lunedì 3 aprile 2023

IL TRAMONTO DELLA DEMOCRAZIA (2020) Anne Applebaum





IL TRAMONTO DELLA DEMOCRAZIA (2020)

Anne Applebaum 


Il libro 

[...] Forse i miei figli e i loro amici, tutti i nostri amici e tutti noi, in realtà, che vogliamo continuare a vivere in un mondo in cui possiamo dire quello che pensiamo in sicurezza, in cui un dibattito razionale è possibile, il sapere e la competenza sono rispettati, i confini possono essere attraversati con facilità, rappresentiamo uno dei tanti vicoli ciechi della storia. È possibile che siamo condannati, come la scintillante e multietnica Vienna asburgica o la creativa e decadente Berlino di Weimar, a scomparire nell’irrilevanza. È possibile che stiamo già vivendo il tramonto della democrazia; che la nostra civiltà stia già dirigendosi verso l’anarchia o la tirannia, come temevano gli antichi filosofi e i padri fondatori dell’America; che il XXI secolo vedrà arrivare al potere, com’è accaduto nel XX, una nuova generazione di «chierici», fautori di idee illiberali o autoritarie; che le loro visioni del mondo, frutto di risentimento, rabbia o profondi sogni messianici, trionfino. Forse la nuova tecnologia dell’informazione continuerà a ostacolare il formarsi di un consenso generale, dividendo ulteriormente le persone e accrescendo la polarizzazione finché solo la violenza potrà decidere chi deve governare. Forse la paura della malattia genererà la paura della libertà.[...]

[...] La nuova destra,[...] non vuole affatto conservare o preservare ciò che esiste. Nell’Europa continentale disprezza i democratici cristiani, che dopo l’incubo della seconda guerra mondiale usarono la loro base politica nella Chiesa per fondare l’Unione europea. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito ha rotto con il vecchio conservatorismo burkeano con la «c» minuscola, che diffida dei rapidi cambiamenti in tutte le loro forme. Sebbene odi il termine, la nuova destra è più bolscevica che burkeana: è composta da uomini e donne decisi a rovesciare, aggirare o minare le istituzioni esistenti, distruggere ciò che esiste.


Questo libro parla di questa nuova generazione di «chierici» e della nuova realtà che essi stanno creando, a partire da quelli che conosco in Europa orientale per passare alla storia diversa ma parallela della Gran Bretagna, altro paese in cui ho profondi legami, e finire con gli Stati Uniti, dove sono nata, con qualche tappa altrove. Le persone di cui parlerò vanno da ideologi nativisti a saggisti politici di nobili principi; alcuni di loro scrivono libri raffinati, altri lanciano virali teorie del complotto. Alcuni sono sinceramente motivati dalle stesse paure, la stessa rabbia e lo stesso profondo desiderio di unità che motiva i loro lettori e seguaci. Alcuni si sono radicalizzati in rabbiosi scontri con la sinistra culturale, o perché disgustati dalla debolezza del centro liberale. Alcuni sono cinici e opportunisti: adottano un linguaggio estremista o autoritario per conquistare potere o fama. Alcuni sono apocalittici, convinti che le loro società abbiano fallito e debbano essere ricostruite, qualunque sia il risultato. Alcuni sono profondamente religiosi. Alcuni amano il caos, o cercano di promuoverlo come preludio all’imposizione di un nuovo tipo di ordine. Tutti cercano di ridefinire le proprie nazioni, di riscrivere contratti sociali e, a volte, di cambiare le regole della democrazia per non perdere mai il potere. Alexander Hamilton mise in guardia contro di essi, e Cicerone li combatté. Alcuni di loro erano un tempo miei amici.[...]


Nell’ultimo decennio il mondo è divenuto protagonista di mutamenti politici, economici e sociali sempre più rapidi, che stanno portando alla creazione di nuove realtà politiche volte a cambiare, o addirittura stravolgere, le regole della democrazia occidentale. Una nuova generazione di élite fautrici di idee illiberali e autoritarie sta ottenendo un crescente consenso tra le masse e, dunque, una maggiore influenza.

Oltreoceano, la presidenza di Trump, con il suo «America First», ha infiammato gli animi dei suprematisti bianchi. Guardando all’Europa, Polonia e Ungheria sono oggi governate da due partiti apertamente autoritari. Nel Regno Unito, Boris Johnson si è fatto portavoce di una nostalgia «restauratrice» mirata a rovesciare le odierne istituzioni britanniche e a inculcare un sentimento anti-UE che ha condotto alla Brexit. L’aumento esponenziale della popolarità del partito nazionalista Vox in Spagna ha messo in allerta i più anziani, che avvertono nella sua retorica degli echi franchisti, un richiamo nazionalista da cui neanche l’Italia è immune.

Partendo dalla propria esperienza personale – il lento ma inesorabile spostamento su posizioni decisamente reazionarie di amici che avevano a lungo condiviso i suoi stessi ideali di progresso e libertà –, Anne Applebaum ripercorre le tappe dell’ascesa di queste nuove élite del mondo occidentale, artefici di un’inquietante svolta politica, e riflette sugli aspetti che determinano la loro presa emotiva. Dalla polarizzazione politica e dei social media – ormai divenuti il luogo in cui la verità deve quotidianamente fare i conti con narrazioni false e tendenziose – alla diffusione di teorie complottiste e di un senso di nostalgia per un passato migliore, Applebaum individua gli strumenti e le tattiche usate per raggiungere e affascinare quanti preferiscono un’unica voce al pluralismo democratico, in cammino verso il suo tramonto. Ma, forte delle sue convinzioni, l’autrice ribadisce una verità innegabile: «Nessuna vittoria politica è mai definitiva e nessuna élite – populista, liberale, aristocratica – domina per sempre. La storia di ogni grande civiltà include periodi culturalmente illuminati e altri di cupo dispotismo. Anche la nostra storia, un giorno, apparirà così».


Il tramonto della democrazia

Il nostro secolo sarà stato proprio il secolo dell’organizzazione intellettuale degli odi politici. Sarà uno dei suoi grandi meriti nella storia morale dell’umanità.


JULIEN BENDA, Il tradimento dei chierici, 1927


Dobbiamo accettare il fatto che questo genere di ribellione contro la modernità è sempre latente nella società occidentale. … Il suo confuso, fantasioso progetto, la sua retorica irrazionale e apolitica incorporano aspirazioni altrettanto genuine … delle aspirazioni di altri, più familiari movimenti riformatori.


FRITZ STERN, The Politics of Cultural Despair, 1961


I


L’ultimo dell’anno

Il 31 dicembre 1999 organizzammo una festa. Era la fine di un millennio e l’inizio di un altro, e la gente aveva una gran voglia di divertirsi, preferibilmente in qualche posto esotico. La nostra festa soddisfece questo requisito. La tenemmo a Chobielin, nel Nordovest della Polonia, in un palazzotto che mio marito e i suoi genitori avevano comprato un decennio prima, al prezzo dei mattoni, quando era una rovina coperta di muffa e inabitabile, mai ristrutturata dal giorno in cui, nel 1945, i precedenti occupanti erano fuggiti di fronte all’Armata Rossa. Avevamo restaurato noi la casa, o la maggior parte di essa, anche se molto lentamente. Nel 1999 i lavori non erano ancora veramente finiti, ma c’erano un nuovo tetto e un ampio salone dipinto di fresco e completamente vuoto, perfetto per una festa.


Gli ospiti erano di vario genere: amici giornalisti di Londra e Mosca, alcuni giovani diplomatici in servizio a Varsavia, due amici arrivati da New York. Per la maggior parte, tuttavia, erano polacchi, nostri amici e colleghi di mio marito, Radek Sikorski, allora viceministro degli Esteri in un governo polacco di centrodestra. C’erano amici del posto, alcuni compagni di scuola di Radek e un folto gruppo di cugini. Vennero anche una manciata di giovani giornalisti polacchi, nessuno allora particolarmente famoso, alcuni funzionari pubblici e uno o due giovanissimi membri del governo.


La maggior parte di noi avrebbe potuto essere ascritta, grosso modo, alla categoria generale di quella che i polacchi chiamavano la destra: i conservatori, gli anticomunisti. Ma in quel momento della storia quasi tutti avremmo potuto essere definiti liberali. Liberali del libero mercato, liberali classici, magari thatcheriani. Anche coloro che in campo economico avevano forse posizioni meno definite credevano nella democrazia, nello Stato di diritto, nei meccanismi di controlli ed equilibri, e in una Polonia membro della NATO e sulla via di aderire all’Unione europea, una Polonia parte integrante dell’Europa moderna. Negli anni Novanta era questo che significava essere «di destra».


Come festa fu un po’ arrangiata. Nella Polonia rurale di quegli anni non c’era nulla che assomigliasse a un catering, quindi mia suocera e io cucinammo pentoloni di stufato di manzo e barbabietole arrosto. Non c’erano nemmeno alberghi, e i nostri ospiti, un centinaio, dovettero trovare una sistemazione in fattorie locali o da amici nella vicina città. Avevo una lista di chi avrebbe alloggiato qui e chi là, ma un paio di persone finirono comunque per dormire sul pavimento nel seminterrato. A tarda sera facemmo esplodere fuochi d’artificio, di quelli economici, made in China, che, da poco divenuti diffusamente disponibili, erano probabilmente pericolosissimi.


A creare l’unica seria divisione culturale della serata fu la musica, registrata su cassette: Spotify ancora non esisteva. Le canzoni che i miei amici americani ricordavano dai tempi del college non erano le stesse che ricordavano i polacchi dai tempi dell’università, ed era difficile riuscire a fare ballare tutti contemporaneamente. A un certo punto andai di sopra, appresi che Boris Elc’in si era dimesso, scrissi un breve commento per un quotidiano britannico, poi tornai al piano di sotto e bevvi un altro bicchiere di vino. Verso le tre del mattino uno dei nostri ospiti più bizzarri, una polacca, tirò fuori dalla sua borsetta una piccola pistola e, per pura esuberanza, sparò a salve in aria.


Fu una festa così. Durò tutta la notte e proseguì nel «brunch» il pomeriggio successivo, pervasa dall’ottimismo di quel periodo. Avevamo ricostruito la nostra casa in rovina. I nostri amici stavano ricostruendo il paese. Ho un ricordo particolarmente nitido di una passeggiata sulla neve – forse il giorno prima della festa, forse il giorno dopo – con un gruppo bilingue: tutti chiacchieravano insieme, e inglese e polacco si mescolavano ed echeggiavano fra le betulle del bosco. In quel momento, in cui la Polonia era sul punto di unirsi all’Occidente, sembrava che facessimo tutti parte della stessa squadra. Eravamo d’accordo sulla democrazia, sulla strada verso la prosperità, sul modo in cui stavano andando le cose.


Quel momento è passato. Ora, quasi due decenni dopo, attraverserei la strada per evitare di incontrare alcune delle persone presenti alla mia festa quell’ultimo dell’anno. E quelle persone, a loro volta, non solo si rifiuterebbero di entrare in casa mia, ma sarebbero imbarazzate a dovere ammettere di esserci mai state. Circa metà degli invitati alla festa non parlerebbe più con l’altra metà. E per motivi politici, non personali. La Polonia è ormai una delle società più polarizzate d’Europa, e abbiamo finito per trovarci sui lati opposti di una profonda linea di divisione, che attraversa non solo quella che era la destra polacca, ma anche la vecchia destra ungherese, la destra spagnola, la destra francese, la destra italiana e, con qualche differenza, anche la destra britannica e la destra americana.


Alcuni dei miei ospiti di quell’ultimo dell’anno hanno continuato, come me e mio marito, a sostenere il centrodestra pro-europeo, pro-Stato di diritto e pro-mercato. Siamo rimasti in partiti schierati, più o meno, dalla stessa parte dei cristiano-democratici europei, dei partiti liberali di Francia e Paesi Bassi e del Partito repubblicano di John McCain. Altri si considerano di centrosinistra. Ma altri ancora sono finiti in luoghi diversi. Ora sostengono un partito nativista, Diritto e Giustizia, che si è radicalmente allontanato dalle posizioni di quando, dal 2005 al 2007, guidò per breve tempo il governo e, dal 2005 al 2010, detenne la presidenza (due cose che, in Polonia, non coincidono).


Negli anni in cui il partito non era al potere, i leader di Diritto e Giustizia e molti dei suoi sostenitori e promotori giunsero a poco a poco ad abbracciare un insieme di idee diverso, non solo xenofobo e paranoico, ma apertamente autoritario. Per essere giusti con l’elettorato, non tutti potevano accorgersene: nel 2015 Diritto e Giustizia condusse una campagna molto moderata contro un partito di centrodestra al potere da otto anni – del cui governo mio marito era membro, anche se si dimise prima delle elezioni – e che, nell’ultimo anno, era guidato da un primo ministro debole e insignificante. Che i polacchi volessero un cambiamento era comprensibile.


Ma, dopo che Diritto e Giustizia ebbe ottenuto nel 2015 un’esigua maggioranza, il suo estremismo si fece immediatamente evidente. Il nuovo governo violò la Costituzione nominando impropriamente altri giudici alla Corte costituzionale. Più tardi ricorse a una strategia non meno incostituzionale per tentare di controllare la Corte suprema polacca e scrisse un disegno di legge inteso a punire i giudici i cui verdetti contraddicevano la politica del governo. Inoltre, sempre in violazione della Costituzione, s’impadronì dell’emittente pubblica statale, licenziando presentatori popolari e giornalisti competenti. I loro sostituti, reclutati nei media online di estrema destra, iniziarono a diffondere a spese dei contribuenti una mera propaganda del partito al potere, ricorrendo sistematicamente a bugie confutabili con facilità.


Un altro bersaglio furono le istituzioni statali. Una volta al potere, Diritto e Giustizia licenziò migliaia di dipendenti pubblici, sostituendoli con mezze calzette del partito o loro cugini e parenti. Licenziò generali dell’esercito formatisi per anni in costose accademie occidentali. Licenziò diplomatici dotati di esperienza e competenze linguistiche. Una dopo l’altra, furono devastate anche le istituzioni culturali. Il Museo nazionale perse il suo ottimo direttore ad interim, stimato a livello internazionale. Al suo posto fu nominato un accademico sconosciuto, senza precedenti esperienze museali, la cui prima importante decisione fu di smantellare la mostra di arte moderna e contemporanea del museo. Un anno dopo si dimise, lasciando l’istituzione nel caos. Il direttore del Museo della storia degli ebrei polacchi, organismo unico in Europa, inaugurato con grande clamore solo pochi anni prima, fu sospeso senza spiegazioni, lasciando inorriditi sostenitori e finanziatori internazionali del museo. A queste storie se ne accompagnarono migliaia di altre simili che non fecero notizia. Una nostra amica, per esempio, avendo portato a termine troppi progetti troppo in fretta, perse il suo lavoro in un’altra istituzione statale. Il suo nuovo e incompetente direttore vedeva in lei, sembra, una minaccia.


Tutto ciò veniva fatto senza ricorrere a pretesti. Non si trattava di fare funzionare meglio il governo. Si trattava di rendere il governo più di parte, la giustizia più compiacente, più legata al partito. O forse dovremmo chiamarlo, come una volta, il Partito.


Diritto e Giustizia non aveva alcun mandato per agire in questo modo: aveva ricevuto una percentuale di voti che gli permetteva di governare, non di cambiare la Costituzione. Così, per giustificare la violazione della legge, il partito smise di usare i normali argomenti politici e iniziò a puntare il dito contro nemici giurati. Alcuni erano vecchi e familiari. Dopo due decenni di dialogo profondo e di riconciliazione fra ebrei e polacchi, dopo migliaia di libri, film e convegni, dopo la costruzione di quello spettacolare museo, il governo si guadagnò una pessima fama a livello internazionale varando una legge che limitava il dibattito pubblico sull’Olocausto. Anche se alla fine, sotto la pressione americana, la legge fu cambiata, essa godette di ampio sostegno nella base ideologica di Diritto e Giustizia: giornalisti, scrittori e pensatori, inclusi alcuni degli ospiti alla mia festa, ormai convinti che forze antipolacche stessero tramando per imputare Auschwitz alla Polonia anziché alla Germania. In seguito il partito s’imbarcò anche in un inutile conflitto con il governo israeliano, un diverbio che sembrava finalizzato a fare appello sia agli infuriati elettori nazionalisti di Diritto e Giustizia in Polonia sia agli infuriati elettori nazionalisti di Benjamin Netanyahu in Israele.


Altri nemici erano nuovi. Dopo essersela presa per un breve periodo con gli immigrati islamici, impresa difficile in un paese in cui gli immigrati islamici erano pressoché inesistenti, il partito rivolse tutta la sua furia contro gli omosessuali. Un settimanale nazionale, «Gazeta Polska», un paio dei cui giornalisti più in vista era alla mia festa quell’ultimo dell’anno, stampò, perché i suoi lettori li applicassero a porte e finestre, adesivi con su scritto «Zona LGBT-free». Alla vigilia di un’altra elezione parlamentare, nell’ottobre 2019, la televisione di Stato mandò in onda un documentario dal titolo Invasione, che descriveva il piano segreto LGBT per danneggiare la Polonia.1 La Chiesa cattolica polacca, un tempo istituzione neutrale e simbolo apolitico di unità nazionale, iniziò a promuovere temi simili. L’attuale arcivescovo di Cracovia, seggio occupato un tempo da papa Giovanni Paolo II, tenne un sermone in cui definì gli omosessuali una «piaga» color arcobaleno che aveva sostituito la «piaga rossa» del comunismo.2 Il governo polacco applaudì, anche se in seguito il sermone fu rimosso dai moderatori di YouTube con la motivazione che costituiva un incitamento all’odio.


Tale sequenza di eventi mi rende ora difficile parlare con alcuni dei miei ospiti di quell’ultimo dell’anno di qualsiasi cosa. Non ho avuto, per esempio, una sola conversazione con Ania Bielecka, un tempo tra le mie amiche più care e madrina di uno dei miei figli, in seguito a una telefonata isterica dell’aprile 2010, un paio di giorni dopo che un aereo con a bordo l’allora presidente della Polonia si schiantò nei pressi di Smolensk, in Russia, tragedia di cui parleremo più avanti. Bielecka è un’architetta e conta, o contava, fra i suoi amici alcuni degli artisti più noti della sua generazione; ama, o amava, le mostre d’arte contemporanea, tanto che qualche volta, per puro piacere, si recò fino a Venezia per la Biennale. Un giorno mi disse che lì adorava guardare la gente, tutte quelle signore del mondo dell’arte in abiti raffinati, non meno che le opere. Ma negli ultimi anni s’è avvicinata sempre di più a Jarosław Kaczyński, leader di Diritto e Giustizia e fratello gemello del defunto presidente. Ora organizza regolarmente pranzi per Kaczyński nel suo appartamento – è un’ottima cuoca – e discute su chi egli dovrebbe nominare nel suo gabinetto. Mi è stato detto che la scelta del ministro della Cultura, l’artefice dell’assalto ai musei polacchi, è avvenuta dietro suo suggerimento. Ho cercato di incontrarla un paio d’anni fa a Varsavia, ma ha rifiutato: «Di che cosa potremmo parlare?» mi ha scritto in un messaggio cui è seguito il silenzio.


Un altro dei miei ospiti, la signora che sparò pistolettate in aria, ha finito per separarsi dal marito britannico. La sua eccentricità si è mutata in qualcos’altro, e sembra che trascorra le giornate da troll a tempo pieno, promuovendo fanaticamente su Internet un’intera gamma di teorie del complotto, molte delle quali virulentemente antisemite. Su Twitter parla delle responsabilità degli ebrei nell’Olocausto e una volta ha pubblicato l’immagine di un dipinto medievale inglese raffigurante un ragazzo che, si diceva, era stato crocifisso da ebrei, con il commento «E furono sorpresi di essere stati espulsi», riferendosi all’espulsione degli ebrei dalla Gran Bretagna nel 1290. Inoltre segue e amplifica le prese di posizione dei carismatici leader dell’alt-right, la «destra alternativa» americana, di cui imita e promuove il linguaggio.


Un terzo mio ospite, la giornalista Anita Gargas, ha passato l’ultimo decennio a sondare instancabilmente una varietà di teorie del complotto sulla morte dell’ex presidente, Lech Kaczyński, nell’incidente aereo di Smolensk, avanzando ogni volta una spiegazione diversa.3 Lavora alla «Gazeta Polska», il settimanale che distribuì gli adesivi antigay. Un quarto, Rafał Ziemkiewicz, si è fatto un nome attaccando senza peli sulla lingua la comunità ebraica internazionale. Parla degli ebrei come di gente «schifosa» e «avida»,4 definisce le organizzazioni ebraiche «dedite al ricatto»5 e si rammarica del suo precedente sostegno a Israele.6 La triste notorietà che ha acquisito usando questo linguaggio sembra avere ridato impulso alla sua carriera in discesa, e ora appare spesso alla televisione di Stato controllata dal partito.


So che alcuni di questi miei ex amici si sono allontanati dai propri figli a causa delle loro opinioni politiche e, in un paio di casi, la presa di distanza è stata profonda. Uno, intensamente impegnato in un partito politico apertamente omofobico, ha un figlio gay. Ma anche questo è tipico: tali divisioni attraversano le famiglie non meno dei gruppi di amici. I genitori di un nostro vicino a Chobielin ascoltano una radio cattolica integralista filogovernativa, Radio Maryja, ripetendone i mantra e facendo dei suoi nemici i propri nemici. «Ho perso mia madre» mi ha detto il mio vicino. «Vive in un altro mondo.»


Per rivelare fino in fondo il mio interesse personale in tutto ciò, devo aggiungere che queste teorie del complotto si sono rivolte anche contro di me. Mio marito è stato ministro della Difesa in Polonia per un anno e mezzo in un governo di coalizione guidato da Diritto e Giustizia: la prima, breve esperienza al potere di questo partito. In seguito con Diritto e Giustizia ha rotto, ed è stato per sette anni ministro degli Esteri in un altro governo di coalizione guidato dal partito di centrodestra, Piattaforma Civica. Nel 2019 si è candidato al Parlamento europeo, venendo eletto, anche se attualmente non fa parte della leadership dell’opposizione.


Vivo in Polonia dal 1988, anche se non continuativamente: passo lunghi periodi a Londra e Washington per scrivere libri di storia e lavorare come giornalista per testate britanniche e americane. Questo fa di me, come moglie di un uomo politico, un personaggio strano per gli standard polacchi, ma, fino al 2015, sono stata più oggetto di curiosità che di rabbia. Non ho mai avuto esperienze dirette di antisemitismo e non ho mai avvertito ostilità nei miei confronti; quando pubblicai un libro di cucina polacca, inteso, fra l’altro, a ribaltare gli stereotipi negativi sulla Polonia all’estero, la reazione all’interno del paese, anche tra gli chef, fu ampiamente positiva, anche se un po’ perplessa. Ho cercato inoltre il più possibile di tenermi fuori dalla politica, evitando la televisione polacca se non per parlare dei miei libri.


Ma dopo la vittoria di Diritto e Giustizia iniziarono a uscire all’estero articoli negativi sul governo, e la colpa fu data a me. Apparvi in copertina su due riviste favorevoli al regime, «wSieci»7 e «Do Rzeczy»8 (in entrambe lavorano nostri ex amici), additata come l’ebrea che, clandestinamente, coordinava la stampa internazionale e ne dirigeva le campagne antipolacche; una di esse inventò fandonie sulla mia famiglia per farla apparire più losca. Storie simili furono trasmesse nei notiziari serali della televisione di Stato, insieme a un’altra, del tutto inventata, secondo cui Diritto e Giustizia mi aveva fatto licenziare da un think tank per cui non lavoravo.9 Alla fine smisero di scrivere di me: i servizi negativi sulla Polonia divennero troppo diffusi sulla stampa internazionale per potere essere coordinati da una sola persona, anche da una sola persona ebrea, ma, naturalmente, il tema ricorre ogni tanto sui social media. Durante la campagna elettorale europea di mio marito, ad alcuni della sua squadra furono poste più domande su di me e la mia «attività antipolacca» che su di lui. Mi piaccia o no, faccio parte di questa storia.


All’inizio tutto ciò mi diede l’impressione di una sorta di déjà-vu. Ricordavo di aver letto il famoso diario tenuto fra il 1935 e il 1944 dallo scrittore romeno Mihail Sebastian. In esso egli racconta di avere assistito nel suo paese a una metamorfosi ancora più radicale. Come me, era ebreo, sebbene non religioso; e la maggior parte dei suoi amici, al pari dei miei, era di destra. Nel diario parla di come, uno per uno, essi furono attirati dall’ideologia fascista quali falene da una fiamma al cui bagliore fosse impossibile sfuggire. Descrive l’arroganza e la sicurezza in se stessi che acquisirono cessando di sentirsi europei, ammiratori di Proust, frequentatori di Parigi, per iniziare a definirsi romeni di «sangue e suolo». Descrive come virarono verso teorie del complotto o si fecero con indifferenza crudeli.


Persone che conosceva da anni gli lanciavano insulti in faccia e poi continuavano a comportarsi come se non fosse successo niente. «È possibile l’amicizia» si chiedeva nel 1937 «con persone che hanno in comune un’intera serie di idee e sentimenti a me estranei, così estranei che basta che varchi la soglia perché all’improvviso tacciano per la vergogna e l’imbarazzo?»10 In un romanzo autobiografico scritto da Sebastian in quello stesso periodo, il narratore offre la sua amicizia a un vecchio conoscente, dal quale è ormai diviso da motivi politici. «No. Ti sbagli» è la risposta. «Noi due non possiamo diventare amici né oggi né mai. Non senti che io profumo di terra?»11


Oggi non è il 1937. Tuttavia, una metamorfosi analoga sta avendo luogo anche ora, sia fra pensatori, scrittori, giornalisti e attivisti politici in Polonia, paese in cui vivo da tre decenni, sia nelle altre società cui diamo il nome collettivo di Occidente. Ovunque, questa metamorfosi sta avvenendo senza la scusa di una crisi economica sulla falsariga di quella che colpì l’Europa e il Nord America negli anni Venti e Trenta del secolo scorso. La recessione del 2008-2009 fu profonda, ma, almeno fino alla pandemia del coronavirus, la crescita era ricominciata. La crisi dei profughi del 2015-2016 fu uno shock, ma venne arginata. Nel 2018, grazie agli accordi conclusi con la Turchia dalla UE e dai suoi maggiori rappresentanti, i profughi dal Nord Africa e dal Medio Oriente avevano perlopiù smesso di venire in Europa.


In ogni caso, le persone di cui parlo in questo libro non sono state colpite da nessuna delle due crisi. Forse non hanno tutte il successo che vorrebbero, ma non sono poveri né contadini. Non hanno perso il lavoro sostituite da lavoratori immigrati. In Europa orientale non sono vittime della transizione politica iniziata nel 1989 né della politica in genere. In Europa occidentale non fanno parte di una sottoclasse di indigenti e non vivono in villaggi dimenticati. Negli Stati Uniti non appartengono a comunità devastate dalle droghe e non frequentano ristoranti popolari a buon mercato: non corrispondono a nessuno dei pigri stereotipi usati per descrivere gli elettori di Trump, neanche a quelli che hanno inventato esse stesse. Al contrario, hanno studiato nelle migliori università, spesso parlano lingue straniere, vivono in grandi città come Londra, Washington, Varsavia, Madrid, e viaggiano all’estero, esattamente come gli amici di Sebastian negli anni Trenta.


A che cosa è dovuta allora questa metamorfosi? Alcuni dei nostri amici erano sempre stati, in segreto, degli autoritari? O le persone con cui facemmo tintinnare i bicchieri, nei primi minuti del nuovo millennio, nei due decenni successivi sono in qualche modo cambiate?


Non esiste un’unica spiegazione, e qui non presenterò né una grandiosa teoria né una soluzione universale. Ma un problema esiste: date le opportune condizioni, qualsiasi società può rivoltarsi contro la democrazia. Anzi, se bisogna fidarsi della storia, le nostre società finiranno tutte per farlo.


Gli antichi filosofi hanno sempre nutrito dubbi sulla democrazia. Platone temeva «opinioni e discorsi del tutto infondati e falsi» dei demagoghi, e paventava che la democrazia potesse essere nient’altro che una tappa sulla strada della tirannia.12 Anche i padri fondatori che in America si schierarono per un governo repubblicano riconoscevano la minaccia che un leader corrotto avrebbe potuto rappresentare per la democrazia, e rifletterono a fondo per creare istituzioni capaci di resistervi. La Convenzione costituzionale del 1787 previde il collegio elettorale quale mezzo per garantire che nessuno con «il talento per il basso intrigo o le piccole manovre per accaparrarsi popolarità», come si espresse Alexander Hamilton, potesse mai divenire presidente degli Stati Uniti.13 Se il collegio elettorale finì per diventare un organo puramente formale, senza alcun potere, e, più recentemente, un meccanismo che in alcuni Stati conferisce a piccoli gruppi di elettori un’influenza sproporzionata, esso fu concepito in origine come qualcosa di ben diverso: avrebbe dovuto essere una sorta di comitato di revisione, un gruppo d’élite di legislatori e possidenti incaricato di scegliere il presidente rifiutando se necessario, per evitare gli «eccessi della democrazia», la scelta del popolo.


Hamilton fu uno dei tanti che, nell’America coloniale, lessero e rilessero la storia della Grecia e di Roma cercando di imparare come evitare che una nuova democrazia potesse trasformarsi in una tirannia. John Adams, ormai anziano, rilesse ancora una volta Cicerone, che a Roma aveva cercato di fermare il declino della repubblica, e lo citò nelle sue lettere a Thomas Jefferson. Essi volevano costruire in America una democrazia sulla base del dibattito razionale, della ragione e del compromesso. Ma non si facevano illusioni sulla natura umana: sapevano che gli uomini rischiavano a volte di soccombere alle «passioni», per usare il loro termine antiquato. Sapevano che ogni sistema politico basato sulla logica e sulla razionalità avrebbe sempre corso il rischio di un’esplosione di irrazionalità.


Nel XX secolo i loro successori hanno cercato di definire ulteriormente quell’irrazionalità e quelle «passioni», e di capire chi potrebbe essere attratto da un demagogo e perché. Hannah Arendt, la prima filosofa del totalitarismo, descrisse la «personalità autoritaria» in questi termini: un «essere umano completamente isolato che, senza alcun vincolo sociale con i familiari, gli amici, i compagni e i conoscenti, senta di avere un posto nel mondo esclusivamente mercé l’appartenenza al movimento, al partito».14 Theodor Adorno, uno dei tanti intellettuali che fuggirono dalla Germania nazista in America, indagò ulteriormente questo tema. Influenzato da Freud, cercò di trovare la fonte della personalità autoritaria nella prima infanzia, forse anche in un’omosessualità repressa.


Più recentemente Karen Stenner, un’economista comportamentale che iniziò a condurre ricerche sui tratti della personalità due decenni fa, ha affermato che in ogni paese circa un terzo della popolazione mostra quella che lei chiama una predisposizione autoritaria, termine più adatto di «personalità» perché meno rigido. Una predisposizione autoritaria, che fa prediligere l’omogeneità e l’ordine, può essere presente senza necessariamente manifestarsi; come può essere presente tacitamente anche il suo opposto, una predisposizione «libertaria», che fa prediligere la varietà e la differenza. La definizione di «autoritarismo» di Stenner non è politica e non coincide con «conservatorismo». L’autoritarismo fa presa, semplicemente, su chi non tollera la complessità, e in questo istinto non c’è assolutamente nulla di intrinsecamente «di sinistra» o «di destra». È un istinto antipluralista, che induce a diffidare di coloro che la pensano diversamente e crea un’allergia per i dibattiti accesi. Che chi ne è portatore derivi in ultima istanza la sua posizione politica dal marxismo o dal nazionalismo è irrilevante. Si tratta di un’impostazione mentale, non di un insieme di idee.15


I teorici, tuttavia, tralasciano spesso di prendere in esame un altro elemento cruciale nel declino della democrazia e nello sviluppo dell’autocrazia. La mera esistenza di persone che per i demagoghi nutrono ammirazione o si sentono più a proprio agio nelle dittature non spiega fino in fondo perché i demagoghi vincano. Il dittatore vuole il potere, ma come fa a raggiungere quella parte della popolazione che la pensa come lui? Il politico illiberale vuole indebolire il sistema giudiziario per accrescere il suo potere, ma come fa a convincere gli elettori ad accettare le sue misure? Nell’antica Roma, Cesare disponeva di scultori che riproducevano la sua immagine. Nessun autoritario contemporaneo può avere successo senza il loro equivalente moderno: scrittori, intellettuali, panflettisti, blogger, spin doctors, produttori di programmi televisivi e creatori di memi capaci di vendere la sua immagine al pubblico. Gli autoritari hanno bisogno di persone che organizzino la rivolta o il colpo di Stato. Ma hanno bisogno anche di persone che sappiano usare un linguaggio giuridico sofisticato, di persone in grado di argomentare la tesi che infrangere la Costituzione o alterare la legge è la cosa giusta da fare. Hanno bisogno di persone che diano voce alle lamentele, manipolino lo scontento, canalizzino rabbia e paura e prospettino un futuro diverso. Hanno bisogno, in altre parole, di membri dell’élite intellettuale e colta che li aiutino a muovere guerra al resto dell’élite intellettuale e colta, anche se quest’ultima include loro compagni di università, colleghi e amici.


Nel Tradimento dei chierici, un libro del 1927, il saggista francese Julien Benda osservò e descrisse le élite autoritarie del suo tempo ben prima che chiunque altro si rendesse conto della loro importanza. Se in questo anticipò Arendt, a preoccuparlo non erano le «personalità autoritarie» in quanto tali, bensì le singole persone che sostenevano l’autoritarismo che egli già vedeva assumere forme di sinistra e di destra in tutta Europa. Benda raccontò come ideologi di estrema destra e di estrema sinistra cercassero di promuovere o la «passione di classe», nella forma del marxismo sovietico, o la «passione di nazione», nella forma del fascismo, e li accusò entrambi di tradire il primo compito dell’intellettuale, la ricerca della verità, a favore di particolari cause politiche.16 Sarcasticamente, chiamò tali intellettuali infedeli «chierici». Dieci anni prima del Grande Terrore di Stalin e sei anni prima che Hitler salisse al potere, egli temeva già che gli scrittori, i giornalisti e i saggisti convertitisi in imprenditori politici e propagandisti avrebbero spinto intere civiltà ad atti di violenza. E così avvenne.


Il crollo della democrazia liberale, se avverrà, non assumerà nel nostro tempo la stessa forma che assunse negli anni Venti o Trenta. Ma richiederà sempre una nuova élite, una nuova generazione di «chierici». Il tracollo di un’idea dell’Occidente, o di quello che viene a volte chiamato «l’ordine liberale occidentale», avrà bisogno di pensatori, intellettuali, giornalisti, blogger, scrittori e artisti che logorino i nostri attuali valori e immaginino il nuovo sistema a venire. Essi potranno provenire da posizioni diverse: per Benda, fra i «chierici» c’erano ideologi sia di destra sia di sinistra. Esistono tuttora entrambi. Una sensibilità autoritaria è indiscutibilmente presente in una generazione di agitatori universitari di estrema sinistra che cercano di decretare come i professori debbano insegnare e che cosa gli studenti possano dire. È presente negli istigatori delle folle di Twitter che cercano di abbattere personaggi pubblici e persone comuni per avere violato codici verbali non scritti. Era presente fra gli intellettuali convertitisi in spin doctors del Partito laburista britannico per impedire qualunque messa in discussione della leadership di Jeremy Corbyn, anche quando divenne chiaro che il suo programma di estrema sinistra sarebbe stato respinto dal paese. Era presente anche fra gli attivisti laburisti che prima negarono e poi sminuirono l’antisemitismo diffuso all’interno del partito.


Ma sebbene il potere culturale della sinistra autoritaria sia in crescita, gli unici «chierici» moderni che abbiano conquistato un vero potere politico nelle democrazie occidentali, gli unici che operino all’interno di governi, che partecipino a coalizioni di governo, che guidino partiti politici importanti, sono membri di movimenti che siamo abituati a chiamare di «destra». Si tratta, è vero, di un particolare tipo di destra, che ha poco in comune con la maggior parte dei movimenti politici così definiti fin dalla seconda guerra mondiale. I conservatori britannici, i repubblicani americani, gli anticomunisti dell’Europa orientale, i cristiano-democratici tedeschi e i gollisti francesi provengono da tradizioni diverse, ma in quanto gruppo erano tutti fedeli, almeno fino a epoca recente, non solo alla democrazia rappresentativa, ma alla tolleranza religiosa, all’indipendenza della magistratura, alla libertà di stampa e di parola, all’integrazione economica, alle istituzioni internazionali, all’alleanza transatlantica e a un’idea politica di «Occidente».


La nuova destra, invece, non vuole affatto conservare o preservare ciò che esiste. Nell’Europa continentale disprezza i democratici cristiani, che dopo l’incubo della seconda guerra mondiale usarono la loro base politica nella Chiesa per fondare l’Unione europea. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito ha rotto con il vecchio conservatorismo burkeano con la «c» minuscola, che diffida dei rapidi cambiamenti in tutte le loro forme. Sebbene odi il termine, la nuova destra è più bolscevica che burkeana: è composta da uomini e donne decisi a rovesciare, aggirare o minare le istituzioni esistenti, distruggere ciò che esiste.


Questo libro parla di questa nuova generazione di «chierici» e della nuova realtà che essi stanno creando, a partire da quelli che conosco in Europa orientale per passare alla storia diversa ma parallela della Gran Bretagna, altro paese in cui ho profondi legami, e finire con gli Stati Uniti, dove sono nata, con qualche tappa altrove. Le persone di cui parlerò vanno da ideologi nativisti a saggisti politici di nobili principi; alcuni di loro scrivono libri raffinati, altri lanciano virali teorie del complotto. Alcuni sono sinceramente motivati dalle stesse paure, la stessa rabbia e lo stesso profondo desiderio di unità che motiva i loro lettori e seguaci. Alcuni si sono radicalizzati in rabbiosi scontri con la sinistra culturale, o perché disgustati dalla debolezza del centro liberale. Alcuni sono cinici e opportunisti: adottano un linguaggio estremista o autoritario per conquistare potere o fama. Alcuni sono apocalittici, convinti che le loro società abbiano fallito e debbano essere ricostruite, qualunque sia il risultato. Alcuni sono profondamente religiosi. Alcuni amano il caos, o cercano di promuoverlo come preludio all’imposizione di un nuovo tipo di ordine. Tutti cercano di ridefinire le proprie nazioni, di riscrivere contratti sociali e, a volte, di cambiare le regole della democrazia per non perdere mai il potere. Alexander Hamilton mise in guardia contro di essi, e Cicerone li combatté. Alcuni di loro erano un tempo miei amici.


II


Come vincono i demagoghi

Monarchia, tirannia, oligarchia, democrazia: questi modi di organizzare la società erano tutti familiari a Platone e Aristotele più di duemila anni fa. Invece lo Stato illiberale a partito unico, ora presente in tutto il mondo – si pensi alla Cina, al Venezuela, allo Zimbabwe –, fu sviluppato per la prima volta da Lenin in Russia a partire dal 1917. Nei manuali di scienze politiche il futuro il fondatore dell’Unione Sovietica sarà sicuramente ricordato non solo per le sue convinzioni marxiste, ma come l’inventore di questa duratura forma di organizzazione politica. È il modello che oggi molti autocrati mettono in pratica un po’ ovunque.


A differenza del marxismo, lo Stato illiberale monopartitico non è una filosofia. È un meccanismo per mantenere il potere e funziona benissimo con numerose ideologie. Funziona perché definisce con chiarezza chi può divenire l’élite: l’élite politica, l’élite culturale, l’élite finanziaria. Nelle monarchie della Francia e della Russia prerivoluzionarie il diritto a governare era assegnato all’aristocrazia, definita in base a rigidi codici di lignaggio ed etichetta. Nelle moderne democrazie occidentali il diritto a governare è assegnato, almeno in teoria, tramite differenti forme di competizione: campagne elettorali e votazioni, test meritocratici che determinano l’accesso all’istruzione superiore e alla pubblica amministrazione, liberi mercati. Della miscela fanno solitamente parte anche gerarchie sociali antiquate, ma nella Gran Bretagna, nell’America, nella Francia e, fino a tempi recenti, nella Polonia moderne, la maggior parte della gente riteneva la competizione democratica il modo più giusto ed efficiente per distribuire il potere. A governare devono essere i politici più accattivanti e competenti. Nelle istituzioni statali, come la magistratura e la pubblica amministrazione, devono esserci persone qualificate. Le competizioni fra loro devono svolgersi, per garantire un risultato equo, alla pari.


Lo Stato monopartitico di Lenin si basava su valori diversi. Esso rovesciò l’ordine aristocratico, ma non lo sostituì con un modello competitivo. Lo Stato monopartitico bolscevico non era solo antidemocratico; era anche anticompetitivo e antimeritocratico. I posti nelle università e nella pubblica amministrazione e i ruoli nel governo e nell’industria non andavano ai più volenterosi o capaci: andavano ai più fedeli. Non si faceva carriera grazie al talento o all’industriosità, ma alla disponibilità a conformarsi alle regole del partito. Se queste regole cambiarono da un periodo all’altro, avevano tuttavia una certa coerenza. Escludevano generalmente i membri dell’ex élite al potere e i loro figli, nonché gruppi etnici sospetti. Favorivano chi proveniva dalla classe operaia. Soprattutto, favorivano chi professava ad alta voce la propria fede nel partito, frequentava le sue riunioni e partecipava a manifestazioni pubbliche di entusiasmo. A differenza di un’oligarchia ordinaria, lo Stato monopartitico consente la mobilità verso l’alto: i veri credenti possono fare carriera, una prospettiva particolarmente attraente per persone che il regime o la società precedenti non hanno promosso. Hannah Arendt notò dagli anni Quaranta l’attrazione esercitata dall’autoritarismo su persone piene di risentimenti e che si sentivano fallite; già allora scrisse infatti che «i regimi totalitari sostituiscono invariabilmente le persone di talento, a prescindere dalle loro simpatie, con eccentrici e imbecilli la cui mancanza d’intelligenza e di creatività offre dopotutto la migliore garanzia di sicurezza».1


Un ruolo importante nel sistema monopartitico di Lenin lo svolse anche il disprezzo che egli nutriva per l’idea di Stato neutrale, funzionari pubblici apolitici e media obiettivi. La libertà di stampa, scrisse, «è un inganno». E derise la libertà di riunione definendola una «frase vuota». Quanto alla democrazia parlamentare in sé, non era altro che «una macchina che permette alla borghesia di schiacciare la classe operaia».2 Nell’immaginazione bolscevica la stampa poteva essere libera e le istituzioni pubbliche equanimi, ma soltanto una volta poste, tramite il partito, sotto il controllo della classe operaia.


