domenica 25 aprile 2021

I FIGLI DEL VUOTO Rafael Gluc

 

Copertina I figli del vuoto

I figli del vuoto


«Dall'Italia agli Stati Uniti, dalla Russia a molti Paesi europei, i muri si moltiplicano e i ponti crollano, i porti si chiudono davanti ai profughi e le dogane tornano in auge, la democrazia liberale che doveva estendersi su tutto il globo si ritrae a vista d'occhio: il nostro fallimento è grandioso. Noi, intellettuali progressisti, militanti umanisti, fautori della società aperta, difensori dei diritti umani e cittadini cosmopoliti, siamo incapaci di arginare l'ondata nazionalista e autoritaria che si abbatte sulle nostre società. Avevamo la religione del progresso, ma il riscaldamento globale prepara la peggiore delle recessioni. L'insurrezione populista e il disastro ecologico in corso dimostrano che la logica neoliberale ci porta all'abisso. Per non perdere tutto, dobbiamo uscire dall'individualismo e dall'egocentrismo. Se le generazioni passate hanno vissuto in un mondo saturo di dogmi e di miti, noi siamo nati in una società vuota di senso. La loro missione era spezzare le catene, la nostra sarà ricucire i legami e reinventarci una comunità. Esistono strade per uscire dall'impasse. Sapremo seguirle?»
Da un intellettuale di riferimento, una riflessione profonda e quanto mai necessaria sulla perdita di senso e di appartenenza della nostra società che, dopo aver smantellato gli storici riferimenti collettivi, è preda del vuoto e dell'ansia. Ma una via di uscita dalla solitudine e dall'individualismo è necessaria e possibile.

Lo sgabello di Matteo

Donald Trump è alla Casa Bianca, l’Unione Europea si disgrega, Vladimir Putin è il padrino dell’epoca e Matteo Salvini il suo astro nascente, i muri si moltiplicano e i ponti crollano, i porti si chiudono davanti ai profughi e le dogane tornano in auge, la democrazia liberale che doveva estendersi su tutto il globo si ritrae a vista d’occhio: il nostro fallimento è grandioso. Noi, intellettuali progressisti, militanti umanisti, fautori della società aperta, difensori dei diritti umani e cittadini cosmopoliti, siamo incapaci di arginare l’ondata nazionalista e autoritaria che si abbatte sulle nostre società.

Eppure, come vecchi preti che vedono nella diserzione dei fedeli la prova che hanno ragione di inveire contro la Terra intera, continuiamo a proclamare che le masse stanno andando fuori strada, senza mai considerare l’ipotesi che forse, un giorno, noi abbiamo sbagliato direzione. Imprechiamo, twittiamo, postiamo, firmiamo petizioni, manifestiamo. Dubitiamo facilmente degli altri, ma siamo sicuri di noi stessi. Nonostante i disastri che si susseguono, rifiutiamo di chiederci cosa mai abbiamo potuto sbagliare per essere diventati così inascoltabili.

Una simile superbia, ridicola in tempo di bonaccia, diventa suicida quando incombe la tempesta. Per vincere le future battaglie politiche e culturali, dobbiamo prima di tutto capire perché abbiamo perso le precedenti. Per combattere i demagoghi che hanno il vento in poppa dobbiamo cercare le ragioni del loro successo nel vuoto che ci circonda e che spesso ci abita. Per rinascere dalle nostre ceneri cominciamo col morire a noi stessi.

Per iniziare questo viaggio nel cuore della crisi che colpisce le nostre democrazie, andiamo in chiesa un momento. Non per pregare il cielo di venire in nostro aiuto, ma per ammirare i dipinti di Caravaggio, e uno in particolare, che troneggia nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma: San Matteo e l’angelo.

Questo dipinto è, a prima vista, l’opera più levigata del pittore ribelle. Non si vedono né puttane travestite da madonne né efebi lascivi né teste mozzate. Né tanto meno i piedi sporchi dei pellegrini inginocchiati davanti alla Madonna col Bambino della basilica di Sant’Agostino che tanto scandalizzarono i vescovi. Matteo, che sembra fresco di bagno, indossa una bella toga arancione e rossa. La sua dignità di filosofo antico è santificata da una discreta aureola. Con un ginocchio poggiato su uno sgabello di legno, scrive il suo Vangelo su un banco e sotto la dettatura di un angelo che, per una volta in Caravaggio, svolge perfettamente il proprio ruolo asessuato di emissario di Dio. I drappeggi e gli sguardi si congiungono senza toccarsi in una perfetta armonia. Tutto è al suo posto. Tutto è collegato. Tutto si eleva.

Ma se osservate attentamente la scena, l’impressione di tranquillità lascia il posto a una specie di turbamento. Dopo cinque o dieci minuti passati a chiedervi da dove viene il vostro disagio di fronte a tanta grazia, realizzate che lo sgabello su cui Matteo appoggia il ginocchio ha una gamba nel vuoto e minaccia di cadere da un momento all’altro. Più lo guardate, più lo vedete muoversi. Vi rendete conto che il vecchio santo rischia a ogni istante di accasciarsi su di voi. E di trascinare tutto con sé nella caduta: l’angelo, il cielo. E Dio con loro. Quello sgabello traballante in primo piano su un dipinto apparentemente così assennato inverte il senso complessivo dell’opera: l’armonia non era che un’illusione e tutto, nella Creazione, si rivela fragile e friabile, perfino la scena più sacra.

Lo sgabello che rompe l’ordine cosmico è la firma di Caravaggio. È anche l’immagine perfetta della democrazia liberale, un sistema politico che, come il ginocchio di Matteo, riposa su uno zoccolo sbilenco. Il suo stesso enunciato rivela la contraddizione strutturale che la anima. Il nome “democrazia” pone il primato del collettivo sull’individuale, “santuarizza” ciò che è comune. L’aggettivo “liberale” si iscrive nella tradizione filosofica opposta e sacralizza l’individuo rispetto alla collettività. “Democrazia” implica un movimento centripeto, una ricerca di unità continuamente ripetuta. “Liberale” comporta il movimento inverso, centrifugo: una costante riaffermazione del molteplice. Questo incontro esplosivo del pensiero democratico e del pensiero liberale genera il dinamismo delle democrazie liberali.

La loro natura ibrida costituisce la loro forza. È l’oscillazione permanente tra questi due poli opposti che permette alle nostre società di essere libere e di progredire. Esse vivono al ritmo dell’andirivieni tra due estremi che sono le due facce simmetriche di una medesima morte: l’utopia collettivista da una parte, l’atomizzazione sociale dall’altra. La fine del movimento pendolare significherebbe la caduta dello sgabello di Matteo e il crollo della democrazia liberale. Se la contraddizione che anima i nostri sistemi smette di essere dinamica, se uno dei poli diventa troppo dominante per essere controbilanciato, la democrazia cessa di essere liberale o il liberalismo cessa di essere democratico: la crisi esplode. Ecco precisamente cosa sta avvenendo oggi: l’individualismo ha trionfato, lo squilibrio è così grande e il polo collettivo così indebolito che la bilancia non funziona più. Lo sgabello di Matteo si inclina e noi siamo incapaci di raddrizzarlo.

Se le pagine che seguono sono segnate da una forma di radicalità, nondimeno sono guidate dal rifiuto di ogni tentazione dogmatica, tentazione che può essere definita così: le mie idee valgono dappertutto, per tutti, una volta per tutte. Non aspirano a nessuna verità eterna, ma cercano di rispondere ai problemi specifici del nostro tempo. Le teorie politiche non rivestono lo stesso significato indipendentemente dalle epoche e dai luoghi: essere liberale a Mosca o a Pechino nel 1970 è eroico, esserlo a Parigi o a San Francisco nel 2018 non scaturisce dalla stessa disposizione del cuore e della mente.

Il dogmatico ignora i fatti. Si spinge sempre più lontano nella direzione della propria logica. Ogni ostacolo che incontra sulla sua strada gli appare come la paradossale conferma dei suoi princìpi. Al contrario, comprendere e correggere il movimento dello sgabello di Matteo presuppone la ricerca del “giusto mezzo” caro ad Aristotele. Lungi dall’essere un debole centrismo, questo “giusto mezzo” può diventare radicale quando le circostanze lo impongono. Esso esige che sviluppiamo delle idee, dei modi di fare, dei progetti commisurati ai problemi del nostro tempo e del nostro posto. Che teniamo sempre in mente queste due domande: verso dove e fino a che punto si inclina lo sgabello? (La diagnosi). Verso dove e fino a che punto bisogna spingere in senso inverso affinché lo sgabello non cada? (Il rimedio).

Ho esitato a lungo sulle risposte da dare a queste due domande. Nulla di ciò che segue è per me spontaneo o evidente. Ho dovuto disimparare quello che credevo di sapere, lasciare che i fatti scuotessero le mie certezze. La mia formazione intellettuale può essere definita “liberale”. Mi sono immerso in Kant più facilmente che in Hegel. Considero Montaigne e non Marx come il mio riferimento assoluto. Ho letto Voltaire con più entusiasmo di Rousseau. Il liberalismo filosofico che ho studiato e amato era un pensiero del limite, un tentativo di separare le sfere politiche, religiose, economiche, gli spazi pubblici e privati, i poteri e i saperi, un antidoto alla hybris – la dismisura – dei re e dei profeti.

Ma oggi cosa vediamo dispiegarsi sotto lo stesso nome di liberalismo?

Il contrario. L’esatto contrario.

Vediamo i limiti cancellarsi e la hybristrionfare. Vediamo imprese multinazionali rifiutare le leggi delle nazioni e cercare di imporre le loro. Vediamo le banche salvate dal denaro pubblico truccare i loro conti e nascondere i loro fondi nei paradisi fiscali. Vediamo le regole della competizione venir meno per la mancanza di un arbitro in grado di imporle. Vediamo imprenditori vincere le elezioni con slogan come: «Ho avuto successo nella vita, lasciate che gestisca la vostra».

Vediamo Berlusconi – in cui stupidamente vedemmo un epigono, mentre era un precursore – metastatizzarsi in tutto l’Occidente, da Trump negli Stati Uniti a Babiš nella Repubblica Ceca. Vediamo i GAFA1riflettere sulle città di domani e inventare i nuovi spazi pubblici, che avranno la vertiginosa specificità di essere privati. In nome del benessere di ciascuno, e soprattutto di quelli che ne hanno i mezzi, andiamo verso qualcosa che è lontano, molto lontano da Locke o da Kant, da Montesquieu o da Hume: verso l’illusione di una vita senza politica. Senza repubblica.

Fukuyama aveva torto quando proclamava la «fine della storia» dopo la caduta del muro di Berlino. Non è la storia che si è fermata: sono le democrazie liberali che ne sono uscite. Insieme con i loro sostenitori. Durante la formazione del governo italiano, nella primavera del 2018, dei deputati tedeschi e alcuni editorialisti francesi hanno apertamente esortato le agenzie di rating a governare quel paese al posto del popolo che aveva appena votato: in futuro dovremo scegliere costantemente tra il rifiuto della democrazia delle élite liberali e il programma liberticida dei populisti? Incapaci di scegliere tra questi due mali, finiremo come l’asino di Buridano che, non riuscendo a decidere se deve prima bere o mangiare, muore di fame e di sete? Oppure proporremo un’altra via?

La crisi che attraversano le nostre Città non è affatto una parentesi. Per uscirne, è necessaria una rottura netta con le analisi e le pratiche finora prevalenti. Ricordiamoci che solo il New Deal di Franklin Delano Roosevelt impedì l’emergere del fascismo negli Stati Uniti negli anni Trenta, mentre dilagava in Europa. Ascoltiamo l’avvertimento di Machiavelli nei suoi Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, che faranno da filo conduttore della nostra riflessione: a volte, la corruzione della materia sociale è così forte che la cosa comune, la res publica, si dissolve. Una “mano” politica deve allora affrancarsi dal quadro abituale per ripristinare l’equilibrio. Come far emergere questa “mano” capace di raddrizzare lo sgabello di Matteo e di curare le nostre democrazie?

Ecco l’argomento di questo libro.

E, al di là di questo, la missione della nostra generazione.

1. Acronimo che indica le quattro principali multinazionali del web: Google, Amazon, Facebook e Apple [N.d.T.].


ATTO I

IL VIVERE SEPARATO

La società di solitudine

Siamo in Lorena, nel marzo 2017. Un pensionato del settore siderurgico mi prende da parte dopo una conferenza: «Ho due figli che non capisco più. Lavorano, sono sposati, hanno dei figli. Entrambi hanno una bella macchina, una casa, un cellulare. Mangiano e bevono a sazietà… Certo, non vivono da nababbi, ma hanno più soldi di quanti ne avessi io. Eppure votano Le Pen. Eppure pensano che oggi tutto va peggio di ieri e che domani le cose peggioreranno ancora. Hanno paura del mondo, degli arabi, dell’Europa… Come spiegare una cosa del genere?».

Da offrire come risposta avevo solo delle domande. Abbiamo parlato della fine della siderurgia, delle lotte passate – «Mio padre era della Sezione Francese dell’Internazionale Operaia, io sono nato e morirò socialista, per cambiare la vita, come si diceva una volta» – e delle battaglie ancora da combattere: «C’è tanto da fare, tante possibilità, eppure non succede niente, ognuno non fa che sbraitare nel suo cantuccio». Gli ho chiesto se l’insicurezza intorno a lui era aumentata: «Non lo so, non voglio dirle delle stupidaggini, ma qui non siamo nella giungla». Ha accennato al terrorismo, poi ha aggiunto: «I miei figli erano del Fronte nazionale già prima di “Charlie Hebdo”».

Nel giro di una mezz’ora è arrivato a questa conclusione: «Noi eravamo poveri, ma avevamo il sindacato, avevamo la fabbrica, avevamo il partito. Per i credenti c’era anche la Chiesa. Il sindacato, soprattutto, era una grande famiglia. Ci si vedeva durante la pausa, dopo il lavoro, nel fine settimana, andavamo in giro insieme, ci sostenevamo a vicenda in caso di problemi, bevevamo un bicchiere, ci accapigliavamo… Proprio come in una grande famiglia! I miei due figli hanno un telefono, una casa, una macchina, ma non hanno un sindacato. Restano in casa e hanno paura che qualcuno venga a derubarli. Perciò, sì, sono più ricchi, ma sono più soli, molto più soli di quanto non lo fossi io alla loro età».

La nostra conversazione è all’origine di questo libro. I figli di Luc non si inseriscono più nelle strutture di socializzazione politica di un tempo. Non credono più nelle ideologie che ancora ieri premettevano di affrontare il futuro con speranza e di dare un significato alla vita in comune. Sono i figli del vuoto. Come me. Come tutti noi nati nella stessa epoca nella stessa società. Tutto intorno a noi e in noi si stende l’immensità del deserto di senso. Non essendo ancorati a nulla di solido o di tangibile, viviamo nel timore di perdere ciò che abbiamo. Ciò che abbiamo e ciò che siamo. I nostri beni materiali come la nostra identità, questo “bene” essenziale concepito – quando la politica si eclissa – come un dato fisso, un lascito dei secoli, ogni alterazione del quale sembra essere un tradimento. Isolati, vediamo l’esteriorità, l’alterità, il cambiamento come delle minacce.

Non c’è niente di più umano di questa paura. La solitudine rende febbrili e vulnerabili. Andate a spasso in una foresta: a seconda che siate soli o in gruppo, camminerete ansiosi o spensierati, sobbalzerete al minimo rumore o non farete caso ad alcun suono. La nostra sensibilità al rischio è decuplicata dalla solitudine e dall’assenza di una stella polare che ci guidi. Solo pochi camminatori emeriti approfittano pienamente del loro isolamento: sono i famosi “capicordata”1. La maggior parte di noi, invece, avanza in stato di allerta e, a furia di girare in tondo, si ferma e non chiede niente di meglio che un capo capace di farci uscire dal bosco. Un cesare.

Lo stesso vale per il nostro rapporto con il mondo. Una società di solitudine è una società ansiogena. Tutte le statistiche mostrano che oggi in Francia ci sono meno crimini violenti rispetto a trenta, quaranta o cinquant’anni fa, eppure abbiamo l’impressione di vivere in un Paese sempre più pericoloso. «Una volta tutto questo non sarebbe mai stato tollerato»: non passa giorno senza che si senta dire questa frase. Mentre invece, «una volta», «tutto questo veniva tollerato» – la violenza nel corpo sociale – molto più facilmente. Il rischio era oggettivamente più grande e soggettivamente meno avvertito. Prigionieri del nostro spazio privato e iperconnessi, viviamo gli omicidi, gli stupri, i furti che ci vengono riferiti dai notiziari o dai social network come se avvenissero in casa nostra.

Meno incrociamo l’altro, più ci spaventa. E ci incrociamo sempre meno. I grandi stabilimenti chiudono e i giovani attivi abbracciano, per obbligo o per scelta, lo statuto di imprenditori di se stessi. Le nostre famiglie si nuclearizzano e releghiamo i nostri vecchi in case di riposo. Lasciamo il meno possibile la nostra casa o il nostro appartamento, ordinando perfino la spesa o i pasti su internet. E, quando siamo costretti a uscire, prendiamo la macchina. In L’Avènement du Monde2, il geografo Michel Lussault parla di un «processo di incapsulamento spaziale». L’individualizzazione delle pratiche sociali si esprime in tutti gli aspetti della nostra esistenza, perfino in dettagli apparentemente aneddotici come il declino delle «belle colonie estive»3 che all’inizio degli anni Ottanta accoglievano due milioni di bambini ogni anno rispetto agli ottocentomila scarsi di oggi. Preferiamo tenere i nostri figli e le nostre figlie con noi, in famiglia, piuttosto che mandarli a incontrare l’altro, a fare esperienza della collettività.

Ci svincoliamo dai sindacati e dai partiti. Ma la democrazia presuppone dei corpi intermedi forti che mettano in società gli individui e facciano emergere una coscienza collettiva. Più sono deboli, più il rischio autoritario cresce. I figli di Luc non sono assolutamente delle eccezioni. In un saggio stimolante, Popolo vs Democrazia4, l’autore americano-tedesco Yascha Mounk osserva: «Oltre i due terzi degli americani adulti ritengono che sia estremamente importante vivere in una democrazia; tra i millennial, meno di un terzo la pensa così. Nel 1995, per esempio, solo una persona su sedici riteneva che il governo militare fosse un buon sistema per guidare lo stato; oggi la pensa così una persona su sei».

Ridotto progressivamente – per desiderio o per necessità – allo stato di atomo, l’individuo erige dei muri sempre più alti intorno alla propria solitudine. Questi muri accrescono il suo isolamento e il suo bisogno di protezione. Richiedono altri muri e, ben presto, delle torrette di guardia per sorvegliarli. Tocqueville sottolinea che l’atomizzazione sociale è l’humus del dispotismo. Dalla moltitudine eterogenea emerge l’appello al tiranno. Nella frammentazione germoglia il desiderio di fusione e di sottomissione. Ovunque, in Occidente, noi siamo a questo punto: le nostre società di solitudine suscitano un tale senso di insicurezza che le istituzioni e i princìpi della democrazia liberale appaiono come ostacoli da abbattere per essere finalmente protetti.

Finché un alto dirigente e un operaio appartenevano allo stesso sindacato, allo stesso partito o alla stessa Chiesa, la loro lontananza sociale o fisica veniva compensata da una prossimità politica, ideologica o religiosa. O dall’esperienza del servizio militare. Non è più così. Siamo tutti soli, ma non siamo uguali di fronte a questo isolamento. Condividere la solitudine non genera alcuna logica di identificazione tra noi, perché niente è più dissimile della nostra relazione con la solitudine. Se assomigliamo tutti alle monadi (atomi) senza porte né finestre descritte da Leibniz nella Monadologia, non viviamo affatto l’individualizzazione dell’esistenza nello stesso modo.

Quando si abita, come me, nel IX arrondissement a Parigi, e si è muniti di un capitale finanziario e culturale che permette di viaggiare e di sentirsi come a casa propria a New York, Milano o Berlino, la solitudine è una libertà. Non appartenere più a un partito, a una Chiesa o a un sindacato può allora essere considerato come un’“emancipazione”. Quando si è ancorati a una città di medie dimensioni della Lorena che vede i suoi servizi pubblici chiudere a uno a uno e da cui Parigi sembra già lontana, una simile “libertà” assume le fattezze della schiavitù e la suddetta “emancipazione” diventa un’alienazione. A seconda del vostro ambiente sociale, culturale e geografico di elocuzione, le parole chiave dell’epoca non rivestono lo stesso significato.

Mentre mi sistemo sulla terrazza del McDonald’s Dury Drive in Piccardia per discutere con persone della mia età convinte di non appartenere al mio stesso paese, non posso fare a meno di chiedermi: la nostra costellazione di “io” forma un popolo al di là dei trionfi sportivi come la vittoria della Coppa del Mondo nel 2018 o delle tragedie nazionali come gli attentati del 2015? Leibniz aveva bisogno dell’ipotesi divina per tenere insieme tutte le sue monadi, perché dalla molteplicità nascesse un mondo. Oggi una simile ipotesi non può più servire da assioma alla nostra riflessione, neanche sotto forma della «mano invisibile del mercato». Il 15 luglio 2018 e l’11 gennaio 2015 sono momenti di fusione effimeri: il giorno dopo, torniamo a essere soli, a diffidare di nuovo gli uni degli altri. Come siamo arrivati a questo punto? Perché i figli di Luc non si inseriscono più nelle prospettive collettive che plasmavano la vita del loro padre?

C’era una volta la rivoluzione

La storia non la scrivono gli dèi. Né è retta da alcuna infallibile legge immanente. L’atomizzazione sociale è in gran parte la conseguenza di scoperte scientifiche, di innovazioni tecnologiche e di trasformazioni economiche su cui abbiamo poca presa e che abbiamo rinunciato a capire, tanto ci sembrano complesse. Questi processi che ci sfuggono si presentano a noi sotto il nome di “globalizzazione” o di “progresso”. Essi formano quella che Machiavelli chiama la fortuna: ciò che non dipende da noi, i fattori esterni che impattano sulla vita della Città e minano la sua autonomia. Assoggettato alla legge della fortuna, il corpo politico perde il controllo di sé, la sua capacità di deliberare con cognizione di causa e il suo potere decisionale. Il nostro destino assume allora i tratti del caso o del fatum (il destino imposto agli esseri umani dagli dèi antichi), il che in fondo è la stessa cosa.

Ma la società di solitudine in cui cresciamo oggi è anche il prodotto di una serie di battaglie socioculturali e di decisioni politiche che sono invece perfettamente identificabili. È stato l’incontro tra sviluppi subiti e trasformazioni volute a creare il deserto che abbiamo ereditato. Le battaglie ideologiche lo hanno generato tanto quanto i mutamenti tecnologici o economici. Intellettuali come Milton Friedman o Friedrich Hayek hanno strutturato una visione dell’uomo e del mondo che dei governi eletti hanno poi messo in pratica. In realtà il fatum non esiste nelle questioni pubbliche. Anche se il celebre There is no alternative – “Non c’è alternativa” – di Margaret Thatcher conferisce al suo programma di deregulation il volto dell’ineluttabilità, si tratta di un’ingiunzione performativa e non di una constatazione scientifica. Altre vie erano e rimangono possibili. Le si può giudicare catastrofiche e si possono trovare straordinari i precetti di Friedman o le concezioni di Hayek, ma resta il fatto che qui ci muoviamo nell’ambito della decisione: una scelta è stata fatta, in un dato momento, per degli uomini e delle donne. Una scelta rivoluzionaria.

La Lady di Ferro non esitava a ostentare l’ambizione globale, quasi metafisica, delle riforme che proponeva. Così nel 1981 dichiarava al «Sunday Times»: «Ciò che mi ha irritato circa la direzione generale della politica negli ultimi trent’anni è che è sempre stata orientata verso la società collettivista. Le persone hanno dimenticato la società individuale […]. Cambiare l’economia è il modo di cambiare questo approccio […]. L’economia è il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima». I teorici liberali rimproverano tradizionalmente alla sinistra di produrre un pensiero normativo, di partire dall’uomo come dovrebbe essere e non dall’uomo com’è. Ma è precisamente quello che ha fatto il neoliberismo. Un uomo nuovo, fondamentalmente “libero”, nel senso di non collegato agli altri e separato dal Tutto, è stato forgiato a partire da una costruzione intellettuale. Il dover essere ha generato l’essere. Come in tutte le rivoluzioni5.

Quando Margaret Thatcher dice che «l’economia è il metodo», bisogna intendere “metodo” nell’accezione forte di filosofia generale. L’economia dà il punto di partenza e la finalità della trasformazione politica e sociale progettata. Qui essa non è più concepita come una semplice scienza umana, ma come la scienza dell’umano per eccellenza, quella che domina e sussume tutte le altre, una sorta di metafisica: precisamente quello che i liberali dei secoli XVII e XVIIIrifiutavano. Tutto ciò può suonare strano alle nostre orecchie, ma il big bang individualista degli anni Ottanta, il trionfo del dio denaro e l’atomizzazione sociale derivano da una forma di idealismo. In principio era la volontà di far nascere un individuo realmente libero, antidoto agli orrori collettivi nazisti e comunisti contro cui Friedman e Hayek plasmarono le loro dottrine.

La scienza economica ha perfino dato il suo nome a questo uomo nuovo assumendo se stessa come orizzonte di tutte le cose: l’homo oeconomicus, l’individuo ridotto alla sola ricerca della massimizzazione dei suoi interessi personali. Da semplice ipotesi microeconomica utile per decifrare il funzionamento del mercato, si è imposto come il principio di un’impresa coerente di trasformazione del mondo. Il ragionamento è semplice e basico, come in ogni ideologia pratica efficace: dal momento che l’uomo è naturalmente egoista ed egocentrico, conviene ricercare l’organizzazione statuale più adeguata alla sua natura. A rigor di logica, questa organizzazione è quella che lascia meno posto allo spazio pubblico che vincola l’essere umano e lo spossessa di se stesso, che lo snatura, e più posto al mercato che lo arricchisce e lascia sviluppare la sua vera natura. In altre parole: bisogna edificare la società che corrisponde alla natura egoista dell’essere umano. Una società individualista6.

La natura umana invocata qui è un tipo ideale: un racconto filosofico né più né meno realistico di quello di Adamo ed Eva. Dipingere l’essere umano come naturalmentealtruista o naturalmente egoista, naturalmentecollettivo o naturalmente solitario, dice di più sull’ideologia di chi parla, su ciò verso cui il suo discorso intende portarci, che non sulla natura originaria dell’uomo che dipende sempre da un postulato non verificabile e da una favola per bambini. Il punto di partenza dipende dal punto di arrivo ed è la finalità a parlare attraverso l’origine. Quando ci si trova di fronte a un sistema ideologico coerente, apparentemente senza punti deboli, bisogna sempre leggerlo al rovescio, studiare la conclusione per capire l’introduzione.

Tutti i filosofi che hanno fondato la loro teoria dello stato sulla natura umana hanno proceduto così. Hobbes afferma che l’uomo è naturalmente «un lupo per l’uomo» allo scopo di giustificare uno stato forte capace di salvare il regno britannico dalle guerre civili che lo scuotono. Il punto di partenza della sua riflessione evidentemente non è il primo uomo, ma il bisogno di mettere fine al caos del suo tempo. Se Rousseau immagina al contrario un uomo naturalmente portato alla vita in comune e alla condivisione ma che viene poi guastato, snaturato da strutture sociali ingiuste, è per arrivare al suo Contratto sociale. Il suo pensiero non trae origine da un’analisi antropologica del rapporto delle prime comunità umane con la proprietà collettiva, ma dalla volontà di correggere le disuguaglianze che ha sotto gli occhi e di rimettere il collettivo politico al centro dello stato.

La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino non fa altro che questo: il principio per cui «gli uomini nascono e restano liberi e uguali nei diritti», da cui derivano tutti i suoi articoli, è un enunciato performativo e non una constatazione scientifica. Nei fatti, gli uomini non nascono tutti liberi e uguali. Ma, secondo i Costituenti, la loro natura vorrebbe che nascessero così e, se il dispotismo o le disuguaglianze di condizione decidono diversamente, bisogna abbatterli. La Rivoluzione si assegna quindi la missione di restituire gli esseri umani alla loro vera natura e la Dichiarazione del 1789 ha delle premesse tanto deboli dal punto di vista logico quanto la Bibbia o il Corano. Dire questo non la squalifica affatto come ideale politico. Non più di quanto i ragionamenti di Hobbes o di Rousseau siano invalidati dai loro postulati immaginari. Devono semplicemente essere presi per quello che sono: delle produzioni ideologiche.

Quando sentiamo dei dirigenti politici dire che «non c’è altra scelta», completiamo quindi la loro frase: «non c’è altra scelta nell’ambito neoliberista messo in atto globalmente da più di trent’anni». Quando si rifugiano dietro il carattere logicamente irrefutabile dei loro ragionamenti economici e spiattellano fieramente: «Ma insomma, è incontestabile come il fatto che 2+2 = 4!», ricordiamoci del teorema di incompletezza di Kurt Gödel. Nel 1931, questo giovane matematico austriaco fece tremare l’universo scientifico dimostrando appunto che non c’era nulla di assoluto nella proposizione «2+2 = 4», che essa era indubitabile solo in un contesto logico preciso e che ogni sistema logico era in se stesso incompleto, cioè inconsistente: vale a dire che un sistema non poteva nello stesso tempo rispettare il principio di deduzione logica e dare ragione dei propri assiomi. Ogni opera umana, anche il più mirabile palazzo della Ragione, è fondamentalmente imperfetto e ha, come lo sgabello di Matteo, un piede nel vuoto. Se questo è vero per le matematiche, lo è ancora di più per le scienze umane e per l’economia.

Milton Friedman, del resto, rivendica questa dimensione ideologica dell’economia che i suoi eredi, meno onesti e meno profondi, si sforzano di dissimulare quando vanno in televisione. Nel 1953, Friedman pubblica un testo fondativo: The Methodology of Positive Economics, una sorta di Discorso sul metodo neoliberista. Criticando i sostenitori dell’empirismo classico, ingiunge alla sua scienza di uscire dalla propria funzione descrittiva per diventare predittiva, vale a dire politica. Secondo lui, ogni teoria intellettuale ha prima di tutto uno scopo pratico. Che le ipotesi di partenza siano “vere” importa meno dell’efficacia delle conclusioni. Nell’ambito del sistema economico dominante, questa o quella decisione sono logicamente necessarie, incontestabili. Ma il fondamento di questo sistema stesso, l’homo oeconomicus, è una finzione che si può accettare o rifiutare.

La natura umana è un’arma di guerra, «un campo di battaglia», come la metafisica secondo Kant. Nessuno in questa «lotta tra ciechi in una stanza buia» è costretto a aderire al postulato dell’altro. E, dal momento che non ha premesse irrefutabili, ogni sistema logico è criticabile a partire dai suoi risultati concreti. Ora, in questi ultimi decenni la sinistra ha fallito sia nel rigettare il postulato teorico del ragionamento neoliberista sia nel farlo vacillare a partire dalle conseguenze negative che produce di fatto. Anche dopo la crisi del 2008. Essa ha ceduto a monte e a valle, ai due capi della lotta intellettuale. Ovunque in Occidente, Francia compresa, nonostante sia un Paese impastato di ideologia repubblicana e che pone tradizionalmente al di sopra di tutto la figura del cittadino, l’homo oeconomicus si è imposto come il principio di base e la finalità del pensiero politico.

Da noi la conversione è avvenuta per tappe. Ci fu dapprima l’accettazione del mercato in quanto tale, cosa molto comprensibile visti i cocenti fallimenti dell’economia pianificata: fu il passaggio dal socialismo alla socialdemocrazia, cioè a un sistema ibrido che faceva coesistere una politica sociale, definita dal suo intento egualitario, e il mercato, strutturalmente produttore di disuguaglianza. Poi vennero la sottomissione della politica e l’annuncio del decesso di questa socialdemocrazia appena sbocciata in Francia: la rinuncia ad affrontare tramite la fiscalità ridistributiva e l’estensione dei diritti sociali le disuguaglianze generate dal capitalismo. A quel punto anche il discorso di sinistra doveva rivolgersi all’homo oeconomicus. Ciò significava condurre tutte le battaglie su un terreno ostile, come se una squadra di calcio accettasse di giocare tutte le sue partite fuori casa e prendendo come arbitro l’allenatore della squadra avversaria. Con la certezza di perdere ogni volta, a meno di rinnegare le proprie idee nella speranza di vincere di tanto in tanto. Dal momento che la differenza tra le due opzioni – essere annullati o annullarsi – era tanto esile e il potere aveva tante attrattive, i dirigenti della sinistra occidentale hanno logicamente deciso di fare di tutto per vincere: sono diventati loro stessi liberisti.

La Francia ha di certo impiegato più tempo degli altri a salire sul treno, ma – finalmente! Si sente dire spesso – ha timbrato i suoi biglietti. Nel 2007, Denis Kessler, ex numero 2 del MEDEF7, pubblicò su «Challenges» una piattaforma dal titolo esplicito: Addio 1945, riagganciamo il nostro paese al mondo. Il programma che delineava aveva il merito della chiarezza: «La lista delle riforme? È semplice, prendete tutto quello che è stato messo in atto tra il 1945 e il 1952, senza eccezione. È qui. Si tratta oggi di uscire dal 1945 e di disfare metodicamente il programma del Consiglio nazionale della Resistenza». L’orizzonte disegnato da Kessler appariva allora radicale e perfino scandaloso. Tuttavia è quello che guida i nostri passi oggi. Meno di dieci anni dopo, un giovane e promettente ministro dell’Economia di un governo socialista, di nome Emmanuel Macron, dichiarò davanti a una platea di fedelissimi a Bercy: «L’accordo del 1945 è inadeguato». «Riagganciamo il nostro paese al mondo», «inadeguato»: l’argomento mimetico torna ogni volta. Gli Stati Uniti e l’Inghilterra avevano aperto la via, la Germania ha seguito le loro orme. In ritardo, a modo suo, la Francia si è messa in marcia.

