Natsuo Kirino
Il libro
Sopprimere, ovvero recidere ogni legame con l’altro per volontà personale e annientare il suo cuore attraverso l’indifferenza, l’abbandono, la fuga e quant’altro. È il tema che ossessiona da qualche tempo la scrittrice Suzuki Tamaki, al punto tale da farne l’oggetto del romanzo che ha in animo di scrivere, intitolato L’indecenza. L’ossessione le è sorta il fatidico giorno in cui ha aperto le pagine de L’innocenza, un romanzo degli anni Cinquanta in cui il celebre autore, Midorikawa Mikio, narra con disarmante sincerità di X, la sua amante, e la ritrae come l’origine di tutti i mali della sua famiglia, colei che ha fatto sí che Chiyoko, sua moglie, si perdesse totalmente nei meandri bui della follia a causa della sua violenta gelosia.
Quando si imbatte in alcune vecchie immagini di Midorikawa in compagnia di una ragazza, Ishikawa Motoko, credendo di poter dare un nome alla misteriosa X de L’innocenza, Tamaki si ritrova al cospetto della donna, ormai sessantaquattrenne.
Pelle luminosa, guance rosee e neanche l’ombra di una ruga intorno agli occhi, Motoko ha un volto da eterna ragazza cosí bello e irreale da sembrare un essere venuto da un altro mondo. La sua confessione sgomenta Tamaki: Midorikawa l’ha sedotta che era appena una graziosa e incantevole fanciulla, ha piantato le tende in casa sua per ben sei anni esasperando il suo desiderio, poi quando lei è cresciuta l’ha abbandonata, imprigionandola per sempre nella sua verginità.
Ishikawa Motoko non può dunque essere X. La ricerca di Suzuki Tamaki sembra a un punto morto. Chi è quella donna senza volto e senza nome diventata famosa grazie a un romanzo, ma evanescente come un fantasma? E, soprattutto, chi è davvero Midorikawa Mikio? Un essere estremamente egocentrico che annienta il cuore degli altri? Un uomo crudele e spregevole che recide i suoi legami con studiata indifferenza?
Abilissima come sempre nel tratteggiare la psicologia dei suoi personaggi, Natsuo Kirino consegna con In un romanzo impeccabile, di alto valore letterario, che ne conferma il ruolo di autrice di assoluto rilievo della letteratura giapponese contemporanea.
Avvertenza
Per la trascrizione dei termini giapponesi è stato adottato il sistema Hepburn, secondo il quale le vocali sono pronunciate come in italiano e le consonanti come in inglese. Si noti inoltre che:
ch è un’affricata come la c nell’italiano cera
g è sempre velare come in gatto
h è sempre aspirata
s è sorda come in sandalo
sh è una fricativa come sc nell’italiano scena
w si pronuncia come una u molto rapida
y è consonantico e si pronuncia come la iitaliana
Il segno diacritico sulle vocali indica l’allungamento delle medesime.
Secondo l’uso giapponese, il cognome precede sempre il nome (fa qui eccezione il nome dell’autrice).
Tutti i termini giapponesi sono resi al maschile in italiano.
Per alcuni termini e nomi propri giapponesi si rimanda al Glossario a fine volume.
1
Indecenza
1
Un sabato mattina, Suzuki Tamaki fece un incubo tremendo e si svegliò terrorizzata, con il cuore in gola. Fuori il tempo era stupendo, eppure fu assalita da un brutto presentimento che la turbò molto. Per deformazione professionale – era una scrittrice – tentò di ricordare nei minimi dettagli il sogno che aveva fatto, ma tutto stava già per svanire, come un veliero che colava a picco a una velocità inaudita. Solo la sensazione di terrore persisteva, richiamando l’immagine dell’albero maestro che poco a poco veniva inghiottito dalle onde. Fece uno sforzo disperato per riportare in superficie almeno qualche scena, quasi che tentasse di recuperare una parte della mercanzia durante un naufragio.
Nel sogno, era in compagnia degli editor Saitō Jin e Nakagusuku Yōichi, che lavoravano rispettivamente per la rivista letteraria Diablo e per la casa editrice che la pubblicava. Si trovavano in una zona di campagna per fare delle ricerche e raccogliere informazioni, circondati da fattorie e piccoli santuari shintoisti. A un certo punto entravano in una stanza buia in fondo a una vecchia casa dove scoprivano, allineate sui tatami, delle vecchie casse di legno e una sorta di bare di pietra. Una spiccava tra tutte: un piccolo sarcofago che pareva essere molto antico, dotato chissà perché di cerniere metalliche. Ma nessuno osava dare un’occhiata al suo interno, quasi fosse proibito farlo, e tutti e tre si limitavano a guardare senza muovere un dito.
«Lei lo sapeva?» domandava poi a bassa voce Saitō a Tamaki, avvicinandosi piano al suo fianco. «Yamazaki è morto».
Dopo di che elencava i nomi di altri scrittori. Allora Tamaki si voltava dalla sua parte e fissava con un certo stupore il suo viso malinconico. Yamazaki era un romanziere che conosceva molto bene, e nel sogno si chiedeva come mai lei fosse la sola persona a non essere al corrente della sua morte e di quella degli altri colleghi.
Tutt’a un tratto Nakagusuku si avvicinava al sarcofago e ne sollevava in un sol colpo il coperchio. Tamaki era contrariata e scioccata, eppure la curiosità la spingeva a guardare. In un liquido torbido e biancastro, galleggiava il corpo di un neonato rannicchiato in posizione fetale, gonfio e perlaceo. Mentre era lí attonita, paralizzata dall’orrore, entravano in scena degli estranei, con ogni probabilità i proprietari della casa. L’anziana signora in testa al gruppetto, dopo aver aperto gli shōji facendo un certo fracasso, corrugava la fronte e diceva con aria di rimprovero: «Chi vi ha dato il permesso di entrare e di impicciarvi dei fatti nostri?».
Il sogno si interrompeva lí. Tamaki restava impietrita, incapace di aprire bocca persino per chiedere scusa.
Mentre sorseggiava un caffè, Suzuki Tamaki si domandava come mai avesse fatto un incubo del genere. Durante la notte, per via del vento forte in tutta la casa si erano sentiti dei rumori sinistri. Da quando era impegnata nella stesura del suo nuovo lavoro, spesso era nervosa e di cattivo umore.
Si apprestava a scrivere un romanzo intitolato L’indecenza. Il tema era la soppressione del rapporto d’amore. La soppressione, e non la fine. Sopprimere, ovvero: recidere ogni legame con l’altro per volontà personale e annientare il suo cuore, attraverso l’indifferenza, l’abbandono, la fuga e quant’altro. La protagonista del romanzo, il cui nome era indicato da una semplice X, era presa in prestito da un libro di Midorikawa Mikio intitolato L’innocente. In quel romanzo l’autore, che nella vita reale aveva un’amante di cui la moglie era al corrente e terribilmente gelosa, raccontava senza riserve il dramma di quella situazione e la guerra tra le due donne. Nell’Innocente, Midorikawa si riferiva all’amante con il nome in codice X e la ritraeva dall’inizio alla fine del libro come la causa di tutti i mali della sua famiglia. Cosa aveva pensato la vera X leggendo quella storia? Che cosa aveva provato nei confronti di Midorikawa? Tamaki stava effettuando delle ricerche approfondite per scoprirlo, voleva cercare di capire chi fosse quella donna e che genere di vita avesse condotto.
Tutto questo bastava per spiegare il neonato morto che le era apparso in sogno e la convinzione che si trattasse dei resti dell’ennesima anima errante “soppressa” per amore? Tamaki era depressa, aveva la sensazione che l’oscurità dalla quale si sentiva circondata fosse gravida di morte, colma di cadaveri di neonati simili a quello che aveva visto nel suo incubo. Creature nate dall’amore, che non riuscivano a crescere e maturare. La passione travolgente e senza futuro, soppressa prima di poter coronare il sogno dell’amore eterno, era senza dubbio all’origine di quell’esercito di piccole anime erranti. Le persone che erano solite ironizzare sull’irrazionalità dell’amore erano incapaci di comprendere un sentimento del genere. Tamaki sapeva molto bene che esistevano uomini e donne che soffrivano per amore al punto da desiderare la morte. Al punto da spingere la propria famiglia in un baratro di dolore.
La data di consegna della prima parte del romanzo alla redazione di Diablo si approssimava. Con la tazza di caffè stretta in mano, Tamaki si diresse nel suo studio per mettersi al lavoro. Stava riflettendo sull’incipit, quando di colpo, con sua grande sorpresa, le affiorò alla mente Seiji. Anche questo doveva avere a che fare con i cadaveri delle anime erranti. Forse era arrivato il momento di guardare in faccia le ombre del loro amore estinto, l’anima del loro bambino mai nato. E dopo aver digitato la parola “indecenza” sulla tastiera del pc, Tamaki si abbandonò ai ricordi e ripensò alla sua storia con Abe Seiji.
Si erano rivisti il 7 luglio 2005, un anno e quattro mesi dopo la loro burrascosa separazione. Tamaki ricordava molto bene la data: era il giorno della festa del Tanabata. Una coincidenza beffarda1.
Abe Seiji era il suo editor. Libro dopo libro, avevano finito per innamorarsi, nonostante avessero entrambi una famiglia. Il lavoro aveva svolto un ruolo molto importante. Lei scriveva e lui revisionava i suoi testi e le dispensava consigli. La finzione dava corpo alla realtà e la fantasia li conduceva verso mondi lontani e sconosciuti. Forse potevano apparire fin troppo spensierati e ottimisti, ma erano felici. Avevano tentato di tenere segreta la loro relazione, erano stati sempre attenti a nascondersi, eppure alla fine tutto era venuto allo scoperto. I loro familiari erano rimasti scioccati, li avevano disprezzati e odiati. Tuttavia non erano riusciti a smettere di vedersi: anche quando si è consapevoli che tutto è andato in rovina, c’è sempre un’altra strada da percorrere, per quanto irta di ostacoli e pericolosa.
Fino a poco prima della fine della loro storia, durata ben sette anni, si erano sentiti al telefono tutti i giorni, si erano scambiati una montagna di e-mail e visti tutti i fine settimana. Andavano spesso in viaggio insieme e lavoravano tanto, con infinita gioia. Sapevano di assomigliarsi, di sentirsi vicini e di fidarsi ciecamente l’uno dell’altra.
Quando Tamaki, sfinita, diceva di voler mettere fine alla relazione, Seiji andava su tutte le furie: «Tu sei pazza! Lo sai che nella vita capita una sola volta di incontrare l’anima gemella? Non possiamo lasciar perdere tutto, ci assomigliamo troppo, ci amiamo alla follia». Lei gli dava ragione e si ricredeva seduta stante. La scena si ripeteva di frequente, ma l’epilogo era sempre lo stesso, e Tamaki continuava a restare sospesa in un limbo e a non capire. Lei voleva arrivare al limite estremo del loro amore travolgente e senza futuro, l’apice. Ma come fare? Il problema era che non sapeva in cosa consistesse esattamente quel limite estremo. Eppure voleva raggiungerlo lo stesso e non riusciva a darsi pace.
Seiji era piú giudizioso. Per lui, il loro incontro costituiva già di per sé un punto d’arrivo. Ecco perché a volte affermava che se si fossero separati non ci sarebbe stato modo di tornare indietro. Ma questo Tamaki riuscí a coglierlo solo dopo la fine della loro storia.
Quella sorta di fraintendimento era diventata la causa principale delle loro discussioni e dei loro litigi. E alla fine si erano lasciati. Non era stato facile, avevano dovuto fare uno sforzo sovrumano per riuscirci, e Tamaki si era ripromessa che prima o poi avrebbe scritto come erano arrivati a quella dolorosa decisione, sempre ammesso che fosse stata in grado di fare ordine nel proprio cuore.
Dopo la separazione, Seiji aveva lasciato un mucchio di oggetti personali nello studio di Tamaki: bottiglie di alcolici e sake, spazzolino da denti, rasoio, medicinali per la gotta, contenitori per lenti a contatto e liquido per la pulizia, pigiama, magliette, tuta da ginnastica, infradito, libri, cd, fotografie dei viaggi insieme. Seiji scattava quelle foto con la sua macchina digitale, le stampava e le portava allo studio di Tamaki, dove di tanto in tanto vi dava un’occhiata veloce, prima di dimenticarsi persino della loro esistenza.
Finalmente, un giorno, Tamaki aveva deciso di chiamarlo. Era un pezzo che non si sentivano, e lei stava pensando già da parecchio di telefonargli: poteva disfarsi senza problemi del suo spazzolino da denti o delle ciabatte infradito, ma il solo pensiero di sbarazzarsi delle fotografie le dava dolore. Quelle in cui era ritratto Seiji ammontavano a occhio e croce a un centinaio. Poteva tranquillamente ridurre in mille pezzi gli scatti in cui era da sola, ma non quelli che riguardavano lui. Quel mazzo di circa cento fotografie le faceva quasi paura, aveva un che di minaccioso. Racchiudeva in sé una storia lunga ben sette anni e un’infinità di sentimenti. Ciascuna istantanea era stata scattata in circostanze diverse, e il viso di Seiji non era mai lo stesso, anche se era sempre colmo di fiducia e amore nei suoi confronti. Esisteva al mondo un altro uomo con un’espressione e uno sguardo come quelli? Liberarsi di quelle fotografie avrebbe significato gettare via per sempre il suo Seiji, e di conseguenza anche la donna che lui aveva amato, dunque se stessa. Aveva riflettuto a lungo e con attenzione sul da farsi, ma alla fine era giunta alla conclusione che non poteva prendersi da sola la responsabilità di una tale decisione.
Aveva avuto il coraggio di telefonargli approfittando del lungo ponte di vacanze di inizio maggio2. Il numero lo aveva trovato in una vecchia agendina, visto che aveva cancellato i suoi contatti dalla rubrica del cellulare. Seiji aveva risposto subito, con una voce squillante, malgrado lei avesse digitato il codice numerico per la chiamata anonima.
«Pronto? Sono Abe, chi parla?»
Una voce squillante e venata di una certa curiosità.
«Ciao, sono Tamaki. Scusa, è parecchio che non ci sentiamo».
«Sí, è davvero parecchio…»
Non appena aveva sentito pronunciare quel nome, Seiji aveva reagito con emozione, la voce vibrante, piena di gioia.
«Già».
Poi erano rimasti in silenzio per alcuni lunghi attimi. Finché Tamaki non gli aveva chiesto: «Come stai? Tutto bene?». Al che lui aveva risposto: «Sí, tutto bene, e tu?».
Era una bella serata di maggio, limpida e piena di luce. Seiji era di ottimo umore, al punto che Tamaki aveva subito pensato che stesse vivendo un momento felice della sua vita. Era commossa, finalmente erano pronti a parlarsi al telefono con calma e onestà, dopo la loro brutale separazione. Sentire, a distanza di oltre un anno, la voce dell’uomo che aveva conosciuto intimamente e del quale non aveva notizie da tempo le aveva fatto venire le lacrime agli occhi. Le loro rispettive famiglie erano state distrutte dalla loro storia d’amore. Avrebbe tanto voluto parlarne con lui, ma ormai era passato del tempo e di sicuro non sarebbe stato facile capirsi come una volta.
«Ti ricordi le nostre foto e tutta la roba che hai lasciato da me?» aveva detto Tamaki. «Sto cercando di rimettere un po’ in ordine, ma ci sono alcune cose di cui non riesco a sbarazzarmi: il materasso, per esempio. Non è che verresti a darmi una mano? Non mi sembra giusto che debba fare tutto da sola».
Si era subito pentita di aver aggiunto quell’ultima frase, quanto mai superflua, ma non era riuscita a trattenersi. Il senso di ribellione contro l’egoismo di Seiji, il quale era stato capace di sparire senza preoccuparsi di portar via i suoi effetti personali, si stava risvegliando a poco a poco. Tamaki viveva circondata dalle macerie del loro amore, mentre lui, una volta allontanatosi fisicamente, aveva potuto distaccarsi da lei con maggiore facilità. In una separazione, quando si gioca a chi vince e chi perde, è normale che ognuno voglia conquistarsi la posizione piú vantaggiosa. È come una gara di sopravvivenza.
«D’accordo, fammici pensare. Lo sai che quando si tratta di prendere delle decisioni sono molto lento. Mi serve del tempo. Ma sta’ tranquilla, ti prometto che mi farò vivo».
In quelle parole, Tamaki aveva percepito una profonda sincerità, ma anche la solita irresolutezza del suo ex amante. Quella risposta non solo l’aveva lasciata insoddisfatta, ma l’aveva anche irritata. Le fotografie, i cd e tutto il resto poteva infilarli in un pacco e spedirglieli in ufficio, ma non era quello il problema: sentiva il bisogno di incontrarlo di persona per capire se il loro grande amore fosse davvero finito. E voleva anche chiarire un dettaglio una volta per tutte, guardandolo negli occhi, a proposito di quella che lei usava definire “la sua particolare malvagità”.
In seguito si erano sentiti altre volte, finché Tamaki non ne aveva potuto piú e gli aveva imposto di vedersi. Gli aveva detto chiaro e tondo: «Non siamo piú cosí giovani, non sappiamo chi di noi due morirà per primo. È inutile rimandare, dobbiamo vederci». E stava per aggiungere: «Ho bisogno di chiederti una cosa», ma si era astenuta dal farlo all’ultimo momento. Se avesse pronunciato quelle parole, molto probabilmente lei e Seiji non si sarebbero mai piú rivisti.
«Lo sai bene anche tu, la nostra storia ha creato un sacco di problemi a tutti. È stato un disastro, mi sono fatto un mucchio di nemici, anche se per fortuna qualcuno si è schierato dalla mia parte. Ma ho dovuto promettere alcune cose, è ovvio, tra le quali il fatto che non ti avrei piú incontrata».
Sebbene la risposta fosse stata molto chiara, Tamaki si era detta che, trattandosi di Seiji, un ripensamento era sempre possibile. Era un uomo che non sapeva resistere alla curiosità. Difatti, dopo due settimane esatte, era arrivata la sua telefonata.
«Ciao, ti andrebbe bene questo giovedí?» le aveva proposto. «Io sono libero, potremmo prendere un tè da qualche parte».
Erano parole inattese. Quel “prendere un tè da qualche parte” suonava molto freddo, significava che Seiji intendeva tenere alta la guardia. Se per esempio fossero andati a cena insieme, avrebbero bevuto e, sotto l’effetto dell’alcol, avrebbero finito col parlare del piú e del meno e si sarebbero ritrovati al punto di partenza. Era già successo altre volte, avevano sperimentato in piú di un’occasione quel genere di fallimento. Una volta tanto, tradendo le sue abitudini, Seiji si era mostrato prudente e responsabile. E cosí era arrivato quel famoso 7 luglio.
Quella sera il cielo era plumbeo e minacciava pioggia. Nel giorno della festa del Tanabata, non c’erano stelle nel firmamento. Tamaki sentiva il peso della volta celeste sulle spalle e già si pentiva di aver accettato l’invito.
Seiji le aveva dato appuntamento da J., all’interno del Keiō Plaza Hotel. Giunta puntuale all’incontro, lo aveva cercato con lo sguardo, ma lui non era ancora arrivato. Un tempo, si presentava sempre con una decina di minuti di anticipo e la aspettava leggendo un libro. Mentre si guardava intorno, Tamaki non aveva potuto fare a meno di pensare che Seiji non era piú quello di una volta.
Quando stavano insieme, si vedevano spesso da J. per parlare di lavoro o per consumare un pasto leggero. Era un pezzo che non metteva piede lí. Il posto, completamente cambiato, era diventato un vero e proprio ristorante per famiglie. Tamaki era andata a sedersi nell’angolo fumatori in fondo alla sala e si era accesa una sigaretta. Aveva ordinato solo un caffè, perché non aveva molta sete.
Cinque minuti dopo l’ora stabilita, aveva visto un uomo entrare nel locale e avanzare voltandosi a destra e a sinistra. Aveva i capelli tinti di un vistoso biondo rosato. Era Seiji, non c’erano dubbi. Con una colorazione meno decisa i suoi capelli avrebbero avuto delle sfumature di un biondo spento. Indossava una giacca di cotone beige, una camicia rosa e dei classici blue-jeans. Guardandolo, a Tamaki era venuto spontaneo indovinare la marca di quei pantaloni: Gap. I suoi gusti in fatto di abbigliamento erano diventati decisamente giovanili.
Tamaki continuava a osservarlo con un certo distacco, fumando la sua sigaretta. Quel colore di capelli non si confaceva alla sua età, come anche il modo di vestire. Tutto strideva con i suoi anni, e il tentativo di apparire piú giovane era fin troppo evidente. Tamaki, riflettendoci su, non aveva potuto trattenere un risolino, perché in fondo anche lei era impegnata da tempo nella stessa impresa ai limiti dell’impossibile. Si assomigliavano molto, come sempre.
Seiji continuava a cercarla. Tamaki era stata sul punto di gridare: «Sei-chan!», ma alla fine aveva taciuto, presa dall’imbarazzo. Non sapeva piú come fosse opportuno rivolgerglisi. Forse ora è il caso di chiamarlo “Abe-san”, aveva pensato divertita. Non gli piaceva essere chiamato semplicemente “Seiji”, ed era stato lui a chiederle di usare il diminutivo, “Sei-chan”. La correggeva spesso insistendo sulla pronuncia del dialetto di Ōsaka: Seechan. Sua madre lo chiamava sempre cosí. In seguito, quando Tamaki aveva parlato al telefono con sua moglie, aveva scoperto che quest’ultima lo chiamava “Seiji”, senza ricorrere a vezzeggiativi o nomignoli.
Il vero nome di Tamaki era Yumiko, e Seiji la chiamava “Yumi-chan”. Proprio come faceva suo marito. Tamaki aveva preferito non dirgli niente, non attribuiva una particolare importanza a dettagli del genere. Trovava il tutto molto curioso: la moglie lo chiamava “Seiji”, e lei lo chiamava “Seechan”, come sua madre. Se la moglie era l’unica a cui concedeva di chiamarlo per nome, perché la tradiva? Forse lei era una semplice amante, un’altra donna? Another woman… Tra l’altro Seiji non le aveva mai chiesto come la chiamasse suo marito.
Un semplice appellativo rivela l’abisso che separa l’uomo e la donna, aveva concluso Tamaki. L’uomo cerca il possesso, la donna punta al legame. Secondo uno psichiatra che le era capitato di conoscere per motivi di lavoro, la maggior parte degli esseri umani incarnava appieno questa teoria, e lei e Seiji non facevano di certo eccezione. A partire da un dettaglio in apparenza insignificante, ovvero il modo di rivolgersi al partner, era arrivata a mettere a fuoco una grande verità. Tamaki e Seiji erano molto simili, andavano d’accordo e si amavano. Tuttavia restavano separati dalla differenza di sesso, che nella coppia costituiva un ostacolo insormontabile. Perché bisognava tener conto dei bisogni e dei difetti dell’uno e dell’altra, del fatto che lei era una moglie e lui un marito, nonché delle esigenze dell’editor e della scrittrice: tutto ciò li teneva legati in modo inestricabile, fino a soffocarli. Mentre meditava sulla complessità della relazione con Seiji, Tamaki si era lasciata andare a un lungo sospiro. Ora ne era piú che convinta: il loro amore era frutto di un’energia nient’affatto scontata e ordinaria. Erano stati sette anni di pura magia, e adesso, al pari del leggendario Urashima Tarō di ritorno dagli abissi marini, rischiavano anche loro di essere trasformati all’istante in due vecchi decrepiti.
Finalmente Seiji l’aveva vista e si era avvicinato al tavolo, radioso in viso. Un grande sorriso si era disegnato di colpo sui loro volti: al di là di tutto, erano felici di rivedersi dopo tanto tempo. Il cuore di Tamaki traboccava di emozione. Era amore, amicizia o un sentimento prossimo ad affetto fraterno? In ogni caso, in quell’attimo preciso, Tamaki aveva avuto l’illusione di veder risorgere in lei la fiducia di una volta. In quei sette anni di intimità era arrivata a conoscere a memoria i gesti e l’intonazione della voce dell’uomo che amava, al punto da indovinare quello che avrebbe fatto o detto l’istante successivo.
«È una vita che non ci vediamo, come stai?» gli aveva chiesto, salutandolo con un cenno della mano.
«Bene, e tu? Mi sembri in gran forma» aveva risposto lui in tono cordiale, sedendosi di fronte a lei. «Sei un po’ dimagrita, o sbaglio?»
Seiji la fissava estasiato. Anche i suoi lineamenti sembravano essersi affinati, aveva un’aria piú giovanile. Ma la camicia rosa e la giacca decisamente attillate che aveva addosso, oltre che sembrare capi da quattro soldi, non si addicevano per niente alla sua età. Allora Tamaki aveva rivolto uno sguardo preoccupato alla propria camicetta e ai jeans, pensando che molto probabilmente trasmetteva anche lei un’immagine simile.
«Mentre venivo qui» le aveva poi confessato Seiji, «avevo il cuore che mi batteva a mille».
«Anch’io…» aveva risposto Tamaki.
In questo erano uguali, identici, la copia l’uno dell’altra. Sentivano e pensavano le stesse cose, e non era la prima volta che ne avevano conferma. Erano in perfetta sintonia. Tamaki sapeva che era cosí ed era stata contenta di provare dopo molto tempo la sensazione di essere un tutt’uno con lui. Intanto si era accesa un’altra sigaretta.
«Sono consapevole di aver ferito tua moglie. Mi dispiace molto, credimi».
«Sí, anch’io le ho fatto molto male…»
E il marito di Tamaki? Seiji non si era mai degnato di presentargli le sue scuse. Anche se ne aveva avuto l’occasione, il giorno stesso dell’addio, quando aveva telefonato a Tamaki e aveva parlato anche con lui.
«Mi perdoni per quello che è successo l’anno scorso? Sono stata davvero pessima, ero fuori di me».
Si era già scusata mille volte per quello. La sera in cui si erano lasciati, lo aveva schiaffeggiato a piú riprese. Non riusciva a spiegarsi perché si fosse comportata in modo cosí violento. Forse aveva avuto il sospetto che Seiji si era preso gioco di lei? Assolutamente no. Si trattava di una pura pulsione autodistruttiva, che nasceva dai suoi ripetuti e vani tentativi di mettere fine alla relazione. Ora, finalmente, se ne rendeva conto.
«Be’, quella sera eri piuttosto nervosa…» aveva risposto Seiji, abbozzando un sorriso stentato. Lui non le rimproverava mai niente a parole. In base al suo punto di vista, in amore tutto era concesso, compresi i comportamenti piú abietti e riprovevoli. Diceva, ad esempio, che la gelosia poteva rendere gli uomini folli, e riteneva ammissibile mentire e finanche appiccare un incendio o commettere chissà quale altra pazzia. Ecco perché non aveva mai rimproverato nulla a Tamaki. E allora che senso aveva quello che le aveva fatto? Vendetta… Sí, anziché disapprovare apertamente il suo comportamento, aveva forse voluto vendicarsi in silenzio.
D’un tratto, mentre era persa nei suoi pensieri, Tamaki si era accorta che Seiji non stava fumando. Lui che, non appena si sedeva a un tavolo, sfilava una sigaretta dal pacchetto senza neanche verificare se si trovasse in un posto per fumatori e senza chiedere il permesso alle persone che erano vicino a lui. Fumava anche nei taxi, incapace di stare senza nicotina per piú di dieci minuti. Quando andava all’estero, correva subito fuori dall’aeroporto alla ricerca di un posacenere!
«Hai smesso di fumare?» gli aveva chiesto a bruciapelo.
«Sí, l’anno scorso, in autunno» aveva risposto lui stringendosi nelle spalle, mentre sorseggiava il suo caffè. «Era diventata una gran seccatura dover scendere ogni volta diversi piani per raggiungere l’area fumatori. E poi sono successe tante cose… Ho smesso una volta per tutte, non mi è costato piú di tanto. Anche se fumavo da una vita, da piú di trent’anni».
Il fatto che avesse smesso di fumare costituiva per Tamaki un’ulteriore conferma del suo cambiamento. Anzi, forse quello era il dato piú convincente, la prova definitiva che Seiji non era piú lo stesso. La sua “aria malsana”, che in un modo o nell’altro traspariva nonostante l’aspetto sano e florido, era scomparsa del tutto, senza lasciare tracce. Fin dal loro primo incontro, Tamaki aveva percepito in quell’uomo “in piena salute” una sorta di debolezza nociva e malvagia. E ora, finalmente, quello stesso uomo sembrava aver ritrovato almeno in parte la sua innocenza giovanile.
«Come mai hai smesso? Non l’avrei mai detto…»
«Verso febbraio ho avuto un problema di salute. Ma credo che riuscirò a tenere duro fino alla pensione» aveva risposto Seiji, come se niente fosse.
Che cosa voleva dire con quel “tenere duro fino alla pensione”? Stava parlando della sua sopravvivenza? Tamaki aveva avuto un brutto presentimento. Da qualche anno, Seiji soffriva di malesseri improvvisi dovuti a una sorta di anemia. Una volta, per esempio, era svenuto durante un party e le aveva telefonato in preda al panico per raccontarle di aver passato un brutto momento e di aver addirittura temuto di morire. Ripeteva spesso che aveva paura di fare la stessa fine di suo padre, stroncato da un’emorragia cerebrale. Un’altra volta, mentre erano insieme in taxi e passavano per caso davanti a un ospedale, lui le aveva mostrato il cartello che indicava il reparto di neurochirurgia e le aveva spiegato che, nel caso avesse avuto un malore per cause cerebrovascolari, sarebbe riuscito a salvarsi solo se l’ambulanza lo avesse condotto di filato in un ospedale che aveva quel tipo di reparto. Negli ultimi anni si era molto indebolito, e Tamaki era in ansia per lui nonostante sembrasse godere di buona salute.
Qual era il problema al quale aveva accennato? Tamaki avrebbe voluto saperne di piú, ma Seiji non era disposto ad aggiungere altro. Del resto tra loro non c’era piú quell’intimità che rendeva legittimo preoccuparsi delle reciproche condizioni di salute. Non erano due completi estranei, ma ormai non stavano piú insieme da un pezzo. Tamaki ne era ben consapevole e aveva rinunciato a fare domande.
«Ho deciso di prendere la vita alla leggera» aveva detto dopo una breve pausa Seiji, «non mi importa piú di niente».
Anche questa affermazione era legata al suo problema di salute? Tamaki era addolorata.
«Non ti interessa piú nemmeno la letteratura?»
«Non mi interessa piú niente, te l’ho detto. Con te ho perso tutto: il lavoro e i sentimenti. Ho bruciato tutto prima dei cinquant’anni, oramai sono un guscio vuoto».
Tamaki era rimasta in silenzio, l’immagine del guscio vuoto si addiceva molto al nuovo Seiji. Lei, invece, non poteva permettersi di ridursi cosí, doveva scrivere un romanzo. In passato, soprattutto nella fase che precedeva la stesura, discutevano insieme per ore e ore, presi da un entusiasmo febbrile, arrivando a perdere perfino la cognizione del tempo. Ma adesso era tutto finito, lui si considerava un guscio vuoto e consunto. La sua anima gemella era scomparsa.
«Hai letto il mio ultimo libro?»
«No, e non credo che lo leggerò».
Seiji aveva assunto un’espressione triste che sembrava voler dire: “E perché dovrei leggerlo?”. Quindi dicevi sul serio, aveva pensato Tamaki mentre lo guardava negli occhi. Poco prima di lasciarsi, da Starbucks, avevano avuto un confronto molto acceso. Tamaki aveva insistito dicendo che non esistevano altre soluzioni oltre alla separazione, e Seiji le aveva risposto, lo sguardo basso: «Se ci diciamo addio, io non sarò piú il tuo editor. Non leggerò mai piú i tuoi libri».
Lui, che era sempre il primo a leggere i suoi romanzi, aveva dichiarato che non lo avrebbe piú fatto. E cosí era stato. Non importa, pazienza, aveva mormorato una voce dentro di lei. Forse era meglio cosí, ora che non stavano piú insieme. Non era questo ciò che Tamaki desiderava? Assolutamente no. Lei voleva raggiungere il limite estremo del loro amore, sentiva che non erano andati fino in fondo.
