sabato 10 aprile 2021

LA BIBLIOTECA DI MEZZANOTTE Matt Haig


                        Matt Haig

LA BIBLIOTECA
DI MEZZANOTTE

Traduzione dall’inglese
di Paola Novarese

 

Tra la vita e la morte c’è una biblioteca» disse.«E all’interno di questa biblioteca, scaffali e scaffali di libri che si rincorrono all’infinito. Ogni libro offre la possibilità di vivere un’altra delle vite che avresti potuto vivere. Di vedere come le cose avrebbero potuto essere, se avessi fatto altre scelte… Avresti agito diversamente, se ti fosse stata concessa l’opportunità di gettarti alle spalle i rimpianti?».



UNA CONVERSAZIONE A PROPOSITO DELLA PIOGGIA

Diciannove anni prima di decidere di porre fine alla sua vita Nora Seed si trovava nel tepore della piccola biblioteca della Hazeldene Comprehensive School, nella cittadina di Bedford. Era seduta a un tavolino e fissava una scacchiera.

«Nora, mia cara, è normale preoccuparsi del futuro» disse la bibliotecaria, Mrs Elm, con gli occhi che brillavano.

Mrs Elm fece la prima mossa. Un cavallo saltellò oltre la fila ordinata di pedoni bianchi. «È naturale che ti preoccupi degli esami. Ma puoi essere qualunque cosa tu voglia, Nora. Pensa a tutte quelle possibilità. È elettrizzante».

«Già. Mi sa che è così».

«Tutta la vita davanti».

«Tutta la vita».

«Puoi fare qualunque cosa, vivere ovunque tu voglia. In un posto un po’ meno freddo e umido di questo».

Nora spostò un pedone in avanti di due caselle.

Non era facile impedirsi di paragonare Mrs Elm a sua madre, che considerava Nora alla stregua di un errore da correggere. Quando era piccola, ad esempio, sua madre era talmente preoccupata che l’orecchio sinistro di Nora sporgesse più di quello destro da decidere di usare del nastro adesivo per rimetterlo a posto, per poi nasconderlo sotto un berretto di lana.

«Io detesto il freddo e l’umidità» aggiunse Mrs Elm, per rimarcare quanto aveva appena detto.

Mrs Elm aveva i capelli grigi tagliati corti e un viso ovale dall’espressione gentile lievemente segnato dalle rughe, che spuntava pallido dal dolcevita verde tartaruga. Era piuttosto anziana. Ma era l’unica persona di tutta la scuola che Nora sentiva sulla sua stessa lunghezza d’onda, e anche quando non pioveva lei era solita trascorrere l’intervallo pomeridiano nella piccola biblioteca.

«Il freddo e l’umidità non vanno sempre di pari passo» spiegò Nora. «L’Antartide è il continente più asciutto di tutto il globo terrestre. Tecnicamente, è un deserto».

«Direi che potrebbe fare al caso tuo».

«Non credo sia abbastanza lontano».

«Allora forse potresti diventare un’astronauta. E viaggiare nella galassia».

Nora sorrise. «La pioggia può essere anche peggio su altri pianeti».

«Peggio che nel Bedfordshire?».

«Su Venere è pure acida».

Mrs Elm estrasse un fazzolettino di carta dalla manica e si soffiò delicatamente il naso. «Capisci cosa intendo? Con un cervello come il tuo, potresti fare qualunque cosa».

Un ragazzino biondo che doveva avere circa due anni meno di lei sfrecciò correndo oltre la finestra rigata dalla pioggia. Rincorreva qualcuno, o era inseguito a sua volta. Da quando suo fratello non frequentava più la stessa scuola si sentiva un po’ indifesa in quell’ambiente. La biblioteca le appariva come un piccolo rifugio dalle barbarie.

«Papà pensa che io abbia rovinato tutto. Adesso che ho smesso di nuotare».

«Non vorrei intromettermi, ma c’è ben altro a questo mondo, oltre che essere bravi a nuotare velocemente. Ci sono tante vite possibili che ti attendono. Come ti dicevo la settimana scorsa, potresti diventare glaciologa. Ho fatto delle ricerche e…».

E fu proprio allora che il telefono squillò.

«Un momento» disse sommessamente Mrs Elm. «È meglio che vada a rispondere».

Un istante dopo, Nora fissò Mrs Elm con la cornetta in mano. «Sì. È qui adesso». Il volto della bibliotecaria si irrigidì per lo sgomento. Si voltò per non farsi sentire, ma le sue parole risuonarono nel silenzio ovattato della stanza: «Oh, no. No. Oh mio Dio. Naturalmente…».

Diciannove anni dopo

L’UOMO SULL’USCIO

Ventisette ore prima di decidere di porre fine alla sua vita Nora Seed se ne stava seduta sul suo sgangherato divano a guardare le vite felici degli altri che scorrevano sullo schermo del cellulare, in attesa che succedesse qualcosa. E poi, all’improvviso, qualcosa avvenne.

Qualcuno, per qualche strana ragione, suonò il campanello.

Per una frazione di secondo si domandò se fosse il caso di andare ad aprire. Dopotutto si era già cambiata per andare a letto, anche se erano soltanto le nove di sera. Considerò a disagio la maglietta extra large con la scritta ECO WORRIER e i pantaloni del pigiama a scacchi.

Indossò le pantofole per cercare di darsi un tono, e avvicinandosi vide che la persona sull’uscio era un uomo, qualcuno che conosceva.

Era alto e un po’ allampanato e con un’aria da ragazzo. Aveva un’espressione gentile, ma uno sguardo acuto e penetrante, come se i suoi occhi riuscissero a vedere oltre le cose.

Le faceva piacere vederlo, anche se l’aveva colta un po’ di sorpresa, soprattutto considerando il fatto che l’uomo indossava abiti sportivi e appariva accaldato e sudato malgrado il freddo e la pioggia. Il contrasto tra loro la fece sentire ancora più inadeguata di cinque secondi prima.

Ma Nora si era sentita molto sola. E per quanto avesse studiato la filosofia esistenzialista abbastanza a fondo per ritenere che la solitudine fosse un elemento fondamentale della condizione umana in un universo essenzialmente privo di senso, era bello che lui fosse lì.

«Ash» gli disse rivolgendogli un sorriso. «Ash, sei tu, vero?».

«Sì, sono io».

«Che ci fai qui? Sono felice di vederti».

Qualche settimana prima, mentre lei suonava il pianoforte elettrico e lui correva lungo Bancroft Avenue, Ash l’aveva intravista dalla finestra del suo appartamento al 33A e le aveva fatto un cenno di saluto con la mano. Una volta – anni prima – l’aveva invitata a prendere un caffè. Forse stava per chiederglielo di nuovo.

«Felice di vederti» le disse a sua volta, ma la fronte tesa e nervosa inviava un altro tipo di messaggio.

Quando gli aveva rivolto la parola nel negozio lui si era messo a chiacchierare in tono allegro, ma adesso la sua voce aveva qualcosa di greve. Si grattò il sopracciglio. Emise un suono, ma non riuscì ad articolare una parola dall’inizio alla fine.

«Stai facendo una corsetta?». Domanda inutile. Ovviamente stava facendo una corsetta. Lui però parve sollevato, per un istante, di aver qualcosa di banale da dire.

«Già. Mi sono iscritto alla mezza maratona di Bedford. È questa domenica».

«Sì, certo. Fantastico. Anch’io avevo pensato di iscrivermi, ma poi mi sono ricordata che detesto correre».

Quella frase nella sua testa era suonata molto più divertente di quanto non lo fosse adesso che le parole le erano uscite di bocca. Peraltro non era vero che odiava correre. Comunque sia, rimase turbata nel constatare la gravità dell’espressione di Ash. Il silenzio andò ben oltre quel momento di imbarazzo e si tramutò in qualcosa di diverso.

«Mi hai detto che hai un gatto» esclamò infine.

«Sì, ho un gatto».

«Mi sono ricordato come si chiama. Voltaire. Un soriano col pelo rossiccio?».

«Sì, ma io lo chiamo Volts. Voltaire mi pare un po’ pretenzioso. A quanto pare non si intende tanto di filosofia e letteratura francese del diciottesimo secolo. È un tipo piuttosto terra terra. Sai com’è. Quel genere di gatto».

Ash teneva lo sguardo fisso sulle pantofole di Nora.

«Mi dispiace, è morto».

«Che cosa?».

«Era immobile, sdraiato sul ciglio della strada. Ho letto il nome sulla piastrina del collare, temo che un’auto l’abbia investito. Mi spiace, Nora».

Era talmente turbata da quel repentino cambio di emozioni che continuò a sorridere, come se quel sorriso potesse trattenerla nel mondo in cui era stata fino a un attimo prima, quello in cui Volts era vivo, quello in cui l’uomo a cui aveva venduto uno spartito per chitarra aveva suonato il campanello di casa sua per un altro motivo.

Ash, si ricordò, era un chirurgo. Non un chirurgo veterinario, un normale chirurgo per umani. Se aveva detto che qualcosa era morto, con ogni probabilità era morto per davvero.

«Mi dispiace così tanto».

Nora provò una sensazione di dolore che le era familiare. Soltanto la sertralina che aveva ingerito le impedì di scoppiare in lacrime. «Oh, mio Dio».

Si precipitò sui lastroni bagnati e sconnessi di Bancroft Avenue senza quasi riuscire a respirare, e poi vide quella povera creatura dal pelo rossiccio che giaceva sull’asfalto lucido di pioggia accanto al ciglio della strada. Il muso sfiorava il bordo del marciapiede e le zampe erano raccolte all’indietro in un galoppo interrotto a metà, come se stesse rincorrendo qualche uccello immaginario.

«Oh Volts. No. Oh, mio Dio».

Sapeva che prima o poi avrebbe sperimentato pena e disperazione per il suo amico felino – ed era ciò che stava provando in quel momento – ma adesso c’era un’altra cosa con cui doveva fare i conti. Mentre osservava l’espressione immobile e serena di Voltaire – quella totale assenza di dolore – sentì giungerle nell’oscurità un sentimento ineludibile.

Invidia.


LA TEORIA DELLE STRINGHE

Nove ore e mezza prima di decidere di porre fine alla sua vita Nora arrivò in ritardo allo String Theory per il turno del pomeriggio.

«Mi dispiace» si scusò con Neil, seduto dentro il cubicolo senza finestre, angusto e disordinato, che fungeva da ufficio. «Il mio gatto è morto. Ieri sera. E ho dovuto seppellirlo. O meglio, mi hanno aiutata a seppellirlo. Ma poi sono rimasta sola nel mio appartamento e non riuscivo a dormire e ho dimenticato di mettere la sveglia e mi sono alzata che era già mezzogiorno e poi ho fatto più in fretta che potevo».

Era tutto vero e pensò che il suo aspetto – comprensivo di faccia senza un filo di trucco, coda sfatta e lo stesso scamiciato di velluto verde a coste di seconda mano che aveva indossato ogni giorno della settimana, orlato di un’aria diffusa di stanca disperazione – le avrebbe dato man forte.

Neil sollevò lo sguardo dal computer e si appoggiò allo schienale della sedia. Intrecciò le mani e unì gli indici a punta che posizionò sotto il mento, più simile a Confucio in contemplazione di una profonda verità filosofica sull’universo che al responsabile di un negozio di strumenti musicali alle prese con una sottoposta ritardataria. Sul muro dietro di lui era appeso un enorme poster dei Fleetwood Mac, con l’angolo superiore destro un po’ staccato e pendente come l’orecchio di un cucciolo.

«Ascolta, Nora, tu mi piaci».

Neil era innocuo. Un cinquantenne aficionado della chitarra a cui piaceva raccontare barzellette che non facevano ridere nessuno, e che metteva su cover passabili del primo Dylan registrate dal vivo.

«E so che hai qualche problema di testa».

«Tutti abbiamo qualche problema di testa».

«Hai capito cosa voglio dire».

«In generale mi sento molto meglio» mentì. «Niente di clinico. Il dottore dice che si tratta di depressione situazionale. È solo che continuano a capitarmi nuove… situazioni. Ma non ho mai preso un giorno di malattia. A parte quando mia madre… Sì. A parte quella volta».

Neil sospirò. Quando lo faceva emetteva un suono sibilante dal naso. Un sinistro si bemolle. «Nora, da quant’è che lavori qui?».

«Dodici anni…». Se ne ricordava fin troppo bene. «Undici mesi e tre giorni. Con qualche pausa qua e là».

«Tanto tempo. Credo che ti meriti qualcosa di meglio. Ormai vai per i quaranta».

«Ne ho trentacinque».

«Fai così tante cose. Dai lezioni di piano…».

«A un solo allievo».

Neil spazzò via una briciola di pane dal maglione.

«Te l’eri immaginato di rimanere bloccata qui a lavorare in un negozio? Sai, quando avevi quattordici anni? Cosa pensavi di diventare?».

«A quattordici anni? Una nuotatrice». Era stata la quattordicenne più veloce di tutto il paese nel dorso, e la seconda in stile libero. Le tornò in mente l’immagine di lei sul podio ai Campionati nazionali.

«E poi cos’è successo?».

Gli fornì la versione più breve. «La pressione era molto alta».

«Ma è la pressione a renderci quello che siamo. Si nasce carbone, e la pressione ci trasforma in un diamante».

Nora non corresse la sua conoscenza dei diamanti. Non gli disse che, benché il carbon fossile e i diamanti siano entrambi costituiti da carbonio, il carbone è troppo impuro per avere la capacità di trasformarsi in diamante, indipendentemente dalla pressione a cui viene sottoposto. La scienza dice che carbone nasci, e carbone rimani. Forse era quella la vera lezione di vita.

Raccolse nella coda di cavallo una ciocca ribelle di capelli neri come il carbone.

«Cosa intendi dire, Neil?».

«Non è mai troppo tardi per inseguire i propri sogni».

«Di sicuro per questo lo è».

«Sei una persona molto qualificata, Nora. Hai una laurea in filosofia…».

Nora abbassò lo sguardo e si fissò il piccolo neo sulla mano sinistra. Quel neo aveva vissuto tutto quello che aveva vissuto lei. Ed era sempre rimasto lì, senza preoccuparsi di niente. A essere semplicemente quello che era, un neo. «A dire il vero, non mi pare che ci sia così tanta richiesta di filosofi a Bedford, Neil».

«Sei andata all’università, hai vissuto un anno a Londra, e poi sei tornata».

«Non ho avuto molta scelta».

Nora non aveva nessuna voglia di parlare della morte di sua madre. O di Dan. Perché Neil pensava che la decisione di Nora di buttare all’aria il matrimonio due giorni prima di sposarsi avesse reso la sua storia d’amore la più affascinante del mondo dopo quella di Kurt e Courtney.

«Tutti noi possiamo scegliere, Nora. Esiste una cosa che si chiama libero arbitrio».

«Beh, a dire il vero no, se ti riconosci in una visione deterministica dell’universo».

«Ma perché qui?».

«La scelta era tra questo posto e il rifugio per animali. Lo stipendio qui era migliore. E poi lo sai bene, la musica».

«Facevi parte di un gruppo. Con tuo fratello».

«Lo so. The Labyrinths. Non stavamo andando da nessuna parte».

«Tuo fratello la racconta in un altro modo».

Nora rimase sorpresa. «Joe? Ma come fai tu a…?».

«Ha comprato un amplificatore. Un Marshall DSL40».

«Quando?».

«Venerdì scorso».

«Era a Bedford?».

«A meno che non fosse un ologramma. Come Tupac».

Probabilmente era andato a trovare Ravi, pensò Nora. Ravi era il migliore amico di suo fratello. Mentre Joe aveva rinunciato a suonare la chitarra e si era trasferito a Londra, a fare uno schifo di lavoro che aveva a che fare con l’informatica e che detestava, Ravi era rimasto a Bedford. Aveva un gruppo, gli Slaughterhouse Four, e se ne andava in giro per i pub del posto a suonare cover.

«Bene. Interessante».

Nora era piuttosto sicura che suo fratello sapesse che il venerdì era il suo giorno libero. Avvertì come una scarica elettrica dentro di lei.

«Io sono felice qui».

«A parte il fatto che non lo sei».

Aveva ragione. Una malattia dell’anima le covava dentro. Il suo cervello era sul punto di vomitare se stesso. Rivolse a Neil un sorriso ancor più smagliante.

«Intendo dire che sono felice del mio lavoro. Felice nel senso di soddisfatta. Neil, ho bisogno di questo lavoro».

«Sei una brava persona. Ti preoccupi del mondo intorno a te. I senzatetto, l’ambiente».

«Ho bisogno di lavorare».

Neil si era rimesso in posizione Confucio. «Hai bisogno di libertà».

«Non voglio la libertà».

«Questa non è un’organizzazione no-profit. Anche se devo ammettere che è quello che sta diventando, e anche piuttosto rapidamente».

«Ascolta Neil, è per quello che ho detto la settimana scorsa? Sul fatto che avresti dovuto modernizzarti? Ho delle idee su come fare in modo che i gio…».

«No» rispose lui sulla difensiva. «Questo posto una volta vendeva solo chitarre. String Theory, la teoria delle stringhe, mi segui? Ho diversificato. Ho fatto in modo che funzionasse. È solo che se gli affari non vanno bene non posso pagare una che fa scappare i clienti con quella sua faccia triste».

«Che cosa?».

«Mi spiace Nora». Fece una pausa, più o meno il tempo necessario a brandire un’ascia. «Ho intenzione di lasciarti andare».


VIVERE SIGNIFICA SOFFRIRE

Nove ore prima di decidere di porre fine alla sua vita Nora girovagò per Bedford senza meta. La cittadina era un nastro trasportatore di disperazione. Il centro sportivo con l’intonaco di graniglia dove il padre defunto andava a vederla percorrere a nuoto una corsia dopo l’altra, il ristorante messicano in cui aveva portato Dan a mangiare fajitas, l’ospedale in cui sua madre era stata curata.

Dan il giorno prima le aveva mandato un SMS.

Nora, mi manca la tua voce. Possiamo parlare? D x

Lei aveva risposto di essere veramente incasinata (due faccette sorridenti). Non era riuscita ad aggiungere altro. Non perché non gli importasse di lui, anzi proprio per questo. E non poteva rischiare di ferirlo di nuovo. Gli aveva rovinato la vita. La mia vita è un disastro, le aveva comunicato con qualche SMS decisamente alticcio, poco tempo dopo l’ipotetico matrimonio da cui lei era fuggita due giorni prima della data stabilita.

L’universo tendeva verso il caos e l’entropia. Nozioni elementari di termodinamica. Forse anche nozioni elementari di vita.

Perdi il lavoro, e ti piomba addosso altra merda.

Il vento sospirò tra le fronde degli alberi.

Cominciò a piovere.

Si avviò verso l’edicola in cerca di un riparo, con la netta sensazione – rivelatasi in seguito corretta – che le cose stavano volgendo al peggio.


PORTE

Otto ore prima di decidere di porre fine alla sua vita Nora entrò in edicola.
«Ti ripari dalla pioggia?» la apostrofò la donna dietro al bancone.

«Sì». Nora teneva la testa bassa. Sentiva salire dentro di sé un senso di disperazione, un peso che non riusciva a sopportare.

Una copia del National Geographic era esposta in bella mostra sullo scaffale.

Mentre fissava la copertina della rivista – la fotografia di un buco nero – si rese conto di essere esattamente la stessa cosa. Un buco nero. Una stella morente, che implodeva su se stessa.

Suo padre era stato solito abbonarsi a quella rivista. Ricordò di essere rimasta affascinata da un articolo sulle Svalbard, l’arcipelago norvegese che si trovava nel mar Glaciale Artico. Non aveva mai visto un posto che le sembrasse così remoto. Aveva letto di scienziati che facevano ricerca in mezzo a ghiacciai e gelidi fiordi e pulcinelle di mare. Così, come le aveva suggerito Mrs Elm, aveva deciso di voler diventare una glaciologa.

 

Intravide la figura curva e trasandata dell’amico di suo fratello – e loro ex compagno di band – Ravi accanto alle riviste musicali, assorto in un articolo. Si attardò per una frazione di secondo che si rivelò fatale perché, quando fece per allontanarsi, udì una voce che la chiamava. «Nora?».

«Ravi, ciao. Ho sentito dire che Joe era a Bedford l’altro giorno?».

Lui fece un breve cenno col capo. «Già».

«L’hai, ehm, l’hai visto?».

«In effetti, sì».

Seguì un momento di silenzio doloroso. «Non mi aveva detto che sarebbe venuto».

«Ha fatto una scappata».

«Sta bene?».

Ravi fece una pausa. Una volta a Nora piaceva, ed era stato un amico leale di suo fratello. Ma, come con Joe, adesso tra loro c’era una barriera. Non si erano separati nel migliore dei modi. (Lui aveva sbattuto le bacchette della batteria sul pavimento della sala prove e si era infuriato quando Nora gli aveva comunicato l’intenzione di abbandonare la band.) «Credo sia depresso».

Nora si sentì la testa ancora più pesante, all’idea che il fratello potesse provare ciò che provava lei.

«Non è da lui» proseguì Ravi, in tono rabbioso. «Dovrà andarsene da quella scatola da scarpe dove vive, a Shepherd’s Bush. Lui che avrebbe potuto suonare la chitarra solista in una famosa rock band. Non che a me vada tanto meglio. Non si guadagna a suonare nei pub. Neanche quando accetti di pulire i cessi. Mai pulito i cessi di un pub, Nora?».

«Anch’io sto passando un periodo di merda, se vogliamo metterci a gareggiare per le Olimpiadi della Sfiga».

Ravi sghignazzò tossicchiando. Un lampo di durezza oscurò l’espressione del suo viso. «Proprio lei parla. Quella che si lamenta per tutto».

Nora non era dell’umore giusto. «È ancora per quella storia dei Labyrinths? Sempre per quella storia?».

«Significava molto per me. E anche per tuo fratello. Per tutti noi. Avevamo un contratto con la Universal. Esattamente. Proprio così. Album, singoli, tour, promozione. Avremmo potuto essere come i Coldplay».

«Ma tu li odiavi, i Coldplay».

«Non è questo il punto. Avremmo potuto essere a Malibu in questo momento. E invece: Bedford. E quindi no, tuo fratello non ha voglia di vederti».

«Soffrivo di attacchi di panico. Avrei finito per deludere tutti. Avevo detto alla casa discografica di mettervi sotto contratto anche senza di me. Avrei scritto i testi delle canzoni. E non era colpa mia se ero fidanzata. Stavo con Dan. Era prendere o lasciare».

«Sì, certo. E com’è che è andata a finire?».

«Ravi, questo non è leale».

«Leale. Che termine meraviglioso».

La donna dietro al bancone li fissava interessata.

«Le band non durano. Saremmo stati come una pioggia di meteoriti. Finita ancor prima di cominciare».

«Cazzo se sono belle le piogge di meteoriti».

«Ma dài. Esci ancora con Ella, vero?».

«Potrei stare con Ella e far parte di una band di successo, con un mucchio di soldi. Avevamo questa possibilità. Proprio qui». Indicò il palmo della mano con un dito. «Le nostre canzoni erano fuoco».

Nora si detestò mentre correggeva silenziosamente dentro di sé le “nostre” in “mie”.

«Non penso che il tuo problema fosse la paura del palcoscenico. O la paura di sposarti. Penso che il tuo problema fosse che tu hai paura della vita».

Quelle parole la ferirono. Si sentì mancare l’aria.

«Io invece penso che il tuo problema» ribatté con voce tremante, «sia dare la colpa agli altri per la tua vita di merda».

Lui fece un lieve movimento col capo, come se fosse stato raggiunto da uno schiaffo. Rimise la rivista al suo posto.

«Ci vediamo, Nora».

«Saluta Joe da parte mia» disse lei mentre Ravi usciva dal negozio, incontro alla pioggia. «Per favore».

Vide la copertina della rivista Il tuo gatto. Un soriano dal pelo rossiccio. La testa le rimbombava forte, come una sinfonia in stile Sturm und Drang, come se il fantasma di un compositore tedesco fosse rimasto intrappolato dentro la sua testa, a evocare caos e potenza.

La donna dietro al bancone le disse qualcosa che non riuscì ad afferrare.

«Come, scusi?».

«Nora Seed?».

La donna – caschetto biondo e abbronzatura artificiale – era felice e disinvolta e rilassata in un modo che Nora non riusciva neppure a ricordare. China sopra il bancone, appoggiata sui gomiti, come se Nora fosse un lemure allo zoo.

«Sì».

«Sono Kerry-Anne. Mi ricordo di te, dai tempi della scuola. La nuotatrice. L’intelligentona. Com’è che si chiamava quello, sì, Mr Blandford, una volta non aveva addirittura organizzato un incontro su di te? Per dire a tutti che andavi alle Olimpiadi?».

Nora annuì.

«E allora, ci sei andata?».

«Io, beh, ho rinunciato. Mi interessava di più la musica… a quel tempo. Poi la vita ha fatto il suo corso».

«E quindi adesso cosa fai?».

«Sono… mi sto guardando intorno».

«Hai qualcuno? Un ragazzo? Dei figli?».

Nora scosse il capo. Con la speranza che si staccasse dal collo. La sua testa. Dritta sul pavimento. Così non avrebbe più dovuto affrontare una conversazione con una sconosciuta.

«Beh, non aspettare tanto. Tic-toc, tic-toc».

«Ho trentacinque anni». Quanto avrebbe desiderato che Izzy fosse lì con lei. Izzy non avrebbe mai tollerato questo genere di stronzate. «E non sono neanche sicura…».

«Io e Jake ci abbiamo dato dentro come conigli, e alla fine ce l’abbiamo fatta. Due pesti. Ma ne è valsa la pena, sai? Mi sento realizzata. Posso farti vedere delle foto, se vuoi».

«I cellulari mi fanno venire l’emicrania».

Dan avrebbe voluto dei figli. Nora invece era incerta. Si sentiva pietrificata all’idea di diventare madre. Il terrore di cadere in una depressione ancora più profonda. Non era in grado di prendersi cura di se stessa, figuriamoci di qualcun altro.

«Quindi vivi ancora a Bedford?».

«Ehm, sì».

«Pensavo che eri una di quelle che alla fine se ne andava via da qui».

«Sono tornata. Mia madre si era ammalata».

«Oh, mi spiace. Adesso sta meglio?».

«Devo proprio andare».

«Ma sta ancora piovendo».

Mentre Nora fuggiva via dal negozio, desiderò che davanti a lei non ci fossero altro che porte da attraversare, una dopo l’altra, per potersi lasciare tutto alle spalle.


COME ESSERE UN BUCO NERO

Sette ore prima di decidere di porre fine alla sua vita Nora era in caduta libera, e non aveva nessuno con cui parlare.

L’ultima spiaggia era la sua migliore amica di un tempo, Izzy, che si trovava a più di quindicimila chilometri di distanza, in Australia. E inoltre il rapporto tra loro ultimamente si era un po’ raffreddato.

Prese il cellulare e le inviò un SMS.

Ciao Izzy, non ci sentiamo da tanto. Mi manchi, amica mia. Sarebbe FANTASTICO ricevere tue notizie. X

Aggiunse un’altra X e inviò.

Dopo meno di un minuto, Izzy aveva letto il messaggio. Nora attese invano che apparissero i tre puntini sullo schermo, segno che qualcuno dall’altra parte stava rispondendo.

Oltrepassò il cinema, dove quella sera davano il nuovo film di Ryan Bailey. Una sdolcinata commedia romantica in stile western dal titolo L’ultimo saloon.

Ryan Bailey aveva sempre l’aria di uno che sapeva cose importanti e profonde. Nora lo amava da quando l’aveva visto recitare nella parte di un meditabondo Platone nella serie tv Gli Ateniesi, e dal momento in cui, in un’intervista, aveva rivelato di aver studiato filosofia. Si era immaginata loro due immersi in intense conversazioni a proposito di Henry David Thoreau, avvolti da fumi di vapore in una vasca di acqua bollente nella casa di lui, a West Hollywood.

«Se uno cammina con fiducia nella direzione dei suoi sogni» aveva detto Thoreau, «vivrà la vita che si è immaginato»1.

Thoreau era sempre stato il suo filosofo preferito. Ma chi mai potrebbe sul serio camminare con fiducia nella direzione dei suoi sogni? A parte Thoreau, ovvio. Se n’era andato a vivere nei boschi, senza nessun contatto col resto del mondo, a scrivere e tagliare legna e sfilettare pesci. Probabilmente però la vita a Concord, Massachusetts, duecento anni fa, era molto più semplice della vita attuale a Bedford, Bedfordshire.

O forse no.

Forse era lei a essere maledettamente inadatta. Alla vita.

Trascorsero parecchie ore. Avrebbe voluto avere uno scopo, una ragione per esistere. Ma non aveva niente. Neanche quella minima cosa di andare a ritirare le medicine di Mr Banerjee, come aveva fatto due giorni prima. Stava per dare qualcosa a un senzatetto, ma si accorse di essere rimasta senza un soldo.

«Coraggio, dolcezza, vedrai che magari non succederà» le sussurrò qualcuno per strada.

Non è mai successo niente, pensò. Il problema era proprio quello.

 

 

 

1 Henry David Thoreau, Walden ovvero Vita nei boschi, traduzione di Luca Lamberti, Torino, Einaudi 2015. [Tutte le note sono della Traduttrice.]


ANTIMATERIA

Cinque ore prima di decidere di porre fine alla sua vita, mentre si avviava verso casa, Nora sentì vibrare il cellulare nel palmo della mano.

Forse era Izzy. O forse Ravi aveva detto a suo fratello di mettersi in contatto con lei.

No.

«Oh, ciao, Doreen».

Una voce agitata all’altro capo del telefono. «Ma dov’eri?».

Se n’era completamente dimenticata. Che ora era?

«Ho avuto una giornata schifosissima. Scusami tanto».

«Abbiamo aspettato fuori del tuo appartamento per un’ora».

«Posso ancora recuperare la lezione di Leo. Cinque minuti e sono lì».

«Troppo tardi. È andato da suo padre per tre giorni».

«Mi dispiace. Non sai quanto mi dispiace».

Era una cascata di scuse. Ci stava annegando dentro.

«A dire la verità, Nora, Leo stava pensando di smettere».

«Ma è così bravo».

«Gli piace molto. Ma ha troppi impegni. Esami, gli amici, il calcio. Deve rinunciare a…».

«Ha davvero talento. L’ho convinto a suonare quello stramaledetto Chopin. Per favore…».

Un sospiro profondo, profondissimo. «Addio, Nora».

Nora immaginò il terreno che si spalancava di fronte ai suoi occhi, facendola sprofondare attraverso la crosta terrestre, e giù dentro il mantello, senza fermarsi mai finché non avesse raggiunto il nucleo interno, compresso nel duro, insensibile metallo.

 

Quattro ore prima di porre fine alla sua vita Nora passò a salutare il suo anziano vicino di casa, Mr Banerjee.

Mr Banerjee aveva ottantaquattro anni. Era un uomo dall’ossatura fragile, ma da quando era stato operato all’anca si muoveva più agevolmente.

«C’è un tempo orribile là fuori, vero?».

«Sì» biascicò Nora.

Lui rivolse lo sguardo verso l’aiuola. «Però sono sbocciati gli iris».

Nora osservò i mazzi di fiori di colore viola sforzandosi di sorridere, mentre si domandava che genere di consolazione potessero mai offrire.

Gli occhi di lui avevano un’aria stanca, dietro gli occhiali. Stava sull’uscio e armeggiava alla ricerca delle chiavi. Con una bottiglia di latte in una borsa che pareva troppo pesante. Era insolito incontrarlo fuori della sua casa. Una casa che Nora aveva visitato il primo mese in cui era andata ad abitare lì, per aiutarlo a organizzare un sito di vendita online di frutta e verdura.

«Oh» esclamò. «Ho una bella notizia. Non c’è più bisogno che tu vada a ritirare le mie medicine. Il ragazzo della farmacia mi ha detto di essersi trasferito qui vicino, così me le porta lui».

Nora tentò di replicare, ma la sua bocca non emise alcun suono. Si limitò ad annuire.

Mr Banerjee riuscì ad aprire la porta e poi la richiuse dietro di sé, per andare a rintanarsi dentro quel santuario dedicato all’amata moglie.

Le cose stavano così. Nessuno aveva bisogno di lei. Un essere inutile per l’intero universo.

Una volta dentro l’appartamento, il silenzio si fece più assordante del rumore. L’odore di cibo per gatti. La ciotola di Voltaire ancora lì, mezza piena.

Prese un po’ d’acqua e inghiottì due pillole di antidepressivo, poi rimase a fissare il resto delle pillole, pensierosa.

 

Tre ore prima di decidere di porre fine alla sua vita il suo intero essere gemeva sotto il peso del rimpianto, come se la disperazione della mente in qualche modo le avesse invaso anche il torace e gli arti. Come se avesse colonizzato ogni singola parte di lei.

Le ricordò che tutti stavano meglio senza di lei. Se ci si avvicina a un buco nero, la forza gravitazionale ti attira inevitabilmente nella sua oscura, desolata realtà.

Questo pensiero era come un crampo al cervello che non dava requie, qualcosa di troppo fastidioso da sopportare, e tuttavia troppo potente per riuscire a evitarlo.

Nora controllò i suoi profili sui social. Nessun messaggio, nessun commento, nessun nuovo follower, nessuna richiesta di amicizia. Era antimateria, con l’aggiunta di autocommiserazione.

Andò su Instagram per constatare che tutti, eccetto lei, avevano imparato a vivere. Scrisse un post sconclusionato su Facebook, che in realtà non usava quasi più.

