua famiglia, aveva poche ambizioni realistiche e fu un drammaturgo fallito. La poesia non era la sua dote, il Don Chisciotte sì. Contemporaneo di Shakespeare (si pensa siano morti nello stesso giorno), Cervantes ha in comune con quest’ultimo l’universalità del suo genio ed è l’unico possibile concorrente di Dante e Shakespeare nel Canone occidentale.

Lo associamo a Shakespeare e Montaigne perché tutti e tre sono scrittori di saggezza; non ne esiste un quarto altrettanto equilibrato, misurato e benevolo ad eccezione di Molière, e, in un certo senso, quest’ultimo era un Montaigne rinato, anche se in un altro genere. Per un verso, solo Cervantes e Shakespeare occupano la posizione di massimo prestigio; è impossibile precederli, perché arrivano sempre per primi.

Di fronte al vigore del Don Chisciotte, il lettore non viene mai sminuito, ma solo valorizzato. Ciò non avviene molto spesso quando si leggono Dante, Milton o Jonathan Swift, la cui Favola della botte mi pare sempre la miglior prosa in lingua inglese dopo quella di Shakespeare, ma mi rimprovera senza sosta. E non avviene neppure quando si legge Kafka, lo scrittore centrale del nostro caos. Shakespeare è, ancora una volta, l’autore più vicino a Cervantes, e veniamo sostenuti dalla sua spassionatezza pressoché infinita. Sebbene Cervantes sia sempre attento a essere un vero cattolico, non leggiamo il Don Chisciotte come opera religiosa. Probabilmente Cervantes era un vecchio cristiano, non un discendente dei conversos ebrei o nuovi cristiani, ma non possiamo essere sicuri delle sue origini, come non possiamo sperare di comprenderne con esattezza gli atteggiamenti. Caratterizzare le sue ironie è un’impresa impossibile; non coglierle è altrettanto impossibile.

Nonostante il suo eroico servizio di leva (perse definitivamente l’uso della mano sinistra durante la grande battaglia navale di Lepanto contro i turchi), Cervantes doveva essere molto diffidente nei confronti della Controriforma e dell’Inquisizione. La follia di Don Chisciotte concede a quest’ultimo, e al suo creatore, una licenza simile a quella del Matto nel Re Lear, un’opera messa in scena contemporaneamente alla pubblicazione della parte prima del Don Chisciotte. Cervantes era quasi certamente un seguace di Erasmo da Rotterdam, l’umanista olandese i cui scritti sull’interiorità cristiana esercitavano una grande attrazione sui conversos, intrappolati tra un giudaismo che erano stati costretti ad abbandonare e un sistema cristiano che li trasformava in cittadini di seconda categoria. L’antichissima famiglia di Cervantes era zeppa di medici, una professione diffusa tra gli ebrei spagnoli prima dell’espulsione e delle conversioni coatte del 1492. Un secolo dopo, lo scrittore sembra impercettibilmente ossessionato da quel terribile anno, che aveva recato molti danni agli ebrei e ai mori nonché al benessere economico e sociale della Spagna.

Sembra non vi siano mai due lettori che leggono lo stesso Don Chisciotte, e i critici più illustri dissentono su quasi tutti gli aspetti fondamentali del libro. Erich Auerbach riteneva che quest’ultimo non avesse rivali nella rappresentazione della realtà quotidiana come gaiezza incessante. Avendo appena finito di rileggere il Don Chisciotte, sono sorpreso dalla mia incapacità di scoprirvi ciò che Auerbach chiama «una gaiezza così universale e stratificata, così poco critica e aproblematica». Per il critico, i «termini simbolici e tragici» sono falsi anche quando vengono usati per categorizzare la follia del protagonista. Smentisco questa affermazione ricorrendo al più intenso e donchisciottesco di tutti gli agonisti critici, Miguel de Unamuno, un uomo di lettere basco il cui «tragico senso della vita» si fondava sul suo intimo rapporto con il capolavoro di Cervantes, che, a suo parere, sostituiva la Bibbia come autentica Scrittura spagnola. «Nostro Signore Don Chisciotte», lo chiamava Unamuno, un kafkiano prima di Kafka, perché la sua follia deriva da una fede in quella che Kafka avrebbe denominato «indistruttibilità». Il Cavaliere dalla triste figura di Unamuno è un cercatore di sopravvivenza, la cui unica follia è una crociata contro la morte: «Grande era la follia di Don Chisciotte, ed era grande perché la radice da cui cresceva era grande: l’inestinguibile desiderio di sopravvivenza, fonte delle più stravaganti follie e degli atti più eroici».

In questa concezione, la follia di Don Chisciotte è un rifiuto di accettare quello che Freud chiamava «esame di realtà», ossia il principio di realtà. Quando Don Chisciotte familiarizza con la necessità del morire, muore poco dopo, tornando così a un cristianesimo concepito come culto della morte, e non solo da Unamuno tra i visionari spagnoli. Per Unamuno, la gaiezza del libro appartiene unicamente a Sancio Panza, che purifica il suo daimon, Don Chisciotte, e così segue allegramente il triste cavaliere in ognuna delle sue irriverenti avventure. Questa lettura è, ancora una volta, assai vicina alla straordinaria parabola di Kafka La verità su Sancio Panza, nella quale è Sancio a divorare tutti i romanzi cavallereschi finché il suo demone immaginario, personificato come Don Chisciotte, parte per le sue avventure con Sancio al seguito. Forse Kafka intendeva trasformare il Don Chisciotte in una barzelletta ebraica lunga e piuttosto amara, ma può darsi che questa interpretazione sia più fedele al libro rispetto alla decisione di leggerlo, con Auerbach, come pura gaiezza.

Probabilmente solo Amleto genera interpretazioni variegate quanto quelle del Don Chisciotte. Nessuno di noi può purificare Amleto dai suoi interpreti romantici, e Don Chisciotte ha ispirato una scuola di critica romantica altrettanto nutrita e tenace, nonché libri e saggi che si oppongono a questa presunta idealizzazione del protagonista di Cervantes. I romantici (me compreso) vedono Don Chisciotte come eroe, non come pazzo; si rifiutano di leggere il libro soprattutto come satira e riscontrano nell’opera un atteggiamento metafisico o visionario per quanto riguarda la ricerca condotta dal protagonista, che fa sembrare del tutto naturale l’influenza di Cervantes su Moby Dick. Dal filosofo e critico tedesco Schelling nel 1802 al musical di Broadway intitolato Man of La Mancha del 1966, vi è stata una continua esaltazione del presunto sogno-ricerca impossibile. I romanzieri sono stati i principali sostenitori di questa apoteosi di Don Chisciotte: tra gli ammiratori più entusiastici figurano Fielding, Smollett e Sterne in Inghilterra; Goethe e Thomas Mann in Germania; Stendhal e Flaubert in Francia; Melville e Mark Twain negli Stati Uniti; e quasi tutti i moderni autori ispanici. Dostoevskij, che potrebbe sembrare il meno cervantino degli scrittori, sosteneva che il principe Mysˇkin dell’Idiota era modellato su Don Chisciotte. Poiché molti attribuiscono al grande esperimento di Cervantes il merito di aver inventato il romanzo in contrapposizione al racconto picaresco, la devozione di tanti romanzieri successivi è abbastanza comprensibile; ma le enormi passioni suscitate dal libro, soprattutto in Stendhal e Flaubert, sono straordinari tributi alla sua grandezza.

Naturalmente, quando leggo il Don Chisciotte, tendo a concordare con Unamuno, poiché per me il cuore del libro sono la rivelazione e la celebrazione dell’individualità eroica, sia in Don Chisciotte sia in Sancio. Per qualche strano motivo, Unamuno preferiva Don Chisciotte a Cervantes, ma io mi rifiuto di seguirlo, perché nessuno scrittore ha instaurato un rapporto più intimo con il suo protagonista. Vorremmo sapere che cosa pensasse Shakespeare di Amleto; sappiamo quasi fin troppo bene come Don Chisciotte ha influito su Cervantes, anche se spesso le nostre conoscenze sono indirette. Cervantes inventò infiniti modi per interrompere la narrazione e costringere il lettore a raccontare la vicenda al posto dell’autore diffidente. Anche i presunti incantatori astuti e perfidi che operano senza posa per frustrare il magnifico e indomabile Don Chisciotte servono a trasformarci in lettori insolitamente attivi. Il protagonista crede che gli stregoni esistano, e Cervantes li dipinge pragmaticamente come componenti cruciali del suo linguaggio. Ogni cosa si tramuta mediante l’incantesimo, dice la lamentela donchisciottesca, e il perfido stregone è lo stesso Cervantes. I suoi personaggi hanno letto tutte le rispettive storie, e la parte seconda del romanzo riguarda soprattutto le loro reazioni alla lettura della prima. Il lettore viene educato a una reazione assai più raffinata anche quando Don Chisciotte si rifiuta ostinatamente di imparare, sebbene quel rifiuto abbia a che fare più con la sua «follia» che con lo status fittizio dei romanzi cavallereschi che l’hanno condotto alla pazzia. Don Chisciotte e Cervantes si evolvono insieme verso un nuovo tipo di dialettica letteraria, una dialettica letteraria che proclama alternatamente il vigore e la vanità della narrazione rispetto agli eventi reali. Quando, nella prima parte, il protagonista arriva a comprendere le limitazioni della finzione, Cervantes sente aumentare l’orgoglio della paternità letteraria e soprattutto la gioia di aver inventato Don Chisciotte e Sancio.

Il rapporto affettuoso e spesso ostile tra questi due personaggi costituisce la grandezza del libro, ancora più del brio con cui vengono rappresentate le realtà naturali e sociali. A unire Don Chisciotte e il suo scudiero sono sia la partecipazione a quella che abbiamo chiamato «dimensione del gioco» sia l’affetto reciproco, anche se burbero. Non mi viene in mente un’amicizia analoga in tutta la letteratura occidentale, e certamente nessuna che si fondi in modo così squisito sulla conversazione spassosa. Angus Fletcher, nel suo Colors of the Mind, ne coglie molto bene l’atmosfera:

Don Chisciotte e Sancio si incontrano in un tipo ben preciso di brio, nella vivacità delle loro conversazioni. Parlando, e spesso discutendo con calore, allargano il campo dei reciproci pensieri. Nessun pensiero dell’uno o dell’altro è esente da controlli o critiche. Con un disaccordo per lo più cortese – più cortese quando il conflitto è più aspro –, creano pian piano una zona di gioco libero, dove i pensieri vengono liberati affinché noi lettori vi riflettiamo sopra.

Tra le molte decine di battibecchi che vedono protagonisti Don Chisciotte e Sancio, il mio preferito si svolge nella parte seconda, capitolo 28, dopo che il cavaliere ha emulato Sir John Falstaff nella saggezza della discrezione come principale componente del valore. Purtroppo la sua decisione l’ha indotto ad abbandonare un Sancio sbalordito alle ire di un villaggio. Dopo quell’episodio, il povero Sancio si lamenta di essere tutto dolorante e riceve dal cavaliere un conforto piuttosto pedantesco:

«La causa di cotesto dolore dev’essere, senza dubbio» disse Don Chisciotte «che, siccome il bastone con cui ti han picchiato era lungo e largo, t’ha arrivato tutte le spalle, lo spazio, vale a dire, che comprende tutte coteste parti che ti dolgono; e se più ti arrivava più ti dorrebbe.»

«Perdio» disse Sancio «il gran dubbio che mi ha levato vossignoria e come bene me lo ha chiarito! La causa dunque del dolore che sento era così riposta da esserci stato bisogno di dirmi che mi duole proprio tutto quello che fu arrivato dal bastone!»

In questo scambio di battute si nasconde il legame tra i due, che, sotto la superficie, apprezzano l’intimità dell’uguaglianza. Possiamo aspettare a domandarci quale sia la figura più originale, notando tuttavia che la figura congiunta cui danno vita insieme è più originale di ciascuna delle due presa singolarmente. Sancio e Don Chisciotte, un duo affiatato ma litigioso, non sono uniti solo dall’affetto reciproco e da un rispetto sincero. Nei momenti migliori, sono compagni nella dimensione del gioco, una sfera con le sue regole e la sua visione della realtà: qui il critico cervantino più prezioso è ancora una volta Unamuno, ma il teorico è Johan Huizinga nel suo acuto libro Homo Ludens (1944), che cita Cervantes solo di sfuggita. Huizinga esordisce asserendo che il suo argomento, il gioco, va distinto sia dalla commedia sia dalla follia: «La categoria del comico è legata alla follianell’accezione più alta e più bassa di quel termine. Il gioco, tuttavia, non è folle, perché si colloca al di fuori dell’antitesi tra saggezza e follia».

Don Chisciotte non è un pazzo né un folle, bensì un uomo che gioca a fare il cavaliere errante. A differenza della pazzia e della follia, il gioco è un’attività volontaria e, secondo Huizinga, ha quattro caratteristiche principali: libertà, spassionatezza, esclusione (o limitatezza) e ordine. Si possono riscontrare tutte nei vagabondaggi di Don Chisciotte, ma non sempre nel fedele servizio di Sancio come scudiero, perché questo personaggio è più lento ad abbandonarsi al gioco. Don Chisciotte si eleva in un luogo e in un tempo ideali ed è fedele alla propria libertà, alla sua spassionatezza, al suo isolamento e ai suoi limiti, finché, sconfitto, abbandona il gioco, torna alla «ragione» cristiana e muore. Unamuno dice che Don Chisciotte partì alla ricerca della sua vera patria e la trovò nell’esilio. Come sempre, il critico comprende ciò che vi è di più intimo in questo grande libro. Come gli ebrei e i mori, il protagonista è un esule, ma nello stile dei conversos e dei moriscos, ossia un esule interno. Don Chisciotte lascia il suo villaggio per cercare la patria del suo spirito nell’esilio, perché può essere libero solo come esule.

Cervantes non ci spiega mai esplicitamente perché, all’inizio, Alonso Quijano (il libro contiene diverse varianti ortografiche del nome) sia impazzito a forza di leggere romanzi cavallereschi, per poi vagare per le strade e diventare Don Chisciotte. Alonso, un povero gentiluomo della Mancia, ha un unico vizio: è un lettore ossessivo della letteratura popolare dei suoi tempi, che allontana la realtà dalla sua mente. Cervantes lo descrive come un puro caso di vita non vissuta. È scapolo, vicino ai cinquanta, probabilmente privo di esperienze sessuali, con la sola compagnia di una governante sulla quarantina, di una nipote diciannovenne, di un bracciante e dei suoi due amici: il curato del villaggio e Nicola il barbiere. Poco lontano abita una giovane contadina, la florida Aldonza Lorenzo, che, senza saperlo, è diventata l’oggetto ideale delle sue fantasie ed è stata ribattezzata con il solenne nome di Dulcinea del Toboso.

Non sappiamo se questa donna sia davvero l’oggetto della ricerca intrapresa dal brav’uomo. Un critico è arrivato a ipotizzare che Quijano sia costretto a diventare Don Chisciotte a causa della cupidigia mal repressa per la nipote, idea di cui non vi è traccia nel testo di Cervantes, ma che indica la disperazione in cui l’autore getta i suoi studiosi. Cervantes ci dice solo che il suo eroe è impazzito, senza fornirci dettagli clinici di alcun genere. La reazione di Unamuno alla perdita della ragione da parte di Don Chisciotte mi sembra la migliore possibile: «L’ha perduta per amor nostro, per il nostro bene, nel tentativo di lasciarci un eterno esempio di generosità spirituale». In altre parole, l’eroe impazzisce per espiare la nostra banalità, la nostra ingenerosa mancanza di immaginazione.

Sancio, un povero contadino, accetta di fare da scudiero a Don Chisciotte durante la sua seconda sortita – che si risolve nello splendido episodio dei mulini a vento –, perché, buono ed evidentemente duro di comprendonio, si convince che il cavaliere gli conquisterà un’isola e gliela farà governare. Cervantes è inevitabilmente ironico quando ci presenta per la prima volta Sancio, la cui arguzia è straordinaria e il cui vero desiderio è ottenere la fama, anziché la ricchezza, nel ruolo di governatore. Particolare ancora più importante, una parte di Sancio desidera la dimensione del gioco sebbene il resto di lui si senta a disagio con alcune delle conseguenze del gioco donchisciottesco. Come il cavaliere, Sancio cerca un nuovo ego, un’idea di cui il romanziere cubano Alejo Carpentier attribuisce la paternità a Cervantes. Io direi che Shakespeare e Cervantes vi arrivarono simultaneamente, con una differenza nelle modalità di trasformazione dei loro personaggi principali.

Don Chisciotte e Sancio Panza sono l’uno il conversatore ideale dell’altro e cambiano ascoltandosi a vicenda. In Shakespeare, il cambiamento deriva dalla capacità di origliare se stessi e dalla riflessione sulle implicazioni di ciò che si ascolta. Don Chisciotte e Sancio non sono capaci di origliare se stessi; l’ideale donchisciottesco e la realtà panzesca sono troppo solidi perché i loro sostenitori ne dubitino, dunque i due personaggi non riescono ad accettare di allontanarsi dai propri criteri. Pronunciano una serie di empietà, ma non le riconoscono. La grandezza tragica dei protagonisti shakespeariani si allarga alla commedia, alla storia e al romanzo cavalleresco, e i sopravvissuti ascoltano davvero le parole altrui solo nelle scene culminanti della rivelazione. L’influenza di Shakespeare ha superato quella di Cervantes, e non solo nei Paesi di lingua inglese. Il solipsismo moderno scaturisce da Shakespeare (e da Petrarca prima di lui). Dante, Cervantes e Molière, che dipendono dalle interazioni tra i personaggi, appaiono meno naturali del magnifico solipsismo shakespeariano, e forse lo sono davvero.

Shakespeare non ci offre nulla di analogo agli scambi di battute tra Don Chisciotte e Sancio, perché i suoi amici e amanti non si ascoltano mai. Pensate alla scena della morte di Antonio, in cui Cleopatra sente e origlia soprattutto se stessa, oppure ai tentativi di gioco tra Falstaff e Hal, in cui il primo è costretto a mettersi sulla difensiva perché il secondo lo attacca senza sosta. Esistono eccezioni più sfumate, come Rosalinda e Celia in Come vi piace, ma non sono la norma. L’individualità shakespeariana è inimitabile, ma esige costi enormi. L’egoismo cervantino, esaltato da Unamuno, è sempre definito dal libero rapporto tra Sancio e Don Chisciotte, che si concedono a vicenda lo spazio per giocare. Cervantes e Shakespeare sono entrambi impareggiabili nella creazione della personalità, ma, alla fine, le maggiori personalità shakespeariane (Amleto, Lear, Iago, Shylock, Falstaff, Cleopatra, Prospero) avvizziscono gloriosamente all’aria di una solitudine interiore. Don Chisciotte viene salvato da Sancio, e Sancio viene salvato da Don Chisciotte. La loro amicizia è canonica e, in parte, modifica la successiva natura del Canone.

Che cosa significa follia se chi ne soffre non può essere ingannato da altri uomini o donne? Nessuno sfrutta Don Chisciotte, neppure lo stesso Don Chisciotte. Quest’ultimo scambia i mulini a vento per giganti e gli spettacoli di burattini per situazioni reali, ma è impossibile prenderlo in giro, perché supera chiunque in arguzia. La sua è una follia letteraria e può essere utilmente paragonata a quella, solo in parte letteraria, della voce narrante del grande poema cavalleresco di Robert Browning, Childe Roland alla torre nera giunse. Don Chisciotte è pazzo perché il suo grande prototipo, l’Orlando (Roland) di Ariosto, era caduto preda di una follia erotica. Come Don Chisciotte rammenta a Sancio, accadde la stessa cosa ad Amadigi di Gaula, un altro eroico precursore. Il Childe Roland di Browning vuole solo essere «destinato a fallire», come, prima di lui, fallirono tutti i poeti-cavalieri davanti alla Torre oscura. Don Chisciotte è molto più sano di mente; vuole vincere nonostante tutte le sue dolorose sconfitte. La sua follia, sottolinea, è una strategia poetica elaborata da altri prima di lui, ed egli non è altro che un tradizionalista.

Cervantes era diffidente nei confronti di un precursore spagnolo troppo vicino; le sue affinità più profonde erano con il converso Fernando de Rojas, autore del grande dramma narrativo Celestina, un’opera non molto cattolica per via del suo feroce amoralismo e della sua mancanza di ipotesi teologiche. Cervantes osservò che «sarebbe un libro divino, a mio giudizio, se nascondesse meglio l’uomo», alludendo con chiarezza al rifiuto della sessualità umana di accettare costrizioni morali. Don Chisciotte, naturalmente, impone molte costrizioni morali ai suoi desideri sessuali, al punto che potrebbe benissimo essere un prete. E secondo Unamuno, lo era davvero: un prete della vera Chiesa spagnola, quella donchisciottesca. La sua perpetua sete di battaglie in condizioni di inferiorità quasi costante è una chiara sublimazione della pulsione sessuale. L’oscuro oggetto del suo desiderio, l’incantevole Dulcinea, è l’emblema della gloria da raggiungere nella violenza e tramite la violenza, sempre descritta da Cervantes come un’assurdità. Lo scrittore – sopravvissuto a Lepanto e ad altre battaglie nonché a lunghi anni di prigionia prima tra i mori e poi nelle carceri spagnole (dove forse aveva iniziato il Don Chisciotte) – aveva una conoscenza diretta dei combattimenti e della schiavitù. Dobbiamo guardare lo sconcertante eroismo di Don Chisciotte con un misto di grande rispetto e considerevole ironia, un atteggiamento cervantino non troppo facile da analizzare. Per quanto siano irriverenti le sue manifestazioni, il coraggio del protagonista è così convincente da superare quello di ogni altro eroe della letteratura occidentale.

Il confronto diretto con la grandezza del Don Chisciotte non può spingersi molto lontano senza il coraggio del critico. Cervantes, con tutte le sue ironie, è innamorato di Don Chisciotte e di Sancio Panza, e lo stesso vale per qualunque lettore ami la lettura. Spiegare l’amore è un esercizio vano nella vita, in cui la parola «amore» significa tutto e niente, ma dovrebbe essere una possibilità razionale nell’alta letteratura. Qui, forse, Cervantes toccò l’universale con ancora più sicurezza di Shakespeare, poiché mi sconcerta che il mio profondo amore per Sir John Falstaff, l’unico rivale di Don Chisciotte tra i cavalieri erranti, non sia sempre condiviso dai miei studenti, per non parlare poi di gran parte dei miei colleghi insegnanti. Nessuno se ne va in giro definendo Don Chisciotte «un vecchio miserabile sbronzo e disgustoso», come G.B. Shaw etichettò Falstaff, ma vi sono sempre critici cervantini che insistono nel giudicarlo uno stolto e un folle, e secondo i quali Cervantes satireggia l’«egocentrismo indisciplinato» del suo eroe. Se fosse vero, non esisterebbe alcun libro, perché chi vuole leggere di Alonso Quijano il Buono? Alla fine, disincantato, il protagonista muore religiosamente dopo aver ritrovato la ragione, ricordandomi sempre gli amici di gioventù che si sono sottoposti a interminabili decenni di psicoanalisi, per finire avvizziti e prosciugati, ogni passione spenta, pronti a morire analiticamente dopo aver ritrovato la ragione. Persino la parte prima del grande libro è tutto fuorché una satira dell’eroe, e la parte seconda, come si osserva in genere, è concepita in modo da indurre il lettore a un’identificazione ancora più decisa con Don Chisciotte e Sancio.

Herman Melville, con autentico entusiasmo americano, definì Don Chisciotte «il più saggio dei saggi che siano mai vissuti», ignorando felicemente il carattere fittizio dell’eroe. Secondo Melville, vi erano tre originali assoluti tra i personaggi letterari: Amleto, Don Chisciotte e il Satana del Paradiso perduto. Achab, ahimè, non era il quarto della serie – forse perché li racchiudeva tutti e tre –, ma il suo equipaggio si ammantava di un’atmosfera cervantina, invocata esplicitamente da Melville in una magnifica perorazione che colloca Cervantes, memorabilmente e follemente, a metà strada tra il visionario del Viaggio del pellegrino e il presidente Andrew Jackson, eroe di tutti i democratici americani:

Sostienimi tu, grande Dio democratico, che non hai rifiutato la perla pallida della poesia a Bunyan annerito dal carcere, tu che hai vestito di lamine martellate due volte di oro finissimo il braccio monco e indigente del vecchio Cervantes, tu che hai raccattato tra i sassi Andrew Jackson e lo hai scagliato su un cavallo di guerra e saettato più in alto di un trono! Tu che in ogni tua potente marcia sulla terra scegli sempre i tuoi campioni più eletti tra il popolo regale, sostienimi tu Signore.

Questa è un’estasi della religione americana, che ha poco in comune con il cauto cattolicesimo di Cervantes, ma che ha molte analogie con la religione spagnola del donchisciottismo descritta da Unamuno. Il senso tragico della vita, scoperto da Unamuno nel Don Chisciotte, è anche la fede di Moby Dick. Achab è monomaniaco; lo è anche il più bonario Don Chisciotte, ma entrambi sono idealisti tormentati che cercano la giustizia in termini umani, non come uomini teocentrici ma come uomini empi e simili a dei. Achab mira solo alla distruzione di Moby Dick; per il capitano quacchero, la fama non è nulla e la vendetta è tutto.

Nessuno, ad eccezione di una panoplia di incantatori mitici, ha danneggiato Don Chisciotte, che sopporta le avversità con infinito stoicismo. Il movente dell’eroe, secondo Unamuno, è la fama eterna, intesa come «un’espansione della personalità nello spazio e nel tempo». Io lo leggo come l’equivalente secolare della Benedizione dello Jahwista: più vita in un tempo senza confini. Generosità e semplice bontà sono le virtù di Don Chisciotte. Il suo vizio, se mai ne ha uno, è la convinzione, tipica dell’età dell’oro spagnola, secondo cui la vittoria ottenuta mediante le armi è tutto; ma poiché questo personaggio viene sconfitto così spesso, questo fallimento è, nella peggiore delle ipotesi, transitorio.

Unamuno – e io con lui – ha considerato con estrema serietà il desiderio sublimato di Don Chisciotte per Aldonza Lorenzo e la sua successiva esaltazione della donna nei panni dell’angelica ma ingenua Dulcinea (un’esaltazione simile a quella operata da Dante nei confronti di Beatrice), il che ci dà modo di osservare il cavaliere quasi nella sua piena complessità. Don Chisciotte vive per fede pur sapendo, come mostrano i suoi momenti di lucidità, di credere in una finzione, e pur sapendo – almeno a sprazzi – che si tratta solo di una finzione. Dulcinea è una finzione suprema, e Don Chisciotte, un lettore ossessionato, è un poeta di azione che ha creato un mito grandioso. Il Don Chisciotte di Unamuno è un agonista paradossale, l’antenato dei ricercatori umiliati che vagano tra il nostro caos in Kafka e Beckett. Forse Cervantes non intendeva creare l’eroe di un’«indistruttibilità» secolare, ma questo personaggio raggiunge l’apoteosi nell’appassionato commento di Unamuno. Questo Don Chisciotte è un attore metafisico, disposto a rischiare lo scherno pur di tenere in vita l’idealismo.

In contrapposizione al cavaliere idealistico di una fede essenzialmente erotica, Cervantes crea la figura dell’imbroglione, uno straordinario personaggio shakespeariano: Ginesio de Passamonte. Quest’ultimo compare per la prima volta nella parte prima, capitolo 22, come uno dei prigionieri destinati alle galere, e torna nella parte seconda, capitoli 25-27, come l’illusionista mastro Pietro, che predice il futuro tramite una scimmia chiaroveggente e poi inscena uno spettacolo di burattini così realistico che Don Chisciotte, credendolo vero, si scaglia contro i fantocci e li fa a pezzi. Con Ginesio, Cervantes ci descrive una figura immaginaria che sarebbe a suo agio tanto fra la malavita elisabettiana quanto negli abissi più profondi dell’età dell’oro spagnola. Quando Don Chisciotte e Sancio lo incontrano per la prima volta, Ginesio è costretto a marciare lungo una strada con una dozzina di altri prigionieri, tutti condannati dal re a lavorare come rematori sulle galere. Gli altri criminali sono ammanettati, e sono tutti infilati per il collo in una catena di ferro. Ginesio, il più formidabile, è incatenato in maniera più singolare:

Dopo tutti costoro veniva un tale di molto bell’aspetto, sull’età di trent’anni, senonché nel guardare, l’uno occhio si volgeva un po’ verso l’altro. Era legato diversamente dagli altri, poiché portava al piede una catena così lunga che gli rigirava tutta la persona, e al collo due collari di ferro, l’uno ribadito alla catena, l’altro era di quei forchetti che chiamano «reggiamico» o «piè d’amico»; dalla quale catena pendevano due ferri che arrivavano alla cintola e in cui erano saldate due manette che gli stringevano i polsi, chiuse con un grosso lucchetto, per modo che né con le mani poteva arrivare alla bocca, né poteva abbassare la testa per arrivare alle mani.

Come spiegano le guardie, Ginesio è pericolosissimo, così audace e astuto che temano possa fuggire nonostante le catene. È stato condannato a dieci anni sulle galere, l’equivalente di una morte civile. La crudele impossibilità di Ginesio di avvicinare la testa alle mani è, come nota Roberto Gonzalez Echevarría, un’ironia rivolta agli autori di romanzi picareschi, perché il furfante è intento a comporre la sua storia. Ascoltiamolo mentre se ne vanta:

«Se vuol sapere la mia [vita], sappia che sono Ginesio di Passamonte, la vita del quale l’hanno scritta queste dita.»

«È vero» disse il commissario; «lui stesso ha scritto la sua storia che meglio non si potrebbe, e ha lasciato il libro in carcere, in pegno di duegento reali.»

«E penso di spegnarlo» disse Ginesio «anche se vi fosse rimasto per duegento ducati.»

«Tanto è pregevole?» disse don Chisciotte.

«È di tanto pregevole» rispose Ginesio «che al diavolo e Lazarillo de Tormes e quanti se n’è scritti di quel genere e se ne scriveranno. Quello che posso dire a vossia è che tratta di cose vere, e che sono verità così belle e piacevoli che non ci possono essere cose inventate da stargli alla pari.»

«E come s’intitola il libro?» domandò don Chisciotte.

«La vita di Ginesio di Passamonte» rispose il medesimo.

«Ed è finito?» domandò don Chisciotte.

«Come può esser finito» rispose egli, «se ancora non è finita la mia vita?»

L’irriverente Ginesio ha formulato un grandioso principio del picaresco, un principio che non è applicabile al Don Chisciotte, sebbene anche quest’opera termini con la morte dell’eroe. Tuttavia, Don Chisciotte muore in senso metaforico prima che Alonso Quijano il Buono muoia in senso letterale. Lazzarillo da Tormes, l’archetipo anonimo del picaresco spagnolo, pubblicato per la prima volta nel 1553, è ancor oggi una splendida lettura. Se la storia del borioso Ginesio fosse stata migliore, sarebbe stata davvero splendida; ma naturalmente lo è, perché fa parte del Don Chisciotte. Ginesio ha già scontato quattro anni sulle galere, ma viene salvato dall’ulteriore condanna grazie all’intervento del folle e sublime Don Chisciotte. Passamonte e gli altri prigionieri fuggono sebbene Sancio, disperato, avverta il suo padrone che quell’iniziativa è un affronto diretto al re. Nel discorso in cui Don Chisciotte pronuncia la lamentosa frase: «Altri non ne mancheranno i quali in occasioni migliori rendano servigio al Re, ché mi pare una crudeltà fare schiavi quelli che Dio e la natura crearono liberi», Cervantes, che era stato prigioniero dei mori per cinque anni ed era stato arrestato di nuovo in Spagna per presunte negligenze nel ruolo di esattore delle tasse, esprime con chiarezza una passione personale che va al di là dell’ironia.