«E ora di che cosa ti occupi in casa editrice?» gli aveva chiesto, dopo aver alzato gli occhi e aver guardato bene in faccia l’uomo che non era piú quello di una volta.
«Niente di che, mi diverto a far muovere un po’ le cose».
Era serio? Non aveva potuto fare a meno di lanciargli uno sguardo severo. Quando lavoravano insieme, non smetteva mai di ripetere che aveva scelto di consacrare la sua vita alla letteratura e ai romanzi. Poi, dopo che la loro storia era giunta al capolinea, i colleghi avevano cominciato a dire di lui che era un uomo finito, che era ormai l’ombra di se stesso, al che Tamaki si era ritrovata a non sapere piú che cosa desiderasse veramente. La sua rovina o il suo successo? Oppure né l’una né l’altra cosa, ma solo che restasse l’uomo che aveva amato? Ora che il legame si era spezzato, una cosa valeva l’altra. Perché la persona che aveva di fronte non era il Seiji di una volta, bensí un completo estraneo. Nel realizzarlo, Tamaki si era sentita assalire dalla disperazione. Forse non voleva credere che i sette anni insieme erano stati solo “tempo sprecato”? Era molto confusa. A un certo punto, vedendola silenziosa, Seiji aveva cambiato argomento.
«Forse quello che è successo tra noi accade in qualsiasi storia d’amore, era poco piú di una lite tra innamorati, ma è indubbio che abbia avuto delle ripercussioni anche sulla nostra vita professionale. Il problema è che abbiamo mischiato la vita privata e il lavoro… Non c’è niente di piú sbagliato, abbiamo commesso un grave errore».
In qualsiasi storia d’amore, era poco piú di una lite tra innamorati? No, Tamaki non era d’accordo.
«Ma come sarebbe potuto essere altrimenti? Il lavoro faceva parte di noi, della nostra storia!»
«Questo lo dici tu, ma nessuno dei miei colleghi era d’accordo. Mi hanno rimproverato di aver fatto una sciocchezza nel mettere insieme la vita privata e quella pubblica. E comunque nessuno mi ha rinfacciato di averti danneggiata piú di tanto dal punto di vista professionale» aveva obiettato in tono serio e convinto Seiji.
Tamaki, pensandoci su, aveva ricordato che in effetti Seiji non si era mai scusato per averle causato serie difficoltà nell’ambito lavorativo. Dopo quella famosa serata, era talmente furioso che aveva rifiutato di rileggere il romanzo che all’epoca Tamaki stava pubblicando a puntate su un quotidiano. Lei aveva provato a telefonargli numerose volte, ma non c’era stato niente da fare. La casa editrice per la quale lavorava Seiji aveva in programma di ripubblicare il romanzo in edizione tascabile, e a lui era stato affidato l’editing del testo. Tamaki era avvilita, in quanto aveva notevoli difficoltà a proseguire la stesura con la stessa fluidità di prima e aveva bisogno dei consigli di Seiji per tenere alta la tensione e sviluppare al meglio la trama. Ma lui si negava perfino al telefono, confermando che il loro legame si era definitivamente incrinato. Seiji, convinto che Tamaki sbagliasse ad agitarsi tanto, si era lasciato assorbire da altri impegni e non le aveva piú dato retta, come se si fosse perso nei meandri della casa editrice. Era soprattutto in questo atteggiamento passivo che risiedeva la sua vendetta silenziosa. In breve, la situazione era precipitata, passando da una semplice “lite tra innamorati” a un duro scontro tra un’autrice e la sua casa editrice. Come pretendeva Seiji di parlare di una comune storia d’amore e di una lite tra innamorati, quando Tamaki, come scrittrice, rischiava di perdere tutto nella battaglia? Ripensando a quel momento difficile, Tamaki aveva sentito riaccendersi dentro la collera.
«Una lite tra innamorati? Ne sei proprio sicuro? All’inizio, forse» aveva obiettato di nuovo lei.
«Ti sbagli. Non molto tempo fa, ho scoperto che in ufficio giravano strane voci su di me e mi sono informato bene. E sai che cosa dicevano quelle voci? Che tu eri impazzita di gelosia e mi avevi schiaffeggiato in pubblico perché avevi saputo che uscivo con una ragazza piú giovane… Ma nella mia vita non c’era nessun’altra a parte te, lo sai bene».
Tamaki era sbalordita, non riusciva a credere alle sue orecchie. Seiji stava tentando di ridurre a una mera faccenda privata, nella quale tra l’altro riteneva di essere la vittima, quella separazione drammatica che aveva avuto delle conseguenze persino sul suo lavoro di scrittrice. Si stava prendendo gioco di lei, ormai non aveva piú dubbi.
«Permettimi di farti una domanda» aveva detto alla fine Tamaki, venendo al sodo. Al che Seiji, dopo aver mandato giú un sorso di caffè, aveva alzato la testa sorridendo. «Il 26 aprile dell’anno scorso ho ricevuto una lettera di minacce: sei stato tu a scriverla?»
Seiji aveva distolto lo sguardo, visibilmente turbato. Poi aveva risposto: «Ah, sí, la lettera: il mio capo me l’ha fatta leggere. Era scritta al computer, no? Ma non è opera mia. Tutti hanno tentato di accusarmi, ma ti assicuro che non c’entro niente, te lo giuro».
In questo è rimasto lo stesso – aveva pensato all’istante Tamaki –, non ha imparato a mentire.
Mentre ripensava a quell’incontro, Tamaki si accese una sigaretta e la appoggiò sul bordo del posacenere che era sulla scrivania. Rimase a lungo a contemplare il sottile filo di fumo violaceo che saliva verso il soffitto. Prima o poi quella sigaretta si sarebbe spenta. Seiji aveva smesso di fumare, e invece lei continuava ad avvelenarsi. Non riusciva a liberarsi dalla sensazione di essere stata abbandonata.
Fece un sospiro, prese un volume delle opere complete di Midorikawa Mikio e guardò la fotografia sul frontespizio. In quello scatto, accanto allo scrittore, c’era anche Motoko, la donna che Tamaki aveva in programma di incontrare il giorno dopo.
1. Il Tanabata è una festività giapponese tradizionale di probabile origine cinese celebrata il 7 luglio (in alcune località, il 7 agosto), quando secondo un’antica credenza le stelle “innamorate” di Altair e Vega si incrociano nel cielo, una sola volta all’anno poiché separate dalla Via Lattea. In questa occasione è usanza comune scrivere un desiderio, un pensiero o una poesia sul cosiddetto tanzaku, piccolo foglio oblungo ripiegato e legato a un ramoscello di bambú (N.d.T.).
2. Riferimento al “Golden Week”, settimana di festività pubbliche a cavallo tra aprile e maggio. Istituito nel 1948, costituisce un periodo di ferie spesso sfruttato dai giapponesi per i viaggi (N.d.T.).
2
Invisibile
1
Lei è Suzuki Tamaki? Molto lieta di conoscerla. Forse le sembrerà strano, a giudicare dal mio aspetto, ma non è la prima volta che incontro uno scrittore. Ne ho conosciuti molti della cosiddetta “generazione degli individualisti”. Qualcuno di loro è stato molto gentile e disponibile nei miei confronti… Ah, è venuta da me proprio per parlare di questo argomento? Bene, mi fa piacere… Se ho del tempo? Certo, non ho nessuna fretta. Possiamo intrattenerci fino all’orario di chiusura della biblioteca, d’accordo?
Io qui ci lavoravo. Continuo a venirci tutti i giorni per leggere i libri di nuova pubblicazione o per fare delle ricerche per conto mio. Venire in biblioteca mi fa stare bene, mi rassicura… Ah, lei sapeva anche che lavoravo in biblioteca? A quanto vedo, sa molte cose su di me. Si è informata bene, eh? Forse si è rivolta a qualcuno del provveditorato agli studi? O magari a quel professore di letteratura del liceo Kuramata?
Ah, quindi ha visto la mia fotografia in un libro e ha contattato la casa editrice per rintracciarmi. È incredibile, non è una cosa che capita tutti i giorni. Deve essersi rivolta a un bel po’ di persone. Molti di quelli che conoscono la mia storia non sono piú in vita, non deve essere stato facile trovarmi. Ma lei non scrive saggi, o sbaglio? È una scrittrice di romanzi, li pubblica spesso anche su riviste letterarie, giusto? Ho visto molte volte il suo nome nelle pagine delle novità editoriali di varie riviste e giornali. I suoi romanzi riscuotono un gran successo nelle biblioteche, sa? Lei ha sempre molti lettori che chiedono di poter prendere in prestito i suoi romanzi. Certo, non tanti come per un best-seller, quando possono esserci anche cento o duecento persone che si prenotano per il prestito, ma sono comunque parecchi, tutti suoi affezionati lettori che aspettano con ansia il proprio turno. È bello, no?
Voi scrittori fate un sacco di ricerche prima di scrivere un libro, lo so. E so anche che ciascuno di voi ha un suo metodo di lavoro. Lei, se non ho capito male, preferisce svolgere le sue ricerche e raccogliere le informazioni sul campo, facendo delle interviste non concordate. Ah, ora che mi viene in mente, un suo romanzo pubblicato un paio di anni fa è stato anche adattato per una serie televisiva della nhk, vero? Le faccio i miei complimenti… Ma come, non era lei l’autrice? Si tratta di un’altra Suzuki? Oh, mi scusi tanto, che figura… Le confesso che non ho mai letto i suoi libri, mi dispiace. Amo molto i romanzi, ma è da parecchio che non ne leggo uno. Sono legata a quelli di Midorikawa Mikio. Sa, quando si è avuta la fortuna di conoscere un grande maestro come lui, gli altri autori passano in secondo piano.
Sí, certo, le mie foto… Se ne trovano in giro diverse. Ci sono quelle in cui appaio insieme a Midorikawa, e ce ne sono anche altre che mi ha scattato lui stesso. Le hanno utilizzate per il Dizionario della letteratura pubblicato da Chikura shobō e per il frontespizio delle opere complete di Midorikawa, uscite qualche anno fa per Kadokai. Altre sono apparse in alcuni libri ormai fuori stampa… I diritti di utilizzo delle fotografie? Si riferisce alla richiesta di autorizzazione da parte delle case editrici? Perché, spetterebbero dei diritti anche a me? In realtà, non ne sapevo niente, nessuno mi ha mai chiesto il permesso per pubblicare quelle foto. È probabile che ci abbia pensato Midorikawa a concedere l’autorizzazione: se una cosa stava bene a lui, non chiedeva mai il mio parere. All’epoca funzionava cosí. Del resto era un mostro sacro della letteratura, uno dei piú grandi scrittori del suo tempo.
Secondo lei non sono cambiata? Dice che ho ancora un viso da ragazzina? La ringrazio molto, è gentile, ma ormai ho sessantaquattro anni. Forse non sono diventata ancora una nonnina, ma non sono piú una donna nel fiore degli anni e l’età comincia a pesare. È incredibile come vola il tempo. Eppure circolano ancora le fotografie della mia infanzia e della mia giovinezza: è molto strano sapere che ancora oggi tutti possono vedere com’ero tanti anni fa, quando ero solo una ragazzina. Nella foto alla quale lei allude, dovevo avere una decina d’anni e non di piú. Quando qualcuno mi dice che non sono affatto cambiata, resto molto sorpresa, sa?… Ah, ho capito, si riferiva a un certo modo di essere. In questo caso, sono d’accordo. Anche se il tempo passa e si invecchia, la propria natura non cambia. Credo fosse soprattutto per questo motivo che Midorikawa mi apprezzava e… mi amava.
Cambiando argomento, credo che oggi non esistano piú grandi scrittori. Kojima Nobuharu, che come sa è scomparso da poco, era forse l’ultimo grande della letteratura. Lui e Midorikawa erano molto amici.
Mi scusi, sto divagando, ma lei che cosa voleva chiedermi di preciso? Non me lo ha ancora detto… Ah, vuole sapere che cosa c’è stato veramente tra me e Midorikawa?… Non si preoccupi, non mi crea nessun imbarazzo. Se le sembro sorpresa, è solo perché sono sicura che le deve essere costata molta fatica rintracciarmi. Anzi, le dirò di piú: lei è la prima persona che è riuscita ad arrivare fino a me.
Se non ho fatto male i calcoli, sono passati diciassette anni dalla morte di Midorikawa. Una persona che lavorava per Chikura shobō mi ha raccontato che, poco prima di andarsene per sempre, Midorikawa si è voltato da un lato e ha sussurrato il mio nome: «Mōchan», era cosí che mi chiamava. Quella persona si chiamava Yamada, era un editor, e Midorikawa gli era molto affezionato. Yamada è rimasto al suo fianco in ospedale fino all’ultimo istante. Dopo si è occupato anche di sua moglie, era un uomo buono e generoso come pochi. Purtroppo se ne è andato anche lui troppo presto, a causa di una cirrosi epatica. Gli editor bevono troppo, poveracci.
Ovviamente, Mōchan è il diminutivo di Motoko. In realtà lui mi chiamava “Mōcha”. Lo ha scritto anche nella dedica di un libro che mi ha regalato: «Alla mia amata Mōcha»… No, mi dispiace, non posso mostrarglielo, ci tengo troppo. È la cosa piú preziosa che ho, quel libro significa molto per me, lo custodisco come un tesoro. Comunque, pare che Mōcha o qualcosa di simile – mi perdoni, ma non conosco la pronuncia esatta – sia un diminutivo vezzeggiativo di un nome femminile russo. Se non sbaglio, viene usato soprattutto per le bambine che si chiamano Marina, il cui significato ha a che fare col mare, o Matryona. È molto carino, non trova? Midorikawa conosceva bene i nomi russi, pensi che mi ha chiamata in quel modo fin dal nostro primo incontro. Dopo la sua morte, ho provato una tristezza infinita al pensiero che al mondo non esistesse piú nessuno che mi chiamasse cosí. È stata davvero dura abituarsi a questo. Lo pronunciava in un modo tutto suo, con un’intonazione molto affettuosa. Non diceva né “chan” né “cha”, ma una via di mezzo, come se la n restasse sospesa dolcemente a mezz’aria. Ecco perché il suo amico editor Yamada e molti altri pensavano che dicesse “Mōchan” e tutti hanno finito per credere che fosse quello il mio soprannome. Mi vengono le lacrime agli occhi, che malinconia.
Sono passati già quattro anni da quando sono andata in pensione e non lavoro piú qui, alla biblioteca di Kuramata. Ora posso fare quello che mi va e in tutta calma. Gli altri mi dicono che per la mia età ho dei gusti un po’… psichedelici. Io sono parecchio piú anziana di lei, signora Suzuki, e forse non mi crederà, ma sono cresciuta con il rockabilly e la musica di Elvis Presley. Mi piaceva molto anche Allen Ginsberg e ricordo a memoria alcuni suoi versi. Per esempio: «In Russia i giovani poeti sorgono a baciare l’anima della rivoluzione»… Ah, li conosce? Non mi dica che appartiene anche lei alla stessa generazione… Mi scusi, non l’avevo capito. Il fatto è che lei sembra cosí giovane. Al giorno d’oggi, le donne che lavorano dimostrano meno anni della loro età effettiva. Ma noi stavamo parlando dei miei gusti… psichedelici, o sbaglio? Lei non trova che le sessantenni di oggi siano molto attive e talvolta abbiano hobby e interessi abbastanza pericolosi e imbarazzanti? Tra le mie colleghe, per esempio, c’era chi faceva immersione in apnea, chi la maratona di Honolulu o chi trafficava su Internet, tutte attività fuori dell’ordinario su cui si potrebbe scrivere un articolo per una rivista alla moda.
Io, invece, vivo come una vecchia signora insieme ai miei gatti, buona e tranquilla, senza fare niente di che. Coltivo le erbe aromatiche sul mio balconcino, mi diverto a fare collanine e braccialetti con le perline di vetro, frequento dei gruppi di lettura e cose del genere. Ma lo sa che le erbe aromatiche crescono a una velocità pazzesca? Non riesco mai a usarle tutte. Del resto non si può mica utilizzarle in cucina tutti i giorni, no? Cosí come non è possibile consumare solo tisane al posto del tè. Prima di coltivarle non lo sapevo, e adesso mi ritrovo con il balcone invaso dalle piante aromatiche e un problema in piú al quale pensare. Ah, sono iscritta anche a un circolo di haiku. Una volta ogni due mesi andiamo in gita in posti famosi per comporre dei versi, secondo tradizione. Nulla a che vedere con Ginsberg, è ovvio… Cosa? Vuole che le reciti uno dei miei haiku? Ma cosí mi imbarazza, non sono niente di che… Mmh, uno solo, d’accordo: «Se sono raffreddata / sulla fronte dei miei gatti / gelatina fresca al mandarino». Questi versi parlano del mio tentativo, in un giorno in cui mi sentivo febbricitante e avevo poco appetito, di far mangiare ai miei gatti della gelatina che avevo fatto con dei mandarini avanzati. Sono molto tristi, non trova? Credo si percepiscano la sofferenza e la noia di una donna sola. Niente a che vedere con la forza e la veemenza dei versi di un Ginsberg. Se Midorikawa potesse leggere questa poesia di scarso valore, sono certa che scoppierebbe a ridere e si prenderebbe gioco di me. «Mōcha, da quando in qua ti diverti a fare la poetessa?» mi direbbe.
Era sempre circondato da giovani donne amanti della letteratura, le quali erano disposte a tutto pur di avvicinarlo e restare con lui il piú a lungo possibile, nella speranza che potesse dare un’occhiata ai loro manoscritti. Anche a casa nostra, mia madre e le sue amiche avevano l’abitudine di riunirsi per leggere ad alta voce i testi che scrivevano, perlopiú poesie e racconti senza capo né coda. E lui, che spesso era presente, faceva di tanto in tanto delle osservazioni mentre mi teneva sulle ginocchia. A volte mi diceva qualcosa all’orecchio, ridacchiando. Per esempio: «Mōcha, le senti? Tua madre e le sue amiche si divertono a fare le scrittrici». E se mi veniva da ridere, mi dava un pizzicotto sul sedere per farmi stare zitta. «Non devi ridere, Mōcha, altrimenti ci scoprono!» mi rimproverava. E allora dovevo sforzarmi di restare seria per tutto il tempo… Sí, c’erano molte donne che speravano di fargli leggere i loro manoscritti… Ah, vuole sapere se mi faceva male quando mi pizzicava il sedere? Lei è la prima persona che me lo chiede, sa? No, per niente, faceva piano… Trova strano che una ragazzina di dieci anni si sedesse sulle ginocchia di un uomo adulto? A dire il vero non ci avevo mai pensato. Ero piccola e mingherlina, sembravo una bimba dell’asilo, e comunque non mi sentivo affatto a disagio.
Il nostro primo incontro risale a un giorno in cui mia madre mi portò con sé a una delle sue riunioni. Avevo solo dieci anni. Io sono nata nel 1941, per cui doveva essere il 1951. Erano passati sei anni dalla resa del Giappone, la guerra di Corea era appena iniziata, ma la situazione economica cominciava a migliorare. Anche se allora ero solo una bambina, ricordo che regnava un’atmosfera di grande euforia e ottimismo, tutti si aspettavano che le cose potessero mettersi a posto dall’oggi al domani. Ma basta guardare le fotografie di quel periodo per rendersi conto che c’era ancora molta povertà. La maggior parte delle strade non era asfaltata e le donne erano costrette a tenere l’orlo del kimono perennemente sollevato per camminare lungo le vie fangose e prive di illuminazione. In giro era pieno di soldati americani, e siccome mia madre si conciava spesso in modo piuttosto stravagante, loro si divertivano a prenderla in giro tutte le volte che la vedevano passare.
Mia madre amava molto la letteratura, leggeva una montagna di libri. Ma era consapevole di non avere talento e non aveva nessuna intenzione di far parte di un circolo letterario consacrato alla scrittura. E allora che cosa facevano quelle come lei? Mettevano gli occhi su questo o quell’altro giovane scrittore legato a qualche piccola rivista letteraria e gli correvano dietro. Oggi forse le chiamerebbero “groupies”, no? Lei non trova strano che uno scrittore possa diventare una sorta di preda da inseguire? Una volta, i giovani colleghi che lavoravano con me in biblioteca mi dissero che secondo loro era un po’ la stessa cosa che accade oggi con i gruppi rock famosi, quando i fan aspettano i membri della band prima e dopo i concerti. La stessa cosa che succede al Comiket, dove migliaia di ragazzi sono disposti a fare file chilometriche pur di incontrare i mangaka emergenti. Non conosco piú di tanto il mondo dei manga ma, da quello che ho capito, il Comiket rappresenta una grande occasione soprattutto per i mangaka in erba, che hanno modo di mettersi in mostra a livello locale pubblicando sulle… fanzine – si chiamano cosí, no? – nella speranza di diventare famosi in tutto il paese. E i fan cercano a loro volta di individuare le giovani promesse e, quando ne trovano una, non la mollano piú. In modo da potersi vantare, un domani, di aver assistito con i propri occhi alla nascita di una nuova superstar del fumetto. Ora, tornando alla letteratura, credo che le ragazze di una volta avessero un debole soprattutto per i giovani scrittori un po’ tenebrosi.
A ogni modo, di certo mia madre non era la sola ad aver messo gli occhi su Midorikawa Mikio. Basta guardare le sue fotografie per accorgersi che da giovane era molto bello, aveva dei lineamenti delicati e gentili. E poi era alto e snello, e aveva dei capelli folti e nerissimi che gli ricadevano morbidi sulla fronte ampia. Nemmeno Kimutaku3 sarebbe in grado di reggere il confronto con lui. Qualcuno sosteneva addirittura che somigliasse a Nabokov. Era molto serio, non rideva quasi mai, probabilmente a causa del suo passato come ufficiale delle squadre speciali di assalto della marina giapponese. Mia madre diceva che il suo viso possedeva l’espressione vacua di un uomo che aveva assistito alla fine del mondo, il che aggiungeva una bellezza misteriosa ai suoi tratti. Naturalmente lei sapeva molto bene che era sposato e aveva dei figli, perciò non puntava tanto a conquistarsi il suo amore, ma desiderava guadagnarsi la sua attenzione in quanto fedele e devota ammiratrice.
Vuole sapere qualcosa di piú su mia madre? Va bene, d’accordo. Non era divorziata, era una vedova di guerra. Mio padre è morto nell’isola di Tinian nell’estate del 1944, non l’ho mai conosciuto. Ha potuto vedermi solo in foto, poverino, e la stessa cosa è stata per me. Un padre e una figlia che si conoscono soltanto attraverso delle fotografie: è di una tristezza infinita, non trova? Mia madre tornò a casa dei suoi genitori portandomi con sé, avevo tre anni. Era di Kuramata e apparteneva a una famiglia abbastanza agiata. Una volta rientrata nella casa natale, ridiventò la ragazza di un tempo. Era inevitabile, era ancora molto giovane, aveva solo ventuno o ventidue anni. Io e lei eravamo come due sorelle. In quella casa mi hanno cresciuta come se fossi la figlia adottiva di mio nonno, ero sotto la sua tutela.
Il nome della rivista letteraria amatoriale attorno alla quale gravitava all’inizio Midorikawa? Shusui4. Ha tenuto a battesimo alcuni giovani scrittori diventati poi famosi. Miyagi Hiroshi, per esempio, vincitore del premio Akutagawa; Satomi Hiroyuki e Fujiyama Mamoru, entrambi giunti finalisti allo stesso premio, il primo ben due volte, l’altro una; il celebre paroliere Shiguchi Yasunao; e anche la scrittrice Uchibori Aya. Lei li conosce tutti molto bene, no? Ma, come sa, sono morti da diverso tempo.
Mia madre non era nella redazione della rivista, ma, in qualità di ammiratrice e sostenitrice finanziaria, aveva il diritto di partecipare alle riunioni che si tenevano piú volte all’anno. Oggi si parlerebbe di “fan club” o qualcosa del genere. Come ho già detto prima, ero ancora una bambina quando mia madre mi portava a quelle riunioni, eppure me lo ricordo come fosse ieri. Gli incontri si tenevano perlopiú nei caffè dalle parti di Kagurazaka, e noi due eravamo vestite nello stesso modo, all’occidentale. Mia madre quegli abiti li faceva confezionare su misura nelle boutique alla moda, pagandoli fior di quattrini.
Vuole sapere come mai portava una bambina in posti del genere? Ha ragione, in effetti è un mistero. Avevo una nonna, avrebbe potuto affidarmi tranquillamente a lei, e poi penso che si sarebbe divertita di piú andandoci da sola. Non lo so, forse le sembrerò presuntuosa, ma era molto orgogliosa di me e le piaceva portarmi in giro con lei. Spesso per strada la gente la fermava per farle i complimenti e dirle che ero una bambolina.
Mi ricordo molto bene la prima volta in cui Midorikawa mi rivolse la parola. Indossavo lo stesso vestito di cotone di mia madre, a piccoli pois neri su fondo rosso. L’abitino era stato ordinato apposta per l’occasione ai grandi magazzini Mitsukoshi di Nihonbashi. Quello di mia madre, un po’ scollato e con una cintura di seta nera, era molto femminile, mentre il mio era alla marinaretta e aveva un ampio collo bianco. Quel vestito mi è rimasto ben impresso nella mente anche perché, con gli scampoli di tessuto, ne facemmo fare uno uguale per la mia bambola preferita. Quando io e mia madre entrammo nella sala della riunione con quella mise, fummo accolte da un mormorio di ammirazione. Le assicuro che non sto esagerando, avevamo gli occhi di tutti i presenti puntati addosso. I nostri vestiti avevano fatto colpo, all’epoca erano una vera rarità. Midorikawa si alzò subito in piedi e mi venne incontro.
«Quanti anni hai, signorina?» mi chiese.
«Ne ho compiuti dieci da poco» risposi io.
Al che lui, se non ricordo male, mi disse: «Io ho tre figli, sai? Una bambina di quattro, una di due e un bimbo appena nato. Se tu fossi mia figlia, saresti la loro sorella maggiore, eh?».
Mia madre lo guardò con un certo stupore, era leggermente arrossita. A parte l’ammirazione che nutriva per lui come scrittore, doveva essersene innamorata. All’epoca, Midorikawa aveva trentadue anni e lei ventinove. Non ne sono certa, ma credo che all’improvviso nel cuore di mia madre si fosse fatto strada il sogno di condividere la sua vita con lui.
Ah, mia madre? È morta in un incidente stradale circa tre anni fa. Mentre era in viaggio all’estero, un incidente di autobus. Aveva ottant’anni. La sua morte è stata un fulmine a ciel sereno. Stava bene e non aveva nessun problema di natura economica, perciò credo che a modo suo abbia saputo godersi la vita. Per quanto riguarda il rapporto con Midorikawa, a un certo punto accadde un fatto a causa del quale smise di interessarsi a lui. Non so come spiegare, diciamo che di colpo rinunciò a seguirlo, quasi che avesse paura di impegnarsi in una storia d’amore difficile. Ecco perché non era nemmeno al corrente della sua morte. Aveva preferito dimenticarlo, cancellarlo dalla sua vita.
Tornando al mio incontro con lui, ricordo che dopo quel primo rapido scambio di battute mia madre era molto a disagio.
«Mi scusi se mi sono permessa di venire con mia figlia, sono desolata» gli disse. «Le prometto che se darà fastidio la porterò subito fuori».
Midorikawa scosse piú volte il capo. I suoi capelli ondeggiarono leggeri e fluenti sulla fronte.
«No, non c’è problema» rispose. «Mi piacciono molto i bambini».
Quindi si abbassò alla mia altezza per guardarmi bene in viso e aggiunse: «Sembra quasi una bambina russa».
Come le ho già detto, da piccola ero molto carina e avevo la carnagione chiara. E sono sicura che fosse per questo che mia madre mi vestiva sempre con abiti graziosi e mi portava in giro con lei. Mia madre aveva gli occhi molto sottili e non era una grande bellezza, ma mio padre a giudizio di molti era un bell’uomo e assomigliava a un occidentale, per cui è probabile che io abbia preso da lui. Forse non ci crederà, ma mi hanno detto piú di una volta che somigliavo all’attrice Ri Kōran, anche se lei era di un’altra epoca e a esser sincera trovavo il paragone un po’ azzardato. Pensi che una volta un tizio della Tōhō ha cercato addirittura di introdurmi nel mondo del cinema.
Poi Midorikawa chiese come mi chiamassi e mia madre rispose: «Motoko. È stato il mio defunto marito a scegliere questo nome, me lo scrisse in una lettera dal fronte».
«Motoko, che bel nome!» Midorikawa fece una breve pausa, dopo di che mi si avvicinò piano e mi sussurrò all’orecchio: «Che ne dici se ti chiamassi “Mōcha”? È un nomignolo russo che si usa per le ragazze. È carino, non ti pare?».
Anche una ragazzina di dieci anni si accorge quando piace a un uomo. In quel momento mi sentivo alle stelle, ero molto contenta. Può immaginare cosa voglio dire, no? Lí, a cominciare da mia madre, era pieno di donne ben vestite e molto chic che non vedevano l’ora che il promettente e bel romanziere si accorgesse di loro. Aveva un gran successo con le donne, era il numero uno. Anche Miyagi e Fujiyama avevano parecchie ammiratrici, ma mai quanto lui. Dopo un po’ cominciai ad annoiarmi in mezzo a quella gente adulta e chiesi a mia madre di andare via. Allora Midorikawa si avvicinò di nuovo e le disse: «Nasako, mi scusi, la prossima volta sarebbe possibile riunirci a casa sua?».
Nasako era il nome di mia madre. Lei era al settimo cielo, glielo si leggeva in faccia.
«Ma certamente, ne sarei molto onorata. Vi aspetto con enorme piacere» gli disse.
Io avevo capito tutto al volo, Midorikawa voleva rivedere a tutti i costi la sua piccola Mōcha. E difatti fu proprio quel che accadde. Mantenendo la promessa, dopo circa un mese si presentò a casa nostra in compagnia dei suoi amici scrittori. E si dilungò in un pubblico elogio nei miei confronti.
«Questa ragazzina ha un viso perfetto» disse a un certo punto. «Sono sicuro che non ce n’è un altro cosí bello in tutto il Giappone».
Aveva la mania del viso. Sí, so bene che un’espressione del genere non esiste e suona perfino ridicola, ma descrive alla perfezione l’ossessione che Midorikawa aveva per i visi. Gli piaceva molto anche il proprio volto, si guardava spesso allo specchio. I suoi amici lo deridevano per questo e gli dicevano che era un narcisista, e lui se la prendeva molto. «Il viso è un autentico mistero» disse una volta. «Pensateci bene, con attenzione. È pieno di buchi da far paura. Eppure la bellezza o la bruttezza di un viso dipende tutta da come quei buchi sono disposti e dall’armonia che c’è tra loro». Andava pazzo per il mio viso, gli piaceva da morire. Si procurò una macchina fotografica apposta per farmi delle foto, e amava molto anche farsi ritrarre accanto a me. Distribuiva spesso e volentieri i negativi alle case editrici o li regalava agli amici. Ecco perché ancora oggi ci sono in giro molte mie fotografie.
Mi prendeva il viso tra le mani, per osservarlo meglio, e a volte mormorava frasi del tipo: «Mentre ti stringo, il tempo continua a scorrere. Il tuo viso cambia un istante dopo l’altro. Ah, se solo potessi fermare il tempo».
Ascoltando le sue parole, anche se ero una bambina, non potevo fare a meno di sentirmi in ansia. Nel suo tono percepivo una tensione profonda, dilaniante, e avevo paura che il mio viso potesse cambiare da un momento all’altro e diventare brutto.
Mia madre sembrava molto contenta delle sue frequenti visite. La nostra casa era a Tōkyō, tra Gotanda e Ikedayama. L’aveva comprata mio nonno. Era piccola, ma elegante e costruita nel tradizionale stile sukiya, probabilmente in origine era stata progettata per accogliere l’amante di qualche facoltoso signore. Midorikawa la apprezzava molto, e difatti ripeteva spesso a mia madre: «Complimenti, questa casa è davvero graziosa!».
