giovedì 1 aprile 2021

IL DONO DI HUMBOLDT Saul Bellow

 


IL DONO DI HUMBOLDT

Saul Bellow

Capitolo 1

Il libro di ballate pubblicato da Von Humboldt Fleisher negli anni Trenta riscosse un immediato successo. Humboldt era, appunto, colui che tutti quanti attendevano. Io per me l'aspettavo ardentemente, dal mio fondo di provincia nel Midwest, ve l'assicuro. Scrittore d'avanguardia - il primo della sua generazione - era bello, era biondo, corpulento, serio e insieme spiritoso, ed era colto. Insomma, aveva tutto. Nessun giornale mancò di recensire il suo libro. La sua foto comparve sulla rivista Time senza ingiurie, su Newsweek con elogi. Io le lessi con trasporto, le Ballate di Arlecchino. Ero studente all'Università del Wisconsin e non pensavo ad altro, giorno e notte, che alla letteratura. Humboldt mi rivelò nuovi orizzonti, nuovi modi di fare. Andavo in estasi. Gl'invidiavo il talento e la fortuna, invidiavo la sua fama. E, a maggio, me n'andai all'Est proprio per lui: contando di vederlo, magari d'avvicinarlo. Il viaggio, in corriera, passando per Scranton, durò una cinquantina di ore. Che importava? Guardavo dal finestrino: non avevo mai visto, prima, vere montagne. Gli alberi mettevano gemme e germogli. Pareva la Pastorale di Beethoven. Mi sentivo inondare di verde, dentro di me. Anche Manhattan mi andò subito a genio. M'affittai una camera, molto modesta, e trovai un lavoro: vendevo spazzole di porta in porta. Tutto quanto mi dava una selvaggia eccitazione. Siccome avevo scritto a Humboldt una lunga lettera, da ammiratore, venni presto invitato a casa sua, per conversare di letteratura, di altre cose elevate. Abitava in Bedford Street, nel Greenwich Village, poco lontano da Chumley. Mi offrì del caffè nero e, nella stessa tazza, versò pure del gin. “Mi hai l'aria di un bravo ragazzo, tu, Charlie” mi disse. “Non sarai mica un furbacchione, alle volte? Mi sa tanto che diventerai presto calvo. E che occhi grandi che hai, belli, espressivi! Però senz'altro ami la letteratura, e questo è quel che più conta. Hai sensibilità” mi disse. Era un pioniere, nell'uso di quella parola. Di lì a poco “sensibilità” fece furore. Humboldt fu molto gentile con me. Mi fece conoscere gente del Village, mi procurò libri da recensire. Io gli ho sempre voluto molto bene.

Il successo di Humboldt durò circa dieci anni. Sullo scorcio degli anni Quaranta cominciò a declinare. All'inizio degli anni Cinquanta io divenni famoso a mia volta. Feci perfino un mucchio di quattrini.

Ah, il denaro! i soldi! Humboldt me li rinfaccerà sempre. Negli ultimi anni della sua vita - quando non fosse troppo depresso per parlare, e non fosse rinchiuso in manicomio - andava in giro per New York a dir male di me e del mio “milione di dollari”. “Prendiamo il caso di Charlie Citrine. E' arrivato senza un soldo dal Wisconsin, è venuto a bussare alla mia porta. E adesso ha un milione di dollari.

Come può uno scrittore, o un intellettuale, fare soldi a palate così? Un Keynes, d'accordo. Keynes... Un genio dell'economia, di statura mondiale, un principe di Bloomsbury” diceva Humboldt. “Sposato con una ballerina russa. Il denaro ne consegue. Ma chi diavolo è Citrine, per diventare ricco in questa maniera? Eravamo molto amici” soggiungeva, per l'esattezza. “Ma c'è un nonsoché di perverso, in quell'individuo. Dopo aver fatto la grana, perché è andato a seppellirsi in provincia? Che ci sta a fare, a Chicago? Ha paura che lo smascherino, ecco tutto.”

Quando aveva la mente abbastanza lucida, ce la metteva tutta a denigrarmi. E gli riusciva egregiamente.

Non è vero ch'io mirassi al denaro. Oh, dio, no. Quel che volevo era riuscir a fare qualcosa di buono. Era questo, che bramavo, da morire. Tale senso del buono risaliva ai miei verdi anni e era tutt'uno col mio singolare concetto dell'esistenza stessa: come chi, immerso nelle cristalline profondità della vita, annaspando tentoni ricerchi, pieno d'ebbrezza e disperazione, un significato: una persona, dico, che abbia un acuto sesto senso per i veli dipinti, per Maya, per cupole di vetro multicolore istorianti il radioso biancore dell'eternità, e che trepidi nell'immenso intenso inane... e così via. Ero decisamente pazzo per queste cose. Humboldt lo capiva bene ma, verso la fine, non poteva più permettersi di offrirmi comprensione e simpatia. Malato e malevolo, non mi perdonava nulla.

Seguitava a calcare sulla contraddizione fra veli dipinti e mucchi di quattrini. Ma il denaro ch'io facevo, in realtà si faceva da sé. Era il capitalismo stesso, a farlo, per oscure e comiche ragioni sue proprie. Era il mondo a far quei soldi. L'altr'ieri leggevo sul Wall Street Journal, a proposito di benessere e malinconia: “Mai, nei cinque millenni della storia del mondo, tanti uomini furono tanto abbienti.” Una mentalità formatasi in cinque millenni di penuria è per forza distorta. Il cuore mal sopporta di codesti mutamenti. Certe volte li rifiuta, punto e basta.

Negli anni Venti, i monelli di Chicago cercavano tesori nel disgelo di marzo. Mucchi di neve sudicia bordavano le vie e, quando si scioglievano, un'acqua tersa e tortuosa correva nei rigagnoli, e lì potevi far bottino di cose meravigliose: tappi di bottiglia, rotelline dentate, monete di rame. Ed ecco che la primavera scorsa - pover'uomo in là con gli anni ormai - mi sorpresi a camminare fuori del marciapiede e cercare con gli occhi nel rigagnolo. Cosa? Che m'era preso? Ammettiamo che trovassi un nichelino. Che trovassi mezzo dollaro... E poi dopo? Non lo so come fosse tornata, l'anima del fanciullo, fatto sta ch'era tornata. E tutto si scioglieva: ghiaccio, discrezione, maturità. Cosa ne avrebbe detto Humboldt? Quando mi riferivano le sue maldicenze io, spesso, mi trovavo d'accordo con lui. “Hanno dato a Citrine il premio Pulitzer pel suo libro su Wilson e Tumulty. Il Pulitzer non conta, è roba buona solo per i polli. E' un premio fasullo, pubblicità per i giornali, conferito da una giuria di analfabeti e farabutti. Tu intanto diventi un cartello pubblicitario ambulante e, appena crepi, il necrologio suona così: E' venuto a mancare un Premio Pulitzer.” Secondo me, coglieva nel segno.

“E Charlie ha vinto il premio Pulitzer due volte. La prima, per quella sua commedia allo sciroppo. Gli ha fruttato una fortuna, a Broadway. Più i diritti cinematografici. E una percentuale sugli incassi! Non dico che abbia commesso un vero e proprio plagio ma... ma qualcosa mi ha rubato, sissignori: la mia personalità. Si è servito di me per il suo personaggio.”

Anche qui, per madornale che sembrasse, l'accusa era forse fondata.

 

Era un conversatore meraviglioso, un improvvisatore frenetico, capace di monologhi fluviali, era un grande denigratore. Venir vilipesi da Humboldt era, in realtà, una sorta di privilegio. Come esser il soggetto d'un ritratto con due nasi di Picasso, o una gallina sviscerata da Soutine. Il denaro l'ispirava, sempre. Gli piaceva un sacco parlare dei ricchi. Nutrito in gioventù di rotocalchi, gli capitava spesso di alludere agli scandali d'oro d'ierlaltro: Peaches e Daddy Browning, Harry Thaw e Evelyn Nes-bitt, eppoi l'età del Jazz, Scott Fitzgerald e i super-ricchi. Le ereditiere di Henry James, lui le conosceva a fondo. C'eran stati momenti in cui anch'egli aveva brigato, comicamente, per far fortuna.

Ma la sua vera ricchezza era letteraria. Aveva letto migliaia di libri. La storia - diceva - è un incubo, durante il quale lui tentava di assicurarsi ogni notte qualche ora di sonno. L'insonnia, tuttavia, lo rendeva più erudito. Durante le ore piccole, leggeva grossi tomi: Marx e Sombart, Toynbee, Rostovtzeff, Freud. Parlando di ricchezza, era in grado di fare raffronti fra il luxus dei romani e le dovizie dei protestanti d'America. In genere, andava a parare sugli ebrei: gli ebrei joyciani in cilindro davanti alla Borsa. E concludeva con la maschera d'oro, mortuaria, di Agamennone, riportata alla luce dallo Schliemann. Humboldt era proprio bravo a parlare.

Suo padre, ebreo immigrato dall'Ungheria, aveva cavalcato con il generale Pershing, verso Chihuahua, dando la caccia a Pancho Villa in un Messico di puttane e cavalli (quanto diverso da mio padre, così garbato, mite persona aliena a certe cose). Il suo, ci si era tuffato a capofitto nell'America. Humboldt parlava di bivacchi, battaglie, bottini. In seguito vennero limousine, alberghi di lusso, ville in Florida. Suo padre aveva abitato a Chicago negli anni d'oro. Operava nel settore immobiliare e aveva un appartamento all'Edgewater Beach Hotel. D'estate, faceva venire il figlio presso di sé. Così Humboldt conobbe anche Chicago. Ai tempi di Hack Wilson e Woody English, i Fleisher avevano posti riservati in tribuna allo stadio Wrigley. Si recavano alla partita a bordo di una Pierce-Arrow o di una Hispano-Suiza (Humboldt andava pazzo per le automobili). E c'era allora il simpatico John Held junior, c'erano ragazze bellissime vestite alla maschietta. E whisky e gangster, e le banche di La Salle Street, adorne di colonne, scure come l'inferno, nei cui sotterranei blindati si conservava il denaro delle ferrovie, il denaro dei grandi agrari. Di questa Chicago io ero del tutto ignaro, quando ci arrivai da Appleton. Giocavo alla “settimana” coi ragazzini polacchi sotto i pilastri della Sopraelevata. Humboldt invece si pappava torte al cioccolato e cocco, dette “zuppa del diavolo”, da Henrici. Io, da Henrici, non c'ero mai entrato nemmeno a dar un'occhiata.

Vidi invece, una volta, la madre di Humboldt nel suo buio appartamento di West End Avenue, a New York. Di viso, tal quale il figlio. Era muta, grassa, dalle labbra carnose, avvolta in un accappatoio. Aveva i capelli canuti, a cespuglio, da aborigena. Aveva il dorso delle mani maculato dalla melanina e, sulla faccia bruna, chiazze ancora più cupe, grandi quanto un occhio. Humboldt si chinò per parlarle all'orecchio, e lei non rispose nulla ma il suo sguardo fisso nel vuoto esprimeva una certa qual possente muliebre afflizione. Quando uscimmo, lui, tetro, mi disse: “Da ragazzo mi lasciava andar a Chicago, ma a patto che spiassi suo marito. Voleva che copiassi per lei gli estratti conto della banca, che le passassi tutti i dati finanziari e anche i nomi delle sue donnine. Intendeva fargli causa. E' matta, sai. Poi, invece, lui perdette ogni cosa nel tracollo. E' morto d'infarto, giù in Florida.”

Questo, lo sfondo di quelle allegre, spiritose ballate. Era un maniaco-depressivo, lui (per sua stessa diagnosi). Possedeva l'opera omnia di Freud e leggeva riviste di psichiatria. Una volta che hai letto Psicopatologia della vita quotidiana sai che la vita quotidiana è psicopatologica. E ciò era verissimo nel caso di Humboldt. Spesso mi citava, da Re Lear: “Nelle città, sommosse; nelle campagne, discordia; nei palazzi, il tradimento; e s'è spezzato il vincolo fra padre e figlio...” Calcava su queste due parole. “Rovinosi disordini ci incalzano fin alla tomba, inquieti.”

Ebbene, è fin là che l'incalzarono rovinosi disordini, sette anni fa. E oggi, quando escono nuove antologie, vado alla libreria Brentano a controllare. Le poesie di Humboldt non vi sono mai incluse. Questi bastardi - questi beccamorti e politicanti della letteratura - non sanno che farsene del vecchio e “smesso” Humboldt.

Quindi tutto il suo pensare, il suo scrivere e sentire non sono valsi a nulla; tutte quelle incursioni dietro le linee per catturare la bellezza non han sortito altro effetto che quello di logorare lui.

Lui è morto d'un colpo in uno squallido alberguccio di Times Square.

Io, scrittore d'altra sorta, sono sopravvissuto a piangerlo, in prosperità, qui a Chicago.

All'idea peraltro nobile di essere un poeta americano, certo Humboldt doveva sentirsi, a volte, come una specie di macchietta, di monello, di buffone, di matto. Vivevamo come bohémien e goliardi, noialtri, in uno spirito di gioco e di allegria. Forse l'America non aveva bisogno di arte, di miracoli interiori. Ne aveva tanti, di quelli esteriori. Gli Stati Uniti erano una immensa impresa. Più loro che noi. Quindi Humboldt viveva da eccentrico, da personaggio comico.

Ma di tanto in tanto c'era una pausa, nella sua eccentricità, quando si fermava a riflettere. Cercava allora di districarsi, mentalmente, da quel mondo americano (e ci provavo anch'io). Humboldt si stillava il cervello per capire cosa bisognasse fare fra l'allora e l'adesso, fra la nascita e la morte, per risolvere certe grosse incognite. Tali rimuginii non giovavano alla sua salute mentale, tutt'altro. Tentò con la droga, col bere. Alla fine, dovette esser sottoposto a elettroshock. Era - ai suoi stessi occhi - la lotta di Humboldt contro la pazzia. La pazzia era un bel po' più forte.

Non è che io me la cavassi tanto bene, al riguardo, di recente, allorché Humboldt si è rifatto vivo, per così dire, dall'oltretomba, foriero di grossi mutamenti nella mia vita. Nonostante i nostri dissapori e la ruggine di quindici anni, mi lasciava qualcosa nel suo testamento. Così, incappai in un'eredità.

 

Era uno di grande compagnia, ma però stava uscendo di senno. Il lato patologico poteva sfuggire solo a chi, per il troppo ridere, non l'osservasse. Humboldt - quest'omaccione bello e mutevole, dalla larga faccia bionda, quest'uomo affascinante e facondo e turbato nell'intimo, cui volevo tanto bene - viveva in maniera appassionata la commedia del Successo. Naturalmente, morirà in pieno Fallimento.

Che altro risultato può ottenersi, a mettere in maiuscolo codesti nomi? Io, per me, ho sempre cercato di ridurre il numero delle parole sacre. Humboldt invece ne aveva una lista lunghissima: Poesia, Bellezza, Amore, Terra Desolata, Alienazione, Politica, Storia, Subconscio... E, s'intende, Mania Depressiva: sempre con la maiuscola. A sentir lui, il più grande Maniaco-Depressivo d'America fu Lincoln. E anche Churchill - con quell'aria ch'egli definiva da Cane Nero - era un classico caso di Mania Depressiva. “Come me, Charlie” mi diceva. “Ma pensaci su: se l'Energia è Piacere e se l'Esuberanza è Bellezza, il Maniaco Depressivo la sa più lunga di chiunque altro, in fatto di Bellezza e di Piacere. Chi possiede più Energia, più Esuberanza di lui? Forse si tratta di uno stratagemma della Psiche per accrescere la Depressione. Non è stato Freud a dire che la Felicità altro non è che una remissione del Dolore? Quindi, più Dolore si prova, più intensa sarà la Felicità. Ma l'origine è fors'anche più remota: la Psiche lo crea apposta, il Dolore. Sia come sia, l'Umanità rimane sbigottita di fronte all'Esuberanza e alla Bellezza di certi individui. Quando un Maniaco Depressivo riesce a eludere le sue Erinni, diventa irresistibile. Diviene arbitro della Storia. Secondo me, il Dolore rappresenta una tecnica segreta dell'Inconscio. Quanto all'idea che i grandi e i potenti siano gli schiavi della Storia, qui, secondo me, Tolstoi si sbagliava. Non illuderti: i re sono i malati più sublimi.

Gli eroi Maniaco-Depressivi trascinano con sé l'Umanità, dànno l'avvio a tutti i cicli storici.”

Il povero Humboldt non riuscì a dettar legge per molto. Non divenne mai il centro radioso della propria epoca. La Depressione lo strinse nella sua morsa, per sempre. L'età degli estri poetici venne a termine. Tre decenni dopo esser stato reso famoso dalle Ballate di Arlecchino un attacco cardiaco lo fulminò in un albergo dei poveri, in una delle tante succursali dei dormitori pubblici del Bowery sparse qua e là per New York. A New York mi trovavo anch'io, per caso, quella sera. C'ero venuto per Affari: vale a dire, per loschi motivi. Nessuno dei miei Affari era meno che losco, ai suoi occhi.

Estraniatosi da tutti, abitava in un posto chiamato Ilscombe. In seguito v'andai a dar un'occhiata. Una specie di ospizio per vecchi.

Era una notte di caldo atroce, quella in cui morì. Perfino al Plaza, dove alloggiavo io, si tribolava. L'aria in città era gravida di miasmi. I condizionatori alle finestre, pulsando, sgocciolavano sul capo dei passanti. Una nottataccia. L'indomani, in volo per Chicago in aviogetto, aprii il Times e vi trovai il necrologio di Humboldt.

Lo sapevo che Humboldt sarebbe morto presto perché, quando l'avevo visto l'ultima volta, due mesi prima, gli avevo letto la morte sul viso. Lui non mi vide. Grande e grosso, grigio come la polvere, malato, aveva comprato una ciambella e la stava mangiando. Il suo pranzo. Nascosto dietro un'auto in sosta, lo spiai. Non gli andai vicino: sentivo che era impossibile. Una volta tanto, i miei Affari all'Est erano legittimi: non correvo dietro a qualche ragazza, ero là per un servizio giornalistico. Proprio quella mattina avevo sorvolato New York in elicottero, coi senatori Javits e Robert Kennedy. Poi avevo preso parte a un banchetto di politici, alla Taverna fra il Verde di Central Park: celebrità estasiate l'una alla vista dell'altra. Ero anch'io, come suol dirsi, “in gran forma”. Quando non ho una buona cera, ho l'aria disfatta, senza vie di mezzo. Ma quel giorno stavo bene. E avevo soldi in tasca. Passando davanti alle vetrine di Madison Avenue, se una cravatta di Cardin o Hermès mi piaceva, entravo e la compravo senza chieder prima il prezzo. Non avevo un filo di pancetta, indossavo mutande di fil di Scozia da otto dollari il paio. M'ero iscritto a un Club Atletico, a Chicago, e, a costo di sforzi diuturni, duri per la mia età, mantenevo la linea. Là giocavo a paddle ball, che è una specie di “squash”, un gioco aspro e veloce. E quindi, come potevo parlare con Humboldt? Era troppo, per me. Mentre io sorvolavo Manhattan, quel mattino - e era come osservare una scogliera corallina da una barca con carena di vetro - forse lui rovistava fra barattoli e bottiglie, cercando qualche rimasuglio di succo di frutta da mischiare al suo gin, per colazione.