Sarebbe stato sorprendente il contrario. Come sottolinea il filosofo italiano Antonio Gramsci, le opzioni politiche che trionfano in un dato momento della storia dipendono largamente dall’atmosfera metapolitica o culturale delle società in cui sono messe in competizione. Ora, l’individualismo fin qui ha vinto tutte le battaglie culturali. Il nostro immaginario, un tempo plasmato dalle epopee collettive, si è individualizzato a una velocità impressionante. Per rendersene conto basta vedere due film per il grande pubblico che raccontano, a quarant’anni di distanza l’uno dall’altro, una storia piuttosto simile, e paragonare il loro modo di trattarla: Spartacus di Stanley Kubrick e Il gladiatore di Ridley Scott. Entrambi mettono in scena un’insurrezione di schiavi contro l’Impero romano. Ma, mentre in Spartacus la rivolta è collettiva, ne Il gladiatore diventa un fatto individuale e perfino strettamente intimo. Kubrick filmava la rivoluzione di un gruppo oppresso contro un ordine sociale iniquo, Scott racconta l’insubordinazione di un eroe bistrattato contro un dirigente perverso, con un faccia a faccia nell’arena del Colosseo come apoteosi. Tutto si riassume ormai in un one-to-one. Perfino una rivolta sociale. A immagine dell’economia neoclassica, che sviluppa la microeconomia per ricollocare tutto nella prospettiva di scelte individuali, il cinema degli anni Duemila riduce la lotta dei gladiatori a una questione di sentimenti e di risentimenti, di esitazioni e di decisioni, di coraggio e di vigliaccheria.

Spartaco è stato sostituito da Massimo Decimo Meridio e Sartre da un coach esperto in crescita personale. La realizzazione degli individui è diventata l’orizzonte del dibattito pubblico. In Happycratie: Comment l’industrie du bonheur a pris le contrôle de nos vies Edgar Cabanas e Eva Illouz osservano che la rivoluzione neoliberista degli anni Ottanta ha portato alla sostituzione della filosofia politica con la psicologia. Tutto viene ricondotto alla sfera intima. Ciò permette di trattare «dal punto di vista della psicologia e della responsabilizzazione individuale i deficitstrutturali, le contraddizioni e i paradossi propri delle nostre società. Il lavoro, per esempio, è progressivamente diventato un fatto di progetti personali, di creatività e di imprenditorialità; l’istruzione un fatto di competenze individuali e di talenti personali; la salute un fatto di abitudini e di stili di vita; l’amore un fatto di affinità interpersonali e di compatibilità; l’identità un fatto di scelte e di personalità; il progresso sociale un fatto di prosperità individuale, e così via». Siamo diventati degli individui. E nient’altro. Niente di più.

Postulando teoricamente l’homo oeconomicus e vincendo la lotta ideologica, il neoliberismo l’ha prodotto concretamente. Ha cambiato il cuore e l’anima conformemente ai desideri della Thatcher. I risultati sono brillanti. Nel 1966, il 44 per cento degli studenti al primo anno dell’Università di California, a Los Angeles, giudicava “essenziale” guadagnare molti soldi: l’ambizione personale e la preoccupazione collettiva si equilibravano. Nel 2013, erano l’82 per cento. L’homo oeconomicus è l’eroe del nostro tempo e il figlio di una rivoluzione riuscita. Complimenti! Tuttavia dobbiamo porci una domanda che qualcuno giudicherà secondaria: una simile preminenza dell’homo oeconomicus in tutti gli aspetti della vita sociale è compatibile con la democrazia e la repubblica?

1. Il riferimento è a un’immagine usata da Emmanuel Macron per motivare la sua politica di incentivi alle imprese, in cui paragonava la società a una cordata alpinistica e gli imprenditori ai capicordata [N.d.T.].

2. M. LUSSAULTL’Avènement du Monde, Seuil, 2013.

3Les Jolies Colonies de vacances è una canzone di Pierre Perret del 1966, molto nota in Francia [N.d.T.].

4. Y. MOUNKPopolo vs Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale, Feltrinelli, 2018.

5. Ecco ciò che distingue il liberalismo classico dal neoliberismo contemporaneo: il primo è una dottrina che limita ogni forma di governo degli esseri umani, il secondo è un’ideologia di rigenerazione degli individui fin nella loro parte più intima.

6. Questa colonizzazione dell’insieme delle questioni sociali tramite i sei principi della microeconomia fu consacrata simbolicamente nel 1992 quando un allievo di Milton Friedman, Gary Becker, ottenne il premio Nobel per l’economia «per aver esteso il campo dell’analisi microeconomica a un ampio raggio di comportamenti e interazioni umane, incluso il comportamento non legato al mercato». Le relazioni di coppia, la criminalità, le scelte politiche: tutto ormai si può leggere in base alla ricerca da parte dell’individuo della massimizzazione dei suoi profitti.

7Mouvement des entreprises de France: il corrispettivo francese di Confindustria [N.d.T.].


L’uomo senza empatia

Siamo in Ucraina, in una fredda notte dell’inverno 2008, tra due rivoluzioni. Sto uscendo da una discoteca con Andrej, un amico, dj la sera e militante di giorno. Sul Chrešcatyk, gli Champs-Élysées di Kiev, una Mercedes nera arriva a tutta velocità e investe un’anziana signora. La macchina si ferma per un attimo, poi riparte senza che si apra neanche una portiera. Ci precipitiamo verso il corpo a terra. Nel giro di dieci minuti, mentre il pronto soccorso non risponde al telefono, passa un’ambulanza in senso inverso, a sirena spenta. La fermiamo. Quando chiediamo al conducente e al suo aiutante di occuparsi della signora, ci rispondono che non è il loro settore e che bisogna continuare a chiamare la centrale. Gli diamo cento dollari. Cambiano miracolosamente opinione e caricano la vecchietta. Mentre l’ambulanza si allontana, mi giro a guardare Andrej: «Ecco la verità del postsovietismo!».

«Sì.»

«Che società orribile!»

«Sì, disgustosa.»

«Speriamo che le cose cambino!»

«Ci stiamo lavorando, come sai. Però nulla ci dice che le cose cambieranno nel senso che speri tu.»

«Cosa vuoi dire?»

«La nostra giungla non è forse in realtà una versione meno ipocrita del vostro mondo occidentale?»

«Davvero tu hai una visione delle nostre società plasmata da un secolo di propaganda marxista! Da noi, probabilmente la Mercedes si sarebbe fermata e l’ambulanza avrebbe comunque raccolto la vecchietta. Noi abbiamo dei servizi pubblici. Un giorno succederà anche da voi!»

«Lo spero… Del resto, mi sono espresso male. Quello che volevo chiederti è diverso: perché pensi che ci evolveremo necessariamente verso il vostro tipo di società equilibrata, dotata di solidi servizi pubblici e di un forte spirito civile? Perché non dovrebbe essere il contrario? Chi ti dice che non sarà la nostra giungla a venire da voi, che i vostri diritti sociali non arretreranno, che non diventerete individualisti e cinici come l’uomo postsovietico? La storia non è scritta. Sei tu che sei marxista, quando le attribuisci un senso… Credimi: tutto quello che un giorno è stato fatto può essere disfatto un altro giorno. La corruzione che imperversa da noi è davvero inesistente da voi? E l’inciviltà che incontri qui a ogni angolo di strada non può forse arrivare in Francia o negli Stati Uniti? Questo culto del denaro credi che venga da casa nostra? No, semplicemente noi non abbiamo nessun anticorpo che impedisca a questa malattia di diffondersi nell’insieme della società e di divorare tutto. Il sovietismo ha distrutto il nostro sistema immunitario, perciò siamo prede perfette per un virus che tuttavia non ci è proprio. Voi avete più anticorpi, è evidente. Ma chi ti dice che siano abbastanza efficaci? Qual è oggi in Occidente l’ideale pubblico capace di resistere alla religione del denaro? Forse noi siamo un laboratorio del futuro e non una traccia del passato… A volte mi sembra che siamo delle cavie. Sarebbe tragico e mi farebbe venire voglia di crepare, ma chi ti dice che il futuro sia la Danimarca dei socialdemocratici e non l’Ucraina degli oligarchi? O, peggio ancora, la Russia di Putin? Che garanzia mi offri che le cose andranno nel senso che dici tu e non nel mio?»

Nessuna. Rigorosamente nessuna.

Mi ricordo di quella gelida notte del 2008 come se fosse ieri. Allora ero convinto, come tutte le élite occidentali, che il mondo postcomunista si sarebbe evoluto alla meno peggio, facendo a meno di guerre e rivoluzioni, verso la democrazia liberale e lo stato di diritto. L’Ucraina, il Paese degli oligarchi che giocavano con i miliardi e dei pensionati senza pensione che vivevano nei tunnel, si sarebbe “civilizzata”. Come i suoi vicini. Era nell’ordine delle cose. Era scritto.

Quasi dieci anni dopo, siamo costretti a constatare che niente è mai scritto da nessuna parte e che, lungi dall’esportarsi in casa altrui, l’equilibrio sociale tende a rompersi da noi. Le società occidentali del dopoguerra avevano più o meno forgiato un homo democraticus misurato nei suoi successi e sostenuto dalla collettività nei suoi insuccessi. Oggi lascia il posto a un individuo che vede in ciascuno dei suoi dollari una conferma del proprio genio e nella miseria del suo concittadino la prova della sua pigrizia. Un individuo liberato dalla preoccupazione per l’altro e per le cose in comune. L’incubo regressivo di Andrej non era più realistico del nostro sogno progressista?

Quando cammino a Porte de la Chapelle a Parigi, quando incrocio uomini che dormono sui nostri marciapiedi in pieno inverno e mi raccontano che i nostri poliziotti si sono presi i loro sacchi a pelo, quando nell’ottobre 2015 entro per la prima volta nella cosiddetta “giungla” di Calais e vedo come trattano gli esseri umani in terra francese, quando due anni dopo discuto con i volontari delle associazioni a cui il nostro stato vieta di distribuire pane e acqua ai profughi, mi domando se Andrej non avesse ragione.

Quando porto assistenza ai senzatetto lungo il Boulevard périphérique di Parigi o nei bei quartieri della capitale e osservo i dispositivi anticlochard, dai frammenti di vetro incollati nei luoghi che occupano alle docce fredde che si azionano automaticamente per farli scappare, mi domando se Andrej non avesse ragione.

Quando leggo le testimonianze del personale delle case di riposo sul calvario sopportato dai nostri vecchi in quelle anticamere della morte, o quando sento i racconti delle ragazze aggredite in metrò davanti alle quali la gente si guarda le scarpe sperando che la vittima non urli troppo forte, mi domando se Andrej non avesse ragione.

L’uomo non è naturalmente né l’abbé Pierre né il conducente della Mercedes nera di Kiev. Non è niente naturalmente. Nel suo Trattato politico, Spinoza sottolinea quanto i nostri vizi e le nostre virtù siano influenzati dalle istituzioni e dall’atmosfera culturale delle nostre Città. Il nostro atteggiamento altruista o individualista è, come il resto, artificiale. Costruito. Ora, i genitori dell’homo oeconomicus hanno teorizzato e praticato la messa in secondo piano dell’empatia, la capacità che ha ciascuno di noi di uscire da se stesso per mettersi al posto dell’altro. E perfino la sua totale esclusione dal campo visivo.

Quando nel 2005 l’uragano Katrina inghiotte New Orleans, centinaia di migliaia di americani finiscono in mezzo alla strada e in città regna il caos. Milton Friedman scrive allora sul «Wall Street Journal»: «È una tragedia, certo. È anche un’occasione per riformare radicalmente il sistema educativo». Tutto sta nel “certo”, concessione superficiale alla morale comune, e nell’“anche”, che, come se niente fosse, affronta il fondo delle cose. Katrina diventa un’“opportunità”. La devastazione “permette” di ripensare la scuola pubblica (per privatizzarla, evidentemente). Richard Baker, il rappresentante repubblicano della Louisiana al Congresso, dice la stessa cosa in modo più rozzo: «Finalmente abbiamo ripulito gli alloggi popolari di New Orleans. Dio è riuscito là dove noi avevamo fallito». «Dio è riuscito»: il cataclisma è un’apocalisse. L’uragano permette di ricominciare tutto da zero. È, insomma, un vero e proprio regalo del cielo.

La giornalista e attivista Naomi Klein analizza questa “strategia dello shock” del neoliberismo contemporaneo: ogni grave deflagrazione, che sia naturale o politica, è l’occasione per fare tabula rasa del passato e sbarazzarsi una volta per tutte delle strutture collettive ereditate dalla storia, come l’istruzione pubblica o gli alloggi popolari di New Orleans. La reazione di Friedman e Baker a Katrina ricorda le impennate dei rivoluzionari del XX secolo. All’inizio della guerra di Spagna, l’anarchico Buenaventura Durruti proclamava davanti a Saragozza in fiamme: «Non abbiamo paura delle rovine, noi che portiamo un mondo nuovo nei nostri cuori». Trockij prometteva di spegnere il sole, se illuminava solo i borghesi. Anche Friedman e Baker hanno una rivoluzione da fare. E l’empatia non rientra nel loro campo visivo. Se non in quanto bersaglio da abbattere.

Schiacciare l’altro appena si può: non aspettare, gettare a terra, colpire, vincere. Schiacciare l’altro perché l’altro è un concorrente, reale o potenziale. Mettersi al suo posto significherebbe abbassare la guardia. Ma la guardia non deve mai essere abbassata, perché la società è una giungla in cui ogni animale vuole divorare il suo vicino. Ecco la massima di vita affidataci nel 1987, in The Art of the Deal, dal futuro presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. In Occidente l’individuo postempatico di cui parlava Andrej non si è limitato a progredire: troneggia al suo vertice. Lungi dall’essere una reliquia del passato, l’oligarca ucraino che ostenta la propria ricchezza, celebra la propria potenza e si gloria della propria sconvenienza, ha assunto nel 2016 il comando del cosiddetto “mondo libero”.

Secondo Naomi Klein, Donald Trump è un uomo-marchio, un individuo la cui intera vita è una strategia di marchio. Il suo modello di business poggia sul solo fatto di vendere il suo nome. Non costruisce niente, non finanzia niente lui stesso. Appone il suo nome a progetti inventati, sostenuti, pagati da altri. Ha un marchio, è un marchio. Qual è la legge di questo marchio? È precisamente la norma antiempatica, la dismisura, la hybris. Il timbro “Trump” garantisce un essere umano interamente guidato dalla sua stessa volontà di potenza, senza preoccupazione per l’altro o per le cose in comune, un iper-homo oeconomicus. Un uomo che si vanta di «afferrare le donne per la figa». Un uomo che vede nel fatto di frodare il fisco la prova lampante della propria intelligenza. E, soprattutto, un uomo che dice, accetta, rivendica pubblicamente tutto questo.

Trump ha fatto un grande passo verso la presidenza ripetendo con il maggior disprezzo e autocompiacimento possibile You are fired – “siete licenziati!” – nel reality show di successo The Apprentice. Questo ruolo di capo sadico, che recitava senza sforzarsi troppo, lo ha reso più popolare che mai. The Apprentice offre a coloro che non hanno mai messo piede in Russia o in Ucraina un’immagine perfetta della società in cui e contro cui vive Andrej. È il laboratorio di un mondo senza empatia, un mondo che ha scaraventato la common decency di Orwell nel cesso della storia e ha tirato lo sciacquone sorridendo alle telecamere. I losers vengono stigmatizzati perché se perdi è colpa tua e devi pagare per questo. I winners sono celebrati perché la vittoria è il segno del tuo valore intrinseco. Ed è il dio Trump che separa gli uni dagli altri, umiliando i (numerosi) losers e consacrando i (rari) winners tra gli evviva del coro di spettatori-elettori.

Il marchio “Trump” si basa su una promessa semplice, che si applica tanto alla politica quanto al business: comprando una cravatta Trump o infilando nell’urna una scheda elettorale Trump, vi unite al gruppo dei vincenti. Il fatto che il trumpismo seduca i declassati, quelli che si considerano come i perdenti della società di solitudine, è un paradosso solo in apparenza. Per prima cosa perché fornisce un capro espiatorio al loro smarrimento: l’immigrato o l’élite. Poi perché promette di colpire quelli che hanno «rubato il posto che occupano», quelle minoranze a cui «si concede sempre tutto». E infine perché la società postempatica genera il culto dell’autorità innanzitutto nei “perdenti”, il bisogno di un capo capace di proteggerli e di restituirgli il loro rango, la loro posizione sociale, la loro dignità.

Si vota per Trump anche se attacca i rari servizi pubblici di cui ancora si beneficia e anche se incarna il trionfo del denaro che ci schiaccia. Lo si sceglie non malgrado ma proprio in virtù della sua arroganza, della sua virulenza, della sua tracotanza. Che possa permettersi tutto senza perdere la sua base elettorale non dovrebbe sorprenderci molto: potersi permettere tutto è precisamente il cuore del suo marchio. La sua famosa battuta – «Potrei presentarmi sulla Quinta Avenue e sparare all’impazzata senza perdere uno solo dei miei elettori» – sfortunatamente non è solo un’esagerazione.

Mi sembra di sentire la presuntuosa obiezione dei miei compatrioti: Donald Trump è un’eccezione e la Francia dista anni luce dal sistema americano. È vero. Per il momento. E soltanto in parte, se si è onesti. Siamo immunizzati contro il virus di The Apprentice? Davvero da noi non vediamo alcuna tendenza, nelle parole e nei fatti, a quel culto di sé di cui il trumpismo è la volgare quintessenza? Quando il nostro giovane presidente della Repubblica ha un lapsus (o se lo lascia scappare, dipende) e, in mezzo agli startupper che sono incontestabilmente i vincenti del momento, spara che «una stazione ferroviaria è un luogo in cui si incrociano le persone che hanno successo e le persone che non sononiente», questo errore del linguaggio non rivela un inizio di prurito trumpista? Se aggiungiamo a questo l’ormai celebre «Il modo migliore per pagarsi un vestito è lavorare» lanciato a un militante sindacale e le battute sugli «sfaticati» o sugli «analfabeti di ritorno», non c’è forse uno scivolamento verso un linguaggio da vincente privo di ogni forma di considerazione per l’altro, per la sua situazione e per il suo essere?

Nella nostra bella repubblica esiste una tradizione consolidata: ogni presidente promette di alloggiare tutti i senzatetto. Nessuno lo fa realmente, ma sentirlo dire ci rincuora. Nell’estate 2017, Emmanuel Macron ha preso in prestito questo passaggio obbligato giurando che alla fine dell’anno più nessuno avrebbe dormito per strada. Non diversamente dai suoi predecessori, non ha conformato i suoi atti alle sue parole. Ma, anziché scusarsi o eludere le domande, ha mandato i suoi luogotenenti presso tutti i media audiovisivi a spiegarci in modo pedante che non c’erano più, in senso stretto, dei senzatetto fissi sui nostri marciapiedi. In una settimana, dal 30 gennaio al 5 febbraio 2018, il deputato Sylvain Maillard ha affermato che i senzatetto non volevano un riparo, il ministro Gérard Collomb che i minori non accompagnati rifiutavano l’accoglienza e il segretario di stato Julien Denormandie che le persone che dormivano all’aperto a Parigi erano appena una cinquantina. I miserabili decidono della loro miseria. Oppure sono scomparsi, non sono niente.

Il ragionamento neoliberista che rende ciascuno responsabile della propria ricchezza come della propria povertà si esprime con meno virulenza in Francia rispetto agli Stati Uniti, ma avanza da noi come altrove. Da qui la sempre maggiore difficoltà di capire il senso delle spese sociali o la funzione delle tasse. Come nota Thomas Porcher nel suo Traité d’économie hérétique1: «Perché pagare le tasse quando dobbiamo tutto solo a noi stessi?». Se colui che vuole può e colui che non può non vuole, allora a cosa serve il contesto socialdemocratico istituito dopo la crisi del 1929 negli Stati Uniti e la Seconda guerra mondiale in Europa?

Il culto del winner che deve il suo successo solo a se stesso lascia poco spazio all’empatia verso il perdente o il dominato. Se quello che vi succede dipende solo da voi, perché mettervi nei panni di chi ha deciso di fallire quando voi invece avete fatto ogni sforzo per riuscire? Sembra una cosa logica, eppure il ragionamento è assurdo. Noi non siamo solo delle volontà, cresciamo in un ambiente, ereditiamo una posizione, abbiamo un posto, una classe. Come osserva con lucidità il miliardario Warren Buffett: «La società è responsabile di una percentuale significativa di quello che ho guadagnato. Se mi cacciaste nel mezzo del Bangladesh o del Perù o in qualche altro paese, scoprireste quanto può produrre questo talento nel terreno sbagliato. Dopo trent’anni starei ancora lottando»2. Il successo individuale dipende dal quadro collettivo in cui l’individuo cresce. È un dato di fatto. Ma è un fatto che tendiamo a dimenticare sempre di più.

La crisi dell’empatia è generale e non semplicemente americana o anglosassone. L’emergere nel dibattito pubblico francese del famoso “reato di solidarietà” ne è l’esempio. Martine Landry è un’anziana signora incensurata della zona di Nizza. Milita in Amnesty International, ONG conosciuta in tutto il mondo e non certo sospettata di attività sovversiva. Un giorno, fa salire nella sua macchina due giovani migranti e li porta a una stazione di polizia di frontiera perché siano trattati secondo le nostre leggi. In seguito a quel gesto finisce sotto processo e rischia fino a cinque anni di carcere per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina3. In una lettera aperta ai giovani francesi pubblicata dal «Nouveau Magazine Littéraire», si interroga: «Il tribunale dovrà decidere: sono o non sono colpevole di aver portato quei due minori dal cartello “France” fino alla stazione di polizia di frontiera perché i servizi sociali venissero a prenderli in consegna?».

Ci esorta poi a «rifiutare una società fondata sul rifiuto dell’empatia e della fratellanza» e situa il suo caso in un quadro più generale, evocando in particolare Cédric Herrou, il contadino della Val Roia che passa la vita tra il sostegno ai profughi e i tribunali davanti ai quali viene regolarmente convocato. Ufficialmente la legge non riconosce il “reato di solidarietà”. Punisce, giustamente, i trafficanti che trasformano la miseria umana in un business, sanzionando ogni “contropartita finanziaria” per l’aiuto fornito ai migranti. Ma procedendo alla condanna di Cédric Herrou per “contropartita militante”, non instaura forse quel reato che dice di non riconoscere?

Nel valutare la questione, il Consiglio costituzionale ha ristabilito la preminenza del principio repubblicano di fraternità e dato ragione agli avvocati del contadino solidale. Per fortuna, ma questo deve far sorgere in noi delle domande: che si tratti di tribunali americani posti di fronte alle direttive di Donald Trump che prendono di mira i musulmani negli Stati Uniti o del Consiglio costituzionale francese riguardo all’accoglienza ai migranti, oggi sono delle istituzioni non elette a proteggere i principi di solidarietà e di empatia. Non i governi. Né le camere. Né un’ondata di indignazione da parte dell’opinione pubblica. Per quanto tempo queste istituzioni riusciranno ad andare controcorrente? La posta in gioco è alta perché l’empatia non è solo una questione morale, è la condizione che rende possibile una società libera e democratica.

Una notte, Priamo, l’anziano re di Troia, si reca segretamente all’interno dell’accampamento dell’esercito greco che assedia la sua città. Si getta ai piedi di Achille, il più grande eroe greco, e lo supplica di dargli il corpo del suo adorato figlio Ettore, da lui appena sconfitto in duello. Achille ha tutte le ragioni per uccidere o arrestare il capo dei suoi nemici. Le leggi della guerra, il diritto positivo, gli ordini di Agamennone gli impongono di consegnare Priamo. Ma lui lo guarda, in ginocchio, supplicante. E si riconosce in lui, nonostante i fiumi di sangue che li separano. Si immagina alla stessa età nella stessa situazione: si mette al suo posto. Lo fa alzare, gli dà il corpo di Ettore e lascia che se ne vada tranquillamente.

In questa splendida scena dell’Iliade, Achille incarna l’empatia. Omero la pone a fondamento della civiltà ellenica. Essa trova la sua traduzione francese in quella fraternità incisa sui frontoni dei nostri municipi e che, come la libertà e l’uguaglianza, costituisce nello stesso tempo l’orizzonte e il principio della nostra repubblica. Non può esserci democrazia stabile senza la capacità di concepire l’altro come un alter ego: un sistema politico in cui ognuno co-decide del futuro di tutti presuppone che ci riconosciamo come uguali al di là delle nostre differenze sociali e culturali. L’empatia è un presupposto etico alla cittadinanza. Ogni dispotismo lavora alla sua eliminazione per atomizzare e sottomettere. Riproducendo una simile logica, la società di solitudine contemporanea non mette forse in discussione la possibilità stessa della democrazia?

1. T. PORCHERTraité d’économie hérétique: Pour en finir avec le discours dominant, Fayard, 2018.

2. J. LOWEWarren Buffett Speaks: Wit and Wisdom from the World’s Greatest Investor, John Wiley & Sons, 2007.

3. Il processo a Martine Landry si è concluso il 17 luglio 2018 con una sentenza di assoluzione [N.d.T.].

L’arcipelago dei ghetti

Siamo a Parigi, il 30 giugno 2018, e la Francia affronta l’Argentina di Messi agli ottavi di finale della Coppa del Mondo. Guardo religiosamente le partite di calcio con gli stessi amici fin dai tempi delle superiori. Una questione di fedeltà e, dal trionfo del 1998, anche un fatto di superstizione. I discorsi che precedono la partita riguardano spesso la politica e quel pomeriggio Jean, compagno di tutte le mie battaglie di gioventù, se la prende con me: «Davvero non capisci perché sei così in minoranza sull’accoglienza dei migranti? Pensi sinceramente che le persone siano diventate fasciste? Perché credi che i tuoi nobili appelli all’empatia e alla solidarietà non vengano ascoltati? Dovresti spingerti un po’ oltre il Boulevard périphérique, ogni tanto…».

Cresciuto a Pantin, nella banlieue parigina, Jean lavora al reinserimento dei carcerati nel Nord. «Abbiamo sbagliato tutto. In Francia ci sono dei quartieri dove gli ebrei e gli omosessuali non possono più vivere senza nascondere quello che sono. Hai ragione, l’adesione a Daesh o al terrorismo resta bassa, ma il separatismo culturale e ideologico avanzano. Gli sguardi ostili o le osservazioni sgarbate contro le ragazze in minigonna, le aggressioni omofobe, le minacce contro gli ultimi ebrei che abitano in banlieue, tutto questo crea un’atmosfera irrespirabile, tutto questo fa paura. Non puoi colpevolizzare questa paura, perché è legittima. Ed è quella paura che porta le persone a non voler più accogliere in Francia le popolazioni musulmane. È comprensibile. Almeno bisogna cercare di capirlo.»

Gli faccio notare che i migranti dell’Aquarius non sono per niente responsabili dei fallimenti dell’integrazione repubblicana e non devono pagare per il comportamento di certi musulmani delle nostre banlieue, che lì c’è un’essenzializzazione che confina con il razzismo. Non batte ciglio: «È vero. È ingiusto che paghino per qualcosa di cui non sono affatto responsabili. Ma se vuoi essere credibile, devi analizzare da dove vengono queste logiche di rifiuto. Non vengono dal nulla. E non è Zemmour che le ha fatte nascere, lui non fa altro che cavalcarle. Il paragone con la mobilitazione dei francesi per i boat people nel 1979 che ti ho sentito fare non regge: i vietnamiti non avevano dei correligionari che imponevano la loro fede o la loro legge in interi quartieri del nostro paese. È la verità, e la verità finisce sempre per uscire. La sinistra ha perso quelli come me a forza di rifiutarsi di vederla, a forza di non dire le cose e di difendere un multiculturalismo cieco».

La conversazione continua e si scalda, fino a questa bomba: «Se va avanti così, se fate tutti finta di non capire quello che dico, finirò per votare…».

«Marine Le Pen?!?»

«Sì, perché no?»

«Lei rappresenta quello che abbiamo sempre combattuto. Voteresti per un partito razzista, per la fine della UE, per una serva di Putin? Rinunceresti a tutto quello che abbiamo sempre difeso per paura dell’islam?»

«Non mi fraintendere: io la detesto, lei e tutto quello che rappresenta, ma come si fa a farvi capire che non se ne può più di vedere la Francia affondare? Perché dovrebbe essere un crimine voler conservare le chiese nei paesini, un modo di vivere, una cultura? Non sono ancora arrivato a quel punto, ma promettimi che rifletterai bene su ciò che sto dicendo. Se vuoi difendere l’accoglienza dei migranti, la società aperta, l’umanesimo, fallo con intelligenza. Senza mentire. Ne a te stesso né agli altri. Non eliminare l’islamismo, interessati delle paure dei francesi, dei fallimenti dell’integrazione. E chiediti perché la sinistra disprezza queste paure ed evita di parlare di questi fallimenti.»

Conosco Jean alla perfezione. Abbiamo manifestato insieme decine di volte tra gli anni Novanta e il Duemila per difendere gli immigrati senza documenti, contro l’estrema destra, per i diritti umani. So da dove parte culturalmente e ideologicamente. E davvero non è di estrema destra. Ergermi davanti a lui e scandire slogan tipo «F come fascista, N come nazista» o alzare il pugno urlando «No pasarán!» invece di rispondere alle sue preoccupazioni non servirebbe a niente. Al contrario. Per risvegliare la sua adesione alla società aperta e alla visione cosmopolita su cui si basa, bisogna dimostrargli che si possono integrare coloro che arrivano e lottare contro l’islamismo e gli “imprenditori identitari”. Bisogna cercare di spiegargli anche che questo non sarà sufficiente, che dobbiamo combattere nello stesso tempo l’atomizzazione sociale, la diluizione del collettivo, la generale dismissione della repubblica. Perché, per integrarsi in una Città, bisogna prima poterlo fare, sapere a cosa integrarsi.

Più i legami sociali e civici si sciolgono, più le capacità di integrazione di una società diminuiscono. Questa erosione si verifica precisamente nel momento in cui le nostre nazioni sono più multiculturali, multietniche e multiconfessionali che mai. La concomitanza dell’indebolimento della dimensione comune e della diversificazione sempre più spinta del corpo sociale rende il problema così grande che può sembrare insolubile agli occhi di chi accetti di considerarlo seriamente. E portare, quindi, alla brutale chiusura dei porti, delle frontiere e degli animi.

Contrariamente al postulato neoliberista, le monadi umane non possono in concreto restare sole indefinitamente, soprattutto quando vivono la loro solitudine come una sofferenza. Private di orizzonti civici mobilitanti, si raggruppano in modo gregario, si ripiegano sul loro ambiente immediato e si rinchiudono spontaneamente in quello che sono o credono di essere. Là dove le strutture collettive di ordine politico si eclissano, gli individui si raccolgono in comunità basate sull’origine, sulla fede, sul colore della pelle… In Popolo vs Democrazia, Yascha Mounk riporta le parole illuminanti di un uomo politico americano: «Se qualche decennio fa avessi chiesto a uno dei miei elettori chi era, lui avrebbe detto: “Sono un caposquadra in fabbrica” […]. Poi però tanti lavori del settore industriale sono scomparsi. La gente ha preso una bella batosta economica, ma ha anche perso il senso d’identità. Se adesso gli chiedi chi sono, ti dicono: “Sono un bianco”».

L’individualizzazione dell’esistenza non porta all’assenza totale di identificazione collettiva, ma a identificazioni di sostituzione, infrapolitiche. Un proletario musulmano può allora ripiegarsi sulla sua “identità” confessionale come il caposquadra di Mounk si ripiega sulla sua “identità” bianca. Dire questo non relativizza per nulla la natura specifica e globale della minaccia islamista. Il fondamentalismo musulmano evidentemente non si spiega con la crisi delle democrazie liberali occidentali: scaturisce innanzitutto da una dinamica interna all’Umma. Sarebbe stupido affermare che la fine del servizio militare, la debolezza dei sindacati o dei partiti e la perdita dell’ideale civico in Francia siano responsabili dell’ascesa di Daesh in Iraq o del FIS in Algeria. Ma per combattere efficacemente l’islamismo nei nostri quartieri, oltre a lottare contro i predicatori di odio, bisogna riabilitare la repubblica nel suo insieme. Combattere l’ideologia e gli ideologi è essenziale. Ma non è sufficiente. Bisogna anche affrontare il problema globale dell’indebolimento della proposta universalista.

Il processo di disassociazione – la sensazione di non essere più associato, né per amore né per forza, al destino della Città – che tocca i giovani di Seine-Saint-Denis, tocca anche il giovane piccardo del McDrive sulla Route d’Amiens. O il borghese del XVI arrondissement di Parigi che dà fuoco a un centro di accoglienza per preservare l’impronta socioculturale del suo quartiere. O il radical chic del X che si sente a casa quando mette piede a Brooklyn e si crede su Marte quando arriva per sbaglio a They-sous-Vaudémont, un paese della Meurthe-et-Moselle che nel 2017 ha votato al 100 per cento per Marine Le Pen. È l’integrazione repubblicana nel suo insieme che è messa a rischio. Tacere o negare l’avanzata dell’islamismo sarebbe irenismo. Concentrarsi unicamente su quella, senza riflettere sulla disgregazione generalizzata del legame civico, è l’errore di ottica simmetricamente opposto.

