domenica 25 aprile 2021

ITALIANI BRAVA GENTE? Angelo del Boca

 

ITALIANI BRAVA GENTE?

Angelo Del Boca 

Premessa

Il 19 febbraio 1937, in seguito a un attentato alla vita del viceré d’Etiopia, maresciallo Rodolfo Graziani, alcune migliaia di ita­liani, civili e militari, uscivano dalle loro case e dalle loro caserme e davano inizio alla più furiosa e sanguinosa caccia al nero che il continente africano avesse mai visto.

Armati di randelli, di mazze, di spranghe di ferro, abbatte­vano chiunque – uomo, donna, vecchio o bambino – incontravano sul loro cammino nella città-foresta di Addis Abeba. E poiché era stabilito che la strage durasse tre giorni, e l’uso dei randelli si era rivelato troppo faticoso, già dal secondo giorno si ricorreva a metodi più sbrigativi ed efficaci. Il più praticato era quello di cospargere una capanna di benzina e poi di incendiarla, con dentro tutti i suoi occupanti, lancian­do una bomba a mano.

Nessuno ha mai stilato un bilancio preciso degli etiopici che sono stati uccisi dal 19 al 21 febbraio 1937. Si va da un mi­nimo di 1400 a un massimo di 30.000, a seconda delle fonti.

Le migliaia di italiani che hanno partecipato alla strage di tanti innocenti, che nulla avevano a che fare con l’attentato, non hanno mai pagato per i loro delitti. Non sono mai stati inquisiti. Non hanno fatto un solo giorno di prigione. Dopo l’estenuante mattanza, sono tornati alle loro case e alle loro caserme, come se nulla fosse accaduto. Chi aveva famiglia in città ha continuato, senza problemi, senza sentimenti di colpa, a gestire i propri affari, ad accarezzare i figli, a fare all’amore, come se in quei tre giorni di sangue il suo forsen­nato impegno nell’uccidere fosse stata la cosa più naturale, più ammirevole.

Questo di Addis Abeba, per quanto gravissimo, non è che uno dei tanti episodi nei quali gli italiani si sono rivelati capaci di indicibili crudeltà. In genere le stragi sono state compiute da “uomini comuni”, non particolarmente fanati­ci, non addestrati alle liquidazioni in massa. Essi hanno agito per spirito di disciplina, per emulazione o perché persuasi di essere nel giusto eliminando “barbari” o “subumani”. Non rari, fra gli ufficiali, quelli che si sono vantati degli atti di ferocia compiuti e che si sono dilungati nel fornire macabri particolari. Per esempio, sul come trasformare in torcia umana un partigiano catturato in Slovenia. Erano sufficien­ti, assicuravano, un palo o un albero al quale legare il prigio­niero, un fiasco di benzina e un cerino.

Nel ripercorrere, in questo libro, la storia d’Italia dalla guerra al brigantaggio al secondo conflitto mondiale, prenderemo in esame alcuni episodi, particolarmente efferati, acca­duti in Italia, in alcuni paesi europei occupati dalle forze dell’Asse e nelle colonie italiane d’oltremare, e ne illustreremo la dinamica nel preciso contesto storico. Possiamo però già anticipare che non esistono attenuanti per i protagonisti di questi episodi, perché le colpe evidenziate sono troppo pale­si, inconfutabili. Il mito degli «italiani brava gente», che ha coperto tante infamie, e anche queste che esporremo, appare in realtà, all’esame dei fatti, un artificio fragile, ipocrita. Non ha alcun diritto di cittadinanza, alcun fondamento storico. Esso è stato arbitrariamente e furbescamente usato per oltre un secolo e ancor oggi ha i suoi cultori, ma la verità è che gli italiani, in talune circostanze, si sono comportati nella manie­ra più brutale, esattamente come altri popoli in analoghe situazioni. Perciò non hanno diritto ad alcuna clemenza, tan­tomeno all’autoassoluzione.

Prima di esaminare gli episodi di violenza, che abbiamo selezionato fra quelli accaduti tra 1861 e 1946, dedichiamo un capitolo alla storia degli italiani nel loro difficile cammino verso l’unità del paese. Un percorso contrassegnato da giudi­zi molto severi nei loro confronti, a volte addirittura crudeli, altre volte immotivati, espressi da osservatori stranieri, ma anche da numerosi uomini politici e letterati italiani.

Vedremo anche le difficoltà che i primi governi d’Italia hanno incontrato, non soltanto durante il processo di unificazione, ma anche nel delicato e complesso compito di «fare gli italiani», secondo l’auspicio di Massimo d’Azeglio. Si trattava di strapparli dal proprio municipalismo, per fornire loro una coscienza nazionale, una precisa identità. Non era un’impresa facile. Eppure, dai governanti della Destra a quelli della Sini­stra storica, da Giovanni Giolitti a Benito Mussolini, tutti si sono impegnati, seppure in diversa misura, nel tentativo di costruire un differente modello di italiano. Ma soltanto Mus­solini, nel corso del Ventennio, ha portato alle estreme conse­guenze questo processo di radicale trasformazione dell’indivi­duo. Con i risultati che conosciamo.

L’obiettivo di «fare gli italiani», in un paese che per seco­li ha conosciuto la massima frantumazione della società e l’influenza quasi continua di altri popoli, sempre nelle vesti di dominatori, era sicuramente legittimo, per non dire irrinunciabile. Ma i mezzi impiegati non sono stati sempre quelli idonei. In qualche periodo questi mezzi sono stati addirittura nocivi, capaci di produrre, anziché cittadini vir­tuosi e soldati disciplinati, terrificanti strumenti di morte, come avremo modo di vedere.

1. Fare gli italiani

Gli italiani, nel loro insieme, non hanno mai goduto, negli ultimi tre secoli, di molta reputazione. Non c’era viaggiatore straniero che percorresse, per diletto o per affari, la penisola, che non esprimesse, in diari o lettere ai congiunti, giudizi sugli italiani tutt’altro che lusinghieri. Ma anche gli osservatori nostrani, appartenenti alle classi colte, non erano da meno nel rilevare vizi e difetti dei loro concittadini. Si passava da valutazioni argute a sentenze senza appello. Da osservazioni ironiche a congetture pseudoscientifiche. Non mancavano, infine, i casi di autoflagellazione.

Per fare qualche esempio, gli italiani erano definiti, tout court, pigri, scansafatiche, indifferenti. E inoltre ignoranti, creduloni, baciapile, papisti. E ancora: inaffidabili, voltagabbana, servili, imbelli. E anche insensibili a tutti gli ammonimenti, a tutti gli insulti, persino alle pedate. E si potrebbe continuare.

Com’era possibile che un popolo che aveva dominato il mondo, con i suoi eserciti, le sue leggi e la sua cultura, fosse caduto così in basso da diventare, come sosteneva Otto von Bismarck, «la quinta ruota del carro» nel concerto delle nazioni europee, e da restare, per secoli, un oggetto passivo nelle mani della diplomazia straniera? Eppure era un dato di fatto. Il declino era stato lento, ma inarrestabile. Dopo i fasti della romanità era venuto il tempo dei secoli bui, appena interrotto dal miracolo del Rinascimento. Poi, di nuovo, era calata la notte su un’Italia divisa, anzi al massimo della sua frammentazione e impotenza, con governi alle cui corti si parlava francese, tedesco, spagnolo, ma non italiano.

Fu necessario attendere la pace di Aquisgrana (1748) e la fine della dominazione spagnola perché l’Italia, pur continuando a essere un mosaico di Stati separati, uscisse dal suo secolare isolamento e conoscesse, dopo tante guerre che ne avevano devastato il territorio, i benefici della neutralità e della quiete. Ma l’idea di dar vita a una federazione di Stati italiani restava un’utopia. E anzi prevaleva ancora il parere di Francesco Guicciardini, il quale esaltava la divisione politica dell’Italia e a questa attribuiva la sua «floridezza».

Anche nel secolo dei lumi l’Italia appariva, sul piano delle riforme, molto distanziata dalle altre nazioni europee. Certo non mancavano, anche da noi, intellettuali progressisti che auspicavano cambiamenti radicali nella penisola, soprattutto per ciò che concerneva le disuguaglianze sociali, la sopravvivenza di numerosi ordinamenti feudali, il pauperismo contadino, la diffusa ignoranza. Dalla sua cattedra di Economia politica di Napoli, Antonio Genovesi poneva l’accento sull’esigenza di impartire, il più presto possibile, un’istruzione pratica e tecnica. Tra i riformatori lombardi, invece, primeggiavano Pietro Verri e Cesare Beccaria, mentre il napoletano Gaetano Filangieri si batteva per la libertà di stampa e di parola e auspicava una magistratura immune da abusi. Ma il rapporto tra riformatori e principi non fu mai facile. E comunque i riformatori ebbero sempre un ruolo secondario, e se erano ascoltati in Lombardia e in Toscana, tollerati a Napoli a condizione che le loro richieste fossero moderate, in Piemonte venivano addirittura perseguitati e costretti all’esilio, e non avevano alcuna voce a Venezia, a Genova e negli Stati pontifici.

La Rivoluzione francese sollevò dapprincipio grandi entusiasmi e speranze nella maggior parte degli intellettuali italiani. Anche l’arrivo in Italia degli eserciti francesi guidati da Napoleone Bonaparte e la successiva creazione della Repubblica cisalpina e di altre repubbliche “sorelle” suscitarono molte attese, soprattutto fra i giacobini, che vedevano avvicinarsi il giorno dell’indipendenza italiana e della creazione di una società del tutto nuova. Ma presto l’attesa lasciò spazio alla delusione e infine alla rivolta. L’Italia, per Napoleone, era in realtà soltanto una pedina nel suo grande gioco. Tradendo le aspettative di Francesco Melzi d’Eril, che invocava un’Italia autenticamente libera e non più subalterna alla Francia, Napoleone nel 1805 incoronava se stesso sovrano del Regno Italico e distribuiva ai propri famigliari altre regioni della penisola.

Le pesanti tasse, le confische di quadri, statue, manoscritti, libri rari, le ruberie dei generali napoleonici, la coscrizione militare obbligatoria che portò decine di migliaia di soldati italiani a morire nella disastrosa campagna di Russia e in quella del 1813 in Germania, non potevano alla fine che alimentare in tutta la penisola rivolte popolari e contribuire al dissolvimento dell’impero napoleonico.

E tuttavia il bilancio degli anni della dominazione francese non fu del tutto negativo. Notevoli cambiamenti, infatti, si erano verificati in Italia. Anche se le autonomie concesse da Bonaparte presentavano precisi e mortificanti limiti, avevano però consentito ad alcuni gruppi dirigenti di sperimentare le proprie capacità politiche e amministrative, di portare a compimento alcune riforme e di giovarsi dei codici napoleonici che costituivano una straordinaria e benefica novità. Rilevante era anche il fatto che alcune decine di migliaia di soldati avevano potuto indossare di nuovo una divisa e imparare a battersi, anche se per cause che nulla avevano a che fare con gli interessi dell’Italia e la sua indipendenza. Infine, benché il paese fosse ancora fortemente diviso, era incoraggiante sapere che a Milano come a Napoli, a Torino come a Firenze, c’era gente che coltivava ideali unitari e che era pronta a lottare per realizzarli.

Dopo il Congresso di Vienna, che dava un nuovo assetto all’Europa sconvolta dalle guerre napoleoniche, l’Italia, che nessuno aveva interpellato, finiva, salvo il Piemonte, sotto il controllo diretto o indiretto dell’Austria. Tra moti insurrezionali falliti e repressioni sempre più severe, tra contrasti insanabili fra moderati e democratici, l’Italia, che il principe di Metternich definiva con malizia «un’espressione geografica», compiva tuttavia gli ultimi e difficili passi verso l’unificazione, nonostante ostacoli che sembravano insormontabili, come la presenza di un imperatore straniero nel Lombardo-Veneto e quella di un pontefice reazionario nell’Italia centrale.

A tradurre le aspirazioni in programmi e poi in azioni decisive erano però in pochi. Come ha giustamente messo in evidenza Stuart J. Woolf,

 

il numero totale degli individui attivamente impegnati a trasformare le condizioni dell’Italia e a cercare di ottenerne l’indipendenza non fu se non una percentuale minima su una popolazione di circa venti milioni di abitanti. Nondimeno essi furono in proporzione crescente – pur restando una minoranza – fra le classi colte e mostrarono di preoccuparsi sempre più – seppure in termini spesso retorici o generici – di conquistare la fiducia delle “moltitudini” 1.

 

Alla fine del periglioso percorso, contrassegnato da episodi straordinari come le Cinque giornate di Milano e da clamorosi insuccessi come la sconfitta di Carlo Alberto a Novara, tra l’Italia repubblicana di Mazzini, quella neoguelfa di Gioberti, quella federalista di Cattaneo e quella socialista di Ferrari e di Pisacane, prevaleva l’Italia sabauda e «forte» di Cavour, imposta con la violenza e con plebisciti truccati da un regno i cui codici legali e i sistemi amministrativi erano fra i più arretrati della penisola. Certo non era l’Italia che molti avevano sognato e per la quale avevano combattuto. Ma ciò che contava, ciò che prevaleva su tutto, ciò che cancellava delusioni e sdegni, era che l’Italia era fatta, e che nessuna forza avrebbe potuto smantellare questa realtà. Adesso, come suggeriva Massimo d’Azeglio, fatta l’Italia occorreva fare gli italiani. Soprattutto quelle moltitudini che erano state a guardare, che non avevano mai imbracciato un fucile o conosciuto i rigori del carcere e l’amarezza dell’esilio. Il compito era sicuramente fra i più ardui e non poteva prevedere scadenze. Ma un fatto era certo: esso avrebbe comportato un impiego di energie, di ingegno, di coraggio, di fantasia, di denaro superiore a quello che era occorso per raggiungere l’unità del paese, frutto più della diplomazia che del sangue degli italiani. In effetti, ci sono stati più morti a Adua, nella prima guerra italo-abissina del 189596, che in tutte le guerre e i moti del Risorgimento.

 

Ma chi erano, com’erano questi italiani, soggetti a un declino che sembrava progressivo e inarrestabile? Meritavano davvero di esser giudicati così pesantemente? Vediamo, per cominciare, che cosa hanno scritto di loro i viaggiatori stranieri, noti e meno noti. L’abate benedettino Jean Mabillon, che era venuto in Italia sul finire del Seicento per completare le sue ricerche sulla cristianità primitiva e medievale, rimase particolarmente colpito, attraversando le regioni dalla Toscana alla Campania, dall’estrema povertà che vi regnava, dai campi abbandonati o poco coltivati, dai rari villaggi, dai contadini denutriti e dalle donne precocemente incanutite. Ma anche le persone colte e ricche che incontrava nelle città gli apparivano totalmente sorde agli avvenimenti europei, dominate da una passività e da una generale fiacchezza, con la sola inclinazione «di tirare a campare» 2.

Non diversa era l’Italia apparsa nel 1685 all’ecclesiastico scozzese Gilbert Burnet, vescovo di Salisbury. Dominata dall’ignoranza, oppressa dall’intolleranza papista, era sicuramente una delle regioni più povere e sventurate d’Europa. Burnet era anche persuaso che gli italiani fossero pienamente coscienti della loro situazione di inferiorità e della loro passività politica e morale. Da un simile processo involutivo non si salvavano neppure le antiche e gloriose repubbliche di Venezia e di Lucca 3. Joseph Addison, che visitava l’Italia nei primi anni del Settecento, stabiliva dal canto suo un raffronto tra le glorie e lo sfarzo del passato e la desolazione e la miseria del presente e sosteneva che l’Italia, ormai isolata e immobile, non esercitava più alcuna influenza sul resto d’Europa. Particolarmente critico era nei confronti del cattolicesimo romano: «Qui sono talmente presi dalle anime della gente da trascurare il benessere dei loro corpi» 4.

Scrittore, filosofo, studioso di problemi giuridici e di scienze, Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, giungeva in Italia nella tarda estate del 1728 e vi si tratteneva per un anno. Preceduto dalla fama di aver scritto la deliziosa satira delle Lettere persiane, veniva accolto ovunque con estrema gentilezza e godeva del privilegio di poter conversare liberamente con sovrani, principi, alti prelati e studiosi. Fornito di una curiosità senza limiti, suffragata da un’insolita competenza in ogni campo, nessuno meglio di lui poteva tracciare un bilancio esaustivo della situazione italiana. Dalla lettura del Viaggio in Italia, il suo giudizio appare complessivamente negativo. Scrive, per esempio: «Le repubbliche italiane non sono che miserabili aristocrazie, che si reggono solo per la pietà che si ha per loro, e in cui i nobili, senza alcun senso di grandezza e di gloria, ambiscono soltanto a conservare il loro ozio e i loro privilegi» 5.

Scendendo nei particolari, denunciava la completa decadenza di Venezia, dove le leggi non venivano osservate e dove le puttane, alcune migliaia, ricoprivano un ruolo altrove sconosciuto 6. Di Verona ricordava, infastidito, l’assedio degli accattoni; di Torino le leggi retrive dei Savoia, in virtù delle quali «non si può uscire dal paese senza permesso, sotto pena di confisca e di pene arbitrarie» 7. Dei genovesi indicava l’estrema taccagneria: «Non c’è niente di più bugiardo dei loro palazzi: di fuori, una casa superba, e dentro una vecchia serva che fila» 8. Per fortuna c’era Roma: «dove il soggiorno era piacevolissimo: tutto vi diverte. Sembra che le pietre parlino. Non si finisce mai di vedere» 9. Peccato, però, che sulla città eterna governasse il papa, Benedetto XIII, «molto odiato dal popolo romano, e persino la devozione ne è disprezzata, perché li fa morire di fame» 10. Ritornando sull’argomento, Montesquieu rincarava la dose:

 

Una pubblica simonia regna oggi a Roma. Non si è mai visto, nel governo della Chiesa, regnare il delitto così apertamente. Uomini vili sono preposti da ogni parte alle cariche. Ed il papato, da parte sua, non si cura affatto di ciò che può accadere. Da come vanno le cose, è impossibile che sia eletto papa un uomo di merito: non lo vogliono 11.

 

Lo studioso che, di lì a pochi anni, avrebbe pubblicato un’opera capitale come Lo spirito delle leggi, e avrebbe formulato la divisione dei tre poteri principali dello Stato, uno dei pilastri della democrazia, non poteva non rilevare, dell’Italia, la somma infinita delle contraddizioni. «Un insieme di nobiltà e di abiezione» avrebbe sintetizzato Giovanni Macchia, «di decoro, di altezze mai raggiunte e di miseria» 12.

A dieci anni esatti dal viaggio di Montesquieu in Italia, visitava la penisola Charles de Brosses, presidente del Parlamento della Borgogna, all’epoca governata dai principi di Condé. Buono studioso della storia delle navigazioni nelle terre australi, non possedeva però la cultura enciclopedica del barone di Montesquieu e spesso indulgeva al pittoresco quando non scadeva nel pettegolezzo. Dalle pagine delle Lettres familières sur l’Italie affiora un’Italia triste, meschina, annoiata, divisa, senza idee e senza programmi, di continuo percorsa e devastata da eserciti stranieri. In una sua celebre sintesi de Brosses sentenziava: «Immaginatevi che cosa sia un popolo di cui un quarto è di preti, un quarto di statue, un quarto di persone che lavorano poco e un quarto di persone che non fanno assolutamente nulla» 13.

In Italia non giungevano soltanto turisti alla ricerca del sole o storici a caccia di documenti o letterati assetati di sensazioni forti. Arrivavano anche giuristi come Servan e Dupaty, economisti come Jean-Marie de la Platière, scienziati come Joseph-Jérôme de Lalande, agronomi come gli inglesi John Symonds e Arthur Young. Questi ultimi tracciavano il quadro completo dell’agricoltura italiana, con uno speciale riguardo al Piemonte e alla Lombardia. Un quadro certo non esaltante a causa soprattutto dell’assoluta mancanza di libertà politiche e di un’abnorme limitazione delle libertà civili. A differenza della maggioranza degli altri viaggiatori, che abbondavano nella descrizione di monumenti, chiese, statue e quadri, Symonds e Young fornivano invece per primi precise informazioni sui sistemi economici e le tecniche di produzione, particolarmente arretrati. Cosicché l’Italia, impietosamente messa a nudo, non poteva coincidere con quella sognata e idealizzata nei paesi del Nord Europa. Anche per il tedesco Johann Wilhelm Archenholtz l’Italia non era un’arcadia, ma una terra dove regnava la falsa politica, la miseria e l’ignoranza. «Nonostante i loro palazzi» scriveva in England und Italien, «le loro chiese, le loro pinacoteche e altre opere d’arte, gli italiani restano tra i più infelici abitanti del nostro emisfero» 14.

Persino Johann Wolfgang Goethe, che pur sin da ragazzo aveva posto in cima ai suoi desideri un viaggio in Italia, e che all’amico Eckermann avrebbe un giorno confidato «Sì, io posso dire che solamente a Roma ho sentito che cosa voglia dire essere un uomo», non avrebbe risparmiato pesanti critiche al carattere e ai costumi degli italiani, pur cercando di mitigare le condanne con tolleranza e comprensione. Biasimando, per esempio, i pessimi mezzi di trasporto utilizzati nella penisola, osservava: «Quest’Italia, tanto favorita dalla natura, è rimasta enormemente indietro rispetto agli altri paesi per tutto ciò ch’è meccanica e tecnica, sulle quali senza dubbio si fonda ogni progresso verso un’esistenza più comoda e più sciolta» 15. Lo turbava anche, in particolar modo durante i soggiorni a Verona e a Venezia, la vista dell’immondizia che si accumulava in ogni angolo delle strade. Ma con molta generosità attribuiva «quella sporcizia e scomodità delle abitazioni che a noi fa tanto effetto» al fatto che, grazie al clima dolce, «la gente è sempre fuori e, nella sua spensieratezza, non si dà cura di nulla» 16. Giunto a Roma, era attratto e affascinato dai superbi monumenti; tuttavia non mancava di osservare: «Si trovano vestigia di una magnificenza e di uno sfacelo che superano, l’una e l’altro, la nostra immaginazione. Ciò che hanno rispettato i barbari, l’han devastato i costruttori della nuova Roma» 17. Colpito inoltre dalla frequenza degli omicidi che si verificavano nella città, scriveva: «Null’altro saprei dire di questo popolo se non che è gente allo stato di natura, gente che in mezzo agli splendori e alle solennità della religione e dell’arte, non si scosta di un capello da quel che sarebbe se vivesse nelle grotte e nei boschi» 18.

Dopo il grand tour in Italia, che per gli inglesi di alto censo era diventato, nel Settecento, quasi un obbligo e sicuramente un mito, si ripeteva, nei primi due decenni dell’Ottocento, una seconda e più massiccia calata di inglesi nella penisola, tanto che si parlò addirittura di una «italomania». Il più celebre fra i visitatori fu certamente Lord Byron, il quale, con Childe Harold’s Pilgrimage, compì uno straordinario viaggio in versi attraverso i luoghi e i monumenti che costituivano per gli stranieri un percorso obbligato. E certo non gli sfuggirono le antiche e nuove rovine nelle quali si imbatteva, ma questa Italia in ruderi, quest’Italia immobile e morta lo affascinava. A suo dire tale disfacimento, tale gloria passata godevano di un «immaculate charm». Meno tollerante e benevolo era invece il poeta Percy Bysshe Shelley, che viaggiava in Italia negli stessi anni di Lord Byron. Nelle Letters from Italy, pur individuando alcuni aspetti positivi del paese, considerava gli italiani «una miserabile razza», senza sensibilità e immaginazione, e giungeva a paragonarli a una «tribù di stupidi e inariditi schiavi» 19.

Anche il giudizio del poeta e uomo politico Alphonse-Marie-Louis de Lamartine ricalcava quello di Shelley ed era forse ancora più sprezzante. Egli negava al popolo italiano ogni possibilità di redenzione e di unificazione, perché aveva perso le antiche virtù guerriere, oziava mentre gli altri popoli erano attivissimi, e nasceva già vecchio. Incapace di scrollarsi di dosso l’assolutismo dell’Austria, guardava alla Francia, non come a un paese liberatore, ma come a un padrone più tollerante. E soggiungeva: «Cambiare sovente padroni è la consolazione dei popoli sottomessi» 20.

Pur condividendo il giudizio di Lamartine sull’impossibilità per l’Italia di diventare una nazione come la Francia, per una lunga serie di ostacoli, a cominciare dal fatto che non possedeva una capitale, Jules Michelet, l’autore della celebre Histoire de France, non manifestava però alcun disprezzo per gli italiani, anzi indulgeva alla pietà e alla commiserazione. E ciò era comprensibile, perché lui stesso confessava: «Sono nato da Virgilio e da Vico» 21. Non molto diversa era la posizione di Stendhal, forse lo scrittore che più degli altri ha soggiornato a lungo in Italia e che meglio l’ha conosciuta. Egli non sapeva soltanto godere delle infinite attrattive dell’Italia, ma ne denunciava anche l’avvilimento religioso, il bigottismo, la superstizione. Ma sempre cercando delle attenuanti nelle continue e tremende sciagure che l’avevano colpita. «Io tremo per la sorte futura dell’Italia» scriveva in Rome, Naples et Florence. «Questo paese avrà dei filosofi come Beccaria, dei poeti come l’Alfieri, dei soldati come Santarosa, ma questi uomini illustri sono a una troppo grande distanza dalla massa del popolo» 22.

Inviato nel 1803 a Roma da Napoleone, con l’incarico di ricoprire il ruolo di segretario d’ambasciata, François-Auguste-René de Chateaubriand rimaneva in Italia sette mesi e lasciava di questo soggiorno un Voyage en Italie 23, che non è fra le sue opere migliori, ben lontana da René, al quale si ispireranno tutti i romantici. Totalmente affascinato dai monumenti dell’antichità romana, che visiterà con puntiglio e riempiendosi le tasche di frammenti di porfido, di alabastro, di stucco dipinto, a stento si accorgeva della gente che popolava il paese, quasi costituisse una cornice irrilevante. E comunque i pochi ritratti delle persone che incontra raffigurano un mondo squallido, miserabile, senza speranza. «In questo luogo orribile» scrive descrivendo una sua scalata al Vesuvio «non ho incontrato altra creatura vivente che una povera ragazza magra, gialla, seminuda e piegata sotto un fascio di legna raccolta sulla montagna» 24. Anche l’uomo che incontra nella campagna romana, incolta, con fattorie abbandonate, appartiene a una razza che sembrerebbe subumana:

 

Una specie di selvaggio seminudo, pallido e febbricitante, fa la guardia a queste tristi case come gli spettri delle nostre storie gotiche che difendono l’ingresso dei castelli abbandonati. Si direbbe infine che nessuna nazione ha osato succedere ai dominatori del mondo sulla loro terra natale e che questi campi sono rimasti come li ha lasciati il vomere di Cincinnato o l’ultimo aratro romano 25.

 

Anche per il poeta e scrittore tedesco Heinrich Heine, allievo di Hegel e di formazione illuministica, l’Italia che descrive nei suoi Reisebilder è fatta di miseria, di ignoranza, di superstizione, di oppressione, di incredibili ruberie. Ma è anche degna di pietà: «Il popolo italiano è intimamente malato, e i malati sono sempre più nobili dei sani perché solo l’ammalato è un uomo, le sue membra hanno una storia di sofferenze, sono nobilitate dal dolore» 26. Intendendo, poi, prendere le distanze da tutti quelli che lo hanno preceduto in Italia disseminando il cammino di monotone descrizioni arcadiche e turistiche, Heine taglia corto: «Non c’è nulla di più noioso, a questo mondo, che la lettura di un “Viaggio in Italia”, all’infuori forse dello scriverlo; e l’autore ha un solo modo di renderlo tollerabile: parlar dell’Italia il meno che gli riesce» 27.

Tra i pastori protestanti che visitavano l’Italia, alcuni, come

D.T.K. Drummond, rivelavano una marcata intolleranza nei confronti delle popolazioni cattoliche e delle loro funzioni religiose. Attraversando la val d’Ossola, fra le «nevi brillanti del Monte Rosa», a Drummond accadeva di osservare una chiesetta verso la quale affluivano molti fedeli. Negando a quella chiesa di essere «veramente la casa del Signore e la porta del cielo», il pastore soggiungeva: «Questa non era la torre di Sion, era la cittadella del nemico; qui le anime erano ingannate, qui la menzogna non si fermava mai davanti all’altare di pietra e la verità non entrava, qui lupi vestiti da pastori si arricchivano alle spalle del gregge» 28. Anche se il giudizio di Drummond era particolarmente fazioso, le responsabilità della Chiesa di Roma nella degenerazione italiana erano innegabili. Scriveva, nei primi anni dell’Ottocento, Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi che l’Italia era «la terra dei morti» e aggiungeva: «Si può dire che nella moderna Italia, la religione, anziché servire d’appoggio alla morale, ne ha pervertito i principi» 29.

Ancora sul finire dell’Ottocento, a quarant’anni dall’unificazione dell’Italia, René Bazin, uno dei più acuti osservatori dei costumi e delle vicende del nostro paese, vi riscontrava quasi intatti tutti i mali che erano stati denunciati dai viaggiatori che lo avevano preceduto. Dall’estrema miseria in alcune regioni al flagello della pellagra, da un eccesso delle imposte al tormento dell’usura, da una Calabria dominata da una ventina di baroni oziosi e ingordi alle campagne dove erano ancora in uso gli stessi strumenti che Virgilio aveva descritto. Visitando uno dei peggiori quartieri di Napoli, quello del Porto, Bazin provava insieme due sentimenti, quello della pietà e quello dell’indignazione:

 

Ahimè, quale miseranda riunione di povertà e di sofferenza umana. Quale spettacolo per coloro che sono venuti con l’illusione di una Napoli pazza di gioia, contenta di vivere al sole! […] La notizia della nostra presenza ha già percorso tutto il quartiere e la folla si ingrossa intorno a noi. […] Ci arrampichiamo in un mezzanino, dove cinque bimbi dormono nello stesso letto, mentre la madre si pettina. Io non vedo né un tavolo, né la più piccola traccia di mobilio, salvo una seggiola, una casseruola e un mestolo 30.

 

Questo tremendo spettacolo di desolazione contrastava, osservava Bazin, con lo sforzo del paese per mantenere in armi centinaia di migliaia di soldati e per rafforzare una marina da guerra che si diceva fosse la terza nel mondo.

 

Abbiamo visto come i viaggiatori stranieri che hanno percorso l’Italia, tra la fine del Seicento e quella dell’Ottocento, non abbiano risparmiato critiche agli italiani anche quando, a partire dalla seconda metà del Settecento, era ormai manifesto il risveglio dell’Italia, almeno nell’ambito della cultura. Si pensi, soltanto, all’apparizione di opere come Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria e le Meditazioni sull’economia politica di Pietro Verri, ben note persino oltralpe. Tuttavia, anche se le critiche degli stranieri erano particolarmente severe, soprattutto quando denunciavano l’arretratezza e la passività degli italiani, nondimeno esse rivelavano un certo distacco, naturale in chi, in fondo, non era costretto a spartire i guai e le tribolazioni di un paese straniero.

Di toni ben diversi, invece, appaiono i giudizi espressi da esponenti italiani della cultura e della politica. Il discorso è più diretto, senza eufemismi o perifrasi. Si introducono, in questo discorso, la passione e la collera, la pietà e il disprezzo, l’urlo del carcerato e la maledizione dell’esiliato. Si trattava, generalmente, di esortazioni e di ammonizioni rivolte da membri di minoranze colte a moltitudini distratte o, più semplicemente, attente esclusivamente a procacciarsi ogni giorno quel tanto che bastava per sopravvivere. Non si dimentichi, infatti, che sino alla fine dell’Ottocento la popolazione della Lombardia, oggi tra le più fiorenti del paese, era ancora colpita dalla pellagra, cioè dalla mancanza della vitamina B3, perché si cibava quasi esclusivamente di mais.

Tra i fustigatori più severi e intransigenti dei costumi degli italiani c’era il poeta di Recanati, Giacomo Leopardi, il quale non soltanto ha riempito di osservazioni acute e preziose sull’Italia e i suoi abitanti lo Zibaldone di pensieri, ma ha dedicato all’argomento un libro specifico, il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani. Per Leopardi gli italiani del suo tempo erano crudeli, insensibili, indifferenti, incapaci di veri costumi. «Le classi superiori d’Italia» precisava «sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico dei popolacci» 31. Inoltre, «in fatto di scienza filosofica e cognizione matura e profonda dell’uomo e del mondo» l’Italia era «incomparabilmente inferiore alla Francia, all’Inghilterra, alla Germania» 32. Ma c’era di peggio: la vita degli italiani era «senza prospettive di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, e ristretta al solo presente» 33. L’Italia, infine, non conosceva altre manifestazioni di vita collettiva all’infuori del passeggio, della messa e delle feste sacre e profane.

Ancora più pessimista era Ugo Foscolo, un tempo soldato di Napoleone e in seguito suo avversario quando, con la pace di Campoformio, Bonaparte aveva ceduto Venezia all’Austria. Il suo celebre personaggio, Jacopo Ortis, sempre in fuga prima di darsi la morte, metteva in guardia gli italiani dal fare troppo affidamento sulle armi degli stranieri: «Moltissimi de’ nostri presumono che la libertà si possa comperare a danaro; presumono che le nazioni straniere vengano per amore dell’equità a trucidarsi scambievolmente su’ nostri campi onde liberare l’Italia» 34. Facendo inoltre riferimento alla totale mancanza di concordia fra gli italiani, che rendeva vana ogni lotta per l’indipendenza, Jacopo Ortis esclamava: «Miseri! noi andiamo ogni dì memorando la libertà e la gloria degli avi, le quali quanto più splendono tanto più scoprono la nostra abbietta schiavitù. Mentre invochiamo quelle ombre magnanime, i nostri nemici calpestano i loro sepolcri» 35.

Se per Pietro Giannone i mali dell’Italia risalivano tutti alla perduta disciplina militare, e non vedeva altra scelta, per recuperarla insieme all’onore, che affidarsi ai principi di Savoia (i quali lo avrebbero ripagato facendolo marcire in una cella del castello di Ceva), per Melchiorre Gioia la strada da battere era invece quella della «repubblica indivisibile»:

 

Esaminiamo più da vicino il nostro carattere nazionale e la nostra fisica posizione, e ci persuaderemo sempre più che la repubblica indivisibile può sola essere l’istrumento ed il riparo della nostra libertà. […] Repubblica alla cui voce taceranno le gelosie, s’ammutiranno le dissensioni, e non risponderà che l’eco della pubblica felicità 36.

 

Ma intanto, suggeriva Giuseppe Parini, era necessario sottrarre al clero l’educazione del popolo, perché «i frati non hanno mai insegnato né insegnano la buona eloquenza; anzi non ne insegnano punto, perché non ne hanno essi medesimi convenevole idea» 37. Rincarava la dose Giuseppe Baretti, il quale non poteva sopportare che nella sola Toscana vivessero 5600 frati, 12.000 preti e 8000 monache, tutti a carico della comunità. E soprattutto non sopportava «la straboccata ignoranza de’ frati, destinati dai loro santissimi istituti ad ammaestrare le genti colle parole e cogli scritti egualmente che col buon esempio». E suggeriva l’istituzione di un severissimo esame di Stato per togliere di mezzo «que’ tanti babbioni di frati» 38.

Per il napoletano Gaetano Filangieri il mostro da colpire, da abbattere, da far sparire, era invece il latifondo, la grande proprietà terriera, causa, a suo dire, della grande miseria che mortificava l’Italia del Sud. Nel suo capolavoro, rimasto purtroppo incompiuto, La scienza della legislazione, egli sosteneva, senza mezzi termini: «No, non è fra le mani di costoro che l’agricoltura si perfeziona; non sono questi pochi felici, circondati da uno stuolo immenso di miseri, che compongono la felicità nazionale; non sono i gran proprietari quelli che costituiscono la ricchezza di una nazione» 39. Si badi bene che queste non sono le parole di un Masaniello, ma del cavalier Filangieri, figlio del principe di Arianello. Gentiluomo di camera del re di Napoli Ferdinando IV, Filangieri era persuaso che l’agricoltura fosse la prima sorgente della ricchezza, e quindi andava sviluppata costringendo i latifondisti a far coltivare i loro terreni, moltiplicando i piccoli proprietari, abolendo le primogeniture e i fedecommessi.

Quasi negli stessi anni, a Milano, un altro aristocratico, il marchese Cesare Beccaria Bonesana, mostrava di volersi occupare del mondo dei poveri che in Italia non godeva di alcuna attenzione. Nel suo celebre libro, Dei delitti e delle pene, a uno sventurato che era incorso in un delitto, suggeriva questa difesa:

 

Quali sono queste leggi ch’io debbo rispettare, che lasciano un così grande intervallo tra me e il ricco? […] Chi ha fatte queste leggi? Uomini ricchi e potenti, che non si sono mai degnati visitare le squallide capanne del povero, che non hanno mai diviso un ammuffito pane fralle innocenti grida degli affamati figliuoli e le lagrime della moglie 40.

 

Che speranze c’erano che l’Italia si svegliasse dal suo lungo, interminabile letargo? Per quanto tempo ancora gli italiani sarebbero stati oggetto di critiche feroci, di considerazioni malevoli, di perfide analisi, di insulti? Se anche erano in parte responsabili delle loro sventure, meritavano davvero questo costante linciaggio? Ancora nel 1832, mentre architettava piani per improbabili insurrezioni a Napoli e in Toscana, il giudizio di Giuseppe Mazzini sull’Italia era particolarmente severo:

 

Guasta, divisa, diffidente, ineducata, incerta fra la minaccia delle tirannidi e le lusinghe perfide dei molti che adulandola dell’antica grandezza l’addormentano sicch’essa non ne tenti una nuova; e tutta la forza de’ suoi elementi controbbilanciata, annientata dalla mancanza d’unione e di fede 41.

 

Neppure le grida e le maledizioni che uscivano dalle carceri riuscivano a interrompere il letargo delle moltitudini. E ancor meno le esortazioni ad agire, a ribellarsi, a lottare. Inascoltato, infatti, era l’appello che Carlo Pisacane rivolgeva, il primo ottobre 1855, ai suoi antichi compagni d’arme:

 

Alzate il grido di libertà, spiegate in alto il puro vessillo tricolore, né permettete che assurde formule di sette, o stemmi di municipi o di dinastie, ne restringano l’ampio significato; gridate Italia Italia ed il popolo, dalle Alpi al Lilibeo, vi risponderà con un grido di furente gioia 42.

 

Due anni dopo se ne sarebbe andato, con pochissimi compagni, male armati, mal consigliati, incontro all’appuntamento fatale di Sapri.

Dall’esilio di Parigi, lavorando al suo capolavoro, Del primato civile e morale degli italiani, l’abate Vincenzo Gioberti usava anche l’arma dell’ironia e del dileggio nel tentativo di scuotere gli italiani:

 

Qual è la nazione moderna che per efficacia di opere ed energia di spirito non vinca l’Italia? Dio buono! […] Che cosa di bello e di grande facciamo noi Italiani? Quali sono le nostre prodezze di mano e di senno? Dove sono le nostre flotte, le nostre colonie? Ma che parlo di gloria, di ricchezza e di potenza? L’Italia può ella dire di essere al mondo? 43

 

Lo strale di Gioberti, che di lì a qualche anno sarebbe rientrato a Torino e avrebbe per tre mesi presieduto il Consiglio dei ministri, era particolarmente pungente. Ma consolava il fatto che, nonostante tutto, si era ormai alla vigilia dell’unificazione del paese. Anche se la grande maggioranza degli italiani continuava a disinteressarsi delle sorti dell’Italia, i Savoia e una piccola minoranza combattiva di patrioti stavano per raggiungere l’ambito traguardo. E con l’unità, con l’indipendenza, si aprivano nuovi fronti, il più impegnativo dei quali era fare dell’Italia una nazione, cioè «fare gli italiani», come aveva suggerito il d’Azeglio.

«Si trattava» come precisa Martin Clark «di un impegno formidabile. Nel 1871 l’Italia consisteva di un mosaico di diverse società regionali, con economie e stili di vita lontanissimi, diverse culture, diverse storie e persino diverse pratiche religiose» 44. Il più grosso ostacolo alla costruzione della nazione era costituito dal fatto che la maggior parte degli italiani non sapeva leggere né scrivere e che quasi tutti si esprimevano nei dialetti regionali. L’italiano, in effetti, era una lingua morta, come il latino, usata quasi esclusivamente dalla classe colta. Secondo le stime fornite da Tullio De Mauro, su una popolazione di 27 milioni di italiani, quelli che praticavano la lingua nazionale erano soltanto 620.000 45. Diventava perciò impellente la necessità di costruire ovunque scuole e di approfittare della ferma obbligatoria di tre anni per impartire ai soldati di leva un minimo di istruzione. Ma l’operazione andava a rilento perché l’istruzione elementare sarebbe diventata obbligatoria soltanto a partire dal 1877, e alla stessa data le scuole superiori, statali e religiose, erano frequentate da appena 60.000 alunni, e le università da poche migliaia di studenti.

Il primo schema di ordinamento scolastico porta la firma di Carlo Pisacane ed è un peccato che non sia stato applicato perché è di una sorprendente modernità. Per l’eroe di Sapri, lo Stato doveva prendersi cura del cittadino sin dalla più tenera infanzia e mantenerlo agli studi fino a 18 anni, un traguardo ambizioso neppure raggiunto dall’Italia del XXI secolo. Scriveva Pisacane nel saggio La rivoluzione:

 

Sino all’età dei sette anni, le cure materne sono indispensabili ai fanciulli, sono prescritte dalla Natura; raggiunta questa età lo sviluppo fisico è pienamente assicurato, l’educazione del fanciullo verrà affidata allo Stato. Ogni Comune avrebbe il suo ginnasio ove si troverebbero tutti i mezzi necessari allo sviluppo completo delle facoltà fisiche e morali. […] L’educazione in questi ginnasi durerebbe sino all’età di quindici anni, nel qual tempo ogni alunno apprenderebbe un’arte di suo gradimento. Dai quindici ai sedici tutti sarebbero obbligati di assistere ad un corso di filosofia civile ed origine di tutti i culti, onde ognuno imparasse i diritti di cittadino e potesse garantirsi dalla superstizione. […] Lo Stato gli accorda altri due anni di istruzione nella specialità da esso prescelta, e queste scuole di tecnologia si troverebbero nelle principali città d’Italia. A diciotto anni la tutela della nazione cessa 46.

 

Entrava invece in vigore, il 15 novembre 1859, la legge Casati, prima nel Regno di Sardegna, poi estesa al Regno d’Italia. Molto criticata per il suo ordinamento rigidamente accentratore, restò tuttavia in vigore, nonostante alcuni “aggiustamenti”, per qualche decennio, sino alla legge Gentile del 1923. Fra gli aggiustamenti va ricordata la legge Coppino del 15 luglio 1877, che sanciva la frequenza obbligatoria alle elementari sino a 9 anni, e l’ammenda per i genitori inadempienti; e la legge Daneo-Credaro del 1911, che avocava le scuole elementari allo Stato risolvendo così il problema dei molti comuni che non si potevano permettere le spese per l’istruzione.

L’unificazione di tutti i sistemi scolastici della penisola dava un notevole impulso allo sviluppo dell’editoria. Le 600 tipografie del 1859 diventavano 911 nel 1873, mentre gli insegnanti avevano già a disposizione, nel 1871, oltre 2000 testi scolastici. In testa alla graduatoria nella produzione di sillabari, libri di lettura, antologie, sussidiari, testi di storia e geografia, libri per la scuola classica, tecnica e normale, c’erano editori come Paravia, Bemporad, Sandron, Vallardi, Sansoni, Zanichelli. L’esigenza di promuovere l’educazione nazionale favoriva la valorizzazione di alcune discipline, quali la storia, la geografia, la lingua italiana. Come ha evidenziato Paolo Bianchini,

 

il ruolo attribuito alla formazione del sentimento nazionale è all’origine anche della scelta di inserire nei libri di lettura racconti, canti e poesie volti a celebrare l’amor di patria attraverso l’esaltazione del genio italiano nelle scienze, nelle lettere e nelle arti. […] Altrettanto significativa è la rievocazione di episodi della storia nazionale attraverso le gesta di esponenti di Casa Savoia, di uomini e donne di estrazione popolare, di intere città impegnate nella lotta contro la dominazione straniera 47.

 

Predominavano, nell’impianto ideologico-pedagogico delle antologie, i valori ispirati a Dio, alla patria e alla famiglia, ma non mancavano riferimenti anche ai valori civili, laici e militari. Si veda, per esempio, Fior da fiore. Prose e poesie scelte per la scuola italiana di Giovanni Pascoli, un’antologia giunta nel 1929 alla sua ottava edizione. Compilata per migliorare i giovinetti, per infondere in essi l’amor di patria, per farne degli italiani consapevoli e orgogliosi, non poteva cominciare se non con un elogio di Dante, «il non più in là» dell’ingegno umano, «il primo e sommo autore di nostra lingua» 48. E non poteva ignorare la lettera scritta al figlio, dall’ergastolo di Santo Stefano, del patriota napoletano Luigi Settembrini:

 

Non dimenticare di essere Italiano; sappi che questo è un nome sacro, nome di un popolo immeritamente sventurato e calunniato. Sostieni l’onore della tua patria con la santità della vita, con la purezza dei costumi, con la sapienza della parola, con la dolcezza dei modi, con la fermezza del volere. […] Fa’ che ognuno, vedendo le tue azioni dica: Questo è sangue latino vero. Ama questa patria, anche con amore forte 49.

 

E poteva forse mancare, nell’antologia pascoliana, il ritratto di Garibaldi, tracciato dall’amico, dal biografo, dal fervente ammiratore Giuseppe Guerzoni? E non poteva non concludersi questo Fior da fiore, letto da generazioni di italiani, se non con le parole di Pasquale Villari: «Vi fu un giorno, fu anzi un secolo intero, in cui noi eravamo il paese più colto del mondo. L’Europa pendeva estatica dalle labbra dei nostri professori» 50.

Ma era soprattutto sulla storia nazionale, abbondantemente presentata nelle antologie della letteratura italiana, che i governi postunitari e, di riflesso, autori e editori, puntavano per dotare le nuove generazioni di valori e di sublimi modelli. Osservava Lorenzo Cantatore:

 

La storia era consultata e saccheggiata quale immenso repertorio di ideali, come si trattasse di un catalogo di immagini da riutilizzare quali supporti giustificativi di nuovi miti collettivi.

Così il paese, setacciando il «magazzino della tradizione», andava allestendo il suo museo-antologia attraverso il quale educare le nuove generazioni al culto di modelli comportamentali, estetici, linguistici, etici, religiosi, morali, autorizzati e prescritti da un passato pervicacemente attualizzato 51.

 

Lo stesso sforzo veniva compiuto nel pubblicare i manuali di storia. I titoli di alcuni già illustrano il contenuto, come, per esempio, Storia d’Italia ne’ suoi patimenti e nelle sue glorie raccontata ad uso del popolo e delle scuole 52Dell’amor patrio. Dialoghi per fanciulli, ad uso delle scuole e delle famiglie 53I doveri morali e civili. Insegnati ai giovinetti per via di precetti ed esempi 54. E ancora: I redentori d’Italia, ossia la storia patria contemporanea narrata per brevi cenni ai giovinetti 55.

Ma andavano educati anche gli adulti, con opere di grande respiro come i Doveri dell’uomo di Giuseppe Mazzini, la Storia della letteratura di Francesco De Sanctis o La città considerata come principio ideale delle istorie italiane di Carlo Cattaneo. Ma anche con operette più alla mano, come gli Esempi della virtù italiana 56, una raccolta di centocinque episodi storici, dal perdono di Berengario a Flamberto alla morte di Pasquale Paoli: mille anni di glorie italiane che gli autori del libro affidavano alla meditazione dei lettori. Michele Lessona, dal canto suo, ispirandosi al fortunato volume dello scrittore scozzese Samuel Smiles, Self-Help, dava alle stampe un libro dal titolo Volere è potere, con il quale additava agli italiani una nutrita galleria di concittadini, nati poveri, che avevano raggiunto la fama soltanto perché erano stati educati «a volere tenacemente». Tra i personaggi indicati spiccavano Gioacchino Rossini, Pietro Thouar, Giovanni Dupré, Giulio Richard, Niccolò Paganini, Giuseppe Pomba, Pietro Sella. Il libro si conclude con un’esortazione rivolta soprattutto ai giovani: «Imparino a volere, imparino a disprezzare le mollezze, le cose frivole, le vanità; imparino a volgere disdegnosamente le spalle ai loro adulatori, più schifosi e vili degli adulatori dei re» 57.

Più impegnativo il compito che si prefiggeva Augusto Alfani con il suo Il carattere degl’italiani, ben 278 fitte pagine di considerazioni sulla natura degli italiani e di consigli per ben operare nella famiglia, nella scuola, nella società. Scriveva, per esempio:

 

È necessaria, alla educazione di un forte carattere nazionale, una letteratura forte, dignitosa ed onesta. Libri cattivi fanno uomini corrotti, ed uomini corrotti fanno nazione perversa. «I palazzi» scrive il Joubert «si misurano dall’est all’ovest, o dal nord al sud; ma i libri si misurano dalla terra al cielo» 58.

 

Non accogliendo il suggerimento di Lessona, di diffidare degli adulatori, Ernesto Montagnari affastellava una tale quantità di informazioni storiche, giuridiche, letterarie da poter affermare nel titolo del suo libro I più grandi siamo noi. Con un sottotitolo: Per rivendicazione dell’italica superiorità. Sosteneva, per esempio:

 

Il nostro diritto sta nella nostra storia. Sta nella nostra grandezza. Sta nel nostro primato civile, morale, intellettuale. Via lo sguardo dai nostri difetti, che sono minori dei difetti altrui. Fisso lo sguardo sulle qualità nostre. Noi pesiamo più degli altri. Alta la fronte, noi che tutto insegnammo al mondo moderno; noi che fummo i precursori, gli alfieri, i martiri di ogni idea, di ogni progresso civile, sociale, politico; per cui dopo Roma e dopo i Comuni nulla vi fu, nulla vi è di nuovo sotto il sole 59.

 

L’assunto era allettante, più difficile dimostrarlo. E infatti, nelle cinquecento pagine del libro, c’erano più chiacchiere che fatti, più enunciazioni deliranti che verità. Non era soltanto il Lessona a mettere in guardia dagli adulatori. Già Cesare Balbo, nei Pensieri sulla storia d’Italia, ammoniva: «Non può essere utile mai niuna esagerazione, niuna falsità; dannosi anzi i pregiudizi, e dannosissimo quello d’esagerare la propria importanza» 60.

Tra gli strumenti forniti agli italiani per migliorarsi, per aumentare la propria cultura, per risolvere tanti problemi pratici, l’editore libraio Ulrico Hoepli aveva creato la «Biblioteca Hoepliana delle Famiglie», nella quale faceva spicco Come devo comportarmi? di Anna Vertua Gentile. Come precisava l’editore:

 

Questo libro non è dunque un semplice galateo come gli antichi del Castiglioni, del Della Casa, dell’Alberti e del Gioia, e neppure come parecchi moderni; non è neppure un formulario. Che cosa sia lo dice il titolo. È una specie di guida pratica e morale suggerita dall’esperienza e compilata con sicura coscienza e schietto desiderio di utilità 61.

 

Il libro, oggi, può certo far sorridere. Per esempio quando precisa che «la signorina non andrà mai sola ad uno stabilimento di bagni. La signorina indosserà un costume più decente che può, con il collo montante, le braccia e le gambe abbastanza coperte» 62. Ma in altre parti affronta situazioni tristi, che ancora oggi ci toccano. Ecco che cosa consigliava Anna Vertua Gentile alle mogli dei soldati che tornavano dal carnaio della prima guerra mondiale:

 

È certamente difficile e grave il compito della moglie di un prode che torna dalla guerra rovinato nella salute, mutilato o, peggio, cieco! Guai se essa non ama il disgraziato compagno di un amore intenso, esclusivo, resistente a tutto! Guai se alla commiserazione […] succede a poco a poco l’indifferenza, quindi la stanchezza 63.

 

Vanno infine ricordati i moltissimi scrittori (impossibile citarli tutti) che hanno concorso, o che hanno creduto in buona fede di concorrere, con le loro opere, alla formazione degli italiani. Ne sceglieremo uno, Edmondo De Amicis, non perché primeggi sugli altri o perché il suo messaggio abbia un particolare spessore, ma per la straordinaria fortuna dei suoi libri, in modo speciale quelli che, nel pensiero dell’autore, avrebbero dovuto avere un preciso intento educativo. Certo la rivisitazione di alcuni personaggi deamicisiani, soprattutto quelli di Cuore, possono anche muovere al riso, più dei consigli di Anna Vertua Gentile. E suscitare anche l’indignazione di Umberto Eco, il quale, nel 1973, scriveva: «Dieci anni fa avevo scritto un Elogio di Franti, in cui Cuore veniva individuato come turpe esempio di pedagogia piccolo borghese, classista, paternalistica e sadicamente umbertina» 64.

È indubbio che, a una rilettura, le pagine di De Amicis appaiono in gran parte terribilmente datate, spesso enfatiche, querule, o addirittura fastidiose. E non soltanto quelle di Cuore. I sentimenti più contraffatti, esasperati, inattendibili, si trovano infatti nei bozzetti di La vita militare, il suo primo libro, uscito da Treves nel 1868 e che gli diede subito la fama. Ufficiale uscito dall’Accademia di Modena, combattente a Custoza, De Amicis componeva i suoi bozzetti con l’evidente intenzione di convogliare verso l’esercito e i suoi ufficiali la simpatia e il rispetto degli italiani. Per raggiungere questo scopo – del resto nobilissimo perché esercito significa patria – lo scrittore genovese non badava ai mezzi, anche se i suoi personaggi, i suoi ufficiali, i suoi coscritti, i suoi mutilati, le sue madri, risulteranno del tutto finti, immaginari. Si veda il capitolo intitolato «La madre». Un donna, che non fa visita al figlio soldato da quattro anni, va a incontrarlo in caserma. L’ufficiale di picchetto, che è poi De Amicis, sorveglia da lontano l’incontro fra i due e pensa:

 

Quel soldato là, condotto sul campo, si farà ammazzare senza paura e morirà col nome di sua madre sul labbro. Insegnategli che cosa è patria, fategli capire che la patria son centomila madri e centomila famiglie come la sua, ed egli amerà la patria con entusiasmo 65.

 

Ecco, invece, come De Amicis dipingeva il coscritto:

 

Eppure anche quella vita tutta stenti e pericoli, i bravi soldati la fanno di buon animo, e non si lamentano mai, e quando possono dormire, bene; quando non possono, pazienza; quando c’è il pane, viva il pane; quando non ce n’è, si digiuna, e alla buon’ora, e non si fa del cattivo sangue per questo. E sai perché? Perché si vive fra amici, fra bravi camerati, e si sa di fare il proprio dovere 66.

 

Si veda, ora, quale compenso ottiene un soldato che a Custoza ha perso una gamba. Rientrato al suo villaggio, disperato, non sa adattarsi alla nuova tremenda condizione di mutilato. Ma un giorno – è lui stesso che narra – rievocando per gli amici e i genitori le cure ricevute in ospedale si riscopre felice, appagato. Ecco parte della sua narrazione:

 

E un giorno venne un generale vecchio vecchio, col petto tutto coperto di medaglie, e tanti ufficiali dietro, e si avvicinò al mio letto col berretto in mano e anche tutti gli altri avevano il capo scoperto, ed egli, il generale, mi domandò come stavo e dov’ero stato ferito e in che modo, e quando gli ebbi raccontato tutto, mi pare ancora di vederlo, alzò gli occhi al cielo, poi strinse le labbra con un sospiro, e disse: «Fatti coraggio, figliuolo». E poi mi strinse la mano, capisci, lui che era un generale 67.

 

Si potrebbe continuare per pagine e pagine, e il clima è sempre lo stesso, patetico, forzato, inverosimile. Peccato che la realtà, in quegli anni di difficile costruzione della nazione e di guerre nazionali e coloniali, fosse molto diversa. Come testimonia, per esempio, questa canzone, cantata in valle Antrona, che documenta senza fronzoli e lacrime ipocrite un episodio assai frequente:

 

Sono tornato,

la guerra l’è finita,

non vedo alla finestra

l’innamorata mia.

Passa e ripassa

la finestrella è chiusa,

aspetto e non s’affaccia

l’innamorata mia.

Vado alla chiesa

vado dal sacrestano

per chiedere dov’è andata

l’innamorata mia.

Vai giù nel fondo,

vicino a quel cipresso:

là giace nella fossa

l’innamorata tua 68 .

 

Fare una nazione, fare gli italiani. L’impresa appariva a molti più difficile del previsto. Per cominciare mancava la concordia tra gli stessi artefici dell’unità. Conclusa la stagione esaltante dei moti e delle conquiste, riaffioravano le divisioni e sempre di più si avvertivano le recriminazioni delle forze democratiche di ispirazione repubblicana che mal sopportavano che il Risorgimento si fosse concluso con una conquista regia e con un governo di moderati. Ma avanzavano dubbi sulla possibilità di una effettiva unificazione anche uomini, come Massimo d’Azeglio, che avevano condotto l’intera loro battaglia sotto le insegne dei Savoia. Nell’introduzione a I miei ricordi 69, scritta nel 1865, così si esprimeva:

 

L’Italia da circa mezzo secolo s’agita, si travaglia per divenire un sol popolo e farsi nazione. Ha riacquistato il suo territorio in gran parte. La lotta collo straniero è portata a buon porto, ma non è questa la difficoltà maggiore. La maggiore, la vera, quella che mantiene tutto incerto, tutto in forse, è la lotta interna. I più pericolosi nemici d’Italia non sono gli Austriaci, sono gl’Italiani. E perché? Per la ragione che gl’Italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico il loro retaggio […]. Il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pur troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani 70.

 

L’Italia era fatta, ma era priva di una coscienza unitaria collettiva senza la quale non si sarebbe mai formata una moderna identità nazionale. Lamentando l’assenza nel paese di una religione civile, Francesco De Sanctis scriveva nel 1869:

 

La razza italiana non è ancora sanata da questa fiacchezza morale, e non è ancora scomparso dalla sua fronte quel marchio che ci ha impresso la storia di doppiezza e di simulazione. L’uomo del Guicciardini «vivit, imo in Senatum venit», e lo incontri ad ogni passo. E quest’uomo fatale c’impedisce la via, se non abbiamo la forza di ucciderlo nella nostra coscienza 71.

 

Ma non era soltanto il civismo e la coscienza morale che difettavano agli italiani. Mancava loro persino l’interesse per le istituzioni dello Stato che stavano nascendo. Nel suo discorso alla Camera del 17 maggio 1873 Sidney Sonnino affrontava il problema con particolare vigore:

 

La grandissima maggioranza della popolazione, più del 90 per cento […], si sente estranea affatto alle nostre istituzioni; si vede soggetta allo Stato e costretta a servirlo con il sangue e con i denari; ma non si sente di costruirne una parte viva ed organica e non prende interesse alcuno alla sua esistenza ed al suo svolgimento 72.

 

Leone Carpi, che nel 1878 tracciava un primo bilancio dell’unificazione, con il libro L’Italia vivente73, offriva un quadro tutto sommato sconfortante. I ricchi vivevano nell’ozio e preferivano tenere i loro capitali nelle banche piuttosto che investirli nell’industria agricola. I poveri abbandonavano le campagne per diventare più poveri accorrendo nelle città. Qualche anno dopo, scrivendo a Bertrando Spaventa, il filosofo hegeliano Angelo Camillo De Meis esprimeva tutto il suo sconcerto:

 

Ora tutte quelle nostre antiche speranze, per audaci che fossero, sono tutte oltrepassate. Chi poteva credere che avremmo veduto noi l’Italia fatta, e risolute le questioni più insolubili che abbiano mai pesato sopra una nazione da che è cominciata la storia umana? Io lo capisco, ma non me ne commovo più come prima. Certamente non è quell’Italia; ma una piuttosto insignificante al paragone di quella, come l’avevamo veduta cominciare. Ora non sono più gli eroi, non sono nemmeno gli epigoni, sono i farabutti! 74

 

Dal canto suo Giosue Carducci lamentava la scomparsa dei grandi ideali e l’affermarsi, invece, di uno «scetticismo volgare». Scriveva nel 1886: «L’Italia non ha più fermezza all’interno, così come non ha più forza all’estero; come dentro è corrotta, così appare abbietta al di fuori […]. È successa all’epopea dell’infinitamente grande la farsa dell’infinitamente piccolo» 75.

Tutto andava a rilento, fra mille difficoltà. La costruzione dello Stato unitario implicava, per cominciare, l’unificazione amministrativa e legislativa, con le quali si sopprimevano in maniera definitiva i residui degli ordinamenti degli Stati preunitari. C’era, poi, il problema dell’unificazione degli ordinamenti scolastici, del quale abbiamo già parlato, e quello, molto più gravoso, dell’assorbimento nell’esercito nazionale delle forze armate preunitarie, a cominciare da quelle borboniche, che erano state battute sul campo nel 1860 e che conservavano rancori e umiliazioni difficili da sopire. Per finire c’erano lo scioglimento dei reparti garibaldini e il loro parziale recupero.

I governi della Destra, così come quelli della Sinistra, dedicavano una speciale attenzione al rafforzamento delle forze armate, non soltanto perché, con la scuola, esse costituivano un valido strumento per l’unificazione del paese, ma perché era necessario, per il prestigio della giovane nazione, conservare il ruolo di «sesta grande potenza», il che implicava (fra 1862 e 1912) lo stanziamento per l’esercito e la marina di ben 18.250 milioni di lire, il 23,7 per cento di tutte le spese dello Stato.

E tuttavia, nonostante questo grande dispiego di mezzi, l’impegno deamicisiano per fare dell’esercito una fucina di eroi e il costante fervore di Carducci nel ricordare che «l’Italia non si difende che offendendo» 76, i risultati erano tutt’altro che esaltanti. Si passava da una sconfitta all’altra. Da Custoza a Lissa. Da Dogali a Adua. Nel 1915, in Libia, la grande rivolta araba costringeva gli italiani ad abbandonare quasi tutta la colonia, con perdite superiori a quelle di Adua. Neppure il grande «crogiuolo unificatore» della prima guerra mondiale riusciva a compiere il miracolo. L’Italia usciva sì vittoriosa dal conflitto, ma al prezzo di 650.000 morti, moltissimi dei quali non sapevano neppure per che cosa si erano battuti. E comunque vinceva l’Italia del capitale, non quella delle classi subalterne, che avevano sopportato il maggior peso della guerra.

C’era però stata anche un’Italia, minoritaria, che aveva voluto la guerra, e anzi l’aveva invocata, convinta che essa avrebbe avuto una funzione purificatrice e santificatrice. Su questa minoranza, costituita da nazionalisti, futuristi, legionari di D’Annunzio, «arditi» della Grande guerra, poneva gli occhi Benito Mussolini nell’immediato dopoguerra. Com’egli sia riuscito, in meno di quattro anni, a impadronirsi del potere, rivela quanto fosse fragile l’impalcatura dello Stato, quanto aleatoria la democrazia e incerta l’ideologia dei partiti. E tuttavia, a Parma, gli Arditi del popolo si erano battuti bene e avevano respinto le squadracce di Balbo. Ma Mussolini non apprezzava più questi uomini con i quali, tuttavia, aveva condiviso sino al 1914 gli ideali socialisti. Egli pensava a un italiano nuovo. Totalmente rigenerato nelle trincee e nel fuoco della Grande guerra. Nello stilare, il 3 ottobre 1922, pochi giorni prima della marcia su Roma, il regolamento della milizia fascista, così si esprimeva:

 

Il Milite fascista deve servire l’Italia in purità con lo spirito pervaso da un profondo misticismo, sorretto da una fede incrollabile, dominato da una volontà inflessibile, sprezzante della opportunità e della prudenza, come della viltà, deciso al sacrificio come al fine della sua fede, convinto del peso di un terribile apostolato per salvare la grande madre comune e donarle forza e purità 77.

 

Ma questo «credo» non doveva essere riservato soltanto alla milizia del partito. Doveva diventare il «credo» di tutti gli italiani, senza distinzione di classe e di età. Come ha scritto Emilio Gentile, uno dei più acuti studiosi del fenomeno fascista, il movimento politico fondato da Mussolini

 

ebbe l’ambizione di infondere nelle coscienze di milioni di italiani e italiane la fede dei dogmi di una nuova religione laica che sacralizzava lo Stato assegnandogli una primaria funzione pedagogica con lo scopo di trasformare la mentalità, il carattere e il costume degli italiani per generare un «uomo nuovo», credente e praticante nel culto del fascismo 78.

 

Se l’Italia liberale si era limitata ai due pilastri della scuola e dell’esercito nel tentativo, scarsamente riuscito, di fare degli italiani dei buoni cittadini e dei buoni soldati, Mussolini andava oltre investendo tutte le istituzioni e tutte le risorse del paese in questa radicale trasformazione dei valori e del costume.

Mussolini, come è noto, non teneva in grande considerazione la massa. Nella celebre intervista concessa nel 1932 a Emil Ludwig non esitava a sostenere: «La massa per me non è altro che un gregge di pecore, finché non è organizzata. Non sono affatto contro di essa. Soltanto nego che essa possa governarsi da sé. Ma se la si conduce, bisogna reggerla con due redini: entusiasmo e interesse» 79. Nessuna stima, dunque, per la massa informe. Ma Mussolini era certo di poterla domare, trasformare, rigenerare. Del resto, disponeva di tutti i mezzi di comunicazione, delle informazioni di tutte le polizie. Poteva inoltre contare sulle migliori intelligenze del paese, facilmente asservibili e pronte a elaborare miti, a inventare slogan, a fare da grancassa ai riti e alle parole d’ordine del partito.

Si pensi, soltanto, alla manipolazione dei giovani, all’interno della scuola, al sabato fascista, durante le gite, i campeggi, gli esercizi ginnici, e persino dentro le case con i programmi dell’EIAR. Al sabato fascista, istituito nel 1935, alla vigilia della guerra all’Etiopia, partecipavano quasi 8 milioni tra bimbi e giovani, dai 6 ai 28 anni. Nel pomeriggio del sabato, e spesso anche durante la mattinata della domenica, il regime si appropriava della vita di questi ragazzi e li sottoponeva a una massiccia dose di esercitazioni militari e sportive, generalmente presso le caserme della Gioventù italiana del littorio, esaltate dalla retorica fascista, come osserva Luca La Rovere, quali «i veri templi della nostra razza» 80.

Per Mussolini l’«italiano nuovo» significava soprattutto un soldato nuovo, più tenace, più aggressivo, persino più crudele, che si inserisse degnamente nel mito della romanità e che facesse dimenticare le mediocri o pessime prestazioni di cui aveva dato prova negli anni dell’Italietta. Nel corso della prima prova militare del fascismo, l’aggressione all’Etiopia, l’esercito, in forte misura composto da volontari, otteneva un indubbio successo di prestigio. Con poche migliaia di morti, sui 330.000 soldati impiegati nelle operazioni, le armate di Badoglio e di Graziani demolivano un impero millenario e un esercito di tutto rispetto in appena sette mesi. Va però precisato che Mussolini aveva personalmente provveduto ad assicurare alle forze armate italiane una netta superiorità, per evitare che si ripetesse il disastro di Adua.

Anche l’intervento italiano nella guerra di Spagna era cominciato sotto i migliori auspici. Esso metteva in evidenza, nei primi mesi, le buone qualità del corpo di spedizione al comando del generale Roatta e soprattutto le eccellenti prestazioni dell’aviazione fascista. Dunque il regime, con la sua mobilitazione totale, era riuscito a compiere il miracolo di trasformare mediocri combattenti in spietati strumenti di guerra. Ma il compiacimento del duce non doveva durare a lungo. L’8 marzo 1937 le quattro divisioni italiane, circa

40.000 uomini, dotati di migliaia di autocarri, 230 cannoni, 250 carri armati e lanciafiamme, partivano all’attacco con l’obiettivo di conquistare Guadalajara e poi di proseguire per Alcalà de Henares e Madrid. Ma venivano subito fermate dal battaglione Garibaldi, formato da antifascisti italiani, e dalla divisione Lister. In violentissimi scontri, durati oltre una settimana, i repubblicani respingevano e mettevano in rotta i fascisti causando loro 1400 morti e 4500 feriti, oltre ad aver catturato 400 prigionieri 81. Per Mussolini, la netta sconfitta di Roatta costituiva un colpo durissimo. Non soltanto i suoi «nuovi italiani», forgiati dal regime, erano stati clamorosamente battuti, ma lo erano stati da altri italiani, che non avevano frequentato il sabato fascista.

Comunque si sarebbe preso una rivincita. Il 15 marzo 1938, senza neppure interpellare il generalissimo Franco, ordinava al generale Valle di compiere un bombardamento terroristico su Barcellona, che causava centinaia di morti e migliaia di feriti. Poiché Ciano gli aveva riferito il disappunto dell’ambasciatore inglese a Roma, Lord Perth, Mussolini replicava sostenendo che i bombardamenti erano «ottimi per piegare il morale dei rossi, mentre le truppe avanzavano in Aragona». Dichiarava inoltre di essere particolarmente «lieto del fatto che gli italiani riescano a destare orrore per la loro aggressività anziché compiacimento come mandolinisti» 82.

Due anni dopo Mussolini entrava in guerra al fianco di Hitler con un esercito del tutto immotivato e con armamenti che risalivano alla prima guerra mondiale. Mussolini era perfettamente al corrente di ciò, ma oramai aveva deciso di partecipare al conflitto e a Ciano confidava: «Per fare grande un popolo bisogna portarlo al combattimento magari a calci in culo. Così farò io» 83. La mancanza di un piano nazionale di riarmo e la decisione del duce di compiere una sorta di «guerra parallela» a quella di Hitler, con demenziali colpi di testa come l’aggressione alla Grecia, non potevano che provocare un disastro dopo l’altro.

Alle notizie dei tracolli in Albania e in Libia Mussolini, visibilmente depresso, il 24 dicembre 1940 rivelava a Ciano che era molto irritato «per il mediocre comportamento della truppa» e soggiungeva: «Devo pure riconoscere che gli italiani del 1914 erano migliori di questi di oggi. Non è un bel risultato per il Regime, ma è così» 84. L’indomani, osservando dalla finestra di Palazzo Venezia l’abbondante nevicata, ancora confidava al genero: «Questa neve e questo freddo vanno benissimo, così muoiono le mezze cartucce e si migliora questa mediocre razza italiana» 85.

Quando, a causa del razionamento del pane, si assisteva nel marzo 1942, in qualche città d’Italia, a manifestazioni di protesta, le prime contro il regime, Mussolini non trovava altro commento da fare che quello di insultare la propria gente: «Questa guerra non è fatta per il popolo italiano. Non ha la maturità né la consistenza per una prova così formidabile e decisiva. Guerra per tedeschi e giapponesi, non per noi» 86.

Con queste parole, dunque, riconosceva il totale fallimento della propria dottrina. Non erano bastati vent’anni di culto degli eroi e dei martiri, di esaltazione della sacralità della nazione, di glorificazione del tricolore e del fascio littorio, di devozione per la romanità, di mobilitazioni collettive per i riti del regime, di sport di massa, di adunate oceaniche. Tutto era stato inutile. Lo stesso suo carisma, sul quale aveva fatto tanto assegnamento, si era rivelato una bolla di sapone, che era goffamente esplosa nella notte del 25 luglio 1943 durante l’ultimo e più drammatico Consiglio del fascismo. Eppure, sino a pochi mesi prima, era ancora rappresentato, come ricorda Emilio Gentile,

 

come la somma e la sintesi superiore d’ogni tipo di grandezza d’uomo di pensiero e d’uomo d’azione mai apparsi in qualsiasi epoca: statista, legislatore, filosofo, scrittore, artista, genio universale ma anche profeta, messia, apostolo, maestro infallibile, inviato da Dio, eletto dal destino e portatore di destino, annunciato dai profeti del Risorgimento 87.

 

Il giudizio di Mussolini sugli italiani, dunque, era severissimo, senza appello. Alla vigilia della guerra, perfettamente informato sullo spirito pacifista della propria gente, dichiarava: «La razza italiana è una razza di pecore, non bastano diciotto anni per trasformarla, ce ne vogliono 180 o forse 180 secoli» 88.

Alla fine della nostra maratona attraverso tre secoli di storia italiana, ci sembra giusto rilevare che Mussolini non aveva alcun diritto e alcuna valida prova per emettere sentenze così drastiche. Per limitarci all’accusa di incapacità militare, possiamo dire che gli italiani si sono comportati da eroi o da vili a seconda delle circostanze. Giustamente fa osservare Fabrizio Battistelli che «più che dall’innata incapacità militare degli italiani, gli insuccessi bellici appaiono determinati dall’inettitudine delle classi dirigenti […]; è spesso accaduto che politici irresponsabili e vertici militari opportunisti abbiano trascinato il paese e le forze armate in imprese destituite di ragione» 89. Quando le circostanze sono state favorevoli, gli italiani si sono battuti con lo stesso accanimento e determinazione dei popoli per tradizione bellicosi. Basti ricordare Curtatone e Montanara, i garibaldini a Bezzecca, alcuni episodi delle dodici battaglie dell’Isonzo, Lero e Cefalonia, i combattimenti in difesa delle repubbliche partigiane dell’Ossola, della Carnia, di Montefiorino.

Per gli altri giudizi sugli italiani, espressi da stranieri e da italiani, che abbiamo raccolto, alcuni ci sembrano pertinenti, tanto da mantenere ancor oggi la loro validità, altri riportano soltanto luoghi comuni, duri a morire. È indubbio che la presa di coscienza nazionale e il processo di unificazione sono stati lenti e difficili, tra scorrerie di eserciti stranieri e dominazioni intollerabili. È anche vero che gli sforzi per «fare gli italiani», per creare un’omogenea identità nazionale, hanno dato risultati piuttosto modesti. Non sono bastate le invettive e le chiamate di Carducci, le storie esemplari di solidarietà fraterna e di abnegazione eroica inventate da De Amicis, il tentativo di Giolitti di nazionalizzare le masse nel quadro del metodo e delle istituzioni liberali, le due guerre mondiali che hanno mobilitato milioni di italiani, i riti e i miti del fascismo. Ancora oggi, a centoquarantacinque anni dall’unità del paese, questa è messa in pericolo da manovre secessioniste e da grottesche invenzioni come la Padania. Ancora oggi ci sembra di attualità il giudizio espresso nel 1894 da un piemontese a Bazin: «Noi siamo un paese troppo lungo, signore. Giammai la testa e la coda si toccheranno. E se li si forza, la testa morderà la coda» 90.