Dopo una mischia generale, le guardie fuggono e il cavaliere ordina ai prigionieri liberati di presentarsi dinanzi a Dulcinea per descriverle l’episodio. Ginesio, dopo aver tentato invano di riportare alla ragione il furibondo Don Chisciotte, esorta i compagni a lapidare e spogliare lui e Sancio prima di scappare, finché:

Rimasero loro soli: l’asino e Ronzinante, Sancio e don Chisciotte. L’asino, a testa bassa e pensieroso, scuotendo di quando in quando le orecchie, con l’idea che non fosse ancora smessa la tempesta delle pietre di cui gli pareva sentire ancor il frullo; Ronzinante, steso accanto al padrone, poiché cadde a terra anche lui per una nuova pietrata; Sancio, in farsetto e impaurito della Santa Confraternita; don Chisciotte, tutto mogio per vedersi così malmenato da quelli stessi a cui aveva fatto tanto bene.

Il pathos di questo passo mi sembra eccellente; è uno di quegli effetti cervantini che non si dimenticano mai. Unamuno, folle e sublime quanto il suo signore, Don Chisciotte, fa un commento azzeccato: «Tutto ciò dovrebbe insegnarci a liberare gli schiavi delle galere proprio perché non ce ne saranno grati». Don Chisciotte, afflitto, dissente dal suo esegeta basco e assicura a Sancio di aver imparato la lezione, al che il saggio scudiero replica: «Così imparerà vossignoria […] com’è vero che io son turco». Fu Cervantes a imparare, a causa dell’affetto che nutriva per una sua creazione secondaria ma meravigliosa, Ginesio da Passamonte, un «signor ladro matricolato». Ginesio, truffatore e folletto sciamanistico del perverso, è ciò che potremmo definire uno dei personaggi criminali canonici della letteratura, come il Bernardino di Shakespeare in Misura per misura o il superbo Vautrin di Balzac. Se quest’ultimo è in grado di ricomparire nei panni dell’abate Carlos Herrera, Ginesio sa travestirsi da mastro Pietro, il burattinaio. Un’altra domanda importante da porsi è che cosa, oltre all’orgoglio autoriale, abbia spinto Cervantes a riportare in scena Ginesio da Passamonte nella parte seconda del Don Chisciotte.

In generale, i critici sono concordi nell’affermare che il contrasto tra Ginesio e Don Chisciotte, il furfante imbroglione e il visionario cavalleresco, è in parte una contrapposizione tra due generi letterari, il picaresco e il romanzo, che fu essenzialmente inventato da Cervantes come la tragedia moderna e anche la tragicommedia moderna furono inventate da Shakespeare (che non conosceva la tragedia greca, bensì solo i suoi resti mutilati nel romano Seneca). Come nei protagonisti shakespeariani, l’interiorità autentica si incarna in Don Chisciotte, mentre il briccone Passamonte è tutto esteriorità nonostante la sua grande abilità in fatto di doppiezza. Ginesio è capace di cambiare forma e non può mutare se non nell’aspetto esteriore. Don Chisciotte, come i grandi personaggi shakespeariani, non può smettere di cambiare: è questo lo scopo delle sue conversazioni, spesso accese ma alla fine sempre affettuose, con il fedele Sancio. Legate dalla dimensione del gioco, queste due figure sono unite anche dall’infinita umanizzazione che causano l’una nell’altra. Le loro crisi sono innumerevoli; come potrebbero non esserlo nella sfera del donchisciottesco? A volte Sancio sembra sul punto di porre fine alla relazione, ma non ci riesce; in parte è affascinato, ma alla fin fine viene trattenuto dall’amore, come accade anche al suo padrone. Forse l’amore è indistinguibile dalla dimensione del gioco, ma è così che deve essere. Uno dei motivi del ritorno di Ginesio nella parte seconda è senza dubbio il fatto che Passamonte non partecipa mai al gioco, neppure come burattinaio.

Come può intuire ogni lettore, la differenza tra le due parti del Don Chisciotte consiste nel fatto che tutte le principali figure della seconda hanno il merito esplicito di aver letto la prima o sanno di essere stati personaggi al suo interno. Ciò fornisce una prospettiva diversa sulla ricomparsa del briccone Ginesio quando raggiungiamo il punto in cui – nella parte seconda, capitolo 25 – ci imbattiamo in un uomo vestito di pelle di camoscio, calze, calzoni e giacca, con una benda di taffettà verde sull’occhio sinistro e su quasi tutta la guancia sottostante. Costui è mastro Pietro, che afferma di essere accompagnato da una scimmia veggente e di voler mettere in scena la liberazione di Melisendra per opera di Don Gaiferos, il famoso cavaliere errante. Melisendra, la figlia di Carlo Magno, è infatti prigioniera dei mori, e Don Gaiferos è il principale vassallo del re.

Il padrone della locanda in cui mastro Pietro incontra Don Chisciotte e Sancio Panza dice che il burattinaio «ha una parlantina per più di sei e beve per più di dodici, tutto a spese della sua lingua, della sua scimmia e del suo quadro scenico». Dopo aver riconosciuto Don Chisciotte e Sancio, su consiglio della scimmia (le cui doti profetiche funzionano solo all’indietro, dal presente al passato), Ginesio-Pietro mette in scena il suo spettacolo, senza dubbio uno degli splendori metaforici del capolavoro di Cervantes. Qui l’esegesi classica è quella di Ortega y Gasset nelle Meditazioni del Chisciotte; il critico paragona il teatrino di mastro Pietro alle Damigelle d’onoredi Velàzquez, dove l’artista, ritraendo il re e la regina, colloca contemporaneamente nel quadro il suo atelier. È lecito supporre che Don Chisciotte non avrebbe posato lo sguardo su quel dipinto, e il cavaliere è sicuramente il peggior spettatore possibile per lo spettacolo di burattini:

Al vedere pertanto don Chisciotte sì gran numero di mori e al sentire così alto strepito, gli parve conveniente venire in aiuto dei due che fuggivano. Levandosi quindi in piedi, gridò forte:

«Non permetterò io mai che, mentre io viva e alla mia presenza si usi una sopercheria a un così famoso cavaliere e così ardimentoso amante come don Gaifero! Fermatevi, malnata canaglia; non lo seguite, non lo inseguite; se no, fate conto d’esser con me in battaglia!».

E detto fatto, sguainò la spada, d’un salto si piantò presso al quadro scenico e con incredibile rapidità, furente, cominciò a tempestare di colpi quella burattineria moresca, rovesciando gli uni, scapezzando altri, stroppiando questo, riducendo in pezzi quello e tirò, fra altri molti, un tal fendente che se Mastro Pietro non si abbassa, non si raggomitola e accoccola, gli avrebbe portato via di netto la testa con più facilità che se fosse stata di marzapane.

Quel terribile fendente, tutt’altro che involontario, potrebbe essere il cuore di questo incantevole intervento. Mastro Pietro si è intrufolato nella dimensione del gioco, in cui non ha alcuno spazio, e quella dimensione si appresta a vendicarsi. Poco prima, Don Chisciotte aveva detto a Sancio che il burattinaio doveva aver fatto un patto con il diavolo, perché la scimmia «risponde solamente alle cose passate o presenti: infatti la scienza del diavolo non va al di là». I sospetti del cavaliere nei confronti dell’imbroglione continuano quando Don Chisciotte critica l’errore che mastro Pietro commette associando le campane delle chiese alla moschee moresche. La risposta difensiva di Ginesio-Pietro ci prepara ulteriormente alla furia di Don Chisciotte.

Non badi vossignoria a piccolezze, signor Don Chisciotte, né voglia pretendere le cose tanto perfette da essere impossibile arrivarci. Non si rappresentano quasi comunemente, dappertutto, un’infinità di commedie piene zeppe di tante e tante inesattezze e spropositi? Ciò nondimeno, proseguono col più gran successo la loro carriera e sono ascoltate, non solo con plauso, ma ben con ammirazione e tutto. Continua, ragazzo, e lascia dire; purché io riempia la mia borsa, non importa se rappresento più inesattezze che non abbia atomi il sole.

La replica di Don Chisciotte è insieme cupa e laconica: «È proprio vero». Qui mastro Pietro è divenuto il grande rivale letterario di Cervantes, il prolifico e famoso poeta-drammaturgo Lope de Vega, i cui trionfi finanziari accentuarono il senso di fallimento commerciale provato dal nostro autore. Il successivo assalto del cavaliere alle illusioni di cartapesta è insieme una critica al gusto pubblico e una manifestazione metafisica della volontà visionaria o donchisciottesca, capace di rendere più spettrali le demarcazioni tra arte e natura. L’umorismo della disgiunzione viene insaporito dalla satira letteraria, appena mitigata dagli eventi successivi, quando Don Chisciotte risarcisce i danni causati dal suo madornale errore e accusa i soliti perfidi incantatori di averlo ingannato. Poi Ginesio da Passamonte scompare dalla storia, perché ha esaurito la sua funzione di antitesi furfantesca del cavaliere visionario. Non ci resta solo il piacere, ma anche una favola estetica che continua a riecheggiare come epitome dell’impresa donchisciottesca, rivelandone insieme i limiti e la tenacia eroica nello spingersi oltre i confini normativi della rappresentazione letteraria. Ginesio, archetipo del picaresco, non può competere con Don Chisciotte, predecessore del trionfo del romanzo.

I lettori sono discordi nel preferire la parte prima o la parte seconda del Don Chisciotte, forse perché le due sezioni non sono solo opere molto diverse, ma anche stranamente separate l’una dall’altra, non tanto nel tono e nell’atteggiamento quanto nel rapporto di Don Chisciotte e Sancio con il loro mondo. Nella parte seconda (la mia preferita), non sento alcuna stanchezza da parte di Cervantes, ma il cavaliere e lo scudiero devono sostenere una nuova autocoscienza, e talvolta sembrano considerarla come un fardello implicito. Sapere di essere il personaggio di un libro in via di creazione non è sempre d’aiuto alle tue avventure. Seppur circondati dai lettori delle loro precedenti sconfitte, Don Chisciotte e Sancio continuano a non avere alcuna inibizione. Anzi, Sancio guadagna in entusiasmo, e il legame di amicizia tra i due personaggi diventa persino più saldo. E soprattutto, vi è Sancio da solo, nei dieci giorni in cui diviene un governatore saggio e affaccendato, finché è così intelligente da dimettersi e tornare da Don Chisciotte e da se stesso. A commuovermi particolarmente in questa parte è quanto accade a Cervantes, perché noto un cambiamento nel suo rapporto con la scrittura. L’autore è vicino alla morte e sa che una parte di lui morirà con Don Chisciotte, mentre qualcos’altro, forse qualcosa di più profondo, continuerà a vivere in Sancio Panza.

Il rapporto di Cervantes con il suo enorme libro non è sempre facile da categorizzare. Secondo Leo Spitzer, esso conferisce all’artista letterario un’autorità nuova anche se limitata con accuratezza:

Sopra il vasto cosmo della sua creazione […] è intronizzato l’io artistico di Cervantes, un io creativo e onnicomprensivo, simile alla Natura, simile a Dio, onnipotente, onnisciente, di infinita bontà e benevolenza […] questo artista è simile a Dio ma non deificato […] Cervantes si inchina sempre davanti alla superna saggezza di Dio, incarnata negli insegnamenti della Chiesa cattolica e nell’ordine costituito dello Stato e della società.

Come senza dubbio sapeva Spitzer, a prescindere dal fatto che Cervantes discendesse oppure no da ebrei costretti a convertirsi, avrebbe avuto tendenze suicide se non si fosse inchinato in quel modo. Qualunque cosa il Don Chisciotte sia o non sia, non è un romanzo devozionale cattolico o una celebrazione della «ragione sovrana», come osserva anche Spitzer. La risata incessante del libro è spesso melanconica, se non addirittura dolorosa, e Don Chisciotte è insieme un bastione di affetto umano e un uomo di dolore. Si riuscirà mai a definire il «peculiarmente cervantino»? Erich Auerbach afferma che «non lo si può descrivere a parole», ma ha avuto il coraggio di provarci ugualmente:

Non è una filosofia; non è uno scopo didattico; non è neppure la tendenza a farsi smuovere dall’incertezza dell’esistenza umana o dalla forza del destino, come nel caso di Montaigne e di Shakespeare. È un atteggiamento – un atteggiamento verso il mondo, e dunque anche verso l’argomento della sua arte – in cui audacia e equanimità svolgono un ruolo di primo piano. Oltre al piacere che deriva dalla molteplicità del suo dramma sensoriale, in Cervantes vi sono orgoglio e una certa reticenza meridionale. Ciò gli impedisce di prendere seriamente il dramma.

Queste frasi eloquenti, lo confesso, non descrivono il Don Chisciotte che continuo a rileggere, non fosse altro perché Cervantes sembra prendere molto seriamente, e anche molto ironicamente, il dramma del mondo e il controdramma di Don Chisciotte e Sancio Panza. Il cervantino è polivalente quanto lo shakespeariano: ci contiene tutti, con le nostre profonde differenze l’uno dall’altro. La saggezza è un attributo di Don Chisciotte e Sancio, soprattutto quando vengono considerati insieme, quanto l’intelligenza e la padronanza linguistica sono qualità di Sir John Falstaff, Amleto e Rosalinda. I due eroi di Cervantes sono semplicemente i maggiori personaggi letterari dell’intero Canone occidentale, ad eccezione (tutt’al più) del trio dei loro omologhi shakespeariani. La loro fusione di follia e saggezza e la loro spassionatezza vengono uguagliate solo dagli uomini e dalle donne più memorabili di Shakespeare. Cervantes ci ha naturalizzati quanto Shakespeare: non riusciamo più a vedere che cosa trasformi il Don Chisciottein un’opera così rigorosamente singolare e caratterizzata da un’inesauribile originalità. Se è ancora possibile individuare il dramma del mondo nella massima letteratura, allora dev’essere qui.

6.

MONTAIGNE E MOLIÈRE: L’ELUSIVITÀ CANONICA DELLA VERITÀ

A quanto pare, nella letteratura francese non vi è nemmeno uno scrittore che si collochi al centro del Canone nazionale: niente Shakespeare e niente Dante, Goethe, Cervantes, Pusˇkin o Whitman. Vi è invece una serie di titani, tutti ottimi candidati per quella posizione: Rabelais, Montaigne, Molière, Racine, Rousseau, Hugo, Baudelaire, Flaubert, Proust. Forse si potrebbe designare un autore composito, Montaigne-Molière, poiché il più grande tra i saggisti fu il padre spirituale dell’unico commediografo rivale di Shakespeare.

Molière considerava il suo compito, divertire la gente rispettabile, come un’impresa bizzarra, idea che Shakespeare, la più completa delle coscienze, probabilmente non condivideva. Il suo pubblico applaudiva a tutte le sue oscenità. La regina Elisabetta non era certo Luigi XIV, e nemmeno Giacomo I, il più intellettuale tra i monarchi britannici, divenne mai il più assiduo spettatore di Shakespeare, come invece il Re Sole lo sarebbe stato per Molière. Forse quella considerazione vincolò Molière, anche se non molto, perché lo scrittore francese è un drammaturgo universale quasi quanto Shakespeare. Con quest’ultimo, Molière mostra una sorprendente affinità, in cui può aver svolto un ruolo importante il comune rapporto con Montaigne. L’Amleto di Molière è Alceste, il protagonista del Misantropo. Entrambi i personaggi derivano da aspetti di Montaigne, ed entrambi giustificano l’apoftegma di Nietzsche, feroce e sempre provocatorio: «Troviamo parole solo per ciò che è già morto nei nostri cuori; c’è sempre una sorta di disprezzo nell’atto di parola». Se Amleto supera questo disprezzo solo nell’atto V, Alceste non ci riesce mai. La veemente intuizione di Nietzsche riguarda la parola, non la scrittura, ed è dunque antitetica all’arte di Montaigne il saggista.

Emerson, che, come Nietzsche, era un discepolo dichiarato di Montaigne, scrisse una famosa frase riguardo ai Saggi: «Tagliate quelle parole e sanguineranno; sono vive e vascolari». Il trionfo di Montaigne consistette nel fondere se stesso e il suo libro in un atto esplicito che si può chiamare solo originalità, una parola più positiva in inglese che in francese, dove essere originali significa essere strambi. L’aspetto meno francese di Montaigne è forse la singolarità della sua radicale originalità, ma fu proprio quella singolarità a renderlo canonico, non solo per la Francia ma per tutto l’Occidente. Torno sempre con rinnovata meraviglia a questa verità incompresa sul Canone occidentale: quest’ultimo si appropria delle opere per la loro singolarità, non perché si integrino senza difficoltà in un ordine esistente. Come ogni grande autore canonico, Montaigne stupisce il lettore comune a ogni nuovo incontro, non fosse altro perché smentisce tutti i nostri preconcetti sul suo conto. Possiamo classificarlo come scettico, umanista, cattolico, stoico e persino epicureo, inserendolo in quasi tutte le categorie possibili e immaginabili.

In termini di portata e vastità, talvolta sfiora le dimensioni shakespeariane, e un modo per interpretarlo – sebbene non sapesse nulla di Shakespeare, mentre Shakespeare sapeva qualcosa di lui – è considerarlo il più grande di tutti i personaggi shakespeariani, ancora più imponente di Amleto come io impegnato in una ricerca. Montaigne cambia mentre rilegge e revisiona il suo libro; forse più che in qualsiasi altro caso, il libro è l’uomo e l’uomo è il libro. Nessun altro scrittore origlia se stesso con maggiore attenzione di quanto faccia sempre Montaigne; nessun altro libro è un processo in fieri quanto lo è il suo. Pur rileggendolo di continuo, non riesco a prendere familiarità con il testo, perché quest’ultimo è un miracolo di mutevolezza. L’unica esperienza analoga che conosca è l’incessante rilettura dei diari e dei taccuini di Ralph Waldo Emerson, la versione americana di Montaigne. Tuttavia, i diari di Emerson sono solo un’accozzaglia disordinata, non un libro, mentre i saggi di Montaigne sono un libro. Per un critico letterario elegiaco come me, i Saggi di Montaigne godono di uno status scritturale, facendo concorrenza alla Bibbia, al Corano, a Dante e a Shakespeare. Fra tutti gli autori francesi, inclusi Rabelais e Molière, Montaigne sembra il meno vincolato da una cultura nazionale, anche se, paradossalmente, svolse un ruolo fondamentale nella formazione della mente della Francia.

La madre di Montaigne, che l’autore cita a malapena, veniva da una famiglia di conversos, ebrei spagnoli che si erano convertiti ma avevano abbandonato la loro condizione di cittadini di seconda categoria in Spagna e si erano stabiliti a Bordeaux. Sebbene Montaigne fosse rimasto cattolico, alcuni dei suoi fratelli divennero calvinisti e, qualunque sia il tipo di scrittore in cui si trasformò Montaigne, sarebbe grottesco definirlo un autore religioso. Nelle pagine del suo libro vi è una dozzina di citazioni e accenni a Socrate per ogni comparsa di Cristo. Persino M.A. Screech, l’unico studioso che insiste nel vedere Montaigne come uno scrittore cattolico liberale, conclude sottolineando che, per lui, «il divino non sfiora mai la vita umana senza sconvolgere quell’ordine naturale in cui l’uomo si sente maggiormente a suo agio». Essendo un uomo pubblico (in gran parte suo malgrado), Montaigne si rifiutò di schierarsi nelle guerre civili religiose che infuriarono in Francia per gran parte della sua vita adulta. La sua devozione personale andava a Enrico di Navarra, guascone come lui, il paladino protestante che, con il nome di Enrico IV, si convertì al cattolicesimo per assicurarsi Parigi e il regno. Se Montaigne fosse stato in migliori condizioni di salute, probabilmente avrebbe accettato l’invito di Enrico IV a divenire uno dei suoi consiglieri; ma il destino voleva altrimenti, e l’autore dei Saggi morì da privato cittadino all’età di cinquantanove anni.

Il suo libro era già famoso in tutta Europa e non ha mai perso popolarità né influenza. Se la riluttante profezia che sto per azzardare è corretta, e manca solo un decennio o meno all’alba di una nuova Età teocratica, Montaigne svanirà, almeno per qualche tempo. Il suo vigore dipende unicamente dall’incapacità del lettore di sesso maschile di identificarsi con l’autore. Con molta probabilità le femministe non perdoneranno mai Montaigne, che supera di gran lunga Freud in fatto di sciovinismo; Freud affermò che le donne erano un mistero insolubile, ma per Montaigne non vi era alcun mistero. Le donne non avevano le caratteristiche umane che lo scrittore apprezzava di più; ecco perché le identificava totalmente con la natura. Tuttavia, era troppo saggio, anche ai suoi tempi, per non sapere di chi fosse la colpa. È questa la conclusione implicita di Su alcuni versi di Virgilio, un saggio maturo e chiaramente sessuale:

Dico che maschi e femmine sono modellati nello stesso stampo; a parte l’educazione e il costume, la differenza non è grande.

Platone invita indifferentemente gli uni e le altre alla comunanza di ogni studio, esercizio, incarico, occupazione guerriera e pacifica nella sua repubblica, e il filosofo Antistene sopprimeva ogni distinzione fra la loro virtù e la nostra.

È molto più facile accusare un sesso che scusare l’altro. Come si dice: la padella dice nero al paiolo.

Il compianto Donald M. Frame, eloquente traduttore inglese nonché ineccepibile interprete di Montaigne, individua il mutevole centro di questo scrittore nella graduale consapevolezza che tutti noi, compresi gli umanisti di sesso maschile, apparteniamo al volgo, una scoperta per nulla sensazionale mentre arranchiamo verso la conclusione dell’Età democratica. «Ma era qualcosa di molto radicale e poco umanistico per un colto scrittore del 1590» aggiunge Frame.

Per recuperare tutti gli altri aspetti radicali del Montaigne di quell’anno, propongo di confrontarlo con Blaise Pascal, lo scienziato e scrittore religioso francese nato trentatré anni dopo, nel 1623. Pascal parlava raramente di Montaigne senza ansia e risentimento, rifiutandosi di capire che, in realtà, il cattolicesimo di Montaigne si fondava su un marcato scetticismo. Poiché Montaigne incontra solo mutevolezza in un mondo di apparenze platoniche, non ha difficoltà a sposare la convinzione secondo cui il Dio cattolico è immutabile e inconoscibile. Il suo Dio non è nascosto, ma è comunque irraggiungibile, cosicché siamo costretti ad armarci di pazienza, aspettando che Dio si doni a noi. Nel frattempo viviamo come uomini allo stato di natura, felicemente scettici nei confronti del mondo che popoliamo. Il Dio di Pascal, invece, è insieme nascosto e raggiungibile, un paradosso che crea il contesto adatto alla tragedia, come in Racine, ma non è idoneo all’ambito della commedia, come in Molière. Sicuramente Pascal fu per Racine ciò che forse Montaigne fu per Molière: lo stimolo a una visione drammatica. Lo scetticismo di Montaigne può aver contribuito a introdurre la tragicommedia in Amleto, ma avrebbe contribuito più facilmente a ispirare una comicità ironica nel Misantropo. La visione tragica francese, esemplificata da Pascal e Racine, non si è dimostrata esportabile quanto la visione comica francese di Montaigne e Molière.

Il neocristianesimo dogmatico di T.S. Eliot spinse quest’ultimo a preferire Pascal a Montaigne, una scelta spirituale possibile ma un giudizio letterario insopportabile. Eliot si trovò nell’imbarazzante situazione di scrivere l’introduzione ai Frammenti di Pascal, che sono un grave caso di indigestione nei confronti di Montaigne, così grave da rasentare ciò che molti condannerebbero come un plagio innegabile. Pascal, hanno ipotizzato alcuni, scrisse i Frammenti con una copia dei Saggi di Montaigne aperta davanti a sé. Che ciò sia vero oppure no sul piano letterale, era una metafora calzante della cannibalizzazione rancorosa e dispeptica della produzione di Montaigne da parte di Pascal. Siamo quasi nella situazione del racconto giovanile di Borges, Pierre Menard, autore delChisciotte, con Pascal nel ruolo di Menard e Montaigne in quello di Cervantes. Ecco una delle mie giustapposizioni preferite, il Frammento 358 di Pascal, seguito da un grande momento del saggio culminante di Montaigne, Dell’esperienza:

L’uomo non è né angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuol far l’angelo fa la bestia.

Essi vogliono mettersi fuori di se stessi e sfuggire all’uomo. È follia; invece di trasformarsi in angeli, si trasformano in bestie; invece d’innalzarsi, si abbassano.

Montaigne ha le sue fonti, che rivede e trascende mediante il suo io poderoso. Pascal ha solo Montaigne, da cui è, suo malgrado, ossessionato. Il risultato è doppiamente infelice: Pascal si limita a rimproverarci tutti; Montaigne accusa alcuni di noi di follia idealizzante. Pascal ci riduce alle nostre azioni; Montaigne è interessato alla nostra essenza. Perché Pascal era così assillato da Montaigne? Secondo Eliot, lo studiò per demolirlo, ma non vi riuscì, perché era come lanciare bombe a mano verso un banco di nebbia. Montaigne, ci assicura Eliot, era «una nebbia, un gas, un liquido, elemento insidioso», e questa è senz’altro la descrizione più curiosa che qualcuno abbia mai fornito di Montaigne. L’intento di questa ingiuriosa metafora emerge quando l’autore dell’Assassinio nella cattedraleafferma che Montaigne «riuscì a dare espressione allo scetticismo di ogni essere umano», compresi senza dubbio Pascal e Eliot.

A mio parere, questo giudizio è errato e sottovaluta Montaigne, la cui originalità e il cui vigore non emanano da uno scetticismo limitato, che, dopo tutto, si sforza di restare uno scetticismo cattolico. Nonostante tutta la sua modestia ironica, Montaigne scrive come una figura carismatica simile ad Amleto. A contaminarci non è il suo scetticismo copiato, bensì la sua originalissima personalità, la prima personalità mai presentata da uno scrittore come soggetto della sua opera. Walt Whitman e Norman Mailer sono discendenti indiretti di Montaigne, mentre Emerson e Nietzsche sono la sua progenie diretta. Pascal, il suo aspirante distruttore, è una delle vittime involontarie di Montaigne. Lungi dall’essere una nebbia, un gas o un liquido, questo autore è un uomo completo, allo stato di natura, e, come tale, un affronto per cercatori disperati di grazia come Pascal e T.S. Eliot, nessuno dei due uno scrittore comico, sebbene siano entrambi ottimi ironisti.

Lo studio di Frame su Montaigne è opportunamente intitolato Montaigne’s Discovery of Man, e sebbene il tardo XVI secolo possa sembrare un momento tardo per una simile scoperta, è più difficile indicare un vero precursore per Montaigne che per Freud. Il primo attribuiva allegramente ogni cosa a Seneca e a Plutarco e li saccheggiava, ma solo per cercare materiale. Montaigne è senza dubbio uno scrittore originale; l’autoconsapevolezza (self-consciousness) non era mai stata espressa, infatti, con tanta pienezza e maestria. Il miracolo di Montaigne è la capacità di non essere quasi mai self-conscious nell’attuale accezione negativa di questa parola, ossia «imbarazzato» o «impacciato». Non facciamo certo un complimento a qualcuno attribuendogli questo aggettivo. Montaigne parla di se stesso per quasi millecinquecento pagine, e vorremmo saperne ancora di più, perché egli rappresenta – non ogni uomo, e certamente nessuna donna –, ma quasi qualunque uomo abbia il desiderio, la capacità e l’opportunità di pensare e leggere.

Questo era il suo dono o carisma, ed è difficilissimo da spiegare. Emerson, che l’aveva notato con chiarezza, non è stato in grado di descriverlo, e non ci riescono nemmeno gli studiosi di Montaigne. La miglior chiave d’interpretazione che io conosca è il Socrate di Platone, che ossessionava l’autore francese. Lo storico svizzero Herbert Lüthy riteneva che tutto Montaigne fosse contenuto in una delle sue frasi più informali: «Quando gioco col mio gatto, chissà se sono io che mi sto divertendo con lui, o lui con me». Questo interrogativo è un passo oltre il prospettivismo e, meglio ancora, un passo giocoso e socratico. Il Socrate di Platone è tuttavia un dualista che esalta l’anima rispetto al corpo, e Montaigne è un monista, che si rifiuta di maltrattare il corpo per compiacere l’anima. Neppure Socrate è un indizio sufficiente; che cosa diede a Montaigne la lucidità necessaria per vedere e scrivere la verità su se stesso? Quasi tutti i lettori sono concordi nell’affermare che il suo saggio migliore è quello intitolato Dell’esperienza, accuratamente posto a conclusione del libro. Vi ritorno per cercare il segreto di Montaigne, sempre ammesso che riesca a scoprirlo.

Naturalmente, il miglior saggio di Emerson è intitolato Esperienza e contiene un momento particolare, il mio preferito, che dimostra con eloquenza ciò che il filosofo aveva appreso dal suo maestro, Montaigne: «E non potremo mai dire abbastanza della nostra costituzionale necessità di vedere le cose da punti di vista personali, o saturi dei nostri umori. Tuttavia, è il Dio a essere indigeno di queste brulle rocce. Quel bisogno genera, nella morale, la virtù capitale della fiducia in se stessi. Dobbiamo tenerci forte a questa povertà, per quanto scandalosa, e mediante autoguarigioni più vigorose, dopo le sortite dell’azione, aggrapparci più saldamente al nostro asse».

Qui «povertà» indica una carenza immaginativa, come farà anche nella poesia di Wallace Stevens. Qual era la «povertà» di Montaigne, la sua carenza immaginativa per i lettori dei Saggi? La carenza e il carisma erano un tutt’uno e spiegano i suoi propositi nei nostri confronti. Montaigne teme la sua malinconia e la nostra, e offre la sua saggezza come antidoto a entrambe. La sua malinconia è di per sé canonica, e lo stesso vale per la sua saggezza. A proposito di malinconia canonica, mi piace soprattutto la sintesi che ne fa Maggie Kilgour nel suo studio From Communion to Cannibalism:

Associata alle teorie dell’influenza stellare, della penetrazione di poteri esterni nel corpo, la malinconia genera teorie di influenza poetica e venne identificata fin dall’inizio con la personalità artistica, vista, in sostanza, come ambivalente. La malinconia veniva considerata insieme come un umore e una malattia e, attraverso la fusione delle teorie originariamente contrapposte di Galeno e Aristotele, insieme come una maledizione e una benedizione. Era segno della presenza di un genius o di un daemon maligno, sia nell’antica accezione di spiriti buoni e cattivi sia, in seguito, nella moderna accezione di qualità innate.

La malinconia o ambivalenza artistica è strettamente legata all’angoscia estetica derivante dal fatto di non essere autogenerati, come nel caso di un grande poeta e angelo rovinato, il Satana di Milton, che fu Lucifero fino alla sua caduta. In Montaigne, la malinconia riveste un ruolo centrale fin dall’inizio, nel libro primo, saggi 2 e 3 – Della tristezza e I nostri sentimenti vanno oltre noi stessi –, ma questi tentativi non ci dicono granché. In Montaigne, la malinconia autentica o matura trascende le ambivalenze dell’autorialità e si incentra sulle grandi ombre del dolore e della morte. La principale, e forse l’unica amicizia nella vita di Montaigne, fu quella con Étienne de La Boétie, di due anni più grande. Dopo sei anni di solido rapporto, La Boétie morì all’improvviso all’età di trentadue anni. Forse per evitare di subire altre perdite simili, Montaigne non strinse più alcuna vera amicizia. La concezione cristiana o paolina della morte, che considera quest’ultima come un’anomalia causata dal peccato originale, non è propria di Montaigne. Come osserva Hugo Friedrich, lo scrittore non si prende il disturbo di polemizzare contro la visione cristiana, bensì si limita a ignorarla giudicandola irrilevante. Nonostante la sua devozione a Socrate, Montaigne non condivide l’idea socratica dell’immortalità dell’anima, né tanto meno la dottrina cristiana della sopravvivenza dopo la morte. Nulla potrebbe essere meno cristiano (o più divertente) del suo consiglio sulle preparazioni alla morte, contenuto nello scritto Della fisionomia, libro terzo, saggio 12:

Se non sapete morire, non preoccupatevene; la natura vi istruirà sul momento, in modo completo e sufficiente; essa compirà a punti questa operazione per voi; non datevene voi la briga.

Non turbiamo la vita con la preoccupazione della morte, e la morte con la preoccupazione della vita. L’una ci affligge, l’altra ci spaventa. Non è contro la morte che ci prepariamo; è cosa troppo momentanea. Un quarto d’ora di sofferenza senza conseguenza, senza danno, non merita precetti particolari. A dire il vero ci prepariamo contro le preparazioni alla morte.

