sabato 1 aprile 2023

L'ORA DI LEZIONE Massima Recalcati

 

L'ORA DI LEZIONE

Massima Recalcati


[....] Abbiamo conosciuto un tempo dove bastava che un insegnante entrasse in classe per far calare il silenzio. Era lo stesso tempo dove era sufficiente che un padre alzasse il tono della voce per incutere nei suoi figli un rispetto misto a timore.[....]

[...] Il disagio dei nostri figli non è piú centrato sull’antagonismo tra le generazioni, ma sulla perdita della differenza e, dunque, sull’assenza di adulti in grado di esercitare funzioni educative e di costituire quell’alterità che rende possibile l’urto alla base del processo di formazione [...]

Introduzione

Non respira, non conta piú nulla, arranca, è povera, marginalizzata, i suoi edifici crollano, i suoi insegnanti sono umiliati, frustrati, scherniti, i suoi alunni non studiano, sono distratti o violenti, difesi dalle loro famiglie, capricciosi e scurrili, la sua nobile tradizione è decaduta senza scampo. È delusa, afflitta, depressa, non riconosciuta, colpevolizzata, ignorata, violentata dai nostri governanti che hanno cinicamente tagliato le sue risorse e non credono piú nell’importanza della cultura e della formazione che essa deve difendere e trasmettere. È già morta? È ancora viva? Sopravvive? Serve ancora a qualcosa oppure è destinata a essere un residuo di un tempo oramai esaurito? È questo il ritratto smarrito della nostra Scuola.

Abbiamo conosciuto un tempo dove bastava che un insegnante entrasse in classe per far calare il silenzio. Era lo stesso tempo dove era sufficiente che un padre alzasse il tono della voce per incutere nei suoi figli un rispetto misto a timore. La parola dell’insegnante come quella del pater familias appariva una parola dotata di peso simbolico e di autorità a prescindere dai contenuti che sapeva trasmettere. Era la potenza della tradizione che la garantiva. La parola di un insegnante e di un padre acquistava uno spessore simbolico non tanto a partire dai suoi enunciati ma dal punto di enunciazione dal quale essi scaturivano. Il ruolo simbolico prevaleva su chi realmente lo incarnava piú o meno difettosamente. Questo non impediva che le teste degli allievi cadessero sui banchi e che i loro sguardi vagassero annoiati nel vuoto, o che i figli lasciassero immediatamente uscire dalle loro orecchie le parole senza appello dei padri.

Ebbene questo tempo è finito, defunto, irreversibilmente alle nostre spalle. Non bisogna rimpiangerlo, non bisogna avere nostalgia della voce severa del maestro, né dello sguardo feroce del padre. Se il nostro tempo è il tempo della dissoluzione della potenza della tradizione, se è il tempo dove il padre è evaporato, nessun insegnante può piú vivere di rendita. Quando un insegnante entra in aula (o quando un padre prende la parola in famiglia), deve ogni volta guadagnare il silenzio che onora la sua parola, non potendosi piú appoggiare sulla forza della tradizione – che nel frattempo si è sbriciolata – ma facendo appello alla sola forza dei suoi atti. Ogni volta che un insegnante entra in classe si deve confrontare con la propria solitudine, con un vuoto di senso entro il quale è costretto a misurare la propria parola. Lo stesso accade nelle famiglie dove l’autorità della parola del padre non si trasmette piú come un dato di natura, ma deve essere ogni volta riconquistata dai piedi.

È la cifra fondamentale del nostro tempo: nell’epoca dell’indebolimento generalizzato di ogni autorità simbolica è ancora possibile una parola degna di rispetto? Cosa può restare della parola di un insegnante o di un padre nel tempo della loro evaporazione? La pratica dell’insegnamento può accontentarsi di essere ridotta alla trasmissione di informazioni – o, come si preferisce dire, di competenze – o deve mantenere vivo il rapporto erotico del soggetto con il sapere?

È un bivio culturale con il quale siamo confrontati. Ma per scegliere la via dell’erotizzazione del sapere occorre che l’insegnante sappia preservare il giusto posto dell’impossibile. È il tratto che contrassegna ogni trasmissione autentica: la trasmissione del sapere di cui la Scuola si incarica a ogni livello, dalle scuole elementari sino a quelle post-universitarie, non è la chiarificazione dell’esistenza o la riduzione della verità a una somma di informazioni, ma la messa in evidenza di come ruoti attorno a un impossibile da trasmettere. Il maestro non è colui che possiede il sapere, ma colui che sa entrare in un rapporto singolare con l’impossibilità che attraversa il sapere, che è l’impossibilità di sapere tutto il sapere. Non perché non esista una Biblioteca delle Biblioteche capace di raccogliere tutto il sapere, ma perché, anche se esistesse e se leggessimo ogni suo libro, non avremmo affatto risolto il limite che attraversa il sapere come tale. Il sapere non si può mai sapere tutto perché è per sua struttura bucato, non-tutto, impossibile. Uno scarto irriducibile lo separa dal reale della vita. Si deve dire allora che un insegnamento ha come tratto distintivo il confronto con il limite del sapere attraverso il sapere, mentre il maestro che mostra di possedere il sapere può essere solo una caricatura risibile del sapere.

Di qui la centralità che assume lo stile. Ogni insegnante insegna a partire da uno stile che lo contraddistingue. Non si tratta di tecnica né di metodo. Lo stile è il rapporto che l’insegnante sa stabilire con ciò che insegna a partire dalla singolarità della sua esistenza e del suo desiderio di sapere. La tesi principale di questo libro è che quel che resta della Scuola è la funzione insostituibile dell’insegnante. Questa funzione è quella di aprire il soggetto alla cultura come luogo di «umanizzazione della vita», è quella di rendere possibile l’incontro con la dimensione erotica del sapere.

Mi è capitato qualche anno fa di voler continuare a insegnare mentre venivo interrotto in aula dagli studenti che protestavano (giustamente) contro la legge Gelmini. Condividevo le loro ragioni, ma non potevo e non volevo perdere la mia ora di lezione perché non avrei potuto recuperarla. Ho parlato francamente ai miei interlocutori mentre ironizzavano su quale importanza potesse mai avere un’ora di lezione di fronte allo sfascio generale dell’Università che la legge Gelmini avrebbe provocato. Avevano ragione, ma non ho smesso per questo di sostenere le mie ragioni. Pensavo che non si potesse ironizzare sul peso che un’ora di lezione può avere per la vita di uno studente. Volevo proseguire nella mia lezione – che, come al solito, avevo preparato con cura – perché un’ora di lezione non è mai robetta, non è lo scorrere di un tempo nato già morto, non è un automatismo svuotato di senso, non è routine senza desiderio, come invece sembrava pensassero i miei interlocutori.

Questo, piuttosto, è l’automatismo, il morbo della Scuola, è la patologia propria del discorso dell’Università che ricicla un sapere che tende anonimamente alla ripetizione annullando la sorpresa, l’imprevisto, il non ancora sentito e il non ancora conosciuto, rendendo impossibile l’evento della parola. È uno dei nemici acerrimi del lavoro dell’insegnante: la tendenza al riciclo e alla riproduzione di un sapere sempre uguale a se stesso. È lo spettro che sovrasta e può condizionare mortalmente questo mestiere: adagiarsi sul già fatto, sul già detto, sul già visto, ridurre l’amore per il sapere a pura amministrazione di un sapere che non riserva piú alcuna sorpresa. A quel punto non c’è trasmissione di una conoscenza viva ma burocrazia intellettuale, parassitismo, noia, plagio, conformismo. Un sapere di questo genere non può essere assimilato senza generare un effetto di soffocamento, anoressia intellettuale, disgusto. Ma la Scuola non è innanzitutto questo. Cercano di mostrarlo quotidianamente insegnanti a qualunque livello operino: il vero cuore della Scuola è fatto di ore di lezione che possono essere avventure, incontri, esperienze intellettuali ed emotive profonde. Perché quello che resta della Scuola, nel tempo della sua evaporazione, è la bellezza dell’ora di lezione. Questa è stata per me la Scuola e questo mi ha salvato. Per questo di fronte ai giovani che protestavano ho voluto continuare a insegnare e l’ho fatto per onorare tutti i maestri che mi hanno insegnato che un’ora di lezione può sempre aprire un mondo, può sempre essere il tempo di un vero incontro.

Oggi segnaliamo una crisi senza precedenti del discorso educativo. Le famiglie appaiono come turaccioli sulle onde di una società che ha smarrito il significato virtuoso e paziente della formazione, rimpiazzandolo con l’illusione di carriere prive di sacrificio, rapide e, soprattutto, economicamente gratificanti. Come può una famiglia dare senso alla rinuncia se tutto fuori dai suoi confini sospinge verso il rifiuto di ogni forma di rinuncia? Per questa ragione di fondo la Scuola viene invocata dalle famiglie come un’istituzione «paterna», che può separare i nostri figli dall’ipnosi telematica o televisiva in cui sono immersi, dal torpore del godimento «incestuoso», per risvegliarli al mondo. Ma anche come un’istituzione capace di preservare l’importanza dei libri in quanto oggetti irriducibili alle merci, oggetti capaci di fare esistere nuovi mondi.

Capissero almeno questo i suoi censori implacabili! Capissero che sono innanzitutto i libri – e i mondi che ci aprono – a ostacolare la via a quel godimento mortale che sospinge i nostri giovani verso la dissipazione della vita (tossicomania, bulimia, anoressia, depressione, violenza, alcolismo, ecc.). Lo sapeva bene Freud quando riteneva che solo la cultura poteva difendere la Civiltà dalla spinta alla distruzione animata dalla pulsione di morte. La Scuola contribuisce a fare esistere il mondo perché un insegnamento, in particolare quello che accompagna la crescita (la cosiddetta «Scuola dell’obbligo»), non si misura dalla somma nozionistica delle informazioni che dispensa, ma dalla sua capacità di rendere disponibile la cultura come un nuovo mondo, un altro mondo rispetto a quello di cui si nutre il legame familiare. Quando questo mondo, il nuovo mondo della cultura, non esiste o il suo accesso viene sbarrato, come faceva notare il Pasolini luterano, c’è solo cultura senza mondo, dunque cultura di mortecultura della droga.

Se tutto sospinge i nostri giovani verso l’assenza di mondo, verso il ritiro autistico, verso la coltivazione di mondi isolati (tecnologici, virtuali, sintomatici), la Scuola è ancora ciò che salvaguarda l’umano, l’incontro, le relazioni, gli scambi, le amicizie, le scoperte intellettuali, l’eros. Un bravo insegnante non è forse quello che sa fare esistere nuovi mondi? Non è quello che crede ancora che un’ora di lezione possa cambiare la vita?

Milano, luglio 2014.


Il nuovo volto della Scuola.

Il nostro tempo segnala una crisi diffusa del discorso educativo. La Scuola non è piú il luogo da dove si irradiano il controllo e l’estorsione manipolatoria del consenso, non è piú la punta sottile di un sistema disciplinare che agisce come una microfisica del potere in grado di fabbricare vite ordinate secondo un rigido ideale normativo. Dopo la grande contestazione del ’68 la Scuola non agisce sorvegliando e gerarchizzando dall’alto un ordine che struttura una recinzione monastica e repressiva degli spazi comuni. La sua azione pedagogica non si esprime attraverso la violenza sadica del giudizio e della discriminazione sociale bruta. La sua esistenza non può piú essere inscritta di diritto nella serie delle istituzioni totali (il carcere, l’esercito, l’ospedale).

La Scuola non è piú un apparato ideologico dello Stato con la missione di realizzare un intruppamento ideologico del consenso. Il suo prestigio simbolico si è indebolito, afflosciato, la sua massa è divenuta molle. I suoi edifici si sgretolano, i suoi insegnanti vengono umiliati socialmente ed economicamente. Il suo dispositivo non è piú disciplinare, ma, casomai, «indisciplinare»1, capace solo di autorizzare un rigetto crescente delle norme, che può raggiungere i vertici paradossali della sospensione didattica degli allievi con «obbligo di frequenza» (sic!)

Il tempo della Scuola non è piú quello che la eleggeva come agente ideologico fondamentale nella trasmissione di una cultura di regime, ma quello di un’istituzione smarrita che si vede per un verso soppiantata nella sua funzione sociale, per l’altro sempre piú investita di compiti che trascendono tale funzione. Il problema della Scuola oggi non è la sua faccia feroce che la assimila a un carcere, ma il fatto che non appare piú decisiva nella formazione degli individui2. Lo ricorda molto puntualmente Giovanni Bottiroli:

Lungi dall’essere un apparato di Stato con una funzione di conformità, la scuola è diventata oggi il luogo in cui immense potenzialità di trasformazione vengono dissipate. Le cause sono molteplici, naturalmente; ad esempio, la mediocrità di molti insegnanti, mummificati dalla routine e impigriti dal garantismo, non va assolutamente trascurata […]. La svolta è avvenuta nel 1968 e negli anni immediatamente successivi: il passaggio alla scuola di massa (non vorrei essere frainteso) ha rappresentato un grande evento democratico, ma soltanto sul piano delle potenzialità. L’attenuarsi dei meccanismi selettivi e la scomparsa di ogni tipo di sanzione nei confronti di chi ostacolava, con un comportamento non disciplinato, i processi formativi individuali e di gruppo, hanno trasformato l’istituzione-scuola in un contenitore sterile, in un luogo di punizione, e in ogni caso di immensa frustrazione3.

Il problema della Scuola oggi non è la sua inclinazione fascisteggiante, non è lo sguardo panottico del sorvegliante che individua e reprime, punendo le differenze soggettive dall’ideale normativo che si esige di riprodurre, quanto piuttosto la sua drammatica evaporazione, il suo rischio di estinzione. È lo stesso processo che ha investito la figura paterna, di cui ho lungamente parlato altrove4.

Lo sanno bene gli insegnanti che si trovano per un verso screditati, messi al margine della società, umiliati economicamente e professionalmente e, nello stesso tempo, convocati paradossalmente a esercitare sempre piú la funzione di supplenti di un discorso educativo che sembra non aver piú sostegno né nelle famiglie né nelle istituzioni. Il volto ipermoderno della Scuola non assomiglia per nulla a quello di un tribunale morale che deve sentenziare sui destini dei giovani, ma pare piú simile a quello che Pasolini ha definito «il nuovo fascismo della società dei consumi»; è un volto che perde i suoi contorni, impalpabile, assente, abitato non dallo sguardo sempre aperto del Grande Fratello ma dagli occhi vuoti di un soggetto depresso.

La crisi del discorso educativo non è solo crisi del potere disciplinare nel processo della formazione, ma è soprattutto crisi del senso stesso e, piú fondamentale, di quel processo che si vuole definire «educazione» e che Françoise Dolto propone di chiamare piú estesamente «umanizzazione della vita», da cui dipende il nostro poter diventare soggetti.

È un fatto: l’iperedonismo che orienta il discorso del capitalista autorizza a rendere la parola «educazione» un ferro vecchio dell’epoca ideologica, destinato a essere archiviato senza nostalgia. La Scuola rischia di non essere piú il luogo pubblico della formazione degli individui, la quale viene invece filtrata e organizzata in altri luoghi (la televisione, internet), al di fuori dal campo della cultura, lasciata in balia delle illusioni di cui si nutre il discorso del capitalista.

Il problema della Scuola nel nostro tempo è che del suo compito educativo resta solo una carcassa svuotata di ogni linfa vitale, poiché la fabbricazione della vita avviene nel regime piú esteso di un totalitarismo che si esprime attraverso il potere ipnotico-seduttivo dell’oggetto di godimento offerto illimitatamente dal mercato, a portata immediata di corpo. È una mutazione antropologica profonda prodotta dal «nuovo fascismo»:

Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi [...] ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali. Non si tratta piú, come all’epoca mussoliniana, di una irreggimentazione superficiale, scenografica, ma di una irreggimentazione reale che ha rubato e cambiato loro l’anima. Il che significa, in definitiva, che questa «civiltà dei consumi» è una civiltà dittatoriale. Insomma se la parola fascismo significa prepotenza del potere, la «società dei consumi» ha bene realizzato il fascismo5.

La «scuola delle tre i» (impresa, informatica, inglese), sbandierata qualche anno fa come un’innovazione al passo coi tempi da un ministro della Repubblica, non agisce in nome di una pedagogia fascista che pretende di dare una forma morale e ideologica alla vita, ma in nome di una pedagogia neoliberale che riduce la Scuola a un’azienda che mira a produrre competenze efficienti adeguate al proprio sistema. Si sacrifica volentieri ogni riferimento alla pratica educativa per enfatizzare un principio di prestazione (o una «filosofia» delle competenze6), elevato alla dignità dell’Ideale dell’Io. La Scuola neoliberale esalta l’acquisizione delle competenze e il primato del fare, e sopprime, o relega in un angolo stretto, ogni forma di sapere non legato con evidenza al dominio pragmatico di una produttività concepita in termini solo economicistici (per esempio, la filosofia o la storia dell’arte alle superiori). Garantire l’efficienza della performance cognitiva è divenuta un’esigenza prioritaria che risucchia le nicchie necessarie del tempo morto, della pausa, della deviazione, dello sbandamento, del fallimento, della crisi, che invece, come sanno bene non solo gli psicoanalisti, costituiscono il cuore di ogni autentico processo di formazione.

Viti storte o computer.

L’importanza di questa trasformazione non deve sfuggire: non è piú la Scuola a essere fascista e autoritaria, strumento asservito a un potere che sorveglia sulla riproduzione di se stesso, ma è il discorso sociale che assomiglia sempre piú a un totalitarismo soft, narcotizzante o eccitante, che riduce il pensiero critico sfruttando la funzione ipnotica esercitata dagli oggetti di godimento che hanno invaso le vite dei nostri giovani. Allo stesso modo l’angoscia non abita piú gli studenti tremanti di fronte al capriccio sadico degli insegnanti, ma il corpo stesso degli insegnanti che, di fronte allo svuotamento di senso che ha travolto la Scuola, si trova a rispondere a compiti sempre piú impossibili (educare, curare, governare). Non è casuale che di fronte all’inattività e alla liquefazione dell’Altro simbolico – dell’istituzione della Scuola –, l’iperattivismo si manifesti come una patologia scolastica diffusa, ma piú in generale come una delle patologie paradigmatiche del discorso del capitalista: l’evaporazione dell’Altro istituzionale promuove l’iperattività eccitatoria e mortifera di un individuo che non conosce piú argini simbolici7.

