mercoledì 28 luglio 2021

LA DECADENZA DEGLI INTELLETTUALI Zygmunt Bauman



LA DECADENZA DEGLI INTELLETTUALI 

Zygmunt Bauman 

 [...] dal momento che abbiamo abbandonato l'assioma del progresso, perduto la tecnica di «sognare il futuro», smesso di essere «animati da una utopia ontologica» e con tutto ciò abbiamo perso la capacità di distinguere «il meglio» dal «peggio». La nostra epoca ha posto fine alla struttura di valori gerarchica riconosciuta (si preferirebbe dire: dominante) e determinato il rifiuto di tutte «le divisioni binarie che rappresentavano il dominio del codice culturale su quello naturale», come le divisioni tra Occidente e il resto del mondo, dotti e incolti, strati superiori e inferiori. La superiorità della cultura occidentale non appare più evidente di per sé; con ciò, abbiamo perso il «centro di sicurezza», senza il quale non esiste cultura. La nostra, in effetti, è un'epoca di «postcultura». La cultura, insiste Steiner, deve essere élitaria e valutativa. Con queste due caratteristiche messe in discussione e sotto accusa, il futuro della nostra civiltà è «quasi imprevedibile». Si è tentati di riassumere così: la dicotomia di Arnold era adeguata, la scelta era sempre tra cultura e anarchia. Ma Arnold non sapeva in che modo la scelta sarebbe stata fatta.

  Non tutti i sociologi che studiano la cultura moderna sarebbero disposti a seguire Steiner in tutti i suoi presagi apocalittici, ma la maggior parte di essi sarebbe d'accordo con la sostanza della sua diagnosi: la gerarchia di valori culturali un tempo incontestata si è disintegrata e l'aspetto più evidente della cultura occidentale è oggi la mancanza di basi su cui possano essere dati giudizi di valore autorevoli.

  Naturalmente, i sociologi sono interessati ai processi sociali che hanno portato a un tale risultato. Perché la spinta dei Lumi si fermò ben prima della soglia della perfezione «generale» e «armoniosa» della società e dei suoi membri? Perché non si è materializzata l'auspicata corrispondenza tra conoscenza formale e qualità della vita? Che cosa non ha funzionato? Era inevitabile che non funzionasse?

  Una delle risposte più comuni a queste domande è la spontanea e inarrestabile frantumazione della conoscenza umana in una pletora di specialismi circoscritti, parziali, collegati tra di loro solo alla lontana. L'argomento è discusso ampiamente e incessantemente, ma rimane insuperata la fondamentale descrizione del legame tra il destino della cultura e lo sviluppo della tecnologia e delle scienze guidate solo dalla logica degli strumenti e delle capacità produttive che essi avevano creato, fornita da Georg Simmel più di settant'anni fa. Quella di Simmel è una versione moderna della storia dell'apprendista stregone: gli strumenti emancipati dai fini umani ai quali servivano in origine divennero fini a se stessi, determinando la velocità e la direzione del proprio movimento.


  «La logica che spinge i prodotti […] dello spirito […] è la logica culturale degli oggetti, non quella delle scienze naturali. In ciò si fonda il fatale impulso coatto di ogni 'tecnica', non appena il suo sviluppo l'ha tolta dalla portata del consumo immediato. Può accadere così che la fabbricazione industriale di alcuni prodotti richieda quella di prodotti affini di cui non c'è alcun bisogno specifico; ma la coazione ad utilizzare completamente quei meccanismi una volta creati spinge a ciò: la serie tecnica richiede da se stessa di completarsi mediante elementi di cui la serie spirituale, veramente definitiva, non ha bisogno. Sorge così una offerta di merci che risvegliano bisogni già di per sé artificiali e, dal punto di vista della cultura, privi di senso. Non diversamente avviene in alcuni rami delle scienze. Da un lato, ad esempio, la tecnica filologica è giunta a un grado insuperabile di finezza e perfezione nel metodo; dall'altro gli elementi che la cultura spirituale ha realmente interesse ad elaborare in questo modo, non si riproducono molto rapidamente. Così il lavoro filologico diviene spesso una micrologia, una forma di pedanteria e un'elaborazione dell'inessenziale, quasi un procedere a vuoto del metodo, un andare avanti della forma obiettiva, la cui via indipendente non coincide più con quella della cultura come perfezionamento della vita. […] [Esso] non ha motivo di non accrescersi all'infinito, di non aggiungere ordinatamente libro a libro, opera d'arte a opera d'arte, invenzione a invenzione: la forma dell'obiettività come tale possiede una sconfinata capacità di realizzazione. Ma con questa, per così dire, inorganica capacità di accumulo essa diviene, nel proprio fondamento, incommensurabile alla forma della vita personale» [12].


  La «tragedia della cultura», per Simmel, consiste nel fatto che la scienza, la tecnica, l'arte, tutte prodotte dalla spinta dello spirito umano verso il miglioramento e il perfezionamento, diventano sempre più irrilevanti per il loro creatore e per il loro scopo originario, e questo proprio a causa del loro successo. La cultura umanistica non rende più umani, perché le sue proliferazioni, numerose e vigorose, hanno cessato di essere in primo luogo «umanistiche». Il «Creatore» non si riconosce più nelle sue creature. Gli sembrano esseri strani, oggettivi, che minacciano, con la loro natura inconsueta ed «estranea», l'ambito di controllo del Creatore.[...]

LA DECADENZA DEGLI INTELLETTUALI 

Introduzione.
Gli intellettuali: da legislatori moderni a interpreti postmoderni

All'epoca in cui fu coniato, nei primi anni di questo secolo, il termine «intellettuali» rappresentava un tentativo di riprendere e riaffermare quella centralità sociale e quelle prospettive globali che avevano accompagnato la produzione e la diffusione del sapere nell'età dei Lumi.

Il termine definiva un insieme disparato di romanzieri, poeti, artisti, giornalisti, scienziati e altre figure pubbliche, i quali ritenevano che fosse loro dovere morale e loro diritto collettivo intervenire direttamente nel processo politico agendo sugli intelletti della nazione e indirizzando le azioni dei suoi dirigenti politici. All'epoca in cui il termine fu coniato, i discendenti dei "philosophes" o la "république des lettres" erano già stati suddivisi in ambiti specializzati, ciascuno con i propri interessi particolari e le proprie preoccupazioni specifiche. Da quel momento in poi l'espressione costituì un grido di richiamo che risuonava al di sopra delle frontiere gelosamente custodite delle professioni e dei generi artistici; un invito a ridar vita alla tradizione (o a dar corpo alla memoria collettiva) degli «uomini di sapere» che incarnavano e praticavano l'unità di verità, valori morali e senso estetico.

Al pari della "république des lettres", le cui componenti si integravano attraverso l'attività partecipe delle discussioni e il contesto comunitario in cui le questioni erano trattate, la collettività degli intellettuali doveva essere unita nel rispondere al richiamo, accettando i diritti e le responsabilità che tale richiamo comportava. Solo apparentemente quella degli «intellettuali» era intesa come una categoria «descrittiva». Non tracciava un confine oggettivo dell'area che denotava, né ammetteva la preesistenza di tale confine (anche se indicava la riserva in cui potevano essere ricercati e reclutati i volontari). Ci si aspettava piuttosto che la categoria creasse il proprio referente sollecitando interessi, mobilitando lealtà, suggerendo autodefinizioni e, in tal modo, trasformando le autorità parziali di esperti e artisti in un'autorità collettiva politica, morale ed estetica di uomini di sapere.

La categoria rappresentava, per così dire, un invito molto esteso a unirsi a un certo tipo di pratica di grande rilievo sociale. E tale è rimasta sino ai giorni nostri. Non ha quindi molto senso porsi la domanda «chi sono gli intellettuali?» aspettandosi in risposta una serie di dati oggettivi o addirittura un esercizio di designazione. Non ha alcun senso compilare un elenco di professioni i cui membri sono intellettuali, o tracciare una linea all'interno della gerarchia professionale al di sopra della quale si trovano gli intellettuali. In ogni tempo e in ogni luogo, «gli intellettuali» sono il risultato di un effetto combinato di mobilitazione e autoreclutamento. Il significato intenzionale di «essere un intellettuale» è quello di porsi al di sopra degli interessi settoriali della propria professione o del proprio genere artistico e di fare i conti con le questioni globali di verità, giudizio e gusto dell'epoca. La linea che separa gli «intellettuali» dai «non-intellettuali» è tracciata e ritracciata da decisioni di rientrare in un particolare tipo di attività.

Al tempo in cui entrò a far parte del vocabolario dell'Europa occidentale, il concetto di «intellettuali» traeva il suo significato dalla memoria collettiva dell'età dei Lumi. Proprio allora furono poste le basi di quella sindrome potere/sapere che è uno degli attributi più importanti della modernità. Tale sindrome era il risultato congiunto di due nuovi sviluppi verificatisi all'inizio dell'età moderna: da un lato, la comparsa di un nuovo tipo di potere statale con le risorse e la volontà necessarie per formare e amministrare il sistema sociale secondo un modello preconcetto di ordine; dall'altro, la definizione di un discorso relativamente autonomo, autosufficiente, in grado di generare un tale modello completo delle pratiche che la sua realizzazione richiedeva.

Questo libro esamina l'ipotesi secondo cui la combinazione dei due sviluppi creò il tipo di esperienza che fu espresso in quella particolare visione del mondo e connesse strategie intellettuali che va sotto il nome di «modernità». Questo libro esamina inoltre l'ipotesi secondo cui il successivo divorzio tra Stato e discorso intellettuale, insieme alle trasformazioni interne di entrambe le sfere, ha condotto a una esperienza articolata oggi in una visione del mondo e connesse strategie alle quali ci si riferisce spesso con il nome di «postmodernità».

Da quanto detto finora dovrebbe risultare chiaro che i concetti di modernità e postmodernità non sono usati in questo libro come equivalenti delle opposizioni apparentemente simili con le quali essi sono spesso confusi, come società «industriale» e «postindustriale», o società «capitalistica» e «postcapitalistica». E non sono neppure utilizzati come sinonimi di «modernismo» e «postmodernismo», termini usati per descrivere stili culturali e artistici autonomamente costituitisi e in larga misura consapevoli di sé. Nel senso in cui sono usati in questo libro, i concetti di modernità e postmodernità stanno a indicare due contesti estremamente diversi in cui si svolge il «ruolo intellettuale»; e due strategie distinte che si sviluppano in risposta ad essi. L'opposizione tra modernità e postmodernità è stata impiegata qui allo scopo di teorizzare, dal punto di vista della prassi intellettuale, gli ultimi tre secoli di storia dell'Europa occidentale (o della storia dominata dall'Europa occidentale). È questa la prassi che può essere moderna o postmoderna; il predominio dell'una o dell'altra modalità (non necessariamente senza eccezioni) distingue la modernità e la postmodernità come periodi della storia intellettuale. Anche se l'idea secondo cui modernità e postmodernità sono periodi storici successivi è considerata oggetto di controversia (essendo stato giustamente sottolineato che pratiche moderne e postmoderne coesistono, seppure in proporzioni variabili, all'interno di ciascuna delle due epoche, e che si può parlare di predominio dell'uno o dell'altro modello solo in un senso relativo, come tendenze), la distinzione tra le due pratiche resta utile, non foss'altro che come «tipi ideali»; essa contribuisce in parte a mettere in evidenza l'essenza delle controversie intellettuali correnti e la gamma delle strategie intellettuali disponibili.

Nel riferirci alle pratiche intellettuali, l'opposizione fra i termini moderno e postmoderno indica differenze nella comprensione della natura del mondo, e in particolare del mondo sociale, e nella comprensione della natura e dello scopo del lavoro intellettuale che ne derivano.

La visione del mondo tipicamente moderna è quella di una totalità essenzialmente ordinata; la presenza di uno schema di distribuzione diseguale di probabilità rende possibile un tipo di spiegazione degli eventi che - se corretta - è nello stesso tempo uno strumento di previsione e (se le risorse necessarie sono disponibili) di controllo.

