venerdì 2 aprile 2021

MIRIAM Estratto da "Un Natale e altri racconti" Truman Capote

MIRIAM 

Estratto da "Un Natale e altri racconti" 

Truman Capote 

Da diversi anni la signora H.T. Miller viveva sola nel grazioso appartamentino (due stanze e una cucina) di un nuovo caseggiato accanto a East River. Era vedova: il signor H.T. Miller le aveva lasciato una discreta assicurazione. Si interessava di pochissime cose, non aveva amici con cui parlare e raramente si spingeva oltre la drogheria all’angolo. Gli altri inquilini della casa sembravano non accorgersi di lei; i suoi vestiti erano di un taglio che non dava nell’occhio, i capelli grigio ferro, fissati da forcine, erano qua e là ondulati; non usava cosmetici, i suoi lineamenti erano regolari e comuni, e il suo ultimo compleanno era stato il sessantunesimo. La sua attività era del tutto autonoma: teneva le due stanze nell’ordine più perfetto, fumava qualche volta una sigaretta, si preparava da sola i pasti e accudiva a un canarino. Allora incontrò Miriam. Nevicava quella sera. La signora Miller aveva finito di asciugare i piatti della cena e stava sfogliando un giornale del pomeriggio, quando i suoi occhi caddero sul titolo di un film in programmazione al vicino cinematografo. Il titolo sembrava buono, così si gettò sulle spalle la pelliccia di castoro, infilò le soprascarpe e uscì; lasciò una lampada accesa nel soggiorno, perché nulla la turbava di più dell’oscurità. La neve, finissima, cadeva lentamente, senza lasciare traccia sull’asfalto. Soltanto ai crocicchi, si faceva sentire il vento che soffiava dal fiume. La signora Miller si affrettò, la testa china in avanti, concentrata come una talpa che stia scavando una galleria cieca. Si fermò a un magazzino e comperò un pacchetto di mentini. Davanti allo sportello dei biglietti si stendeva una lunga fila, e lei si mise in coda. C’era da aspettare un po’, per ogni ordine di posti, disse una voce stanca. La signora Miller frugò nella borsetta finché trovò la cifra esatta per il biglietto. Tutti, nella fila, sembravano prendersela molto calma, e, mentre si guardava in giro per distrarsi, lei notò a un tratto una bimba in piedi accanto alla pesante tenda di velluto dell’ingresso. Aveva i capelli più lunghi e più strani che la signora Miller avesse mai visto: color bianco argento, come quelli di un albino, le scendevano, sciolti e soffici, fino al petto. Era sottile e di costituzione minuta. C’era un’eleganza semplice e speciale nel modo in cui teneva le mani infilate nelle tasche del soprabito di velluto color prugna. La signora Miller si sentì stranamente eccitata, e quando la bimba guardò verso di lei le rispose con un sorriso cordiale. La piccola allora le si fece accanto e disse: «Vuole farmi un piacere?». «Volentieri, se appena è possibile», rispose la signora Miller. «Oh, è una cosa semplicissima. Voglio solo che comperi un biglietto per me, altrimenti non mi lasciano entrare. Ecco il denaro». E con una mossa piena di grazia tese alla signora Miller due monete di rame e un nikel. Entrarono assieme. Una maschera le indirizzò a un divano: lo spettacolo avrebbe avuto inizio venti minuti più tardi. «Mi sento proprio come una criminale», disse allegramente la signora Miller, sedendosi. «Voglio dire, qualcuno che si è messo contro la legge, capisci? Spero di non aver fatto nulla di male. Tua madre sa dove sei, cara? Voglio dire, ti ha dato il permesso?». La bimba non rispose. Si slacciò il soprabito e se lo accomodo in grembo. Portava un abito attillato, color azzurro scuro. Dal collo le pendeva una catena d’oro che lei tormentava continuamente con le dita sensibilissime: sembravano le dita di un musicista. Esaminandola con maggior attenzione, la signora Miller decise che il suo tratto più caratteristico non erano i capelli ma gli occhi: color nocciola, decisi, privi di una qualsiasi caratteristica infantile, essi