giovedì 15 aprile 2021

CRITICA DELLA RAGIONE TECNICA Luigi Iannone


CRITICA DELLA RAGIONE TECNICA

Di Luigi Iannone


 Prefazione

di Roger Scruton 

In questo libro Luigi Iannone affronta una delle grandi e più complesse tematiche della filosofia moderna: la questione della tecnica. È difficile dire in quale preciso momento i filosofi abbiano assunto piena consapevolezza della ragione strumentale, non solo come applicazione della ragione ai problemi della vita umana ma in quanto visione di un mondo totalmente soggiogato. Kant aveva già avuto una intuizione rispetto alle forze che potevano essere messe in gioco, quando mise in evidenza che vi sono cose di questo mondo che devono essere trattate come fini e mai solo come mezzi – e le persone ne sono il primo esempio. Tuttavia il filosofo di Königsberg non esplorò ciò che succede nel momento in cui la ragione strumentale invade tutti quei luoghi sacri dove in passato si rivelava e si esercitava la personalità. Hegel fu più consapevole del problema, ma le critiche al capitalismo del XIX secolo – e soprattutto analisi critiche come quelle di Marx che partono da Hegel e Feuerbach – furono sempre più rivolte a esplorare il cambiamento compiutosi per l’appunto nell’anima dell’uomo a causa dell’abitudine di vedere tutte le cose come mezzi, e niente come fine in sé. La critica della ragione strumentale è stata poi nel XX secolo riformulata varie volte (con Adorno e Horkheimer da sinistra, e Oakeshott e Scheler da destra) in un confronto continuo con il complesso mondo del modernismo, del meccanicismo e del progresso tecnologico. Ma è in Heidegger che questa tematica assume allo stesso tempo proporzioni raccapriccianti e profetiche, come se una divinità antica fosse apparsa tra noi con i suoi avvertimenti oscuri, come accade con Erda in Das Rheingold. Negli arguti attacchi all’economia consumistica di Galbraith in America, Baudrillard in Francia e Naomi Klein in Canada, troviamo ancora un altro tentativo, questa volta più tenue, di dimostrare che continua a mancare sempre qualcosa in un mondo nel quale tutto è un mezzo, e niente un fine in sé. E allora: qual è l’alternativa? Come possiamo ritrovare la strada del ritorno dal dominio della tecnica? E come possiamo farcela, ora che le macchine e gli oggetti sono sul punto di prendere il sopravvento su ogni cosa e su tutti noi? In questo libro intenso, ricercato ed efficacemente esposto, Iannone esamina tale problema, dimostrandoci che la risposta non va ricercata nella politica o nell’economia perché tutti gli approfondimenti critici esistenti sembrano aver ignorato la dimensione del sacro, un concetto fondamentale di cui l’umanità ha sempre bisogno. Come sostiene Iannone, ciò di cui sentiamo la necessità non è “liberarci” dalle macchine; anzi, è proprio questo bisogno imperioso e moderno di liberazione che ci ha invece sottomesso al potere del modello meccanicista. Se crediamo che niente è sacro e tutto può essere cambiato, inclusi i nostri valori, allora rinunciamo a quella posizione dalla quale può scaturire la vera libertà. La liberazione, portata all’estremo, significa infatti perdita dei fini, dei limiti, dei confini, e in un mondo senza fini, tutto è un mezzo e niente ha un significato. Al contempo, Iannone ci mostra che è forse ancora possibile ragionare in un altro modo e far posto nelle nostre vite alla ragione nella sua forma veramente umana, intesa come criterio per consacrare il mondo e coglierne il suo vero significato. Questo è un libro per il nostro tempo, ed è un libro che dà valore alla ricerca filosofica. 


1. LA TECNICA COME AMBIENTE

Una relazione asimmetrica La questione della tecnica si è venuta evolvendo negli ultimi due secoli sempre più in una dimensione totalizzante e quindi rivelatasi imprescindibile problema etico e sociale, ancor prima che filosofico. Dal momento che, nel senso comune, non se ne coglie però il tratto essenziale, potremmo facilmente lasciarci indurre alla convinzione che la tecnica, lavorando solo per appagare i più essenziali bisogni, sia in nostro potere e, in un futuro ormai prossimo, sia possibile – grazie ad essa – dominare il mondo e tenere sotto controllo ogni cosa. Questa adesione acritica può farci cadere nell’equivoco di intendere in modo riduttivo tutte le determinazioni che la qualificano e conducono necessariamente alla creazione di una tesi inconfutabile, la quale tende a demistificare la complessità di un problema che, invece, presenta una vigenza già attuale. Non bisogna dunque cadere nell’assai diffuso errore interpretativo per cui ogni tipo di argomentazione si muova innanzitutto dalla condizione contraddittoria che la tecnica, in sé, non sia né buona né cattiva, e che l’efficacia o gli svantaggi dipendano da come la si utilizzi perché, nonostante le modalità di lettura della realtà derivino sempre da come si riveli questa caratterizzazione strumentale, simili affermazioni solo in parte possono corrispondere al vero. Non cogliendo in ciò la forma più radicale di totalitarismo, si cela ai nostri occhi il fatto che la tecnica incida in ogni settore dell’attuale organizzazione sociale, tanto da produrre una sempre maggiore omologazione dal punto di vista delle immagini prodotte, dell’impianto teorico e delle verità di cui si fa portatrice, ma soprattutto della nostra capacità di orientarci nel mondo1. Ma qui il piano interpretativo è ulteriore. Pare del tutto evidente che, in virtù di queste considerazioni, la tecnica si imponga subito all’attenzione per un dato sostanziale che prescinde dalla ordinaria soggettività di ogni singola vita e approdi a esiti originali. Essa produce una costruzione simbolica di un orizzonte planetario tale da non poter essere quasi mai percepita nella sua pericolosità, specialmente nel momento in cui dota ogni singolo uomo di strumenti di una siffatta qualità e quantità rispetto al passato da provocare mutamenti radicali nelle relazioni con gli altri, nell’ambiente che lo circonda e nel suo stesso essere «umano». La determinazione degli spazi e dei tempi di vita muovono da un universo metaforico che è destinato a meccanizzare sempre di più i comportamenti e a ridefinire le nostre identità. L’utilizzo, anche nel linguaggio comune, del termine “tecnopolitica” dimostra che la contrazione dello spazio e del tempo, connessa allo sviluppo delle reti informatiche e a tutti i processi tecnologici, non solo implica l’irruzione di problematiche inedite nel campo