Controllo («dominio sulla natura», «pianificazione» o «progettazione» della società) è considerato quasi sinonimo di azione ordinatrice, intesa come la manipolazione di probabilità (rendendo alcuni eventi più probabili, altri meno). L'efficacia del controllo dipende dall'adeguatezza della conoscenza dell'ordine «naturale». Tale conoscenza adeguata è, in linea di principio, raggiungibile. L'efficacia del controllo e la correttezza della conoscenza sono strettamente connesse (la seconda spiega la prima, la prima corrobora la seconda), sia in un esperimento di laboratorio sia nella pratica sociale. Insieme esse forniscono criteri per classificare le pratiche esistenti come superiori o inferiori. Tale classificazione è - sempre in linea di principio - oggettiva, cioè pubblicamente verificabile e dimostrabile ogniqualvolta si applichino i suddetti criteri. Le pratiche che non possono essere giustificate oggettivamente (per esempio quelle che si legittimano con riferimento a usanze od opinioni legate a un particolare luogo o un particolare tempo) sono inferiori in quanto distorcono la conoscenza e riducono l'efficacia del controllo. Salire lungo la gerarchia delle pratiche misurate dalla sindrome potere/sapere significa anche avvicinarsi all'universalità e allontanarsi dalle pratiche «provinciali», «particolaristiche», «locali».

La visione del mondo tipicamente postmoderna è, in linea di principio, quella di un numero illimitato di modelli di ordine, ciascuno generato da una serie di pratiche relativamente autonome. L'ordine non precede le pratiche e non può quindi servire da misura esterna della loro validità.

Ciascuno dei tanti modelli di ordine ha un senso soltanto nei termini delle pratiche che lo convalidano. In ogni caso, la convalida mette in campo criteri sviluppati all'interno di una determinata tradizione: essi sono sostenuti dalle usanze e dalle opinioni di una «comunità di significati» e non ammettono altre prove di legittimità. I criteri indicati prima come «tipicamente moderni» non fanno eccezione a questa regola generale; sono convalidati in ultima analisi da una delle tante possibili «tradizioni locali», e il loro destino storico dipende dalle vicende della tradizione cui appartengono. Non esistono criteri in base ai quali valutare pratiche locali che si trovino al di fuori delle tradizioni locali. I sistemi di conoscenza possono essere valutati solo dall'«interno» delle loro rispettive tradizioni. Se, dal punto di vista moderno, il relativismo della conoscenza era un problema con il quale bisognava fare i conti e che avrebbe dovuto poi essere superato in teoria e in pratica, dal punto di vista postmoderno la relatività della conoscenza (cioè il suo inserimento nella propria tradizione sostenuta dalla comunità) è una caratteristica duratura del inondo.

La strategia tipicamente moderna del lavoro intellettuale è quella caratterizzata nel modo migliore dalla metafora del ruolo di «legislatore». Esso consiste nel fare affermazioni autorevoli che arbitrano controversie di opinioni e selezionano quelle opinioni che, una volta prescelte, diventano corrette e vincolanti. L'autorità per arbitrare le controversie è in questo caso legittimata dalla conoscenza superiore (oggettiva) alla quale gli intellettuali hanno un accesso più facile rispetto alla parte non intellettuale della società. L'accesso a questa conoscenza è più facile grazie alle regole procedurali che garantiscono la conquista della verità, il raggiungimento di un giudizio morale valido e la scelta di un corretto gusto artistico. Tali regole procedurali hanno una validità universale, al pari dei frutti della loro applicazione. L'uso di tali regole procedurali rende i professionisti intellettuali (scienziati, filosofi morali, studiosi di estetica) proprietari collettivi di un sapere di rilevanza diretta e cruciale ai fini del mantenimento e del perfezionamento dell'ordine sociale. La condizione perché ciò avvenga è che il lavoro degli «intellettuali propriamente detti» -metaprofessionisti, per così dire - sia responsabile della formulazione di regole procedurali e del controllo della loro corretta applicazione. Al pari del sapere che essi producono, gli intellettuali non sono legati a tradizioni locali o comunitarie. Essi sono, assieme alle loro conoscenze, «extraterritoriali». Questo dà loro il diritto di convalidare (o non convalidare) credenze che possono essere sostenute in diverse parti della società. In effetti, come ha osservato Popper, falsificare le opinioni scarsamente fondate, o senza fondamento alcuno, è proprio ciò in cui le regole procedurali eccellono.

La strategia tipicamente postmoderna del lavoro intellettuale è quella caratterizzata nel modo migliore dalla metafora del ruolo d'«interprete».

Esso consiste nel tradurre affermazioni, fatte all'interno di una tradizione fondata sulla comunità, in modo tale che possano essere capite all'interno del sistema di conoscenza basato su di un'altra tradizione.

Anziché essere orientata verso una scelta del miglior ordine sociale, questa strategia è intesa a facilitare la comunicazione tra partecipanti autonomi (sovrani). Essa si cura d'impedire la distorsione di significato nel processo di comunicazione. A tal fine, si fa promotrice della necessità di penetrare a fondo il sistema di conoscenza straniero dal quale dev'essere fatta la traduzione (ad esempio la «descrizione spessa» di Geertz) e della necessità di mantenere tra le due tradizioni comunicanti il delicato equilibrio necessario affinché il messaggio non sia distorto (per quanto riguarda il significato investito dal mittente) e sia capito (dal ricevente). È estremamente importante osservare che la strategia postmoderna non implica affatto l'eliminazione di quella moderna; al contrario, essa non può essere concepita senza la continuazione di quest'ultima. Se è vero che la strategia postmoderna comporta l'abbandono delle ambizioni universalistiche della tradizione propria degli intellettuali, essa non rinuncia alle ambizioni universalistiche degli intellettuali nei confronti della loro tradizione; qui, essi mantengono la propria autorità metaprofessionale, legiferando sulle norme procedurali che permettono loro di arbitrare controversie di opinione e di fare affermazioni che s'intendono vincolanti. La nuova difficoltà, tuttavia, sta nel tracciare i confini di una comunità che possa servire da territorio per pratiche legislative. Questo è un problema secondario per le numerose diramazioni specializzate di pratiche intellettuali di cui si occupano intellettuali «parziali». Gli intellettuali «generali» contemporanei trovano però una tenace resistenza alle loro rivendicazioni territoriali. E con la strategia postmoderna in circolazione, tali rivendicazioni territoriali diventano intrinsecamente problematiche e difficili da legittimare.

Scopo di questo libro è analizzare le condizioni storiche in cui si formarono la visione del mondo e la strategia intellettuale moderne; nonché le condizioni in cui esse furono contestate e in parte sostituite da (o almeno rese complementari con) una visione del mondo e una strategia alternative, postmoderne. L'assunto di questo libro è che la comparsa e l'influenza delle due distinte varietà di pratica intellettuale possano essere capite nel modo migliore se esaminate sullo sfondo dei mutamenti nei rapporti tra l'Occidente industrializzato e il resto del mondo, nell'organizzazione interna delle società occidentali, nella localizzazione del sapere e dei produttori di sapere all'interno di tale organizzazione e nel modo di vita degli stessi intellettuali. Il libro è, in altre parole, un tentativo di applicare l'ermeneutica sociologica per capire le tendenze successive nella metanarrativa degli intellettuali occidentali. In tale metanarrativa i produttori, gli intellettuali, rimangono invisibili, «trasparenti». Scopo di questo esercizio di ermeneutica sociologica è di rendere questa trasparenza opaca e quindi visibile ed esaminabile.

Un'ultima osservazione è opportuna. Non sto affatto implicando che il modo postmoderno costituisce un progresso rispetto a quello moderno, né che i due possano essere sistemati in una sequenza progressiva, secondo uno qualsiasi dei possibili significati dell'idea notoriamente dubbia di «progresso». Inoltre non ritengo che la modernità, come tipo di modo intellettuale, sia stata definitivamente superata dall'avvento della postmodernità, o che quest'ultima abbia confutato la validità della prima (ammesso che sia possibile confutare alcunché da un punto di vista rigorosamente postmoderno). Io sono interessato soltanto a capire le condizioni sociali nelle quali è stata possibile la comparsa dei due modi; e i fattori responsabili delle loro mutevoli vicende.

Questo lavoro è stato completato grazie a un congedo di studio generosamente accordatomi dall'Università di Leeds.

Nel corso della stesura, sono stato aiutato moltissimo dall'interesse, dalla critica e dalle idee avanzate da Judith Adler, Rick Johnston, Volker Meja, Barbara Neiss, Robert Paine, Paul Piccone, Peter Sinclair, Victor Zaslavsky e altri amici e colleghi della Memorial University, Saint John's, Newfoundland.

Lo stimolo e l'incoraggiamento di Tony Giddens hanno assistito questo progetto fin dal suo concepimento.

A tutti costoro sono grato.

Z. B.

Leeds-St John's

Capitolo 1.
Una eziologia degli intellettuali

Le definizioni dell'intellettuale sono numerose e svariate. Esse hanno però un tratto in comune, che le rende anche diverse da tutte le altre: sono tutte autodefinizioni. In effetti, i loro autori sono membri di quella stessa specie rara che cercano di definire. Quindi ogni definizione che propongono costituisce un tentativo di tracciare il confine della loro propria identità. Ogni confine divide in due parti il territorio: di qua e di là, dentro e fuori, noi e loro. Ogni autodefinizione è in definitiva l'affermazione di una opposizione segnata dalla presenza di un elemento di distinzione da una parte del confine e dalla sua assenza dall'altra.

La maggior parte delle definizioni, tuttavia, si astengono dal riconoscere la vera natura della loro impresa: per il solo fatto di definire due spazi sociali si ritengono in diritto di tracciarne il confine. Invece, sembrano soffermarsi su una parte sola del confine; pretendono di limitarsi a esprimere gli attributi presenti unicamente da una parte e tacciono sugli effetti necessariamente divisori dell'operazione. Quel che la maggior parte delle definizioni rifiuta di accettare è che la separazione dei due spazi (e la legalizzazione di un rapporto specifico tra loro) sia lo scopo e la "raison d'etre" dell'esercizio definitorio, non il suo effetto collaterale.

In tal modo gli autori della maggior parte delle definizioni conosciute tentano di elencare le caratteristiche degli intellettuali prima di fare qualsiasi riferimento al rapporto sociale esistente o supposto che distingue il gruppo definito dal resto della società. In tal modo si trascura il fatto che proprio questo rapporto, piuttosto che qualsiasi caratteristica speciale o attributo degli intellettuali come gruppo, ne fa una entità separata. Essendo intellettuali, essi cercano poi di rimodellare la loro separatezza in un'autoidentità. La forma specificamente intellettuale di questa operazione - l'autodefinizione - ne maschera il contenuto universale, che è la riproduzione e il rafforzamento di una configurazione sociale data, nonché - al suo interno - l'attribuzione (o la rivendicazione) di uno status per il gruppo.

Le eccezioni relativamente rare a questa regola si verificano nei casi in cui gli intellettuali concentrino la loro attenzione su un'altra società, radicalmente diversa dalla loro; anzi, più è diversa, meglio è.

Configurazioni evidenti nella loro pratica, ma raramente portate alla superficie quando si tratta della loro società, forniscono un quadro di riferimento in cui la conoscenza dell'altra società viene ordinata e interpretata. L'autoinganno, indispensabile per motivi pragmatici ogni volta che sono in gioco la difesa o il rafforzamento dello status del gruppo, diventa superfluo (anzi controproducente) quando è necessario fare i conti con una esperienza estranea. Come direbbero sia Lévi-Strauss che Gadamer, solo nel confronto con un'altra cultura, o con un altro testo (un confronto, chiariamo, in modo puramente cognitivo, teorico), l'intellettuale può «capire se stesso». Il confronto con l'altro, infatti, è in primo luogo e soprattutto il riconoscimento di se stesso; una oggettivazione, nei termini di una teoria, di quel che rimarrebbe altrimenti preteorico, inconscio, inespresso.

Questo carattere autorivelatore dell'esercizio di ermeneutica interculturale non trovò forse mai migliore illustrazione che nell'opera dell'illustre antropologo americano Paul Radin. Ciò non può sorprendere, dal momento che per tutta la vita Radin si è interessato alla «visione del mondo primitiva», alle idee sostenute dalle società primitive; alle loro opinioni religiose, ai loro sistemi morali, alla loro filosofia. Ci si può legittimamente aspettare che un tale argomento metta in moto proprio quelle componenti della prospettiva del ricercatore che hanno un rapporto diretto con la comprensione del suo proprio ruolo nell'ambito del mondo delle idee. Egli non può certo confrontarsi con la «religione primitiva» senza esaminare il campo in cerca di «teologi primitivi»; il suo sforzo per capire la filosofia primitiva lo costringerebbe a situare (o perlomeno a interpretare) i filosofi primitivi. Il modo in cui assolverà questo compito risulterà illuminante per chiunque desideri capire i processi mediante i quali gli intellettuali si autocostituiscono nella società del ricercatore.