 

Due ore prima di decidere di porre fine alla sua vita stappò una bottiglia di vino.

Vecchi manuali di filosofia la osservavano con disprezzo, suppellettili fantasma degli anni di università, quando la vita era ancora aperta a tutte le possibilità. Una pianta di yucca e un cactus con tre minuscole e tozze punte. Pensò che essere una forma di vita non senziente, immobile tutto il giorno in un vaso, fosse probabilmente un’esistenza molto più facile della sua.

Si sedette al piccolo pianoforte elettrico, ma non riuscì a suonare. Immaginò di stare accanto a Leo a insegnargli il Preludio in mi minore di Chopin. Gli attimi di felicità possono tramutarsi in sofferenza, in determinati momenti della vita.

Le tornò in mente il vecchio cliché dei musicisti, che non esistono note stonate su un pianoforte. Al contrario la sua intera esistenza non era che un susseguirsi di cacofonie senza senso. Un brano che avrebbe potuto percorrere direzioni meravigliose, e che invece non era approdato da nessuna parte.

Il tempo scivolava via. Fissò il vuoto.

Dopo aver bevuto un po’ di vino un pensiero la colpì con assoluta chiarezza. Non era fatta per quella vita.

Ogni sua azione era stata un errore, ogni decisione un disastro, ogni giorno un passo che la allontanava dalla persona che aveva immaginato di diventare.

Nuotatrice. Musicista. Filosofa. Sposa. Viaggiatrice. Glaciologa. Felice. Amata.

Niente.

Non era neppure riuscita a essere “padrona di un gatto”. Oppure “insegnante di pianoforte per un’ora a settimana”. O “essere umano in grado di sostenere una conversazione”.

Le pillole non stavano funzionando.

Finì il vino. L’intera bottiglia.

«Mi mancate» disse all’aria, come se le anime di tutte le persone che aveva amato fossero con lei in quella stanza.

Chiamò il fratello e, quando lui non rispose, gli lasciò un messaggio vocale.

«Ti voglio bene, Joe. Volevo soltanto che lo sapessi. Non c’è niente che avresti potuto fare. Si tratta di me. Grazie per essere stato mio fratello. Ti voglio bene. Addio».

Aveva ricominciato a piovere, così era andata a sedersi alla finestra con le persiane aperte, a fissare le gocce di pioggia che scivolavano sul vetro.

Erano le undici e ventidue.

C’era soltanto una cosa che sapeva con assoluta certezza: non voleva vedere sorgere l’alba del giorno seguente. Si alzò in piedi. Trovò una penna e un foglio di carta.

Quello era un buon momento per morire, pensò.


 

Caro Chiunque tu sia,

Avevo tutte le possibilità di fare qualcosa di buono della mia vita, e le ho sprecate tutte. Per colpa della mia inettitudine e della cattiva sorte il mondo mi ha abbandonata, e quindi è perfettamente logico che adesso sia io ad abbandonare lui.

 

Se sentissi di poter rimanere, lo farei. Ma non è così. E quindi non posso. La mia esistenza rende peggiore quella degli altri.

 

Non ho niente da dare. Mi dispiace.

 

Siate gentili gli uni con gli altri.

 

Addio,

Nora

00:00:00

All’inizio la foschia era ovunque intorno a lei, tanto da non riuscire a scorgere nient’altro, finché poco alla volta riuscì a intravedere delle colonne su entrambi i lati. Stava in mezzo a una via, una specie di colonnato. I pilastri erano di colore grigio scuro e spento, puntinato da granelli di un blu brillante. I vapori della nebbia svanirono, simili a spiriti desiderosi di rimanere nell’ombra, ed emerse una figura.

Una figura solida, rettangolare.

Il contorno di un edificio. Grande quanto una chiesa, o un piccolo supermercato. La facciata era di pietra, dello stesso colore delle colonne, con un portone di legno al centro e un tetto con pretese di grandeur, dettagli elaborati e un imponente orologio sul frontone, con numeri romani dipinti di nero e lancette che segnavano la mezzanotte. Grandi e scure finestre ad arco incorniciate da mattoni neri punteggiavano la facciata, perfettamente equidistanti le une dalle altre. A prima vista le parve che ci fossero soltanto quattro finestre, ma un istante dopo si accorse che in realtà erano cinque. Pensò di non averle contate bene.

Poiché tutt’intorno non esisteva nient’altro, e dal momento che non aveva nessun altro posto dove andare, Nora si incamminò cautamente in quella direzione.

Guardò l’ora sul quadrante del suo orologio digitale.

00:00:00

Era mezzanotte, come comunicato dall’orologio sul frontone.

Attese l’arrivo del secondo successivo, ma invano. Anche mentre si avvicinava all’edificio, anche mentre apriva il portone di legno, anche mentre entrava, l’ora non cambiava. O c’era qualcosa che non andava col suo orologio, oppure c’era qualcosa che non andava col tempo. Considerate le circostanze, entrambe le supposizioni erano valide.

«Che cosa sta succedendo?» si domandò. «Che diavolo sta succedendo?».

Forse questo posto mi offrirà delle risposte, pensò varcando la soglia. La stanza era ben illuminata, il pavimento era di pietra chiara – a metà tra un giallo pallido e il cammello, simile al colore di una vecchia pagina – ma le finestre che aveva scorto dall’esterno in realtà all’interno non erano visibili. E in effetti, sebbene avesse percorso soltanto pochi passi, non riusciva più a distinguere i muri. Al loro posto c’erano scaffali colmi di libri. File e file di scaffali che arrivavano fino al soffitto e si diramavano per ogni dove dall’ampio ingresso che Nora stava percorrendo. Svoltò lungo uno di quei corridoi e si arrestò sgomenta di fronte a quell’enormità di libri che sembravano non finire mai.

I libri erano ovunque, appoggiati su ripiani talmente sottili da parere invisibili. Tutti i libri erano di colore verde. Un verde dalle molteplici sfumature. Alcuni di quei volumi erano di un torbido verde palustre, altri invece di un verde chiaro e vivace che ricordava quello del liquore Chartreuse, alcuni di uno spavaldo color verde smeraldo, altri ancora facevano venire in mente il verde lussureggiante dei prati estivi.

E a proposito di prati estivi: malgrado l’aspetto consunto dei libri, l’aria che si respirava nella biblioteca sapeva di fresco. Un aroma fragrante, che profumava di erba e di vita all’aria aperta, niente a che vedere con l’odore polveroso tipico dei vecchi tomi.

Gli scaffali parevano davvero non finire mai, dritti e lunghi, puntati verso un orizzonte lontano – come quelle linee che ti fanno disegnare a scuola per le esercitazioni di arte, a convergere su un unico punto di fuga – a tratti interrotti da corridoi occasionali.

Ne scelse uno a caso e si incamminò. Alla svolta successiva prese a sinistra, ed ebbe la sensazione di perdere l’orientamento. Cercò una via d’uscita, ma non ve n’era traccia. Tentò di ripercorrere all’indietro il percorso fino all’entrata, ma era impossibile.

Alla fine fu costretta ad ammettere che non avrebbe trovato un modo per andarsene da lì.

«Tutto questo non è normale» si disse, nel tentativo di trovare conforto nel suono della sua voce. «Non è per niente normale».

Nora si fermò e si avvicinò per guardare qualche libro.

Sulla costa non c’erano né il titolo né il nome dell’autore. A parte le diverse sfumature di colore, l’unica differenza stava nelle dimensioni: i libri erano più o meno tutti della stessa altezza, ma variavano in quanto a spessore. Alcuni erano larghi cinque centimetri, altri decisamente più sottili. Un paio, niente più che degli opuscoli.

Allungò la mano per prendere un volume. Ne scelse uno di media grandezza, di un colore verde oliva leggermente grigiastro. Era un po’ impolverato e consunto.

Prima di riuscire a estrarlo dallo scaffale udì una voce dietro di lei e fece un balzo all’indietro.

«Sta’ attenta» le raccomandò la voce.

Nora si voltò per vedere a chi appartenesse.

LA BIBLIOTECARIA

Per favore, fa’ attenzione».
La donna pareva essere spuntata dal nulla. Era vestita in maniera elegante, corti capelli grigi e un dolcevita color verde tartaruga. Sui sessanta, se avesse dovuto indovinare.

«Lei chi è?».

Ancor prima di aver terminato la frase capì di conoscere già la risposta.

«Sono la bibliotecaria» rispose la donna timidamente. «Ecco chi sono».

Aveva un’espressione di soave, ma severa saggezza. Portava lo stesso taglio di capelli, e il suo viso era esattamente come Nora se lo ricordava.

Poiché lì, proprio di fronte a lei, c’era la bibliotecaria della sua vecchia scuola.

«Mrs Elm».

Mrs Elm accennò un sorriso. «Forse».

A Nora vennero in mente quei pomeriggi di pioggia, a giocare a scacchi.

Ricordò il giorno in cui era morto suo padre, quando era stata Mrs Elm a comunicarle la notizia, con dolcezza, mentre lei si trovava in biblioteca. Suo padre era morto improvvisamente per un attacco di cuore ai bordi del campo di rugby del college maschile in cui insegnava. Lei era rimasta come intorpidita per circa mezz’ora, a fissare con lo sguardo perso nel vuoto la partita di scacchi lasciata a metà. All’inizio quella notizia era stata troppo enorme per poterla comprendere, ma poi l’aveva investita in pieno con tutta la sua potenza e in ogni dove, facendola deragliare dal binario che aveva seguito fino a quel momento. Aveva abbracciato Mrs Elm così forte, singhiozzando sul collo del suo dolcevita, che alla fine la faccia era diventata tutta rossa per quel miscuglio di lacrime e acrilico.

Mrs Elm l’aveva tenuta stretta, accarezzandole la nuca e coccolandola come si fa con i bambini, senza propinarle tutte quelle banalità o false consolazioni, null’altro se non preoccupazione per lei. Le tornò in mente la voce di Mrs Elm che le ripeteva: «Le cose si sistemeranno, Nora. Andrà tutto bene».

Passò un’ora prima che sua madre venisse a prenderla, con suo fratello seduto sul sedile posteriore, l’aria assente e inebetita. Nora si era seduta davanti accanto alla madre muta, tremante, e le aveva detto che le voleva bene, ma in risposta aveva ricevuto solo silenzio.

«Che posto è questo? Dove mi trovo?».

Mrs Elm le rivolse un sorriso estremamente formale. «Una biblioteca, naturalmente».

«Ma non è la biblioteca della scuola. E non c’è modo di uscire. Sono forse morta? È questo l’aldilà?».

«Non esattamente» rispose Mrs Elm.

«Non capisco».

«Allora lascia che ti spieghi».

LA BIBLIOTECA DI MEZZANOTTE

Mentre parlava, gli occhi di Mrs Elm si accesero, luccicando come pozzanghere illuminate dalla luce della luna.

«Tra la vita e la morte c’è una biblioteca» disse. «E all’interno di questa biblioteca, scaffali e scaffali di libri che si rincorrono all’infinito. Ogni libro offre la possibilità di vivere un’altra delle vite che avresti potuto vivere. Di vedere come le cose avrebbero potuto essere, se avessi fatto altre scelte… Avresti agito diversamente, se ti fosse stata concessa l’opportunità di gettarti alle spalle i rimpianti?».

«Ma quindi sono morta?» le domandò Nora.

Mrs Elm scosse il capo. «No. Ascoltami attentamente. Sei tra la vita e la morte». Fece un gesto vago con la mano indicando il corridoio, verso un punto lontano. «La morte è là fuori».

«E allora è là che dovrei andare. Perché io voglio morire». Nora si incamminò in quella direzione.

Mrs Elm scosse nuovamente il capo. «Non è così che funziona la morte».

«Perché no?».

«Non sei tu ad andare verso la morte. È la morte a venire verso di te».

Quindi a quanto pareva neanche quando si trattava di morire Nora riusciva a fare le cose come si doveva.

Provò una sensazione che le era familiare. La sensazione di sentirsi incompleta, praticamente in tutto. Un puzzle umano a cui mancavano delle tessere. Una vita incompleta, e una morte incompleta.

«Ma perché non sono morta? Perché la morte non è venuta da me? L’ho invitata apertamente. Volevo morire. E invece eccomi qui, ancora viva, ancora consapevole di tutto ciò che succede».

«Se può esserti di qualche conforto, hai parecchie possibilità di morire presto. Le persone che visitano questa biblioteca di solito non vi rimangono a lungo, in un modo o nell’altro».

Quando ci pensava – e le capitava sempre più spesso – Nora riusciva a pensare a se stessa soltanto in termini di cose che non c’erano. Le cose che non era stata capace di diventare. E ce n’erano parecchie. I rimpianti erano un ritornello costante nella sua testa. Non sono diventata una nuotatrice olimpica. Non sono diventata una glaciologa. Non sono diventata la moglie di Dan. Non sono diventata madre. Non sono diventata la cantante solista dei Labyrinths. Non sono diventata una persona veramente perbene, o veramente felice. Non sono stata in grado di prendermi cura di Voltaire. E adesso, come se non bastasse, non era neppure riuscita a diventare un cadavere. Era così pateticamente reale, tangibile, la quantità di cose che aveva sperperato.

«Finché esisterà la Biblioteca di Mezzanotte, Nora, sarai preservata dalla morte. Adesso tocca a te decidere come vuoi vivere».

RIPIANI SEMOVENTI

Su entrambi i lati, i ripiani cominciarono a muoversi. Gli scaffali non mutavano angolatura, si limitavano a spostarsi in orizzontale. Poteva anche darsi che non fossero i ripiani a mettersi in movimento, ma i libri certamente sì, e il perché, o il come, non era così ovvio. Non si vedeva nessun meccanismo che producesse questo effetto, e nessun rumore o spostamento visibile che inducesse a pensare che i libri in fondo – o meglio all’inizio di un ripiano cadessero a terra. I libri scivolavano via più o meno lentamente, a seconda dello scaffale su cui si trovavano, ma nessuno si muoveva in modo repentino.

«Che cosa sta succedendo?».

L’espressione di Mrs Elm si irrigidì, il corpo si raddrizzò, il mento si infossò leggermente. Fece un passo verso Nora e intrecciò le mani. «È tempo di iniziare, mia cara».

«Se posso permettermi – di iniziare cosa?».

«Ogni vita contiene in sé milioni e milioni di decisioni. Alcune grandi, altre più piccole. Ma ogni volta che una decisione prevale su un’altra, il risultato cambia. Una variazione irreversibile, che a sua volta conduce a ulteriori variazioni. Questi libri sono i portali che si aprono su tutte le vite che avresti potuto vivere».

«Che cosa?».

«Hai a disposizione tante vite quante sono le possibilità. Ci sono vite in cui farai scelte differenti. E quelle scelte ti condurranno a risultati differenti. Se avessi fatto anche una sola cosa in un altro modo, la storia della tua vita sarebbe stata diversa. Nella Biblioteca di Mezzanotte ci sono tutte. Sono vere quanto la vita stessa».

«Vite parallele?».

«Non propriamente parallele. Diciamo che alcune sono più… perpendicolari. Allora, hai voglia di vivere una nuova vita? Vuoi fare qualcosa di diverso? C’è qualcosa che desidereresti cambiare? Hai fatto qualcosa di sbagliato?».

Questa era facile. «Sì. Assolutamente tutto».

La risposta parve provocare una leggere irritazione al naso della bibliotecaria.

Mrs Elm si affrettò a cercare il fazzoletto di carta infilato nella manica del maglione. Se lo portò rapidamente al viso e ci soffiò dentro.

«Salute» esclamò Nora, mentre osservava sparire il fazzoletto dalle mani della bibliotecaria nel momento esatto in cui aveva finito di usarlo, per qualche strana e igienica magia.

«Non preoccuparti. I fazzoletti sono come le vite. Ce ne sono sempre altri». Mrs Elm tornò alle sue riflessioni. «Fare una cosa in maniera diversa spesso equivale a fare tutto in modo diverso. Non basta una vita per invertire il corso delle proprie azioni, per quanto ci si sforzi… Ma tu non stai più dentro un’unica vita. Sei saltata fuori. Questa è la tua occasione, Nora, per vedere come sarebbero potute andare le cose».

Non può essere vero, pensò Nora.

Mrs Elm sembrò intuire i suoi pensieri.

«Oh, ma certo che è vero, Nora Seed. Solo che non è esattamente il genere di realtà come tu la concepisci. Se volessimo cercare una definizione più appropriata, si tratta di un mondo di mezzo. Non è vita. Non è morte. Non è il mondo reale nel senso convenzionale del termine. Ma non è neppure un sogno. Non è né una cosa né l’altra. Per farla breve, è la Biblioteca di Mezzanotte».

Il moto lento degli scaffali si arrestò. Nora notò che su una delle mensole, alla sua destra, ad altezza spalla, c’era un grosso spazio vuoto. Su tutti gli altri ripiani intorno a lei i libri erano stretti l’uno contro l’altro ma lì, appoggiato sulla sottile superficie bianca, c’era un unico libro.

E questo libro non era verde come tutti gli altri. Era di colore grigio. Grigio come la pietra della facciata dell’edificio, quando l’aveva intravista attraverso la nebbia.

Mrs Elm prese il libro dal ripiano e lo porse a Nora.

Le illuminava il viso un vago compiacimento preventivo, come se le avesse dato un regalo di Natale.

In mano a Mrs Elm le era parso leggero, ma era molto più pesante di quanto credesse. Nora fece per aprirlo.

Mrs Elm scosse il capo.

«Devi sempre aspettare che sia io a dirti di farlo».

«Perché?».

«Ogni singolo libro contenuto in questo luogo, ogni singolo libro di questa intera biblioteca – a eccezione di uno solo – è una versione della tua vita. Questa biblioteca è tua. È qui per te. Vedi, l’esistenza di ognuno può prendere infinite strade. Questi libri sugli scaffali sono la tua vita, e iniziano esattamente nello stesso identico momento. Adesso. Mezzanotte. Martedì 28 aprile. Ma tutte queste possibilità di mezzanotte non sono uguali. Alcune sono simili, altre invece sono estremamente diverse».

«Ma è una cosa da pazzi» esclamò Nora. «Eccetto uno? Questo?». Nora inclinò il libro grigio come la pietra verso Mrs Elm.

Mrs Elm aggrottò le sopracciglia. «Sì. Proprio quello. È qualcosa che hai scritto senza neanche aver dovuto digitare una sola parola».

«Che cosa?».

«Questo libro è la fonte di tutti i tuoi problemi, e anche la risposta a ognuno di essi».

«Ma che cos’è?».

«Si intitola, mia cara, Il libro dei rimpianti».

IL LIBRO DEI RIMPIANTI

Nora lo fissò. Adesso riusciva a vederli. Gli esili caratteri incisi sulla copertina.

 

Il libro dei rimpianti

 

«Ogni singolo rimpianto che tu abbia mai provato, dal giorno in cui sei nata, è registrato qui» le disse Mrs Elm tamburellando con un dito sulla copertina. «Adesso hai il permesso di aprirlo».

Poiché il libro era pesantissimo, per farlo Nora dovette sedersi a gambe incrociate sul pavimento di pietra. Cominciò a sfogliarlo.

Era diviso in capitoli, ordinati cronologicamente anno per anno. 0, 1, 2, 3 fino ad arrivare a 35. I capitoli diventavano più lunghi a mano a mano che il libro andava avanti nel tempo. Ma i rimpianti che si accumulavano non erano necessariamente collegati all’anno in questione.

«I rimpianti ignorano la cronologia. Vagano qua e là. La sequenza di queste liste varia in continuazione».

«Bene, sì, tutto questo ha un senso, immagino».

Ben presto Nora si rese conto che i rimpianti andavano da quelli quotidiani e di poco conto («Rimpiango di non aver fatto ginnastica oggi») a quelli più importanti («Rimpiango di non aver detto a mio padre che gli volevo bene prima che morisse»).

C’erano rimpianti ostinati, latenti, che si ripetevano su svariate pagine. «Rimpiango di non essere rimasta coi Labyrinths, perché ho deluso mio fratello». «Rimpiango di non essere rimasta coi Labyrinths, perché ho deluso me stessa». «Rimpiango di non aver fatto abbastanza per l’ambiente». «Rimpiango di aver passato troppo tempo sui social». «Rimpiango di non essere andata in Australia con Izzy». «Rimpiango di non essermi divertita abbastanza quando ero giovane». «Rimpiango tutte le volte che ho litigato con mio padre». «Rimpiango di non fare un lavoro che abbia a che fare con gli animali». «Rimpiango di non aver studiato geologia invece di filosofia all’università». «Rimpiango di non aver imparato a essere più felice». «Rimpiango di sentirmi costantemente in colpa». «Rimpiango di aver smesso di studiare spagnolo». «Rimpiango di non aver scelto le materie scientifiche al liceo». «Rimpiango di non essere diventata una glaciologa». «Rimpiango di non essermi sposata». «Rimpiango di non aver fatto domanda per un master in filosofia a Cambridge». «Rimpiango di non condurre una vita sana». «Rimpiango di essermi trasferita a Londra». «Rimpiango di non essere andata a Parigi a insegnare inglese». «Rimpiango di non aver mai finito il romanzo che avevo cominciato a scrivere all’università». «Rimpiango di aver lasciato Londra». «Rimpiango di avere un lavoro senza prospettive». «Rimpiango di non riuscire a essere una sorella migliore». «Rimpiango di non aver preso un anno sabbatico dopo l’università». «Rimpiango di aver deluso mio padre». «Rimpiango di passare più tempo a insegnare il pianoforte che a suonarlo». «Rimpiango di non saper gestire le mie finanze». «Rimpiango di non vivere in campagna».

Alcuni rimpianti erano un po’ più sbiaditi di altri. Ce n’era uno che passava dall’essere praticamente invisibile al grassetto per poi sparire di nuovo, come se andasse e venisse, proprio mentre lo guardava. Il rimpianto era: «Rimpiango di non aver ancora avuto figli».

«Quello è un rimpianto che va e viene» spiegò Mrs Elm, come se ancora una volta potesse leggerle nei pensieri. «Ce ne sono alcuni di questo tipo».

Dai 34 anni in poi, nel capitolo più lungo del libro, molti avevano a che fare con Dan. Erano scritti in grassetto con un tratto deciso, e le risuonavano nella testa come un incessante accordo in fortissimo di un concerto di Haydn.

«Rimpiango di essere stata crudele con Dan». «Rimpiango di aver lasciato Dan». «Rimpiango di non vivere in un pub in campagna con Dan».

Mentre fissava le pagine, pensò all’uomo che aveva quasi sposato.

SOVRACCARICO DA RIMPIANTI

Aveva conosciuto Dan nel periodo in cui abitava con Izzy a Tooting. Gran sorriso, barba appena accennata. Fisicamente, assomigliava a uno di quei veterinari che si vedono in tv. Divertente, curioso. Beveva parecchio, ma pareva immune ai postumi delle sbornie.

Aveva studiato storia dell’arte e messo a frutto la sua profonda conoscenza di Rubens e Tintoretto diventando responsabile delle relazioni esterne per un’azienda di biscotti proteici all’avena. Aveva un sogno. E il suo sogno era quello di gestire un pub in campagna. Un sogno che avrebbe voluto condividere con lei. Con Nora.

E lei si era lasciata trasportare dall’entusiasmo. Si erano fidanzati. All’improvviso però si era resa conto di non volerlo più sposare.

Nel profondo, aveva il terrore di diventare come sua madre. Non voleva replicare la storia matrimoniale dei suoi genitori.

Continuando a fissare con sguardo assente Il libro dei rimpianti, si domandò se i suoi genitori fossero mai stati innamorati, o se si fossero sposati perché il matrimonio era qualcosa che bisognava fare a un certo punto della vita, con la persona a portata di mano in quel momento. Un gioco in cui si afferrava la prima persona che si aveva di fronte, quando la musica cessava.

Non aveva mai voluto fare quel gioco.

Bertrand Russell aveva scritto che “Temere l’amore è temere la vita, e chi teme la vita è già per tre quarti morto”2. Forse era quello il suo problema. Forse aveva semplicemente paura di vivere. Bertrand Russell però aveva avuto più matrimoni e relazioni che pasti caldi, quindi forse non era la persona più adatta a dare consigli al riguardo.

 

Quando sua madre morì, tre mesi prima del matrimonio, il dolore di Nora fu immenso. Sebbene fosse stata lei stessa a suggerire di posticipare la data, alla fine non ne fu mai fissata una nuova, e la sofferenza di Nora si fuse con la depressione e l’ansia e la sensazione che la sua vita fosse ormai fuori controllo. Il matrimonio le appariva a tal punto un sintomo di quel caos interiore che si sentiva come legata ai binari in attesa del passaggio di un treno, e l’unico modo per allentare le corde e liberarsi fosse sottrarsi a quelle nozze. Anche se in realtà rimanere a Bedford e per giunta single, deludere Izzy per non essere andata in Australia con lei, aver cominciato a lavorare allo String Theory, aver preso un gatto, significava tutto l’opposto della libertà.

«Oh, no» esclamò Mrs Elm, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. «È troppo per te».

E all’improvviso provò di nuovo quel rimorso, quel dolore di deludere gli altri e insieme anche se stessa, quella sofferenza a cui aveva cercato di sfuggire meno di un’ora prima. I rimpianti presero a sciamare tutti insieme. Mentre fissava le pagine aperte, il dolore era ancora più forte di quello che aveva provato mentre vagava per le vie di Bedford. Il potere di tutti quei rimpianti che si propagavano simultaneamente da quel libro si stavano trasformando in agonia. Il peso della colpa e del rimorso e della sofferenza era tremendo. Si appoggiò sui gomiti, lasciò cadere a terra il pesante volume e serrò gli occhi. Faceva fatica a respirare, come se delle mani invisibili le stringessero il collo.

«Li faccia smettere!».

«Adesso chiudilo» le suggerì Mrs Elm. «Chiudi il libro. Non soltanto gli occhi. Chiudilo. Devi essere tu a farlo».

E così Nora, che aveva la sensazione di stare per morire, si rimise seduta e appoggiò la mano sotto la copertina. Le parve ancora più pesante, ma riuscì a chiudere il libro e respirò sollevata.

 

 

 

2 Bertrand Russell, Matrimonio e morale, traduzione di Gianna Tornabuoni, Milano, Bur 1980.

TUTTE LE VITE INIZIANO ADESSO

Edunque?».
Mrs Elm teneva le braccia conserte. Sebbene apparisse identica alla Mrs Elm che aveva conosciuto, i modi erano decisamente più bruschi. Era Mrs Elm ma allo stesso tempo, in qualche modo, non era davvero lei. Nora si sentiva alquanto confusa.

«E dunque cosa?» esclamò, ancora senza fiato, ancora sollevata all’idea di non provare più l’intensità di tutti quei rimpianti all’unisono.

«Qual è il tuo più grande rimpianto? Qual è la decisione che vorresti non aver preso? Qual è la vita che vorresti provare?».

Usò quel termine, esattamente quello. Provare. Come se Nora si trovasse in un negozio di abbigliamento e avesse la possibilità di scegliere una vita con la stessa facilità con cui avrebbe potuto scegliere una maglietta. Le sembrava un gioco veramente crudele.

«È stato orribile. Mi sentivo come se qualcuno mi stesse strangolando. Che senso ha tutto questo?».

Quando Nora sollevò lo sguardo notò per la prima volta le luci. Erano semplici lampadine che penzolavano da fili appesi al soffitto, il quale aveva l’aria di un soffitto qualsiasi, color grigio chiaro. Se non fosse stato per il fatto che non poggiava su nessun muro. Come il pavimento, pareva infinito.

«Il punto è che molto probabilmente la tua vecchia vita non esiste più. Desideravi morire, e forse sarà così. E avrai bisogno di un posto dove andare. Un posto cui approdare. Un’altra vita. Quindi pensaci bene. Questa biblioteca si chiama Biblioteca di Mezzanotte perché ogni nuova vita che ti viene offerta inizia esattamente in questo momento. E adesso è mezzanotte. Inizia ora. Tutti questi futuri. È ciò che hai a disposizione. Ecco ciò che rappresentano questi libri. Ogni altro presente qui e ora, e il futuro che avresti potuto avere».

«Quindi non esistono passati in questo luogo?».

«No. Soltanto ciò che ne consegue. Ma anche quei libri sono stati scritti. Li conosco tutti. Però tu non sei autorizzata a leggerli».

«E quando finisce ognuna di queste vite?».

«Può essere questione di secondi. Di ore. Oppure di giorni. Mesi. Anche di più. Se hai trovato una vita che vuoi davvero vivere, allora ti sarà concesso di viverla finché non morirai di vecchiaia. Se vuoi davvero vivere quella vita, allora non c’è nulla di cui preoccuparti. Vivrai in quella vita come se fossi sempre stata lì. Perché in quell’universo tu sarai sempre stata lì. Il libro non verrà mai restituito, per intenderci. Più che un prestito, sarà un regalo. Nel momento stesso in cui deciderai che quella è la vita che desideri, che desideri per davvero, allora tutto ciò che adesso è nella tua testa, inclusa la Biblioteca di Mezzanotte, alla fine si trasformerà in un ricordo talmente vago e indefinito che sembrerà non essere mai esistito».

Una delle lampadine sopra la sua testa prese a tremolare.

«L’unico pericolo che corri» continuò Mrs Elm, con tono sinistro, «è quando sei qui. Nel mondo dimezzo. Se perdi la volontà di andare avanti, questo avrà delle ripercussioni sulla tua vita originaria. E potrebbe anche condurre alla distruzione di questo luogo. Sparirebbe per sempre. Moriresti. E con lui anche l’accesso a tutto questo».

«È ciò che voglio. Essere morta. Sarei morta, perché voglio esserlo. Ecco perché ho preso tutte quelle pastiglie. Voglio morire».

«Forse. O forse no. Dopotutto, sei ancora qui».

Nora cercò di afferrare meglio il concetto. «Come faccio a ritrovare la biblioteca? E se rimango intrappolata in una vita che è ancora peggio di quella che ho appena lasciato?».

«Può essere quasi impercettibile, ma non appena proverai un senso di delusione vera, tornerai qui. Talvolta la sensazione si insinua a poco a poco, altre volte ti investe all’improvviso. Se non arriverà mai, allora rimarrai dove sei, e sarai felice per definizione. Non potrebbe essere più semplice di così. E quindi: scegli una cosa che avresti fatto in modo diverso, e io ti troverò il libro corrispondente. O per meglio dire, la vita».

Nora abbassò lo sguardo sul Libro dei rimpianti, chiuso accanto a lei sulle piastrelle marroncine del pavimento.

Le tornò in mente quando chattava con Dan a notte fonda a proposito del suo sogno di possedere uno di quei tipici piccoli pub di campagna. Il suo entusiasmo era stato contagioso, finché era diventato anche quasi il suo, di sogno. «Vorrei non aver mai lasciato Dan. E vorrei essere ancora legata a lui. Rimpiango la nostra relazione, e noi che cerchiamo di realizzare quel sogno. Esiste una vita in cui siamo ancora insieme?».

«Certamente» rispose Mrs Elm.

I libri della biblioteca ricominciarono a scorrere, come se i ripiani fossero nastri trasportatori. Questa volta, tuttavia, invece di procedere lentamente come una marcia nuziale, presero a muoversi velocemente, sempre più velocemente, finché non si riuscì più a distinguerli l’uno dall’altro. Vorticavano come torrenti di colore verde.

Poi all’improvviso, così come avevano cominciato, si arrestarono.

Mrs Elm si chinò ed estrasse un libro dallo scaffale in basso alla sua sinistra. Era uno di quelli con la sfumatura verde scuro. Lo porse a Nora. Era molto più leggero del Libro dei rimpianti, anche se all’incirca della stessa grandezza. Ancora una volta, non c’era nessun titolo sulla costa, fatta eccezione per una piccola scritta sulla copertina, esattamente della stessa tonalità di verde del resto del libro.

Il titolo era La mia vita.

«Ma questa non è la mia vita…».

«Oh Nora, sono tutte tue queste vite».

«E adesso cosa devo fare?».

«Apri il libro e sfoglia la prima pagina».

Nora obbedì.

«O-kay» esclamò Mrs Elm, con accurata precisione. «Adesso leggi la prima frase».

Nora abbassò lo sguardo e lesse.

 

Usciva dal pub andando incontro

alla fresca aria della notte…

 

Nora fece appena in tempo a pensare “Pub?” che ecco, stava già accadendo. Le parole presero a vorticare e ben presto divennero indecifrabili, come in un film a velocità aumentata, mentre le forze la abbandonavano. Non lasciò mai andare del tutto la presa consapevolmente, ma ci fu un istante in cui lei non era più una persona con un libro in mano, e un momento successivo in cui quel libro – o la biblioteca – erano spariti.

AI TRE FERRI DI CAVALLO

Nora si trovava all’aria aperta, un’aria frizzante e pulita. Ma, a differenza di Bedford, non pioveva.
«Dove mi trovo?» sussurrò tra sé e sé.

Una piccola fila di tipiche casette in pietra, tutte uguali, si ergeva su entrambi i lati della strada che curvava dolcemente. Vecchie case silenti, dalle luci spente, rannicchiate all’estremità di un villaggio prima di svanire nella calma immobile della campagna. Un cielo terso, una distesa puntinata di stelle, la luna calante. L’odore dei campi. Il canto alternato di due allocchi che duettavano nella notte. Poi di nuovo silenzio. Un silenzio che conteneva una presenza, un’energia nell’aria.

Che strano.