Il tutto è complicato, nel nostro paese, da quello che Pierluigi Battista definisce «un mito autoconsolatorio», cioè

 

un’immagine di sé che gli italiani del dopoguerra democratico, vaccinati dalla boria nazionalistica somministrata in overdose dal passato regime, hanno amato divulgare di sé nella politica e nel cinema, nella moda, nella cucina, nei modelli di comportamento. Italiani «brava gente», dicevano. Uno scudo di bonarietà, di giovialità, di naturale inclinazione alla mitezza e alla socialità cordiale e informale che avrebbe dovuto metterci al riparo dall’ostilità efferata, un confortevole cuscinetto capace di attutire l’urto drammatico della storia e della crudeltà 91.

 

Il giudizio di Battista è acuto, definisce perfettamente il mito dell’italiano buono. Ma va corretto e ampliato. In realtà questo mito non si afferma nel secondo dopoguerra, ma già negli ultimi decenni dell’Ottocento. E non viene cancellato, come sostiene Battista, dall’uccisione in Iraq di Enzo Baldoni. Esso continua a vivere e rischia di entrare nel DNA della nostra gente.

Per l’esattezza, il mito comincia a imporsi con la politica coloniale inaugurata da Pasquale Stanislao Mancini. L’Italia giungeva ultima in Africa, a spartizione già avvenuta. Ma, come ebbe a precisare Mancini il 16 giugno 1885, essa «non poteva continuare a rimanere spettatrice inerte di fronte alla battaglia tra la civiltà e la barbarie» 92. Sin dall’inizio, disponendo di pochi mezzi e di scarse idee, l’Italia cercava di imporsi esibendo il proprio splendido passato di portatrice di civiltà e sottolineando in tutte le occasioni la sua diversità. In altre parole, si voleva subito stabilire che gli italiani erano differenti dagli altri colonizzatori, più umani, più tolleranti, più generosi. Anche se il generale Baldissera aveva usato i metodi forti per impadronirsi di Asmara, tanto che Filippo Turati lo accusava di aver dato l’avvio al «periodo del terrore in Africa» e lo definiva «quel cane di Baldissera», nondimeno cominciava ad affermarsi nella colonia la locuzione di «italiano buono», tradotta nel linguaggio locale in «bono italiano».

In uno dei suoi racconti, Lo schiavo della Somalia, Emilio Salgari immagina che un «moretto», sottratto ai pirati da un gruppo di marinai italiani, si sdebiti con essi indicando loro la via di Assab e della salvezza: «Io amare taliani... sì, andare con taliani miei benefattori. […] Taliani essere buoni...» 93. In pochi anni, dunque, la locuzione era già entrata nella narrativa popolare. Non c’erano più dubbi: chi governava l’Eritrea e la Somalia era «brava gente».

Anche quando, a metà degli anni Trenta dello scorso secolo, l’Eritrea fu invasa da centinaia di migliaia di italiani, soldati e operai, per preparare l’invasione dell’Etiopia, l’imperativo era quello di accreditare la favola che non era in atto una campagna coloniale di tipo imperialista, ma una generosa impresa del fascismo che mandava «un intero esercito di lavoratori, a lavorare concretamente al fianco degli indigeni, per il comune benessere» 94. «Italiani brava gente», dunque, anche quando dai piroscafi ancorati nel porto di Massaua sbarcavano carri armati, cannoni, aerei da caccia e da bombardamento, lanciafiamme e centinaia di tonnellate di iprite e di arsine. Era tanto consolidato il convincimento della radicale «diversità» degli italiani, che anche durante gli anni Cinquanta e Sessanta, quando l’Eritrea non era più sotto la sovranità dell’Italia, il «bono italiano» godeva ancora di un grande credito e di un’ampia circolazione, come ricorda perfettamente la scrittrice Erminia Dell’Oro, nata e cresciuta ad Asmara 95.

Il mito degli «italiani brava gente» è, come abbiamo già detto, una leggenda intramontabile. Per fare un esempio, l’Italia ha inviato in Iraq nel 2003 un corpo di spedizione denominato Antica Babilonia, modestamente armato e con una scarsa conoscenza della situazione. Ma i promotori dell’impresa facevano assegnamento sul fatto che tanto gli alleati quanto gli avversari avrebbero riconosciuto al soldato italiano lo status privilegiato del «buono italiano». E quando, invece, i guerriglieri di Abu Omar al-Kurdi mettevano a segno a Nassiriya un violentissimo attacco contro il contingente italiano, che causava 21 morti, l’episodio suscitava, insieme al dolore, più sorpresa che disapprovazione, come se i guerriglieri di al-Kurdi avessero infranto un patto non scritto ma sottinteso.

Dietro questo paravento protettivo di ostentato e falso buonismo, si sono consumati, negli ultimi centocinquant’anni, in Italia e nelle colonie, i peggiori crimini. Si pensi, soltanto, ai 100.000 libici uccisi tra 1911 e 1932 in aspri combattimenti o nell’inferno dei campi di concentramento. Ai tre giorni di sangue a Addis Abeba dopo l’attentato a Graziani del 19 febbraio 1937. Ai 2000 preti e diaconi assassinati nella città conventuale di Debrà Libanòs, per il semplice sospetto che fossero implicati nella congiura contro Graziani. Alle «bonifiche etniche» praticate nei Balcani. Nei prossimi capitoli esamineremo gli episodi più crudeli, cominciando con la guerra al brigantaggio, il peggior esordio che l’Italia appena unificata potesse attendersi.

1 S.J. Woolf, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia Einaudi, a cura di R. Romano e C. Vivanti, vol. III, Dal primo Settecento all’Unità, Einaudi, Torino 1973, p. 241.

2 Correspondance inèdite de Mobillon et de Montfaucon avec l’Italie, a cura di A.-C. Valéry, J. Labitte, Paris 1847.

3 G. Burnet, Some Letters Containing an Account of What Seemed Most Remarkable in Travelling Through Switzerland, Italy, Some Parts of Germany etc., in the Years 1685 and 1686, Abraham Acher, Rotterdam 1686.

4 J. Addison, Remarks on Several Parts of Italy, London 1705, p. 184.

5 Ch.L. de Montesquieu, Viaggio in Italia, a cura di G. Macchia e M. Colesanti, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 204.

6 Ivi, pp. 12-13.

7 Ivi, p. 90.

8 Ivi, p. 108.

9 Ivi, p. 180.

10 Ivi, p. 151.

11 Ivi, p. 153.

12 Ivi, p. XVIII.

13 Ch. de Brosses, Lettres familières sur l’Italie, vol. II, Firmin-Didot, Paris 1931, p. 6.

14 Citato in F. Venturi, L’Italia fuori d’Italia, in Storia d’Italia Einaudi, cit., Einaudi, Torino 1973, p. 1107.

15 J.W. Goethe, Viaggio in Italia, Mondadori, Milano 1983, p. 131.

16 Ivi, p. 51.

17 Ivi, p. 143.

18 Ivi, p. 158.

19 P.B. Shelley, The Prose Works, vol. II, Chatto and Windus, London 1888.

20 Citato in Venturi, L’Italia fuori dall’Italia, cit., p. 1202.

21 Citato in V.-L. Saulnier, Storia della letteratura francese, Einaudi, Torino 1964, p. 525.

22 Stendhal, Rome, Naples et Florence, Calmann-Lévy, Paris 1915, p. 151.

23 F.-A.-R. de Chateaubriand, Viaggio in Italia, Passigli, Firenze 1990.

24 Ivi, p. 65.

25 Ivi, p. 82.

26 H. Heine, Impressioni di viaggio. Italia, Rizzoli, Milano 2002, pp. 98-99.

27 Ivi, p. 154.

28 Citato in M. Ferraris, Ladies and Gentlemen nell’Ossola, Grossi, Domodossola 1980, p. 33.

29 Citato in Venturi, L’Italia fuori dall’Italia, cit., p. 1206, nota 4.

30 R. Bazin, Les Italiens d’aujourd’hui, Calmann-Lévy, Paris 1894, pp. 244-247.

31 G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, Rizzoli, Milano 1998, pp. 65-66.

32 Ivi, p. 57.

33 Ivi, p. 59.

34 U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, I libri dell’Unità, Cles 1993, p. 34.

35 Ivi, p. 117.

36 M. Gioia, Dissertazione sul problema «Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia», in G. Carducci (a cura di), Letture del Risorgimento italiano, 1749-1870, Zanichelli, Bologna 1920, pp. 68-71.

37 Carducci, Letture del Risorgimento italiano, cit., p. 20.

38 Ivi, pp. 20-29.

39 Ivi, p. 30.

40 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Einaudi, Torino 1994, p. 66.

41 Carducci, Letture del Risorgimento italiano, cit., p. 227.

42 Lettere di patrioti italiani del Risorgimento, a cura di G. Amoroso, Cappelli, Bologna 1971, p. 151.

43 V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, vol. I, Tipografia Elvetica, Capolago 1846, p. 433.

44 M. Clark, Storia dell’Italia contemporanea, 1871-1999, Bompiani, Milano 1999, p. 50.

45 T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza, Bari 1963, p. 43.

46 C. Pisacane, La rivoluzione, Einaudi, Torino 1970, p. 210.

47 P. Bianchini, I testi di lingua italiani prima e dopo l’unità, in TESEO. Tipografi e editori scolastico-educativi dell’Ottocento, diretto da G. Chiosso, Editrice Bibliografica, Milano 2003, p. LII.

48 G. Pascoli, Fior da fiore. Prose e poesie scelte per la scuola italiana, Sandron, Palermo 1929, p. VI.

49 Ivi, p. 110.

50 Ivi, p. 513.

51 L. Cantatore, La letteratura italiana sui banchi di scuola. Valori, modelli e antimodelli nelle antologie dell’età liberale, in TESEO, cit., p. LXIII.

52 I. Cantù, Storia d’Italia ne’ suoi patimenti e nelle sue glorie raccontata ad uso del popolo e delle scuole, Pagnoni, Milano 1861.

53 P. Bolla, Dell’amor patrio. Dialoghi per fanciulli ad uso delle scuole e delle famiglie, Tip. Ronzi e Signori, Cremona 1864.

54 A. Parato, I doveri morali e civili. Insegnati ai giovinetti per via di precetti ed esempi, Paravia, Torino 1865.

55 P. Berri, I redentori d’Italia, ossia la storia patria contemporanea narrata per brevi cenni ai giovinetti, Tip. Unione dei Maestri, Torino 1888.

56 S.P. Zecchini e A. Vianti, Esempi della virtù italiana narrati da nostri classici storici, Stamperia sociale degli artisti tipografi, Torino 1843.

57 M. Lessona, Volere è potere, Barbèra, Firenze 18705, p. 488.

58 A. Alfani, Il carattere degli italiani, Barbèra, Firenze 1878, p. 211. Nella stessa collana di «Opere popolari» sono presenti questi titoli: O. Bruni, La vera civiltà insegnata al popolo; G.L. Craik, Costanza vince ignoranza, ossia la conquista del sapere malgrado gli ostacoli; S. Stickney Ellis, L’educazione del cuore.

59 E. Montagnari, I più grandi siamo noi. Per rivendicazione dell’italica superiorità, Mondadori, Roma-Milano 1924, p. 23.

60 Citato in Carducci, Letture del Risorgimento italiano, cit., p. 188.

61 A. Vertua Gentile, Come devo comportarmi?, Hoepli, Milano 192110, p. X.

62 Ivi, p. 175.

63 Ivi, pp. 33-34.

64 U. Eco, Il costume di casa. Evidenze e misteri dell’ideologia italiana, Bompiani, Milano 1973, p. 89.

65 E. De Amicis, La vita militare, Treves, Milano 1868, p. 59. Noi abbiamo usato la 18ª ristampa dell’edizione 1880.

66 Ivi, pp. 221-222.

67 Ivi, pp. 271-272.

68 L. e L. Bonavia, Cantar storie. Un viaggio nel canto popolare tra i monti dell’Ossola, Grossi, Domodossola 1999, p. 121.

69 M. d’Azeglio, I miei ricordi, Istituto Editoriale Italiano, Milano, s.d.

70 Ivi, p. 72.

71 F. De Sanctis, Saggi critici, a cura di L. Russo, vol. III, Laterza, Bari 1957, p. 23.

72 Citato in D. Settembrini, Storia dell’idea antiborghese in Italia, 18601989, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 37.

73 L. Carpi, L’Italia vivente. Aristocrazia di nascita e del denaro, borghesia, clero, aristocrazia, Vallardi, Milano 1878.

74 B. Spaventa, Opere, vol. I, Sansoni, Firenze 1972, pp. 145-146.

75 G. Carducci, Opere, vol. XXV, Zanichelli, Bologna 1938, p. 35.

76 G. Carducci, Contro l’eterno barbaro. Poesie e prose, a cura della Società Dante Alighieri, Firenze 1915, p. 61.

77 Citato in E. Gentile, Il culto del Littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 39.

78 Ivi, p. VII.

79 E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, Mondadori, Milano 1932, p. 121.

80 L. La Rovere, Giovinezza in marcia. Le organizzazioni giovanili fasciste, Editoriale Nuova, Novara 2004, p. 81.

81 Si veda, per maggiori particolari sulla battaglia di Guadalajara, F. Giannantoni e F. Minazzi, Il coraggio della memoria e la guerra civile spagnola, Edizioni Arterigere, Varese 2000, pp. 347-351.

82 G. Ciano, Diario 1937-1943, a cura di R. De Felice, Rizzoli, Milano 1980, p. 115.

83 Ivi, p. 418.

84 Ivi, p. 491.

85 Ivi, p. 491.

86 Ivi, p. 598.

87 Gentile, Il culto del Littorio, cit., p. 271.

88 Citato in M. Gallo, Vita di Mussolini, Laterza, Bari 1967, p. 249.

89 F. Battistelli, Gli italiani e la guerra. Tra senso di insicurezza e terrorismo internazionale, Carocci, Roma 2004, p. 101.

90 Bazin, Les Italiens d’aujourd’hui, cit., p. 98.

91 P. Battista, Italiani brava gente. Un mito cancellato, «La Stampa», 28 agosto 2004.

92 Citato in A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, vol. I, Dall’unità alla marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 1976, p. 191.

93 Il racconto apparve nel 1903, presso l’editore Salvatore Biondo di Palermo, firmato con lo pseudonimo di Guido Altieri. Dobbiamo la segnalazione all’amico Felice Pozzo.

94 V. Rastelli, La civiltà del lavoro verso l’impero, «Il Solco fascista», 11 agosto 1935.

95 Testimonianza all’Autore (TaA) di Erminia Dell’Oro, raccolta il 26 gennaio 2005.

2. La guerra al “brigantaggio”

Tra l’annessione delle regioni del Meridione, culminata con la resa di Gaeta il 15 febbraio 1861, e l’infausta giornata di Custoza (24 giugno 1866), l’Italia appena unificata si trovò a combattere una guerra imprevista, insidiosa, infinita e spietata. Fu chiamata, sbrigativamente e rozzamente, guerra al brigantaggio. Ma i briganti, che in quelle regioni esistevano da sempre, costituivano un’infima minoranza, anche se aggressiva e crudele. La maggioranza degli insorti contro lo Stato unitario era formata da almeno 10.000 soldati dell’esercito borbonico, che si erano dati alla macchia dopo la fuga a Roma di Francesco II di Borbone. A questi soldati, delusi e umiliati e per nulla disposti a entrare nell’esercito dei Savoia, si erano uniti migliaia di braccianti senza terra e paesani che rifiutavano la leva obbligatoria e gli inasprimenti fiscali.

Fu, come giustamente fa rilevare Mario Isnenghi, «una guerra senza regole e senza onore» 96. Ma fu anche una guerra di tipo coloniale, che anticipò, per le inaudite violenze e il disprezzo per gli avversari, quelle poi combattute in Africa. Non fu forse il generale d’armata Enrico Cialdini, luogotenente di re Vittorio Emanuele II a Napoli, a dichiarare: «Questa è Africa! Altro che Italia! I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele» 97. Del resto non era il solo a ritenere il Sud dell’Italia «una regione esotica, abitata da una popolazione fiera, vicinissima alla “natura”, quasi a livello di essa, primitiva» 98. Sessant’anni dopo questi tragici avvenimenti, Antonio Gramsci avrebbe interpretato fedelmente ciò che pensavano «i propagandisti della borghesia» nelle regioni del Nord:

 

I meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari 99.

 

La convinzione, molto diffusa tra i militari e i politici piemontesi, che nel Sud operassero soltanto dei delinquenti come Carmine Donatelli, detto Crocco, Luigi Alonzo, detto Chiavone, Cosimo Mazzeo, detto Pizzichicchio, Luigi Andreozzi, Nunzio Tamburrini, Luigi Croce Di Tola e centinaia di altri briganti, particolarmente addestrati alla guerriglia, li induceva a considerare il fenomeno del brigantaggio esclusivamente come una questione criminale, per la quale non c’erano altri rimedi che la repressione, immediata e durissima. Possibilmente più spettacolare dell’offesa.

Le esecuzioni dei “briganti”, infatti, avvenivano solitamente nella piazza principale dei paesi dinanzi a folle atterrite. Ma non era sufficiente uccidere, era necessario produrre documenti a futura memoria. Osserva Giulio Bollati:

 

I militari solitamente così avari di immagini, rivelano un’improvvisa prodigalità fotografica durante la repressione del brigantaggio, negli anni successivi all’incontro di Teano. Ecco che d’un tratto l’impassibilità distante e oggettuale, la veduta silente, sono messe da parte, e i cadaveri prima nascosti vengono ostentati. Ufficiali e soldati collaborano a mettere in posa i fucilati davanti all’obiettivo, organizzano messe in scena in cui gli ancora vivi recitano la parte del brigante. Una folla di contadini meridionali e centrali si affaccia in questo modo macabro alla storia della nazione 100.

 

Gli stessi spettacoli raccapriccianti, con intenti educativi e dissuasivi, punteggeranno l’intera storia della nostra presenza in Africa. Si pensi, soltanto, all’impiccagione di Omar al-Mukhtàr, nel campo di concentramento di Soluch, dinanzi a 20.000 libici tradotti a forza dai vari lager. O alla testa mozzata del degiac Hailù Chebbedè esposta, infilzata su di un lungo palo, nella piazza del mercato di Quoram.

Il movimento eversivo aveva inizio in Basilicata nell’aprile 1861 e nell’estate si estendeva all’Irpinia, al Sannio, al Molise, all’Abruzzo, alla Puglia, alla Capitanata e alla Terra di Lavoro. Al culmine della rivolta, si contavano, secondo alcune stime, 400 bande per complessivi 80.000 gregari, mentre i paesi coinvolti nei conflitti erano oltre 1400 101. Le bande, spesso capeggiate da ex militari dell’esercito borbonico, erano in grado di occupare per interi giorni villaggi e cittadine, assassinando

o sequestrando le persone che professavano ideali liberali, e ostentando le bianche bandiere dei Borboni. Esse non temevano di scontrarsi con reparti dell’esercito regolare e della Guardia nazionale, ma erano abilissime nello sganciarsi e nel trovare rifugio nei boschi.

Per reprimere questi moti, che ponevano in grosse difficoltà il governo di Torino, già sconvolto per la repentina morte di Cavour, veniva sostituito il comandante del 6º corpo d’armata, generale Giovanni Durando, con il generale Enrico Cialdini, il conquistatore di Gaeta e forse il militare più famoso dell’esercito piemontese. Subito dopo il cambio, i soldati impiegati nel Sud salivano da 15.000 a 50.000, e più tardi, nel 1863, a 116.000.

Riunendo nelle proprie mani i poteri militari e civili, Cialdini rinunciava alla politica di conciliazione con gli ex borbonici, gestita dal suo predecessore, e anzi non esitava a perseguitarli arrestando o espellendo dal regno aristocratici, ufficiali superiori e ben 71 alti prelati, fra i quali l’arcivescovo di Napoli, cardinale Sisto Riario Sforza. «Questi provvedimenti» riferisce Giorgio Candeloro, «attuati militarmente e senza alcun rispetto della legalità, non furono approvati dal Ricasoli, che avrebbe voluto che si imbastissero dei processi» 102. Inflessibile con i seguaci dei Borboni, Cialdini rispondeva alle violenze degli insorti con una brutalità inaudita, terrorizzando le popolazioni che davano rifugio ai fuorilegge e spesso incendiando i loro villaggi e le loro masserie, e procedendo infine a fucilazioni senza processo o con sbrigative sentenze emesse sul campo dai tribunali militari.

Gli echi di queste repressioni, enfatizzate dai Borboni, i quali, dal loro rifugio nello Stato Pontificio, fornivano armi (poche, per la verità) agli insorti e un eccellente supporto propagandistico, valicavano i confini del regno suscitando lo sdegno di alcuni governi europei. Il 21 luglio 1861, per esempio, Napoleone III così telegrafava al suo aiutante di campo Emile-Félix Fleury:

 

Ho fatto scrivere a Roma per fare delle proteste. Le notizie che arrivano sono di tale natura da alienare tutti i cuori onesti dalla causa italiana. Non soltanto la miseria e l’anarchia sono al loro colmo, ma le più indegne colpe sono all’ordine del giorno. Un generale, di cui ho dimenticato il nome, avendo proibito che si andasse a lavorare nei campi con dei viveri, ha fatto fucilare dei contadini sui quali si è trovato alcuni bocconi di pane. I Borboni non hanno mai fatto tanto 103.

 

Il presidente del Consiglio Ricasoli si affrettava a diramare a tutti i rappresentanti diplomatici all’estero una lunghissima circolare nella quale tentava, confusamente, di diminuire le responsabilità di Cialdini sostenendo che gli «atti di ferocia» degli insorti meritavano «una repressione proporzionata»; che il brigantaggio non aveva alcuna «indole politica»; e che le notizie false che circolavano erano divulgate da Roma, «in nome degli interessi dinastici del Diritto Divino e in nome del potere temporale del Papa» 104. E con troppa fretta Ricasoli diramava il 3 gennaio 1862 una seconda circolare ai rappresentanti diplomatici all’estero, con la quale annunciava: «Gli ultimi avanzi del brigantaggio, suscitato con oro ed intrighi stranieri, ormai sono distrutti ed alle repressioni concorsero volonterose non solo la Guardia nazionale, ma le stesse popolazioni» 105. Ma Ricasoli si sbagliava. Il peggio doveva ancora venire. La guerra al brigantaggio sarebbe durata sino al 1865 e in qualche regione fino al 1870. Soltanto con la presa di Roma cessò del tutto.

 

Tra i mille e più attacchi che le truppe dell’esercito regolare hanno condotto nel corso della guerra al brigantaggio nessuno eguaglia, per ferocia e numero delle vittime, quello portato a termine con manifesta premeditazione il 14 agosto 1861 contro le popolazioni di due grossi paesi campani, Pontelandolfo e Casalduni, in provincia di Benevento. Sull’episodio disponiamo di due importanti fonti: i ricordi del maggiore dei bersaglieri Carlo Melegari, che partecipò con una colonna alla strage, e la paziente ricostruzione degli avvenimenti compiuta dallo storico Gigi Di Fiore.

Qualche giorno prima che si verificasse la forsennata rappresaglia, l’ex caporale dei carabinieri a cavallo dell’esercito borbonico, Cosimo Giordano, che capeggiava una banda di 400 uomini, composta da soldati che avevano servito re Francesco II, da molti renitenti alla leva e da contadini che avevano inutilmente sperato che Garibaldi distribuisse loro le terre comunali demaniali, decideva di occupare stabilmente le località di Pontelandolfo e di Casalduni per mostrare alla gente del Sannio e del Matese e agli invasori piemontesi la sua potenza e la sua indiscussa autorità. Informato dell’accaduto, il tenente colonnello Pier Eleonoro Negri incaricava il tenente Augusto Bracci di recarsi con tre plotoni di fanteria nelle località occupate dagli insorti, evitando tuttavia ogni scontro e limitandosi a prendere posizione. Il tenente Bracci, però, non rispettava gli ordini ed entrava in Pontelandolfo, che credeva sgombra. Ma non era così. Accerchiati dagli uomini di Cosimo Giordano, dapprincipio i soldati cercavano rifugio in un’antica torre medievale, poi tentavano una sortita, ma venivano tutti massacrati.

La notizia dello scontro, che aveva causato la morte di un ufficiale e di 44 soldati del 36° reggimento di fanteria, poneva subito in agitazione gli alti comandi di Napoli. Il generale Carlo Piola Caselli convocava il maggiore Melegari e così l’apostrofava: «Ella avrà senza dubbio udito parlare del doloroso ed infame fatto di Casalduni e Pontelandolfo; orbene, il generale Cialdini non ordina ma desidera che di quei due paesi non rimanga più pietra sopra pietra. […] Ella è autorizzata a ricorrere a qualunque mezzo» 106. Poiché anche il tenente colonnello Negri aveva ricevuto gli stessi ordini, l’indomani mattina Negri e Melegari partivano alla volta del Sannio alla testa di 900 bersaglieri del XVIII battaglione, tutti di provenienza del disciolto esercito toscano.

All’alba del 14 agosto, mentre il tenente colonnello Negri entrava con 500 soldati in Pontelandolfo, non prima di aver perso in una imboscata 25 uomini, il maggiore Melegari, al comando di 400 bersaglieri, investiva Casalduni senza però incontrare resistenza. «Chiamati a me gli ufficiali delle tre compagnie che si trovavano riunite sulla piazza, ove s’ergeva anche la casa del sindaco» racconta Melegari, «ordinai loro di far atterrare le porte e di appiccare il fuoco alle case, a cominciare da quella del sindaco. In breve dense nubi di fumo s’elevavano al cielo e l’incendio divampava in diverse parti del paese» 107.

A questo punto i ricordi del maggiore si facevano vaghi, reticenti. Non una parola sul massacro degli inermi paesani, sugli stupri, i furti nelle case, il saccheggio della chiesa. Si dilungava, invece, nel racconto di come aveva risparmiato la vita a un povero vecchio: «Fu tale l’emozione da lui provata […] che s’inchinò con le lacrime agli occhi in atto di baciarmi la mano; lo rialzai e lo mandai con Dio» 108. Poi il maggiore saliva in carrozza e raggiungeva San Lupo, dove accettava l’ospitalità del colonnello della Guardia nazionale. Per nulla scosso dalla strage che aveva appena ordinato, partecipava a un banchetto attorniato dai suoi ufficiali. «Durante il desinare, signorilmente servito» precisava, «si parlò allegramente di tutto un poco; alla frutta il colonnello portò un brindisi ai bersaglieri e all’Esercito; risposi ringraziando e proponendo un brindisi al Re d’Italia, alla Guardia nazionale e specialmente alle Legioni di Napoli» 109.

Così, mentre il maggiore Melegari si esibiva in calorosi brindisi, il tenente colonnello Negri raggiungeva il primo telegrafo disponibile, quello di Fragneto Monforte, e inviava a Cialdini questo dispaccio: «Giovedì, 15 agosto 1861. Ieri, all’alba, giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora» 110. Il bilancio della strage non è mai stato fatto. «Il Popolo d’Italia» riportava la cifra di 164 morti, ma essa è molto al di sotto di quella reale, che è sicuramente di alcune centinaia di uccisi e di bruciati vivi. Eppure i due artefici delle stragi non avevano un passato di soldati spietati. Negri, in seguito, fu promosso maggior generale e comandò le divisioni di Ancona e Piacenza. Melegari, che era stato con Cialdini in Crimea, raggiunse i più alti gradi dell’esercito. Anche i bersaglieri toscani, che per un’intera mattinata avevano incendiato case, assassinato inermi contadini, stuprato e rapinato, non erano, che si sappia, dei malvagi. E probabilmente nessuno di essi avvertì il peso dei delitti che aveva commesso. Ufficiali e soldati avevano ubbidito agli ordini prodigandosi con enorme zelo, persuasi di aver agito nel bene della patria e di aver legittimamente punito briganti che non avevano nulla di umano. E poiché non ci fu alcun processo per quelle stragi, essi non ebbero neppure il fastidio di trincerarsi dietro gli ordini superiori, così come avrebbero fatto, ottant’anni dopo, i responsabili degli eccidi di Oradour, di Sant’Anna di Stazzema, di Marzabotto.

 

Tre mesi dopo le stragi, il deputato della sinistra Giuseppe Ferrari raggiungeva, dopo un viaggio particolarmente difficoltoso, la località di Pontelandolfo. Di questo grosso paese di seimila abitanti, erano rimaste in piedi tre case. Dai pochi superstiti, Ferrari apprendeva che persino le persone di fede liberale avevano «sofferto l’incendio delle loro case, la perdita dei loro beni, la morte dei loro innocenti amici e parenti e oggi si ritrovano nudi, miseri e infelici vittime di ogni sciagura» 111. Ritornato a Torino, Ferrari denunciava in Parlamento i crimini e gli abusi dell’esercito piemontese contro gli insorti, che non erano tutti, precisava, dei briganti. Ma trovava l’appoggio di un solo deputato, Francesco Proto, duca di Maddaloni, il quale esprimeva tutto il suo disgusto per ciò che stava accadendo nel Meridione: «Gente della nostra patria viene passata per le armi senza nessuna forma di giudizio statario, sulla semplice delazione di un nemico, al semplice sospetto di aver nutrito o dato asilo a un insorto» 112.

In seguito veniva costituita una Commissione d’inchiesta per approfondire i motivi che avevano scatenato la rivolta armata nel Sud. Ma i risultati dell’inchiesta, che pure denunciavano il profondo malessere delle popolazioni meridionali e suggerivano provvedimenti economico-sociali, non venivano recepiti dalla legge Pica, che era sostanzialmente una legge eccezionale, repressiva, che affidava ai tribunali militari e ai plotoni d’esecuzione la soluzione dell’emergenza. Non veniva così resa giustizia a quella parte degli insorti, forse la maggioranza, che aveva impugnato le armi per vendicare antichi e nuovi torti, che aveva fame di terre e doveva scegliere tra la protesta o un viaggio senza ritorno nelle Americhe.

Conclusa la guerra al brigantaggio, autorità e storici avrebbero fatto di tutto per occultare quei drammatici episodi di guerra civile. Poche righe nei testi di scuola e tutte in difesa delle forze repressive che avevano salvato l’unità del paese. Non un cenno alla grande alleanza politica tra le classi dominanti del Nord e i latifondisti del Sud, a tutto danno delle classi subalterne. Bisognava attendere il 1945 e la pubblicazione di Cristo si è fermato ad Eboli per leggere un giudizio sereno e leale sulla più sciagurata delle guerre italiane. Rievocando l’anno di confino in Lucania e i suoi incontri con i contadini di Gagliano, Carlo Levi cercava di interpretare la rivolta di tanti anni prima, ma ancora così sentita, indimenticabile:

 

Anche il loro aspetto, oggi, richiama l’immagine antica del brigante: oscuri, chiusi, solitari, aggrondati, col cappello nero e il vestito nero e, d’inverno, il mantello; sempre armati, quando vanno nei campi, con il fucile e la scure. Il loro cuore è mite, e l’animo paziente. Secoli di rassegnazione pesano sulle loro schiene, e il senso della vanità delle cose, e della potenza del destino. Ma quando, dopo infinite sopportazioni, si tocca il fondo del loro essere, e si muove un senso elementare di giustizia e di difesa, allora la loro rivolta è senza limiti, e non può conoscere misura. È una rivolta disumana, che parte dalla morte e non conosce che la morte, dove la ferocia nasce dalla disperazione. I briganti difendevano, senza ragione e senza speranza, la libertà e la vita dei contadini, contro lo Stato, contro tutti gli Stati. Per loro sventura si trovarono ad essere inconsapevoli strumenti di quella Storia che si svolgeva fuori di loro, contro di loro; a difendere la causa cattiva, e furono sterminati. Ma, col brigantaggio, la civiltà contadina difendeva la propria natura, contro quell’altra civiltà che le sta contro e che, senza comprenderla, eternamente la assoggetta; e perciò, istintivamente, vedono nei briganti i loro eroi 113.

 

Quante sono state le vittime di questa insulsa guerra fratricida? Le statistiche sono scarse e sicuramente incomplete. Per le perdite nei ranghi degli insorti le stime più attendibili sono quelle compilate da Franco Molfese, che dà 5212 fucilati o uccisi in combattimento, 5044 arrestati, 3597 arresi alle autorità, per un totale di 13.853 114. Ma queste cifre riguardano soltanto il periodo che va dal primo giugno 1861 al 31 dicembre 1865, e non conteggiano le perdite subite nei primi mesi del 1861 e nei cinque anni successivi al 1865, quando il generale Pallavicini di Priola non fu meno brutale di Cialdini nel condurre le operazioni repressive. Forse non si è lontani dalla realtà se si aumentano le cifre indicate da Molfese di un buon terzo. Con questo ritocco, ci si potrebbe avvicinare alle stime fornite da Giacinto de’ Sivo, riprese da Carlo Alianello in La conquista del Sud: 9860 fucilati, 10.604 feriti, 13.629 arrestati. Un’altra stima, parziale, per il periodo luglio 1861 - febbraio 1863, suggerita da Luigi Torres e compilata in base ai documenti conservati nell’Archivio dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, propone queste cifre: 1765 fucilati, 2343 uccisi in combattimento, 4496 arrestati, 3038 arresi 115.

Nessuna cifra, invece, è disponibile per gli uccisi tra i soldati dell’esercito regolare e della Guardia nazionale, nel corso della loro operazione repressiva. Sconosciuta, anche, l’entità delle perdite fra i civili che non parteggiavano per gli insorti. Scorrendo, però, gli elenchi dei fatti d’arme, con il relativo numero di caduti, non è difficile giungere alla conclusione che i soldati hanno pagato un pesante scotto, forse quantificabile in alcune migliaia di morti. Soprattutto se si tiene conto che nei primi mesi della lotta al brigantaggio, i reparti dell’esercito andavano all’attacco a piedi e subivano la superiorità degli insorti, quasi tutti provvisti di cavalli e perfetti conoscitori del terreno. Si aggiunga che i soldati piemontesi, toscani, modenesi, coinvolti nelle operazioni, non avevano ricevuto alcuna preparazione per fronteggiare la guerriglia ed erano colti dal panico al solo pensiero di cadere prigionieri dei briganti. Non erano un segreto per nessuno, infatti, le macabre disposizioni impartite dal capobanda Luigi Andreoni ai suoi seguaci: «Non accordare mai quartiere ai feriti e ai prigionieri, ucciderli, scannarli e massacrare i cadaveri in modo da impressionare i soldati quando li ritroveranno. Il soldato quando si batterà, penserà sempre alla fine che l’aspetta se cade ferito o prigioniero, e quando vedrà le brutte, scapperà» 116.

Mancano anche informazioni precise sul morale delle truppe impiegate nel Sud, ma non doveva essere molto elevato. I sette anni della ferma obbligatoria non pesavano soltanto sul coscritto, ma sulla sua famiglia, sulla comunità. Non a caso si cantava nelle campagne della Romagna questa triste canzone:

 

Vittorio che comandi ai re dei regni

oh quanta gente mandi a macellare!

Se vuoi soldati, fatteli di legno;

ma quel biondino lasciamelo stare 117.

 

Ciò che sappiamo, invece, con precisione, è che i soldati che operavano nelle terre del Sud, alcune delle quali infestate dalla malaria, non godevano di buona salute. Nel 1864 «furono ben 47.510 i ricoverati in ospedale per “febbri”, che in oltre mille casi portarono alla morte degli ammalati. In media ciascun soldato impegnato nella guerra al brigantaggio trascorse in ospedale tredici giornate di degenza» 118.

Per finire, ben poco sappiamo delle perdite nell’esercito borbonico, che in questa guerra fra italiani, prima si oppose alle truppe regolari e garibaldine, poi diede un forte contributo alla lotta antiunitaria delle popolazioni meridionali. Francesco Proto, duca di Maddaloni, nel suo intervento in Parlamento del 20 novembre 1861, parla di «ventimila uomini spenti, quali nella lotta, quali fucilati perché prigionieri o sospetti od ingiustamente accusati» 119. Se non conosciamo l’esatto numero dei morti, conosciamo invece quello dei prigionieri e il loro infelice destino. Definiti “sbandati”, perché si erano rifiutati di entrare a far parte dell’esercito nazionale, furono deportati, in oltre 10.000, al Nord, in carri bestiame, e smistati in varie località: Genova, Alessandria, Bergamo. Per i più riottosi si aprirono le porte del forte di San Maurizio Canavese, del Castello Sforzesco di Milano e del forte di Fenestrelle, un autentico campo di repressione. Riferisce Gigi Di Fiore descrivendo il forte di Fenestrelle:

 

I più deboli abituati al clima delle Due Sicilie, per la prima volta nella loro vita così lontani dalle loro terre di origine crollavano […]. Per motivi igienici ed essendovi difficoltà a seppellire i cadaveri, molti corpi vennero gettati nella calce viva in una grande vasca, ancora visibile, dietro la chiesa all’ingresso principale del forte 120.

 

Non era un bell’inizio, per l’Italia, questo processo di unificazione, che si attuava con plebisciti farsa, con annessioni forzate che violavano ogni norma del diritto internazionale, con l’istituzione di campi di concentramento, con la pacificazione del Meridione realizzata con lo stato d’assedio permanente, i tribunali militari, le fucilazioni sommarie. «Eppure» ricorda Di Fiore «c’è chi continua a parlare di “italiani buoni” venuti dal Nord a liberare i “fratelli del Sud” vessati dallo straniero» 121. Questa leggenda degli «italiani buoni» cominciava dunque a circolare a unità appena raggiunta, se è vero che il maggiore Migliara, nell’accusare il sindaco di Cervinara di spacciarsi da gran patriota, ma in realtà commettendo abusi e prepotenze, così l’apostrofava: «Ascoltate, signor Sindaco, noi piemontesi siamo buoni, troppo buoni, ma non siamo minchioni, stupidi come voi credete» 122.

A centoquarant’anni dalla deportazione al Nord dei 10.000 soldati di re Francesco II di Borbone, nella rubrica «Lettere al Corriere», già tenuta da Indro Montanelli e poi da Paolo Mieli e oggi da Sergio Romano, compariva una lettera, a firma Bruno Faccini, nella quale era scritto:

 

Il Risorgimento ha scheletri nell’armadio da doversi denunciare? Si denuncino quelli giusti! Per esempio, quello che vide vittime poveri fantaccini borbonici o sbattuti a crepare nel gelo invernale di una fortezza sabauda a 1800 metri d’altezza, con l’unico equipaggiamento costituito dalle proprie divise di soldati d’un esercito meridionale. Perché non ci si occupa e quasi mai si nomina il caso di Fenestrelle? 123

 

Sergio Romano non eludeva la richiesta e rispondeva ampiamente utilizzando il libro di Gigi Di Fiore, I vinti del Risorgimento, che all’episodio di Fenestrelle dedica un intero ed esauriente capitolo. Ma il tema, evidentemente stimolante, faceva giungere al «Corriere della Sera» altre lettere, con altre richieste. Scriveva, infatti, Silvestro Acampora:

 

Dopo più di 140 anni e con i Savoia che non influenzano più le vicende italiane non pensa che ai giovani studenti vada insegnata la storia così come avvenne nella realtà e non secondo versioni di comodo? Non pensa che la Repubblica italiana ne uscirebbe rafforzata e che alle popolazioni del Sud, che pagarono con migliaia di morti, prigionieri e deportati, sarebbe tolta l’etichetta di briganti e riconosciuta quella più veritiera di ribelli? 124.

 

Quelle di Faccini e di Acampora ci sembrano richieste legittime e non provocatorie. E soprattutto spoglie di un revisionismo filoborbonico. E ci meraviglia che studiosi seri e bene informati, come Ernesto Galli della Loggia 125 e Giovanni Russo 126, si mostrino turbati e preoccupati ogni qual volta appare nel nostro paese una ricerca non propriamente ortodossa e non in linea con la vulgata risorgimentale. Non si manca di rispetto al Risorgimento se si cerca di colmare – per dirla con Antonio Gambino – i «buchi della memoria collettiva» 127. Noi che abbiamo trascorso parte della nostra esistenza a colmare i «buchi» del nostro passato coloniale, incontrando più divieti che consensi, sappiamo che non è facile andare controcorrente. E tuttavia è necessario, tanto più oggi che, sul brigantaggio postunitario, sono finalmente disponibili gli inventari dei documenti conservati negli Archivi di Stato e sono di più facile accesso l’Archivio Segreto Vaticano e alcuni archivi spagnoli. Lavorando su queste nuove fonti, osserva giustamente Alfonso Scirocco, «ci sottrarremo all’approssimazione (forse voluta, forse dovuta alle circostanze) delle pubblicazioni ufficiali» 128. Uno scavo sistematico, in questi archivi, può sicuramente riservarci molte sorprese. Non crediamo, infatti, che Stanislao Mancini, pronunciando alla Camera, il 27 gennaio 1866, quella terribile minaccia: «Non mi costringete a fare delle rivelazioni, di cui l’Europa dovrebbe inorridire» 129, volesse soltanto coprire le stragi di Pontelandolfo e Casalduni o il lager di Fenestrelle 130.

96 M. Isnenghi, L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, Mondadori, Milano 1994, p. 69.

97 Citato in G. Di Fiore, 1861: Pontelandolfo e Casalduni. Un massacro dimenticato, Grimaldi, Napoli 1998, p. 33. Per il ruolo dei Borboni e del papa, durante la guerra al brigantaggio, si veda E. Cardinali, I briganti e la Corte Pontificia ossia La cospirazione borbonico-clericale svelata, 2 voll., Davilli e C., Livorno 1862.

98 L.M. Lombardi Satriani, Menzogna e verità nella cultura contadina del Sud, Guida, Napoli 1974, p. 124.

99 A. Gramsci, Alcuni temi della questione meridionale, in Id., La questione meridionale, a cura di F. De Felice e V. Parlato, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 135.

100 G. Bollati, L’Italiano, Einaudi, Torino 1983, pp. 142-143.

101 T. Maiorino, Storia e leggenda di briganti e brigantesse, Piemme, Casale Monferrato 1997, pp. 91-92. Altre fonti riducono drasticamente il numero degli insorti a 6000.

102 G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. V, 1860-1871: la costruzione dello Stato unitario, Feltrinelli, Milano 1968, pp. 168-169.

103 Ministero degli Affari esteri, I Documenti Diplomatici Italiani, serie I, vol. I, doc. 231, nota 1, p. 269. La proibizione di portare cibo nei campi era stata adottata poiché si temeva che i contadini avrebbero consegnato i viveri agli insorti.

104 Ivi, doc. 273, pp. 329-335. In data 24 agosto 1861.

105 Ivi, vol. II, doc. 2, p. 4.

106 Cenni sul brigantaggio. Ricordi di un antico bersagliere, Roux Frassati & C., Torino 1897, pp. 12-13.

107 Ivi, pp. 18-19.

108 Ivi, p. 23.

109 Ivi, p. 24.

110 Di Fiore, 1861: Pontelandolfo e Casalduni, cit., p. 125.

111 Ivi, p. 131.

112 Ivi, p. 135.

113 C. Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, Einaudi, Torino 1945, p. 133.

114 F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano 1964. Sul fenomeno del brigantaggio sono disponibili centinaia di volumi. Ci limiteremo a segnalarne alcuni: A. Bianco di Saint Jorioz, Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1800 al 1863, Daelli e C., Milano 1864; A. De Witt, Storia politico-militare del brigantaggio nelle province meridionali d’Italia, Coppini, Firenze 1884; C. Cesari, Il brigantaggio e l’opera dell’Esercito italiano dal 1860 al 1870, Ausonia, Roma 1920; M. Monnier, Notizie storiche documentate sul brigantaggio nelle provincie napoletane, Berisio, Napoli 1965; F. Trapani, Le brigantesse, Canesi, Roma 1968; A. De Jaco (a cura di), Brigantaggio meridionale. Cronaca inedita dell’Unità d’Italia, Editori Riuniti, Roma 1969; G. Cingari, Brigantaggio, proprietari e contadini nel Sud, 1799-1900, Editori Meridionali Riuniti, Reggio Calabria 1976; A. Scirocco, Il Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione, 1860-1865, SEN, Napoli 1881; A. Lucarelli, Il brigantaggio politico del Mezzogiorno d’Italia dopo la seconda restaurazione borbonica (1815-1818) e il brigantaggio politico delle Puglie dopo il 1860, Longanesi, Milano 1982; M. Topa, I briganti di sua Maestà, Fratelli Fiorentino, Napoli 1993; C. Alianello, La conquista del Sud. Il Risorgimento nell’Italia meridionale, Rusconi, Milano 1994; L. Del Boca, Maledetti Savoia, Piemme, Casale Monferrato 1998.

115 L. Torres, Il brigantaggio nell’Abruzzo Peligno e nell’Alto Sangro, 1860-1870, Majell, Alessandria 2003, p. 286.

116 Ivi, p. 134.

117 L. Mercuri e C. Tuzzi (a cura di), Canti politici italiani, 1793-1945, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 185.

118 Maiorino, Storia e leggenda di briganti e brigantesse, cit., p. 111.

119 Citato in G. Di Fiore, I vinti del Risorgimento. Storia e storie di chi combatté per i Borbone di Napoli, UTET, Torino 2004, p. 3.

120 Ivi, p. 250. Si veda anche F. Izzo, I lager dei Savoia. Storia infame del Risorgimento nei campi di concentramento per meridionali, Controcorrente, Napoli 1999.

121 Di Fiore, I vinti del Risorgimento, cit., p. 5.

122 Cenni sul brigantaggio, cit., p. 77.

123 «Corriere della Sera», 11 ottobre 2004.

124 Ivi, 4 novembre 2004.

125 E. Galli della Loggia, Il brigantaggio, in Miti e storia dell’Italia unita, a cura di G. Belardelli et al., Il Mulino, Bologna 1999, p. 47.

126 G. Russo, I briganti sono meglio di Cavour?, «L’Indice», n. 6, giugno 2004, p. 39.

127 A. Gambino, Inventario italiano. Costumi e mentalità di un Paese materno, Einaudi, Torino 1998, pp. 120-130.

128 A. Scirocco, Introduzione alla Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato, vol. I, Ministero per i Beni e le Attività culturali, Ufficio Centrale per i Beni archivistici, Roma 1999, p. XXXV.

129 Camera dei Deputati, Atti Parlamentari. Discussioni, tornata del 27 gennaio 1866.

130 Per coprire le stragi furono concesse, come ricorda Cesare Cesari, moltissime decorazioni: 4 medaglie d’oro, 2375 d’argento, 5012 menzioni onorevoli. Fra i decorati e promossi c’era anche Alfonso Del Boca, classe 1838. Entrato in guerra come capitano, nel 1861, otteneva due promozioni sul campo e poi la croce di colonnello «per meriti speciali». Ricompense che venivano concesse soltanto a chi aveva dimostrato molto zelo e pochi scrupoli.

3. L’inferno di Nocra

Non c’era alcun reale bisogno, per l’Italia, di partecipare allo scramble for Africa. Vi andò, semplicemente, per una questione di prestigio. Premevano, per l’impresa, le società geografiche, le industrie armatoriali, cantieristiche e siderurgiche, i circoli colonialisti e i loro fogli, che insistevano sulla concezione messianica del destino dell’Italia, sui miti della romanità, sull’esigenza di dare sfogo alla spinta demografica, che era fra le più alte d’Europa. Premeva, infine, sul governo di Pasquale Stanislao Mancini, alla vigilia dello sbarco di Saletta a Massaua, anche Umberto I di Savoia, che pensava, con le imprese africane, di ridare lustro alla dinastia.

Come siamo andati a Massaua, nel 1885, grazie soprattutto ai buoni uffici della Gran Bretagna, è storia nota, con venature comiche. Il comandante delle truppe da sbarco, colonnello Tancredi Saletta, confesserà candidamente, in una sua relazione ufficiale, di non aver mai visto, sino al momento dello sbarco, una carta geografica di Massaua, e di aver scoperto, proprio allora, che le artiglierie con le quali avrebbe potuto essere costretto a controbattere quelle egiziane, giacevano nella stiva del mercantile Gottardo sotto seicento tonnellate di altro carico. Per fortuna che, a neutralizzare ogni offesa, ci avevano pensato i funzionari inglesi che operavano nel settore del mar Rosso e che avevano ricevuto da Londra l’ordine di facilitare in tutti i modi lo sbarco degli italiani a Massaua.

Ricordando, qualche anno dopo, gli infelici esordi dell’espansione italiana nel Corno d’Africa, Ferdinando Martini scriveva: «Come è inutile ricercare il perché vi andassimo, così è doloroso il ricordare come vi andammo» 131. Cioè, senza alcuna nozione sui luoghi, con scarsi mezzi e programmi confusi, con una notevole impreparazione logistica, strategica, politica, e con un’assoluta ignoranza dei costumi e delle culture delle popolazioni indigene. Il che avrebbe portato fatalmente a maturare, nei confronti degli africani, ingiusti pregiudizi e un diffuso disprezzo razziale. Tanto che il generale Baldissera, comandante superiore delle truppe in Eritrea, non si faceva scrupoli a dichiarare, nel 1888: «L’Abissinia ha da essere nostra, perché tale è la sorte delle razze inferiori; i neri a poco a poco scompaiono, e noi dobbiamo portare in Africa la civiltà non per gli Abissini ma per noi» 132. L’ipotesi di sostituire la «razza soggetta» con la «razza dei dominatori», il che implicava il genocidio di un popolo, non era un’idea tanto peregrina. Come ricorda Nicola Labanca, «sembrava fare presa sui più africanisti fra gli ufficiali italiani il mito americano: quello delle feroci guerre indiane, della guerra e della vittoria totali, della soggiogazione ed anche dello sterminio della popolazione autoctona» 133.

In questo clima di incertezza, con ambizioni non sostenute dai mezzi, gli italiani costruivano la loro colonia «primogenita» usando gli stessi metodi repressivi che avevano impiegato vent’anni prima nella guerra al brigantaggio: l’abuso costante dei tribunali militari straordinari, le fucilazioni sommarie, le repressioni segrete seguite dalla scomparsa dei cadaveri, le ondate di carcerazioni, le deportazioni in Italia, il mancato rispetto per le stesse leggi vigenti in colonia. Di nuovo, rispetto al Meridione, la precisa volontà di tenere le popolazioni eritree segregate nell’ignoranza e nella miseria. Il motivo che spiega questa condotta brutale si evince facilmente dagli atti ufficiali, dai giornali, dalle lettere dei privati. Poiché era ormai assodato che le popolazioni «semibarbare» del luogo capivano soltanto la forza, era necessario usare punizioni che incutessero il terrore. Nella tornata del 7 maggio 1885, all’indomani dello sbarco di Saletta a Massaua, Francesco Crispi prendeva la parola alla Camera e dichiarava: «Qual è il nostro scopo? Uno solo: affermare il nome dell’Italia nelle regioni africane e dimostrare anche ai barbari che siamo forti e potenti! I barbari non sentono se non la forza del cannone; ebbene, questo cannone tuonerà al momento opportuno» 134.

E se per il cannone, nel 1885, non era ancora giunto il momento di tuonare, per i fucili era sempre il momento di crepitare. Saletta era appena sbarcato a Massaua e subito si accorgeva che la città pullulava di spie di ras Alula, il governatore etiopico di Asmara. E senza perdere un istante, senza neppure costituire un tribunale, emetteva una sentenza di morte contro il greco Nicolaus. Ecco come la sua esecuzione veniva descritta da una dispensa popolare, venduta a 5 centesimi la copia:

 

L’esecuzione fu assai spiccia: il greco non aveva più la forza di stare in piedi, né seduto; fu allora legato allo schienale della sedia portata da un soldato; poi il picchetto si avanzò a una decina di passi e fece fuoco; le palle dei dodici Vetterli staccarono quasi la testa dal busto del condannato. Due soldati addetti alle infermerie si avvicinarono allora alla cassa: raccolsero il corpo, lo buttarono dentro, e col carro lo portarono al vicino cimitero. I presenti si dispersero in silenzio; l’esempio era dato. Due abissini e una spia subirono poco dopo la medesima sorte 135.

 

Spie, sospette spie, informatori reticenti, capi villaggio caduti in disgrazia: bastava un nonnulla per farli appendere a una forca o per farli crivellare dai proiettili. La frequenza delle esecuzioni, in gran parte non precedute da regolari processi, finiva per impensierire i governi di Roma, tanto più che apparivano coinvolti negli abusi gli stessi governatori dell’Eritrea, Baldassarre Orero e Antonio Baldissera. Ma a impedire che si rendessero pubbliche le inchieste ordinate dal presidente del Consiglio, marchese di Rudinì, era lo stesso re Umberto I. Il 19 luglio 1891 scriveva infatti al capo del governo:

 

Prima di tutto mi sta a cuore nell’interesse del Paese e dell’esercito di porre tutti i generali che ebbero a che fare con la Colonia Eritrea, da Saletta a Baldissera sino a Gandolfi e Driquet, all’infuori delle discussioni passionate. Se ci saranno stati errori si giudicheranno severamente, col criterio di gente d’onore verso onorati ufficiali, ma non si debbono abbandonare valorosi soldati che sono in grado di rendere ancora servigi alla Patria alle impressioni fugaci di chi procede con vedute e considerazioni quasi esclusivamente politiche.

 

Chiuso il preambolo, ordinava a di Rudinì che la relazione della Commissione d’inchiesta sui fatti attribuiti a Baldissera e a Cossato «debba essere e rimanere chiusa sotto suggello» e ciò per «rialzare il prestigio dell’amministrazione della Colonia» 136.

I fatti sui quali aveva indagato la Commissione d’inchiesta erano accaduti in Eritrea fra 1888 e 1890. All’origine dei crimini, le manovre di due funzionari coloniali e un processo contro alcune personalità indigene. I due funzionari erano l’avvocato Eteocle Cagnassi, segretario degli Affari coloniali, e il tenente dei carabinieri Dario Livraghi, capo della polizia indigena del-l’Eritrea. Il processo era quello intentato, con l’accusa di alto tradimento, al ricco mercante musulmano Hassan Mussa el-Akkad, al capo degli Habab, kantibai Aman, e al suo segretario, Said Ali Safi, processo che si concludeva l’11 febbraio 1890 con la condanna a morte dei primi due imputati e con l’ergastolo per il terzo.

All’epoca era capo del governo Francesco Crispi, il quale conosceva personalmente Mussa el-Akkad e si rifiutava di credere che fosse colpevole di «intelligenza col nemico». Appena conosciuto l’esito del processo, faceva sospendere la sentenza e affidava all’onorevole Piccolo Cupani, uno dei tre consiglieri civili della colonia, l’incarico di aprire un’inchiesta. In poche settimane d’indagini, Piccolo Cupani giungeva a convincersi dell’innocenza dei tre imputati e a formulare, di rimando, gravi imputazioni contro Cagnassi e Livraghi, responsabili non soltanto di aver fabbricato le prove per mandare a morte Mussa el-Akkad e compagni, ma di altre oscure macchinazioni. Nell’aprile 1890 Cagnassi e Livraghi venivano arrestati a Milano. Livraghi, però, riusciva a fuggire in Svizzera, da dove inviava al quotidiano «Il Secolo» un memoriale difensivo, che conteneva rivelazioni terrificanti sui metodi della giustizia italiana in Eritrea.

Mentre i responsabili del foglio milanese esitavano a pubblicare il memoriale, per il suo contenuto esplosivo, «La Tribuna» di Roma dava invece alle stampe le corrispondenze da Massaua di Napoleone Corazzini, che contenevano accuse gravissime nei confronti di Livraghi e Cagnassi, il primo indicato come esecutore, il secondo come mandante. Le accuse parlavano di eliminazione fisica di alcuni notabili eritrei a scopo di lucro, di strage continuata ai danni di bande abissine al soldo dell’Italia. Intanto, a Milano, appariva sul «Secolo» anche il memoriale di Livraghi, nel quale il tenente dei carabinieri, pur tentando di addossare tutte le colpe ai suoi superiori, forniva però dei fatti di Massaua una versione ancora più mostruosa. Non soltanto confermava la serie di delitti denunciata da Corazzini, ma rivelava gli orrori delle carceri eritree, dove erano state praticate le più atroci sevizie per far parlare i prigionieri e dove più di un carcerato era morto sotto le torture. Ma l’accusa più grave che Livraghi rivolgeva ai due governatori, Baldissera e Orero, era quella di aver ordinato l’eliminazione di intere bande abissine, già assoldate dagli italiani e sospette di voler disertare. Livraghi precisava inoltre che il compito di ricondurre questi «indesiderabili» alla frontiera con l’Etiopia, in altre parole di assassinare questi 800 «ribelli», era stato assolto dagli uomini di Adam agà, il più disponibile fra i capi collaborazionisti 137.

Dinanzi alla gravità delle rivelazioni contenute negli articoli di «Il Secolo» e «La Tribuna» e all’interpellanza presentata alla Camera il 9 marzo dal repubblicano Napoleone Colajanni, il presidente del Consiglio di Rudinì costituiva una Commissione d’inchiesta che partiva subito alla volta della colonia «primogenita». Il 17 luglio era già in grado di presentare il suo rapporto. Nel frattempo, il generale Baldissera, pesantemente citato in causa, acconsentiva a concedere un’intervista, con la quale smentiva recisamente la cifra di 800 abissini uccisi fornita da Livraghi. «È vero che ho fatto fucilare otto o dieci indigeni, senza chiamare a giudicarli il tribunale di guerra» riconosceva Baldissera, ma quello era tutto e se così aveva agito lo aveva fatto perché la colonia era «tutt’altro che tranquilla», e per la sua difesa non disponeva che di 6000 uomini. «Sperimentata inutile l’indulgenza» continuava il generale, «era necessario mutar sistema; dimostrare il divario che passa tra la tolleranza e la debolezza. Era necessario incutere terrore per tener soggetti quei barbari» 138.

Nel novembre 1891 veniva reso pubblico il rapporto della Commissione d’inchiesta, che il giornalista Achille Bizzoni definiva subito un «documento incredibile, medioevale, che avrebbe dovuto essere sequestrato come apologia del delitto […] una smaccata difesa dell’assassinio» 139. In realtà il rapporto era un capolavoro di reticenze, di ambiguità, di sfumature, di difese d’ufficio dei comandanti superiori e dell’onor militare. Le conclusioni del documento smentivano tutte le rivelazioni di Livraghi e tendevano a farlo apparire un esaltato. Inoltre riducevano lo scandalo a episodi di modeste proporzioni e in ogni caso giustificati perché «la sicurezza della colonia era realmente minacciata». Gli assassinii denunciati da Livraghi venivano ridotti da 800 a 16, e anche questi ultimi giustificati. L’intera colpa dei pochi “abusi” veniva fatta ricadere sui gendarmi eritrei e sulle stesse vittime. Precisava infatti il rapporto:

 

I fatti che realmente avvennero se poterono in qualche caso costituire un abuso, debbono attribuirsi all’indole selvaggia dei soldati indigeni che per necessità dovevano essere incaricati di eseguire gli ordini, e anche degli stessi individui che ne furono vittime; non può farsene risalire la responsabilità al Comando, né ai funzionari della colonia 140.

 

Con un rapporto così spudoratamente assolutorio, il processo intentato a Cagnassi e a Livraghi non poteva concludersi con una sentenza di condanna. Il 19 novembre, infatti, dopo che novantasei testi erano sfilati davanti ai giudici, in gran parte per testimoniare in favore dei due imputati (in prima fila i generali Saletta, Baldissera, Orero e Cossato), il tribunale speciale presieduto dal colonnello Cesare Tarditi assolveva con formula piena i due accusati italiani e condannava a pene durissime due agenti della polizia indigena, Kassa e Abdel Rahman, riversando su di essi tutte le responsabilità per le stragi. Quanto ai tre generali coinvolti nello scandalo (Baldissera, Orero, Cossato), venivano assolti da un giurì composto dai generali Mezzacapo, Pianell, De Sonnaz, non per i crimini a loro addebitati, ma, si badi bene, per non aver violato la disciplina militare. Il più odioso scandalo della storia coloniale italiana dell’Ottocento veniva così soffocato con due sentenze che sono, a dir poco, vergognose. Nel comportamento della Commissione d’inchiesta qualche studioso ha ravvisato i segni di una pressione di re Umberto, il quale, guarda caso, ricevette i sette membri il 2 aprile, alla vigilia della loro partenza per Massaua 141.

Quelli, fra la «gente male intenzionata e pericolosa», che non venivano fucilati o impiccati, finivano in carcere. All’inizio degli anni Novanta dell’Ottocento esistevano in Eritrea sette prigioni e precisamente ad Assab, Massaua, Asmara, Cheren, Adi-Ugri, Adi-Caieh e Nocra, nelle isole Dahalak. La popolazione carceraria variava, a seconda degli avvenimenti in colonia, da 500 a 1500 detenuti, molti se si considera che l’Eritrea, all’epoca, contava meno di 200.000 abitanti. Ci occuperemo, in questo libro, soltanto del penitenziario di Nocra che, per le condizioni disumane in cui vivevano i carcerati, è diventato il simbolo dell’oppressione coloniale italiana.

Nocra è una delle 209 isole madreporiche dell’arcipelago delle Dahalak, a circa 55 chilometri al largo di Massaua. Di incomparabile bellezza, per la natura incontaminata, l’uomo è riuscito a farne un inferno. Individuata dal generale Saletta come un luogo ideale per costruirvi un penitenziario, fu scelta soprattutto per la sua distanza dalla terraferma. Questo totale isolamento non soltanto avrebbe scoraggiato ogni tentativo di fuga, ma avrebbe assicurato una maggior segretezza sui metodi coercitivi impiegati nell’isola. I primi lavori per la trasformazione di Nocra in un campo di punizione vennero compiuti sul finire del 1887 con una spesa di 6500 lire a carico del Ministero dell’Interno. Non si trattava, in verità, di grandi lavori: un edificio in mattoni per le guardie, 200 alloggiamenti per i detenuti (metà tende e metà rozzi tucul), lo scavo di otto profonde fosse che servivano da prigione, l’erezione di un palco con due forche.

A causa del clima torrido, che poteva anche raggiungere i 50 °C, il problema dell’acqua era fondamentale. La fornitura dell’acqua potabile veniva assicurata, per la piccola guarnigione, da alcune bettoline che tre volte la settimana facevano la spola fra il continente e l’isola. Per i detenuti, invece, era stato scavato un pozzo, profondo una decina di metri, che forniva un’acqua salmastra e non in grande quantità. Tanto che nei periodi di siccità veniva razionata. Il sole cocente e la penuria di acqua costituivano, nella filosofia di chi aveva scelto Nocra, strumenti aggiuntivi di punizione. Altro strumento di violenta rieducazione era l’obbligo di lavorare nelle cave di pietra, il cui ricavato veniva caricato su battelli e trasportato a Massaua per lavori edilizi e stradali.

Non si hanno che pochissime testimonianze sulla vita quotidiana a Nocra. L’isola, che ospitò quasi sempre detenuti politici, era rigidamente vietata a tutti. Il capitano Eugenio Finzi, della marina militare, che la visitò nel 1902, così descriveva la situazione: «I detenuti, coperti di piaghe e di insetti, muoiono lentamente di fame, scorbuto, di altre malattie. Non un medico per curarli, 30 centesimi pel loro sostentamento, ischeletriti, luridi, in gran parte han perduto l’uso delle gambe ridotti come sono a vivere costantemente incatenati sul tavolato alto un metro dal suolo» 142. Quelli che cercavano di fuggire da questo inferno, e che venivano quasi sempre ripresi, come nel marzo 1893 quando si tentò una fuga in massa, erano immediatamente fucilati.

Chi erano gli sventurati ospiti di Nocra? All’inizio soltanto criminali comuni. Poi, dal 1889, anche politici, ossia capi e gregari di tribù che non accettavano la dominazione italiana, ma anche spie o presunte tali, collaboratori infedeli, agitatori, maghi e indovini che predicavano le fine della presenza degli italiani. Nel 1892, con Oreste Baratieri governatore militare e civile della colonia, il carcere di Nocra raggiunse, con un migliaio di detenuti, il massimo della sua capienza. Di alcuni prigionieri siamo anche in grado di fornire i nomi. Nel settembre 1895, alla vigilia del disastro di Adua, furono relegati nell’isola Memer Walde Ananias, il liccè Wolde Jesus, e il grasmac Sadòr, tre nobili tigrini la cui sola colpa era stata quella di raggiungere il campo di Baratieri per iniziare, su incarico di ras Johannes Mangascià, trattative di pace. Il grasmac Sadòr, già avanti con gli anni, non era in grado di sopportare il clima dell’isola e le crudeltà che vi si praticavano e moriva in detenzione 143.

Il penitenziario di Nocra restò in funzione ininterrottamente dal 1887 al 1941. Dal 1936, dopo l’occupazione italiana dell’Etiopia, accolse soprattutto soldati e funzionari del dissolto impero di Hailè Selassiè e, più tardi, guerriglieri fatti prigionieri nelle varie operazioni repressive, notabili di basso rango, preti e monaci scampati al massacro di Debrà Libanòs. L’alimentazione dei detenuti era costituita da 300 grammi di farina, 10 di tè e 20 di zucchero. Ma non era detto che questa già miserabile razione fosse fornita ogni giorno.

 

Una delle motivazioni più nobili per giustificare la presenza dell’Italia in Africa era la sua acclamata capacità civilizzatrice. Essa, dunque, avrebbe potuto svolgere un ruolo di primo piano nella lotta allo schiavismo, già iniziata nel Corno d’Africa dalla Gran Bretagna. Con Londra, infatti, il governo di Crispi firmava il 14 settembre 1889 una convenzione contro la tratta, suddivisa in undici capitoli, il primo dei quali diceva:

 

Sua Maestà il re d’Italia e Sua Maestà la regina del Regno Unito della Gran Bretagna e d’Irlanda assumono l’impegno di proibire ogni Commercio di Schiavi esercitato dai loro sudditi rispettivi, o sotto le loro rispettive bandiere, o per mezzo di capitali appartenenti ai loro sudditi rispettivi, e di dichiarare tale traffico un atto di pirateria. Le Loro Maestà dichiarano inoltre che qualsiasi nave che tenterà di esercitare la tratta perderà, per quel solo fatto, ogni diritto alla protezione della loro bandiera 144.

 

Questa iniziativa umanitaria trovava in Italia una buona accoglienza. Ne parlavano i quotidiani e le pubblicazioni popolari. La dispensa n. 26 della ormai celebre Guerra d’Africa di Giuseppe Piccinini aveva in copertina questa struggente scenetta: un soldato italiano, con il casco coloniale adorno di un mazzo di piume, spezzava a una procace e seminuda ragazza indigena le catene ai polsi. Recitava la didascalia: «Dinanzi al progredire della civiltà nostra, delle nostre armi, le catene si spezzeranno, e gli schiavi risorgeranno dall’abbrutimento in cui giacciono da tanti secoli» 145. Questo era ciò che si pensava in Italia. In Eritrea i governatori, da Orero a Gandolfi, da Baldissera a Baratieri, erano molto più cauti, meno motivati. «Temevano, impegnandosi a fondo nella lotta antischiavista» ha osservato Labanca, «di scardinare la società tradizionale locale, con risultati e pericoli per l’ordine coloniale peggiori dello stato di cose esistenti» 146.

Il contributo dell’Italia nella lotta allo schiavismo fu, di conseguenza, del tutto ininfluente, anche se nel 1890 il governo presieduto da Crispi aveva firmato anche l’Atto finale della Conferenza di Bruxelles, che impegnava tutte le potenze europee ad abolire drasticamente la tratta. Per fare un esempio dell’inazione italiana, va detto che il generale Baratieri conosceva perfettamente gli itinerari seguiti dalle carovane schiaviste in Eritrea. Sapeva anche dove i negrieri si sarebbero imbarcati per trasferire la loro merce umana nella penisola arabica. Era talmente informato – probabilmente dal suo capo di gabinetto, Antonio Miani 147 – che aveva inviato nel novembre 1892 al Ministero degli Esteri un corposo rapporto dal titolo «Schiavitù nella Colonia Eritrea in relazione all’Atto di Bruxelles». Ma non risulta che si sia molto impegnato nel troncare la tratta. Aveva ben altri pensieri per la mente, altri progetti. Prima l’occupazione di Kassala. Poi l’invasione del Tigré e la sua annessione. Gli schiavi potevano aspettare. E infatti i sambuchi dei negrieri continuarono per altri quarant’anni a fare la spola fra le due sponde del mar Rosso beffando le navi della Regia Marina.

In Somalia la lotta allo schiavismo era affidata a una compagnia privata, la Società del Benadir, perché l’Italia avrebbe atteso il 1905 ad assumere la gestione diretta della colonia. Composta da una ventina di ufficiali e di funzionari italiani, coadiuvati da 600 mercenari arabi, la Società era di una tale inefficienza da lasciar morire di fame trenta detenuti nella garesa di Mogadiscio. Posta in stato di accusa dal Parlamento, per la sua incredibile inerzia e per aver tollerato, se non favorito, la pratica dello schiavismo, veniva indagata da tre commissioni d’inchiesta. Quella disposta dalla Società Antischiavista d’Italia veniva affidata al celebre esploratore Luigi Robecchi Bricchetti, il quale, tra l’aprile e il giugno 1903, compiva un’indagine esemplare per serietà e meticolosità, e giungeva alla conclusione che, sotto gli occhi delle autorità italiane, distratte o tolleranti, gli schiavi venivano liberamente acquistati, venduti, ereditati, offerti in regalo, sfruttati, incatenati, deportati. Assai raramente liberati, come invece imponeva la Conferenza di Bruxelles.

Andando di porta in porta, a Mogadiscio, a Merca e a Brava, Robecchi Bricchetti operava un autentico e doloroso censimento, che lo conduceva a stabilire che nella prima città c’erano 2096 schiavi su 6695 abitanti, nella seconda 721, nella terza 829. Nelle campagne il numero degli schiavi era superiore e le loro condizioni di vita erano anche peggiori. Riferiva l’esploratore pavese:

 

Sempre proni a terra attendono ai più faticosi lavori con un pugno di cenere o di creta sulla nuca, loro imposta dal padrone per accertarsi che non desistano dall’opera. Se uno schiavo leva un istante il capo dal solco che ara, semina o altrimenti lavora, gli cade dalla nuca la creta o la cenere, ed allora si sente tosto le spalle accarezzate dal curbasc dell’aguzzino 148.

 

Ma il peggio Robecchi Bricchetti lo scopriva quando cominciava a esaminare gli atti notarili ufficiali custoditi nella residenza del governatore Emilio Dulio. In essi scovava i contratti di compravendita degli schiavi, legalizzati con tanto di marca da bollo italiana e con le formalità di autenticazione di rito. Per ogni baratto, il cassiere della Società, Mazzucchelli, percepiva una quota, che diligentemente annotava nei registri. Nel trascrivere questi atti nel suo rapporto, atti vidimati dal governatore Dulio, Robecchi Bricchetti commentava amaramente: «Si rimane così indignati che non riesce più possibile pronunciarsi su tali mostruosità: il giudizio lo si lascia, intero, alla storia» 149.

Eppure gli italiani in colonia, per tutto il periodo della liberaldemocrazia e ancor più nel Ventennio fascista, si sentivano a loro agio, non erano per nulla turbati dagli ordini che davano o ricevevano, il cui risultato era la realizzazione di un mondo che consentiva l’impiego di drastiche misure repressive, la creazione di un sistema carcerario fra i più crudeli, la tolleranza nei confronti dello schiavismo o addirittura, come nel Benadir, il suo sfruttamento, la pratica di una giustizia penale che avrebbe fatto inorridire il Beccaria 150. Anziché essere turbati per l’universo disumano che avevano creato, ne erano palesemente fieri. Ciò emerge chiaramente dai documenti ufficiali come dalla corrispondenza privata. Questa fierezza era associata alla convinzione che soltanto gli italiani, per il loro carattere aperto, bonario, tollerante, erano in grado di portare gli indigeni a un grado superiore di civiltà. Riaffiorava dunque anche in Africa, e si imponeva subito con vigore, il mito dell’italiano «buono», «bene accetto», «non razzista», «accomodante». Questa descrizione indulgente e assolutoria spiegava la mancanza di scrupoli, l’assenza di rimorsi o turbamenti nei 1500 ufficiali e nei 70.000 soldati che si sono alternati in Eritrea negli undici anni compresi fra la conquista di Massaua e la disfatta di Adua 151.

Ma questo mito degli «italiani brava gente» si scontra con l’altro mito, ugualmente diffuso, degli italiani spietati, insofferenti di ogni regola, inclini alla demonizzazione e bestializzazione degli avversari neri. Il disprezzo del generale Dabormida quando pronuncia, alla vigilia di Adua, la famosa frase «ai butuma quat granade e a l’è faita», è totale. Il comportamento di Baldissera, nei suoi due soggiorni in Eritrea, rammenta quello di alcuni generali americani, che nelle guerre indiane cercavano deliberatamente il genocidio di un popolo. E che dire del capitano ed esploratore Vittorio Bòttego, che per mesi guida attraverso le regioni meridionali dell’Etiopia una colonna di avanzi di galera e non crede ad altra legge che a quella delle armi? Egli potrebbe salvare la vita e i risultati scientifici della sua spedizione all’Omo, se solo consegnasse le armi ai funzionari di un paese che ha percorso uccidendo e devastando. Ma la sola ipotesi di piegarsi ai «cani neri», di riconoscere che ha sistematicamente violato le leggi di uno Stato sovrano lo fa uscire di senno e preferire la morte sulla collina di Doga-Roba.

