domenica 11 aprile 2021

L'INIMITABILE JEEVES P. G. Wodehouse

 


A voler tracciare la storia dell’umorismo e della comicità dai giorni nostri a ritroso è inevitabile che arriviamo  a Wodehouse.
E comunque se è certamente vero che i suoi romanzi abbiano tutti la medesimo impostazione, pure le storie in realtà sono diverse e le varie gag, i fraintendimenti, i colpi di scena si susseguono con ritmo incalzante e si agganciano l’una all’altro con una naturalezza impressionante. Per altro per quanto politica, critica sociale e alti ideali siano assenti dalle sue opere, di contro vizi, virtù, meschinità e generosità umane sono alla base di tutti i suoi racconti.

L'INIMITABILE JEEVES

P. G. Wodehouse

Come potrebbe trarsi d'impaccio lo sprovveduto e ingenuo Bertie Wooster senza gli interventi abili e machiavellici del suo insostituibile maggiordomo, l'ormai celebre e consultatissimo Jeeves, il personaggio più formale e composto e insieme più astuto e ardito tra i molti creati dalla fantasia di Wodehouse?Come potrebbe cavarsela Bingo Little, il focoso e intraprendente amico di Bertie, dal cuore troppo tenero, se Jeeves non lo salvasse dalle conseguenze catastrofiche delle sue troppo imprudenti avventure amorose?Ma Jeeves interviene immancabilmente al momento opportuno con la sua flemma tutta britannica e la sua impassibile correttezza e sistema situazioni apparentemente insanabili in un susseguirsi caotico e complicato di vicende che tutti i personaggi, ma non il maggiordomo dalla lungimirante saggezza, così che anche il lettore dovrà proprio convenire che Jeeves è davvero "inimitabile".

 

1

IL CEREBRO DI JEEVES LAVORA

— Buon giorno, Jeeves, — dissi.

— Buon giorno, signore, — disse Jeeves.

Pose delicatamente la tazzina del tè sulla tavola accanto al letto ed io ne presi un sorso ristoratore. Andava benissimo, come al solito: né troppo caldo né troppo dolce, né troppo forte né troppo debole; e non c’era una goccia di latte di troppo, né una stilla sul piatto. Che uomo straordinario, Jeeves! Competentissimo sotto tutti i riguardi; l’ho già detto altre volte e lo ripeto. Ve ne darò un piccolo esempio: tutti gli altri camerieri che ho avuto solevano entrare la mattina nella mia camera, mentre dormivo ancora; e non vi dico quanto ciò m’affliggesse. Ma Jeeves sembra avvertito da una specie di intùito telepatico, quando sono sveglio; entra sempre col tè, esattamente due minuti dopo che sono tornato in vita; il che, nella giornata d’un individuo, ha la sua importanza.

— Com’è il tempo, Jeeves?

— Clementissimo, signore.

— Nulla sui giornali?

— Qualche minaccia di attrito nei Balcani; del resto, nulla.

— Dico, Jeeves, una persona che ho trovato al Circolo ieri sera mi ha consigliato di puntare anche la camicia su Privateer, alla corsa delle due di domani. Che ne dite?

— Non ve lo consiglierei, signore; non è una scuderia di razza.

Per me era abbastanza: Jeeves è bene informato; non saprei dir come, ma è informato. Ci fu un tempo in cui mi ridevo dei suoi consigli e facevo come mi pareva, perdendo quanto avevo; ma ora non faccio più così.

— A proposito di camicie, — dissi; — sono arrivate quelle color malva che avevo ordinate?

— Sì, signore; le ho rimandate indietro.

— Rimandate indietro?

— Sissignore; non erano convenienti per voi.

In realtà di quelle camicie io pensavo tutto il bene possibile; ma, davanti alla superiore saggezza di Jeeves, m’inchinai. Debolezza? Non saprei... La maggior parte degli uomini, senza dubbio, sono propensi a limitare l’attività dei loro camerieri alla stiratura dei calzoni, o che so io, senza permetter loro di dirigere la casa; ma, con Jeeves, le cose vanno diversamente; fin dal primo giorno che venne al mio servizio, io l’ho considerato una specie di guida, di filosofo, di amico.

— Il signor Little ha chiamato al telefono, un minuto fa, signore; l’ho informato che non eravate ancora sveglio.

— V’ha lasciato detto qualche cosa?

— No, signore; ha accennato a qualche cosa d’importante che doveva discutere con voi, ma non mi ha confidato nessun particolare.

— Bene, lo vedrò certamente al Circolo.

— Senza dubbio, signore.

Non ero affatto in ciò che si potrebbe dire una febbre di impazienza: Bingo Little è stato mio compagno di scuola e ci vediamo spessissimo anche ora; è nipote del vecchio Mortimer Little, ritiratosi recentemente dagli affari con una sostanza considerevole. (Probabilmente avrete sentito parlare del «Linimento Little che ridà l’elasticità alle gambe.») Bingo vive a Londra con un piccolo assegno che gli passa suo zio, e, in complesso, conduce una vita abbastanza serena. Non era improbabile che ciò ch’egli chiamava un affare importante si riducesse poi ad essere una cosa d’importanza tutt’altro che eccessiva; mi figurai che avesse scoperto qualche nuova marca di sigarette e che volesse farmele assaggiare, o qualche cosa di simile; e la mia colazione non fu turbata da preoccupazioni di sorta.

Dopo colazione, accesi una sigaretta e andai alla finestra a osservare il tempo; certamente era una delle più belle e lucenti giornate.

— Jeeves, — dissi.

— Signore! — rispose Jeeves. Stava sparecchiando la tavola, ma, al suono della voce del suo padrone, interruppe cortesemente la bisogna.

— Avevate assolutamente ragione, riguardo al tempo. È una giornata magnifica.

— Certamente, signore.

— Primaverile.

— Sì, signore.

— In primavera, Jeeves, un’iride più lucente splende sul collo delle colombe.

— Così m’han detto, signore.

— Benissimo! Allora portatemi il mio whangee, le mie scarpe più gialle e l’Homburgverde; voglio andare a intrecciar danze pastorali al Parco.

Non so se abbiate mai sperimentato quel senso speciale che s’impadronisce di voi, verso la fine di aprile e il principio di maggio, quando il cielo è azzurro lucente, tutto ovattato di nuvole bianche e una brezza leggera soffia dall’occidente... è una specie di esaltazione romantica, se intendete ciò che voglio dire. Io non ho un gran debole per le donne, ma, in quella mattina speciale, mi sembrava d’aver bisogno veramente di qualche graziosa ragazza in disgrazia che mi chiedesse di salvarla dalle mani dei banditi, o altro di simile; cosicché fu per me una specie di doccia fredda l’incontrare semplicemente Bingo Little, con una cravatta color rosso vino, tutta sparsa di ferri di cavallo, che lo faceva sembrare un pazzo.

— Ehi, Bertie! — mi gridò.

— Dio mio! — balbettai —; che cravatta! Come mai? Per qual ragione?

— Ah, la cravatta? — Si fece rosso —. Mi... eh... mi è stata regalata.

Sembrava imbarazzato, così lasciai cadere il discorso; facemmo qualche passo, poi sedemmo.

— Jeeves m’ha detto che dovevate parlarmi di qualche cosa — dissi.

— Eh? — fece Bingo, trasalendo —. Ah, sì, sì. Sì.

Aspettai, per dargli il tempo di scaricarsi; ma pareva che non avesse nessuna voglia d’andare avanti; la conversazione languiva; lo vedevo guardar dritto davanti a sé, con uno sguardo vitreo.

— Dico, Bertie — fece, dopo una pausa di circa un’ora e un quarto.

— Ehi!

— Vi piace il nome di Mabel?

— No.

— No?

— No.

— Non vi sembra che ci sia una specie di musica, nella parola... qualche cosa come il vento che mormora gentilmente tra le chiome degli alberi?

— No.

Per un momento, parve contrariato; poi si rimise.

— Naturalmente, non vi sembra così; siete sempre stato un testone senz’anima... non è forse vero?

— Proprio come dite voi. E chi è? Ditemi tutto.

Ormai avevo compreso che il povero Bingo c’era caduto un’altra volta; da quando l’ho conosciuto (e siamo stati a scuola insieme), non ha fatto che innamorarsi, specialmente durante la primavera che sembra agire sul suo spirito come una magia. A scuola aveva la più bella collezione di fotografie di attrici che alcuno possedesse, e, a Oxford, la sua natura romantica era divenuta un proverbio.

— Fareste meglio a venire con me a vederla a colazione — disse, guardando l’orologio.

— Una buonissima idea, — feci. — Dove la incontrerete? Al Ritz?

— Vicino al Ritz.

Geograficamente era esatto; a circa cinquanta metri ad oriente del Ritz, vi è una di quelle meschine botteghe da tè e dolci che sorgono qua e là per Londra, e, là, se mi credete, Bingo si precipitò come un coniglio domestico; e, prima che avessi il tempo di proferir verbo, eravamo tutti e due seduti davanti a una tavola, accanto a una tazza fredda di caffè, lasciatavi da qualche cliente mattiniero. Sto per dire che non potrei quasi descrivervi, nel suo svolgimento particolare, la scena. Bingo, quantunque non nuotasse affatto nell’oro, aveva abbastanza denaro; oltre ciò che gli dava suo zio, sapevo che aveva finito la stagione delle corse incassando. Perché, dunque, aveva invitato a colazione la ragazza in quel caffè della misericordia? Non certamente perché fosse in ristrettezze.

In quel punto arrivò la cameriera, una ragazza abbastanza graziosa.

— Non aspettiamo?... — stavo per dire a Bingo, pensando ch’era poco delicato, dopo aver invitalo a colazione una ragazza in un luogo simile, metterci per giunta a mangiare prima che arrivasse; quando gettai l’occhio sulla sua faccia, e m’arrestai.

Aveva gli occhi fuor dell’orbita e il viso scarlatto; sembrava proprio il Risveglio dell’Anima, dipinto in rosso.

— Ehi Mabel! — fece, con una specie di singulto.

— Ehi! — disse la ragazza.

— Mabel, — continuò Bingo; — questo è Bertie Wooster, un mio amico.

— Piacere di conoscerlo — fece la ragazza. — Che bella giornata!

— Proprio bella — dissi.

— Vedete che porto la vostra cravatta? — fece Bingo.

— Vi sta benissimo — disse la ragazza.

Personalmente, se qualcuno m’avesse detto che una cravatta come quella mi stava bene, mi sarei alzato e gli avrei rotto la zucca, senza riguardo al sesso o all’età; ma il povero Bingo non fece che confondersi tutto pel complimento ed ebbe una smorfia spaventosa.

— Ebbene, che cosa prendiamo oggi? — fece la ragazza, dando subito alla conversazione un tono più pratico.

Bingo studiò la lista devotamente.

— Io prendo una tazza di cacao, un po’ di vitello freddo, un pasticcio di prosciutto, una fetta di torta di frutta e un maccarone. E voi lo stesso, Bertie?

Lo guardai rivoltato; ch’egli fosse mio amico da tanti anni e mi credesse capace di insultare il mio stomaco con robaccia simile era una cosa che mi offendeva vivamente.

— Che ne direste d’una cotoletta ripiena, con salsa di limone? — mi chiese.

Il cambiamento che l’amore opera in un individuo è qualche cosa di veramente spaventoso a contemplarsi; quest’uomo che mi stava davanti e parlava con tanta naturalezza di maccarone e di salsa, era lo stesso uomo che avevo veduto, in giorni migliori, intimare al capo cameriere del Claridge di far preparare allo chef l’unico frite au gourmet aux champignons, e proclamare che, se non fosse stato preparato a puntino, l’avrebbe rimandato indietro. Misericordia!

Un panetto con un po’ di burro e del caffè mi parvero le sole cose che non fossero state appositamente preparate dal più maligno membro della famiglia dei Borgia per qualche persona contro cui nutrisse un rancore particolare, così li ordinai, e Mabel uscì scutrettolando.

— Ebbene? — mi chiese Bingo, estasiato.

Capii che voleva il mio parere sull’avvelenatrice ch’era uscita in quel momento.

— Graziosissima — dissi.

Parve insoddisfatto.

— Non pensate che sia la più meravigliosa ragazza che abbiate mai visto? — mi chiese con ardore.

— Oh, assolutamente! — dissi, tanto per calmare il disgraziato. — Dove l’avete conosciuta?

— A un ballo di beneficenza, a Camberwell.

— E che diavolo mai facevate a un ballo di beneficenza a Camberwell?

— Il vostro Jeeves m’aveva chiesto se volevo comprare un paio di biglietti. Si trattava d’un’opera di carità o di qualche cosa del genere.

— Jeeves? Non sapevo che si occupasse di cose simili!

— Ebbene, io credo che ogni tanto si prenda qualche diversivo. In ogni modo era là, e come faceva girar le gambe! Dapprima non volevo, ma poi ci andai, tanto per far chiasso. Oh, Bertie, pensate che cosa avrei perduto!

— Che cosa avreste perduto? — chiesi, mentr’egli s’annuvolava tutto.

— Mabel, testone! Se non fossi andato là, non avrei incontrato Mabel!

— Oh! ah!

A questo punto Bingo s’immerse in una specie di ipnosi, da cui uscì soltanto per affrontare il pasticcio di prosciutto e il maccarone.

— Bertie — disse —; ho bisogno del vostro consiglio.

— Avanti.

— Almeno, non del vostro consiglio... che non potrebbe servire a nessuno... Voglio dire... voi siete un vecchio ciuco, abbastanza consumato, no? Non per offendere i vostri sentimenti, naturalmente...

— No no, capisco...

— Ciò che vi chiedo sarebbe che raccontaste tutto al vostro Jeeves, per vedere che cosa suggerisce; m’avete detto spesso che ha tratto d’impaccio parecchi vostri amici, e, a giudicare dalle vostre parole, mi sembra che sia un po’ il cervello della vostra famiglia.

— Non m’ha mai lasciato in nessun imbroglio.

— Allora raccontategli il mio caso.

— Quale caso?

— Il mio problema.

— Quale problema?

— Ma vecchio zuccone! quello di mio zio, naturalmente. Che cosa pensate che dica mio zio di questa faccenda? Se glielo dico a freddo, succede un pandemonio!

— È un tonto che si commuove facilmente, eh?

— In un modo o nell’altro, bisogna preparargli lo spirito a ricevere la notizia Ma in che modo?

— Ah!

— Mi aiuta assai il vostro «ah!». Vedete, io devo contar molto sul vecchio: se mi taglia i viveri, mi trovo in un pasticcio. Così, raccontate tutto a Jeeves, e vedete se non può trovar qualche soluzione. Ditegli che il mio futuro è nelle sue mani, e che, se riusciamo a far sonar le campane nuziali, può contar su di me... anche... fino a metà del mio reame... bene, mettiamo... dieci sovrane. Credete che si scoterà Jeeves, vedendo splendere sul suo orizzonte un sole di dieci sovrane d’oro?

— Indubbiamente, — dissi.

Non ero affatto sorpreso che Bingo volesse mettere Jeeves a parte di questo suo affare privato; sarebbe stata la prima cosa che avrei pensato io stesso, se mi fossi trovato in una situazione simile; poiché, come ho osservato in parecchie occasioni, Jeeves è un uomo di grande intelligenza e pieno di idee brillanti; e se c’era qualcuno che poteva far qualche cosa per Bingo, era proprio lui. Quella sera stessa, dopo pranzo, gli raccontai tutto.

— Jeeves.

— Signore?

— Avete da fare, in questo momento?

— No, signore.

— Volevo dire, non state facendo nulla in particolare?

— No, signore; è mia abitudine, a quest’ora, leggere qualche libro istruttivo; ma, se avete bisogno dei miei servigi, posso facilmente rimandar la lettura a più tardi, o rinunciarvi addirittura.

— Ebbene, ho bisogno del vostro consiglio; si tratta del signor Little.

— Il signor Little giovane, o il signor Little vecchio, suo zio che abita a Pounceby Gardens?

A quanto sembrava, Jeeves sapeva tutto... Era sorprendente: sono stato intimo di Bingo tutta la vita, e, tuttavia, non mi ricordo mai di averlo sentito dire che suo zio abitasse in qualche luogo.

— Come fate a sapere che abita a Pounceby Gardens? — gli chiesi.

— Sono un po’ in relazione con la cuoca più anziana del signor Little, signore. Infatti, ce la intendiamo.

Sto per dire che ciò mi sorprese alquanto; forse, perché non pensavo che Jeeves si occupasse di cose simili.

— Intendete dire che siete fidanzato?

— Press’a poco, potrei affermarlo, signore.

— Bene bene!

— È una cuoca eccellente, signore — disse Jeeves, come se sentisse il bisogno di dare una spiegazione. — Che cosa desideravate chiedermi, a proposito del signor Little?

Gli spiegai tutti i particolari della faccenda.

— E così stanno le cose, Jeeves — conclusi. — Io credo che potreste escogitare qualche espediente per trar d’impaccio quel povero Bingo. Ditemi qualche cosa del signor Little vecchio; che razza d’individuo è?

— Un tipo abbastanza curioso, signore; da quando s’è ritirato dagli affari, è divenuto un vero recluso, e ora si dedica quasi interamente ai piaceri della tavola.

— Volete dire ch’è diventato un porco da ingrasso?

— Forse io non mi prenderei la libertà di designarlo precisamente in tali termini, signore; è ciò che comunemente si chiama un buongustaio; s’interessa in modo particolare di ciò che mangia, e quindi considera come qualche cosa di prezioso i servigi della signorina Watson.

— La cuoca?

— Sì, signore.

— Bene, mi sembra che il meglio che si possa fare, sarebbe di condurgli davanti il giovane Bingo una sera dopo pranzo, profittando del buon umore che gli avrà messo in corpo il cibo, e così via...

— La difficoltà è, signore, che, al momento, il signor Little è messo a dieta, in seguito a un attacco di gotta.

— La cosa comincia a diventare imbarazzante.

— No, signore; io penso che la disgrazia del signor Little vecchio possa esser volta in favore del signor Little giovane. Stavo parlando soltanto l’altro giorno al cameriere del signor Little, ed egli mi diceva che ora il suo compito principale è d’intrattenere il suo padrone tutte le sere con la lettura. Se fossi al vostro posto, signore, io manderei il signor Little giovane a far da lettore allo zio.

— Mettendo a profitto la devozione del nipote, volete dire? e contando sulla commozione che un atto così gentile produrrebbe sul vecchio?

— Anche, signore. Ma, soprattutto, conterei sulla scelta delle letture del signor Bingo.

— Questo non va. Bingo ha una bella faccia, ma, quando si tratta di letteratura, non va oltre lo Sporting Times.

— È una difficoltà che si supera facilmente; sarei felice di scegliere io stesso i libri che il signor Little dovrebbe leggere. Se permettete, spiego la mia idea ulteriormente.

— Infatti, non posso dire d’averla ancora esattamente compresa.

— Il metodo ch’io proporrei, signore, è ciò che credo che i pubblicisti chiamino Suggestione Diretta; la quale consiste nel far penetrare in zucca un’idea, per mezzo della ripetizione costante. Avete mai sperimentato il sistema?

— Intendete dire che sentendo continuamente affermare che questa o quest’altra specie di sapone è la migliore che esista, dopo un po’ di tempo, il paziente è talmente influenzato, che si precipita alla prima bottega che trova e ne compra un pezzo?

— Precisamente, signore; lo stesso metodo fu la base di tutta la più preziosa propaganda, durante la guerra recente, e non vedo ragione perché non si debba adottare per raggiungere l’esito desiderato, riguardo alle vedute del nostro soggetto sulle distinzioni di classe. Se il signor Little giovane leggesse per giorni e giorni a suo zio una serie di romanzi, in cui il matrimonio con giovani delle classi sociali inferiori fosse presentato come possibile e ammirevole, io penso che lo spirito del signor Little vecchio verrebbe sufficientemente preparato a ricevere a notizia che suo nipote desidera sposare una cameriera.

— Ma esistono libri del genere, oggi? I soli che io conosco e di cui parlano i giornali, trattano di coppie di sposi che trovano la vita troppo grigia e che non riescono a sopportarsi a nessun costo.

— Sì, signore; ve ne sono molti, trascurati dai giornalisti, ma largamente letti. Avete mai visto Tutto per l’amore, di Rosie M. Banks?

— No.

— Nemmeno Una rosa rossa, della stessa autrice?

— No.

— Io ho una zia, signore, che possiede la collezione quasi completa di Rosie M. Banks. Posso facilmente farmi prestare quanti volumi possono occorrere al signor Little; costituiscono una lettura leggera e assai piacevole.

— Bene, val la pena di tentare.

— Certo, è un sistema che raccomanderei.

— Benissimo, allora. Andate domani stesso da vostra zia e fatevene dare un paio dei più adatti.

— Precisamente, signore.

  

2

LE CAMPANE NUZIALI
NON VOGLIONO SONARE

Tre giorni dopo, Bingo riferì che Rosie M. Banks era senza discussioni quanto occorreva pel vecchio Little: dapprincipio il povero vecchio s’era ribellato al proposto cambiamento di dieta letteraria, non essendo affatto portato per la letteratura fantastica e avendo fino allora digerito soltanto le più indigeste riviste mensili; ma poi Bingo gli aveva somministrato il primo capitolo di Tutto per l’amore, prima che egli avesse il tempo di accorgersene e d’allora in poi non aveva voluto altro cibo. Avevano già finito Una rosa rossa e Una semplice ragazza di campagna ed erano già arrivati a metà dell’Amore di Lord Strathmorlick.

Così mi narrò Bingo, con voce rauca, davanti a un uovo sbattuto col vin di Xeres. Il solo inconveniente, dal suo punto di vista, era che la faccenda non giovava affatto alle sue corde vocali che davan già segno di non poter più resistere allo sforzo. Aveva studiato i sintomi del suo disturbo in un dizionario medico e aveva appreso che si trattava dell’«infiammazione gutturale dei preti». Ma contro tale inconveniente, bisognava mettere il fatto assodato ch’egli aveva ottenuto sul nemico un considerevole vantaggio e che ogni sera, dopo la lettura, era invitato a fermarsi a pranzo; e, a quanto mi disse, i pranzi che ammanniva la cuoca del vecchio Little erano qualche cosa da... assaggiare per credere. Solo a parlare di quelle minestre in brodo aveva le lacrime agli occhi, il disgraziato!... e, infatti, credo che, per un individuo che da settimane non s’ingozzava che di maccaroni e salse, dovevano sembrare una specie di ambrosia celeste...

A quei banchetti il vecchio Little non poteva prendere alcuna parte attiva, ma, come mi disse Bingo, si sedeva a tavola, prendeva il suo piatto di fecola, annusava i piatti, parlava delle entrées che l’avevano deliziato in passato, faceva disegni sulle liste di cibi che avrebbe fatto in futuro, quando il dottore gliel’avesse permesso; cosicché suppongo che alla sua maniera ci provasse un certo gusto anch’egli, se pur non mangiava. In ogni modo, le cose sembravano procedere soddisfacentemente e Bingo mi disse che aveva avuto un’idea, la quale, secondo lui, avrebbe assicurato l’esito dell’impresa; non volle spiegarmi di che si trattasse, ma mi disse che era una meraviglia.

— Facciamo progressi, Jeeves — dissi.

— Ciò mi rallegra veramente, signore.

— Il signor Little mi dice che quando è giunto al colpo di scena di Una semplice ragazza di campagna, suo zio ha cominciato a boccheggiare come un pesce.

— Davvero, signore?

— Il punto in cui Lord Claude prende la ragazza fra le sue braccia, sapete, e dice...

— Sì sì, conosco il punto, signore. È davvero commovente; era uno dei brani preferiti di mia zia.

— Penso che siamo sulla strada giusta.

— Così sembra, signore.

— Insomma, pare che sia un altro vostro successo. L’ho sempre detto e dirò sempre che, quanto a intelligenza, voi, Jeeves, siete unico; tutti gli altri grandi pensatori dell’epoca si perdono tra la folla, guardandovi emergere solo.

— Vi ringrazio sentitamente, signore; io non mi sforzo che di compiacervi.

Circa una settimana dopo, Bingo capitò da me con la novità che la gotta aveva cessato di disturbare suo zio e che il giorno dopo il vecchio avrebbe ripreso a lavorar sodo di forchetta e coltello come prima.

— A proposito, — disse, — desidera che andiate a colazione da lui, domani.

— Io? Perché io? se non sa nemmeno che esisto!

— Oh sì, lo sa; gli ho parlato di voi.

— Che gli avete detto?

— Oh, parecchie cose! In ogni modo, vuol vedervi, e, ascoltatemi vecchio mio... andateci! Io credo che la colazione di domani sarà qualche cosa di speciale.

Non so come, ma anche allora mi passò per la testa che ci fosse, in questo modo di fare di Bingo, qualche cosa di bizzarro... di quasi sinistro, se comprendete ciò che voglio dire. Il briccone aveva l’aria d’uno che ha preparato un bel trucco.

— Vi è sotto qualche cosa di strano, in questo invito, — dissi. — Perché mai vostro zio si sogna d’invitare a colazione una persona che non ha mai visto?

— Caro il mio testone, non vi ho detto che gli ho parlato di voi come del mio migliore amico e compagno di scuola, eccetera, eccetera?

— Ma, egualmente... e poi, un’altra cosa: perché ci tenete tanto che ci vada?

Bingo esitò un momento.

— Bene, non vi ho detto che m’è venuta un’idea? È questa: voglio che gli diate voi la notizia. Io non ne ho la forza.

— Che? Nemmeno per sogno!

— E voi vi chiamate mio amico?

— Sì, lo so, ma vi sono dei limiti.

— Bertie, — disse Bingo, in tono di rimprovero, — io vi ho salvato la vita, una volta!

— Quando?

— No? Allora deve trattarsi di qualche altro. Bene, in ogni modo, siamo amici fin da bambini e non dovete abbandonarmi in disgrazia!

— Oh, benissimo! — dissi; — ma dicendo che non avete la forza di far qualunque cosa, vi assicuro che vi calunniate; un individuo che...

— Ciao! — fece Bingo. — All’una e trenta domani. Siate puntuale.

 

* * *

 

Vorrei dire che più ci pensavo, meno la storia di quell’invito mi piaceva; verissimo che, come diceva Bingo, mi attendeva una colazione sontuosa; ma, che cos’è la miglior colazione possibile, per un individuo che corre il pericolo d’essere scaraventato nella strada a gambe all’aria, prima di finir la minestra? Tuttavia la parola di un Wooster è un debito, o una maledizione simile; cosicché, all’una e trenta del giorno seguente, io ero al numero 16 di Pounceby Gardens, col dito sul campanello; e, mezzo minuto più tardi, ero in un salotto e stavo stringendo la mano all’uomo più grasso che abbia mai visto in tutta la mia vita.

Manifestamente, l’insegna della famiglia Little era «varietà»: Bingo è lungo e sottile e non ha mai avuta, da quando l’ho conosciuto io, un’oncia di peso superfluo in tutta la sua persona; ma vi assicuro che suo zio compensava tanta magrezza sovrabbondantissimamente. La mano che strinse la mia, vi si avvolse intorno, seppellendola al punto che cominciai a chiedermi se non sarebbe occorsa, per estrarmela, una scavatrice meccanica.

— Signor Wooster sono lietissimo... sono orgoglioso... mi sento onorato...

Cominciai a pensare che Bingo avesse esaltato la mia persona in modo superiore ai miei meriti, per uno scopo speciale.

— Oh! ah! — feci.

Dette un passo indietro stringendomi sempre la mano.

— Siete giovanissimo, per aver fatto tanto!

Le idee mi si confondevano: la mia famiglia, specialmente mia zia Agata che m’ha tirato su dall’infanzia, non ha fatto che affermare che la mia è sempre stata una vita frivola e, che, dopo vinto il premio ch’ebbi alle elementari per la miglior collezione di fiori selvatici fatta durante le vacanze estive, non ho mai fatto nulla di buono per aver diritto ad entrare nell’albo d’oro della fama. Mi stavo chiedendo se non potesse darsi il caso ch’egli mi confondesse con qualche altra persona, quando udii squillare, fuor del salotto, il campanello del telefono e la cameriera venne a dirmi che mi chiamavano; scesi: era Bingo.

— Ehi! — disse Bingo. — E così, siete costà? Bravo il mio uomo! Sapevo che potevo contare su voi. Ma, dico! tesoro, è stato contento mio zio di vedervi?

— Assolutamente più di quanto merito; non riesco a spiegarmi come.

— Oh, va benissimo allora; vi ho chiamato soltanto per spiegarvi tutto. Il fatto è, vecchio mio, che, sapendo che voi non ci avreste fatto caso, ho detto a mio zio che voi eravate l’autore dei libri che gli ho letto.

— Come!

— Sì; gli ho detto che Rosie M. Banks era il vostro pseudonimo e che voi ci tenete a non esser conosciuto, perché siete un individuo modesto e vi piace vivere appartato. Ora state sicuro che vi darà retta: penderà dalle vostre labbra. Un’idea meravigliosa, no? Credo che Jeeves in persona non ne avrebbe avuto una più brillante. Bene, tenete duro, caro mio! e ricordatevi bene che bisogna che mi facciate aumentare l’assegno; con quello che ho ora non è possibile che mi sposi; e se questa pellicola avrà per scena finale l’abbraccio di rito, bisogna che l’assegno mi sia raddoppiato. Ecco tutto! Ciao!

E andò via. In quel momento sonò il gong e il mio simpatico ospite scese con la grazia di una tonnellata di carbone che fosse scivolata dall’ultimo gradino.

 

* * *

 

Torno sempre mentalmente a quella colazione, con una specie di doloroso rimpianto; fu una colazione eterna ed io non ero affatto nelle condizioni indicate per apprezzarla. Nella mia subcoscienza, se intendete ciò che voglio dire, distinguevo abbastanza bene che si trattava d’una colazione fuori dell’ordinario; ma ero così spaventosamente compreso dello spaventoso impiccio in cui m’aveva messo Bingo, che il senso più profondo della mia condizione non penetrò mai veramente nel mio spirito; avrei potuto mangiare segatura che mi avrebbe fatto altrettanto bene.

Il vecchio Little, di primo acchito, toccò il tasto letterario.

— Probabilmente mio nipote vi avrà detto che ho letto seriamente i vostri libri, — cominciò.

— Sì, me l’ha detto.. Vi... ahm... vi sono piaciuti?

Egli mi guardò, pieno di riverenza.

— Signor Wooster, non mi vergogno di dirvi che, mentre ascoltavo, avevo gli occhi pieni di lacrime. Per me è un prodigio che un uomo, giovane come voi, abbia potuto esplorare l’anima umana fino alle più segrete profondità con tanta sicurezza, toccare con una mano così infallibile le più sensibili fibre del cuore dei lettori, scrivere romanzi così veri, così umani, così commoventi, così vivi!

— Oh, semplicemente un’inezia! — feci io.

Ormai un sudore mortale mi bagnava la fronte abbondantemente. Non mi ricordo d’essere mai stato così imbarazzato in nessun altro momento della mia vita.

— Forse qui dentro fa un po’ troppo caldo, per voi?

— Oh, no, no, non mi pare. Va benissimo.

— Allora è il pepe. Se la mia cuoca ha un difetto... il che non sarei troppo disposto a riconoscere... è che qualche volta ha la mano un pochino pesante, col pepe. A proposito, vi piacciono i miei piatti?

Mi sentii talmente sollevato che fosse caduto l’argomento della mia attività letteraria, che m’affrettai ad approvare in un tono baritonale vibrato.

— Ciò mi fa moltissimo piacere, signor Wooster. Può darsi che io non riesca ad essere imparziale, ma, per me, quella donna è un genio.

— Assolutamente! — affermai.

— È con me da sette anni, e, in tutto questo tempo, non è venuta meno d’una linea alla sua competenza esemplare. Soltanto una volta, nell’inverno del 1917, un purista avrebbe potuto forse condannare una certa mayonnaise non abbastanza densa. Ma bisogna essere un po’ indulgenti; c’erano state, in quel tempo, parecchie incursioni aeree, e la povera donna doveva esserne rimasta scossa. Ma nulla è perfetto, a questo mondo, signor Wooster, e anch’io ho la mia croce da portare. Da sette anni, vivo sempre in apprensioni continue, per timore che qualche male intenzionato me l’adeschi. E so per certo che ha ricevuto offerte, e offerte convenienti, di accettare servizio altrove; e potete giudicare quale fu il mio sgomento, stamattina, signor Wooster, quando cadde la bomba. S’è licenziata.

— Buon Dio!

— La vostra costernazione fa onore, se così posso dire, al cuore di chi ha scritto Una rosa rossa; ma sono lieto di dirvi che la cosa non è finita male. Abbiamo aggiustato bene tutto, e Jane resta con me.

— Lode al cielo!

— Lode al cielo davvero!... quantunque, questa espressione non mi sia familiare... non mi ricordo d’averla incontrata mai, nei vostri libri... e, a proposito dei vostri libri, posso dirvi che ciò che in essi m’ha colpito di più, anche maggiormente del tono commosso della narrazione, è la vostra filosofia della vita. Se gli uomini come voi, signor Wooster, fossero un po’ più numerosi, Londra sarebbe un luogo migliore.

Era proprio tutto il contrario della filosofia della vita di mia zia Agatha che aveva sempre affermato che, ciò che rende Londra un luogo più o meno disgustoso, è la presenza di individui come me. Ma lasciai correre...

— Permettetemi di dirvi, signor Wooster, che ammiro veramente la vostra splendida sfida ai defunti feticci d’un sistema sociale veramente miope. L’ammiro davvero! Voi siete un uomo abbastanza superiore, per vedere che la gerarchia sociale è una cosa morta, e che, per dirla con le magnifiche parole di Lord Bletchmore di Una semplice ragazza di campagna, sia la sua origine quanto umile si vuole, una buona donna è l’eguale della più bella signora che esista sulla terra!

Mi drizzai.

— Dico! la pensate così?

— Sì, signor Wooster; mi vergogno di affermare che ci fu un tempo in cui anch’io, come gli altri uomini, ero uno schiavo della balorda convinzione che si chiama distinzione di classe. Ma da quando ho letto i vostri libri...

Dovevo ben immaginarmelo; era il trionfo di Jeeves.

— Voi pensate dunque che sia giustissimo che un individuo di «una certa posizione sociale», come si dice, sposi una ragazza di ciò che si chiama comunemente classe inferiore?

— Certissimamente, signor Wooster!

Tirai un lungo sospiro e lasciai cadere la buona novella.

— Bingo... vostro nipote, sapete... vuole sposare una cameriera, — dissi.

— Lo stimo, — rispose il vecchio Little.

— Non vi opponete?

— Al contrario.

Mandai un secondo lungo sospiro e passai alla parte meno dignitosa dell’affare.

— Spero che non penserete ch’io abbia uno scopo, nevvero? — dissi, — ma... ehm... ebbene, che decidete?

— Temo di non comprendere il vostro pensiero.

— Bene, voglio dire... il suo assegno... il denaro che voi siete così buono da assegnargli... io credo ch’egli speri che voi possiate trovare il mezzo di aumentargli un poco l’assegno...

Il vecchio Little scosse il capo tristemente.

— Temo di non poterlo fare. Vedete, un uomo nella mia posizione è costretto a fare economia anche del soldino. Sono ben contento di continuare a passare a mio nipote l’assegno che ha già, ma di più non posso fare. Sarebbe ingiusto verso mia moglie.

Che! ma... voi non siete sposato!

— Non ancora, ma mi propongo d’entrare in quel benedetto stato, quasi immediatamente. La signora che per anni e anni ha cucinato così bene per me, stamattina stessa m’ha fatto l’onore di accettar la mia mano. — Un freddo raggio di trionfo gli splendé negli occhi. — E ora, che me la portino via! — borbottò in tono di sfida.

 

* * *

 

— Il signor Little giovane, oggi, v’ha chiamato parecchie volte al telefono, signore, — disse quella sera Jeeves, appena fui giunto a casa.

— Ci avrei scommesso, — dissi; — gli ho mandato, subito dopo colazione, un resoconto della situazione per mezzo di un ragazzetto.

— Mi sembrava un po’ agitato.

— Non me ne meraviglio. Jeeves, — dissi, — fatevi coraggio: temo di dovervi dare una cattiva notizia. Il vostro disegno, di leggere quei libri al vecchio Little... ha dato origine a un piccolo inconveniente.

— Non l’hanno mitigato per nulla?

— Sì; è proprio questo l’inconveniente. Jeeves, sono dolente di dirvi che quella vostra fiancée... la signorina Watson, sapete... la cuoca, sapete... ebbene... la conclusione è ch’ella ha preferito il ricco invece del degno onesto, se intendete ciò che voglio dire...

— Signore?

— Vi ha piantato... e s’è fidanzata al vecchio signor Little.

— Davvero, signore?

— Non mi sembrate molto turbato.

— Il fatto è, signore, che avevo preveduto una conclusione simile.

— Allora che diavolo vi è venuto in mente di proporre quel vostro sistema delle letture?

Lo guardai fissamente.

— Se debbo dirvi la verità, signore, non ero del tutto contrario a una rottura della mia relazione con la signorina Watson. In realtà, la desideravo; rispetto straordinariamente la signorina Watson, ma mi sono accorto da molto tempo che non eravamo fatti l’uno per l’altro; mentre, ora, l’altra giovane con la quale sono in relazione...

— Gran Dio, Jeeves! ce n’è un’altra?

— Sì, signore.

— E da quanto tempo dura questa faccenda?

— Da qualche settimana, signore. M’è piaciuta immensamente quando l’incontrai la prima volta a un ballo di beneficenza a Camberwell.

— Mamma mia! Non...

Jeeves abbassò il capo con gravità.

— Sì, signore; per una strana coincidenza, è la medesima signorina che il signor Little giovane... Le sigarette sono sulla tavola più piccola. Buona notte, signore.

  

3

ZIA AGATHA COMANDA

Io credo che in un individuo di carattere veramente buono, una certa tristezza e una certa angoscia sarebbe seguita a questo crollo dei disegni matrimoniali di Bingo... Voglio dire, se la mia fosse stata una nobile natura, mi sarei sentito spezzare; ma, in complesso invece, posso affermare che la cosa non mi prostrò eccessivamente: il fatto che, meno d’una settimana dopo che aveva avuto la cattiva nuova, lo trovai che ballava al Ciro come una gazzella selvatica mi aiutò a sopportare la sventura.

È un giovane che se la lascia passar presto, Bingo! Lo vedete abbattuto, ma mai spezzato: mentre durano queste piccole tempeste amorose, nessuno è più ardente e avvilito di lui, ma una volta che la bomba è scoppiata e la ragazza l’ha licenziato pregandolo, come d’un grande favore, di non farsi più vedere, egli si drizza di nuovo e torna allegro e vivace come prima. Ho assistito a simili miracoli una volto e una dozzina di volte.

Così non mi preoccupai affatto per Bingo, né in realtà, per nessun’altra cosa. In complesso, non mi ricordo d’essere mai stato più allegro che in quel periodo della mia vita; tutto sembrava andare a gonfie vele: in tre occasioni diverse, cavalli su cui avevo puntato considerevoli somme furono vincitori di qualche lunghezza, invece di buttarsi giù in mezzo alla pista come fanno di solito i cavalli sui quali punto il mio denaro; il tempo era sempre più bello, le mie scarpe nuove erano universalmente riconosciute come una cosa perfetta; e, per farmi addirittura toccare il cielo con un dito, mia zia Agatha era partita per la Francia e non sarebbe tornata a tormentarmi per almeno sei settimane... e se voi conoscete mia zia Agatha, ammetterete che quest’ultimo fatto, da solo, sarebbe bastato a render felice chiunque.

Una bella mattina, questa constatazione, che non avevo nessuna seccatura al mondo, mi colpì improvvisamente mentre stavo prendendo il bagno e mi colpì con tanta forza che cominciai a cantare come un usignolo e a gettare intorno la spugna; mi pareva che tutto andasse nel migliore dei modi possibili nel miglior mondo possibile.

Ma avete mai notato una cosa molto strana nella vita? Voglio dire il modo in cui, nello stesso momento che vi sentite più sicuro, qualche accidente vi capita sulle spalle. Avevo appena finito di asciugarmi e di vestirmi ed ero appena entrato nel salotto, che piombò il fulmine: sul caminetto c’era una lettera zia Agatha.

Accidenti! — dissi, quando l’ebbi letta.

— Signore? — fece Jeeves, ch’era affaccendato in un angolo, intorno a non so che cosa.

— Viene da mia zia Agatha, Jeeves; la signora Gregson, sapete...

— Sì, signore.

— Non parlereste in un tono così leggero e spensierato, se sapeste che cosa vuol dire! — esclamai, con un sogghigno sordo e triste. — Ci è capitata addosso la maledizione, Jeeves; vuole che vada a raggiungerla a... come si chiama quel maledetto luogo?... a Roville-sur-mer. Accidenti!

— Sarà meglio che cominci a far le valigie, signore.

— Suppongo.

A chi non conosca mia zia Agatha, trovo ch’è straordinariamente difficile spiegare perché la sua persona abbia il potere di spaventarmi tanto. Io non dipendo da lei per nulla, né finanziariamente, né in nessun altro modo. Si tratta proprio, bisogna concludere, della sua personalità. Durante tutta la mia infanzia, vedete, e fin da quando ero marmocchio, quella donna ha sempre avuto il potere di mettermi sossopra con una sola occhiata e non sono ancora riuscito a liberarmi dalla sua influenza. In famiglia siamo tutti abbastanza lunghi e zia Agatha è alta circa cinque piedi e nove pollici, sormontati da un naso a rostro, da due occhi d’aquila e da una massa di capelli grigi; e il tutto è d’un effetto abbastanza formidabile. In ogni modo, non mi passò per la mente neppure un momento di oppormi alla sua volontà: se diceva che doveva andare a Roville, non mi restava a far altro che comprare i biglietti e prendere il treno.

— Che idea, Jeeves! Chi sa che cosa vuole da me?

— Non saprei, signore.

Ebbene, non serviva a nulla parlarne; il solo raggio di consolazione, il solo frammento d’azzurro, in mezzo a tante nubi, era il fatto che a Roville, almeno, avrei potuto portare quella benedetta cintura indiana che avevo comprato sei mesi prima e che non avevo mai avuto il coraggio di mettere: uno di quegli indumenti di seta, sapete, che si legano intorno al petto, in luogo del panciotto... qualche cosa di simile a una sciarpa, ma un po’ più pesante. Non ero mai riuscito a mettere insieme tanto coraggio da indossarla, perché era d’un colore scarlatto sfacciato e sapevo che, se l’avessi messa, mi sarei guastato con Jeeves. Tuttavia, in un luogo come Roville, presumibilmente riboccante della caratteristica joie de vivre francese, mi sembrava che la cosa fosse possibile.

 

* * *

 

Roville, dove giunsi per tempo la mattina, dopo una tempestosa traversata e una notte di sballottamento in treno, è un luogo abbastanza elegante, nel quale un individuo che non abbia una zia che lo secchi può passare piacevolmente una settimana o due; è, come tutti quei luoghi francesi, costituito di spiaggia, alberghi e casini. L’albergo che aveva avuto la cattiva sorte di attirare zia Agatha era lo Splendide, e, quando vi giunsi, non c’era un individuo del personale di esso che non n’avesse fatto amara esperienza. Sentii subito per quei disgraziati una compassione infinita; avevo già appreso che cosa significasse per un albergo la presenza di zia Agatha. Naturalmente, quando arrivai, la burrasca più grossa era già finita; ma dal modo con cui tutti le passavan davanti, con aria depressa, posso assicurarvi che aveva già cominciato col farsi cambiare la prima camera assegnatale perché non era esposta verso sud e la seguente perché aveva una guardaroba che scricchiolava, poi che a riguardo della cucina doveva aver già detto ciò che pensava al cameriere, alla cameriera e a tutti, con perfetta libertà e con straordinario candore. Ormai, aveva già sotto il suo controllo l’intero esercito dell’albergo; il direttore, un individuo baffuto che pareva un bandito, sol che s’accorgesse d’esser guardato, si faceva in quattro.

Questo suo trionfo aveva prodotto in lei una specie di arcigna gaiezza, cosicché, quando mi vide, m’accolse con aria quasi materna.

— Sono molto lieta che abbiate potuto venire, Bertie, — disse. — L’aria di qui vi farà molto bene, molto meglio che quella che respirate in quegli stantii circoli notturni di Londra, dove sciupate il vostro tempo.

— Oh, ah, — dissi.

— Troverete anche persone molto piacevoli; voglio presentarvi alla signorina Hemmingway e a suo fratello che sono diventati miei grandi amici. Sono sicuro che la signorina Hemmingway vi piacerà; è una ragazza graziosa e tranquilla, tanto diversa da tutte le ragazze sfacciate che s’incontrano oggi a Londra. Suo fratello è curato a Chipley-in-the-Glen nel Dorsetshire. M’ha detto che sono imparentati coi Kent Hemmingways, una famiglia veramente distinta; lei, poi è una ragazza graziosissima.

Ebbi il triste presentimento d’un destino terribile: un’apologia simile era così contraria alle abitudini di zia Agatha — la quale, normalmente, è una delle più celebri lingue di vipera della società londinese — che un sospetto atroce mi colpì; e, per Giove! avevo ragione.

— Aline Hemmingways — disse zia Agatha, — è proprio la ragazza che vorrei che voi sposaste. Ormai dovete pensare a sposarvi; il matrimonio può fare di voi qualche cosa, e credo che non potrei augurarvi una moglie migliore della cara Alina che avrebbe sulla vostra vita un influsso eccellente.

— Ohe, dico! — la interruppi a questo punto, gelato dall’orrore fino alle midolle.

— Bertie! — disse zia Agatha, deponendo l’aria materna, per guardarmi con occhio glaciale.

— Sì... ma, dicevo…

— Sono i giovani come voi, Bertie, che... Colpito dalla maledizione di aver troppo denaro, voi conducete una vita pigra ed egoistica, mentre potreste invece condurre una vita degna e utile. Voi non fate altro che sciupare il tempo in piaceri frivoli, siete semplicemente un animale antisociale, una bestia. Bertie! è indispensabile che vi sposiate!

— Ma, accidenti...

— Sì! e dovete mettere al mondo dei bambini...

— No, in verità, dico, vi prego! — gridai, diventando scarlatto. Zia Agatha appartiene a due o tre dei più famosi circoli femminili e spesso si dimentica che non sempre sta parlando in un fufmfoifr.

— Bertie! — ella riprese: e, senza dubbio, mi avrebbe messo alle strette... se non fossimo stati interrotti. — Ah, eccoli! — gridò a un tratto. — Alina, cara! — e mi vidi davanti una ragazza e un giovinotto che mi guardavano sorridendo in maniera compiacente.

— Voglio farvi conoscere mio nipote Bertie Wooster, — disse zia Agatha. — È appena arrivato. M’ha fatto una vera sorpresa! Non sapevo affatto che aveva intenzione di venire a Roville.

Io guardai la coppia con circospezione; mi pareva d’esser proprio un gatto in mezzo a un cerchio di levrieri. Provavo il senso... non so, d’esser come una bestia in trappola... se comprendete ciò che voglio dire; e una voce interiore mi bisbigliava ch’ero proprio fritto.

Il fratello era un individuo piccolo e tondo, con una faccia da pecora, usava gli occhiali, aveva un’espressione benevola e portava al collo uno di quei colletti che si abbottonano di dietro.

— Benvenuto a Roville, signor Wooster, — mi disse.

— Oh, Sindey, — fece la ragazza; — non vi pare che il signor Wooster somigli al canonico Blenkinsop che venne a predicare a Chipley la Pasqua scorsa?

— Mia cara, è una rassomiglianza sorprendente!

Mi studiarono a lungo, come un oggetto in custodia di vetro, e io li guardavo a mia volta con gli occhi sbarrati, considerando attentamente la ragazza. Non c’era dubbio, era proprio una ragazza completamente diversa da quelle che zia Agatha aveva chiamate le sfacciate che s’incontrano oggi a Londra. Non aveva certamente né capelli corti, né un corteo di spasimanti. Non mi ricordo d’aver mai incontrato nessuna persona che avesse un aspetto così... rispettabile, è la sola parola. Aveva un vestituccio assai modesto, capelli assai modesti e una faccia placida che pareva quella d’una santa. Non pretendo di essere un Sherlock Holmes, né niente del genere, ma, mentre la guardavo, dissi tra me stesso: « Questa ragazza suona di sicuro l’organo nella chiesa di qualche villaggio!».

Bene, ci guardammo scambievolmente per un po’ di tempo, ci furono quattro chiacchiere, e alfine me ne andai; ma, prima di partire, m’ero già impegnato d’andare a prendere la ragazza e il fratello, per una passeggiata nel pomeriggio. Il pensiero di ciò mi oppresse talmente che pensai che non mi restava da far che una cosa: corsi dritto nella mia camera, tirai fuori la cintura indiana e me la legai intorno al petto; mi voltai, e Jeeves fece uno scarto, come un cavallo selvatico spaventato.

— Perdonatemi, signore, — mi fece, con voce quasi sommessa. — Certamente, non vi proponete di apparire in pubblico con quella cosa addosso...

— La cintura indiana? — chiesi, con aria allegra e indifferente. — Certo!

— Non ve lo consiglierei, signore; davvero, non ve lo consiglierei.

— Perché no?

— L’effetto, signore, è estremamente chiassoso.

Gli piantai gli occhi in faccia; nessuno sa meglio di me che Jeeves è una mente sovrana, e tutto quel che volete... ma, accidenti! un individuo deve pur esser padrone di far quel che gli pare! non si può essere servi dei propri servi; inoltre, mi sentivo abbastanza depresso, e la cintura indiana era l’unica cosa che potesse ridarmi il buon umore.

— Sapete, Jeeves, — dissi; — il vostro malanno è che voi siete troppo... come dovrei dire... troppo insulare. Voi non riuscite a rendervi ragione che non siamo sempre a Piccadilly; in un luogo come questo, un po’ di colore... un tratto di fantasia poetica ci vuole! Se ho visto adesso adesso, in istrada, uno che portava un abito da passeggio di velluto giallo!

— Nondimeno, signore...

— Jeeves, — feci con fermezza, — ho deciso così; mi sento un po’ avvilito, e ho bisogno d’essere allegro. Inoltre, che male c’è? Questa cintura mi sembra fatta apposta; giudico che deva essere di un effetto spagnolesco... che mi dia qualche cosa dell’aspetto di un hidalgo...una specie di Vicente y Blasco. Come si chiama... il vero hidalgo tipo, che va matto per le sue corse dei tori.

— Benissimo, signore, — disse freddamente Jeeves.

Era una seccatura terribile; se c’è una cosa che mi dà ai nervi, è la scortesia fra le pareti domestiche; e ormai comprendevo che per qualche tempo i rapporti tra me e Jeeves erano guastati. Inoltre, quel po’ po’ di fulmine a ciel sereno che m’aveva scagliato zia Agatha con la sua ragazza mi faceva provare il senso che ormai non ci fosse più nessuno sulla terra che mi volesse un po’ di bene.

 

***

 

La passeggiata, quel pomeriggio, fu press’a poco noiosa quanto m’ero aspettato; il curato ciarlava di questo e di quello, la ragazza ammirava il paesaggio, e fin dal principio mi prese un mal di capo che mi cominciò dalla pianta dei piedi e si fece sempre più doloroso. Tornato a casa corsi nella mia camera a vestirmi per il pranzo.