Prima era a Bedford. Poi in quella stravagante biblioteca. E adesso era lì, in una graziosa stradina di campagna. Praticamente senza aver mosso un passo.

Da questo lato della via, una luce dorata filtrava attraverso una delle finestre al pianterreno. Alzò lo sguardo e vide l’insegna di un pub dipinta a caratteri eleganti che cigolava dolcemente scossa dal vento. Sotto l’insegna, una scritta in corsivo composta da zoccoli sovrapposti formava fedelmente le parole: Ai tre ferri di cavallo.

Di fronte a lei, una lavagna appoggiata sul marciapiede. Riconobbe la propria calligrafia, estremamente aggraziata.

 

AI TRE FERRI DI CAVALLO

Martedì sera – Pub quiz

20.30

“La vera saggezza sta in colui che sa di non sapere”

(Socrate – dopo aver perso al nostro quiz!!!!)

 

Una vita in cui usava quattro punti esclamativi uno di seguito all’altro. Probabilmente era così che si comportavano le persone più allegre, meno stressate di lei.

Un segnale promettente.

Osservò il suo abbigliamento. Una camicia in denim azzurro con le maniche rimboccate, un paio di jeans e delle zeppe, niente che avrebbe indossato nella sua vita di prima. Aveva la pelle d’oca per il freddo, poiché naturalmente quei vestiti non erano adatti per stare all’aperto.

Portava due anelli all’anulare. Il vecchio anello di fidanzamento con lo zaffiro – lo stesso che si era tolta, in preda a lacrime e fremiti, più di un anno prima – accompagnato da una semplice fede nuziale d’argento.

Cose da pazzi.

E un orologio al polso. Non uno di quelli digitali, in questa vita. Un elegante e sottile orologio analogico, con i numeri romani. Mezzanotte e un minuto.

Ma com’era possibile?

Le sue mani erano più lisce in questa vita. Forse usava una crema idratante. Uno smalto chiaro faceva risaltare le unghie. Provò una sorta di conforto nel vedere il piccolo neo sulla mano sinistra.

Rumore di passi che avanzavano facendo scricchiolare la ghiaia. Qualcuno si stava dirigendo verso di lei. Un uomo, illuminato dalla luce che filtrava dalle finestre del pub e dal lampione solitario. Un uomo con le guance arrossate, baffoni alla Dickens e un giaccone cerato. Pareva la rappresentazione in carne e ossa di uno di quegli omoni col cappello a tre punte raffigurati sui boccali di birra. L’andatura eccessivamente prudente suggeriva che fosse un tantino brillo.

«Buonanotte, Nora. Ci vediamo venerdì. Vengo a sentire il cantante folk. Dan mi ha detto che è uno bravo».

In questa vita probabilmente conosceva il nome dell’uomo. «Benissimo. Certamente. A venerdì. Sarà di sicuro una splendida serata».

Perlomeno la sua voce era rimasta la stessa. Rimase lì a osservarlo mentre attraversava la strada, guardando a sinistra e a destra un paio di volte malgrado la totale assenza di traffico, per poi sparire lungo un viottolo tra i cottage.

Stava succedendo per davvero. Era reale. Questa era la vita in cui c’era il pub. Era il sogno divenuto realtà.

«È così strano» esclamò rivolgendosi all’aria della notte. «Così. Veramente. Strano».

Un gruppetto di tre persone uscì dal pub. Due donne e un uomo. Sorrisero a Nora mentre le passavano accanto.

«La prossima volta vinciamo» le disse una delle donne.

«Certamente» le fece eco Nora. «C’è sempre una prossima volta».

Si avvicinò al pub e sbirciò dalla finestra. Dentro pareva vuoto, ma le luci erano ancora accese. Quel gruppetto doveva essere stato l’ultimo a lasciare il locale.

Il pub aveva un aspetto accogliente. Confortevole e caratteristico. Tavolini e travi in legno e la ruota di un carro appesa al muro. La moquette rosso brillante e un bancone, anch’esso rivestito in legno, che sfoggiava un imponente schieramento di spillatori di birra alla spina.

Si allontanò dalla finestra e scorse un cartello proprio dietro al pub, dove il marciapiede cedeva il passo all’erba.

Si avvicinò con passo veloce e lesse.

 

LITTLEWORTH DÀ IL BENVENUTO

A TUTTI COLORO CHE GUIDANO RESPONSABILMENTE

 

Poi notò che al centro del cartello, in alto, c’era un piccolo stemma attorno al quale orbitavano le parole Oxfordshire County Council.

«Ce l’abbiamo fatta» sussurrò nell’aria di campagna. «Ce l’abbiamo fatta per davvero».

Era questo il sogno che lui le aveva confidato la prima volta, mentre passeggiavano lungo la Senna a Parigi, gustandosi i macaron che avevano comprato lungo boulevard Saint-Michel.

Un sogno legato non a Parigi ma all’Inghilterra rurale, dove sarebbero andati a vivere insieme.

Un pub nella contea di Oxford.

Quando il cancro della madre di Nora si era riaffacciato con violenza, intaccando i linfonodi e colonizzando con rapidità il suo corpo, quel sogno era stato messo in aspettativa, e Dan aveva lasciato Londra per trasferirsi con lei a Bedford. Sua madre era a conoscenza del fidanzamento e aveva deciso che sarebbe rimasta viva abbastanza a lungo per assistere al loro matrimonio. Era morta tre mesi prima.

Forse ci siamo. Forse era questa la vita. Forse era questo il suo primo colpo di fortuna, o magari il secondo.

Si concedette un sorriso colmo di apprensione.

 

Tornò sui suoi passi, sulla ghiaia scricchiolante del sentiero, diretta verso l’ingresso laterale da cui era appena uscito l’uomo ubriaco coi baffi. Inspirò profondamente ed entrò.

Tepore.

E silenzio.

Si trovava in una specie di entrata o di corridoio. Piastrelle di terracotta. Un basso rivestimento in legno alle pareti e, sopra di esso, carta da parati decorata con un motivo di foglie di sicomoro.

Percorse il breve corridoio ed entrò nella sala principale del pub, quella che aveva sbirciato dalla finestra. Sobbalzò mentre un gatto sbucava fuori dal nulla.

Un elegante burmese color cioccolato dai tratti spigolosi che faceva le fusa. Si chinò per accarezzarlo e vide il nome inciso sulla medaglietta del collare. Voltaire.

Un gatto diverso, ma con lo stesso nome. A differenza del suo adorato soriano dal pelo rossiccio, dubitò che questo gatto fosse un trovatello. Faceva le fusa. «Ciao, Volts numero due. Sembra che tu sia felice in questa casa. Siamo tutti felici come te?».

Il gatto fornì una possibile risposta affermativa continuando a fare le fusa e strofinando il muso contro la gamba di Nora. Lei lo prese in braccio e si avvicinò al bancone. Sugli spillatori erano indicati i nomi delle birre artigianali, birre scure, sidro, birre chiare e birre ad alta fermentazione. La preferita del Vicario. Oggetti smarriti. Miss Marple. Limone soporifero. Sogno infranto.

Sul bancone c’era un salvadanaio per la raccolta fondi per la salvaguardia delle farfalle.

Udì un tintinnio di bicchieri. Come se qualcuno stesse caricando la lavastoviglie. L’ansia le serrò il petto. Una sensazione familiare. Poi un esile ragazzo sui vent’anni con una canotta da rugby sformata sbucò da dietro il bancone; non fece quasi caso a Nora mentre raccoglieva gli ultimi bicchieri sporchi e li sistemava nel cestello. Avviò la lavapiatti poi, dopo aver preso la giacca dall’attaccapanni, se la mise addosso ed estrasse le chiavi della macchina dalla tasca.

«Arrivederci, Nora. Ho sistemato le sedie e pulito i tavoli. La lavastoviglie è in funzione».

«Ah, grazie».

«Ci vediamo giovedì».

«Sì» rispose Nora, sentendosi come una spia sul punto di essere scoperta. «Ci vediamo».

Appena uscì, Nora udì un rumore di passi che salivano da qualche parte al piano di sotto, per poi attraversare le piastrelle che aveva appena percorso, dal retro del pub. E poi eccolo lì di fronte a lei.

Era diverso.

Non portava più la barba, e gli occhi cerchiati di scuro erano decisamente più segnati dalle rughe. Teneva in mano una pinta di birra quasi vuota. Continuava ad avere l’aria di uno di quei veterinari che si vedono nelle fiction televisive, però in una delle serie successive.

«Dan» esclamò, quasi avesse bisogno di qualche attimo in più per riuscire a identificarlo. Come un coniglio in mezzo alla strada. «Volevo dirti quanto sono fiera di te. Fiera di noi».

Lui la guardò, con aria assente. «Ero andato a spegnere i sistemi di raffreddamento. Domani devo pulire tutti i filtri. Abbiamo ancora quindici giorni».

Nora non aveva la minima idea di che cosa stesse parlando. Accarezzò il gatto. «Certo. Naturalmente. I filtri».

Suo marito – poiché nella nuova vita era questo – diede un’occhiata ai tavoli e alle sedie capovolte. Indossava una maglietta sbiadita con una fotografia dello Squalo. «Blake e Sophie sono andati a casa?».

Nora ebbe un attimo di esitazione. Intuì che stava parlando di persone che lavoravano per loro. Il ragazzo con la canotta da rugby sformata probabilmente era Blake. Pareva non ci fosse nessun altro all’interno del locale.

«Sì» rispose, cercando di assumere un tono naturale, malgrado la bizzarria delle circostanze. «Credo di sì. Hanno messo tutto in ordine».

«Ottimo».

Si ricordò di essere stata lei a regalargli quella maglietta dello Squalo per il suo ventiseiesimo compleanno. Dieci anni prima.

«Le risposte stasera sono state assurde. Una delle squadre, quella con Pete e Jolie, pensava che Maradona avesse dipinto la Cappella Sistina».

Nora annuì e accarezzò Volts Numero Due. Come se lei avesse la minima idea di chi fossero Pete e Jolie.

«A dire il vero, le domande non erano facili. Forse potremmo prenderle da un altro sito la prossima volta. Voglio dire, chi potrebbe mai sapere il nome della montagna più alta della catena Karaqualcosa?».

«Karakoram?» domandò Nora. «È il K2».

«Beh, ovviamente tu sì» disse in tono un po’ troppo brusco. Un po’ troppo alticcio. «È esattamente il genere di cose che conosci tu. Perché mentre la maggior parte delle persone ama la musica rock, tu invece sai tutto delle rocce e di quel genere di cose lì».

«Ehi» esclamò Nora. «Non dimenticarti che io stavo davvero in un gruppo rock».

In quel momento le tornò in mente che Dan detestava che lei facesse parte della band.

Lui rise. Riconobbe la sua risata, ma qualcosa in quella risata la disturbò. Aveva dimenticato quante volte durante il loro rapporto l’umore di Dan dipendesse dall’umore degli altri, in particolar modo da quello di Nora. Quando stavano insieme aveva cercato di non soffermarsi troppo su questo aspetto della sua personalità. Aveva tante altre qualità – era stato così gentile e premuroso con sua madre quando si era ammalata, discorreva di qualunque argomento con disinvoltura, era pieno di sogni per il futuro, era attraente e di buon carattere, era appassionato d’arte e si fermava sempre a parlare con i senzatetto. Si prendeva cura del mondo intorno a lui.

Una persona è come una città. Non puoi permettere che alcune zone meno belle rovinino l’armonia del tutto. Ci possono essere posti che non ami, alcune strade secondarie e sobborghi poco raccomandabili, ma le parti belle la rendono degna di essere amata.

Lui le aveva fatto ascoltare un mucchio di insopportabili podcast che riteneva che Nora dovesse ascoltare, aveva riso in un modo che le dava sui nervi, per non parlare di quei versi quando faceva i gargarismi col collutorio. E sì, si impossessava del copripiumone e di tanto in tanto esprimeva le sue opinioni in materia di arte e cinema e musica in tono arrogante, ma non c’era mai niente di davvero sbagliato in lui. Beh – a pensarci bene – non l’aveva mai veramente sostenuta nella sua carriera musicale, anzi l’aveva avvertita che fare parte dei Labyrinths e firmare un contratto con una casa discografica avrebbe soltanto peggiorato il suo stato di salute mentale, e che suo fratello si stava comportando in modo un po’ egoista. Ma all’epoca Nora aveva notato più la bandiera verde che quella rossa. Il suo pensiero era stato: tiene a me, ed era bello avere qualcuno che tenesse a lei, a cui non importasse del successo e delle cose futili, e che la aiutasse a navigare in mezzo alle correnti della vita. Così, quando lui le aveva chiesto di sposarlo, nel cocktail bar in cima alla Oxo Tower, lei aveva risposto di sì e forse aveva fatto bene.

Dan fece qualche passo nella stanza, appoggiò per un attimo la pinta di birra e si attaccò al cellulare, alla ricerca di altre domande per il pub quiz che facessero più al caso suo.

Nora si domandò quanto avesse bevuto quella sera. Si domandò se il suo sogno di possedere un pub non fosse altro che il sogno di avere a disposizione una scorta illimitata di alcol.

«Come si chiama il poligono con venti lati?».

«Non saprei» mentì Nora, per non rischiare una reazione simile a quella ricevuta poco prima.

Dan infilò il cellulare in tasca.

«Comunque è andata bene. Hanno bevuto parecchio. Niente male per essere un martedì. Le cose stanno andando per il verso giusto. Intendo dire che abbiamo qualche buona notizia da dare alla banca domani. Forse ci concederanno un’estensione del prestito».

Fissò la birra rimasta, la fece ruotare leggermente nel bicchiere e poi la trangugiò.

«Anche se devo ricordarmi di dire a A.J. di cambiare il menu del pranzo. Nessuno qui a Littleworth vuole mangiare barbabietole candite, insalata di fave e gallette di mais. Qui non siamo come quei tipi con la puzza sotto il naso di Fitzrovia. Ah, e anche se so che vanno giù lisci come l’olio, penso che i vini che scegli non valgano granché. Specialmente quelli californiani».

«Va bene».

Dan si voltò a cercare qualcosa con lo sguardo. «Dov’è la lavagna?».

«Cosa?».

«La lavagna. Pensavo fossi andata a prenderla».

Quindi era quello il motivo per cui era uscita.

«No. No. Adesso vado».

«Pensavo fossi uscita apposta».

Nora sorrise per tenere a bada il nervosismo. «Beh, sì, in effetti è così. Dovevo… Ero preoccupata per il gatto. Volts. Voltaire. Non riuscivo a trovarlo, così sono andata a cercarlo e poi l’ho trovato, no?».

Dan era andato dietro al bancone a versarsi un bicchiere di scotch.

Parve intuire che lo stesse giudicando. «È solo il terzo bicchiere stasera. Il quarto, forse. È serata di pub quiz. Lo sai che mi agito quando devo presentare. Mi aiuta a scherzare un po’. E infatti sono stato divertente questa sera, non ti pare?».

«Sì. Molto divertente. Divertentissimo».

Lui assunse un’espressione seria. «Ho notato che parlavi con Erin. Che cosa ti ha detto?».

Nora non era certa di conoscere la risposta migliore a quella domanda. «Oh, niente di che. Le solite cose. Conosci Erin».

«Le solite cose? Pensavo non le avessi mai parlato in vita tua».

«Volevo dire le solite cose di cui parla la gente. Non le solite cose che dice Erin. Le banalità che la gente…».

«Will come sta?».

«Ehm, benissimo» azzardò Nora. «Ti saluta».

Gli schizzarono gli occhi fuori dalle orbite per la sorpresa. «Sul serio?».

Nora non aveva la più pallida idea di cosa dire. Forse Will era un bambino. Forse Will era in coma.

«No, scusa. Non ha detto di salutarti. Scusami, non so dove ho la testa. Comunque… adesso esco a prendere la lavagna».

Depose il gatto sul pavimento e si avviò verso l’uscita. Questa volta notò qualcosa di cui non si era accorta entrando.

Un ritaglio di giornale incorniciato dell’Oxford Times raffigurante una fotografia di lei e Dan fuori del pub Ai tre ferri di cavallo. Dan la cingeva con un braccio. Lui sfoggiava un abito che non gli aveva mai visto prima, mentre lei indossava un vestito elegante che non avrebbe mai messo (raramente portava vestiti) nella sua prima vita.

 

PROPRIETARI DI PUB

REALIZZANO UN SOGNO

 

Secondo l’articolo avevano acquistato quel pub a buon mercato e in pessime condizioni, per poi ristrutturarlo con l’ausilio dei soldi frutto della combinazione tra una modesta eredità (da parte di Dan), risparmi e prestiti dalla banca. L’articolo, anche se risaliva a due anni prima, raccontava una storia di successo.

Uscì all’aria aperta, domandandosi se una vita potesse davvero essere giudicata da una manciata di minuti dopo la mezzanotte di un martedì qualunque. Forse sì, era sufficiente.

Si stava alzando il vento. Soffiando in mezzo alla via di quel pacifico villaggio, le raffiche di vento spinsero la lavagna un po’ più in là, facendola quasi capovolgere. Mentre stava per raccoglierla, sentì vibrare il cellulare che teneva in tasca. Non si era accorta che fosse lì. Lo prese. Un SMS da parte di Izzy.

Notò che sul salvaschermo c’era una foto sua e di Dan scattata in qualche posto al caldo.

Sbloccò il telefono usando il riconoscimento facciale e lesse il messaggio. Vide la foto di una balena che balzava sopra le onde dell’oceano, la schiuma bianca che inzuppava l’aria come quando si stappa una bottiglia di champagne. Era una foto magnifica e la fece sorridere.

Izzy stava ancora digitando.

Apparve un altro messaggio:

 

Questa è una delle foto che ho fatto ieri dalla barca

 

E poi aggiunse:

 

Una mamma megattera

 

Poi una seconda foto: questa volta le balene erano due, e i loro dorsi frangevano la superficie dell’acqua.

 

Col suo piccolo

 

L’ultimo messaggio conteneva anche emoji di balene e di onde.

Nora provò una sensazione di calore. Non soltanto per le foto, che erano senza dubbio molto belle, ma per questo contatto con Izzy.

Quando Nora aveva mandato all’aria il matrimonio con Dan, Izzy aveva insistito perché andasse in Australia con lei.

Avevano pianificato tutto, deciso che sarebbero andate a vivere vicino a Byron Bay e avrebbero trovato lavoro su una di quelle imbarcazioni per turisti per l’avvistamento delle balene.

Si erano scambiate un mucchio di immagini di megattere in previsione di quella nuova avventura. Poi però Nora aveva esitato e infine aveva rinunciato. Proprio come aveva rinunciato alla carriera di nuotatrice, alla band e al matrimonio. Ma a differenza di tutte le altre volte, in questo caso non c’era stata nessuna ragioneper farlo. Sì, è vero, aveva cominciato a lavorare allo String Theory e sì, sentiva la necessità di andare a far visita alla tomba dei suoi genitori, ma era consapevole che rimanere a Bedford rappresentasse la peggiore delle opzioni. E tuttavia aveva scelto quella. A causa di qualche bizzarra, preventiva nostalgia di casa che la divorava in compagnia di una depressione che stava lì a ricordarle che lei, in ultima istanza, non meritava di essere felice. Che aveva fatto soffrire Dan, e che una vita di pioggia e di tristezza nella sua città natale era la punizione che meritava, lei che non aveva né la forza di volontà né la lucidità o, al diavolo, l’energia per fare niente.

E in effetti aveva barattato la sua migliore amica con un gatto.

Nella sua prima vita, non aveva mai veramente rotto con Izzy. Niente di così drammatico. Ma dopo che Izzy si era trasferita in Australia i rapporti tra loro si erano raffreddati, finché la loro amicizia non era diventata che una scia di fumo evanescente fatta di sporadici like su Facebook e Instagram e di auguri di compleanno con una sfilza di emoji.

Rilesse le conversazioni via SMS tra lei e Izzy e capì che, malgrado le dividessero più di quindicimila chilometri, le cose andavano molto meglio tra loro in questa nuova versione della sua vita.

 

Quando rientrò nel pub, portando con sé la lavagna questa volta, Dan non c’era. Così chiuse a chiave la porta sul retro e indugiò per un attimo all’entrata del pub, nel tentativo di individuare le scale, e incerta se seguire quella specie di marito un po’ alticcio al piano di sopra.

Trovò le scale sul retro dell’edificio, dopo aver attraversato una porta con la scritta Riservato al personale. Mentre camminava sulla moquette di rafia beige che conduceva al primo piano, appena dopo il poster incorniciato di Cose che si imparano al buio – uno dei loro film preferiti di Ryan Bailey che avevano visto insieme all’Odeon di Bedford – notò una fotografia più piccola su un grazioso davanzale.

Era la foto del loro matrimonio. In bianco e nero, un’istantanea di quella giornata. Loro due mentre uscivano dalla chiesa in mezzo a una pioggia di coriandoli. Era difficile distinguere le loro facce ma ridevano entrambi, insieme, e parevano – per quanto possa raccontare una fotografia – innamorati. Le vennero in mente le parole di sua madre a proposito di Dan. «È un bravo ragazzo. Sei davvero fortunata. Non lasciartelo scappare».

Scorse anche suo fratello, con la testa rasata a zero e un’espressione di vera felicità dipinta sul volto, con un bicchiere di champagne in piedi vicino al suo ragazzo, Lewis, un consulente finanziario con cui aveva avuto una relazione fallimentare e di breve durata. C’erano anche Izzy e Ravi, che aveva un’aria da contabile più che da batterista, accanto a una donna con gli occhiali che non aveva mai visto prima.

Mentre Dan era in bagno Nora localizzò la camera da letto. Anche se evidentemente avevano qualche problema finanziario – il preoccupante incontro con la banca ne era una conferma – la stanza era arredata con mobili lussuosi. Persiane elettriche. Un letto grande e confortevole. Un piumone lavato di fresco, bianco e pulito.

Libri su entrambi i lati del letto. Nella sua vita reale non teneva un libro sul comodino da più di sei mesi. Non leggeva niente da sei mesi. Forse in questa vita riusciva a concentrarsi meglio.

Ne prese uno, Meditazione per principianti. Sotto, vide una copia della biografia del suo filosofo preferito, Henry David Thoreau. C’erano dei libri anche dalla parte di Dan. Le tornò in mente l’ultimo che gli aveva visto leggere, una biografia di Toulouse-Lautrec – Un piccolo gigante – mentre in questa vita consultava uno di quei manuali dal titolo Da Zero a Tutto. Come avere successo nel lavoro, nel gioco e nella vita, e l’edizione aggiornata della Guida ai Pub.

Si sentiva diversa nel suo nuovo corpo. Era più sana, più forte, anche la sua muscolatura era più robusta. Si diede un colpetto sulla pancia, rendendosi conto che in questa vita si dedicava decisamente di più all’esercizio fisico. Anche i capelli erano diversi. Portava una spessa frangia e – sfiorandola – intuì che portava i capelli più lunghi sulle spalle. Provò un leggero stordimento. Doveva aver bevuto almeno due bicchieri di vino.

Un istante dopo udì lo sciacquone del bagno. Poi dei gargarismi. Tutto un po’ più rumoroso del dovuto.

«Ti senti bene?» le chiese Dan mentre usciva dal bagno. La sua voce, si rese conto, non era quella che ricordava. Le sembrava più vuota. Più fredda. Forse era la stanchezza. Forse era lo stress. Forse era la birra. Forse era il matrimonio.

Forse era qualcos’altro.

Era difficile ricordare il suono preciso che aveva una volta la sua voce. Com’era, esattamente. Ma tale era la natura dei ricordi. All’università aveva scritto un saggio dal titolo asettico “I princìpi della memoria e dell’immaginazione nella filosofia di Hobbes”. Thomas Hobbes considerava la memoria e l’immaginazione praticamente come la stessa cosa, e da quel momento in poi lei non aveva mai più fatto del tutto affidamento sui suoi ricordi.

Fuori della finestra il giallo bagliore del lampione illuminava la strada deserta.

«Nora, sei strana stasera. Perché te ne stai lì in mezzo alla stanza? Hai deciso di venire a letto oppure fai qualche strano esercizio di meditazione in piedi?».

Scoppiò a ridere. Pensò che fosse divertente.

Dan si avvicinò alla finestra e tirò le tende. Poi si tolse i jeans e li appoggiò sullo schienale di una sedia. Lei lo fissò e cercò di riprovare la stessa forte attrazione di un tempo. Le richiese uno sforzo erculeo. Non se l’aspettava.

L’esistenza di ognuno può prendere infinite strade.

Lui si lasciò cadere pesantemente sul letto, una balena che affonda nell’oceano. Aprì Da Zero aTutto. Cercò di concentrarsi. Posò il libro. Prese un portatile che stava accanto al letto e si infilò un auricolare nell’orecchio. Forse stava per mettersi ad ascoltare un podcast.

«Avrei qualcosina in mente».

Nora si sentì mancare. Come se fosse presente soltanto a metà. Le tornò in mente la frase che le aveva detto Mrs Elm, di come la delusione l’avrebbe riportata nella biblioteca. Si rese conto di quanto sarebbe stato assurdo condividere il letto con un uomo che non vedeva da due anni.

Notò l’ora sulla sveglia digitale. Mezzanotte e ventitré.

Sempre con l’auricolare nell’orecchio, lui la guardò una seconda volta. «Senti, se non hai voglia di fare un figlio stanotte basta dirlo, no?».

«Scusa?».

«Insomma, lo sai che dovremo aspettare un altro mese prima che ovuli di nuovo…».

«Stiamo cercando di avere un figlio? Io voglio un bambino?».

«Nora, che ti succede? Perché sei così strana oggi?».

Si tolse le scarpe. «Non è vero».

Le venne in mente un ricordo, legato alla maglietta dello Squalo.

Una canzone, a dire il vero. Beautiful Sky.

Il giorno in cui gli aveva regalato quella maglietta era stato anche il giorno in cui gli aveva fatto sentire una canzone che aveva scritto per i Labyrinths, Beautiful Sky. Era convinta che fosse la canzone più bella che avesse mai scritto. E inoltre era allegra, riflesso dell’ottimismo che sentiva in quel momento della sua vita. Era anche frutto della sua nuova vita con Dan. Lui l’aveva ascoltata con una noncurante indifferenza che l’aveva ferita, e di cui gli avrebbe chiesto conto, se non fosse stato il suo compleanno.

«Sì» aveva commentato, «non è male».

Chissà perché quel ricordo era rimasto sepolto per riaffiorare proprio ora, come il grande squalo bianco sulla sua maglietta sbiadita.

Le tornarono in mente anche altre cose. La sua reazione esagerata quando gli aveva raccontato che uno dei clienti – Ash, il chirurgo nonché chitarrista amatoriale che era passato allo String Theory a comprare uno spartito – le aveva chiesto distrattamente se le avrebbe fatto piacere prendere un caffè insieme un giorno o l’altro.

Ovviamente ho rifiutato. Piantala di urlare».)

Era andata ancora peggio quando uno dei talent scout di un’affermata casa discografica, una piccola etichetta di musica indie che era stata acquisita dalla Universal, si era offerta di mettere sotto contratto i Labyrinths. Dan l’aveva messa in guardia sul fatto che con ogni probabilità non avrebbero avuto un futuro come coppia. E inoltre le aveva riferito una storia terrificante che gli aveva raccontato uno dei suoi amici dell’università, un tizio che stava in una band che aveva firmato con una di queste case discografiche che poi li aveva fregati, e tutti quanti alla fine erano diventati dei poveri disoccupati con problemi di alcol o qualcosa del genere.

«Potresti venire con me» gli aveva detto, «lo farei mettere a contratto. Potremmo andare insieme ovunque».

«Mi dispiace, Nora. Ma quello è il tuo sogno. Non il mio».

A ripensarci, la sua reazione la feriva ancora di più, ricordando quanto si era sforzata – prima del matrimonio – di far diventare il sogno di Dan di un pub nella campagna dell’Oxfordshire anche il suo, di sogno.

Dan aveva sempre sostenuto di essere preoccupato per Nora: soffriva di attacchi di panico nel periodo in cui faceva parte della band, specialmente quando si trattava di salire sul palco. Ma la sua preoccupazione era stata a dir poco manipolatoria, a ben pensarci.

«Credevo» disse Dan in quel momento, «che avessi ricominciato a fidarti di me».

«Fidarmi di te? Dan, perché non dovrei fidarmi di te?».

«Lo sai perché».

«Certo che lo so» mentì Nora. «Ma voglio sentirtelo dire».

«Massì, quella storia con Erin».

Lo fissò come se fosse stato una di quelle macchie d’inchiostro di Rorschach in cui lei non riusciva a distinguere nessuna figura.

«Erin? Quella con cui parlavo stasera?».

«Dovrò essere punito per il resto dei miei giorni per uno stupido errore commesso mentre ero ubriaco?».

Fuori, in strada, il vento ora soffiava più forte, ululando in mezzo agli alberi, come se si stesse esercitando in una nuova lingua.

Questa era la vita che rimpiangeva. Questa era la vita che si era rimproverata di non aver vissuto. Questa era la linea temporale in cui si rammaricava di non essere mai esistita.

«Uno stupido errore?» gli fece eco.

«Sì, beh, due diciamo».

Si stavano moltiplicando.

«Due?».

«Ero stressato. Sai, tutta quella pressione addosso. Per questo posto. Ed ero veramente ubriaco».

«Hai fatto sesso con qualcun altro e non mi pare che tu sia molto… pentito».

«Ma dài, perché rivangare questa cosa? Ci siamo già passati. Ricordati quello che ha detto il consulente matrimoniale. Di concentrarsi su dove vogliamo andare, invece che su dove siamo già stati».

«Non hai mai pensato che forse non siamo fatti l’uno per l’altra?».

«Cosa?».

«Ti amo Dan. E tu sai essere una persona veramente gentile. Sei stato fantastico con la mamma. E una volta parlavamo – intendo dire – parliamo molto. Ma non hai mai la sensazione che la nostra strada insieme sia giunta al termine? Che siamo cambiati?».

Andò a sedersi sul bordo del letto. Il più lontano possibile da lui.

«Non pensi mai alla fortuna che hai che io stia con te? Ti rendi conto che sono stata sul punto di lasciarti, due giorni prima di sposarti? Ti rendi conto che casino sarebbe stata la tua vita se non mi fossi presentata all’altare il giorno del matrimonio?».

«Wow. Davvero? Certo che ne hai di autostima, Nora».

«Non dovrei forse? Non dovrebbero forse averla tutti? Cosa c’è di male nell’autostima? E inoltre, è tutto vero. Esiste un altro universo in cui tu mi mandi messaggi su WhatsApp in cui mi dici quanto stai male senza di me. Che ti sei dato all’alcol, anche se a quanto pare ti dai all’alcol anche con me. In questi messaggi mi dici quanto ti manca la mia voce».

Lui emise un suono sprezzante, a metà tra una risata e un grugnito. «Diciamo che in questo momento il suono della tua voce non mi manca per niente».

Non riuscì ad andare oltre le scarpe. Faceva fatica – forse le era impossibile – togliersi un altro indumento di fronte a lui.

«E piantala di puntualizzare su quanto bevo».

«Se usi il bere come scusa per scoparti un’altra, non la smetto proprio».

«Sono un gentiluomo di campagna» sghignazzò Dan. «Ed è così che si comporta un gentiluomo di campagna. È gioviale e allegro e desideroso di condividere con gli altri le molte e svariate bevande che offriamo. Gesummio».

Da quando in qua si esprimeva in quella maniera? L’aveva sempre fatto?

«Porca puttana Dan».

Sembrava non gli importasse niente di niente. Che non fosse minimamente grato per quel mondo in cui viveva. Il mondo per cui lei si era sentita così in colpa, per averne ostacolato la realizzazione. Dan allungò una mano verso il cellulare, il portatile sempre appoggiato sul piumone. Nora lo osservò mentre scorreva i messaggi.

«È questo che ti eri immaginato? Il tuo sogno si sta realizzando?».

«Nora, piantala con queste stronzate. Cazzo, vieni a letto e finiamola».

«Sei felice, Dan?».

«Nessuno è felice».

«Qualcuno lo è. Una volta tu lo eri. Ti illuminavi, quando ne parlavi. Del pub, intendo. Prima di averlo. Questa è la vita che sognavi. Volevi me e volevi tutto questo e invece mi sei stato infedele e bevi come una spugna, e penso che tu riesca ad apprezzarmi soltanto quando non ci sono, che non è esattamente una gran bella prospettiva. E che cosa ne è stato dei miei di sogni?».

La ascoltava a malapena. O almeno fingeva di non ascoltarla.

«Sono scoppiati degli incendi enormi in California» esclamò Dan quasi fra sé e sé.

«Beh, perlomeno non siamo lì».

Mise giù il cellulare. Richiuse il portatile. «Vieni a letto sì o no?».

Lei si era fatta da parte per lasciar posto a lui, ma Dan non aveva ancora trovato lo spazio di cui aveva bisogno. Adesso però ne aveva abbastanza.

«Icosagono» gli disse.

«Cosa?».

«La domanda. Quella di prima. Il poligono con venti lati. Dunque, un poligono con venti lati si definisce icosagono. Conoscevo la risposta ma non volevo dirtelo, perché non volevo che mi prendessi in giro. Ma in questo momento non me ne importa un accidente, perché se io so cose che tu non sai, non dovrebbe essere un problema. E adesso me ne vado in bagno».

Lo mollò lì a bocca aperta, e avviandosi a passo leggero sui listoni di legno uscì dalla stanza.