Per Montaigne, dire il vero è, in sostanza, l’insegnamento ricavabile dal saggio Dell’esperienza, lo scritto successivo a questo rifiuto della morte cristiana. Lo scetticismo naturale cede il passo alla conoscenza naturale, solo per tornare ai limiti del conoscibile e a Socrate: «È per mia esperienza che accuso l’ignoranza umana, che è, secondo me, il partito più sicuro della scuola del mondo. Quelli che non vogliono argomentarla in se stessi da un esempio tanto vano come il mio o il loro, la riconoscano attraverso Socrate, il maestro dei maestri».

Ad andare oltre l’ignoranza è quella che Freud avrebbe chiamato la consapevolezza che l’ego è sempre un ego corporeo, una verità espressa con maggiore eloquenza da Montaigne:

Insomma, tutto questo cibreo che vado scarabocchiando qui non è che un registro delle esperienze della mia vita che è, per la salute interiore, abbastanza esemplare, a prenderne l’insegnamento alla rovescia. Quanto alla salute del corpo, invece, nessuno può fornire esperienza più utile di me, che la presento pura, niente affatto corrotta e alterata dall’arte o dall’opinione. L’esperienza è proprio a casa sua nell’argomento della medicina, in cui la ragione le cede senz’altro il posto.

Con ogni probabilità la ragione riguarda l’«essere» e, come sottolinea lo stesso scrittore, Montaigne non descrive l’essere; descrive il passaggio, e la salute del nostro corpo è solo la storia di un passaggio. L’esperienza è passaggio; questa sarà la filosofia di tutta la letteratura dopo Montaigne, da Shakespeare e Molière fino a Proust e Beckett. Montaigne si accinse a rappresentare il proprio essere, solo per scoprire la verità secondo cui l’io è passaggio o transizione, un attraversamento. Se l’io è movimento, non sempre il cronista dell’io può ricordare ciò che «aveva voluto dire». La saggezza non è conoscenza, perché la conoscenza, di per sé illusoria, rientra nell’«aver voluto dire». Essere saggi significa esprimere il passaggio, e sebbene Montaigne sia sempre in possesso di un io, l’io scivola sempre in un altro io, come un tono cede il passo a un altro tono:

Bisogna imparare a sopportare quello che non si può evitare. La nostra vita è composta, come l’armonia del mondo, di cose contrarie, e anche di toni diversi, dolci e aspri, acuti e bassi, molli e gravi. Il musicista che amasse solo i primi, che cosa vorrebbe dire? Bisogna che sappia servirsene nel complesso e mescolarli. E così noi, i beni e i mali, che sono consustanziali alla nostra vita. Il nostro essere non può sussistere senza questa mescolanza, e una parte non vi è meno necessaria dell’altra. Tentar di opporsi alla necessità naturale è ripetere la follia di Ctesifonte, che si metteva a lottare a calci con la sua mula.

Non posso dire di accettare facilmente questo consiglio, pur sapendo quanto è saggio. Tuttavia, poiché sono incline a sferrare calci alla necessità naturale, non mi ferisce l’idea di essere impegnato in una gara con una mula e di essere destinato a perdere. In Montaigne, questo è il preludio a una discussione sincera sulle eterne sofferenze causategli dai calcoli renali e sull’ironico sollievo offertogli dalla sua mente: «Ma non muori perché sei malato; muori perché sei vivo. La morte ti uccide pure senza l’aiuto della malattia. E ad alcuni le malattie hanno allontanato la morte, ed essi hanno vissuto di più poiché sembrava loro di star per morire».

Qui non sappiamo fino a che punto arrivi l’ironia, ma man mano che ci avviciniamo alle ultime pagine del saggio, l’esperienza dell’ironia aumenta:

Io che mi vanto di abbracciare con tanto trasporto le comodità della vita, e in modo così particolare, non vi trovo, quando vi guardo attentamente, quasi altro che vento. E del resto, noi siamo dappertutto vento. E per di più il vento, più saggiamente di noi, si compiace di mormorare, di agitarsi, e si contenta delle funzioni sue proprie, senza desiderare la stabilità, la solidità, qualità non sue.

Qui Montaigne difende insieme la limitazione e la libertà: per i piaceri della vita, per l’io, per i suoi Saggi. Possiamo essere saggi come il vento evitando di insistere su qualità che non possediamo. Per quanto ironico, questo testo rimane una difesa dell’io, dei piaceri naturali e della scrittura di Montaigne, anche se riconosce che sono tutti fenomeni passeggeri. Tuttavia, come spiega lo scrittore più avanti, è sufficiente vivere come si deve durante il passaggio:

Noi siamo dei gran pazzi. «Ha passato la vita nell’ozio» diciamo. «Non ho fatto niente oggi.» «Come? non avete vissuto? È non solo la vostra preoccupazione fondamentale, ma la più insigne.» […] Comporre i nostri costumi è il nostro compito, non comporre dei libri, e conquistare non battaglie e province, ma l’ordine e la tranquillità alla nostra vita. Il nostro grande e glorioso capolavoro è vivere come si deve.

Queste parole ebbero un’incisività particolare per Montaigne e per i suoi primi lettori, perché il loro contesto immediato era una brutale guerra civile tra la Lega cattolica guidata dal duca di Guisa, i protestanti guidati da Enrico di Navarra e i realisti guidati da Enrico III, ultimo re Valois. Nonostante ciò, l’ordine e la tranquillità sono sempre difficili da conquistare, e questo passo conserva la sua causticità. Man mano che Dell’esperienza si avvicina al suo culmine, la saggezza compete con l’ironia per il predominio retorico. Socrate viene invocato ancora per un vero e proprio tributo, introdotto da un’affascinante osservazione: «Né in Socrate c’è cosa più notevole del fatto che, già vecchio, trovi il tempo di farsi insegnare a ballare e a suonare, e lo consideri bene speso». Giunto al termine della sua esistenza, Montaigne emula Socrate con il motto: «Quanto più breve è il possesso della vita, tanto più profondo e più pieno devo renderlo». Siamo così arrivati all’esaltazione della vita comune che offendeva Pascal, inducendolo a una revisione fatta di piccoli furti, ma, in un contesto così ricco, ne veniamo sopraffatti e dimentichiamo Pascal:

Essi vogliono mettersi fuori di se stessi e sfuggire all’uomo. È follia; invece di trasformarsi in angeli, si trasformano in bestie; invece d’innalzarsi, si abbassano. Questi umori trascendenti mi spaventano, come i luoghi elevati e inaccessibili; e nulla mi è così difficile a digerire nella vita di Socrate come le sue estasi e le sue demonerie, nulla di così umano in Platone come quello per cui si dice che lo chiamano divino. E fra le nostre scienze, mi sembrano più terrestri e basse quelle che sono poste più in alto. E non trovo nulla di così meschino e di così mortale nella vita di Alessandro come le sue fantasie sulla propria immortalizzazione. Filota lo punzecchiò argutamente con la sua risposta; in una lettera si rallegrava con lui per l’oracolo di Giove Ammonio che l’aveva collocato fra gli dèi: «Per te ne son ben lieto, ma c’è di che compiangere gli uomini che dovranno vivere con un uomo e obbedirgli, mentre egli supera la misura di un uomo e non se ne accontenta».

Questo passo mi sembra sfiorare i limiti dell’arte del saggista; la sua forza è sublime nel rifiuto dei migliori – Socrate e Alessandro – nei loro momenti peggiori. Siamo al di là della malinconia e dell’ambivalenza dello scrittore, e non abbiamo la sensazione che Montaigne arrivi in ritardo quando affronta gli antichi, che onora ma giudica secondo il criterio umano della saggezza. Come sostiene Frame, Montaigne ha umanizzato il suo umanesimo, e la saggezza dipende dall’unica conoscenza che siamo certi di poter raggiungere: come vivere. Tuttavia, esprimere il concetto in questi termini significa perdere Montaigne, e dobbiamo tornare di continuo ai suoi scritti per recuperare una saggezza canonica che non è disponibile da nessun’altra parte. Per quanto sia saggio, Dell’esperienza è importante soprattutto perché le sue affermazioni si fondano su una musica cognitiva che non è udibile altrove:

È una perfezione assoluta, e quasi divina, saper godere lealmente del proprio essere. Noi cerchiamo altre condizioni perché non comprendiamo l’uso delle nostre, e usciamo fuori di noi perché non sappiamo che cosa c’è dentro. Così, abbiamo un bel montare sui trampoli, ma anche sui trampoli bisogna camminare con le nostre gambe. E anche sul più alto trono del mondo non siamo seduti che sul nostro culo.

Pascal deve aver provato una notevole sofferenza di fronte a questa visione comica, che non lascia spazio ad aneliti trascendentali, a scommesse di fede e alla tragedia di un Dio incline a nascondersi. Mentre precipitiamo verso una nuova Era teocratica, queste quattro frasi di Montaigne dovrebbero fungere da talismano apotropaico, uno strumento per tenere alla larga i mercanti di apocalissi. Montaigne ci aiuta a trovare il centro del Canone occidentale, perché il singolo lettore può individuare l’io, per quanto sgualcito, servendosi di Montaigne come di una guida turistica. Fino all’avvento di Freud, nessun altro moralista secolare ci aveva dato così tanto, e ora mi sembra che il giusto tributo da rendere a Freud sia vederlo come il Montaigne della nostra Era caotica.

Il poeta e romanziere vittoriano George Meredith – che, con il suo miglior romanzo, L’egoista, scrisse una sublime commedia alla Molière – compose anche un Saggio sulla commedia che ci descrive un Molière in precario equilibrio tra gli elementi borghesi e aristocratici del suo pubblico, impegnato a recitare sia per la corte sia per la città, ma con il cuore segretamente legato a quest’ultima. Probabilmente si tratta di un’idealizzazione, poiché Molière, figlio di un tappezziere, sembra – ancora più di Shakespeare, figlio di un guantaio – il drammaturgo comico dell’Era aristocratica. Il Montaigne maturo associò la sua posizione nei confronti della vita a quella della gente comune; ma Molière, come Shakespeare, ci offre di rado uno scorcio delle sue simpatie più profonde. Come Montaigne, è un naturalista e forse persino uno scettico, ed è senza dubbio secolare quanto Shakespeare.

L’atteggiamento pragmatico di Aristofane è condiviso dall’assennato Molière, che per il resto reprime lo spirito aristofanico, per nulla adatto alla corte di Luigi XIV. Dio, per Molière, era pragmaticamente il suo monarca benevolo e glorioso, senza la cui approvazione e il cui frequente sostegno non sarebbe potuto sopravvivere ai suoi nemici, gli intolleranti di Parigi. Il Re Sole è il primo pilastro della carriera matura di Molière; il secondo è una devozione religiosa al teatro, dove il lavoro di attore, commediografo e capo di una compagnia di repertorio finì per logorargli l’esistenza. Molière morì di una morte leggendaria dopo la quarta replica del Malato immaginario (1673), una farsa che aveva scritto e messo in scena, e in cui aveva recitato la parte del protagonista, pur essendo gravemente malato. Aveva cinquant’anni e ne aveva dedicati trenta al teatro.

La dislocazione canonica è un’operazione abbastanza semplice nel nostro morente mondo accademico, ma è più difficile da compiere nella pragmatica sfera del palcoscenico, dove Molière non è più minacciato di Shakespeare, perché il pubblico teatrale, a differenza di quello accademico, può sempre boicottare gli spettacoli. Molière ha dunque più probabilità di sopravvivere in America di quante ne abbia Montaigne, benché il primo calchi le orme del secondo nel dimostrare l’elusività della verità, una dimostrazione non certo gradita dagli idealisti e dagli ideologi che si sono impadroniti dell’accademia in nome della giustizia sociale. I nuovi puritani, come quelli vecchi, non intendono accettare Montaigne o Molière; ma, nel caso di quest’ultimo, poco importa. Forse il drammaturgo terrà in vita lo spirito dello scetticismo di Montaigne durante la nostra deriva verso un’altra Era teocratica, dove è probabile che pochi giudichino la verità elusiva, e dove è probabile che Montaigne svanisca con Freud.

Nelle commedie di Molière, come nei saggi di Montaigne, la verità è sempre elusiva, sempre relativa, sempre contesa da scuole, individui o schieramenti contrapposti. Nella misura in cui riusciamo a raggiungere la coscienza di Molière, accantonando la sua evidente infelicità domestica, può darsi che una salda fede nel teatro gli abbia dato un certo distacco o una certa serenità, caratteristiche che amiamo attribuire anche a Shakespeare. Con questi due supremi drammaturghi, è impossibile saperlo con certezza, e forse è giusto che sia così. L’alta visione comica, quando non le manca nulla (come nel caso di Molière), è senza dubbio sconvolgente e, a lungo andare, persino scioccante. Non posso leggere Molière o assistere a una rappresentazione del Tartuffo o del Misantropo senza riflettere sulle mie peggiori qualità e su quelle, spaventose, dei miei nemici. In Molière, mi trovo di fronte a personaggi ossessivi; ma, a differenza delle vigorose figure grottesche di Ben Jonson, i fanatici di Molière non vengono presentati come caricature. È tipico del genio quasi unico di Molière scrivere quelle che io chiamo «farse normative», definizione che è quasi un ossimoro ma che può risultare persuasiva.

Secondo una memorabile osservazione di Jacques Guicharnaud, i drammi di Molière «dimostrano che la vita di ognuno è un romanzo avventuroso, una farsa, un disonore», cosicché lo spettatore «scivoli in uno stato di malafede per non dubitare di se stesso». Guicharnaud continua con il giusto entusiasmo, attribuendo ai migliori drammi di Molière la capacità di provare che l’anima «è essenzialmente vizio, accompagnato da un’illusione di libertà». Forse è un giudizio un po’ severo, perché Montaigne sopravvive in Molière quanto basta per darci la sensazione che nell’anima vi sia qualcosa d’altro, diverso sia dal vizio sia da una libertà illusoria. Qualunque sia questa qualità più amabile, la principale differenza rispetto a Montaigne è che il senso del «passaggio», così predominante nei Saggi, viene sostituito dalla forza della ripetizione. Montaigne cambia, ma i personaggi di Molière non possono cambiare: devono continuare a essere ciò che erano prima. Montaigne origlia se stesso, come fanno Amleto e Iago; proprio ciò che non faranno i protagonisti di Molière.

Per unanime consenso, i capolavori di Molière sono Il misantropoIl Tartuffo e l’ambivalente Don Giovanni, un dramma in prosa anziché in versi, e non facile da interpretare come commedia, almeno oggi. Ho visto recitare il Don Giovannicome se Molière ammirasse totalmente il suo protagonista, interpretazione che non funzionava, o come se lo condannasse totalmente, altra interpretazione che non funzionava. Il misantropo e Il Tartuffo sono meno problematici anche se abbastanza complessi. Non sapremo mai se, fra tutti i suoi drammi, Shakespeare avesse un rapporto particolarmente intimo con l’Amleto, sebbene i critici lo ipotizzino da secoli. Esiste un legame tra Alceste il misantropo e Molière, che, oltre a creare e a dirigere il dramma, recitò il ruolo del più interessante fra tutti i suoi personaggi; ma quel legame, qualunque cosa sia, non è un’identità. Dov’è la verità nel Misantropo, e cosa dobbiamo pensare e sentire riguardo ad Alceste? In Molière, l’elusività della verità è in parte l’effetto spirituale di Montaigne sul drammaturgo, ma è ancor più il prodotto dell’originalissimo temperamento di Molière.

Il misantropo è soprattutto un dramma di sconcertante vitalità; quando lo scrisse, Molière dev’essere stato posseduto da una forza demoniaca. Ogni volta che lo vedo o lo rileggo, resto sbalordito dalla sua rapidità ed energia; è una sorta di violento scherzo musicale dall’inizio alla fine:

FILINTE Ma insomma, che c’è? Che cosa avete?

ALCESTE Vi prego, lasciatemi.

FILINTE Ma almeno ditemi per quale capriccio…

ALCESTE Vi ho detto di lasciarmi, e di togliervi dai piedi.

FILINTE Ma si ha almeno la compiacenza di ascoltare la gente.

ALCESTE Io questa compiacenza non ce l’ho, e non ascolto nessuno.

Alceste, che rifiuta con decisione l’amico perché quest’ultimo ha salutato con cordialità un conoscente, introduce subito l’eccesso comico che lo contraddistingue dal principio alla fine. Il vigore delle sue repliche in ogni punto del dramma potrebbe essere definito «eroico» o «folle», poiché è entrambe le cose; ma chiamarlo «donchisciottesco» non ci aiuta. Come Tartuffo e Don Giovanni, Alceste è troppo forte per il suo contesto, che è solo un salotto. Tartuffo è un sublime ipocrita religioso, come l’Indulgenziere di Chaucer, ma il suo brio è così irriverente che alcuni critici l’hanno paragonato alla Comare di Bath e a Falstaff, due vitalisti insieme eroici e sconvenienti. L’energia di Don Giovanni ha una strana somiglianza con quella di Iago ed è un’altra profezia del moderno nichilismo.

In Molière vi è una curiosa dialettica che ricorda la tendenza di Shakespeare ad arricchire le personalità alienandole dalla comunione con altri. Alceste, Tartuffo e Don Giovanni assomigliano ad Amleto, Iago e Edmund nel senso che il prezzo dell’ambivalenza energica è una separazione da tutti gli altri. Filinte è l’Orazio di Alceste, mentre Tartuffo e Iago hanno solo le loro vittime. Don Giovanni ha Sganarello, il suo servo longanime, mentre Edmund ha solo il suo doppio appuntamento «nei ranghi della morte» con Goneril e Regan. Trovo un po’ strano che, secondo i due maggiori drammaturghi dopo gli ateniesi, diventiamo più esuberanti, anche se in senso negativo, nella separazione dagli altri anziché nella condivisione del nostro essere; non credo tuttavia che questa somiglianza tra Shakespeare e Molière sia casuale.

Qual è la verità su Alceste? Oppure l’elusività ci costringe ad avere per sempre una visione ambigua di questo personaggio? Richard Wilbur, che ha compiuto il miracolo di far parlare Alceste in versi americani, esprime un giudizio ingegnoso ed equilibrato che, tuttavia, mi sembra un po’ troppo severo:

Se Alceste ha una passione per l’autentico, e ce l’ha davvero, purtroppo essa viene compromessa e sfruttata dal suo vasto egotismo inconscio. […] Come molte persone indignate e prive di umorismo, è duro con tutti tranne che con se stesso, e non se ne accorge quando tradisce il suo ideale. […] Vittima, come tutti coloro che lo circondando, della mollezza morale dell’epoca, non riesce a essere con coerenza un uomo d’onore: semplice, magnanimo, appassionato, determinato, sincero. Si distingue perché è consapevole di quell’ideale e, a intermittenza, è in grado di incarnarlo; il suo difetto comico è una confusione donchisciottesca tra se stesso e l’ideale, un’inclinazione a distorcere il mondo per i suoi scopi ingannevoli e istrionici. Paradossalmente, dunque, il paladino dei veri sentimenti e dei rapporti sinceri è il personaggio più artificioso, più irraggiungibile e più esposto al pericolo dell’inesistenza e della solitudine da cui, nel mondo ciarliero e superficiale di questo dramma, tutti rifuggono. Alceste deve fingere di continuo per credere alla propria esistenza.

Un giudizio insieme brillante e puntuale, che, se non concede granché ad Alceste, non può essere tutta la verità, perché il pubblico e i lettori di Molière/Wilbur continueranno a preferire l’Alceste perennemente offeso a ogni altro personaggio del dramma. Provate a sostituire «Amleto» ad «Alceste» nella prima frase di Wilbur e leggete l’intero passo come se fosse un commento su Amleto. Alcuni punti non funzioneranno: Amleto è spiritoso, spaventosamente duro con se stesso e, in gran parte, privo di aspetti donchisciotteschi. Tuttavia, nel prosieguo, Wilbur che parla di Alceste potrebbe benissimo essere Wilbur che parla di Amleto. Non sappiamo se Molière volesse che Alceste fosse un critico dello stesso Molière, proprio come non possiamo sapere se Shakespeare abbia rappresentato qualcuna delle sue qualità in Amleto. Tuttavia, Alceste mi sembra l’unico personaggio di Molière dotato dell’intelligenza morale (anche se non dell’umorismo) che gli consentirebbe di scrivere un dramma di Molière, e non sono il primo a osservare che probabilmente Amleto, autore di gran parte del dramma nel dramma, avrebbe potuto scrivere l’Amleto.

John Hollander sottolinea la peculiarità di ciò che accade quando un dramma ha per protagonista un creatore di satire. Persino Tartuffo l’ipocrita e Don Giovanni il libertino sono, in un certo senso, creatori di satire, e Alceste è uno dei più feroci. Molière ha la straordinaria capacità di rendere la sua commedia molto più vasta della sua satira, così Alceste diviene necessariamente un critico della società, che a sua volta viene criticato nel Misantropo. Secondo Hollander, il dramma deve difendersi dal suo protagonista satirico, come Shakespeare, per far sì che Romeo e Giulietta resti una tragedia, deve eliminare Mercuzio prima che quest’ultimo attiri troppo la nostra attenzione. Contraddicendo Wilbur, che è il miglior rappresentante della tradizione critica su Alceste, suggerirei di considerare in parte Il misantropocome una difesa da Alceste, proprio come il dramma Amleto è, in parte, una difesa dal feroce intelletto di Amleto. Alceste ha tutti i difetti comici segnalati da Wilbur e molti altri, ma ha anche la dignità estetica di un autentico creatore di satire sociali e di uno psicologo morale di alto livello.

Nonostante le sue carenze comiche, Alceste conquista la nostra simpatia e persino la nostra ammirazione perché Molière, come Shakespeare, aveva compreso quella che io chiamo capacità estetica di rappresentare qualcuno nella condizione di essere indignato, spinto alla collera da provocazioni intollerabili. Lo spettatore e il lettore non possono fare a meno di identificarsi con una simile rappresentazione, forse perché, in fin dei conti, siamo indignati per l’inevitabilità della morte. Alceste è irriverente quanto è indignato, ed è un trionfo comico. Tuttavia, contrariamente a quanto sostiene Wilbur, la sua continua finzione è, come quella di Amleto, qualcosa più di un tentativo disperato di «credere alla propria esistenza». L’intensità istrionica di Alceste è una satira indignata sull’esistenza umana compromessa e, ancora una volta come Amleto, Alceste ha una mente che, invece essere irrequieta, è incapace di riposare. Entrambi i personaggi non ragionano troppo, ma troppo bene, e nessuno dei due riesce a sopravvivere nel contesto cui è condannato. Amleto cerca passivamente la morte; Alceste si rifugia in una solitudine assoluta. Scorgiamo un’altra affinità nel loro rifiuto verso le donne di cui sono innamorati. La civettuola Celimene non è la dolce Ofelia, ma entrambe vengono respinte perché Alceste e Amleto, i creatori di satire indignati, fissano canoni impossibili per l’amata e per il mondo, stabilendo così criteri che nemmeno loro saprebbero rispecchiare. Questo è un elemento cruciale nella commedia di Molière e nella tragedia di Shakespeare, che convergono nel presentare il creatore di satire come un eroe.

W.G. Moore, che, con Jacques Guicharnaud, mi sembra il miglior critico di Molière, ci scoraggia dal concentrarci su un’analisi di Alceste anziché della struttura del dramma, il che equivale, ancora una volta, ad affermare che la commedia include il creatore di satire:

A essere qui illuminato è molto più del personaggio di Alceste; è una questione, la questione di come se la cavino i principi in un mondo duro. Fare di questa grande commedia uno studio del personaggio significa limitare la portata della sua drammaticità. L’intero problema della natura della sincerità, che comprende moda, vanità, disprezzo, convenzione: è questo il complesso di interrogativi che condiziona l’ordine e la struttura del dramma.

Tuttavia, Moore vede anche quanto sia complesso il personaggio di Alceste, il giullare del dramma ma anche il suo Amleto, una figura che non comprenderemo mai del tutto:

Alceste è ridicolo, in un’accezione raffinata del termine, non perché accusi di insincerità la società del suo tempo. È antisociale perché raccomanda, per questione di principio, condotte che gli garantiscono una posizione di vantaggio. […] Alceste è il simbolo di qualcosa di assai più interessante e complicato.

Per mettere in evidenza la vastità e la profondità della caratterizzazione di Molière, vale la pena provare a capire che cosa sia questa qualità elusiva. Si potrebbe definirla la confusione del generale e del personale. Nascondere e difendere le proprie azioni facendo appello a criteri esterni a sé stessi è una tendenza umana naturale. Al contrario, spesso non ci rendiamo conto che l’obbedienza a un simile criterio generale è frutto dell’egoismo e della vanità. […] E ciò che Alceste voleva, a propria insaputa, erano il riconoscimento, la preferenza, la distinzione. […] Durante la drammatizzazione del tema dell’amante misantropo, l’intensità della capacità creativa di Molière condusse quest’ultimo a tratteggiare una figura ben al di là delle sue intenzioni e paragonabile ad Amleto in termini di profonda suggestione, etica, sociale, politica, personale e persino teologica.

Ma tutti noi non confondiamo forse il generale con il personale? Molière, l’attore-drammaturgo, non desiderava forse il riconoscimento, la preferenza e la distinzione? Persino Moore cade nell’errore di moraleggiare contro Alceste. Dal canto suo, Molière non cade. Secondo Ramon Fernandez: «Alceste è un Molière che ha perduto la consapevolezza del comico». Come afferma questo critico, Alceste è vittima dell’eccesso: è troppo virtuoso, troppo ragionevole, troppo forte, troppo aggressivo in nome della verità, persino troppo arguto perché qualcuno possa essere alla sua altezza. Alceste è antitetico al suo poeta: essendo un uomo di teatro, Molière non godeva di uno status speciale e non aveva nemmeno diritto a un funerale decoroso. Essendo il cortigiano di Luigi XIV, suo protettore e mecenate, dovette inoltre dissimulare, nascondere le sue vere opinioni e sforzarsi sempre di alludere anziché di parlare apertamente.

Mentre recitava il ruolo di Alceste, Molière, il direttore professionista di una compagnia di repertorio, deve aver notato quanto fosse bizzarro che le tre parti femminili del dramma venissero interpretate dalla sua moglie disamorata, dalla sua amante e dall’attrice che continuava a rifiutarlo. Il rapporto tra Alceste e Molière è sconcertante e dovrebbe renderci diffidenti nei confronti di tutti i critici moraleggianti. Mi sorprende che, al contrario di me, i critici letterari non amino Alceste, perché questo personaggio parla con tanta intensità a nome di tutti i critici investiti ogni giorno da fiumi di versi scadenti:

Signore, è una questione sempre molto delicata, perché quando si tratta delle doti d’ingegno, a tutti fa piacere sentirsi lodare. Una volta, a una persona di cui tacerò il nome, dicevo appunto, dopo aver visto alcuni versi che egli aveva scritto, che bisognerebbe sempre essere abbastanza giudiziosi da controllare con rigore il nostro capriccio di scrivere; e che se ci coglie la smania di far del chiasso su questi passatempi, bisognerebbe saperle mettere la briglia; e che a volte, per l’ambizione di esibire le nostre opere, si corre il rischio di fare una pessima figura.

L’unica accusa che si può muovere ad Alceste è, a mio giudizio, il fallimento del suo amore per l’affascinante ed enigmatica Celimene; i creatori di satire, tuttavia, evitano il matrimonio per tradizione. Anche in questo caso sono propenso a difendere Alceste dai critici moraleggianti, che lo associano a Don Giovanni perché entrambi si nominano giudici assoluti in tutte le sfere, compresa quella erotica. A volte sospetto che i moderni critici di Molière mettano quest’ultimo sullo stesso piano di Racine, scelta stravagante quanto lo sarebbe quella di fondere Montaigne con Pascal. In The Classical Moment, Martin Turnell assimila così Molière alla sua epoca, che diviene l’epoca di Racine, ed ecco che Il misantropo diventa ben presto un dramma il cui protagonista è in uno stato di perenne isteria. Il supremo riduzionismo della critica moraleggiante si raggiunge quando Turnell afferma: «È vano pretendere che l’ordine venga ristabilito e che un buffone castigato venga ricondotto alla norma dell’equilibrio mentale». «Quale norma?» tuonerebbe Alceste, e lo spettatore o il lettore sano di mente dovrebbero essere d’accordo con lui. La grandezza del Misantropo svanirebbe del tutto se la società fosse sana di mente e Alceste fosse l’unico pazzo. Se dobbiamo salvare Alceste dai critici, io mi schiero con Montaigne contro di loro.

In alcuni aspetti di Amleto siamo abituati a vedere uno scettico alla Montaigne, ma i nostri critici non ci presentano un Amleto che sia un buffone. Vedere Amleto impersonato da un attore che non può (e non deve) sfiorare il sublime è un’esperienza terribile, ma, in genere, ci aspettiamo che sia un attore vigoroso e completo a interpretare quel ruolo. Vedere un attore incompetente che recita la parte di Alceste come giullare illuso è un’esperienza teatrale così spiacevole da essere inquietante. Almeno nei Paesi anglofoni, gli accessi morali dei critici hanno procurato molti danni a questo dramma. Alceste richiede un grande attore, come evidentemente lo fu Molière quando trionfò per la prima volta in quel ruolo. La tradizione vuole che, diretto e interpretato da Molière, Alceste sia stato presentato come molto più di un buffone autodistruttivo. L’opera richiede un regista e un attore capaci di concepire un creatore di satire morali che conservi forza e dignità ma che cada anche vittima, non di una società vendicativa, bensì dello spirito della commedia.

Nel suo Molière’s Theatrical Bounty, che non manca di sensibilità in molti altri punti, Albert Bermel, pronuncia un verdetto duro su Alceste, non per i soliti motivi moralistici, bensì perché il protagonista è un tipo solitario, non un giacobino o un riformatore, e perché non ha il coraggio di accettare Celimene quando finalmente quest’ultima si offre di diventare sua moglie. Amleto meriterebbe di essere rifiutato per le stesse ragioni. Alceste non è intelligente come Amleto, ma non lo è nessun altro personaggio letterario, e Alceste, come concede Bermel, «è dotato di una formidabile prodezza morale e intellettuale», anche se non di una personalità molto ammirevole. Nessuno si è mai innamorato di Alceste ad eccezione di Jean-Jacques Rousseau, che scoprì nel fidanzato di Celimene un personaggio virtuoso quanto se stesso. A quanto pare, Celimene e Alceste non sono innamorati l’una dell’altro, elemento che si inserisce nello spirito comico del dramma. Come Rousseau, Alceste ama solo se stesso, il che aumentò senza dubbio il suo fascino agli occhi del filosofo.

Molière, tanto tortuoso quanto profondo, non voleva esaltare la sua antitesi in Alceste, ma sospetto che sarebbe stato divertito dalla disapprovazione morale che il suo misantropo aristocratico ha suscitato nel nostro secolo caotico. Montaigne gli aveva insegnato l’elusività pragmatica della verità, una superba lezione per un attore, e una lezione che sarebbe stata vantaggiosa per Alceste, se quest’ultimo fosse stato in grado di sopportarla, ma non lo era. Diciamo che l’inclinazione di Molière era per la commedia, non per la tragedia, ma riconosciamo che le sue commedie più belle sono molto nere, anche se non diventano mai tragicommedie; queste ultime non sono infatti un genere francese. Montaigne e Molière evitano la visione tragica che Lucien Goldmann attribuisce a Pascal e Racine nel Dio nascosto. Una sensibilità religiosa è assai diversa da una fede religiosa, soprattutto in un’era in cui la fede viene ancora imposta e la mancanza di sensibilità religiosa può essere il legame cruciale tra il saggista che scrisse Dell’esperienza e il commediografo del Misantropo, del Tartuffo e di Don Giovanni.