economico e industriale, ma la messa in discussione dei postulati politici e della dimensione dei diritti su cui ci si era adagiati nella seconda parte del Novecento2. È proprio questa difficoltà nella comprensione del fenomeno – che poi prescinde da qualsivoglia interpretazione negativa – a far sì che possano essere sempre spostati in avanti i limiti di ogni singolo progresso della tecnica senza che ciò ci faccia preventivamente porre dei parametri etici i quali, a loro volta, vengono comunque ritenuti inattendibili o pesante zavorra del passato. Una difficoltà di comprensione che si compie per la nostra “naturale” familiarità con la tecnica. Da sempre, infatti, l’uomo ha ideato e fabbricato utensili per il lavoro e per rendere meno ostile il mondo intorno a lui. Ma l’intervento sulla natura è diventato via via più incisivo nel momento in cui ha percepito che malattie, necessità sociali, povertà o benessere potevano essere modellati, e quindi attenuati o ampliati, grazie all’utilizzo della tecnica. Questo sta a significare che il legame atavico con la tecnica costituiva soltanto una iniziale premessa, utile per farne esaltare la natura strumentale, per poi lasciare spazio a una più che logica relazione con il mondo circostante che imponeva limiti, ritmi e opportunità. Solo ora ci si accorge che l’età della tecnica descrive per la prima volta nella storia dell’uomo una duplicità interconnessa di elementi positivi e negativi dove, all’infinità di mezzi, può corrispondere l’annullamento degli scopi, perché la funzione di strumento che l’uomo aveva immaginato per raggiungere un determinato scopo – e legato a una utilità definita e circoscritta – sembra avviarsi al superamento. Ed è proprio in questo senso che la tecnica rappresenta una condizione indispensabile per raggiungere i fini ma – divenendo tale –, si trasforma essa stessa nel primo scopo; laddove, sia gli strumenti che gli scopi sono caratterizzati da razionalità ed efficienza che rappresentano, poi, i lineamenti di uno spietato sistema in cui «la tecnica può considerarsi l’orizzonte di riferimento del nostro tempo e destinata a diventare lo scopo supremo»3. L’essere umano come materia plasmabile, sostanza in continua trasformazione, e una tecnica quale espressione massima della titanica potenza del progresso scientifico che fagocita ogni istanza di proiezione superiore, svelano l’attuale scenario. Una relazione fintamente simmetrica in cui l’uomo ritiene di poter appagare i suoi bisogni grazie ad una crescita veloce e smisurata dello sviluppo tecno-scientifico mentre, invece, ricreandosi dipendenze e attivandosi profonde trasformazioni, egli continua a rincorrerli e ad essere insoddisfatto. Un progresso senza fine e senza limite che travalica il senso di una τέχνη che pure era una delle virtù dianoetiche aritstoteliche (ma Aristotele aveva vincolato l’uso della τέχνη alla sapienza, alla prudenza, all’intelletto) e che, ora, diventa strumento ma anche destino: «Eccolo qui – scrive Gottfried Benn – tutto adunato insieme, questo secolo del reale e del conoscere, in cui lo spirito ha creato la statistica e l’analisi dell’orina, in cui la tabella trionfava e la creazione sprofondava, in cui per diventare professore ordinario bastava dominare le cavità laterali del naso e per diventare presidente di congressi bastava aver visto tre pustole mentre quel tale accanto ne aveva viste solo due, in cui non c’era casa e non c’era strada dove non abitassero un cavadenti e un agente di brevetti, un urologo o un geodeta – per conquistare la terra e dominare il mondo»4. Come molti hanno ripetuto, la tecnica è l’estremo esito del nichilismo occidentale, l’essenza della nostra epoca, e rappresenta, proprio nella sua intima relazione con l’uomo e la natura, la questione centrale della riflessione filosofica e del dibattito pubblico contemporaneo. Essa dunque non è sommatoria di singoli strumenti perché l’uomo è “naturalmente” tecnico e può stare al mondo solo con l’ausilio di utensili, aggeggi, dispositivi di vario genere. È sempre stato così! Strumenti, tecnica e umano si presentano sin dalla preistoria come all’interno di una sorta di osmosi ma, quest’ultimo ha ora, nelle sue mani, una potenzialità smisurata dal momento che la nostra è divenuta una società pienamente tecnicizzata. Di conseguenza, nonostante i corifèi di celebrazioni eternamente entusiastiche, essa non è neutra. Un diverso indirizzo discorsivo poteva avere una sua validità se riferito alle epoche passate quando la tecnica era contenuta in dimensioni e potenza. Ma essa – appunto - non è più neutra, nel senso che una volta applicata come totalità senza limiti diventa protagonista, costruendo da sé le forme e l’essenza del nostro abitare la Terra e incidendo tanto sul vivere quotidiano che sull’ambiente. Prima ancora di “pensarla” in termini metafisici e di inseguire quel tracciato di analisi, avverto però la necessità di mettere sotto i riflettori gli ambiti di applicazione nei quali quotidianamente interferisce, i livelli di pressione con cui esercita in maniera attiva la propria volontà di potenza e manipola i residui spazi di autonomia, proprio per cogliere appieno quanto questa capacità di svolgere una funzione totalizzante, pur venendo da lontano, si è determinata in epoca moderna. Si tratta allora di guadagnare una ulteriore prospettiva, che è non solo determinare l’essere della tecnica («La tecnica, dunque, non è semplicemente un mezzo. La tecnica è un modo del disvelamento. Se facciamo attenzione a questo fatto ci si apre davanti un ambito completamente diverso per l’essenza della tecnica. È l’ambito del disvelamento, cioè della verità [Wahrheit]»5) e alludere a ciò che irriducibilmente riporta a pensatori come Martin Heidegger, ma mostrare quanto il suo determinarsi si ponga come fattore regolativo dell’intera esistenza sociale, politica, economica, culturale, etica e biologica degli uomini della modernità; quanto il suo porsi come criterio di tutte le cose, - condizionandole, fin tanto da risultarle subordinata qualunque altra finalità umana-, possa rappresentare un destino ineluttabile. E come, oramai, si possa avere piena contezza del fatto che, anche nella più ordinaria quotidianità, le previsioni e gli scenari disegnati e profetizzati dai più grandi uomini di pensiero si stiano per realizzare proprio nel nostro tempo, per divenire pratica reale. Pur tuttavia, l’intento di questo volume non è quello di voler