In realtà, come abbiamo visto dai pochi episodi narrati, il mito degli «italiani brava gente» serviva soltanto a coprire, ad attenuare, la vera natura di una massa di conquistatori senza scrupoli, impegnata in imprese sbagliate, guidata da ordini scellerati, abbandonata al suo destino dopo una serie di errori di Crispi e di Baratieri 152. Il castello costruito in undici anni di violenze, di abusi, di rapine, crollava in poche ore, fra le alture di Abba Garima e quelle di Saurià. Sul terreno restavano cinquemila soldati italiani, straziati dai cannoni di ras Balcià e dalle lance della cavalleria galla. Altri duemila venivano fatti prigionieri e deportati nello Scioa. Con Adua, finiva la prima esperienza italiana nel Corno d’Africa. Non poteva essere più disastrosa e umiliante. Eppure non sarebbe servita da lezione.

131 L’Eritrea economica, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1913, p. 3.

132 Citato in A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale; vol. I, Dall’Unità alla marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 441-442.

133 N. Labanca, In marcia verso Adua, Einaudi, Torino 1993, p. 182.

134 G. Piccinini, Guerra d’Africa, Perino, Roma 1887, p. 981.

135 Ivi, pp. 983-984.

136 Citato in Labanca, In marcia verso Adua, cit., p. 81.

137 Gli assassinii in Africa. 800 morti?, «Il Secolo», 5-6 marzo 1891.

138 Citato in Tenente Anonimo, Campagna d’Africa, Agom, Milano 1935, pp. 65-66. Le argomentazioni del generale Orero non erano molto diverse da quelle di Baldissera. Interrogato per il processo Livraghi sulla sorte di alcuni capi indigeni, sosteneva – ricorda Labanca – che «era quasi necessità di fucilarli segretamente lasciando credere alle famiglie che fossero stati mandati in Italia» (Labanca, In marcia verso Adua, cit., p. 285).

139 A. Bizzoni, Eritrea nel passato e nel presente. Ricerche, impressioni, delusioni di un giornalista, Sonzogno, Milano 1897, p. 238.

140 Ivi, p. 250.

141 Per ulteriori informazioni sugli scandali di Massaua, si veda Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., pp. 434-461.

142 Citato in M. Lenci, All’inferno e ritorno. Storie di deportati tra Italia ed Eritrea in epoca coloniale, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 2004, p. 37, nota 112.

143 Citato in Labanca, In marcia verso Adua, cit., p. 290.

144 Camera dei Deputati, Documenti diplomatici presentati al Parlamento italiano dal presidente del Consiglio Crispi, Tratta degli schiavi, seduta del 17 dicembre 1889, Tip. della Camera dei Deputati, Roma 1890, doc. 63, pp. 77-81.

145 Piccinini, Guerra d’Africa, cit., pp. 201-204.

146 Labanca, In marcia verso Adua, cit., p. 256.

147 Per l’attività del generale Miani in Eritrea si veda A. Del Boca, La disfatta di Gasr bu Hàdi. 1915: il colonnello Miani e il più grande disastro dell’Italia coloniale, Mondadori, Milano 2004, pp. 29-36.

148 L. Robecchi Bricchetti, Dal Benadir. Lettere illustrate alla Società antischiavista d’Italia, La Poligrafica, Milano 1904, p. 91.

149 Ivi, p. 33.

150 Si veda L. Martone, Giustizia coloniale. Modelli e prassi penale per i sudditi d’Africa dall’età giolittiana al fascismo, Jovene, Napoli 2002.

151 Per un’analisi del razzismo in colonia, si veda N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 411-424.

152 Uno degli errori più gravi di Baratieri fu l’indemaniazione dei migliori terreni dell’Eritrea, circa 394.000 ettari. Questa rapina su larga scala scatenava la rivolta del degiac Bahta Hagòs, repressa con particolare ferocia il 18 dicembre 1894.

4. In Cina contro i boxer

No, non era bastata la lezione di Adua. Non era bastata la vista del campo di battaglia, che biancheggiava per le ossa delle cinquemila salme spolpate dagli avvoltoi e dalle iene. Non era bastato l’oneroso riscatto di 10 milioni di lire pagato all’imperatore Menelik per il rilascio dei prigionieri. Non era bastato il disprezzo delle altre nazioni, che mettevano in evidenza come fosse la prima volta che un esercito europeo veniva così clamorosamente battuto da uno africano. No, non era bastato.

Se in Africa l’Italia era andata per motivi di prestigio, e con Adua lo aveva perso del tutto, in Cina vi andava nella speranza di recuperare credito e per vendicarsi del governo di Pechino che le aveva negato la concessione di San Mun. Erano gli anni del grande assalto all’impero di mezzo, in piena decadenza con la dinastia dei manciù, per strappare concessioni territoriali, zone di influenza, miniere e appalti per la costruzione delle ferrovie. Erano in corsa, per la spartizione, inglesi, russi, giapponesi, tedeschi. Sembrava che la Cina stesse per fare la stessa fine dell’Africa. Mancava soltanto che venisse indetto un nuovo Congresso di Berlino per codificare la lottizzazione. Comunque, a fine Ottocento, erano già 62 i settlements stranieri presenti in Cina.

A scatenare una nuova e furiosa corsa alla spartizione, nel giugno 1900, furono i boxer che posero uno stretto e minaccioso assedio al quartiere delle legazioni a Pechino. Assedio sostenuto anche da reparti dell’esercito regolare con il tacito consenso dell’imperatrice Tsû-hsi. I boxer (yihetuan in cinese, ossia i “pugni della giustizia e della concordia”) furono immediatamente demonizzati dalle cancellerie e dalla stampa di tutto il mondo. Essi erano certamente responsabili di aver ucciso missionari e cinesi convertiti al cristianesimo, e di aver distrutto le loro proprietà 153, ma la ferocia di cui diedero prova andava inserita in quel particolare momento di grandi e turbinosi mutamenti. I boxer raggruppavano contadini senza terre, carrettieri, artigiani, portatori di sedie, piccoli funzionari, ex soldati. Essi vedevano con autentico terrore l’ampliamento della rete ferroviaria, la costruzione delle linee telegrafiche, la comparsa sulle vie fluviali di navi a vapore, l’apparizione di tessuti e filati fabbricati a macchina. Tutte novità che, nell’immediato, toglievano loro posti di lavoro.

Portatori di queste novità erano gli stranieri, in modo particolare gli ingegneri delle ferrovie e delle miniere. Essi erano ferocemente odiati assieme a un’altra categoria, quella dei missionari, cattolici e protestanti. Un testo cinese redatto all’epoca di Mao Zedong spiega che

 

questi missionari stranieri, i cattolici soprattutto, mentre facevano costruire chiese si impadronivano di terre, minacciavano i funzionari locali, s’ingerivano nell’amministrazione, intervenivano nello svolgimento dei processi, raccoglievano vagabondi e ne facevano dei “convertiti”, di cui si servivano per opprimere le masse. Un tal modo di agire non poteva che provocare l’indignazione del popolo cinese 154.

 

Una fonte meno sospetta, quella dello storico Peter Fleming, giungeva però alle stesse conclusioni, e anzi le aggravava quando precisava che le pretese secolari dei missionari cattolici erano senza limiti. In una istanza al trono, presentata il 15 marzo 1899, essi chiedevano che si riconoscessero loro, incondizionatamente e interamente, i diritti politici e i privilegi concessi ai cinesi di altissimo rango: per esempio, l’equiparazione dei vescovi ai governatori generali. Fleming commentava così:

 

L’effetto di questo provvedimento sull’opinione pubblica cinese può essere valutato approssimativamente immaginando quale sarebbe stata la reazione britannica se nel XIX secolo fosse stato annunciato nel bollettino di Corte che gli stregoni più anziani dovevano essere considerati pari ai governatori nell’ordine delle precedenze 155.

 

Prima di demonizzare i boxer, nessuno però in Europa si era preso la briga di analizzare il fenomeno. Ci si limitava a dire che appartenevano a una delle tante società segrete cinesi, che indossavano camicia e pantaloni azzurri e fascia rossa intorno al capo, che si ritenevano invulnerabili alle pallottole (anche l’imperatrice Tsû-hsi ne era convinta) e che il loro grido di battaglia era Sha! Sha! (Ammazza! Ammazza!). A nessuno passava per la mente che potessero esprimere, seppure in maniera selvaggia, una rivolta contro la crescente presenza straniera che tendeva a trasformare costumi e valori. Era tale l’odio per questi “pugili” che l’imperatore Guglielmo II, nel salutare a Brema, il 27 luglio 1900, il contingente tedesco che partiva per la Cina, così l’arringava:

 

Quando vi troverete faccia a faccia con il nemico, sappiate batterlo. Nessuna grazia! Nessun prigioniero! Tenete in pugno chi vi capita sotto le mani. Mille anni fa, gli unni di Attila si sono fatti un nome che con potenza è entrato nella storia e nella leggenda. Allo stesso modo voi dovete imporre in Cina, per mille anni, il nome “tedesco”, di modo che mai più in avvenire un cinese osi guardare di traverso un tedesco 156.

 

Quasi negli stessi giorni, da altri porti, partivano per la Cina i contingenti giapponese, russo, inglese, americano, francese, austriaco e italiano. In tutto 20.000 uomini. Il loro obiettivo era Pechino dove, dall’inizio di giugno, 473 civili stranieri, difesi da 451 militari, erano assediati da migliaia di boxer nel quartiere delle legazioni. Essi dovevano inoltre dar man forte alla colonna dell’ammiraglio Seymour, la quale, dopo un infruttuoso tentativo di marciare su Pechino, aveva dovuto retrocedere su Tianjin (Tientsin) 157. Non c’era un minuto da perdere, perché la rivolta dei boxer si stava estendendo a tutte le regioni settentrionali della Cina. E a Pechino, nel quartiere assediato e nel recinto della cattedrale cattolica di Pe-tang, stavano per finire i viveri e le munizioni.

 

In Italia la nuova avventura in Cina non sollevava particolari entusiasmi. Il ricordo di Adua, con i suoi 5000 morti, era ancora troppo bruciante. Già l’anno prima, quando in Parlamento si era discusso il progetto di chiedere al governo di Pechino la baia di San Mun, affrontando per ultimi lo scramble for concessions, le opposizioni avevano reagito negativamente. Nella seduta del primo maggio 1899 il deputato repubblicano Salvatore Barzilai dichiarava:

 

Dopo le disillusioni e i disastri dell’Africa, ecco che noi nuovamente dal mar Rosso siamo tratti anche più lontano, nel Pacifico; ecco che improvvisamente si dice essere gli interessi veri dell’Italia nell’oceano Pacifico; e questo ripetono a memoria nelle farmacie tutti i parocchetti ammaestrati dai ministri e dai loro amici 158.

 

Nella stessa seduta prendeva la parola il deputato socialista Leonida Bissolati, il quale, a sua volta, dichiarava:

 

Ora di queste occupazioni della costa noi sappiamo qualcosa. Le ragioni militari, dopo occupata la costa, vogliono che si occupi un tratto di paese all’interno; e così il punto di occupazione si allarga fino a comprendere larghissimi tratti di territorio, come accadde a Massaua. […] Oggi la spedizione cinese si concepisce, si organizza e si compie mentre il Paese esce appena da una terribile crisi di miseria, mentre il diritto pubblico è lo stato d’assedio permanente. […] A questa politica noi socialisti non daremo né un uomo né un soldo 159.

 

Nel 1899, grazie soprattutto al reciso rifiuto di Pechino di concedere all’Italia la baia di San Mun, nella provincia del Zhejiang (Chekiang), la spedizione in Cina veniva annullata. Ma l’anno dopo, nonostante il fuoco di sbarramento delle opposizioni alla Camera, e sebbene l’estrema sinistra avesse ottenuto nelle elezioni del 3 giugno 1900 una straordinaria affermazione, prevaleva la decisione del governo, da pochi giorni presieduto dal conservatore piemontese Giuseppe Saracco. Inutilmente, nella tornata del 6 luglio, il deputato repubblicano Napoleone Colajanni, ben noto per la sua dirittura morale e per aver denunciato lo scandalo della Banca Romana, si era rivolto ai banchi del governo con frasi provocatorie: «Che direste voi, se uno straniero domani esclamasse: “Mi piace il porto di Messina” e se lo prendesse? E poi facesse altrettanto con Napoli? Gli europei hanno operato così in Cina!» 160.

A salutare il contingente che si imbarcava a Napoli il 19 luglio era presente Umberto I. Il sovrano, che di lì a dieci giorni sarebbe stato ucciso dall’anarchico Gaetano Bresci, non era uomo da pronunciare, come Guglielmo II, un «discorso degli unni». Si limitava a precisare che il contingente in partenza andava a difendere «il sacro diritto delle genti e dell’umanità calpestata» e invitava i soldati a «tener alto il prestigio dell’esercito italiano e l’onore del nostro Paese» 161. Vittorio Emanuele III, che gli succedeva il 30 luglio, sarebbe stato, in quella stessa occasione, probabilmente più laconico. Egli non condivideva l’entusiasmo dei Savoia per la spedizione in Cina. In una lettera del 9 settembre al suo antico governatore, il generale Egidio Osio, scriveva infatti: «Quando potremo farci pagare dalla China le spese non indifferenti incontrate dalla spedizione, noi dobbiamo finire quell’avventura chinese e lasciare che l’iniziativa privata faccia quello che potrà fare laggiù. Non si debbono mandare i soldati prima dei mercanti. In una parola non si deve creare una seconda Africa» 162.

 

Il corpo di spedizione italiano era costituito da un battaglione di fanteria, uno di bersaglieri, una batteria di mitragliatrici, un distaccamento misto del genio, un ospedaletto da campo. Complessivamente contava 83 ufficiali, 1882 soldati e 178 quadrupedi. Ne aveva assunto il comando, il 16 luglio, il colonnello Vincenzo Garioni, futuro governatore della Tripolitania. Lasciata Napoli il 19 luglio, a bordo dei tre piroscafi SingaporeGiava Marco Minghetti, il contingente raggiungeva la rada di Ta-Ku all’alba del 29 agosto. «A causa degli inconvenienti derivati dalla partenza troppo accelerata e dal confuso caricamento» 163, recita la relazione ufficiale del Ministero per la Guerra, il corpo di spedizione giungeva a destinazione in condizioni pietose. L’umidità aveva quasi completamente distrutto le derrate alimentari, in particolar modo la farina e lo zucchero. La relazione, per nulla reticente, continuava: «L’umidità produsse gravi danni a quasi tutti gli oggetti caricati a bordo: le armi arrugginite, i corami ammuffiti, coperti di muffa perfino gli indumenti degli ufficiali nelle loro casse» 164. La mancanza di spazio a bordo aveva anche fatto esplodere sul Giava un’infezione tifoidea, che per fortuna era stata contenuta.

Ma il peggio doveva accadere al momento dello sbarco del contingente nel porto di Tong-ku. Poiché l’Italia non possedeva, a differenza delle altre nazioni, alcuna concessione in Cina, nulla era stato approntato per lo sbarco. Scrivendo alla madre, il tenente colonnello Tommaso Salsa esprimeva tutto il suo stupore e la sua indignazione:

 

È doloroso il dirlo, ma la nostra Marina è stata qui e dovunque di una imprevidenza incredibile. Non il più piccolo mezzo da sbarco fu procurato per scaricare i vapori, non un po’ di terreno per la truppa e dei magazzini provvisori a Ta-Ku, non un solo pontile d’arrivo. […] E così facciamo la peggiore delle figure dovendo continuamente andare ad elemosinare una cosa o l’altra da altre nazioni […]. Non so se queste verità salteranno fuori, ma mi par difficile che possano mantenersi celate. T’assicuro che ne provo la più grande vergogna pel nostro Paese 165.

 

In un’altra lettera, sempre alla madre, Salsa esprimeva il suo parere sulle cause della crisi cinese:

 

A dire il vero la causa principale dell’attuale movimento antiforestiero si deve cercare nella intolleranza e negli intrighi d’ogni genere dei missionari, i quali del monito della religione si servono per scopi terreni e politici. Credo che sarebbe bene che, per qualche lustro ed anche più, le missioni di qualsiasi religione e nazione non mettessero più piede in Cina 166.

 

Giunto a Tianjin, Salsa, che pure aveva partecipato alla costruzione, in Eritrea, di quell’universo crudele che abbiamo descritto, e aveva vissuto la tremenda giornata di Adua, rimaneva inorridito dinanzi alle macerie della città: «Ponti distrutti, cannoni smontati, locomotive bombardate, treni interi incendiati, di cui non rimane che l’ossatura ferrea, quasi scheletri immensi di giganti. La stazione di Tientsin è un mucchio di rovine; tutto è sprofondato sotto l’azione divoratrice del fuoco e distruttrice delle moderne artiglierie» 167.

Gli faceva eco Luigi Barzini, che era a Tianjin per conto del «Corriere della Sera»:

 

Non una casa in piedi. Gli alberi sono troncati e tagliuzzati dall’uragano di piombo che si è scatenato per otto giorni sopra la città. Si cammina sui rottami. […] Tutto è desolazione, miseria. Tientsin, la popolosa città, la più fiorente metropoli nel Nord della Cina, non esiste più. […] Il ponte sul Pei-ho, di fronte alla concessione francese, è distrutto. Si traversa sopra a delle tavole che mal si reggono. L’acqua putrida di cadaveri scorre vorticosa, trascinando carogne di animali e di boxer, che passano ancora gonfi e lividi, con le mani ischeletrite a fior d’acqua. Non si sente che il passaggio di soldati, il rumore dei cariaggi, il grido dei comandi 168.

 

L’8 settembre, essendosi diffusa la notizia che i boxer si erano concentrati nel grosso villaggio di Tu-liu, veniva costituito un contingente misto di truppe, il cui comando era affidato al generale inglese Dorward. Il tenente colonnello Salsa era della partita, ma non ne condivideva i risultati. Riferiva infatti alla madre:

Ma quando le maglie sono state ristrette, neppure un pesciolino è rimasto nella rete. I boxer erano spariti, se pure erano esistiti mai, e neppure un colpo di fucile si è fatto. Ma gli inglesi, ligi ai loro metodi, hanno seminato la distruzione sulla città colpevole, che dopo essere stata completamente abbandonata al saccheggio fu bruciata completamente e con metodi scientifici. Anche noi abbiamo preso qualche cosa, piuttosto che la prendessero gli altri, ma bisognava vedere indiani, cosacchi e americani, che razza di ladri sono! […] Uscite le truppe, la città fu data alle fiamme da un distaccamento del genio inglese che non lasciò una casa in piedi. E dire che veniamo qui per portare la civiltà! 169

Non era soltanto Tommaso Salsa che si lamentava per come veniva condotta la campagna in Cina. Il tenente medico Giuseppe Messerotti Benvenuti così scriveva alla madre da Tianjin il 2 ottobre:

 

La nostra venuta, dal lato dello scopo umanitario, è stata perfettamente inutile. Ormai è chiaro che tutta la storia della guerra è stata gonfiata e che gli episodi dei Ministri e dei massacri, quasi di sana pianta sono stati inventati da chi aveva interesse a fare in Cina una grande spedizione 170.

 

In una lettera successiva, confermando le denunce di Salsa, scriveva senza mezzi termini: «Pare che siamo venuti qui allo scopo di fare razzie non per altro». E riferiva di ufficiali e di soldati italiani «che si sono fatti dei piccoli capitali», e in particolare di un tenente medico di marina che «ha razziato tanto e così poco pulitamente che l’hanno punito col rimpatrio immediato» 171.

Barzini, dal canto suo, poneva in evidenza il susseguirsi di inutili massacri, di una vera e propria caccia al cinese:

 

Ogni freno è stato spezzato; si direbbe che la bestia umana abbia preso il sopravvento sull’uomo. L’assassinio, il saccheggio e l’incendio non hanno risparmiato né una casa né un fuggiasco. I francesi come i loro amici cosacchi, i tedeschi come i giapponesi, tutti, senza distinzione, si sono precipitati in questa corsa al crimine. Da tale momento la bandiera della civiltà avrebbe dovuto essere ammainata. […] Un ufficiale di artiglieria tedesco mi ha detto che ammazzava un cinese al giorno, per sostenere il morale delle sue truppe 172.

 

In una delle sue ultime lettere dalla Cina, il tenente colonnello Tommaso Salsa, che dodici anni dopo si aggiudicherà una medaglia d’oro per la conquista di Ettangi, in Libia, dava della spedizione un giudizio del tutto negativo: «In complesso poco mi soddisfa questa campagna di Cina, dove c’è da ricavare per noi poco onore militare e nessun utile pratico, visto che il nostro Governo, come di solito, non ha un programma deciso e va sempre ondeggiando fra opposti interessi» 173.

 

Mentre parte del corpo di spedizione cercava di ripulire, come abbiamo visto, le sacche di resistenza intorno a Tianjin, massacrando i civili quando i boxer riuscivano a eclissarsi, il «corpo di liberazione», al comando del generale inglese Gaselee, lasciava Tianjin e marciava su Pechino incontrando una debole resistenza 174. Il 13 agosto le truppe si trovavano sotto le mura della capitale e l’indomani giapponesi, americani, francesi, russi e inglesi, suddivisi in quattro colonne, lanciavano l’attacco finale, preceduto dal fuoco di tutte le artiglierie 175. Vinta l’ultima resistenza, entravano in città e liberavano il quartiere delle legazioni e la cattedrale di Pe-tang, mentre l’imperatrice e i suoi fedeli fuggivano travestiti da contadini 176.

L’assedio delle legazioni era durato 55 giorni. Erano rimasti uccisi 76 stranieri nel corso dei combattimenti, altri 150 avevano riportato ferite. Più pesante il bilancio delle perdite nel perimetro della cattedrale, dove si erano rifugiati 3500 cinesi convertiti al cristianesimo e sui quali i boxer avevano lanciato 2500 proiettili di artiglieria. Subito dopo la liberazione degli assediati, le forze internazionali procedevano alla spartizione della capitale ed era in questa fase che, secondo tutte le fonti, il comportamento dei vincitori toccava il culmine della crudeltà. Così ne riferiscono Marianne Bastide, Marie-Claire Bergère e Jean Chesneaux:

 

Ha allora inizio una carneficina e un saccheggio sistematici che superano di gran lunga tutti gli eccessi compiuti dai boxer. A Pechino migliaia di uomini vengono massacrati in un’orgia selvaggia; le donne e intere famiglie si suicidano per non sopravvivere al disonore; tutta la città è messa a sacco, il Palazzo imperiale, occupato dalle truppe straniere, viene spogliato della maggior parte dei suoi tesori 177.

 

Inviato da «Le Figaro» in Cina, il celebre scrittore Pierre Loti confermava nei suoi articoli «la smania di distruzione e la furia omicida» contro l’infelice «Città della Purezza»:

Ci sono venuti i giapponesi, eroici piccoli soldati di cui non vorrei parlar male, ma che distruggono e uccidono come in altri tempi le orde barbare. Ancora meno vorrei sparlare dei nostri amici russi, ma hanno spedito qui cosacchi provenienti dalla vicina regione tartara, siberiani mezzo mongoli, tutta gente abilissima a sparare, ma che concepisce ancora la battaglia alla maniera asiatica. Poi sono arrivati qui gli spietati cavalieri d’India, delegati dalla Gran Bretagna. L’America ha inviato i suoi mercenari. Non c’era più nulla di intatto quando sono arrivati, nella prima eccitazione della vendetta contro le atrocità cinesi, gli italiani, i tedeschi, gli austriaci, i francesi 178.

Il generale Chaffee, dal canto suo, riferiva ai giornalisti che si poteva seriamente affermare «che dopo la presa di Pechino, per ogni boxer che è stato ucciso sono stati trucidati quindici innocenti portatori o braccianti di campagna, compresi non poche donne e bambini» 179. Il saccheggio di Pechino, con il suo codazzo di assurde uccisioni, durò ancora per molti mesi, mentre ciascun contingente accusava gli altri di rapacità e sosteneva, per proprio conto, di avere le mani nette. A questo gioco di scaricabarile partecipava anche l’Italia. Lo si deduce dalla relazione ufficiale del Ministero per la Guerra, dalle riflessioni dei giornalisti e persino dalle lettere ai congiunti. Scriveva Amedeo Tosti nella ricordata relazione: «Il nostro contingente, per la sua condotta, per le qualità dimostrate, per il contegno dei suoi capi, si era sempre più affermato nella considerazione e nella simpatia generale» 180.

Anche Luigi Barzini, che pure insisteva sulle incredibili deficienze del contingente italiano e provava pietà e insieme disgusto per le divise rabberciate dei bersaglieri 181, scriveva in un suo dispaccio al «Corriere della Sera»: «I nostri soldati sono bonari, adattabili, gioviali, disciplinati; il loro comfortable è ridotto ai minimi termini, ed essi non se ne curano» 182. Mario Valli era ancora più esplicito nel delineare le eccellenti qualità del soldato italiano e la sua assoluta estraneità ai saccheggi e alle stragi:

 

Non possiamo fare a meno di affermare che il soldato italiano, di carattere mite, rifugge, in massima, da atti di violenza. La brutalità, che arriva ad uccidere, il gusto di torturare gli inermi, la spinta a far male, per giuoco, tutti questi malvagi istinti, insomma, che tornano facilmente a galla, dove una folla d’uomini ha vinto, appartengono alla grande delinquenza e sono la rivelazione di un carattere intimo, che non è quello del nostro soldato. È in lui, si potrebbe dire, una rozza bontà d’animo e, se pure è capace di atti villani, per deficienza d’educazione, difficilmente giunge ad eccessi di crudeltà 183.

 

A questo ignobile gioco dello scaricabarile poneva drasticamente fine il feldmaresciallo Alfred von Waldersee, comandante del contingente tedesco, con una battuta bruciante: «Ogni nazionalità dà la palma all’altra nell’arte del saccheggio, ma in realtà ognuna e tutte vi s’immersero a fondo» 184. In effetti il contingente italiano prese parte, con gli altri contingenti, a stragi, a saccheggi, a incendi di interi abitati, alla decapitazione pubblica di boxer o presunti tali. La stessa relazione ufficiale del Ministero per la Guerra non nascondeva, per esempio, che dalla spedizione su Pao-ting, «una delle più gravi rappresaglie compiute dagli alleati sulla popolazione cinese» 185, agli italiani toccò, come quota del bottino, la cifra di 26.000 dollari 186. La sola differenza con i soldati degli altri contingenti era che questi ultimi non avevano il problema di apparire «brava gente».

 

L’ultima rapina ai danni della Cina, compiuta dalle potenze alleate che avevano partecipato alla spedizione, fu l’imposizione di un indennizzo per le spese di guerra sostenute. Si trattava di una cifra assolutamente gravosa: 450 milioni di Haikvan taels d’argento, pari a 1.687.500.000 lire dell’epoca. Di questa somma spettavano all’Italia 26.617.000 taels, pari a 99.813.768 lire 187. Forse Vittorio Emanuele III si aspettava qualcosa di più, ma la ripartizione era stata regolare, rispettava l’impegno in uomini di ciascuna nazione.

La Cina riconosceva inoltre all’Italia il settlement di Tianjin, ossia la proprietà perpetua di un terreno di quasi 46 chilometri quadrati, con 17.000 abitanti, posto nei sobborghi della città cinese, compreso fra le concessioni russa e austriaca. Si trattava, però, di un’area in gran parte paludosa con al centro un lurido villaggio di 700 tuguri di fango. Non rese mai una lira all’erario e anzi, per bonificare la concessione e costruirvi degli edifici decenti, la Cassa depositi e prestiti dovette anticipare la rispettabile cifra di 400.000 lire 188.

Così, in pura perdita, si concludeva l’avventura cinese. Forse il solo che avesse messo a profitto il suo lungo soggiorno nell’impero di mezzo era il tenente medico Messerotti Benvenuti. Non soltanto perché aveva lenito tante sofferenze negli ospedaletti da campo, ma perché riportava in patria alcune centinaia di fotografie che aveva scattato con la sua Kodak Cartrigde. Con quelle foto, che erano tutt’altro che amatoriali, il medico modenese aveva ritratto le rovine di Tianjin, le mura di Pechino, il Palazzo imperiale d’Inverno, la più grande campana del mondo, il letto dell’imperatrice, la cattedrale di Pe-tang, cinesi alla berlina, musicisti ciechi, gruppi di ufficiali italiani, la famiglia di un mandarino. Le più crudeli erano quelle che aveva scattato il 22 dicembre 1900, a Pechino. Erano le sequenze della decapitazione di un cinese sospetto di aver preso parte all’assassinio di un soldato italiano. Cinque immagini che il medico così commentava: «Sarò d’animo cattivo, ma ti assicuro che il triste spettacolo, sebbene condotto in modo barbaro dal boia cinese e dai suoi aiutanti, non mi ha fatto quell’impressione che temevo di riportarne. Forse perché ero convinto della colpevolezza dell’individuo e della giustezza della punizione» 189. Tra i ricordi che riportava nella sua dimora di Villanova c’era anche questa poesiola, modesta, triviale, che però la dice lunga sulla pratica più diffusa del corpo di spedizione:

 

Se vogliamo confessarci

andiam dal bonzo nella pagoda.

Se non troviamo nulla da razziare

noi gli rubiamo i cristi sull’altare.

Ciascuno è convinto di far la sua parte

seguendo un istinto: l’amore per l’arte 190.

153 Sulle persecuzioni al clero cattolico in Cina sono apparsi centinaia di libri, editi quasi esclusivamente dalle congregazioni religiose. Non privi di valore, essi trascurano però, quasi sempre, le ragioni dei cinesi. Si vedano L. Crescitelli, Vita del servo di Dio Padre Alberico Crescitelli, missionario apostolico nello Scensi meridionale in Cina, Tipografia Gennaro Ferrara, Avellino 1914; G. Brambilla, La Chiesa di Cina e i suoi fasti, Istituto delle Missioni Estere, Milano 1917; G. Ricci e E. Porta, Storia della missione francescana e del vicariato apostolico del Hunan meridionale dalle sue origini ai giorni nostri, Stabilimenti Poligrafici Riuniti, Bologna 1925; G. Ricci, Pagine di eroismo cristiano, Tipografia Moderna, Lonigo 1925; G. Baur, Il servo di Dio P. Giuseppe Freinademez, Tipografia missionaria San Gabriele, Vienna 1942; L.M. Balconi, Trentatré anni in Cina, Pontificio Istituto delle Missioni Estere, Milano 1943; G. Politi, Martiri in Cina, EMI, Bologna 1998; A. Crotti, Noè Tacconi, 1873-1942. Il primo Vescovo di Kaifeng (Cina), EMI, Bologna 1999. Secondo questi autori, il totale delle vittime cristiane causate dai boxer oscilla fra 20.000 e 30.000 unità.

154 C. Po-tsan, S. Hsun-cheng e H. Hua, Storia della Cina antica e moderna, Editori Riuniti, Roma 1960, p. 117.

155 P. Fleming, La rivolta dei boxers, Dall’Oglio, Varese 1965, pp. 53-54.

156 Citato in J. Osterhammel, Storia della Cina moderna. Secoli XVIII-XX, Einaudi, Torino 1992, p. 321.

157 Sulla disastrosa spedizione della colonna di Seymour, che ebbe 62 morti, di cui 5 italiani, e 223 feriti, tra i quali 8 italiani, si vedano E. Chiminelli, Nel Paese dei Draghi e delle Chimere, Lapi, Perugia 1903, pp. 205-249; Ufficio Storico della Regia Marina, L’opera della R. Marina in Cina, Vallecchi, Firenze 1935, pp. 71-97.

158 S. Barzilai, Vita internazionale, Quattrini, Firenze 1911, p. 15.

159 L. Bissolati, La politica estera dell’Italia dal 1897 al 1920, Treves, Milano 1923, pp. 36 e 49-50.

160 Citato in F. Fontana, In viaggio per la Cina, Tipografia Nazionale di V. Ramperti, Milano 1900, p. 275.

161 Citato in R. Ciasca, Storia coloniale dell’Italia contemporanea, Hoepli, Milano 1940, p. 339.

162 Citato in G. Artieri, Cronaca del Regno d’Italia. Da Porta Pia all’Intervento, Mondadori, Milano 1977, p. 805.

163 Ministero per la Guerra, Stato Maggiore del Regio Esercito, Ufficio Storico, La spedizione italiana in Cina, 1900-1901, Provveditorato Generale dello Stato, Roma 1926, p. 63.

164 Ivi, pp. 60-61. Il testo del documento è di Amedeo Tosti.

165 E. Canevari e G. Comisso, Il generale Tommaso Salsa e le sue campagne coloniali. Lettere e documenti, Mondadori, Milano 1935, p. 329. La lettera è datata Tianjin, 6 settembre 1900.

166 Ivi, p. 327. Lettera dalla rada di Ta-Ku del 30 agosto 1900.

167 Ivi, p. 332. Lettera del 6 settembre 1900.

168 L. Barzini, Avventure in Oriente, Mondadori, Milano 1959, p. 18.

169 Canevari e Comisso, Il generale Tommaso Salsa e le sue campagne coloniali, cit., pp. 336-337.

170 G. Messerotti Benvenuti, Un italiano nella Cina dei Boxer. Lettere e fotografie, 1900-1901, a cura di N. Labanca, Associazione Giuseppe Panini Archivi Modenesi, Modena 2000, p. 24.

171 Ivi, p. 27. La lettera è in data 10 ottobre 1900.

172 Barzini, Avventure in Oriente, cit., pp. 22-23.

173 Canevari e Comisso, Il generale Tommaso Salsa e le sue campagne coloniali, cit., p. 339.

174 Ben diversa sarebbe stata la resistenza cinese se fossero scese in campo le due divisioni, addestrate ed equipaggiate all’europea, comandate dal governatore dello Shandong (Shantung), generale Yuan Shikai. Egli era nettamente contrario al movimento dei boxer e anzi ne aveva uccisi parecchi per dimostrare quanto fosse infondata la leggenda della loro invulnerabilità. Si veda il suo ritratto in J. Ch’ên, Yuan Shih-K’ai, 1859-1916. Brutus Assumes the Purple, George Allen and Unwin, London 1961.

175 Sull’attacco a Pechino si veda Colonel de Pélacot, Expédition de Chine de 1900, Charles-Lavanzelle, Paris (s.d.). La copia in nostro possesso è stata dedicata dall’autore «à sa Majesté Victor Emmanuel III, Roi d’Italie. Hommage de profond respect en souvenir de la collaboration des détachements Italien et Francais pour la defense du Pe-tang (1900), Tananarive, le 16 février 1904». Il libro reca l’ex libris del re con questa dicitura: «Proprietà privata di Sua Maestà il re Vittorio Emanuele III».

176 Sull’imperatrice Tsû-hsi e la sua corte si vedano J.O.P. Pland e E.T. Backhouse, China Under the Empress Dowager, Heinemann, London 1910; Princess Der Ling, Two Years in the Forbidden City, Moffat, Yard and Company, New York 1911; D. Varè, Yehonala. Storia dell’imperatrice Tzu Hsi e del trapasso dalla vecchia Cina alla nuova, Bemporad, Firenze 1933; C. Dragoni, La meravigliosa vita di Tzu Hsi, imperatrice, Mondadori, Milano 1943. Sui boxer e sulla Cina in generale, si vedano anche V. Purcell, La rivolta dei Boxer, Rizzoli, Milano 1972; A. Gérard, Ma mission en Chine, 1893-1897, Plon, Paris 1918; F. Farjenel, La Morale chinoise, fondement des sociétés d’Extrême-Orient, Giard & Brière, Paris 1906; G. De Luigi, La Cina contemporanea. Viaggio e note, Treves, Milano 1912; G. Licata, Notabili della terza Italia, Cinque Lune, Roma 1968; M. Sabattini e P. Santangelo, Storia della Cina. Dalle origini alla fondazione della Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1986.

177 M. Bastide, M.-C. Bergère e J. Chesneaux, La Cina, vol. II, Dalla guerra franco-cinese alla fondazione del Partito comunista cinese, 1885-1921, Einaudi, Torino 1974, p. 118.

178 P. Loti, Les Dernièrs jours de Pékin, Calmann-Lévy, Paris 1901, pp. 75-76.

179 Fleming, La rivolta dei boxers, cit., p. 359.

180 Ministero per la Guerra, La spedizione italiana in Cina, cit., p. 83.

181 Barzini, Avventure in Oriente, cit., p. 60. Ecco come descrive le uniformi dei bersaglieri: «I loro berretti presentavano, per il lungo uso, tutte le gradazioni, dal cremisi al nero; le uniformi cosparse di macchie avevano dei numerosi e mal celati rammendi eseguiti “manu militari”; le giberne, i cinturini logori, cedenti, erano tenuti con sapienti legature di spaghi tinti in nero».

182 Ivi, p. 54.

183 M. Valli, Gli avvenimenti in Cina nel 1900 e l’azione della R. Marina italiana, Hoepli, Milano 1905. Citato in Messerotti Benvenuti, Un italiano nella Cina dei boxer, cit., p. VII, dall’introduzione di N. Labanca.

184 Citato in Fleming, La rivolta dei boxers, cit., pp. 344-345.

185 Ministero per la Guerra, La spedizione italiana in Cina, p. 74.

186 Ivi, p. 75.

187 Si veda, per il protocollo finale di pace di Pechino, firmato da tredici plenipotenziari il 7 settembre 1901, il libro di Manfredi Gravina di Ramacca, La Cina dopo il millenovecento, Treves, Milano 1907, pp. 22-31.

188 Si veda V. Fileti, La concessione italiana di Tien-Tsin, Barabino e Gravese, Genova 1921.

189 Messerotti Benvenuti,Un italiano nella Cina dei boxer, cit., p. 49. Si veda anche, sull’argomento, l’articolo di M. Smargiassi dal titolo L’italiano che fotografò l’orrore. Pechino 1901 sembra Bagdad, pubblicato su «la Repubblica» del 23 maggio 2004.

190 Messerotti Benvenuti, Un italiano nella Cina dei boxer, cit., p. 56.

5. Sciara Sciat: stragi e deportazioni

L’infruttuosa e poco onorevole campagna di Cina avrebbe dovuto sconsigliare i governanti d’Italia dall’intraprendere nuove avventure fuori di casa. Adua e Pechino bastavano. Non era quella la strada per ridare prestigio a una giovane nazione che non aveva ancora raggiunto i confini naturali e che scopriva ogni giorno nuovi e urgenti problemi da risolvere. Ma il tarlo dell’imperialismo avrebbe intaccato anche un uomo di governo della statura di Giovanni Giolitti.

Questa volta l’obiettivo era la Libia. Da anni, soprattutto da quando la Francia aveva occupato la Tunisia, sulla quale da tempo l’Italia aveva messo gli occhi, si andava dicendo nella penisola che, per ristabilire gli equilibri nel Mediterraneo, era assolutamente necessario prendere possesso dei due vilâyet turchi della Tripolitania e della Cirenaica. A convincere l’opinione pubblica che l’occupazione della «quarta sponda» rientrava negli inviolabili diritti di Roma e negli incancellabili disegni del destino, ci pensavano i nazionalisti e gli organi della grande stampa. Dal 1903 i nazionalisti auspicavano la creazione in Italia di una società di «tipo energico»; sollecitavano la ripresa dell’espansionismo coloniale; combattevano aspramente il pacifismo, l’umanitarismo, il socialismo, l’internazionalismo, e invocavano la guerra, una qualsiasi, «per rinnovare l’Italia condannata alla più bassa esistenza tra la miseria materiale dei suoi emigranti e la miseria morale dei suoi politicanti» 191.

A condurre questa battaglia, oltre ai leader dell’Associazione nazionalista italiana, come Enrico Corradini, Luigi Federzoni, Maurizio Maraviglia, Francesco Coppola, Roberto Forges Davanzati, c’era un nutrito gruppo di scrittori e giornalisti che non si peritava di inventare le più inverosimili storie sulle ricchezze della Libia. Si veda, per esempio, che cosa scriveva Enrico Corradini dopo aver visitato alcuni giardini nell’oasi di Tripoli: «Che olivi folti, cupi, non potati, selvosi, carichi di olive! Viti atterrate dal peso dei grappoli. Altro che deserto! Siamo in terra promessa» 192. Dal canto suo, Giuseppe Bevione, che non conosceva limiti, raggiungeva l’orgasmo nella sua frenetica declamazione:

 

Ho veduto gelsi grandi come faggi, ulivi più colossali che le quercie. L’erba medica può essere tagliata dodici volte all’anno. Gli alberi da frutta prendono uno sviluppo spettacoloso. Il grano e la melica danno, negli anni medi, tre o quattro volte il raccolto dei migliori terreni d’Europa coltivati razionalmente. L’orzo è il migliore che si conosca ed è accaparrato dall’Inghilterra per la sua birra. […] La vigna dà grappoli a grandezze incredibili, a venti e trenta chili per frutto. I datteri sono i più dolci e opimi che l’Africa produca 193.

 

Inutilmente uomini saggi come Luigi Einaudi, Edoardo Giretti, Gaetano Mosca, Pio Schinetti, Guido Miglioli, Arcangelo Ghisleri si dichiaravano contrari all’impresa libica e ne ponevano in evidenza i pericoli e gli oneri economici che avrebbero interrotto il cammino dell’Italia verso una civiltà moderna industriale per farla retrocedere, come sosteneva Giretti, «verso il tipo arretrato di società barbarica-militarista» 194. Quanto alle supposte ricchezze agricole della Libia, il geografo e storico Arcangelo Ghisleri le contestava con l’autorità che gli derivava dal fatto di aver indagato a fondo il paese africano: «Per lo studio da me fatto sull’argomento sotto vari aspetti, checché fantastichino e scrivano gli infatuati e i colonizzatori dell’erudizione improvvisata, crediamo di poter escludere assolutamente l’illusione che la Tripolitania possa mai diventare per i contadini italiani una “colonia di popolamento”» 195. Gaetano Salvemini, per finire, definiva la Libia «una enorme voragine di sabbia» 196, che avrebbe ingoiato, per anni, uomini e denaro.

Non c’era alcuna giustificazione per andare a Tripoli, così come non ce n’erano state per andare a Massaua e a Pechino. C’era soltanto il desiderio di menare le mani, di fare la guerra, una qualsiasi, di imporre la propria volontà agli altri, di distruggere, di darsi al saccheggio. Com’è straordinariamente attuale la descrizione dei «colonizzatori» fatta da Joseph Conrad in Cuore di tenebra. È il capitano Marlow che parla. Ai marinai che lo ascoltano descrive i legionari romani che risalivano il Tamigi sui loro fragili legni:

 

Non erano colonizzatori; la loro amministrazione, sospetto, si riduceva al mero sfruttamento e basta. Erano conquistatori, e per questo ci vuole solo la forza bruta; niente di cui vantarsi, se ce l’hai, perché la tua forza è solo un fatto contingente che sorge dalla debolezza altrui. Quelli arraffavano tutto quanto potevano per amore di quello che c’era da prendere. Era proprio una rapina a mano armata, omicidio aggravato su vasta scala, di uomini che agivano alla cieca, come del resto ben si addice a chi è alle prese con le tenebre. La conquista della terra, che in generale vuol dire portarla via a chi ha una pelle diversa dalla nostra o un naso un po’ più schiacciato, a pensarci bene non è proprio una bella cosa 197.

 

No, non era una bella cosa. Anche perché gli uomini del corpo di spedizione italiano che si accingevano a sbarcare in Libia non erano molto diversi, non erano migliori dei legionari romani che risalivano il Tamigi per invadere la Gran Bretagna. La motivazione finale, degli uni come degli altri, era la stessa: una lunga, interminabile rapina.

 

Il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti non credeva alla favola della «terra promessa». Contrario, per temperamento, a imbarcarsi in imprese rischiose, abituato da sempre a dare l’assoluta precedenza alla politica interna, sorprese tutti quando decise l’intervento. Si cercò allora di scoprire le ragioni del suo voltafaccia. Si disse che aveva voluto creare uno sfogo alle dilaganti tendenze nazionalistiche e offrir loro in Africa un diversivo alle aspirazioni più pericolose, quelle irredentistiche e balcaniche. Si disse che era stato spinto dalla ricerca di un giusto equilibrio nel Mediterraneo. Si disse ancora che aveva pienamente aderito al programma espostogli dal suo ministro degli Esteri, Antonino di San Giuliano. Ma lui stesso, alla fine, forniva il 7 ottobre 1911, al Teatro Regio di Torino, il vero motivo della sua decisione. Ed era una giustificazione strabiliante, così lontana dal suo carattere di uomo freddo, cinico, non passionale:

 

Vi sono fatti che si impongono come una fatalità storica alla quale nessun popolo può sottrarsi senza compromettere in modo irreparabile il suo avvenire. In tali momenti è dovere del Governo di assumere tutte le responsabilità perché una esitazione o un ritardo può segnare l’inizio di una decadenza politica, producendo conseguenze che il popolo deplorerà per lunghi anni, e talora per secoli 198.

 

Non sembravano parole di Giolitti, ma di Corradini. Passando dal dominio della politica e dell’economia a quello dell’irrazionale e del soprannaturale, Giolitti si assumeva dunque il solo merito di aver individuato e colto al momento giusto l’obiettivo immutabile indicato dal fato. Ma ciò che Giolitti probabilmente pensava – e non poteva certo rivelare al Regio di Torino – era che la spedizione in Libia si sarebbe risolta in una breve passeggiata militare e che l’Europa, come ipotizzava Antonino di San Giuliano, si sarebbe trovata «in presenza di un fatto compiuto, prima quasi di prenderlo in esame» 199. Giolitti fondava questa certezza sulle informazioni che continuava a ricevere dal console generale a Tripoli, Carlo Galli, il quale non soltanto minimizzava i pericoli nella fase dello sbarco, ma soprattutto escludeva ogni collusione fra turchi e arabi. Né c’era inoltre alcun timore per un appello alla guerra santa: non vi avrebbero aderito le popolazioni della costa e «le tribù che forse potrebbero udire un tale appello sono povere, disarmate o lontane troppo perché possano essere temibili» 200. Per finire, Galli assicurava Giolitti che gli arabi avrebbero accolto gli italiani come liberatori, poiché erano stanchi della dura dominazione ottomana.

In base a queste informazioni, Giolitti rompeva ogni indugio e il 26 settembre inviava un ultimatum alla Turchia che, per il suo tono brutale e ingiustificato, equivaleva a una dichiarazione di guerra. Il documento, ha infatti rilevato uno studioso francese, «non conteneva che vaghe lagnanze, nessuna delle quali poteva costituire un casus belli» 201. Scaduto l’ultimatum, il 3 ottobre il viceammiraglio Luigi Faravelli si avvicinava alla costa libica con più di venti navi, tra corazzate, incrociatori e cacciatorpediniere, e apriva il fuoco sui vecchi forti di Tripoli difesi da cannoni altrettanto obsoleti. Due giorni dopo, senza incidenti, avveniva lo sbarco, e nel giro di un paio di settimane l’intero corpo di spedizione, forte di 34.000 uomini e 72 cannoni, al comando del generale Carlo Caneva, prendeva possesso di Tripoli e Homs in Tripolitania, di Bengasi, Derna e Tobruq in Cirenaica.

Non era però stato facile ovunque prendere terra e insediarsi. A Derna, a Bengasi e a Homs si era seriamente combattuto. E nell’ultima località era andata in frantumi la teoria del console Galli sulla impossibile alleanza fra turchi e arabi. A Homs, infatti, a dare manforte ai 500 ottomani della guarnigione c’erano addirittura 1000 arabi, e fra i più combattivi. Questo fatto nuovo, non previsto, avrebbe dovuto mettere in guardia gli alti comandi, ciò che non avvenne. Giustamente Giorgio Rochat ha osservato:

 

Anche questa volta, una guerra coloniale venne condotta con reparti di leva assolutamente inadatti. Tutto ciò non toglie che responsabilità precipua degli alti comandi fosse il cedimento alla propaganda nazionalista, tanto forsennata quanto priva di concretezza, e quindi la sottovalutazione delle difficoltà dell’impresa e della capacità di resistere delle popolazioni 202.

 

Il generale Caneva disponeva in Tripoli, la sera del 22 ottobre 1911, di 22.500 uomini distribuiti in un perimetro abbastanza ristretto, fra ras Lamhar e il villaggio di Sciara Sciat. Mentre per tre quarti dello schieramento, da ovest a sud, era stato facile organizzare le difese, perché le trincee avevano di fronte il deserto e alle spalle i palmeti, a oriente, invece, dal Forte Messri al mare, le linee italiane passavano attraverso ben due milioni di palme dell’oasi, cioè in mezzo a un autentico labirinto di sentieri incavati e di muretti d’argilla, per di più disseminato di ostacoli, come palme, ulivi, folti cespugli, case, tombe, pozzi.

All’alba del 23 ottobre si verificava il primo attacco, sulla destra dello schieramento. Un’ora dopo il secondo, al centro. Alle 7.45 veniva sferrato il terzo e decisivo assalto sulla sinistra, nel cuore dell’oasi, tra Forte Messri e Sciara Sciat. Sin dall’inizio gli italiani si accorgevano che, al fianco dei regolari turchi, combattevano gli arabi, ma non soltanto i guerriglieri giunti dall’interno, bensì gli stessi abitanti dell’oasi e di Tripoli. Si trattava, in sostanza, di quell’insurrezione generale che il console Galli aveva sempre respinto come ipotesi. E invece era in atto una rivolta generale, che coinvolgeva tutti, uomini e donne, vecchi e adolescenti, e che sarebbe stata spietata, come tutte le ribellioni venate non soltanto di xenofobia ma di fanatismo religioso.

Nel labirinto dell’oasi, specie a Sciara Sciat, due compagnie di bersaglieri dell’11° reggimento venivano accerchiate e, nel giro di poche ore, completamente annientate. Inutile arrendersi, gli arabi non facevano prigionieri. Uno dei pochi scampati al disastro avrebbe poi riferito: «I nostri morti di Sciara Sciat giacciono insepolti ovunque; molti sono inchiodati alle piante di datteri come Gesù Cristo. A molti gli hanno cucito gli occhi con lo spago; molti sono stati messi sotto terra fino al collo, si vede solo la testa; moltissimi hanno avuto le parti genitali tagliate» 203. Alla fine della giornata di combattimenti il bilancio appariva gravissimo: 21 ufficiali e 482 uomini di truppa uccisi. Ai quali andavano aggiunti quelli che erano stati assassinati entro le mura di Tripoli, dove, dal mezzogiorno, si era estesa la rivolta.

L’attacco turco-arabo del 23 ottobre, condotto con forse 8.000-10.000 uomini bene armati e motivati, e concluso con episodi di indicibile brutalità, provocava una reazione altrettanto spietata. La rappresaglia, nel corso della quale venivano uccisi indiscriminatamente un migliaio di arabi (ma le fonti libiche e alcune europee parlano di 4000) 204, prendeva soprattutto alimento dalla diffusa e irragionevole convinzione che gli arabi di Tripoli avessero «tradito». Ed erano i giornali italiani, con i loro truculenti resoconti, nei quali abbondavano parole come «tradimento», «inganno», «insidia», «agguato», «vile attacco», «assalto proditorio», ad accreditare la tesi di un tradimento che non c’era mai stato, ma che tutti avevano paura di indicare con il suo vero nome, cioè ribellione. A non parlare di tradimento era soltanto Luigi Barzini, il quale, invece, ammetteva una serie di errori: «Noi siamo venuti qui senza preparare l’ambiente e senza preparare noi stessi. […] Così arrivò Sciara Sciat. Arrivò senza che i numerosi indizi che l’annunziavano fossero compresi e ci mettessero in guardia, tanto profonda era la nostra illusione» 205. Rimarrà, di quei giorni di terrificante rappresaglia, un’immagine che può ben essere considerata un simbolo di quell’ingiusta e spietata guerra. Si tratta della forca eretta nella piazza del Pane di Tripoli alla quale furono appesi, in una sola volta, quattordici arabi. La vista di quei corpi allineati, irrigiditi nella morte, con il collo spezzato e reclinato, gli abiti cenciosi, doveva servire per dare un esempio salutare ai “ribelli” 206. Da allora, come vedremo, le forche fiorirono ovunque in Libia, come gramigne inestirpabili, e suggeriranno a Scalarini quei tremendi disegni satirici che inchiodavano Giolitti e compagni alle loro responsabilità.

 

Tuttavia il peggio doveva ancora venire. Non erano bastati i 4000 morti nella caccia all’arabo «traditore» per le vie di Tripoli. Non erano bastate le impiccagioni collettive nella piazza del Pane. All’indomani di Sciara Sciat, alle 16.45, Giolitti inviava al generale Caneva questo telegramma:

 

QUANTO A RIVOLTOSI ARRESTATI, CHE NON SIANO FUCILATI COSTÀ, LI MANDERÀ ALLE ISOLE TREMITI, NEL MARE ADRIATICO, COI DOMICILIATI COATTI, DOVE ELLA PUÒ DIRETTAMENTE DIRIGERLI AVVISANDOMI PARTENZA. LE ISOLE TREMITI POSSONO RICEVERE OLTRE QUATTROCENTO DETENUTI. MANDO COLÀ ISPETTORE GENERALE DELLA PUBBLICA SICUREZZA PER REGOLARE IL LORO COLLOCAMENTO 207.

 

Ma gli arabi che Caneva imbarcava per l’Italia, tra il 25 e il 30 ottobre, erano molti di più di 400. Forse addirittura oltre 4000. Per cui ne venivano inviati anche a Ustica, Ponza, Caserta, Gaeta, Favignana. Il loro numero complessivo, così come quello degli uccisi nella rappresaglia, non appare in alcun documento ufficiale e nessun aiuto ci viene dagli storici libici, che pure hanno eseguito, negli ultimi vent’anni, puntigliosi censimenti. Con quale criterio venivano deportati gli arabi? Un testimone oculare, il giornalista Giuseppe Bevione, così scrive: «Sono uomini di tutte le età: vecchi canuti e giovinetti imberbi; negri di faccia orrenda e arabi di puro profilo. Non portano via nulla che lo straccio di tela che li ricopre» 208. Nella notte si avviavano, scortati da soldati con le baionette inastate, verso la banchina del Castello, sciabolati dai proiettori delle navi. Riferisce ancora Bevione:

 

Gli arabi camminano al passo dei soldati, in un silenzio assoluto, senza levare neppure il lieve rumore dei piedi scalzi, come ombre. Si stringono gli uni agli altri, quello che segue si attacca al lembo del barracano di quello che lo precede. Sentono, mentre partono per l’ignoto, la necessità di fondersi in un blocco solo, di sommergersi nella massa insensibile come un gregge sotto una bufera 209.

 

Alcune maone li porteranno ai piroscafi all’ancora: il Nilo, il Serbia, il Molfetta, il Minas, il Rumania 210.

Alcuni dei deportati erano stati colti con le armi in pugno, ma i più erano stati arrestati nelle strade e nelle case senza una minima prova di colpevolezza. Essi non venivano neppure identificati al momento dell’imbarco, e ciò spiega perché c’è tanta incertezza sul loro numero e sul loro destino. La sola preoccupazione di Giolitti e di Caneva era quella di alleggerire a Tripoli, prima possibile, la pressione del movimento di resistenza locale e, nello stesso tempo, di impartire una tremenda dimostrazione di forza. A riconoscere che gli arresti erano stati spesso arbitrari e l’imbarco sulle navi caotico, è lo stesso rapporto della Commissione dei prigionieri al ministro per la Guerra:

 

Gli arresti che hanno preceduto il trasferimento coatto sono avvenuti in modo frettoloso; gli arrestati sono un miscuglio di mendicanti, di ricchi proprietari, di lavoratori, di fruttivendoli, di mercanti, di contadini e di anziani, e di donne e bambini e ragazzi, e i loro nomi non sono stati registrati nelle liste, se non dopo il loro arrivo in Italia, giacché le autorità italiane in Libia non se ne sono occupate vista la precipitazione con la quale i deportati sono stati imbarcati sulle navi 211.

 

Nessun documento, più di questo, potrebbe dipingere l’atmosfera di paura, l’incapacità decisionale, lo smarrimento che tormenta Giolitti, Caneva e i loro collaboratori. «Le navi che trasportavano le prime ondate di prigionieri ondeggiavano pericolosamente nel mar Mediterraneo, tanto erano piene» riferisce lo storico libico Habîb Wada’ah el-Hasnawî, e il suo racconto non può non farci ricordare le carrette del mare che ancora oggi continuano a giungere a Lampedusa con il loro carico di sventurati e di morti, «e chi guidava le navi sembrava non interessarsi al destino di quei disperati, tenuti prigionieri su navi gelide e scomode, senza sapere che i luoghi nei quali erano diretti sarebbero stati ancora più terribili, ancora più freddi ed umidi, e certamente inadatti ad ospitare esseri umani» 212.

Dopo quattro giorni di navigazione, i piroscafi gettavano l’ancora alle Tremiti o a Ustica, non prima però di aver gettato in mare gli arabi che erano morti durante la traversata. Poi cominciava il calvario.

Molti giungevano nelle colonie penitenziarie, come ha sottolineato il prefetto di Palermo in un suo rapporto, coperti di «cenci luridi», e altri già presentavano sintomi di malattie infettive, quali tifo, vaiolo e colera. L’alimentazione scarsa e poco nutriente, la rigidità del clima, le cattive condizioni igieniche, la sistemazione indecorosa in gelidi cameroni e persino nelle grotte scavate nell’isola di San Nicola, facevano il resto. «Al 9 gennaio del 1912, alle Isole Tremiti» scrive Claudio Moffa, «risultavano deceduti 198 prigionieri, fra i quali due bambini di 10 anni, 35 vecchi dai 60 ai 70 anni, 7 dai 70 agli 80 e uno di oltre 90 anni. Al 10 giugno, il totale dei morti saliva a 437, vale a dire il 31% della massa originaria dei relegati» 213. Questa moria non era però solo appannaggio delle isole Tremiti. A Ustica, dal 29 ottobre al 31 dicembre 1911, morivano 69 individui dai 16 ai 60 anni. A Gaeta si contavano 62 decessi dal gennaio al luglio 1912; a Ponza, nello stesso periodo, 13 morti.

«Al 31 gennaio 1912» ricorda Simone Bernini «queste erano le presenze nelle varie colonie: 654 deportati a Gaeta, 136 a Ponza, 1080 alle Tremiti, 834 ad Ustica e 349 a Favignana» 214. Al totale di 3053 detenuti va aggiunto il numero dei morti, non lontano dai 600-700, il che ci avvicina alla cifra di 4000 deportati indicata da molti studiosi. Anche se nel corso del 1912 venivano rimpatriati 917 esiliati libici, le deportazioni continuarono per anni, con punte notevoli nel 1915 in seguito alla grande rivolta araba. E ancora oggi, a quasi cent’anni da Sciara Sciat, ci sono famiglie in Libia che vorrebbero almeno sapere dove sono sepolti i loro cari 215.

Detenuto nell’isola di Favignana, nelle Egadi, il poeta di Misurata Fadil Hasin ash-Shalmani elevava soprattutto la sua protesta quando, prima di essere ogni giorno avviato ai lavori forzati, veniva esaminato da un «capo cristiano» e trattato come «una pecora nelle mani di un mercante». Condannato da un tribunale di Bengasi a 25 anni di reclusione per accuse non provate, ne scontava sette. La sua infinita sofferenza è tutta in questi versi:

 

Siamo in piccole celle, pressati,

senza la luce del sole

chiuse le porte di ferro serrate.

E ovunque io guardi, non vedo che Italiani 216 .

 

Dopo Sciara Sciat si cominciò a tessere, in Italia come a Tripoli, l’elogio della forca, come arma salutare e deterrente. Secondo Ezio Maria Gray, che aveva partecipato nella notte del 23 ottobre alla caccia all’arabo per le vie di Tripoli, la repressione era stata troppo blanda, l’odio troppo annacquato. «Un pugno fermo?» si chiedeva in una pagina di La bella guerra. «Non diciamolo neppure per pudore! Il sentimentalismo, che è una malattia tipica e torpente della nostra razza, inquinò anche in quel giorno la nostra difesa. […] Fu sparso solo il sangue indispensabile, e neppure quello necessario, mentre il tradimento rinnovabile avrebbe imposto il massimo rigore» 217. Anche Filippo Tommaso Marinetti era particolarmente critico: «Abbiamo subìto la sanzione fatale del nostro stupido umanitarismo coloniale» 218. Massacrare 4000 libici e deportarne altrettanti era stato dunque soltanto un segno di sentimentalismo, di umanitarismo, di debolezza? Dunque anche in Libia gli italiani erano troppo buoni, troppo tolleranti, troppo «brava gente»?

Il 18 ottobre 1912, dopo un anno di guerra, durante la quale i soldati italiani avevano fatto pochi progressi verso l’interno del paese, nonostante il corpo di spedizione avesse raggiunto la rispettabile cifra di 100.000 unità, a Ouchy, in Svizzera, i plenipotenziari di Italia e Turchia firmavano il trattato di pace. La «passeggiata militare» era costata all’Italia 3431 morti e 4220 feriti, ma oramai la «terra promessa», non più difesa dai turchi, era a portata di mano. Peccato, però, che lo «scatolone di sabbia» fosse ancora infestato dai guerriglieri arabi, i quali, dopo l’annessione della Libia all’Italia, diventavano a tutti gli effetti dei “ribelli” per i quali la principale sanzione era la forca.

Conclusa la pace, si trattava ora di conquistare l’interno del paese, grosso modo il 90 per cento del territorio. Il compito sembrava più agevole in Tripolitania, dove, dopo la battaglia di Asàbaa e la sconfitta del berbero Suleimàn el-Baruni, era stato possibile occupare il Gebel da Tarhuna a Nalùt e persino la lontana oasi di Ghadames. Successivamente, nel 1914, il colonnello Antonio Miani, con un’ardita ma spericolata impresa, era riuscito ad aggiudicare all’Italia l’immensa regione del Fezzan 219. Ma per occupare stabilmente questi territori occorrevano truppe e mezzi che Roma non poteva concedere, tanto più che in Europa era scoppiata la guerra mondiale e non si sapeva per quanto tempo ancora l’Italia ne sarebbe rimasta fuori.

In Cirenaica la situazione era anche peggiore. Alla fine del 1913 il generale Giovanni Ameglio non si era molto allontanato dalla costa. Si limitava a occupare stabilmente alcuni porti, come Bengasi, Tocra, Derna, Tobruq. Di fronte aveva un avversario di tutto rispetto, il Gran Senusso, il quale poteva disporre di 18.000 uomini e 15 cannoni. E anche se nel primo semestre del 1914 Ameglio riusciva a distruggere alcuni fra i principali campi senussiti della Cirenaica occidentale e centrale, egli in realtà non occupava che un’infima parte dell’antico vilâyet turco. Deciso a stroncare la resistenza senussita, il generale siciliano adottava anche la forca come strumento di repressione e di intimidazione, con l’aggravante che quando gli indigeni si rifiutavano di fare i boia acconsentiva che fossero i soldati italiani a farlo.

Lo scandalo scoppiava quando, il 5 dicembre 1913, l’«Avanti!» pubblicava una serie di sei fotografie nelle quali dei soldati italiani erano ritratti mentre impiccavano alcuni arabi. Denunciando queste infamie, nella seduta parlamentare del 18 dicembre 1913, Filippo Turati affermava fra l’altro:

 

Ho sentito dire dal Re, pochi giorni or sono, che l’acquisto della Libia dà all’Italia una grande missione di civiltà, e che abbiamo come primo fine quello di renderci amiche quelle popolazioni, col rispettarne la religione, la proprietà e la famiglia e col far loro apprendere i benefici della civiltà. Ma io vedo dappertutto l’ombra della forca protendersi sulla vostra impresa! […] Ogni soldato che compie la nobile funzione del boia riceve per mezzo dei carabinieri una sportula di cinque franchi […]. Io mi domando se siamo in Italia, e se il Governo sappia che un tal Cesare Beccaria è nato in Italia 220.

 

L’intervento severo sul generale Ameglio, operato dal ministro delle Colonie Pietro Bertolini e poi dal suo successore Ferdinando Martini, non otteneva i risultati sperati. Martini, in particolare, esprimeva anche riserve e critiche sull’estrema facilità con la quale venivano comminate ed eseguite le sentenze capitali. In data 24 agosto 1914 scriveva ad Ameglio, a proposito della condanna a morte di Mohammed bu Kraim: «Si rileva che la sentenza è monca e quasi priva di motivazione, e la pena comminata appare eccessiva tanto più dato il reato di sospetto di connivenza coi ribelli e la quasi totale mancanza di prove della stessa» 221. Qualche mese dopo il ministro tornava alla carica, riferendosi alla condanna di 27 arabi: «È mio profondo convincimento che quelle condanne, in base alla lettura di tutti i documenti del processo, che qui è stata fatta con grande coscienza, siano state non solo eccessive ma inopportune» 222.

Il governatore della Cirenaica, più volte ripreso nell’arco di due anni, dichiarava in sua difesa:

 

Non metto in dubbio che l’esecuzione delle sentenze di morte possa avere in Italia una eco poco favorevole, ma ho anche la profonda convinzione che tale eco sarebbe ben diversa se, con la comunicazione della fucilazione, fosse pure reso noto che venne eseguita contro traditori che, dopo essere stati accolti fra le nostre truppe, disertarono con le nostre stesse armi e queste rivolsero contro il petto dei nostri soldati senza altra causale che l’odio più fanatico.

Poi, per tagliar corto con la polemica, concludeva bruscamente: «Assumo perciò con piena coscienza tutta intera la responsabilità che mi spetta nell’adempimento di questo doloroso dovere» 223.

 

Il ministro Martini, però, non era uomo da lasciarsi impressionare dalle sortite di un militare, sia pure della statura di Ameglio 224. Qualche settimana dopo replicava:

 

Non si può, certo, disconoscere la necessità di punire con la pena capitale reati così gravi come quelli di tradimento nelle condizioni descritte da V.E.; ma non posso, tuttavia, tacerle che permane in me la viva preoccupazione che un uso troppo frequente di provvedimenti così radicali di repressione danneggi la causa della pacificazione 225.

 

La disputa tra il Ministero delle Colonie e il governatore Ameglio, sull’abuso delle condanne a morte, è certo un titolo di merito per Bertolini e Martini, tuttavia non li assolve dall’accusa di complicità con i militari. Ai due ministri, in fondo, che si impiccasse o si fucilasse con personale indigeno oppure italiano, non importava un granché. Ciò che a loro premeva era che le sentenze fossero eseguite nei dovuti modi, rispettando le norme di procedura, dopo un dibattito processuale chiaro ed esauriente. Tanto Bertolini quanto Martini, che pure erano uomini di grande cultura e di indubbio spessore politico, non erano minimamente sfiorati da dubbi o rimorsi. Soltanto Martini, quando, nel corso del 1915, sarà costretto ad assistere impotente al crollo della dominazione italiana in Libia, si renderà conto che non si pacifica una colonia con il genocidio della sua gente.

Ma il calvario della Libia non si esauriva nell’erogazione arbitraria di centinaia, e forse di migliaia, di sentenze capita

li. C’erano migliaia di libici che ancora soffrivano nei campi di concentramento italiani. Nella sola Ustica, nel marzo 1916, gli arabi confinati erano 1300. La somma di violenze, il mancato rispetto per le tradizioni, la cultura, la religione dei libici, la negazione di ogni diritto, anche di quelli promessi, non potevano, alla fine, che provocare una rivolta generale. Con l’attacco alla Gahra di Sebha, nella notte del 28 novembre 1914, e con la distruzione della sua guarnigione, aveva inizio quella che poi sarebbe stata chiamata la grande rivolta araba, che avrebbe incendiato l’intera Libia e respinto gli italiani al mare.

Secondo i calcoli del generale Lentini, dal gennaio del 1915, cioè dalla precipitosa ritirata dal Fezzan, alla fine di luglio, che vede lo sgombero degli ultimi presidi nell’interno, erano rimasti uccisi 55 ufficiali, 483 soldati nazionali e 894 ascari. I dispersi erano: 29 ufficiali, 1951 soldati metropolitani e 159 di colore. Erano inoltre nelle mani degli insorti: 52 ufficiali, 1278 soldati italiani e 130 ascari. Le perdite complessive erano dunque di 5031 uomini 226. Ma stime del Ministero per la Guerra facevano lievitare questa cifra a 5412 uomini. Infine per Meuccio Ruini, che sarà ministro delle Colonie nel 1920, «la ritirata segnò di 10.000 morti il deserto coloniale» 227. Si trattava, dunque, di perdite umane superiori a quelle di Adua. Se poi si prendevano in considerazione quelle materiali, allora il confronto non era neppure possibile. Il bottino dei ribelli comprendeva infatti: 37 cannoni, 20 mitragliatrici, 9048 fucili (ma altre fonti riferivano di 23.205), 28.031 colpi di cannone, 6.185.000 cartucce per fucili e mitragliatrici, 37 autocarri e 14 stazioni radio 228. Un arsenale in grado di armare un esercito e infatti, con quelle armi, la resistenza libica fu in grado di operare sino al 1932.

Non erano bastati i morti a migliaia. L’angoscia per la fuga precipitosa e l’umiliazione per essere stati ricacciati al mare in condizioni penose. Nel redigere, per il generale Santangelo, un rapporto dal titolo «Spirito di ufficiali e truppa», il tenente colonnello Gherardo Pàntano sosteneva:

 

Non è raro, purtroppo, sentire ufficiali distinti e di animo generoso proclamare le teorie reazionarie e più feroci, come, ad esempio, l’utilità della sopressione di tutti gli arabi della Tripolitania. Si raccontano con compiacenza, e come utili e belle imprese, cose sbalorditive: arabi trovati feriti gravemente e inondati di benzina e bruciati; altri gettati in pozzi e chiusivi dentro; altri fucilati senza altra ragione che quella di un feroce capriccio. Vi sono ufficiali che si incaricano personalmente di simili esecuzioni, e se ne vantano. Altri che sistematicamente depredano paesi non ribelli, facendo in tal modo la migliore propaganda in favore dei senussi. […] Donde venga ai nostri ufficiali tanta cieca ferocia e tanta sete di sangue, tanta raffinatezza di crudeltà, io non so comprendere.

 

Con simili ufficiali, proseguiva Pàntano, era facile immaginare che cosa potesse fare la truppa, incitata dal loro esempio e dai loro discorsi. La verità, concludeva l’alto ufficiale, che da generale avrebbe condotto le operazioni sull’altopiano carsico della Bainsizza, era «che noi vendichiamo sugli arabi gli errori nostri, le nostre ritirate, gli scacchi subiti ovunque, non per la loro abilità, ma per la nostra inettitudine. Anzi, non potendo vendicarci sopra i nemici che ottennero, con sì scarsi mezzi, risultati tanto vistosi, sfoghiamo l’umiliazione sui deboli, sugli inermi» 229.

Così finiva, nel sangue e nella vergogna, il primo tentativo di occupare la Libia. Era durato quattro anni. Per raggiungere l’occupazione integrale della «quarta sponda» sarebbero occorsi altri diciassette anni e l’annientamento, in combattimento e nei campi di sterminio, di un ottavo della popolazione libica.

191 P.L. Occhini, Corradini, Rinascimento del Libro, Firenze 1933, p. 213.

192 E. Corradini, L’ora di Tripoli, Treves, Milano 1911, p. 74.

193 G. Bevione, Come siamo andati a Tripoli, Bocca, Torino 1912, p. 171.

194 E. Giretti, A proposito della Tripolitania. Ottimismo o pessimismo coloniale?, «La Riforma sociale», dicembre 1911.

195 A. Ghisleri, Tripolitania e Cirenaica dal Mediterraneo al Sahara, Società Editoriale Italiana - Istituto Italiano d’Arti Grafiche, Milano-Bergamo 1912, p. 99.

196 G. Salvemini, La politica estera dell’Italia, 1871-1914, Barbera, Firenze 1944, p. 178.

197 J. Conrad, Cuore di tenebra, Rizzoli, Milano 1989, p. 21.

198 Citato in N. Valeri, Giolitti, UTET, Torino 1971, pp. 218-219. Per il voltafaccia di Giolitti, si veda B. Vigezzi, L’Italia unita e le sfide della politica estera. Dal Risorgimento alla Repubblica, Unicopli, Milano 1997, pp. 83-103.

199 G. Giolitti, Quarant’anni di politica italiana. Dalle carte di Giovanni Giolitti, vol. III, Dai prodromi della Grande guerra al fascismo, 1910-1928, a cura di C. Pavone, Feltrinelli, Milano 1962, p. 53.

200 ACS, CG, b. 22, f. 59, telegramma n. 1059/449.

201 R.L., La Guerre de Tripoli et l’esprit public en Italie, «Chronique sociale de France», marzo 1912, pp. 81-82.

202 G. Rochat e G. Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano dal 1861 al 1914, Einaudi, Torino 1978, pp. 157-158.

203 F. Piccioli, Diario di un bersagliere, Il Formichiere, Milano 1974, p. 26. «Tanta ferocia» scrive il maggiore Braganze nel diario storico del proprio reparto «aveva motivo dal fatto che i bersaglieri, più intraprendenti dei fantaccini, malgrado i nostri ordini severissimi e la nostra sorveglianza, non ristettero dal recare noia alle donne arabe» (cfr. G. Valabrega, Il servizio trasporti e tappe nella guerra libica, «Africa», n. 3, settembre 1984, p. 442).

204 Muhammad ’Abd al-Nabî al-Daqqâlî, nel suo saggio Gli esiliati libici nel-l’arcipelago delle Tremiti. Una pagina drammatica, scrive : «Le truppe di occupazione sconfitte reagirono con massacri nel quartiere di al-Manshiyyah, a Tripoli, dove finirono uccisi non meno di 4000 cittadini e incendiati numerosi villaggi di beduini, le loro tende e i loro pascoli» (in Primo convegno su «Gli esiliati libici nel periodo coloniale», a cura di F. Sulpizi e S.H. Sury, ISIAO - Centro Libico per gli Studi Storici, Roma 2002, p. 119). La stessa cifra di 4000 morti viene data da Paolo Valera nel suo famoso rapporto: «I corrispondenti inglesi e tedeschi hanno restituito la tessera al generale Carlo Caneva per protestare contro i massacri degli arabi. Tutti loro hanno assistito a scene orribili. Il corrispondente del “Westminster Gazette” ha dichiarato che fra 400 cadaveri di donne e di fanciulli e ragazze, e fra i 4000 uomini abbattuti dalla gragnuola di piombo non vi potevano essere cento colpevoli» (in R. Rainero, Paolo Valera e l’opposizione democratica all’impresa di Tripoli, L’Erma di Bretschneider, Roma 1983, p. 99). La stessa cifra si trova infine nel saggio di M. Edeek, Les Dimensions politiques, économiques et sociales de la conquête italienne en Libye, in A. Baldinetti (a cura di), Modern and Contemporary Libya. Sources and Historiographies, ISIAO, Roma 2003, p. 93.