Se non fosse stato per l’affare della cintura indiana, vi assicuro che mi sarei gettato al collo di Jeeves e gli avrei raccontato singhiozzando tutte le mie disgrazie; ma egualmente, nonostante che le cose stessero così, non potei più a lungo contenere dentro di me tanta marea di dolore.

— Jeeves, — feci.

— Signore?

— Preparatemi un brandy al seltz molto forte.

— Sì, signore.

— Forte, Jeeves; non troppa soda, ma molto brandy.

— Benissimo, signore.

Dopo aver bevuto, mi sentii un po’ meglio.

— Jeeves, — dissi.

— Signore?

— Credo d’essere in un pasticcio, Jeeves.

— In verità, signore?

Lo guardai attentamente: ma aveva un’aria molto sdegnosa; era ancora arrabbiato per via della cintura.

— Sì, e in che pasticcio! — dissi, rassegnandomi a passar sopra all’orgoglio dei Woosters e sperando d’indurlo ad essere un po’ più comunicativo. — Avete visto la ragazza che va intorno con quel fratello prete?

— La signorina Hemmingway, signore? Sì, signore.

— Zia Agatha vuole che la sposi.

— Davvero, signore?

— Ebbene, che ne dite?

— Signore?

— Voglio dire, avreste nulla da suggerirmi?

— No, signore.

I modi del disgraziato erano così freddi e insocievoli, che trangugiai la pillola e mi sforzai d’essere allegro.

— Oh, bene, tra-là-là! — feci.

— Precisamente signore, — fece Jeeves.

È fu tutto.

  

4

PERLE CHE PORTANO LACRIME

Una volta, dev’essere stato quando andavo a scuola, perché ora non mi occupo troppo di cose simili, mi ricordo, leggendo una poesia o qualche cosa di simile, intorno a non so quale argomento, trovai un verso che diceva, mi pare: «Le ombre di prigione della casa cominciarono a chiudersi intorno al bambino». Ebbene, volevo dire: durante le due settimane seguenti, di me avvenne proprio lo stesso; potevo udire in distanza le campane nuziali sonare debolmente, ma di giorno in giorno farsi sempre più forti, e come diavolo sfuggire a tale disgrazia era una cosa oltre la portata della mia intelligenza. Jeeves, senza dubbio, sarebbe stato capace di tirar fuori in un paio di minuti una dozzina di disegni meravigliosi; ma egli continuava a star sulla sua e a trattarmi freddamente; e io non riuscivo a risolvermi e chiedere il suo aiuto di punto in bianco; egli vedeva benissimo che il suo padrone era a mal partito e ciò doveva essere abbastanza per fargli passar sopra al fatto che portavo ancora la cintura; ma, in conclusione, il vecchio spirito feudale, nel petto del disgraziato, era ormai spento e non c’era più nulla da fare.

Il modo con cui gli Hemmingways s’erano impadroniti di me aveva dello strano; non direi che ci fosse qualche cosa in me di particolarmente affascinante... infatti quasi tutti mi considerano abbastanza come un asino; ma non si può non ammettere che, per quella ragazza e per suo fratello, io ero qualche cosa come l’aria: sembrava che non potessero esser felici senza di me. Non potevo muovere un passo, senza vedermi davanti uno dei due, e alfine avevo preso l’abitudine, quando volevo riposare un pochino, di ritirarmi nella mia camera. M’ero procurato, al terzo piano, un appartamentino abbastanza decente che dava sopra la passeggiata.

Una sera m’ero chiuso nella mia camera, e, per la prima volta in tutto il giorno, cominciavo a pensare che dopo tutto la vita non era così brutta; tutto quel pomeriggio, dall’ora di colazione in poi, avevo avuto fra i piedi la signorina Hemmingways; zia Agatha, immediatamente dopo colazione, ci aveva lasciati insieme. Di conseguenza, mentre guardavo giù, verso la passeggiata tutta splendente di luce e osservavo tutta quella gente che se ne andava beatamente a pranzare al casino, una specie di senso di malinconia s’impadronì di me; non potevo fare a meno di pensare quanto sarei stato felice in quel luogo, sol che non fossi stato insieme con zia Agatha e con gli altri seccatori. Mandai un profondo sospiro e in quel momento udii bussare alla porta.

— C’è qualcuno alla porta, Jeeves, — dissi.

— Sì, signore.

Aperse la porta ed Alina Hemmingways e suo fratello entrarono; erano le ultime persone che m’aspettassi di vedere, perché, pensavo, finalmente avevo diritto di restar solo nella mia camera un minuto.

— Oh! — feci.

— Oh, signor Wooster, — disse la ragazza, spalancando la bocca. — Non so come cominciare.

Notai che appariva alquanto imbarazzata; suo fratello, poi, sembrava una pecora tormentata da qualche angoscia segreta.

Mi drizzai e cominciai a osservarli; avevo pensato che si trattasse semplicemente d’una visita di convenienza, ma, a quanto sembrava, doveva essere accaduto qualche cosa che li metteva in imbarazzo; quantunque non riuscissi a comprendere per qual ragione questo imbarazzo li avesse consigliati a venir da me.

— C’è qualche cosa? — dissi.

— Il povero Sidney... la colpa è stata mia... non avrei dovuto lasciarlo andar là, solo, — disse la ragazza, agitatissima.

A questo punto, il fratello, che, dopo essersi tolto uno scampanante soprabito e aver posto il cappello su di una sedia era rimasto in piedi silenzioso, ebbe un colpetto di tosse, come una pecora sorpresa dalla nebbia sulla cima di una montagna.

— Fatto è, signor Wooster, — disse, — che m’è accaduta una cosa triste, una cosa assai deplorevole. Questo pomeriggio, mentre voi così gentilmente tenevate compagnia a mia sorella, io cominciai a trovare il tempo un po’ lungo e fui tentato di andare a... a giocare al Casino.

Lo guardai con un’espressione molto più benevola di quella con cui lo guarderei ora. Sto per dire che quella prova, ch’egli aveva nelle vene sangue di giocatore, me lo fece parer più umano; se avessi saputo prima che veniva da me per una cosa simile, sentivo che avrei passato il tempo insieme con lui assai meglio.

— Oh! — esclamai, — avete perduto?

Egli sospirò gravemente.

— Se mi chiedeste se ho vinto, dovrei rispondervi negativamente. Ho persistito tenacemente nell’idea che il rosso, essendo comparso non meno di sette volte di seguito, avrebbe dovuto inevitabilmente fra non molto lasciare il posto al nero; ma mi sbagliavo; e ora ho perduto tutto il poco che avevo, signor Wooster.

— Che disdetta! — esclamai.

— Lasciai il Casino, — continuò il giovane, — e tornai all’albergo. Là trovai uno dei miei parrocchiani, il colonnello Musgrave, che casualmente era venuto a passar qui le vacanze, e... ahm... lo indussi a ricevere un assegno per un centinaio di sterline, nel mio piccolo conto corrente alla mia Banca di Londra.

— Bene, allora è andato tutto bene, no? — dissi, sperando d’indurre il disgraziato a prender la cosa con filosofia. — Voglio dire, siete stato abbastanza fortunato a trovar qualcuno che se lo pigli subito.

— Al contrario, signor Wooster, fu peggio ancora. Brucio dalla vergogna, nel confessarlo... ma tornai immediatamente al Casino, e perdetti tutto... stavolta convinto erroneamente che il color nero dovesse, come credo che si dica, persistere.

— Sì, — dissi. — Avete avuto cattiva fortuna.

— E, — concluse il giovane, — il peggio è che non ho fondi alla Banca per pagare l’assegno che sarà presentato.

Devo confessare che, quantunque avessi compreso stavolta che la cosa stava per finire in una richiesta di denaro, il mio cuore ne fu impietosito. Davvero, lo guardavo con molto interesse e con ammirazione; non avevo mai incontrato un curato a cui piacesse tanto la vita allegra. Per quanto potesse parer piccolo come uno dei ragazzi del paese, mi sembrava certamente il vero tipo che mi piaceva e cominciai a rammaricarmi di non aver conosciuto prima quest’aspetto del suo carattere.

— Il colonnello Musgrave, — egli continuò, inghiottendo, — non è uomo da lasciar correre una cosa simile; è un individuo rigido, e mi denuncerà al vicario. Il mio vicario è un uomo rigido. In breve, signor Wooster, se il colonnello Musgrave presenta quell’assegno, io son rovinato; e dire che parte per l’Inghilterra stasera!

La ragazza, ch’era rimasta in piedi, mordendo il fazzoletto e gorgogliando ogni tanto, durante la confessione del fratello, a questo punto riprese l’aire.

— Signor Wooster! — gridò — non volete aiutarci? Oh, diteci di sì! bisogna che troviamo il denaro per farci restituire l’assegno dal Colonnello, prima delle nove... Egli parte alle nove e venti. Non sapevo più a che santo votarmi, quando mi son ricordato quanto voi siete stato gentile con noi. Signor Wooster, volete prestare a Sidney il denaro, e prendere queste in pegno? — E prima che capissi che cosa stava facendo, aveva già frugato nella borsetta, ne aveva estratta una scatola e l’aveva aperta. — Le mie perle — disse... — Non so quanto valgano... sono un presente del mio povero babbo...

— Ora, ahimè... non più... — interruppe il fratello.

— Ma so che devono valere sempre molto più della somma che ci occorre.

Ero imbarazzatissimo; avevo il senso d’essere come un usuraio; questo era peggio che dare in pegno l’orologio.

— No, davvero! — protestai; — non vi è bisogno di nessuna garanzia, né di nulla del genere. Sono troppo lieto di potervi favorire il denaro; infatti l’ho qui; per una vera fortuna, ho riscosso qualche cosa, stamattina.

Presi il denaro e lo porsi. Il fratello scoté il capo.

— Signor Wooster, — disse, — noi apprezziamo la vostra generosità, la vostra bella e cordiale confidenza in noi, ma non possiamo permettere questo.

— Ciò che Sidney vuol dire, — continuò la ragazza, — è, che, in realtà, voi, se ben ci pensate, non sapete nulla di noi. Voi non dovete arrischiare di prestar tutto questo denaro, senza nessunissima garanzia, a due persone che, dopo tutto, sono quasi estranee. Se non avessi pensato che la cosa vi sarebbe stata quasi indifferente, non avrei mai osato rivolgermi a voi.

— L’idea di... ehm... impegnare le perle al locale monte di pietà, come comprenderete benissimo, ci ripugnava, — disse il fratello.

— Se volete darmi una ricevuta delle perle, per pura formalità...

— Oh, benissimo! — Scrissi la ricevuta e gliela diedi.

— Ecco, — dissi.

La ragazza prese la ricevuta, la mise nella borsetta, afferrò il denaro che passò subito a suo fratello, poi, prima che capissi che cosa stava accadendo, mi fu addosso, mi baciò e scivolò fuori della camera.

Sto per dire che tanta espansione, così improvvisa e inaspettata, specialmente trattandosi di una ragazza simile, mi lasciò sbalordito. Era sempre stata così timida e piena di riserbo... così dissimile da quel tipo di donna che si può figurarsi che giri pel mondo distribuendo baci!... Attraverso una specie di nebbia, vidi che Jeeves era entrato nella mia camera e stava aiutando il fratello a rimettersi il pastrano; e mi ricordo d’essermi chiesto meravigliato come un individuo potesse adattarsi a portare un tale indumento, tanto simile a un sacco. Poi il fratello si volse e venne a stringermi la mano.

— Non potrò mai ringraziarvi abbastanza, signor Wooster!

— Oh, niente!

— Voi avete salvato la mia reputazione; la reputazione di un uomo e d’una donna, mio caro signore, — disse, applicando alla mia mano un caloroso massaggio, — è veramente la parte più preziosa dell’animo; chi mi ruba la borsa non mi ruba nulla; prima era mia... ora è sua ed è stata di mille altri... Ma chi ruba la mia reputazione, mi sottrae ciò che non può arricchire lui e rende me miserabile. Vi ringrazio proprio, dal profondo del cuore! Buona sera signor Wooster!

— Buona sera, vecchio mio, — dissi.

Mentre la porta si chiudeva, guardai Jeeves.

— È abbastanza triste, Jeeves, — dissi.

— Sì, signore.

— Fortunatamente avevo un po’ di denaro pronto.

— Bene... ehm... sì, signore.

— Parlate come se la cosa non vi piacesse molto.

— Non spetta a me criticare le vostre azioni, signore; ma oserei dire che penso che abbiate agito un po’ troppo precipitosamente.

— Che! prestando il denaro?

— Sì, signore; questi luoghi di villeggiatura alla moda sono notoriamente frequentati da persone disoneste.

Era un po’ troppo.

— Guardate, Jeeves! — dissi; — io posso portar molta pazienza, ma quando vi permettete di dubitare perfino d’una persona investita degli ordini sacri...

— Forse, signore, io sono un po’ troppo sospettoso; ma ho conosciuto un numero infinito di questi ritrovi: quand’ero alle dipendenze di Lord Frederick Ranelagh, poco prima di entrare al vostro servizio, egli fu elegantemente truffato da un criminale conosciuto, credo, col soprannome di Soapy Sid, il quale aveva fatto conoscenza con noi a Monte Carlo, per mezzo d’una donna ch’era sua complice. Non ho mai dimenticato le circostanze del fatto.

— Io non voglio dir nulla, contro i vostri ricordi, Jeeves — dissi freddamente; — ma state parlando con la testa nel sacco. Che cosa ci può essere di equivoco, in questa faccenda? M’hanno lasciato le perle, non vedete? E pensate, prima di parlare; fareste meglio, invece, a prendere queste perle e a farle chiudere nella cassaforte dell’albergo. — Presi la scatola e l’aprii.

— Oh, gran Dio!

La scatola era vuota.

— Oh, Signore! — esclamai, spalancando gli occhi. — Non mi direte che m’hanno fatto qualche gherminella!...

— Precisamente, signore; e, proprio, nella stessa maniera con cui truffarono Lord Frederick, nell’occasione che vi ho ricordato: mentre la sua complice stava abbracciando con gratitudine il signore, Soapy Sid sostituì una seconda scatola a quella che conteneva le perle e se ne andò coi gioielli, il denaro e la ricevuta; quindi, in base alla ricevuta, chiese la restituzione delle perle, e Lord Frederick, non potendo produrle, fu obbligato a pagare in compenso una grossa somma. È una truffa semplice, ma d’esito sicuro.

Mi parve che tutto intorno a me crollasse.

— Soapy Sid? Sid? Sidney, il fratello Sidney! ma per Giove, Jeeves, non penserete che il prete sia Soapy Sid?

— Sì, signore.

— È straordinario. Ma quel colletto col bottone di dietro... Voglio dire: quell’uomo sarebbe riuscito a ingannare un vescovo. Pensate veramente che fosse Soapy Sid?

— Sì, signore. L’ho riconosciuto appena entrato in camera.

Lo guardai.

— L’avete riconosciuto?

— Sì, signore.

— Allora, accidenti! — dissi, profondamente indignato, — mi pare che avreste potuto dirmelo!

— Pensavo che vi avrei risparmiato il disturbo o il dispiacere, sol che fossi riuscito a togliergli la scatola di tasca, mentre lo aiutavo a indossare il pastrano; ed eccola qui.

Posò sulla tavola, accanto a quella vuota, una seconda scatola che, per Giove! non si sarebbe potuta distinguere dalla prima, l’aprii ed ecco le perle vere, liete e splendenti che mi sorridevano. Guardai il mio uomo con tristezza; mi sentivo disfatto.

— Jeeves, — dissi, — voi siete veramente un genio.

— Sì, signore.

Ormai, un senso di sollievo m’invadeva; per merito di Jeeves, avevo evitato il pericolo d’esser costretto a sborsare parecchie migliaia di sterline.

— Mi sembra che mi abbiate salvato la casa... voglio dire, anche un individuo dotato dell’immortale corteccia di Sidy, difficilmente sarebbe capace di ricuperare, con un colpo di mano simile, questo tesoro.

— Lo credo anch’io, signore.

— Ebbene, allora... Oh! dico... che non siano di pasta, o false?

— No, signore; queste sono perle genuine e preziosissime.

— Ebbene, allora, accidenti; sono a cavallo! Ci avrò rimesso un centinaio di sovrane, ma ci ho guadagnato un bel vezzo di perle. Dico bene o male?

— Non troppo bene, signore; perché credo che vi toccherà restituirle.

— Come? a Sid? no, finché ho la testa a posto!

— No, signore. Al loro legittimo proprietario.

— Ma chi è il loro legittimo proprietario?

— La signora Gregson, signore.

— Davvero? Come fate a saperlo?

— Tutto l’albergo, un’ora fa, era informato che le perle della signora Gregson erano state rubate. Stavo parlando con la cameriera della signora Gregson, poco prima che voi entraste, e mi diceva che il direttore dell’albergo, in questo momento, si trova appunto nell’appartamento della signora.

— E sta passando un cattivo quarto d’ora, no?

— Così sarei disposto a credere, signore.

La situazione cominciava a spiegarmisi.

— Andrò a restituirgliele, no? Ci farò una bella figura, vi pare?

— Precisamente, signore. E, se posso suggerirvelo, penso che sarebbe molto giudizioso mettere in evidenza che furono rubate da...

— Gran Dio! da quell’accidente di ragazza che lei mi metteva tra i piedi perché la sposassi, per Giove!

— Esattamente, signore.

— Jeeves — dissi, — questa sta per essere la più grossa sconfitta che sia mai piombata sulle spalle di mia zia, in tutta la storia del mondo.

— Non è improbabile, signore.

— Starà tranquilla per un pezzo, no? La smetterà di tormentarmi, per un po’ di tempo!

— Almeno, l’effetto dovrebb’essere tale, signore.

— Grazie al cielo! — dissi, precipitandomi verso la porta.

 

* * *

 

Molto prima d’arrivare nell’appartamento di zia Agatha, potei comprendere che specie di burrasca s’era levata: camerieri in uniforme e cameriere non poche erano affollate nel corridoio; e, attraverso i pannelli, udivo già un assortimento misto di voci, dominate tutte quante da quella di zia Agatha. Bussai, ma nessuno s’accorse di nulla, così entrai egualmente: tra tutti i presenti, notai una cameriera assalita da una crisi d’isterismo, zia Agatha coi capelli dritti come un porcospino e l’uomo dai baffi che somigliava un bandito e ch’era il direttore dell’albergo.

— Oh, ehi! — gridai; — ehi, ehi, ehi!

Zia Agatha mi spinse via; il povero Bertram non s’ebbe nemmeno un sorriso di benvenuto.

— Non mi seccare, ora, Bertie! — ringhiò zia Agatha, guardandomi come se fossi stato una trascurabile pagliuzza.

— È accaduto qualche cosa?

— Sì, sì, sì! Ho perduto le mie perle!

— Le perle? Le perle? le perle? — dissi. — No, davvero? che seccatura terribile! Dov’erano, quando le avete viste l’ultima volta?

— Che importa sapere dov’erano quando le ho viste l’ultima volta? Mi sono state rubate!

A questo punto, Wilfred, il Re dei Baffi, che sembrava esser rimasto in disparte un momento a riposarsi, balzò di nuovo nel cerchio dei presenti, e cominciò a parlare rapidamente in francese. Sembrava proprio punto sul vivo; la cameriera, in un angolo, ululava.

— Certamente le avrete viste in qualche luogo?

— Naturalmente, le ho viste in qualche luogo!

— Ebbene, sapete... m’è accaduto tante volte di perdere un bottone da colletto e...

— Non mi fate impazzire, Bertie! ne ho abbastanza, senza le vostre cretinerie! State quieto, state quieto! — gridò, con quel tono di voce che usano i sergenti maggiori e i guidatori di bestiame delle Sands of Dee; e tale era il magnetismo della sua potente personalità, che Wilfred si calmò, come se un muro avesse arrestato il suo galoppo; la cameriera, invece, continuava a ululare sul serio.

— Dico! — ripresi; — io penso che quella cameriera abbia qualche cosa. Mi pare che stia gridando, no? Forse voi non l’avrete ancora scoperto, ma io capisco subito le cose...

— M’ha rubato le perle! Ne sono convinta!

Ciò servì a dar di nuovo l’aire all’uomo dei baffi, e, dopo un paio di minuti, zia Agatha aveva assunto la gelida aria della gran dama e stava mettendo a posto l’ultimo dei banditi, ostentando il tono di voce ch’ella usualmente riserva per rabbuffare i camerieri d’albergo.

— Vi ripeto per la centesima volta, mio buon uomo...

— Dico! — interruppi; — non per interrompere il vostro discorso, né per seccarvi in alcun modo simile... ma non sono queste, per caso, le perle che voi cercate?

Estrassi le perle dalla tasca e le mostrai.

— Queste sembrano perle, no?

Non mi ricordo d’aver mai passato in vita mia un momento migliore; fu uno di quei momenti dei quali parlerò ai miei nipotini se mai ne avrò... il che al momento sembra che sia molto improbabile. Zia Agatha s’afflosciò davanti ai miei occhi, in modo da ricordarmi proprio un pallone che vidi sgonfiare una volta da alcuni bambini.

— Dove... dove... dove... — balbettò.

— Le ho avute dalla vostra amica, la signorina Hemmingway.

Non capiva ancora.

— Dalla signorina Hemmingway? la signorina Hemmingway! Ma... ma... come han fatto a finire nelle sue mani?

— Come? — dissi; — perché ve le ha elegantemente rubate... sgraffignate! fatte sparire!... perché questo è il suo sistema di vivere, accidenti!... infinocchiando le persone ingenue negli alberghi e alleggerendole dei gioielli! Io non so che nomignolo abbia, lei; ma suo fratello, quello del colletto abbottonato di dietro, è conosciuto nei circoli criminali come Soapy Sid.

Mia zia mi guardò, battendo rapidamente le palpebre.

— La signorina Hemmingway, una ladra? Io... io... — si fermò e mi guardò tristemente. — Ma come avete fatto, mio caro Bertie, a ricuperarle?

— Non importa! — dissi alteramente. — Ho i miei metodi! — Tirai fuori tutta la mia provvista di coraggio maschile, mormorai fra me stesso una breve preghiera e le lasciai il tempo di riflettere alla sua sconfitta.

— Debbo dirvi, zia Agatha, — ripresi severamente, — che mi pare che siate stata d’una trascuratezza infernale. In ogni camera da letto dell’albergo c’è un avviso stampato, il quale avverte che, nell’ufficio del direttore c’è una cassaforte, in cui tutti i gioielli e i preziosi debbono esser messi al sicuro; ma voi non ve ne siete curata assolutamente. E qual è la conseguenza di ciò? Il primo ladro capitato non ha fatto che entrare nella vostra camera e farvi sparire le perle. E voi, invece di riconoscere che la colpa era tutta vostra, avete cominciato a bistrattare questo pover’uomo. Siete stata con lui veramente ingiusta, ingiustissima!

— Sì, sì! — ringhiò il pover’uomo.

— E questa disgraziata ragazza!... Che ne dite? Come farà a cavarsela? L’avete accusata di avervi derubata, senza nessuna prova, assolutamente! Penso che farebbe benissimo a darvi una querela per... per ciò che è... e a farsi risarcire i danni!

— Mais oui, mais oui, c’est trop fort! — gridò il capo bandito, spalleggiandomi bravamente. La cameriera, poi, cominciò a guardarci con aria interrogativa, come ad accertarsi s’io era proprio il sole che finalmente rompeva di tra le nubi.

— La ricompenserò, — disse freddamente zia Agatha.

— Se ascoltate il mio consiglio, lo farete davvero, e subito. L’ha passata veramente brutta; e se fossi lei, non vorrei un soldo meno di venti sovrane. Ma poi, ciò che veramente mi sembra scandaloso è il modo con cui avete trattato questo pover’uomo, nuocendo per giunta al buon nome dell’albergo...

— Sì, accidenti! è troppo! — gridò l’uomo dai baffi prodigiosi. — Vecchia sventata! Rovinate il nome dell’albergo! Domani ve n’andrete, per Bacco!

E continuò così e anche meglio, per un pezzo; quindi, avendole detto il fatto suo, si ritirò, trascinando seco la cameriera che stringeva con mano convulsa un biglietto da dieci sterline che certo, appena uscita, divise col bandito; poiché il direttore d’un albergo francese non si lascia tanto facilmente passar sotto il naso del denaro, senza pretendere di averne una parte.

Mi volsi a zia Agatha, il cui aspetto, ormai, somigliava a quello d’un individuo, che, mentre sta cogliendo margherite sulla strada ferrata, si senta a un tratto l’Espresso alle spalle.

— Non per insister troppo, zia Agatha, — dissi freddamente; — ma vorrei farvi osservare, prima d’andarmene, che la ragazza che v’ha rubato le perle è la stessa ragazza che voi non avete fatto che mettermi tra i piedi, dacché son venuto qua. Santo cielo! Non pensate che probabilmente, se avessi concluso quell’affare, avrei potuto aver dei bambini che mi ruberebbero l’orologio mentre li faccio ballare sulle ginocchia? Io non sono un brontolone, per vostra regola, ma debbo dirvi ancora una volta, ch’io penso che avreste potuto essere un po’ più prudente, prima di consigliarmi a sposar certe donne!

Le diedi un’occhiata, girai sui talloni e uscii.

 

* * *

 

— Le dieci, una bella sera e tutto benissimo, Jeeves, — dissi, tornando ai mio appartamento.

— Sono lietissimo d’apprenderlo, signore.

— Se venti sovrane vi possono servire, Jeeves...

— Obbligatissimo, signore.

Seguì una pausa; poi... ebbene, fu una stretta al cuore, ma me la procurai io stesso: mi tolsi la sciarpa e gliela diedi.

— Desiderate che ve la stiri, signore?

Diedi alla cintura un’ultima nostalgica occhiata... M’era stata tanto cara!...

— No — dissi; — mettetela via; la darete a qualche povero... non la porterò più!

— Vi ringrazio infinitamente, signore, — disse Jeeves.

  

5

L’ORGOGLIO DEI WOOSTERS FERITO

Se v’è una cosa che mi piace, è la vita tranquilla; io non sono affatto di quegli individui che s’inquietano, che si avviliscono, se non succede loro continuamente qualche cosa di eccezionale. Per me, la vita non è mai troppo tranquilla; datemi i miei pasti regolari, uno spettacolo discreto con una musica decente di quando in quando, e uno o due amici, coi quali andare in giro... e non vi chiedo di più.

Questa è la ragione per cui la disgrazia, quando accadde, fu per me particolarmente disgustosa; voglio dire... ero tornato da Roville quasi con la convinzione che, d’ora in avanti, non sarebbe più accaduto nulla che mi turbasse; a zia Agatha, immaginavo, sarebbe occorso almeno un anno per rimettersi dell’affare Hemmingway... e, se si toglie zia Agatha, non vi è nessuno che realmente mi tormenti. Mi sembrava che il cielo fosse completamente azzurro e che non ci fossero nubi in vista.

Non ci pensavo affatto... Invece, sentite che cosa mi accadde, e lasciatemi che vi chieda se non c’era abbastanza per metter sossopra chiunque.

Una volta all’anno, Jeeves si prende un paio di settimane di vacanza e va a passarle al mare, per riposarsi. Naturalmente, per me la sua assenza è un po’ seccante; ma bisognava adattarsi e io mi ci adattavo volentieri. Per di più, devo ammettere che, di solito, egli fa il possibile per farsi sostituire da un compagno abbastanza competente, che abbia cura di me durante la sua assenza.

Era tornata quell’epoca, e Jeeves stava in cucina, dando alcune istruzioni al suo subalterno, circa le sue mansioni; per caso, ebbi bisogno d’un francobollo o di non so che altra cosa simile e infilai il corridoio, per andargliela a chiedere. Quel vecchio somaro aveva lasciato la porta della cucina aperta, e, non aveva ancor fatto due passi, quando udii distintamente la sua voce.

— Troverete il signor Wooster, — egli stava dicendo al suo sostituto, — un giovane signore piacevolissimo e amabilissimo, ma non intelligente. Tutt’altro che intelligente!... Mentalmente è insignificante... affatto insignificante!

Ebbene che ve ne pare?

Mi sembra, esattamente parlando, che avrei dovuto investirlo e fargli una lavata di capo in tono assai comprensibile; ma, mi domando, è umanamente possibile fare una lavata di capo a Jeeves? Personalmente credo che non ci sarei riuscito affatto. Mi accontentai quindi di chiedergli bastone e cappello con un tono di voce particolare e uscii. Ma, se comprendete ciò che voglio dire, il ricordo mi inacerbì: noi, Woosters, non dimentichiamo facilmente... o, almeno, dimentichiamo, sì... alcune cose... gli appuntamenti, i natalizi delle persone, le lettere e cose simili... ma non assolutamente uno sciocco insulto come quello che vi ho narrato! Avevo un diavolo per capello!

Ero ancora su tutte le furie, quando giunsi al banco di Buck, per prendere un tonico abbastanza forte; mi occorreva, particolarmente in quel momento, qualche cosa di molto spiritoso, perché stavo andando a colazione da zia Agatha... il che, mi crediate o no, era una prospettiva abbastanza spaventosa, quantunque avessi compreso che, dopo quanto era accaduto a Roville, la buona donna sarebbe stata un po’ avvilita e d’un umore passabilmente amabile. Avevo appena preso un aperitivo, e stavo sorbendone lentamente un secondo, — sentendomi già, relativamente alle circostanze in cui mi trovavo, abbastanza allegro, — quando sentii, dalla parte di nord-est, una voce piana che mi chiamava, e, girandomi, vidi Bingo Little appoggiato a un angolo, davanti a un considerevole piatto di pane e formaggio.

— Ehi, ehi! — dissi; — sono secoli che non vi vedo. Da un pezzo non venite più da queste parti, eh?

— No, vivo in campagna.

— Eh? — feci, conoscendo bene la ripugnanza di Bingo per la campagna. — E dove?

— Ad Hampshire, in un paesetto chiamato Ditteredge.

— No, davvero? Conosco della gente che abita laggiù: i Glossops. Li avete visti?

— Ma... è la famiglia dove vivo io! — disse Bingo. — Sto istruendo il bambino.

— A che scopo? — chiesi. Non potevo figurarmi Bingo nelle vesti di precettore, quantunque, naturalmente, sapessi che aveva avuto a Oxford un diploma di non so che genere.

— A che scopo? Per denaro, naturalmente! Avevo puntato tutto il mio assegno mensile su un ronzino, alla seconda corsa di Haydock Park, disse Bingo con un senso di amarezza, e non ho avuto la forza di disturbare ancora mio zio; così dovetti interessare qualche agente, per ottenere un posto. Sono laggiù da tre settimane.

— Io non ho mai conosciuto il bambino dei Glossops.

— No, — riconobbe Bingo seccamente.

— La sola persona di quella famiglia eh io veramente conosca è la ragazza. Avevo appena pronunciato queste parole, quando il più straordinario cambiamento si operò sulla faccia del mio amico; aveva gli occhi fuori dell’orbita, le guance ardenti e il pomo d’Adamo che gli saliva e scendeva come una di quelle palline che danzano in cima allo zampillo, nei tiri a segno.

— Oh, Bertie! — fece, con una voce che pareva stesse soffocando. Guardai il disgraziato, ansiosamente; sapevo che s’innamorava sempre, ma non mi sembrava possibile che si fosse innamorato di Honoria Glossop; per me quella ragazza era né più né meno che un vaso di tossico... una di quelle colossali, astute, robuste, dinamiche ragazze che sono così comuni al giorno d’oggi; era stata a Girton, dove, oltre che rafforzare nel modo più spaventoso il suo cervello, s’era data a sports di tutti i generi, sviluppando il fisico d’un campione di pugilato dei pesi medi. Non sono sicuro che non abbia fatto a pugni anche all’Università, quando c’era; l’effetto che provavo, ogni volta che la vedevo, era il bisogno di scappare in un rifugio e restarvi, quatto quatto, fino al segnale di cessato pericolo.

Tuttavia, ecco che mi stava davanti uno che, indubbiamente, n’era innamorato pazzo; non c’era possibilità di equivoci; negli occhi del disgraziato brillava il fuoco della passione.

— L’adoro, Bertie! adoro perfino la terra su cui cammina! — continuò il paziente, a voce alta e penetrante. Erano entrati Fred Thompson e un altro paio di individui; e Mc Garry, che stava al banco, era tutto orecchi. Ma Bingo non conosce reticenze; mi rammenta sempre l’eroe d’un certo melodramma, che si pianta al centro della scena, raccoglie intorno a sé tutti i bambini in circolo e ammannisce loro, imparzialmente, tutti i segreti del cuore, con la voce più alta.

— Gliel’avete detto?

— No, non ne ho avuta la forza. Ma passeggiamo insieme in giardino quasi tutte le sere, e talvolta mi sembra che nei suoi occhi ci sia uno sguardo, un’espressione...

— La conosco, quell’espressione; è quella d’un sergente maggiore.

— Ma niente affatto! È lo sguardo d’una dea clemente!

— Mezzo secondo, vecchio mio! — dissi. — Siete sicuro che stiamo parlando della stessa ragazza? Quella che voglio dir io è Honoria. Forse ha una sorella più giovane, della quale io non ho sentito parlare.

— Il suo nome è Honoria — proclamò Bingo, con reverenza.

— E vi ha proprio colpito per il suo aspetto di dea clemente?

— Sì.

— Dio vi benedica! — dissi.

— Ella cammina nella bellezza, come la notte dei climi senza nuvole e dei cieli stellati; e tutto ciò che v’è di meglio di luce e d’ombra si fonde nel suo volto e nei suoi occhi. Un altro po’ di pane e formaggio — continuò volgendosi al ragazzo che stava dietro il banco.

— Vi tenete in forze, eh?

— È la mia colazione; devo incontrarmi con Oswald a Waterloo, alle una e quindici, per riaccompagnarlo a casa. L’ho condotto in città per farlo vedere dal dentista.

— Oswald? È il bambino?

— Sì, e abbastanza pestilenziale.

— Pestilenziale? Giacché mi ricordo, sono a colazione da zia Agatha; me ne vado subito, o faccio tardi.

Dopo quel piccolo affare delle perle, non avevo più visto zia Agatha; e quantunque non pregustassi affatto un piacere straordinario all’idea di mangiare con lei, debbo dire che confidavo abbastanza che almeno un certo argomento della conversazione, quello del mio futuro matrimoniale, sarebbe stato lasciato in disparte; voglio dire, quando una donna ha fatto una parte come quella di zia Agatha a Roville, potete naturalmente aspettarvi che un certo pudore la faccia desistere da un proposito simile per un mese o due.

Ma le donne mi superano... voglio dire, in quanto ad audacia. Non lo crederete ma, appena mi vide, mi parlò proprio della cosa, proprio di quella cosa... ve lo assicuro sul mio onore! Avevamo appena scambiato una parola intorno al tempo, quando la tegola mi cadde sul capo.

— Bertie, — disse, — sto pensando di nuovo a voi e alla necessità che vi sposiate. Sono d’accordo completamente con voi d’aver preso un granchio orribile intorno a quell’ipocrita ragazza di Roville; ma stavolta non c’è pericolo di cadere in errore: per una vera fortuna, ho trovato proprio la moglie per voi, una ragazza che ho conosciuto soltanto da poco, ma la cui famiglia è al di sopra d’ogni sospetto. Inoltre, ha molto denaro, quantunque ciò non importi, nel caso vostro; l’essenziale è che si tratta di una ragazza forte, sicura di sé e di buon senso, la quale controbilancerà senza dubbio tutte le deficienze e le debolezze del vostro carattere. Vi conosce già, e, quantunque, naturalmente, ci sia molto in voi ch’ella disapprova, non le dispiacete... lo so, perché... con le debite cautele naturalmente... le ho fatto capire... e sono sicura che non avete che a farvi avanti...

— Chi è? — avrei voluto chiederle, già molto tempo prima, se il colpo inaspettato non m’avesse fatto andar di traverso un boccone di pane e non avessi finito soltanto a questo punto di dibattermi, col volto tutto paonazzo, nel tentativo di far passare un po’ d’aria per la mia povera trachea. — Chi è?

— Honoria, la figlia di Sir Roderick Glossop.

— No, no! — gridai, impallidendo.

— Non fate l’asino, Bertie! È la vera moglie per voi!

— Sì, ma sentite...

— Vi darà un carattere!

— Ma io non voglio... avere un carattere.

A questo punto, zia Agatha mi piantò addosso lo sguardo con cui soleva considerarmi quand’ero marmocchio e mi sorprendeva accanto alla dispensa della marmellata.

— Bertie! spero che non farete il noioso!

— Bene... ma, voglio dire...

— La signora Glossop è stata tanto gentile da invitarvi a Ditteredge Hall per qualche giorno e io le ho detto che sareste stato lieto d’andarvi domani.

— Mi dispiace, ma domani ho un appuntamento molto importante.

— Che appuntamento?

— Ebbene... eh...

— Voi non avete nessun appuntamento, e anche se l’aveste, potete mancarvi. Sarei seccatissima, Bertie, se non andaste a Ditteredge Hall domani!

— Oh, benissimo! — dissi.

Non erano ancor passati due minuti, dacché avevo lasciato zia Agatha, che l’antico spirito battagliero dei Woosters si riaffermò; per quanto il pericolo che si addensava sul mio capo fosse atroce, pure mi sentivo stranamente esilarato. Ero preso in trappola, ma sentivo che, quanto più la trappola era angusta, tanto più piacere avrei provato nell’umiliare Jeeves, col mostrargli che avevo saputo cavarmene senza bisogno del suo aiuto.

In circostanze ordinarie, naturalmente, l’avrei consultato e avrei confidato in lui, per risolvere la difficoltà; ma, dopo quanto gli avevo udito dire in cucina, non volevo abbassarmi a nessun costo.

Quando giunsi a casa, gli parlai con un tono abbastanza confidenziale.

— Jeeves — dissi — mi trovo in una difficoltà.

— Sono addolorato di apprenderlo, signore.

— Sì, sono caduto proprio nella padella; anzi, in realtà, si potrebbe dire che sono sull’orlo di un precipizio e che mi sta di fronte un destino atroce.

— Se posso esservi di qualche aiuto, signore...

— Oh, no. No, no. Vi ringrazio molto, ma no, no. Non voglio disturbarvi. Non dubito che me la caverò benissimo da solo.

— Benissimo, signore.

Fu tutto. Sto per dire che un po’ di curiosità di più, da parte sua, non mi sarebbe dispiaciuta; ma Jeeves è fatto così; dissimula le sue emozioni, se intendete che cosa voglio dire.

Quando giunsi a Ditteredge, il pomeriggio del giorno dopo, Honoria non c’era; sua madre mi disse ch’era andata a trovare certi Braythwayts nei dintorni e che sarebbe tornata il giorno dopo, conducendo con sé una ragazza di quella famiglia; soggiunse che avrei trovato Oswald in mezzo ai campi... e, tale è l’amore di una madre, me lo disse come se ciò, per la campagna, dovesse essere un motivo d’orgoglio e per me un incentivo ad andarvi.

La campagna di Ditteredge è abbastanza bella: un paio di terrazze, un po’ di prato, con un cedro che sorge nel mezzo, un po’ di bosco e infine un laghetto piccolo, ma grazioso, attraversato da un ponte di pietra.

Appena incamminato per il bosco, vidi Bingo, appoggiato al ponticello, che fumava una sigaretta; seduto sul parapetto di pietra, e intento a pescare, c’era una specie di marmocchio che compresi che doveva essere Oswald, il castigo del luogo.

Bingo fu sorpreso e lieto a un tempo di vedermi, e mi presentò il marmocchio; quest’ultimo, se fosse sorpreso o contento egli pure, dissimulò come un diplomatico; non fece che guardarmi, levando lentamente i sopraccigli, e continuò a pescare. Era uno di quei giovincelli torvi, che vi danno l’impressione, quando vi guardano, che i vostri vestiti non stiano bene.

— Questo è Oswald — disse Bingo.

— Sono felicissimo — risposi cordialmente. — Come state?

— Oh, benissimo! — disse il marmocchio.

— Un bel luogo questo.

— Oh, benissimo!

— Fa buon tempo, per pescare?

— Oh, benissimo!

Bingo mi condusse in disparte.

— Non vi fan mal di testa, qualche volta, tante chiacchiere con quell’individuo? — gli chiesi.

Bingo sospirò.

— È un compito difficile!

— Che cosa?

— Amarlo.

— Lo amate? — gli chiesi sorpreso; poiché non avrei mai pensato che la cosa fosse possibile.

— Tento... — disse Bingo; — per amore di Lei. Tornerà domani, Bertie.

— Così m’han detto.

— Ritorna... il mio amore, il mio...

— Assolutamente — risposi. — Ma torniamo ad Oswald. Vi tocca star con lui tutto il giorno? Come fate a sopportarlo?

— Oh, non mi dà molto disturbo; quando non lavora, se ne sta seduto eternamente sul ponte, eoa l’intenzione di prender pesci.

— Perché non lo buttate dentro?

— Buttarlo dentro?

— Mi sembra proprio ciò che si deve fare — dissi, guardando verso la schiena del giovincello, con uno sguardo pieno di disprezzo. — Se fossi voi, vorrei svegliarlo e fargli prendere un po’ d’interesse alle cose.

Bingo scosse il capo pensosamente.

— La vostra proposta mi tenta — disse — ma temo che la cosa non si possa fare. Vedete, Ella non mi perdonerebbe mai più; è molto devota a quel piccolo bruto.

— Gran Dio! — esclamai. — Ho trovato!

Non so se voi conosciate ciò che si prova, quando si ha un’ispirazione e ci si sente quel formicolio correre giù per la spina dorsale, dal colletto floscio che si porta ora, giù giù, fino alla pianta dei piedi.

Jeeves, suppongo, lo prova più o meno tutta la vita; ma, a me, una sensazione simile capita di rado. A ogni modo, in quel momento, mi sembrava che tutta la Natura mi gridasse: — Hai fatto una scoperta! — e afferrai Bingo per un braccio, con una grazia tale che dovette credersi addentato da un cavallo. Vidi i suoi delicati lineamenti torcersi pel dolore e poi mi sentii chiedere che diavolo intendessi mai di fare.

— Bingo — dissi — che cosa avrebbe fatto Jeeves?

— Che intendete, col chiedermi che cosa avrebbe fatto Jeeves?

— Voglio dire, che cosa avrebbe consigliato, in un caso simile al vostro, ossia per farvi ottenere un successo strepitoso, eccetera eccetera, con Honoria Glossop? Ma via! credetemi vecchio mio! vi avrebbe nascosto dietro quel cespuglio laggiù, mi avrebbe insegnato ad attirare Honoria nei dintorni del ponte; poi, al momento buono, mi avrebbe detto di dare un colpetto molto opportuno sulla schiena al marmocchio, in modo da farlo saltare in acqua; e poi, voi non avreste dovuto far altro che gettarvi dentro e salvarlo. Che ne dite?

— Come avete fatto a pensar tutto ciò da solo, Bertie? — disse Bingo, con voce sommessa.

— Sì. Jeeves non è il solo uomo ricco di idee.

— Ma è assolutamente meraviglioso!

— È soltanto un suggerimento.

— Il solo ostacolo possibile mi sembra questo: che sarebbe pericoloso per voi. Voglio dire se il bambino poi dicesse ch’è stato gettato dentro, ciò vi farebbe cadere in disgrazia ad Honoria.

— Non m’importa di correre un simile pericolo.

Il mio compagno parve profondamente commosso.

— Bertie, questo è veramente nobile.

— No, no.

Mi strinse la mano in silenzio, poi schioccò la lingua, producendo un rumore come quello dell’ultima goccia d’acqua ch’esce dallo scarico della vasca da bagno.

— Ed ora? — gli chiesi.

— Stavo soltanto pensando — disse Bingo — al bagno terribile che farà Oswald... Oh, giorno felice!

  

6

IL PREMIO ALL’EROE

Non so se abbiate mai notato... ma è strano che, a questo mondo, nulla sembri essere assolutamente perfetto: l’inconveniente di questa impresa, che, altrimenti, sarebbe stata singolarmente fruttuosa, era naturalmente il fatto che Jeeves non poteva esser sul luogo a contemplarmi durante l’azione. A parte ciò, il disegno non presentava nessun altro inconveniente; la bellezza della cosa era che nulla poteva andar male; voi sapete come vanno di regola le cose, quando volete che un individuo A si trovi al punto B, esattamente nello stesso momento in cui l’individuo C dev’essere nel punto D: v’è sempre pericolo d’un intoppo. Prendete l’esempio d’un generale che stia preparando una grande azione; egli ordina a un reggimento d’impadronirsi di quel dato monte sulla cui cima sorge il mulino a vento, nello stesso istante in cui un altro reggimenti deve prender possesso d’un ponte, o d’una strada nella valle, e ogni cosa viene fraintesa; poi, alla sera, quando ne riparlano, il colonnello del primo reggimento dice: — Che peccato! Voi intendevate il monte dal mulino a vento? Pensavo che aveste detto quello dove si vedeva il branco di pecore. — È così! Ma nel caso nostro non poteva accader nulla di simile, perché Oswald e Bingo si sarebbero trovati sul luogo insieme; cosicché, tutto quel che dovevo fare era di condurvi Honoria al momento opportuno; e vi riuscii completamente di primo acchito, invitandola a fare una passeggiatina pei campi con me, come se avessi qualche cosa di particolare da dirle.

Era arrivata in automobile, subito dopo colazione, con la ragazza del Braythwayts, una ragazza grande e grossa, dagli occhi azzurri e dai capelli biondi, che mi fu presentata e che, tant’era dissimile da Honoria, mi piacque a tal punto, che, se avessi avuto un po’ di tempo, non mi sarebbe rincresciuto affatto intrattenermi con lei a far quattro chiacchiere. Ma gli affari sono affari; avevo stabilito con Bingo di trovarmi dietro il cespuglio allo scoccar delle tre; così mi accompagnai ad Honoria e la condussi pei campi, verso il laghetto.

— Siete molto tranquillo, signor Wooster, — ella disse.

Ciò mi fece leggermente trasalire, perché, in quel momento, ero tutto concentrato nel mio proposito; eravamo appena giunti in vista del lago e mi stavo cavando gli occhi per osservare se tutto era in ordine; tutto era a posto come se fosse stato ordinato appositamente. Oswald se ne stava, come il solito, appollaiato sul ponte; e poiché non vedevo Bingo, conclusi che doveva essere già al suo posto. Il mio orologio segnava due minuti dopo l’ora stabilita.

— Eh? — feci. — Oh, ah, sì. Stavo pensando.

— Avete detto che avevate qualche cosa d’importante da comunicarmi.

— Assolutamente! — Avevo deciso di cominciare col rompere il ghiaccio per il povero Bingo; voglio dire, intendevo, senza far subito il suo nome, preparare lo spirito della ragazza al fatto che, per quanto ciò potesse sembrare sorprendente, esisteva qualcuno che da lungo tempo l’amava in segreto, e così via. — È così! — dissi. — Potrà parervi strano, ma vi è qualcuno ch’è spaventosamente innamorato di voi e così via... un mio amico, sapete...

— Un vostro amico?

— Sì.

La ragazza sogghignò.

— Ebbene, perché non me lo dice?

— Bene, vedete, è un individuo fatto così... è molto timido e sfiduciato; non ne ha il coraggio, è convinto che voi siate tanto superiore a lui, vedete!... Vi considera come una specie di divinità... adora la terra su cui camminate, ma non riesce a raccogliere il coraggio per dirvelo.

— Questo è molto interessante.

— Sì; non è un cattivo soggetto, vedete, a suo modo... È piuttosto asino, forse, ha un monte di buone intenzioni. Ebbene, ora ve l’ho detto; è una cosa che non vi stupisce troppo sgradevolmente?

— Come siete buffo!

Rovesciò la testa all’indietro e rise abbastanza forte. Aveva un riso penetrante... qualche cosa come il rumore che fa un treno, quando attraversa una galleria; la musica di esso non mi allettava eccessivamente, e Oswald poi, non poco seccato, ci guardò con un’aria di disprezzo incredibile.

— Perché diavolo fate tanto rumore? — disse; — mi spaventate i pesci.

Così l’incanto fu rotto e Honoria cambiò argomento.

— Non vorrei che Oswald stesse seduto a quel modo sul ponte, — disse. — È pericoloso; è facile che caschi dentro.

— Andrò a dirglielo, — dissi.

 

* * *

 

Suppongo che la distanza tra me e il marmocchio fosse in quel momento di circa cinque metri, ma ebbi l’impressione che fossero almeno un centinaio; e mentre attraversavo lo spazio che mi separava da lui, provavo la strana sensazione d’aver compiuto quell’atto stesso altra volta, molto tempo prima. Poi mi ricordai: molti anni avanti, con una compagnia di ragazzi di campagna, avevo recitato la parte di maggiordomo, in una recita filodrammatica di beneficenza, e avevo dovuto cominciare quella parte con l’attraversare la scena vuota, entrando dall’ultima porta a sinistra e portando un vassoio su una tavola che stava a destra, nel fondo. Durante le prove, m’avevano detto che non dovevo percorrere la scena camminando forte; e il risultato di tante raccomandazioni fu ch’io strinsi i freni in tal modo, che mi pareva che non sarei mai giunto a quella benedetta tavola: la scena sembrava allargarsi, allargarsi sotto i miei occhi, come un deserto senz’orme, e provavo un senso di sospensione ansiosa, come se tutta la natura tacesse, per concentrare la sua attenzione sulla mia persona. E adesso, provavo una sensazione esattamente simile; sentivo nella gola una secchezza straordinaria e più avanzavo, più mi pareva che il marmocchio s’allontanasse; finché, improvvisamente, mi trovai alle sue spalle, senza sapere affatto come vi fossi giunto.

— Ehi, — dissi, con un sogghigno convulso, che mi sarei potuto risparmiare, perché il marmocchio non si degnò di voltarsi a guardarmi, accontentandosi di porgermi l’orecchio sinistro, non senza stizzirsi; (non ho mai conosciuto nessuno a cui io abbia fatto così poca impressione!) — Ehi, — dissi, — state pescando?

Gli posi una mano sulla spalla, con l’aria d’un fratello maggiore.

— Oh! Attenzione! — disse il marmocchio, oscillando.

Era una di quelle imprese che devono essere eseguite subito, o niente; chiusi gli occhi e detti una spinta; sentii qualche cosa che cedeva, che si dibatteva, poi udii una specie di guaito, mentre risonava in distanza un grido acuto, alfine intesi lo scroscio della caduta nell’acqua. Il giorno continuò a splendere come se nulla fosse accaduto.

Riaprii gli occhi; il ragazzo stava emergendo.

— Aiuto! — gridai, guardando verso il cespuglio dal quale avrebbe dovuto uscire Bingo.

Non accadde nulla; di Bingo, neanche la punta del naso.

— Ehi! aiuto! — gridai di nuovo.

Non voglio seccarvi ancora coi ricordi della mia carriera teatrale, ma debbo accennare ancora a quella mia parte di maggiordomo; in quell’occasione, mentre io ponevo il vassoio sulla tavola, avrebbe dovuto entrar l’eroina, dicendomi poche parole, per congedarmi. Ma quella sera, la stordita s’era dimenticata della sua parte e passò un intero minuto prima che riuscissero a trovarla e farla entrare in scena. E, tutto quel tempo, io dovetti rimaner là, ad aspettare... e credetemi che fu una sensazione infernale. Questa era proprio esattamente la stessa, soltanto era peggiore; in tal momento compresi benissimo ciò che intendono gli scrittori, quando dicono che il tempo s’arresta.