L’irrisione dell’estrema sinistra per le istituzioni competitive della «democrazia borghese» e per il capitalismo, il suo cinismo sulla possibilità di qualsiasi obiettività nei media, nella pubblica amministrazione e nella magistratura hanno da tempo anche una versione di destra. L’esempio a cui si è soliti ricorrere è la Germania di Hitler. Ma ne esistono molti altri, dalla Spagna di Franco al Cile di Pinochet. Il Sudafrica dell’apartheid era uno Stato monopartitico di fatto, che corrompeva la sua stampa e il suo sistema giudiziario per escludere i neri dalla vita politica e promuovere gli interessi degli afrikaner, i sudafricani bianchi discendenti in massima parte dai coloni olandesi, che nell’economia capitalista creata dall’impero britannico non stavano avendo successo.


È vero che nel Sudafrica dell’apartheid esistevano più partiti, ma uno Stato monopartitico non è necessariamente uno Stato senza partiti di opposizione. Se il Partito comunista di Lenin e il Partito nazista di Hitler arrestavano e ammazzavano gli oppositori, esistono molti esempi di Stati a partito unico, anche non poco violenti, che hanno permesso una qualche limitata opposizione, per quanto solo a fini di propaganda. Fra il 1945 e il 1989 molti partiti comunisti dell’Europa orientale permisero ai loro oppositori, partiti contadini, pseudodemocristiani o, nel caso della Polonia, un piccolo partito cattolico, di svolgere un ruolo nello Stato, nei loro «parlamenti» manipolati e nella vita pubblica. Negli ultimi decenni si sono visti molti esempi, dalla Tunisia di Ben Ali al Venezuela di Hugo Chávez, di Stati di fatto monopartitici che controllavano le istituzioni statali e limitavano la libertà di associazione e di parola, ma permettevano l’esistenza di un’opposizione simbolica, fintanto che essa non minacciava davvero il partito al potere.


Tale forma di dittatura morbida non richiede violenze di massa per preservarsi. Essa fa affidamento sulle élite per dirigere la burocrazia, i media statali, i tribunali e, in alcuni casi, le aziende di Stato. I loro membri, moderni «chierici», sanno qual è il proprio ruolo: difendere i leader, per quanto le loro dichiarazioni siano disoneste, la loro corruzione spaventosa e il loro impatto sulla gente comune e sulle istituzioni disastroso. In cambio, sanno che saranno ricompensati e promossi. Gli stretti collaboratori del leader del partito possono divenire ricchissimi: ottenere contratti redditizi o seggi in consigli d’amministrazione di società statali senza dover competere per essi. Altri possono contare su stipendi del governo e sulla protezione da accuse di corruzione o incompetenza. Per quanto siano inefficienti o peggio, non perderanno il lavoro.


Nel mondo esistono numerose versioni dello Stato monopartitico illiberale, dalla Russia di Putin alle Filippine di Duterte. In Europa sono molti i partiti potenzialmente illiberali, e alcuni di essi, per esempio in Italia e Austria, hanno fatto parte di coalizioni di governo. Ma, mentre scrivo, solo due partiti illiberali del genere hanno il monopolio del potere: Diritto e Giustizia in Polonia e il partito Fidesz di Viktor Orbán in Ungheria. Entrambi hanno compiuto passi non da poco verso la distruzione delle istituzioni indipendenti, ed entrambi hanno coperto di benefici i loro membri. Non solo Diritto e Giustizia ha cambiato la legge sulla pubblica amministrazione rendendo più facile licenziare professionisti e assumere tirapiedi del partito, ma ha anche licenziato dirigenti di aziende di Stato polacche. Persone con esperienza nella gestione di grandi società sono state sostituite da membri del partito e loro amici e parenti. Tipico è il caso di Janina Goss, fanatica produttrice di marmellate e conserve e vecchia amica di Kaczyński, dalla quale il primo ministro si fece una volta prestare una grossa somma per pagare cure mediche per la madre. Dopo aver lavorato nel partito a basso livello, Goss è ora stata nominata membro del consiglio di amministrazione della Polska Grupa Energetyczna, la più grande compagnia elettrica della Polonia, che dà lavoro a quarantamila persone. Altrettanto ricco e privilegiato è in Ungheria il genero di Viktor Orbán. È stato accusato di avere frodato la UE, ma nessuna indagine su di lui è giunta mai fino in fondo e lo Stato ungherese ha lasciato cadere il caso.


Cose di questo genere possono essere chiamate con molti nomi: nepotismo, occupazione dello Stato, corruzione. Ma, volendo, possono essere definite anche in termini positivi, come la fine delle odiose idee di meritocrazia, competizione politica e libero mercato, che, per definizione, non sono mai andate a vantaggio dei meno capaci. Un sistema truccato e non competitivo suona male se si vuole vivere in una società retta da persone di talento. Ma se non è questo il tuo interesse principale, che cos’ha di male?


Se si crede, come credono ora molti dei miei vecchi amici, che la Polonia starà meglio se governata da persone che proclamano ad alta voce un certo tipo di patriottismo, persone fedeli al leader del partito, persone che, per citare le parole dello stesso Kaczyński, rappresentano «il genere migliore di polacchi»,3 allora uno Stato monopartitico è più giusto di una democrazia competitiva. Perché si dovrebbe consentire a più partiti di competere ad armi pari se a meritare di andare al governo è soltanto uno di essi? Perché si dovrebbe permettere alle imprese di competere in un libero mercato se a essere fedeli al partito, e quindi meritare veramente di arricchirsi, sono soltanto alcune di esse?


Questa tendenza s’è rafforzata, in Polonia come in Ungheria e molti altri paesi ex comunisti, per la diffusa sensazione che le regole che disciplinano la concorrenza siano viziate perché le riforme degli anni Novanta, quando la privatizzazione di massa e l’imposizione delle norme del mercato libero rivoluzionarono le economie, permisero a troppi ex comunisti di riciclarsi, convertendo il potere politico di cui godevano prima in potere economico. Sia Orbán sia Kaczyński definiscono spesso i loro oppositori «comunisti» e, in tal modo, si sono conquistati ammiratori anche all’estero. Nel caso di Orbán, i suoi principali avversari, almeno all’inizio della sua carriera, erano effettivamente ex comunisti, ribattezzatisi «socialisti», quindi quei discorsi avevano una certa presa.


Ma in entrambi i paesi questo appello all’«anticomunismo», che sembrava tanto forte un quarto di secolo fa, appare ora debole e superficiale. Almeno dal 2005 la Polonia è guidata esclusivamente da presidenti e primi ministri che esordirono in politica nel movimento anticomunista di Solidarność. I principali rivali di Kaczyński appartengono al centrodestra liberale, non alla sinistra. Né esiste nel mondo delle imprese polacco alcun potente monopolio ex comunista, almeno non a livello nazionale, livello al quale tanti si sono arricchiti senza godere di speciali relazioni politiche. Anzi, l’ex comunista più in vista nella politica polacca in questo momento è Stanisław Piotrowicz, ex procuratore comunista all’epoca della legge marziale, ora candidato di Diritto e Giustizia alla Corte costituzionale. Che sia un grande nemico dell’indipendenza giudiziaria non sorprende. Anche Orbán affida regolarmente ruoli elevati a ex comunisti. L’«anticomunismo» di entrambi i governi è un’altra forma di ipocrisia.


Tuttavia, i sinistri ammonimenti sull’influenza del «comunismo» continuano a fare presa sugli ideologi di destra della mia generazione. Ad alcuni di essi sembra una spiegazione dei loro fallimenti personali, o semplicemente della loro sfortuna. Non tutti, fra i dissidenti degli anni Settanta, sono divenuti dopo il 1989 primi ministri, autori di bestseller o stimati «intellettuali pubblici», e per molti questo è un motivo di cocente risentimento. Se si è convinti di meritare il potere, la motivazione per attaccare l’élite, controllare il sistema giudiziario e manipolare la stampa per soddisfare le proprie ambizioni è forte. Il risentimento, l’invidia e soprattutto la convinzione che il «sistema» sia ingiusto, non solo nei confronti del paese, ma di se stessi, sono sentimenti che svolgono un ruolo importante fra gli ideologi nativisti della destra polacca, tanto che distinguere le loro motivazioni personali da quelle politiche non è facile.


È senza dubbio questo che ho imparato dalla storia di Jacek Kurski, direttore della televisione di Stato polacca e principale ideologo dello Stato monopartitico. I suoi esordi avvennero nello stesso luogo e nello stesso periodo di quelli del fratello, Jarosław Kurski, direttore del maggiore e più influente quotidiano liberale polacco. Nati nella stessa famiglia, essi hanno due idee di Polonia ben diverse. Sono due facce della stessa medaglia polacca.


Per capire i fratelli Kurski è importante sapere da dove vengono: la città portuale di Danzica, sul Mar Baltico, dove le gru dei cantieri navali si profilano come gigantesche cicogne contro le facciate degli antichi edifici anseatici. Lì i Kurski giunsero alla maggiore età all’inizio degli anni Ottanta, quando Danzica era nello stesso tempo il centro del movimento anticomunista in Polonia e una città squallida e lontana da tutto, che viveva in egual misura di intrighi e noia.


In quel particolare momento, in quel particolare luogo, la famiglia Kurski si distingueva. Anna Kurska era un avvocato e un giudice, attiva nel sindacato Solidarność, la principale organizzazione di opposizione del tempo. A casa Kurski la porta era sempre aperta; passava gente tutto il giorno, sperando di discutere qualche urgente questione legale e magari ottenere qualche consiglio. Molti si fermavano a chiacchierare, bere del tè, fumare, bere di nuovo del tè e di nuovo chiacchierare. Nessuno telefonava prima, nella Danzica degli anni Ottanta. La gente non aveva il telefono o, se l’aveva, temeva di essere intercettata.


Anche i figli di Anna divennero degli attivisti. Il senatore Bogdan Borusewicz, fra i principali esponenti del sindacato clandestino dell’epoca, mi ha raccontato che la loro scuola era diffusamente nota per essere zrewoltowane, ribelle: contestava il sistema comunista. Jarosław era il rappresentante della sua classe nel «parlamento» scolastico, iniziativa dell’opposizione, e faceva inoltre parte di un gruppo che leggeva testi polacchi di filosofia e letteratura di tendenza conservatrice. Jacek, un po’ più giovane, era meno interessato alla battaglia intellettuale contro il comunismo. Si vedeva piuttosto come un militante e un estremista. Dopo che nel 1981 la proclamazione della legge marziale ebbe posto fine al breve periodo di esistenza legale di Solidarność, entrambi i fratelli parteciparono a cortei, gridarono slogan, sventolarono striscioni. Entrambi lavorarono prima al giornale clandestino della scuola e poi a «Solidarność», il quotidiano d’opposizione illegale del sindacato omonimo.


Nell’ottobre 1989 Jarosław divenne il responsabile dei rapporti con la stampa di Lech Wałęsa, il leader di Solidarność, che, dopo l’elezione del primo governo non comunista della Polonia, si sentiva ignorato e abbattuto; nel caos creato da riforme economiche rivoluzionarie e una rapida svolta politica, non sembrava a prima vista esserci alcun ruolo per lui. Alla fine, nel dicembre 1990, Wałęsa si candidò alla presidenza e vinse, grazie in parte all’entusiasmo che riuscì a suscitare in quanti erano già risentiti per i compromessi che avevano accompagnato il crollo negoziato del comunismo in Polonia, in particolare la decisione di non arrestare gli ex comunisti. L’esperienza fece capire a Jarosław che la politica, soprattutto la politica del risentimento, non faceva per lui: «Vidi che cosa significava in realtà fare politica … orribili intrighi, rimestare nel fango, campagne diffamatorie».4


Avvenne allora anche il suo primo incontro con Kaczyński, che avrebbe in seguito fondato Diritto e Giustizia: un uomo che «in tutto ciò», mi ha detto Jarosław, «è un maestro. Nel suo pensiero politico non esistono incidenti. … Se è successo qualcosa, è per una macchinazione dal di fuori. Cospirazione è la sua parola preferita». (A differenza di Jarosław, Jacek non ha parlato con me. Un comune amico – ne abbiamo diversi – mi ha dato il suo numero di cellulare privato; ho mandato un messaggio, poi ho chiamato un paio di volte e lasciato altri messaggi. Dopodiché ho chiamato ancora e qualcuno, a sentire il mio nome, è scoppiato in una risata, l’ha ripetuto ad alta voce e ha detto: «Certamente, certamente». Il presidente della televisione polacca mi avrebbe certamente richiamato. Non l’ha mai fatto.)


Successivamente, Jarosław finì per lasciare il suo incarico e andò a lavorare alla «Gazeta Wyborcza», quotidiano fondato nel 1989, all’epoca delle prime elezioni parzialmente libere in Polonia. Nella nuova Polonia avrebbe potuto contribuire a costruire qualcosa, a creare una stampa libera, mi ha detto, e questo gli bastava. Jacek prese la direzione esattamente opposta. «Sei un idiota» disse al fratello quando seppe che aveva lasciato il lavoro per Wałęsa. Sebbene fosse ancora alle scuole superiori, era già interessato a una carriera politica in prima persona, e giunse addirittura a suggerire di prendere lui il posto di Jarosław, dicendo che tanto nessuno se ne sarebbe accorto: «Prima c’era Jarek, adesso c’è Jacek. Che differenza fa?».


Jacek, a sentire Jarosław, è stato sempre «affascinato» dai fratelli Kaczyński, che dimostrarono fin dal primo momento la loro passione per i complotti, gli intrighi e l’invenzione di cospirazioni. Nello stesso tempo, non era particolarmente interessato agli usi e costumi del conservatorismo polacco, ai libri e ai dibattiti che avevano affascinato suo fratello. Un’amica di entrambi mi ha detto che, secondo lei, Jacek non ha una vera filosofia politica. «È un conservatore? Non mi sembra, almeno non nel senso stretto del termine. È una persona che vuole arrivare in cima.»5 E, dalla fine degli anni Ottanta in poi, puntò in quella direzione.


In quanto accadde in seguito svolsero un ruolo importante sentimenti che non ricevono di solito molta attenzione da parte dei grandi teorici della politica. Jacek Kurski non è un conformista «completamente isolato» del tipo descritto da Hannah Arendt, e non incarna la banalità del male: non è un burocrate che esegue ordini. Sulla democrazia, un sistema politico che non difende né attacca, non ha mai detto nulla di meditato o interessante. Non è un ideologo o un vero credente. È un uomo che vuole il potere e la fama che sente essergli stati ingiustamente negati. Per capire Jacek, bisogna mettere da parte i manuali di scienze politiche e studiare, invece, gli antieroi della letteratura. Guardare allo Iago di Shakespeare, che manipola Otello giocando sulla sua insicurezza e la sua gelosia. O studiare il Julien Sorel di Stendhal, che, quando la sua amante diviene un ostacolo al suo avanzamento personale, la uccide.


Il risentimento, la vendetta e l’invidia, non il completo isolamento, fanno da sfondo a ciò che successe dopo. Jacek finì per volgersi contro Wałęsa, forse perché quest’ultimo non gli aveva dato il lavoro che egli pensava di meritare. Si sposò e divorziò; citò più volte in giudizio il giornale del fratello, e il giornale rispose citandolo in giudizio a sua volta. Fu coautore di un libro focoso e realizzò un documentario complottista su forze segrete schierate contro la destra polacca. Entrambe le opere gli diedero un certo prestigio fra coloro che, come lui, s’erano sentiti ingiustamente esclusi dal potere nei primi venticinque anni della Polonia postcomunista.


Jacek aderì inoltre, in momenti diversi, a differenti partiti o fazioni, a volte alquanto marginali e a volte più centristi. Fu membro per un mandato del Parlamento polacco, dove non lasciò alcun segno. E fu membro, sempre per un mandato, anche del Parlamento europeo, non lasciando alcun segno nemmeno lì. Si specializzò nelle cosiddette black PR, pubbliche relazioni intese a distruggere la reputazione della persona presa a bersaglio. È tristemente famoso per avere contribuito a minare la campagna presidenziale di Donald Tusk (che sarebbe infine divenuto primo ministro della Polonia e poi presidente del Consiglio europeo) diffondendo fra l’altro la voce che Tusk aveva un nonno che s’era volontariamente arruolato nella Wehrmacht, l’esercito nazista. Quando gli fu chiesta ragione di questa falsa notizia, egli, sembra, confessò a un piccolo gruppo di giornalisti che, certo, il fatto non era vero, ma «ciemny lud to kupi», frase che, tradotta approssimativamente, significa: «I contadini ignoranti se la berranno».6 Bogdan Borusewicz, leggendario leader di Solidarność, l’ha definito una persona «senza scrupoli».7


Ma, pur avendo passato anni nella vita pubblica, Jacek non ottenne il plauso popolare a cui pensava, in quanto attivista di Solidarność da adolescente, di avere diritto. Il che, secondo suo fratello, fu per lui un’enorme delusione: «Per tutta la vita aveva creduto che gli fosse dovuta una brillante carriera … che sarebbe divenuto primo ministro, che era predestinato a fare qualcosa di grande. Ma il destino aveva voluto che fallisse ogni volta. … E giunse alla conclusione che si trattava di una grande ingiustizia». Jarosław, invece, ebbe successo: divenne un membro dell’establishment, direttore di quello che era probabilmente il quotidiano più importante del paese.


Nel 2015 Kaczyński strappò Jacek alla relativa oscurità del sottobosco della politica nominandolo direttore della televisione di Stato. Per lui fu, si direbbe, l’occasione per esorcizzare le sue frustrazioni. Provate a immaginare che cosa accadrebbe alla BBC se finisse in mano a un sito complottista come InfoWars: avrete grosso modo un’idea di quello che è successo alla Telewizja Polska, l’emittente pubblica polacca, che gestisce diversi canali radiofonici e televisivi ed è tuttora la principale fonte di informazioni per gran parte della popolazione. La distruzione a opera di Jacek dei media statali è stata anticostituzionale: dopo il 1989 la televisione di Stato sarebbe dovuta divenire una televisione pubblica, politicamente neutrale come la BBC. Ma è stata egualmente una distruzione capillare, opera di un uomo spinto dalla sete di vendetta.


I giornalisti più noti furono licenziati e sostituiti con gente che aveva precedentemente lavorato per la stampa di estrema destra, ai margini della vita pubblica. Molto rapidamente, i notiziari cessarono di fingere qualunque obiettività o neutralità, iniziando a distorcere le notizie e a darsi a vendette su larga scala contro persone e organizzazioni invise al partito al governo. Tali vendette non si sono rivelate soltanto perverse, ma letali. Per mesi e mesi una campagna feroce e insistente prese di mira il popolare sindaco di Danzica, Paweł Adamowicz, che fu accusato di tutto, dalla corruzione al tradimento. Qualcuno stava ascoltando: il 13 gennaio 2019 un criminale uscito da poco di prigione, dove guardava la televisione di Stato, saltò sul palco nel momento culminante di un concerto di beneficenza e affondò un coltello nel petto di Adamowicz. Il sindaco morì il giorno dopo.


Né Kurski né Kaczyński hanno mai riconosciuto il ruolo svolto dal canale televisivo nel radicalizzare l’assassino. Invece di scusarsi, la Telewizja Polska ha rivolto il suo veleno contro altri, fra cui il nuovo sindaco di Danzica, Aleksandra Dulkiewicz, che ora ha bisogno di una guardia del corpo. Minacce di morte sono state ricevute anche dal sindaco di Poznań e molti altri sindaci. In Polonia il tabù contro la violenza politica è stato infranto e nessuno è sicuro di chi potrebbe essere la prossima vittima.


Eppure, non c’è stata alcuna marcia indietro, alcun riconoscimento che la martellante propaganda dell’odio potrebbe ispirare un altro assassinio. Il canale televisivo non professa neanche a parole una qualche imparzialità. Non dà voce a nessun commentatore neutrale. Al contrario, si vanta della propria capacità di manipolare la realtà. Nel 2018 mandò in onda uno spezzone di una conferenza stampa in cui all’allora leader del partito di opposizione, Grzegorz Schetyna, veniva chiesto che cosa il suo partito avesse realizzato negli otto anni passati al governo, dal 2007 al 2015. Dopo la domanda si vede Schetyna fare una pausa e aggrottare le sopracciglia e, a questo punto, il filmato rallenta e finisce. Come se egli non avesse avuto niente da dire.8


In realtà Schetyna aveva parlato per diversi minuti della costruzione di una gran quantità di strade, di investimenti nelle campagne e di progressi in politica estera. Ma quel filmato manipolato, uno dei tanti, fu considerato un tale successo che rimase per diversi giorni in cima al feed di Twitter della Telewizja Polska. Sotto Diritto e Giustizia la televisione di Stato non si limita a fare propaganda di regime; richiama l’attenzione sul fatto che la fa. Non si limita a manipolare e distorcere le informazioni, ma si gloria dei suoi inganni.


Jacek, non tenuto in nessuna considerazione per tanti anni, s’è preso finalmente la sua vendetta. Anche dopo essersi formalmente fatto da parte come regista televisivo – per alcuni all’interno del suo partito iniziava a spingersi troppo oltre –, rimane esattamente dove pensa di dover stare: al centro dell’attenzione, come l’estremista che lancia molotov sulla folla. La sua frustrazione, frutto della sua incapacità di fare carriera in un sistema politico che favoriva la razionalità e la competenza, è stata ora superata. Lo Stato illiberale a partito unico gli si addice alla perfezione; più esso diviene maligno, più paura lui ispirerà e più potere avrà. Il comunismo come nemico da combattere non c’è più. Ma di nemici se ne possono trovare di nuovi. La sua vittoria su di loro farà di lui un uomo ancora più grande.


Da Orwell a Koestler, gli scrittori europei del XX secolo erano ossessionati dalle Grandi Bugie: le imponenti costruzioni ideologiche del comunismo e del fascismo. Per puntellarle si ricorreva a strumenti assurdi e disumani come manifesti che chiedevano fedeltà al Partito o al Leader, camicie brune e camicie nere che marciavano incolonnate, sfilate illuminate da fiaccole, terrorismo della polizia: le Grandi Bugie avevano bisogno del ricorso prolungato alla violenza per imporsi e della minaccia della violenza per perpetuarsi. Richiedevano un’istruzione sotto stretta sorveglianza, il controllo totale della cultura, la politicizzazione del giornalismo, dello sport, della letteratura e delle arti.


I movimenti politici polarizzanti dell’Europa del XXI secolo, invece, chiedono ai loro seguaci molto meno. Non si basano su un’ideologia vera e propria, per cui non hanno bisogno di usare la violenza o il terrore poliziesco. Vogliono che i loro «chierici» li difendano, ma non li obbligano a dichiarare che il nero è bianco, che la guerra è pace e che le fattorie statali hanno raggiunto il 1000 per cento della produzione stabilita dal piano. Per la maggior parte non ricorrono a una propaganda in conflitto con la realtà di tutti i giorni. Eppure hanno tutti a fondamento, se non una Grande Bugia, quella che, come mi ha detto una volta lo storico Timothy Snyder, dovrebbe essere chiamata una Bugia di Media Grandezza. In altre parole, tutti sollecitano i loro seguaci a aderire, almeno per parte del tempo, a una realtà alternativa. A volte tale realtà alternativa si sviluppa organicamente; più spesso viene costruita con cura, con l’aiuto delle moderne tecniche di marketing, della segmentazione del pubblico e di campagne sui social media.


Gli americani, com’è noto, hanno familiarità con i modi in cui una bugia può aumentare la polarizzazione e attizzare la xenofobia. Ben prima di candidarsi alla presidenza, Donald Trump entrò nella politica americana promuovendo quello che è stato chiamato birtherism, un movimento che sosteneva la bugia secondo cui il presidente Barack Obama non era nato in America: una teoria del complotto il cui potere fu gravemente sottovalutato all’epoca. Ma in almeno due paesi europei, Polonia e Ungheria, vediamo ora esempi di che cosa accade quando una Bugia di Media Grandezza, una teoria del complotto, viene propagata prima da un partito politico che ne fa l’asse centrale della sua campagna elettorale, e poi da un partito al governo, con tutta la forza di un moderno apparato statale centralizzato dietro di esso.


In Ungheria si tratta di una bugia ben poco originale: quella, ora promossa anche dal governo russo e molti altri, secondo cui il miliardario ebreo ungherese George Soros, evidentemente dotato di poteri sovrumani, sta complottando per distruggere l’Ungheria facendovi deliberatamente giungere un’infinità di migranti. Questa teoria, come molte teorie del complotto di successo, ha alla base un granello di verità: una volta Soros disse che la ricca Europa, per aiutare le nazioni più povere del Medio Oriente a far fronte alla crisi dei profughi, avrebbe potuto compiere un gesto umanitario e accogliere un numero maggiore di siriani. Ma la propaganda in Ungheria, nonché su una miriade di siti web europei e americani di estrema destra, suprematisti bianchi e «identitari», va ben oltre. Insinua che Soros sia il principale istigatore di un complotto ebraico premeditato per sostituire gli europei, e in particolare gli ungheresi, bianchi e cristiani, con musulmani dalla pelle scura. Tali movimenti non vedono nei migranti solo un peso economico o magari un rischio terroristico, ma una minaccia all’esistenza della nazione stessa. Il governo magiaro ha messo in varie occasioni la faccia di Soros su manifesti, sui pavimenti dei vagoni della metropolitana e su volantini, sperando che spaventi gli ungheresi inducendoli a sostenere il governo.


In Polonia la bugia ha perlomeno una sua originalità. È la teoria del complotto di Smolensk, che ossessiona la nostra vecchia amica Anita Gargas e tanti altri: la convinzione che sia stato un efferato complotto a far cadere l’aereo del presidente nell’aprile 2010. La storia ha una presa speciale in Polonia perché il disastro aveva echi storici inquietanti. Il presidente che morì, Lech Kaczyński, si stava recando a una commemorazione dei massacri di Katyń, una serie di omicidi di massa perpetrati nel 1940 in cui, per volontà di Stalin, morirono più di ventunmila ufficiali polacchi: un deliberato assalto a quella che era allora l’élite del paese. A bordo dell’aereo c’erano anche decine di alti esponenti delle forze armate e del mondo politico, molti dei quali erano miei amici. Mio marito conosceva quasi tutti, compresi gli assistenti di volo.


All’incidente fece seguito un’enorme ondata emotiva. La nazione era in preda a una specie di isteria, qualcosa di simile alla follia che s’impadronì degli Stati Uniti dopo l’11 settembre. Gli annunciatori televisivi indossavano, in segno di lutto, cravatte nere; gli amici riuniti nel nostro appartamento di Varsavia parlavano di come, in quella buia e umida foresta russa, la storia si fosse ripetuta. I miei ricordi di quei giorni sono frammentari e caotici. Rammento che andai a comprare un abito nero da indossare alle cerimonie funebri; rammento una delle vedove, così fragile che sembrava a malapena capace di stare in piedi, piangere al funerale del coniuge. Mio marito, che aveva rifiutato l’invito ad accompagnare il presidente in quel viaggio, andava ogni sera all’aeroporto per mettersi sull’attenti all’arrivo delle bare.


All’inizio la tragedia parve unire le persone; dopotutto, su quell’aereo si trovavano politici di tutti i principali partiti. Si svolsero funerali in tutto il paese. Anche Vladimir Putin, allora primo ministro russo, sembrava commosso. La sera dell’incidente andò a Smolensk per incontrare Tusk, all’epoca primo ministro polacco. Il giorno dopo uno dei canali televisivi più seguiti della Russia trasmise Katyń, un film commovente e fortemente antisovietico, diretto da Andrzej Wajda, il più grande regista polacco. Niente di simile è stato mai mostrato a un così vasto pubblico in Russia, né prima né dopo.


Ma l’incidente non unì le persone. Né le unì l’indagine sulla sua causa.


Squadre di esperti polacchi giunsero sul posto il giorno stesso e fecero del loro meglio per identificare i corpi. Poi esaminarono i rottami dell’aereo. Trovata la scatola nera, iniziarono a trascrivere la registrazione di quanto era stato detto nella cabina di pilotaggio. La verità, quando iniziò a emergere, non fu confortante per Diritto e Giustizia e per il suo leader, fratello gemello del presidente defunto. L’aereo era decollato tardi; il presidente aveva probabilmente fretta di atterrare: voleva sfruttare il viaggio per lanciare la sua campagna per farsi rieleggere. Forse la sera prima era stato alzato fino a tardi e aveva bevuto. Mentre si avvicinavano a Smolensk i piloti furono avvertiti che sulla città, in cui non esisteva un vero aeroporto, ma solo una pista d’atterraggio nella foresta, gravava una fitta nebbia; presero in considerazione l’ipotesi di atterrare altrove, ma avrebbe significato un viaggio in macchina di diverse ore per arrivare alla cerimonia. Il presidente parlò brevemente al telefono con il fratello, dopodiché i suoi consiglieri, a quanto pare, insistettero con i piloti perché atterrassero. Alcuni dei consiglieri, violando il protocollo, entrarono e uscirono più volte dalla cabina di pilotaggio durante il volo, e a un certo punto accanto ai piloti andò a sedersi, violando anche in questo caso il protocollo, il capo dell’aeronautica militare. «Zmieścisz się śmiało», coraggio, ce la farete, disse. Pochi secondi dopo l’aereo colpì le cime di alcune betulle, si ribaltò e si schiantò al suolo.


Inizialmente Jarosław Kaczyński, sembra, credeva che si fosse trattato di un incidente. «È colpa tua e dei tabloid» disse a mio marito, cui toccò l’orribile compito di informarlo della tragedia. Intendeva dire che era colpa del governo perché, intimidito dai giornali scandalistici, s’era rifiutato di acquistare nuovi aerei. I risultati delle indagini non furono di suo gradimento. Nell’aereo non c’era niente che non andasse.


Forse, come i tanti che s’affidano a teorie del complotto per dare un senso a tragedie dovute al caso, Kaczyński non poteva accettare l’idea che l’amato fratello fosse morto senza un perché e, forse, ancora più difficile era per lui accettare quello cui le prove facevano pensare: che il presidente e la sua squadra, forse anche sulla spinta di quella telefonata, avevano fatto pressioni sui piloti perché atterrassero, innescando così la catena di eventi che aveva portato al disastro. Forse si sentiva in colpa – il viaggio era stato una sua idea – o provava rimorso. O forse, come Donald Trump, capiva che una teoria del complotto avrebbe potuto aiutarlo a giungere al potere.


Come Trump avrebbe usato il birtherism per alimentare i sospetti contro l’establishment ancora prima di candidarsi, Kaczyński usò la tragedia di Smolensk per galvanizzare i suoi seguaci, conquistare nuovi sostenitori nell’estrema destra e convincerli a non fidarsi del governo e dei media. A volte insinuò che ad abbattere l’aereo potesse essere stato il governo russo. Altre volte incolpò della morte del fratello l’ex partito al governo, ora maggiore partito di opposizione: «L’avete distrutto voi, l’avete ucciso voi, siete delle canaglie!» gridò un giorno in Parlamento.9


Nessuna delle accuse era vera e, in un certo qual modo, egli sembrava saperlo. Forse per prendere un po’ le distanze dalle bugie che si sarebbero dovute raccontare, affidò il compito di promuovere la teoria del complotto a uno dei suoi più vecchi e singolari compagni. Antoni Macierewicz è della stessa generazione di Kaczyński e un anticomunista di lunga data, anche se con qualche strana relazione in Russia e bizzarre abitudini. Il suo comportamento furtivo e le sue ossessioni – ha detto di ritenere i Protocolli degli Anziani di Sion un documento plausibile – hanno addirittura indotto il partito Diritto e Giustizia, nel 2015, a una promessa elettorale: Macierewicz non sarebbe sicuramente divenuto ministro della Difesa.


Ma, dopo la vittoria, Kaczyński si rimangiò la promessa assegnando quella carica proprio a Macierewicz. Questi iniziò immediatamente a istituzionalizzare la menzogna di Smolensk. Istituì una nuova commissione d’inchiesta composta da tipi strampalati, fra cui un etnomusicologo, un pilota in pensione, uno psicologo, un economista russo e altre persone senza alcuna esperienza in incidenti aerei. Il rapporto ufficiale precedente fu rimosso da un sito web del governo. La polizia entrò nelle case degli esperti di aviazione che avevano testimoniato nelle prime indagini, li interrogò e sequestrò i loro computer. Quando Macierewicz si recò a Washington per incontrare i suoi omologhi americani al Pentagono, la prima cosa che fece fu chiedere se l’intelligence statunitense avesse qualche informazione segreta su Smolensk. La reazione fu una diffusa preoccupazione per la salute mentale del ministro.


Quando, alcune settimane dopo le elezioni polacche, le istituzioni europee e i gruppi per i diritti umani iniziarono a reagire alle iniziative del governo di Diritto e Giustizia, si concentrarono sugli attacchi al sistema giudiziario e ai media pubblici. Trascurarono invece l’istituzionalizzazione della teoria del complotto sull’incidente di Smolensk, francamente troppo bizzarra per essere compresa all’estero. E tuttavia la decisione di mettere una fantasia al centro della politica del governo fu d’ispirazione per gran parte di ciò che seguì.


Benché la commissione Macierewicz non abbia mai offerto dell’incidente una spiegazione alternativa credibile, la bugia di Smolensk gettò le basi morali per altre bugie. Chi aveva potuto accettare quell’artificiosa teoria avrebbe potuto accettare qualsiasi cosa. Avrebbe potuto accettare di non vedere mantenuta la promessa di non portare Macierewicz al governo. Avrebbe potuto accettare, anche se si supponeva che Diritto e Giustizia fosse un partito «patriottico» e antirusso, la decisione di Macierewicz di licenziare molti dei più alti comandanti militari del paese, di annullare contratti per l’acquisto di armi, di promuovere persone con legami in Russia, di fare irruzione in una struttura NATO a Varsavia nel cuore della notte. La bugia fornì inoltre alla manovalanza di estrema destra una base ideologica per tollerare altre violazioni. Qualunque errore il partito potesse commettere, qualunque legge potesse infrangere, almeno la «verità» su Smolensk sarebbe stata finalmente rivelata.


La teoria del complotto di Smolensk serviva anche a un altro scopo: a una giovane generazione che non ricordava più il comunismo e a una società in cui gli ex comunisti erano in gran parte scomparsi dalla politica, essa offriva una nuova ragione per diffidare dei politici, degli uomini d’affari e degli intellettuali emersi dalle lotte degli anni Novanta e ora alla guida del paese. Cosa ancora più importante, essa offriva un modo per definire una nuova e migliore élite. Non c’era alcun bisogno di competizioni, di esami o di un buon curriculum. Chiunque professasse di credere alla menzogna di Smolensk era per definizione un vero patriota, e quindi qualificato per un lavoro governativo. E la Polonia, com’è noto, non è l’unico paese in cui questo semplice meccanismo funziona.


La presa emotiva di una teoria del complotto è dovuta alla sua semplicità. Essa spiega fenomeni complessi, rende conto del caso e di accidenti, offre al credente la gratificante sensazione di avere un accesso speciale e privilegiato alla verità. Per coloro che divengono i guardiani dello Stato a partito unico, la ripetizione di tali teorie del complotto offre anche un’altra ricompensa: il potere.


Mária Schmidt non era alla mia festa quell’ultimo dell’anno: la conobbi poco dopo. È una storica, autrice di alcune opere di valore sullo stalinismo magiaro: mi ha aiutato non poco quando io stessa stavo scrivendo sull’argomento. Ci conoscemmo nel 2002, quando m’invitò all’inaugurazione della Terror Háza, il museo della Casa del Terrore a Budapest, che in un’occasione mi conferì un premio. Il museo, che essa dirige tuttora, è dedicato alla storia del totalitarismo in Ungheria. Quando fu inaugurato era, fra i nuovi musei sorti nella metà orientale dell’Europa, uno dei più innovativi.


Fin dal primo giorno, esso fu anche oggetto di aspre critiche. A molti visitatori non piacque la prima sala, in cui su una parete una serie di schermi trasmetteva propaganda nazista e, sulla parete opposta, una serie di schermi trasmetteva propaganda comunista. Se adesso lo è forse di meno, nel 2002 vedere paragonati i due regimi era ancora scioccante. Per altri, il museo non dava sufficiente peso e spazio ai crimini del fascismo, anche se i comunisti avevano guidato l’Ungheria molto più a lungo e quindi il materiale da mostrare sul loro regime era maggiore. A me piacque che, con video e audio e l’uso intelligente degli oggetti, il museo cercasse di raggiungere i più giovani. E mi piacque inoltre che mostrasse come con entrambi i regimi avessero collaborato anche comuni cittadini ungheresi: pensavo che avrebbe potuto aiutare i loro discendenti a capire che l’Ungheria, come ogni paese, deve assumersi la responsabilità della propria politica e della propria storia, evitando l’angusta trappola nazionalista di incolpare dei propri problemi qualcun altro.


Invece è esattamente questa l’angusta trappola nazionalista in cui il paese è ora caduto. Il suo tardivo regolamento di conti con il proprio passato comunista, avvenuto con l’apertura di musei, l’organizzazione di cerimonie commemorative e facendo i nomi dei carnefici, non ha contribuito, come pensavo, a rafforzare il rispetto per lo Stato di diritto. Al contrario, sedici anni dopo l’inaugurazione della Terror Háza, il partito al governo in Ungheria non rispetta niente. Ha superato di gran lunga persino Diritto e Giustizia nel politicizzare i media statali e distruggere quelli privati, obiettivo, quest’ultimo, raggiunto con le minacce, bloccando a essi l’accesso alla pubblicità e spingendo poi uomini d’affari amici ad acquistare le proprietà dei media indeboliti dalle angherie e dalle minori entrate. Oltre a una cricca di ideologi, il governo magiaro, come quello russo, ha creato anche una nuova élite imprenditoriale fedele a Orbán, fedeltà che le frutta benefici. Un uomo d’affari ungherese che ha preferito non essere nominato mi ha raccontato che, subito dopo la formazione del primo governo Orbán, dei tirapiedi del regime gli chiesero di vendere loro la sua azienda a basso prezzo; quando rifiutò, fecero sì che subisse «controlli fiscali» e molestie d’altro genere, e montarono contro di lui una campagna di intimidazione che lo costrinse ad assumere guardie del corpo. Alla fine, come tanti altri nella stessa situazione, vendette le sue proprietà in Ungheria e lasciò il paese.


Come il governo polacco, lo Stato magiaro promuove una Bugia di Media Grandezza: nella sua propaganda dà la colpa dei problemi del paese, coronavirus incluso, che gli ospedali ungheresi non sono in condizione di combattere, a inesistenti migranti musulmani, alla UE e, di nuovo, a George Soros. In primo piano nella diffusione di questa bugia è, nonostante le sue credenziali di oppositrice e i suoi successi di intellettuale, Mária Schmidt, storica, studiosa e curatrice di musei. Mária pubblica regolarmente lunghi e furibondi blog post in cui si scaglia contro Soros, l’Università dell’Europa centrale, originariamente fondata con il suo denaro, e gli «intellettuali di sinistra», espressione con la quale sembra riferirsi soprattutto ai democratici liberali, dal centrosinistra al centrodestra.


Nella sua vita ironie e paradossi abbondano. Schmidt faceva parte, anche se non con un ruolo di primo piano, dell’opposizione anticomunista. Una volta mi ha raccontato che, quando andava all’università, tutti gli oppositori del comunismo usavano studiare nella stessa biblioteca di Budapest; a un certo punto qualcuno dava un segnale e tutti si alzavano e s’incontravano per bere un caffè insieme. Dopo il 1989 divenne una delle principali beneficiarie della transizione politica magiara: il suo defunto marito fece una fortuna nel mercato immobiliare postcomunista, ed è grazie a questo che lei oggi vive in una casa spettacolare sulle colline di Buda. Sebbene abbia condotto una campagna pubblicitaria contro l’Università dell’Europa centrale fondata da Soros, è lì che suo figlio s’è laureato. E sebbene sappia benissimo che cosa accadde nel suo paese negli anni Quaranta, quando ha preso in mano «Figyelő», periodico ungherese un tempo stimato, ha fedelmente seguito il copione del Partito comunista di allora: ha cambiato i direttori e cacciato i giornalisti indipendenti, sostituendoli con altri fedeli al governo e quindi affidabili.


«Figyelő» è rimasto «di proprietà privata» e quindi formalmente indipendente. Ma capire chi appoggiasse è stato fin dall’inizio facilissimo. Un numero che conteneva un attacco alle ONG ungheresi – equiparate visivamente in copertina allo Stato islamico – includeva anche una decina di pagine di pubblicità pagate dal governo: per la Banca nazionale magiara, il Tesoro e la campagna ufficiale anti-Soros finanziata dal governo. Siamo davanti a una reinvenzione moderna della stampa filogovernativa dello Stato monopartitico, caratterizzata dallo stesso tono cinico che usavano un tempo le pubblicazioni comuniste. Il periodico è ormai una versione ungherese della televisione di Stato polacca di Jacek Kurski: sarcastico, rozzo, aggressivo. Nell’aprile 2018 pubblicò una lista di cosiddetti «mercenari di Soros», «traditori» che lavoravano per organizzazioni che avevano ricevuto donazioni da Soros, additandoli al disprezzo ed esponendoli ad attacchi.10 Nel dicembre dello stesso anno mise in copertina András Heisler, il leader della comunità ebraica magiara, con banconote, biglietti ungheresi da 20.000 fiorini, che fluttuavano intorno e sopra la sua immagine.


Mária Schmidt ha accettato di incontrami, dopo avermi definito «arrogante e ignorante», solo se avessi ascoltato le sue obiezioni a un articolo, sull’Ungheria e altri argomenti, che avevo scritto per il «Washington Post». Nonostante la poco promettente premessa, mi sono recata a Budapest, dove la franca conversazione in cui avevo sperato si è rivelata impossibile. Schmidt parla un ottimo inglese, ma, mi ha detto, voleva un interprete. E mi ha messo davanti un giovane dall’aria terrorizzata che, a giudicare dalle trascrizioni, ha tralasciato interi passaggi dei suoi discorsi. Per di più, benché mi conoscesse da quasi due decenni, ha messo sul tavolo un registratore, cosa che ho preso come un segno di sfiducia.11


Poi ha iniziato a ripetere gli stessi argomenti avanzati nei suoi post. Come prova principale del fatto che George Soros «possiede» il Partito democratico americano, ha citato un episodio di «Saturday Night Live». A dimostrazione che gli Stati Uniti sono «una potenza colonizzatrice basata su un’ideologia inflessibile», ha citato un discorso di Barack Obama in cui egli criticava una fondazione magiara per avere proposto di erigere una statua in onore di Bálint Hóman, l’uomo che negli anni Trenta e Quaranta scrisse le leggi antiebraiche dell’Ungheria. Poi ha ribadito la sua convinzione che l’immigrazione rappresenti una minaccia estremamente preoccupante per il suo paese e s’è infastidita quando le ho chiesto, più volte, dove mai fossero tutti quegli immigrati. «Sono in Germania» è sbottata infine. Certo che è così: quei pochi immigrati dal Medio Oriente che riuscirono nel 2016 a entrare in Ungheria non avevano nessuna voglia di restarci. In Ungheria l’immigrazione è un problema immaginario, non reale.


