L'ALBERO INTRICATO
L'ALBERO INTRICATO
TRE SORPRESE. UN’INTRODUZIONE
La vita nell’universo, per quanto ne sappiamo e a dispetto delle nostre più vivide fantasie, è un fenomeno molto singolare, e circoscritto al pianeta Terra. Ci sono una miriade di ipotesi e speculazioni probabilistiche che assumono il contrario, ma nessuna prova. Le probabilità matematiche e le condizioni chimiche sembrano effettivamente suggerire che la vita dovrebbe esistere anche altrove. Ma la concreta realtà di una forma di vita alternativa, ammesso che ci sia, è finora sfuggita a ogni tipo di indagine. È una supposizione, mentre la vita sulla Terra è un dato di fatto. Forse la stupefacente scoperta di esseri extraterrestri, annunciata per domani, per l’anno prossimo o per quando voi e io avremo ormai da tempo lasciato il pianeta, smentirà quest’impressione di unicità, ma per ora è quello che abbiamo: la vita è una storia che si è svolta soltanto qui, su una sfera di roccia relativamente piccola, in un angolo trascurabile di una galassia di medie dimensioni. È una storia che, sulla base delle informazioni di cui disponiamo, ha avuto luogo una volta sola.
La forma assunta da questa storia, nelle linee generali così come nei più minuti dettagli, riveste quindi un certo interesse.
Che cosa, nel corso di quattro miliardi di anni circa, ha portato la vita dalle sue origini primordiali alla sfolgorante varietà e complessità che oggi abbiamo davanti agli occhi? E come? Quale concatenazione di caso e necessità ha prodotto creature straordinarie quali gli uomini – o le balenottere azzurre, i tirannosauri e le sequoie giganti? Sappiamo che la storia evolutiva è segnata da transizioni cruciali, improbabili episodi di convergenza, vicoli ciechi, estinzioni di massa, avvenimenti grandi, o magari piccoli ma con grandi conseguenze – comprese alcune contingenze fatidiche che hanno lasciato ovunque impercettibili tracce nei resti fossili e nell’intero mondo vivente. Se in una sorta di esperimento mentale alterassimo quelle poche contingenze, tutto sarebbe diverso. Noi non esisteremmo, e nemmeno gli animali e le piante. Perché le cose sono andate in quel modo, e non in un altro? Le religioni hanno le loro risposte a domande di questo genere, ma per la scienza le risposte devono essere scoperte e poi convalidate con prove empiriche, non ricevute in uno stato di sacra estasi.
Questo libro parla di un nuovo metodo di raccontare quella storia, di ricostruirla, e di alcune intuizioni inaspettate che ne sono derivate. Il metodo ha un nome: «filogenetica molecolare». Storcete pure il naso se volete, lo farò anch’io, ma in realtà quest’espressione bizzarra significa qualcosa di piuttosto semplice: interpretare la storia profonda della vita e i rapporti di parentela tra le specie a partire dalla sequenza delle unità costitutive di determinate molecole lunghe, così come queste molecole si presentano nelle odierne creature viventi. Le molecole in questione sono principalmente DNA, RNA e un numero ristretto di proteine. Le unità costitutive sono basi nucleotidiche e amminoacidi – di cui daremo più avanti una definizione più puntuale. Le intuizioni inaspettate hanno rimodellato in maniera radicale quel che pensiamo di sapere sulla storia della vita e sulle componenti funzionali degli esseri viventi, compresi noi stessi. In particolare, ci sono state tre grandi sorprese rispetto a chi e cosa siamo – noi animali multicellulari, e più specificamente noi uomini –, e al modo in cui si è evoluta la vita sul nostro pianeta.
Una di queste tre sorprese riguarda un tipo anomalo di creature, un’intera categoria di forme di vita di cui nessuno sospettava l’esistenza note oggi con il nome di «archei» (che prende la maiuscola e diventa Archaea quando si usa la categoria tassonomica formale). Un’altra è una modalità di cambiamento ereditario altrettanto inaspettata, chiamata ora «trasferimento genico orizzontale». La terza è una rivelazione, o comunque una ipotesi molto probabile, sui nostri più remoti antenati. Noi stessi – noi uomini – discendiamo con tutta probabilità da creature di cui, fino a quarant’anni fa, non si conosceva ancora l’esistenza.