Frattanto, presumibilmente, il fiore dell’esistenza di Oswald era troncato, e mi pareva che si sarebbe dovuto prender qualche deliberazione in proposito; ciò che avevo visto del ragazzo non me l’aveva reso particolarmente simpatico, ma, senza dubbio, lasciarlo morire era un po’ troppo. Non mi ricordo d’aver mai visto nulla di più ripugnante di quel lago, quale appariva dal ponte; ma bisognava decidersi; così mi tolsi la giacca e scavalcai il parapetto.

Sembra strano che l’acqua deva bagnar tanto più, quando vi entrate vestito, che non quando fate il bagno; ma credetemi che è vero. Rimasi sotto circa tre secondi, ma quando risalii alla superfice mi sentivo proprio come i cadaveri che si legge sul giornale che «manifestamente sono stati sotto acqua parecchi giorni».

A questo punto, lo spettacolo prese un’altra piega. Avevo deciso che, appena venuto alla superficie, avrei afferrato il ragazzo, trascinandolo coraggiosamente alla riva; ma egli non m’aveva aspettato. Quand’ebbi finito di liberarmi gli occhi dall’acqua che m’accecava, e potei guardarmi intorno, lo vidi già lontano circa dieci metri, che nuotava vigorosamente, se non erro, al modo degli australiani; quella vista mi lasciò disfatto: voglio dire, l’essenziale per un’impresa eroica del genere, se mi comprendete, consiste nel fatto che la seconda persona debba rimaner tranquilla al suo posto; se essa comincia ad andarsene, nuotando per proprio conto e mostrando di potervi anche battere di quaranta metri su cento, che cosa vi resta a fare? È un fiasco assoluto. Mi parve che non mi restasse altro che portarmi a riva, e così feci; ma quando vi giunsi, il ragazzo era già a mezza strada, verso casa; consideratela da che punto volete, era una sconfitta in piena regola.

Le mie meditazioni furono interrotte da un fragore simile a quello dell’espresso di Scozia che passa sotto un ponte: era Honoria Glossop che rideva. M’era giunta alle spalle e mi guardava in modo strano.

— Oh, Bertie, come siete buffo! — disse. E anche in quel momento mi parve che ci fosse nelle sue parole qualche cosa di sinistro; infatti, per lo innanzi, non m’aveva mai chiamato che signor Wooster. — Come siete bagnato!

— Sì, sono bagnato.

— Fareste meglio a correre a casa a cambiarvi.

— Sì.

Cominciai a spremere il mio vestito e ne uscirono otto o dieci litri d’acqua.

— Siete proprio buffo! — ella ripeté. — Prima, a dichiararvi in un modo così eccessivamente prudente; poi, a gettare il povero Oswald nel lago, per farmi impressione col salvarlo!...

Mi liberai la gola dall’acqua che avevo inghiottito e tentai di correggere la sua spaventosa impressione.

— No, no.

— M’ha detto che l’avete buttato dentro; e poi, vi ho visto io! Ma non sono in collera, Bertie; qualcuno che si prenda cura di voi; avete visto soltanto sono sicurissima ch’è ora che cominci a guidarvi, perché, certamente, avete bisogno di troppe pellicole al cinematografo; e m’immagino che, alla prossima occasione, vi parrebbe naturale dar fuoco alla casa, per poi salvarmi. — Mi guardava come se mi considerasse già sua proprietà. — Io credo, — continuò, — che riuscirò a far qualche cosa di voi, Bertie. È vero che, fino ad oggi, la vostra vita è stata veramente frivola, ma siete ancora giovane e avete in voi qualche buona qualità.

— No, davvero; nessuna.

— Oh, sì; avete qualche buona qualità; occorre soltanto svilupparla. Ora correte subito a casa e cambiatevi quel vestito; se no, prenderete del freddo.

E, se intendete ciò che voglio dire, c’era nella sua voce una nota materna che pareva dirmi, più ancora che le sue stesse parole, che, ormai, per me era deciso.

 

* * *

 

Dopo essermi cambiato d’abiti, mentre scendevo le scale, incontrai Bingo tutto allegro.

— Bertie, — gridò. — Volevo proprio voi. È accaduta una cosa straordinaria.

— Disgraziato! — gridai; — che avete fatto? Non sapete...

— Ah, volete dire... a proposito del cespuglio. Non ho avuto il tempo di spiegarvi; è tutto finito.

— Tutto finito?

— Bertie, stavo proprio per andare a nascondermi in quel cespuglio, quando accadde il fatto più straordinario della mia vita. Stavo attraversando il prato, quando vidi apparire la più radiosa, la più bella fanciulla del mondo; non c’è nessuna persona bella come lei, nessuna! Bertie, credete all’amore che nasce al primo vedersi? Credete nell’amore che sorge a prima vista, Bertie, vecchio mio? Non appena l’ebbi vista, mi sentii attratto da lei come da una calamita. Dimenticai ogni cosa: eravamo noi due soli, in un mondo di musica e di sole. Me le avvicinai e attaccammo conversazione. È la signorina Braythwayt, Bertie... Daphne Braythwayt. Non appena i nostri occhi s’incontrarono, compresi che ciò ch’io aveva creduto il mio amore per Honoria Glossop non era stato che un capriccio passeggero. Bertie, credete veramente nell’amore a prima vista? È così meravigliosa, così simpatica! somiglia a una dea benigna...

A questo punto mi volsi e lo piantai in asso.

Due giorni più tardi, ricevetti da Jeeves una lettera.

«...Il tempo», essa terminava, «si mantiene bello; ho fatto un bagno delizioso».

Ebbi un riso cupo e triste e scesi a trovare Honoria, con la quale avevo un appuntamento in salotto, perché doveva leggermi Ruskin.

  

7

PRESENTAZIONE DI CLAUDE ED EUSTACE

La bomba cadde precisamente alle una e quarantacinque; Spenser, il maggiordomo di zia Agatha, mi stava porgendo le patate fritte, e la mia emozione fu tale che ne lanciai cinque o sei col cucchiaio, contro la credenza; ero stato colpito in pieno, se comprendete ciò che voglio dire.

Notate, ero in condizioni già poco favorevoli; ero fidanzato con Honoria Glossop da circa due settimane, e di tutto quel tempo non era passato un giorno, senza ch’ella dirigesse ogni suo sforzo verso lo scopo di ciò che zia Agatha chiamava «foggiarmi un carattere». M’ero ingozzato di letteratura seria, fino a non vederci più; avevamo percorso insieme chilometri di pinacoteche; e m’ero dovuto sorbire un numero così straordinario di concerti classici, che non potreste nemmeno credere. In conclusione, non ero affatto in condizioni adatte per ricevere scosse nervose, specialmente del genere di questa. Honoria m’aveva trascinato a colazione da zia Agatha, e stavo proprio in quel momento dicendo a me stesso: «Caspita, dov’è l’antico pungiglione della vespa?» quando la bomba cadde.

— Bertie, — mi disse all’improvviso, come se la cosa le fosse appena venuta in mente, — come si chiama quel vostro uomo... il vostro cameriere?

— Eh? Oh, Jeeves.

— Penso che eserciti un cattivo influsso sul vostro carattere, — disse Honoria. — Quando saremo sposati lo manderemo via.

A questo punto mandai a finire cucchiaio e patate (erano proprio le più ben cotte!), contro la credenza, mentre Spenser le inseguiva come un vecchio segugio dignitoso.

— Licenziare Jeeves? — balbettai.

— Sì. Non mi piace.

— Non mi piace, — disse zia Agatha.

— Ma io non posso. Voglio dire... ma... non potrei stare un giorno, senza Jeeves.

— Lo licenzierete, — disse Honoria. — Non mi piace affatto.

— Non mi piace affatto, — disse zia Agatha. — Non mi è mai piaciuto.

Caspita! Avevo sempre pensato che il matrimonio fosse una mezza sciagura, ma non mi sarei mai sognato di pensare che richiedesse dal paziente simili sacrifici. Per il resto del pasto, rimasi immerso in una specie di stupore.

S’era deciso, se ben mi ricordo, che dopo colazione sarei uscito con Honoria a fare un giro per le botteghe di Regent Street; ma quando Honoria s’alzò e cominciò a raccogliere me e le altre sue cose, zia Agatha la fermò.

— Voi andate pure, cara, — disse. — Io voglio dire una parola a Bertie.

Così Honoria uscì e zia Agatha, accostata una sedia, cominciò:

— Bertie — disse — la cara Honoria non lo sa, ma è sorta una piccola difficoltà, per il vostro matrimonio.

— Per Giove! No, davvero? — dissi, mentre cominciava ad albeggiare nel mio spirito un po’ di speranza.

— Oh, naturalmente, una cosa da nulla; soltanto, è un po’ esasperante. Il fatto è che Sir Roderick è un po’ impensierito.

— Pensa ch’io non sia un buon partito? Vuol rompere il fidanzamento? Ebbene, forse ha ragione.

— Vi prego di non essere assurdo, Bertie; non c’è nulla di così serio. Ma la natura della sua professione, sfortunatamente, lo rende prudentissimo.

Non comprendevo.

— Prudentissimo?

— Sì. Suppongo che sia inevitabile. Uno specialista di malattie nervose, con un esercizio vasto come il suo, non può non considerare l’umanità da un punto di vista un po’ diverso dal solito.

Adesso comprendevo che cosa stava per dirmi. Sir Roderick Glossop, il padre di Honoria, vien chiamato specialista delle malattie nervose, perché tale denominazione suona meglio; ma tutti sanno ch’è piuttosto una specie di portiere del manicomio. Voglio dire, quando nostro zio il Duca comincia a mostrarsi un po’ strano e si fa sorprendere nel salotto azzurro coi capelli per aria, il vecchio Glossop è la prima persona che noi mandiamo a chiamare. Egli accorre, fa la diagnosi, parla di sistema nervoso sovreccitato e raccomanda calma assoluta, clausura e così via. Praticamente, quasi ogni famiglia rispettabile del paese l’ha chiamato una volta o l’altra; e suppongo che un uomo che si trovi in tal posizione (voglio dire, dovendo badare completamente alla zucca del suo prossimo mentre i parenti più stretti telefonano al ricovero per farvi inviar la carrozza), debba facilmente acquistare la tendenza a «considerare l’umanità da un punto di vista un po’ diverso dal solito».

— Volete dire che mi considera matto e che non vuol avere un genero matto? — chiesi.

Zia Agatha sembrò più seccata che altro della mia pronta intelligenza.

— Naturalmente, non pensa nulla di così ridicolo. Vi ho detto che è semplicemente un po’ troppo cauto; vuole accertarsi che siete perfettamente normale. — Qui fece una pausa, perché era entrato Spenser col caffè. Quand’egli fu uscito, continuò. — Sembra che abbia saputo qualche cosa che gli fa credere che abbiate spinto suo figlio Oswald nel lago, a Ditteredge Hall... È incredibile, naturalmente.

— Bene, un pochino l’ho urtato, sapete, cosicché è caduto dal ponte.

— Oswald vi accusa chiaramente d’averlo gettato in acqua. Ciò ha turbato Sir Roderick e disgraziatamente l’ha indotto a prendere informazioni, e ha saputo del vostro povero zio Henry. — Mi guardò con aria solenne e prese gravemente un sorso di caffè; stavamo esplorando il retroscena familiare: il mio povero zio Henry, vedete, era stato sul punto di divenire la macchia nera dello stemma dei Woosters. Personalmente, era un individuo distintissimo e mi si era reso caro, istruendomi con considerevole prodigalità, quando andavo a scuola; ma non vi è dubbio che, certe volte, commetteva qualche stranezza, come quella di tenersi nella camera da letto undici conigli prediletti; e suppongo che un intransigente l’avrebbe quindi considerato un po’ squilibrato. In realtà, per esser franco, egli finì la sua vita in non so che casa, completamente felice in mezzo ai suoi conigli.

È una vera assurdità, naturalmente, — continuò zia Agatha. — Se alcuno della famiglia avesse dovuto ereditare l’eccentricità del povero Henry, poiché non si trattava che d’un po’ di eccentricità, sarebbero Claude ed Eustace, e invece non potrebbero essere due ragazzi più brillanti.

Claude ed Eustace erano gemelli ed erano stati miei colleghi durante l’ultimo anno scolastico. Rievocando il passato, mi pareva che «brillanti» fosse la parola meglio adatta a definirli; infatti quel termine, come ricordavo bene, era stato già usato spessissimo, a scusarli di non so quante marachelle.

— Pensate come si comportano bene a Oxford! L’altro giorno vostra zia Emily ha ricevuto una lettera da Claude in cui le dice che spera di esser fra breve nominato membro di un circolo studentesco importantissimo, detto dei Cercatori.

— Cercatori? — non potevo ricordarmi di nessun circolo di tal nome che fosse esistito ad Oxford ai miei tempi. — E che cercano?

— Claude non l’ha detto... il vero, credo, o il sapere... Manifestamente, si tratta d’un circolo molto onorevole, perché Claude dice che Lord Rairisby, il figlio del Conte di Datchet era uno dei candidati. Ma, tornando al nostro discorso, Sir Roderik vuol parlarvi tranquillamente a quattr’occhi. Ora, Bertie, io conto che voi vi mostriate, non dico intelligente, ma almeno ragionevole. Vi raccomando di non sogghignare nervosamente, di non assumere cogli occhi quell’espressione da imbambolato, di non sbadigliare e di non mostrarvi irrequieto. Inoltre, ricordatevi che Sir Roderick è Presidente della lega londinese contro il gioco, per cui vi prego di non parlar di corse di cavalli. Verrà a colazione da voi domani, alle una e trenta; vi prego di ricordarvi che non beve vino, che disapprova altamente l’uso del tabacco e che può mangiare soltanto i cibi più semplici, perché ha lo stomaco delicato. Non offritegli caffè, perché considera il caffè la causa di almeno la metà dei disturbi nervosi che esistono al mondo.

— Penso che un biscottino e un bicchier d’acqua farebbero al caso, no?

— Bertie!

— Oh, benissimo! scherzavo.

— Ora, è precisamente quella vostra sciocca osservazione che potrebbe sollevare i peggiori sospetti di Sir Roderick. Vi prego di astenervi da ogni sciocca loquacità, mentre siete con lui. È un uomo veramente posato... Ve ne andate? Bene, vi prego di ricordarvi quanto vi ho detto; conto su voi, e se qualche cosa va male, non vi perdonerò mai.

— Benissimo, — dissi.

E m’avviai verso casa, con la prospettiva di quella giornata così promettente...

 

La mattina seguente, feci la prima colazione per tempo e uscii a far quattro passi. Mi sembrava di dover fare quanto era in mio potere per riuscire a ingozzar la pillola, e pensavo che un po’ di aria fresca, in generale, serve benissimo a liberare lo spirito da quella specie di torpore che lo tiene nelle prime ore del mattino. Avevo fatto qualche passo nel Parco ed ero giunto, tornando verso casa, all’altezza di Hyde Park Corner, quando mi sentii colpire alle spalle: era Eustace, mio cugino, che stava a braccetto con altri due amici; quello al di fuori era mio cugino Claude, l’altro nel mezzo era un individuo dalla faccia tutta rosa, dai capelli biondi e dallo sguardo timido.

— Bertie, vecchio mio, — disse Eustace, affabilmente.

— Ehi, — feci io, non troppo allegro.

— Che gioia incontrar proprio voi, l’unico uomo, in tutta Londra, che possa convenire al nostro stile! A proposito, conoscete Faccia-di-Cane? Faccia-di-Cane, questo è mio cugino Bertie. Lord Rainsby... il signor Wooster. Siamo appena stati a casa vostra, Bertie; siamo rimasti assai delusi di non trovarvi, ma siamo stati accolti ospitalmente da Jeeves. Quello è un uomo prezioso, Bertie; tenetevelo di conto.

— Che cosa dovete fare a Londra? — chiesi.

— Oh, andiamo in giro; stiamo qui soltanto oggi, facciamo visite brevissime, tutt’altro che ufficiali. Torniamo alle tre e dieci. E ora, a proposito di quella colazione che voi sarete lietissimo di offrirci, dove andremo? Al Ritz? o al Savoy? o al Carlton? o se avete l’abitudine di andare da Ciro o all’Ambasciata, per noi fa lo stesso.

— Non posso offrirvi da colazione; ho un appuntamento io stesso. E, per Giove! — dissi, dando un’occhiata all’orologio, — sono in ritardo. — Chiamai con un cenno un’automobile pubblica. — Mi dispiace...

— Allora, da buoni amici, — disse Eustace, — datemi un cinquino.

Non avevo tempo di fermarmi a discutere; diedi un biglietto da cinque sterline e saltai nella vettura. Quando arrivai a casa, erano le due meno venti; corsi in salotto, ma non c’era nessuno.

Jeeves entrò.

— Sir Roderick non è ancora venuto, signore.

— Santo cielo! — dissi; — pensavo di trovarlo che mi stesse fracassando i mobili. — So, per esperienza, che quanto meno desiderate un individuo tanto più quello è puntuale; e m’ero già figurato il vecchio in atto di camminare concitatamente su e giù pel salotto, sbuffando: «Non viene ancora», e ardendo di collera sempre più. — È tutto in ordine?

— Penso, signore, che troverete tutto disposto in modo da soddisfarvi.

— Che cosa ci date?

— Consommé freddo, una cotoletta, un savoury, signore... con lemon-squash1 in ghiaccio.

— Bene, mi sembra che ciò non debba toccare la sua suscettibilità; non lasciatevi turbare dalla straordinarietà dell’evento, né portate il caffè.

— No, signore.

— E non fate quegli occhi imbambolati; perché, se no, può darsi che vi troviate in una cella imbottita prima di capir dove siete.

— Benissimo, signore.

Il campanello squillò.

— Coraggio, Jeeves, — dissi. — Ci siamo!

  

8

SIR RODERICK A COLAZIONE

Avevo visto naturalmente Sir Roderick altre volte, ma soltanto mentre era insieme con Honoria; v’è in Honoria qualche cosa che fa apparire chiunque voi incontriate nella stessa stanza, come un cosino minuscolo e insignificante, al suo confronto. Non m’ero mai accorto, fino a questo momento, con che bestia formidabile avessi a che fare; aveva un paio di sopraccigli ispidi che davano ai suoi occhi uno sguardo penetrante il quale non era affatto ciò che si poteva desiderare a stomaco vuoto; era alto e grosso, e aveva una testa enorme, letteralmente pelata, che lo faceva sembrare ancor più grosso e simile alla cupola di St. Paul! Vedete che maledizione, lasciare sviluppar troppo il cervello!

— Oh! oh! oh! — feci, cercando di toccare il tasto più simpatico, col mostrarmi entusiasta; ma, improvvisamente, ebbi il senso che quello era proprio quanto non avrei dovuto fare; è difficilissimo, in un’occasione simile, cavarsela bene. Per un individuo che vive a Londra, il benvenuto presenta difficoltà infinite; voglio dire, se fossi stato il giovine cavaliere che accoglie in campagna il suo ospite, avrei potuto dire: «Benvenuto a Meadow-sweet Hall!» o qualche cosa di similmente originale; ma dire: «Benvenuto al numero 6 A Crichton Mansions, Berkeley Street, W.» è assolutamente sciocco!

— Temo di essere un po’ in ritardo, — cominciò il mio ospite sedendosi. — Sono stato trattenuto al mio Circolo da Lord Alastair Hungerford, il Duca di Ramfurline. Sua Grazia, mi disse, presentava un nuovo attacco dei sintomi che già avevano tanto impressionato la famiglia. Non ho potato lasciarlo subito; di qui la mancanza di puntualità, che spero non v’abbia incomodato.

— Oh, no, affatto! Così, al Duca manca un venerdì, eh?

— L’espressione di cui vi servite non è precisamente quella ch’io avrei usato riferendomi al capo della forse più nobile famiglia d’Inghilterra; ma si tratta, senza dubbio, d’un eccitamento cerebrale, come voi dite, estremamente grave. — Sospirò, proprio come se avesse la bocca piena di carne di cotoletta. — Una professione come la mia è assai faticosa, assai faticosa.

— Deve esser tale.

— Talvolta mi spaventa ciò che vedo intorno a me. — Si fermò a un tratto e s’irrigidì un poco. — Avete in casa un gatto, signor Wooster?

— Eh? che? un gatto? No, no, nessun gatto.

— Avevo l’impressione distintissima d’udire un gatto miagolare nella camera, o vicinissimo, in ogni modo, a noi.

— Probabilmente qualche automobile nella strada.

— Mi pare di non comprendervi.

— Voglio dire, la tromba di un’automobile, sapete... Qualche volta può dar l’impressione d’un miagolio.

— Non ho mai notato tale somiglianza — disse freddamente.

— Prendete un po’ di lemon-squash, — dissi. La conversazione sembrava farsi un po’ difficile.

— Grazie, mezzo bicchiere, se permettete. — La bibita infernale sembrò imbizzirlo ancor più, perché assunse un’aria più cupa. — Ho un’antipatia speciale pei gatti. Ma, stavo dicendo... oh sì; talvolta mi spaventa veramente ciò che mi vedo intorno; non si tratta soltanto dei casi che cadono sotto il mio occhio professionale, per quanto possano esser penosi; si tratta di ciò che vedo in giro per la città. Talvolta mi sembra che l’intero mondo sia mentalmente squilibrato. Stamattina stessa, per esempio, un fatto singolare e angosciosissimo mi accadde, mentre tornavo a casa dal Circolo: il tempo era bello e così feci aprire la mia landaulette, e me ne stavo disteso sulla schiena, godendomi il sole, quando ci toccò fermarci a mezzo il corso, a causa d’uno di quegli intoppi nel traffico che sono inevitabili in un sistema così affollato come quello di Londra.

Dovevo avere un po’ divagato, perché, quando si fermò per prendere un sorso di lemon-squash, ebbi il senso di stare ascoltando un rabbuffo e di dover dir qualche cosa.

— Ma sentite, sentite! — dissi.

— Scusate...?

— Nulla, nulla! Stavate dicendo...

— I veicoli che procedevano in direzione opposta eran già fermi da qualche tempo, ma poi poterono procedere. Io m’ero immerso in pensieri, quando, improvvisamente, accadde un fatto assai straordinario; d’un tratto, mi sentii strappare dalla testa il cappello. E voltandomi a guardare, lo vidi agitato trionfalmente nell’interno d’un’automobile pubblica che scomparve sotto i miei occhi, guizzando attraverso uno spazio che s’apriva in mezzo alla confusione.

Non risi, ma sentii distintamente un paio delle mie povere costole che cedevano sotto lo sforzo di trattenermi.

— L’avranno considerato uno scherzo straordinario, — dissi, — no?

La mia opinione non gli piacque.

— Io credo, — disse, — di saper apprezzare l’umorismo, ma confesso di non riuscire a trovare assolutamente nulla che in un oltraggio simile somigli allo spirito. Si tratta d’un alto che indiscutibilmente denota un soggetto squilibrato: certe lesioni mentali si manifestano in forme svariatissime; il Duca di Ramfurline, al quale alludevo or ora, è sotto l’impressione (ve lo dico nella massima confidenza), d’essere un canarino; e oggi, quel parossismo che impressionò tanto Lord Alastair era dovuto al fatto che un cameriere negligente s’era dimenticato di portargli la sua mattutina zolletta di zucchero. Frequentissimi sono poi i casi di uomini che perseguitano donne per tagliar loro i capelli. E suppongo che il mio aggressore di stamattina soffra di una manìa simile a quest’ultima; speriamo che sia posto sotto il debito controllo prima che... Signor Wooster! qui c’è un gatto, poco lontano! Non nella strada! Il miagolio viene dalla camera vicina!

 

* * *

 

Stavolta dovetti ammettere che non c’era dubbio: dalla camera vicina, s’udiva distintissima la voce d’un gatto. Sonai il campanello, e comparve Jeeves, che si fermò con ara devota e rispettosa attendendo.

— Signore?

— Oh, Jeeves, — dissi, — ci sono dei gatti? come mai? ci sono dei gatti in casa?

— Soltanto tre, nella vostra camera da letto, signore.

— Che!?

— Gatti! nella sua camera da letto! — udii Sir Roderick bisbigliare, come persona offesa, mentre i suoi occhi mi si piantavano in faccia come un paio di pallottole.

— Come, soltanto tre nella mia camera?

— Quello nero, il soriano e il piccolo, color giallo, signore.

— Ma come mai?...

Girai rapidamente la tavola, precipitandomi verso la porta; disgraziatamente Sir Roderick aveva deciso di fare altrettanto, e la conseguenza fu che, sulla soglia, sbattemmo l’uno contro l’altro, con una violenza straordinaria. Egli si liberò da me bruscamente e afferrò un ombrello dall’attaccapanni.

— Indietro!! — urlò, agitando l’ombrello in aria; — indietro, signore! Sono armato!

Mi parve che fosse giunto il momento di mostrarmi mansueto.

— Sono dolentissimo d’esservi venuto addosso, — balbettai. — Non avrei voluto che ciò accadesse per nulla al mondo! Volevo soltanto andare a vedere come stavano le cose.

Parve un po’ più tranquillo e abbassò l’ombrello; ma, proprio in quel momento, cominciò nella mia camera un trambusto spaventoso: sembrava che tutti i gatti di Londra, assistiti dai rappresentanti di tutti i sobborghi dei dintorni, si fossero riuniti là dentro, per accomodare definitivamente ogni divergenza. Era una specie di piena orchestra di gatti.

— Questo strepito è insopportabile! — gridò Sir Roderick. — Non sento nemmeno quel che dico.

— Io credo, signore, — disse Jeeves rispettosamente, — che gli animali si siano un poco eccitati, avendo scoperto il pesce sotto il letto del signor Wooster.

Il vecchio cominciò a saltare.

— Un pesce? Ho udito bene?

— Signore!

— Avete detto che c’è un pesce sotto il letto del signor Wooster?

— Sì, signore.

Sir Roderick mandò un grugnito sordo e si slanciò a prendere cappello e bastone.

— Ve ne state andando? — dissi.

— Signor Wooster, me ne sto andando! preferisco passare il mio tempo in compagnia di persone meno eccentriche.

— Ma, dico... io debbo venir con voi. Sono sicuro che potrò spiegarvi tutto. Jeeves, il mio cappello!

Jeeves mi porse il cappello, lo presi e me lo misi.

— Santo cielo!

Era il colmo! Quel maledetto cappello aveva assolutamente inghiottito la mia testa, se comprendete ciò che voglio dire; già mentre stavo mettendolo, avevo provato l’impressione che fosse un po’ troppo largo, e non appena l’ebbi lasciato calare mi scese oltre le orecchie, come una specie di spegnicandele.

— Dico, questo non è il mio cappello!

— È il mio! — fece Sir Roderick, con la voce più glaciale e arrogante che abbia mai udito. — Il cappello che mi è stato rubato stamattina in automobile!

— Ma...

Suppongo che Napoleone o qualche personaggio simile si sarebbe mostrato all’altezza della situazione, ma per me era troppo. Non potei che restar là, immerso in una specie di torpore, stralunando gli occhi, mentre il vecchio strappava il cappello e si voltava verso Jeeves.

— Vorrei, buon uomo, — disse, — che mi accompagnaste un poco per la strada. Dovrei farvi alcune domande.

— Benissimo, signore.

— Ma... dico!... — cominciai io; ma egli se n’era andato, seguito da Jeeves. E in quel momento, nella camera da letto, s’intese un nuovo frastuono, più spaventoso che mai.

Ne avevo abbastanza; aver la camera piena di gatti è un po’ troppo, vi pare? Non sapevo come diavolo fossero entrati, ma ero ben risoluto a sciogliere la loro assemblea, e spalancai la porta. Vidi, in una fulminea visione, un centinaio di gatti di tutte le grossezze e di tutti i colori, che lottavano in mezzo alla camera; poi mi passaron tutti davanti, come saette, uscendo dalla porta; e ciò che rimase di tutto quel tumulto fu la testa d’un pesce sbranato che se ne stava là sul tappeto e mi guardava con gli occhi fissi e con un’aria austera, come se esigesse una spiegazione scritta o mo’ di scusa. C’era qualche cosa, nell’espressione di quella testa, che mi gelò; e mi ritirai in punta di piedi, chiudendo la porta; ma in quell’istante, urtai contro qualcuno.

— Oh, scusate! — dissi, e mi voltai; era l’individuo dalla faccia tutta rosa, il signor Non-so-chi, quello che avevo incontrato con Claude ed Eustace.

— Sono spiacentissimo di seccarvi, — egli disse, in tono di scusa; — ma quelli che ha incontrato ora per le scale non erano i miei gatti? Sembravano proprio i miei gatti.

— Sono usciti dalla mia camera da letto.

— Allora erano davvero i miei gatti, — egli disse tristemente. — Ah, che disdetta!

— Avevate messo i gatti nella mia camera?

— Il vostro uomo... come si chiama... m’ha detto abbastanza cortesemente che avrebbe potuto tenermeli fino alla partenza del mio treno. Ero venuto a prenderli. E ora se ne sono andati! Bene, non si può far nulla, temo. A ogni modo, prenderò il cappello e il pesce.

Quest’individuo cominciava a diventarmi antipatico.

— M’avete messo là voi anche quel maledetto pesce?

— No, quello l’ha messo Eustace; e il cappello era di Claude.

Mi lasciai cadere in una sedia.

— Dico, non potreste spiegarmi tutto ciò? — feci. L’altro mi guardò alquanto sorpreso.

— Ma non sapete tutto? Dico! — si fece tutto rosso in viso. — Se non sapete tutto, non mi meraviglio davvero che la cosa vi sembri strana.

— Veramente strana!

— Era per i «Cercatori», vedete.

— I «Cercatori»?

— Un Circolo abbastanza onorevole, fondato a Oxford, e a cui aneliamo di appartenere io e i vostri cugini; ma per essere eletti, vedete, bisogna rubar qualche cosa, per esempio l’elmetto d’un poliziotto, il martello d’una porta, o qualche cosa di simile. La sala del circolo è tutta decorata di oggetti consimili, e al banchetto annuale si fanno i discorsi, eccetera eccetera. È una cosa molto divertente! Ebbene, noi volevamo fare uno sforzo speciale, in grande stile, se mi comprendete, e così siam venuti a Londra, per vedere se si poteva trovare qualche cosa fuori dell’ordinario. Abbiamo avuto fortuna fin dal principio; vostro cugino Claude è riuscito a procurarsi un cappello abbastanza decente che ha strappato a volo da un’automobile che passava, e vostro cugino Eustace s’è impadronito d’un salmone, mentre io, in un’ora soltanto, ho fatto raccolta di tre gatti magnifici. Ma posso dirvi che eravamo veramente imbarazzati; la difficoltà era lo scoprire un luogo dove metter tutte queste cose, fino alla partenza del treno. Perché, vedete, si dà molto nell’occhio, a girar per Londra con un pesce e una famiglia di gatti. Ma Eustace si ricordò di voi e allora siam venuti tutti qui in carrozza; voi eravate fuori, ma il vostro uomo ci ha detto che andava benissimo. Quando vi abbiamo incontrato, avevate tanta fretta che non abbiamo avuto il tempo di spiegarvi. Ebbene, posso prendere il cappello, se non vi dispiace.

— Non c’è più.

— Non c’è più?

— L’individuo a cui lo avete tolto, per caso, era proprio lo stesso che ha fatto colazione qui, ed ora se l’è portato via.

— Caspita! Quel povero Claude ne sarà tutto sconvolto. Ebbene, e il salmone?

— Volete vedere che cosa ne resta? — Quando vide gli avanzi del pesce, rimase tutto avvilito.

— Temo che il Comitato non lo accetti, — disse tristemente. — Ne è rimasto un pochino, vi pare?

— Il resto l’han mangiato i gatti.

Egli sospirò profondamente.

— Né gatti, né pesce, né cappello. Ci siam tanto affaticati per nulla. È una disgrazia! E per colmo... mi dispiace di dover chiedere, ma... non potreste prestarmi un decino?

— Un decino? Per che farne?

— Bene, il fatto sta che devo cercare il modo di farmi garante per Claude ed Eustace che sono stati arrestati.

— Arrestati?

— Sì; vedete, tra l’eccitamento per rubare il cappello e il salmone e tutto il resto, e poi il fatto che ci siam concessa una colazione molto allegra, poverini! hanno perduto un po’ la testa e hanno tentato di rubare un autocarro. Una sciocchezza, naturalmente, perché, poi, non so come avrebbero potuto portarlo ad Oxford e presentarlo al Comitato. Ma non ci fu modo di farli ragionare, e quando il guidatore cominciò a inseguirli, levando un vero pandemonio, ci fu un po’ di confusione, e ora Claude ed Eustace languono più o meno alla stazione di polizia di Vine Street finche non vado a liberarli. Così, se poteste darmi un decino... oh, grazie! è molto generoso da parte vostra. Sarebbe stato troppo cattivo lasciarli là, non vi pare? Voglio dire, son tutti e due buoni ragazzi... li amano tutti all’Università; sono popolarissimi, poi!

— Credo bene! — dissi.

Quando Jeeves tornò, lo aspettavo, impaziente di parlargli.

— Ebbene?

— Sir Roderick m’ha fatto un’infinità di domande, signore, relativamente alle vostre abitudini di vita; ed io vi ho risposto con prudenza.

— Questo non m’importa; ciò che voglio sapere è perché non gli avete spiegato tutto fin da principio. Una sola vostra parola sarebbe bastata.

— Sì, signore.

— Ora se n’è andato con la convinzione ch’io sia un pazzo.

— Non sarei sorpreso, ripensando alla conversazione che ha avuto con me, se un’idea simile gli fosse entrata in testa.

Stavo per rispondergli, quando sonò il campanello del telefono. Jeeves corse all’apparecchio.

— No, signora, il signor Wooster non è in casa. No, signora, non so quando tornerà. No, signora, non ha lasciato detto nulla. Sì, signora, glielo dirò. — Riappese il ricevitore. — La signora Gregson, signore.

Zia Agatha! Me l’aspettavo; dal momento in cui la colazione famosa aveva preso una cattiva piega, la sua ombra m’era stata davanti agli occhi paurosamente.

— Lo sa? Lo sa già?

— Ho capito che sir Roderick le deve aver parlato per telefono, signore, e...

— Andranno a monte le mie nozze, no?

Jeeves tossì.

— La signora Gregson non m’ha confidato nulla, ma credo che sia accaduto qualche cosa di simile perché m’è parsa terribilmente agitata, signore.

È strano, ma ero rimasto talmente istupidito da tutti quegli avvenimenti di cui erano stati protagonisti il vecchio, i gatti, il pesce, il cappello, l’amico dalla faccia rosa e tutto il resto, che l’aspetto lieto della faccenda non m’era ancora balenato in mente. Per Giove! era come se mi fossi liberato il petto da una macina da mulino! Mandai un sospirone.

— Jeeves, — dissi, — credo che l’autore di tutto ciò siate voi!

— Signore?

— Io credo che siate stato voi a preparare fin dal principio un così lieto fine all’avventura.

— Ebbene, signore... Spenser, il maggiordomo della signora Gregson, che inavvertitamente ebbe occasione di sorprendere una parte della vostra conversazione, mentre facevate colazione laggiù, m’aveva accennato qualche particolare; e confesso che, quantunque possa parere ch’io mi prenda una certa libertà ad affermarlo, avevo speranza che accadesse qualche cosa che dovesse mandare a monte il fidanzamento. Secondo me, la signorina non era molto adatta per voi, signore.

— E poi, vi avrebbe mandato via su due piedi, cinque minuti dopo la cerimonia nuziale!

— Sì, signore. Spenser m’aveva informato che la signorina aveva espresso una simile intenzione. La signora Gregson desidera che andiate da lei immediatamente, signore.

— Ah, sì? che mi consigliate, Jeeves?

— Penso che un giretto all’estero vi farebbe molto bene, signore.

Scossi il capo. — Mi verrebbe dietro.

— No, se andate abbastanza lontano. Vi sono vapori eccellenti che partono ogni mercoledì e ogni sabato per New York.

— Jeeves, — dissi, — avete ragione, come sempre. Comprate i biglietti.

 

9

UNA LETTERA DI PRESENTAZIONE

Più vivo, e più mi appar veramente che metà delle seccature di questo mondo sia causata dalla spensieratezza e leggerezza con cui certi individui scrivono lettere di presentazione e le affidano ad altri che le presentino a terzi. È una di quelle cose che vi fanno rimpiangere di non esser vissuto nell’Età della Pietra.

Voglio dire... se un individuo in quei giorni avesse voluto dare a qualcuno una lettera di presentazione, avrebbe dovuto faticare circa un mese a incidere un grosso sasso, con la probabilità poi che l’altro individuo si stancasse talmente di portarselo dietro, sotto il sole, da lasciarlo cadere, dopo il primo chilometro. Ma, oggi, è così facile scriver lettere di presentazione, che non c’è nessuno che non lo faccia senza pensarci due volte, col risultato che qualche individuo perfettamente innocuo come me viene a trovarti in un pasticcio. Notate, quanto ho detto è ciò che ad potrebbe chiamare il risultato della mia più matura esperienza. Non occorre che dichiari che, fin dal principio, per così dire, quando Jeeves venne a dirmi, circa tre settimane dopo il mio sbarco in America, che un individuo chiamato Cyril Bassington-Bassington era arrivato ed io scopersi che aveva portato una lettera di presentazione per me, da parte di zia Àgatha... Dov’ero rimasto? Ah, sì. Non occorre che dichiari, stavo dicendo, che subito mi sentii sbalordito. Vedete, dopo i penosi eventi che avevano causata la mia partenza dall’Inghilterra, non mi aspettavo affatto da zia Agatha una lettera che, per così dire, potesse ottenere l’approvazione del censore. E fu per me una piacevole sorpresa aprir quella lettera e trovare ch’era abbastanza cortese... un po’ fredda, forse, in certi punti, ma, in complesso, tollerabilmente educata. Considerai subito la cosa come un buon segno, come un ramoscello d’olivo, se mi comprendete... o dovrei dire, piuttosto, come un fiore d’arancio? Ciò che intendo affermare è che il fatto che zia Agatha mi scriveva senza gratificarmi di epiteti, mi parve più o meno un passo avanti verso la pace. Ed io ero tutto per la pace, e alla svelta. Non voglio dire una parola contro New York, intendetemi; il luogo mi piaceva e me la passavo abbastanza bene; ma sta di fatto che un individuo che ha passato tutta la sua vita e Londra, prova, su una spiaggia straniera, una certa nostalgia; ed io desideravo veramente di tornarmene al mio comodo appartamento di Berkeley Street... il che non avrei potuto fare se zia Agatha non si fosse prima calmata e non avesse ingoiato l’affare Glossop. So che Londra è una grande città, ma, credetemi, non è della metà grande abbastanza per chi ci viva col pericolo d’essere inseguito da zia Agatha. Così sto per dire che quando arrivò quel tanghero di visitatore, lo guardai più o meno come una Colomba di Pace e fui tutto per lui.

A giudicar dagli orari dell’epoca, credo che arrivasse di mattina alle sette e quarantacinque, perché tale è la maledetta ora che si scaricano dal battello a New York. Lo accolse rispettosamente Jeeves, che gli disse di tornare tre ore più tardi, quando ci fosse stata qualche probabilità ch’io fossi sceso dal letto con un lieto benvenuto al nuovo giorno: il che fu molto delicato da parte di Jeeves, perché, per caso, in quel tempo c’era fra noi una certa freddezza, una specie di ostilità, in altre parole, a causa di certe preziosissime scarpe rosso porpora ch’io portavo suo malgrado; e un uomo da meno di lui avrebbe facilmente colto l’occasione di prendersi su di me una rivincita, coll’introdurre nella mia camera da letto Cyril, proprio nel momento in cui io non sarei riuscito a sopportare due minuti di conversazione nemmeno col mio più intimo amico, perché, fin che non ho preso il mio tè e non ho meditato un pochino sulla vita, assolutamente indisturbato, non mi sento proprio adatto a una conversazione allegra. Così, molto opportunamente, Jeeves mandò Cyril a prender l’aria del mattino e mi lasciò ignorare la sua esistenza finché non mi portò il suo biglietto da visita insieme col tè.

— Che sarebbe tutto ciò, Jeeves? — dissi, guardando fissamente il biglietto.

— Il signore è arrivato dall’Inghilterra, a quanto ho capito. Era già venuto a vedervi molto più presto, signore.

— Buon Dio, Jeeves! Non vorrete dire che il giorno spunta più presto di così?

— Voleva che vi dicessi che sarebbe tornato più tardi, signore.

— Non l’ho mai sentito nominare; e voi, Jeeves?

— Io conosco il nome di Bassington-Bassington, signore. Vi sono tre rami di questa famiglia... gli Shropshire Bassington-Bassington, gli Hampshire Bassington-Bassington e i Kent Bassington-Bassington.

— L’Inghilterra sembra abbastanza ben popolata di Bassington-Bassington.

— Sì, abbastanza, signore.

— Non c’è pericolo d’un’improvvisa estinzione della famiglia, vi pare?

— Presumibilmente no, signore.

— E questo che campione è?

— Non saprei, signore; lo conosco da troppo poco tempo.

— Volete scommettere due contro uno, Jeeves, giudicando da ciò che di lui avete visto, che questo individuo non è un tanghero o un’escrescenza?

— No, signore; non mi avventuro a darvi un vantaggio così generoso.

— Lo sapevo; ebbene, non ci resta che scoprire che razza di tanghero sia.

— Col tempo vedremo, signore. Il signore ha portato una lettera per voi.

— Ah, sì! — dissi, afferrando la missiva. Poi riconobbi la scrittura. — Jeeves, questa è di mia zia Àgatha.

— Davvero, signore!

— Non prendete la cosa così alla leggera. Non sapete che significa? Dice che vuol che mi occupi di questa escrescenza, mentre sta a New York. Per Giove! Jeeves, basta che noi ce lo ingraziamo un pochino, in modo che faccia un rapporto favorevole ai nostri superiori, e io credo che potrò tornare in Inghilterra a tempo per le corse di Goodwood. È tempo ormai che ogni persona per bene s’adoperi in favore della santa causa, Jeeves. Dobbiamo darci attorno per amicarcelo indubbiamente.

— Sì, signore.

— Non starà molto a New York, — dissi, dando un’altra occhiata alla lettera; — è diretto a Washington; a quanto pare, ci va per visitare i pezzi grossi, prima di entrare nel servizio diplomatico. Io credo che con una colazione e un paio di pranzi potremo guadagnarci la stima e l’affetto di questo ragazzo, vi pare?

— Penso che così dovrebbe bastare, signore.

— Questo è il più lieto avvenimento che mi sia accaduto, da quando ho lasciato l’Inghilterra. Mi sembra che il sole appaia finalmente fra le nubi.

— Possibilissimo, signore.

Cominciò a tirar fuori i miei abiti e ci fu un silenzio terribile.

— Non quelle scarpe, Jeeves, — dissi, inghiottendo un po’, ma sforzandomi di darmi un’aria naturale e indifferente. — Datemi le purpuree.

— Scusate, signore.

— Quelle purpuree.

— Benissimo, signore.

Le tirò fuori dal cassetto, come se fosse stato un vegetariano che stesse togliendo un bruco dal suo piatto d’insalata. Era penoso, ma, di quando in quando, bisognava affermare sé stessi. Assolutamente.

 

* * *

 

Dopo colazione mi aspettavo di veder Cyril, ma non lo vidi; così, verso l’una, m’avviai al Lambs Club, dove avevo un appuntamento con un certo Caffyn, di cui ero diventato amico, appena arrivato... George Caffyn, un individuo che scriveva commedie o che so io.

Durante il mio soggiorno a New York, m’ero fatti molti amici, giacché la città era piena di buoni ragazzi che mi tendevano la mano.

Caffyn giunse un po’ in ritardo, ma finalmente comparve e mi disse che aveva assistito a una recita della sua nuova commedia musicale Chiedetene al babbo.Eravamo appena entrati al caffè, quando arrivò il cameriere a dirmi che Jeeves voleva vedermi.

Jeeves era nella sala d’aspetto; quando entrai, diede un’occhiata penosa alle mie scarpe, poi volse lo sguardo altrove.

— Il signor Bassington-Bassington ha appena telefonato, signore.

— Oh!

— Sì, signore.

— Dov’è?

— In prigione, signore.

Mi appoggiai al muro; era una bella novità, per il pupillo di zia Agatha, proprio la prima mattina ch’era sotto l’ala della mia protezione.

— In prigione?

— Sì, signore; m’ha detto per telefono ch’è stato arrestato e che sarebbe lieto se il signore potesse andar da lui a fargli la garanzia.

— Arrestato? per che motivo?

— Non m’ha fatto nessuna confidenza in questo senso, signore.

— Questa è un po’ grossa, Jeeves.

— Precisamente, signore.

Con George, che, molto cortesemente, acconsentì ad accompagnarmi, prendemmo un’automobile pubblica. Alla stazione di polizia, rimanemmo seduti qualche tempo su una panca di legno, in specie di anticamera; finalmente comparve un poliziotto con Cyril.

— Oh! Dio! — dissi, — che c’è?

So per esperienza che un individuo ch’esce da una cella non ha un aspetto molto piacevole. Quando ero ad Oxford, ero regolarmente occupato a tirar fuori di prigione amici che non mancavano mai di lasciarsi prendere ogni sera e che rivedevo sempre con quell’aspetto di cadavere che fosse uscito allora allora dalla tomba. Cyril aveva un aspetto abbastanza consimile: aveva un occhio pesto, il colletto sgualcito e nel complesso non era affatto la rara bellezza di cui si scrive entusiasti a casa, e tanto meno a una zia Agatha. Era un individuo lungo e sottile, dai capelli biondi abbondanti e dai grossi occhi azzurri pallidi che lo facevano parere un pesce di specie rara.

— Ho avuto la vostra lettera, — dissi.

— Oh, siete Bertie Wooster?

— Assolutamente: e questo è il mio amico George Caffyn che scrive commedie o che so io.

Ci stringemmo tutti e tre la mano, e il poliziotto, dopo aver preso di sotto il sedile d’una sedia un pezzo di gomma masticabile che doveva esservi stato nascosto per ripararlo in un giorno di pioggia, se ne andò in un angolo e cominciò a contemplare l’infinito.

— Che maledetto paese! — disse Cyril.

— Oh, io non so, vedete... non so, — dissi io.

— Facciamo del nostro meglio, — disse George.

— George è americano... — spiegai. — Scrive commedie o che so io.

— Naturalmente, il paese non l’ho scoperto io, — disse George. — È stato Colombo, ma sarei lieto di prendere in considerazione qualsiasi miglioramento che voi voleste suggerire, e lo proporrei alle rispettive autorità.

— Ebbene, perché i poliziotti non vestono come si deve, a New York?

George dette un’occhiata al poliziotto della gomma masticabile.

— Non mi pare che manchi loro nulla, — disse.

— Voglio dire, perché non portano l’elmetto come quelli di Londra? perché sembrano postini? Questo non è bello, ingenera confusione... Me ne stavo pacifico sul marciapiede, guardando qua e là, quando un individuo che pareva un postino mi urtò nelle costole con una mazza. Perché mai un disgraziato dovrebbe far tremila miglia di strada, per venir qui a farsi picchiar le costole da un postino?

— La proposizione è buona, — disse George. — Che avete fatto?

— Oh, gli ho dato un buono spintone, sapete! Io ho il temperamento molto caldo, vedete. Tutti i Bassington-Bassingtons hanno un temperamento terribilmente caldo, vedete! E allora egli mi ha dato una botta nell’occhio e m’ha condotto in questa tana.

— Aggiusterò la cosa io, — dissi; e, tirato fuori il libretto degli assegni me ne andai per tentare di aprir le trattative, lasciando gli altri due a chiacchierare insieme. Non occorre che vi dica che ero un po’ turbato; avevo la fronte corrugata e mi pungeva un presentimento; finché quel disgraziato fosse rimasto a New York, io sarei stato responsabile di quanto avesse fatto; e, a dire il vero, non mi dava proprio l’impressione di essere uno di quegli uomini di cui un essere ragionevole si assumerebbe la responsabilità per più di tre minuti.

Quando fui giunto a casa la sera e Jeeves mi ebbe portato il bicchierino finale, riflettei a lungo: non potevo non sentire che questa visita in America stava per essere una di quelle che mettono alla prova l’animo dell’uomo. Tirai fuori la lettera di zia Agatha e la rilessi: non c’era dubbio: mia zia ci teneva a questo disgraziato, e considerava quasi una missione della mia vita ch’io dovessi tenerlo lontano, tutto il tempo che fosse rimasto a New York, da qualsiasi disgrazia. Gli ero gratissimo di aver preso subito tanto simpatia per un individuo così energico come era George Caffyn. Subito dopo che l’avevo liberato, egli e George se n’erano andati insieme, come due buoni fratelli, ad assistere alla recita pomeridiana di Chiedetene al babbo. E, dopo, a quanto credo, pranzarono insieme; mentre George lo teneva d’occhio, mi sentivo abbastanza tranquillo.

Ero giunto a questo punto delle mie meditazioni, quando entrò Jeeves con un telegramma, anzi, non un telegramma, un cablogramma... di zia Agatha, che diceva:

È giunto Cyril Bassington-Bassington? A nessun patto dev'essere presentato in Circoli Teatrali. Indispensabile. Segue lettera.

Lo lessi un paio di volte.

— Questo è strano, Jeeves!

— Sì, signore.

— Stranissimo e seccantissimo.

— Vi occorre altro stasera, signore?

Naturalmente, se Jeeves intendeva essere così antipatico, non c’era nulla da fare; la mia idea era stata di mostrargli il messaggio e di chiedergli il suo consiglio. Ma se egli se l’era presa talmente per quelle scarpe rosse, l’antico noblesse oblige dei Woosters non poteva abbassarsi al punto da scusarsi di fronte a lui; no, assolutamente. Così non ci badai.

— Niente più, grazie.

— Buona notte, signore.

— Buona notte.

Se ne andò, e io mi sedetti a pensare ancora. Avevo fatto tutti i più grandi sforzi mentali intorno a questo problema per circa mezz’ora, quando sentii squillare il campanello e andai alla porta. Era Cyril, abbastanza allegro.

— Sono entrato per un pochino, se permettete, — disse. — Ho qualche cosa d’importantissimo da dirvi.

Scivolò dentro il salotto, e quando l’ebbi raggiunto, dopo aver chiuso la porta, lo trovai che se ne stava leggendo il messaggio di zia Agatha e sogghignando stranamente.

— Forse non avrei dovuto leggerlo, — disse. — Ma m’è caduto l’occhio sul mio nome e l’ho letto senza pensare. Dico, Wooster, vecchio amico della mia gioventù, questo è abbastanza strano. Vi dispiace... una gocciola? Grazie infinite, eccetera eccetera. Sì sì, alquanto strano, considerando ciò che sto per dirvi; il buon Caffyn m’ha assegnato una particina nella sua commedia musicale Chiedetene al babbo. Una parte piccola, sapete, ma affatto conveniente. Mi sento imbarazzatissimo, sapete!

Bevve e continuò, senza accorgersi ch’io non saltavo affatto per la camera tutto contento.

— Sapete, ho sempre desiderato tanto calcar le scene!... ma il mio vecchio cerbero non ha mai voluto a nessun costo. Tutte le volte che gliene parlavo, andava su tutte le furie; si faceva scarlatto per la collera. Questa è la vera ragione, se volete saperla, perché son venuto quaggiù. Sapevo che stando a Londra, senza nessuno che favorisse i miei disegni e mi liberasse dal cerbero, non ci sarebbe stata nessuna probabilità di poter recitare, e così ho pensato di recarmi a Washington, ad allargare il mio spirito e la mia coltura. Non c’è nessuno, ora, che s’intrometta, e posso raggiunger lo scopo.