Mária Schmidt è una donna permalosa e arrabbiata: dice di sentirsi trattata con condiscendenza, e non soltanto da me. Ivan Krastev, studioso di scienze politiche, ha di recente descritto questo stato d’animo paragonandolo a una mentalità «postcoloniale».12 Non entusiasti (o indifferenti) di fronte ai valori universali alla base della democrazia, alcuni, specie intellettuali fatti e finiti come Schmidt, trovano ora umiliante essere stati degli imitatori del progetto democratico occidentale, anziché fondatori in prima persona di qualcosa di originale. Nel nostro incontro, Schmidt ha usato proprio questo linguaggio. I media e i diplomatici occidentali «parlano dall’alto in basso a chi sta sotto come avveniva nelle colonie», mi ha detto. Quando sente parole come antisemitismo, corruzione e autoritarismo, reagisce istintivamente con una versione del «non sono affari tuoi».


Eppure Schmidt, che passa un sacco di tempo a criticare la democrazia occidentale, non sta offrendo a casa propria niente di meglio o di diverso. Nonostante la sua fede nell’unicità dell’Ungheria e nel valore dell’«ungaricità», è dal sito d’informazioni Breitbart News che ha preso a prestito gran parte della sua ben poco originale ideologia, fino alla descrizione caricaturale delle università americane e alle battute beffarde sui «bagni transessuali». Bisogna precisare, però, che in Ungheria una sinistra culturale di cui valga la pena parlare non esiste, e Orbán, che ha messo l’Accademia delle scienze ungherese sotto il diretto controllo del governo, ha terrorizzato i docenti universitari tacitandoli e ha costretto l’Università dell’Europa centrale a lasciare il paese, è a ogni modo una minaccia per la libertà accademica molto maggiore di chiunque in Ungheria si collochi a sinistra. Conosco almeno un gruppo di accademici magiari che ha deciso di non pubblicare un’analisi elettorale – mostrava che Fidesz aveva commesso brogli – per paura di perdere i fondi o il lavoro. Ma Mária continua imperterrita la sua lotta contro l’inesistente «sinistra». Ha persino invitato a Budapest Steve Bannon e Milo Yiannopoulos, e molto tempo dopo che entrambi questi tristi figuri avevano cessato di avere qualche influenza negli Stati Uniti. Anche il suo nazionalismo da alt-right non è, in fin dei conti, che un’imitazione.


Un altro paradosso sta nella misura in cui Schmidt, molto più di Orbán, incarna perfettamente l’ethos dei bolscevichi che odia con tutto il cuore. Il suo cinismo è profondo. Il sostegno offerto da Soros ai profughi siriani non può essere filantropico; dev’essere frutto del profondo desiderio di distruggere l’Ungheria. Le critiche di Obama all’erezione di quella statua non potevano essere sincere; dietro doveva esserci un rapporto finanziario con Soros. La politica di Angela Merkel sui profughi non poteva riflettere il desiderio di aiutare delle persone; aveva un altro, nefasto intento. «Penso che siano soltanto stronzate» mi ha detto Schmidt. «Voleva dimostrare, direi, che a essere i bravi questa volta sono i tedeschi. E che possono dare lezioni di umanitarismo e morale a tutti. Non importa, per i tedeschi, su che cosa possono dare lezioni al resto del mondo; devono dare lezioni a qualcuno.» Tutto ciò ricorda il disprezzo di Lenin per le istituzioni della «democrazia borghese», per l’«inganno» della libertà di stampa e per l’idealismo liberale, che egli considerava falso.13


Ma la Bugia di Media Grandezza sta lavorando a favore di Orbán, esattamente come ha lavorato a favore di Donald Trump e di Kaczyński, se non altro perché essa focalizza l’attenzione del mondo sulla sua retorica piuttosto che sulle sue azioni. Schmidt e io abbiamo passato la maggior parte di quelle sgradevoli due ore di conversazione a discutere di questioni senza senso: George Soros è il proprietario del Partito democratico? I migranti che nel 2016 hanno tentato di attraversare l’Ungheria per arrivare in Germania, e ora hanno smesso del tutto di venire, sono ancora una minaccia per la nazione, come insiste ad affermare la propaganda del governo? Non abbiamo dedicato neanche un minuto a discutere dell’influenza della Russia in Ungheria, ora fortissima, o di come le mostre speciali del suo museo abbiano iniziato lentamente a riflettere la nuova forma di political correctness del paese, antitedesca e antieuropea: per l’anniversario del 1917, per esempio, organizzò una mostra che dipingeva la Rivoluzione russa come nient’altro che un’operazione di intelligence tedesca.


Non abbiamo parlato di corruzione, né della miriade di modi, documentati da Reuters, dal «Financial Times» e altri, con cui gli amici di Orbán hanno beneficiato personalmente di sussidi europei e giochi di prestigio legislativi. Il metodo di Orbán funziona. Se sollevi questioni che suscitano emozioni e ti atteggi a difensore della civiltà occidentale, specialmente all’estero, nessuno si accorgerà del nepotismo e della corruzione in patria.


Né, alla fine, ho capito molto delle motivazioni di Schmidt. Sono sicura che il suo orgoglio nazionale è sincero. Ma crede davvero che l’Ungheria si trovi di fronte a una terribile minaccia alla sua esistenza a causa di George Soros e di qualche invisibile siriano? Forse è una di quelle persone che riescono opportunamente a convincersi di credere in ciò che è vantaggioso credere. O forse è soltanto cinica nei confronti della propria parte quanto lo è nei confronti degli avversari, ed è tutto un gioco macchinoso.


La sua posizione ha dei vantaggi. Grazie a Orbán, Mária Schmidt gode da quasi due decenni dei finanziamenti e del sostegno politico necessari per gestire non solo il suo museo, ma anche un paio di istituti storici, il che le conferisce il potere senza pari di plasmare il modo in cui gli ungheresi ricordano la loro storia, un potere che la gratifica. In questo senso rammenta davvero lo scrittore francese Maurice Barrès, uno dei «chierici» di Julien Benda, che, «dopo avere iniziato con il grande intellettualismo scettico, ha visto la sua stella del potere diventare cento volte più sfavillante, almeno nel suo paese, il giorno in cui si è fatto l’apostolo dei “pregiudizi necessari”».14 Barrès assunse una posizione politica da estremista di destra, e divenne ricco e famoso. Ma Schmidt è stata aiutata anche dalla sua rabbia anticolonialista.


Forse è per questo che conduce il suo gioco con tanta attenzione, tenendosi sempre dalla parte giusta del partito al potere. Dopo il nostro incontro ha pubblicato sul suo blog, senza il mio permesso, una trascrizione pesantemente riveduta e corretta della nostra conversazione, presentata in modo confuso come una sua intervista a me e intesa apparentemente a dimostrare che nella discussione aveva «vinto» lei. La trascrizione è apparsa anche, in inglese, sul sito web ufficiale del governo magiaro.


Provate a immaginare che la Casa Bianca pubblichi la trascrizione di una conversazione fra, diciamo, il capo della Smithsonian Institution e un critico straniero di Trump e capirete quanto ciò sia inusuale. Ma quando ho visto la nostra conversazione sul sito del governo ho capito perché Mária Schmidt aveva accettato l’intervista: era stata una performance, intesa a dimostrare ai suoi compatrioti che lei è fedele al regime e pronta a difenderlo. E lo è.


III


Il futuro della nostalgia

Il lettore che, per giungere fin qui, ha dovuto immergersi nei meandri della politica polacca e ungherese, incontrando tante persone dai nomi difficili da pronunciare, potrebbe essere tentato di liquidare queste storie come meramente locali. A molti la crisi della democrazia europea può sembrare una sorta di problema «dell’Est», caratteristico di «paesi ex comunisti» che stanno ancora vivendo i postumi della sbornia del 1989. Alcuni attribuiscono il nuovo autoritarismo in Europa orientale al più ampio fallimento regionale nell’affrontare l’eredità del passato.


Ma tali spiegazioni sono inadeguate: questi movimenti, infatti, sono una novità. Ex Iugoslavia a parte, dopo il 1989 in Europa centrale non si assistette a nessuna ondata autoritario-nazionalista e antidemocratica. Il fenomeno è più recente, dell’ultimo decennio. E non è dovuto a mistici «fantasmi del passato», bensì a specifiche azioni di persone cui le loro democrazie non piacevano. Non piacevano perché erano troppo deboli o troppo imitative, troppo indecise o troppo individualiste, o perché al loro interno esse non stavano facendo personalmente carriera abbastanza in fretta. Non c’è nulla «dell’Est» nel risentimento di Jacek Kurski per il successo del fratello e nella sua convinzione di meritare di più. Non c’è nulla di «postcomunista» nella conversione di Mária Schmidt da dissidente a leccapiedi del regime: storie come queste sono antichissime e caratterizzano l’Ovest non meno dell’Est. Non c’è niente di speciale, in questo senso, nei territori che si stendono fra Mosca e Berlino.


Una bella notte, ad Atene, in un ristorante di pesce in una brutta piazza, raccontai la mia festa dell’ultimo dell’anno del 1999 a uno studioso greco di scienze politiche. Rise sommessamente di me. O meglio, rise insieme a me: non voleva essere scortese. Ma quella cosa che io chiamavo polarizzazione, per lui non era una novità. «Il momento liberale post-1989: è stata questa l’eccezione» osservò Stathis Kalyvas. L’anomalia è l’unità. La polarizzazione è normale. Anche lo scetticismo sulla democrazia liberale è normale. E il fascino dell’autoritarismo è eterno.1


Kalyvas è, fra le altre cose, autore di diversi celebri libri su guerre civili, fra cui la guerra civile greca degli anni Quaranta, uno dei tanti momenti della storia europea in cui gruppi politici radicalmente divergenti presero le armi e iniziarono a farsi fuori a vicenda. Ma in Grecia «guerra civile» e «pace civile» sono sempre state, anche nei momenti migliori, espressioni relative. Fra il 1967 e il 1974 il paese fu governato da una giunta militare spietata; nel 2008 scoppiarono ad Atene violente rivolte; pochi anni dopo era al potere, in coalizione con un partito di estrema destra, un partito di estrema sinistra. Mentre stavamo parlando, la Grecia viveva un momento centrista. All’improvviso, mi dissero molti ad Atene, era divenuto di moda essere «liberali», termine con cui essi intendevano né comunisti né autoritari. I giovani più avanzati si definivano «neoliberisti», parola che solo pochi anni prima era anatema. Questa moda si rivelò di non poco conto: un anno dopo la mia visita vinse le elezioni greche, divenendo primo ministro, un liberale centrista, Kyriakos Mitsotakis.


Tuttavia, anche i centristi più ottimisti non erano convinti che la svolta sarebbe durata. «Siamo sopravvissuti agli estremisti di sinistra» riflettevano cupamente diverse persone «e ora ci toccheranno gli estremisti di destra.» Da tempo covava un minaccioso conflitto sullo status della Macedonia settentrionale, l’ex repubblica iugoslava confinante con la Grecia; subito dopo la mia partenza, il governo greco espulse alcuni diplomatici russi accusandoli di avere tentato di fomentare nel Nord del paese un’isteria anti-Macedonia. Qualunque sia l’equilibrio raggiunto da una nazione, c’è sempre qualcuno, in patria o all’estero, che ha motivi per sconvolgerlo.


In Grecia la storia sembra circolare. Adesso c’è la democrazia liberale. Ma potrebbe succederle un’oligarchia, e poi tornare la democrazia liberale. Cui potrebbe fare seguito una sovversione di matrice straniera, un tentativo di colpo di Stato, una guerra civile, una dittatura o forse di nuovo un’oligarchia. È così perché così è sempre stato, fin dalla prima repubblica ateniese.


La storia sembra essersi fatta improvvisamente circolare anche in altre regioni d’Europa. La divisione che ha mandato in pezzi la Polonia somiglia a quella che spaccò la Germania di Weimar. Il linguaggio usato dall’estrema destra europea, con il suo appello alla «rivoluzione» contro le «élite» e i suoi sogni di violenza «purificatrice» e scontri culturali apocalittici, è talmente simile al linguaggio utilizzato un tempo dall’estrema sinistra europea da destare inquietudine. La presenza di intellettuali insoddisfatti e scontenti, che sentono che le regole non sono giuste e che ad avere influenza sono le persone sbagliate, non è neanche un’esclusiva dell’Europa. Moisés Naím, scrittore venezuelano, visitò Varsavia pochi mesi dopo l’ascesa al potere del partito Diritto e Giustizia, e mi chiese di descrivergli i nuovi leader polacchi: com’erano, come persone? Avanzai alcuni aggettivi: arrabbiati, vendicativi, risentiti. «Proprio come i chavisti, si direbbe» osservò. Ho visitato il Venezuela all’inizio del 2020 e sono rimasta colpita dalla miriade di modi in cui assomiglia non solo ai vecchi Stati marxisti-leninisti, ma anche ai nuovi regimi nazionalisti. Da un lato catastrofe economica e una carestia occultata, di cui non si parlava; dall’altro attacchi allo Stato di diritto, alla stampa, al mondo accademico e alle mitiche «élite». La televisione di Stato trasmetteva un’insistente propaganda e sfacciate bugie; la polarizzazione era così profonda da essere visibile nella stessa geografia di Caracas. In questo senso la città mi ha ricordato non solo l’Europa orientale del passato, ma alcune regioni del mondo occidentale del presente.


Una volta rifiutata l’aristocrazia, quando non si crede più che la leadership sia ereditata alla nascita, quando non si presume più che la classe dirigente goda del favore divino, la discussione su chi giunge a governare, su chi è l’élite, non ha mai fine. Per molto tempo alcuni in Europa e Nord America hanno pensato che l’alternativa più giusta al potere per eredità o per decreto fosse costituita da varie forme di competizione democratica, meritocratica ed economica. Ma democrazia e libero mercato possono dare esiti insoddisfacenti anche in paesi mai occupati dall’Armata Rossa e mai governati da populisti latinoamericani, specialmente se sono mal regolamentati, o quando nessuno si fida di chi stabilisce le regole, o quando le persone entrano nella competizione da punti di partenza estremamente diversi. In queste competizioni i perdenti sono destinati, prima o poi, a mettere in discussione il valore della competizione stessa.


Soprattutto, i principi della concorrenza, anche quando promuovono il talento e creano una mobilità verso l’alto, non rispondono a domande più profonde sull’identità nazionale o personale. Non soddisfano il desiderio di unità e armonia. E, cosa ancora più importante, non soddisfano il desiderio di alcuni di appartenere a una comunità speciale, una comunità unica, una comunità superiore. Questo non è un problema che riguarda solo la Polonia, l’Ungheria, il Venezuela o la Grecia. Può presentarsi in alcune delle democrazie più antiche e stabili del mondo.


Incontrai per la prima volta Boris Johnson una sera di molto tempo fa a Bruxelles in compagnia di mio marito, suo amico dai tempi di Oxford, anche se in questo caso la parola «amico» è ambigua. Per essere più precisi, erano entrambi membri del Bullingdon Club, un’istituzione squisitamente oxfordiana che fiorì negli anni Ottanta. Non sono sicura che i membri del Bullingdon fossero necessariamente «amici»: erano rivali, compagni di bevute, ma non credo che nei momenti difficili molti di loro piangessero sulle spalle l’uno dell’altro.


Se non avesse prodotto due primi ministri, Johnson e David Cameron, oltre a un cancelliere dello Scacchiere, il Bullingdon sarebbe svanito in una meritata oscurità. Già negli anni Ottanta era una parodia di se stesso, ed Evelyn Waugh l’aveva messo in ridicolo mezzo secolo prima, nel 1928, nel romanzo Declino e caduta. Il libro inizia con una famosa descrizione della «festa annuale del Bollinger Club»:


Un suono più lacerante si udì a un tratto provenire dall’alloggio di Sir Alistair; da far rabbrividire al solo ricordo, a distanza di anni; il baccano delle famiglie inglesi di provincia quando strepitano a vuoto.2


So per certo che alcuni compagni di Johnson nel club sono ora profondamente imbarazzati dal Bullingdon, con la sua uniforme da dandy in stile Regency – frac, gilet di seta giallo, papillon blu –, le sue sbronze a base di champagne, la sua fama di luogo in cui si facevano a pezzi mobili e finestre, i suoi pretenziosi legami, o meglio pretesi legami, con la vecchia aristocrazia. Ma altri, e credo che in questa categoria rientrino sia mio marito sia Johnson, lo ricordavano come una sorta di gioco prolungato. Con poche eccezioni, i suoi membri non erano aristocratici o, se lo erano, non erano alti aristocratici. Johnson era figlio di un burocrate della UE ed era cresciuto in parte a Bruxelles. Mio marito Radek era un profugo proveniente dalla Polonia comunista, anche se dotato di un senso dell’umorismo britannico. Entrambi giocavano con le vecchie forme del sistema di classe inglese, recitandone alcuni ruoli perché li divertiva. Al Bullingdon se la spassavano non malgrado, ma proprio per la feroce parodia che ne aveva fatto Waugh.


Quando cenammo con Johnson, egli era il corrispondente da Bruxelles del «Daily Telegraph», di fatto il quotidiano del Partito conservatore britannico. Dopo un paio d’anni in quel ruolo s’era già fatto un nome. La sua specialità erano storie divertenti, semivere, costruite a partire da un granello (e a volte meno) di verità, che mettevano in ridicolo la UE dipingendola invariabilmente come una fabbrica di follie normative. I suoi articoli avevano titoli quali Minaccia per le salsicce rosa britanniche, e riferivano (false) voci secondo cui i burocrati di Bruxelles, per esempio, si apprestavano a mettere al bando gli autobus a due piani o le patatine al cocktail di gamberi. Benché chi sapeva come stavano le cose ne ridesse, quelle frottole avevano un impatto. Altri direttori chiesero ai propri corrispondenti da Bruxelles di scoprire storie dello stesso genere; e i tabloid si affrettarono a mettersi al passo. Anno dopo anno, quel tipo di narrazione contribuì a diffondere un sentimento di sfiducia per la UE che avrebbe aperto la strada, molto tempo dopo, alla Brexit. Di tale influenza Johnson era ben consapevole, e ne godeva. «Lanciavo quei sassi, per dir così, al di là del muro del giardino e stavo ad ascoltare quel meraviglioso rumore di vetri rotti che proveniva dalla serra accanto, in Inghilterra» avrebbe confessato alla BBC anni dopo in un’intervista straordinariamente schietta. «Tutto quello che scrivevo da Bruxelles aveva un incredibile effetto esplosivo sul Partito conservatore; e mi dava davvero, direi, un curioso senso di potere.»3


A Londra quel «meraviglioso rumore di vetri rotti» faceva inoltre vendere i giornali, e anche per questo Johnson, pur suscitando risolini, fu tollerato tanto a lungo. Ma un’altra ragione, più profonda, era che quelle storie non propriamente corrette facevano leva sugli istinti radicati di una certa specie di conservatori nostalgici, lettori e redattori del «Daily Telegraph», del «Sunday Telegraph» e del periodico a essi affine, lo «Spectator», allora tutti e tre di proprietà del medesimo uomo d’affari canadese, Conrad Black. Io conoscevo molto bene quel mondo. Più volte scrissi corsivi per il «Telegraph» e il «Sunday Telegraph»; e lavorai allo «Spectator», divenendone infine vicedirettore dal 1992 al 1996, periodo in cui esso era guidato da Dominic Lawson, un direttore brillante, fra i migliori che abbia mai avuto. A quel tempo il periodico aveva sede in Doughty Street, in locali malandati non ristrutturati da decenni. Ma le nostre feste estive e i nostri pranzi, che duravano a volte tutto il pomeriggio, attiravano lo stesso un’eccentrica gamma di ospiti di spicco, da Alec Guinness e Clive James a Auberon Waugh, figlio di Evelyn, e alla duchessa del Devonshire.


A quell’epoca il tono di ogni conversazione e di ogni riunione di redazione era ironico, di ogni colloquio professionale divertente; non c’era un momento in cui lo scherzo finisse o l’ironia cessasse. Anche gli articoli più convenzionali avevano titoli fantasiosamente spiritosi. Fra le tante m’è rimasta impressa una trovata di Lawson per quello che doveva senza dubbio essere un articolo mortalmente serio sulla Polonia: «Gdansking su ghiaccio sottile».a Era un momento storico singolare, in cui per esempio Enoch Powell, controverso politico tory antimmigrazione di una generazione precedente, era contemporaneamente un occasionale ospite a pranzo, un’autorità riverita e anche, per qualche ragione, un personaggio di cui tutti ridevano. C’erano giornalisti tory e parlamentari tory che facevano a gara attorno al tavolo da pranzo su chi riuscisse a fare la migliore imitazione di Enoch. Forse lo fanno ancora.


Sarebbe profondamente inesatto dire che la cerchia di persone che gravitava attorno allo «Spectator», se è lecito affermare che facessero qualcosa di così impetuoso come «gravitare», fosse in realtà nostalgica del passato imperiale della Gran Bretagna. Nessuno negli anni Novanta desiderava riavere l’India, come nessuno lo desidera oggi. Ma c’era nostalgia per qualcos’altro: un mondo in cui a dettare le regole era l’Inghilterra. Forse «nostalgia» non è la parola giusta, perché i miei amici dello e attorno allo «Spectator» non pensavano di stare guardando all’indietro. Erano convinti che fosse ancora possibile per l’Inghilterra dettare le regole, fossero quelle del commercio, dell’economia o della politica estera: i suoi leader dovevano soltanto prendere il toro per le corna, prendere in mano la situazione; non dovevano fare nient’altro.


Ora penso che, fondamentalmente, fosse questo che apprezzassero in Margaret Thatcher: che andava nel mondo e faceva accadere le cose. L’apprezzavano quando agitava la borsetta in faccia agli europei, chiedeva uno sconto al bilancio della UE, mandava una task force a rioccupare le isole Falkland. Alcuni dei risultati che ottenne si sarebbero rivelati puramente simbolici o non particolarmente utili: finita la guerra, per esempio, nelle Falkland non si recò quasi nessuno e nessuno pensò più granché a quel pezzo di terra. Ma fu l’atto di sfida, la determinazione a essere chi decide, non meramente chi negozia, a conquistarle la loro ammirazione.


A quel tempo pensavo anche che i miei amici credessero nella diffusione della democrazia e del libero scambio in tutta Europa, e forse ci credevano. Certamente ci credeva la Thatcher. La lotta al comunismo fu una vera battaglia che, sia retoricamente sia geostrategicamente, la Lady di Ferro contribuì a far vincere. Il mercato unico europeo, la grande zona di scambio in cui le regole sono coordinate in modo che produzione e commercio non incontrino ostacoli in tutto il continente, fu in realtà un’idea thatcheriana, e frutto in gran parte della diplomazia britannica. È l’accordo di libero scambio più profondo mai concepito, e proprio per questo la sinistra protezionista dello spettro politico europeo l’ha sempre detestato.


Più recentemente sono giunta a sospettare che la «democrazia», almeno come causa internazionale, fosse per un certo tipo di conservatori nostalgici molto meno importante del mantenimento di un mondo in cui l’Inghilterra continuasse a svolgere un ruolo privilegiato: un mondo in cui essa non fosse una potenza di media grandezza qualunque, come la Francia o la Germania; un mondo in cui essa fosse speciale, e magari anche superiore. Anche per questo alcuni conservatori nostalgici hanno sempre nutrito diffidenza per il mercato unico che la Gran Bretagna contribuì in così larga misura a creare. L’Inghilterra era, ai loro occhi, l’unico paese europeo che poteva legittimamente rivendicare la vittoria nella seconda guerra mondiale, il paese che non era mai stato invaso, che non s’era mai arreso, che aveva scelto di stare dalla parte giusta fin dal primo momento, e l’idea che avrebbe potuto, nel XXI secolo, stabilire le sue regole solo insieme ad altri paesi europei era per loro semplicemente inaccettabile. E mi sto riferendo all’Inghilterra, non alla Gran Bretagna. Se negli anni Novanta i britannici stavano ancora combattendo contro l’IRA a Belfast e i miei amici tory si definivano sempre «unionisti», il nazionalismo inglese era già in crescita e, accanto a esso, era in crescita il nazionalismo scozzese, che avrebbe portato pochi anni dopo alla devolution e ad appelli all’indipendenza della Scozia.


Retrospettivamente è chiaro che gran parte di quanto i miei amici dicevano e scrivevano allora sul mercato unico era, come gli articoli di Johnson sul «Telegraph», pura fantasia. Nessuno nella UE imponeva regole alla Gran Bretagna: le direttive europee erano concordate e ognuna di esse era stata accettata da un rappresentante o diplomatico britannico. Per quanto il Regno Unito non l’avesse avuta vinta in tutte le discussioni – nessun paese vi è mai riuscito –, non c’era nessuna «mafia di Bruxelles» che lo avesse costretto a fare cose che non voleva fare. Benché lo si ricordi raramente, il mercato unico offriva molti vantaggi, anche quando a volte i britannici uscivano perdenti dalle discussioni. Esso aveva reso la Gran Bretagna uno degli attori più influenti nel blocco economico più potente del mondo, le aveva dato una voce di un’importanza sproporzionata in materia di commercio internazionale, e aveva giovato in particolare agli imprenditori britannici. Il suo successo aveva finito per farne una calamita per le nuove democrazie dell’Est, contribuendo a portare in un’Europa integrata anche il mondo ex comunista. Ma nessuno di questi vantaggi si rivelò, infine, superiore all’imbarazzo e al fastidio di dover negoziare regole con altri europei, un processo di dare e avere che, ovviamente, aveva obbligato talvolta i britannici a fare concessioni.


Paradossalmente, lo stesso gruppo di persone era felicissimo di collaborare, sia pure in veste di partner di secondo piano, con gli Stati Uniti. Il motivo era in parte che gli americani parlano inglese e le loro radici storiche affondano in Gran Bretagna. Ma era anche che gli Stati Uniti, a differenza della Germania e della Francia, erano una vera superpotenza, e un po’ di tale gloria si rifletteva sul Regno Unito e ne lusingava i leader. «Noi siamo i greci e loro sono i nostri romani» aveva osservato compiaciuto un primo ministro tory, Harold Macmillan, già negli anni Sessanta.4 I britannici dedicano tuttora una gran quantità di tempo a riflettere e scrivere sul cosiddetto «rapporto speciale» fra Stati Uniti e Regno Unito: «rapporto speciale» è un’espressione molto usata a Londra, anche se a Washington non la si sente quasi pronunciare. Gli altolocati tory si mostravano a volte sprezzanti verso la politica americana, e snobbavano decisamente la cultura pop degli Stati Uniti. Inoltre erano tacitamente scettici nei confronti della politica estera di Washington. La migliore espressione di tale complicata ambivalenza è forse L’americano tranquillo, il romanzo in cui Graham Greene traccia il ritratto, insieme affettuoso e crudele, di un americano idealista iperentusiasta in Vietnam.5 Tuttavia l’America era un grande partner, un partner globale, appropriato all’eccezionalità degli inglesi. Se gli americani erano ansiosi di diffondere la democrazia, gli inglesi erano felici di unirsi a loro.


Quando arrivai a Londra, all’inizio degli anni Novanta, fui ammessa come membro onorario nel mondo dei conservatori nostalgici anche, forse, perché rappresentavo l’alleanza americana allora in voga. Vivevo da qualche anno in Polonia, avevo scritto sulla caduta del comunismo e la politica nel mondo postcomunista. Ero anche un’utile rompiscatole, una straniera coscienziosa, quella che tentava sempre di convincere i colleghi inglesi a piantarla con le battute di spirito e mettersi a scrivere di paesi lontani e difficili come la Russia o la Cina («Abbiamo bisogno di qualcosa di serio in questo numero: facciamolo scrivere ad Anne»). Perlopiù mi tenevo lontana dai contrasti Regno Unito - UE: altri erano molto più appassionati di me all’argomento. Una volta, però, andai a Bruxelles per scrivere sugli europarlamentari del Partito conservatore, scoprendo che erano per la maggior parte eccellenti legislatori, informati e coscienziosi. Ma più avevano successo, più erano efficaci nel riformare e migliorare l’Europa e nel farne funzionare le istituzioni democratiche, più il loro partito li detestava. «Per torturare un tory» conclusi «basta eleggerlo al Parlamento europeo.» I conservatori iniziavano già a dividersi fra coloro che volevano che la UE avesse più successo e fosse più rappresentativa e coloro che volevano semplicemente uscirne.


Anche Johnson, nato negli Stati Uniti come me e dal modo di pensare molto americano, prosperò in quel mondo eccentrico e un po’ sonnolento. Anzi, ne divenne una delle star, capace un giorno di trovare qualcosa di divertente da dire su un noioso vertice europeo e, il giorno dopo, intrattenere il pubblico di un quiz televisivo. Ma a un certo punto entrambi iniziammo a cercare altre cose da fare. Nel 1997 tornai in Polonia e mi misi a scrivere libri di storia; lui si candidò al Parlamento. In seguito divenne sindaco di Londra, ma anche lì si annoiò. Nel 2013 disse a un intervistatore che l’ufficio del sindaco sembrava lontano mille miglia dalla Camera dei Comuni, il luogo dove accadevano le cose reali: «Sono così isolato, tipo il colonnello Kurtz. Ho risalito il fiume». Dopodiché si affrettò ad assicurare all’intervistatore che quella era l’unica cosa che aveva in comune con l’eroe psicopatico di Apocalypse Now. Nella stessa intervista ripeté una metafora tratta dal rugby che aveva già usato in precedenza. Come sempre, dichiarò che non stava affatto cercando di prendere la guida del partito, ma «se la palla esce dalla mischia», non gli sarebbe dispiaciuto raccoglierla.6


Da allora non sono mancati i commenti sul narcisismo fuori misura di Johnson, in effetti divorante, come sulla sua altrettanto notevole pigrizia. Il debole che nutre per le montature è ben noto. All’inizio della sua carriera fu licenziato dal «Times» di Londra per essersi inventato delle citazioni e nel 2004 fu espulso dal gabinetto ombra per avere mentito. L’aura di impotenza che lo circonda, attentamente studiata, nasconde una vena di crudeltà: con una serie di relazioni, intrattenute con incredibile sfacciataggine in pubblico, ha distrutto sia il suo primo sia il suo secondo matrimonio, quest’ultimo durato un quarto di secolo, nonché la vita di tante altre donne.


Ma non c’è ragione di negare che egli sia anche dotato di una misteriosa forma di carisma, una qualità che attrae la gente e la fa sentire a proprio agio, e che sappia inoltre cogliere intuitivamente l’umore di una folla. Un giorno, dopo che per diversi anni non l’avevo più visto, m’imbattei in lui nella City, il quartiere finanziario di Londra. Allora era sindaco. Andava in bicicletta, e lo salutai con un gesto della mano. Si fermò, esclamò qualcosa sull’incredibile caso, e suggerì di andare a bere un drink in un pub. Non appena aprimmo la porta, borbottò qualche parola del tipo «oh no, m’ero dimenticato che sarebbe andata così»: le persone iniziarono ad affollarsi intorno a noi chiedendogli dei selfie. Ne fece alcuni; poi ci sedemmo e ci mettemmo a chiacchierare; quando si alzò per uscire, si ripeté la stessa scena.


Altri due incontri con Johnson mi sono rimasti impressi, e anch’essi risalgono a quando era sindaco. Nel 2014 ero presente quando tenne un discorso sull’antica Atene. A differenza di molti dei suoi interventi pubblici, quello non mancò di coerenza, forse perché l’aveva scritto prima. Agitando un bicchiere di vino rosso, fece di Atene un elogio abbastanza circostanziato, parlando della sua «cultura della libertà, apertura e tolleranza, sperimentazione intellettuale e democrazia», e tracciando una chiara analogia con la Londra moderna. Poi passò a Sparta, sottolineando che, come aveva predetto Pericle, quella società rigida, conformista e militarista non aveva lasciato dietro di sé alcuna raffinata rovina. Mise in guardia contro i nuovi spartani e parlò della «sfida alle libertà democratiche, globale nella sua estensione», rappresentata dai nuovi autoritarismi.7 Il pubblico applaudì, sinceramente commosso.


Più o meno nello stesso periodo andai a cena con Johnson e un paio di altre persone, e finimmo per parlare di un possibile referendum, allora nell’aria, sull’appartenenza alla UE. «Nessuna persona seria vuole lasciare la UE» disse. «Non lo vuole il mondo degli affari. Non lo vuole la City. Non succederà.» Così parlava quando era il sindaco liberale di una grande, moderna, multiculturale città britannica, fiorente grazie ai suoi profondi legami con il mondo esterno.


Eppure, nella campagna referendaria scelse la Brexit. E la sostenne con la stessa serena spensieratezza, la stessa noncuranza per le conseguenze che aveva a lungo dimostrato come giornalista e nella vita privata. Continuò a raccontare barzellette e storielle. Era convinto che la Brexit avrebbe perso, tanto che mandò a David Cameron, il primo ministro, un messaggio che diceva: «La Brexit verrà fatta a pezzi come un rospo sotto l’erpice».8 Ma sostenerla, pensava, avrebbe fatto di lui un eroe fra i tory euroscettici che i suoi scritti avevano fatto tanto per coltivare. E, in un certo senso, i suoi calcoli si rivelarono giusti, anche se forse non secondo le sue attese.


Nel «normale» procedere degli eventi, in un mondo senza Brexit, Boris Johnson non sarebbe forse mai divenuto primo ministro. Il partito che aveva eletto David Cameron, un centrista moderato, dedito alla «disintossicazione» del Partito conservatore dopo una serie di leader dai toni rabbiosi, avrebbe avuto difficoltà a scegliere una figura rischiosa come Johnson, con la sua storia di gaffe, licenziamenti e scandali sessuali. Egli divenne il leader dei tory perché i tory non sapevano cos’altro fare. La partita di rugby e la mischia c’erano state, e qualcuno s’era effettivamente lasciato scappare la palla.


La disperazione prese piede dopo il referendum del 2016, il cui risultato non mi sorprese. Qualche sera prima del voto ero a una cena quando, a un certo punto, fu chiesto a tutti di mettere per iscritto le loro previsioni: al vincitore venne promessa una cassa di bottiglie di vino. Io previdi che il «Leave», «lasciare» la UE, avrebbe vinto 52 a 48. Così avvenne. Non me la sono mai sentita di andare a ritirare il vino perché il padrone di casa di quella cena aveva lavorato sodo alla campagna per il «Remain», «rimanere», e il risultato l’aveva sconvolto. Ma il Partito conservatore restò decisamente sorpreso. La sua leadership – i lord, i boss del partito, i whips,b l’Ufficio centrale, quelli che volevano la Brexit e quelli che non la volevano – era totalmente impreparata anche solo al pensiero di un’uscita dalla UE, l’organizzazione che aveva plasmato l’economia e la diplomazia britanniche e il ruolo della Gran Bretagna nel mondo fin dagli anni Settanta. E lo era anche Johnson.


Nel 2019 la situazione era molto peggiorata: i tory avevano subito per tre anni la catastrofica leadership di Theresa May, altra persona che, nel normale procedere degli eventi, non sarebbe probabilmente mai divenuta primo ministro. Essa confermò in brevissimo tempo le peggiori aspettative di tutti, compiendo una serie di errori imperdonabili. Chiese l’attuazione dell’articolo 50, il meccanismo legale per lasciare la UE, una decisione che faceva partire un conto alla rovescia della durata di un biennio, prima di capire che cosa la Brexit comportasse realmente. Nel 2017 indisse un’elezione parlamentare non necessaria e perse la maggioranza. Peggio ancora, pose le condizioni per il devastante dibattito sulla Brexit. Subito dopo il referendum, May avrebbe potuto osservare che esso era stato vinto di strettissima misura, che i legami commerciali e politici della Gran Bretagna con l’Europa erano molto forti, e che al Regno Unito sarebbe convenuta una Brexit «intelligente», non «stupida»: sarebbe potuto rimanere nel mercato unico, che era stato un’idea britannica, o come minimo in un’unione doganale.


Invece, usando i termini polarizzanti di Brexit «dura» e «morbida», optò per la prima e scelse di uscire da entrambe quelle istituzioni. La sua decisione ottenne subito il plauso di tutti coloro che volevano che la Gran Bretagna alzasse la voce nel mondo. Inoltre, proprio nel momento in cui molti tory inglesi avevano perso interesse per Belfast, la presa di posizione di May fece scoppiare l’insolubile problema del confine fra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda. Essendo sia il Nord sia il Sud dell’isola membri dell’Unione europea, un confine fra di essi aveva cessato di esistere. Il governo irlandese, con il sostegno della UE, rifiutò di consentire che esso venisse ripristinato, ma con la conseguenza che o tutto il Regno Unito sarebbe dovuto restare in una qualche forma di unione doganale con la UE, oppure l’Irlanda del Nord avrebbe dovuto seguire regole diverse dal resto del Regno Unito.


Ognuna di queste soluzioni era inaccettabile per qualcuno. La disputa proseguì per mesi e mesi. Senza essersi consultata con nessuno e senza avere fatto alcuno sforzo per tendere la mano ad altri partiti, dopo avere dato prova di mancare di qualunque cosa potesse assomigliare ad abilità politica, May, in tre votazioni separate, non riuscì a fare approvare dal Parlamento il suo accordo per il ritiro dalla UE, rinviò per due volte la Brexit, e infine diede le dimissioni.


I tory iniziarono a perdere consensi e nelle elezioni parlamentari europee del maggio 2019 vennero quasi spazzati via. Rimasero a Strasburgo, disperati e ancora angosciati, solo quattro eurodeputati conservatori. Il partito aveva bisogno di un nuovo leader, che sapesse riunire le sue varie fazioni, portare a termine la Brexit, ritrovare il sostegno degli elettori. Aveva anche bisogno di qualcuno che sapesse raccontare storie, far ridere, far rivivere quella sensazione di superiorità inglese. Scelse il buffone.


I nostalgici, ha scritto l’artista e saggista russa Svetlana Boym in un libro raffinato, The Future of Nostalgia, si presentano sotto due forme. Alcuni sono in preda a quella che lei chiama la nostalgia «riflessiva» dell’emigrato o dell’esteta, quella che piace ai collezionisti di lettere ingiallite e fotografie seppiate, la nostalgia di chi ama le vecchie chiese anche se alle funzioni non va mai. Del passato i nostalgici riflessivi sentono la mancanza e lo sognano. Alcuni lo studiano e, soprattutto, ne piangono la perdita, specie del proprio passato personale. Ma in realtà non vogliono che ritorni, forse perché, nel profondo di loro stessi, sanno che la vecchia fattoria è in rovina, o che è stata trasformata in una villetta borghese fino a farsi irriconoscibile, o perché si rendono tacitamente conto che a loro quel passato oggi non piacerebbe più granché. Un tempo la vita sarà anche stata forse più dolce o più semplice, ma era altresì più pericolosa, o più noiosa, e forse più ingiusta.


Quelli che Boym chiama «nostalgici restauratori» sono radicalmente diversi dai riflessivi, e non tutti riconoscono di essere nostalgici. I nostalgici restauratori non si limitano a guardare vecchie fotografie e ricostruire storie familiari. Sono creatori e architetti di miti, costruttori di monumenti e fondatori di progetti politici nazionalisti. Non vogliono semplicemente contemplare o imparare dal passato. Vogliono, nelle parole di Boym, «ricostruire la casa perduta e rattoppare le lacune della memoria». Molti di loro non riconoscono che tali operazioni di fantasia sul passato sono, appunto, fantasie: «Credono che il loro proposito abbia per oggetto la verità». Non sono interessati a un passato fatto di sfumature, a un mondo in cui i grandi leader erano uomini con i loro limiti, in cui famose vittorie militari ebbero effetti collaterali letali. Non riconoscono che il passato poteva avere i suoi lati negativi. Vogliono la versione fumettistica della storia e, cosa più importante, in essa vogliono vivere, adesso. Non vogliono recitare ruoli attinti dal passato perché questo li diverte: vogliono comportarsi come pensano si siano comportati i loro antenati, senza alcuna autoironia.9


Non è un caso che la nostalgia restauratrice si accompagni spesso a teorie del complotto e bugie di media grandezza. E queste non devono necessariamente essere stridenti o folli come la teoria del complotto di Smolensk o quella contro Soros; possono pacatamente evocare capri espiatori anziché una realtà alternativa fatta e finita. Come minimo, possono offrire una spiegazione: la nazione non è più grande, perché qualcuno ci ha attaccati e fiaccati, ha indebolito le nostre forze. Qualcuno, immigrati, stranieri, élite o magari l’Unione europea, ha deviato il corso della storia e ridotto la nazione a un’ombra di se stessa. L’identità di fondo che avevamo un tempo ci è stata portata via ed è stata sostituita con qualcosa di artificiale e a buon mercato. Alla fine, coloro che perseguono il potere facendo leva sulla nostalgia restauratrice inizieranno a coltivare teorie del complotto, o storie alternative, o bugie alternative, che abbiano o meno un fondamento nella realtà.


Il concetto di «nostalgia restauratrice» è connesso ad altri sentimenti. Lo storico tedesco-americano Fritz Stern (egli stesso un «migrante»: la sua famiglia ebrea lasciò Breslavia per New York nel 1937) ha scritto di un fenomeno parallelo cui ha dato il nome di «disperazione culturale».10 Il suo primo libro, pubblicato negli anni Sessanta, include brevi biografie di diversi uomini, tutti intellettuali tedeschi del XIX secolo che vissero in un periodo di intensi cambiamenti sociali, politici ed economici e ne subirono le conseguenze. Uno di essi è uno storico dell’arte, Julius Langbehn, il cui libro Rembrandt come educatore inizia con queste parole:


Non è più un segreto per nessuno che la vita spirituale del popolo tedesco stia attraversando uno stato di lento, ma rapido declino. La scienza si disperde nella specializzazione; nel pensiero, come nella letteratura, mancano individualità di spicco … Questo processo reca il marchio dello spirito democratizzatore, livellatore e atomistico del nostro secolo.11


Pubblicato nel 1890, il ritratto di Rembrandt tracciato da Langbehn non è una biografia né un’opera di critica d’arte; è, piuttosto, un pamphlet parafilosofico, una lunga polemica. Nella visione di Langbehn, il pittore olandese rappresenta un ideale, «la più alta forma di vita, arte e individualità». E rappresenta anche qualcosa di perduto: al contrario di Rembrandt, gli uomini moderni, specialmente i tedeschi moderni, sono «pigmei», persone senza alcun legame con il passato o il suolo. Sono dei «democratici» nel senso peggiorativo del termine, uomini ordinari senza ideali, senza sogni, senza talento.


