JE NE PARLE PAS FRANÇAIS
Estratto di: Katherine Mansfield. “Tutti i racconti.” Newton Compton editori,
Non so perché questo piccolo caffè mi attira tanto. È sporco e triste. Se almeno qualcosa lo distinguesse da altri cento - ma no; oppure se ogni giorno ci venissero gli stessi tipi strani e da un angolo si potesse osservarli, riconoscerli e più o meno (con l'accento acuto sul meno) abituarcisi. Ma vi prego, non immaginate che quelle parentesi siano una mia confessione di umiltà davanti al mistero dell'animo umano. No davvero; io non credo all'animo umano. Non ci ho mai creduto. Credo che le persone siano come valigie - riempite di questo o quello, spedite, sbatacchiate, scaraventate in aria, sbattute per terra, perdute e ritrovate, d'un tratto vuotate a metà, o di nuovo stipate da scoppiare, finché l'Ultimo Facchino le lancia sull'Ultimo Treno, e filano via sferragliando...
Eppure, queste valigie possono avere un grande fascino. Oh, enorme. Mi ci vedo di fronte, sapete, come un doganiere.
«Niente da dichiarare? Vini, liquori, sigari, profumi, seta?»
E l'attimo di esitazione, al pensiero che stiano per farmela, subito prima di buttar giù col gesso il classico scarabocchio, e l'altro attimo subito dopo, al pensiero che me l'abbiano fatta, sono forse i due momenti più emozionanti della vita. Sì, almeno per me. Ma prima di cominciare questa lunga, un po' peregrina e in fondo non originalissima digressione, intendevo dire molto semplicemente che qui non c'è nessuna valigia da esaminare, perché la clientela di questo caffè, signore e signori, non si mette a sedere. No, sta in piedi al banco ed è composta da un gruppetto di operai che vengono su dal fiume, tutti impolverati di farina bianca, calce o qualcosa del genere, e da pochi soldati, accompagnati da ragazzette magre e nere con anelli d'argento alle orecchie e la borsa della spesa al braccio.
Anche Madame è magra e nera, con le guance bianche e le mani bianche. Con certe luci sembra proprio trasparente, e risplende, nel suo scialle nero, con un effetto straordinario. Quando non serve i clienti, siede su uno sgabello col viso sempre rivolto alla finestra. I suoi occhi cerchiati di scuro frugano e inseguono la gente che passa; eppure non cerca nessuno. Forse, quindici anni fa, cercava; ma ora quella posa è diventata abitudine. S'indovina, dalla sua aria stanca e scorata, che deve averci rinunciato da almeno dieci anni...E poi c'è il cameriere. Non patetico - decisamente non comico. Mai che faccia una di quelle osservazioni totalmente insignificanti che stupiscono tanto in bocca a un cameriere (come se il povero disgraziato fosse una via di mezzo tra una caffettiera e una bottiglia di vino, che non ci si aspetta che contenga una sola goccia di qualcos'altro). È grigio e vizzo, coi piedi piatti e unghie lunghe e fragili che vi fanno salire i nervi a fior di pelle mentre raccoglie i vostri due sous. Quando non ripulisce il tavolo e non spazza via un paio di mosche morte, se ne sta in piedi, col suo grembiule troppo lungo, la mano appoggiata alla spalliera di una sedia e, sull'altro braccio, il triangolo pendulo del tovagliolo sporco, nell'attesa di essere fotografato dopo un feroce assassinio. «Interno del Caffè dove è stato trovato il cadavere.» L'avete visto mille volte.
Non credete che ogni luogo abbia un'ora del giorno in cui vive davvero? Ma non è esattamente quello che intendo. Meglio dire così: sembra che ci sia un momento in cui ti accorgi di essere comparso per puro caso sulla scena nell'attimo preciso in cui eri atteso. Tutto è pronto per te -ti aspetta. Ah, sei padrone della situazione! Ti gonfi d'importanza. E al tempo stesso hai un sorriso segreto, malizioso, perché di solito la vita sembra opporsi a queste tue entrate in scena, impegnata invece com'è a soffiartele tutte, a rendertele impossibili, tenendoti tra le quinte finché davvero non è troppo tardi... Una volta tanto gliel'hai fatta, alla vecchia strega.