sembravano, nella loro grandezza, concentrare in sé tutto il piccolo viso. La signora Miller le offri un mentino. «Come ti chiami, cara?». «Miriam», rispose, come se, in certo qual modo, si trattasse di una cosa ovvia. «Strano, anch’io mi chiamo Miriam. E non è un nome troppo comune. E adesso non dirmi che il tuo cognome è Miller!». «Miriam soltanto». «Ma è strano!». «Moderatamente», rispose Miriam e, con la lingua, rivoltò in bocca il mentino. La signora arrossì e, a disagio, cambiò posizione. «Hai un vocabolario molto variato per essere così piccola». «Davvero?». «Certo», disse la signora Miller, poi si affrettò a cambiare discorso: «Ti piace il cinema?». «Non lo so davvero», rispose Miriam. «Non ci sono mai stata». Altre donne avevano ormai occupato tutto il divano; in distanza si sentiva lo scoppio delle bombe del documentario. La signora Miller si alzò, stringendo la borsetta sotto il braccio. «Adesso è meglio che io vada, se voglio trovare da sedere», disse. «Molto contenta di averti conosciuta». Miriam assentì con un lievissimo cenno del capo. Per tutta la settimana continuò a nevicare. Sulla strada ruote e passi non davano rumore alcuno, come se la vita continuasse in segreto sotto un velo pallido ma impenetrabile. In quella quiete incombente non v’era né cielo né terra, solo neve che il vento faceva turbinare, che si rapprendeva in ghiaccioli sui vetri, che gelava le stanze, che sprofondava la città in un silenzio di morte. Occorreva tenere sempre una lampada accesa, e la signora Miller perdette il senso dei giorni: venerdì non differiva in nulla da domenica, e la domenica ella si recò alla drogheria: chiusa, naturalmente. Quella sera si cucinò delle uova strapazzate e terminò di malavoglia una fondina di minestra di pomodoro. Poi, infilata una vestaglia di flanella e spalmato il viso di crema, si sdraiò sul letto con una bottiglia d’acqua calda sotto i piedi. Stava leggendo il «Times», quando suonò il campanello della porta. Pensò dapprima che si trattasse di uno sbaglio e che lo sconosciuto, chiunque fosse, se ne sarebbe andato. Ma il campanello continuò a suonare con un trillo insistente. Guardò l’orologio: le undici passate; sembrava impossibile, dato che, alle dieci, lei era sempre addormentata. Scese dal letto e attraversò a piedi nudi la sala. «Vengo, un po’ di pazienza, per piacere». Il catenaccio era chiuso; mentre lei si affannava ad aprirlo il campanello non cessò di trillare neppure per un istante. «Basta», gridò. La serratura cedette e lei socchiuse un poco la porta. «Che c’è, in nome del cielo?». «Buona sera», disse Miriam. «Oh… già, buonasera», rispose la signora Miller, avanzando incerta sul pianerottolo. «Tu sei quella bambina…». «Credevo che non mi avrebbe aperto, ma ho continuato a tenere il dito sul campanello; sapevo che era in casa. Non è contenta di vedermi?». La signora Miller non sapeva che cosa dire. Miriam, notò, portava lo stesso soprabito di velluto color prugna, ma ora aveva un berretto in testa; i suoi capelli bianchi erano divisi in due bande scintillanti strette alle estremità da due enormi fiocchi bianchi. «Dato che ho aspettato tanto, mi permetta di entrare», disse. «È terribilmente tardi…». Miriam la guardò freddamente. «Che cosa importa? Mi lasci entrare. Fa freddo qui, e io ho un abito di seta». Poi, con gesto gentile, scostò la signora Miller ed entrò nell’appartamento. Lasciò cadere su una sedia il soprabito e il berretto. Indossava davvero un abito di seta. Seta bianca. Seta bianca in febbraio! La sottana ben pieghettata, le maniche lunghe emettevano un sottile fruscio, mentre lei girava per la stanza. «Mi piace la sua casa», disse, «mi piace il tappeto, l’azzurro è il mio colore preferito». Toccò una rosa di carta in un vaso sopra il tavolino. «Imitazione», commentò, adagio. «Molto triste. Non sono tristi le imitazioni?». Sedette sul divano, allargando delicatamente la