Che cosa gli piaceva esattamente? La casa? Mia madre? La piccola Mōcha? O forse tutto? Fatto sta che lui e i suoi amici scrittori avevano preso l’abitudine di venire da noi di frequente, piú volte a settimana, come se la nostra casa fosse la sede ufficiale del loro circolo letterario. Io trovavo la situazione molto piacevole e divertente. Non appena tornavo da scuola, mi toglievo la cartella dalle spalle e correvo da lui. Ormai veniva da noi quasi tutti i giorni e io andavo a sedermi sempre sulle sue ginocchia. Quello era diventato il mio posto fisso, lui mi teneva in braccio mentre conversava con gli altri, anche per diverse ore. E intanto io crescevo. Dalla scuola elementare passai a quella media, avvicinandomi passo dopo passo all’età adulta.
Ho capito, vuole sapere se abbiamo avuto una relazione, eh?
Lei mi pone delle domande alle quali è molto difficile rispondere. A questo proposito, lo ha letto il libro che contiene quel lungo dibattito tra Midorikawa e il filosofo Masuda Gōki? Masuda, prima di chiedere qualcosa a Midorikawa, ripeteva spesso, piú o meno come fa lei: «Mi spiace se le faccio una domanda alla quale non è facile rispondere». Però poi chiedeva lo stesso senza esitare… Ah, lo ha letto? Bene, cosí potrò andare dritto al sodo. Come forse ricorderà, a un certo punto Masuda pone a Midorikawa la stessa identica domanda che lei ha appena rivolto a me: «Mi spiace se le faccio una domanda alla quale non è facile rispondere, ma a lei quella ragazzina piaceva sul serio?».
«Assolutamente no! Era solo una bambina!» è la testuale risposta di Midorikawa. All’epoca era ormai ultrasessantenne, mentre io mi avvicinavo alla quarantina. Quindi, in linea di massima, ero pronta ad accettare qualsiasi risposta, nel senso che ormai ero una donna adulta e vaccinata. E invece le sue parole sono state come un colpo al cuore, mi hanno fatto un male incredibile. “Era solo una bambina“… Perché non aveva detto la verità? Poteva almeno essere un po’ piú onesto, anziché negare tutto. Ero fuori di me, mi sentivo profondamente offesa. Se lo avessi avuto davanti, gliene avrei dette di tutti i colori, malgrado fosse un uomo anziano e uno scrittore di fama.
Ora ho sessantaquattro anni. Le persone coinvolte in questa storia non sono piú in vita, a eccezione della moglie di Midorikawa. Credo che non racconterò mai piú questa storia ad anima viva, perciò voglio essere franca con lei e dire la verità fino in fondo. Io e Midorikawa ci siamo innamorati fin dal primo istante in cui ci siamo visti, è stato un vero e proprio colpo di fulmine. Lui aveva trentadue anni e io ne avevo dieci, ma le assicuro che tra di noi era vero amore. La nostra relazione è andata avanti per circa sei anni, fino alla sua decisione di trasferirsi in Hokkaidō. L’età non conta. Mi piace metterla in questi termini, anche se in realtà lui era capace di amare solo le fanciulle innocenti.
Vuole sapere cosa ne è stato del nostro amore quando ho smesso di essere una fanciulla innocente, ovvero quando sono diventata una donna adulta? La risposta è semplice: è finito tutto molto in fretta. Perché lui, oltre a essere capace di amare solo le ragazzine, aveva finito per odiare il mio viso che cambiava col passare degli anni. Credo che all’inizio fosse preda di un’autentica passione e che dopo si fosse limitato a osservare il mio cambiamento come fossi una cavia. A quel punto sembrava che gli bastasse guardarmi e studiare il mio viso. Ma io, Mōcha, sono fiera di essere stata il grande amore della sua vita. Anche se nessuno lo sa… Dopo la sua partenza, non potevamo né scriverci né sentirci al telefono, ce lo avevano proibito. Di tanto in tanto ricevevo qualche sua lettera, grazie alla complicità di un editor di una certa casa editrice. In seguito, fece in modo di venire a Tōkyō una volta ogni paio di mesi. E in quelle rare occasioni non mancavamo mai di vederci.
Per favore, se possibile, le chiederei di non scrivere ancora niente sull’argomento. Qualcuno potrebbe prendersela a male e potrebbero nascere dei problemi. I familiari di Midorikawa sono disposti a tutto pur di difendere il suo buon nome, anche se ormai sono rimasti in pochi essendosene andati quasi tutti all’altro mondo. I vivi e i morti hanno tutti una loro verità… La mia verità? Certo, io ne ho una sola, ora e per sempre. La conservo dentro di me. Molti vorrebbero negarla per il semplice fatto che è molto lontana dall’idea che la maggior parte della gente ha dell’amore. Ma io credo che il problema sia un altro: in alcuni casi, per vari motivi, le persone hanno serie difficoltà ad accettare la realtà delle cose.
Mi scusi, ha ragione, non le ho ancora detto del fatto che accadde a mia madre e la spinse a disinteressarsi di Midorikawa. In realtà, avrei preferito tacere sulla questione, ma visto che insiste… La moglie di Midorikawa le tese un agguato e tentò di accoltellarla! Ora, che si tratti di uno strano scherzo del destino o di un suo disegno segreto, quella donna è ancora in questo mondo e gode di ottima salute, mentre gli altri se ne sono andati uno dopo l’altro. È coetanea di Midorikawa e quindi ha ben ottantasei anni. Non ho mai parlato con nessuno di questa storia, perciò la prego di mantenere il segreto.
Quella donna, cosí come è descritta in uno dei romanzi di Midorikawa, aveva un carattere collerico e dispotico. Era convinta che il marito avesse una relazione con mia madre. Perciò un giorno, armata di un coltellaccio da cucina che teneva nascosto sotto il vestito, si appostò all’angolo di una strada e attese che mia madre tornasse verso casa.
Era una sera di marzo in cui soffiava un vento che sollevava nuvole di polvere. Io e mia madre, in previsione della consueta visita di Midorikawa e degli altri scrittori, eravamo di ritorno dal mercato nei paraggi della stazione, dove avevamo comprato della carne, del tōfu e dei porri. All’epoca eravamo tutte e due un po’ stufe di quelle continue riunioni. Il “salotto letterario” ci pesava, l’entusiasmo non era piú quello di una volta. Ero una sedicenne, erano piú di sei anni che la relazione con Midorikawa andava avanti e ormai non ero piú una bambina. Inoltre ero convinta che lui provasse ancora una certa attrazione nei miei confronti, anzi ero sicura che mi amasse anche piú di prima. Ecco perché mi seccava vederlo in occasione di quelle riunioni, in presenza di mia madre e degli altri… Su cosa si basava la mia convinzione? Be’, le confesso che parlarne mi mette in imbarazzo… Come dire?, Midorikawa non era un uomo che si faceva scrupolo di manifestare la sua passione. Mi amava e me lo dimostrava, in un modo che una donna non può non apprezzare. Per questo mi sono lasciata inondare dal suo amore. E devo dire che eravamo entrambi molto bravi a escogitare di continuo degli stratagemmi in grado di ravvivare la nostra passione. Non ho mai smesso di amarlo, mi piaceva sempre come il primo giorno, ma a volte non potevo fare a meno di pensare che ci vedessimo soprattutto per perfezionare i nostri ingegnosi stratagemmi… Da dove nasceva tutto questo? Qual era l’origine della nostra follia d’amore? Be’, direi che forse ci piaceva molto giocare e divertirci insieme.
Mia madre non si era accorta di niente. Non nutriva neanche l’ombra di un sospetto quando, dietro il pretesto di aiutarmi a fare i compiti, Midorikawa si chiudeva con me in camera mia. E siccome si era resa conto da tempo che lui non le concedeva piú la minima attenzione, aveva finito per disinteressarsi agli incontri letterari e ai suoi romanzi. Fu piú o meno in quel periodo che quella sera vedemmo spuntare dall’ombra una donna armata di coltello. Non può immaginare il terrore che provammo. Ci colse alla sprovvista, non avemmo neanche il tempo di riflettere su quello che stava succedendo.
«È lei Nasako?» domandò quella donna a mia madre, la voce tremante. Poi guardò me con la coda dell’occhio e aggrottò le sopracciglia, visibilmente turbata. Indossava un cappottino scuro e una gonna grigia: vecchi indumenti infeltriti e pieni di quegli orrendi pallini di tessuto. Aveva i capelli scarmigliati, era pallida e ci fissava con gli occhi fuori dalle orbite. Mi nascosi dietro la schiena di mia madre, spaventata e tremando come una foglia.
«Lei chi è?»
Alla domanda brusca e aggressiva di mia madre, la donna perse una buona dose di coraggio e abbassò la punta del coltello.
«Sono la moglie di Midorikawa Mikio» rispose con un filo di voce.
Ero esterrefatta. Cerchi di mettersi nei miei panni, era la prima volta che quella donna si intrometteva nella mia storia d’amore con Midorikawa: quell’apparizione improvvisa aveva un che di assurdo, di sinistro. Il nostro amore era come un sogno sublime all’insegna di una bellezza delicata ed effimera. Quindi per me fu un vero shock apprendere in quel modo l’esistenza di quella donna sciatta e di una certa età, nonché immaginare i loro bambini mocciosi e viziati, la loro cucina umida e cupa, la stanza da bagno lurida!
«Io non ho nessun legame particolare con il signor Midorikawa, deve esserci un malinteso» disse con aria imperturbabile mia madre.
«E lei?» chiese la moglie di Midorikawa, puntando il coltello verso di me.
«Ma come si permette?! Mia figlia è ancora minorenne, è solo una studentessa del liceo. Si tolga dai piedi!»
Alle parole “studentessa del liceo”, la donna perse tutta la sua aggressività e andò via con la coda tra le gambe. La sua figura di schiena appariva misera e pietosa: le spalle ingobbite per la vergogna, il capo scosso da continui sussulti di rabbia.
Ricordo che in quel frangente pensai a quella donna come un’anima condannata a vagare in una sorta di girone infernale. E inoltre capii per la prima volta, con un certo orrore, che molti uomini nascondono dentro di sé un paradiso e un inferno con i quali devono fare i conti tutti i giorni. Ma avvertii un fremito di orgoglio all’idea che il probabile disgusto di Midorikawa nei confronti della moglie non facesse altro che accrescere il suo amore per me. Del resto era la realtà stessa a darmene prova.
A essere sincera, non so cosa significhi essere moglie. C’ero io dalla parte del paradiso? Forse si può essere all’inferno anche senza rendersene conto, no? In verità esistono dei paradisi illusori intrisi di certezze fasulle. In ogni caso, quella donna versava in uno stato di totale confusione, al limite della pazzia. Era in una situazione disperata e per niente invidiabile.
Se ho avuto altre storie? No, nessuna. Midorikawa Mikio è stato l’unico uomo della mia vita. Signora Suzuki, la prego ancora una volta di riflettere sul fatto che le sto confidando vicende personali di cui non ho mai parlato con nessuno in oltre cinquant’anni. Le parole mi sono uscite fuori quasi da sole, non immaginavo che sarei stata capace di svelare queste cose ad anima viva. È tutto cosí incredibile e avvolto nel mistero che a volte io stessa stento a credere che sia una storia vera. Che cosa ero io per lui? Me lo chiedo ancora oggi.
2
Desidera sapere che cosa voleva da me Midorikawa? Ora che mi ci fa pensare, mi viene in mente una frase che mi diceva spesso: «Mōcha, non cambiare mai, ti prego. Giurami che il tuo viso e il tuo corpo resteranno per sempre piccoli e carini». E subito dopo mi costringeva a prometterglielo, incrociando il suo mignolo lungo e ossuto con il mio. Poi, come se quel dito fosse un amo, si portava il mio mignolino alle labbra e prendeva a baciarlo con dolcezza. «Ah, com’è buono e saporito questo ditino! Quasi quasi me lo pappo tutto» aggiungeva scherzando. A volte si spingeva un po’ oltre e sentivo i suoi denti che mi mordicchiavano piano il polpastrello. Ma non mi faceva male, non ho mai avuto paura di lui. Era sempre molto gentile con me ed ero piú che convinta che quello fosse solo un gioco. Anche se ero una bambina, mi mandava in estasi. In senso buono e innocente, è ovvio! Mi riferisco alle emozioni che provavo: ero felice perché qualcuno si interessava a me e mi voleva bene. E quando i peli ispidi che aveva intorno alle labbra e sul mento mi pungevano il dito, mi ritraevo d’istinto e mi stupivo al pensiero che gli uomini fossero cosí scabri e spigolosi. I capelli, le ossa, la barba: tutto di loro è ruvido e aspro… Sí, mio padre era morto in guerra e io e mia madre non frequentavamo nessun altro uomo adulto.
Come le ho già detto, Midorikawa mi ripeteva spesso che sperava che restassi in eterno una bambina. Ma era impossibile, si sa. Si poteva forse chiedere a un bel cagnolino di restare per sempre un cucciolo? E ogniqualvolta gli sentivo pronunciare quella frase, provavo una tristezza immensa, perché avevo la sensazione che mi ordinasse di non crescere mai.
Ho capito bene? Vuole conoscere qualche particolare in piú sulla natura della nostra relazione? Su quello che succedeva in concreto tra una ragazzina di dieci anni e un uomo di trentadue? Però cosí mi chiede troppo, mi mette in difficoltà… So bene che lei è una scrittrice matura e che a volte nei romanzi si debba scrivere la pura verità, senza mezzi termini, ma in questo caso non crede che sarebbe rischioso? Insomma, non vorrei che qualcuno potesse equivocare e scambiarla per una giornalista da quattro soldi. Me lo sta chiedendo in modo cosí diretto, quasi che debba preparare un servizio per uno di quei talk show di infimo livello. Mi scusi la franchezza, ma certe volte voi scrittori non avete pudore. Siete freddi e sfacciati, non avete nessuna paura di ferire gli altri. Le confesso che mi fate arrabbiare sul serio, essere uno scrittore non significa poter fare e dire tutto ciò che si vuole!
Non mi fraintenda, non mi riferisco a lei in particolare… Ah, vuole sapere se quello che ho appena detto vale anche per Midorikawa? Be’, non proprio. Diciamo che parlavo della figura dello scrittore in generale, e di conseguenza alludevo un po’ anche a lui. Secondo lei, qual è la vera natura di uno scrittore? Io, prima di tutto, credo che chi scrive debba avere uno sguardo estremamente lucido. Lo scrittore deve essere distaccato, deve trovare la giusta distanza da se stesso. Non so se è un’immagine che ha a che fare col Tibet o col Nepal, ma una volta mi è capitato di vedere il ritratto di un volto con un occhio in mezzo alla fronte, il terzo occhio. Ecco, secondo me, quel terzo occhio rappresenta lo scrittore. Lei mi sta ascoltando con pazienza e col sorriso sulle labbra, ma so bene che questo paragone la disgusta e non le piace l’idea di essere associata a un terzo occhio, vero?
A ogni modo, Midorikawa era un uomo molto volubile e capriccioso. Veniva da noi senza preavviso. Io, a partire dai sei anni, ho cominciato a studiare pianoforte e calligrafia, e anche se mia madre gli ricordava di continuo i giorni in cui avevo lezione, lui se ne dimenticava puntualmente e all’improvviso si presentava a casa nostra. «Signor Midorikawa, la prego di aspettare, Motoko sarà presto di ritorno» gli diceva mia madre. Ma lui reagiva in modo scorbutico e rispondendo cose del tipo: «Ho un sacco da fare e ho dovuto smettere di lavorare per venire qui. Non ho tempo da perdere: se Mōcha non c’è, me ne vado. E credo che non rimetterò mai piú piede in casa vostra». E tutte le volte, quando tornavo, mia madre mi chiedeva con voce afflitta di sospendere le lezioni di piano e di calligrafia. Midorikawa era lunatico come pochi, cambiava facilmente umore e si chiudeva nel silenzio. Non era facile stargli dietro, quando si impuntava era terribile. Era un uomo molto complicato, ecco. Veniva da noi quando gli pareva, e se non gli si dava retta andava su tutte le furie. Credo fosse per questo che mia madre non ne poteva piú delle riunioni del circolo letterario. Lui era l’ospite e faceva sempre di testa sua, e in piú bisognava piegarsi a ogni suo piú piccolo desiderio per non rischiare di guastargli l’umore. Ricordo che negli ultimi anni di vita mia madre mi diceva spesso che gli scrittori sono degli esseri impossibili e, a meno che non li si ami alla follia, è meglio non averci a che fare.
Ma la cosa piú assurda in tutta questa storia è che Midorikawa riservava le sue pretese al mondo ester-no. A casa sua, infatti, si metteva al servizio della moglie e faceva di tutto per accontentarla. Ma questo l’ho saputo solo in un secondo momento, purtroppo. Da noi si comportava come un vero tiranno, voleva sempre essere al centro dell’attenzione. Gli scrittori sono piú o meno tutti cosí, o sbaglio? Yamada, l’editor, mi ha raccontato che molti facevano i gradassi in casa editrice ma con le proprie mogli abbassavano la cresta… Lei dice che Midorikawa era convinto di poter manipolare a proprio piacimento me e mia madre nello stesso identico modo? Non saprei, forse credeva di poter trattare mia madre come gli pareva solo perché lei era una sua ammiratrice. Aveva un ego smisurato e non si era accorto che con il passare degli anni la passione di mia madre nei suoi confronti era svanita.
Sí, esatto. Negli ultimi tre anni in cui ha frequentato la nostra casa, mia madre lo trattava come fosse un semplice insegnante privato. Midorikawa e io ci chiudevamo in camera mia e lei ci portava addirittura il tè e i pasticcini. Nei pochi minuti prima di lasciarci da soli, parlava con lui del piú e del meno, non si dicevano niente di particolare. In quei momenti, è ovvio, io e Midorikawa preferivamo essere prudenti e mantenere una certa distanza. Poi, non appena mia madre girava le spalle, cominciavamo a scambiarci tenerezze a volontà… Gli altri scrittori del gruppo? No, all’epoca avevano smesso già da un pezzo di venire da noi. Ormai lui era diventato il numero uno, non c’era confronto con gli altri, per cui erano tutti invidiosi. Anche se, non so per quale mistero, non ha mai vinto il premio Akutagawa. Eppure era molto stimato nell’ambiente letterario. Mah… In ogni caso, era il migliore e io sono sempre stata molto fiera di lui. Al di là di tutto, era uno scrittore impareggiabile, un vero maestro… Vuole che le dica qualcosa di piú riguardo alla mancata assegnazione di quel prestigioso riconoscimento? Be’, sono sicura che ci sarà rimasto molto male, anche se non amava parlarne. Gliel’ho detto, no? Secondo me, gli scrittori sono come un terzo occhio e sanno essere distaccati e sopra le parti, ma allo stesso tempo sono estremamente sensibili e tengono molto al giudizio altrui. Sa di cosa parlo, no? Anche per lei deve essere piú o meno cosí, o almeno credo. Midorikawa era molto fragile. Ed era attento a quello che gli altri pensavano di lui. Ecco perché sono convinta che deve aver sofferto molto per non essere mai riuscito ad aggiudicarsi quel premio. Credo che quel mancato riconoscimento gli abbia dato un tormento persino maggiore di quello che gli hanno causato la fuga da casa e il tentato suicidio di sua moglie.
Inoltre, di recente, mi è venuta in mente un’altra ipotesi. Vuoi vedere – mi sono detta – che si presentava di proposito a casa nostra nei giorni in cui avevo lezione? In effetti, non riesco a trovare altre spiegazioni, non poteva essere una semplice coincidenza. Era geloso, detestava che gli altri mi insegnassero qualcosa, voleva essere il solo ad avere un ascendente su di me. Si credeva onnipotente e voleva essere signore indiscusso del mio piccolo mondo. Sí, esatto, proprio cosí. Forse lo faceva perché ormai a casa sua una cosa del genere era impossibile. Sí, sí, in realtà ho sentito dire che anche sua moglie era stufa di lui, non riusciva piú a tollerarlo. La misura era colma e questo doveva rendere Midorikawa triste e irascibile, oltre che essere la probabile causa della forte depressione della moglie. Ecco perché si era innamorato di una bambina come me. Una bambina è solo una bambina, è un essere acerbo e innocente che non appartiene ancora a nessuno.
Quando veniva da noi, passava quasi tutto il tempo in camera mia, con il pretesto di aiutarmi a studiare. E non appena mia madre usciva dalla stanza, mi chiedeva di indossare il vestito rosso a pois che avevo il giorno del nostro primo incontro. «Mōcha, metteresti per me il tuo vestitino a pois?» mi diceva senza mezzi termini. Ma, come può immaginare, il corpo di un’adolescente di sedici anni è ben diverso da quello di una ragazzina di dieci. Quel vestito mi stava stretto, non riuscivo piú a infilarlo. E allora lui si arrabbiava e mi rimproverava: «Mōcha, perché sei cresciuta? Il tuo corpo e il tuo viso non dovevano cambiare, me lo avevi promesso!». E quando mi diceva parole del genere, mi faceva stare malissimo e temevo che non mi amasse piú. Allora cercavo di mangiare il meno possibile e mi comprimevo il seno sotto i vestiti piú che potevo, fino a sentire dolore. Ma è impossibile frenare la crescita, si sa. Il mio corpo si allungava quasi a vista d’occhio, come un bambú, e piangevo disperata tutti i giorni. Lo amavo da impazzire, e credo che anche lui mi amasse alla follia. Ma non sapevamo come fare, eravamo sull’orlo di un baratro. Andava bene finché il mio corpo era quello di una bambina. Ma dopo, anche se finalmente ero una donna e avrei potuto amarlo fino in fondo, lui non era piú disposto ad amarmi. Era o non era una grande tragedia?
Lei trova che tutto questo non fosse normale? Sí, certo, ha ragione. Da un punto di vista puramente razionale, riconosco che si trattava di qualcosa che andava oltre il comune senso del pudore e della morale. Anzi, a parlarne ora con una donna come lei, una scrittrice, devo ammettere che tutto mi sembra addirittura osceno e indecente. Una volta Midorikawa mi ha detto che il lavoro dello scrittore consiste soprattutto nel riflettere sul tema del desiderio. Non lo so, è davvero cosí? Lei che cosa ne pensa, è d’accordo? Non conosco le sue idee e il soggetto dei suoi romanzi, ma le posso garantire che quando mi capita di imbattermi in uno scrittore, una parte di me è felice e prova una gioia indescrivibile. Perché sono convinta che in fondo uno scrittore sia una persona capace di far brillare le gemme preziose che ognuno di noi porta inconsapevolmente dentro di sé. Secondo lei, signora Suzuki, anch’io posseggo ancora quelle gemme? Glielo chiedo perché ho la sensazione di averle perdute parecchio tempo fa… Quando? Non lo so di preciso. Forse all’epoca della partenza di Midorikawa per lo Hokkaidō. In altre parole, quando ho smesso di essere una ragazzina innocente. Purtroppo, quel tesoro era destinato a scomparire con il passaggio all’età adulta.
Quando ho smesso di essere una ragazzina innocente? Le confesso di non essere in grado di rispondere con precisione. Se provo a riflettere, ho l’impressione che quella piccola e graziosa bambina si sia allontanata a mia insaputa, quando lui è andato via. Lei non può immaginare quanto mi sia sentita infelice.
Parlare con lei di questa storia mi riporta alla mente anche un brutto ricordo. Finora non ho avuto il coraggio di dirglielo, ma qualcuno aveva intuito quello che succedeva tra me e Midorikawa. La seconda moglie di mio nonno, si chiamava Sumiko. Non era molto piú anziana di mia madre, e io non l’ho mai chiamata “nonna” come avrei dovuto fare. Del resto, se ci avessi provato, lei me lo avrebbe impedito. Non andava molto d’accordo con mia madre e mio zio. Quest’ultimo, il fratello minore di mia madre, aveva solo sedici anni piú di me. Lui, che all’epoca era ancora un liceale, e mia madre, una donna sola che era tornata a vivere con i genitori, dovevano apparire ai suoi occhi né piú né meno che un intralcio, due ragazzi di buona famiglia ingenui e viziati. Sumiko faceva la domestica a casa di mio nonno ed era originaria della prefettura di Nagano. Era stata assunta all’età di quindici anni per prendersi cura di mia nonna, la quale soffriva di tubercolosi. Ecco perché mia madre, che all’epoca non era ancora sposata, e mio zio, che allora frequentava la scuola media, non avevano il permesso di entrare nella sua stanza e Sumiko era la sola a occuparsene. Tra l’altro pare che mia madre, libera da impegni domestici, ne approfittasse per uscire con le amiche e darsi alla pazza gioia. Prima di morire, la nonna, colpita dalla dedizione con cui Sumiko l’aveva assistita fino all’ultimo, decise in pratica di affidarle il marito, mio nonno. Questa era perlomeno la versione della stessa Sumiko, ma non so se e quanto ci sia di vero. Io credo che il nonno avesse già avuto dei contatti fisici con lei e che la nonna se ne fosse accorta ma avesse preferito tacere. Mia madre e mio zio non la presero molto bene e per un certo periodo si rifiutarono di rivolgere la parola a Sumiko. E quest’ultima, seppure in modo velato, li biasimava per essere stati dei figli degeneri e per aver trascurato la madre. Sumiko era una donna forte e intransigente, e mia madre, cresciuta come una principessina, non era assolutamente in grado di tenerle testa. Quanto a mio nonno, si sentiva senza dubbio un po’ in colpa per aver sposato la sua giovane domestica. Questo deve aver pesato sulla sua decisione di acquistare una casa a Tōkyō per mia madre, poco dopo la guerra.
Sumiko doveva essere molto infastidita dai capricci di mia madre. Approfittando del nuovo ruolo che aveva assunto, la teneva sotto controllo e riferiva a mio nonno tutte le sue mancanze e i suoi movimenti. In quel periodo, le riunioni del circolo letterario si svolgevano già a casa nostra, e allora Sumiko si presentava di continuo a Tōkyō per controllare la situazione. Mia madre, che non sopportava il suo comportamento, la accusava di spiarla. Si sentiva limitata nella sua libertà e, anche se esasperata da quella situazione, doveva mantenere un certo controllo e stare attenta a non esagerare, perché Sumiko le portava tutti i mesi del denaro per conto di mio nonno. Prima ho detto che in fondo mia madre ha saputo godersi la vita ed è stata una donna abbastanza felice, ma questo vale al netto del suo rapporto con Sumiko. Diceva che dall’esterno sembrava una donna discreta, mite e gentile, ma che in realtà aveva un cuore malvagio, pieno di invidia e risentimento.
Se una donna del genere è riuscita a scoprire la mia relazione con Midorikawa non significa forse che aveva anche lei un terzo occhio? Del resto era particolarmente abile nell’individuare le debolezze e le pecche degli altri. Né piú né meno come voi scrittori. A forza di indagare l’animo umano, sviluppate una particolare sensibilità che vi permette di riconoscere al primo colpo le debolezze che sono all’origine di tutti i desideri. È irritante doverlo ammettere, ma forse anche Sumiko nascondeva una sensibilità da scrittore. Ora, portando questo ragionamento ai suoi estremi, non è forse possibile che il cuore di uno scrittore, come quello di Sumiko, sia colmo di invidia e risentimento? Lo stesso Midorikawa non era scevro da questo e altri difetti, solo che nel suo caso la gioia della creazione artistica li dissipava tutti in un colpo solo, come per magia. Magari le sto dando l’impressione di parlare male della sua categoria, ma secondo me i veri scrittori sono capaci di utilizzare i difetti e gli impulsi negativi in maniera costruttiva. Lei come la pensa, signora Suzuki? Il suo cuore è buio e oscuro? Allora credo che dovrebbe indagare sull’origine del desiderio e scriverne con puntigliosità, senza mai rinunciare a farlo.
Mi scusi tanto per l’ennesima divagazione, stavamo parlando di Sumiko, no? Un giorno in cui si trovava da noi, si presentò anche Midorikawa. Me lo ricordo come fosse ieri, quando la vide spalancò gli occhi sbalordito. E come poteva essere altrimenti? Come suo solito, era vestita in modo estroso, per non dire ridicolo. Mio nonno era ricco e i soldi non le mancavano, ma lei non li spendeva per l’abbigliamento, probabilmente per fare un dispetto a mia madre e a mio zio e metterli a disagio. Era come se volesse rimproverare implicitamente soprattutto mia madre, la quale sperperava una vera fortuna in kimono e abiti alla moda di foggia occidentale.
Sumiko, quel giorno, indossava un abito che si era confezionata da sola utilizzando la stoffa di un vecchio kimono. Era di un tessuto leggero e sfoderato di lana merinos, color cammello con un motivo di foglie nere. Una specie di ampia veste che scendeva dritta fin quasi alle caviglie e ricordava un grosso sacco! Lo trovavo sciatto e imbarazzante persino io, che ero solo una bambina e di solito non facevo caso a quel tipo di dettagli.
«Salve, sono Midorikawa Mikio» si presentò lui. Era inorridito, lo sguardo fisso su quel vestito a dir poco stravagante. Elegante e dandy come di consueto, sembrava non credere ai propri occhi.
«Molto piacere, io sono la matrigna di Nasako» rispose lei, alzandosi in piedi e facendo un ossequioso inchino.
Piegandosi, mise in mostra il suo generoso décolleté, fasciato in un reggiseno bianco. Mia madre distolse subito lo sguardo, mentre Midorikawa continuava a fissarla ancora piú imbarazzato di prima, gli occhi puntati sull’ampia scollatura.
«Lei è piuttosto giovane per essere una matrigna» disse abbozzando un mezzo sorriso.
«Uhm, in effetti ho solo sette anni piú di Nasako» precisò con una certa affettazione Sumiko.
Non era una grande lettrice e il nome di Midorikawa non le diceva niente. Da zotica campagnola qual era, lo squadrava da capo a piedi senza il minimo ritegno. Era l’inizio dell’estate, Midorikawa indossava dei pantaloni kaki e una camicia bianca con il colletto sbottonato. Mia madre, invece, aveva dei pantaloni alla pescatora neri, un maglioncino di cotone bianco e un piccolo foulard rosso intorno al collo… Sí, esatto, in stile Audrey Hepburn! Quando usciva, portava anche un grazioso ed elegante basco. Quanto a me, essendoci Midorikawa, indossavo il vestitino a pois che non mettevo da un po’ di tempo. Mi stava già stretto in vita ed era troppo corto, al punto che potevo competere con Sumiko per la mise piú orrenda dell’anno!
«Sumiko si è occupata di mia madre fino all’ultimo, è rimasta al suo capezzale giorno e notte» disse mia madre a Midorikawa, con un filo di voce.
Sembrava quasi che volesse lasciargli intuire la situazione della casa paterna dall’atteggiamento remissivo che aveva con quella donna. E intanto lui, biascicando un rapido «Ah, sí, capisco», non smetteva di osservare le forme di Sumiko. Era una donna minuta e magrolina ma piuttosto formosa, del genere che gli andava particolarmente a genio. In quel momento, confesso di aver provato una punta di gelosia.
«Signor Midorikawa, lei è un professore? Insegna in qualche scuola?» gli chiese a un certo punto Sumiko, incapace di contenere la curiosità.
«No, no, io sono solo l’insegnante privato di Mōcha» rispose lui in un tono faceto che suonava fuori luogo.
Trovando che fosse un po’ troppo in là con gli anni per essere un insegnante privato, Sumiko guardò con una certa diffidenza prima lui e poi mia madre. Doveva aver intuito fin da subito che c’era sotto qualcosa di sospetto, forse sulle prime aveva pensato che Midorikawa e mia madre avessero una tresca. Poi, non appena ne ebbe modo, mi si avvicinò e mi sussurrò all’orecchio: «Motoko, il tuo vestito è troppo corto, quasi ti si vedono le mutandine!».
Cosí dicendo, ne afferrò l’orlo e lo tirò con forza verso il basso. Al che le scostai la mano con un gesto brusco e cercai anch’io di tirare giú l’orlo. Ma era impossibile, il vestito era davvero troppo corto. Mi sentivo terribilmente a disagio, sarei voluta sprofondare sottoterra. Che cosa c’entravo io? Sumiko era vestita in modo molto piú bislacco e strampalato di me!