Cercai di farlo ragionare,

— Ma il vostro cerbero verrà a saperlo, una volta o l’altra.

— Benissimo, ma allora io sarò già una stella del teatro, mentre egli non avrà più gambe da stare in piedi.

— Ne avrà per prendermi a calci, temo.

— Perché?... che c’entrate voi? Che ci avete a che far voi?

— Vi ho presentato George Caffyn.

— Sì, è vero, vecchio mio; l’avevo dimenticato; avrei dovuto ringraziarvi prima. Domattina per tempo c’è una recita della commedia ed io debbo andarci. Strano che si chiami proprio Chiedetene al babbo la prima commedia in cui recito! Capite, eh? che cosa voglio dire? Ebbene, addio.

— Addio, — dissi tristemente. Appena egli fu uscito, mi precipitai al telefono e chiamai George Caffyn.

— Dico, George, che è quest’affare di Cyril Bassington-Bassington?

— Che ha?

— Mi dice che gli avete affidato una parte nella vostra commedia.

— Sì, sono due o tre righe.

— Ma mi son già arrivati da casa settantasette telegrammi che dicono di non lasciarlo recitare a nessun costo!

— Mi dispiace, ma Cyril è proprio il tipo che mi occorre per quella parte; non ha che ad esser sé stesso.

— George, vecchio mio, è una piccola disgrazia per me: mia zia Agatha ha mandato qui questo disgraziato con una lettera di presentazione per me e mi terrà responsabile.

— Sarete diseredato?

— Non si tratta di denaro, ma... naturalmente voi non avete mai conosciuto mia zia Agatha, quindi mi è un po’ difficile spiegarvi... ma vi dico io ch’è una specie di vampiro umano e che me ne farà passar di tutti i colori, quando tornerò in Inghilterra: è una di quelle donne che son capaci di venirmi a seccare ancor prima di colazione, sapete!

— Ebbene, allora non tornate in Inghilterra: restate qui fin che vi faranno Presidente.

— Ma, George, caro mio...

— Buona notte!

— Ma dico! George, vecchio mio!

— Non avete inteso le mie ultime parole; vi ho detto «buona notte». Voi, ricco buontempone, non avete bisogno d’andare a dormire, ma io domattina mi debbo alzare presto ed essere sveglio e pronto. Dio vi benedica!

Mi pareva di non aver più nessun amico al mondo; mi sentivo così disfatto, che decisi d’andare a picchiare alla porta di Jeeves. La cosa, veramente, non era regolare, ma mi sembrava ormai che fosse giunto il momento, se esisteva un buon uomo, che venisse ad aiutarmi; e sarebbe stato bello, da parte di Jeeves, accorrere dal suo giovane padrone, anche dovendo interrompere il sonno.

Jeeves si fece sulla porta con una veste da camera scura.

— Signore?

— Sono spiacentissimo di svegliarvi, Jeeves, ma ho delle seccature terribili.

— Non dormivo, signore; è mia abitudine, quando mi ritiro, leggere qualche pagina d’un libro istruttivo.

— Benissimo! Ciò che voglio dire è che se avete finito di pascere il vostro cervello, è probabilmente il momento giusto per occuparvi dei miei imbarazzi. Jeeves, il signor Bassington-Bassington sta per recitare.

— Davvero, signore?

— Ah! la cosa non vi sbalordisce? Non capite l’importanza di ciò, ecco il punto! Tutta la sua famiglia non vuol saperne affatto, e se non riusciamo a fargli cambiare idea ci saranno noie senza fine. E ciò ch’è peggio, vedete, zia Agatha me ne dirà di tutti i colori.

— Capisco, signore.

— Ebbene, non potete pensar qualche mezzo per impedirglielo?

— Al momento no, signore, lo confesso.

— Ebbene, pensateci un poco.

— Prenderò la cosa in considerazione attentissimamente, signore. Ci sarà altro, stasera?

— Spero di no! M’è già accaduto quanto posso sopportare.

— Benissimo, signore.

E se ne andò.

  

10

LE SCARPE ROSSE FANNO UN CUORE FELICE

La parte che George aveva scritto per Cyril occupava circa due pagine dattilografate; ma sembrava la parte di Amleto, tanto quella povera illusa testa di spillo vi si affaticava intorno! Credo di averlo udito leggere quelle due o tre righe almeno una dozzina di volte, soltanto i due primi giorni; doveva esser convinto che, per tutto ciò, io non provassi che un’ammirazione entusiastica e che gli dovessi largire tutto il mio aiuto e la mia simpatia; mentre invece, tra il cercar di immaginarmi come zia Agatha avrebbe preso la cosa, tra il dovermi svegliare ogni altra notte ad ore piccole, per dare la mia opinione su qualche novità che il disgraziato aveva scoperto nella sua parte, le mie condizioni fisiche peggioravano ogni giorno. E frattanto, Jeeves continuava a stare alla larga e a trattarmi con freddezza a causa delle scarpe rosse. Era proprio quanto occorreva per far invecchiare un uomo anzi tempo e avvelenargli la sua giovanile joie-de-vivre.

Frattanto arrivò una lettera di zia Agatha. C’erano almeno sei pagine per render giustizia ai sentimenti del padre di Cyril, relativamente alle sue velleità teatrali, e circa altre sei per darmi un’idea di ciò ch’ella avrebbe detto, pensato e fatto, s’io non fossi riuscito, mentr’egli era in America, a tenerlo lontano da ogni maligna influenza. La lettera giunse colla posta del pomeriggio e mi mise in corpo la ferma convinzione che non era una cosa che dovevo tener per me solo; non perdetti nemmeno il tempo di sonare il campanello: corsi in cucina a chiamare Jeeves, ma capitai in mezzo a un ricevimento a base di tè. Seduto davanti alla tavola, stava un individuo dall’aria depressa, che avrebbe potuto essere un cameriere o qualche cosa di simile, e un ragazzo in costume Norfolk. Il cameriere stava bevendo un whisky and soda,mentre il ragazzo sembrava seriamente impegnato intorno a un pezzo di panettone e a un piatto di marmellata.

— Ehi, ehi! — dissi, — come? — e mi parve che non ci fosse altro da dire.

Il garzoncello mi guardò torvo, di sopra il panettone; può darsi che gli riuscissi simpatico a prima vista, ma ebbi l’impressione che non pensasse molto bene di me e che fosse convinto che non saremmo mai diventati amici. Sentivo, in certo modo, che per lui non valevo molto più d’un coniglio gallese.

— Come vi chiamate? — mi chiese.

— Come mi chiamo? Wooster, se non vi dispiace.

— Il mio babbo è più ricco di voi!

Parve che non avesse altro da dirmi; infatti, detto ciò, si rimise all’opera intorno al panettone, mentre io mi rivolgevo a Jeeves.

— Dico, Jeeves, siete libero un minuto? Dovrei farvi vedere una cosa.

— Benissimo, signore.

Ci dirigemmo verso il salotto.

— Chi è quel vostro piccolo amico, Jeeves? Sidney Raggio-di-Sole?

— Il signorino?

— Lo descrivete un po’ liberamente, ma capisco che cosa volete dire.

— Spero che non considererete un’eccessiva libertà, signore... l’averlo invitato?

— No, affatto; se avete creduto che ciò potesse farvi passare un bel pomeriggio, fate pure.

— Ho incontrato per caso il signorino che faceva una passeggiata col cameriere di suo padre, signore, col quale sono molto amico e mi sono avventurato di invitarli tutti e due a venirmi a trovare.

— Bene, non importa, Jeeves. Leggete questa lettera.

Jeeves la lesse tutta, senz’altro.

— È una vera seccatura, signore, — fu tutto quanto trovò da dire.

— Che dobbiamo fare?

— Il tempo ci porterà una soluzione, signore.

— Altrimenti non sarà così, eh?

— Verissimo, signore.

Eravamo giunti a questa conclusione, quando sonò il campanello della porta; Jeeves corse ad aprire ed ecco entrare Cyril, tutto buona cera e allegria.

— Dico, Wooster, vecchio mio, — mi gridò, — ho bisogno del vostro consiglio. Voi conoscete la mia parte. Ebbene, come pensate che debba vestirmi? Voglio dire, la scena del primo atto si svolge in un albergo, alle tre circa del pomeriggio. Come vi pare che dovrei vestirmi?

Non mi sentivo affatto disposto per una discussione del genere.

— Fareste meglio a consultare Jeeves, — gli dissi.

— Una buonissima e convenientissima idea. Dov’è Jeeves?

— Tornato in cucina, suppongo.

— Picchierò il tasto giusto, credete? Sì. No?

— Benissimo!

Jeeves entrò quieto quieto.

— Oh, dico, Jeeves, — cominciò Cyril, — volevo proprio dirvi una parolina. È così, eh?... Ehi là, chi è costui?

Allora m’accorsi che il ragazzo aveva seguito Jeeves e s’era fermato accanto alla porta, guardando Cyril come se sentisse che quanto di peggio poteva sospettare era accaduto. Ci fu qualche minuto di silenzio, durante il quale il ragazzo rimase là, fermo, guadando Cyril, come se lo bevesse; poi pronunciò il suo verdetto:

— Che faccia insipida!

Il ragazzo, che, manifestamente, aveva imparato sulle ginocchia della madre a dir la verità, cercò di spiegarsi meglio.

— Avete una faccia insipida!

Parlava come se Cyril meritasse più compassione che biasimo; il che mi fece pensare che dovesse essere abbastanza più intelligente di lui. Non occorre vi dica che, ogni volta che guardavo la faccia di Cyril, pensavo ch’egli non dovesse apparir tale, del tutto senza colpa. Cominciai a sentire per quel ragazzo un po’ di simpatia; davvero, sapete; la sua conversazione mi piaceva.

A quanto parve, Cyril dovette riflettere un minuto o due per afferrar veramente l’entità della cosa, e prima di potersi accorgere che il sangue dei Bassington-Bassington cominciava a scaldarsi.

— Accidenti, — disse, — v’insegnerò io!

— Io non vorrei avere una faccia simile, — continuò il ragazzo, con la massima serietà, — nemmeno se mi deste un milione di dollari. — Rifletté un momento, poi corresse. — Nemmeno due milioni, — soggiunse.

Quello che accadde poi, non potrei esattamente ridire; ma so che per qualche minuto accadde qualche cosa di straordinario. Credo che Cyril si fosse slanciato sul ragazzo... in ogni modo, l’aria mi parve piena di braccia, di gambe e d’altri oggetti. Qualche cosa sbatté contro il panciotto di Wooster, all’altezza del terzo bottone, e caddi su un divano, disinteressandomi per un momento dello spettacolo. Quando fui in piedi di nuovo, m’accorsi che Jeeves e il ragazzo s’erano ritirati e che Cyril stava in mezzo alla stanza, digrignando i denti.

— Chi è quello spaventoso mostriciattolo, Wooster?

— Non so; non l’ho mai visto, prima di oggi.

— Gli ho dato un paio di buoni buffetti, prima che uscisse. Dico, Wooster, quel marmocchio l’ha detta grossa: ha strillato, m’è parso, che Jeeves gli aveva promesso un dollaro se m’avesse chiamato... ehm... così come m’ha chiamato!...

La cosa mi seccò abbastanza.

— Perché avrebbe fatto questo, Jeeves?

— Sembra strano anche a me.

— Che senso avrebbe?

— Ma! non capisco neanch’io.

— Voglio dire... a Jeeves non importa nulla che faccia abbiate.

— No, — disse Cyril; mi parve che parlasse con una certa freddezza, chi sa perché. — Ebbene, me ne vado; addio.

— Salute!

Circa una settimana dopo questo piccolo episodio, George Caffyn venne a trovarmi e mi chiese se volevo andare ad assistere a una recita della sua commedia Chiedetene al babbo; a quanto pareva, doveva essere rappresentata fuori di città, a Schenectady, il lunedì seguente, e doveva essere una specie di prova per la recita di gala. La prova d’una recita di gala, mi spiegò George, era lo stesso che una recita di gala regolare, in quanto doveva apparire qualche cosa di straordinario e durare fino alle ore piccole; inoltre, doveva essere più divertente della stessa recita, perché non avrebbero badato a perder tempo e quindi tutti avrebbero potuto sfogare i loro sentimenti, liberi di fare quante interruzioni volessero, per passare il tempo allegramente.

I manifesti dicevano che la commedia avrebbe cominciato alle otto; cosicché io non mi mostrai che alle dieci e quindici, per non aver troppo da aspettare, prima che cominciasse. Durava ancora la rivista dei costumi; George stava sulla scena, parlando con un individuo in maniche di camicia c con un altro uomo assai grasso che portava occhiali enormi e che aveva una testa pelata che sembrava la cupola d’una cattedrale. Sapevo che quest’ultimo era Blumenfield, il direttore. Feci a George un cenno di saluto e andai a sedermi su una poltrona, dietro la scena, in modo da esser fuori del campo, quando cominciasse il combattimento. Immediatamente, George scese dalla scena e mi raggiunse, e quasi subito dopo calò il sipario.

Il pianista picchiò due battute sincere e il sipario si rialzò. Non ricordo bene che cosa stesse facendo in quel punto la compagnia di Chiedetene al babbo; so che mi parve che se la sarebbe cavata abbastanza bene, anche senza l’aiuto di Cyril. Dapprima fui alquanto imbarazzato; voglio dire, giudicando da tutte le preoccupazioni di Cyril e da quel suo ripetere la parte e quel suo esporre tante opinioni su ciò che avrebbe dovuto fare e non fare, credo che m’ero formato l’opinione ch’egli dovesse essere quasi la spina dorsale della rappresentazione e che il resto della compagnia non avesse a far altro che servire da riempitivo quando egli mancasse dalla scena. Aspettai per circa mezz’ora di vederlo entrare, quando a un tratto m’accorsi ch’era già sulla scena da mezz’ora; infatti, doveva essere proprio quel brutto coso che ora si stava inchinando verso una palma piantata in un vaso, cercando di mostrarsi intelligente, mentre l’eroina cantava una canzone d’amore che mi parve qualche cosa che sapevo ma che per il momento sfuggiva alla mia memoria. Dopo il secondo ritornello, lo vidi cominciare a danzare insieme con una dozzina di altri individui soprannaturali... uno spettacolo abbastanza penoso per uno che aveva davanti continuamente la visione di zia Agatha su tutte le furie e del vecchio Bassington-Bassington in procinto di mettersi le più chiodate scarpe. Assolutamente!

La danza era appena finita e Cyril e i suoi colleghi s’erano involati, quando, nell’oscurità, alla mia destra una voce parlò.

— Babbo.

Il vecchio Blumenfield batté le mani e l’eroe ch’era stato fin allora sulla scena a dar prova della sua bravura, se ne andò. Guardai attentamente nel buio; era il piccolo amico lentigginoso di Jeeves, che ora stava scendendo impettito tra le poltrone della platea, con le mani in tasca, come se fosse il padrone del luogo. Un’aria di rispettosa attenzione sembrava diffusa in tutto il teatro.

— Babbo, — fece il garzoncello, — quel numero non è buono. — Il vecchio Blumenfield si chinò ad ascoltarlo premurosamente.

— Non ti piace, caro?

— Mi fa pena.

— Hai perfettamente ragione.

— Ci vorrebbe qualche cosa di vivace. Qualche cosa con un po’ di jazz.

— Benissimo, caro. Lo farò notare; benissimo; avanti.

Mi volsi a George che stava mugolando fra sé stancamente.

— Dico, George, vecchio mio, chi diavolo è mai quel marmocchio?

George brontolò cupamente, come se la cosa gli paresse un po’ troppo grossa:

— Non sapevo che fosse venuto. È il figlio di Blumenfield. Ora sarà un inferno.

— Ma fa sempre così?

— Sempre!

— Ma... il vecchio Blumenfield... perché gli dà ascolto?

— Ma! nessuno lo sa; può darsi che si tratti di puro amor paterno o che lo consideri come un porta-fortuna. Per conto mio, penso che attribuisca al marmocchio esattamente tanta intelligenza quanta alla media degli uditori e che sia convinto che ciò che piace a lui piacerà in generale a tutto il pubblico Mentre al contrario ciò che non gli piace sarà troppo noioso per chiunque. Quel ragazzo è una peste, un canchero, una tazza di veleno; meriterebbe d’essere strangolato!

La recita continuò; l’eroe perdette un pochino le staffe; e tra il direttore e una voce chiamata Bill che parlava dal tetto, discutendo sul luogo dove in quel momento dovevano trovarsi «quelli color d’ambra», si accese una piccola disputa. Poi la recita continuò normalmente, finché giunse il momento in cui doveva aver luogo la scena di Cyril.

Ero ancora un po’ diffidente della compagnia, ma ero convinto che Cyril doveva essere una specie di Pari inglese, venuto in America senza dubbio per le migliori ragioni del mondo. Intanto egli non aveva che due righe da dire; una era: «Oh, dico!», l’altra: «Sì, per Giove!»; ma, dalla lettura che gliene avevo udito fare, mi parve d’esser convinto che abbastanza presto si sarebbe rivelato. Mi sedetti di nuovo e attesi.

Cinque minuti più tardi, comparve; durante quei cinque minuti era scoppiata una piccola tempesta: la voce e il direttore di scena s’erano scambiate altre amorose espressioni... stavolta intorno agli «azzurri» che non si trovavano, o a qualche cosa di simile. E quasi subito dopo, ci fu un piccolo dissapore, a causa d’un vaso di fiori caduto dal davanzale d’una finestra, che per poco non aveva rotto la zucca all’eroe; l’atmosfera era quindi più o meno elettrizzata, quando Cyril, che fino allora aveva atteso ansiosamente dietro la scena, comparve per recitare il suo pezzo forte. L’eroina aveva appena detto qualche cosa che non ricordo, e tutto il coro, con Cyril alla testa, aveva cominciato a circondarla senza un secondo di tregua, come fanno sempre i coristi col personaggio centrale.

Le prime parole di Cyril erano: «Oh, non dovete dir così, davvero, sapete!», e mi parve che le parole uscissero dalla sua laringe con abbastanza forza e je-ne-sais-quoi. Ma, per Giove! prima che l’eroina avesse il tempo di rispondere, il nostro piccolo amico lentigginoso s’era già alzato a protestare.

— Babbo!

— Sì, caro.

— Quello non va.

— Quale, caro?

— Quello dalla faccia insipida.

— Ma hanno tutti la faccia insipida, caro!

Il ragazzo parve trovar giusta l’osservazione e particolareggiò meglio.

— Quello brutto.

— Quale brutto? Quello? — disse il vecchio Blumenfield, indicando Cyril.

— Sì, recita da cane.

— Lo pensavo anch’io.

— È un mattone!

— Hai completamente ragione, ragazzo mio; l’ho notato anch’io, da qualche tempo.

Mentre facevano queste osservazioni, Cyril era rimasto a bocca aperta; a questo punto, venne verso la ribalta. Anche da dove ero seduto, potevo veder benissimo che quelle aspre parole avevano colpito vivamente l’orgoglio della famiglia Bassington-Bassington. Il disgraziato cominciò a diventar rosso dagli orecchi, poi il naso, poi le guance, finche, in un quarto di minuto, apparve come un’esplosione di conserva di pomodoro.

— Che diavolo volete dire?

— Che diavolo volete dire voi? — gridò il vecchio Blumenfield. — Non gridate tanto, dalla ribalta!

— Ho tutte le buone intenzioni di venir giù, e picchiar bene quel mostriciattolo!

— Che?!

— Tutte le buone intenzioni!

Il vecchio Blumenfield si gonfiò come una camera d’aria d’automobile; era più tondo che mai.

— Sentite signor... non conosco il vostro riverito nome...

— Il mio nome è Bassington-Bassington; e i Bassington-Bassington non sono avvezzi...

Il vecchio Blumenfield, in poche parole gli fece capire abbastanza bene che cosa pensasse dei Bassington-Bassington e a che cosa non fossero avvezzi. Tutta la compagnia gli si era adunata intorno ad ascoltare; si vedevano faccie comparire dovunque tra le quinte e far capolino dietro gli alberi.

— Avete trovato da far con mio padre! — gridò il ragazzo, scotendo la testa con aria di rimprovero, verso Cyril.

— Non intendo aver nulla a che fare con voi! — gridò Cyril.

— Come? — mugghiò il vecchio Blumenfield. — Non comprendete che questo ragazzo è mio

— Sì, — disse Cyril, — e avete entrambi la mia simpatia!

— Siete licenziato! — urlò il vecchio Blumenfield, gonfiandosi ancor più. — Fuori dal mio teatro!

 

* * *

 

Circa le dieci e mezza del mattino dopo, nel momento che finivo di lubrificare il mio stomaco con una buona tazza di tè, Jeeves entrò nella mia camera a dirmi che Cyril m’aspettava in salotto.

— Come vi sembra, Jeeves?

— Signore?

— Come vi sembra il signor Bassington-Bassington?

— Non spetta a me, signore, criticare le peculiarità facciali dei vostri amici.

— Non intendo questo; voglio dire, vi sembra abbattuto?

— Non in modo notevole, signore; è abbastanza tranquillo.

— Strano!

— Signore?

— Nulla; fatelo entrare, vi prego.

Sto per dire che m’aspettavo di scorgere in Cyril qualche traccia più evidente della battaglia della sera avanti. M’aspettavo di vedere un’anima affranta, ma mi accorsi subito che aveva il suo aspetto solito e ch’era abbastanza allegro.

— Ehi Wooster, vecchio mio!

— Caro!

— Sono entrato semplicemente a dirvi addio.

— Addio?

— Sì, parto tra un’ora per Washington. — Sedette sul letto e continuò: — Sapete, Wooster, vecchio mio, penso che sia tutto finito; e, in realtà, non deve sembrar bello al mio vecchio padre ch’io reciti in teatro. Che ne pensate?

— Capisco ciò che volete dire.

— Voglio dire, egli m’ha mandato qui per allargare la mia coltura e perfezionarmi nella lingua, e non posso non pensare che sarebbe un po’ dura, per quel povero vecchio, ch’io gli giocassi il tiro di perdere il tempo col teatro. Non so se mi comprendiate, ma ciò che voglio dire è che si tratta d’un caso di coscienza.

— E potete andarvene, senza guastar tutto?

— Oh, sì! la faccenda è già aggiustata; ho spiegato tutto al vecchio Blumenfield ed egli ha compreso perfettamente la mia posizione. Naturalmente, è addoloratissimo di perdermi, e ha detto che non saprà come riempire il vuoto ch’io lascio, eccetera, eccetera; ma, dopo tutto, anche se lo lascio in un certo imbarazzo, io penso che ho tutto il diritto di rifiutare la mia parte, non vi pare?

— Oh, assolutamente!

— Sapevo che l’avreste pensata come me. Ebbene, io devo partire. Sono lietissimo d’avervi visto. Addio.

— Addio!

E se n’andò, — dopo aver raccontato tante favole! — con l’espressione ingenua d’un bambino. Sonai per chiamare Jeeves. Dalla notte avanti, non avevo fatto che tormentarmi, ma, alfine, il cielo si era rischiarato.

— Jeeves!

— Signore?

— Siete stato voi a insegnare a quel marmocchio dalla faccia sporca di marmellata a prendere in giro il signor Bassington-Bassington?

— Signore?

— Oh, capite bene ciò che voglio dire. Gli avete detto voi di fare in modo che il signor Bassington-Bassington fosse licenziato dalla compagnia di Chiedetene al babbo?

— Oh, non mi prenderei certo una libertà simile, signore! — E cominciò a prepararmi le vesti. — Può darsi che master Blumenfield abbia compreso, da qualche parola sfuggitami per caso, ch’io consideravo il signor Bassington-Bassington poco adatto per la scena.

— Dico, Jeeves, sapete che siete una meraviglia?

— Mi sforzo di compiacervi, signore.

— Vi sono straordinariamente obbligato, se intendete ciò che voglio dire. Zia Agatha avrebbe avuto almeno sedici o diciassette deliqui, se non foste riuscito a evitare una disgrazia simile.

— Infatti, avevo pensato che ci sarebbe stato qualche attrito e qualche dissapore, signore. Vi tiro fuori il vestito turchino con la righetta rossa, signore? Penso che vi stia benissimo.

 

* * *

 

È strano, ma avevo già finito di far colazione ed ero giunto fino all’ascensore, prima di ricordarmi che cosa avevo intenzione di fare, per ricompensare Jeeves d’essersi portato così bene in quell’occasione. Ne avevo il cuore affranto... ma avevo deciso di fare a modo del mio cameriere e di non portar più quelle benedette scarpe rosse. Dopo tutto, ci sono occasioni in cui si deve pure far qualche sacrificio. Stavo per tornare indietro a dargli la buona notizia, quando vidi che l’ascensore era pronto, così pensai di rimandarla al mio ritorno.

Il variopinto ragazzo addetto all’ascensore mi guardò, mentre entravo, con uno sguardo pieno di devozione.

— Debbo ringraziarvi della vostra gentilezza, signore, — disse.

— Eh? Come?

;— Il signor Jeeves m’ha dato queste scarpe rosse, come gli avete detto voi. Vi ringrazio infinitamente, signore!

Gli guardai i piedi: il disgraziato, dalla caviglia in giù, era tutto uno splendore purpureo; non mi ricordo di averlo mai visto uno sfarzo simile.

— Oh! Ah! per niente affatto! benissimo! sono felice che vi piacciano tanto! — dissi.

Ebbene, voglio dire... che ve ne pare? Assolutamente!

  

11

IL «COLLEGA» BINGO

La faccenda cominciò al Parco, alla fine dell’Arco di Marmo, dove, ogni domenica nel pomeriggio, si riuniscono esseri di tutte le specie che salgono sulle casse di sapone a far discorsi. Non è facile trovarmi laggiù, ma quel sabato, dopo il mio ritorno alla vecchia metropoli, accadde proprio così; dovevo fare una visita a Manchester Square, e mentre facevo due passi in quei paraggi, per non arrivar troppo presto, mi trovai laggiù.

Ora che l’Empire non è più il luogo che era, io penso sempre che il Parco, la domenica, è proprio il cuore di Londra... se comprendete ciò che voglio dire: voglio dire... quello è proprio il luogo che fa sentire all’esule rimpatriato ch’è tornato veramente in patria. Dopo ciò che si potrebbe chiamare il mio forzato soggiorno a New York, sto per dire che laggiù mi sentivo abbastanza a mio agio; mi faceva bene ascoltare quella gente che chiacchierava, e rendermi conto che tutto era finito felicemente e che Bertie era proprio tornato a casa.

All’ estremità dell’ affollamento solito, dalla parte più lontana a me, una combriccola di individui muniti d’un gran cappellone, stava cominciando una seduta all’aria aperta; un po’ più vicino, un ateo sproloquiava con un certo vigore; mentre, davanti a me, stava un gruppo di pensatori, con una bandiera su cui era scritto: «Araldi dell’Aurora Rossa»; al mio apparire, uno degli Araldi, un individuo barbuto, munito d’un cappello ridicolo e vestito d’un abito di flanella diagonale, si stava sfogando contro i Ricchi Fannulloni, con tanto vigore e una tal prodigalità di linguaggio, che mi fermai un momento per ascoltare. Mentre stavo là, qualcuno mi rivolse la parola.

— Il signor Wooster?

Era un individuo tarchiato, che, per qualche secondo non riconobbi. Alfine m’accorsi ch’era lo zio di Bingo Little, quello che m’aveva invitato a colazione, nel tempo che Bingo era innamorato della cameriera di Piccadilly. Non c’è da meravigliarsi che a prima vista non l’avessi riconosciuto: l’ultima volta che l’avevo visto m’era parso un vecchio signore flaccido... l’avevo visto scendere a colazione, se ben mi ricordo, in pantofole, e con una giacca di velluto... mentre, ora, definirlo semplicemente «elegante» sarebbe stato troppo poco. Splendeva veramente nel sole con un cappello di seta, in giacca da passeggio, in ghette celestine e calzoni all’ultima moda; elegantissimo!

— Oh, ehi! — feci. — State benissimo!

— Godo perfetta salute, grazie. E voi?

— Sto perfettamente bene; sono appena tornato dall’America.

— Ah! a raccogliere un po’ di colore locale per uno dei vostri deliziosi romanzi?

— Eh? — Dovetti pensare un poco, prima di comprendere ciò che volesse dire; poi mi tornò in mente l’affare di Rosie M. Banks. — Oh, no, — dissi. — Sentivo soltanto il bisogno di cambiare un po’... Avete visto Bingo, recentemente? — chiesi subito, desideroso di sviare la conversazione dalla mia esistenza letteraria.

— Bingo?

— Vostro nipote.

— Oh, Richard? No, non lo vedo da qualche tempo. Dacché mi sono sposato, le nostre relazioni si sono un po’ raffreddate.

— Oh, mi dispiace! Così vi siete sposato, da quando vi ho visto? Sta bene la signora Little?

— Sì, mia moglie sta bene... ma... ehm... non signora Little. Dopo l’ultima volta che ci siamo visti, un gentile Sovrano s’è compiaciuto di darmi un segno tangibile del suo favore, col farmi... ehm... col farmi Pari. Nell’ultima Lista d’Onore, son divenuto Lord Bittlesham.

— Per Giove! Davvero? Allora, le più cordiali congratulazioni! Proprio quel che ci voleva, no? Lord Bittlesham? — dissi. — Ma, allora, voi siete il proprietario di Ocean Breeze!

— Sì; il matrimonio ha allargato il mio orizzonte, in molte direzioni: mia moglie s’interessa di corse di cavalli e ora tengo una piccola scuderia. Sento dire che Ocean Breeze è ben quotato nell’opinione pubblica, se questa è la vera espressione, per la corsa che avrà luogo alla fine del mese a Goodwood, la tenuta del Duca di Richmond a Sussex.

— Ah! la coppa Goodwood! Già! Ho puntato un occhio della testa sul vostro cavallo.

— Davvero? Ebbene, io penso che quella bestia giustificherà la vostra fiducia. Personalmente, me ne intendo poco, ma mia moglie mi dice che le persone che se ne intendono lo giudicano proprio ciò che credo si dica uno snip.

A questo punto, m’accorsi improvvisamente che l’uditorio stava guardando verso di noi con un certo interesse, e vidi che l’individuo dalla barba indicava le nostre persone.

— Sì, guardateli! guardateli bene! — gridava il barbuto, con una voce che copriva quella dell’altro torrente inesausto di eloquenza e di tutti gli altri. — Eccovi due membri tipici della classe che non fa che calpestare i poveri da secoli. Fannulloni! Parassiti! Guardate quello alto e magro con quella faccia da portafortuna. Credete che abbia mai fatto un giorno di lavoro onesto, in tutta la sua vita? No! un predone, un fannullone che succhia il sangue dei poveri! E ci scommetto che deve ancora pagare quei calzoni al suo sarto!

Ebbi l’impressione che intendessero parlare di me, e non ero molto contento; il vecchio Bittlesham, invece, si divertiva.

— Hanno una certa potenza d’espressione quegli individui, — chiocciò. — Un’eloquenza tagliente.

— E quello grosso! — continuò l’oratore. — Guardate anche quello; non sapete chi è? È Lord Bittlesham, uno dei peggiori! che ha mai fatto, in tutta la sua vita, se non mangiare come un lupo quattro volte al giorno? Il suo Dio è la pancia, a cui non fa che prodigar sacrifici di vivande cotte. Se gli aprite lo stomaco in questo momento gli potete trovare in corpo abbastanza da far da mangiare per una settimana a dieci famiglie d’operai!

— Si esprime abbastanza bene, — dissi a mia volta; ma il vecchio non pareva molto soddisfatto; era divenuto tutto purpureo e lucente e borbottava come una pentola in ebollizione.

— Andiamocene, signor Wooster, — disse. — Io sono certamente l’ultimo ad oppormi alla libertà di parola, ma non posso ascoltar più oltre un così volgare abuso di tal diritto.

Ce n’andammo tranquilli e dignitosi, mentre l’oratore ci inseguiva con le allusioni, senza tregua. La cosa era imbarazzantissima.

 

* * *

 

Il giorno seguente, andai al circolo e trovai Bingo nel salotto.

— Ehi, Bingo, — feci, dirigendomi alla sua volta, pieno di bonomia, perché ero lietissimo di vederlo. — Come va?

— Si tira avanti.

— Ho visto vostro zio, ieri.

Bingo schiuse un sogghigno che gli tagliò la faccia in due.

— Lo so bene, fannullone! Ebbene, sedetevi, vecchio mio, e succhiate un po’ di sangue. Avete fatto vittime, questi giorni?

— Buon Dio! Eravate là?

— Sicuro che c’ero!

— Ma io non vi ho visto.

— M’avete visto certamente, ma forse non mi avete conosciuto, sotto quel bosco.

— Il bosco?

— La barba, caro mio! Vale veramente quanto l’ho pagata. Essa sfida l’occhio più acuto. Naturalmente, è un po’ seccante sentirsi gridare alle spalle «orso» a tutto spiano; ma, alla fin fine, ci si abitua.

Lo guardai sgranando gli occhi.

— Non capisco.

— È una storia un po’ lunga; prendete un Martini o un po’ di sangue-e-soda, e vi racconterò tutto. Ma, prima che cominciamo, ditemi la vostra sincera opinione: non è la più meravigliosa ragazza che abbiate mai visto?

Aveva tirato fuori una fotografia da non so dove, al modo con cui un prestigiatore fa uscire un coniglio da un cappello, e me l’aveva posta sotto il naso. Mi parve una donna ordinaria, tutta occhi e denti.

— Gran Dio! — esclamai. — Non mi direte che siete innamorato un’altra volta?

Egli parve profondamente addolorato.

— Che volete dire... un’altra volta.

— Ebbene, a quanto so io, da questa primavera, e siamo soltanto in giugno, vi siete innamorato di almeno una dozzina di ragazze; avete cominciato con la cameriera, poi c’è stata Honoria Glossop, poi...

— Zitto! Non dite sciocchezze! quelle ragazze? soltanto capricci passeggeri! Questo è il vero amore!

— Dove l’avete conosciuta?

— In omnibus. Si chiama Charlotte Corday Rowbotham.

— Mio Dio!!!

— Non è colpa sua, povera bambina; suo padre l’ha battezzata così, perché è rivoluzionario; e sembra che la vera Charlotte Corday usasse andare ad accoltellare gli oppressori nel bagno; così, un tal nome costituisce per lei un titolo di considerazione e di rispetto. Voi dovete conoscere il vecchio Rowbotham, Bertie: un individuo assai simpatico... vuol massacrare la borghesia, saccheggiare Park Lane, sbudellare l’aristocrazia ereditiera. Ebbene, non si può immaginar nulla di più giusto, vi pare? Ma torniamo a Charlotte; eravamo sull’omnibus, quando cominciò a piovere; io le offrii la mia ombrella e cominciammo a parlare di questo e di quello. M’innamorai, mi feci dare il suo indirizzo e, un paio di giorni dopo, mi comprai una barba e andai

— Ebbene, m’aveva parlato di suo padre, nell’omnibus; ed io avevo compreso che, per prendere un po’ di piede in casa, avrei dovuto far parte degli Araldi dell’Aurora Rossa; quindi, naturalmente, se dovevo far discorsi al Parco, dove ogni momento posso incontrare una dozzina di persone che conosco, era consigliabile che mi provvedessi di qualche cosa per camuffarmi. Così mi comprai la barba, e, per Giove! vecchio mio, ci ho preso attaccamento; quando me la son levata per venir qui, per esempio, mi son sentito assolutamente nudo. Era proprio quello che mi ci voleva per andar d’accordo col vecchio Rowbotham; è convinto ch’io sia un vero bolscevico che deve girare travestito per timore della polizia. Dovete veramente conoscerlo, quel vecchio, Bertie; sapete che dovete fare? avete nessun impegno, domani?

— Nulla di speciale, perché?

— Bene! Allora potete invitarci tutti a prendere il tè a casa vostra. Avevo promesso di portarli tutti al Caffè Popolare del Leone, ma posso risparmiare il denaro, e, credetemi, ragazzo mio, oggi, per quanto riguarda me, un soldo risparmiato è un soldo guadagnato. V’ha detto mio zio che s’è sposato?

— Sì, e m’ha detto che c’è fra voi una certa freddezza.

— Freddezza? A zero gradi, caro! Dacché s’è sposato, ha cominciato a sperperar denaro in tutti i modi e a fare economia a mie spese. Io credo che quella sua Parìa gli costi cara; e quanto mi dicono la nobiltà, oggi, è rincarata. Adesso ha comprato una scuderia; a proposito, puntate fino all’ultimo soldo su Ocean Breeze per la Coppa di Goodwood. È un affare sicuro.

— Punterò.

— Non può perdere; con quel cavallo, io intendo vincere abbastanza da potermi sposare con Charlotte. Voi andate a Groodwood, naturalmente?

— Già!

— Anche noi; ci raduneremo il giorno della coppa, nei dintorni del recinto.

— Ma, dico, non vi arrischiate troppo? a Goodwood, ci sarà di sicuro anche vostro zio. E se vi riconosce? Andrà fuori di sé, se scopre che siete l’individuo che l’ha offeso al Parco.

— Come diavolo volete che faccia a riconoscermi? Via! siate intelligente, rapace bevitore di corpuscoli rossi! Se non m’ha riconosciuto ieri, perché dovrebbe riconoscermi a Goodwood? Ebbene, grazie del vostro cordiale invito per domani, vecchio mio. Saremo lietissimi di accettare. Statemi bene, ragazzo mio, e avrete la nostra benedizione. A proposito, posso forse avervi indotto in errore, usando la parola tè. Non sognatevi di prepararci i vostri biscotti leggeri o dei panini al burro; noi siamo mangiatori solidi, noi rivoluzionari; ciò che ci occorre sono uova cotte, pani abbrustoliti, marmellata, prosciutto, panettone e sardine. Aspettateci alle cinque precise.

— Ma, dico, non sono proprio sicuro...

— Sì, sì, siete sicuro, sì. Asino! non vedete che merito vi acquisterete, per quando scoppierà la rivoluzione? Quando vedrete il vecchio Rowbotham correre per Piccadilly con un coltello grondante per mano... come vi chiamerete contento di potergli ricordare che una volta gli avete offerto il tè e i gamberetti in casa vostra! Saremo in quattro... Charlotte, io, il vecchio e il collega Butt... poiché suppongo che insisterà per venire anche lui.

— Chi è mai questo collega Butt?

— Non avete notato, ieri, nel nostro gruppo, quell’individuo che stava alla mia sinistra? piccolo, tutto raggrinzito, simile a un merluzzo tubercolotico? Quello è Butt, il mio rivale... che gli capiti un accidente! Pel momento è una specie di semifidanzato di Charlotte; finché non son capitato io, era una specie di Principe Azzurro. Ha una voce che sembra quella di una tromba d’allarme, e il vecchio Rowbotham l’ha in grande considerazione. Ma, accidenti! se posso stringerlo bene d’assedio e spodestarlo, mandandolo tra gli scartini... non son più io, ecco tutto! Può aver la voce grossa fin che volete, ma non ha il mio dono d’espressione. Bene, ora devo andare. Dico, non sapreste suggerirmi come potrei trovare cinquanta sterline?

— Perché non lavorate?

— Lavorare? — fece Bingo, sorpreso. — Che! io? No, penserò a qualche altro sistema. Voglio giocare almeno cinquanta sterline su Ocean Breeze. Bene, ci vedremo domani. Dio vi benedica, vecchio mio, e non dimenticate i pani abbrustoliti.

 

* * *

 

Non so perché, da quando lo conobbi la prima volta a scuola, ho sempre provato un senso di responsabilità per Bingo. Voglio dire, grazie a Dio, egli non è né mio figlio né mio fratello, né niente di simile, né ha su di me alcun diritto; eppure gran parte della mia esistenza sembra che deva essere spesa a seccarmi come una vecchia chioccia per trarlo d’impaccio tutte le volte che occorre. Sarà qualche rara virtù del mio carattere o qualche benedizione simile... A ogni modo quest’ultimo affare mi preoccupava non poco. Sembrava che facesse del suo meglio per sposarsi, imparentandosi con una famiglia di idee avanzate; e il pensiero di come contasse di mantenere, con nulla, una moglie d’una mentalità simile, un anno soltanto, mi abbatteva. Il vecchio Bittlesham, s’egli avesse fatto una cosa simile, molto probabilmente gli avrebbe sospeso l’assegno; e togliere quell’assegno a Bingo ero lo stesso che dargli un colpo d’accetta sulla testa.

— Jeeves, — dissi, appena giunsi a casa. — Sono preoccupato.

— Signore?

— Per causa del signor Little. Per il momento, non vi dico nulla, perché domani deve condurre alcuni suoi amici a prendere il tè, e allora voi stesso potrete giudicarne. Voglio che osserviate tutto attentamente e che prendiate la vostra decisione, Jeeves.

— Benissimo, signore.

— A proposito, comprate dei panini abbrustoliti.

— Sì, signore.

— E un po’ di marmellata, di prosciutto, di panettone, di uova, e cinque o sei quintali di sardine.

— Sardine, signore? — chiese Jeeves, con un brivido.

— Sardine.

Ci fu una pausa terribile.

— Non biasimatemi, Jeeves, — dissi. — Non è colpa mia.

— No, signore.

— Ebbene, ecco tutto.

— Sì, signore.

Ma vedevo benissimo che il mio uomo era oltremodo risentito.

 

* * *

 

Ho trovato, come regola generale della vita, che le cose che voi pensate che vadano peggio, quasi sempre, in ultimo, non appaiono del tutto le peggiori. Ma stavolta non fu così. Dal momento che Bingo s’era invitato, avevo cominciato a sentire che la cosa non doveva andar bene, e così fu. E il lato più orribile di tutto l’affare, credo, era il fatto che per la prima volta, dacché l’avevo conosciuto, Jeeves mi appariva completamente sconvolto. Io suppongo che ognuno abbia la sua piccola manìa e Bingo quando entrò in casa mia con sei o sette pollici di barba nera che gli pendeva dal mento s’imbatté subito in Jeeves. M’ero dimenticato di avvertire il mio uomo della barba e la cosa fu per lui come un fulmine a ciel sereno; lo vidi spalancar la bocca e afferrarsi alla tavola per non cadere. Non intendo affatto di biasimarlo, ricordatevi bene: non avevo mai visto un individuo che con la barba facesse una figura peggiore. Jeeves impallidì lievemente; poi il disagio cessò e lo vidi tornare in sé stesso; ma si capiva ch’era rimasto profondamente scosso.

Bingo era troppo affaccendato a presentare i suoi amici, per accorgersi di nulla; era una vera collezione C 3. Il collega Butt sembrava uno di quei vermiciattoli che, dopo un acquazzone, escono dal tronco degli alberi morti; la parola che avrei usato per descrivere il vecchio Rowbotham è tarlato; quanto a Charlotte, la sua apparizione sembrò portarmi addirittura in un mondo nuovo: non che avesse un aspetto del tutto indecente, poiché credo che se avesse bandito per qualche tempo i cibi solidi, dandosi alla ginnastica svedese, avrebbe potuto divenire abbastanza tollerabile. Ma così, era troppo! era tutta curve abbondanti come cavalloni. E mentre forse possedeva un cuor d’oro, ciò che a prima vista si notava era che aveva un dente d’oro. Sapevo che Bingo, quand’era in efficienza, poteva innamorarsi di qualunque persona dell’altro sesso; ma stavolta non riuscivo proprio a scusarlo.

— Il mio amico, signor Wooster, — disse Bingo, completando le formalità.

Il vecchio Rowbotham mi guardò, poi si volse a guardare intorno, la stanza, e vidi che non rimase troppo ammirato; non vi è nulla del mio appartamento che abbia caratteristiche di un lusso assolutamente orientale; ma ho cercato di rendermi la vita un po’ comoda e credo che l’ambiente gli riuscisse un po’ ostico.

— Signor Wooster? — fece il vecchio Rowbotham. — Posso dire il collega Wooster?

— Scusate?

— Siete del movimento?

— Ebbene... ehm...

— State per la rivoluzione?

— Ebbene, non so esattamente se sì o no. Voglio dire, per quanto ho potuto comprendere, i vostri disegni sarebbero di massacrare individui come me... e non occorre che vi confessi che non sono proprio innamorato eccessivamente di quest’idea.

— Ma gli parlerò io convincentemente, — disse Bingo. — Sto lottando con lui e credo che in un altro paio di sedute riuscirò nel mio intento.

Il vecchio Rowbotham mi guardò alquanto dubitosamente.

— Il collega Little ha una grande eloquenza! — ammise.

— Parla meravigliosamente, — disse la ragazza; e Bingo le lanciò uno sguardo così pieno di compiaciuta devozione, ch’io vacillai. Quello sguardo sembrò deprimere enormemente il collega Butt che piantò gli occhi accigliati sul tappeto e cominciò a borbottare qualche cosa che mi parve una spaventosa minaccia.

— Il tè è servito, — disse Jeeves.

— Il tè, babbo, — fece Charlotte, trasalendo al suono di quella magica parola, come un destriero allo squillar della tromba di guerra; e andammo tutti a prendere il tè.

È curioso come l’individuo cambia, col passar degli anni; a scuola, mi ricordo, avrei volentieri venduta la mia anima in cambio di uova cotte e sardine, alle cinque del pomeriggio; ma poi, non so come, dacché son diventato uomo, ho perduto quell’abitudine, e sto per dire ch’ero quasi spaventato al vedere in qual modo quei figli e quella figlia della rivoluzione si slanciarono sul pasto con tutto l’impegno di cui eran capaci. Perfino il collega Butt, dimenticando per qualche tempo il suo malumore, si immerse nelle uova, per non tornare alla superficie che a intervalli e solo per prendersi un’altra tazza di tè. A un tratto m’accorsi che non c’era più acqua calda e chiamai Jeeves.

— Un altro po’ d’acqua calda.

— Benissimo, signore.

— Eh? che è questo? — Il vecchio Rowbotham aveva deposto la tazza e aveva alzato lo sguardo duramente; picchiò sulla spalla a Jeeves e gli disse:

— Nessun servilismo, ragazzo mio, nessun servilismo!

— Scusate, signore.

— Non chiamatemi «signore»; chiamatemi «collega». Non sapete che cosa siete, ragazzo mio? Voi siete un’antica reliquia di un sistema feudale tramontato.

— Benissimo, signore.

— Se c’è una cosa che mi fa bollire il sangue nelle vene!!!

— Prendete un’altra sardina, — interruppe Bingo, compiendo il primo atto assennato che abbia mai compiuto in vita sua. Il vecchio Rowbotham ne prese tre e lasciò cader l’argomento; Jeeves se n’andò; a vederlo alle spalle, capivo quanto soffriva.

Alfine, proprio mentre cominciavo ad aver la sensazione che quella visita non sarebbe terminata mai più, giunse invece la fine; mi svegliai dall’incubo, proprio al momento in cui la compagnia si stava preparando per andarsene.

Tutte quelle sardine e quasi tre quarti del tè che avevo offerto, avevan finito per addolcire un pochino il vecchio Rowbotham che mi strinse la inani con uno sguardo quasi di simpatia.

— Debbo ringraziarvi della vostra ospitalità, collega Wooster, — disse.

— Oh, niente affatto; sono soltanto troppo lieto...

— Ospitalità? — ringhiò Butt, rompendomi i timpani delle orecchie come un comando d’attacco, e guardando accigliato il giovane Bingo e la ragazza che stavano chiacchierando in disparte, presso la finestra. — Mi meraviglio che il cibo non sia diventato cenere nelle nostre bocche! uova! pani abbrustoliti! sardine! tutta roba strappata dalle labbra della povera gente che muore di fame!

— Oh, dico! che bestialità vi vengono in mente?

— Vi manderò qualche libro sul soggetto della Causa, — disse il vecchio Rowbotham, — e, presto, spero di vedervi a uno dei nostri comizi.

Jeeves entrò a sparecchiare la tavola e mi trovò seduto tra le rovine. Il collega Butt ha avuto torto di prendersela col cibo; però, aveva finito il prosciutto, in modo che se quanto era rimasto avesse dovuto contentar le labbra della povera gente che muore di fame, vi garantisco che non sarebbe bastato a farlo stare in piedi.

— Ebbene, Jeeves, — dissi. — Che ve ne pare?

— Preferirei non esprimere nessuna opinione, signore.

— Jeeves, il signor Little è innamorato di quella donna.

— Così ho appreso, signore. L’ho vista schiaffeggiarlo nel corridoio.

Corrugai i sopraccigli.

— Schiaffeggiarlo?

— Sì, signore; e non molto delicatamente.

— Gran Dio! Non avrei mai pensato che la relazione fosse così intima. Ma come vi parve che prendesse la cosa il collega Butt? O forse non ha visto?

— Sì signore; ha assistito all’intero procedimento. M’è parso estremamente geloso.

Non lo biasimo. Jeeves, che dobbiamo fare?

— Non saprei, signore.

— È un po’ grossa.

— Davvero, signore.

E fu tutta la consolazione che ottenni da Jeeves.

  

12

LE FINANZE DI BINGO VANNO MALE

Avevo promesso a Bingo di trovarmi con lui il giorno seguente, per dirgli ciò che pensavo della sua infernale Charlotte, e stavo scendendo bel bello per St. James Street, tentando di pensare come mai potessi spiegargli, senza ferire i suoi sentimenti, che la consideravo una delle più brutte donne che avessi mai visto, quand’ecco uscire dal Devonshire Club il vecchio Bittlesham con Bingo in persona. Affrettai il passo e li raggiunsi.

— Oh! — dissi.

La conseguenza di questo semplice saluto fu uno spavento: il vecchio Bittleham trasalì come una giuncata al primo colpo di coltello, sgranò gli occhi e si fece verde come un cavolo.

— Signor Wooster! — Sembrò rimettersi alquanto, accorgendosi che la mia presenza non era proprio quanto di peggio gli potesse accadere.

— M’avete fatto prendere una paura!...

— Oh, mi dispiace!

— Mio zio — mi spiegò Bingo, con voce sommessa, come quella d’un ammalato — non si sente troppo bene, stamattina. Ha ricevuto una lettera minatoria.

— Temo che la mia vita sia in pericolo — disse il vecchio Bittlesham.

— Una lettera minatoria?

— Scritta — continuò il vecchio Bittlesham — con un tono ineducato e in termini di minaccia inesorabile. Signor Wooster, vi ricordate ancora quell’individuo barbuto, dall’aspetto sinistro, che mi assalì con parole così irriverenti sabato scorso a Hyde Park?

Trasalii e lanciai una rapida occhiata a Bingo; ma la sua faccia non esprimeva che un grave e gentile interessamento.

— Ma... ah... sì — dissi. — L’uomo barbuto... quello con la barba...

— Sapreste identificarlo, se fosse necessario?

— Ebbene io... ehm... che intendete dire?

— Il fatto è, Bertie — spiegò Bingo — che noi pensiamo che l’uomo dalla barba sia il responsabile di tutto questo affare. Passava per caso iersera pel Pounceby Gardens dove abita zio Mortimer, quando vidi scendere, dalla gradinata davanti alla casa, un individuo dall’aria furtiva; probabilmente aveva appena impostato la lettera alla porta d’ingresso. Mi ricordo che aveva proprio la barba; però non vi feci caso fino a questa mattina, quando zio Mortimer mi mostrò la lettera che aveva ricevuto e mi comunicò i suoi sospetti sull’uomo che aveva visto al Parco. Voglio fare delle ricerche.