Il fascismo emigra dalla Scuola alla società, l’angoscia dagli studenti si trasferisce sugli insegnanti, con la conseguenza principale che il modello dell’apprendimento non è piú quello rigidamente disciplinare che assimilava il potere al sapere nel nome di un Ideale garantito dall’automaton del grande Altro della tradizione. Quel modello morale della formazione, il cui paradigma possiamo ricavare dalla celebre metafora botanica secondo cui gli allievi sarebbero viti storte che necessitano di pali dritti e di fili di ferro robusti per essere raddrizzate e divenire conformi a un ideale di giusta normalità, è esaurito, morto, evaporato.

Prevale oggi un modello ipercognitivista che vorrebbe emanciparsi completamente da ogni preoccupazione valoriale, per rafforzare le competenze a risolvere i problemi piuttosto che a saperseli porre. La metafora piú adeguata non è piú botanica ma informatica. In gioco non sono piú le viti storte da raddrizzare ma le informazioni da immagazzinare: le teste funzionano come computer, come mappe cognitive che esigono un puntuale aggiornamento. Il sapere si estende orizzontalmente e perde ogni verticalità. Si tratta semplicemente di caricare piú files possibili secondo il principio utilitaristico del massimo beneficio ottenuto con il minimo sforzo. Mentre la metafora botanica connotava un modello educativo fondato sull’autorità simbolica del grande Altro della tradizione, che esigeva innanzitutto un’obbedienza di ordine morale-valoriale, quella informatica sembra invece voler liberare con risolutezza il sapere da ogni laccio assiologico. Ma quello che inesorabilmente in questo modello viene meno è il rapporto del sapere con la vita.

Il principio di prestazione rende l’apprendimento una gara, una «corsa a ostacoli»8 che non può dedicare tempo sufficiente alla riflessione critica, alla necessità di imparare la possibilità stessa di imparare9. È quello che l’ideologia delle competenze sembra escludere facendo prevalere una concezione meramente scientista e utilitaristica del sapere.

Lacan parla dello scientismo come di un’ideologia costituita sulla «forclusione» del soggetto, dove un «linguaggio senza parole» si impone anonimamente, recidendo ogni possibilità di fare esistere l’evento della parola del soggetto, quale manifestazione della sua stortura particolare. La «forclusione» è la radice che accomuna la psicosi e lo scientismo: qualcosa viene tagliato fuori, non entra nel discorso, perde ogni diritto di cittadinanza10. Si tratta dell’inconscio come soggetto della parola e del desiderio, come indice di una singolarità irriducibile, di una stortura che resiste a ogni procedura ortopedica di raddrizzamento. Nello scientismo, di cui l’ideologia delle competenze è un’espressione attualissima, il sapere anonimo e robotizzato dell’Altro domina senza limiti e riduce il soggetto a un contenitore passivo, da riempire di contenuti. Nella psicosi come nello scientismo non c’è posto per la singolarità. La stortura della vite non solo deve essere raddrizzata, ma lucidata a nuovo e restituita alla sua efficienza. Prendere la parola come gesto singolare con il quale l’allievo si autorizza a manifestarsi in quanto singolarità nel processo dell’apprendimento, viene sostituito dalla verifica dell’assimilazione passiva delle informazioni. In questo modo il soggetto della parola viene cancellato o, come afferma Lacan, ridotto a essere solo parlato persecutoriamente dal linguaggio dell’Altro.

Un mestiere impossibile.

Possiamo oggi misurare la crisi del discorso educativo e il suo rischio di estinzione. La Legge pazza e perversa del «perché no?» sembra rendere vani gli sforzi degli educatori. Questa Legge alimenta un culto del godimento del tutto sganciato dal desiderio che si rivela fatalmente distruttivo: «Perché no?» «Perché non godere sino alla morte, sino alla dissipazione della vita?» «Perché non godere al di là di ogni Legge?»

Per contrastare il dominio di questa versione perversa della Legge, si deve riuscire a tenere viva un’altra domanda: se l’esperienza del limite è divenuta priva di senso, come reintrodurre in ogni processo di formazione la funzione traumatica ma beneficamente positiva di quell’esperienza?

Nel tempo del massimo rischio di estinzione del discorso educativo, nel tempo dove la vita è ipnotizzata dalla sirena di un godimento autistico, non possiamo non sforzarci ancora di mettere in rilievo l’importanza irrinunciabile di questo discorso. Proprio quando il deserto cresce, come dice Nietzsche ripreso da Heidegger, proprio nell’epoca della desertificazione assoluta del discorso educativo, l’assenza di questo discorso brilla come non mai rivelando la necessità di preservare la sua esistenza tra noi. Il nostro tempo sembra essere figlio di una collusione terribile, anche se involontaria, tra la spinta rivoluzionaria-libertaria sorta dalle istanze critiche piú che legittime del ’68 e quella del neoliberismo forsennato, del capitalismo finanziario protagonista dell’attuale crisi. Entrambe queste linee di tendenza, come se fossero un’atroce parodia delle «macchine desideranti» teorizzate nell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, sostengono l’idea, ferocemente antieducativa, che tutto è possibile, che la vita è una potenza autoaffermativa che non necessita di nessuna Legge se non quella della propria stessa potenza. Contro questa deriva un’istituzione come la Scuola deve provare a tener ferma la centralità del discorso educativo, deve resistere alla sirena perversa del: «Perché no?»

Ma per farlo occorre innanzitutto riattribuire la giusta dignità alla figura dell’impossibile. Non a caso, com’è noto, Freud definisce lo psicoanalizzare, il governare e l’educare come tre professioni egualmente impossibili, ovvero tre mestieri in stretto rapporto col reale (ricordiamo che per Lacan il reale non è la realtà, ma è per definizione l’impossibile)11.

Cosa significa? L’impossibile è un nome dell’incontro traumatico con il limite che l’esperienza del linguaggio rende possibile. L’esistenza del linguaggio separa l’essere umano da un godimento senza bordi e senza perdita, imponendo a coloro che abitano il suo orizzonte il lutto della Cosa del godimento, il lutto del godimento mortale e incestuoso. Di qui, dall’incontro traumatico con l’esperienza dell’esilio dalla Cosa provocata dal linguaggio, scaturisce la possibilità per la vita umana di trovare nuove forme di soddisfazione sganciate dall’ombra del godimento incestuoso. È la funzione che la psicoanalisi attribuisce classicamente al cosiddetto «complesso di Edipo»: gli oggetti familiari sono colpiti dall’interdetto della Legge affinché la vita del soggetto vada verso altri mondi e altri investimenti libidici. Diversamente da quello che pensano Deleuze e Guattari, l’Edipo freudiano non attiva una procedura fascista e paranoica di recinzione repressiva del desiderio, ma la libera concatenandola in legami sociali piú vasti. Di fronte all’interdetto simbolico della Legge che confronta la vita umana con il muro dell’impossibile, la pulsione non può piú cortocircuitare con gli oggetti familiari, ma è obbligata a navigare all’esterno della famiglia per trovare forme di soddisfazione non incestuose e aperte allo scambio sociale. In questo senso ampio, l’educazione non va mai confusa con la repressione o con l’imbrigliamento disciplinare della pulsione, ma agisce piuttosto come una nuova canalizzazione della forza pulsionale che non si accontenta piú del circuito già conosciuto del familiare, ma che esige altre e inedite aperture.

La Scuola e i suoi complessi.

Com’è stata possibile questa crisi profonda che ha investito il mondo della Scuola? Per rispondere, possiamo chiamare in causa il concetto di «complesso».

Il «complesso», in psicoanalisi, è un organizzatore inconscio che orienta e dirige la vita dei soggetti (vedi il «complesso edipico»), ma anche quella dei gruppi e delle istituzioni. Per quanto riguarda la Scuola possiamo isolare tre complessi che fanno riferimento a tre grandi figure della mitologia: il complesso di Edipo, il complesso di Narciso e il complesso di Telemaco12.

Questi tre complessi si possono leggere sia diacronicamente che sincronicamente. Diacronicamente: c’è stata una Scuola in cui dominava il complesso di Edipo che si è dissolta sotto i colpi delle grandi contestazioni del ’68 e del ’77. In seguito, si è affermato il complesso di Narciso che ha caratterizzato la Scuola sino ai giorni nostri. Infine, si può pensare a un’altra Scuola – che ci auguriamo sia quella dell’avvenire – in cui a orientare l’istituzione sarà il complesso di Telemaco. Sincronicamente: nella vita della Scuola sono sempre, simultaneamente, presenti tutti e tre questi organizzatori.

La Scuola-Edipo.

Quale Scuola scaturisce dalla figura di Edipo? È una Scuola che si fonda sulla potenza della tradizione, sull’autorità del Padre, sulla fedeltà al passato. Edipo vive nel rispetto colpevole della Legge e nella sua trasgressione. In questi termini il nevrotico vive il rapporto col padre: l’idealizzazione rimuove la spinta aggressiva e parricida. Nella Scuola-Edipo il sapere che viene trasmesso esprime una fedeltà cieca nei confronti dell’autorità del passato: l’idealizzazione assume la forma della conservazione che ripete lo Stesso.

C’è stato un tempo in cui andare a scuola e pregare erano la stessa cosa. Al punto che ogni lezione iniziava con la preghiera, prima dell’appello. L’autorità dell’insegnante era garantita dalla potenza della tradizione alla quale si appoggiava: il modello pedagogico prevalente era quello correttivo-repressivo. Il rapporto tra insegnante e allievo, fortemente gerarchizzato. È la Scuola tradizionale che si caratterizza per un setting «predefinito e istituzionalizzato, cosí potente da confondersi e identificarsi con un apparato istituzionale di tipo disciplinare»13.

Nella Scuola-Edipo l’insegnante si trova nel posto dell’autorità, è un sostituto del Padre, di una Legge fuori discussione. L’allievo, in quanto figlio, dev’essere appunto istruito e educato come fosse una cera da plasmare. Freud stesso parla di uno sfondo edipico nel rapporto tra insegnanti e allievi: nell’insegnante si trasferisce la stessa forma di soggezione idealizzante che caratterizza il rapporto del bambino coi genitori.

La Scuola-Edipo si fonda sull’alleanza tra genitori e insegnanti, ratificata innanzitutto dal fantasma dei figli-allievi che proiettano nella figura dell’insegnante i caratteri ideali e autoritari della figura genitoriale14. Anche la concezione dell’istituzione risponde a criteri verticali e fortemente strutturati: è un’istituzione solida, piramidale, panottica15. La formazione è concepita come un raddrizzamento morale e autoritario delle storture individuali e il pensiero critico è visto come un’insubordinazione illegittima all’uniformità identitaria.

È la fotografia della Scuola come istituzione disciplinare che possiamo ricavare da The Wall dei Pink Floyd: gli studenti sono carne trita, prodotta dai congegni repressivi di un’istituzione dall’anima fascista. L’apprendimento risponde cosí al criterio autoritario e conformistico dell’obbedienza. Il sapere trasmesso è un sapere senza soggettività, privato di singolarità, centrato sull’auctoritas della tradizione.

Nondimeno, nella misura in cui esiste un forte patto generazionale tra insegnanti e genitori, si innesca inevitabilmente una dimensione conflittuale tra le generazioni. Se per un verso la Scuola-Edipo genera obbedienza senza critica, uniformità senza differenza, per l’altro verso innesca fatalmente moti di conflittualità, contestazioni, attriti tra insegnanti e allievi. Edipo, infatti, nel mito, è anche la figura tragica del conflitto tra vecchia e nuova generazione: il padre non è solo temuto e rispettato, ma contrastato mortalmente. All’adorazione idealizzante corrisponde anche un voto di morte inconscio. Edipo è l’eroe tragico del conflitto a morte col padre poiché il padre, in quanto simbolo della Legge, è vissuto solo come un ostacolo alla realizzazione del desiderio.

Le contestazioni del ’68 e del ’77 rispondono a tutti questi criteri chiaramente edipici: i figli contro i genitori, gli allievi contro gli insegnanti, il desiderio contro la Legge. Nella Scuola-Edipo, infatti, il conflitto si struttura verticalmente. Le generazioni trovano la loro iscrizione seguendo uno schema oppositivo che esclude la mediazione simbolica. In primo piano è la differenza generazionale come generatrice di conflittualità. L’ordine costituito del potere produce la tendenza alla sua sovversione in modo tale che l’opposizione tra vecchie e nuove generazioni finisce per ricalcare quella tra desiderio e principio di realtà.

Nel nome della libertà di insegnamento e della libertà di apprendimento, gli insegnanti e gli allievi, schiacciati dal peso oppressivo di una Scuola disciplinare, rivendicano, attraverso la contestazione, il loro diritto a cambiare, a trasformare, a generare del nuovo. Il conflitto può essere, infatti, generativo e non solo distruttivo. Non a caso, del conflitto si nutre ogni processo di formazione.

Dal punto di vista storico, nessuna stagione fu cosí feconda di idee di rinnovamento e di pratiche pedagogiche e didattiche come quella del ’68 e, in seguito, del ’77. Un vero e proprio fervore sperimentale fece irruzione nella Scuola ingessata sull’identificazione all’autorità della tradizione. Fu uno sconvolgimento di cui bisogna vedere luci e ombre, ma è innegabile che un’intensità e una vitalità inedite attraversarono l’istituzione Scuola come un vento di primavera:

Don Milani, il femminismo, le comuni infantili, le scuole alternative, il tempo pieno, i centri sociali, l’animazione teatrale, la psicoanalisi antiautoritaria, la rivoluzione sessuale, la corporeità e la psicomotricità, il lavoro di gruppo e la ricerca di ambiente, la militanza politica, la pedagogia istituzionale e l’inserimento degli handicappati, l’esotismo e il misticismo, le iniziative extrascolastiche, il movimento studentesco e le aggregazioni giovanili, la denuncia della selezione scolastica e dei metodi tradizionali di valutazione, la critica della famiglia borghese e delle istituzioni totali. Un grande immaginario pedagogico ma anche un reticolo di pratiche, di attitudini e di esperienze educative accomunate dalla speranza in un riscatto sociale e individuale, oltre che dal rifiuto dei modelli tradizionali. La riappropriazione a tutto campo del sapere pedagogico piú suggestivo e piú vitale16.

Gli studenti e gli insegnanti che hanno animato le contestazioni del ’68 e del ’77 esigevano una Scuola che non agisse solo come un’istituzione disciplinare, che non fiaccasse la vita distribuendo un sapere morto. Tuttavia, l’errore consistette nel finire per sostenere una versione solo puberale della libertà. La ricchezza vitale del desiderio fu agita come un pugno contro la tirannia di una Legge interpretata solo nevroticamente come ostacolo al cammino del desiderio stesso, senza rendersi conto che Legge e desiderio sono necessariamente presi in un’articolazione simbolica: senza il desiderio la Legge si insterilisce e diviene una mummia in difesa di un sapere morto, ma senza la Legge il desiderio si frammenta e diventa puro caos.

Nel ’77 non contestavamo solo gli insegnanti che ritenevano ci fosse una sola risposta al mistero delle cose, ma rigettavamo, piú radicalmente, la dimensione obbligatoria della Scuola, i suoi programmi didattici, la sua finalità che ci appariva solo ideologicamente educativa, la sua gerarchia burocratizzata, i suoi metodi di valutazione irrigiditi, il suo essere un dispositivo del potere finalizzato a riprodurre l’adattamento conformistico e passivo alla realtà.

Quello che ci sfuggiva era la funzione fondamentale che la Scuola è chiamata a esercitare nella formazione del soggetto e nel processo piú generale di «umanizzazione della vita». Ai nostri occhi di giovani che volevano cambiare il mondo, la Scuola era solo il luogo di una Legge ottusamente autoritaria. Il nostro presupposto libertario contrapponeva rigidamente e, dunque, in modo manicheo e fatalmente nevrotico il desiderio alla Legge. La vita del primo implicava la morte della seconda e viceversa.

La Scuola-Narciso.

A definire la Scuola nell’epoca dell’evaporazione del padre e dell’affermazione del discorso del capitalista, dopo le contestazioni del ’68 e del ’77, è il figlio-Narciso, una figura la cui tragedia è immensamente diversa rispetto a quella di Edipo. Se la tragedia di Edipo è la tragedia del conflitto con la Legge, del conflitto con il Padre, del conflitto dei figli con i padri, del conflitto tra le generazioni, quella di Narciso è la tragedia tutta egoica del perdersi nella propria immagine, del mondo ridotto a immagine del proprio Io. Il problema non è piú quello della liberazione collettiva del desiderio, ma quello dell’affermazione cinica di se stessi. Narciso è infatti una figura della sconnessione, dell’assenza di relazione tra l’Uno e l’Altro, della rottura del legame. Al centro non abbiamo piú la spigolosità del conflitto, ma la confusione speculare.

Questo passaggio dalla conflittualità alla specularità, dalla dissimmetria alla simmetria generazionale, coincide con il passaggio dalla connotazione solidamente gerarchica che caratterizza la Scuola-Edipo all’orizzontalità liquida della Scuola-Narciso, dove è sempre piú difficile reperire la differenziazione simbolica dei ruoli. Sullo sfondo, lo sfaldamento del patto generazionale tra insegnanti e genitori. Questo patto si è rotto a causa della collusione tra il narcisismo dei figli e quello dei genitori. I genitori si alleano con i figli e lasciano gli insegnanti nella piú totale solitudine, a rappresentare quel che resta della differenza generazionale e del compito educativo, a supplire alla funzione latitante del genitore, cioè a fare il genitore degli allievi.