«Va’ subito a cambiarti!» mi ordinò in tono imperioso.
«Ma perché? Questo vestito mi piace molto…» risposi mettendo il broncio e lanciando uno sguardo a Midorikawa.
Lui fece finta di niente, ma quell’occhiata non sfuggí a Sumiko.
«Su, Mōcha, andiamo a fare i compiti. Oggi abbiamo matematica» mi disse poi Midorikawa, dopo un rapido occhiolino.
Mia madre si voltò verso Sumiko e le disse in tutta fretta: «Ah, scusami tanto, ma ora devo andare dall’orologiaio per ritirare il mio orologio».
«Quale orologiaio? Dove?» ribatté lei.
Allora, temendo che Sumiko volesse seguirla, mia madre rispose secca e sbrigativa: «Da Wakō, a Ginza».
L’idea di andare fino a Ginza scoraggiò Sumiko.
«Va bene, va’ pure» disse. «Io, se permetti, resto ancora un po’ qui».
«Certo, non c’è problema. Scusami, eh, a presto».
Mia madre indossò il suo adorato basco e uscí di casa correndo. Il nonno ci mandava trentamila yen tutti i mesi. Era una bella somma, considerato che eravamo nel 1952 o giú di lí. Diciamo che oggi corrisponderebbe a circa mezzo milione di yen. Mia madre aveva intascato il denaro e, mentendo a Sumiko, mi aveva affidata a Midorikawa per andare alla ricerca di qualche vestito nuovo a Ginza. Era su di giri, forse aveva messo gli occhi su uno dei soliti costosi abitini all’ultimo grido.
«Io vado a studiare» dissi a Sumiko. La salutai educatamente e mi ritirai in camera mia. Midorikawa mi raggiunse senza perdere un attimo, chiuse in fretta la porta alle sue spalle e incrociò il mio sguardo. Non appena i nostri occhi si incontrarono, ci scambiammo un risolino di complicità.
«Motoko… quasi ti si vedono le mutandine!» mi fece lui, imitando la voce di Sumiko. Dopo di che mi si avvicinò, afferrò l’orlo del vestitino a pois e lo tirò giú con violenza. A parte la scena di per sé esilarante, mi fece il solletico e scoppiai a ridere. Al che mi fece segno di stare zitta e mi appoggiò l’indice sulle labbra, prima esercitando una certa pressione e poi facendolo scorrere lungo il contorno della bocca e fino alla guancia. Grazie a Sumiko, il nuovo giochino della giornata era già cominciato.
«Ti si vedono le mutandine! Ti si vedono le mutandine!» ripeteva divertito, mentre io me ne stavo in piedi e lui mi sfiorava con dolcezza le cosce nude. Fino ad allora mi aveva mordicchiato il mignolo, aveva sfregato le sue guance contro le mie e mi aveva stretto tra le sue braccia, ma era la prima volta che mi accarezzava le cosce. Quel giorno diede prova di una certa arditezza, evidentemente era pronto a spingersi oltre. Non smetteva di bisbigliarmi all’orecchio paroline dolci, facendo scivolare pian piano la mano fino all’inguine. Continuava a ripetere quella stessa frase: «Ti si vedono le mutandine! Ti si vedono le mutandine!». A un certo punto chiusi gli occhi e, non so nemmeno io perché, divaricai un po’ le gambe. Fu un gesto istintivo, che avevo fatto con estrema naturalezza. Era inebriante, per lui come per me.
All’epoca usavo portare delle mutandine bianche di un tessuto di cotone leggero, con un elastico smerlato tutt’intorno. Le confezionava a mano una sarta nostra vicina di casa, perché quelle che vendevano nei negozi non mi andavano a genio.
«L’ho vista, l’ho vista! Che bella mutandina!» mi disse quasi esultando. Io continuai a tenere gli occhi chiusi e lo sentii inginocchiarsi ai miei piedi, percepivo il suo respiro sulle mie cosce nude. Ebbi un sussulto e mi irrigidii per un attimo, ma senza la minima intenzione di interrompere quel gioco elettrizzante. Ci eravamo completamente dimenticati della presenza di Sumiko. Le sue dita sfioravano senza posa l’elastico delle mie mutandine. La sua voce, intervallata da profondi sospiri, sussurrava: «L’ho vista, l’ho vista! Che bella mutandina!». Ed ecco che all’improvviso scostò l’elastico e infilò lentamente la mano all’interno, senza mai smettere di accarezzarmi. Le sue dita grandi e forti strisciavano sulla mia pelle nuda. Che cosa stava facendo? Non riuscivo a capirci niente. Serrai le palpebre piú che potevo e, l’istante successivo, sentii la punta di un dito raggiungere l’intimità del mio corpo. Sotto shock, mi ritrassi e mi lasciai sfuggire un gridolino. In quel momento preciso, si sentí un rumore dietro la porta scorrevole e Midorikawa si allontanò bruscamente da me. Qualcuno stava origliando. Sumiko, chi altri sennò?
«Dunque… la matematica… i compiti…» farfugliò confuso Midorikawa, con voce rauca. Afferrai la cartella come una furia e la aprii di scatto. Nel farlo, la fibbia metallica colpí il pavimento producendo un rumore secco che rimbombò in tutta la stanza. Allora si sentirono finalmente dei passi che si allontanavano lungo il corridoio. Per un pelo! Se Sumiko avesse aperto la porta, ci avrebbe colti in flagrante. Era stato un azzardo, avevamo rischiato grosso. Io e Midorikawa ci guardammo negli occhi e tirammo un lungo sospiro di sollievo.
Ma quel nuovo “giochino del giorno” cambiò in via definitiva il nostro modo di divertirci. Allora, signora Suzuki, è soddisfatta? Le giuro che non avrei mai immaginato di raccontare questa storia ad anima viva. La prego di non divulgarla, almeno finché la moglie di Midorikawa sarà in vita. Me lo promette? Se vuole, possiamo anche incrociare il mignolo.
Ah, certo, di giochini ne facevamo anche altri. A parte il “Ti si vedono le mutandine!”, c’erano per esempio “L’allieva somarella” e “L’esercizio della sigaretta”… Lui ne aveva escogitati diversi, era un maestro anche in quello… Cosa? Vuole che glieli illustri nel dettaglio? No, almeno questo me lo risparmi, per favore. Sono una donna di sessantaquattro anni, le assicuro che ho dovuto fare uno sforzo non indifferente per confidarle certi particolari. Mi sono venuti i sudori freddi, mi creda. Diciamo che erano dei giochi abbastanza… sozzi, va bene? L’atto sessuale vero e proprio? No, non ci siamo mai spinti fino a tanto. Intorno ai quindici o sedici anni, cominciai a pensare che mi sarebbe piaciuto farlo, mi sentivo pronta, e alla fine glielo chiesi, ma lui rispose che il suo scopo non era l’atto sessuale completo e rifiutò. Diciamo pure che ci siamo andati molto vicini, ma senza mai raggiungere il traguardo, ecco. Nel corso dei nostri giochini, ho scoperto il corpo maschile e ho imparato a conoscere anche il mio… Trova tutto questo insensato? Non sono d’accordo. Per me è stata un’esperienza unica, irripetibile e arricchente… Se mi sono mai sposata? No, gliel’ho detto, dopo la fine della nostra relazione – allora avevo sedici anni – non sono stata piú con nessuno, non ne avevo voglia. Midorikawa è stato l’unico e solo amore della mia vita.
Mi scusi, ritorno subito a Sumiko. Sono convinta che quel giorno sia rimasta per un bel pezzo dietro la porta della mia stanza a origliare. Chissà, forse avrà anche aperto uno spiraglio per gettare uno sguardo all’interno. Eppure, fatto strano, non ne ha mai fatto parola né con mia madre né con il nonno. Qualche mese piú tardi, mi prese in disparte e mi disse queste precise parole: «Motoko, a proposito, sei solo una bambina e fai già le cose che fanno i grandi, eh?».
Se mi avesse rimproverato e avesse spifferato tutto a mia madre o a mio nonno, sarei morta di vergogna. E invece, per quanto possa sembrare inverosimile, nel tono della sua voce c’era addirittura una nota di invidia. Lo dissi subito a Midorikawa, gli riferii per filo e per segno la frase di Sumiko. E lui, dopo averci riflettuto un momento, rispose ridacchiando: «La prossima volta, le proporremo di divertirci tutti e tre insieme!».
Rifiutai categoricamente. È normale, no? Quelli erano i nostri giochi e non volevo condividerli con nessun altro al mondo. In quel momento, confesso di essermi sentita ferita. Non riuscivo a capire come avesse potuto pensare una cosa del genere. Crescendo, col passare degli anni, iniziai a detestare tutti i maschi, sempre assetati di sesso, e in specie colui che rispondeva al nome di Midorikawa Mikio. Sí, è vero, forse nutrivo un astio particolare nei confronti degli scrittori. Ma ora, da un po’ di tempo, non è piú cosí. Io amo di nuovo il mio Midorikawa Mikio, darei qualunque cosa pur di poterlo rivedere, ma è impossibile, perché lui non è piú a questo mondo.
Vuole sapere che cosa ne è stato di Sumiko? Si è occupata di mio nonno fino all’ultimo, ha ricevuto una parte dell’eredità e ha acquistato un terreno in una zona di provincia. Viveva tranquilla e spensierata, ma un giorno un ladro si è introdotto in casa e l’ha ammazzata. Una fine assurda, non c’è che dire. Anche mia madre rimase sconvolta, apprese la notizia dalla televisione e mi telefonò all’istante. «Hai saputo?» esordí. «Sumiko è stata assassinata! Deve essere atroce morire in un modo simile…»
A essere sincera, la morte di Sumiko mi spinse a riflettere e mi fece sprofondare in uno stato di inquietudine. Midorikawa, dopo il trasferimento in Hokkaidō, ha scritto il suo capolavoro intitolato L’innocente ed è diventato molto famoso, no? A quel punto anche Sumiko, che di romanzi e letteratura non capiva niente, prima o poi avrebbe notato il suo nome da qualche parte e avrebbe potuto avere voglia di divulgare la nostra relazione parlandone in pubblico o addirittura lasciando una traccia scritta. Il solo pensiero mi metteva i brividi, ero terrorizzata. Ma nello stesso momento capii anche un’altra cosa: Midorikawa aveva un’intelligenza diabolica. Se Sumiko fosse diventata una nostra “compagna di giochi”, non avrebbe piú potuto rivelare niente a nessuno. Ecco perché, tra il serio e il faceto, quella volta lui aveva accennato all’ipotesi che potesse unirsi a noi. Sono convinta che volesse farne una nostra complice. Era un calcolatore, soprattutto in fatto di seduzione.
Ha un’altra domanda da farmi? Prego, la ascolto. La biblioteca sta per chiudere, non abbiamo molto tempo. Lo sente il campanello? Significa che per oggi il servizio di prestito è terminato. Guardi, stanno spegnendo i computer. Quando lavoravo qui, i computer non esistevano ancora, si annotava tutto sulle schede cartacee. Poi, nel giro di un paio di anni o poco piú, hanno iniziato a dire che se non eri in grado di usare il pc eri un incapace. Roba da matti, eh? È stato pressappoco da quel momento che la gente ha cominciato a leggere sempre meno. A mio avviso, la diffusione dei computer è una delle principali cause della disaffezione nei confronti della lettura. Glielo dice Mōcha, l’amante del grande scrittore Midorikawa Mikio.
Ah, mi sta chiedendo quando ho avuto la sensazione definitiva di non essere piú una ragazzina, giusto? È una domanda difficile. Come ho accennato in precedenza, da un certo periodo in poi l’interesse di Midorikawa nei miei confronti è andato scemando, al pari dei nostri incontri… Come mai? Be’, forse perché io insistevo a voler fare l’amore come due persone adulte. Non ricordo le parole esatte, ma devo avergli detto qualcosa tipo: «Voglio essere tua fino in fondo, facciamo l’amore». Lui impallidí all’istante, questo non potrò mai dimenticarmelo. Non voleva, gli si leggeva negli occhi che era addirittura contrariato dalla mia richiesta… Io? Il problema era che non provavo il minimo interesse per i ragazzi della mia età, e allora ho lasciato che la mia giovinezza andasse alla deriva, ero lí che fluttuavo in un mare di languida tristezza. Mia madre mi domandava di continuo perché non uscissi con i ragazzi, era diventato un vero e proprio tormento, ma io non sapevo cosa dirle, per me era impossibile, non ne avevo voglia. Ecco perché posso affermare che l’unico amore di tutta la mia vita è stato Midorikawa Mikio… L’innocente? È ovvio, quando l’ho letto sono rimasta scioccata. Può immaginare cosa ho provato quando ho saputo di non essere la sola e che aveva altre donne, no? Altre donne con le quali faceva l’amore sul serio, mentre con me si accontentava di giocare, rovinandomi la vita. Stando a quanto si legge in quel romanzo, le condizioni mentali della moglie erano penose. Spesso quella donna si lasciava andare a reazioni furiose, ma d’altra parte ci sarebbe un bel po’ da discutere sul loro rapporto. Che razza di coppia era la loro? Perché stavano insieme? Avrei una montagna di cose da dire su questo argomento. Comunque sia, al giorno d’oggi la mia storia con Midorikawa sarebbe trattata come un caso di molestie sessuali e ne verrebbe fuori uno di quegli scandali da sbattere in prima pagina. Difatti era un crimine bello e buono, solo che io allora non ne ero consapevole, perché ero una bambina.
L’amore? Ma certo che c’era. Gliel’ho detto, ci amavamo alla follia… Sí, signora Suzuki, è proprio cosí: quando c’è l’amore, non si può parlare di crimine, mai. Ma lei cosa ne pensa di tutta questa storia? Che idea si è fatta? Crede che io sia stata solo una bambolina, un giocattolo? No, non è cosí, glielo assicuro.
3
Suzuki Tamaki chiuse il quaderno degli appunti e guardò negli occhi Mōcha, ossia Ishikawa Motoko. A sessantaquattro anni, incorniciato dai capelli bianchi tagliati a caschetto, il suo viso appariva incredibilmente giovane. Aveva una pelle luminosa, le guance rosee e neanche l’ombra di una ruga intorno agli occhi. Perché non si tingeva i capelli? Era impossibile non chiederselo, sarebbe potuta sembrare ancora piú giovane. Il contrasto tra la capigliatura e il viso era notevole, se non addirittura anomalo. Con i capelli neri avrebbe avuto l’aspetto di una quarantenne, se non addirittura di una trentenne. Nel pensarlo, Tamaki si sentí percorrere da un brivido di terrore e le venne quasi voglia di alzarsi in piedi e scappare. Forse Motoko non si tingeva i capelli di proposito, per non nascondere la sua vera età. Ma la freschezza dei suoi lineamenti era quanto mai evidente e aveva un che di miracoloso. Quel viso da eterna ragazza era bello e irreale, tanto da far pensare che fosse un essere venuto da un altro mondo. Peccato che Midorikawa non potesse vederlo, lui che aveva la “mania del viso”. Lo avrebbe molto apprezzato, anche se la sua Mōcha era diventata un’anziana signora di sessantaquattro anni. Intanto Motoko, senza fare caso alla perplessità di Tamaki, intonava in tutta nonchalance un motivetto a bocca chiusa, gli occhi persi nel vuoto.
«Mi scusi se oso chiederglielo…» disse di colpo Tamaki, desiderosa di riprendere il discorso. Al che Motoko la guardò con aria serena e gioiosa. I suoi occhi trasmettevano un senso di fiducia, eppure, per quanto provasse a riflettere, Tamaki non era in grado di comprendere la natura del rapporto che si era instaurato tra lei e Midorikawa. «Lei sostiene che nell’Innocente non ci sia nulla che la riguardi, no? Ma questo non le ha creato uno shock? Non si è sentita messa da parte?»
«No, in fondo si tratta solo di un romanzo, è pura finzione. Lei è una scrittrice, dovrebbe sapere piú di chiunque altro che la realtà e la finzione sono due cose ben distinte e separate».
Il tono della voce di Motoko suonava calmo e distaccato, nonostante poco prima avesse detto, con chiara indignazione: «…ci sarebbe un bel po’ da discutere sul loro rapporto. Che razza di coppia era la loro? Perché stavano insieme? Avrei una montagna di cose da dire su questo argomento».
«E allora chi è la donna di cui si parla nel romanzo? Ero convinta che fosse lei, e invece mi dice che non è cosí… L’esistenza di un’amante, la follia della moglie e tutto il resto sarebbero solo frutto di pura finzione?»
Motoko, forse preoccupata dall’agitazione dei bibliotecari che si preparavano ad andare via, pareva insofferente. Aggrottò le sopracciglia, un reticolo di rughe le si formò agli angoli degli occhi e, per un breve istante, il suo viso tradí la sua vera età.
«Tutto quello che le ho raccontato non è che la verità. Gliel’ho detto all’inizio, no? Sulle prime la moglie di Midorikawa, credendo che mia madre fosse l’amante del marito, tentò di aggredirci con un coltello da cucina. Fu solo allora che capí di essersi sbagliata, difatti non tentò mai piú di avvicinarsi a noi. Era una donna fatta in un certo modo, amava il marito alla follia ed era molto gelosa. Ma non avrebbe mai immaginato che lui avesse una storia con me, una bambina, e in ogni caso la donna descritta nel romanzo non sono io. Midorikawa condivideva con me un segreto che non poteva svelare neanche nelle pagine di un romanzo».
Motoko sorrideva soddisfatta, ma Tamaki pensava che non esiste segreto che non trovi spazio in un romanzo. Uno scrittore finisce sempre col rivelare i propri segreti nelle sue opere. Se Midorikawa non aveva scritto niente sulla storia che Motoko aveva raccontato, allora forse quel segreto non esisteva. Era mai possibile che Motoko si fosse inventata tutto? Tamaki era perplessa, non sapeva piú cosa pensare. D’altra parte non aveva prove né modo di appurare la verità.
«Ora devo andare» disse Motoko alzandosi in piedi. «I miei gatti mi stanno aspettando».
Tuttavia Tamaki non era disposta a rassegnarsi. Motoko non poteva offrirle la chiave per risolvere il mistero, ma doveva pur esserci qualcuno in grado di aiutarla.
«Aspetti un attimo, la prego» insisté. «Midorikawa frequentava qualcun’altra a parte lei? Me lo dica, per favore».
Tamaki voleva scoprire a tutti i costi chi era X. Nell’Innocente compariva soltanto quella lettera, non si conoscevano né il nome né la professione di quella donna, né tanto meno che genere di persona fosse. Eppure X si presentava in piú di un’occasione a casa dello scrittore, litigava con la moglie, Chiyoko, e la sua presenza costituiva una reale e continua minaccia. Per quanto si sforzasse di riflettere, Tamaki non riusciva a raccapezzarsi. Midorikawa l’aveva fatta sparire tra le pagine del suo romanzo. Aveva scritto di lei chiamandola semplicemente X e poi l’aveva cancellata dal mondo. Cosa ne era stato di quella donna? Chi era? Che cosa faceva? Dove viveva? Aveva provato sollievo quando aveva saputo che il rapporto tra Midorikawa e la moglie ne era uscito devastato? Oppure la violenta gelosia di Chiyoko le era parsa ridicola e insensata, tanto da trasmetterle solo un senso di vuoto? In seguito erano comparse in giro diverse fotografie di Motoko, da sola o in compagnia di Midorikawa, ma nessuno sapeva chi fosse e se avesse avuto sul serio una storia con lo scrittore. E ancora meno si sapeva di X, una donna senza volto e senza nome diventata famosa grazie al romanzo ma evanescente come un fantasma.
«Non so niente, mi dispiace!»
Motoko agitò una mano in segno di saluto e si avviò giú per le scale con inaspettata fretta. Tamaki tentò di seguirla, ma si fermò dopo pochi passi, frenata dalla sua reazione stizzita. Sospirò e la guardò allontanarsi. Era in un vicolo cieco, non sapeva piú come proseguire le ricerche.
Motoko aveva delineato il ritratto di un Midorikawa Mikio estremamente egocentrico. Dopo il colpo di fulmine per la graziosa e incantevole Mōcha, aveva piantato le tende in casa sua e si era divertito con lei per ben sei anni. Poi, quando la bambina era cresciuta, si era stufato e l’aveva abbandonata. Non erano mai arrivati all’atto sessuale completo, ma i loro giochi erotici avevano esasperato il desiderio della ragazzina e l’avevano imprigionata nella sua verginità. Oggigiorno, un comportamento del genere sarebbe considerato senza ombra di dubbio un reato grave, eppure nel tono e nell’atteggiamento di Motoko c’erano ancora molto rispetto e amore nei confronti di quell’uomo. Ma che cosa ne era stato di X? Era ancora viva? In tal caso, Tamaki voleva incontrarla a ogni costo. Non poteva evitare di sentirsi attratta dalle donne che avevano circondato il grande romanziere Midorikawa Mikio. L’innocente l’aveva stregata.
Tamaki prese il libro dallo scaffale. Nel colophon era indicato l’anno della prima edizione: 1973. Il romanzo era ambientato nella prima metà degli anni Cinquanta e descriveva il dramma di Chiyoko, la moglie dell’autore, in seguito alla scoperta di una storia adulterina del marito, e i vari eventi che l’avevano condotta sul baratro della follia. La crudezza aberrante del racconto aveva riempito i lettori di stupore. Come era possibile scrivere con tanta spudoratezza della propria consorte e della propria famiglia? Non si poteva escludere che il romanzo fosse frutto dell’immaginazione dell’autore, eppure, a cominciare dal fatto che la moglie compariva con il suo vero nome, era facile credere che si trattasse di una storia autobiografica, il che aveva provocato una ferita profonda e insanabile nei familiari. Midorikawa non si era premurato di tutelarli, dando forse per scontato che i suoi familiari dovessero accettare con rassegnazione di veder messa a nudo la loro vita in un romanzo.
Da una parte, Tamaki provava un’attrazione irresistibile per quel romanzo, ma dall’altra sentiva una forte repulsione per la sua estrema schiettezza e per la cieca parzialità. Tuttavia la sua avversione non era diretta all’autore, bensí al romanzo in sé. Midorikawa doveva avere avuto i suoi buoni motivi per scriverlo. Le sue pagine andavano oltre la finzione e risucchiavano i personaggi uno dopo l’altro in un gorgo oscuro, come fossero delle vittime sacrificali.
Tamaki provò a rileggerne l’inizio.
Quel giorno mi trovavo a Kanda e mi balenò nella mente l’idea di ordinare un nuovo sigillo personale. Mi fermai davanti alla vetrina di un negozio specializzato, attratto dai numerosi pezzi esposti con straordinaria cura. Quelli che rispondevano ai miei gusti, adagiati come preziosi cimeli da museo in piccoli scrigni foderati di tessuto, erano uno piú bello dell’altro e molto costosi. Eppure non riuscivo a distogliere lo sguardo da tanta magnificenza artigianale.
Ero lí perché dovevo restituire delle bozze alla casa editrice, Kawakura shobō, ma l’editor T. che si era momentaneamente assentato non era piú tornato, lasciandomi alquanto contrariato. Lo aveva fatto apposta o era solo una casualità? Gli avevo spedito un telegramma per avvertirlo che sarei passato nel pomeriggio ed ero sicuro di trovarlo nel suo ufficio. Lo avevo aspettato per quasi un’ora, seduto sul divano in un angolo della redazione, dove una giovane impiegata mi aveva servito piú volte il tè con aria desolata. Alla fine mi ero rassegnato ed ero andato via.
Volevo chiedere a T. un’opinione sul mio manoscritto, e la sua assenza mi aveva gettato in uno stato di totale sconforto. Inoltre avevo da poco saputo che il mio amico K. era stato selezionato tra i finalisti del premio Akutagawa ed ero già per questo molto avvilito. Mi chiedevo se valesse la pena continuare a scrivere, cosí, senza mai ottenere un riconoscimento di prestigio. Se K. avesse ricevuto il premio, sarebbe stato il secondo scrittore della cerchia di Shusui a vedersi assegnare un simile riconoscimento. La fama della nostra rivista cresceva giorno dopo giorno, avrei dovuto esserne felice, ma devo ammettere che non ne ero affatto rallegrato.
Ero immobile davanti alla vetrina del negozio, come pietrificato, al punto che il proprietario avanzò verso l’ingresso e mi fece un cenno con la mano. Allora mi scossi dal mio torpore e mi sentii obbligato a entrare.
«Che ne pensa di questa?» mi chiese l’uomo, mostrandomi una pietra grigia con delle stupende striature rosse, grande a occhio e croce quanto un pollice. «È una pietra cinese molto rara» aggiunse esibendo un ampio sorriso. Gli chiesi il prezzo e non riuscii a non sgranare gli occhi per lo stupore quando lo sentii rispondere: «Diecimila yen». Stavo per voltargli le spalle, ma alla fine esitai. Posai gli occhi su un altro espositore e mi domandai se non fosse il caso di abbassare le pretese e indirizzare il mio interesse verso un sigillo in legno di bosso. Al che l’uomo, dopo avermi scrutato in volto, mi mostrò di nuovo la pietra grigia e rossa e disse: «Gliela cedo a metà prezzo, cinquemila yen». Reputando strano che avesse ribassato la richiesta tutto d’un colpo, feci una controproposta: «Duemila yen e la prendo». Mi disse che andava bene senza batter ciglio e mi ritrovai a dover dare il definitivo assenso all’ordinazione del sigillo. Prima, però, ci tenne a precisare che una pietra del genere andava affidata a un esperto incisore e che il prezzo sarebbe ammontato in totale a cinquemila yen. Ormai non me la sentivo di tornare sui miei passi, anche se di colpo mi parve di percepire il respiro incollerito di mia moglie Chiyoko sulle spalle ed ebbi un piccolo sussulto. Era troppo tardi, accettai e firmai la commessa. Il venditore mi disse di tornare dopo tre settimane per ritirare il sigillo e gli diedi come anticipo tutto il denaro che avevo in tasca.
Chiyoko sarebbe andata su tutte le furie e mi avrebbe accusato di gettare i soldi dalla finestra. Tormentato da quel pensiero, gironzolai distrattamente per il mercatino dalle parti della stazione e rincasai tardi. Erano le sei passate. L’appartamento era immerso nell’oscurità. Dove poteva essere andata mia moglie a quell’ora? Non era in casa? Il sangue mi salí al cervello. Nella penombra dell’ingresso, vidi Takako e Michiko che giocherellavano con i getasedute sul pavimento di cemento. «Lasciate stare quei geta, bambine. Sono sporchi!» dissi loro ad alta voce, prendendo Michiko in braccio e Takako per mano ed entrando in casa. Accesi la luce e andai in giro invano alla ricerca di Chiyoko. Alla fine, sollevato alla vista di Yōhei che dormiva beato nella sua culla, mi diressi nel mio studio e accesi la luce anche lí. Non riuscii a trattenere un urlo: Chiyoko era distesa supina sui tatami! Il mio diario personale aperto e appoggiato sul viso.
«Che ti è successo?» le chiesi.
Ero sconvolto, ma riuscii lo stesso ad articolare quelle parole con relativa calma. Dal momento che non mi rispondeva, sulle prime pensai che fosse morta. Mi inginocchiai al suo fianco, sollevai il diario e vidi un fiume di lacrime scorrere dai suoi occhi spalancati. Indietreggiai per lo spavento. In passato, sul campo di battaglia, mi era capitato di vedere in piú di un’occasione dei soldati senza vita con gli occhi sgranati nel vuoto. Quelle immagini lugubri mi affiorarono di colpo alla mente.
«Mi hai fatto spaventare. Pensavo fossi morta!»
«È come se lo fossi!» ribatté lei, prima di scoppiare in un pianto irrefrenabile. Poi si alzò in piedi di scatto e mi mollò uno schiaffo a mano aperta. «Maledetto! Maledetto!» urlò. «Mi fai schifo, ti odio!»
E subito dopo aprí il diario alla pagina in cui parlavo di quando avevo accompagnato X dal ginecologo e me la mostrò con fare sprezzante. Me l’ero voluta io, mi aveva scoperto. Che idiota, scrivere quell’episodio nel mio diario! E dire che avevo anche pensato che avrebbe potuto capitarle tra le mani. Solo che poi mi ero convinto che non lo avrebbe mai letto di nascosto, che non avrebbe mai osato fare una cosa del genere. Era tutta colpa mia, l’avevo sottovalutata, e soprattutto non avevo considerato che noi esseri umani siamo capaci di fare qualunque cosa per gelosia. O forse, nel suo caso, era piú giusto parlare di un amore che sconfinava nella pura follia?
«Vuoi lasciarmi per andare a vivere con lei, non è vero?»
«Ma cosa dici? Ti assicuro che ti sbagli».
«Ah, mi sbaglio? E allora perché hai scritto queste cose? Guarda qui! Non puoi negare!»
Non c’era bisogno che mi mostrasse ciò che avevo scritto, conoscevo fin troppo bene il contenuto di quel diario. Ma lei, umettandosi di continuo la punta dell’indice, sfogliava con fare isterico le pagine alla ricerca dei passaggi incriminati.
«Ecco, leggi!» mi disse in tono imperativo, gli occhi fuori dalle orbite.
Era il brano in cui descrivevo i momenti dopo l’aborto, quando stringevo la mano di X e le dicevo all’orecchio, mentre se ne stava a testa bassa in silenzio: «Non preoccuparti, un giorno vivremo insieme felici, te lo prometto».
Il dito sottile e screpolato di Chiyoko puntava quel rigo senza la minima titubanza.
«Allora? Mi sbagliavo, forse? Non le hai dette tu queste parole? Rispondi!» insisté.
«Sí, le ho dette, ma è solo quello che pensavo in quel momento» risposi di getto.
Era la verità. Ma lei non mi credette e si aggrappò disperatamente a me piangendo a dirotto.
«Non basta per giustificare quello che hai fatto! È terribile, anche se lo hai detto una sola volta. Non ti perdonerò mai! E io che come una stupida mi fidavo di te… Che ne sarà di me?!»
Continuava a stringermi con tutte le sue forze. Un bottone della camicia saltò via e sentii la sua mano afferrarmi la canottiera come se volesse strapparmela di dosso. Allora le strinsi il polso e la allontanai con una spinta.
«Smettila, mi laceri i vestiti!» urlai con rabbia, senza pensare a quello che dicevo.
«Me ne frego dei tuoi vestiti!» ribatté lei tra i denti, scagliandosi di nuovo contro di me. Ci spingemmo e ci colpimmo a vicenda. Infuriato perché tentava di graffiarmi la faccia con le unghie, le diedi una manata sul petto, senza metterci chissà quale forza. Ma lei barcollò piú di quanto mi aspettassi e finí per urtare con il fianco contro lo spigolo del comò, cadendo per terra all’indietro. Poi si girò da un lato e scoppiò in un pianto dirotto, esasperato. In quel momento sentii delle urla alle mie spalle, mi voltai e vidi Takako e Michiko in piedi sulla soglia della stanza, in lacrime.
È l’inferno, pensai. Ma non era che l’inizio. A partire da quella sera, si scatenò tra noi una guerra assurda e senza fine. Diciamo pure che la nostra era una relazione di amore e odio, tanto per facilitare la comprensione delle cose. Lei mi amava, d’accordo, e perciò era gelosa, ma i suoi sentimenti si spingevano al di là di ogni limite umano. In quel momento mi apparve come una bestia ferita che urlava di dolore. Era agghiacciante. E io, un uomo che aveva offeso la dignità della moglie ed era incapace di curare la sua ferita aperta, ero condannato a sperare in eterno che il suo stato d’animo non peggiorasse.
Tutte le volte che Tamaki rileggeva quel brano, le ritornava alla mente Seiji. È solo quello che pensavo in quel momento… Era il suo motto! Quasi che L’innocente fosse il suo libro prediletto e quella la sua frase preferita. Come dire che le parole d’amore che le aveva ripetuto infinite volte restavano solo parole e che nella loro relazione non c’era spazio per le promesse e i giuramenti. È solo quello che pensavo in quel momento…Dopotutto in quella frase era racchiusa la vera natura della loro storia d’amore. L’amore che non resisteva al tempo e smarriva in segreto la sua forza originaria. L’amore che si corrompeva, per dirla in termini piú crudi. Le tensioni, i desideri frustrati lungamente accumulati finivano per esplodere in un sol colpo. E dopo l’esplosione finale, che li aveva proiettati l’uno lontano dall’altra, si erano guardati intorno e avevano scoperto di essere ciascuno in una landa isolata e completamente diversa.