sottana. «Che cosa vuoi?», domandò la signora Miller. «Si sieda», disse Miriam. «Mi rende nervosa vedere la gente in piedi». La signora Miller si lasciò cadere su un cuscino. «Che cosa vuoi?», ripeté. «Sa, non credo che lei sia contenta di vedermi». Per un secondo la signora Miller non seppe che cosa rispondere; la sua mano accennò un gesto vago. Miriam sorrise e si appoggiò a un mucchio di cuscini di chintz. La signora Miller notò che la bimba era meno pallida di quanto la ricordasse: aveva le guance colorite. «Come hai saputo che stavo qui?». Miriam corrugò la fronte. «Questo non importa. Qual è il suo nome? E quale il mio?». «Ma se non figura nemmeno nell’elenco telefonico!». «Oh, parliamo di qualcos’altro». La signora Miller disse: «Tua madre deve essere pazza per lasciare che una bambina come te stia fuori a ore simili la notte, e con un vestito addirittura ridicolo. Deve essere fuori di senno». Miriam si alzò e si diresse all’angolo dove, appesa alla parete, stava, coperta, la gabbia del canarino. Spiò sotto la copertura. «È un canarino», disse. «Le dispiace se lo sveglio? Mi piacerebbe sentirlo cantare». «Lascia stare Tommy», disse la signora Miller, inquieta. «Guardati bene dallo svegliarlo». «Certo», rispose Miriam. «Ma non capisco perché non posso sentirlo cantare». E poi: «Ha niente da mangiare? Ho fame. Anche latte e un po’ di pane e marmellata andrebbero bene». «Senti», disse la signora Miller, sollevandosi dal suo cuscino, «senti, se ti preparo qualche bel sandwich farai la brava bambina e tornerai a casa? E mezzanotte passata, ne sono sicura». «Nevica», la rimproverò Miriam. «E fa freddo e buio». «Anzitutto non saresti dovuta venire qui», disse la signora Miller, sforzandosi di controllare la propria voce. «Io non ci posso fare niente per il tempo. Se vuoi qualcosa da mangiare devi promettermi di andartene». Miriam si strofinò una treccia su una guancia. I suoi occhi si fecero pensosi, come se pesasse il pro e il contro della proposta. Si voltò verso la gabbia del canarino. «Va bene», disse. «Prometto». «Quanti anni ha? Dieci? Undici?». In cucina, la signora Miller aprì una scatola di marmellata di ciliege e tagliò quattro fette di pane. Versò un bicchiere di latte e si fermò ad accendere una sigaretta. «E perché è venuta?». La mano le tremava mentre, affascinata, stringeva il fiammifero, e finì per bruciarsi le dita. Il canarino stava cantando, cantando come faceva soltanto la mattina. «Miriam», gridò, «Miriam, ti avevo detto di non disturbare Tommy». Nessuna risposta. Gridò di nuovo, ma non udì che il canto del canarino. Aspirò il fumo della sigaretta e si accorse di averla accesa dalla parte del bocchino e, oh, doveva aver perso la tramontana. Preparò un vassoio e lo portò sul tavolino. Notò anzitutto che la gabbia del canarino aveva ancora la sua copertura per la notte. E Tommy stava cantando. La cosa produsse in lei una sensazione strana. E nella stanza non c’era nessuno. La signora Miller infilò il corridoio che portava alla sua stanza da letto; sulla soglia trattenne il fiato. «Che cosa stai facendo?», domandò. Miriam sollevò la testa, e nei suoi occhi c’era qualcosa di strano. Era in piedi vicino a un cassettone, davanti a una scatola di gioielli aperta. Per un minuto studiò la signora Miller, tentando di incrociare il suo sguardo, poi sorrise. «Non c’è niente di bello qui», disse. «Ma questo mi piace». Stringeva in mano un cammeo montato a spilla. «E grazioso». «Credo che faresti forse meglio a riporlo», disse la signora Miller, e sentì d’un tratto il bisogno che qualcosa la sostenesse. Si appoggiò allo stipite della porta; si sentiva la testa insopportabilmente pesante; un senso di oppressione le alterava il ritmo dei battiti del cuore. La luce sembrava farsi incerta, abbassarsi. «Ti prego, bimba, un regalo di mio marito…». «Ma è bello e io lo voglio», disse Miriam. «Me lo dia». E mentre cercava