La nuova alleanza tra genitori e figli disattiva ogni funzione educativa da parte dei genitori che si sentono piú impegnati ad abbattere gli ostacoli che mettono alla prova i loro figli per garantire loro un successo nella vita senza traumi, che non a incarnare il senso simbolico della Legge. La figura di Narciso è infatti la figura che esige l’abolizione dell’ostacolo, del limite, persino della storia. La formazione si riduce al solo potenziamento del principio di prestazione che deve poter preparare i nostri figli alla gara implacabile della vita. Il fallimento non è tollerato, come non è tollerato il pensiero critico. L’assimilazione al sistema non avviene piú a forza di colpi autoritari ma nello spegnimento del desiderio e della sua vocazione sovversiva17. La Scuola-Narciso vive infatti all’ombra del principio di omologazione e di una concezione efficientistica della didattica, assimilata non piú al carcere o all’ospedale ma all’azienda. La paranoia implicita nella Scuola-Edipo lascia il posto alla perversione che si annida nella Scuola-Narciso. Se la prima si polarizza sulla differenza generazionale e sulle sue dinamiche conflittuali, la seconda ha come suo primo tratto lo sfaldamento della marcatura simbolica della differenza generazionale e, di conseguenza, l’assenza di conflitto tra le generazioni e la prevalenza di un Ideale di prestazione che le accomuna indifferentemente.

Di qui la solitudine profonda del corpo insegnante. Se il passaggio dalla Scuola-Edipo alla Scuola-Narciso si caratterizza per la rottura di quella saldatura fantasmatica che collega il corpo familiare al corpo docente (per Freud l’insegnante è il prolungamento fantasmatico del genitore), nella Scuola-Narciso prevale la specularità: è la ragione per cui, come abbiamo detto, il rapporto tra le generazioni si è rotto dando luogo all’attuale confusione immaginaria tra genitori e figli che finisce per isolare il corpo docente, vissuto come corpo estraneo, come corpo nemico soprattutto quando genera frustrazione nei figli-Narcisi18. I figli si confondono coi padri. La dissimmetria viene meno e tutto si simmetrizza. Gli insegnanti sono tatuati come i loro allievi, alcuni si danno del tu o diventano loro amici su facebook, nessuno porta piú la cravatta, le ore di lezione sono dedicate a rincorrere un silenzio e un’attenzione che sembrano impossibili da raggiungere, gli esami all’università non possono superare un certo numero di pagine, i voti considerati ingiusti dai figli mobilitano le proteste accorate dei genitori, i provvedimenti disciplinari sembra facciano parte di un passato archeologico, la parola smarrisce ogni peso simbolico e viene sopraffatta da una cultura delle immagini, che tende a favorire un’acquisizione passiva e senza sforzo.

La tendenza al ritiro dai legami sociali rafforza un rapporto simbiotico con l’oggetto tecnologico e con la connessione perpetua alla rete. Se la Scuola-Edipo si regge sull’ossequioso rispetto verso le auctoritates e sulla loro contestazione critica, la Scuola-Narciso tende a polverizzare il libro in favore di un’enfatizzazione della tecnologia informatica, seguendo l’illusione di un sapere illimitato e disponibile senza fatica. Il dilagare post-umano delle nuove tecnologie e l’enfasi libertaria che sovente l’accompagna rischia di rendere i computer strumenti che amplificano le possibilità della conoscenza nella tentazione di fare a meno della parola, del passaggio obbligato attraverso la lingua e la sublimazione. Il rischio è quello di rendere lo schermo del proprio pc o iPad uno specchio vuoto che, anziché aprire mondi, li richiude in un’autoreferenzialità mortifera.

Anche in questo senso nella Scuola-Narciso i nostri figli sono intrappolati in una specularità che annulla la differenza. Il vuoto, la mancanza di sapere, non sono custoditi come dovrebbero: i nuovi figli vengono a sapere tutto dei loro genitori. Non c’è velo, disimmetria, impermeabilità, perché viene elusa la dimensione simbolica della differenza generazionale. Questa caduta del simbolico che garantisce la differenza tra le generazioni non indica il rifiuto edipico dei padri da parte dei figli, ma la difficoltà dei padri a essere padri; non indica l’antagonismo edipico dei figli nei confronti dei genitori, ma la difficoltà a essere genitori da parte degli adulti. Tutto allora pare essere risucchiato in un falso egualitarismo. Gli spigoli anche traumatici della differenza generazionale vengono smussati nel nome di un diritto di eguaglianza che in realtà abolisce la responsabilità degli adulti a sostenere il loro ruolo nel processo formativo dei figli.

La stessa logica investe la Scuola. Gli insegnanti faticano a incarnare la dissimmetria simbolica che implica la loro posizione. Tendono piuttosto a confondersi con i loro allievi. Il fenomeno piú rilevante e preoccupante è che in questo contesto la parola perde peso e viene ridotta a un suono privo di senso. La crisi della Scuola coincide in tal senso con una crisi piú profonda della parola. È un altro tratto paradossale del nostro tempo: la parola circola ovunque rivelando il suo carattere inflazionato. Drammi privatissimi trovano posto nel circo dei talk show, una cattiva retorica pedagogica sostiene la necessità infinita del dialogo: si può dire e parlare di tutto senza alcun limite. Ma in questo carrozzone impazzito di una parola che circola tanto piú velocemente quanto piú appare svuotata di senso, viene meno una delle condizioni decisive nella formazione dell’individuo. Viene meno la parola. Quale? Quella che stabilisce una relazione stretta tra il dire e le sue conseguenze. Le parole che diventano «solo parole» sono le parole che hanno perduto il nesso etico che le vincola alle loro conseguenze. È questo l’effetto principale del loro svuotamento narcisistico. La parola dovrebbe comportare sempre l’assunzione soggettiva delle sue conseguenze o, quantomeno, lo sforzo della loro assunzione. La parola non è mai solo una parola, perché trasforma, plasma, genera la vita. In questo senso la Scuola-Narciso ha perduto il nesso che lega la parola alla vita. La recisione di questo legame dà luogo a una versione della trasmissione del sapere che esclude la critica ed esige l’assimilazione e la performance. La Scuola-azienda reagisce ribaltando i presupposti della Scuola-ideologica. Il modello educativo sottostante è ipercognitivista: non è piú quello morale del primato dell’educazione come raddrizzamento ortopedico delle viti storte, ma quello del riempimento delle teste, della computerizzazione delle conoscenze e del loro ordinamento produttivo. La Scuola ipercognitivista-narcisista reagisce alla Scuola ideologico-edipica. La sua nuova divisione non è piú quella tra l’ideale conservatore dell’obbedienza e quello rivoluzionario del cambiamento e del rovesciamento dell’esistente, ma quello tra culto individualistico del principio di prestazione e assenza di un senso autentico del valore simbolico dell’istituzione, da cui derivano l’indisciplina, la svogliatezza, la difficoltà a rendere continuativo il proprio impegno, il rispetto per gli insegnanti, ecc. In questa nuova divisione della Scuola il problema non è piú lo scontro tra due visioni del sapere – l’una conservativa, l’altra critico-sperimentale, l’una legata al principio di conservazione della realtà, l’altra al sogno e al desiderio – quanto piuttosto la generale riduzione dell’apprendimento al plagio.

Questo è un punto centrale della Scuola-Narciso che riflette la sua profonda costituzione speculare. Se dovessimo ridurre la valutazione per come viene praticata oggi nella Scuola a un solo termine, non dovremmo forse ridurla al termine «plagio»? Chi premiamo quando valutiamo? Chi gratifichiamo? Quali prestazioni incoraggiamo? La Scuola-Narciso non ha dubbi in proposito: premia chi ripete lo Stesso, chi riduce l’apprendimento alla riproduzione dello Stesso. Nessuna eterogeneità, nessuna divergenza. Se in una verifica orale o scritta – quando non si riduca a una serie di caselline vuote da barrare – l’insegnante ritrova le proprie parole o quelle dei testi studiati; se, in altri termini, l’allievo sa ripetere il piú esattamente possibile il sapere che gli è stato impartito, allora la valutazione sarà massima.

Di fronte all’esaltazione dell’Io e della sua autonomia, si tende paradossalmente a non valorizzare la soggettivazione singolare del sapere ma a schiacciarla passivamente sulla clonazione del medesimo. Tutti i percorsi formativi devono essere semplificati riducendo al minimo gli ostacoli. Come nel caso delle interrogazioni programmate nei licei, dove spesso si concede pure allo studente il diritto di rinviarle19.

Appiattendo la valutazione sul plagio, la Scuola smette di interrogare il senso della vita, rischia di non proporre piú il sapere come allargamento dell’orizzonte del mondo, essendo il suo compito divenuto ormai quello aziendalistico di fornire solo strumenti utili. Al godimento della sublimazione che erotizza il sapere, sul quale anche se in modo contraddittorio la Scuola-Edipo si sostiene, si sostituisce un movimento tendenzialmente antisublimatorio che rigetta la via lunga dell’apprendimento e della ricerca. I programmi di studio si riducono, gli esami universitari sono tenuti a fornire bibliografie che non superino un certo numero di pagine, i genitori protestano di fronte a carichi eccessivi di compiti, i provvedimenti disciplinari sono visti come abusi autoritari. Il problema della quantificazione del sapere, della semplificazione dei programmi, della disaffezione alla pratica di lettura dei testi è un fenomeno di tutta evidenza a qualunque livello delle nostre Scuole.

Questo problema è complicato da un uso massiccio della tecnologia che favorisce la «via breve» dell’antisublimazione. Se una maestra propone ai bambini delle elementari una ricerca sui fiumi della Lombardia – ricerca che un tempo avrebbe richiesto uno sforzo di consultazione che avrebbe impegnato un intero pomeriggio –, oggi è sufficiente cliccare su google per avere immediatamente la risposta che si cerca. La dimensione dell’esperienza è totalmente evasa da un sapere pret-à-porter, sempre a disposizione, che, di fatto, genera anoressie mentali, rigetto della ricerca del sapere nel nome di una sua acquisizione senza sforzo. Tanto il soggetto sembra staccarsi dalla pratica lenta della lettura, tanto appare perennemente connesso al grande Altro della rete che promette un sapere sempre immediatamente disponibile.

Anche per questo gli insegnanti nella Scuola-Narciso non appaiono piú come i depositari dell’autorità simbolica della tradizione, ma sono sospinti verso la contraddizione insostenibile di subire, per un verso, una proletarizzazione economica e sociale drammatica (i tagli alle risorse hanno accomunato tutte le politiche scolastiche del nostro Paese negli ultimi trent’anni) e, per un altro verso, di essere investiti di un ruolo educativo sempre piú ampio di fronte a famiglie sempre piú in crisi nell’esercitarne la potestà. All’importanza collettiva della loro opera – il cui valore è inestimabile – non corrisponde alcun riconoscimento né economico né culturale.

Funzione e significato restano drasticamente divaricati: da una parte, il valore inestimabile della loro funzione nel garantire la crescita e lo sviluppo dei nostri figli; dall’altra parte, la spoliazione di un significato pubblicamente riconosciuto alla loro funzione. Il corpo insegnante è, in questo senso, un corpo in frammenti, perché non esiste piú uno specchio sociale in grado di restituirne la giusta immagine. Gli insegnanti non subiscono solo un processo di proletarizzazione economica, ma anche di disintegrazione identitaria. La loro angoscia cresce non tanto, come accadeva nella Scuola-Edipo, in rapporto alla contestazione del sapere che rappresentano, ma in rapporto a uno smarrimento fondamentale dell’identità.

La Scuola-Telemaco.

Il terzo grande complesso della Scuola è quello di Telemaco. Recentemente ho insistito nel contrapporre le figure di Edipo e di Telemaco, il figlio di Ulisse, per provare a decifrare il nuovo disagio della giovinezza e delle nostre istituzioni. La crisi che attraversa attualmente il rapporto tra le generazioni non risponde piú alla logica conflittuale e ambivalente tipica del complesso edipico per la semplice ragione che sono venuti meno gli adulti come rappresentanti della Legge simbolica della castrazione. Di conseguenza non è piú il conflitto che attraversa la differenza tra le generazioni ma un’inedita confusione generazionale che surroga ogni possibile conflitto e confonde figli e genitori in una sola melassa indistinta. Per queste ragioni ho teorizzato che le nuove generazioni siano abitate da una domanda inedita di padre, come accade proprio a Telemaco.

Il disagio dei nostri figli non è piú centrato sull’antagonismo tra le generazioni, ma sulla perdita della differenza e, dunque, sull’assenza di adulti in grado di esercitare funzioni educative e di costituire quell’alterità che rende possibile l’urto alla base di ogni processo di formazione. Il malessere attuale della giovinezza non risiede nell’opposizione tra sogno e realtà ma nell’assenza di sogno. Il disagio dei corpi dei giovani – il corpo iperattivo, il corpo sbandato, il corpo annoiato, il corpo anoressico o obeso, il corpo depresso, il corpo intossicato, il corpo distratto – ha preso il posto della parola critica che li animava nella Scuola-Edipo. Mentre allora era l’ideologia rivoluzionaria a esprimere le esigenze di una corporeità che giustamente rifiutava la normalizzazione repressiva, adesso in primo piano è il silenzio mortifero del sintomo. La protesta, la rivolta, la critica passano attraverso il disagio e la sofferenza muta dei corpi.

Per questa ragione occorre che gli insegnanti – senza bisogno di trasformarsi in psicoterapeuti – provino a tradurre l’iperattività o il deficit di apprendimento, la noia o la frivolezza senza responsabilità, come se fossero interrogazioni inconsce rivolte al sapere, rivolte all’Altro incarnato dall’insegnante. Nella pratica didattica di ogni giorno, si tratta di provare a trasformare l’impasse in un punto di rilancio e di rinnovamento20. È solo in questo modo che la Scuola-Telemaco è sempre apparsa nelle faglie della Scuola-Edipo e della Scuola-Narciso21. Il figlio-Telemaco non vuole la pelle del padre, né si limita a contemplare la propria immagine, ma esige che ci si liberi dalle pulsioni incestuose incarnate dai Proci (che hanno devastato la sua casa e quella dei suoi genitori) in vista di un nuovo patto tra le generazioni.

La Scuola-Telemaco vuole restituire valore alla differenza generazionale e alla funzione dell’insegnante come figura centrale nel processo di «umanizzazione della vita». Ma, diversamente dalla Scuola-Edipo, rifiuta di interpretare questa differenza in termini solo sterilmente antagonistici. Piuttosto la Scuola-Telemaco sostiene che non vi sia trasmissione possibile senza incontro, senza impatto con l’Altro. Diversamente da Edipo, Telemaco riconosce il debito simbolico verso il padre, non lo vuole morto, non lo vive come un nemico nel crocevia del suo desiderio. Mentre per Edipo la Legge è vista solo come antagonista irriducibile e mortale del desiderio, mentre Edipo non sa vedere il nesso che unisce profondamente la Legge al desiderio, Telemaco attende il ritorno del padre perché sa che solo questo ritorno potrà reintrodurre la Legge nel campo chiuso del godimento incestuoso. E tuttavia il figlio-Telemaco non è solo una figura melanconica dell’attesa. Si confronta con quell’assenza del padre che è il nome piú profondo della sua presenza nel destino di tutti gli umani e di tutte le loro istituzioni. Perché il padre si dà innanzitutto nella forma dell’assenza, nella forma di un impossibile. È per questa ragione che, anziché incancrenirsi in una passione solo nostalgica, Telemaco salta il fossato di quell’assenza, si mette in moto, compie un viaggio sulle orme del padre assente. Compie il viaggio dell’ereditare in cui si realizza ogni ricerca degna di questo nome. Perché ogni ricerca non è mai ex nihilo, ma si rende possibile solo grazie a quelle di coloro che ci hanno preceduti e alla loro memoria.

La Scuola-Telemaco è una Scuola dove in primo piano dovrebbe essere situato il desiderio come ricerca della propria eredità. Mentre la Scuola-Narciso si fonda sulla confusione dei ruoli, sull’immedesimazione reciproca, sull’assenza di Legge, generando l’orgia dei Proci, quella di Telemaco ha il compito di ricostruire la figura dell’insegnante dai piedi. Se l’autorità simbolica della sua parola non può piú essere garantita dall’automaton della tradizione, se non può accettare di essere sostituita dalla specularità senza passione degli oggetti tecnologici, deve essere ricostruita dalla testimonianza della forza della parola che ogni insegnante è tenuto a incarnare.

La Scuola-Telemaco si realizza nell’incontro con una parola che sa testimoniare non soltanto di sapere il sapere, ma anche che il sapere si può amare, si può trasformare in un corpo erotico. Come nel caso di Telemaco sappiamo che non ritornerà il padre eroe, carismatico, vittorioso, il padre-monumento, il padre dell’autorità infallibile, ma solo un resto del padre, solo quel che resta del padre. Nel caso degli insegnanti non si tratta piú di perseguire l’ideale dell’insegnante-padrone che sa dire l’ultima parola sul senso della vita, ma quello dell’insegnante-testimone che sa aprire mondi attraverso la potenza erotica della parola e del sapere che essa sa vivificare.

Piú precisamente, l’insegnante della testimonianza è colui che sa sostenere una promessa. Quale? La promessa della sublimazione: abbandonare il godimento mortale, il godimento chiuso su se stesso, il godimento immediato e la sua allucinazione, per trovare un altro godimento, capace di rendere la vita piú ricca, beata, capace di amare e di desiderare. La promessa che la Scuola-Telemaco sostiene controvento è che l’accesso alla cultura, obbligandoci a rinunciare al godimento incestuoso, apre a una vita piú soddisfatta, in grado di allargare il proprio orizzonte. Piú viva in quanto simbolicamente morta, sottratta al godimento mortale e incestuoso del consumo immediato, capace di riconoscersi appartenere a una storia, a una memoria condivisa, al campo del linguaggio.

1 Sul passaggio dal dispositivo disciplinare al dispositivo indisciplinare, cfr. le acute osservazioni di G. Bottiroli, Non sorvegliati e impuniti, in M. Recalcati (a cura di), Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 118-40.