confutare l’utilizzo degli strumenti tecnici. Grazie a essi, l’uomo ha potuto superare limiti fisici e biologici. La nostra specie si sarebbe estinta se non fosse stata capace di adattarsi e trasformare l’ambiente per le proprie necessità; dall’uomo preistorico in poi è stato un continuo sperimentare. La tecnica è perciò sostanza e forma stessa della umanità. Eppure, c’è una doppia valenza, una capacità onnipervasiva che va al di là della loro stessa fruizione. E quello che ora si sta verificando descrive innanzitutto una trasformazione antropologica che vediamo ripresentarsi, sebbene in forme assai diverse, in ogni angolo del globo, ma soprattutto una diversa interpretazione della realtà che non ha una sua esistenza indipendente. Perché non solo si è imposta una weltanschauung legata al mercato e all’economia con la quale, almeno per il momento, la tecnica si accompagna ma, a differenza del passato, assistiamo anche alla sua intrusione pervasiva in ogni ambito della vita visto che incide sulla capacità di orientarci nel mondo, di fare delle rinunce o delle scelte; per dirla con Heidegger, è l’immagine del mondo. Così, se nel passato l’uomo utilizzava lo strumento tecnico ma tentava di non infrangere l’armonia con la natura, anche in base a precisi rapporti di forza, ora avviene il contrario, e quest’ultima è sottomessa all’uomo in un rapporto puramente dissolutorio diventando serbatoio di materie prime. Lo sviluppo tecnologico ha sciolto molti nodi inestricabili e risolto una serie sterminata di problemi nei quali l’umanità per secoli si era impantanata. Ma quando Franco Volpi riconosce in questo processo portato alle estreme conseguenze il motivo di una frattura probabilmente insanabile tra homo faber e homo sapiens, vale a dire tra quello che sappiamo e vogliamo fare e la nostra capacità di valutare ciò che è ragionevole, coglie nel segno. Perché non è più possibile prescindere dalla radice nascosta del nostro tempo, manifestatasi in un legame inderogabile con la tecnica e che ci impedisce di calcolare anche l’intera costellazione concettuale degli epifenomeni. Molti ritengono che l’assoluta centralità della tecnica derivi anche da una sorta di patologia sociale che, in quanto tale, precluderebbe non solo la reale comprensione del fenomeno, ma anche le risposte in grado di far fronte ai processi disumanizzanti. A fronte dei repentini cambiamenti in campi fondamentali come la medicina o la genetica, quelli cioè che intaccherebbero l’umano nella sua essenza profonda, taluni ripongono fiducia nella intensificazione della partecipazione politica e nell’attivazione di maggiori spazi di dibattito pubblico. Altri invece auspicano un risveglio di un generico movimento conservatore e perciò ambientalista che, muovendo dalla difesa del pianeta, possa poi orientare un’azione più generale tesa alla riduzione o almeno al contenimento della tecnica in ogni ambito. Un’etica del limite che si strutturi all’interno del rapporto tra l’individuo e il globale, che contenga l’azione trasformatrice del primo all’interno di un sistema complesso, armonico e unitario che riesca ad autoregolarsi e ad operare per la prevenzione e la salvaguardia. Se è pur vero che ognuna di queste inclinazioni può avere una sussistenza teorica, al contempo va segnalato che il sistema globale si orienta verso una efficienza rigorosa e una pianificazione che, ormai, travalica le stesse scelte umane le quali, a loro volta, si infiacchiscono in un continuo rincorrere nuove tecnologie sulle cui modalità sempre si adatta il sistema di vita. Perché la tecnica, come molti hanno ripetuto in questi decenni, non soltanto guida e influenza la nostra esplorazione ma pervade la globalità dei campi: «non si accontenta di essere, e, nel nostro mondo, di essere il fattore principale o determinante: essa è divenuta Sistema»6. Essenza stessa della nostra epoca e qualcosa di molto più vasto e complesso del vago riferimento alla macchina, anche se la macchina rimanda alle nostre abituali idealità ed effettivamente innovazione peculiare sin dal XIX secolo7. Bisogna perciò ripartire da questo fronte analitico affinchè la nostra attenzione non si indirizzi esclusivamente verso gli oggetti che hanno una loro fisicità, ma anche su quelle creazioni immateriali che modificano le relazioni tra uomo e mondo. La questione è fin troppo conosciuta: fino a che la potenza tecnica non verrà dispiegata del tutto, saremo ancora in grado di porre dei limiti sacrificando l’utilità e la funzionalità di una scoperta in nome dell’etica? E soprattutto: una volta che saranno desertificati i campi del sacro, della politica, della democrazia, in che modo potremo porre dei limiti? Per dirla in maniera ancora più chiara: se il nostro grado di adesione al progresso tecnico è quasi assoluto, in che modo potremo ancora alimentare qualche risibile spazio di autonomia? L’approccio di molti studiosi che indagano la tecnica nelle sue relazioni contestuali, così come nelle sue manifestazioni più visibili, verte sulla tesi che non ci si debba arrendere a una sorta di modello deterministico. Non sono pochi coloro i quali si dicono convinti che una sorta di equilibrio tra ambiente naturale, tecnico e sociale possa essere preservato anche sul medio-lungo periodo. Eppure si muovono da un presupposto che, essendo sbagliato, fa poggiare l’intera tesi su pilastri cedevoli; e cioè che i processi sociali, e quindi le varie interrelazioni tra esseri umani, possano determinare e orientare solo quelle tecniche in grado di rispondere ai bisogni necessari, siano essi individuali o collettivi. Sarebbe cioè sempre presente, oltre che possibile, un’azione politica positiva capace di riaffermare nel più buio deserto nichilistico il valore e la priorità positiva di un agire umano responsabile. Una tesi che, seppur largamente condivisa, appare quasi ingenua e di sicuro romantica, perché l’onnipresenza della tecnica e l’utilizzo di strumenti sempre più efficaci modificano gli stili di vita, la concezione del mondo e il nostro essere umani. A differenza del passato, la tecnica si dispiega con una volontà di potenza incommensurabile e quasi in modo autonomo. L’uomo è infatti diventato ingranaggio di un meccanismo dove la tecnica si confonde con la politica e il sociale, e si muove su una linea di progresso monodirezionale in cui ogni tappa precede quella successiva che appare (ed è) sostenuta da strumenti continuativamente più evoluti e capaci di influenzare