Uno di questi momenti l'ho assaporato la prima volta che venni qui. Per questo continuo a tornarci, credo. Per rivedere la scena del mio trionfo, ovvero la scena del delitto, quando, una volta tanto, tenni la vecchia sgualdrina per la gola e ne feci quel che volevo.
Domanda: perché sono così amaro verso la Vita? E perché la vedo sempre sotto le spoglie di una cenciaiola da film americano, che si trascina avvolta in uno scialle sudicio e coi vecchi artigli aggrappati a un bastone?.
Risposta: evidente effetto del cinema americano su una mente debole.
Comunque, il «breve meriggio d'inverno volgeva al fine», come suol dirsi, e io me ne andavo alla deriva, forse verso casa, o forse no, quando mi ritrovai qui dentro, diretto verso questo sedile d'angolo.
Attaccai allo stesso gancio dietro di me il mio soprabito inglese e il cappello di feltro grigio, e dopo aver lasciato al cameriere il tempo di farsi scattare almeno una ventina di istantanee, ordinai un caffè.
Mi versò un bicchiere del solito intruglio rossastro, su cui giocava una vagabonda luce verde, se ne andò strascicando i piedi, e io rimasi seduto, premendo le mani attorno al bicchiere, perché fuori c'era un freddo pungente.
D'improvviso mi resi conto che, senza accorgermene affatto, sorridevo. Alzai lento la testa e mi vidi nello specchio di fronte. Sì, eccomi là seduto, curvo sul tavolo a sorridere malizioso e profondo, con davanti il bicchiere di caffè dall'ondeggiante piuma di vapore, e accanto il cerchio bianco del piattino con due zollette di zucchero.
Spalancai gli occhi. Era come se fossi rimasto lì per un'eternità, ed ora finalmente mi affacciassi alla vita...
Nel caffè tutto era placido. Fuori si intravedeva, nel buio, che aveva cominciato a nevicare. Si intravedevano le sagome dei cavalli, dei carri, delle persone tacite e bianche, che si muovevano nell'aria piumosa. Il cameriere sparì e ricomparve con una bracciata di paglia. La sparse sul pavimento, dalla porta fino al banco e poi intorno alla stufa, con gesti umili, quasi adoranti. Non ci si sarebbe stupiti di vedere aprirsi la porta e la Vergine Maria entrare su un asinello, le miti mani unite sul ventre teso...
Carino, non vi pare, questo pezzo sulla Vergine? Scorre dalla penna con tanta grazia; fa tanto «accordo finale». Lo pensai allora e decisi di annotarlo. Non si sa mai: una cosuccia di questo genere può sempre servire per tornire un paragrafo. E così, cercando di muovermi il meno possibile, dato che l'«incanto» non era ancora rotto (sapete com'è) mi sporsi verso il tavolo accanto, cercando una cartella per scrivere.
Niente carta né buste, naturalmente. Solo un pezzo di carta assorbente rosa, incredibilmente morbida e soffice, quasi umida, come la lingua di un gattino morto, che non ho mai toccato.
Sedevo - ma sempre, sotto sotto, in quello stato di attesa, rigirandomi intorno al dito la linguetta del gattino morto e nel cervello la morbida frase, mentre i miei occhi assorbivano nomi di ragazze e barzellette sporche e disegnini di bottiglie e di tazze che non volevano starsene nei piattini, sparsi sulla cartella per scrivere.
Sono sempre gli stessi, sapete. Le ragazze hanno sempre gli stessi nomi, le tazze non stanno mai nei piattini; tutti i cuori sono trafitti e infiocchettati.