È inutile denunciare la crescita del comunitarismo senza rimettere in discussione le logiche che rendono più profondo il vuoto di cui esso si nutre. Manuel Valls aveva ragione, poco dopo gli attentati del gennaio 2015, nel sottolineare «le fratture, le tensioni che covano da troppo tempo: il confino periferico, i ghetti, un’apartheid territoriale, sociale, etnica, che si è imposta nel nostro paese». Le sue erano parole forti, probabilmente perfino troppo forti nel citare l’apartheid. Quale politica è stata messa in atto per rimediare a quel confino, per distruggere i muri di quei ghetti, per porre fine a quell’apartheid? Nessuna. Limitando la propria lotta per la repubblica alla moltiplicazione di slogan antiislamisti e ignorando l’insieme dei processi centrifughi che minano l’appartenenza allo stato, la sinistra che rivendica di essere “repubblicana” diventa ossessiva.

L’altra sinistra, qualificabile come differenzialista, che sia liberale o radicale, conosce il problema inverso. Parte dal reale fallimento della repubblica nel combattere le discriminazioni o nel produrre un corpo politico unito e finisce per rinunciare alla proposta universalista in se stessa. Incontra così le tendenze centrifughe del neoliberismo. Think different, dice Apple. «Coltiva la tua differenza», gli fa eco il militante multiculturalista. Come as you are – “Vieni così come sei” – è un magnifico titolo per una canzone dei Nirvana o una pubblicità efficace per McDonald’s, ma non può essere una massima politica.

Nello spazio pubblico si entra «così come si è»? O bisogna separarsi da ciò che si è spontaneamente e trasformarsi in cittadini? Nel constatare che la promessa repubblicana non veniva mantenuta, qualcuno le ha voltato le spalle. Tuttavia, dire «siamo tutti, quali che siano le nostre origini, cittadini francesi uguali» è un enunciato performativo, un ideale, e non una teoria empirica basata sull’osservazione. L’osservazione mostra il persistere delle disuguaglianze, delle discriminazioni, del razzismo e del sessismo. Davanti a questa constatazione, si può o chiamare alla mobilitazione di tutti affinché l’ideale universalista smetta di essere calpestato, o desumerne l’inefficacia e fare viceversa della differenza un valore in sé. I militanti antirazzisti che denunciano l’astrazione della cittadinanza repubblicana a volte riprendono senza saperlo gli argomenti dei controrivoluzionari come Joseph de Maistre quando opponevano alla Rivoluzione francese questa verità di fatto: «Nel mondo non esiste l’uomo. Nella mia vita ho visto francesi, italiani, russi, ecc.; so pure, grazie a Montesquieu, che si può essere persiani; ma, quanto all’uomo, dichiaro di non averlo mai incontrato in vita mia; se esiste, è a mia insaputa».

Oggi nel dibattito pubblico si è consolidata una confusione tra due termini che sono tuttavia ben distinti: il cosmopolitismo e il multiculturalismo. È urgente ristabilire questa distinzione. Il cosmopolitismo cerca di costruire un corpo politico unito a partire da origini sociali, etniche e religiose diverse. È un’esigenza costante espressa nei confronti della Città e degli individui che la compongono. Il multiculturalismo, invece, dipende da una constatazione – il fatto che culture differenti coesistono sul territorio di una nazione – o dall’ideologia – la trasformazione di questo dato di fatto in finalità. Se è una constatazione, è innegabile e, dal momento che è innegabile, il suo valore politico è misero. Se diventa un’ideologia, si unisce al lavoro sotterraneo del neoliberismo e porta al frazionamento della repubblica. Il cosmopolitismo, al contrario, affida alla politica la sua missione più alta: creare unpopolo civile a partire da un corpo sociale molteplice e riconosciuto come tale. Confondere le due cose è una forma di pigrizia intellettuale pericolosa.

Fare del riconoscimento delle differenze un programma politico adorna il corso degli eventi – il raggruppamento dei simili e la separazione dei dissimili – di abiti progressisti. E si rivela a lungo termine catastrofico per le minoranze che si sostiene di difendere. Quando la lotta politica diventa un fatto di riconoscimento identitario, arriva fatalmente il giorno in cui la “comunità” più numerosa si afferma anch’essa in modo identitario. Allora si entra nell’era del “popolo maggioritario”. L’espressione viene dal Ruanda. Era la pietra angolare del regime segregazionista che portò al genocidio del 1994: il potere hutu, benché non eletto, affermava di rappresentare la maggioranza perché gli Hutu formavano l’80 per cento della popolazione. Vent’anni dopo, una simile concezione infrapolitica della rappresentanza e del popolo fermenta in Occidente. E diventa lampante nel caso dell’elezione di Trump.

Mentre la squadra della campagna elettorale di Hillary Clinton moltiplicava i messaggi video in spagnolo per rivolgersi agli ispanici in quanto ispanici e sottolineava il sostegno delle star nere per piacere agli afroamericani in quanto afroamericani, il businessman demagogo faceva appello alla “comunità” più massiccia: parlava agli americani bianchi in quanto americani bianchi, cosa che nessuno aveva osato fare prima di lui. Trump ha fatto la scelta vincente di una grande sostituzione elettorale, accettando di perdere una parte dell’élite repubblicana per guadagnare i colletti blu democratici. La sua vittoria ha segnato il trionfo del populismo identitario.

Il fiasco del 2016 è stato preparato dagli stessi Clinton quando, non avendo più niente da opporre a un mercato di cui si credevano i campioni, contribuirono a sostituire alle questioni sociali delle sfide culturali e comunitarie. La loro strategia fu ripresa in Francia, come dimostra una nota diventata famosa del think tank liberalsocialista Terra Nova del maggio 2011. Intitolata Sinistra: quale maggioranza elettorale per il 2012?, proponeva di sostituire l’elettorato operaio con una coalizione di minoranze discriminate e di nuove élite urbane. Molte persone si risentirono, ma Terra Nova non faceva che ratificare un processo già largamente avviato: la sostituzione, nel software della sinistra francese, della ricerca dell’uguaglianza di tutti con l’affermazione dei diritti di ciascuno. Nel momento in cui le disuguaglianze si accrescevano a gran velocità, si trattava di una capitolazione sociale. E di un suicidio politico.

La guerra di secessione

Nel mondo del vivere separato, l’elezione svolge il ruolo dello specchio e ogni scrutinio conferma i punti deboli territoriali delle nostre società. Dalla Polonia agli Stati Uniti, le mappe elettorali si assomigliano. Le grandi metropoli votano i sostenitori della società aperta, mentre le città di medie dimensioni e i piccoli comuni si schierano dietro i difensori del ripiegamento. Nelle sere di scrutinio, la costa orientale e la costa occidentale degli Stati Uniti scoprono con stupore che esiste un paese tra New York e San Francisco, le élite polacche imparano con angoscia che ci sono persone che vivono fuori da Varsavia.

Là dove la solitudine è una sofferenza, il bisogno di identificazione collettiva si esprime in modo più pressante. Donald Trump e i suoi amici europei propongono una specie di “noi” che i progressisti hanno rinunciato a proporre. Matteo Salvini, Marine Le Pen, Viktor Orbán e Nigel Farage non riducono la politica a un accompagnamento delle evoluzioni del mondo e promettono un’uscita dall’isolamento individuale, la rifondazione di un popolo. Certo, presentano una versione semplicista e pericolosa di ciò che è un “noi”, ma almeno ne presentano una, mentre i loro avversari non ne presentano alcuna; almeno fanno politica, mentre i loro avversari non la fanno; almeno si oppongono al corso degli eventi, mentre i loro avversari lo convalidano. Se l’unica ambizione che si contrappone loro è quella di difendere le libertà dello stato di diritto, continueranno ad accumulare successi e penetreranno nelle linee di difesa progressiste come un coltello nel burro1.

Le mappe elettorali di questi ultimi anni riabilitano crudamente la nozione di classi sociali, o più esattamente di classi socioculturali. La loro scomparsa era stata annunciata in contemporanea con quella dell’ideologia comunista. Eppure, lungi dal ridursi, il fossato che le separa non cessa di approfondirsi. Non si tratta di dire che i poveri e i ricchi un tempo vivevano in armonia, come fanno gli utopisti reazionari, ma di riconoscere che vivevano meno separati nel 1978 che nel 2018. Rifiutare la solfa per cui «era meglio prima» non deve portarci a intonare il ritornello altrettanto patetico per cui «oggi va tutto meglio».

La prima causa della separazione delle classi sociali è l’esplosione delle disuguaglianze. I divari di ricchezza non hanno più limite. Il 25 maggio 2005, sulla CNN, Warren Buffett riassunse con estrema franchezza la nuova distribuzione socioeconomica prevalente in Occidente: «C’è una lotta di classe, e a condurla è la mia classe, la classe dei ricchi. E stiamo vincendo». Le cifre sono inarrestabili. Negli Stati Uniti, negli ultimi trent’anni, l’1 per cento dei più ricchi hanno visto aumentare i loro redditi del 150 per cento, contro il 15 per cento soltanto del 90 per cento dei meno agiati. Secondo Thomas Piketty, tra il 1983 e il 2015 il reddito medio dell’1 per cento dei più favoriti è aumentato in Francia del 100 per cento, contro il 25 per cento per il resto della popolazione.

Nel 1978, gli amministratori delegati delle grandi aziende americane guadagnavano in media trenta volte il salario di riferimento nelle loro imprese. Oggi guadagnano trecento volte più dei loro impiegati. Thomas Porcher traccia la stessa analisi per la Francia: «Il compenso medio dei dirigenti delle centoventi maggiori aziende francesi è ormai centotrentadue volte più consistente di quello dei loro dipendenti». Le parole di Henry Ford sul carattere «socialmente inammissibile» del divario tra i redditi da uno a quaranta sembrano appartenere alla preistoria. Come far vivere una repubblica con divari di reddito che vanno da uno a trecento, dividendi a parte? Alain Minc, che non può essere accusato di essere un comunista militante, si meraviglia: «In fondo, per il momento l’unica sorpresa è la debolezza delle reazioni che suscita questa situazione contro natura».

L’esplosione delle disuguaglianze si accompagna a un processo di separazione fisica. La fondazione Jean-Jaurès il 21 febbraio 2018 ha pubblicato una lunga e brillante nota di Jérôme Fourquet sulla «secessione delle classi favorite». In trent’anni, la mescolanza sociale in Francia è arretrata ovunque, lasciando il posto a un’uniformità confortevole e desiderata per gli uni e dolorosa e subìta per gli altri. La questione dell’alloggio è rivelatrice: ricchi e poveri non solo vivono sempre meno negli stessi quartieri, ma spesso non abitano nemmeno nelle stesse città. Il rincaro dei prezzi del settore immobiliare e la terziarizzazione del tessuto economico hanno gentrificato le nostre metropoli. A Parigi, nel 1982, quadri dirigenti e professioni intellettuali rappresentavano il 24,7 per cento della popolazione attiva. Nel 2013 erano il 46,4 per cento. Nello stesso tempo, la percentuale di impiegati e operai si è dimezzata. Jérôme Fourquet constata: «Crescendo in un ambiente modellato sulla base dei loro bisogni, i membri delle classi favorite sviluppano un gregarismo sociale e un sistema di valori sempre più omogeneo». La stessa meccanica si ritrova a Lione, a Strasburgo, a Nantes e in tutte le grandi città francesi, tranne che a Marsiglia, per il momento2.

La scuola pubblica, il crogiolo repubblicano per eccellenza, non può rispondere a una simile separazione geografica delle classi sociali. Dal momento che gli istituti scolastici sono settorializzati, non adempiono più alla stessa missione in un paese dove i borghesi e i proletari vivono in città diverse. Tanto più che alla secessione spaziale si aggiunge il separatismo scolastico: le famiglie agiate optano sempre di più per il privato. Le scuole cosiddette “libere” scolarizzano la stessa proporzione di alunni (circa il 20 per cento) di trent’anni fa. Ma le loro caratteristiche sociali sono cambiate. Quella che dipendeva da una scelta confessionale è ormai una decisione di classe. L’uniformità avanza anche nelle Grandes écoles: la proporzione di figli di famiglie modeste all’ENA, all’ENS, al Polytechnique e all’HEC3 dal 1950 è stata divisa per tre.

I giovani francesi di classi sociali diverse non si incrociano più nel loro quartiere o a scuola, non si mescolano più durante il servizio militare: non si conoscono più. Come si può sperare, quindi, che abbiano coscienza di appartenere a uno stesso popolo? Quando la politica non ha più la minima idea, di solito fa appello allo sport, questo «splendido veicolo di integrazione» di una repubblica che, invece di plasmare dei cittadini, spera di addestrare qualche giocatore di calcio. Ma Kylian Mbappé resta un’eccezione. E il separatismo sociale si ritrova oggi perfino negli stadi. L’aumento dei prezzi degli abbonamenti esclude i poveri. Per capire la rivoluzione in atto basta andare a vedere una partita dell’Arsenal all’Emirates Stadium e poi ascoltare, in un pub, i vecchi che parlano di Highbury, il mitico vecchio stadio della squadra. Il Parc des Princes conosce un processo identico. La lotta contro l’hooliganismo, come in Inghilterra, ha permesso ai responsabili della squadra parigina di far passare l’imborghesimento delle sue tribune – un progetto economico – per una necessità di sicurezza. Il calcio, al di fuori dei due giorni di festa quando ogni vent’anni vinciamo la Coppa del Mondo, diventa a sua volta uno specchio delle logiche di differenziazione sociale.

I movimenti politici seguono la stessa tendenza, a cominciare dal Partito socialista. Negli anni Ottanta, manager e liberi professionisti convivevano ancora al suo interno con impiegati e operai. Un’immersione tra i militanti permetteva ai dirigenti di tastare il polso della società. Un polso evidentemente falsato perché politicamente orientato. Ma la mescolanza sociale esisteva. Non è più così. La quota di operai nelle sezioni è quasi nulla dall’inizio degli anni Duemila. Le questioni sociali sono quindi logicamente soppiantate dai temi sociocomunitari e dalla tematica dei diritti individuali. Un alto funzionario del PS confida così a Renaud Dély su «Marianne»: «Il nostro vero problema è che nelle nostre riunioni interne ci accapigliamo per due ore sulla maternità surrogata, e liquidiamo il minimo salariale orario lordo in cinque minuti».

Il fossato sempre più largo tra le élite finanziarie, culturali e politiche e il resto della popolazione fa vacillare il consenso democratico. Le classi popolari si allontanano da istituzioni e autorità che ratificano una simile segregazione sociale. E le classi favorite pensano di poter governare il loro paese senza uscire dalla loro cerchia. La democrazia liberale non lascia allora il posto a una forma di oligarchia elettiva?

1. La strategia “dei diritti” può funzionare solo con coloro che amano la propria solitudine o che sono direttamente sotto tiro da parte del “noi” promosso dai movimenti di estrema destra. Le élite globalizzate e le minoranze creano allora un’alleanza difensiva: l’alleanza di coloro che hanno troppo da perdere nell’avventura nazionalista. Un’alleanza di castori che costruiscono una diga di sbarramento per evitare il peggio. Tra i due turni delle elezioni del 2017, sono stato uno dei portavoce mediatici di una simile coalizione di castori. Considerando che un’elezione o un risultato molto alto di Marine Le Pen sarebbe stato catastrofico, non lo rimpiango, nonostante il mio profondo disaccordo con la politica di Emmanuel Macron. In compenso ne vedo chiaramente i limiti.

2. Del resto, probabilmente non è un caso se Marsiglia ha finora conservato un sindaco di destra: la gentrificazione dei quartieri popolari in quartieri signorili si coniuga con lo spostamento a sinistra delle grandi città. In attesa del 2020 e della trasposizione (o meno) del fenomeno macronista alle elezioni municipali.

3. L’ENA, che ha sede a Strasburgo, si occupa della formazione dell’alta funzione pubblica francese; l’ENS è l’École Normale Supérieure; l’HEC è l’École des Hautes Études Commerciales de Paris [N.d.T.].

Sulla corruzione

Siamo a New York, il 10 marzo 2011. Da tre anni lavoro a fianco del presidente Saak’ashvili all’integrazione europea della Georgia e quel giorno incontreremo un eccentrico uomo d’affari che patrocina un progetto immobiliare nella città portuale di Batumi. Dell’uomo dalla capigliatura arruffata che ci accoglie sorridendo ai piedi di un imponente grattacielo a Manhattan non so molto, tranne che apparentemente non gli piace pagare le tasse e che è una star dei reality show.

Una volta saliti fino a un ufficio senz’anima, cerchiamo di esporgli le riforme condotte in un paese che dopo la Rivoluzione delle rose si vanta di essere un modello di lotta contro la corruzione. Dopo cinque minuti, visibilmente poco interessato, lui annuncia a bruciapelo: I will be president, you will see – “Sarò presidente, vedrete”.

Notando la mia aria a dir poco guardinga si rivolge a me: «E lo sa perché sarò presidente?».

«Non proprio, perché?»

«Because I am the best. È semplice: sono il migliore. Punto. I am the best

Devo avere un’aria sempre più perplessa, perciò continua: «I am the best è semplicemente lo slogan da campagna elettorale migliore di tutti i tempi. Io sono il migliore e gli altri sono dei losers: cosa vuole di più? Venderò questa roba e, mi creda, funzionerà. Le persone vogliono il meglio. Guardi tutti i miei successi: eccomi qui! Here I am. The best».

Trattengo una risata: quell’uomo non potrà mai essere presidente degli Stati Uniti. E poi, si è mai visto uno slogan elettorale peggiore di «I am the best»? Per non essere maleducato, aggiungo senza crederci: «Può essere. Chi lo sa?».

«Io, io lo so.»

Meno interessato che mai alla lotta contro la corruzione nella piccola repubblica caucasica, cambia completamente discorso: «Conosce mia figlia Ivanka? È splendida. So smart! Vuole conoscerla?».

La cosa si fa imbarazzante. Per rompere il silenzio, spingendosi sempre più in là con la bizzarria ricomincia: «Do you like culture?».

Non sapendo come rispondere a una simile domanda, borbotto: «Naturalmente». Grave errore. Lui insiste: «Quindi ci rivediamo stasera. Conosce Mike? Le darà tutti i dettagli».

Michael Cohen, un ometto grigio che sembrava il contabile imbroglione di un film noir organizza dunque tutto1 e quella sera stessa andiamo a vedere The Phantom of the Opera a Broadway. La rappresentazione comincia con un’ora di ritardo perché non appena il nostro anfitrione arriva, tutta la sala si getta su di lui per farsi un selfie. Una signora mi porge il cellulare e così, accantonando la vergogna, divento il fotografo di quell’uomo arancione e dei suoi strani fan. È una ressa. Ci sono persone adulte che piangono letteralmente di gioia nell’abbracciarlo.

Lui sorride: «Gliel’avevo detto! People want Trump».

Quando il musical comincia, mi rendo conto che mormora le parole ancora prima che i cantanti aprano la bocca. Conosce The Phantom of the Opera a memoria. «Le avevo detto che amavo la cultura.»

Dopo lo show, corro a raccontare questa esperienza ai miei amici democratici di Brooklyn. Quando imito l’annuncio della sua futura elezione, scoppiano a ridere. Fioccano diversi «When pigs fly!», che è il loro modo di dire «Quando gli asini voleranno». Da allora, gli asini volano.

Cinque anni dopo, quando in piena campagna elettorale domandarono a Hillary Clinton perché lei e il marito nel 2005 erano stati presenti al matrimonio del tanto “deprecabile” Donald Trump, la sua risposta fu quanto meno leggera: «Pensavo che sarebbe stato divertente». Il suo avversario diede una spiegazione un po’ più convincente: «In quanto finanziatore, ho chiesto che fossero presenti. Quindi non avevano scelta». Poi, continuando a battere sullo stesso tasto: «Non avevano scelta, ed è proprio questo che non va nel nostro paese: è diretto da e per i finanziatori, i gruppi di interesse e i lobbisti, e non è una buona formula». Trump aveva ragione e Hillary Clinton trattava le persone come se fossero idiote.

L’attuale inquilino della Casa Bianca è nello stesso tempo il procuratore avveduto e l’incarnazione perfetta della degenerazione dei nostri sistemi politici. È stato eletto contro il “sistema corrotto” mentre faceva delle sue stesse frodi fiscali la prova della propria “intelligenza”. Il deal che firma con i suoi elettori si ispira al contratto proposto da Silvio Berlusconi agli italiani: «Farò per voi quello che ho fatto per me». È l’uomo privato, il businessman, che i suoi sostenitori prediligono, ben più che il partito che rappresenta. All’inizio del XXI secolo, «I am the best» è effettivamente «il miglior slogan da campagna elettorale».

Denunciare la mescolanza di ruoli non nuoce a Donald Trump, dato che lui ha venduto proprio questa mescolanza. Avendo già pensato di presentarsi nel 2000, prima di cambiare idea aveva dichiarato: «Può darsi benissimo che io sia il primo candidato alla presidenza a presentarsi e a farci su dei soldi». Oggi è cosa fatta. Dal suo ingresso alla Casa Bianca, la quotazione del marchio Trump sale ogni giorno, per il semplice fatto di essere il presidente della maggiore superpotenza mondiale e senza che abbia neanche bisogno di intraprendere questa o quell’azione per favorire le sue aziende – cosa che d’altronde non si nega. Che questo marchio depositi licenze in tutto il mondo dal 2016 appare quasi normale. È il risultato di un lento processo di corruzione della vita pubblica. Più che una rivolta contro “il sistema”, il trumpismo è la sua realizzazione. Peggio: è contemporaneamente una rivolta e una realizzazione, una realizzazione attraverso una rivolta.

Quando il finanziatore Trump ha deciso di assumere direttamente il potere presentandosi alle elezioni, ha preso atto di un ribaltamento in opera da decenni dietro le quinte. Tradizionalmente, in democrazia, le potenze private cercano di avvicinarsi al potere pubblico per ottenerne i favori. Oggi è vero il contrario: il leader politico è colui che cerca di piacere alle alte sfere economiche. «The Economist», bibbia delle élite liberali mondiali, nel luglio 2018 si stupisce che in Occidente la crescita esponenziale delle disuguaglianze in questi ultimi trent’anni si sia coniugata con una spettacolare diminuzione del posto che questo problema occupa nel dibattito pubblico. I nostri dirigenti politici parlavano di più delle disuguaglianze quando esse erano meno marcate. «The Economist» mette questa constatazione paradossale in parallelo con il peso crescente nella politica dei finanziatori privati e con la preponderanza delle grandi fortune tra i finanziatori privati.

L’ipotesi proposta dal giornale è semplice: «Nel momento in cui i ricchi diventano sempre più ricchi, crescono anche i mezzi a loro disposizione per spingere i politici a sottolineare questo o quell’aspetto della vita sociale». Più i ricchi sono ricchi, più immettono denaro nelle campagne elettorali e nel dibattito pubblico. E meno i politici combattono, in cambio, le sperequazioni di reddito che fanno la fortuna dei loro finanziatori. Più i ricchi guadagnano soldi, più ne versano ai “nostri” rappresentanti e più questi permettono loro di guadagnarne. I loro «mezzi per spingere i politici a sottolineare questo o quell’aspetto della vita sociale» superano del resto largamente l’ambito delle donazioni ai partiti o ai candidati, molto più regolamentati in Europa che negli Stati Uniti. Essi includono il finanziamento di think tank e media che strutturano il dibattito pubblico e plasmano l’immaginario.

L’atmosfera socioculturale in cui sono immersi i dirigenti politici è cambiata. «The Economist» osserva che ovunque in Occidente passano sempre più tempo a organizzare raccolte di fondi, tra i grandi patrimoni, e sempre meno tempo nelle loro sedi locali, a contatto con gli elettori e i militanti. Logicamente, e a volte senza neanche rendersene conto, sposano le preoccupazioni delle persone che vedono di più. Questo fenomeno è ben lungi dall’essere tipico solo degli Stati Uniti. Il 12 aprile 2018, Emmanuel Macron concede un’intervista a Jean-Pierre Pernaut su TF1. Interrogato in merito alla parziale abolizione dell’imposta di solidarietà sulla ricchezza (ISF), risponde spontaneamente: «Sono trent’anni che le persone ci dicono: quell’imposta è controproducente». Il giornalista non raccoglie, come se si trattasse di un’evidenza, e passa ad altro. Tuttavia abbiamo il diritto di sapere chi sono “le persone” che da trent’anni invocano l’abolizione di quell’imposta. In quale mercato, in quale città o paesino di Francia gli elettori si gettano sugli uomini e le donne che fanno politica per protestare contro l’ingiustizia e l’inefficacia dell’imposta patrimoniale? “Le persone” sono evidentemente quelle che Emmanuel Macron frequenta, con cui discute: l’ambiente in cui si muove da molti anni e di cui sposa la visione e la logica, gli interessi e il linguaggio.

«The Economist», che sarà difficile tacciare di essere una rivista “populista”, ha ragione: il circolo chiuso delle élite politiche, economiche e mediatiche produce un dibattito pubblico falsato. E gli aspetti della vita sociale che vengono sottolineati dai nostri dirigenti non riflettono sempre l’interesse generale. Prendiamo un esempio: secondo la Delegazione nazionale per la lotta contro la frode, nel 2015 il costo delle frodi nelle prestazioni sociali in Francia è risultato pari a 677 milioni di euro, mentre l’evasione fiscale ha rappresentato un mancato guadagno per lo stato di 21 miliardi. Ora, quale di queste due frodi è la più presente nei discorsi delle nostre autorità politiche? Incontestabilmente la prima. Controllare i disoccupati sembra essenziale. Lottare contro i sistemi ingegnosi messi in atto dai più abbienti per sfuggire all’imposta sembra meno urgente. Se si segue «The Economist», un simile squilibrio si spiega facilmente: i nostri dirigenti politici semplicemente frequentano più persone assillate dall’ISF che persone beneficiarie del reddito di solidarietà attiva (RSA). Lanciare una crociata contro l’evasione fiscale colpirebbe direttamente la loro cerchia di conoscenze (e di finanziatori), mentre stigmatizzare i poveri non costa loro socialmente nulla.

Una simile compenetrazione delle alte sfere economiche e politiche è esattamente ciò che Machiavelli chiama “corruzione”. Nella sua concezione, il termine indica – al di là di questo o quel reato chiaramente identificabile e sanzionabile da parte della legge – l’assorbimento dello spazio comune da parte di gruppi particolari, la messa sotto tutela del potere pubblico da parte di potenze private, l’interesse di qualcuno che diventa l’interesse generale. In altre parole: la progressiva degenerazione della democrazia in oligarchia. All’epoca di Machiavelli e di quegli stati italiani che vedono emergere contemporaneamente le banche e le repubbliche moderne, la corruzione è il problema supremo. Sono state accumulate in poco tempo fortune colossali e la questione che assilla i pensatori politici di allora è semplice: come impedire che quelle fortune prendano in ostaggio il processo politico? Machiavelli si interessa all’argomento a maggior ragione perché lui stesso è stato bandito da Firenze per aver tentato di impedire che i ricchissimi Medici egemonizzassero le istituzioni civiche. Ha lottato perché il denaro di un clan non pervertisse la cosa comune. Il denaro ha vinto. Ha dovuto esiliarsi. Da questa sconfitta e da questo ritiro sono nati i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. Ecco perché questo testo ci suona così contemporaneo. Il suo punto di partenza è la corruzione dello spazio pubblico e la privatizzazione del bene comune: il nostro mondo.

In un’appassionante inchiesta, Sphère publique, intérêts privés2, Antoine Vauchez e Pierre France analizzano la commistione di ruoli che mina la repubblica. Gli incessanti andirivieni degli alti funzionari tra lo stato e il mercato, la generalizzazione del fenomeno delle “porte girevoli” che coinvolge burocrati e grandi imprese, la moltiplicazione dei partenariati pubblico-privato, il processo costante di «subappalto dell’interesse generale a interessi privati» e la nascita di un nuovo campo giuridico – «il diritto pubblico degli affari» – che consacra questa indefinitezza: al di là dei casi accertati di corruzione, la sovrapposizione degli spazi pubblici e privati, giustificata in nome dell’efficienza e della «riconnessione alla vita reale», pone un problema politico importante.

Oggi nulla sfugge a questa confusione di interessi e di logiche. Neanche la guerra, che pure costituisce secondo Machiavelli il fatto pubblico assoluto. Il pensatore fiorentino si opponeva con forza alla professionalizzazione delle attività militari e all’impiego di mercenari da parte degli stati italiani. Una repubblica secondo lui non poteva delegare la decisione di entrare in conflitto né pagare delle truppe per condurre la guerra al suo posto. La crescita della figura del “condottiero” (il mercenario dell’epoca) costituiva ai suoi occhi il culmine della corruzione civica, la promessa di un crollo generale. Rintracciamo i primi frutti di una simile decadenza nella privatizzazione delle operazioni militari che le diverse amministrazioni statunitensi hanno avviato da trent’anni a questa parte.

Per comprendere il fenomeno, soffermiamoci per un istante sulla figura di Erik Prince, “condottiero” del nostro tempo. Fondatore di Blackwater, la più grande “compagnia militare privata” (CMP) del mondo, scorrazza sui teatri delle operazioni dell’esercito USA in giro per il mondo. Più Washington va in guerra, più Erik Prince guadagna soldi. Nel solo 2007 firma con lo stato contratti per più di un miliardo di dollari. In quell’anno, mentre non meno di centosettantasette CMP operano in Iraq, Blackwater vi dispone di una truppa di 1.200 uomini. Il 16 settembre, una delle sue squadre uccide diciassette civili iracheni in piazza Nisour, nel pieno centro di Baghdad. Questo massacro, seguito dalla vittoria di Obama alle elezioni, segna il ritorno di una forma di controllo politico. Per qualche tempo Prince viene emarginato. Ma presto torna alla ribalta e si impone come una figura chiave della squadra di transizione di Donald Trump, tanto da incontrare alle Seychelles una persona vicina a Putin per aprire un canale di comunicazione parallelo tra l’entourage del presidente eletto e le autorità russe, tagliando fuori il Dipartimento di Stato. Inoltre sovrintende alle nomine al Pentagono, scegliendo i responsabili pubblici che gli proporranno poi contratti vantaggiosi. L’inversione dei ruoli è spettacolare. Un operatore privato plasma un’amministrazione pubblica, e non una qualsiasi: l’amministrazione che si fa carico della difesa dello stato. Erik Prince, il mercenario che designa i suoi futuri datori di lavoro, è l’incarnazione contemporanea dei peggiori incubi di Machiavelli.

Questi incubi si materializzano fisicamente nel cuore delle nostre città. L’indifferenziazione sempre più diffusa tra spazio pubblico e spazio privato modifica totalmente il nostro modo di concepire il mondo che ci circonda. I mall – centri commerciali – sono diventati i principali luoghi di socializzazione di molti agglomerati urbani. Le loro “piazze” e le loro “strade” spesso sono più frequentate delle piazze e delle strade veramente pubbliche. Nel cuore stesso dell’Occidente, Times Square simboleggia in modo magistrale questa cancellazione delle frontiere tra ciò che è comune e ciò che è particolare. Il “crocevia del mondo”, probabilmente lo spazio “pubblico” più famoso del pianeta, è di proprietà della Times Square Alliance. Questo consorzio ne assicura la pulizia e la sicurezza usando la propria rete di telecamere di sorveglianza, cacciando i senzatetto, intervenendo in caso di incidente. Un simile spazio può ancora essere chiamato “pubblico”? Si riesce a misurare l’implicazione politica della privatizzazione di piazze e strade? Si può immaginare una rivoluzione all’interno di un lifestyle center?

Si obietterà che è inutile parlare di spazi fisici quando la nostra socializzazione è sempre più virtuale. Forse, ma Facebook pone gli stessi problemi e suscita la stessa vertigine di Times Square. Questo “luogo” essenziale del dibattito pubblico contemporaneo è un’impresa commerciale. Ora, un’agorà può essere una proprietà privata? L’altro problema sollevato dal social network più popolare del mondo riguarda il suo algoritmo. Lo spazio pubblico repubblicano presuppone la casualità degli incontri e il confronto tra opinioni divergenti. Tuttavia, degli amici americani mi hanno confessato di non aver mai incrociato su Facebook un solo sostenitore di Trump. I nostri nuovi “spazi pubblici”, che in realtà sono privati, danno l’illusione della vita comune, ma coltivano il vivere separato.

Il caso di Facebook è illuminante perché Mark Zuckerberg non è semplicemente il figlio di Reagan e della Thatcher, ma anche della controcultura degli anni Sessanta e Settanta, il figlio di cinquant’anni di emancipazione dei corpi e delle coscienze. Credere che la corruzione del senso civico e la cancellazione dei confini tra pubblico e privato scaturiscano solo dal neoliberismo può essere confortante per una persona di sinistra, ma è falso. Il nostro stesso programma ideologico vi ha largamente contribuito.

1. Michael Cohen era all’epoca l’avvocato e l’uomo tuttofare di Donald Trump. Incappato in un’inchiesta federale, pronto a mollare il suo ex capo, è diventato nemico del presidente americano.

2. P. FRANCE, A. VAUCHEZSphère publique, intérêts privés. Enquête sur un grand brouillage, Presses de Sciences-Po, 2017.


I figli del 1968

Tutti noi siamo figli del maggio ’68. Siamo nati dopo la vittoria dell’individuo su ciò che gli impediva di pensare, di vivere, di scopare. E anche di consumare. Dopo la rivolta della società contro lo stato. Dopo la rivincita del presente sul passato e sul futuro, vale a dire dopo la scomparsa del tempo concepito come l’inserimento di ciascuno in un continuum che lo precede, lo prolunga e lo vincola. «Qui si è spontanei» proclamavano i profetici muri della facoltà di Lettere della Sorbona. Ci sottraiamo così ai vincoli spaziali, “chattando” con un’amica di Singapore mentre ignoriamo il nostro vicino di pianerottolo. Siamo liberi.