il quadro collettivo. Questa sorta di onnipervadente ragion tecnica opera un controllo totale a cui nessuno – pur riconoscendone tutta la complessità – può sottrarsi. È in definitiva “la scelta del treno” che periodicamente viene riproposto come esempio paradigmatico. Nel corso della storia, treni più veloci e confortevoli hanno sostituito i precedenti e nessuno si è mai azzardato a fare un passo indietro rinunciando ai moderni comfort, magari auspicando un ritorno alle vecchie carrozze o alle locomotive a vapore. Allo stesso modo, nessuna società vorrà mai rinunciare ad adottare i modelli più evoluti del progresso tecnologico. Vi potrà essere solo un rallentamento dovuto a condizioni economiche disagiate o politiche differenti, come avviene oggi in alcune aree del pianeta, ma il destino è pressoché segnato. Il treno, il computer o qualunque altra cosa non sono solo strumenti ma oggetti nei quali si definisce l’orizzonte della tecnica; e proprio in tal senso che l’intervento della politica potrà apparire sempre più insufficiente nel momento in cui ogni “ambiente”, dalla scuola all’ospedale, dai luoghi di lavoro a quelli di svago, sarà sempre più organizzato sul modello dell’amministrazione tecnica o di quella che Adorno definì «amministrazione totale»8. Se a ciò si aggiunge che il modello del capitalismo globale si pone come presupposto culturale irrinunciabile e in sintonia con l’idea di sviluppo progressivo e infinito, allora si comprende quanto la docile accettazione di questa titanica potenza della tecnica vada a conciliarsi con il consenso generalizzato verso il nuovo ordine. Perché la contrazione di libertà si impadronisce delle anime e, in modo diretto o indiretto, sempre soggiaciamo al significato ultimo della famosa fiaba del figlio del re portata ad esempio da Günther Anders: Il re non vedeva di buon occhio che suo figlio, abbandonando le strade controllate, si aggirasse per le campagne per formarsi un giudizio sul mondo; perciò gli regalò carrozza e cavalli: “Ora non hai più bisogno di andare a piedi” furono le sue parole. “Ora non ti è più consentito di farlo” era il loro significato. “Ora non puoi più farlo” fu il loro effetto9. Alla fine degli anni Venti, Romano Guardini ne riconoscerà i viluppi negativi, i naturali intrecci e gli imbarazzanti risvolti impersonali e disumanizzanti: «nell’epoca che sta davanti a noi, e della quale noi non sappiamo affatto in quale destino sfocerà, l’uomo realizza una nuova forma della sua umanità»10. Ma recentemente ne “Lo sviluppo dei popoli e la tecnica”, sesto e ultimo capitolo della sua Caritas in veritate, è tornato sul tema anche Joseph Ratzinger: «Quando prevale l’assolutizzazione della tecnica si realizza una confusione fra fini e mezzi, l’imprenditore considererà come unico criterio d’azione il massimo profitto della produzione; il politico, il consolidamento del potere; lo scienziato, il risultato delle sue scoperte. Accade così che, spesso, sotto la rete dei rapporti economici, finanziari o politici, permangono incomprensioni, disagi e ingiustizie; i flussi delle conoscenze tecniche si moltiplicano, ma a beneficio dei loro proprietari, mentre la situazione reale delle popolazioni che vivono sotto e quasi sempre all’oscuro di questi flussi rimane immutata, senza reali possibilità di emancipazione»11. L’immagine del mondo Per affrontare tale questione non riprodurrò ogni singola prospettiva di analisi perché pretendere di esaurire tutta quanta la diagnosi sulla tecnica sarebbe operazione improba e di inutile tracotanza, e diventerebbe pressoché impossibile tracciarne le tappe; soprattutto in considerazione del fatto che la rete di reciproche connessioni dovrebbe muoversi in quasi tutti i campi disciplinari e lungo la storia dell’umanità. Se solo tentassimo di compendiarla intorno agli anni Trenta del secolo scorso ci troveremmo di fronte a una mole imponente di saggistica, tutta di primissimo livello: «Quando nel 1931 Spengler pubblica il saggio L’uomo e la tecnica, nella cultura filosofica europea stava per irrompere tutta la complessità della questione della tecnica. Nel 1930 era apparso La mobilitazione totale di Jünger, nel ’32 il suo Lavoratore, e Heidegger in questi anni inizia a scoprire il valore filosofico della tecnica. Ma già nel ’27 erano stati pubblicati Pensieri sulla tecnica di Romano Guardini; del ’28 è La posizione dell’uomo nel cosmo di Max Scheler, del ’29 sono Lo spirito europeo di Leopold Ziegler e Il disagio della civiltà di Freud. Contemporaneo del saggio spengleriano è La situazione spirituale del nostro tempo di Jaspers, e nel ’35 appaiono La crisi della civiltà di Huizinga e La terza figura imperiale di Niekisch. Con la grande opera di Husserl, La crisi delle scienze europee, del ’36, si chiude la riflessione sulla tecnica prima che il conflitto mondiale investa con nuovi problemi la riflessione tra uomo, natura e scienza»12. A ogni buon conto, è quello il momento in cui il progresso tecnologico è detonato in ogni sua configurazione culturale; quando il suo carattere vincolante è sembrato non più controllabile, perciò senza scopi prefissati dall’uomo - quasi come compimento di un percorso apocalittico – e si sono messe in gioco potenze mai affrontate prima. Il travaglio dell’uomo è stato sempre indirizzato al dominio di tutte le forze attive e al loro contenimento in un dato contesto socio-politico. L’idea di tutelare l’insediamento esistente e combattere per una struttura ordinante o pronta ad emergere in un contesto padroneggiato fa parte della storia dell’umanità. Anche le credenze mitiche e le convinzioni filosofiche sollecitavano cambiamenti al fine di difendere o rinnovare un mondo che, pur in un processo di nuove caratterizzazioni, si regolava all’interno di un precipuo contesto. Questa che nell’evo contemporaneo abbiamo di fronte è, invece, una fase del tutto inedita che ci coglie quasi del tutto impreparati. Qualche decennio dopo quella ampia e articolata produzione saggistica che aveva caratterizzato il primo novecento, Camus – cogliendo i garbugli riprovevoli del nuovo tempo – opportunamente scriverà: «Ogni generazione si crede destinata a rifare il mondo. La mia sa che non lo rifarà. Il suo compito è forse più grande: consiste nell’impedire che il mondo si distrugga»13. La tecnica adotta e mette in circolo una immane potenza che rende ogni cosa, anche l’uomo, materiale da trasformazione. Conta poco cavillare sull’uso che ne facciamo (e sugli effetti di un utilizzo indiscriminato) perché ad essere decisivo è già il solo fatto che ne facciamo uso. L’esempio dei messaggi che inviamo dal telefono cellulare, per taluni versi dozzinale e molto abusato, rappresenta in maniera plastica quanto - un banale strumento – possa trasformare il linguaggio e incidere sulle forme delle relazioni interpersonali. La convinzione che i frutti del progresso tecnologico possano sempre sottostare a parametri e confini stabiliti dall’uomo, dal suo libero arbitrio e dalla sua predisposizione culturale, ideologica o religiosa è un assioma che va perdendo la sua potenza veritativa. Rispetto all’ampio dibattito sviluppatosi nel Novecento non scopro dunque nulla di nuovo, eppure c’è una postilla che va aggiunta ed è la scintilla che mi ha spinto a scrivere questo saggio; la tecnica rappresenta l’aspetto qualificante della nostra civiltà e il fatto che non pochi pensatori la indichino anche come una sorta di minaccia - strumento che possa avviarsi a diventare meccanismo che sfugga al nostro controllo-, è ipotesi più che reale. Ecco allora la motivazione di questo mio lavoro. I grandi pensatori del passato (e del recente passato) si sono segnalati per delle strabilianti capacità profetiche che hanno abbinato ad articolati e strutturati sistemi e teorie filosofiche. In molti, hanno immaginato scenari; altri ne hanno intuito i viluppi vivendo nel tempo dell’industrialismo del primo Novecento; altri ancora si sono confrontati con le due guerre mondiali e con scoperte scientifiche applicate al campo militare prima e poi a tutta la rete industriale e sociale. Pur tuttavia, noi siamo la prima generazione che vive sulla propria pelle quelle profezie e quei timori diventati prassi. Siamo i primi abitatori di quello scenario fantasmagorico, nel frattempo, diventato planetario e assoluto; i primi a vivere il dispiegamento universale della tecnica, ad aver contezza di quanto ogni paradigma sociale, culturale, politico, economico e antropologico stia subendo delle alterazioni e delle modificazioni, e a poter osservare tutto ciò grazie ad una diretta verifica sperimentale sul campo. Perché è la prima volta nella storia dell’umanità che la tecnica indirizza in maniera così decisa le scelte di carattere religioso, sociale, familiare e individuale. Calcolo e utilità Proviamo però a decifrare più in profondità tali riflessioni e questo moderno cambio di prospettiva partendo da una comparazione esemplificativa ma anche più ovvia, quella con gli animali, gli esseri a noi più vicini. Gli animali si muovono nell’ambiente circostante avendo come unico elemento da gestire la propria sopravvivenza; non governano, né tentano di mutare ciò che li circonda. Si adattano, cercando di guadagnarsi uno spazio da difendere. L’uomo, sin dalla notte dei tempi, ha avuto bisogno di interagire con la natura in maniera più diretta, e per farlo si è servito di ogni tipo di artificio; ovvero, tentando di avere dei supporti che gli consentissero di gestire e governare la quotidianità e gli imprevisti. Esperienze ed errori hanno sempre fatto parte del patrimonio di conoscenze da cui ha attinto la ragione umana che si avvale di questi processi selettivi per affinare e rendere più potente e utile la tecnica. Quando, infatti, rispetto a una stessa azione da reiterare, ci si accorge che diversi approcci portano a differenti soluzioni, l’uomo affina quella specifica tecnica in grado di soddisfare in pieno i suoi desideri. E quando la consuetudine, la regolarità, gli errori fatti e le tecniche usate disvelano i percorsi più semplici da seguire (meno dispendiosi in termini di fatica fisica e risorse economiche), la ragione opta per le soluzioni più convenienti e non per quelle che renderebbero ulteriormente complesso e gravoso lo scenario. In un contesto del genere l’impulso naturale, l’istinto, non è assente. Se, però, nell’animale è elemento fondamentale, nell’uomo è mitigato e frammentato in una pluralità di aspetti che vengono a soggiacere ad un quadro di riferimento che, soprattutto nel mondo iper-progredito della modernità, è quasi esclusivamente di tipo critico-analitico. Se spingiamo il ragionamento alle estreme conseguenze, dove tutto è calcolo e utilità, può dischiudersi un orizzonte di senso in cui l’etica appare come un muro che si frappone alla libertà di azione di una tecnica diventata ambiente, quindi condizione ineludibile per l’esistenza, e di una natura diventata spazio residuale. Infatti, anche la nostra critica alla tecnica avviene senza mai abbandonare i suoi criteri e il suo “discorso pubblico”. Ma è proprio questo lo snodo cruciale: se la tecnica rappresenta il nostro ambiente, sarà essa a dettare, costruire e organizzare in maniera diretta o indiretta le regole e gli scenari: «Poiché la realtà si regge sull’omogeneità al calcolo pianificabile, anche l’uomo vi si deve uniformare, per restare all’altezza della realtà», dice Heidegger. Cosicché qualunque riflessione approfondita che si innervi tra etica e speculazione filosofica, ricerca scientifica e scelte politiche, non può d’ora in avanti essere esente da una riflessione sulla tecnica che, in specie negli ultimi decenni, sta smarrendo la sua natura strumentale per divenire scopo e investire l’insieme di relazioni sociali ed economiche, nutrendosi di una «volontà di accrescere indefinitamente la propria potenza, ossia la propria capacità di trasformare qualsiasi ordinamento del mondo»14. In passato, ogni tipo di strumento consentiva di realizzare solo taluni scopi, anche se con il possesso ci si garantiva il potere. Nel corso del tempo – lo ha spiegato bene Severino – la scienza ha consentito di amplificarne la potenza facendo in modo che se ne creassero sempre di nuovi e più efficaci. Tuttavia non sapremmo che farcene della proliferazione degli strumenti se, al contempo, insieme all’aumento vertiginoso del loro numero e della loro potenza, non vi fosse un sistema politico, giuridico, economico, industriale e sanitario che non si riconfigurasse continuamente intorno a essi; se cioè non vi fosse una sorta di mega-apparato in grado, nelle società avanzate, di accrescere indefinitamente la potenza e di ricreare sempre nuovi fini, i quali coincidono con la potenza stessa dell’apparato. E questo perché tutto diventa funzionale all’interno di una ragion tecnica che giustifica ogni mutazione e ci rende via via strumenti di un meccanismo; ingranaggi anonimi e spersonalizzati