Langbehn non nutriva molta fiducia neanche nelle maggiori menti della sua epoca. La scienza, la tecnologia e la modernità non gli piacevano. Preferiva l’arte, la spontaneità e un’esistenza più autentica sulla falsariga di quella che credeva avesse condotto Rembrandt. Detestava gli ebrei, in particolare gli ebrei laici, che, scrisse, non hanno «nessuna religione, nessun carattere, nessuna patria»: essi simboleggiavano ai suoi occhi l’assenza di radici della vita contemporanea. Ma non era questo il suo tema più importante. Il libro è pervaso da un senso di nostalgia per un’epoca diversa e migliore, in cui gli uomini erano attivi e non passivi e i grandi leader potevano lasciare il loro segno nel mondo. Sebbene sia scritto in modo caotico, e abbia solo remotamente a che vedere con la vita reale dell’artista, Rembrandt come educatore divenne immediatamente un bestseller. Nella Germania in corso di rapida industrializzazione della fine del XIX secolo toccò una corda sensibile, contribuendo a un’ondata di nostalgia restauratrice ben prima della violenza di massa della prima guerra mondiale e dell’umiliante sconfitta che la seguì.


A un certo punto, fra gli anni Novanta del secolo scorso e gli anni Dieci del nostro, alcuni conservatori britannici riflessivi, giornalisti, scrittori, ma anche qualche politico, caddero preda di qualcosa di molto simile alla disperazione culturale diagnosticata da Stern in Langbehn. E tutto ciò avvenne ben prima del referendum sulla Brexit. Il fenomeno risale secondo me alla fine del thatcherismo, che coincise con la fine della guerra fredda, un momento di svolta per la Gran Bretagna più epocale, in retrospettiva, di quanto ci parve allora. Il conflitto con il comunismo aveva offerto ai conservatori britannici, di concerto con gli alleati americani, la possibilità di prendere parte a una crociata morale di grande successo; nel 1989, quando il Muro di Berlino cadde e i regimi comunisti crollarono rapidamente, essi si sentirono giustificati. I combattenti della guerra fredda erano stati impopolari, derisi dalla sinistra, nonché da tanti loro colleghi nelle università, nella stampa e nel mondo politico. Ma avevano mantenuto la loro fede. Ora avevano la prova che la Thatcher aveva ragione. Insieme avevano combattuto contro quanti erano stati affascinati dal comunismo, e avevano vinto.


Ma, finita la guerra fredda, si aprì un vuoto. Tutte le altre cause parvero all’improvviso meno importanti, meno entusiasmanti. Il primo ministro John Major, succeduto alla Thatcher, rimase in carica per sette anni e, come il presidente George H.W. Bush, svolse un ruolo importante nella riunificazione dell’Europa dopo la guerra fredda. Ma, benché Major fosse un uomo che s’era fatto da sé, di quelli che essi dicevano di ammirare, e per di più un uomo che parlava in modo evocativo, persino nostalgico, del passato inglese, i conservatori nostalgici lo odiavano. In parte si trattava forse di snobismo: Major non aveva mai frequentato l’università. Ma lo detestavano anche perché, a differenza della Thatcher, egli non cercò di mettersi alla guida di una crociata morale. Non promosse alcun programma di riforme economiche radicali né propugnò una svolta rivoluzionaria. Dopo le turbolenze degli anni thatcheriani pensava che governare con pacatezza, dalla destra del centro, in collaborazione con gli alleati europei e gli Stati Uniti, fosse sufficiente. La sua popolarità nel paese fece sì che nel 1992 venisse rieletto, ma in quella che avrebbe dovuto essere la sua base intellettuale non godeva di grande ammirazione. Alla festa organizzata all’hotel Savoy da Conrad Black, proprietario del «Daily Telegraph», la notte delle elezioni, vidi una folla poco entusiasta di direttori di quotidiani conservatori e finanziatori del partito che, mangiando ostriche e bevendo champagne, mormoravano la loro sorpresa.


I nostalgici riflessivi del Partito conservatore finirono ancor più nell’ombra con l’elezione di Tony Blair. Blair, come ha sottolineato Charles Moore, il biografo della Thatcher, era per molti aspetti il più importante allievo della Lady di Ferro.12 Riconosceva la necessità di mercati liberi, adottò la stessa politica di collaborazione con gli Stati Uniti promossa dalla Thatcher, spostò il Partito laburista al centro e lo mantenne al potere per dodici anni. Ma non provava nostalgie di alcun genere. Del carattere speciale dell’Inghilterra non gli importava niente. Ostentava, anzi, la propria modernità, si schierò per il cambiamento sociale, promosse l’integrazione economica della Gran Bretagna con l’Europa e il mondo, e attuò una devoluzione del potere da Londra creando un Parlamento scozzese e un’assemblea gallese, il che indebolì la voce dell’Inghilterra nella politica nazionale. Inoltre acconsentì a una serie di compromessi che posero fine al conflitto di lunga data in Irlanda del Nord. E vi riuscì anche perché i cittadini dell’Ulster che si sentivano «irlandesi» poterono, grazie alla UE, avere passaporti irlandesi. Fu questo appannamento della sovranità a portare finalmente la pace.


Per i conservatori nostalgici Blair fu un disastro. L’umore trionfale degli anni Ottanta lasciò il posto alla rabbia. Ed era difficile trovare qualcuno più arrabbiato di Simon Heffer, brillante storico e editorialista, vicedirettore dello «Spectator» nei primi anni Novanta – mio diretto predecessore in quel ruolo – e, per molto tempo, generoso e leale amico. Simon, il cui amore per la letteratura, il cinema e la musica inglesi è profondo e genuino, mi portò all’unica partita di county cricket cui abbia mai assistito e mi fece conoscere le Ealing Comedies, una serie di divertenti e colti film inglesi degli anni Quaranta e Cinquanta, alcuni dei quali vidi a casa sua. Sono la madrina di uno dei suoi figli, proprio come Ania Bielecka è la madrina di uno dei miei. Per la maggior parte del tempo in cui lavorammo insieme attaccò con energia, benché ancora in qualche misura allegramente, John Major, la UE e lo status del Regno Unito moderno. Verso la metà degli anni Duemila, quando ero fuori dalla Gran Bretagna e lo vedevo solo occasionalmente, il lungo periodo di leadership laburista lo aveva reso ormai furibondo. Nel 2006, un momento in cui era difficile immaginare come un qualsiasi leader conservatore avrebbe mai potuto sconfiggere il Partito laburista, scrisse per esempio che «grazie a un felice incidente di nascita, alla fine degli anni Sessanta avevo solo nove anni e mezzo»:


Dico felice perché quando vedo un paese guidato da persone che hanno dieci anni più di me e sono ancora ossessionate dalle droghe, da peace-and-love e dall’autoindulgenza da capelloni hippy per cui quel vergognoso decennio è famoso, ringrazio Dio di averlo evitato … Il nostro governo di ex militanti politici studenteschi … è tuttora completamente azzoppato dai loro pregiudizi adolescenziali e assolutamente noioso al riguardo. E il danno che queste persone, nella loro mancanza di saggezza, infliggono alla società è ancora enorme, e altrettanto corrosivo del flagello delle droghe che, fino a ora, esse hanno preso tanto alla leggera.13


Ma il problema non erano solo le droghe. Heffer vedeva tutto intorno a sé segni di declino, come l’ascesa del politically correct e una «violenta ondata di criminalità». Soprattutto, scrisse nello spirito di Langbehn, «l’idea di merito è scomparsa dalla vita pubblica». Al pari del suo predecessore tedesco, egli lamentava che l’età moderna non producesse più grandi leader. Non c’erano più dei Churchill o delle Thatcher, solo droghe, peace-and-love e autoindulgenza da capelloni hippy del Partito laburista di Tony Blair. La sua fiducia nella leadership moderna non rinacque neanche quando al potere tornarono infine i conservatori. Subito dopo la scelta di David Cameron quale leader del Partito conservatore, scrisse che egli «non aveva mai mostrato neanche un briciolo di principio in un qualsiasi momento della sua carriera politica»,14 e ripeté in varie versioni lo stesso giudizio in molti articoli nei successivi sette anni, fino al momento della campagna referendaria sulla Brexit. In quell’occasione sostenne il «Leave» e un mese prima del voto definì Cameron un «bugiardo».15 Nello stesso articolo denunciò il Regno Unito come «repubblica delle banane» con istituzioni senza alcun valore.


Nelle sue invettive al vetriolo forse Heffer era unico, ma non lo era affatto per il senso di frustrazione che provava. Pochi anni prima Roger Scruton, grande filosofo conservatore e anch’egli mio vecchio amico, aveva pubblicato un libro, England: An Elegy, davvero toccante, scritto meravigliosamente e più apocalittico persino degli articoli di Heffer. Avevo conosciuto Scruton sul finire degli anni Ottanta, quando dirigeva un organismo che inviava denaro ai dissidenti dell’Est europeo utilizzando come corrieri studenti e non solo; io divenni una di loro. Sapevo quindi che era stato un coraggioso critico del comunismo in un’epoca in cui esserlo non era di moda. Ma il soggetto di England: An Elegy era diverso. Scruton iniziava spiegando che con quel libro voleva «pagare un tributo personale alla civiltà che mi ha foggiato e che ora sta scomparendo dal mondo». Non si trattava di un’analisi o di un’opera di storia, bensì di «un’orazione funebre», del «tentativo di capire, da un punto di vista filosofico, quello che stiamo perdendo con il decadere della nostra forma di vita». I capitoli che seguivano, composti con eleganza, rendevano omaggio a quella che era, nelle sue parole, un’Inghilterra morta o moribonda: la cultura inglese, la religione inglese, le leggi inglesi e il carattere inglese. La sua era classica nostalgia riflessiva, e il libro terminava con una straordinaria manifestazione di disperazione culturale:


La vecchia Inghilterra per la quale i nostri genitori hanno combattuto è stata ridotta a sacche isolate fra un’autostrada e l’altra. L’azienda agricola di famiglia, che manteneva la produzione su piccola scala e diversificata cui si doveva in gran parte la forma e l’aspetto dell’Inghilterra, è sull’orlo dell’estinzione. Le cittadine hanno perso i loro centri, abbandonati e vandalizzati; e le grandi città sono state quasi del tutto cancellate da imponenti strutture in acciaio che, di notte, svettano vuote in mezzo a distese di cemento illuminate. Il cielo notturno non è più visibile, ma ricoperto ovunque da un malaticcio bagliore arancione, e l’Inghilterra sta divenendo una terra di nessuno, un «altrove» gestito da manager che visitano gli avamposti solo fugacemente, dimorando in hotel multinazionali ai margini di terre desolate rischiarate da fari.16


L’amore di Scruton per le campagne, la lotta in difesa degli stili architettonici premoderni che ha condotto per tutta la vita e la sua fede nelle comunità e nelle istituzioni locali avrebbero potuto portarlo a sostenere la UE, le cui politiche mirano esplicitamente a proteggere e promuovere prodotti e marchi europei, a preservare l’architettura e l’agricoltura europee e, con esse, le campagne europee, a volte contro le forze di mercato. Avrebbe potuto chiedere che la UE facesse di più e meglio in questo senso; avrebbe potuto, come tanti europei, giungere a vedere nella UE un baluardo contro un mondo sempre più dominato dalla Cina, dagli Stati Uniti e dalle società e banche globali, che per le cittadine europee come quelle amate da Scruton non hanno il minimo interesse. Invece, come Heffer e tanti altri, egli giunse alla conclusione opposta.


Con il tempo la UE divenne una sorta di ossessione per i conservatori nostalgici. A prescindere da qualsiasi legittima critica a politiche e comportamenti dell’Unione, e di critiche da fare ce n’erano naturalmente molte, l’«Europa» si trasformò per alcuni di loro nell’incarnazione di tutto ciò che era andato storto, nella spiegazione dell’impotenza della classe dominante, della mediocrità della cultura britannica, della bruttezza del capitalismo moderno e della generale mancanza di vigore nazionale. La necessità di negoziare le regole aveva castrato il Parlamento britannico. Gli idraulici polacchi e i data analysts spagnoli che lavoravano in Gran Bretagna non erano concittadini europei che condividevano una cultura comune, ma immigrati che minacciavano l’identità della nazione. Con il passare del tempo questo modo di vedere si radicò sempre di più, tanto da alterare relazioni, modificare opinioni e creare a poco a poco nuove spaccature. Nel 2012 mio marito tenne a un convegno un discorso in cui chiedeva alla Gran Bretagna non solo di restare nella UE, ma di guidarla. L’Unione europea, disse, «è una potenza anglofona. Il mercato unico è stato un’idea britannica. … Se solo lo voleste, voi potreste guidare la politica di difesa dell’Europa». Il discorso fu riportato dal «Times»; Heffer mi scrisse al riguardo un messaggio pieno d’ira. Anch’io, più tardi, gli mandai messaggi adirati, e per molto tempo non ci parlammo più.


A coloro che in Inghilterra, ed erano perlopiù in Inghilterra, non in Scozia, nel Galles o in Irlanda del Nord, vedevano il mondo attraverso tale prisma, la lotta contro l’«Europa» assunse lentamente il carattere di un eroico conflitto, che trovava evidenti echi nel passato. La cultura popolare aveva già fatto della seconda guerra mondiale l’evento centrale della storia moderna, e a questa narrazione la Brexit s’accordava perfettamente. Nel periodo di pausa tra il referendum e la Brexit uscirono due film su Churchill e uno su Dunkerque. La biografia di Churchill pubblicata nel 2018 da Andrew Roberts divenne un bestseller; e anche quella pubblicata da Boris Johnson qualche anno prima aveva avuto un buon successo. William Cash, parlamentare tory che ha consacrato la propria carriera al ritiro del suo paese dall’Europa, paragonò in un’intervista del 2016 l’adesione della Gran Bretagna alla UE all’appeasement. Nella stessa intervista evocò il padre, morto sulle spiagge della Normandia, per spiegare perché non voleva vivere in un’«Europa a guida tedesca».17 Nell’ultimo editoriale che scrisse prima del referendum, Heffer definì la UE, organizzazione che la Gran Bretagna aveva contribuito a dirigere per due generazioni, «una potenza straniera che detta regole ai [nostri] tribunali e al [nostro] governo eletto». E dichiarò che coloro che facevano campagna per il «Leave» testimoniavano di uno «scatto di coscienza nazionale cui non abbiamo più assistito dopo la seconda guerra mondiale». Infine, evocando lo spirito del Blitz su Londra, proclamò: «Questo è il nostro momento di grandezza».18


Questa svolta verso la nostalgia restauratrice allontanò Heffer dal Partito conservatore ben prima del 2016. Un giorno, negli anni Novanta, mi disse che avrebbe votato per l’UK Independence Party, il movimento politico monotematico che voleva fare uscire la Gran Bretagna dalla UE, anche se, ovviamente, non so se lo fece davvero; ricordo che mi stupii perché non avevo mai sentito parlare dell’UKIP, a quei tempi molto ai margini della vita politica. Esso era, in pratica, il partito del nazionalismo inglese: quello che realmente gli interessava era la rinascita dell’Inghilterra e la sua «indipendenza». Il suo fondatore e leader, Nigel Farage, era un ricco uomo d’affari della City. Figlio di un agente di cambio, amava indossare giacche di tweed, farsi fotografare a bere birra nei pub e, ipocritamente, dichiarava di parlare a favore dell’uomo comune e contro l’«élite». Non condivideva la nostalgia burkeana ed elegiaca di Scruton; prese la rabbia di Heffer contro coloro che erano alla guida della Gran Bretagna e la sfruttò a fini politici. Non era minimamente un intellettuale, ma una persona che, come uno dei «chierici» di Benda, dava forma a idee altrui facendone un progetto politico. In un primo momento i tory lo attaccarono. Poi, vedendo l’ascesa della stella dell’UKIP, cercarono di copiarlo.


A volte in questo tipo di nazionalismo inglese c’era un sottofondo razziale: se possono esserci britannici neri, non possono esserci, per definizione, «inglesi» neri. Non si trattava però in realtà di colore della pelle. Il concetto di «inglesità» escludeva anche gli irlandesi britannici di Belfast, nonché gli scozzesi britannici di Glasgow e chiunque altro appartenesse nel Regno Unito alla sua frangia gaelica. I nazionalisti di questo genere giunsero persino a pensare che se l’abbandono della UE avesse portato alla dissoluzione del Regno Unito, e sapevano che sarebbe potuto accadere, bene, che così fosse. Anche John O’Sullivan, ex autore di discorsi per Margaret Thatcher, era disponibile a pagare questo prezzo. «Oh, la Scozia se ne andrà» mi disse anni fa «e noi proseguiremo per la nostra strada.»


Per alcuni il caos costituzionale e politico che la Brexit rischiava di produrre non era un deplorevole effetto collaterale: era parte della sua attrattiva. Dominic Cummings, con le sue felpe con cappuccio e i suoi occhiali da sole scuri, esibiva uno stile completamente diverso da quello dei conservatori nostalgici, con i loro abiti di tweed, scarpe brogues e giacche Barbour. Per quanto ne so, non ha mai espresso la benché minima nostalgia per il passato. Ma, dal punto di vista sociologico, Cummings, uno dei principali spin doctors della campagna per il «Leave» e poi primo consigliere di Johnson, era strettamente imparentato con i conservatori nostalgici. Marito di una manager dello «Spectator», genero di un baronetto, nipote di un famoso giudice, s’era laureato in discipline umanistiche a Oxford. Cosa ancora più importante, condivideva parte della loro sensibilità, specie la convinzione che qualcosa di essenziale in Inghilterra fosse morto e sepolto. Nel periodo che precedette la campagna per la Brexit e nei mesi successivi, Cummings scrisse una serie di blog post infarciti di linguaggio tecnico e gergo militare, in cui manifestava tutto il suo disprezzo per il Parlamento britannico, i politici britannici e l’amministrazione britannica, esprimendosi in modo diverso da Heffer ma con altrettanta rabbia. Parlò della «disfunzione sistemica delle nostre istituzioni» e dell’«influenza di grotteschi incompetenti», e paragonò il processo decisionale britannico al «cieco che guida un altro cieco».19


Anche se non si sarebbe mai definito tale, Cummings vedeva l’Europa come la vedevano altri nostalgici restauratori. In uno dei suoi saggi online, pubblicato nel 2019, quando ancora Boris Johnson non lo aveva nominato primo consigliere speciale, Cummings attaccò duramente la UE accusandola di rappresentare un freno per la Gran Bretagna: «Le vecchie istituzioni come l’ONU e la UE, fondate su presupposti da primo XX secolo circa l’efficienza di burocrazie accentrate, sono incapaci di risolvere problemi di coordinamento globale». La sua conclusione: reinventare tutto, dalle scuole all’amministrazione e allo stesso Parlamento.20


Ma, che la loro disperazione culturale fosse rabbiosa o elegiaca, che la loro nostalgia fosse restauratrice o riflessiva, che fossero «chierici» come Cummings o si tenessero a una certa distanza dalla politica come Scruton, i conservatori nostalgici gettarono le basi per la campagna pro-Brexit che, ai suoi fautori, sembrava l’ultima possibilità per salvare il paese, qualunque cosa ciò richiedesse, qualunque prezzo si dovesse pagare. Sia nella campagna dell’establishment conservatore «Vote Leave», guidata da Johnson e dal suo collega tory Michael Gove, sia in quella dell’UKIP guidata da Nigel Farage si dissero bugie. Se lasciassimo la UE, dichiarò Johnson, ci troveremmo con 350 milioni di sterline in più alla settimana – una cifra immaginaria – per il servizio sanitario nazionale. Se rimanessimo nella UE saremmo costretti ad accettare che la Turchia ne divenga un membro: affermazione anche questa falsa. Farage apparve di fronte a un manifesto che mostrava enormi folle di siriani in cammino verso l’Europa, anche se non c’era alcun motivo per cui qualcuno di essi dovesse finire nel Regno Unito, che non faceva parte dell’area Schengen, la zona d’Europa senza frontiere. Più tardi, in un’intervista, Cummings avrebbe paragonato quella campagna alla «propaganda sovietica».21 Ma anche la sua campagna fece leva sulla paura per l’immigrazione, alimentandola, e su false promesse riguardo alla spesa sociale, collegando deliberatamente le due cose. Fra altre iniziative, Cummings realizzò un video che affermava: «La Turchia aderisce alla UE. Le nostre scuole e gli ospedali sono già al collasso». Sebbene non avesse alcun rapporto con la realtà, fu visto 515.000 volte.


Un tempo, per dare a delle idee la forma di progetti politici, si scrivevano pamphlet; la campagna per la Brexit segnò la fine di tale pratica e la nascita di qualcosa di nuovo. Nella campagna «Vote Leave» si ricorse all’imbroglio: si infransero le leggi elettorali per spendere più soldi in pubblicità mirate su Facebook. Agli amanti degli animali vennero mostrate fotografie di toreri spagnoli; agli amanti del tè fu fatta vedere una mano, contrassegnata da una bandiera della UE, in procinto di afferrare una tazza da tè britannica accanto a un furioso slogan: «L’Unione europea vuole uccidere la nostra tazza da tè». A questi fini, oltretutto, la campagna «Vote Leave» utilizzò i dati rubati dalla Cambridge Analytica. Tutte le campagne per la Brexit trassero beneficio dalle operazioni di trolling russe, anche se queste ultime si limitarono perlopiù a echeggiare quello che «Vote Leave» stava già facendo comunque. Il clima in cui si svolse la campagna fu il peggiore della storia moderna della Gran Bretagna. Al suo apice, Jo Cox, membro del Parlamento, fu assassinata da un uomo convinto che la Brexit significasse liberazione e «Remain» che l’Inghilterra sarebbe stata distrutta da orde di stranieri dalla pelle scura. Come l’assassino di Paweł Adamowicz, sindaco di Danzica, anch’egli era stato radicalizzato dalla rabbiosa retorica che lo circondava.


Sia allora sia dopo, gli attivisti decisi a restaurare la grandezza dell’Inghilterra rimasero concentrati sull’obiettivo del «Leave». Conoscendone alcuni, e sapendo quanto fossero profondamente preoccupati per il loro paese e convinti che la loro civiltà fosse a rischio, ne capivo lo stato d’animo, anche se non lo condividevo. Essi credevano che il sistema politico britannico fosse troppo corrotto per riformarsi, che l’Inghilterra fosse così cambiata da risultare irriconoscibile, che l’essenza stessa della nazione stesse scomparendo. Ma, se tutto ciò era vero, allora solo una rivoluzione profonda, una rivoluzione che giungesse a modificare la natura dello Stato, i suoi confini, le sue tradizioni, addirittura le sue istituzioni democratiche, avrebbe forse potuto fermare la decadenza. Se era la Brexit quella rivoluzione, tutto ciò che poteva portarvi, dalle false dichiarazioni sulla spesa sociale alla manipolazione dei dati, agli attacchi al sistema giudiziario e al denaro russo, era accettabile. Tale prospettiva di svolta radicale continuò a ispirarli e motivarli anche quando si scontrò con alcuni problemi.


La ragione principale a favore della Brexit, negli scritti e nei discorsi di alcuni brexiteers, era la democrazia. Già nel 2010 Heffer scriveva che «in larga misura l’Europa è avanzata grazie al fatto di essere antidemocratica», che essa era stata «sovietizzata», e che la Gran Bretagna doveva fuggirne per amore della sua democrazia.22 Il parlamentare tory Michael Gove disse in pubblico nel 2016 che «la nostra adesione alla UE ci impedisce di scegliere chi prende decisioni cruciali che influenzano tutta la nostra vita». La sua speranza era che una vittoria della Brexit portasse alla «liberazione democratica di un intero continente».23 In nessun momento i brexiteers cercarono di raggiungere il loro obiettivo senza ricorrere a un voto referendario.


Ma per quanto in teoria sostenessero la democrazia, parecchi brexiteers, specie quelli che lavoravano per la stampa sensazionalistica, erano in pratica disgustati dalle istituzioni democratiche del Regno Unito. Quando tre giudici britannici sentenziarono, nel novembre 2016, che il Parlamento avrebbe dovuto dare il suo consenso prima che il governo potesse ritirarsi ufficialmente dalla UE, il «Daily Mail», quotidiano diretto da brexiteers, pubblicò una prima pagina straordinaria: le foto dei tre giudici in toga e parrucca sotto il titolo Nemici del popolo.24


La decisione non aveva nulla a che vedere con la Brexit. Anzi, rafforzava la sovranità del Parlamento. Nell’articolo che accompagnava le fotografie, tuttavia, i tre giudici, fra cui il Lord Chief Justice e il Master of the Rolls, come suonano i loro titoli completi, furono additati al pubblico disprezzo. Un tempo personaggi dell’establishment di quel livello erano rispettati dai conservatori burkeani; ora erano divenuti outsiders, alieni, un’élite «lontana dai cittadini» che cercava di contrastare i «veri» britannici. Uno di loro era definito beffardamente «ex schermidore olimpico apertamente gay».25 E il sistema giudiziario non era l’unica venerabile istituzione britannica sotto assalto. Un altro servizio in prima pagina del «Daily Mail» attaccò, sotto il titolo Schiacciate i sabotatori, la Camera dei Lord.26


Mentre i negoziati con la UE si trascinavano, il disprezzo dei brexiteers per le istituzioni britanniche non fece che aumentare. Com’era inevitabile, il processo di tirare fuori la Gran Bretagna da quarant’anni di trattati si rivelò molto più complicato di quanto semplicistici slogan elettorali avessero promesso. Apparve evidente che pochissimi conservatori nostalgici capivano realmente l’Europa e la politica europea, e le loro previsioni su quello che sarebbe successo con la vittoria referendaria si rivelarono tutte sbagliate. Heffer scrisse un editoriale in cui sosteneva che la Brexit avrebbe portato a un’ondata di analoghi referendum in altri paesi europei;27 in realtà essa non fece che accrescere il sostegno alla UE. Subito dopo il voto un conservatore membro della Camera dei Lord mi disse di aver parlato personalmente con i maggiori industriali tedeschi, i quali gli avevano assicurato che qualunque accordo raggiunto sarebbe stato favorevole alla Gran Bretagna. In realtà, i maggiori industriali tedeschi iniziarono a parlare di disinvestire dal Regno Unito. Durante la campagna referendaria nessuno aveva minimamente pensato all’Irlanda del Nord, né alla necessità, se la Gran Bretagna fosse uscita dal mercato unico, di ripristinare una frontiera doganale britannico-irlandese. Non appena le trattative cominciarono, tali problemi si rivelarono immediatamente i più centrali.


Rendersi conto di avere sottovalutato i costi e sopravvalutato la facilità dell’uscita del paese dall’Europa fece cadere alcuni brexiteers nel silenzio. Una giornalista mi confidò in privato di avere mutato idea sulla Brexit, anche se, nel tono dei suoi articoli, non notai alcun cambiamento. Altri, invece, furono attratti ancora di più dalla prospettiva del caos. Una Brexit no-deal, senza alcun accordo, soluzione che avrebbe portato all’esclusione della Gran Bretagna da tutti i trattati stipulati con l’Europa, con la conseguenza di un automatico aumento delle tariffe e dell’incertezza giuridica per milioni di persone, non era più considerata un esito infelice, da evitare a tutti i costi. Essi volevano un terremoto. Volevano un impatto violento. Volevano un vero cambiamento. Era giunto finalmente il momento in cui sarebbe stato possibile convertire la loro nostalgia per un passato migliore in un futuro migliore.


Di tale desiderio di caos c’erano più versioni. Alcuni giunsero a convincersi che un’improvvisa caduta dell’attività economica sarebbe stata positiva per l’anima della nazione. Tutti si sarebbero fatti coraggio, avrebbero stretto la cinghia e lavorato di più. «I britannici sono tra i peggiori fannulloni del mondo» scrisse dei propri connazionali un gruppo di parlamentari pro-Brexit: avevano bisogno di uno shock, di un periodo di stenti, di una sfida.28 Questo avrebbe riportato la Gran Bretagna, o almeno l’Inghilterra, alla sua essenza, fatto emergere tutto il coraggio del paese. Avrebbe obbligato il pigro e decadente Stato moderno a ritrovare, nelle parole di Johnson, «il dinamismo di quei barbuti vittoriani».29


All’estremità opposta dello spettro politico prese piede un tipo diverso di fantasia catastrofica. Il leader laburista Jeremy Corbyn proveniva da una tradizione marxista che, storicamente, vedeva con favore la catastrofe, suscettibile di portare a una svolta radicale. Se non lo dissero mai in pubblico, Tom Watson, allora vicecapo del Partito laburista, rivelò in privato al giornalista Nick Cohen che una parte della leadership laburista «è assolutamente convinta che, se la Brexit condurrà al caos, gli elettori si rivolgeranno alla sinistra radicale».30 Anche un sottogruppo della sinistra intellettuale britannica sembrava sperare che la Brexit avrebbe come minimo scosso il paese strappandolo al sistema economico capitalista. La rivista di sinistra «Jacobin», per esempio, pubblicò un articolo in cui si sosteneva che la Brexit offriva «un’opportunità irripetibile per dimostrare che una rottura radicale con il neoliberismo, e con le istituzioni che lo supportano, è possibile».31


Altri ancora speravano in una profonda crisi, ma con un esito diverso: il caos avrebbe portato a un «falò di regolamenti», un abbandono del welfare state e nuove opportunità per hedge funds e investitori. La Gran Bretagna sarebbe potuta divenire il paradiso fiscale offshore d’Europa, la «Singapore sul Tamigi», come mi disse l’eurodeputato del Brexit Party Robert Rowland. Gli oligarchi sarebbero stati felici; tutti gli altri avrebbero semplicemente dovuto adeguarsi. Tutto sarebbe andato meglio.


Non si trattava di punti di vista marginali, né considerati folli. Tali fantasie furono espresse in momenti diversi da personalità dell’establishment quali il primo ministro, il leader dell’opposizione e ricchi finanzieri. Nessuno, ovviamente, aveva votato per quel tipo di sconvolgimento, di cui nella campagna referendaria non si era nemmeno mai parlato. Anche la maggioranza del Parlamento era contraria, come lo era la maggioranza nel paese. Ma a poco a poco fu quello a divenire, per molti brexiteers, il vero obiettivo. E se le istituzioni dello Stato britannico si fossero messe di mezzo, ne avrebbero subito le conseguenze.


Non credo sia una coincidenza che, più o meno nello stesso periodo, anche alcuni tory, membri di spicco del Partito conservatore, ex thatcheriani, veterani della guerra fredda, s’invaghissero delle politiche antidemocratiche di altri paesi. Il governo di Theresa May aveva abbandonato straordinariamente in fretta la vecchia idea che la Gran Bretagna dovesse difendere la democrazia in tutto il mondo; Johnson, durante il suo breve e disastroso mandato di ministro degli Esteri, non fece il minimo sforzo in questa direzione. In politica estera, dopo il 2016, la Gran Bretagna si mostrò interessata unicamente alla Brexit. Così, per esempio, il Partito conservatore britannico, invece di usare la sua notevole influenza su Varsavia per persuadere il partito polacco Diritto e Giustizia a non prendere il controllo del sistema giudiziario del paese – i due partiti facevano parte dello stesso gruppo nel Parlamento europeo –, si lanciò in sua difesa.


Per alcuni tutto ciò richiese una svolta non indifferente in termini di valori. In passato, per esempio, l’europarlamentare tory Daniel Hannan non aveva usato mezze parole nel denunciare le menzogne comuniste. Come me, aveva persino aiutato Scruton a inviare denaro ai dissidenti dell’Europa orientale. Ma quando menzogne dello stesso tipo giunsero dai suoi colleghi di Diritto e Giustizia al Parlamento europeo, le ignorò. «Non voglio intromettermi nella politica interna polacca» mi disse quando gli posi domande al riguardo nel gennaio 2020, durante la sua ultima settimana nel palazzo del Parlamento di Strasburgo.


Alcuni europarlamentari britannici si spinsero ancora oltre. Nel 2018 eurodeputati del Partito conservatore e dell’UKIP votarono per evitare che Orbán fosse censurato dalla UE per avere illegalmente minato l’indipendenza del sistema giudiziario del suo paese. Perché i politici di un paese fedele allo Stato di diritto si comportavano in questo modo? Citando le parole di un ex parlamentare europeo dell’UKIP, per «affermare il diritto di una nazione democratica a contestare le ingerenze di Bruxelles».


Più o meno nello stesso periodo lo «Spectator», il settimanle per cui un tempo avevo lavorato, acconsentì tranquillamente a organizzare un convegno sponsorizzato dalla fondazione Századvég, fedelmente dedita a promuovere gli interessi di Fidesz, il partito al potere in Ungheria. Una volta la fondazione chiuse la sua stessa rivista perché aveva pubblicato un articolo critico verso il governo. «Compito di questa pubblicazione» spiegò il direttore «è sostenere le direttive del governo.» Il tema del convegno organizzato congiuntamente dallo «Spectator» e dalla fondazione Századvég non era tuttavia la libertà di stampa, bensì la politica migratoria, argomento su cui la leadership magiara fa leva per accattivarsi i conservatori antimmigrati dell’Europa occidentale, anche se l’Ungheria in sé non è meta di migrazioni di massa né lo è mai stata. Al convegno fece seguito quella che fu a tutti gli effetti una serata di allegre sbronze all’ambasciata ungherese, durante la quale l’ambasciatore diede il benvenuto agli scrittori e ai giornalisti televisivi seduti al tavolo chiamandoli compagni «conservatori» che si battevano tutti per la stessa causa.


Quando posi qualche domanda in proposito al direttore dello «Spectator», Fraser Nelson, egli negò con veemenza di provare un briciolo di simpatia per l’autoritarismo magiaro. Anche se non rinunciò al coinvolgimento nel convegno (né, presumibilmente, ai relativi finanziamenti), mi permise di scrivere un articolo per dire che alcuni brexiteers stavano «fornendo copertura intellettuale a un partito politico profondamente corrotto, un partito che non lascerà mai volontariamente la UE perché i suoi leader hanno inventato troppi abili sistemi per dirottare i fondi dell’Unione a beneficio dei loro amici».32 Questo fece infuriare l’ambasciatore ungherese a Londra, che a una festa per la presentazione di un libro, cui era stato invitato da un mio amico, mi mise alle strette accusandomi di avere scritto cose che gli avrebbero reso più difficile fare il suo lavoro. L’accusa non era senza fondamento.


Gli ungheresi attirarono anche alcune persone la cui rabbia o delusione per il proprio paese spingeva a cercare più attivamente alternative altrove. Una di esse era John O’Sullivan, lo stesso John O’Sullivan che si espresse così sprezzantemente sulla prospettiva che la Scozia lasciasse il Regno Unito. Ghostwriter della Thatcher e scrittore raffinato, negli anni Ottanta e Novanta era stato direttore di uno dei più importanti periodici conservatori americani, la «National Review». In tale veste aveva assunto una volta mio marito come «corrispondente itinerante», ed era venuto al nostro matrimonio. Godeva della meritata reputazione di bon vivant: un amico comune ricorda di essere andato nel suo appartamento e avere notato che in frigorifero non aveva altro che una bottiglia di champagne. Oltre che un eccellente scrittore, O’Sullivan era anche un grande parlatore, ma, ormai sulla settantina e verso la fine della sua insigne carriera, trovò la strada di Budapest.


Lì iniziò a lavorare per l’Istituto Danubio, un think tank creato e finanziato, tramite un’altra fondazione, dal governo magiaro. Parlandomene, lo definì «conservatore in campo culturale, classicamente liberale in economia e atlantista in politica estera». Ma l’unica ragione di esistenza dell’Istituto Danubio è, in pratica, rendere il governo ungherese presentabile agli occhi del mondo esterno. All’interno del paese non ha alcuna influenza; secondo amici ungheresi la sua presenza a Budapest è «marginale». Gli ungheresi, in linea di massima, non leggono le sue pubblicazioni in lingua inglese (alquanto rare, d’altronde), e gli eventi che organizza non sono degni di nota e, perlopiù, passano inosservati. Ma O’Sullivan ha un ufficio e un appartamento a Budapest. E dispone dei mezzi per invitare i suoi numerosi amici e conoscenti, tutti scrittori e pensatori conservatori, a rendergli visita in una delle più belle e maestose città d’Europa. Non ho dubbi che, quando vi arrivano, trovino in lui l’ospite gioviale e spiritoso che è sempre stato.


O’Sullivan ha difeso Orbán in più occasioni, fra cui nell’introduzione a un breve libro sul primo ministro magiaro.33 La sua difesa suona più o meno così: tutto quello che avete sentito dire dell’Ungheria è falso. C’è molta libertà. Se altri europei la criticano non è per la corruzione, o per la xenofobia coltivata con cura dal governo, ma perché non amano i valori «cristiani» di Orbán. Quest’ultimo argomento esercita una forte attrattiva su autori conservatori americani come Christopher Caldwell che, dopo essersi recato su invito di O’Sullivan a Budapest, ha scritto per la «Claremont Review» un lungo articolo lodando l’attacco di Orbán a «strutture sociali neutrali e condizioni di parità», un eufemismo per tribunali indipendenti e Stato di diritto.34


Caldwell ha cantato persino le lodi della mistica «comunità organica» creata al suo posto, secondo lui, da Orbán; anche se solo uno straniero potrebbe chiamare una «comunità organica» il suo Stato chiuso, corrotto e monopartitico: un mondo in cui amici, familiari e cugini del primo ministro si arricchiscono, si viene promossi o retrocessi a seconda della fedeltà al partito, e tutti gli altri sono lasciati fuori. E solo un ideologo può credere che i vicini europei dell’Ungheria siano infastiditi dal «cristianesimo» di Orbán. In realtà sono infastiditi dalla xenofobia coltivata con le campagne anti-Soros e antieuropee, sono infastiditi dalle manipolazioni della legge con cui il primo ministro magiaro s’è assicurato il controllo quasi completo della stampa e del processo elettorale, e sono infastiditi dalla sua corruzione e dall’utilizzo del denaro della UE a favore dei suoi sodali. Nella primavera del 2020 si sono indignati quando Orbán ha usato il coronavirus come pretesto per conferire al suo governo poteri quasi dittatoriali, fra cui quello di arrestare i giornalisti che criticano la risposta governativa alla pandemia. Ma a esasperare è anche l’ipocrisia: di fatto, sono diversi i non europei e non cristiani, come siriani, malesi e vietnamiti, che emigrano in Ungheria. Non hanno che da pagare.


Nel 2013, quando O’Sullivan vi giunse per la prima volta, l’Istituto Danubio era un luogo improbabile per un personaggio illustre come lui. Ma dopo che il governo ungherese ebbe creato un sistema politico in cui nessun partito d’opposizione poteva vincere le elezioni; dopo che la Corte dei conti ebbe privato i partiti d’opposizione dei finanziamenti per le loro campagne; dopo che una holding statale ebbe preso il controllo della maggior parte dei media magiari; dopo che il governo ungherese ebbe costretto l’Università dell’Europa centrale a lasciare il paese; dopo che familiari e amici di Orbán si furono arricchiti grazie a contratti statali; dopo che il partito al potere ebbe usato nella sua campagna elettorale il razzismo e un antisemitismo dissimulato (Orbán stava combattendo un anonimo «nemico», «astuto» e «internazionale», dedito a «speculazioni finanziarie»); dopo che Orbán ebbe dato il benvenuto a una banca russa con legami nel mondo dello spionaggio; dopo che ebbe minato la politica degli Stati Uniti in Ucraina; dopo tutto ciò, la posizione di O’Sullivan all’Istituto Danubio divenne strana, e le bugie che propinava agli amici che andavano a trovarlo ancora di più. A quel punto, l’unico motivo immaginabile perché il governo ungherese dovesse finanziare l’Istituto Danubio era di occultare la vera natura di un governo che non era affatto conservatore nel vecchio senso anglosassone, né classicamente liberale in economia, né particolarmente atlantista.


Mi ci volle un po’ per entrare in contatto con O’Sullivan: era sempre in movimento. Quando, nell’autunno del 2019, riuscimmo a parlare al telefono, era su una nave da crociera e, per il suo fuso orario, era molto tardi. Avemmo una conversazione spiacevole, anche se non tanto spiacevole come quella che avevo avuto con Mária Schmidt. Non chiese di poter registrare il nostro colloquio e non ne pubblicò poi una versione scorretta. Ma affrontò l’intervista ricorrendo a una qualche forma di whataboutism, una tecnica retorica che, resa famosa un tempo dai funzionari sovietici, consiste nel rispondere alle domande accusando chi le pone di ipocrisia. Ai miei quesiti sui media ungheresi, posseduti e gestiti al 90 per cento dal governo o da società legate al partito al potere, rispose che la maggior parte dei media statunitensi era «più favorevole» al Partito democratico, per cui le due situazioni si equivalevano. Quando gli chiesi che cosa pensasse dell’amicizia del governo magiaro con la Russia, mi chiese a sua volta se la Germania fosse davvero fedele agli Stati Uniti e alla NATO. Quando gli chiesi se si sentisse a suo agio a lavorare per un’istituzione finanziata dal governo di Budapest, rispose: «Non ho alcun dubbio sul fatto che il governo in Ungheria persegua politiche con le quali non sono personalmente d’accordo». Ma d’altra parte, proseguì, «ci sono molte politiche governative in paesi diversi che non mi piacciono». Quando gli chiesi degli uomini d’affari ungheresi minacciati dal partito al potere, rispose che «dovrebbero lamentarsi di più».