Se siamo tutti figli del ’68, io sono incontestabilmente uno dei suoi figli più fortunati. Nessuna delle derive post-sessantottine ha afflitto la mia esistenza. Sono cresciuto in una casa aperta ma solida. Il clima era festoso, conviviale. Né sinistra gruppettara né gauche caviar. Quando François Mitterrand fu eletto nel 1981 e gli intellettuali “progressisti” cominciarono a spartirsi gli appartamenti di servizio, un futuro ministro chiamò mio padre per chiedergli dove desiderava andare a vivere. Mio padre, indignato, decise di scappare lontano da Parigi. Quindi ci siamo trasferiti a Savoisy, un paesino di trecento anime in Borgogna. Dopo tre anni e una batosta del Partito socialista alle comunali, siamo tornati. Il nostro quartiere, il X arrondissement, era tutt’altro che povero, ma non era ancora diventato un paradiso radical chic. La mia scuola superiore pubblica non era né troppo buona né troppo scadente. I miei professori non votavano alcun culto all’ordine o alla competizione, ma nemmeno lasciavano che il caos e l’ozio attecchissero. Io ero totalmente libero, a patto di portare a casa dei bei voti. E di comportarmi in maniera civile.

Accoglievamo nel nostro appartamento combattenti afgani, femministe algerine, dissidenti antimarxisti dell’Europa orientale, oppositori marxisti dell’America latina. Il mondo sbarcava nel nostro salotto e, a volte, con mio grande disappunto, occupava la mia stanza. Leggevo i classici e ascoltavo il rap, senza vederci la minima contraddizione. Dal momento che il mio ambiente era spontaneamente europeo, ho vissuto l’arrivo dell’euro come un’ovvietà. Dal momento che la mia educazione era cosmopolita, la globalizzazione si offriva a me come un’opportunità e non come una minaccia. L’epoca aveva solo cose belle da offrirmi. Io ero fatto per lei.

L’inquietudine che mi pervade oggi è quindi tutt’altro che spontanea. Sono nato dalla parte giusta dello steccato sociale e culturale, faccio parte di coloro che sono preparati a trarre profitto dal corso degli eventi. È stato solo uscendo dalla mia condizione personale che ho potuto abbandonare le certezze legate alla casualità della mia nascita. Questo ha richiesto del tempo, e oggi non scrivo più quello che scrivevo dieci anni fa, quando credevo nell’espansione illimitata del modello democratico occidentale e sorvolavo sulle critiche reazionarie o conservatrici dell’individualismo liberale. Oggi avrei altri dubbi, più profondi, da esporre a mio padre circa l’eredità della sua generazione, e rimpiangerò per sempre di non essere riuscito ad avere con lui la conversazione che avrei potuto e dovuto avere1.

Spero che avrei sostenuto le stesse idee con la stessa forza e la stessa sincerità dei miei genitori, se fossi stato al loro posto. Ma noi non parliamo, non partiamo dallo stesso punto, e la questione del punto di partenza è fondamentale. I nostri genitori sono nati in un universo saturo di senso, di dogmi e di miti, che fossero di destra o di sinistra, rivoluzionari o tradizionali. Per condurre una vita degna e libera, dovevano spezzare le catene che impastoiavano i loro corpi e le loro menti. Noi siamo invece nati in un mondo in cui il problema non è l’eccesso di ideologia, ma la sua antitesi: il vuoto.

Per i figli di questo vuoto, la ricerca di una vita dignitosa e libera esige di ritessere un legame piuttosto che di spezzare delle catene. Oppure di capire che l’assenza di un legame è la catena che dobbiamo spezzare. L’emancipazione resta il nostro orizzonte, ma il senso che diamo a questo termine è differente, così come la strada da imboccare per arrivarci. Se nel 1970 lo sgabello di Matteo esigeva da un “intellettuale di sinistra” che rompesse con il catechismo marxista-leninista, che leggesse Solženicyn e imparasse a pensare con la sua testa, nel 2018 gli ordina di uscire dal vuoto postideologico che lo circonda e lo abita. La sfida sta nel comportarsi, pensare, agire in modo adeguato rispetto al nostro tempo e al nostro ambiente. Ma bisogna accordarsi su quello che si intende con “adeguato”.

Essere adeguati rispetto al proprio tempo significa conformarsi al corso degli eventi, sposare le tendenze dell’epoca? O piuttosto il contrario, ossia andare controcorrente rispetto a ciò che accade “naturalmente” per mantenere una forma di equilibrio? Anche se il significato di una parola può sembrare poco importante, esso a volte genera e rivela visioni opposte del mondo e della Città. La questione del senso da dare al termine “adeguato” riassume così quasi da sola tutte le mie divergenze con un altro figlio del ’68: Emmanuel Macron.

Avrei potuto essere sedotto dalla sua “rivoluzione progressista”. L’immagine è bella: un rappresentante della mia generazione si erge contro i vecchi partiti, le vecchie logiche, le vecchie idee, tesse le lodi della gentilezza, difende la società aperta, respinge la tentazione dei capri espiatori, si congratula con Angela Merkel per aver accolto i rifugiati, delinea un “patto girondino2” per la Francia, promette di farla finita con gli “arresti domiciliari”, intende risvegliare un’Europa addormentata, conosce i classici e parla la lingua dell’epoca. Da dove viene dunque la diffidenza che mi anima fin dalla sua apparizione sulla scena politica?

Certo non da una sacralizzazione di quella “sinistra” moribonda che ai miei occhi assomiglia già da molto tempo al pappagallo impagliato di Félicité in Un cuore semplice di Flaubert: un totem roso dai vermi. La mia diffidenza non viene neanche da un antiliberalismo pavloviano. Né tantomeno da un antielitarismo primitivo (ho seguito le sue orme al liceo Henri-IV e poi a Sciences-Po). No, essa deriva da questa semplice domanda: come produrre una politica adeguata alla nostra epoca, che risponda ai problemi del nostro tempo? E da quella, più vasta, che ne consegue: cos’è la politica?

Il candidato Macron promette di adattare la Francia al mondo, di liberare le energie, di far saltare le costrizioni, di rendere la società più fluida, di superare le ideologie, di scavalcare i corpi intermedi, di emancipare gli individui. In sintesi, di sposare – in modo aperto e non più dissimulato, esaltato e non più timoroso – le evoluzioni del mondo. L’“adeguamento” come lo concepisce è un conformismo entusiastico. È l’epoca della deregulation? Deregolamentiamo! L’individualizzazione trionfa? Individualizziamo! I corpi intermedi sono in crisi? Disprezziamoli! Cosa c’è di disruptif, di “dirompente”, aggettivo di cui gli piace tanto adornarsi, nel fatto di soffiare fino a questo punto nella stessa direzione in cui tira il vento?

Fin dall’inizio, ascoltandolo e leggendolo, capisco che non abbiamo lo stesso rapporto con la politica. Lui pensa che debba accompagnare e amplificare le tendenze dell’epoca. Io sono certo, al contrario, che debba essere controciclica, che abbia il compito di correggere o di invertire il corso degli eventi. Guardandolo durante la campagna elettorale, così dotato, mi sono detto che tra l’École Nationale d’Administration e la banca Rothschild avrebbe dovuto andare per un po’ alla scoperta delle periferie del mondo, capire che ciò che avevamo imparato, lui e io, non necessariamente funzionava e che c’era un problema di fondo nel software che entrambi avevamo ereditato. «Siete decine di migliaia e io non distinguo che pochi volti…»: la marcia solenne nel cortile del Louvre e le prime parole pronunciate davanti alla Piramide la sera dell’elezione sono un puro concentrato di macronismo. Il giovane presidente si rivolge a una moltitudine di “io”. Si ha davvero l’impressione che parli a ciascuno di noi preso singolarmente. È la sua forza. E anche la sua debolezza. Abbracciando la rivoluzione individualista, non può far nascere un “noi” e ridare un senso alla sua funzione se non attraverso la messa in scena della propria autorità. Da qui il decoro magniloquente di quella prima notte di regno. La politica diventa uno spettacolo. Meno il potere è grande, più deve esibirsi e dichiararsi.

Emmanuel Macron è troppo intelligente per non preoccuparsi del vuoto che corrode le nostre democrazie, capisce l’assoluta necessità di restituire all’artefatto politico la sua credibilità. Ma anziché rinnovare il progetto repubblicano riabilita l’estetica monarchica. Secondo lui, la testa tagliata di Luigi XVI ci perseguiterebbe ancora e spiegherebbe questo vuoto. Sul settimanale «Le 1» dell’8 luglio 2015 dichiara: «La democrazia implica sempre una forma di incompiutezza, perché non basta a se stessa. […] Nella politica francese questo assente è la figura del re, di cui penso fondamentalmente che il popolo francese non abbia voluto la morte. Il Terrore ha scavato un vuoto emozionale, immaginario, collettivo: il re non c’è più! In seguito si è cercato di reinvestire quel vuoto, di riempirlo con altre figure: sono il momento napoleonico e quello gollista, in particolare. Nel resto del tempo, la democrazia francese non satura lo spazio. Lo si vede chiaramente nel continuo interrogarsi sulla figura presidenziale, che dura fin dalle dimissioni del generale de Gaulle. Dopo di lui, la normalizzazione della figura presidenziale ha reinsediato una sedia vuota al centro della vita politica. Eppure, quello che ci si aspetta dal presidente della Repubblica è che occupi quella funzione».

Emmanuel Macron preferisce ristabilire la funzione – e la finzione che vi si accompagna – piuttosto che la missione. Ai suoi occhi, Hollande non ha fallito per non aver saputo o voluto essere Roosevelt proponendo un New Deal che ridesse un senso alla democrazia, ma per non aver saputo o voluto imitare Luigi XIV. La sua risposta alla crisi dell’autorità pubblica sarà quindi formale. Proporrà un’estetica, più che una politica. Tornare a una simbologia gollista-mitterrandiana, twittare orgogliosamente il video dell’umiliazione di un adolescente maleducato, organizzare visite notturne alla basilica dei re di Francia: tutto questo è logico.

Più colui che dirige lo stato si conforma a regole del gioco non emanate da lui stesso (quelle del mercato), più prende l’aspetto del demiurgo che ha rinunciato a essere. Può sembrare paradossale, per un uomo così preoccupato di se stesso e del suo posto nella storia, ma Emmanuel Macron manca di ambizione politica. Più precisamente: manca di ambizione per la politica. Léon Blum e Franklin D. Roosevelt, che avevano dei progetti realmente innovatori, avevano forse bisogno di giocare agli dèi antichi, di invocare i mani dei re o di rimproverare severamente dei prepuberi per sembrare “dirompenti” e segnare la loro epoca3?

Dato che la richiesta di senso e di trascendenza formulata dai figli del vuoto non può essere soddisfatta se non in modo molto parziale ed effimero da un’estetica, Emmanuel Macron fa regolarmente appello alle religioni. La marcia nel cortile del Louvre, il discorso davanti alla Piramide e quello al Collège des Bernardins sono legati. Dopo aver esortato i cattolici a impegnarsi nella cosa pubblica in quanto cattolici, Emmanuel Macron quella sera davanti ai rappresentanti della Chiesa assicura: «Come capo dello stato, sono garante della libertà di credere e di non credere, ma non sono né l’inventore né il promotore di una religione di stato che sostituisca alla trascendenza divina un credo repubblicano». La repubblica non è un credo, la laicità non è una religione: ripete queste due frasi continuamente e noi le accettiamo come delle ovvietà. Solo che in Francia non hanno proprio niente di ovvio. Per i Soldati dell’Anno II e per i radicali del 1900, la repubblica era precisamente un “credo”: «Un francese deve vivere per lei, per lei un francese deve morire», dice il ritornello del Chant du Départ, l’inno rivoluzionario cantato a Fleurus nel 1794 e ripreso perfino nelle trincee della Prima guerra mondiale. La repubblica è agli occhi dei rivoluzionari il tentativo di unire gli esseri umani a qualcosa che li superi e li vincoli, li istituisca come popolo e li trascenda. «Una religione civile», per dirla come Machiavelli.

Se la repubblica non può più inventare un credo, per estinguere la sete di trascendenza dei cittadini deve far appello alle metafisiche esistenti. Così, a Roma, in margine al suo incontro con papa Francesco, Emmanuel Macron dichiara: «Noi abbiamo antropologicamente, ontologicamente, metafisicamente bisogno della religione». Una simile asserzione, quando la nostra società è sempre più atea e agnostica e, secondo lo stesso Giovanni Paolo II, «gli europei vivono come se Dio non esistesse», non è basata su alcuna osservazione empirica. Non deriva da alcun ragionamento logico, non è altro che la conseguenza della concezione minimalista della politica dei liberali contemporanei: dal momento che la politica non può produrre senso o trascendenza, allora abbiamo bisogno dei monoteismi.

Senza grandi progetti che giustifichino la loro esistenza, i dirigenti politici perdono il loro prestigio. Diventano sempre più rapidamente impopolari. Jacques Chirac, Nicolas Sarkozy e François Hollande raggiungono l’apice del rifiuto fin dal secondo anno del loro mandato. Emmanuel Macron segue la stessa china, nonostante una comunicazione più rodata. È la classe politica nel suo insieme a essere giudicata inutile. I cittadini chiedono dunque l’accesso alle leve del potere da parte di membri della società civile e di persone provenienti dalla “vita reale”. En Marche ha colto perfettamente questa richiesta e ci ha giocato. A ragione, tanto il rinnovamento è un’esigenza e l’endogamia una minaccia per la democrazia. La promessa fatta nel 2017 di aprire i poteri esecutivi e legislativi alla “società civile” era perciò lodevole. Perfino vitale. Ma anche qui, di nuovo, bisognava intendersi sul significato dell’espressione “società civile”…

Il rinnovamento e l’apertura ci sono stati. Il risultato? I deputati di En Marche provenienti da ONG, sindacati e associazioni sono largamente meno numerosi di quelli provenienti dal settore commerciale. La lista delle collaboratrici e dei collaboratori diretti del presidente provenienti da grandi gruppi privati è senza precendenti nella nostra storia: quadri dirigenti di MSC, Havas, DGMConseil, L’Oréal, Areva, Morgan Stanley, Paribas, Heineken e Capgemini hanno varcato a raffica le porte dell’Eliseo. La società civile invitata al vertice dello stato si adatta troppo ai contorni delle alte sfere economiche perché non ci si interroghi: non ritroviamo qui, sotto i fronzoli di una “rivoluzione” progressista, quella corruzione del senso civico di cui parla Machiavelli? Il nostro presidente sembra spingere con costanza e brio lo sgabello di Matteo nella direzione della caduta.

Emmanuel Macron è solo l’ultima incarnazione dell’accecamento delle élite occidentali in merito alle cause della crisi che attraversano le nostre democrazie. Hillary Clinton ha perso contro Donald Trump perché nemmeno vedeva il problema di cui si era impossessato il suo avversario. Lo stesso vale per Matteo Renzi, l’Emmanuel Macron di cinque anni prima, contro Matteo Salvini e Beppe Grillo. Non cogliere le implicazioni per la democrazia dell’atomizzazione sociale, dell’esplosione delle disuguaglianze e della disgregazione dei legami civili rende impossibile ogni resistenza efficace al dilagare del populismo. Un lifting non cambierà nulla: è necessaria una vera rivoluzione, mentale e filosofica.

1. L’assenza di questa conversazione è unicamente colpa mia. Discutevamo continuamente e non ho mai incontrato un uomo più incline a lasciare spazio alla parola altrui. Passava intere cene ad ascoltare e a interrogare coloro che avevano qualcosa da dire, il che ha del miracoloso per un intellettuale parigino. Ma io non ero pronto, non ero ancora uscito da me stesso. E quando finalmente il mio software è cambiato, quando lo stupore di fronte alle sorprese del mondo ha fatto vacillare le mie certezze originarie, migliaia di chilometri ci separavano; poi la sua malattia ha preso il posto della mia lontananza geografica. Devo dunque portare avanti questa conversazione senza di lui.

2. Si tratta del “patto” tra lo stato e le collettività promesso dal presidente Emmanuel Macron con evidente richiamo storico alla fazione rivoluzionaria moderata dei girondini, che ai tempi della Convenzione nazionale (1792-1795) propugnò un modello di governo federale basato sul decentramento dei poteri, in contrapposizione al centralismo statalista sostenuto dalla fazione radicale dei montagnardi [N.d.T.].

3. L’importanza attribuita alla figura del capo permette inoltre di gettare un pudico velo sulle incoerenze dei programmi ideologici a confronto. È vero per il “giupiterismo” macroniano, ma anche, all’opposto, per il leader carismatico di cui Chantal Mouffe ed Ernesto Laclau, gli ideatori del “populismo di sinistra”, vantano i meriti e di cui Jean-Luc Mélenchon è la declinazione francese. Come far coabitare in uno stesso movimento nazionalisti e internazionalisti? Ci vogliono il verbo e l’autorità di Mélenchon, una sorta di punto poetico bretoniano in cui gli opposti si sposano e le contraddizioni svaniscono. La République En Marche di Macron e La France Insoumise di Mélenchon hanno in comune il fatto di non parlare più di destra e di sinistra. Poiché la sostituzione della discriminante che ha strutturato la nostra vita politica dalla Rivoluzione del 1789 con le dicotomie “popolo-élite” (La France Insoumise) o “società aperta-società chiusa” (La République En Marche) non ha prodotto la chiarezza ideologica sperata, e addirittura ha aggiunto indeterminatezza all’indeterminatezza imperante, il dibattito pubblico si trasforma in scontro tra capi che esagerano il loro ruolo. Uno spettacolo. Come vuole l’epoca.


ATTO II

IL VIVERE POLITICO

L’autorità democratica

Julie è una giovane maestra elementare. La sua prima conta ventitré alunni. Tre sono avanti e sanno già leggere perfettamente, tredici rispondono bene o male alle aspettative dell’istituzione scolastica e sette hanno grosse difficoltà. Il compito di Julie è complesso. La società esige che permetta ai primi di realizzarsi, che impedisca agli ultimi di mollare e che insegni a tutti lo stesso programma. Julie impara a destreggiarsi tra le nostre richieste paradossali.

Lo spirito del tempo le ha fatto ben capire che soprattutto non deve imbrigliare i più dotati: sono i famosi “capicordata”, e il loro successo deve servire da esempio agli altri. A condizione tuttavia che la corda esista. Per farla esistere, Julie cerca di trasmettere a tutti i suoi alunni la consapevolezza di far parte di una stessa classe. Mette pazientemente in atto un sistema di ridistribuzione dei talenti e delle conoscenze, e impone una forma di mescolanza mischiando alunni di diverso livello in uno stesso gruppo di lavoro di cinque o sei: un corpo intermedio. Dosando obblighi e incitamenti, suscita un sentimento di solidarietà tra i bambini, al di là dei loro successi o insuccessi personali.

Quello che vale per la classe di Julie, vale anche per la società. Le disuguaglianze non possono essere tutte cancellate e ognuno deve potersi realizzare. Ma la corda e la coscienza collettiva a volte si fabbricano frustrando i desideri e gli interessi individuali. Perché le disuguaglianze non impediscano la formazione di un popolo, sono necessari un orizzonte comune e una ridistribuzione equa delle ricchezze. La politica è l’artificio che crea la corda, plasma l’orizzonte, organizza la ridistribuzione e permette così l’esistenza di una nazione. La società senza politica è una classe senza Julie: una giungla. E, se il compito dell’insegnante è difficile, quello dell’autorità politica lo è ancora di più perché non si esercita sui bambini, ma su quegli stessi adulti che ne scrivono i programmi e che la rimettono costantemente in discussione.

La scuola, come la Città, deve proibirsi ogni forma di favoritismo. Se Julie accorda una preferenza troppo palese ai suoi tre allievi migliori, perde il controllo degli altri. Se si concentra sulla realizzazione dei “capicordata” a scapito del resto della cordata e della corda stessa, rischia di far piombare l’intera classe nel caos, e nessuno si stupirà se gli alunni fanno gazzarra. Perché quindi stupirsi delle scosse populiste quando i nostri dirigenti si allineano a tal punto agli interessi dei più fortunati tra noi? Perché stupirsi del crescente disprezzo per l’autorità pubblica quando essa abbandona l’idea di riorganizzare la società in modo più giusto, rinuncia all’esercizio del potere che le abbiamo affidato e si accontenta di essere una messa in scena di se stessa?

Farla finita con la governance

Il mondo è “complesso”: la cosa non è nuova, ma è sempre più vera. La rivoluzione tecnologica, la globalizzazione dell’economia, il groviglio dei trattati internazionali, delle norme europee e delle leggi nazionali esigono un tale livello di conoscenza e di competenza che i dirigenti politici hanno progressivamente delegato il governo effettivo delle nostre Città agli esperti. Sul palcoscenico, i nostri rappresentanti parlano, si fanno eleggere, garantiscono lo spettacolo, mentre i tecnocrati dietro le quinte sanno, governano, agiscono.

Questa nuova divisione dei ruoli si è tradotta nel linguaggio con lo slittamento dalla parola “governo” al termine “governance”. Quando ero studente a Sciences-Po, la “buona governance” e la “governance globale” erano i concetti chiave. In fondo, cos’è la “governance”? È il governo senza la politica. Senza la democrazia. Il governo degli esperti. Esattamente ciò che oggi i popoli rifiutano.

In Génération gueule de bois1, traccio il ritratto di un alto funzionario europeo che tratta con sufficienza le passioni nazionaliste che agitano il continente e che dichiara orgogliosamente: «In ogni caso, continueremo ad avanzare». Qualche settimana dopo l’uscita del libro, mi ha scritto una mail: «Capisco il bisogno di rendere caricaturali le mie parole per metterle al servizio delle sue argomentazioni. Ma io non mi facevo per niente beffe della democrazia, sottolineavo solo il fatto che dovevamo risolvere problemi così complessi, e che dovevamo farlo tramite processi a loro volta così complessi, che era impossibile gestirli con gli occhi perennemente puntati sull’evolversi dell’opinione pubblica. Mentre i politici adempiono o non adempiono alla loro missione pedagogica, noi adempiamo alla nostra, che è di far girare la macchina. Liberissimo di giudicare ingrato il nostro compito, ma non per questo è meno necessario. Perché se ci fermiamo noi, si ferma tutto il resto».

Ha ragione. I tecnocrati della Commissione europea sono appunto gli unici a sapere come funziona la “macchina” e a poterla “far girare”. Sono necessari. Senza di loro, tutto crollerebbe. Del resto, spesso sono ben istruiti e ben intenzionati. E le direttive che redigono nei loro uffici di Bruxelles sono a volte molto più progressiste delle legislazioni nazionali. Ciò non toglie che a plasmare il nostro presente e il nostro futuro siano degli individui che non abbiamo eletto, dotati di un sapere che sfugge tanto a noi quanto ai politici che eleggiamo, e che parlano una lingua burocratica che ci è estranea. È “populista” interrogarsi sul carattere democratico di un simile sistema? Certo, i grandi orientamenti politici della UE sono definiti, nel corso dei vertici europei, dai capi di stato o di governo eletti. Ma, nel corso dei lunghi mesi che separano questi vertici, gli esperti della Commissione redigono le direttive e vigilano sulla loro applicazione: governano.

Come la maggior parte degli europeisti, ho sempre considerato questa situazione come una via di mezzo. Mi sono limitato a criticare la mancanza di ambizione di dirigenti politici che accettano di lasciar vegetare il progetto europeo a metà del guado. Ho analizzato le imperfezioni della UE, una tecnocrazia sovranazionale senza democrazia federale, unicamente attraverso il prisma dell’incompiutezza. Non ho mai considerato seriamente l’ipotesi seguente: questo stato postpolitico può essere il risultato non di una mancanza di decisione o di un difetto di volontà, ma di una decisione e di una volontà? Quello che abbiamo sotto gli occhi – una Banca centrale e una moneta senza governo, un’insieme di norme e di regole senza autorità politica chiara e rappresentativa – può essere qualcosa di diverso da una tappa? Può trattarsi di un modello in sé?

Ho letto, amato, studiato e commentato l’opera dell’antropologo Pierre Clastres. A Sciences-Po ho scritto una tesi su La società contro lo Stato. So che un fenomeno sociale che urti contro i nostri pregiudizi non deve essere studiato solo attraverso il prisma della mancanza, ma va affrontato in modo positivo. Clastres mostra che le società amerindie senza stato, definite “prestatali” dalla maggior parte degli antropologi occidentali, sono in realtà società organizzate contro l’emergere dello stato come potere verticale separato. Sono senza stato, ma certo non senza politica. Semplicemente, la loro politica è contraria allo statalismo. Offrono un altro modello, non una versione incompiuta del nostro. Questo decentramento clastriano mi ha seguito ovunque. Tranne che sulla questione europea.

Nel funzionamento di Bruxelles mi rifiutavo di vedere altro che un momento pre-democratico. Come se non avessi mai letto, studiato e commentato Clastres. Non sono il solo. I bei discorsi di Emmanuel Macron ad Atene o alla Sorbona dicono la stessa cosa: ci siamo fermati a metà strada per mancanza di ambizione, di coraggio, di volontà, e oggi dobbiamo riallacciarci a quell’ambizione, a quel coraggio, a quella volontà, per riprendere finalmente il nostro cammino in avanti. Non si prende mai in considerazione la possibilità che questo stato intermedio o pre-politico, post o pre-democratico, sia il risultato di una logica antipolitica o antidemocratica.

Per prenderla in considerazione, dobbiamo capire quello che il modello europeo attuale deve al modello tedesco, andando oltre le caricature diffuse da alcuni nostri leader politici. Per capire la UE bisogna capire la Germania. Non la Germania eterna, ma la Germania del dopo 1945, che è in gran parte la sua antitesi. Quella che spesso viene chiamata “Europa tedesca” non è la continuazione del progetto bismarckiano e ancor meno un “IV Reich”. È il contrario. Le analisi di Jean-Luc Mélenchon a questo proposito dicono di più sulla sua germanofobia che sull’Europa e sulla Germania. L’indipendenza della BCE, l’austerità, la normatività, la mancanza di incarnazione, il deficit di politica e di democrazia a Bruxelles non derivano dal vecchio imperialismo germanico, ma da ciò che gli è succeduto nel 1945: una diffidenza radicale nei confronti dell’ideologia, il culto del diritto, la religione della regola e della competenza, la paura delle passioni popolari.

Tutte le istituzioni della Repubblica Federale Tedesca miravano a rendere impossibile il ritorno del nazismo. Visto che il Volk aveva calpestato i più elementari diritti umani e precipitato il mondo nell’abisso, da quel momento in poi bisognava inquadrare la sovranità del popolo in una moltitudine di salvaguardie, fare in modo che il diritto (stabile, razionale) vincesse sulla volontà popolare (instabile, irrazionale). E siccome l’iperinflazione degli anni weimariani veniva ritenuta responsabile del trionfo di Hitler, bisognava anche togliere il denaro dalle mani dei politici (incompetenti, ottenebrati dalle elezioni e dalle soluzioni a breve termine) per affidarlo a esperti guidati unicamente dalla ragione e capaci di pensare all’interesse generale a lungo termine. È così che il “miracolo tedesco” – il risanamento di una nazione distrutta e l’edificazione di un rifugio liberale sulle rovine della peggiore tirannia della storia – si è fondato su una drastica limitazione di ciò che può la politica. Questo modello è progressivamente diventato quello dell’Europa nel suo insieme. Non perché i tedeschi avessero un piano, ma perché i francesi hanno rinunciato molto in fretta ad averne uno.

Quando il 30 agosto 1954 una coalizione (già “sovranista”) di gollisti e comunisti respinse all’Assemblea nazionale la Comunità Europea di Difesa (CED) e i germi di federazione democratica che essa conteneva, si dovette cambiare strada per salvare il progetto europeo. L’economia prese il posto della politica e tre anni dopo venne firmato il Trattato di Roma. La diffidenza tedesca e la rinuncia francese hanno generato l’entità “Bruxelles” così come la conosciamo, con grande gioia dei mercati che si vedevano finalmente liberati da ogni tutela governativa. Per la prima volta si costituiva uno spazio comune di diritti e di scambi senza direzione politica comune. In questo senso, quello che consideravamo un aborto era in realtà un laboratorio.

Oggi la governance degli esperti non è più un fenomeno proprio soltanto dell’Unione Europea. La si ritrova ovunque in Occidente. Yascha Mounk in Popolo vs Democrazia rileva l’aumento spettacolare negli Stati Uniti delle norme emanate dalle agenzie federali rispetto alle leggi votate dai rappresentanti della nazione. Nel 2007, per esempio, il Congresso ha adottato 138 leggi, mentre le agenzie hanno emanato 2.926 regolamenti. I cittadini non hanno alcun controllo diretto su queste regole che pure li vincolano perfino nei minimi dettagli della loro vita quotidiana. E il fatto che queste agenzie operino in una direzione che ci conviene o no non cambia nulla rispetto al problema democratico posto dal potere esercitato su di noi da istanze che non abbiamo eletto.

Le nostre democrazie liberali somigliano sempre di più alle «società civili borghesi» descritte da Hegel, società in cui le due figure principali sono l’economista e il giurista, non il politico e il cittadino. In un brillante articolo scritto per il sito AOC e intitolato La démocratie introuvable (28 giugno 2018), David Djaïz analizza la dissociazione in atto nelle nostre Città tra la parola (che resta di proprietà del politico) e l’azione (che dipende sempre più da entità non politiche). È particolarmente sorprendente quando consideriamo i vari trattati internazionali firmati dai nostri stati. Spesso per buone ragioni, ci sono governi che prendono tra loro impegni che legano le rispettive nazioni in futuro. Essi affidano la supervisione di questi impegni a istanze sovranazionali. La moltiplicazione di questi trattati, sempre più intrusivi e precisi, porta a sostituire la decisione politica dell’eletto o dell’elettore con il controllo giuridico del non eletto. La questione allora non è più fare quello che decide il popolo, ma ciò che è conforme ai contratti stipulati a monte. La stessa logica opera all’interno delle nostre democrazie. Ne risulta la riduzione della politica a un gioco di parole senza una traduzione pratica: uno spettacolo.

David Djaïz osserva che «non è un caso se le parole dei dirigenti della Banca centrale o dei giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo sono rare», perché, contrariamente a quelle dei politici, sono seguite da effetti. Secondo lui, «la separazione della parola e dell’azione equivale in realtà alla separazione della politica e del potere». Il potere appartiene a quelli che sanno, fanno e tacciono quando quelli che parlano si ritrovano impotenti. Le parole politiche sono allora svuotate della loro sostanza. Assomigliano al linguaggio oscuro degli sciamani evocato da Pierre Clastres. Collocati al centro del villaggio, gli sciamani parlano continuamente per non dire nulla. Nessuno li ascolta e le loro parole fluttuano nell’aria, inutili e vane. Certe comunità amerindie esorcizzano così, snobbando la parola assurda del capo (che in realtà non dirige niente), la possibilità stessa dell’emergere di un potere verticale. Nelle società neoliberiste, i politici possono sì sognarsi nei panni di Giove, ma saranno sempre più vicini agli sciamani di Clastres che agli dèi romani.

Il governo degli esperti pone un problema democratico evidente. Soprattutto, è un controsenso storico totale. Nel momento esatto in cui le élite hanno perso il monopolio dell’informazione e in cui i social network e i reality show ci fanno credere che possiamo decidere di tutto, dappertutto, sempre, si vorrebbe che istanze non elette plasmassero le nostre vite senza che abbiamo voce in capitolo. È il paradosso dell’epoca: dare il potere ai tecnocrati e nello stesso tempo dare la parola a tutti, forgiare un’aristocrazia del sapere e nello stesso tempo vivere al ritmo dei social network. Semplicemente non può funzionare. A un certo punto i cittadini si ribellano e mandano al diavolo le élite. Comincia così l’era del populismo.

«Riprendere il controllo»

Il destino della parola d’ordine tedesca «Wir sind das Volk» simboleggia il rovesciamento che si è compiuto nei nostri stati. Nel 1989, per le strade della Repubblica Democratica Tedesca, «Noi siamo il popolo» significava condanna della dittatura e adesione ai principi della democrazia liberale. Oggi è diventato lo slogan principale di PEGIDA2, movimento anti-immigrazione ostile a quei principi. Negli stessi luoghi, le stesse parole a trent’anni di distanza rivestono un significato opposto. Oggi il Volk si definisce contro e non più per le nostre istituzioni.

Limitare il discorso delle estreme destre europee a una sfilza di cliché xenofobi è un errore che ci sarà fatale. Yascha Mounk descrive il suo stupore nello scoprire, a un comizio dell’AFD (Alternativa per la Germania) nella piccola città di Offenburg, fino a che punto l’OPA di questo partito sulla nozione stessa di democrazia sia ben congegnata. Gli argomenti della sua dirigente, Frauke Petry, quella sera sono difficili da contrastare. Secondo lei, «viviamo in una semidemocrazia» e conviene restituire alla democrazia il suo «significato originario», vale a dire quello di «sovranità del popolo». Petry cita come esempio il referendum svizzero sulla costruzione di minareti. Vede in esso la quintessenza dell’opposizione tra democrazia e liberalismo. E il primo atto di una rivincita dei popoli europei sulle loro élite.

Effettivamente quel referendum svizzero è emblematico: i giudici avevano autorizzato la costruzione di un minareto a Wangen bei Olten e decine di migliaia di cittadini si erano mobilitati per ottenere un referendum. Poi gli elettori hanno liberamente deciso di vietare qualsiasi costruzione di nuovi minareti. Tutti i partiti tranne i populisti dell’UDC chiedevano di votare contro il divieto, e il popolo ha votato a favore. Un principio essenziale (la libertà religiosa) delle nostre democrazie è stato sconfitto da un principio più essenziale ancora (la sovranità popolare). Frauke Petry se ne rallegra. Al contrario, ci si potrebbe preoccupare. Bisogna per questo arrivare alla conclusione che chiedere al popolo la sua opinione è una cattiva idea? Dobbiamo smettere di essere democratici per salvare i diritti?