che garantiscono l’applicabilità delle funzioni. La tecnica non attiva dunque solo dei processi pratici ma ci abitua a delle fughe in avanti. Avendo una capacità mitopoietica, riconfigura il significato e il valore delle sue azioni. E allora, una volta riconosciuta la centralità e la pervasività di tale questione, non c’è da meravigliarsi se la socialità in ogni sua declinazione non l’avvertiamo più come necessaria, tanto che alla politica, cioè alla più alta dimensione costitutiva dello stare insieme, abbiamo sostituito la burocrazia, la quale costituisce una anomalia permanente; né susciti stupore il fatto che lo spaesamento sia diventato destino planetario, correlato a una accresciuta consapevolezza di un mondo in disfacimento dove si fronteggiano e, pur tuttavia, si completano (e quindi si implementano reciprocamente) la distruzione delle culture e delle tradizioni con quelli che Heidegger chiamava «i cantieri del nuovo» che fanno dell’organizzazione pianificata e della mobilitazione totale il nuovo scopo15. Come mai accaduto nella Storia, l’estensione di possibilità tecnologiche ha infatti una fortissima influenza sulla persuasione collettiva perché muove da un’idea di emancipazione. In tempi più recenti Baudrillard ha fatto un passo in avanti manifestando preoccupazioni rispetto all’iper-realtà, nuova dimensione prodotta in special modo dalla comunicazione elettronica, grazie alla quale ci si espone al rischio di annullare la differenza tra mondo reale e immagine mediata, cosicché i fatti, nella loro essenzialità, non raramente possono essere sostituiti da un’artefatta simulazione dei media e da un nuovo livello simbolico. Ma qui siamo a livelli ancora sofisticati e che, forse, saranno ben percepiti e intesi tra qualche tempo. Pur tuttavia, oltre al dato simbolico, c’è quello immediato e pratico. L’eruzione di un vulcano a Eyjafjallajökull, in Islanda, che qualche anno fa mandò per due settimane in tilt il traffico aereo di tutto il nord Europa, ci svelò i limiti di una ragion tecnica diventata autoreferenziale. Può essere utile tornare a quei giorni e rileggersi, uno a uno, i commenti e le analisi dei mass-media internazionali per rendersi conto di cosa smosse quell’evento e perché un banale vulcano, più di ogni altra metafora biblica o mitologica, sia ancora oggi capace di chiarirci molto sulle forme distorte del pensare e sulla misera condizione dell’agire. Quel posto è un puntino invisibile sulla mappa terrestre, sconosciuto alla quasi totalità del genere umano, dove per magia confluiscono i quattro elementi della Terra che insieme ridisegnerebbero una grammatica di forme archetipe (il cielo col suo orizzonte basso, il fuoco del vulcano, la terra di un’isola selvaggia e desolata e l’acqua; Eyjafjallajökull in islandese significa “Ghiacciaio dei Monti delle Isole”) e che, al contrario, hanno attivato un paradigma interpretativo corrotto. Una montagna fino ad allora sconosciuta al resto del pianeta, un vulcano situato ai confini del mondo civile che non determinò nessuna catastrofe umanitaria ma solo qualche timida sbuffata con conseguente fuoriuscita di fumo e lapilli, rese però improbabili gli spostamenti imponendo una inusuale no fly zone su quasi tutto il continente europeo. Il blocco del traffico aereo venne deciso non con una banale e intuitiva osservazione visiva, e quindi empirica, ovviamente avvalorata da una robusta dose di dati matematici e statistici così come era sempre avvenuto, ma da simulazioni fatte unicamente a computer. In parole semplici: non furono i piloti in volo in quella zona, coadiuvati dal supporto di strumenti tecnici, a decidere il grado di pericolosità ma grafici e numeri che si incrociarono nelle simulazioni informatiche fatte in ordinari uffici. In quel caso, esperienza dei piloti e intuito degli operatori del settore furono messi da parte ed entrarono in scena algoritmi capaci di compiere in una frazione di secondo calcoli proibitivi per un essere umano. Il risultato fu che la circolazione aerea si paralizzò. Si scoprì poi che i computer avevano disegnato una situazione catastrofica oltre ogni misura quando, in realtà, gli eventuali pericoli avrebbero riguardato un’area estremamente piccola e circoscritta. È molto probabile che, in futuro, la percentuale di errore dell’intelligenza artificiale sarà vicina allo zero ma questo, insieme a tanti altri episodi singolari, come il blackout elettrico in grandi città o il blocco temporaneo di siti internet o di social network, dimostra quanto sia cambiato il nostro approccio alla vita quotidiana e quanto le nostre società siano totalmente subordinate a processi esterni. Ecco perché, nonostante l’assoluta necessità di un approccio scientifico, permane il rischio che la forza attrattiva di un simile modello possa trasformarsi in sintassi universale... modello a cui venga conferita una valenza “destinale”; utilizzato anche sugli esseri umani per il suo significato emancipativo e per una cinica configurazione di una razionalità mai mediata. Inoltre, nell’odierno paesaggio desertificato, come non andare col pensiero alle analisi predittive che, seppur in altro modo declinate, possono paradigmaticamente rappresentare il riconoscimento del valore positivo di criteri metodologici che trascurano ogni indeterminatezza, spinta volontaristica o causalità. Le analisi predittive si sostanziano oramai di big data, vale a dire di una imponente raccolta di dati che vanno a sostanziare algoritmi capaci di elaborarli e analizzarli simultaneamente. Le utilizzano molti comparti della Sanità pubblica in vari Paesi europei, e ciò è comprensibile. Ma le adoperano anche le multinazionali per anticipare cosa potrà accadere nel futuro e fornire risposte ottimizzate in grado di soddisfare «attività di gestione del rischio», creare campagne mirate di marketing e, di conseguenza, rendere efficaci dei «progetti trasformativi del consumatore». Non avendo quasi più alcuna cautela critica sentiamo il bisogno di abbandonarci a una forma di ragion tecnica sempre più avvolgente, con i suoi effetti pubblici sul costume, sulle relazioni, sul lavoro e sulla psicologia, nell’illusione che l’unica azione trasformatrice sia quella della perfettibilità futuristica16. Come tutti sanno, compito dell’agire in un apparato è però quello di adeguarsi a un destino e per questo prepararsi a un duplice fallimento. Perché, da una parte, c’è il rischio che software e computer si pronuncino sulla