Entrò nel bagno. Accese la luce. Sentiva un formicolio nelle braccia e nelle mani e nel petto. Come elettricità statica in cerca di un conduttore. Stava per scomparire, ne era certa. Il suo tempo in quella vita era sul punto di scadere. La delusione era assoluta.

Il bagno era imponente. Maestoso. C’era uno specchio. Sobbalzò quando vide la sua immagine riflessa. Aveva un aspetto più sano, ma allo stesso tempo sembrava più vecchia. La sua acconciatura la faceva apparire come se fosse un’estranea.

Quella non era la vita che si era immaginata.

Così Nora augurò alla Nora nello specchio “Buona fortuna”.

Un istante dopo eccola di ritorno, in qualche punto della Biblioteca di Mezzanotte. Mrs Elm la fissava da poco distante con uno strano sorriso sul volto.

«Allora dimmi, com’è andata?».

IL PENULTIMO MESSAGGIO POSTATO DA NORA
PRIMA DI RITROVARSI TRA LA VITA E LA MORTE

Non pensi mai “Come ho fatto ad arrivare a questo punto?”. Come quando sei in un labirinto e ti senti completamente persa, ed è tutta colpa tua perché sei stata tu a dirigerti sempre dalla parte sbagliata? E sai che avresti potuto imboccare molte strade che ti avrebbero portata fuori di lì, lo sai perché senti il suono delle voci delle persone fuori del labirinto che ci sono riuscite, e che adesso se ne stanno lì a ridere e a scherzare. Di tanto in tanto riesci a intravederle in mezzo alla siepe. Una figura fugace tra le foglie. E sembrano così maledettamente felici perché ce l’hanno fatta e tu non ce l’hai con loro, ma ce l’hai con te stessa perché non possiedi quella loro abilità di riuscire a cavarsela. Capita anche a voi? O questo labirinto tocca soltanto a me?

 

P.S. Il mio gatto è morto


LA SCACCHIERA

Gli scaffali della Biblioteca di Mezzanotte erano di nuovo immobili, come se la possibilità che potessero muoversi non fosse neppure contemplata.

Nora ebbe la sensazione di trovarsi in un’altra ala della biblioteca – non tanto in una stanza diversa, poiché pareva esserci un’unica stanza, infinitamente grande. Era difficile dire se si trattasse effettivamente di un’altra area dell’edificio, poiché i libri erano comunque tutti di colore verde, anche se a lei pareva di stare più vicina a un corridoio della volta precedente. Da quella posizione riuscì a scorgere qualcosa di nuovo sbirciando tra le pile di libri – una scrivania da ufficio e un computer, in quello che aveva tutta l’aria di essere un semplice open space improvvisato, posto tra una corsia e l’altra.

Mrs Elm non era alla sua postazione di lavoro. Stava seduta a un basso tavolino proprio di fronte a Nora, e giocava a scacchi.

«È stato molto diverso da come me l’ero immaginato» esordì Nora.

Mrs Elm aveva l’aria di una che si trovava nel bel mezzo di una partita.

«È difficile prevedere, vero?» domandò, con lo sguardo perso in un punto davanti a lei, mentre spostava un alfiere nero per andare a mangiare un pedone bianco. «Le cose che ci rendono felici».

Mrs Elm fece ruotare la scacchiera di centottanta gradi. A quanto pareva, stava giocando contro se stessa.

«Sì» rispose Nora. «È così. Ma che cosa le succederà? Cosa mi succederà? Come finirà?».

«Come faccio a saperlo? Conosco soltanto l’oggi. Sull’oggi so molte cose. Però non so che cosa succederà domani».

«Ma lei se ne starà lì nel bagno senza sapere come ci è finita».

«Non ti è mai capitato di entrare in una stanza senza sapere perché? Non ti sei mai dimenticata quello che avevi appena fatto? Non ti è mai successo di avere la testa vuota o di non ricordare quello che stavi facendo un attimo prima?».

«Sì, ma io sono rimasta soltanto mezz’ora in quella vita».

«E l’altra versione di te non lo saprà mai. Ricorderà quello che hai appena fatto e detto. Ma come se fosse stata lei a fare e a dire quelle cose».

Nora emise un sospiro profondo. «Dan una volta non era così».

«Le persone cambiano» continuò Mrs Elm senza distogliere lo sguardo dalla scacchiera. La mano indugiò su un alfiere.

Nora ebbe un ripensamento. «O forse lo era e io, semplicemente, non me ne rendevo conto».

«Dunque» si domandò Mrs Elm, rivolgendosi a Nora adesso. «Tu come ti senti?».

«Voglio ancora morire. Lo desidero da tanto tempo. Ho calcolato molto attentamente che il dolore che provo nell’essere questo maledetto disastro di persona che sono, è molto più grande di quello che potrebbe provare chiunque conosca, se dovessi morire. A dire il vero, sono certa che sarebbe un sollievo. Non servo a nessuno. Non ero brava nel mio lavoro. Ho deluso tutti. Sono un rifiuto tossico, per dirla tutta. Ferisco le persone. Sono completamente sola. Non mi rimane neanche il vecchio Volts, che è morto perché non sono stata capace di occuparmi neanche di un gatto. Voglio morire. La mia vita è un disastro. E voglio che finisca. Sono inadatta alla vita. E non ha senso continuare ad andare avanti. Perché sono chiaramente destinata a essere infelice anche nelle altre vite. Sono fatta così. Niente da aggiungere. Me ne sto qui a crogiolarmi nell’autocommiserazione. Voglio morire».

Mrs Elm la studiò a lungo, come se stesse riesaminando il brano di un libro che aveva già letto in precedenza, ma di cui aveva appena scoperto un nuovo significato. «Voglio» le disse, in tono pacato. «Termine interessante. Indica una mancanza. Talvolta, se si colma questa mancanza con qualcos’altro, il desiderio originario scompare del tutto. Forse il tuo è un problema di mancanza, più che di desiderio. Forse esiste davvero una vita che vuoi vivere».

«Pensavo fosse questa. La vita con Dan. Non era così».

«No, non lo era. Però quella era soltanto una delle vite possibili. E una su un infinito numero, è senza dubbio una minuscola frazione».

«Ma dentro ogni vita possibile ci sono io. E quindi nessuna di queste vite è davvero possibile».

Mrs Elm non le diede ascolto. «Adesso però dimmi, dov’è che vorresti andare?».

«Da nessuna parte, per favore».

«Hai bisogno di dare un’altra occhiata al Libro dei rimpianti?».

Nora arricciò il naso e scosse leggermente il capo. Ricordava la sensazione di soffocamento che le avevano provocato tutti quei rimpianti.

«No».

«E cosa mi dici del tuo gatto? Com’è che si chiamava?».

«Voltaire. Un po’ pretenzioso come nome, e lui non lo era affatto, così lo abbreviavo in Volts. Qualche volta Voltsy, se mi sentivo allegra. Il che, com’è ovvio, avveniva raramente. Non sono neanche riuscita a dare un nome vero a un gatto».

«Mi hai raccontato di non essere stata capace di prenderti cura di lui. Cos’avresti fatto di diverso?».

Nora rifletté. Aveva la netta sensazione che Mrs Elm stesse facendo qualche strano gioco con lei, ma provava anche il desiderio di rivedere il suo gatto, e non semplicemente un gatto con lo stesso nome. A dire il vero, era la cosa che desiderava più di ogni altra.

«D’accordo. Vorrei vedere la vita in cui Voltaire stava in casa con me. Il mio Voltaire. Vorrei la vita in cui non ho cercato di suicidarmi e quella in cui sono stata una brava padrona e non l’ho lasciato uscire fuori in strada l’ultima notte. Vorrei quella vita, soltanto per un po’. Quella vita esiste, non è vero?».

L’UNICO MODO PER IMPARARE È VIVERE

Nora si guardò intorno e si ritrovò sdraiata nel suo letto.
Controllò l’ora. Un minuto dopo la mezzanotte. Accese la luce. Questa era esattamente la sua vita di prima, ma sarebbe stata meglio, perché Voltaire sarebbe stato vivo. Il suo vero Voltaire.

Ma dov’era?

«Volts?».

Cercò dappertutto, ma non riuscì a trovarlo. La pioggia tamburellava sui vetri – questo di sicuro non era cambiato. La scatola intatta degli antidepressivi era appoggiata sul ripiano in cucina. Il pianoforte elettrico stava accanto al muro, silenzioso.

«Voltsy?».

C’erano la sua pianta di yucca e il cactus con le tre minuscole punte, i suoi scaffali coi libri, sistemati con la stessa precisa combinazione di filosofia, romanzi e manuali di yoga mai aperti, biografie di rock star e libri divulgativi di scienza. Un vecchio numero del National Geographic con uno squalo in copertina e una copia di Elle di cinque mesi prima, che aveva comprato praticamente solo per l’intervista a Ryan Bailey. Nessun altro acquisto recente.

Una ciotola ancora piena di cibo per gatti.

Ispezionò ovunque, chiamandolo per nome. Fu solo quando rientrò in camera da letto e guardò sotto il letto, che lo vide.

«Volts!».

Il gatto non si muoveva.

Poiché le sue braccia erano troppo corte per raggiungerlo, spostò il letto.

«Voltsy. Dài, Voltsy» sussurrò.

Nel momento stesso in cui sfiorò il corpicino freddo comprese, e fu invasa dalla tristezza e dallo sgomento. Si ritrovò immediatamente nella Biblioteca di Mezzanotte, di fronte a Mrs Elm, che questa volta stava seduta su una comoda poltrona, profondamente assorta in uno dei suoi libri.

«Non capisco» le disse Nora.

Mrs Elm mantenne lo sguardo fisso sulla pagina che stava leggendo. «Sono molte le cose che farai fatica a comprendere».

«Ho chiesto una vita in cui Voltaire fosse ancora vivo».

«In realtà non l’hai fatto».

«In che senso?».

Ripose il libro. «Hai chiesto una vita in cui lui stava a casa con te. È una cosa completamente diversa».

«Davvero?».

«Sì. Assolutamente. Vedi, se tu mi avessi chiesto una vita in cui era ancora vivo, avrei dovuto dirti di no».

«Ma perché?».

«Perché non esiste».

«Pensavo potesse esistere qualunque vita».

«Ogni vita possibile. Vedi, il punto è che Voltaire soffriva di una» lesse attentamente dal libro, «cardiomiopatia ipertrofica, una forma congenita grave, destinata ad arrestare il suo cuore quando era ancora giovane».

«Ma è stato investito da un’auto».

«C’è una differenza, Nora, tra il morire sul ciglio di una strada ed essere investito da un’auto. Nella tua prima vita Voltaire ha vissuto più a lungo che in qualsiasi altra vita, a eccezione di quella che hai appena sperimentato, nella quale è morto soltanto tre ore fa. Sebbene i suoi primi anni siano stati molto duri, quello vissuto con te invece è stato il più bello di tutti. Voltaire ha avuto vite molto peggiori, credimi».

«Ma se fino a un attimo fa non conosceva neanche il suo nome. Adesso sa persino che soffriva di cardiomiopatia-qualcosa?».

«Conoscevo il suo nome. E certamente non da adesso. È successo nello stesso identico momento, controlla l’ora».

«Perché mi ha mentito?».

«Non ho mentito. Ti ho chiesto come si chiamava il tuo gatto. Non ho mai affermato di non conoscere il nome del tuo gatto. Capisci la differenza? Volevo semplicemente che fossi tu a dire il suo nome, per spingerti a provare qualcosa».

Nora si sentiva tutta accaldata per l’agitazione. «È ancora peggio! Mi ha mandata in quella vita sapendo che Volts sarebbe morto. E Volts eramorto. Quindi, non è cambiato niente».

Gli occhi di Mrs Elm ripresero a brillare. «Eccetto te».

«Cosa intende dire?».

«Che non ti consideri più una cattiva padrona. Ti sei occupata di lui nel migliore dei modi. Lui ti amava tanto quanto tu amavi lui, e forse non voleva che assistessi alla sua morte. I gatti lo sanno. Capiscono quando il loro tempo sta per scadere. Era uscito perché stava per morire, e lo sapeva».

Nora cercò di venire a patti con quello che le aveva detto Mrs Elm. A ripensarci, non aveva trovato nessun segno visibile di ferite sul corpo del gatto. Era semplicemente giunta alla stessa conclusione a cui era giunto Ash. Che un gatto morto sul ciglio della strada probabilmente era stato investito. E se un chirurgo era stato indotto a pensarlo, perché non avrebbe dovuto farlo una profana come lei? Due più due uguale incidente stradale.

«Povero Volts» mormorò Nora tristemente.

Mrs Elm sorrise, come un’insegnante quando intuisce che gli allievi hanno capito la lezione.

«Ti amava, Nora. Ti sei presa cura di lui come avrebbe potuto fare chiunque altro. Vai all’ultima pagina del Libro dei rimpianti».

Nora lo intravide sul pavimento. Si inginocchiò accanto al volume.

«Non me la sento di riaprirlo».

«Non preoccuparti. Questa volta andrà meglio. Ma vai all’ultima pagina».

Sfogliò il libro fino alla fine, e lesse uno dei suoi ultimi rimpianti. La frase – «Non mi sono presa cura di Voltaire come avrei dovuto» svanì a poco a poco. Le lettere parvero dissolversi come sconosciuti inghiottiti dalla nebbia.

Nora richiuse il libro prima di provare la sensazione che stesse di nuovo per succedere qualcosa di brutto.

«Capisci cosa intendo? Talvolta i rimpianti non si basano minimamente su fatti reali. Talvolta i rimpianti sono solo…». Cercò il termine più appropriato, e alla fine lo trovò. «Un mucchio di stronzate».

Nora ripensò agli anni della scuola, provando a ricordare se Mrs Elm avesse mai pronunciato la parola “stronzate” prima di quel momento, e le parve proprio di no.

«Però continuo a non capire perché mi ha lasciata andare in quella vita se sapeva che Volts sarebbe morto comunque. Avrebbe potuto avvertirmi. Avrebbe semplicemente potuto dirmi che non ero una cattiva padrona. Perché non l’ha fatto?».

«Perché, Nora, qualche volta l’unico modo per imparare è vivere».

«È dura, imparare così».

«Siediti» le disse Mrs Elm. «Come si deve. Non sta bene rimanere lì in ginocchio per terra». Nora si voltò e vide una poltrona dietro di lei che non aveva notato prima. Una poltrona antica – color mogano e modello capitonné, probabilmente in stile edoardiano – con un leggio appoggiato su uno dei braccioli. «Concediti una pausa».

Nora si sedette.

Fissò l’orologio. Qualunque pausa si concedesse, era comunque sempre mezzanotte.

«La cosa continua a non piacermi. Una vita di tristezza è sufficiente. Che senso ha rischiarne altre?».

«Va bene» le disse Mrs Elm con un’alzata di spalle.

«Scusi?».

«Allora lasciamo perdere. Rimani qui nella biblioteca con tutte quelle vite che ti attendono sugli scaffali senza sceglierne nemmeno una».

Nora intuì che Mrs Elm stava giocando a qualche strano gioco. Ma decise di tenere il punto.

«D’accordo».

Così Nora rimase lì in piedi, mentre Mrs Elm riprendeva a leggere il suo libro.

Non le pareva giusto che Mrs Elm avesse la possibilità di leggere le vite degli altri restandone fuori.

Il tempo passava.

Anche se, tecnicamente, non era affatto così.

Nora avrebbe potuto rimanere in quella posizione per l’eternità senza provare fame, sete o stanchezza. Ma, a quanto pareva, poteva provare noia.

Mentre il tempo restava immobile la curiosità di Nora nei confronti delle vite intorno a lei cresceva. Era praticamente impossibile stare in una biblioteca senza sentire il desiderio di prendere un volume dallo scaffale.

«Perché non può semplicemente darmi una vita che vada bene per me?» le domandò all’improvviso.

«Perché questa biblioteca non funziona così».

Nora aveva un’altra domanda.

«Probabilmente nella maggior parte di queste vite adesso dormirei, non è così?».

«In molte, direi di sì».

«E quindi cosa succede?».

«Dormi. E poi ti risvegli in quella vita. Niente di cui preoccuparsi. Ma se la cosa ti rende nervosa, allora potresti provare una vita in cui il tempo è diverso».

«Cosa intende?».

«Non è mica notte in tutto il mondo, sai?».

«E cioè?».

«Esiste un numero infinito di universi possibili in cui vivere. Credi davvero che si trovino tutti esattamente sull’ora di Greenwich?».

«Certo che no» le rispose Nora. Sapeva di essere sul punto di cedere e scegliere un’altra vita. Pensò alle megattere. Pensò al messaggio che non aveva ricevuto risposta. «Avrei voluto essere andata in Australia con Izzy. Mi piacerebbe sperimentare quella vita».

«Ottima scelta».

«Davvero? Sarà una bella vita?».

«Oh, non ho detto questo. Semplicemente, credo che ti sentiresti meglio se facessi una scelta».

«E quindi sarà dura?».

«Non ho detto neanche questo».

In quel momento i ripiani si rimisero in moto, per poi arrestarsi dopo pochi secondi.

«Ah, sì, eccolo qui» esclamò Mrs Elm, estraendo un volume dal secondo ripiano in basso. Lo riconobbe all’istante, cosa che a Nora parve strana, considerando che era praticamente identico a tutti gli altri.

Glielo porse con un gesto affettuoso, quasi si trattasse di un regalo di compleanno.

«Per te. Sai cosa devi fare».

Nora esitò.

«E se fossi morta?».

«Scusa?».

«In un’altra vita, voglio dire. Ci saranno pure delle altre vite in cui sono morta prima di oggi».

Mrs Elm parve incuriosita. «Non era forse questo il tuo desiderio?».

«Beh, sì, ma…».

«Sei morta un infinito numero di volte prima di adesso, è vero. Per incidente d’auto, di overdose, annegamento, avvelenamento accidentale, soffocata da una mela, soffocata da un biscotto, soffocata da un hot dog vegetariano, soffocata da un hot dog non vegetariano, sei morta contraendo qualunque genere di malattia. Sei morta in tutti i modi possibili, in tutti i momenti possibili».

«Quindi potrei semplicemente aprire un libro e morire?».

«No. Non subito. Come è accaduto con Voltaire, le uniche vite che vengono messe a disposizione in questo posto sono, per l’appunto, vite. Ciò che intendo dire è che potresti morire in quella vita, ma non prima di esserci entrata, perché la Biblioteca di Mezzanotte non è fatta per i fantasmi. Non è una biblioteca di cadaveri. È una biblioteca di possibilità. E la morte è l’opposto della possibilità. Mi capisci?».

«Credo di sì».

Nora fissò il libro che Mrs Elm le aveva dato. Del colore verde dei pini. Liscio al tatto, con quello stesso inutile e frustrante titolo in rilievo scritto a grandi lettere sulla copertina, La mia vita.

Nora lo aprì e vide una pagina bianca, così sfogliò la seconda domandandosi cosa le sarebbe successo questa volta.

 

La piscina era un po’ più affollata del solito…

 

Ed ecco, subito si trovò lì.

FUOCO

Annaspò. Le sensazioni furono fulminee. Il rumore e l’acqua. Aveva la bocca aperta e si sentì soffocare. Il sapore e il bruciore dell’acqua salata in gola.

Tentò di toccare il fondo della piscina coi piedi ma era troppo profonda, e allora si mise subito a nuotare a rana.

Una piscina, ma di acqua salata. All’aperto, di fianco all’oceano. Pareva scavata nella roccia che si protendeva dalla costa verso il mare aperto. Riusciva a scorgere l’oceano appena oltre il bordo. Il sole sopra di lei. L’acqua era un po’ fredda, ma considerando il calore dell’aria, rappresentava un vero refrigerio.

Molti anni prima, a quattordici anni era stata la migliore nuotatrice della sua età di tutto il Bedfordshire.

Aveva vinto due gare nella sua categoria alle nazionali juniores. 400 metri stile libero. 200 metri stile libero. Suo padre la accompagnava alla piscina locale ogni giorno. Qualche volta prima e dopo la scuola. Ma poi – mentre suo fratello si scatenava a suonare i Nirvana con la chitarra – lei barattò le vasche con le scale, imparando da sola a eseguire non soltanto Chopin, ma anche classici come Let It Be e Rainy Days and Mondays. Prima che i Labyrinths esistessero anche solo nell’immaginazione di suo fratello, lei aveva cominciato a comporre musica.

Però non aveva mai smesso di amare il nuoto, si era soltanto allontanata da tutta quella pressione.

Raggiunse il bordo della piscina. Si fermò per guardarsi intorno. Scorse una spiaggia in lontananza, un po’ più in basso rispetto al punto in cui si trovava lei, che curvava in un semicerchio ad accogliere il mare che lambiva la sabbia. Al di là della spiaggia, verso l’interno, una distesa d’erba. Un parco, con palme sullo sfondo e piccole figurine di padroni che portavano a passeggio i loro cani.

Ancora più in là, case e bassi caseggiati, traffico sulla strada. Aveva visto delle fotografie di Byron Bay, ed era completamente diversa. Questo luogo, ovunque si trovasse, sembrava più costruito. Certamente un posto per andare a fare surf, ma anche con un’aria urbana.

Rivolse nuovamente l’attenzione alla piscina, e vide un uomo che le sorrideva mentre si sistemava gli occhialini. Lo conosceva? Avrebbe risposto al suo saluto in questa vita? Poiché non ne aveva idea, si limitò a rivolgergli un educato sorriso appena accennato. Si sentiva come una turista che deve districarsi con una valuta straniera, senza sapere quanto lasciare di mancia.

Poi una signora anziana con una cuffia in testa le sorrise a sua volta mentre scivolava sull’acqua nella sua direzione.

«’Giorno, Nora» le disse senza interrompere la bracciata.

Quel saluto la indusse a pensare di essere di casa.

«’Giorno» le fece eco Nora a sua volta.

Fissò l’oceano, in modo da evitare conversazioni che avrebbero potuto metterla in imbarazzo. Un gruppetto di surfisti mattinieri, come minuscoli puntini, nuotarono con le loro tavole incontro alle grandi onde blu zaffiro.

La sua vita australiana aveva avuto un inizio promettente. Guardò l’orologio. Un modello Casio di quelli economici, di un colore arancione brillante. Un orologio allegro suggeriva – o almeno così si augurava – una vita allegra. Erano appena passate le nove di mattina, in questo posto. Accanto al quadrante, un cinturino da cui pendeva una piccola chiave.

Quindi era quello il suo rituale mattutino. In una piscina all’aperto di fianco a una spiaggia. Si domandò se fosse sola. Scrutò attentamente ogni angolo della piscina nella speranza di scorgere Izzy, ma di lei non c’era traccia.

Nuotò ancora un po’.

Del nuoto, una volta aveva amato quella sensazione, come di sparire. Dentro l’acqua, la sua concentrazione era stata così assoluta da non riuscire a pensare ad altro. Le preoccupazioni per la scuola o per quello che succedeva a casa, svanite. L’arte del nuoto – come qualsiasi altra arte, pensò – aveva a che fare con la purezza. Più ti concentri sulla tua attività, meno lo sei su qualunque altra cosa. In un certo senso smetti di essere te stessa e diventi ciò che stai facendo.

Non le fu facile però mantenere la concentrazione quando si accorse che le spalle e il petto le dolevano. Capì di aver nuotato a lungo e che probabilmente era arrivato il momento di uscire dall’acqua. Vide un’insegna. Piscina Bronte Beach. Ricordò vagamente che Dan, che aveva trascorso il suo anno sabbatico in Australia, le aveva parlato di questo posto. Il nome le era rimasto impresso – Bronte Beach – perché era facile da ricordare. Jane Eyre su una tavola da surf.

Questo però confermava i suoi dubbi.

Bronte Beach si trovava a Sydney. Di sicuro non a Byron Bay.

Poteva significare due cose. O che Izzy, in questa vita, non viveva a Byron Bay. O che Nora non stava con Izzy.

Notò la pelle abbronzata del suo corpo, di un uniforme color caramello.

Ovviamente il problema era che non sapeva dove fossero i suoi vestiti. Poi si ricordò della chiavetta appesa al cinturino dell’orologio.

57. Il suo armadietto era il numero 57. Trovò gli spogliatoi e aprì lo stipetto tozzo e quadrato. Capì subito che, come per gli orologi, il suo gusto in materia di vestiti in questa vita era decisamente esuberante. Una maglietta con un ananas disegnato. Un’intera cornucopia di ananas. Un paio di pantaloncini di jeans fucsia. E delle scarpette di tela a quadretti.

“Ma io chi sono?” si domandò. “Una presentatrice di programmi per bambini?”.

Crema solare. Burro cacao color ibisco. Non c’era traccia di altri prodotti per il trucco.

Mentre si infilava la maglietta notò un paio di segni sul braccio. Cicatrici. Per un istante, si domandò se quei segni fossero autoinflitti. Vide anche un tatuaggio appena sotto la spalla. Una fenice e delle fiamme. Un tatuaggio orribile. In questa vita aveva un gusto discutibile, non c’è che dire. Ma da quando in qua il buon gusto era direttamente proporzionale alla felicità.

Si vestì, poi prese il cellulare dalla tasca dei pantaloncini.

Un modello più vecchio di quello che aveva nella sua-vita-da-donna-sposata-che-viveva-in-un-pub. Per fortuna bastava l’impronta del pollice per sbloccarlo.

Uscì dallo spogliatoio e si incamminò lungo un sentiero che costeggiava la spiaggia. Era una bella giornata. Forse la vita era automaticamente più bella quando il sole brillava così fiducioso nel mese di aprile. Tutto appariva più netto, variopinto e vivo di quanto non accadesse in Inghilterra.

Vide un pappagallo – un’ara color blu del cielo e giallo banana – appollaiato sullo schienale di una panchina, mentre una coppia di turisti lo fotografava. Un ciclista con l’aria da surfista le passò accanto tenendo in mano uno smoothie all’arancia, e sorridendo le augurò buona giornata.

Senza alcun dubbio non si trovava a Bedford.

Nora si accorse di un mutamento sul suo viso. Stava – ma era proprio vero? – sorridendo. Spontaneamente, e non perché qualcuno si aspettava che lo facesse.

Poi notò un graffito su un muro basso che recitava IL MONDO VA A FUOCO, e poi un altro con la scritta UN UNICO MONDO – UN’UNICA POSSIBILITÀ, e il suo sorriso svanì. Dopotutto, una vita diversa non significava un pianeta diverso.

Non aveva la più pallida idea di dove vivesse o cosa facesse o dove avrebbe dovuto andare dopo la piscina, ma c’era qualcosa di liberatorio in tutto questo. Esistere senza che nessuno, neanche tu, abbia delle aspettative nei tuoi confronti. Mentre camminava googlò il suo nome e aggiunse “Sydney” per vedere se saltasse fuori qualcosa.

Prima di riuscire a controllare i risultati alzò lo sguardo e vide un uomo che veniva verso di lei, sorridendo. Un uomo di bassa statura, abbronzato, con lo sguardo gentile e lunghi capelli radi raccolti in una coda di cavallo morbida, e una camicia abbottonata storta.

«Ciao, Nora».

«Ciao» esclamò, cercando di non apparire troppo incerta.

«A che ora inizi oggi?».

Come avrebbe potuto rispondere a quella domanda? «Ah. Già. Merda. Me se sono completamente dimenticata».

Lui scoppiò a ridere, una risatina complice, come se dimenticare le cose fosse un suo tratto caratteristico.

«L’ho letto mentre davo un’occhiata ai turni. Mi pare che tu sia alle undici».

«Alle undici di mattina?».

«Di mattina?». Sguardo Gentile rise di nuovo. «Cosa ti sei fumata? Ne voglio un po’ anch’io».

«Ah. No. Niente» rispose impettita. «Non ho fumato niente. Ho solo saltato la colazione».

«Ok, ci vediamo questo pomeriggio…».

«Sì. Al solito… posto. Dov’è che si trova?».

Lui rise, facendo un’espressione corrucciata, e riprese a camminare. Forse lavorava su una di quelle barche per turisti per l’avvistamento delle balene che operavano al largo di Sydney. Forse Izzy lavorava con lei.

Nora non aveva la minima idea di dove lei (o loro) vivessero, su Google non aveva trovato niente, ma allontanarsi dall’oceano le parve la direzione giusta da prendere. Forse abitava in zona. Forse era venuta a piedi. Forse una di quelle bici col lucchetto fuori del bar della piscina apparteneva a lei. Rovistò nel minuscolo portafoglio a scatto e frugò nelle tasche alla ricerca di una chiave, ma trovò soltanto quella di casa. Niente chiavi della macchina, niente chiavi della bici. Quindi la scelta era a piedi o in pullman. La chiave di casa non rivelava nessuna informazione, così andò a sedersi su una panchina, col sole che le picchiava forte sulla nuca mentre controllava i messaggi.

C’erano nomi di persone che non conosceva.

Amy. Rodhri. Bela. Lucy. Kemala. Luke. Lucy M.

Chi sono queste persone?

E un contatto piuttosto inutile che recitava, laconicamente: «Lavoro». Poi un unico SMS:

Ma dove sei?

Un nome però l’aveva riconosciuto.

Dan.

Provò un tuffo al cuore mentre leggeva il suo ultimo messaggio.

 

Hey Nor. Spero che l’Australia si stia prendendo cura di te. Lo so che suonerà sdolcinato o anche un po’ inquietante, ma ho deciso di non tenermi tutto dentro e di dirtelo. L’altra notte ho sognato il nostro pub. È stato un sogno bellissimo. Eravamo così felici! A ogni modo, dimentica tutte queste stramberie, il punto è che volevo dirti una cosa: sai dove andrò a maggio? In AUSTRALIA. Per la prima volta dopo dieci anni. Ho un lavoro. Alla MCA. Sarebbe fantastico vedersi, anche soltanto per un caffè, se sarai ancora da quelle parti. D X

 

Era tutto talmente assurdo che le venne quasi da ridere. E invece ebbe un attacco di tosse (forse in questa vita non era poi così in forma, a ben pensarci). Si domandò quanti Dan ci fossero nel mondo, che sognavano cose che poi finivano per detestare una volta ottenute. E quanti di loro costringevano gli altri dentro i confini della loro deludente idea di felicità?

Instagram pareva essere l’unico social media che usava, e sembrava non facesse altro che postare immagini di poesie.

Si soffermò su una di queste:

 

FUOCO

Ogni parte di lei

Che mutò

Che fu scrostata via

Dalle risate nel cortile della scuola

O i consigli degli adulti

Sparita tanto tempo fa –

Insieme al dolore per gli amici

Scomparsi ormai.

Raccolse quei frammenti dal pavimento.

Simili a trucioli di legno.

E li rese fiamma.

Li rese FUOCO.

Ed essi arsero.

Luce così brillante da essere vista in ogni dove.

 

Un po’ angosciante, ma – dopotutto – era soltanto una poesia. Controllando le email, ne trovò una che aveva scritto a Charlotte – la flautista di un gruppo di musica celtica con un innato senso dell’umorismo, che era stata la sua unica amica ai tempi dello String Theory, prima che si trasferisse di nuovo in Scozia.

 

Ciao Charl!

Spero che la tua vita proceda a meraviglia.

Felice che la festa di compleanno sia andata bene. Mi spiace di non essere riuscita a venire. Qui tutto bene nell’assolata Sydney. Finalmente nel nuovo appartamento. È vicinissimo a Bronte Beach (stupenda). Un mucchio di bar nei dintorni e tante cose belle da vedere. Ho anche un nuovo lavoro.

La mattina nuoto in una piscina di acqua salata, e la sera bevo un bicchiere di vino australiano mentre mi godo il sole. La vita è fantastica!

Indirizzo:

2/29 Darling Street

Bronte

NSW 2024

AUSTRALIA

Nora

X

 

C’era qualcosa che non funzionava. Quel finto tono entusiasta, vago e distante, come se stesse scrivendo a una zia che non sentiva da tempo. E quella frase Un mucchio di bar nei dintorni e tantecose belle da vedere, che suonava come una recensione di Trip Advisor. Non si sarebbe mai rivolta a Charlotte – in realtà non si sarebbe mai rivolta a nessuno – in quel modo.

Nessun riferimento a Izzy. Finalmente nel nuovo appartamento. Era un noi o un io? Charlotte conosceva Izzy. Perché non le aveva parlato di lei?

L’avrebbe scoperto di lì a poco. E in effetti venti minuti dopo si trovava nell’entrata del suo appartamento, a fissare quattro sacchi di spazzatura in attesa di essere portati fuori. Il soggiorno era piccolo e aveva un’aria deprimente. Il divano era vecchio e malandato. Si sentiva un leggero odore di muffa.

Appeso al muro c’era un poster del videogioco Angel e una sigaretta elettronica appoggiata sul tavolino, con sopra un adesivo raffigurante una foglia di marijuana. Una donna fissava uno schermo e sparava in testa a degli zombi.

I capelli della donna erano corti e tinti di blu e per un istante Nora credette potesse essere Izzy.

«Ciao» la salutò Nora.

La donna si voltò. Non era Izzy. Aveva lo sguardo assonnato e un’espressione assente, come se gli zombi che stava massacrando avessero infettato un po’ anche lei. Probabilmente era una persona assolutamente rispettabile, ma Nora non l’aveva mai vista prima. Sorrise.

«Ehi! Come sta venendo la tua nuova poesia?».

«Ah, sì. Sta venendo benissimo. Grazie».