Convenne che era interessante e degno di nota che un tempo, negli anni Ottanta, lui, Orbán e io fossimo tutti dalla stessa parte, e ora non lo fossimo più. Ma la ragione, a suo dire, era che ero cambiata io, non lui. Ora facevo parte di un’«élite liberale, giudiziaria, burocratica e internazionale» che si opponeva a «Parlamenti democraticamente eletti». Non riuscì a spiegarmi davvero come si potesse avere un «Parlamento democraticamente eletto» in uno Stato come l’Ungheria, dove il governo poteva barare – e lo faceva – impunemente, i partiti d’opposizione potevano venire multati o puniti ad arbitrio, una parte del sistema giudiziario era politicizzata e il grosso dei media manipolato dal partito al governo. Anche il suo uso della parola élite era curioso: in Ungheria l’unica élite, un’élite illiberale, giudiziaria e burocratica di un potere schiacciante, era quella che prosperava in seno a Fidesz. In tutto ciò c’era anche una sorta di strana smemoratezza. Un tempo O’Sullivan sarebbe stato orgoglioso di definirsi membro di un’élite internazionale, transatlantica, che partecipava a feste con Rupert Murdoch e lussuose cene con Conrad Black. Ma, ovunque la sua nave da crociera si trovasse, era tardi. Egli era infastidito, e lo ero anch’io.35


Non credo che Boris Johnson avesse iniziato a pensare a se stesso come a un membro di una nuova élite, tanto meno come a un rivoluzionario. Egli era, dopotutto, un membro a pieno titolo della vecchia élite. E qualunque cosa credessero i suoi deputati e consiglieri, non gli interessava minare lo Stato, né ridefinire la Gran Bretagna o l’Inghilterra. Stava solo cercando di vincere, di essere ammirato; voleva continuare a raccontare storie divertenti e acquisire potere. Ma nel nuovo mondo politico creato dalla Brexit, per vincere si dovevano compiere passi senza precedenti. Ci si doveva spingere ai limiti della Costituzione. Il Partito conservatore doveva essere ripulito dai dubbiosi. Si dovevano cambiare le regole. E, nell’autunno del 2019, egli iniziò a cambiarle.


Nel settembre 2019, su consiglio di Cummings, prese la decisione straordinaria di prorogare il Parlamento, vale a dire sospenderlo, iniziativa eccezionale e incostituzionale. Inoltre, cosa altrettanto senza precedenti, espulse dal partito un gruppo di tory liberali che stavano cercando di bloccare una Brexit no-deal. Fra di essi c’erano due ex cancellieri dello Scacchiere e un nipote di Churchill. Alcuni, fra cui Dominic Grieve, ex procuratore generale e uno degli ultimi tory europeisti per ragioni di principio, furono in seguito vittima di una campagna di diffamazione orchestrata dal loro ex partito. Un’anonima «fonte di Downing Street», presumibilmente Cummings, disse alla stampa che Grieve e altri erano sotto inchiesta per «collusione con potenze straniere», espressione che insinuava un tradimento. Johnson rifiutò di smentire questa storia assurda, dichiarando invece nel corso di un notiziario televisivo: «C’è una domanda legittima da porre».36 Nei giorni successivi Grieve ricevette minacce di morte. Boris definì inoltre le obiezioni parlamentari a una Brexit no-deal una forma di «resa» al nemico, osservazione che cercò di fare passare per una battuta. Non tutti risero.


Al contrario, alcuni di coloro che lo circondavano erano mortalmente seri. I brexiteers erano infuriati con il Parlamento, la cui maggioranza ricorse a ogni tattica legale e a ogni regola parlamentare per bloccare la Brexit no-deal, cui la maggior parte dei britannici era contraria. Alla fine fu accettato un accordo che molti avevano definito inaccettabile solo pochi mesi prima, e che consentiva di erigere una barriera doganale fra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito. La marcia verso una Brexit no-deal era stata bloccata. Ma i brexiteers erano decisi a garantire che nulla potesse nuovamente fermarli. Il manifesto del Partito conservatore, scritto prima della loro campagna elettorale del dicembre 2019, conteneva un accenno alla vendetta che alcuni speravano di prendersi contro coloro che avevano utilizzato con tanta efficacia il sistema di controlli ed equilibri previsto dalla Costituzione:


Dopo la Brexit dovremo anche guardare agli aspetti più generali della nostra Costituzione: il rapporto fra governo, Parlamento e tribunali; il funzionamento della prerogativa reale; il ruolo della Camera dei Lord; e l’accesso alla giustizia per la gente comune.37


Nelle settimane successive alle elezioni si ebbe qualche indizio di quanto sarebbe potuto accadere. Si parlò, come in Polonia, di indebolire i media pubblici, magari con modifiche al finanziamento della BBC. Si parlò, come in Ungheria, di ridimensionare il sistema giudiziario o porgli dei limiti. Si parlò anche di una purga tra i funzionari pubblici. Cummings dichiarò pubblicamente di volere assumere «anticonformisti ed eccentrici» in grado di aiutarlo a realizzare i «grandi cambiamenti in tema di politiche e di struttura del processo decisionale» divenuti, a suo parere, necessari.38 Per tutta la divisiva campagna referendaria e due rabbiose campagne elettorali, gli intellettuali e spin doctors che avevano investito le loro energie a favore della Brexit avevano evocato rivoluzione e distruzione, un tipo di linguaggio estraneo alla politica britannica da molti anni. Dopo la conquista da parte di Johnson di una solida maggioranza, alcuni di loro si trovarono finalmente nella posizione di fare seguire alle parole i fatti.


Ma si trovarono all’improvviso anche di fronte al dilemma formulato già nel 1962 dallo statista americano Dean Acheson: «La Gran Bretagna ha perso un impero, ma non ha ancora trovato un ruolo».39 Nei decenni successivi la Gran Bretagna un ruolo l’aveva trovato: quello di una delle più potenti e attive nazioni leader d’Europa, del più importante anello di collegamento fra Europa e Stati Uniti, e di paladino, soprattutto in Europa, della democrazia e dello Stato di diritto. Adesso, in un mondo drammaticamente rimodellato da una pandemia, i leader britannici partono da zero. Il posto della Gran Bretagna nel mondo, il suo ruolo nel mondo, anche la sua autodefinizione – chi sono i britannici? Che tipo di nazione è la Gran Bretagna? – sono di nuovo questioni aperte. Nell’inedito paesaggio creato dalla doppia crisi, sanitaria ed economica, del 2020, oltre che dal pericoloso incontro dello stesso Johnson con il coronavirus, può emergere qualcosa di ben diverso.


a. Gioco di parole su Gdańsk, Danzica; traducibile alla lettera come «danzicare», in inglese richiama «pattinare» (skating) e «danzare» (dancing). (NdT)


b. I parlamentari incaricati di fare rispettare la disciplina di partito. (NdT)


IV


Valanghe di menzogne

Il cambiamento politico – le modificazioni dell’umore pubblico, i bruschi mutamenti nei sentimenti delle folle, il crollo di fedeltà partitiche – è da tempo oggetto di intenso interesse da parte di accademici e intellettuali di ogni genere. Sulle rivoluzioni esiste una vasta letteratura, cui se ne accompagna una minore sulle formule intese a prevederle. Tali studi si concentrano per la maggior parte su criteri economici misurabili e quantificabili, tipo i gradi di disuguaglianza o gli standard di vita. Molti cercano di immaginare quale livello di sofferenza economica, quanta fame, quanta povertà, provocherà una reazione, farà scendere le persone in piazza, le convincerà a correre rischi.


Negli ultimissimi tempi rispondere a tali domande s’è fatto più difficile. Nel mondo occidentale la stragrande maggioranza della gente non soffre la fame. Ha da mangiare e un tetto. È alfabetizzata. Quando parliamo di «poveri» o «indigenti», a volte ci riferiamo a persone che mancano di cose che un secolo fa nessuno poteva neanche sognarsi, come l’aria condizionata o il wi-fi. In questo nuovo mondo può accadere che grandi cambiamenti, cambiamenti ideologici, non siano causati dalla mancanza di pane, ma da difficoltà di nuovo genere. Può anche sembrare che queste nuove rivoluzioni non abbiano nulla in comune con le vecchie. In un mondo in cui il dibattito politico si svolge perlopiù online o in televisione, non c’è bisogno di scendere in piazza e sventolare una bandiera per dichiarare da che parte si sta. Per esprimere un netto cambiamento di posizione politica è sufficiente cambiare canale, cliccare ogni mattina un diverso sito web o iniziare a seguire un gruppo diverso di persone sui social media.


Uno dei tanti aspetti interessanti della ricerca di Karen Stenner sulle predisposizioni autoritarie è che essa suggerisce come e perché in questo nuovo e diverso mondo del XXI secolo potrebbero prendere piede rivoluzioni politiche. In un collegamento video molto disturbato fra Australia e Polonia, Stenner mi ha ricordato che la «predisposizione autoritaria» che lei ha identificato non equivale esattamente a una ristrettezza di vedute.1 Si può invece meglio definire come una semplicità di vedute: se la gente è spesso attratta da idee autoritarie è perché la complessità la infastidisce. Le divisioni non le piacciono. Preferisce l’unità. Un improvviso emergere di diversità, diversità di opinioni, diversità di esperienze, la manda in collera. E cerca soluzioni in un nuovo linguaggio politico che la faccia sentire più sicura e protetta.


Quali fattori, nel mondo moderno, potrebbero far sì che la gente reagisca contro la complessità? Alcuni sono evidenti. Un importante cambiamento demografico, come l’arrivo di immigrati o comunque stranieri, è una forma di complessità che ha tradizionalmente scatenato pulsioni autoritarie, e continua a farlo. Non fu una sorpresa che la migrazione dal Medio Oriente in Europa, durante la guerra siriana del 2016, di centinaia di migliaia di persone, alcune arrivate su invito della cancelliera tedesca Angela Merkel, portasse a una crescita del sostegno ai partiti politici europei che usavano un linguaggio e simboli autoritari. In alcuni paesi, specie quelli affacciati sul Mediterraneo, quei grandi numeri causarono effettivamente una serie di difficoltà concrete: come ospitare e prendersi cura di gente arrivata su imbarcazioni di vario genere, come nutrirla, cosa farne dopo. Ma anche altrove in Europa, soprattutto in Germania, si presentarono reali problemi di alloggio, formazione e integrazione dei nuovi immigrati. In alcune zone degli Stati Uniti e del Regno Unito è provato che i nuovi immigrati rappresentano una sgradita concorrenza in alcuni lavori. In numerosi paesi s’è assistito a gravi esplosioni di criminalità o terrorismo direttamente collegate ai nuovi arrivati.


Ma il rapporto fra immigrazione reale e movimenti politici antimmigrati non è sempre così chiaro e semplice. Per cominciare, l’immigrazione, anche da paesi di religione o cultura diverse, non genera sempre una reazione contraria. Negli anni Novanta profughi musulmani in fuga dalle guerre nella ex Iugoslavia giunsero in Ungheria senza provocare gravi problemi. Né li provocarono i profughi musulmani arrivati in Polonia dalla Cecenia. Negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno assorbito senza grandi conflitti profughi provenienti, fra gli altri paesi, da Russia, Vietnam, Haiti e Cuba.


La reazione contro gli immigrati non può nemmeno essere sempre attribuita alla loro mancata integrazione. L’antisemitismo giunse all’apice in Germania, per esempio, non all’arrivo degli ebrei, ma proprio quando essi si stavano integrando, stavano avendo successo, si stavano addirittura convertendo. Peggio ancora: si direbbe che ora non occorra nemmeno che in un paese ci siano realmente immigrati, che creino problemi reali, perché l’immigrazione scateni una rabbia furibonda. In Ungheria, come ha ammesso Mária Schmidt, non esistono quasi stranieri, e tuttavia il partito al governo ha alimentato con successo la xenofobia. Quando la gente dice di essere infuriata per l’«immigrazione», insomma, non sempre parla di qualcosa che ha vissuto e sperimentato. Parla di qualcosa di immaginario, di qualcosa di cui ha paura.


Lo stesso vale per le disuguaglianze e la diminuzione dei salari, altro motivo d’ansia, rabbia e divisione. La sola economia non basta a spiegare perché in paesi in cicli economici diversi, con storie politiche diverse e diverse strutture di classe, non solo Europa e Stati Uniti, ma anche India, Filippine e Brasile, si sia sviluppata simultaneamente fra il 2015 e il 2018 una forma simile di politica rabbiosa. L’«economia» o la «disuguaglianza» non spiegano perché, in quel preciso momento, tutti si siano tanto infuriati. In un libro intitolato La tentazione totalitaria, il filosofo francese Jean-François Revel scrisse che «sì, il capitalismo è in piena crisi, è innegabile. Alla fine del 1975 la sua scheda sanitaria era già listata a lutto».2 La diagnosi, risalente a quarant’anni fa, sembra applicarsi al presente. Eppure, l’impatto dei fallimenti del capitalismo è stato avvertito nel 2016, non nel 1976.


Questo non vuol dire che immigrazione e sofferenza economica siano irrilevanti nella crisi attuale: non c’è dubbio che siano autentici motivi di rabbia, angoscia, disagio e divisione. Ma come spiegazione esauriente del cambiamento politico, come spiegazione dell’emergere di nuovissime tipologie di attori politici, sono insufficienti. Sta accadendo qualcos’altro, qualcosa che sta colpendo democrazie estremamente distanti fra loro, con economie e una demografia diversissime, in tutto il mondo.


Accanto alla rinascita della nostalgia, alla delusione per la meritocrazia e al fascino delle teorie del complotto, la risposta potrebbe stare in parte nel carattere polemico e litigioso del discorso moderno stesso: nei modi in cui pensiamo alla politica, la leggiamo, ascoltiamo e comprendiamo. Sappiamo da tempo che nelle società chiuse l’arrivo della democrazia, con le sue voci contrastanti e il divergere delle opinioni, può essere, come s’è espressa Karen Stenner, qualcosa di «complesso e che impaurisce» chi non è abituato al dissenso pubblico. Lo strepito delle discussioni, i costanti mormorii di disaccordo possono irritare chi preferisce vivere in una società legata insieme da un’unica narrazione. La decisa preferenza per l’unità, almeno in una parte della popolazione, contribuisce a spiegare perché tante rivoluzioni liberali o democratiche, a partire dal 1789, siano sfociate in dittature che godevano di ampio sostegno. Isaiah Berlin scrisse una volta del bisogno umano di credere che «da qualche parte, nel passato o nel futuro, nella rivelazione divina o nella mente di un singolo pensatore, nelle solenni dichiarazioni della storia o della scienza … ci sia una soluzione finale». E osservò che non tutte le cose che gli esseri umani ritengono buone o desiderabili sono compatibili fra loro. Efficienza, libertà, giustizia, eguaglianza, le richieste dell’individuo e le richieste del gruppo: tutte queste cose ci spingono in direzioni diverse. E questo, scrisse Berlin, è per molti inaccettabile: «Ammettere che la realizzazione di alcuni nostri ideali può in linea di principio rendere impossibile la realizzazione di altri è come dire che una realizzazione umana totale è una contraddizione formale, una chimera metafisica».3 Tuttavia, l’unità è una chimera che alcuni perseguiranno sempre.


Nelle società più aperte dell’Occidente abbiamo finito per sentirci fieri della nostra tolleranza verso posizioni in conflitto. Ma per gran parte della nostra storia recente la gamma di tali posizioni è stata limitata. A partire dal 1945 i conflitti più importanti sono stati in genere quelli fra centrodestra e centrosinistra. Di conseguenza, il ventaglio di esiti possibili era ridotto, specie nelle democrazie come quelle scandinave, più inclini a cercare il consenso. Ma anche nelle democrazie più turbolente il campo di battaglia era relativamente ben definito. Negli Stati Uniti i vincoli della guerra fredda crearono un accordo bipartisan sulla politica estera del paese. In molte nazioni europee la fedeltà alla UE era considerata fuori discussione. Soprattutto, il predominio delle emittenti televisive nazionali, come la BBC in Gran Bretagna e ABC, CBS e NBC negli Stati Uniti, nonché dei giornali a grande tiratura, che potevano contare sugli introiti di una pubblicità su vasta scala, significava che nella maggior parte dei paesi occidentali, quasi sempre, c’era un singolo dibattito nazionale. Le opinioni erano diverse, ma almeno la maggior parte della gente discuteva all’interno di parametri condivisi.


Quel mondo è svanito. Ora nel modo in cui si trasmettono e ricevono informazioni politiche stiamo vivendo un rapido cambiamento: esattamente il tipo di rivoluzione della comunicazione che ha già avuto conseguenze politiche profonde in passato. Dall’invenzione della stampa nel XV secolo scaturirono meraviglie di tutti i generi: alfabetizzazione di massa, diffusione di conoscenze affidabili, fine del monopolio della Chiesa cattolica sull’informazione. Ma queste stesse meraviglie contribuirono a nuove divisioni, alla polarizzazione e al cambiamento politico. La nuova tecnologia rese possibile alla gente comune leggere la Bibbia, il che contribuì a ispirare la riforma protestante che, a sua volta, contribuì a molti decenni di sanguinose guerre di religione. Martiri furono impiccati, chiese e villaggi saccheggiati in un furioso e pio vortice che si placò soltanto con l’Illuminismo e la diffusa accettazione della tolleranza religiosa.


La fine dei conflitti religiosi segnò l’inizio di conflitti di altro genere, tra ideologie secolari e tra gruppi nazionali, e alcuni di essi divennero ancora più intensi dopo un altro cambiamento nel carattere della comunicazione: l’invenzione della radio e la fine del monopolio della parola stampata. Hitler e Stalin furono tra i primi leader politici a capire quanto quel nuovo medium potesse essere potente. I governi democratici si sforzarono, in un primo tempo, di trovare dei modi per contrastare il linguaggio dei demagoghi, che ormai raggiungeva le persone all’interno delle loro case. Prevedendo come la comunicazione via etere potesse rivelarsi divisiva, il Regno Unito creò nel 1922 la BBC, esplicitamente destinata fin dall’inizio a raggiungere ogni angolo del paese non solo per «informare, educare, intrattenere», ma anche per unire le persone, non in un’unica serie di opinioni, ma in un unico dialogo nazionale che rendesse il dibattito democratico possibile. Negli Stati Uniti furono trovate soluzioni diverse: i giornalisti accettarono un quadro normativo, leggi sulla diffamazione, regole per ottenere licenze radio e televisive. Il presidente Franklin Roosevelt ideò le «chiacchierate al caminetto», una forma di comunicazione più adatta al nuovo medium.


La nostra nuova rivoluzione delle comunicazioni è stata molto più rapida di quella del XV secolo e anche di quella del XX. Dopo l’invenzione della stampa ci vollero molti secoli perché l’analfabetismo scomparisse dall’Europa; dopo l’invenzione della radio i giornali non chiusero i battenti. Invece, il rapido dirottamento della pubblicità e dei relativi proventi verso le società Internet ha gravemente minato, in un solo decennio, la capacità di giornali ed emittenti di raccogliere e comunicare informazioni. Molti, anche se non tutti, hanno completamente smesso di riportare notizie; molti, anche se non tutti, finiranno per cessare di esistere. Il modello di azienda giornalistica e radiotelevisiva più comune, basato su servizi rivolti alla collettività, implicava l’obbligo di servire un interesse pubblico generale e l’impegno almeno teorico all’obiettività. Giornali ed emittenti potevano essere di parte, insipidi e noiosi, ma non lasciavano passare vergognose teorie del complotto. Erano deferenti verso i tribunali e le autorità di regolamentazione. I loro giornalisti si conformavano a codici etici formali e informali.


Soprattutto, i vecchi giornali e le vecchie emittenti creavano la possibilità di un dialogo nazionale unitario. In molte democrazie avanzate, oggi, un dibattito comune non esiste, e tanto meno una narrazione comune. Le persone hanno sempre avuto opinioni diverse. Ora hanno fatti diversi. Nello stesso tempo, in una sfera dell’informazione in cui non esistono autorità, politiche, culturali, morali, né fonti affidabili, non c’è un modo semplice per distinguere fra teorie del complotto e verità. Narrazioni false, tendenziose e spesso deliberatamente fuorvianti si propagano come incendi digitali, valanghe di menzogne che precipitano a valle troppo velocemente perché chi è dedito a verificare i fatti possa tenere il passo. E anche se potesse farlo, non avrebbe importanza: una parte del pubblico non leggerà né vedrà mai i siti web di verifica dei fatti, e se invece lo farà non darà a essi nessun credito. La campagna «Vote Leave» di Dominic Cummings ha dimostrato che è possibile mentire, per di più ripetutamente, e farla franca.


Il problema non sono soltanto le storie false, i fatti riportati scorrettamente, nemmeno le campagne elettorali e gli spin doctors: gli stessi algoritmi dei social media promuovono false percezioni del mondo. Si clicca sulle notizie che si vogliono sentire; al che Facebook, YouTube e Google mostrano di più di qualunque cosa già si preferiva, che si tratti di una marca di saponetta o di una particolare forma di politica. Gli algoritmi, inoltre, radicalizzano. Se si clicca su canali YouTube antimmigrazione perfettamente legittimi, per esempio, ci si può trovare rapidamente, in pochi altri clic, su siti di nazionalisti bianchi e, di lì a poco, su siti xenofobi violenti. Essendo progettati per tenere la gente online, infine, gli algoritmi prediligono le emozioni, soprattutto rabbia e paura. E poiché i siti creano dipendenza, influenzano le persone in modi per esse inaspettati. La rabbia diviene così un’abitudine, e la divisività normale. Anche se i social media non sono ancora la principale fonte di notizie per tutti gli americani, essi contribuiscono già a plasmare il modo in cui politici e giornalisti interpretano il mondo e lo rappresentano. La polarizzazione si è trasferita dal mondo online alla realtà.


Il risultato è un’iperfaziosità che va ad aggiungersi alla sfiducia nei confronti della politica «normale», dei politici dell’establishment, degli «esperti» derisi e delle istituzioni «tradizionali», comprese giustizia, polizia e amministrazione pubblica. Non c’è da stupirsi. Con l’aumentare della polarizzazione i funzionari statali sono invariabilmente considerati dai loro avversari dei «prigionieri». Non è un caso che il partito Diritto e Giustizia in Polonia, i brexiteers in Gran Bretagna e l’amministrazione Trump negli Stati Uniti abbiano lanciato assalti verbali a funzionari pubblici e diplomatici di professione. Non è un caso che giudici e tribunali siano divenuti oggetto di critiche, controlli e irosi attacchi anche in tanti altri luoghi. In un mondo polarizzato non può esserci neutralità, perché non possono esserci istituzioni non partigiane o apolitiche.


Il medium del dibattito ha cambiato anche il suo carattere. Sui nostri telefoni o computer giunge un flusso costante di pubblicità per asciugacapelli, notizie su pop star o sul mercato obbligazionario, messaggi di amici e memi di estrema destra, ognuno dei quali ha apparentemente lo stesso peso e la stessa importanza. Se in passato le conversazioni politiche si svolgevano perlopiù in una camera legislativa, sulle colonne di un quotidiano, in uno studio televisivo o al bar, ora si svolgono spesso online, in una realtà virtuale in cui lettori e autori si sentono distanti l’uno dall’altro e dalle questioni che affrontano, in cui tutti possono godere dell’anonimato e nessuno è costretto ad assumersi la responsabilità di ciò che dice. Reddit, Twitter e Facebook sono divenuti media ideali per l’ironia, la parodia e memi cinici: la gente li apre per navigare e divertirsi. Non stupisce che in paesi diversi come l’Islanda, l’Italia e la Serbia abbia vinto all’improvviso le elezioni una pletora di candidati dediti all’«ironia», alla «parodia» e alla «battuta». Alcuni sono innocui, altri no. Una generazione di giovani tratta ormai le elezioni come un’occasione per ostentare il proprio disprezzo per la democrazia votando persone che non fingono nemmeno di avere posizioni politiche.


Questo non significa che si possa o debba tornare a un passato analogico. C’era molto che non andava nel vecchio mondo dei media, e c’è molto di buono in quello attuale: movimenti politici, forum online e nuove idee che non esisterebbero senza di esso. Ma tutti questi cambiamenti, dalla frammentazione della sfera pubblica all’assenza di un’arena centrale, dalla crescita della faziosità alla perdita di influenza di istituzioni neutrali rispettate, sembrano indisporre coloro che la complessità e la cacofonia mettono a disagio. Anche se non vivessimo in un periodo di rapido cambiamento demografico, anche se l’economia non fosse in subbuglio, anche se non ci fosse nessuna crisi sanitaria, rimarrebbe vero che il frantumarsi del centrodestra e del centrosinistra, l’ascesa in alcuni paesi di movimenti separatisti, il diffondersi di una retorica rabbiosa, la proliferazione di voci estremiste e razziste emarginate per mezzo secolo persuaderebbero una parte degli elettori a votare per chiunque promettesse un ordine nuovo e più disciplinato.


Di tutto ciò abbiamo numerosi esempi nel recente passato. La frustrazione di ogni sforzo bipartisan nel Congresso degli Stati Uniti negli anni Novanta; l’insediarsi al centro della politica polacca nel 2005 di un partito complottista come Diritto e Giustizia; il voto sulla Brexit nel 2016: questi momenti di polarizzazione hanno tutti radicalizzato nei rispettivi paesi una parte della popolazione. Come afferma Karen Stenner, «più i messaggi sono in conflitto fra loro, più la gente si sente arrabbiata». La scrittrice polacca Olga Tokarczuk ha espresso la stessa idea nel discorso pronunciato nel 2019 al momento di ricevere il premio Nobel: «Invece di udire l’armonia del mondo, abbiamo udito una cacofonia di suoni, insopportabili scariche elettriche in cui tentiamo, disperati, di cogliere una qualche melodia più pacata, anche il ritmo più debole».4


Le istituzioni democratiche moderne, costruite per un’epoca in cui la tecnologia dell’informazione era ben diversa, offrono poco conforto a quanti la dissonanza rende rabbiosi. Votazioni, campagne elettorali, coalizioni: tutto ciò sembra antiquato in un mondo in cui altre cose accadono tanto in fretta. Per comprare un paio di scarpe basta premere un pulsante del telefono, mentre per formare una coalizione di governo in Svezia possono volerci mesi. Per scaricare un film basta un solo rapido gesto, mentre per discutere un problema nel Parlamento canadese occorrono anni. E a livello internazionale va molto peggio: per istituzioni multinazionali come la UE o la NATO è estremamente difficile prendere decisioni o realizzare grandi cambiamenti in tempi rapidi. Non sorprende che la gente abbia paura dei mutamenti che la tecnologia innesca e contemporaneamente tema, con buone ragioni, che i suoi leader politici non siano all’altezza di affrontarli.


Il disarmonico stridore che caratterizza la politica moderna; gli accessi d’ira cui si assiste sulle televisioni via cavo e al telegiornale della sera; il ritmo veloce dei social media; i titoli dei giornali che, a scorrerli, cozzano l’uno contro l’altro; l’esasperante lentezza, al contrario, di burocrazia e tribunali: tutto ciò ha snervato quella parte della popolazione che predilige l’unità e l’omogeneità. La democrazia è sempre stata chiassosa e turbolenta, ma quando le sue regole vengono seguite finisce per creare consenso. Il dibattito moderno no. Esso, invece, suscita in alcuni il desiderio di tacitare a forza gli altri.


Questo nuovo mondo dell’informazione fornisce anche una nuova serie di strumenti e tattiche utilizzabili da una nuova generazione di «chierici» per raggiungere quanti vogliono un linguaggio semplice, simboli potenti, identità chiare. Per fare appello a coloro che hanno una predisposizione autoritaria non c’è più bisogno di creare un movimento scendendo in piazza. Si può crearne uno da un ufficio, seduti davanti a un computer. Si possono testare messaggi e valutare risposte. Si possono studiare campagne pubblicitarie mirate. Si possono creare gruppi di fan su WhatsApp o Telegram. Si possono scegliere con cura temi del passato che si adattino al presente e confezionarli ad hoc per questo o quel particolare pubblico. Si possono ideare memi, realizzare video, inventare slogan che facciano leva proprio sulla paura e la rabbia generate dalla massiccia ondata internazionale di cacofonia. Si può addirittura ricorrere in prima persona alla cacofonia e al caos sapendo benissimo che alcuni ne saranno spaventati.


È l’alba nella campagna basca. Un uomo cammina, poi si mette a correre, al rallentatore. Scavalca una recinzione. Attraversa un campo di grano accarezzando le spighe con le mani, come in un film di Hollywood. Intanto, si ode una musica e una voce dice: «Se non ridi dell’onore perché non vuoi vivere fra traditori … se guardi a nuovi orizzonti senza disprezzare le tue antiche origini … se sai mantenere intatta la tua onestà in un’epoca di corruzione…».


Sorge il sole. L’uomo sale un ripido sentiero. Attraversa un fiume. Lo sorprende un temporale. «Se provi gratitudine e orgoglio per gli uomini in uniforme che proteggono le mura. … Se ami la tua patria come ami i tuoi genitori…» La musica raggiunge l’apice, l’uomo è in cima alla montagna, la voce conclude: «… allora stai facendo di nuovo grande la Spagna!». Sullo schermo appare uno slogan: Hacer España Grande Otra Vez, «Fare di nuovo grande la Spagna».


L’uomo è Santiago Abascal, e il filmato è uno spot propagandistico di Vox.5 Nel 2019 Vox si rivelò il partito spagnolo in più rapida crescita, e Abascal era il suo leader. Tre anni prima, nelle elezioni parlamentari, Vox, con il suo nazionalismo macho e hollywoodiano, non aveva ottenuto un solo seggio. Poco dopo un sito web spagnolo aveva pubblicato un articolo in cui si chiedeva: «Perché nessuno vota per Santiago Abascal?».


Ma nella primavera del 2019 il sostegno al partito passò dallo zero al 10 per cento, facendogli guadagnare ventiquattro seggi in Parlamento. In un’altra elezione tenutasi in autunno, dopo che la prima aveva dato vita a un Parlamento senza una maggioranza, quel numero raddoppiò. Andai più volte a Madrid quell’anno, e la città mi parve un po’ come Londra alla vigilia del referendum sulla Brexit o Washington alla vigilia della vittoria di Trump. Molte delle persone che incontrai, giornalisti, accademici, editori, erano pessimiste riguardo al futuro. Quelli di Vox, invece, perché incontrai anche alcuni di loro, traboccavano di energia e avevano un’idea chiara della direzione in cui muoversi. Ebbi una forte impressione di déjà-vu: ecco, ancora una volta, una classe politica in procinto di essere travolta da un’ondata di rabbia.


Anche alcuni degli spagnoli che incontrai erano tormentati da un’impressione di déjà-vu, ma di tipo diverso: nella retorica di Vox sembrava loro di sentire echi del passato. I più anziani in Spagna ricordavano ancora l’ostentato nazionalismo della dittatura di Francisco Franco, i raduni in cui si scandiva lo slogan Arriba España!, la solenne atmosfera di patriottismo forzato. Per buona parte dei quattro decenni seguiti alla morte del dittatore, avvenuta nel 1975, era sembrato che nessuno volesse che qualcosa di quell’epoca ritornasse. Nei tardi anni Settanta la Spagna aveva vissuto una transizione parallela a quella sperimentata dalla Polonia e dall’Ungheria negli anni Novanta: aveva aderito alle istituzioni europee, riscritto la Costituzione e decretato una tregua nazionale. A suo modo, la democratizzazione spagnola aveva costituito il vero banco di prova del dopoguerra a livello mondiale. All’epoca della morte di Franco la democratizzazione e integrazione di Francia, Germania, Italia e altre nazioni s’erano ormai dimostrate un tale successo che gli spagnoli, che dopo la guerra avevano imboccato una strada completamente diversa, avevano finito per chiedere a gran voce di unirsi a esse.


Una volta portata a termine la transizione, la nuova democrazia spagnola s’era rivelata quasi ostentatamente consensuale. Dal vecchio Stato monopartitico erano emersi due partiti politici principali, che avevano deciso di andare d’accordo. Molti ex franchisti e i loro figli s’erano orientati verso il nuovo Partito popolare di centrodestra, molti ex antifranchisti e i loro figli verso il nuovo Partito socialista di centrosinistra. Ma entrambe le parti avevano stabilito tacitamente, e a volte esplicitamente, di non parlare di quanto le aveva un tempo divise. S’era permesso che il corpo di Franco restasse a riposare nella sua fastosa tomba all’interno del complesso commemorativo della Valle de los Caídos, e ai suoi oppositori di sinistra era stato permesso di celebrare i propri veterani. La guerra civile che li aveva divisi era rimasta fuori da ogni discussione. Il passato, smentendo apparentemente la famosa osservazione di Faulkner, era rimasto passato.


Negli ultimi dieci anni quel consenso è andato in frantumi. In reazione alla crisi economica del 2009 un nuovo partito di estrema sinistra, Podemos, sfidò l’unità del centrosinistra. In reazione alle accuse di corruzione mosse al centrodestra, un partito liberale, Ciudadanos, cercò di dare vita a una nuova forza politica centrista. Una controversa decisione giudiziaria su un caso di stupro fece scendere in piazza in grandi e turbolente manifestazioni centinaia di migliaia di donne, inquietando molti cattolici tradizionalisti. Un governo di centrosinistra ordinò la riesumazione dei resti di Franco e il loro trasferimento dal sontuoso mausoleo in cui giacevano a un cimitero, inquietando i conservatori nostalgici.


Soprattutto, a sfidare il consenso costituzionale, e in modo drammatico, fu il movimento secessionista catalano. La Catalogna è una provincia ricca, e molti dei suoi abitanti parlano catalano, una lingua a sé stante; inoltre ha una storia plurisecolare di unità e conflitti con il resto della Spagna. Sotto la dittatura di Franco qualsiasi accenno di separatismo catalano era stato duramente represso. La Costituzione democratica spagnola del 1978 aveva concesso invece un’ampia autonomia a tutte le regioni del paese, consentendo alle identità regionali di svilupparsi, tanto che nel 2017 il governo regionale della Catalogna, controllato di stretta misura dai separatisti, decise un referendum sull’indipendenza. La Corte costituzionale spagnola lo dichiarò illegale e una netta maggioranza dei catalani lo boicottò. Ma al referendum, segnato da grandi emozioni e dalla brutalità della polizia, la maggior parte dei votanti scelse l’indipendenza.


Nel caos che seguì, il Senato spagnolo decise il commissariamento della regione e indisse in Catalogna nuove elezioni. Alcuni dei leader secessionisti fuggirono, scegliendo l’esilio; altri, dodici, furono arrestati, processati e condannati a lunghe pene detentive. Quando le acque si furono calmate, Vox, l’unico partito che dava spazio a un nazionalismo spagnolo antiseparatista stridulo e vociante, divenne improvvisamente un attore nella politica nazionale. Approfittò di una legge che gli permetteva di intentare una causa privata contro i secessionisti catalani. Organizzò a Barcellona una manifestazione e definì il governo catalano un’«organizzazione criminale»,6 provocando una contromanifestazione di anarchici che, il volto coperto da maschere nere, si diedero a lanciare sassi, innalzare barricate e incendiarle: immagini ideali per mobilitare i sostenitori di Vox. Soprattutto, Vox cercò di riportare in vita il sentimento di unità che pervadeva un tempo i raduni in cui si scandiva il vecchio slogan di Arriba España! E i suoi leader lo fecero usando YouTube, Twitter, Instagram, Telegram e WhatsApp.


A partire dalla primavera del 2018 e fino alle elezioni del 2019 Abascal registrò su Twitter ogni manifestazione tenuta dal suo partito, pubblicando una serie di videoclip e fotografie di bar, sale conferenze e infine stadi pieni zeppi di gente esultante che batteva le mani. In alcuni dei suoi tweet successivi usò l’hashtag #EspañaViva e pubblicò commenti euforici. Un esempio: «Né minacce di morte da decine di comunisti né insulti dalle televisioni possono fermare #EspañaViva».7 Alcuni dei raduni più popolari si svolsero sotto il logo Cañas por España, «Boccali di birra per la Spagna». Nel marzo 2018 settecento biglietti per un evento di Cañas por España in una discoteca di Madrid andarono esauriti in quattro ore, tutti comprati da persone sotto i trent’anni.


Tali raduni e i tweet a essi dedicati, come i continui attacchi del partito ai «falsi» sondaggi d’opinione pubblicati da media «faziosi», avevano uno scopo. Erano intesi a far sì che chi seguiva Vox si sentisse parte di qualcosa di grande, eccitante, in crescita, e omogeneo. Usando un linguaggio magniloquente, che contribuiva fra l’altro a dare l’impressione che il sostegno goduto dal suo partito fosse molto maggiore di quello che era in realtà, Abascal parlò di un «movimento patriottico di salvezza dell’unione nazionale».8 Era questo il cardine della strategia di Vox: usare i social media per creare una sensazione di unità attorno a un movimento che ancora quasi non esisteva.


Nello stesso tempo Vox trovò il modo di raggiungere gruppi di elettori contrariati da altri aspetti della vita moderna che i partiti tradizionali non stavano affrontando. Si pensi a come le case discografiche mettono insieme nuove pop band: fanno ricerche di mercato, scelgono i tipi di volti che corrispondono ai risultati, poi commercializzano la band pubblicizzandola nella fascia demografica più favorevole. I nuovi partiti politici operano così: si possono mettere insieme tematiche, riconfezionarle e poi commercializzarle utilizzando esattamente lo stesso tipo di messaggistica mirata, basata sullo stesso identico tipo di ricerche di mercato, che si sa che ha funzionato in altri posti. Gli ingredienti di Vox erano i temi lasciati indietro, quelli che gli altri avevano ignorato o sottovalutato, come l’opposizione al separatismo catalano e basco, l’opposizione al matrimonio fra persone dello stesso sesso, l’opposizione al femminismo, l’opposizione all’immigrazione, soprattutto all’immigrazione musulmana, la rabbia per la corruzione, la noia della politica tradizionale, più una manciata di altri temi, come la caccia e il possesso di armi, che interessano ad alcuni e ad altri no, più una vena di libertarismo, un talento per la beffa e un pizzico di nostalgia restauratrice.


Non era un’ideologia a venire venduta, ma un’identità: modellata con ogni cura, confezionata per renderne facile il consumo e pronta per essere «spinta» da una campagna virale. Gli slogan di Vox parlavano tutti di unità, armonia e tradizione. Il partito era inteso, fin dall’inizio, ad attirare le persone infastidite dalla cacofonia. Offriva loro l’opposto.


Quando chiesi a Rafael Bardají del video Hacer España Grande Otra Vez, fece un gran sorriso: «È stata una mia idea; allora era una specie di gioco».9 Membro di Vox quasi dalla nascita del movimento, Bardají non corrisponde all’immagine di leader di un partito di «estrema destra». Allegro, porta gli occhiali e veste in giacca e cravatta, esattamente come tutti nel mondo dell’establishment di centrodestra da cui proviene. Consigliere dell’ex primo ministro di centrodestra José María Aznar, il primo politico realmente di successo del Partito popolare, visse la prima parte della sua carriera nel cuore della politica centrista. È noto soprattutto per avere spinto la Spagna a unirsi nel 2003 agli Stati Uniti nell’invasione dell’Iraq. Secondo un famoso sondaggio, il 91 per cento degli spagnoli era contrario a quella guerra. Poco più tardi, qualche giorno prima delle elezioni generali del 2004, un gruppo di islamici jihadisti fece esplodere delle bombe in una stazione ferroviaria di Madrid: morirono quasi duecento persone e duemila rimasero ferite. Gli elettori spagnoli diedero al governo di Aznar la colpa di avere importato la politica mediorientale nel paese. Inaspettatamente, un’ampia maggioranza condusse alla formazione di un governo socialista e le carriere di Aznar e Bardají giunsero al termine.


Per il suo legame con quell’epoca, Bardají è percepito in Spagna come fuori dal mainstream. Spesso si parla di lui come di un neoconservatore, anche se nel contesto spagnolo questo termine è privo di significato; semplicemente, suona americano. Gli è stato addirittura dato un soprannome, Darth Vader, e lui l’ha trovato abbastanza divertente da mettere una foto di Darth Vader sul suo profilo Twitter. A Madrid, le persone cui ho detto di averlo incontrato hanno inarcato le sopracciglia.


Ma queste definizioni – «nel mainstream», «fuori dal mainstream» – cambiano con il tempo. Avevo già incontrato Bardají quando era non solo una figura importante nel governo spagnolo, ma una figura importante in quella che sembrava all’epoca un’alleanza internazionale solida, duratura e potente. Cenammo insieme nel 2003 a Washington. Stava visitando l’American Enterprise Institute, il think tank conservatore per il quale mio marito dirigeva allora un programma dal nome e dagli obiettivi che suonano ora bizzarri. Si trattava della New Atlantic Initiative, il cui intento, sulla scia dell’allargamento della NATO, era di ridare vitalità all’alleanza transatlantica riunendo «atlantisti» europei e americani per discutere obiettivi e progetti transatlantici comuni. A una sua iniziativa prese la parola il senatore John McCain, e intervennero anche democratici interessati al ruolo dell’America in Europa, come europei interessati all’America: membri di primo piano del Partito conservatore britannico, cechi pieni di entusiasmo e, occasionalmente, il ministro della Difesa portoghese. Una figura di spicco nel mondo atlantista era John O’Sullivan. All’epoca uno come Bardají, un affabile spagnolo filoamericano molto legato a Israele, sembrava perfetto per quel mondo.


In quegli anni, nell’alleanza transatlantica non c’era ovviamente la stessa unità di intenti esistita durante la guerra fredda. C’era cooperazione in Kuwait e in Bosnia, ma nessun nemico comune, almeno fino all’11 settembre 2001. L’attacco al World Trade Center galvanizzò le nazioni dell’Occidente, ma in modo ineguale: francesi e tedeschi, per esempio, aderirono alla guerra in Afghanistan, non però a quella in Iraq. Tuttavia, c’era un’autentica coalizione di volenterosi pronti a combattere Saddam Hussein che includeva Aznar in Spagna, il primo ministro britannico Tony Blair, il primo ministro danese Anders Fogh Rasmussen, il presidente polacco Aleksander Kwaśniewski e pochi altri. Era un gruppo che sembrava coerente; come Blair, anche Aznar ne sarebbe rimasto segnato per sempre. Lo incontrai nel 2019 nel suo ufficio a Madrid e non potei fare a meno di notare le fotografie, esposte in bella vista su scaffali pieni di libri, che lo ritraevano in Medio Oriente insieme a Blair e George W. Bush, come se le immagini di quell’epoca segnassero il momento più importante della sua lunga carriera.