Ma poi, tutto a un tratto, scritta in fondo al foglio con l'inchiostro verde, capitai su quella stupida frase stantia: Je ne parle pas francais.
Ecco! Era giunto - il momento - il geste! E benché fossi così preparato, mi afferrò rovesciandomi; ne fui semplicemente sopraffatto. E la sensazione fisica fu così curiosa, così singolare. Era come se tutto di me, tranne la testa e le braccia, tutto ciò che di me era sotto il tavolo si fosse letteralmente dissolto, fuso, liquefatto. Mi restava solo la testa, e due bastoni di braccia premute sul tavolo. Ma ah! l'agonia di quell'attimo! Come descriverla? Non pensavo a nulla. Non chiamai in aiuto neanche me stesso. Per un momento, smisi di esistere. Ero Agonia, Agonia, Agonia.
Poi passò, e un momento dopo già pensavo: «Dio buono! Che io sia capace di sentire con tanta forza? Ma ero assolutamente inconsapevole! Non avevo una sola frase adeguata! Ero sopraffatto, travolto! E non ho fatto il più pallido tentativo di combattere!».
E così mi montavo, mi montavo, finché sbottai: «In fin dei conti, devo essere un tipo di prim'ordine. Una mente di second'ordine non avrebbe mai provato una simile intensità di sentire, con tanta... purezza».
Il cameriere ha accostato un legnetto alla stufa rossa e acceso un globo di gas sotto un paralume. Non serve guardare fuori dalla finestra, Madame; è buio fitto, ormai. Le tue mani bianche aleggiano sopra lo scialle nero. Sembrano due uccelli che tornino a chiudersi nel nido. Sono inquiete, inquiete... Infine le ripieghi, sotto le tue piccole ascelle calde.
Ora il cameriere ha preso una lunga pertica e tirato d'un colpo le tende. «Ciao, ciao», come dicono i bambini.
E poi, io non ho pazienza con la gente incapace di mollare le cose, ma che le rincorre strepitando. Quando una cosa è andata, è andata. Finita, liquidata. E allora molliamola! Ignoriamola e consoliamoci, se ne abbiamo bisogno, col pensiero che non ritroviamo mai la stessa cosa che abbiamo perduto. È sempre una cosa nuova. Quando ci lascia è già cambiata. Non è così perfino per il cappello volato via che rincorri? E non intendo superficialmente - ma profondamente... Mi sono imposto come regola di vita di non avere mai rimpianti e di non voltarmi mai indietro. Il rimpianto è uno spreco di energia spaventoso e nessuno, che voglia essere scrittore, può indulgervi. Non si può dargli forma, non si può costruirci, serve solo a crogiolarcisi. Ed è ovvio che guardare indietro è ugualmente fatale all'Arte. È un voler restare poveri. L'arte non può e non vuole sopportare la miseria.
Je ne parle pas français. Je ne parle pas français. Mentre scrivevo quest'ultima pagina, là fuori il mio secondo io cacciava su e giù, nel buio. Mi aveva lasciato proprio mentre cominciavo ad analizzare il mio grande momento; era partito con un balzo folle, come un cane sperduto che finalmente, finalmente crede di riconoscere il passo familiare.
«Mouse! Mouse! Dove sei? Sei vicina? Sei tu che ti affacci alla finestra lassù e tendi le braccia verso i battenti delle imposte? Sei tu questo involto morbido che mi si fa incontro fra la neve piumosa? Sei tu questa bambina che s'infila nella porta girevole del ristorante? È tua quell'ombra nera che si piega nella vettura? Dove sei? Dove sei? Da che parte devo andare? Dove devo correre? E a ogni minuto che passo qui, esitando, tu ti allontani di più. Mouse! Mouse!»
“Ora il povero cane è rientrato nel caffè, la coda tra le gambe, esausto.
«Era un... falso... allarme. Lei non si vede... in nessun... posto.»
Cuccia, allora! Cuccia! Cuccia!
....