La scoperta e l’identificazione degli archei, che erano stati a lungo scambiati per sottogruppi dei batteri, hanno rivelato che l’attuale vita su scala microbica è molto diversa da come la scienza l’aveva descritta in precedenza, e che anche la vita ai suoi albori era molto diversa. Il riconoscimento del trasferimento genico orizzontale (HGT, horizontal gene transfer) come fenomeno diffuso ha ribaltato la tradizionale certezza che i geni vengano trasmessi solo in linea verticale, dai genitori alla prole, e non possano essere scambiati lateralmente scavalcando i confini di specie. L’ultima novità sugli archei è che tutti gli animali, tutte le piante, tutti i funghi e tutte le altre creature complesse formate da cellule dotate di DNA all’interno del nucleo – e la lista include anche noi – provengono da questi strani, antichi microbi. Forse. È uno shock, un po’ come scoprire che il proprio bis-bis-bis-bisnonno non veniva dalla Lituania ma da Marte.
Prese assieme, queste tre sorprese suscitano nuove e profonde incertezze, e hanno grosse implicazioni relative all’identità, l’individualità e la salute umane. Non siamo esattamente quelli che pensavamo di essere. Siamo creature composite e le nostre origini sembrano affondare in una zona buia del mondo vivente, un gruppo di creature di cui la scienza fino a pochi decenni fa era all’oscuro. L’evoluzione è più complessa, e ben più tortuosa di quanto pensassimo. L’albero della vita è più intricato. I geni non si spostano solo in senso verticale, ma anche lateralmente. Possono attraversare i confini di specie, o divari più ampi, perfino passare da un regno a un altro, e alcuni sono entrati lateralmente nella nostra linea di discendenza, quella dei primati, da fonti estranee e insospettate. È l’equivalente genetico di una trasfusione di sangue o (per usare una metafora diversa, che alcuni scienziati preferiscono) di un’infezione che trasforma l’identità. Una «eredità infettiva». Dirò di più in merito al momento opportuno.
Nel frattempo, a proposito di infezione: un altro effetto di questo spostamento di geni laterale riguarda la sfida globale posta alla medicina dai batteri resistenti agli antibiotici, una crisi silente destinata in futuro a fare più rumore. Microbi pericolosi come lo Staphylococcus aureus resistente alla meticillina o MRSA (da methicillin-resistant Staphylococcus aureus), che ogni anno uccide oltre undicimila persone negli Stati Uniti e molte altre migliaia nel resto del mondo, possono acquisire all’improvviso interi corredi di geni per la farmacoresistenza, da tipi di batteri completamente diversi, attraverso il trasferimento genico orizzontale. È per questo che il problema dei microrganismi multifarmacoresistenti – dei superbatteri invulnerabili – si è diffuso in maniera così rapida nel mondo. Simili rivelazioni, al tempo stesso pratiche e profonde, ci impongono improvvisamente di modificare il nostro fondamentale modo di intendere chi siamo noi uomini, cosa ha contribuito a crearci e in che modo funziona il mondo vivente.
Questa complessiva, radicale rettifica del pensiero biologico è derivata da diversi punti di origine nello spazio e nel tempo. Uno tra questi, forse il più cruciale, merita di essere menzionato qui: il tempo è l’autunno del 1977, il luogo Urbana, nell’Illinois, dove un uomo di nome Carl Woese posa spavaldo per un fotografo del «New York Times», seduto alla sua scrivania con i piedi poggiati sul ripiano, davanti a una lavagna piena di appunti e cifre. L’articolo del «Times» per cui la foto venne scattata, in cui si annunciava che Woese e i suoi colleghi avevano scoperto «una forma di vita separata», un «terzo regno» di forme biologiche che si aggiungeva ai due già riconosciuti, apparve il 3 novembre 1977. Era in prima pagina, al centro e in alto, e relegava ai lati i pezzi sul rapimento dell’ereditiera Patty Hearst e su un embargo delle armi contro il regime dell’apartheid in Sudafrica. In altre parole, era una notizia importante, e questo a prescindere dal fatto che il lettore medio del «Times» potesse o meno comprendere, da un resoconto così asciutto, che cosa s’intendesse esattamente con «una forma di vita separata».1 Quell’articolo segnò l’apice della fama di Woese: un «quarto d’ora di celebrità», per ripetere Andy Warhol, e poi di nuovo in laboratorio. Woese apportò al suo settore di studio e alla storia della vita cambiamenti radicali, eppure rimane sconosciuto alla maggior parte delle persone estranee alle stanze riservate della biologia molecolare.