4
Alcuni giorni piú tardi, l’editor Nakagusuku Yōichi incontrò Tamaki per discutere del suo romanzo. Le disse che Saitō aveva avuto un contrattempo e lui aveva ricevuto l’incarico di sostituirlo. Tamaki gli riferí l’esito delle ricerche su Motoko. Nakagusuku la ascoltava con grande interesse, mentre prendeva appunti sul suo bloc-notes.
«Da quello che mi ha raccontato, mi sembra la classica nonnina terribile» commentò il giovane editor. Se avesse visto Motoko di persona, l’avrebbe mai chiamata “nonnina”? Tamaki rimase per qualche attimo meditabonda.
«Non so nemmeno se e in quale misura la storia che mi ha raccontato Motoko corrisponda al vero» disse dopo qualche secondo. «Sono molto confusa, non so piú cosa fare».
«Questo significa che si trova in un’impasse e non riesce a scrivere?»
«Temo proprio di sí».
Tamaki si portò piano alle labbra il suo caffè bollente, attenta a non scottarsi. Si erano dati appuntamento allo Shibuya Mark City, da Starbucks. A Tamaki quel posto non piaceva piú di tanto, era sempre affollato e non si sentiva a suo agio, ma siccome Nakagusuku aveva detto di non avere molto tempo a disposizione, avevano trovato un compromesso e avevano deciso di incontrarsi all’interno dell’edificio della stazione.
«Io sto cercando di mettermi in contatto con le persone che in un modo o nell’altro avevano a che fare con la rivista di Midorikawa, ovviamente quelle che sono ancora in vita, ma nessuno sembra disposto ad aprire bocca» disse Nakagusuku in tutta calma. «È come se intorno all’Innocente fosse stato eretto un muro, come se quel romanzo fosse un tabú, ecco». Poi fece una pausa e aggiunse: «A proposito, posso farle una domanda? Riguarda Abe Seiji, del quale come ricorderà abbiamo parlato la volta scorsa… Perché quella lettera di minacce l’ha turbata cosí tanto?».
Tamaki non sapeva cosa rispondere, era in seria difficoltà. A dire il vero, non le andava giú di dovergli dare delle spiegazioni. Aveva vent’anni meno di lei, era giovane, e avrebbe voluto che si sforzasse di far lavorare un po’ di piú l’immaginazione. Una lettera anonima piena di ostilità era di per sé sconvolgente, non c’era bisogno di aggiungere altro. Non poter associare un volto a chi ti ha scritto certe cattiverie crea un’angoscia indescrivibile, ti allarma al punto che la sera hai paura di camminare per strada da solo.
Quella lettera, scritta su due fogli, diceva piú o meno cosí: «Il 20 marzo, all’una e quaranta del mattino, ero al volante della mia auto quando sono stato testimone di una lite. A ben vedere, una delle persone coinvolte aveva un viso che non mi era nuovo: quella persona era Suzuki Tamaki! Come era possibile che una scrittrice del suo calibro si lasciasse coinvolgere in una volgare lite per strada e si comportasse in modo cosí violento? Non volevo crederci, ma purtroppo non c’erano dubbi, quella donna era proprio lei! Sono un suo grande fan, ho letto tutti i suoi libri, ma lo shock è stato enorme e credo che d’ora in poi mi impegnerò in un’opera di boicottaggio nei suoi confronti. Non posso evitarlo, mi dispiace, è stata lei a costringermi».
La lettera era firmata: «Un ammiratore notturno dall’occhio infallibile».
A spaventare Tamaki, piú del contenuto stesso della missiva, era il fatto che la lettera era stata infilata direttamente nella cassetta per la posta affissa alla porta d’ingresso, durante la notte. L’aveva sentita cadere sul fondo della buca metallica e aveva udito distintamente anche la voce di Seiji.
«Cosa? Ha sentito davvero la sua voce?» le chiese con aria allarmata Nakagusuku.
Dal tono di voce era evidente che dubitasse delle sue parole. Gli uomini sono diffidenti e sospettosi per natura. Ma Tamaki aveva detto la pura verità.
Quella sera, siccome l’indomani mattina presto aveva appuntamento dal parrucchiere, era andata a letto prima del solito. Due giorni dopo aveva in programma di partire per Francoforte in occasione della Fiera internazionale del libro, in compagnia di alcuni pezzi grossi della casa editrice per la quale lavorava Seiji. Dalla sua camera da letto che era vicina all’ingresso, al piano terra della villetta unifamiliare in legno dove abitava con il marito e il figlio, aveva sentito chiaramente dei rumori che provenivano dalla cassetta della posta. Tutte le mattine all’alba, precisamente alle quattro e mezza, veniva svegliata dalla consegna dell’edizione mattutina del giornale che veniva lasciata cadere nella buca.
Quella notte, le era sembrato di sentire la voce di Seiji tra la veglia e il sonno. Era passato piú di un mese dal loro litigio, e nel dormiveglia aveva pensato: “Che cosa ci fa qui?”. Seiji bisbigliava a qualcuno: «Fa’ presto, mettila dentro e andiamo via!». In un tono pressante, come se si rivolgesse a un suo sottoposto. Poi Tamaki aveva sentito qualcosa cadere sul fondo della buca della posta e aveva gettato un’occhiata all’orologio sul comodino, anche perché aveva pensato che fosse troppo presto per il giornale del mattino. E in effetti erano ancora le due e mezza.
L’indomani mattina, completamente dimentica dell’accaduto, era andata a prendere come sempre il giornale dalla buca. E sul fondo aveva trovato una busta marrone chiaro di medie dimensioni. In quel momento non le era ancora tornato alla mente di aver sentito la voce di Seiji nella notte e il rumore che proveniva dalla buca delle lettere. Eppure, non appena aveva stretto in mano quella busta, aveva avuto un brutto presentimento. Le linee rosse ondeggianti e i timbri nella parte superiore sembravano suggerire che si trattava di una lettera espresso. C’erano anche diversi francobolli. Ma Tamaki aveva avuto la netta sensazione che il proprio nome, scritto con una certa energia a penna nera, avesse un che di sinistro. La grafia risultava al tempo stesso accurata e leziosa, come se appartenesse a una persona di una certa età. Sul retro della busta c’erano scritti il nome e l’indirizzo incompleto del mittente, evidentemente falsi: «Suzumura Tamao, Setagaya, Tōkyō». Tamaki aveva capito al volo che quel nome non era altro che una sorta di variante canzonatoria del proprio. Di colpo le era venuta la pelle d’oca e le mani avevano cominciato a tremarle. Era tornata di corsa nella sua stanza, aveva aperto con cura la busta con le forbici e aveva estratto il contenuto: due fogli di carta da lettera scritti al computer. A ben vedere, i francobolli incollati sulla busta erano usati ed era fin troppo chiaro che quella lettera non fosse stata inviata per posta.
Allora Tamaki aveva telefonato a un editor con il quale era in ottimi rapporti, il cui primo commento era stato: «Non è che per caso l’ha scritta Abe?». Tamaki era caduta dalle nuvole, non le era passato neanche per l’anticamera del cervello che Seiji potesse spingersi fino a tanto. Quella mattina, dal parrucchiere, era molto tesa e pensosa. All’improvviso si era ricordata della voce nella notte e per poco non aveva lanciato un urlo. E poi, a ben rifletterci, il contenuto della lettera era del tutto artificioso. Tanto per cominciare, il luogo dove lei e Seiji avevano battibeccato non era facilmente individuabile dalla carreggiata stradale. E, piú o meno per lo stesso motivo, era alquanto improbabile che qualcuno avesse potuto riconoscere il suo viso in piena notte, per giunta da un’auto in corsa. Senza contare che un semplice ammiratore non poteva conoscere il suo indirizzo privato. E in ogni caso, quand’anche fosse riuscito a procurarselo, si sarebbe azzardato a scrivere una lettera del genere rischiando di incorrere in problemi di natura legale?
Tutto considerato, era molto piú verosimile che si trattasse di uno stratagemma messo a punto da Seiji. Prima di tutto, per la natura stessa del suo lavoro, gli capitava con una certa frequenza di avere a che fare con reclami e lettere di protesta. Era abituato ai commenti insidiosi e di cattivo gusto e sapeva bene come scrivere una lettera anonima. Inoltre conosceva l’indirizzo di Tamaki e le sue abitudini di vita, cosí come sapeva che era in partenza per la Germania insieme ad alcuni suoi colleghi. E sapeva anche che Tamaki detestava quel genere di lettere che avevano il potere di intimorirla. Seiji era il sospettato numero uno, non c’erano dubbi.
Tamaki era rimasta colpita soprattutto dall’odio profondo che scaturiva da quella missiva. Mentre la rileggeva, era come se sentisse una voce lontana e minacciosa che ripeteva: “Maledetta, maledetta, maledetta! Ti odio, ti odio, ti odio!”. E la voce era quella di Seiji che dava sfogo ai suoi sentimenti. Perché lui era convinto che fosse tutta colpa di Tamaki se la sua famiglia era andata allo sfascio e se la sua reputazione in ambito lavorativo era stata danneggiata. Si odiavano, il rapporto si era deteriorato ed era finito con una grande esplosione… Boom!
Tuttavia, se davvero era stato Seiji a scrivere quella lettera, significava che il suo odio nei confronti di Tamaki era ben superiore a quello che lei provava per lui. Chissà da quanto covava vendetta, deciso a fargliela pagare per aver distrutto la sua famiglia. Tamaki non avrebbe mai immaginato che potesse concepire quel genere di vile ritorsione, lui che aveva confessato in piú di un’occasione di amarla piú di ogni altra cosa al mondo e di voler vivere insieme a lei per sempre. Aveva preferito sopprimere il suo passato con lei in un colpo solo. Cosí come Midorikawa Mikio, dopo che Chiyoko aveva scoperto la sua relazione segreta leggendo il diario, aveva negato l’esistenza stessa di X.
«Perché mi fai una domanda del genere? Che senso ha?» chiese Tamaki a Nakagusuku.
«Che senso ha cosa?» ribatté lui perplesso, corrugando la fronte.
«Ricevere una lettera di minacce è pesante, intollerabile. Non c’è niente da aggiungere, mi sembra naturale restare turbati».
«Ah, questo è certo» concordò Nakagusuku. «Ma se capitasse a me, non la vedrei per forza in maniera negativa, nel senso che una lettera del genere potrebbe anche rivelare che la persona che l’ha scritta nutre ancora un certo interesse e dei sentimenti nei miei confronti».
Quell’affermazione inattesa lasciò Tamaki pensierosa. Lei, in quella missiva, aveva percepito solo odio e nient’altro. Si era forse sbagliata? I fatti stavano diversamente?
«A proposito, come è andato il suo recente incontro con Abe Seiji, al quale ha fatto cenno la volta scorsa?» le chiese a bruciapelo Nakagusuku.
Tamaki abbandonò il suo flusso di pensieri e tornò alla realtà, andando subito con la mente a quel giorno.
Il giorno del suo nuovo incontro con Seiji… In quell’occasione, di colpo la conversazione si era spostata dalla famosa “lettera di minacce” a una sorta di interrogatorio durante il quale Tamaki aveva rivolto a Seiji una lunga serie di domande sul suo comportamento dopo la fine della loro storia.
«Allora? Potresti dirmi chi firmò la lettera di scuse?» gli aveva chiesto prima di tutto. «Credo di aver diritto a delle spiegazioni, anche se è passato un bel po’ di tempo».
Tamaki aveva preteso delle scuse scritte dopo la decisione di Seiji di non occuparsi piú dell’editing del romanzo che stava scrivendo in quel periodo. Quella lettera, arrivata con diversi mesi di ritardo, aveva qualcosa di decisamente anomalo. Il suo indirizzo sulla busta e quello del mittente erano stati scritti con un pennello da calligrafia da un vero professionista. Sembrava una formale lettera di invito a una cerimonia. Il contenuto non esprimeva il minimo rammarico per l’accaduto, né tanto meno c’era traccia di scuse: si trattava di un mero elenco di fatti e constatazioni. E il peggio del peggio era la firma in calce. La grafia non era quella di Seiji, che Tamaki conosceva molto bene: il suo nome sembrava essere stato scritto da qualcun altro, era evidente, a meno che Seiji non lo avesse tracciato con la mano sinistra. In tal caso, sarebbe stato poco rispettoso e sgradevole.
«Quella lettera l’ho scritta io» aveva confessato alla fine Seiji, ridendo imbarazzato.
Allora Tamaki si era resa conto una volta di piú che lui si riteneva incolpevole, da vero irresponsabile e immaturo. Con quella sua confessione era come se avesse voluto mettere per sempre una pietra sopra all’accaduto, quasi a voler dire che tutto apparteneva al passato.
«Sí, d’accordo, ma la firma l’ha messa qualcun altro, no? Non era la tua grafia. La cosa mi ha sorpreso e mi sono chiesta chi potesse essere stato, tutto qui».
«No, no, ti garantisco che anche la firma è mia. L’ho fatta male di proposito… Sai, tutti insistevano perché mi scusassi, non ne potevo piú, era diventato un vero tormento».
Tipico di Seiji. In effetti, un comportamento del genere era pienamente in linea con il suo carattere vendicativo. I suoi superiori glielo avevano imposto, e allora lui si era sentito obbligato a scrivere quella lettera di scuse, ma a modo suo, riversando su Tamaki la propria frustrazione e facendo il possibile per provocare in lei un senso di fastidio. Era come farle pervenire un documento di origine incerta o una lettera anonima, cosí da metterle ansia. Lo aveva fatto per ferirla e turbarla. A poco a poco, Tamaki aveva cominciato a sentirsi delusa e amareggiata. Si era dovuta arrendere all’evidenza: l’uomo che aveva davanti a sé in quel momento non era piú il Seiji che conosceva e che in passato aveva amato piú di se stessa. La sua convinzione non scaturiva da dettagli tutto sommato insignificanti, come la perdita di interesse per la letteratura o la decisione di smettere di fumare, bensí da comportamenti che parlavano della sua intima natura. Tamaki era rimasta sconvolta dall’improvvisa malvagità di Seiji nei suoi confronti. Quello che avevano perduto era ormai irrecuperabile, e quel nuovo incontro l’aveva depressa e avvilita.
«Ora devo andare, è tardi» aveva detto alla fine, dando un’occhiata all’orologio.
Seiji si era alzato insieme a lei, ma la sua espressione rivelava un leggero disorientamento di fronte al brusco cambio di umore di Tamaki. Il loro incontro era durato solo un’ora. Era andato a pagare i caffè mentre lei lo aspettava fuori.
«La prossima volta mi offrirai una cena, d’accordo?» le aveva detto quando l’aveva raggiunta, esibendo un sorriso smagliante.
Solo perché le aveva pagato un caffè? Tamaki si era limitata ad assentire con un cenno del capo, restando in assoluto silenzio. Poi, al posteggio dei taxi, lo aveva salutato con un semplice «Ciao», alzando appena la mano. E mentre saliva nel taxi, lui le aveva sfiorato piano la schiena e aveva contraccambiato il saluto. Quindi Tamaki si era voltata e aveva fissato per un lungo attimo il suo sorriso sereno, per l’ultima volta.
Il mattino dopo, avevano avuto un breve scambio di e-mail. Chissà perché, Seiji le si rivolgeva usando il suo vero nome e non quello d’arte.
Cara Suzuki Yumiko,
grazie per ieri. Quasi non mi sembra vero che ci siamo rivisti, è stato cosí strano.
Quest’ultimo anno apparteneva alla realtà? Quando ti ho vista, ho avuto la sensazione che non fosse mai esistito, o meglio che fosse solo un anno illusorio passato in un baleno. Non so spiegarti, è una sensazione misteriosa, indefinibile.
È stato bello, spero di rivederti presto.
Ciao!
Abe Seiji
Caro Abe Seiji,
grazie, lo stesso vale per me. Sono stata felice di rivederti, anche se solo per poco.
Anch’io, come Urashima Tarō, ho avuto la sensazione che il tempo fosse passato tutto in una volta, e la mia condotta folle di un anno fa mi è parsa assolutamente incomprensibile. Ti confesso anche di averti trovato molto cambiato, come se tu fossi diventato un’altra persona, e questo mi ha un po’ turbata.
Non fumi piú. Non ti interessi piú alla letteratura… Sí, forse è inevitabile, dopo tutto quello che è successo. Eppure non posso fare a meno di trovarlo molto triste, perché la letteratura è la mia vita e io dipendo da lei, per quanto tu, adesso, troverai strane e forse ridicole queste mie parole. Non posso evitare di pensare che io e te, l’anno passato, ci siamo lasciati sopraffare dalla follia e abbiamo commesso una pura idiozia. Ma se io non avessi reagito in quel modo, non avrei potuto continuare a vivere.
Non so quello che accadrà nel frattempo, ma sono sicura che ci rivedremo.
Ciao, a presto
Suzuki Yumiko
Cara Suzuki Yumiko,
in questo mondo e in questa vita pervasi di follia e stupidità, credo si debba comunque resistere, senza mai fuggire e tirarsi indietro. Per questo non penso affatto che le tue parole, “la letteratura è la mia vita e io dipendo da lei”, siano strane o ridicole.
Ma… io voglio vivere il piú possibile con leggerezza.
Io che non fumo piú, io che non amo piú la letteratura… sono e sarò per sempre io!
A presto
Abe Seiji
Tamaki si era sentita molto abbattuta e aveva provato una certa amarezza dopo l’ultima e-mail di Seiji. Perché si era resa conto di aver fatto la stessa cosa che aveva fatto lui: aveva soppresso il suo amore di un tempo, lo aveva cancellato dalla sua vita. Cosí come forse, ciascuna a modo suo, avevano fatto anche Motoko e X nei confronti di Midorikawa Mikio.
3. Soprannome del noto cantante e attore giapponese Kimura Takuya (N.d.T.).
4. Si scrive con due caratteri cinesi che significano “raccolta delle acque” (N.d.T.).
3
L’innocente
Midorikawa Mikio
1
Era l’ora in cui di solito passava il postino. Avevo detto a X che sarei andato a trovarla, ma ultimamente non avevo potuto tenere fede alla mia promessa e mi aspettavo di ricevere una sua lettera da un momento all’altro. Il solo pensiero mi metteva addosso un’ansia indescrivibile: ero incapace di restarmene fermo, seduto alla mia scrivania. Cosí, mentre mi dirigevo verso l’ingresso per controllare la buca delle lettere, mi imbattei in Takako e Michiko, le quali, non potendo giocare fuori a causa della pioggia, si divertivano sulla soglia di casa a piegare e strappare dei volantini pubblicitari.
«Papà, dove vai?» mi chiese Takako.
«Vado a vedere se è passato il postino» risposi senza pensarci.
In quel momento, Chiyoko uscí dalla cucina come una furia. Era molto determinata, trasudava un’energia terrificante. Nella mano destra stringeva un pelapatate. Le bambine la guardavano immobili e piene di stupore. Sentivano senza dubbio che la madre era diversa dal solito, perché i loro occhi tradivano una paura intensa.
«Ci vado io a ritirare la posta!» disse con rabbia.
Ammutolito dal suo aspetto feroce, mi limitai a guardare il suo viso imporporato. Lei ricambiò con uno sguardo impassibile e ci squadrammo a vicenda per un lungo istante. Chi era quella donna? Non era piú la mia Chiyoko, ormai l’avevo perduta. Avendo dato alla luce i nostri tre figli nel giro di tre anni, il suo corpo non aveva ancora avuto il tempo di sbarazzarsi delle rotondità della maternità. Era cambiata moltissimo dal giorno del nostro primo incontro, quando poteva vantare un fisico snello e aggraziato. Di certo avevo anch’io le mie responsabilità, ma non potevo fare a meno di pensare che fosse soprattutto colpa sua se continuava a trascurarsi. Non accettavo il fatto che una splendida madre come lei fosse disposta a rinunciare alla sua femminilità, lo trovavo assurdo. E in ogni caso la sua gelosia era irragionevole e ossessiva, a maggior ragione adesso che non era piú la donna di una volta.
Sotto il grembiule, indossava uno spesso maglione bordeaux e una gonna di lana marrone. Era una combinazione di colori pesante e tediosa. Portava tutti i giorni a mo’ di divisa gli abiti invernali della sua fredda terra natale, lo Hokkaidō. Era senza dubbio anche colpa mia, che all’epoca non guadagnavo abbastanza, eppure non mancavo mai di manifestare la mia collera ripetendole fino alla noia che non sapeva scegliere i colori. L’accostamento di tinte calde e fredde, certe tinte cupe mi provocavano un malessere incredibile. Spesso pensavo che forse era il caso di cominciare a prestare attenzione all’abbigliamento di Takako, che frequentava la scuola materna, altrimenti avrebbe rischiato di essere presa in giro dai compagni. L’abbinamento di colori dei suoi vestiti, per esempio il rosa pesca e il blu oltremare, era inguardabile e volgare. Sembrerà assurdo, ma mi ritrovavo a riflettere finanche su questioni del genere. Di colpo notai che le calze nere di mia moglie erano rammendate sui talloni con molta cura, in diversi punti. Senza volerlo, sospirai affranto. La vista di quelle rappezzature simili a cicatrici era ripugnante. E pensare che prima era una donna cosí amabile e gradevole. Ma a quando risaliva quel “prima”? Avevo la sensazione che fosse passata una vita intera. Infastidita dall’insistenza del mio sguardo, Chiyoko sollevò il mento squadrato nella mia direzione.
«Si può sapere che cosa hai da guardare?» mi disse in tono brusco.
«Niente…»
Con aria esasperata, appoggiò il pelapatate sul ripiano della scarpiera. Quel vecchio arnese col manico di legno era opera di suo nonno, il quale era molto abile a creare oggetti di quel tipo sfruttando frammenti di corteccia di abete americano. Chiyoko apparteneva a una famiglia di selvicoltori di Obihiro. La conobbi all’epoca in cui lavoravo lí come corrispondente di un’agenzia di stampa. Lei faceva la segretaria presso la sede di quella piccola cittadina, dove erano di servizio solo due giornalisti.
Commosso da quel lontano ricordo, osservavo con attenzione quell’utensile che assomigliava a un raschietto. Intanto Chiyoko si era abbassata per cercare i suoi geta, che evidentemente erano scivolati sotto la scarpiera.
«Quel pelapatate è davvero ben fatto, eh?» le dissi indicando il piccolo utensile da cucina.
«Non cercare di imbrogliarmi!» reagí lei, alzando lo sguardo e fissandomi con astio.
«Ma che dici? Sei impazzita?»
«E allora perché avevi tanta fretta di andare a controllare la posta? Sentiamo» ribatté aggrottando le sopracciglia.
«Volevo solo vedere se per caso erano arrivate le bozze».
«Che ipocrita! Ma se mandi sempre me a controllare». Poi, lo sguardo via via piú accigliato, aggiunse: «Stai aspettando una lettera dalla tua X, confessa!».
«Smettila! Ora stai esagerando!»
Avevo alzato la voce nel tentativo di metterle paura. Ma serví solo a indispettirla e a renderla ancora piú agguerrita.
«Smettila tu! Prima mi stavi guardando con gli occhi sgranati, mi trovi cosí brutta? Strano, eppure hai avuto il coraggio di fare tre figli con me!»
Aveva centrato in pieno il bersaglio, voleva farmi sentire in colpa.
«Ma che ti prende? Si può sapere che cos’hai, Chiyoko?» le dissi sforzandomi di apparire calmo. «Ultimamente sei strana, hai le manie di persecuzione».
«Manie di persecuzione? Non dire idiozie, sai bene che non è cosí!» replicò in tutta sicurezza.
Il suo intuito e quel tono di sfida mi stavano dando sui nervi, dovevo trovare a tutti i costi un modo per farla tacere.
«E invece sí, ti dico che hai dei problemi seri e che si tratta di manie di persecuzione» ribattei. «E sei anche una donna meschina che cerca di sottomettere gli altri con i suoi deliri».
Come mi aspettavo, vidi il suo viso distorcersi in una smorfia rabbiosa.
«Se io sono una donna meschina, tu sei uno sporco bugiardo e un traditore!» urlò con tutto il fiato che aveva in gola. «Mi hai rovinato la vita, sei un farabutto!»
Aveva cominciato a insultarmi nel dialetto dello Hokkaidō. Avevo piú che mai la sensazione di trovarmi a tu per tu con una sconosciuta.
«Ma ti senti? Stai sbraitando come una povera pazza. Stai delirando!»
«Non sto delirando!» controbatté scuotendo forte il capo, con una furia spaventosa. «Hai fatto abortire X, eh? Sei andato a letto con lei, lo so!»
«Non è vero, tu non sai niente!»
«Allora perché lo hai scritto nel diario? E non mi dire che era solo una cosa che hai pensato in quel momento!»
A quel punto preferii tacere e riflettere. Ormai mi aveva scoperto e non aveva senso accusarla di aver letto di nascosto il mio diario. E se le avessi detto che mi ero inventato tutto e che si trattava di un abbozzo di trama per un romanzo? Era una scusa poco credibile, purtroppo.
«Smettila di tirare di nuovo in ballo questa storia!» le dissi alla fine, a corto di argomenti.
«E perché mai dovrei smetterla?» urlò. «Non mi stancherò mai di ripeterlo: sei un farabutto! Sei uno sporco traditore! Prima non eri cosí, sei completamente cambiato, mi fai schifo!»
«Falla finita, ci sentono tutti!»
Le appoggiai la mano sulla spalla, ma lei mi respinse con forza. «Farabutto, farabutto, mi fai schifo!» ripeteva scuotendo la testa, in tono isterico. Takako e Michiko, le labbra socchiuse, tenevano gli occhi inchiodati sulla madre che continuava a dare chiari segni di follia. L’espressione sul loro viso era di puro terrore. La situazione rischiava di degenerare come la volta precedente, non potevo permettere che si ripetesse la stessa scena davanti alle bambine. Avevo un brutto presentimento e rimpiangevo di aver reagito con eccessiva aggressività. Dovevo calmarmi e trovare il modo di contenere la collera, altrimenti Chiyoko sarebbe impazzita. Non la riconoscevo piú, era diventata quasi un’estranea, e di quel passo avrei avuto paura di continuare a vivere al suo fianco.
«Sei una carogna! Traditore! Non ci posso credere, mi dicevi che mi avresti amata per tutta la vita, che ero il tuo unico tesoro… Bugiardo schifoso! Chissà da quanto tempo mi tradisci… Forse hai anche in mente di ammazzarmi per sbarazzarti di me! Mi vuoi vedere morta, non è vero?!»
«Chiyoko, ho sbagliato, lo ammetto. Ma adesso calmati, ti prego».
Niente da fare, continuava a gridare e lamentarsi con le mani premute sulle guance, come nell’Urlo di Munch. «Bastardo! Bastardo! Sporco traditore!»… La afferrai per le spalle e provai a stringerla, ma lei si contorse e riuscí a divincolarsi dalla mia presa. Poi si chinò con un gesto rapido e agguantò uno dei suoi geta: voleva lanciarmelo contro, al che mi precipitai per strapparglielo di mano. Nel farlo, il geta cadde per terra sottosopra. Allora, pur se in quel frangente mi pareva assurdo, mi venne spontaneo andare con la mente a una curiosa superstizione che risaliva ai tempi della mia infanzia e pensai: domani pioverà?
«Smettila, rischi di fare male alle bambine!»
«Non mi importa! Non mi importa piú di niente!»
Il volto paonazzo, si girò verso Takako e Michiko e lanciò loro uno sguardo spiritato. Le poverette, scioccate, indietreggiarono a poco a poco verso il muro. Quando Chiyoko andava in bestia, non c’era niente e nessuno che potesse fermarla. Afferrò il pelapatate e me lo lanciò contro. L’oggetto mi colpí alla spalla, prima di ricadere rumorosamente sul pavimento dell’ingresso. Per fortuna non mi fece male, ma non potei fare a meno di pensare che mai e poi mai il nonno di Chiyoko avrebbe immaginato che il suo prezioso pelapatate in legno di abete americano potesse essere usato come arma contundente. Quel pensiero mi parve cosí buffo che, nonostante l’accesso di follia di mia moglie, distesi le labbra in un vago sorriso. Intanto lei, gli occhi fissi su di me, cercava a tastoni sui ripiani della scarpiera un arnese qualsiasi da scagliarmi addosso.
«Basta, devi piantarla!» gridai.
Guardando con freddezza i suoi occhi iniettati di sangue, finalmente riuscii a bloccarle la mano. E siccome lei continuava a dibattersi, fui costretto a immobilizzarla usando tutta la mia forza. Al che copiose lacrime di sdegno le rigarono il volto. Si contorceva come in preda a convulsioni e gridava fin quasi a scoppiare.
«Lasciami, schifoso! Te ne approfitti perché sono una donna! Se fossi anch’io un uomo, ti farei pentire di essere nato!»
Aveva ragione.
Solo perché ero un uomo potevo permettermi di scrivere tutto il giorno rinchiuso nel mio studio e fare quel che volevo senza preoccuparmi dei bambini, della casa e dei pasti, indipendentemente dal fatto che fossi uno scrittore di talento o da altre considerazioni del genere. Chiyoko si occupava dei lavori domestici, dell’educazione dei figli e di tutto il resto, mentre io me ne andavo in giro a mangiare, a bere e a passare dei bei momenti in compagnia di X. All’epoca in cui ci eravamo conosciuti, quando io ero un giovane giornalista e lei una bella e brava segretaria, eravamo alla pari, uscivamo e ci divertivamo insieme, ma ormai Chiyoko era schiacciata dal suo ruolo di madre di famiglia e donna di casa, le sue dita un tempo affusolate si erano ispessite ed era diventata severa e inflessibile, una donna completamente diversa. Era cambiata in tutto e per tutto: si lamentava di continuo, diceva che io non la amavo piú e che avevo smesso di considerarla la mia dolce e adorata metà. Non potevo farci niente, senza che neanche me ne accorgessi era diventata ai miei occhi una donna misera e insignificante. Ero scoraggiato, rassegnato. Di punto in bianco ricevetti un violento pugno al mento. Provai un dolore atroce, la testa mi si piegò all’indietro.
«Ti ha dato di volta il cervello?!» urlai, in preda a una furia cieca.
«Te lo sei voluto, ti sta bene!»
Era pronta a colpirmi di nuovo, ma stavolta riuscii a precederla e le mollai uno schiaffo. Volevo solo calmarla, ma lei cadde per terra all’indietro e per un soffio non andò a sbattere con la testa contro la porta a vetri dell’ingresso. Mi sentii sbiancare in volto.
«Scusami, è tutta colpa mia» le dissi avvicinandomi. «Ti prego, calmati, ci sono le bambine».
Ma lei era lí che singhiozzava in silenzio, immobile e con la faccia contro il pavimento. Io, Takako e Michiko la guardavamo immobili senza dire una parola, in piedi come tre statue di pietra. Eravamo confusi e disorientati già da diversi giorni, dopo la prima scenata, e non sapevamo piú che cosa fare quando si riduceva in quello stato. Ci aveva mandati nel panico, avevamo una paura tremenda di lei e delle sue reazioni. Era fuori controllo, non avevamo la piú pallida idea di come e quando la sua collera sarebbe nuovamente esplosa, né di come fare per ricondurla alla ragione.
La chioma, che in casa portava raccolta sulla nuca, le si sciolse all’improvviso rivelando una quantità stupefacente di capelli ispidi e neri. Indietreggiai terrorizzato, come se quella fosse la manifestazione della sua forza vitale e selvaggia. Aveva cosí tanti capelli? Era cosí bassa di statura? La donna che avevo sposato era tanto aggressiva? Non sapevo piú niente di lei.