2 La filiazione della Scuola moderna dal regime carcerario è una tesi sviluppata in M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976.

3 G. Bottiroli, Non sorvegliati e impuniti cit., p. 136.

4 Cfr. M. Recalcati, Cosa resta del padre? Meditazione sulla paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano 2011; Id., Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013; Id., Patria senza padri. Psicopatologia della politica italiana, minimum fax, Roma 2013. Una ripresa originale di queste mie osservazioni sull’evaporazione del padre applicate al mondo della scuola si trova in A. Bajani, La scuola non serve a niente, Laterza, Roma-Bari 2014, pp. 38-44.

5 P. P. Pasolini, Fascista, in Scritti corsari, Garzanti, Milano 1977, p. 286.

6 Su questa «nuova» filosofia e su tutti i suoi limiti cfr. l’importante fascicolo 358 di «aut aut»: B. Bonato (a cura di), La scuola impossibile, Il Saggiatore, Milano 2013 (in particolare, B. Bonato, Senso e non senso della competizione, pp. 3-26, e E. Greblo, La fabbrica delle competenze, pp. 117-31).

7 Cfr. U. Zuccardi Merli, Non riesco a fermarmi. 15 risposte sul bambino iperattivo, Bruno Mondadori, Milano 2012; F. Tognassi e U. Zuccardi Merli (a cura di), Il bambino iperattivo. Dalla teoria alle pratiche della cura, Franco Angeli, Milano 2010.

8 A. Asor Rosa, Che condanna essere stato il primo della classe, in «la Repubblica», 5 giugno 2012.

9 Per Heidegger «insegnare è piú difficile dell’imparare […] perché insegnare significa: far imparare. Chi propriamente insegna non fa imparare null’altro che questo imparare» (M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, SugarCo, Milano 1978, pp. 107-8).

10 Cfr. J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Scritti, Einaudi, Torino 1974, pp. 842-54.

11 Anche il politico ha un rapporto stretto con l’impossibile. Come si costruisce una Comunità umana a partire dall’esilio dal godimento incestuoso? Come si costruisce una Comunità che abbia a suo fondamento non il mito fascista e di certo cattolicesimo della «comunione», del fare Uno, ma l’esperienza della solitudine? Come diventa possibile costruire una Comunità sullo sfondo dell’impossibilità del rapporto sessuale, cioè del fare e dell’essere Uno con l’altro, quindi sulla solitudine evitando però che le solitudini, come direbbe Deleuze, si molecolarizzino e diventino ciascuna anarchica, ciascuna come pura volontà di godimento fine a se stesso? Questa domanda di per sé contiene già un paradosso: affinché vi sia Comunità senza irreggimentazione paranoica e fascista e senza dispersione anarcoide, essa non può che essere praticata a partire dall’esilio e dalla separazione in cui l’esistenza del linguaggio getta la vita umana. Su questi temi, cfr. J. Aléman, Soledad: Común. Políticas en Lacan, Capital Intelectual, Buenos Aires 2012.

12 Ho utilizzato questi tre complessi per leggere recentemente il rapporto tra le generazioni nel mio Il complesso di Telemaco cit. A questo lavoro rinvio per numerose osservazioni fatte in questo capitolo.

13 R. Massa, Cambiare la scuola. Educare o istruire?, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 85.

14 Questo è evidentissimo nella Scuola primaria, ed è una delle ragioni della sua tenuta. L’investitura fantasmatica dell’insegnante come prolungamento della genitorialità salda il patto tra le generazioni.

15 Il ritratto piú pregnante di questa versione della scuola si trova in M. Foucault, Sorvegliare e punire cit., pp. 192-202. Un lucido commento, anche attraverso una riflessione sugli studi di Pierre Bourdieu, si può trovare in E. De Conciliis, Che cosa significa insegnare?, Cronopio, Napoli 2014, pp. 9-89.

16 R. Massa, Cambiare la scuola cit., p. 67.

17 Molti anni fa, quando per pagare la mia analisi personale insegnavo come supplente in un liceo privato, mi accorsi che quello che gli allievi trovavano davvero scandaloso non era tanto l’insegnamento di Freud e della psicoanalisi – la teoria della sessualità o altro – ma quello di Marx. Scandalizzava un pensiero che proponeva di modificare l’assetto sociale esistente nel nome di una versione solidaristica della vita e di una difesa dei lavoratori. Scandalizzava un pensiero critico che non si accontentava dell’adattamento alla realtà del discorso del capitalista come unica forma di realizzazione della vita.

18 Una mia collega, Federica Pelligra, riferendo un colloquio di un ragazzino di tredici anni con il padre, alla sua richiesta di definire quale fosse il problema del figlio, riportava queste parole del padre: «Lui si sente al centro del mondo».

19 Un ritratto esilarante dei paradossi che circondano la Scuola-Narciso, non senza un certo pathos telemachiano, si trova in E. Ferretti, Per chi suona la campanella, Fazi, Roma 2011.

20 Alcuni esempi significativi di questa possibile trasformazione si trovano in N. De Smet, In classe come al fronte. Un nuovo sentiero nell’impossibile dell’insegnare, Quodlibet, Macerata 2008.

21 Ricordo che i tre complessi (Edipo, Narciso e Telemaco) non vanno letti solo in senso diacronico ma anche in senso sincronico.


Il nuovo volto della Scuola.

Il nostro tempo segnala una crisi diffusa del discorso educativo. La Scuola non è piú il luogo da dove si irradiano il controllo e l’estorsione manipolatoria del consenso, non è piú la punta sottile di un sistema disciplinare che agisce come una microfisica del potere in grado di fabbricare vite ordinate secondo un rigido ideale normativo. Dopo la grande contestazione del ’68 la Scuola non agisce sorvegliando e gerarchizzando dall’alto un ordine che struttura una recinzione monastica e repressiva degli spazi comuni. La sua azione pedagogica non si esprime attraverso la violenza sadica del giudizio e della discriminazione sociale bruta. La sua esistenza non può piú essere inscritta di diritto nella serie delle istituzioni totali (il carcere, l’esercito, l’ospedale).

La Scuola non è piú un apparato ideologico dello Stato con la missione di realizzare un intruppamento ideologico del consenso. Il suo prestigio simbolico si è indebolito, afflosciato, la sua massa è divenuta molle. I suoi edifici si sgretolano, i suoi insegnanti vengono umiliati socialmente ed economicamente. Il suo dispositivo non è piú disciplinare, ma, casomai, «indisciplinare»1, capace solo di autorizzare un rigetto crescente delle norme, che può raggiungere i vertici paradossali della sospensione didattica degli allievi con «obbligo di frequenza» (sic!)

Il tempo della Scuola non è piú quello che la eleggeva come agente ideologico fondamentale nella trasmissione di una cultura di regime, ma quello di un’istituzione smarrita che si vede per un verso soppiantata nella sua funzione sociale, per l’altro sempre piú investita di compiti che trascendono tale funzione. Il problema della Scuola oggi non è la sua faccia feroce che la assimila a un carcere, ma il fatto che non appare piú decisiva nella formazione degli individui2. Lo ricorda molto puntualmente Giovanni Bottiroli:

Lungi dall’essere un apparato di Stato con una funzione di conformità, la scuola è diventata oggi il luogo in cui immense potenzialità di trasformazione vengono dissipate. Le cause sono molteplici, naturalmente; ad esempio, la mediocrità di molti insegnanti, mummificati dalla routine e impigriti dal garantismo, non va assolutamente trascurata […]. La svolta è avvenuta nel 1968 e negli anni immediatamente successivi: il passaggio alla scuola di massa (non vorrei essere frainteso) ha rappresentato un grande evento democratico, ma soltanto sul piano delle potenzialità. L’attenuarsi dei meccanismi selettivi e la scomparsa di ogni tipo di sanzione nei confronti di chi ostacolava, con un comportamento non disciplinato, i processi formativi individuali e di gruppo, hanno trasformato l’istituzione-scuola in un contenitore sterile, in un luogo di punizione, e in ogni caso di immensa frustrazione3.

Il problema della Scuola oggi non è la sua inclinazione fascisteggiante, non è lo sguardo panottico del sorvegliante che individua e reprime, punendo le differenze soggettive dall’ideale normativo che si esige di riprodurre, quanto piuttosto la sua drammatica evaporazione, il suo rischio di estinzione. È lo stesso processo che ha investito la figura paterna, di cui ho lungamente parlato altrove4.

Lo sanno bene gli insegnanti che si trovano per un verso screditati, messi al margine della società, umiliati economicamente e professionalmente e, nello stesso tempo, convocati paradossalmente a esercitare sempre piú la funzione di supplenti di un discorso educativo che sembra non aver piú sostegno né nelle famiglie né nelle istituzioni. Il volto ipermoderno della Scuola non assomiglia per nulla a quello di un tribunale morale che deve sentenziare sui destini dei giovani, ma pare piú simile a quello che Pasolini ha definito «il nuovo fascismo della società dei consumi»; è un volto che perde i suoi contorni, impalpabile, assente, abitato non dallo sguardo sempre aperto del Grande Fratello ma dagli occhi vuoti di un soggetto depresso.

La crisi del discorso educativo non è solo crisi del potere disciplinare nel processo della formazione, ma è soprattutto crisi del senso stesso e, piú fondamentale, di quel processo che si vuole definire «educazione» e che Françoise Dolto propone di chiamare piú estesamente «umanizzazione della vita», da cui dipende il nostro poter diventare soggetti.

È un fatto: l’iperedonismo che orienta il discorso del capitalista autorizza a rendere la parola «educazione» un ferro vecchio dell’epoca ideologica, destinato a essere archiviato senza nostalgia. La Scuola rischia di non essere piú il luogo pubblico della formazione degli individui, la quale viene invece filtrata e organizzata in altri luoghi (la televisione, internet), al di fuori dal campo della cultura, lasciata in balia delle illusioni di cui si nutre il discorso del capitalista.

Il problema della Scuola nel nostro tempo è che del suo compito educativo resta solo una carcassa svuotata di ogni linfa vitale, poiché la fabbricazione della vita avviene nel regime piú esteso di un totalitarismo che si esprime attraverso il potere ipnotico-seduttivo dell’oggetto di godimento offerto illimitatamente dal mercato, a portata immediata di corpo. È una mutazione antropologica profonda prodotta dal «nuovo fascismo»:

Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi [...] ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali. Non si tratta piú, come all’epoca mussoliniana, di una irreggimentazione superficiale, scenografica, ma di una irreggimentazione reale che ha rubato e cambiato loro l’anima. Il che significa, in definitiva, che questa «civiltà dei consumi» è una civiltà dittatoriale. Insomma se la parola fascismo significa prepotenza del potere, la «società dei consumi» ha bene realizzato il fascismo5.

La «scuola delle tre i» (impresa, informatica, inglese), sbandierata qualche anno fa come un’innovazione al passo coi tempi da un ministro della Repubblica, non agisce in nome di una pedagogia fascista che pretende di dare una forma morale e ideologica alla vita, ma in nome di una pedagogia neoliberale che riduce la Scuola a un’azienda che mira a produrre competenze efficienti adeguate al proprio sistema. Si sacrifica volentieri ogni riferimento alla pratica educativa per enfatizzare un principio di prestazione (o una «filosofia» delle competenze6), elevato alla dignità dell’Ideale dell’Io. La Scuola neoliberale esalta l’acquisizione delle competenze e il primato del fare, e sopprime, o relega in un angolo stretto, ogni forma di sapere non legato con evidenza al dominio pragmatico di una produttività concepita in termini solo economicistici (per esempio, la filosofia o la storia dell’arte alle superiori). Garantire l’efficienza della performance cognitiva è divenuta un’esigenza prioritaria che risucchia le nicchie necessarie del tempo morto, della pausa, della deviazione, dello sbandamento, del fallimento, della crisi, che invece, come sanno bene non solo gli psicoanalisti, costituiscono il cuore di ogni autentico processo di formazione.

Viti storte o computer.

L’importanza di questa trasformazione non deve sfuggire: non è piú la Scuola a essere fascista e autoritaria, strumento asservito a un potere che sorveglia sulla riproduzione di se stesso, ma è il discorso sociale che assomiglia sempre piú a un totalitarismo soft, narcotizzante o eccitante, che riduce il pensiero critico sfruttando la funzione ipnotica esercitata dagli oggetti di godimento che hanno invaso le vite dei nostri giovani. Allo stesso modo l’angoscia non abita piú gli studenti tremanti di fronte al capriccio sadico degli insegnanti, ma il corpo stesso degli insegnanti che, di fronte allo svuotamento di senso che ha travolto la Scuola, si trova a rispondere a compiti sempre piú impossibili (educare, curare, governare). Non è casuale che di fronte all’inattività e alla liquefazione dell’Altro simbolico – dell’istituzione della Scuola –, l’iperattivismo si manifesti come una patologia scolastica diffusa, ma piú in generale come una delle patologie paradigmatiche del discorso del capitalista: l’evaporazione dell’Altro istituzionale promuove l’iperattività eccitatoria e mortifera di un individuo che non conosce piú argini simbolici7.

Il fascismo emigra dalla Scuola alla società, l’angoscia dagli studenti si trasferisce sugli insegnanti, con la conseguenza principale che il modello dell’apprendimento non è piú quello rigidamente disciplinare che assimilava il potere al sapere nel nome di un Ideale garantito dall’automaton del grande Altro della tradizione. Quel modello morale della formazione, il cui paradigma possiamo ricavare dalla celebre metafora botanica secondo cui gli allievi sarebbero viti storte che necessitano di pali dritti e di fili di ferro robusti per essere raddrizzate e divenire conformi a un ideale di giusta normalità, è esaurito, morto, evaporato.

Prevale oggi un modello ipercognitivista che vorrebbe emanciparsi completamente da ogni preoccupazione valoriale, per rafforzare le competenze a risolvere i problemi piuttosto che a saperseli porre. La metafora piú adeguata non è piú botanica ma informatica. In gioco non sono piú le viti storte da raddrizzare ma le informazioni da immagazzinare: le teste funzionano come computer, come mappe cognitive che esigono un puntuale aggiornamento. Il sapere si estende orizzontalmente e perde ogni verticalità. Si tratta semplicemente di caricare piú files possibili secondo il principio utilitaristico del massimo beneficio ottenuto con il minimo sforzo. Mentre la metafora botanica connotava un modello educativo fondato sull’autorità simbolica del grande Altro della tradizione, che esigeva innanzitutto un’obbedienza di ordine morale-valoriale, quella informatica sembra invece voler liberare con risolutezza il sapere da ogni laccio assiologico. Ma quello che inesorabilmente in questo modello viene meno è il rapporto del sapere con la vita.

Il principio di prestazione rende l’apprendimento una gara, una «corsa a ostacoli»8 che non può dedicare tempo sufficiente alla riflessione critica, alla necessità di imparare la possibilità stessa di imparare9. È quello che l’ideologia delle competenze sembra escludere facendo prevalere una concezione meramente scientista e utilitaristica del sapere.

Lacan parla dello scientismo come di un’ideologia costituita sulla «forclusione» del soggetto, dove un «linguaggio senza parole» si impone anonimamente, recidendo ogni possibilità di fare esistere l’evento della parola del soggetto, quale manifestazione della sua stortura particolare. La «forclusione» è la radice che accomuna la psicosi e lo scientismo: qualcosa viene tagliato fuori, non entra nel discorso, perde ogni diritto di cittadinanza10. Si tratta dell’inconscio come soggetto della parola e del desiderio, come indice di una singolarità irriducibile, di una stortura che resiste a ogni procedura ortopedica di raddrizzamento. Nello scientismo, di cui l’ideologia delle competenze è un’espressione attualissima, il sapere anonimo e robotizzato dell’Altro domina senza limiti e riduce il soggetto a un contenitore passivo, da riempire di contenuti. Nella psicosi come nello scientismo non c’è posto per la singolarità. La stortura della vite non solo deve essere raddrizzata, ma lucidata a nuovo e restituita alla sua efficienza. Prendere la parola come gesto singolare con il quale l’allievo si autorizza a manifestarsi in quanto singolarità nel processo dell’apprendimento, viene sostituito dalla verifica dell’assimilazione passiva delle informazioni. In questo modo il soggetto della parola viene cancellato o, come afferma Lacan, ridotto a essere solo parlato persecutoriamente dal linguaggio dell’Altro.

Un mestiere impossibile.

Possiamo oggi misurare la crisi del discorso educativo e il suo rischio di estinzione. La Legge pazza e perversa del «perché no?» sembra rendere vani gli sforzi degli educatori. Questa Legge alimenta un culto del godimento del tutto sganciato dal desiderio che si rivela fatalmente distruttivo: «Perché no?» «Perché non godere sino alla morte, sino alla dissipazione della vita?» «Perché non godere al di là di ogni Legge?»

Per contrastare il dominio di questa versione perversa della Legge, si deve riuscire a tenere viva un’altra domanda: se l’esperienza del limite è divenuta priva di senso, come reintrodurre in ogni processo di formazione la funzione traumatica ma beneficamente positiva di quell’esperienza?

Nel tempo del massimo rischio di estinzione del discorso educativo, nel tempo dove la vita è ipnotizzata dalla sirena di un godimento autistico, non possiamo non sforzarci ancora di mettere in rilievo l’importanza irrinunciabile di questo discorso. Proprio quando il deserto cresce, come dice Nietzsche ripreso da Heidegger, proprio nell’epoca della desertificazione assoluta del discorso educativo, l’assenza di questo discorso brilla come non mai rivelando la necessità di preservare la sua esistenza tra noi. Il nostro tempo sembra essere figlio di una collusione terribile, anche se involontaria, tra la spinta rivoluzionaria-libertaria sorta dalle istanze critiche piú che legittime del ’68 e quella del neoliberismo forsennato, del capitalismo finanziario protagonista dell’attuale crisi. Entrambe queste linee di tendenza, come se fossero un’atroce parodia delle «macchine desideranti» teorizzate nell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, sostengono l’idea, ferocemente antieducativa, che tutto è possibile, che la vita è una potenza autoaffermativa che non necessita di nessuna Legge se non quella della propria stessa potenza. Contro questa deriva un’istituzione come la Scuola deve provare a tener ferma la centralità del discorso educativo, deve resistere alla sirena perversa del: «Perché no?»