sicurezza di un volo, sulla sbuffata di un vulcano ma anche sulla genetica, sull’energia atomica o sulla clonazione, con la conseguenza di affidarsi totalmente a coloro i quali, pur non avendo nessuna competenza su specifiche questioni, ricoprono un ruolo di rilievo nell’apparato. Dall’altra, se si cerca la competenza su ogni singola questione, c’è il rischio (e la necessità) di consegnarsi all’esperto, cioè di rimettere le proprie scelte alle indicazioni del tecnico di quello specifico settore, secondo una illusione ecumenica che egli operi sempre per il bene. Come candidamente ammise lo scienziato Giuseppe Remuzzi, in un’intervista al Corriere della Sera (25 gennaio 2007): «i problemi etici posti dalla scienza devono essere risolti dalla stessa scienza. In altre parole: nessuno, se non il tecnico, può valutare criticamente le nuove acquisizioni scientifiche e stabilire se accettarle o rifiutarle». In realtà, anche considerata la buona fede, un biologo, un genetista o un fisico nucleare non possono veder confutate le loro tesi se non da altri tecnici, e quindi una simile operazione non sarà mai neutra. Un simile scenario schiude due strade, entrambe pericolose, che ormai ci sono però familiari: condividere (e fare proprie) le analisi di chi, pur privo di specifica competenza, opera nell’apparato; oppure fare delle scelte in maniera del tutto irrazionale, magari per appartenenza politica o ideologica. In entrambi i casi, dietro il paravento di una progressiva emancipazione dalla necessità, il cittadino vedrà sempre più restringersi il grado di libertà e di elaborazione autonoma delle idee e l’incisività della sua partecipazione democratica. Tutto ciò accade per insipienza o remissività derivate da forme più o meno occulte di addomesticamento, in specie nel momento in cui non si comprende con sufficiente chiarezza quale impatto possano produrre le nuove tecnologie quando si connettono alle trasformazioni dell’ambiente naturale, alle questioni cruciali della vita e della morte, ai temi della libertà, della democrazia e all’idea stessa di politica: «La tecnologia non avanza mai in direzione di qualcosa […]. Dato che possiamo sbarcare sulla luna, che cosa potremmo fare lì e a quale scopo? […]. Quando i tecnici hanno raggiunto un certo livello di competenza nel settore delle comunicazioni, dell’energia, dei materiali, dell’elettronica, della cibernetica ecc., tutti questi elementi si sono combinati e hanno mostrato che avremmo potuto esplorare il cosmo ecc. Ciò è stato fatto perché poteva essere fatto. E questo è tutto»17. 1 R. Bufalo, «Tecnica e filosofia nel pensiero del Novecento», Il Contributo, Rivista del Centro per la Filosofia Italiana, N.1, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2011, pp. 9-40. 2 P. Ceri, «Tecnopolitica e democrazia», in Spazi e politica nella modernità tecnologica, a cura di B. Consarelli, University Press, Firenze 2006, pp. 1-15. 3 E. Severino, Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano 2009, p. 12. 4 G. Benn, «L’io moderno», in Lo smalto sul nulla, Adelphi, Milano 1992, p. 16. 5 M. Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976-1980, p. 9. 6 J. Ellul, Il sistema tecnico. La gabbia delle società contemporanee, Jaca Book, Milano 2009, p. 15. 7 J. Ellul, La tecnica, rischio del secolo, Giuffré, Milano 1999. 8 T. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004. 9 G. Anders, L’uomo è antiquato, Vol. I, Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 103. 10 R. Guardini, Lettere dal lago di Como, Morcelliana, Brescia 1993, p. 91. 11 Benedetto XVI, Caritas in Veritate, Libreria Editrice Vaticano, Città del Vaticano 2009. 12 S. Zecchi in introduzione a O. Spengler, L’uomo e la tecnica, Guanda, Parma 1992, pp. 10-11. 13 A. Camus, Discorsi di Svezia, trad. di A. Sensini, in Opere, Bompiani, Milano 2003, p. 1242. 14 E. Severino, La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi, Milano 1988, p. 85. 15 M. Heidegger, Lettera sull’Umanismo, Adelphi, Milano 1995, p. 110. 16 F. Papi, «Per una fenomenologia delle tecnologie» in P. D’Alessandro-A. Potestio, Filosofia della tecnica, LED Edizioni universitarie, Milano 2006, pp. 17-18. 17 J. Ellul, The Myths of Information: Technology and Postindustrial Culture, Routledge, Londra 1980, pp. 273-280. 

2. NATURA E ARTIFICIO

Prometeo e il mito Siamo i primi a vivere il dispiegamento planetario della tecnica e ad avere consapevolezza di quanto tale elemento alteri e modifichi ogni paradigma sociale, culturale, politico, economico e antropologico. Eppure, secondo i sostenitori della neutralità, e quindi della “bontà” della tecnica, dovremmo essere “educati” alla sua presenza e al suo dispiegamento vorticoso. Dovremmo avere una comprensione matura ed essere capaci di imporre forme regolative perché, in realtà, coabitiamo con essa fin dalla notte dei tempi visto che fu già il mito a introdurre la τέχνη nella storia. Se era ritenuta una prerogativa divina, con la divisione del lavoro comincia invece ad essere identificata come un’invenzione tipicamente umana, come insieme di procedure che si conquistano e si rinnovano nel tempo: «Non è che da principio gli dèi abbiano rivelato tutte le cose ai mortali, ma col tempo essi cercando ritrovarono il meglio», scriveva Senofonte18. Fu il racconto prometeico a ricondurre sin dalla notte dei tempi il gioco vitale delle forze tra l’umano, la natura e gli dèi; quando l’uomo, prima del dono di Prometeo, come in una sorta di dimensione amniotica, avvertiva ancora il bisogno della divinità: «Gli dèi tengono infatti nascosti agli uomini i mezzi di vita: se così non fosse, in un sol giorno ti procureresti agevolmente di che vivere magari per un anno e rimanertene in ozio; e subito al focolare appenderesti il timone, tralasciando il lavoro dei buoi e delle mule pazienti. Ma Zeus li nascose, essendo sdegnato nell’animo ché Prometeo, l’astuto, l’aveva ingannato»19. Le Opere e i giorni (ma Esiodo narrerà di Prometeo anche nella Teogonia) sono il primo tassello di un mosaico all’interno del quale, pur con tutte le evoluzioni e il gioco di rimandi tipici della letteratura classica, si manifestano due coordinate essenziali: da una parte c’è la figura dell’uomo partecipe della stirpe divina e, dall’altra, ne rappresenta un decadimento20. Il presupposto implicito di tale argomentazione non fa che cristallizzarsi in un prima, in cui «la terra dava spontaneamente i suoi frutti e la morte arrivava nel sonno», e