Era innegabile che Chiyoko non avrebbe mai piú ritrovato la sua bellezza e la gioia di vivere. E io, non avendo alcun appiglio, sentivo che stavo precipitando sempre piú in basso, ormai rassegnato a quella fine. Era un sentimento terribile e annichilente che non avevo mai provato prima, diverso da un semplice senso di colpa. Sforzandomi di trovare delle parole, direi che era la tristezza profonda della separazione: io e la mia compagna eravamo finiti senza accorgercene sulle due sponde opposte di un grande fiume.
Di colpo, tra un singhiozzo e l’altro, Chiyoko alzò la testa come una belva inferocita: doveva aver sentito un rumore. Stava arrivando il postino! Cercai di infilarmi i geta piú in fretta che potevo, ma ormai era troppo tardi. Chiyoko era scattata in piedi come una molla e si era precipitata fuori a piedi nudi. Non riuscivo a credere ai miei occhi: fino a un istante prima piangeva disperata, abbandonata lí per terra senza forze. Ero perplesso, ma al contempo la sua reazione ferina mi provocò una risata involontaria, o forse era piú che altro una reazione isterica.
Sentii la buca delle lettere aprirsi con un cigolio sinistro. Restai immobile in attesa, ormai avevo rinunciato a preoccuparmi della posta. Meglio fare finta di niente, altrimenti Chiyoko avrebbe potuto pensare che volevo nasconderle qualcosa e avrebbe ricominciato con la solita tiritera. Disorientato, mi voltai da un lato e incrociai lo sguardo di Takako. Mia figlia maggiore mi fissava con le labbra sporte in avanti, quasi che volesse dirmi qualcosa. Ma quando le rivolsi un segno di incoraggiamento per invitarla a esprimersi, lei distolse gli occhi. Aveva un’aria quasi impertinente, come a voler dire che l’avevo combinata grossa e meritavo l’astio di sua madre. Takako aveva solo quattro anni, ma era già pronta a giudicarmi e a schierarsi contro di me. Nella nostra casa regnava un’atmosfera pesante e insopportabile, tutti sembravano in possesso di un intuito a dir poco formidabile! I piedi nudi infilati nei geta, impalato sull’uscio, attendevo impaziente il ritorno di Chiyoko.
Perché ci impiegava tanto? La cassetta della posta era distante non piú di una decina di metri. Aveva messo le mani su una lettera di X? In tal caso, sarebbe venuta a conoscenza del suo indirizzo! Mi sentii raggelare il sangue nelle vene e uscii fuori anch’io. Gocce di pioggia gelida mi bagnavano la fronte e le guance. Mi ritrovai subito faccia a faccia con Chiyoko, dal suo corpo emanava un odore umido e pungente. Per un istante fui preso da un moto di puro terrore: me la immaginai sotto la pioggia, ferma accanto alla cassetta della posta e immersa nella lettura di una missiva a me indirizzata.
«Che stavi combinando?» le chiesi in tono brusco.
Teneva delle lettere ben strette al petto, come a volerle proteggere. Era un gesto fin troppo eloquente. Di colpo mi ritornò alla mente la lite di alcune sere prima e mi adombrai: le avevo dato una spinta senza volerlo, lei era andata a sbattere con il fianco contro lo spigolo del comò ed era caduta a terra, agitandosi come una matta e tardando a rialzarsi. In quel momento avevo pensato che fosse tutta scena e che si comportasse come una bambina. Poi mi ricordai che all’epoca del nostro matrimonio adorava farsi coccolare. Come una ragazzina sempre appiccicata alla madre, mi camminava a fianco tenendosi all’orlo della mia giacca o del pullover. Tōkyō era immensa per lei che scopriva per la prima volta la capitale. E ripeteva spesso che la folla la spaventava a morte.
«C’è posta per te!» mi disse, tendendomi due lettere con un gesto di stizza. Le aveva aperte, erano passate al vaglio della censura. Le guardai rigirandomele tra le mani: una annunciava la consueta riunione periodica della rivista Shusui, l’altra proveniva dal negozio di sigilli Randa di Jinbōchō e diceva: «La ringraziamo per averci accordato la sua preferenza. L’articolo che lei ha ordinato è pronto ed è disponibile fin da subito in due modelli esclusivi. Venga in negozio non appena le è possibile per scegliere quello di suo gusto. La aspettiamo. Grazie».
«Solo queste?» dissi sollevando in alto le due lettere.
Chiyoko assentí con un rapido cenno del capo. Era vero? Senza volerlo, gettai uno sguardo alla tasca del suo grembiule.
«Che faresti se fosse qui dentro?» mi chiese lei in tono provocatorio, l’espressione trionfante e la mano appoggiata sulla tasca.
«Di che parli? Non capisco».
Ero tesissimo e avevo intenzione di tornarmene subito nel mio studio. Ma Chiyoko cominciò a bombardarmi con una serie di domande.
«E cosí hai ordinato un sigillo nuovo, eh? Due modelli esclusivi… Ti sarà costato una fortuna, quanto l’hai pagato?»
«Poco, circa mille yen».
Naturalmente avevo mentito, ma il suo viso si rabbuiò lo stesso.
«Non mi pare sia cosí poco! Sai bene cosa siamo abituati a mangiare a mezzogiorno».
«Certo che lo so, abbiamo appena pranzato tutti insieme» ribattei esasperato.
Quel giorno avevamo diviso in cinque due porzioni di udon e, dal momento che non ci era bastato, avevamo completato il pasto con del pane e del latte che avevo comprato al mattino.
«Io sono sazio, non ho problemi» aggiunsi.
«Oggi c’eri anche tu e ho preparato qualcosa in piú. Ti assicuro che quando sono da sola con i bambini i nostri pasti sono molto piú frugali».
«Va bene, ho capito. Ma avrò pure il diritto di avere un sigillo personale, no? È da un pezzo che sogno di farmene fare uno esclusivo da apporre sui miei libri e sulle lettere. Per tutti questi anni ho sempre desistito a causa dei soliti problemi di natura economica».
«È uno spreco inutile, puoi continuare a firmare a mano come hai sempre fatto!»
Aveva pronunciato quella frase in un tono cosí sprezzante che mi sentii punto nel vivo. Per scaricare la rabbia, decisi di uscire seduta stante e di andare al negozio di sigilli. Non c’era nessuna fretta, ma pensai fosse meglio approfittare di quel pretesto per dileguarmi ed evitare il peggio. Mi venne in mente di passare anche in casa editrice – la sede di Kawakura shobō non era lontana – e di incontrare il mio editor T., che con un po’ di fortuna mi avrebbe offerto una birra da Ginza Lion. Dopo di che sarei potuto andare da X per spiegarle quello che stava succedendo. Dovevo dirle a tutti i costi che Chiyoko sapeva tutto e che non potevamo né vederci né sentirci per qualche tempo. Occorreva dare prova di pazienza e prudenza, non potevo rischiare che in casa si scatenasse l’inferno tutti i giorni, all’ora della consegna della posta.
«Ora devo andare a Jinbōchō per scegliere il mio sigillo» dissi in tono deciso. «Mi dispiace, ma ne ho bisogno, sono uno scrittore».
Nel momento in cui mi apprestavo a uscire di casa, vidi Chiyoko avanzare verso l’ingresso con indosso i suoi soliti abiti. «Vengo con te» mi fece in tono perentorio. Al che sgranai gli occhi ed ebbi un sussulto. «E i bambini?» le domandai. E lei mi rispose che ci avrebbe pensato Takako a tenere d’occhio Michiko e Yōhei.
«Ma sei pazza? Takako ha solo quattro anni!» protestai urlando.
«Io sarò anche pazza, ma tu perché vuoi uscire, eh?» replicò, alzando pure lei la voce. «Vuoi farmi restare chiusa in casa mentre tu vai a spassartela con quella chissà dove! Basta, oggi vengo con te, anche a rischio che possa succedere qualcosa di brutto ai miei figli!»
Intuendo che la situazione volgeva di nuovo al peggio, Michiko ci guardò con le lacrime agli occhi. E anche Yōhei, aggrappato al bordo della culla, ci fissava inquieto, quasi che si rendesse conto di quello che stava accadendo. Solo Takako, stranamente silenziosa, osservava imperterrita me, Chiyoko e i fratelli.
«Bene, se la metti su questo piano, vorrà dire che usciremo tutti insieme!» gridai.
Ormai non mi importava piú di niente. Alla fine, Chiyoko chiese alla figlia liceale dei vicini di guardare i bambini e venne con me.
In treno, avrei voluto sedermi il piú lontano possibile da Chiyoko, ma lei mi si incollò al fianco e non mi diede tregua. Continuava a parlarmi all’orecchio facendo mille osservazioni sulle donne in piedi accanto ai finestrini e su quelle sedute di fronte a noi.
«Che ne dici di quella? È giovane e carina, dovrebbe piacerti, no?»
Se avessi risposto senza pensarci che non era niente male, lei di certo si sarebbe risentita e mi avrebbe piantato una storia. Perciò preferivo non dire niente, avevo troppa paura. Ma nonostante il mio silenzio, Chiyoko non smetteva di voltarsi dalla mia parte e continuava a provocarmi battendo sullo stesso tasto.
«Ormai ti conosco, non bisogna mai perderti d’occhio».
«Ma che ho fatto? Non ho detto niente».
«Anche quando non fai e non dici niente… Sei pericoloso, con te la prudenza non è mai troppa».
Dovevo stare molto attento a non contraddirla, non potevo rischiare che si mettesse a strepitare in pubblico. Mi sembrava di essere sotto tortura, eppure dovevo sforzarmi di sopportare e fare finta di niente.
Scendemmo dal treno alla stazione di Ochanomizu e camminammo fino all’incrocio di Jinbōchō. Il negozio di sigilli Randa si trovava un po’ oltre, in una stradina laterale che conduceva a Kudanshita. Chiyoko, nella sua tenuta abituale costituita da maglione bordeaux, gonna marrone e calze nere rammendate, mi seguiva passo passo, in silenzio. Avevo la sensazione sgradevole che gli anni stupidi e balordi della mia gioventú e quel passato che volevo dimenticare mi si incollassero addosso. Ma d’altra parte provavo un senso di colpa, perché volevo ripudiare mia moglie, la quale in fondo si era sacrificata per lasciarmi scrivere i miei romanzi. Forse ero davvero un uomo vile ed egoista. Mi sentivo confuso, disorientato. Invaso da una sincera pietà nei suoi confronti, mi voltai e la vidi mentre lanciava continue occhiate di meraviglia alle vetrine delle librerie dell’usato e dei ristorantini a menu fisso. Finalmente sembrava un po’ meno tesa, se non addirittura contenta.
«Ecco, siamo arrivati, aspettami qui» le dissi indicando Randa.
Diede uno sguardo all’ingresso del negozio e alla porta a vetri e annuí docile. Senza dubbio perché si era assicurata che non ci fossero uscite sul retro in grado di permettere una fuga. Entrai nel negozio e il proprietario mi mostrò subito i due tipi di sigilli di cui aveva fatto cenno nella lettera: scelsi quello piú semplice. Si dimostrò molto gentile e ben disposto a illustrarmi vari dettagli, ma io, in ansia a causa della presenza di Chiyoko fuori dal negozio, avevo la mente altrove. Allora lui, seguendo la direzione del mio sguardo, mi domandò se fossi in compagnia di qualcuno. Io però preferii abbozzare una risposta evasiva e restare sul vago. Non solo perché Chiyoko aveva un aspetto trasandato, ma anche e soprattutto perché mi vergognavo all’idea che la sua aria smarrita potesse far intuire a un semplice estraneo i nostri dissapori coniugali.
«Allora? Com’è questo sigillo?» mi chiese non appena misi piede fuori dal negozio.
Sentendo addosso lo sguardo del proprietario, mi misi in cammino senza dire una parola, i nervi a fior di pelle, chiedendomi come facesse Chiyoko a essere cosí frivola e insensibile. Tuttavia, come uomo ed essere umano, mi rendevo conto che la stavo trattando con eccessivo disprezzo, lei, mia moglie. D’altra parte sapevo anche che ormai c’era ben poco da fare: il disastro era inevitabile, non potevo piú salvarla. Per quanto mi sforzassi di moderarmi e fare finta di niente, ormai Chiyoko era sprofondata all’inferno e non c’era modo di farla tornare in paradiso.
Dopo aver svoltato l’angolo ed essermi sottratto allo sguardo indagatore del proprietario del negozio, finalmente le mostrai il sigillo.
«Non è un po’ troppo semplice?» commentò, storcendo la bocca in una smorfia di scherno.
«No, va piú che bene» risposi laconico, prima di riavvolgerlo nella sua confezione. In quel momento, il sigillo era l’ultimo dei miei pensieri. Tuttavia Chiyoko, forse stupita dalla mia scarsa loquacità e dalla mancanza di entusiasmo, mise il broncio come se si sentisse tradita. Dopotutto eravamo usciti perché le avevo detto che avevo un gran bisogno di quel sigillo, anche se lei non ne era molto convinta, e invece adesso sembrava che non me ne importasse piú niente. Dopo un po’ giungemmo in vista della sede di Kawakura shobō.
«Aspettami qui» le dissi, in prossimità dell’ingresso del palazzo. «Ne avrò per mezz’ora circa».
«Perché, ti scoccia se vengo con te?» mi chiese, scrutandomi in viso.
«Non ne vedo la necessità».
«E invece sí, mi sono sempre chiesta chi sia T.».
«È un uomo, se è questo che ti interessa».
Di cattivo umore, la piantai in asso ed entrai in fretta all’interno dell’edificio. Chiyoko, presa alla sprovvista, rimase impalata al di là dell’imponente porta girevole. Senza curarmi di lei, salutai rapidamente la giovane impiegata alla reception e mi infilai nell’ascensore. In quel momento non mi interessava sapere se e dove Chiyoko mi avrebbe aspettato. E d’altra parte, se si fosse azzardata a seguirmi, molto probabilmente si sarebbe persa. Facesse quel che voleva, ne avevo abbastanza dei suoi assurdi capricci. Uscii dall’ascensore al terzo piano e feci capolino all’ingresso della redazione letteraria. T. mi vide dalla sua postazione accanto alla finestra e mi venne incontro di corsa.
«Ah, signor Midorikawa, sono molto felice di vederla. Le chiedo perdono per la volta scorsa, ho avuto un impegno improvviso. Stavo proprio per scriverle una lettera di scuse».
La sua mancata presenza all’appuntamento mi aveva irritato non poco, ma l’atteggiamento umile e mortificato con cui mi aveva appena accolto mi rimise di buon umore.
«Si è verificata una grave perdita d’acqua presso gli alloggi per i dipendenti dove abito attualmente» mi spiegò con molta gentilezza, «e sono dovuto accorrere subito sul posto. Sono veramente desolato, mi dispiace. Dopo sono tornato qui piú in fretta che potevo, ma lei se n’era già andato. Le assicuro che non si ripeterà piú, le chiedo scusa».
«D’accordo, non c’è problema. Deve essere stata una bella seccatura, eh?»
Quelle parole distensive mi uscirono di bocca in tutta spontaneità. Terminati i convenevoli, T. mi fece accomodare nell’angolo con poltrone e tavolino riservato all’accoglienza degli ospiti. Prima di iniziare la conversazione, mi soffermai a guardare la sua fronte alta da intellettuale.
«Che ne pensi dell’assegnazione del premio Akutagawa a K.?» gli chiesi. «È già la seconda volta che un membro di Shusui riesce in un’impresa del genere, molti sostengono che è l’occasione giusta per farci conoscere e apprezzare».
«Sí, ma secondo me tocca soprattutto a lei imporsi all’attenzione di pubblico e critica. Lei è il migliore, signor Midorikawa, il suo talento e le sue capacità sono a un livello superiore» rispose T. accendendosi una sigaretta.
«No, no, tu esageri» dissi scuotendo le mani, e in quell’istante preciso una segretaria si avvicinò a noi con aria seria.
«Signor Midorikawa» annunciò, «sua moglie è qui».
Aveva pronunciato quella frase a voce cosí alta che tutte le persone che si trovavano là intorno si voltarono all’unisono verso l’ingresso della redazione. Chiyoko mi cercava con sguardo smarrito, girandosi a destra e a sinistra. In quel momento sarei voluto sparire, sennonché T. si alzò di scatto e le fece un cenno con la mano.
«Signora, siamo qui!» le disse.
Nei suoi abiti miseri, Chiyoko avanzò nella nostra direzione zigzagando tra le scrivanie. Distolsi lo sguardo, sopraffatto dall’imbarazzo. È vero, l’avevo tradita, ma adesso stava oltrepassando i limiti. Provavo una sensazione molto spacievole, come se un essere alieno avesse invaso il mio territorio.
«Signor Midorikawa, per caso aveva appuntamento con sua moglie?» mi chiese in tono ironico T.
«Assolutamente no!» replicai, dandogli di gomito. «Scusami se te lo chiedo, potresti essere cosí gentile da darmi un foglio e una busta da lettera di piccolo formato?»
«Certo, come no» rispose all’istante, avviandosi verso la sua scrivania. Intanto Chiyoko mi raggiunse e mi lanciò un’occhiata di rimprovero.
«Sei sparito all’improvviso, ho avuto paura» mi disse con voce piagnucolosa. Che diavolo le prendeva? Si era spaventata sul serio o stava tramando qualcosa? Il tizio seduto alla scrivania lí accanto si voltò dalla nostra parte con uno sguardo allibito. Che vergogna! Come se non bastasse, mi si era aggrappata alla giacca con le sue dita tozze e rovinate, quasi fosse terrorizzata. All’inizio forse lo era per davvero e si sentiva a disagio, ma ora sembrava quasi che con quel gesto volesse stuzzicarmi. Era un fatto cosí orribile che una moglie desiderasse uscire e divertirsi con il proprio marito? Non sapevo piú che cosa pensare, nel mio animo si incrociavano mille sentimenti contrastanti. Non mi era mai capitato di lasciarmi andare a riflessioni del genere su Chiyoko.
«Quindi è fatta cosí una redazione, eh? Quanta gente, sembrano tutti molto occupati» disse guardandosi intorno con meraviglia.
«Sí, stanno lavorando» mi limitai a puntualizzare. Un sorriso artefatto stampato in volto, mi sforzavo di apparire calmo e tranquillo. Nel frattempo T. tornò e mi passò con molta discrezione la busta da lettera con dentro un foglio bianco, che lasciai subito scivolare nella tasca interna della giacca. Poi lo presentai a Chiyoko.
«La ringrazio moltissimo per tutto quello che fa per mio marito, signor T.» esordí lei con voce affettata. E mentre loro due parlavano, ne approfittai per sgattaiolare in corridoio e chiudermi a chiave nella toilette. Presi la mia penna stilografica e scrissi un breve messaggio a X: «Come stai? Sono preoccupato, vorrei tanto vederti. C’è stato un imprevisto, d’ora innanzi dovrai stare molto attenta a Chiyoko. Mi raccomando, aspetta sempre un mio contatto prima di prendere l’iniziativa. Tuo Mikio».
2
Rileggendo la breve lettera che avevo appena scritto, temetti che avrebbe potuto gettare X nell’inquietudine. Era oltremodo criptica, avrebbe potuto addirittura indurla a concludere che mia moglie avesse in mente di ucciderla, e questo rischiava di creare una gran confusione. Di primo acchito pensai di strapparla e scriverne un’altra, ma non avevo a disposizione un secondo foglio e in fondo poteva andare bene anche cosí. Naturalmente, se Chiyoko avesse appreso l’indirizzo di X, era fuori di dubbio che si sarebbe precipitata da lei. Forse era solo una questione di tempo. Anche per questo quella lettera mi suonava lugubre e penosa, come se annunciasse una condanna. Dipendeva dal fatto che l’avevo scritta pensando allo stato d’animo rabbioso e vendicativo di Chiyoko? Ero nel torto, lo ammetto, ma quali erano le vere cause alla base di quello che era successo e stava succedendo? Non riuscivo piú a raccapezzarmi.
Ero lí a tormentarmi, incapace di giungere a una conclusione, e intanto contemplavo la mia immagine allo specchio, il mio viso unto, sporco e malvagio. Di colpo, attraverso lo specchio, incrociai lo sguardo di un uomo che si lavava le mani al mio fianco. Era un giovane impiegato con le guance rosee e ben vestito. Il decoro e l’eleganza del suo abito e dell’aspetto generale lasciavano supporre che appartenesse al settore commerciale della casa editrice. Tirò fuori dalla tasca interna della giacca un fazzoletto ben inamidato e si asciugò con cura le mani, prima di lasciare la toilette con un’espressione gioiosa dipinta in volto. Chi gli aveva dato quel fazzoletto pulito? Sua madre o la sua sposa? Nel sorprendermi a riflettere su un particolare del genere, mi sentii piú che mai afflitto e disperato. E fui colto da un desiderio improvviso di vedere X.
Dal corridoio, lanciai un’occhiata verso la redazione letteraria. Gli impiegati, ciascuno alla propria scrivania, erano impegnati a leggere le bozze, a parlare al telefono o a scrivere chissà cosa, e dietro di loro, nell’angolo in fondo, Chiyoko chiacchierava amichevolmente con T. Sembrava che si divertisse un mondo, la mano davanti alla bocca mentre si sbellicava dalle risa. Approfittando del fatto che non mi aveva notato, girai sui tacchi e scesi in tutta fretta le scale alla fine del corridoio. Tutto sommato non mi importava niente di lei e delle sue lamentele. Ci avrei pensato piú tardi a trovare una scusa per difendermi dalle sue eventuali accuse. Dopo la prima lite violenta, tutto ciò che dentro di me si era rattrappito per effetto del suo furore bestiale si stava ora risvegliando. Avevo una voglia pazzesca di librarmi nell’aria e volare libero come un palloncino, sempre piú in alto e lontano. Ma al pensiero della reazione sbigottita di Chiyoko di fronte alla mia assenza, rinunciai a svignarmela di nascosto. Dopo qualche attimo di titubanza nella hall d’ingresso, decisi di chiedere all’addetta alla reception di chiamare T.
«Signor Midorikawa, dove è finito?» mi domandò con voce inquieta T.
«Sono alla reception. Devo andare via subito, mi sono appena ricordato di un impegno urgente».
«Ma sua moglie è ancora qui!»
Aveva abbassato la voce. Ebbi l’impressione che avesse messo la mano davanti al ricevitore e si fosse girato da un lato.
«Non importa. Per favore, dille di tornare a casa da sola perché ho avuto un’urgenza».
«Devo dirglielo io? Non è meglio che lo faccia lei? Aspetti, gliela passo».
Tutt’a un tratto sembrava impaurito. Evidentemente non voleva essere coinvolto in una disputa tra coniugi che non lo riguardava affatto.
«Ho fretta» ribattei. «Devo andare, arrivederci».
Resi il telefono all’addetta alla reception e uscii dall’edificio spingendo la pesante porta girevole. Fuori, il vento di dicembre era gelido. Temevo di aver commesso un atto irreparabile ed ero ancora un po’ indeciso. Ma alla fine mi aggiustai la sciarpa intorno al collo e andai via a passo rapido. Come avrebbe reagito Chiyoko alla mia fuga? Si sarebbe sfogata raccontando tutto a T. e mettendo in piazza i nostri problemi familiari? Oppure sarebbe tornata a casa zitta e muta e avrebbe fatto una delle sue scenate davanti ai bambini? In ogni caso, una parte di me pensava che la situazione non fosse poi cosí grave e che esistesse un certo margine per rimediare. Ma in generale ero consapevole che Chiyoko me l’avrebbe fatta pagare a caro prezzo e mi vennero i brividi al solo pensiero. Come avevamo fatto ad arrivare fino a quel punto? Che cosa doveva succedere ancora? Ormai era troppo tardi per tornare indietro. Mi diressi alla stazione facendo del mio meglio per non pensarci e reprimere l’angoscia.
Bussai piú di una volta alla porta di X. Nessuna risposta, non era in casa. Era colpa mia, non l’avevo avvertita. Rassegnato, tirai fuori dalla tasca interna della giacca la lettera e la rilessi. Era mia intenzione infilarla nella buca della posta cosí com’era, ma ebbi di nuovo l’impressione che mancasse di chiarezza e aggiunsi qualche parola in fondo al foglio: «Sono venuto da te, ma non c’eri, peccato. Mia moglie ha scoperto tutto ed è furiosa. Perdonami, ma credo che per un certo periodo sia meglio non vederci. Spero potrai capire, grazie». Giusto in quel momento sentii una voce alle mie spalle.
«Mickey, che cosa ci fai qui? È successo qualcosa?»
Mi voltai e, nella penombra del ballatoio, vidi X. Aveva una borsetta appesa al braccio e indossava un magnifico cappottino giallo e un cappello e una sciarpa neri. Sorrideva radiosa nella sua mise elegante, e d’un tratto quell’angolo di quel vecchio edificio parve illuminarsi come sotto un raggio di sole. Ero molto felice di rivederla, quasi esplodevo di gioia. A confronto con l’aspetto trasandato di mia moglie, X mi sembrò perfino troppo bella e raffinata, tanto da rasentare l’insolenza. Provai di nuovo una sincera compassione nei confronti di Chiyoko. Ero interdetto, non sapevo piú da che parte stare.
«Dov’eri?» le chiesi, stupendomi io stesso per il tono brusco della domanda. Da grande egoista, forse pretendevo che restasse sempre chiusa in casa ad aspettarmi.
«Sono andata in biblioteca a restituire dei libri e sono passata all’ufficio postale».
C’era bisogno di vestirsi in quel modo per fare delle semplici commissioni? Mi sentii invadere da una certa diffidenza, ero geloso marcio. Mi cacciai le mani gelate in tasca in un gesto di stizza.
«Mickey, che hai? Va tutto bene? È raro che tu venga da me a quest’ora».
«Non chiamarmi cosí in pubblico!»
X soffocò a stento un risolino, prese la chiave dalla borsetta e aprí la porta. Entrai insieme a lei senza dire niente, come fosse casa mia. Le facevo visita all’incirca una volta a settimana, e quell’appartamento mi era molto familiare, ma ero agitato perché temevo che la mia intrusione improvvisa potesse farmi scoprire qualcosa che mi avrebbe lasciato sorpreso. Mi guardai intorno con discrezione. X era stata fuori per molte ore? L’appartamento era gelido. Doveva essere uscita fin dal mattino, l’ambiente era freddo e umido come l’interno di un frigorifero. Tutto tremante, la seguii con lo sguardo mentre, senza togliersi di dosso il delizioso cappottino giallo, accendeva la stufa a cherosene e metteva il bollitore sul fornello. Finalmente si tolse il cappotto e lo appese con garbo a una gruccia, dopo di che mi fece cenno di consegnarle la sciarpa e la sistemò su un gancio lí vicino. Poi mi guardò negli occhi e tese di nuovo la mano.
«Prima, quando sono arrivata, stavi scrivendo qualcosa. Posso vedere?»
«Ho bussato ma tu non c’eri» le dissi, allungandole la lettera senza fare una piega. «Perciò ho pensato di scriverti due righe prima di andarmene. Ma per fortuna sei tornata e ora siamo insieme».
Le avevo parlato in totale sincerità, ma lei continuava a tenere gli occhi incollati sulla lettera senza degnarmi della minima attenzione. Non diceva una parola.
«Allora?» provai a sollecitarla, scrutando per un attimo il suo profilo austero.
«Come è potuto succedere?» rispose accigliata, agitando la lettera verso di me. «Come ha fatto a scoprirci?»
«Ci ha scoperto e basta, ormai c’è poco da fare. Ha preso il mio diario di nascosto e lo ha letto. Sono stato un imprudente, lo so, ma non pensavo che potesse spingersi a tanto. Evidentemente doveva aver intuito qualcosa. Il sospetto rende le persone instabili e capaci di tutto».
Il tono della mia voce doveva tradire appieno il mio scoramento. X mi lanciò uno sguardo greve, storcendo le sue belle labbra dipinte di rosso vivo.
«È vero, ormai ci ha scoperto, ma non è questo il punto. Non ti capisco, come hai potuto scrivere di noi nel tuo diario? Non hai pensato che poteva essere un rischio? Ma lasciamo stare, tanto so già che dirai che non sono fatti miei e che ognuno ha il diritto di scrivere quello che vuole. Ma c’è un’altra cosa che non riesco a capire, una cosa che secondo me è ancora piú grave: perché non dovremmo piú vederci? Cosa c’entra con il fatto che lei ci ha scoperto?»
Perché non capiva? Era cosí semplice.
«C’entra eccome. Ora mia moglie mi segue dappertutto come un’ombra. Persino quando mi viene voglia di portare a spasso il cane dei vicini per fare due passi. Non mi molla mai, mi tiene sotto stretta sorveglianza perché pensa che tutte le volte che esco di casa io abbia un appuntamento con te. È pazzesco, cosí non posso piú andare avanti. Oggi, per esempio, è stata capace di venire con me in casa editrice. Non sai cosa ho dovuto inventarmi per seminarla e arrivare fin qui. Ho fatto follie per rivederti e tu mi parli cosí e dici che non riesci a capirmi?»
X, ammutolita, teneva le mani allungate sopra la stufa per riscaldarsi. Eravamo in piedi, da una parte e dall’altra di quella vecchia stufa a cherosene.
«Dal tuo tono, si direbbe quasi che ti aspetti che io ti sia riconoscente» borbottò lei con aria scontrosa. «Come se mi avessi fatto un piacere a venire qui».
«Non esagerare, sai bene che non è cosí» ribattei.
«E quello che hai scritto? Non è forse una pura crudeltà?» mi disse dopo avermi fulminato con lo sguardo e indicando la mia lettera. «“Spero potrai capire, grazie”… Ma ti rendi conto? Mi hai liquidata con poco piú che una frase fatta. Che cosa sono per te, eh? Solo un oggetto? Lei ci ha scoperto e noi non dobbiamo piú vederci: ti sembra cosí ovvio e scontato?»
«Anche per me non è facile, cosa credi? Ma è meglio non inasprirla».
Neanche il tempo di pronunciare l’ultima frase e X mi mollò un ceffone. Ci rimasi di stucco, non mi era mai capitato di essere colpito in quel modo da una donna. Doveva essersi fatta male, aveva l’espressione contratta e continuava a sfregarsi le mani.
«Ma che fai, che cosa ti prende?» protestai.
E lei, raddrizzando la schiena e assumendo un atteggiamento ancora piú aggressivo, rincarò la dose dicendo: «È meglio non inasprirla? Perché? Dovrei sopportare tutto zitta e muta cosí che il vostro matrimonio possa durare? Se la situazione è questa, non so che cosa tu ci faccia qui da me! Erano tutte menzogne quando mi dicevi che mi amavi alla follia? Per non parlare di quando mi hai promesso che avresti fatto tutto il possibile per lasciarla e vivere insieme a me! Non voglio fare la parte dell’amante che si lamenta, come spesso succede nelle vecchie canzoni d’amore, ma quando è troppo è troppo! C’è un limite a tutto. Non è giusto considerare gli altri come degli idioti al proprio servizio!»
X stava per piangere, le tremava la voce, ed ecco che le lacrime tracimarono dai suoi grandi occhi.
«Io ti amo, lo sai. Voglio te, ti desidero. E anch’io sono in grande difficoltà e non so piú cosa fare. Ho tre figli, come potrei abbandonare la famiglia? Secondo te, sarebbe giusto piantarli in asso da un giorno all’altro? Sono ancora piccoli, hanno bisogno di me. Perché non riesci a capirlo?»
Ero consapevole che le mie parole fossero incoerenti e contraddittorie, ma non riuscivo a frenarmi. Quando Chiyoko perdeva il controllo, mi sforzavo di mantenere il sangue freddo. Ma quando era X ad andare su tutte le furie, la sua frenesia si propagava fino a me e mi lasciavo trascinare insieme a lei nel turbine della follia.
«Non ti ho mai chiesto niente del genere» si lamentò X. «Dopo il mio primo aborto, hai fatto un altro figlio con lei, il terzo. E quando sono rimasta di nuovo incinta, mi hai fatto abortire ancora una volta. Mi sbaglio, forse? Hai ammazzato i miei due bambini… Quindi non credo che non avresti il coraggio di abbandonare i tuoi. Mi hai detto che un giorno saremmo andati a vivere insieme e ci saremmo sposati solo perché ti sentivi in colpa nei miei confronti, eh? Mi hai riempito di menzogne!»