Dopo la morte di Humboldt, mi dedicai con impegno anche maggiore al culturismo. L'anno scorso, a novembre, sono sfuggito a un rapinatore, a Chicago. Appena lo vidi sbucar fuori da un andito buio, me la diedi a gambe. Prontezza di riflessi. Feci un balzo indietro e mi buttai a correre al centro della via. Da ragazzo non ero un granché, nella corsa. Come va che, a cinquanta suonati da un pezzo, fossi tanto più agile, scattante, capace di far delle volate? Quella sera stessa menai vanto dell'impresa: “Sono ancora capace di battere un drogato, sui cento metri.” E a chi mai vantavo la potenza dei miei garretti? A una giovane donna a nome Renata. Stavamo a letto. Le raccontai come ero scappato, con che fulmineità. E lei, come le avessi porto la battuta (ah, la cortesia, la gentilezza d'animo di queste belle figliole) mi disse: “Sei terribilmente in forma, Charlie. Alto e grosso non sei, però sei robusto, solido, e sei anche elegante.”

M'accarezzò i lombi ignudi. E così il mio amico Humboldt se n'era andato sottoterra. Probabilmente le sue ossa si eran già decomposte, in una fossa senza nome. Forse non restava nulla, nella sua tomba, tranne qualche manciata di polvere. E invece Charlie Citrine era in grado di battere in volata criminali accaniti per le strade di Chicago, Charlie Citrine era in forma smagliante, e giaceva abbracciato a un'amante voluttuosa. Questo Citrine era anche capace di eseguire certi esercizi yoga: aveva appreso a star ritto sulla testa per curarsi l'artrosi cervicale. Circa il mio basso tasso di colesterolo, Renata sapeva tutto. Le avevo anche riferito le congratulazioni dei medici per l'ottimo stato della mia prostata, giovanilissima, e pel mio ultranormale elettrocardiogramma.

Inorgoglito da analisi cliniche che rafforzavano, in me, illusioni e idiozia, mi stringevo a una ben mammelluta Renata su un materasso scientificamente molleggiato. Ella mi guardava con occhi resi pii dall'amore. Io respiravo il suo delizioso madore, partecipando in prima persona al trionfo della civiltà americana (con sfumature orientali, imperialeggianti). Ma al contempo con gli occhi della mente vedevo un altro, ben diverso Citrine - vecchio e quasi decrepito, questo, la schiena curva, le membra deboli - oh, un vecchietto debolissimo, in sedia a rotelle, sospinto lungo il lido d'una qualche nebulosa Atlantic City, con le ondicine che si rompono schiumando sulla battigia, onde al pari di me languide e smorte. E chi spinge la sedia a rotelle? Renata forse? La Renata da me conquistata negli anni della Felicità, grazie a un'offensiva lampo, alla generale Patton? No, Renata era una ragazza in gamba, ma non riuscivo a vederla dietro la mia sedia da invalido. Renata? No, no, certamente non lei.

A Chicago, così, Humboldt divenne uno dei miei morti importanti.

Troppo tempo passavo a ruminare sui morti, a ragionare con loro.

Inoltre il mio nome ora veniva spesso collegato a quello di Humboldt, poiché gli anni Quaranta - via via che s'allontanavano nel tempo - si facevano man mano più pregiati, per quanti sono addetti a confezionare gli iridescenti tessuti culturali. Così, si sparse la voce che a Chicago c'era un tale, ancora in vita, che era stato amico di Von Humboldt Fleisher, un tale a nome Charlie Citrine. Diverse persone ch'eran dietro a compilare un libro, una tesi di laurea, un articolo o un saggio, mi scrivevano o venivano a trovarmi per parlare di Humboldt con me. E devo dire che a Chicago, Humboldt era un argomento di riflessione quanto mai adeguato. Situata sulla sponda meridionale dei Grandi Laghi (il venti per cento delle acque dolci del mondo) Chicago contiene, nel suo seno gigantesco, tutto intero il problema della poesia e della vita interiore in America. Qui si possono scrutare, certe cose, come attraverso un'acqua trasparente.

“Come spiega lei, Citrine, l'ascesa e la caduta di Von Humboldt Fleisher?”

“Ragazzi miei, in che modo intendete utilizzare i dati su Humboldt? Per scrivere qualcosa che v'aiuti a far carriera? Questo è Capitalismo bell'e buono.”

A Humboldt io pensavo con maggior serietà e cordoglio di quanto forse non appaia da questo resoconto. Non sono molte le persone che amo. Non posso permettermi di perderne alcuna. Un segno infallibile del mio affetto è che sogno spessissimo Humboldt. E ogni volta che mi appare mi commuove, piango nel sonno. Una volta ho sognato di incontrarlo da Whelan, un locale del Greenwich Village. Non era l'uomo disfatto cinereo rigonfio che avevo visto l'ultima volta, sulla Quarantaseiesima, ma ancora il robusto normale Humboldt della mezz'età. Sedeva accanto a me, presso il banco di mescita, una bibita in mano. Scoppiai a piangere. Gli dissi: “Dove sei stato? Ti credevo morto.”

E lui, mite, tranquillo, soddisfatto persino, mi disse: “Adesso capisco ogni cosa.”

“Ogni cosa? Che intendi?” Ma lui disse soltanto: “Ogni cosa.” Non riuscii a cavargli altro, ma piangevo di gioia. Certo era solo un sogno, di quelli che si fanno quando l'anima è ingombra, c'è qualcosa che non va. Da sveglio, non ho affatto un carattere fermo. Non mi daranno mai una medaglia come uomo di carattere. E siffatte cose devon risultare chiare, chiarissime, ai morti. Essi hanno finalmente lasciato la problematica, nebulosa sfera dell'umano e del terrestre.

Ho questa sensazione: in vita, uno guarda dall'Io (dal suo centro, cioè) verso l'esterno; in morte, uno si trova alla periferia e guarda verso l'interno. Vedi i tuoi vecchi amici, al caffè, che ancora s'affannano sotto il peso dell'individualità, e cerchi di fargli coraggio lasciando intendere che, quando verrà il loro turno di entrare nell'eternità, anch'essi cominceranno a capire, si faranno un'idea di che cosa è accaduto. Dato che non c'è nulla, qui, di Scientifico, ci spaventa pensarci.

Ebbene, vedrò di riassumere. A ventidue anni Von Humboldt Fleisher pubblicò il suo primo libro di ballate. Avresti detto che uno nato nel West End, figlio di immigrati, nevrotici per di più - quel padre stravagante che va a dare la caccia a Pancho Villa e che, come ci mostra una vecchia foto, ha una chioma tanto folta e riccia che il chepì gli sta in testa e non gli sta; quella madre di estrazione piccolo borghese, di famiglia tutta casa-bottega-e-stadio, molto bruna e graziosa da giovane, cupamente pazzoide da vecchia - che un giovanotto di tal natura dovesse essere per forza maldestro, che la sua sintassi non potesse venir accettata dai raffinati critici goy 1 posti di guardia allo Establishment Protestante e alla Tradizione Snob. Niente affatto. Quelle ballate erano terse, musicali, spiritose, piene di gioia e d'umanità. Platoniche, direi. Con ciò alludo a quella perfezione originaria cui, secondo Platone, ogni essere aspira a ritornare. Sì, le parole di Humboldt erano impeccabili. L'America degli Snob non aveva motivo di temere. Era, allora, in uno stato di sovreccitazione nervosa: s'aspettava, da un momento all'altro, di veder sbucare l'Anticristo dai bassifondi.

Invece, ecco questo Humboldt Fleisher con un'offerta d'amore. Si comportava come un gentiluomo. Aveva fascino. Così venne accolto con calore. Conrad Aiken lo lodò, T.S. Eliot prese benevola nota delle sue liriche, e persino Yvor Winters spese buone parole per lui.

Quanto a me, trovati trenta dollari in prestito, partii pieno d'entusiasmo per New York, per parlare con lui d'ogni sorta di cose in Bedford Street. Si era nel 1938. Quel giorno prendemmo il traghetto e andammo a mangiar zuppa di vongole a Hoboken, di là dallo Hudson, e parlammo dei problemi della poesia moderna. O meglio, Humboldt mi impartì una lezione su di essa. Aveva forse ragione Santayana? Era davvero barbara, la poesia moderna? I poeti d'oggi dispongono di materiali più meravigliosi che non Omero e Dante: ma gli manca la facoltà di idealizzarli. Esser cristiani è impossibile, pagani idem. Non rimane che... ci siamo capiti.

Ero venuto per sentirmi dire che le cose grandi potrebbero esser vere. E così mi sentii dire, appunto, su quel traghetto. Occorrevano gesti ampollosi, e Humboldt li compiva. I poeti - diceva - han da trovare il modo di salvarsi dall'America pragmatica. Seguitò a sommergermi di parole, per tutta la giornata. E io l'ascoltavo rapito, in tenuta da commesso viaggiatore, soffocando in un vestito a doppio petto, pura lana, smesso da mio fratello. Ci sguazzavo dentro, la camicia mi sboffava fuori, ché Julius era molto più grasso di me.

M'asciugavo il sudore con un fazzoletto su cui era ricamato il suo monogramma.

Humboldt, lui pure, cominciava a ingrassare. Aveva le spalle ispessite, ma di vita era ancora snello. Più tardi metterà su un pancione, come Babe Ruth, l'asso del baseball. Non poteva star fermo con le gambe, muoveva i piedi di continuo, nervosamente. In basso, comica agitazione; in alto, principesca dignità, un certo fascino mattoide. Una balena che affiorasse accanto alla tua barca ti guarderebbe forse come lui guardava, con i suoi occhi grigi distanziati. Massiccio era ma fine, greve ma anche leggero, e il suo viso era insieme scuro e pallido. I capelli all'insù, d'oro bruniccio, gli formavano due creste, con una valle in mezzo, più bruna. Aveva una cicatrice in fronte. Da bambino era caduto sulla lama d'un pàttino, l'osso era rimasto scalfito. Le labbra esangui erano prominenti, la bocca carnosa, piena di denti che parevano quelli da latte. Fumava le cicche fino all'ultimo filo di tabacco e aveva la cravatta e la giacca pinturicchiate di bruciacchiature.

Quel pomeriggio si parlò del Successo. Io venivo dal contado, e lui tirava a scafarmi. Ma riesci a figurarti - mi chiedeva - cosa vuol dire mettere il Village a rumore con le tue poesie e poi farle seguire da saggi critici sulla Partisan e sulla Southern Review? Molto aveva da dirmi sul Simbolismo, sul Modernismo, su Yeats, Rilke, Eliot. Inoltre, era un buon bevitore. Eppoi conosceva un mucchio di ragazze. A quell'epoca New York era molto russa, la Russia era in gran voga. Si dava il caso - per dirla con Lionel Abel - di una città che agognava d'appartenere a un altro Paese. New York sognava di abbandonare il Nord America e fondersi con la Russia Sovietica.

Humboldt, nei suoi conversari, saltava di palo in frasca: da Babe Ruth a Rosa Luxemburg, a Bela Kun, a Lenin. Là per là mi resi conto che, se non avessi letto immediatamente Trotzki, non sarebbe manco valsa la pena di discorrere con me. Humboldt mi parlava di Zinoviev, Kamenev, Bukharin, dell'Istituto Smolny, dei processi di Mosca, citando Da Hegel a Marx di Sidney Hook, Stato e Rivoluzione di Lenin.

Addirittura si paragonava, a Lenin. “Io lo so, quel che Lenin provava quando esclamò, quel giorno d'ottobre: “Es schwindelt!” Mica intendeva dire che lui stava schwindelando, bidonando, tutti quanti, no, macché: semplicemente, che aveva il capogiro. Per duro che fosse, Lenin era come una ragazza nel vortice del valzer. Anche a me il successo dà la vertigine, Charlie. Le idee che mi frullano pel capo non mi lasciano dormire. Vado a letto, senza aver bevuto un goccio, e la stanza si mette a girare. Succederà anche a te. Te lo dico, così ti prepari.” Testuale. Per l'adulazione Humboldt aveva un tratto squisito.

Ero in subbuglio, ma mi serbavo diffidente. In realtà intendevo essere pronto: intensamente eccitato, sognavo di sbalordire il mondo, di far strage. Ogni mattina, alla riunione della squadra venditori, prima di iniziare il giro, noi tutti gridavamo all'unisono: “Io sto bene, magnificamente, e voi?” Io stavo magnificamente sul serio. Non avevo bisogno di far finta. Più solerte di me si moriva: impaziente di bussare alle porte, salutar le massaie, accomodarmi in cucina, desideroso di sorbirmi le loro storie, avido delle loro lamentele.

L'appassionata ipocondria delle donne ebree era allora una novità per me, le ascoltavo con grande attenzione parlare di tumori, di gonfiori alle caviglie. Le inducevo a parlare sul matrimonio, sui figli, sul denaro, sulle malattie, sulla morte. Sì: tentavo di inserirle in tante categorie, sorseggiando il loro caffè. Eran piccoloborghesi, bisbetiche, arrampicatrici, isteriche, e così via. Ma non serviva a nulla, codesto scetticismo analitico. Ero troppo infervorato.

Insomma, vendevo spazzole con ardente passione. E con altrettanto zelo, la sera, al Village, ascoltavo i più grandi parlatori di New York: Schapiro, Hook, Rahv, Huggins, Gumbein. Deliziato dalla loro eloquenza, facevo le fusa come un gatto in una sala da concerti. Ma il più bravo di tutti era Humboldt. Lui era un Mozart della conversazione, né più né meno.

Sul traghetto mi disse: “Ho sfondato troppo giovane, sono nei guai.” Preso così lo slancio, attaccò a parlare di Freud, Heine, Wagner, di Goethe in Italia, del fratello morto di Lenin, dei costumi di Wild Bill Hickok, della squadra dei New York Giants, di Ring Lardner sull'opera lirica, di Swinburne sulla flagellazione, di John Rockefeller sulla religione. Divagava di continuo per tornare sempre al tema, variandolo in maniera sapiente, fascinosa. Quel pomeriggio le strade avevano un nonsoché di cinereo, ma il ponte del traghetto era d'un grigio brillante. Humboldt era trasandato e grandioso, la sua mente ondeggiava come l'acqua e a onde gli s'arruffavano i capelli, il volto dai distanti occhi grigi era pallido, intenso, affondava le mani nelle tasche, tenendo i piedi uniti, cui calzava scarponcini da tennis.

Se Scott-Fitzgerald fosse stato protestante - diceva Humboldt - il Successo non l'avrebbe danneggiato tanto. Si pensi a Rockefeller senior: lui sì che sapeva tener testa al successo, asserendo che il denaro gli veniva da Dio, ecco tutto. Certo, questo è un concetto manageriale della vita. E' calvinismo. Una volta accennato a Calvino, Humboldt andava di solito a parare su Grazia e Depravazione. Di qui passava a discorrere di Henry Adams - secondo il quale il progresso meccanico ci spezzerà comunque le reni, fra qualche decennio - e da Henry Adams si buttava a discettare sull'arte di eccellere in un'epoca di rivolgimenti, confusione e grandi masse, poi tornava a Tocqueville, a Horatio Alger, alle teorie di Ruggles. Fanatico del cinema, Humboldt non si perdeva un numero di Screen Gossip, organo del divismo. Ricordava Mae Murray come una dea dall'abito a lustrini, per averla vista da piccolo su un palcoscenico, donde invitava i ragazzini ad andarla a trovare in California. “Aveva interpretato La Regina di Tasmania e La maga Circe, ma però finì in miseria, in un ospizio. E che dire di quell'altro... come si chiamava... quello lì che s'uccise all'ospedale? Prese una forchetta e se la conficcò nel cuore, battendoci col tacco d'una scarpa, poveretto!” Era triste. Ma a me non importava, veramente, di quanti mordessero la polvere. Ero al settimo cielo. Non ero mai stato a casa di un poeta, mai bevuto gin liscio, mai mangiato zuppa di vongole, mai sentito il salmastro del mare. Mai neanche sentito parlare così di affarismo, del potere dei soldi di pietrificarti l'anima. Humboldt parlava meravigliosamente dei meravigliosi, abominevoli ricchi. Li dovevi vedere dal punto di vista dell'arte. Il suo monologo era un oratorio in cui egli sosteneva tutte le parti. Levandosi ancor più in alto, si metteva a parlare di Spinoza, ricordando come la sua mente si nutrisse di gioia al pensiero di cose infinite ed eterne. Così si esprimeva lo studente Humboldt che aveva ottenuto il massimo dei voti in filosofia dal grande Morris Cohen. Dubito che avrebbe parlato in tal modo con chiunque, tranne un ragazzotto di provincia. Ma, dopo Spinoza, si fece un po' mesto e mi disse: “C'è un sacco di gente che aspetta ch'io cada a bocca avanti. Ho un milione di nemici.”

“Ah, davvero? Ma perché?”

“Non credo tu abbia mai letto niente sulla Società Cannibalesca degli indios Kuakiutl” disse Humboldt, l'erudito. “Il prescelto, quando esegue la danza dell'iniziazione, arriva alla frenesia e mangia carne umana. Ma guai, se commette un errore rituale. Gli saltano addosso e lo sbranano.”

“Ma perché la poesia ti dovrebbe procurare un milione di nemici?” Domanda legittima, mi rispose: ma evidentemente non la pensava così. S'incupì, la voce gli si fece fessa - plinc! - come se vi fosse una nota di latta nella sua brillante tastiera. E ora aveva toccato quel tasto stonato. “Io m'illudo di portare un'offerta all'altare, ma gli altri non la vedono così.” No, non era una domanda legittima. Se l'avevo formulata, voleva dire che non conoscevo il Male. E se non conoscevo il Male, la mia ammirazione non valeva nulla. Mi perdonò perché ero un ragazzo.