Se simili immagini paiono oggi di un’altra epoca è anche perché l’atlantismo, una fede che un tempo legava strettamente persone come O’Sullivan e Aznar in una coesa compagine internazionale, offrendo loro un modo chiaro per relazionarsi con gli altri conservatori europei e con quelli americani, non costituisce più una forza rilevante, né in Spagna né altrove. Uomini quali Aznar sembrano già appartenere a un mondo diverso. E così, per diversi anni, è stato per Bardají. Per quindici lunghi anni egli rimase in disparte, vedendo andare e venire una serie di governi spagnoli, tutti troppo di estrema sinistra o di una destra troppo morbida per i suoi gusti. Se negli anni successivi ai governi Thatcher il centrismo di John Major contrariò in Gran Bretagna una parte dei conservatori, i leader di centrodestra del Partito popolare degli anni Dieci di questo secolo fecero infuriare alcuni dei più fedeli membri del partito. Tornati al potere nel 2011, i popolari non fermarono, come essi avevano sperato, la crescita del potere statale. Non abrogarono una legge sulla violenza domestica che, secondo loro, penalizzava ingiustamente gli uomini. Non respinsero neanche le prese di posizione pubbliche più critiche verso l’era franchista. Per farmi capire come lui e alcuni dei suoi amici avessero iniziato a pensare alla politica spagnola, un parlamentare di Vox, Iván Espinosa, posò sul tavolo dove stavamo bevendo un caffè due saliere. «Ecco» mi disse accostandole. «Questa era la politica spagnola negli anni Ottanta e Novanta. Ed ecco» proseguì posando sul tavolo, a qualche centimetro dalle saliere, una forchetta, «la Spagna di oggi: spinta all’estrema sinistra. Il centro e la destra non reagiscono. Non contrattaccano. Non hanno idee.»10


Peggio ancora, sia il centrodestra sia il centrosinistra erano divenuti, a loro parere, troppo accomodanti nei confronti del separatismo basco e catalano. Abascal, figlio di un politico basco che aveva subito minacce dall’ETA, il gruppo terroristico basco, nonché Espinosa, Bardají e i loro amici, erano tutti furibondi. Ma essi erano fuori dalla politica, senza influenza, fuori dalle stanze dove avvenivano le cose. In quegli anni Bardají aprì un’agenzia di consulenza, fece affari in Israele e negli Stati Uniti e lavorò per il più importante think tank di politica estera spagnolo. Poi Vox e Trump gli offrirono un modo per tornare nel giro.


E non soltanto a lui: il linguaggio e le tattiche di Trump nella sua campagna elettorale parvero all’improvviso offrire qualcosa di nuovo a molti ai margini della politica, non solo in America ma in tutto il mondo. Bardají non era un blogger dell’alt-right, né un frequentatore di oscure chat room politiche, ma capì quanto i metodi dell’alt-right americana sarebbero stati utili in Spagna. Se non fossero bastati per conquistare la maggioranza, avrebbero potuto attrarre una minoranza significativa.


Inoltre avrebbero dato fastidio a un establishment spagnolo che, ai suoi occhi, s’era spostato a sinistra, lasciando persone come lui molto indietro. «Fare di nuovo grande la Spagna» mi disse allegramente «è stato una sorta di provocazione. … Aveva semplicemente lo scopo di fare arrabbiare un po’ di più la sinistra.» Il divertimento che dà vituperare l’establishment, passatempo classico del sito d’informazioni Breitbart News e dei brexiteers, è lo stesso a Madrid e negli Stati Uniti. Bardají conosceva Steve Bannon, con cui aveva un amico in comune: sono stati fotografati insieme. Ma delle speculazioni cui ciò aveva dato adito rise. I giornalisti spagnoli, mi disse, «danno a Bannon un’importanza che non ha».


Negli anni Novanta Bardají sarebbe stato disgustato dalla politica di Trump, con il suo disprezzo per l’Europa, la NATO e la democrazia. Ma, come a qualche conservatore nostalgico in Gran Bretagna, nel 2016 la «democrazia liberale», almeno come slogan e come idea unificante, gli era ormai venuta a noia. In quanto spagnolo, mi disse, non gli sembrava di avere molto in comune con una NATO preoccupata di difendere l’Europa dell’Est contro la Russia. Gli piaceva invece l’idea di schierarsi al fianco di una Casa Bianca che sembrava pronta, almeno per cominciare, a combattere l’Islam radicale. Per quanto fuori dal giro in Spagna da un decennio, aveva scoperto di avere molti interessi in comune con la nuova amministrazione Trump e non pochi contatti al suo interno, rapporti che il primo ministro socialista spagnolo non aveva. Conosceva Jason Greenblatt, primo negoziatore dell’amministrazione Trump in Medio Oriente. Aveva legami di vecchia data con il governo Netanyahu, a sua volta vicino alla Casa Bianca, e aveva chiamato alcuni consiglieri elettorali di Netanyahu ad aiutare Vox. Subito dopo le elezioni americane era stato in contatto con il primo consulente per la sicurezza nazionale di Trump, Michael Flynn, e con il suo successore, Herbert McMaster. Era stato a Washington per discutere sia della prima visita del presidente americano alla NATO sia del discorso da lui pronunciato a Varsavia nel 2017, quello, divenuto celebre, in cui Trump aveva sottolineato la necessità di difendere il mondo cristiano: «L’aspirazione alla civiltà, come l’Occidente deve difendersi, eravamo completamente in sintonia su questo» mi disse Bardají.


Sebbene i musulmani in Spagna siano attualmente poco numerosi – a immigrare nel paese sono soprattutto latinoamericani – l’idea che la civiltà cristiana debba ridefinirsi contro il nemico islamico ha in Spagna una speciale eco storica, che Vox ha usato a proprio vantaggio. In uno dei suoi video si vede Abascal montare a cavallo e, come i cavalieri della «reconquista» che combatterono per strappare l’Andalusia agli arabi, cavalcare in un paesaggio della Spagna meridionale. Come tanti memi di Internet, anche questo è serio e contemporaneamente non lo è: la musica di sottofondo è la colonna sonora del Signore degli Anelli.


I legami fra Vox e l’amministrazione Trump non sono indizi di una cospirazione, bensì di una comunanza di interessi e tattiche. Essi mostrano inoltre come il successo di Trump abbia ispirato e rafforzato un gruppo di persone che voleva usare in Spagna un nuovo tipo di linguaggio, un linguaggio specificamente inteso a fare appello a quanti erano infuriati per il dibattito catalano, detestavano il modo in cui il discorso moderno aveva frammentato gli spagnoli, e pensavano che i progetti di riforma sociale e culturale si fossero spinti troppo oltre. In Spagna, per di più, quel gruppo temeva che le proprie idee corressero il rischio di scomparire del tutto. Bardají riteneva la polarizzazione della politica spagnola un fenomeno permanente, e che, per persone come lui, non fosse solo la carriera politica personale ma la stessa idea di nazione a essere a repentaglio. Se lui e i suoi amici che la pensavano allo stesso modo non fossero entrati nella mischia, la loro parte, e tutto ciò che essa rappresentava, avrebbe potuto essere eliminata dalla politica. Ecco il vero motivo della paura e della rabbia dei sostenitori di Vox, ed è un motivo concreto. La cosa più importante che Bardají mi disse fu: «Stiamo entrando in un periodo in cui la politica sta divenendo qualcosa di diverso, la politica è guerra con altri mezzi: noi non vogliamo essere uccisi, dobbiamo sopravvivere. … Penso che la politica ora sia che il vincitore prende tutto».


Vox è il primo movimento politico spagnolo post-Franco che miri deliberatamente a fare appello a quella parte della popolazione spaventata dalla polarizzazione della Spagna. La radicalizzazione della Catalogna aumenterà ulteriormente il sostegno di cui gode. Lo stesso effetto potrebbero avere proteste femministe, dibattiti economici infuocati e il ritorno di vecchi dissidi storici, e sicuramente lo avrebbe la presenza di Podemos, un partito esplicitamente radicale di estrema sinistra, nel governo spagnolo. Vox è un progetto sviluppato da persone che colgono tutto ciò. Esse sanno inoltre che il successo del partito infonderà nei suoi fondatori, portavoce, artefici di memi e società di pubbliche relazioni una nuova energia per partecipare alla vita politica, oltre a dare loro accesso a una rete sempre più estesa di finanziatori, fan e troll Internet con idee simili, in tutta Europa e non solo.


Fino a pochissimo tempo fa era raro che i leader di partiti nazionalisti o nativisti di «estrema destra» europei cooperassero fra loro. A differenza dei cristiano-democratici di centrodestra, la cui collaborazione portò alla nascita della UE, i partiti nazionalisti sono radicati nelle storie dei rispettivi paesi. La moderna destra radicale francese ha lontane origini nell’epoca di Vichy. Nella destra nazionalista italiana hanno da tempo ruoli di primo piano eredi sul piano intellettuale di Benito Mussolini. Diritto e Giustizia ha i suoi legami con il disastro aereo di Smolensk e le sue ossessioni storiche. Di conseguenza i tentativi di fraternizzare sono spesso naufragati a causa di vecchi contrasti. I rapporti fra l’estrema destra italiana e quella austriaca, per esempio, si ruppero quando iniziarono amenamente a polemizzare sull’identità nazionale dell’Alto Adige, regione di lingua tedesca che un tempo faceva parte dell’Austria. Sempre in Italia, i rapporti fra Vox e la Lega, convertitasi da movimento separatista del Nord Italia a partito nazionalista, si fecero burrascosi quando Matteo Salvini, leader della Lega, sostenne i separatisti catalani.


Più recentemente tutto ciò ha iniziato a cambiare. A lungo divisi da confini e storia, alcuni degli intellettuali e ideologi che stanno dietro a questi nuovi movimenti hanno trovato una serie di posizioni attorno alle quali possono unirsi: posizioni che valicano le frontiere e sono facilmente vendibili online. Una è l’opposizione all’immigrazione, specie quella musulmana, reale o immaginaria che sia; un’altra è la difesa di una visione del mondo socialmente conservatrice e religiosa. Una terza, in qualche caso, è l’opposizione alla UE e più in generale alle istituzioni internazionali. Simili posizioni sono slegate l’una dall’altra – non c’è motivo per cui non si possa essere cattolici e contemporaneamente filoeuropei, com’è avvenuto tanto spesso in passato – eppure coloro che vi aderiscono hanno fatto causa comune. L’avversione per il matrimonio fra persone dello stesso sesso, per i taxisti africani e per gli «eurocrati» è qualcosa su cui anche spagnoli e italiani in disaccordo sui rispettivi movimenti separatisti possono concordare. Mettendo da parte la storia e vecchie controversie sui confini, essi possono condurre insieme campagne contro le società laiche ed etnicamente miste in cui vivono, e nello stesso tempo fare appello a chi vuole che gli aspri dibattiti su questi temi finiscano.


Fra quanti hanno cercato di capire come queste nuove e poco comprese campagne transfrontaliere funzionino c’è una società di analisi dei dati di Madrid, la Alto Data Analytics, specializzata nell’applicazione dell’intelligenza artificiale all’analisi dei dati reperiti su Twitter, Facebook, Instagram, YouTube e altrove. Alla vigilia della stagione elettorale spagnola trascorsi diverse ore a Madrid, alcune, in tarda serata, al ristorante (dove, se no, in Spagna?) insieme a un amico che lavora alla Alto, il quale non ha voluto essere nominato in questo libro, né essere invischiato nel dibattito politico spagnolo. Mi mostrò una serie di eleganti e colorate mappe di rete della conversazione online spagnola, facendomi notare il grande scarabocchio al centro: era la conversazione «mainstream», che vedeva interconnesso un gran numero di persone. Mi mostrò anche tre conversazioni periferiche, polarizzate. Erano echo chambers separate, i cui membri perlopiù si parlavano e ascoltavano l’un l’altro. Una era la conversazione secessionista catalana, un’altra la conversazione di estrema sinistra, la terza la conversazione di Vox.


Non c’era da sorprendersi: quei tre gruppi erano da tempo impegnati a costruire le loro identità separate. Non fu una sorpresa neanche scoprire che il mio amico aveva trovato il maggior numero di quelli che chiamava «utenti anomali ad alta attività» dell’Internet spagnola, vale a dire bots, o anche persone reali use a postare molto spesso e probabilmente in modo professionale, all’interno di quelle tre comunità. La comunità di Vox ne rappresentava più della metà. Nella primavera del 2019 l’Institute for Strategic Dialogue (ISD), un organismo britannico che monitora l’estremismo online, scoprì una rete di quasi tremila «utenti anomali ad alta attività» che nel corso dell’anno precedente avevano postato su Twitter quasi quattro milioni e mezzo di messaggi pro-Vox e antislamici.11


Le origini di quella rete non erano chiare. Era nata per attaccare il governo venezuelano di Maduro, ma, dopo un attentato terroristico a Barcellona nel 2017, aveva cambiato target, concentrandosi su storie riguardanti l’immigrazione suscettibili di spaventare la gente, storie di cui la rete accrebbe gradualmente l’intensità a livello emotivo. Parte del materiale diffuso aveva origine in reti estremiste, e tutto era in sintonia con i messaggi di Vox. Il 22 aprile, per esempio, una settimana prima delle elezioni in Spagna, la rete twittò immagini di quella che i suoi membri definirono una rivolta in un «quartiere musulmano in Francia». In realtà si trattava di una scena di rivolte antigovernative avvenute di recente in Algeria.


Sia la Alto sia l’ISD notarono un’altra stranezza. I sostenitori di Vox, specie quelli del gruppo di utenti identificati come anomali ad alta attività, postavano e twittavano molto spesso contenuti e materiali provenienti da una serie di siti web complottisti, aperti perlopiù almeno un anno prima delle elezioni del 2019. Quei siti, a volte gestiti da una sola persona, sembravano normali siti locali di informazione, ma alle notizie «ordinarie» mescolavano articoli e titoli estremamente faziosi, che venivano poi sistematicamente ripresi nelle reti dei social media. Nei mesi precedenti le elezioni del 2018 in Italia e in Brasile, l’équipe della Alto rilevò la presenza in entrambi i paesi degli stessi identici tipi di siti web. In tutti e due i casi essi iniziarono un anno prima del voto a pubblicare materiale tendenzioso, in Italia sull’immigrazione e in Brasile su corruzione e femminismo. In entrambi i paesi quei siti servirono ad alimentare e amplificare faziosamente diversi temi ancora prima che divenissero davvero parte della politica mainstream. Non necessariamente il loro compito era diffondere storie false. Se alcuni lo facevano, l’obiettivo vero era più sofisticato. Il loro intento era di creare false narrazioni, battere e ribattere su certi argomenti sino a ficcarli in testa al destinatario, selezionare con cura le notizie ed enfatizzare particolari dettagli, generare instancabilmente rabbia, irritazione e paura.


In Spagna i siti del genere erano una mezza dozzina. Alcuni erano abbastanza professionali, altri chiaramente dilettanteschi. E qualcuno seguiva determinati modelli. Uno dei più oscuri, per esempio, mostrava esattamente lo stesso stile e lo stesso layout di un sito brasiliano pro-Bolsonaro, come se fossero stati entrambi progettati dalla stessa persona o, più probabilmente, dallo stesso gruppo di specialisti in pubbliche relazioni: «chierici» moderni, aggiornati, all’avanguardia. Il giorno precedente le elezioni spagnole, la storia in primo piano in quel sito era una teoria del complotto fin troppo familiare: George Soros stava collaborando a organizzare frodi elettorali. Soros non era una figura granché nota in Spagna prima che Vox lo introducesse nel dibattito. Sui siti web di Vox era possibile trovare alcune delle teorie del complotto standard su di lui; naturalmente, si diceva che stava cospirando per popolare l’Europa di musulmani.


Siti del genere sono presenti anche in molti altri paesi. I famigerati siti web macedoni che cercarono di influenzare la campagna presidenziale negli Stati Uniti operavano in base a principi molto simili. E lo stesso si può dire dei siti complottisti della rete QAnon, delle pagine Facebook create dall’intelligence militare russa durante la campagna elettorale statunitense del 2016, e dei siti chiaramente identificabili dei media statali russi Sputnik e RT. Nuove versioni di questa strategia sono in fase di lancio anche negli Stati Uniti. Nel 2019 un giornalista del Michigan scoprì una rete di siti web che si presentavano quali siti locali di informazione. Erano stati tutti aperti contemporaneamente e, grazie anche ai nomi dal suono familiare, come «Lansing Sun», «Ann Arbor Times» e «Detroit City Wire», facevano tutti pensare a «normali» quotidiani. Ognuno conteneva lo stesso tipo di servizi tendenziosi, per esempio su come gli abitanti del Michigan sostenessero il presidente Trump, mescolati ad articoli su dove comprare benzina al minor prezzo. Erano stati deliberatamente progettati per essere incanalati in echo chambers esaltate, faziose e complottiste.


Negli ultimi anni siti di tipo simile hanno iniziato a operare di concerto, al di là dei confini e in lingue diverse. Nel dicembre 2018 i leader mondiali si riunirono per discutere di migrazione globale in un vertice di basso profilo che, promosso dalle Nazioni Unite, produsse un accordo scialbo e non vincolante: il Patto mondiale per una migrazione sicura, ordinata e regolare. Benché il patto ricevesse dai principali media tradizionali un’attenzione relativamente scarsa, la Alto scoprì quasi cinquantamila utenti di Twitter intenti a diffondere a suo riguardo teorie del complotto. Diverse centinaia lo stavano facendo in più lingue, alternando il francese al tedesco e all’italiano e, in misura minore, allo spagnolo e al polacco. In modo molto simile al network spagnolo pro-Vox, quegli utenti attingevano materiale da siti web estremisti e complottisti, utilizzando immagini identiche e linkandosi e ritwittandosi l’un l’altro al di là dei confini.


Una rete internazionale analoga entrò in piena attività dopo l’incendio del 2019 nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi. L’ISD monitorò migliaia di post di persone che affermavano di avere visto musulmani «festeggiare» il disastro, e altri utenti postarono voci e immagini intese secondo loro a dimostrare che il rogo era stato intenzionale. Un sito chiamato CasoAislado scrisse quasi immediatamente che a Parigi «centinaia di musulmani» erano in festa, e pubblicò un’immagine che dava l’impressione che persone dai nomi arabi stessero postando su Facebook, sotto scene dell’incendio, emoticon con faccine sorridenti. Qualche ora dopo Abascal twittò il suo disgusto per quelle «centinaia di musulmani» riportando la stessa immagine.12 A essa s’era collegato tramite un post del teorico complottista dell’alt-right americana Paul Watson che, a sua volta, aveva attinto quell’immagine da un attivista dell’estrema destra francese di nome Damien Rieu. «Gli islamisti vogliono distruggere l’Europa e la civiltà occidentale festeggiando l’incendio di #NotreDame» scrisse Abascal. «Rendiamocene conto prima che sia troppo tardi.»


Gli stessi tipi di memi e immagini si diffusero poi tramite i gruppi di fan di WhatsApp e Telegram di Vox. Membri di questi gruppi condivisero un meme in inglese che mostrava Parigi «prima di Macron», con Notre-Dame, e «dopo Macron», con al suo posto una moschea. Essi condivisero anche un video d’informazione, realizzato in occasione di un altro incidente, che sembrava accennare ad arresti e a bombe a gas trovate in una macchina vicina al luogo dell’incendio. Era un esempio perfetto di come l’alt-right americana, l’estrema destra europea e Vox diffondessero tutti gli stessi messaggi, nello stesso tempo, in più lingue, cercando di fomentare le stesse passioni in Europa, Nord America e altrove.


Lentamente, questo mondo online seminascosto sta acquisendo un volto nel mondo reale. Nell’inverno del 2020, nel salone di un hotel italiano di un lusso spettacolare – sedie di velluto rosso, lampadari di cristallo scintillanti e un soffitto a vetrate colorate – potei osservare come alcuni di quei nuovi movimenti cercassero di unire le forze. L’occasione era un convegno posto sotto i nomi di Ronald Reagan e Giovanni Paolo II e organizzato, fra gli altri, da John O’Sullivan, il cui istituto finanziato dal governo ungherese era elencato fra gli sponsor. Mi sentii come Alice che, attraversato lo specchio, si ritrova in un mondo a rovescio: il convegno evocava i nomi di due uomini che avevano condiviso un’idea grandiosa, ambiziosa e generosa della civiltà politica occidentale, un’idea che vedeva un’Europa e un’America democratiche integrate sul piano economico, politico e culturale, eppure tutti in quel salone perseguivano una visione esattamente opposta.


Il tema del convegno era il «nazionalismo», ma a unire davvero i presenti era un’avversione per le società in cui vivevano, oltre a un’autentica paura che in esse alcuni dei loro valori potessero andare presto perduti. Gli oratori, un americano, un italiano, un francese, un olandese, un britannico, un polacco e uno spagnolo (un europarlamentare di Vox), si alzarono uno dopo l’altro per descrivere il senso di persecuzione politica, e l’esperienza di essere dei dissidenti, che vivevano in un mondo dominato da una serie di idee variamente definite «di sinistra», «progressiste», «dell’illuminismo razionale liberale» o anche «totalitarie». A volte la loro distanza dalla realtà politica era sconcertante. Molti piangevano l’idea perduta di «nazione», eppure eravamo nel centro di Roma, dove, dietro l’angolo, un politico apertamente nazionalista, se non sciovinista, Matteo Salvini, era in pole position per divenire il prossimo primo ministro.


Alcuni di loro parlarono in toni appassionati, persino toccanti. Fra gli oratori c’era Marion Maréchal, carismatica nipote del leader dell’estrema destra francese Marine Le Pen, di cui molti parlavano come della futura candidata alla presidenza della Francia. Essa divise il mondo in un «noi» che includeva tutti i presenti e un «loro» che sembrava includere tutti gli altri, dal presidente liberale francese Emmanuel Macron ai suoi connazionali stalinisti: «Stiamo cercando di unire il passato al futuro, la nazione al mondo, la famiglia alla società. … Noi rappresentiamo il realismo; loro sono ideologia. Noi crediamo nella memoria; loro sono amnesia».13 Mentre pronunciava queste parole, Macron era a Cracovia, dove si dichiarò fiero di essere francese e fiero di essere europeo. E proseguì, come fa spesso, parlando di storia e di memoria.14 Ma per i fan di Maréchal tutto ciò non aveva probabilmente alcuna importanza. Preferivano sentire parlare di storia da una come lei, portavoce di una definizione etnica della Francia e della francesità. O, semplicemente, condividevano il suo senso di persecuzione ed erano contenti di sentirlo esprimere in pubblico.


Grazie ad alcuni discorsi un po’ meno appassionati sul patriottismo polacco e le glorie della «sovranità», con il procedere delle ore il pubblico a Roma si diradò notevolmente. Ma appena prima della sessione finale cameramen e giornalisti rifecero la loro comparsa. All’ingresso dell’ultimo oratore, tutti si alzarono in piedi applaudendo. Era Viktor Orbán in persona, il politico, mi resi conto, per ascoltare il quale molti erano venuti. Non perché fosse il più bravo a parlare, ma perché era quello che aveva raggiunto alcuni degli obiettivi cui gli altri aspiravano. Se diversi oratori avevano parlato dell’oppressiva ideologia di sinistra nelle università, l’Ungheria era l’unico paese europeo ad avere chiuso un intero ateneo, ad avere messo organismi accademici come l’Accademia ungherese delle scienze sotto il diretto controllo del governo e ad avere tolto finanziamenti a dipartimenti universitari che al partito al potere non piacevano per motivi politici. Se molti si opponevano ai media «di sinistra», l’Ungheria era l’unico paese europeo ad avere usato una combinazione di pressioni politiche ed economiche per porre sotto il controllo del partito al governo anche la maggior parte dei media privati e pubblici. Per i partiti e politici autoritari che, però, erano ancora in gran parte lontani dal potere, c’era molto da ammirare. L’Ungheria non era un grande paese. Ma quel tipo di controllo, quel tipo di influenza, era quanto essi desideravano.


Orbán non tenne un discorso. Gli fu chiesto di spiegare i segreti del suo successo. Impassibile, egli rispose che era importante non dover condividere il potere con altri partiti. Non parlò delle manipolazioni, dell’ingegneria elettorale e dei raffinatissimi imbrogli che gli avevano permesso di conservare la maggioranza. Inoltre, aggiunse, era d’aiuto anche avere l’appoggio dei media. In fondo alla sala, dov’era la stampa, qualcuno rise. Gli altri annuirono, senza accennare alcun sorriso: simpatizzavano, e capivano.

V


Prateria in fiamme

Con la possente storia fondativa che abbiamo alle spalle, il nostro non comune rispetto per la Costituzione, l’isolamento geografico e i nostri due secoli di relativo successo economico, noi americani moderni siamo da tempo convinti che la democrazia liberale, una volta raggiunta, sia impossibile da rovesciare. I nostri padri fondatori, tuttavia, non ne erano altrettanto sicuri: gli autori classici che essi tanto amavano insegnavano che la storia è circolare, la natura umana imperfetta, e per impedire che la democrazia scivoli nella tirannia sono necessarie misure speciali. Ma la storia americana, per la maggior parte degli americani moderni, non è sentita come circolare. Al contrario, è raccontata spesso come una storia di progresso, una marcia in avanti e un’ascesa ininterrotte, in cui la guerra civile non rappresenta che un’eccezione. Non è facile che un paese che crede nel mito del «sogno americano» propagandato da Horatio Alger e nel «destino manifesto» della nazione s’abbandoni alla disperazione culturale. Il pessimismo è un sentimento alieno in uno Stato i cui documenti fondanti, espressioni dell’Illuminismo, testimoniano di una delle visioni più ottimistiche mai messe su carta sulle possibilità degli esseri umani di autogovernarsi.


Non basta: l’ottimismo sulle possibilità di autogovernarsi è inscritto nella nostra cultura politica fin dal 1776. Nella maggior parte del mondo, quell’anno, non era affatto «autoevidente» che tutti gli uomini fossero creati eguali. Né era affatto ovvio, nel 1789, che «noi il popolo» fossimo capaci di formare una «più perfetta unione», e neppure che «noi il popolo» fossimo in grado di governarci da soli. Tuttavia, un piccolo gruppo di uomini riunito sulla costa orientale di quello che era allora un continente selvaggio scrisse quelle parole, e ideò una serie di istituzioni intese a tramutarle in realtà. Se erano ottimisti sulla natura umana, non credevano che essa potesse essere perfezionata. Cercarono così di creare un sistema che, grazie anche a controlli ed equilibri, inducesse le persone a comportarsi meglio. Né allora né dopo le loro elevate parole riflessero sempre la realtà. Né allora né dopo le loro istituzioni funzionarono sempre come previsto. Ma, nel corso del tempo, quelle parole si rivelarono abbastanza potenti e quelle istituzioni abbastanza flessibili da dare pieni diritti a cerchie sempre più ampie di cittadini, non solo agli uomini, ma anche alle donne, a persone senza proprietà né ricchezze, a ex schiavi e immigrati provenienti da ogni cultura. Quando le istituzioni fallirono, come a volte accadde, quelle parole furono scandite e ripetute per convincere la gente a ritentare. Abraham Lincoln definì l’America l’«ultima migliore speranza della terra».1 Martin Luther King sognava che «un giorno questa nazione sorgerà e vivrà il significato vero del suo credo: noi riteniamo queste verità evidenti di per sé, che tutti gli uomini sono creati uguali».2


Fin dall’inizio ci fu anche la convinzione che la nuova nazione sarebbe stata diversa dalle altre. Thomas Jefferson credeva che in America la democrazia avrebbe avuto successo, anche se in Francia aveva fallito, perché la storia e le esperienze uniche degli americani li avevano preparati a essa. Pensava che gli americani, cui era stata «instillata fin dalla culla» la fede nell’autogoverno democratico, fossero speciali proprio perché erano isolati dall’Europa e dai suoi cicli storici, «separati dalla stirpe degli antenati e lontani da ogni possibilità di contaminazione».3 Altri, da de Tocqueville a Reagan, reinterpretarono tale «eccezionalismo» dandogli significati diversi. Ma a rendere il patriottismo americano veramente unico, sia allora sia in seguito, fu che esso non fu mai esplicitamente legato a una singola identità etnica con una singola origine in un singolo spazio. Il discorso di Reagan del 1989 sulla «città che risplende su una collina», ricordato come il momento di punta della retorica sulla «grandezza americana» e l’«eccezionalismo americano», evocava chiaramente i documenti fondanti dell’America, non la geografia americana o una razza americana. Reagan esortò i suoi concittadini a unirsi non attorno al sangue e al suolo, ma attorno alla Costituzione: «Finché ricorderemo i nostri primi principi e crederemo in noi stessi, il futuro sarà sempre nostro».4


Ma fin dall’inizio si presentarono anche alternative, versioni diverse di ciò che l’America era o avrebbe dovuto essere, definizioni diverse della «nazione». Come voci dissonanti in un coro sempre più numeroso, non sono mai mancati gruppi contraddistinti da un’avversione per gli ideali americani molto profonda, riflesso di qualcosa di più della semplice stanchezza per il governo del momento. Fin dal 1776, alcuni di essi hanno sempre ritenuto il progetto americano ingenuo, temibile, opprimente o falso. Dopo la Rivoluzione decine di migliaia di lealisti fuggirono in Canada; gli Stati confederati scelsero la secessione. Per alcuni la delusione per l’America era così profonda, e la rabbia contro l’America così intensa, da indurli a trarre conclusioni drastiche e intraprendere azioni radicali.


Nell’ultimo secolo e mezzo le visioni della civiltà americana più disperate e apocalittiche sono venute perlopiù da sinistra. Ispirati da pensatori e movimenti europei, come marxismo, anarchismo, bolscevismo, i radicali americani della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo lamentavano l’avvento di una modernità infernale e deploravano il fallimento del capitalismo americano nel migliorarla. L’anarchica Emma Goldman diede voce a un’intera classe di intellettuali e militanti quando, nel 1917, parlando di quella che considerava l’impostura delle istituzioni americane, scrisse: «Una repubblica libera! Come può un mito continuare ad esistere, ad ingannare, imbrogliare ed accecare anche le persone relativamente intelligenti con simili mostruose assurdità».5


Goldman era disgustata in particolare dalle avventure militari degli Stati Uniti all’estero e dal linguaggio patriottico usato per giustificarle. «Che cos’è il patriottismo?» si chiese in un saggio pubblicato nel 1908. È «l’amore per il proprio luogo di nascita, dei ricordi e delle speranze dell’infanzia, dei sogni e delle aspirazioni?». No, concludeva,


se il patriottismo fosse questo, pochi americani oggi potrebbero essere definiti come patriottici dal momento che il luogo dei giochi è stato trasformato in una fabbrica, un mulino o una miniera, mentre il frastuono assordante delle macchine ha sostituito la musica degli uccelli. Né possiamo più ascoltare i racconti delle grandi gesta, poiché le storie che le nostre madri raccontano oggigiorno sono piene di malinconia, lacrime e dolore.6


Per Goldman il sogno americano era una falsa promessa e l’America un luogo di «malinconia, lacrime e dolore», convinzioni che la portarono, inizialmente, a forme di protesta estreme. Il suo compagno e partner, Alexander Berkman, andò in prigione per avere tentato di assassinare l’industriale Henry Clay Frick, e fu accusato di aver partecipato anche al fallito tentativo di fare saltare in aria la casa di John D. Rockefeller Jr. Se in seguito Goldman rimase profondamente sconvolta dagli esiti della rivoluzione bolscevica, di cui fu testimone, e ripudiò la violenza, nel 1917 espresse una certa comprensione per «i martiri moderni che pagano per la loro fede con il sangue, e che vanno incontro alla morte sorridendo, perché credono, sinceramente come lo credette Cristo, che il loro martirio redimerà l’umanità».7


Questo tipo di linguaggio ricomparve, cinquant’anni dopo, nel pensiero dei Weather Underground. Nel 1970 questo gruppo di estremisti lanciò molotov contro la casa di un giudice della Corte suprema a New York, diffuse una «dichiarazione di guerra» agli Stati Uniti e, fabbricando bombe, fece accidentalmente saltare in aria una casa del Greenwich Village. Come gli anarchici di un’era precedente, i Weather Underground non credevano nel sistema politico americano né nella sua capacità di portare a cambiamenti significativi. Nel loro manifesto più famoso, Prateria in fiamme, parlavano di una «ideologia rinunciataria di conformismo e gradualismo» che «vuole rassicurare il popolo» diffondendo idee concilianti e centriste. Questo «riformismo», termine con il quale intendevano la normale prassi politica democratica, «presuppone l’essenziale bontà della società americana, in contrasto con il punto di vista rivoluzionario che considera il sistema marcio fino al midollo e da rovesciare». I Weathermen non credevano affatto alla sostanziale bontà della società americana. Giudicavano il sistema putrido. Condividendo il disprezzo di Lenin per politici eletti e assemblee legislative, l’idea di conquistare un elettorato e andare a caccia di voti non faceva che frustrarli e annoiarli.8


A renderli ancora più furibondi era l’idea di un «eccezionalismo americano», che in Prateria in fiamme denunciarono esplicitamente. Ai loro occhi l’America non poteva essere speciale, non poteva essere considerata diversa, non poteva essere un’eccezione. Le ferree leggi del marxismo non lasciavano dubbi sul fatto che, prima o poi, la rivoluzione sarebbe arrivata anche negli Stati Uniti, ponendo fine alla loro nefasta influenza nel mondo. La loro rabbia per la parola stessa eccezionalismo riecheggia oggi nel linguaggio di una parte della sinistra. Lo storico Howard Zinn, autore di una storia dell’America che si concentra su razzismo, sessismo e oppressione non ha mancato di denunciare anche i «miti dell’eccezionalismo americano».9 E negli ultimi due decenni sono state pubblicate decine di articoli dai titoli simili. Tale avversione per gli Stati Uniti riecheggia in infiniti colloqui, seminari e incontri pubblici, ovunque si riuniscano oggi i delusi dall’idea americana.


Ma c’è un altro gruppo di americani il cui disgusto per gli insuccessi della democrazia statunitense ha portato a conclusioni altrettanto radicali, e anch’esse hanno un’eco oggi. Se la sinistra ha identificato i lati oscuri del sistema nel potere distruttivo del capitalismo, nella veemenza del razzismo e nella presenza delle forze armate statunitensi all’estero, la destra cristiana gli ha addebitato come fallimenti la depravazione morale, la decadenza, la mescolanza delle razze e soprattutto l’irreversibile secolarismo dell’America moderna. Il saggista Michael Gerson, cristiano evangelico nonché acuto e critico analista del cristianesimo «politico», ha affermato che una parte della comunità evangelica è giunta sinceramente a credere che l’America sia ormai perduta. Gerson, già autore dei discorsi di George W. Bush e anch’egli allontanatosi dai suoi ex colleghi, parla delle opinioni di quelli che erano un tempo suoi amici in questi termini: «Un’età nuova e migliore non sarà inaugurata fino al Secondo Avvento di Cristo, l’unico evento in grado di fare piazza pulita. Nessuno sforzo umano può affrettare quel giorno né, in ultima istanza, salvare un mondo condannato».10 Fino al giorno del giudizio, in altre parole, non ha senso nemmeno provare a rendere la società migliore, ed è anzi probabile che essa non farà che peggiorare. Eric Metaxas, un evangelico conduttore di un talk show radiofonico, dichiarò nel 2016 che la vittoria di Hillary Clinton alle elezioni presidenziali di quell’anno avrebbe annunciato la fine della repubblica: «L’unica volta che abbiamo affrontato una simile lotta per la nostra esistenza è stata nella guerra civile e nella Rivoluzione che diede vita alla nazione».11 Franklin Graham, figlio dell’evangelista Billy Graham e presidente della Liberty University, un’università evangelica, usò durante la presidenza Obama un linguaggio più sofisticato: «Io credo che, per l’orologio di Dio, siamo alla mezzanotte, o forse agli ultimi minuti. … Quando vedi con che velocità il nostro paese sta degenerando, con che velocità sta degenerando moralmente il mondo, soprattutto durante questa amministrazione, sembra che esso si sia buttato a pesce dal trampolino morale nel pozzo nero dell’umanità».12


Questo filone di profondo pessimismo di destra sull’America non è un’assoluta novità. Varie versioni del medesimo modo di pensare sono state proposte più volte agli americani, nel corso di tre decenni, da numerosi altri oratori e autori, il più famoso dei quali è Patrick Buchanan. Egli non è un protestante evangelico, ma un cattolico che condivide la stessa visione apocalittica del mondo. Nel 1999 annunciò che avrebbe lasciato il Partito repubblicano per candidarsi alla presidenza del Reform Party. Nel discorso in cui fece questo annuncio lamentò la perdita della «cultura popolare che puntellava i valori rappresentati da fede, famiglia e paese, l’idea che noi americani siamo un popolo che si sacrifica e soffre insieme, e va avanti insieme, il rispetto reciproco, il senso dei limiti, le buone maniere; tutto è scomparso».13 In versioni più recenti di questo lamento funebre, Buchanan si espresse sulla sua disperazione culturale con maggiore precisione. Nella primavera del 2016, per esempio, scrisse:


Nella cultura popolare degli anni Quaranta e Cinquanta i maschi bianchi erano modelli di ruolo. Erano i detective e poliziotti che scovavano i gangster e gli eroi che vinsero la seconda guerra mondiale sui campi di battaglia d’Europa e nelle isole del Pacifico. Per i bambini bianchi il mondo s’è capovolto. I libri di storia delle nostre scuole sono stati riscritti e i vecchi eroi dimenticati, come si abbattono le loro statue e si arrotolano le loro bandiere.14


Il pessimismo di Buchanan nasce in parte dal suo senso del declino dei bianchi, ma anche, come quello di alcuni che si collocano a sinistra su posizioni diametralmente opposte alle sue, dalla sua avversione per la politica estera degli Stati Uniti. Nel corso degli anni Buchanan è passato dall’isolazionismo tradizionale alla convinzione, sembra, che il ruolo svolto dall’America nel mondo sia nefasto, se non un vero e proprio male. Nel 2002 dichiarò in televisione, utilizzando un linguaggio che avrebbe potuto usare Noam Chomsky o simili critici di sinistra dell’America, che «l’11 settembre è stato una diretta conseguenza dell’invischiarsi degli Stati Uniti in un’area del mondo cui non apparteniamo e dove non siamo voluti».15


Cosa ancora più strana, un uomo che s’è opposto per molti decenni alle false versioni sovietiche dei fatti si è lasciato abbindolare dalla falsa versione russa, creata dai tecnologi politici di Putin, secondo cui la Russia è una devota nazione cristiana che cerca di proteggere la propria identità etnica. Non importa che solo una minima percentuale di russi vada in chiesa, e meno del 5 per cento dica di avere mai letto la Bibbia; non importa che la Russia sia uno Stato multietnico e multilingue al massimo grado, con una popolazione musulmana molto più numerosa di quella della maggior parte dei paesi europei; non importa che la Cecenia, una provincia russa, sia attualmente governata dalla sharia e che le sue forze governative obblighino le donne a portare il velo e torturino gli omosessuali; non importa che molte forme di cristianesimo evangelico siano vietate. La propaganda, per esempio le fotografie di Putin nell’atto di rendere omaggio a un’icona della Madonna di Kazan, o la celebrazione di funzioni religiose in occasione delle sue cerimonie di insediamento, su Buchanan ha funzionato, tanto da convincerlo che la Russia è uno Stato nazionalista etnico superiore all’America, che egli definisce con disgusto una «“nazione universale” multiculturale, multietnica, multirazziale, multilingue la cui personificazione è Barack Obama».16


Come chi vive ai margini estremi dell’estrema sinistra americana, alcuni di coloro che vivono ai margini estremi dell’estrema destra sono da tempo attratti dalla violenza. Non c’è bisogno di ripercorrere qui la storia del Ku Klux Klan, di ricordare l’attentato perpetrato a Oklahoma da Timothy McVeigh o la strage compiuta a Charleston da Dylann Roof, né la miriade di individui e milizie che hanno architettato omicidi di massa, e continuano a farlo, per salvare una nazione ai loro occhi caduta. Nel 2017 una milizia dell’Illinois fece esplodere una bomba in una moschea del Minnesota. Nel 2018 un uomo convinto che gli ebrei stessero cospirando per distruggere l’America bianca uccise a Pittsburgh, in una sinagoga, undici persone. Nel gennaio 2019 un gruppo di uomini che si autodefinivano «i Crociati» tramò per mettere una bomba in un complesso residenziale di Garden City, nel Kansas: sperava di uccidere un gran numero di rifugiati somali. Questi gruppi e movimenti erano motivati anche dalla convinzione che la democrazia non abbia alcun valore, le elezioni non possano portare a reali cambiamenti e solo le azioni più estreme e disperate possano fermare il declino di una certa visione dell’America.


Nel 2016 alcune delle caratteristiche della vecchia sinistra marxista, come l’odio per la politica ordinaria, borghese, e l’aspirazione a una svolta rivoluzionaria, s’erano ormai incontrate e mescolate con la disperazione della destra cristiana riguardo al futuro della democrazia americana. Insieme, esse produssero la retorica da nostalgia restauratrice della campagna di Donald Trump. Due anni prima Trump s’era scagliato contro il fallimento americano invocando una soluzione che sarebbe piaciuta a Trockij: «Sa che cosa risolverà [questa situazione]? Quando l’economia crollerà, quando il paese andrà interamente al diavolo e tutto sarà un disastro, allora ci saranno … rivolte per tornare a dove eravamo quando eravamo grandi».17 Quattro anni prima il suo consigliere Steve Bannon, che si è letteralmente paragonato a Lenin, aveva parlato minacciosamente del bisogno di guerra: «Dovremo affrontare giorni bui prima di rivedere di nuovo, in America, il cielo azzurro del mattino. Dovremo sopportare enormi dolori. E, secondo me, chiunque la pensi diversamente vi sta prendendo in giro».18 In un discorso del 2010 egli fece inoltre un diretto riferimento ai Weathermen, citando Prateria in fiamme e la canzone di Bob Dylan da cui il gruppo aveva preso il nome:


Non ci vuole un weatherman [meteorologo] per capire da che parte soffia il vento, e i venti soffiano dalle alte pianure di questo paese, attraverso la prateria, accendendo un fuoco che divamperà fino a Washington in novembre.19


Anche nel discorso inaugurale di Trump, scritto da un gruppo di suoi consiglieri di cui faceva parte, tra gli altri, Bannon, erano presenti entrambi i filoni, di destra e di sinistra, dell’antiamericanismo. Era presente la ripugnanza di sinistra per l’establishment, che aveva «protetto se stesso, ma non i cittadini del nostro paese»: «Le loro vittorie non sono state le vostre vittorie, i loro trionfi non sono stati i vostri trionfi, e mentre nella capitale della nostra nazione loro festeggiavano, per le famiglie in difficoltà da un capo all’altro del nostro paese c’era poco da festeggiare». Ma in esso risuonava anche la disperazione evangelica per il tragico stato morale della nazione, per «il crimine, le bande e le droghe che hanno rubato troppe vite e sottratto al nostro paese tante potenzialità non realizzate».20


Nel suo discorso Trump non manifestò esplicitamente un desiderio di violenza purificatrice. Ma lo fece, senza alcun dubbio, in quello sulla «civiltà occidentale» che pronunciò a Varsavia nel luglio 2017, il discorso che Bardají e i suoi amici contribuirono a scrivere. Il suo autore non fu chiaramente Trump, che parve a volte sorpreso da quanto leggeva sul gobbo elettronico («Guarda un po’!» si meravigliò scoprendo le origini polacche di Copernico). Ma i suoi veri autori, fra cui figuravano Bannon e Stephen Miller, ricorsero in parte allo stesso linguaggio che avevano usato nel discorso inaugurale: «Il popolo, non i potenti … ha sempre costituito il fondamento della libertà e la pietra miliare della nostra difesa»21 scrissero, come se lo stesso Trump non fosse un ricco e potente uomo d’affari membro dell’élite, che aveva schivato l’arruolamento lasciando che altri combattessero al suo posto. Parlando della rivolta di Varsavia, un’orribile e sanguinosa battaglia in cui, nonostante il grande coraggio che dimostrò, la resistenza polacca fu schiacciata dai nazisti, essi fecero dichiarare a Trump che «quegli eroi ci ricordano che l’Occidente è stato salvato con il sangue dei patrioti; che ogni generazione deve sollevarsi e fare la propria parte in sua difesa». Era difficile non cogliere in quelle parole una sinistra allusione: «ogni generazione» significava che i patrioti della nostra generazione avrebbero dovuto versare anch’essi il sangue nell’imminente battaglia per salvare l’America dalla decadenza e dalla corruzione.