Quel che Radin scoprì per prima cosa nelle società primitive fu «l'esistenza di due tipi generali di carattere tra i popoli primitivi: quello del prete-pensatore e quello dell'uomo comune; il primo solo accessoriamente identificato con l'agire, il secondo soprattutto con esso; l'uno interessato all'analisi dei fenomeni religiosi, l'altro ai loro effetti» [01].

All'origine c'è una opposizione tra la grande maggioranza della gente comune, intenta allo sforzo quotidiano per la sopravvivenza, all'«azione» nel senso di riproduzione abitudinaria delle proprie condizioni di esistenza, e un piccolo gruppo costituito da coloro che non potevano non riflettere sull'«azione»: «le persone veramente religiose […] sono sempre state scarse di numero». L'opposizione costituisce al tempo stesso un rapporto: il gruppo più piccolo riesce a esistere solo in virtù di alcune caratteristiche (o, meglio, dell'assenza di determinate caratteristiche) nella maggioranza «non segnata»; è stato, per così dire, «chiamato in vita» da una determinata insufficienza o incompletezza nell'equipaggiamento del gruppo più grande; in tal modo il gruppo più piccolo è in un certo senso un complemento necessario della maggioranza «non segnata»; in un altro senso, tuttavia, esso esiste in modo derivativo, forse anche parassitario, rispetto al gruppo più grande.

L'interrelazione tra i due aspetti del complesso rapporto emerge chiaramente nella descrizione di Radin: «L'uomo primitivo ha paura di una cosa: le incertezze della lotta per la vita» [02]. L'incertezza è sempre stata la fonte primaria della paura. L'andamento casuale di fattori cruciali per il successo o il fallimento della propria lotta per la vita, la costante imprevedibilità del risultato, l'incontrollabilità di tante variabili ignote nell'equazione della vita, tutto ciò ha sempre generato un acuto disagio spirituale e ha spinto coloro che lo pativano a desiderare ardentemente la sicurezza che solo il controllo pratico o la consapevolezza intellettuale delle probabilità può dare. Questa spinta è stata il primo elemento di cui sono fatti i ruoli di maghi, preti, esperti scientifici, profeti politici o professionisti.

«Il pensatore religioso capitalizzò, dapprima inconsciamente se si vuole, il senso d'insicurezza dell'uomo comune […]. Il pensatore religioso sviluppò la teoria che tutto ciò che ha valore, anche ciò che è immutabile e prevedibile nell'uomo e nel mondo circostante, era circondato e immerso nel pericolo; che questi pericoli potevano essere superati solo in un modo particolare e secondo una prescrizione concepita e perfezionata da lui» [03].

Capitalizzare «il senso d'insicurezza» significò postulare una speciale posizione privilegiata, accessibile solo a gente speciale e a speciali condizioni, posizione dalla quale poteva essere individuata una logica sottostante alla casualità di superficie cosicché si potesse rendere prevedibile il caso. Il controllo sul destino proposto da pensatori religiosi fu così mediato dalla conoscenza fin dall'inizio; un elemento cruciale dell'operazione, come sottolinea Radin, fu «il trasferimento del potere coercitivo dal soggetto all'oggetto». (Come avrebbe detto Francesco Bacone, in una società separata da quella descritta da Radin da millenni di "Naturgeschichte", «si può dominare la Natura solo arrendendosi alle sue leggi»). Non appena i fattori determinanti del destino sono stati oggettivati, non appena si è negato alla volontà del soggetto il potere di costringere, indurre o persuadere alla sottomissione gli oggetti esterni, l'unico potere che conta per il desiderio primordiale di certezza è la conoscenza. Per delega, è il potere dei detentori di conoscenza. Il modo specifico in cui i pensatori religiosi e i loro omologhi successivi capitalizzarono il senso d'insicurezza elevò l'attributo dell'«essere a conoscenza» insieme a sua premessa ed effetto inevitabile.

Ma c'è ancora di più nell'analisi di Radin. Il tipo di conoscenza che i pensatori religiosi rivendicavano non era in alcun modo predeterminato, o limitato ai timori concreti che avevano sempre tormentato la «gente comune». La caratteristica notevole del processo di raggiungimento della conoscenza era quella di generare tanti misteri nuovi quanti ne risolveva tra quelli passati; e di generare tanti timori nuovi quanti ne eliminava tra quelli vecchi. Il modo in cui si capitalizzò l'incertezza scatenò un processo senza fine, autopropulsivo e autoconsolidante, dal quale era esclusa la stessa possibilità di riuscire mai a portare a termine lo sforzo e di sostituire la situazione d'incertezza (all'interno di determinati parametri per il corso della vita) con una situazione di equilibrio spirituale e di controllo pratico. Non appena fu messo in moto questo processo, divenne evidente che anche cose apparentemente «immutabili e prevedibili» erano in realtà «circondate e immerse nel pericolo». La sindrome potere/sapere denota un meccanismo autoperpetuantesi il quale, relativamente presto, cessa di dipendere dall'impulso iniziale nella misura in cui crea condizioni per la propria azione continua e sempre più vigorosa. Sempre nuove incertezze generatrici di paura vengono introdotte nel mondo dell'esistenza dei «laici». Molte di queste incertezze sono così lontane dalla pratica quotidiana, che né la loro gravità né i loro presunti rimedi possono essere confrontati con effetti soggettivamente evidenti. Questa circostanza, ovviamente, rafforza ulteriormente il potere del sapere e dei custodi del sapere. Per giunta essa pone questo potere virtualmente al riparo da ogni contestazione.

La distinzione relativamente innocua tra i «pensatori religiosi» e la «gente comune», tra l'«essere interessati alle idee» e l'«essere interessati ai loro effetti», porta a conseguenze davvero straordinarie.

Crea un'acuta asimmetria nell'articolazione del potere sociale. Non solo provoca una netta polarizzazione di status, influenza e accesso al surplus socialmente prodotto, ma (cosa forse ancor più importante) costruisce sulla opposizione di caratteri un rapporto di dipendenza.

Coloro che agiscono diventano ora dipendenti da coloro che pensano; la gente comune non può vivere la sua vita senza chiedere, e ricevere, l'assistenza dei pensatori religiosi. In quanto membri della società, le persone comuni sono ora incomplete, imperfette, carenti. Non c'è alcun modo preciso in cui le loro imperfezioni possano essere sanate una volta per tutte. Gravati per sempre dalle loro imperfezioni, esse hanno bisogno della presenza costante e dell'intervento continuo di sciamani, maghi, preti, teologi.

L'intensità di questo bisogno (e quindi la forza della dipendenza) cresce con il numero d'incertezze insite nell'esistenza della gente comune e nella misura in cui gli sciamani, i maghi eccetera godono di un monopolio nel trattarle. Se quindi, come suggerisce Radin, i pensatori religiosi sono motivati dall'intenzione di «rafforzare la loro autorità», o anche, più cinicamente, dal desiderio di «raggiungere e accrescere» la loro «sicurezza economica» [04], la strategia più razionale che si apre loro consisterà nel manipolare le credenze della gente comune in modo tale da accrescere la sua esperienza dell'incertezza e della incapacità personale di scongiurarne gli effetti potenzialmente deleteri. (Questa strategia costituirebbe un caso di applicazione della regola generale della cibernetica secondo cui, in ogni sistema complesso, il sottosistema «più vicino all'instabilità prevale») [05]. Quest'ultima condizione può essere realizzata nel modo migliore se la conoscenza indispensabile per affrontare l'incertezza è esoterica (o, meglio ancora, tenuta segreta), se gestire l'incertezza richiede strumenti che la gente comune non possiede, o se la partecipazione dello sciamano, del prete eccetera è riconosciuta come un ingrediente insostituibile della procedura. Si può facilmente osservare l'applicazione di tutti questi princìpi tattici nella storia dei rapporti tra esperti e gente comune.

Uno degli aspetti più curiosi delle intuizioni di Radin circa la prammatica del ruolo intellettuale può essere visto nel suo tentativo di ricondurre il modello del filosofo primitivo a un modello introdotto originariamente dagli sciamani.

«La qualifica essenziale per lo sciamano e per lo stregone nei gruppi organizzati nel modo più semplice quali gli eskimo e gli arunta è quella di appartenere al tipo nevrotico-epilettoide. È parimenti chiaro che, nell'avvicinarci a tribù con forme di organizzazione economica più complesse, queste qualifiche, seppur ancora presenti, diventano secondarie rispetto ad altre. Di questo fatto abbiamo già fornito una spiegazione, e cioè che, con l'accrescersi del compenso per le cariche, molta gente che era perfettamente normale fu attirata nel sacerdozio. Lo schema di comportamento, tuttavia, era divenuto ormai fisso e lo sciamano non nevrotico doveva accettare la formulazione che traeva la sua origine e il suo sviluppo iniziale dai predecessori e colleghi nevrotici. Questa formulazione […] consisteva in tre parti: la prima, la descrizione del suo temperamento nevrotico e della sua effettiva sofferenza e catalessi; la seconda, la descrizione del suo isolamento forzato, fisico e spirituale, dal resto del gruppo; la terza, la descrizione dettagliata di quella che potrebbe essere chiamata una identificazione ossessiva con lo scopo. Dalla prima emerse la teoria della natura della prova alla quale egli doveva sottoporsi; dalla seconda l'insistenza sui tabù e sulle purificazioni; e dalla terza la teoria secondo cui egli era in possesso dello scopo oppure era posseduto dallo scopo, in altre parole, tutto ciò che è connesso al concetto di possessione dello spirito» [06].

L'accuratezza della ricostruzione di questa sequenza storica non ci interessa in questa sede; può essere vista semplicemente come un «mito delle origini» sostanzialmente non verificabile. Quel che è più direttamente rilevante per il nostro argomento è il singolare parallelo messo in luce da Radin tra alcuni elementi fin troppo contemporanei della legittimazione del ruolo intellettuale e le qualità degli sciamani ampiamente descritte nella letteratura etnologica. Se viste sullo sfondo di queste ultime, balzano agli occhi le più vitali caratteristiche del primo; normalmente nascoste sotto i diversi involucri dei tanti colori e motivi in cui sono presentate in epoche diverse da diverse varietà d'intellettuali, esse possono ora essere esaminate nella loro forma essenziale.

Prova, purificazione e possessione; queste tre componenti originarie e, forse, permanenti della legittimazione dell'autorità sacerdotale hanno una caratteristica in comune. Tutte quante proclamano, e spiegano, la separazione dei sacerdoti dai laici. Pongono ogni saggezza o abilità che i sacerdoti possono avere fuori della portata di tutti coloro che non sono sacerdoti. Elevano le pratiche sacerdotali svalutando al tempo stesso quelle dei laici. Presentano infine il rapporto di dominio che ne consegue come un rapporto di servizio e di sacrificio di sé.

Tutte e tre le componenti si sono ritrovate (e si ritrovano ancora) nella storia sotto molte vesti. Possiamo riconoscere la «teoria della prova», a seconda della moda dominante dell'epoca, con riferimento all'ascetismo fisico e all'autoimmolazione, all'umiltà monastica, alla prolungata miseria della vita studentesca, a una esistenza priva di svaghi e parca delle gioie che la società dei consumi può offrire. L'aspetto «tabù e purificazione» è stato elaborato con particolare cura: il suo inesauribile inventario si estende all'astinenza sessuale degli autori antichi, passando per la bohème degli artisti romantici, fino alla «avalutatività» e al non impegno dei moderni scienziati o alla violenza esercitata su se stessi dalla «riduzione trascendentale» degli husserliani ricercatori di certezza. In ogni epoca (ma nel mondo moderno più che in qualsiasi altra) questo aspetto creava un certo grado d'isolamento istituzionalizzato degli uomini di conoscenza, nel quale le intrusioni dall'esterno erano viste come impure e potenzialmente contaminanti, e si predisponevano elaborate misure pratiche per tenere fuori gli intrusi. L'aspetto di «possessione» era forse il più refrattario alla istituzionalizzazione. Tuttavia, non fu mai abbandonato come mito professionale. All'inizio delle loro carriere professionali gli uomini di sapere, sacro o profano, giurarono di dedicarsi solo ed esclusivamente alla ricerca della saggezza e alla disposizione delle conseguenti capacità professionali; dal canto loro le professioni difendono la propria reputazione insistendo sul fatto che questa è esattamente la loro posizione e che non può essere altrimenti.