in un dopo, quando a Crono succede Zeus che infligge a Prometeo – dopo il furto del fuoco – il supplizio del fegato mangiato dall’aquila di giorno ma che ricresce di notte, simbolo di una tortura divina alla quale non si può sfuggire21. Sullo sfondo, in trasparenza, questioni aperte che interrogano ancora la nostra coscienza: l’azione di Prometeo è frutto di tracotanza (ὕβϱις)? Il supplizio lo perseguiterà in eterno oppure arriverà la salvezza? E quest’ultima sopraggiungerà attraverso un atto unilaterale di Zeus o con la sua sconfitta? Nella tragedia eschilea Prometeo è il difensore degli uomini contro la volontà di potenza di Zeus; è contemporaneamente sovvertitore dell’ordine divino ma anche benefattore dell’umanità22. Il mito di Prometeo non fa che rendere perfettamente visibile ciò che, in realtà, si trova inscritto in tutte le declinazioni letterarie o filosofiche perché esso non risponde ad alcuna domanda sull’uomo ma – come spiega Blumenberg - le contiene tutte. Difatti, non si tratta solo di ripensare l’atto di ribellione ma di tradurlo, così come pensa Eschilo, in una naturale volontà di emancipazione degli uomini dal potere degli dèi, rendendoli «da bambini quali erano, saggi e padroni della loro mente»23. Eschilo è un passo in avanti rispetto all’interpretazione esiodea dove la perdita del fuoco corrisponde alla perdita del cibo e quindi della vita, mentre per lui rappresenta un anelito di libertà. Ciò che tuttavia emerge come conseguenza dell’orizzonte simbolico rivelato da entrambi è il numero di variabili: Prometeo si scaglia contro gli dèi ed è benefattore dell’umanità? Oppure è il responsabile di questa frattura perché non accetta la condizione di minorità? Quesiti che emergono come il dato primitivo da cui prenderanno le mosse tutte le indagini successive. Nel Protagora di Platone viene ripresa l’idea di una funzione civilizzatrice che scaturisce dall’atto di ribellione e che contestualmente permette agli uomini – tramite il furto del fuoco – di venire in contatto con il sapere tecnico. Ma è un passaggio ulteriore e non una caduta. Diversamente da Esiodo non c’è un prima, caratterizzato dal fatto che gli uomini non dovevano preoccuparsi per il sostentamento attraverso il lavoro, e un dopo, quando a causa di quell’inganno si spezza l’armonia cosmica. Inoltre, il fuoco da solo non basta; grazie all’intervento di Ermes, Zeus distribuisce αἰδώς (pudore) e δίκη (giustizia) per fare in modo che l’uomo, per natura debole, entri in possesso di strumenti che agevolino la socievolezza dato che coessenziale al mito, entra in gioco la politica che, a differenza di tutti gli altri saperi tecnici, e con la conseguente diversificazione dei mestieri che nella Grecia del V secolo a.C. andavano incrementandosi, diventerà l’arte più importante. Prospettiva escatologica Un mutamento rilevante si produce con l’arrivo e la sovrapposizione del pensiero giudaico-cristiano. Sovrapposizione anche perché l’imperativo divino – «non mangiare all’albero della conoscenza» - cui Adamo ed Eva disattendono, e che per tanti versi svela una originaria volontà di potenza e una brama di essere assoluti signori della propria storia come suggerirà Erich Fromm, è episodio assimilabile al Prometeo che si ribella agli déi dell’Olimpo. Il tempo della storia esce dalla latenza per manifestarsi, inserendosi in un quadro interpretativo che non è più quello mitico, svolgendo perciò la funzione di una necessaria correlazione con il futuro su una rigorosa prospettiva unidirezionale. La cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre enunciata nella Genesi con le nefaste conseguenze, tanto più attuali e cruciali quanto più ci si ricorda della colpa dovuta al peccato d’origine, impone il limite tutto umano della mortalità. Si può quindi intuire quale sia il dato primigenio. La natura diventa il luogo del decadimento, un “altro” rispetto alla condizione originaria del paradiso e, perciò, subordinata a Dio, ma soprattutto all’uomo; e quest’ultimo diventa l’assoluto protagonista nel mondo dove, non sottraendosi a un paradigma deterministico, è in attesa di una fine (eschaton) con la quale si compirà il progetto divino. Ma qui ci sono due cambiamenti. Innanzitutto, bisogna capire in che modo l’uomo interpreti l’irruzione del futuro nella sua vita e, in secondo luogo, come – affrancato da ogni vincolo – gli si possa dispiegare dinanzi una sorta di volontà di potenza smisurata che trovi fondamento nel fatto che Dio trascenda il mondo. Nel κόσµος greco le divinità non sono radicalmente separate, anzi vengono vissute all’interno di un rapporto di continuità con la natura e con l’uomo, celebrate nella loro continua connessione al dato terreno e ai meccanismi del vivere sociale. Ora, invece, si esibisce l’idea di un Dio creatore che dopo la venuta di Cristo, suo figlio, si ripresenterà solo alla fine dei tempi. In un mondo siffatto la religione non può che ricavarsi un ampio spazio d’azione ma la prospettiva escatologica consente di porre in essere l’idea di una fine dei tempi dove tutto si riaccorderà, non disgiunta da una concezione lineare della storia in cui è, però, la figura dell’uomo a divenire centrale. Il tempo strutturandosi attorno alla definizione di un nuovo orizzonte di attese implica, tuttavia, anche un notevole pericolo per l’uomo che, infatti, viene gradualmente assorbito dalla tecnica, la sola in grado di determinare quella volontà di potenza. Perché se la concezione cristiana prevede un inizio e una fine nobilitante e quindi un fine, per la tecnica moderna gli ostacoli così come gli scopi vanno continuamente superati. Viene perciò suggerito un rovesciamento: Prometeo diventa Faust, integrato in una volontà di potenza che non può più concepire se stessa nella staticità ma che trova il proprio fondamento di senso nello svincolarsi da ogni nesso di ordine superiore, e quindi nel muoversi contro ogni armonia ed equilibrio naturale e cosmico. È in questo senso che, sebbene sia costruita come mezzo, la tecnica inizia non più solo ad essere fatto strumentale, cioè protesi che corrobora i deficit dell’uomo, ma potenza a sé stante in grado di riscrivere la realtà e grazie alla quale si assume il disincanto come valore. Scientia est potentia Uno dei cambiamenti decisivi dell’epoca moderna è rappresentato dal primato del pensiero scientifico, grazie al quale fanno il loro ingresso ufficiale la riscrittura matematica del mondo e una nuova metafisica fondativa.