Trump stesso ha contribuito con nuovi elementi a questa vecchia narrazione. Al millenarismo dell’estrema destra e al nichilismo rivoluzionario dell’estrema sinistra ha aggiunto il profondo cinismo di un uomo che ha passato anni a fare affari in giro per il mondo ricorrendo a strategie sgradevoli. Trump non sa niente della storia americana e quindi non può avere alcuna fede in essa. Non capisce né apprezza il linguaggio dei padri fondatori del suo paese, e quindi non può esserne ispirato. Non credendo che la democrazia americana sia un bene, non ha alcun interesse per un’America che aspiri a essere un modello fra le nazioni. Intervistato nel 2017 da Bill O’Reilly per Fox News, espresse la sua ammirazione per Vladimir Putin, il dittatore russo, ricorrendo a una classica forma di whataboutism. «Ma è un assassino» obiettò O’Reilly. «Ci sono molti assassini» fu la risposta di Trump. «Lei pensa che il nostro paese sia così innocente?»22 Due anni prima aveva espresso un pensiero simile in un’altra intervista televisiva, questa volta con Joe Scarborough. «Guida il suo paese e almeno è un leader» aveva detto di Putin «a differenza di quello che succede da noi. … Penso che anche il nostro paese uccida parecchio, Joe, no?»23


Questo modo di parlare, «Putin è un assassino, ma lo siamo tutti», rispecchia la propaganda dello stesso Putin, che spesso afferma, altrettanto laconicamente: «Va bene, la Russia è corrotta, ma tutti lo sono». È un argomento a favore dell’equivalenza morale, un argomento che mina la fede, la speranza e la convinzione di poter essere all’altezza del linguaggio della nostra Costituzione. È anche un argomento utile al presidente, perché gli dà la licenza di essere un «assassino», o di essere corrotto, o di infrangere le regole «proprio come tutti gli altri». Durante un viaggio a Dallas ne sentii esprimere una versione da una facoltosa sostenitrice di Trump. Sì, mi disse, è corrotto, ma, era convinta, lo erano anche tutti i presidenti che l’avevano preceduto. «Soltanto che prima non lo sapevamo.» Il che dava a quella donna, una cittadina onesta, una patriota rispettosa della legge, la licenza di sostenere un presidente corrotto. Se tutti sono corrotti e lo sono sempre stati, allora tutto ciò che serve per vincere va bene.


Questo, com’è noto, è l’argomento che gli estremisti antiamericani, le frange di estrema destra ed estrema sinistra della società, hanno sempre fatto proprio. Gli ideali americani sono falsi, le istituzioni americane sono fraudolente, il comportamento americano all’estero è malvagio, e il linguaggio del progetto americano – eguaglianza, opportunità, giustizia – non è altro che un insieme di vuoti slogan. La vera realtà, in questa visione complottista, è fatta di uomini d’affari che agiscono in segreto, o forse eminenze grigie insediate nel cuore della burocrazia, che manipolano gli elettori per indurli ad assecondare i loro piani usando come copertura il linguaggio sentimentale di Thomas Jefferson. Qualunque cosa serva a rovesciare tali perversi intriganti è giustificata. In Prateria in fiamme i Weather Underground inveivano contro il «Dipartimento di Giustizia» e gli «addetti CIA della Casa Bianca».24 Trump ha fatto lo stesso. «Guardate la corruzione al vertice dell’FBI: è una vergogna» disse a «Fox and Friends» due anni dopo la sua nomina a presidente. «E il nostro Dipartimento di Giustizia, da cui cerco di stare alla larga … ma a un certo punto interverrò.»25 Più tardi, in effetti, sarebbe intervenuto.


Questa forma di equivalenza morale, la convinzione che la democrazia non sia diversa, in fondo, dall’autocrazia, è un argomento ben noto, usato da tempo dagli autoritari. Nel 1986 Jeane Kirkpatrick, studiosa, intellettuale e ambasciatrice di Reagan all’ONU, scrisse del pericolo rappresentato per gli Stati Uniti e i loro alleati dalla retorica dell’equivalenza morale proveniente, allora, dall’Unione Sovietica. Se armi e testate nucleari erano un pericolo per le democrazie, lo era ancora di più quella particolare forma di cinismo: «Per distruggere una società» scrisse «è necessario innanzitutto delegittimare le sue istituzioni fondamentali». Se si crede che le istituzioni degli Stati Uniti non abbiano niente di diverso dal loro opposto, non c’è motivo di difenderle. Lo stesso vale per le istituzioni transatlantiche. Per distruggere l’Alleanza atlantica, comunità di democrazie, scrisse, «è necessario soltanto privare i cittadini delle società democratiche del senso di obiettivi morali condivisi che sta alla base di identificazioni comuni e sforzi comuni».26


La vittoria di Trump nel 2016 fu la vittoria di questa forma di equivalenza morale. Invece di rappresentare la «città che risplende su una collina», non siamo diversi dagli «assassini» della Russia di Putin. Invece di una nazione che guida «i cittadini delle società democratiche», siamo «America First». Invece di considerarci al cuore di una grande alleanza internazionale per il bene, siamo indifferenti al destino delle altre nazioni, comprese quelle che condividono i nostri valori. «L’America non ha alcun interesse vitale nella scelta tra fazioni in guerra in Europa orientale la cui ostilità è vecchia di secoli» scrisse Trump, o il suo ghostwriter, nel 2000. «I loro conflitti non valgono vite americane.»27 Non era una denuncia della guerra in Iraq. Era una denuncia del coinvolgimento dell’America nel mondo risalente all’inizio del XX secolo, una denuncia del coinvolgimento dell’America in due guerre mondiali e nella guerra fredda, un ritorno alla xenofobia e all’isolazionismo e alla chiusura in se stessi degli anni Venti, quando il padre di Trump fu arrestato per aver partecipato a una manifestazione violenta del Ku Klux Klan.


Questo è ciò che Trump ha dimostrato: sotto la superficie del consenso americano, la fede nei nostri padri fondatori e nei nostri ideali, c’è un’altra America, l’America di Buchanan, l’America di Trump, che non vede alcuna rilevante differenza tra democrazia e dittatura. Quest’America non prova alcun attaccamento per altre democrazie; quest’America non è «eccezionale». Quest’America non ha alcuno speciale spirito democratico del tipo descritto da Jefferson. L’unità di quest’America è creata dalla pelle bianca, da una certa idea di cristianesimo e da un attaccamento a una terra da circondare di mura difensive. Il nazionalismo etnico di quest’America ricorda il nazionalismo etnico all’antica delle più vecchie nazioni europee. La disperazione culturale di quest’America ricorda la loro disperazione culturale.


La sorpresa non è l’esistenza di una simile definizione dell’America: essa è sempre esistita. La sorpresa è che sia emersa nel partito politico che ha usato più ostentatamente bandiere, stendardi, parate e simboli patriottici per sottolineare la sua identità. Perché il partito di Reagan divenisse il partito di Trump, perché i repubblicani abbandonassero l’idealismo americano per adottare la retorica della disperazione, è dovuto avvenire un enorme cambiamento, non solo fra gli elettori del partito, ma fra i suoi «chierici».


«Era l’ora dell’aperitivo, il giorno dell’inaugurazione del nuovo Congresso dominato dai repubblicani, e il lungo salotto illuminato da lampadari della casa di città di David Brock a Georgetown si stava riempiendo di giovani conservatori esuberanti freschi degli eventi al Campidoglio.» Così iniziava, nel 1995, una cover story del «New York Times Magazine», The Counter Counterculture, «La contro controcultura».28 L’autore era il compianto James Atlas, che vi introduceva, uno per uno, una serie di personaggi. C’era il giovane David Brooks, allora editorialista del «Wall Street Journal». C’era lo stesso Brock, meglio conosciuto all’epoca per le sue maliziose inchieste sulla vita privata del presidente Bill Clinton. C’erano i miei amici David Frum, definito «ex editorialista del “Wall Street Journal”», e sua moglie Danielle Crittenden, con cui, anni dopo, avrei scritto il mio libro di cucina polacca.


Non mancavano dettagli divertenti: costosi ristoranti di Georgetown dove colte élite conservatrici sfogavano tutto il loro disprezzo per le colte élite progressiste; ma il tono non era negativo. Seguiva una sfilata di altri nomi e brevi profili: Bill Kristol, John Podhoretz, Roger Kimball, Dinesh D’Souza. All’epoca in cui l’articolo uscì li conoscevo quasi tutti. Lavoravo allora a Londra per lo «Spectator», e il mio rapporto con quel gruppo era quello di una cugina straniera che tornava ogni tanto in visita suscitando un leggero interesse in famiglia, ma senza mai essere ammessa nella cerchia più ristretta. Ogni tanto scrivevo per il «Weekly Standard», diretto da Kristol, per il «New Criterion», di cui era direttore Kimball, e una volta collaborai all’«Independent Women’s Quarterly», diretto a quei tempi, fra gli altri, da Crittenden. Conoscevo anche, superficialmente, una donna il cui aspetto, in minigonna leopardata, era la cosa più notevole della foto di copertina della rivista: Laura Ingraham, che aveva lavorato per il giudice della Corte suprema Clarence Thomas e faceva allora l’avvocato in uno studio legale esclusivo. Nel penultimo paragrafo Atlas raccontava di essersi trovato, verso mezzanotte, «a scorrazzare con Brock a sessanta miglia all’ora per le vie del centro di Washington nella Land Rover verde militare di Ingraham alla ricerca di un bar aperto, mentre dallo stereo giungeva a tutto volume la musica di Buckwheat Zydeco».


Ogni tanto Ingraham riconferma, nei suoi programmi televisivi o in discorsi pubblici, la cosa principale che associo a lei ripensando a quell’epoca: la devozione a Reagan e al reaganismo, che doveva essere condivisa allora da tutti gli invitati a quell’aperitivo da Brock. Ma forse parlare di devozione a Reagan è un po’ troppo specifico. A tenere veramente insieme quel gruppo, e ciò che m’attirò verso di esso, era una sorta di ottimismo post-guerra fredda, la convinzione che «avevamo vinto», che ora la rivoluzione democratica sarebbe proseguita, che al crollo dell’Unione Sovietica avrebbero fatto seguito altre cose buone: lo stesso ottimismo che nutrivamo all’epoca in Polonia, e che ricordo così bene dalla festa dell’ultimo dell’anno del 1999. Non era il conservatorismo nostalgico degli inglesi; era qualcosa di più positivo, più americano, un conservatorismo ottimista che non guardava minimamente al passato. Se ne esistevano versioni più cupe, nelle migliori era energico, riformista e generoso, fondato sulla fede negli Stati Uniti, la fede nella grandezza della democrazia americana, e sull’ambizione di condividere quella democrazia con il resto del mondo.


Ma quel momento si rivelò più breve del previsto. Se la fine della guerra fredda e del thatcherismo produsse insoddisfazione tra i conservatori britannici, in America la fine della guerra fredda generò profonde divisioni e controversie insolubili. Prima del 1989 a unire gli anticomunisti americani, dai democratici centristi fino alle frange estreme del Partito repubblicano, era stata la determinazione a opporsi all’Unione Sovietica. Ma quegli anticomunisti non formavano un gruppo monolitico. Alcuni erano fautori della guerra fredda perché, da diplomatici o pensatori che ragionavano in termini di Realpolitik, temevano che sotto la propaganda sovietica fosse in agguato la tradizionale aggressività russa, erano preoccupati per la possibilità di una guerra nucleare e avevano a cuore l’influenza americana nel mondo. Altri, e io mi considero una di loro, pensavano che stessimo combattendo contro il totalitarismo e la dittatura e per la libertà politica e i diritti umani. Altri ancora, risultò, combattevano l’Unione Sovietica perché l’ideologia sovietica era esplicitamente atea ed erano convinti che l’America fosse schierata con Dio. Quando l’Unione Sovietica andò in pezzi, andarono in pezzi anche i legami che avevano tenuto insieme quei tipi diversi di anticomunisti.


Lo spostamento tettonico richiese tempo e la sua portata e scala non furono immediatamente evidenti. È probabile che gli eventi dell’11 settembre abbiano tenuto il gruppo insieme molto più a lungo di quanto sarebbe avvenuto altrimenti. Ma, alla fine, l’aperitivo a casa di Brock si rivelò l’ennesima festa i cui partecipanti ora non si parlano più. Solo due anni dopo lo stesso Brock, in un articolo intitolato Confessions of a Right-Wing Hit Man, «Confessioni di un sicario di destra», ritrattò, accusando la destra di «intolleranza intellettuale e di compiacersi nel pensiero di gruppo».29 Si spostò lentamente verso il centro e divenne un editorialista del «New York Times» e un autore di libri su come vivere una vita significativa. Frum divenne autore di discorsi per George W. Bush, poi rimase deluso dall’ascesa della frangia xenofoba e complottista del partito, finché, dopo l’elezione di Donald Trump, se ne staccò completamente. Kristol seguì un po’ più tardi lo stesso percorso. Altri, come D’Souza e Kimball, andarono nella direzione esattamente opposta.


La mia rottura avvenne nel 2008 a causa dell’ascesa di Sarah Palin, una proto-Trump, e dell’uso della tortura in Iraq da parte dell’amministrazione Bush. Scrissi anche un articolo, Why I Can’t Vote for John McCain, «Perché non posso votare per John McCain», spiegando come pensavo che il partito fosse cambiato.30 (Rileggendolo, vedo che era perlopiù una lode di McCain. Eppure egli, che aveva tenuto un discorso meraviglioso al lancio a Washington del mio libro Gulag, non mi rivolse più la parola.) Ma fu soltanto quando il candidato del partito divenne Donald Trump che mi resi conto di come la mia idea del mondo fosse divenuta diversa da quella di alcuni dei miei amici americani. Quel gruppetto di «giovani conservatori» si divise nettamente a metà.


Nel 2017 Sam Tanenhaus scrisse, questa volta per la rivista «Esquire», un articolo su un’altra festa, la festa data dai Frum nella loro casa a Washington per la pubblicazione del mio libro La grande carestia. La guerra di Stalin all’Ucraina. A essa parteciparono non pochi esponenti di quello che Tanenhaus definì «un gruppo scelto di scrittori, intellettuali e opinionisti sradicati e senza casa che, se si fossero riuniti a Parigi o Londra, o anche, diciamo, a Ottawa, avrebbero potuto esibire il fascino spettrale degli emigrati e degli esuli».31 Tanenhaus prese gentilmente in giro quel raduno di Never Trumpers, «Mai per Trump», ridendo fra l’altro, non del tutto a torto, degli «antipasti a tema Europa orientale» serviti a una festa per celebrare la pubblicazione di un libro su una carestia. Ma fece anche un’osservazione seria: «Per molti degli ospiti … l’ascesa di Trump ha cambiato il vecchio ritornello “potrebbe accadere qui” in qualcosa di più terribile e pressante: “Sta accadendo ora e va fermato”».


Non tutti i nostri vecchi conoscenti la pensavano così e, in effetti, non tutti furono invitati. Gli elenchi degli ospiti stilati dai miei amici negli anni Novanta del secolo scorso e quelli stilati dagli stessi amici alla fine degli anni Dieci di questo secolo erano molto diversi. Per cominciare, dai Frum c’era una manciata di democratici di centrosinistra, persone che trent’anni prima non conoscevano. C’erano anche alcune assenze. Non c’era, per esempio, Roger Kimball. Nel 1992 aveva scritto un elogio del Tradimento dei chierici, parte del quale sarebbe in seguito stato ripubblicato come introduzione a una nuova edizione in inglese del famoso libro di Benda. In quel saggio Kimball aveva osservato con approvazione che Benda, «che scriveva in un momento in cui l’Europa iniziava a essere dilaniata da odi etnici e nazionalistici», era contrario allo spirito di parte e credeva nell’«ideale del carattere disinteressato e dell’universalità della verità».32 Se a Kimball sembrava che l’ideale della neutralità intellettuale meritasse nel 1992 di essere riportato in auge era, forse, anche perché «odi etnici e nazionalistici» stavano allora divampando in Iugoslavia e nell’ex Unione Sovietica.


Nel 2019 lo stesso Kimball s’era ormai trasformato nell’esatto opposto dell’uomo «disinteressato», né «l’universalità della verità» gli stava più particolarmente a cuore. Quell’anno, mentre erano in corso le udienze per l’impeachment di Trump, scrisse per un sito web favorevole al presidente, «American Greatness», tutta una serie di articoli in cui derideva o ignorava ripetutamente le prove, mai davvero contestate dagli avvocati di Trump, secondo cui Trump aveva infranto la legge. Il Kimball del 1992 aveva scritto che «il disintegrarsi della fede nella ragione e nella comune umanità non conduce soltanto a una distruzione di principi morali, ma comporta anche una crisi di coraggio».33 Il Kimball del 2019 paragonò i membri democratici del Congresso a «quella folla inferocita che si schierò dalla parte di Barabba davanti a Ponzio Pilato», affermazione che equiparava implicitamente Trump a Gesù.34 Non accennò mai alla codardia dei senatori repubblicani che, con l’eccezione di Mitt Romney, avevano paura di riconoscere che il presidente aveva usato gli strumenti della politica estera americana a suo personale vantaggio. Era quella la «crisi di coraggio»: ce l’aveva di fronte. Ma Kimball non era più capace di vederla.


Non c’era neanche Ingraham, anche se in un’epoca precedente sarei stata felice di averla a una festa per la pubblicazione di un libro sui crimini sovietici, e lei sarebbe stata felice di venirci. Ma fin dagli anni Novanta avevamo imboccato strade radicalmente diverse. Lei aveva lasciato la professione di avvocato e aveva vagabondato nel mondo dei media conservatori, cercando a lungo di avere un suo programma televisivo. Se quei primi tentativi fallirono tutti, riuscì infine a farsi affidare un popolare programma radiofonico. Fui sua ospite un paio di volte, una delle quali dopo l’invasione russa della Georgia nel 2008.35 Riascoltando quella conversazione – la magia di Internet garantisce che nessuna battuta di un’intervista vada mai persa – sono rimasta colpita dalla misura in cui essa rifletteva il conservatorismo ottimista degli anni Novanta. Ingraham parlava ancora del potere dell’America di fare del bene, della capacità dell’America di contrastare la minaccia russa. Ma era già alla ricerca di qualcos’altro. Nel corso dell’intervista citò un articolo di Pat Buchanan, uno dei suoi mentori, che aveva ripetutamente inveito, giudicandola senza senso, contro qualsiasi relazione americana con la Georgia, un’aspirante democrazia, e lodato la Russia, un paese che immaginava più «cristiano» del suo.


La citazione era un indizio di altri cambiamenti a venire. A un certo punto il suo ottimismo reaganiano scomparve, lasciando a poco a poco il posto al pessimismo apocalittico condiviso da tanti altri. Lo testimonia molto di ciò che Ingraham dice e scrive oggi: l’America è condannata, l’Europa è condannata, la civiltà occidentale è condannata. E a esserne responsabili sono l’immigrazione, il politically correct, il transgenderismo, la cultura, l’establishment, la sinistra, i democratici. Parte di ciò che essa constata è reale: la cosiddetta cancel culture, la «cultura dell’ostracismo», su Internet, l’estremismo che a volte divampa nei campus universitari, le rivendicazioni esagerate dei fautori della politica identitaria rappresentano un problema politico e culturale che richiederà, per combatterlo, autentico coraggio. Ma non è più chiaro se lei pensi che queste forme di estremismo di sinistra possano essere combattute usando la normale politica democratica. Nel 2019 ebbe come ospite nel suo programma lo stesso Buchanan, e gli pose direttamente la domanda: «La civiltà occidentale, come noi l’intendiamo, è effettivamente in bilico? Penso che lei abbia argomenti molto forti per sostenere che sta precipitando nel baratro».36 Come Buchanan, anche lei ha finito per dubitare che l’America possa o debba svolgere un qualche ruolo nel mondo. E non c’è da stupirsi: se l’America non è eccezionale ma degenerata, perché ci si dovrebbe aspettare che realizzi qualcosa al di fuori dei suoi confini?


La stessa sensazione di andare incontro a un futuro tragico colora le sue opinioni sull’immigrazione. Da molti anni ormai Ingraham, come tanti altri nell’universo Fox, dipinge gli immigrati illegali come ladri e assassini, nonostante esistano prove schiaccianti che gli immigrati commettono complessivamente meno crimini degli americani di nascita. Né, per questo, essa si limita alla usuale e ragionevole richiesta di maggiore severità ai confini. S’è persino appellata al presidente Trump perché ponga fine non solo all’immigrazione illegale, ma anche a quella legale, denunciando più di una volta i «massicci cambiamenti demografici» in corso in America, «cambiamenti per i quali nessuno di noi ha mai votato e che alla maggior parte di noi non piacciono». In alcune regioni del paese, ha detto, «sembra che l’America che conosciamo e amiamo non esista più».37 Poi, rivolgendosi direttamente a Trump, ha concluso:


Questa è un’emergenza nazionale, e deve chiedere che il Congresso agisca subito. C’è qualcosa che sta scomparendo in questo paese, e non riguarda la razza o l’etnia. È la visione una volta comune a entrambi i partiti che la cittadinanza è un privilegio, e richiede come minimo rispetto per l’imperio della legge e lealtà verso la nostra Costituzione.


Se l’America autentica, la vera America, sta scomparendo, per salvarla potrebbero essere necessarie misure estreme. Nel 2019 Ingraham annuì quando uno dei suoi ospiti, l’avvocato conservatore Joseph diGenova, iniziò a parlare del conflitto culturale destinato ben presto a scoppiare negli Stati Uniti: «L’idea che in questo paese, nel prossimo futuro, il dialogo continuerà a essere civile è tramontata …, sarà guerra totale» disse diGenova. E aggiunse: «Io faccio due cose, voto e compro armi».38 Quando Rafael Bardají disse che «noi non vogliamo essere uccisi, dobbiamo sopravvivere» parlava metaforicamente.39 Ingraham promuove un gruppo di americani convinti che la politica possa presto divenire un’autentica guerra, la cui violenza sarà reale.


Tale cupo pessimismo, che echeggia quello dei movimenti di sinistra e di destra più allarmisti e radicali della storia politica americana, contribuisce a spiegare come Ingraham sia potuta divenire, ben prima di tanti altri, una convinta sostenitrice di Donald Trump. Lo conosce fin dagli anni Novanta; una volta ebbero un incontro galante, ma, a quanto pare, non andò bene: lei lo giudicò borioso («Ha bisogno di due macchine, una per lui e una per la sua cresta» disse ad amici comuni). Tuttavia, fu tra i primi sostenitori dell’ingresso di Trump in politica, tanto da permettergli di blaterare di birtherism nel proprio programma, e parlò a suo favore alla convention repubblicana sostenendo la sua causa prima ancora che il resto del partito si accodasse. Ha avuto speciale accesso al presidente per tutto il suo mandato ed è fra quelli di Fox che parlano con lui regolarmente.


Tale fede in Trump, o almeno nella sua causa, ha profondamente plasmato il modo di Ingraham di parlare della pandemia da coronavirus della primavera 2020. Come i suoi colleghi di Fox News, in un primo momento minimizzò la faccenda, accusando i democratici di fare un gran chiasso sul virus, «un nuovo modo», a suo dire, «per colpire il presidente Trump».40 In seguito si diede alla disinformazione attiva, ignorando gli epidemiologi e promuovendo a gran voce l’idrossiclorochina prima che fosse stata testata; ne parlò tre giorni prima che Trump iniziasse a promuoverla egli stesso.41 Ad aprile, per di più, s’unì alla bizzarra campagna del presidente contro le politiche di lockdown della sua stessa amministrazione, incoraggiando i «ribelli» a insorgere contro la quarantena. Il suo più profondo modo di vedere le cose l’ha espresso in un tweet: «Quanti di coloro che hanno esortato il nostro governo a contribuire a liberare iracheni, siriani, curdi, afgani ecc., si stanno ora impegnando per liberare Virginia, Minnesota, California ecc.?».42 L’uso della parola liberazione, la diretta equivalenza tracciata fra Saddam Hussein, un uomo responsabile di stragi di massa, e i governatori americani che, democraticamente eletti, stavano cercando di proteggere i loro cittadini da un’epidemia: non è così che pensa chi ha fede nella democrazia americana.


Alcuni aspetti del percorso di Ingraham rimangono misteriosi. Uno è il suo frequente appello a valori morali, valori cristiani, valori personali. In un discorso tenuto nel 2007 a Dallas dichiarò che «senza virtù non c’è America. Senza virtù saremo governati da tiranni». Dopo di che stilò un elenco di queste virtù: «Onore, coraggio, altruismo, sacrificio, duro lavoro, responsabilità personale, rispetto per gli anziani, rispetto per i vulnerabili».43 A Donald Trump non si può riconoscere nessuna di queste virtù. E ancora più difficili da capire sono la sua attiva condivisione del disprezzo del presidente per tutti gli immigrati e la sua paura che l’immigrazione legale abbia minato «l’America che conosciamo e amiamo». Lei stessa ha tre figli adottivi, tutti immigrati.


Non so come spiega queste contraddizioni a se stessa, perché con me Ingraham non ha voluto parlare. Come la mia amica Ania Bielecka, ha risposto a una sola mia email, dopo di che è rimasta in silenzio. Ma qualche indizio c’è. Alcuni amici fanno notare che è una convertita al cattolicesimo e, sopravvissuta a un tumore al seno, è profondamente religiosa: a uno di loro ha confessato che «l’unico uomo che non mi ha mai deluso è Gesù». La forza di volontà di cui ha avuto bisogno per sopravvivere nel mondo spietato dei media di destra, soprattutto a Fox News, dove le star subiscono spesso pressioni per andare a letto con i loro capi, non va sottovalutata. Questo insieme di esperienze personali dà ad alcune delle sue osservazioni pubbliche un tono messianico. Nello stesso discorso del 2007 parlò anche della sua conversione. Se non fosse stato per la sua fede, disse, «non sarei qui … probabilmente non sarei in vita». Ecco perché, aggiunse, lottava per salvare l’America dagli atei: «Se perdiamo la fede in Dio come paese, perdiamo il nostro paese».


Un altro elemento è l’ambizione professionale, la motivazione più antica del mondo. Grazie anche a Trump, e al suo rapporto con lui, Ingraham ha finalmente ottenuto da Fox il suo programma televisivo in prima serata, riccamente retribuito. E ha potuto intervistare Trump in momenti chiave, interviste nelle quali gli ha posto solo domande lusinghiere. «A proposito, congratulazioni per i suoi risultati nei sondaggi» gli ha detto durante un’intervista nell’anniversario del D-Day.44 Ma non credo che, per una persona intelligente come lei, l’ambizione spieghi tutto. Per tanti anni, prima che Fox le affidasse un programma televisivo, condusse una trasmissione alla radio, e credo che, se mai il suo programma televisivo venisse cancellato, tornerebbe a condurne uno radiofonico. Come nel caso di tante biografie, separare il personale dal politico è folle.


Qualche indizio sul modo di pensare di Ingraham si può trovarlo anche in altri tempi e altri luoghi. Non è escluso che le contraddizioni personali, tipo avere un figlio gay e appoggiare un partito omofobico, come il mio amico polacco, o inveire contro l’immigrazione e adottare bambini stranieri, diano in realtà alimento all’estremismo, o comunque all’uso di un linguaggio estremista. Lo scrittore polacco Jacek Trznadel ha raccontato come ci si sentiva, nella Polonia stalinista, a sostenere a voce alta il regime e, nello stesso tempo, nutrire dei dubbi al riguardo. «Stavo gridando da una tribuna, in un’adunanza universitaria a Breslavia, e contemporaneamente mi sentivo preso dal panico al pensiero di me che urlavo. … Mi dissi che urlando stavo cercando di convincere [la folla], ma in realtà stavo cercando di convincere me stesso.»45 Per alcuni, sostenere a voce alta Trump aiuta a ricacciare indietro i profondi dubbi e persino la vergogna che provano a sostenere Trump. Di fronte a un presidente che ha fatto di tutto per corrompere la Casa Bianca e distruggere le alleanze americane, esprimere una tiepida approvazione non basta. Bisogna gridare, se si vuole convincere se stessi e gli altri. Bisogna esagerare i propri sentimenti, se si vuole renderli credibili.


Ma la risposta potrebbe anche trovarsi semplicemente nella profondità della disperazione di Ingraham. L’America d’oggi, ai suoi occhi, è un luogo oscuro e da incubo, dove Dio parla solo a un numero insignificante di persone; dove l’idealismo è morto; dove guerra civile e violenza sono alle porte; dove politici democraticamente eletti non sono migliori di dittatori stranieri e assassini di massa; dove l’«élite» sguazza nel mezzo della decadenza, del caos, della morte. L’America d’oggi, come la vedono lei e tanti altri, è un luogo in cui le università insegnano a odiare il proprio paese, le vittime sono più celebrate degli eroi e i vecchi valori sono stati messi da parte. Se serve a fare rinascere la vera America, la vecchia America, qualsiasi prezzo va pagato, qualsiasi crimine perdonato, qualsiasi oltraggio ignorato.

VI


La non-fine della storia

Profonde svolte politiche come quella che stiamo vivendo, che dividono da un momento all’altro famiglie e amici, attraversano classi sociali e modificano alleanze, sono già avvenute. Non s’è prestata abbastanza attenzione, negli ultimi anni, a una controversia che, scoppiata nel XIX secolo in Francia, ha prefigurato molti dei dibattiti del XX secolo, e in cui si rispecchiano anche quelli del XXI.


L’affare Dreyfus ebbe inizio nel 1894, quando si scoprì che nell’esercito francese s’annidava un traditore: qualcuno aveva passato informazioni alla Germania, che un quarto di secolo prima aveva sconfitto la Francia e occupava ancora l’ex provincia francese dell’Alsazia-Lorena. I servizi segreti militari condussero le loro indagini e dichiararono di aver trovato il colpevole. Il capitano Alfred Dreyfus, alsaziano, parlava con accento tedesco ed era ebreo, quindi, agli occhi di alcuni, non un vero francese. Come si sarebbe scoperto, era anche innocente. La vera spia era il maggiore Ferdinand Esterhazy, un altro ufficiale, che, diversi anni dopo, avrebbe lasciato il suo incarico per fuggire all’estero.


Ma gli investigatori dell’esercito francese crearono false prove e resero false testimonianze. Dreyfus fu deferito alla corte marziale, giudicato colpevole e sottoposto a una pubblica umiliazione. Nel Campo di Marte, di fronte a una folla enorme che lo copriva di ingiurie, gli furono strappati i galloni da ufficiale e gli venne spezzata la spada. Dreyfus gridò: «State degradando un uomo innocente! Viva la Francia! Viva l’esercito!». In seguito venne mandato in solitario esilio sull’isola del Diavolo, al largo della Guyana francese.


La polemica che ne seguì, definita da Romain Rolland una «battaglia fra due mondi»,1 divise la società francese lungo linee che suonano familiari. Coloro che ritenevano Dreyfus colpevole erano l’alt-right, o il partito Diritto e Giustizia, o il Fronte nazionale, o i seguaci di QAnon, del loro tempo. Usando i titoli gridati della stampa sensazionalistica francese, versione XIX secolo di un’operazione di trolling dell’estrema destra, propagandarono consapevolmente una teoria del complotto. Stamparono manifesti in cui dalla testa di Dreyfus uscivano serpenti, vecchio tropo antisemita, e vignette che lo raffiguravano come un animale dalla coda mozza: «memi» razzisti, anche se la parola «memi» non era ancora entrata nel nostro vocabolario. I loro leader mentivano per difendere l’onore dell’esercito. I loro seguaci si aggrapparono alla fede nella colpevolezza di Dreyfus, e nella loro assoluta lealtà alla nazione, anche quando la menzogna fu rivelata.


Per convincerli a non venire meno a quella lealtà, un’intera claque di «chierici» ottocenteschi dovette venire meno alla lealtà verso la verità oggettiva. Dreyfus non era una spia. Per dimostrare che lo era, gli antidreyfusardi dovettero disdegnare prove, legge, giustizia e persino il pensiero razionale. Come Langbehn, lo storico dell’arte tedesco che idolatrava Rembrandt, finirono per attaccare la scienza stessa, perché, moderna e universale, entrava in conflitto con il culto passionale degli antenati e della patria. «In ogni opera scientifica», scrisse un antidreyfusardo, c’è qualcosa di «precario» e «contingente».2 Essi attaccarono anche il carattere, la personalità, la legittimità e il patriottismo di coloro che difendevano Dreyfus. Si trattava di «idioti» e «stranieri», persone che non meritavano di essere cittadini francesi.


I «veri francesi», la vera élite, in contrapposizione all’élite «straniera» e sleale, sostenevano gli antidreyfusardi, erano loro stessi. Un loro leader, Édouard Drumont, fondò un giornale, «La Libre Parole», che, anticapitalista e antisemita, anticipò in parte gli autoritarismi nazionalsocialisti del XX secolo e dei nostri giorni. Accusava gli ebrei di complottare per distruggere l’esercito francese, la potenza francese e la Francia stessa.


I dreyfusardi, dal canto loro, sostenevano che esistono principi più elevati della lealtà alle istituzioni nazionali, e che se Dreyfus fosse colpevole o no aveva importanza. Soprattutto, affermavano, lo Stato francese aveva l’obbligo di trattare tutti i cittadini nello stesso modo, qualunque fosse la loro religione. Anch’essi erano patrioti, ma diversamente. Non vedevano nella nazione un clan etnico, bensì l’incarnazione di una serie di ideali: giustizia, onestà, obiettività, neutralità dei tribunali. Il loro era un patriottismo più cerebrale, più astratto e più difficile da comprendere, ma non privo di un suo fascino. Nel suo celebre e appassionato intervento, J’accuse, pubblicato nel 1898, Émile Zola dichiarò di non provare animosità personale verso coloro che avevano fabbricato le accuse contro Dreyfus. «Per me» scrisse «sono soltanto delle entità e spiriti di malvagità sociale. E l’atto che compio oggi non è che un mezzo rivoluzionario per sollecitare l’esplosione della verità e della giustizia.»3


Quelle due visioni della nazione, quel disaccordo su «chi siamo», spaccarono la Francia a metà o, forse, portarono alla luce una spaccatura che, sotto la rassicurante idea di un paese in corso di rapida industrializzazione e modernizzazione, c’era sempre stata. Le passioni divamparono. Cambiarono le fedeltà sociali, e cambiarono le liste degli ospiti. Negli ultimi volumi del suo grande romanzo, Alla ricerca del tempo perduto, Marcel Proust racconta come l’affare Dreyfus avesse distrutto amicizie e mutato la configurazione della società. Nel romanzo una signora alla moda diviene antidreyfusarda per avere accesso ai salotti aristocratici dove, essendo sposata a un ebreo, la sua presa di posizione è considerata un «doppio titolo di merito». Un’altra, per cercare di ingraziarsi una padrona di casa dreyfusarda, decreta «la stupidità delle persone del suo mondo».4 Due vignette del disegnatore satirico Caran d’Ache mostrano una famiglia francese a cena. Nella prima scena sono tutti educatamente seduti. Nella seconda si accapigliano, lottano, rovesciano il cibo, fracassano i mobili. La didascalia spiega: «Avevano iniziato a parlarne», intendendo «dell’affare Dreyfus». Léon Blum, primo ebreo a divenire capo del governo in Francia, parlò della controversia come di «una crisi umana, non così ampia e prolungata come la Rivoluzione francese, ma non meno violenta».5


Alla fine vinsero i dreyfusardi, e nel 1899 Dreyfus poté finalmente tornare in patria; ma fu ufficialmente graziato solo nel 1906. Quello stesso anno divenne primo ministro in Francia Georges Clemenceau, ex direttore del quotidiano che aveva pubblicato il J’accuse di Zola. Alla fine del romanzo di Proust il narratore torna dalla provincia dopo una lunga malattia e scopre che dei dreyfusardi non parla più nessuno – «questo termine era stato ben presto dimenticato»6 – e tutte le alleanze erano ancora una volta cambiate.


Ma la vittoria non fu definitiva. All’inizio del XX secolo le posizioni antidreyfusarde acquistarono di nuovo forza. A Parigi gli studenti iniziarono a rifiutare l’esito dell’affare Dreyfus, assumendo ostentatamente, come s’è espresso lo storico Tom Conner, una «posizione conservatrice … basata su valori tradizionali come famiglia, Chiesa e nazione».7 Nel 1908, lo stesso anno in cui Emma Goldman mise in questione l’esistenza stessa del patriottismo in America, il movimento protofascista Action Française, fondato da un antidreyfusardo di spicco, Charles Maurras, montò una campagna d’odio contro uno storico, Amédée Thalamas. Maurras, uno dei «chierici» citati da Benda, era infuriato perché Thalamas aveva osato insinuare che le visioni religiose di Giovanna d’Arco potevano essere state, anziché segni sacri inviati da Dio, mere allucinazioni uditive. Una banda di attivisti aggredì lo storico durante una delle sue lezioni alla Sorbona e lo costrinse a nascondersi. Dopo il 1940 Maurras si sarebbe schierato con il regime collaborazionista di Vichy, sotto lo slogan, ovviamente, di France d’abord, «Prima la Francia».


Ma la ruota politica girò di nuovo. Hitler fu sconfitto e per la repubblica di Vichy giunse la fine. Maurras venne processato e condannato come traditore. Ascoltando il verdetto esclamò, oltre mezzo secolo dopo la famosa scena al Campo di Marte: «C’est la revanche de Dreyfus!», «È la vendetta di Dreyfus!».


Dopo la guerra prese il sopravvento una diversa visione della Francia, basata su pensiero razionale, Stato di diritto e integrazione europea. Ma lo spirito dei «chierici» che cercarono di infamare Dreyfus, aderirono a Vichy e lottarono per France d’abord non è morto. Alla più ampia visione di Emmanuel Macron di una Francia repubblicana che è tornata a rappresentare una serie di valori astratti, fra cui l’imparzialità della giustizia e lo Stato di diritto, si contrappongono il nazionalismo di Marine Le Pen che, sotto lo slogan «la Francia ai francesi», evoca antichi simboli ed eroi nazionali, primo fra tutti Giovanna d’Arco, e il conservatorismo sociale di Marion Maréchal. A volte la lotta s’è fatta violenta. Quando nella primavera del 2019 i gilet gialli, anarchici anti-establishment, si sollevarono a Parigi, abbatterono una statua di Marianne, simbolo della Repubblica e incarnazione dello Stato astratto.


L’affare Dreyfus fu innescato da una singola cause célèbre. Un solo caso giudiziario, un processo contestato, portò alla luce divisioni insuperabili fra persone che, prima, non erano pienamente consapevoli dei dissensi esistenti fra loro o, almeno, della loro importanza. Due decenni fa dovevano già esistere fra i polacchi visioni diverse della «Polonia», solo che aspettavano di essere esacerbate dal caso, dalle circostanze e da ambizioni personali. In modo analogo, definizioni diverse di ciò che significa essere «americani» circolavano già prima dell’elezione di Trump. Benché avessimo combattuto una guerra civile che avrebbe dovuto colpire al cuore l’idea nativista ed etnica di ciò che significa essere americani, quell’idea è sopravvissuta abbastanza a lungo da trovare nel 2016 una nuova incarnazione. Il voto sulla Brexit e i caotici dibattiti che lo seguirono dimostrano che alcune vecchie idee sull’Inghilterra e l’inglesità, rimaste a lungo occultate sotto la più ampia definizione di «Gran Bretagna», conservano anch’esse una forte attrattiva. L’improvvisa ondata di sostegno per Vox è un segno che il nazionalismo spagnolo non scomparve con la morte di Franco. Andò semplicemente in letargo.


Tutti questi dibattiti, che siano avvenuti in Francia nell’ultimo decennio del XIX secolo o in Polonia negli anni Novanta del XX, ruotavano attorno alle domande al centro di questo libro: come si definisce una nazione? Chi la definisce? Chi siamo noi? Abbiamo a lungo immaginato che tali domande avessero già trovato risposte definitive, ma perché mai dovrebbe essere così?


Nell’agosto 2019 demmo una festa. Questa volta era estate, quindi, invece della neve e di gite in slitta, c’era il sole e potemmo stenderci sull’erba e nuotare nel laghetto. E, invece di fuochi d’artificio, accendemmo un fuoco vero. Ma la differenza non stava solo in questo: anche il successo della Polonia, economico, politico e culturale, rendeva la situazione diversa da quella dell’ultimo dell’anno del 1999. A occuparsi di cucinare fu, questa volta, un’azienda gestita da un amico del posto, proprietario di una redditizia catena di panifici, e il risultato fu ben superiore ai pentoloni di stufato di manzo di vent’anni prima. Un altro amico, un ex parlamentare della nostra regione che suona la chitarra elettrica, chiese a qualche suo conoscente di esibirsi, così, invece di cassette, avemmo musica dal vivo. Alcuni degli invitati soggiornarono nei nuovi hotel di Nakło nad Notecią, la città vicina, uno dei quali era un ex birrificio magnificamente convertito, per puro piacere, da un uomo d’affari del luogo. Ancora una volta tenni un elenco di chi dormiva in un posto e chi in un altro, ma tutto fu molto più facile, perché le cose che nel 1989 e anche nel 1999 erano lussi impensabili – impianti audio portatili, per esempio, o aceto balsamico – erano ormai alla portata di tutti, presenti in migliaia di feste e matrimoni in Polonia ogni weekend.