Carl Woese era un uomo complicato – accanitamente dedito al proprio lavoro e molto riservato –, che seppe cogliere al volo questioni profonde e mise assieme tecniche ingegnose per indagarle, che sfidò alcune delle regole del decoro scientifico, si fece dei nemici, ignorava i convenevoli, diceva quello che pensava, si concentrò in maniera ossessiva sul suo programma di ricerca tralasciando in gran parte ogni altro interesse e realizzò almeno una o due scoperte che fecero tremare i pilastri del pensiero biologico. Per gli amici intimi era un tipo alla mano e divertente, caustico ma ironico, appassionato di jazz, amante della birra e dello scotch e pianista amatoriale. Per i suoi dottorandi, dottori di ricerca e assistenti di laboratorio – almeno per la maggior parte di loro – era un buon capo e un mentore stimolante, a volte (ma non sempre) generoso, saggio e premuroso.
Come docente in senso più stretto – insegnava microbiologia all’Università dell’Illinois – era quasi inesistente. Non aveva la pazienza di spiegare l’abbiccì dei batteri davanti a schiere di studenti bramosi d’imparare e a digiuno di ogni nozione. Le lezioni non erano il suo punto di forza, né gli interessavano particolarmente, e persino quando presentava il suo lavoro ai convegni scientifici mancava di efficacia espressiva. Non gli piacevano i congressi. Non amava viaggiare. All’interno del suo laboratorio non creava una gioiosa atmosfera di cameratismo, ospitando seminari e feste natalizie e facendosi ritrarre in foto di gruppo, come fanno molti scienziati con funzioni direttive. Aveva il suo manipolo scelto di giovani amici, e alcuni di loro ricordano bei momenti, risate e grigliate con birra a volontà a casa di Woese, che si trovava appena a pochi passi dal campus universitario. Ma quegli amici erano i pochi eletti che erano riusciti in qualche modo, grazie al loro fascino personale o per buona sorte, a penetrare la sua corazza.
Più in là negli anni, quando i riconoscimenti nei confronti di Woese crebbero, fruttandogli onorificenze di tutti i tipi eccetto il premio Nobel, pare fosse cresciuto anche il suo risentimento. Si considerava un outsider. Fu eletto membro della National Academy of Sciences, un ente prestigioso, ma solo tardi, a sessant’anni, e questo lo irritava. Secondo alcune voci, si allontanò dalla propria famiglia – la moglie e due figli, di rado menzionati nei resoconti che pubblicò delle sue fatiche scientifiche. Era un uomo scontroso ma brillante, e il suo lavoro avviò una drastica revisione di uno dei più basilari concetti della biologia: l’idea dell’albero della vita, la grande immagine arborea delle parentele e delle divergenze evolutive. Per questa ragione, il momento trionfale di Woese a Urbana, il 3 novembre 1977, ha il suo posto accanto al nucleo centrale di questo libro.
Altri scienziati e altre scoperte sono collegati a Woese e al suo albero. Per esempio Fred Griffith, fisico inglese poco conosciuto, che a metà degli anni Venti del Novecento, mentre svolgeva ricerche sulla polmonite per conto del ministero della Salute britannico, notò tra i batteri una mutazione imprevista: un ceppo innocuo che all’improvviso, di punto in bianco, si trasformava in un altro ceppo mortalmente virulento. Si trattava di un’osservazione importante in termini di salute pubblica (la polmonite batterica era a quei tempi tra le principali cause di morte), ma era anche, cosa che sfuggì allo stesso Griffith, un indizio di verità più profonde nel campo della scienza pura.
Il meccanismo della sconcertante trasformazione svelata da Griffith rimase oscuro fino al 1944, quando un tranquillo, meticoloso ricercatore del Rockfeller Institute di New York, Oswald Avery, identificò la sostanza, il «principio trasformante», in grado di causare questo improvviso cambiamento nell’identità di un batterio. Era l’acido desossiribonucleico, il DNA. Meno di dieci anni dopo, Joshua Lederberg e i suoi colleghi dimostrarono che questo tipo di trasformazione, ribattezzata «eredità infettiva», è un processo abituale e importante nei batteri – e, come lavori successivi avrebbero mostrato, non solo nei batteri. Nel frattempo Barbara McClintock, la quale studiando la genetica del mais scoprì nella sua pianta preferita alcuni geni che saltano da un punto all’altro dei cromosomi, lavorò con ben poco supporto e riconoscimento negli anni più produttivi della sua carriera, per poi ricevere un premio Nobel all’età di ottantun anni.