di trovare una frase che avrebbe salvato in qualche modo la spilla, la signora Miller si rese conto che non c’era nessuno a cui poteva rivolgersi: era sola, fatto questo che da lungo tempo non aveva trovato posto nei suoi pensieri. La semplice evidenza di una cosa simile era tale da stordire. Ma nella sua stanza, in mezzo alla città resa silenziosa dalla neve, c’erano segni che lei non poteva ignorare, ai quali, lo comprese con una chiarezza stupefacente, non poteva resistere. Miriam mangiò avidamente, e quando sandwiches e latte furono terminati fece scorrere adagio le dita sul piatto per raccogliere le briciole. Il cammeo risplendeva sulla sua camicetta, come se il biondo profilo fosse la prodigiosa proiezione di chi lo portava. «È stato molto bello», sospirò, «per quanto, ora, una torta di ciliege o di mandorle sarebbe proprio l’ideale. Sono buoni i dolci, non è vero?». La signora Miller se ne stava appollaiata in equilibrio incerto sul suo cuscino, fumando una sigaretta. La retina dei capelli le era scivolata di fianco e i legacci sciolti le pendevano sul viso. Teneva gli occhi scioccamente fissi nel nulla, e le sue guance erano chiazzate di strisce rosse, come se uno schiaffo vi avesse lasciato i segni. «C’è un dolce, una torta?». La signora Miller scosse la cenere sul tappeto. La testa le oscillava leggermente mentre cercava di concentrare lo sguardo. «Mi hai promesso di andare se ti preparavo dei sandwiches», disse. «Povera me, ho promesso?». «Hai promesso, e io sono stanca e non mi sento troppo bene». «Non si agiti», disse Miriam, «sto solo scherzando». Prese il soprabito, se lo mise sul braccio, poi, davanti a uno specchio, si accomodò il cappello in testa. Si chinò infine verso la signora Miller e mormorò: «Perché non mi augura la buona notte con un bacio?». «Ti prego, preferirei di no», disse la signora Miller. Miriam scosse una spalla, arcuò un sopracciglio. «Come vuole», disse, e si diresse verso il tavolino, prese il vaso che conteneva le rose di carta, lo portò in un punto dove il pavimento non era ricoperto dal tappeto e lo lasciò cadere. I frammenti di vetro si sparpagliarono in tutte le direzioni, e lei calpestò più e più volte il mazzo. Poi si incamminò lentamente verso la porta, ma prima di chiuderla si voltò a guardare la signora Miller con uno sguardo curioso, furbo, innocente. La signora Miller passò il giorno seguente a letto, alzandosi una volta soltanto per dare da mangiare al canarino e per bere una tazza di tè; si misurò la temperatura e non ne aveva; pure i suoi sogni parevano effetto di agitazione febbrile: duravano, sconcertanti, anche quando se ne stava sdraiata, con gli occhi aperti e fissi al soffitto. Un sogno dominava su tutti gli altri, come un tema misteriosamente elusivo in una elaborata sinfonia, e le scene che esso evocava erano nettamente delineate, come schizzate da una mano ricca di doti istintive: una fanciulla con in capo, il velo da sposa e una ghirlanda di foglie, guidava una grigia processione giù per un sentiero di montagna, e tutti osservavano uno strano silenzio, finché una donna, dalle ultime file, diceva: «Dove ci sta portando?». «Nessuno lo sa», rispondeva un vecchio che marciava quasi in testa alla colonna. «Non è forse graziosa?», affermava una terza voce. «Non è forse come un fiore di ghiaccio… così bianca e lucente?». Il martedì mattina, quando si svegliò, si sentiva meglio; le sciabolate di sole che passavano oblique attraverso le imposte dissiparono le sue fantasie febbrili. Aprì la finestra e si trovò dinanzi a una giornata tiepida, di mezza primavera: nuvole candide correvano, svariando l’azzurro profondo di un cielo fuor di stagione; oltre la bassa linea dei tetti vedeva il fiume e il fumo che, uscendo dalle ciminiere dei rimorchiatori, si piegava al vento tiepido. Un grosso autocarro d’argento arava la strada sepolta nella neve, e l’aria era piena del