Quel legame doveva rimanere nascosto per motivi di sicurezza, ma dal punto di vista metaforico il suo posto è stato occupato dal comune disprezzo dei due scrittori per la professione medica. Le satire di Molière sui medici insinuano astute analogie tra medicina e teologia, un’insinuazione blanda e implicita in Montaigne. Il movimento dall’umanesimo alla celebrazione della vita comune, che Frame individua in Montaigne, venne totalmente assorbito da Molière, il cui pubblico ideale sarebbero stati gli uomini onesti con cui Montaigne aveva sostituito l’ideale umanistico. L’originalità di Montaigne era stata l’autoritratto, che di rado è il materiale con cui un commediografo plasmerebbe la sua opera. L’originalità di Molière fu il progresso dalla farsa a una sorta di commedia critica, e per compiere quel progresso era necessario un catalizzatore non teatrale. Suppongo che Molière abbia colto il suggerimento di Montaigne, ma abbia invertito l’autoritratto o l’abbia rovesciato. Alceste è la più grande di quelle inversioni antitetiche, ma ve ne sono altre, ed esse seguono la descrizione dell’uomo completo fornita da Montaigne, rappresentando volutamente grandi figure troncate. Montaigne insegna ad assecondare la volontà per giungere al dominio di sé; Molière mostra la commedia nera dell’abbandono alla volontà, che conduce all’autoabdicazione e alla passione distruttiva. Alceste, per quanto io lo trovi vigoroso e ammirevole, è la diretta conseguenza della scelta di non agire secondo l’esortazione con cui Montaigne conclude Dell’esperienza. Se vuoi metterti fuori di te stesso e sfuggire all’uomo, cadi nella follia. Non ti innalzi ad angelo, ma ti abbassi a bruto. Alla fine, ansioso di rifugiarsi in una solitudine deserta (per quanto metaforica), Alceste cerca tutto ciò di cui Montaigne aveva più paura.

7.

SHAKESPEARE E IL SATANA DI MILTON

Milton ha un posto permanente nel Canone, sebbene oggi il grande poeta sembri essere vittima del più profondo risentimento da parte della critica letteraria femminista. Un giorno, durante una conversazione con John Dryden, confessò, forse con eccessiva schiettezza, che Spenser era il suo «grande originale», un’affermazione che sono giunto a interpretare come una difesa da Shakespeare. Quest’ultimo fu insieme la fonte dell’ansia poetica di Milton, autentica seppur nascosta, e, paradossalmente, il generatore della sua canonicità. Fra tutti gli scrittori postshakespeariani, è Milton, più di Goethe, Tolstoj o Ibsen, ad aver saputo sfruttare al meglio la rappresentazione shakespeariana del personaggio e dei suoi mutamenti, benché abbia lavorato con foga per allontanare l’ombra di Shakespeare. Il più shakespeariano di tutti i personaggi letterari dopo le creazioni dello stesso Shakespeare è il Satana di Milton, che è l’erede sia dei grandi antieroi – Iago, Edmund, Macbeth – sia dell’aspetto più oscuro di Amleto l’anti-Machiavelli. Milton e Freud (che nutriva grande stima per il poeta) hanno in comune un debito reciproco nei confronti di Shakespeare e un rifiuto altrettanto reciproco di quel debito. Tuttavia, la capacità di sostenere la forza di Shakespeare e piegarla ai propri scopi può essere l’alleanza più autentica tra l’ambivalenza miltoniana e quella freudiana, tra la ribellione di Satana a Dio e la guerra civile nell’ambito della psiche.

L’antieroe fu inventato in larga misura da Christopher Marlowe con Tamerlano, un pastore scita divenuto conquistatore del mondo, e più ancora con Barabba, l’autocompiaciuto ebreo di Malta, un umorista del male. Diretta è la strada dai grandi nichilisti di Marlowe ai primi mostri shakespeariani, il gobbo Riccardo III e Aronne il Moro nel tragico mattatoio del Tito Andronico. Tutte queste figure sono troppo poco raffinate per aver influito sulla sensibilità di John Milton. Il nichilismo intellettuale del Satana di Paradiso perduto inizia davvero con l’abisso dentro la vasta coscienza di Amleto; ma gli accenti nichilisti dell’angelo caduto di Milton si sentono per la prima volta in Iago, la vittima originale della sensazione di un merito disconosciuto, della sensazione di essere stato scavalcato dal suo generale simile a un dio.

Secondo il mito esplicito di Milton, Shakespeare rappresentava la «natura», ossia una sfrenatezza totale o una libertà naturale, mentre, Milton, rappresentava un modo più puro e migliore di trascendere la natura per raggiungere il cielo, o almeno la rappresentazione del cielo. Nessuno riesce tuttavia a sopportare il cielo di Milton per un lungo periodo; lo stesso poeta, partito o setta di un solo uomo, non sarebbe riuscito a sopportarlo per un attimo. Il Paradiso perduto è magnifico perché è così tragico ed epico da essere convincente; è la tragedia della caduta di Lucifero in Satana, sebbene declini per rivelarci Lucifero, portatore di luce e figlio del mattino, capo delle stelle destinate a precipitare. Noi vediamo solo il Satana caduto, anche se prima contempliamo Adamo ed Eva, nel preciso istante del peccato originale e in seguito. In un’altra accezione del «tragico», il Paradiso perduto è la tragedia di Adamo ed Eva, che, come Satana, possiedono qualità inevitabilmente shakespeariane e tuttavia sembrano raffigurazioni un po’ meno persuasive di Satana, cui viene concesso un maggior grado di crescente io interiore shakespeariano. Questo potrebbe essere un indizio sul turbolento rapporto di Milton con il drammaturgo di Otello e Macbeth, i drammi che paiono aver contaminato più intensamente il Paradiso perduto. Rifiutando la completezza shakespeariana, Milton fu in grado di appropriarsene per il suo antieroe più che per il suo eroe e la sua eroina, seppur evitandola fatalmente nei suoi ritratti di Dio e di Cristo, che non devono nulla a Shakespeare e forse proprio per questo sono personaggi drammatici impoveriti. Riguardo al Dio di Milton si può affermare con certezza solo che è pomposo, arrogante e sempre sulla difensiva, mentre Cristo, come già ho sottolineato una volta, si riduce al comandante di un attacco corazzato, una sorta di Rommel o di Patton celeste.

Shakespeare morì quando Milton era un bambino di sette anni. Nel 1632, quando Milton pubblicò la poesia Su Shakespeare, il drammaturgo era scomparso da sedici anni. Dobbiamo sempre tenere presente questa cronologia quando riflettiamo sull’ansioso rapporto di Milton con il massimo poeta della lingua inglese, e forse di qualsiasi altra lingua. Sono trascorsi più di cinquant’anni dalla morte di Wallace Stevens, avvenuta nel 1955, ma la sua presenza continua a ossessionare la poesia americana contemporanea. Sul piano temporale, Shakespeare fu pericolosamente vicino a Milton, il cui omaggio poetico è, in realtà, un gesto di rifiuto, soprattutto in questo punto:

Caro figlio della memoria, grande erede della fama,

Perché hai bisogno di un così debole testimone del tuo nome?

Tu nella nostra meraviglia e nel nostro stupore

hai eretto un perenne monumento a te stesso.

Shakespeare, figlio della memoria madre delle muse, è a sua volta una musa maschile che ispira Milton, ma non una visione trascendentale. Le parole «nella nostra meraviglia e nel nostro stupore» sono corrette dal punto di vista empirico, allora come oggi, a causa dell’influenza di Shakespeare su qualsiasi altro poeta, ma quelle qualità erano secondarie nelle aspirazioni di Milton. Come Dante, Milton voleva scrivere il poema divino o, in termini pragmatici, un terzo Testamento. La meraviglia e lo stupore sono assai diversi dalla verità e dalla reverenza, mentre la «natura» shakespeariana è lontanissima dalla «rivelazione» scritturale o miltoniana. Macbeth e Satana sono entrambi vittime della loro immaginazione; il primo potrebbe rappresentare un’ansia latente in Shakespeare, che forse lo usò per castigare la forza della sua immaginazione, ma il secondo riflette con chiarezza la diffidenza di Milton verso la fantasia e le relative delusioni.

Essendo un profeta protestante, anzi il poeta protestante, Milton non sarebbe per nulla contento di sapere che ora il Paradiso perdutoviene considerato come una vigorosissima opera di fantascienza. Rileggo il poema di continuo e mi sento pervadere soprattutto dalla meraviglia e dallo stupore, dalla singolarità dell’impresa miltoniana. A rendere unico il Paradiso perduto è il suo stupefacente miscuglio di tragedia shakespeariana, epopea virgiliana e profezia biblica. Il terribile pathos del Macbeth si unisce all’atmosfera da incubo dell’Eneide e all’affermazione di autorità della Bibbia ebraica. Quella combinazione avrebbe dovuto far affondare qualsiasi opera letteraria a una profondità di nove braccia, ma John Milton, cieco e abbattuto dalla sconfitta politica, era inaffondabile. Nella letteratura occidentale non può esservi un trionfo più grande della volontà visionaria. Nel Sansone agonista e nel Paradiso riconquistato, sentiamo che Milton risente molto delle sue perdite, ma nel Paradiso perdutosbaraglia tutti gli avversari ad eccezione di Shakespeare, l’agonista nascosto.

Nel Paradiso perduto, il punto focale del lettore dev’essere Satana, il capro espiatorio di quasi tutti gli esegeti eruditi, ma anche, senza dubbio, la maggior gloria del poema, bilanciata solo in parte dalla straordinaria espansione miltoniana dei resoconti ebraici della Creazione nel libro settimo. Naturalmente, Satana viene sconfitto, ma, alla fine, anche Iago e Macbeth vengono sconfitti una volta portata a termine l’opera dell’antieroe, e Mefistofele viene sconfitto dopo l’ascesa di Faust nel poema di Goethe. Simili sconfitte sono dialettiche e dipendono da chi assume il controllo della prospettiva del lettore. Iago, sconcertato dal fatto che Emilia avrebbe dovuto sacrificare la propria vita per salvare la reputazione di Desdemona, preferirebbe morire sotto tortura piuttosto che rivelare i suoi moventi, persino a se stesso: «Da questo momento non mi caverete più una sola parola di bocca». Satana, quando lo vediamo per l’ultima volta, è un serpente sibilante in fondo all’inferno.

Non prestiamo totalmente fede a questa prospettiva, che è il commento più spietato e autolesionistico fatto da Milton. Lo mette in cattiva luce, perché sembra essere la sua vendetta contro Satana, che ha usurpato troppo l’energia e la forza di desiderio del poeta. Shakespeare non si vendica su Iago o Macbeth, né su nessun altro nei suoi trentotto drammi.

Qui non è solo il genere drammatico a determinare la differenza shakespeariana. Shakespeare, un miracolo di indifferenza, non crede né si rifiuta di credere, non moraleggia né avalla il nichilismo. Gioiamo di Iago benché ci faccia rabbrividire. Milton trasforma il piacere che ricaviamo da Satana in un’emozione colpevole, insistendo apparentemente sulla fede e su una moralità manifesta. Sono incline a dubitare che il Milton maturo del Sansone agonista credesse in qualcosa; in ogni caso, non riesco a inquadrare bene la figura di Cristo nella poesia di Milton. Come il Gesù dei bigotti americani, il suo Cristo è appena stato crocifisso e scende dalla croce con straordinaria rapidità. Il Gesù americano, risorto sulla terra per un periodo assai più lungo di quaranta giorni e mai crocifisso o asceso, sarebbe piaciuto a Milton come il Gesù europeo mai avrebbe potuto fare.

Magnifico e miltoniano, Satana è a suo agio nel Paradiso perduto, sicuro del proprio ruolo e della propria identità quanto Iago, il maestro della manipolazione, lo è nell’Otello, finché ciascuno dei due subisce il crollo finale. Rammentiamo il progredire di Iago da un livello all’altro di controllo su tutti i personaggi, finché può esultare della rovina di Otello come sua creazione negativa, proprio come rammentiamo Satana nella grandiosità della sua sfida e nell’astuzia con cui mette in scena il nostro peccato originale. Il loro orgoglio reciproco, un perfezionamento shakespeariano di Marlowe, trova la sua migliore espressione nel Diavolo bianco di John Webster, un discepolo di Shakespeare, quando uno degli antieroi, anch’egli moribondo in un’ultima scena costellata di cadaveri, grida esultante: «Ho miniato questo notturno, ed è il migliore che abbia prodotto!». Come miniatore di notturni, Satana deve tutto a Iago e Macbeth, ad Amleto e Edmund.

Per quanto possa sembrare sconcertante, dobbiamo supporre che Milton non avesse riconosciuto consapevolmente il debito. La rappresentazione miltoniana dell’ambivalenza di Satana verso Dio, come il resoconto freudiano dell’ambivalenza originaria, è totalmente shakespeariana, basata sull’ambivalenza di Iago verso Otello, su quella di Macbeth verso la propria ambizione edipica e su quella di Amleto verso tutto e tutti, in particolare verso stesso. L’ambivalenza, nella definizione freudiana, è l’essenza di ogni rapporto tra il super-io, ciò che si trova sopra l’«io», e l’id o «es», ciò che si trova sotto l’«io». Sentimenti mescolati e uguali di affetto e odio vanno contemporaneamente avanti e indietro tra queste istanze o finzioni psichiche, e il flusso e riflusso inaridisce e annega alternatamente l’«io», l’ego infelice. Iago, Macbeth e Satana sono così dominati da questa ambivalenza che è difficile distinguerli da essa.

Non riconoscendo alcuna differenza tra battaglia e vita civile, nel lungo e misterioso antecedente dell’Otello Iago si è identificato con il suo generale, il dio della guerra Otello, proprio come Lucifero si è identificato con il Dio di Milton. Satana soffre di ciò che definisce «un senso di merito disconosciuto» quando viene scavalcato a favore di Cristo, proprio come Iago soffre quando viene scavalcato a favore di Cassio, un estraneo scelto da Otello come luogotenente al posto di Iago, l’esperto alfiere che ha ricevuto i colori di Otello, e dunque l’onore del suo capitano. Probabilmente, il navigato Otello, la cui grandezza consiste nel conoscere i confini tra guerra e pace, si rende conto di non poter confidare nel fatto che il suo devoto alfiere o portabandiera non superi mai quei confini. Essendo sovradeterminato sul piano teologico, il caso di Satana è più problematico di quello di Iago. Perché il Dio di Milton proclama Cristo come suo figlio anziché Lucifero, il capo degli angeli? E come accade esattamente che Lucifero cominci a trasformarsi in Satana? Se Lucifero è stato scavalcato sin dall’inizio, perché non ne sa nulla fino al decreto con cui Dio annuncia la condizione superiore di Cristo?

Non si può certo dire che il Dio di Milton ci illumini in merito:

Angeli, figli della luce, Troni,

Virtù, Posse, Dominj, udite il mio

Non mutabil decreto. In questo giorno

Generato ho colui che per mio figlio

Unigenito acclamo. Alla mia destra

Consacrato da me su questo monte

Tutti or voi lo mirate. A duce vostro,

Spirti eterei, l’ho scelto, ed a me stesso

Giurai che umilïarsi a lui dovranno

Quanti il cielo ha ginocchi, e quante ha lingue

Salutarlo signore. Or voi, guidati

Dal mio Figlio e mia vece, in pieno accordo,

Come vi governasse un’alma sola,

Siate lieti e felici, se l’eterna

Vera letizia di fruir vi giova.

Chi lui non obbedisce, a me ricusa

L’obbedïenza, e frange il sacro nodo.

Dalla mia diva visïon reietto

Verrà tosto l’audace, e nell’abisso

Delle tènebre immerso, ove per sempre,

Senza speme di scampo e di perdono,

Starà.

Questa è senza dubbio la dottrina cristiana tradizionale, ma è accettabile sul piano poetico? Non riesco a leggere questa dichiarazione dura e arbitraria senza ricordare l’acuta osservazione del compianto Sir William Empson, secondo cui Dio causa così tutti i guai, proprio come fa nel Libro di Giobbe, quando si vanta con Satana dell’obbedienza e della rettitudine del suo servo Giobbe. Qui la lacuna immaginativa è racchiusa nel fatto che solo il potere minaccioso di Dio ci impedisce di avvertire le sue minacce come una serie di parole spavalde e aggressive. Molto prima che qualcuno abbia disobbedito, la disobbedienza sembra essere stata un’ossessione del Dio ebraico. La prima storia di Yahweh, non del tutto recuperabile, indica che l’ansia per la potenziale disobbedienza è strettamente legata alla storia segreta di come un solitario dio guerriero – a quanto pare una tra numerose divinità minori – si sia imposto come figura suprema. Per il poeta Milton, tuttavia, non esiste una prima storia di questo tipo, che sarebbe simile ai racconti romantici di un io più giovane cui Otello, il dio della guerra, strappò la sua sposa, Desdemona.

Probabilmente il repubblicano Milton ci avrebbe smentiti se avesse saputo che quando parla il suo Dio, abbiamo l’impressione di udire la retorica della tirannia, poiché, per il poeta del Paradiso perduto, il Dio protestante era l’unico monarca legittimo. Tuttavia, Milton ha reso Dio più simile a Giacomo I o a Carlo I che a Davide e Salomone, per non parlare poi dello Yahweh dello scrittore J. Nel Dio di Milton vi è qualcosa di profondamente sbagliato, come nel suo bellicoso Messia che guida la carica celeste sul cocchio della Divinità paterna. La retorica dell’autorità di Otello è più persuasiva di quella del Dio di Milton: «Riponete nel fodero le vostre lucide spade, ché altrimenti la guazza vorrà arrugginirle». Questo è ciò cui si oppone Iago e ciò che rende il suo trionfo molto più grandioso e rovinoso rispetto a quello, assai più equivoco, di Satana.

Non sto dicendo che il tragico Satana sia un «piccolo Iago», più simile, diciamo, allo Iachimo del Cymberline che a Iago o a Macbeth. Ciò che è poeticamente difettoso in Satana (ed è cosa di minore importanza, rispetto alla sua eminenza estetica) deriva, per quanto possa sembrare sorprendente, dal rifiuto o dall’incapacità miltoniana di drammatizzare in modo adeguato l’argomento cristiano del poema. Come accadde ai non cristiani Goethe e Shelley, forse Milton avrebbe tratto beneficio dallo studio del teatro spagnolo dell’età dell’oro e in particolare di Calderón de la Barca, anche se a impedirglielo fu senza dubbio il cattolicesimo lì implicito. È difficile non supporre che Dio e Cristo, almeno nel Paradiso perduto, abbiano inibito il genio di Milton, un’ipotesi in cui sono stato preceduto da William Blake nel Matrimonio del cielo e dell’inferno.

Il grande poema di Milton evidenzia che il suo autore rimase shakespeariano suo malgrado. Il suo Satana unisce il nichilismo ontologico di Iago alle fantasie anticipatrici di Macbeth, insaporendo il miscuglio con il disprezzo di Amleto per l’atto del parlare. Tutto ciò per cui Satana trova le parole è già morto nel suo cuore, proprio come in quello di Amleto. Satana è spinto a ordire una tragedia da una versione dell’orgoglio estetico di Iago e da qualcosa di simile alla crescente indignazione provata da Macbeth quando conclude che ogni usurpazione dovrebbe sfociare solo nell’ennesima battuta persa da parte di un attore mediocre. I superbi elementi drammatici della situazione di Satana sono tutte invenzioni shakespeariane, come lo è la tendenza di Satana a subire cambiamenti solo dopo aver prima origliato se stesso e poi meditato sul proprio linguaggio. Tuttavia, Milton evita di rappresentare il mutamento cruciale mediante il quale Satana deriva da Lucifero. Se esaminiamo il testo, quel cruciale momento metamorfico non esiste. Ricaviamo solo un moraleggiare curioso ed ellittico da parte di Raffaele, l’arcangelo non molto affabile:

Ma Sàtan vigilava (è tale il nome

Di che noi l’appelliam, poiché l’antico

Sul labbro de’ celesti or più non suona);

Oh ben altra vigilia era la sua!

Spirto de’ più sublimi e forse il primo

Per virtù, per favor, per eminenza

Di serafici raggi. Ora costui

Volse un invido sguardo al Figlio eterno,

Onorato in quel giorno e consacrato

Re Messia dal Signore; e, mal potendo

Tollerarne l’aspetto, il cor superbo

Offuscata pensò la gloria sua.

Questa è un’evasione assai poco shakespeariana; vorremmo vederla drammatizzata, proprio come vorremmo vedere Lucifero prima che rimpicciolisca per sempre. In fuga da Shakespeare, Milton reprime il momento drammatico della trasformazione del suo antieroe. Dopo tutto, Raffaele si sbaglia; è Lucifero a credersi privato di valore, e siamo infastiditi dall’interpretazione secondo cui ora Lucifero è una non-persona di nome Satana. Shakespeare dispiega Iago e Macbeth davanti a noi, mentre Milton parte dal semplice presupposto che il lettore, essendo cristiano, accetterà la storia raccontata per intero dalla prospettiva del vincitore. Molti passi di questo genere affonderebbero persino il Paradiso perduto, che tuttavia si riprende ben presto con il ritorno del Satana shakespeariano, cui viene offerta l’opportunità di rivelare la sua prospettiva:

Create cose

Per te dunque noi siamo? Opre traslate

Dal Padre al Figlio? Oh novo e strano avviso!

Ben ne giova saper da cui ti venne

Così rara dottrina, e chi presente

Fosse ai nostri natali. Il loco e il tempo

Vivi hai tu nella mente allor che Dio

T’infuse il soffio animator? Ricordo

D’una età non abbiamo in cui diversi

Fossimo noi, né conosciam qual vita

Precedesse la nostra. In noi concetti,

Creati in noi per sola intima forza,

Quando un corso di fati ebbe descritta

La piena orbita sua, quando matura

Del gran parto fu l’ora, eterni figli

Del ciel nascemmo. Or quanto abbiam di possa

Sol da noi ci discende.

È una prospettiva capace di insinuare realtà pragmatiche, poetiche e umane, che le presunte verità del cristianesimo non sono in grado di soffocare con tanta facilità. Anche ammettendo che Satana si abbandoni a un’ironia teatrale, in quelle domande retoriche non vi è solo ironia. Esse adottano il modello dei feroci interrogativi di Iago e trasformando il lettore del Paradiso perduto in un Otello momentaneo, travolto da un’eloquenza espressiva la cui tendenziosità, per quanto manifesta, è irresistibile. Ciò che Satana ha imparato da Iago e Macbeth e, in maniera più impercettibile, da Amleto, è un’energia negativa che è convincente perché trascende la semplice persistenza e annuncia una pulsione permanente oltre il principio del piacere. Shakespeare, che forse non ha creato tutto ma che sicuramente ha inventato noi (così come siamo), ha creato il nichilismo occidentale nella transizione da Amleto a Macbeth passando per Iago e Edmund.

Satana, per quanto sia magnifica la sua eloquenza, è tuttavia una ripetizione della scoperta shakespeariana del nulla al nostro centro. Amleto ci dice di essere insieme tutto e niente, mentre Iago scende di più nell’abisso: «Io non son per nulla quel che sono», parole che capovolgono volutamente il «per la grazia di Dio sono ciò che sono» di san Paolo. «Non conosciamo alcun tempo in cui non fossimo uguali a come siamo», ma ora non siamo nulla. Dal punto di vista ontologico, Iago sa di essere un uomo vuoto perché l’unico erogatore dell’essere, il dio della guerra Otello, lo ha scavalcato. Satana, scavalcato a sua volta, si proclama autocreato e si accinge a disfare la creazione intesa a sostituirlo. Iago, assai più potente, disfa il suo dio, riducendo a caos l’unica realtà e valore che riconosca. Il povero Satana, invece, può solo cercare di irritare Dio, non di distruggerlo.

Il fatto che Iago eclissi Satana in fatto di prodezza satanica è innegabile e forse avrebbe gettato Milton nella disperazione se quest’ultimo avesse dato a se stesso l’opportunità di affrontare direttamente la contaminazione shakespeariana. Molto prima di concepire il Paradiso perduto, Milton aveva preso in considerazione l’idea di scrivere non un poema epico, bensì una tragedia, incerto se intitolarla Paradise Lost o Adam unparadised. Ad aprire la tragedia sarebbero stati quelli che oggi sono i versi 43-57 del libro quarto. Satana, sulla cima del monte Nifate, alle sorgenti del Tigri, contempla il Giardino dell’Eden e si rivolge direttamente al sole infuocato, con gli accenti di un antieroe giacobino che ricorda il pathos degli ambiziosi personaggi marlowiani:

O Sol, che cinto

Sei d’una gloria ch’ogni gloria oscura,

Tu che guardi quaggiù dal tuo sublime

Solingo trono, come fossi il dio

Di quest’orbe novello, e gli astri tutti

Si coprono d’un velo al tuo passaggio;

O Sole, a te mi volgo. Amica voce

La mia voce non è. Da queste labbra

Non mando il nome tuo che per gridarti

Quanto in odio mi sei. Tu mi rammenti

Da qual loco io discesi, e come un giorno

Di te più luminoso io risplendea.

Ma la superbia m’atterrò: nel cielo

Fei guerra al re del cielo, a quel possente

Che non ha paragon.

Nelle bozze a noi pervenute di Adam unparadised, non vi è alcun personaggio di nome Satana; vi è solo Lucifero. Questo passo è il nostro unico indizio sul personaggio da cui Satana si è allontanato. A giudicare da questi versi, Lucifero era marlowiano quanto Satana divenne shakespeariano; qui potremmo benissimo ascoltare Tamerlano, ma non Iago o Macbeth. Come quella di Tamerlano, la retorica di Lucifero è iperbolica; il sublime è il criterio di misura, e tutto viene giudicato in base all’esagerazione o allo svilimento. Il sole ha sostituito la stella del mattino, e all’inizio Lucifero disdegna di pronunciare il nome del suo usurpatore. Quando lo pronuncia, lo fa con odio esplicito verso ciò che suscita il tormento della nostalgia. Torniamo così al grande cambiamento che Milton si rifiutò di rappresentare: quando, e come, con esattezza Lucifero è divenuto Satana? Circa quarantacinque versi più sotto, forse aggiunta al discorso originario, troviamo quella che sembra la risposta più probabile:

Non v’ha calle per me che non conduca

Giù nell’inferno!… Io son, son io l’inferno!

Nel bàratro profondo un più profondo

Dentro a me se ne schiude, e d’ingojarmi

Senza posa minaccia, al cui paraggio

L’inferno, ov’io tormento, un ciel mi pare.

Il primo verso ricorda da vicino il Mefistofele di Marlowe: «Ma qui è inferno, non ne sono fuori», ma gli altri quattro versi si spingono oltre. Senza i tormenti di Otello provocati da Iago, senza il viaggio negativo di Macbeth all’interno delle sue fantasie, Milton non avrebbe avuto a disposizione la grande immagine di un’autentica bocca dell’inferno. Se Adam unparadised fosse stato composto, quello di Lucifero sarebbe stato un ruolo derivato da Marlowe; Satana nacque dal trionfo di Shakespeare dentro lo spirito di Milton. Marlowe era un caricaturista, e Lucifero, come Tamerlano e Barabba, sarebbe stato una vignetta grandiosa. Shakespeare inventò l’io interiore in perpetuo cambiamento e in crescita incessanti, l’io più profondo, capace di divorare tutto, l’io che raggiunge per la prima volta la perfezione in Amleto e continua a infuriare in Satana. In The Changing Nature of Man, lo psichiatra olandese J.H. Van den Berg attribuisce a Martin Lutero la scoperta del crescente io interiore. In Lutero vi è senza dubbio una nuova interiorità, ma quest’ultima differisce solo per intensità, e non per natura, dalla profezia di Geremia secondo cui, da quel momento in poi, Dio avrebbe scritto la Legge sulle nostre parti interne. Non mi azzarderei a definire la sensibilità di Shakespeare protestante o cattolica dissenziente. Come accade sempre con Shakespeare, è entrambe le cose e nessuna delle due, e pertanto l’interiorità luterana esercitò forse un profondo influsso sulla concezione shakespeariana della coscienza umana. Gli io interiori shakespeariani mi sembrano tuttavia diversi da quelli di Lutero non solo per intensità ma anche per natura, e diversi per natura dall’intera storia della coscienza occidentale fino a Lutero. La totale fiducia in se stesso di Amleto trascende i secoli e si unisce a quella di Nietzsche e di Emerson, per poi spingersi al di là dei loro limiti estremi, e continuare ad andare oltre i nostri.

Resta vera l’osservazione di Emerson su Shakespeare: «La sua mente è l’orizzonte oltre il quale, al momento, non vediamo». I riduzionisti ansiosi di ricordarci che Shakespeare era innanzi tutto un drammaturgo professionista ricevono un’ottima ironia emersoniana: «Questi suoi trucchi magici ci rovinano le illusioni del teatro». Posso solo immaginare ciò che Emerson avrebbe detto agli attuali materialisti culturali e neostoricisti, ma il giusto rimprovero è già presente in Shakespeare, o il poeta, contenuto in Uomini rappresentativi (1850): «Shakespeare è l’unico biografo di Shakespeare; e neppure lui può dire nulla, se non allo Shakespeare che è in noi». Lo Shakespeare in Milton era l’abisso più profondo di Satana, l’angoscia derivata dall’idea di essere divorato da qualcosa nel proprio io. Da dove trasse Milton questa visione del divoratore?

La complessità della derivazione consiste nel fatto che Satana è insieme Iago e l’Otello rovinato, insieme Edmund e il Lear impazzito, insieme l’Amleto esaltato e l’Amleto umiliato, insieme Macbeth sull’orlo del regicidio e Macbeth smarrito nella successiva ragnatela dell’assassinio. Eliminando Lucifero e dandoci solo Satana, il Milton maturo decise, forse senza rendersene conto, di essere più shakespeariano di quanto avrebbe voluto. Lucifero, qualunque fossero le sue frustrazioni, non avrebbe sofferto di angosce temporali e di gelosia sessuale, le intensità negative al centro di Satana. L’ossessione di Satana per il tempo deriva da quella di Macbeth; dopo Shakespeare, nessuna grande vittima dell’invidia sessuale – in Milton, Hawthorne o Proust – può essere del tutto ashakespeariana. La rappresentazione dell’energia negativa non esiste prima di Shakespeare. Dopo di lui, palpita nei nichilisti di Dostoevskij con la stessa vitalità riscontrabile nel Satana del Paradiso perduto, ma mai più a un livello così sublime da essere paragonabile a quello miltoniano.

Confrontate due momenti in cui Iago e Satana meditano sulla nostalgia, due momenti che costituiscono impercettibili variazioni del principio «ho miniato questo notturno, ed è il migliore che abbia prodotto». Nel primo, Iago (atto terzo, scena terza, versi 321-333) si abbandona a una magnifica fantasticheria che inizia con l’uscita di Emilia, mandata a prendere il fazzoletto di Desdemona, e che viene interrotta dalla sublime entrata in scena di Otello, già rovinato:

Lascerò che questa pezzuola venga smarrita nell’alloggio di Cassio, e farò in modo che sia lui a ritrovarla. Pur delle inezie leggere quanto l’aria, per le persone gelose, valgono quanto le più forti conferme, quanto le prove fornite dai libri sacri. Questo potrebbe servire a qualche cosa. Il Moro già cambia colore a causa del mio veleno, e i pensieri funesti son veleni per la loro stessa natura, e se dapprima sembra quasi che non sappiano eccitare neppure il disgusto, per poco che abbian fatto presa sul sangue, bruciano come miniere di zolfo. L’avevo pur detto. Eccolo che viene verso di me.

(Entra OTELLO)

Né il papavero né la mandragora, né tutti gli sciroppi per dormire che vi sono al mondo serviranno mai a ridarti quel dolce sonno che appena ieri era ancor tuo.

Confrontate questi versi con il momento parallelo in cui Satana, discepolo di Iago, spia come un guardone gli ignari Adamo e Eva (libro quarto, versi 503-531):

Tu non presenti,

O bellissima coppia, il non lontano

Tuo mutamento! In breve ogni tuo riso

Volgerassi in dolore, e più crudele

Quel dolor ti parrà, quanto più grande

Fu la tua gioia… Avventurosi, e solo

Troppo mal custoditi, a ciò vi fosse

Durevole il diletto! Il vostro asilo,

Questo suol che vi accoglie, è mal guardato,

Né difender vi può contro un nemico

Che fra voi già si trova… Eppur no ’l sono

Vostro nemico, e la pietà potria

Favellarmi per voi, per voi deserti,

Abbandonati; la pietà che voce

Mai per me non mandò. D’un patto io cerco

Con voi legarmi, d’una mutua, salda,

Strettissima amistà, tal che per sempre

Vostra sia la mia stanza e mia la vostra.