Ma per farlo occorre innanzitutto riattribuire la giusta dignità alla figura dell’impossibile. Non a caso, com’è noto, Freud definisce lo psicoanalizzare, il governare e l’educare come tre professioni egualmente impossibili, ovvero tre mestieri in stretto rapporto col reale (ricordiamo che per Lacan il reale non è la realtà, ma è per definizione l’impossibile)11.

Cosa significa? L’impossibile è un nome dell’incontro traumatico con il limite che l’esperienza del linguaggio rende possibile. L’esistenza del linguaggio separa l’essere umano da un godimento senza bordi e senza perdita, imponendo a coloro che abitano il suo orizzonte il lutto della Cosa del godimento, il lutto del godimento mortale e incestuoso. Di qui, dall’incontro traumatico con l’esperienza dell’esilio dalla Cosa provocata dal linguaggio, scaturisce la possibilità per la vita umana di trovare nuove forme di soddisfazione sganciate dall’ombra del godimento incestuoso. È la funzione che la psicoanalisi attribuisce classicamente al cosiddetto «complesso di Edipo»: gli oggetti familiari sono colpiti dall’interdetto della Legge affinché la vita del soggetto vada verso altri mondi e altri investimenti libidici. Diversamente da quello che pensano Deleuze e Guattari, l’Edipo freudiano non attiva una procedura fascista e paranoica di recinzione repressiva del desiderio, ma la libera concatenandola in legami sociali piú vasti. Di fronte all’interdetto simbolico della Legge che confronta la vita umana con il muro dell’impossibile, la pulsione non può piú cortocircuitare con gli oggetti familiari, ma è obbligata a navigare all’esterno della famiglia per trovare forme di soddisfazione non incestuose e aperte allo scambio sociale. In questo senso ampio, l’educazione non va mai confusa con la repressione o con l’imbrigliamento disciplinare della pulsione, ma agisce piuttosto come una nuova canalizzazione della forza pulsionale che non si accontenta piú del circuito già conosciuto del familiare, ma che esige altre e inedite aperture.

La Scuola e i suoi complessi.

Com’è stata possibile questa crisi profonda che ha investito il mondo della Scuola? Per rispondere, possiamo chiamare in causa il concetto di «complesso».

Il «complesso», in psicoanalisi, è un organizzatore inconscio che orienta e dirige la vita dei soggetti (vedi il «complesso edipico»), ma anche quella dei gruppi e delle istituzioni. Per quanto riguarda la Scuola possiamo isolare tre complessi che fanno riferimento a tre grandi figure della mitologia: il complesso di Edipo, il complesso di Narciso e il complesso di Telemaco12.

Questi tre complessi si possono leggere sia diacronicamente che sincronicamente. Diacronicamente: c’è stata una Scuola in cui dominava il complesso di Edipo che si è dissolta sotto i colpi delle grandi contestazioni del ’68 e del ’77. In seguito, si è affermato il complesso di Narciso che ha caratterizzato la Scuola sino ai giorni nostri. Infine, si può pensare a un’altra Scuola – che ci auguriamo sia quella dell’avvenire – in cui a orientare l’istituzione sarà il complesso di Telemaco. Sincronicamente: nella vita della Scuola sono sempre, simultaneamente, presenti tutti e tre questi organizzatori.

La Scuola-Edipo.

Quale Scuola scaturisce dalla figura di Edipo? È una Scuola che si fonda sulla potenza della tradizione, sull’autorità del Padre, sulla fedeltà al passato. Edipo vive nel rispetto colpevole della Legge e nella sua trasgressione. In questi termini il nevrotico vive il rapporto col padre: l’idealizzazione rimuove la spinta aggressiva e parricida. Nella Scuola-Edipo il sapere che viene trasmesso esprime una fedeltà cieca nei confronti dell’autorità del passato: l’idealizzazione assume la forma della conservazione che ripete lo Stesso.

C’è stato un tempo in cui andare a scuola e pregare erano la stessa cosa. Al punto che ogni lezione iniziava con la preghiera, prima dell’appello. L’autorità dell’insegnante era garantita dalla potenza della tradizione alla quale si appoggiava: il modello pedagogico prevalente era quello correttivo-repressivo. Il rapporto tra insegnante e allievo, fortemente gerarchizzato. È la Scuola tradizionale che si caratterizza per un setting «predefinito e istituzionalizzato, cosí potente da confondersi e identificarsi con un apparato istituzionale di tipo disciplinare»13.

Nella Scuola-Edipo l’insegnante si trova nel posto dell’autorità, è un sostituto del Padre, di una Legge fuori discussione. L’allievo, in quanto figlio, dev’essere appunto istruito e educato come fosse una cera da plasmare. Freud stesso parla di uno sfondo edipico nel rapporto tra insegnanti e allievi: nell’insegnante si trasferisce la stessa forma di soggezione idealizzante che caratterizza il rapporto del bambino coi genitori.

La Scuola-Edipo si fonda sull’alleanza tra genitori e insegnanti, ratificata innanzitutto dal fantasma dei figli-allievi che proiettano nella figura dell’insegnante i caratteri ideali e autoritari della figura genitoriale14. Anche la concezione dell’istituzione risponde a criteri verticali e fortemente strutturati: è un’istituzione solida, piramidale, panottica15. La formazione è concepita come un raddrizzamento morale e autoritario delle storture individuali e il pensiero critico è visto come un’insubordinazione illegittima all’uniformità identitaria.

È la fotografia della Scuola come istituzione disciplinare che possiamo ricavare da The Wall dei Pink Floyd: gli studenti sono carne trita, prodotta dai congegni repressivi di un’istituzione dall’anima fascista. L’apprendimento risponde cosí al criterio autoritario e conformistico dell’obbedienza. Il sapere trasmesso è un sapere senza soggettività, privato di singolarità, centrato sull’auctoritas della tradizione.

Nondimeno, nella misura in cui esiste un forte patto generazionale tra insegnanti e genitori, si innesca inevitabilmente una dimensione conflittuale tra le generazioni. Se per un verso la Scuola-Edipo genera obbedienza senza critica, uniformità senza differenza, per l’altro verso innesca fatalmente moti di conflittualità, contestazioni, attriti tra insegnanti e allievi. Edipo, infatti, nel mito, è anche la figura tragica del conflitto tra vecchia e nuova generazione: il padre non è solo temuto e rispettato, ma contrastato mortalmente. All’adorazione idealizzante corrisponde anche un voto di morte inconscio. Edipo è l’eroe tragico del conflitto a morte col padre poiché il padre, in quanto simbolo della Legge, è vissuto solo come un ostacolo alla realizzazione del desiderio.

Le contestazioni del ’68 e del ’77 rispondono a tutti questi criteri chiaramente edipici: i figli contro i genitori, gli allievi contro gli insegnanti, il desiderio contro la Legge. Nella Scuola-Edipo, infatti, il conflitto si struttura verticalmente. Le generazioni trovano la loro iscrizione seguendo uno schema oppositivo che esclude la mediazione simbolica. In primo piano è la differenza generazionale come generatrice di conflittualità. L’ordine costituito del potere produce la tendenza alla sua sovversione in modo tale che l’opposizione tra vecchie e nuove generazioni finisce per ricalcare quella tra desiderio e principio di realtà.

Nel nome della libertà di insegnamento e della libertà di apprendimento, gli insegnanti e gli allievi, schiacciati dal peso oppressivo di una Scuola disciplinare, rivendicano, attraverso la contestazione, il loro diritto a cambiare, a trasformare, a generare del nuovo. Il conflitto può essere, infatti, generativo e non solo distruttivo. Non a caso, del conflitto si nutre ogni processo di formazione.

Dal punto di vista storico, nessuna stagione fu cosí feconda di idee di rinnovamento e di pratiche pedagogiche e didattiche come quella del ’68 e, in seguito, del ’77. Un vero e proprio fervore sperimentale fece irruzione nella Scuola ingessata sull’identificazione all’autorità della tradizione. Fu uno sconvolgimento di cui bisogna vedere luci e ombre, ma è innegabile che un’intensità e una vitalità inedite attraversarono l’istituzione Scuola come un vento di primavera:

Don Milani, il femminismo, le comuni infantili, le scuole alternative, il tempo pieno, i centri sociali, l’animazione teatrale, la psicoanalisi antiautoritaria, la rivoluzione sessuale, la corporeità e la psicomotricità, il lavoro di gruppo e la ricerca di ambiente, la militanza politica, la pedagogia istituzionale e l’inserimento degli handicappati, l’esotismo e il misticismo, le iniziative extrascolastiche, il movimento studentesco e le aggregazioni giovanili, la denuncia della selezione scolastica e dei metodi tradizionali di valutazione, la critica della famiglia borghese e delle istituzioni totali. Un grande immaginario pedagogico ma anche un reticolo di pratiche, di attitudini e di esperienze educative accomunate dalla speranza in un riscatto sociale e individuale, oltre che dal rifiuto dei modelli tradizionali. La riappropriazione a tutto campo del sapere pedagogico piú suggestivo e piú vitale16.

Gli studenti e gli insegnanti che hanno animato le contestazioni del ’68 e del ’77 esigevano una Scuola che non agisse solo come un’istituzione disciplinare, che non fiaccasse la vita distribuendo un sapere morto. Tuttavia, l’errore consistette nel finire per sostenere una versione solo puberale della libertà. La ricchezza vitale del desiderio fu agita come un pugno contro la tirannia di una Legge interpretata solo nevroticamente come ostacolo al cammino del desiderio stesso, senza rendersi conto che Legge e desiderio sono necessariamente presi in un’articolazione simbolica: senza il desiderio la Legge si insterilisce e diviene una mummia in difesa di un sapere morto, ma senza la Legge il desiderio si frammenta e diventa puro caos.

Nel ’77 non contestavamo solo gli insegnanti che ritenevano ci fosse una sola risposta al mistero delle cose, ma rigettavamo, piú radicalmente, la dimensione obbligatoria della Scuola, i suoi programmi didattici, la sua finalità che ci appariva solo ideologicamente educativa, la sua gerarchia burocratizzata, i suoi metodi di valutazione irrigiditi, il suo essere un dispositivo del potere finalizzato a riprodurre l’adattamento conformistico e passivo alla realtà.

Quello che ci sfuggiva era la funzione fondamentale che la Scuola è chiamata a esercitare nella formazione del soggetto e nel processo piú generale di «umanizzazione della vita». Ai nostri occhi di giovani che volevano cambiare il mondo, la Scuola era solo il luogo di una Legge ottusamente autoritaria. Il nostro presupposto libertario contrapponeva rigidamente e, dunque, in modo manicheo e fatalmente nevrotico il desiderio alla Legge. La vita del primo implicava la morte della seconda e viceversa.

La Scuola-Narciso.

A definire la Scuola nell’epoca dell’evaporazione del padre e dell’affermazione del discorso del capitalista, dopo le contestazioni del ’68 e del ’77, è il figlio-Narciso, una figura la cui tragedia è immensamente diversa rispetto a quella di Edipo. Se la tragedia di Edipo è la tragedia del conflitto con la Legge, del conflitto con il Padre, del conflitto dei figli con i padri, del conflitto tra le generazioni, quella di Narciso è la tragedia tutta egoica del perdersi nella propria immagine, del mondo ridotto a immagine del proprio Io. Il problema non è piú quello della liberazione collettiva del desiderio, ma quello dell’affermazione cinica di se stessi. Narciso è infatti una figura della sconnessione, dell’assenza di relazione tra l’Uno e l’Altro, della rottura del legame. Al centro non abbiamo piú la spigolosità del conflitto, ma la confusione speculare.

Questo passaggio dalla conflittualità alla specularità, dalla dissimmetria alla simmetria generazionale, coincide con il passaggio dalla connotazione solidamente gerarchica che caratterizza la Scuola-Edipo all’orizzontalità liquida della Scuola-Narciso, dove è sempre piú difficile reperire la differenziazione simbolica dei ruoli. Sullo sfondo, lo sfaldamento del patto generazionale tra insegnanti e genitori. Questo patto si è rotto a causa della collusione tra il narcisismo dei figli e quello dei genitori. I genitori si alleano con i figli e lasciano gli insegnanti nella piú totale solitudine, a rappresentare quel che resta della differenza generazionale e del compito educativo, a supplire alla funzione latitante del genitore, cioè a fare il genitore degli allievi.

La nuova alleanza tra genitori e figli disattiva ogni funzione educativa da parte dei genitori che si sentono piú impegnati ad abbattere gli ostacoli che mettono alla prova i loro figli per garantire loro un successo nella vita senza traumi, che non a incarnare il senso simbolico della Legge. La figura di Narciso è infatti la figura che esige l’abolizione dell’ostacolo, del limite, persino della storia. La formazione si riduce al solo potenziamento del principio di prestazione che deve poter preparare i nostri figli alla gara implacabile della vita. Il fallimento non è tollerato, come non è tollerato il pensiero critico. L’assimilazione al sistema non avviene piú a forza di colpi autoritari ma nello spegnimento del desiderio e della sua vocazione sovversiva17. La Scuola-Narciso vive infatti all’ombra del principio di omologazione e di una concezione efficientistica della didattica, assimilata non piú al carcere o all’ospedale ma all’azienda. La paranoia implicita nella Scuola-Edipo lascia il posto alla perversione che si annida nella Scuola-Narciso. Se la prima si polarizza sulla differenza generazionale e sulle sue dinamiche conflittuali, la seconda ha come suo primo tratto lo sfaldamento della marcatura simbolica della differenza generazionale e, di conseguenza, l’assenza di conflitto tra le generazioni e la prevalenza di un Ideale di prestazione che le accomuna indifferentemente.

Di qui la solitudine profonda del corpo insegnante. Se il passaggio dalla Scuola-Edipo alla Scuola-Narciso si caratterizza per la rottura di quella saldatura fantasmatica che collega il corpo familiare al corpo docente (per Freud l’insegnante è il prolungamento fantasmatico del genitore), nella Scuola-Narciso prevale la specularità: è la ragione per cui, come abbiamo detto, il rapporto tra le generazioni si è rotto dando luogo all’attuale confusione immaginaria tra genitori e figli che finisce per isolare il corpo docente, vissuto come corpo estraneo, come corpo nemico soprattutto quando genera frustrazione nei figli-Narcisi18. I figli si confondono coi padri. La dissimmetria viene meno e tutto si simmetrizza. Gli insegnanti sono tatuati come i loro allievi, alcuni si danno del tu o diventano loro amici su facebook, nessuno porta piú la cravatta, le ore di lezione sono dedicate a rincorrere un silenzio e un’attenzione che sembrano impossibili da raggiungere, gli esami all’università non possono superare un certo numero di pagine, i voti considerati ingiusti dai figli mobilitano le proteste accorate dei genitori, i provvedimenti disciplinari sembra facciano parte di un passato archeologico, la parola smarrisce ogni peso simbolico e viene sopraffatta da una cultura delle immagini, che tende a favorire un’acquisizione passiva e senza sforzo.

La tendenza al ritiro dai legami sociali rafforza un rapporto simbiotico con l’oggetto tecnologico e con la connessione perpetua alla rete. Se la Scuola-Edipo si regge sull’ossequioso rispetto verso le auctoritates e sulla loro contestazione critica, la Scuola-Narciso tende a polverizzare il libro in favore di un’enfatizzazione della tecnologia informatica, seguendo l’illusione di un sapere illimitato e disponibile senza fatica. Il dilagare post-umano delle nuove tecnologie e l’enfasi libertaria che sovente l’accompagna rischia di rendere i computer strumenti che amplificano le possibilità della conoscenza nella tentazione di fare a meno della parola, del passaggio obbligato attraverso la lingua e la sublimazione. Il rischio è quello di rendere lo schermo del proprio pc o iPad uno specchio vuoto che, anziché aprire mondi, li richiude in un’autoreferenzialità mortifera.

Anche in questo senso nella Scuola-Narciso i nostri figli sono intrappolati in una specularità che annulla la differenza. Il vuoto, la mancanza di sapere, non sono custoditi come dovrebbero: i nuovi figli vengono a sapere tutto dei loro genitori. Non c’è velo, disimmetria, impermeabilità, perché viene elusa la dimensione simbolica della differenza generazionale. Questa caduta del simbolico che garantisce la differenza tra le generazioni non indica il rifiuto edipico dei padri da parte dei figli, ma la difficoltà dei padri a essere padri; non indica l’antagonismo edipico dei figli nei confronti dei genitori, ma la difficoltà a essere genitori da parte degli adulti. Tutto allora pare essere risucchiato in un falso egualitarismo. Gli spigoli anche traumatici della differenza generazionale vengono smussati nel nome di un diritto di eguaglianza che in realtà abolisce la responsabilità degli adulti a sostenere il loro ruolo nel processo formativo dei figli.