ronzio del suo motore. Dopo aver riordinato l’appartamento, andò dal droghiere, cambiò un assegno, poi proseguì fino da Schrafft, dove fece colazione e chiacchierò allegramente con la cameriera. Oh, era una giornata splendida, qualcosa come una vacanza, e sarebbe stato sciocco tornare a casa. Prese l’autobus a Lexington Square e si fece portare fino alla Sessantottesima Strada; lì, aveva deciso di comperare qualcosa. Non aveva idea di che cosa desiderava o di che cosa sentiva bisogno, ma si mise a passeggiare avanti e indietro senza scopo, attenta solo ai passanti, allegri o preoccupati, che le davano un conturbante senso di isolamento. E mentre aspettava all’angolo della Terza Strada vide l’uomo: un vecchio chino sotto un carico di pacchi voluminosi con indosso un cappotto scuro e sdrucito e un cappello a visiera. Improvvisamente la signora Miller si accorse che stavano scambiandosi un sorriso: non c’era niente di amichevole in quel sorriso, si trattava solo di un freddo cenno per far capire che si erano riconosciuti. Eppure lei era sicura di non avere mai visto prima quell’uomo. L’uomo andò a fermarsi accanto a un pilone della ferrovia elevata, e quando la signora Miller attraversò la strada si voltò e la seguì. Si teneva a poca distanza da lei; con l’angolo dell’occhio la donna poteva vederne l’immagine ondeggiare incerta sulle vetrine dei negozi. Poi, a metà di un isolato, si fermò e si volse per affrontarlo. Anche l’uomo si fermò e sollevò la testa, sorridendo. Ma lei che cosa avrebbe potuto dire? Che cosa avrebbe potuto fare? Lì, in pieno giorno, nella Sessantottesima Strada? Era una cosa perfettamente inutile, e, furibonda per la propria impotenza, affrettò il passo. Ora, la Seconda Avenue è una strada melanconica, fatta a pezzi e bocconi, pavimentata in parte a mattonelle, in parte ad asfalto, in parte a cemento: su di essa grava in permanenza un’atmosfera di abbandono. La signora Miller percorse cinque isolati senza incontrare nessuno, mentre lo scricchiolio dei passi sulla neve continuava a echeggiare alle sue spalle. E quando giunse a un negozio di fiorista, quel rumore la accompagnava ancora. Entrò in fretta e guardò attraverso la vetrina dell’ingresso il vecchio che passava; egli continuò a tenere gli occhi fissi davanti a sé, senza rallentare il passo, ma fece una cosa strana, rivelatrice: si portò due dita al cappello. «Sei bianche ha detto?», chiese il fiorista. «Sì», gli rispose, «rose bianche». Di lì passò a un magazzino di vetrerie, dove scelse un vaso, probabilmente per rimpiazzare quello che Miriam aveva rotto, per quanto il prezzo fosse eccessivamente alto e il vaso in sé (pensò lei) volgare fino al grottesco. Ebbe così inizio una serie di acquisti inesplicabili, come secondo un piano, di cui la donna non aveva né conoscenza né controllo. Acquistò un barattolo di ciliege candite, e in un posto chiamato Pasticceria Knickerbocker pagò quaranta cents per sei pasticcini di mandorle. La temperatura era tornata fredda; come chiazze su una lente, le nuvole macchiavano il sole, e il presentimento di una tenebra prematura colorava il cielo; il vento portava con sé una nebbia umida, e le voci dei pochi bimbi, che giocavano sulle montagne di neve sudicia, sembravano tristi e solitarie. Presto cadde il primo fiocco, e quando la signora Miller raggiunse il suo isolato, la neve cadeva fitta, cancellando subito ogni impronta sul selciato. Le rose bianche vennero disposte armoniosamente nel vaso. Le ciliege candite facevano pompa di sé in un piatto di maiolica. I pasticcini di mandorla, spolverati di zucchero, aspettavano una mano. Il canarino si bilanciava sulle ali e beccava qualche seme. Alle cinque precise suonò il campanello. La signora Miller «sapeva» chi era. Gli orli della sua vestaglia scopavano per terra mentre lei si dirigeva verso la porta. «Sei tu?», chiese. «Naturalmente», rispose Miriam, e le