 Ne informerò la polizia — disse Lord Bittlesham.

— No — replicò con fermezza Bingo; — finché la cosa è ancora a questo punto, non conviene; sarebbe un intralcio per le mie ricerche. Non impensieritevi, zio; vedrete che riuscirò a scoprirlo; lasciate fare a me. Adesso prenderete un’automobile pubblica, e io resterò a passeggiare un pochino con Bertie e parleremo della cosa insieme.

— Siete un buon ragazzo, Richard — disse il vecchio Bittlesham; fermammo un’automobile e ve lo facemmo salire. Mi volsi e piantai gli occhi negli occhi al mio amico.

— L’avete mandata voi quella lettera?

— Già! Avreste dovuto vederla. Bertie! Una delle lettere minatorie più cortesi ch’io abbia mai scritto.

— Ma che sciocchezza è questa?

— Bertie, ragazzo mio — fece Bingo, afferrandomi con forza per la manica — ho avuto ragioni eccellenti per farlo. La posterità potrà dir quel che vuole di me, ma una cosa non potrà mai affermare... ch’io non abbia uno spirito affaristico straordinario. Guardate! — e mi mise sotto gli occhi un pezzo di carta.

Gran Dio! Era un assegno... un vero assegno di almeno cinquanta sterline, emesso da Bittlesham per conto di R. Little.

— A che scopo?

— Spese... — disse Bingo, rimettendoselo in tasca. — Credete che un’investigazione come questa possa esser condotta senza spese? Ora non ho che andare alla Banca e farmele pagare, poi non avrò che andare alle corse e puntar tutta la somma su Ocean Breeze. Ciò che occorre, in situazioni simili, mio caro Bertie, è un po’ di tatto. Se fossi andato da mio zio a chiedergli cinquanta sterline, credete che me le avrebbe date? No! Ma con un po’ di tatto... oh, a proposito, che pensate di Charlotte?

— Bene... ehm...

Sentii che la mia manica diveniva oggetto di un affettuoso massaggio da parte di Bingo.

— Lo so, vecchio mio, lo so. Non perdete tempo per cercar parole adeguate. Vi ha fatto perder la testa, eh? Lo so! È l’effetto che produce su tutti. Ebbene, vi lascio, mio caro. Oh, prima che me ne vada... Butt! Che vi pare di Butt? Il peggiore scherzo di natura... non è vero?

— Infatti, ho visto qualche anima un po’ più decente.

— Credo d’averlo ormai messo fuori combattimento, Bertie. Charlotte, oggi dopo pranzo viene al Giardino Zoologico con me... sola! e dopo verrà al cinematografo. Questo sembra il principio d’una fine, eh? Ebbene, addio, amico della mia gioventù. E se stamattina non avete di meglio da fare, andate pure a far quattro passi per Bond Street e comprate un regalo di nozze.

Dopo, non rividi più Bingo per un pezzo; un paio di volte gli lasciai detto al Circolo di telefonarmi, ma invano. Giudicai che avesse troppo da fare per rispondermi: i Figli dell’Aurora Rossa erano irreperibili anch’essi; però Jeeves un giorno mi disse che aveva incontrato Butt e che aveva scambiato con lui quattro parole; soggiunse che gli era parso più avvilito che mai. A quanto pareva, nella competizione per la sovrabbondante Charlotte, doveva aver perduto la partita.

— A quanto sembra, il signor Little l’ha battuto completamente, signore, — disse Jeeves.

— Brutta notizia, Jeeves; brutta notizia!

— Sì, signore.

— Io credo, Jeeves, che tutto ciò significa che quando Bingo ci si mette d’impegno, non c’è potere di Dio o d’uomo che gl’impedisca di far pazzie.

— Così sembra, signore, — disse Jeeves.

Poi venne il tempo di Goodwood ed io mi misi il più bel vestito che avevo e vi andai.

Quando sto raccontando una storia, non so mai risolvermi se narrare i fatti semplicemente o indugiarmi nelle descrizioni; voglio dire, senza dubbio, molti scrittori renderebbero pesante questa narrazione con una descrizione di Goodwood, dipingendovi il cielo azzurro, la distesa della pista, la folla allegra dei tagliaborse e quella delle loro vittime, eccetera eccetera. Ma io sono convinto che sia meglio omettere tutto ciò; anche se volessi indugiarmi in particolari sul fatto, credo che non ne avrei la forza; i fatti sono troppo recenti e l’angoscia di quegli istanti non ha ancora avuto il tempo di passare. Sapete che cosa accadde? Accadde che Ocean Breeze (che gli capiti un accidente!) non giunse assolutamente nemmeno ultimo tra i classificati per la Coppa. Credetemi, nemmeno ultimo!

Sono circostanze che mettono alla prova l’animo dell’uomo; non è mai piacevole trovarsi implicati in una corsa, in cui un favorito delude tutte le speranze; nel caso poi di questo maledetto animale, non restava che assistere allo spettacolo per pura formalità... una specie di cerimonia bizzarra e antiquata, da guardare disinteressatamente, senza nemmeno pensare di tirar fuori un soldo. M’ero aggirato intorno al recinto, cercando di dimenticare la mia sventura, quando m’imbattei nel vecchio Bittlesham; mi parve così sconvolto e tutto congestionato e aveva gli occhi così stralunati, che io gli allungai la mano in silenzio.

— Anch’io, — dissi. — Anch’io... E voi quanto avete puntato?

— Puntato?

— Su Ocean Breeze.

— Io non ho puntato su Ocean Breeze.

— Che! Siete il proprietario del favorito per la Coppa e non l’avete sostenuto?

— Io non ho mai puntato alle corse dei cavalli; è contro i miei principi. Mi dicono che non ha vinto.

— Non ha vinto! Ci è mancato tanto, che per poco non riusciva primo nella corsa successiva.

— Ahimè!

— Ahimè, va bene, — accordai. Poi la bizzarria della cosa mi colpì. — Ma se non avete puntato un soldo, perché siete così sconvolto?

— Ho visto quell’individuo!...

— Quale individuo?

— Quello della barba.

Per mostrarvi a che punto la mia anima fosse stata ferita, vi dirò che soltanto a questo punto mi venne in mente Bingo; soltanto a questo punto mi ricordai che m’aveva detto che sarebbe venuto a Goodwood anche lui.

— Sta facendo un discorso di fuoco in questo stesso momento, contro di me, specificamente. Venite. Dove sono? — Cominciò a trascinarmi per una mano e facendo un uso scientifico del peso naturale del suo corpo, giunse con me nella prima fila dell’uditorio. — Guardate! Ascoltate!

 

Certamente, Bingo era in vena; ispirato dal dolore d’aver perduto tutto il suo avere per causa di quel ronzino che non era arrivato nemmeno fra i primi sei, aveva attaccato con una veemenza straordinaria i cuori neri dell’avara plutocrazia che avevan lasciato credere a un pubblico fiducioso che un cavallo, che non riusciva a percorrere nemmeno tutta la sua scuderia senza incrociar le gambe e sedere a riposarsi, fosse la sua fortuna. Poi continuò facendo ciò che, sto per dire, era una pittura vivissima della famiglia di un operaio ingannato dalla disonestà della plutocrazia; dipingeva all’uditorio un lavoratore pieno d’ottimismo e di candida fede, che credeva a ogni parola che i giornali dicevano sulle virtù di Ocean Breeze, che privava la moglie e i bambini di cibo per puntare sul favorito, che stava senza birra una settimana per poter puntare qualche cosa più del possibile, che alla vigilia del gran giorno vuotava il salvadanaio del suo bambino servendosi di uno spillone da capelli e che finalmente... era rovinato! Era un quadro impressionante. Vedevo il vecchio Rowbotham annuire del capo gentilmente, mentre il povero Butt osservava accigliato l’oratore, con malcelata gelosia. L’uditorio beveva le parole.

— Ma che cosa importa a Lord Bittlesham, — urlava Bingo, — se il povero operaio perde tutti i suoi risparmi guadagnati con tanta fatica? Ve lo dico io, amici e colleghi, voi potete parlare, voi potete applaudire e prendere risoluzioni, ma ciò che occorre è l’azione! L’azione! Il mondo non può essere una dimora tollerabile per gli onesti, finché il sangue di Lord Bittlesham e di tutta la sua razza non scenderà a fiumi per le gronde di Park Lane!

Uno scroscio di applausi si levò dal popolino, la maggior parte del quale doveva aver puntato sul disgraziato Ocean Breeze e risentirsi profondamente della perdita. Il vecchio Bittlesham si diresse verso un poliziotto corpulento e pensoso che osservava la scena, e parve invitarlo a intervenire; il vigile si arricciò i baffi, sorrise cortesemente, ma non diede altro segno d’inclinazione ad accogliere l’invito; e il vecchio Bittlesham se ne tornò indietro sbuffando più che mai.

— È mostruoso! quell’uomo minaccia sfacciatamente la mia sicurezza personale e il poliziotto rifiuta d’intervenire. Dice che sono soltanto parole! Parole? È mostruoso!

— Assolutamente, — dissi; ma parve che ciò non bastasse a renderlo allegro.

Il collega Butt era succeduto a questo punto a Bingo nel seggio oratorio; aveva una voce che era come la Tromba Finale e potevo udir benissimo ogni parola che diceva; ma mi parve non riuscisse a far breccia sull’uditorio. Forse era troppo impersonale, se questa è la parola che mi occorre. Dopo il discorso di Bingo, l’udienza sentiva il bisogno di udir qualche cosa di più mordente che le sue semplici considerazioni generali intorno alla Causa. Avevan già cominciato a trattarlo poco complimentosamente, quando lo vidi arrestarsi a mezzo di una frase e guardar fissamente il vecchio Bittlesham.

Il pubblico pensò che avesse esaurita la sua loquela.

— Prendete una pasticca! — cominciò a gridare qualcuno.

Ma il collega Butt si rimise improvvisamente e prese l’aire con un baleno feroce negli occhi.

— Ah! — cominciò a strillare, — voi potete scherzare, colleghi, potete ridere e sogghignare; potete schernire; ma lasciate che vi dica che il nostro movimento diventa sempre più popolare di giorno in giorno, di ora in ora. Sì, anche tra le così dette classi superiori, comincia a prender piede. Forse non mi crederete; ma io vi dico che proprio qui, oggi stesso, abbiamo tra noi uno dei più ardenti fautori, il nipote di quello stesso Lord Bittlesham il cui nome era sulle vostre bocche un minuto fa. — E prima che il povero Bingo capisse nulla, Butt aveva allungato una mano, strappandogli la barba che venne via tutta d’un pezzo.

Per quanto il discorso di Bingo fosse stato un vero e proprio successo, era stato nulla, in confronto di questo colpo di scena. Udii il vecchio Bittlesham che stava al mio fianco mandare un breve grugnito, poi non so più che cosa dicesse, perché tutto fu sepolto in un subisso di applausi.

Tuttavia, sto per dire che in questa circostanza terribile, Bingo diede prova di una grande fermezza di carattere: agguantare il collega Butt pel collo, con tutte le buone intenzioni di staccargli la testa, fu per lui l’affare di un momento; ma prima che potesse far nulla, il poliziotto, comparso improvvisamente sulla scena come uno spettro, s’era già slanciato sui contendenti, e, un minuto dopo, stava aprendosi il passo tra la folla, tenendo con la destra il mio amico e con la sinistra il collega Butt.

— Lasciatemi passare, signore, per cortesia, — disse urbanamente, volgendosi al vecchio Bittlesham che ostruiva il passaggio.

— Eh? — fece il vecchio Bittlesham, ancora sbalordito.

Al suono della sua voce, Bingo si drizzò a guardare di sotto l’ombra della mano destra del poliziotto e parve sgonfiarsi d’un tratto come un pallone. Per un istante si ripiegò su sé stesso come un giglio appassito, poi si lasciò trascinare con l’aria d’un uomo colpito a morte.

 

Talvolta, dopo avermi portato in camera il tè del mattino e averlo posato sul tavolino accanto al mio letto, Jeeves se ne esce silenziosamente; altre volte invece s’indugia rispettoso, in modo da farmi comprendere che ha bisogno di una parola o due.

Il giorno dopo il mio ritorno da Goodwood, stavo giacendo supino a guardare il soffitto, quando m’accorsi che il mio uomo non era ancora uscito dalla mia camera.

— Oh, ehi! — dissi. — Sì?

— Il signor Little è già stato qui, signore.

— Oh, per Giove! come? Vi ha detto ciò che è accaduto?

— Sì, signore; voleva vedervi appunto per questo. Si propone di ritirarsi in campagna e di restar là qualche tempo.

— Una cosa molto ragionevole.

— Così penso anch’io, signore. C’era però una piccola contrarietà finanziaria. Mi son preso la libertà di dargli per vostro conto dieci sterline, per le spese correnti. Spero di avere la vostra approvazione, signore.

— Naturalmente. Prendetevi un decino dalla tavola da toilette.

— Benissimo, signore.

— Jeeves!

— Signore?

— Ciò che mi stupisce è come mai la cosa sia finita così. Voglio dire, come ha fatto quel Butt a sapere chi era?

Jeeves tossì.

— Qui, signore, temo di meritarmi un rimprovero.

— Voi? Come?

— Temo d’aver commesso la distrazione di svelare al signor Butt l’identità del signor Little... l’altra sera, quando ebbi occasione di parlargli.

Balzai a sedere. — Come?

— Davvero, ora che ci ripenso, signore, mi ricordo bene d’avergli detto che l’opera del signor Little per la causa mi sembrava realmente meritevole d’un pubblico riconoscimento. Sono dolentissimo d’essere stato la causa d’un temporaneo dissidio tra il signor Little e sua signoria. Temo, anche, che ci sia un’altra brutta conseguenza; temo di essere responsabile della rottura del fidanzamento tra il signor Little e la signorina ch’è stata qui a prendere il tè.

Balzai a sedere di nuovo. È strano, ma l’aspetto bello dell’affare, fino a questo momento, m’era sfuggito.

— Intendete dire che tutto è finito?

— Completamente, signore. Dai discorsi del signor Little, ho potuto comprendere che le sue speranze in questo senso sono da considerarsi assolutamente tramontate. Se non ci fosse altro ostacolo, il padre della signorina, m’ha detto il signor Little, lo considera oramai una spia e un traditore

— Bene, sono sbalordito!

— A quanto pare, senza volerlo, tono stato causa d’un disastro, signore.

— Jeeves!

— Signore?

— Quanto denaro c’è sulla tavola da toilette? — Oltre le dieci sterline che m’avete detto di prendere, ci sono due biglietti da cinque sterline, tre da una, un pezzo da dieci scellini, due mezze corone, un fiorino, quattro scellini, mezzo scellino e mezzo penny,signore.

— Prendetevi tutto, — dissi.— Ve lo siete guadagnato.

  

13

L’«HANDICAP» DELLE PREDICHE

Finite le corse a Goodwood, generalmente mi sento un po’ irrequieto. Non sono un individuo molto tenero per gli uccelli, per gli alberi e per l’aria libera, ma è indiscutibile che Londra, in agosto, non sia il soggiorno più amabile e mi fa desiderare di andarmene in campagna per qualche tempo, almeno finché la temperatura è cambiata. Londra, circa due settimane dopo la spettacolosa catastrofe di cui era rimasto vittima Bingo e che vi ho narrato, era affatto deserta e odorava di asfalto bollente; tutti i miei amici se n’erano andati, i teatri erano quasi tutti chiusi a Piccadilly veniva scavata sistematicamente dalle pale della pulizia urbana; faceva un caldo infernale; una sera, mentre cercavo di accumulare un po’ d’energia per andare a letto, sentii che non potevo più resistere e quando venne Jeeves, con la sua bevanda ristoratrice, glielo dissi chiaro e tondo:

— Jeeves, — cominciai, asciugandomi la fronte e boccheggiando come un pesce fuor d’acqua, — fa un caldo infernale!

— L’aria è davvero opprimente, signore.

— Non tutto il selz, Jeeves.

— No, signore.

— Penso che ne abbiamo abbastanza della metropoli e che è ora di cambiare. Ce ne andiamo, Jeeves, vi pare?

— Come dite voi, signore. C’è una lettera sul vassoio.

Apersi la lettera.

— Questo è straordinario!

 Signore?

 Sapete dov’è Twing Hall?

— Sì, signore.

— Ebbene, il signor Little è laggiù.

— Davvero, signore?

— Assolutamente; è costretto un’altra volta a fare il precettore.

Dopo lo spaventoso misfatto di Goodwood, quando Bingo Little, ormai finito, s’era fatto dare da me un decino, per andarsene in incognito, io avevo cominciato a cercarlo dappertutto, chiedendo agli amici comuni se sapevan qualche cosa di lui, ma invano. E tutto questo tempo egli era stato a Twing Hall! Strano; e vi dirò perché era strano: Twing Hall appartiene al vecchio Lord Wickhammersley, un grande amico di mio padre quand’era vivo, e dal quale ho ricevuto un invito permanente d’andare a Twing Hall quando voglio. Generalmente, ci vado per una settimana o due, d’estate; e avevo già pensato d’andarci, prima ancora di legger la lettera.

— E ciò che mi stupisce ancor più, Jeeves, mio cugino Claude e mio cugino Eustace... ve li ricordate?

— Li ricordo benissimo, signore.

— Ebbene, sono laggiù anch’essi, che si stanno preparando per non so che esami, col vicario; è lo stesso vicario col quale un tempo ho studiato anch’io; è conosciuto dappertutto come un ripetitore eccellente per gli studenti di scarsa intelligenza; e poi, se vi dico che m’ha fatto promuovere agli esami, capirete subito di che si tratta; per me è un uomo straordinario.

Lessi la lettera una seconda volta; lo scrivente era Eustace. Claude ed Eustace sono gemelli, e più o meno riconosciuti da tutti come la maledizione della razza umana.

 

Dal Vicariato,

twing, gloss.

 

Caro Bertie,

Volete guadagnar denaro? Ho saputo che a Goodwood le cose vi sono andate abbastanza male e così credo che accetterete. Ebbene, accorrete subito quaggiù e profittate del più grande avvenimento sportivo della stagione. Vi spiegherò tutto appena ci vedremo, ma fidatevi della mia parola, andrà tutto bene.

Claude ed io siamo dal vecchio Heppenstall con altri studenti; siamo in nove, senza contare il vostro amico Bingo Little che fa da precettore al bambino ad Hall.

Non perdete quest'occasione d’oro che non potrete afferrare mai più. Venite subito.

Vostro Eustace.

 

Passai la lettera a Jeeves, il quale la lesse attentamente.

— Che ve ne pare? Una comunicazione un po’ strana, no?

— Sono giovani veramente vivaci, signore, il signor Claude ed il signor Eustace. Hanno in mente qualche cosa, secondo me...

— Sì, ma che corsa volete che ci sia laggiù?

— Ma, chi può saperlo, signore? Avete osservato che la lettera continua nell’altra pagina?

— Eh? come? — Ripresi il foglietto, ed ecco che cosa v’era scritto dall’altra parte:

 

HANDICAP DELLE PREDICHE

LISTA DEI PRESUNTI PARTECIPANTI

 

Rev. Joseph Tucker (Badgwick), senza handicap;

Rev. Leonard Starkie (Stapleton), senza handicap;

Rev. Alexander Jones (Upper Bingley), riceve tre minuti;

Rev. W. Dix (Little Clickton-in-the-Wold), riceve cinque minuti;

Rev. Francis Heppenstall (Twing), riceve otto minuti;

Rev. Cuthhert Dibble (Boustead Parva), riceve nove minuti;

Rev. Orlo Hough (Boustead Magna), riceve nove minuti;

Rev. J. J. Roberts (Fale-by-the-Water), riceve dieci minuti;

Rev. G. Hayvard (Lower Bingley), riceve dodici minuti;

Rev. James Bates (Gandle-by-the-Hill), riceve quindici minuti.

prezzi. 5-2, Tucker, Starkie; 3-1, Jones; 9-2, Dix; 6-1, Heppenstall, Dibble, Hough; 100-8, gli altri.

 

— Non ci capisco nulla. Voi capite che cosa vuol dire, Jeeves?

— No, signore.

— Ebbene, penso ch’è meglio che andiamo a vedere di che cosa si tratta, no?

— Indubbiamente, signore.

— Benissimo, allora; fate fagotto, mettetemi lo spazzolino da denti in un pezzo di carta pulita, mandate un telegramma a Lord Wickhammersley, avvertendolo del nostro arrivo e comprate due biglietti per Paddington, treno delle cinque e dieci di domani.

 

Il treno delle cinque e dieci fu in ritardo, come il solito, e, quando arrivai ad Hall, tutti erano a vestirsi per il pranzo; io solo stavo ancora mettendomi in tutta fretta il vestito da sera, e, scendendo le scale con un paio di salti, riuscii a trovar la minestra ancora calda. M’accomodai su una sedia vuota e m’accorsi d’esser capitato vicino a Cynthia, la figlia minore del vecchio Wickhammersley.

— Oh, ehi! vecchia mia, — dissi.

Io e Cynthia siamo sempre stati vecchi amici; anzi ci fu un tempo in cui avevo l’idea d’esserne innamorato; però la cosa era finita; si trattava di una ragazza graziosa, vivace, piena di attrattive, credetemelo, ma piena di ideali e di sciocchezze del genere. Forse parlando così le farò torto, ma io penso che si tratti proprio d’una di quelle ragazze che pretendono un partito di quelli che fanno carriera brillante; mi ricordo d’averla udita parlare favorevolmente di Napoleone. Così, un po’ per una ragione, un po’ per l’altra, la mia pazzia s’era esaurita ed ora eravamo soltanto buoni amici. Io sono convinto che lei sia qualche cosa di superiore, ella mi giudica un capo scarico, e così tutto procede d’amore e d’accordo.

— Ebbene, Bertie, così, siete arrivato?

— Oh, sì, sono arrivato. Sì, sono qua. Dico, mi sembra d’essere capitato a un pranzo tutto di giovinotti. Chi è tutta questa gente?

— Oh, tutta gente dei dintorni. La maggior parte li conoscete. Vi ricordate il colonnello Willis, gli Spencer?

— Sì, naturalmente. E c’è anche il vecchio Heppenstall. Chi è l’altro prete vicino alla signora Spencer?

 Il signor Hayward di Lower Bingley.

— Ma quanti preti ci sono da queste parti? Ce n’è un altro vicino alla signora Willis.

— Quello è il signor Bates, il nipote del signor Heppenstall. È supplente ad Eton. È venuto qui a passar le vacanze estive al posto del signor Spettigue, il rettore di Gandle-by-the-Hill.

— Mi pareva di conoscere il suo viso; faceva il quart’anno a Oxford, quand’io ero matricola. Abbastanza elegante. — Guardai ancora intorno alla tavola e mi cadde Cocchio su Bingo. — Ah, eccolo! — dissi, — eccolo il vecchio compare!

— Chi?

— Bingo Little, un mio amicone; fa da tutore a vostro fratello, sapete.

— Dio buono! È vostro amico?

— Già, lo conosco da quando son nato.

— Allora, ditemi, Bertie, non gli manca per caso un venerdì?

— Se gli manca un venerdì?

— Voglio dire, non soltanto perché è vostro amico... ma ha dei modi così strani!...

— Come?

— Ebbene, mi sembra così buffo!...

— Buffo? In che modo? Mostrami come fa.

— Non posso, davanti a tutta questa gente.

— Sì; vi terrò il tovagliolo davanti al viso.

— Benissimo, allora. Presto! Ecco!

Considerato che lo spettacolo durò soltanto un secondo e mezzo, debbo dichiarare che fu assolutamente qualche cosa di bello; Cynthia aprì la bocca, spalancò gli occhi torcendo la mandibola da un lato, in modo da somigliar tutta a un vitello dispeptico, fece tanto insomma, che riconobbi subito i noti sintomi del male cronico di Bingo.

— Oh. va tutto bene. — dissi. — Non allarmatevi. È semplicemente innamorato di voi.

— Innamorato di me? Non dite assurdità.

— Vecchia mia, voi non conoscete Bingo; quello là è capace d’innamorarsi di qualunque donna!

— Grazie tante!

— Oh, non intendevo dare alle parole il senso che ci date voi. Non mi meraviglio che si sia innamorato. Non sono stato innamorato di voi anch’io un tempo?

— Un tempo? Ah! E tutto ciò che rimane ora non sono che fredde ceneri? Non avete una sera molto felice, caro Bertie!

— Ebbene, mia dolce amica, lasciate correre, considerato che m’avete piantato e che avete riso al punto da ammalarvi di singhiozzo cronico, quella volta che vi chiesi...

— Oh, non intendo di rimproverarvi! Ci furono torti da entrambe le parti. Ma Bingo ha un aspetto piacevole.

— Un aspetto piacevole? Bingo? Bingo, un aspetto piacevole? No, via! davvero?

— Voglio dire, in confronto di certa gente!... — disse Cynthia.

Qualche tempo dopo, Lady Wickhammersley diede il segnale d’uscita per le signorine le quali s’affrettarono a obbedire. Quando furono uscite non riuscii più a veder Bingo e non lo trovai nemmeno più tardi nel salotto. Lo vidi soltanto per caso nella sua camera, a letto, coi piedi all’aria, fumando beatamente. Sulla coperta, a portata di mano, stava un taccuino.

— Ehi, vecchio mio! — feci.

— Ehi, Bertie, — egli rispose, con un’aria che mi parve indifferente e assorta.

— È strano che ci siamo trovati qui; ho saputo che vostro zio, dopo il misfatto di Goodwood, vi ha tagliato i viveri e che avete dovuto mettervi a fare il precettore per guadagnarvi il tozzo di pane.

— Esattissimo, — disse semplicemente Bingo.

— Bene, avreste potuto far sapere ai vostri amici dove eravate.

Egli aggrottò i sopraccigli.

— Non volevo che sapessero dov’ero; volevo andarmene e tenermi nascosto; ho passata una burrasca terribile, Bertie, i giorni scorsi. Non ho più visto un po’ di sole...

— Questa è curiosa; a Londra faceva un tempo magnifico.

— Gli uccelli non cantavano più...

— Quali uccelli?

— Che diavolo importa di che uccelli si tratti? — rispose Bingo con asprezza. — Tutti gli uccelli; gli uccelli, qua, dei dintorni; non vi aspetterete che io specifichi al punto di dirvi il nome di tutti, spero. Vi dico io, Bertie, che in principio il colpo fu terribile, veramente terribile.

— Che colpo? — Non riuscivo a comprendere.

— La premeditata asprezza di Charlotte.

— Ah, ah! — Ho visto il vecchio Bingo vittima di tante sventure amorose, che, quasi quasi, non mi ricordavo più che nella catastrofe di Goodwood c’entrasse in qualche modo anche una ragazza. Naturalmente! Charlotte Corday Rowbotham. Mi ricordai improvvisamente ch’era stato piantato e ch’era rimasto sconfitto dal collega Butt.

— Ho subito tormenti indicibili! Ultimamente però, ehm... mi sono un po’ rimesso. Ditemi un po’, Bertie; che siete venuto a fare, quaggiù? Non sapevo che conosceste questa gente.

— Io? li conosco da quando ero bambino.

Bingo calò i piedi per terra con un tonfo.

— Volete dire che avete sempre conosciuto Cynthia?

— Già! Quando la vidi la prima volta avrà avuto sette anni.

— Buon Dio! — esclamò Bingo, guardandomi per la prima volta in vita mia come se contassi qualche cosa e inghiottendo malamente una boccata di fumo. — Bertie, io amo quella ragazza, — continuò, quand’ebbe finito di tossire.

— Sì, è una ragazza graziosa, naturalmente.

Egli mi guardò disgustato.

— Non parlate di lei con un tono così indifferente! È un angelo! Un angelo! Vi ha parlato mai di me, durante il pranzo, Bertie?

— Oh, sì!

— Che vi ha detto?

— Mi ricordo una cosa: ha detto che le sembrava che aveste un bell’aspetto.

Bingo chiuse gli occhi, immerso in una specie d’estasi; poi afferrò il taccuino.

— Ora andatevene, vecchio mio, — disse con una voce sommessa e lontana. — Ho da fare; debbo scrivere.

— Scrivere?

— Una poesia, sappiatelo! Quanto pagherei, — continuò non senza amarezza, — perché fosse stata battezzata con un nome diverso! Non c’è una sola dannata parola in tutto il nostro idioma che faccia rima con Cynthia. Di quante rime l’avrei vestita, se si fosse chiamata Jane!

 

La mattina seguente per tempo, mentre stavo a letto con gli occhi socchiusi sotto il sole riverberato dalla toilette, chiedendomi quando mai Jeeves sarebbe venuto a portarmi il tè, sentii a un tratto un tonfo sui piedi, mentre la voce di Bingo colpiva il mio orecchio; il disgraziato s’era alzato con l’allodola.

— Lasciatemi, — dissi; — voglio star solo: non posso veder nessuno fin che non ho preso il tè.

— Se ride Cynthia, — cominciò Bingo, — mia dolce stella, sorride il cielo, la terra è bella; cantan gli uccelli, la Gioia posa un velo rosa sopra ogni cosa, se Cynthia ride. — Tossì, passando alla strofa seguente, d’intonazione diversa. — Se Cynthia è seria...

— Ma di che diavolo mi state parlando?

— Sto leggendovi la mia poesia; quella che ho scritto per Cynthia iersera. Devo continuare?

— No!

— No?

— No. Non ho ancora preso il tè.

In questo momento, Jeeves entrò col magico beveraggio ed io balzai dal letto con un grido di gioia; dopo un paio di sorsi, la vita mi parve un po’ più bella; Bingo non offendeva più il mio occhio come prima; e quando il tè fu finito, mi sentivo già tanto diverso, che non solo permisi ma incoraggiai il disgraziato a leggermi il resto del suo sproloquio poetico e giunsi al punto da criticarne il ritmo al quarto verso della quinta strofa. Stavamo ancora discutendo in proposito, quando si spalancò la porta ed entrarono Claude e Eustace.

Una delle cose che mi rendono antipatica la vita rurale è la terribile precocità degli avvenimenti. Mi ricordo d’essere stato in campagna in certi luoghi dove avevano il coraggio di strapparmi ai sogni con uno scossone, per invitarmi a fare un bagno nel lago, alle sei e mezzo del mattino. A Twing, grazie al cielo, mi conoscono e mi lasciano far colazione a letto.

I gemelli parvero assai contenti di vedermi.

— Oh, caro Bertie! — disse Claude.

— Caro il mio uomo! — disse Eustace. — Abbiamo saputo dal reverendo ch’eravate giunto; sapevo bene che la mia lettera vi avrebbe fatto colpo.

— Su Bertie si può contare, — disse Claude. — È sportsman fino ai capelli; bene, v’ha detto Bingo di che cosa si tratta?

— Neanche una parola. Mi stava...

— Parlavamo di altre cose, — si affrettò a spiegare Bingo.

Claude prese l’ultima fetta di pane imburrato, mentre Eustace si versava una tazzina di tè.

— È così, Bertie, — disse Eustace, sedendosi comodamente. — Come vi ho detto nella mia lettera, siamo nove disgraziati, esiliati in questo deserto a studiare col vecchio Heppenstall. Naturalmente, non vi è nulla di meglio che sudare sui classici, quando fanno cento gradi all’ombra, ma viene un tempo in cui si comincia a desiderare un po’ di ricreazione, e... per Giove! in un luogo simile, non ci sono troppe opportunità per ricrearsi. Allora Steggles ha avanzato quest’idea; Steggles è uno della nostra compagnia, e, a dirlo fra noi, è alquanto zuccone; tuttavia per quest’idea possiamo prenderlo in grande considerazione.

— Quale idea?

— Ebbene, voi sapete quante parrocchie ci sono nei dintorni; per un raggio di sei miglia, ci sono almeno dodici paesi, ciascuno dei quali ha una chiesa; ciascuna chiesa ha un parroco e ogni parroco fa la sua predica ogni domenica. Domenica ventitré ci sarà la corsa con ostacoli della Grande Predica. Steggles terrà il registro delle scommesse; ogni parroco sarà cronometrato, naturalmente da un uomo di fiducia, e quello che farà la predica più lunga sarà il vincitore; avete osservato la lista che vi ho mandata?

— Non ero riuscito a capire di che cosa si trattasse.

— Caro mio, è la lista degli handicaps e dei vantaggi di ciascuno starter. Ne ho un’altra, qui, se avete perduta la vostra; studiatela attentamente; basterà a darvi un’idea della cosa. Jeeves, vecchio mio, e voi, volete far fortuna col gioco?

— Signore? — disse Jeeves, ch’era appena entrato con la mia colazione.

Clawde gli spiegò il nostro disegno e Jeeves lo comprese interamente con meravigliosa prontezza, ma non fece che sorridere con aria paterna.

— Vi ringrazio, signore, ma declino l’invito.

— Bene, Bertie, voi state con noi, eh? — fece Claude, prendendosi svelto un pezzo di pane e una fetta di prosciutto. — Vi siete studiata la lista degli iscritti? Ebbene, ditemi, c’è qualche cosa che vi riesce straordinaria?

Naturalmente, qualche cosa di straordinario m’aveva colpito fin dal momento in cui l’avevo scorsa per la prima volta.

— Ma per il vecchio Heppenstall sarà come bere un bicchier d’acqua, — dissi. — È come se avesse già la vittoria in mano. Non c’è in tutta la provincia un parroco che gli possa dare otto minuti. Il vostro Steggles dev’essere un asino, per concedergli un handicap simile. Se vi dico che al tempo ch’ero con lui il vecchio Heppenstall non faceva mai una predica che durasse meno di mezz’ora! E mi ricordo d’un suo sermone sull’Amor Fraterno, che durò almeno quarantacinque minuti. Ha forse perduto improvvisamente ogni energia?

— Niente affatto, — disse Eustace. — Raccontategli che cosa è accaduto, Claude.

— Ecco, — disse Claude; — la prima domenica ch’eravamo qui, andammo tutti in chiesa a Twing, il vecchio Heppenstall fece una predica che durò meno di venti minuti. Ma ecco che cos’era accaduto. Steggles non se n’accorse e non se n’accorse nemmeno il reverendo stesso, ma Eustace ed io notammo che, mentre saliva sul pulpito, gli erano cadute almeno dieci o dodici pagine della predica. Quando giunse alla lacuna del manoscritto, parve imbarazzato, ma poi se la cavò benissimo lo stesso, e intanto Steggles se ne venne via con l’impressione che venti minuti e anche un po’ meno fosse la sua resistenza ordinaria. La domenica seguente, sentimmo le prediche di Tucker e di Starkie, che, entrambi, superarono i trentacinque minuti; questa è la ragione per cui Steggles ha disposto gli handicaps come avete visto. Dovete convenirne, Bertie; vedete, il malanno è ch’io non ho un soldo, Bingo Little non ha un soldo; e così voi dovete finanziare il sindacato. Non vi perdete d’animo! In fondo, non fate che intascare. Ebbene, ormai dobbiamo tornare; pensateci e telefonatemi più tardi. Ma se ci abbandonate, Bertie... possa la maledizione d’un cugino... Andiamo, Claude, vecchio mio.

Quanto più studiavo l’impresa, tanto più mi convincevo ch’era buona.

— Che ne dite, Jeeves?

Jeeves sorrise gentilmente e uscì.

— Jeeves non ha sangue di sportsman, — disse Bingo.

— Ma io sì; comincio ad esser del vostro parere; Claude ha ragione: è come trovare del denaro per la strada.

— Buon uomo! — disse Bingo. — Finalmente comincia a splendere un po’ di sole anche per me. Punterò un decino su Heppenstall e vincerò; con quel che avrò vinto, punterò su Pink Pill alla corsa delle due a Gatwick la settimana dopo la prossima: con la vincita punterò su Musk-Rat per la corsa dell’una e trenta a Lewes, e alfine avrò una buona somma da puntare il dieci settembre su Alexandra Park, per cui ho avuto già un’informazione segreta dalle scuderie.

Mi pareva di sentire una pagina del Chi s’aiuta Dio l’aiuta dello Smiles.

— Poi, — continuò Bingo, — potrò finalmente andar da mio zio e prenderlo per la barba nella sua tana. È un pochino snob,sapete, e quando sentirà che sto per sposare la figlia d’un conte...

— Ehi, vecchio mio! — non potei fare a meno di esclamare; — non vi pare di correre un po’ troppo?

— Oh, questo è vero; non è ancora definitivamente accomodato tutto, ma ella m’ha detto l’altro giorno che le piaccio.

— Come?

— Ebbene, in complesso ha detto che il tipo d’uomo che le piace è il carattere virile, sicuro di sé, forte, di bell’aspetto, pieno di ambizione e d’iniziativa.

— Lasciatemi, caro, — dissi. — Lasciatemi alla mia frittata.

 

Appena alzato, corsi al telefono, e, interrompendo lo studio di Eustace, gli dissi di puntare un decino sul corsiero di Twing per ogni membro del sindacato; dopo colazione, Eustace mi chiamò per dirmi che aveva fatto un buon affare con sette a uno, essendo stato aumentato il vantaggio del nostro preferito, in seguito a dicerie d’intenditori, secondo le quali il reverendo sarebbe stato soggetto alla febbre del fieno e si andava esponendo a rischi terribili passeggiando la mattina per tempo dietro la canonica. Era una fortuna enorme che avessimo puntato in tempo, pensai la mattina seguente; infatti, la domenica mattina, il vecchio Heppenstall prese l’aire con tanta veemenza che ci regalò trentasei buoni minuti di predica su «Certe Superstizioni Popolari». Io stavo seduto nel coro, presso Steggles, e lo vidi impallidire visibilmente; era un individuo dal musetto di sorcio, dagli occhi furbi, sospettosissimo. La prima cosa che fece, quando fummo usciti, fu di annunciare formalmente che chi parteggiava per il Reverendo doveva accontentarsi di quindici a otto, e soggiunse che se avesse avuto libertà d’azione, una corsa così oscillante sarebbe stata sottoposta all’attenzione del Jockey Club, ma che giudicava che non c’era nulla da fare. Una cifra così rovinosa, sbigottì subito i puntatori e il denaro in vista era pochino; le cose procedettero così fino al pomeriggio di martedì, quando, mentre passeggiavo su e giù davanti alla casa, con una sigaretta, giunsero Claude ed Eustace in bicicletta, pieni di novità.

— Bertie, — cominciò Claude, agitatissimo; — se non ci mettiamo all’opera immediatamente e non risolviamo subito qualche cosa, siamo fritti!

— Che c’è?

— G. Hayward, — disse Eustace, con aria triste. — Lo starter di Lower Bingley.

— Non l’avevamo mai preso in considerazione — disse Claude. — In un modo o nell’altro ci era sfuggito. Succede sempre così. Steggles s’è dimenticato di lui e così abbiamo fatto anche noi. Ma per una vera fortuna io ed Eustace, stamattina, siamo passati per Lower Bingley e c’era in chiesa un matrimonio, e improvvisamente ci balenò l’idea che non sarebbe stato male vedere un po’ la resistenza di G. Hayward.

— E fu una vera fortuna — disse Eustace. — Sapete che ci ha scodellato una predica di ventisei minuti, cronometrata con l’orologio di Claude? A un matrimonio di contadini, notate! Chi sa dove va a finire se si slancia veramente?

— Non c’è che una cosa da fare, Bertie — disse Claude. — Cercate di trovare un po’ di fondi di più, in modo che possiamo puntare su Hayward e salvarci.

— Ma...

— Bene, non c’è altra via d’uscita.

— Ma, sapete, l’idea che tutto quel denaro che abbiamo puntato su Heppenstall debba esser perduto non mi piace.

— E che altro potete suggerirci? Non supporrete che il Reverendo possa compiere un miracolo simile, d’essere handicapped a quel modo e vincere lo stesso, vi pare?

— Ho trovato! — dissi.

— Che cosa?

— Ho scoperto il mezzo per salvare il nostro favorito. Andrò da lui questo pomeriggio e gli chiederò come un favore personale di ripetere domenica la predica sull’Amor Fraterno.

Claude ed Eustace si guardarono in faccia, come i due eroi del poema, con un pazzo sospetto.

— È un’idea — disse Claude.

— Un’idea assennatissima — disse Eustace. — Non vi credevo capace di tanto, Bertie.

— Ma anche così — disse Claude — per quanto questa predica debba essere uno zuppone interminabile, basterà poi di fronte a un handicap di quattro minuti?

— Già — dissi — quando vi ho detto che durò quarantacinque minuti, probabilmente l’avevo già compreso. Anzi, ora, che mi ricordo, furono piuttosto cinquanta che quarantacinque.

— Allora, forza! — disse Claude.

La sera stessa, mi recai dal vecchio Heppenstall che fu assai cortese, e aggiustai la faccenda. Parve assai lusingato e commosso ch’io dovessi ricordarmi ancora della sua predica, dopo tanti anni, e dissi che gli era venuto una volta o due l’idea di ripeterla, ma che poi, riflettendo, egli era sembrato che fosse un po’ troppo lunga, per un uditorio di campagna.

— E in questi tempi di fretta, mio caro Wooster — egli disse — io temo che la brevità dal pulpito sia più conveniente e più desiderata anche dai fedeli di campagna che pure dovrebbero essere meno presi da quello spirito di fretta e d’impazienza che tiene i loro compagni di fede cittadini. Ho avuto molte discussioni in proposito con mio nipote Bates, che sta assumendo la mia vecchia cura di Spettigue a Gandle-by-Hill. La sua opinione è che oggi una predica dev’essere un discorsetto vivace, senza fronzoli, penetrante, della durata massima di dieci o dodici minuti.

— Ma, santo cielo! — dissi; — vi sembra lunga la vostra predica sull’amor fraterno?

— Ci vogliono almeno cinquanta buoni minuti, per dirla tutta,

— No certamente!

— La vostra incredulità, mio caro Wooster, è eccessivamente lusinghiera, troppo più lusinghiera, naturalmente, ch’io non meriti. Nondimeno, le cose stanno come vi ho detto. Siete sicuro che non farei bene ad accorciarla in qualche punto? Che non sia meglio tagliare e sfrondare un poco? Potrei, per esempio, omettere quell’accenno alquanto lungo alla vita della famiglia degli antichi Assiri...

— Non toccate una parola, o guasterete tutto! — gli dissi con ardore.

— Sono lietissimo di udirvi parlar così, e dirò quella predica domenica mattina, senza fallo.

 

Ciò che ho sempre detto e che dirò sempre è che queste scommesse troppo anticipate sono un errore e una sciocchezza; non si può mai dire ciò che accadrà. Se gli uomini si comportassero diversamente ci sarebbero assai meno disgraziati. Il sabato mattina, avevo appena finita la prima colazione, quando Jeeves entrò nella mia camera a dirmi che Eustace mi aspettava al telefono.

— Buon Dio, Jeeves, che cosa c’è?

Cominciavo ad averne abbastanza.

— Il signor Eustace non m’ha confidato nulla, signore.

— Era eccitato?

— Eccitatissimo, a giudicarne dalla voce.

— Sapete che cosa penso, Jeeves? dev’essere accaduto qualche cosa al nostro favorito.

— Chi è il favorito, signore?

— Il signor Heppenstall; il vantaggio era buono; doveva fare la predica sull’Amor Fraterno che l’avrebbe fatto giungere al traguardo sorpassando tutti di parecchie lunghezze. Ma temo che gli sia accaduto qualche cosa.

— Potete accertarvene parlando col signor Eustace al telefono, signore. Vi aspetta ancora.

— Per Giove, sicuro!

Indossai la veste da camera e scesi le scale coll’impeto di una raffica di vento. Appena udii la voce di Eustace, capii di che si trattava; era una voce velata dall’angoscia.

— Bertie?

— Eccomi.

— Quanto ci avete messo! Bertie, siamo fritti! Il favorito è spacciato.

— No!

— Sì; non ha fatto che tossire nella sua stalla.

— Come!

— Assolutamente! febbre del fieno.

— Oh, mamma mia!

— Il dottore è andato a trovarlo e... si tratta soltanto di minuti... sarà cancellato dalla lista. Ciò significa che lo sostituirà il curato ch’è un vero e proprio ronzino; lo offrono a cento contro sei, ma nessuno abbocca. Che dobbiamo fare?

Rimasi muto un momento, senza riuscire a comprendere.

— Eustace.

— Pronto.

— Quanto potete fare con G. Hayward?

— Soltanto quattro a uno, adesso. Temo che qualcuno si sia lasciato scappar qualche cosa e che Steggles l’abbia saputo. Iersera tardi, il vantaggio è stato diminuito notevolmente.

— Ebbene, quattro a uno ci metterà a posto; mettete un altro cinquino su G. Hayward per il sindacato, e così rimarremo in attivo.

— Se vincerà.

— Che cosa intendete dire? Io pensavo che lo consideraste vincita sicura, una volta eliminato Heppenstall.

— Sapete, comincio a chiedermi, — disse tristemente Eustace, — se a questo mondo ci sia nulla di sicuro. M’han detto che il reverendo Joseph Tucker diede un saggio meraviglioso di galoppo finale alla funzione per le madri di famiglia a Badgwick, ieri. In ogni modo, sembra che sia la nostra sola possibilità di salvezza. Addio.

 

Non avendo alcun incarico ufficiale, la mattina seguente potevo visitare quante chiese volevo e, naturalmente, non esitai: soltanto, Lower Bingley aveva torto di esser lontano dieci miglia, cosicché avrei dovuto alzarmi presto; ma presi a nolo la bicicletta da un cameriere, e via.

Avevo avuto soltanto l’informazione di Eustace sulla bontà di G. Hayward, e poteva darsi anche ch’egli avesse mostrato a quel matrimonio in cui l’avevan sentito predicare i due gemelli, qualità troppo lusinghiere; ma al momento che salì sul pulpito, ogni mio sospetto tramontò. Eustace aveva ragione: si trattava d’un campione d’una resistenza formidabile; era un omone d’alta statura, dalla barba grigia; e prese fin dalla partenza un trotto spontaneo, con qualche pausa ogni tanto per schiarirsi la voce, alla fine d’ogni periodo; e non passarono cinque minuti che mi convinsi che sarebbe stato il vincitore. La sua abitudine di fermarsi a intervalli, guardando attorno per tutta la chiesa, costituiva per noi un vantaggio di minuti; e alla partenza poi guadagnavamo non poco, a causa di quel suo posar di occhiali che poi cercava a tastoni.

Dopo venti minuti, pareva che avesse appena cominciato a far sul serio; dopo venticinque, procedeva d’un trotto serrato invidiabile, e, quando finalmente cominciò lo scatto finale, l’orologio segnava trentacinque minuti e quattordici secondi. Con l’handicapche gli avevano dato, mi sembrava che dovesse vincere facilmente, e tornai a casa per la colazione pieno di buon umore e di ottimismo.

Quando arrivai. Bingo stava parlando al telefono.

— Bello! splendido! eccellente! — stava dicendo. — Eh? oh, non dobbiamo preoccuparci! Lo dirò a Bertie. — Appese il ricevitore e mi vide.

— Oh! Bertie! Stavo parlando con Eustace. Va tutto benissimo, vecchio mio. È appena giunto il rapporto da Lower Bingley. G. Hayward va benissimo.

— Lo sapevo; vengo di là.

— Ah, eravate là? Io sono stato a Badgwick. Tucker si comportò ottimamente, ma l’handicap era troppo per lui. Starkie aveva la gola secca e Roberts di Fale-by-the-Water è giunto terzo. Un buon vecchio, G. Hayward! — concluse Bingo, con accento affettuoso, mentre uscivano sulla terrazza.

— Ci sono già tutti? — chiesi.

 Tutti, tranne Gandle-by-the-Hill. Ma non dobbiamo preoccuparci di Bates; non ha nessuna probabilità di vincere. A proposito, il povero Jeeves ci perde il suo decino, povero ciuco!

— Jeeves? che intendete dire?

— È venuto da me stamattina, appena siete partito, e m’ha pregato di puntare un decimo su Bates, per lui; io gli ho detto che era pazzo e l’ho consigliato a non buttar via il denaro, ma ha voluto così.

— Scusate, signore; è arrivato questo biglietto proprio mentre eravate partito, stamattina, — fece Jeeves, comparso improvvisamente da non so dove.

— Eh? Come? Un biglietto?

— L’ha portato dal vicario il maggiordomo del Reverendo signor Heppenstall; ma era troppo tardi, per potervelo consegnare.

Bingo stava parlando con Jeeves in tono paterno, a proposito di scommesse contro i pronostici delle quotazioni, e il grido che mandai gli fece morder la lingua.

— Che diavolo c’è? — mi domandò seccato.

— Siamo traditi! Sentite! — Lessi il biglietto:

 

Dal Vicariato, Twing Glos.

 

Mio caro Wooster,

Come avrete udito, circostanze contro le quali non posso far nulla, m’impediscono di tenere la predica sull’Amor Fraterno che m’avete così lusinghevolmente richiesto. Non volendo però che restiate deluso, vi informo che se vorrete assistere al Servizio Divino che avrà luogo stamattina a Gandle-by-the-Hill sentirete il mio sermone dalla bocca di mio nipote Bates. Gli ho mandato il manoscritto, dietro sua urgente richiesta, perché, a dirlo fra noi, quando si può ci si aiuta. Mio nipote è uno dei candidati alla Presidenza d’una scuola pubblica assai nota e la scelta s’è ristretta tra lui e un altro competitore. iersera tardi, James è stato informato privatamente che il Capo del Consiglio della Scuola ha proposto di ascoltarlo quest’oggi, per poter giudicare dei suoi meriti di predicatore che potrebbero costituire un coefficiente assai importante per la scelta del Consiglio. Io ho aderito alla sua richiesta e gli ho mandato la mia predica sull'Amor Fraterno, della quale, a quanto pare, anch’egli, come voi, serba un così vivo ricordo. Per lui, comporre una predica di lunghezza conveniente, in luogo del breve discorso che, secondo me erroneamente, egli aveva preparato pel suo rustico pubblico, era ormai troppo tardi, ed ho voluto aiutarlo.

Confidando che la sua dizione della predica varrà a contraccambiare il buon ricordo che dite di averne, resto, cordialmente, vostro

F. Heppenstall.

 

PS. La febbre del fieno m’ha indebolito la vista spiacevolmente, cosicché sono costretto a dettare la presente al mio maggiordomo Brookfield che ve la consegnerà.

 

Non mi ricordo d’aver mai sentito un silenzio più solenne di quello che seguì alla lettura di questa cara lettera; Bingo inghiottì due o tre volte, e tutte le espressioni conosciute si succedettero sulla sua faccia. Jeeves ebbe un colpetto di tosse fievole, sommesso, simile a quello di una pecora a cui sia rimasto un filo d’erba in gola, poi cominciò a guardare intorno con indifferenza. Finalmente, Bingo parlò.

— Gran Dio! — disse con voce rauca. — Voi avevate avuto informazioni segrete, accidenti!

— Ma sì, signore, — disse Jeeves. — Brookfield, per caso, mi accennò il contenuto della lettera che m’aveva portato. Siamo vecchi amici.

Sulla faccia di Bingo si succedettero, l’una dopo l’altra, espressioni di dolore, d’angoscia, di rabbia, di disperazione e di risentimento.

— Ebbene, tutto ciò che posso dire, — gridò, — è che questo è un po’ troppo! Dire la predica scritta da un altro? Vi sembra onesto? Vi sembra che la corsa si possa chiamar regolare?

— Vecchio mio, — dissi, — siate giusto; non è affatto contro le regole; i preti fanno così sempre perché non sempre son tenuti a scrivere essi stessi le prediche che tengono.