Lynn Margulis, microbiologa formatasi a Chicago, unica sotto quasi ogni punto di vista, ebbe in comune almeno una cosa con McClintock: la frustrazione di vedersi trattare da alcuni colleghi come una donna eccentrica e cocciuta. Nel caso di Margulis, per aver riesumato una vecchia idea considerata da tempo assurda: l’endosimbiosi. Con questo termine Margulis intendeva, grossomodo, l’integrazione cooperativa di creature viventi all’interno di altre creature viventi. Vale a dire, non solo creature minuscole nello stomaco o nel naso di creature grandi, ma cellule all’interno di cellule. Più precisamente, Margulis sosteneva che le cellule da cui è formato ogni organismo vivente che appartiene alle più complesse divisioni della vita – ogni essere umano, ogni animale, ogni pianta e ogni fungo – sono creature chimeriche, composte da batteri catturati dentro ricettacoli non batterici. Quei particolari batteri si sono tramutati, nel corso di estesi periodi di tempo, in organi cellulari. Immaginate un’ostrica, trapiantata in una mucca, che diventa un rene bovino funzionante. Sembrava un’idea folle quando Margulis la propose nel 1967. Ma in gran parte aveva ragione.
Anche Fred Sanger, Francis Crick, Linus Pauling, Tsutomu Watanabe e altri scienziati giocarono un ruolo cruciale in questa catena di eventi, talvolta per la loro forte personalità oltre che per l’acume scientifico. In un passato un po’ più remoto troviamo figure oscure come Ferdinand Cohn, Edward Hitchcock e Augustin Augier, e altre più note, tra cui Ernst Haeckel, August Weismann e Carl Linnaeus. E in mezzo a loro risorge inesorabile il fantasma di Jean-Baptiste Lamarck, per aggirarsi furtivo nelle tenebre del pensiero evoluzionistico.
Queste persone, che hanno tutte contribuito a un drastico cambiamento scientifico, sono di ulteriore interesse per il modo in cui la loro opera si è sviluppata a partire dalle loro esistenze. Ci ricordano che la scienza stessa, per quanto precisa e oggettiva, è un’attività umana. È un modo non soltanto di conoscere, ma di interrogarsi. È un processo, non un corpo di fatti o di leggi. Come la musica, la poesia, il baseball e le partite a scacchi dei grandi maestri, è qualcosa di meravigliosamente imperfetto fatto dalle persone, su cui si riconoscono dappertutto le impronte sbavate della nostra umanità.
Gli esseri umani non sono gli unici personaggi importanti di questo libro. Ci sono molte altre creature viventi, il cui passato e le cui stranezze peculiari illustrano momenti della storia che cercherò di raccontare. Molte di esse sono microbi – quei batteri a cui ho accennato, quegli archei e altri esserini minuscoli. Non vi lasciate ingannare dalle loro dimensioni ridotte; hanno un impatto e implicazioni ben più grandi. E non fatevi scoraggiare dai loro nomi, che sono per lo più in latino: Bacillus subtilis, Salmonella typhimurium, Methanobacterium ruminantium e altri scioglilingua mostruosi. Se uso quei nomi, non è perché mi piaccia il linguaggio astruso ma perché non ne esistono altri. Ai microbi in genere non sono concessi nomi comuni a livello di specie, appellativi informali come giraffa meridionale, passero oliva, farfalla monarca e drago di Komodo. Se il batterio noto come Haemophilus influenzae potesse essere chiamato in maniera altrettanto accurata pizzica-naso di Fleming, vi assicuro che lo farei.