Nora attraversò l’appartamento in un leggero stato confusionale. Aprì casualmente una porta e scoprì che era un bagno. Non ne aveva bisogno, ma invece aveva bisogno di un momento per riflettere. Richiuse la porta dietro di sé, si lavò le mani e rimase a fissare l’acqua che spariva nel buco del lavandino formando delle spirali che si muovevano in senso antiorario.

Guardò la doccia. La tenda di un giallo spento era sporca e aveva l’aria di una di quelle che si trovano nelle case per studenti. Ecco cosa le ricordava quel posto. Una casa per studenti. Aveva trentacinque anni e, in questa vita, viveva come una studentessa. Vide degli antidepressivi – fluoxetina – vicino al lavandino. Li prese. C’era scritto Ricetta per N. Seed sopra l’etichetta. Abbassò lo sguardo sul braccio e notò nuovamente le cicatrici. Era una sensazione strana, osservare come il proprio corpo offrisse degli indizi per decifrare un enigma.

C’era una rivista sul pavimento accanto al cestino dell’immondizia, una copia del National Geographic. Quella con un buco nero in copertina che aveva letto nell’altra vita, dall’altra parte del mondo, appena il giorno prima. Sentì che la rivista apparteneva a lei, considerando che le era sempre piaciuto leggere il National Geographic, e che – persino recentemente – di tanto in tanto ne acquistava una copia di getto, perché la versione online non rendeva giustizia alle fotografie.

Le tornò in mente quando aveva undici anni e guardava le foto delle Svalbard, l’arcipelago norvegese nell’Artide, nel numero che era appartenuto a suo padre. Aveva un’aria così immensa e desolata e potente, e lei si domandava cos’avrebbe provato a vivere lì, come quegli scienziati-esploratori dell’articolo che trascorrevano l’estate a occuparsi di qualche sorta di ricerca geologica. Aveva ritagliato le fotografie e le aveva appese nella bacheca in camera sua. Per molti anni, a scuola, si era applicata con dedizione allo studio della scienza e della geografia perché voleva diventare come quei ricercatori, e passare le estati tra le montagne ghiacciate e i fiordi, mentre le pulcinelle di mare volteggiavano sopra la sua testa.

Dopo la morte di suo padre però, e dopo aver letto Al di là del bene e del male di Nietzsche, aveva deciso che a) la filosofia le sembrava l’unica materia all’altezza della sua improvvisa profondità spirituale e b) comunque voleva diventare una rockstar, più che una scienziata.

 

Uscita dal bagno, si avvicinò alla sua misteriosa coinquilina.

Si sedette sul divano e rimase lì qualche istante, a osservarla.

L’avatar della donna si abbatté per un colpo alla nuca.

«Toglietevi dai coglioni, brutti zombi teste di cazzo» ringhiò allegramente la donna rivolta allo schermo.

Prese la sigaretta elettronica. Nora si domandò come avesse conosciuto quella donna. Immaginò che condividessero l’appartamento.

«Ho riflettuto su quello che hai detto».

«Che cosa ho detto?» domandò Nora.

«A proposito dei gatti. Sai, che volevi prenderti cura di quel gatto».

«Oh sì, certo, mi ricordo».

«Una vera stronzata, amica mia».

«In che senso?».

«I gatti».

«Cos’hanno i gatti che non va?».

«Un parassita. Toxo-qualcosa».

Nora lo sapeva. Lo sapeva da quando era una ragazzina, e lavorava come volontaria al Bedford Animal Rescue Centre. «Toxoplasmosi».

«Giusto! Insomma, me ne stavo lì a sentire questo podcast… che parlava della teoria di un gruppo internazionale di miliardari che hanno infettato i gatti con ’sta roba per conquistare il mondo intero annientando il cervello degli esseri umani. Dài, pensaci. Ci sono gatti dappertutto. Stavo parlando a Jared proprio di questa cosa e Jared mi ha detto, “Jojo, cosa ti sei fumata?”, e io “La roba che mi hai dato tu”, e lui “Sì sì, lo so”, e poi mi ha raccontato delle cavallette».

«Le cavallette?».

«Proprio così. Hai mai sentito parlare delle cavallette?» chiese Jojo.

«Cosa fanno?».

«Si suicidano. Per colpa di questo verme parassita che cresce dentro di loro fino a diventare una creatura acquatica. Poi a mano a mano si impossessa delle funzioni del cervello, così la cavalletta pensa “Ehi, mi piace l’acqua”, e si tuffa a bomba e muore. Capita spessissimo. Vai su Google. Digita “cavallette suicide”. A ogni modo, il punto è che le élite ci uccidono usando i gatti, per cui dovremmo tenercene alla larga».

Nora non riusciva a smettere di pensare a quanto questa vita fosse diversa da quella che si era immaginata. Lei e Izzy su una barca vicino a Byron Bay, ammirate di fronte alla magnificenza delle megattere, e invece se ne stava lì a Sydney in un minuscolo appartamento che odorava di marijuana con una teorica della cospirazione come coinquilina, che non le permetteva neanche di avvicinarsi a un gatto.

«Cos’è successo a Izzy?».

Nora si rese conto di aver formulato la domanda a voce alta.

Jojo parve confusa. «Izzy? La tua vecchia amica Izzy?».

«Sì».

«Quella che è morta?».

Le parole le erano uscite di bocca troppo in fretta per riuscire a comprenderne il significato.

«Ehm, cosa?».

«La ragazza dell’incidente in macchina?».

«Che cosa?».

Jojo aveva un’aria perplessa, mentre riccioli di fumo fluttuavano davanti al suo volto. «Ti senti bene, Nora?». Le offrì la canna. «Vuoi fare un tiro?».

«No, sto bene, grazie».

Jojo ridacchiò. «Sarebbe una novità».

Nora afferrò il cellulare. Si connesse a Internet. Digitò Isabel Hirsh nel motore di ricerca. Poi cliccò “notizie”.

Ed eccola lì. Un titolo di giornale. Sopra la foto di Izzy con il volto abbronzato, che sorrideva.

 

CITTADINA BRITANNICA PERDE LA VITA

IN UN INCIDENTE STRADALE NEL NSW

 

La notte scorsa una donna di 33 anni è rimasta uccisa, e altre tre persone sono state trasportate nell’ospedale che si trova a sud di Coffs Harbour. La Toyota Corolla della donna si è scontrata contro un’auto che proveniva dalla direzione opposta sulla Pacific Highway.

La conducente, una cittadina britannica identificata come Isabel Hirsh, è morta sul luogo dell’incidente poco prima delle 21. Sulla Toyota non erano presenti altri passeggeri.

Secondo la sua coinquilina Nora Seed, Isabel era partita da Brisbane per rientrare a Byron Bay e prendere parte alla sua festa di compleanno. Isabel aveva appena cominciato a lavorare per l’agenzia Byron Bay Whale Watching Tour.

«Sono distrutta» ha detto Nora. «Siamo arrivate insieme in Australia soltanto un mese fa e Izzy aveva deciso di rimanere qui il più a lungo possibile. Era una tale forza della natura che mi pare impossibile immaginare il mondo senza di lei. Era così felice del suo nuovo lavoro. È tremendamente triste e difficile da accettare».

Tutti i passeggeri dell’altro veicolo sono rimasti feriti, il guidatore – Chris Dale – ha dovuto essere trasportato d’urgenza con l’elisoccorso all’ospedale di Baringa.

La polizia del Nuovo Galles del Sud chiede a chiunque sia stato testimone dell’incidente di farsi avanti e collaborare alle indagini.

 

«Oh, mio Dio» sussurrò rivolta a se stessa, sentendosi venir meno. «Oh, Izzy».

Sapeva che Izzy non era morta in tutte le sue vite. O persino nella maggior parte di esse. Ma in questa era tutto così reale, così come era reale il dolore che provava. Il dolore le era familiare ed era spaventoso e la teneva incatenata col suo senso di colpa.

Prima di riuscire a elaborare attentamente tutte le informazioni, squillò il cellulare. Comparve “Lavoro”.

Un uomo. Che parlava con voce strascicata. «Dove sei?».

«Mi scusi?».

«Avresti dovuto essere qui mezz’ora fa».

«Qui dove?».

«All’arrivo del traghetto. Vendi i biglietti. È il numero giusto, no? Parlo con Nora Seed?».

«Con una di loro» sospirò Nora mentre svaniva dolcemente.

ACQUARIO

La bibliotecaria dallo sguardo sagace stava nuovamente di fronte alla scacchiera, e alzò a malapena il capo quando Nora fece ritorno.

«È stato tremendo».

Mrs Elm sorrise con aria ironica. «Questo ti dimostra qualcosa, no?».

«Che cosa mi dimostra?».

«Beh, che si possono operare delle scelte, ma non decidere i risultati. Però io rimango della mia idea. È stata una buona scelta. Solo con un esito diverso da quello che ti saresti augurata».

Nora scrutò il volto di Mrs Elm. Forse la cosa la divertiva?

«Perché sono rimasta?» domandò Nora. «Perché non sono semplicemente tornata a casa, dopo la sua morte?».

Mrs Elm si strinse nelle spalle. «Sei rimasta intrappolata lì. Soffrivi. Eri depressa. Sai bene cosa significa la depressione».

Nora capiva. Ripensò a uno studio che aveva letto da qualche parte, sui pesci. I pesci sono più simili agli uomini di quanto non pensi la maggior parte della gente.

I pesci soffrono di depressione. Sono stati fatti dei test con i pesci zebra. Hanno preso un acquario e su un lato hanno disegnato con un pennarello una linea orizzontale più o meno a metà altezza. I pesci depressi stavano al di sotto della linea. Ma provate a dargli un po’ di Prozac, ed eccoli schizzare verso l’alto, sfrecciando a destra e a manca come se niente fosse.

I pesci si deprimono per mancanza di stimoli. Mancanza di tutto. Si deprimono quando se ne stanno lì, a nuotare in un acquario uguale a tutti gli altri.

Forse l’Australia per lei aveva rappresentato un acquario vuoto, dopo che Izzy era morta. Forse Nora non aveva nessun interesse a nuotare al di sopra della linea. E forse neppure il Prozac – o la fluoxetina – bastavano per aiutarla a risollevarsi. Così era rimasta lì in quell’appartamento, in compagnia di Jojo, e non si sarebbe mossa fino a quando non l’avessero costretta a lasciare il paese.

Forse persino il suicidio sarebbe stato un gesto eccessivamente attivo. Forse in qualche vita si galleggia qua e là senza aspettarsi nulla e non si prova neppure a cambiare. Forse capita così nella maggior parte delle vite.

«Sì. È vero» esclamò Nora ad alta voce. «Forse sono rimasta intrappolata. Forse lo sono in qualunque vita. Intendo dire che forse, semplicemente, io sono fatta così. Una stella marina, qualunque vita viva, è sempre una stella marina. Non esiste una vita in cui una stella marina diventa un professore di ingegneria aerospaziale. E forse non esiste una vita in cui io non rimanga intrappolata».

«Credo che tu abbia torto».

«Forza, allora. Vorrei provare una vita in cui non rimango intrappolata. Proviamo. Che vita sarebbe?».

«Non dovresti essere tu a dirlo a me?».

Mrs Elm mosse la regina per mangiare un pedone, poi fece ruotare la scacchiera. «Mi spiace, ma io sono soltanto una bibliotecaria».

«Le bibliotecarie possiedono la conoscenza. Indirizzano verso i libri giusti. I mondi giusti. Trovano i luoghi migliori. Come motori di ricerca dell’anima».

«Esatto. Ma va da sé che ognuno deve sapere ciò che gli piace. Che cosa digitare in questa barra di ricerca metaforica. E qualche volta è necessario fare qualche prova, prima che le cose divengano chiare».

«Non ne ho la forza. Non credo di potercela fare».

«L’unico modo per imparare è vivere».

«Già. Non fa altro che ripeterlo».

Nora espirò profondamente. Era interessante constatare di riuscire a respirare in quella biblioteca. Di percepire il proprio corpo nella sua interezza. Come se fosse normale. Poiché quel posto non era decisamente normale. Nora non si trovava lì fisicamente. Non poteva essere lì. E tuttavia, a tutti gli effetti, lei era davvero – in qualche modo – presente. Coi piedi appoggiati sul pavimento, come se esistesse ancora una forza di gravità.

«D’accordo» proseguì. «Desidero una vita in cui sono una persona di successo».

Mrs Elm emise un verso di disapprovazione. «Per essere una che ha letto così tanti libri, non sei molto accurata nella scelta delle parole».

«Chiedo scusa».

«Successo. Cosa significa per te? Denaro?».

«No. Beh, forse. Ma non sarebbe questo a definirlo con esattezza».

«E allora il successo che cos’è secondo te?».

Nora non aveva la più pallida idea di cosa fosse il successo. Si considerava un fallimento da tanto di quel tempo.

Mrs Elm sorrise, pazientemente. «Vorresti consultare ancora una volta Il libro dei rimpianti? Vorresti ripensare a quelle decisioni sbagliate che ti hanno distolta da tutto ciò che rappresenta il successo?».

Nora scosse velocemente la testa, come un cane che si scrolli l’acqua di dosso. Non aveva nessuna voglia di essere messa di fronte a quella lunga, interminabile lista di errori e strade sbagliate. Era già abbastanza depressa. E inoltre, i suoi rimpianti li conosceva già. I rimpianti non ti abbandonano mai. Non erano punture di zanzara. Possono prudere per sempre.

«No, non è così» le disse Mrs Elm leggendole nel pensiero. «Non rimpiangi il modo in cui ti sei presa cura del tuo gatto. E neanche di essere andata in Australia con Izzy».

Nora annuì. Mrs Elm aveva colto nel segno.

Ripensò a quando aveva nuotato nella piscina di Bronte Beach. Che bello era stato provare quella sensazione, così stranamente familiare.

«Ti hanno incoraggiata a nuotare fin da quando eri molto piccola» le disse Mrs Elm.

«Già».

«Tuo padre era felice di accompagnarti in piscina».

«Una delle poche cose che lo rendevano felice» rifletté Nora.

Aveva sempre associato il nuoto all’approvazione di suo padre, e aveva sempre amato quella totale assenza di parole mentre era nell’acqua, perché era l’opposto delle urla che si lanciavano addosso i suoi genitori.

«Perché hai smesso?».

«Appena ho cominciato a vincere le gare hanno cominciato a notarmi, e io non volevo essere notata. Non soltanto notata, ma notata con addosso un costume da bagno proprio in quel momento della vita in cui si è ossessionati dal proprio corpo. Qualcuno si era lasciato sfuggire che avevo spalle da ragazzo. Era un’osservazione stupida, ma ce ne furono tante altre, e a quell’età te le senti tutte addosso. Da ragazzina avrei desiderato essere invisibile. La gente mi aveva soprannominato “Il pesce”. Non lo intendevano come un complimento. Ero timida. È stata questa una delle ragioni che mi hanno fatta preferire la biblioteca allo sport. Sembra una cosa da poco, ma mi ha aiutata molto avere quel posto».

«Mai sottovalutare l’importanza delle piccole cose» le disse Mrs Elm. «Non dimenticarlo mai».

Nora andò indietro nel tempo. La combinazione adolescenziale di timidezza e visibilità aveva rappresentato una miscela problematica, ma non aveva mai sofferto di veri e propri atti di bullismo, forse perché tutti conoscevano suo fratello. Joe, che se anche non era propriamente un duro, era sempre stato considerato un ragazzo fico e abbastanza popolare da rendere immuni i suoi consanguinei dalla tirannia del cortile della scuola.

Nora aveva vinto gare nelle competizioni sportive locali e poi in quelle nazionali, ma quando aveva compiuto quindici anni era diventato tutto troppo per lei. Gli allenamenti quotidiani, vasca dopo vasca dopo vasca.

«Ho dovuto ritirarmi».

Mrs Elm annuì. «E così il legame che avevi costruito con tuo padre si logorò e si spezzò quasi del tutto».

«È andata proprio così».

Le tornò in mente l’espressione sul volto di suo padre mentre stavano seduti nell’auto fuori dal centro ricreativo di Bedford, una domenica mattina scalfita da una pioggerella leggera, mentre gli comunicava che non voleva più partecipare a nessuna gara. Quell’espressione di delusione e profonda frustrazione.

«Ma potresti avere successo nella vita» le aveva detto. «Non diventerai mai una pop star, questo invece è qualcosa di reale. Sta proprio qui di fronte a te. Se continui ad allenarti riuscirai ad arrivare alle Olimpiadi. Ne sono certo».

Si era adirata con lui per aver pronunciato quelle parole. Come se esistesse solo un minuscolo sentiero per raggiungere la felicità, ed era il sentiero che lui aveva deciso per lei. Come se le sue azioni fossero automaticamente sbagliate. Ciò che però lei all’età di quindici anni non aveva compreso appieno era quanto potessero far male i rimpianti, quanto avesse sofferto suo padre per essere andato così vicino a realizzare un sogno, tanto da poterlo quasi toccare.

Il padre di Nora, senza dubbio, era stato un uomo difficile.

Oltre a essere estremamente critico nei confronti di tutto quello che lei faceva, e tutto ciò che desiderava e tutto ciò in cui credeva, a meno che non fosse collegato con il nuoto, Nora aveva anche la sensazione che il solo fatto di trovarsi in sua presenza equivalesse a commettere qualche crimine invisibile. Dal momento esatto in cui una ferita ai legamenti aveva compromesso la sua carriera rugbistica, il padre aveva coltivato la precisa convinzione che l’universo intero congiurasse contro di lui. E Nora era, o almeno lei sentiva, che suo padre la considerava un tassello di quello stesso piano universale. Da quell’istante nel parcheggio aveva capito che per lui lei era semplicemente un’appendice del suo dolore al ginocchio sinistro. Una ferita ambulante.

Ma forse suo padre aveva sempre saputo che sarebbe successo, prima o poi. Forse poteva prevedere la modalità con cui un rimpianto ne trascina con sé un altro, finché improvvisamente lei non fu altro che questo. Un intero libro di rimpianti.

«D’accordo, Mrs Elm. Voglio sapere che cosa è successo nella vita in cui ho fatto ciò che mio padre desiderava. Quella in cui ce l’ho messa tutta per allenarmi. Quella in cui non mi sono mai lamentata di svegliarmi alle cinque di mattina e finire alle nove di sera. Quella in cui nuotavo tutti i giorni e non ho mai pensato di ritirarmi. Quella in cui non mi sono fatta distrarre dalla musica o dalla scrittura di romanzi mai portati a termine. Quella in cui ho sacrificato ogni cosa sull’altare dello stile libero. Quella in cui non mi sono mai arresa. Quella in cui ho fatto esattamente quello che dovevo fare per arrivare alle Olimpiadi. Mi riporti dove sono in quella vita».

Per un attimo, parve che Mrs Elm non avesse fatto minimamente caso al breve comizio di Nora, poiché continuò ad aggrottare la fronte con lo sguardo fisso sulla scacchiera, cercando di escogitare una strategia per vincere contro se stessa.

«La torre è il mio pezzo preferito» esclamò. «Quello da cui non pensi di doverti guardare. È molto semplice. Tieni sotto controllo la regina, e i cavalli, e l’alfiere, perché sono i più infidi. Ma alla fine è la torre che ti mangia. Le cose semplici non sono mai come sembrano».

Nora capì che probabilmente Mrs Elm non si stava riferendo soltanto agli scacchi. Ma gli scaffali si erano rimessi in moto. Veloci come un treno.

«La vita che hai chiesto» spiegò Mrs Elm, «è un po’ più distante del sogno del pub e dell’avventura australiana. Quelle vite erano più vicine. Questa comporta molte scelte diverse, che vanno indietro nel tempo. E quindi anche il libro è un po’ più distante, vedi?».

«Vedo».

«Le biblioteche devono avere un loro ordine».

I libri rallentarono. «Ah, eccolo qui».

Questa volta Mrs Elm non si alzò. Si limitò a sollevare la mano sinistra e un volume volteggiò verso di lei.

«Ma come ha fatto?».

«Non ne ho idea. Ecco la vita che hai chiesto. Adesso vai».

Nora prese il libro. Leggero, colorato, verde lime. Sfogliò la prima pagina. E questa volta si rese conto di non provare assolutamente nulla.



L’ULTIMO MESSAGGIO POSTATO DA NORA
PRIMA DI RITROVARSI TRA LA VITA E LA MORTE

Mi manca il mio gatto. Sono stanca.

UNA VITA DI SUCCESSO

Aveva dormito.
Un vuoto profondo, senza sogni, e ora – grazie al trillo di una sveglia – si era alzata, senza sapere dove si trovasse.

Il telefono le disse che erano le 6.30 di mattina. Intravide un interruttore a lato del letto, illuminato dal barlume dello schermo. Quando lo premette si rese conto di trovarsi in una stanza d’albergo. Era alquanto lussuosa, di quel lusso un po’ asettico e triste degli alberghi usati per le convention di lavoro.

Incorniciata sul muro c’era un’elegante rappresentazione in stile-semi-astratto-finto-Cezanne di una mela – o forse era una pera?

Accanto al letto, una bottiglia d’acqua minerale in vetro di forma cilindrica mezza vuota. E una confezione intatta di frollini al burro. Dei fogli stampati e pinzati. Un programma di qualche tipo.

Gli diede un’occhiata.

 

PROGRAMMA PER NORA SEED OBE, RELATRICE,

CONFERENZA PRIMAVERILE

LA VIA PER RAGGIUNGERE IL SUCCESSO, GULLIVER RESEARCH

 

8.45 Incontro con Priya Navuluri (Gulliver Research) e Rory Longfor (Celebrity Speakers) e J nella hall dell’Intercontinental Hotel

9.00 Soundcheck

9.05 Scaletta verifica tecnica

9.30 Nora è attesa nell’area VIP oppure partecipa alla conferenza del primo relatore nella sala principale (JP Blythe, creatore dell’app MeTime e autore di La tua vita, alle tue condizioni)

10.15 Conferenza di Nora

10.45 Domande dal pubblico

11.00 Meet and greet

11.30 Conclusione

 

Nora Seed OBE. Ufficiale dell’Ordine dell’Impero britannico.

La via per raggiungere il successo.

Pertanto, esisteva una vita in cui lei aveva ottenuto successo. Era già qualcosa, no?

Si domandò chi fossero “J”, e le altre persone che avrebbe dovuto incontrare nella hall dell’albergo. Mise giù i fogli e scese dal letto. Aveva parecchio tempo a disposizione. Perché si svegliava alle sei e mezzo? Forse andava a nuotare ogni giorno. Avrebbe avuto senso. Pigiò un pulsante e le tende si aprirono con un leggero ronzio scoprendo uno scenario d’acqua e grattacieli e la cupola bianca dello stadio O2. Non aveva mai goduto di una simile vista da questa precisa angolazione. Londra. Canary Wharf. Venti piani più in alto.

Andò in bagno – piastrelle beige, una doccia spaziosa, soffici asciugamani bianchi – sentendosi meglio di come si sentiva di solito la mattina. Uno specchio sulla parete opposta occupava metà della stanza. Ebbe un sussulto quando vide la sua immagine riflessa. Poi scoppiò a ridere. Aveva un aspetto così ridicolmente sano. E forte. In questa vita il suo gusto per la biancheria da notte era pessimo (pigiama, a scacchi, senape e verde).

Il bagno era piuttosto grande. Grande abbastanza da potersi sdraiare a terra e fare le flessioni. Dieci di fila – senza mai appoggiare le ginocchia – e senza neanche farsi venire il fiatone.

Quindi passò ai plank laterali. In appoggio su una mano sola. Poi sull’altra, le dita ferme e distese. Infine si dedicò a qualche burpee.

Nessun problema.

Wow.

Si rimise in piedi dandosi una pacca sugli addominali duri come il marmo. Le venne in mente che nella vita precedente ansimava persino quando camminava per strada, tecnicamente il giorno prima.

Non si sentiva così in forma da quando era una ragazzina. A dire il vero, forse non si era maisentita così in forma come in quel momento. Sicuramente si sentiva più forte.

Digitando “Isabel Hirsch” su Facebook, scoprì che la sua migliore amica era viva e abitava sempre in Australia. Nora ne fu felice. Non le importava neanche che non fossero in contatto sui social, poiché era alquanto improbabile che in questa vita Nora avesse frequentato l’università di Bristol. E se anche l’avesse fatto, non avrebbero seguito gli stessi corsi. Era un po’ avvilente constatare che, benché questa Isabel Hirsh con ogni probabilità non avesse mai incontrato Nora Seed, continuava a fare la stessa cosa che faceva durante la prima vita di Nora.

Fece qualche ricerca anche su Dan. Sembrava (o almeno pareva) felicemente sposato con un’istruttrice di spinning, una certa Gina. “Gina Lord” (nata Sharpe). Si erano sposati in Sicilia.

Poi Nora googlò “Nora Seed”.

La sua pagina personale su Wikipedia (aveva una pagina su Wikipedia!) la informava che a tutti gli effetti aveva partecipato alle Olimpiadi. Due volte. E che la sua specialità era lo stile libero. Aveva vinto una medaglia d’oro negli 800 stile libero, con il tempo incredibile di 8 minuti e cinque secondi, e una medaglia d’argento nei 400.

Tutto questo era successo quando aveva ventidue anni. Aveva vinto un’altra medaglia d’argento a ventisei, nella staffetta 4x100. Era ancora più incredibile leggere che per un breve periodo aveva anche detenuto il record mondiale dei 400 metri stile libero ai campionati mondiali di nuoto. Poi si era ritirata dalle competizioni internazionali.

Si era ritirata all’età di ventotto anni.

A quanto pareva adesso lavorava alla BBC come commentatrice sportiva delle gare di nuoto, aveva partecipato a programmi televisivi come Questione di Sport, aveva scritto un’autobiografia dal titolo Affonda o Nuota, e occasionalmente faceva l’allenatrice in seconda per la nazionale inglese, continuando ad andare in piscina due ore al giorno.

Donava parecchio denaro in beneficenza – in particolare al centro per la cura dei tumori Marie Curie – e aveva organizzato una maratona di nuoto nelle acque adiacenti al Brighton Pier per raccogliere fondi per la Marine Conservation Society. Da quando si era ritirata dall’attività agonistica aveva percorso la Manica a nuoto due volte.

C’era anche un link a una sua conferenza TEDsul valore della tenacia nello sport, nell’allenamento, nella vita. Aveva avuto più di mezzo milione di visualizzazioni. Guardandolo, fu come se Nora stesse guardando un’altra persona. Quella donna era sicura di sé, padrona del palco, aveva uno splendido portamento, sorrideva in maniera naturale mentre parlava, e di volta in volta riusciva a provocare nel pubblico, al momento giusto, sorrisi e risate e applausi e cenni d’assenso.

Non riusciva a immaginare di poter essere quel genere di persona, così cercò di memorizzare ciò che faceva questa versione di Nora, per poi rendersi conto che non ci sarebbe mai riuscita.

«Le persone che possiedono una spiccata tenacia non sono diverse dalle altre» stava argomentando. «L’unica differenza è che hanno un obiettivo chiaro in testa e la determinazione per raggiungerlo. La tenacia è fondamentale per la concentrazione, in un mondo che offre mille occasioni di distrazione. È la capacità di mantenere il pensiero fisso sull’obiettivo quando la mente e il corpo sono al limite delle loro forze, la capacità di tenere giù la testa, di nuotare nella propria corsia senza guardarsi intorno, senza preoccuparsi di chi potrebbe superarti».

Ma chi diavolo era questa persona?

Mandò un po’ avanti il video, e questa Nora continuava a parlare con la sicurezza di una Giovanna d’Arco da manuale di self-help.

«Se il vostro obiettivo è diventare ciò che non siete, allora sarete destinati per sempre al fallimento. Aspirate a essere voi stessi. Aspirate ad apparire e ad agire e a pensare come voi stessi. Aspirate a essere la versione più vera di voi. Sostenetela. Amatela. Lavorate duramente. E non perdete tempo con chi si prende gioco di lei o la ridicolizza. La maggior parte dei pettegolezzi non è che invidia mascherata. Voi tenete giù la testa. Aggrappatevi alla vostra tenacia. Continuate a nuotare…».

«Continuate a nuotare» bofonchiò Nora, ripetendo le parole dell’altra se stessa, e domandandosi se l’hotel disponesse di una piscina.

Il video sparì e un istante dopo il cellulare prese a vibrare.

Apparve un nome. “Nadia”.

Non conosceva nessuna Nadia nella sua prima vita. Non aveva la minima idea se la vista di quel nome avrebbe procurato nella nuova versione di Nora un sentimento di allegra trepidazione o di profondo terrore.

C’era un solo modo per scoprirlo.

«Pronto?».

«Tesoro» le disse una voce che non riconobbe. Una voce amichevole ma non del tutto affettuosa. Con un accento. Russo, forse. «Spero che tu stia bene».

«Ciao Nadia. Grazie. Sì, sto bene. Sono in albergo. A prepararmi per la conferenza». Cercò di assumere un tono allegro.

«Oh, certo, la conferenza. Quindicimila sterline per un po’ di chiacchiere. Niente male».

Pazzesco. Ma si domandò anche come facesse Nadia – chiunque fosse questa Nadia – a saperlo.

«Eh sì».

«Ce l’ha detto Joe».

«Joe?».

«Sì, lui. Senti, ho bisogno di parlarti del compleanno di tuo padre».

«Che cosa?».

«So che sarebbe felice se passassi a trovarci».

All’improvviso sentì il suo corpo diventare freddo e debole, come se avesse visto un fantasma.

Ricordava il funerale di suo padre, lei abbracciata a suo fratello mentre piangevano l’uno sulla spalla dell’altro.

«Mio padre?».

Mio padre. Mio padre morto.

«È appena rientrato dal giardino. Vuoi salutarlo?».

Era così incredibile, così sconvolgente, così totalmente fuori sincrono rispetto al tono della sua voce. L’aveva detto in tono casuale, come se fosse del tutto normale.

«Che cosa?».

«Vuoi parlare con papà?».

Le ci volle un attimo. Si sentì improvvisamente disorientata.

«Io…».

Non riusciva quasi a proferire parola. O a respirare. Non sapeva cosa dire. Le sembrava tutto irreale. Era come viaggiare nel tempo. Come se avesse attraversato due decadi.

Era troppo tardi per reagire, perché subito dopo sentì Nadia che diceva «Eccolo…».

Nora stava quasi per riattaccare. Forse avrebbe dovuto. Ma non lo fece. Ora che sapeva di averne la possibilità, sentiva il bisogno di risentire la sua voce.

Prima le giunse il suo respiro.

E poi: «Nora, come stai?».

Soltanto questo. Una frase qualunque, occasionale, quotidiana. Era proprio lui. La sua voce forte che era sempre stata così secca e decisa. Un po’ più flebile, un po’ più debole forse. Una voce che aveva quindici anni più di quanti avrebbe dovuto averne.

«Papà» esclamò. La sua voce, un sussurro attonito. «Sei tu».

«È tutto a posto, Nora? Non senti bene? Vuoi che ci parliamo su FaceTime?».

FaceTime. Vedere il suo viso. No. Sarebbe stato troppo. Tutto questo era già troppo. La sola idea che potesse esistere una versione di suo padre in un’epoca in cui avevano inventato FaceTime. Suo padre apparteneva a un mondo fatto di telefoni fissi. Quando era morto, stava appena cominciando a prendere confidenza con concetti radicali come le email e gli SMS.

«No» rispose. «È colpa mia. Ero sovrappensiero. Ero solo un po’ distratta. Scusami. Come stai?».

«Bene. Abbiamo portato Sally dal veterinario ieri».

Suppose che Sally fosse un cane. I suoi genitori non avevano mai posseduto un cane, o nessun altro tipo di animale domestico. Nora aveva supplicato di avere un cane o un gatto quando era piccola, ma suo padre aveva sempre sostenuto che poi non si era più liberi di fare quello che si voleva.

«Cos’ha che non va?» domandò Nora, cercando di assumere un tono più naturale questa volta.

«Di nuovo le orecchie. Le è tornata la stessa infezione».

«Oh, certo» esclamò, come se conoscesse Sally e le sue orecchie problematiche. «Povera Sally. Io… ti voglio bene, papà. E volevo solo dirti che…».

«Ti senti bene, Nora? Mi sembri un po’… turbata».

«È solo che non… non te l’ho detto abbastanza. Voglio solo che tu sappia che ti voglio bene. Sei un buon padre. E in un’altra vita – quella in cui ho abbandonato il nuoto – rimpiango di non averlo fatto».

«Nora?».

Si sentiva a disagio a chiederglielo, ma doveva sapere. Le domande cominciarono a sgorgare come acqua da un geyser.

«Stai bene, papà?».

«Perché non dovrei star bene?».

«Così. Sai… Ti lamentavi sempre di quei dolori al petto».

«Non ne ho mai più sofferto da quando mi sono rimesso in forma. Anni fa. Ti ricordi? La mia svolta salutista. Frequentare gli olimpionici fa questo effetto. In forma come quando giocavo a rugby. E ho smesso di bere sedici anni fa. Colesterolo e pressione sotto controllo, come dice il dottore».

«Sì, certo… Mi ricordo, la tua svolta salutista». C’era un’altra cosa che voleva chiedergli. Ma non sapeva come fare. Così lo fece e basta.

«Da quant’è che stai con Nadia?».

«Che ti succede, hai forse qualche problema di memoria o qualcosa del genere?».

«No, sì, forse. Ho riflettuto molto sulla vita negli ultimi tempi».

«Ti occupi di filosofia adesso?».

«Beh, l’ho studiata».

«Quando?».

«Non ha importanza. È solo che non riesco a ricordare come tu e Nadia vi siete conosciuti».