La gloria e la nobiltà del sacrificio lasciano le loro tracce sul sapere al quale conducono. Gli strumenti e i prodotti di questo processo si nobilitano a vicenda e, una volta avviati, consolidano la rispettiva autorità e si forniscono giustificazioni reciproche. Il risultato è che entrambi acquistano un grado di autonomia rispetto alla domanda sociale che essi invocano come prova della loro validità. Le «formulazioni religiose» godono di una reputazione senza macchia perché sono state definite da «pensatori» che hanno condotto una vita che la gente comune, per mancanza di capacità e di volontà, non condurrebbe. I pensatori, d'altra parte, mantengono la stima un tempo acquisita continuando a fornire regolarmente formulazioni altamente apprezzate. I pensatori e le formulazioni ora hanno bisogno gli uni degli altri solo per convalidare la loro rivendicazione di uno status elevato.

Ci siamo finora basati (in modo abbastanza libero, per la verità) su "Primitive Religion" di Paul Radin, uno studio pubblicato nel 1937. Anche concesso il fatto che alcune delle interpretazioni più radicali nell'analisi che precede vanno al di là della lettera (se non dello spirito) di quello studio, non c'è dubbio che "Primitive Religion" fosse il frutto dell'intenso sforzo di Radin di liberarsi di una mitologia intessuta su se stessa, ma solidamente istituzionalizzata, quale quella dei «pensatori», sacri o profani, «primitivi» o moderni (i primi affrontati come oggetto del suo studio, i secondi come soggetto). Egli voleva svelare il rapporto sociale che di per sé garantisce la razionalità dell'agire dei pensatori ma la cui esistenza è virtualmente soppressa dal contenuto letterale del mito. Quanto deve essere stato grande lo sforzo appare evidente non appena si confronti "Primitive Religion" con "Primitive Man as Philosopher", uno studio pubblicato da Radin dieci anni prima. Quando fu pubblicato il primo libro Radin era già in possesso della maggior parte del materiale che avrebbe utilizzato per il successivo; eppure non esiste in pratica alcun rapporto tra le conclusioni raggiunte nei due libri. Il seguente brano dà un'idea del tenore dell'interpretazione di "Primitive Man".

«L'uomo d'azione, definito per sommi capi, si orienta verso l'oggetto, è interessato in primo luogo ai risultati pratici, ed è indifferente alle istanze e agli stimoli della sua interiorità. Li riconosce ma li rimuove rapidamente, senza attribuire loro alcuna validità, né nell'influenzare né nello spiegare le sue azioni. Il pensatore, d'altra parte, pur desiderando certamente anch'egli risultati pratici […] è nondimeno costretto da tutta la sua natura a passare molto tempo ad analizzare le sue condizioni soggettive e dà grande importanza sia alla loro influenza sulle sue azioni sia alle spiegazioni che ha sviluppato. Il primo si accontenta del fatto che il mondo esista e le cose accadano. Le spiegazioni sono d'importanza secondaria. È pronto ad accogliere la prima che capiti a portata di mano. Alla fin fine è una questione che lo lascia perfettamente indifferente. Egli rivela però una preferenza per un tipo di spiegazione piuttosto che per un altro. Preferisce una spiegazione in cui sia specificatamente evidenziato il rapporto puramente meccanico tra una serie di eventi. Il suo ritmo mentale […] si caratterizza per il desiderio di una ripetizione illimitata del medesimo evento La monotonia non suscita in lui alcun timore […]. Il ritmo del pensatore è invece ben diverso» [07].

In questa interpretazione, pensatori e non-pensatori («uomini di azione») si distinguono per le loro diverse propensioni e attitudini mentali.

Questa differenza non crea, e neppure sostituisce un rapporto tra i due gruppi. Se un rapporto è deducibile da una differenza descritta in questi termini, potrà essere solo quello postulato nel commento dell'illustre psichiatra americano Kurt Goldstein:

«In tutte le società primitive si possono distinguere solo due tipi d'individui, quelli che vivono seguendo rigidamente le regole della società, che [Radin] chiama i «non-pensatori», e quelli che pensano, i «pensatori». Il numero dei pensatori può essere piccolo ma essi svolgono un grande ruolo nella tribù; sono persone che formulano i concetti e li organizzano in sistemi, di cui poi si appropriano - in genere senza sollevare critiche - i non-pensatori» [08].

La distinzione che dieci anni dopo Radin avrebbe interpretato come un prodotto e un fattore del processo storico, della lotta sociale e del complesso rapporto di dipendenza, qui si annida ancora nel suo guscio mitologico, «naturalizzato». La gente non può fare a meno di essere quello che è. Alcuni sono nati per pensare; altri per lavorare. Questi ultimi sono ben contenti della loro condizione; in effetti, la stessa ripetitività delle attività quotidiane ben si addice loro e garantisce una vita priva di ansietà.

I pensatori invece non possono fare a meno di riflettere, dubitare, inventare. La loro è, di necessità, una vita molto diversa; una vita che i non-pensatori preferirebbero non emulare. I pensatori sono eroi culturali da ammirare e da rispettare ma non da imitare. Ci si potrebbe aspettare che la stessa Natura che ha creato individui così diversi tra loro abbia provveduto a collegare le qualità speciali dei pensatori con la loro posizione speciale tra gli altri.

Radin suggerisce che quel che gli antropologi considerano la cultura primitiva è in realtà l'espressione del «ritmo mentale» dei nonpensatori.

Egli afferma implicitamente che la primitività è autoreferenziale ed ermeneuticamente autosufficiente: che il concetto è pienamente spiegabile solo con riferimento agli attributi delle entità che denota. Ci troviamo così di fronte a un'altra mistificazione casualmente legata alla definizione «mitologica» dell'intellettuale.

Quest'ultima non solo occulta la natura storica e i conflitti inerenti alla separazione e al primato degli intellettuali come già indicato, ma inverte la direzione in cui agisce l'opposizione che ne risulta. Presenta il primitivo come la parte non segnata dell'opposizione, e quindi l'altra parte (presumibilmente costruita come negazione di alcuni aspetti della prima, e cioè non primitiva) come la parte segnata. Questo costituisce un rovesciamento, sia sociologicamente (sono i non-primitivi, cioè gli intellettuali, che definiscono il loro opposto come propria negazione e non viceversa) sia semanticamente (il significato della primitività è l'assenza di alcuni attributi che caratterizzano l'altra parte; il significato di qualsiasi cosa che sia contrapposta al primitivo è positivo, cioè fatto di aspetti destinati ad essere dichiarati mancanti all'altra parte). È la costituzione degli intellettuali come formazione sociale separata con almeno un certo grado di autoconsapevolezza e una qualche strategia congiunta in vista del gioco dello status che pone il resto della società, tenuto al di fuori dei ranghi chiusi, come una entità a sé stante, in possesso di caratteristiche proprie (anche se tali caratteristiche consistono interamente in «assenze»). È la primitività il lato segnato dell'opposizione; e il primitivo è costituito come un sottoprodotto dell'autocostituzione degli intellettuali.

Il primitivo è quindi una categoria relativa (o, meglio, relazionale) creata da coloro che sono, e si considerano, fuori dallo spazio che essa denota. L'orizzonte contro il quale il concetto è formulato è l'immagine di sé di quelli di fuori; è costruito per denotare «il resto del mondo».

Si noti che quanto è stato detto sopra circa il carattere derivato e relazionale del concetto di primitivo si applica a una intera famiglia di nozioni nate nel contesto di asimmetria di potere, come fattori nella riproduzione di una struttura di dominio. Concetti diversi sono utilizzati a seconda di quale particolare dominio, o dimensione nella distribuzione del potere sociale, sia in gioco. Il concetto di primitivo come utilizzato da Radin tradisce i legami di parentela all'interno della famiglia: un concetto normalmente usato solo in termini della divisione tra la società occidentale (sviluppata, avanzata, complessa, civilizzata eccetera) e il resto del mondo, come può essere osservato dal punto di vista occidentale, ha finito col designare la parte «non intellettuale» del mondo, ed è così usato nel contesto di un'altra struttura di dominio.

È per le loro caratteristiche comuni che i concetti appartenenti alla famiglia in questione sono, almeno in una certa misura, reciprocamente interscambiabili. Quel che rende possibile lo scambio senza sfidare il senso di chiarezza semantica è, ovviamente, il sostanziale isomorfismo di ogni distribuzione asimmetrica del potere. Cosa più interessante, tuttavia, almeno una parte della spiegazione può essere ricercata nel fatto che qualunque sia la struttura di dominio riflessa in un determinato concetto, e da esso servita, tutti questi concetti sono formulati, o ridefiniti, o affinati logicamente, non dalla parte dominante della struttura nel suo complesso, ma dalla sua parte intellettuale. Nessuna meraviglia che l'immagine di sé dell'intellettuale (o, cosa ancor più importante, la predisposizione cognitiva creata dal modello di prassi specificamente intellettuale) condizioni l'articolazione dì tutti gli aspetti dell'asimmetria del potere.

Un tale condizionamento è particolarmente riconoscibile nei riferimenti quasi onnipresenti a determinate carenze mentali nella definizione di categorie e gruppi dominati, per altri aspetti molto diversi tra loro.

Che i dominati siano interpretati come primitivi, tradizionali o incivili, che la categoria analizzata appartenga a culture extraeuropee, razze non bianche, classi inferiori, donne, malati di mente, infermi o criminali, nella definizione sarà quasi immancabilmente posta in risalto l'inferiorità delle capacità mentali in generale, nonché l'inadeguata comprensione di princìpi morali o la mancanza di autoriflessione e di autoanalisi razionale in particolare. L'effetto complessivo di una universalizzazione siffatta è l'intronizzazione del sapere, caratteristica che attiene in modo particolarmente forte al modello intellettuale di prassi, al cuore della legittimazione di qualsiasi forma di superiorità sociale. Allo stesso modo, qualsiasi rivendicazione di dominio e di superiorità deve, almeno indirettamente, rendere omaggio proprio a quei fattori su cui gli intellettuali basano le proprie rivendicazioni di potere.

Abbiamo raccolto ora tutti gli elementi necessari per interpretare il senso in cui il concetto d'intellettuale sarà utilizzato in questo studio e per descrivere la strategia che sarà utilizzata nell'analisi del passato e del presente della categoria sociale degli intellettuali.

Innanzi tutto, il concetto d'intellettuale non si riferisce in questo studio a caratteristiche reali o supposte che possano essere ascritte o attribuite a una specifica categoria di persone all'interno della società, come le sue qualità innate, gli attributi conseguiti o i possessi acquisiti. Si presuppone che la categoria degli intellettuali non sia mai stata e non sarà mai «autosufficiente per definizione» e che nessuna definizione corrente che intenda concentrare l'attenzione sulle caratteristiche della categoria stessa per spiegarne la posizione e il ruolo all'interno di una società più ampia possa farsi strada attraverso il livello di legittimazioni fino alla configurazione sociale che esse legittimano. Poiché esse si basano in gran parte sulla retorica del potere sviluppata dalla categoria stessa, tali definizioni correnti, per così dire, «scambiano la materia con il mezzo».

In secondo luogo, ci asteniamo qui da qualsiasi tentativo di costruire una definizione collettiva dell'intellettuale mediante una tecnica di «individuazione», elencando cioè capacità, occupazioni, atteggiamenti, caratteristiche biografiche eccetera, che in un dato momento o in una data società possano pretendere di appartenere, o possano essere considerate appartenenti, alla categoria. In modo ancor più netto, ci asteniamo dal partecipare al dibattito (politicamente cruciale, ma sociologicamente secondario) diretto a decidere quali individui o gruppi «facciano ancora parte», e quali invece «rimangano appena fuori», della categoria intellettuale. Ci sembra che questo dibattito costituisca o un elemento della retorica del potere sviluppata da alcuni settori della categoria per favorire i tentativi di «chiusura», o il risultato del fatto che degli esterni confondono la retorica del potere con l'analisi sociologica. Anche in questo caso, la materia viene scambiata con un mezzo. Quel che sta dietro il dibattito al quale ci rifiutiamo di partecipare è la speranza di prefigurare teoricamente quel che può essere solo una manifestazione passeggera delle lotte politiche in corso, se non un tentativo di interferire con l'esito di tale lotta pur accettando l'arma usata dai contendenti, che è quella di rappresentare soluzioni politiche come decisioni circa la veridicità della questione. Limiteremo invece la nostra ricerca al compito di individuare la categoria dell'intellettuale all'interno della struttura della società più ampia come un «luogo», un «territorio», posto all'interno di tale struttura; un territorio abitato da una popolazione mobile e aperto alle invasioni, conquiste e rivendicazioni legali come lo sono tutti i territori.