Jeeves tossì di nuovo e mi guardò con occhio freddo.

— Nel caso presente, poi, signore, se posso prendermi la libertà di fare un’osservazione, penso che si dev’essere indulgenti. Dobbiamo ricordarci che questa Presidenza è tutto, per la giovine coppia.

— La giovine coppia? Quale giovine coppia?

— Del Reverendo James Bates, signore, e di Lady Cynthia. M’han detto ch’erano fidanzati da qualche settimana, per dir così, provvisoriamente... e la signorina aveva condizionato il suo consenso al conseguimento, da parte del Reverendo, d’un posto più importante e rimunerativo.

Bingo s’era fatto alquanto verde.

— Fidanzati?

— Sì, signore.

Seguì un silenzio.

— Penso che sia meglio che esca a fare una passeggiata, — concluse Bingo.

— Ma, mio caro, — gli osservai, — è ora di colazione. Fra un minuto sonerà il gong.

Non ho appetito, — disse Bingo.

  

14

L’INGENUITÀ AGRESTE

Dopo ciò, la vita a Twing continuò per qualche tempo abbastanza tranquilla; il paese non è uno di quei luoghi dove c’è molto da fare, né offre molti eccitamenti: infatti, il solo evento di qualche importanza che si mostrasse all’orizzonte, a quanto potevo saperne io, era il banchetto annuale offerto dalla scuola del villaggio. Si passava il tempo semplicemente girellando pei campi, giocando un po’ al tennis e cercando di evitare Bingo quant’era umanamente possibile. Questa precauzione era proprio necessaria, se si voleva viver tranquilli; poiché l’affare di Cynthia aveva colpito il disgraziato così profondamente che non faceva che attendere al varco qualcuno, per distillargli il suo animo straziato. E quando una mattina si precipitò nella mia camera, mentre stavo facendo la prima colazione, risolvetti di mostrarmi assai risoluto fin dal principio; dopo pranzo, e anche dopo colazione, potevo sopportare più o meno le sue geremiadi; ma alla prima colazione no; noi Woosters siamo la gentilezza personificata, ma c’è un limite.

Sentite, vecchio amico, — dissi, — so bene che il vostro disgraziato cuore è spezzato, e fra non molto tempo sarò ben lieto di udire tutto ciò che mi vorrete raccontare in proposito, ma...

— Non sono venuto per parlarvi di ciò!

— No? Lode al cielo!

— Il passato è morto, — disse Bingo. — Non parliamone più.

— Benissimo!

— Sono rimasto ferito nel più profondo del cuore, ma non parliamone.

— Non ne parlerò.

— Ignoratelo, dimenticatelo!

— Assolutamente!

Era parecchio tempo che non mi appariva così ragionevole.

— Stamattina son venuto a vedervi, — disse, tirando fuori di tasca un pezzetto di carta, — per chiedervi se volevate prender parte a un’altra piccola fortuna.

Se c’è una cosa per cui noi Woosters siamo semplicemente pazzi, è il sangue sportivo. Ingollai il resto della mia salsiccia e balzai a sedere tutt’orecchi.

— Continuate, — dissi. — È molto interessante, vecchio mio.

Bingo posò il foglio sul letto.

— Martedì della prossima settimana, — disse, — sappiatelo o no, avrà luogo il banchetto annuale della scuola del villaggio. Lord Wickhammersley offre all’uopo il suo terreno, dove avranno luogo giochi di prestigio, corse e altri divertimenti e poi sarà offerto il tè sotto una tenda. Ci sono anche sports.

— Lo so; me l’aveva detto Cynthia.

Bingo trasalì.

— Volete capirla di non far quel nome? Credete che sia fatto di pietra?

— Scusate!

— Bene, come vi stavo dicendo, la festa avrà luogo martedì. Vi domando: ci saremo?

— Che cosa intendete dire, chiedendo se ci saremo?

— Intendo alludere agli sports. Steggles è andato così bene con l’handicap della predica che ha deciso di tenere scommesse su queste gare. I puntatori possono scommettere sia anticipatamente che alla partenza. Credo che valga la pena di prender la cosa in considerazione.

Sonai il campanello.

— Consulterò Jeeves; non voglio più accettare nessuna proposta sportiva, senza il suo consiglio. Jeeves, — dissi, vedendolo entrare, — venite qua.

— Signore?

— Fermatevi qua; vogliamo il vostro consiglio.

— Benissimo, signore.

— Esponete il vostro caso, Bingo.

Quando Bingo ebbe finito, chiesi a Jeeves che ne pensasse.

— Dobbiamo prendervi parte?

Jeeves rifletté per qualche tempo.

— Io sarei disposto a favorire l’idea, signore.

La conclusione mi appagò.

— Va bene, — dissi; — allora, formeremo un sindacato; io fornirò il denaro, voi ci metterete il cervello e Bingo... che ci metterete voi, Bingo?

— Se accettate e mi permettete di sistemarmi, — disse Bingo, — io penso che potrò mettervi in condizioni di vincere qualche cosa sulla Corsa nei Sacchi delle Madri.

— Benissimo; voi sarete il nostro informatore particolare. Ora, vediamo: che gare ci sono?

Bingo prese il suo foglio e lo consultò.

— Sembra che la festa s’inizi con la Corsa Veloce di cinquanta metri, per le ragazze al disotto dei quattordici anni.

— Avete nulla da dire in proposito, Jeeves?

— No, signore; non ho alcuna informazione.

— Che cosa viene dopo?

— Corsa mista della patata e della bestia, per ragazzi e ragazze di tutte le età.

Questa era per me una novità; non avevo mai udito parlare di cose simili.

— Che cos’è questa roba?

— Molto divertente, — disse Bingo. — I competitori entrano in coppia, e a ogni coppia vengono assegnati una patata e il grido di un animale. Per esempio, supponiamo che si tratti di voi e di Jeeves; Jeeves deve star fermo in un dato posto, tenendo una patata; voi avete la testa in un sacco e camminate a tastoni, cercando di trovar Jeeves e fate un verso come quello del gatto; Jeeves deve fare lo stesso verso. Gli altri competitori fanno versi da maiali, da vacche, da cani e così via, e cercano a tastoni il loro compagno che tiene la patata e che fanno anch’essi versi da maiali, da vacche, da cani e così via...

A questo punto l’arrestai.

— Sarà bello, se vi piacciono le bestie, — dissi, — ma in complesso...

— Precisamente, signore, — disse Jeeves. — Io proporrei di non entrarci.

— Troppo aperto, eh?

— Esattamente, signore. È difficile stimare il valore dei campioni.

— Avanti, Bingo; dopo, che cosa viene?

— La corsa nei sacchi delle madri.

— Ah, questa è migliore; per questo, voi avete qualche informazione?

— È la specialità della signora Penworthy, la moglie del tabaccaio, — disse in tono confidenziale Bingo. — Ero nella sua bottega ieri, a comperare delle sigarette, e m’ha confidato che ha vinto tre volte alla fiera di Worcestershire. È venuta a stare da queste parti soltanto poco tempo fa, così nessuno ne sa nulla; m’ha promesso di non farlo sapere a nessuno e penso che potremmo fare una fortuna.

— Possiamo arrischiare un decino, scommettendo in tutti e due i modi, vi pare, Jeeves?

— Così penso, signore.

— Gara dell’uovo e del cucchiaio, per ragazze, — lesse Bingo.

— Che ne dite?

— Temo che non valga la pena di scommettere, signore, — disse Jeeves. — Mi dicono che vincerà quasi sicuramente la vincitrice dell’anno scorso, Sarah Mills che sarà senza dubbio la favorita.

— È buona?

— Mi dicono nel paese che porta l’uovo magnificamente, signore.

— Poi c’è la corsa con gli ostacoli, — disse Bingo. — Rischiosa, secondo me. È come scommettere al Gran National. Gara dei cappelli, per padri... Speculativa anche questa. Ecco tutto, oltre l’Handicap dei Cento metri pei ragazzi del coro, con un premio costituito da un vaso di peltro che offre il Vicario... accessibile a tutti i ragazzi che non abbiano stonato mai dalla seconda domenica di Epifania. Willie Chambers, l’anno scorso, ha vinto in un piccolo galoppo, avendo ricevuto quindici metri. Stavolta sarà handicapped fuori corsa. Non saprei che consigliare.

— Se posso permettermi un suggerimento, signore...

Guardai Jeeves con interesse, non mi ricordo d’averlo mai visto quasi eccitato come in quel momento.

— Avete qualche cosa sottomano?

— Sì, signore.

— Di straordinario?

— Precisamente così, signore; credo di poter asserire senz’altro che abbiamo il vincitore dell’Handicap dei coristi, in casa nostra, signore: è Harold, il lacchè.

— Il lacchè? Volete dire quel marmocchio tondo come una botticella e corazzato di bottoni che vediamo sempre rotolare qua intorno? Ma, accidenti! Jeeves... nessuno ha un più grande rispetto di quello che ho io per la vostra facoltà di giudizio, ma che sia impiccato, se Harold è un campione degno di qualche attenzione! Se è tondo come una palla e lo vedo sempre sonnecchiare appoggiato a qualche sostegno.

— Riceve trenta metri, signore, e potrebbe vincere senza. Vola!

— Come lo sapete?

Jeeves tossì e mi guardò con occhio trasognato.

— Rimasi stupito quanto voi, signore, quando m’accorsi la prima volta della virtù di quel ragazzo. Mi accadde di corrergli dietro, una mattina con l’intenzione di dargli un colpetto sulla testa...

— Gran Dio, Jeeves! Voi?!

— Sì, signore; il ragazzo è assai linguacciuto e aveva fatto un’osservazione obbrobriosa intorno alla mia persona.

— Che disse, intorno alla vostra persona?

— L’ho dimenticato, signore, — disse Jeeves, con una certa solennità. — Ma era una cosa vergognosa. Volevo correggerlo, ma, dopo un minuto, m’aveva già distanziato di parecchi metri e mi sfuggì.

— Ma, dico, Jeeves, questo è sensazionale. E poi... se è un trottatore formidabile, come mai nessuno del paese se n’è accorto? Certamente gioca cogli altri ragazzi.

— No, signore; come lacchè di un Lord, Harold non si mescola con gli altri ragazzi del paese.

— È un po’ snob, forse?

— In certo modo, ci tiene alla distinzione di classe, signore.

— Siete assolutamente sicuro ch’egli è una meraviglia simile? — disse Bingo.

— Voglio dire, se non ne siete sicuro, non arrischiamo nulla.

— Se voi desiderate assicurarvi delle virtù del ragazzo, osservandolo personalmente, signore, sarà facile preparare un esame segreto.

— Sto per dire che mi sentirei più tranquillo.

— Allora, se posso prendere uno scellino dalla vostra tavola da toilette?...

— Per che farne?

— Mi propongo d’insegnare al ragazzo a parlar senza riguardo dello strabismo del secondo cameriere, signore. Charles è, in certo modo, assai sensibile, su questo punto, e certamente lo farà trottare, signore. Se voi vi mettete alla finestra del primo piano che dà sopra la porta, dietro la casa, tra mezz’ora...

Non mi ricordo d’essermi mai vestito con tanta fretta; di regola, quando si tratta di alzarmi dal letto e di vestirmi, sono assai lento; mi piace trastullarmi con la cravatta, vedere se i calzoni sono perfettamente a posto, eccetera; ma quella mattina feci tutto in un lampo. Scivolai dentro i panni come potei e raggiunsi Bingo alla finestra, con un quarto d’ora d’anticipo.

La finestra designata guardava su una specie di grande cortile lastricato che terminava dopo venti metri in un arco che s’apriva in un altro muro. Al di là dell’arco, c’era un tratto di strada che svoltava dopo altri trenta metri e si perdeva nel bosco. Mi posi immaginariamente nei panni del marmocchio e pensai che cosa avrei fatto, se fossi stato rincorso dal secondo cameriere. Non c’era che una cosa da fare: correre verso il bosco e rifugiarvisi; ciò significava un percorso di cinquanta metri che costituiva una prova eccellente. Se Harold poteva aver ragione del cameriere tanto da riuscire a raggiungere il bosco, non c’era ragazzo in tutta l’Inghilterra che potesse dargli un vantaggio di trenta metri su cento. Aspettai tutto trepidante per uno spazio che mi sembrò di ore, poi improvvisamente si levò un grande strepito e qualche cosa di rotondo turchino e scintillante di bottoni passò come un fulmine attraverso la porta, slanciandosi verso l’arco; due secondi più tardi, passò il secondo cameriere a tutta velocità. Non c’era nulla da fare. Il ragazzo era il vincitore assoluto. Molto tempo prima che il cameriere giungesse a metà del percorso, Harold aveva già raggiunto il bosco e aveva cominciato a scagliar sassi. Mi staccai dalla finestra, commosso fino al midollo, e quando incontrai Jeeves sulle scale, per poco non gli strinsi la mano.

— Jeeves, — dissi, — senza discussioni! La camicia dei Woosters sarà puntata su questo ragazzo!

— Benissimo, signore, — disse Jeeves.

 

Il peggio di queste gare di paese è che voi non potete approfittarne quanto vorreste, perché ciò allarma il Ring. Steggles, come ho dimostrato, non era un pazzo, e s’io avessi puntato quanto volevo puntare, avrebbe mangiato la foglia; ciò non ostante, feci in modo di puntare vantaggiosamente per il sindacato, quantunque ciò lo rendesse guardingo: sentii infatti, pochi giorni dopo, che aveva fatto ricerche per tutto il paese, sul conto di Harold; ma nessuno poteva dirgli nulla ed egli dovette giungere alla conclusione ch’io contassi molto sul vantaggio di trenta metri. La pubblica opinione ondeggiava tra Jimmy Goode che riceveva dieci metri, a sette contro uno, e Alexander Bartlett che ne riceveva sei, a sette contro quattro. Willie Chambers, senza vantaggio, era offerto al pubblico a due contro uno, ma nessuno puntava. Non contavamo affatto sulla corsa più importante, e non appena ebbimo posto il nostro denaro a cento contro dodici, cominciammo a sottoporre Harold a un rigoroso allenamento. Naturalmente, la cosa era seccante, ed ora posso comprendere perché la maggior parte dei grandi allenatori siano sempre così cupi e muti, come se avessero sofferto chi sa quali sventure. Il ragazzo aveva bisogno di sorveglianza continua; era inutile parlargli d’onore e di gloria e dirgli quanto orgogliosa sarebbe stata sua madre quand’egli le avesse scritto che aveva vinto una coppa vera... era tutto inutile, dal momento che il ragazzo aveva scoperto che allenamento significava rinunciare ai dolci, esercitarsi, fare a meno di sigarette, tutte cose che gli andavano poco a fagiolo; era tutto inutile... e per riuscire a tenerlo un po’ «in forma», dovevamo esercitare una vigilanza incessante. L’imbarazzo più grosso era la dieta; generalmente, potevamo fargli fare, con l’aiuto del secondo cameriere, una corsa ogni mattina. Si spendeva del denaro, naturalmente, ma non si poteva farne a meno. Ma quando un ragazzo non ha che aspettare che il maggiordomo volti le spalle, per precipitarsi nella dispensa, e non ha che a dare una capatina in salotto per trovar pronta una manata delle migliori sigarette turche, l’allenamento diventa un’impresa difficilissima. Potevamo soltanto sperare che il gran giorno, le sue virtù naturali trionfassero. Poi, una sera, Bingo tornò dal campo del golf con una novità brutta; egli aveva preso l’abitudine di allenare discretamente Harold nel pomeriggio, prendendolo seco come assistente.

E dire che cominciò a raccontar la cosa scherzando, il disgraziato! Era tutto allegro, narrandoci quella ch’era la nostra disgrazia!

— Che ridere, oggi! — disse. — Avreste dovuto veder la faccia di Steggles!

— La faccia di Steggles? Perché?

— Quando vide Harold in volata.

Il triste presentimento d’un atroce destino mi colpì subito.

— Santo cielo! Non l’avrete lasciato correre davanti a Steggles?

Bingo restò a bocca aperta.

— Non ci avevo pensato, — disse tristemente. — Non è stata mia colpa; stavo giocando con Steggles, e finito il primo assalto, entrammo nel caffè del Circolo per bere, lasciando fuori Harold, a custodire i bastoni. Dopo cinque minuti, uscimmo e vedemmo il marmocchio che tirava colpi alle pietre con la mazza di Steggles. Quando ci vide venire lasciò cadere la mazza e si slanciò come un fulmine. Steggles rimase stupefatto e debbo dire che fu una rivelazione anche per me. Certamente il ragazzo correva più che poteva. È una gran seccatura, naturalmente; ma, riflettendoci, — disse Bingo, un po’ meno triste, — non vedo che cosa ciò possa importare. Abbiamo già puntato a buon prezzo e non corriamo alcun rischio, anche se gli altri vengono a conoscere le virtù del campione; credo che in conseguenza non partirà più a condizioni pari, ma questo non ci nuoce affatto.

Guardai Jeeves che mi guardò a sua volta.

— Ma ci nuocerà nel caso che non lo facciano correre affatto!

— Precisamente, signore.

— Che volete dire? — chiese Bingo.

— Se me lo chiedete, — dissi, — penso che Steggles cercherà di metterlo fuori combattimento.

— Buon Dio! Non ci avevo pensato, — disse Bingo, impallidendo. — Pensate davvero così?

— Credo che farà il possibile. Steggles è cattivo. D’ora in poi, Jeeves, dobbiamo sorvegliare Harold, come tanti falchi.

— Indubbiamente, signore.

— Sorvegliarlo senza posa, vi pare?

— Precisamente, signore.

— Non vi rincrescerebbe dormire nella sua camera, Jeeves?

— No, signore.

— Neanche a me, se fosse necessario; ma, accidenti! — dissi, — non dobbiamo perder la testa! Mi pare che perdiamo per poco, e questo non va. Com’è possibile che Steggles molesti il ragazzo, anche se ne ha l’intenzione?

Ma non c’era verso di far tornare allegro Bingo, che è uno di quegli individui che si spaventano alla sola idea di una disgrazia.

— Ci sono tanti modi di metter fuori combattimento i favoriti, — disse con una voce da moribondo. — Dovreste leggere certi romanzi sportivi. In Tradita sul posto, Lord Jasper Mauleverer mise fuori combattimento Bonny Betsy facendole mettere un cobra nella stalla, la notte precedente al Derby!

— Ci sono probabilità che un cobra possa mangiarsi Harold, Jeeves?

— Poche, credo, signore. E in tal caso, conoscendo intimamente il ragazzo come lo conosco io, la mia ansietà sarebbe tutta per il serpente.

— Ma, egualmente, è necessario vigilare senza posa, Jeeves.

— Certamente, signore.

Ultimamente ero abbastanza stanco di Bingo; sta bene che un individuo che possiede un campione straordinario debba esercitare una rigorosa sorveglianza; ma mi pareva che Bingo esagerasse. Il cervello del disgraziato era saturo di romanzi sportivi, e, in racconti di quel genere, a quanto ho potuto comprendere, non c’è cavallo che riesca a correre, senza prima essere stato vittima di almeno una dozzina di attentati. Stava sempre attorno ad Harold come un empiastro, e non gli levava gli occhi di dosso un momento; è vero che il marmocchio era l’unica fortuna del mio disgraziato amico, il quale contava sulla sua vittoria per ricavare il denaro che gli permettesse di smetter di fare il tutore e tornarsene a Londra; ma vi par giusto che dovesse svegliarmi due volte di seguito alle tre del mattino... una volta per dirmi che dovevamo preparare il cibo di Harold colle nostre mani, per timore che qualcuno lo avvelenasse, l’altra per dirmi che aveva inteso nel bosco rumori poco rassicuranti? Ma oltrepassò ogni limite, secondo me, quando insistette perché andassi alle funzioni della domenica sera, vigilia delle corse.

— Ma perché mai? — gli chiesi, io che non sono troppo amante della musica sacra.

— Perché non ci posso andar io; non sarò qua domenica; domani devo andare a Londra con Egbert. — Egbert era il figlio di Lord Wickhammersley che Bingo istruiva. — Deve andare per una visita nel Kent, e devo accompagnarlo fino a Charing Cross. È una disgrazia infernale; non potrò tornare che martedì nel pomeriggio, e dovrò perdere quasi tutte le corse. Perciò tutto dipende da voi, Bertie.

— Ma perché l’uno o l’altro di noi deve andare alla funzione?

— Ciuco! Harold canta nel coro, non lo sapete?

— Ebbene? Se avete paura che si sloghi il collo emettendo un’acuta, credete ch’io glielo possa impedire?

— Pazzo! Nel coro c’è anche Steggles che canta. Può darsi che durante le funzioni gli faccia qualche brutto tiro.

— Che maledizione!

— Vero? — disse Bingo. — Ebbene, lasciate che vi dica che in Jenny, la ragazza fantino, un mascalzone rapisce il giovane che deve montare il cavallo, proprio lo notte prima della corsa, ed egli era il solo che sapesse comprenderlo e guidarlo, e se l’eroina non si fosse vestita da fantino e...

— Benissimo, benissimo! Ma e vi è qualche pericolo, mi sembra che la cosa più semplice sarebbe che Harold se ne stesse a casa.

— Ma ci deve andare! E poi... voi credete che quell’infernale ragazzo sia un modello di rettitudine, ben voluto da tutti; ha la peggiore reputazione fra i ragazzi di tutto il paese; la sua fama si fa ogni giorno peggiore. Ne ha già fatte tante, che il vicario gli ha detto che alla prima che farà lo caccerà via. Bella figura che si farebbe, se fosse cancellato dalla lista la sera prima della corsa!

Naturalmente, se le cose stavano così, non c’era da far altro che andare alle funzioni.

C’è qualche cosa, nelle funzioni serali d’una chiesa di campagna, che dà una certa indolenza, un senso di tranquillità e quasi di pace, dopo un giorno finito bene. Il vecchio Heppenstall stava al pulpito e parlava con una specie di belato monotono che cullava il pensiero. Avevan lasciato la porta aperta e l’aria era piena d’un odore di fogliame, di madreselva e di abiti domenicali dei paesani. Fin dove giungeva l’occhio, si vedevan contadini appoggiati al muro in atteggiamenti tranquilli, respirando gravemente; e i bambini della congregazione, che, durante la prima parte dell’officio, non erano stati capaci di star fermi, ora sedevano quieti, immersi in una specie di dolce torpore. Gli ultimi raggi del sole cadente splendevano attraverso i vetri colorati delle finestre, gli uccelli cinguettavano fra gli alberi, le vesti femminili frusciavano gentilmente nel silenzio. C’era un senso di tranquillità che faceva apparire tutto e tutti in pace. E per questo appunto l’esplosione, quando avvenne, sembrò la fine del mondo.

La chiamo esplosione, perché tale parve quando accadde. Un momento, un silenzio di sogno teneva tutta la chiesa, interrotto soltanto dalla voce del vecchio Heppenstall che parlava dei nostri doveri verso il prossimo; un momento, dopo uno strillo improvviso e penetrante mi lacerava gli orecchi e mi correva giù pel filo della schiena, sino alla pianta dei piedi.

— Ii-ii-ii-ii-iii! Oo-ii! Ii-ii-ii-ii-ii!

Era come se avessero torto contemporaneamente la coda a un centinaio di maiali; ma era semplicemente Harold che sembrava in preda a un accesso di pazzia; saltava qua e là, picchiandosi con una mano dietro il collo, e ogni secondo prendeva un profondo respiro e lanciava un nuovo strillo.

Naturalmente, non si può fare una cosa simile nel bel mezzo d’una predica, durante le funzioni serali, senza suscitare un grande trambusto. La congregazione uscì dal suo sogno con un balzo e si precipitò verso il coro, per vedere. Il vecchio Heppenstall si fermò a metà d’una frase e accorse, mentre un paio di sacrestani, con grande presenza di spirito, traversarono la navata, correndo come leopardi, s’impadronirono di Harold che strillava ancora e lo cacciarono fuori. Scomparvero tutti nella sacrestia, ed io, afferrato il cappello, mi feci sulla porta, in preda all’apprensione e ai peggiori pensieri. Non potevo comprendere che cosa fosse accaduto, ma in qualche modo avevo il presentimento che in quella faccenda si nascondesse la mano dello sciagurato Steggles.

 

Quando arrivai sul posto e mi fui fatto aprir la porta, tutto sembrava finito. Il vecchio Heppenstall stava in mezzo a una folla di ragazzi del coro e di sagrestani, e investiva il disgraziato con veemenza. Era giunto alla fine di una paternale terribile.

— Disgraziato, come osate...

— Ho la pelle delicata, io!

— Questo non è il momento di parlare della vostra pelle!...

— Qualcuno m’ha messo uno scarafaggio giù per la schiena!

— Non dite assurdità!

— Lo sentivo muoversi...

— Sciocchezze!

— Che furbacchione, eh? — disse qualcuno al mio fianco.

Era Steggles, che Dio lo maledica:... Vestito d’un niveo camice, o cotta, o quel che lo chiamano, e con un’espressione di grave interesse, il disgraziato ebbe la fredda, cinica faccia tosta di guardarmi negli occhi, senza batter ciglio.

— Gli avete messo voi lo scarafaggio giù per il collo? — gridai.

— Io! — disse Steggles; — io!

Il vecchio Heppenstall era furibondo.

— Non credo una parola della vostra storia, sciagurato! vi avevo già avvertito, ed ora è venuto il momento di agire. Da questo momento voi cessate di far parte del mio coro! Andatevene, miserabile ragazzo!

Steggles mi afferrò per la manica.

— In tal caso, — disse, — quelle scommesse che voi sapete... mi dispiace che abbiate perduto il vostro denaro, vecchio mio! È un peccato che non abbiate aspettato a scommettere alla partenza. Io penso sempre che le scommesse alla partenza sian l’unica via di salvezza.

Gli detti un’occhiata... tutt’altro che benevola, naturalmente.

— E poi parlano di ingenuità agreste! — dissi; e intendevo d’esser pungente, per Giove!

Jeeves ricevette la notizia con coraggio, ma credo che internamente fosse molto seccato.

— Un signorino assai ingegnoso, quello Steggles, signore.

— Un emerito imbroglione, volete dire!

— Forse sarebbe più esatto; però, cose simili accadono in campagna ed è inutile lamentarsi.

— Vorrei avere la vostra serenità di spirito, Jeeves.

Jeeves s’inchinò.

— Ora, signore, contiamo quasi assolutamente sulla signora Penworthy, a quanto pare: s’ella giustifica gli elogi del signor Little e si fa onore nella corsa nei sacchi delle madri, la nostra vincita bilancerà la perdita.

— Sì, ma non è una grande consolazione, dopo d’essersi aspettati di fare una vincita colossale.

— Può darsi che ci troviamo egualmente in attivo, dopo tutto, signore. Prima che il signor Little partisse, l’ho persuaso a fare una piccola puntata per il sindacato di cui siete stato tanto gentile di farmi membro, sulla corsa col cucchiaio e l’uovo per le ragazze.

— Su Sarah Mills?

— No, signore; su un campione affatto oscuro: la piccola Prudence Baxter, signore, la bambina del giardiniere-capo di Sua Signoria. Suo padre mi assicura che ha una mano veramente ferma; è abituata a portargli da casa ogni pomeriggio il suo bicchiere di birra e non ne versa mai una goccia.

Era come se avessimo già misurato la capacità di Prudence e ne fossimo soddisfatti. Ma per la velocità? Con campioni così stagionati come Sarah Mills, la corsa assumeva un carattere classico, e in eventi sportivi così importanti è necessaria anche la velocità.

— Sapevo che questo era ciò che si chiama un colpo di testa, signore. Tuttavia ho pensato che fosse giudizioso far così.

— L’avete puntata anche per la terna vincitrice, naturalmente?

— Sì, signore! in tutti e due i modi.

— Ebbene, supponiamo che vada benissimo; non vi ho mai visto fare spropositi.

— Grazie infinite, signore.

 

Sto per dire che, come regola generale, intendo che per passare un buon pomeriggio bisogna tenersi lontano dalle feste scolastiche, il più possibile. La festa di cui si parlava da tanto tempo, doveva essere terribilmente noiosa; ma con eventi così importanti in vista, in quell’occasione, abbandonai ogni pregiudizio e ci andai. M’accorsi subito che tutto era meschino quanto m’ero figurato.

Faceva caldo e il campo era una vera e propria massa, densa e liquida, di contadiname; i ragazzi correvano inquieti qua e là, e uno d’essi, una bambina minuscola, mi afferrò per una mano e mi si appese addosso, mentre cercavo di fendere la folla, avviandomi verso il luogo dove stava per finir la corsa nei sacchi delle madri. Non eravamo stati presentati, ma la bambina doveva esser convinta ch’io le potevo servire come qualsiasi altro per parlare della sua bambola che aveva vinta in una gara, e cominciò a parlarne infatti con una profusione straordinaria.

— La chiamerò Gertrude, — mi disse; — e la svestirò ogni sera e la metterò a letto, poi la sveglierò la mattina e la vestirò, e alla sera la metterò a letto, e la mattina dopo la sveglierò e la vestirò...

— Cara, — dissi, — non per offendere i vostri sentimenti, ma non potreste essere un po’ più concisa? Sono alquanto ansioso di veder finire questa corsa. La fortuna di Wooster poggia quasi tutta su di essa.

— Presto prendo parte a una corsa anch’io, — disse la bambina, riponendo all’uopo la bambola per scendere alla conversazione ordinaria.

— Sì? — dissi distrattamente, mentre tentavo di fender la folla. — A quale corsa?

— Delle uova e del cucchiaio.

— No, davvero? Siete Sarah Mills?

— Nooh! — Sembrò offesa. — Io sono Prudence Baxter.

Naturalmente questa rivelazione diede alla nostra relazione un carattere diverso; cominciai subito a guardarla con considerevole interessamento: era una della scuderia. Veramente, non aveva la struttura d’un corridore straordinario; era corta e grossa; poco adatta, a quanto giudicai.

— Dico, — feci, — se le cose stanno così, non dovete andare in giro a prendere il sole e stancarvi; dovete conservare le vostre energie, vecchia amica. Sedetevi qui, all’ombra.

— Non ho voglia di sedermi.

— Ebbene, riposatevi almeno, a ogni modo.

La bambina passò a un altro argomento, come una farfalla che svolazza da un fiore all’altro.

— Io sono una buona ragazza, — disse.

— Lo credo bene. Spero anche che siate una eccellente portatrice d’uova.

— Harold è un cattivo ragazzo: Harold ha strillato in chiesa ed ora non può venire alla festa. Io sono contenta, — continuò quest’ornamento del suo sesso, arricciando il naso con l’aria della virtù offesa, — perché è un cattivo ragazzo. Venerdì m’ha tirato i capelli. Harold non verrà alla festa! Harold non verrà alla festa! — cominciò a canterellare, facendo della frase una vera e propria canzone.

— Non tenetela troppo lunga, cara la mia figlia del vecchio giardiniere, — pregai. — Voi non lo sapete, ma state toccando un argomento penoso.

— Ah! Wooster mio caro! Così, vi siete fatto amico di questa signorina?

Era il vecchio Heppenstall, vita e anima della festa, tutto scalmanato.

— Sono lietissimo, mio caro Wooster, — continuò, — sono lietissimo di vedere che voi giovinetti prendete parte allo spirito di questa nostra piccola festa.

— Oh, sì? — dissi.

— Oh sì! anche Rupert Steggles; devo dichiarare che la mia opinione su di lui s’è mutata in meglio, oggi.

La mia non s’era mutata affatto, ma non dissi nulla.

— Per dirla tra noi, avevo considerato Steggles un giovane alquanto egoista, tutt’altro che il tipo da prestarsi per il piacere dei suoi compagni; e invece, solo durante l’ultima mezz’ora, l’ho visto due volte accompagnare la signore Penworthy, la degna moglie del nostro tabaccaio, alla tenda dei rinfreschi.

Lo piantai in asso, mi liberai della bambina che mi teneva ancora stretta la mano e mi affrettai verso il punto dove stava per finire la corsa nei sacelli. Avevo un orribile presentimento che fosse stato preparato qualche tranello. La prima persona che incontrai fu Bingo; l’afferrai per un braccio.

— Chi ha vinto?

— Non lo so; non ha notato. — La voce del disgraziato era piena d’amarezza. — Ma la vincitrice non è la signora Penworthy, che le venga un accidente! Bertie, quel cane di Steggles è la nostra maledizione! Non so come abbia fatto a saperlo, ma dev’essere riuscito a capire che quella donna era un campione pericoloso. Sapete che ha fatto? Ha condotto quella miserabile nella tenda, cinque minuti prima che cominciasse la corsa e l’ha talmente rimpinzata di tè e di dolci, da farla scoppiare dopo i primi venti metri. Ha dovuto gettarsi a terra, senza potersi più rialzare! Bene, grazie a Dio, ci resta Harold.

Lo guardai a bocca aperta.

— Harold? Non avete saputo?

— Saputo? — Si fece color verde pallido. — Saputo che cosa? Io non ho saputo niente; sono arrivato soltanto cinque minuti fa e son venuto dritto qui, dalla stazione. Che è accaduto? Ditemelo!

Gli raccontai tutto; egli mi guardò un momento con occhi imbambolati, poi si voltò con un gemito cupo e si perdette tra la folla.

Per lui era un colpo terribile, poveretto; non potevo biasimarlo d’esserne tutto sconvolto.

Stavano preparando il terreno per la corsa dell’uovo e del cucchiaio e pensai che avrei potuto restare a vederla. Non che avessi molta speranza; Prudence era una buona conversatrice, ma mi sembrava che non avesse affatto la struttura d’un corridore destinato a vincere. Da quanto potei vedere attraverso la folla, partirono abbastanza veloci: una bambina bassa di statura e dai capelli rossi apriva la corsa; seconda veniva una bionda lentigginosa; Sarah Mills era terza. La nostra favorita sembrava sviarsi ed era molto indietro. Non era difficile fin d’allora indovinare chi dovesse vincere; c’era una grazia, una precisione tale, nel modo con cui Sarah Mills portava il suo uovo!... La bambina procedeva di buon passo, ma l’uovo non tremava neppure; era una portatrice nata, se ce n’era mai stata una.

Ma non bisogna mai fare i conti senza l’oste. A trenta metri dal traguardo, la bambina dai capelli rossi inciampò e rovesciò l’uovo sull’erba; la bionda procedeva coraggiosamente, ma s’allontanava dal cammino giusto e Sarah Mills l’oltrepassò e giunse al traguardo di buon passo, vincendo per parecchie lunghezze. La bionda fu seconda; una donna sbuffante, vestita d’un gingamo turchino batté una bambina vestita di rosa, togliendole il terzo posto, e Prudence Baxter, la speranza di Jeeves, arrivò, non potei vedere se quinta o sesta.

Poi mi lasciai portare dalla folla verso il vecchio Heppenstall che distribuiva i premi e mi trovai poco lontano da Steggles.

— Ehi, vecchio mio! — mi gridò allegro e raggiante. — È stata una cattiva giornata per voi, temo.

Lo guardai con muto disprezzo, di cui egli naturalmente non s’accorse.

— Non è stata una buona giornata per nessuno dei più forti puntatori, — continuò. — Il povero Bingo Little è andato molto male con la corsa dell’uovo.

Non avevo nessuna intenzione di rispondergli ma non potei fare a meno.

— Che intendete per una cattiva giornata? — dissi. — Noi... ehm... abbiamo scommesso assai poco.

— Non so che cosa sia poco, per voi. Bingo ha puntato trenta sterline sulla piccola Baxter.

Il paesaggio cominciò a ballarmi davanti agli occhi.

— Come!

— Trenta sterline, dieci contro uno. Pensavo che avesse udito qualche cosa, ma credo di no; la corsa andò proprio secondo i pronostici.

Cercavo di far le somme mentalmente; stavo per rendermi conto delle perdite complessive del sindacato, quando udii in distanza la voce del vecchio Heppenstall. Distribuendo i premi per le altre corse era stato abbastanza paterno e di buon umore, ma ora pareva improvvisamente addolorato e turbato; guardava la moltitudine con aria angosciosa.

— Riguardo alla corsa del cucchiaio per le ragazze, testé chiusasi, — egli disse, — ho un penoso dovere da compiere. Si sono verificate circostanze ch’è impossibile ignorare; non occorre dire che ne sono rimasto sbalordito. — Lasciò al popolino cinque secondi per meravigliarsi di ciò che l’aveva sbalordito, poi continuò: — Tre anni fa, come ben sapete, fui costretto a cancellar dalla lista delle gare della festa annuale uno dei partecipanti, in seguito a informazioni relative a scommesse che sarebbero state fatte all’osteria del paese e al sospetto che almeno in un’occasione la corsa fosse stata venduta dal campione più veloce. Quel malaugurato incidente scosse la mia fiducia nella natura umana, lo ammetto... ma tuttavia restava almeno una corsa ch’io confidavo che non dovesse essere contaminata dai miasmi del professionalismo: voglio dire la corsa col cucchiaio delle ragazze; ma sembra, ahimè! ch’io sia troppo ottimista.

Si fermò di nuovo, cercando di dominare il proprio dolore.

— Non vi seccherò con particolari spiacevoli; vi dirò semplicemente che prima che la gara avesse luogo, uno straniero, il servo d’uno degli ospiti di Hall (non voglio farne il nome) avvicinò parecchi dei competitori, offrendo loro cinque scellini, a patto che rinunciassero a vincere. Un tardo senso di rimorso l’ha indotto poi a confessare quanto aveva fatto, ma era troppo tardi; il male è accaduto e il compenso deve aver luogo. Non è tempo da mezze misure; debbo essere energico: dichiaro che Sarah Mills, Jane Parker, Bessie Clay e Rosie Jukes, le prime quattro che hanno toccato il traguardo, sono squalificate; e questa magnifica borsetta offerta da Lord Wickhammersley, spetta, in conseguenza, a Prudence Baxter. Prudence, fatevi avanti.

  

15

IL GUSTO CITTADINO

Nessuno è più disposto di me ad ammettere il fatto che Bingo Little è, sotto molti rispetti, un buon amicone; dacché siamo stati insieme a scuola, in un modo o nell’altro, si è sempre presa cura di rendermi interessante la vita, e, come compagno per passare un’ora piacevole credo che lo preferirei a qualsiasi altro. D’altra parte, sono costretto ad ammettere che vi sono alcuni aspetti del suo carattere che potrebbero esser migliori; la sua abitudine d’innamorarsi d’ogni ragazza che vede e la sua debolezza di comunicare al mondo intero il segreto del suo cuore, non sono certo virtù. Se avete bisogno di mantenere un segreto, non confidatelo a Bingo perché sarebbe lo stesso che se ne facesse la massima pubblicità sui giornali.

Voglio dire... anzi, eccovi il telegramma che ricevetti da lui, una sera di novembre, circa un mese dopo il mio ritorno in città da Twing Hall:

 

Dico Bertie vecchio mio sono innamorato alfine. Bertie vecchio mio è la più meravigliosa ragazza che abbia mai visto. Alfine è il vero amore Bertie. Venite qui subito e conducete Jeeves. Oh dico sapete quella tabaccheria di Bond Street alla sinistra entrando. Volete comprarmi un centinaio di quelle sigarette speciali e mandarmele qui. Ho finito. So che quando la vedrete la giudicherete la più meravigliosa ragazza che abbiate mai visto. Ricordatevi di condurre Jeeves. Non dimenticatevi le sigarette. Bingo.

 

Era stato consegnato all’ ufficio postale di Twing; in altre parole, egli aveva sottoposto quel po’ po’ di confessione agli occhi sgranati dell’impiegata postale del luogo, che, molto probabilmente, era la fonte principale dei pettegolezzi paesani e che avrebbe riempito il villaggio di quella novità prima di sera. Non avrebbe potuto meglio confessare sé stesso a tutto il paese, che se avesse salariato all’uopo tutti gli strilloni. Quand’ero bambino, solevo leggere racconti di cavalieri e di pirati e di quella specie di individui che senza un rossore al mondo si piantano in mezzo a una folla di convitati, sfrenando una canzone sul valore immensurabile della donna del loro cuore; ebbene, penso sempre che quei tempi sarebbero stati molto adatti al giovane Bingo.

Il telegramma m’era stato portato da Jeeves, insieme con la bibita serale ed io glielo porsi subito.

— Era da aspettarselo, naturalmente, — dissi. — Non s’innamorava da almeno un paio di mesi. Chi sa di che si tratta, stavolta?

— È la signorina Mary Burgess, signore, — disse Jeeves, — la nipote del reverendo signor Heppenstall che attualmente si trova al vicariato di Twing.

— Gran Dio! — Sapevo che Jeeves conosceva quanto accadeva nel mondo, ma questo mi pareva onniveggenza vera e propria. — Come fate a saperlo?

— Quand’eravamo a Twing Hall, quest’estate, signore, entrai in amicizia intima col maggiordomo del signor Heppenstall, il quale è abbastanza buono da tenermi informato, di quando in quando degli avvenimenti locali. A suo giudizio, signore, la signorina è veramente una persona stimabile... di natura molto seria, voglio dire... Il signor Little è veramente épris, signore. Brookfield, il mio corrispondente, mi scrive che la scorsa settimana l’ha visto a tarda ora, al lume di luna, sotto la sua finestra.

— La finestra di chi? Di Brookfield?

— Sì, signore... presumibilmente, credendola quella della signorina.

— Ma che diavolo sta facendo, laggiù a Twing?

— Il signor Little è stato costretto a riprendere il suo posto di tutore del figlio di Lord Wickhimmersley, signore, in seguito a una speculazione andatagli male a Hurst Park alla fine di ottobre.

— Buon Dio, Jeeves! C’è qualche cosa che voi non sappiate?

— Non potrei dire, signore.

Ripresi il telegramma.

— Credo che intenda che andiamo a trovarlo e che lo aiutiamo un pochino.

— Tale sembrerebbe il motivo del telegramma, signore.

— Ebbene, che facciamo? Andiamo?

— Io direi di sì, signore. Se posso dir così, penso che in questo caso particolare il signor Little dovrebbe essere incoraggiato.

— Credete che abbia colto nel segno, stavolta?

— Non ho udito intorno alla signorina che informazioni eccellenti, signore, e credo indiscutibile ch’ella eserciterebbe sul signor Little, dato che la cosa avesse una felice conclusione, un influsso eccellente. Inoltre credo che tale unione farebbe rientrare il signor Little nelle buone grazie di suo zio, poiché la signorina ha molte buone conoscenze e possiede molti mezzi privati. In breve, signore, penso che, se c’è qualche cosa che possiamo fare, è questa.

— Ebbene, se v’incaricate di lui, — dissi, —non vedo perché non dovremmo riuscire.

— Molto gentile, signore, — disse Jeeves. — Il vostro apprezzamento è molto gradito.

Il giorno seguente, Bingo ci attendeva alla stazione di Twing e insisté perché mandassi avanti Jeeves in automobile coi bagagli, per restare con me a far la strada a piedi; subito, cominciò a parlarmi della sua donna.

— È veramente meravigliosa, Bertie; non è una di quelle ragazze moderne, disinvolte e corte di cervello; è dolce e grave, bella e seria; mi fa venire in mente... aspetta, come si chiama?

— Marie Lloyd?

— Santa Cecilia, — disse Bingo, guardandomi con disdegno. — Mi fa venire in mente Santa Cecilia... mi fa desiderare di divenire migliore, più nobile, più profondo, più intelligente.

— Ma, mi chiedo, — dissi seguendo un mio pensiero particolare, — con che criterio le scegliete?... le ragazze di cui v’innamorate, voglio dire. Voglio dire, qual è il vostro sistema? A quanto posso vedere, non ce n’è due che si somiglino. Prima Mabel la cameriera, poi Honoria Glossop, poi quella vescica gonfia di Charlotte Corday Rowbotham...

Confesso che Bingo ebbe la convenienza di rabbrividire... Del resto il pensiero di Charlotte faceva rabbrividire anche me.

— Non vorrete intendere seriamente, Bertie, di comparare i miei sentimenti per Mary Burgess, la santa devozione, lo spirituale...

— Benissimo, lasciate stare! — dissi. — Dico vecchio mio, piuttosto, non facciamo un giro troppo lungo?

Considerato che avremmo dovuto dirigerci verso Twing Hall, mi sembrava che stessimo facendo un giro vizioso; Hall è a circa due miglia dalla stazione, seguendo la strada principale, mentre noi avevamo preso una viottola, avevamo attraversato qualche campo, poi avevamo fatto un po’ di salita ed ora finalmente stavamo passando per un campo, per infilare un’altra viottola.

— Qualche volta ella conduce il fratellino da questa parte, — spiegò Bingo. — Pensavo che l’avremmo incontrata e riverita; così avreste potuto vederla e poi avremmo potuto riprendere il cammino.

— Naturalmente, — dissi, — questo è abbastanza eccitante per chiunque, ed è indubbiamente un buon compenso a tre miglia di strada sprecate attraverso campi arati, per uno che ha per di più le scarpe strette... ma non si potrebbe far altro? Non si potrebbe unirci alla ragazza e chiacchierare un po’ con lei?

— Buon Dio! — disse Bingo, pieno di onesto stupore. — Non supporrete ch’io abbia tanta forza! Io m’accontento di guardarla da lontano e di amarla sempre così. Presto! Eccola! Non ho sbagliato!

Era come nella canzone di Harry Lauder, in cui il protagonista aspetta la sua ragazza e dice: «Questa è lei... no, è un coniglio». Restammo là impalati per dieci minuti, sotto un vento di nord-est e sempre agitati da. falsi allarmi; ero proprio sul punto di suggerirgli l’idea di mandare a monte la celeste visione, quand’ecco comparire un fox-terrier, mentre Bingo cominciava a tremare come le foglie di un pioppo; poi comparve un bambino ed egli rabbrividì come una gelatina; alfine, come una stella la cui apparizione è stata preparata lungamente dal personnel dell’ensemble,comparve una ragazza, e l’emozione di Bingo si fece palesemente dolorosa. La sua faccia divenne così rossa che con quel colletto bianco e con quel naso turchino, pel freddo del vento, mi pareva proprio una bandiera francese. Si curvò tutto dalla vita in su, come svuotato delle ossa.

Stava alzando la mano per togliersi il berretto, quando s’accorse che la ragazza non era sola: un uomo vestito da chierico le stava accanto e la vista di lui non parve produrre un effetto troppo piacevole sul mio amico; infatti la sua faccia si fece più rossa ancora, il suo naso più turchino, e non riuscì a togliersi il berretto, se non quando la comitiva era già quasi passata.

La ragazza si inchinò, il curato disse: — Ah, Little. Cattivo tempo, — il cane abbaiò e la visione fu finita.

 

Il curato era, per conto mio, una nuova circostanza importante, nella situazione; tornato a casa, riferii tutto a Jeeves, il quale, naturalmente, era già bene informato.

— È il reverendo signor Wingham, il nuovo curato del signor Heppenstall, signore. Ho saputo da Brookfìeld che è il rivale del signor Little, e, al momento, la signorina sembra preferirlo. Il signor Wingham ha il vantaggio di esserle stato presentato, e dopo il pranzo egli e la signorina eseguiscono duetti che costituiscono un legame di simpatia. A quanto so, in tali occasioni, il signor Little s’aggira intorno alla casa, in preda alla collera.

— Mi sembra che sia tutto quanto sa fare quel povero diavolo! — dissi. — Sa arrabbiarsi benissimo, ma si ferma lì. Non ha nessun ardire. Sapete che quando l’abbiamo incontrata or ora, non ha avuto nemmeno tanto coraggio da dirle buona sera?

— Infatti, so che l’affetto del signor Little non è scevro di timidezza, signore.

— Ebbene, come possiamo aiutare un uomo così coniglio? Avete nulla da suggerire? Dopo pranzo lo vedrò e mi chiederà sicuramente qual è prima di tutto il vostro consiglio.

— Secondo me, signore, meglio di tutto sarebbe che il signor Little concentrasse ogni sua attenzione sul signorino.

— Il fratellino di lei? Ma in che modo?

— Facendosi suo amico, signore, accompagnandolo spesso a passeggio e così via.

— Non mi sembra una delle vostre idee più brillanti; m’aspettavo qualche cosa di più pratico.

— Sarebbe un principio, signore, e potrebbe guidarci a un risultato migliore.

— Ebbene, glielo dirò. L’aspetto di quella ragazza mi piace.

— Una signorina stimabilissima, signore.

Quella sera stessa riferii a Bingo il pensiero di Jeeves e fui lieto di vederlo un po’ di buon umore.

— Jeeves ha sempre ragione, — disse. — Avrei dovuto pensarlo io stesso. Comincerò domani.

Bingo cominciò infatti a seguire il consiglio di Jeeves con un impegno straordinario, e, molto prima che tornassi in città, aveva cominciato a discorrere usualmente con la ragazza, con la quale inoltre non si mostrava più istupidito come prima, quando la incontrava. Il fratello di lei costituiva un legame che appariva molto più robusto di quello dei duetti del curato. La ragazza e Bingo uscivano frequentemente a passeggio; gli chiesi di che cosa parlassero in tali occasioni, ed egli mi disse che i loro argomenti riguardavano sempre il futuro di Wilfred. La ragazza sperava di farne un curato, ma Bingo diceva di no, essendovi nei curati qualche cosa che gli dispiaceva.

Il giorno che ci lasciammo, Bingo venne a dirci addio con Wilfred che si sbizzarriva come un collegiale allegro. L’ultimo momento che li vidi, Bingo gli stava offrendo la cioccolata, dal distributore meccanico della stazione: una scena di pace e di amicizia piacevole che mi parve promettentissima.

 

Ma tanto più rimasi stupito, quindici giorni dopo, quando m’arrivò questo telegramma:

 

Bertie vecchio mio Bertie non potreste venir qui subito. Tutto va male accidenti. Maledizione Bertie dovete assolutamente venire. Sono in uno stato di assoluta disperazione e ho il cuore spezzato. Potreste mandarmi un altro centinaio di quelle sigarette. Venendo conducete con voi Jeeves. Dovete venire assolutamente Bertie. Conto su voi. Non dimenticatevi di condurre Jeeves.Bingo.

 

Trattandosi d’un individuo che si trova sempre in imbarazzo, bisogna dire che Bingo è il corrispondente più prodigo ch’io abbia mai conosciuto. Non ha nessuna idea di che cosa sia la concisione; quel povero ciuco effonde telegraficamente il suo animo ferito a due pence o quel che gli costa alla parola senza un rimpianto al mondo.

— Che ne dite, Jeeves? — dissi. — Comincio ad essere un po’ stufo; io non posso rimandare ogni settimana tutti i miei impegni, per andare a Twing ad aiutare Bingo. Mandategli un telegramma, dicendogli di finirla.

— Se potreste star senza di me per una sera, signore, sarei lieto di andar laggiù a investigare.

— Caspita! Ebbene, credo che non ci sia altro da fare; dopo tutto, l’uomo che gli occorre siete voi. Va benissimo, andate.

Jeeves tornò il giorno seguente, assai tardi.

— Ebbene? — gli chiesi.

Jeeves appariva turbato; corrugò il sopracciglio sinistro con aria preoccupata.

— Ho fatto quanto potevo, signore, — disse, — ma temo che il signor Little non abbia troppe probabilità di riuscire. Da dopo la nostra visita, le cose hanno preso una piega alquanto sinistra e inquietante.

— Oh, che c’è?

— Vi ricordate, signore, che il signor Steggles... il giovane che stava studiando per un esame, insieme con il signor Heppenstall, al vicariato...