Ma quando udii quella nota di latta, capii che dovevo imparare a difendermi. Egli aveva aperto in me una scaturigine d'affetto e ammirazione. Ne sgorgavano a un ritmo pericoloso. Una tale emorragia di fervore mi avrebbe indebolito, e, quando fossi debole e indifeso, avrei ricevuto la botta fra capo e collo. Così, argomentavo, ah ah! costui vuole che lo compiaccia fino in fondo, che mi adatti a lui perfettamente. Poi mi tiranneggerà. Meglio star in guardia.

Quella sera oppressiva in cui io toccai il traguardo del successo, Humboldt inscenò una gazzarra davanti al teatro Belasco. Era stato da poco dimesso dal manicomio. L'insegna diceva, a grandi lettere luminose: Von Trenck - tre atti di Charles Citrine. Migliaia di lampadine si riflettevano sul selciato. Arrivai io, in cravatta nera, e c'era Humboldt con una squadraccia di amici e clacqueur. Scesi dal tassì - ero in compagnia d'una signora - e sul marciapiede mi trovai in un mulinello. La polizia s'affannava a contenere la folla. Mentre i suoi scagnozzi inveivano e rissavano, Humboldt portava il suo cartello come fosse una croce. A caratteri luminescenti c'era scritto: “L'Autore di questa commedia è un Traditore.” I dimostranti furono sospinti indietro dalla polizia. Humboldt e io non ci incontrammo a faccia a faccia. L'aiutoregista mi chiese se volessi farlo arrestare.

“No” gli risposi, ferito, tremante. “Una volta ero il suo protetto.

Eravamo amici, io e quel pazzo disgraziato. Lasciamolo in pace.”

Demmie Vonghel, la signora ch'era con me, disse: “Ma che brava persona! Dico a te, Charlie, sei proprio una brava persona.”

Von Trenck tenne il cartellone per otto mesi, a Broadway. Per quasi un anno riscossi l'attenzione del pubblico, senza riuscire a insegnargli nulla.

 

Veniamo alla morte di Humboldt. Morì all'Ilscombe, a quattro passi dal teatro Belasco. Così ho ricostruito la sua ultima sera, in quel decrepito albergo-ospizio. Stava sdraiato sul letto, a leggere probabilmente. Di libri, nella sua stanza c'erano le poesie di Yeats e la Fenomenologia di Hegel. Oltre a questi scrittori visionari, leggeva i quotidiani e i rotocalchi. Si teneva al corrente sullo sport, sulla cronaca nera e mondana, sulle attività della famiglia Kennedy, sui prezzi delle auto usate, sui cercasi-offresi. Malandato com'era, conservava i suoi normali interessi americani. Verso le tre del mattino - non dormiva molto, da ultimo - si alzò per portare da basso il bidone dell'immondizia, e fu colto da infarto in ascensore.

A quanto pare, barcollando, urtò contro il pannello, premendo vari bottoni, fra cui quello d'allarme. Squillò una suoneria, la porta si aprì, egli stramazzò su un pianerottolo, rovesciando in terra barattoli, bottiglie e fondi di caffè dal suo bidoncino. Mancandogli il respiro, si strappò la camicia. Quando arrivarono le guardie, lo trovarono col petto nudo. All'ospedale non vollero accettarlo, così finì direttamente all'obitorio. Qui non v'erano cultori di poesia moderna. Il nome Von Humboldt Fleisher non gli diceva niente. Lo adagiarono su una lastra di marmo: un povero derelitto come un altro.

 

Sono andato a trovare suo zio Waldemar, non molto tempo fa, a Coney

Island. Quel vecchio giocatore appassionato di cavalli era finito al ricovero. Mi disse: “Le guardie l'hanno prima derubato, quei sciacalli. Gli hanno portato via l'orologio e i soldi, perfino la stilografica. Lui adoprava sempre una vera penna. Mica scriveva versi con la biro.”

“Sicuro, che avesse soldi in tasca?”

“Non andava mai in giro senza, minimo, cento dollari addosso. Lei dovrebbe saperlo, come la pensava sul denaro. Sento la sua mancanza, ragazzi. Perdio quanto mi manca!” Provavo esattamente quel che provava Waldemar. La morte di Humboldt mi commuoveva più dell'idea della mia. Lui era fatto apposta per venir pianto e rimpianto. Lui stesso si era, in vita, adoprato a tal postumo fine: dando a se stesso un peso particolare e scavando sul suo volto una traccia d'ogni più grave, d'ogni più importante sentimento umano. Era una faccia che non dimentichi mai più, la sua.

Ma a qual fine era stata creata? Di recente - la primavera scorsa - mi trovai a pensare a tutto questo in una bizzarra congiuntura. Ero in treno con Renata, in Francia, per un viaggio di cui - come per quasi tutti i viaggi - non sentivo né il bisogno né la voglia. Renata, indicandomi il paesaggio, esclamò: “Guarda fuori, là, che bello!” Guardai fuori. Sì, aveva ragione. Era proprio bellissimo, là fuori. Ma io il Bello l'avevo visto tante volte. Così chiusi gli occhi. Rifiutavo le Apparenze, questi idoli falsi e bugiardi. Al pari di ognuno, ero stato addestrato ad ammirare tali idoli, ma ero stufo della loro tirannia. Arrivai a pensare: il velo dipinto non è più quel ch'era una volta. Si sta logorando, accidenti. Come una bandinella dei gabinetti pubblici. Riflettevo sul potere delle astrazioni collettive, e così via. Bramiamo più che mai la radiosa vivace realtà dell'amore infinito, e sempre più gli aridi idoli ce lo vietano. Un mondo fatto di categorie, vacue di spirito, attende che la vita vi ritorni. Humboldt doveva essere uno strumento di tale rinascita.

Questa missione - questa vocazione - gli si leggeva in faccia. La speranza di nuova bellezza. La promessa, il segreto della bellezza.

Negli Stati Uniti, fra parentesi, una cosa così dà alla gente un aspetto forestiero.

Era logico che Renata richiamasse la mia attenzione sul Bello. Ella ne partecipava, personalmente; c'era un nesso fra lei e la Bellezza.

Insomma, il volto di Humboldt denotava, chiaramente, ch'egli capiva cosa andasse fatto. Denotava, altresì, che lui non era capace di farlo. Anche lui richiamava sempre la mia attenzione sui paesaggi.

Sullo scorcio degli anni Quaranta, lui e Kathleen, sposi novelli, si trasferirono dal Greenwich Village in campagna, in un lembo rurale del New Jersey; e, quando andai a trovarli, egli era tutto terra, alberi, fiori, melarance, sole e nuvole, Paradiso, Atlantide, Radamanto. Parlava di William Blake a Felpham e dell'Eden di Milton; e della città diceva peste e corna. La città era uno schifo. Per non perdersi nei meandri della sua conversazione, occorreva conoscere i suoi testi di base. Io sapevo quali fossero al momento: il Timeo di Platone, Proust su Combray, il Virgilio georgico, Marvell sui giardini, le poesie di Wallace Steven sui Caraibi, e così via. Un motivo per cui Humboldt e io eravamo intimi era ch'io ero disposto a seguire l'intero corso.

Dunque Humboldt e Kathleen vivevano in una cascina di campagna.

Diverse volte alla settimana Humboldt si recava in città per affari: affari da poeta. Era all'apice della sua fama, se non della sua potenza. Si era assicurate quattro sinecure, ch'io sapessi. Forse eran anche di più. Trovando io normale sussistere con quindici dollari a settimana, non ero in grado di valutare i suoi bisogni, né il suo reddito. Lui faceva il misterioso, però alludeva a grosse somme. Da ultimo era stato invitato a sostituire, per un anno, il professor Martin Sewell all'università di Princeton. Sewell doveva partire, per un ciclo di lezioni su Henry James a Damasco. E il suo amico Humboldt lo rimpiazzava. Gli occorreva un assistente: raccomandò me. Io, sfruttando il boom culturale dell'immediato dopoguerra, avevo recensito una caterva di libri per New Republic e per il Times. Humboldt mi disse: “Sewell ha letto i tuoi pezzi. Li trova discreti. Tu hai un'aria simpatica e innocente, con quei grandi occhi da ingenuo e le buone maniere del Midwest. Il vecchio vuol farti un esamino.”

“Esaminarmi? Ma se è troppo ubriaco per arrivare in fondo a una frase!”

“Come appunto dicevo, hai un'aria da ingenuo simpatico... finché la tua suscettibilità non viene suscitata. Non esser così superbo, via, si tratta solo di una formalità. La cosa è già decisa.”

“Ingenu”, alla francese, era una malaparola per Humboldt. Intriso di letteratura psicologica, lui guardava le mie azioni in trasparenza. La mia aria trasognata e spirituale non lo traeva minimamente in inganno. Lui sapeva riconoscere l'asprezza e l'ambizione, conosceva l'aggressione e la morte. La gamma della sua conversazione era vasta, a dismisura. E quel giorno, mentre viaggiavamo per la campagna, a bordo della sua Buick di seconda mano, fu addirittura torrenziale: mi parlò di Julien Sorel, della smania napoleonica, del balzacchiano jeune ambitieux, del ritratto che Marx fa di Luigi Bonaparte, dell'Individuo Storico hegeliano. A quest'ultimo era particolarmente affezionato: l'interprete dello Spirito, il misterioso condottiero che impone alla Umanità il compito di comprenderlo, eccetera. Eran argomenti piuttosto consueti, al Village, ma Humboldt li trattava in modo singolare, con sbrigliata fantasia, con energia maniacale, con una passione tutta sua per l'intrico, il garbuglio, l'allusione e il doppio senso finneganesco.

“E in America,” diceva, “questo Individuo hegeliano magari arriverà da dove meno te l'aspetti. Nativo di Appleton, nel Wisconsin, come Harry Houdini o Charlie Citrine.”

“A che serve pigliarsela con me? Sbagli bersaglio.”

Ero seccato con Humboldt a quel tempo. In campagna, una sera, aveva messo in guardia la mia amica Demmie Vonghel contro di me. Si era a cena e lui, a un tratto: “Stacci attenta, con Charlie. Le conosco, le ragazze come te. Idealizzano un uomo. Charlie è un vero demonio.”

Poi, dispiaciuto di questa sparata, s'alzò da tavola e uscì all'aperto. Lo udimmo camminare su e giù, a passi pesanti, sulla strada ghiaiata, nel buio della campagna. Demmie e io restammo un po' con Kathleen. Alla fine Kathleen disse: “Ti vuol molto bene, Charlie.

Ma s'è messo qualcosa in testa. Che tu abbia una missione, che so io, una qualche missione segreta da compiere, e che con gente come te non ci sia da fidarsi veramente. E anche a Demmie vuol bene. E' convinto di doverla proteggere. Ma non c'è mica niente di personale. Non sei arrabbiato?”

“Con Humboldt? E' troppo strambo, per farti arrabbiare. Specie come protettore di donzelle.”

Demmie pareva divertita. Qualsiasi donna apprezzerebbe siffatte premure. Più tardi, alla sua brusca maniera, mi chiese: “Cos'è questa faccenda? che missione?”

“Stupidaggini.”

“Ma una volta tu pure m'accennasti a qualcosa del genere, Charlie.

O vuoi dire che Humboldt parla a vanvera?”

“Ti dissi, ecco, che tante volte ho la buffa sensazione di esser stato affrancato e imbucato, e di attendere solo che mi recapitino a qualche indirizzo importante. Potrei contenere notizie inconsuete. Ma si tratta di ordinarie stupidaggini.”

Demmie - il suo nome era Anna Dempster Vonghel - insegnava latino alla Scuola Washington Irving, nei paraggi di Union Square, e abitava in Barrow Street. “C'è un lembo d'Olanda nel Delaware” diceva. “E' di là che provengono i Vonghel.” Aveva fatto studi classici in un'università di classe come Bryn Mawr, ma era stata anche una delinquente precoce: a quindici anni faceva parte di una banda di ladri d'auto. “Poiché ci amiamo, hai diritto di sapere” m'aveva detto. “Ho la fedina sporca: furtarelli, marijuana, atti contro il buon costume, guida spericolata, inseguimento della polizia, scontro, ossa rotte, condanna con la condizionale, tutta quanta la trafila. Ma conosco anche tremila versetti della Bibbia, circa. Sono stata allevata nel terrore del fuoco dell'inferno.” Il suo papà, un milionario della provincia retrograda, andava in giro in Cadillac e sputava dal finestrino. “E si pulisce i denti col detersivo. Versa le decime alla sua chiesa. Guida lo scolabus, alla domenica, per la parrocchia. E' l'ultimo dei fondamentalisti, dei protestanti vecchia maniera. Tranne che da noi ce n'è ancora una caterva” mi disse.

Demmie aveva gli occhi azzurri, col bianco bianchissimo, e un naso all'insù che era quasi altrettanto espressivo e insistente dello sguardo, quando ti fissava. Aveva i denti davanti tanto lunghi che la bocca le restava un po' dischiusa. Il suo viso era d'un ovale allungato, elegante, e portava i capelli biondo-oro scriminati al mezzo: le ricadevano come le tendine d'una linda casetta. Era una di quelle facce che, cent'anni fa, avresti visto su un carro di pionieri: una faccia molto bianca. Ma le gambe soprattutto m'avevano incantato. Straordinarie. Quelle gambe bellissime avevano un difetto, peraltro eccitante: le ginocchia si toccavano e i piedi eran volti un po' all'infuori sicché, quando camminava svelta, la seta delle calze produceva un lieve attrito, appena percettibile. Quando l'incontrai, a un cocktail, fra la folla, riuscivo a malapena a capire che dicesse, poiché parlava a denti stretti, quasi un borbottio, secondo il vezzo dei quartieri alti di New York. Ma in camicia da notte tornava a essere una ragazza di campagna, la perfetta villanella, e pronunciava tutte le parole chiare e distinte. Regolarmente, verso le due, gli incubi la svegliavano. Il suo cristianesimo era del tipo delirante.

Aveva da spurgar l'anima di sudiciume. Temeva l'inferno. Nel sonno si lamentava. Poi saltava su, singhiozzando. Mezz'addormentato, io cercavo di calmarla, rassicurarla. “Non esiste l'inferno, Demmie.”

“Invece sì. L'inferno c'è. Lo so che esiste.”

“Metti la testa qui, sulla mia spalla. Dormi, dormi.”

Una domenica di settembre, nel 1952, Humboldt venne a prendermi davanti a casa di Demmie, in Barrow Street, vicino al teatro di Cherry Lane. Era molto diverso dal giovane poeta con cui andavo a mangiar vongole a Hoboken: aveva messo su parecchia ciccia. Tutta allegra, Demmie mi chiamò dal pianerottolo esterno della scala antincendi, dove teneva le begonie (e al mattino ogni traccia dell'incubo era scomparsa). “Sta arrivando Humboldt, Charlie, a bordo della sua otto cilindri.” A tutta birra per Barrow Street. Il primo poeta d'America con servofreno, diceva lui. Imbevuto di mistica dell'automobile, non sapeva però parcheggiare. Lo guardai far manovra, e sì che c'era spazio. La mia teoria è che, dal modo come parcheggi, si capiscono molte cose sull'idea che hai di te stesso, intimamente, e su che cosa provi riguardo al tuo deretano. Per due volte Humboldt salì con una ruota sopra il marciapiede, alla fine rinunciò, spense il motore. Scese - in giacca sportiva a quadrettoni, scarponcini da tennis con fibbia - e sbatté lo sportello, lungo un paio di metri. Mi rivolse un saluto silenzioso, a labbra serrate. I suoi occhi grigi parevano più distanti che mai l'uno dall'altro: la balena affiorata affianco alla barchetta. La sua bella faccia s'era ispessita, deteriorata. Sontuosa, era, buddistica, ma non tranquilla.

Io ero vestito come si conviene per un colloquio accademico, formale; troppo attillato, abbottonato, stretto. Mi pareva di esser un ombrello arrotolato.

Era Demmie a prendersi cura del mio aspetto, allora. Mi stirava la camicia, sceglieva per me la cravatta, mi pettinava i capelli, ancora bruni e folti, con la striglia. Scesi da basso. Ed eccoci là: sullo sfondo, mattoni scrostati e bidoni di mondezza, marciapiedi in pendio, scale antincendi, Demmie che saluta col braccio dalla finestra, il suo fox terrier bianco che abbaia sul davanzale.

“Divertitevi!”

“Perché non viene Demmie? Kathleen l'aspetta.”

“Deve correggere i compiti di latino. Preparar la lezione” gli risposi.

“Se è tanto coscienziosa, può farlo anche in campagna. Poi l'accompagno al treno, lunedì.”

“No, non le va. Eppoi, ai tuoi gatti non andrebbe a genio il suo cane.”

Humboldt non insistette. Era affezionato ai gatti.

Sicché oggi rivedo due strani bambocci sul sedile anteriore della rombante, stridente otto-cilindri. Quella Buick era tutta inzaccherata, pareva un gippone reduce dal fronte delle Fiandre. Le ruote erano fuori allineamento, i pneumatici battevano la strada in modo eccentrico.

Sotto il sole velato d'autunno, Humboldt guidava veloce, approfittando che era domenica, le strade deserte. Tremendo, come autista: svolte a sinistra dal lato destro, scatti di velocità improvvisi, poi rallentava, s'accodava troppo. Mi faceva rabbia. Ero molto più bravo di lui, al volante, ma ogni paragone era assurdo, trattandosi di Humboldt, non d'un qualsiasi conducente. Stava tutto proteso, chino sullo sterzo, aveva tremiti alle mani e ai piedi, teneva il bocchino stretto fra i denti. Agitato, parlava a ruota libera, ti divertiva, ti provocava, ti informava, ti asfissiava. Non aveva chiuso occhio la notte avanti. Sembrava in cattiva salute. Certo, beveva. E si imbottiva di pillole. Nella cartella aveva un Prontuario farmaceutico. Rilegato in pelle nera, come una Bibbia, lo consultava spesso, e conosceva farmacisti che gli davano quel che chiedeva. In questo era compagno a Demmie. Anche lei pigliava pasticche senza ricetta.

L'auto dava sobbalzi, si squassava, maldestramente lanciata.

Accanto alla gran sagoma di Humboldt, gigante del motore, su quel sedile imbottito d'un lusso atroce, io riuscivo a percepire le illusioni da cui era animato. Formicolava di idee, uno sciame di nozioni l'accompagnava sempre, dovunque. Com'era cambiato il paesaggio, un tempo paludoso, del New Jersey... ora c'erano strade, depositi, fabbriche... cos'avrebbe significato una Buick come quella, con servofreno, con servosterzo, appena cinquant'anni prima.