Tratteremo la categoria dell'intellettuale come un elemento strutturale all'interno della configurazione sociale, un elemento definito non dalle sue qualità intrinseche, ma dal posto che occupa all'interno del sistema di dipendenze che tale configurazione rappresenta e dal ruolo che esso svolge nella riproduzione e nello sviluppo della configurazione.

Presumiamo che il significato sociologico della categoria possa essere ricavato solo mediante lo studio della configurazione come totalità. Ma presumiamo inoltre che il fatto che la categoria degli intellettuali appaia come un elemento strutturale di configurazione sia a sua volta essenziale per la comprensione della configurazione stessa, della natura delle dipendenze che la tengono assieme e del suo meccanismo di riproduzione, nei suoi aspetti sia conservatori sia innovatori. Le analisi della categoria intellettuale e delle configurazioni in cui essa appare sono indissolubilmente legate tra loro in un cerchio ermeneutico.

Le configurazioni che presentano la categoria intellettuale come loro elemento strutturale hanno sicuramente un certo numero di caratteristiche.

In primo luogo, una maggiore dipendenza tra coloro che si agitano insieme nella configurazione stessa deriva dalla incapacità socialmente prodotta dagli individui (presi singolarmente o nei gruppi che essi formano) di gestire la loro vita da soli. Alcune fasi della loro attività vitale, materiale o spirituale, nei loro aspetti pratici o ideativi, devono essere fuori dal loro controllo, ed essi hanno quindi bisogno del parere, dell'assistenza o dell'intervento attivo di qualcun altro.

In secondo luogo, questa insufficienza crea una dipendenza reale, dal momento che mette i «soccorritori» a stretto contatto con le fonti d'incertezza, e quindi in una posizione di dominio. Quel che emerge è un potere di tipo «pastorale» che - nella descrizione datane da Michel Foucault - significa un dominio esercitato «per il bene» dei dominati, nel loro interesse, ai fini del corretto e completo svolgimento della loro vita.

In terzo luogo, ciò che manca ai dominati (rendendo così il potere di tipo pastorale) è la conoscenza o le risorse per applicare la conoscenza nelle loro azioni. Allo stesso modo, i dominanti possiedono la conoscenza mancante, o ne mediano e controllano la distribuzione, oppure hanno a disposizione le risorse necessarie per applicare la conoscenza di cui sono in possesso e per godere dei prodotti di tale applicazione. I dominanti sono quindi saggi, insegnanti o esperti.

In quarto luogo, l'intensità e la portata del loro dominio dipende da quanto acuto sia il senso d'incertezza o di privazione causato dall'assenza di conoscenze in un settore gestito da un dato gruppo di saggi, insegnanti o esperti. Ancor più importante è il fatto che esso dipenda dalla capacità di questi ultimi di creare o intensificare un tale senso d'incertezza o di privazione; in altre parole, di produrre l'indispensabilità sociale del tipo di sapere che essi controllano.

Due ulteriori precisazioni sono però necessarie. In primo luogo, quel che abbiamo descritto sopra è raramente l'unico tipo di dipendenza e dominio che tiene insieme una configurazione e che presiede alla sua riproduzione. La mancanza di controllo sulla vita fa sorgere tipi di dominio diversi dal potere del sapere (il potere sui mezzi di produzione o sull'accesso ai mezzi di consumo sono i due casi più ovvi e notori).

Pertanto un'analisi della categoria intellettuale richiede non solo lo studio del rapporto tra gli intellettuali da una parte e i «clienti dei servizi di sapere» dall'altra, ma anche lo studio del complesso intreccio di rapporti competitivi tra più dimensioni di potere autonome tra loro e le categorie che esse generano. In secondo luogo, abbiamo delineato il «metodo configurativo» di analisi della categoria degli intellettuali in termini abbastanza generali per non limitarne l'applicazione ai problemi relativi alla cosiddetta «società globale». Questo metodo sembra essere egualmente utile per studiare sezioni minori della categoria che potrebbero essere localizzati all'interno della configurazione di una singola classe, di un gruppo organizzato o di un'area funzionale della vita sociale.


Capitolo 2.
I "philosophes": l’archetipo e l’utopia

Il nome collettivo «intellettuali» è di origine relativamente recente. Ne si fa risalire la paternità ora a Clemenceau, ora ai firmatari di una protesta pubblica contro il processo Dreyfus; in nessun caso però si è riusciti a rintracciarlo prima della fine del secolo scorso. La nuova espressione rappresentò inizialmente un tentativo di ristabilire l'unità di uomini e donne dalle occupazioni e posizioni sociali estremamente diverse tra loro, che altrimenti non avrebbero avuto molte occasioni di incontrarsi, né tanto meno di cooperare tra di loro, nel corso delle loro attività professionali: scienziati, uomini politici, scrittori, artisti, filosofi, avvocati, architetti, ingegneri. L'elemento unificante, come suggeriva vagamente la nuova espressione, era il ruolo centrale svolto dall'intelletto in tutte queste occupazioni. La condivisa intimità con l'intelletto non solo poneva questi uomini e donne in un ambito separato dal resto della popolazione, ma determinava anche una certa somiglianza nei loro diritti e doveri. Cosa ancor più importante, dava ai titolari di ruoli intellettuali il diritto (e il dovere) di rivolgersi alla nazione in nome della Ragione, ponendosi al di sopra delle divisioni e degli interessi materiali di parte. Attribuiva inoltre alle loro affermazioni la veridicità esclusiva e l'autorità morale che solo un tale ruolo di portavoce può dare.

Di notevole interesse sociologico, e meritevole di uno studio specifico, è il fatto che una tale comunanza di status e d'intenti fosse postulata in un momento in cui l'originaria unità della Ragione era già in uno stato di avanzata disintegrazione. L'inesorabile separazione dei discorsi scientifici, morali ed estetici era uno degli aspetti centrali della modernità. All'epoca in cui fu coniato il concetto d'intellettuale, la loro autonomia aveva raggiunto un livello di virtuale intraducibilità.

Nelle parole di Habermas, «la pluralizzazione di universi di discorso divergenti appartiene all'esperienza specificamente moderna […] Non possiamo ora semplicemente augurarci che questa esperienza scompaia, possiamo solo negarla […]» [01]. In apparenza è negata, e ripetutamente, in nome di alcuni presupposti, processi o effetti comuni che devono essere impliciti in tutto il pensiero razionale. La definizione (e l'entusiastica adozione) della denominazione comune di discorsi che sarebbero stati altrimenti diversi e divergenti fu un tentativo spettacolare, sebbene non l'unico, di negare (se non proprio di cancellare) un processo in corso da più di un secolo e apparentemente irreversibile.

La tripartizione del discorso razionale non esaurisce l'intera storia della disaggregazione. Gli stessi nuovi discorsi avevano fatto molta strada dalla vera o supposta che fosse unità originaria. I tempi in cui ogni «persona intelligente» poteva sperare di padroneggiare, con cura adeguata, la totalità del sapere contemporaneo e di maturare un'opinione informata su tutto ciò che le scuole e i libri potevano offrire (o, perlomeno, tutto ciò su cui valesse la pena avere un'opinione informata) finirono all'inizio del secolo scorso. Da allora in poi la somma del sapere oggettivamente esistente è stata separata da qualsiasi sapere soggettivamente assimilato, effettivo o possibile. L'unità asserita del pensiero razionale cessò di essere una questione di coordinamento reciproco tra gli agenti della produzione del sapere; poteva essere solo postulata, senza che ci fosse alcun mezzo di controllo effettivo. La presenza o l'assenza di tale unità non poteva essere comprovata induttivamente. Poteva essere solo attribuita e, anche allora, solo con un'autorità ridotta.

Tra le molte attribuzioni di questo tipo, la creazione (e molti degli usi successivi) del nome collettivo «intellettuali» occupa un posto speciale.

Ogni denominazione divide, ma la divisione implicita nella separazione degli intellettuali come gruppo è tale da attraversare l'intera categoria della élite intelligente, pensante, colta, illuminata. Tacitamente, essa attesta un secolo o più d'inesorabile divisione del lavoro. Sullo sfondo del campo frammentato degli specialisti e degli esperti essa evoca il fantasma dei «pensatori in quanto tali», individui che vivono per le idee e delle idee, liberi da preoccupazioni legate alla funzione o all'interesse; individui che mantengono la capacità, e il diritto, di rivolgersi al resto della società (compresi altri settori della élite colta) in nome della Ragione e dei princìpi morali universali. Ciascuno di questi individui ha una professione o una occupazione, ciascuno appartiene a un gruppo funzionalmente specializzato. Ma a parte questo ciascuno si innalza a un altro livello, più generale, dove la voce della Ragione e della «moralità» è intesa senza interferenze e distorsioni. Può darsi che tale autoelevazione sia più facile e più probabile nel caso di determinate professioni piuttosto che di altre. Ma in generale non è determinata esclusivamente da funzioni mondane. In definitiva rimane una questione di decisione e d'impegno. Accettare per sé l'etichetta d'«intellettuale», assieme agli obblighi che gli altri membri del gruppo accettano di sostenere, è di per sé un elemento di questo impegno. Un tentativo di separare coloro che «sono intellettuali» da coloro che non lo sono, di tracciare un confine «oggettivo» per il gruppo facendo un elenco delle professioni, delle occupazioni o delle qualifiche accademiche rilevanti non ha alcun senso ed è destinato al fallimento sin dall'inizio.

Il concetto d'intellettuali fu coniato come grido di richiamo, nonché come tentativo di resuscitare le rivendicazioni non realizzate del passato. Come grido di richiamo, non era diverso da tutti quelli in precedenza rimasti inascoltati prima che cominciassero a richiamare l'attenzione nel vocabolario pubblico all'inizio del secolo ventesimo: furono lanciati messaggi verso uno spazio sociale molto ampio, con trasmettitori orientati in una direzione precisa, ma con una ricezione che dipendeva ancora dalle tante decisioni individuali di accendere o di tenere spenti i ricevitori. Veniva inteso, per così dire, come atto di propaganda. Apparentemente, faceva riferimento a qualità che il destinatario già possedeva; in realtà, connotava motivazioni e funzioni auspicate per il futuro. Come tentativo di rivendicare le speranze frustrate del passato, il nuovo concetto si rifaceva a una memoria secolare di quella magnifica epoca di fermenti e di promesse, quando dottori, scienziati, ingegneri, signori di campagna, preti o scrittori appartenevano all'unica felice famiglia dei "philosophes", leggevano ciascuno le opere degli altri, parlavano tra loro e condividevano le responsabilità di un giudice collettivo, guida e coscienza del genere umano. Nella seconda delle sue accezioni, il concetto da poco coniato si rivolgeva anche al futuro: il vero messaggio era la possibilità di riconquistare lo spirito di tempi passati che si allontanavano sempre più rapidamente o, meglio, lo spirito proiettato ora retrospettivamente su quei tempi, in un mondo cambiato, fino a diventare irriconoscibile. Era la possibilità di riallacciare la comunicazione interrotta tra gli intelligenti e i colti; di ricreare, o creare daccapo, un discorso condiviso che unificasse la pletora dei discorsi specializzati; di porre su queste fondamenta uno scopo condiviso e una responsabilità comune.

Solo quando è condivisa, questa responsabilità comporta il diritto a una posizione d'influenza sociale paragonabile a quella di cui godevano i "philosophes". Indipendentemente da quel che può dire lo storico del complicato percorso che porta dai filosofi del secolo diciottesimo agli esperti del ventesimo, e quale che sia il suo fondato giudizio sulla continuità o discontinuità di tale processo, il fatto più direttamente rilevante per il nostro argomento è la presenza tangibile dei "philosophes" nel processo di autocostituzione degli intellettuali moderni. La loro memoria, il loro mito, la loro immagine idealizzata (vista come un riflesso dei sogni attuali nello specchio del passato), è essa stessa un fattore estremamente importante in questa autocostituzione. Il modello e il ruolo ricordato, o retrospettivamente interpretato, dei "philosophes" serve da «utopia attiva», da metro in base al quale ambizioni e risultati vengono misurati, criticati e corretti. Si può azzardare l'ipotesi che, se l'espressione originale, "philosophes", non è stata utilizzata direttamente nell'autorganizzazione degli intellettuali moderni, ciò è dovuto soltanto al fatto che la filosofia si è nel frattempo trasformata in un'occupazione rigidamente circoscritta, specializzata; un appello all'unificazione lanciato dal suo territorio sarebbe inevitabilmente decodificato come un esercizio d'imperialismo e conseguentemente contrastato o deriso (come, difatti, è ripetutamente avvenuto). L'idea degli «intellettuali» aveva almeno una qualche possibilità di ridestare quel senso di "jeu sans frontières" che sembrava venire così naturalmente ai filosofi dell'età dei Lumi. È quindi a costoro che dobbiamo ora rivolgerci per esplorare. e possibilmente rivelare, questa modalità che sta dietro l'idea d'intellettuali nella nostra epoca.