sue parole risuonarono alte sul pianerottolo. «Mi apra la porta». «Vattene», disse la signora Miller. «Faccia presto, per piacere… Ho un pacco molto pesante». «Vattene», disse la signora Miller. Tornò in soggiorno, accese una sigaretta, sedette e ascoltò con calma il trillo del campanello che insisteva, insisteva. «E meglio che tu te ne vada. Non ho nessuna intenzione di lasciarti entrare». D’un tratto il campanello smise di suonare. La signora Miller non si mosse forse per dieci minuti. Poi, dato che tutto era silenzio, concluse che Miriam se n’era andata. Si avvicinò in punta di piedi alla porta e la socchiuse appena: Miriam era là, appoggiata a una scatola di cartone, e cullava fra le braccia una bella bambola francese. «Credevo che non sarebbe più venuta», disse stizzosamente. «Su, mi aiuti a portarla dentro, è terribilmente pesante». La signora Miller, non per influsso magico ma piuttosto per una strana passività, portò dentro la scatola, e Miriam la seguì con la bambola. Miriam si adagiò sul divano, senza curare di levarsi il soprabito o il berretto, e fissò la signora Miller mentre deponeva la scatola e si rialzava tremante, cercando di nascondere l’affanno del respiro. «Grazie», disse. Alla luce del giorno appariva smunta e patita, i capelli erano meno luminosi. La bambola francese che lei vezzeggiava portava una magnifica parrucca incipriata e teneva i suoi sciocchi occhi di vetro fissi in quelli di Miriam. «Ho una sorpresa», continuò. «Guardi nella mia scatola». Inginocchiandosi, la signora allontanò i lembi di carta e trovò un’altra bambola, poi un vestito azzurro; ricordava, era quello che Miriam portava la prima sera al cinematografo; per il resto, disse: «Sono tutti vestiti. Perché?». «Perché vengo a vivere qui», rispose Miriam, torcendo fra le mani un gambo di ciliegia. «È stato molto gentile da parte sua comperarmi le ciliege…». «Ma è impossibile! In nome del cielo, vattene; vattene e lasciami sola!». «… e le rose e i pasticcini di mandorle? Lei è davvero molto generosa. Sa che queste ciliege sono deliziose? Nell’ultimo posto dove sono stata vivevo con un vecchio: era terribilmente povero, e non avevamo mai niente di buono da mangiare. Ma credo che qui sarò felice». Tacque un momento per stringere più forte a sé la bambola. «Ora, se vuole mostrarmi dove devo mettere le mie cose…». Il viso della signora Miller si trasformò in una maschera di rughe rosso cupo; cominciò a piangere, e fu un pianto innaturale, senza lacrime, come se, non avendo pianto da molto tempo, avesse dimenticato come si facesse. Retrocedette adagio finché giunse a toccare la porta. Attraversò incerta il pianerottolo e scese le scale fino al piano sottostante. Bussò freneticamente alla porta del primo appartamento che le capitò dinanzi; aprì un uomo piccolo, dai capelli rossi, e lei gli si fece accanto. «Che diavolo succede?», disse l’uomo. «Niente di male, caro?», domandò una giovane donna che comparve dalla cucina, asciugandosi le mani. E fu a lei che la signora Miller si rivolse. «Senta», esclamò. «Mi vergogno di comportarmi in questo modo, ma, bene, sono la signora Miller e abito qui sopra e…». Si portò le mani al viso. «Sembra così assurdo…». La donna l’accompagnò a una sedia mentre l’uomo faceva risuonare nervosamente le monete che aveva in tasca. «Sì?». «Abito qui sopra e c’è una bambina che è venuta a farmi visita e credo di aver paura di lei. Non vuole andarsene e io non posso convincerla e… sta facendo qualcosa di terribile. Mi ha già rubato una spilla, ma sta per fare qualcosa di peggio, qualcosa di terribile». L’uomo chiese: «E una sua parente, eh?». La signora Miller scosse la testa. «Non so chi sia. Si chiama Miriam, ma non so con sicurezza chi sia». «Si calmi, cara», disse la donna, carezzando il braccio della signora Miller. «Alla bambina ci penserà Harry. Va’ su, caro». E la signora Miller disse: «La porta è aperta: 5 