Sentì un sospiro imbarazzato all’altro capo del telefono. La sua risposta fu laconica. «Sai bene come ci siamo conosciuti… Perché rivangare questa storia? È forse una di quelle cose che ha riportato a galla il tuo analista? Non ti ho mai nascosto come la penso al riguardo».

Io ho un analista.

«Scusami, papà».

«Non fa niente».

«Voglio soltanto sapere se sei felice».

«Certo che lo sono. Ho una campionessa olimpica come figlia e ho finalmente incontrato l’amore della mia vita. E adesso ti stai rimettendo in sesto. Mentalmente, intendo. Dopo il Portogallo».

Nora avrebbe voluto sapere cosa fosse successo in Portogallo, ma prima aveva un’altra domanda da fare.

«E la mamma? Non era lei l’amore della tua vita?».

«Lo è stata. Ma le cose cambiano, Nora. Su, sei un’adulta ormai…».

«Io…».

Nora inserì il vivavoce. Cliccò di nuovo sulla sua pagina di Wikipedia. I suoi genitori avevano divorziato dopo che suo padre aveva avuto una relazione con Nadia Vanko, la madre di un nuotatore ucraino, Yegor Vanko. E in questa vita sua madre era morta nel 2011.

E tutto questo perché Nora non era mai stata in quella macchina nel parcheggio di Bedford a confessargli di non voler diventare una nuotatrice professionista.

Provò la stessa sensazione. Come se stesse per svanire. Si era resa conto che quella vita non faceva per lei, e che stava scomparendo di nuovo per fare ritorno nella biblioteca. Ma rimase dov’era. Salutò suo padre, chiuse la conversazione e continuò a leggere qualche notizia su di lei.

Era single, anche se aveva avuto una relazione con il tuffatore americano Scott Richards, medaglia d’oro alle Olimpiadi per tre anni consecutivi. Avevano convissuto per un breve periodo in California, a La Jolla, San Diego. Adesso abitava nella zona ovest di Londra.

Dopo aver letto tutta la pagina dedicata a lei, ripose il cellulare e decise di scoprire se c’era una piscina. Voleva fare quello che aveva fatto in quella vita, e cioè nuotare. Forse l’acqua l’avrebbe aiutata a pensare a ciò che avrebbe potuto dire.

Fu una nuotata meravigliosa e, anche se le fornì ben poca ispirazione, la tranquillizzò un po’ dopo l’esperienza di quella conversazione con il padre defunto. Con l’intera piscina a sua disposizione scivolò sull’acqua nuotando a dorso, una corsia dopo l’altra, senza il minimo sforzo. Le dava una tale energia, sentirsi in forma e forte e possedere una simile padronanza dell’acqua, che per un istante smise di preoccuparsi per suo padre e del fatto di dover tenere una conferenza per cui non era minimamente preparata.

Ma mentre continuava a nuotare il suo umore cambiò. Pensò agli anni che suo padre aveva guadagnato, e a quelli che invece sua madre aveva perduto, e più ci pensava e più era arrabbiata con lui, e quella rabbia la spinse ad aumentare ancora la velocità. Aveva sempre ritenuto che i suoi genitori fossero troppo orgogliosi per divorziare, permettendo invece al risentimento di covargli dentro, e proiettando le loro aspirazioni sui figli, Nora in particolare. Il nuoto per lei aveva rappresentato l’unica fonte di approvazione.

Qui, nella vita in cui si trovava adesso, aveva intrapreso una carriera che aveva reso felice suo padre, mentre lei sacrificava le sue relazioni, il suo amore per la musica, i sogni che non contemplassero una medaglia, la sua stessa vita. E suo padre l’aveva ricompensata facendosi una storia con questa tale Nadia, abbandonando sua madre e continuando per giunta a mantenere un atteggiamento distaccato nei suoi confronti. Dopo tutto questo.

’Fanculo suo padre. O perlomeno questa sua versione.

Mentre passava allo stile libero, si rese conto che non era colpa sua se i suoi genitori non erano mai stati in grado di amarsi come dovrebbero amarsi i genitori: incondizionatamente. Non era colpa sua se sua madre si era concentrata su ogni suo singolo difetto, a cominciare dall’asimmetria delle orecchie. No, addirittura prima. Perché il primo problema che aveva causato Nora era stato quello di aver osato, in un certo senso, venire al mondo in un momento in cui il matrimonio dei suoi genitori era piuttosto fragile. Sua madre era caduta in depressione e suo padre si era consolato con grandi bicchieri di whisky.

Fece ancora trenta vasche, la sua mente si rilassò e Nora cominciò a sentirsi libera, in quel momento esistevano soltanto lei e l’acqua.

Quando infine uscì dalla piscina e tornò in camera indossò gli unici abiti puliti che aveva a disposizione (un elegante tailleur pantalone blu scuro) e osservò il contenuto della valigia. Vide una copia del suo libro. Una sua foto la fissava dalla copertina, con lo sguardo d’acciaio estremamente determinato e il costume della nazionale inglese. Lo prese e notò la dicitura, “scritto in collaborazione con Amanda Sands” in caratteri più piccoli.

Amanda Sands, le aveva suggerito Internet, era la ghost writer di molte famose personalità dello sport.

Poi guardò l’orologio. Era ora di scendere nella hall dell’albergo.

 

La attendevano due persone vestite elegantemente che non riconobbe, e una terza che le era decisamente familiare. L’uomo indossava un completo, e in questa vita il viso era rasato con cura, portava i capelli con la riga di lato e aveva un’aria professionale, ma era lo stesso Joe che conosceva dalla sua prima vita. Le sopracciglia scure, folte e incolte di sempre. «È l’italiano che c’è in te» soleva ripetere la loro madre.

«Joe?».

Per giunta, le stava sorridendo. Un sorriso aperto, fraterno, un sorriso privo di complicazioni.

«Buongiorno sorellina» le disse, sorpreso e anche un po’ imbarazzato per la lunghezza del suo abbraccio.

Quando lo lasciò la presentò alle altre due persone lì accanto.

«Ti presento Priya della Gulliver Research, l’ente organizzatore della conferenza naturalmente, e questo è Rory, naturalmente, della Celebrity Speakers».

«Buongiorno, Priya!» esclamò Nora. «Buongiorno, Rory. Piacere di conoscervi».

«Sì» disse Priya sorridendo. «Siamo così felici di averti qui con noi».

«Parli come se non ci fossimo mai conosciuti prima!» aggiunse Rory con una fragorosa risata.

Nora fece marcia indietro. «So bene che ci siamo già conosciuti, Rory. Scherzavo. Conosci il mio senso dell’umorismo, no?».

«Tu hai un senso dell’umorismo?».

«Niente male, Rory».

«D’accordo» intervenne suo fratello, guardandola e continuando a sorridere. «Vuoi vedere il posto?».

Anche Nora non riusciva a smettere di sorridere. Quello era suo fratello. Suo fratello, che non vedeva da due anni e con cui da molto più tempo non intratteneva il benché minimo rapporto, con un’aria sana e felice e che sembrava volerle bene davvero. «Il posto?».

«Sì. La sala. Dove terrai la conferenza».

«È tutto in ordine» intervenne Priya, con efficienza.

«Una sala maledettamente grande» aggiunse Rory in tono d’approvazione, mentre accartocciava un bicchierino di carta.

Nora accettò e venne condotta in una grande sala conferenze blu, con un ampio palco circondato da circa mille posti a sedere vuoti. Un tecnico vestito di nero si avvicinò e le chiese: «Cosa preferisce? Risvolto, cuffie o gelato?».

«Mi scusi?».

«Che tipo di microfono vuole sul palco?».

«Ah!».

«Cuffie» rispose il fratello in sua vece.

«Certo. Cuffie» ripeté Nora.

«Mi pareva meglio» aggiunse Joe, «dopo quell’incubo col microfono che abbiamo avuto a Cardiff».

«Sì, pazzesco. Che incubo».

Priya continuava a sorriderle, desiderosa di chiederle qualcosa. «Non utilizzerai nessun supporto multimediale, giusto? Diapositive o qualcosa del genere?».

«Ehm, io…».

Suo fratello e Rory la stavano osservando, un po’ preoccupati.

Senza dubbio era una di quelle domande di cui avrebbe dovuto conoscere la risposta, e invece non la sapeva.

«Esatto» rispose, poi si accorse dell’espressione sul volto di suo fratello. «Io… no. Sì, no. Non ho nessun supporto multimediale».

Tutti la osservarono come se avesse detto qualcosa di sbagliato, ma Nora continuò a sorridere.

TÈ ALLA MENTA

Dieci minuti dopo se ne stava seduta in disparte in compagnia di suo fratello in un posto che definivano “Vip Business Lounge”, e in realtà non era altro che una stanza angusta e soffocante con qualche sedia e un tavolino con alcuni quotidiani. Un paio di uomini di mezza età in giacca e cravatta digitavano qualcosa sui loro portatili.

A quel punto aveva intuito che suo fratello era anche il suo manager. E che lo era da sette anni, da quando si era ritirata dal nuoto agonistico.

«Sei soddisfatta di tutto quanto?» le chiese, dopo essere andato a prendere qualcosa da bere al distributore. Aprì un sacchetto che conteneva una bustina di tè. Alla menta. La immerse nel bicchiere di acqua bollente che aveva preso alla macchinetta del caffè.

Poi lo porse a Nora.

Non aveva mai bevuto tè alla menta in vita sua. «È per me?».

«Certo. Era l’unico infuso a base di erbe che avevano».

Lui si era preso un caffè, a cui Nora anelava segretamente. Forse in questa vita non beveva caffeina.

Sei soddisfatta di tutto quanto?

«Tutto quanto cosa?» domandò Nora.

«Della conferenza di oggi».

«Ah, già, sì, infatti. Quant’è che dura?».

«Quaranta minuti».

«Certo».

«Sono un bel mucchio di soldi. Ho alzato la posta di diecimila».

«Molto gentile da parte tua».

«A me spetta comunque il venti percento. Non è stato questo gran sacrificio».

Nora cercò di pensare a come fare per scoprire la loro storia. Come scoprire perché, in questa vita, se ne stavano lì seduti insieme e andavano d’accordo. Forse erano i soldi a tenerli uniti, ma suo fratello non era mai stato particolarmente motivato dalle questioni economiche. E sì, certo, naturalmente ci era rimasto male quando Nora si era sfilata dall’accordo con la casa discografica, ma era successo perché lui avrebbe voluto suonare la chitarra nei Labyrinths per il resto della vita e diventare una rock star.

Dopo averla immersa per un paio di volte, Nora lasciò che la bustina di tè vagasse libera nell’acqua. «Non pensi mai a come avrebbero potuto essere diverse le nostre vite? Intendo dire, se per esempio avessi abbandonato il nuoto».

«Veramente no».

«Cos’avresti fatto, se non fossi diventato il mio manager?».

«Non sei mica l’unica di cui mi occupo, sai».

«Sì, sì, ma certo che lo so. Ovviamente».

«Credo che probabilmente senza di te non sarei il manager di nessuno. Voglio dire, tu sei stata la prima. E poi mi hai presentato a Kai e a Natalie. E a Eli, e così…».

Annuì, come se sapesse perfettamente chi fossero Kai e Natalie e Eli. «È vero, ma forse avresti trovato altre strade».

«Chi può dirlo? Forse sarei ancora a Manchester, non ne ho idea».

«Manchester?».

«Già. Ti ricordi quanto mi piaceva vivere lì. Andare all’università».

Era veramente difficile non assumere un’aria sorpresa a quel punto, considerando che questo fratello con cui andava d’accordo, con cui lavorava, era anche uno che aveva frequentato l’università. Nella sua prima vita Joe aveva preso il diploma e fatto domanda per andare a Manchester a studiare Storia, ma non aveva mai ottenuto il punteggio sufficiente per essere ammesso, probabilmente perché era stato troppo occupato a sballarsi tutte le sere in compagnia del suo amico Ravi. Alla fine aveva deciso che l’università non faceva per lui.

Chiacchierarono ancora un po’.

A un certo punto Joe fu distratto dal cellulare.

Nora notò che sul salvaschermo era apparsa la fotografia di un uomo solare, attraente e dall’aria allegra che non aveva mai visto prima. Osservò la fede nuziale al dito del fratello e finse un’espressione naturale.

«Allora, com’è la vita da sposati?».

Joe sorrise. Un sorriso di genuina felicità. Non lo vedeva sorridere così da anni. Nella sua prima vita, suo fratello era sempre stato sfortunato in amore. Anche se Nora sapeva che suo fratello era gay da quando era adolescente, lui aveva fatto coming out ufficialmente solo a ventidue anni. E non aveva mai avuto una relazione stabile e felice. Nora si sentiva in colpa, all’idea che la sua vita avesse il potere di modellare l’esistenza di suo fratello in tali e tanti modi.

«Oh, sai com’è Ewan. Ewan è Ewan».

Nora gli rispose sorridendo a sua volta, come se conoscesse Ewan e sapesse perfettamente che tipo di persona fosse. «È vero. È fantastico. Sono così felice per voi».

Lui scoppiò a ridere. «Ormai siamo sposati da cinque anni. Parli come se ci fossimo appena messi insieme».

«Ma no, è solo che qualche volta mi viene da pensare a quanto siete fortunati. Così innamorati e felici».

«Vorrebbe un cane». Sorrise. «È motivo di discussione in questo momento. Non è che mi dispiacerebbe avere un cane. Ma andrei a prenderlo al canile. E non vorrei uno di quei dannatissimi maltipoo o un bichon. Vorrei un cane lupo. Un cane vero, intendo».

Nora pensò a Voltaire. «Gli animali sono una gran bella compagnia…».

«Già. Ti piacerebbe sempre avere un cane?».

«Sì. O anche un gatto».

«I gatti sono troppo disubbidienti» esclamò Joe, e in quel momento ridiventò il fratello che ricordava. «I cani sanno stare al loro posto».

«La disobbedienza è il vero fondamento della libertà. Le persone obbedienti sono destinate a rimanere schiave»3.

Joe assunse un’aria perplessa. «E questa cosa da dove salta fuori? È una citazione?».

«Sì. Henry David Thoreau. Lo sai no, il mio filosofo preferito».

«E da quando in qua ti interessi di filosofia?».

Era ovvio. In quella vita non si era mai laureata in filosofia. Mentre la Nora originaria aveva studiato le opere di Thoreau e Lao Tzu e Sartre in un maleodorante appartamentino a Bristol, la Nora attuale era salita su un podio olimpico a Pechino. Stranamente, si sentì triste per quella versione di sé che non si era mai innamorata della semplice bellezza del Walden di Thoreau, o dello stoicismo che permeava le Meditazioni di Marco Aurelio, allo stesso modo in cui aveva provato compassione per quella versione di sé che non aveva mai realizzato il suo potenziale olimpico.

«Oh, non saprei… Devo averlo letto da qualche parte su Internet».

«Ah, fico. Gli darò un’occhiata anch’io. Forse potresti usarlo nella tua conferenza».

Nora si sentì impallidire. «Eh, credo che forse farò qualcosa di diverso oggi. Potrei, diciamo, improvvisare un po’».

Dopotutto, l’improvvisazione era un talento in cui ultimamente si stava esercitando.

«L’altra sera ho visto un documentario sulla Groenlandia. Mi ha fatto venire in mente quando eri ossessionata dall’Artide e non facevi che ritagliare tutte quelle fotografie di orsi polari e roba del genere».

«Ah, già. Mrs Elm ripeteva sempre che il modo migliore per esplorare l’Artide era diventare una glaciologa. Ecco cosa volevo diventare».

«Mrs Elm» sussurrò Joe. «Mi suona familiare».

«La bibliotecaria della scuola».

«Ah, giusto. Praticamente vivevi in quella biblioteca, ti ricordi?».

«Proprio così».

«Pensa, se avessi abbandonato il nuoto, adesso saresti in Groenlandia».

«Alle Svalbard» precisò Nora.

«Cosa?».

«È un arcipelago norvegese. Al largo del mar Glaciale Artico».

«Sì, vabbè. In Norvegia quindi. Saresti lì…».

«Forse. O forse sarei ancora a Bedford. A deprimermi. Senza un lavoro. A lottare per riuscire a pagare l’affitto a fine mese».

«Non essere stupida. Avresti comunque realizzato qualcosa di importante».

Sorrise di fronte al candore di suo fratello maggiore. «In qualcuna di queste vite io e te magari non saremmo neanche andati d’accordo».

«Sciocchezze».

«Me lo auguro».

Joe appariva lievemente a disagio ed era evidente che voleva cambiare argomento.

«Ehi, sai chi ho incontrato l’altro giorno?».

Nora si strinse nelle spalle, sperando che fosse qualcuno di cui aveva sentito parlare.

«Ravi. Ti ricordi di lui?».

Pensò a Ravi, che non più tardi del giorno prima l’aveva rimproverata mentre erano in edicola.

«Ma certo. Ravi».

«L’ho incontrato per caso».

«A Bedford?».

«Ah ah! Dio mio, no. Non ci vado da anni. No, alla stazione di Blackfriars. Assolutamente per caso. Non lo vedevo da più di dieci anni. Almeno. Mi ha proposto di andare a prendere qualcosa al pub. Così gli ho detto che ormai ero astemio, e ho dovuto spiegargli di essere stato un alcolista. E anche tutto il resto. Che non bevevo un bicchiere di vino e non fumavo e non mi facevo più una canna da anni». Nora annuì come se quella non fosse una notizia sconvolgente. «Da quando mi ero messo nei casini dopo la morte di mamma. Credo che abbia pensato “Ma questo chi diavolo è?”. Però è andato tutto bene. È uno a posto. Adesso fa il cameraman. Di tanto in tanto suona ancora. Non fa più rock. Musica da DJ set mi pare. Ti ricordi il gruppo che io e lui abbiamo messo su anni fa, i Labyrinths?».

Stava diventando più facile fingere una certa vaghezza. «I Labyrinths. Certo. Questo sì che è un tuffo nel passato».

«Proprio così. Mi è sembrato che rimpiangesse quel periodo. Anche se facevamo schifo e io cantavo malissimo».

«E tu invece? Non pensi mai a come sarebbe andata se i Labyrinths avessero sfondato?».

Joe scoppiò in una risata, una risata lievemente triste. «Non so se avremmo mai avuto qualche possibilità di sfondare».

«Forse avreste avuto bisogno di una terza persona. Una volta suonavo le tastiere che papà e mamma ti avevano regalato».

«Davvero? Ma dove trovavi il tempo?».

Una vita senza musica. Una vita senza i libri che aveva amato.

Ma anche: una vita in cui andava d’accordo con suo fratello. Una vita in cui non l’aveva deluso.

«A ogni modo, Ravi mi ha detto di salutarti. Gli piacerebbe rivederti. Lavora soltanto a una fermata di metropolitana da qui. Cercherà di fare un salto e venirti a sentire».

«Cosa? Oh. È… Spero di no».

«Perché?».

«In realtà non mi è mai piaciuto».

Joe aggrottò le sopracciglia. «Ma davvero? Non ricordo di avertelo mai sentito dire prima… È uno a posto. Un bravo ragazzo. Un po’ un buono a nulla, forse, quando eravamo giovani, ma adesso mi pare che abbia messo la testa a posto…».

Nora era turbata. «Joe?».

«Dimmi».

«Sai quando è morta la mamma?».

«Sì».

«Io dov’ero?».

«Cosa intendi dire? Ti senti bene sorellina? Le nuove pillole funzionano?».

«Pillole?».

Prese la borsa e cominciò a rovistare. Vide una scatolina di antidepressivi. Il cuore mancò un battito.

«Volevo solo saperlo. L’ho vista spesso prima che morisse?».

Joe aggrottò di nuovo le sopracciglia. Era sempre lo stesso Joe. Sempre incapace di leggerle dentro. Sempre desideroso di sfuggire alla realtà. «Sai bene che noi non eravamo presenti. È successo così in fretta. Non ci ha mai detto quanto stava male. Per proteggerci. O forse perché non voleva che le dicessimo di smettere di bere».

«Bere? Mamma beveva?».

Joe era sempre più preoccupato. «Ehi, sorellina, per caso soffri di amnesia? Si scolava una bottiglia di gin al giorno, da quando Nadia era comparsa sulla scena».

«Ma certo. Sì, mi ricordo».

«E inoltre tu dovevi partecipare ai campionati europei, e lei non voleva interferire con…».

«Mio Dio. Avrei dovuto esserci. Uno di noi due avrebbe dovuto essere presente, Joe. Entrambi avremmo…».

L’espressione di Joe si indurì di colpo. «Non sei mai stata così legata a mamma. Come mai questa improvvisa…».

«Mi ero riavvicinata a lei. Avrei dovuto, avrei…».

«Mi stai spaventando. Ti comporti in modo strano».

Nora annuì. «Sì, io… è solo che… sì, hai ragione… probabilmente sono solo le medicine…».

Le tornò in mente sua madre, negli ultimi mesi di vita, che le ripeteva: «Non so come avrei fatto senza di te». Probabilmente lo diceva anche a Joe. Ma in questa vita non aveva avuto accanto nessuno dei due.

Poi Priya entrò nella stanza. Sempre continuando a sorridere, stringendo in mano il cellulare e una sorta di cartellina.

«È ora» le disse.

 

 

 

3 Henry David Thoreau, Disobbedienza civile, traduzione di Andrea Mattacheo, Torino, Einaudi 2018.


L’ALBERO CHE È LA NOSTRA VITA

Cinque minuti più tardi Nora rientrava nella grande sala conferenze dell’hotel. Almeno mille persone tenevano gli occhi puntati sulla prima relatrice, che stava ultimando il suo intervento. L’autrice di Da Zero a Tutto. Il libro che Dan teneva sul comodino nell’altra vita. Nora non stava veramente ascoltando ciò che diceva, mentre andava a sedersi nel suo posto riservato in prima fila. Era troppo sconvolta per sua madre, troppo in ansia per il discorso che doveva tenere, così afferrò soltanto le parole strane o le frasi che vagavano nella sua mente come crostini in un minestrone. “Un fatto poco conosciuto”, “ambizione”, “sareste sorpresi di sapere che”, “se io posso farlo”, “una dura scuola di vita”.

L’aria nella sala era quasi irrespirabile. Odorava di profumi muschiati e moquette nuova.

Cercò di rimanere calma.

Chinandosi verso il fratello, gli sussurrò: «Non credo di potercela fare».

«Che cosa?».

«Sto per avere un attacco di panico».

Joe la guardò, sorridendo, ma con una durezza nello sguardo che ricordava di avergli visto in un’altra vita, quando aveva avuto un attacco di panico prima di una delle loro prime esibizioni con i Labyrinths in un pub di Bedford. «Andrà tutto bene».

«Non so se ce la faccio. Ho la testa completamente vuota».

«Pensi troppo».

«Ho l’ansia. E non conosco nessun altro modo di pensare».

«Coraggio. Non deluderci».

Non deluderci.

«Ma…».

Cercò di pensare alla musica.

Pensare alla musica aveva sempre avuto un effetto calmante su di lei.

Le tornò in mente una canzone. Provò un leggero imbarazzo, persino con se stessa, quando si rese conto che la canzone nella sua testa era Beautiful Sky. Una canzone allegra e piena di speranza che non cantava da tanto tempo. Il cielo si tinge di scuro / Il nero sopra il blu / ma le stelle osano ancora / brillare per

Poi però la donna seduta accanto a lei – una professionista sui cinquanta vestita con eleganza, e la fonte di quel profumo muschiato – si sporse verso di lei e le sussurrò: «Mi dispiace per quello che le è successo. Sa, quella cosa in Portogallo…».

«Quella cosa quale?».

La risposta della donna venne inghiottita dal fragore del pubblico che in quel momento esplodeva in un applauso.

«Che cosa?» ripeté Nora.

Ma ormai era troppo tardi. La invitarono a salire sul palco e suo fratello la sospinse tenendola per un gomito.

La sua voce era quasi un ruggito: «Vogliono te. Andiamo».

Si avviò esitante verso il leggio sul palco, verso la sua enorme faccia che sorrideva con un’espressione di trionfo e la medaglia d’oro al collo, proiettata sullo schermo dietro di lei.

Aveva sempre detestato essere al centro dell’attenzione.

«Buongiorno» esordì nervosamente parlando al microfono. «È bellissimo essere qui oggi…».

Un migliaio di volti la fissavano, in attesa.

Non aveva mai parlato davanti a così tante persone tutte insieme. Anche quando suonava coi Labyrinths non si erano mai esibiti di fronte a un pubblico di più di cento persone, e lei aveva sempre cercato di dire il minimo indispensabile tra una canzone e l’altra. Quando lavorava allo String Theory, sebbene non avesse nessun problema a conversare coi clienti, interveniva raramente nelle riunioni con i colleghi, anche se non c’erano mai più di cinque persone presenti nella stanza. Durante gli anni dell’università, mentre Izzy affrontava le presentazioni con disinvoltura, Nora stava in ansia per intere settimane.

Joe e Rory la fissavano sconcertati.

La Nora che aveva visto al computer, quella che parlava nella conferenza TED, non era questa Nora, e dubitò che avrebbe mai potuto diventarlo. Non senza aver fatto tutto quello che aveva fatto l’altra.

«Buongiorno. Mi chiamo Nora Seed».

Non aveva nessuna intenzione di fare una battuta, ma l’intera platea scoppiò a ridere. Evidentemente non c’era bisogno di presentazioni.

«La vita è strana» continuò. «È strano come viviamo tutto nello stesso momento. Un’unica linea retta. Ma c’è molto di più, credetemi. Perché la vita è fatta non soltanto delle cose che facciamo, ma anche di quelle che non facciamo. E ogni istante della nostra vita è come una… svolta».

Nessuna reazione.

«Rifletteteci. Pensate a come iniziamo la nostra vita… tutto già prestabilito. Come il seme di un albero piantato nel terreno. E poi… cresciamo… cresciamo… e all’inizio siamo un tronco…».

Silenzio assoluto dalla platea.

«Poi però l’albero – quell’albero che è la nostra vita – dà origine a dei rami. Immaginate allora tutti quei rami che crescono dal tronco ad altezze differenti. E pensate a questi stessi rami, che si moltiplicano a loro volta in altri rami, spesso in direzioni opposte. Pensate a tutti quei rami che si trasformano in altri rami, e questi ultimi in ramoscelli. Adesso pensate alle estremità di quei ramoscelli, ognuno in posti diversi, ma che hanno avuto origine dallo stesso tronco. La vita è così, solo più in grande. In ogni istante di ogni giorno si formano nuovi rami. E dalla prospettiva in cui ci troviamo – dalla prospettiva in cui ognuno si trova – è un… continuum. Ogni ramoscello ha percorso un unico viaggio. Ma esistono altri ramoscelli. Ed esistono altri qui e ora. Vite che sarebbero state diverse, se aveste imboccato altre strade. Questo è l’albero della vita. Molte religioni e molti miti narrano dell’albero della vita. Lo si ritrova nel buddhismo, nell’ebraismo e nella cristianità. Numerosi filosofi e scrittori hanno usato la metafora dell’albero. Per Sylvia Plath l’esistenza era un albero di fico, e ogni vita che avrebbe potuto vivere – quella in cui era felicemente sposata, quella in cui era una poetessa di successo – era un fico dolce e succoso. Lei però non riusciva a goderne, e i fichi hanno finito per marcire proprio davanti ai suoi occhi. Può condurre alla pazzia, pensare a tutte le vite che non viviamo.

«Ad esempio, nella maggior parte delle mie vite non mi trovo qui su questo podio a parlarvi del successo… nella maggior parte di queste vite non ho vinto una medaglia d’oro alle Olimpiadi». Le tornò in mente una cosa che le aveva detto Mrs Elm nella Biblioteca di Mezzanotte. «Vedete, fare una cosa in maniera diversa molto spesso equivale a fare tutto in modo diverso. Non basta una vita per invertire il corso delle proprie azioni, per quanto ci si sforzi…».

Adesso la platea la stava ascoltando. Era ovvio che avevano bisogno di una Mrs Elm nella loro vita.

«L’unico modo per imparare è vivere».

Andò avanti così per altri venti minuti, cercando di ricordare il più possibile di ciò che le aveva detto Mrs Elm, poi abbassò lo sguardo sulle mani, illuminate di bianco per effetto della luce sul leggio.

Mentre cercava di comprendere il significato di quella linea di carne in rilievo, rosea e sottile, realizzò che quella cicatrice era stata autoinflitta, e perse il filo del discorso. O meglio, ne prese un altro.

«E… e il punto è… il punto è che… quella che noi consideriamo essere la strada vincente, in realtà non lo è. Perché troppo spesso la nostra idea di successo è solo una di quelle stronzate superficiali che hanno a che fare con il raggiungimento di un risultato – una medaglia olimpica, il marito ideale, un buon stipendio. Tutti quei parametri con cui ci confrontiamo e che cerchiamo di soddisfare. Quando in realtà il successo non è qualcosa di misurabile, e la vita non è una gara da vincere. Queste sono tutte… cazzate… a dire il vero».

La platea a questo punto era decisamente a disagio. Va da sé che non era il tipo di conferenza che si aspettavano. Scrutò la folla e vide un unico viso che le sorrideva. Le ci volle un attimo per riconoscerlo, considerando che indossava un’elegante camicia di cotone blu e portava i capelli molto più corti che nella sua vita di Bedfdord. Questo Ravi aveva un’espressione amichevole, ma Nora non riusciva a liberarsi dell’immagine dell’altro Ravi, quello che era quasi scappato via dall’edicola lamentandosi di non avere neppure i soldi per comprarsi una rivista, e addossandone la colpa a lei.

«Lo capisco, so che vi aspettavate la mia conferenza TED su come raggiungere il successo. La verità però è che il successo è una delusione. È tutto una grandissima delusione. Sì, è vero, ci sono cose che possiamo superare. Per esempio io sono una di quelle persone che ha il terrore di salire su un palco, e invece eccomi qui. Guardatemi… sono su un palcoscenico! Qualcuno di recente mi ha detto che il mio problema non è la paura di salire su un palco. Il mio problema è che ho paura della vita. E sapete una cosa? Cazzo, se ha ragione. Perché la vita fa paura, e fa paura per un’unica ragione, e la ragione è che non importa in quale ramo della vita ci è dato vivere, siamo sempre parte dello stesso albero marcio. Avrei voluto essere molte cose nella mia vita. Ogni genere di cose. Ma se la tua vita è marcia fin dall’inizio, continuerà a essere marcia qualunque cosa tu faccia. L’umidità fa marcire questa inutile cosa».

Con la mano Joe cercava disperatamente di farle cenno di tagliare.

«A ogni modo, siate gentili e… nulla, siate gentili. Sento che sto per andarmene, così vorrei soltanto aggiungere che amo mio fratello Joe. Ti amo, fratello mio, e amo tutti voi in questa sala, ed è stato bellissimo essere qui con voi oggi».

Il momento in cui pronunciò queste parole fu anche quello in cui scomparve.

ERRORE DI SISTEMA

Fece ritorno nella Biblioteca di Mezzanotte.
Questa volta però si ritrovò un po’ più distante dagli scaffali. era più o meno nella zona che aveva scorto l’ultima volta, quella adibita a ufficio in uno dei corridoi più ampi. La scrivania era ingombra di cestelli per la corrispondenza che contenevano a stento pile disordinate di fogli e scatole, e un computer.

Il computer aveva un aspetto davvero antiquato, una sorta di scatola quadrata color beige, appoggiato sulla scrivania di fianco ai documenti. Il genere di computer che Mrs Elm avrebbe usato a suo tempo per la biblioteca scolastica. Era seduta davanti alla tastiera e digitava forsennatamente, lo sguardo fisso sullo schermo, mentre Nora stava in piedi alle sue spalle.

Le lampadine sopra le loro teste – le stesse semplici nude lampadine pendenti dai fili – sfarfallavano violentemente.

«Mio padre era vivo per merito mio. Ma aveva anche avuto una relazione extraconiugale, e mia madre era morta anni prima, e andavo d’accordo con mio fratello perché non l’avevo mai deluso, ma a dire il vero lui non era cambiato, e in realtà le cose andavano bene fra di noi perché lo aiutavo a fare soldi e… e… non era il sogno olimpico che avevo immaginato. Io ero sempre la stessa. Doveva essere successo qualcosa in Portogallo. Probabilmente avevo cercato di togliermi la vita o qualcosa del genere… Esistono davvero delle altre vite, o è soltanto l’arredo a cambiare di volta in volta?».

Mrs Elm però non la stava ascoltando. Nora notò qualcosa sulla scrivania. Una vecchia penna stilografica di plastica color arancio. Esattamente la stessa stilografica che Nora usava quando andava a scuola.

«Pronto? Mrs Elm, mi sente?».

Qualcosa non andava.

I lineamenti della bibliotecaria erano tesi, l’espressione preoccupata. Lesse sullo schermo, rivolta a se stessa: «Errore di sistema».

«Mrs Elm? Pronto? Yu-uh! Sono qui!».

Le diede un colpetto sulla spalla. Parve funzionare.

Il volto di Mrs Elm si aprì in un’espressione di enorme sollievo mentre si scostava dal computer. «Oh, Nora, sei riuscita ad arrivare?».

«Pensava che non sarei tornata? Pensava che quella fosse la vita che desideravo vivere?».

Scosse il capo senza davvero muoverlo. Se mai una cosa del genere fosse possibile.

«No, non è questo. È solo che. È solo che pareva incerto».

«Cos’è che pareva incerto?».

«Il trasferimento».

«Il trasferimento?».