— Che ci ha a che fare con tutto ciò Steggles? — chiesi.

— Ho saputo da Brookfield che per caso udì una conversazione, che il signor Steggles s’interessa della cosa.

— Buon Dio! E intende di offrire scommesse in proposito?

— Ho saputo che accetta scommesse dagli amici intimi, signore... e contro il signor Little, la cui sorte, a quanto pare, secondo lui non è troppo lusinghiera.

— È una cosa che non mi piace, Jeeves.

— No, signore, è una circostanza sinistra.

— Ciò che so di Steggles mi fa credere che ci sarà qualche tranello.

— C’è già stato, signore.

— Già?

— Sì, signore; sembra che seguendo sempre la politica ch’era stato così gentile da permettermi di suggerirgli, il signor Little abbia accompagnato il fratello della signorina al bazar della chiesa e là abbia incontrato il signor Steggles ch’era in compagnia del giovane figlio del signor Heppenstall, tornato or ora da Rugbé, essendosi appena riavuto da un attacco di orecchioni. L’incontro ebbe luogo in una sala da rinfreschi, dove il signor Steggles, in quel momento, s’intratteneva col figlio del signor Heppenstall e, per dirvela in breve, signore, i due signori cominciarono a interessarsi con tutto il cuore perché i due giovinetti si mettessero in «grazia di Dio»; e il signor Steggles spalleggiò il suo favorito in una gara a chi mangiasse più paste tra lui e il fratello della signorina Burgess, scommettendo entrambi una sterlina. Il signor Little mi confessò che rimase alquanto incerto, pensando alle conseguenze della cosa, ove la signorina ne fosse stata informata, ma soggiunse che il suo sangue sportivo lo spinse ad accettare la gara. Entrambi i ragazzi mostrarono il più grande entusiasmo e la maggiore buona volontà, e, inoltre, il fratello della signorina Burgess giustificò la fiducia del signor Little, col vincere la prova dopo notevole sforzo. Ma il giorno dopo, entrambi i contendenti soffrivano; furono fatte inchieste, furono estorte confessioni, e il signor Little (io l’ho saputo da Brookfield che per caso si trovava in quel momento presso la porta del salotto) ebbe con la signorina un colloquio assai spiacevole che terminò con la richiesta da parte di lei ch’egli non le parlasse più.

Non si può non riconoscere che se c’era un uomo che doveva essere sorvegliato era Steggles; Machiavelli avrebbe censurato la sua corrispondenza.

— Il misfatto era stato premeditato, Jeeves! — dissi. — Voglio dire, tutto ciò fu preparato da Steggles, apposta; si tratta sempre dei suoi soliti mezzi disonesti.

— Non c’è dubbio, signore.

— Bene, mi sembra che abbia aggiustato quel povero Bingo per le feste!

— È l’opinione prevalente, signore; Brookfield mi dice che in paese offrono il sette contro uno sul signor Wingham e nessuno accetta.

— Buon Dio! Ma stanno scommettendo su questo affare anche nel paese?

— Sì, signore e anche nelle parrocchie vicine; la cosa ha suscitato grande interesse e mi dicono che si sono verificate certe reazioni sportive perfino a Lower Bingley.

— Bene, io non so che fare. Se Bingo è così ciuco...

— Si sta combattendo una battaglia perduta, temo, signore; pure mi sono arrischiato ancora di consigliare al signor Little una linea di condotta che apparirà vantaggiosa; gli ho raccomandato di darsi alle opere benefiche.

— Alle opere benefiche?

— Sì, per il paese, signore... andar a trovar gli infermi, chiacchierare e leggere agli ammalati, e cose simili, signore. Possiamo confidare che ciò dia buon risultato.

— Sì, credo anch’io, — risposi, non troppo convinto. — Ma, caspita! se fossi ammalato io, non mi piacerebbe troppo che accanto al mio letto venisse a ciarlare e a tenermi compagnia una testa matta come Bingo!

— Infatti, questo è veramente il rovescio della medaglia, signore! — disse Jeeves.

 

Per un paio di settimane, non ebbi alcuna notizia di Bingo e ne dedussi che avesse trovato troppo ardua l’impresa e vi avesse rinunciato. Poi, una sera, non molto prima di Natale, tornai a casa alquanto tardi, dopo essere stato a ballare all’Ambasciata; ero abbastanza stanco, non avendo fatto che ballare, da subito dopo pranzo fino alle due del mattino e non desideravo che il letto. Giudicate quindi la mia delusione, quando, entrato in camera e accesa la luce, vidi sopra il guanciale la buffa fisionomia di Bingo; lo sciagurato era capitato a casa mia chi sa da dove e dormiva nel mio letto, come un bambino, col volto irradiato da un sorriso di beatitudine e di sogno.

Era un po’ troppo; noi Woosters siamo ospitali come si era nel medio evo, ma trovare un individuo che sta nel vostro letto, da padrone, è abbastanza seccante. Alzai una scarpa e bastò perché balzasse a sedere borbottando.

— Che c’è, che c’è? — disse.

— Che diavolo state facendo nel mio letto? — gli chiesi.

— Oh, Bertie! Siete arrivato!

— Sì, eccomi qua. Che state facendo nel mio letto?

— Son venuto in città per affari.

— Sì, ma che state facendo nel mio letto?

— Accidenti, Bertie! — fece Bingo con voce querula, — finitela col vostro letto! Ce n’è un altro pronto nella camera degli ospiti; ho visto Jeeves prepararlo coi miei occhi; credo che intendesse farlo per me; ma io sapevo che ospite perfetto voi siete... e così son venuto qua. Dico, Bertie, vecchio mio, — continuò, apparentemente stanco di discutere, — finalmente vedo spuntare il sole.

— Bene, non sono ancora le tre del mattino!...

— Stavo parlando figuratamente, ciuco! Volevo dire che comincio ad aver qualche speranza... riguardo a Mary Burgess, voglio dire. Sedetevi e vi racconterò tutto.

— No no, vado a dormire, io.

— Per cominciare, — continuò Bingo, appoggiandosi comodamente contro i guanciali e prendendosi una sigaretta dalla mia scatola particolare, — devo ancora una volta render grazie al buon Jeeves. È un moderno Salomone; ero in cattive condizioni, quando mi rivolsi a lui per consiglio, ed egli m’ha dato un suggerimento ch’è stato per me la salvezza. Forse vi avrà detto che mi ha consigliato di riguadagnare il terreno perduto col darmi alle opere pie? Bertie, vecchio mio, — continuò Bingo, con ardore, — da due settimane non faccio che confortare gli ammalati con tanto zelo, che, se avessi un fratello e voi me lo portaste in questo momento davanti moribondo, per Giove! gli scaraventerei un mattone! Però, quantunque l’impresa m’abbia affranto completamente, le cose sono andate benissimo; prima che fosse passata una settimana ella aveva già cominciato a trattarmi con molta più dolcezza, aveva già ricominciato a salutarmi con un cenno del capo, incontrandomi per la strada, e così via; anzi, un paio di giorni fa, l’ho incontrata nei dintorni del vicariato e m’ha fatto un sorriso... una specie di sorriso da santa, sapete... E ieri, vi ricordate Wingham, il curato? quell’individuo dal naso lungo?

— Naturalmente, me lo ricordo; il vostro rivale.

— Rivale? — Alzò interrogativamente i sopraccigli. — Bene, un tempo avreste potuto chiamarlo così, ma ora tal denominazione non ha più ragione di esistere.

— Sì? — dissi, curioso della morbosa compiacenza ch’era nei modi del mio amico. — Ebbene lasciate che vi dica che l’ultima novità che ho udito è questa: che a Twing e in tutti i dintorni fino a Lower Bingleé, offrivano il sette contro uno sul curato e nessuno accettava.

Bingo trasalì con violenza, rovesciando tutta la cenere della sigaretta sul letto.

— Scommettono! — balbettò, — scommettono! volete dire che scommettono su quella benedetta santa... oh, dico! maledizione! ma non ha nessun senso di decenza e di reverenza, quella gentaglia? non rispetta nulla la loro bestiale, sordida avidità? Ma, mi chiedo... — continuò penosamente, — che ci sia qualche probabilità ch’io possa guadagnarci qualche cosa? sette contro uno!... È una bella cifra! chi la offre, lo sapete? bene, io credo che la cosa non andrà; no, no, affatto!

— Mi sembrate molto fiducioso, — dissi; — io ho sempre pensato che Wingham...

— Oh, non mi preoccupo affatto, per lui, — disse Bingo. — Come stavo dicendovi, Wingham ha avuto gli orecchioni e ne avrà ancora per qualche settimana, e per quanto questa sia una fortuna, non è ancora tutto, perché egli stava preparando i festeggiamenti natalizi per la scuola del paese e ora mi sono assunte io quell’impresa; sono andato iersera dal vecchio Heppenstall e mi son fatto dare l’incarico. Sapete che significa ciò? Significa ch’io diventerò assolutamente per tre buone settimane il centro della vita e del pensiero del paese e potrò ottenere un magnifico trionfo; tutti punteranno gli occhi su me e non faranno che corteggiarmi. Credete che ciò produrrà un effetto da nulla, sullo spirito di Mary? Si convincerà alfine ch’io so far qualche cosa di grande, che c’è in me qualche cosa di degno, che quantunque un tempo io non fossi ai suoi occhi che una povera farfallina, in realtà sono...

— Benissimo, lasciate stare!

— Ma sono un avvenimento importantissimo, sapete, questi festeggiamenti! Il vecchio Heppenstall ci tiene moltissimo; vi prendono parte tutti i nobili del paese e dei dintorni; ci sarà il Cavaliere con la famiglia. È per me un’occasione magnifica, mio caro Bertie, e intendo farmi veramente onore. Naturalmente, c’è qualche difficoltà per il fatto che ho avuto l’incarico soltanto da poco. Credete, quel povero diavolo senza ispirazione d’un curato, senza dubbio, non avrebbe fatto altro che rappresentare qualche disgraziata commediola meravigliosa, di quelle che si trovano in quei libretti da bambini di quindici anni fa, senza un po’ di spirito, né un po’ di sugo. Per cambiare del tutto, ormai è troppo tardi, ma almeno potrò introdurvi un po’ di musica; scriverò qualche pezzo che renda lo spettacolo un po’ più decente.

— Ma voi non sapete scrivere.

— Quando dico di scrivere voglio dire copiare; ecco perché sono venuto in città. Sono stato a vedere al Palladium la rivista Abbracciatevi; c’è molta roba buona. Naturalmente è abbastanza difficile allestire per Twing qualche cosa di spettacoloso, perché non si può nemmeno parlare di scenario, e poi il coro è composto di quattro ragazzi imbecilli, tra i nove e i quattordici anni... ma cercherò di far del mio meglio. Avete visto Abbracciatevi?

— Sì, due volte.

— Ebbene, nel primo atto ci son molte cose buone e penso che posso prenderne addirittura tutti i numeri; poi c’è quella commedia al Palace; domani, prima di partire, andrò a vederne la rappresentazione diurna; troverò anche in quella qualche cosa di buono. Non preoccupatevi, perché non so scrivere; lasciate fare a me, vecchio, lasciate fare a me! Ed ora, mio caro, — continuò, accomodandosi meglio sul letto, — non crediate di star qua tutta la notte a chiacchierare. Per voi buontemponi che non avete nulla da fare, va benissimo, ma io sono pieno di lavoro. Buona notte, vecchio mio; chiudete piano la porta e spegnete la luce. Faremo colazione verso le dieci, immagino, no? Benissimo, buona notte.

 

Poi, per tre settimane, non lo vidi più; divenne per me una specie di voce remota che aveva preso l’abitudine di chiamarmi al telefono, per consultarmi riguardo alle varie difficoltà che sorgevano dall’impresa che stava preparando, finché, un giorno, mi fece alzare dal letto alle otto del mattino, per chiedermi se Buon Natale! mi sembrasse un titolo adatto. Io gli dissi ch’era ora di finirla, e dopo ciò non si fece più vivo, uscì addirittura dalla mia esistenza, finché un pomeriggio tornando a casa a vestirmi par un pranzo, trovai Jeeves che slava esaminando una specie di manifesto che stava posato sullo schienale d’una poltrona.

— Buon Dio, Jeeves! — dissi. Ero abbastanza stanco e la vista di quel manifesto mi scosse. — Che cos’è?

— L’ha mandato a me il signor Little, signore, esprimendo il desiderio che ve lo facessi vedere.

— Ebbene, me l’avete fatto vedere!

Diedi al foglio un’altra occhiata; non c’era dubbio, era un manifesto che saltava veramente agli occhi: era lungo sette piedi e la maggior parte delle parole erano d’un color rosso brillante quale non ho mai visto. Diceva:

 

TWING HALL

Venerdì, 23 Dicembre

richard little

presenterà una nuova e originale Rivista intitolata

VENITE TUTTI, CITTADINI DI TWING!!

Libretto di

richard little

Poesie di

richard little

Musica di

richard little

Con l’intervento di tutta la Compagnia

e di tutto il Coro giovanile di Twing

Effetti scenici di

richard little

Direzione artistica di

richard little

 

— Che intendete fare, Jeeves? — dissi.

— Confesso che non saprei, signore. Io credo che il signor Little avrebbe fatto meglio a seguire il mio consiglio e limitarsi alle opere pie.

— Credete che sarà un fiasco?

— Non potrei arrischiare una simile congettura, signore, ma so per esperienza che ciò che piace a Londra non è sempre adatto allo spirito rurale; il gusto metropolitano, a volte, nelle provincie appare un po’ troppo esotico.

— Io credo che faremo meglio ad andar laggiù a vedere questo pasticcio.

— Credo che il signor Little si sentirebbe offeso se non ci andaste, signore.

 

Il teatro di Twing è un fabbricato minuscolo, che odora di mele; quando vi giunsi col treno, la sera del 23, la sala era già piena, perché avevo cercato di proposito di non giungere troppo presto; avevo assistito un altro paio di volte a pasticci consimili e non volevo correre il rischio di giungere troppo presto, per trovarmi in una sedia delle prime file, dove, se fosse capitata l’occasione, non avrei certo potuto, durante lo spettacolo, schiacciare un sonnellino. Mi guadagnai subito una posizione strategica accanto alla porta, in fondo alla sala.

Dal luogo dove stavo, potevo veder tutto il pubblico; come di solito avviene in tali occasioni, le prime poche file erano occupate dai Nobili (il Cavaliere, un vecchio sportsmandai baffi bianchi, la sua famiglia, un plotone di preti del luogo e forse un paio di dozzine dei più rappresentativi frequentatori del coro). Poi veniva una densa folla di ciò che si potrebbe chiamare le classi medie, quindi, più in fondo, dove stavo io, si scendeva bruscamente nella scala sociale, poiché l’estremità della sala era occupata quasi interamente da una collezione di gente bucolica, accorsa non tanto per amore della commedia, quanto perché sapeva che alla fine ci sarebbe stato un tè gratuito. Nel complesso, era un convegno caratteristico della vita e del pensiero di Twing. I nobili stavano bisbigliando piacevolmente tra loro, quelli delle classi medie sedevano irrigiditi nelle loro sedie, mentre i contadini passavano il tempo schiacciando noci e scambiandosi motti grossolani. Mary Burgess stava al pianoforte, sonando un valzer; alle sue spalle, stava Wingham, il curato, apparentemente rimesso. La temperatura mi parve di almeno centoventisette gradi.

Mi sentii urtar nelle costole e mi vidi davanti Steggles.

— Ehi! — fece. — Non sapevo che sareste venuto anche voi.

Non mi era molto simpatico, ma noi Woosters sappiamo portar la maschera, e così lo salutai.

— Oh, sì, — dissi. — Bingo ha voluto che venissi a vedere la sua rappresentazione.

— Ho sentito dire che darà qualche cosa di molto ambizioso, — continuò Steggles; — una cosa di grande effetto...

— Credo,

— Naturalmente, questo spettacolo ha una grande importanza per lui; vi ha detto della ragazza?

— Sì; e ho sentito dire che voi offrite il sette per uno contro di lui, — dissi, guardandolo con severità.

Egli non batté palpebra.

— È semplicemente una piccola speculazione per vincere la monotonia della vita di campagna, — disse. — Ma non vi hanno riferito esattamente; al paese danno il sette per uno; io posso farvi condizioni migliori, se avete intenzione di speculare: che ne direste, se vi proponessi di giocare un decino a cento contro otto?

— Buon Dio! offrite tanto?

— Sì, — disse Steggles, meditabondo. — Ho una specie di presentimento che qualche cosa stasera debba andar male. Sapete che se c’è al mondo un guastamestieri è Bingo. Qualche cosa mi dice che questo suo spettacolo sarà un fiasco; e se è così, naturalmente, io credo che la sua relazione con quella ragazza ne sarà pregiudicata; del resto, la sua posizione è stata sempre oscillante.

— State preparando qualche cosa per mandare a rotoli la rappresentazione? — gli dissi con durezza.

— Io? — disse Steggles. — Ma che cosa potrei fare? Aspettate un minuto; devo parlare a un uomo.

Se ne andò, lasciandomi assai turbato; vedevo dal suo occhio che stava meditando qualcuna delle sue solite mariolerie e pensavo che bisognava avvertirne Bingo; ma non ne ebbi il tempo, perché quasi subito dopo si alzò il sipario.

Durante la prima parte della rappresentazione Bingo, tranne come allestitore, non era molto in evidenza; lo spettacolo appariva una di quelle meschine commediole che si trovano nei libri pubblicate all’epoca delle feste natalizie e che s’intitolano Dodici commediole per bambini, o qualche cosa di simile. I ragazzi recitavano come il solito, la voce di Bingo rombava di quando in quando dietro la scena, ogni volta che gli zucconi dimenticavano i loro versi, gli spettatori erano immersi nel solito torpore; poi cominciò la prima interpolazione di Bingo. Era quel numero che... come si chiama, canta in quella rivista al Palace... lo riconoscereste solo che ve lo canticchiassi un pochino, ma non sono mai riuscito a impararlo... Viene sempre bissato almeno tre volte, al Palace, e anche ora, — nonostante la voce stridula di quel marmocchio che percorreva la gamma dal tono più alto al più basso, come un camoscio delle Alpi che salta di vetta in vetta, — poteva piacere, e ai contadini infatti piacque. Alla fine del secondo ritornello, tutti gridavano già per farlo ripetere e il ragazzo dalla voce stridula come una matita da lavagna respirò profondamente, preparandosi a ricantarlo. A questo punto tutte le lampadine si spensero.

Non ricordo d’aver mai assistito prima a un incidente così improvviso e disastroso. Gli spettatori non si agitarono; cominciarono ad andarsene, semplicemente; la sala era immersa nel buio più assoluto. Naturalmente, l’incanto fu rotto; la gente cominciò a gridare, cercando l’uscita, e i contadini cominciarono a pestare i piedi per far chiasso; naturalmente, Bingo, doveva farci una figura meschina. Improvvisamente s’udì la sua voce, in mezzo alle tenebre.

— Signore e signori, dev’esserci qualche guasto nell’illuminazione...

L’informazione esilarò i contadini, i quali la presero subito come un grido di battaglia; alfine, dopo circa cinque minuti, le lampadine si riaccesero e lo spettacolo ricominciò.

Ci vollero dieci minuti perché gli spettatori s’immergessero ancora nel torpore di prima; ma appena si furono accomodati, quando già ogni cosa aveva ripreso ad andare abbastanza bene, un ragazzetto dal muso simile a quello di un rombo fece capolino davanti al sipario e cominciò a cantare quella canzone di George Thingummy di Abbracciatevi... sapete quale intendo dire: Obbedite alla mamma, ragazze!; è una canzone che di solito gli spettatori accompagnano con la voce, ripetendone il ritornello; una ballata abbastanza bella; io stesso l’ho cantata più d’una volta in bagno, con non poca energia; ma, come chiunque (che non fosse stato uno stordito come Bingo) avrebbe compreso, non era affatto adatta per la festa natalizia dei bambini nel teatro d’un villaggio. Fin dal principio del primo ritornello, i più degli spettatori avevano incominciato a irrigidirsi nelle loro sedie e a farsi vento, mentre la signorina Burgess al piano l’accompagnava meccanicamente e storditamente e il curato al suo fianco volgeva altrove lo sguardo, con espressione dolorosa; ma pei contadini era quanto ci voleva.

Alla fine del secondo ritornello, il ragazzo si fermò, cominciando a retrocedere verso le quinte, e si cominciò a udire questo breve dialogo:

Bingo (con voce lontana, risonante contro i travicelli): Avanti!

Il ragazzo (timidamente): Non mi piace.

Bingo (più forte): Avanti, piccolo mascalzone, o vi ammazzo!

Il ragazzo dovette riflettere rapidamente che Bingo era in una posizione favorevole e che gli conveniva quindi conciliarselo a qualunque costo; infatti, si affrettò a scendere verso la ribalta e chiudendo gli occhi e sogghignando istericamente disse:

— Ora, signore e signori, supplico il cavaliere Tressidder di cantare il ritornello!

Nonostante i benevoli sentimenti che mi animano verso Bingo, ci sono momenti in cui non posso non pensare che sarebbe meglio di rinchiuderlo in qualche casa di salute. Credo ch’egli giudicasse questa trovata come la più brillante invenzione di tutto lo spettacolo; forse s’immaginava che il cavaliere sarebbe balzato in piedi tutto contento, mettendosi a cantare, con grande riso e allegria di tutti. Ma non accadde che una cosa: il vecchio Tressidder (e, notate, io non lo biasimo!) rimase semplicemente seduto dov’era e cominciò a gonfiarsi e a farsi di momento in momento sempre più purpureo. Quelli della classe media ammutolirono, aspettandosi una catastrofe; la sola parte di pubblico che sembrò veramente accoglier con gioia l’idea, fu quella dei contadini, che cominciarono a gridare entusiasti: per loro era proprio il cacio sui maccheroni. A questo punto le lampadine si spensero di nuovo.

 

Quando si riaccesero, qualche minuto più tardi, si vide il Cavaliere che usciva impettito dal teatro alla testa della sua famiglia, indignatissimo, mentre la signorina Burgess, al piano, appariva pallida e seria e il curato la guardava con un’espressione che sembrava significare che tutto ciò era senza dubbio deplorabile, ma aveva pure il suo lato buono.

Lo spettacolo ricominciò; ci furono brani di dialogo da commedie infantili, poi la ragazza al pianoforte cominciò a farci udire il preludio di quel numero della Venditrice di arance che nella rivista del Palace è il successo principale; pensai che fosse il finale del primo atto di Bingo: tutta la compagnia era sulla scena e una mano era già comparsa sul sipario, pronta a tirarlo al momento opportuno. Ma subito dopo m’accorsi che non era soltanto il finale del primo atto, ma la fine dello spettacolo.

Conoscerete senza dubbio il numero della Venditrice d’arance che dice press’a poco:

 

Arance, arance, arance, arance!

Chi ne vuole, chi ne vuole

Ne ho ancora venti, venti, venti,

ne ho ancor venti, venti sole!...

 

È una canzone bellissima e accompagnata da buona musica; ma ciò che più la rende gradita è il fatto che, a un certo momento, le venditrici di arance prendono i frutti dai loro panieri e li gettano graziosamente al pubblico. Non so se abbiate notato che il pubblico, quando gli vien gettato qualche cosa dalla scena, si sente assai lusingato. Infatti, ogni volta che ho sentito questa canzone al Palace, il pubblico ne andava addirittura pazzo.

Ma al Palace, naturalmente, le arance son fatte di lana gialla e le ragazze non le scagliano, ma le lascian cadere sulla prima e la seconda fila. Quella sera, invece, m’accorsi che e cose andavano diversamente quando sentii un’arancia passarmi fischiando rasente le orecchie, per andare a schiacciarsi contro il muro. Un’altra arancia si spaccò sul collo d’uno dei nobili che sedevano nella terza fila, un’altra ancora mi colpì in pieno sulla punta del naso, e da quel momento lo spettacolo perdette per me ogni interesse.

Quando mi fui asciugato la faccia e riuscii ad arrestare le lacrime che mi piovevan dagli occhi, compresi che i festeggiamenti di quella sera cominciavano ad assomigliare ad una delle più vivaci notti di Belfast. L’aria era piena di arance e di grida; i ragazzi che recitavano sulla scena, mentre Bingo in mezzo a loro camminava in su e giù gridando, passavano un quarto d’ora terribile; credo che a questo punto comprendessero che la cosa non poteva continuare e cercassero di cavarsela il meglio possibile con la fuga. I contadini avevano cominciato a raccogliere le arance che non s’erano rotte e le gettavano sulla scena, sicché, in breve, s’iniziò tra pubblico e attori una battaglia in piena regola. Era un vero pandemonio, e quando parve che la confusione cessasse, le lampade si spensero di nuovo.

A questo punto, mi parve che fosse giunto il momento di andarmene e mi affrettai verso l’uscita; ero appena giunto fuori, quando anche il resto del pubblico cominciò a riversarsi sulla strada; mi comparivano intorno a due a due, a tre a tre; non ho mai visto un pubblico così unanime nella sua decisione: non c’era uomo, né donna, che non mandasse ogni sorta di maledizioni al povero Bingo, e ben presto si fece strada l’idea che non c’era di meglio da fare che attendere al varco il mio amico quando uscisse, per gettarlo nello stagno del paese.

Gli entusiasti di quest’idea erano innumerevoli e apparivano così spensieratamente determinati, ch’io pensai che il solo servigio amichevole che potevo rendere a Bingo fosse di consigliarlo a rialzarsi il colletto della giacca e cercar di scappare da qualche uscita laterale. Tornai indietro e lo trovai seduto su una cassa, dietro le quinte, tutto in sudore e con l’aspetto funebre che hanno i luoghi dov’è stata piantata una croce, a indicare ch’è appena accaduto un sinistro. Aveva i capelli dritti e le orecchie basse e sarebbe bastata una parola aspra per farlo scoppiare in lacrime.

— Bertie, — mi disse cupamente, — è stato quel mascalzone di Steggles! Ho preso un ragazzo che stava fuggendo e gli ho fatto confessar tutto. Steggles ha sostituito arance vere alle palle di lana che avevo preparato e che m’erano costate una sterlina e un’infinità di lavoro. Ma lo farò a pezzi! non mi resta altro da fare!

Mi dispiaceva d’interrompere i suoi sogni, ma dovevo farlo.

— Santo cielo, mio caro, — dissi, — non avete tempo da perdere in tali frivolezze, ora! Dovete scappare, e presto!

— Bertie, — disse Bingo, con voce sorda, — è stata qui adesso; m’ha detto che è tutta colpa mia, che non mi parlerà mai più; m’ha detto che aveva sempre avuto il sospetto ch’io fossi un monellaccio senza cuore, ed ora ne è sicura... M’ha detto... Ah, mi ha messo veramente a posto!

— Questo è il meno, mio caro, — dissi; ma mi pareva impossibile di riuscire a dargli un’idea della sua situazione. — Non sapete che ci sono almeno duecento dei ragazzi più robusti di Twing che vi aspettano, per scagliarvi nello stagno?

— No!

— Assolutamente!

Per un momento, il mio povero amico parve schiacciato; ma fu solo un momento: c’è sempre stato nel suo spirito qualche cosa del buon vecchio mastino inglese. Un sorriso dolce e strano gli illuminò un istante la faccia.

— Benissimo, — disse; — posso scappare per la cantina e scavalcare il muro di dietro. Non mi fanno paura!

 

* * *

 

Circa una settimana dopo, Jeeves, portandomi il tè, distolse la mia attenzione dalla pagina sportiva del Morning Post, per indicarmi un annuncio matrimoniale.

Era una breve notizia riguardante il fidanzamento e il prossimo matrimonio tra l’On. e Reverendo Hubert Wingham, figlio terzogenito del Molto Onor. Conte di Sturridge, e Mary, figlia unica del defunto Matthew Burgess, di Weatherly Court Hants.

— Naturalmente, — dissi, dopo averlo letto, — me l’aspettavo, Jeeves.

— Sì, signore.

— La signorina non gli avrebbe mai perdonato ciò che accadde quella sera.

— No, signore.

— Bene, — dissi, prendendo un sorso della fragrante e fumante bevanda, — credo che non ci vorrà molto a Bingo, per rimettersi. Affari simili gli sono capitati almeno altre cento volte. Mi dispiace per voi.

— Per me, signore?

— Caspita! avete dimenticato quante seccature avete avuto per cercar di salvare Bingo? È dura che abbiate perduto tanto tempo e tanta fatica.

— Non ho perduto interamente, signore.

— Eh?

— È vero che i miei sforzi per giungere al fidanzamento tra la signorina e il signor Little non ebbero successo, ma pure il pensiero di quelle mie fatiche mi dà una certa soddisfazione.

— Perché avete fatto il possibile, volete dire?

— Non solo per questo, signore, quantunque naturalmente, anche tale pensiero mi dia piacere. Alludevo più particolarmente al fatto che l’affare per me è stato rimunerativo dal punto di vista finanziario.

— Rimunerativo dal punto di vista finanziario? Che intendete dire?

— Quando seppi che il signor Steggles s’interessava della cosa, signore, scommisi col mio amico Brookfield e n’ebbi un vantaggio notevole. La vostra colazione sarà pronta immediatamente, signore: rognoni ai crostini e funghi; ve li porterò appena squillerà il vostro campanello.

  

16

LA PARTENZA DI CLAUDE E D’EUSTACE

La sensazione che provai, trovandomi bloccato quella mattina nel mio appartamento da zia Agatha, fu che la mia fortuna, alfine, fosse definitivamente tramontata. Di regola, vedete, non sono in relazioni molto strette coi miei parenti. Nelle circostanze in cui l’una zia conversa con l’altra (come i mastodonti che mugghiavano scambievolmente attraverso le paludi primordiali) e la lettera di zio James, intorno alle stranezze della cugina Mabel, viene mostrata a tutta la cerchia familiare («Vi prego di leggere questa lettera attentamente e poi di mandarla a Jane»), la tribù, generalmente, mostra di ignorare la mia esistenza. È uno dei vantaggi che mi vengono dall’essere scapolo, e, a giudicare dai miei più cari e più prossimi parenti, uno scapolo scemo, per giunta. « È inutile sognarsi che Bertie vi s’interessi affatto», è più o meno il loro grido di battaglia; e, confesso, io ne sono contentissimo, perché ciò che soprattutto desidero è una vita tranquilla. Ecco perché, quando mi capitò in salotto zia Agatha, mentre stavo fumando placidamente una sigaretta, e cominciò a parlarmi di Claude e d’Eustace, mi parve, per così dire, che la maledizione mi fosse piombata addosso.

— Grazie a Dio, — cominciò zia Agatha, — hanno deciso qualche cosa per Claude ed Eustace.

— Deciso qualche cosa?

— Partono venerdì per l’Africa del Sud. Il signor Van Alstyne, un amico di Emily, ha offerto loro alloggio nella sua casa a Joannesburg, e speriamo che laggiù si troveranno bene.

Non comprendevo affatto.

— Venerdì? Dopo domani, volete dire?

— Sì.

— Per l’Africa del Sud?

— Sì; partono sull’Edinburgh Castle.

— Che idea è? Voglio dire, non stanno ancora studiando ad Oxford?

Zia Agatha mi guardò freddamente.

— Volete proprio farmi credere, Bertie, che voi vi interessate così poco degli affari dei vostri parenti più stretti, da non sapere che Claude ed Eustace sono stati espulsi da Oxford quindici giorni fa?

— No, davvero?!

— Siete una disperazione, Bertie! Io pensavo che anche voi...

— Perché sono stati espulsi?

— Hanno gettato la limonata addosso al Preside del Collegio... Mi pare che non ci sia nulla da ridere, Bertie!

— No, no, veramente! — mi affrettai ad ammettere. — Non ridevo; soffocavo, perché m’era andato qualche cosa di traverso.

— La povera Emily, — continuò zia Agatha, — è una di quelle mamme che rovinano i loro figlioli e voleva tenerli a Londra, pensando che avrebbero potuto prepararsi ad entrar nell’esercito. Ma io sono stata irremovibile; non ci sono che le colonie, per dei pazzi come Eustace e Claude. Così partono venerdì. Questi ultimi quindici giorni sono stati da zio Clive nel Worcestershire. E passeranno la notte di domani a Londra, per ripartire venerdì mattina.

— Il programma è un po’ rischioso, mi pare. Voglio dire, non c’è pericolo che si perdano, rimanendo soli a Londra?

— Non resteranno soli; resteranno in vostra custodia.

— In mia custodia?

— Sì; desidero che li ospitiate nel vostro appartamento, per quella notte, e che facciate in modo che non perdano il treno.

— Ma dico... no!

— Bertie!

— Bene, voglio dire... sono buoni ragazzi tutti e due... ma, non so... sono abbastanza pazzi, sapete... Sono lietissimo di rivederli, naturalmente, ma quando si tratta di doverli custodire una notte...

— Bertie, se voi siete egoista a tal punto da non sapervi adattare nemmeno a un piccolo inconveniente simile, per amor di...

— Benissimo, benissimo! — dissi.

Non c’era da discutere, naturalmente; zia Agatha mi fa sempre provare la sensazione d’aver la spina dorsale fatta di gelatina... tanto è una donna energica! Io credo che la Regina Elisabetta le assomigliasse molto. Quando mi pianta addosso quei suoi occhi lucenti e mi dice: «Suvvia, caro ragazzo!» o qualche cosa di simile, devo obbedire senza discussioni.

Quando fu partita, sonai il campanello, per comunicare la notizia a Jeeves.

— Jeeves, — dissi, — Claude ed Eustace passeranno qui la notte di domani.

— Benissimo, signore.

— Sono lieto che la pensiate così; per me è una prospettiva abbastanza nera; sapete di che ragazzi si tratta!...

— Sono signorini molto vivaci, signore.

— Sono empiastri, Jeeves! veri empiastri! È un po’ troppo, caspita!...

— Vi occorre nient’altro, signore?

A questo punto l’orgoglio fece udir la sua voce. Noi Woosters ci sentiamo avviliti, quando cerchiamo un po’ di simpatia e non troviamo che freddo riserbo. Naturalmente, io sapevo di che si trattava: da un paio di giorni, c’era fra le pareti domestiche una notevole freddezza, a causa di certe ghette che avevo scovato nei dintorni di Burlington Arcade; qualche individuo intelligente, probabilmente lo stesso che ha inventato quelle scatole da sigarette colorate, recentemente aveva avuto l’idea brillante di lanciare anche ghette di tipo consimile; così invece delle solite ghette grigie e bianche, ora potete trovar ghette del colore del vostro reggimento o della vostra scuola; e, credetemi, ci sarebbe voluta una forza di resistenza maggiore della mia, per non soccombere davanti alle attrattive di quelle magnifiche ghette che mi avevano sorriso quel giorno dalla vetrina; entrai subito nel negozio e iniziai le trattative senza che mi passasse per la mente che Jeeves poteva non approvare. Inoltre, debbo dichiarare che se l’era presa un po’ troppo, il mio uomo; infatti, quantunque, sotto molti rispetti, sia il miglior cameriere di Londra, Jeeves è in certo modo un po’ troppo conservativo e nemico del progresso.

— Nient’altro, Jeeves, — risposi dignitosamente.

— Benissimo, signore.

Lanciò una gelida occhiata alle ghette e se ne andò.

 

Non mi ricordo d’aver mai visto nulla di più gaio e vivace della comparsa che fecero i due gemelli, quando entrarono la sera dopo nel mio appartamento, mentre mi stavo vestendo pel pranzo. Io ho soltanto cinque o sei anni più di loro, ma, non so per quale strana ragione, essi mi danno sempre la sensazione ch’io appartenga al numero dei nonni e che non attenda altro che il giorno di morire. Quasi prima ancora che mi rendessi conto ch’erano entrati, s’erano già seduti, s’eran già preso un paio delle mie sigarette speciali, s’eran versato un whisky-and-soda a testa e avevano cominciato a ciarlare con gaiezza e abbandono, come due uccelli che avessero raggiunto l’ideale della loro vita, anziché sentirsi sul capo il peso d’una sentenza d’esilio.

— Ehi, Bertie, vecchio mio, — disse Claude, — siete stato molto cortese ad assumervi di sopportarci!

— Oh, no! — dissi. — Vorrei soltanto che poteste restar qui molto tempo.

— Sentite, Eustace? Vorrebbe che potessimo restar qui molto tempo.

— Credo che vi sembrerà davvero molto il tempo che resteremo qui, — disse filosoficamente Eustace.

— Avete saputo di quel pasticcio, Bertie? II nostro piccolo inconveniente... voglio dire.

— Sì, me n’ha parlato la zia Agatha.

— Partiamo per il bene della nostra patria, — disse Eustace.

— Senza lasciar nessuno che pianga per noi, — disse Claude. — Che vi ha detto zia Agatha?

— M’ha detto che avete gettato addosso al Preside la limonata.

— Mi piacerebbe, — disse Claude, annoiato, — che la gente riferisse le cose come sono; non è stato il Preside, è stato il precettore anziano.

— E non era limonata, — disse Eustace, — era selz; il vecchio si trovava per caso sotto la nostra finestra, mentre io m’affacciavo con un sifone in mano; si mise a guardar su, e... ebbene, se avessi perduto quell’occasione di lanciargli uno spruzzo di selz negli occhi, non mi si sarebbe mai più offerta in tutta la vita.

— Sarebbe stato un perdere l’occasione... — accordò Claude.

— Un’occasione che forse non si sarebbe presentata mai più, — disse Eustace.

— Ci scommetto il cento contro uno, — disse Claude.

— Ed ora, — disse Eustace, — che cosa vi proponete di fare, Bertie, per far passare una piacevole serata ai vostri cari ospiti?

— La mia idea era di pranzare in casa, — dissi. — Jeeves sta preparando.

— E dopo?

— Ebbene, pensavo che avremmo potuto chiacchierare un po’ e poi... che voi avreste preferito andare a letto per tempo, giacché il vostro treno parte verso le dieci, vero?

I ragazzi si guardarono l’un l’altro, con aria di compatimento.

— Bertie, — disse Eustace, — il programma è quasi perfetto, ma non del tutto. Io proporrei di far così: dopo pranzo, andar da Ciro; non abbiamo a nostra disposizione tutta la notte? Ebbene, in questo modo giungeremo fino alle tre del mattino.

— Dopo di che, — disse Claude, — senza dubbio, il Signore provvederà.

— Ma io pensavo che voleste riposarvi, stanotte.

— Riposarci? — disse Eustace. — Mio caro, spero che non immaginerete neppure un momento che noi ci sogniamo di voler andare a letto, stanotte!

Io credo che la verità sia ch’io non sono più l’uomo di una volta; voglio dire, tutte quelle notti bianche che passavo una volta non mi affascinano più come allora. Mi ricordo ancora d’un tempo, quand’ero ad Oxford, in cui passar la notte a ballare a Covent Garden fino alle sei del mattino, andare a far colazione dagli Hammans e il più delle volte anche attaccare una vera e propria battaglia con pochi scelti venditori ambulanti, eran tutte cose che sembrava m’avesse ordinato il dottore. Adesso, invece, non vado mai a letto più tardi delle due del mattino; ed ora, alle due, i gemelli sembravano voler cominciare a far sul serio.

A quanto posso ricordare, restammo da Ciro a giocare con individui che non avevo mai visto, fino alle nove del mattino, quando ci ritrovammo a casa di nuovo. A quell’ora, debbo ammetterlo, per conto mio cominciavo a sentire che la primitiva freschezza di forze cominciava ad abbandonarmi; infatti, ebbi soltanto l’energia necessaria per dire addio ai due gemelli, augurando loro un felice viaggio e una magnifica carriera nell’Africa del Sud e andarmene a letto. L’ultima cosa che ricordo fu la voce dei due disgraziati che cantavano come allodole sotto un acquazzone, interrompendosi di quando in quando per gridare a Jeeves di portar loro uova e prosciutto.

Quando mi svegliai, dovevano essere circa le tredici; mi sentivo press’a poco come qualche cosa che fosse stato gettato via dalla Commissione Sanitaria, ma tuttavia mi rallegrava il pensiero che ora i miei cari cugini dovevano esser già imbarcati e sul punto di dare alla cara terra natale l’ultimo sguardo. Ma questo pensiero non fece che rendermi ancora più amara la sorpresa che provai quando vidi aprirsi la porta lasciando entrar Claude.

— Ehi, Bertie! avete dormito bene? E ora, che ne direste, se facessimo un po’ di colazione?

Ero stato turbato da tali orribili incubi, che, per mezzo minuto, continuai a pensare che si trattasse soltanto di un nuovo e più orribile incubo; e soltanto quando Claude si fu accomodato sui miei piedi, compresi che tutto era pura realtà.

— Gran Dio! che fate qui? — balbettai.

Claude mi guardò con aria di rimprovero.

— Come discorso da ospite, caro Bertie, — disse, — non mi piace affatto. Ma se mi avete detto soltanto iersera che avreste desiderato che mi fermassi da voi molto tempo?! Il vostro sogno è divenuto realtà: eccomi!

— Perché non siete partito per l’Africa?

— Questo, — disse Claude, — è il punto che m’immaginavo avrebbe avuto bisogno di spiegazioni. È così, vecchio mio: vi ricordate quella ragazza che m’avete presentato stanotte da Ciro?

— Quale ragazza?

— Ce n’era una sola, — affermò freddamente Claude; — una sola che contasse, voglio dire; il suo nome era Marion Wardour; ho danzato molto con lei, se vi ricordate.

Cominciavo a ricordarmi vagamente; Marion è stata mia amica per qualche tempo ed è veramente una buona ragazza; attualmente, recita all’Apollo. Mi ricordavo ora ch’era stata la notte prima da Ciro e che i gemelli avevano insistito per esser presentati.

— Siamo due anime affini, Bertie, — disse Claude. — Me ne sono accorto assai presto, e più ci ho pensato più me ne sono convinto; ogni tanto accade così... due cuori che battono all’unisono, voglio dire, e così via... Così, per dirvela in breve, a Waterloo piantai in asso Eustace e son tornato qua: l’idea d’andarmene in Africa, lasciando in Inghilterra una ragazza simile, non mi sorrideva affatto. Son tutto per l’imperialismo, sono convintissimo della necessità dello sviluppo coloniale e tutto quel che volete, ma non ho potuto farne a meno. Dopo tutto, — concluse Claude ragionevolmente, — l’Africa è sempre andata bene lo stesso, anche senza di me... e così continuerà.

— Ma, e... Van Alstyne, o, come si chiama? vi aspetterà!

— Oh, avrà Eustace; gli basterà. Eustace è un buonissimo ragazzo e probabilmente finirà col diventare un magnate; terrò dietro alla sua carriera con un interesse incredibile. E ora, scusate, un momento, Bertie, devo andare a farmi preparare da Jeeves uno di quei suoi aperitivi speciali... Per una ragione che non saprei spiegarvi, mi sento un po’ di mal di capo, stamattina.

E, che mi crediate o no, la porta s’era appena chiusa dietro le sue spalle, quand’ecco entrare Eustace, con una faccia così allegra che per poco non mi fece andare in deliquio.

— Mamma mia! — gridai.

Eustace cominciò a sogghignare.

— Non è stato difficile, Bertie, non è stato difficile, — disse. — Mi dispiace per il povero Claude, ma non c’era alternativa; a Waterloo, son riuscito a scappargli e ho preso un’automobile, chissà dove penserà ch’io sia, adesso, poveretto! Ma non ho potuto farne a meno. Se vi aspettavate sul serio ch’io dovessi andare in Africa, non dovevate presentarmi la signorina Wardour; vi racconterò tutto, Bertie. Io, — continuò, gettandosi sul letto, — non sono uomo da innamorarmi d’ogni ragazza che vedo, ma quando trovo l’anima gemella, non perdo tempo. Io...

— Santo Cielo! Siete anche voi innamorato di Marion?

— Anche voi? Che cosa volete dire?

Stavo per dirgli di Claude, quando il disgraziato entrò, simile nell’aspetto a un gigante rifocillato. Non v’è dubbio che l’aperitivo di Jeeves produrrebbe effetti visibili anche su una mummia egiziana... forse vi mette dentro qualche cosa di speciale, l’elettuario dei Worcester, o qualche cosa di simile... fatto sta che Claude era vivificato come un fiore che sia stato sotto la pioggia; ma per poco non ebbe una ricaduta, quando vide suo fratello che lo contemplava dal letto con gli occhi sbarrati.

— Che fate qua? — gli chiese.

— Che fate qua voi? — disse Eustace.

— Siete tornato per infliggere la vostra bestiale compagnia alla signorina Wardour?

— Siete tornato voi, per questo motivo?

E continuarono così per un altro pezzo.

— Bene, — disse alfine Claude. — Credo che non si poteva fare altrimenti.

— Se siete qui, siete qui; il più forte di noi vincerà!

— Sì, ma, accidenti! — esclamai a questo punto, cercando d’interrompere il loro disegno, — che pensate? Dove pensate di andare, rimanendo a Londra?

— Qui, — disse Eustace sorpreso.

— E dove mai si dovrebbe andare? — chiese Claude corrugando la fronte.

— Non avete difficoltà a sopportarci, Bertie? — disse Eustace.

— Uno sportsman come voi non ne avrà certamente, — disse Claude.

— Ma, ciuchi che siete, e se zia Agatha scopre ch’io vi tengo nascosti qui, mentre dovreste essere in Africa, dove debbo scappare io?

— Dove deve scappare? — chiese Claude ad Eustace.

— Oh, credo che in qualche modo se la caverà, — rispose l’altro.

— Naturalmente, — confermò Claude rallegrato. — Se la caverà.

— Già, — disse Eustace. — Un uomo ricco di espedienti come Bertie se la caverà di certo!

— Ed ora, — disse Claude, cambiando soggetto, — che ne direste se facessimo quel po’ di colazione di cui si parlava un minuto fa, Bertie? L’aperitivo che m’ha dato il vostro Jeeves m’ha fatto venire ciò che si potrebbe chiamare un buon appetito. Credo che qualche cosa come sei costolette e una buona torta farebbe al caso.

Credo che non ci sia uomo che non abbia, fra i suoi ricordi, certi momenti della sua vita che lo fanno rabbrividire solo a pensarvi. Alcuni a giudicarne dai romanzi che si leggono oggi, rabbrividiscono tutti i momenti; io, invece, sia per la buona rendita privata di cui godo, sia per l’ottima digestione che faccio sempre, trovo che la mia vita è abbastanza povera di simili emozioni. Ecco perché quella di cui sto parlando è un’epoca alla quale penso meno che posso. I giorni che seguirono l’inaspettata resurrezione di quei due benedetti gemelli furono così terribili che i miei nervi cominciavano a tendersi dolorosamente. Ero sempre sossopra, credetemi... forse, perché noi Woosters siamo così spaventosamente onesti e aperti, che il solo pensiero d’un sotterfugio ci mette addosso l’umor nero.

Per altre ventiquattr’ore, tutto filò tranquillamente; ma poi ecco zia Agatha a far quattro chiacchiere. Se fosse giunta venti minuti più presto avrebbe trovato i due gemelli in procinto di servirsi d’uova e prosciutto. Zia Agatha si sprofondò in una poltrona e m’accorsi subito che non era troppo di buon umore.

— Bertie, — cominciò, — sono inquieta.

Lo ero anch’io: non sapevo quanto intendesse fermarsi, né quando i gemelli sarebbero tornati.

— Temo d’aver preso una risoluzione troppo aspra, riguardo a Claude ed Eustace.

— Non avreste potuto.

— Che intendete dire?

— Voglio dire... ehm... voglio dire che sarebbe così inverosimile che voi possiate esser aspra con qualcuno, zia Agatha!... — Me l’ero cavata bene... per averla detta così prontamente... senza tempo di pensarvi su; la mia cara zia ne fu contenta e mi guardò un po’ meno aspramente del solito.

— Siete molto gentile, Bertie, ma... dicevo io... sono salvi quei ragazzi?

— Se sono che cosa?

Mi sembrava un aggettivo strano... applicato ai due gemelli... così innocui... come due vivaci tarantole.

— Credete che stiano bene?

— Che volete dire?

Zia Agatha mi guardò pensosa.

— Avete mai pensato, Bertie, che vostro zio George possa esser visionario?

Mi parve che stesse cambiando argomento.

— Visionario?

— Credete ch’egli possa vedere cose invisibili ad occhi normali?

Lo credevo possibilissimo, se non probabile.

Non so se abbiate mai visto mio zio George; è un vecchio buontempone che gira da circolo a circolo, sempre in compagnia di un paio di altri buontemponi. Al suo comparire, i camerieri si fanno in quattro e il dispensiere dei vini comincia a giocherellare col cavatappi. Fu zio George a scoprire che l’alcool è in auge nella stima dei medici moderni.

— Vostro zio ha pranzato da me, iersera; era molto scosso. Dice che tornando dal Devonshire Club, ha visto improvvisamente il fantasma di Eustace.

— Che cosa di Eustace?

— Il fantasma... lo spettro. Era così nitido, che, per un istante, pensò che fosse Eustace in persona; la figura svoltò a un angolo, e quando zio George vi giunse, non c’era più nulla. È una cosa stranissima e inquietante e ha prodotto sul povero George un effetto straordinario. Durante il pranzo, non ha preso che acqua d’orzo e appariva assai turbato. Credete che quei ragazzi siano salvi, Bertie? Che non sia toccato loro qualche orribile incidente?

Avevo l’acquolina in bocca al pensiero di dirle di sì, ma poi le risposi negativamente. Ero convinto che i veri orribili accidenti erano Claude ed Eustace in persona, ma non lo dissi. Subito dopo la zia se n’andò ancora sconvolta.

Quando i due gemelli entrarono, li affrontai risolutamente; per quanto fosse divertente far paura a zio George, non dovevano bighellonare così per la città.

— Ma, cara vecchia anima mia, — disse Claude. — Siate ragionevole. Non possiamo rinunciare a muoverci.

— Indiscutibilmente, — disse Eustace.

— La conclusione, se mi capite, — disse Claude, — è che noi dobbiamo esser liberi di svolazzare qua e là.

— Esattamente, — disse Eustace. — Qua e là.

— Ma, accidenti!...

— Bertie, — disse in tono di rimprovero Eustace. — Davanti a un ragazzo!...

— Naturalmente, fino a un certo punto, comprendo il suo modo di vedere, — disse Claude. — Io credo che la soluzione del problema sarebbe di comprare un paio di travestimenti.

— Mio caro, — disse Eustace, guardandolo con ammirazione. — È l’idea più brillante! Sicuramente, non è vostra, eh?

— Bene, in verità, me l’ha messa in testa Bertie.

— Io?!

— L’altro giorno m’avete detto che Bingo Little, per non farsi riconoscer dallo zio, si comprò una barba.

— Non crederete ch’io voglia aver per la casa delle seccature che vanno avanti e indietro muniti di barba!...

— Bene — accordò Eustace. — Prenderemo dei baffi, allora.

— E nasi finti — disse Claude.

— E, come voi dite, nasi finti! Benissimo! Allora, Bertie, vecchio mio, è per voi un imbarazzo di meno. Così durante questa nostra breve visita, non avrete seccature.

E quando andai in cerca di consolazione da Jeeves, tutto ciò che mi disse fu una considerazione sul sangue ardente della gioventù. Non un indizio di simpatia.

— Benissimo, Jeeves, — dissi. — Vado a fare una passeggiata al Parco. Fatemi il favore di tirarmi fuori le ghette a colori.

— Benissimo, signore.