Parlava con una foga tale che il suo viso aveva cambiato colore. Le sfuggí uno schizzo di saliva e mi finí sul collo. Me lo asciugai con il dorso della mano e poi le accarezzai la guancia.
«Dài, calmati. Una donna bella come te non dovrebbe spazientirsi fino a questo punto, sputando saliva e diventando volgare».
«Mi spiace molto se sono volgare!»
«Certo, puoi ben dirlo!»
«E allora perché vieni cosí spesso da una donna volgare, eh? Non cercare di cambiare argomento, non mi freghi».
«Non sto affatto cercando di cambiare argomento».
«E allora rispondimi con onestà, riconosci che sei un uomo crudele e un farabutto!»
Un farabutto… Me lo aveva detto anche Chiyoko.
«Va bene, ma riconosci anche tu di essere una donna crudele e una farabutta, tu che ti abbandoni a me tutte le volte!»
Eravamo ancora in piedi in un angolo del salotto, lí a scambiarci occhiate astiose e a insultarci a vicenda. X mi si avvicinò per colpirmi di nuovo, ma questa volta riuscii ad afferrarla per le braccia e con una presa da judoka la feci cadere all’indietro sul divano. Disteso con tutto il peso sopra di lei, la tenevo ferma e non le permettevo il minimo movimento. Allora lei, furiosa e senza sapere cos’altro fare, mi sputò in piena faccia. E io avvicinai il mio viso al suo per asciugarmi la saliva contro le sue guance. Mentre ci dibattevamo come due ossessi, bagnato dalla sua saliva e dalle sue lacrime, mi sentii invadere da un’onda di bieco cinismo. Mi voleva resistere, al che le strappai i vestiti di dosso, la costrinsi a girarsi a pancia in giú e provai a prenderla da dietro.
«No, no, non voglio!»
Incurante delle sue urla disperate miste a pianto, le tappai la bocca con la mano e la penetrai di forza. Mentre mi muovevo con violenza dentro di lei, riuscivo a mantenere una certa freddezza ed ero consapevole che la stessi stuprando. Da una parte mi vergognavo di essere né piú né meno che uno sporco violentatore, ma dall’altra non potevo evitare di pensare che fosse stata X a sbagliare e a provocarmi. I pantaloni mi scivolarono fino alle caviglie e il portafogli e le chiavi di casa mi caddero dalle tasche tintinnando sul pavimento. X teneva il capo rivolto da un lato, lo sguardo fisso su quei due oggetti, mentre continuava a subire la mia violenza. Di colpo ebbi paura.
«Perdonami, ho perso la testa» mormorai con un filo di voce.
Subito dopo essermi scusato, emisi uno sbuffo d’aria liberatorio contro la sua fragile schiena. La stavo schiacciando sotto il mio peso, eppure non diceva niente, non si lamentava. Allora mi staccai da lei e guardai la metà inferiore del suo corpo nudo, le sue natiche bianche e sode.
«È tutta colpa di questo!» dissi, mollandole una sonora pacca sul sedere.
Lei ebbe un sussulto e si ritrasse, e io ripetei: «È colpa di queste natiche formose e provocanti!»
La colpii ancora, prima da una parte e poi dall’altra, stavolta con tutte le mie forze. La pelle diafana del suo sedere avvampò in pochi istanti, come avesse il fuoco sotto. Il suo corpo doveva essere pieno del mio seme. Al pensiero che uscisse fuori dalla vagina sotto i miei colpi violenti e schizzasse dappertutto, mi eccitai di nuovo. X si voltò e mi guardò con occhi di fiamma.
«Perché non ce ne andiamo di là sul letto?» mi propose. Assentii senza pensarci due volte e le sfilai il maglioncino e la camicetta. Poi le strinsi piano tra le dita i capezzoli raggrinziti dal freddo. Quelli di Chiyoko erano piú grandi e ben formati. Perché li stavo confrontando? Era da “farabutti” paragonare due donne, ma in fondo io ne avevo tutto il diritto, perché ero un vero “farabutto”! Il maschio virile che si agitava nel mio profondo mi incoraggiava e mi dava ragione, in sintonia con il mio umore del momento. X era completamente nuda: la presi per mano, la condussi verso il letto, sollevai le coperte e la adagiai sulle lenzuola candide.
«Queste lenzuola sono gelate» si lamentò con voce suadente.
Tremava tutta. In piedi, ammiravo quel corpo di indicibile bellezza, il cui biancore aumentava man mano che il crepuscolo si insinuava nella stanza. Ardente di impazienza, X tese le braccia verso di me.
«Vieni, che aspetti?»
«Quindi il problema di prima è risolto?» le chiesi con una certa malizia.
«Ci penseremo dopo» rispose tirandomi per l’orlo del cardigan.
Raccolsi da terra il portafogli e le chiavi e li infilai nella tasca dei pantaloni.
Mi svegliai affamato, la stanza era immersa nell’oscurità. Ma non avevo una gran voglia di alzarmi e desideravo restarmene rannicchiato al fianco di X. Frattanto anche lei riaprí gli occhi, e provai a farle il solletico sull’addome liscio e piatto.
«No, smettila» mi disse ridendo.
«Come vuoi, in effetti ho una fame pazzesca. Alziamoci e andiamo a mangiare qualcosa».
«Bene, ci sto. Che cosa ti andrebbe?»
«Che ne dici di rāmen e gyōza? Ovviamente accompagnati da una bella birra ghiacciata».
«Ah, come al solito. Non cambi mai tu, eh?»
X scoppiò in una risata felice. Sollevai il busto, afferrai le mutande e me le infilai. Poi accesi la lampada sul comodino e guardai l’orologio: le otto di sera passate.
«Caspita, pensavo fosse piú presto. Se non ci spicciamo ad andare a mangiare, rischio di perdere l’ultimo treno».
Quando mi resi conto della portata di quello che avevo detto, era già troppo tardi. L’atmosfera si raggelò all’istante.
«Torni a casa, vero?»
La voce di X era glaciale.
«Sí, certo. Come sempre, no?»
Seguirono alcuni attimi di silenzio. X si girò dandomi la schiena, eppure immaginavo i suoi occhi che mi fissavano con profondo risentimento. Trovavo molto inquietante che se ne stesse cosí, senza fiatare. Raccolsi un calzino e me lo infilai.
«Questa sera resta, ti prego» mi disse, continuando a darmi le spalle.
Non era la prima volta che me lo chiedeva. Lo faceva per farmi innervosire. Un po’ seccato, cercai senza successo l’altro calzino.
«Accendi la luce, per favore».
«Resta, solo per questa volta».
«Devo pensarci, ma adesso accendi la luce».
«No!» rifiutò categorica, sottolineando la sua ostilità con una pausa. «Tu vuoi che accenda la luce per controllare di aver messo i calzini come si deve e le mutande nel verso giusto, eh? E anche per assicurarti di non avere dei succhiotti da qualche parte! Cosí non va per niente bene, tornatene pure a casa tua!»
Mi alzai in piedi senza replicare. Sapevo bene dove si trovava l’interruttore della luce. X cercò di fermarmi aggrappandosi con le braccia intorno alle mie gambe, ma riuscii a divincolarmi con facilità dalla sua stretta. Non abbassai la guardia, ormai avevo imparato che ci avrebbe riprovato tentando un attacco a sorpresa. Difatti la sentii fare una mezza capriola sul materasso e rimettersi in piedi con un balzo, dopo di che allungò una gamba e mi fece lo sgambetto. Incespicai, stupefatto dalla rapidità dei suoi movimenti, e cercai di tenermi allo schienale di una sedia. Ma caddi lo stesso in avanti, trascinandomi dietro anche lei. Seguí un grande tonfo, il pavimento di legno tremò. Picchiai forte il ginocchio per terra e sentii un dolore atroce.
«Ma che diavolo fai?» protestai. «È pericoloso!»
Nell’attimo in cui mi voltai, vidi la sveglia volare verso di me e cadere rumorosamente al mio fianco.
«Basta! Per poco non mi colpivi!» urlai.
Neanche il tempo di concludere la frase e mi beccai un cuscino in piena faccia. Glielo rispedii subito indietro e le intimai di calmarsi. Niente da fare: il cuscino volò di nuovo per aria e stavolta ricadde floscio ai miei piedi. La lasciai perdere e mi preparai a tornare a casa.
«Non è giusto, non puoi fare sempre come ti pare…» mi disse con voce tremula. «Non venire mai piú».
«D’accordo. Non rimetterò mai piú piede in questo posto».
«“In questo posto”… Almeno ti rendi conto di quello che dici? Sei un essere spregevole, sei crudele».
«Sí, lo so, e te lo ripeto se vuoi, anche mille volte: non rimetterò mai piú piede in questo posto, in questo posto, in questo posto!»
Pronunciai quelle ultime parole nel modo piú sprezzante possibile. Ero andato da lei perché volevo vederla, e invece avevo dovuto subire le sue accuse e le sue rimostranze: in quel momento pensavo con tutto me stesso di mettere un punto fermo alla nostra storia. X scoppiò in un pianto irrefrenabile. «Sei un mostro! Sei un mostro!» ripeteva tra un singhiozzo e l’altro, il viso premuto contro il materasso. Perché doveva essere tutto cosí complicato? Mi sentivo con le spalle al muro, non sapevo piú cosa fare. Ero cosciente di essere un egoista, ma X era consenziente e mi accettava per quello che ero: non aveva anche lei una parte di responsabilità? Non aveva detto che dovevamo parlare e cercare di risolvere insieme il problema?
«Forse ora rimarrò di nuovo incinta» si lamentò in tono rabbioso. «Mi hai violentata!»
«Nel caso, provvederò io alle spese».
Dopo che ebbi pronunciato quella frase, si sentí risuonare nella stanza il rumore di qualcosa che andava in frantumi. Forse si era spezzato il filo che ci teneva legati, o forse era scoppiato in un sol colpo il suo cuore pieno d’amore, o forse ancora si era infranta la mia sottile corazza di uomo tutto di un pezzo. Feci finta di niente e mi infilai i pantaloni. Le chiavi di casa urtarono contro il portafogli e produssero un tintinnio sordo in fondo alla tasca. E intanto X si era ammutolita. Abbandonata sul letto, si limitava a tirare su col naso e a singhiozzare. Mi fece pietà. Riuscirò mai a separarmi – pensavo – da questa donna cosí bella, allegra e intelligente? I nostri momenti felici insieme e i ricordi dolenti mi affiorarono alla mente tutti in una volta e provai una tristezza devastante. Se ci fossimo detti addio in quel preciso istante, dopo quella lite, come l’avrebbe presa e quale sarebbe stata la sua reazione? Le sarebbe potuto saltare in testa di presentarsi a casa mia, e allora sí che Chiyoko sarebbe impazzita e la mia famiglia ne sarebbe uscita distrutta. Di colpo mi sentii assalire da un’ansia soffocante, non potevo andarmene via cosí.
«Ascoltami» le dissi, «ti chiedo scusa, perdonami».
Ma lei non diede segni di reazione.
Allora aggiunsi: «Ti supplico, non potresti aspettare solo un altro poco?».
«Aspettare cosa?» ribatté finalmente con voce ovattata, la testa infilata sotto le coperte.
«Che la situazione si calmi. Ti prego, devi avere solo un po’ di pazienza».
«Tu vuoi che tutto si aggiusti, vuoi che non cambi niente» disse, la voce incrinata dal pianto cosí simile a un lamento disperato. «Hai paura di perdere la tua famiglia, ma a noi due non ci pensi? È troppo comodo pretendere di volere tutto».
Tutto o niente, sapevo solo che non volevo distruggere la mia famiglia. Noi uomini siamo fatti cosí. Di fronte a quel tipo di problemi, otto o nove uomini su dieci reagiscono nello stesso identico modo e badano soprattutto a preservare il focolare domestico.
«Voglio una risposta: che cosa intendi fare con me?» continuò X, interrompendo per un attimo il suo pianto.
«Vorrei andare avanti, se sei d’accordo».
«In che senso? Non credo di capire…» ribatté, scoppiando di nuovo a piangere. «Vuoi andare avanti di nascosto, come due delinquenti, non è vero? Tu a lei non dirai mai niente, non verrai mai a vivere con me! Sei solo un egoista!»
«Sapevi fin dall’inizio che le cose stavano cosí. Se non ti sta piú bene, devi solo dirmelo e toglierò il disturbo per sempre».
Cercavo di essere il piú duro e scaltro possibile e di impaurirla. Del resto non avevo altra scelta, dovevo sperare che accettasse e tacesse.
«Ho capito. Ci rifletterò su e ti darò una risposta». Poi si girò verso la parete con un gesto stizzoso e non aggiunse altro.
Andai nella stanza da bagno e, dopo aver svuotato la vescica, mi guardai bene allo specchio per verificare di non aver infilato le mutande e i calzini alla rovescia, quindi mi diedi una sistemata ai capelli con le mani. Finii di rivestirmi e mi preparai ad andare via, mentre X continuava a restarsene immobile sotto le coperte.
«Io vado» le dissi. «Si tratta solo di un momento, vedrai che passerà in fretta. Ciao, a presto».
Rimasi per qualche attimo fermo sull’uscio, pensando di ricevere una risposta, ma lei mantenne ostinatamente il silenzio. Dopo aver chiuso la porta, sentii il cuore stringersi in una morsa di tristezza e per poco non scoppiavo a piangere. Non volevo separarmi da X. Ma in quel momento non c’erano alternative, altrimenti Chiyoko non si sarebbe tranquillizzata e a casa non sarebbe mai tornata la pace. Cercai di farmi forza e di mettere il piú possibile da parte i sentimenti, sfidando il vento freddo dell’inverno. Ma lungo la strada che portava alla stazione, pensando a Chiyoko e al modo in cui l’avevo piantata in asso in casa editrice, fui sommerso da un’onda enorme di ansia e sconforto.
Avvolto nel buio, percorsi il tragitto di circa quindici minuti dalla stazione fino a casa facendo il possibile per placare l’angoscia. E se Chiyoko, all’apice della collera, si fosse suicidata insieme ai bambini? Se avesse appiccato il fuoco alla casa? Se fosse tornata dai genitori in Hokkaidō portandosi dietro i nostri figli? Delle tre ipotesi, la piú inverosimile era certamente la terza, perché non avevamo il denaro sufficiente per affrontare un viaggio nel lontano Nord. Guadagnavo poco e niente, al punto che mio padre non perdeva mai occasione per rinfacciarmi che la mia scelta di fare lo scrittore di professione era prematura. Le mie rare entrate provenivano dalla collaborazione saltuaria con qualche rivista letteraria e dalla percentuale che ricevevo sulle vendite dei miei libri. Uno scrittore agli esordi non vende chissà quanto e il mio primo libro, La macchina dei ricordi futuri, mi era stato pagato “in merce”, ovvero in libri! La casa era invasa dalle copie del mio romanzo e non riuscivamo proprio a smaltirle, anche se ne regalavamo una a tutti i nostri ospiti. Ecco perché non avevamo abbastanza soldi per un’eventuale fuga.
Svoltai l’ultimo angolo con il cuore in gola. La casa era ancora lí, per fortuna non era andata in fiamme. Mi sentii sollevato, ma a ben vedere le luci erano spente. Mi avvicinai e spiai all’interno.
«Ehi, c’è nessuno?»
La porta si aprí di colpo e apparve Chiyoko. Mi fece venire la pelle d’oca, se ne stava in piedi con la schiena dritta nel vano d’ingresso buio. Tutto tremante, la guardai dalla testa ai piedi, chiedendomi se per caso non fosse un fantasma. Meno male che almeno non era tutta ricoperta di sangue! Aveva indosso gli stessi abiti del mattino e mi fissava con un sorriso mite.
«Che cosa ci fai là in piedi, al buio?» le chiesi, almeno in parte rincuorato.
«Niente, ti stavo aspettando. A dire il vero ero un po’ preoccupata».
La squadrai bene in viso, cercando di decifrare la sua espressione.
«Scusami molto per oggi pomeriggio» le dissi. «Mi ero completamente dimenticato di una riunione importante con i colleghi della rivista e sono dovuto scappare».
«Non importa. D’altra parte anch’io credo di avere esagerato, mi sono comportata male. So bene che ti ho fatto fare una figuraccia, ma mi è montato il sangue alla testa e non ci ho capito piú niente. Scusami».
Non riuscivo a credere alle mie orecchie, era un miracolo o cosa? Eppure c’era qualcosa di inquietante nel tono e nell’atteggiamento di Chiyoko. Entrai in casa e mi sfilai le scarpe. Mi veniva dietro come un’ombra, sentivo il suo fiato sul collo e avevo una paura tremenda che potesse accorgersi di qualcosa. Quando mi tolsi la sciarpa, mi resi conto che mi tremavano le mani.
«Comunque» continuò lei con grande spigliatezza, «sono stata molto contenta di scambiare quattro chiacchiere con T.».
Povero T., chissà che imbarazzo – pensai subito, ricordandomi la sua fronte alta e il cranio allungato. Era poco piú che un ragazzo, aveva una decina di anni meno di me.
«Di che cosa avete parlato?»
«Anch’io scrivo delle poesie e delle favole, e perciò gli ho chiesto se poteva dare un’occhiata».
La guardai basito. Era tutta fiera e gongolante. Non me ne aveva mai parlato, non sapevo che scrivesse. Mi alzai in piedi e, approfittando di un suo attimo di disattenzione, mi avvicinai il braccio alla faccia con un gesto disinvolto e annusai la manica della camicia per assicurarmi che non fosse impregnata di un odore femminile.
«Non te ne ho mai parlato?» mi chiese dopo qualche secondo, con voce piena di brio. «Che strano, ero sicura di avertelo detto. Quando vivevo in Hokkaidō, mi dedicavo spesso alla poesia, componevo soprattutto dei tanka. Avevo anche uno pseudonimo: Chiyojo».
«Ah, come Kaga no Chiyo, la celebre poetessa del diciottesimo secolo, giusto?»
Chiyoko sorrise contenta alla mia battuta. A dire il vero ero perplesso, ma per fortuna la sua offensiva sembrava essere stata frenata dalle sue velleitarie ambizioni letterarie. Non sapevo per quanto a lungo sarebbe durata la tregua, ma per il momento era meglio non pensarci e godersi la relativa tranquillità.
«T. è stato molto gentile e mi ha detto che la prossima volta mi presenterà un editor specializzato in letteratura per l’infanzia» proseguí Chiyoko con grande entusiasmo. «È fantastico, no? Voglio impegnarmi a fondo, è una grande occasione».
«Sí, certo» mormorai a bassa voce. Chiyoko era su di giri, quasi irriconoscibile rispetto a poche ore prima. Ed ecco che cominciavo a provare una certa pena per X, che avevo appena lasciato. In quel momento non ero a conoscenza di un dettaglio importante: dopo essere andata via dalla casa editrice, Chiyoko aveva fatto visita a un’altra donna, portando con sé un coltellaccio da cucina.
3
«Sveglia! Sveglia!»
Mi ridestai di soprassalto, era la voce di Chiyoko. Neanche il tempo di riaprire gli occhi e mi sentii scuotere forte per le spalle. Non avevo bisogno di vedere il suo viso, quei modi violenti e quel tono aspro e incalzante bastarono a farmi capire che mia moglie era di nuovo nera di rabbia. Quando usciva dai gangheri avevo una paura tremenda di affrontarla. Rimasi disteso senza aprire gli occhi, fingendo di rigirarmi nel sonno e rintanandomi sotto la trapunta. E mentre mi sforzavo di riacquistare una certa lucidità mentale, cercavo di riflettere su quello che era potuto succedere.
La sera prima, Chiyoko aveva mostrato un buon umore decisamente sospetto. Si era infilata nel mio futon e aveva tentato di stuzzicarmi afferrandomi piú volte la mano e accostandosela ai seni. Per quanto fossi stupito, avevo preso ad accarezzarle i capelli e avevo tirato di nuovo fuori il discorso sulle poesie e le favole che aveva scritto di nascosto. «Da quand’è che ti sei messa a scrivere? Sono sorpreso, non me l’aspettavo» le avevo detto di preciso. E lei mi aveva risposto nel dettaglio, lanciandosi in una lunga spiegazione. Poi, visto che non si decideva a tornarsene al suo posto, avevamo finito per fare l’amore, dopo tanto tempo. In quel momento, l’esistenza di X mi era completamente uscita dalla testa. Con una certa leggerezza, pensavo addirittura che avrei potuto spassarmela con Chiyoko tra le mura domestiche e con X a casa sua. E, con un’arroganza spropositata, avevo concluso che forse mia moglie mi aveva perdonato e potevo lasciarmi alle spalle ogni problema. Ecco perché, quella mattina, il suo comportamento mi fece l’effetto di una doccia gelata.
«Su, svegliati!» continuava a insistere. «Stai abusando della mia pazienza, non puoi dormire e fare finta di niente! Che razza di uomo sei? Per non parlare della tua bella X! Ti sei lasciato abbindolare da una strega. Ma come fai a non rendertene conto? Ce l’hai o no un po’ di sale in zucca? Sei un miserabile, mi fai pena!»
Tutt’a un tratto sentii sotto il naso l’inconfondibile odore della carta. A quel punto non potei fare a meno di aprire gli occhi, giusto un attimo prima che Chiyoko mi coprisse la faccia con un foglio, a mo’ di un sudario sul volto di un cadavere. Che diavolo era? Una lettera di denuncia o qualcosa del genere? Mi sollevai di scatto e tentai di afferrare il foglio. Ma Chiyoko si tirò prontamente indietro, come se stesse giocando con un gatto. La mia mano strinse solo un pugno d’aria, mi sentivo ridicolo e deriso.
«Che cos’è quel foglio? Che cosa c’è scritto?» urlai.
«Dovresti chiederlo a te stesso, mio caro. Quando si vive a contatto con un bugiardo farabutto come te, tutto finisce inevitabilmente sottosopra. Maledetti! Tu e la tua X ci avete avvelenato la vita, avete distrutto una famiglia! Se non vuoi piú stare con me e con i bambini, togliamo subito il disturbo. Abbi almeno il coraggio di dirlo e prenditi le tue responsabilità. A questo punto, preferisco divorziare il piú in fretta possibile e tornarmene in Hokkaidō con i bambini. Non vogliamo stare un attimo di piú accanto a un vile traditore come te!»
Chiyoko era fuori di sé, parlava a raffica e in dialetto, e facevo una gran fatica a distinguere le sue parole. Inoltre, dal modo in cui si esprimeva, mi resi conto che doveva esserci qualcun altro nella stanza: mi guardai intorno e vidi Takako e Michiko sedute in silenzio ai piedi del futon.
«Voglio anch’io un teeglamma!» proruppe allora Michiko, pronunciando male quella parola che doveva avere imparato solo da poco.
Lei e la sorella erano ancora in pigiama, perciò dovevano essere al massimo le otto. Takako, con un libro illustrato in grembo, guardava alternatamente me e la madre, mentre Michiko stringeva in mano una vecchia bambola di pezza che aveva ereditato dalla sorella. In poche parole, senza rendermene conto, mi ero ritrovato circondato da tre donne. Chissà da quanto erano lí ad osservare la mia faccia addormentata.
«Si può sapere di cosa diavolo si tratta? Da’ qua, fammi vedere!»
Tesi di nuovo la mano, ma Chiyoko prima fece finta di passarmi il foglio e poi ritrasse il braccio. Al che persi l’equilibrio per qualche attimo e lei distorse il viso in una risata maligna. Feci schioccare forte la lingua, via via piú indispettito. E intanto Takako ci lanciò uno sguardo pieno di astio e si voltò di scatto da un lato, come se avesse visto qualcosa di orripilante.
«Adesso basta!» urlai verso Chiyoko con tutto il fiato che avevo in gola.
E lei finalmente mi lanciò il foglio. Lo raccolsi e rimasi senza parole: era un telegramma di X.
«Ieri sera, dimenticato chiavi da me. X»
Allora mi ricordai delle chiavi e del portafogli che mi erano caduti dalle tasche dei pantaloni, e anche dello sguardo di X, rivolto a quei due oggetti sul pavimento mentre la penetravo da dietro. Mi ha fregato!, pensai tra me e me, sentendomi crollare il mondo addosso. X era al corrente della situazione che regnava a casa mia, lo aveva fatto apposta. Inviare un telegramma per una cosa da nulla equivaleva a gettare olio sul fuoco. L’avevo sottovalutata, non la facevo capace di una tale perfidia. “Dimenticato chiavi da me”… Maledetta!
Mi sentii prendere da un moto di collera violenta nei suoi confronti. Se in quel momento me la fossi trovata davanti, le avrei messo le mani al collo. Immaginai Chiyoko all’alba, allarmata dall’arrivo del telegramma mentre si precipitava verso la porta d’ingresso. Cosa può esserci di piú angosciante di un telegramma in piena notte o alle prime luci del giorno? La malvagità sconosciuta di X mi spaventava.
«Ieri, dopo che mi hai piantata in asso, sei corso subito da lei, eh?!» ruggí Chiyoko.
Il suo viso rosso di rabbia mi riportò per assurdo alla mente il periodo del nostro incontro a Obihiro, in Hokkaidō. Di primo mattino, in ufficio, aveva sempre le guance molto arrossate per il freddo. Che strano ricordo, non riuscivo a capacitarmi che fosse venuto a galla in un momento tragico come quello. Forse, la nostra breve riconciliazione notturna mi aveva reso fiducioso e nostalgico. Invece Chiyoko era furiosa, lí a scagliarmi contro le fiamme dell’inferno.
«Hai avuto il coraggio di lasciarmi da sola in un posto che non conoscevo, in mezzo a dei completi estranei, per andare da lei!»
«Smettila, non sono andato da lei! Avevo una riunione con quelli della rivista, te l’ho detto!»
«E il telegramma, allora? Quando ieri sei sparito, ho subito pensato che saresti andato a casa sua. Ma poi ho cercato di togliermi quel pensiero dalla testa, perché non volevo farti soffrire a causa dei miei sospetti».
«Ah, grazie mille per la premura!»
Cominciavo a perdere la testa, non ne potevo piú. Avevo tentato persino di metterla sull’ironia, ma Chiyoko non voleva saperne e continuò con la sua invettiva.
«Ho cercato di calmarmi, mi ripetevo che dovevo crederti e che eri andato davvero alla riunione. “Devi dargli fiducia” mi dicevo, “altrimenti anche i bambini ne soffriranno e la nostra famiglia andrà in malora”. E invece tu eri da lei e mi tradivi… Sono stata una povera illusa, un’idiota! Ma tu sei uno sporco traditore! Bugiardo! Perché tutto questo doveva capitare proprio a me? Mi hai umiliata, nessuno mi aveva mai trattata cosí in vita mia!»
«Te lo ripeto per l’ennesima volta» la interruppi alzando la voce, «ti giuro che non sono andato da lei, devi credermi! Le chiavi devono essere qui da qualche parte!»
Ricordavo perfettamente di averle infilate insieme al portafogli nella tasca dei pantaloni, non potevo sbagliarmi. Ma niente mi impediva di pensare che non fossero cadute di nuovo in un secondo momento. Di colpo mi sentii travolgere da un’ansia indescrivibile, che quasi mi impediva di ragionare. Il portafogli ce l’avevo regolarmente in tasca, mi era servito quando avevo preso il treno. E le chiavi? Non potevo averle perse, perché ero rientrato a casa… Poi, all’improvviso, mi ricordai che era stata Chiyoko ad aprirmi la porta la sera prima, per cui non c’era alcuna certezza che avessi le chiavi in tasca insieme al portafogli.
«E invece non ci sono, le ho cercate dappertutto!» ribatté con aria trionfante Chiyoko.
A quanto pareva, aveva messo a soqquadro la casa. Aveva ficcato le mani persino nella mia camicia, nelle mutande e nei calzini. Mi lasciai cadere all’indietro sul futon, emettendo un sospiro di rassegnazione. Prostrato e abbandonato, sentivo di non avere un posto dove rifugiarmi. Perché avevo deciso di non andare piú a casa di X, perlomeno fino a che le acque non si fossero calmate. Quando Chiyoko era ancora all’oscuro di tutto, quella casa era un vero paradiso, la mia oasi di pace e amore.
Ma ora lei aveva scoperto quel paradiso e lo aveva invaso con la chiara intenzione di distruggerlo. Quanto a X, adesso che Chiyoko aveva fatto irruzione nel nostro Eden, era andata su tutte le furie e mi si era rivoltata contro. Avevo perduto la libertà, non avevo piú un posto per me, né a casa mia né da X. Ero solo, abbandonato, cacciato dal paradiso terrestre per l’eternità. Pervaso da una collera indicibile, cominciai a provare un sentimento molto simile nei confronti di entrambe. Le detestavo dal profondo dell’anima. Una spossatezza terribile mi ridusse allo stremo delle forze fisiche e mentali.
Mi sentivo schiacciato dall’angoscia: le mie relazioni interpersonali avevano finito per tessere una ragnatela dalla quale non riuscivo piú a divincolarmi. Non potevo andare avanti cosí, la situazione era insostenibile. Gettai un’occhiata alle mie figlie: Takako era sul chi va là, attenta a spiare le mie reazioni e quelle di sua madre, mentre Michiko stringeva la sua bambolina tra le braccia con aria preoccupata. In quell’attimo preciso, nella stanza accanto, Yōhei si mise a piangere. Anche quei bambini appartenevano al cerchio delle mie relazioni interpersonali. Una volta diventati adulti, mi avrebbero odiato anche loro per il caos che avevo provocato. Che orrore!
Mi alzai in piedi con estrema lentezza, affaticato come un vecchio. Frugai nelle tasche della giacca e dei pantaloni appesi in soggiorno. Ritrovai il portafogli, ma non le chiavi di casa. Mi sarei messo a piangere. Immaginai X, furibonda a causa del mio egoismo, mentre sferrava un calcio rabbioso alle mie chiavi. E, ancora, mentre si infilava in fretta il cappottino giallo e correva a spedirmi quel telegramma.
«Che fine avranno fatto le mie chiavi? Non riesco a capire…»
«Piantala con questa sceneggiata! Sono stanca delle tue menzogne, brutto idiota!»
Subito dopo aver pronunciato quelle parole ingiuriose, Chiyoko mi colpí con un calcio dietro le ginocchia e mi fece perdere l’equilibrio. Appoggiandomi con le mani alla parete per evitare di cadere, mi voltai di scatto e la guardai esterrefatto. Allora lei, forse cogliendo il mio spavento, distorse il viso in una maschera di sadico terrore, tra il riso e il pianto.
«Sporco bastardo! Farabutto!» si mise a inveire a squarciagola. «Vigliacco! Non vali niente!»
Era lí, pronta ad aggredirmi di nuovo come una belva.
«Basta, metti giú le mani! Devi calmarti!» urlai, afferrandola per i polsi mentre tentava di colpirmi al volto.
«Ah, devo calmarmi? E come dovrei fare? Forza, dimmelo tu! Non ti rendi conto come mi sento? Diventerò pazza per colpa tua! Mi arriva un telegramma di punto in bianco, per poco non mi viene un colpo al pensiero che possa essere successo qualcosa di brutto a mio padre, e invece… Sei un bastardo! Mi hai rovinato la vita!»
Le mani strette nella mia presa, Chiyoko si dimenava e pestava i piedi per la collera, tanto che il pavimento e l’intera casa sembravano tremare. Di fronte alla reazione violenta della madre, Michiko indietreggiava a piccoli passi verso la parete, l’espressione sconvolta. Intanto Takako si era seduta sul mio futon, immersa nel suo libro illustrato per fuggire dalla realtà.
«Piantala di urlare, o ci sentirà tutto il vicinato!»
«Non me ne frega niente! Che cosa c’è, ti dà fastidio? Non ti piace piú fare lo spaccone? Non eri onnipotente? Pensa a trovare una soluzione e a farmi calmare, piuttosto, altrimenti impazzirò di brutto e non risponderò piú delle mie azioni, hai capito?! Potrei commettere una sciocchezza e coinvolgere anche i bambini. È molto facile, sai? Mi basterebbe prendere Takako e Michiko per mano, Yōhei sulla schiena e salire sulla terrazza di un grande magazzino! Oppure potrei gettarmi insieme a loro sui binari al passaggio di un treno in corsa! Pensaci bene, stai rischiando grosso».