«Dal libro a qui. Dalla vita che avevi scelto a qui. Sembrava ci fosse qualche problema. Un problema col sistema. Qualcosa che andava oltre il mio controllo. Qualcosa di esterno».

«Intende dire nella mia vita presente?».

Si voltò nuovamente verso lo schermo. «Sì. Vedi, la Biblioteca di Mezzanotte esiste solo perché esisti tu. Nella tua vita originaria».

«Quindi sto per morire?».

Mrs Elm appariva esasperata. «È una possibilità. O meglio, è possibile che stiamo giungendo alla fine di ogni possibilità».

Nora ripensò a come era stato bello, nuotare in piscina. Quanto si era sentita viva e vitale. Poi dentro di lei accadde qualcosa. Una strana sensazione. Un colpo allo stomaco. Un cambiamento fisico. Un mutamento in lei. L’idea della morte all’improvviso la turbò. In quel momento le lampadine sopra la sua testa smisero di lampeggiare e ripresero a brillare.

Mrs Elm batté le mani mentre scorreva le nuove informazioni sullo schermo del computer.

«Oh, è tornato. Ottimo. L’anomalia è sparita. È di nuovo tutto in ordine. Grazie a te, credo».

«Cosa intende?».

«Il computer dice che il problema da cui si è originata l’anomalia di sistema è stato temporaneamente risolto. E tu sei il problema all’origine. Tu sei il sistema».

Sorrise. Nora batté le palpebre, e quando riaprì gli occhi sia lei che Mrs Elm si ritrovarono in un’altra area della biblioteca. Di nuovo in mezzo a pile e pile di scaffali. In piedi, un po’ tese, un po’ a disagio, l’una di fronte all’altra.

«Va bene. Adesso stai calma» esclamò Mrs Elm prima di fare un respiro profondo, eloquente. Stava chiaramente parlando a se stessa.

«Mia madre è morta in momenti diversi nelle diverse vite. Ne vorrei una in cui lei sia ancora viva. Esiste, una vita del genere?».

L’attenzione di Mrs Elm si spostò su Nora.

«Forse sì».

«Fantastico».

«Ma non puoi averla».

«Perché no?».

«Perché questa biblioteca ha a che fare con le tue decisioni. Non c’è scelta che avresti potuto fare che avrebbe potuto mantenerla in vita più a lungo, più in là di ieri. Mi dispiace».

Una lampadina tremolò sopra la testa di Nora. Tutto il resto rimase immobile.

«Devi pensare a qualcos’altro, Nora. Cosa ti è piaciuto dell’ultima vita?».

Nora fece un cenno col capo. «Nuotare. Mi è piaciuto nuotare. Ma non credo di essere stata felice in quella vita. Non so se potrò mai essere felice in nessuna vita».

«Il tuo obiettivo è la felicità?».

«Non ne sono certa. Credo che vorrei che la mia vita avesse un senso. Vorrei fare qualcosa di buono».

«Una volta volevi fare la glaciologa» parve ricordare Mrs Elm.

«Già».

«Ne parlavi spesso. Dicevi di essere interessata all’Artide, così io ti avevo suggerito di diventare glaciologa».

«Mi ricordo. L’idea mi era piaciuta subito. Ma non a mio padre e a mia madre».

«Perché?».

«Veramente non lo so. Mi incoraggiavano a nuotare. Beh, era papà a farlo. Però reagivano in maniera strana verso tutto ciò che aveva a che fare con lo studio».

Nora provò una profonda tristezza, giù giù, nello stomaco. Da quando si era affacciata alla vita i suoi genitori l’avevano sempre considerata in modo diverso da suo fratello.

«A parte il nuoto, era Joe quello da cui si aspettavano grandi risultati» confidò a Mrs Elm. «Mamma non voleva che facessi niente che rischiasse di portarmi via da lì. A differenza di papà, non mi incoraggiava neanche a nuotare. Ma dev’esserci di sicuro una vita in cui non ho dato ascolto a mia madre e adesso sono una ricercatrice nell’Artide. Lontana da tutto. Con uno scopo. Aiutare il pianeta. Studiare l’impatto del cambiamento climatico. In prima linea».

«Quindi vuoi che trovi questa vita per te?».

Nora sospirò. Non aveva davvero idea di cosa desiderasse. Ma perlomeno il circolo polare artico sarebbe stato qualcosa di diverso.

«D’accordo. Sì».

LE SVALBARD

Si ritrovò in un minuscolo letto di un’angusta cabina su una barca. Sapeva che si trattava di una barca perché dondolava, e senza dubbio il dondolio, per quanto dolce, l’aveva svegliata. La cabina era semplice e spartana. Lei indossava una pesante felpa di pile e una calzamaglia. Scostando la coperta si accorse di avere un gran mal di testa. Aveva la bocca talmente secca che le guance parevano appiccicate ai denti. Tossì forte, una tosse grassa, e in quel momento si sentì lontana almeno un milione di vasche dal corpo di una nuotatrice olimpionica. Le dita sapevano di tabacco. Quando si tirò su vide una donna seduta su un altro letto, dai capelli biondo pallido, robusta e il volto segnato dalle intemperie, che la stava osservando.

«God morgen, Nora».

Le sorrise. Con la speranza di non parlare correntemente nessuna lingua nordica parlata da quella donna, qualunque fosse.

«Buongiorno».

Notò una bottiglia di vodka mezza vuota e una tazza sul pavimento accanto al letto della donna. Un calendario con fotografie di cani (aprile: uno Springer Spaniel) era appeso al di sopra di un baule stretto tra i due letti. I tre libri sopra la cassapanca erano tutti in inglese. Quello più vicino alla donna aveva come titolo Princìpi di meccanica dei ghiacciai. I due più vicino a Nora: Guida naturalistica dell’Artide e un’edizione Penguin Classic della Saga dei Volsunghi: l’epica norrena di Sigfrido il cacciatore di draghi. Notò un’altra cosa. Faceva freddo. Decisamente freddo. Quel freddo così freddo che pare quasi scottare, che fa male alle dita delle mani e dei piedi e indurisce le guance. Che ti penetra dentro. Nonostante gli strati di biancheria termica. E la felpa che aveva addosso. E le barre dei caloriferi elettrici dal bagliore arancione. A ogni respiro si formava una nuvoletta.

«Perché sei qui, Nora?» domandò la donna in un inglese dall’accento alquanto marcato.

Domanda complicata, quando uno non sa neanche dove si trova, questo “qui”.

«Un po’ troppo presto per parlare di filosofia, non trovi?» rise Nora nervosamente.

Dall’oblò scorse un muro di ghiaccio che spuntava fuori dal mare. Si trovava o molto a nord o molto a sud. Molto lontana, non si sa dove.

La donna continuava ad osservarla. Nora non aveva idea se fossero amiche oppure no. Pareva una persona risoluta, pratica, diretta, probabilmente una compagnia interessante.

«Non sto parlando di filosofia. E neanche di cosa ti ha spinta a occuparti di glaciologia. Anche se potrebbe essere la stessa cosa. Quello che intendo dire è perché hai scelto di allontanarti così tanto da ogni forma di civiltà? Non me l’hai mai detto».

«Non so» rispose Nora. «Mi piace il freddo».

«A nessuno piace questo freddo. A meno che non sia un sadomasochista».

Il ragionamento non faceva una piega. Nora prese una felpa che si trovava sul bordo del letto e se la infilò, sopra la felpa che già indossava. Così facendo vide, accanto alla bottiglia di vodka, un badge di plastica sul pavimento.

 

INGRID SKIRKBEKK

DOCENTE DI GEOSCIENZE

ISTITUTO INTERNAZIONALE DI SCIENZE POLARI

 

«Non so, Ingrid. Immagino perché mi piacciono i ghiacciai. Voglio capirli. Perché si stanno… sciogliendo».

Ingrid sospirò. Si grattò il palmo della mano col pollice. «Dopo la morte di Per non riuscivo più a rimanere a Oslo. Tutte quelle persone che non erano lui, capisci cosa voglio dire? Il bar dove andavamo di solito, all’università. Ce ne stavamo semplicemente seduti lì, insieme, insieme ma in silenzio. Un silenzio pieno di felicità. A leggere i giornali, a bere caffè. Era difficile evitare posti come quello. Andavamo insieme ovunque. La sua anima inquieta aleggiava in ogni strada… Continuavo a dire al suo ricordo di togliersi dai coglioni, ma non se ne andava. Il dolore è un vero bastardo. Se fossi rimasta lì ancora un po’, avrei odiato l’intera umanità. Così quando è saltato fuori questo lavoro come ricercatrice alle Svalbard mi sono sentita come, sì, come se questa cosa fosse arrivata per salvarmi… Volevo andare in un posto dove lui non era mai stato. Desideravo un luogo in cui non avrei dovuto sentire il suo fantasma. La verità è che la cosa ha funzionato solo a metà, lo sai? I luoghi sono luoghi e i ricordi sono i ricordi e la vita è una cazzo di vita».

Nora capiva perfettamente cosa intendeva dire. Ingrid certo stava raccontando queste cose a una persona che doveva conoscere abbastanza bene, e tuttavia Nora per lei era un’estranea. Le parve strano. Sbagliato. Probabilmente era questa la parte più difficile dell’essere una spia, pensò. Le emozioni che gli altri ti affidano, come un cattivo investimento. Ci si sente come se si stesse derubando l’altra persona, o qualcosa di molto simile.

Ingrid sorrise, interrompendo la sua riflessione. «A ogni modo, grazie per ieri sera… È stata una bella chiacchierata. Ci sono un mucchio di teste di cazzo su questa barca, e tu non lo sei».

«Oh. Grazie. Neanche tu».

Fu allora che Nora notò il fucile, un grosso fucile con una pesante impugnatura marrone, appoggiato contro il muro all’altra estremità della stanza, sotto l’attaccapanni.

La vista di quel fucile le provocò allegria, in un certo senso. Fu come se l’undicenne dentro di lei fosse fiera di ciò che stava accadendo. A quanto pareva, stava vivendo un’avventura.

HUGO LEFÈVRE

In compagnia del suo mal di testa e degli ovvi postumi di una sbornia, Nora attraversò un nudo corridoio di legno ed entrò in una piccola sala da pranzo che puzzava di aringhe in salamoia, dove un paio di ricercatori stavano facendo colazione.

Prese del caffè nero, un pezzetto di pane di segale raffermo e andò a sedersi.

Intorno a lei, fuori della finestra, apparve il panorama più bello che avesse mai visto. Isole di ghiaccio, come rocce tirate a lucido e di un bianco purissimo, si intravedevano in mezzo alla nebbia. C’erano altre diciassette persone nella sala da pranzo, contò Nora. Undici uomini, sei donne. Nora si sedette in disparte, ma dopo cinque minuti un uomo coi capelli corti e una barbetta ispida, che di lì a due giorni si sarebbe trasformata in una vera e propria barba incolta, andò a sistemarsi al suo tavolo. Indossava un parka, come la maggior parte di coloro che si trovavano nella stanza, ma pareva un po’ fuori posto, uno di quelli che si sarebbero sentiti più a proprio agio in Costa Azzurra, con indosso un paio di pantaloncini firmati e una polo rosa. Le sorrise. Nora tentò di interpretare il suo sorriso, per capire che genere di relazione avessero. Lui rimase a osservarla per un po’, poi spostò la sedia in modo da posizionarsi proprio di fronte a lei. Nora cercò con lo sguardo un badge con il nome, ma non lo indossava. Si domandò se avrebbe dovuto conoscere il suo nome.

«Mi chiamo Hugo» le disse, con sollievo di Nora. «Hugo Lefèvre. Tu sei Nora, vero?».

«Sì».

«Ti ho vista in giro, alle Svalbard, al centro ricerche, ma non ci siamo mai presentati. Comunque, volevo dirti che ho letto il tuo articolo sui ghiacciai pulsanti e mi ha veramente colpito».

«Davvero?».

«Sì. Sai, l’argomento mi ha sempre affascinato, capire perché si manifesta qui e da nessun’altra parte. È un fenomeno stranissimo».

«La vita è piena di strani fenomeni».

La conversazione era allettante, ma pericolosa. Nora gli rivolse un sorriso gentile, appena accennato, e poi si voltò verso la finestra. Le isole di ghiaccio erano diventate delle vere isole. Basse colline striate di neve, come la cima delle montagne, oppure lande di terra pianeggianti e frastagliate. E dietro a tutto questo, il ghiacciaio che Nora aveva scorto dall’oblò. Da quella visuale adesso riusciva a coglierne meglio le dimensioni, sebbene la punta più alta fosse nascosta da una calotta di nebbia. Altre zone invece erano completamente libere dalla foschia. Uno spettacolo straordinario.

Si guarda la fotografia di un ghiacciaio su un giornale o in televisione, e non si vede altro che una massa liscia e bianca. Invece la superficie di quel ghiacciaio era variegata come quella di una montagna. Andava dal nero al marrone al bianco. E c’erano infinite varietà di bianco, un’intera miriade di variazioni – bianco puro, bianco con sfumature di blu, bianco con sfumature turchesi, bianco dorato, bianco argenteo, bianco translucido – che lo rendevano di una vivezza abbagliante e sorprendente. Di sicuro più sorprendente della colazione.

«Deprimente, vero?» esclamò Hugo.

«Che cosa?».

«Il fatto che il giorno non finisca mai».

L’osservazione la mise a disagio. «In che senso?».

Lui attese un istante prima di rispondere.

«Questa luce che non ha mai fine» rispose Hugo, prima di dare un morso a un cracker secco. «Da aprile in poi. È come vivere una giornata interminabile… Detesto questa sensazione».

«Dimmi di più».

«Uno poi si immagina che mettano delle tendine davanti agli oblò. Non sono praticamente riuscito a prendere sonno, da quando sono su questa barca».

Nora fece un cenno col capo. «E da quando sarebbe?».

Hugo rise. Una bella risata. A bocca chiusa. Educata. Non sembrava neppure una risata.

«Ho bevuto parecchio con Ingrid ieri sera. La vodka mi ha rubato la memoria».

«Sei sicura che sia la vodka?».

«Cos’altro potrebbe essere?».

Il suo sguardo inquisitorio la fece sentire automaticamente colpevole.

Guardò Ingrid, che stava bevendo il caffè mentre scriveva qualcosa al computer. Se solo fosse andata a sedersi vicino a lei.

«Comunque, questa è la nostra terza notte» disse Hugo. «Navighiamo attorno all’arcipelago da domenica. Già, da domenica. Da quando abbiamo lasciato Longyearbyen».

Nora assunse l’espressione di chi è perfettamente al corrente di tutto. «Domenica sembra così in là nel tempo».

Ebbe la sensazione che la barca stesse per virare. Nora fu costretta a piegarsi leggermente sulla sedia.

«Vent’anni fa alle Svalbard in aprile le acque praticamente non erano navigabili. Guarda adesso. Sembra di stare in crociera sul Mediterraneo».

Nora fece del suo meglio per sorridere in maniera rilassata. «Non esattamente».

«A ogni modo, ho sentito dire che oggi il bastoncino più corto è toccato a te».

Nora cercò di assumere un’aria inespressiva, cosa che non le fu affatto difficile. «Ma davvero?».

«Sei tu la vedetta, giusto?».

Non aveva la più pallida idea di che cosa stesse parlando, ma temeva quel luccichio nel suo sguardo.

«Sì» rispose. «Sì, è così. Sono io la vedetta».

Gli occhi di Hugo si spalancarono in un’espressione sgomenta. A metà tra l’attonito e il canzonatorio. Difficile riconoscere la differenza con uno come lui.

«La vedetta?».

«Sì?».

Nora avrebbe voluto sapere disperatamente che cosa volesse dire fare la vedetta, ma non osò chiederlo.

«Beh, allora bonne chance» proseguì Hugo, scrutandola con uno sguardo indagatore.

«Merci» gli rispose Nora, voltando il capo verso la nitida luce dell’Artico e un paesaggio che aveva visto soltanto sulle riviste. «Sono pronta per la sfida».

CAMMINANDO IN TONDO

Un’ora più tardi Nora si trovava su una protuberanza rocciosa ricoperta di neve. Uno scoglio, più che un’isola. Un luogo talmente piccolo e inospitale da non avere neppure un nome, sebbene un’isola più grande – a cui avevano affibbiato l’infelice nome di Isola degli Orsi – si intravedesse dall’altro lato dell’acqua ghiacciata. Nora se ne stava in piedi vicino a una barca. Non la Lance, la grossa barca su cui aveva fatto colazione – tranquillamente ormeggiata al sicuro al largo – ma il piccolo gommone a motore che era stato tirato fuori dall’acqua praticamente con una mano sola da un macigno chiamato Rune il quale, nonostante il nome nordico, parlava con una languida inflessione americana della West Coast.

Ai piedi di Nora c’era uno zaino giallo fosforescente. E, in terra, il fucile Winchester che aveva visto appoggiato contro il muro della cabina. Era il suo fucile. In questa vita lei possedeva un’arma da fuoco. Accanto al fucile, una pentola con dentro un mestolo. In mano teneva un’arma meno letale – una pistola da segnalazione pronta a sparare un razzo in aria.

Aveva scoperto che genere di “vedetta” avrebbe dovuto essere. Mentre altri nove scienziati conducevano una ricerca sul campo che aveva per oggetto i cambiamenti climatici su quella minuscola isola, lei doveva avvistare gli orsi polari. A quanto pareva era più che una possibilità. E se ne avesse visto uno, la prima cosa da fare era sparare un razzo. Questo sarebbe servito a due cose: a) far scappare l’orso e b) avvertire gli altri.

Non era proprio una cosa da niente. Gli esseri umani erano un’appetitosa fonte di proteine, ed era risaputo che gli orsi non si facevano spaventare facilmente, soprattutto negli ultimi anni, quando la perdita del loro habitat naturale e la scarsità di cibo li avevano resi ancora più vulnerabili, costringendoli a diventare più temerari.

«Appena hai sparato il razzo» le suggerì il più anziano del gruppo, un uomo glabro dai lineamenti duri che si chiamava Peter ed era a capo delle ricerca, e parlava sempre in un costante fortissimo, «batti la pentola con il mestolo. Batti come una pazza e mettiti a urlare. Hanno orecchie sensibili. Sono come i gatti. Nove volte su dieci, il rumore li terrorizza e scappano».

«E cosa succede la decima volta?».

Fece un cenno col capo in direzione del fucile. «Lo uccidi. Prima che sia lui a uccidere te».

Nora non era l’unica a possedere un fucile. Tutti ne avevano uno. Erano degli scienziati armati. Comunque sia, Peter scoppiò in una risata e Ingrid le diede una pacca sulla schiena.

«Spero davvero» esclamò Ingrid con voce roca, «che tu non finisca divorata. Mi mancheresti. Se non hai le mestruazioni, non dovresti avere problemi».

«Mio Dio. Che cosa?».

«Sentono l’odore del sangue da chilometri di distanza».

Un’altra persona – qualcuno talmente intabarrato che sarebbe stato impossibile riconoscerlo, anche se avesse saputo chi era – le augurò buona fortuna con voce ovattata e distante.

«Saremo di ritorno tra cinque ore» le disse Peter. Rise di nuovo e Nora sperò che si trattasse di uno scherzo. «Cammina in tondo per tenerti al caldo».

E così dicendo si allontanarono, inoltrandosi sul terreno roccioso e sparendo ben presto nella nebbia.

Per un’ora non accadde niente. Nora girò in tondo. Saltellava dal piede sinistro a quello destro. La nebbia si era diradata leggermente, e si mise a osservare il panorama. Si domandò perché non avesse ancora fatto ritorno alla biblioteca. Dopotutto, quella era veramente una merda. Ci doveva pur essere una vita in cui se ne stava seduta al sole in piscina in quel preciso momento. Vite in cui suonava, o stava a mollo in una vasca di acqua calda che profumava di lavanda, oppure mangiava in qualche ristorante stellato, o vagabondava per le strade di Parigi, o si perdeva nelle vie di Roma, o contemplava in tutta tranquillità un tempio vicino a Kyoto, o assaporava quel piacevole senso di protezione che ti dà una relazione felice.

Nella maggior parte di quelle vite perlomeno si sarebbe sentita fisicamente a proprio agio. E tuttavia, adesso provava qualcosa di nuovo. O qualcosa di vecchio che aveva sepolto da tanto tempo dentro di sé. Quel paesaggio glaciale le ricordava che lei era, prima di tutto e più di qualsiasi altra cosa, un essere umano che viveva su questo pianeta. Si rese conto che quasi tutto ciò che aveva fatto nella vita – quasi tutto ciò che aveva comprato e per cui aveva lavorato e che aveva consumato – l’aveva allontanata dalla consapevolezza di riconoscere che lei e gli altri esseri umani erano in realtà soltanto una delle nove milioni di specie che abitavano la terra.

«Se uno cammina felice nella direzione dei suoi sogni» aveva scritto Thoreau in Walden, «e cerca di vivere la vita che si è immaginato, incontrerà un successo inatteso nelle ore qualunque». Aveva anche sottolineato che questo successo era il risultato di aver vissuto da solo. «Non ho mai trovato un compagno così socievole quanto la solitudine»4.

Nora si sentiva esattamente così, in quel momento. Sebbene fosse sola da appena un’ora, non aveva mai sperimentato una solitudine così profonda come in quel momento, in mezzo a una natura disabitata.

Durante le ore notturne popolate da istinti suicidi aveva pensato che il suo problema fosse proprio la solitudine. Ma questo dipendeva dal fatto che non si trattava di una vera solitudine. In una città affollata, la mente solitaria brama un punto di contatto, perché ritiene che il rapporto di un essere umano con un altro essere umano sia il nodo di tutto. Ma in mezzo alla natura allo stato puro (o il «tonico della selvatichezza» come lo definiva Thoreau), la solitudine assumeva una diversa connotazione. Diventava lei stessa una sorta di relazione. Una relazione tra lei e il mondo. E tra lei e la sua essenza.

Le tornò in mente una conversazione che aveva avuto con Ash. Un ragazzo alto, un po’ stralunato e molto carino, che era sempre alla ricerca di qualche nuovo spartito per la sua chitarra.

La conversazione non si era svolta nel negozio di dischi ma in ospedale, quando sua madre era malata. Poco dopo aver scoperto di avere un tumore alle ovaie, aveva dovuto subire un’operazione. Nora l’aveva accompagnata da tutti gli specialisti dell’ospedale di Bedford, tenendola per mano molto più spesso in quelle poche settimane di quanto non avesse fatto in tutta la loro vita insieme.

Mentre sua madre veniva operata Nora aveva atteso nel bar dell’ospedale. E Ash – con il camice addosso, e riconoscendo in lei la persona con cui si era spesso intrattenuto allo String Theory – si era accorto della sua aria preoccupata e si era avvicinato per salutarla.

Lavorava all’ospedale come chirurgo di medicina generale, e lei aveva finito per fargli un mucchio di domande sul genere di cose di cui si occupava (quel giorno aveva rimosso un’appendice e liberato un dotto biliare). Gli aveva anche domandato quali fossero la prassi e la tempistica di un normale recupero post operatorio, e lui l’aveva molto rassicurata. Avevano chiacchierato a lungo di ogni genere di argomento, come se lui si fosse accorto di quanto ne avesse bisogno. Si era raccomandato di non andare a leggere su Internet i sintomi delle malattie. E questo li aveva condotti a parlare di social media – Ash era dell’idea che più la gente intratteneva rapporti sui social, tanto più profondo diventava il grado di solitudine nella nostra società.

«È questo il motivo per cui tutti si detestano» affermò. «Per un eccesso di amici che non sono amici. Hai mai sentito parlare del numero di Dunbar?».

E così le aveva raccontato di un uomo che si chiamava Roger Dunbar e insegnava all’università di Oxford, il quale aveva scoperto che gli esseri umani sono predisposti per conoscere soltanto centocinquanta persone, in quanto quella è la media delle comunità dei popoli cacciatori-raccoglitori».

«E il Domesday Book?»5 aveva proseguito Ash, alla luce fredda del bar dell’ospedale. «Stando a quello che c’è scritto lì, una comunità inglese dell’epoca era composta in media da centocinquanta individui. Fatta eccezione per il Kent. Dove la media era cento. Io sono del Kent. Il nostro è un DNA asociale».

«Sono stata nel Kent» aveva argomentato Nora. «Me ne sono accorta. Però mi piace questa teoria. Potrei incontrare la stessa quantità di persone in un’ora su Instagram».

«Esattamente. Esiziale! Il nostro cervello non riesce a gestirlo. Il che spiega perché desideriamo comunicare con gli altri faccia a faccia, oggi più che mai. Ed ecco… perché non comprerei mai online uno spartito per chitarra acustica di Simon&Garfunkel».

Sorrise a quel ricordo, poi un tonfo molto forte la riportò alla realtà del paesaggio artico.

Ad alcuni metri da lei, tra il promontorio roccioso su cui si trovava e l’Isola degli Orsi, c’era un’altra piccola roccia, o meglio una serie di rocce, che spuntavano dall’acqua. Qualcosa stava emergendo dalla schiuma del mare. Qualcosa di pesante, che andò a sbattere contro la pietra col suo peso grosso e bagnato. Col corpo tremante, si preparò per sparare il razzo, ma non si trattava di un orso polare. Era un tricheco. Il grasso animale, marrone e rugoso, si trascinò sul ghiaccio, poi si fermò a osservarla. Lei (o lui) sembrava vecchia, persino per un tricheco. Non era affatto intimidito e sostenne a lungo lo sguardo di Nora, che era terrorizzata. Conosceva soltanto due cose sui trichechi: che potevano essere aggressivi, e che non restavano mai soli a lungo.

Probabilmente ce n’erano altri pronti a sbucare fuori dall’acqua.

Si domandò se avrebbe dovuto sparare il razzo.

L’animale non si mosse, come il fantasma di se stesso avvolto da una pallida luce, per poi sparire a poco a poco dietro un velo di nebbia. Passarono i minuti. Nora aveva addosso sette strati di indumenti, ma sentiva le palpebre irrigidirsi, e sapeva che si sarebbero congelate se le avesse tenute chiuse troppo a lungo. Di tanto in tanto le giungevano le voci degli altri e, per un breve istante, i colleghi arrivarono così vicini da riuscire a intravedere qualcuno di loro. Figure nella nebbia, chine sul terreno, a decifrare campioni di ghiaccio con strumenti che non avrebbe saputo riconoscere. Poi sparirono di nuovo. Mangiò una delle barrette proteiche che aveva nello zaino. Era fredda e dura come una caramella mou. Controllò il cellulare, ma non c’era segnale.

Silenzio assoluto.

Comprese quanto rumore ci fosse in qualunque altra parte del mondo. In quel luogo, il rumore aveva un significato. Sentivi qualcosa e sapevi di dover stare all’erta.

Mentre masticava udì un altro tonfo, questa volta proveniente da un’altra direzione. La combinazione di nebbia e luce fioca rendevano difficile vedere distintamente. Stavolta non si trattava di un tricheco. Le fu subito chiaro quando vide che il profilo della cosa che si stava dirigendo verso di lei era grande. Più grande di un tricheco, e molto più grande di un essere umano.

 

 

 

4 Henry David Thoreau, Walden ovvero Vita nei boschiop.cit.

5 Letteralmente, “libro del giorno del giudizio”, nome dato al più antico catasto inglese, compilato forse nel 1086 per ordine di Guglielmo il Conquistatore.


UN MOMENTO DI CRISI TOTALE NEL MEZZO DEL NIENTE

«Oh, cazzo!» sussurrò Nora nell’aria gelida.

LA FRUSTRAZIONE DI NON RIUSCIRE
A TROVARE UNA BIBLIOTECA
QUANDO NE HAI VERAMENTE BISOGNO

La nebbia si diradò per lasciare il passo a un enorme orso bianco, che si teneva in posizione eretta. Poi si abbatté su tutte e quattro le zampe continuando ad avanzare verso di lei con sorprendente velocità e una grazia greve e terrificante. Nora non si mosse. Il panico le aveva mandato in tilt il cervello. Era immobile come il permafrost su cui stava.

Cazzo.

Cazzo cazzo.

Cazzo cazzo porca di una puttana.

Cazzo cazzo cazzo cazzo cazzo.

Alla fine l’istinto di sopravvivenza ebbe la meglio e Nora sollevò in aria la pistola e sparò. Il razzo schizzò come una minuscola cometa per poi sparire nell’acqua, mentre il bagliore si inabissava insieme alla sua speranza. La creatura continuava a procedere nella sua direzione. Nora cadde in ginocchio e cominciò a battere il mestolo con forza contro la pentola e si mise a urlare con tutto il fiato che aveva in gola.

ORSO! ORSO! ORSO!

L’orso si arrestò, per un istante.

ORSO! ORSO! ORSO!

Riprese la sua marcia.

Il frastuono non funzionava. L’orso era vicino. Si domandò se sarebbe riuscita a raggiungere il fucile che era appoggiato sul ghiaccio, appena troppo lontano. Vide le grosse zampe armate di artigli che premevano sulla roccia imbiancata dalla neve. Teneva il muso basso e gli occhi scuri fissi su di lei.

«BIBLIOTECA!» urlò Nora. «MRS ELM! PER FAVORE MI RIPORTI INDIETRO! QUESTA È LA VITA SBAGLIATA! È VERAMENTE VERAMENTE VERAMENTE SBAGLIATA! MI RIPORTI INDIETRO! NON VOGLIO L’AVVENTURA! MA DOV’È LA BIBLIOTECA?! VOGLIO LA BIBLIOTECA!».

Non c’era odio nello sguardo dell’orso. Nora era soltanto cibo. Carne. Un terrore che la umiliava. Il cuore le martellava nel petto come un batterista al culmine della sua esibizione, in crescendo. La fine della canzone. In quel preciso momento inaspettatamente tutto le fu chiaro:

Non voleva morire.

Il problema era proprio quello. Di fronte alla morte, la vita le pareva più bella, e visto che la vita le pareva più bella, come faceva a tornare alla Biblioteca di Mezzanotte? Doveva essere delusa da una vita, non soltanto spaventata, per poter provare un altro libro.

Eccola, la morte. Violenta, ignara, con le sembianze di un orso, che stava lì a fissarla coi suoi occhi neri. Comprese allora, meglio di qualunque altra cosa avesse imparato prima, che non era pronta a morire. Questa consapevolezza divenne più forte della paura mentre lei se ne stava lì, faccia a faccia con un orso polare, anche lui affamato e disperatamente desideroso di vivere, così riprese a battere il mestolo contro la pentola. Ancora più forte. Un bang, bang, bang veloce, staccato.

Io. Non. Ho. Paura.

Io. Non. Ho. Paura.

Io. Non. Ho. Paura.

Io. Non. Ho. Paura.

Io. Non. Ho. Paura.

Io. Non. Ho. Paura

L’orso se ne stava lì a fissarla, come aveva fatto prima il tricheco. Nora gettò un rapido sguardo verso il fucile. Sì. Era troppo lontano. Prima che potesse afferrarlo e capire come sparare, sarebbe stato troppo tardi. Dubitò di poter uccidere un orso polare, a ogni modo. Così continuò a battere con il mestolo.

Nora chiuse gli occhi, sperando di ritrovarsi nella biblioteca, senza smettere di fare rumore. Quando li riaprì l’orso stava scivolando di testa nell’acqua. Continuò a battere sulla pentola anche dopo che la creatura era scomparsa. Circa un minuto dopo udì degli esseri umani che la chiamavano per nome attraverso il velo di nebbia.

ISOLA

Era sotto shock. Ma uno shock un po’ diverso da quello che le altre persone sul gommone immaginavano. Non era lo sgomento di essersi sentita prossima alla morte. Ma di essersi resa conto che in realtà lei voleva vivere.

Superarono un’isoletta brulicante di natura. Verdi licheni crescevano sulle rocce. Uccelli – piccole gazze e pulcinelle di mare radunate in gruppo – stretti l’uno contro l’altro per resistere al vento dell’Artico. La vita che sopravvive alle avversità.

Nora sorseggiò il caffè che Hugo le aveva offerto, appena versato dalla fiaschetta. Aveva le mani fredde malgrado indossasse tre paia di guanti.

Essere parte della natura significava essere parte di quella voglia di vivere.

Quando si abita troppo a lungo in un posto si tende a dimenticare quanto sia vasto il mondo. Si perde il senso della latitudine e della longitudine. Nello stesso modo in cui, forse, è difficile percepire la vastità dentro ogni individuo.

Ma una volta che si percepisce questa vastità, una volta che qualcosa la fa emergere, allora affiora la speranza, che uno lo voglia o no, e ti si aggrappa con la stessa tenacia dei licheni che si aggrappano alle rocce.

PERMAFROST

La temperatura della superficie terrestre alle Svalbard aumentava a una velocità doppia rispetto alla media mondiale. Il cambiamento climatico qui avveniva più velocemente che in qualsiasi altro luogo sulla Terra.

Una donna, con indosso un berretto di lana viola calzato sugli occhi, raccontò di essere stata testimone del ribaltamento di un iceberg – probabilmente a causa del riscaldamento delle acque che l’avevano disciolto alla base, destabilizzandolo.

Un altro problema era che il permafrost si stava sciogliendo, ammorbidendo in questo modo il terreno, e provocando smottamenti e valanghe che avrebbero potuto distruggere le case di legno di Longyearbyen, la più grande cittadina delle Svalbard. In aggiunta, c’era il rischio che i corpi sepolti nel cimitero locale affiorassero in superficie.