Circa un paio di giorni dopo, a quanto mi sembra, Marion Wardour capitò a casa mia verso l’ora del tè; prima di sedersi, guardò per tutto con circospezione.

— I vostri cugini non sono a casa, Bertie? — mi chiese.

— No, grazie a Dio!

— Allora vi dirò io dove sono; sono nel mio salotto a guardarsi da un angolo all’altro, aspettando ch’io rientri. Bertie, ciò deve finire.

— Ne avete abbastanza, no?

Jeeves entrò col tè, ma la povera ragazza era così affranta che non aspettò nemmeno che egli uscisse, per dare sfogo ai suoi lamenti. Aveva proprio l’aria d’un essere perseguitato, poverina!

— Non posso fare un passo senza imbattermi nell’uno o nell’altro, — disse. — Generalmente, li ho fra i piedi tutti e due; han cominciato a venirmi a far visita insieme e non fanno che sedersi là accigliati, ognuno attendendo che l'altro si stanchi e se ne vada. Non ne posso proprio più!

— Lo so, — dissi con simpatia, — lo so.

— Bene, che dobbiamo fare?

— Non saprei. Non potreste far dire dalla vostra cameriera che non siete in casa?

Ella rabbrividì alquanto.

— Ho provato una volta; si sono accampati sulle scale e non ho potuto uscire tutto il pomeriggio; e avevo molti impegni importanti! Se poteste persuaderli ad andarsene in Africa, dove sembra che s’abbia così bisogno di loro!...

— Dovete aver fatto loro un’impressione straordinaria, — dissi.

— Credo di sì; han cominciato a farmi regali, adesso... Almeno Claude ha incominciato... Iersera ha insistito finche m’ha fatto accettare questo portasigarette. È venuto al teatro e non se n’è voluto andare, finché non l’ho preso. Non mi sembra neanche brutto.

Infatti, non era brutto; era una scatola d’oro adorna d’un brillante, e che mi diede la sensazione strana d’averla vista altre volte. Come mai Claude fosse riuscito a mettere insieme tanto denaro da comprare un oggetto simile, era cosa a cui la mia immaginazione non giungeva.

Il giorno dopo era mercoledì, e poiché l’oggetto della loro devozione aveva una matinée, i gemelli erano, per così dire, in vacanza; Claude era andato coi suoi baffi a Hurst Park ed Eustace stava con me, chiacchierando... o almeno egli chiacchierava ed io sospiravo, non vedendo l’ora che partisse.

— L’amore d’una buona donna, Bertie, — stava dicendo, — dev’essere qualche cosa di meraviglioso. Talvolta... Buon Dio! che c’è?

La porta d’entrata s’era aperta, e, dalla sala, veniva la voce di zia Agatha che chiedeva s’ero in casa. Zia Agatha ha una voce così alta e penetrante!... ma stavolta almeno tale virtù mi riuscì gradita. Due secondi le bastarono per entrare, ma in quei due secondi Eustace fece in tempo a infilarsi sotto il divano, e quando la zia entrò, aveva appena ritirati i piedi.

Zia Agatha appariva assai sconvolta; ma a quel tempo, veramente, tutti mi parevano sconvolti.

— Bertie, — ella cominciò, — che disegni immediati avete?

— Che intendete dire? Stasera pranzo con...

— No, no, non intendo stasera. Avete da fare in questi giorni? No, naturalmente, — continuò, senza attender la mia risposta. — Voi non avete mai nulla da fare... passate una vita da fannullone... ma ciò non può durare a lungo. Sono venuta per dirvi che desidero che andiate per qualche settimana ad Harrogate con zio George, poverino. Quanto prima vi andrete, tanto meglio.

Mi pareva un tale disastro, che non potei non mandare un grido di protesta. Zio George è una degna persona... ma non fa per me; tentavo di dir questo, ma ella m’interruppe levando una mano.

— Se non siete del tutto senza cuore, Bertie, voi farete quanto vi chiedo. Il povero George ha ricevuto una scossa tremenda.

— Come, un’altra?

— Egli sente che soltanto l’assoluto riposo e attente cure possono ristorare il suo sistema nervoso. Sembra che in passato le acque di Harrogate gli abbiano fatto bene, e ora desidera tornar là. Noi dobbiamo cercar di fare che non resti solo, perciò desidero che lo accompagniate.

— Ma, dico!

— Bertie!

Seguì una pausa foriera di tempesta.

— Che scossa ha ricevuto? — chiesi.

— Tra noi... — disse zia Agatha, abbassando la voce in maniera grave, — io credo che tutto sia solo conseguenza d’un’immaginazione sovreccitata. Voi siete di famiglia, Bertie, e io posso parlarvi liberamente. Voi sapete quanto me, che zio George non è stato per molti anni un... ha preso, ehm... l’abitudine di... ehm... come dovrei dire?

— Alzare il gomito.

— Scusate...

— Di far qualche sbornia?

— Non mi piace questo modo di considerar le cose, ma debbo confessare... ehm... non è stato forse così temperante come avrebbe dovuto... È snervato... Ebbene, la conclusione è che ha ricevuto una scossa...

— Sì, ma che c’è stato?

— Ecco ciò ch’è difficile fargli spiegare con precisione! Non ostante tutte le sue qualità, diventa incoerente, quand’è eccitato. A quanto ho potuto capire, è stato vittima d’un furto.

— D’un furto?!

— Dice che uno sconosciuto, munito di baffi e d’un naso caratteristico è entrato nel suo appartamento in Jermyn Street durante la sua assenza e l’ha derubato. Dice che tornando a casa ha trovato il furfante in salotto; è corso fuori immediatamente ed è scappato.

— Chi? Zio George?

— No, il ladro. E secondo lui, gli ha rubato un portasigarette di gran pregio. Ma io, come v’ho detto, sono propensa a credere che si tratti di pura immaginazione. Non è più stato lui, dal giorno che gli è parso di vedere Eustace per la strada. Così vorrei che voi, Bertie, vi preparaste a partire per Harrogate con lui, non più tardi di sabato.

Se ne andò, ed Eustace uscì, strisciando di sotto il divano, profondamente commosso. Anch’io ero commosso: l’idea di dover passare qualche settimana con zio George ad Harrogate, mi rendeva nero del tutto.

— Ecco dove ha preso il portasigarette, quel disgraziato! — disse Eustace. — Che bassezza! Derubare i parenti, il proprio sangue! Dovrebbe essere in prigione!

— Dovrebbe essere in Africa! — diss’io. — E così voi!

E, con un’eloquenza che sorprese alquanto me stesso, sciolsi la lingua e parlai per dieci minuti dei suoi doveri, della sua famiglia, e non so di che altro. Mi appellai al suo senso della convenienza! Feci l’apologia dell’Africa del Sud! Dissi tutto quel che mi venne in mente. Ma lo sciagurato non faceva che brontolare sulla bassezza di quel miserabile di suo fratello che aveva osato metter di mezzo nell’affare del portasigarette una terza persona. Credo che riflettesse che, con quel dono, suo fratello l’aveva battuto presso la ragazza. Quando l’altro tornò, cominciò una scenata spaventosa. Per metà della notte li sentii discutere... Non ricordo d’aver mai conosciuto uomini che potessero dormir così poco...

Poi l’esistenza si complicò maggiormente, perché Claude ed Eustace non si rivolgevano più la parola; a me piace una certa socievolezza e m’era insopportabile vivere con due individui, ognuno dei quali considerava l’altro inesistente sulla terra.

Si sentiva che le cose non potevano durare così, e infatti non durarono; ma se qualcuno fosse venuto a dirmi il giorno prima che cosa stava per accadere, avrei semplicemente sorriso incredulo; ero così avvezzo a pensare che nemmeno la dinamite avrebbe ormai sradicato da casa mia quelle due ostriche, che, quando Claude mi comparve davanti il venerdì mattina a dirmi la novità, credetti di non aver udito bene.

— Bertie, — disse, — ci ho pensato.

— A che? — gli chiesi.

— A tutto... Questo mio rimanere a Londra, mentre dovrei essere in Africa, non è giusto, — disse Claude con ardore. — Non è giusto; la conclusione è, Bertie caro, che parto domani.

Non ci capivo nulla.

— Voi? — balbettai.

— Sì, — disse Claude, — se non vi rincresce mandar Jeeves a prendermi un biglietto. Dovrò disturbarvi pel denaro del viaggio... Vi dispiace?

— Dispiacermi?! — esclamai, stringendogli con fervore la mano.

— Va benissimo, allora. Oh, dico! non una parola con Eustace, di tutto ciò, eh?

— Ma non viene anch’egli?

Claude ebbe un brivido.

— No, grazie al cielo! L’idea di trovarmi confinato su una nave con quello sciagurato mi fa venir la pelle d’oca! Non dite una parola ad Eustace. Farete a tempo di trovarmi un posto?

— Già, — dissi; piuttosto che perdere quella opportunità avrei comprato tutta la nave.

Corsi in cucina.

— Jeeves, — dissi. — Correte subito agli uffici di Union-Castle e prendete un biglietto sul vapore che partirà domani, pel signor Claude. Ci lascia, Jeeves!

— Sì, signore.

— Il signor Claude desidera che il signor Eustace non ne sappia nulla.

— No, signore; il signor Eustace mi ha fatto la stessa raccomandazione, pregandomi di prender lo stesso posto anche per lui.

— Se ne va anche Eustace?

— Sì, signore.

— Strano!

— Sì, signore.

In circostanze diverse, mi sarei aperto un po’ di più, espandendomi gioiosamente. Ma quelle benedette uose formavano una barriera, e mi dispiace di dover confessare che colsi l’opportunità di prendermi una rivincita. Egli era stato così chiuso e poco simpatico tanto tempo, nonostante sapesse bene che il suo padroncino era in gravi imbarazzi e ch’egli avrebbe dovuto muoversi per primo, che non potei trattenermi dal dirgli sul naso che quella felice conclusione non era dovuta ad alcun aiuto da parte sua.

— È così, Jeeves, — dissi. — È finita; sapevo che tutto sarebbe andato bene, solo ad aspettare senza preoccuparsi troppo. Molti, al mio posto, sarebbero stati imbarazzatissimi, Jeeves.

— Sì, signore.

— Sarebbero andati a chiedere aiuto a destra e a sinistra.

— Probabilissimo, signore.

— Ma io no, Jeeves.

— No, signore.

Poi lo lasciai a meditarci su.

 

Quel sabato, quando vidi che Claude ed Eustace non c’erano più e fui convinto ch’eran veramente partiti, nemmeno il pensiero di dover andare ad Harrogate con zio George turbò la mia gioia.

Erano partiti furtivamente e separatamente, subito dopo colazione, Eustace prendendo il vapore a Waterloo, Claude la mia automobile; volevo che non s’incontrassero a Waterloo, in modo da cambiar decisione, così avevo suggerito a Claude d’andare in automobile fino a Southampton.

Me ne stavo supino, contemplando beatamente le mosche sul soffitto e pensando quant’era meravigliosa la vita, quando entrò Jeeves con una lettera.

— L’ha portata un ragazzo, signore.

Apersi la busta e la prima cosa che ne uscì fu un biglietto da cinque sterline.

— Gran Dio! — esclamai. — Che è questo?

La lettera era scritta frettolosamente a matita e brevissima.

 

Caro Bertie. — Vi prego consegnare il denaro che vi accludo al vostro uomo, dicendogli che vorrei poter fare di più. M'ha salvata la vita. Questo è il mio primo giorno felice, da una settimana in qua.

Vostra M. W.

 

Jeeves aveva raccolto il denaro caduto e me lo porgeva.

— Tenetelo, — dissi; — sembra che sia per voi.

— Signore?

— Dico che quel cinquino è vostro. Ve lo manda la signorina Wardour.

— È stata molto gentile, signore.

— Perché mai ve l’ha mandato? Dice che le avete salvata la vita.

Jeeves sorrise dolcemente.

— La signorina fa una stima troppo alta dei miei servigi, signore.

— Ma quali sono i vostri servigi?

— A riguardo del signor Claude e del signor Eustace, signore. Speravo che la signorina non vi accennasse, perché desideravo che non pensaste che mi fossi preso troppa libertà.

— Che volete dire?

— Ero per caso nella stanza, quando la signorina Wardour si lamentò così pietosamente del modo con cui il signor Claude e il signor Eustace le imponevano la loro compagnia; e pensai che in tali circostanze sarebbe stato forse scusabile suggerirle un piccolo espediente per dispensarla dalle loro attenzioni.

— Gran Dio! Volete dire che siete voi che li avete fatti partire?

Mi sentivo un perfetto somaro: dopo avergli rinfacciato, come avevo fatto, che tutto era finito bene senza di lui!...

— Mi venne in mente che se la signorina Wardour avesse informato separatamente il signor Claude e il signor Eustace che si proponeva di partire per l’Africa del Sud per una scrittura teatrale, si sarebbe ottenuto l’effetto desiderato... E, a quanto pare, le mie previsioni erano giuste, signore: i signorini abboccarono, se così posso dire.

— Jeeves, — dissi, poiché noi Woosters possiamo fare degli spropositi, ma non abbiamo lo sciocco orgoglio di non volerli riconoscere, — voi siete unico!

— Vi ringrazio molto, signore.

— Ma... dico! — Un sospetto tremendo m’era balenato. — Quando saranno imbarcati e s’accorgeranno ch’ella non c’è, non torneranno?

— Ho preveduto tale possibilità, signore. Per mio suggerimento, la signorina Wardour ha detto ai signorini che si proponeva di viaggiar per terra fino a Madera e d’imbarcarsi soltanto là.

— E che porti toccano, dopo Madera?

— Nessun altro, signore.

Per un momento gettai la testa all’indietro, supina, per bearmi al pensiero di tanta tranquillità. Ma mi sembrava che ci fosse ancora un malanno.

— Peccato, — dissi, — che su una nave così grande, essi potranno evitarsi; mi piacerebbe che fossero costretti a farsi compagnia.

— Credo che sarà così, signore. Ho preso una cabina a due letti; Claude dormirà in uno, Eustace nell’altro.

Immerso in un’estasi di felicità, sospirai; mi pareva una sciagura, in un’occasione simile, di dover andare ad Harrogate con lo zio.

— Avete cominciato a preparar le valigie? Jeeves? — chiesi.

— Preparar le valigie, signore?

— Per Harrogate; devo andare ad Harrogate con zio George, oggi.

— Naturalmente sì, signore. Ho dimenticato di dirvelo; il signor George ha telefonato stamattina mentre dormivate, per dirmi che aveva mutato proposito; non intende più di andare ad Harrogate.

— Oh! questo è assolutamente straordinario!

— Pensavo che ne sareste stato contento, signore!

— Che cosa gli ha fatto mutare idea? L’ha detto?

— No, signore. Ma ho saputo da Stevens, il suo cameriere, che si sente meglio e che non ha più bisogno di riposo. Mi son preso la libertà di dare a Stevens la ricetta di quel mio stimolante che ha avuto sì spesso la vostra approvazione; e Stevens mi dice che Sir George l’ha informato stamattina di sentirsi affatto un altro.

Non mi restava da far che una cosa, e la feci; non dico che non mi addolorasse, ma non c’era alternativa.

— Jeeves, — dissi, — quelle ghette.

— Sì, signore.

— Vi dispiacciono veramente?

— Intensamente, signore.

— Credete che il tempo non vi potrà rendere un po’ indulgente a loro riguardo?

— No, signore.

— Benissimo, allora. Benissimo. Non una parola di più; potete bruciarle.

— Grazie infinite, signore. L’ho già fatto stamattina prima di colazione. Un paio di grigie sarà molto più conveniente, signore. Grazie infinite, signore.

  

17

BINGO E LA DONNINA

Circa una settimana dopo la partenza di Claude ed Eustace, incontrai Bingo Little nel salotto del Senior Liberal Club. Stava comodamente sdraiato a bocca aperta in una poltrona, mentre un individuo dalla barba grigia, poco lontano, lo guardava con tanto disgusto, ch’io ne conclusi che Bingo doveva avergli usurpato il posto preferito. Il peggio, per chi capita in un circolo che non conosce, è appunto questo... di trovarsi continuamente, senza saperlo, in procinto di calpestare gli interessi dei più Antichi Occupanti.

— Ehi! — gli feci.

— Oh... brutto! — rispose Bingo, e ci sedemmo a far quattro chiacchiere, in attesa d’andare a colazione.

Una volta all’anno, il nostro circolo decide di lavarsi e spazzolarsi un pochino, e quindi ci manda per qualche settimana in un altro. Stavolta, occupavamo il Senior Liberal ed io personalmente avevo trovato l’impresa abbastanza rischiosa. Quando siete così familiare in un circolo dove tutto è grazioso e simpatico e dove, per attrar l’attenzione d’una persona, vi basta tirargli un pezzo di pane, in certo modo vi sentite avviliti di trovarvi in un luogo dove il socio più giovane ha circa ottantasette anni e dove è considerato poco corretto rivolger la parola a qualcuno col quale non si sia fatta insieme la Guerra Peninsulare. Così, l’imbattermi in Bingo fu per me un vero sollievo; subito cominciammo a parlare a voce bassa.

— Questo circolo è il colmo! — dissi.

— Davvero! — accordò Bingo. — Io credo che quel vecchio presso la finestra sia morto da tre giorni, ma non lo dico a nessuno.

— Avete già fatto colazione?

— No, perché?

— Ci sono cameriere invece di camerieri.

— Gran Dio! Credevo che dopo l’armistizio fosse finita. — Canticchiò un poco, accomodandosi la cravatta, sopra pensiero. — Ehm... belle ragazze?

— No.

Sembrò deluso, ma si riebbe subito.

— Bene, ho sentito dire che la cucina è la migliore di Londra.

— Così dicono. Entriamo.

— Benissimo, — disse Bingo. — Credo che alla fine del pasto... o forse subito... la cameriera chiederà: «Tutti e due insieme, signore?» Rispondete affermativamente; io non ho un soldo.

— Non v’ha ancora perdonato vostro zio?

— Non ancora, che Dio lo confonda!

Mi dispiaceva sentire quella brutta novità; risolsi di farlo mangiar bene, poverino, e, quando la ragazza venne con la lista, la esaminai attentamente.

— Che vi pare, Bingo? — dissi alfine. — Un paio d’uova di piviere, per cominciare, un po’ di minestra, un pezzetto di salmone freddo, un po’ di salsa indiana fredda, una fetta di torta di ribes alla crema, e, per finire, un pezzettino di formaggio?

Quantunque avessi scelto i suoi piatti preferiti, non mi aspettavo affatto che si mettesse a gridar di gioia, ma credevo almeno che dicesse qualche cosa. Lo guardai e m’accorsi che la sua attenzione era altrove; stava guardando la cameriera con lo sguardo d’un cane che si ricorda improvvisamente dov’è sepolto il suo osso. Era una ragazza alta, dagli occhi bruni, spirituali; in complesso, una bella figura; anche le mani erano decenti. Mi pareva che fosse nuova del luogo e debbo dire che con la sua presenza alzava un po’ il prestigio del circolo.

— Che ne dite caro? — gli chiesi, desiderando d’esser servito presto e di cominciar subito a lavorar di forchetta.

— Eh? — fece Bingo distratto.

Gli lessi la lista di nuovo.

— Oh, sì, bene! — disse. — Tutto, tutto. — La ragazza se n’andò ed egli mi piantò in faccia gli occhi sbarrati. — E avete detto che non sono graziose, Bertie! — mi disse in tono di rimprovero.

— Santo cielo! — dissi. — Non vi sarete innamorato di nuovo, spero!... e d’una ragazza che vedete la prima volta!

— Vi sono occasioni, Bertie, — disse Bingo, — in cui un’occhiata basta... quando passiamo in mezzo a una folla e incontriamo l’occhio d’una persona e qualche cosa sembra bisbigliarci...

A questo punto arrivarono le uova ed egli sospese il discorso per lanciarsi sul piatto, pieno di buona volontà.

— Jeeves, — dissi quella sera, appena a casa, — sentite.

— Signore?

— Preparate il vostro cervello; state attento. Sospetto che il signor Little verrà presto a chiederci aiuto e consolazione.

— Gli è toccata qualche disgrazia, signore?

— Potete dirlo. È innamorato... per la cinquantatreesima volta, almeno. Da uomo a uomo, Jeeves, avete mai visto un tipo simile?

— Il signor Little ha certo il cuore molto ardente, signore.

— Il cuore ardente? Io dico che deve portare una veste di amianto. Bene, tenetevi pronto, Jeeves.

— Benissimo, signore.

E non passarono dieci giorni che il disgraziato capitò, belando in cerca di aiuto.

— Bertie, — cominciò, — se siete un amico, ora è il momento di dimostrarmelo.

— Avanti, vecchio mio, — risposi. — Vi ascoltiamo.

— Vi ricordate d’avermi offerto la colazione al Senior Liberal, giorni fa? Ci servì una...

— Ricordo; una donna alta, agile...

Rabbrividì.

— Accidenti! potreste parlarne in modo diverso, no? È un angelo!

— Benissimo; avanti.

— Io l’amo.

— Bene! Avanti.

— Per l’amor di Dio, non eccitatemi! Lasciate che vi racconti a modo mio. L’amo, come dicevo, e vorrei che voi, Bertie, vecchio mio, andaste da mio zio a fare un po’ di opera diplomatica. Bisogna ch’egli mi renda l’assegno e subito! E per di più che me l’aumenti.

— Ma, sentite, — dissi, poiché la missione non mi sorrideva troppo, — perché non aspettate un pochino?

— Aspettare? Che serve aspettare?

— Ebbene, sapete che cosa accade di solito, quando v’innamorate; succede qualche piccolo incidente e vi ritrovate libero. Sarà molto meglio attaccare vostro zio ad affare concluso o ben definito.

— È definito e fissato. M’ha detto di sì stamattina.

— Buon Dio! Che fretta! Non la conoscete nemmeno da due settimane.

— No, in questa vita, no, — disse Bingo. — Ma ella ha una specie d’impressione che ci dobbiamo essere incontrati in qualche esistenza anteriore. Pensa ch’io debba essere stato re di Babilonia, mentr’ella era schiava cristiana. Io non posso affermare di ricordarmelo, ma può darsi che sia vero.

— Gran Dio! — esclamai. — Ci son cameriere che parlano in tal modo?

— Che devo saper io come parlano le cameriere?

— Bene, ormai lo dovreste sapere. La prima volta che vidi vostro zio fu per andargli a chiedere se poteva aiutarvi a sposare quella famosa Mabel ch’era cameriera a Piccadilly.

Bingo trasalì violentemente, con un baleno cupo nello sguardo e prima che mi rendessi conto di nulla, aveva già calato sui miei calzoni estivi una botta che mi fece saltare come un capretto.

— Ehi! — dissi.

— Mi dispiace, — disse Bingo. — Sono eccitato. Mi son lasciato trasportare. M’avete ispirato un’idea, Bertie. — Aspettò che finisse il massaggio sulla mia povera gamba, poi riprese. — Potete ricordarvi di quell’occasione, Bertie? Vi ricordate che disegno astuto avevo preparato? Vi ricordate che gli dissi ch’eravate, come si chiama, l’autrice di quei libri?...

Non potevo non ricordarmi; il ricordo di quegli orribili momenti era impresso a fuoco nella mia memoria.

— Questa è la linea d’attacco, — disse Bingo. — Ecco il mio disegno, Rosie M. Bank tornerà da mio zio.

— Non si può, caro. Mi dispiace, ma è impossibile. Non posso assolutamente assumermi di nuovo un’impresa simile.

— Per me!... no?

— Nemmeno per una dozzina come voi.

— Non avrei mai creduto, — disse Bingo con aria dolente, — di udir parole simili da Bertie Wooster!

— Bene, ora le avete udite, — dissi. — Tenetevele a mente.

— Bertie, noi siamo stati a scuola insieme!

— Non è stata colpa mia.

— Siamo amici da quindici anni!

— Lo so. E il doverlo riconoscere m’avvelena il resto della vita.

— Bertie caro, — continuò Bingo, avvicinandosi con la sedia e cominciando a carezzarmi una spalla. — Sentite! Siate ragionevole!

E, naturalmente, in capo a dieci minuti, mi lasciai convincere. Succede sempre così. Tutti riescono a convincermi. Se fossi in un convento di trappisti, la prima cosa che accadrebbe sarebbe questa: che qualche abile e calmo adescatore mi indurrebbe a qualche spaventosa sciocchezza, contro il miglior mio buon senso, col linguaggio dei sordomuti.

— Ebbene, che volete che faccia? — dissi alfine, convinto che era inutile lottare.

— Cominciate col mandare al vecchio una copia, con autografo del vostro ultimo lavoro. Gli farà colpo! Poi andrete a trovarlo e farete il resto.

— Qual è il mio ultimo lavoro?

— La donna che sfidava tutti, — disse Bingo. — Lo vedo da per tutto, in città; nelle vetrine dei librai non si vede altro. Dalla copertina mi sembra il libro che tutti dovrebbero aver scritto. Naturalmente, sarà orgoglioso di discuterlo con voi.

— Ah! — feci, tornando di buon umore. — Ma allora, tutto va per aria, perché io non so di che parli, il libro.

— Dovete leggerlo, naturalmente.

— Leggerlo? Eh, no!... dico!...

— Bertie, siamo stati a scuola insieme!

— Benissimo, benissimo, — dissi.

— Sapevo che potevo contar su voi. Avete un cuor d’oro. Jeeves, — continuò Bingo, vedendo entrare il mio cameriere, — il signor Wooster ha un cuor d’oro.

— Benissimo, signore.

Tranne per qualche occhiata al Pink’Un e alle liste dei cavalli da corsa, io non perdo molto tempo in letture, e il dover leggere La donna (il diavolo se la porti!) che sfidava tutti,fu per me un’impresa orribile. Ma cercai di leggerlo tutto e feci appena a tempo, perché ero proprio arrivato giusto al punto in cui le loro labbra s’incontrarono in un lungo, interminabile bacio e tutto è tranquillo, tranne la brezza sospirante tra le foglie dell’alburno, quando un ragazzo mi portò un biglietto del vecchio Bittleshain che m’invitava a colazione.

Trovai il vecchio d’un umore che non si può definire che «melato». Aveva accanto, sulla tavola, una copia del libro, e ogni tanto ne voltava una pagina, alternando la lettura coi piaceri della gola.

— Signor Wooster, — disse ingollando un pezzo di trota, — desidero farvi le mie congratulazioni e ringraziarvi. Andate di bene in meglio. Ho letto Tutto per l’amore, ho letto Una semplice ragazza di campagna,conosco Mértle a memoria. Ma questo, questo è il più ardito e il più bello... strazia veramente le fibre del cuore!

— Si?

— Sì, davvero! L’ho letto tre volte, dacché siete stato tanto gentile da mandarmelo (e debbo ancor più ringraziarvi per la lusinghiera dedica), e penso di poter dire ch’esso m’ha reso migliore, più buono, più profondo. Mi sento pieno di umanità e di gentilezza verso i miei simili.

— No, davvero?

— Davvero, davvero.

— Verso tutti i vostri simili?

— Tutti.

— Anche verso Bingo? — dissi, tentando il colpo.

— Mio nipote? Richard? — Si fece un poco pensoso, ma si comporterà virilmente e apertamente. — Sì, anche verso Richard. Bene... forse bisognerebbe vedere... sì, anche verso Richard.

— È un bene, perché desideravo parlarvi di lui. È imbarazzato, sapete.

— Si trova in difficoltà?

— Terribili. E se voi foste generoso, potrebbe riavere l’assegno trimestrale di prima.

Il vecchio mugolò per qualche momento, terminando un pezzo di faraona, giocherellò col libro e lo lasciò aperto a pagina duecentoquindici. Io non ricordavo che cosa ci fosse in quella pagina, ma doveva esser qualche cosa di commovente, perché la sua espressione cambiò ed egli mi guardò con gli occhi velati come se avesse messo troppa mostarda sull’ultimo boccone.

— Benissimo, signor Wooster, — disse. — Fresco della lettura di questo vostro nobile lavoro, non posso essere insensibile. Richard riavrà il suo assegno.

— Bravo! — dissi. — Sarà una preoccupazione di meno per lui. Vuole sposarsi, sapete!

— Non lo sapevo; e non sono sicuro se potrò approvarlo. Chi è la signorina?

— Bene, a dire il vero, è una cameriera.

Egli fece un balzo.

— Dite davvero, signor Wooster? È straordinario! Questo mi piace! Non l’avrei mai creduto capace d’esser tanto costante; è una virtù che non gli avevo mai riscontrata. Ricordo che quand’ebbi il piacere di far la vostra conoscenza, circa diciotto mesi fa, Richard desiderava di sposare quella cameriera.

Dovetti disingannarlo.

— Ebbene, non è esattamente la stessa. Infatti è proprio diversa. Ma, sempre una cameriera, sapete!

La luce d’affetto paterno che gli aveva illuminato gli occhi si spense.

— Uhm! — fece, un po’ dubbioso. — Pensavo che Richard avesse un po’ di costanza... una qualità così rara nei giovani. Ci... ci penserò.

Ci lasciammo così, ed io tornai a riferire a Bingo come stavano le cose.

— Per l’assegno va benissimo, — dissi. — Il consenso è un po’ incerto.

— Vi pare che il mio matrimonio non gli vada a genio?

— M’ha detto che ci penserà. Se dovessi scommettere, offrirei il cento per otto contro.

— Non avete saputo fare; dovevo immaginarmelo che avreste guastato tutto! — disse Bingo. Questa risposta, riflettendo a ciò che per amor suo avevo passato, fu per me come il morso di un serpente.

— È spiacevole — egli continuò, — spiacevolissimo. Non posso per ora raccontarvi tutti i particolari, ma... sì, è spiacevole.

Si prese distrattamente una manata dei miei sigari migliori e se n’andò.

Per tre giorni non lo vidi più. Il pomeriggio del terzo giorno mi capitò a casa per tempo, con un fiore all’occhiello e con un’espressione che non gli avevo mai vista.

— Ehi, Bertie!

— Ehi, vecchia rapa! Dove siete stato, tutto questo tempo?

— Così, un po’ qua, un po’ là, passandomela alla meglio.

— Non c’è male!

— Il tasso delle Banche discende ancora.

— No, davvero?

— Cattive notizie dalla Bassa Slesia, eh?

— Caspita!

Fece qualche passo per la stanza, dicendo ogni tanto qualche parola. Sembrava completamente stordito.

— Oh, Bertie, dico! — fece improvvisamente, lasciando cadere un vaso che aveva preso sul caminetto e col quale stava giocherellando. — Ecco che cosa volevo dirvi: mi sono sposato.

  

18

TUTTO FINISCE BENE

Lo guardai con gli occhi sbarrati. Quel fiore all’occhiello... quell’aspetto sconvolto... Sì sì, ne aveva tutti i sintomi e tuttavia la cosa mi pareva incredibile... forse perché avevo visto tanti suoi amori cominciare nell’entusiasmo e poi finir miseramente a metà strada, che non potevo credere che questo fosse giunto a buon fine.

— Sposato!

— Sì, sono stato dall’ufficiale di stato civile di Holburn stamattina. Torno dalla colazione di nozze.

Mi drizzai sulla poltrona, attentissimo, preparandomi a considerar l’evento da tutti i punti di vista.

— Andiamo! — dissi. — Siete sposato davvero?

— Sì.

— Con la ragazza di cui eravate innamorato l’altro giorno?

— Che intendete dire?

— Sapete come siete voi. Ditemi, che cosa v’ha fatto fare questo colpo di testa?

— Vi prego di non parlare in termini simili. L’ho sposata perché l’amo, accidenti! È la miglior donna del mondo.

— Va benissimo, e vi credo. Ma avete pensato a ciò che dirà vostro zio? L’ultima volta che lo vidi non mi pareva che avesse affatto voglia di confetti.

— Bertie, — disse Bingo, — voglio esser franco. La donnina me l’ha quasi imposto, se capite ciò che voglio dire; le ho detto come la pensava mio zio, ed ella m’ha risposto che se non l’amavo abbastanza da sfidar la collera del vecchio, ci dovevamo lasciare. Così non mi restava a far altro.

— E ora che contate di fare?

— Oh! ho già tutto stabilito. Quando sarete andato a dirlo a mio zio...

— Come?

— Quando sarete...

— Credete ch’io me ne voglia impacciar ancora?

A questo punto Bingo mi guardò con l’occhio di Lilian Gish dopo uno svenimento.

— Ma è Bertie Wooster che mi parla così? — fece penosamente.

— Sì, proprio!

— Bertie, vecchio mio, — disse Bingo, battendomi qua e là con mano leggera, — rifletteteci. Siamo stati a scuola...

— Oh, benissimo!

— Bravo! Sapevo che potevo contar su voi.

 

La donnina mi aspetta giù nella sala. La prenderemo con noi e andremo a Pounceby Gardens subito.

Non avevo visto la sposa che in veste da cameriera e m’aspettavo che il giorno delle nozze si fosse messa qualcuno di quegli abiti che vi fanno pensare alle stoffe da tappezzare i muri; il primo raggio di speranza che mi venne dacché ero caduto in questa zuppa, fu il constatare che invece d’esser tutta velluto e profumeria e fiori sul cappello, la signorina era vestita con la massima eleganza. Veramente! Nulla di chiassoso! Quanto all’aspetto, si poteva credere che fosse appena giunta da Berkeley Square.

— Questo è il mio amico Bertie Wooster, cara, — disse Bingo. — Siamo stati a scuola insieme, vero, Bertie?

— Sì, — dissi. — Come state? mi pare che... ehm... ci siamo conosciuti a colazione l’altro giorno, no?

— Oh sì! come state?

— Mio zio beve le parole di Bertie, — spiegò Bingo. — Così egli verrà con noi ad aggiustar la faccenda. Ehi, automobile!

Per la strada parlammo poco; eravamo troppo commossi. Quando l’automobile si fermò davanti alla casa del vecchio Bittlesham, mi sentii sollevato. Lasciai Bingo e la moglie nella sala e salii le scale entrando nel salotto, mentre il maggiordomo mi annunciava.

Nell’attesa, passeggiando su e giù per la stanza, mi cadde l’occhio su La donna che sfidava tutti, aperto su una tavola a pagina duecentoquindici, dove una matita aveva segnato alcune righe. Cominciai a leggerle e vidi ch’era un brano più lacrimevole della senape e che mi poteva servire. Eccolo:

 

— Che cosa può, — gli occhi di Millicent sfavillavano, mentr’ella fissava il vecchio indurito, — che cosa può contro un puro e ardente amore? né nobiltà, né potere, signore, né tutte le meschine ingiunzioni di tutori o parenti. Io amo vostro figlio, Lord Mindermere, e nulla ci può dividere! Fin dalla sua nascita questo nostro amore fu fatale, e chi siete voi, da pretendere di opporvi ai decreti del Fato?

Il conte la guardava attentamente di tra i cigli folti.

— Uhm! — fece...

 

Prima che avessi il tempo di cercar di ricordarmi quale fosse la parte di Millicent, s’aprì porta ed entrò il vecchio Battlesham, tutto ben volo come sempre.

— Mio caro signor Wooster, questo è un piacere inaspettato. Sedetevi, vi prego. Che posso fare per voi?

— Bene, la verità è che vengo in qualità di povero ambasciatore, stavolta; vengo a rappresentare vostro nipote Bingo.

Accolse fra sé la notizia con simpatia, a quanto mi parve, ma non lo lasciò trapelare: e io continuai.

— Ciò ch’io penso è che nulla può contro ciò che si può chiamare un puro e ardente amore. Vi pare? A me sembra così.

I miei occhi non sfavillavano certo come quelli di Millicent, mentre affrontavo il mio vecchio, ma corrugai alquanto le sopracciglia. Egli soffiò un poco e mi parve dubbioso.

— Abbiamo discusso la cosa l’ultima volta che ci siam visti, signor Wooster e in tale occasione...

— Sì, ma ci sono stati altri eventi, comunque, da allora. La verità è — dissi, venendo all’essenziale — che stamattina Bingo l’ha finita.

— Santo cielo! — Balzò in piedi e restò a guardarmi a bocca aperta. — Perché? Dove? Come?

Capii che non aveva compreso.

— Parlavo figuratamente — spiegai — se posso dir così. Voglio dire che s’è sposato.

— Sposato!

— Assolutamente. Spero che non vi dispiacerà, no? Il vostro sangue!... Due cuori che si amano!...

Ansimava affannosamente.

— Mi ha molto turbato la vostra notizia. Io... io credo d’essere stato sfidato. Sì, sfidato.

— Ma chi siete voi da pretendere di opporvi ai decreti del Fato? — dissi, dando un’occhiata al copione con la coda dell’occhio.

— Eh?

— Vedete, questo loro amore era qualche cosa di fatale... tale è stato fin dal principio, vedete...

Credo che se avessi detto: — Uhm! — avrei fatto la frittata; fortunatamente non lo dissi. Seguì un silenzio, durante il quale m’apparve imbarazzato. Poi gli cadde l’occhio sul libro e diede quasi un balzo.

— Ma, signor Wooster, voi citavate dal vostro romanzo!

— Press’a poco.

— Mi pareva che le vostre parole mi fossero familiari! — Mutò subito aspetto ed ebbe una specie di grugnito. — Mio caro, mio caro, voi sapete il mio punto preferito! — Raccolse il libro e vi s’immerse qualche tempo; cominciavo a pensare che si dimenticasse della mia presenza. Ma dopo un po’ lo ripose e s’asciugò gli occhi. — Ah bene! — disse.

Mi mossi, pieno di speranza.

— Bene — egli ripeté — io non devo essere come Lord Windermere, eh, signor Wooster? Ditemi, avete avuto un modello vivente per quel vecchio altezzoso?

— Oh no! L’ho pensato e buttato giù semplicemente!

— Genio! — mormorò il vecchio. — Genio! Ebbene, signor Wooster, m’avete vinto! Chi sono io, come voi dite, da pretender di oppormi ai decreti del fato? Scriverò a Richard stasera, dandogli il mio consenso.

— Potete dargli la buona notizia in persona, — dissi. — Sta aspettando giù dalle scale con la moglie. Scendo e ve li mando su. Arrivederci e grazie tante. Bingo sarà lietissimo.

Uscii e in un attimo fui in fondo alle scale. Bingo e la signora attendevano su due sedie, come pazienti nell’anticamera d’un dentista.

— Ebbene? — fece Bingo con ardore.

— Tutto bene, fuorché l’aumento dell’assegno, — risposi, battendogli sulle spalle. — Salite e portatevi bene. Arrivederci, cari. Sapete dove trovarmi, se avete bisogno di me. Mille congratulazioni, eccetera eccetera.

E scappai per non esser ringraziato.

A questo mondo non si può esser mai certi di nulla. Se mai sentii che un’impresa meritava una notte di riposo, fu quando fui tornato a casa, e, posati i piedi sul caminetto, ebbi cominciato a sorbire una tazza di tè che m’aveva portato Jeeves. Pur avvezzo come sono a vedere i più bravi campioni arrestarsi d’un tratto vicino al traguardo e perder la corsa, non vedevo in quest’affare di Bingo, nessuna causa d’allarme. Dopo che avevo lasciato Pounceby Gardens, tutto ciò che gli restava a fare era di salire le scale con la sua signora e raccogliere i frutti della mia opera. N’ero così convinto, che, quando, mezz’ora più tardi, egli giunse di corsa nel mio salotto, pensai semplicemente che volesse ringraziarmi con voce rotta dall’emozione e dirmi quanto ero stato buono. Lo accolsi calorosamente e stavo per offrirgli una sigaretta, quando m’accorsi che doveva aver qualche grosso grattacapo; infatti aveva l’aria d’uno che ha ricevuto un colpo orribile al plesso solare.

— Caro mio, — dissi, — che c’è?

Bingo cominciò a girar per la stanza.

— Devo esser calmo! — disse, andando urtare contro una tavola. — Calmo, caspita! — rovesciò una sedia.

— Certo non vi sarà accaduto niente di male.

Bingo mandò un gemito sordo e cupo.

— Mi è accaduto soltanto tutto ciò che di peggio poteva accadermi! Che pensate che sia avvenuto, dopo che ci avete lasciati? Sapete quel maledetto libro che avete voluto mandare a tutti i costi a mio zio?

Non era precisamente come la pensavo io, ma vidi che il disgraziato ne aveva abbastanza, anche senza le mie rettificazioni.

— La donna che sfidava tutti? — dissi. — Mi è stato utilissimo! Se ho ottenuto qualche cosa, è stato citando da quel libro.

— Bene, non è stato utile a noi, però. Quando siamo entrati, esso stava sulla tavola, ed avevamo già cominciato a chiacchierare, quando mia moglie lo vide. «Oh, l’avete letto, Lord Bittlesham?», disse mia moglie. «Già, tre volte», rispose mio zio. «Ne sono lieta», fece mia moglie. «Siete anche voi un’ammiratrice di Rosie M. Banks?» le chiese il vecchio irraggiandosi di gioia. «Sono io Rosie M. Banks», disse mia moglie.

— Ah, mamma mia! No, davvero?

— Sì.

— Ma come può esser lei? Voglio dire... accidenti! non portava i piatti al Senior Liberal Club?

Bingo, incollerito, tirò un calcio al divano.

— Faceva la cameriera per raccogliere il materiale d’un libro che sta scrivendo e che s’intitola Mervyn Keene, Clubman.

— Avrebbe potuto dirvelo.

— Fu così commossa, nel comprendere ch’io l’amavo per sé stessa, nonostante la sua umile condizione, che non mi rivelò nulla. Intendeva farmelo sapere più tardi, m’ha detto.

— Ebbene, che accadde allora?

— Il diavolo a quattro. Il vecchio ebbe quasi un colpo apoplettico; disse che mia moglie era menzognera. Poi cominciarono a strillar tutti e due come ossessi e alfine mia moglie corse dai suoi editori a raccoglier prove, come preliminare per avere dal vecchio una giustificazione scritta. Che cosa accadrà ora, non so. A parte il fatto che mio zio andrà su tutte le furie, quando scoprirà che l’abbiamo ingannato, la donnina farà il resto, quando scoprirà che abbiamo fatto servire Rosie M. Banks in altra occasione perché potessi sposare un’altra donna... perché, vedete, una delle prime attrattive ch’ella trovò in me, fu il fatto ch’io non avevo mai amato.

— Le avete detto questo?

— Sì.

— Gran Dio!

— Bene, non son poi stato... veramente innamorato. C’è una differenza immensa tra... Bene, ma non importa. Che devo fare? Ecco l’essenziale!

— Io non lo so.

— Grazie, — disse Bingo. — Questo è un aiuto prezioso.

 

La mattina seguente, Bingo mi chiamò al telefono che avevo appena finito il mio prosciutto e le mie uova... ossia proprio il solo momento della giornata, in cui si desidera meditare il mistero della vita assolutamente indisturbati.

— Bertie!

— Pronto!

— L’affare s’intorbida.

— Che accade ora?

— Mio zio ha riconosciuto le prove presentate dalla donnina e ammette i suoi diritti. Ho appena passato con lui al telefono cinque minuti di quelli!... Dice ch’io e voi lo abbiamo raggirato... poteva appena parlare... E m’ha detto chiaro e tondo che mi toglie di nuovo l’assegno.

— Mi dispiace!

— Non perdete il tempo ad addolorarvi per me, — disse arcigno Bingo. — Oggi verrà da voi a chiedervi una spiegazione.

— Gran Dio!

— E la donnina verrà da voi a chiedervi una spiegazione.

— Buon Dio!

— Osserverò la vostra condotta con considerevole interessamento, — disse Bingo.

Chiamai Jeeves.

— Jeeves?

— Signore?

— Sono fritto!

— Davvero, signore?

Lo ragguagliai di quanto m’accadeva.

— Che mi consigliereste?

— Penso che se fossi voi, signore, accetterei immediatamente l’invito del signor Pitt-Waley. Se vi ricordate, signore, vi aveva invitato a caccia con lui a Norfolk, per questa settimana.

— Già! Per Giove, Jeeves, sì, avete sempre ragione. Aspettatemi alla stazione con la mia roba, al primo treno dopo colazione. Passerò il resto della mattina al circolo.

— Avete bisogno della mia compagnia, per questa visita, signore?

— Volete venire?

— Se posso permettermi un suggerimento, signore, credo sarà meglio che rimanga qui a tenermi in contatto col signor Little. Può darsi che trovi il sistema di aggiustare le cose, signore.

— Benissimo! Se riuscite, siete una meraviglia!

A Norfolk non mi divertii molto; piovve quasi sempre, e quando non pioveva ero così scosso che non riuscivo a colpire un uccello. Dopo una settimana, non ne potevo più; era troppo assurdo starsene laggiù, lontano parecchie miglia da Londra, solo perché lo zio e la moglie di Bingo volevano dirmi due parole. Risolsi di tornare e di tenermi nascosto nel mio appartamento, facendo dire da Jeeves, a chiunque venisse, che non ero in casa.

Mandai al mio cameriere un telegramma, annunciandogli il mio ritorno, e, appena giunto, cercai subito Bingo, per sapere in breve a che punto stessero le cose. Ma Bingo doveva esser fuori. Sonai due o tre volte, ma non accadde nulla, e stavo per andarmene, quando udii un suono di passi e la porta s’aprì. Non fu certo uno dei più bei momenti della mia vita, quando mi vidi davanti la tonda faccia di Lord Bittlesbam.

— Oh, ehm, ehi! — dissi; seguì un breve silenzio.

Non so che cosa m’aspettassi dal vecchio, nel caso che ci fossimo dovuti incontrare, ma avevo l’idea generale che, vedendomi, egli si sarebbe fatto purpureo e avrebbe cominciato subito a dirmene un sacco e una sporta; quindi rimasi sbalordito quando la vidi semplicemente sorridere d’un sorriso fievole, una specie di sorriso gelato, mentre i suoi occhi si sgranavano e la sua gola rivelava che stava inghiottendo saliva.

— Ehm... — disse.

Aspettai che continuasse, ma, a quanto pareva, era finito.

— Bingo è in casa? — dissi, dopo una pausa imbarazzante.

Egli scosse il capo e sorrise di nuovo, poi, improvvisamente, mentre la conversazione cominciava di nuovo a languire, lo vidi dare un balzo indietro, ritirandosi e sbattendomi la porta in faccia. Non comprendevo; ma poiché mi pareva che la nostra conversazione fosse finita, pensai che potevo benissimo andarmene. Avevo appena cominciato a scender le scale, quando incontrai Bingo che saliva a tre scalini la volta.

— Ehi, Bertie! — disse. — Da dove uscite? Pensavo che foste in campagna.

— Sono appena tornato. Ero venuto da voi per saper come andava la faccenda.

— Che volete dire?

— Ma, tutta la faccenda, sapete...

— Ah! quella!... — fece Bingo, spensieratamente. — È tutto a posto da parecchi giorni! La colomba di pace stende le sue ali sulla nostra casa. Jeeves ha aggiustato tutto. È una meraviglia quell’uomo, Bertie!... l’ho sempre detto. Ha messo subito a posto tutto, con una delle sue solite idee brillanti.

— È straordinario!

— Sapevo che sareste stato lieto.

— Congratulazioni!

— Grazie!

— Che ha fatto, Jeeves? Io non avrei saputo pensare nessuna soluzione.

— Oh! s’è preso tutto sulle sue spalle e in un secondo era già tutto a posto! Mio zio e la donnina sono amicissimi, ora. Discutono insieme di letteratura per ore e ore. Non fa che venir qui per poter far quattro chiacchiere.

Mi ricordai del vecchio.

— È qui, in questo momento, — dissi. — Ma... Bingo, come sta adesso?

— Come il solito! Che volete dire?

— Voglio dire... non è rimasto un po’ troppo scosso? L’ho visto ora e mi pareva che avesse un modo di fare così strano!...

— Lo avete incontrato?

— M’ha aperto la porta quando ho sonato; è rimasto a guardarmi un po’ con gli occhi fuor della testa, poi, improvvisamente, m’ha sbattuto la porta in faccia. Son rimasto di stucco. Voglio dire, mi spiegherei che m’avesse trattato male... ma, accidenti! m’è parso così... ferito!

Bingo scoppiò a ridere.

— Ah, benissimo! — disse. — M’ero dimenticato di dirvelo. Volevo scrivervelo anzi, ma ho sempre rimandato... Mio zio crede che siate pazzo.

— Eh... che?

— Sì. Questa è l’idea brillante di Jeeves. Ha risolto il problema meravigliosamente. M’ha suggerito di dire a mio zio ch’io, presentandovi come Rosie M. Banks, avevo agito in perfetta buona fede, perché avevo sentito più volte dalle vostre labbra che voi eravate la scrittrice e non vedevo perché non potesse esser così. Si trattava d’una vostra manìa. Poi abbiamo preso il vecchio Roderick Glossop, vi ricordate il vecchio che aveva quel bambino che voi buttaste nel lago a Ditteredge Hall?... ed egli raccontò la sua storia della colazione a casa vostra, con la camera piena di gatti e col pesce, e poi il cappello che gli avevate strappato in automobile e tutto il resto... E così tutto fu spiegato. Lo dico sempre e lo dirò sempre che voi non avete che da affidarvi a Jeeves e il Fato non può toccarvi.

Io ho molta pazienza, ma ci sono dei limiti.

— Bene, i miei nervi!...

Bingo mi guardò stupefatto.

— Siete seccato? — disse.

— Seccato?! di sapere che mezza Londra mi considera pazzo?! Accidenti!...

— Bertie, — disse Bingo, — voi mi stupite e mi offendete. Se avessi mai creduto che vi sareste opposto all’idea di fare un po’ di bene a uno ch’è vostro amico da quindici anni...

— Sì, ma sentite!...

— Avete dimenticato che siamo stati a scuola insieme?

 

* * *

 

Tornai a casa con un diavolo per capello; di una cosa ero certo: che stavolta io e Jeeves ci saremmo separati. Jeeves era un cameriere incomparabile, naturalmente, il migliore di Londra, ma io non dovevo poi divenire uno schiavo. Entrai come un uragano... e c’era sulla tavola più piccola la scatola delle sigarette e su quella grande i settimanali illustrati e sul pavimento le mie pantofole, e ogni cosa tanto in ordine... che cominciai subito a calmarmi. Era come in quelle commedie, in cui il protagonista sta per macchiarsi d’un delitto, quando improvvisamente ode le dolci, nostalgiche note di un’antica aria che ha imparato sulle ginocchia materne. Mi sentii d’un tratto più dolce... proprio così... più dolce.

E poi, ecco arrivare Jeeves con un vassoio pieno di tutte le belle e buone cose che mi sono indispensabili; e c’era nello stesso aspetto dell’uomo qualche cosa...

— Ho appena veduto il signor Little, Jeeves.

— Davvero, signore?

— M’ha detto... ehm... m’ha detto che l’avete aiutato.

— Ho fatto del mio meglio, signore. E son lieto di dire che ora le cose vanno bene. Whisky, signore?

— Grazie. Ehm... Jeeves!

— Signore?

— Un’altra volta...

— Signore?

— Oh, nulla... non tutto il selz, Jeeves.

— Benissimo, signore.

S’avviò per andarsene.

— Oh, Jeeves!

— Signore?

— Desidero... cioè... mi pare... voglio dire,,, oh, nulla!

— Benissimo, signore. Le sigarette sono lì, signore. Il pranzo sarà pronto alle sette e tre quarti precise, a meno che non desideriate pranzare fuori...

— No, pranzo in casa.

— Sì, signore.

— Jeeves!

— Signore?

— Oh, nulla! — dissi.

— Benissimo, signore, — disse Jeeves.

 

 

FINE