La stessa logica investe la Scuola. Gli insegnanti faticano a incarnare la dissimmetria simbolica che implica la loro posizione. Tendono piuttosto a confondersi con i loro allievi. Il fenomeno piú rilevante e preoccupante è che in questo contesto la parola perde peso e viene ridotta a un suono privo di senso. La crisi della Scuola coincide in tal senso con una crisi piú profonda della parola. È un altro tratto paradossale del nostro tempo: la parola circola ovunque rivelando il suo carattere inflazionato. Drammi privatissimi trovano posto nel circo dei talk show, una cattiva retorica pedagogica sostiene la necessità infinita del dialogo: si può dire e parlare di tutto senza alcun limite. Ma in questo carrozzone impazzito di una parola che circola tanto piú velocemente quanto piú appare svuotata di senso, viene meno una delle condizioni decisive nella formazione dell’individuo. Viene meno la parola. Quale? Quella che stabilisce una relazione stretta tra il dire e le sue conseguenze. Le parole che diventano «solo parole» sono le parole che hanno perduto il nesso etico che le vincola alle loro conseguenze. È questo l’effetto principale del loro svuotamento narcisistico. La parola dovrebbe comportare sempre l’assunzione soggettiva delle sue conseguenze o, quantomeno, lo sforzo della loro assunzione. La parola non è mai solo una parola, perché trasforma, plasma, genera la vita. In questo senso la Scuola-Narciso ha perduto il nesso che lega la parola alla vita. La recisione di questo legame dà luogo a una versione della trasmissione del sapere che esclude la critica ed esige l’assimilazione e la performance. La Scuola-azienda reagisce ribaltando i presupposti della Scuola-ideologica. Il modello educativo sottostante è ipercognitivista: non è piú quello morale del primato dell’educazione come raddrizzamento ortopedico delle viti storte, ma quello del riempimento delle teste, della computerizzazione delle conoscenze e del loro ordinamento produttivo. La Scuola ipercognitivista-narcisista reagisce alla Scuola ideologico-edipica. La sua nuova divisione non è piú quella tra l’ideale conservatore dell’obbedienza e quello rivoluzionario del cambiamento e del rovesciamento dell’esistente, ma quello tra culto individualistico del principio di prestazione e assenza di un senso autentico del valore simbolico dell’istituzione, da cui derivano l’indisciplina, la svogliatezza, la difficoltà a rendere continuativo il proprio impegno, il rispetto per gli insegnanti, ecc. In questa nuova divisione della Scuola il problema non è piú lo scontro tra due visioni del sapere – l’una conservativa, l’altra critico-sperimentale, l’una legata al principio di conservazione della realtà, l’altra al sogno e al desiderio – quanto piuttosto la generale riduzione dell’apprendimento al plagio.

Questo è un punto centrale della Scuola-Narciso che riflette la sua profonda costituzione speculare. Se dovessimo ridurre la valutazione per come viene praticata oggi nella Scuola a un solo termine, non dovremmo forse ridurla al termine «plagio»? Chi premiamo quando valutiamo? Chi gratifichiamo? Quali prestazioni incoraggiamo? La Scuola-Narciso non ha dubbi in proposito: premia chi ripete lo Stesso, chi riduce l’apprendimento alla riproduzione dello Stesso. Nessuna eterogeneità, nessuna divergenza. Se in una verifica orale o scritta – quando non si riduca a una serie di caselline vuote da barrare – l’insegnante ritrova le proprie parole o quelle dei testi studiati; se, in altri termini, l’allievo sa ripetere il piú esattamente possibile il sapere che gli è stato impartito, allora la valutazione sarà massima.

Di fronte all’esaltazione dell’Io e della sua autonomia, si tende paradossalmente a non valorizzare la soggettivazione singolare del sapere ma a schiacciarla passivamente sulla clonazione del medesimo. Tutti i percorsi formativi devono essere semplificati riducendo al minimo gli ostacoli. Come nel caso delle interrogazioni programmate nei licei, dove spesso si concede pure allo studente il diritto di rinviarle19.

Appiattendo la valutazione sul plagio, la Scuola smette di interrogare il senso della vita, rischia di non proporre piú il sapere come allargamento dell’orizzonte del mondo, essendo il suo compito divenuto ormai quello aziendalistico di fornire solo strumenti utili. Al godimento della sublimazione che erotizza il sapere, sul quale anche se in modo contraddittorio la Scuola-Edipo si sostiene, si sostituisce un movimento tendenzialmente antisublimatorio che rigetta la via lunga dell’apprendimento e della ricerca. I programmi di studio si riducono, gli esami universitari sono tenuti a fornire bibliografie che non superino un certo numero di pagine, i genitori protestano di fronte a carichi eccessivi di compiti, i provvedimenti disciplinari sono visti come abusi autoritari. Il problema della quantificazione del sapere, della semplificazione dei programmi, della disaffezione alla pratica di lettura dei testi è un fenomeno di tutta evidenza a qualunque livello delle nostre Scuole.

Questo problema è complicato da un uso massiccio della tecnologia che favorisce la «via breve» dell’antisublimazione. Se una maestra propone ai bambini delle elementari una ricerca sui fiumi della Lombardia – ricerca che un tempo avrebbe richiesto uno sforzo di consultazione che avrebbe impegnato un intero pomeriggio –, oggi è sufficiente cliccare su google per avere immediatamente la risposta che si cerca. La dimensione dell’esperienza è totalmente evasa da un sapere pret-à-porter, sempre a disposizione, che, di fatto, genera anoressie mentali, rigetto della ricerca del sapere nel nome di una sua acquisizione senza sforzo. Tanto il soggetto sembra staccarsi dalla pratica lenta della lettura, tanto appare perennemente connesso al grande Altro della rete che promette un sapere sempre immediatamente disponibile.

Anche per questo gli insegnanti nella Scuola-Narciso non appaiono piú come i depositari dell’autorità simbolica della tradizione, ma sono sospinti verso la contraddizione insostenibile di subire, per un verso, una proletarizzazione economica e sociale drammatica (i tagli alle risorse hanno accomunato tutte le politiche scolastiche del nostro Paese negli ultimi trent’anni) e, per un altro verso, di essere investiti di un ruolo educativo sempre piú ampio di fronte a famiglie sempre piú in crisi nell’esercitarne la potestà. All’importanza collettiva della loro opera – il cui valore è inestimabile – non corrisponde alcun riconoscimento né economico né culturale.

Funzione e significato restano drasticamente divaricati: da una parte, il valore inestimabile della loro funzione nel garantire la crescita e lo sviluppo dei nostri figli; dall’altra parte, la spoliazione di un significato pubblicamente riconosciuto alla loro funzione. Il corpo insegnante è, in questo senso, un corpo in frammenti, perché non esiste piú uno specchio sociale in grado di restituirne la giusta immagine. Gli insegnanti non subiscono solo un processo di proletarizzazione economica, ma anche di disintegrazione identitaria. La loro angoscia cresce non tanto, come accadeva nella Scuola-Edipo, in rapporto alla contestazione del sapere che rappresentano, ma in rapporto a uno smarrimento fondamentale dell’identità.

La Scuola-Telemaco.

Il terzo grande complesso della Scuola è quello di Telemaco. Recentemente ho insistito nel contrapporre le figure di Edipo e di Telemaco, il figlio di Ulisse, per provare a decifrare il nuovo disagio della giovinezza e delle nostre istituzioni. La crisi che attraversa attualmente il rapporto tra le generazioni non risponde piú alla logica conflittuale e ambivalente tipica del complesso edipico per la semplice ragione che sono venuti meno gli adulti come rappresentanti della Legge simbolica della castrazione. Di conseguenza non è piú il conflitto che attraversa la differenza tra le generazioni ma un’inedita confusione generazionale che surroga ogni possibile conflitto e confonde figli e genitori in una sola melassa indistinta. Per queste ragioni ho teorizzato che le nuove generazioni siano abitate da una domanda inedita di padre, come accade proprio a Telemaco.

Il disagio dei nostri figli non è piú centrato sull’antagonismo tra le generazioni, ma sulla perdita della differenza e, dunque, sull’assenza di adulti in grado di esercitare funzioni educative e di costituire quell’alterità che rende possibile l’urto alla base di ogni processo di formazione. Il malessere attuale della giovinezza non risiede nell’opposizione tra sogno e realtà ma nell’assenza di sogno. Il disagio dei corpi dei giovani – il corpo iperattivo, il corpo sbandato, il corpo annoiato, il corpo anoressico o obeso, il corpo depresso, il corpo intossicato, il corpo distratto – ha preso il posto della parola critica che li animava nella Scuola-Edipo. Mentre allora era l’ideologia rivoluzionaria a esprimere le esigenze di una corporeità che giustamente rifiutava la normalizzazione repressiva, adesso in primo piano è il silenzio mortifero del sintomo. La protesta, la rivolta, la critica passano attraverso il disagio e la sofferenza muta dei corpi.

Per questa ragione occorre che gli insegnanti – senza bisogno di trasformarsi in psicoterapeuti – provino a tradurre l’iperattività o il deficit di apprendimento, la noia o la frivolezza senza responsabilità, come se fossero interrogazioni inconsce rivolte al sapere, rivolte all’Altro incarnato dall’insegnante. Nella pratica didattica di ogni giorno, si tratta di provare a trasformare l’impasse in un punto di rilancio e di rinnovamento20. È solo in questo modo che la Scuola-Telemaco è sempre apparsa nelle faglie della Scuola-Edipo e della Scuola-Narciso21. Il figlio-Telemaco non vuole la pelle del padre, né si limita a contemplare la propria immagine, ma esige che ci si liberi dalle pulsioni incestuose incarnate dai Proci (che hanno devastato la sua casa e quella dei suoi genitori) in vista di un nuovo patto tra le generazioni.

La Scuola-Telemaco vuole restituire valore alla differenza generazionale e alla funzione dell’insegnante come figura centrale nel processo di «umanizzazione della vita». Ma, diversamente dalla Scuola-Edipo, rifiuta di interpretare questa differenza in termini solo sterilmente antagonistici. Piuttosto la Scuola-Telemaco sostiene che non vi sia trasmissione possibile senza incontro, senza impatto con l’Altro. Diversamente da Edipo, Telemaco riconosce il debito simbolico verso il padre, non lo vuole morto, non lo vive come un nemico nel crocevia del suo desiderio. Mentre per Edipo la Legge è vista solo come antagonista irriducibile e mortale del desiderio, mentre Edipo non sa vedere il nesso che unisce profondamente la Legge al desiderio, Telemaco attende il ritorno del padre perché sa che solo questo ritorno potrà reintrodurre la Legge nel campo chiuso del godimento incestuoso. E tuttavia il figlio-Telemaco non è solo una figura melanconica dell’attesa. Si confronta con quell’assenza del padre che è il nome piú profondo della sua presenza nel destino di tutti gli umani e di tutte le loro istituzioni. Perché il padre si dà innanzitutto nella forma dell’assenza, nella forma di un impossibile. È per questa ragione che, anziché incancrenirsi in una passione solo nostalgica, Telemaco salta il fossato di quell’assenza, si mette in moto, compie un viaggio sulle orme del padre assente. Compie il viaggio dell’ereditare in cui si realizza ogni ricerca degna di questo nome. Perché ogni ricerca non è mai ex nihilo, ma si rende possibile solo grazie a quelle di coloro che ci hanno preceduti e alla loro memoria.

La Scuola-Telemaco è una Scuola dove in primo piano dovrebbe essere situato il desiderio come ricerca della propria eredità. Mentre la Scuola-Narciso si fonda sulla confusione dei ruoli, sull’immedesimazione reciproca, sull’assenza di Legge, generando l’orgia dei Proci, quella di Telemaco ha il compito di ricostruire la figura dell’insegnante dai piedi. Se l’autorità simbolica della sua parola non può piú essere garantita dall’automaton della tradizione, se non può accettare di essere sostituita dalla specularità senza passione degli oggetti tecnologici, deve essere ricostruita dalla testimonianza della forza della parola che ogni insegnante è tenuto a incarnare.

La Scuola-Telemaco si realizza nell’incontro con una parola che sa testimoniare non soltanto di sapere il sapere, ma anche che il sapere si può amare, si può trasformare in un corpo erotico. Come nel caso di Telemaco sappiamo che non ritornerà il padre eroe, carismatico, vittorioso, il padre-monumento, il padre dell’autorità infallibile, ma solo un resto del padre, solo quel che resta del padre. Nel caso degli insegnanti non si tratta piú di perseguire l’ideale dell’insegnante-padrone che sa dire l’ultima parola sul senso della vita, ma quello dell’insegnante-testimone che sa aprire mondi attraverso la potenza erotica della parola e del sapere che essa sa vivificare.

Piú precisamente, l’insegnante della testimonianza è colui che sa sostenere una promessa. Quale? La promessa della sublimazione: abbandonare il godimento mortale, il godimento chiuso su se stesso, il godimento immediato e la sua allucinazione, per trovare un altro godimento, capace di rendere la vita piú ricca, beata, capace di amare e di desiderare. La promessa che la Scuola-Telemaco sostiene controvento è che l’accesso alla cultura, obbligandoci a rinunciare al godimento incestuoso, apre a una vita piú soddisfatta, in grado di allargare il proprio orizzonte. Piú viva in quanto simbolicamente morta, sottratta al godimento mortale e incestuoso del consumo immediato, capace di riconoscersi appartenere a una storia, a una memoria condivisa, al campo del linguaggio.

1 Sul passaggio dal dispositivo disciplinare al dispositivo indisciplinare, cfr. le acute osservazioni di G. Bottiroli, Non sorvegliati e impuniti, in M. Recalcati (a cura di), Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 118-40.

2 La filiazione della Scuola moderna dal regime carcerario è una tesi sviluppata in M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976.

3 G. Bottiroli, Non sorvegliati e impuniti cit., p. 136.

4 Cfr. M. Recalcati, Cosa resta del padre? Meditazione sulla paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano 2011; Id., Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013; Id., Patria senza padri. Psicopatologia della politica italiana, minimum fax, Roma 2013. Una ripresa originale di queste mie osservazioni sull’evaporazione del padre applicate al mondo della scuola si trova in A. Bajani, La scuola non serve a niente, Laterza, Roma-Bari 2014, pp. 38-44.

5 P. P. Pasolini, Fascista, in Scritti corsari, Garzanti, Milano 1977, p. 286.

6 Su questa «nuova» filosofia e su tutti i suoi limiti cfr. l’importante fascicolo 358 di «aut aut»: B. Bonato (a cura di), La scuola impossibile, Il Saggiatore, Milano 2013 (in particolare, B. Bonato, Senso e non senso della competizione, pp. 3-26, e E. Greblo, La fabbrica delle competenze, pp. 117-31).

7 Cfr. U. Zuccardi Merli, Non riesco a fermarmi. 15 risposte sul bambino iperattivo, Bruno Mondadori, Milano 2012; F. Tognassi e U. Zuccardi Merli (a cura di), Il bambino iperattivo. Dalla teoria alle pratiche della cura, Franco Angeli, Milano 2010.

8 A. Asor Rosa, Che condanna essere stato il primo della classe, in «la Repubblica», 5 giugno 2012.

9 Per Heidegger «insegnare è piú difficile dell’imparare […] perché insegnare significa: far imparare. Chi propriamente insegna non fa imparare null’altro che questo imparare» (M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, SugarCo, Milano 1978, pp. 107-8).

10 Cfr. J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Scritti, Einaudi, Torino 1974, pp. 842-54.

11 Anche il politico ha un rapporto stretto con l’impossibile. Come si costruisce una Comunità umana a partire dall’esilio dal godimento incestuoso? Come si costruisce una Comunità che abbia a suo fondamento non il mito fascista e di certo cattolicesimo della «comunione», del fare Uno, ma l’esperienza della solitudine? Come diventa possibile costruire una Comunità sullo sfondo dell’impossibilità del rapporto sessuale, cioè del fare e dell’essere Uno con l’altro, quindi sulla solitudine evitando però che le solitudini, come direbbe Deleuze, si molecolarizzino e diventino ciascuna anarchica, ciascuna come pura volontà di godimento fine a se stesso? Questa domanda di per sé contiene già un paradosso: affinché vi sia Comunità senza irreggimentazione paranoica e fascista e senza dispersione anarcoide, essa non può che essere praticata a partire dall’esilio e dalla separazione in cui l’esistenza del linguaggio getta la vita umana. Su questi temi, cfr. J. Aléman, Soledad: Común. Políticas en Lacan, Capital Intelectual, Buenos Aires 2012.

12 Ho utilizzato questi tre complessi per leggere recentemente il rapporto tra le generazioni nel mio Il complesso di Telemaco cit. A questo lavoro rinvio per numerose osservazioni fatte in questo capitolo.

13 R. Massa, Cambiare la scuola. Educare o istruire?, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 85.

14 Questo è evidentissimo nella Scuola primaria, ed è una delle ragioni della sua tenuta. L’investitura fantasmatica dell’insegnante come prolungamento della genitorialità salda il patto tra le generazioni.

15 Il ritratto piú pregnante di questa versione della scuola si trova in M. Foucault, Sorvegliare e punire cit., pp. 192-202. Un lucido commento, anche attraverso una riflessione sugli studi di Pierre Bourdieu, si può trovare in E. De Conciliis, Che cosa significa insegnare?, Cronopio, Napoli 2014, pp. 9-89.

16 R. Massa, Cambiare la scuola cit., p. 67.

17 Molti anni fa, quando per pagare la mia analisi personale insegnavo come supplente in un liceo privato, mi accorsi che quello che gli allievi trovavano davvero scandaloso non era tanto l’insegnamento di Freud e della psicoanalisi – la teoria della sessualità o altro – ma quello di Marx. Scandalizzava un pensiero che proponeva di modificare l’assetto sociale esistente nel nome di una versione solidaristica della vita e di una difesa dei lavoratori. Scandalizzava un pensiero critico che non si accontentava dell’adattamento alla realtà del discorso del capitalista come unica forma di realizzazione della vita.

18 Una mia collega, Federica Pelligra, riferendo un colloquio di un ragazzino di tredici anni con il padre, alla sua richiesta di definire quale fosse il problema del figlio, riportava queste parole del padre: «Lui si sente al centro del mondo».

19 Un ritratto esilarante dei paradossi che circondano la Scuola-Narciso, non senza un certo pathos telemachiano, si trova in E. Ferretti, Per chi suona la campanella, Fazi, Roma 2011.

20 Alcuni esempi significativi di questa possibile trasformazione si trovano in N. De Smet, In classe come al fronte. Un nuovo sentiero nell’impossibile dell’insegnare, Quodlibet, Macerata 2008.

21 Ricordo che i tre complessi (Edipo, Narciso e Telemaco) non vanno letti solo in senso diacronico ma anche in senso sincronico.


Capitolo secondo

Il gesto di Socrate

L’illusione scolastica.