A». Quando l’uomo fu uscito, la donna prese una salvietta e inumidì il viso della signora Miller. «Lei è molto gentile», disse la signora Miller. «Mi spiace di comportarmi come una pazza, ma il fatto è che quella maledetta bambina…». «Certo, cara», la consolò la donna. «Ma ora è meglio che stia calma». La signora Miller appoggiò la testa al braccio; si sentiva così quieta che avrebbe potuto dormire. La donna girò una manopola della radio; un pianoforte e una voce rauca riempirono il silenzio, e la donna cominciò a battere il tempo con il piede. «Forse faremo bene ad andare di sopra anche noi», disse. «Non voglio rivederla. Non voglio trovarmela vicina». «Eh… avreste dovuto chiamare un poliziotto, ecco che cosa avreste dovuto fare». Poi sentirono l’uomo scendere le scale. Entrò nella stanza accigliato, grattandosi la testa. «Su non c’è nessuno», disse, sinceramente imbarazzato. «Deve essersela battuta». «Harry, sei uno sciocco», ribatté la donna. «Non ci siamo mosse di qui, e l’avremmo vista…». Ma si fermò di botto, a un’occhiata brusca dell’uomo. «Ho guardato dappertutto», disse, «e su non c’è proprio nessuno. Nessuno, capito?». «Mi dica», chiese la signora Miller alzandosi, «ha visto una scatola molto grande? O una bambola?». «No, signora, non ho visto nulla». E la donna, come se pronunciasse un verdetto, disse: «Bene, stando così le cose…». La signora Miller entrò nell’appartamento in punta di piedi; avanzò fino al centro della stanza, poi si fermò. No, in un certo senso niente era mutato: le rose, i pasticcini, le ciliege erano al loro posto. Ma era una stanza vuota quella, vuota come se non ci fossero i mobili e gli oggetti familiari, senza vita e pietrificata come una camera mortuaria. Nella penombra davanti a lei il divano aveva un aspetto nuovo, strano: vuoto com’era, assumeva un significato che sarebbe stato meno penetrante e terribile se su di esso fosse stata rannicchiata Miriam. Guardò fissa il posto dove, ricordava, era stata deposta la scatola e, per un momento, il cuscino roteò disperatamente. Alzò gli occhi alla finestra; il fiume era reale, certo; certo la neve stava cadendo, ma allora, non si poteva essere sicuri di niente: Miriam, con tutta la sua vivacità… eppure dov’era? Dove, dove? Muovendosi come in sogno, si lasciò cadere su una sedia. La stanza stava perdendo forma; era buio, stava facendosi sempre più buio e non c’era niente da fare; non poteva alzare una mano per accendere la lampada. Improvvisamente, chiudendo gli occhi, ebbe la sensazione di risalire a galla, come un tuffatore che emerge da un abisso profondo sempre più verde. In periodi di terrore e di immensa disperazione ci sono momenti in cui la mente rimane in attesa come di una rivelazione, quando sul pensiero si stende un velo di calma; è come un sonno, una «trance» soprannaturale; e durante questa pausa si è consci di possedere una forza di lucido ragionamento: bene, e se non avesse mai conosciuto una bimba di nome Miriam? E se il suo terrore per la strada fosse stato insensato? In fondo, come sempre, la cosa non aveva importanza. Forse a Miriam lei aveva ceduto la sua identità soltanto, e ora sapeva che avrebbe trovato di nuovo la persona che viveva in quella stanza, che si preparava da mangiare, che accudiva al canarino, la persona a cui si poteva credere, di cui ci si poteva fidare: la signora H.T. Miller. E mentre gustava un senso di soddisfazione, si rese conto di un duplice suono: un cassetto che si apriva e si chiudeva; le sembrava un rumore molto lontano: aprire e chiudere. Poi, a poco a poco, questo suono secco si tramutò nel fruscio di un abito di seta, un fruscio che, dapprima appena accennato, si faceva sempre più vicino e cresceva di intensità finché i muri ne tremarono e la stanza fu sommersa da un’ondata di mormorii. La signora Miller si irrigidì e aprì gli occhi a uno sguardo cupo, fisso. «Buona sera», disse Miriam.