Era stimolante stare in compagnia di quegli scienziati che tentavano di scoprire con esattezza che cosa stesse accadendo al pianeta, che provavano a osservare le variazioni climatiche e i mutamenti dei ghiacciai, cercando in questo modo di informare le persone e proteggere la vita sulla Terra.

Una volta risalita a bordo della barca Nora andò a sedersi tranquillamente nella sala da pranzo, mentre tutti le dimostravano la loro vicinanza per l’incontro con l’orso. Non era in grado di esprimere quanto fosse grata per quella esperienza. Si limitò a sorridere educatamente e fece del suo meglio per evitare ogni genere di conversazione.

Quella era una vita intensa, senza compromessi. In quel momento c’erano diciassette gradi sotto zero, aveva appena corso il rischio di essere divorata da un orso polare, e tuttavia forse il problema principale della sua vita originaria era proprio l’essere così piatta, insipida.

Nora era giunta alla conclusione che mediocrità e delusione fossero le cifre della sua esistenza.

In effetti aveva sempre avuto la sensazione di discendere da una lunga tradizione di rimpianti e speranze disilluse, che parevano ripresentarsi a ogni generazione successiva.

Prendiamo per esempio suo nonno materno, Lorenzo Conte. Aveva lasciato la Puglia – il meraviglioso tacco dello stivale d’Italia – per trasferirsi nella Swinging London degli anni Sessanta.

Come altri suoi concittadini della desolata città portuale di Brindisi era emigrato in Inghilterra, barattando una vita sul mare Adriatico con un lavoro alla London Brick Company. Lorenzo, nella sua ingenuità, si era immaginato una vita meravigliosa – di giorno a costruire mattoni, e la sera gomito a gomito con i Beatles e a passeggiare a braccetto con Jean Shrimpton o Marianne Faithfull per Carnaby Street. L’unico problema era che, malgrado il nome, la London Brick Company in realtà non aveva sede a Londra. Si trovava a un centinaio di chilometri a nord della città, a Bedford che, considerando le sue modeste attrattive, si rivelò essere molto meno swinging di quanto avrebbe desiderato Lorenzo. Il quale tuttavia scese a un compromesso con i suoi sogni e decise di stabilirsi lì. Forse il lavoro non era granché, ma era ben pagato.

Lorenzo si sposò con una ragazza del posto che si chiamava Patricia Brow, la quale a sua volta stava diventando avvezza alle delusioni della vita, avendo barattato il suo sogno di diventare attrice con il palcoscenico ordinario e ripetitivo da casalinga di periferia. Le sue doti culinarie rimasero per sempre vittima dell’ombra spaventosa della suocera pugliese defunta e dei suoi leggendari spaghetti che, agli occhi di Lorenzo, non avrebbero mai potuto essere eguagliati.

Dopo circa un anno dal matrimonio nacque una bambina – la madre di Nora – che chiamarono Donna.

Donna crebbe assistendo alle liti continue dei suoi genitori, e di conseguenza con la convinzione che il matrimonio fosse non soltanto inevitabile, ma anche inevitabilmente triste. Lavorò dapprima come segretaria in uno studio legale e in seguito come addetta stampa del comune di Bedford. Poi però avvenne qualcosa nella sua vita di cui non parlò mai apertamente, almeno non con Nora. Fu colpita da un esaurimento nervoso – il primo di molti – che la costrinse a casa e, anche se si ristabilì, non rientrò mai più al lavoro.

Un invisibile testimone fatto di fallimenti, che sua madre le aveva passato e che Nora aveva conservato per molto tempo. Forse era per questa ragione che aveva rinunciato a così tante cose. Perché nel suo DNA era scritto che lei era destinata al fallimento.

Nora era immersa in questi pensieri mentre la barca procedeva scoppiettando in mezzo alle acque dell’Artico e i gabbiani – o meglio esemplari di Rissa tridactyla, secondo Ingrid – volteggiavano sulla sua testa.

In entrambi i rami della sua famiglia esisteva questa convinzione inespressa che la vita fosse fatta per fotterti. Il padre di Nora, Geoff, aveva sicuramente vissuto un’esistenza che pareva aver mancato il bersaglio.

Era stato cresciuto dalla madre, perché il padre era morto d’infarto quando lui aveva due anni, andandosi spietatamente a nascondere in qualche anfratto dietro i suoi primi ricordi. La nonna paterna di Nora era nata nell’Irlanda rurale ma era emigrata in Inghilterra per finire a fare le pulizie in una scuola, faticando per portare a casa i soldi sufficienti a comprare da mangiare. Di qualcosa che potesse anche solo avvicinarsi all’idea di divertimento, neanche a parlarne.

Geoff era stato schernito dai compagni quando era piccolo, ma era diventato abbastanza grande e grosso per rimettere quei bulletti al loro posto. Lavorava sodo e si era scoperto molto dotato per il football, il lancio del peso, e in particolare per il rugby. Giocava nella squadra giovanile dei Bedford Blues ed era diventato il loro migliore giocatore, e aveva vissuto il suo momento di celebrità prima che un incidente al legamento collaterale gli sbarrasse la strada. In seguito era diventato un insegnante di educazione fisica che si consumava guardando all’universo con silenzioso rancore. Aveva sempre sognato di viaggiare, ma non era mai andato oltre un abbonamento al National Geographic e a una sporadica vacanza da qualche parte nelle Cicladi – Nora ricordava un’immagine di lui a Naxos, mentre faceva una foto al Tempio di Apollo all’imbrunire.

Forse però è così che sono fatte le vite di ognuno. Forse persino quelle all’apparenza così perfette nella loro intensità, o degne di essere vissute, alla fine hanno lo stesso sapore. Acri di disillusione e monotonia e ferite e rivalità, intervallati da sprazzi di meraviglia e di bellezza. Forse era questo l’unico significato che aveva davvero importanza. Essere il mondo, testimone di se stesso. Probabilmente non era la mancanza di risultati ad aver reso infelici i genitori suoi e di suo fratello, ma proprio l’aspettativa di dover raggiungere qualcosa. Nora non aveva idea di cosa volesse dire tutto questo. Su quella barca però comprese una cosa. Aveva amato i suoi genitori più di quanto non si fosse mai resa conto, e in quel preciso momento il suo perdono nei loro confronti fu assoluto.

UNA NOTTE A LONGYEARBYEN

Impiegarono due ore per rientrare nel porticciolo di Longyearbyen. Si trovavano nella città più a nord di tutta la Norvegia – e del mondo, una cittadina con una popolazione di circa duemila abitanti.

Nora possedeva queste nozioni di base dalla sua prima vita. Dopotutto subiva il fascino di quella zona dell’universo da quando aveva undici anni, ma le sue conoscenze non andavano oltre gli articoli delle riviste che aveva letto, e quindi si sentiva a disagio a prendere parte a una conversazione.

A ogni modo il viaggio di ritorno in barca era andato bene, perché la sua incapacità di discutere di rocce e ghiaccio e campioni di piante che avevano raccolto, o di comprendere espressioni quali “substrati rocciosi striati di basalto” o “isotopi postglaciali” era stata imputata al trauma dovuto all’incontro con l’orso.

E certamente Nora si trovava in uno stato di shock. Non però per il motivo che immaginavano i colleghi. Il trauma non era quello di aver pensato di essere sul punto di morire. Era stata sul punto di morire dal momento stesso in cui era entrata nella Biblioteca di Mezzanotte. No, il trauma era che sentiva di essere sul punto di tornare a vivere. O perlomeno, di immaginare di desiderare di essere di nuovo viva. E avrebbe voluto realizzare qualcosa di buono con quella vita.

La vita di un essere umano, secondo il filosofo scozzese David Hume, per l’universo non ha più importanza della vita di un’ostrica.

Ma se la vita era sufficientemente importante per indurlo a scrivere questo pensiero, allora forse lo era anche per provare l’ambizione di fare qualcosa di buono. Di aiutare a preservare la vita, in tutte le sue forme.

Le era parso di capire che il lavoro di quell’altra Nora e dei suoi colleghi scienziati consistesse nel determinare a quale velocità il ghiaccio e i ghiacciai si stessero sciogliendo in quella regione, per valutare la velocità del cambiamento climatico. In realtà facevano molto di più, ma quello era il nucleo del loro lavoro, da quanto aveva potuto intuire Nora.

E quindi, in questa vita, lei stava facendo la sua parte per salvare il pianeta. O almeno per monitorare la costante devastazione del pianeta, con l’obiettivo di mettere in guardia le persone sulle problematiche legate all’ambiente. Era potenzialmente deprimente, ma anche importante e in ultima analisi fondamentalmente appagante, pensò. Aveva uno scopo. Un significato.

Erano molto colpiti. Gli altri. Per quella faccenda dell’orso polare. Nora era una specie di eroina – non come quando era stata campionessa olimpica di nuoto, ma in un modo altrettanto soddisfacente.

Ingrid la cinse con un braccio. «Sei la nostra guerriera della pentola. Ritengo che dovremmo sottolineare la tua audacia, e le nostre scoperte potenzialmente rivoluzionarie, con una cenetta. Una bella cenetta. E della vodka. Peter, che ne pensi?».

«Una bella cenetta? A Longyearbyen? È un’opzione possibile?».

A quanto pareva lo era.

Di ritorno sulla terraferma si diressero verso un’elegante capanna di legno chiamata Gruvelageret, appollaiata in fondo a una stradina solitaria in una valle austera, imbiancata di neve fresca. Nora bevve della birra artica e sorprese i suoi compagni ordinando l’unica opzione vegana su un menu che offriva bistecca di renna e hamburger di alce. Doveva avere l’aria stanca perché molti suoi colleghi glielo fecero notare, ma forse dipendeva semplicemente dal fatto che non erano molti gli argomenti di conversazione su cui si sentiva in grado di intervenire con disinvoltura. Era come una neopatentata ferma a un incrocio trafficato, nervosamente in attesa che la strada si liberasse.

C’era anche Hugo. Sempre con l’aria di uno che avrebbe preferito trovarsi ad Antibes o a Saint-Tropez. Nora si sentiva un po’ a disagio, o meglio decisamente osservata, mentre lui la fissava.

Mentre camminavano di buona lena verso i loro alloggi, che a Nora ricordavano le residenze universitarie ma più piccole e più nordiche e più lignee e più minimaliste, Hugo affrettò il passo per raggiungerla e camminarle accanto.

«Interessante» disse.

«Cos’è che è interessante?».

«Il fatto che stamattina a colazione non sapessi chi ero».

«Perché? Neanche tu sapevi chi ero».

«Certo che lo sapevo. Ieri abbiamo parlato per circa due ore».

Nora intuì di stare per finire in qualche trappola. «Davvero?».

«Ti ho osservata a colazione prima di sedermi vicino a te, mi ero accorto che oggi eri diversa».

«Un po’ inquietante, Hugo. Osservare le donne mentre fanno colazione».

«E ho notato alcune cose».

Nora si coprì il viso con la sciarpa. «Fa troppo freddo. Possiamo parlarne domattina?».

«Ho notato che stavi improvvisando. Ti sei limitata a fare osservazioni piuttosto vaghe, su qualunque argomento».

«Non è così. Sono soltanto sconvolta. Sai, l’orso».

«Non. Ce n’est pas ça. Sto parlando di ciò che è successo prima dell’orso. E dopo. E tutto il giorno».

«Non so di cosa tu stia…».

«Uno sguardo preciso. L’ho già visto prima in altre persone. Lo riconoscerei ovunque».

«Non ho idea di cosa tu stia parlando».

«Perché i ghiacciai pulsano?».

«Cosa?».

«Questo è il tuo campo. È il motivo per cui sei qui, non è così?».

«Non è certo questo l’unico argomento di cui si occupa la scienza».

«Okay. Bien. Allora dimmi il nome dei ghiacciai di questa zona. I ghiacciai hanno un nome. Dimmene uno… Kongsbreen? Nathorstbreen? Ti suona familiare?».

«Non ho nessuna intenzione di continuare questa conversazione».

«Perché non sei la stessa persona che eri ieri, giusto?».

«Nessuno di noi lo è» tagliò corto Nora bruscamente. «Il nostro cervello muta. Si definisce neuroplasticità. Piantala con queste tue spiegazioni da maschietto saccente sui ghiacciai, assolutamente non richieste, a una glaciologa».

Hugo sembrò battere leggermente in ritirata e Nora si sentì in colpa. Un breve istante di silenzio. Soltanto lo scricchiolio delle suole sulla neve. Erano quasi arrivati ai loro alloggi, gli altri li seguivano a breve distanza.

Ma in quel momento, lui lo disse.

«Sono come te, Nora. Visito vite che non sono la mia. Sono in questa da cinque giorni. Ma sono stato in molte altre. Mi è stata concessa una possibilità – una possibilità molto rara. Scivolo tra una vita e l’altra ormai da molto tempo».

Ingrid la afferrò per un braccio.

«Ho ancora un po’ di vodka» le annunciò mentre raggiungevano la porta d’entrata. Prese la tessera magnetica col guanto e la appoggiò sul lettore. La porta si aprì.

«Ascolta» bisbigliò Hugo con fare cospiratorio. «Se vuoi saperne di più, incontriamoci in cucina tra cinque minuti».

Nora sentì il cuore che accelerava, ma questa volta non aveva a disposizione un mestolo o una pentola da percuotere. A dire il vero questo Hugo non le piaceva neanche tanto, ma era troppo incuriosita per non voler ascoltare ciò che aveva da dire. E voleva anche capire se poteva fidarsi di lui.

«Va bene» si arrese infine. «Ci sarò».

ASPETTATIVE

Nora aveva sempre avuto difficoltà ad accettarsi. Se riandava indietro con la memoria, provava la stessa sensazione di inadeguatezza che l’aveva accompagnata per tutta la vita. I genitori, che soffrivano entrambi per le proprie insicurezze, avevano alimentato questa sua percezione.

In quel momento pensò a come sarebbe stato accettarsi, completamente. Ogni singolo errore. Ogni singola cicatrice sul suo corpo. Ogni singolo sogno mai realizzato, ogni singolo dolore che aveva provato. Ogni desiderio o aspirazione che aveva soffocato dentro di lei.

Pensò a come sarebbe stato accettare tutto questo. Nello stesso modo in cui accettava la natura, o un ghiacciaio o una pulcinella di mare o il salto di una balena.

Immaginò se stessa come una delle tante bizzarre manifestazioni della natura. Un’altra delle tante creature senzienti, che cerca di fare del suo meglio.

E mentre rifletteva su tutte queste cose, pensò a come sarebbe stato essere libera.

LA VITA E LA MORTE E LA FUNZIONE D’ONDA

Per Hugo, non si trattava di una biblioteca.
«È un negozio di videocassette» le rivelò, appoggiato allo stipite della credenza dall’aspetto un po’ dozzinale dove tenevano il caffè. «Assomiglia esattamente al negozio di videocassette in cui andavo di solito nella periferia di Lione – Vidéo Lumière – dove sono cresciuto. I fratelli Lumière sono degli eroi per Lione, e moltissime cose portano il loro nome. Hanno inventato il cinema in quella città. A ogni modo, non è questo il punto: il punto è che ogni vita che scelgo è un vecchio VHS che mi metto a guardare proprio nel negozio, e nel momento in cui inizia – il momento in cui inizia il film – è anche il momento in cui scompaio».

Nora soffocò una risatina.

«Cosa c’è di così divertente?» chiese Hugo, un po’ risentito.

«Niente. Niente, davvero. Mi è solo sembrata una cosa divertente. Un negozio di videocassette».

«Oh, e una biblioteca allora? Ti sembra così normale?».

«Decisamente. Almeno i libri si usano ancora. Chi è che guarda le videocassette ormai?».

«Interessante. Non avevo idea che potesse esistere anche uno snobismo del mondo di mezzo. C’è molto da imparare da te».

«Ti chiedo scusa, Hugo. Va bene, farò una domanda intelligente. C’è qualcun altro in quel posto? Una persona che ti aiuta a scegliere le vite?».

Annuì. «Certamente. Mio zio Philippe. È morto parecchi anni fa. E non ha neanche mai lavorato in un negozio di videocassette. Non c’è nessuna logica».

Nora gli raccontò di Mrs Elm.

«La bibliotecaria della scuola?» esclamò Hugo in tono divertito. «Anche questo è alquanto bizzarro».

Nora lo ignorò. «Tu pensi che si tratti di fantasmi? Spiriti guida? Angeli custodi? Che cosa sono?».

Sembrava talmente assurdo, parlare di questo genere di cose in un centro di ricerca scientifica.

«Sono» disse Hugo gesticolando, come se stesse cercando di afferrare il termine esatto nell’aria, «un’interpretazione».

«Interpretazione?».

«Ho conosciuto altri come noi» le spiegò Hugo. «Vedi, sono in questo mondo di mezzo da tanto tempo. Ho incontrato altri come noi, altri viandanti. È così che li definisco. Che definisco noi. Siamo dei viandanti. Ciascuno di noi ha una vita originaria nella quale sta disteso da qualche parte, privo di coscienza, sospeso tra la vita e la morte, e poi giunge in un luogo. Che è sempre diverso. Una biblioteca, un negozio di videocassette, una galleria d’arte, un casinò, un ristorante… questo cosa ti suggerisce?».

Nora si strinse nelle spalle. Rifletté. Ascoltando il ronzio del riscaldamento centralizzato. «Che sono tutte cazzate? Che niente di tutto questo è reale?».

«No. Perché il formato è sempre lo stesso. Per esempio: c’è sempre qualcuno – una guida. Sempre soltanto una. E sempre qualcuno che ha aiutato la persona in questione in un momento significativo della sua vita. E parla sempre di vite originarie e di radici o di rami».

Nora ripensò a come l’aveva consolata Mrs Elm quando era morto suo padre. Era rimasta con lei, l’aveva confortata. Probabilmente era stato il gesto più gentile che le avessero mai rivolto in vita sua.

«E poi c’è sempre un’infinita varietà di scelte» continuò Hugo. «Un numero infinito di cassette, o di libri, o di dipinti, o di cibi… In questo momento sono uno scienziato. Ho vissuto molte vite in cui sono stato uno scienziato. Nella mia prima vita ho una laurea in biologia. In un’altra, ho anche vinto il Premio Nobel per la chimica. Sono stato un biologo marino che cercava di proteggere la Grande barriera corallina. Il mio punto debole era la fisica. All’inizio non avevo la minima idea di come scoprire cosa mi stesse succedendo. Finché in una delle mie vite non ho incontrato una donna che stava sperimentando ciò che sperimentiamo noi, e che nella sua vita originaria era una studiosa di fisica quantistica. La professoressa Dominique Bisset dell’università di Montpellier. Mi ha spiegato tutto. L’interpretazione a molti mondi della fisica quantistica. Per cui questo significa che noi…».

Un uomo con la barba rossiccia, dall’aria gentile e la pelle rosea che Nora non conosceva, entrò in cucina per risciacquare la sua tazza del caffè, poi rivolse a entrambi un sorriso.

«A domani» li salutò, con un leggero accento americano (forse canadese), prima di uscire strascicando le pantofole.

«Sì» gli fece Nora.

«A domani» lo salutò Hugo, prima di riprendere il filo del discorso – a bassa voce. «La funzione d’onda universale è una cosa reale, Nora. È ciò che sostiene la professoressa Bisset…».

«E cioè?».

Hugo alzò un dito. Un dito lievemente irritante, della serie “aspetta un attimo”. Nora resistette al fortissimo impulso di afferrarlo e torcerglielo. «Erwin Schrödinger…».

«Quello del gatto».

«Sì. Proprio lui. Quello del gatto. Ha affermato che nella fisica quantistica ogni possibilità alternativa avviene simultaneamente. Allo stesso tempo. Nello stesso luogo. Sovrapposizione quantistica. Il gatto nella scatola è contemporaneamente vivo e morto. Si potrebbe aprire la scatola e constatare che è vivo oppure morto, dipende, ma in un certo senso, anche dopo che la scatola è stata aperta, il gatto è ancora sia vivo che morto. Ogni universo esiste sovrapponendosi a ogni altro universo. Come un milione di immagini su carta copiativa, tutte con impercettibili variazioni all’interno della stessa figura. L’interpretazione a molti mondi nella fisica quantistica suggerisce che esiste un infinito numero di universi paralleli divergenti. Si entra in un nuovo universo in ogni istante della propria esistenza. Con qualunque decisione si prenda. Tradizionalmente si riteneva che non potesse esserci comunicazione o trasferimento tra questi mondi, anche se esistono nello stesso luogo, anche se esistono letteralmente a pochi millimetri da noi».

«E noi? Noi in effetti ci spostiamo».

«Esattamente. Sono qui, ma so anche che non ci sono. Sono anche sdraiato in un letto d’ospedale a Parigi, colpito da un aneurisma. Ma sto anche facendo paracadutismo in Arizona. E viaggiando nel sud dell’India. E sorseggiando del vino a Lione, e stando comodamente a bordo di uno yacht al largo della Costa Azzurra».

«Lo sapevo!».

«Vraiment?».

Nora decise che quell’Hugo era alquanto bello.

«Mi davi l’impressione di uno decisamente più a suo agio a passeggio sulla Croisette di Cannes, che in un’avventura nell’Artico».

Lui allargò le dita della mano destra come se fosse una stella marina. «Cinque giorni! Sono in questa vita da cinque giorni. Il mio record assoluto. Forse è questa la vita per me…».

«Interessante. Avrai una vita decisamente fredda».

«Chi può dirlo? Forse anche tu… Quello che intendo dire è che se l’orso non ti ha riportata indietro nella tua biblioteca, allora forse non c’è niente che lo farà». Prese a riempire il bollitore elettrico. «La scienza ci dice che la “zona grigia” tra la vita e la morte è un luogo misterioso. C’è un punto particolare nel quale non siamo né una cosa né l’altra. O meglio siamo entrambe. Vivi e morti. E in quel momento in mezzo a due binari avviene che talvolta, ma soltanto talvolta, ci trasformiamo in un gatto di Schrödinger che può essere non soltanto vivo o morto, ma anche tutte le possibilità quantistiche che esistono secondo la funzione d’onda universale, inclusa questa stessa possibilità in cui noi due ce ne stiamo qui a chiacchierare in una cucina in comune a Longyearbyen all’una di notte…».

Nora registrava tutte queste informazioni. Pensò a Volts, immobile e senza vita sotto il letto e sul ciglio della strada.

«Qualche volta però il gatto è morto, morto stecchito, punto».

«Cosa?».

«Niente. È solo che… il mio gatto è morto. Ho provato a ritrovarlo in un’altra vita e anche in quella era morto».

«È triste. Mi è successa la stessa cosa con un labrador. Ma il punto è che non siamo gli unici. Ho vissuto molte vite, mi sono imbattuto in altri simili a noi. Qualche volta il solo fatto di raccontare la propria storia è sufficiente per scoprire altri come te».

«È pazzesco pensare che ci siano altre persone che potrebbero essere… come li hai definiti?».

«Viandanti».

«Già. Esattamente».

«Sì, è una possibilità naturalmente, ma penso che non siamo in molti. Una cosa che ho notato è che quelli che ho incontrato – circa una dozzina – erano più o meno tutti della nostra età. Sui trenta o quaranta o cinquanta. Uno ne aveva ventinove, en fait. Tutti con lo stesso intenso desiderio di poter cambiare le cose. Tutti avevano rimpianti. Alcuni ritenevano che sarebbe stato meglio se fossero morti, ma volevano anche provare a vivere un’altra versione di sé».

«La vita di Schrödinger. Morti e vivi nella propria testa».

«Exactement! E qualunque cosa abbiano generato quei rimpianti nella nostra mente, qualunque – com’è che si dice? – accadimento neurochimico sia avvenuto, quel confuso anelito di vita e di morte in qualche modo è bastato a spedirci nel mondo di mezzo».

Il bollitore cominciava a farsi sentire, l’acqua a ribollire come i pensieri di Nora. «Perché vediamo sempre un’unica persona? Nel nostro specifico posto. In biblioteca. O da qualunque altra parte».

Hugo si strinse nelle spalle. «Se fossi religioso, direi che si tratta di Dio. E poiché Dio presumibilmente è qualcuno che non riusciamo a vedere o a comprendere, allora Lui o Lei – o qualunque genere di pronome sia Dio – si trasforma nell’immagine di una persona buona che abbiamo conosciuto nelle nostre vite. E se non fossi religioso – come in effetti non sono – penserei che il cervello umano non è in grado di gestire la complessità di un’onda d’urto di un sistema quantistico aperto, e pertanto organizza o traduce questa complessità in qualcosa che riesce a capire. Una bibliotecaria in una biblioteca. Uno zio affabile in un negozio di videocassette. Eccetera eccetera».

Nora aveva letto qualcosa a proposito degli universi paralleli e aveva qualche nozione di psicologia della Gestalt. Di come il cervello umano assume informazioni complesse sul mondo e le semplifica, così che quando un essere umano guarda un albero traduce l’intricata e complessa moltitudine di foglie e rami in una cosa che definisce “albero”. Vivere da essere umano significa appiattire costantemente l’universo circostante trasformandolo in una storia comprensibile che mantiene ogni cosa a un livello elementare.

Era consapevole che tutto ciò che gli uomini vedono è una semplificazione. Un essere umano vede il mondo in tre dimensioni. Questa è una semplificazione. Gli esseri umani sono fondamentalmente limitati, procedono per generalizzazioni, vivono con il pilota automatico inserito, raddrizzano le curve in rettilinei nelle loro menti, e per questo smarriscono ogni volta la strada.

«È come quando le persone non riescono mai a cogliere lo scatto della lancetta dei secondi» disse Nora.

«Cosa intendi dire?».

Notò che Hugo indossava un orologio analogico. «Provaci. Non ci riuscirai. La nostra mente non riesce a vedere ciò che non riesce a comprendere».

Hugo annuì, mentre osservava l’orologio.

«Pertanto» continuò Nora, «qualunque cosa esista tra un universo e l’altro, con ogni probabilità non è una biblioteca, ma quello è il modo più semplice, per me, per rappresentarlo. Sarebbe questa la mia ipotesi. Vedo una versione semplificata della verità. La bibliotecaria non è altro che una sorta di metafora mentale. Tutto l’insieme lo è».

«Non è affascinante?» esclamò Hugo.

Nora sospirò. «Nella mia ultima vita ho parlato con mio padre morto».

Hugo aprì un barattolo di caffè e versò qualche cucchiaino di polvere nelle tazze.

«E non bevevo caffè. Solo tè alla menta».

«Sembra orribile».

«Accettabile».

«Un’altra cosa bizzarra è questa» continuò Hugo. «Mentre ce ne stiamo qui a parlare, tu o io potremmo scomparire in qualunque momento».

«L’hai visto succedere coi tuoi occhi?». Nora prese la tazza che Hugo le stava porgendo.

«Sì. Qualche volta. È una cosa stranissima. Nessun altro però se ne accorge. Perdono leggermente la memoria relativa al loro ultimo giorno, ma rimarresti sorpresa. Se tornassi alla biblioteca in questo preciso momento, e io rimanessi qui a chiacchierare con te in cucina, diresti una frase del tipo: “Ho un vuoto totale, di cosa stavamo parlando?”, e allora io capirei cos’è successo e ti risponderei che stavamo parlando dei ghiacciai e tu mi bombarderesti di ogni genere di informazione al riguardo. Il tuo cervello colmerebbe tutte le lacune e costruirebbe una sua storia su quanto è appena successo».

«Già, ma l’orso polare? E la cena di stasera? Io – cioè l’altra me – ricorderebbe cosa ho mangiato?».

«Non necessariamente. Però l’ho visto succedere. È stupefacente come il nostro cervello riesca a recuperare le informazioni. E cosa scelga di dimenticare».

«E quindi io com’ero? Ieri, intendo».

La fissò negli occhi. Erano belli. Nora per un istante si sentì attratta nella sua orbita come un satellite dalla Terra.

«Squisita, affascinante, intelligente, bella. Proprio come adesso».

Rise divertita. «Piantala di essere così francese».

Pausa imbarazzata.

«Quante vite hai vissuto?» gli domandò infine. «Quante ne hai sperimentate?».

«Troppe. Quasi trecento».

«Trecento?».

«Sono stato così tante cose. In ogni continente del globo. E non ho ancora trovato la vita giusta per me. Sono rassegnato a essere come sono per sempre. Non ci sarà mai una vita che desidero veramente vivere per sempre. Sono troppo curioso. Smanioso di vivere in tutti i modi possibili. E non c’è bisogno che tu faccia quell’espressione. Non è una cosa triste. Vivo felicemente nel mio limbo».

«E cosa succederebbe se un giorno non esistesse più il negozio di videocassette?». Nora pensò a Mrs Elm, in preda al panico davanti allo schermo del computer e alle lampadine che sfarfallavano nella biblioteca. «E se un giorno tu sparissi per sempre? Prima di aver trovato una vita in cui rimanere?».

Lui si strinse nelle spalle. «Allora morirò. Questo significa che sarei morto comunque. Nella vita che conducevo prima. Non mi dispiace essere un viandante. Mi piace l’imperfezione. Mi piace considerare la morte come un’opzione. Mi piace non dover mai restare in un posto per sempre».

«Credo che la mia situazione sia diversa. Penso che la mia morte sia più imminente. Se non trovo una vita in cui vivere in tempi rapidi, è probabile che sparisca per sempre».

Gli raccontò del problema che aveva avuto l’ultima volta, nel fare ritorno in biblioteca.

«Oh, beh, certo, dev’essere orribile. O forse no. Ti rendi conto delle infinite possibilità a disposizione? Mi spiego meglio. Il multiverso non include soltanto alcuni universi. Una manciata di universi. E neppure tanti universi. Neanche un milione o un miliardo o un triliardo di universi. Implica un numero infinito di universi. Con te in ognuno di essi. Potresti vivere in qualunque versione del mondo, per quanto quel mondo possa apparirti improbabile. L’unica cosa che ti pone dei limiti è la tua immaginazione. Puoi essere estremamente creativa con i rimpianti che vuoi gettarti alle spalle. Una volta ho voluto realizzare un desiderio che avevo da adolescente – studiare ingegneria aerospaziale e diventare un astronauta – e così in una delle vite sono diventato un astronauta. Non ho viaggiato nello spazio. Ma sono diventato qualcuno che ci era stato, anche se per poco. Ciò che devi tenere a mente è che questa è un’opportunità, ed è rara, e noi possiamo cancellare qualunque tipo di errore commesso, possiamo vivere qualunque vita desideriamo vivere. Sogna in grande… Puoi diventare qualunque cosa tu voglia. Perché, in una di queste vite, puoi esserlo».

Nora sorseggiò il caffè. «Capisco cosa intendi dire».

«Ma non vivrai mai, se cerchi il significato della vita» aggiunse Hugo, in tono sapiente.

«Stai citando Camus».

«Beccato».

Lui la fissava. Non era tanto l’intensità con cui la guardava a turbarla, quanto quella con cui lei aveva cominciato a guardare lui. «Ero una studentessa di filosofia» disse, nel modo più neutro possibile, distogliendo lo sguardo.

Erano molto vicini. C’era qualcosa di irritante e al contempo affascinante in Hugo. Emanava un’arrogante amoralità che faceva venir voglia di prenderlo a schiaffi o di baciarlo, a seconda delle circostanze.

«In una vita siamo stati insieme per anni ed eravamo sposati…» disse lui.

«Nella maggior parte delle mie vite non ti conosco affatto» ribatté lei guardandolo dritto negli occhi.

«Che cosa triste».

«Non mi pare».

«Davvero?».

«Davvero». Lei sorrise.

«Noi siamo speciali, Nora. Siamo degli eletti. Nessuno ci capisce».

«Nessuno capisce nessuno. Non siamo degli eletti».

«L’unico motivo per cui sono ancora in questa vita sei tu…».

Lei si sporse rapida verso di lui e lo baciò.

QUALUNQUE COSA MI ACCADA,
È LÌ CHE VOGLIO ESSERE

Fu una sensazione bellissima. Sia il bacio, sia la consapevolezza di poter essere così sfrontata. Sapere che qualunque cosa accadesse stava accadendo da qualche altra parte, in una delle tante vite, in un certo senso la sollevava un po’ dal dover prendere delle decisioni. Era questa la realtà della funzione d’onda universale. Qualunque cosa succedesse – rifletté – poteva essere imputata alla fisica quantistica.

«Non condivido la stanza con nessuno» disse Hugo.

Lo guardò senza provare alcun timore, come se l’aver affrontato un orso polare le avesse conferito una certa attitudine al dominio di cui non era mai stata consapevole. «Beh, Hugo, forse è arrivato il momento di cambiare abitudini».

Il sesso però si rivelò deludente. Nel bel mezzo dell’amplesso le venne in mente una frase di Camus.

In ogni caso, potevo non essere sicuro di cosa mi interessasse davvero, ma ero assolutamente sicuro di cosa non mi interessasse.6

Probabilmente il fatto che stesse pensando alla filosofia esistenzialista, e a quella citazione in particolare, era segno di come stava andando il loro incontro notturno. Ma Camus non aveva anche detto: «Qualunque cosa mi accada, è lì che voglio essere»?

Hugo, constatò, era una strana persona. Per essere uno che le aveva parlato in maniera così intima e personale e profonda, era decisamente distaccato, considerando il momento. Forse se uno vive così tante vite come aveva fatto lui, l’unica persona con cui è in grado di avere una vera relazione è se stesso. Sentì che lei avrebbe potuto essere tranquillamente altrove.

E, dopo pochi minuti, svanì.

 

 

 

6 Albert Camus, Lo straniero, traduzione di Sergio Claudio Perroni, Milano, Bompiani 2019.