Se c’è qualcosa che resta della Scuola nell’epoca della sua evaporazione indisciplinare, è il rapporto del soggetto col sapere che la funzione dell’insegnante deve essere in grado di animare. La partita della Scuola continua nonostante tutto a giocarsi essenzialmente a questo livello. Esiste la possibilità di introdurre il soggetto in un rapporto vitale col sapere? Esiste ancora la possibilità di lavorare attorno agli oggetti del sapere tenendo conto del rapporto che hanno con la vita di chi li deve assimilare? Ancora piú radicalmente: ciò che resta della Scuola non è forse la possibilità, ogni volta nuova, di trasformare gli oggetti del sapere in oggetti del desiderio, in corpi erotici? Non è in questo che consiste, in ultima istanza, la posta in gioco di tutta la partita dell’insegnamento? La Scuola non dovrebbe avere questo come suo proprio compito? Rendere il sapere un oggetto in grado di muovere il desiderio, un oggetto erotizzato capace di funzionare come causa del desiderio, in grado di spostare, attirare verso, mettere in movimento l’allievo. Non è questa la funzione agalmatica che con Lacan dobbiamo riconoscere a un sapere che si rivela erotico, cioè capace di mobilitare il desiderio di sapere?1. Non è forse la competenza che rende possibile tutte le altre? Se non si anima il desiderio di sapere, non c’è alcuna possibilità di apprendere in modo singolare il sapere che viene trasmesso. Come dire che la condizione di ogni trasmissione del sapere si fonda su un transfert preliminare sul sapere come oggetto erotizzato, come agalma del desiderio. Nella storia dell’Occidente possiamo rintracciare l’origine di questa erotizzazione del sapere nel gesto di Socrate nei confronti di Agatone, nella celebre scena di apertura del Simposio di Platone.


Ricordiamola: Agatone ha preparato un banchetto al quale parteciperanno illustri intellettuali e sapienti per discutere delle virtú di Eros. Socrate è in ritardo perché, mentre si sta recando a casa di Agatone accompagnato da Aristodemo, viene rapito dal suo demone e si ritira in una profonda meditazione. È solo Aristodemo a varcare la soglia della casa. Preoccupato, Agatone lo interroga: dov’è Socrate? Aristodemo risponde frastornato: «È entrato poco fa dietro di me; ma sono meravigliato anch’io su dove sia»2. Il dialogo tra Socrate e Agatone, tra il maestro e l’allievo, è preceduto da questo «strano» ritardo del maestro, quasi come se in esso si annunciasse una sottrazione, un ritrarsi, un cadere nell’oblio. Come spesso capita, Socrate è rimasto assorto nelle sue meditazioni, ha perso la strada e non è giunto in orario al banchetto in compagnia del suo amico. È rimasto immobile e separato da tutti a pensare. Solo, dunque, quando la cena è già iniziata, Socrate entra. Immediatamente Agatone gli chiede di prendere posto a tavola e di sdraiarsi accanto a lui.


In questa richiesta dobbiamo vedere vibrare tutta l’illusione scolastica che anima la domanda di Agatone: realizzare una prossimità massima con il corpo del maestro per assorbirne tutto il sapere. L’illusione è quella di ricevere da Socrate il sapere segreto di cui si è appena appropriato:


Qui, Socrate, stenditi accanto a me, in modo che, toccandoti, possa godere anch’io della sapienza che ti si è accostata nel portico. È chiaro infatti che l’hai trovata e la possiedi, sennò non ti saresti mosso3.


La deduzione di Agatone è semplice: se Socrate ha potuto concludere la sua meditazione recandosi al banchetto, è perché il sapere che bramava lo ha finalmente visitato. L’illusione scolastica che anima Agatone è quella che guida ogni allievo nei confronti del proprio maestro: supporre nell’Altro un sapere di cui si vuole condividere il mistero e la potenza assimilandone il contenuto per contiguità. Chiedendo di essere riempito da Socrate, Agatone considera il sapere stesso come un oggetto prezioso e seducente custodito nella «scatola rustica» del maestro4. Il sapere sarebbe, cioè, l’agalma, il gioiello degli dèi, a cui l’allievo spasmodicamente tende.


L’illusione scolastica è tutta concentrata in questa supposizione e nell’aspirazione che la orienta: la domanda dell’allievo (Agatone) è quella di ricevere il sapere dal maestro (Socrate) come se si trattasse di raccogliere in un nuovo contenitore il liquido contenuto in quello vecchio. È per questa ragione che Agatone chiede di stare seduto vicino a Socrate: vuole beneficiare a man bassa di questo travaso, vuole beneficiare del sapere del maestro raccogliendolo sino all’ultima goccia. Tuttavia non si accorge che la sua è una topologia ingenua. Esigendo di restare prossimo al maestro per assorbire un sapere che appartiene all’Altro e dal quale si sente escluso, resta preda dell’illusione di essere riempito, ovvero di ricevere passivamente il sapere dall’Altro, senza accorgersi che non c’è possibilità di raggiungere un sapere vero se non attivandosi in un processo di ricerca. Volendo possedere il sapere di Socrate, Agatone si pone come l’amante attraversato dalla mancanza, come un erastes che ricerca quanto non ha nella pienezza dell’oggetto amato, nell’eromenos incarnato da Socrate. Tuttavia, egli non assume sino in fondo la verità del sapere, ovvero il fatto che nessun sapere è in grado di dire la verità. Per questo resta passivo accontentandosi di ricevere il sapere dell’Altro.


È l’illusione che abita ogni scolastica: abbeverarsi al sapere già costituito del maestro o dei maestri, considerati come oggetti amati, come eromenoi.


Il gesto di Socrate.

Agatone è l’immagine dell’allievo che evita di affrontare l’esperienza del limite del sapere. Egli vuole ricevere tutto il sapere dal suo maestro. Nel Simposio il disvelamento di questa illusione si realizza attraverso il gesto di Socrate, che consiste nel rifiutarsi seccamente di incarnare l’eromenos – l’oggetto amato – per situarsi, lui stesso, il piú sapiente tra i sapienti, come un vuoto di sapere, come un non-sapere, come una mancanza di sapere, cioè come un erastes, un puro amante del sapere. Per questo, dopo aver accettato l’invito di Agatone a sedersi accanto a lui, gli risponde in modo spaesante:


Sarebbe bello, Agatone, se la sapienza fosse tale da scorrere dal piú pieno al piú vuoto di noi, quando ci tocchiamo l’un l’altro, come fa l’acqua nelle coppe, che dalla piú piena scorre nella piú vuota attraverso un filo di lana. Se infatti le cose stanno cosí anche per la sapienza, è un grande onore per me lo star sdraiato accanto a te: credo infatti che potrò essere riempito, da te, di molta e bella sapienza. La mia infatti è probabilmente qualcosa di poco valore, o è controversa e dubbia come fosse un sogno, mentre la tua è scintillante e possiede un grande futuro, quel futuro che da te ancora giovane cosí intensamente ha brillato e tanto lucente è apparso l’altro ieri5.


In che cosa consiste il gesto di Socrate? Egli sa bene che al centro del sapere – non del suo, ma del sapere in quanto tale, nella struttura stessa del sapere – dimora un «vuoto», una faglia che è indice dell’impossibilità di sapere tutto, di spiegare ogni cosa. Se il sapere si organizza come un’accumulazione piú o meno ordinata di significanti, l’effetto educativo consiste nel mostrare che non esiste un significante in grado di chiudere dall’esterno il sapere stesso come se fosse un sistema autoconsistente, che questo significante è strutturalmente mancante, che manca un significante nell’Altro e che il sapere non è un sistema chiuso su se stesso quanto il movimento che ricerca la possibilità di dire in molteplici modi il significante della mancanza, senza però mai pretendere di possedere il significante che manca all’Altro.


Per questa ragione, agli occhi di Agatone, Socrate si rifiuta di occupare la posizione di eromenos, di ciò che è degno di essere amato, ribadendo di non essere affatto l’incarnazione dell’oggetto amato, del sapere assoluto dell’Altro, ma solo, come fa notare Lacan nella sua ispirata lettura del testo platonico, della dimensione «atopica» del desiderio: «La sua essenza, l’essenza di Socrate, è – infatti – quel vuoto, quell’incavo»6, che si oppone all’illusione scolastica che vuole fare esistere il sapere come un tutto-pieno. Questo significa che il sapere del maestro non è mai ciò che colma la mancanza, quanto ciò che la preserva. Per questa ragione, rivolgendosi ad Agatone, Socrate può dirgli: guarda che non sono io, ma sei tu che sei pieno; guarda che non troverai in me quello che già tu possiedi in misura ben piú grande della mia.


Il gesto di Socrate è un gesto di svuotamento del sapere che vorrebbe spingere Agatone a ricercare il proprio sapere. Socrate, in altre parole, si sottrae dalla posizione di oggetto immaginario a cui invece lo vorrebbe inchiodare il transfert selvaggio di Agatone. Il suo gesto di sottrazione vuole essere radicale sino al limite della provocazione – «Sei tracotante», gli risponde piccato Agatone –, perché Socrate punta a mostrare che il sapere non è affatto un oggetto contenuto nel contenitore dell’Altro, ma l’effetto di un percorso che ogni soggetto è tenuto a compiere in proprio, senza che esista, a garantirlo, un tracciato definito a priori. Si tratta piuttosto – come avviene in ogni processo autentico di formazione – di un percorso che traccia il suo sentiero singolare solo nel momento in cui accade. È una tesi sulla quale giustamente insiste Moustapha Safouan, il grande allievo di Lacan, quando esclude la possibilità che esista un sentiero ben definito in grado di condurre il soggetto al sapere, perché questo sentiero si crea, si traccia solo camminando. Il sentiero si fa solo nel movimento di chi lo percorre perché non esiste prima di esso.


Dal gesto di Socrate dobbiamo far discendere ogni possibile trasmissione feconda del sapere. Il maestro si disidentifica dal tutto-pieno dell’eromenos per incarnarsi nella mancanza attiva, nel vuoto dinamico dell’erastes, al fine di emergere come amante del sapere e non come oggetto amato, come colui che desidera la verità e non come colui che la detiene. Socrate fa cosí apparire, sulla scena della trasmissione e sulle ceneri di ogni illusione scolastica, un buco, una mancanza, uno strappo che investe, al tempo stesso, sia la dimensione del soggetto sia quella dell’Altro del sapere. In questo modo egli mostra ad Agatone che il sapere non ha la stessa natura di un liquido che si può versare da un recipiente all’altro. L’apprendimento non avviene per travaso passivo da un bicchiere piú pieno a uno piú vuoto, perché il modello sul quale si fonda non è mai quello di un vuoto da riempire – le teste vuote degli allievi dentro le quali si deve versare il cemento del sapere – quanto di un vuoto da aprire.


Rifiutandosi di incarnare il sapere, Socrate rinvia all’allievo il sapere che l’allievo ricerca in lui, mantenendo aperto il luogo del sapere come luogo di una mancanza strutturale. Chiediamoci: non è questo il movimento essenziale che caratterizza il lavoro di ogni insegnante degno di questo nome? Aprire vuoti nelle teste, aprire buchi nel discorso già costituito, fare spazio, aprire le finestre, le porte, gli occhi, le orecchie, il corpo, aprire mondi, aprire aperture impensate prima. Non è questa la materia di cui è fatta l’erotica dell’insegnamento? Non è questo il gesto che fa esistere un insegnamento in grado di generare effetti infiniti di soggettivazione? Non è questo il significato ultimo della trasformazione degli oggetti del sapere in corpi erotici che dovrebbe realizzare ogni insegnamento?


Produrre il vuoto.

Il gesto di Socrate rivela la faglia che attraversa il sapere dell’Altro. Ma rivela altresí che la funzione del maestro è quella di rendere fecondo questo vuoto. A tale proposito esiste un aneddoto leggendario che riguarda il lavoro di Emilio Vedova come insegnante di pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Quando un allievo si trovava paralizzato di fronte alla tela bianca, incapace di procedere, vittima dell’inibizione, il maestro interveniva immergendo uno spazzolone in un secchio di colore e imprimendo un violento colpo sulla tela. Questa offesa traumatica sortiva un effetto immediato: l’allievo, liberato dall’angoscia e dall’inibizione, poteva finalmente procedere nel suo lavoro.


Perché? Qual è il significato del colpo di spazzolone? E quale somiglianza ha con il gesto di Socrate? Vedova mostra ai suoi allievi che l’artista si confronta sempre con un muro che tende ad assumere la forma di un eccesso di presenza piú che di un’assenza. Anche in questo caso, come per Socrate in rapporto ad Agatone, si tratta di produrre il vuoto per rendere possibile la messa in atto del processo creativo. Senza questo svuotamento del sapere dell’Altro, non c’è possibilità di generare niente di vivo. Il colpo di spazzolone, che si getta con forza sulla tela immacolata, cerca il vuoto, l’aria, l’ossigeno: vuole fare emergere la mancanza che attraversa la struttura del sapere in quanto tale.


Il vuoto della tela bianca, infatti, non è mai vuoto. Lo sanno molto bene i pittori: il vuoto della tela bianca non è mai davvero vuoto. È, piuttosto, sempre troppo pieno. Pieno di cosa? Di tutta la storia dell’arte, di tutte le immagini già viste che hanno preceduto il gesto dell’artista e che si coagulano come spettri sulla tela bianca. Sono i saperi consolidati, le opere, le citazioni, gli stereotipi, tutto ciò che è già stato fatto, visto e conosciuto. Ogni tela porta su di sé, come direbbe Jung, il «peso di ieri», una stratificazione invisibile di memoria che può imprigionare, soggiogare, paralizzare: filosofie dell’arte, standard della composizione, esperienze pittoriche, citazioni, correnti di pensiero, stili, maniere. Un sapere invisibile ma densissimo si deposita sul bianco della tela ricoprendolo con una ragnatela spessa.


Allora la sudditanza e l’inibizione possono essere risposte a questo eccesso di presenza dell’Altro. Come posso generare qualcosa di nuovo se tutto è già stato fatto, se il grande Altro del sistema dell’arte appare compattamente richiuso su se stesso? Ecco cosa ci insegna il colpo di spazzolone di Vedova: è necessario svuotare questo pieno per rendere possibile l’atto della creazione. Affinché vi siano scrittura, gesto, atto artistico, è essenziale operare un azzeramento preliminare, una sospensione, una epochè del pieno di senso che si addensa nel falso vuoto dello spazio bianco.


Se il colpo di spazzolone svuota lo spazio bianco, significa che questo spazio non è davvero bianco. Vi ristagnano segni che appartengono a un passato che incalza, a un sapere che ingombra e ostacola la possibilità dell’invenzione. La tela bianca è sempre piena di oggetti morti, elementi inerti, ideali monumentali, opere irraggiungibili poiché ogni processo creativo eredita tutta la memoria di ciò che è già avvenuto. Tuttavia questa eredità ha due possibili destini: può essere tradita nella forma della ripetizione scolastica, oppure può dare vita a un atto autenticamente creativo. Il colpo di spazzolone vuole allentare l’obbedienza del soggetto alle regole codificate della tradizione affinché qualcosa di nuovo possa venire alla luce.


Per questo occorre fare il vuoto, occorre una quota necessaria di oblio, una dimenticanza, direbbe Nietzsche, una sospensione del codice del grande Altro sul quale si regola la pratica consolidata dell’arte affinché un gesto nuovo possa davvero prodursi. Altrimenti il soggetto resta ipnotizzato dalla tela bianca, resta trattenuto, prigioniero dell’Altro, perché ogni suo atto risulterebbe sempre inadeguato rispetto all’Ideale irraggiungibile dell’Altro.


Accade anche ai nostri studenti davanti alla tesi di laurea: bisogna dimenticare quello che si è letto, quello che già si sa, occorre fare il vuoto per provare a dire qualcosa di proprio. La soggettivazione del sapere può avvenire solo attraverso una quota di oblio. Per questo per Vedova essere pittore significava, come usava dire, essere tutti i giorni sull’«orlo del precipizio», sul «bordo del vuoto».


Il trasporto erotico verso il sapere.

Lacan descrive la posizione di Socrate come «atopica», strana, senza luogo, senza identificazione possibile. La stessa «atopia» che contraddistingue il soggetto del desiderio, la stessa posizione che assumerà per la vita della polis la parola di Cristo7. Parole – quella di Socrate e di Cristo – che non sono previste dai rappresentanti dell’ordine della città e che traumatizzano fatalmente ogni discorso costituito. Parole che vengono da un altrove rispetto al sapere già saputo.


Ecco qualcosa che interessa il nostro ragionamento sul maestro: ogni volta che rintracciamo questa dimensione sovversiva della parola, non siamo forse di fronte al segno piú eloquente dell’esistenza di un insegnamento? Un insegnamento degno di questo nome non inquadra, non uniforma, non produce scolari, ma sa animare il desiderio di sapere. Per questa ragione ogni insegnamento che sia tale muove l’amore, è profondamente erotico, è in grado di generare quel trasporto in cui consiste in ultima istanza il fenomeno che in psicoanalisi chiamiamo «transfert»8. Non c’è trasmissione del sapere che possa avvenire senza passare dal transfert. Lo mostra Socrate quando alimenta il transfert di Agatone divenendo per lui oggetto erotico. Solo che il maestro è colui che sa dislocare il transfert amoroso mobilitato dall’allievo dalla sua persona all’oggetto del sapere. Egli è amato in quanto ama il sapere rendendo il sapere un oggetto che causa il desiderio dell’allievo. Un insegnamento deve innescare transfert, ovvero spinta, tensione erotica, trasporto, «amore che si indirizza al sapere», come dirà il Lacan del Seminario XVII. Deve riuscire, attraverso l’atopia del desiderio, a trasformare l’eromenos in erastes, la passività dell’amato nell’attività dell’amante.