I "philosophes" non erano una «scuola di pensiero». Per ogni affermazione od osservazione positiva scritta da uno dei "philosophes" ce n'era un'altra, reperibile negli scritti di un altro "philosophe" o in un'altra opera dello stesso autore, pronta a contraddirla. Si avrebbe molta difficoltà a decifrare un «paradigma» (nel senso kuhniano del termine) che raccogliesse i "philosophes" e li mettesse in grado sia di comunicare tra di loro senza difficoltà sia di collaborare per uno scopo comune.

Quanto alla natura comunitaria della loro esperienza e della loro formazione, non esisteva. I "philosophes", come i "raznocincy" russi un secolo dopo, accoglievano tra le loro file gente di quasi tutti i ceti e condizioni sociali (con l'eccezione, forse, dei più umili). Né erano accomunati da somiglianza di temperamento o di gusto; sotto questo profilo, come sotto tutti gli altri, c'erano più elementi di divisione che di unione.

Eppure ci sono stati pochi tempi e luoghi nella storia umana, ammesso che ce ne siano stati, in cui lo strato colto e pensante della società sia stato visto - sia dagli altri sia da se stesso - come un gruppo unificato e compatto, paragonabile a quello dei "philosophes" in Francia nell'ultimo quarto del secolo diciottesimo. Qual era l'elemento che li univa, riconosciuto all'epoca e di cui fossero consapevoli, e che fosse potentemente rinvigorito dalla memoria vivente di un'età successiva?

Suggerirei che l'unico fattore unificante, ma potente e decisivo, dovrebbe essere ricercato non nel contenuto e neppure nel modo in cui i "philosophes" sostenevano qualcosa, ma nella finalità e nell'importanza attribuite all'atto stesso del sostenere qualcosa. Finalità e importanza erano attribuite a questo atto dagli stessi "philosophes"; ma gli furono anche assegnati, cosa più fondamentale, da un incontro breve, ancorché spettacolare e indimenticabile, con la storia politica. La duratura presenza dei "philosophes" (piuttosto che delle loro filosofie) nella memoria storica vivente - come utopia attiva, promessa in attesa di realizzazione, schema di autodefinizione, orizzonte per i progetti di buona società è il prodotto di circostanze uniche; essa è stata determinata solo in parte da quel che fecero i "philosophes"; in misura almeno pari, se non maggiore, essa è stata stabilita da quelle condizioni che, in un baleno, provocarono il corto circuito del sapere e del potere.

Tra queste condizioni, bisogna citarne un certo numero. Nessuna era una peculiarità della Francia; nessuna fu limitata nella sua durata a quel fondamentale quarto di secolo. Ma esse comparvero insieme solo in un luogo e solo per un breve spazio di tempo. Fu la loro coincidenza ad essere un fatto unico, senza precedenti, e sinora mai ripetuto.

In primo luogo, la monarchia assolutista stava per raggiungere la maturità: per rivelare la sua debolezza al pari della sua forza, i requisiti ancora insoddisfatti per la sua sopravvivenza insieme con il suo potenziale rivoluzionario non ancora esaurito.

In secondo luogo, era in corso da tempo il tramonto della vecchia classe dominante, la nobiltà, che lasciava due vuoti profondi tra i fattori ritenuti indispensabili per la riproduzione dell'ordine sociale: per riempirli, si rendeva necessario un nuovo concetto di controllo sociale insieme a una nuova formula per la legittimazione dell'autorità politica.

In terzo luogo, la nobiltà perse il suo significato politico ben prima che comparisse una nuova forza sociale, abbastanza forte per rivendicare quel ruolo politico vacante. Gli abiti della classe politica furono, per così dire, messi all'asta e fatti oggetto di offerte concorrenti. Le offerte potevano essere estreme; esse non dovevano tener conto degli interessi costituiti di alcuno.

In quarto luogo, i "philosophes" francesi si distinguevano «per l'assenza di uno status tradizionale o di una particolare funzione specialmente riservata a loro nella società. In Germania, i rappresentanti dei Lumi erano spesso professori universitari o funzionari statali. Nelle terre protestanti in generale, erano spesso uomini del clero. Ma in Francia nessuna di quelle vocazioni tradizionali distolse i "philosophes" dalla immagine che si facevano di se stessi come liberi intellettuali dell'intera società» [02].

In quinto luogo, per quanto non legati ad alcuna istituzione e liberi da lealtà particolari, i "philosophes" erano qualcosa di più di un insieme d'individui. Costituivano un gruppo saldamente unito da una fitta rete di comunicazioni: la "république des lettres", le "sociétés de pensée", i club, una voluminosa corrispondenza, vicendevoli recensioni, scambi di visite, la loro corte papale nella casa di Voltaire a Ferney, il loro sistema giudiziario e punitivo con l'opinione pubblica che sedeva al banco della giuria. Erano un gruppo, un gruppo autonomo, e un gruppo che presentava opinioni, scritti, discorsi e linguaggio in generale come un legame sociale in sostituzione di tutti gli altri.

In sesto luogo, la costituzione della "république des lettres" non avrebbe potuto avvenire in un momento più opportuno. Era quello un secolo di amministrazione, organizzazione, gestione; un secolo in cui le consuetudini diventavano oggetto di legislazione e un modo di vita era problematizzato sotto forma di cultura; un secolo che ridefiniva radicalmente i vecchi confini tra privato e pubblico e che allargava quest'ultimo sino a raggiungere dimensioni inaudite; un secolo che aveva bisogno di conoscenze tecniche, qualifiche, competenze per fare quel che fino ad allora era stato fatto in modo naturale e scontato; un secolo in cui il potere aveva bisogno di sapere, e lo cercava.

Non sostengo che questo elenco di condizioni sia completo. Se ne possono certamente aggiungere alcune altre; qualsiasi storico delle origini della Francia moderna (quale io non sono) non avrà alcuna difficoltà nell'individuare altri aspetti, forse drammatici, per i quali quel paese si distingueva allora da altre epoche e altri paesi. Ma la lista sembra sufficiente per i nostri scopi, visto che anche così com'è rende il senso di una situazione storica piena di tensione generata dal riunirsi, concentrarsi e confrontarsi tra loro di problemi di cui altri paesi o epoche fecero l'esperienza successivamente o non fecero mai; ed essa contiene sufficienti fattori di «traino» e «spinta» per rendere conto di quel fondamentale processo storico di cui il binomio potere/sapere costituisce un residuo duraturo.

Il fenomeno descritto nella letteratura storica come il sorgere dell'assolutismo fu - da un punto di vista sociologico - un processo di riassestamento del potere politico successivamente o simultaneamente all'affievolirsi del principio feudale di associazione tra diritti di proprietà terriera e doveri amministrativi. Il potere si allontanò dalle proprietà terriere; sebbene mantenesse proprietà e ricchezze, l'aristocrazia perse il suo ruolo in quanto «classe politica»; in ogni caso, non fu più concesso ai nobili «di diritto», come parte di eredità delle loro proprietà terriere, un posto nella gerarchia del potere politico. Il potere separato dai proprietari terrieri fu riunito in alto.

Il monarca assoluto era il primo esemplare dello «Stato moderno» weberiano caratterizzato dalla rivendicazione di un monopolio dei mezzi di coercizione; la sottomissione di tutti gli abitanti del paese ai poteri coercitivi della sola monarchia, utilizzati secondo le regole poste dalla monarchia medesima, fu il più importante meccanismo per trasformare quegli abitanti da sudditi feudali in cittadini dello Stato moderno, e quindi da partecipi di diritti e doveri corporativi in individui. Un legame di dipendenza diretto legava ora i singoli cittadini al re: i cittadini avevano doveri verso lo Stato, e lo Stato aveva doveri verso il cittadino, tutti assieme e ciascuno separatamente. Qualunque organo amministrativo mediasse tra i due estremi del sistema assolutista, poteva farlo solo con l'assenso o per ordine del monarca; ogni potere proveniva dall'alto.

La «spoliticizzazione» delle proprietà terriere poneva alla monarchia un compito che nessun governo aveva dovuto affrontare prima, perlomeno non su una scala paragonabile. Alexis de Tocqueville fu forse il primo a sottolineare questa conseguenza dell'assolutismo, la più gravida di implicazioni, per quanto non imprevista. In Francia, «poiché erano stati tolti al feudatario i suoi antichi poteri, egli si era sottratto ai suoi antichi obblighi. Nessuna autorità locale, nessun consiglio, nessuna associazione provinciale o parrocchiale aveva preso il suo posto […]. Il governo centrale si era arditamente assunto di provvedere da solo ai bisogni dei poveri delle campagne. Tutti gli anni il consiglio assegnava a ogni provincia, sul ricavato generale delle tasse, certi fondi che l'intendente distribuiva in soccorsi nelle parrocchie […]. Il consiglio emanava annualmente i decreti per istituire, in certi luoghi da lui indicati, laboratori di carità in cui i contadini più poveri potevano avere occupazione e percepire un piccolo salario».

Ma l'assistenza ai poveri era solo un problema minore tra le migliaia di cui lo Stato centralizzato dovette farsi carico, in quanto se ne trovavano in ogni parte del paese. I mezzi di coercizione non erano l'unico elemento di potere del quale la monarchia assolutista rivendicasse il monopolio. «Il ministro aveva già concepito il desiderio di penetrare con i propri occhi, in ogni particolare, tutte le questioni e di regolare egli stesso ogni cosa in Parigi. A mano a mano che l'amministrazione pubblica si perfeziona, questa passione aumenta».

L'inevitabile risultato di questa preoccupazione nuova e senza precedenti dello Stato era un «sovraccarico dall'alto» egualmente senza precedenti nel sistema politico che stava emergendo. Gli uffici centrali crescevano rapidamente in dimensioni e autorità. Come aveva già osservato d'Argenson nel 1733, «i particolari affidati ai ministri sono immensi. Non si fa nulla senza di loro, se non attraverso di loro, e se le loro cognizioni non sono estese quanto il loro potere, essi sono costretti a lasciar far tutto agli impiegati, che divengono i veri padroni» [03].

L'immensità dei compiti che essi dovevano affrontare fu la causa sia degli impressionanti poteri sia della tremenda debolezza del dominio assolutista. Tali poteri devono essere sembrati incredibili all'osservatore contemporaneo: un governo autorizzato a legiferare per un enorme territorio, ignorando differenze locali e imponendo criteri da osservare dappertutto; poteri che inoltre arrivavano a toccare settori della vita mai prima sottoposti alla legislazione e alla gestione esterna, e che quindi, apparentemente, operavano in uno spazio libero, non occupato, in una specie di terra di nessuno politica, nella quale il volere del legislatore non incontrava alcun freno. In quelle terre vergini della politica, almeno, il re faceva la parte di Dio; il suo compito era niente meno che la creazione della società umana «dal nulla».

Helvétius non aveva dubbi circa chi avrebbe formulato le leggi: «I despoti illuminati!» [04]. Nel frattempo Turgot consigliava a Luigi Sedicesimo che nulla «deve impedirvi di modificare le leggi stabilite o le istituzioni che sono state approvate, una volta che voi ammettiate che un tale mutamento sia giusto, benefico e realizzabile» [05]. Il potere assoluto era un potere che vedeva la società come un terreno disabitato da colonizzare, al quale dare leggi rispondenti a un dato modello.