Figurarsi Henry James al volante, o Walt Whitman, oppure Mallarmé.

Eravamo partiti: si mise a disquisire di meccanica, di lussi, di potere, capitalismo, tecnologia, Mammona, Orfeo e la poesia, le ricchezze del cuore, l'America, la civiltà mondiale. Suo compito era metter tutto questo - e altro ancora - insieme. L'auto infilò, starnutendo e cigolando, una lunga galleria, ne uscì in pieno sole.

Alte ciminiere, artiglieria pestifera, sparavano nel cielo domenicale bellissime salve di fumo. L'odore acido delle raffinerie di gas t'entrava nei polmoni come uno spino. I giunchi erano bruni come zuppa di cipolla. C'erano petroliere d'alto mare bloccate nei canali.

Il vento era teso, le grandi nubi bianche. Lontano, un agglomerato di villini aveva tutta l'aria d'una futura necropoli. Per le strade, sotto il pallido sole, i vivi andavano in chiesa. Sotto lo scarponcino da tennis di Humboldt il carburatore ansava, le ruote scentrate sobbalzavano sulle sconnessure dell'asfalto. Le raffiche eran così forti che perfino la pesante Buick le sentiva. Ci immettemmo sul ponte Pulaski e l'ombra a strie delle travate percorreva veloce il parabrezza vibrante. Sul sedile posteriore c'erano bottiglie, barattoli di birra, fagotti, libri: Tristan Corbière, ch'io ricordi, Les amours jaunes dalla copertina gialla, The Police Gazette, rosa, con foto di poliziotti volgari e gioventù traviata.

La cascina di Humboldt si trovava ai confini con la Pennsylvania.

Quella terra non era buona a nulla, tranne che per allevar galline.

L'ultimo tratto di strada non era asfaltata, si sollevava un nugolo di polvere. I rovi sferzavano il nostro bolide sobbalzante sulle grosse balestre, fra campi cosparsi di massi erratici. Il frastuono, grazie agli ammortizzatori scarichi, era tale che, sebbene occupassimo tutto lo stradello, non c'era bisogno di clacsonare. Ci si udiva venire da lontano. Humboldt gridò: “Eccoci a casa!” E sterzò. Superammo un greppo, o piuttosto un'onda di terra. Il muso della Buick s'impennò, poi si tuffò fra le gramigne. Lui pigiò sul clacson, temendo per i gatti, ma questi avevan già trovato scampo sul tetto d'una legnaia, sprofondato sotto la neve dell'inverno scorso.

Kathleen ci aspettava sull'aia: un gran pezzo di donna dalla carnagione bionda. Il suo viso, secondo il lessico degli elogi femminili, aveva “una magnifica ossatura”. Era pallida però, non aveva affatto un colorito campestre. Non usciva quasi mai, mi disse Humboldt. Stava in casa a legger libri. Era proprio come a Bedford Street, lì, tranne che il circondario, ugualmente squallido, era rurale. Kathleen era contenta di vedermi, e mi carezzò una mano, gentilmente. “Salve, Charlie.” Poi soggiunse: “Grazie, d'essere venuto. Ma Demmie? Non è potuta venire? Mi dispiace.”

Allora nel mio cranio si accese un bengala. Al suo vivido bagliore mi apparve chiara la curiosa situazione in cui Humboldt aveva messo Kathleen, e che ora cercherò di metter in parole. Sta' qui. Sta' buona. Non muoverti. La mia felicità sarà bizzarra, ma una volta felice farò felice anche te, più felice di quanto hai mai sognato.

Quando io sia contento, la mia soddisfazione traboccherà sul mondo, una manna per l'intera umanità. Non è questo - pensai - il messaggio del potere moderno? Così parla il tiranno impazzito, che ha appetiti singolari da saziare, e per il quale tutti han da star buoni e fermi.

Afferrai tutto in blocco. Poi mi dissi che Kathleen doveva aver motivi suoi, segreti, femminili, per starci. Anch'io avrei dovuto starci e, in un'altra maniera, assecondarlo. Humboldt aveva dei progetti anche per me, dopo Princeton. Quando non era un poeta, era un fanatico intrigante. E io ero particolarmente suscettibile alla sua influenza. Il perché l'ho cominciato a capire solo di recente.

Comunque, aveva il dono di elettrizzarmi. Tutto quel che facesse era delizioso. Kathleen pareva consapevole di questo e sorrise fra sé, mentre io discendevo dall'auto. Ristetti, in mezzo all'erba calpestata.

“Respirala, quest'aria!” disse Humboldt. “Che differenza, eh, da Bedford Street!” E qui una citazione shakespeariana: “Questo castello sorge in luogo ameno. Qui l'alito del cielo ha un buon odore.”

Poi ci mettemmo a giocare a pallone. Lui e Kathleen ci giocavano sempre. Ecco perché l'erba era tutta calpestata. Ma Kathleen passava gran parte della giornata a leggere. Per capire quello di cui suo marito parlava le toccava mettersi al corrente - mi disse - su Proust, James, Edith Wharton, Marx, Freud e via dicendo. E Humboldt: “Mi tocca litigare, ogni volta, per farla uscire a giocare un po' a palla.” I passaggi di lei erano ottimi, forti e col giusto effetto.

La voce le si smorzava, quando correva a gambe nude per fare una parata. Il pallone in volo si smenava come la coda d'un'anatra.

Volava sotto gli aceri, sopra la biancheria stesa. Dopo esser stato tappato in auto, e vestito di tutto punto, ero lieto di giocare.

Humboldt correva greve, a trabalzi. In maglione, lui e Kathleen parevano due reclute: grossi, biondi, imbottiti. Humboldt diceva: “Guarda Charlie che salta come Nijinsky!” Io somigliavo tanto a Nijinsky quanto la sua casa al castello di Macbeth. Le strade vicinali avevan portato via una fetta del poggio su cui la cascina sorgeva, e questa cominciava a pencolare. Tra non molto sarebbero occorsi dei puntelli. O far causa alla contea, mi disse Humboldt. Lui avrebbe querelato chiunque. I vicini allevavano polli, in quella terra magra. Vi crescevano lappe e bardane, cardi, quercioli nani, eriofori, e dovunque eran buche gessose, pozzanghere biancastre. Tutto dava un'idea di miseria. Gli stessi cespugli dovevano campare di sussidi. Le galline del vicinato erano rauche - parevano donnette forestiere, a sentirle - e gli arboscelli, lentischi o sommacchi o ailanti, avevan tutti un'aria miseranda, da orfani, da accattoni. Le foglie d'autunno si stavan sfacendo in polvere e l'odore di questa marcescenza era gradevole. L'aria non era balsamica, ma buona. Al calar del sole, il paesaggio assunse l'aspetto di un vecchio dagherrotipo color seppia. Il tramonto: uno slavaccio rosso all'orizzonte, verso la Pennsylvania, campanacci di pecore, abbaiare di cani sulle aie.

Uno di Chicago poteva anche appagarsi d'una scenografia così povera. A Chicago s'impara a valutare il quasi-nulla. Di buon occhio guardavo quel modesto scenario: mi andavan bene i rossi sommacchi, le pietre biancheggianti, la ruggine delle erbacce, la parrucca di verde sul poggio, prospiciente le strade vicinali.

Era più che gradimento. Era già affetto. Magari amore. L'influenza d'un poeta aveva forse contribuito al rapido sviluppo di quel mio sentimento per quei luoghi. Non alludo al privilegio di venir ammesso nel mondo della letteratura - anche se questo ci sarà pur entrato in qualche modo - no, l'influenza consisteva in ben altro. Ecco. Uno dei temi di Humboldt si riallacciava alla perenne sensazione umana che ci fosse all'origine un mondo, nostra patria, che avessimo perduto.

Talvolta parlava della Poesia come d'una misericordiosa Ellis Island dove un'orda di stranieri incominciasse la propria naturalizzazione; e di questo pianeta come d'una sensazionale, ma non abbastanza umanizzata, imitazione di quel mondo primigenio. Parlava della nostra specie come di tanti reietti. Ma il bravo singolare vecchio Humboldt, pensavo (e singolare mi sentivo anch'io, discretamente) ora ha accettato la sfida delle sfide. Ci voleva la sicumera del genio per far la spola fra quel lembo di terra in Nessun Dove e il mondo-patria delle nostre gloriose origini. Ma perché, quel disgraziato, si rendeva la vita così dura? Doveva aver comprato quel terreno in un accesso d'insania. Ma allora, correndo fra l'erbaccia per riprendere la palla volata oltre il filo per stendere i panni, nel crepuscolo, mi sentivo veramente felice. Forse, pensavo, ce la farà. Forse, quando si è perduti, convien perdersi anche più. Se si è già in ritardo per un appuntamento, forse è meglio rallentare ancora il passo, come consiglia uno dei miei prediletti scrittori russi.

Mi sbagliavo di grosso. Non era una sfida, e lui non tentava nemmeno di farcela.

Quando si fece troppo buio per giocare, rientrammo. Dentro, pareva d'esser ancora al Greenwich Village. La casa era arredata con mobili d'occasione, suppellettili da rigattiere, da pesca di beneficenza, e pareva poggiare su fondamenta di libri e carte. Ci sedemmo in salotto, a bere da bicchieri ex-vasetti di marmellata. La grossa bionda pallida amabile lentigginosa Kathleen dal seno procace ci sorrideva gentilmente ma, per lo più, serbava il silenzio. Meraviglie son capaci di fare le donne per i loro mariti. Ella amava un re-poeta e gli permetteva di tenerla prigioniera in campagna. Sorseggiava birra da un barattolo. La stanza aveva il soffitto basso. Marito e moglie erano corpulenti. Sedevan a fianco a fianco sul sofà. Non c'era spazio abbastanza sui muri per le loro ombre. Straripavano sul soffitto. La carta da parati era rosa - un rosa da biancheria intima femminile o da confetto - a roselline e tralicci. Il foro d'una canna fumaria era stato otturato con un tappo d'asbesto dagli orli dorati.

I gatti venivano a guardare da dietro i vetri, infregnati. Humboldt e Kathleen s'alzavano a turno per farli entrare. Le finestre eran di quelle all'antica, a ghigliottina. Kathleen s'appoggiava al vetro, tirava su il telaio scorrevole con entrambe le mani, spingendo anche col busto. I gatti entravano, tutti ispidi, disturbati.

Poeta, pensatore, bevitore accanito, ingoiapillole, uomo di genio, maniaco depressivo, intricato intrigante, grosso personaggio... Un tempo Humboldt scriveva poesie molto belle e spiritose, ma cosa aveva fatto di recente? Aveva forse dato voce, e canto, a ciò che urgeva in lui? No. Le poesie non scritte l'uccidevano. Si era ritirato in quel cantuccio di campagna che a volte gli appariva come un'Arcadia, a volte come un inferno. Di qui udiva le brutte cose che di lui dicevano i suoi detrattori, altri scrittori e intellettuali. Si faceva maligno lui pure, ma sembrava non udire quel che lui diceva degli altri, come li diffamava. Rimuginava, tesseva intrighi con la fantasia. Si chiudeva sempre più nella sua solitudine. Lui, ch'era fatto per la vita attiva, creatura mondana per eccellenza. I suoi schemi e progetti rivelavano tutto ciò.

A quel tempo si era votato a Adlai Stevenson. Pensava che - se Adlai avesse battuto Eisenhower alle prossime elezioni - la Cultura sarebbe stata di casa a Washington. “Ora che l'America è una potenza mondiale, il filisteismo è finito. Finito e politicamente pericoloso” diceva. “Se Stevenson va, va la letteratura: andiamo noi. Stevenson legge le mie poesie.”

“E tu come lo sai?”

“Non ti posso dire tutto, ma mi tengo in contatto. Stevenson si porta appresso le mie ballate, durante la campagna elettorale. Gli intellettuali sono in ascesa, da noi. Finalmente la democrazia si accinge a portare la civiltà negli Stati Uniti. Ecco perché Kathleen e io abbiamo lasciato il Village.”

Era ormai divenuto un figlio del secolo. Trasferendosi in un fondo di campagna desolata, fra i buzzurri, s'illudeva di essersi immesso nella grande corrente americana. Questa era, comunque, la sua copertura. C'eran altri motivi, difatti: gelosia, delusioni sessuali.

Una volta mi narrò una lunga storia contorta. Il padre di Kathleen aveva cercato di sottrarla a lui. Prima che sposasse Humboldt, l'aveva presa e l'aveva venduta a un Rockefeller. “Un bel giorno lei scomparve. Vado qui dal fornaio, mi disse. E non l'ho più vista per un anno, quasi. Assoldai un investigatore privato. Ma ti puoi figurare benissimo che razza di precauzioni avessero preso i Rockefeller, coi miliardi che hanno. Ci sono gallerie segrete, sai, sotto Park Avenue.”

“Quale dei Rockefeller l'aveva comprata?”

“Comprata, è la parola” disse Humboldt. “Il padre l'ha venduta. Non sorridere più, quando leggi di schiave bianche, sui rotocalchi.”

“La cosa sarà avvenuta contro la sua volontà.”

“Lei è molto remissiva. La vedi, una colomba. Obbediente al cento per cento a quel vilissimo vecchio. Lui le disse “vai!” e lei, buona buona, andò. Può anche darsi che ci provasse piacere, e che quel ruffiano di suo padre le abbia solo dato il benestare...”

Masochismo, s'intende. Questo faceva parte del Gioco della Psiche che Humboldt aveva appreso dai suoi grandi maestri, un gioco assai più complicato e fine di qualsiasi altro gioco di società brevettato.

Là in campagna Humboldt giaceva sul divano, a legger Proust, a meditare sui moventi di Albertine. Raramente permetteva a Kathleen di recarsi al mercato da sola. Lui teneva le chiavi della macchina. La teneva segregata.

Era ancora un bell'uomo, e Kathleen l'adorava. Lui però era angustiato da terrori tipicamente ebraici, là in campagna. Egli era un orientale, essa una donzella cristiana: quindi aveva paura. S'aspettava che quelli del Ku Klux Klan dessero fuoco a una croce davanti a casa sua, o che gli sparassero attraverso la finestra mentre leggeva Proust sul divano, oppure che montassero uno scandalo. Guardava sotto il cofano dell'auto - me lo disse Kathleen - casomai ci avessero messo un ordigno. Più d'una volta Humboldt cercò di indurmi a confessare che anch'io nutrivo di tali timori a riguardo di Demmie Vonghel.

I ciocchi di legna, vendutigli da un vicino, erano verdi. Il caminetto faceva fumo. Indugiavamo, dopo cena, a bere. Sul tavolo, lo scheletro d'un tacchino. Vino e birra scorrevano veloci. La torta al caffè era avanzata, il gelato alla nocciola si stava squagliando.

Dalla finestra veniva un lieve odore di pozzo nero. Le bombole di liquigas sembravano proiettili d'artiglieria, argentei. Humboldt stava dicendo che Adlai Stevenson era un uomo di vera cultura, il primo dopo Woodrow Wilson. Senonché Wilson era inferiore, sotto questo riguardo, a Stevenson e a Lincoln. Lincoln conosceva bene Shakespeare, e lo citava nei momenti di crisi. “Non v'ha nulla di serio nella morte. E' tutto un gioco... Duncan è nella tomba. Dopo le febbri e smanie della vita, dorme tranquillo...” Questi, i presentimenti di Lincoln quando Lee stava per arrendersi. Gli uomini della frontiera non temettero mai la poesia. Sono il Grande Affarismo con la sua fobia della femminilità e il Clero eunucoide che capitola di fronte alla virilità più volgare, a far dell'arte e della religione qualcosa di effeminato. Stevenson questo lo capiva. A dar retta a Humboldt (io non ci riuscivo) Stevenson era il “magnanimo” di Aristotele. I suoi ministri avrebbero citato Yeats e Joyce. I nuovi capi di Stato Maggiore avrebbero conosciuto Tucidide. Humboldt sarebbe stato consultato prima d'ogni messaggio alla nazione. Novello Goethe, egli avrebbe fatto di Washington un'altra Weimar. “Incomincia a pensare, Charlie, a quello che potresti chiedere tu. Per esempio, all'inizio, un incarico presso la Biblioteca Nazionale...”

Kathleen disse: “C'è un programma interessante alla tivù. Un vecchio film con Bela Lugosi.”

Lo vedeva, com'era sovreccitato. Non avrebbe chiuso occhio quella notte.

Molto bene. Ci guardammo il vecchio film dell'orrore. Bela Lugosi alle prese con uno scienziato folle, che aveva inventato la carne artificiale. Se la spalmava in faccia, facendone una maschera paurosa, quindi s'introduceva nelle stanze di bellissime fanciulle, che svenivano. Kathleen, più favolosa d'ogni scienziato, più bella di tutte quelle damigelle, sedeva là con un mezzo sorriso fra le efelidi, distratta. Era sonnambula. Humboldt l'aveva circondata da ogni lato con la crisi della Cultura Occidentale. Andò a dormire. Che altro poteva fare? Li capisco, quei lunghi anni di sonno. E' un soggetto che conosco bene. Intanto Humboldt seguitava a tener svegli me e se stesso. Ingoiava tranquillanti per sopraffare l'anfetamina, e sopra ci ingollava gin.

Uscii a far due passi, all'aria fredda. La luce che pioveva dalla cascina dava risalto alle carraie e ai solchi, si posava sulle prode irte di carote selvatiche e erba calderina. Latrati di cani, volpi forse, stelle nitidissime. Oltre i vetri s'agitavano i mostri dell'altr'ieri, lo scienziato accoglieva i poliziotti a revolverate, il suo laboratorio saltava in aria, lui moriva tra le fiamme, la carne sintetica gli si scioglieva sulla faccia.

Demmie starà guardando quello stesso film, in Barrow Street. Non soffriva d'insonnia, ma del sonno aveva tanta paura. Preferiva i film dell'orrore ai brutti sogni. Quando s'avvicinava l'ora di coricarsi, Demmie si faceva sempre inquieta. Dopo il telegiornale delle dieci, portavamo fuori il cane, poi giocavamo a carte, trictrac o solitari, poi sdraiati sul letto ci guardavamo Lon Chaney lanciare coltelli coi piedi.

Non avevo dimenticato che Humboldt s'atteggiava a protettore di Demmie, ma non ci facevo più caso. Non appena s'incontravano, Demmie e Humboldt si mettevano subito a parlare di vecchi film e nuove pillole. Quando discutevano, con passione e profonda cultura, di questo o quel farmaco, io non li seguivo più. Ma mi dava piacere che avessero tanto in comune. “E' un grand'uomo” diceva Demmie.