L’AFD si impadronisce, a Offenburg come altrove, dello slogan guida della Brexit: «Riprendere il controllo». Donald Trump, Matteo Salvini e Viktor Orbán fanno lo stesso. Ci promettono di riprendere il controllo sulle nostre frontiere. Riprendere il controllo sulle nostre finanze. Riprendere il controllo sulle nostre industrie. Riprendere il controllo sulle nostre istituzioni, i nostri stati, i nostri paesi. Riprendere il controllo sul nostro destino. Questi leader solleticano i peggiori istinti e giocano sulle nostre paure. Tuttavia, se siamo onesti, dobbiamo chiederci se il loro appello a riprendere il controllo non sia legittimo. A cosa serve la Città se non abbiamo più il controllo? Ebbene, lo abbiamo realmente? Se qualsiasi cosa succeda dobbiamo adeguarci a trasformazioni che non dipendono da noi, perché votare? Che senso hanno le elezioni se organismi non eletti plasmano le nostre vite?

Nei suoi Discorsi, Machiavelli definisce la politica repubblicana come una promessa di dominare la fortuna, di toglierle i mezzi di manifestare la sua estrema potenza: «In modo, che la non abbia cagione di mostrare, a ogni girare di sole, quanto ella puote» (II, 30). Il «vivere politico» che distingue il cittadino di una repubblica dall’individuo sottomesso alle decisioni dei re presuppone che non siamo i giocattoli di un destino scritto da altri. Spazzare via con un gesto della mano il “riprendere il controllo” dei demagoghi equivarrebbe a ignorare le lezioni di Machiavelli: «Dicevano, a questo proposito quegli che hanno governato lo stato di Firenze dal 1434 infino al 1494, come egli era necessario ripigliare ogni cinque anni lo stato, altrimenti, era difficile mantenerlo» (III, 1). Essere un popolo libero esige, a intervalli regolari, di riprendere il controllo o di ripigliare il potere.

Invece di strillare come aquile, è meglio prendere in parola lo slogan della Brexit e impadronirsene per dargli un significato completamente diverso. Senza questo, saremo schiacciati. Giustamente. Perché chi può dirsi democratico e accettare una simile perdita di controllo, un simile senso di impotenza di fronte alla fortuna? Da quando non abbiamo più l’impressione di “ripigliare” realmente il potere? Gli elettori di sinistra che hanno più di cinquant’anni hanno provato questo sentimento nel 1981, prima di disilludersi rapidamente. Gli elettori di destra che hanno più di trent’anni l’hanno provato più di recente, nel 2007, prima di disilludersi ancora più rapidamente. Noi esigiamo oggi, ben al di là dei movimenti populisti, di “ripigliare” il potere. Ma siamo pronti per questo?

1. R. GLUCKSMANNGénération gueule de bois: Manuel de lutte contre les réacs, Allary Éditions, 2015.

2Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes, (Europei patrioti contro l’islamizzazione dell’Occidente) [N.d.R.].

Diventare cittadini

È la storia di un uomo che per molti anni fu preso per un imbecille e che fondò la repubblica più forte della storia.

Lucio Giunio Bruto crebbe sotto il regno di Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma. Consapevole che sotto una tirannia la simulazione della stupidità e l’apparire irrilevanti sono le uniche garanzie di una vita tranquilla, fece la parte del sempliciotto per non attirare l’attenzione e non suscitare invidie.

Quando fu dichiarata la guerra contro Ardea, il fior fiore della nobiltà, a cui Bruto apparteneva, andò ad assediare la città rutula. Siccome si annoiavano parecchio, i giovani aristocratici discutevano delle proprie mogli e si chiedevano se fossero loro fedeli. Un giorno, un gruppo lasciò il fronte per scoprirlo. La bella Lucrezia, la moglie di Collatino, un amico di Bruto, passava il tempo a filare malinconicamente la lana. All’unanimità fu dichiarata la più virtuosa di tutte. Sedotto da tanta purezza, Sesto Tarquinio, il figlio del tiranno, tornò poco dopo e la stuprò.

Lucrezia allora convocò i suoi parenti, denunciò il crimine e il criminale, poi si pugnalò sotto i loro occhi. Quel gesto cambiò la vita di Bruto e il corso della storia umana. Il presunto imbecille smise improvvisamente di recitare e trasformò la sua inutile esistenza in destino universale. Nella sua Storia di Roma(I, 59), Tito Livio descrive la sua miracolosa trasformazione in dirigente politico: «Mentre gli altri erano in preda allo sconforto, estrasse il coltello dalla ferita e, brandendolo ancora stillante di sangue, disse: “Su questo sangue, purissimo prima che un principe lo contaminasse, io giuro e chiamo voi a testimoni, o dèi, che di qui in poi perseguiterò Lucio Tarquinio Superbo e la sua scellerata moglie e tutta la sua stirpe col ferro e col fuoco e con qualunque mezzo mi sarà possibile e non permetterò che né loro né nessun altro regni più a Roma”. Quindi passa il coltello a Collatino e poi a Lucrezio e a Valerio, tutti sbalorditi dall’incredibile evento e incapaci di stabilire da dove Bruto prendesse tutta quella veemenza. Giurano com’era stato loro ordinato e, passati dal dolore alla rabbia, appena Bruto li invita a scagliarsi immediatamente contro il potere reale, non esitano a seguirlo come loro capo».

L’uomo Bruto era un “insensato”, il cittadino Bruto sollevò un popolo, fomentò una rivoluzione, prese la testa di un esercito e sconfisse le truppe di Tarquinio. Proclamato console, sventò una cospirazione monarchica e scoprì che i suoi due figli, Tito e Tiberio, vi erano coinvolti. Allora pronunciò lui stesso la sentenza che li condannava a morte e assistette alla loro esecuzione. I suoi figli furono legati a un palo, frustati e poi decapitati. Subito dopo la loro uccisione, ricompensò lo schiavo che li aveva denunciati elevandolo al rango di cittadino libero della repubblica che aveva appena fondato sul suo stesso sangue.

Non essere più se stessi

A proposito di Bruto, Machiavelli nota ironicamente che «è di uno esemplo raro […] vedere il padre sedere pro tribunali, e non solamente condennare i suoi figliuoli a morte ma essere presente alla morte loro» e che sarebbe vano esigere da tutti i dirigenti o da tutti i cittadini che uccidano i propri figli per dimostrare la loro devozione alla cosa pubblica. Tuttavia, trae dalla parabola di Tito Livio una lezione fondamentale: non c’è continuità armoniosa tra l’uomo privato e il cittadino. Al contrario, il passaggio dall’uno all’altro presuppone una rottura netta, un cambiamento prodigioso, violento, simile a quello provocato in Bruto dal suicidio di Lucrezia. L’uomo privato, diventando cittadino, scivola in un’altra sfera, in cui prima di appartenere a se stesso appartiene alla cosa comune. Una volta console, Bruto non è più né uomo né padre. La cittadinanza è innanzitutto un sacrificio. Ecco ciò che oggi abbiamo completamente dimenticato.

La breve presentazione biografica che Barack Obama aveva scelto per il suo account Twitter ufficiale da presidente (@POTUS) permette di cogliere a colpo d’occhio la distanza che ci separa da Bruto o da Machiavelli. Vi si poteva leggere: «Barack Obama. Dad, husband and 44th President of the United States»1. In quest’ordine. Obama sapeva “incarnare la funzione” in maniera perfetta, ma restava padre e marito prima di essere presidente. Il personaggio pubblico più potente e più famoso del mondo si presentava a noi innanzitutto come una persona privata. Accettava quella gerarchia di qualità, da papà a presidente, perché sapeva quanto si adattava allo spirito dei tempi.

Della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino oggi ricordiamo solo i “diritti dell’uomo”, saltando quasi sempre ciò che segue: “e del cittadino”. Eppure i deputati del 1789 non erano dei fanatici della ripetizione. Erano perfettamente consapevoli di scrivere uno dei testi più importanti della storia umana e prestavano molta attenzione all’economia delle parole. Precisando “e del cittadino”, sottolineavano semplicemente questa ovvietà persa poi di vista: l’uomo e il cittadino non sono identici benché abitino lo stesso corpo. I miei interessi di uomo possono opporsi ai miei impegni civici e viceversa. Nello spirito rivoluzionario del 1789, ogni uomo è chiamato a diventare cittadino. Ma queste due dimensioni non possono essere confuse. E la repubblica esige quindi da ognuno di noi uno sdoppiamento della personalità, una forma di schizofrenia: essere nello stesso tempo uomo e cittadino.

I marxisti e i reazionari si uniscono per criticare l’astrazione di questo cittadino separato dall’uomo privato. I primi vi vedono la foglia di fico degli interessi di classe. I secondi le premesse idealiste del Terrore. Il rifiuto di credere a una sfera politica autonoma li associa. Così come associa in modo sorprendente Steve Bannon e Lenin. Quando gli chiesero quale fosse l’orizzonte del trumpismo, lo stratega dell’alt-rightparafrasò audacemente, e consapevolmente, il leader bolscevico: «Smantellare lo stato». Rivoluzionari comunisti e controrivoluzionari hanno ragione: il cittadino è, in senso stretto, un’astrazione. Un’estrazione. Una violenza fatta all’uomo che io sono spontaneamente e da cui la repubblica esige che mi estirpi per partecipare al governo comune. Qualcosa di artificiale. Di controintuitivo.

Durante una conferenza, alla fine del 2017, una signora mi ha fatto con grande calma una domanda quanto meno sorprendente: «Signor Glucksmann, lei è antisemita?». Estrapolata dal contesto, può sembrare irreale. Ma io me l’aspettavo. Qualche minuto prima avevo pronunciato una frase incongrua: «In Francia non ci sono cittadini ebrei». Ovviamente non cercavo di negare il fatto che circa 600.000 miei compatrioti fossero di origine o di confessione ebraica. Intendevo dire che gli uomini e le donne di origine o di confessione ebraica, quando si esprimevano o agivano in quanto cittadini, smettevano di essere ebrei. Che c’erano uomini ebrei e donne ebree ma non, rigorosamente parlando, cittadini ebrei. O musulmani. O cattolici. O gay. O eterosessuali.

Non parlo in quanto ebreo o musulmano, padre o marito, quando ho in mente il bene pubblico. O perlomeno devo cercare di non farlo. È impossibile riuscirci completamente? Forse. Ma lo sforzo di decentramento, anche se non è completamente riuscito, è valido in sé. Léon Blum non si è mai espresso in quanto leader “ebreo” della Sezione Francese dell’Internazionale Operaia (SFIO) o come presidente “ebreo” del Consiglio. Gli antisemiti lo riportavano costantemente alla sua condizione di uomo. La stampa di estrema destra titolava: La Francia sotto l’ebreo. Ma lui ignorava questi tentativi o rispondeva loro politicamente, in quanto cittadino e non in quanto ebreo.

Pierre Mendès France, che subì attacchi più insidiosi e tuttavia chiaramente antisemiti, praticò la stessa ascesi repubblicana. Possiamo misurare fino a che punto abbiamo perso il senso della cittadinanza osservando Meyer Habib, attuale deputato dei francesi all’estero, scattare continui selfie in kippah e fare della propria confessione religiosa l’argomento centrale delle sue campagne elettorali. O ascoltando i difensori del nuovo antirazzismo multiculturalista rifiutare ogni volontà di essere color blind (ciechi ai colori) come un’ipocrisia. Perché, ci dicono, «l’uomo non è cieco». L’uomo no. Ma il cittadino sì.

Per concretizzarsi, questa idea repubblicana di “indifferenza alle differenze” esige che siamo inflessibili contro le discriminazioni, queste «armi sociali per mezzo delle quali si può uccidere senza spargimento di sangue» di cui parla Hannah Arendt. Che siano sessiste, antisemite o razziste, le discriminazioni impediscono all’astrazione cittadina di prendere corpo e dunque minacciano la repubblica. Quando avete una probabilità venti volte più alta degli altri di essere controllati dalla polizia se siete un giovane nero o arabo2, il cammino verso la cittadinanza attiva e “cieca” è incontestabilmente più difficile. Bisogna combattere questo razzismo latente. Ma dobbiamo farlo in quanto cittadini. Tutti, indipendentemente dalle nostre credenze o dalle nostre origini. Quando, per farsi ascoltare, i militanti contro l’islamofobia brandiscono per esempio la minaccia di un “voto musulmano”, ratificano il fallimento della repubblica. E contribuiscono a esso.

Qui non si tratta assolutamente di sognare l’unità del corpo politico: la Città vive delle sue disunioni. Ma Machiavelli distingue due tipi di divisioni che hanno effetti contrari sulla repubblica. Una, nefasta, oppone degli individui o dei gruppi che prendono se stessi come punto di partenza e come orizzonte. L’altra, vitale, oppone dei cittadini e dei partiti che si affrontano sul terreno del bene comune e si inseriscono da subito in una prospettiva generale: cagionati dalla “incorruzione”, scrive Machiavelli, «gl’infiniti tumulti che furono in Roma, avendo gli uomini il fine buono, non nocerono, anzi giovorono, alla Republica» (Discorsi I, 17). Le contrapposizioni pubbliche sono cruciali, i comunitarismi – contrapposizioni private che sequestrano lo spazio comune – pericolose.

Io non sono antisemita: non ci sono cittadini ebrei in Francia. Tuttavia ci sono dei francesi ebrei. La nazionalità e la cittadinanza non combaciano completamente nella repubblica, anche se il loro perimetro può essere lo stesso. L’uomo e il cittadino che coabitano in me sono francesi eppure non lo sono nello stesso modo. Sono un uomo francese perché sono nato in Francia e/o da genitori francesi. Sono un cittadino francese perché appartengo alla comunità politica francese e partecipo all’autogoverno di quella comunità. Se la repubblica fosse abolita e tornasse la tirannia, resterei un uomo francese ma smetterei di essere cittadino e tornerei soggetto. Durante la Rivoluzione, per mostrare quanto la cittadinanza fosse separata dal luogo o dall’epoca in cui nascono per caso gli individui, prese forma l’idea di fare di Socrate un cittadino francese. Senza arrivare fino a questo punto, dobbiamo di nuovo capire la logica che sta alla base di questa idea per comprendere radicalmente cos’è la cittadinanza.

Oggi amiamo troppo il fatto di essere uomini e unicamente uomini. O il fatto di essere donne e unicamente donne. Senza dover sdoppiare la nostra personalità. Certo, non accetteremmo di rinunciare al diritto di voto per nessuna ragione. Ma il cittadino non è solo un elettore e la repubblica non è solo un fatto di scrutini. È anche un’ascesi. Rinunciandovi, rinunciamo a una ricerca che ha modellato la nostra storia e la nostra Città. Durante le guerre di religione, l’emergere del partito dei “Politici” segnò l’avvento di un altro luogo, di un altrove in cui non si era più né cattolici né protestanti. La laicità francese è nata da questo avvento. Essa va ben al di là della semplice tolleranza per ciò che siamo, ciascuno di noi preso separatamente, in quanto esseri umani.

La repubblica non potrebbe essere il “credo” degli esseri umani in quanto esseri umani, ma è incontestabilmente quello dei cittadini. Nei suoi Discorsi, Machiavelli afferma che uno stato libero non può “mantenersi” senza “religione civile”. Una simile affermazione potrebbe sembrare vicina all’ode macroniana alle religioni di cui avremmo «antropologicamente e ontologicamente» bisogno, ma in realtà dice esattamente il contrario. Machiavelli oppone religioni civili e religioni private. Le prime legano i cittadini tra loro e allo stato. Le seconde instaurano un rapporto diretto tra l’uomo e Dio. La ricerca individuale della salvezza che le caratterizza “santuarizza” l’intimità dell’uomo, situa il suo essere privato al di sopra del suo essere pubblico.

Machiavelli vede così nel cristianesimo una stampella su cui si appoggiano gli «scelerati» che tiranneggiano il popolo, «i quali sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come l’università degli uomini, per andarne in Paradiso, pensa più a sopportare le sue battiture che a vendicarle» (II, 2). Secondo lui, la religione cristiana così come la si pratica ai suoi tempi non è neutra per la repubblica perché spoliticizza l’uomo. Rende più difficile il suo mutarsi in cittadino. Martellando gli individui sul fatto che il senso ultimo dell’esistenza non è da ricercare nella città terrestre, ma nella città celeste, pone al di sopra della figura del cittadino quella del fedele. Dire «rendere a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare» non è dunque sufficiente: la religione privata deve essere controbilanciata da un credo politico. Di fronte alla trascendenza dei monoteismi si deve affermare un’altra forma di trascendenza, prodotta dalla sfera politica.

«Tenere ricco il pubblico, povero il privato»

Se Machiavelli parla tanto ai cittadini del XXIsecolo, è perché si esprime nell’epoca e nel posto giusto: gli stati italiani del suo tempo vedono nascere e affrontarsi le logiche gemelle e contraddittorie del capitalismo e della repubblica. Fin da subito, i pensatori dell’umanesimo civico si interrogano: come impedire che il denaro prenda in ostaggio il processo politico? Si può vietare l’esibizione della propria ricchezza nella sfera pubblica? Bisogna arrivare al punto di regolamentare il modo in cui le persone si vestono per proteggere lo spazio comune? La fortuna smisurata di grandi famiglie come quella dei Medici permette l’emergere di un’autorità politica indipendente? Come conciliare il rispetto delle libertà private e l’affermazione della potenza pubblica? Queste domande dei contemporanei di Machiavelli noi ce le poniamo più che mai: la democrazia può resistere alle multinazionali? L’esplosione delle disuguaglianze di patrimonio rende caduca la repubblica? Bisogna vietare l’ostentazione dei simboli delle religioni private nello spazio pubblico? Bisogna reintrodurre i grembiuli a scuola per far cessare la legge dei marchi e le logiche di differenza sociale? Come evitare la privatizzazione dei beni comuni?

La lettura di Machiavelli ci invita a rispondere a queste domande in modo controintuitivo. La massima che egli propone nei Discorsi – «Tenere ricco il pubblico, povero il privato» (II, 19) – ha di che far sobbalzare un figlio del XXI secolo cresciuto a suon di trattati sulla crescita personale, e auguro molto coraggio a un candidato all’Eliseo che prometta ai francesi che li impoverirà per arricchire la Francia. Eppure è proprio il senso della fiscalità repubblicana: lo stato impoverisce gli individui per arricchire la collettività. Prende a tutti per dare al tutto, trasforma il bene privato in bene pubblico. Quello che do con una mano, lo ricevo con l’altra, e in questo passaggio da una mano (privata) all’altra (pubblica) il bene cambia di natura. Il problema del consenso alle tasse sorge nel momento in cui non riesco più a sdoppiare la mia personalità: se non comprendo più che i beni pubblici che mi circondano mi appartengono in quanto cittadino, allora non posso più acconsentire a venire impoverito in quanto uomo.

La trasmutazione che si compie attraverso la tassazione è oggi incompresa perché la nozione stessa di bene pubblico non ha più senso. Nel momento in cui il ministro dell’Economia e delle Finanze Bruno Le Maire assegna come obiettivo alla Societé Nationale des Chemins de Fer di essere in pareggio o il più possibile redditizia, applica a un servizio pubblico la logica di un’impresa privata. Nessuno contesta l’idea che la SNCF debba essere efficiente, fornire il massimo dei servizi con il minimo possibile di spesa, ma la sua finalità non è di essere in pareggio o redditizia. La sua finalità è tutt’altra: adempiere alla missione che il pubblico le affida. Qui non sono in discussione né la necessità né la giustezza della riforma intrapresa dal governo, ma il modo di presentarla, un modo di vedere e di raccontare, di pensare e di esprimersi che illustra la confusione imperante nel dibattito pubblico. La “start-up nation” che intende trasformare i prefetti in super “manager” cointeressandoli finanziariamente alla riduzione delle spese pubbliche è l’esito di una lenta trasformazione delle menti. Non risolverà la crisi perché ne è il sintomo. E, piuttosto che cercare di replicare in politica le pratiche di Google o di Uber, oggi dobbiamo imparare di nuovo che una Città non è un’impresa.

La necessità filosofica

Mentre camminava nell’agorà, Socrate faceva a tutti, ricchi o poveri, deboli o potenti, le stesse “grandi domande” (ta megala): Che cos’è il bene? Come definire ciò che è giusto? Su quali princìpi fondare la polis? Il filosofo invitava gli Ateniesi a una conversione dello sguardo, a uscire da se stessi. Oggi gli proporrebbero di diventare “coach filosofico” per Google3 e di trattare problemi più “reali” del bene, del giusto e del vero.

Dal momento che i suoi dialoghi si concludono il più delle volte con un’aporia, un vicolo cieco, il suo approccio verrebbe giudicato troppo poco “redditizio”. Perché investire tanto tempo e tanta energia per arrivare a un «so di non sapere»? Meglio fornire risposte precise a domande precise. O concentrarsi sulla crescita personale. Le megala lasciano il posto a miriadi di piccole domande che ci appassionano perché interessano noi, in quanto esseri umani. Non potendo sapere con certezza cosa è bene in sé, si cerca ciò che è bene per sé. L’individuo, i suoi desideri, le sue sofferenze, i suoi sogni, le sue origini, le sue angosce, ecco cosa ci preoccupa.

Sostituendo la ricerca del bene con quella del benessere, indeboliamo la repubblica. Socrate non era essenziale alla democrazia ateniese per le risposte che forniva o meno alle sue domande, ma perché poneva quelle domande e, ponendole, invitava ognuno a uscire dalla propria condizione individuale. Il risultato contava meno del cammino. O piuttosto: il cammino era in se stesso il risultato cercato. Obbligando tutti i suoi interlocutori a discutere, a uguale livello di ignoranza, delle megala, Socrate forgiava lo spirito civico. Invitava al superamento di sé che solo permette un vero e proprio dibattito pubblico.

Oggi ognuno ha la parola e la prende sui social network. È un progresso incontestabile. Ma per dire cosa? E, soprattutto, per parlare da dove? Per parlare di sé. A partire da sé. In vista di sé. Abbiamo finalmente i mezzi per svolgere un dibattito realmente democratico, dal momento che tutti i cittadini possono prendervi parte. Ma su questa agorà virtuale non vediamo che uomini e donne. Ognuno, che sia bianco, nero, ebreo, arabo, cristiano, musulmano, omosessuale o eterosessuale, donna o uomo, si esprime in quanto bianco, nero, ebreo, arabo, cristiano, musulmano, omosessuale o eterosessuale, donna o uomo. Filosofare è «esercitarsi alla morte» ci dice Socrate nel Fedone: l’antitesi della celebrazione della propria vita su Instagram.

Imparare di nuovo a morire a se stessi è la condizione sine qua non per uscire da una società di solitudine. Filosofando, che io sia grande o piccolo, famoso o anonimo, libero o asservito, sono chiamato a svincolarmi dalle mie abitudini, dal mio ambiente, dalle mie ferite e dai miei desideri per unirmi a una forma di universale. Mi libero dai miei pregiudizi, dalle mie certezze, anche dalla mia eredità. Una simile ascesi apre la possibilità di una ricerca comune, di una riflessione collettiva sui fondamenti della Città. Ecco perché dobbiamo difendere, costi quel che costi, l’insegnamento della filosofia nelle scuole superiori. La prima missione della scuola repubblicana non è formare individui capaci di inserirsi nel mercato del lavoro, ma cittadini capaci di contribuire alla vita della Città. Il nostro vecchio ultimo anno delle superiori è un villaggio di Asterix che resiste alla privatizzazione del mondo e la prova di filosofia che ogni anno inaugura gli esami di maturità un diamante da preservare e lucidare.

Lunedì 18 giugno 2018, quasi un’intera generazione di francesi ha riflettuto nello stesso momento su argomenti come «Si può rinunciare alla verità?», «Sperimentare l’ingiustizia è necessario per sapere ciò che è giusto?», «Si può controllare lo sviluppo tecnico?» o «La cultura ci rende più umani?». Questo rituale segna il passaggio dall’infanzia all’età adulta. Costituisce una tappa cruciale del diventare cittadini: si impara a essere più di quello che si è spontaneamente ponendosi insieme queste domande universali4. Si incontrano, con piacere o nella sofferenza, le megala di Socrate. Dopo le si dimentica, tanto la società di solitudine lavora per farvele perdere di vista. E poi capita di ricordarle di nuovo, e si scende a porle nell’agorà. Si fa politica, nel senso nobile del termine.

La pubblica piazza

Nel cuore di una capitale, una città di tende con il suo ospedale, la sua amministrazione, le sue cucine, la sua polizia e le sue leggi, sorge dal nulla in pochi giorni. Siamo a Kiev alla fine di novembre del 2013. Tutto intorno, le barricate. Davanti alle barricate, schiere di specnaz (forze speciali). Sui tetti, i cecchini. Majdan – “piazza” in ucraino, parola ereditata dall’arabo – è una repubblica autogestita. Tutto lì è politico, nonostante i partiti tradizionali non vi abbiano praticamente diritto di cittadinanza. O proprio perché non vi hanno praticamente diritto di cittadinanza.

Far cuocere un boršč e riflettere su una nuova costituzione dipendono dallo stesso gesto rivoluzionario. L’altrove politico, di solito così astratto, improvvisamente si materializza e le differenze sociali svaniscono. Contadini venuti dalle zone più povere dell’Ucraina coabitano e collaborano con i figli della borghesia di Kiev senza che si possa più distinguerli dagli abiti, visto che sono tutti coperti di fango. Essere presenti in piazza, a proprio rischio e pericolo, in questo momento della storia equivale a una nuova nascita. Lontano, molto lontano dalla società di solitudine.

Almeno in superficie. Perché il perimetro geografico della rivoluzione è tagliato in due: c’è l’alto e c’è il basso. In superficie è emersa una città senza soldi che si riempie giorno dopo giorno. Nel sottosuolo si trova il centro commerciale più chic della città. Vi si incontrano le stesse insegne di lusso che ci sono a Parigi nell’VIII arrondissement o a New York sulla Quinta Strada. Vendono borse e scarpe che per la maggior parte degli abitanti delle tende di sopra rappresentano diversi mesi o perfino diversi anni di salario. In alto la pubblica piazza e in basso il mall. Tra i due, una frontiera che nessun poliziotto sorveglia più e che tuttavia nessuno attraversa.

Chiedo spesso ai rivoluzionari perché non scendono a rubare una o due borse. Le risposte si assomigliano tutte: «Mi sento finalmente libero, non rovinerò questa sensazione per una borsa»; «Non cambieremo il paese imitando gli oligarchi che lo rovinano accaparrandosi il bene altrui»; «I miei primi passi nella nuova Ucraina non saranno quelli di un ladro»… Aleksej, studente alla facoltà di filosofia e cofondatore dei primi gruppi di autodifesa della piazza insorta, si spinge più in là: «Ognuno fa quello che vuole a casa sua. Ma qui è diverso. Qui Prada, Gucci, Chanel e Vuitton non esistono più. Qui non è la stessa vita che altrove, la stessa di prima o di dopo. In un certo senso, non è più la vita come la si intende abitualmente. È un’altra cosa, credo che si avvicini all’esistenza autentica di cui parla Heidegger, l’esistenza senza falsità né finzione che permette l’incontro con la propria morte. Una rivoluzione è questo. La nostra, perlomeno. Non siamo più nello stesso mondo del centro commerciale. Improvvisamente, Prada e Gucci hanno smesso di avere il minimo valore ai nostri occhi. Non sappiamo più cos’è un marchio o quanto vale una banconota. Probabilmente succederà di nuovo, più avanti. Non mi faccio molte illusioni: i poveri torneranno alla loro vita da poveri, i ricchi continueranno a sfruttarli e scenderanno giù a comprare borse. Ma approfittiamo di questo miracolo: un mondo senza denaro, senza marchio, senza corruzione. Un mondo in cui perfino Paris Hilton si rifiuterebbe di andare in giro con una borsa Chanel. Non per paura di farsela rubare – perché qui non si ruba, l’hai notato –, ma perché capirebbe che non serve a niente, che è inutile, fuori luogo. Perfino Paris Hilton vedrebbe che a Majdan siamo tutti nudi. Come Adamo ed Eva. Ti rendi conto? Siamo nudi e ci sono venti gradi sotto zero!».

L’uomo “nudo” di Majdan non ha più né riguardo né sguardo per il centro commerciale. Non ci va neppure per riscaldarsi. Come se facesse meno freddo fuori, sotto la neve, che in quei patinati corridoi. I suoi negozi di lusso sembrano appartenere a un tempo passato che nessuno rimpiange. Majdan, come Tahrir in Egitto, Taksim in Turchia, Puerta del Sol in Spagna, Zuccotti Park a Wall Street e tanti altri spazi pubblici occupati in giro per il mondo, è il luogo di un ritorno alle radici stesse della democrazia. Il cittadino che si è estirpato dall’uomo plasmato dal suo ambiente immediato vi rivive l’origine della repubblica. Si astrae dai contesti del possibile e dell’impossibile per domandarsi al pari di Socrate cos’è bene, giusto, vero. Come se stesse vivendo il primo giorno della Città e del mondo.

«A volere che […] una republica viva lungamente, è necessario ritirarla spesso verso il suo principio»: nel linguaggio di Machiavelli, la parola “principio” designa anche l’origine. Al principio di Roma, Romolo uccide suo fratello. Al principio della repubblica, Bruto brandisce un pugnale. Un avvenimento interrompe l’ordine delle cose e apre improvvisamente il campo dei possibili. L’origine è il momento dell’indeterminazione, l’opposto del nostro universo giuridico perfettamente regolato. È il momento che dà senso all’ordine che ci sembra scontato. Tornare all’origine, all’essenza delle cose, permette di rigenerare la Città. Machiavelli si spinge a raccomandare una guerra, una rivoluzione o almeno una sommossa a intervalli regolari: «Dall’una all’altra di simili esecuzioni non vorrebbe passare, il più, dieci anni: perché, passato questo tempo, gli uomini cominciano a variare con i costumi e trapassare le leggi».

L’abitudine, il senso di normalità, la certezza che quello che ci circonda è acquisito trasformano la nostra repubblica in un guscio vuoto. La Città che smette di interrogarsi sulle proprie origini non vive più realmente: si lascia vivere, ossia deperisce. Diventa una statua di cera del museo Grévin. Si celebra il 14 luglio con i fuochi d’artificio e una parata militare, ma si sa cosa significa prendere la Bastiglia? Tornare alle origini, interrogare di nuovo il principio stesso delle istituzioni politiche, è una risposta alle tentazioni reazionarie molto migliore del nostro ozioso progressismo. Prendiamo alla lettera gli incensatori delle “radici”: torniamo indietro nel tempo. Ma fino in fondo. Fino alla radice, appunto. Cosa troveremo “al principio”? Il contrario assoluto di una conservazione: una rivoluzione. Piuttosto che conservare stupidamente ciò che si eredita o lasciarsi trasportare con indolenza dal vento del “progresso”, il cittadino ha bisogno di rifondare la propria Città a intervalli regolari.

Questa rifondazione non può pensarsi o prodursi a partire da un luogo privato, solo la pubblica piazza può accoglierla. Marcatore fondamentale della geografia urbana del Rinascimento, la piazza è da sempre una sfida politica, se non addirittura la quintessenza della sfida politica. Trasposta in Francia dalla monarchia assoluta, è diventata non più il luogo del potere del popolo, come nelle città italiane, bensì il luogo del potere dello stato, ed è per questo che le nostre rivoluzioni cominciano con la riappropriazione fisica della pubblica piazza da parte dei cittadini. Tutte le rivolte contemporanee si imperniano su di essa.

Nelle democrazie liberali, i movimenti detti “di piazza” si oppongono alla privatizzazione dello spazio pubblico. Nei regimi autoritari, affrontano nello stesso tempo la logica dei mall e quella dei re. È così nel caso di Majdan o dell’insurrezione della primavera 2013 a Istanbul. Il governo turco aveva stabilito di sostituire il parco Gezi con un centro commerciale. Una cinquantina di residenti organizzarono un sit-in per salvare i “loro” alberi. Furono brutalmente sgomberati dalla polizia. In risposta, arrivarono migliaia e poi decine di migliaia di cittadini. La mobilitazione di massa fu, come a Majdan, innescata dalle manganellate prese dai primi occupanti. Gli abitanti di Istanbul scesero nella pubblica piazza per dire che apparteneva a loro. A loro, e non agli immobiliaristi o al despota. Dalla protezione di uno spazio verde, si passò alla pretesa di democrazia.

Quando la scrittrice Aslı Erdogan mi parlò di quelle giornate di rivoluzione, i suoi occhi di solito così malinconici si illuminarono letteralmente: «Io non dico quasi mai “noi”, tranne per Gezi. La donna solitaria ed emarginata è entrata di colpo a far parte di un gruppo. Sicuramente è per questo che si tratta di un momento tanto prezioso nelle nostre vite: tutti lo hanno percepito. Si lasciava la propria identità all’ingresso del parco: scrittore, professore, questo o quello… C’era un tale sentimento di unità e di cameratismo. È difficile sentirsi soli in un gruppo “poetico” come questo. Fin dai primi giorni, le persone hanno dimenticato il loro senso di appartenenza. Appartenevano alla piazza e gli uni agli altri. Perfino l’antichissima guerra tra uomini e donne non c’era più. Nessuna molestia. Ci si era quasi liberati dai generi. Non c’erano giochi di potere tra i gruppi. Era stupefacente. Un momento di grazia collettiva».