Forse quella dimora a voi gradita,

Come quest’Eden, non sarà; ma pure

Non la sdegnate, ché fattura anch’essa

È di colui che vi formò. Cortese

Vi do quanto ei mi diede. A voi l’inferno

Lieto spalancherà le porte sue,

E verranno esultanti ad incontrarvi

Tutti i suoi re. Capace ampio soggiorno,

Più del povero cerchio che v’accoglie,

Troverete laggiù per la futura

Vostra progenie.

A prescindere dal fatto che «l’uomo interiore» sia nato nel 1520 dalla concezione della «libertà cristiana» abbracciata da Lutero, il trionfo di Iago consiste nel crollo dell’uomo interiore di Otello prima del punto centrale del dramma, mentre Satana assapora il suo trionfo imminente crogiolandosi negli ultimi momenti della libertà interiore di Adamo e Eva. Senza lo splendore interiore ed esteriore delle loro vittime, Iago e Satana non potrebbero esultare in maniera così grandiosa e terrificante. Entrambi i passi illustrano il sublime del potere nichilistico, unendo l’orgoglio estetico del notturno miniato con una nostalgia sadomasochista verso la grandezza integrale che si è rovinata o si sta per rovinare. Iago, il precursore di Satana, trae dalla sua impresa una gioia pura, mentre Satana si sofferma solo su rimpianti ipocriti. Il vantaggio è inevitabilmente di Iago, perché la sua opera è più vicina a quella del puro esteta. Nel borbottio di Iago potete udire John Keats e Walter Pater: «Né il papavero né la mandragora, né tutti gli sciroppi per dormire che vi sono al mondo serviranno mai a ridarti quel dolce sonno che appena ieri era ancor tuo».

In Satana, invece, udite una parodia di tutti i matrimoni forzati dell’abilità politica: «un accordo, un’amicizia reciproca sicura e così salda».

La transizione da critico drammatico a politico ci rattrista e ci spinge a renderci conto che vorremmo vedere Satana condividere ancora di più il genio e il nichilismo di Iago. Ma che cosa poteva fare Milton? Nell’Indulgenziere di Chaucer vi è un autentico nichilismo spirituale, ma questo tratto non si sviluppò appieno finché Shakespeare fu così astuto da scoprire come sbaragliare gli antieroi di Marlowe con una modalità più interiore di feroce amoralismo. Le energie sociali e storiche erano a disposizione dei contemporanei di Shakespeare come erano a disposizione del drammaturgo di OtelloRe Lear e Macbeth, ma è palese che Shakespeare disponeva anche di maggiori energie interiori. Sapeva esattamente come usare e trasformare Chaucer e Marlowe, ma nessuno, neppure Milton o Freud, ha saputo esattamente come usare Shakespeare anziché essere usato da lui, o come trasformare qualcosa di così vasto e universale in qualcosa di proprio.

8.

IL DOTTOR SAMUEL JOHNSON, IL CRITICO CANONICO

Si può far risalire la critica letteraria occidentale a un certo numero di fonti, tra cui la Poetica di Aristotele e l’attacco mosso da Platone a Omero nella Repubblica. Personalmente tendo a seguire Growth of the Mind di Bruno Snell, che attribuisce questo merito al feroce assalto sferrato da Aristofane a Euripide. Sembra insieme triste e appropriato che un’attività intellettuale sia emersa dalla farsa deliberata e che ora stia morendo, trasformandosi nella farsa involontaria messa in scena dalla schiera dei critici «politici» e «culturali» contemporanei che stanno affondando le nostre istituzioni didattiche. Nessuna elegia del Canone occidentale potrebbe essere completa senza una valutazione del vero critico canonico, il dottor Samuel Johnson, che non è stato uguagliato da nessun critico in nessuna nazione prima o dopo di lui.

Johnson ha meno in comune con Montaigne e Freud, gli altri due saggisti esaminati in questo libro, di quanto essi abbiano in comune tra loro. L’ira johnsoniana scaturì da un temperamento scettico o epicureo; Johnson era un autentico realista, cristiano e classicista, a differenza di T.S. Eliot, che aspirava a quella triplice identità con notevole malafede. Non c’è malafede nel o sul dottor Johnson, che era tanto buono quanto grande, ma anche dotato di una singolarità vivificante e sfrenata. Mi riferisco a qualcosa di più della sua bizzarra o insolita (seppur magnifica) personalità, rivelataci da quella che è ancora la migliore di tutte le biografie letterarie, Vita di Samuel Johnson di Boswell. Johnson era un poeta vigoroso che scrisse Rasselas, un superbo racconto filosofico in prosa, ma tutta la sua produzione – e in particolare la critica letteraria – è essenzialmente letteratura di saggezza.

Come il suo vero precursore, chiunque sia l’autore dell’Ecclesiaste nella Bibbia ebraica, Johnson è fastidioso e anticonformista, un moralista del tutto singolare. Johnson è per l’Inghilterra ciò che Emerson è per l’America, ciò che Goethe è per la Germania e ciò che Montaigne è per la Francia: il saggio nazionale. Tuttavia, Johnson è un originale scrittore di sapienza quanto Emerson, benché affermi che la sua moralità segue ideologie cristiane, classiche e conservatrici. Ancora una volta come Emerson, Nietzsche o la tradizione dei moralisti francesi, Johnson è un grande aforista, capace di fondere, come osserva M.J.C. Hodgart, l’etico e il prudenziale. Forse il termine preciso per definirlo è «critico sperimentale», sia della letteratura sia della vita. Più di qualsiasi altro critico, Johnson dimostra che l’unico metodo è l’io, e dunque che la critica è una branca della letteratura di saggezza. Non è una scienza politica o sociale né il culto di un genere o un plauso razziale, destino cui è andata incontro nelle moderne università occidentali.

A volte tutti i critici, grandi e piccoli, sbagliano, e neppure il dottor Johnson era infallibile. «Tristram Shandy non è durato» è la più infelice di tutte le frasi johnsoniane, ma ve ne sono altre, come l’elogio di un passo poetico della Mourning Bride di Congreve, dichiarato superiore a qualsiasi scritto di Shakespeare. Johnson, più di Coleridge o di Hazlitt, più di A.C. Bradley o di Harold Goddard, mi sembra il miglior interprete di Shakespeare nella lingua inglese, ragione per cui questa particolare gaffe è molto strana. È mitigato dalla semplice mediocrità della poesia di Congreve, che non ha nulla in comune con le sue grandi commedie in prosa. Congreve descrive un tempio che è una tomba e pare aver provocato una parte della soggezione di Johnson nei confronti della morte, sentimento di poco inferiore alla sua soggezione nei confronti di Dio. Nella Vita di Boswell vi è un celebre passo indispensabile per comprendere Johnson:

I suoi pensieri a proposito di quel terribile mutamento erano, in generale, pieni di fosche inquietudini. La sua mente assomigliava a quel vasto anfiteatro, il Colosseo di Roma. Al centro si trovava il suo giudizio, che, simile a un poderoso gladiatore, combatteva le inquietudini che, come le fiere selvatiche dell’arena, erano in gabbie tutt’intorno, pronte a scatenarglisi contro. Dopo un combattimento, le ricacciava nelle loro tane ma, poiché non le uccideva, eccole che tornavano ad aggredirlo. Quando gli domandai se non potessimo rafforzare la mente in vista dell’approssimarsi della morte, rispose con fervore: «No, signore, lasciamo perdere. Non importa come muore un uomo, bensì come vive. L’atto del morire non ha importanza, giacché dura così poco». E aggiunse con aria grave: «Un uomo sa che così dev’essere, e si rassegna. A nulla gli servirebbe piagnucolare».

Sul piano pragmatico, l’atteggiamento di Johnson ricorda quello di Montaigne, ma lo stato d’animo è del tutto diverso: in Montaigne non vi è nulla di simile all’ansiosa passionalità o alla terribile serietà di Johnson. Quest’ultimo, un pensatore autonomo (parte della lode che tributò a Milton), evitò la speculazione teologica ma non le ansie per le limitazioni che tormentano l’uomo quando comprende le cose ultime. «Speranza e paura» è un frequente binomio johnsoniano; pochi scrittori sono stati così sensibili ai fini di ogni genere: di imprese, opere letterarie, vite umane. Vi è un rapporto complesso tra le supreme angosce di Johnson e la sua visione critica della letteratura. A differenza di T.S. Eliot, egli non pronuncia giudizi estetici su basi religiose. Nutriva una profonda disapprovazione sia per la politica sia per la spiritualità di Milton, tuttavia la forza e l’originalità del Paradiso perduto lo persuasero nonostante le differenze ideologiche.

Quando si esprime su Milton, Shakespeare e Pope, Johnson è tutto ciò che un critico saggio dovrebbe essere: affronta direttamente la grandezza con una risposta totale, in cui investe tutto il suo essere. Non mi viene in mente un altro grande critico allo stesso modo consapevole di ciò che Johnson definiva «la perfidia del cuore umano», soprattutto il cuore del critico. La frase che ho citato è tratta da The Rambler 93, dove Johnson osserva per la prima volta con una certa tetraggine che «dobbiamo senz’altro una certa tenerezza agli scrittori viventi», ma poi avverte che quella tenerezza non è «universalmente necessaria, giacché colui che scrive può essere considerato una sorta di avversario generico, che ciascuno ha il diritto di attaccare». Questa concezione canonica della letteratura come agone è, come Johnson ben sapeva, del tutto classica, e ispira una magnifica affermazione che costituisce il credo di Johnson come critico:

Ma qualunque cosa si decida nei riguardi dei contemporanei, colui che conosce la perfidia del cuore umano e considera la frequenza con cui gratifichiamo il nostro orgoglio o la nostra invidia fingendo di gareggiare per l’eleganza e il decoro si scoprirà non molto incline a provocare uno scompiglio; non vi possono certo essere dispense da invocare per proteggere dalla critica coloro che non sono più in grado di subire rimproveri e di cui ormai non rimane nulla se non i loro scritti e i loro nomi. Nei confronti di questi autori, il critico ha senza dubbio la piena libertà di esercitare la severità più rigida, poiché mette a repentaglio solo la sua fama e, come Enea quando sguainò la spada nelle regioni infernali, si imbatte in fantasmi che non possono essere feriti. Può certamente rendere omaggio alle reputazioni affermate; ma con quella dimostrazione di reverenza può solo interrogare la propria sicurezza, perché tutti gli altri moventi sono ormai esauriti.

L’agone viene qui riportato alle sue origini, e una brillante ironia ricorda al critico che egli sguaina la spada contro i fantasmi dell’Ade, autori che non possono essere feriti. Ma che cosa dire dei fantasmi più grandi: Shakespeare, Milton e Pope? «Vi è sempre un appello aperto dalla critica alla natura»; Johnson intendeva Shakespeare come la «natura» di quella frase, e Walter Jackson Bate considera la natura il motto o il punto di partenza per tutti gli scritti critici di Johnson, sottolineando così che quest’ultimo è un critico empirico. La saggezza, e non la forma, è il supremo criterio di misura per giudicare la letteratura di fantasia, e Shakespeare fornisce a Johnson il massimo banco di prova della critica: come può la reazione del singolo essere adeguata allo scrittore centrale del Canone occidentale?

Si può dire che le considerazioni di Johnson su Shakespeare cominciano con una celebre frase all’inizio della Prefazione (1765): «Nulla può soddisfare molti, e soddisfarli a lungo, se non le rappresentazioni di natura generale». La ricerca di Johnson consiste nello stabilire l’esatta portata dell’imitazione shakespeariana della natura, e nessuno l’ha superato in quest’impresa: «Negli scritti di altri poeti un personaggio è troppo spesso un individuo; in quelli di Shakespeare è solitamente una specie». Chiaramente Johnson non intende che Amleto e Iago non sono rappresentazioni individuali. Piuttosto, la loro individualità viene confermata e rafforzata perché sono il perno di un sistema di vita, l’estensione di un progetto, cosicché non riusciamo a concepire un intellettuale carismatico, nella vita o nella letteratura, che non abbia un tocco di Amleto; né un genio del male, un esteta che gioisca nel comporre con le persone anziché con le parole, e che non voglia essere giudicato rispetto alla perfida eminenza di Iago. Evidentemente Molière non sapeva nulla di Shakespeare, ma l’Alceste del Misantropo evoca Amleto. Ibsen conosceva sicuramente Shakespeare, e Hedda Gabler è una degna discendente di Iago. La presa di Shakespeare sulla natura umana è così sicura che tutti i personaggi postshakespeariani sono, in certa misura, shakespeariani. Johnson nota con acume che qualsiasi altro drammaturgo tende a fare dell’amore un agente universale, ma non Shakespeare:

L’amore, tuttavia, è solo una delle tante passioni, e giacché non ha grande influenza sulla globalità della vita, ha scarsa incidenza nei drammi di un poeta, che ha tratto le sue idee dal mondo vivente e ha mostrato solo quanto ha visto dinanzi a sé. Egli sapeva che ogni altra passione, fosse essa normale o esagerata, era causa di felicità o catastrofe.

Chi è più preciso riguardo alla sede della pulsione in Shakespeare: Johnson o Freud? I commenti di quest’ultimo su AmletoRe Lear e Macbeth attribuiscono alla lotta per l’appagamento sessuale, per quanto represso, almeno una posizione uguale a quella della lotta per il potere. Johnson e Shakespeare non sarebbero d’accordo con Freud, e in Shakespeare la pulsione o passione è assai più completa – un amalgama di molte passioni intensissime – di quanto volesse ammettere Freud, soprattutto nelle tre principali tragedie. Potremmo osservare che la passione di Johnson, sebbene unita a una sessualità repressa con ferocia, era del tutto shakespeariana, informata dalla volontà poetica dell’immortalità, memorabilmente, negativamente e ironicamente sottovalutata da Johnson in una lettera a Boswell (8 dicembre 1763):

In ogni cuore noto si cela forse un desiderio di distinzione che induce ogni uomo prima alla speranza, e poi a credere che Natura gli abbia dato qualcosa di peculiare. Questa vanità porta una mente ad accarezzare le avversioni e un’altra a mettere in moto i desideri, finché questi ultimi si sollevano, mediante l’arte, al di sopra del loro originario stato di potere, e poiché l’affettazione, col tempo, si tramuta in abitudine, alla fine tiranneggiano colui che all’inizio li ha incoraggiati a mostrarsi.

Queste parole erano intese senza dubbio come un’autocritica; ma non sono forse anche una fedele descrizione del personaggio shakespeariano, per esempio di Macbeth? Il desiderio di distinzione è senz’altro il movente della metafora, la pulsione che rende poeti. Esso non anima forse anche gli eroi e le eroine, i cattivi e gli antieroi di Shakespeare? Nella sua prefazione a Shakespeare, Johnson dice: «Personaggi così vasti e generali non furono discriminati e preservati con facilità, tuttavia nessun poeta ha forse mai tenuto i suoi personaggi più distinti l’uno dall’altro» (il corsivo è mio). L’individuazione del discorso, la corrispondenza del discorso al personaggio, è uno dei miracoli shakespeariani, di cui Johnson, nel suo desiderio di distinzione, si impadronì con abilità per l’autoanalisi. Mi sembra curiosa l’opinione di Johnson secondo cui Shakespeare era essenzialmente uno scrittore comico che si era autoimposto la tragedia, forse in cerca di una distinzione ancora maggiore:

Nella tragedia egli è sempre in cerca di qualche occasione per essere comico, ma nella commedia sembra riposarsi, o crogiolarsi, quasi in una modalità di pensiero congeniale alla sua natura. Nelle sue scene tragiche manca sempre qualcosa, ma la sua commedia supera spesso l’aspettativa o il desiderio. La sua commedia piace per le idee e il linguaggio, e la sua tragedia soprattutto per l’azione e gli eventi. La sua tragedia sembra essere abilità, la sua commedia sembra essere istinto.

Lo sviluppo di Shakespeare, essenzialmente dalla commedia e dalla storia al romance e alla tragedia (per usare la nostra terminologia), confuta e insieme conferma l’opinione di Johnson. Il Re Lear è abilità e Come vi pare è istinto? In parte, qui Johnson ci dice di Johnson quanto ci dice di Shakespeare, ma poiché Johnson affermava che Shakespeare era «lo specchio della natura», ciò non è sbagliato. È più interessante che Johnson mostri un’evidente predilezione per Falstaff rispetto a Lear, il che si riallaccia alla sua ansia secondo cui Shakespeare «pare scrivere senza alcuno scopo morale», angoscia che ora non condividiamo. Tuttavia, come rileva Bate, le angosce di Johnson hanno un effettivo valore critico. Il fatto che Shakespeare non si abbandonasse alla «giustizia poetica» è un dispiacere johnsoniano, perché Johnson è profondamente benevolo e nutre una sincera paura verso la tragedia e la follia. Shakespeare, come Jonathan Swift, dava sui nervi a Johnson, che può benissimo aver letto la follia di Re Lear come una profezia di quella che sarebbe potuta diventare la sua pazzia. Johnson, che aveva una naturale propensione alla satira, evitò in larga misura di scrivere satire, cosa che avrebbe potuto menomarlo come poeta, un campo in cui ci ha lasciato troppo poco. La furia di Lear affascinava Johnson suo malgrado, e la sua visione generale della tragedia è così intensa da essere inquietante:

La tragedia di Lear viene meritatamente celebrata tra i drammi di Shakespeare. Forse non vi è dramma che attiri l’attenzione in pari misura, il che agita così tanto le nostre passioni e solletica la nostra curiosità. Le abili involuzioni di interessi distinti, la sorprendente opposizione di personaggi contrastanti, i cambiamenti repentini della fortuna e la rapida successione degli eventi colmano la mente di un perpetuo tumulto di pietà, speranza e indignazione. Non c’è scena che non contribuisca ad aggravare l’angoscia o il modo di condurre l’azione, e quasi nessun verso che non conduca al progresso della scena. La corrente dell’immaginazione del poeta è così forte che la mente, una volta avventuratasi al suo interno, ne viene irresistibilmente trascinata.

Udiamo una mente vigorosa che resiste alla più vigorosa delle menti, ma invano, poiché Johnson viene trascinato dalla corrente dell’immaginazione di Shakespeare. Non è mai un critico così forte e autentico come quando è in lotta con se stesso, e ancora una volta troviamo la turbolenta metafora del «distinto» nelle «abili involuzioni di interessi distinti». Essere distinto è, per Johnson, insieme conquista e vanità; nel cosmo drammatico di Shakespeare, è solo conquista, al di là della giustizia poetica, al di là del bene e del male, al di là della follia e della vanità. In precedenza, nessuno aveva dato espressione alla straordinaria e travolgente forza di rappresentazione shakespeariana come riuscì a fare Johnson che, con la sua meravigliosa eloquenza, individuò l’essenza di Shakespeare nell’arte della divisione, di distinguere, di creare differenze. Come Johnson certamente sapeva, la tragedia non è aliena da quell’arte. La più vasta delle anime, quella di Shakespeare, trovò nell’anima di Johnson il più vasto degli specchi critici, uno specchio dotato di voce. Individuerei la concentrazione di Johnson su Shakespeare, il critico canonico che interpreta il poeta canonico, in un particolare, breve passo della Prefazione in cui le «distinzioni» ripetono un’altra forma della cruciale metafora che lega il critico al suo poeta:

Sebbene avesse tante difficoltà da affrontare, e così poco aiuto nel superarle, è riuscito a procurarsi un’esatta conoscenza di molti modi di vita e di molte forme di disposizioni innate; a variarli con grande molteplicità; a contrassegnarli con eleganti distinzioni; e a metterli in bella mostra con idonee combinazioni. In questa parte del suo lavoro non aveva nessuno da imitare, ma è stato imitato da tutti gli scrittori successivi; e si può dubitare che da tutti i suoi successori si possano racimolare più massime di conoscenza teorica o più regole di prudenza pratica di quante egli solo ne abbia date al suo Paese.

Qui sono riuniti tanti elementi che dobbiamo prendere le distanze per vedere ciò che Johnson ha visto e per udire gli echi della sua lode a Shakespeare. La «conoscenza teorica» è quella che potremmo denominare «consapevolezza cognitiva»; la «prudenza pratica» è la saggezza. Se Shakespeare si procurò un’«esatta conoscenza» e la mise in bella mostra, va oltre ciò che riuscirono a ottenere i filosofi. Senza contingenze ereditarie, Shakespeare come iniziatore istituisce una contingenza da cui tutti gli scrittori successivi devono attingere. Johnson capisce, e ci dice, che Shakespeare ha fissato il criterio di misura definitivo della rappresentazione. Conoscere molti modi di vita e molte forme di disposizioni innate non significa conoscere a prescindere dalla rappresentazione. Shakespeare varia con grande molteplicità, contrassegna con eleganti distinzioni e mostra in piena prospettiva. Variare, contrassegnare e mostrare significaconoscere, e ciò che è conosciuto è ciò che abbiamo imparato a chiamare psicologia, di cui Shakespeare, come afferma Johnson, è l’inventore. Se il drammaturgo solleva uno specchio davanti alla natura, si tratta di uno specchio davvero molto attivo.

Uno dei piccoli capolavori di Johnson è On the Death of a Friend, un testo pubblicato in «The Idler» n. 41. Lo scritto è datato 27 gennaio 1759, solo qualche giorno dopo la morte di sua madre. Johnson, un cristiano, accenna alla speranza del ricongiungimento, ma il tono e il pathos cupo dello scritto rivelano un’accettazione del principio della realtà, dell’obbligo di familiarizzare con la necessità del morire, elemento che ci aspettiamo di trovare più facilmente nello scettico Montaigne e in Freud, per i quali la religione era un’illusione. È quasi impossibile superare Johnson sulla psicologia del superstite:

Sono queste le calamità mediante le quali la Provvidenza ci allontana pian piano dall’amore per la vita. La fermezza può respingere altri mali, o la speranza può mitigarli, ma la privazione irreparabile non lascia nulla per esercitare la risolutezza o lusingare l’aspettativa. I defunti non possono tornare, e qui non ci viene lasciato nulla se non dolore e struggimento.

In confronto a questa prosa straordinaria, le professioni di fede di Johnson non sembrano tanto deboli quanto contraddittorie, se non addirittura forzate. Empirista e naturalista, irremovibile nel suo buon senso, Johnson non si accostò mai con facilità alla fede. In lui vi è una passione per la coscienza che nulla riuscì ad attenuare; Johnson volle più vita, sino alla fine. Anche se Boswell non avesse mai scritto la Vita, ricorderemmo la personalità di Johnson, che è la musica di sottofondo di tutto ciò che quest’ultimo scrisse e disse. Nella nostra epoca la personalità del critico viene spesso deprecata da vari formalismi o degli attuali materialisti culturali. Tuttavia, quando penso ai critici moderni che ammiro di più – Wilson Knight, Empson, Northrop Frye, Kenneth Burke – la prima cosa che ricordo non sono le teorie o i metodi, né tanto meno le letture. La prima cosa che mi torna in mente sono le espressioni di personalità veementi e variopinte: Wilson Knight che cita direttamente la sedute spiritiche; Empson che proclama la nobile barbarie del Paradiso perduto, dal sapore quasi azteco o legato al Benin; Frye che definisce allegramente la descrizione neocristiana della civiltà proposta da T.S. Eliot come il mito della Great Western Butterslide; Burke che riassume «Iayeand eye» (io, ahimè e occhio) nella visione emersoniana del globo oculare trasparente. Il dottor Johnson è più forte di tutti gli altri critici, non solo per capacità cognitiva, cultura e saggezza, ma anche per lo splendore della sua personalità letteraria.

A fare da contrappeso al cupo contemplatore della morte è Johnson l’umorista critico, che insegna al critico a non essere solenne, compiaciuto o altezzoso. In Vite dei poeti, la sua maggiore opera critica, Johnson si ritrovò a presentare cinquanta poeti, scelti per lo più dagli editori, tra cui personaggi non canonici come Pomfret, Sprat, Yalden, Dorset, Roscommon, Stepney e Felton, degni precursori di molti dei nostri poetastri e rapsodi rudimentali canonizzati prematuramente. Forse Yalden li rappresenta tutti quanti, ieri come oggi. Johnson osserva che Yalden si cimentò in odi pindariche nello stile di Abraham Cowley (anch’egli ormai dimenticato, tranne che dagli specialisti): «Avendo fissato l’attenzione su Cowley come modello, ha tentato in qualche modo di rivaleggiare con lui, e ha scritto un Hymn to Darkness, evidentemente come controparte dell’Hymn to Light di Cowley».

Il povero Yalden non verrebbe ricordato neppure per questo, se la Vita di Yalden non si concludesse con una superba frase johnsoniana: «Dei suoi altri poemi basterà dire che meritano un’attenta lettura, benché non sempre siano esattamente levigati, benché le rime siano talvolta poco azzeccate, e benché i suoi difetti sembrino più le omissioni della pigrizia che la negligenza dell’entusiasmo».

Sarebbe lecito dedurre che non è rimasto molto dello sfortunato Yalden, tuttavia questa non è l’osservazione più raffinata che il piccolo bardo abbia suscitato da parte del grande critico. Yalden tentò anche un Hymn to Life, in cui, in reazione all’improvviso avvento della Luce appena creata, descrive Dio in preda all’incertezza: «Mentre l’Onnipotente s’interrogava». Il commento di Johnson a questo verso è il seguente: «Avrebbe dovuto ricordare che la conoscenza infinita non può mai interrogarsi. Ogni interrogativo è l’effetto della novità sull’ignoranza».

Le grandi Vite dei poeti raggiungono il massimo vigore con Alexander Pope, precursore di Johnson; con Richard Savage, un poeta mediocre ma un grande oratore, con cui Johnson aveva condiviso i suoi primi anni londinesi come bohémien in Grub Street; con Milton, per cui Johnson provava un misto di antipatia ed enorme ammirazione; e con Dryden, per certi versi il suo predecessore critico. Vi sono tuttavia passi celebri e importanti anche nei saggi dedicati a Cowley, Waller, Addison, Prior, Swift, Young, Gray e persino nelle poche pagine riservate al suo amico, il poeta pazzo William Collins. Come corpus di critica poetica e biografia letteraria, quest’opera non ha rivali nella lingua inglese. Come nella restante critica di Johnson – gran parte dei saggi periodici apparsi in The Rambler e The Idler, alcuni aspetti di Rasselas, la prefazione e le note a Shakespeare, e molto di ciò che viene citato nella Vita di Boswell – la distinzione tra interpretazione e biografia è raramente possibile.

Forse Johnson non credeva (come me) con Emerson che «a rigor di termini non esiste alcuna storia; solo biografia», ma sul piano pragmatico scrisse critica biografica. Quando non era disponibile quasi nessuna biografia, come nel caso di Shakespeare, Johnson dimostra quanto possa essere ineffabile lo stile della storia essenzialmente biografica. Per Johnson, il principale accento biografico cade sempre sull’individualità, cosicché, per lui, le problematiche cruciali sono l’originalità, l’inventiva e l’imitazione, sia della natura sia di altri poeti. I critici come me, il cui interesse si concentra sull’influenza, imparano necessariamente da Johnson, che sapeva implicitamente perché aveva limitato le sue poesie importanti a London e La vanità dei desideri umani, entrambe opere magnifiche, ma non all’altezza del suo potenziale. La consapevolezza della perfezione di Pope gli impedì ulteriori conquiste; Johnson celebra Pope ma evita una lettura creativa e scorretta di questo elegante padre poetico, il cui temperamento non era johnsoniano.

T.S. Eliot, un critico minore in confronto a Johnson, divenne un poeta vigoroso rivedendo Tennyson e Whitman nella Terra desolata. Johnson si astenne volutamente dal dare alla tradizione neoclassica di Ben Jonson, Dryden e Pope continuatori più poderosi di Oliver Goldsmith e George Crabbe, che godevano entrambi della sua approvazione. Per me resta un mistero perché il pugnace Johnson si sia rifiutato di gareggiare con Pope, un confronto per cui era assolutamente adatto. Il suo rapporto con Pope è più simile a quello di Anthony Burgess con Joyce che a quello di Beckett con il suo vecchio maestro. Adoro Nothing Like the Sun di Burgess, ma quel testo ripete con affetto l’Ulisse senza sottoporlo ad alcuna revisione. Persino il giovane Beckett, nel suo spiritoso romanzo Murphy, fornisce una lettura scorretta ma molto creativa dell’Ulisse, allontanandosene per seguire i propri scopi e iniziare la lunga evoluzione che l’avrebbe portato, attraverso Watt e la grande trilogia (MolloyMalone muoreL’innominabile), fino al trionfo per nulla joyciano di Com’è e ai suoi tre drammi principali. Come poeta, Johnson rifiutò la grandezza, anche se la sfiorò senza dubbio nella Vanità dei desideri umani. Come critico era più disinibito, e superò chiunque l’avesse preceduto. Boswell non ci spiega questo enigma. Il problema non è la forza della Vanità bensì la sua singolarità; Johnson sapeva quanto fosse valida. Perché non la usò come punto di partenza?

Non mi viene in mente nessun altro poeta inglese che possedesse le capacità di Johnson e che si sia rifiutato con tanta fermezza di essere un grande poeta. Emerson aveva con la poesia di Wordsworth lo stesso rapporto che Johnson aveva con quella di Pope e, come Johnson, Emerson scelse l’altra armonia, quella della prosa. Tuttavia, nemmeno le migliori poesie di Emerson – BacchusDays, l’ode Channing e qualche altra come Uriel – hanno il peso e lo splendore della Vanità dei desideri umani. Dopo la Vanità, il genio di Johnson si dedicò alla critica e alla conversazione, ma non alla poesia. Shakespeare era il poeta che Johnson amava suo malgrado, e in parziale contraddizione con il suo profondo desiderio di «giustizia poetica» e di miglioramento morale dell’umanità. Johnson, tuttavia, amava Pope – ancora più di Dryden – in maniera assoluta; gli aveva dato il suo cuore, affermando addirittura che la sua traduzione dell’Iliade era «un’opera che nessuna età o nazione può sperare di eguagliare», un’opera che «si può dire abbia accordato la lingua inglese», compresa quella di Johnson.

A questo scandaloso elogio di una versione ormai morta per quasi tutti noi bisogna contrapporre la lampante preferenza di Johnson per la Dunciad, uno dei massimi vertici di Pope, rispetto all’ampiamente sopravvalutato Saggio sull’uomo, che Johnson demolisce: «Mai penuria di conoscenza e volgarità di sentimenti furono mascherate così felicemente. Il lettore sente di avere la mente piena anche se non impara nulla; e, quando la incontra nella sua nuova veste, non conosce più la lingua di sua madre e della sua nutrice».

Johnson aveva pochi dubbi sulla superiorità della propria saggezza, istruzione e intelligenza rispetto a quelle di Pope. Che cosa fu dunque a metterlo in ombra, al punto da indurlo a non investire le massime energie più vitali in una lunga carriera da poeta? La risposta va cercata, almeno in parte, nella sua descrizione della forza poetica di Pope:

Pope possedeva, in proporzioni assai armoniche tra loro, tutte le qualità che costituiscono il genio. Aveva inventiva, grazie alla quale si formano nuove sequenze di eventi e si mostrano nuovi scenari di immagini, come avviene nel Ricciolo rapito; e grazie alla quale nuovi abbellimenti e illustrazioni estrinseci e avventizi sono legati a un argomento noto, come avviene nel Saggio sulla critica. Aveva immaginazione, che lascia un segno marcato sulla mente dello scrittore e consente di trasmettere al lettore le varie forme della natura, i casi della vita e le energie della passione, come avviene in Eloisa, nella Foresta di Windsor e nelle Epistole etiche. Aveva assennatezza, che sceglie dalla vita o dalla natura ciò che è necessario per lo scopo del momento e, separando l’essenza delle cose dai fatti concomitanti, rende spesso la rappresentazione più vigorosa della realtà; e aveva sempre presenti i colori della lingua, pronto a decorare la sua materia con tutte le grazie dell’espressione elegante, come quando adatta la sua eloquenza alla meravigliosa molteplicità dei sentimenti e delle descrizioni di Omero.