E Humboldt di lei: “Se n'intende, di farmacopea. E' una ragazza eccezionale.” Ma di non immischiarsi era incapace. E soggiungeva: “C'è qualcosa però, nel suo animo, a cui deve dar sfogo.”

“Balle. E cosa, poi? E' già stata una delinquente minorile.”

“Non basta” ribatteva Humboldt. “Se la vita non è ubriacante, non val niente. O bruci, o marcisci, non si scappa. Gli Stati Uniti sono un Paese romantico. Se tu vuoi serbarti sobrio, Charlie, è perché sei un anticonformista, e faresti di tutto per distinguerti.” Poi, abbassando la voce, gli occhi fissi sul pavimento: “Che ti pare di Kathleen? La trovi fuori squadra? Una che però s'è lasciata plagiare e vendere da suo padre a Rockefeller...”

“Ancora non m'hai detto quale dei Rockefeller la comprò.”

“Non ci farei progetti, io, su Demmie, sai, Charlie. Quella ragazza deve ancora passare attraverso un bel po' di tormenti.”

S'immischiava, secondo il suo solito. Tuttavia presi la cosa a cuore. Ché c'era, effettivamente, molto tormento in Demmie. Certe donne piangono come annaffiatoi, dolcemente. Demmie aveva il pianto convulso, appassionato: come solo può piangere chi crede nel peccato mortale. A vederla, non solo ti faceva pena, ma provavi rispetto per la sua forza d'animo.

Humboldt e io restammo alzati, a parlare, gran parte della notte.

Kathleen m'aveva prestato un maglione. Quanto a lei, dovette approfittare della mia visita per concedersi un po' più di riposo, prevedendo un'intera settimana di notti insonni, maniacali, senza un ospite che le desse il cambio.

A mo' di prefazione ai miei Colloqui con Von Humboldt Fleisher (e quella sera egli eseguì una specie di recital) vorrei qui fare, succintamente, una premessa storica. Arrivò un tempo (all'inizio dell'Evo Moderno) in cui la vita perse, a quanto pare, la capacità di organizzarsi da sé. Andava organizzata. E gli intellettuali se n'assunsero il compito. Dai tempi, diciamo, di Machiavelli ai giorni nostri è sempre stata questa, di riordinare la vita, la loro grande superba tantalizzante fuorviante disastrosa aspirazione. A elettrizzare uno come Humboldt - ispirato, sagace, pazzoide - era la scoperta che l'impresa umana - così grandiosa e infinitamente varia - dovesse esser ormai gestita da persone eccezionali. Lui era una persona eccezionale, quindi era ipso facto candidato al potere.

Ebbene, perché no? Più sensati consigli glielo sussurravano, chiaro, perché no. E la cosa era comica. Finché ne ridevamo, andava bene. A quell'epoca ero anch'io, più o meno, un candidato. Anch'io scorgevo grandi opportunità, vedevo scene di vittoria ideologica e personale trionfo.

Una parola, adesso, sulla conversazione di Humboldt. Che razza di causeur era, in effetti, questo poeta? All'inizio ti dava l'impressione di un pensatore equilibrato, ma non era certo il ritratto della sanità mentale. Anche a me piaceva discorrere, e finché potevo gli tenevo testa. Per un po', era un doppio concerto. Ma ben presto io venivo cacciato di scena, a sviolinate e strombazzamenti. Ragionando e inventando, formulando concetti e contestandoli, la voce di Humboldt saliva di volume, s'arrocchiva, tornava a levarsi, fino a gridare, chiazze scure gli si formavano sotto gli occhi. Anche gli occhi parevano macchiati. Le braccia pesanti, il possente torace, la pancia traboccante dalla cintola tirata, la cui estremità pendeva come una lunga lingua di cuoio, egli passava dall'asserzione al recitativo, dal recitativo saliva alla romanza, mentre alle sue spalle suonava un'orchestra allusiva, nei cui contrappunti, all'amore per l'arte e alla venerazione per i grandi artisti, si mischiavano anche sospetti e imbrogli e meschinità. Di fronte ai tuoi occhi, ecco quell'uomo andar cantando e recitando di qua e di là dalla pazzia, dentro e fuori.

Attaccò a parlare, quella sera, sul posto che arte e cultura avrebbero occupato nel futuro governo Stevenson: sul suo ruolo, anzi sul nostro, poiché l'avremmo svolto insieme. Prese lo spunto da un giudizio su Eisenhower. Secondo lui, mancava di coraggio politico.

Vedasi come aveva tollerato che Joe Maccarthy e il senatore Jenner sparlassero del generale Marshall. Non aveva affatto fegato. Però era un asso per la logistica e le pubbliche relazioni, e non era uno sciocco. Era un ufficiale di guarnigione del tipo migliore: indolente, facilone, giocatore di bridge, gli piacevano le donne e i romanzi d'avventure di Zane Grey. Se la gente voleva un governo rilassato, se si era abbastanza ripresa dalla Depressione e voleva una vacanza dalla guerra, se si sentiva tanto forte da poter far a meno di programmi sociali e tanto prospera da poter essere ingrata, ebbene, avrebbe votato per Ike, questa specie di principe che poteva ordinarsi in base a un catalogo di Grandi Magazzini. Forse ne aveva abbastanza di grandi personalità come Roosevelt, o di uomini energici come Truman. Lui però non voleva sottovalutare l'America. Stevenson poteva farcela. Allora si vedrà, diceva, cosa può l'arte in una società liberale, se sia o meno compatibile col progresso sociale. Frattanto, avendo accennato a Roosevelt, si chiedeva se questi non avesse avuto qualcosa a che fare con la morte del senatore Bronson Cutting, perito in un incidente aereo. Come mai? Forse c'era lo zampino di Edgar Hoover. Hoover conservava il proprio potere alla testa dell'Fbi sbrigando le faccende sporche per i vari presidenti.

Si ricordi come aveva tentato di danneggiare Burton Wheeler, deputato del Montana. Di qui, Humboldt passò alla vita sessuale di Roosevelt.

Poi, da Roosevelt e Hoover, a Lenin e Dzer`zinski, il capo della Ghepeù. Donde risalì a Seiano e alle origini della polizia segreta nell'impero romano. Quindi parlò delle teorie letterarie di Trotzki e di quanto greve fosse, per il treno della Rivoluzione, il bagaglio della grande arte. Indi tornò a Eisenhower e alla vita dei militari di carriera negli anni di pace, nel Trenta. Alle loro bevute.

Churchill e la bottiglia. Accorgimenti per proteggere i grandi dagli scandali. Misure di sicurezza nei bordelli per invertiti, a New York.

Alcolismo e omosessualità. Vita domestica e coniugale dei pederasti.

Proust e Charlus. Sodomia nell'esercito tedesco prima del 1914.

Humboldt era un appassionato lettore di storia militare e memorie di guerra. Conosceva Wheeler-Bennett, 9 Chester 9 Wilmot, Liddell Hart, i generali di Hitler. Conosceva anche Walter Winchell e Earl Wilson e Leonard Lyons e Red Smith, e con facilità passava dai rotocalchi a Rommel, da Rommel a John Donne e T'S' 9 Eliot. 9 Su 9 Eliot 9 conosceva strani fatti mai uditi da nessuno. Si nutriva tanto di pettegolezzi e allucinazioni quanto di teorie letterarie. La distorsione è inerente, sì, ad ogni poesia. Ma cosa viene prima? Qui la disquisizione si faceva torrenziale (strazio e insieme privilegio, per me) zeppa di citazioni dai classici e dai detti di Eisenhower e di Zsa Zsa Gabor, con riferimenti al socialismo polacco e alle tattiche calcistiche di George Halas, ai moventi segreti di Arnold Toynbee e (in qualche modo) alla compravendita di auto usate. Ricchi e poveri, ebrei e goy, ballerine di fila, prostituzione e fede religiosa, antiche famiglie e parvenu, circoli mondani, Back Bay, Newport, Piazza Washington, Henry Adams, Henry James, Henry Ford, San Giovanni della Croce, Dante, Ezra Pound, Dostoievski, Marilyn Monroe e Joe di Maggio, Gertrude Stein e Alice, Freud e Ferenczi. A proposito di Ferenczi riferiva sempre questa osservazione: nulla potrebbe esser più lontano dall'istinto, della razionalità; quindi, secondo Ferenczi, la razionalità è anche il vertice della pazzia. A riprova di ciò, non era forse impazzito 9 Isacco 9 Newton? A questo punto, entrava generalmente in scena Antonin Artaud. Il commediografo Artaud invitava i più brillanti intellettuali di Parigi a una conferenza. Quando erano tutti sistemati in sala, Artaud si faceva alla ribalta e, anziché tener un discorso, si metteva a inveire, a urlare come una bestia. “Cacciava urli forsennati. Grida inumane.

Quei poveri intellettuali parigini l'ascoltavano pieni di spavento.

Ma era un rito delizioso, per loro. E perché? Artaud, in quanto artista, era un prete mancato. E i preti mancati si specializzano in bestemmie. Il linguaggio blasfemo si rivolge a una comunità di credenti. In tal caso, che genere di fede? La fede nel solo intelletto, da un Ferenczi ora accusato di pazzia. Ma che cosa significa, in senso più vasto? Significa che l'unica arte, cui gl'intellettuali s'interessino, è un'arte che celebra la preminenza delle idee. Gli artisti devono interessare gli intellettuali, questa nuova classe. Ecco perché lo stato della cultura e la storia della cultura divengono argomento dell'arte, materia di arte. Ecco perché una raffinata platea di francesi ascolta, rispettosamente, Artaud gridare. Per essi, unico scopo dell'arte è suggerire idee, ispirare discorsi. Le persone istruite dei Paesi moderni sono una marmaglia pensante, allo stadio di ciò che Marx chiamava cumulo primitivo. Il loro ufficio è ridurre i capolavori a fatti discorsivi. L'urlaccio di Artaud è una cosa intellettuale. In primo luogo, un attacco contro la “religione dell'arte” ottocentesca, che la “religione del discorso” vuol oggi rimpiazzare...”

Dopo aver seguitato così per un pezzo, Humboldt mi diceva: “Vedi da te, Charlie, quanto sia importante per il governo Stevenson aver un consulente culturale come me, che comprenda questo processo storico.

Alquanto bene.”

Al piano di sopra, Kathleen stava andando a letto. Il nostro soffitto era il suo pavimento. Le assi erano nude, si udiva ogni rumore.

L'invidiavo. Rabbrividivo dal freddo e avrei preferito trovarmi sotto le coltri. Ma Humboldt stava osservando che lì si era a quindici minuti da Trenton e a due ore di treno da Washington. A portata di mano. Mi confidò che Stevenson già s'era messo in contatto con lui e che si stava organizzando un incontro. Mi chiese di aiutarlo a preparare appunti per quel colloquio: ne discutemmo fino alle tre del mattino. Finalmente salii in camera mia, mentre Humboldt si versava un ultimo bicchiere di gin.

L'indomani, andava ancora forte. Mi venne il capogiro, a colazione, ad ascoltare tante sottili analisi e a sorbirmi tante lezioni di storia mondiale. Lui non aveva dormito affatto.

Per calmarsi fece una corsa. Le scarpe scalcagnate tonfavano pesanti sul ghiaino. Nella polvere fino a mezzavita, percotendosi il petto con le braccia, discese sulla strada. Parve naufragarvi dentro, sotto i sommacchi e i quercioli, tra ciuffi di digitaria, cardi, asclepiadi, vesce di lupo. Aveva lappole attaccate ai calzoni quando tornò. Anche per la corsa si richiamava a un sacro testo. Jonathan Swift, quand'era segretario di Sir William Temple, si faceva qualche miglio di corsa ogni giorno, per scaricarsi. Pensieri troppo ricchi, emozioni troppo intense, oscuri bisogni espressivi? Màcina un po' di strada. In tal modo smaltisci pure il gin.

Mi portò a far quattro passi e i gatti ci accompagnarono, fra sterpaglie e foglie morte. S'allenavano agli agguati. Assalivano ragnatele rasoterra. Con le code a pennacchio, affilavano gli unghioli sulla corteccia degli alberi. Humboldt gli era estremamente affezionato. Nell'aria mattutina c'era infuso qualcosa di buono.

Humboldt andò a radersi, poi con la fatale Buick ci recammo a Princeton.

Per quel mio incarico era cosa fatta. Incontrammo Sewell a pranzo: un omarino dal viso scavato, pencolante, biascicante, l'aria furba e ubriaca. A me aveva da dire poco o niente. Eravamo in un ristorante alla francese. Con Humboldt voleva spettegolare su New York e Cambridge. Cosmopolita s'altri mai ve ne furono (a suo dire) Sewell non era mai stato all'estero, finora. Neanche Humboldt conosceva l'Europa. “Se ti va di andarci, amico mio,” disse Sewell, “si potrebbe combinare.”

“Non mi sento ancora pronto” rispose Humboldt. Aveva paura di venir rapito da ex nazisti o da agenti della Ghepeù.

Poi, mentre m'accompagnava al treno, mi disse: “Te l'avevo detto ch'era una semplice formalità, questo colloquio. Ci conosciamo da anni, Sewell e io, e abbiamo scritto l'uno dell'altro. Ma non c'è ombra di rancore, fra noi. Solo mi domando cosa gliene freghi, a Damasco, di Henry James. Bene, Charlie, per noi due sarà una stagione allegra. E, se dovessi andar a Washington, conto su di te, per far le mie veci qui a Princeton.”

“A Damasco!” esclamai. “Fra quegli arabi, lui sarà lo Sceicco dell'Apatia.” Il pallido Humboldt dischiuse la bocca, dai denti piccolini, ed emise la sua risata quasi afona.

A quell'epoca io ero un apprendista, un comprimario, e come tale Sewell m'aveva trattato. Aveva visto in me - desumo - un giovanotto di molle fibra, di bell'aspetto ma fiacco, dai grandi occhi mezz'assonnati, un po' sopra peso e piuttosto restio (dal suo sguardo si capiva) a entusiasmarsi per le imprese altrui. Che non riuscisse ad apprezzarmi, m'urtò. Ma tali mortificazioni mi hanno sempre anche infuso energia. E se, in seguito, seppi farmi valere è perché volsi a buon uso siffatti affronti. Mi vendicavo facendo progressi. Quindi a Sewell dovevo parecchio; e fu ingrato da parte mia, anni appresso, quando lessi sul giornale che era morto, dire, sorseggiando un whisky, come dico talvolta in simili occasioni: la morte giova a certa gente. Ricordai allora la mia battuta maligna sullo Sceicco dell'Apatia, quel giorno a Princeton. La gente muore e le cose cattive da me dette sul loro conto mi ritornano indietro e s'attaccano a me. La sua apatia! Paolo di Tarso si destò sulla via di Damasco, ma Sewell di Princeton avrebbe dormito ancor più profondamente, colà. Tale era il senso della mia malignità. Confesso che ora mi dispiace averla detta. Aggiungerò, riguardo a quel colloquio, che fu uno sbaglio farmici mandare, da Demmie Vonghel, vestito in grigio ferro, camicia dal colletto abbottonato, cravatta di lanetta marrone, scarpe marrone di cordovano: prinstoniano improvvisato.

Sia come sia, non molto tempo dopo aver letto il necrologio di Sewell sul Daily News - in cucina, facendo merenda con aringa marinata e whisky - accadde che Humboldt, da cinque anni defunto, rientrò nella mia vita. Da dove meno te l'aspettavi. Non sarò troppo esatto, circa la cronologia. Cominciavo allora a badar poco al tempo, sintomo questo che più gravi questioni mi venivano assillando.

 

Veniamo ora al presente. Un diverso versante della vita: contemporaneo in tutto e per tutto.

E' successo a Chicago, e non tanto tempo fa stando al calendario: una mattina di dicembre esco di casa per recarmi da Murra, il consulente fiscale, e trovo che la mia Mercedes-Benz ha subito un'aggressione notturna. Non semplicemente ammaccata e graffiata da qualche automobilista maldestro o ubriaco che se la fosse poi svignata senza lasciarmi un biglietto sotto il tergicristallo. No: la mia auto era stata percossa da cima a fondo, presumibilmente con mazze da baseball. Quella macchina aristocratica - non più nuovissima, ma che tre anni fa valeva diciottomila dollari - era stata massacrata con una ferocia difficile a comprendersi: incredibile, dico, anche sul piano estetico, dato che queste coupé Mercedes sono bellissime, le grigio-argento in particolare. Il mio caro amico George Swiebel una volta ebbe a dire, con una certa qual amara ammirazione: “Ammazzare gli ebrei e fabbricar macchine, ecco cosa sanno fare sul serio i tedeschi.”

L'aggressione a quell'auto mi era ostica anche in senso sociologico, poiché ho sempre sostenuto di conoscere la mia Chicago e ero convinto che anche i malfattori rispettassero le belle automobili. Tempo fa ripescarono un'auto dal laghetto del Parco Washington e, nel portabagagli, ci trovarono un uomo, che invano aveva tentato di aprir lo sportello con un cric. Era evidentemente la vittima di rapinatori che, poi, l'avevano annegato per sbarazzarsi d'un testimone. Ma ricordo che pensai che la sua auto era solo una Chevrolet. Mai avrebbero riserbato un simile trattamento a una Mercedes 280-Sl. A Renata dissi che, me, potevano pigliarmi a coltellate o a calci, in una stazione della sotterranea, ma a quella mia automobile non avrebbero mai fatto un graffio.

Quindi, quella mattina, eccomi squalificato come psicologo urbano.

Riconobbi che non di psicologia si trattava, bensì di millanteria, o magari di scaramanzia. Io sapevo che quel che ci vuole, in una grande città americana, è un'ampia cintura di non-affetto, una spessa falda d'indifferenza. Per costruire tale massa protettiva servon anche le teorie. Lo scopo è, comunque, tener a distanza i guai. Ma ormai l'inferno si era scatenato, ero stato raggiunto. La mia auto elegante, la mia argentea lucente caffettiera, che non era neppure da me possedere - uno come me, sì e no capace di guidare quel tesoro - era stata sfracellata. Ogni cosa: la delicata cappotta col suo pannello scorrevole, parafanghi, cofano, portabagagli, sportelli, maniglie, fanali... l'emblema sul radiatore era tutto contorto. I cristalli infrangibili avevan resistito, ma parevano coperti di sputacchi. Il parabrezza era tutto screziato di crepe, a fiorami.