Per questo Lacan può interpretare Socrate come un’incarnazione prefreudiana del desiderio dell’analista. Al pari di Socrate, l’analista deve essere in grado di «offrire il vuoto al desiderio del paziente, affinché questo si realizzi come desiderio dell’Altro»9. Il desiderio dell’analista non mira al bene del paziente, né a rimpinzare di sapere la sua testa, di ammonizioni morali o di spiegazioni teoriche, non pretende di correggere o di indottrinare il soggetto. Questo desiderio non vuole in realtà alcun oggetto – non è una domanda –, ma sospinge unicamente il soggetto verso la sua trasformazione da eromenos in erastes, che è al centro di quella metafora dell’amore che per Lacan costituisce l’essenza stessa del transfert. Di cosa si tratta? Cos’è la metafora dell’amore?


La metafora dell’amore.

La metafora dell’amore è proprio la sostituzione dell’eromenos con l’erastes, dell’amato con l’amante10. Questa sostituzione apre la possibilità dell’avventura analitica ma anche, piú in generale, di ogni processo di trasmissione del sapere. Senza tale passaggio, il paziente e l’allievo resterebbero oggetti passivi sui quali dovrebbe applicarsi il sapere attivo dello psicoanalista o del maestro. È, come abbiamo visto, il centro dell’illusione scolastica incarnata da Agatone: ricevere dal maestro il suo sapere offrendosi come contenitore vuoto da riempire.


Nell’esperienza dell’analisi come in quella dell’insegnamento, non sono né l’analista né il maestro che applicano il loro sapere sul paziente e sull’allievo, ma sono il paziente e l’allievo che devono muoversi per ricercare attivamente nell’Altro il sapere che sfugge loro. In questo modo un paziente può diventare un analizzante, ovvero qualcuno che non aspetta che il sapere dello psicoanalista si applichi su di lui, ma che si impegna a fare un lavoro su se stesso; e l’allievo, senza lasciarsi imprigionare dall’illusione scolastica che suppone tutto il sapere nell’Altro, può dedicarsi alla propria ricerca del sapere.


Prendiamo piú nel dettaglio l’esempio dell’analisi. Cosa vuole l’analista dal suo paziente? Nulla, non domanda nulla (nonostante il fantasma della nevrosi tenda ad attribuire all’Altro la domanda del proprio desiderio) se non che diventi un analizzante. Questo significa che, come afferma precisamente Lacan, l’analista non è «lí per il suo bene (del paziente), ma perché egli ami»11. Non cura, non medica, non corregge il paziente. Piuttosto trasforma il paziente, oggetto della cura, in analizzante, soggetto della cura; lo mette in movimento verso la verità (inconscia) del proprio desiderio. Questo significa ribaltare il soggetto come eromenos nel soggetto come erastes:


Il soggetto è introdotto come degno di interesse e di amore, eromenos. Siamo lí per lui. Questo è l’effetto – diciamo cosí – manifesto. Ma c’è un effetto latente, che è legato alla non scienza, alla sua inscienza. Inscienza di che cosa? Di ciò che è per l’esattezza l’oggetto del suo desiderio in modo latente, voglio dire obbiettivo o strutturale. Quest’oggetto è già nell’Altro, ed è perciò che egli è, lo sappia o no, virtualmente costituito come erastes. A causa di questo solo fatto egli soddisfa quella condizione di metafora, la sostituzione dell’erastes all’eromenos che costituisce di per sé il fenomeno dell’amore12.


La sostituzione metaforica dell’erastes all’eromenos è la manovra essenziale per aprire il processo della cura analitica, ma, piú in generale, potremmo considerarla la manovra essenziale di ogni processo di formazione e, in quanto tale, è un’operazione che dovremmo collocare al centro di una trasmissione autentica e riuscita del sapere. L’evento dell’isterizzazione del soggetto indica che il soggetto si muove alla ricerca del senso singolare (inconscio) che abita l’enigma del suo sintomo che gli sfugge, di cui non è padrone. Mentre all’inizio del percorso di cura il soggetto chiede aiuto ponendosi come oggetto passivo che attende il travaso del sapere, attraverso la metafora dell’amore – che attiva il movimento del transfert –, è il soggetto che si attiva ricercando nell’Altro quello che gli manca.


La metafora dell’amore non è in gioco anche in tutto quello che concerne la pratica didattica? Trasformare l’allievo come oggetto sul quale si applica un sapere – testa o bocca vuota (recipiente) da riempire, vite storta da raddrizzare – in un soggetto che ricerca attivamente quello di cui manca, che si sente trasportato, attirato, catturato verso un sapere nuovo. Con una precisazione aggiuntiva che non deve scandalizzarci: questo trasporto erotico verso il sapere è indubbiamente un nome vero, per nulla posticcio, dell’amore. Non c’è, infatti, didattica possibile senza l’erotismo del transfert, senza la trasformazione dello statuto inerte dell’eromenos in quello attivo e desiderante dell’erastes.


I due volti del transfert.

Siamo, a questo punto, obbligati a distinguere due volti del transfert. Il primo è quello che Freud mette in evidenza con particolare forza nella sua Psicologia delle masse. È il transfert come fenomeno regressivo, infantilizzante, ipnotico, che dà vita all’identificazione verticale con il capo e che istituisce un legame gregario del soggetto nei confronti dell’Ideale dell’Altro. In questo caso il transfert nutre un Altro assoluto che mantiene il soggetto in una posizione di assoggettamento e di dipendenza acritica. È la dimensione immaginaria del transfert sulla quale si sostiene l’illusione scolastica incarnata da Agatone.


L’aggregazione della massa spersonalizza, unifica, cementa a condizione che i soggetti rinuncino alla loro ragione critica. Tutti i fenomeni di gruppo che oscillano dal legame settario al populismo si strutturano a partire dalla centralità di questa dimensione ipnotico-suggestiva del transfert, che, non a caso, Freud pone quale condizione dell’aggregazione della massa come insieme identitario. «Privo di mente», dirà significativamente Bion.


Esiste, però, un altro volto del transfert che lo contraddistingue come un movimento, per nulla regressivo, caratterizzato da un’apertura inedita verso il nuovo. È la radice del transfert che ritroviamo al centro di ogni didattica, di ogni percorso di formazione e di trasmissione riuscita del sapere. In tal senso il transfert è l’esperienza di un nuovo amore. Perché nell’amore è in gioco proprio un «trasporto». Questo significa che il transfert si manifesta primariamente come messa in movimento del soggetto13. L’Università vorrebbe invece che il sapere si trasmettesse asetticamente, come da un computer a un altro, via file, giudicando il transfert come un pericolo da neutralizzare.


È il fantasma che molti nevrotici ossessivi manifestano nella loro analisi. Un mio paziente, in una delle prime sedute, mi disse dopo un sogno che mi coinvolgeva: «Io vengo da lei a fare l’analisi, ma mi raccomando: evitiamo il transfert!» Insomma: «Non voglio complicazioni amorose, voglio che lei mi analizzi in modo cibernetico», come una decodificazione semiotica pura. L’importante è che non ci sia il transfert di mezzo! Questo è ciò che governa il fantasma ossessivo: distruggere il desiderio dell’Altro e tutte le sue manifestazioni, compreso l’amore da transfert. L’Università tende a rendere il sapere morto proprio per evitare il demone erotico, la passione amorosa che il transfert genera. È quello che Lacan, nella prima lezione del Seminario VIII, definisce il «dominio di Eros», corpi accesi che seguono Eros senza compromessi, in movimento. Ma movimento di cosa? E verso cosa?


Il gesto di Socrate muove il desiderio verso il sapere perché erotizza il sapere e trasforma l’amato-passivo in amante-attivo. Il movimento del transfert non introduce il sapere nel soggetto – è l’illusione scolastica di Agatone – ma muove il desiderio del soggetto verso il sapere. Non c’è assimilazione soggettiva del sapere se non a partire dal desiderio di sapere. Si tratta del transfert come «innamoramento primario», come spostamento nel senso essenziale del «trasporto», dell’essere messi in moto, trasportati, portati, trascinati via, rapiti. Un «innamoramento primario» dove l’oggetto perduto – per Lacan l’oggetto piccolo (a) che costituisce l’oggetto-agalma causa del nostro desiderio – viene trasferito e ricercato, proprio a causa di questo trasferimento, nel campo dell’Altro14.


Se il transfert è un amore che s’indirizza non a un oggetto del mondo – a una semplice presenza – ma a un sapere che possa dire la verità sulla struttura singolare (inconscia) del desiderio, questo sapere non può essere concepito, al contrario di quanto vorrebbe l’illusione scolastica di Agatone, come un oggetto contenuto in un contenitore al quale attingere, ma come una mancanza, un vuoto, una faglia. È nuovamente tutto il valore che dobbiamo riconoscere al gesto di Socrate: custodire il vuoto come condizione prima per rendere possibile la trasmissione del sapere.


Ogni pratica didattica ha proprio il compito arduo di mostrare che questo vuoto è un punto di non-sapere per nulla esterno al sapere. La topologia ingenua di Agatone si deve cosí complicare in una topologia moebiusiana, dove l’interno e l’esterno (il sapere e il limite del sapere) si danno come dimensioni implicate strutturalmente. Il non-sapere non è il limite negativo del sapere, ma, come direbbe Lacan, il suo «centro esterno», il suo punto di estimità (extimité)15. Un sapere che non voglia recidere il rapporto con la verità si mantiene costantemente in rapporto a questo «centro esterno». Ciò vuol dire che la conoscenza non si allarga, non si espande come la luce di una lanterna che illumina in modo progressivo, e potenzialmente illimitato, l’oscurità che la circonda. Esiste piuttosto una mancanza – immanente al sapere – che concerne il sapere stesso, che ne decompleta la struttura e che nessuna conoscenza potrebbe mai saturare.


Mia figlia, che frequenta la seconda elementare, mi ha raccontato di aver posto alla sua insegnante la seguente domanda: «Cosa faceva Dio prima che fosse creato il mondo?» La maestra le ha dato la sola risposta possibile: «È una domanda alla quale non so rispondere. E proprio per questo è una domanda importante»16.


Tacere l’amore.

In una citazione poco frequentata di Lacan, che in piú occasioni ho cercato di valorizzare, si chiarisce la differenza tra il gesto del maestro che sa mettere in moto il desiderio dell’allievo e l’atto padronale della seduzione o dell’indottrinamento. Si tratta di uno dei pochi momenti del suo insegnamento dove Lacan parla di sé e della sua pratica di psicoanalista. Si sta rivolgendo a un pubblico di cattolici che lo hanno invitato all’Università di Lovanio. Improvvisamente apre, in un discorso dedicato all’etica della psicoanalisi, una parentesi che verte sull’enigma del suo desiderio di analista:


Chi vi parla è nella psicoanalisi da abbastanza tempo ormai per poter dire che ben presto avrà passato metà della sua vita ad ascoltare vite che si raccontano, che si confidano. Ascolta. Ascolto. Non ho alcun titolo per misurare il valore delle vite che da quasi quattro settenari ascolto confidarsi davanti a me. Io ascolto. E uno degli scopi del silenzio che costituisce la regola del mio ascolto è proprio quello di tacere l’amore17.


Il dono piú grande del maestro non è il dono del sapere ma quello di saper «tacere l’amore». Questo dono è il piú prezioso perché non vincola l’allievo ad alcuna obbedienza, ma lo lascia sempre libero di andarsene, di separarsi dal maestro.


Nell’esperienza dell’analisi questo silenzio è decisivo. Solo se il desiderio dello psicoanalista opera senza domandare nulla all’analizzante – guarire, imparare, cambiare, ecc. –, potrà consentirgli di separarsi per trovare la propria misura della felicità. Quello che Lacan dice qui non riguarda, però, solo la coppia analista-analizzante, ma potrebbe adattarsi bene anche alla coppia maestro-allievo. Se il maestro non sa tacere il proprio amore, rischia di esigere, volontariamente o meno, che l’allievo segua le sue orme, che diventi ciò che lui si attende18. Solo saper tacere l’amore può svuotare il luogo dell’Altro di ogni attesa e permettere al soggetto di incamminarsi per la propria via.


Per questo Lacan ci ricorda che la bussola che orienta la sua pratica di psicoanalista è una: offrire all’analizzante un ascolto libero da qualsiasi finalità. Un ascolto che, diversamente da quello dei valutatori di ogni specie, non ha alcuna pretesa di misurare il valore delle vite che si raccontano. L’analista – come il maestro – non è niente se non una funzione che permette al processo di soggettivazione di innescarsi. Questo significa che né l’analista né il maestro occupano la posizione del padrone. Non pretendono di misurare, di valutare, di definire le vite che hanno di fronte nell’aula o stese sul divano.


Nel nostro tempo, dove il paradigma scientista appare soverchiante, la valutazione sembra essere diventata una prassi invasiva. Tutto deve essere misurato e quantificato, cioè tradotto in un numero. La pratica della psicoanalisi resiste a questo incubo della misura che feticizza la cifra. Per principio, lo psicoanalista non pretende di misurare le vite, né di dire che cosa sia il bene o il male per una vita. Ascolta senza giudicare e senza domandare. Mentre nell’ascolto confessionale – a cui erroneamente Foucault voleva ricondurre l’esperienza analitica – il prete giudica e prescrive l’entità della pena, l’espiazione, l’emendazione del peccato, l’analista ascolta le vite confidarsi nella loro piú intima scabrosità, nella loro stortura, senza alcuna pretesa di giudicare: l’ascolto analitico è un ascolto di pura gratuità, disinteressato in un senso eticamente profondo. Senza giudizio e senza misura19.


Ma cosa rende possibile questo tipo di ascolto? La risposta di Lacan è chiara: «Tacere l’amore». Attenzione, però: questo significa che c’è dell’amore nell’ascolto che l’analista offre. Perché altrimenti si dovrebbe tacerlo? L’analista non è semplicemente il luogo neutrale, asettico, disumanizzato dal dispositivo analitico. Il tacere l’amore salva l’analizzante dall’idealizzazione ipnotica. Dunque, è un dono d’amore profondo. È quello che non è riuscito a fare, all’origine della psicoanalisi, Breuer di fronte ad Anna O. Breuer, infatti, è fuggito, spaventato dal transfert amoroso della sua paziente, rivelando in questo modo, per negazione, tutto il suo amore. Forse è proprio a partire da questo che Freud ha istituito il dispositivo analitico fondato sulla regola dell’astinenza, che Lacan traduce, appunto, come saper tacere l’amore.


Lo abbiamo visto: saper tacere l’amore è a fondamento di ogni autentica pratica didattica. Il maestro non dice l’amore per i suoi allievi, non risponde – come mostra bene il gesto di Socrate – sul piano della corrispondenza amorosa. Preserva il silenzio sull’amore per essere efficace nel proprio lavoro. Perché solo questo silenzio rende possibile il trasporto del transfert, la spinta che anima il desiderio di sapere.


1 La nozione di agalma è al centro del Seminario VIII di Lacan, dedicato al tema del transfert, che costituirà un riferimento centrale di queste pagine. Essa indica l’«oggetto piú prezioso», «l’oggetto degli dèi», «l’ornamento» divino che attrae e causa il desiderio (cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro VIII. Il transfert (1960-61), Einaudi, Torino 2008, pp. 150-64). Per un suo inquadramento cfr. F. Carmagnola, Il desiderio non è una cosa semplice. Figure di agalma, Mimesis, Milano 2007 (in part. pp. 13-38).


2 Platone, Simposio, Einaudi, Torino 2009, p. 17.


3 Ibid., p. 19.


4 J. Lacan, Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio, in Scritti cit., p. 829. Cfr. anche Id., Il seminario. Libro VIII cit., p. 171.


5 Platone, Simposio cit., pp. 19-21.


6 J. Lacan, Il seminario. Libro VIII cit., p. 171.


7 Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro VIII cit., pp.115-18.


8 La parola tedesca Übertragung, con la quale Freud definisce la «traslazione» come fenomeno clinico dell’esperienza dell’analisi, può essere anche tradotta in italiano con il termine «trasporto», nel duplice significato che questa parola ha per noi: essere messo in movimento ed essere traportato emotivamente, coinvolto, conquistato. In questa seconda accezione il transfert raggiunge, come vedremo, la radice etimologica del termine educere («educare») in quanto, appunto, «essere portato altrove».


9 J. Lacan, Il seminario. Libro VIII cit., p. 117. Su Socrate come incarnazione del desiderio dell’analista, cfr. S. Cottet, Freud e il desiderio dello psicoanalista, Borla, Roma 2011 (in part. pp. 199-208).


10 Nella teoria lacaniana dei quattro discorsi questa operazione di sostituzione dell’amato nell’amante verrà ritradotta in termini piú strutturali come passaggio del soggetto analizzante al discorso isterico o come «isterizzazione» del soggetto tout court (cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi (1969-70), Einaudi, Torino 2000, pp. 41-56).


11 Id., Il seminario. Libro VIII cit., p. 19.


12 Ibid., p. 213.


13 Ne fornisco un ampio esempio autobiografico nel capitolo quinto di questo libro.


14 Cfr. J. Lacan, La direzione della cura e i principî del suo potere, in Scritti cit., p. 613.


15 Cfr. Id., Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-60), Einaudi, Torino 1994, p. 177.


16 Si racconta che a questa stessa domanda sant’Agostino rispose ironicamente che Dio era impegnato a fabbricare l’inferno per raccogliere coloro che osavano porre tali domande. In uno stile diverso il filosofo cristiano non occulta il limite del sapere, ovvero l’impossibilità per l’umano di spiegare Dio.


17 J. Lacan, Discorso ai cattolici, in Dei Nomi-del-Padre seguito da Il trionfo della religione, Einaudi, Torino 2006, p. 66 (traduzione leggermente modificata da chi scrive).


18 Non è un caso che i tiranni di ogni genere abbiano sempre ecceduto con allegria nel dichiarare ai quattro venti il loro amore infinito per il popolo.


19 Questo ascolto è davvero ciò che specifica la posizione dell’analista e che la differenzia profondamente anche da quella del maestro, il quale, invece, è tenuto a parlare, a insegnare, a trasmettere il sapere.


Capitolo terzo

La Legge della Scuola