Metto in discussione solo l’ultima virtù, l’assennatezza, e le sue manifestazioni nell’Iliadedi Pope, ma concordo senza alcun dubbio con l’elogio all’Invenzione nel Ricciolo rapito e con quello all’Immaginazione nelle Epistole.

La sede in cui Johnson, nella sua passione per Pope, rischia l’iperbole è la sintesi delle sue argomentazioni a favore del poeta:

Nuovi sentimenti e nuove immagini altri possono produrre; ma tentare un ulteriore miglioramento della versificazione sarà rischioso. Arte e diligenza hanno ormai fatto del loro meglio, e quanto verrà aggiunto sarà lo sforzo di un lavoro tedioso e di una curiosità inutile.

Dopo tutto ciò, è certamente superfluo rispondere alla domanda che venne posta un tempo – Pope era un poeta? – se non chiedendo di rimando: se Pope non era un poeta, dove si trova la poesia? Circoscrivere la poesia mediante una definizione servirà solo a rivelare la grettezza di chi definisce, anche se non è facile formulare una definizione che escluda Pope. Guardiamoci intorno nell’epoca presente, e volgiamo gli occhi al passato; scopriamo a chi la voce dell’umanità abbia conferito la corona della poesia; che le loro produzioni vengano prese in esame, e le loro rivendicazioni affermate, e le pretese di Pope non saranno più oggetto di contestazioni. Se avesse dato al mondo solo la sua versione, avremmo dovuto concedergli il titolo di poeta: se lo scrittore dell’Iliade dovesse classificare i suoi successori, assegnerebbe un posto altissimo al suo traduttore, senza esigere altre dimostrazioni di genio.

Non si può non provare una certa perplessità. Una parte di Johnson fa sua l’opinione dogmatica secondo cui il distico neoclassico è la perfezione definitiva e normativa della forma poetica. Non posso sperare di comprendere perché un critico sperimentale così scettico, uno studioso così dotto, abbia dovuto trasformare l’innegabile perfezione tecnica di Pope in un simile feticcio. Johnson conosceva letteralmente a memoria migliaia di versi di Pope e Dryden, e relativamente pochi di Milton, ma sapeva (come loro) che quei due poeti non potevano vantare la grandezza di Milton, né tanto meno di Shakespeare. Johnson elevò il merito di Milton a una grandezza piuttosto mediocre, ma un’ambivalenza analoga non permeò la sua visione di Shakespeare. Certo, Johnson non si identificò mai con l’Achille di Omero-Pope, come invece si identificò benissimo con Sir John Falstaff. Non è neppure chiaro che La vanità dei desideri umani non è un progresso tecnico rispetto a Pope. Dal punto di vista empatico, Johnson era ciò che elogiava in Milton, un pensatore autonomo, e il prestigio di Pope non ha quasi alcun peso nella sua generosa lode. Pope è un grande poeta, ma non si può dire, come invece si può affermare di Shakespeare e di Dante, che la sua sia vera poesia; ed è bizzarro asserire che Omero avrebbe approvato l’Iliade di Pope. Ciò suscita quasi la furibonda replica di William Blake, che attaccò insieme Pope e il suo mecenate popeiano, lo scadente poeta William Hayley:

Così Hayley sulla sua toeletta vedendo il sapone

grida che Omero è assai migliorato da Pope.

Ad affascinare Johnson era soprattutto l’abilità di Pope, o quella che Johnson chiamò stranamente prudenza poetica di Pope, definita da Robert Griffin come «la peculiare combinazione di facoltà naturali con una propensione alla fatica». Uno dei miti di Johnson su se stesso era la convinzione di essere indolente, in contrasto alla diligenza di Pope; ma ciò cui si riferiva era la differenza tra l’irrequietezza e l’impazienza della sua mente e la determinazione di Pope. Come è risaputo, Johnson aveva paura della sua mente, quasi come se potesse essere vittimizzato dalla propria immaginazione, come lo era stato Macbeth nella più straordinaria visione shakespeariana della pericolosa prevalenza dell’immaginazione. Johnson era un figlio troppo buono del suo padre poetico, Pope, e la Musa esige ambivalenza nel romanzo familiare dei poeti. Il dolore soggiacente, sempre sottinteso ma espresso di rado, delle Vite dei poeti è quella che Laura Quinney definisce una ricerca dell’«edipalizzazione dello spazio letterario». Di fronte ad Alexander Pope come suo Laio, Johnson evitò gli incroci piuttosto che rischiare l’irriverenza. Forse era un uomo troppo buono per diventare un grande poeta, ma non dobbiamo rimpiangere i suoi scrupoli, perché ora lo conosciamo sia come grand’uomo sia come il più grande dei critici letterari.

La critica canonica, ciò che Johnson scrive consciamente, ha, in lui, le sue motivazioni religioso-politiche e socio-economiche, ma mi affascina vedere il critico mettere da parte le sue ideologie nella Vita di Milton. Gli attuali apostoli della «critica e del cambiamento sociale» dovrebbero provare a leggere, in sequenza, Johnson e Hazlitt a proposito di Milton. In tutte le questioni di carattere religioso, politico, sociale ed economico, il tory Johnson e il dissenziente radicale Hazlitt sono diametralmente opposti, ma lodano Milton per le stesse qualità, Hazlitt in modo memorabile quanto Johnson, soprattutto in questo passo:

Milton ha preso più prestiti di ogni altro scrittore, e ha prosciugato ogni fonte d’imitazione, sacra o profana; tuttavia, è perfettamente distinto da ogni altro scrittore. È uno scrittore di canti, eppure non è inferiore a Omero in termini di originalità. Il vigore della sua mente è impresso in ogni verso. […] Leggendo le sue opere, ci sentiamo sotto l’influenza di un poderoso intelletto, che, più si avvicina agli altri, e più si distingue da essi. […] Lo studio di Milton ha l’effetto dell’intuizione.

Shakespeare è l’unica eccezione alla verità di queste frasi, come ho tentato di dimostrare definendo l’influenza shakespeariana che persiste nel Satana di Milton. Hazlitt, a mio parere secondo solo a Johnson tra i critici inglesi, nutriva un’antipatia nei confronti di Johnson, che tuttavia, parlando di Milton, anticipa Hazlitt:

La più alta lode del genio è l’invenzione originale. […] Tra tutti coloro che hanno preso prestiti da Omero, Milton è forse il meno indebitato. Naturalmente, era un pensatore autonomo, sicuro delle sue capacità e sprezzante nel confronto degli aiuti o degli intralci: non disdegnava l’accesso al pensiero o alle immagini dei suoi predecessori, ma non ne andava in cerca.

Entrambi i critici individuano giustamente in Milton una capacità che trasforma lo studio in intuizione: la capacità dell’inventiva, che Johnson considerava l’essenza della poesia. La malinconia di Johnson, che gli alienò Hazlitt, gli insegnò ad attribuire ancora più importanza all’inventiva, perché la cura della malinconia implica una continua scoperta e riscoperta delle possibilità di vita. Più di qualunque altro autore mi sia capitato di leggere, Johnson comprese che non siamo disposti a sopportare un’anticipazione della morte, soprattutto della nostra. Non è eccessivo affermare che la sua critica si fonda su questa comprensione. Per Johnson, la legge fondamentale dell’esistenza umana non può variare: la natura umana si rifiuta di affrontare direttamente la morte. Quando Johnson loda Shakespeare osservando che i suoi personaggi agiscono e parlano sotto l’influenza delle passioni generali che agitano tutta l’umanità, il critico pensa in primo luogo al desiderio di sottrarsi alla consapevolezza della morte. Vi è una conversazione insieme lugubre e splendida riferita da Boswell e avvenuta il 15 aprile 1778, quando Johnson aveva sessantanove anni:

BOSWELL «Allora, signore, dobbiamo accontentarci di riconoscere che la morte è una cosa terribile.»

JOHNSON «Sì, signore. Non mi sono avvicinato a una condizione che possa considerarla meno di terribile.»

SIGNORA KNOWLES (che sembra godere di una piacevole serenità nella convinzione di una benevola luce divina) «Non dice forse san Paolo, “ho combattuto la buona battaglia della fede, ho concluso il mio cammino; d’ora in poi mi si prepara una corona di vita!”?»

JOHNSON «Sì, signora; ma quello era un uomo ispirato, un uomo che era stato convertito da un intervento soprannaturale.»

BOSWELL «In prospettiva, la morte è spaventosa; ma, in realtà, constatiamo che le persone muoiono facilmente. Pochi credono di dover morire per certo; e coloro che lo credono si apprestano a comportarsi con risolutezza, come fa un uomo che debba essere impiccato. Non per questo è meno restio a farsi impiccare.»

SIGNORINA SEWARD «Esiste una varietà di paura della morte che è senza dubbio assurda; ed è il terrore dell’annichilimento, che è solo un piacevole sonno senza sogni.»

JOHNSON «Non è piacevole né è un sonno; non è nulla. Ebbene, la mera esistenza è meglio del nulla, al punto che si preferirebbe esistere nel dolore che non esistere affatto.»

Johnson conclude la conversazione osservando che «la signora confonde l’annichilimento, che non è nulla, con la sua comprensione, che è spaventosa. L’orrore dell’annichilimento consiste nella sua comprensione». Il realismo del critico associa quell’orrore sia con la paura della follia sia con la speranza della salvezza, ma l’orrore trascende sia la paura sia la speranza. Per continuare a vivere, indietreggiamo dalla consapevolezza che induce l’orrore.

Riguardo a Shakespeare, Johnson non è mai più acuto di quando commenta il sorprendente discorso del Duca (introdotto dalle parole «Rassegnatevi alla morte») nell’atto terzo, scena prima di Misura per misura: «Non hai né giovinezza né vecchiaia ma soltanto una specie di sonno pomeridiano nel quale tu sogni d’entrambe»:

È un’immagine squisita. Quando siamo giovani, ci affanniamo a elaborare piani per il futuro e ci lasciamo sfuggire le gratificazioni che ci stanno dinanzi; quando siamo anziani, allietiamo il languore della vecchiaia con il ricordo di piaceri o successi giovanili; cosicché la nostra vita, di cui nessuna parte viene colmata dall’attività del momento presente, assomiglia ai sogni che facciamo dopo pranzo, quando gli eventi del mattino si mescolano con i progetti della sera.

Johnson intuisce che la squisita immagine di Shakespeare rivela la nostra totale incapacità di vivere nel presente; o ci proiettiamo nel futuro o ricordiamo. Anche se lo sottintende, Johnson si rifiuta di dire che rinunciamo al presente perché dobbiamo morire nel presente. L’orrore dell’annichilimento è il movente della metafora; quello che Nietzsche definiva «il desiderio di essere diversi, il desiderio di essere altrove» viene acceso dal rifiuto di accettare la morte. E, secondo Johnson, il desiderio di ottenere la distinzione, compresa la distinzione letteraria, scaturisce dal medesimo impulso: sfuggire alla coscienza che si riduce a vertigine al pensiero di cessare di esistere.

Bate, nella più sottile interpretazione di Johnson a me nota, sottolinea che nessun altro scrittore è così ossessionato dalla consapevolezza che la mente è un’attività, un’attività destinata a tramutarsi in distruttività per se stessi o per gli altri a meno che non si dedichi al lavoro. Il desiderio di sopravvivenza del cuore umano, dissolta in un arcobaleno di forme, viene smascherato da Johnson come impulso deidealizzato alla canonizzazione letteraria. La cupezza di Johnson, che a Hazlitt sembrava offensiva perché innaturale, si può definire come un empirismo negativo contrapposto al naturalismo positivo di Hazlitt. Entrambi i critici esaltavano Falstaff come la più bella rappresentazione dello spirito comico di Shakespeare, ma Johnson aveva più bisogno del sollievo garantito dall’umorismo, e ciò lo condusse a una sorprendente identificazione con Falstaff, del tutto contro la sua volontà morale. Hazlitt è assolutamente incantato da Falstaff, come dovremmo esserlo tutti noi; Johnson, come i moralisti minori fino a oggi, disapprova Falstaff ma non riesce a tenergli testa.

Nonostante le sue inibizioni morali, Johnson è così colpito da Falstaff da diventare delirante finché non riesce a controllarsi:

Ma Falstaff inimitato, inimitabile Falstaff, come potrò descriverti? Tu, miscuglio di assennatezza e vizio; di assennatezza che può essere ammirata ma non stimata, di vizio che può essere disprezzato ma non detestato. Falstaff è un personaggio pieno di difetti, e di quei difetti che generano naturalmente il disprezzo. È un ladro e un ingordo, un codardo e un millantatore, sempre pronto a ingannare i deboli e ad approfittare dei poveri; a terrorizzare i timorosi e a insultare gli indifesi. Insieme ossequioso e malevolo, satireggia in loro assenza coloro presso i quali si guadagna da vivere lusingandoli. È amico del principe solo come agente del vizio, ma è così fiero di quell’amicizia da non essere solo altezzoso e arrogante con gli uomini comuni, ma anche da ritenere che il duca di Lancaster abbia a cuore il suo interesse. Tuttavia, un uomo così corrotto, così spregevole, si rende necessario al principe che lo disprezza grazie alla più piacevole di tutte le qualità, una perpetua gaiezza, grazie a un’infallibile capacità di provocare il riso, cui si abbandona ancora più liberamente, giacché la sua arguzia non è del tipo splendido o ambizioso, bensì consiste di facili evasioni e frivole sortite, che sono fonte di trastullo ma non suscitano invidia. Occorre osservare che egli non si macchia di crimini gravi o cruenti, sicché la sua licenziosità non è così offensiva da non poter essere sopportata grazie alla sua allegria.

La morale che si può trarre da questa rappresentazione è che nessun uomo è più pericoloso di colui che, alla volontà di corrompere, unisce la capacità di piacere; e che né arguzia né onestà possono ritenersi al sicuro con un simile compagno quando vedano Enrico sedotto da Falstaff.

Essendo un falstaffiano convinto, dissento da molte di queste affermazioni e preferisco il contemporaneo di Johnson, Maurice Morgann che, in An Essay on the Dramatic Character of Sir John Falstaff (1777), riscatta il più bel personaggio comico di tutta la letteratura. Secondo Boswell, Johnson reagì ai commenti di Morgann borbottando che in seguito quest’ultimo avrebbe dimostrato la virtù morale di Iago. Johnson merita tuttavia il nostro perdono per la sua toccante osservazione secondo cui Falstaff manifesta «la più piacevole di tutte le qualità, una perpetua gaiezza».

Johnson aveva un costante bisogno di quella qualità, e i suoi riferimenti a Falstaff, nelle conversazioni e negli scritti, sono innumerevoli. Gli piaceva descriversi come Falstaff, vecchio ma spensierato, con una vitalità indomita anche se pian piano oscurata dalla perdita imminente. La vitalità dimora nella scrittura di Johnson, proprio come nella figura di Johnson, in e senza Boswell. Non so dire se quella forza dell’essere continuerà a ossessionarci. Se i valori canonici verranno totalmente esiliati dallo studio della letteratura, Johnson avrà ancora un pubblico?

Se non ci saranno altre generazioni di lettori comuni, privi di inclinazioni ideologiche, Johnson scomparirà, insieme con molti altri elementi canonici. La saggezza, tuttavia, non muore così facilmente. Se la critica svanisce dalle università e dai college, risiederà in altri luoghi, poiché è la versione moderna della letteratura di saggezza. Non sopporto di essere elegiaco riguardo al dottor Johnson, il mio eroe fin dall’infanzia, così concludo questo capitolo lasciandogli l’ultima parola, tratta dalla Prefazione a Shakespeare. In questo modo abbiamo un’altra opportunità di ascoltare il critico più grande che si esprime sul poeta più poderoso: «Le combinazioni insolite di inventiva fantasiosa possono divertire per un po’, grazie alla novità di cui la comune sazietà della vita ci manda tutti in cerca; ma i piaceri dello stupore improvviso si esauriscono ben presto, e la mente può solo poggiare sulla saldezza della verità».

9.

IL FAUST, PARTE SECONDA DI GOETHE: IL POEMA CONTROCANONICO

Tra tutti i più poderosi scrittori occidentali, oggi Goethe sembra il meno accessibile alla nostra sensibilità. Sospetto che questa distanza abbia poco a che fare con la pessima maniera con cui la sua poesia viene tradotta in inglese. Anche Hölderlin viene tradotto male, ma il fascino che esercita su gran parte di noi offusca quello di Goethe. Un poeta e uno scrittore di saggezza che nel suo ambito linguistico è l’equivalente di Dante può superare traduzioni inadeguate ma non mutamenti di vita e letteratura così radicali da rendere i suoi principali atteggiamenti tanto remoti da sembrare arcaici. Goethe non è più il nostro antenato, come lo è stato di Emerson e di Carlyle. La sua saggezza resiste, ma sembra provenire da un sistema solare diverso dal nostro.

Goethe non aveva precursori poetici tedeschi di vigore anche lontanamente paragonabile al suo. Hölderlin venne dopo, e da allora Goethe non ha più avuto rivali, neppure in Heine, Mörike, Stefan George, Rilke, Hofmannsthal o negli stupefacenti Trakl e Celan. Tuttavia, pur collocandosi all’inizio della letteratura di fantasia tedesca, Goethe è, da un punto di vista occidentale, una fine più che un principio. Ernst Robert Curtius, a mio giudizio il più eminente tra i moderni critici letterari tedeschi, osserva che la letteratura europea ha creato una tradizione continua da Omero a Goethe. Il passo successivo venne compiuto da Wordsworth, l’inauguratore della poesia moderna nonché di quella corrente d’introspezione che va da Ruskin a Proust per poi arrivare a Beckett, fino a poco tempo fa il maggior scrittore vivente. Goethe, nato nel 1749, morì nel 1832, mentre Wordsworth, nato nel 1770, morì nel 1850, il che fa del romantico inglese un contemporaneo più giovane del saggio tedesco. Tuttavia, i poeti britannici e americani continuano a riscrivere Wordsworth senza volerlo, mentre non si può dire che oggi Goethe eserciti un’influenza vitale sulla poesia tedesca.

Nonostante ciò, occorre rilevare che la lontananza di Goethe è parte integrante del suo enorme valore per noi, soprattutto in un’epoca in cui gli speculatori francesi hanno proclamato la morte dell’autore e l’egemonia dei testi. Ciascun testo di Goethe, per quanto divergente dagli altri, reca l’impronta della sua personalità unica e travolgente, che non può essere evitata né decostruita. Leggere Goethe significa rendersi nuovamente conto che la morte dell’autore è solo un tardivo tropo gallico. Il demone o i demoni di Goethe – pare che ne avesse al suo servizio quanti ne voleva – sono sempre presenti nella sua opera, contribuendo al perenne paradosso secondo cui la poesia e la prosa sono al tempo stesso modelli di un ethos classico, quasi universale, e di un pathos romantico, intensamente personale. Il logos o, in termini aristotelici, la dianoia (il contenuto del pensiero), dell’opera di Goethe è l’unico aspetto vulnerabile, poiché l’eccentrica scienza della natura abbracciata da Goethe sembra oggi una concettualizzazione inadeguata della sua formidabile e demonica concezione della realtà. Ciò ha tuttavia poca importanza, perché il vigore letterario e la saggezza di Goethe sopravvivono all’evaporazione delle sue razionalizzazioni.

Curtius osserva con acume che «il predominio della luce sulla tenebra è la condizione più adatta a Goethe» e ci ricorda che la parola usata da Goethe per definire tale condizione è heiter, non tanto nel senso di «gioioso» quanto come equivalente del latino serenus, un cielo senza nuvole, sia di giorno sia di notte. Come Shelley dopo di lui, Goethe individuò nella stella del mattino il suo emblema personale, anche se non nel momento della sua squisita scomparsa nell’alba, come invece avrebbe fatto il poeta inglese. Ora, per noi, il sereno Goethe è un fardello capriccioso; né noi né i nostri scrittori siamo tranquilli. Il Faust di Goethe vive fino ai cent’anni, e Goethe desiderava ardentemente la stessa sorte per sé. Nietzsche ci ha insegnato una poetica del dolore; solo il doloroso, insisteva con perspicacia, può essere davvero memorabile. Curtius attribuisce a Goethe una poetica del piacere in un’antica tradizione, ma una poetica della serenità e di cieli limpidi è ancora più vicina alla visione goethiana.

«L’errore circa la vita è necessario alla vita», una cruciale intuizione nietzschiana, è parte integrante del grande (e riconosciuto) debito del filosofo nei confronti di Goethe, la cui idea di poesia si incentrava sulla complessa consapevolezza secondo cui la poesia era essenzialmente tropo, e che il tropo era una sorta di errore creativo. Nel suo capolavoro, European Literature and the Latin Middle Ages (1948), Curtius accosta due splendide affermazioni di Goethe sul tropo. Nelle Note e dissertazioniallegate al Divano occidentale orientale, Goethe commenta la metafora nella poesia araba:

L’orientale scopre in tutto occasione di ricordarsi di tutto, così che, abituato a connettere e a incrociare le cose più lontane, non si fa alcun scrupolo di dedurre, con minime inflessioni di lettere e di sillabe, l’una dall’altra, le cose più contraddittorie. Qui si vede che la lingua è già di per sé produttiva: retoricamente, in quanto soccorre il pensiero, poeticamente, in quanto parla all’immaginazione.

Quindi colui che, muovendo dai primi necessari tropi originari, ne individuasse di più liberi e audaci, fino a giungere ai più arrischiati, arbitrari, anzi addirittura goffi, convenzionali e di cattivo gusto, si sarebbe procurato un vasto panorama della poesia orientale nei suoi momenti principali.

Questa sarebbe una chiara metafora generale della poesia, dove «si scopre in tutto occasione di ricordarsi di tutto». Nelle sue Massime e riflessioni, Goethe dice, a proposito del suo vero precursore (l’unico che potesse accettare, perché scriveva in una diversa lingua moderna): «Shakespeare è ricco di tropi memorabili che scaturiscono da concetti personificati e che a noi non andrebbero affatto bene, ma che in lui sono perfettamente al loro posto, perché ai suoi tempi ogni arte era dominata dall’allegoria».

Ciò riflette l’infelice distinzione goethiana tra «allegoria, in cui il particolare vale solo come esempio dell’universale», e «simbolo», in cui «si svela la natura della poesia: si esprime il caso particolare senza pensare, o alludere, all’universale». Tuttavia, Goethe prosegue osservando che Shakespeare «trova anche similitudini là dove noi non le prenderemmo, per esempio nel libro [che] appariva ancora come qualcosa di sacro». Definire un libro come qualcosa di sacro non è un’allegoria nell’accezione piuttosto scialba di Goethe, ma è un’allegoria come autentica modalità simbolica in cui tutte le cose suggeriscono ancora una volta tutte le cose. Tale metafora del libro schiude a Goethe le sue massime ambizioni poetiche: incarnare e dilatare la tradizione europea della letteratura senza essere sopraffatto dalle sue contingenze, e dunque senza perdere l’immagine di se stesso.

Questo aspetto di Goethe è stato chiarito al meglio dal suo principale erede novecentesco, Thomas Mann. Con amabile ironia (o forse con amore ironico), Mann compose una serie di straordinari ritratti di Goethe, dal saggio Goethe e Tolstoj (1922), passando per un trio di saggi degli anni Trenta (sull’uomo di lettere, sull’«esponente dell’età borghese» e sul Faust), fino al romanzo Lotte a Weimar (1939), per concludere con la Fantasia su Goethe degli anni Cinquanta. A parte Lotte a Weimar, la più notevole di queste interpretazioni goethiane è il discorso pronunciato per il centenario della morte del poeta: Goethe esponente dell’età borghese. Per Mann, Goethe è «questo grand’uomo in forma di poeta», il profeta della cultura e dell’individualismo idealistico tedeschi, ma soprattutto «questo miracolo di personalità» e «l’uomo simile a Dio» cui accenna Carlyle. Come esponente dell’età borghese, Goethe parla di un «libero commercio di concetti e sentimenti», che Mann interpreta come «una tipica trasposizione di principi economici liberali nella vita intellettuale».

Mann sottolinea che la serenità di Goethe fu più una conquista estetica che una dote naturale. Nella matura Fantasia su Goethe, loda lo scrittore tedesco per il suo «splendido narcisismo, un autocompiacimento troppo serio e, fino alla fine, troppo interessato all’autoperfezione, all’illuminazione e alla distillazione della dote naturale perché sia opportuna una parola meschina come “vanità”».

Il fascino di questa caratterizzazione consiste nel fatto che Mann si colloca sullo stesso piano di Goethe sia qui sia nello splendido saggio del 1936 su Freud e il futuro:

L’imitatio di Goethe può ancora oggi, con il ricordo dei vari stadi della sua arte, del Werther, del Meister, fino al tardo Faust e al Divan, guidare e determinare, a partire dall’inconscio, miticamente, la vita di uno scrittore. Ho detto dall’inconscio, sebbene nell’artista in ogni momento l’inconscio si converta sorridendo nel conscio, in un’attenzione infantile e profonda.

L’imitatio Goethe di Mann ci offre Tonio Kröger come Werther, Hans Castorp come Wilhelm Meister, il Dottor Faustus invece di Faust e Felix Krull invece del Divano. Nelle osservazioni di Mann vi sono eco deliberate dei «modelli perfetti» di Goethe, che «hanno un effetto perturbante in quanto ci portano a saltare indispensabili fasi della nostra Bildung, con il risultato, il più sovente, che siamo portati ben lontani dalla meta, a un illimitato errore».

In vari punti, Mann cita la domanda crudele e centrale che Goethe formulò in età avanzata: «Un uomo vive quando ne vivono anche altri?». Impliciti nella domanda sono due splendidi aforismi goethiani che, insieme, istituiscono una dialettica della creazione tardiva: «Solo facendo nostre le ricchezze altrui diamo vita a qualcosa di grande» e «Che cosa possiamo in realtà definire nostro se non l’energia, la forza, la volontà?».

Il Goethe di E.R. Curtius è il perfezionatore e ultimo rappresentante della cultura letteraria che va da Omero a Dante passando per Virgilio e che in seguito raggiunse il culmine del sublime in Shakespeare, Cervantes, Milton e Racine. Solo uno scrittore dotato della forza demonica di Goethe avrebbe potuto riassumere tante cose senza cadere nella perfezione della morte. Ora la nostra perplessità deriva dal fatto che, nonostante la sua vitalità e saggezza, Goethe ci metta di fronte, nella sua più vigorosa produzione lirica, a una coscienza troppo indivisa perché possiamo credere di essere trovati da quella poesia, senza dubbio poderosa quanto quella di Wordsworth, ma assai meno toccante. Nonostante la loro straordinaria intensità retorica, la Trilogie der Leideschaft o Trilogia della passione non comprende poesie capaci di collocarsi al centro del nostro essere come Tintern Abbey e l’ode Intimations. Il Preludionon può essere considerato come una poesia di qualità superiore al Faust, tuttavia sembra di gran lunga l’opera più normativa. Il grande enigma estetico di Goethe non è costituito dalle sue produzioni liriche e narrative, entrambe incontestabili, bensì dal Faust, il più grottesco e ineguagliabile dei grandi poemi occidentali in forma drammatica.

Erich Heller scrive con acume: «Qual è il peccato di Faust? L’irrequietezza dello spirito. Qual è la salvezza di Faust? L’irrequietezza dello spirito». Si tratta di una confusione goethiana oppure della personale versione goethiana dell’idea gnostica di salvezza attraverso il peccato? Sembra giusto definirla una confusione. Heller la interpreta più come una sorta di illecita ambiguità: «Ciò che Goethe non riuscì a scrivere fu la tragedia dello spirito umano. È qui che la tragedia di Faust fallisce e diviene illegittimamente ambigua, poiché per Goethe non esiste, in ultima analisi, uno spirito specificamente umano. Esso è, in sostanza, tutt’uno con lo spirito della natura».

Hermann Weigand, pur ammettendo che «la salvezza di Faust è un evento quanto mai eterodosso», attribuisce la redenzione eretica all’«incessante sforzo» compiuto dall’eroe per «dilatare la propria personalità», cosa che rappresentava senza dubbio la ricerca dello stesso Goethe. Temo tuttavia che Heller abbia ragione e che Faust non abbia personalità né spirito specificamente umano, il che costituisce una delle nostre difficoltà nei confronti del poema. In Goethe, nulla è più omerico (o più una grottesca parodia di Omero) dell’assenza di qualsiasi nozione di uno spirito umano distaccato dalle forze e dalle pulsioni della Natura. Faust, come gli eroi omerici, è un terreno di battaglia sul quale si scontrano forze contrastanti. È questa la sua principale differenza rispetto a Amleto, che si colloca nella tradizione biblica dello spirito umano. Faust non potrebbe mai dire, con Amleto, che nel suo cuore vi è una sorta di lotta. Al contrario, il suo cuore, la sua mente e le sue concezioni sono rigidamente divisi l’uno dall’altro, ed egli è il luogo più o meno arbitrario in cui essi si scontrano.

Tuttavia, Goethe non scrive un poema epico omerico, bensì la tragedia tedesca, sebbene «tragedia» abbia un significato peculiare in relazione al Faust. Heller dice che la tragedia di Faust consiste nell’incapacità tragica del protagonista. L’Achille di Omero è forse un eroe tragico? Bruno Snell, E.R. Dodds e Hans Fraenkel ci dimostrano che persino Achille, il migliore degli achei, è essenzialmente infantile, poiché non vi è integrazione tra il suo intelletto, le sue emozioni e le sue impressioni sensoriali. In Goethe vi è una qualità decisamente omerica, ma Faust sembra omerico solo nel suo essere infantile. Edipo e Amleto maturano nelle loro tragedie; Faust, in confronto, è un bambino.

Questa caratteristica non è un difetto estetico, bensì arricchisce la straordinaria singolarità che fa del Faust il capolavoro più grottesco della poesia occidentale, la fine della tradizione classica in quello che potrebbe essere definito un vasto dramma satirico cosmologico. La Parte prima è abbastanza folle, ma la Parte seconda fa sembrare Browning e Yeats mansueti, e Joyce rettilineo. Per Goethe fu una fortuna che Shakespeare fosse inglese, perché la distanza linguistica gli permise di assorbire e imitare Shakespeare senza angosce paralizzanti. Faustnon può essere definito davvero shakespeariano, ma parodia Shakespeare quasi senza sosta.

Secondo Benjamin Bennett, lo scopo del poema è niente meno che «la rigenerazione del linguaggio», affermazione che potrei ridurre a «un tentativo di rigenerare il tedesco come Shakespeare rigenerò l’inglese». Bennett considera la mancata appartenenza del Faust a un genere ben preciso – un fenomeno assai bizzarro – come un atto «antipoetico» che mira a eliminare l’ironia dal linguaggio poetico e a ripristinare una sorta di pathos visionario. Con una grandiosa (e voluta) mancanza di realismo critico, Bennett afferma che la dimensione del Faust è «infinita nel senso che è grande quanto si vuole». A volte, leggendo il Faust, vorrei che io e il poema seguissimo entrambi una dieta rigida, ma il carattere evocativo dell’osservazione di Bennett resta intatto.

L’impossibile domanda critica è: si può definire la conquista estetica – la sua estensione e le sue limitazioni – del Faust di Goethe? Bennett ha forse escluso la questione dell’estensione, ma quella delle limitazioni non si può evitare, soprattutto in un’epoca e in un Paese in cui il Faust sembra essere un’arcana ridondanza, un elefante bianco come la neve nella tradizione poetica centrale. Come ho già detto, leggiamo il Preludio di Wordsworth e persino le epiche di Blake più facilmente di quanto impariamo a leggere il Faust. Siamo forse sconcertati dall’apparente serenità della personalità poetica di Goethe e dalle squallide intensità del Faust? Oppure non riusciamo a orizzontarci nel teatro goethiano del mondo, così ci chiediamo che cosa stia accadendo e perché dovremmo lasciarci coinvolgere?