Aveva subito una specie di emorragia cristallina interna. Sgomento, mi sentii mancar le gambe. Avevo voglia di svenire.

Qualcuno aveva fatto alla mia auto quel che fanno - ho inteso dire - i topi quando invadono a migliaia un magazzino e lacerano i sacchi di farina, così, per pigliarci gusto. Un'analoga laceratura io sentivo al cuore. Quella macchina apparteneva a un'epoca in cui il mio reddito era superiore ai centomila dollari. Un tale reddito aveva attratto l'attenzione dell'Ufficio Tributi, che adesso controllava ben bene la mia denuncia, ogni anno. Proprio quel mattino stavo appunto andando da William Murra, l'affabile elegantissimo esperto in tributi, che mi stava patrocinando in due vertenze contro il governo federale. Benché adesso il mio reddito fosse sceso a livelli assai più bassi, quelli mi stavan sempre alle calcagna.

In realtà quella Mercedes io l'avevo acquistata per via della mia amica Renata. Quando costei vide l'utilitaria Dodge che avevo prima, mi disse sùbito: “Ma che razza di macchina è questa, per un uomo famoso? Ci dev'essere uno sbaglio.” Cercai di spiegarle ch'ero troppo suscettibile all'influenza delle cose e della gente per guidare un'automobile da diciottomila dollari. Bisognava poi vivere all'altezza di una macchina così superba, quindi uno non era più se stesso al volante. Ma Renata non intese ragioni. Ribatté ch'io non sapevo come spendere i soldi, che mi trascuravo, che rifuggivo dallo sfruttare il mio successo perché ne avevo paura. Lei faceva di mestiere l'arredatrice: il suo stile era per natura sgargiante. D'un tratto afferrai l'idea. Ed entrai in uno stato d'animo ch'io chiamo alla Antonio e Cleopatra. Che Roma sprofondi nel Tevere. Che il mondo intero sappia che questi due amanti possono andar in giro per Chicago in Mercedes argento, il cui motore ticchetta come un millepiedi magico giocattolo, più preciso di un Accutron svizzero... no, un Audemar Piguet con ali di farfalla peruviana ingioiellate! In altre parole, avevo lasciato che l'auto divenisse un'estensione di me stesso (sul versante della follia e vanità) sicché un'aggressione ad essa era un'aggressione a me. Fu un momento terribilmente fertile di emozioni.

Com'era potuta accadere, una cosa così, sulla pubblica via? Avran fatto più fracasso d'un martello pneumatico! Certo, in ogni città del mondo si applicano ormai le tattiche della guerriglia. Bombe esplodono a Londra e Milano... Comunque, quel quartiere di Chicago era relativamente tranquillo. L'auto era parcheggiata a poca distanza dal mio attico, in una viuzza laterale. Qualcheduno avrà udito senz'altro quel massacro, nel cuore della notte. Ah, ma la gente in genere si rannicchia sotto le coperte quando si verificano incidenti del genere. Se echeggiano dei colpi di pistola, loro dicono fra sé: “Questi tubi di scappamento!” Quanto al guardiano notturno, chiude il portone all'una e si mette a lavare le scale, dopo essersi cambiato in cantina, indossando una tuta grigia satura di sudore. Se rincasi tardi senti, nell'atrio, l'odore della saponata misto al puzzo di quella tuta (come di pere marce). No, i criminali che avevano deturpato la mia auto non dovevano temer nulla da parte del portiere.

Né da parte della polizia. Appena passata la ronda, ben sapendo di aver quindici minuti di tempo, eran balzati fuori dal nascondiglio per buttarsi sulla mia auto con randelli, mazze o martelli.

Lo sapevo benissimo, chi. Avevo ricevuto numerosi avvertimenti.

Tante volte il telefono squillava in piena notte. Svegliato di soprassalto, mezzo tonto, tentoni agguantavo il ricevitore e, prima ancora che l'avessi accostato all'orecchio, sentivo gridare: “Citrine! Ohé! Citrine!”

“Pronto? Sì, sono Citrine. Che c'è?”

“C'è che sei un figlio di puttana, c'è. Paga i buffi! Bello scherzo che m'hai fatto!”

“Quale scherzo?”

“A me! a me! Mica cavoli. Quell'assegno che hai fermato, a nome mio. Tu adesso lo convalidi, Citrine, quel maledetto assegno. Non costringermi a fare qualcosa.”

“Dormivo della grossa...”

“Io mica dormo, io, perché tu sì?”

“Sto cercando di svegliarmi, Mister...”

 

“Niente nomi. Qui si parla soltanto dell'assegno che hai bloccato.

Niente nomi! Quattrocento cinquanta dollari. Questo è l'unico argomento.”

Quelle bieche minacce nel cuore della notte - a me! nientemeno! a un brav'uomo come me, un'anima, a mio avviso, innocente fin quasi al comico - mi facevano ridere. Il mio modo di ridere è stato spesso criticato. Le persone ben disposte ci si divertono. Gli altri posson anche offendersi.

“Non ridere” diceva il mio interlocutore notturno. “Smettila. Non è un riso normale. Eppoi, a chi diavolo ti credi di ridere in faccia? Senti, Citrine. Tu hai perso quella grana a poker, e io l'ho vinta.

Non venirmi a dire ch'era una serata in famiglia, o ch'eri sbronzo, o che, ché son tutte fregnacce. Ho accettato il tuo assegno, ma non posso accettare uno schiaffo!”

“Lo sai bene perché l'ho bloccato, lo chèque. Tu e il tuo compare baravate.”

“Ci hai visti?”

“Vi ha visti il padrone di casa. George Swiebel giura che vi passavate le carte.”

“E perché non ha parlato, allora, quel cazzone? Ci doveva sbatter fuori.”

“Magari avrà avuto paura di smascherarvi.”

“Chi, quel tipo che pare il ritratto della salute? Ha una faccia bianca e rossa come una mela, con tutta la ginnastica che fa, con tutte le vitamine che s'inghiotte! C'eran sett'otto persone intorno al tavolo. Ci potevano saltare addosso. Il tuo amico è un fifone.”

Dissi: “Beh, non è stata una buona serata. Ero brillo, anche se tu non ci credi. Nessuno ragionava. Tutti quanti eravamo fuori squadra.

Lasciamo perdere.”

“Che?! Mi tocca sentire, dalla banca, che il tuo assegno è bloccato, il che è come un calcio in culo, e mi dici di lasciar correre? Credi ch'io sia un balordo, eh? Ho fatto male, lo so, a invischiarmi in quel discorso sulle scuole e gli studi. T'ho visto che faccia hai fatto, quando ho nominato l'università di terz'ordine che ho frequentato io.”

“Cosa ci hanno a che fare, ora, le scuole?”

“Ma non ti rendi conto, in che guaio m'hai messo? Sarai uno scrittore, sarai sul Chi è, ma sei sempre uno stronzo che non capisce niente.”

“Alle due di mattina è un po' difficile capire. Non possiamo vederci di giorno, quando ho la mente sveglia?”

“Basta, parlare. Le chiacchiere stanno a zero.”

Ma questo lo disse molte volte, tuttavia. Avrò ricevuto almeno dieci telefonate del genere, da Rinaldo Cantabile. Anche il fu Von Humboldt Fleisher sfruttava le drammatiche risorse della notte per molestare e tiranneggiare la gente.

Di bloccare l'assegno, me l'aveva ordinato George Swiebel. La mia amicizia con George risale alla quinta elementare, e per me questi amici son sacri. Spesso son stato messo sull'avviso, contro questa mia debolezza, questa mia dipendenza da antiche amicizie. Un tempo George aveva fatto l'attore poi, abbandonato il teatro, aveva messo su un'impresa edile. Era un uomo tarchiato, di colorito acceso. Non c'era nulla di dimesso nelle sue maniere, nei suoi abiti, nel suo stile di vita. Da anni era, per auto-designazione, il mio esperto sulla malavita. Mi teneva al corrente su criminali, prostitute, racket, intrallazzi politici, traffici di droga e opere di delinquenza. Avendo anche lavorato per la radio e i giornali, aveva una quantità di agganci, negli ambienti “più putridi e più puri”, come diceva lui. E io stavo fra i puri, su in classifica. Non sono io a ritenermi tale: riferisco come George mi vedeva.

“Quel denaro l'hai perso a casa mia, ora devi darmi retta” mi disse. “Quei balordi baravano.”

“Allora avresti dovuto beccarli sul fatto. Qui ha ragione Cantabile.”

“Macché ragione, eppoi non è nessuno. Se avanzassi tre dollari da lui, gli dovresti dar la caccia per averli. Inoltre, era drogato.”

“Non me ne sono accorto.”

“Non ti sei accorto di nulla. Neanche dei segnacci che ti facevo.”

“Non li ho visti. Non ricordo...”

“Cantabile ti stava cucinando ben bene. T'ha messo sotto. Fumava erba. Ti parlava di arte e cultura e psicologia, ti parlava di libri, si vantava d'aver una moglie istruita. Tu non saltavi un piatto. E parlavi a ruota libera di tutti gli argomenti che, t'avevo avvertito, era meglio evitare.”

“George, quelle sue telefonate notturne mi stanno logorando. Io lo pago. Perché no? Ho sempre pagato tutti. Devo sbarazzarmi di questo gaglioffo.”

“Pagare un corno!” Facendo l'attore George aveva imparato a trarre effettacci dalla sua voce, a lanciar sguardi di fuoco, apparire stupito e stupire. Mi urlò: “Charlie, dammi retta!”

“Ma ho a che fare con un gangster.”

“I Cantabile non fanno più parte di nessun racket. Ne sono stati cacciati fuori, anni fa, tutti quanti. Te l'ho detto...”

“Allora è un buon imitatore, ecco. T'assicuro che alle due di notte fa impressione, come gangster.”

“Ha visto Il Padrino, o film del genere, e s'è fatto crescere i baffi alla mafiosa. E' soltanto un esaltato, un chiacchierone squinternato. Non avrei dovuto invitarlo a casa mia. Comunque, non pensarci più. Giocavano ai gangster e hanno barato. Ho cercato d'impedirti di staccargli uno chèque. Poi t'ho convinto a bloccarlo.

Non voglio che ora cedi. In ogni caso - credimi - la faccenda è chiusa.”

Sicché gli diedi retta. Non potevo mica contestare il giudizio di George. E adesso Cantabile m'aveva massacrato l'automobile. A vederla, non m'aveva quasi retto il cuore. Mi dovetti appoggiare a un muro. Per il gusto di passare una serata in compagnia di gaglioffi, eccomi piombato nell'inferno dei cretini.

L'espressione “compagnia di gaglioffi” non era la mia, ma della mia ex moglie. Mi pareva di udire la sua voce. Era lei, Denise, che parlava di gente “volgare come il fango” e di “gaglioffi”. Il destino della mia povera Mercedes le avrebbe procurato una profonda soddisfazione. Eravamo come in guerra, e lei aveva un'indole molto bellicosa. Denise odiava Renata, la mia amica. E, correttamente, l'identificava con quella automobile. Detestava anche George Swiebel.

Questi, invece, aveva idee molto complesse su Denise. Una gran bella donna - diceva - ma non del tutto umana. Senz'altro, a tal interpretazione davan credito gli occhi di Denise, stellari, d'ametista, in combutta con una fronte piuttosto bassa e una chiostra di denti aguzzi, sibillini. E' una donna squisita, ferocissima. Per quanto terra-terra, George non è immune da miti, specie per quanto riguarda le donne. Ha teorie junghiane, che esprime rozzamente. E' invece di fini sentimenti, ai quali però reagisce in modo grossolano, per non lasciarsi intenerire, e quindi ne deriva frustrazioni. Sia come sia, Denise avrebbe riso di gioia alla vista della mia auto rovinata. E io? Pensereste che, in quanto divorziato, fossi immune dal “che-t'avevo-detto?” coniugale. E invece, eccomi là a tampinarmi da me.

Fatto sta che Denise non faceva che parlarmi di me stesso. Diceva: “Non riesco a raccapezzarmi, con te. Un uomo che ha dato prova di tanto intuito, l'autore di tutti quei libri, rispettato da studiosi e eruditi in tutto il mondo. Tante volte mi domando: ma è quello mio marito? quello, l'uomo ch'io conosco? Hai tenuto lezioni in prestigiose università, hai ottenuto incarichi e riconoscimenti. De Gaulle t'ha conferito la Légion d'Onore e Kennedy t'ha invitato alla Casa Bianca. Hanno dato con successo un tuo lavoro a Broadway. E adesso cosa diavolo combini? Cos'hai in testa? Chicago! A Chicago frequenti i tuoi vecchi compagni di scuola, gente assurda. E' una specie di suicidio mentale, desiderio di morte. Non vuoi saperne della gente veramente interessante: architetti, psichiatri, docenti universitari. Ho tentato di aiutarti, quando proprio hai voluto tornar qui ad ogni costo. Mi son data da fare per te. Non hai voluto saperne di Londra, di Parigi, di New York, no, macché! tu dovevi per forza venirti a seppellire qui, in questa orrenda, volgare, pericolosa città. Poiché in fondo sei rimasto un monello dei bassifondi. Il tuo cuore appartiene ai vicoletti lerci. Mi son data da fare a invitar gente...”

C'erano grossi grani di verità in tutto ciò. Di Denise la mia vecchia mamma avrebbe detto: “Edel, gebildet, gelassen.” Poiché era una persona d'alta classe. Era cresciuta a Highland Park, aveva frequentato Vassar, una delle migliori università. Ma anche suo padre - alto magistrato - veniva dai bassifondi. Suo nonno era stato un avventuriero della politica, all'epoca burrascosa di Big Bill Thompson. Sua madre aveva conosciuto il futuro giudice quand'era ancora ragazzo - figlio d'intrallazzatore e basta - e l'aveva raddrizzato, curato, spurgato della sua volgarità. Denise voleva fare altrettanto con me. Ma stranamente il suo retaggio paterno era più forte di quello materno. Quand'aveva la luna di traverso, nella sua voce argentina si coglievano echi del nonno galoppino e lestofante.

Forse era a causa di questo passato, che odiava Swiebel così fieramente. “Non portarlo qui in casa” mi diceva. “Non sopporto di vedere quel culo sul mio sofà, quei piedi sui miei tappeti.” E mi diceva ancora: “Tu sei come uno di quei purosangue da corsa, troppo nervosi, che gli devono mettere una capra nello stallo, per calmarli.

George Swiebel è giusto il tuo caprone.”

“E' un vecchio amico, un mio ottimo amico.”

“Il debole che hai pei tuoi vecchi compagni di scuola è da non credere. Soffri di nostalgie de le boue. Di', ti porta a puttane?” Tentavo di darle una risposta dignitosa. Ma in realtà desideravo fomentare il conflitto, quindi la provocavo. Una volta portai George a cena il giorno in cui la donna era di libera uscita. Era il giorno dell'angoscia, per Denise. Non poteva soffrire le faccende domestiche. Cucinare l'ammazzava. Già m'aveva proposto di andar in trattoria, ma le avevo detto che non avevo voglia di mangiar fuori.

Quindi, verso le sei, preparò in fretta e furia un pasticcio di carne tritata, con pomodori, fagioli e chili. Arrivo io con George e gli fo: “Assaggerai il nostro polpettone al chili, stasera. L'annaffiamo con qualche bottiglia di birra.”

Denise mi chiama a cenni di là in cucina. “Ah no, eh, questa poi no!” Era sul piede di guerra. La sua voce era stridula e chiara, ogni sillaba distinta, articolata. Conoscevo gli arpeggi dell'isteria.

“Oh, via, Denise, può sentirti.” Abbassai la voce e soggiunsi: “Offriamo a George un po' di carne al chili.”

“Non ce n'è a sufficienza. Mezza libbra sì e no. Ma non è questo il punto. Il punto è che non intendo servirlo.”

Risi. Un po' per imbarazzo. Di solito ho un timbro da baritono, anzi quasi da basso profondo, ma talvolta, se turbato o provocato, la mia voce sale su fino a sparire nei registri acuti, forse fino alla sfera dei pipistrelli.

“Sentilo, come stride!” mi canzonò Denise. “Ti tradisci, quando ridi così. Sei nato in una cesta di carbone, sei cresciuto in una gabbia di pappagalli.”

I suoi occhi violetti mi sfidavano, indomiti.

“Va bene.” Cedetti. Portai George alla Pump Room. Mangiammo sciaslik, 2 servito alla fiamma da mori in turbante.

“Non per immischiarmi nei tuoi affari coniugali, ma noto che hai smesso di respirare” disse George.

Lui ritiene di poter parlare in nome della Natura. Natura, istinto e cuore lo guidano. E' un biocentrico. Guardarlo sfregarsi i muscoli possenti delle braccia e del petto alla Ben Hur con olio d'oliva è una lezione di devozione verso l'organismo. Finito di ungersi, ne beve una sorsata. L'olio è il sole, è l'antico Mediterraneo.

Non c'è nulla di meglio per gl'intestini, i capelli, la pelle.

Lui nutre per il suo corpo una stima sovrannaturale. E' il sacerdote dei propri polpacci, naso, dita, pupille. “Non prendi abbastanza aria con quella donna. Stai soffocando al chiuso. I tuoi tessuti non ricevono sufficiente ossigeno. Ti farà venire il cancro.”

“Oh” dissi io. “Lei magari penserà di offrirmi il meglio di un matrimonio americano. I veri americani devon per forza tribolare con le mogli, e le mogli coi mariti. Come Abramo Lincoln e signora. E' la classica angoscia statunitense, e un figlio d'emigranti come me dovrebbe esserne grato. Per un ebreo è un passo avanti.”

Sì, Denise sarebbe felicissima ad apprendere di questa atrocità.

Una volta ha visto passare Renata al volante della Mercedes d'argento. “E seduto accanto a lei c'eri tu” mi disse, “che ti vai facendo calvo come un ginocchio, anche se ti pettini i capelli di riporto per nasconder la pelata, tutto sorridente. Ti farà ben sorridere lei, un giorno o l'altro, quella cicciona.” Dall'insulto poi passò alla profezia. “Il tuo intelletto presto appassirà. Lo stai sacrificando ai tuoi bisogni erotici, se così li possiamo chiamare.

Sesso a parte, a che cosa potete pensare voi due? Insomma, hai scritto qualche libro, hai scritto una commedia di successo, neanche tutta farina del tuo sacco. Frequentavi persone come Von Humboldt Fleisher. E ti sei messo in testa di esser un artista, o giù di lì.