205 L. Albertini, Epistolario, 1911-1926, vol. I, Dalla guerra di Libia alla Grande Guerra, Mondadori, Milano 1968, pp. 74 e 46-48.

206 Per le immagini fotografiche della guerra di Libia si vedano N. Labanca (a cura di), Un nodo. Immagini e documenti sulla repressione coloniale italiana in Libia, Lacaita, Manduria 2002; A. Angrisani, Immagini dalla guerra di Libia, a cura di N. Labanca e L. Tomassini, Lacaita, Manduria 1997.

207 ACS, CG, b. 22, f. 58, telegramma n. 27979 del 24 ottobre 1911.

208 Bevione, Come siamo andati a Tripoli, cit., p. 371.

209 Ibidem.

210 Su Sciara Sciat e le successive deportazioni si vedano Rainero, Paolo Valera e l’opposizione democratica all’impresa di Tripoli, cit.; A. Del Boca, Gli italiani in Libia, vol. I, Tripoli bel suol d’amore, 1860-1922, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 96-156; L. Del Fra, Sciara Sciat. Genocidio nell’oasi: l’esercito italiano a Tripoli, Datanews, Roma 1995; S. Bernini, Documenti sulla repressione italiana in Libia agli inizi della colonizzazione, 1911-1918, in Labanca (a cura di), Un nodo, cit., pp. 117-202.

211 Citato in Habîb Wada’ah el-Hasnawî, Effetti psico-sociali delle operazioni di deportazione dei libici nelle isole italiane sugli esiliati e i loro parenti in epoca coloniale, 1911-1943, in Sulpizi e Sury (a cura di), Primo convegno su «Gli esiliati libici nel periodo coloniale», cit., pp. 31-32.

212 Ivi, p. 33.

213 C. Moffa, I deportati libici della guerra del 1911-1912 alle Tremiti, in Sulpizi e Sury (a cura di), Primo convegno su «Gli esiliati libici nel periodo coloniale», cit., p. 67.

214 Bernini, Documenti sulla repressione italiana in Libia agli inizi della colonizzazione, cit., p. 128.

215 In base al comunicato congiunto del 4 luglio 1998, Italia e Libia si sono impegnate a compiere ricerche sulla deportazione di libici nel nostro paese.

216 Citato in el-Hasnawî, Effetti psico-sociali delle operazioni di deportazione dei libici, cit., p. 45.

217 E.M. Gray, La bella guerra, Bemporad, Firenze 1912, pp. 14-16.

218 Citato in S. Romano, La quarta sponda. La guerra di Libia, 1911-1912, Bompiani, Milano 1977, p. 165.

219 Si veda A. Del Boca, La disfatta di Gars bu Hàdi. 1915: il colonnello Miani e il più grande disastro dell’Italia coloniale, Mondadori, Milano 2004.

220 Camera dei Deputati, Atti parlamentari, legislazione XXIV, sessione I, tornata del 18 dicembre 1913, pp. 555-557.

221 ASMAI, Libia, pos. 114/1, f. 4, lettera in data 24 agosto 1914.

222 Ivi, lettera del 15 febbraio 1915.

223 Ivi, rapporto n. 82, riservatissimo, in data primo maggio 1915.

224 Il generale Giovanni Ameglio aveva partecipato a tutte le campagne coloniali in Eritrea e aveva comandato il contingente italiano in Cina nel 1902. Nel corso della guerra italo-turca occupò Rodi e le altre isole del Dodecaneso. Pur non avendo impiegato nell’Egeo i metodi spietati usati in Libia, gli italiani non lasciarono un buon ricordo. Si vedano soprattutto i lavori di J.N. Casavis: Italian Atrocities in Grecian Dodecanese, The Dodecanesian League of America, New York 1940; The First Days of the Occupation of the Dodecanese Islands by Italy, The Dodecanesian League of America, New York 1935. Si vedano inoltre N. Doumanis, Una faccia, una razza. Le colonie italiane nell’Egeo, Il Mulino, Bologna 2003; E. Vittorini, Isole dimenticate. Il Dodecaneso da Giolitti al massacro del 1943, Le Lettere, Firenze 2002.

225 ASMAI, Libia, lettera riservatissima n. 4701 del 29 maggio 1915.

226 ASMAI, Libia, pos. 122/9, f. 74, telegramma n. 4720 del 26 novembre 1915.

227 M. Ruini, L’Islam e le nostre colonie, Il Solco, Città di Castello 1922, p. 77.

228 ASMAI, Libia, pos. 122/9, f. 74, telegramma n. 4724 del 26 novembre 1915.

229 Ivi, pos. 122/6, f. 50, lettera n. 224. Il ministro delle Colonie Martini confermava in pieno la denuncia di Pàntano (ASMAI, Libia, pos. 127/1, f. 5, riservatissima n. 820 del primo febbraio 1916 al generale Ameglio).

6. Le colpe di Cadorna

Dopo un anno di neutralità, dopo aver aperto – per un certo tempo anche contemporaneamente – trattative con Vienna e con Londra, il 24 maggio 1915 l’Italia entrava in guerra a fianco delle potenze dell’Intesa. Questa gravissima decisione non veniva presa dal Parlamento, dopo un esauriente dibattito, ma soltanto da tre uomini: il presidente del Consiglio, Antonio Salandra, il ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, e Vittorio Emanuele III. Eppure la maggioranza del paese era contraria alla guerra, a cominciare dalle donne, che ancora erano prive del voto. E chi mai aveva interpellato le grandi masse contadine, che ancora vivevano nell’ignoranza e nella miseria? Tuttavia sarebbe toccato proprio a loro sopportare il maggior peso della guerra, nella più completa passività e rassegnazione.

Le trattative con Vienna si protraevano sino all’11 maggio 1915 quando già Sonnino, il 26 aprile, aveva firmato il patto di Londra. È vero che l’Austria concedeva soltanto il Trentino (e non tutto), parte del Litorale adriatico e la piena autonomia municipale per Trieste, ma le richieste italiane andavano ben oltre le «aspirazioni nazionali» e contemplavano anche obiettivi imperialistici del tutto estranei alla visione risorgimentale del conflitto. Per esempio, prevedevano l’annessione all’Italia di territori abitati da forti minoranze tedesche, slovene e croate, con il pericolo di suscitare irredentismi nei confronti del dominio italiano.

A un accordo con Vienna, che col tempo si sarebbe potuto migliorare e che non prevedeva il sacrificio di un solo soldato, si preferiva la guerra, che sarebbe costata 652.000 morti, 450.000 invalidi e un onere finanziario di 157 miliardi di lire, che avrebbe gravato lo Stato di un gigantesco debito pubblico. Ma l’entrata in guerra dell’Italia avrebbe comportato anche altri sacrifici, altre calamità. A cominciare, come osservano Giorgio Rochat e Giulio Massobrio, «dalla distruzione delle conquiste sindacali e dall’intensificazione dello sfruttamento del proletariato nelle fabbriche e nelle trincee» 230.

Con estrema leggerezza e creando il mito della «guerra patriottica», l’Italia entrava in un conflitto che durava già da un anno e del quale poteva valutare tutte le atroci novità. La prima guerra mondiale dell’umanità era una guerra smisurata, senza pietà, senza onore. Una guerra che introduceva armi nuove e micidiali, come l’aeroplano, il carro armato, il lanciafiamme, le bombe a mano, le bombarde, i gas asfissianti e vescicanti. Introduceva l’inferno della trincea, dove milioni di uomini sarebbero marciti in attesa di immolarsi. Alla conta finale di questa sterminata mattanza risultavano uccisi, da una parte e dall’altra, 10 milioni di soldati, mentre i feriti e gli invalidi erano 8 milioni. Si aggiungano 5 milioni di civili deceduti a causa dell’occupazione nemica, dei bombardamenti e delle sofferenze 231. E altri milioni di vittime, a partire dal 1917, per colpa della pandemia della “spagnola” 232. Né va dimenticato che il grande sconvolgimento della guerra mondiale avrebbe provocato la nascita di tutti i totalitarismi, dal fascismo al nazismo, al bolscevismo.

Della guida dell’esercito italiano era stato incaricato il generale di corpo d’armata e senatore del Regno Luigi Cadorna, dal 27 luglio 1914 capo di stato maggiore dell’esercito. Per quanto non fosse mai stato su un campo di battaglia, aveva fatto una rapida carriera ed era considerato un brillante studioso di tattica. Dal temperamento freddo, riservato, era autoritario con i subordinati, non tollerava dissensi ed era estremamente sicuro di sé. «Cadorna rappresentava sotto tutti gli aspetti le qualità meno felici del corpo ufficiali italiano» osserva lo storico americano John R. Schindler. «La scelta di porre la sua persona alla guida dell’esercito italiano nella guerra più vasta che si fosse mai combattuta fino ad allora, non fu certo felice» 233.

Oltretutto Cadorna entrava nel conflitto con un esercito che non era preparato a sostenere prove di lunga durata e di intensa durezza. Disponeva, in tutto e per tutto, di 2000 fra cannoni da campagna e obici. L’artiglieria pesante era costituita da 112 pezzi, mentre le mitragliatrici, che avrebbero avuto un ruolo determinante nel conflitto, erano appena 618, vale a dire che ogni reggimento di fanteria ne poteva disporre soltanto due. Mancavano anche i fucili modello 1891 per equipaggiare le riserve e persino le uniformi e le gavette. Carente era infine il numero degli ufficiali: ne mancavano più di 10.000.

Queste deficienze non potevano essere compensate dall’entusiasmo dei volontari, che comunque rappresentavano una trascurabile minoranza, e neppure dagli insulti di Ardengo Soffici contro la «ciurmaglia cancrenosa, bavosa, laida del Senato» 234, e neanche dagli incitamenti del giovane Benito Mussolini: «Combatteremo a fianco dei francesi, dei belgi, degli inglesi, dei russi: salderemo col nostro intervento il cerchio di ferro e di fuoco intorno agli imperi responsabili della conflagrazione europea; abbrevieremo la durata della guerra, vinceremo […]. Baionette italiane: al nostro acciaio è affidato col destino d’Italia quello dei popoli d’Europa» 235. Ci voleva altro che queste chiacchiere per rinforzare un esercito che si era svenato in Libia.

Il piano di Cadorna, sulla carta, era quanto di meglio si potesse concepire. Il generale piemontese partiva dalla constatazione che in un anno di guerra gli austriaci avevano già perso 800.000 uomini, che erano stanchi, prossimi al collasso e difficilmente avrebbero potuto sostenere l’onere di un terzo fronte. In base a queste considerazioni pensava di dare una poderosa «spallata» alle deboli forze nemiche (25.000 uomini e 100 cannoni) attestate al di là dell’Isonzo, impiegando la III armata per attaccare le posizioni austriache sul Carso e la II armata per premere sulla linea dell’Isonzo, da Gorizia a Plezzo. Secondo le sue previsioni, lo sfondamento del fronte sarebbe stato rapidissimo, non avrebbe richiesto più di una settimana. In seguito la III armata si sarebbe impossessata di Trieste mentre la II si sarebbe spinta sino a Lubiana portando al collasso l’impero asburgico.

Molto probabilmente questo piano avrebbe funzionato se Cadorna fosse stato in grado di attaccare subito, all’indomani della dichiarazione di guerra. Ma anche se si era segretamente preparato, negli ultimi mesi, ad avviare il suo piano, gli occorsero comunque trenta giorni per portare al fronte le due armate e per compiere alcune puntate esplorative al di là dell’Isonzo. Trenta giorni che gli furono fatali perché consentirono al capo di stato maggiore austriaco, Franz Conrad von Hötzendorff, di spostare dalla Serbia all’Isonzo il 15º e 16º corpo d’armata, e di costituire una nuova armata, la V, che affidava al generale Svetozar Boroevic´ von Bojna, l’uomo che sarebbe diventato, per quasi tre anni, l’efficientissimo e implacabile avversario di Cadorna. Un altro elemento negativo che Cadorna non poteva non aver preso in considerazione era lo stato d’animo degli austriaci. Non soltanto essi si sentivano indignati per il tradimento degli ex alleati, che avevano abbandonato la Triplice, ma temevano – soprattutto i soldati di etnia slovena e croata – le mire dell’Italia sul Litorale e sulla Dalmazia. La linea dell’Isonzo, dunque, diventava per essi un baluardo nazionale da difendere a ogni costo.

Al momento dell’attacco generale, il 21 giugno, gli austriaci avevano – è lo stesso Cadorna che parla – «in complesso una sensibile inferiorità numerica rispetto alle 35 divisioni del nostro esercito, ma largamente compensata dalla maggiore abbondanza di artiglierie di tutti i calibri e di mitragliatrici, dalla forza naturale del terreno, dalla potenza delle linee fortificate e dalla esperienza di dieci mesi di guerra» 236. In effetti, le due armate di Cadorna incontravano subito una fortissima resistenza, non riuscivano a migliorare le loro posizioni, e la «passeggiata a Lubiana» si trasformava rapidamente nel macello di 30.000 soldati.

Dell’insuccesso, del resto largamente prevedibile, Cadorna non si assumeva alcuna responsabilità. Lo attribuiva alla penuria di munizioni, alla deficienza di velivoli, «alla lentezza con cui il Ministero provvedeva all’arrivo dei complementi» 237. Aggiungeva che la maggior parte «delle bocche da fuoco di medio calibro» esplodeva «a cagione di imperfezione nei proiettili» 238. Per finire, a chi lo accusava, sui giornali austriaci e italiani, di aver perso tempo e di non aver approfittato dell’iniziale fase di debolezza dello schieramento avversario, rispondeva con una frase che soltanto Jacques de Chabannes, signore di La Palice, avrebbe potuto pronunciare: «Sta di fatto che l’irruzione nel territorio nemico dei primi giorni della guerra non si è arrestata che di fronte all’impossibilità di avanzare ancora» 239.

Sin dall’esordio del suo comando, il generalissimo Cadorna aveva rivelato di essere un uomo particolarmente testardo, incapace di fare autocritica, insensibile alle perdite umane anche quando erano immani, indifferente alle sofferenze e al morale dei soldati. Egli ostentava inoltre, nei confronti della gran massa di militari di estrazione contadina, un atteggiamento che sfiorava la sufficienza. Convinto assertore delle misure disciplinari più severe, era disposto a vincere quella che riteneva l’indisciplina cronica degli italiani ricorrendo pure ai plotoni di esecuzione e alla pratica barbara della decimazione. Anche con gli ufficiali, non importa quale grado ricoprissero, era durissimo se non rispondevano totalmente alle sue aspettative. Era tale l’autorità che riteneva di incarnare, che nei primi due mesi di guerra rimuoveva dai loro incarichi ben 27 generali e un consistente numero di ufficiali subalterni.

Perennemente in polemica con il governo, che riteneva inadeguato al momento difficile attraversato dalla nazione, ostile all’intera classe politica, era nemico giurato dei socialisti, che accusava di minare il morale dell’esercito. Come ha giustamente messo in evidenza Ernesto Ragionieri,

 

la pretesa di Cadorna di sovrapporsi al potere politico non solo per ciò che concerneva le operazioni militari, ma anche la direzione del paese, trovava una base oggettiva nelle incertezze e nelle carenze del governo e di queste si alimentava per accentuare l’aggressività nei confronti di tutte le forze sociali e politiche che mostrassero la benché minima oscillazione di fronte allo sforzo di guerra 240.

 

Convinto che il regime parlamentare non potesse funzionare nei periodi di emergenza, riteneva che l’azione politica dovesse essere esercitata da una sola persona. E nel precisare che questa persona doveva essere «un uomo superiore per intelligenza e per carattere», pareva indicare se stesso. «Un vero dittatore» precisava, «non di diritto ma di fatto» 241. Cattolico fervente, non sembrava ricevere ordini che da Dio, con il quale si incontrava nella messa quotidiana, officiata dal proprio cappellano.

A differenza di altri capi militari, come i generali Caviglia, Pecori Girardi, Di Giorgio, Diaz, che erano stimati e alcuni addirittura venerati, Cadorna non soltanto non riscuoteva alcun credito dai soldati, ma era tenacemente odiato. Egli li ripagava, nel suo libro di memorie, ignorando il loro sacrificio o minimizzandolo. Al punto che, mentre con spirito notarile segnalava per ogni battaglia il numero delle perdite del nemico, dei propri morti non faceva alcun cenno, quasi fossero un dettaglio trascurabile. Ignorava non solo i propri morti ma anche i crimini commessi sotto il proprio comando. Nei combattimenti del giugno 1915, per la conquista del monte Nero, per esempio, reparti del 4º corpo, frustrati per i ripetuti insuccessi, si sfogavano sulle popolazioni slovene incendiando sei villaggi. A poca distanza, sulle pendici del Mrzli, venivano fucilate decine di civili sloveni, sospettati di aver ucciso alcuni feriti italiani 242. E anche se nel canto di protesta dal titolo Gorizia l’anonimo autore non citava il nome di Cadorna, tutti sapevano a chi stesse a cuore questa città, tanto a cuore da strapparla agli austriaci con sei battaglie e un numero impressionante di morti.

 

O Gorizia, tu sei maledetta!

Tanti cuori son senza coscienza,

dolorosa mi fu la partenza

che per tanti ritorno non fu.

 

Traditori signori ufficiali

che la guerra l’avete voluta,

scannatori di carne venduta

e rovina della gioventù 243.

 

Tra i 100.000 soldati che hanno preso parte alla prima battaglia dell’Isonzo, c’era anche mio padre Giacomo, classe 1878, albergatore, una vita passata tra i fornelli, le acque minerali di Crodo e le scalate al monte Cistella. Appartenendo a una classe anziana, non aveva preso parte agli assalti alla baionetta contro le trincee austriache, ma nelle immediate retrovie aveva provveduto, con le braccia insanguinate sino ai gomiti, a separare i morti dai feriti.

Avevo forse sei anni quando mio padre cominciò a parlarmi della Grande guerra e del generale Cadorna. Il conflitto era finito da appena una dozzina di anni e i ricordi di quel massacro erano incisi, scolpiti nella sua memoria, al punto che quando toccava l’argomento io restavo sommerso da un diluvio di parole, di immagini, di imprecazioni. Ero troppo piccolo per capire che cosa spingesse mio padre a confidarmi i suoi ricordi e le sue angosce. Ma una cosa la capivo: i suoi racconti non andavano confusi con le fiabe che le mie sorelle mi narravano la sera per farmi addormentare. Si trattava di storie vere, tremende, che mia madre si rifiutava di ascoltare.

Di solito i nostri incontri avvenivano nel gazebo che mio padre aveva costruito nel giardino della nostra casa, nel quartiere operaio di San Rocco, alla periferia di Novara. Ci sedevamo intorno al tavolo in pietra, sul quale abitualmente facevo i compiti di scuola e, come se fra noi esistesse un’intesa, mio padre apriva il libro dei ricordi, che a volte si intrecciavano con quelli di suo fratello Enrico, che aveva guadagnato sul campo i gradi di sergente maggiore. Non so quanti fossero questi ricordi, so che erano moltissimi. Di una decina di episodi conservo ancora un ricordo assai vivo. Il merito di ciò è sicuramente di mio padre, che era uno straordinario affabulatore, e della singolarità dei fatti che andava narrando.

Prendiamo, per esempio, il compito di accudire alla teleferica di servizio, certo il più angosciante fra gli incarichi che ha ricevuto. Questa teleferica aveva due funzioni. Quella di inviare in prima linea viveri, armi, munizioni, sacchetti di terra, tavolame, e quella di ricevere, al ritorno, i morti e i feriti. Raccontava mio padre:

 

Era peggio che vivere in trincea. Sentivi le urla dei feriti anche da lontano, a metà tragitto. Alcuni avevano tali mutilazioni che ci morivano fra le braccia mentre li scaricavamo dalla teleferica. Preferivo smistare i morti, perché quelli, almeno, tacevano. Ma, a volte, ci creavano dei problemi, perché i corpi erano talmente dilaniati da non riuscire a comporli. Alla fine c’erano gambe e braccia che avanzavano, che non sapevamo a chi attribuire. In un solo giorno, dopo una furiosa battaglia, smistammo settecento fra morti e feriti.

 

Trasferito nel 1916 dalla linea dell’Isonzo al Trentino, alla vigilia della Strafexpedition, rimarrà sulle pendici del monte Corno per quasi un anno. Di questo periodo egli ricordava soprattutto la disperata lotta contro i topi che invadevano la trincea scavata con tanta fatica nella pietraia. Riferiva mio padre:

 

Erano famelici, testardi, senza paura. Si gettavano sul mucchio di scatolette vuote e in un attimo le ripulivano. Ne ammazzavamo a dozzine, con le pale, ma l’indomani ritornavano più numerosi. Di notte ti aggredivano, puntando alla gola, al viso. Poi c’era il problema di dove gettare le carogne, che presto spargevano un fetore insopportabile.

 

Dunque lo scontro non era soltanto con gli austriaci. Ci si batteva ogni giorno con i topi, le pulci, i pidocchi, le cimici e ogni altro insetto che si nutre di sangue umano. C’era un altro nemico in trincea. Era il fango. Raccontava papà:

 

Il fondo della trincea non era in grado di assorbire la pioggia. Dopo un paio d’ore si formava il fango. Se pioveva due giorni di seguito, il fango ti arrivava alle caviglie e dovevi spalarlo al di sopra dei sacchetti di terra di protezione. Alla fine ti coprivi di fango e non avevi i mezzi per ripulirti. Il fango sapeva di tutto: dei topi morti, dei nostri escrementi, degli avanzi del rancio e dell’ultimo attacco austriaco al fosgene.

 

Quasi ogni volta, alla fine del racconto, mio padre diceva, sillabando le parole, perché rimanessero impresse nella mia mente: «E ricorda un nome: Cadorna. Lui era il nostro vero nemico. Non gli austriaci». A Cadorna mio padre faceva risalire tutti gli orrori della trincea e soprattutto le continue ecatombi. Quante volte mi aveva sventolato sotto il naso la cartolina che riproduceva il monumento ai caduti di Boca, il nostro paese. «Ci sono venticinque nomi incisi su questa pietra. Venticinque morti in un paese di mille abitanti. E quattro portano il nostro cognome, e altri otto sono lontani parenti. Adesso capisci perché odio Cadorna?»

 

Quando mio padre mi esprimeva tutto il suo rancore per il generale Cadorna, non ero certo in grado di valutare le sue affermazioni. Ma lo sarei stato, tanti decenni dopo, con l’esperienza dello storico, e non mi sarebbe stato possibile, pur senza provare il suo rancore, contraddirlo. Che Cadorna sia stato il solo e diretto responsabile delle carneficine sul fronte dell’Isonzo non esiste il minimo dubbio, e non lo giustifica il fatto che i generali Foch, Joffre, Haig, Conrad, Hindenburg e Ludendorff abbiano fatto altrettanto sui loro fronti. La verità è che il piano di Cadorna era interamente sbagliato e averlo riproposto per undici volte era semplicemente delittuoso. Esso si basava sul progressivo logoramento dell’avversario, da realizzare con continue «spallate», una più poderosa dell’altra. Applicando questa strategia egli era certo di potersi aprire un varco nelle difese austriache e di poter marciare su Lubiana e Vienna. Ma se la valle dell’Isonzo era sicuramente la strada più corta per raggiungere gli obiettivi finali, era anche, notoriamente, del tutto favorevole ai difensori, anche se ogni volta venivano investiti da un crescente uragano di fuoco.

Cadorna era perfettamente al corrente che il suo piano per sfondare la linea dell’Isonzo non era condiviso da tutti. Lo stesso duca d’Aosta, che con la sua III armata aveva sofferto le maggiori perdite, non aveva più fiducia nel progetto strategico e tattico del generale piemontese. Quanto ai vertici della Marina, per ben due volte gli avevano suggerito un’alternativa alle “spallate”. Quella di compiere uno sbarco alle spalle dello schieramento austriaco, fra Aurisina e Prosecco, protetto dai cannoni della flotta. Ma Cadorna aveva rifiutato.

Lo sorreggeva, nel suo disegno, una sorta di paranoia. Fintanto che il paese gli avrebbe concesso giovani vite da gettare nella fornace, e l’industria avrebbe continuato a produrre cannoni e munizioni, egli non avrebbe rinunciato al suo progetto di aprirsi un varco nel dispositivo nemico. La prima battaglia dell’Isonzo l’aveva compiuta con poco più di 500 cannoni, l’undicesima con 5200. Di questo passo avrebbe smantellato ogni difesa anche se i genieri di Boroevic´ erano abilissimi nel ripristinare ciò che era stato demolito. E poco importava se nelle undici battaglie dell’Isonzo aveva perso quasi 800.000 uomini, fra morti, feriti, dispersi e prigionieri. C’era ancora la classe del 1899 da richiamare e i giovanetti del 1900.

Questa certezza nella vittoria finale non era suffragata da nulla. Cadorna non ignorava che i soldati andavano all’assalto non perché avessero il morale alle stelle, ma perché temevano ogni tipo di ritorsione, dal carcere alle fucilazioni sommarie, alla decimazione. Se gli austriaci, con l’appoggio dei tedeschi, non avessero attaccato il 24 ottobre 1917, spezzando in un baleno le difese italiane a Caporetto e dilagando verso Gemona e Cividale, il generalissimo avrebbe minuziosamente preparato la sua dodicesima battaglia, con più battaglioni, più cannoni, più bombarde, sempre inseguendo il suo folle progetto. Invece, a condurre la dodicesima battaglia dell’Isonzo, era il generale tedesco Otto von Below, il quale coglieva di sorpresa gli italiani, che pure, su quelle posizioni, ci vivevano da ventinove mesi. Il resto è tristemente noto. L’esercito di Cadorna, nella ritirata, perdeva 700.000 uomini fra morti, feriti, prigionieri e sbandati, 3150 cannoni di tutti i calibri, 1732 mortai, 3000 mitragliatrici, 300.000 fucili. Al paragone, Custoza, Lissa, Adua diventavano dei disastri irrilevanti.

Licenziato l’8 novembre 1917 da Vittorio Emanuele III, dapprincipio si rifiutava di rassegnare le dimissioni, quasi si fosse sentito al di sopra anche del re. Poi respingeva ogni addebito e riversava ogni colpa del disastro sulla «deficiente resistenza di alcuni reparti, taluni dei quali si arresero ignobilmente, altri si dettero codardamente alla fuga» 244. Successivamente, nelle sue memorie, rivolgeva pesanti accuse anche al paese e al governo, colpevoli, a suo dire, di non aver «provveduto a sostenere lo spirito delle truppe. Essendo essi, invece, venuti meno a questo loro importante compito, ne doveva ineluttabilmente conseguire il disastro» 245. Accuse che reiterava qualche pagina dopo, descrivendo «la sfiducia di un’Italia ufficiale chiusa allo spirito militare, incapace di credere alle virtù eroiche del popolo in armi, ignorante dei substrati più profondi e più sani della gente italiana» 246.

Con quale animo avesse potuto formulare queste frasi, era impossibile capire, lui che della «gente italiana» aveva fatto strame, lui che aveva «sostenuto lo spirito delle truppe» negando le licenze, il riposo, ogni assistenza morale, fornendo un vitto e un soldo miserabili, ed esortando al combattimento con la minaccia della fucilazione.

 

Cadorna usciva di scena, ma una fra le sue sciagurate decisioni – condivisa del resto dal ministro Sonnino – non sarebbe stata abrogata dal nuovo governo Orlando. Si tratta dell’atteggiamento del comando supremo e del governo nei confronti dei prigionieri, che alla fine del 1917 raggiungevano 600.000 unità. Di questi ne sarebbero morti oltre 100.000, per malattia ma soprattutto per fame. Come ha lodevolmente rivelato Giovanna Procacci,

 

la morte in massa dei soldati prigionieri fu provocata, e addirittura in larga parte voluta, dal governo italiano, e soprattutto dal comando supremo. Cosicché l’Italia trasformò il problema dei prigionieri di guerra, che tutti i governi belligeranti dovettero affrontare con urgenza, in un vero e proprio caso di sterminio collettivo 247.

 

Il rifiuto dello Stato italiano di provvedere direttamente, come facevano gli altri paesi in guerra, all’invio di soccorsi (cibo e vestiario) ai soldati detenuti nei campi di concentramento austriaci, nasceva dal preciso intento di distogliere i soldati al fronte da ogni tentazione di resa. In altre parole, questo rifiuto, reso pubblico insieme alla descrizione degli orrori della prigionia austriaca, faceva parte di quel pacchetto di crudeli provvedimenti che dovevano impedire le fughe, le ribellioni, il fenomeno dell’autolesionismo, le follie simulate, i suicidi. Il modello di soldato auspicato da Cadorna era la copia perfetta del soldato senza qualità, senza tentazioni, descritto da padre Agostino Gemelli:

 

La miglior qualità del soldato nella guerra di massa e di lunga durata è appunto l’assenza di ogni qualità: l’essere rozzo, ignorante, passivo. Solo così è possibile appieno quella trasformazione della sua personalità che lo rende capace di adattamento alla trincea e all’assalto, che fa di lui un materiale altamente manipolabile, un perfetto pezzo della macchina bellica. […] Il soldato cessa di essere padre, marito, cittadino, per essere solo soldato 248.

 

Poiché al prigioniero venivano a mancare del tutto queste caratteristiche di soldato-massa ed era irrimediabilmente perso per la fornace della guerra, sia Cadorna sia Sonnino, una volta tanto d’accordo, si assumevano la responsabilità di ignorare la sorte dei detenuti. La sola deroga riguardava gli ufficiali, che potevano ricevere soccorsi attraverso la Croce rossa. Ma anche queste spedizioni vennero sospese dopo Caporetto e durante la battaglia del Piave. Le condizioni di vita nei lager austriaci, soprattutto in quello di Sigmundsherberg, dove erano rinchiusi 180.000 italiani, erano a dir poco catastrofiche. Ha scritto nel suo diario, alla data del 18 novembre 1917, il tenente Giuseppe Leonida Capobianco: «Il vitto insufficiente, la mancanza di fuoco, il clima freddo, il cielo sempre plumbeo, c’invitano a meditare su questa terribile prova, che ci è stata riserbata dal destino crudele e beffardo». Ma l’ufficiale, che per il suo grado godeva di un miglior trattamento rispetto ai soldati, si preoccupava per essi, «che da cinque giorni non hanno pane. Gli ufficiali hanno formato una specie di Commissione di beneficienza per sovvenire i soldati, ma che cosa possiamo fare noi, con le poche corone che abbiamo disponibili?» 249.

Le sofferenze dei prigionieri continuarono anche dopo la fine della guerra. Bloccati alle frontiere, furono rinchiusi in campi di concentramento poco diversi da quelli austriaci. «Si tollerò» ricordava ancora il tenente Capobianco «che un Petitti di Roreto insultasse mezzo milione di cittadini e soldati italiani, facendoli morire di fame tra i reticolati e sotto la guardia di altri soldati italiani, giovinetti imberbi della classe 1900!» 250. Nel precisare che le autorità francesi rifornirono regolarmente di viveri i loro prigionieri, registrando, per lo stesso numero di detenuti, 20.000 morti al posto di 100.000, Mario Isnenghi e Giorgio Rochat concludevano amaramente:

 

In sostanza il comando supremo e Sonnino, con la connivenza dei successivi governi, non soltanto impedirono l’invio di rifornimenti governativi (l’unico modo per aiutare seriamente i prigionieri), ma fecero il possibile per sabotare l’opera della Croce rossa e le premure delle famiglie. […] Un comportamento che costituisce il punto più basso della condotta morale e professionale dei comandanti e del governo italiano nella Grande guerra 251.

 

Era destino che mi sarei di nuovo incontrato con Cadorna. Due anni fa i famigliari del generale Antonio Miani mi affidarono l’archivio del loro congiunto nella speranza che io potessi fare luce sul motivo per cui fu scelto lui, e lui solo, come capro espiatorio per i disastri libici del 1915. Il Fondo Miani è di una straordinaria ricchezza e importanza. Oltre agli originali di tutti i telegrammi operativi inviati a Tripoli dal generale mentre portava a termine la conquista del Fezzan, comprende anche un carteggio con il gotha dell’esercito e della politica: ossia con il maresciallo d’Italia Luigi Cadorna, i generali d’esercito Guglielmo Pecori Girardi e Gaetano Giardino, il generale e sottosegretario all’Interno Attilio Teruzzi, il generale e senatore Carlo Porro di Santa Maria, il ministro delle Colonie principe Lanza di Scalea, il ministro per la Guerra e capo del governo Benito Mussolini.

Tra il 13 marzo e il 2 settembre 1926 il generale Miani indirizzava a questi personaggi una trentina di lettere nella speranza di poter ottenere giustizia. Non l’ottenne e, dopo la sua morte, non l’ottenne neppure la sua coraggiosa moglie. Ma un risultato Miani l’aveva raggiunto: quello di mettere il maresciallo Cadorna con le spalle al muro, di fargli ammettere che poteva aver sbagliato, di ottenere da lui la promessa di una riabilitazione. Miani aveva due validi motivi per detestare Cadorna e per chiedere riparazione. Per cominciare, mentre era al comando, nell’agosto 1917, del delicato settore della Vallarsa, veniva improvvisamente e senza alcuna spiegazione esonerato e ricollocato in congedo. Per Cadorna era una pratica quasi quotidiana quella di “silurare” i suoi sottoposti. Dal maggio 1915 al giorno di Caporetto aveva allontanato dal comando 807 ufficiali, tra cui 217 generali e 255 colonnelli.

Il secondo motivo del contrasto era ancora più grave, perché Cadorna aveva pubblicamente messo in dubbio le qualità militari di Miani e la sua onorabilità. In un libro dal titolo Altre pagine sulla Grande Guerra, dedicava un intero capitolo agli avvenimenti disastrosi del 1914-15 in Tripolitania e non esitava a definire la conquista del Fezzan, della quale Miani era orgogliosissimo, «l’impresa più temeraria ed intempestiva della storia coloniale di tutti i paesi». Per finire banalizzava l’impresa con una sintesi volutamente scarna e superficiale: «Durante questa marcia [Miani] incontrava qualche centinaio di ribelli armati, a contrastarle il passo, e li vinceva in tre combattimenti» 252. Inoltre, attribuiva a Miani tutte le responsabilità per il disastro di Gasr bu Hàdi e anche per i successivi tracolli.

Per Miani questo era troppo. In una lettera del 5 aprile 1926 il generale si rivolgeva a Cadorna con un linguaggio particolarmente aspro:

 

Ho potuto prendere visione di quanto l’E.V. ha scritto sugli avvenimenti del 1914 e 1915 in Tripolitania e mi consenta che francamente le dica che vi è un cumulo di inesattezze e molti gravi errori nell’esposizione storica dei fatti e perciò anche di giudizi sugli avvenimenti che a me sarà facilissimo dimostrare solo con la scorta dei telegrammi scambiati col Governo di Tripoli 253.

 

La risposta di Cadorna a questa e ad altre precedenti lettere di Miani era insolitamente redatta in uno stile morbido e diplomatico. Anche se mentiva quando sosteneva di non avere «affatto l’impressione di averla trattata così duramente» esonerandolo «dal comando che le era stato affidato» in Vallarsa, sulla questione libica, invece, cambiava nettamente il severo giudizio che di Miani aveva dato nel libro:

 

Non potrei fare a meno di dichiarare che se ho giudicato nel modo libero temerario l’impresa del Fezzan, il severo giudizio va a carico del Ministro delle Colonie che l’ha ordinata, ma l’impresa è stata ben condotta. Circa la di Lei azione come soldato, niun dubbio può nascere, e bastano i suoi precedenti e le sue decorazioni a dimostrarlo 254.

 

Ma a Miani non bastavano queste pur sostanziose rettifiche. In una successiva lettera, dal tono ancora più aspro e ultimativo, scriveva:

 

Appurati i fatti sulla scorta dei documenti ufficiali che posso produrre a mia difesa, V.E. voglia rivedere e correggere quanto Ella espone nel suo libro a danno della mia onorabilità e convenire che io sono stato ingiustamente ed eccessivamente colpito, col troncare la mia carriera, quando appunto per le mie numerose benemerenze credevo di averla assicurata; coll’impedirmi di compiere il mio dovere in patria, col negarmi di prendere parte alla guerra.

 

Nel seguito della lettera Miani contestava, punto per punto, tutte le affermazioni di Cadorna sugli avvenimenti libici, usando la tattica delle «spallate» progressive tanto cara al maresciallo d’Italia 255.

Nonostante l’aggressione subita, dalla quale usciva malconcio, Cadorna rispondeva immediatamente e il tono della sua lettera era incredibilmente moderato e conciliante. Per cominciare, gli suggeriva di chiedere al ministro per la Guerra la costituzione di una Commissione d’inchiesta sugli avvenimenti libici, inchiesta che lui stesso avrebbe caldeggiato perché «io, che non amo che la verità, sarò ben lieto che essa venga ristabilita nel caso in cui fossi incorso in involontario errore» 256. Nel corso di un incontro a Roma fra i due ufficiali Cadorna faceva di più, si impegnava a rivedere il capitolo incriminato del libro e a sottoporlo a tutte le necessarie rettifiche. Ma la morte del generalissimo, sopraggiunta nel 1928, gli impediva di mantenere la promessa. Nel 1933 si spegneva anche Miani senza aver ottenuto quella riabilitazione per la quale si era tanto battuto.

Abbiamo voluto raccontare questa vicenda poco nota soprattutto per mettere in evidenza lo strano, insolito comportamento di Cadorna, che equivale a una resa senza condizioni. E a questo punto siamo spinti a chiederci: perché tanta remissività, tanta condiscendenza, quasi un’autoflagellazione in un uomo che sappiamo duro, indifferente alla sorte degli altri, sempre persuaso di essere infallibile e nel giusto? Cadorna è stato per ventinove mesi il vero, indiscusso padrone dell’Italia. Nessuno, prima di lui e dopo di lui (Mussolini compreso), si è arrogato il diritto di vita e di morte su tutti gli abitanti della penisola. Disponeva, a suo piacimento, di uno degli eserciti più potenti del mondo, continuamente rafforzato con immani trasfusioni di sangue. Disponeva di propri tribunali di guerra, che imponevano la sua legge. Attraverso la censura militare metteva un bavaglio a combattenti e a civili. In accordo con Sidney Sonnino, poteva senza battere ciglio decretare la morte per fame di 100.000 prigionieri. Per finire, era l’uomo che non aveva il minimo imbarazzo nel diramare direttive di questo tenore: «Deve ogni soldato essere certo di trovare, all’occorrenza, nel superiore il fratello o il padre, ma anche deve essere convinto che il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti ed i vigliacchi» 257.

L’uomo che per ventinove mesi era vissuto nel delirio di onnipotenza non poteva però essere lo stesso uomo che si arrendeva così facilmente a Miani, che era un modesto generale e che a Gasr bu Hàdi qualche grave errore l’aveva commesso. C’era qualcosa che ci sfuggiva, e che il carteggio fra Cadorna e Miani non ci svelava. Quale profondo cambiamento era intervenuto nel generalissimo se, dopo il suo incontro con Miani a Roma, quest’ultimo poteva confidare alla moglie Laura: «È stato molto cortese con me, e mi ha dimostrato molta simpatia […]. Mi ha assicurato che lui apprezza moltissimo la mia spedizione nel Fezzan». Cadorna, infine, gli aveva promesso che avrebbe appoggiato il suo ricorso presso il Ministero per la Guerra e, «se fosse stato necessario, anche presso Mussolini» 258.

In mancanza di altri documenti, non ci sentiamo di avanzare delle ipotesi sul radicale cambiamento nel carattere di Cadorna. Un’indagine nei meandri della psiche, oltretutto, non compete allo storico. Ciò che possiamo dire è che Miani non poteva certo aspettarsi un miglior trattamento dal generalissimo. Tanto più che il suo vero nemico non era lui. Cadorna, è vero, gli aveva tolto il comando in Vallarsa e aveva nel suo libro criticato pesantemente le imprese africane di Miani. Ma non era lui che aveva decretato la fine della sua carriera e lo aveva reso colpevole di tutti i disastri libici. Miani morirà prima di sapere la verità. Tuttavia qualche sospetto lo nutriva. Già il 9 marzo 1914 aveva indicato al governatore della Tripolitania, generale Vincenzo Garioni, un gruppo di ufficiali che, a suo avviso, intralciavano l’impresa del Fezzan: «È necessario purgare l’ambiente da consorteria di massoni romaneschi che, poco curanti degli interessi del paese, ostacolano la spedizione per deluse ambizioni personali» 259.

E sarà proprio una cordata di massoni, ad altissimo livello, a isolare Miani, a screditarlo come testimone, a seppellirlo sotto infami accuse, per impedire l’apertura di un’inchiesta che li avrebbe sicuramente coinvolti. «Personalità altissime», che neppure Mussolini si sentiva di affrontare, anche se aveva promesso alla vedova di Miani il massimo sostegno. Ma questa è un’altra storia.

230 G. Rochat e G. Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano dal 1861 al 1943, Einaudi, Torino 1978, p. 177.

231 Sulla prima guerra mondiale sono stati scritti un numero incalcolabile di libri e ancora se ne scrivono. Neppure la seconda guerra mondiale, ben più sanguinosa ed estesa, ha destato tanto interesse. Ci limiteremo, dunque, a segnalare alcuni titoli, fra i più significativi: B.H. Liddel Hart, La prima guerra mondiale, 19141918, Rizzoli, Milano 1968; M. Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, Mondadori, Milano 1998; M. Isnenghi e G. Rochat, La grande guerra, 1914-1918, La Nuova Italia, Firenze 2000; N. Ferguson, La verità taciuta. La prima guerra mondiale: il più grande errore della storia moderna, Corbaccio, Milano 2002; I. Ousby, Verdun. La più grande battaglia della Prima guerra mondiale, Rizzoli, Milano 2002; E. Faldella, La Grande Guerra, Nordpress, Chiari 2004.

232 La “spagnola”, una vera e propria epidemia, senza limiti di regione o di continente, si diffuse in Europa nel 1918-20, provocando come frequente e mortale complicazione una forma di polioencefalite.

233 J.R. Schindler, Isonzo. Il massacro dimenticato della Grande Guerra, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2002, pp. 38-39.

234 A. Soffici, Sulla soglia, «Lacerba», n. 20, 15 maggio 1915.

235 B. Mussolini, Scritti e discorsi, vol. I, Dall’intervento al fascismo, Hoepli, Milano 1934, pp. 40-41.

236 L. Cadorna, La guerra alla fronte italiana, Treves, Milano 1934, pp. 127-128.

237 Ivi, p. 146.

238 Ibidem.

239 Ivi, p. 129.

240 E. Ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia Einaudi, a cura di R. Romano e C. Vivanti, vol. IV, Dall’Unità d’Italia a oggi, Einaudi, Torino 1975, p. 2007.

241 Cadorna, La guerra alla fronte italiana, cit., p. 38.

242 Citato in Schindler, Isonzo, cit., p. 86.

243 L. Mercuri e C. Tuzzi, Canti politici italiani, 1793-1945, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 257.

244 Citato in M. Clark, Storia dell’Italia contemporanea, 1871-1999, Bompiani, Milano 1999, p. 258.

245 Cadorna, La guerra alla fronte italiana, cit., p. 577.

246 Ivi, p. 580.

247 G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 175.

248 Citato in A. Gibelli, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 91-92.

249 G.L. Capobianco, Impressioni e ricordi della prigionia di guerra in Austria, Federico & Ardia, Napoli 1928, p. 46. In base alle convenzioni internazionali, gli ufficiali ricevevano uno stipendio dal paese che li ospitava. Un tenente, per esempio, percepiva 6,11 corone il giorno, che corrispondevano a 2,44 lire.

250 Ivi, p. 155.

251 Isnenghi e Rochat, La grande guerra, cit., p. 342.

252 L. Cadorna, Altre pagine sulla Grande Guerra, Mondadori, Milano 1925, p. 48.

253 A. Del Boca, La disfatta di Gasr bu Hàdi. 1915: il colonnello Miani e il più grande disastro dell’Italia coloniale, Mondadori, Milano 2004, p. 116.

254 Ivi, pp. 116-117.

255 Ivi, p. 118.

256 Ivi, p. 119.

257 Citato in Rochat e Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano dal 1861 al 1943, cit., p. 120.

258 Del Boca, La disfatta di Gasr bu Hàdi, cit., p. 120.

259 Ivi, p. 70.

7. Gli schiavi dell’Uebi Scebeli

L’odio e la violenza, seminati a piene mani, da Cadorna e dai suoi luogotenenti, avrebbero dato, a guerra finita, i loro immancabili frutti. Di questo clima di forte tensione, difficilmente ripetibile, avrebbero approfittato D’Annunzio e Mussolini. Il primo per marciare su Fiume, il secondo per impadronirsi dell’Italia. Già il 16 gennaio 1919, con un editoriale dal titolo Per coloro che tornano, Mussolini attaccava il governo di Vittorio Emanuele Orlando per il disinteresse manifestato nei confronti dei reduci dalla guerra:

 

Tornano alla spicciolata. Non hanno nemmeno la soddisfazione estetica e spirituale di vedersi ricevuti trionfalmente, come meriterebbero i soldati che hanno letteralmente demolito «uno dei più potenti eserciti del mondo». […] È infinitamente triste che degli uomini che furono pronti a morire, non trovino, oggi che la Patria è salva, il necessario per vivere 260.

 

Di questa reale negligenza del governo, Mussolini avrebbe fatto uno dei suoi più fortunati cavalli di battaglia. Egli sapeva di poter contare, per la sua protesta, su milioni di soldati smobilitati senza alcun indennizzo, nonostante le ripetute promesse. Egli giungeva a estendere il suo interesse persino ai vilipesi ex prigionieri, ai quali riconosceva, durante l’adunata di piazza San Sepolcro, che segnava l’atto di nascita del fascismo, di aver fatto pienamente il loro dovere: «Se così non fosse, potremmo cominciare a bollare Cesare Battisti e molti e valorosi e brillanti ufficiali e soldati che hanno avuto la disgrazia di cadere nelle mani del nemico» 261.

Molti altri fattori avrebbero concorso a creare e a consolidare il movimento fascista, ma è indubbio che la prima mossa di Mussolini, quella di proclamarsi difensore di coloro che avevano vissuto la terribile esperienza delle trincee, gli avrebbe assicurato immediati consensi e una notevole massa di manovra. Il giorno, non lontano, in cui avrebbe deciso di abbreviare il percorso per la conquista del potere ricorrendo alla violenza, egli sapeva perfettamente dove attingere l’idonea manovalanza. C’era, per esempio, l’immenso serbatoio degli «arditi». Ben 15.000 uomini che erano andati all’attacco armati soltanto di pugnale e di bombe a mano. Avevano dato una splendida prova nel corso della battaglia della Bainsizza e, il 4 settembre 1917, durante gli attacchi a sorpresa sul San Gabriele. Queste truppe d’assalto le vedremo all’opera, tra 1919 e 1922, a Trieste, a Bologna, a Sarzana, a Novara, a Magenta, a Ravenna, a Parma. Ma a Sarzana e a Parma, esse avranno la peggio.

Imboccata la strada della violenza, essa non poteva portare, nel caos del dopoguerra e con le fragili fondamenta della democrazia liberale, che alla conquista del potere. Conquista che Mussolini metteva in atto con appena 25.000 uomini, molto motivati, ma male armati e goffamente guidati. La marcia su Roma, infatti, poteva essere facilmente scompaginata e fermata alla periferia della capitale. Ma al Savoia mancò il coraggio.

 

L’avvento del fascismo e della maniera forte rimetteva in discussione l’intero assetto delle colonie italiane. Salvo l’Eritrea, che non aveva subìto sconvolgimenti a causa della guerra mondiale e aveva mantenuto intatto il suo territorio, le altre due colonie prefasciste versavano in uno stato di profonda crisi. La Libia era quasi totalmente da riconquistare dopo i successi della grande rivolta araba e dopo i tentativi, falliti, di giungere a un’intesa con l’emiro della Cirenaica, Mohammed Idris, e con il suo vicario in Tripolitania, Ahmed el Mràied. La Somalia non era in condizioni catastrofiche come la Libia, ma da anni, ormai, il governo di Mogadiscio aveva perso ogni autorità sui sultanati del Nord, vale a dire su circa la metà della colonia.

Assumendo il potere, Mussolini non aveva ancora elaborato una propria dottrina coloniale e non aveva neppure disegnato una mappa delle sue rivendicazioni. Ma era chiaro, già nel 1922, che intendeva adottare metodi nuovi, decisamente opposti a quelli usati in precedenza. In Libia, come in Somalia, non si sarebbe più scesi a compromessi, a tortuosi accomodamenti. L’Italia fascista riprendeva la sua libertà d’azione, decisa a stroncare gli avversari e non più a guadagnare la loro amicizia.

Al momento dell’avvento del fascismo, era in carica in Somalia, come governatore, il giolittiano Carlo Riveri, «che governava con savia e serena modestia, lavorando indefessamente senza scomodare le trombe della fama» 262. Accorto amministratore, politico prudente, Riveri si sforzava, con i pochi soldi che aveva a disposizione, di mantenere insieme la cenerentola delle colonie italiane, e non pensava neppure lontanamente di promuovere campagne di conquista dei sultanati del Nord, quando, a porre un limite all’eccesso di autonomia dei sultani Ali Yusuf e Osman Mahmud, sarebbero probabilmente bastati nuovi e più impegnativi accordi.

Di avviso diametralmente opposto era il nuovo governatore, Cesare Maria De Vecchi, uno dei quadrumviri della marcia su Roma. Giunto nella colonia l’8 dicembre 1923, con una piccola corte di famigliari e di squadristi torinesi armati, otto giorni dopo era già in grado di sostenere che in Somalia c’era «tutto da fare o da rifare» 263. A suo dire, la situazione politica era addirittura «intollerabile e pericolosa perché tutte le popolazioni di diretto dominio erano armate e quelle protette dei Sultanati godevano di assoluta indipendenza» 264. Provvedeva quindi ad avvertire il ministro delle Colonie Federzoni che, poiché i somali possedevano 16.000 fucili contro i 2500 in dotazione alle forze armate della colonia, egli avrebbe proceduto senza esitazione e «con ogni mezzo disponibile al disarmo delle popolazioni» 265.

L’atteggiamento bellicoso del quadrumviro piemontese nascondeva, in realtà, una profonda, inguaribile irritazione. Il governatorato della Somalia non era, per De Vecchi, un ambito premio, una promozione, ma un deliberato, umiliante castigo, che Mussolini gli infliggeva per un periodo non inferiore ai cinque anni. I rapporti fra Mussolini e De Vecchi non erano mai stati buoni, anche prima della marcia su Roma, ed erano peggiorati dopo la conquista del potere. In una lettera del 18 dicembre 1922, dopo averlo accusato di essere un temerario calunniatore, Mussolini soggiungeva: «Avresti poi aggiunto che il merito della marcia su Roma è tuo, mentre io sarei stato a Milano a vestire la camicia nera. Anche questo è inesplicabile perché tu sai benissimo che la marcia su Roma l’ho ideata io, l’ho voluta io e all’ultimo l’ho imposta io» 266. Alle accuse De Vecchi replicava negando tutto e dimettendosi da sottosegretario alle Pensioni di guerra. Ma Mussolini lo teneva d’occhio e lo faceva sorvegliare dal prefetto di Torino, Enrico Palmieri.

A De Vecchi il rimprovero del duce non era evidentemente bastato, perché il 22 aprile 1923, durante un discorso infuocato al Teatro Alfieri, lanciava un invito ai fascisti a ripulire l’Italia dallo «sporco» che vi era rimasto anche dopo il 28 ottobre: «Se occorra, e occorrerà certamente, io credo, per instaurare l’ordine nuovo appieno e per il raggiungimento dello scopo supremo, sapremo creare mezz’ora di stato d’assedio e un minuto di fuoco. Questo io penso che basterà» 267. Per Mussolini era troppo. De Vecchi lo sfidava pubblicamente a portare a termine la rivoluzione fascista che, a suo dire, era rimasta incompiuta, e minacciava, se non si fosse intervenuti subito, di portarla lui a compimento con «un minuto di fuoco».

Per porlo in condizioni di non nuocere ulteriormente, il ministro delle Colonie Federzoni suggeriva a Mussolini di confinarlo il più lontano possibile, per esempio nella remota Somalia. Suggerimento che veniva subito accolto dal duce. Ma nessuno, in quei giorni, avrebbe potuto valutare il costo, per lo Stato italiano, di un governatorato che avrebbe avuto le spiccate caratteristiche di un vicereame. Nessuno avrebbe sospettato che il quadrumviro avrebbe lanciato costose, sanguinose e inutili campagne militari. A conti fatti, le spese della colonia sarebbero aumentate di otto volte e la Somalia, che non aveva mai creato soverchi problemi, sarebbe diventata una terra insicura.

De Vecchi non poteva certo opporsi alla decisione di Mussolini di confinarlo in Somalia. Ma poteva trasformare la punizione in un fatto positivo, se soltanto avesse potuto dimostrare al duce di che cosa era capace sul piano militare. Già capitano degli arditi, titolare di sei medaglie al valor militare, organizzatore dello squadrismo a Torino e in Piemonte, comandante generale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN), gravemente ferito nel 1921 durante una spedizione punitiva contro i socialisti a Casale Monferrato, De Vecchi aveva dimostrato, se non altro, di essere un uomo di mano, senza scrupoli, senza pietà. Viaggiando alla volta di Mogadiscio, non pensava lontanamente di essere uno sconfitto e decideva anzi di sfruttare al massimo la nuova carica e la nuova esperienza. «Io sono un valorizzato dalla guerra e dalla lotta contro i socialisti» confidava ad alcuni amici. «Non posso quindi che continuare a fare la guerra per andare sempre più in alto» 268.

De Vecchi, infatti, non perdeva tempo. Ai primi di gennaio del 1924 ordinava il disarmo di tutti gli abitanti della Somalia meridionale. Inutilmente il commissario della regione dello Scebeli, maggiore Dell’Era, cercava di spiegare al neogovernatore che i fucili in circolazione erano dei catenacci, che non erano mai stati usati contro il governo della colonia, ma, al contrario, ai tempi della rivolta dei dervisci, erano stati impiegati in sua difesa. Ignorando anche gli inviti alla prudenza che gli giungevano dal Ministero delle Colonie, senza una giustificazione qualsiasi autorizzava il comandante delle truppe della Somalia, tenente colonnello Mario Re, a invadere il territorio dei Galgial Bersane e poi quello dei Badi Addo. Per alcuni giorni, alla fine di marzo, le regioni abitate da queste sventurate popolazioni venivano messe a ferro e a fuoco, il bestiame razziato, alcuni villaggi bombardati e poi dati alle fiamme, decine di indigeni passati per le armi. «Gli incendi dei villaggi abbandonati, che si alzarono presto sulla marcia delle truppe» riferiva compiaciuto De Vecchi, «dovevano essere l’ammonimento salutare a decidere le popolazioni alla sottomissione. I loro capi si precipitarono a chiedere clemenza» 269.

Questo, però, non era che un modesto anticipo del suo programma. Una semplice prova per saggiare gli umori di Mussolini e di Federzoni. Le ambizioni del quadrumviro erano ben altre. Egli intendeva ripetere l’operazione disarmo anche nei sultanati protetti del Nord, sapendo che ciò avrebbe significato la vera guerra, uno o più anni di operazioni di grande polizia coloniale, la necessità di conquistare palmo a palmo immensi e inospitali territori. E poiché da Roma non gli giungevano precisi divieti, De Vecchi dedicava tutta la sua attenzione a riorganizzare e a potenziare le forze militari della colonia, portando il numero dei soldati da 3000 a 12.000, sostenuti da sedici velivoli da ricognizione e da una divisione navale al comando dell’ammiraglio Ugo Conz.

Completata la preparazione, il primo ottobre 1925 il corpo di spedizione allestito da De Vecchi invadeva il sultanato di Obbia e in meno di un mese l’occupava interamente senza subire alcuna perdita. Le cose, però, non andavano altrettanto bene in Migiurtinia. Alla richiesta di consegnare le armi, tanto il sultano Osman Mahmud quanto suo figlio Erzi Bogor rispondevano negativamente, offrendo il destro a De Vecchi per scatenare l’offensiva. Come ha osservato Mario Giovana, più che di una guerra tradizionale si trattava di «una riedizione coloniale delle spedizioni punitive dello squadrismo delle origini» 270. In altre parole, azioni terroristiche a sorpresa e, come sempre, in dieci contro uno.

Contro i migiurtini De Vecchi prendeva personalmente il comando delle operazioni, ma, anziché “pacificare” la Somalia, riusciva a trasformarla in un solo campo di battaglia. In effetti, mentre i suoi attacchi contro il sultano Osman Mahmud andavano a vuoto, alle sue spalle, nel sultanato di Obbia che si credeva ormai pacificato, un luogotenente del sultano, Omar Samantar, attaccava il presidio di El Bur, ne uccideva il comandante, capitano Franco Cariolei, e una sessantina di ascari, e si impadroniva di un enorme arsenale di armi. Il fatto era troppo grave perché a Roma non suscitasse apprensioni. Come ricorda anche lo stesso De Vecchi, nelle sue memorie, il capo di stato maggiore generale, maresciallo Badoglio,

 

prima propose che mi venisse tolto il comando, poi insistette perché mi venisse lasciata soltanto la direzione degli Affari civili […]. Il suo tentativo andò a vuoto, ma non si diede per vinto; compilò un rapporto sulla situazione e lo redasse in termini così catastrofici che al Ministero delle Colonie tremarono di spavento. […] Con un telegramma risentito troncai la discussione e ignorando le disposizioni del Maresciallo mi accinsi a ripassare all’offensiva 271.

 

Con la politica del terrore il quadrumviro riusciva, nell’arco di due anni, a spegnere i focolai di ribellione nel Nord della Somalia, ma il bilancio definitivo, da lui stesso fornito, era piuttosto pesante. Erano rimasti uccisi 3 ufficiali italiani, 4 soldati metropolitani, 97 ascari, 449 dubat, mentre i feriti erano 341. Nel campo avversario i morti erano 1236 e i feriti 757 272. Da ciò si deduce che l’intero tributo di sangue era stato pagato dai somali, in una guerra sostanzialmente fratricida, mentre i dominatori avevano talmente perfezionato i loro metodi, con l’ausilio della marina e dell’aviazione e assoldando senza risparmio i mercenari, da non perdere che sette uomini.

Concludendo la narrazione della sua missione africana, De Vecchi così si esprimeva:

 

Con la visita di Sua Altezza Reale il principe Umberto, la Somalia da Ras Chiambone al Golfo di Aden aveva ricevuto la consacrazione alla sua nuova vita, alla sua maggiore prosperità, e il Governatore, dopo lo sforzo quinquennale e il compiuto programma, chiedeva al Capo del Governo di essere esonerato dalla carica, ciò che gli veniva concesso. Rimpatriava il 4 maggio 1928 273.

 

In realtà Mussolini aveva già deciso la sua sostituzione nella seconda metà del 1927. Non soltanto perché il quadrumviro si era creato la fama di «macellaio dei somali», in un momento in cui il fascismo ricercava in Europa attestati di perbenismo, ma perché il costo delle operazioni militari era stato altissimo (62 milioni di lire soltanto per il 1927) proprio mentre il regime era impegnato a fondo nel risanamento della lira. Per finire, autorizzando un raid su Gorrahei, per punire i ribelli somali che avevano trovato rifugio in territorio etiopico, De Vecchi aveva corso il rischio di sabotare le trattative che Roma e Addis Abeba stavano faticosamente conducendo da tempo per giungere alla firma di un patto ventennale di amicizia. Da qui l’urgenza di una sua sconfessione e del suo richiamo in patria.

 

C’è un episodio, nella guerra dichiarata da De Vecchi ai somali, che non soltanto rivela i metodi squisitamente squadristici impiegati nella lotta, ma che addirittura precisa come, durante un’emergenza, il quadrumviro si sia servito dei fascisti che aveva portato con sé dal Piemonte per distruggere un avversario.

Il nemico in questione era lo scek Ali Mohamed Nur, titolare della moschea di Eli Hagi, alla periferia di Merca. Su di lui gravava il sospetto che nutrisse sentimenti ostili nei confronti della dominazione italiana, e che a lui facesse capo una grande massa di scontenti, in modo particolare i 7000 contadini sottoposti al lavoro coatto nel comprensorio di bonifica di Genale, gestito da concessionari italiani. Non c’erano prove concrete, ma si pensava che lo scek avrebbe potuto organizzare una vera e propria guerriglia antitaliana nel Benadir in concomitanza con l’offensiva che il sultano Osman Mahmud stava preparando al Nord. Per ottenere chiarimenti, il commissario di Merca convocava il 28 ottobre 1926 Ali Mohamed Nur, ma lo scek respingeva per due volte l’invito. E quando il maresciallo dei carabinieri Aldo Fiorina andava alla moschea con una piccola scorta, con l’ordine di tradurlo con la forza a Merca, veniva assalito da un gruppo di seguaci del santone e ucciso.

De Vecchi veniva informato nella notte dei gravi avvenimenti e subito inviava a Merca il capitano Giuriati con 230 fra ascari e zaptiè e una sezione di artiglieria da montagna. Ma la colonna, che avrebbe dovuto coprire i centocinquanta chilometri che separano Mogadiscio da Merca, non avrebbe potuto essere a destinazione che all’alba del 30 ottobre, troppo tardi per cingere d’assedio la moschea di El Hagi e impedire la fuga dei ribelli. De Vecchi decideva allora di ricorrere ai concessionari di Genale, ossia a quel nutrito gruppo di squadristi che lo aveva seguito nell’avventura somala: «Io vi ho dato i canali per irrigare i vostri bananeti e le sciambe indigene, ho fatto sorgere dal nulla, a centoventi chilometri da Mogadiscio, il comprensorio di Genale che rappresenta la vostra futura ricchezza. Ora datemi i vostri fucili. Non dimenticate di essere stati i soldati vittoriosi della Grande Guerra» 274.

Su questo incredibile episodio disponiamo della testimonianza dell’ex colono Carlo Vecco, titolare, con l’amico Mario Chiamberlando, di una concessione di 325 ettari a Genale. Ricordava Vecco:

 

All’invito del governatore rispondemmo in una cinquantina di concessionari. Per far presto, lasciammo le strade e prendemmo i viottoli che attraversano le dune. Il cammino non era facile, ma era una notte di luna, e in meno di tre ore eravamo in vista di Merca. Eravamo armati con moschetti e fucili da caccia. Alcuni avevano nel tascapane bombe a mano e pugnali. Io comandavo una squadra di una ventina di uomini; altri trenta erano agli ordini di Cesare Buffo, il segretario politico di Genale. Con Buffo c’erano anche Benvenuto Bordone, Giovannini e Gariglio.

 

Sembravano tornati i tempi della guerriglia contro i socialisti, delle scorrerie delle squadracce di Brandimarte, dell’assalto alla Camera del Lavoro di Torino. Ma a Merca, a ottomila chilometri dall’Italia, senza testimoni imbarazzanti e sotto l’ala protettrice di De Vecchi, il gioco era estremamente più facile. Si aggiunga che i seguaci di Ali Mohamed Nur non disponevano che di pesanti sciabole, di coltellacci e dei pochi fucili recuperati dopo l’attacco alla scorta del maresciallo Fiorina. Era come partecipare a una battuta di caccia grossa, ma più eccitante e meno pericolosa. Ricordava ancora Vecco:

 

I più spietati erano decisi a liquidare tutta la popolazione indigena della zona. Non si sarebbe mai più ripresentata un’occasione così propizia, sosteneva Cesare Buffo, e infatti fece fucilare sulle dune i primi tredici somali che erano capitati a tiro. Giunti in città, ripulimmo alcuni quartieri spingendo la gente verso la moschea di El Hagi, che poi stringemmo d’assedio. Se qualcuno tentava di fuggire, lo abbattevano a colpi di moschetto. Quando, all’alba, arrivò il capitano Giuriati con le truppe, noi ci ritirammo perché ritenevamo di aver assolto al nostro compito. In realtà, il governatore non dimenticò mai il nostro contributo, tanto da parlarne nel suo libro Orizzonti d’impero 275.

 

Dopo aver messo in posizione i cannoni e sparato alcuni colpi di avvertimento, il capitano Giuriati intimava la resa ai ribelli. Ma dalla moschea uscivano soltanto duecento fra donne e bambini. Gli uomini erano decisi a resistere. Ecco come De Vecchi descrive l’operazione:

 

L’artiglieria riprende di nuovo, ed è ordinato un primo assalto che viene bravamente respinto. […] L’indomani si riprende l’azione col fuoco meglio diretto e la moschea è occupata. Oltre settanta morti giacciono sul terreno, e i pochi difensori ancora vivi vengono passati per le armi. Ma lo scek Ali Mohamed Nur è riuscito a fuggire. […] Il giorno 7 novembre, in località Fidarat, lo scek è accerchiato e con tutti i suoi ucciso. Complessivamente, dal 28 ottobre al 7 novembre, l’operazione di repressione ci era costata la perdita di 8 morti e di 20 feriti e la vita di un connazionale, il maresciallo dei Reali Carabinieri, ma più di duecento rivoltosi vi avevano trovato la morte. Tutti, d’ordine del Governatore, erano stati passati per le armi 276.

 

Ci si può chiedere oggi, come ci si chiese allora, anche negli ambienti di governo, il perché di tanta ferocia. I documenti ufficiali tacciono sull’episodio, ma non è difficile spiegare le ragioni dell’accanimento del quadrumviro. Già all’epoca dello scacco di El Bur, il maresciallo Badoglio aveva chiesto la testa di De Vecchi. Se ora il governatore non avesse subito spento il focolaio di rivolta di Merca, molto probabilmente Badoglio sarebbe tornato alla carica chiedendo il suo esonero per incapacità. Non era difficile da spiegare neppure il comportamento crudele dei concessionari. Come aveva precisato il fascistissimo Cesare Buffo, quella di Merca era l’occasione, tanto attesa, di ricordare ai somali, in modo particolare a quelli che lavoravano nel comprensorio di bonifica di Genale, che gli squadristi venuti in Somalia al seguito di De Vecchi erano degli italiani assolutamente nuovi, che non avevano e non intendevano avere niente in comune con gli indigeni. Detto fuor dei denti, erano dei padroni esigentissimi, che non sopportavano né i tentativi di ribellione né l’apatia e la svogliatezza sul lavoro. Le fucilate esplose intorno alla moschea di El Hagi costituivano il decreto legge che nessuna autorità aveva mai emesso, ma che da allora avrebbe egregiamente funzionato e sarebbe stato tacitamente accettato. Da quella fine del 1926, se possibile, i somali del Benadir sarebbero stati ancora più schiavi, ancora più oggetti, censiti in blocco con i cammelli, gli ovini e i caprini.

 

Abbiamo visto i concessionari di Genale impegnati nella caccia al somalo. Ora andiamo a visitarli nel loro regno, il comprensorio di bonifica lungo le rive dell’Uebi Scebeli. Creato da De Vecchi, sulle vestigia della fallita Azienda sperimentale di Genale, il comprensorio, dotato di un’imponente diga fissa e di 54 chilometri di canali, incorporava 18.000 ettari, suddivisi in 83 concessioni, la cui estensione variava dai 100 ai 1000 ettari. I prodotti principali del comprensorio erano il cotone, il ricino, il mais, la canna da zucchero, le banane, l’incenso e il kapok. La manodopera era fornita da 7000 indigeni, che De Vecchi definiva «masse lavoratrici buone, serie, fedeli» 277. Ma, in verità, si trattava di un giudizio assolutamente falso, e il governatore lo sapeva. Lui stesso, a conoscenza di moltissimi abusi, era stato costretto a inviare ai concessionari una circolare nella quale si diceva, per esempio, che

 

l’organizzazione e l’impiego dell’ascendente enorme del Governo e del Governatore sugli indigeni hanno lo scopo umanitario, disciplinare e fascista di un graduale avviamento al lavoro di quelle popolazioni, e non mai di qualsiasi coazione che crei larvate schiavitù o servitù della gleba, e meno che mai a semplice uso od abuso a servizio dei privati 278.

 

In difesa dei contadini indigeni esisteva il contratto agricolo Bertello, ma i concessionari ne davano un’interpretazione del tutto arbitraria, che li favoriva. In realtà, nelle mani dei concessionari, che erano avidi e nella quasi totalità senza alcuna esperienza nel settore agricolo, i contadini erano a tutti gli effetti degli schiavi. Né le loro condizioni sarebbero migliorate quando, a De Vecchi, sarebbe subentrato Guido Corni, un funzionario del ruolo Colonie, il cui compito principale era quello di mettere un po’ d’ordine nella colonia, sconvolta da anni di guerriglia, turbata dall’attività frenetica e disordinata del quadrumviro, e con le casse vuote. Neppure Maurizio Rava, che sostituiva Corni nel 1931, sarebbe riuscito a risolvere il problema dei contadini schiavi. Cedendo alle pressioni dei concessionari, che costituivano il gruppo più numeroso, più forte, più omogeneo, più fascista della colonia, non soltanto era costretto a favorirli riducendo del 50 per cento i dazi di esportazione e gratificandoli con premi di incoraggiamento, ma era indotto a chiudere gli occhi sui loro continui abusi.

A denunciare questa piaga, con accenti che facevano tornare alla memoria lo sdegno antischiavista di un Chiesi o di un Robecchi Bricchetti, era un testimone dei fatti tra i più imprevedibili, il segretario federale della Somalia, quindi la più alta autorità fascista in colonia. Intimo amico di Leandro Arpinati, con il quale aveva fondato il fascio di Bologna, spirito critico e frondista come il suo capo spirituale, Marcello Serrazanetti giungeva in Somalia nel 1929 e negli anni successivi inviava a Mussolini e alle Camere tre lunghe memorie che affrontavano tutti i problemi della Somalia e, in primissimo piano, quello del lavoro forzato. Stampate in pochissimi esemplari, queste memorie costituiscono l’unico documento pubblico apparso durante il Ventennio che metta in discussione l’organizzazione della colonia e l’infelice rapporto con le popolazioni indigene.

Inviando memoriali al massimo livello del regime, Serrazanetti sapeva benissimo di innescare un ordigno infernale. I rilievi e le accuse non riguardavano soltanto i governatori Corni e Rava, ma coinvolgevano anche i ministri delle Colonie e degli Esteri e, in ultima analisi, lo stesso capo del governo. Vediamo, per esempio, come introduceva il problema del lavoro coatto. Dopo aver premesso che «sarebbe ingenuo considerare la colonizzazione come un’espansione puramente filantropica», e che si può anche, di fronte all’urgenza di mettere in valore una colonia, «ricorrere al lavoro forzato» considerandolo appunto «una dura necessità iniziale», Serrazanetti precisava tuttavia che esso comunque deve essere «limitato all’esecuzione di opere di pubblica utilità», mai di «utilità privata», e mai accompagnato da «soprusi e maltrattamenti» 279.

Al contrario, testimoniava il federale,

 

il lavoro forzato che s’impone da alcuni anni ai nativi della Somalia, invano cinicamente mascherato nel 1929 da un contratto di lavoro, è assai peggiore della vera schiavitù, poiché laggiù è stata tolta al lavoratore indigeno quella valida tutela dello schiavo che era costituita dal suo valore venale, tutela che gli assicurava almeno quel minimo di cure che l’ultimo carrettiere ha per il suo asino, nella preoccupazione di doverne comprare un altro se quello muore. Mentre in Somalia quando l’indigeno assegnato ad una concessione muore o diventa inabile al lavoro, se ne chiede senz’altro la sostituzione al competente Ufficio Governativo che vi provvede gratis 280.

 

Poi Serrazanetti passava a esaminare il fenomeno nei suoi particolari più sconcertanti, precisando, per cominciare, che i lavoratori non venivano liberamente reclutati, ma prelevati con la forza «dalle cabile ritenute le più devote e le più docili», spesso con la complicità di alcuni notabili stipendiati. Poi a piedi, sotto scorta armata, a volte addirittura legati gli uni agli altri per impedire fughe, le colonne di deportati venivano avviate a destinazione, spesso percorrendo anche centinaia di chilometri. Giunte alla concessione, le nuove reclute erano invitate ad apporre la loro impronta digitale su un contratto, di cui non potevano capire il significato, e quindi venivano avviate al lavoro, che era di dieci ore al giorno e che si svolgeva sotto la stretta sorveglianza dei concessionari o dei capoccia. Se per ragioni di salute o per l’abbattimento morale, i lavoratori non fornivano l’atteso rendimento, accadeva che in molte concessioni si usasse il sistema di dimezzare o di sospendere la razione di cibo, attendendo che la fame li spingesse a una maggiore attività 281.

In questo inferno, i più robusti riuscivano a adattarsi, sia pure lentamente, al nuovo ambiente; altri si ammalavano e morivano; altri ancora tentavano la fuga e si rassegnavano a vivere nelle più inospitali boscaglie. «Nel 1929» ricordava Serrazanetti «ne furono rastrellati parecchie centinaia, nei pressi del Giuba, a quattrocento chilometri di distanza da Genale». Se poi qualcuno, fra quelli che si erano sottomessi, si rifiutava di lavorare o si ribellava al concessionario, era denunciato alle autorità coloniali e da queste duramente punito, di solito con un certo numero di scudisciate e, nei casi più gravi, con alcuni mesi di prigione. Il federale soggiungeva:

 

Non mi dilungo ad esporre altri episodi di morti trovati nei campi o per le strade, di ammalati e moribondi abbandonati alla loro sorte senza alcuna assistenza o aiuto, di lavoratori morti in seguito alle bastonate ricevute dal concessionario da cui dipendevano, perché spinti dalla fame avevano rubato alcune pannocchie nel campo, di individui infine che, destinati al lavoro in concessione, hanno preferito il suicidio, fatto rarissimo fra i somali, aprendosi il ventre col proprio coltello 282.