Confermare la grandezza del Faust sulla scia della sua varietà lirica e della sua forza retorica, o persino della sua inventiva mitologica, non sembra più sufficiente. Tendiamo a preferirgli le Elegie romane (Römische Elegien, 1789), il Divano occidentale orientale, e a volte persino gli Epigrammi veneziani. Ho udito l’affermazione assai crudele secondo cui Faust è per Goethe ciò che Così parlò Zarathustra è per Nietzsche (e per tutti i nietzschiani), cioè un magnifico disastro. È vero è che un riassunto del Faust è difficile da digerire più o meno quanto un riassunto di Così parlò Zarathustra, ma leggere il Faust con attenzione è tutt’altra faccenda. Questa esperienza diviene un banchetto dei sensi, anche se senz’altro troppo piena di vivande non molto salutari. Come incubo sessuale o fantasia erotica, non ha rivali, e si comprende allora perché lo scioccato Coleridge si sia rifiutato di tradurre il poema. È senza dubbio un’opera su ciò che, semmai, sarà sufficiente, e Goethe trova infiniti modi per dimostrarci che la sessualità, da sola, non lo sarà. In modo ancora più ossessivo, il Faust ci insegna che, senza una sessualità attiva, nulla sarà sufficiente.

In un prezioso intervento, Bennett ci ricorda che l’arte peculiare del Faust consiste nel fatto che il poema elimina sistematicamente tutte le prospettive da cui potremmo desiderare di contemplarlo. Si può escludere il prospettivismo solo con un’ambiguità voluta, di cui Goethe sembra aver inventato più o meno settantasette tipologie. Il Goethe di Nietzsche incarna più Dioniso che Apollo, così come il Goethe di Freud incarna Eros, non Thanatos. L’unico dio o piccola divinità del Faust mi sembra essere lo stesso Goethe, perché questo straordinario poeta non era né cristiano né epicureo, né platonico né empirista. Forse, a parlare per bocca di Goethe, non è Mefistofele bensì lo spirito della Natura, ma ormai siamo annoiati o irritati dagli spiriti di Goethe, cosicché la figura persuasiva del Faustpuò essere solo Mefistofele, giustamente salutato da Erich Heller come legittimo precursore della visione nietzschiana del vuoto nichilistico. Heller ritiene che, dopo tutto, Nietzsche fosse un faustiano, ma ciò equivale a ignorare le ironie di Nietzsche.

Non conosco poesia più sorprendente delle affermazioni conclusive, insieme grottesche e così sublimi da essere assurde, pronunciate da Mefistofele, un personaggio dall’eroismo ridicolo, mentre combatte una solitaria battaglia di retroguardia contro l’inondazione celeste di rose fluttuanti e natiche angeliche che gli impediscono di portare via l’anima consegnatagli da Faust. Che cosa dobbiamo fare di questa scena offensiva e stupefacente? Appena Faust grida: «Io godo adesso l’attimo supremo», eccolo cadere riverso e svanire, e ciò che segue è insieme al di là e al di sotto della critica letteraria. Una farsa di basso livello che rischia un bathos spaventoso ci sopraffà quando Mefistofele guida le sue vili legioni di diavoli grassi con il corno corto e diritto e diavoli secchi con il corno lungo e ricurvo, solo per vederli fuggire tutti quando fa la sua comparsa il delizioso stormo di angeli. Sopraffatto dall’intensa cupidigia per quelle incantevoli creature, Mefistofele continua a battersi con coraggio, poi si paragona allegramente a Giobbe e infine ammette la propria sconfitta, accattivandosi il nostro affetto mesto e definitivo quando confessa una brama fin troppo umana.

«Povero vecchio diavolo» pensiamo, ma anche «vecchio diavolo coriaceo», che accusa giustamente se stesso. Questo è un momento cruciale dell’opera sempre sorprendente di Goethe: Faust non ha uno spirito o una personalità umana, ma Mefistofele sì. Quando scrisse di Mefistofele, Goethe era un vero poeta, e scrisse del diavolo con cognizione di causa, perché pare che conoscesse ogni cosa.

Sebbene il Faust sia più un’opera lirica che un dramma teatrale, in Germania viene rappresentata tuttora. Non ho mai assistito a una rappresentazione e preferirei non farlo, a meno che un regista di talento non vi convogli tutte le risorse del cinema. Il FaustParte seconda è già un incubo cinematografico che un regista dirige nella propria testa pur lottando con la bizzarria del testo. La Parte prima è senza dubbio curiosa, ma è la Parte seconda a costituire l’opera più peculiare, seppur canonica, della letteratura occidentale.

Goethe iniziò a comporre quello che sarebbe divenuto il Faust nel 1772, quando aveva circa ventitré anni, e terminò sessant’anni dopo, subito prima di morire nel 1832. Un dramma poetico la cui composizione dura sei decenni è destinato a essere un mostro, e Goethe si sforzò di rendere la Parte seconda il più mostruosa possibile. I suoi critici hanno avanzato incessanti argomentazioni a favore della presunta «unità» dell’opera e tendono a considerare la Parte seconda come implicita nella prima. A parte alcuni legami meccanici, gli unici elementi che i due Fausthanno in comune sono Faust e Mefistofele, il diavolo comico, che non è una figura molto satanica, perché non ci rammenta il Satana della tradizione popolare né l’antieroe del Paradiso perduto di Milton. Poiché Faust è privo di personalità, e poiché Mefistofele non possiede una personalità individuale, la continuità che questi due personaggi assicurano tra le due parti del dramma è molto debole.

Ciò non ha tuttavia importanza, perché il poeta della Parte seconda era ben lieto di essere il più enigmatico possibile. Acclamato come messia letterario fin dall’inizio della sua carriera o quasi, Goethe evitò sapientemente di cadere nel ridicolo diventando uno sperimentatore inarrestabile, e il FaustParte seconda può benissimo essere più un esperimento che un poema. Le edizioni del Faust contengono spesso una tabella analitica delle date di composizione e delle forme di versificazione, tabella che mi ricorda le mappe dedicate al Pentateuco nelle opere degli studiosi biblici, ad eccezione del fatto che Goethe è insieme Yahwista, Elohista, Deuteronomista, Scrittore sacerdotale e grandioso Redattore. Come i drammi di Shakespeare, la Divina Commedia di Dante e il Don Chisciotte di Cervantes, il Faust è un’altra scrittura secolare, un vasto libro di ambizione assoluta. A differenza di Shakespeare e di Cervantes – i cui interessi non erano cosmologici – ma parodisticamente come Dante e Milton, Goethe aspira a una visione totale. Trattandosi di Goethe, bisognerebbe parlare al plurale: visioni. Nella Parte seconda, il miscuglio di storie, mitologie, speculazioni e immagini derivate da poeti precedenti non può neppure essere definita «eclettica». Qualunque cosa sia, Goethe la userà, perché ogni cosa può essere ripiegata in «frammenti di una grande confessione», le opere letterarie di Goethe e il Faust in particolare.

Shakespeare, che Goethe collocava con genialità (e realismo) sopra se stesso, non è un’influenza dominante sulla Parte secondaquanto lo è sulla Parte prima, il che contribuisce senza dubbio a spiegare la fiumana di storie, forme e personaggi classici che si gonfia nella Parte seconda. Il fatto che Goethe attinga all’antichità classica è anche un’azione difensiva nei confronti di Shakespeare, sebbene non sia efficace come fuga da quest’ultimo. E come potrebbe esserlo? L’affermazione fondamentale di Goethe su Shakespeare è contenuta nel saggio Schäkespear und kein Ende! del 1815. Nonostante la sua continua ambivalenza riguardo al massimo degli scrittori, la sensibilità estetica di Goethe ebbe la meglio sulla sua vulnerabilità:

Forse nessuno ha mostrato meglio di lui il legame tra necessità e volontà nel singolo personaggio. La persona, considerata come personaggio, si trova in una certa necessità; è vincolata, destinata a una particolare linea di condotta; ma, essendo un essere umano, ha una volontà, che è sconfinata e universale nelle sue esigenze. Nasce così un conflitto interiore, e Shakespeare è superiore a tutti gli altri scrittori nell’importanza che gli conferisce. Ora può tuttavia nascere un conflitto esteriore, e a causa sua l’individuo può essere così stimolato che una volontà insufficiente viene innalzata dalle circostanze al livello di un’inderogabile necessità. Ho già accennato a questi moventi nel caso di Amleto.

L’interpretazione di Amleto formulata da Goethe è contenuta nella Vocazione teatrale di Wilhelm Meister (1796), dove Wilhelm ci offre la sua famosa ma assurda e scorretta idealizzazione del più completo personaggio shakespeariano. Riusciamo a riconoscere Amleto nelle sue parole?

Un essere bello, puro, nobile, altamente morale, senza la virile forza naturale che fa l’eroe, soccombe sotto un peso che non può né portare né respingere. Ogni dovere gli è sacro; ma questo gli è troppo gravoso. Si esige da lui l’impossibile, non l’umanamente impossibile, ma ciò che è impossibile a lui, Amleto. Ed egli si dibatte, si tortura, si angustia, fa un passo avanti e uno indietro; tutto gli ricorda il suo dovere ed egli sempre se lo ricorda; finché da ultimo perde quasi di vista il vero scopo, senza tuttavia poter mai ritrovare la propria serenità.

È difficile capire quale il dramma stia leggendo Goethe/ Wilhelm Meister; certamente non la tragedia di Shakespeare in cui Amleto uccide Polonio con disinvoltura, manda allegramente Rosencrantz e Guildenstern incontro alla morte e si comporta, nei confronti di Ofelia, con una brutalità così oscena da essere assolutamente imperdonabile. In questo caso, tuttavia, nulla potrebbe essere meno gentile verso il Faust di Goethe – che si tratti della Parte prima o della Parte seconda – che paragonare il dramma all’Amleto o a qualsiasi importante tragedia shakespeariana. Il principe di Danimarca è un personaggio drammatico la cui personalità è dotata di una misteriosa vastità e di una persuasività universale. Quella di Amleto è l’unica consapevolezza autoriale fra tutti i personaggi fittizi, il che non significa che il principe sia l’autorappresentazione di Shakespeare. Piuttosto, Amleto è un miracolo di interiorità; il drammaturgo trovò il modo di suggerire una ricchezza psicologica che ci sbalordisce, instillandoci il desiderio di udire Amleto che parla di tutti gli aspetti arcani del cosmo. Benché il dramma sia lungo, il lettore affascinato (ancor più dello spettatore) lo vorrebbe ancora più lungo; desideriamo sentire da Amleto tutte le osservazioni che possiamo augurarci di ascoltare.

In base a questo impossibile criterio di misura, il Faust di Goethe, e persino il suo Mefistofele, non sembrano quasi personaggi. Goethe, non osando sfidare Shakespeare, si rivolse al dramma barocco dell’età dell’oro spagnola, in particolare a Calderón de la Barca, in cerca di un modello rivale. Nei più grandi drammi di Calderón, come nel Faust, i protagonisti si muovono e trovano il loro essere nell’indeterminata zona tra personaggio e idea; sono metafore amplificate di un complesso di interessi tematici. Ciò funziona magnificamente per Calderón e per Lope de Vega, ma Goethe voleva avere un’opposizione tra personalità e metafore tematiche in entrambe le direzioni e si sentì libero di abbandonare il mondo di Calderón e di rientrare nel cosmo shakespeariano quasi a piacimento.

Maestro del capriccio, spesso Goethe la passa liscia, ma non sempre; e il suo dramma cosmologico soffre ogni volta che viene evocato Shakespeare. Il lettore coglie la stranezza in virtù della quale questo vasto dramma, e in particolare la stravagante Parte seconda, è davvero «saturo di vita», come disse il vecchio Gide, tranne per quanto concerne il presunto eroe tragico. Ci sciamano accanto folli mitologie e gli infiniti complotti di Mefistofele, sempre vivaci, ma Faust sa essere passivo, incolore, prolisso o semplicemente addormentato. Il problema non è l’eccessiva presenza del Goethe sfaccettato nel ricercatore rinascimentale trasformato in tedesco, bensì la presenza troppo scarsa del messia nella sua figura principale. L’esuberanza di Goethe viene elargita nei meravigliosi mostri della Parte seconda, ma non nel povero Faust. Ciò non può essere accidentale, ma resta pur sempre una disgrazia estetica. Evidentemente Goethe era così risoluto e deciso a non permettere che qualcuno lo scambiasse per Faust da dimenticare la sua enorme forza soprannaturale, che costituiva l’incommensurabile natura della sua personalità. Esiste un problema analogo nella Vocazione teatrale di Wilhelm Meister, dove resto affascinato quasi da ogni personaggio, tranne che dal legnoso Wilhelm Meister.

Goethe incantava così tanto se stesso e chiunque lo circondasse che nessuno dei personaggi da lui creati reggeva il confronto con il suo creatore. Shakespeare nutriva scarso interesse per se stesso ed era chiaramente incolore rispetto a Christopher Marlowe e Ben Jonson, e persino verso figure minori come George Chapman o John Marston. L’enigmaticità e la gloria delle opere di Goethe, e in particolare del FaustParte seconda, sono racchiuse nel modo in cui la scrittura si intride così tanto della seducente personalità del poeta da spingere ad apprezzare soprattutto il poeta, e non le sue rappresentazioni. Ciò che accade in Byron accade su scala maggiore anche in Goethe, come certamente capì il sagace autore del Faust.

Gli individui carismatici che diventano grandi scrittori non sono numerosi; Goethe ne è il maggiore esempio in tutta la letteratura occidentale. Il suo elemento più importante era la sua personalità; Goethe è per gli autori ciò che Amleto è per i personaggi letterari. Il suo maggiore biografo, Nicholas Boyle, inizia il primo volume di Goethe: der Dichter in seiner Zeit(1991) con un’affermazione incontrovertibile: «Occorre conoscere di più, o comunque dev’esserci di più da conoscere, riguardo a Goethe che riguardo a quasi ogni altro essere umano». Nemmeno Napoleone, contemporaneo di Goethe, può smentire quel giudizio, né possono farlo Byron, Oscar Wilde o ogni altro luminare estetico. Riguardo a Shakespeare non sappiamo quasi nulla di importante, e impariamo a essere scettici nei confronti di quanto resta da conoscere, più sull’uomo che sui drammi. Di Goethe, Boyle sembra conoscere ogni cosa, e ogni sua informazione sembra importante.

Come notano sia Nietzsche sia Curtius, anche se in modi molto diversi, Goethe rappresenta un’intera cultura, la cultura di un umanesimo letterario nella lunga tradizione che va da Dante al FaustParte seconda, il culmine canonico dell’Età aristocratica di Vico. Nella memoria di Goethe, i classici dell’Età teologica – Omero, le tragedie ateniesi, la Bibbia – si incrociano con Dante, Shakespeare, Calderón e Milton, e da questo incrocio deriva una cultura che, nell’epoca e nella nazione di Goethe, apparteneva solo a Goethe. Da allora quell’amalgama non è nemmeno fiorito in nessun grande poeta. Come forse sapeva egli stesso, Goethe rappresenta una fine e non un nuovo inizio. I saggi sarebbero emersi nella sua scia per quasi un secolo dopo la sua morte, ma Goethe è morto con loro, e oggi continua a vivere non in un poeta presente tra noi, bensì solo nei morti e negli studiosi che si cibano dei morti.

L’enigma di Goethe risiede nel mistero della sua personalità, la cui aura sopravvisse all’Età democratica, solo per scomparire definitivamente nel nostro caos comune. Thomas Mann è l’ultimo grande scrittore emerso da Goethe, e oggi è tristemente oscurato, proprio come Goethe, il suo maestro, si è offuscato, anche se non per sempre. L’ironia umanistica non è un atteggiamento che vada di moda negli anni Novanta e non prenderà piede in quelli che saranno i presentimenti apocalittici della seconda metà del decennio. Goethe, mai cristiano, si ritrovò a essere acclamato come un messia quando era ancora giovane, e si difese dalla deificazione con formidabile ironia. L’unico teista del FaustParteseconda è Mefistofele; Faust, invece, prefigura Nietzsche spronandoci a pensare alla dimensione terrena anziché a un’autorità trascendente.

Shakespeare divenne un dio mortale per Victor Hugo e per molti dopo di lui (me compreso), e Goethe ebbe la dubbia soddisfazione di approdare allo status di essere divino nella sua generazione di esteti tedeschi. Tuttavia, l’immenso contrasto tra Shakespeare e Goethe rimane quello che potrebbe essere definito il carisma della parola e dello scrittore. Quasi tutti i contemporanei (l’unica eccezione che ricordi è l’aforista Lichtenberg) vedevano in Goethe un prodigio della natura e una luce capace di superare la semplice natura. Nondimeno, Goethe non voleva essere un profeta, né tanto meno un dio, e amava definirsi un Weltmensch, un figlio di questo mondo. Iconoclasta assoluto, Goethe eredita quanto vi è di più sfrenato e stravagante nella cultura estetica occidentale, anche se oggi sembriamo non rendercene conto. Il suo superbo egocentrismo è il modello di ciò che Emerson avrebbe trasformato nella religione americana della fiducia in se stessi, e in un certo senso complesso ma molto concreto, gli Stati Uniti di oggi sono (senza saperlo) più goethiani di quanto possa esserlo la Germania moderna. Al centro della carismatica intensità spirituale di Goethe vi è un inquieto rispetto di sé, e il Faust è un poema religioso solo nella misura in cui è il dramma epico dell’io che non conosce limiti.

La religione dell’io non ha monumento più sublime del FaustParte seconda. La Parte prima è un poema straordinario, ma è solo una nebulosa anticipazione di ciò che ci piomba addosso nella Parte seconda. La figura di Faust risale alle origini manifeste dell’eresia cristiana, a quello che si pensa sia stato il primo gnostico, Simon Mago di Samaria, che andò a Roma e assunse il nome di Fausto, «il favorito». All’inizio della sua carriera piuttosto equivoca, Simon Mago aveva scoperto Elena, una prostituta di Tiro, e l’aveva definita il pensiero caduto di Dio, Elena di Troia in una delle sue precedenti incarnazioni. Quell’eresia scandalosa è la remota fonte della leggenda di Faust, che restò appiccicata a un vero Georg o Johann Faust, un astrologo e truffatore vagabondo dell’inizio del XVI secolo, morto verso il 1540.

La prima stesura di Faust (1587) contiene gli eventi fondamentali sfruttati prima da Christopher Marlowe nel Dottor Faustus (1593) e poi da Goethe, oltre che da molti altri. Le versioni popolari e poetiche della storia di Faust tesero sin dall’inizio ad assimilare Faust al libertino Don Giovanni. Le due leggende mostrano chiare affinità: entrambi gli antieroi sono alla ricerca di conoscenze segrete, siano essere occulte o sessuali; entrambi passano da una delusione erotica all’altra; entrambi approdano alla dannazione attraverso il desiderio e l’eccesso. Byron, come poeta e celebrità carismatica, fa culminare entrambe le leggende in se stesso, come Goethe comprese con acume. Il tramonto delle relative leggende, Faust e Don Giovanni, si compie nel FaustParte seconda, quando Euforione (Byron), il figlio di Faust e Elena, va incontro al destino di Icaro.

La Parte prima ci presenta, nel suo protagonista, un Don Giovanni tristemente inadeguato, la cui sfortunata relazione con l’innocente Margherita conduce senz’altro alla distruzione terrena e a una poco convincente salvezza celeste della donna. A Goethe interessava tuttavia offrirci il più adeguato tra tutti i Faust possibili, sebbene nel personaggio goethiano il successo lirico superi di gran lunga l’esito drammatico. Non ricordiamo questo splendido Faust come rappresentazione di una persona potenziale, bensì come storia di una coscienza sostanzialmente distaccata sia dall’azione sia dalla passione, sebbene aspiri a entrambe. La mente di Goethe non riposava mai; la mente del suo Faust è semplicemente in preda a una perenne irrequietudine. Evidentemente Goethe era consapevole della differenza e corse con leggerezza il rischio estetico in essa implicito. Nessuno rilegge il Faust – in entrambe le sue parti – perché resti affascinato dal protagonista, mentre molti di noi sono ossessionati da Amleto. Ho riletto il Faust per vedere che cosa riesca a fare Goethe con un protagonista per nulla goethiano. Quando rileggo Amleto, si tratta molto di più di capire che cosa Amleto possa fare di Amleto.

Torniamo così alle affermazioni di Erich Heller: Goethe evita la tragedia mentre Shakespeare si impadronisce per sempre di quel genere o, come riassume il critico in toni foschi: «Se si può affermare che le limitazioni di Goethe hanno origine nella vastità apparentemente illimitata del suo genio, allora ci si riferisce al suo genio, non ai suoi talenti; al contrario, Goethe usò sempre i suoi talenti per difendersi dal suo genio».

Modificherei questo giudizio osservando che solo la Parte prima è la difesa di Goethe dal suo genio, mentre la Parte seconda, assai più poderosa, è la più interessante difesa di Goethe dal genio altrui: le tragedie greche, Omero, Dante, Calderón, Shakespeare e Milton. La Parte seconda non affronta la realtà del male più di quanto faccia la Parte prima, ma il lettore desideroso di tragedia smette di farci caso e, in realtà, non può farvi caso, perché le onde di marea della creazione goethiana di miti che si abbattono su di noi richiedono un’energia di reazione soprannaturale. La lirica è intraducibile, ma i film di mostri no, e il Faust, parte seconda è il più grandioso film di mostri che mai sia stato proiettato. La stessa inclinazione che mi induce a vedere ogni nuovo Dracula mi riporta sempre alla Parte seconda, dove Mefistofele diviene il più fantasioso di tutti i vampiri. Goethe, rinunciando apparentemente al desiderio, permette tuttavia a Mefistofele di scrivere quasi tutta la Parte seconda, con magnifici risultati poetici.

La Parte prima finisce con un perfetto calderone di peccato, errore e rimorso, adatto solo perché Faust vi anneghi; ma la prima scena della Parte seconda spazza via tutto quanto. Il maggior debito di Goethe verso Shakespeare fu la consapevolezza pragmatica che l’apoteosi può essere drammaticamente persuasiva. L’Amleto dell’atto quinto ha trasceso tutto ciò che ha provocato nei primi quattro atti e, a partire dalla seconda scena della Parte seconda, Faust si è completamente liberato della tragedia di Margherita. Amleto può proclamare l’intensità del suo antico amore per la compianta Ofelia, ma giustamente non gli crediamo, e Faust non si disturba nemmeno a fingere di provare nostalgia per la sua versione di Ofelia. Evidentemente Goethe non era incline al rimorso, soprattutto in materia erotica. Una donna perduta era un poema compiuto, e ora Margherita era la Parte prima, proprio come Elena sarebbe stata la Parte seconda. Le letture femministe di Goethe, Dante o Yeats mi fanno rabbrividire perché, ancora più di Milton, questi poeti idealizzarono, e dunque demonizzarono, le donne. Quando il Chorus mysticus conclude la Parte seconda intonando: «L’Eterno Femminile / ci fa salire», è probabile che una donna di oggi si chieda: «Verso cosa?».

Goethe seguì Dante, ma ora questa non può essere considerata una giustificazione. A prescindere dal fatto che il presunto oggetto fosse Margherita o Elena, Faust restò il soggetto e, in fin dei conti, il vero oggetto della sua ricerca, perché è risaputo che Goethe andava in cerca solo di se stesso. Come Berowne in Pene d’amor perdute, Goethe cercava negli occhi delle donne il vero fuoco prometeico come riflesso della sua fiamma creativa. Su quest’argomento, Shakespeare fa dell’umorismo sfrenato e voluto, ma Goethe è narcisistico quanto Berowne. È facile capire perché la critica femminista se la cavi meglio con Shakespeare; il suo atteggiamento riguarda tutti i sessi e nessun sesso. Goethe è così esposto alla critica femminista che i risultati potrebbero essere di scarso interesse, a meno che la critica non abbia come obiettivo la femminizzazione del grottesco nella mostruosa mitologia davanti ai nostri occhi.

L’unico rivale contemporaneo di Goethe come creatore poetico di miti era William Blake, che non aveva un pubblico e i cui «brevi poemi epici» incisi (una definizione miltoniana) restano ancora accessibili solo a un esiguo gruppo di lettori colti e quasi ossessivi. Poiché leggo i poemi esoterici di Blake sin da quando ero ragazzo e ho pubblicato lunghi commenti in proposito quando ero ancora giovane, mi viene naturale pensare al contrasto con Blake mentre leggo il FaustParte seconda. Le creazioni mitopoietiche di Blake sono sistematiche e in grande misura al servizio della sua disputa apocalittica con la tradizione canonica. Le invenzioni di Goethe sono spontanee, profondamente giocose, e mirano a comprendere la tradizione. Sono io il primo a essere sorpreso dalla mia preferenza per il FaustParte secondarispetto ai Quattro ZoasMilton e Gerusalemme.

Lo stesso giudizio va formulato quando si accostano Shelley, Keats e Byron alla Parte seconda, e Shelley e Byron, entrambi ammiratori di Goethe, non avrebbero nemmeno contestato questo verdetto se fossero vissuti abbastanza da leggere il suo maggiore poema. La traduzione di alcuni passi della Parte prima eseguita da Shelley è ancora la migliore disponibile in inglese, mentre il rapporto tra Byron e Goethe è uno dei perni fondamentali, e nascosti solo parzialmente, della Parte seconda. Lo spirito di Byron appare nei panni dell’Auriga adolescente e dello sfortunato Euforione, frutto dell’unione di Faust e Elena. Elemento ancora più bizzarro, il byroniano, che per Goethe coincide con il demonico, si fa strada nella figura di Homunculus, un essere assai più vivace dell’Auriga adolescente e di Euforione. Goethe e Byron non si conobbero mai ed ebbero solo un breve scambio di complimenti epistolari prima che Byron si spegnesse in Grecia, ma non è certo esagerato affermare che Goethe nutriva una sorta di infatuazione per Byron, un poeta che, a suo parere, si collocava stranamente al di sopra di Milton e appena al di sotto di Shakespeare. L’inglese di Goethe, tutt’altro che perfetto, influì senza dubbio su questi giudizi, che in ogni caso non erano per nulla insoliti in Europa durante il periodo romantico. Nonostante tutti gli aneliti classici di Goethe, il FaustParte seconda è l’opera centrale del romanticismo europeo, e il byronismo dovette inevitabilmente farsi da parte in questa tragedia tedesca che non è una tragedia.

In e con la loro produzione, Shakespeare e Dante, Goethe, Cervantes e Tolstoj distruggono tutte le distinzioni di genere. Goethe si arrischia a farsi esplicitamente beffe del genere, in modi non molto diversi dalle ironie di Amleto. Non saprei indicare un’altra opera eminente quanto il Faust che rifiuti con altrettanta aggressività ai suoi lettori qualsiasi prospettiva chiara. Forse è per questo che Goethe esercitava un fascino così immenso sul relativistico Nietzsche, ma qualsiasi lettore (io compreso) si trova a disagio di fronte a un poema che non si lascia prendere in maniera del tutto seria né del tutto ironica. Vi è una certa mancanza di buona fede autoriale da parte di Goethe, sebbene, da un altro punto di vista, questa mancanza possieda un fascino enorme (e deliberato). Una volta che abbiamo imparato a leggerla, la Veglia di Finnegan, un elefante bianco letterario grande quanto il Faust, è un libro pieno di umorismo, ma trabocca anche di buona fede joyciana. Dedicate una parte cospicua della vostra vita alla Veglia di Finnegan, e i vostri sforzi verranno premiati; è questo, infatti, lo scopo dell’opera. Il FaustParte secondaassicura un piacere scandaloso al lettore esuberante, ma è anche una trappola, un abisso mefistofelico di cui il lettore non toccherà mai il fondo.

Joyce prende la Veglia di Finnegan con serietà sincera se non addirittura amabile; il lettore non va schernito né sfruttato. Con altrettanta ambizione, Goethe mira a una letteratura mondiale e un rifacimento del linguaggio, ma, almeno in parte, a spese del lettore. Pur essendo un eroico bardo viconiano dell’Età caotica, Joyce è democratico nel suo elitarismo letterario, come lo era Blake prima di lui. Affrontate gli ostacoli posti sulla vostra strada, e riceverete la giusta ricompensa. Goethe, che, come è risaputo, è l’ultimo bardo dell’Età aristocratica, sì diletta ad abbandonarci in una contraddizione e confusione estreme. Ciò non diminuisce lo splendore estetico della Parte seconda, ma ci lascia un po’ esasperati, soprattutto nel momento attuale. Forse ciò significa solo che, alla fine, l’epoca dell’uomo faustiano ha ceduto il passo all’era del femminismo e delle relative ideologie; ma può anche significare che Goethe ci rimprovera perché abbiamo cercato nelle poesie ciò che queste ultime non hanno il dovere di darci. Resta tuttavia una domanda: che cosa possiede la Parte seconda, oltre l’appariscenza autoriale e l’infinita esuberanza del linguaggio? La magnificenza lirica e l’inventiva mitopoietica sono sufficienti a sostenere una stravaganza così bizzarra e barocca, lunga due volte il FaustParte prima? Siamo davvero degli illusi se pretendiamo di più da colui che è stato di gran lunga il più vigoroso scrittore della lingua tedesca?

Vi è una straordinaria audacia nel tentativo goethiano di esaltare insieme il desiderio e la rinuncia in un unico dramma poetico, sebbene quest’ultimo sia lungo 12.111 versi e abbia richiesto sessant’anni di lavoro. Pur essendo divenuto un saggio nazionale, Goethe era serenamente privo sia di religione normativa sia di morale borghese, né si lasciava intimidire dalle considerazioni sociali sul buon gusto. Nel Faust si riversano elementi di ogni genere, soprattutto nella Parte seconda. Quasi tutti i lettori istruiti hanno letto la Parte prima; in questa sede la commenterò dunque solo nella misura in cui si può affermare che costituisce l’antecedente della Parte seconda. Come ho detto prima, le due parti sono così diverse da costituire davvero due poemi separati, ma poiché Goethe non era di questo parere, devono prevalere le sue intenzioni autoriali.

Probabilmente una rappresentazione completa delle due parti del Faust richiederebbe ventuno o ventidue ore, prendendo a modello un Amletosenza tagli e moltiplicandolo per circa quattro volte. Una prospettiva che mi indurrebbe a esclamare, come Lorca intento a deplorare la morte del torero: «Non voglio vederlo!». Goethe aveva la strana convinzione che Shakespeare non avesse scritto per il palcoscenico, e la migliore esecuzione del Faust completo è riservata all’aldilà (sebbene in Germania sia stata messa in scena). Nato dallo Sturm und Drang, cioè dalla versione tedesca dell’Età della sensibilità inglese, Goethe associava in maniera automatica un autentico dramma sublime con il teatro della mente, il che non equivale affatto ad asserire che Faust è un dramma filosofico. Invece, questo poema drammatico ossessionato dal desiderio sessuale ha pochissimo a che vedere con una rappresentazione realistica dell’amore in qualsiasi contesto sociale, nonostante il tentativo marxista compiuto dall’illustre Georg Lukacs per analizzare il rapporto amoroso tra Faust e Margherita. Essendo un gigantesco fantasy, il Faust dimora nella sfera delle pulsioni freudiane, Eros e Thanatos, con Faust come Eros inquieto e Mefistofele come Thanatos tutt’altro che a suo agio.

Entriamo nel FaustParte prima, durante la Notte di Valpurga risparmiandoci le fasi iniziali, insieme affascinanti e dolorose, della catastrofica seduzione della povera Margherita da parte di Faust. Come qualsiasi lettore intuisce ben presto, la Notte goethiana di Valpurga non va interpretata come una perfida orgia organizzata per celebrare un sabba di streghe sul Brocken, tra i monti della Selva Ercinia. Dopo tutto, questo non è esattamente un poema cristiano, e l’anima di Goethe preferisce il Brocken a una cattedrale. Lo stesso vale per noi, quando contrapponiamo la Notte di Valpurga alla scena precedente, in cui Margherita (chiamiamola Greta, come comincia a fare Goethe in questo punto) incontra lo Spirito Maligno nella cattedrale e sviene per la persecuzione inflittale da quel vapore gassoso altamente cristiano, che non ha nulla in comune con il vivace Mefistofele. Un contrasto ancora più cruciale esiste tra la Notte di Valpurga e la scena precedente, Bosco e grotta, che interrompe il corteggiamento di Greta da parte di Faust.