Se questa immagine di forza davvero straordinaria era una delle facce della medaglia assolutista, le sue debolezze ne erano l'altra. In effetti, l'una era inseparabile dall'altra. Costruire su un'area deserta richiedeva un progetto ardito, ma accuratamente tracciato; non ve n'era alcuno a disposizione, dato che il compito non si era mai posto in precedenza. Il progetto si profilava tanto grandioso quanto il compito era formidabile; richiedeva pertanto una tecnica di gestione ancor più potente di quella utilizzata secoli prima per il solo coordinamento del controllo delle acque da parte degli imperi idraulici. La tecnica, non appena fosse stata inventata, probabilmente avrebbe richiesto la raccolta, la memorizzazione e l'elaborazione d'informazioni su scala mai prima necessaria né possibile sotto la struttura di potere gerarchica del feudalesimo. Ma nessun aspetto singolo - progettazione, sviluppo della tecnica o sua applicazione, trattamento delle informazioni necessarie - poteva basarsi su competenze tradizionali o istituzioni consuetudinarie.

Se mai, vecchie usanze e competenze sociali apparvero come altrettanti ostacoli sulla strada del nuovo ordine. Esse erano necessariamente percepite come superstizioni o pregiudizi, che difendevano forme di vita settarie ed egoistiche contro l'interesse pubblico (cioè contro il nuovo ordine). Erano quindi richieste nuove competenze e una nuova élite qualificata, una élite non legata ai passati meccanismi di privilegio e quindi in grado di porsi al di sopra dei retrivi interessi localistici o di gruppo.

La categoria probabilmente meno in grado di produrre tali competenze e di trasformarsi in una nuova élite, era la nobiltà terriera, la quale, secondo le parole di Tocqueville, «nei tempi feudali si considerava […] press'a poco come oggi si considera il governo […]. I nobili […] assicuravano l'ordine pubblico, amministravano la giustizia, facevano osservare le leggi, soccorrevano i deboli, dirigevano gli interessi comuni» [06]. Un aspetto inalienabile dell'amministrazione dei nobili consisteva nel fatto che la scala della giurisdizione amministrativa era ridotta a quella della proprietà terriera. L'amministrazione aristocratica poteva garantire la riproduzione della società solo nella misura in cui questa rimaneva frammentata in località federate. Gli orizzonti governativi e lo zelo amministrativo dell'aristocrazia terriera erano saldamente intrecciati con i loro diritti di proprietà e circoscritti dai confini di questi ultimi. Essi non avevano alcun fondamento proprio né una flessibilità sufficiente per riconvertirli facilmente al servizio di un governo e di un sistema legale centralizzati che superassero i confini delle proprietà nobiliari.

In un recente studio, Ellery Schalk ha scoperto che all'inizio dell'epoca moderna nella storia francese la nobiltà «era considerata una professione o una funzione, qualcosa che si esercitava, piuttosto che qualcosa che si ereditava» [07]. In realtà, Schalk ha raccolto una vasta documentazione che dimostra in modo inequivocabile che la nobiltà era percepita (e concepiva se stessa) come entrambe le cose nello stesso tempo, strettamente legate. Una unione così stretta, indivisibile, tra «ereditare» ed «esercitare» costituiva il tratto più notevole nella sua immagine e formula di legittimazione. Furono la necessità di scegliere fra i due aspetti, e la possibilità di concepire l'«ereditare» senza l'«esercitare» (e, prima o poi, viceversa) che segnarono la fine dell'epoca della supremazia aristocratica e aprirono la strada a una nuova élite.

La nobiltà entrò nell'età moderna come la «classe guerriera». Le due nozioni restarono a lungo sinonimi, fintanto che le due categorie di uomini che esse designavano coincisero, in virtù della professione militare praticata e monopolizzata dai membri di famiglie nobili. Nei primi scritti moderni questa sinonimia è espressa, argomentata e difesa: già un sinistro presagio del divorzio incombente. Per tutto il secolo sedicesimo, il discorso della legittimazione aristocratica fu incentrato attorno ai concetti di "race" e di "vertu"; il primo equivale a quello che sarà in seguito noto come il «pedigree», mentre il secondo non si discosta dall'etimologia latina (da "vis", forza, a "vir", uomo, il maschio; "vertu" aveva il significato sottinteso di valore, combattività, maestria: il significato che diamo ancora alla nostra idea in qualche modo civilizzata di "virtuoso". All'inizio dell'età moderna, il valore compreso nella "vertu" aveva soltanto un uso militare; i detentori di "vertu" erano cavalieri; "vertu" era un attributo necessario ai soldati).

Si presume che la nobiltà sia una combinazione di "race" e "vertu". Ma la stessa articolazione dell'unione e l'insistenza con la quale essa viene riaffermata in pubblicazioni sempre più numerose lascia pensare che ci possano essere casi in cui il matrimonio non sia stato consumato. I criteri per la nobiltà sono due, non uno; se così è, allora da un punto di vista logico essi possono o non possono incontrarsi in un solo e medesimo individuo. Ma se uno di tali criteri manca, la «nobiltà» di quell'individuo risulta incrinata e discutibile.

Sempre più spesso, la "noblesse" è trattata come una "profession" o "vocation" (funzione). Per Montaigne, ad esempio, la funzione militare era «la forma propria ed unica essenziale» della nobiltà francese [08]. La forma propria è evidentemente una forma che almeno in teoria non è automaticamente garantita. E difatti avviene l'inevitabile: dapprima timidamente, poi con maggior vigore, il divorzio viene denunciato, diagnosticato, condannato. Già nel 1539-40 Guillaume de la Perrière pubblicò "Le Miroir politique", un libro che dettò i termini del dibattito sulla legittimazione per il resto del secolo e oltre, nel quale egli lamenta il fatto che «uno dei più grandi errori che osserviamo attualmente è che alcuni nobili dei nostri tempi si limitano alla loro eredità ("race"), sperando di essere nobili senza virtù». Questa era la diagnosi, ed ecco qui la prescrizione per la cura: «Se in gioventù [i vostri figli] sono ben istruiti, essi si riveleranno nobili, di saldi principi morali e di buone abitudini; se al contrario sono istruiti ed educati mediocremente, saranno sempre "vilains", cattivi e malvagi». La preoccupazione di de la Perrière non era necessariamente il frutto di compunzione morale. C'erano altri motivi, più tangibili, di allarme e un senso di urgenza, come dimostrò Francis de l'Alouete nel "Traité des nobles et des vertus dont ils sont formés" alcuni decenni dopo (nel 1577): in conseguenza del fatto che la nobiltà non teneva più fede all'ideale della virtù, «non sono più quelli che provengono dalle famiglie più nobili e antiche a essere chiamati a occupare le più elevate cariche onorifiche e non sono più i "gentilhommes" a detenere le cariche e gli uffici della "maison du Roi" o quelle giudiziarie, ma sono molto spesso i contadini più scellerati e "vils" e altri simili "roturiers"». E nel 1582 Louis Musset lo dichiara a chiare lettere: non si può essere nobili indipendentemente da quel che si fa, semplicemente in virtù dei propri antenati [09].

Un certo numero d'idee nuove e rivoluzionarie furono formulate nel corso del dibattito sulla legittimazione del secolo sedicesimo. Per cominciare la vecchia idea di "vertu", l'attributo centrale invocato in tutte le passate legittimazioni della superiorità sociale e del diritto di governare, lentamente, quasi impercettibilmente, perse i suoi precedenti connotati militari. Acquistò un significato più ampio, riferendosi ora alle qualità richieste dalla vita pubblica e in particolare a quelle necessarie a un servitore amministrativo del re. Il contesto politico, in rapido mutamento con l'avvento della monarchia assoluta, non sapeva che cosa farsene del valore cavalleresco, ma sapeva benissimo che cosa farsene di funzionari zelanti e informati per il governo e la magistratura. Se il vecchio significato di "vertu" era tagliato su misura per la gerarchia feudale del potere, il significato trasformato rispondeva alla nuova domanda. Eppure altre nuove formulazioni sembrano molto più significative. In primo luogo, l'idea che la "vertu" non sia un dono di nascita, ma una qualità che deve essere acquistata o guadagnata (un chiaro spostamento dall'argomento ascrittivo a quello orientato verso la realizzazione). In secondo luogo, una concezione ancor più fondamentale: la "vertu" può essere raggiunta solo mediante l'istruzione.

E questione di educazione guidata, e non solo di dimostrazione di propensioni innate.

Ne segue una curiosa confusione semantica. Da una parte, il termine "noblesse" è ancora usato nel suo senso descrittivo, come denominazione sommaria di un insieme di famiglie con pedigrees e titoli, costituitosi in entità in virtù della forza congiunta della tradizione e della legge.

Tra l'altro, essa era insita nella struttura degli Stati Generali che, significativamente, non furono mai convocati per l'intero periodo di mutamenti drammatici qui discusso. Alcuni autori la lodarono, altri la condannarono o la dileggiarono, a seconda della loro provenienza politica o delle simpatie di classe. D'altra parte, "noblesse" è ora utilizzato come un concetto normativo, o valutativo, come la denominazione di una forma ideale, ambita di umanità, con riferimento ad attributi svincolati, privi di un «rapporto speciale» con alcuna delle parti legalmente definite della nazione. Nella seconda accezione, "noblesse" è qualcosa per cui la "noblesse" nel primo senso deve lavorare, se lo vuole, al pari di chiunque altro. Alle soglie del secolo diciassettesimo, Pierre Chanon scriveva, nel suo "De la sagesse", di "noblesse personnelle", o "acquise", come distinta dalla "noblesse naturelle"; la fedeltà non impediva la comprensione, ma determinava una opposizione di termini non certo atta a chiarire la confusione. La nobiltà come eccellenza, come titolo a un ruolo e a una funzione pubblici, aveva strappato l'ancora che la teneva avvinta alla nobiltà di lignaggio. Essa era ora, per così dire, offerta a tutti. E le offerte potevano essere fatte esclusivamente attraverso l'educazione.

Nel corso del periodo che va dalla fine del secolo sedicesimo alla metà del diciassettesimo furono istituite e fiorirono in tutta la Francia accademie per nobili. Ci furono numerose pubblicazioni che sostennero la tesi dell'educazione istituzionalizzata e abbozzarono corsi di studi e programmi per la scuola ideale. Le accademie, secondo la elegante espressione di Pluvinel, avrebbero dovuto essere "écoles de vertu". La "vertu" stessa fu discussa nel suo senso modernizzato: l'intento dichiarato delle accademie era quello di preparare i rampolli della nobiltà alle cariche pubbliche e di aggiungere quella grazia e quel lustro necessari per sopravvivere e avanzare nella vita di corte, il nuovo luogo della vita pubblica nel quale era oltremodo inopportuna la tradizionale condotta rozza e sgarbata. I corsi di studi proposti contenevano sezioni piuttosto ampie dedicate alle arti marziali; ma queste ultime erano trattate nel loro senso simbolico piuttosto che pratico, cioè come indici di status e distintivi di una tradizione perpetuata con amore. Cavalcare, andare a caccia e duellare avevano la precedenza rispetto alla tecnica militare più direttamente finalizzata al campo di battaglia. Il loro ruolo sottilmente trasformato risulta evidente dalla nuova serie di capacità, di rado associate alla "noblesse" un secolo prima. Secondo uno dei corsi di studi proposti, agli allievi nobili bisognava insegnare «i costumi e le abitudini di altri popoli, come comportarsi in politica e in guerra, la conoscenza dell'Antichità, l'onore, il comportamento e le maniere cortesi ("gentillesse"), e mille altre cose importanti che accenderanno in loro la curiosità di andare a cercare la bellezza e la perfezione» [10].

Riassumendo: con l'avvento dell'assolutismo la nobiltà ereditaria o titolata (diluita, aggiungiamo, fino a diventare irriconoscibile attraverso il massiccio acquisto delle cariche legate ai titoli) perse il suo ruolo collettivo come classe politica. La nobiltà come ideale di eccellenza, e come legittimazione dell'influenza politica, perse poco della sua attrattiva. Ora, però, è stata separata dall'eredità e dal lignaggio. Ha acquisito invece una nuova, ma altrettanto intima connessione: quella con l'istruzione. Per acquisire l'eccellenza, gli uomini devono essere istruiti. Hanno bisogno d'insegnanti. Hanno bisogno di coloro che sanno. È l'esperienza di passare per le mani degli insegnanti che ora diventa lo stadio decisivo sulla strada della "vertu".

E non c'è alcuna chiara ragione per cui gli insegnanti possano eseguire il trapianto di "vertu" solo su esseri umani dotati di pedigree.

Dobbiamo ora occuparci degli insegnanti.