 

Il quadro tracciato nel 1933 da Marcello Serrazanetti ci veniva confermato da Carlo Vecco nel 1977. Il concessionario torinese, anzi, ci forniva alcuni particolari che rendevano la situazione ancora più fosca. Per esempio, egli ammetteva che le ore di lavoro nei campi erano anche 11 o 12, e che la razione di botte era costante. In genere, la disciplina e le punizioni erano amministrate dal maresciallo dei carabinieri di Genale, Avella, ma spesso i concessionari si facevano “giustizia” da sé. Vecco raccontava tranquillamente, senza alcun imbarazzo, che un giorno, essendo stato schiaffeggiato da un somalo della cabila Bimal, lo aveva trascinato sull’aia e, davanti a tutti i suoi compagni, lo aveva quasi ucciso di botte. Poi, legato, lo aveva spedito al maresciallo Avella perché gli desse il resto 283.

Ogni tanto si alzava una voce in difesa di questa massa di sventurati. Per esempio quella del commissario Pietro Barile, che denunciava gli abusi e i maltrattamenti e invitava i concessionari a essere più umani. Ma si trattava di voci isolate, ininfluenti. La prassi era un’altra. Ricordava Serrazanetti:

 

Per arginare la costante diminuzione in rendimento del lavoratore, si è provveduto da parte delle Autorità locali ad intensificare l’applicazione di pene corporali. S.E. Rava, a una riunione di concessionari da lui presieduta a Vittorio d’Africa nell’estate scorsa, ha dichiarato di assumere personalmente la responsabilità morale delle punizioni corporali inflitte 284.

 

Ciò che infastidiva Serrazanetti, oltre alla brutalità e all’ingordigia dei concessionari e alla palese complicità dei governatori, era il quadro «suggestivo, georgico, olimpico» che della situazione a Genale davano in Italia politici e studiosi che erano stati invitati in Somalia. Egli li accusava di falso e li incolpava di essere di corte vedute, di bloccare con i loro suggerimenti lo sviluppo della colonia 285. Il pressante invito di Serrazanetti era invece quello di abolire il lavoro forzato, «che tiene in uno stato peggiore della schiavitù sei-settemila neri» 286, di potenziare l’economia indigena, di procedere senza indugio alla protezione delle popolazioni somale, che soltanto nella carestia del 1932 avevano lamentato 60.000 morti 287.

Per realizzare questa nuova politica e per reperire i fondi necessari, suggeriva Serrazanetti, si poteva risparmiare sui favolosi stipendi e appannaggi dei governatori, su alcuni lavori pubblici di puro prestigio, sui frequenti e costosi ricevimenti governatoriali. «Se per squarciare il diaframma che deforma la verità agli occhi del Capo» concludeva Serrazanetti «è d’uopo che uno di quelli che in altri tempi furono chiamati fessi, quando andavano all’assalto di una trincea nemica, si offra ancora; come fascista, sono orgoglioso di offrirmi, affidandomi al giudizio del Duce e del tempo» 288.

Mussolini non gli avrebbe reso giustizia. Al contrario. Per prima cosa gli avrebbe tolto l’incarico di segretario federale per affidarlo a Maurizio Rava, che così, per la prima volta, avrebbe cumulato le due cariche di governatore e di federale. Più tardi, nel 1933, lo richiamava in patria e gli affidava il modesto incarico di vicesegretario della federazione fascista di Bologna. E quando, nel luglio 1934, Leandro Arpinati veniva arrestato con l’accusa di aver tramato contro il regime, Serrazanetti veniva coinvolto nella caduta del suo capo spirituale e inviato per cinque anni al confino in Sardegna. Su di lui infieriva anche Emilio De Bono. In una lettera del 30 novembre 1934 a Mussolini, scriveva: «È stata anche risolta la questione della mano d’opera indigena, la quale è ora sufficiente e giustamente pagata. Le insinuazioni libellistiche di Serrazanetti sono nettamente smentite dai fatti constatati con assoluta obiettività sul posto» 289.

Per la verità, quello che i somali chiamavano «schiavismo bianco» non verrà ufficialmente soppresso che nel febbraio 1941, con l’occupazione britannica della Somalia. Ma non del tutto perché, ancora nel 1948, una delle ventitré condizioni poste dalla Conferenza della Somalia per accettare l’amministrazione fiduciaria dell’Italia era proprio la soppressione del lavoro forzato 290. In pratica questa vergogna venne cancellata soltanto quando l’ultimo concessionario italiano lasciò la Somalia. La stagione delle banane e dei cazzotti era finita 291.

260 B. Mussolini, Scritti e discorsi, vol. I, Dall’intervento al fascismo, Hoepli, Milano 1934, p. 368.

261 Ivi, p. 373.

262 Associazione italiana per il controllo democratico, Il governo fascista nelle colonie. Somalia, Eritrea, Libia, Corbaccio, Milano 1925, p. 11.

263 C.M. De Vecchi di Val Cismon, Orizzonti d’impero. Cinque anni in Somalia, Mondadori, Milano 1935, p. 12.

264 Ivi, p. 10.

265 Ivi, p. 14.

266 ACS, SPD CR, b. 4/47, f. De Vecchi.

267 Citato in B. Mussolini, Corrispondenza inedita, a cura di D. Susmel, Edizioni del Borghese, Milano 1972, p. 203.

268 Associazione italiana per il controllo democratico, Il governo fascista nelle colonie, cit., p. 14.

269 De Vecchi, Orizzonti d’impero, cit., p. 37.

270 M. Giovana, L’avventura fascista in Etiopia, Teti, Milano 1976, p. 31.

271 C.M. De Vecchi di Val Cismon, Il quadrumviro scomodo. Il vero Mussolini nelle memorie del più monarchico dei fascisti, a cura di L. Romersa, Mursia, Milano 1983, p. 115.

272 De Vecchi, Orizzonti d’impero, cit., pp. 280-281. Sono cifre ovviamente incontrollabili e che, a nostro avviso, non comprendono le perdite fra la popolazione civile.

273 Ivi, p. 292.

274 Citato in E. Quadrone, Pionieri, donne e belve. Uebi Scelebi, Giuba, Agnelli, Milano 1934, pp. 34-35.

275 De Vecchi, infatti, ricordava l’azione dei «cinquanta fascisti» (Orizzonti d’impero, cit., p. 245). La testimonianza di Carlo Vecco è stata raccolta a Torino il 21 ottobre 1977. Ma più volte, tra 1955 e 1965, lo avevamo incontrato nella sua concessione di Genale e avevamo potuto controllare di persona che il trattamento dei lavoratori indigeni lasciava molto a desiderare.

276 De Vecchi, Orizzonti d’impero, cit., p. 246.

277 Ivi, p. 321.

278 Ivi, pp. 326-327.

279 M. Serrazanetti, Considerazioni sulla nostra attività coloniale in Somalia, Tipografia La Rapida, Bologna 1933, pp. 5-9.

280 Ivi, p. 10.

281 Ivi, pp. 11-12.

282 Ivi, p. 14.

283 TaA di Carlo Vecco, cit.

284 Serrazanetti, Considerazioni sulla nostra attività coloniale in Somalia, cit., p. 18.

285 M. Serrazanetti, La politica indigena in Somalia, Tipografia La Rapida, Bologna 1934, pp. 4-11.

286 Ivi, p. 20.

287 Ivi, p. 24.

288 Ivi, p. 32. Il terzo memoriale di Serrazanetti si intitolava Basi economiche della Somalia Italiana (Tipografia La Rapida, Bologna 1930).

289 ACS, SPD CR, b. 224, sf. De Bono.

290 P. Beritelli, L’amministrazione municipale di Mogadiscio negli anni dal 1941 al 1949, edizione fuori commercio, s.d., p. 207.

291 Per una più diffusa esposizione degli avvenimenti trattati in questo capitolo, si veda A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, vol. II, La conquista dell’impero, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 50-93 e 198-216.

8. Soluch come Auschwitz

Mentre il quadrumviro Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon ripuliva il Nord della Somalia dai ribelli e ingaggiava un pugno di squadristi per liquidare un santone ostile, ricompensandoli consentendo loro di praticare la più abbietta schiavitù, in Libia si consolidava la fama di un giovane colonnello, Rodolfo Graziani, destinato a diventare il più celebrato (e odiato) tra gli ufficiali coloniali.

A rivelare i segreti del proprio successo era lo stesso Graziani. In aperta polemica con le «teorie retrograde e statiche» 292 dei vecchi ufficiali coloniali, Graziani metteva a punto una strategia che mirava più a colpire a morte l’avversario che a occupare territorio. Una strategia che utilizzava tutti i mezzi tecnici moderni (radio, aerei da ricognizione e da bombardamento, autocarri armati, autoblindomitragliatrici) e che faceva assegnamento non tanto sul numero degli uomini, ma sulla fulmineità delle azioni. Graziani sfruttava inoltre «le caratteristiche essenziali delle truppe eritree e libiche, troppo compresse sempre, nel passato, dai nostri schemi tattici, poco idonei alle contingenze per difetto di celerità e di manovra» 293. Sciogliendo dagli impacci queste «orde barbariche», Graziani ne avrebbe fatto uno strumento tremendo di morte, sul quale avrebbe costruito la sua rapidissima carriera e la sua sfolgorante fortuna.

Graziani, infine, riteneva di possedere, insieme ai suoi sottoposti, caratteristiche diverse da quelle espresse dagli ufficiali che avevano operato in Libia a partire dal 1911:

 

Gli arabi capirono di trovarsi di fronte ad un nemico nuovo, che aveva un’anima nuova, nata dalla grande vittoria sulla fronte europea, e che usava metodi nuovi; esso non più si fermava ad un primo rumore di fucileria, non più si preoccupava della torrida temperatura e della inclemente stagione, nulla più svelava delle proprie intenzioni, ed attaccava rapidamente, impetuosamente, di fianco, sul tergo, di fronte, senza tregua, né misericordia 294.

 

In una relazione sull’occupazione di Giosc, che porta la data del 18 giugno 1922, Graziani completava il quadro del suo costante successo: «Imporre all’avversario la mia volontà, accettando il combattimento dove e quando io lo avessi voluto, e non subendo la sua volontà» 295.

L’avvento del fascismo imprimeva alle operazioni di riconquista della Libia, già iniziate dagli ultimi governi della liberaldemocrazia, un ritmo decisamente più accelerato. E ciò andava incontro alle aspettative di Graziani, che spesso aveva criticato le incertezze e le pause del passato. La sua fama non si era ancora imposta in patria, ma era sicuramente diffusa fra le truppe che lo seguivano sempre più fiduciose. Ed era lui stesso, visibilmente compiaciuto, ad accertare l’estendersi della propria reputazione. Riferiva infatti, in un suo libro, che alla sera, intorno ai bivacchi, aveva più volte ascoltato una canzone in suo onore, che diceva:

 

Se non ci conoscete, lo sanno gli altipiani,

noi siamo gli arditissimi del colonel Graziani,

bon, bon, bon, al rombo del cannon! 296

 

Con gli anni, giornalisti e scrittori servili faranno a gara a costruire il personaggio Graziani, ad attribuirgli virtù eroiche e carismatiche, a farlo entrare, ancora vivo, nella leggenda, paragonandolo a Scipione l’Africano. Lo si voleva anche colto, sebbene, in verità, la sua prosa ridondante e non sempre corretta fosse addirittura insopportabile. Del resto, era lui stesso che accreditava il mito della sua vastissima cultura: «Che se poi mi accada qualche volta di sentire le mie forze oscillanti, io amo abbeverarmi alla grande fonte della classicità, per cui anche in tema di conquiste coloniali nulla più la vita ci ha da insegnare. E Cesare, Livio, Tacito, Sallustio mi sono maestri e domini» 297.

Contemporaneamente, però, si consolidava anche la sua fama di militare durissimo, senza pietà, crudele. E non erano soltanto i parenti delle sue vittime a definirlo il «macellaio degli arabi», ma anche qualche suo collega, che non ne condivideva i metodi spietati. Tuttavia, questa fama negativa non sembrava turbarlo:

 

Spesso mi sono esaminato la coscienza in relazione alle accuse di crudeltà, atrocità, violenza, che mi sono state attribuite. Non ho mai dormito tanto tranquillo quanto le sere in cui questo esame mi è accaduto di fare. So dalla storia di tutte le epoche che nulla di nuovo si costruisce, se non si distrugge in tutto o in parte un passato che non regge più al presente 298.

 

Un militare con queste caratteristiche non poteva non piacere a Mussolini, che sin dai primi anni del suo regime auspicava l’avvento di un italiano nuovo. Graziani non lo avrebbe deluso. Già all’indomani della marcia su Roma si sarebbe subito palesato come il più fascista tra gli ufficiali superiori. Ecco come descrive la sua marcia su Yefren, che magicamente coincideva con quella di Mussolini su Roma:

 

E volle anche il destino che si combattesse intorno al secolare mausoleo di Suffit e che anche io trovassi, fra i ruderi di esso, una moneta antichissima, con la figura di Roma imperante sul retro e quella di un maschio imperatore sul verso, moneta che più tardi mi fu concesso di offrire al Duce. Volli che ivi le mie truppe vittoriose presentassero le armi all’avvento del Fascismo e glorificassero ai quattro venti ed in cospetto del deserto la nostra grande vittoria finalmente vendicata e redenta, traendo i migliori auspici per il prestigio d’Italia in terra d’Africa 299.

 

Tra 1922 e 1932, l’anno della rioccupazione integrale della Libia, se si sono registrate delle soste nei combattimenti, esse erano dovute essenzialmente a questioni di bilancio, mai a indugi o a incertezze di carattere politico. Sorretto da un governo forte, il governatore della Tripolitania, Giuseppe Volpi, poteva portare avanti energicamente il suo programma di riconquiste senza dover renderne conto all’opinione pubblica, ma soltanto al giovane ministro delle Colonie, Luigi Federzoni. Così, appena completata la sistemazione politico-militare della regione di Yefren, Volpi decideva di non dar tregua ai ribelli e di procedere all’immediata rioccupazione del Gebel e del Garian. Il 6 febbraio 1923 veniva conquistata Tarhuna. Il 27 dicembre Beni Ulid. Il 15 giugno 1924 Mizda. Il 23 novembre Sirte. Il 15 febbraio 1925 la lontana oasi di Ghadames. In pratica, con appena 20.000 uomini Volpi era riuscito a rioccupare quasi tutta la Tripolitania. Nel corso di queste operazioni Graziani si era sempre distinto come il più audace e fortunato tra gli ufficiali, tanto da meritarsi la promozione a generale di brigata.

Anche alla ripresa delle operazioni, nel gennaio 1928, Graziani era della partita, al comando del gruppo A, che avrebbe dovuto, con altre forze, operare sul 29° parallelo e saldare così la Tripolitania alla Cirenaica. Preceduta da quattro pesanti bombardamenti al fosgene, che seminavano il panico e la morte tra i Mogàrba er-Raedàt, la colonna Graziani occupava Hon il 14 febbraio ed espugnava Zella il 22. Il 25 riprendeva la marcia con l’obiettivo di raggiungere i pozzi di Tagrift nella conca omonima. Ma in questa regione particolarmente accidentata, propizia agli agguati, la colonna Graziani, che era forte di 1500 uomini, veniva improvvisamente attaccata dagli Aulad Soliman e da guerriglieri di altre cabile, il cui numero eguagliava quello degli italo-eritrei. Almeno per una volta, a Tagrift, si combatteva ad armi pari. Fucili contro fucili, baionette contro sciabole. I mujaheddin, ad armi pari, si battevano splendidamente, prendendo soprattutto di mira gli ufficiali, undici dei quali, infatti, cadevano uccisi o feriti.

Minacciato di accerchiamento, Graziani riusciva però a respingere tutti gli attacchi e a mettere in fuga gli avversari, che erano al comando dei fratelli Sef en-Nasser. Si trattava, senza alcun dubbio, della miglior prova fornita da Graziani, ma il bilancio delle perdite era pesante. Erano caduti uccisi, da parte italiana, 5 ufficiali e 54 uomini di truppa; feriti 6 ufficiali e 156 gregari. I mujaheddin, dal canto loro, avevano perso 247 uomini sul campo di battaglia, più altri 50 che erano stati passati per le armi durante l’inseguimento compiuto dai plotoni di spahi.

A missione compiuta, Graziani, con la consueta modestia, così commentava:

 

Il giorno 3, alle ore otto, la colonna entrava finalmente nella conca di Nufilia e vi poneva il campo, dopo aver compiuto un periplo di circa 2000 chilometri in zone steppiche e desertiche, certamente da annoverarsi tra i più potenti sforzi che nelle campagne coloniali siano mai stati, da chiunque, compiuti ed in cui la potenza e la maturità della nostra preparazione ed organizzazione, nonché l’abilità manovriera dei comandanti e delle truppe, apparvero nel modo più luminoso, sì da renderci fieri dell’opera compiuta e ben sicuri di poter pensare a maturare più ardue e più difficili imprese 300.

 

Il tentativo di scimmiottare i classici era ben visibile in questa prosa dall’italiano zoppicante, ma, come precisava il generale De Bono, lo scontro di Tagrift, per quanto rilevante, non era tale da meritare celebrazioni così iperboliche. De Bono, nel suo «Diario», liquidava l’avvenimento con queste parole: «Ieri Graziani ha avuto un vivace combattimento poco a nord di Tagrift. Difesa accanita che i ribelli hanno fatto dei pozzi. Vi fu sorpresa? Da che parte? Certo le nostre perdite sono rilevanti» 301.

 

Con l’inizio del 1929 Mussolini decideva di affidare il governo della Tripolitania e della Cirenaica a una sola personalità, e sceglieva per l’incarico il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, che conservava, per sua espressa volontà, anche la carica di capo di stato maggiore generale. Badoglio giungeva a Tripoli il 24 gennaio 1929 e nella stessa giornata emanava due proclami: il primo, molto generico, diretto agli italiani; il secondo, minaccioso e brutale, rivolto ai libici:

 

Voi tutti, o abitanti della Tripolitania e della Cirenaica, conoscete da anni il Governo italiano, e sapete che esso è giusto e benevolo verso quelli che si sottomettono con cuor puro alle leggi e agli ordini; inflessibile, invece, e senza pietà, per i pochi malintenzionati che, nella loro follia, credono di potersi opporre all’invincibile forza dell’Italia 302.

 

Il proclama di Badoglio otteneva però l’effetto contrario. Anziché ravvedersi, i “malintenzionati” si riunivano in una località dello Sciati Occidentale e decidevano di lanciare una nuova offensiva contro la linea dei presidi italiani. Tra marzo e maggio, infatti, i capi della resistenza tripolitana compivano il loro ultimo sforzo, partendo da basi lontanissime. Così, mentre Saleh el Atèusc scendeva dai monti Harugi es-Soda per compiere scorrerie tra en-Nufilia e Agedabia, Ahmed Sef enNasser e Mohammed ben Hag Hassen si portavano con le loro mehalla nella Ghibla e si incuneavano tra gli avamposti italiani dell’altipiano. La reazione di Graziani, però, era immediata, efficace, implacabile. In tre scontri vittoriosi respingeva i mujaheddin decimando le loro fila.

«Dopo i brillanti successi politico-militari conseguiti nella prima metà del 1929» riferiva Graziani «il miraggio del Fezzan, ancora favoloso, pur se legato già ai ricordi dei fortunosi eventi del 1915, affascinava la mente ed il cuore di tutti. […] L’ordine di marciare era perciò atteso da tutti con ansia ed entusiasmo senza pari» 303. Ottenuto il consenso di Mussolini, Badoglio e Graziani completavano nel mese di novembre la preparazione logistica, che era basata sul presupposto dell’occupazione integrale del Fezzan. Il piano, che ricalcava quello dello sfortunato colonnello Miani, prevedeva che inizialmente si agisse con una massa unica di forze e di mezzi in corrispondenza dell’asse Sciuèref-Brach-Sebha-Murzuch. La colonna, che al momento della sua massima potenza non avrebbe superato i 4000 uomini, ma tutti autocarrati o dotati di cavalcature, doveva incunearsi tra le formazioni ribelli, che risultavano dislocate a oriente e a occidente e la cui forza era valutata in 1500 uomini. Una massa ancora consistente, ma che appariva frazionata e, dopo otto anni di ininterrotta guerriglia, allo stremo delle forze.

Alla vigilia dell’inizio delle operazioni Graziani riuniva intorno a sé, a Sciuèref, gli ufficiali ed esponeva loro le linee fondamentali del piano:

 

Questa non sarà per noi una campagna di semplici occupazioni territoriali, ma di movimento dinamico ed a fondo, condotto fino agli estremi limiti dei rifugi che l’avversario crede, spavaldamente, inaccessibili alla nostra potenzialità bellica. Per questo stesso suo falso apprezzamento sarà sorpreso e battuto. Ci si presentano all’orizzonte marce desertiche memorabili, potremmo dire di carattere biblico. Noi le compiremo tutte, con la consueta energia, nel nostro motto: Usque ad finem. La campagna durerà tre mesi 304.

 

Graziani avrebbe mantenuto fede al piano strategico elaborato con la consulenza di Badoglio. Il 5 dicembre 1929 veniva occupata Brach. Dieci giorni dopo, senza colpo ferire, cadeva Sebha. Poi, anziché puntare su Murzuch, Graziani decideva di piegare a sinistra per andare a battere i fratelli Sef en-Nasser nella loro stessa roccaforte di Uau el Chebir, che distava da Sebha 360 chilometri. L’operazione, che comportava molti rischi, non raggiungeva tutti i suoi scopi, perché i fratelli Sef en-Nasser non accettavano il combattimento e si ritiravano nella lontanissima oasi di Cufra. Ma costituiva comunque un successo perché, con l’uscita dalla scena dei Sef en-Nasser, ogni minaccia a oriente era sventata.

Il 21 gennaio 1930 cadeva anche Murzuch, la capitale del Fezzan. Il 28 gennaio Graziani raggiungeva Ubari e qui apprendeva che gli ultimi nuclei di mujaheddin stavano tentando di raggiungere l’Algeria per mettersi in salvo. Si trattava di un migliaio di combattenti, molto frazionati e soprattutto impacciati dalla presenza delle loro famiglie e del bestiame, che rappresentava la loro unica fonte di sostentamento. A ben guardare, in quelle disperate condizioni, non costituivano più un pericolo, vista anche la loro decisione di sconfinare in Algeria, dove i francesi si sarebbero affrettati a disarmarli. Un altro comandante, per esempio Antonio Miani, avrebbe rinunciato all’inseguimento, pago di aver allontanato dalla Libia capi ribelli della fama di Abd en-Nebi Belcher, Mohammed ben Hag Hassen e Hamed ben Hassen ben Ali. Ma Graziani era troppo astioso, vendicativo per lasciarsi sfuggire la preda, e subito lanciava all’inseguimento due forti colonne. E avendo appreso, qualche giorno dopo, che le puntate offensive erano cadute nel vuoto e che già dall’8 febbraio erano cominciati gli sconfinamenti dei ribelli, irritato per il mancato combattimento lanciava tutti gli aerei a sua disposizione sulle mehalla in fuga.

Per due giorni, il 13 e il 14 febbraio 1930, i Caproni 73, che potevano portare una tonnellata di bombe, e i Romeo Ro.1 si avvicendavano di continuo sulla linea della frontiera bombardando e mitragliando, come ricordava un testimone, il giornalista Sandro Sandri, il «gregge umano composto, oltreché dagli armati, da una moltitudine di donne e bambini. Seguivano gli armenti: visione biblica di un esodo dovuto all’intolleranza di pochi capi delinquenti che trascinavano nella loro fuga quella povera gente» 305. Sandri e gli altri testimoni di questo esodo, culminato in un massacro, non avevano alcun dubbio su chi condannare. Nessuno di loro riusciva a intuire la grandezza e la nobiltà del dramma che si svolgeva sotto i loro occhi.

Molti, fra quei mujaheddin, erano in armi da otto anni e da otto anni, sempre braccati, avevano vissuto in uno dei paesi più inospitali del mondo. Per otto anni avevano combattuto contro un nemico estremamente più forte e impietoso, a volte mettendo a segno qualche colpo fortunato, ma più spesso incassando colpi tremendi. Avevano lasciato brandelli della loro carne dalla costa del Mediterraneo agli estremi confini meridionali della Libia, lungo millecinquecento chilometri di dune, di serir, di montagne lunari. Avevano abbandonato il loro paese soltanto quando avevano avvertito il fiato dei loro avversari sul collo. Abd en-Nebi Belcher aveva varcato il confine algerino il 12 febbraio e si era sottomesso alle autorità francesi di Fort Charlet, nell’oasi di Gianet. Il grosso dei ribelli, con le famiglie e il bestiame – circa 2800 persone e 6000 cammelli – aveva invece passato il confine più a nord, sotto un uragano di fuoco, e i superstiti si erano arresi alla guarnigione francese di Fort Tarat.

Con questa assurda, inutile ecatombe, di cui rimangono scarse tracce nei documenti ufficiali e che lo stesso Graziani, sempre pronto a evidenziare i suoi brutali successi, non registra neppure nel suo libro Pace romana in Libia, si concludeva la campagna del Fezzan. Prima di prendere l’aereo per Tripoli, Graziani elogiava le truppe che per nove anni gli avevano consentito di passare da una vittoria all’altra, e infine si rivolgeva a Uaar, il suo «nobile destriero», con un monologo in cui la più bolsa romanticheria si sposava a una vanagloria senza confini:

 

Abbiamo superato insieme la Gefara, il Gebel, la Ghibla, l’Hammada, il deserto sirtico, il Fezzan; ti ho condotto ad ogni pozzo per abbeverarti, e mi vi hai portato per saziare la mia insaziabile sete di conquista. […] Tu mi fornisti per cuscino la logora sella, e per coltre la tua coperta, in quell’addiaccio gelido in cui alitava l’insidia di una sorpresa avversaria. […] Ma oramai questo non è più il nostro regno! Torniamo dunque malinconicamente al mare, Uaar, perché su questa lunga impresa, che abbiamo insieme sognata, condotta, compiuta, sta per cadere una bella ma terribile parola: fine 306.

 

L’occupazione della Ghibla e del Fezzan, in appena tre mesi, costituiva il felice risultato del sodalizio tra Badoglio e Graziani. Badoglio era la mente. Graziani il braccio operativo. Entrambi erano ambiziosi oltre ogni limite, ostinati, spietati, indifferenti alle sofferenze delle popolazioni libiche, che ostentatamente disprezzavano. Fra i due, Badoglio era anche il più avido. Era riuscito a strappare, quale stipendio, nonostante le ristrettezze in cui versava il paese, l’astronomica cifra di 698.000 lire annue 307.

Alla fine di marzo del 1930 Badoglio e Graziani erano di nuovo insieme, questa volta per liquidare definitivamente la resistenza senussita in Cirenaica. Badoglio conservava la carica di governatore unico della Libia, mentre Graziani, che durante una rapida visita a Roma aveva ricevuto il plauso della Camera e dello stesso Mussolini, si insediava a Bengasi come vicegovernatore della Cirenaica. Nel suo primo discorso dal balcone del palazzo governatoriale annunciava fra l’altro: «L’azione del mio governo sarà improntata fedelmente alle direttive del governo fascista, perché io, che sono generale di divisione in servizio attivo nell’Esercito, tengo a dichiarare i miei princìpi nettamente fascisti» 308. Era la prima volta, da quando il fascismo era al potere, che un generale dell’esercito faceva in pubblico una simile dichiarazione di fede. Proclamandosi fascista, Graziani intendeva precisare che la sua azione di governo sarebbe stata nettamente diversa da quella del passato, poiché avrebbe avuto un nuovo stile, «dinamico e potente» 309.

Appena assunto l’incarico di vicegovernatore, Graziani procedeva infatti a mettere in pratica una serie di «misure profilattiche», che investivano i settori militare, giudiziario e amministrativo. Per cominciare, riduceva il corpo delle truppe da 23.000 a 13.000 uomini, eliminando i battaglioni libici e le bande di irregolari, di cui non si fidava più. Nello stesso tempo iniziava il disarmo totale delle popolazioni, che fruttava 7000 fucili e 250.000 cartucce. Inaspriva inoltre le sanzioni contro i disertori e colpiva il reato di connivenza con i ribelli con la pena di morte. A lui si doveva, infine, la creazione del “tribunale volante”, ossia di un tribunale militare speciale, che si trasferiva in volo da una località all’altra della colonia per offrire l’immagine di una giustizia pronta, efficiente e permanente.

Ma quando, a giugno, dopo una visita a Bengasi di Badoglio e del ministro delle Colonie De Bono, Graziani metteva in moto la sua rinnovata macchina militare in un vasto rastrellamento nel Fayed, non otteneva che modestissimi risultati, esattamente come i governatori che l’avevano preceduto e che lui non aveva mancato di criticare. Il motivo principale dell’insuccesso era dovuto alla presenza, sul campo di battaglia, di Omar al-Mukhtàr, il vicario dell’emiro Mohamed Idris es-Senussi, che da nove anni conduceva con successo la guerriglia contro gli italiani.

Nelle sue memorie Graziani forniva un ritratto riduttivo e per alcuni aspetti falso del vecchio ikhuàn:

 

Non è a credere che Omar al-Mukhtàr fosse un uomo d’intelligenza superiore o dotato di virtù eccezionali, come spesso si sentiva dire, sol perché con la sua astuzia era riuscito a sfuggire per tanto tempo alla nostra sanzione. Egli era un beduino come gli altri, senza nessuna coltura e nessuna idea del vivere civile. Fanatico quanto mai. Ed ignorante: sapeva appena vergare la sua firma 310.

 

In realtà Omar al-Mukhtàr possedeva un’eccellente cultura. Prima di darsi alla macchia, aveva insegnato per decenni in una scuola coranica. Inoltre possedeva uno straordinario ascendente sulle popolazioni della Cirenaica, tale da chiedere a esse, per anni, i più gravosi sacrifici. Le perdite del suo piccolo esercito (non aveva mai operato con più di 1500 uomini) erano infatti di continuo rimpiazzate con nuove reclute, sempre altamente motivate. Egli, infine, disponeva di un autentico talento nel condurre le operazioni di guerriglia. Per nove anni era riuscito a tenere in scacco forze dieci volte superiori alle sue. Colpiva duramente e poi si sottraeva fulmineamente alla morsa del nemico prima che si chiudesse su di lui.

Graziani sapeva perfettamente di avere di fronte un avversario di tutto rispetto, altrimenti non avrebbe provveduto, prima di lanciare la sua fallita offensiva di giugno, a ordinare due gravissimi provvedimenti: l’esproprio integrale dei beni mobili e immobili delle zavie senussite 311e il raggruppamento coatto delle popolazioni indigene nelle vicinanze dei presidi italiani. Con tali misure Graziani contava di togliere alla ribellione l’aiuto diretto delle popolazioni e l’assistenza religiosa della confraternita senussita. Ma non si trattava di un provvedimento definitivo, perché tanto Badoglio quanto De Bono avevano in mente un’operazione più vasta e radicale, che portasse allo sgombero totale del Gebel Achdar e della Marmarica. Quella ordinata da Graziani, dunque, era soltanto la prova generale della deportazione in massa, che sarebbe stata realizzata fra luglio e dicembre 1930.

Irritato per l’insuccesso di Graziani nel Fayed, Badoglio gli inviava il 20 giugno una lunga lettera con la quale criticava duramente il suo operato e gli impartiva queste nuove, terrificanti direttive:

 

Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica 312.

 

Cinque giorni dopo aver scritto questa lettera, che avrebbe provocato la deportazione dal Gebel Achdar e dalla Marmarica di 100.000 libici, Badoglio si incontrava con Graziani e insieme concertavano le modalità per effettuare l’operazione, che non ha precedenti nella storia dell’Africa moderna. Badoglio e Graziani, però, non erano i soli responsabili di questa infamia. Il ministro delle Colonie De Bono sollecitava da tempo tale misura estrema e non ci risulta che Mussolini abbia avuto qualche scrupolo nell’approvarla.

Lo sgombero totale dell’altipiano cirenaico aveva inizio il 27 giugno e si protraeva per alcune settimane. Ma per i Marmarici e per gli Abeidat, che dovevano compiere una marcia di oltre mille chilometri, il viaggio durava alcuni mesi. Il materiale documentario sulle deportazioni delle popolazioni della Cirenaica è assai scarso, e quel poco che è conservato negli archivi di Stato è generalmente reticente. Pertanto disponiamo soltanto di un’ampia e dettagliata relazione sull’esodo degli Aughir. Si trattava di alcune migliaia di persone, in grande maggioranza donne, bambini e vecchi. Sin dai primi giorni di marcia, i più anziani e i più deboli tendevano a staccarsi dalla colonna. Ma gli ordini erano severissimi. Si legge nella relazione:

 

Non furono ammessi ritardi durante le tappe. Chi indugiava, veniva immediatamente passato per le armi. Un provvedimento così draconiano fu preso per necessità di cose, restie come erano le popolazioni ad abbandonare le loro terre ed i loro beni. Anche il bestiame che, per le condizioni fisiche, non era in grado di proseguire la marcia, veniva immediatamente abbattuto dai gregari a cavallo del nucleo irregolare di polizia che avevano il compito di proteggerlo e di custodirlo 313.

 

Le varie colonne venivano poi avviate ai campi di concentramento, che si trovavano tutti nel Sud bengasino e nella Sirtica, ossia nei luoghi più torridi e malsani della Libia. Secondo una relazione di Graziani del 2 maggio 1931, cioè a trasferimento ultimato, il lager più vasto era quello di Marsa Brega, che accoglieva 21.117 fra Abeidat e Marmarici. Seguivano Soluch, con 20.123 Auaghir, Abid, Orfa, Fuacher e Mogàrba; Sidi Ahmed el Magrun, con 13.050 tra Braasa e Dorsa; el Agheila, con 10.900 fra Mogàrba, Marmarici e parenti dei ribelli in armi; Agedabia, con 10.000 persone, di cui non si specifica la tribù; el Abiar, con 3123 Auaghir. Complessivamente, dunque, questi sei lager accoglievano 78.313 cirenaici 314. Ai quali andavano aggiunti i 12.448 confinati nei campi minori di Derna, Apollonia, Barce, Driana, Sidi Chalifa, Suani el Teria, en-Nufilia, Bengasi, Coefia e Guarscia, che portavano il totale generale a 90.761 reclusi 315. Bisognava inoltre tenere conto delle persone abbattute durante le marce di trasferimento e dei morti nei lager, per denutrizione, malattia e tentativi di fuga nei primi mesi di prigionia. La cifra totale dei deportati saliva così a non meno di 100.000.

Questa cifra rappresentava esattamente la metà degli abitanti della Cirenaica, se teniamo per buono il censimento turco del 1911, che dava una popolazione di 198.300 anime. Quando le autorità italiane avrebbero compiuto, il 21 aprile 1931, il primo vero censimento con tecniche moderne, si sarebbe scoperto che gli indigeni erano soltanto

142.000. In altre parole, la popolazione della Cirenaica era diminuita in vent’anni di circa 60.000 unità: 20.000 per l’esodo verso l’Egitto, 40.000 per i rigori della guerra, della deportazione e della prigionia nei lager. In nessun’altra colonia italiana la repressione aveva assunto, come in Cirenaica, i caratteri e le dimensioni di un autentico genocidio.

Uno dei rarissimi funzionari che cercò di contenere la furia devastatrice di Graziani fu il commissario Giuseppe Daodiace. Nel chiederne il rimpatrio, Graziani così scriveva al Ministero delle Colonie: «La forma mentis del dottor Daodiace era inveterata nei vecchi sistemi ed egli è stato sempre da me violentato poiché seguisse i nuovi. Mai naturalmente ho detto quale sforzo mi sia costato incanalare la volontà del funzionario in questione ai metodi nuovi da me attuati e da lui non approvati». Scriveva Daodiace a Giuseppe Brusasca il 7 gennaio 1951:

 

Che io non li approvassi risulta dalle tante e ripetute mie proteste, scritte ed orali, per il fatto che non si facevano mai prigionieri in occasione di scontri fra le nostre truppe e i ribelli e si fucilavano anche donne e bambini. Non posso precisare in che anno, un gruppo di zaptiè, ai quali era stato ordinato la fucilazione di 36 fra donne e bambini di un attendamento, si presentò a me per protestare, facendomi conoscere che se fosse stato loro impartito nuovamente un ordine consimile avrebbero preferito disertare 316.

 

Come si viveva nei lager? Ascoltiamo il racconto di alcuni testimoni. «Ci davano poco da mangiare» riferiva Reth Belgassem, recluso nel lager di el Agheila. «Dovevamo cercare di sopravvivere con un pugno di riso o di farina e spesso si era troppo stanchi per lavorare» 317. «Ricordo la miseria e le botte» raccontava a sua volta Mohammed Bechir Seium. «Ogni giorno qualcuno si prendeva la sua razione di botte. E per mangiare ricordo solo un pezzo di pane duro del peso di centocinquanta o al massimo duecento grammi, che doveva bastare per tutto il giorno» 318. Non bastasse la fame e le epidemie, nei campi i guardiani esercitavano ogni sorta di violenze. Raccontava Reth Belgassem: «Le nostre donne dovevano tenere un recipiente nella tenda per fare i loro bisogni. Avevano paura di uscire. Fuori rischiavano di essere prese dagli etiopi 319 o dagli italiani» 320.

Un tentativo di fuga, un atto di ribellione, il rientro tardivo nei lager dal lavoro, erano quasi sempre puniti con la morte. «Le esecuzioni avvenivano sempre verso mezzogiorno in uno spiazzo al centro del campo e gli italiani portavano tutta la gente a guardare» riferiva ancora Reth Belgassem. «Ci costringevano a guardare mentre morivano i nostri fratelli» 321. «Ogni giorno uscivano da el Agheila cinquanta cadaveri» raccontava Salem Omran Abu Shabur. «Venivano sepolti in fosse comuni. Cinquanta cadaveri al giorno, tutti i giorni. Li contavamo sempre. Gente che veniva uccisa. Gente impiccata o fucilata. O persone che morivano di fame e di malattia» 322.

La reclusione nei campi durava mediamente tre anni. Gli ultimi lager sarebbero stati smantellati nel settembre 1933.

Dei 100.000 libici che erano partiti dal Gebel Achdar e dalla Marmarica, ne sarebbero tornati a casa 60.000. Forse di meno.

 

La deportazione delle popolazioni della Cirenaica, e il loro internamento nei campi di concentramento, privava Omar al-Mukhtàr del sostegno che aveva sempre ricevuto da esse. Si aggiunga che Graziani, per impedire che ricevesse aiuti dall’Egitto, aveva fatto costruire, in appena sei mesi, un insuperabile reticolato lungo 270 chilometri, che andava da Porto Bardia a Giarabub, e il cui costo ammontava a 20 milioni di lire. Per il vecchio ikhuàn, privato dei viveri e delle munizioni, con il piccolo esercito che si assottigliava di continuo (non gli erano rimasti che 700 seguaci), i giorni erano ormai contati.

L’11 settembre 1931 il dor Bràasa Dorsa di Omar al-Mukhtàr veniva avvistato nell’uadi bu Taga. Il vecchio guerrigliero, che era riuscito per cento volte a sottrarsi abilmente a chi gli dava la caccia, questa volta veniva colpito a un braccio e subito dopo gli uccidevano il cavallo. Per Omar era finita. Non cercava neppure di afferrare il moschetto che portava a tracolla. Si rialzava da terra e cercava di fuggire a piedi nella boscaglia. Il suo passo, però, era incerto. Forse lui non se ne rendeva conto, ma aveva 73 anni e da dieci conduceva, senza risparmiarsi, la più logorante delle battaglie. I savari gli furono subito addosso per finirlo, così come avevano già fatto con altri undici suoi compagni. Ma uno di essi lo riconosceva e lo risparmiava. Appena il capitano Bertè si rese conto dell’importanza della preda, faceva cessare l’inseguimento del dor, caricava Omar su di un cavallo e lo scortava fino a Slonta. Da qui veniva trasferito al più vicino porto, quello di Apollonia, e subito imbarcato sul cacciatorpediniere Orsini. Il 12 sera era già nelle carceri di Bengasi.

Prima che si svolga il processo burla, la cui sentenza è già stata decisa a Roma, Omar al-Mukhtàr viene interrogato da Graziani. Da una parte del tavolo c’è un generale giovane, superbo, arrogante. Dall’altra, un vecchio di 73 anni, in catene, avvolto in un barracano bianco, i piedi gottosi, la voce fioca, quasi afono. A un dato momento dell’interrogatorio, Omar si sente mancare (non si dimentichi che è ferito al braccio). Allora dice al suo inquisitore: «Io sono vecchio, fammi sedere» 323. Soltanto allora il generale gli indica una sedia.

Graziani gioca la carta dell’intimidazione e poi quella della seduzione per convincere Omar a far cessare, con la sua autorità, la guerriglia. E quando si accorge che dal vecchio ikhuàn non otterrà nulla, né informazioni, né bassi servigi, allora bruscamente lo congeda. «Cerca di stendermi la mano, ferrata» ricorda Graziani, «ma non lo può, perché non arriva. Del resto, non l’avrei toccata. Se ne va, strascicante, come era entrato. Il dramma cirenaico è finito» 324. Se Graziani, con questo racconto dell’interrogatorio di Omar, sperava di renderci odioso il personaggio inquisito, ha fatto male i suoi conti. Perché questo Omar vecchio, cadente, gottoso, che strascica i piedi, e che è nello stesso tempo lucido, fiero, irremovibile, appare come un gigante rispetto a lui. Nella sua superbia e arroganza senza limiti, il superuomo Graziani non si accorge di restituire, intatto, il vero, splendido ritratto del capo ribelle.

Il comportamento di Omar, nelle ultime ore della sua esistenza, è quanto di più fiero e dignitoso. Appena l’interprete Nasri Hermes gli traduce il testo della sentenza di morte, Omar al-Mukhtàr dice: «Da Dio siamo venuti e a Dio dobbiamo tornare» 325. L’indomani, 16 settembre 1931, lo traducono nel campo di concentramento di Soluch e alle 9, davanti ai notabili confinati a Benina e a 20.000 libici fatti affluire dai vicini lager, lo impiccano. «L’impressione prodotta fu profondissima» riferiva Graziani. «La salma, trasportata a Bengasi, fu inumata nel cimitero dei Sabri. Con la scomparsa del capo della ribellione cirenaica, una nuova vita si iniziava per la colonia che ardentemente aspirava alle opere di pace» 326.

L’ultimo insulto a Omar al-Mukhtàr veniva compiuto in tempi recenti, con la proibizione di proiettare in Italia il film Il leone del deserto, che narra l’epopea del capo partigiano. Giudicato «lesivo dell’onore dell’esercito italiano», ancora oggi il film del regista siro-americano Moustapha Akkad viene visionato di nascosto nelle salette dei cineclub. Il lungo ostracismo contro il film di Akkad si inserisce in una più vasta e subdola campagna di mistificazione e di disinformazione, che tende a conservare della nostra recente storia coloniale una visione romantica, mitica, radiosa. Cioè falsa 327.

292 R. Graziani, Pace romana in Libia, Mondadori, Milano 1937, p. 32.

293 Ibidem.

294 Ibidem.

295 ACS, Carte Graziani, b. 1, f. 3, sf. 1.

296 Graziani, Pace romana in Libia, cit., p. 58.

297 P. Orano, Rodolfo Graziani, generale scipionico, Pinciana, Roma 1936, p. 17.

298 Ivi, p. 16. Per la verità, neppure i suoi più vicini collaboratori lo stimavano. Così dichiarava il duca d’Aosta all’allora ministro dell’Africa italiana, Alessandro Lessona: «Conosco Graziani da quando ero maggiore meharista e servivo ai suoi ordini. L’ho sempre visto tradire i suoi capi eccetto il Generale De Bono perché gli ha sempre lasciato fare quello che ha voluto. Se lo accettassi come collaboratore finirebbe col tradire anche me» (in A. Lessona, Un ministro di Mussolini racconta, Edizioni Nazionali, Milano 1973, p. 169).

299 Graziani, Pace romana in Libia, cit., p. 52.

300 Ivi, pp. 110-111.

301 ACS, «Diario De Bono», vol. XI, p. 65.

302 «Rivista delle colonie italiane», n. 3, marzo 1929, p. 296.

303 Graziani, Pace romana in Libia, cit., p. 142.

304 Ivi, p. 153. Anche in «L’Oltremare», n. 3, marzo 1931, p. 105.

305 Le ultime marce all’inseguimento dei ribelli, «Il Regime fascista», 8 marzo 1930.

306 Graziani, Pace romana in Libia, cit., pp. 182-183.

307 ACS, «Diario De Bono», vol. XIII, p. 104. Per fare un paragone, lo stipendio annuale di un insegnante elementare era di 300 lire.

308 Il testo completo del discorso è riprodotto in «Rivista delle colonie italiane», n. 5, maggio 1930, pp. 428-429.

309 Ibidem.

310 Graziani, Pace romana in Libia, cit., p. 243. Ben diverso era il giudizio di Badoglio su Omar al-Mukhtàr: «La ribellione si impernia su di un uomo che gode di un’autorità e di un prestigio assoluti. Omar al-Mukhtàr non divide il suo potere con alcuno. Ha solo luogotenenti devoti e disciplinati. […] In tutti i momenti ed in ogni circostanza la sua sola ferma volontà detta legge. È abilissimo come comandante e come organizzatore» (ACS, Carte Graziani, b. 1, f. 2, sf. 2, relazione di Badoglio a De Bono del primo luglio 1930).

311 I 33 capi religiosi delle zavie senussite furono imbarcati il 28 settembre 1930 sul cacciatorpediniere Stocco e confinati a Ustica. Fecero ritorno in patria il 15 agosto 1933 (MAE, Affari Politici, b. 7, f. 1).

312 ACS, Carte Graziani, b. 1, f. 2, sf. 2.

313 ASMAI, Inventari e supplementi, vol. V, pacco 5. Comissariato regionale di Bengasi, «Relazione sugli accampamenti», 28 luglio 1932, p. 4.

314 ASMAI, Libia, pos. 150/22, f. 98, Graziani a De Bono, rapporto n. 1058 del 2 maggio 1931.

315 R. Graziani, Cirenaica pacificata, Mondadori, Milano 1932, cartina a p. 104.

316 AB, b. 44, f. 236.

317 E. Salerno, Genocidio in Libia, Sugarco, Milano 1979, p. 90.

318 Ivi, p. 99.

319 Il testimone alludeva agli ascari reclutati in Africa Orientale. Fra di essi, infatti, non mancavano gli etiopici delle regioni settentrionali.

320 Salerno, Genocidio in Libia, cit., p. 91.

321 Ivi, p. 90.

322 Ivi, p. 95. Nonostante la censura imposta dal regime, i crimini commessi in Libia erano ben noti, e la stampa, soprattutto araba, non mancava di commentarli con articoli particolarmente severi. Ma anche la stampa europea esprimeva forti denunce. Si veda, per esempio, il lead di un articolo apparso il 26 settembre 1931 sul quotidiano di Sarajevo, «Jugoslavenski List»: «Già da tre anni il generale Graziani, con inaudita ferocia, distrugge la popolazione araba per far posto ai coloni italiani. Sebbene anche gli altri popoli non abbiano operato coi guanti contro i ribelli nelle loro colonie, la colonizzazione italiana ha battuto un record sanguinoso».

323 Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 271.

324 Ivi, pp. 272-273.

325 Citato in E. Santarelli, G. Rochat, R. Rainero e L. Goglia, Omar al-Mukhtàr e la riconquista fascista della Libia, Marzorati, Milano 1981, p. 268.

326 Graziani, Cirenaica pacificata, cit., p. 273. Sulla riconquista libica si vedano inoltre A. Cova, Graziani. Un generale per il regime, Newton Compton, Roma 1987; G. Mayda, Graziani l’Africano. Da Neghelli a Salò, La Nuova Italia, Firenze 1992; R. Canosa, Graziani. Il Maresciallo d’Italia, dalla guerra d’Etiopia alla repubblica di Salò, Mondadori, Milano 2004; G. Biasutti, La politica indigena italiana in Libia. Dall’occupazione al termine del governatorato di Italo Balbo, 1911-1940, Università degli Studi di Pavia, Pavia 2004.

327 Sul film di Akkad e sulla sua proibizione in Italia, si vedano E. Magri, Il Garibaldi della Libia, «Oggi», 10 agosto 1979; A.G. Ricci e R. Giglio, Sconfitto, ma nella leggenda, «Il Messaggero», 6 febbraio 1981; A. Del Boca, Chi ha paura di Omar?, «Il Messaggero», 14 marzo 1983; R. Silvestri, Il «Leone del deserto» come la «Battaglia di Algeri», «Quaderni internazionali», n. 1, 1987, pp. 113-118; E. Magrelli, C’è uno scheletro nel deserto, «Panorama», 18 settembre 1988; P. D’Agostini, Noi colonialisti diventati censori, «la Repubblica», 20 settembre 1988; C. Tosatto, Un film e la storia. Lion of the Desert1982, «Studi piacentini», n. 36, 2004, pp. 173-188.

9. Una pioggia di iprite

A vendicare la bruciante sconfitta di Adua Mussolini aveva pensato sin dai primi anni del suo governo. Già l’8 luglio 1925, in una lettera indirizzata al ministro delle Colonie Lanza di Scalea, scriveva: «Prepararsi militarmente e diplomaticamente e approfittare di un eventuale sfasciamento dell’impero etiopico. Nell’attesa, lavorare in silenzio, sin dove sia possibile in collaborazione con gli inglesi, e cloroformizzare il mondo ufficiale abissino» 328. Nell’agosto 1926 Mussolini, che reggeva anche il Ministero per la Guerra, autorizzava il generale Giuseppe Malladra a recarsi in Eritrea e in Somalia per esaminare il dispositivo bellico delle due colonie e per porle in condizioni di affrontare una guerra contro l’Etiopia.

Una serie di avvenimenti e di considerazioni di ordine politico ed economico sconsigliavano però il capo del governo dal prendere una decisione così grave e così onerosa. Il regime non aveva ancora basi solide e l’opinione pubblica, non ancora sufficientemente controllata dagli strumenti di comunicazione, era ben lontana dal gradire una nuova avventura in Africa. Meglio attendere momenti migliori. E nel frattempo perseguire a fondo quella politica di cloroformizzazione del-l’avversario che già cominciava a dare i suoi frutti. Essa avrebbe generato, infatti, un trattato ventennale di amicizia, che le due parti avrebbero firmato nel 1928, sia pure con scarso entusiasmo e soltanto per guadagnare tempo.

L’inchiostro del trattato non si era ancora asciugato che il governatore della Somalia, Guido Corni, con il consenso del ministro delle Colonie De Bono, autorizzava il capitano Asinari di San Marzano a introdursi nelle regioni meridionali dell’Etiopia con il compito di sobillare le popolazioni e di compiere spionaggio militare. Una analoga operazione eversiva veniva condotta dal barone Raimondo Franchetti nelle regioni settentrionali dell’impero. Egli non soltanto stringeva accordi con ras Hailù Tecla Haimanot, grande rivale del reggente, ras Tafari Maconnen, ma poneva le basi per il tradimento degli Azebò e dei Raia Galla, due fra le tribù più bellicose del paese. Per finire, l’ex governatore dell’Eritrea, Jacopo Gasparini, trasformava la sua azienda agricola di Tessenei in una centrale di spionaggio e di sovversione, riuscendo persino a minare la fedeltà all’impero di uno dei capi più prestigiosi, il degiac Ajaleu Burrù, futuro comandante di una delle armate abissine.

Ce n’era abbastanza per mandare in soffitta il trattato ventennale d’amicizia. A partire dal 1932, infatti, ras Tafari Maconnen, che nel frattempo era diventato imperatore con il nome di Hailè Selassiè I, cominciava ad acquistare armi sui mercati europei, persuaso che, un giorno o l’altro, l’Italia fascista avrebbe invaso il suo paese. Alla stessa data anche gli alti comandi italiani cominciavano a mettere a punto i piani di aggressione. Il più sollecito, tra i militari, era il generale Emilio De Bono, il quale, ai primi di dicembre del 1932, presentava a Mussolini un suo progetto offensivo e riusciva a carpire al duce la promessa che, in caso di guerra all’Etiopia, il comando supremo sarebbe stato affidato a lui.

In seguito il progetto di De Bono sarebbe stato scartato, perché giudicato superficiale e «bersaglieresco», e sostituito con altri. Ma ormai non era più un mistero per nessuno che l’Italia fascista si apprestava ad attaccare il millennario impero abissino. Per fare un esempio, il 22 febbraio 1933 il generale di brigata Ferdinando Cona teneva alla Scuola di Guerra una conferenza dal titolo «Alcune idee sull’impiego delle truppe nel teatro d’operazione eritreo etiopico», la cui conclusione era molto significativa:

 

Oggi le questioni coloniali non possono più considerarsi accessorie alla vita nazionale, delle quali si debbono interessare solamente gli appassionati e gli specializzati. In questa Africa, che ormai a tutti appare strettamente legata alla vita della tormentata Europa, saranno da ricercare, attraverso azioni politiche e militari, le soluzioni di molti problemi che tengono in agitazione continua la vita odierna dei popoli europei 329.

 

Per attaccare, Mussolini aspettava soltanto un pretesto, uno qualsiasi. Il banale incidente confinario di Ual Ual, che in altri momenti sarebbe stato pacificamente composto, glielo forniva. Il 24 dicembre 1934 il duce autorizzava Emilio De Bono a raggiungere l’Eritrea. Il 27 ordinava la mobilitazione in Somalia e quella parziale in Eritrea. Il 3 ottobre 1935, a preparazione militare conclusa, senza alcuna dichiarazione di guerra, «more nipponico» dava inizio all’invasione dell’Etiopia.

 

Anche se il proposito di vendicare Adua era certamente uno dei motivi dominanti nella decisione di Mussolini di trascinare il paese in guerra e, in seguito, di affrontare le pesanti sanzioni ordinate dalla Società delle Nazioni, c’erano tuttavia altre ragioni che lo avevano spinto a compiere un passo così grave. Anzitutto la promessa, più volte da lui formulata, di dare agli italiani «un posto al sole». Ossia, finalmente, un paese ricco e fertile, non più una collezione di deserti. Terra feconda per chi non ne aveva. Spazio illimitato per chi sentiva l’Italia stretta e provinciale. Una nuova frontiera per chi amava l’avventura.

La progettata conquista dell’Etiopia avrebbe anche sanato, agli occhi di Mussolini, una profonda ingiustizia: quella di non possedere, come la Francia e la Gran Bretagna, imperi coloniali che meritassero questo nome. Su questa ingiustizia, il duce avrebbe insistito nel discorso oceanico del 2 ottobre 1935, a poche ore dall’attacco:

 

Quando nel 1915 l’Italia si gettò allo sbaraglio e confuse le sue sorti con quelle degli alleati, quante esaltazioni del nostro coraggio e quante promesse! Ma, dopo la vittoria comune, alla quale l’Italia aveva dato il contributo supremo di 670 mila morti, 400 mila mutilati e un milione di feriti, attorno al tavolo della pace esosa non toccarono all’Italia che scarse briciole del ricco bottino coloniale 330.

 

Ma c’era anche un altro motivo che spingeva Mussolini in Africa. Quello di verificare se in tredici anni di regime era nato l’italiano nuovo. Questo riscontro lo si poteva ottenere soltanto nella fornace di una guerra vera, come quella che si prospettava contro l’Etiopia, e non nei modesti conflitti libici e somali del passato, il cui peso era stato quasi interamente sopportato dalle truppe mercenarie. Sulle ambe che avevano visto la sconfitta dei soldati di Baratieri, i nuovi militi del littorio avrebbero dimostrato se nelle palestre, nelle adunate del sabato, sui banchi di scuola, avevano veramente assorbito la dottrina del fascismo e insieme la religione della patria, che li avrebbe fortificati e resi imbattibili. Era una verifica che stava particolarmente a cuore a Mussolini, il quale non aveva esitato a mandare in guerra due suoi figli, Bruno e Vittorio, e il genero, Galeazzo Ciano.

Se oggi rileggiamo, non senza pena e repulsione, alcune testimonianze sulla guerra italo-etiopica del 1935-36, come Disperata di Alessandro Pavolini, Voli sulle ambe di Vittorio Mussolini, Quaderno affricano di Giuseppe Bottai, XX Battaglione eritreo di Indro Montanelli, dobbiamo riconoscere che i quattro autori hanno alcune caratteristiche in comune mutuate dal peggior insegnamento del fascismo: il disprezzo per l’avversario, l’assenza di pietà, l’inclinazione allo sterminio, l’esaltazione della bella morte. Ma era questo l’italiano nuovo auspicato da Mussolini? Una marionetta senz’anima, senza futuro, mossa da istinti primordiali, assassini?

Alessandro Pavolini, il gerarca toscano che durante la repubblica di Salò avrebbe ideato e comandato le brigate nere, la massima espressione dell’odio e della faziosità, durante la campagna d’Etiopia aveva fatto parte della 15ª squadriglia da bombardamento Disperata, al comando di Galeazzo Ciano. Uno dei motivi costanti, quasi ossessivi, della sua narrazione è la caccia all’abissino, inteso come preda, come animale, e non come uomo, non come avversario legittimato. Ecco come descrive la ritirata degli etiopici dopo la battaglia dell’Amba Aradam: «L’aviazione concepita come cavalleria d’inseguimento. Vere e proprie cariche di velivoli si avventarono lungo le carovaniere, incalzarono i fuggiaschi ai guadi, dispersero le colonne, perseguitarono i dispersi con la mitragliatrice e la carabina» A. Pavolini, Disperata, Vallecchi, Firenze 1937, p. 243.. Pavolini trascurava un particolare non irrilevante, che la censura del resto avrebbe obliterato: durante quell’inseguimento furono sganciate 60 tonnellate di iprite. Qualche giorno dopo Pavolini avrebbe partecipato, con il suo Caproni, a un altro furioso, spietato inseguimento: «Quest’operazione finale, nelle selve, nelle forre e nelle caverne del Tembien, richiamava ancora una volta alla mente immagini di caccia grossa. Somigliò a una gigantesca battuta» 331. «Infinite altre ecatombi, spesso molto più vaste, ha visto la storia delle guerre. Ma di rado la strage si concentrò in un tempo e in uno spazio altrettanto ristretti. […] Fulminata, una generazione giaceva sui tratturi dell’altopiano» 332.

Vittorio Mussolini, con il fratello Bruno, faceva invece parte della 14ª squadriglia «Quia sum leo». In Voli sulle ambe, anche Vittorio Mussolini sentiva prepotente il bisogno, anzi il godimento, di descrivere nei minimi particolari la sua attività di cacciatore: «Un abissino col fucile correva verso sud. Una bella sventagliata e l’abissino era a terra. Era dunque una caccia isolata all’uomo, come al solito, e ogni apparecchio, per conto suo, frugava ogni buco annusando l’abissino» 333. Ma ancora più piacevole era incendiare i villaggi e i campi di dura con gli spezzoni: «Era un lavoro divertentissimo e di un effetto tragico ma bello. […] Una grossa zeriba, circondata da alti alberi, non riuscivo a colpirla. Bisognava centrare bene il tetto di paglia, e solo al terzo passaggio ci riuscii. Quei disgraziati che stavano dentro e si vedevano bruciare il tetto saltavano fuori scappando come indemoniati» 334. Ma c’era un premio per tutto questo. Vittorio Mussolini riconosceva, infatti, di «aver acquistato sulle Ambe la laurea per essere uomini. La guerra certo educa e tempra e io la consiglio a tutti, anche perché credo che sia proprio dovere di un uomo farne almeno una» 335.

Volontario in Africa, a quarant’anni, Giuseppe Bottai non aveva, come Pavolini e Vittorio Mussolini, l’attenuante della giovane età e della rozza cultura. Era già stato ministro delle Corporazioni, governatore di Roma, direttore di «Critica fascista». Anche agli occhi dei suoi avversari politici, sembrava costituire il meglio che il fascismo avesse prodotto. Eppure, anche nel suo Quaderno affricano ci sono delle asperità, dei rigurgiti razzisti, insopportabili in un uomo del suo livello. Si veda, per esempio, come descrive il villaggio di Doghea, distrutto dagli italiani:

 

Le rovine del paese, allietate da qualche albero, le mura delle sue casupole slabbrate dai colpi delle nostre artiglierie e calcinate dagli incendi, non fanno nessuna pena. Non stringono il cuore. Troppo le rovine sono simili all’aspetto normale di questi paesi, perché ne risulti la tragica angoscia della vita spezzata, del focolare spento. Quattro case del Friuli e del Veneto assumevano, nella catastrofe, un’aria grandiosa. Erano “case”, cioè: una civiltà, un’idea, una tradizione, travolte 336.

 

Come non si sforzava di capire che anche le case degli abissini, pur nella loro povertà, avevano una storia, una dignità, così negava agli avversari, anche da morti, la qualità di uomini. Guidando un battaglione all’assalto dell’Amba Aradam, Bottai vedeva cadere, nella mischia, bianchi e neri. Ma mentre presentava gli italiani morti come «seri, pensosi, pallidi» 337, nessun riguardo aveva per i «cadaveri di gente nera. Non commuovono. Questa morte di colore sembra mascherata» 338.

Indro Montanelli, dal canto suo, era andato in Africa «non a cercar “colore”, ma a cercarvi una coscienza di uomo» 339.Il futuro principe del giornalismo italiano riteneva di averla trovata guidando una banda di ascari eritrei nelle prime operazioni sul fronte Nord. Ecco come descrive l’attacco a un villaggio etiopico: «La spedizione era stata buona: sessantasette accertati. Gli ascari si sparpagliarono pei tukul a razziare e, all’occorrenza, fornire i sacramenti definitivi a qualcuno che poteva essersi rintanato in qualche nascondiglio a esalarvi l’ultimo rantolo» 340. Dunque, ricapitoliamo: morti accertati 67, ascari autorizzati a compiere razzie e all’occorrenza trucidare i feriti. Ci chiediamo come Montanelli potesse formarsi una coscienza attraverso questa spirale di violenze estreme. Eppure, per avergli concesso di vivere questa esperienza, ringraziava Mussolini: «Questa guerra è per noi come una bella lunga vacanza dataci dal Gran Babbo in premio di tredici anni di scuola. E, detto fra noi, era ora» 341.

 

Ma le responsabilità di questi modesti o autorevoli gregari sono insignificanti rispetto a quelle di Mussolini nel suo rapporto con l’Africa. Si tratta di un Mussolini quasi ignoto in Italia, appena sfiorato dallo stesso Renzo De Felice, generalmente trascurato anche dagli storici stranieri, contro il quale non è stata ancora neppure formulata un’istruttoria. Ma questo Mussolini è ben noto in Africa, dovunque i suoi ordini hanno significato violenze e stermini: dal Gebel cirenaico alle montagne lunari della Migiurtinia, dalle strade di Addis Abeba alla città conventuale di Debrà Libanòs. Se l’Africa avesse potuto pretendere una propria Norimberga, se avesse avuto tanta forza da poter istruire processi per i delitti di lesa Africa, questo Mussolini africano non si sarebbe salvato.

Per una sola volta, nella sua lunga carriera di politico e di uomo di Stato, Mussolini si schiera dalla parte dell’Africa: nel 1911, quando Giolitti va in Libia. In quell’occasione, egli condanna l’impresa coloniale, la definisce un atto di brigantaggio internazionale. Si vanta anche, in quegli anni, di appoggiare gli arabi, di condividere le loro sofferenze. Ma non è vero, perché Mussolini è, per temperamento e per cultura, irrimediabilmente razzista. La sua costante, quasi ossessiva paura per le «culle vuote» non è dettata da preoccupazioni di ordine malthusiano, ma dal timore che le «razze gialle e nere» possano progredire «in numero ed espansione» e soffocare «la civiltà dell’uomo bianco» 342. Il primo grido d’allarme lo lancia in un discorso del 1926. Otto anni dopo, in un articolo scritto per il «Universal Service», ritorna sull’argomento e proclama che la politica demografica è «per l’Italia, come per gli altri Paesi abitati da popoli di razza bianca, una questione di vita o di morte» 343.

Se le campagne di Libia e di Somalia Mussolini le ha lasciate condurre ai suoi generali, limitandosi a incitarli e a sanzionare le decisioni più gravi, nel conflitto italo-etiopico agisce in prima persona, come lo stesso re Vittorio Emanuele III riconoscerà nel conferirgli la massima decorazione militare del regno: «Ministro delle Forze armate, preparò, condusse e vinse la più grande guerra coloniale che la storia ricordi».

Per cominciare, è lui che costruisce, sin nei minimi dettagli, la grande macchina bellica che dovrà distruggere, in appena sette mesi, le armate etiopiche. Memore della sconfitta di Adua, per scongiurare il ripetersi di una simile sciagura, non lesina uomini e mezzi, raddoppiando e triplicando le richieste degli alti comandi. Si pensi che, soltanto fra marzo e settembre 1935, giungono nel solo porto di Massaua 498 navi, che sbarcano 177.431 soldati perfettamente equipaggiati, 24.531 quadrupedi, 4278 automezzi e materiale vario per 548.658 tonnellate 344. Nel corso del conflitto l’afflusso dei rinforzi è costante, tanto che nel maggio 1936 i comandi italiani possono disporre di 17.959 ufficiali, 476.543 tra sottufficiali e soldati 345, 102.582 quadrupedi, 18.932 automezzi, 1542 cannoni di ogni calibro, 492 carri armati, 350 aerei, 513.276 fucili e moschetti, 14.570 mitragliatrici, 850.000.000 di cartucce per armi leggere e 4.197.936 proiettili d’artiglieria 346.

Dall’inizio del conflitto, il 3 ottobre 1935, è Mussolini che indica gli obiettivi da conquistare, che fissa le date, in armonia con il suo spregiudicato gioco diplomatico. Quasi ogni giorno invia telegrammi operativi a De Bono (in seguito a Badoglio) sul fronte Nord e a Graziani sul fronte Sud, con ordini precisi, che non si discutono. E quando i suoi generali si trovano in difficoltà, perché il nemico è più forte e audace del previsto, e sul fronte Nord ha sfondato le linee ed è penetrato in Eritrea, è lui che concede il permesso di usare le armi proibite dalla Convenzione di Ginevra, i micidiali gas tossici. Di questi aggressivi chimici ha autorizzato lo sbarco segreto in Eritrea di 270 tonnellate per l’impiego ravvicinato, di 1000 tonnellate di bombe per l’aeronautica (caricate a iprite), di 60.000 granate per l’artiglieria (caricate ad arsine). Di quest’arma assoluta si è riservato l’appalto. L’ordine di utilizzarla, come la revoca, parte soltanto da lui, supremo ed esclusivo dispensatore di morte. E anche l’impiego della guerra chimica è fatto in sintonia con le sue mosse sullo scacchiere europeo. Ci sono giorni in cui si può dispensare la morte a piene mani e giorni in cui è giocoforza far mostra di una grande umanità 347.

Il primo a essere autorizzato a impiegare i gas era il generale Graziani. Il 27 ottobre 1935, mentre stava per attaccare la piazzaforte di Gorrahei, riceveva questo telegramma da Mussolini: «Sta bene per azione giorno 29. Autorizzato impiego gas come ultima ratio per sopraffare resistenza nemico o in caso di contrattacco» 348. Gli aggressivi chimici, però, non venivano usati nell’azione su Gorrahei, perché sei tonnellate di esplosivo tradizionale bastavano a determinare il crollo del caposaldo. Ma il 15 dicembre, avendo appreso che ras Destà Damtèu stava avvicinandosi alle fortificazioni italiane di Dolo con la sua armata, Graziani chiedeva «libertà d’azione per impiego gas asfissianti» 349 così da rallentare la marcia dell’avversario. La risposta di Mussolini era immediata e positiva: «Sta bene impiego gas nel caso V.E. lo ritenga necessario per supreme ragioni difesa» 350.

Graziani non perdeva tempo. Il 24 dicembre inviava tre Caproni 101 bis sulla località di Areri, dove ras Destà era in sosta con la sua armata e il bestiame per il sostentamento, e l’irrorava di iprite e di fosgene. Gli attacchi aerei venivano ripetuti il 25, 28, 30 e 31 dicembre, con un lancio complessivo di 125 bombe. Il 10 gennaio 1936, telegrafando al generale Bernasconi, comandante dell’aviazione della Somalia, Graziani gli annunciava: «Le ultime azioni compiute hanno dimostrato quanto sia efficace l’impiego dei gas. Al riguardo, S.E. il Capo del Governo, con telegramma odierno n. 333, me ne autorizza l’impiego nella contingenza attuale, che ha carattere campale e definitivo per l’armata di ras Destà» 351.

Sul fronte Nord i gas venivano usati a partire dal 22 dicembre 1935, dopo che le avanguardie di ras Immirù avevano fatto a pezzi a Dembeguinà il gruppo Bande del maggiore Criniti. Nel tentativo di fermare l’offensiva abissina nello Scirè, il maresciallo Badoglio lanciava tutta l’aviazione dell’Eritrea sui guadi del Tacazzè e del Golimà, su Mai Timchet e il passo Agumbertà. Per la prima volta, nella campagna d’Etiopia, venivano gettate sulle masse abissine in movimento le micidiali bombe C.500T, che contenevano 212 chilogrammi di iprite e che, grazie a un meccanismo a tempo, si aprivano a 250 metri dal suolo creando una pioggia mortale. Ne venivano lanciate 74 tra il 22 e il 27 dicembre, 117 fra il 2 e il 7 gennaio 1936.

Sugli effetti di questa arma proibita disponiamo della testimonianza dello stesso ras Immirù Haile Sellase:

 

Fu uno spettacolo terrificante. Io stesso sfuggii per un caso alla morte. Era la mattina del 23 dicembre e avevo da poco attraversato il Tacazzè, quando comparvero nel cielo alcuni aeroplani. Il fatto, tuttavia, non ci allarmò troppo, perché ormai ci eravamo abituati ai bombardamenti. Quel mattino, però, non lanciarono bombe, ma strani fusti che si rompevano appena toccavano il suolo o l’acqua del fiume, e proiettavano intorno un liquido incolore. Prima che mi potessi rendere conto di ciò che stava accadendo, alcune centinaia fra i miei uomini erano rimasti colpiti dal misterioso liquido e urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche. Altri, che si erano dissetati al fiume, si contorcevano a terra in un’agonia che durò ore. Fra i colpiti c’erano anche dei contadini che avevano portato le mandrie al fiume, e gente dei villaggi vicini. I miei sottocapi, intanto, mi avevano circondato e mi chiedevano consiglio, ma io ero stordito, non sapevo che cosa rispondere, non sapevo come combattere questa pioggia che bruciava e uccideva 352.

 

Il 5 gennaio 1936 Mussolini telegrafava a Badoglio di «sospendere l’impiego dei gas sino alla riunione ginevrina, a meno che non sia reso necessario da supreme necessità offesa o difesa. Le darò io ulteriori istruzioni al riguardo» 353. Badoglio, però, ignorava la richiesta del duce di sospendere il lancio delle bombe C.500T e, come abbiamo visto, le utilizzava anche nei giorni 6 e 7 gennaio, irrorando di iprite la cittadina di Abbi Addi, i guadi del torrente Segalò e i guadi Rassi. Costretto in seguito a interrompere i bombardamenti e, per di più, rimproverato da Mussolini per il «grave insuccesso col quale gli etiopici hanno preso e conservato sino ad oggi l’iniziativa delle operazioni sulla nostra destra» 354, Badoglio, che non sopportava i rimproveri, cercava l’appoggio del ministro delle Colonie, Alessandro Lessona, indirizzandogli questo telegramma: «Impiego iprite si è dimostrato molto efficace specie verso zona Tacazzè. Circolano voci di terrore per l’impiego gas. Certamente sospensione rappresenta grave svantaggio per noi» 355. E poi, senza attendere l’autorizzazione del duce, riprendeva i bombardamenti lanciando, fra il 12 e il 18 gennaio, altre 76 bombe C.500T. Soltanto il 19 gennaio gli giungeva il via libera da Mussolini: «Autorizzo Vostra Eccellenza a impiegare tutti i mezzi di guerra, dico tutti, sia dall’alto come da terra. Massima decisione» 356.

A partire dal 21 gennaio, mentre infuriava la prima battaglia del Tembien, i bombardamenti all’iprite erano quotidiani. Complessivamente, dal 22 dicembre 1935 al 29 marzo 1936, venivano sganciate sul fronte Nord 1020 bombe C.500T per un totale di 300 tonnellate di iprite. Sul fronte Sud venivano gettate, dal 24 dicembre 1935 al 27 aprile 1936, 95 bombe C.500T, 186 bombe da 21 chilogrammi all’iprite e 325 bombe caricate a fosgene da 41 chilogrammi, per un totale di 44 tonnellate. Se si aggiunge che, durante la battaglia dell’Amba Aradam, Badoglio autorizzò l’impiego di 1367 colpi di artiglieria caricati ad arsine, il totale generale raggiunge le 350 tonnellate di aggressivi chimici. A proposito dei proiettili ad arsine, il giudizio del Servizio chimico era molto positivo:

 

Le condizioni atmosferiche fecero sì che l’uso risultò efficacissimo, tanto da forzare la capacità protettiva delle stesse maschere (forse di vecchio modello) di cui qualche capo e qualche comandante era fornito, dando luogo alla leggenda che gli italiani impiegavano gas contro i quali non esisteva protezione 357.

 

Eppure, nonostante i loro effetti devastanti e terrorizzanti, a un dato momento a Mussolini i gas non bastavano più. Per liquidare più rapidamente i suoi avversari, che egli definiva di volta in volta «negrieri amhara», «selvaggi razziatori», «abissini tagliatori di teste», alla fine di gennaio del 1936, quando per Badoglio le cose si mettevano male (stava addirittura per ordinare la ritirata da Macallè sotto la pressione dell’armata di ras Cassa), pensava persino di ricorrere alla guerra batteriologica, anche se sapeva perfettamente che nessun paese al mondo l’aveva mai praticata. E se il nuovo flagello non veniva utilizzato, lo si doveva soltanto a Badoglio, il quale esprimeva un «parere nettamente contrario», precisando che l’uso dei nuovi e tremendi aggressivi chimici avrebbero alienato all’Italia la simpatia delle popolazioni del Corno d’Africa e, sul piano internazionale, avrebbe potuto avere ripercussioni enormi e disastrose. Il 20 febbraio 1936 Mussolini replicava a Badoglio con questo laconico telegramma: «Concordo con quanto osserva V.E. circa l’impiego della guerra batteriologica» 358.