Alcuni degli ospiti erano figure familiari. Un’amica arrivata da New York nel 1999 tornò nel 2019, questa volta con il marito e un figlio. Una coppia polacca venne senza i figli che, divenuti adulti, s’erano sposati. Del gruppo giunto da Varsavia facevano parte alcuni esuli da quella che veniva chiamata la «destra», nonché qualcuno che non ci saremmo mai sognati di invitare vent’anni prima: persone che appartenevano allora a quella che veniva chiamata la «sinistra». Negli anni intercorsi tra le due feste avevamo perso qualche amico, ma ne avevamo guadagnati di nuovi.


C’erano anche altre persone, fra cui vicini di casa di Chobielin, i sindaci di alcune città dei dintorni e, di nuovo, un piccolo gruppo di amici provenienti dall’estero, da Houston, Londra, Istanbul. A un certo punto notai che la guardia forestale locale stava discutendo animatamente con l’ex ministro degli Esteri svedese, Carl Bildt, con il quale mio marito aveva creato diversi anni prima il partenariato orientale fra UE e Ucraina. In un altro angolo del giardino vidi un noto avvocato, nipote di un nazionalista polacco di dubbia fama degli anni Trenta, immerso nella conversazione con un amico di Londra nato in Ghana. Nei due decenni precedenti il mondo s’era ristretto abbastanza perché tutti si potessero incontrare nello stesso giardino immerso nella campagna polacca.


Notai anche che la falsa ed esagerata divisione del mondo fra somewheres e anywheres, fra coloro che si suppongono radicati in un singolo luogo e coloro che sono sempre in viaggio, fra coloro che vengono ritenuti «provinciali» e coloro che passano per «cosmopoliti», aveva perso ogni significato. Nella nostra festa non sarebbe stato possibile dire chi apparteneva a una categoria e chi all’altra. Persone che vivevano nel nostro remoto angolo della Polonia rurale erano contente di parlare con persone che vivevano altrove. Persone di estrazioni radicalmente diverse potevano benissimo andare d’accordo: le «identità» della maggior parte della gente vanno ben oltre quella semplice dualità. Si può essere radicati in un luogo e tuttavia aperti al mondo. Si può interessarsi del locale e del globale nello stesso tempo.


Un gruppo di ospiti non era nemmeno nato, o nato da poco, nel 1999. Erano i compagni di scuola e università dei nostri figli, un eclettico miscuglio di polacchi, europei di altre nazioni e americani, ragazzi che provenivano da Varsavia, da Bydgoszcz, dal Connecticut e dal Sud di Londra. Erano arrivati in treno e, per dormire, si sistemarono sul pavimento o, in un caso, all’aperto su un’amaca. Nuotarono nel lago, la mattina dopo dormirono fino a tardi, e poi tornarono a nuotare nel lago. Mescolavano l’inglese e il polacco, ballavano al suono della stessa musica, conoscevano le stesse canzoni. Nessuna profonda differenza culturale, nessun profondo scontro di civiltà, nessun incolmabile divario in termini di identità sembravano dividerli.


Forse gli adolescenti che si sentono sia polacchi sia europei, cui non importa di vivere in città o in campagna, sono precursori di qualcos’altro, qualcosa di meglio, qualcosa che non riusciamo ancora a immaginare. Certamente molti altri sono come loro, e in molti paesi. Di recente ho incontrato Zuzana Čaputová, per esempio, il nuovo presidente della Slovacchia, un avvocato ambientalista proveniente da una piccola città che ha vinto un’elezione nazionale mettendo insieme, proprio come Vox, una coalizione di persone che hanno a cuore cose disparate: l’ambiente, la corruzione, la riforma della polizia. Ho avuto anche la fortuna di incontrare Agon Maliqi, un giovane kosovaro che promuove idee liberali e una cultura democratica tramite l’arte, il cinema e l’istruzione. «Quello che l’Occidente ha vissuto in decenni di lotta a noi arriva nella forma di un foglio di carta» mi ha detto. Il suo obiettivo è far sì che le idee messe per iscritto su quel foglio paiano reali alla gente comune. Ho fatto un podcast con Flavia Kleiner, una studentessa svizzera di storia che, stanca della versione della nostalgia restauratrice in auge nel suo paese, ha deciso di respingerla. Lei e alcuni suoi amici, che si sono dichiarati «i figli del 1848», discendenti della rivoluzione liberale svizzera, hanno iniziato a promuovere, online e offline, un diverso tipo di patriottismo e contribuito al fallimento di alcuni referendum nazionalisti. L’Europa, l’America e il mondo sono pieni di persone, abitanti in città e in campagna, cosmopolite e provinciali, con idee interessanti e creative su come vivere in un mondo più equo e insieme più aperto.


Esse hanno molti ostacoli da superare. Nella primavera del 2020, con il diffondersi del nuovo coronavirus in Europa e in tutto il mondo, il loro ottimismo globale, come qualsiasi ottimismo globale, è parso di colpo ingenuo. Il 13 marzo, un venerdì fra l’altro, mio marito era in macchina in autostrada, in Polonia, quando ha acceso la radio ed è venuto a sapere che nel giro di ventiquattr’ore i confini del paese sarebbero stati chiusi. Si è fermato e mi ha chiamato. Pochi minuti dopo, a Londra, ho comprato un biglietto per Varsavia. La mattina successiva l’aeroporto di Heathrow era uno spettrale deserto tranne che per l’aereo per Varsavia: un gran numero di persone cercava di prendere uno degli ultimi voli per tornare nel proprio paese. Al check-in veniva rifiutato l’imbarco a chi non aveva il passaporto polacco (io l’avevo) o documenti che ne attestavano la residenza in Polonia. Poi qualcuno s’è reso conto che le nuove regole sarebbero entrate in vigore solo a mezzanotte, e ho assistito a una conversazione fra uno steward e due passeggeri non polacchi: «Vi rendete conto che potreste non poter più uscire dal paese? Vi rendete conto che potreste dover rimanere a Varsavia molto a lungo?».


Lo stesso giorno abbiamo chiamato nostro figlio, che stava frequentando il primo anno di università negli Stati Uniti, dicendogli di andare all’aeroporto. Aveva programmato di restare, dopo la chiusura dell’università, con amici e parenti. Invece gli abbiamo dato trenta minuti di tempo per prendere uno degli ultimi aerei diretti a Londra, in coincidenza con uno degli ultimi voli per Berlino. Quando è atterrato in Europa, la domenica, la Polonia aveva ormai chiuso i confini a tutti i mezzi di trasporto pubblici. Da Berlino ha preso un treno per Francoforte sull’Oder, sul confine polacco-tedesco. Lì è sceso e s’è incamminato sul ponte che attraversa la frontiera, portandosi dietro la valigia, come in un film su uno scambio di spie ambientato ai tempi della guerra fredda. Ha incontrato posti di blocco, soldati armati, uomini in tute protettive che misuravano la temperatura della gente, droni in cielo, meravigliandosi, fra l’altro, perché nell’Europa continentale non aveva mai visto un confine. Ad accoglierlo all’estremità opposta del ponte c’era mio marito. L’altro nostro figlio era ancora al di là dell’Atlantico, dove sarebbe rimasto bloccato per molte settimane.


La decisione del governo polacco di chiudere i confini, apparentemente non pianificata, ha provocato un caos immenso. Cittadini polacchi sono rimasti bloccati dappertutto, e il governo ha dovuto organizzare voli charter per riportarli in patria. Migliaia di cittadini di Ucraina, Bielorussia e Stati baltici, fra cui camionisti e turisti che stavano cercando solo di tornare a casa, hanno dovuto attendere in coda per diversi giorni al confine polacco-tedesco, usando come toilette i campi adiacenti, perché le guardie di frontiera rifiutavano l’ingresso ai non polacchi. La Croce Rossa tedesca distribuiva bevande, cibo e coperte. Nessuna di queste dure, drammatiche misure ha fermato il virus: l’epidemia, che aveva già iniziato a diffondersi, ha continuato a farlo anche dopo la chiusura dei confini. Gli ospedali polacchi sono stati in breve sopraffatti, anche perché nei cinque anni precedenti la retorica del governo nazionalista aveva indotto tanti medici ad abbandonare il paese. Ma nonostante il caos, o forse anche grazie al caos, il giro di vite alle frontiere è stata una misura immensamente apprezzata. Lo Stato stava facendo qualcosa. Si può vedervi un presagio di quanto ci aspetta.


Nel corso della storia le pandemie hanno sempre portato a un’espansione del potere dello Stato: quando hanno paura di morire, le persone accettano a volte misure che, a torto o a ragione, pensano che le salveranno, anche se significano una perdita di libertà. In Gran Bretagna, Italia, Germania, Francia, Stati Uniti e molti altri paesi c’è stato un consenso generale sulla necessità di restare a casa, imporre quarantene e fare svolgere alla polizia un ruolo eccezionale. Ma in qualche paese la paura della malattia, insieme agli altri aspetti inquietanti della modernità, è stata fonte di ispirazione per un’intera nuova generazione di nazionalisti autoritari. Nigel Farage, Laura Ingraham, Mária Schmidt e Jacek Kurski, insieme ai troll che lavorano per Vox in Spagna o l’alt-right in America, avevano già preparato il terreno intellettuale per questo tipo di cambiamento, e il cambiamento è avvenuto. Alla fine di marzo Viktor Orbán, in Ungheria, ha promulgato una legge che gli permette di governare per decreto e consente al suo governo di arrestare e tenere in carcere per cinque anni i giornalisti che criticano gli sforzi delle autorità per combattere il virus. Di queste misure non c’era alcuna necessità, e gli ospedali ungheresi, anch’essi sovraccarichi come quelli polacchi per mancanza di investimenti e l’emigrazione dei medici, non ne hanno minimamente beneficiato. Quelle misure servivano a chiudere il dibattito. I politici dell’opposizione che hanno mosso obiezioni sono stati dileggiati dai media statali come «pro-virus».


Tutto ciò potrebbe significare una svolta. Forse i miei figli e i loro amici, tutti i nostri amici e tutti noi, in realtà, che vogliamo continuare a vivere in un mondo in cui possiamo dire quello che pensiamo in sicurezza, in cui un dibattito razionale è possibile, il sapere e la competenza sono rispettati, i confini possono essere attraversati con facilità, rappresentiamo uno dei tanti vicoli ciechi della storia. È possibile che siamo condannati, come la scintillante e multietnica Vienna asburgica o la creativa e decadente Berlino di Weimar, a scomparire nell’irrilevanza. È possibile che stiamo già vivendo il tramonto della democrazia; che la nostra civiltà stia già dirigendosi verso l’anarchia o la tirannia, come temevano gli antichi filosofi e i padri fondatori dell’America; che il XXI secolo vedrà arrivare al potere, com’è accaduto nel XX, una nuova generazione di «chierici», fautori di idee illiberali o autoritarie; che le loro visioni del mondo, frutto di risentimento, rabbia o profondi sogni messianici, trionfino. Forse la nuova tecnologia dell’informazione continuerà a ostacolare il formarsi di un consenso generale, dividendo ulteriormente le persone e accrescendo la polarizzazione finché solo la violenza potrà decidere chi deve governare. Forse la paura della malattia genererà la paura della libertà.


O forse il coronavirus ispirerà un nuovo senso di solidarietà globale. Forse saremo capaci di rinnovare e modernizzare le nostre istituzioni. Forse, dopo che il mondo intero avrà vissuto contemporaneamente le stesse esperienze, lockdown, quarantena, paura dell’infezione, paura della morte, la cooperazione internazionale si espanderà. Forse gli scienziati di tutto il mondo troveranno nuovi modi per collaborare, al di sopra e al di là della politica. Forse la realtà della malattia e della morte insegnerà alla gente a diffidare di imbonitori, bugiardi e diffusori di disinformazione.


Per quanto sia frustrante, dobbiamo accettare il fatto che entrambi i futuri sono possibili. Nessuna vittoria politica è mai definitiva, nessuna definizione della «nazione» ha la garanzia di durare, e nessuna élite di nessun tipo, cosiddetta «populista», cosiddetta «liberale» o cosiddetta «aristocratica», domina per sempre. La storia dell’antico Egitto sembra, a osservarla da grande distanza, una monotona successione di faraoni intercambiabili. Ma, a uno sguardo più ravvicinato, include periodi culturalmente illuminati e altri di cupo dispotismo. Anche la nostra storia, un giorno, apparirà così.


Sono partita da Julien Benda, un francese che, scrivendo negli anni Venti del secolo scorso, anticipò gli sconvolgimenti a venire. Permettetemi di concludere con un italiano che, scrivendo negli anni Cinquanta, aveva già vissuto sconvolgimenti più che sufficienti per una vita intera. Il romanziere Ignazio Silone aveva esattamente l’età che ho io adesso quando scrisse La scelta dei compagni, un saggio in cui cercò di raccontare, fra altre cose, perché, nonostante tante delusioni e sconfitte, fosse ancora impegnato in politica. Silone aveva aderito al Partito comunista e poi l’aveva lasciato; secondo alcuni, inizialmente aveva collaborato con il fascismo, e poi aveva rifiutato anch’esso. Era passato attraverso guerre e rivoluzioni, illusioni e disillusioni, aveva scritto da anticomunista e da antifascista. Aveva visto gli eccessi di due diversi tipi di estremismo politico. Tuttavia, pensava che valesse la pena di continuare a lottare. Non perché ci fosse un nirvana da ottenere, o una società perfetta da costruire, ma perché l’apatia era mortale, capace di intorpidire la mente, di distruggere l’anima.


Egli visse inoltre in un’epoca in cui, come oggi, due diversi tipi di estremisti, gli uni di estrema destra e gli altri di estrema sinistra, gridavano al contempo. Molti dei suoi connazionali reagivano dicendo che «i politici sono tutti ladri» o «i giornalisti sono tutti dei bugiardi» o «non si può credere a niente». Nell’Italia del dopoguerra questa forma di scetticismo e antipolitica prese persino un nome, «qualunquismo». A Silone il suo impatto non sfuggì. «I regimi passano» scrisse, ma «il malcostume resta», e il peggiore malcostume era il nichilismo, «una condizione dello spirito che viene giudicata morbosa soltanto da chi ne è immune o da chi ne guarisce, ma di cui i più neppure si rendono conto, nella persuasione che essa anzi corrisponda a un modo di essere del tutto naturale. “È stato sempre così, si dice, e sempre così sarà”».8


Di fronte a tutto ciò, Silone non offriva una panacea o un antidoto miracoloso: non ce n’erano e non ce ne sono. Non esiste una soluzione definitiva; nessuna teoria spiegherà mai tutto. Non esiste una carta stradale in grado di guidarci verso una società migliore, come non esiste in questo campo un’ideologia didattica, un manuale di regole. Tutto quello che possiamo fare è scegliere i nostri alleati e i nostri amici – i nostri compagni, come egli si esprimeva – con molta cura, perché solo insieme a loro è possibile evitare le tentazioni delle diverse forme di autoritarismo che, ancora una volta, ci si propongono. Tutti gli autoritarismi, infatti, dividono, polarizzano e separano le persone in campi fra loro in guerra, e la lotta contro di essi richiede quindi nuove coalizioni. Insieme possiamo far sì che parole vecchie e fraintese come liberalismo tornino a significare qualcosa; insieme possiamo controbattere bugie e bugiardi; insieme possiamo ripensare a che cosa dovrebbe essere la democrazia nell’era digitale.


Come profughi che, nella semioscurità, si sforzano di raggiungere una meta lontana, siamo costretti, scrisse Silone, a scegliere la nostra strada nella notte, senza nemmeno sapere con certezza se arriveremo mai alla meta: «L’antico e sereno cielo mediterraneo, popolato di lucenti costellazioni, è ora coperto; ma questa poca luce superstite, che aleggia attorno a noi, ci consente almeno di vedere dove posare i piedi per camminare».9


Mi reputo fortunata ad aver passato così tanto tempo con persone cui importa «vedere dove posare i piedi».


Dalla precarietà del periodo che stiamo vivendo alcuni sono spaventati, eppure quest’incertezza c’è sempre stata. Il liberalismo di John Stuart Mill, Thomas Jefferson e Václav Havel non ha mai promesso niente di definitivo. I controlli ed equilibri delle democrazie costituzionali occidentali non hanno mai garantito la stabilità. Le democrazie liberali hanno sempre chiesto qualcosa ai cittadini: partecipazione, discussione, sforzo, lotta. Hanno sempre richiesto una certa tolleranza per la cacofonia e il caos e, nello stesso tempo, una certa disponibilità a respingere i responsabili di cacofonia e caos.


Esse hanno sempre riconosciuto la possibilità del fallimento, un fallimento suscettibile di rovesciare piani, alterare vite, spezzare famiglie. Abbiamo sempre saputo, o avremmo dovuto sapere, che la storia può ancora una volta penetrare nelle nostre vite private e trasformarle. Abbiamo sempre saputo, o avremmo dovuto sapere, che visioni alternative delle nostre nazioni cercheranno sempre di sedurci. Ma forse, scegliendo la nostra strada nella notte, scopriremo che a esse, insieme, possiamo opporre resistenza.

Note

I. L’ultimo dell’anno

1. Kulisy, cele, metody, pieniądze. Jak działa inwazja LGBT, TVPINFO, 10 ottobre 2019, https://www.tvp.info/44779437/kulisy-cele-metody-pieniadze-jak-dziala-inwazja-lgbt.


2. Marek Jędraszewski, arcivescovo di Cracovia, citato in Filip Mazurczak, Krakow’s Archbishop Jędraszewski under Fire for Remarks about «Rainbow Plague», in «Catholic World Report», 16 agosto 2019, https://www.catholicworldreport.com/2019/08/16/krakows-archbishop-jedraszewski-under-fire-for-remarks-about-rainbow-plague/.


3. Tra i suoi documentari d’inchiesta ricordiamo Pierwszy film śledczy o tragedii smoleńskie, 10 aprile 2010, https://www.youtube.com/watch?v=_RjaBrqoLmw; Magazyn śledczy Anity Gargas, TVP, 29 marzo 2018, https://vod.tvp.pl/video/magazyn-sledczy-anity-gargas,29032018,36323634; Jak 8 lat po katastrofie wygląda Smoleńsk?, TVPINFO, 5 aprile 2018, https://www.tvp.info/36677837/jak-8-lat-po-katastrofie-wyglada-smolensk-magazyn-sledczy-anity-gargas; Magazyn śledczy Anity Gargas, TVP, 27 febbraio 2020, https://vod.tvp.pl/video/magazyn-sledczy-anity-gargas,27022020,46542067.


4. Rafał Ziemkiewicz, post su Twitter, https://twitter.com/R_A_Ziemkiewicz/status/637584669115072512?2=20.


5. Rafał Ziemkiewicz, in «Fakty Interia», 13 aprile 2018, https://fakty.interia.pl/opinie/ziemkiewicz/news-czy-izrael-jest-glupi,nId,2568878.


6. Rafał Ziemkiewicz, in «Wirtualne Media», 2 febbraio 2018, https://www.wirtualnemedia.pl/artykul/rafal-ziemkiewicz-nie-mam-powodu-przepraszac-za-parchow-i-zydowskie-obozy-zaglady-marcin-wolski-dal-sie-podejsc.


7. «wSieci», giugno 2016, copertina, https://wiadomosci.gazeta.pl/wiadomosci/1,114883,20191010,na-okladce-wprost-jasniejaca-twarz-lewandowskiego-czyli-jak.html.


8. «Do Rzeczy», 5 settembre 2016, copertina, http://www.publio.pl/tygodnik-do-rzeczy,p147348.html.


9. In seguito il think tank corresse la notizia, ma la TVP no. Cfr. TVP, 21 settembre 2016, https://www.tvp.info/27026877/think-tank-w-waszyngtonie-po-tym-artykule-zwolnil-pania-applebaum-ze-wspolpracy.


10. Mihail Sebastian, Journal 1935-1944: The Fascist Years, Lanham (MD), Rowman & Littlefield, 2012.


11. Mihail Sebastian, Da duemila anni, trad. it. di M.L. Lombardo, Roma, Fazi, 2018, p. 24.


12. Platone, Repubblica, a cura di G. Reale e R. Radice, Milano, Bompiani, 2009, libro VIII, 560c, p. 879.


13. Alexander Hamilton, John Jay e James Madison, Il federalista, trad. it. di B.M. Tedeschini Lalli, Pisa, Nistri-Lischi, 1955, n. 68, p. 466.


14. Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. it. di A. Guadagnin, Torino, Einaudi, 2008, p. 448.


15. Intervista dell’autrice a Karen Stenner, 19 luglio 2019.


16. Julien Benda, Il tradimento dei chierici, trad. it. di S. Teroni Menzella, Torino, Einaudi, 2012, p. 106.


II. Come vincono i demagoghi

1. Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. it. di A. Guadagnin, Torino, Einaudi, 2008, p. 470.


2. Vladimir I. Lenin, Tesi e rapporto sulla democrazia borghese e sulla dittatura del proletariato (4 marzo 1919), in Opere complete, vol. XXVIII, Luglio 1918 - marzo 1919, trad. it. di R. Platone, Roma, Editori Riuniti, 1967, pp. 464 e 462.


3. Kaczyński krytykuje donosicieli. Gorszy sort Polaków, YouTube, 16 dicembre 2015, https://www.youtube.com/watch?v=SKFgVD2KGXw.


4. Intervista dell’autrice a Jarosław Kurski, 2 aprile 2016.


5. Intervista dell’autrice a una fonte anonima, 4 aprile 2016.


6. Jacek Kurski, citato in Agnieszka Kublik, Kłamczuszek Jacek Kurski, in «Wyborcza.pl», 19 maggio 2015, https://wyborcza.pl/politykaekstra/1,132907,17946914,Klamczuszek_Jacek_Kurski.html.


7. Intervista dell’autrice al senatore Bogdan Borusewicz, 6 aprile 2016.


8. Spezzone ripreso in «Ordynarna manipulacja» TVP Info, in «Wiadomosci», 21 aprile 2018, https://wiadomosci.wp.pl/czy-oni-ludzi-naprawde-maja-za-durni-ordynarna-manipulacja-tvp-info-6243821849708161a.


9. Jan Cienski, Polish President Bucks Ruling Party over Judicial Reforms: During a Bad-Tempered Debate, Jarosław Kaczyński Accuses the Opposition of «Murdering» His Brother, in «Politico», 18 luglio 2017, https://www.politico.eu/article/polish-president-bucks-ruling-party-over-judicial-reforms/.


10. Pablo Gorondi, in «Associated Press», 12 aprile 2018, https://apnews.com/6fc8ca916bdf4598857f58ec4af198b2/Hungary:-Pro-govt-weekly-prints-list-of-%27Soros-mercenaries%27.


11. L’intervista si è svolta il 14 novembre 2017.


12. Ivan Krastev e Stephen Holmes, How Liberalism Became «the God That Failed» in Eastern Europe, in «The Guardian», 24 ottobre 2019, https://www.theguardian.com/world/2019/oct/24/western-liberalism-failed-post-communist-eastern-europe.


13. Cfr. Vladimir I. Lenin, Democrazia operaia e democrazia borghese («Vperyod», 3, 24 gennaio 1905), in Opere complete, vol. VIII, Gennaio-luglio 1905, trad. it. di A. Carpitella, E. Robotti e R. Vecchione, Roma, Editori Riuniti, 1961, pp. 60-69.


14. Julien Benda, Il tradimento dei chierici, trad. it. di S. Teroni Menzella, Torino, Einaudi, 2012, p. 184.


III. Il futuro della nostalgia

1. Conversazione dell’autrice con Stathis Kalyvas, 21 giugno 2018.


2. Evelyn Waugh, Declino e caduta, trad. it. di G. Fletzer, Milano, Bompiani, 2010, pp. 7 e 8.


3. Boris Johnson intervistato da Sue Lawley, in «Desert Island Discs», BBC, 4 novembre 2005, https://www.bbc.co.uk/programmes/p00935b6.


4. Geoffrey Wheatcroft, Not-So-Special Relationship: Dean Acheson and the Myth of Anglo-American Unity, in «Spectator», 5 gennaio 2013, https://www.spectator.co.uk/2013/01/not-so-special-relationship/.


5. Graham Greene, L’americano tranquillo, trad. it. di A. Carrera, Milano, Mondadori, 2011.


6. Boris Johnson citato in James Pickford e George Parker, Does Boris Johnson Want to Be Prime Minister?, in «Financial Times», 27 settembre 2013, https://www.ft.com/content/f5b6a84a-263c-11e3-8ef6-00144feab7de.


7. Boris Johnson, Athenian Civilisation: The Glory That Endures, discorso pronunciato al Legatum Institute, 4 settembre 2014, https://www.youtube.com/watch?v=qeSjF2nNEHw.


8. Lizzy Buchan, Boris Johnson «Thought Brexit Would Lose, but Wanted to Be Romantic, Patriotic Hero», says David Cameron, in «Independent», 16 settembre 2019, https://www.independent.co.uk/news/uk/politics/boris-johnson-brexit-david-cameron-leave-remain-vote-support-a9107296.html.


9. Svetlana Boym, The Future of Nostalgia, New York, Basic Books, 2016.


10. Fritz Stern, The Politics of Cultural Despair: A Study in the Rise of the Germanic Ideology, Berkeley (CA), University of California Press, 1961.


11. Vincenzo Pinto, Critica della ragione logica. Il Rembrandt di Julius Langbehn, Torino, Free Ebrei, 2017, p. 7.


12. Charles Moore, Margaret Thatcher, The Authorized Biography, vol. 3, Herself Alone, London, Penguin Books, 2019.


13. Simon Heffer, The Sooner the 1960s Are Over, the Better, in «The Telegraph», 7 gennaio 2006, https://www.telegraph.co.uk/comment/personal-view/3622149/Simon-Heffer-on-Saturday.html.


14. Simon Heffer, David Cameron Is Likely to Win, but Don’t Expect a Conservative Government, in «The Telegraph», 28 luglio 2009, https://www.telegraph.co.uk/comment/columnists/simonheffer/5926966/David-Cameron-is-likely-to-win-but-dont-expect-a-Conservative-government.html.


15. Simon Heffer, David Cameron’s Disgraceful Dishonesty over the eu Is Turning Britain into a Banana Republic, in «The Telegraph», 21 maggio 2016, https://www.telegraph.co.uk/opinion/2016/05/21/david-camerons-disgraceful-dishonesty-over-the-eu-is-turning-bri/.


16. Roger Scruton, England: An Elegy, London, Pimlico, 2001.


17. William Cash intervistato da Simon Walters, Tory mp and Son of a War Hero Compares Current Situation to Pre-War Europe and Warns Britain Is Heading for Appeasement, in «Daily Mail», 13 febbraio 2016, https://www.dailymail.co.uk/news/article-3446036/Tory-MP-son-war-hero-compares-current-situation-pre-war-Europe-warns-Britain-heading-APPEASEMENT.html.


18. Simon Heffer, The eu Empire Is Going to Fail. On Thursday, We Can Protect Britain from the Chaos of Its Death Throes, in «The Telegraph», 19 giugno 2016, https://www.telegraph.co.uk/news/2016/06/19/the-eu-empire-is-going-to-fail-on-thursday-we-can-protect-britai/.


19. Dominic Cummings, On the Referendum #33: High Performance Government, «Cognitive Technologies», Michael Nielsen, Bret Victor, & «Seeing Rooms», in «Dominic Cumming’s Blog», 26 giugno 2019, https://dominiccummings.com/2019/06/26/on-the-referendum-33-high-performance-government-cognitive-technologies-michael-nielsen-bret-victor-seeing-rooms/.


20. Ibid.


21. Bagehot, An Interview with Dominic Cummings, in «The Economist», 21 gennaio 2016, https://www.economist.com/bagehots-notebook/2016/01/21/an-interview-with-dominic-cummings.


22. Simon Heffer, The Collapse of the Euro Would Open the Door to Democracy, in «The Telegraph», 25 maggio 2010, https://www.telegraph.co.uk/comment/columnists/simonheffer/7765275/The-collapse-of-the-euro-would-open-the-door-to-democracy.html.


23. Brexit Brief: Dreaming of Sovereignty, in «The Economist», 19 marzo 2016, https://www.economist.com/britain/2016/03/19/dreaming-of-sovereignty.


24. «Daily Mail», 3 novembre 2016, prima pagina.


25. James Slack, Enemies of the People: Fury over «Out of Touch» Judges Who Have «Declared War on Democracy» by Defying 17.4m Brexit Voters and Who Could Trigger Constitutional Crisis, in «Daily Mail», 3 novembre 2016, https://www.dailymail.co.uk/news/article-3903436/Enemies-people-Fury-touch-judges-defied-17-4m-Brexit-voters-trigger-constitutional-crisis.html.


26. «Daily Mail», 19 aprile 2017, prima pagina, https://www.dailymail.co.uk/debate/article-4427192/DAILY-MAIL-COMMENT-saboteurs-simmer-down.html.


27. Simon Heffer, The EU Empire Is Going to Fail…, cit.


28. British Workers «Among Worst Idlers», Suggest Tory MPs, BBC, 18 agosto 2020, https://www.bbc.com/news/uk-politics-19300051.


29. Boris Johnson, The Rest of the World Believes in Britain. It’s Time That We Did Too, in «The Telegraph», 15 luglio 2018, https://www.telegraph.co.uk/politics/2018/07/15/rest-world-believes-britain-time-did/.


30. Intervista dell’autrice a Nick Cohen, marzo 2020; Nick Cohen, Why Are Labour’s Leaders So Quiet on Europe? Maybe It’s the Lure of Disaster?, in «The Guardian», 16 dicembre 2018, https://www.theguardian.com/commentisfree/2018/dec/16/why-are-labour-party-leaders-so-quiet-on-europe---maybe-it-is-the-lure-of-disaster.


31. Thomas Fazi e William Mitchell, Why the Left Should Embrace Brexit, in «Jacobin», 29 aprile 2018, https://www.jacobinmag.com/2018/04/brexit-labour-party-socialist-left-corbyn.


32. Anne Applebaum, How Viktor Orbán Duped the Brexiteers, in «The Spectator USA», 22 settembre 2018, https://spectator.us/viktor-orban-duped-brexiteers/.


33. John O’Sullivan, The Second Term of Viktor Orbán: Beyond Prejudice and Enthusiasm, London, Social Affairs Unit, giugno 2015.


34. Christopher Caldwell, Hungary and the Future of Europe: Viktor Orbán’s Escalating Conflict with Liberalism, in «Claremont Review of Books», primavera 2019, https://claremontreviewofbooks.com/hungary-and-the-future-of-europe/.


35. Intervista dell’autrice a John O’Sullivan, 4 ottobre 2019.


36. Robert Merrick, Fury as Boris Johnson Accuses Rebel Alliance MPs of «Collaboration» with Foreign Governments over Brexit, in «Independent», 1° ottobre 2019, https://www.independent.co.uk/news/uk/politics/boris-johnson-brexit-no-deal-latest-news-legal-advice-collusion-a9127781.html.


37. The Conservative and Unity Party Manifesto, 2019, https://assets-global.website-files.com/5da42e2cae7ebd3f8bde353c/5dda924905da587992a064ba_Conservative%202019%20Manifesto.pdf.


38. Rajeev Syal, Dominic Cummings Calls for «Weirdos and Misfits» for No 10 Jobs: Boris Johnson’s Chief Adviser Touts for «Unusual» Applicants Outside of the Oxbridge Set, in «The Guardian», 2 gennaio 2020, https://www.theguardian.com/politics/2020/jan/02/dominic-cummings-calls-for-weirdos-and-misfits-for-no-10-jobs.


39. Dal discorso pronunciato da Acheson a West Point il 5 dicembre 1962.


IV. Valanghe di menzogne

1. Intervista dell’autrice a Karen Stenner, 19 luglio 2019.


2. Jean-François Revel, La tentazione totalitaria, trad. it. di G.C. Costadoni, Milano, Rizzoli, 1976, p. 173.


3. Isaiah Berlin, «Quattro saggi sulla libertà», in Libertà, trad. it. di M. Santambrogio, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 217-18.


4. Olga Tokarczuk, discorso tenuto all’Accademia di Svezia in occasione del conferimento del premio Nobel, Stoccolma, 7 dicembre 2019, https://www.nobelprize.org/prizes/literature/2018/tokarczuk/lecture/.


5. VOX, Un nuevo comienzo, 7 giugno 2016, https://www.youtube.com/watch?v=RaSIX4-RPAI.


6. Ortega Smith, citato in Anne Applebaum, Want to Build a Far-Right Movement? Spain’s Vox Party Shows How, in «Washington Post», 2 maggio 2019, https://www.washingtonpost.com/graphics/2019/opinions/spains-far-right-vox-party-shot-from-social-media-into-parliament-overnight-how/.


7. Santiago Abascal, post su Twitter, https://twitter.com/Santi_ABASCAL/status/1062842722791424002?s=20.


8. A. Applebaum, Want to Build a Far-Right Movement?…, cit.


9. Intervista dell’autrice a Rafael Bardají.


10. Intervista dell’autrice a Iván Espinosa, 9 aprile 2019.


11. Institute for Strategic Dialogue, 2019 eu Elections. Information Operations Analysis: Interim Briefing Paper, 2019.


12. Santiago Abascal, post su Twitter, https://twitter.com/Santi_ABASCAL/status/1117890168340586497.


13. Marion Maréchal, citata in Anne Applebaum, This Is How Reaganism and Thatcherism End, in «The Atlantic», 10 febbraio 2020, https://www.theatlantic.com/ideas/archive/2020/02/the-sad-path-from-reaganism-to-national-conservatism/606304/.


14. Discours du Président Emmanuel Macron devant les étudiants de l’Université Jagellonne de Cracovie, https://www.elysee.fr/emmanuel-macron/2020/02/05/discours-du-president-emmanuel-macron-devant-les-etudiants-de-luniversite-jagellonne-de-cracovie.


V. Prateria in fiamme

1. Abraham Lincoln, Messaggio annuale al Congresso, 1° dicembre 1862.


2. Dal discorso Ho un sogno, pronunciato a Washington il 28 agosto 1963, in Martin Luther King Jr, «I Have a Dream». L’autobiografia del profeta dell’uguaglianza, trad. it. di T. Gargiulo, Milano, Mondadori, 2010, pp. 226-30.


3. Thomas Jefferson, lettera a John Breckinridge, 29 gennaio 1800, https://founders.archives.gov/documents/Jefferson/01-31-02-0292.


4. Ronald Reagan, «Discorso di addio al popolo americano», Washington, 12 gennaio 1989, https://www.nytimes.com/1989/01/12/news/transcript-of-reagan-s-farewell-address-to-american-people.html.


5. Emma Goldman, Anarchia, femminismo e altri saggi, trad. it. Milano, La Salamandra, 1976, p. 70.


6. Discorso pronunciato a San Francisco, California, il 26 aprile 1908, ivi, p. 99.


7. Ivi, p. 64.


8. Prateria in fiamme. Il programma politico dei Weather Underground (1974), Milano, Collettivo editoriale Librirossi, 1977, pp. 50, 60.


9. Howard Zinn, The Power and the Glory: The Myths of American Exceptionalism, in «Boston Review», 1° giugno 2005, http://bostonreview.net/zinn-power-glory.


10. Michael Gerson, The Last Temptation, in «The Atlantic», aprile 2018, https://www.theatlantic.com/magazine/archive/2018/04/the-last-temptation/554066/.


11. Eric Metaxas intervistato da Mike Gallagher, 22 giugno 2016, https://www.rightwingwatch.org/post/eric-metaxas-we-are-on-the-verge-of-losing-america-under-clinton-presidency-as-we-could-have-lost-it-in-the-civil-war/.


12. Brian Tashman, Franklin Graham: «The End Is Coming» Thanks to Gays, Obama, in «Right Wing Watch», 8 giugno 2015, https://www.rightwingwatch.org/post/franklin-graham-the-end-is-coming-thanks-to-gays-obama/.


13. Patrick J. Buchanan, sito web ufficiale, 11 ottobre 1999, https://buchanan.org/blog/pjb-the-new-patriotism-329.


14. Ivi, 26 maggio 2016, https://buchanan.org/blog/great-white-hope-125286.


15. Patrick J. Buchanan, in «Hardball», 30 settembre 2002.


16. Patrick J. Buchanan, How to Avoid a New Cold War, in «The American Conservative», 3 gennaio 2017, https://www.theamericanconservative.com/buchanan/how-to-avoid-a-new-cold-war/.


17. Donald Trump, intervista, in «Fox and Friends», Fox News, 10 febbraio 2014, https://video.foxnews.com/v/3179604851001#sp=show-clips.


18. Paul Blumenthal e J.M. Rieger, Steve Bannon Thinks Dark Days Are Coming and War Is Inevitable, in «Huffington Post», 8 febbraio 2017, https://www.huff-post.com/entry/steve-bannon-apocalypse_n_5898f02ee4b040613138a951.


19. Steve Bannon, discorso pronunciato al Tax Day Tea Party, a New York, il 15 aprile 2010, https://www.youtube.com/watch?v=Jf_Yj5XxUE0.


20. Donald J. Trump, discorso inaugurale, Washington, 20 gennaio 2017, https://www.whitehouse.gov/briefings-statements/the-inaugural-address/.


21. Donald J. Trump, Remarks from President Trump to the People of Poland, Varsavia, 6 luglio 2017, https://www.whitehouse.gov/briefings-statements/remarks-president-trump-people-poland/.


22. Donald J. Trump intervistato da Bill O’Reilly, in «Fox Sports», 4 febbraio 2017, https://www.youtube.com/watch?v=tZXsYuJIGTg.


23. Donald J. Trump intervistato da Joe Scarborough, in «Morning Joe», 18 dicembre 2015, https://www.washingtonpost.com/news/the-fix/wp/2015/12/18/donald-trump-glad-to-be-endorsed-by-russias-top-journalist-murderer/.


24. Prateria in fiamme…, cit., p. 61.


25. Donald Trump, intervista, in «Fox and Friends», Fox News, 26 aprile 2018, https://www.youtube.com/watch?v=5OjyHhz3_BM.


26. Jeane Kirkpatrick, The Myth of Moral Equivalence, in «Imprimis», gennaio 1986, https://imprimis.hillsdale.edu/the-myth-of-moral-equivalence/.


27. Donald J. Trump e David Shiflett, The America We Deserve, New York, St. Martin’s Press, 2000.


28. James Atlas, The Counter Counterculture, in «New York Times Magazine», 12 febbraio 1995, https://www.nytimes.com/1995/02/12/magazine/the-counter-counterculture.html.


29. David Brock, Confessions of a Right-Wing Hit Man, in «Esquire», 1° luglio 1997, https://classic.esquire.com/confessions-of-a-right-wing-hit-man/.


30. Anne Applebaum, Why I Can’t Vote for John McCain, in «Slate», 27 ottobre 2008.


31. Sam Tanenhaus, On the Front Lines of the GOP’s Civil War, in «Esquire», 20 dicembre 2017, https://www.esquire.com/news-politics/a14428464/gop-never-trump/.


32. Julien Benda, Il tradimento dei chierici, trad. it. di S. Teroni Menzella, Torino, Einaudi, 2012, p. 184.


33. Roger Kimball, The Treason of the Intellectuals & «The Undoing of Thought», in «New Criterion», dicembre 1992, https://newcriterion.com/issues/1992/12/the-treason-of-the-intellectuals-ldquothe-undoing-of-thoughtrdquo.


34. Roger Kimball, Doing the Impeachment Math, in «American Greatness», 2 novembre 2019.


35. Anne Applebaum, in «The Laura Ingraham Show», 19 agosto 2008.


36. Patrick J. Buchanan intervistato da Laura Ingraham, in «The Laura Ingraham Show», 28 marzo 2019, https://www.mediamatters.org/laura-ingraham/laura-ingraham-says-immigration-pushing-western-civilization-toward-tipping-over.


37. Laura Ingraham, The Left’s Effort to Remake America, in «Fox News», 8 agosto 2018, https://www.youtube.com/watch?v=llhFZOw6Sss.


38. Joseph diGenova, in «The Laura Ingraham Podcast», 22 febbraio 2019.


39. Rafael Bardají, citato in Anne Applebaum, Want to Build a Far-Right Movement? Spain’s Vox Party Shows How, in «Washington Post», 2 maggio 2019, https://www.washingtonpost.com/graphics/2019/opinions/spains-far-right-vox-party-shot-from-social-media-into-parliament-overnight-how/.


40. Laura Ingraham, in «Fox News», 25 febbraio 2020, https://twitter.com/MattGertz/status/1233026012201603079?s=20.


41. Michael M. Grynbaum, Fox News Stars Trumpeted a Malaria Drug, Until They Didn’t, in «New York Times», 22 aprile 2020.


42. Laura Ingraham, post su Twitter, https://twitter.com/IngrahamAngle/status/1251219755249405959?s=20.


43. Laura Ingraham, Laura Ingraham on Faith, discorso pronunciato a Dallas, Texas, il 29 settembre 2007, https://www.youtube.com/watch?v=72KwL_abkOA.


44. Donald Trump intervistato da Laura Ingraham, in «Fox News», 6 giugno 2019, https://www.youtube.com/watch?v=QyQCcgXkANo.


45. Jacek Trznadel, Hańba Domowa, Paris, Instytut Literacki, 1986.


VI. La non-fine della storia

1. Romain Rolland, citato in Tom Conner, The Dreyfus Affair and the Rise of the French Public Intellectual, Jefferson (NC), McFarland & Co., 2014.


2. Ferdinand Brunetière, Après le procès, citato in Ruth Harris, Dreyfus: Politics, Emotion, and the Scandal of the Century, New York, Picador USA, 2010.


3. Émile Zola, L’affaire Dreyfus. La verità in cammino, a cura di M. Sestili, trad. it. Firenze, Giuntina, 2011, p. 91.


4. Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, vol. IV, Sodoma e Gomorra, trad. it. di G. Raboni, Milano, Mondadori, 1995, parte II, cap. 1.


5. Citato in Geert Mak, In Europa. Viaggio attraverso il XX secolo, trad. it. di C. Cozzi, C. Di Palermo, L. Esposito, G. Nocentini, F. Paris e F. Sfondrini, Roma, Fazi, 2006, p. 23.


6. Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, vol. VII, Il tempo ritrovato, trad. it. di G. Raboni, Milano, Mondadori, 2013, cap. 2.


7. T. Conner, The Dreyfus Affair…, cit.


8. Ignazio Silone, La scelta dei compagni, Roma, Associazione Italiana per la Libertà della Cultura, 1954, p. 10.


9. Ivi, p. 30.