A Majdan o a Gezi, allo Zuccotti Park di Wall Street o in piazza Tahrir al Cairo, l’«incapsulazione spaziale» di cui parla Michel Lussault non è più individuale, ma comune a tutti. Un cittadino va in Place de la République a Parigi durante la Nuit debout o a piazza Puerta del Sol a Madrid durante il movimento degli Indignados sognando di rifondare la Città e di ritessere i legami civici scomparsi. Intende tornare alla libertà degli antichi di cui Hannah Arendt parlava in Tra passato e futuro contrapponendola a quella dei moderni, che è innanzitutto un diritto di recesso: nella tradizione antica, «la condizione della libertà non era il seguito automatico dell’atto di liberazione; a questo dovevano aggiungersi la compagnia di altri uomini che fossero nella stessa condizione, e l’esistenza di uno spazio pubblico comune dove incontrarsi; in altre parole, un mondo organizzato politicamente, nel quale ogni uomo libero potesse inserirsi con l’atto e con la parola».

Su queste piazze, l’homo oeconomicussparisce come per magia. I figli del vuoto riempiono il mondo e si riempiono essi stessi. Cessano di essere vuoti. E di essere soli. Gli hashtag #OccupyWallStreet, #OccupyCentral (a Hong Kong) e #OccupyGezi fanno di questa riappropriazione fisica dello spazio il preludio a una riconquista della Città da parte dei cittadini. «Riprendere il controllo», dice lo slogan della Brexit: in queste rivoluzioni civiche c’è in nuce una materializzazione di questa parola d’ordine. Senza xenofobia né capri espiatori. Un’alternativa, dunque, alle passioni nazionaliste che agitano i nostri paesi: il tentativo di ridefinire un “noi” senza ricorrere all’esclusione dell’altro.

Momenti come quelli di Kiev, Istanbul, Tunisi, Madrid, Wall Street e Hong Kong si ripetono in tutto il mondo. Ovunque si aprono delle parentesi. E ovunque si richiudono. Il «momento di grazia collettiva» di cui parla Aslı Erdogan si eclissa. Ci manca qualcosa per conferire durata all’epifania civica: una visione strutturata del mondo. Qual è l’orizzonte di questa “ripresa del controllo” a cui aspiriamo? Siamo talmente abituati alla mancanza di senso che non lo vediamo più nel momento in cui ci tende le braccia. Il senso è lì, davanti a noi, e noi lo ignoriamo.

1. Papà, marito e 44° presidente degli Stati Uniti.

2. Rapporto 2017 del Défenseur des droits.

3. Non è uno scherzo, questa mansione esiste davvero: Google assume dei filosofi per aiutare i suoi dipendenti ad aprire la mente a nuovi orizzonti, a nuove soluzioni per i problemi che incontrano.

4. Ogni anno, quando uscivano gli argomenti, andavo da mio padre e ne discutevamo. Quando ero in Georgia, in Algeria o in Ruanda, la cosa avveniva per telefono, ma non mancavamo mai di farlo. Era il nostro personale alzabandiera, il nostro modo di rendere omaggio a una repubblica che aveva osato sostituire il catechismo con la filosofia. Quelle ore di giugno sono tra i ricordi più belli che conservo di Glucks.


Per un’ecologia tragica

Chi si ricorda del 13 novembre 2017?

Quel giorno, sulla rivista «BioScience», più di 15.000 scienziati provenienti da 184 paesi lanciano l’allarme: «Presto sarà troppo tardi».

Le prime righe del loro manifesto fanno eco a un altro appello, più vecchio: «Nel 1992 più di 1.700 scienziati indipendenti, compresa la maggior parte dei premi Nobel in materie scientifiche allora in vita, firmavano il World Scientists’ Warning to Humanity».

Venticinque anni dopo, i 15.000 scienziati stilano un bilancio implacabile: «Non solo l’umanità non ha compiuto progressi sufficienti per risolvere le sfide ambientali annunciate, ma è molto inquietante costatare che per la maggior parte i problemi si sono fortemente aggravati».

Dalla messa in atto di una fiscalità verde al cambiamento delle abitudini alimentari, passando per lo sviluppo della pianificazione familiare o per la lotta contro le eccessive disuguaglianze di ricchezza, propongono delle misure d’urgenza per cercare di evitare il peggio. Alla luce del cataclisma annunciato, e già innescato, nessuna delle loro proposte sembra “irrealistica”.

In conclusione, lanciano un SOS alle autorità politiche, alle società civili, a tutte e tutti: «Presto sarà troppo tardi per deviare dalla nostra traiettoria destinata al fallimento, perché il tempo stringe. Dobbiamo prendere coscienza, tanto nelle nostre vite quotidiane quanto all’interno delle istituzioni governative, che la Terra, con tutta la vita a cui dà rifugio, è la nostra sola casa».

In un primo momento, lo shock suscitato dal loro grido è universale. In Francia, «Le Monde» gli dedica tutta la prima pagina e tutti i giornali, tutte le televisioni, tutte le radio ne parlano. La comunità scientifica globale annuncia la fine del nostro mondo: c’è di che rimanere sconvolti. E lo siamo. Il giorno dopo, parliamo solo di questo. Disprezziamo i governi che non agiscono, imprechiamo contro le imprese che inquinano, rimproveriamo ai vicini che se ne fregano la loro incoscienza: siamo coinvolti, spaventati, mobilitati.

Due giorni dopo, continuiamo a pensarci e a parlarne. Poi, qualche giorno più tardi, si verifica un altro evento che ci chiama in causa. Una notizia scaccia l’altra, una nuova indignazione sostituisce la precedente, cominciamo a discutere di qualcos’altro. Le televisioni, le radio, i giornali titolano su argomenti differenti. E, siccome bisogna essere visti, ascoltati, letti, anche in questo caso le parole usate sono altisonanti. In un certo senso, non c’è nulla di più normale: il mercato è competitivo, la stampa in crisi, il pubblico esigente. Se «Le Monde» avesse titolato per trenta giorni di fila sull’SOS degli scienziati, nessuno lo avrebbe più comprato.

Nel giro di una settimana o due, pubblichiamo dei post su Facebook rammaricandoci perché i media e i politici hanno già voltato pagina, esortando a non liquidare così in fretta l’allarme del 13 novembre. Ma finiamo per liquidarlo anche noi. Ci sono tanti problemi da affrontare, tante ingiustizie da combattere, tanti avvenimenti da commentare. Reagiamo all’appello dei “fatti” e dimentichiamo quello degli scienziati.

Un mese dopo, durante le rituali retrospettive di metà dicembre, nei programmi televisivi e negli studi radiofonici, sono rari i cronisti o gli invitati che citano il manifesto dei 15.000 come un avvenimento importante dell’anno trascorso. Si discute di Macron, di Trump, di Johnny Hallyday, di Harvey Weinstein. E si dimentica la fine del mondo.

Chi si ricorda oggi del 13 novembre 2017?

Dopotutto, quel giorno ha soltanto annunciato l’Apocalisse. E, in fondo, la morte dell’umanità commuove meno di quella di una rockstar. È meno palpabile, meno personale. Troppo generale. Troppo indefinita. Se un produttore di Hollywood ricevesse il testo di «BioScience», probabilmente risponderebbe alle sue migliaia di coautori: «C’è un problema nella vostra sceneggiatura, ragazzi. Questa cosa non resta impressa. Non ci si riesce a immedesimare. Rivedete lo script e fatemelo diventare più realistico. E soprattutto più coinvolgente per lo spettatore».

Dopotutto, cosa c’è di più logico di un gruppo di ricercatori che si eccitano per i risultati delle loro ricerche? Non è forse il loro ruolo pensare che l’ambito di studio di cui si occupano si trovi al centro delle nostre preoccupazioni? Il nostro ruolo, invece, è quello di tenerci informati. Su quello che dicono loro, ma anche su quello che dicono gli altri. Di consumare informazione, petrolio, idee, oggetti e soggetti. Perciò consumiamo. Mandiamo giù il loro appello così come ci sbafiamo un enorme scoop gossipparo su «Voici». Il boccone è un po’ più ostico da digerire, questa volta, ma il mal di pancia passa nel giro di qualche giorno.

Esagero appena. Il sociologo e filosofo Bruno Latour sottolinea su «Le Monde» l’inversione dei ruoli a cui assistiamo alla luce del riscaldamento globale: «Una volta gli scienziati erano le persone rassicuranti, e i politici o i cittadini le persone che si agitavano per ogni cosa. Oggi è il contrario: sono gli scienziati che si agitano, che si angosciano, che danno l’allarme, e sono i politici, voi, io, a restare freddi come pezzi di ghiaccio». I sapienti perdono la calma e si arrabbiano, gli ignoranti restano belli tranquilli.

Tuttavia, è saggio restare tranquilli quando la casa brucia? Un uomo che non sa perdere la calma o arrabbiarsi quando la situazione lo esige non è un saggio, avverte Aristotele, ma un flemmatico, un apatico: un pazzo. Colui che prova la stessa eccitazione di fronte a qualsiasi cosa è il suo opposto speculare. I due atteggiamenti – il pezzo di ghiaccio e il malato di zapping emozionale – manifestano un’analoga incapacità di entrare in sintonia con il disordine del mondo. Di stabilire una gerarchia delle informazioni e dei pericoli.

La calma è il segno di un’infermità quando la scienza esige la preoccupazione. La ragione esige la vertigine, ma le nostre passioni ci incatenano ai nostri modi di vivere, di pensare, di produrre, di consumare, come se una seconda pelle tenesse a distanza il dramma che si gioca sotto i nostri occhi per ricondurlo a una dimensione accettabile, tale cioè da non scuotere né le nostre abitudini né le nostre convinzioni.

Perché non abbiamo capito la portata dell’appello dei 15.000? Perché la risposta è stata così debole e la mobilitazione così effimera?

La risposta è contenuta in una frase: abbiamo perso il senso del tragico. Il nostro rapporto con il mondo è troppo comico perché riusciamo a concepirne la possibile fine. Nonostante i nostri vestiti e le nostre cravatte, i nostri studi e le nostre pose sentenziose, siamo diventati dei clown. Senza il naso rosso e l’aria malinconica che lasciano pensare che in fondo il clown sappia come stanno le cose. Siamo dei clown che non fanno né ridere né piangere. I protagonisti di una commedia scadente.

La madre di tutte le guerre

Hegel, invece, non è né un pagliaccio né un coach esperto in crescita personale. Pone domande serie e cerca di rispondervi seriamente. In particolare a questa: perché gli stati fanno la guerra? A guardare la cosa da vicino, i conflitti armati solo raramente sono redditizi. Costano cari e nessuno è mai sicuro di vincerli. Perché dunque ce ne sono tanti? Di solito si citano cause economiche, faccende di confini, anche questioni di prestigio. Tutti questi fattori giocano incontestabilmente un ruolo, ma secondo Hegel la ragione principale è altrove: ogni stato ha bisogno della guerra per affermarsi. Per esistere.

In una società che si dia come orizzonte la pace perpetua, le parti che compongono il tutto acquisiscono autonomia e si emancipano. Senza minaccia né nemico, i gruppi sociali, le entità economiche, le comunità religiose, gli individui finiscono per credersi autosufficienti. Ogni intervento dello stato nella loro sfera privata viene allora percepito come una violazione della loro sovranità. La tassazione e il servizio militare non vengono più capiti. La politica perde importanza e prestigio. Si ritrova senza scopo e diventa uno spettacolo. Il legame civico si disgrega o si fraziona in una miriade di legami particolari. La repubblica si trasforma in un arcipelago di isole che si allontanano sempre di più le une dalle altre. Si diluisce e si dissolve nel vivere separato.

Perciò, per frenare una simile degenerazione della cosa pubblica, perché ogni parte si renda conto che non può esistere senza il tutto che la supera e la vincola, gli stati scatenano le guerre. Gli individui e i gruppi sociali vedono all’improvviso, o piuttosto fissano, la loro stessa morte nello specchio spaventoso della morte possibile del tutto. Prendono improvvisamente coscienza che non possono vivere soli, che non sono autosufficienti. La Città che trascuravano diventa ai loro occhi di vitale importanza. Danno il proprio consenso alla tassazione, accettano sacrifici impossibili in tempo di pace, sottomettono di nuovo i loro desideri alla volontà generale. La politica torna al posto di comando e ritrova la sua nobiltà e la sua ragion d’essere.

Ogni organizzazione sociale, anche la più ingiusta, ha dei beneficiari, e ogni riorganizzazione profonda della società cozza dunque contro solidi interessi. Per costringerli a farsi da parte in nome dell’interesse generale serve un orizzonte tragico che la guerra tratteggia automaticamente. Non è un caso se il programma del Consiglio Nazionale della Resistenza fu concepito nel cuore del peggiore conflitto del secolo e applicato sulla sua scia: le classi privilegiate non erano in grado di resistere alla volontà pubblica. Quindi, per uscire dalla società di solitudine che ci conduce all’abisso, dobbiamo forse scatenare un conflitto armato? O ricorrere alla ghigliottina in cui ognuno contempla la propria finitezza e che il monarchico Joseph de Maistre vede sorgere in fondo a ogni idea repubblicana?

Non è ovviamente l’intenzione di questo libro: invadere la Germania o far cadere le teste in Place de Grève non potrebbe essere la soluzione. Ma se non troviamo un’altra soluzione, appunto, il nazionalpopulismo apparirà come l’unica forza abbastanza efficace e coerente – e anche romantica – da far vacillare quell’ordine delle cose che una crescente maggioranza di cittadini rifiuta. Allora finiremo per scatenare delle guerre. E all’inizio saranno commerciali e politiche. Ma nulla garantisce che in seguito non diventeranno militari. Come evitare tutto questo? Come tratteggiare un orizzonte abbastanza motivante da permettere la riorganizzazione delle nostre società senza urlare «Nach Berlin» per le strade di Parigi?

La risposta è di una desolante semplicità: basta aprire gli occhi. Non c’è nessun bisogno di edificare dotti sistemi filosofici per ridare senso all’azione pubblica. Non vale la pena di mandare truppe in Italia per mostrare la necessità di ricollocare la politica al posto di comando. Inventare un conflitto è inutile: siamo già in guerra. Contro il nostro ambiente. Quindi contro noi stessi. Questa guerra, che può portare alla morte di tutto e di tutti, dobbiamo riuscire a comprenderla. E a trarne le conseguenze.

Ecco la tesi centrale di questo libro: l’ecologia politica ci salverà se la prendiamo sul serio, se ci rendiamo conto che la fine del nostro mondo è possibile. Peggio: probabile. Peggio ancora: certa se nulla cambia. Solo una rivoluzione mentale può farci uscire dal vicolo cieco individualista. E solo l’ecologia ha la coerenza ideologica e la potenza tragica per produrre, tradurre e soprattutto perpetuare questa rivoluzione mentale. «Là dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva» scrive il poeta tedesco Friedrich Hölderlin. Dobbiamo immergerci nel cuore della vertigine climatica per trovare la risposta alle nostre domande. A tutte le nostre domande, anche a quelle che sembrano a priori molto lontane dai problemi ambientali.

Ci chiediamo come uscire dalla solitudine, come riorganizzare la società in modo meno iniquo, come riallacciare una relazione con la trascendenza, come reinventare la “religione civile” di Machiavelli, come ridare vita al sogno europeo di Hugo, come limitare le derive del capitalismo finanziario, come restaurare il primato del potere comune sulle potenze particolari, come far convergere le nostre lotte disparate e le nostre riflessioni sparse, come conferire durata all’energia demiurgica di Majdan, Tahrir, Gezi, Central Park e Puerta del Sol, come raddrizzare lo sgabello di Matteo, come ristabilire l’equilibrio. Soprattutto, ci chiediamo perché farlo. La risposta a tutto questo è l’ecologia. L’ecologia intesa come il reinserimento dell’individuo in un ambiente, in un tutto che lo vincola e che egli deve preservare. L’ecologia presa sul serio, vale a dire in modo tragico.

Per impedire la devastazione climatica, bisogna che mettiamo via il telecomando e abbandoniamo i nostri vestiti da clown per indossare quelli da cittadino. Uscire da un rapporto comico con il mondo basato sull’idea che ogni problema è, in fondo, un malinteso. In Melinda e Melinda, Woody Allen mostra che si può raccontare la stessa storia come una commedia o come una tragedia. È tutta una questione di sviluppo della sceneggiatura. Messi alla debita distanza, i problemi più gravi possono prestarsi al riso. Perfino l’Orestea di Eschilo, il ciclo tragico che mette in scena la caduta della civiltà micenea e l’ascesa di Atene, o l’Iliade e l’Odissea di Omero possono essere riadattate a drammi borghesi, a opere da boulevard o a romanzi all’acqua di rose. Possiamo prendere tutto alla leggera. Possiamo cancellare la dimensione tragica delle più tragiche eroine greche: del resto, una certa letteratura francese degli anni Trenta e Quaranta vi si è dedicata con costanza e fervore.

In piena occupazione tedesca, mentre molti giovani morivano per le loro idee, Jean Anouilh si è dato una sublime missione: trasformare l’Antigone di Sofocle, l’archetipo della donna in rivolta contro l’ingiustizia e la tirannia, in adolescente isterica arrabbiata con lo zio, gli adulti e l’umanità in generale. Jean Giraudoux, invece, ha deciso di dipingere l’Elettra di Eschilo, l’eroina che induce Oreste a vendicare il loro padre Agamennone uccidendo la madre Clitennestra, con i tratti di una schizzata e di una fanatica. Ha anche gloriosamente ridotto l’Iliade di Omero a un dramma borghese in La guerra di Troia non si farà, opera teatrale pacifista il cui titolo acquista tutto il suo significato se si considera che fu scritta nel pieno degli anni Trenta, in un’epoca in cui forse la messa a distanza della minaccia nazista e la derealizzazione dei conflitti non era il più grande servizio che si potesse rendere alla Città. Tutto è possibile, nel momento in cui non si prende niente in modo tragico. Emmanuel Macron può anche proclamare il suo amore per Giraudoux tra gli applausi dei semicolti cronisti, estasiati all’idea di avere finalmente un presidente che ha letto dei libri e ama la letteratura. Solo che non tutta la letteratura ha lo stesso significato. La sua passione per uno scrittore che ha consacrato la propria penna a spogliare di ogni dimensione tragica le più grandi tragedie dice qualcosa di essenziale sul nostro presidente. Si capisce che un ammiratore di Giraudoux non possa cogliere l’entità di una catastrofe come il riscaldamento globale e, confrontandosi con essa, rivoluzionare il proprio programma ideologico e politico: gli manca il senso del tragico.

L’ecologia può essere l’antidoto al dissolvimento del legame sociale solo se la narrazione prodotta non volge alla farsa. E non si riduce a degli elementi di comunicazione. O a un hashtag. Oggi bisogna prendere le cose a fronte rovesciato, cioè rimetterle a posto. Nell’immaginario collettivo, l’ecologista è stato per molto tempo un tipo simpatico che andava in giro in Birkenstock, piantava pomodori biologici sul suo balcone di Belleville o di Brooklyn e parlava per ore di autogestione facendosi le canne. Al contrario, il presidente di Exxon e l’inquilino della Casa Bianca non erano certo molto simpatici, ma avevano un’aria seria, con i loro completi grigi, le loro valigette ventiquattrore, i loro grandi problemi da amministrare e le loro frasi definitive sulla crescita del PIL.

Alla luce del riscaldamento globale, la realtà appare molto diversa. Quelli che hanno un rapporto comico con il mondo sono i dirigenti che rifiutano le implicazioni dell’appello dei 15.000 e continuano come se niente fosse. L’ecologista, invece, ci vede chiaro fin dall’inizio. Nonostante le apparenze, è infinitamente più serio dei nostri dirigenti in abito grigio. Ma, per essere ascoltato, deve smettere di essere simpatico e porsi al livello di ciò che vede. Certo, i nostri media probabilmente avrebbero ironizzato sulla serietà di Cassandra, la principessa troiana che non smise di avvertire i compatrioti dell’imminenza della catastrofe: ma lei aveva ragione e i suoi fratelli avevano torto. Corriamo quindi il rischio di subire l’ironia dei clown.

Questa ecologia tragica non può che essere politica. Per lottare contro il riscaldamento globale e la distruzione della vita, la sola trasformazione delle nostre abitudini e delle nostre pratiche individuali non basterà. Certamente è cruciale che queste abitudini e queste pratiche cambino. E possiamo capire perfettamente che, frustrati dall’indecisione cronica e dalle costanti rinunce dei dirigenti politici, certi militanti ambientalisti abbiano optato per l’ecologia dei piccoli passi, come c’è stata un tempo l’Europa dei piccoli passi. Che ognuno faccia quello che può al proprio livello è una condizione preliminare a un’evoluzione generale, ma non è, in sé, un’evoluzione generale. Niente cambierà davvero finché Total, Exxon e Monsanto non sentiranno una spada di Damocle sospesa sulle loro teste. Ebbene, questa spada può essere impugnata solo dalla “mano” di cui parla Machiavelli nei Discorsi: l’autorità pubblica. Perdere di vista la dimensione politica dell’ecologia vuol dire condannare sia l’ecologia sia la politica all’impotenza.

Un bidone universale

Questi ultimi quarant’anni raccontano la storia di un appuntamento mancato, quello dell’umanità con se stessa. L’emergere dell’allarme climatico risale agli anni Settanta. Il decennio seguente segna il suo ingresso nel cuore del dibattito pubblico mondiale. Il 1988 sembra essere l’anno di una presa di coscienza generale. Quell’estate si svolge la conferenza mondiale sull’atmosfera di Toronto. Trecento scienziati provenienti da quarantasei paesi chiedono la riduzione drastica delle emissioni di gas a effetto serra, pena catastrofici sconvolgimenti climatici. In novembre si tiene a Ginevra la prima sessione dell’IPCC e in dicembre la Terra in pericolo viene indicata come “personaggio dell’anno” dalla rivista «Time». La questione climatica sembra essere la questione centrale dei decenni a venire. E cosa succede nel 1990, nel 2000, nel 2010? Niente. O quasi niente.

È vero che l’umanità ha scelto male il momento di spedire le partecipazioni della propria morte programmata. Gli scienziati hanno suonato le campane a stormo proprio quando, sollevati, proclamavamo la fine della storia. Stavamo per addormentarci tranquillamente dopo tanti sforzi per liberare il mondo dalle minacce fasciste e poi comuniste, e all’improvviso dei ricercatori carichi di dati, cifre, equazioni e proiezioni, bussarono alla nostra porta per spiegarci dottamente che quel sonno così meritato ci era proibito. Come reagire? Abbiamo nascosto la testa sotto il cuscino. E abbiamo aspettato che il problema svanisse.

Interessi giganteschi si sono coalizzati per spingerci sulla strada dell’indolenza, ma non c’era bisogno di forzarci. Messo finalmente da parte lo spettro di una Terza guerra mondiale nucleare, non eravamo pronti a rituffarci nella tragedia. Così abbiamo ringraziato i ricercatori dell’IPCC per la loro chiaroveggenza e la loro dedizione alla causa comune, abbiamo assunto un’aria preoccupata e ci siamo goduti la vita. L’allarme climatico cozzava troppo frontalmente con i nostri desideri e le nostre credenze. Secondo uno studio dell’Università di Yale citato da Naomi Klein in Una rivoluzione ci salverà, solo l’11 per cento delle persone con una visione “individualista” del mondo (che pone l’individuo e i suoi diritti al di sopra di tutto) ammette che il riscaldamento globale sia provocato dall’uomo. Contro il 69 per cento di coloro che hanno un approccio “collettivista” alle cose. Il giurista Dan Kahan osserva che, se l’informazione data minaccia la sua visione del mondo, l’individuo produce degli anticorpi e sviluppa un sistema di difesa immunitaria contro l’informazione stessa. Ora, ognuno capisce bene che considerare il pericolo ecologico comporta che si rimetta in discussione il nostro rapporto col mondo. Da ciò deriva la tendenza generale, negli anni Novanta e Duemila, a eliminarlo dal nostro campo visivo: esso implicava uno sconvolgimento troppo grande nel momento della nostra conversione all’individualismo.

Un simile meccanismo di autodifesa ideologica non è esclusivo di un sistema di valori in particolare. Funziona nello stesso modo per la sinistra marxista del XX secolo. Riconoscere la verità sui campi di concentramento comunisti avrebbe scosso a tal punto le convinzioni di tanti intellettuali, giornalisti e cittadini, che essi rifiutarono a lungo di decidersi a farlo. Dal momento che il messaggio di Solženicyn era troppo pericoloso per la loro struttura mentale, cercarono di screditare il messaggero, spingendosi ad accusarlo di fascismo e di antisemitismo. Qualsiasi cosa pur di non aprire Arcipelago Gulag. La verità finì per venire a galla e in effetti il sistema ideologico della sinistra marxista non le resistette.

Lo stesso vale per l’individualismo di fronte al disastro climatico. Quando Nigel Lawson, ex ministro di Margaret Thatcher, si mette a capo di una crociata di scettici del cambiamento climatico, non parla dei fatti, ma delle terribili conseguenze che comporterebbe il prenderli in considerazione: «Il ritorno dello stato e della regolamentazione». Bisogna negare i fatti proprio perché sono gravi. Come sottolinea Naomi Klein, questi ideologi hanno ragione, come un tempo i “compagni di strada” del Partito comunista: prendere sul serio i dati dell’IPCC provocherebbe il crollo del loro sistema di valori. Sono più coerenti di quelli tra noi che riconoscono i fatti senza coglierne tutte le implicazioni politiche, filosofiche ed economiche. La sfida ecologica finirà per sovvertire l’ideologia individualista dominante. Quindi si farà di tutto per tenerla a distanza. I trumpisti negheranno i dati scientifici. Le menti più razionali li relativizzeranno o li annegheranno in una marea di informazioni varie e diverse.

Il decennio Novanta resterà nella storia come un periodo di “progresso” apparente nel corso del quale si sono in realtà ordite tutte le crisi e le regressioni che oggi sperimentiamo. All’epoca si offrivano due strade e noi abbiamo finto per imboccarle entrambe. Da una parte la deregulation, i trattati di libero scambio e i negoziati dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) incoraggiarono il laissez-faire, laissez-passer. Dall’altra si susseguirono i summit che chiedevano di affrontare collettivamente il riscaldamento globale. L’intreccio di queste due logiche è spettacolare: nel 1992 si tenne il Summit della Terra di Rio, nel 1994 si svolsero i negoziati del WTO, nel 1997 fu firmato il Protocollo di Kyoto, ecc. Queste due linee non si incrociarono mai nella testa dei nostri dirigenti. Mai essi videro il nesso tra quelle due strade che andavano in senso opposto. L’influsso di una logica sull’altra fu evocato solo raramente. E mai nel posto giusto, nel cuore del potere.

Qual era l’impatto delle disposizioni del WTO sulla capacità degli stati di produrre le norme ambientali invocate dai vari Summit della Terra? Questa domanda ovvia, insieme a decine di altre, non entrava nel campo visivo dei negoziatori, per quanto molto seri, dei trattati di libero scambio. Perché? Perché sarebbe stato fare della politica. E la cosa non era più in voga. I nostri leader “progressisti” non concepivano più il progressismo come l’invenzione di un futuro migliore, ma come l’accompagnamento dei “progressi” permessi dalla tecnologia e dal mercato. Erano degli eccellenti piazzisti e volevano evitare il minimo conflitto con le sfere economiche.

Il risultato, vent’anni dopo, è edificante: quando l’Ontario decide un ambizioso piano climatico che favorisce l’installazione locale di industrie verdi, viene condannato dal WTOper violazione della concorrenza libera e non falsata. Il suo piano dovrà essere gettato nella pattumiera: la transizione energetica aspetterà. Ogni paese si è mutilato da solo e ha inscritto nella legge la propria mutilazione. La globalizzazione del libero scambio fu dichiarata legalmente vincolante, quella della regolazione ecologica restò una formula magica: le due strade non vennero imboccate con lo stesso brio. Prendere sul serio l’ecologia presuppone quindi, oggi, rinegoziare questi trattati internazionali. Disfare ciò che è stato fatto per non poter più fare: riprendere il controllo.

Accettare il conflitto

La recente adozione del CETA, il trattato di libero scambio tra il Canada e l’Europa, che ignora brillantemente le preoccupazioni ambientali, sottolinea come siamo ancora lontani dall’aver cambiato programma.

Il nostro accenno di risveglio si traduce per il momento in hashtag come #MakeOurPlanetGreatAgain, in discorsi commoventi e, nel migliore dei casi, in riforme marginali. Eppure il consenso riguardo alle minacce è ormai quasi globale. Lo si è strappato anche sugli obiettivi da raggiungere. Ma non esiste, nella maniera più assoluta, riguardo alla strada da prendere per raggiungerli.

La COP211 annuncia l’ambizione di limitare a due gradi l’aumento delle temperature. Ma, nel documento finale, la semplice espressione “energie fossili” è assente. La stessa osservazione vale per il trasporto aereo, ugualmente “dimenticato”. Perché queste “assenze” e queste “dimenticanze”? Perché i nostri dirigenti si rifiutano di affrontare le lobby o di penalizzare le grandi aziende nazionali. Come se volessero cambiare le cose senza danneggiare nessuno. Nondimeno, bisognerà pure che gli interessi di certe parti siano intaccati affinché gli obiettivi fissati vengano raggiunti. Insomma: non si lotterà contro il riscaldamento globale senza affrontare Exxon e Total, senza opporsi alla Monsanto e alla FNSEA2.

I grandi gruppi petroliferi hanno tutto da perdere nella transizione energetica, perciò si adoperano per impedirla: nel 2013 hanno speso 400.000 dollari al giorno in lobbying diretto negli Stati Uniti per evitare ogni cambiamento delle regole del gioco a loro sfavore. Exxon, BP, Shell e Total hanno bisogno di annunciare riserve sempre più grandi per continuare a vedere salire in borsa la quotazione delle loro azioni. Questa corsa all’esplorazione e all’estrazione è catastrofica per il pianeta, ma, tra la Borsa e il pianeta, queste compagnie hanno fatto in fretta la loro scelta. Secondo le loro stesse cifre, si stima che nei prossimi trent’anni le loro emissioni di gas a effetto serra saranno cinque volte superiori alla percentuale stabilita per raggiungere l’obiettivo dei due gradi. Il rispetto di quell’obiettivo esigerebbe che facessero degli immensi sacrifici. E i proprietari di Exxon o di Total non sono dei Catoni che rivolgono il gladio contro se stessi per senso dell’onore e per amore della repubblica. Bisognerà quindi obbligarli a cambiare.

Costringere questi mastodonti a sottomettersi è impossibile? Prendere in considerazione un simile sconvolgimento dei modi di consumo, di produzione, di vita, è irrealistico? Eppure i precedenti storici dovrebbero incoraggiare i nostri leader a una maggiore audacia: la politica non è impotente se non quando acconsente a esserlo. Prendiamo l’esempio della schiavitù: patrimoni immensi e interi settori dell’economia erano minacciati dalla sua abolizione. Le decisioni politiche li hanno messi al tappeto. Ciò non è avvenuto senza scontri: negli Stati Uniti è perfino scoppiata una guerra civile estremamente cruenta. Evitare un simile conflitto armato è possibile. In compenso, è impossibile risparmiarsi ogni forma di conflitto. Pretendere di compiere la transizione ecologica nel consenso universale e tra gli applausi degli azionisti delle compagnie petrolifere, degli allevatori intensivi, dei capi della Monsanto, dei proprietari delle miniere d’oro e dei sacerdoti del libero scambio è semplicemente ridicolo. A un certo punto bisogna prendere una decisione.

L’“e nello stesso tempo” applicato al riscaldamento globale e alla protezione della biodiversità non può funzionare a lungo. Nicolas Hulot ne ha fatta l’amara esperienza. Gli avevano promesso che avrebbe potuto agire e che la politica messa in atto sarebbe stata all’altezza del pericolo da lui denunciato. Il problema è che erano state promesse tante cose anche a Total, a Électricité de France, alla FNSEA, ai cacciatori e a tanti altri attori le cui ambizioni erano molto lontane da quelle del ministro della Transizione ecologica. Quando se ne è reso conto e ne è rimasto turbato, gli hanno risposto che la politica era un’arte del compromesso, che bisognava pur trovare un punto di equilibrio tra gli interessi divergenti e le opposte convinzioni che compongono la società. Cercando di salvare il salvabile e di andare avanti là dove glielo lasciavano fare, ha resistito un anno.

Poi, il 28 agosto 2018, di prima mattina, è andato in onda su France Inter. Con tono grave si è posto da solo le domande più importanti e ha dato risposte nette: «Abbiamo cominciato a ridurre le nostre emissioni di gas a effetto serra? La risposta è “no”. Abbiamo cominciato a frenare l’erosione della biodiversità? La risposta è “no”. Abbiamo cominciato a metterci nella posizione di fermare il consumo di suolo? La risposta è “no”». Di conseguenza ha gettato la spugna e dato le dimissioni, in un momento di sincerità piuttosto straordinario nel nostro spazio pubblico. «Mi dicono: prendi tempo. Sii paziente. Ma sono trent’anni che siamo pazienti.» Ha insistito sull’urgenza di cambiare modello sociale ed economico per impedire la catastrofe.

«L’umanità ha imboccato una strada tragica», «diventiamo complici della tragedia», «questa tragedia climatica», ecc.: Nicolas Hulot ha pronunciato la parola “tragico” o “tragedia” quasi in ogni sua risposta, come per esortarci a smettere di essere personaggi da commedia in un momento della nostra storia che non sopporta più la leggerezza. Per concludere, ha espresso la speranza che il suo gesto provocasse «una profonda introspezione nella società». Per quarantotto ore, i media e i politici non hanno parlato che di questo, interessandosi d’altronde più alla personalità del messaggero che alla natura del messaggio. Poi, nel giro di tre giorni, è arrivata la frase di Emmanuel Macron sui «Galli refrattari al cambiamento» e la polemica sul prelievo fiscale alla fonte… Tra lo zapping e le analisi degli psicologi da bar sulla presunta fragilità del ministro dimissionario, non siamo stati all’altezza di quel momento di verità. Cerchiamo oggi di capire che cosa ci dice di fondamentale quel gesto.