C’è un altro personaggio, appartenente al genere umano, che andrebbe introdotto qui. Si tratta di un microbiologo americano barbuto incline alla meditazione filosofica, che sta defilato in un’università della Nuova Scozia. Quest’uomo ha collegato Carl Woese, Lynn Margulis e molta della più recente ricerca in filogenetica molecolare in una pungente sfida alla metafora centrale della biologia. Il suo nome è Ford Doolittle. È alto, esitante nei modi ma non nel pensiero, e gli piace provocare un po’ di scompiglio intellettuale. Alla svolta del millennio, Doolittle pubblicò un articolo intitolato Sradicare l’albero della vita, che contribuì a scatenare una valanga di controversie. Lo conobbi attraverso quell’articolo e gli altri suoi scritti a esso collegati, in particolare quelli in cui parlava del trasferimento genico orizzontale e delle sue implicazioni. «Orizzontale...?» fu il mio primo pensiero. Poi mi recai in pellegrinaggio a Halifax e mi accampai per giorni nel suo ufficio. Doolittle è in semi-pensionamento: continua a seguire dottorandi e dispone ancora di cospicui e prestigiosi fondi di ricerca, ma non coltiva più batteri radioattivi in laboratorio per dedurre pezzettini del loro genoma (la totalità del DNA) da immagini fissate su lastre radiografiche. Non estrae più segmenti di molecole tramite gel elettroforetici, come faceva ai tempi pionieristici della ricerca molecolare. Legge, pensa, scrive, disegna (scatta anche foto d’arte, soprattutto per svago personale, e ogni tanto allestisce una mostra, ma questo è un ambito d’attività completamente diverso). In effetti, se Doolittle è diventato tanto influente, lo deve anche, oltre che alle sue competenze biologiche, al fatto che scrive molto meglio della maggior parte degli scienziati – e disegna abilmente, trasformando concetti difficili in aggraziate forme vignettistiche. Il padre di Doolittle era pittore e professore di storia dell’arte. Da giovane Ford considerò anche lui la carriera artistica, ma suo padre diceva che era «un pessimo modo per guadagnarsi da vivere». Poi, quando aveva quindici anni, nel 1957, i sovietici mandarono lo Sputnik nello spazio, persuadendo Ford e molti altri americani che scienza e ingegneria fossero le occupazioni più solide e urgenti. Andò all’Harvard College e studiò biochimica, ma l’impulso artistico non lo ha mai abbandonato. Oggi per illustrare il suo pensiero sovversivo e le sue geniali provocazioni, disegna alberi che non sono alberi.
Woese, Doolittle, Margulis, Lederberg, Avery, Griffith e gli altri – tutti loro hanno un ruolo in questa storia. Ma un punto di inizio più naturale del nostro racconto si situa molto prima nel tempo: nel 1837, a Londra, con uno scienziato molto diverso, in una situazione molto diversa.
PARTE PRIMA
IL PICCOLO SCHIZZO DI DARWIN
1
A partire dal luglio 1837, Charles Darwin tenne un piccolo taccuino, che etichettò con la lettera «B», dedicato all’idea più bizzarra che gli fosse mai venuta. Era qualcosa non solo di privato ma di segreto, dove riportava i suoi più stravaganti pensieri. Il taccuino era rilegato in pelle marrone, con una linguetta e un fermaglio; 280 pagine di carta color crema, abbastanza compatto da entrare nella tasca della giacca. Un quadernetto portatile, ma non di quelli che poi si buttano via. La qualità dei materiali e della fattura riflettevano il fatto che Darwin era un giovane facoltoso, che viveva a Londra e faceva il naturalista fidando su mezzi propri. Era rientrato in Inghilterra dalla lunga traversata dell’HMS Beagle appena nove mesi prima.
Quel lungo giro, che aveva assorbito quasi cinque anni della sua vita, per mare e per terra, principalmente lungo la costa sudamericana e verso le pianure e le montagne dell’entroterra, seppur con altre ragguardevoli tappe nel tortuoso tragitto di ritorno, sarebbe stato l’unica importante esperienza di viaggio della sua protetta, privilegiata esistenza. Ma fu sufficiente. Era stata un’opportunità trasformativa, che gli aveva spalancato la mente e suggerito alcune grandi idee che intendeva approfondire. Aveva aperto i suoi occhi su un fenomeno sorprendente che necessitava di spiegazione. In una lettera scritta da Sidney, in Australia, e indirizzata al suo professore di biologia e amico John Stevens Henslow all’Università di Cambridge, Darwin menzionò le sue sconcertanti osservazioni sui mimi o tordi beffeggiatori (e non i fringuelli) dell’arcipelago delle Galápagos, un gruppo di sporgenze vulcaniche in mezzo al Pacifico. Questi uccelli grigi dal becco lungo differivano da un’isola all’altra, ma in maniera così sottile che sembravano essersi differenziati da un’unica famiglia. Differenziati? Tre specie di mimi? Lievemente diversi da questa a quell’isola? Sì: apparivano diversi ma simili, tanto da far pensare che fossero affini. Se quell’impressione corrispondeva al vero, confidò Darwin a Henslow come se confessasse un’eresia intellettuale, «simili fatti minerebbero la stabilità delle specie».