Impiegando tutti gli strumenti della censura, il regime fascista riusciva a nascondere agli italiani l’utilizzo in Etiopia delle armi proibite e prontamente e sfrontatamente smentiva tutte le notizie che apparivano sulla stampa internazionale con riferimenti all’uso dei gas. Questo silenzio imposto su uno dei peggiori crimini del fascismo doveva durare a lungo, per decenni, anche in piena democrazia. Scomparsa la censura, si imponeva la parola d’ordine di negare, e di tacciare di antitaliano chiunque avesse avanzato dubbi. Guidava il gruppo dei negazionisti Indro Montanelli, per oltre cinquant’anni il più accreditato opinion maker italiano. Lui, in Etiopia, c’era stato. Non parlava per sentito dire. La sua era la testimonianza di un combattente, sempre in prima linea con le avanguardie. E giurava di non aver mai visto un abissino ucciso dai gas. Giurava di non aver mai sentito il caratteristico odore di mostarda dell’iprite. Chi sosteneva il contrario, era semplicemente un mentitore.

Il 7 febbraio 1996, vale a dire a sessant’anni dalla guerra d’Etiopia, il ministro della Difesa, generale Domenico Corcione, rispondendo ad alcune interrogazioni parlamentari, ammetteva finalmente che «nella guerra italo-etiopica furono impiegate bombe d’aereo e proiettili d’artiglieria caricati ad iprite ed arsine, e che l’impiego di tali gas era noto al Maresciallo Badoglio, che firmò di proprio pugno alcune relazioni e comunicazioni in merito» 359. Sei giorni dopo, sul «Corriere della Sera», nella sua famosa rubrica, Indro Montanelli riconosceva che i «documenti gli davano torto», e facendo cenno a una polemica trentennale scriveva: «Essi dicono che i gas furono effettivamente usati, come lei ha scritto nella ricostruzione storica di quella impresa» 360. Seguivano le pubbliche scuse 361.

 

A Mussolini non interessava tanto vincere la guerra quanto sterminare gli avversari, per questo si accaniva contro le popolazioni inermi consentendo che venissero ipritate e con esse il bestiame, i raccolti, i fiumi, i laghi. Per questo ordinava di non rispettare i contrassegni della Croce rossa, permettendo che venissero distrutte diciassette installazioni mediche, tra le quali gli ospedali da campo di Melka Dida, dell’Amba Aradam, di Quoram 362. Per questo consentiva che si lanciassero contro l’Etiopia cristiano-copta i libici musulmani della divisione Libia, al comando del generale Guglielmo Nasi.

Con l’invio sul fronte Sud di queste truppe libiche, per la totalità di religione islamica, contro un avversario in gran parte di fede cristiana, il regime fascista commetteva un nuovo e gravissimo crimine consentendo ai libici, con estrema perfidia, di vendicarsi per le violenze subite per vent’anni dalle loro famiglie a opera dei battaglioni amhara-eritrei. Entrata in azione il 15 aprile 1936, la divisione Libia partecipava, nell’Ogaden, all’ultima e decisiva offensiva di Graziani intesa a scardinare le linee di difesa apprestate dal generale turco Wehib pascià e dal degiac Nasibù Zamanuel a protezione di Giggiga e di Harar. Come riconosceva lo stesso Graziani, i libici erano sempre in testa, sempre all’attacco. Il loro grido, Uled! Uled!, soverchiava il rumore della battaglia e riempiva di terrore i reparti etiopici, che pure, come ha riconosciuto il generale Nasi nella sua relazione finale, si battevano «fieramente, sfruttando abilmente qualsiasi asperità del terreno» 363.

Gli scontri più sanguinosi si svolgevano lungo il corso dell’uadi Corràc, ricco di insidiose caverne e di accurati apprestamenti difensivi, inutilmente bersagliati dall’aviazione, dalle artiglierie e sottoposti all’azione devastante dei lanciafiamme e dei proiettili caricati ad arsine. A rompere le ultime accanite resistenze erano i libici del I e del VII battaglione, che riuscivano a guadare l’uadi ingrossato dalle piogge e a tagliare agli avversari la via di fuga e a farne scempio. Sul terreno, infatti, rimanevano 3000 etiopici, ma il bilancio era pesante anche per gli attaccanti. Erano rimasti uccisi o feriti 20 ufficiali, 11 soldati nazionali e 707 indigeni, in gran parte libici. Graziani completava il bilancio con una considerazione agghiacciante: «Prigionieri pochi, secondo il costume delle truppe libiche» 364. Il massacro era di tali proporzioni che il generale Nasi, molto più umano di Graziani, offriva agli ascari libici un premio di cento lire per ogni prigioniero che gli avessero condotto vivo 365.

Ma era ormai troppo tardi per frenare un odio religioso, sul quale prima, irresponsabilmente, si era fatto preciso assegnamento. La mattanza dei prigionieri, infatti, continuava ai pozzi di Bircùt, a Segàg, a Dagamedò, a Dagahbùr. La promessa di Nasi di offrire un compenso per ogni etiopico catturato vivo dava però qualche risultato. «Nei combattimenti di Gianagobò» riferiva Nasi «la Divisione Libia catturò 500 prigionieri etiopici, che furono inviati in un campo di concentramento presso Mogadiscio e, ben trattati, furono liberati dopo un anno circa» 366. Comunque i massacri di prigionieri continuarono, anche a guerra finita, durante le operazioni di grande polizia coloniale nel Bale e nell’Hararino contro i resti dell’esercito di Hailè Selassiè.

Nel dopoguerra, nel tentativo di scolparsi, il generale Nasi scriveva in un suo memoriale:

 

Sempre per un apprezzamento obiettivo del carattere della lotta, si tenga conto che gli ascari libici avevano dei vecchi conti da regolare con gli etiopici, che in Libia con i battaglioni misti (amhara-eritrei), dal 1919 al 1931, lasciarono nella popolazione un tremendo ricordo. […] Truppe indigene, dunque, che non era facile moderare nei loro istinti e tradizioni 367.

 

E più avanti ribadiva: «Le truppe indigene, anche regolari, non fanno prigionieri, ma passano per le armi chi comunque è catturato, senza eccezione neanche per i feriti, perché non hanno quel sentimento dei popoli civili per i quali il ferito è sacro» 368.

Sorprende che un militare così sensibile e intelligente come Guglielmo Nasi, eccellente amministratore e soldato fra i più valorosi (fu l’ultimo ad ammainare la bandiera italiana a Gondar, nel 1941), addebiti agli ascari libici colpe gravissime che sono invece degli italiani, i quali sfruttarono sempre e in maniera sistematica gli odi etnici e religiosi delle popolazioni soggette. Sorprende questo addebito tanto più che Nasi ha avuto la ventura di vivere una duplice esperienza: quella di condurre all’assalto in Libia i battaglioni amhara-eritrei di fede cristiana contro i mujaheddin musulmani, e quella di comandare in Etiopia la divisione Libia, interamente islamica, contro patrioti cristiano-copti. Era impossibile che Nasi non associasse queste due esperienze e non si rendesse conto quanto ignobile fosse il disegno di servirsi dell’odio religioso come arma vincente, come soluzione finale.

E neppure si può accettare l’ultima e menzognera attenuante invocata da Nasi: «La storia coloniale di tutti i paesi è purtroppo una storia di orrori. Ma dobbiamo riconoscere che la storia coloniale italiana è quella che di gran lunga ne annovera meno» 369. Ancora una volta, anche nelle riflessioni di uno dei massimi gradi dell’esercito, affiorava il mito dell’italiano diverso, più tollerante, più generoso. Ancora una volta l’italiano era posto, nella graduatoria dei popoli, in una posizione privilegiata, protetta. Ancora una volta scattava, naturale, spontanea, la solita e sconsiderata autoassoluzione.

328 ASMAE, Fondo Guerra, Etiopia, b. 5, f. 3, pos. 1. La parola “militarmente” è sottolineata da Mussolini tre volte.

329 Scuola di Guerra, Alcune idee sull’impiego delle truppe nel teatro d’operazione eritreo etiopico, riservato, segreto, s.d. [1933], p. 21.

330 B. Mussolini, Scritti e discorsi, vol. IX, Dal gennaio 1934 al 4 novembre 1935, Hoepli, Milano 1935, p. 218.

331 Ivi, p. 254.

332 Ivi, p. 266.

333 V. Mussolini, Voli sulle ambe, Sansoni, Firenze 1937, p. 52.

334 Ivi, p. 78.

335 Ivi, p. 150.

336 G. Bottai, Quaderno affricano, Sansoni, Firenze 1938, p. 40.

337 Ivi, p. 70.

338 Ivi, p. 73.

339 I. Montanelli, XX Battaglione eritreo, Panorama, Milano 1936, p. 9.

340 Ivi, p. 196.

341 Ivi, p. 226.

342 Mussolini, Scritti e discorsi, cit., vol. IX, p. 117.

343 Ivi, p. 122.

344 F. Dall’Ora, Intendenza in A.O., Istituto Nazionale Fascista di Cultura, Roma 1937, p. 101.

345 In questa cifra sono compresi anche 87.000 ascari.

346 Ministero per la Guerra, Relazione sull’attività svolta per l’esigenza A.O., Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1936, allegato n. 76.

347 Per un’analisi dell’uso sistematico dei gas durante il conflitto italo-etiopico del 1935-36 e nel corso delle operazioni di controguerriglia del 1936-40, si veda A. Del Boca, I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia, Editori Riuniti, Roma 1996.

348 Documenti sull’Etiopia presso l’Autore (DEPA).

349 Comando delle Forze Armate della Somalia, La guerra italo-etiopica. Fronte Sud. Relazione, vol. III, p. 274, telegramma n. 1475.

350 DEPA, segreto, m.p.a., telegramma n. 14551 a telegramma n. 1475.

351 Comando delle Forze Armate della Somalia, La guerra italo-etiopica, cit., vol. III, allegato n. 313, p. 401.

352 TaA di ras Immirù Haile Sellase, raccolta a Addis Abeba il 13 aprile 1965.

353 DEPA, telegramma segreto a Badoglio, Macallè.

354 Ivi, telegramma segreto del 6 gennaio 1936 a Badoglio, Macallè.

355 Citato in G. Rochat, L’impiego dei gas nella guerra d’Etiopia 1935-36, in Del Boca, I gas di Mussolini, cit., p. 65.

356 DEPA, m.p.a. su tutte le mm.pp.aa.

357 Del Boca, I gas di Mussolini, cit., p. 62.

358 DEPA, telegramma segreto a Badoglio, Macallè.

359 Del Boca, I gas di Mussolini, cit., p. 40.

360 Ivi, p. 43.

361 Per la lunga polemica con Indro Montanelli si veda ivi, pp. 28-48.

362 Sugli attacchi alle installazioni della Croce rossa, si veda R. Baudendistel, «Between Bombs and Good Intentions, the International Commettee of Red Cross (ICRC) and the Italo-Ethiopian War, 1935-1936», tesi di dottorato discussa all’Università di Ginevra nell’aprile 2003, pp. 101-148.

363 G. Nasi, Relazione sulle operazioni effettuate per l’occupazione di Harar, in Comando delle Forze Armate della Somalia, La guerra italo-etiopica, cit., vol. IV, allegato n. 488, p. 277.

364 Telegramma di Graziani n. 4924/30 inviato al ministro delle Colonie Lessona e a Badoglio, in Comando delle Forze Armate della Somalia, La guerra italo-etiopica, cit., vol. IV, p. 187.

365 AFN, G. Nasi, «Venticinque anni in Africa», diario inedito, pp. 46-48.

366 AB, b. AI/2, f. 16, «L’azione di comando politico militare in AOI dal 1936 al 1941 del generale Guglielmo Nasi», Roma, febbraio 1950. Sul fatto che siano stati «ben trattati» nel lager di Danane, nutriamo molti dubbi. Dei 6500 etiopici e somali che si sono avvicendati nel campo tra 1936 e 1941, 3175 vi persero la vita per la cattiva e scarsa alimentazione, la malaria, l’enterocolite, la mancanza d’igiene, il clima malsano. Si veda A. Del Boca, Un lager del fascismo: Danane, in L’Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 41-57.

367 Ivi, p. 16.

368 Ivi, p. 21.

369 Ivi, p. 14.

10. Debrà Libanòs: una soluzione finale

Il 5 maggio 1936 il maresciallo Pietro Badoglio entrava in Addis Abeba senza colpo ferire. L’imperatore Hailè Selassiè l’aveva abbandonata tre giorni prima per prendere l’ultimo treno per Gibuti e la via dell’esilio. L’8 maggio il generale Rodolfo Graziani occupava Harar e l’indomani Dire Daua. La “guerra dei sette mesi” era finita. Alle 22.33 del 9 maggio Mussolini compariva al balcone di Palazzo Venezia e annunciava alla folla che «i territori e le genti che appartennero all’impero d’Etiopia sono posti sotto la sovranità piena e intera del Regno d’Italia» 370. Il solenne avvenimento era così commentato da una penna devota al regime, quella di Raffaele Carrieri: «Un mondo è crollato, un altro sorge. Lo vediamo spuntare in questo magnifico silenzio come un’aurora dalle parole del Duce. Dopo quindici secoli, Mussolini ha ridato a Roma il suo Impero immortale» 371.

La situazione, in Etiopia, era in realtà meno benigna. Quasi due terzi dell’immenso paese erano ancora da occupare ed erano sotto il controllo di capi e funzionari del negus. Si aggiunga che i resti dell’esercito imperiale, circa 100.000 uomini, erano ancora attivi nel Sidamo, nel Bale, nel Goggiam, nel Gimma, nell’Hararghiè, al comando di capi di provata efficienza, come i ras Destà Damtèu e Immirù Haile Sellase, i degiac Bejenè Merid, Gabre Mariam, Maconnen Uoseniè. Per finire, i 10.000 soldati che presidiavano Addis Abeba erano praticamente assediati dagli armati dei fratelli Cassa.

Intuendo il pericolo, e impaziente di riscuotere i doni, le prebende e gli incarichi che gli erano stati promessi (fra tutti, un titolo nobiliare e tre milioni di lire per costruire una villa faraonica in via Bruxelles a Roma), Badoglio si faceva richiamare in Italia e passava le consegne all’ambizioso Graziani, nel frattempo promosso maresciallo d’Italia. Investito il 20 maggio del triplice incarico di viceré, governatore generale e comandante superiore delle truppe, Graziani veniva nello stesso tempo travolto dagli ordini telegrafici di Mussolini, che erano a dir poco insensati. Fingendo di ignorare che il neoviceré era in pratica intrappolato in Addis Abeba, il 21 maggio il duce gli telegrafava: «Non si può tardare oltre a marciare in direzione di Gore dove, secondo una lettera pubblicata dall’ex Ministro Etiopico a Londra sul “Times”, esisterebbe un governo provvisorio abissino. Si tratta di una vescica ma è bene bucarla» 372.

Inutilmente Graziani cercava di spiegare all’impaziente Mussolini che lui era dispostissimo a riprendere la marcia, ma la stagione delle piogge bloccava i movimenti su tutte le strade e rendeva persino difficoltosi i rifornimenti alla capitale che, oltretutto, erano ostacolati dalle incursioni dei ribelli. Mussolini non voleva sentire ragioni e pungolava il viceré con telegrammi di questo tenore: «Tutti i ribelli fatti prigionieri devono essere passati per le armi» 373. «Per finirla con i ribelli, come nel caso di Ancober, impieghi i gas» 374. «Autorizzo ancora una volta Vostra Eccellenza a iniziare e condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici. Senza la legge del taglione al decuplo non si sana la piaga in tempo utile. Attendo conferma» 375.

Se si trattava di usare il pugno di ferro Graziani non aveva bisogno di sollecitazioni, lo aveva ampiamente dimostrato in Libia. Sotto il suo comando, infatti, la controguerriglia sarebbe stata condotta per venti mesi con metodi spietati, che violavano ogni legge di guerra. E, tuttavia, con scarsi risultati. Appena veniva spento un focolaio di rivolta, subito se ne accendeva un altro, più vasto, più inquietante. Nonostante le continue esecuzioni sommarie, le rappresaglie con i gas (verranno lanciate 552 bombe caricate a iprite e a fosgene per complessive 60 tonnellate), l’incendio di migliaia di villaggi con le loro chiese, le deportazioni di intere comunità, la costruzione di nuovi campi di concentramento, l’Etiopia appariva indomabile e continuava a essere inospitale. Quella che avrebbe dovuto diventare una colonia di ripopolamento, la terra promessa per i coloni italiani (si parlava di trapiantare in Etiopia da un milione a dieci milioni di contadini), non accoglierà, per la verità, durante i cinque anni dell’occupazione fascista, che 3500 famiglie, distribuite su appena 114.000 ettari. Questi coloni non faranno in tempo a dissodare le nere terre del Gimma, del Cercer, dell’Uogherà, perché le prime cannonate della seconda guerra mondiale li strapperanno dai loro sogni.

La fine della stagione delle piogge e l’arrivo a Addis Abeba di notevoli rinforzi consentivano a Graziani di allentare la morsa attorno alla capitale e di passare all’offensiva. Con una serie di operazioni di grande polizia coloniale, i suoi generali riuscivano a battere le residue forze dei ras Destà Damtèu e Immirù Haile Sellase e dei fratelli Cassa. Nel marzo 1937 l’occupazione dell’impero poteva dirsi conclusa e integrale. In poco più di dieci mesi, quattro dei quali vanificati dalle grandi piogge, le colonne partite da Addis Abeba, da Neghelli e da Harar avevano occupato più di 600.000 chilometri quadrati di territorio, ridotto al silenzio le ultime armate del negus e catturato 140.000 fucili, 450 mitragliatrici e 50 cannoni 376. La vasta operazione, per la quale erano stati impegnati non meno di 200.000 uomini, era costata agli italiani e ai loro alleati un numero relativamente basso di morti: 45 ufficiali, 207 militari nazionali, 1200 soldati fra libici, eritrei e arabo-somali.

Contravvenendo a ogni regola di guerra, Mussolini e Graziani decidevano di considerare i capi e i gregari fatti prigionieri non soldati di un esercito regolare, e quindi da risparmiare, bensì militari ribelli e quindi da abbattere. In base a questo assurdo e criminale criterio venivano fucilati i tre fratelli Cassa e persino gli abuna Petros e Micael. Non sfuggiva al massacro neppure il genero dell’imperatore, ras Destà Damtèu. Il 12 febbraio 1937, mentre le residue forze del ras venivano accerchiate e decimate a Gogetti, Graziani inviava al generale Geloso, che comandava le operazioni, questo telegramma: «Rammento a V.E. l’ordine tassativo del Capo del Governo che tutti i capi e gli armati catturati, qualunque grado essi abbiano, siano passati immediatamente per le armi» 377. Ras Destà riusciva ancora una volta, con una quarantina di seguaci, a sfuggire all’accerchiamento e a rifugiarsi nel villaggio natale di Maskan. Ma veniva presto rintracciato, catturato e consegnato al capitano Tucci, il quale inviava a Graziani il seguente telegramma: «Oggi 24, alle ore 6, la mia colonna ha fatto prigioniero ras Destà Damtèu. In ottemperanza agli ordini di Sua Eccellenza il Capo del Governo, alle ore 17.30 è stato passato per le armi» 378.

I giornali italiani annunciavano l’uccisione del genero dell’imperatore con titoli a nove colonne, e il vicesegretario dei GUF, Guido Pallotta, che interpretava i sentimenti della parte autenticamente fascista della nazione, giungeva a scrivere: «E nello scroscio del plotone di esecuzione echeggiò la più strafottente risata fascista in faccia al mondo, la sfida più cocente alle turbe sanzioniste. Schiaffone magistrale che il capitano Tucci menò nella maniera squadrista sulle guance imbellettate della baldracca ginevrina» 379. Pallotta aveva ragione. L’Italia fascista aveva fatto un salto di qualità. Oramai non c’era consuetudine, legge, giudizio morale, che la frenasse. L’impero italiano d’Etiopia si stava rivelando un immenso laboratorio, dove un popolo cosiddetto civile manifestava i suoi istinti più bassi e sperimentava su larga scala le tecniche del genocidio.

 

Ad appena nove mesi da quando Rodolfo Graziani era stato nominato da Mussolini viceré d’Etiopia, il clima a Addis Abeba era particolarmente pesante e l’atmosfera di insicurezza era palpabile. C’erano, nella capitale, alcune migliaia di etiopici che piangevano i loro cari uccisi durante le operazioni di grande polizia coloniale. C’erano molti altri in ansia per la scomparsa dei loro congiunti, probabilmente finiti nelle prigioni italiane. Continuava, inesorabile, la caccia ai cadetti della Scuola militare di Olettà e dei giovani che si erano laureati all’estero, per i quali, sin dal 3 maggio 1936, Mussolini aveva emesso questa sentenza: «Siano fucilati sommariamente tutti i cosiddetti giovani, etiopici, barbari crudeli e pretenziosi, autori morali dei saccheggi» 380. Infine, dalle regioni vicine, dove era attiva la resistenza degli arbegnuoc, dei partigiani, giungevano notizie di scontri, di eccidi, di razzie, di incendi di villaggi, dell’uso sistematico dei gas.

Erano presenti tutti gli elementi perché si scatenasse una rivolta o, per lo meno, un disperato atto di protesta. Di questo gesto estremo si incaricavano due giovani studenti di origine eritrea, Abraham Debotch e Mogus Asghedom, i quali, nei giorni precedenti all’attentato a Graziani, con la complicità di un tassista hararino, Semeon Adefres, e del capo ribelle Ficrè Mariam, si erano addestrati al lancio delle bombe a mano sulle pendici del monte Zuqualà. Il 19 febbraio 1937, approfittando di una cerimonia che si teneva nel recinto del Piccolo Ghebì, per solennizzare la nascita del primogenito del principe Umberto di Savoia, i due eritrei, eludendo il servizio d’ordine, si introducevano nel palazzo, salivano al primo piano e accedevano alla balconata, che dava proprio sulla scalinata d’accesso al palazzo dove le autorità si erano sistemate. Era quasi mezzogiorno quando i due attentatori cominciavano a lanciare le bombe a mano Breda (otto in tutto) sul viceré Graziani e le autorità italiane ed etiopiche che lo circondavano. Il bilancio era gravissimo: sette morti e una cinquantina di feriti, e fra questi lo stesso Graziani, il vice-governatore generale Petretti, i generali Liotta, Gariboldi e Armando, i colonnelli Mazzi e Amantea, il governatore di Addis Abeba Siniscalchi, l’ispettore fascista del lavoro per l’Africa Orientale Italiana, onorevole Fossa, il federale Cortese, l’abuna Cirillo, il degiac Hailè Selassiè Gugsa.

Approfittando dello scompiglio generale, i due eritrei uscivano dal palazzo e poi dal recinto seguendo un percorso studiato a lungo. Fuori, ad attenderli, c’era Semeon Adefres, con la sua Opel, che li portava in salvo nella città conventuale di Debrà Libanòs. In seguito i due eritrei avrebbero raggiunto le formazioni partigiane di ras Abebè Aregai, con le quali avrebbero operato per un certo periodo. Più tardi decidevano di raggiungere il Sudan, ma venivano uccisi durante il viaggio in circostanze rimaste oscure. Quanto a Semeon Adefres, la cui scomparsa da Addis Abeba, per alcuni giorni, era stata segnalata all’Ufficio Politico della capitale, veniva tratto in arresto e torturato sino alla morte. Il suo corpo, ricuperato dalla sorella, riposa ora nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo 381.

Subito dopo aver appreso la notizia dell’attentato, Mussolini inviava a Graziani, che nel frattempo era stato ricoverato in ospedale, essendo stato investito da 350 schegge, questo telegramma: «Non attribuisco al fatto una importanza maggiore di quella che effettivamente ha, ma ritengo che esso debba segnare l’inizio di quel radicale ripulisti assolutamente, a mio avviso, necessario nello Scioa» 382. A Addis Abeba, l’uomo che prendeva immediatamente l’iniziativa di dare agli etiopici una lezione indimenticabile non era però Graziani, che si limitava ad avallarla dall’ospedale trasformato in bunker, bensì il federale fascista della capitale, Guido Cortese. La rappresaglia si scatenava quasi subito, nello stesso pomeriggio del 19 febbraio. Il giornalista Ciro Poggiali annotava nel suo diario segreto:

 

Tutti i civili che si trovavano in Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada. […] Vedo un autista che, dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza, gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e innocente 383.

 

Un altro testimone dei fatti, Antonio Dordoni, che ben conosceva la comunità italiana della capitale, così riferiva:

 

Nel tardo pomeriggio, dopo aver ricevuto disposizioni alla Casa del fascio, alcune centinaia di squadre composte da camicie nere, autisti, ascari libici, si riversarono nei quartieri indigeni e diedero inizio alla più forsennata «caccia al moro» che si fosse mai vista. In genere davano fuoco ai tucul con la benzina e finivano a colpi di bombe a mano quelli che tentavano di sfuggire ai roghi. Intesi uno vantarsi di «essersi fatto dieci tucul» con un solo fiasco di benzina. Un altro si lamentava di avere il braccio destro stanco per il numero di granate che aveva lanciato. Molti di questi forsennati li conoscevo personalmente. Erano commercianti, autisti, funzionari, gente che ritenevo serena e del tutto rispettabile. Gente che non aveva mai sparato un solo colpo durante tutta la guerra e che ora rivelava rancori ed una carica di violenza insospettati. Il fatto è che l’impunità era assoluta. Il solo rischio che si correva era quello di guadagnarsi una medaglia. Che io sappia, i carabinieri intervennero una sola volta, per impedire che si bruciassero i magazzini dell’indiano Mohamedally 384.

 

Di quel tremendo massacro disponiamo di tre fotografie, scattate dal giovane Alberto Imperiali, il quale, con il padre, era in contatto con la resistenza etiopica. Si tratta di immagini nette, inequivocabili, terrificanti, riprese nella zona di Gullalè, tra la chiesa dei Santi Pietro e Paolo e il Ghebì di ras Hailù Tecla Haimanot. Il terreno, ondulato, è letteralmente coperto da cumuli di stracci bianchi. Ma non si tratta di una immensa lavanderia indigena, bensì di cadaveri avvolti in fute bianche scaricati alla rinfusa, con molta probabilità da autocarri. Soltanto qualche testa, qualche braccio, emergono dai cumuli di stracci bianchi, a confermare che siamo di fronte a uno dei più odiosi eccidi della storia. Proviamo a contare le vittime. Cento, duecento. Impossibile continuare... 385

Veniva dato alle fiamme anche l’interno della chiesa di San Giorgio, costruita ai tempi di Menelik dall’ingegnere italiano Sebastiano Castagna. Un particolare che forse era sfuggito al federale Cortese che aveva, di persona, impartito l’ordine di incendiare l’edificio. E solo l’intervento di un colonnello dei granatieri impediva che una cinquantina di diaconi venisse spinta a scudisciate nel rogo 386. Mentre i civili organizzavano la rappresaglia contro una popolazione inerme e del tutto estranea all’attentato, i militari operavano arresti in massa, convogliando circa 4000 etiopici in improvvisati campi di concentramento. Ma dove la ritorsione assumeva le dimensioni di un genocidio era negli agglomerati di tucul lungo i torrenti Ghenfilè e Ghilifalign, che attraversano la città da nord a sud. Presi d’assalto a tarda sera e dati alle fiamme, ardevano per tutta la notte illuminando a giorno l’immensa città-foresta.

«Da Piazza 5 maggio all’Ospedale americano se ne erano salvati ben pochi di tucul» ricordava a sua volta il vercellese Alfredo Godio, che l’indomani mattina attraversava il quartiere. «E fra le macerie c’erano cumuli di cadaveri bruciacchiati. Più tardi, sulla strada per Ambò, vidi passare molti autocarri “634” sui quali erano stati accatastati, in un orribile groviglio, decine di corpi di abissini uccisi» 387.

«Per tre giorni durò il caos» riferiva l’attore Dante Galeazzi, finito in Etiopia per spirito d’avventura, «per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni in Addis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano» 388. Il 21 febbraio, preoccupato per il fatto che i diplomatici stranieri presenti nella capitale si muovevano armati di macchine fotografiche per riprendere le immagini più crudeli della strage, Graziani autorizzava il colonnello Mazzi a inviare al federale Cortese questo fonogramma a mano: «S.E. il viceré intende che cessino in modo assoluto le rappresaglie» 389.

Il federale acconsentiva e faceva diffondere nella mattinata un volantino in carta lucida, delle dimensioni di 20 per 30 centimetri, con il bollo della Federazione dei Fasci di combattimento di Addis Abeba, che diceva testualmente:

 

Camerati! Ordino che dalle 12 di oggi 21 febbraio XV cessi ogni e qualsiasi atto di rappresaglia. Alle ore 21.30 i fascisti debbono ritirarsi nelle proprie abitazioni. SEVERISSIMI provvedimenti saranno presi contro i trasgressori. Le auto pubbliche, private, ed i camions (meno quelli in servizio di Governo e Militare) debbono cessare la circolazione alle ore 21. Il Segretario Federale 390

 

Il commento di Ciro Poggiali era lapidario: «Evidentemente non vi sono più né polli né talleri da razziare» 391. Quello di Dordoni rivelava una profonda indignazione: «Lo lessi e lo rilessi. Non credevo ai miei occhi. Non credevo che, dopo una simile strage, si potessero mettere in giro documenti del genere, che erano una palese autodenuncia» 392.

Volendo dimostrare, ancora una volta, che lui era il più intransigente di tutti, il 21 febbraio 1937 Mussolini inviava a Graziani questo telegramma: «Nessuno dei fermi già effettuati e di quelli che si faranno deve essere rilasciato senza mio ordine. Tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi. Attendo conferma» 393. Il 26 febbraio, dopo che l’avvocato militare Bernardo Olivieri aveva rimesso a Graziani una relazione sul complotto, secondo la quale l’attentato era maturato tra gli allievi della Scuola militare di Olettà (ma noi sappiamo invece che era stato ideato e realizzato da tre sole persone), il viceré inviava a Mussolini questo dispaccio:

 

Duce, questa mattina sono stati passati per le armi quarantacinque fra notabili e gregari risultati colpevoli manifesti dell’attentato del giorno 19. Sono ancora trattenuti al ghebì circa duecentocinquanta notabili e rappresentanti del clero, per i quali mi riservo farvi proposte 394.

 

Ancora oggi, nonostante il più facile accesso agli archivi italiani ed etiopici, è impossibile stabilire il numero esatto delle vittime di quei tre giorni di repressione. Nel memorandum presentato dal governo etiopico al Consiglio dei ministri degli Esteri delle potenze vincitrici riunito a Londra nel settembre 1945, si parla di «30.000 uccisi durante la strage del 1937» 395. Ma è probabile che questa cifra comprenda anche le successive uccisioni di patrioti, religiosi, indovini, cantastorie, eremiti legate in qualche modo all’attentato a Graziani. I giornali inglesi, francesi e americani dell’epoca forniscono cifre che oscillano fra 1400 e 6000 morti. Quanto a Graziani, il 22 febbraio tracciava per Mussolini questo primo bilancio, che era estremamente riduttivo:

 

In questi tre giorni ho fatto compiere nella città perquisizioni con ordine di passare per le armi chiunque fosse trovato in possesso di strumenti bellici, che le case relative fossero incendiate. Sono state in conseguenza passate per le armi un migliaio di persone e bruciati quasi altrettanti tucul 396.

 

Dietro l’attentato del 19 febbraio 1937 non c’era alcun vasto complotto, di lunga gestazione, come assicurava l’avvocato militare Olivieri. Ma l’affrettato e falso responso di Olivieri faceva comodo a Graziani, che doveva portare a termine quel «radicale ripulisti» ordinatogli da Mussolini, e che lui stesso, del resto, aveva suggerito. Come si è visto, il 26 febbraio faceva fucilare 45 «fra notabili e gregari risultati colpevoli manifesti» 397. Altri 26 venivano assassinati nei quattro giorni successivi. Con queste esecuzioni, Graziani liquidava parte dell’intellighenzia etiopica: alti funzionari governativi, giovani ufficiali, stretti collaboratori dell’imperatore, giovanissimi che si erano da poco laureati in Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti a spese di Hailè Selassiè.

Non era che l’inizio della repressione. Tra le varie proposte di Graziani a Mussolini c’era anche quella «di radere al suolo tutta la vecchia città indigena e accampare tutta la popolazione in un campo di concentramento» 398. Mussolini, una volta tanto, si opponeva al mostruoso progetto, non perché gli ripugnasse, ma perché «solleverebbe nel mondo una impressione sfavorevolissima e non raggiungerebbe lo scopo» 399. Approvava invece la proposta del viceré di deportare in Italia i notabili che erano ancora ammassati, dal giorno dell’attentato, nei sotterranei del palazzo vicereale. Trasferiti in volo ad Asmara, il 7 marzo 187 notabili, 8 donne e 2 bambini venivano imbarcati a Massaua sul piroscafo Toscana. Nei mesi successivi, con quattro navi, erano deportati in Italia altri 200 aristocratici, portando così il numero complessivo a 400 400. «Gli elementi di scarsa importanza ma comunque nocivi» 401venivano invece rinchiusi nei campi di concentramento di Nocra, in Eritrea, e di Danane, in Somalia, dove circa la metà moriva per malattia o per la scarsa e cattiva alimentazione 402.

Risolto, con la deportazione, il problema dei notabili scioani infidi, Graziani poteva dedicarsi con maggiore impegno al «radicale ripulisti», cioè alla eliminazione di ogni oppositore, vero o presunto che fosse. Si veda, per esempio, l’incredibile vicenda della strage di indovini e cantastorie. Il 19 marzo Graziani notificava al ministro Lessona che gli organi di polizia gli avevano «concordemente segnalato» che tra i «più pericolosi perturbatori dell’ordine pubblico» erano da annoverarsi i cantastorie, gli indovini, gli stregoni, gli eremiti, che diffondevano ad arte notizie false o catastrofiche, come l’imminente fine della dominazione italiana in Etiopia. «Convinto della necessità di stroncare radicalmente questa mala pianta» continuava il viceré, «ho ordinato che tutti i cantastorie, indovini e stregoni della città e dintorni fossero arrestati e passati per le armi. A tutt’oggi ne sono stati rastrellati ed eliminati settanta» 403. «Approvo quanto è stato fatto circa stregoni e ribelli» si affrettava a rispondere Mussolini. «Occorre insistere sino a che la situazione non sia radicalmente e definitivamente tranquilla» 404.

Graziani non lo avrebbe deluso. «Dal 19 febbraio ad oggi» riferiva il 21 marzo a Mussolini «sono state eseguite 324 esecuzioni sommarie, tuttavia con colpabilità sempre discriminata e comprovata. Ripeto 324, senza naturalmente comprendere in questa cifra le repressioni dei giorni 19 e 20 febbraio» 405. Il 30 aprile i «provvedimenti di rigore» salivano a 710 406. Il 5 luglio, a 1686 407. Il 25 luglio, a 1878 408. Il 3 agosto, a 1918 409. Poi il viceré cessava di tenere questa macabra e ripugnante contabilità, ma da altre fonti sappiamo che le esecuzioni non conoscevano sosta ed erano compiute nella più totale illegalità, senza istruttorie né processi, e spesso senza la minima prova, qualche volta per vendetta, altre invece per coprire furti e rapine. Da una relazione del colonnello dei carabinieri Azolino Hazon, apprendiamo che i soli carabinieri avevano passato per le armi 2509 etiopici tra febbraio e maggio 1937 410.

Analizzando i dispacci che si sono scambiati Mussolini, Graziani, Lessona, Cortese, e i documenti redatti dagli avvocati militari Olivieri e Franceschino e dal colonnello dei carabinieri Hazon, riflettendo sul loro linguaggio, nel quale le espressioni più ricorrenti sono «passare per le armi», «liquidazioni», «ripulisti», «rappresaglia», c’è da chiedersi quale Etiopia stessero edificando e a chi pensavano di consegnare questo sterminato cimitero. Se qualche governatore, come il generale Nasi, tentava di limitare l’entità delle stragi, veniva immediatamente bacchettato da Graziani, che giudicava insopportabile l’indulgenza del sottoposto: «Ordino che i 54 elementi di cui al comma primo siano passati senz’altro per le armi. […] Ugualmente siano passati per le armi tutti gli indovini e gli stregoni. […] Prego darmi assicurazione con la parola “liquidazione”» 411.

Ma il peggio doveva ancora venire.

 

Dopo aver esercitato la sua vendetta sulla nobiltà amhara, sugli esponenti di spicco dell’intellighenzia etiopica, sui cadetti della Scuola militare di Olettà, sulla folla anonima e miserabile di indovini, cantastorie, stregoni ed eremiti, nell’ultima decade di maggio Graziani prendeva come bersaglio il clero cristianocopto e, in modo particolare, la città conventuale di Debrà Libanòs. L’incarico di impartire questa nuova lezione veniva affidato al generale Pietro Maletti, il quale, a differenza di Nasi, era un perfetto esecutore di ordini. Partito il 6 maggio 1937 da Debrà Berhàn, attraversava il Mens, dove la resistenza era capeggiata dal degiac Auraris Dullu, comportandosi come un nuovo Attila. Se prestiamo fede ai rapporti da lui redatti, in due settimane le sue truppe incendiavano 115.422 tucul, tre chiese, il convento di Gulteniè Ghedem Micael (dopo averne fucilato i monaci), e sterminavano 2523 arbegnuoc. Era tale il terrore che Maletti diffondeva che l’intera popolazione del Mens si dava alla macchia. «Non una persona venne a presentarsi per atto di omaggio» riferiva il generale a Graziani; «tutti i non combattenti erano fuggiti col bestiame e con le loro masserizie, occultandosi nei valloni, nelle pieghe del terreno, negli anfratti e nelle numerose grotte della regione. I preti, spogliate le chiese, smesso l’abito talare, si erano mescolati alla popolazione» 412.

Per l’operazione contro Debrà Libanòs, che circondava nella serata del 19 maggio, Maletti rinunciava a servirsi dei battaglioni eritrei, composti in gran parte da cristiani, e utilizzava ascari libici e somali, di fede musulmana, e soprattutto

– sono parole sue – «i feroci eviratori galla della banda Mohamed Sultan: 1500 uomini armati di pugnale, di lance e di vecchi fucili, agili come scimmie, liberi da ogni vincolo formale tattico e guidati dal loro istinto infallibile» 413.

Situato nello Scioa del Nord, il grande monastero di Debrà Libanòs era stato fondato nel XIII secolo dal santo tigrino Tecle Haymanot e comprendeva due grandi chiese in muratura, un migliaio di tucul abitati da monaci, preti, diaconi, studenti di teologia, suore e un centinaio di tombe di illustri capi abissini, a guardia delle quali stavano monaci e cascì (sacerdoti). Mentre Maletti completava l’occupazione della città conventuale, riceveva da Graziani un telegramma che diceva:

 

QUESTO AVVOCATO MILITARE MI COMUNICA PROPRIO IN QUESTO MOMENTO CHE HA RAGGIUNTO LA PROVA ASSOLUTA DELLA CORREITÀ DEI MONACI DEL CONVENTO DI DEBRÀ LIBANÒS CON GLI AUTORI DELL’ATTENTATO. PASSI PERTANTO PER LE ARMI TUTTI I MONACI INDISTINTAMENTE, COMPRESO IL VICE-PRIORE. PREGO DARMI ASSICURAZIONE COMUNICANDOMI NUMERO DI ESSI. DIA PUBBLICITÀ AT RAGIONI DETERMINANTI PROVVEDIMENTO 414.

 

Per la verità, le prove scoperte dal maggiore Franceschino erano estremamente vaghe e, al massimo, avrebbero potuto riguardare uno o più monaci e non l’intera comunità. Ma il viceré, da tempo, era persuaso che il convento fosse «un covo di assassini, briganti e monaci assolutamente a noi avversi» 415. Pertanto non provava alcuno scrupolo a ordinarne lo sterminio.

Poiché Graziani aveva assicurato al ministro delle Colonie Lessona che «le esecuzioni disposte in conseguenza del citato attentato saranno effettuate in luoghi isolati e che nessuno

– ribadisco: nessuno – può esserne testimone» 416, Maletti provvedeva nella stessa giornata del 19 maggio a cercare un luogo adatto per il massacro. Lo scopriva a pochi chilometri da Debrà Libanòs, nella località di Laga Wolde, una piana chiusa a ovest da un anfiteatro di cinque colline e a est dal fiume Finche Wenz, che defluiva nel burrone di Zega Wedem. Il luogo era ideale perché disabitato e per di più era accessibile agli autocarri che avrebbero trasportato le vittime.

Dopo alcuni sommari accertamenti e la separazione dei religiosi dagli occasionali pellegrini, nella giornata del 21 maggio Maletti trasferiva nella piana di Laga Wolde i monaci selezionati. Nella loro precisa ricostruzione dei fatti, i due docenti universitari Ian L. Campbell e Degife Gabre-Tsadik riferiscono:

 

Le vittime furono spinte giù dal camion e furono rapidamente fatte allineare, con il viso a nord e la schiena volta verso gli ascari. Furono quindi costrette a sedersi in fila lungo l’argine meridionale del fiume, che in quel periodo dell’anno era quasi completamente in secca. Gli ascari presero quindi un lungo telone, preparato appositamente per l’occasione, e lo stesero sui prigionieri come una stretta tenda formando un cappuccio sopra la testa di ognuno di loro 417.

 

Si procedeva quindi alla fucilazione dei religiosi. E mentre un ufficiale italiano provvedeva a sparare il colpo di grazia alla testa, vicino all’orecchio, gli ascari toglievano il telone nero dai cadaveri per utilizzarlo per il successivo gruppo di condannati. Alle 15.30 del pomeriggio tutto era finito e Graziani poteva annunciare a Roma che «oggi, alle 13 in punto», il generale Maletti «ha destinato al plotone di esecuzione 297 monaci, incluso il vice-priore, e 23 laici sospetti di connivenza. Sono stati risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale d’ordine, che verranno tradotti e trattenuti nelle chiese di Debrà Berhàn. Il convento è stato di conseguenza chiuso definitivamente» 418.

Ma tre giorni dopo il viceré cambiava idea, sembra su istigazione di ras Hailù Tecla Haimanot, il più noto e spietato fra gli aristocratici collaborazionisti, e inviava a Maletti questa nuova direttiva: «Confermo pienamente la responsabilità del convento di Debrà Libanòs. Ordino pertanto di passare immediatamente per le armi tutti i diaconi di Debrà Libanòs. Assicuri con le parole: “Liquidazione completa”» 419. Il generale Maletti, con il consueto zelo, provvedeva subito a far scavare due profonde fosse in località Engecha, a pochi chilometri da Debra Berhàn, e nella mattinata del 26 maggio faceva sfilare davanti alle mitragliatrici 129 diaconi, martiri giovanetti che la cristianità non ricorda e non piange perché africani e diversi. «Per cui» concludeva Graziani «la cifra dei giustiziati saliva a 449» 420.

Ma la vera cifra degli assassinati era molto più alta, almeno tre volte superiore. Tra 1991 e 1994 i due docenti universitari già ricordati, l’inglese Ian L. Campbell e l’etiopico Degife Gabre-Tsadik, eseguivano nel territorio di Debrà Libanòs un’ampia e approfondita ricerca, interrogando monaci, cascì, civili, alcuni dei quali avevano assistito a una o più fasi del massacro. Dalle loro testimonianze emergeva che i fucilati a Laga Wolde non erano 320 ma tra 1000 e 1600. Successivamente, tra 1993 e 1998, il professor Campbell proseguiva da solo le indagini spostandosi nella regione di Debrà Berhàn per trovare informazioni sulla strage di Engecha. Egli non soltanto riusciva a localizzare le due fosse che contenevano i corpi dei 129 diaconi, ma poteva raccogliere le deposizioni di due testimoni oculari che avevano assistito alla strage dall’inizio alla fine. L’inchiesta di Campbell rivelava inoltre che Graziani, nel comunicare a Lessona l’eliminazione dei diaconi, aveva sostenuto il falso. Egli, infatti, non si era limitato a ordinare a Maletti la «liquidazione completa» dei 129 diaconi, ma gli aveva ingiunto di sopprimere altri 276 etiopici, fra insegnanti, studenti di teologia, monaci e sacerdoti che appartenevano ad altri monasteri e che nulla avevano a che fare con Debrà Libanòs. Per cui il bilancio della strage di Engecha saliva a 400 vittime 421 e quello complessivo della rappresaglia contro la città conventuale di Debrà Libanòs si aggirava, secondo i due ricercatori, tra 1423 e 2033 morti 422. Mai, nella storia dell’Africa, una comunità religiosa aveva subìto uno sterminio di tali proporzioni.

A differenza di altri massacri, dei quali Graziani cercherà in seguito di scaricare la colpa su Mussolini e Lessona, oppure su alcuni suoi subalterni, quelli di Debrà Libanòs e di Engecha non lo inquietavano, se ne assumeva l’intera responsabilità e se ne faceva anzi un titolo di merito, anche se mentiva sul numero dei giustiziati. Scriveva in un suo memoriale:

 

Non è millanteria la mia quella di rivendicare la completa responsabilità della tremenda lezione data al clero intero dell’Etiopia con la chiusura del convento di Debrà Libanòs, che da tutti era ritenuto invulnerabile, e le misure di giustizia sommaria applicate sulla totalità dei monaci, a seguito delle risultanze emerse a loro carico. Ma è semmai titolo di giusto orgoglio per me aver avuto la forza d’animo di applicare un provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall’Abuna all’ultimo prete o monaco, che da quel momento capirono la necessità di desistere dal loro atteggiamento di ostilità a nostro riguardo, se non volevano essere radicalmente distrutti 423.

 

Se Graziani, con le selvagge repressioni del febbraio-maggio 1937, contava di impartire agli etiopici una lezione durissima e indimenticabile, sbagliava i suoi calcoli. Le violenze indiscriminate ottenevano al contrario l’effetto di spingere alla macchia tutti quelli che si sentivano in qualche modo minacciati, di far cessare le sottomissioni, di convogliare nelle file degli insorti anche le popolazioni contadine, che lamentavano i frequenti incendi dei loro villaggi. Con l’ingresso nella resistenza di nuovi capi e di nuovi gregari, cambiavano radicalmente anche i metodi di lotta. Era lo stesso Graziani che denunciava questo salto di qualità:

 

Le formazioni ribelli si sono organizzate meglio dei reparti militari regolari abissini che hanno preso parte alla guerra. Fra esse è stata instaurata una disciplina ferrea e anche lievi negligenze e disobbedienze sarebbero punite con la morte. […] La tattica adottata dai ribelli è di non farsi bloccare dalle nostre truppe, condurre la guerriglia in tutte le regioni allo scopo di dimostrare che l’Etiopia non è completamente conquistata 424.

 

La più vasta e indomabile rivolta si sviluppava nel Lasta. Nella seconda metà di agosto del 1937 l’ex governatore dell’Uag, degiac Hailù Chebbedè, invitava l’intera popolazione della regione a condurre la “guerra santa” contro gli italiani e nel giro di pochi giorni annientava il presidio di Amba Uorc e altri capisaldi vicini. L’incarico di braccare il degiac veniva affidato al colonnello Tosti, al quale il generale Pirzio Biroli impartiva questi severissimi ordini: «Pertanto catturi il capo ribelle Hailù Chebbedè, vivo o morto, impiccandolo poscia nella piazza di Socotà; passi per le armi i capi secondari importanti; rada al suolo i paesi che hanno fatto causa comune con i ribelli» 425. Mussolini era furente. Questo impero che aveva tenacemente voluto e che ora minacciava di travolgere le finanze dello Stato per il suo altissimo costo, era in perenne rivolta e disturbava i suoi disegni in Europa. Il 15 settembre inviava pertanto a Graziani un telegramma dal tono poco amichevole e ultimativo: «Io sono disposto a mandare battaglioni e aeroplani ma la rivolta deve essere stroncata con la più grande energia e nel più breve tempo possibile. Non si perda altro tempo» 426.

Il 19 settembre, a più di un mese dall’inizio della rivolta, Graziani riusciva finalmente a completare la radunata e a investire il territorio di Socotà con 13 battaglioni di soldati nazionali ed eritrei, appoggiati da oltre 10.000 irregolari. Attaccato da più di 20.000 uomini, bombardato da terra e dal cielo, ipritato dalla 63ª squadriglia, Hailù Chebbedè, dopo un aspro combattimento e un vano tentativo di rompere l’accerchiamento, veniva catturato dagli Uollo Galla del colonnello Raugei e immediatamente passato per le armi. Ma non veniva «fucilato» come Mussolini comunicava a re Vittorio Emanuele III. La sua fine era stata atroce, e il duce lo sapeva benissimo perché Graziani la descriveva con macabra meticolosità in un dispaccio. Il degiac veniva in realtà decapitato (ma il chirurgo Giuseppe Rotolo si era rifiutato di prestarsi alla bisogna) 427, e la sua testa, infilzata su di una picca, veniva esposta nella piazza del mercato di Socotà e poi in quella di Quoram.

Con questo barbaro spettacolo, da solo in grado di demolire la rispettabilità del vertice politico e militare del regime, si concludeva il vicereame di Graziani in Etiopia. L’11 novembre 1937 Mussolini gli inviava un lungo telegramma che aveva questo incipit: «Caro Graziani, con la liquidazione ormai sicura e prossima dei conati di rivolta nell’Amhara e nello Scioa, ritengo che il suo compito sia finito» 428. Prima di lasciare Addis Abeba per fare ritorno in Italia, il maresciallo inviava a Mussolini il suo ultimo rapporto, nel quale, per la prima volta, diceva la verità sull’altissimo costo dell’impero in uomini e mezzi: «L’asprezza della lotta sostenuta in questi diciotto mesi dalla occupazione della capitale […] è sintetizzata nei 13.000 uomini perduti, tra nazionali e coloniali, e 250 ufficiali, tre volte cioè le perdite avutesi nella grossa guerra» 429.

Mussolini sostituiva Graziani con Amedeo di Savoia duca d’Aosta, un personaggio di ben altro spessore. Ma sino all’ultimo era incerto se ritirare o no la sua fiducia in quello che riconosceva come l’italiano nuovo, ardito, inflessibile, spietato. Il loro lungo sodalizio verteva sul comune disprezzo per gli africani e sulla complicità nei più esecrabili crimini. Se non avesse continuato a stimarlo, non si spiegherebbe perché lo avrebbe richiamato, nel 1940, per affidargli la difesa della Libia. E perché, dopo la pessima prova nei combattimenti in Africa settentrionale, gli avrebbe affidato il Ministero per la Guerra della Repubblica di Salò.

Ma ancora una volta Graziani, l’italiano nuovo, lo avrebbe deluso. Anziché condividere con Mussolini la fuga verso la Svizzera e la morte, si staccava dalla colonna dei fuggiaschi e a Cernobbio si consegnava al capitano Emilio Daddario, dello stato maggiore dell’esercito americano, salvando la vita. Al processo, fra le imputazioni, mancava ogni riferimento ai crimini commessi in Africa. Inutilmente il governo etiopico avrebbe chiesto la sua estradizione. Oggi, a Filettino, suo paese natale, è venerato come un santo 430.

370 B. Mussolini, Scritti e discorsi, vol. X, Scritti e discorsi dell’impero, novembre 1935 - 4 novembre 1936, Hoepli, Milano 1936, p. 118.

371 R. Carrieri, La più bella notte d’Italia, «Illustrazione italiana», 17 maggio 1936.

372 DEPA, telegramma n. 5810 a Graziani, Addis Abeba.

373 Ivi, telegramma n. 6496, segreto, in data 5 giugno 1936.

374 Ivi, telegramma n. 6595, segreto, in data 6 giugno 1936.

375 Ivi, telegramma n. 8103, segreto, in data 8 luglio 1936.

376 F. Serra, La conquista integrale dell’impero, Unione Editoriale d’Italia, Roma 1938, p. 138.

377 ASMAI, AOI, pos. 181/40, f. 195.

378 Governo Generale dell’Africa Orientale, Stato Maggiore, Il 1° anno del-l’Impero, Tipo-litografia dell’Ufficio superiore topocartografico, Addis Abeba 1939, telegramma n. 750/24, allegato 1157, p. 377.

379 «La Gazzetta del Popolo», 24 febbraio 1937. Pallotta era poco informato. Ras Destà non fu fucilato a Buttagèra, ma impiccato, come ci ha rivelato un testimone dell’esecuzione, il bresciano Andrea Callisto Scotti: «Ras Destà è stato impiccato e poi lasciato penzolare dalla forca per un’intera giornata. Ho scattato della scena una fotografia» (TaA raccolta a Brescia il 10 febbraio 1980).

380 DEPA, telegramma n. 5007, segreto, cifrato.

381 Si veda R. Pankhurst, Nuove rivelazioni sull’attentato alla vita di Graziani del 19 febbraio 1937, «Studi piacentini», n. 36, 2004, pp. 141-144. Sino al 2004 il nome di Semeon Adefres non era mai stato fatto.

382 ACS, FG, «I primi venti mesi dell’Impero», telegramma n. 53956 del 19 febbraio 1937.

383 C. Poggiali, Diario AOI. 15 giugno 1936 - 4 ottobre 1937, Longanesi, Milano 1971, p. 182.

384 TaA di Antonio Dordoni, raccolta a Addis Abeba il 26 marzo 1965.

385 Copie delle foto, donatemi da Alberto Imperiali nel 1980, sono custodite nel mio archivio fotografico.

386 Poggiali, Diario AOI, cit., p. 183.

387 TaA di Alfredo Godio, raccolta a Borgosesia (Vercelli) il 13 novembre 1979.

388 D. Galeazzi, Il violino di Addis Abeba. Uomo sulla soglia, Gastaldi, Milano 1959, p.105.

389 ACS, FG, b. 33, fonogramma n. 2296.

390 Un esemplare del volantino è conservato in ACS, FG, b. 33.

391 Poggiali, Diario AOI, cit., p. 186.

392 TaA di Dordoni, cit.

393 ACS, FG, «I primi venti mesi dell’Impero», cit., telegramma n. 93980 del 21 febbraio 1937.

394 ACS, FG, b. 48.

395 Parte del memorandum, con tutte le cifre sulle uccisioni compiute dagli italiani in Etiopia dal 1935 al 1941 e le richieste di risarcimento, è pubblicato in A. Del Boca, La guerra d’Abissinia, 1935-1941, Feltrinelli, Milano 1965, pp. 283-284.

396 ACS, FG, b. 33, telegramma n. 9170.

397 ACS, FG, «I primi venti mesi dell’Impero», cit., telegramma n. 9894 del 26 febbraio 1937.

398 Ivi, telegramma n. 10362.

399 ACS, FG, b. 34, telegramma n. 54599 del primo marzo 1937.

400 Sulla deportazione dei notabili etiopici in Italia si vedano ASMAI, AOI, pos. 181/54, f. 250; ACS, FG, b. 34; A. Sbacchi, Italy and the Treatment of Ethiopian Aristocracy, 1937-1940, «The International Journal of African Historical Studies, X (1977), n. 2; P. Borruso, L’Africa al confino. La deportazione etiopicain Italia, 1937-39, Lacaita, Manduria 2003; M. Nasibù, Le memorie di una principessa etiope, Neri Pozza, Milano 2005.

401 ACS, FG, b. 34, telegramma n. 20650 del 18 aprile 1937 di Graziani al generale Santini.

402 Sul lager di Danane, si veda M. Dominioni, Le fotografie di Danane nel contesto dell’immagine coloniale, «Studi piacentini», n. 36, 2004, pp. 213-226.

403 ACS, FG, «I primi venti mesi dell’Impero», cit., telegramma n. 14044.

404 Département de la Presse et de l’Information du Gouvernement Impérial d’Éthiopie, La Civilisation de l’Italie fasciste en Éthiopie, vol. I, Berhanena Selam Printing Press, Addis Abeba 1945, telegramma n. 27/M, segreto, del 20 marzo 1937, p. 64. Questo documento governativo costituisce il più preciso e completo atto di accusa contro l’Italia fascista. Il primo volumetto, di 144 pagine, raccoglie i telegrammi operativi che certificano gli arresti, le rappresaglie e gli eccidi. Il secondo volumetto, di 62 pagine, raccoglie invece le fotografie allucinanti delle esecuzioni in massa, delle fosse colme di cadaveri, delle forche a più posti, del-l’esposizione ostentata di teste mozze. Pochissime righe di commento: «Non abbiamo voluto commentare questi documenti. Essi, da soli, testimoniano ciò che il popolo etiopico ha sofferto a causa dell’Italia fascista. Noi li sottoponiamo, nella loro aridità, al giudizio delle coscienze oneste, ed abbiamo il sacro dovere di chiedere, a nome di tutte le vittime innocenti, la punizione per i colpevoli».

405 ACS, FG, «I primi venti mesi dell’Impero», cit., telegramma n. 14440.

406 ASMAI, AOI, pos. 181/56, f. 267. Graziani a Lessona, telegramma n. 22583, segreto.

407 Ivi, telegramma n. 33911, segreto, del 7 luglio 1937.

408 Ivi, telegramma n. 36920, segreto, del 27 luglio 1937.

409 Ivi, telegramma n. 37784, segreto, del 4 agosto 1937.

410 ACS, FG, b. 30, f. 6, documento del 2 giugno 1937 dal titolo: «Statistica dell’attività dell’arma dell’AOI nel 1° anno dell’Impero».

411 ACS, FG, «I primi venti mesi dell’Impero», cit., telegramma n. 6246.

412 ACS, FG, «Il 2° anno dell’Impero», b. 60, parte VI, cap. 2, p. 12.

413 Ivi, p. 14.

414 Département de la Presse et de l’Information du Gouvernement Impérial d’Éthiopie, La Civilisation de l’Italie fasciste, cit., p. 128, telegramma n. 25876.

415 ACS, FG, «I primi venti mesi dell’Impero», cit., telegramma di Graziani a Lessona, n. 23260, del 21 maggio 1937.

416 Ministry of Justice, Documents on Italian War Crimes Submitted to the United Nations War Crimes Commission by the Imperial Ethiopian Government, vol. I, Italian Telegrams and Circulars, Addis Abeba 1949, telegramma di Graziani a Lessona, 19 marzo 1937, documento n. 28.

417 I.L. Campbell e D. Gabre-Tsadik, La repressione fascista in Etiopia. La ricostruzione del massacro di Debrà Libanòs, «Studi piacentini», n. 21, 1997, p. 100.

418 ACS, FG, «I primi venti mesi dell’Impero», cit., telegramma di Graziani a Lessona, n. 23260, del 21 maggio 1937.

419 Département de la Presse et de l’Information du Gouvernement Impérial d’Éthiopie, La Civilisation de l’Italie fasciste, cit., vol. I, telegramma n. 26609, p. 132.

420 ACS, FG, «Il 2° anno dell’Impero», cit., parte VI, cap. 3, p. 29.

421 I.L. Campbell, La repressione fascista in Etiopia: il massacro segreto di Engecha, «Studi piacentini», n. 24-25, 1999, pp. 23-46.

422 Campbell e Gabre-Tsadik, La repressione fascista in Etiopia, cit., p. 111.

423 ACS, FG, «I primi venti mesi dell’Impero», cit.

424 ACS, FG, «Il 2° anno dell’Impero», cit., parte VII, cap. 1, telegramma di Graziani al Ministero dell’Africa italiana, n. 32841, s.d.

425 Ivi, parte II, cap. 3, p. 39, telegramma n. 4450 del 30 agosto 1937.

426 Ivi, parte II, cap. 3, p. 72, telegramma n. 69335.

427 TaA di Giuseppe Rotolo, raccolta a Milano il 20 aprile 1984. Si vedano in A. Del Boca, I gas di Mussolini. Il fascimo e la guerra d’Etiopia, Editori Riuniti, Roma 1996, pp. 113-116, quattro immagini del corpo straziato del degiac Hailù Chebbedè riprese dal fotografo Angelo Dolfo.

428 ACS, FG, «I primi venti mesi dell’Impero», cit., telegramma n. 72058, segreto, dell’11 novembre 1937.

429 DEPA, telegramma n. 58999 del 21 dicembre 1937.

430 Per un giudizio complessivo sul maresciallo Graziani si veda la voce «Rodolfo Graziani» di A. Del Boca in Dizionario biografico degli italiani, vol. LVIII, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2002, pp. 829-835. Si veda anche I. Kali-Nyah, Italy’s War Crimes in Ethiopia, 1935-1941, The Ethiopian Holocaust Remembrance Committee, Chicago 2001.

11. Slovenia: un tentativo di bonifica etnica

Abbiamo visto l’italiano nuovo all’opera. Nei deserti della Libia. Sugli altipiani dell’Etiopia. Lungo i fiumi della Somalia. L’abbiamo visto inseguire dal cielo torme di abissini e irrorarle di iprite. L’abbiamo visto dare il colpo di grazia ai 2000 monaci di Debrà Libanòs. L’abbiamo visto ridurre in fin di vita, a botte, lo schiavo somalo che gli ha mancato di rispetto.

Certo non tutti gli italiani che sono stati nelle colonie italiane d’oltremare hanno premuto il grilletto o hanno praticato la tortura e lo schiavismo. Ma avrebbero potuto farlo, tutti, indistintamente, perché il vertice del regime, come abbiamo visto, non proibiva le violenze, anzi le sollecitava, e garantiva l’impunità. Come ricordava Antonio Dordoni, nel raccontare la strage di Addis Abeba, «il solo rischio che si correva era quello di guadagnarsi una medaglia» 431.

Anche chi è uscito indenne, senza colpe, senza rimorsi, dall’avventura africana, è tuttavia vissuto in quel clima di violenze e di illegalità, e non ha saputo rinnegarlo perché tutto concorreva a convincerlo che l’Italia fascista era nel giusto. La prova di questa diffusa, quasi totale connivenza, si trova nell’Archivio fotografico di Addis Abeba, dove sono state raccolte alcune decine di migliaia di immagini rinvenute negli archivi degli uffici giudiziari italiani scampati alle distruzioni della guerra e nelle tasche dei 90.000 soldati italiani fatti prigionieri dagli etiopici dopo il crollo dell’impero fascista.

Si tratta di una documentazione fotografica particolarmente atroce, allucinante. Ci sono, anzitutto, a centinaia, le immagini con forche di ogni tipo, rozze o ben finite, con appesi uno o più cadaveri. Spesso i carnefici italiani si fanno fotografare in posa dinanzi alle forche o reggendo per i capelli le teste mozzate dei patrioti etiopici. In alcune foto gli aguzzini innalzano le teste recise su picche. In altre le fanno rotolare fuori da un cesto. In altre, ancora, le espongono in mostra su un telone, quasi fossero oggetti da baratto. Un sorriso incerto, impacciato, è stampato sul volto di questi militari, che la propaganda fascista indica come portatori di civiltà e di benessere. Ma ciò che sorprende di più è il pieno consenso espresso dai volti di chi circonda gli aguzzini. Come se questi macabri spettacoli costituissero un rito quotidiano, naturale, scontato. In realtà, in quel loro crudele e orrendo esibizionismo c’è soprattutto il disprezzo per le popolazioni indigene che essi ritengono socialmente e culturalmente inferiori. Tanta ferocia non può essere archiviata con la troppo comoda giustificazione che anche altre nazioni colonialiste si sono macchiate in Africa e in Asia di analoghi delitti.

Mentre in Etiopia, e poi in Spagna, il regime fascista eseguiva le prove generali per una guerra di ben altre proporzioni, che sembrava ormai inevitabile tra la civiltà fascista e quella democratica, comunista e giudaica, in Italia, anziché dotare il paese delle armi necessarie per realizzare i programmi aggressivi, si accelerava il processo di fascistizzazione delle masse e, nello stesso tempo, quello del loro globale controllo poliziesco. Cosicché, mentre da un lato si cercava di forgiare un italiano nuovo, supremo depositario di tutti i valori del fascismo, dall’altro lo si spingeva a diventare una spia, un delatore. Come ha giustamente ricordato Mimmo Franzinelli,

 

la delazione quale manifestazione di spirito civico era in linea col principio secondo cui, nell’Italia littoria, gli oppositori non avevano cittadinanza; Benito Mussolini lo aveva ufficializzato il 26 maggio 1927 alla Camera, in un discorso che fece epoca: «In Italia non c’è posto per gli antifascisti; c’è posto solo per i fascisti, e per gli afascisti quando siano dei cittadini probi ed esemplari». In questa prospettiva la spiata rispondeva a esigenze di profilassi politica 432.

 

Ancora persuaso, nonostante le batoste di passo Uarieu, in Etiopia 433, e di Guadalajara, in Spagna, che soltanto la guerra, una guerra vera, totale, avrebbe compiuto il miracolo di trasformare completamente e definitivamente gli italiani, facendo soprattutto leva sull’istinto omicida che avevano così chiaramente rivelato nel sopprimere libici ed etiopici, e poi i comunisti spagnoli, il 10 giugno 1940 Mussolini entrava in guerra a fianco di Hitler. Due anni prima, con i «provvedimenti per la difesa della razza italiana», aveva fornito gli strumenti per alimentare l’odio per gli ebrei. Ha osservato Enzo Collotti:

 

La lotta contro gli ebrei recava l’impronta personale di Mussolini. Il suo inserimento nella polemica contro la borghesia italiana considerata pigra, imbelle e impari ai compiti che il fascismo le prospettava per il futuro, impari soprattutto al suo destino imperiale, doveva servire a galvanizzare un popolo che non aveva ancora preso coscienza della sua dimensione imperiale 434.

 

Con le conquiste effettuate nel primo anno di guerra, quando il corso del conflitto mondiale – nonostante gli errori della «guerra parallela» voluta da Mussolini – era ancora incerto, le dimensioni dell’impero italiano erano di tutto rispetto. Oltre che sulle regioni dell’intero Corno d’Africa e sulla Libia, Vittorio Emanuele III regnava sull’Egeo, l’Albania, il Kosovo, il Dibrano, lo Struga, la provincia slovena di Lubiana, la Dalmazia, parte della provincia di Fiume. Ma truppe italiane presidiavano anche il Montenegro, parte della Bosnia e della Croazia, la Grecia, parte della Francia meridionale e la Corsica, alcune zone dell’Unione Sovietica. Alla fine del 1942, quando l’Africa Orientale Italiana era ormai persa, erano dislocati sui vari fronti all’estero oltre 1.200.000 uomini.

Nei soli Balcani, sui quali si appunta maggiormente la nostra attenzione, erano presenti 650.000 soldati, suddivisi in dieci corpi d’armata, mediocremente equipaggiati. Essi mancavano soprattutto di autocarri, di autoblindo moderne, di armi automatiche individuali. Possedevano gli strumenti adatti per un presidio statico, mentre avrebbero dovuto avere in dotazione armi per sostenere la controguerriglia. Ma queste carenze non impensierivano Mussolini. Anche perché a Roma quello dei Balcani era considerato un fronte secondario. Galeazzo Ciano, nel suo Diario, annotava il 29 aprile 1941: «Con Buffarini prepariamo la carta politica per l’occupazione della provincia di Lubiana. È ispirata a concetti molto liberali. Varrà ad attirarci simpatie nella Slovenia tedeschizzata nella quale si registrano i più cupi soprusi» 435. Anche il ministro della Cultura popolare, Alessandro Pavolini, nel suo consueto rapporto ai giornalisti, suggeriva il 2 maggio 1941 di trattare con molto riguardo l’annessione all’Italia di Lubiana:

 

Essa diventerà una Provincia nostra, provvista di una larga autonomia. Bisogna quindi da una parte rendere una giusta soddisfazione agli sloveni per quello che è il loro orgoglio provinciale e nazionale in un certo senso, e dall’altra parte far capire l’importanza di questa città, il grado di civiltà che ha raggiunto 436.

 

Mentre a Roma si facevano progetti «molto liberali» per la provincia di Lubiana e si esaltava la sua autonomia, in realtà l’annessione procedeva in maniera assai poco serena.

Militari e funzionari civili miravano anzitutto a una fascistizzazione accelerata della regione, anche se, in cambio, non offrivano alla popolazione neppure la cittadinanza italiana a pieno titolo, ma soltanto l’ambigua qualifica di «cittadino per annessione». E quando in Slovenia, come del resto in Dalmazia, in Montenegro, in Croazia, cominciavano ad accendersi i primi fuochi della rivolta, la repressione era immediata e inesorabile.

D’altronde molti dei militari e dei funzionari impiegati nei Balcani si erano già fatti le ossa in Libia, in Etiopia, in Spagna. Essi consideravano le popolazioni slave appena un gradino più in su di quelle africane. Uno di essi, il generale Alessandro Pirzio Biroli, era riuscito, in qualità di governatore dell’Amhara, a riscuotere l’ammirazione dello stesso Graziani per aver ordinato l’impiccagione di 20 paesani di Quoratà e la fucilazione di quattro preti. In un telegramma del 27 luglio 1937, il viceré così lo elogiava: «Ben ha fatto Sua Eccellenza Pirzio Biroli ad imitare l’esempio di Debrà Libanòs, che per il clero dell’ex Scioa è stato assai salutare, perché preti e monaci adesso filano che è una bellezza» 437. Pirzio Biroli aveva anche coperto l’eliminazione segreta di alcuni capi villaggio, che erano stati gettati, con una pietra al collo, nelle acque del lago Tana.

Anche se la presenza dell’Italia fascista nei Balcani ha superato di poco i due anni, i crimini commessi dalle truppe di occupazione sono stati sicuramente, per numero e ferocia, superiori a quelli consumati in Libia e in Etiopia. Anche perché, nei Balcani, a fare il lavoro sporco, non c’erano i battaglioni amhara-eritrei e gli eviratori galla della banda di Mohamed Sultan. Nei Balcani, il lavoro sporco, lo hanno fatto interamente gli italiani, seguendo le precise direttive dei più bei nomi del gotha dell’esercito: i generali Mario Roatta, Mario Robotti, Gastone Gambara, Taddeo Orlando, Alessandro Maccario, Vittorio Ruggero, Guido Cerruti, Carlo Ghe, Renzo Montagna, Umberto Fabbri, Gherardo Magaldi, Edoardo Quarra-Sito. Si aggiungano i governatori della Dalmazia Giuseppe Bastianini e Francesco Giunta; l’alto commissario per la provincia di Lubiana, Emilio Grazioli; il governatore del Montenegro, Alessandro Pirzio Biroli.

Già nel febbraio 1945 la Commissione di Stato della Iugoslavia di Tito, presieduta dal dottor Dusan Nedeljkovic, era in grado di presentare le prime quattro relazioni sui crimini di guerra italiani alla United Nations War Crimes Commission di Londra. Le relazioni riguardavano la Dalmazia, il Montenegro e la Slovenia, e seguivano grosso modo lo stesso schema. Si cominciava con l’identificazione dei maggiori responsabili dei crimini, poi si passava all’esame degli strumenti di morte impiegati: sentenze dei tribunali straordinari, stragi durante i rastrellamenti, episodi di torture, deportazioni nei campi di concentramento, altre forme di repressione.

Le accuse erano gravissime. Sino a ipotizzare il tentato genocidio di un popolo e la pratica, in alcune regioni, della bonifica etnica. «Da questo materiale, raccolto solamente in parte» recita la «Relazione n. 1 (Dalmazia)», «si vede chiaramente come i criminali fascisti si siano accinti allo sterminio programmatico del nostro popolo e distrutta e deserta quella che essi chiamavano la “Dalmazia nostra”» 438. La «Relazione n. 4 (Slovenia)» ha un incipit terrificante:

 

Durante l’occupazione dall’11-IV-1941 all’8-IX-1943 gli invasori italiani, nella sola provincia di Lubiana 439, hanno fucilato 1000 ostaggi, ammazzato proditoriamente oltre 8000 persone, fra le quali alcune erano state prosciolte dal famigerato tribunale militare di guerra di Lubiana; incendiarono 3000 case, deportarono nei vari campi di concentramento in Italia oltre 35.000 persone, uomini, donne e bambini, e devastarono completamente 800 villaggi. Attraverso la questura di Lubiana passarono decine di migliaia di sloveni. Là furono sottoposti alle più orrende torture, donne vennero violentate e maltrattate a morte. Il tribunale militare di Lubiana pronunciò molte condanne all’ergastolo e alla reclusione, cosicché nel solo campo di Arbe perirono di fame più di 4500 persone 440.

 

In altre parole, più di 50.000 sloveni o persero la vita o subirono gravissime offese da parte delle truppe di occupazione, nell’arco di appena due anni.

Questi dati, per la provincia di Lubiana, venivano in seguito confermati, e anzi ampliati, da nuove e più estese ricerche. Facciamo riferimento, in modo particolare, a due indagini rese pubbliche nel 1999, quella di Tone Ferenc, dal titolo «Si ammazza troppo poco!». Condannati a morte, ostaggi, passati per le armi nella provincia di Lubiana, 1941-1943 441, e il testo della denuncia penale, presentata dall’avvocato Dus?an Puh, di Portorose, contro i criminali di guerra italiani 442. Quest’ultima indagine dà una cifra complessiva di 12.807 uccisi, così suddivisi: ostaggi fucilati 1500, civili assassinati durante l’offensiva Primavera 2500, civili deceduti in seguito a torture 84, civili arsi vivi o uccisi in altro modo 103, partigiani catturati e giustiziati 900, deceduti nei campi di concentramento 7000 443. Tone Ferenc, dal canto suo, fornisce notizie molto precise sull’attività del tribunale militare di guerra a Lubiana. Questo tribunale, presieduto dal colonnello Antonino Benincasa e, in seguito, dal colonnello dei carabinieri Ettore Giacomelli, trattò 8737 cause a carico di 13.186 imputati e comminò 83 condanne a morte, 434 ergastoli, 2695 pene detentive dai 3 ai 30 anni, per un totale di 25.459 anni.