Ci dice che, quando l’orizzonte è così drammatico, la politica smette di essere un equilibrismo per tornare a essere l’arte di definire una priorità (nel caso specifico salvare l’umanità e la biodiversità) e quindi di decidere. Ci dice che la cittadinanza non può ridursi al fatto di eleggere un presidente ogni cinque anni quando è in gioco il futuro di tutti (Hulot ha ripetuto diverse volte: «Dov’è la mobilitazione nella società?»). Ci dice che, davanti a un problema così grave, l’ingegnoso “e nello stesso tempo” ridiventa una semplice contraddizione. E che ci sono, al contrario di quello che pensano i comici, delle contraddizioni che non si possono risolvere e che bisogna accettare come tali. Delle contraddizioni assolute: tragiche.

Pur senza mai attaccare frontalmente Emmanuel Macron, ogni parola di Hulot sottolinea il carattere superficiale della conversione del nostro presidente all’ecologia. Per #MakeOurPlanetGreatAgain, bisognerà comunque arrabbiarsi con coloro che lo spingono nel baratro, prendere di petto un modello produttivistico che conduce il mondo al disastro. Accettare il conflitto, quindi. Come gli altri leader occidentali, Emmanuel Macron non è pronto a farlo. Ebbene, senza direzione politica, tutti i “piccoli passi” di cui ha parlato Nicolas Hulot resteranno vani.

La situazione è tanto più frustrante dal momento che cambiare le cose è in realtà possibile. Gli esempi di mobilitazioni riuscite su scala locale dovrebbero incoraggiarci. La città di Amburgo aveva privatizzato le reti elettriche, del gas e del riscaldamento. Quindi non poteva avviare la transizione verde invocata da una parte crescente dei suoi abitanti. Creata nel 2010 da alcune associazioni ambientaliste, la piattaforma civica Unser Hamburg – Unser Netz (La Nostra Amburgo – La Nostra Rete) fece una campagna per ottenere un referendum sulla rimunicipalizzazione dell’insieme di quelle reti. Il referendum ebbe luogo e il “sì” vinse di misura. Sulla sua scia, una cooperativa raccolse più di 50 milioni di euro per partecipare alla riacquisizione e allo sviluppo di progetti di energie rinnovabili. La transizione energetica fu avviata e il disastro finanziario promesso dagli oppositori alla deprivatizzazione non si verificò. Al contrario. L’operatore pubblico di distribuzione dell’elettricità esibisce un profitto di 35 milioni di euro nel 2014 e il bilancio è simile per i distributori di gas e riscaldamento. La privatizzazione del mondo non è una fatalità: ad Amburgo, contro il discorso dominante che deprezzava a prioriogni gestione pubblica, l’ecologia ha permesso un’inversione di marcia della storia.

Un altro esempio è rivelatore: il caso delle dighe inglesi. Su impulso di David Cameron, la drastica riduzione degli effettivi dell’Environment Agency ebbe gravi conseguenze sulla sorveglianza e sulla costruzione delle dighe. Le inondazioni dell’inverno 2013-14, che costrinsero a massicce spese d’urgenza, hanno portato a un ribaltamento dell’opinione pubblica. Dopo quella catastrofe, perfino il Partito conservatore ha modificato il suo programma. Finché la catastrofe non arriva, si pensa di poter fare a meno dello stato. Quando il dramma si verifica, il vicolo cieco neoliberista salta agli occhi. La metà degli elettori conservatori britannici oggi sostiene una rinazionalizzazione dell’energia e delle ferrovie. Nel paese di Margaret Thatcher, e perfino all’interno del suo stesso partito, la battaglia può essere vinta. A condizione di farla. Passo dopo passo.

Questo presuppone di non lasciarsi distrarre, di non cedere alla tentazione di credere che si possa lottare contro il riscaldamento globale senza grandi rivolgimenti economici e sociali. L’idea che la scienza possa fornire la soluzione e che la tecnica possa risolvere il problema che ha generato è molto seducente. Costituisce la forma più compiuta dell’ecologia non tragica. I suoi sostenitori sanno che le cose non possono restare così come sono, ma non vogliono neanche che cambino troppo. Puntano sulla geoingegneria per salvare nello stesso tempo l’ambiente, la civiltà e l’individualismo capitalista. Questa ambizione culmina nel progetto di climatizzazione planetaria, chiamato anche “opzione Pinatubo”, dal nome di un vulcano filippino la cui eruzione nel 1991 ha raffreddato l’atmosfera di 0,6 gradi per due anni tramite la proiezione di 10 km³ di materiali nell’atmosfera. L’idea è di rendere totalmente artificiale il clima. Dal momento che l’uomo l’ha già denaturalizzato, tanto vale andare fino in fondo per renderlo vivibile: la hybris tecnicistica trova nel caos che essa stessa ha prodotto una ragione per spingersi ancora più lontano.

In Una rivoluzione ci salverà, Naomi Klein racconta magnificamente l’impegno “verde” di Richard Branson. Un bel giorno del 2006, questo capo di compagnie aeree (tra le altre cose) incontra l’ex vicepresidente americano Al Gore, divenuto un instancabile militante ecologista, e dice di sperimentare una specie di epifania. Improvvisamente scopre che ci sono cose più importanti del profitto e promette di investire tre miliardi di dollari nella ricerca di carburanti non inquinanti. La totalità dei guadagni delle sue compagnie aeree deve essere destinato a questo compito così lodevole. I risultati non sono immediati, l’umore del miliardario cambia, i conservatori tornano al potere in Inghilterra: qualche anno dopo, Richard Branson ha dimenticato i carburanti puliti e si rallegra pubblicamente per l’espansione delle sue attività inquinanti. Però sul clima non rinnega niente, perché nel frattempo ha scoperto una cosa che permetterà di cambiare tutto senza intaccare nulla di ciò che fa la sua fortuna: la geoingegneria. La sua nuova causa? Raffreddare artificialmente l’atmosfera, orizzonte lontano che permette, nel frattempo, di continuare a guadagnare soldi riscaldandola.

Siamo di fronte a un ipocrita, a un geniale bugiardo guidato unicamente dalle attrattive del lucro e della gloria? Oppure abbiamo a che fare con un uomo appassionato e instabile le cui sincerità in successione rendono impossibile ogni impegno perenne? Poco importa. Impermeabile a ogni senso tragico, Richard Branson resta in entrambi i casi un personaggio da commedia incapace di concepire qualcosa che lo oltrepassi. «Padrone di me stesso come dell’universo» dice Augusto in Cinna di Corneille. Una volta preso atto che non potevano essere padroni di se stessi, i nostri capitani d’industria hanno deciso di essere padroni solo dell’universo, per un po’, finché non l’abbiano completamente distrutto. Rassicuriamoci riguardo a loro: troveranno sempre un punto d’appoggio. D’altronde si lanciano nell’esplorazione spaziale, nella ricerca di altri pianeti abitabili. Per il giorno in cui le loro azioni avranno reso invivibile il nostro.

Cinque secoli di storia

La rivoluzione da fare non minaccia solo gli interessi economici. Fa vacillare i fondamenti filosofici dell’Occidente. Quando Jason Bostic, vicepresidente dell’associazione dei produttori di carbone del West Virginia, dichiara: «A cosa serve una montagna che non è nient’altro che una montagna?», ai nostri occhi passa per un insensato o un estremista. Eppure si appoggia alla base di pensiero e di credenze che ha plasmato le nostre società e la nostra psiche collettiva.

Da secoli, l’uomo occidentale si è separato dal proprio ambiente. I nostri modi di produzione, di consumo, di alimentazione, di vita: tutto o quasi discende da questo separatismo originario a cui oggi dobbiamo rinunciare. Risolutamente cartesiano, per molto tempo ho rifiutato di misurare la rivoluzione che bisognava intraprendere. Mi dicevo che le sofferenze umane immediate, le ingiustizie sociali palpabili, le oppressioni politiche tangibili erano così grandi e così numerose che avrei avuto sempre il tempo di dedicarmi più avanti alla questione ecologica. Avevo torto sul timing, chiaramente, ma anche sul resto: non vedevo un nesso tra quelle due sfide.

Poi i pezzi disparati del puzzle si sono ricongiunti. Prendere sul serio il riscaldamento globale ha fatto vacillare uno dopo l’altro tutti i miei pregiudizi. Mentre la casa bruciava, gli esseri umani non potevano più fingere di non appartenere a un mondo finito. Bisognava ripensare il nostro rapporto con la natura e con noi stessi, interessarsi agli altri esseri viventi che abitano con noi l’oikos, la casa comune che le nostre pratiche mettevano in pericolo. Ritrovare quell’«etica della considerazione» di cui parla la filosofa Corine Pelluchon, abbandonare l’arroganza solitaria dell’uomo-Dio, riscoprire le solidarietà che strutturano il vivente.

A partire dal momento in cui si accetta questa conversione dello sguardo, anche le nostre certezze più salde si sbriciolano. Veniamo colti da una vertigine da cui l’umanesimo moderno, nella sua accezione classica e isolazionista, non si riprenderà mai. Abbiamo di fronte due strade. Fuggire in avanti nella hybris tecnicistica e individualista. O iniziare una rivoluzione mentale, sociale, economica e politica. È giunta l’ora della scelta.

1. La 21ª sessione annuale della Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, tenuta a Parigi, dal 30 novembre al 12 dicembre del 2015.

2Fédération Nationale des Syndicats d’Exploitants Agricoles: l’associazione francese che rappresenta gli agricoltori [N.d.T.].

Per un nuovo contratto sociale

Siamo in molti, provenienti da orizzonti sociali, culturali e ideologici diversi, a comprendere che lo status quo non è più sostenibile. Vogliamo cambiare il corso delle cose senza rifiutare le istituzioni democratiche, ma al contrario rafforzandole. Desideriamo dire di nuovo “noi” anziché “io” senza cadere nel cesarismo e nel nazionalismo. Il nostro rapporto con il mondo è cambiato, abbiamo finalmente abbandonato l’indolenza degli anni Novanta o Duemila. Sappiamo che la storia non è finita e che resta tragica. Sentiamo che la politica deve tornare al posto di comando della Città e al centro delle nostre vite. Intendiamo riprendere il controllo del nostro destino comune.

Migliaia di associazioni nascono, i dibattiti sulle idee fanno il tutto esaurito, le iniziative cittadine si moltiplicano. Ma il tempo stringe e lo sgabello di Matteo, lungi dal raddrizzarsi, continua a inclinarsi. La nostra presa di coscienza deve produrre rapidamente un orizzonte politico o rimarrà vana. La talpa può ben scavare, scavare ancora, continuare a scavare: se in un dato momento della sua esistenza non tira fuori la testa dal sottosuolo, tutti i suoi sforzi saranno stati inutili.

Dobbiamo agire e pensare al di qua e al di là dei cicli elettorali. Le elezioni sono pulsazioni indispensabili della vita democratica. Ma non riusciranno a scuotere lo status quo senza una mobilitazione continua dei cittadini. I programmi su cinque anni permettono di scegliere tra diversi orientamenti all’interno di un contesto preciso. Ma ogni rimessa in discussione di questo contesto presuppone un’ambizione più vasta, un progetto a più lungo termine: un nuovo contratto sociale e civico.

Qualcuno giudicherà poco realistico ciò che viene proposto qui. Ma è più realistico conservare il sistema che ha prodotto la crisi continuando a sperare che la risolva come per magia? Non è quella l’utopia più folle, la più pericolosa del nostro tempo?

Dalla necessità di rifondare la nostra democrazia derivano i princìpi seguenti:

1. Il cittadino non è semplicemente un elettore, ma un attore del governo della Città. Per non degenerare in aristocrazia o in monarchia elettiva, la democrazia diventa partecipativa e il popolo riprende il controllo delle sue istituzioni.

La repubblica platonica riserva il governo della polis alla classe dei filosofi re e la protezione delle istituzioni a quella dei guardiani. La democrazia si basa sul principio inverso: la politica non è una scienza e tutti noi siamo altrettanto ignoranti o sapienti, nel momento in cui si pone il problema del bene comune. Quindi possiamo e dobbiamo partecipare tutti alla deliberazione collettiva e al governo della cosa pubblica. Tutti noi siamo i garanti delle istituzioni che ci siamo dati.

Stendhal giudicava severamente un sistema in cui il futuro comune sia affidato in egual misura a un fornaio e a uno studioso. Aveva torto quando non vi vedeva altro che un cieco ottimismo riguardo alla coscienza civile del panettiere. Vi si può anche leggere una diffidenza radicale riguardo a quella dello studioso. L’idea di distribuire universalmente la responsabilità del governo comune non si basa su un irenismo da orsetto del cuore, ma sulla presa in considerazione della fallibilità di tutti. La celebre massima di Cartesio («Il buon senso è la cosa meglio distribuita al mondo») non significa necessariamente che siamo tutti saggi, può anche voler dire il contrario: siamo tutti ugualmente sprovvisti di saggezza. Ciò che invece afferma con chiarezza è che partiamo tutti in condizioni di parità quanto a capacità di giudicare e quindi di decidere delle cose comuni. Questo messaggio era già presente nella scena del Menone in cui Socrate fa raddoppiare la superficie di un quadrato a un giovane schiavo sotto lo sguardo incredulo del suo padrone. Ecco enunciato il principio della democrazia: siamo tutti maestri e allievi, rappresentanti e rappresentati, governanti e governati.

Oggi invochiamo un ritorno a questo principio. Ma co-decidere del futuro comune esige da ciascuno di noi un cambiamento di atteggiamento. Non si partecipa al governo della Città come si mette “Mi piace” a un post su Facebook. Anche se siamo tutti inclini a pretendere più democrazia, non necessariamente abbiamo coscienza di ciò che questo implica in termini di sforzo su se stessi e di sacrificio.

Kingersheim è un piccolo comune della periferia di Mulhouse abitato per la maggior parte da operai e impiegati che alle elezioni politiche votano per la destra o per l’estrema destra. È anche uno dei più sorprendenti laboratori civici di Francia. Il suo sindaco, Jo Spiegel, si è dato come missione di riparare la propria città reinventando la politica comunale, di «riconciliare la repubblica – la ricerca del bene comune – e la democrazia – il modo in cui conduciamo questa ricerca». L’idea è semplice: coinvolgere i cittadini in tutte le deliberazioni e in tutti i processi decisionali.

Tutto è nato nel 1998 da un giro a piedi per la città, durante il quale Jo Spiegel bussò a tutte le porte per esortare gli abitanti a partecipare al governo del comune. Distribuì loro un questionario dettagliato sulle politiche da attuare: «Ce ne sono tornati indietro 2.500 su 5.500 famiglie, fu una bellissima sorpresa! L’altra sorpresa, meno piacevole, fu il contenuto delle risposte… Per citare un esempio tra gli altri: l’82 per cento delle persone non voleva sentir parlare di edilizia popolare, anche se l’80 per cento di loro aveva i requisiti per potervi accedere. Avevano paura. O meglio, avevano paura di avere paura. Per quanto la delinquenza fosse molto bassa, non volevano che “arrivassero gli arabi”. Mi sono detto che avevamo due opzioni: o prendere atto che la democrazia era impossibile e che non si doveva più chiedere agli abitanti la loro opinione, o accettare di farla vivere veramente, rivolgersi alle persone come a dei cittadini, portarle a liberarsi dei loro pregiudizi tramite l’esperienza diretta del governo».

Per curare la crisi della democrazia con la democrazia, Spiegel ha messo in campo un’assemblea ibrida («è la parola chiave di tutto quello che facciamo qui») composta da cittadini impegnati, consiglieri comunali e rappresentanti delle principali associazioni cittadine. Il suo ruolo consiste nel definire i grandi progetti della città. Soprattutto, ha inaugurato dei consigli partecipativi che sono incaricati di elaborare e attuare questi cantieri: «Abbiamo tanti consigli partecipativi quanti sono i progetti». I consigli, limitati nel tempo, sono composti per il 40 per cento da volontari, per il 20 per cento da persone direttamente interessate al progetto e per il restante 40 per cento da cittadini estratti a sorte. Finora hanno raccolto quasi un migliaio di partecipanti (su 9.000 iscritti alle liste elettorali).

Jo Spiegel è tutto tranne che un populista o un demagogo. Si getta a corpo morto nella democrazia partecipativa, ma rifiuta con veemenza la definizione di “politico di prossimità”: «Non parlo di cacca di cane o di gerani. Non taglio nastri. Ho smesso completamente con le inaugurazioni. Parlo solo al cittadino. Alla parte cittadina di ognuno». Rifiuta l’idea di una democrazia totalmente diretta: «Bisogna conservare una forma di verticalità rappresentativa. E anche una forma di rigore. Le persone amano protestare, ma devono imparare a costruire, è una cosa meno spontanea, più artificiale. Indignatevi! di Hessel ha centrato il bersaglio, Impegnatevi! molto meno…».

In occasione dei sorteggi per i consigli partecipativi, solo un cittadino designato su sei accetta di assistervi: «Gli ostacoli sono molteplici: dall’autocensura alla mancanza di tempo, passando per la pura e semplice mancanza di interesse per la cosa pubblica. Per decenni la società ha forgiato individui, perciò non basta schioccare le dita per formare dei cittadini. E, onestamente, la democrazia è una parola seducente ma è un processo noioso. I partecipanti devono inserirsi in un tempo lungo – la democrazia rifiuta l’immediatezza – e in una serie di regole vincolanti: tutte cose non esattamente conformi allo spirito dei tempi!».

In effetti, la partecipazione a questi consigli non è affare da poco. I membri cominciano con una formazione sui temi legati al progetto che sono chiamati a definire e sostenere: «Per esempio, riguardo al piano di riassetto urbano, vale a dire la regolazione del territorio per i prossimi vent’anni, abbiamo passato ore a discutere del legame tra il locale e il globale con ricercatori ed esperti. Abbiamo preso l’ecologia come asse portante della nostra riflessione e tutti i partecipanti sono diventati esperti dei Protocolli di Kyoto! La questione posta ai cittadini era tutt’altro che semplice: come trovare un equilibrio tra bisogno di nuovi alloggi e difesa dell’ambiente (in particolare per quanto riguarda il divieto di edificare sui terreni non costruiti)? Oltretutto nel rispetto dei vincoli finanziari… Abbiamo lavorato con uno studio specializzato nello sviluppo sostenibile. Non è un sapere calato dall’alto, ma l’appropriazione di conoscenze esistenti da parte dei cittadini affinché possano prendere la miglior decisione possibile, una decisione informata. E maturata in comune».

La partecipazione, a Kingersheim, non è la semplice espressione della propria opinione, ma la trasformazione di sé in un processo decisionale collettivo. Il rischio è allora che i membri dei consigli, diventati esperti, si separino dal resto della Città. Dunque hanno l’obbligo di restituire i loro lavori agli abitanti che non partecipano: «Ho notato che gli “agorattori”, come li chiamo io, cominciano quasi subito a discutere tra loro. Perché loro sanno, loro fanno, mentre gli altri non sanno, non fanno. Da qui è nata l’idea degli incontri di quartiere. Alle 18 si aprono le porte e il bar, e l’intero quartiere è invitato a dibattere. Gli abitanti possono esprimersi a voce o attraverso un sistema di Post-it. È sorprendente constatare che evocano sempre spontaneamente ciò che non funziona. Quindi abbiamo diviso gli incontri in due: prima il tempo delle lamentele, poi quello delle proposte. Così abbiamo inaugurato dei quaderni delle buone idee dove vengono annotate le migliori pratiche da imitare».

Jo Spiegel parla di «nuova grammatica democratica da scrivere in comune». Lui stesso si pone sotto l’egida di Pierre Mendès France, che già nel 1962 esortava a «realizzare la democrazia della partecipazione» e affermava: «La democrazia non consiste nel mettere periodicamente una scheda nell’urna, nel delegare i poteri a uno o più eletti per poi disinteressarsi, astenersi, tacere per cinque anni. È l’azione continua dei cittadini»1. L’approccio di Mendès non fu mai davvero sperimentato in Francia. Il dibattito a sinistra si chiuse a favore di Mitterrand e del presidenzialismo verticale. Non è forse tempo, nel 2018, di demonarchizzare la repubblica? Come tradurre le sperimentazioni democratiche locali a livello nazionale?

Molteplici vie si aprono davanti a noi per rafforzare il controllo dei cittadini sulle istituzioni rappresentative e sulle autorità pubbliche. Due obiettivi distinti ma inscindibili devono guidare le nostre riflessioni: rendere la democrazia più democratica e rendere la rappresentanza più rappresentativa. Ridare potere ai cittadini in modo continuativo e spezzare il dominio di un’aristocrazia sulle cariche elettive, perché le camere che dovrebbero rappresentare la nazione siano realmente, come prevedeva Mirabeau nel 1789, immagini in miniatura della società.

A questo scopo, il Senato attuale, che la sua modalità di elezione definisce come la camera dei rappresentanti dei rappresentanti, ossia la quintessenza della democrazia indiretta, sarà sostituito da un Senato cittadino i cui membri verranno estratti a sorte tra l’insieme dei cittadini secondo criteri geografici. Esso controllerà le leggi votate dall’Assemblea nazionale, sorveglierà le pratiche del potere esecutivo e delle alte cariche pubbliche, deterrà il monopolio sulle iniziative referendarie e avrà sede fuori Parigi, in una città di medie dimensioni come Clermont-Ferrand, Saint-Étienne, Grenoble o Angers. Il Parlamento francese diventerà ibrido, composto da un’Assemblea nazionale prodotta dalle elezioni classiche e da un Senato cittadino estratto a sorte.

Delle assemblee civiche verranno organizzate per tutto l’anno attraverso la Francia, secondo il modello proposto da Dominique Rousseau in Radicalizzare la democrazia2. Riuniranno una trentina di cittadini per regione, anch’essi estratti a sorte, per deliberare e produrre proposte normative su argomenti di interesse generale. Questi cittadini riceveranno una formazione sull’argomento in questione come a Kingersheim, ascolteranno gli attori coinvolti e gli esperti, dopodiché sottoporranno dei progetti di legge al Parlamento. Queste assemblee saranno accessibili a tutti e le discussioni saranno rese interattive tramite la creazione di forum specifici su internet.

Le nuove tecnologie aiuteranno a estendere la parte di democrazia diretta introdotta nel cuore del nostro sistema rappresentativo. Per molto tempo, ogni proposta alternativa alla democrazia strettamente indiretta si è vista opporre l’argomento del numero: come far sedere tutta la Francia in una sola e unica assemblea? Si diceva che la democrazia diretta poteva andare bene solo per le città e i piccoli comuni. La rivoluzione digitale scuote questa logica. La civic tech – le nuove tecnologie messe al servizio della democrazia – è un neologismo inglese infinitamente più repubblicano della start-up nation. In Finlandia, per esempio, la piattaforma Open Ministry accompagna i cittadini nell’elaborazione di progetti di legge. Se raccolgono più di 50.000 firme, possono sottoporli al Parlamento. L’approvazione del matrimonio per le coppie omosessuali da parte del parlamento finlandese nel dicembre 2014 ha seguito questo iter partecipativo.

Dobbiamo riprendere il controllo sullo slogan «riprendere il controllo», non lasciarlo più nelle mani dei demagoghi nazionalisti e tradurlo nei fatti nel cuore delle nostre istituzioni. Non sarà una diminuzione della democrazia ad arginare l’ondata populista, ma il ritorno effettivo alla sovranità del demos. Oggi è urgente restituire potere, e dunque anche doveri, ai cittadini.

2. Per partecipare direttamente al governo della Città, bisogna avere i mezzi per farlo. La repubblica garantisce che ciascuno dei suoi membri abbia le risorse sufficienti per diventare un cittadino attivo ed esige in cambio che lo diventi. Essa istituisce un reddito universale e un servizio civile universale.

Per chiedere alle persone di dedicare tempo ed energie alla vita pubblica, bisogna almeno che ne abbiano i mezzi. Quando si scivola sotto la soglia della povertà, è difficile impegnarsi in altre cose che non siano la propria umana sopravvivenza. Al di sopra di quella soglia, spesso è complicato rendersi disponibili nel momento in cui la vita lavorativa mobilita la quasi totalità delle nostre risorse mentali e fisiche. Perché la politica non sia più un lusso che solo un’élite finanziaria o una casta burocratica può permettersi, sono necessari profondi cambiamenti nella nostra definizione di previdenza sociale, nel nostro rapporto con il lavoro e nel nostro approccio alla cittadinanza.

La concezione antica della libertà come partecipazione e non come ripiegamento si basava in larga misura su qualcosa di cui nessuno oggi si augura, perlomeno apertamente, il ritorno: la schiavitù. I cittadini ateniesi potevano dedicare tanto tempo ed energia alla cosa pubblica perché gli schiavi assicuravano una parte rilevante del lavoro produttivo, in particolare i compiti più ingrati, dallo scarso valore aggiunto e dal riconoscimento simbolico quasi nullo. Esattamente come Atene, anche la Roma cara a Machiavelli non avrebbe potuto esistere senza queste schiere di esseri umani ridotti allo statuto di macchine e di cui si poteva disporre a piacimento. A ciò, Roma aggiungeva il saccheggio della totalità del mondo conosciuto. Poiché la reintroduzione della schiavitù e della razzia non può chiaramente costituire la prima tappa del nostro rinnovamento civico, ci servono delle soluzioni alternative.

La scienza e la linguistica ci offrono degli spunti. Si pensi per esempio all’etimologia del termine “robot”: esso deriva dalla parola ceca robota3 che significa lavoro, compito o corvé (rab vuol dire schiavo in quasi tutte le lingue slave). Contrariamente al tecno-scetticismo che talvolta mi anima, il filosofo Michel Serres vede nell’intelligenza artificiale, nei robot di nuova generazione, il fattore Xdell’equazione che dobbiamo risolvere quando cerchiamo il modo di permettere a ciascuno di prendere parte alla vita pubblica. Secondo Serres, l’IA può adempiere alla funzione produttiva degli schiavi antichi e offrire ai cittadini i mezzi per un ritorno alla cittadinanza attiva. A condizione tuttavia che la poniamo al servizio di un progetto di società.

Così com’è, senza una riorganizzazione della Città, il costo sociale del progresso tecnologico rischia di essere enorme. Al fine di farne una fonte di libertà e non di alienazione, è la collettività nel suo insieme che deve poter beneficiare dei profitti generati dalle macchine. Esse permettono aumenti di produttività tali da rendere antiquate numerose mansioni lavorative. La ricchezza prodotta con sempre meno lavoro umano deve essere ridistribuita a tutti: le macchine verranno tassate. E il nostro rapporto con il lavoro deve evolversi in funzione di questa rivoluzione tecnologica: dobbiamo valorizzare altre forme di lavoro rispetto a quelle del settore commerciale.

Oggi l’idea di un reddito universale trae la sua forza da questa doppia ambizione: adattare la nostra definizione del lavoro ai rivolgimenti tecnici e fare in modo che la ricchezza globalmente prodotta assicuri a ognuno la certezza di non precipitare mai sotto la soglia della povertà e offra a tutti la possibilità di impegnarsi in ambiti diversi dal solo settore commerciale. Considerata un’idea bislacca ancora qualche anno fa, si impone oggi nelle cerchie più disparate, dagli ultraliberisti alla sinistra radicale.

Tra i suoi promotori, il giornalista e attivista olandese Rutger Bregman è probabilmente il più influente. Prendendo atto delle evoluzioni del mercato del lavoro e adottando sia il linguaggio dei realisti sia il vocabolario dei commercialisti, dimostra con brio che alla fine il “denaro gratuito” costa alla società meno delle conseguenze della miseria che permette di sradicare. Il suo ragionamento si fonda su esempi concreti: un gruppo di senzatetto londinesi a cui vengono forniti direttamente i mezzi finanziari per togliersi dalla strada rappresenta a lungo termine un risparmio massiccio per l’amministrazione comunale (diminuzione drastica delle spese giudiziarie, di ospedalizzazione o per gli alloggi d’emergenza); una ONG che distribuisce un salario anziché dei beni di prima necessità a bambini di strada in Liberia permette loro di creare delle microimprese dai risultati sbalorditivi; una provincia canadese che sperimenta il reddito universale negli anni Settanta vede le sue spese sanitarie e giudiziarie diminuire e la produttività lavorativa aumentare… La scommessa della solidarietà si rivela vantaggiosa. Perché allora tante reticenze a metterla alla prova?

L’investimento iniziale è faraonico. Per acconsentirvi, la Città deve capire in che modo il reddito universale le permetterà di uscire dalla crisi che attraversa. Ebbene, la verità impone di dire che, in sé, un simile reddito non lo permette. Se è concepito semplicemente come lo sbocco della logica dei diritti individuali, non mette fine alla società di solitudine che mina la repubblica. Non è un caso se l’idea piace tanto a certi neoliberisti: la considerano come il mezzo per comprare la pace sociale continuando a smantellare le strutture collettive che animano la Città. Vi vedono l’ultima tappa dell’individualizzazione della vita sociale. Il reddito universale deve quindi essere inserito in un progetto più vasto che gli dia senso e lo metta al servizio della collettività nel suo insieme, e non solamente di ciascuno dei suoi membri preso separatamente.

Nella primavera del 2018 ho discusso di questo con Rutger Bregman, su invito dell’associazione European Lab. La conferenza, in un’aula piena fino a scoppiare dell’Università di Lione 3, è iniziata con un’ora di concorde simbiosi, dal comune rifiuto dello status quo al rigetto condiviso delle reazioni populiste. Poi è giunto il momento del dissenso, cioè del pensiero autentico. Il disaccordo verteva sulla questione se il progetto civico dovesse o no inglobare il reddito universale e sulla nozione di vincolo collettivo che pesa su ognuno dei beneficiari, vale a dire su tutti noi. L’aula si è divisa in due.

Toccavamo con mano la spaccatura che divide il pensiero progressista contemporaneo. Mentre accennavo alla necessità di essere attivamente cittadini e alla possibilità per lo stato di esigere da noi che lo diventiamo, Bregman è scoppiato a ridere: «Raphaël! La tua concezione della sfera pubblica flirta con l’autoritarismo!». Ecco il cuore del problema: la politica può limitare le nostre libertà? Fino a che punto la Città ci vincola? I nuovi diritti di cui abbozziamo i contorni vanno di pari passo con nuovi doveri? Insomma: come si concretizza, nelle nostre vite, la nostra appartenenza a un popolo?

Il più delle volte i progressisti affrontano un solo versante del contratto sociale: quello dei diritti. Sorvolano sulla questione dei doveri che corrispondono a questi diritti. La Città ideale, ai loro occhi, permette di essere ciò che si è, di fare ciò che si desidera, di vivere come si vuole. È bello, ma manca un orizzonte comune a questi diritti e a queste libertà. Senza questo orizzonte, il reddito universale non è altro che una versione socialmente accettabile della logica individualista. Al contrario, io lo concepisco come il preludio al ritorno della politica nelle nostre vite. Non è un fine in sé, ma un punto di partenza.

Ecco perché il reddito universale sarà abbinato a un servizio civile universale. Universale, il che significa obbligatorio. Affinché ogni individuo impari di nuovo che appartiene a una Città che non è un distributore di denaro o un’impresa di mantenimento dell’ordine, la suddetta Città lo deve costringere a dedicare tempo ed energie al bene comune. A un dato momento della nostra esistenza dobbiamo essere chiamati a eclissarci in quanto persone private, a fare non più ciò che desideriamo, ma ciò che la repubblica desidera che facciamo.

Percepisco sempre un brivido attraversare l’uditorio, quando pronuncio le parole “costrizione” e “obbligo”. Dal pubblico delle mie conferenze, spesso giovane e progressista, si alza regolarmente la stessa obiezione: «Rendendo il servizio civile obbligatorio, lo svuoterebbe della sua vocazione altruista. Meglio fare appello alla volontà, alla coscienza, alla responsabilità di ognuno». Cosa che, in fondo, equivale a dire che la costrizione è un concetto di destra e un’idea vecchia. Io cerco incessantemente di spiegare che è il contrario: se vogliamo rifondare un progressismo che non sia semplicemente la ratifica dell’esistente e non si rinchiuda nel ruolo di piazzista del mercato, dobbiamo riabilitare la nozione di obbligo collettivo. Se la Terza Repubblica avesse ritenuto che era vietato vietare, c’è da temere che i bambini lavorerebbero ancora in fabbrica.

Un servizio civile volontario ha un impatto solo superficiale sulla società. I cittadini che si candidano a farlo sono quelli che hanno già la consapevolezza di appartenere a un tutto e vogliono agire per la loro Città. Gli altri continuano la loro vita di uomini o donne, di ricchi o poveri, senza doversi preoccupare della cosa comune. Generalmente siamo d’accordo nel constatare che è utopistico voler formare un popolo se un ragazzo della banlieue non incrocia mai in vita sua un ragazzo del VII arrondissement o della Route d’Amiens. In compenso ci dividiamo sull’estensione della mescolanza necessaria alla preservazione di una repubblica. I sostenitori di un servizio volontario pensano che i muri dei ghetti spariscano se a qualcuno si danno i mezzi per scalarli4. Ma i muri si abbattono solo se è la maggioranza a oltrepassarli. Lo sradicamento operato dal servizio civile è efficace solo se è universale. E può essere universale solo se è obbligatorio. Il suo stesso significato è l’esperienza comune dell’obbligo. La scoperta da parte di ciascuno di non appartenersi totalmente e di non potersi prendere come orizzonte permette il rovesciamento da homo oeconomicus a cittadino.

3. Notando che la democrazia liberale vira verso l’oligarchia, la Città traccia un confine netto tra la sfera pubblica e quella privata, condizione sine qua non di una deliberazione collettiva realmente libera.