La stabilità delle specie rappresentava il fondamento della storia naturale. Era data per scontata, e considerata importante, non solo nel clero e tra i laici devoti, ma anche tra gli uomini di scienza. Che tutte le svariate forme di creature sulla Terra fossero state plasmate da Dio, in specifici atti di creazione, e fossero di conseguenza immutabili, era un articolo di fede per l’establishment scientifico di professione anglicana dell’epoca di Darwin. Questo principio cardine è conosciuto come ipotesi della creazione speciale, anche se all’epoca sembrava non tanto un’ipotesi quanto un dogma. Era stato abbracciato e sostenuto da eminenti naturalisti e filosofi della cultura scientifica in seno alla quale Darwin aveva ricevuto la sua istruzione a Cambridge. Adesso era tornato a casa dopo un rischioso viaggio, un’avventura di gioventù insieme a una combriccola di rudi marinai inglesi, che l’austero padre all’inizio aveva visto con scetticismo. L’esperienza lo aveva cambiato, anche se non nei modi probabilmente temuti dal padre. Non era diventato un ubriacone o un libertino. Non imprecava come un nostromo. La sua sete di viaggi, soddisfatta sul piano fisico, si era adesso spostata su quello intellettuale. Si proponeva di indagare, con estrema discrezione, un’alternativa radicale all’ortodossia scientifica: l’idea che le creature viventi non avessero forme eternamente stabili, così come Dio le aveva create, ma si fossero invece modificate nel corso del tempo, passando da una forma a un’altra, in virtù di qualche meccanismo che ancora non comprendeva.
Era un’affermazione azzardata. Ma Darwin aveva ventisette anni, quello che aveva visto lo aveva profondamente mutato e, pur essendo di indole pacata, aveva del fegato.
Così si era sistemato nella grande città, prendendo alloggio su Great Marlborough Street, da dove poteva raggiungere agevolmente il British Museum. Si trovava a breve distanza dalla casa dove si era già stabilito il fratello maggiore Erasmus. Darwin entrò a far parte di società scientifiche quali la Geological Society e la Zoological Society, ma non aveva un lavoro. Non ne aveva bisogno. Il temibile padre, lo stesso che in un primo tempo aveva disapprovato il viaggio sul Beagle – il dottor Robert Darwin, agiato medico della città di Shrewsbury –, adesso era piuttosto fiero del suo secondo figlio, il giovane naturalista stimato nei circoli scientifici inglesi. All’apparenza arcigno ma intimamente generoso, il dottor Darwin aveva organizzato le cose in modo da fornire un adeguato sostegno a entrambi i fratelli. E Charles era celibe. Andava a spasso per Londra, si occupava degli esemplari raccolti durante la spedizione, lavorava alla riscrittura del diario del Beagle per farne un libro di viaggio e – in gran privato – rimuginava sull’alternativa radicale alla creazione speciale. Leggeva molto, buttando giù fatti e frasi in diversi taccuini. Il taccuino «A» era dedicato alla geologia. Il taccuino B fu il primo di una serie su quella che, solo tra sé e sé, chiamava «trasmutazione». Non è difficile indovinare che cosa significasse. Nella mente di Darwin aveva cominciato a farsi strada una teoria dell’evoluzione.