 

Che nella provincia di Lubiana si sia tentata, più che un’italianizzazione rapida e forzata, un’operazione di autentica bonifica etnica, non è soltanto confermato dall’altissimo numero degli uccisi e dei deportati, e dalle stesse dichiarazioni di alcuni alti ufficiali (generale Robotti: «Si ammazza troppo poco!» 444; maggiore Agueci: «Gli sloveni dovrebbero essere ammazzati tutti come cani e senza alcuna pietà» 445), ma da un documento che è rimasto agli atti, la famigerata circolare n. 3C, del primo marzo 1942, e i suoi allegati del 7 aprile, a firma del generale Mario Roatta. Questa circolare, che stabiliva le modalità per contrastare e liquidare i ribelli in Slovenia e in Dalmazia, non soltanto ordinava il «ripudio delle qualità negative compendiate nella frase “bono italiano”», ma contemplava l’incendio di case e di interi villaggi, la fucilazione degli ostaggi, la deportazione dei civili sospetti. Al punto IV, inoltre, stabiliva che «il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula: “dente per dente” ma bensì da quella “testa per dente!”» 446. Ispirandosi a questo comma della circolare, il governatore del Montenegro, Pirzio Biroli, nel giugno 1943 faceva fucilare 180 ostaggi a titolo di rappresaglia per l’uccisione di nove ufficiali del 383° reggimento di fanteria.

L’incitamento all’odio e al disprezzo – fra i soldati delle truppe di occupazione era molto diffusa la convinzione che le popolazioni slave fossero barbare e subumane – finiva per spingere gli italiani a svelare i loro più bassi istinti. In due «riservatissime personali», del 30 luglio e del 31 agosto 1942, indirizzate all’alto commissario per la provincia di Lubiana, Grazioli, il commissario civile Rosin del distretto di Longatico tracciava un quadro veramente disastroso della condotta dei soldati:

 

Si procede ad arresti, ad incendi ed a fucilazioni senza un perché positivo. […] Nei paesi avvengono scene veramente orrende e pietose di donne, uomini e bambini che si trascinano in ginocchio davanti ai nostri soldati implorando a mani giunte, seppure invano, di non incendiare le case, di lasciare in vita i loro cari. […] Le fucilazioni in massa fatte a casaccio e gli incendi dei paesi fatti per il solo gusto di distruggere (e i granatieri si sono conquistati un triste primato in questo campo) hanno incusso sì nella gente un sacro timore, ma ci hanno anche tolto molta simpatia e molta fiducia, tanto più che ognuno si accorge, se non è cieco, che i soldati sfogano sugli inermi la rabbia che non hanno potuto sfogare sui ribelli. […] La frase «gli italiani sono diventati peggiori dei tedeschi», che si sente mormorare dappertutto, compendia i sentimenti degli sloveni verso di noi.

 

Il commissario Rosin concludeva i suoi rapporti con una dura e precisa accusa alle autorità militari, le quali, essendo convinte «di avere un nemico in ogni sloveno, predicarono ai soldati la strage e la distruzione dei beni ottenendo effetti disastrosi, specialmente ai fini politici: mancando i ribelli, i reparti si dedicarono alla epurazione senza badare troppo per il sottile. Poiché il motto insegnato alle truppe è: “Ammazza e porta via tutto, perché dove prendi è ben preso”» 447.

Le denunce del commissario Rosin trovavano conferma nelle lettere di soldati italiani ai loro cari intercettate da organi della resistenza. Il soldato Lorenzo Tamburini, del 25° reggimento di fanteria, scriveva alla moglie Antonia, a Viterbo, in data 9 luglio 1942:

 

Cara Tota, ora ti dirò nuovamente quale danno stiamo causando. Proprio oggi siamo tornati nello stesso accampamento in cui eravamo alcuni giorni fa, poiché siamo stati nuovamente tradotti in treno ad incendiare due villaggi dei ribelli. Non posso descriverti il macello che abbiamo fatto ed il bottino di abiti civili che abbiamo raccolto. Io, carico come un mulo, ho portato due abiti civili da sci ed ancora un paio di calzoni alla zuava, tre lenzuola, due cuscini, una borsa da studente nuova, delle scarpe da donna, che staranno bene anche a te, ed inoltre due paia di galosce da donna, un paio di stivali da donna, due tovaglie e dodici grandi fazzoletti di seta da mettere in testa. Ora, qualcosa l’ho venduta, siccome non potevo trasportare tutto. […] Fra tre giorni attaccheremo nuovamente qualche altro villaggio e dovrò vendere la merce che ho ad ogni costo. Non posso neppure spedirti un pacco. Anche gli ufficiali hanno sacchi pieni di mercanzia, ma loro sono ufficiali e se la fanno portare dai muli 448.

 

Un altro soldato, Giuseppe Cherubini del 52° reggimento di fanteria, così scriveva a Giulia Luzzitelli:

 

Mio carissimo amore, sono tornato dal rastrellamento. Eravamo ad 80 km da qui, nei dintorni di Postumia. Appena arrivati ci hanno sparato contro circa 20 colpi e poi sono scappati. Abbiamo trovato molto bestiame, vacche e cavalli, ed abbiamo portato via tutto, il vino, il prosciutto, le galline, le patate, ed abbiamo cucinato tutta la notte, per poi tornare al mattino all’accampamento, dove c’erano i granatieri. Il terzo giorno siamo stati in un altro bel villaggio, nel quale abbiamo trovato ogni ben di dio. […] Abbiamo iniziato a sparare con i mortai da 41 e da 84. Di notte sono scappati e sono rimaste solo le donne. Noi abbiamo dapprima depredato le case e poi le abbiamo bruciate, nonostante ci fossero ancora molti abiti, lenzuola, macchine per cucire. In breve, tutto è stato dato alle fiamme 449.

 

A questi soldati, che una serie di ordini sciagurati aveva ridotto alla stregua di volgari ladri di galline, quando non erano chiamati a comportarsi da assassini, il 16 luglio 1942 il generale Mario Robotti rivolgeva tale appello:

 

Iniziamo oggi la bella marcia pei campi e pei boschi della Slovenia italiana, che un gruppo di banditi comunisti, pagati dal denaro antitaliano, ritenevano buffonescamente di inibire ai soldati italiani. In questa marcia è nostro scopo di agganciare e punire gli assassini proditori dei nostri compagni. […] Siate ancora una volta i legionari della civiltà e della alta comprensione di Roma e traducete queste caratteristiche del cittadino e del soldato italiano nella azione decisa e severa verso il livido nemico, nell’aiuto e nell’assistenza verso i deboli travolti senza colpa nella bufera, nella longanimità verso chi si ricrede e depone in tempo le armi. Al di sopra di tutto e di tutti il prestigio del nome italiano e del nostro Esercito 450.

 

Ancora una volta il soldato italiano, quello stesso che abbiamo visto razziare e incendiare i villaggi sloveni, veniva descritto dal generale Robotti come «un legionario della civiltà», longanime, pronto ad assistere i deboli, preoccupato soprattutto di mantenere alto il prestigio dell’Italia e del suo esercito. Ma il rovescio della medaglia era nel proclama, rivolto agli sloveni, che veniva affisso ai muri nella stessa data d’inizio della «bella marcia pei campi e pei boschi della Slovenia». Esso recitava, fra l’altro:

 

A partire da oggi, nell’intera provincia di Lubiana, saranno immediatamente passati per le armi: coloro che faranno comunque atti di ostilità alle Autorità e truppe italiane; coloro che verranno trovati in possesso di armi, munizioni ed esplosivi; coloro che favoriranno comunque i rivoltosi; coloro che verranno trovati in possesso di passaporti, carte di identità e lasciapassare falsificati; i maschi validi che si troveranno in qualsiasi atteggiamento – senza giustificato motivo – nella zona di combattimento 451.

 

La «bella marcia» fra i campi e i boschi della Slovenia durava quasi cinque mesi, e mai rastrellamento fu più metodico, più feroce, più distruttivo. I partigiani uccisi in combattimento furono 1807; quelli fucilati dopo la cattura 847; i civili assassinati 167, comprese 11 donne 452. Il tremendo bilancio non deve sorprendere perché nella fase conclusiva dei preparativi per l’offensiva, il generale Robotti aveva manifestato molto chiaramente le proprie intenzioni ai suoi ufficiali: «A qualunque costo deve essere ristabilito il dominio e il prestigio italiano, anche se dovessero sparire tutti gli sloveni e distrutta la Slovenia» 453.

Sono minacce che ricordano, in maniera sconvolgente, le direttive di Badoglio a Graziani alla vigilia della deportazione dell’intera popolazione del Gebel cirenaico. I due militari usano quasi le stesse parole, le stesse immagini di morte e di distruzione. Un testimone degno di fede, il cappellano militare don Pietro Brignoli, aggregato al 2° reggimento della divisione di fanteria Granatieri di Sardegna, così descrive, in data 23 luglio 1942, l’attacco al paese di Kotel e il risultato delle fucilazioni e delle razzie:

 

Come lasciammo quel disgraziatissimo paese! Lo abbandonammo con una turba di vecchi senza figli, di donne senza mariti, di bambini senza padri, tutta gente impotente, in gran parte privata anche delle case, che erano state bruciate, completamente priva di mezzi di sussistenza (stalle, pollai, campi: tutto era stato spogliato), li lasciammo ignudi a morire di fame 454.

 

Non tutti gli ufficiali superiori, però, erano disposti a portare a termine supinamente gli ordini infami di Robotti. Da un fonogramma dello stesso Robotti al comando della divisione Cacciatori delle Alpi, apprendiamo che

 

il 23 luglio pomeriggio, un tenente colonnello, pare comandante interinale di un vostro reggimento, parlando con ufficiale «M» disse: «Mi tocca fare il boia. Quando ho messe le stellette sapevo di fare il soldato. Vogliono così e va bene». Tali espressioni non sono ammissibili perché in contrasto con ordini tassativi dei superiori comandi e sono indice di mentalità non adeguata alle esigenze della attuale situazione. Provvedete necessari accertamenti e riferitemi in modo completo ed esauriente 455.

 

Non conosceremo mai il nome di questo ufficiale che osava discutere gli ordini di Robotti. Ma non crediamo sia stato il solo. C’era un abisso fra ciò che si imparava in un’accademia, sia pure fascistizzata, e ciò che veniva ordinato, durante un rastrellamento, da ufficiali come Robotti, che aveva perso ogni rispetto per la divisa che indossava e che proclamava: «Dove siamo noi, la giustizia la facciamo noi» 456.

 

Non era un segreto, per gli alti comandi, che per “pacificare” la Slovenia si era pensato di deportarne in parte o interamente la popolazione. Il generale Roatta aveva affrontato l’argomento il 23 maggio 1942, a Fiume, nel corso di un incontro con Mussolini. In quella occasione si era limitato a proporre l’internamento di 20.000-30.000 sloveni e aveva inoltre precisato che era urgente predisporre campi di concentramento per altrettante persone. Mussolini, che dieci anni prima aveva avallato la proposta di Badoglio di rinchiudere nei lager della Sirtica 100.000 abitanti della Cirenaica, elogiava la politica di Roatta e successivamente, il 30 luglio, in un incontro a Gorizia con Roatta, Cavallero e Ambrosio, dichiarava: «Sono convinto che al “terrore” dei partigiani si deve rispondere con il ferro e con il fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre. […] Non vi preoccupate per il disagio economico della popolazione. Lo ha voluto. […] Non sarei alieno dal trasferimento di masse di popolazione» 457.

La deportazione degli sloveni dalla provincia di Lubiana cominciava nel giugno 1942. Secondo fonti slovene, interessò non meno di 35.000 persone, circa il 10 per cento della popolazione della provincia, e sarebbe continuata se l’armistizio dell’8 settembre 1943 non avesse mutato radicalmente la situazione nei Balcani. Consapevole che Mussolini approvava i suoi piani, Roatta li perfezionava decidendo, per esempio, di assegnare tutte le proprietà dei ribelli uccisi e dei deportati alle famiglie dei caduti italiani 458. Poi andava oltre, comunicando al comando supremo, in data 8 settembre 1942, che «l’internamento può essere esteso […] sino allo sgombero di intere regioni, come ad esempio la Slovenia. In questo caso si tratterebbe di trasferire, al completo, masse ragguardevoli di popolazione, di insediarle all’interno del Regno, e di sostituirle in loco con popolazioni italiane» 459. Il progetto di «genocidio culturale» e di «bonifica etnica», condiviso anche da Robotti e da Grazioli, prendeva dunque forma mentre si allestivano i campi di concentramento tanto in Dalmazia quanto in Italia.

Le prime stime, fornite dal governo iugoslavo di Tito nel 1946, indicavano in 67.230 i deportati dalla sola provincia di Lubiana. Successivamente questa cifra veniva ridimensionata e quasi dimezzata, ma costituiva pur sempre un dato sconvolgente. In un primo tempo lo scopo dell’internamento era quello di indebolire l’Osvobodilna Fronta, il Fronte di liberazione, ma in una seconda fase, come si è visto, l’intento era quello di svuotare la provincia di Lubiana del maggior numero di sloveni per far posto alle famiglie italiane 460. Le più massicce deportazioni avvennero in concomitanza con il rastrellamento del luglio-novembre 1942, una fra le più vaste operazioni repressive compiute nei Balcani, per la quale furono impiegati 60.000 soldati.

Mentre i partigiani catturati erano quasi sempre giustiziati sul luogo dello scontro, i civili, spesso intere famiglie, a volte interi villaggi, venivano rastrellati (dopo essere stati derubati di ogni bene) e concentrati nelle caserme, dove subivano interrogatori e sommari accertamenti. In seguito, che fossero o no conniventi con i partigiani, erano avviati ai campi di concentramento. Il più importante e tristemente famoso era quello di Arbe (Rab), nell’isola al largo della costa dalmata. Gli sloveni venivano inoltre internati in altri cinque campi in territorio italiano: Gonars e Visco, in provincia di Udine; Monigo e Chiesanuova nel Veneto; Renicci in provincia di Arezzo. Secondo un rapporto del 16 dicembre 1942, inviato da Robotti a Cavallero, a quella data gli internati sloveni erano 19.405, così suddivisi: 6577 ad Arbe, 2250 a Gonars, 3884 a Renicci, 3522 a Chiesanuova, 3172 a Monigo. Secondo le stime slovene, invece, alla fine del 1942 erano già state deportate 26.000 persone, 15.000 delle quali internate ad Arbe.

«In semplici tende» riferiva Franc Potoc?nik, uno dei reclusi ad Arbe «venivano stipate fino a otto persone, spesso costrette a stendersi sul nudo terreno. Le condizioni igieniche erano drammatiche: le latrine erano costituite da buche a cielo aperto e solo tre rubinetti dovevano bastare per 20.000 persone; l’acqua veniva erogata solo per sei ore al giorno e spesso veniva chiusa per punizione» 461. Quanto al vitto, era del tutto insufficiente. Secondo le indagini condotte da Carlo Spartaco Capo-greco, lo studioso che ha dedicato vent’anni della sua esistenza a esplorare l’universo concentrazionario fascista, il cibo, prima di arrivare agli internati, finiva per ridursi a un quarto per tutta una serie di ignobili ruberie:

 

In verità, le razioni alimentari previste dal Regio Esercito erano pressoché “da fame” già all’origine: le apposite tabelle prevedevano, infatti, per i “repressivi” 877 calorie giornaliere e per i “protettivi” 1030 calorie. Razioni queste che, rispetto al fabbisogno minimo di un individuo a riposo difettavano, rispettivamente, di almeno 1000 e 900 calorie. Nella migliore delle ipotesi gli internati iugoslavi, quindi, ricevevano giornalmente un’alimentazione corrispondente a meno della metà del loro fabbisogno calorico minimo 462.

 

In queste disumane condizioni, le stesse che si erano registrate nei quindici lager della Sirtica voluti da Badoglio e da Graziani, «le persone morivano letteralmente nel fango e nella propria sporcizia […]. Queste condizioni indicavano chiaramente la volontà di pulizia etnica nella provincia di Lubiana» 463. Il tasso di mortalità ad Arbe era del 19 per cento, ossia da campo di sterminio, e superava persino quello registrato nel lager nazista di Buchenwald, che era del 15 per cento 464. Le vittime, alle quali è stato possibile attribuire un nome, sono 1495, ma fonti slovene fanno ammontare i morti a 3500, e altre a 4500.

A soffrire maggiormente nel lager di Arbe erano le donne e i bambini, incapaci di ogni difesa. Si legga la testimonianza, rilasciata nel 1944, da Ivan Stimec, di dodici anni:

 

Siamo stati internati a Rab. Abbiamo vissuto in tende vicino al mare. Dormivamo sulla nuda terra. Una notte, mentre dormivamo, il vento cominciò a soffiare e cominciò a piovere. L’alta marea era cresciuta e l’acqua nelle tende ci arrivò fino al ginocchio. Abbiamo pianto e chiamato aiuto. Volevamo scappare, ma le guardie non ci lasciavano uscire dal recinto. Il mare continuava a crescere e molti bambini morirono annegati 465.

 

Comandante del lager e del presidio dell’isola di Arbe era il tenente colonnello dei carabinieri Vincenzo Cuiuli, forse la persona più odiata in tutta la Slovenia. Arrestato dopo l’8 di settembre 1943, dalla stessa formazione partigiana che si era costituita clandestinamente nel campo, veniva tradotto nel carcere di Crikvenica e condannato a morte. Ma alla vigilia dell’esecuzione, l’ufficiale preferiva suicidarsi 466.

 

Il tenente colonnello Vincenzo Cuiuli è forse il solo criminale di guerra che abbia pagato con la vita i suoi misfatti. Tutti gli altri che si erano macchiati dei peggiori delitti non soltanto non furono consegnati alle nazioni che intendevano portarli in giudizio, ma non furono neppure processati in patria, nonostante l’evidenza delle loro colpe. Così come l’Etiopia di Hailè Selassiè aveva chiesto invano l’estradizione dei marescialli Badoglio e Graziani, dei generali Pirzio Biroli, Geloso, Nasi, Gallina, Tracchia, del ministro delle Colonie Lessona e del federale Cortese, l’uomo che aveva scatenato il massacro del 19 febbraio 1937 a Addis Abeba, anche la Iugoslavia di Tito si adoperava inutilmente per ottenere la consegna di 729 militari e civili italiani ritenuti responsabili dei peggiori crimini (ma una prima lista indicava ben 1200 nomi).

La storia di questi dinieghi, dei silenzi colpevoli e delle acrobazie compiute per sottrarsi all’obbligo di consegnare i criminali richiesti, non fa onore ad Alcide De Gasperi e ai suoi governi. Già nel febbraio 1944 partivano dalla Iugoslavia le prime richieste di estradizione. Esattamente un anno dopo le stesse richieste venivano presentate alla United Nations War Crimes Commission. Nel luglio 1945, infine, erano gli stessi Alleati a inoltrare al governo di Roma le liste dei presunti criminali di guerra consegnate da vari paesi (Iugoslavia, Grecia, Albania, Etiopia, Gran Bretagna, Francia, URSS) alla Commissione delle Nazioni Unite 467. L’Italia, per almeno tre anni, non rispondeva alle ripetute richieste e pressioni, adottando un’ambigua strategia tesa soltanto a prendere tempo. Ma non basta. Come ha rilevato Filippo Focardi, il Ministero degli Esteri raccoglieva una «controdocumentazione», il cui solo scopo non era quello «di accertare le eventuali responsabilità delle persone accusate dalla Iugoslavia, ma di raccogliere prove sulla loro innocenza e di ribaltare le accuse sui partigiani iugoslavi. […] Il Ministero degli Esteri apprestò anche una “controlista” di criminali di guerra iugoslavi con circa 200 nominativi. In cima alla lista figurava il Maresciallo Tito» 468.

Soltanto nell’aprile 1946, allorché era emersa la minaccia che sarebbero stati gli Alleati ad arrestare i criminali di guerra italiani per consegnarli alla Iugoslavia, il presidente del Consiglio De Gasperi annunciava la costituzione di una Commissione d’inchiesta presso il Ministero per la Guerra, presieduta prima da Alessandro Casati, poi da Luigi Gasparotto, i cui lavori lentissimi si concludevano nel 1949. Ma, pur essendo stati deferiti alla Procura militare 39 presunti criminali di guerra, i processi non ebbero mai luogo e nel 1951, ricorrendo a un cavillo giuridico, la magistratura militare archiviava tutte le istruttorie e la Commissione veniva sciolta. Sfumava così la possibilità di realizzare una “Norimberga italiana”, che appurasse la lunga serie di delitti commessi dagli italiani nelle colonie africane, nei Balcani, in Unione Sovietica 469.

Avendo assunto la deprecabile decisione di non consegnare a paesi stranieri gli italiani colpevoli di crimini di guerra, Roma rinunciava anche, salvo per un pugno di personaggi, a chiedere alla Germania la consegna dei nazisti che si erano macchiati in Italia, tra 1943 e 1945, di un numero infinito di stragi 470. Come hanno fatto giustamente rilevare Filippo Focardi e Lutz Klinkhammer: «La diplomazia e il governo italiani decisero di limitare le rivendicazioni nei confronti dei criminali di guerra tedeschi per paura che un’azione energica contro i tedeschi si ritorcesse a danno dell’Italia, impegnata a proteggere i propri cittadini reclamati per crimini di guerra da Stati esteri (in prima fila, dalla Iugoslavia)» 471.

Non soltanto Roma si rifiutava di consegnare a Belgrado i personaggi sulla cui colpevolezza non esistevano dubbi, ma, in qualche caso, li aveva addirittura promossi e se ne serviva ai più alti livelli. Si veda, per esempio, l’inarrestabbile carriera del generale Taddeo Orlando, ben noto in Slovenia per aver comandato la XXI divisione Granatieri di Sardegna, che si era particolarmente distinta per la ferocia nei rastrellamenti dell’estate 1942. Nel febbraio 1944 Badoglio lo nominava ministro per la Guerra. Più tardi gli veniva affidato il comando generale dell’arma dei carabinieri. E infine, nel novembre 1947, De Gasperi lo designava come segretario generale del Ministero della Difesa. Veniva inoltre ripescato da Badoglio, per il suo primo governo di Brindisi, anche il generale Gastone Gambara, che aveva sostituito il generale Robotti nel comando dell’11º corpo d’armata di stanza a Lubiana.

Ma il caso più clamoroso era quello del generale Mario Roatta, schedato con il numero 105 nella lista dei criminali italiani presentata da Belgrado alle Nazioni Unite. Al suo rientro in Italia da Lubiana, Mussolini lo nominava capo di stato maggiore dell’esercito, incarico che, incredibilmente, conservava anche dopo la caduta del fascismo. Ma non basta. Toccava a lui, durante il difficile periodo dei 45 giorni, reprimere le manifestazioni di giubilo per la fine del regime usando l’esercito come una clava. Alle truppe ordinava infatti di schierarsi davanti ai dimostranti «in formazione da combattimento», «come se si procedesse contro il nemico», e di «aprire il fuoco a distanza anche con mortai e artiglierie senza preavviso di sorta», e infine ingiungeva: «non si tiri mai in aria, ma a colpire come in combattimento» 472. Fu in seguito a questi ordini di Roatta che nei cinque giorni successivi al 25 luglio 1943 si ebbero, negli scontri, 93 morti, 536 feriti e 2276 arresti.

Dopo l’8 settembre Roatta seguiva il re e il primo ministro Badoglio a Brindisi, ma era una figura troppo legata al fascismo per mantenere l’incarico di capo di stato maggiore dell’esercito e il 12 novembre 1943 era costretto a dimettersi, così come Vittorio Ambrosio, che era capo di stato maggiore generale. Esattamente un anno dopo, quando l’Alto commissariato per l’epurazione cominciava a funzionare sotto la guida di Carlo Sforza, Roatta veniva arrestato e imprigionato a Forte Boccea, ma, si badi bene, non per i crimini che aveva commesso in Iugoslavia, bensì per i metodi terroristici che aveva impiegato per proteggere il regime fascista quando era a capo del Servizio informazioni militari (SIM). Tuttavia, mentre il processo contro di lui era in corso (si sarebbe concluso con una condanna all’ergastolo), riusciva a evadere dal carcere e a riparare in Spagna, dove godeva di altissime protezioni come ex comandante del Corpo truppe volontarie (CTV) durante la guerra civile 473.

Amnistiato, come altre migliaia di fascisti, rientrava in Italia e si impegnava a scrivere le proprie memorie, che intitolava Otto milioni di baionette. Nella premessa assicurava il lettore che avrebbe usato, nella ricostruzione dei fatti, la «massima obiettività». Ma l’uomo era troppo ambiguo e cinico per mantenere la promessa. Si veda, per esempio, come descrive e giustifica le deportazioni dalla Slovenia:

 

Gli abitanti di intere zone venivano a mettersi sotto la protezione delle nostre truppe all’avvicinarsi delle formazioni rosse. È così che decine e decine di migliaia di abitanti vennero col loro bestiame e con le loro masserizie trasferiti in altre località ed in campi di internamento “protettivo” e volontario. (Provvedimenti che la propaganda avversaria ha gabellato come “deportazioni” in massa, ingrandendo altresì a dismisura le cifre. In realtà la II Armata ha internato complessivamente, in campi convenientemente attrezzati, poco più di 30.000 persone, delle quali solo poche migliaia a titolo non volontario474.

 

È difficile dire tante scandalose bugie in così poche righe. Ma l’ex capo del SIM, l’abile puparo della destabilizzazione internazionale, era capace di ben altro. Un progetto, tuttavia, non riuscì a completare: la bonifica etnica della provincia di Lubiana. Ma soltanto perché gli mancò il tempo.

 

Nonostante i guasti e gli odi provocati dal fascismo, dall’incendio del Narodni Dom di Trieste all’annessione della parte meridionale della Slovenia, e le gravissime ritorsioni iugoslave, che provocarono la morte di alcune migliaia di italiani e l’esodo forzato di almeno 250.000 giuliano-dalmati 475, fortunatamente fra i due popoli che si fronteggiano sulla frontiera orientale non si è creato, come si temeva, un abisso incolmabile. Anche se si è fatto, per decenni, un uso politico, spesso distorto, della storia giuliana, l’iniziativa presa nell’autunno 1993 di istituire una Commissione mista italo-slovena per far luce sui punti nodali della controversia (i soprusi fascisti nel Ventennio, l’occupazione italiana di parte dei Balcani, le stragi, le deportazioni, le foibe e l’esodo) ha dato risultati molto incoraggianti, sia sul piano politico sia su quello della ricerca storica.

Per sette anni, quattordici storici sloveni e italiani hanno cercato di ricostruire insieme la storia delle relazioni fra l’Italia e il popolo sloveno, privilegiando gli anni fra 1880 e 1956. Rivisitando il periodo fascista, per esempio, gli studiosi 476 scrivevano concordemente:

 

L’impeto snazionalizzatore del fascismo andò però oltre la persecuzione politica, nell’intento di arrivare alla “bonifica etnica” della Venezia Giulia […]. Vero è che nella medesima epoca la maggior parte degli Stati europei mostrava scarso rispetto per i diritti delle minoranze etniche presenti sul loro territorio, quando addirittura non cercava in vari modi di conculcarli, ma ciò non toglie che la politica di “bonifica etnica” avviata dal fascismo sia risultata particolarmente pesante, anche perché l’intolleranza nazionale, talora venata da vero e proprio razzismo, si accompagnava alle misure totalitarie del regime. […] Ciò che infatti il fascismo cercò di realizzare nella Venezia Giulia fu un vero e proprio programma di distruzione integrale dell’identità nazionale slovena e croata 477.

 

Affrontando il periodo successivo, quello che va dal 1941 al 1945, e che tocca due punti dolenti, l’annessione italiana della parte meridionale della Slovenia e le stragi di italiani nell’autunno 1943 e nella primavera-estate 1945, i quattordici storici fornivano, per il primo episodio, questa versione: «Sulle prime l’aggressore fascista aveva previsto di soggiogare gli sloveni grazie ad un’asserita superiorità della civiltà italiana, perciò il regime d’occupazione inizialmente instaurato dalle autorità italiane fu piuttosto moderato» 478. Quando, successivamente, il Fronte di liberazione sloveno decideva di avviare la resistenza contro gli occupanti, «Mussolini rispose trasferendo i poteri dalle autorità civili a quelle militari, che adottarono drastiche misure repressive. […] Migliaia furono i morti, fra caduti in combattimento, condannati a morte, ostaggi fucilati e civili uccisi. I deportati furono approssimativamente 30.000, per lo più civili, donne e bambini, e molti morirono di stenti» 479.

Il tema altrettanto delicato delle stragi degli italiani nelle foibe o altrove, sul quale per troppo tempo si è mantenuto un colpevole silenzio o se ne è fatto un uso squisitamente politico, veniva esaminato dai membri della Commissione mista con molta serenità e responsabilità. Le uccisioni degli italiani nell’autunno 1943 venivano interpretate come «eccidi perpetrati non solo per motivi etnici e sociali, ma anche per colpire in primo luogo la locale classe dirigente, e che spinsero gran parte degli italiani della regione a temere per la propria sopravvivenza nazionale e per la loro stessa incolumità» 480.

Sulle più vaste e sanguinose repressioni della primavera-estate 1945, i quattordici storici giungevano a questa conclusione:

 

I giuliani favorevoli all’Italia considerarono l’occupazione iugoslava come il momento più buio della loro storia, anche perché essa si accompagnò nella zona di Trieste, nel Goriziano e nel Capodistriano ad un’ondata di violenze che trovò espressione nell’arresto di molte migliaia di persone […], in centinaia di esecuzioni sommarie immediate – le cui vittime vennero in genere gettate nelle “foibe” – e nella deportazione di un gran numero di militari e civili, parte dei quali perì di stenti o venne liquidata nel corso dei trasferimenti, nelle carceri e nei campi di prigionia (fra i quali va ricordato quello di Borovnica) creati in diverse zone della Iugoslavia […]. L’impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l’animosità nazionale ed ideologica diffuse nei quadri partigiani 481.

 

Il rapporto veniva presentato nel luglio 2000 e suscitava commenti molto positivi. Corrado Belci, per esempio, poneva in evidenza lo «spirito di serena ricerca» che aveva animato la Commissione, l’utilità degli «incroci metodologici», e soprattutto il fatto che i due gruppi di storici avevano «compiuto uno sforzo encomiabile, senza piegare le proprie interpretazioni alle ragioni della propaganda» 482. Manlio Cecovini, dal canto suo, scriveva:

 

Si tratta di una relazione seria, che si affida, fin dove è possibile, ai fatti accertati e che lascia poco spazio alle congetture […]. Ci sono torti da entrambe le parti che possono spiegare, non certo giustificare, la violazione dei diritti elementari umani, ma io penso che, anziché esasperare le ragioni del dissidio, dovremmo imparare che su una frontiera la prima legge che si impone è quella della pacifica convivenza. Che significa: liberazione dai pregiudizi, contatti personali, rispetto di tutte le culture. Le lingue si possono imparare, la cultura non ha frontiere 483.

 

Il documento della Commissione italo-slovena costituisce, a nostro avviso, la più precisa, chiara, nobile risposta alla scellerata circolare 3C del generale Roatta. Ma ciò che sorprende è che questo testo è stato e continua a essere ignorato.

431 TaA di Antonio Dordoni, raccolta a Addis Abeba il 26 marzo 1965.

432 M. Franzinelli, Delatori. Spie e confidenti anonimi: l’arma segreta del regime fascista, Mondadori, Milano 2001, p. 23. Si veda anche M. Canali, Le spie del regime, Il Mulino, Bologna 2004.

433 Il 23 gennaio 1936, durante una sortita dal ridotto di passo Uarieu, una colonna al comando del generale Diamanti veniva attaccata e semidistrutta dagli etiopici. Nella ritirata cadevano uccisi 19 ufficiali e 245 camicie nere.

434 E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 79. Sull’argomento si vedano anche La difesa della razza, «Il Ponte», n. 11-12, 1978; V. Pisanty, Educare all’odio. «La difesa della razza», 19381943, Nuova Iniziativa Editoriale, Roma 2004.

435 G. Ciano, Diario, 1937-1943, Rizzoli, Milano 1980, p. 506.

436 N. Tranfaglia (a cura di), Ministri e giornalisti. La guerra e il Minculpop, 1939-1943, Einaudi, Torino 2005, p. 129.

437 M. Dominioni, La repressione italiana nella regione di Bahar Dar, «Studi piacentini», n. 33, 2003, pp. 159-170.

438 Le quattro relazioni sono state pubblicate da C. Di Sante in Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati, 1941-1951, Ombre Corte, Verona 2005, pp. 55-107. La citazione è a p. 59.

439 La provincia di Lubiana, annessa all’Italia, contava nel 1941 circa 330.000 abitanti.

440 Di Sante, Italiani senza onore, cit., p. 103.

441 Il libro di Tone Ferenc è stato pubblicato a cura dell’Istituto per la storia moderna di Lubiana e della Società degli scrittori della storia della lotta di liberazione (Ljubljana 1999).

442 L’avvocato Dus?an Puh ha presentato la denuncia penale il 26 maggio 1999 presso la pubblica accusa distrettuale di Lubiana. Egli ha agito a nome del Movimento d’opinione per l’Istria slovena, di undici organizzazioni combattentistiche e patriottiche e di 128 cittadini sloveni. Gli italiani denunciati sono 53. Apre la lista il generale Mario Roatta, comandante della II armata; la chiude il sergente Foi.

443 Puh, denuncia del 26 maggio 1999, cit., pp. 52-53.

444 Ferenc, «Si ammazza troppo poco», cit., p. 23

445 Ivi, p. 20.

446 La circolare è lunghissima, quindici fitte pagine a stampa. È pubblicata integralmente in M. Legnani, Il ginger” del generale Roatta, «Italia contemporanea», n. 209-210, 1998, pp. 155-174.

447 Ferenc, «Si ammazza troppo poco», cit., pp. 153-161.

448 Puh, denuncia del 26 maggio 1999, cit., pp. 15-16.

449 Ivi, p. 16.

450 Il documento dell’11º corpo d’armata si trova in Ferenc, «Si ammazza troppo poco», cit., p. 181.

451 Ivi, p. 182. Il proclama porta la firma del generale Robotti e dell’alto commissario Emilio Grazioli.

452 Ivi, p. 26.

453 Ivi, p. 22.

454 Ivi, p. 204. Don Pietro Brignoli ha pubblicato un diario della sua amara esperienza: Santa Messa per i miei fucilati. Le spietate rappresaglie italiane contro i partigiani in Croazia dal diario di un cappellano, Longanesi, Milano 1973.

455 Ivi, p. 196.

456 Puh, denuncia del 26 maggio 1999, cit., p. 9.

457 Cfr. U. Cavallero, Comando Supremo. Diario 1940-43 del capo di stato maggior generale, Cappelli, Bologna 1948, pp. 298-299.

458 Ivi, p. 299.

459 Puh, denuncia del 26 maggio 1999, cit., p. 8. Si veda anche C.S. Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista, 1940-1943, Einaudi, Torino 2004, p. 69, nota 47.

460 Sul razzismo antislavo, i progetti di eliminazione della razza slava nella Venezia Giulia e sul tentativo di bonifica etnica nella provincia di Lubiana si vedano P. Parovel, L’identità cancellata. L’italianizzazione forzata dei cognomi, nomi e toponimi nella Venezia Giulia dal 1919 al 1945, Trieste 1985; E. Apih, Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia, 1918-1943, Laterza, Bari 1966; R. UrsiniUrs?ic?, Attraverso Trieste. Un rivoluzionario pacifista in una città di frontiera, Studio i, Roma 1996; E. Collotti, Sul razzismo antislavo, in A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia, 1870-1945, Il Mulino, Bologna 1999; T. Ferenc, Rab, Arbe, Arbissima. Confinamenti, rastrellamenti, internamenti nella provincia di Lubiana, 1941-1943. Documenti, Drus?tvo piscev zgodovine Nob, Ins?titut za novejs?o zgodovino, Ljubljana 2000; B. Gombac?e D. Mattiussi (a cura di), La deportazione dei civili sloveni e croati nei campi di concentramento italiani, 1942-1943. I campi del confine orientale, Centro isontino di ricerca e documentazione storica e sociale “Leopoldo Gasperini”, Gorizia 2004; A. Kersevan, Un campo di concentramento fascista, Gonars 1942-1943, Kappa Vu, Udine 2003; M. Trinca, Monigo. Un campo di concentramento per slavi a Treviso, luglio 1942 - settembre 1943, Istresco, Treviso 2003; B. Mantelli, Gli italiani in Jugoslavia, 1941-1943. Occupazione militare, politiche persecutorie, crimini di guerra, «Storia e memoria», n. 1, 2004.

461 Citato in M. Trinca, Donne e bambini sloveni nei campi fascisti, 1941-1943, in B. Bianchi (a cura di), Deportazione e memorie femminili, 1899-1953, Unicopli, Milano 2002, p. 321. Di F. Potoc?nik si veda Il campo di sterminio fascista. L’isola di Rab, ANPI, Torino 1979.

462 Capogreco, I campi del duce, cit., pp. 142-143.

463 Puh, denuncia del 26 maggio 1999, cit., p. 37.

464 Capogreco, I campi del duce, cit., p. 270.

465 Cit. in Trinca, Monigo, cit., p. 346.

466 Capogreco, I campi del duce, cit., p. 270.

467 Per l’esattezza la Iugoslavia chiedeva la consegna di 729 presunti criminali, gli Alleati 833, la Grecia 180, l’Albania 140, la Francia 30, l’URSS 12, l’Etiopia 10.

468 F. Focardi, I crimini impuniti dei «bravi italiani», «Storia contemporanea», n. 2, 2005, p. 330.

469 Cfr. M. Battini, Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana, La-terza, Roma-Bari 2003.

470 Sulle stragi compiute dai nazisti in Italia nell’ultima fase della seconda guerra mondiale, si vedano L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia, 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1993; Id., Le stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili, 1943-44, Donzelli, Roma 1997.

471 F. Focardi e L. Klinkhammer, La questione dei «criminali di guerra» italiani e una Commissione d’inchiesta dimenticata, «Contemporanea», n. 3, 2001, p. 499. Come è tristemente noto tutta la documentazione sulle stragi finiva nell’“armadio della vergogna” e vi restava per decenni. Su questa quasi incredibile vicenda, si vedano M. Franzinelli, Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti, 1943-2001, Mondadori, Milano 2002; F. Giustolisi, L’armadio della vergogna, Nutrimenti, Roma 2004.

472 Si vedano R.P. Domenico, Processo ai fascisti, 1943-1948. Storia di un’epurazione che non c’è stata, Rizzoli, Milano 1996, p. 21; Dizionario del fascismo, a cura di V. de Grazia e S. Luzzatto, vol. II, Einaudi, Torino 2003, alla voce «Mario Roatta», pp. 532-533.

473 Per il ruolo di Roatta in Spagna si veda G. Ranzato, L’eclissi della democrazia. La guerra civile spagnola e le sue origini, 1931-1939, Bollati Boringhieri, Torino 2004.

474 M. Roatta, Otto milioni di baionette. L’esercito italiano in guerra dal 1940 al 1944, Mondadori, Milano 1946, p. 174.

475 Sulle foibe e l’esodo forzato di 250.000 giuliano-dalmati si vedano G. Valdevit (a cura di), Foibe, il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945, Marsilio, Venezia 1997; G. Oliva, Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria, Mondadori, Milano 2002; G. Scotti, Goli Otok. Italiani nel gulag di Tito, Lint, Trieste 2002; R. Pupo e R. Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori, Milano 2003; R. Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli, Milano 2005; G. Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie diverse d’Europa, Donzelli, Roma 2005.

476 La Commissione comprendeva, per la parte italiana, Sergio Bartole, Fulvio Tomizza, Lucio Toth, Fulvio Salimbeni, Elio Apih, Paola Pagnini, Angelo Ara. In un secondo tempo, Bartole, Tomizza e Apih rinunciavano all’incarico e venivano sostituiti da Giorgio Conetti, Marina Cattaruzza e Raoul Pupo. Nella Commissione erano presenti, per la parte slovena, Milica Kacin Wohinz, France Dolinar, Boris Gombac?, Branko Marus?ic?, Boris Mlakar, Novenka Troha, Andrey Vovko. Copresidenti erano Giorgio Conetti e Milica Kacin Wohinz.

477 I rapporti italo-sloveni 1880-1956. Relazione della Commissione storico culturale italo-slovena, Koper, Capodistria, 25 luglio 2000, pp. 85-88.

478 Ivi, p. 93.

479 Ivi, pp. 94-95.

480 Ivi, p. 98.

481 Ivi, pp. 101-102.

482 «Il Piccolo», 4 aprile 2001.

483 Ibidem.

12. La resa dei conti

La radio aveva appena annunciato, alle 22.47 del 25 luglio 1943, che «Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo Ministro e Segretario di Stato di Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini e ha nominato Capo del Governo il Maresciallo Badoglio», e la gente, nonostante l’ora tarda, si precipitava in strada, ancora incredula, per verificare che il fascismo fosse veramente caduto.

Anche se mancavano ancora notizie precise – Mussolini si era dimesso o era stato destituito? Era libero o in carcere? – la gioia della popolazione era incontenibile, anche perché interpretava la fine del regime come l’annuncio dell’imminente uscita dell’Italia dal conflitto mondiale. Per molti, poi, sembrava giunta l’ora della rivincita; il momento, tanto atteso, della resa dei conti. Nella stessa nottata tra 25 e 26 luglio venivano saccheggiate, in varie località, una dozzina di sedi del Partito nazionale fascista (PNF). A Milano era devastato il “covo” di via Paolo da Cannobbio, antica sede del giornale di Mussolini e uno dei simboli del fascismo delle origini. A Roma la folla invadeva il cortile deserto di Palazzo Venezia e poi improvvisava cortei che avevano come mete il Quirinale e la sede del PNF in piazza Colonna. A Firenze il giovane tenente Giorgio Spini, ricoverato nell’ospedale militare per un principio di tubercolosi, così reagiva all’annuncio della caduta di Mussolini: «Allora un gruppetto di noi ricoverati scappò dalla gabbia e andò a far baccano per le strade, reclamando pace immediata con gli Alleati e guerra ai tedeschi» 484.

Non tutti, però, in quella notte straordinaria, erano nelle condizioni d’animo per poter partecipare all’esplosione di gioia. Ecco il ricordo di Nuto Revelli, futuro comandante partigiano e storico della sciagurata campagna di Russia:

 

Il 25 luglio 1943 cade il fascismo. Verso mezzanotte un breve corteo di antifascisti percorre via Roma e passa sotto le mie finestre. Sento che gridano «abbasso il fascismo», «viva l’esercito». Ma quale esercito? Mi affaccio alla finestra, vorrei scendere per affrontarli, per dire che la guerra non è finita, che i nostri caduti di Russia sono morti per niente! Nella testa ho confusione, sentimenti contraddittori. Soltanto le lacrime di mio padre mi fermano. Se fossi sceso in strada sarei stato preso per un fascista 485.

 

Da Cuneo a Sorrento. Dopo una giornata di lavoro particolarmente faticosa, Benedetto Croce si era messo a letto alle 23. Ma subito dopo era stato svegliato da una telefonata di Elena di Serracapriola che gli comunicava la caduta di Mussolini. Pochi minuti dopo la casa del filosofo era invasa dagli amici «giubilanti». Ricorda Croce: «Tornato a letto non ho potuto chiudere occhio fino alle quattro o più oltre. Il senso che provo è della liberazione da un male che gravava sul centro dell’anima: restano i mali derivati e i pericoli; ma quel male non tornerà più» 486. Due giorni dopo annotava nel diario: «Anche stanotte dormito poco, da mezzanotte alle quattro. Fisso è il pensiero alle sorti dell’Italia: il fascismo mi appare già un passato, un ciclo chiuso, e io non assaporo il piacere della vendetta» 487.

Vendetta che invece esplodeva il 26 luglio quando, dai giornali, la gente apprendeva maggiori particolari sulla tempestosa riunione del Gran Consiglio del fascismo, sull’incontro di Mussolini con Vittorio Emanuele III, e il successivo arresto del duce. La conferma che il regime era veramente caduto scatenava la folla. A Roma venivano devastate tredici sedi fasciste; ma da una caserma in via Depretis alcuni militi sparavano sui manifestanti uccidendone due. A Torino erano prese d’assalto le carceri e liberati 300 detenuti politici. Sempre a Torino veniva devastato il consolato tedesco e bruciata una bandiera dalla croce uncinata. A Cuneo l’avvocato Tancredi “Duccio” Galimberti, rivolgendosi alla folla che riempiva piazza Vittorio, l’esortava a prendere subito le armi contro i nazisti, poiché soltanto la lotta armata avrebbe riscattato l’onore del paese. Il giornalista del «Corriere della Sera» Andrea Damiano annotava nel proprio diario:

 

Lo stato d’assedio subito proclamato per mantenere l’ordine non scema il tripudio del popolo. La truppa è applaudita, la festa è generale. Il coprifuoco è severo, alle nove e mezzo nessuno non provveduto di lasciapassare può circolare. La notte echeggiano spari: sono soldati che tirano a passanti sospetti, sono fascisti asserragliati nei gruppi rionali che resistono; sono operai impegnati contro le truppe che presidiano le carceri dove sono i detenuti politici. […] Porgendo orecchio al notturno echeggiare degli spari una voce ammonisce che il peggio è ancora da venire, che vent’anni di fascismo non possono essere liquidati con quarantott’ore di baldoria. Non conta. Oggi nessuno ragiona. Una deliziosa incoscienza scatena questa folla che rinasce alla speranza 488.

 

Non tutti, ovviamente, partecipavano all’esultanza generale. Vincenzo Costa, che sarà l’ultimo federale fascista di Milano, così commentava le ore burrascose dopo l’annuncio della caduta del regime: «Gli antifascisti uscirono dalle loro tane, seguiti dal popolaccio affamato di ruberie e violenze; cominciò così l’assalto alle sedi dei gruppi rionali fascisti, l’attacco e l’incendio del “covo” di via Paolo da Cannobbio. Era cominciata la caccia al fascista» 489.

Costa però esagerava. Erano certamente volati pugni e schiaffi, ma i fascisti uccisi durante i 45 giorni badogliani non arrivavano a dieci. Invece il bilancio della repressione nei confronti dei manifestanti era altissimo: 93 morti, 536 feriti, 2276 arresti. Per la verità, il PNF, che nel 1943 contava 4.700.000 iscritti, si era letteralmente liquefatto all’annuncio dell’arresto di Mussolini. La stessa Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN), che avrebbe dovuto difendere il duce sino all’ultima goccia di sangue, si era dissolta ingloriosamente senza neppure tentare un abbozzo di difesa.

 

Il tripudio per la caduta del regime non doveva durare a lungo. Anche se nella sua prima riunione, il 27 luglio, il governo di Badoglio decideva lo scioglimento del PNF; la soppressione del Gran Consiglio del fascismo, della Camera dei fasci e delle corporazioni e del Tribunale speciale per la difesa dello Stato; l’incorporazione della MVSN nell’esercito e la liberazione dei detenuti politici (esclusi comunisti e anarchici), il solo fatto che in tutto il paese fosse stato proclamato lo stato d’assedio spegneva ogni entusiasmo e la speranza che il crollo del fascismo significasse anche la fine della guerra.

Nel rievocare i giorni della dittatura militare di Badoglio, Dino Grandi, il cui ordine del giorno aveva provocato la caduta di Mussolini e del fascismo, scriveva nelle sue memorie: «Sono gli uomini del regime dei 45 giorni i quali hanno portato l’Italia al tragico epilogo dell’8 settembre, travolgendo monarchia, Costituzione, esercito, onore nazionale, e con questi le speranze del popolo italiano. Essi hanno suggellato il male compiuto da Mussolini. Questi ha portato la Nazione alla rovina, quelli ne sono stati gli affossatori» 490. Il giudizio è severo, ma condivisibile. In effetti, le incapacità decisionali di Badoglio o, meglio, i suoi meschini trucchi per guadagnare tempo, sono evidentissimi. L’uomo che era riuscito a fare della disfatta di Caporetto il suo trampolino di lancio, era persuaso di saper tenere a bada i tedeschi e di riuscire, nello stesso tempo, a fare la pace con gli anglo-americani. Ma purtroppo non era così. Già il 26 luglio la XLIV divisione di fanteria tedesca e la CXXXVI brigata di montagna Dolha avevano forzato il passo del Brennero e occupato l’Alto Adige. Nei giorni successivi altre nove divisioni, comprese la XXIV corazzata e la divisione SS Hitler, calavano in Italia e si impadronivano di importanti nodi di comunicazione. Gli Alleati, dal canto loro, per spingere Badoglio a chiedere l’armistizio, compivano, fra il 7 e il 16 agosto, alcuni massicci bombardamenti aerei su Milano, Torino, Genova e Roma. Nella sola Milano i morti erano 510 (tutti da addebitarsi a Badoglio) e 240.000 i vani distrutti. Ha osservato giustamente Elena Aga Rossi:

 

La situazione dell’Italia era senza via d’uscita, stretta tra un alleato che si preparava ad agire da nemico, riversando nel paese divisioni per occupare posizioni strategiche, e dei nemici che si apprestavano a sbarcare nella penisola, rifiutando ogni patteggiamento preventivo. Non vi era alcuno spazio per una trattativa, né con gli uni né con gli altri, ma Badoglio e il re non se ne resero conto e si dimostrarono del tutto incapaci ad affrontare la situazione trascinando l’Italia, con la loro inazione, nel più grave disastro militare della sua storia 491.

 

L’annuncio di Badoglio alla radio, alle 19.45 dell’8 settembre, della firma dell’armistizio con gli anglo-americani, senza che venissero prese le necessarie misure per fronteggiare i tedeschi, non poteva che portare alla catastrofe. Lasciate senza ordini (la famosa «Memoria 44 OP», elaborata dallo stato maggiore, non dava che indicazioni fumose), le forze armate si dissolvevano, senza opporre resistenza, e in gran parte venivano catturate dai tedeschi e deportate in Germania. Ma lo spettacolo più indecente lo fornivano il re, Badoglio e il codazzo di ministri, generali e cortigiani, con la loro precipitosa fuga all’alba da Roma diretti a Pescara e poi, via mare, a Brindisi.

 

Lo sfacelo dell’esercito italiano, l’occupazione integrale, a opera dei tedeschi, di gran parte dell’Italia, la liberazione il 12 settembre di Mussolini dal suo confino sul Gran Sasso e l’annuncio, tre giorni dopo, da parte dell’Agenzia Stefani, che il duce aveva ripreso «la suprema direzione del fascismo in Italia», erano fatti che avevano un preciso e funesto significato: il regime, nonostante il crollo del 25 luglio, era risorto; l’Italia era spaccata in due, con due governi, due potenze occupanti, due diverse ideologie. C’era, da una parte e dall’altra, una gran voglia di menare le mani, di soddisfare il desiderio di vendetta, di regolare una volta per tutte i conti. I fascisti, vecchi e nuovi, volevano riscattare l’onore della patria, insudiciato dal re e da Badoglio, e promettevano piombo a chi la pensava diversamente. Gli antifascisti, dal canto loro, pensavano di battersi per riportare in Italia la democrazia e non sembravano intimoriti all’idea di dover affrontare, contemporaneamente, tedeschi e fascisti. Lo scontro si preannunciava duro, spietato, totale. Da guerra civile e da guerra di liberazione.

Ben diverso sarebbe stato l’epilogo dei 45 giorni se Badoglio, anziché l’ambigua «Memoria 44 OP», avesse inviato ai reparti, dislocati in Italia e all’estero, l’ordine perentorio di attaccare i tedeschi. «Bisognava voltare i cannoni contro i tedeschi» ammoniva Alfredo Pizzoni, il presidente del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (CLNAI), «e sparare, sparare subito, sparare per primi, senza calcolare se tutti avrebbero concorso nello sparare. Questo, Badoglio e i suoi complici, questo, il re e i suoi famigliari, tutti pavidi, tutti incerti, non vollero vedere» 492. Della stessa opinione era Dino Grandi, che pure era stato una delle figure più eminenti del fascismo. Richiesto di un giudizio sulla situazione, mentre era a colloquio con Vittorio Emanuele nella mattina del 28 luglio, rispondeva: «Se il nostro esercito non si difende e non contrattacca le forze di invasione tedesche che già stanno attraversando il Brennero, e simultaneamente il governo non prende alcun serio contatto con gli Alleati, prevedo giorni tremendi per la nazione» 493.

Quei «giorni tremendi» erano inesorabilmente venuti e con essi le prime avvisaglie della guerra civile. Da un giorno all’altro, mentre nelle città si dava la caccia ai renitenti alla leva, bisognava scegliere fra il risorgente fascismo e la ribellione antifascista, fra la Repubblica di Salò e la guerra per bande. Era, per tutti, una scelta difficile, ma ancora più difficile per i giovani che erano stati quotidianamente educati a venerare Mussolini e i simboli del littorio, e che di scelte individuali non ne avevano mai fatte.

Questa scelta di campo non riguardava soltanto gli italiani che vivevano, tra le Alpi e il Garigliano, sotto il tallone nazista, ma persino i 600.000 soldati italiani deportati dai tedeschi nei campi di concentramento. Vale la pena di ricordare che di questi 600.000 soltanto 15.000 aderirono alla Repubblica di Salò. Ha scritto Alessandro Natta, futuro segretario generale del PCI:

 

La non collaborazione, la resistenza di fronte alle lusinghe e alle minacce, il rifiuto del lavoro, il sabotaggio, furono le armi che le circostanze consentivano di usare agli internati italiani e che essi usarono sempre più decisamente via via che, attraverso un processo laborioso, le ragioni della lotta si facevano più chiare e venivano in gran parte a coincidere con i motivi che determinavano in Italia, nello stesso periodo di tempo, il movimento popolare di liberazione 494.

 

Le scelte di campo, soprattutto fra i giovani, erano il frutto di decisioni spontanee, a volte entusiastiche, oppure di lunghe e sofferte riflessioni. Comunque, dietro ogni scelta, c’erano una storia, uno stimolo, uno scopo diversi. Roberto Vivarelli, per esempio, aveva due precise ragioni per aderire a Salò: il ricordo del padre ucciso dai partigiani in Iugoslavia e una fede adamantina nel duce e nei valori del suo regime:

 

Per noi il fascismo era un mito, che aveva riempito la nostra vita e al quale avevamo dato la nostra fervida adesione, con un rigore e una coerenza quale può avere solo l’entusiasmo degli adolescenti. Ci avevano insegnato a «credere, obbedire, combattere», ed ora continuavamo a credere con fede assoluta, eravamo pronti a obbedire, e quella di combattere era la nostra massima aspirazione 495.

 

Cattolico, figlio di un questore che era anche un terziario domenicano, Massimo Rendina, a differenza di Vivarelli, non aveva conti in sospeso con nessuno e nessuna aspirazione a combattere e a uccidere. Anzi, a un intervistatore che gli poneva la domanda «È vero che voi cattolici vi auguravate di morire piuttosto che uccidere?», rispondeva: «Sì. Ancora oggi preferirei morire piuttosto che uccidere». E tuttavia, il 9 settembre, nella Torino occupata dai nazisti, dinanzi a uno spettacolo di morte, maturava in lui la decisione di partecipare alla Resistenza:

 

La ferocia degli invasori ci fu subito chiara dopo l’episodio davanti alla stazione di Porta Susa, quando alcune donne gridarono «Andatevene», e un tedesco sparò con la pistola mitragliatrice uccidendone due o tre. Fu allora che maturò la nostra scelta di reagire. […] I primi giorni dopo l’8 settembre decidemmo con alcune persone di formare delle squadre d’azione. Per procurarci le armi, ci proponemmo di disarmare i tedeschi, senza ucciderli 496.

 

C’erano anche le mezze scelte. Ossia scelte per nulla spontanee, ma determinate da avvenimenti eccezionali, come, per esempio, i bandi per la chiamata alle armi. Dopo il primo bando del novembre 1943, ma soprattutto dopo il secondo, del 18 febbraio 1944, che puniva «con la morte mediante fucilazione nel petto» tutti i cittadini italiani, dai 19 ai 22 anni, che non si fossero presentati ai rispettivi distretti militari, molti giovani decidevano di entrare nelle file della Resistenza. Tra il rischio di essere inviati in un campo di istruzione in Germania e il salto nel buio della resistenza armata, preferivano la seconda opzione, anche se il loro massiccio afflusso in montagna avrebbe creato ai comandi partigiani più problemi che un reale sostegno.

C’erano, infine, quelli che decidevano di non fare alcuna scelta, per paura, per attendismo, per incapacità decisionale, per disimpegno civile, per un rifiuto della storia, per moltissimi altri motivi. Ha scritto, per esempio, Enzo Forcella:

 

L’8 settembre ero a Roma, in licenza di convalescenza dopo tre anni trascorsi sotto le armi. Per me la guerra era finita, non avevo nessuna intenzione di ricominciare, né da una parte né dall’altra. Odiavo i nazisti e i neofascisti ma non sino al punto di complottare e di prendere le armi contro di loro. L’unica guerra che ero disposto a combattere era quella per la sopravvivenza. […] Volevo soltanto rimanere rintanato nel mio studio, con i miei libri e le mie traduzioni, immerso nella mia paura paralizzante 497.

 

In questa cosiddetta “zona grigia”, nella quale si rifugiava chi non riusciva (o non voleva) identificarsi in uno dei due schieramenti in lotta, c’era anche il giornalista Andrea Damiano, che pure era capace di ravvisare il vero nemico degli italiani e lo faceva con grande maestria:

 

Certi tipi di bravi che girano per Milano sono goyeschi. Quando fa giorno li vedi, reduci dal loro “servizio”, salire sui tram e passare tra la gente col berrettaccio basco o col fez nero spiaccicato sulla nuca, il fucile mitragliatore imbracciato e pronto allo sparo, il pistolone alla cintura, pugnale all’ombelico: ultima degenerazione di una per tanto tempo idealizzata illegalità. Vedi espressioni tra di falco e di cane, fronti alte un dito sotto gonfie capigliature crespe, nasi affilati e arcuati in facce smorte e fosche, inquieti occhi asimmetrici. Sono questi sgherri che dovrebbero insegnare agli italiani le civiche virtù 498.

 

Ricordando che anche un grande narratore quale Cesare Pavese, e altri intellettuali come lui, furono renitenti a qualsiasi impegno politico, Raffaele Liucci scriveva:

 

Per costoro, la guerra offrirà soprattutto l’occasione di fuga verso una collina – metaforica o reale essa sia – in grado di preservare il proprio microcosmo di valori dall’impatto con la Storia, evitando in questo modo di operare, temporaneamente o per sempre, una precisa scelta di campo e di assumersene la responsabilità 499.

 

Sempre dentro a questa “zona grigia” c’era, infine, la via dell’assoluta indifferenza. «L’aveva scelta il mio amico Mamante Rabozzi, che si era fatto murare vivo dal padre nella sua cascina di Cavaglio d’Agogna. Da un pertugio gli passavano il cibo e tanti fogli di carta, sui quali scriveva deliziose poesie sulla natura» 500.

 

Concluse le scelte di campo, lo scontro era inevitabile. All’inizio del 1944, dalla parte di Salò militavano circa 100.000 uomini, mentre erano attivi, sulle montagne, non più di 10.000 partigiani. Va detto, però, che i militi della Repubblica sociale italiana (RSI) erano poco addestrati e mancavano di tutto, dalle armi agli automezzi, dal vestiario alla benzina, dalle coperte alle gavette. Non mancavano, invece, gli ufficiali (e fra questi ben 300 generali), che avevano aderito alla Repubblica di Salò soprattutto per i lauti stipendi. E anche quando, dopo il marzo 1944, in seguito ai bandi di Graziani, l’esercito si ingrossava, la sua efficienza era tutta da provare. «Le caserme si stanno lentamente riempiendo» riferiva Giampaolo Pansa «anche se i giovani vi entrano spinti dalle baionette e non certo dall’“amore per la Patria” o dalla fede fascista. La GNR lo sottolinea in quasi tutti i suoi rapporti» 501.

Un altro motivo che spiegava la scarsa efficienza dell’esercito di Salò era la sua frantumazione, la mancanza di un comando unico. In effetti, Renato Ricci guidava la Guardia nazionale repubblicana (GNR). Alessandro Pavolini istituiva nel giugno 1944 le brigate nere e ne assumeva il comando. Il principe Junio Valerio Borghese dirigeva la Decima flottiglia MAS come se fosse stata una proprietà di famiglia. Graziani che, nella sua qualità di ministro per la Guerra, avrebbe dovuto avere il comando di tutte le forze armate, a malapena si occupava delle quattro divisioni dell’esercito addestrate in Germania 502. Le 20.000 SS italiane dipendevano direttamente dai tedeschi. La legione autonoma mobile Ettore Muti era diretta dal sergente Francesco Colombo, autonominatosi colonnello. Altre decine di legioni, battaglioni, reparti, bande godevano di una totale o parziale indipendenza. Per non parlare dei reparti di polizia, che autonomamente torturarono e uccisero centinaia di antifascisti.

La sola cosa di cui non difettava l’esercito di Salò – in particolar modo i reparti autonomi e di polizia – era la violenza, la più estrema, la più vile, la più disonorevole. Si pensi soltanto alle nefandezze compiute dalla Muti e dalle bande Koch e Carità 503. «L’azione scellerata di questi gruppi diffamerà la repubblica oltre le sue colpe» scrive Giorgio Bocca, «avvolgerà tutto e tutti nella sua caligine tanto che la parte migliore del nuovo fascismo tenterà di disfarsene, inutilmente perché la logica distorta della guerra civile li esige e li ricerca» 504. Eppure, padrino e grande estimatore della Muti era lo stesso Mussolini. Dopo aver visitato la caserma della legione, così scriveva al suo comandante Colombo: «Fascisti della vostra tempra e uomini come quelli del vostro Stato Maggiore offrono la certezza che la “Muti”, nello sviluppo delle sue attività, sarà domani, più di oggi, all’altezza dei suoi compiti» 505.

Quanto alla banda Koch, essa godeva della protezione e del sostegno finanziario del ministro dell’Interno Guido Buffarini Guidi, il quale era perfettamente al corrente dei metodi abbietti impiegati da Pietro Koch per estorcere informazioni ai malcapitati che finivano nella pensione Jaccarino, a Roma, o nella Villa Fossati, a Milano. «Confrontando le condizioni a cui erano soggetti i fermati di via Tasso, terribile luogo di detenzione della Polizia tedesca» riferisce Massimiliano Griner, «con quelli rinchiusi nelle camere riadattate della pensione Jaccarino, ci fu chi arrivò a sostenere, forse non a torto, che sotto ogni punto di vista era peggio cadere vittime di Koch che dei tedeschi» 506.

Tra le formazioni combattenti, oltre alla Muti, si distinguevano, per la ferocia, alcune brigate nere, taluni reparti della Decima flottiglia MAS e soprattutto le SS italiane, che avevano prestato giuramento di fedeltà a Hitler e dipendevano direttamente dal generale delle SS Peter Hansen Tschimpke. Esse hanno sicuramente partecipato, in posizione ausiliaria, ad alcune stragi compiute dai nazisti, a Marzabotto, a Sant’Anna di Stazzema, a Bardine di San Terenzio, a Vallucciole. Si vantavano, e non mancavano di fornire le prove, di non fare prigionieri 507.

La violenza, nella storia della RSI, è stata anche sadismo, piacere di violentare la sensibilità dei civili, terrificante avvertimento. «La pubblica esibizione dei corpi degli impiccati e dei fucilati» scrive Sergio Luzzatto «è stata praticata dai militi della RSI come forma estrema di controllo della piazza italiana, la forma più muta eppure la più parlante possibile; gli uncini da macellaio hanno utilmente servito alla bisogna, come strumento di degradazione degli uomini a bestie» 508. Partigiani impiccati con gli uncini da macellaio, ma anche con il fil di ferro, come a Fivizzano di Massa; con il filo spinato, come a Pioppeti di Camaiore. Avverte Mirco Dondi:

 

L’esposizione della morte diventa soprattutto un’imposizione a vedere. Si scelgono così i punti cruciali delle città per lasciare in mostra i morti. […] Uno dei teatri di morte più noti è il nevralgico piazzale Loreto a Milano, dove vengono lasciati accatastati quindici antifascisti. […] Uno degli episodi di più luttuosa spettralità si verifica a Bassano del Grappa quando 31 partigiani vengono appesi agli alberi del corso centrale del paese 509.

 

A volte l’imposizione dello spettacolo di morte durava giorni, e inutilmente intervenivano i famigliari degli uccisi

o esponenti del clero per far cessare il supplizio. È accaduto a Fondotoce, nel Verbano; a San Maurizio Canavese; a Vignale, alle porte di Novara; a Bagnolo in Piano, in provincia di Reggio Emilia; in decine di altri luoghi. Il prolungamento dello spettacolo di morte non aveva soltanto lo scopo di imporre alle popolazioni ore o giorni di angoscia, ma anche quello di stabilire che quei corpi, straziati dal piombo o dal cappio della forca, non meritavano alcuna pietà, alcuna considerazione, quasi fossero appartenuti a una categoria subumana.

Sbaglierebbe, tuttavia, chi pensasse che la violenza della RSI è un fenomeno nuovo, un prodotto avvelenato della Caporetto dell’8 settembre. Essa ha invece origini molto lontane. Si riallaccia all’olio di ricino, che umiliava orribilmente la vittima del sopruso. Si riannoda al manganello, alla pistola, al pugnale, alla bomba a mano, ossia agli strumenti delle squadracce antemarcia. Si ricollega alle forche rizzate in Libia e in Etiopia; ai plotoni di esecuzione impiegati nei Balcani; all’uso del fuoco come punizione totale. Anche la pubblica esibizione dei corpi degli impiccati e dei fucilati ha un’infinità di precedenti nella notte coloniale. C’è sicuramente, in altre parole, una forte continuità tra il Ventennio fascista e la repubblica dei 600 giorni.

Di questa violenza, che poi finisce per ritorcersi su chi la pratica, la vittima più illustre è Mussolini. Vittima designata, come nessun’altra. Per tutta la sua vita, in tutti i suoi scritti, aveva predicato odio, incitato alla prepotenza, elogiato ogni forma di brutalità. Aveva rampognato la sua gente definendola imbelle, non degna dell’impero che le aveva donato. Ancora il 6 marzo 1945, rivolgendosi agli ufficiali della GNR dichiarava, con manifesto disprezzo: «Non si può pretendere che in venti anni di regime si trasformi profondamente la struttura morale di un popolo. Ci vogliono alcune generazioni» 510. Il rancore nei confronti degli italiani, che avevano deluso le sue aspettative, era senza limiti. Un rancore, del resto, ricambiato. Basti ricordare l’impatto rabbioso della folla con il corpo del duce appeso al traliccio del distributore di benzina di piazzale Loreto. Ai cinque colpi di pistola che una donna gli scaricava nella testa. Alla frustata che un’anziana signora gli assestava ritenendolo responsabile della morte di due suoi figli.

Uscendo all’improvviso dalla “zona grigia” in cui era vissuto per venti mesi, Andrea Damiano si recava il 29 aprile in piazzale Loreto e osservando quella barbara esposizione dei corpi impietosamente riferiva:

 

Il ceffo carnoso di Mussolini era fra tutti il più orrendo. Una rossa bocca aperta vomitava un rivolo di sangue che luccicava al sole, lordando il resto del viso; le narici, enormi come due coppe, ne traboccavano e formavano nel centro della maschera sfigurata come una voragine. La testa calva e adiposa pareva gonfia. Era in camicia nera, aperta sul petto, si vedeva il torso robusto tutto imbrattato di sangue 511.

 

Poiché è impensabile che tutti i cattivi abbiano scelto Salò e tutti i buoni la Resistenza, è necessario, a questo punto, stabilire le dimensioni e le particolarità della violenza partigiana. Roberto Vivarelli, che nel suo libro La fine di una stagione dichiara di non essere pentito di aver combattuto nelle file della RSI, e anzi di esserne «orgoglioso, pur essendo oggi consapevole che la causa era moralmente e storicamente ingiusta» 512, pone in questi termini la violenza della parte avversa:

 

Non mi sembra corrispondere né alla verità storica, né alla verità psicologica, che la violenza esercitata dalla Resistenza sia stata qualitativamente diversa da quella esercitata dai fascisti. Non intendo affatto sottovalutare, sia ben chiaro, i casi efferati di sistematica organizzazione della tortura, che sono ben noti e hanno ricevuto il giudizio che meritavano sia in sede morale sia, spesso, in sede penale. Tuttavia mi sembra ingiusto allineare sul piano di queste bande criminali, numericamente assai scarse, l’insieme dei combattenti fascisti che furono qualche centinaia di migliaia. Rispetto al comportamento di questi combattenti, per così dire ordinari, non credo che una distinzione tra violenza fascista e violenza partigiana sia effettivamente possibile 513.

 

Per cominciare, va detto che la tortura non fu soltanto praticata da poche “bande criminali”, ma da quasi tutte le formazioni della RSI, anche se in maniera discontinua. Quando si trattava di estorcere informazioni, anche reparti delle quattro divisioni dell’esercito regolare ricorsero alle peggiori violenze. «C’è qui da noi la Littorio» riferiva Livio Bianco a Giorgio Agosti il 6 dicembre 1944, «i cui militari (non solo gli ufficiali, ma anche la truppa) son peggio che i tedeschi, e ne fanno di tutti i colori. Fra l’altro, son loro gli autori degli eccidi di pacifici borghesi commessi giorni or sono nelle frazioni intorno a Cuneo, in cui han trovato la morte una cinquantina di persone» 514. A Bobbio, nella tarda estate 1944, un reparto della divisione Monterosa aveva riempito le celle sotterranee della caserma dei carabinieri di uomini e donne compromessi con la Resistenza e aveva infierito su di loro per conoscere la reale consistenza delle forze partigiane che, in pratica, assediavano la città.

Non risulta, invece, che la Resistenza abbia avuto le sue “ville tristi” o che abbia mai praticato la tortura. Come ha giustamente rilevato Claudio Pavone, la violenza resistenziale è stata soprattutto «difensiva» e dettata dalla necessità 515. Per autolegittimarsi il movimento partigiano aveva anzitutto bisogno di godere del sostegno e della fiducia delle popolazioni fra le quali operava e di potersi distinguere nettamente dai nazifascisti. Per questi motivi esercitava la più severa condanna nei confronti di tutti i fenomeni di banditismo, interni o esterni al movimento. Per i partigiani che si macchiavano di crimini di ogni tipo la punizione era quasi sempre la morte. Avendo raccolto sufficienti prove sui furti e sulle rapine compiuti da un partigiano della I divisione GL Piacenza, il suo comandante, Fausto Cossu, ne ordinava l’immediata fucilazione, che avveniva davanti al cancello del cimitero di Agazzano.

Alcune formazioni, come la Pinan-Cichero, che operava sull’Appennino ligure-alessandrino, si erano date un codice di comportamento assai severo. Nel «Regolamento di disciplina partigiana», inviato dal comando della divisione ai distaccamenti, si legge: «Furto a mano armata, violenza carnale: fucilazione immediata a mezzo del tribunale di brigata» 516. Severissime anche le sentenze dei tribunali militari straordinari in funzione presso le divisioni garibaldine in Valsesia. Il comandante Ciro (Eraldo Gastone) non provava alcune pentimento per

 

aver fatto catturare, processare e condannare a morte partigiani veri o falsi, che compivano furti, rapine o prelevamenti a nome delle formazioni ma a vantaggio proprio. Devo dire, per la verità, che i casi di questo genere non furono molti. La severità con cui punimmo fin dai primi mesi i protagonisti di queste imprese dissuasero gran parte dei malintenzionati dall’imitarne le gesta nel territorio del Comando zona Valsesia. Quelli che ci provarono caddero presto nelle mani della polizia partigiana, furono giudicati e condannati all’unica pena possibile: la morte mediante fucilazione 517.

 

La pena capitale era anche comminata ai disertori, soprattutto a quelli che poi passavano nel campo avversario. A metà giugno 1944 Livio Bianco comunicava a Giorgio Agosti «l’eliminazione di Prato, l’ex comandante della Val Susa», che si era arreso ai fascisti in gennaio «mandando all’aria la banda» 518. Nessuna pietà anche per le spie e per gli infiltrati. Il problema si era posto sin dall’inizio della costituzione delle bande. Nel novembre 1943, infatti, Giorgio Agosti, nel tracciare il quadro delle azioni da farsi con estrema priorità, poneva come «prima ed essenziale l’uccisione di quante spie vengono individuate» 519. Qualche tempo dopo, scrivendo a Livio Bianco, gli segnalava un pericolo: «Pare che la polizia voglia mandar su in banda un agente con un falso biglietto firmato Fausto per adescare qualcuno di voi. Detto è già stato avvertito: state all’erta anche voi e raddoppiate di prudenza con le spie. Se pescate tale agente, fatelo fuori subito» 520.

Il problema delle spie non era di poco conto. «L’ambiguità della loro figura si trasformava in un alone di incertezza attorno alla loro stessa realtà» spiega Claudio Pavone. «Questa incertezza da una parte veniva alimentata dalla frequente leggerezza cospirativa, dall’altra produceva sospettosità diffusa e ingigantita e durezza nella repressione» 521. Non sempre, infatti, si raggiungevano le prove della sicura colpevolezza degli arrestati, e il rischio di eliminare degli innocenti non era irrilevante. In valle Antigorio, allora in provincia di Novara, venivano uccisi, per esempio, il nobile Franco Marini con la giovane consorte, e l’ex squadrista Giovanni Cardano, sulla cui attività spionistica c’erano più dubbi che certezze 522.

La violenza partigiana si manifestava anche nei rapporti tra formazioni di diverso colore politico. Paolo Emilio Taviani, che diresse la guerra di liberazione nel Genovesato, non nascondeva il problema, ma ne precisava anche i limiti: «Negli anni della Resistenza ci furono sì dei contrasti fra i partigiani, ma i morti fra noi furono meno di cinquanta. Una cifra che non scandalizza, se la si confronta con quanto è accaduto nelle altre Resistenze europee e asiatiche» 523. Lo scontro avveniva per questioni di territorio da presidiare, per rivalità fra capi, per la scelta di strategie. Ma spesso il contrasto verteva anche sul problema della violenza. Come ha ricordato Ermanno Gorrieri,

 

è sul terreno della condotta della lotta che si scontrarono due concezioni profondamente diverse. I cardini dell’impostazione comunista erano due: dare alla lotta armata la più larga estensione dal punto di vista della partecipazione delle masse e imprimerle un carattere di inflessibile durezza. Da parte democristiana si riteneva invece che una rigida selezione degli effettivi partigiani e un loro inquadramento disciplinato e organizzato non erano soltanto un’esigenza di carattere militare, ma anche un problema di dignità e di prestigio delle formazioni nei confronti della popolazione; e nel contempo l’aspirazione era quella di “umanizzare” la lotta, evitando gli spargimenti di sangue che non fossero necessari 524.