«Tutti corrotti!»: lo slogan non è nuovo, ma gode di ottima salute. Sebbene sia incontestabilmente falso, visto che i nostri dirigenti sono ben lungi dall’essere tutti corrotti, si basa tuttavia su difetti reali e profondi delle nostre democrazie. La corruzione nella definizione di Machiavelli, cioè l’appropriazione dell’interesse generale da parte di interessi particolari e la perdita di autonomia del potere politico, è una delle principali cause dell’erosione del consenso sociale che minaccia le nostre istituzioni. Ristabilire questo consenso presuppone di riesaminare trent’anni di confusione dei ruoli.

Alla fine del suo mandato, il cancelliere tedesco Gerhard Schröder è stato assunto dalla Gazprom, ovvero l’impresa straniera che più ha beneficiato della sua decisione, quand’era al potere, di costruire un gasdotto nel Mare del Nord. Dopo aver lasciato la guida della Commissione europea, José Manuel Barroso è stato assunto dalla banca d’affari Goldman Sachs, coinvolta nella crisi dei mutui subprime e nella contraffazione del debito greco. Così facendo non hanno violato alcuna legge. Eppure hanno gettato discredito sulla funzione pubblica che occupavano. Questi casi emblematici sono rivelatori di un problema strutturale più ancora che personale. L’intensificazione della lotta alle pratiche corruttive ha portato a qualche progresso, ma le varie leggi sulla “moralizzazione”5 della vita pubblica non toccano il cuore del problema: la crescente porosità delle istituzioni politiche e delle potenze economiche.

La cosa più urgente è ristabilire una forma di separazione tra i depositari dell’autorità pubblica (eletti o burocrati) e gli interessi privati. Anche se è assurdo caldeggiare il divieto per gli alti funzionari o i dirigenti politici di fare poi carriera in azienda o agli attori del settore commerciale di mettersi un giorno al servizio della Città, il sistema di incompatibilità tra certe posizioni pubbliche e private sarà rivisto e verranno inasprite le condizioni per l’approvazione del passaggio a imprese private di politici o di alti funzionari statali tra due mandati o due incarichi. Quale fiducia concedere a un ex direttore degli affari pubblici (vale a dire lobbista capo) di Areva6, nel momento in cui si pronuncia in merito all’uscita o meno dal nucleare in qualità di Primo ministro?

La questione della struttura incaricata di sorvegliare l’applicazione di queste regole è essenziale. A tutt’oggi questo ruolo è attribuito a una commissione deontologica composta da alti funzionari. Non sorprende che si mostri accomodante. Verrà sostituita da una commissione specifica del Senato cittadino che si appoggerà a giuristi indipendenti. Il controllo della burocrazia e dei suoi legami con gli interessi privati tornerà in mano ai cittadini. Così come quello degli eletti, il cui statuto sarà rivalutato e in cambio reso più esigente. Senza questo, l’alone di sospetto che circonda la vita pubblica non farà che crescere.

Nella serata di lunedì 27 agosto 2018 all’Eliseo si svolge una riunione cruciale su caccia e biodiversità. Nicolas Hulot vi incontra Thierry Coste, il capo della lobby dei cacciatori. Quest’ultimo, che ormai da molto tempo gode della fiducia del presidente, ha partita vinta: il costo della licenza di caccia viene dimezzato. Il ministro si rende conto che un rappresentante di interessi particolari ha più poteri di lui e la mattina dopo dà le dimissioni denunciando la presenza di lobby nel cuore dello stato: «Presto o tardi bisogna affrontare l’argomento, perché in democrazia è un problema: chi ha il potere? Chi governa?». Se non rispondiamo a questa domanda cruciale non abbiamo la minima probabilità di ripristinare la fiducia nelle istituzioni della democrazia liberale.

Claire Nouvian, attivista instancabile nella protezione degli oceani, le lobby le affronta di continuo, in particolare quelle della pesca industriale. La sua ultima battaglia in ordine di tempo contro l’autorizzazione della pesca a impulsi elettrici è rivelatrice della penetrazione degli interessi particolari nel cuore delle istituzioni europee. In Europa questa tecnica di pesca fu vietata nel 1998 perché avrebbe svuotato i nostri mari dei pesci e mandato in rovina la pesca artigianale nel suo complesso. La Commissione europea decise improvvisamente di autorizzarla nel 2006, in seguito alle attività di lobbying degli industriali olandesi e contro il parere del suo stesso comitato scientifico. Il metodo usato dalla Commissione illustra la mancanza di trasparenza del funzionamento di Bruxelles: una nota che autorizzava la pesca a impulsi elettrici fu introdotta all’ultimo momento negli annessi di un documento annuale sulle quote di pesca. Claire Nouvian constata: «Ecco come si genera, di soppiatto, un problema mondiale (la sparizione dei pesci) a partire da discussioni di corridoio con i lobbisti».

Dieci anni dopo, la Commissione decise di spingersi ancora oltre e di eliminare ogni forma di restrizione geografica, autorizzando la pesca a impulsi elettrici dappertutto. È a questo punto che Claire Nouvian e la sua associazione, Bloom, sono intervenute. Una campagna di mobilitazione civica, mediatica e politica ha reso pubbliche delle discussioni che non dovevano esserlo. Aprire all’opinione pubblica le porte chiuse dei responsabili politici è il modo migliore di lottare contro l’appropriazione dell’interesse generale da parte degli interessi particolari: «Bisogna capire bene lo squilibrio delle forze a confronto: noi di Bloom siamo sette, i grandi industriali della pesca, raccolti nella struttura Europêche, hanno sessanta lobbisti che lavorano per loro a tempo pieno a Bruxelles; chi pratica la pesca artigianale, invece, non ha nessuno che parli a nome suo o vigili sulle decisioni che lo riguardano. Abbiamo finito per averla vinta: il Parlamento si è impadronito della questione e ha respinto la proposta della Commissione. Ma, per una battaglia vinta, quante battaglie si perdono o non vengono fatte perché non sono note ai cittadini? Il problema fondamentale è questa sproporzione tra le risorse a disposizione dei grandi gruppi privati e i mezzi dei difensori dell’ambiente o dell’interesse generale».

L’Europa delle lobby esiste. Come esistono effettivamente, per esempio, una lobby nucleare e una lobby petrolifera in Francia, con ramificazioni in tutto l’apparato statale, fino al suo vertice. Come preservare il carattere democratico del processo decisionale quando somme immense e potenti reti di influenza si mobilitano in senso contrario? Claire Nouvian chiama le autorità pubbliche a ristabilire una specie di equilibrio: «L’idea non è assolutamente quella di vietare le lobby in quanto tali, è impossibile e sarebbe controproducente per la democrazia. La sfida consiste nel riequilibrare i rapporti di forza, nel permettere tanto alle associazioni senza scopo di lucro quanto agli interessi particolari meno potenti, nel caso specifico a chi pratica la pesca con metodi artigianali ed è condannato alla rovina dalla pesca a impulsi elettrici, di essere meglio rappresentati, di fare da reale contrappeso ai grandi gruppi economici. Due evoluzioni sono vitali: riequilibrare le forze a confronto e instaurare una reale trasparenza riguardo ai voti, agli incontri, agli scambi dei rappresentanti del popolo. Resta poi la questione fondamentale dell’onestà di ogni politico eletto, che non sarà risolta da leggi o da regole, ma da una trasformazione profonda delle mentalità…».

Nel corso di quella campagna, Claire Nouvian rimane sorpresa dalla quantità di bugie diffuse tra i rappresentanti politici dagli agenti d’influenza di Europêche. Circolano documenti totalmente fantasiosi travestiti da perizie scientifiche. «Se si vuole lottare contro le fake news, bisognerebbe interessarsi alla disinformazione sistematica organizzata dalle lobby, prima di attaccare i post menzogneri su Facebook.» L’informazione di cui dispongono i rappresentanti eletti al momento della scelta è decisiva. Come lo è quella di cui dispongono i cittadini al momento delle elezioni. L’unica garanzia di un processo decisionale democratico è un dibattito pubblico libero, trasparente e basato su un autentico confronto.

Oggi esistono realmente le condizioni per un simile dibattito? Per deliberare, per fare delle scelte consapevoli, il cittadino deve avere accesso a informazioni prodotte in modo libero e indipendente. In Francia abbiamo la certezza che sia così? Porsi la domanda è lecito quando si constata che i grandi media privati sono concentrati nelle mani di nove grandi patrimoni. Questi miliardari non sono necessariamente animati da cattive intenzioni, non sono necessariamente interventisti, e l’acquisizione del controllo del capitale dei media in questione da parte loro non toglie nulla alla qualità dei giornalisti che vi lavorano, ma una simile concentrazione non è sana per la democrazia. Gli attacchi sempre più frequenti contro i “giornalisti prezzolati” sono ingiusti e la diffusione delle teorie complottiste è pericolosa per la Città. Ma limitarsi, per contrastarle, a dare la caccia alle fake news sui social network non basterà.

Considerando l’informazione come un bene comune, la Città farà della salvaguardia di una stampa libera, pluralista e indipendente una missione di interesse generale. In quest’ottica, l’autonomia dei giornalisti verrà rafforzata rispetto agli azionisti nelle grandi testate esistenti, e verrà favorito l’emergere di media indipendenti. A questo scopo, sono necessari un nuovo quadro giuridico e un intervento coerente del potere pubblico. Nel suo libro Salvare i media7, Julia Cagé propone la creazione di una nuova entità giuridica nel campo dei media: l’associazione non profit senza scopo di lucro, a metà strada tra la semplice cooperativa e l’impresa commerciale. Un sistema di detrazioni fiscali incentiverà i cittadini a entrare nel suo capitale quasi a costo zero: «In questo modo, lo stato li finanzierà in maniera indiretta, quindi senza possibilità di intervenire». I principali azionisti (sopra il 10 per cento delle quote) vedranno diminuire il loro diritto di voto a vantaggio dei piccoli (tra l’1 e il 10 per cento delle quote). Infine, la Banca pubblica per gli investimenti8 verrà dotata di una branca specifica per concedere prestiti a tassi ridotti (o nulli) e a lungo termine ai media che rispettano questi criteri. Lo stato non deve mai tornare a controllare l’informazione, ma non è certo più sano che il denaro lo faccia al suo posto: restituire al pubblico il controllo del dibattito pubblico è una tappa essenziale verso il ripristino del consenso democratico.

4. Lo stato-nazione non ha il monopolio della legittimità democratica. Un “patto girondino” ridefinisce i perimetri locali, nazionali ed europei della sovranità popolare.

Parigi è lontana e Bruxelles lo è ancora di più. L’economia è globalizzata, non abbiamo mai viaggiato tanto, internet ci dà un accesso immediato al dibattito globale, tuttavia stravediamo solo per il locale. I sindaci sono gli unici dirigenti eletti che restano popolari, mentre tutti gli altri vengono rifiutati in blocco. Al contrario del mondialismo senza terra degli anni Novanta, aspiriamo a essere nuovamente radicati a un territorio. Stigmatizzare una simile aspirazione come “reazionaria” è stupido: nessun processo democratico sfugge a un radicamento territoriale. Vedendo dove ci conduce la volatilità individualista, vale a dire alla postdemocrazia e alla devastazione del pianeta, è logico che vogliamo finalmente “atterrare” da qualche parte, secondo la bella espressione di Bruno Latour.

Tuttavia, il dogma localista è pericoloso quanto la religione dell’illimitato da cui stiamo a malapena uscendo. Bisogna cercare la giusta pista di atterraggio, la scala giusta. E accettare che non sia la stessa per tutte le sfide, per tutti i problemi, per tutti i progetti. Per “patto girondino” intendiamo non semplicemente il decentramento, ma l’introduzione di una plasticità nella definizione delle sfere di deliberazione, di decisione e di messa in pratica delle politiche, la condivisione di questa sovranità che appartiene al popolo, ai cittadini, e non allo stato nazionale in quanto tale.

Un individuo può avere un’identità multipla e complessa, sentirsi nello stesso tempo bretone, francese, europeo, umano, franco-portoghese, franco-etiope… Trae la sua libertà dalla capacità di destreggiarsi tra le sue diverse appartenenze. Allo stesso modo, un cittadino esercita la propria sovranità a diversi livelli. Partecipa al governo del suo comune, della sua regione, della sua nazione, dell’Europa. Diverse scale della sovranità democratica sono conciliabili, hanno solo bisogno di essere delimitate. La ricerca che ci anima è quella della scala giusta9.

A La Rochelle, nel giugno del 2018, un professore di storia e geografia con un’evidente passione per la Rivoluzione francese mi si avvicina al termine di una conferenza: «Nel 2017 ho votato per un candidato che mi prometteva la rivincita della Gironda sul giacobinismo centralizzatore e ho ereditato un presidente che si crede Luigi XIV e Napoleone. Non è la testa tagliata di Luigi XVI a ossessionare la Francia, contrariamente a ciò che lui pensa, ma quelle dei girondini ghigliottinati! Il grande assente non è il re, è il rivoluzionario antiautoritario…». Quindici giorni dopo, un politico dell’Alta Corsica mi confessa la medesima disillusione: «Ho passato le mie giornate a mobilitare gli elettori per sbarrare la strada a Marine Le Pen, ma anche perché credevo che Emmanuel Macron fosse vagamente l’erede della “seconda sinistra”10 e che, con lui a Parigi e Gilles Simeoni qui, le relazioni si sarebbero finalmente rasserenate. Risultato? Macron è venuto sull’isola con Jean-Pierre Chevènement, l’incarnazione stessa del nazionalismo giacobino. Ci hanno fatto togliere tutte le bandiere corse sul loro passaggio. Abbiamo ritrovato la politica della tracotanza. Che peccato!».

All’altro capo della Francia, qualche giorno prima, anche Jo Spiegel si preoccupava per il ritorno al centralismo burocratico: «Prendete il caso della tassa sulla casa, che è la misura sociale sbandierata dal governo: lo stato promette che rimborserà alle finanze locali il mancato guadagno derivante dalla sua abolizione, ma le autorità comunali avranno in ogni caso perso la loro sovranità fiscale. La tassa sulla casa era ingiusta, bisognava rivederla. Ma abolendola con un tratto di penna si giacobinizza ulteriormente il sistema. Se lo stato versa i fondi, sarà necessariamente tentato di sorvegliare il loro utilizzo. E pensate che un prefetto non avrebbe fatto una piega vedendoci utilizzare quei fondi per costruire la nostra democrazia partecipativa? Meno autonomia fiscale significa meno sovranità locale. Ci dicono tutti i giorni che la società ha bisogno di più flessibilità e si irrigidisce la sfera pubblica. Dobbiamo riavvicinare i cittadini alla politica e li allontaniamo…». Molti francesi, di centrosinistra o di centrodestra, hanno aderito al “patto girondino” del candidato di En Marche. In questo Emmanuel Macron ha mancato l’appuntamento che lui stesso si era fissato con l’epoca e con la storia.

Riprendiamo dunque l’idea là dove lui l’ha lasciata, nella discarica delle promesse elettorali non mantenute. La repubblica ha bisogno di concepirsi di nuovo come un corpo vivente, più che come un insieme di rigide istituzioni. Essere repubblicano non è inginocchiarsi davanti a ogni simbolo dello stato facendosi il segno della croce, ma partecipare all’autogoverno della Città. A tutti i livelli. Ecco lo scopo di un “patto girondino”: non la diluizione del potere pubblico, ma il suo ripristino. Per rafforzare la democrazia locale, saranno posti due princìpi: la sovranità fiscale degli enti locali sarà sancita dalla Costituzione e una Carta della democrazia territoriale verrà redatta sulla base delle esperienze condotte a Kingersheim e altrove, e poi sottoposta al voto.

Resa viva al di qua del livello nazionale, la democrazia deve essere rafforzata anche al di là, su scala europea. Dalla lotta contro il riscaldamento globale a quella contro il terrorismo, passando attraverso l’imposizione di regole alle multinazionali, le grandi questioni del nostro tempo non possono essere affrontate su scala nazionale. Non è tanto per idealismo che aspiriamo a rafforzare la sovranità europea, quanto per realismo: si tratta del livello appropriato per essere efficace. Le decisioni, se vogliamo che abbiano effetto, devono essere prese a livello continentale. Perciò assumiamo l’orizzonte di una repubblica europea. Essa sarà dotata di una legge fondamentale che ridefinisca i princìpi che la fondano (ecologia, democrazia, stato di diritto, solidarietà sociale), dando una sovranità popolare diretta all’esecutivo europeo, rafforzando il ruolo del Parlamento e instaurando un contrappeso politico all’indipendenza della Banca centrale europea. Anche questo progetto sarà sottoposto al voto.

Per sperare di arrivare a questa unione politica, bisogna cambiare il modo di affrontare e difendere il progetto europeo. Fondare la sua legittimità sulla memoria delle tragedie passate e sulla necessità di impedire il loro ritorno non funziona più. È dalla tragedia imminente, in realtà già in corso, e dalla necessità di impedirla che deve trarre la sua legittimità. L’ecologia politica porta alla costruzione europea ciò che offre alla Città e alla politica in generale: un senso. Prendere sul serio la minaccia climatica esige di prendere sul serio l’Europa, che è la “giusta scala” per farvi fronte, come sottolinea Bruno Latour.

Parlare di ecologia senza parlare di Europa, e viceversa, è ormai impossibile. Eppure la nostra classe politica sembra non averlo capito. Il caso di Jean-Luc Mélenchon è ancora più esemplare dal momento che la sua conversione ecologica è profonda. La crisi del marxismo e del repubblicanesimo classico, i due vecchi pilastri della sua visione del mondo, viene digerita e oltrepassata in lui dentro e attraverso l’ecologia politica. Il programma che propone è all’altezza delle sfide ambientali. Da dove viene dunque questo rifiuto costante di considerare l’ambito europeo come il giusto livello per rispondere alle minacce di cui pure coglie la portata? Attuare la transizione ecologica presuppone uno spazio di decisione e di azione più grande della Francia. E l’Europa è l’unico di cui disponiamo11.

D’ora in poi dobbiamo dare come orizzonte all’Europa non più il vuoto informe della fine della storia, ma il terreno ancora arido di una rivoluzione “verde” da fare insieme. Una simile ricerca di un’altra Europa manca di realismo? Senz’altro meno della visione di una nazione francese solitaria che conduce il mondo alla transizione ecologica a colpi di citazioni di Jaurès e di de Gaulle.

5. La tassazione concretizza le finalità che una Città si assegna. Un patto fiscale accompagna e traduce il nuovo contratto sociale. Esso mira alla creazione di una società ecologica e solidale.

Siamo nel marzo 2011, un giovane e promettente ex allievo dell’École Nationale d’Administration firma un testo brillante sulla rivista «Esprit». Denuncia il presidenzialismo a oltranza della Quinta Repubblica, «la contrazione cesarista dell’incontro tra un uomo e il suo popolo», e difende la democrazia sociale e i corpi intermedi. Poi affronta la questione delle imposte e smonta metodicamente l’argomento del “pragmatismo” utilizzato senza posa dalla destra per giustificare la diminuzione delle tasse che gravano sui più ricchi tra noi: «La fiscalità è – e deve essere – un tema ideologico nel senso letterale e nobile del termine. Non può ridursi a un dibattito tecnico, quali che siano le sue delizie intellettuali. Sapere se bisogna correre il rischio di tassare i grandi patrimoni che potrebbero essere tentati di lasciare il territorio nazionale equivale a domandarsi se la finalità del sistema fiscale sia di preservare la competitività del paese, la sua attrattiva per gli investitori o le grandi fortune, o di assicurare una ridistribuzione rigorosa e consacrare un patto repubblicano nei fatti (con i più ricchi che accettano di pagare di più, con i più agiati che accettano di essere tassati perché la loro adesione al patto sociale, alla collettività, lo giustifica). Fare del dibattito fiscale un dibattito tecnico, di analisi puramente razionale e matematica, significa già prendere una scorciatoia ideologica stabilendo che la tassazione non è politica e non ha niente a che vedere con un contratto sociale, con una volontà di appartenere alla Città».

Il nome che figura in fondo al testo oggi può destare stupore: Emmanuel Macron. Il nostro futuro presidente “giupiteriano” promette qui il dialogo sociale, il parlamentarismo, il diritto alla casa («assicurare a tutti un alloggio decente, a costo di frenare il libero funzionamento del mercato immobiliare») e, dunque, una politica fiscale largamente ridistributiva. In quel periodo della sua vita, Macron intende collocarsi nell’entourage del candidato François Hollande, il che spiega probabilmente il tono socialdemocratico, quando non addirittura socialista, della sua prosa. La sua critica proattiva dell’azione che condurrà sei anni dopo è in ogni caso perfetta. Emmanuel Macron confuta nel 2011 gli argomenti che utilizzerà nel 2017 per giustificare la brusca applicazione delle sue riforme («Il teatro della decisione non può essere l’enunciato di un programma elettorale […] che sarà poi applicato verticalmente») o le sue misure fiscali favorevoli ai più abbienti (dal pragmatismo che non è altro che un’ideologia velata alla competitività che non può essere lo scopo della tassazione in una repubblica).

Il vecchio Macron ha ragione: la fiscalità è una sfida ideologica. Le tasse concretizzano la “mano” politica di Machiavelli e permettono di «consacrare il patto repubblicano nei fatti». O di dargli al contrario delle serie sforbiciate. Seguiamo dunque il giovane ex allievo dell’ENA della rivista «Esprit» e, quando affrontiamo la questione delle imposte, poniamo di nuovo «la questione delle finalità». Se la finalità della politica è quella di costruire una società ecologica e solidale, questa si incarnerà in una politica fiscale, garanzia di serietà infinitamente maggiore rispetto all’inserimento di una o due frasi sull’ambiente all’interno della Costituzione. Il patto fiscale dimostra nei fatti la volontà comune di realizzare gli obiettivi del contratto sociale.

Per incentivare la transizione ecologica, la Città deve fare in modo che i prodotti siano pagati il loro giusto prezzo, cioè integrare nel loro prezzo il costo ambientale legato alla produzione, alla distribuzione e al consumo. Il nostro sistema capitalista e tecnicistico si è sviluppato in un’epoca in cui si pensava che le risorse naturali fossero illimitate. Oggi non è più così. Eppure restiamo animati dalla vecchia logica: il patto fiscale deve permettere di uscirne.

Quando arrivano nei nostri piatti, i pomodori provenienti da un’agricoltura che fa massicciamente ricorso ai fitofarmaci hanno già consumato molto petrolio, inquinato i terreni e le falde acquifere. Simili costi non sono contabilizzati nel prezzo esposto nei negozi, ma la collettività se li assume effettivamente, dalla depurazione delle acque all’assistenza sanitaria per le malattie legate ai pesticidi. I costi indiretti, pagati dal cittadino e non dal consumatore, sono ciò che gli economisti chiamano “esternalità negative”. È vitale includerli progressivamente nei prezzi dei beni.

Stiamo parlando qui di una forma di generalizzazione della tassa sulle emissioni di carbonio, introdotta in Francia nel 2014 e applicata ai carburanti, al gas naturale e al carbone. Questa tassa frutta già miliardi di euro ogni anno allo stato francese. Estenderla permetterà di disporre di ampie risorse. Il patto fiscale imporrà di reinvestirle nella transizione “verde”, cosa che è lontana dal verificarsi oggi. Secondo Kévin Puisieux, della Fondation pour la Nature et l’Homme, «sui 9 o 10 miliardi riscossi nel 2018 grazie alla tassa sul carbonio, alle energie rinnovabili vengono destinati 1,8 miliardi. Oltre a questo, non molto che abbia a che fare con la transizione ecologica. 3 miliardi vanno al Credito di imposta per la competitività e l’impiego (CICE), e per il resto le risorse vanno al bilancio generale, un bilancio segnato nel 2018 dal buco creato, tra l’altro, dalla soppressione dell’imposta di solidarietà sulla ricchezza con i suoi 4 miliardi di introito. Mettetevi nei panni dei nostri concittadini che, ogni volta che vanno a fare il pieno, si dicono che sono lì per riempire le casse svuotate dalle agevolazioni concesse ai nuclei familiari più fortunati. Non è né logico né coerente! Ed è una cosa che guasta la legittimità della tassa sul carbonio, che non deve servire a tappare i buchi di un bilancio mal formulato!».

Far pesare una grossa parte del costo della transizione energetica sui consumatori li responsabilizza ma nello stesso tempo determina gravi ingiustizie sociali. L’aumento del costo dei prodotti che deriva dalla definizione del loro giusto prezzo grava sul bilancio dei nuclei familiari poveri in misura maggiore che su quello dei più abbienti. La tassa sul carbonio colpisce più duramente l’abitante di una zona rurale o periferica che ha bisogno della macchina per spostarsi, rispetto a un parigino che può perfettamente farne a meno grazie ai mezzi pubblici. La fiscalità incentivante deve dunque procedere di pari passo con una fiscalità di trasferimento. Le somme rese disponibili serviranno ad accompagnare quelli che ne hanno bisogno sulla via di una transizione energetica in sé non negoziabile, ma che deve essere socialmente giusta e accettabile. Soprattutto: le principali industrie inquinanti devono essere le prime a dare il loro contributo.

Questa fiscalità “verde” va pensata a livello europeo. Nel suo discorso alla Sorbona, Emmanuel Macron ha evocato un protezionismo ecologico europeo. Ha proposto una tassa sul carbonio che va dai 25 ai 30 euro a tonnellata applicata alle frontiere della UE per pesare sulle importazioni provenienti da industrie inquinanti. L’idea è ottima e rimette bruscamente in discussione il dogma del libero scambio assoluto. A rigor di logica, dovrebbe portare a denunciare certi trattati internazionali, cosa che il presidente si guarda bene dal fare.

Riprendere il controllo per poter lottare contro il riscaldamento globale passa tuttavia per il rifiuto del CETA. Gli accordi di questo tipo si spingono molto oltre la riduzione dei dazi doganali allo scopo di stimolare gli scambi commerciali: intendono combattere gli altri “ostacoli al commercio”, vale a dire le differenze tra le norme e gli standard o le evoluzioni dei quadri legali che sarebbero considerate nocive per le imprese. A essere nel mirino sono le normative ambientali, i diritti sociali e la protezione dei consumatori. La capacità delle nostre istituzioni democratiche di decidere liberamente sulle politiche di interesse generale è indebolita, proprio nel momento in cui vogliamo e dobbiamo rafforzarla. È tempo di ritrovare una coerenza nelle finalità perseguite.

È tempo anche, e soprattutto, di far rispettare le decisioni della collettività una volta prese. Il patto fiscale si accompagna a una lotta radicale contro l’evasione fiscale, presupposto di tutto il resto. LuxLeaks, SwissLeaks, Panama Papers…: in questi ultimi anni le rivelazioni si sono susseguite a un ritmo sfrenato, eppure l’azione dei poteri pubblici resta debole. Secondo l’economista Gabriel Zucman, oggi 7.900 miliardi sono detenuti nei paradisi fiscali. Su scala europea, vi si trova l’11 per cento del patrimonio finanziario delle famiglie. Le cifre relative alle imprese sono da capogiro: «Oggi il 55 per cento di tutti i profitti realizzati all’estero dalle aziende statunitensi si trova nei paradisi fiscali»12.

L’evasione fiscale rimette in discussione l’intero contratto sociale. Perché acconsentirealla tassazione quando le imprese e i privati cittadini che ne hanno i mezzi vi si sottraggono? Come risvegliare l’adesione al progetto repubblicano fintanto che i nostri dirigenti accettano una simile messa in discussione dell’autorità che abbiamo loro delegato? Non è scandaloso che una piazza finanziaria di 500.000 abitanti come il Lussemburgo possa essere autorizzata a svuotare di senso le norme sancite da 500.000.000 di europei? E che dire del simbolo rappresentato dalla nomina dell’ex ministro delle finanze di quel paradiso fiscale a capo della Commissione europea? Si può immaginare un argomento migliore per coloro che vogliono distruggere il progetto europeo e combattere le istituzioni della democrazia liberale?

Tutto questo manca, ancora una volta, di serietà. E, su questa questione come su tutte le altre, ridare senso e potere alla politica richiede di decidere e di accettare dei conflitti inevitabili. Il tempo dei compromessi dietro le quinte è passato.

I punti qui abbozzati delineano un orizzonte politico e non un programma di governo. Il reddito universale non verrà instaurato con un colpo di bacchetta magica. La Città procederà per tappe e queste tappe saranno oggetto di dibattiti civici: bisogna cominciare con criteri basati sull’età o con criteri sociali? Oppure dobbiamo iniziare con un criterio di senso e creare prima un reddito di transizione ecologica13 per poi universalizzarlo? Allo stesso modo, la repubblica europea è un’idea direttrice e non una promessa elettorale: deve guidare tutti i nostri passi senza necessariamente realizzarsi in un futuro immediato. In modo analogo, la definizione del giusto prezzo delle cose avverrà progressivamente. Bisogna tendere verso tutti questi obiettivi. Formularli ci permetterà quanto meno di smettere di indietreggiare e forse di ricominciare ad avanzare.

La politica democratica manca di ambizione sistemica, il che produce un’impressione generalizzata di incoerenza e di vuoto. Non dovendosi preoccupare delle elezioni, i leader autoritari come Vladimir Putin possono pensare a un orizzonte di venti, trenta o quarant’anni. Lo stesso vale per i grandi gruppi capitalisti come Exxon. E noi dovremmo ridurci a visioni di quattro o cinque anni? La crisi, la sua urgenza e la sua immediatezza esigono paradossalmente di tornare ai tempi lunghi. L’embrione di un nuovo contratto sociale mette le nostre idee e le nostre volontà in ordine di marcia. Adesso tocca a noi marciare.

1. P. MENDÈS FRANCELa repubblica moderna, Einaudi, 1963.

2. D. ROUSSEAURadicalizzare la democrazia. Proposte per una rifondazione, Edizioni Scientifiche Italiane, 2016.

3. La parola robot è apparsa per la prima volta nel 1921 nell’opera teatrale R.U.R. Rossum’s Universal Robots dello scrittore ceco Karel Čapek.

4. In un certo senso, essi trasferiscono nella sfera civile la teoria dello sgocciolamento che i liberali applicano all’economia. Ora, nella sfera civile questa teoria non è più valida di quanto lo sia in quella economica. La contiguità dei ragionamenti non è casuale: questi progressisti del libero desiderio, malgrado la loro retorica ugualitaria, restano individualisti e non riescono ad accettare una rottura filosofica netta con il neoliberismo.

5. Il termine stesso di “moralizzazione” mostra che queste lodevoli iniziative sbagliano registro: il problema non è semplicemente, e nemmeno principalmente, “morale”. La sfida essenziale non consiste nel rispondere alla devianza di questo o quell’individuo, ma nel correggere un’irregolarità sistemica che offre alle potenze del denaro troppo potere sul potere.

6. Orano, nota come Areva fino al 2017, è una multinazionale francese che opera nel settore energetico, e specialmente nel campo dell’energia nucleare [N.d.T.].

7. J. CAGÉSalvare i media. Capitalismo, crowdfunding e democrazia, Bompiani, 2016.

8. L’autore si riferisce qui alla Banque publique d’investissement (BPI), un istituto bancario pubblico fondato in Francia nel 2012 allo scopo di sostenere e accompagnare le piccole e medie imprese. In Italia non esiste a tutt’oggi un suo corrispettivo [N.d.T.].

9. In questo senso, l’aggettivo “sovranisti” applicato a coloro che rifiutano ogni sovranità europea è ingannevole. Tutti i democratici sono in ultima analisi sovranisti. I politici che si proclamano sovranisti dovrebbero piuttosto essere definiti “nazionalisti”, perché non concepiscono la sovranità se non su scala nazionale ed espellono all’origine ogni idea di sovranità sovranazionale (spesso sono gli stessi che rifiutano anche ogni sovranità locale). Criticare la mancanza di democrazia delle istituzioni europee e negare loro ogni evoluzione democratica sono due atteggiamenti contraddittori. Quando le stesse persone uniscono in sé questi due atteggiamenti, non fanno altro che mascherare la loro ideologia nazionalista dietro il paravento di una richiesta di democrazia.

10. Il riferimento è alla deuxième gauche, la sinistra di matrice socialdemocratica, riformista e favorevole al decentramento dei poteri statali nata negli anni Settanta come corrente minoritaria all’interno del Partito socialista francese [N.d.T.].

11. L’ecologia presa sul serio riabilita la politica, ecco ciò che ci unisce alla France Insoumise. Ma, riabilitandola, essa rivela l’inadeguatezza dell’ambito nazionale: ecco ciò che ci separa. A Emmanuel Macron sta a cuore l’Europa ma non si preoccupa dell’ecologia abbastanza da vedervi l’orizzonte e il motore di un progetto europeo. A Jean-Luc Mélenchon sta a cuore l’ecologia, ma disprezza troppo l’idea europea per vedervi la condizione di possibilità di una lotta efficace contro il riscaldamento globale e per la salvaguardia della biodiversità.

12. G. ZUCMANLa ricchezza nascosta delle nazioni. Indagine sui paradisi fiscali, add editore, 2017.

13. S. SWATON, Pour un revenu de transition écologique, PUF, 2018.


Ne siamo capaci?

Siamo i figli del vuoto.

Sappiamo che la società di solitudine che ci ha visti nascere non è durevole.

Sappiamo che le vecchie ideologie, i vecchi partiti, le antiche strutture non ci aiuteranno a uscirne.

Sappiamo che la vertigine che ci afferra di fronte al disastro ecologico è la condizione della nostra guarigione futura.

Sappiamo che una promessa d’alba si annida in questo crepuscolo purché si osi affrontarlo.

Sappiamo in quale direzione andare e come andarci.

Sappiamo quale orizzonte tratteggiare e quale strada imboccare.

Sappiamo cosa ci resta da fare.

Ne siamo capaci.

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