Goethe e Walt Whitman (un duo improbabile) condividono la particolarità di essere gli unici due grandi poeti a parlare apertamente di masturbazione prima del XX secolo; Whitman la celebra, Goethe la tratta con ironia. In Bosco e grotta, Mefistofele si avvicina a Faust interrompendo una fantasticheria solitaria in cui il protagonista trova una felicità «che mi avvicina sempre più agli dei» e accusa ingiustamente Mefistofele della cupidigia che ora lo studioso prova per Greta. La risposta del diavolo lo zittisce:

Davvero: gioia sovrumana! Dormire la notte tra i monti alla guazza, abbracciare voluttuosamente e terra e cielo, gonfiarsi fino alla divinità, frugare con frenesia di presagio il midollo della terra, sentire nel proprio petto il creato intero dei sei giorni, godere in orgogliosa conquista non so che cosa, effondersi prima del Tutto, libero di ogni spoglia terrestre, in estasi d’amore, e poi chiudere l’alta visione… non m’è permesso dir come!

Il fatto che Faust non abbia potuto perdersi nella masturbazione è fuor di dubbio. I riferimenti all’autogratificazione sono reperibili altrove nella Parte prima e in tutta la Parte seconda. La Notte di Valpurga – che viene dopo questo rifiuto della sublimazione e la successiva seduzione di Margherita, seguita dal suo autotormento cristiano – ci riempie di sollievo. Faust prova un esuberante sentimento di liberazione quando si abbandona a un gioco chiassoso, a un’incursione nella dimensione onirica, erotica e liberatrice, mescolandosi con innumerevoli giovani streghe nude, tra cui la splendida Lilith, la prima moglie di Adamo. Il culmine della successiva danza orgiastica si raggiunge nelle contraddittorie visioni di Faust e Mefistofele, che vedono la stessa figura, interpretata dal diavolo come Medusa e da Faust come una Greta vittimizzata. Il pathos della sorte di Greta costituirà il centro del resto del FaustParte prima, interamente dominato dal sabba delle streghe e dalla sua pragmatica esaltazione dell’appetito erotico. Greta può essere salvata per quanto riguarda il cielo, ma il lettore rifugge dalla scena della sua agonia con Faust e Mefistofele, fin troppo lieto di abbandonare quelle sofferenze alla Ofelia per il mondo visionario della Parte seconda.

Poiché il presente libro si occupa dell’interrogativo canonico, qui il mio interesse per il FaustParte seconda si limita proprio a questo: che cosa rende perenne e universale un poema così strano? Non ho lo spazio né la conoscenza specialistica per commentare l’intera opera. La scommessa di Faust con Mefistofele è un nodo tradizionale per i critici di entrambe le parti del dramma, ma a me sembra una questione secondaria. La mancanza di personalità del protagonista mi rende indifferente al fatto che quest’ultimo viva o meno un momento di bellezza, e dunque implora che quel momento indugi per un po’. Anche il tema del perenne anelito faustiano mi sembra di poco peso, sia come stimolo per un patto con il diavolo sia come presunta salvezza da un simile patto. La forza dell’opera di Goethe non va ricercata in queste banalità ormai scontate, che, se avessero l’importanza loro attribuita, avrebbero affondato il Faust già da tempo. Il vigore mitopoietico della Parte seconda si incentra su invenzioni assai diverse: la discesa di Faust verso le Madri e la successiva visione di Elena; la genesi e la sorte di Homunculus; la classica Notte di Valpurga; l’idillio di Faust, Elena e Euforione; e infine, la lotta per l’anima del Faust defunto e la descrizione piuttosto equivoca del cielo alla fine del poema. Partendo da queste immagini curiose, Goethe plasma un mito composito, che è l’elemento di vero interesse per qualunque lettore voglia, e possa, affrontare una poesia tanto difficile quanto rapsodica.

Il sublime cattivo gusto di Goethe ricompare nel memorabile episodio delle Madri, dove la «chiave» data a Faust da Mefistofele ha una valenza fallica fin troppo evidente:

MEFISTOFELE Ed io, prima ancora che tu mi lasci, altamente te ne lodo. Vedo bene il diavolo lo conosci. A te! Prendi questa chiave.

FAUST Codesta cosettina?

MEFISTOFELE Prendila prima, e non la disprezzare!

FAUST Mi cresce in mano, riluce, lampeggia!

MEFISTOFELE Ti accorgerai tra poco cosa vuol dire possederla! La chiave riconoscerà al fiuto il giusto luogo. Seguila nella discesa: ti condurrà alle Madri.

Evidentemente questa discesa implica un incontro quasi incestuoso, nebuloso, molteplice con le proprie antenate. Quando Mefistofele dice a Faust che laggiù sarà circondato da strane forme, lo studioso impegnato nella ricerca viene esortato come segue: «Brandisci la chiave e tienli da te lontani!». Faust replica con entusiasmo: «Nell’impugnarla saldo, sento già nuova forza!». La «grande impresa» della discesa mitica è chiaramente una masturbazione, eroica nella sua durata e altamente poetica in termini di risultati, la visione dello stupro iniziale di Elena da parte di Paride. Il geloso Faust, a sua volta pazzo di desiderio per l’incantatrice classica, grida che la sua mano stringe ancora la chiave, punta quest’ultima verso Paride fino a toccare l’apparizione e si impadronisce di Elena. Ha luogo un’esplosione orgasmica, Faust sviene e i fantasmi si dissolvono come vampiri.

Si chiude così l’atto primo; Benjamin Bennett dimostra che i quattro atti rimanenti della Parte seconda si concludono tutti con allusioni via via più sottili a culmini masturbatori. Alla fine dell’atto secondo, Homunculus compie un suicidio onanistico ai piedi di Galatea. Euforione termine l’atto terzo lanciandosi in aria con energica intensità erotica mentre rifiuta un conforto femminile. La satira goethiana del cristianesimo interviene nelle conclusioni degli atti quarto e quinto, con chiare allusioni al fatto che il contesto della masturbazione è ancora pertinente. Nel quarto, un trionfante arcivescovo propone all’imperatore di erigere una cattedrale che si elevi nel «luogo profanato dai peccati commessi», e l’intero poema si conclude con un’epifania pseudodantesca in cui Greta diviene Beatrice e Faust fa suo il ruolo di Dante. Tuttavia, nel bel mezzo di questa fantasmagoria di giubilo protocattolico, Goethe continua a essere silenzioso e irriverente. La scena finale trabocca di «divine ondate di estasi», con un Pater trapassato dalle frecce e un altro intento a contemplare Amore onnipotente nel movimento di un albero che si drizza verso il cielo. Nel bel mezzo di questa estasi celestiale, gli «angeli più perfetti» dichiarano con una certa malignità che devono «portar di terra un resto, / ah quanto accora! / E s’anche fosse asbesto / impuro è ancora!», e insistono sulla separazione tra corpo e spirito. Come ci ricorda Bennett, la meditazione spirituale rimane erotica da un capo all’altro del poema, ma limita la propria carica sessuale alla sfera dell’autoeccitazione e dall’autogratificazione.

La discesa verso le Madri, che sarebbe impossibile per lo sgomento Faust senza la chiave fallica, è, in realtà, l’invocazione delle muse della mitologia per la Parte seconda. Mefistofele ha strappato Faust dall’autogratificazione con la Greta vittimizzata; è un progresso puramente ironico e una sconfitta umana il fatto che, in tutta la Parte seconda, Faust venga restituito all’autoerotismo mediante la sua unione con un’Elena ectoplasmica. Il dilemma del prospettivismo ci viene riproposto da Goethe, e non viene mai risolto nella Parte seconda. Un sabba delle streghe, questa volta più classico che germanico, ci offre ancora immagini di Eros più esuberanti di quanto facciano i solitari aneliti romantici o le collettive richieste cristiane. Goethe aggiunge un’ulteriore ironia: Mefistofele, un diavolo cristiano, è spesso a disagio quando è alle prese con il realismo della classica Notte di Valpurga. «Quasi tutti nudi», borbotta alla vista delle «impudiche Sfingi», degli «svergognati Grifoni» e «quanto mai altro, alato o ricciutello, per davanti o per di dietro si riflette nei miei occhi».

È abbastanza divertente il fatto che il diavolo desideri una o due foglie di fico secondo «gusti più moderni». Faust, che brama la sua Elena classica, si sente più a suo agio tra i mostri antichi, mentre Homunculus è il più avventuroso del trio. Questo essere peculiare, una delle più splendide invenzioni della Parte seconda, è stato creato da Wagner l’alchimista, un tempo il fedele assistente di Faust. Un omino affascinante, o un adulto in miniatura, costretto a vivere nella fiala di vetro in cui è stato creato, Homunculus non somiglia affatto a Mefistofele, la cui presenza nel laboratorio di Wagner ha fornito l’energia infernale che ha trasformato la fiamma in qualcosa capace di andare al di là della mente umana. Homunculus non è sardonico né nichilista, e non è neppure una sorta di Faust in scala ridotta, come hanno suggerito alcuni critici. Troppo amabile per essere una satira goethiana, l’ermetico Homunculus ci supera tutti in conoscenza e comprensione. Una fiamma di coscienza non incarnata ma manifestatasi come mente, Homunculus sembra godere dell’affetto di Goethe più di quasi chiunque altro nel poema. Sempre umoristico e spiritoso, ha il tragico difetto di desiderare l’amore, il che provocherà la sua disperata autodistruzione quando incontrerà Galatea.

Pur essendo confinato all’atto secondo, Homunculus è una personalità che produce un’impressione così forte perché, purtroppo, il Faust della Parte seconda è al di là dell’individualità, almeno per quanto attiene a Goethe. Il Faust della Parte prima era un Amleto in versione pauperistica, ma aveva forti emozioni, una ferocia stravagante e la capacità di essere decisamente negativo. Nella Parte secondaè tedioso, solenne, astratto, incapace persino delle reazioni più elementari. Goethe idealizzò consapevolmente questo Faust successivo trasformandolo in un’allegoria del temperamento poetico classico, cosicché persino la sua passione per Elena diviene una versione della passione che Goethe nutriva per la poesia e la scultura greche. Inevitabilmente, questa elevazione piuttosto fredda di Faust comporta un mutamento parallelo in Mefistofele, che cessa quasi di essere il diavolo perché è obbligato a divenire una sorta di cristiano tardoromantico, che rimpiange invano lo splendore della classicità o almeno cerca in qualche modo di riconciliare la Grecia e la Germania. Povero Mefistofele! Diviene un ragionatore e un comparatore, persino uno storicista, anziché un tessitore di trame che tenta di riportarci alle negazioni dell’abisso originario.

Dev’essere questa la ragione per cui l’idea di far volare Faust alla classica Notte di Valpurga viene a Homunculus, e non al diavolo. L’omino specifica che, per Faust, lo scopo della spedizione è terapeutico, nel senso che lo porterà più vicino a Elena, mentre il suo movente personale è la pulsione che culminerà ai piedi di Galatea. Tutti questi particolari sono corollari al proposito di Goethe, quello di mettere in scena il grande pezzo forte della sua carriera poetica, i millecinquecento versi di un sabba dell’antica Grecia che non ebbe mai luogo, né in mare né sulla terraferma, ma che ora ha luogo perché lo desidera Goethe.

Se l’essenza della poesia è inventiva, come giustamente sosteneva il dottor Johnson, la classica Notte di Valpurga ci rivela ciò che è essenzialmente la poesia: una sfrenatezza controllata, una radicale originalità che comprende forze precedenti e, soprattutto, la creazione di nuovi miti. Goethe conferma il suo posto nel Canone letterario aggiungendo altra stravaganza alla bellezza (la formula di Pater per i romantici) di quanto abbia fatto in precedenza qualsiasi altro poeta occidentale. Il sublime di Goethe spinge il grottesco al di là di quanto avrei ritenuto possibile: un’impresa di dimensioni così scandalose che la critica, soprattutto quella tedesca, non è stata in grado di accettarla, poiché il culto di Goethe è una religione secolare così solenne.

Goethe esclude quasi tutto ciò che ci aspetteremmo di trovare nel normale classicismo: gli dei olimpici, i guerrieri omerici, gli eroici uccisori di mostri. Gli dei goethiani sono mostri: le Forciadi informi, che sono in agguato nella notte primordiale. Metamorfiche e feconde, ci ispirano un’inquietudine che è di importanza cruciale per lo scopo che Goethe si prefigge in quella sede. Strano a dirsi, l’unico equivalente contemporaneo cui io riesca a pensare è il lungo incubo che inaugura Antiche sere di Norman Mailer, dove siamo riportati al mondo del Libro dei morti egizio. Mailer è al suo meglio in quelle pagine cupe e riesce a trasmettere in maniera suggestiva l’alterità delle sue antiche sere. In un secondo momento, questo romanzo egizio non è privo di difetti, ma la morte, come la sodomia, non manca mai di stimolare l’immaginazione di Mailer.

La vita nella morte è più una specialità di Goethe, e il suo viaggio nel lato oscuro supera con facilità quello di Mailer. Si parte da Farsalo, in Tessaglia, dove Cesare sconfisse Pompeo. Goethe trasforma la strega Erittone, una creazione del poeta Lucano, da profanatrice di cadaveri in cronista di vane battaglie. Pur di non trovarsi faccia a faccia con il trio di Homunculus, Faust e Mefistofele, «si allontana», lasciandoli liberi di esplorare i mille fuochi da campo, attorno ai quali si raccolgono dei e mostri primordiali, risorti per quell’unica notte dell’anno. Nel suo contrappunto mitopoietico, Goethe manipola tanti modelli classici che sceglierne uno come genio guida è inevitabilmente ingannevole, ma Le rane di Aristofane sembrano il precursore più vicino. Aristofane era un parodista crudele, soprattutto di Euripide, ma nessun parodista nella storia della letteratura è esaustivo come il Goethe del FaustParte seconda. La peculiare gamma delle tonalità comincia a costituirsi quando Mefistofele si imbatte nei Grifoni, che preferirebbe senz’altro non incontrare. Queste «bestie» orripilanti, che avevano il compito di custodire i tesori, hanno teste e ali d’aquila e corpi e zampe da leone. Multicolori, dalla vista acuta e dalla rapidità spaventosa, sono i supremi animali da guardia, di indole feroce. In Goethe, tuttavia, sono solo vecchi avari stantii che, quando Mefistofele li saluta «E anche a voi, miei savi grigioni!», replicano come tediosi curatori di dizionari, arrotando le loro «r» gutturali: «Ma che grigioni! Grifoni!… Nessuno sente con piacere d’esser chiamato vecchio! Il suono d’ogni parola tradisce sempre l’origine da cui essa deriva. Grigio, gramo, grugno, grinta, sgretolio, grinzoso, mentre suonano per via etimologica sullo stesso tono, per noi son stonature».

Nessun lettore si lascerà terrorizzare da una bestia araldica che pronuncia un verso come questo: «GraugrämlichgriesgramgreulichGräbergrimmig».

Appena i mostri di Goethe cominciano a parlare, nemmeno il loro caratteraccio è più spaventoso delle brutte maniere verbali mostrate dalle presenze fantastiche di Attraverso lo specchio. La classica Notte di Valpurga è così infantile da trasformare ogni essere demonico in un essere grottesco. Così, per esempio, le Sfingi non sono granitiche eminenze con faccia umana e corpo leonino, ma si presentano come vecchie narratrici ciarliere, impiccione superstiziose che continuano a proporre enigmi. Le favolose Sirene non ingannano nessuno e non sanno cantare molto bene, mentre le Lamie, che dovrebbero essere voraci vampiri, sono solo puttane provinciali troppo truccate e ornate di trine che, quando vengono abbracciate, conservano la capacità di trasformarsi in entità assai sgradevoli.

Goethe non sminuisce nessuno dei suoi mostri; il loro carattere grottesco conserva splendore e intensità, ma noi, dopo tutto, siamo presenti solo nei panni di Faust, ossessionato dall’assenza di Elena, o dell’incorporeo Mefistofele, più stantio di tutto ciò in cui si imbatte. Vediamo con gli occhi di Mefistofele perché è l’unico dei tre a essere in cerca non di realizzazione, ma semplicemente di qualunque sensazione possa procurarsi. Naturalmente, non si procura un bel nulla, e continua a peregrinare smarrendosi finché si imbatte in Homunculus, che lo porta ad assistere a un dibattito tra i filosofi presocratici Talete e Anassagora.

Talete, sereno e palesemente saggio, sostiene che l’acqua è il primo principio e resta cieco alle catastrofi della Notte di Valpurga. Anassagora, sostenitore del fuoco come primo principio, è un rivoluzionario apocalittico come l’Orco di Blake o i veri visionari che avevano contribuito a scatenare la Rivoluzione francese. Anassagora «si getta faccia a terra» per adorare Ecate, rimproverando se stesso per i disastri che ha causato evocando la dea, e la vittoria spetta chiaramente a Talete, di carattere mite anche se un po’ troppo panglossiano.

Quando la classica Notte di Valpurga giunge alla sua conclusione tra molte altre complessità, i nostri tre aeronauti sono ormai andati incontro a destini diversi. Mefistofele, il più stizzoso dei turisti tedeschi, ha partecipato a una terribile gozzoviglia durante il sabba delle streghe greche. Il povero diavolo, che le infide Lamie hanno fatto smarrire tra le rupi, si imbatte nelle orrende Forciadi, tre megere con un unico occhio e un unico dente. Sono così ripugnanti che Mefistofele non ne sopporta la vista, finché si rende conto che sono sue sorelle, figlie, come lui, della Notte e del Caos. Riconoscendole, si confonde con una di loro, ne assume l’aspetto ed è nella forma informe di una dea greca dell’abisso che parte da Farsalo, recandosi a Sparta per attendere il ritorno di Elena.

Nel frattempo, Faust si è imbattuto in Chirone il centauro, un benevolo scettico che tenta di curarlo dalla sua ossessione per Elena portandolo da Manto, figlia del medico archetipico Esculapio. Manto è tuttavia una romantica orfica, non una riduzionista razionale e, riconosciuto in Faust un altro Orfeo, lo conduce, proprio come un tempo fece con Orfeo, sotto terra da Persefone, questa volta perché egli porti via Elena anziché Euridice. Con straordinario acume, Goethe decide di non descrivere l’incontro tra Faust e Persefone, lasciandolo alla nostra immaginazione.

Goethe investì invece le sue energie creative nella vicenda di Homunculus, cui il destino non permetterà di sopravvivere alla classica Notte di Valpurga. Nel tentativo di uscire dalla fiala per diventare una creatura umana compiuta, il piccolo essere sopporta il dibattito tra Talete e Anassagora, ma non ne ricava nessun consiglio utile. Invece, va con il benevolo Talete ad assistere alla più bella invenzione di Goethe, una sorta di barocco carnevale acquatico in cui compaiono Sirene (ora un po’ redente), Nereidi e Tritoni. Ci siamo lasciati alle spalle Farsalo con i suoi mostri, ed eccoci ora nel mondo degli isolotti egei illuminati dalla luna.

A Samotracia siamo nel regno dei Cabiri, piccoli dei curiosi: «sempre riproducono se stessi / e non sanno mai che cosa sono». Goethe non chiarisce se questi nani ignoranti siano solo vasi di terracotta, esaltati da studiosi ignoranti, o potenti divinità capaci di salvare i naufraghi. Tuttavia, qualunque cosa siano, il sontuoso corteo delle creature marine sfila in loro onore, e ciò che conta davvero è lo spettacolo estetico. La sua gloria suprema è la grazia oceanica, Galatea, che i delfini trasportano dalla sua casa di Pafo, sacra a Afrodite. Galatea, insieme causa dell’autotrascendenza e dell’autodistruzione di Homunculus, è, per Goethe, una figura assolutamente positiva.

Più ambiguo è Proteo, maestro di inganni ed evasioni, ma anche vero chiaroveggente dotato di una perfetta conoscenza del tempo e dei suoi segreti. Questo vecchio uomo del mare, che si fa beffe di tutte le aspirazioni umane, è infantile e allegro e, grazie a una delle più belle ironie goethiane, è insieme il filosofo migliore e più pericoloso nell’arte di consigliare a Homunculus come vivere e che cosa fare. Tuffati nel mare, è il suggerimento di Proteo, per partecipare a un’infinita metamorfosi, ma non con l’intenzione di ascendere a uno status umano. I migliori tra gli uomini, Achille e Ettore, finiscono per scendere nell’Ade. Meglio vorticare come vortica il mare, accettando la vita senza la morte individuale che affligge l’uomo.

In Proteo udiamo forse un aspetto del vecchio Goethe, poiché il poeta fu per tutta la vita un mutatore di forme psichico? Oppure Goethe si proietta nel successivo profeta-filosofo, Nereo, che predica la rinuncia ma utilizza comunque gli accenti di Eros? Quando le sue figlie, le Doridi capeggiate da Galatea, lo esortano a concedere l’immortalità ai giovani marinai che hanno salvato e amato, Nereo rifiuta, esprimendo quella che sembra senza dubbio la matura saggezza erotica goethiana: «Quando il capriccio avrà consumato i giochi, deponeteli dolcemente alla riva». La rinuncia viene celebrata ancora una volta quando Nereo e Galatea, come Lear e Cordelia, legati da un travolgente amore tra padre e figlia, si scambiano solo un’occhiata e un grido di gioia e riconoscimento prima che i delfini portino via Galatea per un altro anno di assenza.

Questa esaltazione della rinuncia, così importante per il vecchio Goethe, è l’equivoco sfondo della passione di Homunculus. Stanco della sua esistenza confinata, il demone alchemico decide di dover scegliere tra il fuoco, il suo elemento natio, e l’alterità dell’acqua. Nereo si rifiuta di fornirgli un parere definitivo, e Homunculus si rivolge a Proteo per potersi unire alla processione di Galatea. L’ironia goethiana compenetra il culmine masturbatorio della ricerca erotica, quando Homunculus salta su per spirare ai piedi di Galatea: «La sua vampa ora vibra potente, graziosa, ora dolce, come pulsando al ritmo dell’amore». L’oggetto è Galatea, ma, tra i due, il povero Homunculus è l’unico amante, finché la fiala si infrange finalmente contro il trono della donna. La fiamma che costituisce la sua vita si frange tra le onde, trasfigurandole per un istante. Le Sirene guidano gli esseri marini in un inno di trionfo, proclamando la vittoria di Eros. Goethe è senz’altro d’accordo, ma la classica Notte di Valpurga si conclude con un atto che va ben al di là della rinuncia. La rappresentazione occulta del distaccato intelletto umano distrugge la mente in un ulteriore tributo a Eros. La tipica ambivalenza goethiana ci nega una prospettiva assoluta su questa perdita, e il resto del FaustParte secondarafforzerà solo l’atteggiamento ambiguo dell’anziano poeta verso la sua dottrina della rinuncia.

Ora vorrei saltare tremila versi, per lo più magnifici, della Parte seconda per concentrarmi sulla scena della morte di Faust e della successiva lotta seriocomica ingaggiata da Mefistofele e dagli angeli per il possesso della sua anima. La maggiore omissione derivante da questo mio salto goffo ma disperato è la straordinaria fantasticheria goethiana su Elena, una trasposizione insieme meravigliosa e irriverente della Germania in Grecia. Con la solita audacia, Goethe parodia Omero e le tragedie ateniesi per offrirci uno dei più singolari poemi mai scritti: la resurrezione di Elena di Troia, la sua unione con Faust, la nascita e la morte del loro figlio Euforione e il ritorno di Elena tra le ombre. Come la classica Notte di Valpurga, e come i cori celesti che concludono la Parte seconda, la Elena offertaci da Goethe è un poema controcanonico, un’impensabile revisione di Omero, Eschilo e Euripide, come se la classica Notte di Valpurga capovolgesse le origini della mitologia greca, e i cori finali parodiano il Paradiso di Dante con un brio sottile e crudele.

Nulla di tutto ciò era totalmente nuovo per Goethe; il FaustParte prima è una continua parodia di Shakespeare, con tocchi di Calderón e di Milton. Non mi viene in mente nessun altro poeta che abbia ereditato tanti elementi del Canone occidentale quanti ne ha ereditati Goethe. Da Omero a Byron, l’intera processione è contenuta nel Faust, svuotata per essere riempita di nuovo, ma con la grande differenza necessariamente introdotta dalla parodia, per quanto nobilitata. In tutto il presente libro sostengo che ogni nuova opera, per diventare canonica, deve avere in sé l’anticanonico, ma non nel senso estremo di Goethe. Ibsen riprende in parte il suo atteggiamento, e il Peer Gyntparodia sia il Faust sia Shakespeare. Gli altri grandi scrittori dell’Età democratica – per esempio, Whitman, Dickinson e Tolstoj – non cercano di riassumere la tradizione occidentale come fa Ibsen, anche se con una certa crudeltà. Nella nostra era di Caos vi sono versioni di Ibsen – tra le quali spicca soprattutto Joyce –, ma le ultime tracce della pietà di Goethe verso l’oggetto della parodia non sono riscontrabili in figure di pari vigore. Il rapporto di Beckett con Shakespeare è simile a quello di Joyce e in parte a quello di Ibsen, ma non è affatto goethiano. Curtius, nei suoi Studi di letteratura europea(1973), cita una lettera scritta da Goethe nel 1817: «Noi poeti epigoni dobbiamo riverire l’eredità dei nostri antenati – Omero, Esiodo e altri – come autentici libri canonici; ci inchiniamo dinanzi a quegli uomini che furono ispirati dallo Spirito Santo, e non osiamo chiedere quando o dove».

Questo non è l’accento di Ibsen o di Joyce. Curtius aveva ragione: Goethe mise fine a un aspetto della tradizione. Forse qui la mia appropriazione di Vico è un ostacolo, ma se per «aristocratico» si intende un elitarismo dello spirito, fino al senso di una gnosi, Goethe è davvero l’ultimo grande scrittore dell’età inaugurata da Dante. Per scrivere un poema epico controcanonico o un dramma cosmologico come FaustParte seconda, occorre infatti un intimo rapporto con il Canone, un rapporto che, dopo Goethe, nessun altro ha subito o di cui nessun altro ha goduto. Ciò conferisce particolare intensità alla morte di Faust, perché a morire non è solo il personaggio di Faust.

Come sarebbe morto Peer Gynt se Ibsen fosse stato disposto ad abbandonarlo al fabbricante di bottoni? Riusciamo forse a immaginare la morte di Poldy Bloom? L’uomo faustiano muore di una morte classica, come vedremo, perché la continuità con la tradizione, per quanto parodistica o ironica, resta intatta. Dopo Goethe, è stato infranto tutto ciò che poteva essere infranto. Emerson, Carlyle e Nietzsche riverivano Goethe, e tutti si rendevano conto che quest’ultimo era stato in larga misura un finale, di cui la morte di Faust è la prova generale. Freud, alla ricerca di un’immagine per la sua terapia, ideò la formula: «Dove era l’Es, deve subentrare l’Io». L’ambizione è l’ultimo progetto di Faust, il risanamento della riva, la creazione di nuovi Paesi Bassi.

Un ironista goethiano nonostante il suo scientismo goethiano, Freud sapeva ciò che Faust sta ancora imparando alla fine, ossia la mentalità del capovolgimento: «Dove era l’Es, deve subentrare l’Io». Nel capovolgimento, Mefistofele e i suoi scagnozzi commettono un assassinio nel nome ecologico di Faust, e Faust sopporta errori edipici nel rimorso, anche se combatte contro Angoscia. Sbarazzandosi della magia, decidendo di opporsi a quest’ultima, decidendo di lottare da solo contro la natura, rifiutando ogni possibilità di trascendenza, il Faust moribondo (benché ignori di essere in punto di morte) inizia a divenire un uomo freudiano, abbracciando il principio della realtà. Con quell’abbraccio arriva l’ultima illusione idealistica, il prosciugamento dell’ultima palude, cosicché dove era l’Es, deve subentrare Faust.

Mefistofele interviene con il suo insulto finale: i Lemuri spettrali sostituiscono gli operai, e il Faust cieco, udendo il rumore delle vanghe, non si rende conto che stanno scavando la sua fossa e non il suo miglioramento finale della natura. Spiriti virgiliani della notte e dei morti, i Lemuri sono semplici scheletri, se non addirittura mummie, e copiano la canzone del becchino dell’Amleto quando scava la tomba di Ofelia. Di fronte a quella musica sinistra, il rumore delle vanghe, e a quella malinconia amletica, Faust dà voce alla sua ultima, assurda illusione: «Ecco ch’io godo l’attimo supremo». Così dicendo, cade all’indietro fra le braccia dei Lemuri, che lo depongono a terra e lo seppelliscono. A giudicare dal linguaggio di Faust, la sua anima dovrebbe essere perduta, come pure la sua scommessa e quella di Dio.

Quella che segue è una commedia celebre e spaventosa, insaporita dall’irriverente e deliberato cattivo gusto del Goethe anziano. Mentre un Mefistofele disperato e ansioso deplora il fatto che oggi i patti non abbiano più valore, il diavolo e i suoi vili demoni vengono bombardati da una tempesta di rose angeliche. Continuando la lotta da solo, abbandonato dai suoi demoni minori, il diavolo infelice perde l’autocontrollo e viene sopraffatto da una cupidigia divina per le natiche degli angioletti. L’anima di Faust, la sua «parte immortale», viene portata in cielo dagli affascinanti fanciulli, e Mefistofele protesta giustamente per essere stato defraudato. Si tratta di un divertimento ottimo e osceno, e forse Goethe avrebbe dovuto mettere qui la parola fine. Invece, saccheggia e parodia il Paradiso di Dante, presentando a tutti i lettori successivi un supremo problema di prospettivismo. Che cosa dobbiamo fare di questa conclusione apparentemente cattolica a un dramma poetico per nulla cristiano? I Fanciulli beati e vari gradi di Angeli sono un tipo di entità, ma come deve reagire il lettore alla batteria celeste del Doctor Marianus e delle Penitenti che assistettero Gesù? Faust prenderà davvero dimora nei cieli danteschi come amorevole maestro di una schiera di Fanciulli beati? Oscar Wilde sta forse scrivendo questa conclusione in anticipo, oppure tutto ciò è l’ultima empietà di Goethe, il suo massimo insulto alle sensibilità normative?

Se leggiamo con attenzione, è improbabile che giudichiamo la visione finale di Goethe come stranamente cristiana. Piuttosto, è ermetica e personale, ed eterodossa al massimo grado; ma anche la visione di Dante era così, finché la Chiesa cedette alla sua eccellenza e la canonizzò. Con grandissima abilità, Goethe emula Dante e contemporaneamente lo scavalca intronando in cielo più di una Beatrice personale. Neppure il Doctor Marianus è del tutto ortodosso: saluta la Vergine chiamandola, «regina nostra eletta, dei divini pari al fiore». La povera Greta, che si era pentita sulla terra e continua a pentirsi in cielo, viene accettata solo dalla Mater Gloriosa, cosicché Faust possa trarne insegnamento quando seguirà la sua amata verso le sfere superne.

Ma quando abbiamo sentito dire che Faust si è pentito? È vero, Faust è morto, ma poiché aveva cent’anni, era ora che morisse. Impenitente, mai perdonato, dopo un’intera vita passata in combutta con il diavolo, Faust ascende a una salvezza istantanea, come si addice a chi porta un nome che significa «il favorito». Ciò è ingiusto, sicuramente non cattolico e non cristiana in qualsiasi accezione ortodossa. Goethe ha riunito con sfacciataggine la mitologia cattolica e le strutture dantesche nel suo sistema mitopoietico, personale quanto quello di Blake, ma capace di cercare, anzi di stimolare, le autocontraddizioni con allegria assai maggiore. Se Faust si trova nelle sfere superne, è perché la religione del goethismo esoterico si è protesa a redimerlo. Quando il FaustParte seconda si avvia verso la sua conclusione, Cristo e il cristianesimo sono solo uno dei tanti fili di un contrappunto mitopoietico.

Le ultime parole esprimono un puro tardoromanticismo erotico goethiano: «Femmineo eterno / trae al supremo». Dove? A indicare la strada a Faust non è stata la Vergine, bensì Margherita e Elena. A indicare la strada a Goethe era stata la sua grande sequenza di Muse, immortalate nella sua poesia lirica. Le coloriture cattoliche alla fine della Parte seconda non sono né più né meno che l’ennesimo esempio di controcanonico nel lungo trionfo del linguaggio e della personalità di Goethe.