Aprì il taccuino B, nel luglio del 1837, con alcune frasi che alludevano a un libro intitolato Zoonomia, ovvero leggi della vita organica, pubblicato decenni prima da suo nonno, un altro Erasmus Darwin. Era un trattato di medicina (Erasmus era medico), ma conteneva alcune riflessioni provocatorie che suonavano vagamente evoluzionistiche. Secondo Zoonomia tutti gli animali a sangue caldo sarebbero «originati da un unico filamento vivente» e posseggono «la facoltà di continuare a migliorare» secondo modalità che potrebbero essere tramandate di generazione in generazione, «all’infinito!».1 Un miglioramento attraverso le generazioni? Un cambiamento ereditabile durante l’intera storia del mondo? Tutto ciò andava contro l’ipotesi della creazione speciale, ma non era in fondo sorprendente in un libero pensatore gottoso, libidinoso e – a volte – poeta come il vecchio Erasmus. Darwin aveva letto Zoonomia ai tempi in cui studiava e non sembrava aver dato molto credito alle audaci idee del nonno. Ma adesso, a un secondo esame, le assunse come punto di partenza. A pagina uno del taccuino B troviamo, come prima annotazione, il titolo del libro del nonno, Zoonomia, seguito da appunti di lettura.
D’altra parte, quei suggerimenti folli non portavano da nessuna parte. Erasmus Darwin non aveva proposto nessun meccanismo concreto per spiegare quella «facoltà di continuare a migliorare», ed era proprio un meccanismo concreto che il giovane Darwin cercava, anche se forse non se n’era ancora reso pienamente conto. Come mostra il taccuino B, a quel punto passò dall’opera del nonno ad altre letture, altre congetture e altri interrogativi, annotando frasi smozzicate, spesso senza badare alla grammatica e alla punteggiatura. Ciò che scriveva non era destinato alla pubblicazione. Erano messaggi rivolti a se stesso.
«Perché la vita è breve»2 si chiedeva, omettendo nella fretta il punto interrogativo. Perché la riproduzione è così importante? Perché gli animali di una data specie tendono ad avere una forma costante all’interno di un intero paese ma a presentare almeno lievi differenze su isole separate? Ricordava le tartarughe giganti delle Galápagos, dove aveva fatto una sosta durata solo trentacinque giorni, che però aveva causato in lui un vero rivolgimento del pensiero. Ricordava anche i mimi. E perché nella pampa argentina aveva visto due tipi diversi di «struzzi» (così aveva definito dei grandi uccelli incapaci di volare che sono conosciuti oggi col nome di nandù), uno che viveva a nord del Río Negro e uno a sud di esso? Le creature diventavano in qualche modo differenti quando erano isolate? Mettete una coppia di gatti su un’isola, lasciate che si riproducano e si incrocino endogamicamente per generazioni, senza grande pressione da parte di specie nemiche. «Chi si azzarderà a prevederne il risultato?» scrisse Darwin. Si azzardò lui. I discendenti alla fine potrebbero avere un aspetto diverso dagli altri gatti, no? Voleva capire per quale motivo.
Un’altra domanda importante: «Ogni specie cambia; progredisce?». I gatti diventano migliori, o almeno migliori per quella particolare isola? In tal caso, quanto tempo impiegheranno? E fin dove potrebbe spingersi il processo? Quali sono i limiti logici, se «ogni animale successivo si ramifica verso l’alto» e la ramificazione porta a un «miglioramento dei differenti tipi di organizzazione», facendo sorgere nuove forme e scomparire le vecchie? Quell’unica parola, «ramifica», era carica di interessanti implicazioni: di crescita direzionale, di divergenza, di una forma arborea. E queste domande che Darwin si poneva non riguardavano solo gatti e struzzi, ma anche armadilli e bradipi in Argentina, marsupiali in Australia, quelle enormi tartarughe delle Galápagos e la volpe delle isole Falkland, simile a un lupo; tutte creature per certi versi peculiari, tutte tipiche di luoghi isolati, ma riconoscibilmente simili ad altre analoghe – gatti, tartarughe, volpi eccetera – che vivevano altrove. Darwin aveva visto molto. Era un acuto osservatore e un giovane riflessivo. Intuiva che quelli che aveva colto erano modelli generali, e non solo casi particolari. Sembrava quasi, scrisse, che fosse in azione una «legge di adattamento».
Tutto questo e altro ancora, tra fatti e speculazioni, riempiva le prime ventuno pagine del taccuino B. Le pagine sono per lo più senza data, per cui non possiamo sapere quanti giorni o settimane trascorsero in questo intenso sforzo iniziale. In ogni caso, Darwin non aveva ancora la sua teoria. Grandi idee lo stavano assalendo come gufi in picchiata. Aveva bisogno di un ordine tanto quanto aveva bisogno di quella congerie di indizi stimolanti. Forse aveva bisogno di una metafora. Poi, in fondo alla pagina 21, scrisse: «Gli esseri organizzati rappresentano un albero».3
2
Non sappiamo se, dopo aver vergato quella frase, Darwin si sia rilassato contro lo schienale della sedia e abbia tratto un respiro profondo, pervaso da un nuovo senso di chiarezza, ma avrebbe potuto. E ne avrebbe avuto tutto il diritto.