Ma noi la sappiamo più lunga, nevvero? Quel che vuoi veramente è sbarazzarti di ognuno, di tutti, e far parte per te stesso. Solo tu e il tuo povero cuore incompreso, Charlie. Tu non tolleri un rapporto serio. Ecco perché ti sei sbarazzato di me e delle bambine. Adesso hai questa baldraccona, tutta ciccia, che va in giro senza reggiseno e mette in mostra i suoi grossi capezzoli. Ti circondi di giudei ignoranti e di gente della mala. Ti hanno dato alla testa l'orgoglio e lo snobismo, d'una marca tutta tua. Nessuno è buono abbastanza, per te... Io, sì, avrei potuto aiutarti. Adesso è troppo tardi!” Non m'andava di discutere con Denise. Provavo una certa simpatia per lei. Essa diceva che vivevo male. E io ne convenivo. Pensava ch'io non fossi del tutto in me, e avrei dovuto esser completamente pazzo per negarlo. Diceva che scrivevo cose insensate. Forse era così. Il mio ultimo libro, Certi americani, sottotitolo Il senso dell'esistenza negli Stati Uniti, era finito in quattr'e quattr'otto ai Remainders. L'editore m'aveva scongiurato di non pubblicarlo.

Avrebbe passato un colpo di spugna su un debito di ventimila dollari, se ci rinunciavo. E invece, stavo già perversamente scrivendo la Parte II. La mia vita era in grave disordine.

A qualcosa mi serbavo fedele, tuttavia. Avevo un'idea.

“Ma perché m'hai riportata qui a Chicago?” mi chiedeva Denise.

“Certe volte penso che sei voluto tornarci perché qui son sepolti i tuoi morti. E' questo il motivo? “La terra dove morirono i miei padri ebrei”? E hai trascinato anche me al tuo cimitero, per finire il salmo in gloria! E perché tutto questo? Perché t'illudi d'essere una persona meravigliosa, un animo nobile. Ma non è vero un corno!” Tali contumelie a Denise fanno più bene delle vitamine. Quanto a me, trovo che certe incomprensioni, certi malintesi, contengon utili suggerimenti. Ma la mia risposta finale, seppure muta, a Denise, era sempre la stessa. Nonostante la sua intelligenza, lei aveva nuociuto alla mia idea. Da questo punto di vista, Renata era migliore come donna: migliore per me.

Renata m'aveva proibito un'automobile da medio ceto. Tentai di trattare, col concessionario, una Mercedes 250-C di seconda mano, ma in mezzo al salone Renata - eccitata, florida, fragrante, imponente - posando una mano sull'argenteo cofano disse: “Questa qui, la coupé.”

Il tocco delle sue dita era sensuale. Anche quando accarezzava l'auto, sentivo la carezza sul mio corpo.

 

Ma adesso bisognava far qualcosa per quel relitto. Andai a chiamare il portiere: il magro, nero, anziano, mai sbarbato Roland.

Ammenoché non mi ingannassi (e ciò è probabile) Roland Stiles era dalla mia parte. Quando fantasticavo sulla mia morte solitaria, era Roland che vedevo nella mia stanza, intento a riempire una valigetta con alcune cose mie, prima di chiamare la polizia. Lo faceva col mio benestare. In particolare gli avrebbe fatto comodo il mio rasoio elettrico. La sua faccia, d'un nero intenso, era tutta fosse e bozze.

Raderla con la lametta era quasi impossibile.

Roland, in divisa blu elettrico, era molto turbato. Aveva già visto l'auto sfasciata, arrivando al lavoro quel mattino, ma, mi disse: “Non volevo esser io a dirglielo, Mist. Citrine.” Anche altri inquilini l'avevano vista, s'intende; e sapevano a chi appartenesse.

“Una gran porcata” disse Roland, sobriamente, con una smorfia agra sulla vecchia faccia ossuta, storcendo la bocca. Era un tipo sveglio, mi canzonava sempre a proposito delle belle signore che venivano a trovarmi. “Arrivano in Volkswagen e Cadillac, in bici e in moto, in tassì e a piedi. Domandan quand'è uscito, quando torna, e lasciano un biglietto. Quante, quante ne vengono! Ma che gli fa, alle donne? Chissà quanti mariti avran le corna, per via sua.” Ma ormai il divertimento era finito. Non per nulla Roland era stato, per sessant'anni, un negro. Conosceva svariati inferni, lui. Io avevo perso quell'immunità che rendeva tanto piacevole il mio modo di vita.

“E' nei pasticci” disse. Borbottò qualcosa a proposito di “Miss Universo”. Così chiamava Renata. Tante volte lei lo pagava per badare a suo figlio. Il bambino giocava nella guardiola, mentre sua madre giaceva a letto con me. Non mi piaceva la cosa, ma non si può essere un amante ridicolo a metà.

“E adesso?” Roland torse le mani, alzò le spalle, scosse il capo, disse: “Chiami la polizia.”

Sì, bisognava fare una denuncia, se non altro per l'assicurazione.

La compagnia assicuratrice avrebbe trovato il caso molto strano.

Dissi a Roland: “Appena passa un'auto della polizia, fermala e dì a quei buoni-a-nulla di dare un'occhiata alla carcassa. Poi mandali su da me.”

Gli sganciai un dollaro pel suo disturbo. Al solito. Avevo bisogno di averlo dalla mia parte.

Prima ancora che aprissi la porta di casa, udii il telefono. Era Cantabile.

“Sei contento, drittone?”

“Pazzo!” esclamai. “Che razza di vandalismo, pigliarsela con un'automobile...!”

“Hai visto? Ecco cosa m'hai costretto a fare!” gridò. Alzava la voce. Che però gli tremava.

“Come? Dài la colpa a me?”

“T'avevo avvertito.”

“Io te l'ho fatto fare, di sfasciare quella bella automobile?”

“Sì, me l'hai fatto fare tu. Proprio tu. Altroché! Credi che non provo niente? Neanche te lo sogni, quel che provo io, per una macchina così. Sei un fesso. La colpa è tua, solo tua.” Cercai di replicare ma lui gridò più forte: “Mi ci hai costretto tu! Tu me l'hai fatto fare! E questo è solo il primo passo.”

“Cosa vuoi dire?”

“Tu non pagarmi e lo vedrai, che cosa intendo.”

“Che razza di minaccia è questa? Qui stiamo andando troppo fuori strada. Alludi alle mie figlie?”

“Certo non mi rivolgerò a un avvocato. Tu non sai in che casino ti sei messo. Non sai chi sono io! Svégliati!” Spesso anch'io dicevo “svégliati!” a me stesso, e tanti altri m'invitavano a svegliarmi. Come avessi dodici occhi e m'ostinassi a tenerli chiusi. “Hai occhi per vedere e non vedi.” Questo, s'intende, era assolutamente vero.

Cantabile seguitava a parlare. L'udii dire: “Allora va' a domandarlo a George Swiebel, come devi regolarti. Bel consiglio che t'ha dato. E' stato lui, anzi, a scassarti la macchina.”

“Smettiamola. Voglio sistemare la faccenda.”

“Per sistemarla, paga. Sblocca lo chèque. Anzi, in contanti. Fino all'ultimo soldo. Niente assegni, né vaglia, né fregnacce. Liquidi.

Più tardi ti richiamo. Fissiamo un appuntamento. Voglio vederti.”

“Quando telefoni?”

“Quando mi pare a me. Tu, aspetta.”

Subito dopo udii l'interminabile universale elettronico miagolio del telefono. Ero disperato. Dovevo raccontare a qualcuno quello che era successo. Dovevo consultarmi.

Segno sicuro d'angoscia: cominciarono a turbinarmi nella mente numeri telefonici. Dovevo chiamare qualcuno. La prima persona che chiamai fu, s'intende, George Swiebel. Dovevo raccontargli l'accaduto, ma anche metterlo in guardia. Cantabile poteva aggredire anche lui. George era fuori ufficio. Sui lavori. Stavano facendo una colata di cemento da qualche parte, mi disse Sharon, la segretaria. Prima che l'appaltatore, George, come ho detto, aveva fatto l'attore. Aveva esordito al Federal Theatre. Poi fece l'annunciatore alla radio. Tentò anche alla televisione e a Hollywood. Con gli altri uomini d'affari parlava spesso della sua esperienza nel mondo dello spettacolo. Conosceva il suo Ibsen e il suo Brecht, spesso faceva un salto a Minneapolis per assistere alle rappresentazioni del Teatro Guthrie. Nei quartieri bene di Chicago l'identificavano con la bohème e le arti, con la creatività e la fantasia. Era un uomo vitale, generoso, d'indole aperta. Una brava persona. La gente gli s'affezionava. Guardate la piccola Sharon, la sua segretaria. Una burina, una nanerottola, una caricatura: sembrava la madre di Li'l Abner dei fumetti. Eppure per lei George era un fratello, era il suo medico, il suo sacerdote, tutta la sua tribù.

Aveva esplorato a palmo a palmo tutta Chicago Sud e vi aveva trovato - avresti detto - solo un uomo: George Swiebel. Quando mi rispose lei al telefono, ebbi la presenza di spirito di fingere che non si trattasse di nulla di grave: altrimenti non avrebbe trasmesso il messaggio. La giornata di George consisteva - a sentir lui e i suoi - in una crisi dietro l'altra. Compito di Sharon era proteggerlo. “Dica a George di chiamarmi” le dissi soltanto. E riagganciai, pensando alle prospettive della crisi negli Stati Uniti, retaggio dei vecchi tempi pionieristici, eccetera. Pensavo a queste cose per la forza dell'abitudine. Per il semplice fatto che hai l'anima lacerata, mica smetti di analizzare i fenomeni.

Frenai il mio istinto, ch'era quello di mettermi a urlare.

Riconobbi che dovevo ricompormi senza aiuti esterni. Non telefonai a Renata. Renata non è adatta a consolarti per telefono. Devi esser a tu per tu.

Ora mi toccava aspettare che Cantabile chiamasse. E anche la polizia. Dovevo avvertire Murra, il fiscalista, che non potevo andar da lui. Mi avrebbe fatto pagare lo stesso l'ora impegnata, alla maniera degli psicanalisti e compagnia bella. Nel pomeriggio, poi, avrei dovuto portare le mie figlie Lish e Mary alla lezione di piano.

Poiché, come la Gulbransen Piano Company usava proclamare dai muri di Chicago, “I bambini più ricchi sono poveri senza un'educazione musicale”. E le mie eran figlie d'un ricco: sarebbe stato un disastro, se fossero cresciute senza esser capaci di suonare “Für Elise” e “Il felice campagnolo”.

Dovevo recuperare la mia calma. Alla ricerca di stabilità, eseguii l'unico esercizio di yoga che conosca. Mi vuotai le tasche, mi tolsi le scarpe, presi posizione e, oplà, una capriola, eccomi a piedi in aria. La più amabile delle automobili, la mia argentea Mercedes 280, mia gioia, mia offerta d'amore, stava là fracassata sul lato d'una via. Nessun carrozziere, neanche per duemila dollari, poteva ridar alla sua pelle metallica la pristina levigatezza. I suoi fari eran stati accecati. Non m'era bastato il cuore, per provare gli sportelli: senz'altro inceppati. Cercai di concentrarmi sull'odio più feroce: vendetta, tremenda vendetta! Ma non arrivavo da nessuna parte, per di là. Riuscivo solo a figurarmi il meccanico tedesco, all'officina, in camice da dentista, che mi dice che alcune parti di ricambio toccherà farle venire dalla Germania. E io, stringendomi la testa semicalva fra le mani, come chi è disperato, stavo a gambe per aria, svettando indolenzito, sulle dita intrecciate, coi capelli laterali irti, col tappeto persiano che scorreva sotto di me. Il cuore mi doleva. Ero desolato. La beltà di quel tappeto era uno dei miei conforti. Son venuto affezionandomi ai tappeti, e quello lì era un'opera d'arte. Il suo verde era soffice e variato con leggiadra finezza. Il suo rosso era una di quelle sorprese che sembrano sprizzare direttamente dal cuore. Un esperto che conosco, certo Stribling, m'aveva assicurato che a rivenderlo ci avrei ricavato assai più di quanto l'avevo pagato. Tutto ciò che non fosse prodotto in serie stava salendo su di valore. Stribling era un trippone, un uomo eccellente, che allevava cavalli, ma ormai era troppo pesante per cavalcarli. Poca gente combina qualcosa di buono, oggigiorno, a quanto pare. Guardate me. Come si può prendere sul serio uno che si lascia coinvolgere in una storia grottesca come questa, di Mercedes e malavita? Stando lì a testa in giù mi resi conto (era ora!) che c'era un qualche impulso teoretico anche dietro quella grottescheria: vuole, infatti, una delle maggiori teorie moderne che, per la realizzazione di sé, non occorre abbracciare la deformità e l'assurdità dell'essere interiore (lo sappiamo che c'è). A guarirti saranno le umilianti verità che l'Inconscio contiene. Io non accettavo questa teoria, ma ciò non significa che ne fossi immune. Io avevo un particolare talento per l'assurdità. E uno non butta via nessuno dei suoi talenti.

Non riceverò neanche un soldo - pensavo - dall'assicurazione, per un danno così anomalo. M'ero assicurato contro tutti i possibili rischi che m'avevano prospettato ma - sicuramente - sulla polizza, a caratteri piccolissimi, c'era qualche clausola per fregarmi. Sotto Nixon le grandi compagnie hanno ottenuto ogni sorta di immunità. Se ne sono inebriate. Son sparite per sempre le antiche virtù borghesi, anche come addobbi.

Era da George che avevo appreso quella posizione a testa in giù.

George m'accusava di trascurare il fisico. Anni fa cominciò a farmi notare che il mio colorito era malsano, che mi venivano crepe sul collo, che ero corto di fiato. A un certo punto, nell'età di mezzo, devi impuntarti - asseriva - prima che i tessuti addominali cedano, le cosce si facciano deboli e magre, il petto femmineo. C'è un modo di invecchiare che è fisicamente onorevole. George applicava questa massima con molto zelo. Dopo una operazione alla cistifellea, appena alzato dal letto eseguì cinquanta flessioni: sistema naturopatico.

Per lo sforzo, gli venne la peritonite. Stette due giorni fra la vita e la morte. Ma le malattie l'ispiravano, aveva una sua cura per ogni cosa. Di recente mi disse: “L'altro giorno mi sveglio e trovo un tozzetto qui sotto l'ascella.”

“Sei andato dal medico?”

“No. L'ho bendato con una garza. L'ho legato stretto stretto.”

“E che è successo?”

“Ieri, guardo, e era diventato grosso come un uovo. Ma lo stesso non ho chiamato il dottore. Al diavolo! Ho preso un'altra fascia e l'ho bendato anche più stretto. Adesso è guarito, non c'è più. Vuoi vedere?” Fu quando gli parlai della mia artrosi cervicale che lui mi consigliò di star a gambe per aria. Io mi misi a ridere, stridulo, a palme levate (parevo una rana caricaturata da Goya in Visión burlesca: la creatura con lucchetti e chiavistelli) ma seguii il suo consiglio. Imparai l'esercizio, lo praticai, e guarii dei dolori al collo. Poi, quand'ebbi una stenosi, chiesi a George un rimedio. Mi disse: “E' la prostata. Quando urini, ti viene, non ti viene più, brucia un tantino, ne viene un filo, sgocciola, ti senti umiliato?”

“Esatto.”

“Non ti preoccupare. Ora, quando stai a gambe all'aria, stringi forte le natiche. Stringile forte, come se volessi saldarle insieme.”

“Perché farlo mentre sto a testa in giù? Già mi pare di essere il Vecchio Babbo William.”

Ma lui, adamantino, ripeté: “A testa in giù.”

Di nuovo il suo sistema funzionò. La stenosi urinaria scomparve.

Altri vedranno in George solo un solido rubicondo gioviale appaltatore; io vedo in lui un personaggio ermetico; ci vedo una figura dei tarocchi. Se stavo a testa in giù, adesso, era per invocare George. Quando sono disperato è lui la prima persona cui telefono. Sono giunto all'età in cui t'accorgi che gli impulsi nevrotici sono più forti di te. Non c'è molto che io possa fare quando sento, atroce, il bisogno d'un qualche aiuto esterno. Mi metto sulla riva d'un laghetto della psiche e so che, a gettar delle briciole di pane, il pesciolino d'oro verrà alla superficie. Al pari del mondo esterno, tu hai i tuoi fenomeni interiori. E la cosa più civile da farsi - una volta pensai - è costruirti un parco, un giardino, dove custodire e allevare queste tue manie, queste idiosincrasie, come fossero uccelli, pesci, fiori.

Comunque, era terribile che non avessi alcuno cui rivolgermi.

Aspettare che squilli il telefono è un tormento. L'ansia m'artiglia il cuore. In effetti, star a piedi per aria mi diede sollievo.

Respiravo di nuovo. Ma, così capovolto, vedevo due cerchi avanti a me, larghi, molto distinti. Spesso mi capita di vederli durante l'esercizio. Poggiando sul cranio, ti prende il timore d'una emorragia cerebrale. Un medico, nello sconsigliarmi quella postura, una volta mi disse che una gallina tenuta a testa in giù muore entro sette minuti. Ma muore di paura, è ovvio. E' il terrore a uccidere la gallina. Ritengo che i cerchi luminosi sian causati da pressione sulla cornea: il peso del corpo premendo sul cranio incurva la cornea e produce l'illusione ottica di larghi anelli diafani. Come veder l'eternità. Per la quale, credetemi, ero pronto quel giorno.

Accanto a me c'era la libreria e, quando la testa mi s'assestò - distribuitosi il peso sugli avambracci, i cerchi traslucidi a poco a poco scomparvero, e con essi il timore d'una fatale emorragia - distinsi file e file di libri capovolti. I miei libri. Li avevo accatastati in uno sgabuzzino, ma Renata li aveva riportati fuori, rimessi in mostra. Preferisco, quando sto a testa in giù, contemplare il cielo e le nuvole. E' buffo studiar le nubi capovolte. Invece adesso contemplavo i libri che m'avevan procurato denaro, riconoscimenti, premi. C'era Von Trenck, la mia commedia, in varie edizioni e lingue. C'eran diverse copie di Certi americani, il mio preferito, nonostante il fiasco che aveva fatto. Finché tenne cartellone, Von Trenck mi fruttò ottomila dollari a settimana. Il governo - che mai prima si era dato alcun pensiero della mia anima - reclamò subito il settanta per cento degli utili derivanti dal suo sforzo creativo. Ciò non avrebbe dovuto seccarmi: uno rende a Cesare, si sa, quel ch'è di Cesare. Perlomeno dovrebbe. Il denaro appartiene a Cesare. Eppoi: radix malorum est cupiditas. Anche questo lo sapevo.