Con una intuizione sociologica rara negli storici dell'epoca, Augustin Cochin scrisse: «Il corpo, "la société de pensée", spiega lo spirito, le convinzioni condivise. La Chiesa qui precede, e crea, il suo Vangelo; essa è unita per la verità, non da essa. La Rigenerazione, l'Illuminismo, fu un fenomeno sociale, non morale o intellettuale» [11]. Cochin, ucciso all'apice della sua carriera nelle trincee della prima guerra mondiale, era uno storico della Rivoluzione francese. L'avvenimento che egli stava cercando di capire era il breve episodio del Terrore giacobino. Da questa ricerca era stato ricondotto ai "philosophes". Dai suoi appassionati pamphlet, pubblicati postumi, risultano le sue scoperte ancora allo stato d'ipotesi: la politica dei giacobini può essere capita solo come una continuazione, come una realizzazione della forma di vita dei "philosophes", e l'esame della storia dei "philosophes" alla luce della sua fase giacobina, pratica, offre una chiave per penetrare il loro stesso mistero. Ci permette di vedere l'Illuminismo come un modo di vita, non una serie d'idee.

Gli smilzi libri di Cochin aspettarono, praticamente senza essere letti, quasi settant'anni prima di venir riscoperti da Francis Furet [12].

Nell'opera di Furet si incontrarono con alcune osservazioni, anch'esse quasi dimenticate, di Alexis de Tocqueville. Assieme, esse alimentarono una nuova concezione, distaccata, consapevolmente sociologica, della prima, eroica epoca nella storia degli intellettuali moderni. Una concezione che, a quanto pare. non poteva essere raggiunta che dal punto di vista dell'età postmoderna e dei suoi «intellettuali parziali».

Tocqueville introduce l'argomento degli intellettuali al punto in cui noi abbiamo lasciato la storia della nobiltà.

«Un'aristocrazia, quando è in pieno vigore, non guida soltanto gli affari pubblici; dirige le opinioni, dà il tono agli scrittori, dà autorità alle idee. Nel secolo diciottesimo, la nobiltà francese aveva perduto interamente questa parte del suo dominio; il suo credito aveva seguito il destino della sua potenza: il posto che essa aveva occupato nella direzione delle intelligenze era vuoto e gli scrittori potevano occuparlo a loro agio e da soli» [13].

Non c'è nulla da ridire sulla cronologia degli eventi, ma ora il processo sembra essere stato molto più complesso di quanto non suggerisca Tocqueville. Presentare il processo come un semplice «cambio della guardia» davanti a un palazzo che rimane immutato significa non cogliere il vero significato rivoluzionario di quei «letterati che non avevano né onori, né ricchezze, né responsabilità, né potere», che «diverranno di fatto i principali uomini politici del tempo, anzi i soli, perché, mentre gli altri amministravano il governo, essi ne avevano l'autorità» [14].

Quegli uomini di lettere, i precursori (e a tutt'oggi l'archetipo e l'orizzonte utopistico) degli intellettuali moderni, non «s'impadronirono» della guida dell'opinione pubblica. Essi "diventarono" un pubblico, "crearono" l'opinione pubblica, ottennero per questa loro creazione un'autorità che permetteva loro di negoziare o competere con il potere di coloro che «tenevano le redini del governo». È vero, essi si appropriarono di un'arma rimessa a nuovo e modificata della virtù che cadeva dalle mani stanche della nobiltà ereditaria; è vero, la fine della nobiltà preparava un terreno fertile per una tale rimessa a nuovo e modifica. Ma l'analogia finisce qui. È difficile anche solo sostenere l'idea di successione storica. In nessun momento la vecchia nobiltà fu una guida per l'opinione pubblica nel senso in cui lo divennero in seguito gli uomini di lettere. Non furono solo (o meglio, non furono in primo luogo) i dirigenti politici a cambiare; fu la stessa politica a farlo. A differenza della politica del passato, offriva allora uno spazio per l'autorità degli uomini di lettere.

Nelle parole di Francis Furet, la sostanza di questa nuova politica era tutto un nuovo mondo di «socialità politica», fondato sulla "opinion", «questa cosa vaga […] che si crea nei caffè, nei salotti, nelle logge e nelle società» [15]. I luoghi di questo mondo, compiuto e chiuso in se stesso, della nuova politica erano assai distanti dalle sedi di effettivo potere amministrativo e controllo politico. Chi li occupava poteva quindi permettersi di considerare dall'esterno problemi che agli amministratori e ai legislatori apparivano come questioni d'intervento pratico. Essi potevano permettersi di pensare le questioni politiche in termini di princìpi, piuttosto che di aspetti pratici o dell'arte del possibile.

Essi non avevano mai l'occasione di sottoporre le loro idee alla prova della realizzabilità; l'unica prova che contava era l'accordo di altri partecipanti al dibattito, loro simili. Era stato in tal modo creato un nuovo criterio di verità, davvero rivoluzionario: il consenso.

In questo, il nuovo assetto sociale per la produzione e la diffusione delle idee differiva radicalmente da tutto ciò che si ricordava dall'Europa premoderna. Ciò non andava contro il modo di vita dell'aristocrazia: il potere di quest'ultima era quello delle armi e del controllo amministrativo, non delle idee. Andava contro la Chiesa, il suo opposto speculare. Il meccanismo di produzione delle idee fondato sulla "république des lettres" rappresentava una nuova, radicale alternativa alla gerarchia ecclesiastica. La struttura verticale della Chiesa forniva un incrollabile e trascendente fondamento di verità a pensatori e scrittori: la saggezza divina, la certezza incarnata nella stabilità e nella continuità della Chiesa. La Riforma mandò in frantumi questa stabilità; peggio ancora, introdusse la polivalenza nell'ermeneutica della verità di Dio sino ad allora unificata. Di conseguenza, la certezza devota fu sostituita dalla crisi «pirroniana» [16] che tormentò i filosofi di tipo nuovo, laico, per tutti i secoli diciassettesimo e diciottesimo. Fu a questa crisi che la "république des lettres", strutturata orizzontalmente, fornì una risposta: nuovi fondamenti di certezza, una nuova corte d'appello. Consenso.

L'orizzontalità della struttura diede agli immigrati nella "république des lettres" una libertà, rispetto alle strutture ben definite, verticali, del potere, che risuonava nelle loro coscienze come «libertà di pensiero». Anzi, per quanto rigidi fossero i vincoli imposti al pensiero individuale dal consenso della collettività, essi sembravano molto lievi se paragonati alla «economia di comando del pensiero» rappresentata dalla Chiesa. L'esperienza della libertà fu inoltre rafforzata dalla separazione del potere statale. A differenza dei loro colleghi a est del Reno, i "philosophes" francesi non occupavano cariche pubbliche; o meglio, singoli membri della "république" si guadagnavano da vivere in una tale varietà di commerci e istituzioni che le rispettive dipendenze si annullavano a vicenda; nessun singolo potere esterno era talmente influente da pesare più degli altri. Naturalmente, la libertà di pensiero aveva un altro aspetto un po' meno attraente, e dunque meno celebrato: la mancanza di potere. Le pressioni del potere sacro e secolare erano tanto meno sgradevoli quanto più essi restavano fuori della portata dei "philosophes".

Questo quadro sociale unico trovò la sua espressione in una serie di norme controfattuali per la ricerca laica della verità, che conferirono ai "philosophes" un ruolo duraturo nella formazione e nella storia degli intellettuali moderni. Tali norme sono tuttora valide, non importa se dichiarate ed esposte, tacitamente seguite o proiettate come limiti esterni del progresso auspicato, come nella famosa utopia della «comunicazione non distorta» di Jurgen Habermas.

In una "société de pensée", osservava Cochin, «i partecipanti appaiono liberi, privi di ogni legame, di ogni obbligo, di ogni funzione sociale» [17]. «I suoi membri - aggiunge Furet - devono, per svolgere a loro ruolo, spogliarsi di ogni particolarità concreta, e della loro effettiva esistenza sociale […]. La "société de pensée" è caratterizzata, per ogni suo membro, dal solo rapporto con le idee» [18]. Ci sono, ovviamente, dei presupposti controfattuali, dal momento che i cittadini della "république des lettres" erano diversi tra di loro sotto ogni possibile aspetto. Come nella più vasta società, c'erano tra loro ricchi e poveri, potenti e privi di potere, ben inseriti ed emarginati. Ma l'unico potere che era esplicitamente concesso d'invocare all'interno della "république des lettres" era il potere dell'idea, dell'argomento, della logica, misurato con il metro del consenso. Per citare di nuovo Cochin, la "république" «è un mondo in cui si chiacchiera, dove non si può far altro che chiacchierare, e dove ogni intelligenza ricerca l'accordo di tutti, l'opinione, allo stesso modo in cui nel mondo reale ricerca un prodotto e un effetto» [19]. Poiché l'opinione umana è l'unico fondamento sociale della nuova certezza, la discussione è la via maestra verso la verità. La verità è fatta dall'uomo, la ragione umana è la massima autorità, l'uomo è autosufficiente come forza ordinatrice della realtà umana, la realtà stessa è malleabile, pronta a essere fatta, disfatta e rifatta a seconda della volontà umana, buona o cattiva che sia. Un ambiente integrato esclusivamente dalla discussione e dall'opinione d'individui socialmente indefiniti si riflette in una visione del mondo forgiata e riforgiata dalla volontà soggettiva: un mondo senza costrizioni, solo con avversari.

La "république des lettres" era, quindi, un modo di vita, fondato dal punto di vista sociale su una rete ampia e strettamente intrecciata di comunicazione reciproca, e dal punto di vista intellettuale su una serie di convenzioni controfattuali che rendevano operativa tale rete. Entrambe le condizioni della sua esistenza si resero disponibili nella situazione politica molto particolare, e forse irripetibile, di una società che si ritagliò un settore di azione autonomo, libero dall'intervento dei poteri politici. Questa situazione durò abbastanza per permettere al nuovo modo di vita di istituzionalizzarsi e di raggiungere così una certa immunità nei confronti delle successive vicende della storia politica; ma non abbastanza da permettere a questo modo di vita di congelarsi in una innovazione marginale, interessante dal punto di vista storico ma priva di significato politico.

L'isolamento dal potere (esperito come autonomia) non durò troppo a lungo per le ragioni brevemente discusse in precedenza. La monarchia assoluta si trovava ad affrontare compiti amministrativi di un'ampiezza senza precedenti, che non potevano essere affrontati con mezzi tradizionali. Le trasformazioni della struttura sociale svalutavano i meccanismi consueti di controllo e d'integrazione sociale e mettevano all'ordine del giorno problemi nuovi non solo per dimensioni ma anche per natura. Il potere apparentemente illimitato era ora concentrato nelle mani del monarca assoluto, tentato da esperimenti di riforma del corpo sociale, dal momento che quest'ultimo appariva ora duttile e arrendevole se paragonato all'enorme forza degli strumenti di potere. Ma ciò richiedeva un grande progetto per un società migliore; ci volevano esperti, specialisti, consiglieri: coloro che «sanno».

Consultati su tali questioni, i cittadini della "république des lettres" potevano rispondere soltanto proiettando sull'enorme schermo della «buona società» ciò che essi conoscevano meglio e di cui erano più soddisfatti: il loro proprio modo di vita. Molti anni dopo, nel 1931, Ludwig Wittgenstein scrisse nel suo taccuino:

«Se dico che il mio libro è destinato solo a una piccola cerchia di persone (se così la si può chiamare), non voglio dire, con questo, che per me tale cerchia sia l'élite dell'umanità; sono però le persone alle quali mi rivolgo, e non perché migliori o peggiori delle altre, ma perché esse costituiscono la mia cerchia culturale ["Kulturkreis"], in certo modo sono gli uomini della mia patria, a differenza degli altri che mi sono stranieri» [20].

Si tratta naturalmente di una profonda intuizione circa la condizione psicologica della gerarchia intellettuale di valori, intuizione che divenne possibile solo verso la fine dell'èra cui dettero avvio i "philosophes"; l'intima familiarità di uno stile ben compreso e agevolmente praticato compare qui nella sua vera forma, come la peculiarità di una cerchia sociale piuttosto che come una forma di vita universalmente valida. Le condizioni psicologiche della proiezione da noi menzionate potrebbero tuttavia essere molto simili a quelle esplicitate da Wittgenstein anche se la peculiarità di gruppo si travestiva allora da attributi della specie umana, e la maschera controfattuale dei membri del gruppo si presentava ancora come la natura purificata dell'«uomo in quanto tale».

Le domande poste non furono formulate dai "philosophes". Le risposte invece sì. E non potevano essere fatte di altro se non dell'esperienza collettiva della "république des lettres".

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