Poi continuò a scribacchiare. L’albero è «irregolarmente ramificato,» riportò sul taccuino B «alcuni rami sono di gran lunga più ramificati».4Ogni ramo si biforca in rami più piccoli, scrisse, e poi in altri ancora più piccoli. «Di qui i generi», la categoria immediatamente superiore alle specie, che sarebbero le estremità più minute o gemme terminali. Alcune gemme gradualmente avvizziscono senza produrre ulteriori germogli – la specie si estingue, arriva al capolinea –, mentre altre nel frattempo appaiono, in qualche modo. Sebbene in passato l’idea stessa di estinzione fosse apparsa discutibile a naturalisti e filosofi – che ne avevano messo in dubbio la possibilità o l’avevano interamente respinta perché gli atti di creazione speciale di Dio non potevano essere annullati –, Darwin riconobbe che «la morte di una specie non è più strana della morte dei singoli individui». Anzi, l’estinzione non solo è naturale ma necessaria, poiché fa posto a nuove specie quando le vecchie scompaiono. Scrisse: «Forse l’albero della vita dovrebbe essere chiamato il corallo della vita, giacché la base delle ramificazioni è morta», e non c’è traccia delle forme ancestrali. Darwin sapeva qualcosa dei coralli: aveva visto le barriere coralline alle isole Cocos, situate nell’Oceano Indiano orientale, e in altri luoghi durante il viaggio sul Beagle, e ne era rimasto affascinato. Aveva inventato una sua teoria sulla formazione delle barriere coralline, e nel 1842, cinque anni dopo questa annotazione nel quaderno, avrebbe pubblicato un libro sull’argomento. L’immagine del corallo sembrava appropriata – quello che aveva in mente era il corallo ramificato, non il corallo a cervello o il corallo tavola –, perché i rami inferiori e la base sono uno scheletro di calcite senza vita, rimasti indietro come forme estinte di antiche linee evolutive, mentre i morbidi polipi avanzano verso l’alto come le specie viventi. Ma anche lui sembra aver intuito che «il corallo della vita» non faceva altrettanto presa. Sulla pagina 26 del taccuino B tracciò un incerto schizzo a penna di un corallo della vita a tre rami, con linee tratteggiate che rappresentavano le sezioni inferiori inanimate. E poi lasciò cadere l’idea, abbandonando quella metafora.
L’albero della vita era più efficace. Nel 1837 era già una nozione antica e Darwin poteva adattarla ai suoi scopi di teorico evoluzionista – era più semplice che inventare dal nulla una nuova espressione figurata. Naturalmente quell’adattamento comportava un’alterazione radicale del suo significato. Ma non importa, lui non si tirò indietro. Dieci pagine più avanti, schizzò a tratti marcati una figura molto più incisiva e complessa, con un tronco che saliva suddividendosi in quattro rami maggiori e diversi minori; ognuno di quelli maggiori si differenziava in gruppi di rami più piccoli e all’interno di ciascun gruppo c’era un ramo etichettato rispettivamente come A, B, C e D. I rami B e C erano in gruppi adiacenti posti sulla sommità dell’albero, uno vicino all’altro, il che indicava stretti legami di parentela tra le creature su quei rami. La lettera A era lontana, sul lato opposto rispetto alla chioma dell’albero, segno di una parentela più distante – ma pur sempre una parentela. Le lettere erano simboli, intesi a rappresentare delle specie viventi, o forse dei generi. Felis, Canis, Vulpes, Gorilla. Non sappiamo di preciso che cosa avesse in mente, e forse non era nulla di così specifico. In ogni caso, si trattava di un’asserzione clamorosa, astratta ma eloquente. Oggi potete guardare il piccolo schizzo, con i suoi quattro rami contrassegnati da lettere in mezzo alle ramificazioni principali e alla chioma, e immaginare la divergenza evolutiva di ogni forma di vita da un antenato comune.
Immediatamente sopra allo schizzo, come se lo stesse timidamente indicando, Darwin scrisse: «Io penso».