 

Vittima di questa diversa concezione della lotta armata era Azor (Mario Simonazzi), vicecomandante della LXXVI brigata SAP. Dirigente dell’Azione Cattolica, era stato fra i primi a promuovere la resistenza in provincia di Reggio Emilia e presto si era imposto per la sua audacia e per i colpi di mano messi a segno. Ma, come precisa Massimo Storchi, Azor aveva una sua particolare visione della guerra di liberazione, «fuori da schieramenti e ideologie», e per di più tendeva a risparmiare vite umane perché «un uomo è sempre un uomo anche dentro a una divisa nera» 525. La sua autonomia di pensiero e di azione, in una provincia fortemente ideologizzata, avrebbe finito per costargli cara. Il 21 marzo 1945, a un mese dalla fine della guerra, il capo partigiano veniva ucciso, con un colpo di pistola alla nuca, da elementi di una brigata garibaldina, i quali, pur processati nel dopoguerra, rimanevano ben poco in galera. Ma Azor, anche da morto, non finiva di ricevere insulti. Il suo nome, infatti, compariva nel 2003 nell’Albo caduti e dispersi della Repubblica sociale italiana, indicato come «Milite GNR, ucciso per agguato il 22 aprile 1945 a Cesina» 526.

Non sempre, però, erano partigiani comunisti a eliminare esponenti di altre ideologie. In provincia di Piacenza, per esempio, è accaduto il contrario. A essere fucilato da carabinieri patrioti legati al Partito d’azione, era un vecchio comunista, Giovanni Molinari, detto Piccoli, figlio del primo sindaco socialista di Fiorenzuola, percosso dai fascisti nel 1921 e confinato per cinque anni a Ponza e a Ustica. Tra i primi organizzatori, nel 1943, della lotta armata nel Piacentino, Piccoli aveva insediato la sua banda nella val Tidone, a ridosso di un’altra banda, la Compagnia Carabinieri Patrioti, comandata da Fausto Cossu, di orientamento politico diverso. Il 5 giugno 1944 Piccoli e tre dei suoi venivano disarmati e subito fucilati dai carabinieri di Fausto Cossu, il quale, in sede processuale, avrebbe giustificato l’azione cruenta precisando che Piccoli e i suoi seguaci si erano macchiati di gravissimi crimini. È vero che alcuni partigiani della banda Piccoli avevano sicuramente compiuto requisizioni inutili e a scopo personale, ma le colpe non erano tali da meritare un così grave castigo. «L’evento» precisa Mirco Dondi «si presta anche ad essere letto come specchio di un sentimento anticomunista, tratto politico che continuerà a caratterizzare, con alcune sfumature più attenuate, Fausto ed alcuni dei suoi ufficiali» 527. E ancora Dondi: «Gli atti processuali non confermano soltanto che l’operazione contro la banda “Piccoli” è stata un atto premeditato da Fausto Cossu, ma mostrano inoltre il coinvolgimento di uomini del comitato militare del CLNAI nel dare, prima, l’avallo all’operazione e, poi, nel garantire la protezione a chi l’ha eseguita» 528.

Quello di Piccoli non è il solo episodio di eliminazione di un capo di banda. Si ha notizia di almeno altri quattro casi: quello del colonnello Raffaele Menici, esautorato dalle Fiamme verdi; del comandante russo Nicola Pankov, ucciso dai garibaldini; di Angelo Del Bello, processato e fucilato per «insubordinazione e abbandono del posto»; di Angelo Prete, eliminato da uno dei suoi ufficiali per ragioni di potere. Per questioni di controllo di un territorio veniva invece ucciso Saturno Gagliardelli, una staffetta democristiana della brigata Italia, incaricata di tenere i collegamenti fra le formazioni di pianura e quelle di montagna 529.

Ma il più sanguinoso, e tristemente noto, fra gli scontri tra partigiani, è quello che ha portato all’eccidio della Malga di Porzûs, una delle pagine nere della Resistenza. Il 7 febbraio 1945 un centinaio di garibaldini della divisione Natisone, al comando del gappista Mario Toffanin, raggiungeva Porzûs, nel Friuli orientale, catturava il comando della I brigata Osoppo Est, e sopprimeva 19 partigiani e una donna. Tra gli uccisi, il comandante della brigata, Francesco De Gregori, il commissario politico, l’azionista Gastone Valente, e Guido Pasolini, fratello dello scrittore Pier Paolo. I partigiani della Osoppo, in gran parte cattolici, erano sospettati di aver stretto accordi con i fascisti per impedire l’annessione, da parte delle formazioni iugoslave di Tito, di alcuni territori italiani, annessione che invece era favorita dalla Natisone.

Al processo contro Toffanin, contumace, e altre decine di garibaldini, svoltosi davanti alla Corte di Assise di Lucca, il 29 novembre 1951 faceva una lunga deposizione Alfredo Pizzoni, che aveva presieduto ininterrottamente il CLNAI 530. Dopo aver delineato, sotto il profilo storico, il quadro degli avvenimenti nel quale si era verificata la strage di Porzûs, Pizzoni dichiarava:

 

Gli attuali imputati non li conosco, non so chi siano, sono dei semplici esecutori, dei partigiani che hanno macchiato la nobiltà della loro azione precedente, che hanno dimenticato di essere italiani, anzitutto, soprattutto, italiani, figli di questa terra, e sono stati traviati, si sono confusi la mente in concetti che possono essere ammessi ed amati, ma che non debbono mai portare la mano ad alzarsi, armata, su compagni di lotta 531.

 

Il gappista Toffanin, infatti, non era che un esecutore di ordini «emanati da autorità altissima o, se minore, da autorità certa di eseguire direttive, chiaramente impartite» 532. Sappiamo per certo che il via libera a Toffanin è stato dato dalla federazione comunista di Udine, nella persona del suo segretario, Ostelio Modesti. Conferma di questo fatto è stata fornita il 9 febbraio 2003 da Giovanni Padoan, già commissario della Natisone, in un cordiale incontro ad Attimis con il presidente della Osoppo, Federico Tacoli. Nel suo intervento, Padoan riconosceva che «l’attacco scellerato» era partito con il consenso del Partito comunista di Udine. Reiterava l’accusa precisando che «i dirigenti si resero complici del barbaro misfatto». Padoan ammetteva inoltre che la sua dichiarazione «avrebbe dovuto essere letta al processo di Lucca, che condannò gli autori della strage», ma «la situazione politica di guerra fredda non lo rese possibile allora» 533. Mirco Dondi fa però giustamente rilevare che non tutta la responsabilità dell’eccidio deve essere addossata a Ostelio Modesti, «perché, a sua volta, era influenzato dalle direttive della Direzione del PCI del 19 ottobre ’44», che equivalevano «ad autorizzare un uso della forza soprattutto in direzione osovana» 534.

A inizio aprile 1945 cominciava l’offensiva degli Alleati. Nel giro di pochi giorni la V armata americana e l’VIII britannica sfondavano la linea gotica, conquistavano Massa Carrara, Bologna, Ferrara, raggiungevano e superavano il Po. Tra il 22 e il 25 aprile entravano in azione anche i partigiani, i quali abbandonavano le loro basi in montagna e attaccavano, allo sbocco delle valli, le località ancora in mano ai nazifascisti. Al segnale convenuto «Aldo dice 26 x 1», la calata in pianura delle forze della Resistenza diventava generale e incontenibile. Ogni mezzo era buono per affrettare la discesa: dagli autocarri ai calessi, dalle automobili alle biciclette. E mentre dalle valli calavano fiumane di armati, accadeva un fatto straordinario che però pochi ricordano. Al passaggio dei partigiani la gente saliva sui tetti e vi stendeva lenzuola bianche, in modo che l’aviazione alleata venisse informata sull’ampiezza delle zone già liberate.

La discesa in pianura avveniva in un’atmosfera di gioia indicibile, perché i venti mesi trascorsi in montagna erano stati di una durezza senza eguali. Ma la guerra non era ancora finita. C’erano ancora in armi, seppure del tutto demotivati, 135.000 soldati della RSI e 90.000 tedeschi, più quelli che si ritiravano dalla linea gotica. I fascisti cercavano la salvezza nel fantomatico “ridotto della Valtellina”; i tedeschi puntavano ai valichi alpini per raggiungere la Germania. Gente disperata ma decisa a battersi. E infatti, tra il 25 aprile e il primo maggio, cadevano in combattimento 4000 partigiani, ossia il 10 per cento delle perdite dell’intera guerra di liberazione.

Mentre i partigiani dilagavano nella pianura padana e si avvicinavano ai grandi centri urbani, i fascisti, a Milano, decidevano di abbandonare la città per raggiungere i monti della Valtellina secondo un disegno, del resto appena abbozzato, di Alessandro Pavolini. Alle 4 del mattino del 26 aprile, in piazza San Sepolcro, dove il 23 marzo 1919 Mussolini aveva fondato i Fasci di combattimento, Vincenzo Costa, l’ultimo federale di Milano, notificava, con una breve cerimonia, la fine del fascismo. Racconta il federale:

 

La tromba suonò l’adunata: era giunto il momento terribile dell’ammainabandiera. Al mio fianco erano Franco Colombo, Giulio Rao Torres, Domenico Vianello, Pino Perrone; i fascisti accorsi si irrigidirono sull’attenti, il braccio teso nel saluto romano e un canto solenne si alzò ancora nella storica piazza, la preghiera del legionario. Lentamente, piangendo, calai la bandiera; gli occhi di tutti erano colmi di lacrime, ma una voce dal fondo gridò: «Torneremo!» Pronunciai poche parole mozzate dalla commozione 535.

 

Preceduta da 10 carri armati e da 4 autoblindo, la colonna dei fuggiaschi, che comprendeva 228 automezzi e 6694 uomini, lasciava Milano alle 6.30 e raggiungeva Como alle 10, dove apprendeva che Mussolini, respingendo il progetto di partecipare all’ultima ed estrema battaglia nel ridotto della Valtellina, si era diretto a Menaggio con l’intenzione di riparare in Svizzera. Del resto, nessuno raggiunse il “ridotto” per cercarvi la bella morte. La maggior parte dei fuggiaschi si disperse in poche ore. Una quindicina di capi cadde a Dongo sotto il piombo partigiano. Quanto a Mussolini, dopo aver tentato la fuga indossando il cappotto e l’elmetto di un tedesco, finiva i suoi giorni, abbattuto da una raffica di mitra, a Giulino di Mezzegra. Il 29 aprile, nel suo diario, Benedetto Croce annotava: «Annunzio della fine del Mussolini e dei suoi gerarchi. Mi è parsa affatto naturale. L’uomo era nullo, e la fine ha confermato questo giudizio. Bisognerebbe dimenticarlo, ma insieme sempre ricordare che moltissimi o i più, in Italia e fuori, lo hanno creduto una grande forza geniale e benefica, e lo hanno plaudito e sostenuto per lunghi anni» 536. Mai epitaffio fu più conciso, più sprezzante, più demolitore.

Con la calata dei partigiani in pianura cominciava anche la lunga resa dei conti. C’erano questioni da regolare recenti e altre che risalivano addirittura al biennio 1921-22. Per tutte, era chiaro, non si facevano sconti. Un personaggio responsabile ed equilibrato come il giellista Giorgio Agosti non aveva esitazioni, il 4 settembre 1944, a impartire a Livio Bianco questi ordini: «A noi restano due cose: 1) creare il maggior numero di fatti compiuti (liquidazione spietata di fascisti e di collaborazionisti, e liquidazione radicale di istituzioni e di posizioni); 2) non disarmare nell’immancabile fraterno abbraccio democratico della vittoria, ma tenere pronti gli animi e gli uomini e le armi» 537. Dunque «liquidazione spietata». Ma questo non autorizza, almeno per ciò che concerne il periodo della violenza insurrezionale, a definirla «un’epurazione selvaggia» (Hans Woller) 538 o «un impasto di ferocia gratuita e di voglia di vendetta spesso malriposta» (Giampaolo Pansa) 539.

In realtà la violenza insurrezionale andava giudicata in base ad alcuni fattori. Per cominciare era commisurata all’intensità degli scontri, degli agguati, delle retate, delle stragi compiute nei 600 giorni della RSI. Poi era determinata dal comportamento, più o meno criminale, della dirigenza nazifascista. Infine giocava un ruolo non secondario ciò che era accaduto nelle città e nelle campagne durante il fascismo e prima, negli anni della pseudo rivoluzione fascista, che si era conclusa con alcune migliaia di antifascisti uccisi o costretti all’esilio. Si prenda il caso di Torino, la città che apre, con 1138 uccisi, la lista delle soppressioni di fascisti dopo il 25 aprile. Nel capoluogo piemontese le cifre della repressione antipartigiana, nei venti mesi della guerra civile, sono altissime, non riscontrabili in nessun’altra città d’Italia: 11 impiccati, 271 fucilati, 132 caduti in combattimento, 611 feriti in scontri, 12.000 arrestati, 20.000 deportati 540. Anche nel corso del Ventennio, Torino aveva pagato la sua scarsa adesione al regime con centinaia di arresti e centinaia di anni di confino. Per non parlare delle ferite inferte alla città dalle squadracce di Brandimarte e di De Vecchi, culminate il 18 dicembre 1922 nell’incendio della Camera del Lavoro, di alcuni circoli operai e nella devastazione di «Ordine nuovo», il giornale di Gramsci, con un bilancio di 22 morti. Per finire, al momento dell’insurrezione, il capo del Partito fascista repubblicano era il federale Giuseppe Solaro, un fanatico che aveva condotto le operazioni contro i partigiani con la massima brutalità e che infine, in previsione del crollo della RSI, aveva organizzato un’estesa rete di cecchini per impartire il maggior danno alle forze della Resistenza.

C’erano, dunque, a Torino, tutte le premesse per una rapida e dura resa dei conti. Si aggiunga che, ad arroventare il clima, il generale Schlemmer, che in pratica assediava Torino con due divisioni, una delle quali corazzata, minacciava di bombardare la città 541. Gli scontri per liberare Torino duravano ben quattro giorni, nonostante la piena collaborazione delle grandi formazioni partigiane di montagna con le squadre operaie che avevano assunto il controllo delle fabbriche. Nei combattimenti, soprattutto a causa dei cecchini, restavano uccisi 320 partigiani, il che accresceva la sete di vendetta e di giustizia.

Salvo un numero imprecisato di esecuzioni arbitrarie, la repressione a Torino, come nel resto dell’Italia del Nord, obbediva all’ordinanza partigiana che prevedeva la pena capitale per ministri, sottosegretari, capi di provincia e segretari federali in carica dopo l’8 settembre 1943. La stessa pena era prevista per i membri dei tribunali speciali del fascismo e per i componenti di tutte le formazioni militari di partito, come le brigate nere, le SS italiane, la Decima flottiglia MAS, la Muti. Difendendosi dalle accuse di eccessiva severità, il magistrato Giovanni Colli, capo della Sezione Giustizia del Comando militare regionale piemontese (CMRP), dichiarava:

A coloro che non hanno mai saputo perché assenti dalla battaglia, oscura e sanguinosa durante 20 mesi, a coloro che hanno dimenticato, si deve rispondere che questa esplosione di odio non può essere condannata, perché aveva le sue radici in un mare di sangue e di pianto. Si deve anche rispondere che la vendetta popolare avrebbe avuto proporzioni senza misura, più vaste, se la immediata severità dei Tribunali militari del CVL non avesse dimostrato che la giustizia era in marcia, senza debolezza e senza esitazione. Fu giustizia severa, giustizia di soldati, ma fu giustizia 542.

Comunque il 2 maggio 1945 il CMRP emanava un’ordinanza dal tono perentorio: «Ogni scatto di follia deve cessare. Si colpirà chiunque, partigiano e non, incrudelisca, torturi nell’inquisire, rapini sotto il pretesto di recare giustizia. […] Il CVL rifiuta di mantenere nel suo seno chiunque non intenda le leggi dell’onore» 543. Qualche settimana dopo, in risposta ad alcuni giornali romani che asserivano che a Torino erano stati giustiziati sommariamente dai partigiani 8000 fascisti, e che una parte delle esecuzioni sarebbe avvenuta nella seconda metà di maggio, nonostante la presenza delle forze alleate, Giorgio Agosti, nel frattempo diventato questore di Torino, smentiva la notizia, di ispirazione chiaramente fascista, con queste parole:

 

Gli accertamenti eseguiti dalla Questura hanno permesso di stabilire che il numero delle persone passate per le armi e giustiziate a seguito di processi sommari davanti ai tribunali militari del Corpo volontari della libertà, nel periodo compreso fra il 26 aprile e il 5 maggio (giorno in cui cessò lo stato di emergenza), non raggiunse i duemila, comprendendo in tale cifra anche gli appartenenti a formazioni fasciste uccisi in combattimenti e i numerosissimi “cecchini” fucilati sul posto. Sin dalla seconda metà di maggio l’ordine era completamente ristabilito e i casi di morte violenta, da probabile motivo politico, accertati in tale periodo, furono 41 e in tutto il mese di giugno scesero a 13 544.

 

Già nelle primissime settimane dopo la Liberazione si cercava di diffamare la Resistenza addebitandole massacri di dimensioni enormi. È in questo periodo che i nostalgici del regime di Salò tentavano di accreditare l’assurda cifra di 300.000 uccisi, in seguito ridimensionata a 70.000 e più tardi a 40.000-50.000. Giorgio Pisanò, nella sua Storia della guerra civile in Italia, riduceva ulteriormente il numero degli uccisi a 34.000. Richard Lamb, dal canto suo, stimava come corretta la cifra di 30.000 esecuzioni 545. Giampaolo Pansa, di recente, prendeva in considerazione le ricerche condotte dall’Istituto milanese per la storia della RSI e scriveva: «Insomma 20.000 persone, tra militari e civili, travolte dalla resa dei conti e dagli omicidi politici successivi. È un dato provvisorio, perché ci sono diverse ricerche che continuano. Ma quale sia un accettabile bilancio totale, non mi sento in grado di dirlo» 546. Noi siamo dell’avviso che anche la cifra citata da Pansa sia da dimezzare, accogliendo come credibile, anche se non definitiva, il numero di 9519 uccisioni fornito dalla Direzione generale di Pubblica Sicurezza nell’ottobre 1946. Numero che Mirco Dondi porta a 9911 uccisi accogliendo ulteriori dati scaturiti da studi analitici compiuti nelle province di Modena e di Reggio Emilia 547.

Nel concludere il suo bel libro, Ritorno a Montefiorino, che è un po’ il suo testamento spirituale, l’ex comandante partigiano cattolico ed ex ministro del Lavoro Ermanno Gorrieri scrive ricordando il vittimismo fascista:

 

Molta rabbia si era accumulata negli animi. Era impossibile che non esplodesse dopo il 25 aprile. Violenza chiama violenza. I delitti che hanno colpito i fascisti dopo la Liberazione, anche se in parte furono atti di giustizia sommaria, non sono giustificabili, ma sono comunque spiegabili con ciò che era avvenuto prima e con il clima infuocato dell’epoca. I fascisti non hanno titolo per fare le vittime 548.

 

Trascorsi i giorni difficili ma anche radiosi della Liberazione, per i partigiani smobilitati cominciava un periodo colmo di delusioni, ma anche di rabbia. Ci si consenta un ricordo personale. Il 29 aprile, dopo quattro giorni di combattimenti, riportavo alla famiglia le spoglie di Nino Botti. Aveva il petto squarciato da una pallottola calibro 12,7 sparata da un mezzo blindato alle porte di Piacenza. «I funerali di Nino, ai quali parteciparono le popolazioni di tutta la val Luretta, furono l’ultimo, indimenticabile episodio della guerra civile. Il lunghissimo corteo si snodò, in ripetute spirali, occupando l’intera piazza di Agazzano. C’era una grande tristezza sul volto di tutti, ma anche la consapevolezza che il peggio era ormai alle spalle e che noi, in nome dei nostri morti, avevamo l’obbligo di costruire un futuro migliore» 549. Ma quale futuro? Ci avevano congedati col regalo di un taglio d’abito in tessuto di ginestra, che era talmente scadente e “autarchico” da non tenere neppure i punti. Era la nostra sola liquidazione. Con questa avremmo dovuto cominciare una nuova vita, trovare un impiego, formare una famiglia.

Da un giorno all’altro il generale Crittenberger, comandante del IV corpo d’armata americano, aveva preteso il disarmo di 240.000 partigiani, che erano attaccati alle proprie armi in una maniera quasi morbosa, perché da esse, per tanto tempo, era dipesa la loro sopravvivenza. Il carattere ultimativo, e in definitiva offensivo, della richiesta degli Alleati, finiva per spingere i partigiani a consegnare soltanto le armi più scadenti e a conservare le più nuove ed efficienti. Finivano così nei depositi dei partiti, dal PCI alla DC, dal Pd’A al PSI, tonnellate di armi. «Il disarmo democristiano» ha scritto Paolo Emilio Taviani «fu deciso nell’estate del 1948 in una seduta da me presieduta. […] A farla breve, abbiamo deciso di consegnare ai carabinieri tutte le armi, ad eccezione delle pistole che saranno trattenute e denunciate» 550.

Ma non era soltanto il disarmo coatto delle forze della Resistenza ad alimentare delusioni e rancori. I partigiani guardavano con apprensione il fallimento dell’epurazione e con rabbia l’ondata di arresti di partigiani. Mentre da Coltano venivano rimessi in libertà 35.000 fascisti, alcuni dei quali autentici criminali, nel solo Piemonte venivano incarcerati 1486 partigiani. «Fu questa sensazione di frustrazione e di impotenza» ha osservato Hans Woller «ad alimentare la convinzione che la missione della Resistenza non fosse ancora compiuta e che bisognasse continuare a lottare fino a quando il fascismo e le forze che ancora lo sostenevano non fossero stati definitivamente spazzati via» 551. Si aggiunga che, a esacerbare gli animi, era la comparsa provocatoria sulla scena di squadre neofasciste, come le Squadre armate Mussolini (SAM), i Fasci di azione rivoluzionaria (FAR), il Fronte antibolscevico italiano (FAI), l’Onore e combattimento (OC) 552.

Un motivo di grande indignazione era l’epurazione puramente di facciata, che consentiva a criminali come Rodolfo Graziani, Mario Roatta, Junio Valerio Borghese, Piero Brandimarte, Tommaso Brachetti (l’assassino di Duccio Galimberti) e centinaia di altri, di lasciare il carcere dopo pochi mesi o anni di detenzione. Il 9 settembre 1947 il questore di Torino, Giorgio Agosti, scriveva nel suo diario:

Lungo colloquio col ministro Scelba sulla questione dei criminali di guerra di Casale 553. Naturalmente incomprensione assoluta: quello parla di Beccaria e di Sacco e Vanzetti, rievoca i «massacri del Nord» e altre sciocchezze. Io sostengo con forza il mio punto di vista: si debbono eseguire le sentenze definitive dell’autorità giudiziaria se non si vuole esaustorare del tutto il governo; se si vogliono accordare grazie, si abbia il coraggio di dirlo chiaro, così che tutto il paese sappia che i seviziatori e i massacratori neri hanno salvato la vita grazie al tenero cuoricino di De Nicola 554.

La frustrazione e l’indignazione dei partigiani sarebbero state anche maggiori se soltanto avessero saputo ciò che oggi noi sappiamo da quando sono stati desecretati i documenti dell’Office of Strategic Services (OSS). Da queste carte apprendiamo che già nell’ottobre 1945 diciotto ex ufficiali e graduati della Decima flottiglia MAS erano utilizzati «presso una base sperimentale alleata, a Venezia, e che tali elementi sono da considerarsi discriminati e immuni da qualsivoglia accusa o attività svolta finora» 555. Il 6 novembre 1945 James Angleton, dello Special Counter Intelligence (SCI), scriveva al colonnello Earl B. Nichols, al quartier generale delle forze alleate, per suggerirgli di sottrarre il principe Valerio Borghese alla giustizia italiana:

 

Per noi sarà semplice chiedere il rinvio del processo, se il suo comando vorrà inviare una lettera al ministro italiano reclamando che Borghese sia riconsegnato agli Alleati subito dopo il previsto interrogatorio. Saremo così in grado di consultarci con Washington sul futuro sfruttamento delle superiori conoscenze di Borghese nell’ambito delle armi navali segrete e delle tecniche di guerra sottomarina. […] Il sottoscritto è fortemente convinto che Borghese diverrà di grande interesse per lo spionaggio navale americano 556.

 

L’incapacità (o la cattiva volontà) dei governi presieduti da De Gasperi di esercitare la giustizia e di fare dell’epurazione non soltanto uno strumento di giusta punizione, ma la felice occasione per rinnovare gli organi dello Stato, la tolleranza nei confronti delle risorgenti forze neofasciste (quando questa tolleranza non si trasformava in complicità, in funzione anticomunista) sono fattori in larga misura responsabili del prolungamento dello stato di guerra civile. Anche il rapporto tra il Comitato di liberazione nazionale e gli Alleati non era, con il passare del tempo, dei più sereni e costruttivi. Il primo «sospettava gli Alleati di venire a patti con le forze monarchico-reazionarie e di soffocare sul nascere ogni proposito riformatore, il governo militare vedeva nella Resistenza un movimento eversivo che andava assolutamente tenuto sotto stretto controllo per non correre il rischio di dover fare i conti con un altro “caso Grecia”» 557.

In questa atmosfera di diffusa diffidenza e di crescente amarezza, mentre fra i partigiani si diffondeva il convincimento che la Resistenza fosse stata tradita, che il “vento del Nord” avesse cessato di soffiare e che fosse in atto la restaurazione, nell’estate 1946, nelle province di Torino, Cuneo, Asti, Verona, Pavia, Sondrio, Mantova, Milano e Genova alcune migliaia di partigiani riprendevano la strada della montagna, dissotterravano le armi, e anche se la rivolta non dava adito a episodi di violenza, non era però facile da far rientrare perché le richieste erano molte e difficili da soddisfare: come l’abrogazione dell’amnistia voluta da Togliatti, che aveva rimesso in circolazione troppi fascisti; l’allontanamento dai pubblici uffici di molti funzionari compromessi con il fascismo; l’assunzione di partigiani nella polizia e nell’esercito, con l’equiparazione dei gradi.

L’accento era soprattutto posto sull’amnistia, che era avvertita come un errore e una inqualificabile ingiustizia. Ha scritto Gian Enrico Rusconi: «Togliatti non solo non raggiunge il suo obiettivo della riappacificazione nazionale, ma ottiene l’effetto opposto di scontentare tutti, a cominciare dai suoi» 558. Saranno, in gran parte, proprio i partigiani comunisti

– anche se poi definiti schegge impazzite – a compiere nella piena illegalità quell’atroce serie di delitti, tra la fine del 1945 e l’estate 1946, soprattutto in Emilia-Romagna e, in modo particolare, nel “triangolo della morte”. Essi, però, non prenderanno di mira soltanto i fascisti rimasti impuniti, ma esponenti del clero (dei 31 uccisi, soltanto cinque erano stati cappellani della RSI) e un centinaio di proprietari terrieri, visti come affamatori, finanziatori delle squadracce fasciste e affossatori del movimento bracciantile.

Queste forme di giustizia proletaria e selvaggia cessavano nel corso del 1946 quando il PCI e il Corpo volontari della libertà le condannavano pubblicamente. Ma il danno era fatto. I detrattori della Resistenza avrebbero attinto a piene mani nell’episodica più bestiale. Lo fanno ancora oggi, a sessanta anni dagli avvenimenti. In qualche caso giustificando il loro operato con l’obbligo di fare luce su pagine troppo a lungo ignorate o deliberatamente nascoste.

POSTILLA. Sul periodo della guerra civile abbiamo esaminato alcuni quotidiani, molti periodici e un numero consistente di documenti di una parte e dell’altra. Ma, con nostra grande sorpresa, abituati come eravamo a imbatterci nelle più incredibili autoassoluzioni, non abbiamo mai letto frasi che si potessero ricondurre al mito degli «italiani brava gente». Ci siamo, naturalmente, chiesti il perché. Forse la nostra non è la sola valida risposta, ma pensiamo che possa avvicinarsi alla verità. I venti mesi che vanno dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 hanno visto tanta violenza, tanto sangue, tanta esibizione pubblica di corpi martoriati, che a nessuno poteva venire in mente di rispolverare un mito già di per sé inconsistente, e che comunque la realtà brutale di ogni giorno non avrebbe potuto che vanificare. Va anche detto che i fascisti della RSI non hanno mai preteso di essere considerati clementi e generosi. Anzi, nel pieno della lotta, tendevano a esibire la propria ferocia come la loro principale virtù.

484 G. Spini, La strada della liberazione. Dalla riscoperta di Calvino al Fronte della VIII Armata, Claudiana, Torino 2002, p. 90.

485 N. Revelli, Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana, Einaudi, Torino 2003, p. 129.

486 B. Croce, Taccuini di guerra, 1943-1945, Adelphi, Milano 2004, p. 13.

487 Ivi, p. 14.

488 A. Damiano, Rosso e grigio, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 70-71.

489 V. Costa, L’ultimo federale. Memorie della guerra civile, 1943-1945, Il Mulino, Bologna 1997, p. 6.

490 D. Grandi, 25 luglio. Quarant’anni dopo, a cura di R. De Felice, Il Mulino, Bologna 1983, p. 310.

491 E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943, Il Mulino, Bologna 1993, p. 69.

492 A. Pizzoni, I quarantacinque giorni del Governo Badoglio, in Id., Alla guida del CLNAI. Memorie per i figli, Il Mulino, Bologna 1995, p. 42.

493 Grandi, 25 luglio, cit., pp. 369-370.

494 A. Natta, L’altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania, Einaudi, Torino 1997, p. 6. Si vedano inoltre sull’argomento N. Labanca (a cura di), Fra sterminio e sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista, 1939-1945, Le Lettere, Firenze 1992; G. Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, 1943-1945. Traditi, disprezzati, dimenticati, Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico, Roma 1992; G. Caforio e M. Nuciari, «No!» I soldati italiani internati in Germania. Analisi di un rifiuto, Angeli, Milano 1994; G. Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania, 1943-1945, Il Mulino, Bologna 2004.

495 R. Vivarelli, La fine di una stagioneMemoria 1943-1945, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 18-19. Nato nel 1929, Vivarelli ha partecipato alla guerra all’età di 15 anni, oggi insegna Storia contemporanea nella Scuola Normale Superiore di Pisa. Sull’arruolamento dei giovanissimi, si veda A. Gibelli, Ragazzi di Salò, piccoli partigiani, in Id., Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Einaudi, Torino 2005, pp. 366-401; A. Del Boca, Un cuore semplice, in Id., La scelta, Neri Pozza, Vicenza 2006, pp. 147-153.

496 Testimonianza di Massimo Rendina in W.E. Crivellin (a cura di), Cattolici, Chiesa, Resistenza. I testimoni, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 115-134. Comandante partigiano, Massimo Rendina ha preso parte alla liberazione di Torino. Direttore del primo telegiornale RAI, è oggi membro del comitato scientifico dell’Istituto “Luigi Sturzo” per le ricerche storiche sulla Resistenza.

497 E. Forcella, La resistenza in convento, Einaudi, Torino 1999, pp. 216-220. Giornalista e scrittore, Forcella ha lavorato a «La Stampa», «Il Giorno», «la Repubblica». Ha scritto con A. Monticone, Plotone d’esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Laterza, Bari 1968.

498 Damiano, Rosso e grigio, cit., p. 113.

499 R. Liucci, La tentazione della “casa in collina”. Il disimpegno degli intellettuali nella guerra civile italiana, 1943-1945, Unicopli, Milano 1999, p. 36.

500 A. Del Boca, Il mio Novecento, Neri Pozza, Vicenza 2008, p. 58.

501 G. Pansa, Il gladio e l’alloro. L’esercito di Salò, Mondadori, Milano 1991, p. 48. Sulle vicende dell’esercito della RSI, si vedano anche R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1953; F.W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Einaudi, Torino 1963; S. Bertoldi, Salò. Vita e morte della Repubblica sociale italiana, Rizzoli, Milano 1976; G. Bocca, La Repubblica di Mussolini, Laterza, Roma-Bari 1977; R. De Felice, Mussolini l’alleato, vol. II, La guerra civile, 1943-1945, Einaudi, Torino 1997; G. De Luna, A. Mignemi e C. Gentile (a cura di), Storia fotografica della Repubblica sociale italiana, Bollati Boringhieri, Torino 1997; L. Ganapini, La repubblica delle camicie nere, Garzanti, Milano 1999; A. Lepre, La storia della Repubblica di Mussolini. Salò: il tempo dell’odio e della violenza, Mondadori, Milano 1999; S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 2004; P. Chessa, Guerra civile, 1943, 1945, 1948. Una storia fotografica, Mondadori, Milano 2005.

502 Per l’addestramento in Germania delle divisioni Monterosa, Littorio, San Marco e Italia, si veda A. Del Boca, Gesù mio, aiutami, in Id., La scelta, cit., pp. 68-128.

503 I reparti di polizia che praticavano la tortura erano almeno una ventina. Ne citiamo alcuni: banda Bardi e Pollastrini, Chiurco, Finizio, Bernasconi, Fumai, Sorlini, Ruggiero, Pennacchio, Collotti e Gueli, De Santis, De Larderel, Castellanzi, Alfieri e Fiorentini, Bossi.

504 Bocca, Le Repubblica di Mussolini, cit., p. 191. Alcuni protagonisti della Resistenza respingono sdegnosamente la definizione di “guerra civile”. «Fu guerra di liberazione, non guerra civile» ha scritto Paolo Emilio Taviani. «Finché francesi e norvegesi non accetteranno di chiamare guerra civile la loro Resistenza, chiamerò la nostra Resistenza armata guerra di liberazione» (Politica e memoria d’uomo, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 59-60). Su queste posizioni sono anche Guido Quazza, Sergio Cotta, Livio Bianco, Giorgio Agosti, Ermanno Gorrieri. Quest’ultimo ha scritto: «Il ridurre la Resistenza a conflitto fra italiani non tiene conto del fatto che in quei venti mesi c’era un terzo attore in campo: l’esercito tedesco, che aveva, con efficiente brutalità, occupato l’Italia» (E. Gorrieri e G. Bondi, Ritorno a MontefiorinoDalla Resistenza sull’Appennino alla violenza del dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2005, p. 167).

505 Citato in M. Griner, La pupilla del duce. La Legione autonoma mobile “Ettore Muti”, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 107.

506 M. Griner, La “banda Koch”. Il reparto speciale di polizia, 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 211.

507 Sull’attività delle SS italiane, si vedano R. Lazzero, Le SS italiane, Rizzoli, Milano 1982; P. De Lazzari, Le SS italiane, Teti, Milano 2002.

508 S. Luzzatto, Il corpo del duce, Einaudi, Torino 1998, p. 58.

509 M. Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma 1999, pp. 18-19.

510 Citato in Damiano, Rosso e grigio, cit., p. 143. Mussolini e alcuni dei suoi, come Filippo Anfuso, erano persuasi che la creazione della RSI era stata necessaria per preservare l’Italia dalla vendetta di Hitler. Scrive Francesco Germinario: «Nasceva in questo modo la teoria, cui si sarebbe rifatta tutta la pubblicistica neofascista successiva, della RSI come Stato cuscinetto necessario per evitare all’Italia la sorte delle altre nazioni occupate dai nazisti: la Repubblica di Salò, piuttosto che imposta da Hitler a un Mussolini ormai politicamente sfibrato, diveniva, soprattutto grazie alle capacità politiche di quest’ultimo, un ostacolo ai progetti nazisti di “polonizzare” l’Italia» (L’altra memoria. L’estrema destra, Salò e la Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 44).

511 Damiano, Rosso e grigio, cit., p. 157.

512 Vivarelli, La fine di una stagione, cit., p. 104.

513 Ivi, pp. 120-121.

514 G. Agosti e L. Bianco, Un’amicizia partigiana. Lettere 1943-1945, Meynier, Torino 1990, p. 356. Giorgio Agosti, magistrato, durante la Resistenza fu commissario regionale delle formazioni Giustizia e Libertà (GL). Livio Bianco, avvocato, fu dapprima comandante della I divisione GL che operava nel Cuneese; in seguito, dopo l’assassinio di Duccio Galimberti, diventò comandante regionale, sempre delle GL.

515 C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 446-447.

516 Cfr. R. Botta, Il senso del rigore, il codice morale della giustizia partigiana, in M. Legnani e F. Vendramini (a cura di), Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, Angeli, Milano 1990, p. 145.

517 C. Bermani, Giustizia partigiana e guerra di popolo in Valsesia, in Legnani e Vendramini (a cura di), Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, cit., p. 167.

518 Agosti e Bianco, Un’amicizia partigiana, cit., p. 152.

519 Ivi, p. 72.

520 Ivi, p. 179.

521 Pavone, Una guerra civile, cit., p. 473.

522 Del Boca, Il mio Novecento, cit., p. 85.

523 Taviani, Politica e memoria d’uomo, cit., p. 62. Durante la guerra d’Algeria, per fare un esempio, per attriti tra le varie formazioni, furono uccisi non meno di 7000 partigiani. Cfr. G. Meynier, Histoire intérieure du FLN, 1954-1962, Fayard, Paris 2002, pp. 406-445.

524 E. Gorrieri, La repubblica di Montefiorino. Per una storia della Resistenza in Emilia, Il Mulino, Bologna 1966, p. 707.

525 M. Storchi, Sangue al bosco del Lupo. Partigiani che uccidono partigiani: la storia di Azor”, Aliberti, Reggio Emilia 2005, p. 17.

526 A. Conti (a cura di), Albo caduti e dispersi della Repubblica sociale italiana, Istituto storico della Repubblica sociale italiana, Milano 2003.

527 M. Dondi, La Resistenza tra unità e conflitto. Vicende parallele tra dimensione nazionale e realtà piacentina, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 204.

528 Ivi, p. 224.

529 Per un’analisi particolareggiata dei conflitti tra formazioni partigiane, si veda il capitolo «Il peso dei contrasti nel movimento di Resistenza. La sfera militare», in Dondi, La Resistenza tra unità e conflitto, cit., pp. 87-142.

530 Su Alfredo Pizzoni si veda l’articolo di D. Messina, E l’Italia oscurò il capo della Resistenza, «Corriere della Sera», 27 aprile 2005.

531 Cfr. P. Negli, La questione della frontiera orientale italiana tra CLN e Alleati. Deposizione al processo per l’eccidio di Porzus di Alfredo Pizzoni, «Nuova Storia contemporanea», n. 1, 1997, pp. 104-142.

532 Ivi, p. 127.

533 Si veda l’articolo di D. Fertilio, «Chiediamo perdono per la strage di Porzûs», «Corriere della Sera», 10 febbraio 2003.

534 Dondi, La Resistenza tra unità e conflitto, cit., p. 130. Uno studio particolareggiato dei venti mesi di guerra civile si trova, per il Pavese, in G. Guderzo, L’altra guerra. Neofascisti, tedeschi, partigiani, popolo in una provincia padanaPavia 1943-1945, Il Mulino, Bologna 2002; e, per il Varesotto, in F. Giannantoni, Fascismo, guerra e società nella Repubblica sociale italiana. Varese, 19431945, Angeli, Milano 1984; Id., La notte di Salò, 1943-1945. L’occupazione nazifascista di Varese dai documenti delle camicie nere, 2 voll., Edizioni Arterigere, Varese 2001.

535 Costa, L’ultimo federale, cit., p. 272. Sui giorni della Liberazione si vedano due eccellenti ricostruzioni: R. Uboldi, 25 aprile 1945. I giorni dell’odio e della libertà, Mondadori, Milano 2004; E. Ferri, L’alba che aspettavamo. Vita quotidiana a Milano nei giorni di piazzale Loreto, Mondadori, Milano 2005.

536 Croce, Taccuini di guerra, cit., p. 289.

537 Agosti e Bianco, Un’amicizia partigiana, cit., p. 235.

538 H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia, 1943-1948, Il Mulino, Bologna 1997, p. 383.

539 G. Pansa, Il sangue dei vinti. Quello che accadde in Italia dopo il 25 aprile, Sperling & Kupfer, Milano 2003, p. 49.

540 «Documenti di vita italiana», aprile 1954, pp. 2271-2274.

541 Per vendicarsi del rifiuto del CNL di lasciare che le sue truppe attraversassero Torino, il generale Schlemmer metteva in atto a Grugliasco la sua ultima strage uccidendo 66 tra civili e garibaldini.

542 G. Carcano, Note sull’ordine pubblico a Torino dopo la liberazione, «Studi piacentini», n. 8, 1990, p. 81.

543 Ivi, p. 79.

544 Ivi, p. 73. Da una tabella elaborata da Mirco Dondi (La lunga liberazione, cit., p. 97) apprendiamo che le soppressioni di fascisti dal 25 aprile 1945 all’ottobre 1946 sono così suddivise: Torino, 1138; Treviso, 735; Bologna, 675; Milano, 632; Genova, 569; Udine, 472; Savona, 470; Cuneo, 426; Reggio Emilia, 425; Modena, 338; Ferrara, 276; Imperia, 274; Piacenza, 250; Bergamo, 247; Vercelli, 245; Asti, 216; Parma, 209; Sondrio, 208; Alessandria, 178; Novara, 160.

545 R. Lamb, War in Italy, 1943-1945. A Brutal Story, John Murray, London 1993, p. 236.

546 Pansa, Il sangue dei vinti, cit., p. 371.

547 Dondi, La lunga liberazione, cit., p. 93.

548 Gorrieri e Bondi, Ritorno a Montefiorino, cit., p. 183.

549 A. Del Boca, La Resistenza in val Luretta, in V. Poli (a cura di), Gazzola. Emergenze e territorio, Comune di Gazzola 2002, p. 243.

550 Taviani, Politica e memoria d’uomo, p. 134.

551 Woller, I conti con il fascismo, cit., p. 386.

552 Cfr. S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni Novanta, Marsilio, Venezia 1992, pp. 30-32.

553 Erano responsabili della fucilazione di 13 partigiani avvenuta il 15 gennaio 1945.

554 G. Agosti, Dopo il tempo del furore. Diario 1946-1988, Einaudi, Torino 2005, p. 12.

555 N. Tranfaglia, Come nasce la Repubblica. La mafia, il Vaticano e il neofascismo nei documenti americani e italiani, 1943-1947, Bompiani, Milano 2004, p. 60.

556 Ivi, pp. 64-65.

557 Woller, I conti con il fascismo, cit., p. 386.

558 G.E. Rusconi, Resistenza e postfascismo, Il Mulino, Bologna 1995, p. 169.

13. Tutti ricchi, tutti felici, tutti anticomunisti

Siamo così giunti alla fine del nostro lungo viaggio attraverso centocinquant’anni di storia nazionale. Nel corso di questo viaggio ci siamo spesso imbattuti in episodi di particolare ferocia, che hanno coinvolto militari e civili, in misura sempre crescente. Sullo sfondo, la guerra. Ma non sempre la guerra, a giustificare gli eccessi. Alcuni episodi di singolare violenza si sono verificati, in colonia, in periodi di assoluta quiete e mentre si esaltavano i risultati di una meritevole missione civilizzatrice.

Come abbiamo potuto vedere, le responsabilità di questi brutali comportamenti vanno soprattutto addebitate a minoranze che perseguivano, spesso a imitazione di progetti stranieri e coevi, programmi di espansione imperialistica e, all’interno del paese, l’edificazione di uno Stato forte, in grado di competere con le nazioni vicine e persino di esportarvi la propria dottrina. Abbiamo anche visto che cosa può accadere quando un leader, come Mussolini, inserisce nel proprio progetto la trasformazione di una popolazione, come quella italiana, ancora prevalentemente contadina e complessivamente mite, in una stirpe di crudeli guerrieri, supplendo alla mancanza di tradizioni militari, con imperativi demenziali come quello che recita: «credere, obbedire, combattere». Si tratta di operazioni rischiose che, anziché produrre ottimi soldati, generano fanatici e tagliaborse, come abbiamo visto nel descrivere le operazioni repressive in Etiopia e nei Balcani.

Gli episodi che riportiamo in questo libro costituiscono, ovviamente, una scelta e non l’insieme delle imprese delittuose compiute da italiani negli ultimi centocinquant’anni, anche se sicuramente rappresentano gli avvenimenti più gravi. Per esempio, siamo entrati nell’inferno del penitenziario di Nocra, ma il lager di Danane, con i suoi 3175 morti per fame e malattia, non è stato meno agghiacciante. Così, nel capitolo che dedichiamo alla resistenza libica, ci siamo soffermati troppo poco sulla disperata vita quotidiana dei

100.000 libici internati nei quindici campi di concentramento della Sirtica. Non esagerava Muammar Gheddafi quando, il 7 ottobre 1975, dichiarava in un suo discorso celebrativo dell’anniversario della cacciata degli italiani:

 

Ciò che l’Italia ha commesso nella località di el Agheila rappresenta oggi una lezione storica per l’umanità e un tragico esempio di aggressione, brutalità e barbarie. Esso rispecchia l’arroganza dei forti quando aggrediscono i popoli poveri e deboli 559.

 

Anche affrontando le vicende del vicereame di Rodolfo Graziani in Etiopia ci siamo limitati a illustrare le conseguenze nefaste dell’attentato del 19 febbraio 1937, trascurando il quotidiano scempio di un popolo, dei suoi beni, della sua cultura. Si vedano, per un più approfondito esame, nella loro scarna prosa, i due volumi firmati dal generale Ugo Cavallero, comandante superiore delle forze armate dell’Africa Orientale Italiana, sui continui e feroci rastrellamenti operati nel 1938 nello Scioa, nel Goggiam, nel Beghemeder, nell’Ancoberino, con un bilancio di alcune decine di migliaia di morti, in gran parte innocenti contadini 560. Si veda, tra i diari storici delle bande irregolari, quello del maggiore Piero Farello, che per tre anni si arroga il diritto di vita e di morte sulle popolazioni di intere regioni etiopiche, incendia i villaggi, ne sopprime le popolazioni, autorizza le peggiori razzie 561. Non diverso il comportamento del tenente Ettore Formento 562 e di centinaia di altri ufficiali ai quali è delegato il compito di sterminare un popolo e ai quali è assicurata la piena impunità.

Dovendo operare una forte selezione degli episodi di violenza, non ci siamo inoltre occupati del corpo di spedizione italiano in Spagna, nel corso della guerra civile. Va però almeno focalizzata la figura di un autentico criminale, lo squadrista bolognese Arconovaldo Bonaccorsi, inviato espressamente da Mussolini nell’isola di Maiorca per organizzarvi la lotta contro il legittimo governo repubblicano. «Vestito della nera uniforme fascista, con alti stivali neri e una croce bianca al collo, coperto di pistole, bombe a mano, pugnali e cartucciere, esercitò un grande fascino sugli isolani e presto cinquanta giovani costituirono i “dragoni della morte” agli ordini del “conte Rossi”» 563. Lo scrittore francese Georges Bernanos, che nell’estate 1936 viveva a Maiorca, riferisce nel suo celebre libro I grandi cimiteri sotto la luna 564 che fra settembre 1936 e marzo 1937 Bonaccorsi e i suoi sgherri hanno messo a morte almeno 3000 repubblicani, per lo più senza processo.

Sempre per i motivi già esposti, trattando il periodo dell’occupazione italiana dei Balcani, ci siamo limitati a descrivere le operazioni nella sola provincia di Lubiana, trascurando i gravi fatti accaduti in Dalmazia, Croazia, Montenegro, Albania, Grecia e Dodecaneso. Abbiamo infine ignorato del tutto, per la mancanza di una documentazione accessibile, il comportamento dei 200.000 soldati inviati da Mussolini in Unione Sovietica per affiancare, in posizione subalterna, le armate tedesche. Uno dei pochi studiosi che sta cercando di colmare questa lacuna, lo storico tedesco Thomas Schlemmer, pur non paragonando i crimini dei nazisti a quelli compiuti dal corpo di spedizione fascista, precisa tuttavia che l’anticomunismo degli italiani

 

mescolato al razzismo e all’antisemitismo, finì per produrre una miscela aggressiva. […] Effettivamente si sa di efferatezze commesse da soldati italiani non solo sulla popolazione civile, ma soprattutto nei confronti dei prigionieri di guerra. Nel dicembre del 1941 il membro di un’unità di riparazioni fu testimone di un terribile delitto: alcuni soldati sovietici furono bagnati con la benzina e poi bruciati da un gruppo di carabinieri italiani 565.

 

Anche se incompleto, il quadro che presentiamo dei crimini di guerra compiuti da italiani negli ultimi centocinquant’anni ci sembra tuttavia sufficiente per poter formulare un severo giudizio di condanna. Ciò non vuol dire che gli italiani guidino la classifica delle imprese delittuose. Essi sono però alla pari – certamente secondi ai nazisti – degli altri popoli che, nello stesso periodo di tempo, hanno promosso campagne coloniali e hanno preso parte agli ultimi due conflitti mondiali. Gli italiani, però, si differenziano nettamente dagli altri popoli per il continuo ricorso a uno strumento autoconsolatorio, il mito degli «italiani brava gente», che ha coperto, e continua a coprire, tante infamie. Ha scritto David Bidussa: «Un luogo comune si ripresenta ogniqualvolta il tema dell’antisemitismo torna a essere discusso in Italia: la naturale estraneità degli italiani a questo “virus”. Italia isola felice, dunque?, e “italiani brava gente”? È rassicurante questa asserzione, oppure no? Personalmente la ritengo assolutamente priva di significato e un prodotto di falsa coscienza» 566. In realtà, gli italiani non furono affatto estranei a questo “virus” dopo le leggi razziali del 1938 e soprattutto durante i venti mesi della RSI, nel corso dei quali le autorità di Salò consegnarono 2210 ebrei ai nazisti pur sapendo quale fine atroce avrebbero fatto 567.

Per nostra fortuna, a partire dal 1945 l’Italia non ha più conosciuto l’orrore e le rovine delle guerre, anche se non sono mancate serie minacce di coinvolgimento. Ha scritto Paolo Emilio Taviani: «Come ministro della Difesa per cinque anni e dell’Interno per otto, posso testimoniare che durante la prima Repubblica ci fu ben tre volte, se non addirittura quattro, il rischio di una terza guerra europea che avrebbe coinvolto l’Italia: nel 1950 (Corea), nel 1956 (Suez e Ungheria), nel 1961 (Cuba), nel 1968 (Cecoslovacchia)» 568. L’Italia, dunque, da sessant’anni conosce i benefici della pace. Ciò le ha consentito di compiere in pochi anni una radicale ricostruzione del paese, fortemente danneggiato dalla guerra, di aumentare il suo benessere e di poter entrare nel piccolo e privilegiato gruppo dei paesi più industrializzati del mondo.

Ciò non vuol dire, però, che i sessant’anni di pace con i paesi vicini siano trascorsi nella quiete e nella concordia. Possiamo anzi dire che in Italia, dal 1945 al 2005, è accaduto di tutto: dai tentativi di colpo di Stato alle minacce di secessione; dalle sommosse contadine, represse brutalmente, alle alleanze tra il brigantaggio siciliano e la mafia; dalla strategia della tensione al terrorismo di destra e di sinistra; dalla colossale e inarrestabile migrazione dal Sud verso il “triangolo industriale” alla rivolta di Reggio Calabria; dall’uccisione di Aldo Moro alla scoperta della loggia P2 e dei suoi disegni eversivi; dalla liquidazione degli uomini simbolo dell’antimafia (Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) a “mani pulite”, alla crisi della prima Repubblica e alla “discesa in campo” di Silvio Berlusconi.

Particolarmente inquieti gli anni che vanno dal 1960 al 1964, allorché il centrismo aveva fatto la sua stagione e l’apertura ai socialisti era ancora contrastata dall’ala destra della Democrazia cristiana, dalle gerarchie cattoliche e dagli Stati Uniti. Affidando a Fernando Tambroni l’incarico di formare il governo, il presidente Gronchi era convinto che avrebbe imbarcato i socialisti. Tambroni, invece, virava decisamente a destra, sdoganava i neofascisti del Movimento sociale italiano (MSI) e formava il governo con i loro voti, che risultavano decisivi. L’inattesa virata a destra di Tambroni non soltanto sorprendeva e preoccupava i suoi compagni di partito, ma metteva in allarme le sinistre che vedevano nel ricorso ai voti neofascisti una insopportabile provocazione. Quando, infine, il MSI decideva di indire il suo sesto congresso a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, il clima si faceva infuocato, e mentre gli antifascisti organizzavano dimostrazioni in tutto il paese, la polizia caricava i cortei e uccideva un dimostrante a Licata, cinque a Reggio Emilia, due a Palermo, uno a Catania. «Dal 1945» ha giustamente rilevato Francesco

M. Biscione «mai il paese era stato così vicino alla guerra civile» 569.

Quattro anni dopo, a seguito delle dimissioni del presidente del Consiglio Aldo Moro, il comandante dei carabinieri, generale Giovanni De Lorenzo, supponendo che il momento fosse particolarmente critico e che avrebbe richiesto misure straordinarie per la difesa dell’ordine pubblico, decideva di attivare il piano Solo, che aveva elaborato su richiesta del presidente della Repubblica Antonio Segni. Il 26 giugno De Lorenzo convocava a Roma i capi delle tre divisioni dei carabinieri e consegnava loro copia del piano Solo, che prevedeva, oltre all’occupazione dei luoghi strategici, l’arresto di alcune centinaia di personalità politiche e il loro internamento nella base militare di Capo Marargiu, in Sardegna. Il 22 luglio 1964 la crisi governativa si risolveva e il piano Solo veniva rimesso nel cassetto. Per un soffio, l’Italia aveva evitato una catastrofe.

Ma quello avviato da De Lorenzo, su incarico di Segni, non fu il solo golpe non andato in porto. Nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 il principe Junio Valerio Borghese dava il via a un’operazione che aveva come obiettivi i Ministeri dell’Interno e della Difesa, la RAI e gli impianti telefonici. Militanti di Avanguardia nazionale occupavano, con la presumibile complicità di funzionari, il Ministero dell’Interno. Ma a questo punto l’operazione veniva interrotta, molto probabilmente perché alcuni cospiratori avevano cambiato idea. Nel tentato golpe era coinvolto anche un gruppo di mafiosi siciliani con i quali, del resto, il principe Borghese era in contatto sin dall’estate 1944 570. Colpito da un mandato di cattura, il principe si rifugiava in Spagna.

Ma il periodo più nero per il paese, in cui sono state messe a repentaglio tutte le conquiste del dopoguerra, a cominciare dagli istituti democratici, è quello che ha visto le stragi di piazza Fontana e di via Fatebenefratelli a Milano, di piazza della Loggia a Brescia, i morti sul treno Italicus e l’eccidio alla stazione di Bologna. Tra il primo gennaio 1969 e il 31 dicembre 1987 si sono verificati in Italia

14.591 atti di violenza con motivazione politica, con un bilancio di 491 morti e 1181 feriti. Hanno scritto Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri:

 

Cifre da guerra che non hanno uguali in nessun altro paese europeo. Di fronte alle quali per anni ci siamo chiesti, per trovare una risposta: perché tante stragi in Italia? Perché i loro responsabili sono stati troppo spesso protetti e coperti? E perché, una volta sconfitto il terrorismo nero, si è lasciato che quello rosso crescesse fino a minacciare il cuore stesso dello Stato? 571.

 

Sono domande per le quali ancora oggi, a due decenni dagli “anni di piombo”, manca una risposta soddisfacente. È appena di ieri, primo giugno 2005, infatti, la condanna a cinque ergastoli per i componenti dell’ultimo nucleo delle Brigate Rosse, responsabili dell’assassinio del professor Marco Biagi. Sarà l’ultimo nucleo? Sarà l’ultima sentenza?

Il 17 febbraio 1992 l’ingegner Mario Chiesa, socialista craxiano e presidente del Pio Albergo Trivulzio, cadeva nella trappola tesagli dal sostituto procuratore Antonio Di Pietro e veniva tratto in arresto per corruzione. Cominciava così l’indagine di “mani pulite”, del pool dei giudici di Milano, che in dieci anni avrebbe inquisito oltre 5000 persone e chiesto il rinvio a giudizio per 3200. Dopo gli anni dello stragismo e del terrorismo di destra e di sinistra, la campagna castigatrice di “mani pulite” veniva accolta dall’opinione pubblica con un calore e un entusiasmo senza precedenti. La giustizia, in Italia, per la sua esasperante lentezza, non aveva mai goduto di molta popolarità, ma l’iniziativa milanese modificava di colpo il giudizio. Finalmente si assisteva ai prodigi di una giustizia efficiente e pronta, che colpiva implacabilmente corrotti e corruttori, ladri e intrallazzatori, e soprattutto quei politici, di ogni colore, che si erano soprattutto distinti per l’avidità di potere e di denaro. Hanno scritto Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio:

 

L’inchiesta dei magistrati milanesi raccoglie, a mano a mano che emerge la rete di corruzione della politica, un sostegno di massa che si trasforma in tifo. La disaffezione verso i partiti uscita dalle urne il 5 aprile si traduce in una diffusa, trasversale, profonda adesione all’azione dei magistrati, e soprattutto di Antonio Di Pietro. I mass media ne esaltano la figura descrivendolo come l’uomo che sta ripulendo e rinnovando il sistema politico italiano. E la popolarità dei PM tocca vette inimmaginabili 572.

 

Ma il consenso popolare, anche se a dare un chiaro appoggio all’offensiva anticorruzione era sceso in campo lo stesso presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, non poteva durare a lungo. Troppi interessi stava colpendo l’inchiesta della magistratura, che aveva, per cominciare, spazzato via partiti politici del peso e della tradizione della DC e del PSI. E poi aveva sconvolto i meccanismi delle tangenti. Costretto al suicidio alcuni inquisiti e alla fuga in Tunisia un leader del livello di Bettino Craxi. Quegli stessi giornali che avevano portato in trionfo Di Pietro e i suoi colleghi del pool, ora chiedevano la fine dell’inchiesta devastatrice perché, dicevano, la magistratura non può mai sostituirsi alla politica.

Uno degli imprenditori che aveva tutto l’interesse a interrompere la marcia del pool di Milano, cominciando col delegittimarlo, era Silvio Berlusconi. Dinamico palazzinaro degli anni Sessanta, aveva in seguito fatto un salto di qualità entrando nel mondo delle assicurazioni, delle banche, della grande distribuzione, della pubblicità, dell’editoria, della televisione. Nel gennaio 1994, infine, faceva un ulteriore passo in avanti entrando nell’arena politica, spinto soprattutto dall’urgenza di mettere al riparo le proprie aziende che erano entrate nel mirino della giustizia. Pur non possedendo alcuna esperienza politica, ma sicuramente le qualità del venditore e del grande comunicatore, riusciva a mettere insieme una coalizione di partiti, anche se decisamente eterogenea, sdoganando i neofascisti, imbarcando i “lumbard” della Padania, raccogliendo frange di superstiti dei vecchi partiti della prima Repubblica e creando da zero, in pochissimo tempo, un nuovo partito, Forza Italia, «inventata, promossa e organizzata direttamente da Publitalia, l’azienda di pubblicità della holding Fininvest, con una campagna di marketing di straordinaria efficacia» 573.

Con questo strumento, che presentava alcuni aspetti innovatori, e approfittando della disaffezione degli italiani nei riguardi dei vecchi partiti, conseguiva nelle elezioni politiche del 1994 una netta vittoria. E anche se veniva presto disarcionato, per il “tradimento” della Lega Nord, non si perdeva d’animo, non rinunciava alla lotta. Nei quasi sette anni che restava all’opposizione, Berlusconi trasformava Forza Italia in un’efficace macchina elettorale, «capace» come ha osservato Paul Ginsborg «di mobilitare consensi attraverso una presenza capillare sul territorio dell’intera penisola» 574. Sfoderando, poi, le sue doti di comunicatore e di abile piazzista, alla vigilia delle elezioni del 2001 si presentava a 15 milioni di famiglie italiane con un accattivante opuscolo, dal titolo Una storia italiana, che costituiva un pressante invito a votare un uomo leale, carismatico, circondato da una famiglia bella e felice, sponsor di una grande squadra di calcio, e soprattutto un imprenditore di enorme successo, tanto da entrare nella classifica degli uomini più ricchi della Terra. Si aggiunga il sorriso, continuo, rassicurante, che invitava all’ottimismo, che sembrava promettere un futuro sicuro, radioso. E, infine, che c’è di più incoraggiante di un uomo che ama i fiori, che li coltiva, che si fa fotografare in giardini da paradiso?

Questa felice operazione dava i suoi frutti. La Casa delle libertà otteneva il 13 maggio 2001 la maggioranza dei seggi tanto alla Camera quanto al Senato, con ampi margini per governare senza impacci. Per corredare questa strepitosa vittoria con qualcosa di veramente spettacolare, Berlusconi compariva dinanzi alle telecamere per sottoscrivere un “contratto con gli italiani”, con i quali si impegnava solennemente a non ricandidarsi nel 2006 se non avesse realizzato, durante i cinque anni della legislatura, i punti principali del suo programma. Oggi, mentre scorre velocemente l’ultimo anno del suo governo, dobbiamo constatare che non è riuscito a mantenere le tante, troppe promesse, e che quel suo atto di smisurato orgoglio dinanzi alle telecamere sta per ritorcersi contro di lui.

Il perché del suo fallimento lo spiega uno studioso, come Giorgio Bocca, che dal momento in cui Berlusconi è “sceso in campo” non lo hai mai perso di vista e gli ha dedicato libri e centinaia di articoli:

 

Una schiacciante maggioranza non gli basta. Ne vuole una assoluta, tre reti televisive non gli bastano, le vuole tutte e in tutte impone i propri uomini. Il paese ha un bisogno urgente, disperato di buona politica e lui gli dà del cattivo spettacolo, della cattiva retorica, se ne sta via un mese per farsi fare un lifting al viso. Sa benissimo, e lo dice, che metà degli italiani lo «odia visceralmente», ma continua a provocarli, a umiliarli. Non sopporta freni e consigli. Se le istituzioni bocciano le sue leggi eversive le fa riproporre, appena ritoccate, dalla maggioranza 575.

 

La grande forza di Berlusconi – ma è anche la sua debolezza – è quella di negare, nei momenti per lui difficili, l’evidenza dei fatti. Qualsiasi altro leader politico, dopo la dura sconfitta nelle regionali del 2005, si sarebbe affrettato a compilare un programma per rilanciare il proprio governo. Berlusconi no. Incassa il colpo, evita di commentarlo, e reagisce proponendo agli alleati la creazione di un partito unico, monolitico, da usare come una spada contro gli avversari che avanzano in ordine sparso. È la sua ultima carta e la gioca spavaldamente, nel momento in cui, forse troppo frettolosamente, molti annunciano la fine del berlusconismo, e si ripete, per l’ennesima volta nel nostro paese, lo spettacolo indecente del trasformismo 576.

Un altro esempio di negazione dell’evidenza dei fatti Berlusconi lo fornisce nella primavera 2005, quando, quasi ogni giorno, il commissario europeo per gli Affari economici, lo spagnolo Joaquín Almunia, gli ricorda che i conti italiani non tornano, che il deficit è eccessivo, e che è necessaria una pesante manovra correttiva. Berlusconi, indignato, nega. Al premier britannico Tony Blair, che è in visita in Italia, dichiara invece che l’Italia gode, dal punto di vista economico, di una perfetta salute, e che gli italiani sono sempre più ricchi e felici.

Questa dichiarazione, peraltro non nuova, non è di poco conto. Essa rivela un progetto, a lungo caldeggiato da Berlusconi, e forse il più ambizioso, per il quale il leader di Forza Italia entra di diritto nella nostra inchiesta sul destino degli italiani. Come ha fatto acutamente osservare Giovanni De Luna,

 

il progetto di «fare gli italiani» rivive nella destra al governo inseguendo la costruzione di un’identità nazionale totalmente radicata in una nettissima coincidenza tra valori e interessi materiali. A prescindere dai riferimenti etnici e territoriali, Berlusconi invita infatti tutti gli italiani del Nord e del Sud a riconoscersi in un’appartenenza comune definita intorno alle categorie del mercato, della produzione e dello sviluppo economico. In rotta di collisione con tutti gli strumenti dell’artificialismo politico che hanno segnato gli altri progetti novecenteschi del «fare gli italiani», sembra voler attingere a una illimitata fiducia nel progresso materiale e nell’accrescimento dei beni e delle merci, ritenendoli in grado di riassorbire o almeno attenuare le differenze e di costituire una «nazione» in cui ci si senta tutti «figli dello stesso benessere». […] Dopo il buon padre di famiglia della tradizione cattolico-rurale, l’operaio di Borgo San Paolo della tradizione comunista, si delinea un altro modello di italiano – totalmente definito dalla coppia “casa-capannone” – a cui improntare il progetto di costruire la nostra identità nazionale 577.

 

Ancora una o due legislature all’insegna della Casa delle Libertà – se il centrosinistra non si sveglia e non si ricompatta – e il nuovo modello di italiano sarà pronto. Questo cittadino del XXI secolo si presenta dunque come un grande lavoratore e produttore, ma anche come un instancabile consumatore di beni che possano attestare che ha conseguito uno status invidiabile. Ha il culto del capo, che oltretutto rappresenta il Bene, e nei suoi confronti manifesta un’assoluta lealtà. Tra i programmi politici, predilige quello che contempla la riduzione delle tasse, il blocco dell’immigrazione dai paesi extracomunitari, una decisa riforma del sistema giudiziario, in modo particolare per la sua azione inquisitoria. Poiché non viene incoraggiato a dare importanza all’integrità, alla trasparenza, all’onestà dei leader politici, non è neppure interessato al rinnovamento morale del paese e a una legge che blocchi il conflitto di interessi. È propenso a operare una completa rimozione del passato fascista, razzista, colonialista, ma si guarda bene dal minimizzare il pericolo comunista, anche se è svanito con il crollo del muro di Berlino. Pensa che la mafia non rappresenti una seria minaccia, che sia concentrata in Sicilia e Calabria e che, comunque, si possa convivere con essa. Non è più in grado, infine, sotto il continuo e massiccio bombardamento di immagini, di fare una distinzione tra la tivù formativa e la tivù spazzatura. Non è neppure un uomo di frequenti e raffinate letture e spesso ha difficoltà a rintracciare un paese sulla carta geografica. È informatizzato, anche se non sempre sa usare gli strumenti: l’importante è possederli.

Questo modello di italiano, un chiaro prodotto del consumismo, dell’ignoranza e dell’egoismo, non è certo, anche se è l’ultimo, il modello immaginato da Massimo d’Azeglio e dagli altri padri della patria. Ma, per nostra fortuna, si tratta di un modello ancora in gestazione (benché alcuni esemplari siano già in circolazione) e si può ancora bloccarlo. Perché il paese, nonostante i suoi guai e le tare vecchie e nuove che siamo venuti elencando in queste pagine, è molto migliore di quanto non appaia. È ancora capace di grandi rifiuti, di immense mobilitazioni, di scelte coraggiose. Noi siamo persuasi che un giorno, forse neppure lontano, quando cesseranno del tutto le rimozioni e le false revisioni; quando non ci saranno più carte da nascondere in qualche “armadio della vergogna” e tramonterà la leggenda del «fascismo buono» e del confino di polizia gabellato da Mussolini come un luogo di villeggiatura 578; allora si potrà finalmente seppellire anche il falso mito degli «italiani brava gente», che ha coperto e assolto troppe infamie.

Un fatto significativo, che equivale a una benefica inversione di tendenza, è il comportamento squisitamente professionale tenuto dai contingenti di truppe italiane inviati, negli ultimi vent’anni, in missioni di peacekeeping in Libano, Bosnia, Albania, Kosovo, Timor Est, Mozambico, Afghanistan e Iraq. Dovendo fare dei confronti, si può persino sostenere che i militari italiani si sono comportati meglio dei colleghi degli altri contingenti. E non è poco, se si pensa al passato 579.

 Ma questa non è la sola, confortante, novità. C’è anche un esercito, in Italia, che non indossa divise, che non porta armi, che non ha caserme. Un esercito di milioni di giovani e di non più giovani, che si va ingrossando ogni anno e che è tenuto insieme dall’amore verso il prossimo, da una grande, infinita, disponibilità a lenire i patimenti e le angosce degli altri. È l’esercito dei quattro milioni di volontari, che ogni giorno, in silenzio, quasi in segreto, scende nelle strade dell’Italia e del mondo per combattere la sofferenza nei suoi mille aspetti. È un esercito composto da 38.000 organizzazioni, che opera nell’ambito della sanità, della protezione civile, del servizio ambulanze, dell’assistenza domiciliare ai malati e ai disabili, del doposcuola ai bambini e del sostegno agli immigrati. Un esercito senza generali, senza mostrine, senza medaglie, senza fanfare, che non percepisce salari e il cui solo compenso si esaurisce e si esalta nel gesto d’amore. Se ci sono italiani che meritano di essere definiti «brava gente», nell’accezione vera, non autoassolutoria, non mitizzata, questi sono proprio gli splendidi e umili operai del volontariato.

559 Citato in E. Salerno, Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale italiana, 1911-1931, manifestolibri, Roma 2005, p. 17.

560 U. Cavallero, Gli avvenimenti militari nell’impero. Dal 12 gennaio 1938 al 12 gennaio 1939, 2 voll., Ufficio Centrale Topocartografico, Addis Abeba 1939.

561 DEPA, Bande irregolari dello Uollo, «Diario storico», dattiloscritto di 153 pagine, a cura del maggiore P. Farello. Sulle operazioni di Farello, si veda A. Del Boca, Le bande irregolari indigene a caccia di partigiani in Etiopia, «Studi piacentini», n. 11, 1992, pp. 137-162.

562 E. Formento, Kai Bandera. Etiopia 1936-1941: una banda irregolare, Mursia, Milano 2000. Il libro del generale Formento è un documento insolito, scritto con una franchezza che a volte rasenta la brutalità. L’autore non fa nulla per nascondere gli aspetti più violenti, più crudeli del suo operato in Etiopia. Non usa perifrasi, non stende veli, non cerca comprensione, non esprime pentimenti, non invoca perdono. È stato, per cinque anni, una perfetta macchina da guerra, come Mussolini aveva sperato. E ciò non ha impedito che, nel dopoguerra, diventasse capo di stato maggiore delle forze atlantiche del Sud Europa.

563 J.F. Coverdale, I fascisti italiani alla guerra di Spagna, Laterza, Roma-Bari 1977, p. 128.

564 G. Bernanos, I grandi cimiteri sotto la luna (1938), il Saggiatore, Milano 1963.

565 Dall’articolo di Simonetta Fiori, Il volto feroce dei nostri soldati. Italiani, brava gente? I documenti lo negano, «la Repubblica», 14 aprile 2005. Le dichiarazioni di Thomas Schlemmer sono estrapolate dal suo intervento a Roma del 14 aprile 2005, nell’ambito del convegno «L’Asse in guerra» promosso dall’Istituto storico germanico.

566 D. Bidussa, Il mito del bravo italiano, il Saggiatore, Milano 1944, p. 12.

567 Ivi, p. 65. Per la complicità delle autorità di Salò con quelle naziste nello sterminio degli ebrei, si veda A. Carioti, Mussolini partecipò all’orrore della Shoah. Lo storico Sarfatti: ci fu un accordo Berlino-Salò per la consegna degli ebrei italiani alle SS naziste, «Corriere della Sera», 24 gennaio 2005.

568 P.E. Taviani, Politica e memoria d’uomo, Il Mulino, Bologna 2002, p. 413.

569 F.M. Biscione, Il sommerso della Repubblica. La democrazia italiana e la crisi dell’antifascismo, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 84. Il proposito di Tambroni di riabilitare i neofascisti era già stato da lui manifestato più di un decennio prima, come ricorda Enzo Santarelli: «Non sembra irrilevante notare come già nel 1946 un uomo come Tambroni avesse proposto, nel corso della campagna elettorale per il 2 giugno, l’abbandono di ogni politica chiaramente antifascista» (Fascismo e neofascismo. Studi e problemi di ricerca, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 253).

570 La scoperta che i rapporti tra Borghese e il bandito Giuliano risalivano al lontano 1944 è stata fatta dallo storico Giuseppe Casarrubea lavorando nei National Archives di College Park nel Maryland. Si veda V. Vasile, Salvatore Giuliano arruolato dalla X Mas, «l’Unità», 30 aprile 2005.

571 G. Fasanella, C. Sestieri e G. Pellegrino, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Einaudi, Torino 2000, p. V. Sugli “anni di piombo” si veda G. Galli, Piombo rosso. La storia completa della lotta armata in Italia dal 1970 a oggi, Baldini, Castoldi, Dalai, Milano 2004.

572 Per una storia esauriente di “tangentopoli” si veda G. Barbacetto, P. Gomez e M. Travaglio, Mani pulite. La vera storia, Editori Riuniti, Roma 2002, citazione a p. 33.

573 S.J. Wolf, Crisi di un sistema e origini di una destra, in G. Santomassimo (a cura di), La notte della democrazia italiana. Dal regime fascista al governo Berlusconi, il Saggiatore, Milano 2003, p. 63.

574 P. Ginsborg, Berlusconi. Ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica, Einaudi, Torino 2003, p. 11.

575 G.Bocca, L’Italia l’è malada, Feltrinelli, Milano 2005, p. 17.

576 Come riferisce Roberto Petrini, «il fenomeno del trasformismo, cioè del passaggio da un gruppo parlamentare all’altro, ha raggiunto proporzioni inaudite. Nel periodo dal 1996 al 1999 hanno cambiato casacca 261 deputati e 129 senatori» (Il declino dell’Italia, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 130).

577 G. De Luna, Introduzione a Santomassimo, La notte della democrazia italiana, cit., pp. 31-32.

578 Si veda S. Corvisieri, La villeggiatura di Mussolini. Il confino da Bocchini a Berlusconi, Baldini, Castoldi, Dalai, Milano 2004.

579 Un solo neo. Durante la missione Restore Hope in Somalia, alla quale partecipò anche un contingente italiano, furono denunciati alcuni casi di violenza su prigionieri somali. Correva l’anno 1993, i fatti accaddero al campo di Johar.