 

Sapevo tutto ciò che ero tenuto a sapere, e nulla di ciò che veramente m'occorresse sapere. Sul denaro avevo idee confusissime. E' altamente istruttivo, s'intende; e l'istruzione ormai costituisce la grande e universale ricompensa americana. Sostituisce addirittura la pena, nei penitenziari. Ogni prigione è oggi, da noi, un fiorente seminario di studi. Le tigri del furore vengono incrociate coi cavalli della sapienza, e ne nasce un ibrido come neppure nell'Apocalisse se n'incontrano. Senza farla troppo lunga, avevo perso quasi tutto il denaro che Humboldt m'accusava di aver accumulato. Il denaro ci aveva divisi. Lui aveva incassato un mio assegno per diverse migliaia di dollari. Io non lo contestai. Non volli adire a vie legali. A Humboldt un processo avrebbe dato un gusto boia. Era molto litigioso. Comunque, quell'assegno da lui fraudolentemente incassato recava la mia autentica firma: e avrei avuto del bello e del buono a spiegare la cosa in tribunale. Inoltre, i tribunali m'ammazzano. Aborrisco i giudici, gli avvocati, i cancellieri, gli stenografi, gli stessi banchi, scranne, suppellettili, e perfino le caraffe d'acqua d'un'aula di tribunale. Inoltre, mi trovavo in Sudamerica quando lui riscosse il mio assegno. Era da poco uscito di manicomio e ne combinava di tutti i colori. Nessuno che lo tenesse a freno. Kathleen era scappata a nascondersi. La madre, pazza per suo conto, si trovava in un ospizio. Lo zio Waldemar era uno di quegli eterni ragazzi, cui qualsiasi responsabilità è aliena. Humboldt, pazzo, impazzava per tutta New York. Forse era vagamente conscio della soddisfazione che dava al colto pubblico, fra cui tanto si spettegolava sul suo collasso. Gli scrittori frenetici pazzi disperati dannati e i pittori suicidi hanno un alto valore mondano e spettacolare. A quell'epoca egli era un pirotecnico Fallito e io ero una nuova Promessa. Il successo mi sconcertava. Mi riempiva di colpa e di vergogna. La commedia che davano al Belasco non era la commedia che io avevo scritto. Io avevo fornito solo una pezza di stoffa da cui il regista aveva tagliato, imbastito e cucito il suo Von Trenck. Cupo, scontroso, mi dicevo che dopotutto Broadway confina con il quartiere delle sartorie, anzi quasi si fonde con esso.

La polizia ha un modo tutto suo per suonare alla porta. Premono il campanello come bruti. Certo, stiamo entrando in una fase del tutto nuova per quel che riguarda la storia della consapevolezza umana. I poliziotti prendono lezioni di psicologia e cominciano ad afferrare il lato comico della vita. I due omaccioni che stavan là in piedi sul mio tappeto persiano avevano con sé pistole, sfollagente, manette, radio ricetrasmittenti portatili. Un caso così insolito - una Mercedes presa a bastonateli divertiva. Quei due giganti neri avevano indosso un odor di caserma, di auto, di chiuso. Le loro ferraglie tintinnavano, le panze gli traboccavano dai cinturoni, gonfie, tese.

“Mai vista una macchina massacrata così” disse uno di loro. “Gran brutta gente, ce l'ha su con lei.” Stava tastando il terreno, faceva allusioni. Ma in effetti non aveva alcuna voglia di sentir parlare di mafia, strozzini o impicci col sottobosco. Neppure una parola.

Comunque era ovvio. Io non avevo l'aria d'un malvivente, è vero, però forse lo ero. Anche i poliziotti hanno visto Il padrino, Il braccio violento della legge e altri film del genere, di accoppa-e-spara. Anch'io, in quanto chicaghese, sono un appassionato di film gialli; quindi dissi: “Non so niente.” Insomma m'abbottonai, e credo che la polizia approvasse.

 

“Tiene l'auto per strada, lei?” mi domandò l'altro sbirro. Aveva ammassi di muscoli e una grossa faccia stracca. “Se non avessi un garage, io andrei in giro con un vecchio catenaccio.” Poi vide la mia medaglia, che Renata aveva incorniciato nel velluto e appeso al muro, e disse: “E' stato in Corea?”

“No” risposi. “Quella lì me l'ha data il governo francese. E' la Légion d'Onore. M'hanno fatto cavaliere. Chevalier. L'ambasciatore mi ha decorato.”

In quell'occasione, Humboldt m'aveva mandato una delle sue cartoline senza firma: “Cacaliere! Il tuo nome ora è lesione!” Da anni si sbronzava con Finnegans Wake. Ricordo le nostre interminabili discussioni sull'idea joyciana del linguaggio, sulla smania del poeta di caricare il discorso di musica e significato, sui pericoli che sovrastano ogni opera dell'ingegno, sulla bellezza sepolta negli abissi dell'oblio come l'Antartide sotto la neve, su Blake e la Visione contro Locke e la tabula rasa. Mentre accompagnavo gli sbirri alla porta ripensavo, con nostalgia, alle belle chiacchierate fra me e Humboldt. Umanità divina incomprensibile! “Sarà meglio che regoli questa pendenza” mi consigliò lo sbirro, sottovoce, gentile. La sua gran mole nera s'infilò nell'ascensore. Il Cacaliere s'inchinò garbato. Mi bruciavano gli occhi pel disperato bisogno d'aiuto.

Sì, quella medaglia mi richiamò Humboldt alla mente. Sì, quando Napoleone largiva nastri e patacche agli intellettuali francesi, sapeva bene quel che faceva. Si portò un'imbarcata di dotti con sé in Egitto. Li abbandonò a se stessi. Quelli trovarono la pietra di Rosetta. Dai tempi di Richelieu e anche prima, i francesi hanno sempre grandeggiato in campo culturale. Non avresti mai sorpreso De Gaulle con indosso una di quelle ridicole patacche. Lui aveva troppa stima di sé. Quei tali che comprarono Manhattan dagli indiani non portavano mica collanine di vetro colorato, loro. Volentieri l'avrei regalata a Humboldt, quella medaglia d'oro. I tedeschi tentarono di rendergli onore. L'invitarono a Berlino nel 1952, per un ciclo di lezioni all'Università Libera. Non ci volle andare. Aveva paura di venir rapito dalla Ghepeù o dalla Nkvd. Assiduo collaboratore della Partisan Review e eminente antistalinista, temeva che i russi lo rapissero, l'ammazzassero. “Inoltre, se abitassi per un anno in Germania, non penserei a altro che a una cosa” dichiarò pubblicamente (ero l'unico io, a starlo a sentire). “Per dodici mesi sarei un ebreo e nient'altro. Non posso permettermi di dedicare a ciò un anno intero.”

Ma per me una migliore spiegazione era che si divertiva un mondo a far il matto a New York. Frequentava psichiatri e faceva gran scene di pazzia. S'inventò un amante per sua moglie, quindi tentò di ucciderlo. Fracassò la vecchia Buick. Accusò me di avergli rubato la personalità per farne il personaggio di Von Trenck. Prelevò dal mio conto corrente, con un assegno fasullo, seimilasettecentocinquantatré dollari e cinquantotto cents e ci comprò, fra l'altro, una Oldsmobile. Sia come sia, non voleva andar in Germania, dove nessuno avrebbe potuto seguire la sua conversazione.

Dai giornali apprese in seguito che m'avevano fatto Cacaliere. Io avevo inteso dire che lui viveva, allora, con una negra stupenda, che studiava corno francese al Conservatorio Juillard. Ma quando lo vidi per l'ultima volta, sulla Quarantaseiesima Strada, capii ch'era troppo malandato per vivere con chicchessia. Era distrutto: non c'è altra parola. Indossava un vestito di grisaglia entro il quale naufragava. La sua faccia era d'un grigio mortuario, d'un grigio limaccioso. Pareva che fra i suoi capelli avesse fatto il nido la tignola. Ciononostante, avrei dovuto avvicinarmi, parlargli. Avrei dovuto andargli accanto, non nascondermi dietro le auto in sosta. Ma come potevo? Avevo fatto colazione nella Sala Eduardiana, al Plaza, servito da camerieri in guanti bianchi. Poi avevo sorvolato la città in elicottero con Javits e Bob Kennedy. Ora vagavo per le strade, sfarfallavo qua e là, come un'effimera, con la giacca foderata di seta verde psichedelico. Ero vestito come Sugar Ray Robinson, il divo del ring. Tranne che non avevo spirito combattivo. E così, quando vidi che il mio vecchio intimo amico era un uomo morto, me la svignai. Andai all'aeroporto e salii sul primo aereo per Chicago.

Sedevo, afflitto, accanto al finestrino, con in mano un bicchiere di whisky ghiacciato, ed ero sopraffatto dall'orrore, da pensieri sulla morte e sul destino, da ogni sorta di umanistiche ubbie... dalla compassione. Avevo svoltato l'angolo e m'ero sperduto per la Sesta Avenue... Le gambe mi tremavano, avevo i denti allegati. Ripetevo fra me: Humboldt, addio, ci vediamo all'altro mondo. E due mesi dopo, all'albergo Ilscombe (che oggi non c'è più, crollato) egli uscì dalla sua stanza con un bidoncino di mondezza e morì su un pianerottolo.

Una sera, a una festa del quartiere latino, negli anni Quaranta, udii una bella ragazza dire a Humboldt: “Lo sai a chi somigli? Sembri uno venuto fuori da un quadro.” Sicuro, fanciulle sognanti l'amore potevano benissimo figurarsi che Humboldt a vent'anni fosse uscito da un capolavoro del Rinascimento, da un celebre dipinto impressionista.

Ma la foto che corredava il necrologio del Times era spaventosa.

Aprii il giornale, quella mattina, ed ecco Humboldt fissarmi - disfatto, grigio-nero, disastrato - dai territori della morte. Anche allora ero in volo da New York a Chicago. Avanti e indietro, senza sempre sapere perché. Andai al gabinetto e mi ci chiusi dentro. La gente bussava ma io stavo piangendo e non uscivo.

 

In effetti Cantabile non mi fece aspettar tanto. Mi telefonò poco prima di mezzogiorno. Forse cominciava a aver fame. Non so chi, a Parigi, verso la fine dell'Ottocento era solito vedere Verlaine, ubriaco e rigonfio, recarsi a pranzo, picchiando il suo bambù sul marciapiede, stizzosamente; e di lì a poco ecco il grande matematico Poincaré, rispettabilmente vestito, l'ampia fronte annuvolata, le dita che tracciano curve nell'aria, recarsi anche lui a pranzo. L'ora di pranzo è l'ora di pranzo, che tu sia un poeta o un matematico o un bandito. Cantabile mi disse: “Allora, cazzone, c'incontriamo dopo mangiato. Porta la grana. E nient'altro, con te. Non far più una mossa falsa.”

“Non saprei quale, né come” gli dissi.

“Questo è vero, fino a quando non combini qualcosa insieme a Swiebel. Vieni solo.”

“S'intende. Non m'è mai neanche passato per la mente...”

“E vedi che non ti ci passi, ora che te l'ho detto. Solo, e porta banconote nuove. Va' in banca, fatti dare denaro pulito. Nove pezzi da cinquanta. Nuovi di zecca. Non li voglio unti e bisunti. E ringrazia iddio se non te lo faccio mangiare, quello chèque della malora.”

Che fascista! Ma forse faceva il gradasso solo per darsi la carica, innescare sé stesso, portar su di giri la propria truculenza. A questo punto, però, il mio unico desiderio era sbarazzarmi di lui, mediante sommissione e acquiescenza. “Come ti pare” dissi. “Dove te lo porto, il grano?”

“Ai Bagni turchi di Division Street” disse lui.

“Quel vecchio stabilimento? Per carità!”

“Tu tròvati là davanti, all'una e tre quarti, e aspetta. Da solo!” ripeté.

“D'accordo” risposi. Ma lui non aveva neanche aspettato la mia conferma. Di nuovo udii il segnale di libero. A me questo interminabile verso lamentoso fa l'effetto di un'anima in pena.

Bisognava mettersi in moto. Non potevo aspettarmi alcun aiuto da Renata. Aveva un impegno, quel giorno, assisteva a una vendita all'asta, si sarebbe seccata moltissimo se le avessi telefonato, là, per dirle di portarmi all'altro capo della città. E' una gran bella donna, è gentile, ha tette stupende, ma certe mancanze di riguardo l'offendono e perde le staffe. Ebbene, me la sarei cavata in qualche modo da solo. Forse la Mercedes ce la faceva a arrivare fino all'officina, senza carro attrezzi. Poi bisognava trovare un tassì. O sennò noleggiare un'automobile. Di prendere il bus non me la sentivo.

Ci son troppi ubriachi e tossicomani armati, sui mezzi pubblici. Ma... un momento! Prima devo telefonare a Murra, poi fare un salto in banca. Poi avvertire che non posso condurre Lish e Mary a lezione di piano. Questo mi pesava, soprattutto, perché in fondo ho paura di Denise. Essa detiene ancora un certo potere. Denise ne ha sempre fatto un dramma, di quelle lezioni. Ma del resto lei fa un dramma di tutto, ogni cosa è cruciale, importantissima. Ogni problema psicologico riguardante le bambine vien da lei presentato con enorme risalto. Ogni fatto relativo all'età dello sviluppo è critico, fatale, disperato. Se le bimbe venivano su male, la colpa era mia. Le avevo abbandonate nel momento più periglioso della storia del mondo civile per mettermi con Renata. “Quella troia dalle enormi tette”: così Denise la chiamava, regolarmente. Della bellissima Renata, lei parlava come d'una rozza volgare virago. A giudicare dagli epiteti, tendeva a far di lei un uomo e di me una donna.

Denise, al pari della mia ricchezza, risale al Teatro Belasco. Il ruolo di Von Trenck veniva interpretato da Murphy Verviger. Il divo aveva il suo codazzo: sarta, addetto stampa, tirapiedi. Denise, che viveva con Verviger all'Hôtel Saint Moritz, arrivava ogni mattino con gli altri del seguito, il copione sottobraccio. In tutina di velluto color prugna, portava i capelli sciolti. Snella, elegante, un po' piatta di seno, spalle ampie, come le sedie da cucina d'una volta, aveva grandi occhi violetti, un colorito sottilmente meraviglioso, sul volto ricoperto da una fine, misteriosa peluria, raramente visibile, anche sul naso. Si era d'agosto e per via del caldo le grandi porte dietro il palcoscenico erano spalancate e la luce della strada, penetrando nei recessi del teatro, rivelava la tremenda consunzione di un antico lusso ormai logoro. Il Belasco era come un vassoio dorato con sudici avanzi di torta. Verviger, con il volto segnato da rughe profonde, era alto e aitante. Sembrava un maestro di sci. Doveva esser roso da una qualche mania di raffinatezza. Aveva la testa a colbacco, un'alta solida arrogante rupe ricoperta di fitto muschio. Denise prendeva delle note per lui durante le prove.

Scriveva con estrema concentrazione, come fosse la prima della classe, inseguita dagli altri scolaretti. Quando veniva a chiedermi qualcosa, stringeva il copione al petto e parlava come in preda a una crisi da melodramma. La sua stessa voce sembrava le facesse rizzare i capelli e dilatare gli stupendi occhi. Una volta mi disse: “Verviger vuol sapere come lei preferisce che pronunci questa parola.” Me la scrisse: Finite (determinato). “Dice che è incerto fra fin-it, fain-it e fain-ait. Per me è fain-ait ma non vuol darmi retta.”

E io: “Quante storie!... Non me n'importa, come la pronunci.” Non soggiunsi che disperavo comunque di Verviger. Non aveva capito niente della commedia. Forse all'Hôtel Saint Moritz le cose andavano meglio.

Ma non mi riguardava. Tornato a casa, raccontai a Demmie Vonghel della bella dagli occhi di fuoco del Belasco, l'amica di Verviger.

Ebbene, dieci anni dopo Denise e io eravamo marito e moglie. E fummo invitati alla Casa Bianca dal Presidente Kennedy e Signora, in cravatta nera, per una serata culturale. Denise consultò una trentina di amiche in materia di vestiti, scarpe, guanti. Molto intelligente, s'interessava di problemi politici mondiali dal parrucchiere. Aveva i capelli foltissimi, l'acconciatura alta. Non era facile accorgersi quando se l'era rifatta; ma lo capivo sempre dalla sua conversazione a tavola, se era reduce dal salone di bellezza, poiché era una lettrice velocissima e, sotto il casco, passava in rassegna ogni aspetto della crisi internazionale. “Ti rendi conto cos'ha combinato Krusciov a Vienna?” Quindi, dal parrucchiere, per prepararsi alla Casa Bianca, fece una scorpacciata di Time, Newsweek e altri settimanali di notizie e commenti. In volo per Washington, ripassammo la lezione sulla Baia dei Porci, la crisi dei missili a Cuba, il dilemma vietnamita. La sua intensità nervosa è costituzionale. Dopo il pranzo s'impadronì del Presidente e gli parlò in privato. La vidi metterlo alle corde nella Sala Rossa. Capii che stava cercando di oltrepassare, animosamente, le confuse linee di confine fra i suoi tremendi problemi personali (oh, erano terribili!) e le perplessità e i disastri della politica mondiale. Era un'unica, indivisibile crisi.

Capii che gli stava chiedendo: “Che cosa si può fare al riguardo, signor Presidente?” Bah, ci si corteggia a vicenda con ogni mezzo a disposizione. Ridacchiai fra me quando li vidi insieme. Ma Jack Kennedy sapeva badare a se stesso, eppoi le belle donne gli piacevano. Anche lui, dopotutto, pensai, leggerà Time e Newsweek, e può darsi che le sue informazioni non siano più precise di quelle di lei. Sarebbe stata un'ottima Ministro degli Esteri, per lui, se si fosse potuta trovar la maniera di farla alzare prima delle undici.

Poiché è una donna meravigliosa. Una vera bellezza. E assai più litigiosa di Humboldt Fleisher. Questi più che altro minacciava a vuoto. Lei no. Dopo il divorzio mi son trovato impelagato in un'infinità di rovinose cause. Raramente il mondo ha visto un querelante più aggressivo sottile e astuto di Denise. Di quella serata alla Casa Bianca ricordo soprattutto l'imponente alterigia di Charles Lindbergh, le lamentele di Edmund Wilson ché il governo l'aveva mandato in miseria, le musichette balneari suonate dall'orchestra dei marine, e Mister Tate che batteva il tempo sul ginocchio d'una dama.