Non credo che volesse solo spaventarmi: aveva lo sguardo fisso nel vuoto, sembrava davvero sull’orlo della follia. Mi sentivo impotente, non trovavo neanche le parole per risponderle. Un uomo, messo di fronte a una realtà che non può negare, resta senza voce prima di tentare la strada della menzogna.
«Quella donna è una strega, lo ha fatto apposta. Non lasciamoci fregare!» dissi tentando il tutto per tutto.
Chiyoko mi fissò con uno sguardo freddo, come se volesse farmi capire che non mi avrebbe mai creduto. Nel suo atteggiamento percepii addirittura una traccia di quella complicità femminile alla quale talvolta le donne usano ricorrere per avere la meglio sugli uomini che si comportano male. Eppure decisi di non abbandonare la via della falsità e della menzogna, infilandomi in un ginepraio senza ritorno.
«Stammi bene a sentire, è tutto vero, non ti ho affatto mentito. Ieri avevo una riunione da Isegen, ti giuro che non sono stato da lei. Ho perduto le chiavi per puro caso, non so nemmeno io come e dove. Devi credermi, è cosí. Da Isegen, ho visto Ebihara e Tada e abbiamo parlato della nostra rivista bevendo sake. Chiedi pure a loro, se la mia parola non ti basta. E se anche ti stessi mentendo − e sottolineo il “se”, bada bene −, un telegramma come quello nasconde sempre dei secondi fini. È cosí ovvio: quella donna vuole separarci, vuole distruggere la nostra famiglia perché mi odia. Devi restare calma e usare la ragione, altrimenti non fai altro che portare acqua al suo mulino. Te lo ripeto, è una strega pronta a colpirci con il suo veleno nella speranza di raggiungere il suo scopo. Fidati di me e vedrai che in qualche modo ce la caveremo».
«Non mi stupisce che quella donna ti odi e ce l’abbia a morte con te» ribatté in tono gelido Chiyoko. «Avrai riempito di menzogne anche lei, ormai ti conosco bene».
Rimasi atterrito dalla facilità con la quale mi aveva messo alle corde. Aveva ragione, non c’era molto altro da aggiungere. Ero distrutto, mi conveniva cambiare strategia, altrimenti mi sarei ridotto a dover considerare persino la strada del suicidio!
«Bene, allora dimmi che cosa intendi fare. Vuoi darle partita vinta? Vuoi che ci separiamo e vuoi suicidarti insieme ai nostri figli? Se è cosí, io ti seguirò e mi toglierò la vita con voi. Siete la mia unica famiglia. Non c’è niente di piú prezioso al mondo: la famiglia. Chi ha la fortuna di averne una, non dovrebbe mai rischiare di perderla. Quella donna agisce cosí perché vuole allontanarmi da voi, è possibile che tu non lo capisca? Svegliare le persone all’alba con un telegramma è qualcosa di diabolico! Ti prego, ascoltami, non lasciarti irretire da quella strega. Restiamo uniti, perché solo cosí potremo sperare di avere la meglio ed essere felici. Ma se proprio non vuoi capire, allora sarò io ad ammazzarmi e a togliere il disturbo per primo. Pensaci bene, prima di prendere qualsiasi decisione. Pensa ai nostri bambini: ti pare giusto che debbano morire per mano della loro madre? Per mano di una donna stolta che dà per vero quello che dice una donna ancora piú stolta? Cerca di metterti al mio posto, per favore. E se non mi lascerai scelta, mi ammazzerò per primo!»
Non appena ebbi pronunciato l’ultima parola, mi avviai di corsa verso la porta d’ingresso. Ero disperato. Mi voltai indietro, ma Chiyoko se ne restava lí impalata e non faceva niente per trattenermi. Si limitava a tenere lo sguardo fermo sui bambini, scura in volto. Allora tornai sui miei passi. L’unico modo per tentare di farla ragionare era denigrare il piú possibile X. Sentivo dentro di me un astio profondo nei confronti di quella donna e il bisogno urgente di vendicarmi.
«Mamma, chi sarebbe questa strega?» chiese in tono inquisitorio Takako, che d’un tratto si era alzata in piedi e si era avvicinata alla madre.
«Non ti riguarda! Io e tuo padre stiamo parlando di cose importanti» la fulminò Chiyoko.
Sorpresa da quel rimprovero inatteso, Takako trattenne a stento le lacrime e abbassò lo sguardo. Al che Michiko le si avvicinò per consolarla.
«Non devi rivolgerti cosí alle bambine!» intervenni io. «Questo è proprio quello che vuole X, vuole metterci l’uno contro l’altra, vuole creare scompiglio. Non lo capisci?»
«Sei serio? Pensi davvero quello che dici?» mi chiese Chiyoko in un sussulto di stupore, fissandomi negli occhi.
«Certo!»
«E allora perché vai da lei, eh?!»
Era un circolo vizioso. Ormai ne avevo abbastanza: liberai i pantaloni dalla gruccia e me li infilai in tutta fretta. Poi aprii con violenza l’anta del guardaroba e afferrai il primo pullover che mi capitò sottomano.
«Dove vai?» mi domandò Chiyoko, lo sguardo smarrito.
«Non lo so, non ce la faccio piú a stare qui!»
Verificai che il portafogli fosse ben dentro la tasca dei pantaloni e mi diressi a passo svelto verso la porta d’ingresso. Non avevo la piú pallida idea di dove andare, sapevo solo che restando a casa sarei stato costretto a sorbirmi l’interminabile piagnisteo di mia moglie. In quel momento ce l’avevo a morte con X, rea di aver rovinato tutto proprio quando le cose cominciavano a funzionare. Se Chiyoko fosse rimasta buona e tranquilla, avrei potuto continuare ad andare senza problemi da lei. La nostra relazione si sarebbe finalmente stabilizzata. Perché stava tentando di distruggere tutto? Non riuscivo a raccapezzarmi, mi sentivo con le spalle al muro. La mia priorità assoluta era preservare la serenità della famiglia, ma questo non significava che non amassi X. Anzi, per accrescere il mio amore nei suoi confronti e sperare che durasse il piú a lungo possibile, occorreva che la mia famiglia fosse felice e tutto andasse per il meglio. Perché X non lo capiva? Perché non voleva credere a quella importante verità? «E io dovrei starmene calma e tranquilla solo per fare in modo che il vostro matrimonio possa durare?» mi aveva rinfacciato una volta, esibendo un’espressione impenetrabile e facendomi provare una sensazione di rottura. Già in quell’occasione, pur volendole bene, avevo sentito esplodere nel petto un odio profondo nei suoi confronti.
«Aspetta, vengo con te» mi disse Chiyoko, togliendosi il grembiule e gettandolo per terra.
«Non dire idiozie! Hai dimenticato che ci sono i bambini?»
Come se non aspettasse altro, Yōhei si mise a piangere nella sua culla nella stanza accanto. Era un pianto debole e cupo, che metteva addosso un’angoscia indescrivibile. Aveva quasi sette mesi, ed era dopo la sua nascita che tutto aveva cominciato ad andare storto. X, che avevo costretto ad abortire, se l’era presa da morire e litigavamo di continuo. E, come se non bastasse, Chiyoko aveva finito per scoprire tutto.
«No, ma non me ne frega niente! E nemmeno a te importa di loro, o sbaglio? Ne avevi già fatto uno con quella, puoi provare a farne altri quando ti pare e piace, schifoso bastardo!»
Basta, falla finita!, gridai dentro di me, le mani nei capelli. Chiyoko e i nostri figli non mi avrebbero mai perdonato, neanche se mi fossi prostrato mille volte ai loro piedi. Non sapevo piú cosa fare, mi sembrava di impazzire. Piantando in asso tutto e tutti, uscii di corsa fuori di casa. Chiusi la porta a vetri sbattendola forte e restai in attesa della reazione di Chiyoko. Per fortuna rinunciò a seguirmi. Feci un sospiro di sollievo e mi misi in cammino, ma mi sentivo terribilmente scoraggiato e depresso. Tornare indietro era fuori discussione, perciò mi mescolai alla folla delle persone che andavano al lavoro e mi diressi verso la stazione. A piedi occorrevano piú di venti minuti. In mezzo agli impiegati in giacca e cravatta che avanzavano a passo spedito, provavo vergogna per non essermi lavato e rasato. Mi sentivo l’ultimo dei miserabili e camminavo a testa bassa, sperando che nessuno mi notasse.
Presi un biglietto al distributore automatico e raggiunsi i binari in attesa del treno diretto verso le zone centrali della città. Il treno arrivò subito, salii nel vagone di coda e mi ressi alle apposite maniglie. Allora mi affiorò alla mente il pensiero che forse nel frattempo Chiyoko stesse per togliersi la vita insieme ai bambini. Anche se all’inizio ero certo che fosse solo una futile minaccia, ricordai il suo sguardo disperato perduto nel vuoto e mi sentii raggelare. Mi ripetevo che non sarebbe mai stata capace di un gesto cosí estremo, eppure ero ossessionato dal timore che se non fossi rientrato subito a casa si sarebbe consumata una tragedia irrimediabile. Scesi dal treno alla stazione successiva e tornai a quella di partenza. Poi corsi a perdifiato fino a casa.
Un passo dopo l’altro, sentivo la mia collera nei confronti di X crescere a dismisura. Lei non sapeva tutto quello che pativa la mia famiglia e le difficoltà che dovevamo fronteggiare tutti i giorni. Mi resi conto una volta di piú che doveva sentirsi tradita pensando che mi occupavo di mia moglie e dei miei figli e che volevo loro un gran bene. X voleva il male della mia famiglia! Distruggerci era il suo scopo! Quel maledetto telegramma ne era la prova. E forse era talmente malvagia da farsela con altri uomini a mia insaputa.
Di colpo mi venne in mente la lettera di un tizio di una casa editrice, che avevo trovato a casa sua l’estate precedente, e quel ricordo attizzò ancora di piú la mia rabbia. Un vecchio amante che, avendola rivista per puro caso, aveva voluto riprovarci. Dopo di me, sarebbe forse stato di nuovo il suo turno? I dolci pensieri che di solito nutrivo per X si volatilizzarono all’istante: pretendeva troppo, ora era piú che altro un ostacolo tra me e la mia vita familiare, e mi torturavo all’idea che fosse solo una donna avida e perversa dedita ai piú svariati piaceri.
Takako e Michiko stavano giocando davanti casa. Meno male, erano ancora vive! Per poco non stramazzavo al suolo per la gioia.
«Papà, dove sei andato?» mi chiese Takako vedendomi arrivare. Aveva la stessa espressione attonita di sua madre, piegava il capo da un lato esattamente come lei.
«A fare una passeggiata» le risposi. Dopo di che strinsi forte a me lei e la sorella. Takako, che aveva intuito che io e la madre avevamo litigato di brutto, si irrigidí all’istante: dopotutto non era abituata a quel genere di slanci affettuosi da parte mia. Invece Michiko si lasciò abbracciare e prese a sfregare con assoluta innocenza la sua guancia contro la mia. Fui inebriato dalla morbidezza e dalla purezza della sua pelle. Era cosí graziosa, un vero tesoro! E pensare che avevo rischiato di perderla!
«Michan, hai fatto la pappa?» le chiesi.
«Sí, certo».
«E che cosa hai mangiato?»
«Riso con i porri».
Poi indicò chissà perché l’interno della casa e il giardino. Lasciai lei e Takako e andai subito dentro a cercare Chiyoko. La trovai in cucina, intenta a lavare i piatti. Al mattino, quella parte della casa era immersa nella penombra, e Chiyoko sgobbava al buio come una serva, le maniche del vestito risvoltate fino ai gomiti. Nel vederla mi si strinse il cuore, anche se fino a poco prima la sua presenza mi ripugnava.
«Chiyoko, perdonami, ho sbagliato» dissi prostrandomi sul pavimento di legno della cucina.
«Che ti succede? All’improvviso ti sono venuti i sensi di colpa?» ribatté lei, indietreggiando imbarazzata.
«No, ti assicuro che sono veramente dispiaciuto per quel telegramma. Finalmente ho aperto gli occhi. Non mi ero accorto che quella donna fosse cosí cattiva e sfrontata. Noi uomini siamo dei veri idioti, mi sono fatto fregare. È venuta da me chiedendomi di aiutarla a scrivere un romanzo, ma non mi ero reso conto che aveva architettato tutto fin dall’inizio. Sono un uomo debole e stupido! Ecco perché mi sono lasciato abbindolare, ma non succederà mai piú, te lo prometto. Ti obbedirò in tutto e per tutto, mi dirai tu quello che devo fare. Non farò niente che tu non voglia e non uscirò mai di casa senza dirti dove vado. Non andrò nemmeno a bere con gli amici senza prima averti avvertito. Devi credermi! Perdonami, ti prego, ti giuro che non si ripeterà piú!»
Alla fine del monologo, abbassai la testa fino a sfiorare il pavimento con la fronte, in attesa della risposta di Chiyoko. Ma lei rimase in silenzio. Allora sollevai piano lo sguardo e la vidi sfregare forte con lo straccio il bordo dell’acquaio, il volto contratto come prima in una smorfia intransigente.
«Hai mangiato?» mi chiese in tono sprezzante, dandomi la netta sensazione che mi avesse rivolto quella domanda per puro senso del dovere.
«Certo che no! Non ho fatto altro che vagare senza meta» risposi, cercando di mantenere i nervi saldi e di non suonare scortese. «E per tutto il tempo ho continuato a pensare a che cosa avrei fatto se tu e i bambini foste morti. Ho avuto una paura tremenda, mi sembrava di impazzire».
Mentre pronunciavo quelle parole, mi voltai d’istinto verso Yōhei, che era lí accanto in salotto. Comodo nel suo seggiolone, mi guardava sorridendo. E quella scena di pace e serenità mi fece venire le lacrime agli occhi.
«Vuoi mangiare?» insisté Chiyoko nello stesso tono aspro. «Ma ti avverto che c’è solo dello sgombro grigliato al sale».
Ricordandomi che poco prima Michiko mi aveva detto di aver mangiato del riso con i porri, mi venne da ridere. E anche Chiyoko si lasciò scappare un risolino. Almeno in parte rincuorato, mi alzai in piedi e la abbracciai da dietro. Era ingrassata e le sue natiche erano diventate enormi e quadrate. Dopotutto era inevitabile, non era piú una ragazzina ed era madre di tre figli. «Ti amo, ho fiducia in te e dipendo solo da te!» avrei voluto gridarle in quel momento dal profondo del cuore. E desideravo che anche lei provasse per me gli stessi sentimenti, solo che era convinta che io amassi alla follia X. Ma si sbagliava, io non amavo X, né tanto meno avevo fiducia e dipendevo da lei. Volevo provarglielo, volevo che Chiyoko non avesse dubbi. Come farle capire che era lei l’unica donna importante della mia vita?
Ravvivò in fretta il fuoco del piccolo braciere a carbone e grigliò lo sgombro. Nel frattempo mise a riscaldare della zuppa di miso ai porri e mi serví una ciotola di riso bianco. Non c’era altro per colazione, ma trovai lo stesso quel pasto eccellente.
«Ti ho fatto del male, lo so. Ma ti prometto che non lo farò mai piú, perciò devi perdonarmi, ti prego. Oggi, quando è arrivato quel telegramma, finalmente ho capito che quella donna è una strega e non vale niente».
«Forse lo ha fatto perché ti ama alla follia, no?» osservò Chiyoko, l’aria contrariata.
«No, ma che dici? Ti ripeto che finalmente ho aperto gli occhi. Quella donna è un’ipocrita, vuole stringere nelle sue mani anche quello che non può avere. Lei non mi interessa affatto, perché io ho già qualcuno di molto prezioso… Io ho te, Chiyoko! Per me niente conta di piú!»
Sottolineai quell’affermazione con ripetuti cenni del capo, mentre mandavo giú un lungo sorso di tè.
«No, non è vero, per te il lavoro conta piú di tutto il resto» protestò lei, in uno strano tono venato di ironia.
«Che c’entra? Il lavoro è un’altra cosa» replicai scuotendo la testa. «Anzi, sai che ti dico? Alla base del lavoro c’è proprio la solidità della famiglia. A proposito, perché non mi mostri quello che hai scritto? Mi piacerebbe molto leggerlo».
Lo avevo detto per semplice curiosità. Mi auguravo e al tempo stesso temevo di scoprire che Chiyoko avesse piú talento di me. Erano due sentimenti contrastanti che si mescolavano in un unico groviglio: da una parte la speranza che il suo eventuale maggiore talento potesse mitigare la collera e il disprezzo nei miei confronti, e dall’altra il timore che la mia statura di scrittore ne uscisse ridotta.
«No, non è il momento» rifiutò lei categorica. Dopo di che assunse un’aria indispettita e si chiuse nel silenzio. Mi sentii respinto con freddezza, al punto da provare un sentimento di profonda irrequietudine.
«E se ci prendessimo insieme una rivincita nei confronti di quella strega?» provai allora a dirle.
«Che cosa intendi?» mi chiese lei, alzando di scatto gli occhi verso di me.
«Potremmo renderle quel che si merita. Le scriviamo una lettera in cui gliene diciamo di tutti i colori e gliela portiamo fino a casa, insieme. Cosí forse ti sentirai meglio».
Ero convinto che in quel modo X avrebbe rinunciato alle sue cattiverie e Chiyoko si sarebbe di nuovo fidata di me. In un angolo della mia mente non potevo evitare di pensare che fosse un’idea molto stupida, ma d’altra parte tutto era iniziato con quella frase: «Ieri sera, dimenticato chiavi da me». Era stata X a cominciare, se l’era voluto lei! Anche a costo di scatenare un putiferio, dovevo darle assolutamente prova della complicità che esisteva tra me e Chiyoko, la nostra coppia doveva apparire solida e indistruttibile. E in ogni caso non avevo piú niente da perdere.
«Va bene, facciamolo» rispose Chiyoko dopo averci riflettuto un po’ su. «Voglio vederla soffrire. Quella donna è una puttana!»
Finalmente si era decisa a sputare il suo odio, meglio non aggiungere altro. Era bastato un telegramma per far cambiare di centottanta gradi l’orientamento dei miei pensieri nei confronti di X.
«Non è che per caso conosci un suo punto debole?» mi chiese.
«Credo di sí, lasciami riflettere».
E intanto mi misi a scrutare la penombra della cucina.
4
Ineluttabilità
1
La data di consegna della prima parte del romanzo alla redazione di Diablo si avvicinava inesorabile. Tamaki aveva detto a Saitō che intendeva scrivere una storia sulla misteriosa X dell’Innocente, ma non era ancora riuscita a raccogliere alcuna informazione sul suo conto. Quando si era incontrata con Motoko, già sospettava che quella donna non poteva essere X, ma si era presentata lo stesso da lei, animata dalla speranza meschina di estorcerle qualche notizia preziosa. Purtroppo tutte le persone coinvolte, Motoko inclusa, sembravano voler mantenere il piú stretto riserbo sulla faccenda. L’innocente era un romanzo molto famoso, e Tamaki si chiedeva come mai nessuno osasse parlare di X. Non sarebbe stato di per sé un fatto grave se avesse scritto piú o meno quello che immaginava, lavorando di fantasia, ma il carattere autobiografico dell’Innocente la spingeva a essere molto cauta sulla possibilità di attingere alla propria immaginazione, per cui non riusciva a procedere nella stesura del libro. D’altra parte, questo significava dare prova di una discrezione non indifferente per una scrittrice di mestiere come lei. Come se non bastasse, era ancora molto turbata dallo stile di quel romanzo, in cui l’autore si esprimeva con estrema sincerità, senza farsi scrupoli di sorta. Midorikawa Mikio si metteva a nudo, talvolta descrivendo se stesso e le sue azioni in modo tutt’altro che esaltante. Ecco perché il demone al quale L’innocente aveva dato vita non esitava a drizzare la testa e a sogghignare, prendendosi gioco di qualsiasi tentativo di scrittura basato su una vuota e debole finzione.
Tamaki ricordava molto bene il clamore suscitato dal romanzo di Midorikawa al momento dell’uscita in libreria. In particolare, non aveva dimenticato il contenuto di una lettera pubblicata nella rubrica dei lettori di un noto quotidiano. In sintesi, la lettera diceva che l’autore era un marito infedele e aveva avuto l’ardire di descrivere con crudezza le reazioni di sua moglie, della quale citava il vero nome senza preoccuparsi minimamente di ferire i suoi sentimenti e farla sprofondare nell’umiliazione. Era mai possibile una cosa del genere?, si chiedeva la casalinga autrice della lettera, che si diceva profondamente indignata. La sua domanda era piú che legittima, visto che di certo un gran numero di donne si poneva lo stesso interrogativo e condivideva la medesima reazione. Gli uomini, chissà come mai, preferivano mantenere il silenzio.
Tuttavia non c’erano forse un’ambiguità e una disonestà di fondo in quel romanzo? Nel mettersi totalmente a nudo, Midorikawa pareva aver abilmente mescolato la verità autobiografica alla finzione narrativa quasi a voler confondere il lettore, che non era in grado di comprendere dove finisse l’una e iniziasse l’altra. Nel romanzo ognuno aveva la sua propria verità: il marito, la moglie, l’amante e perfino i figli. E tutte quelle verità si intrecciavano tra loro nel corso della narrazione offrendo una descrizione dei fatti. Midorikawa non aveva mai dichiarato di aver scritto la verità, e fino alla morte aveva continuato a ripetere che L’innocente era pura finzione narrativa. Cionostante, dal terribile conflitto che opponeva i vari personaggi, aveva origine qualcosa che agli occhi dei lettori poteva apparire come una verità convincente. Midorikawa era un marito egoista, scaltro e depravato; Chiyoko era una povera moglie depressa; X una donna viziosa e dissoluta che seminava la discordia in una famiglia; i bambini, infine, erano le vittime innocenti degli adulti. E tali immagini perduravano intatte lungo tutto l’arco del racconto.
In seguito, era scoppiata una tragedia che nelle pagine finali del romanzo era solo accennata e di cui nessuno osava parlare. All’epoca in cui si consumava il contrasto tra i coniugi Midorikawa e X dando vita a una serie interminabile di dispute e provocazioni, il figlio piccolo della coppia, Yōhei, che aveva da poco cominciato a muovere i primi passi, era annegato in mare. La famiglia era riunita al gran completo sulla spiaggia, e il piccolo Yōhei era sfuggito alla sorveglianza degli adulti ed era annegato tra le onde a pochi metri dalla riva. La grave depressione di Chiyoko era dunque dovuta non solo al conflitto che la opponeva a X, l’amante del marito, ma anche e soprattutto alla tragica perdita del figlio. Quel dramma inaspettato, l’insieme di litigi, astio profondo e vincoli di varia natura costituivano l’universo del romanzo. Era terribile: in quanto a crudeltà, la realtà superava di gran lunga la finzione. Una realtà tanto intricata da sembrare essa stessa un romanzo.
«Signora Tamaki, come procede il lavoro? Crede che riuscirà a rispettare i termini di consegna?»
Saitō si era appena fatto vivo chiamandola al cellulare. Lei lo liquidò in quattro e quattr’otto, infastidita dalla sua insistenza, rispondendo che avrebbe fatto il possibile. Il tono preoccupato della sua voce le restò a lungo nelle orecchie. Poi gettò uno sguardo fuori dalla finestra: tutto rinverdiva. Forse perché era appena piovuto, gli alberi e le piante brillavano di un verde lucente. Tamaki avvertí l’odore pungente dell’erba e della terra bagnata. Ebbe un capogiro improvviso.
Di colpo le parve di sentire la voce di Seiji che le sussurrava qualcosa all’orecchio. Era solo un’illusione. «Oggi non ho proprio voglia di andare in ufficio» diceva a bassa voce nel dialetto di Ōsaka, dopo aver tratto un sospiro.
Era un giorno di giugno, un giorno come tanti, e mancava poco a mezzogiorno. Tamaki e Seiji erano seduti vicini su una panchina in un parco. Non sapevano dove andare e ammazzavano il tempo fumando una sigaretta dopo l’altra e bevendo una Coca-Cola presa al distributore automatico. Sarebbero stati molto contenti di recarsi da qualche parte, niente e nessuno glielo vietava: ristoranti per famiglie, cinema, love hotel. Ma l’umidità opprimente, che causava una specie di pizzicore su tutta la pelle, e la carenza di sonno li avevano resi fiacchi e indolenti. Tamaki, in particolare, si sentiva sospesa in uno stato di profondo torpore.
Dalla sera precedente non si erano piú lasciati. Come erano soliti fare ogniqualvolta stavano insieme, avevano chiacchierato fino a notte fonda e si erano addormentati all’alba. Seiji si era mostrato piú loquace del solito e aveva rivelato persino un certo rammarico, nell’attimo in cui aveva guardato l’orologio e aveva esclamato: «Il tempo non basta mai, vorrei continuare a parlare con te all’infinito!». Avevano lasciato l’albergo al mattino ed erano andati in giro senza una meta, incapaci di separarsi. Succedeva sempre cosí, tutte le volte che si vedevano. Ma quel giorno Seiji non voleva proprio lasciarla, come se si tenesse aggrappato disperatamente a lei. Mentre erano in macchina, lui continuava a chiederle di guidare, nell’illusione di rendere eterno quel momento.
«Che ne dici di rientrare?» gli aveva suggerito a un certo punto Tamaki, prendendo l’iniziativa.
E Seiji, l’aria smarrita, aveva sospirato e aveva detto con un filo di voce: «Oggi non ho proprio voglia di andare in ufficio».
Seiji era nato e cresciuto a Ōsaka, ma cercava di nascondere il piú possibile la sua inflessione dialettale, perché non sopportava che la gente lo giudicasse in base alla sua provenienza geografica. Tuttavia quella volta aveva pronunciato quella frase nel suo dialetto senza quasi farci caso. Ecco perché quell’accento insolito, uscito dalla sua bocca inavvertitamente e pregno di dolcezza, aveva colpito Tamaki dritto al cuore.
Tamaki si era limitata ad assentire con un lieve cenno del capo, senza chiedergli il perché. Seiji continuava a lamentarsi fin dalla sera precedente. Ai primi di giugno, in seguito a una ristrutturazione interna, era stato assegnato alla redazione di una delle riviste letterarie della casa editrice. In realtà se lo aspettava, ma era stato lo stesso un grande shock. Si era rammaricato a piú riprese, lui che fino ad allora aveva sempre curato l’editing dei romanzi di Tamaki: «È la fine, non potrò piú occuparmi dei libri. Mi mandano alla rivista, non ci posso credere. Per me è come una condanna a morte!».
E lo era anche per Tamaki, perché lei amava scrivere i suoi romanzi con Seiji, il quale ripeteva spesso con infinita passione che occuparsi dei libri era la sua vita. Di primo acchito aveva pensato di rivolgersi alla direzione editoriale chiedendo di evitare il trasferimento di Seiji, ma alla fine aveva rinunciato, dicendosi che una casa editrice di prima importanza non avrebbe mai preso in considerazione la richiesta di un’autrice. Per continuare a fare dei libri insieme, senza interferenze esterne, avevano un’unica strada da percorrere: Seiji avrebbe dovuto dare le dimissioni. Ne avevano discusso in piú di un’occasione, durante le loro lunghe conversazioni, ma si trattava di un’idea azzardata, irrealizzabile. Perciò avevano provato una profonda disperazione, per quanto il loro atteggiamento potesse sembrare assurdo e insensato agli occhi degli altri. Nessuno, al di fuori di loro due, poteva comprendere la gioia e la soddisfazione che provavano nel lavorare insieme. Né tanto meno il beneficio immenso che il loro amore traeva da quella situazione di totale armonia.
Seiji non ne aveva mai parlato con Tamaki in modo esplicito, ma pareva ci fosse un altro motivo che lo induceva a essere inquieto. Stando a quel che si diceva, essere trasferiti alla redazione di una rivista significava vedersi preclusa qualsiasi possibilità di fare carriera. A tal proposito, Seiji aveva citato a Tamaki alcuni esempi di colleghi incaricati della direzione di questa o quell’altra rivista e poi finiti nel dimenticatoio, in una sorta di limbo. Era indignato, a maggior ragione perché sospettava che quel trasferimento, e di conseguenza l’esclusione dai posti che contavano, fosse dovuto in buona parte alla scoperta della relazione con Tamaki. Al contrario di quest’ultima, ormai del tutto rassegnata, Seiji aveva una paura tremenda e sperava che la loro storia d’amore non fosse resa pubblica, anche se non gliene aveva mai fatto parola.
«E se andassimo da qualche parte?» propose alla fine Seiji, stringendole la mano mentre erano seduti sulla panchina. Si era appena tolto la giacca ed era rimasto in t-shirt. Le magliette a maniche corte gli donavano molto, perché era alto e ben piantato. A prima vista, sembrava uno di quei tipi pieni di sé, ma in realtà era una persona abbastanza umile e pareva non essere consapevole del proprio fascino. Tamaki lasciò cadere la cicca per terra e la schiacciò sotto il tacco della scarpa. Aveva fumato troppo, un sapore acre le riempiva la bocca e la gola.
«Dove?»
«Ovunque, in un posto qualsiasi».
«Non è cosí semplice».
Quella conversazione vaga e inconcludente proseguí fino a quando Seiji non scoppiò in una risata.
«Scusami. Devi tornare a casa, giusto?»
«Sí…» mormorò esitante Tamaki.
Aveva un sacco di incombenze e di lavoro da sbrigare, ma le costava molta fatica lasciarlo da solo sapendolo poco sereno. La sofferenza di Seiji era anche la sua. Quando discutevano insieme, con calma, riuscivano a risolvere ogni tipo di problema, pertanto in quel frangente si chiedeva se non fosse giusto mettere da parte gli impegni e dedicarsi a lui e al loro rapporto. Piantarlo in asso e tornarsene a casa non era un comportamento un po’ troppo freddo e distaccato?
«Non voglio trattenerti, so che hai molto da fare».
«No, non importa».
I loro sguardi si incrociarono. Seiji diede un’occhiata all’orologio e, dopo aver riflettuto un attimo, alzò la testa con aria decisa.
«Che ne dici di Ōsaka?» propose stavolta. «Se prendiamo uno shinkansen intorno all’una, saremo lí prima delle quattro. Potremmo fare un giro dalle parti di Dōtonbori».
«E il lavoro? Non è che ti faranno storie?» ribatté stupita Tamaki, fissandolo in volto.
Seiji fece spallucce e le sorrise. Poi tirò fuori l’agenda di pelle verde e controllò i suoi impegni.
«Domani ho una cena» disse. «Se rientriamo con il primo shinkansen del pomeriggio, non ci sono problemi. Che ne pensi?»
«Per me va bene, ma…» rispose Tamaki, interrompendosi di colpo.
«Ma?» la sollecitò Seiji, facendo un’espressione buffa.
«Niente, andiamo a Ōsaka, va bene».
Tamaki non riusciva a capacitarsi di aver deciso di partire seduta stante, senza nemmeno un bagaglio. Anche l’incontro della sera prima e la notte in albergo erano frutto dell’improvvisazione. Lei e Seiji si erano sentiti al telefono e avevano stabilito di vedersi, perché avevano scoperto di avere entrambi qualche ora libera a disposizione. E, una volta insieme, erano andati avanti a parlare per ore, incapaci di separarsi. Ora Tamaki si chiedeva se fosse veramente possibile prolungare di un’altra notte quell’incontro, per giunta con un viaggio inatteso a Ōsaka. Ma certo che lo era: insieme a Seiji niente era impossibile.
Si diedero appuntamento alla stazione un’ora piú tardi, e nel frattempo Tamaki riportò la macchina a casa. Il cane, che qualcuno aveva distrattamente lasciato fuori in giardino, era stremato dal caldo. La sua ciotola dell’acqua era vuota. Tamaki andò a prendere il guinzaglio e glielo fissò al collare: portarlo a spasso una decina di minuti l’avrebbe aiutata a sentirsi meno in colpa per la decisione di abbandonare casa per un’altra giornata. Scrisse un messaggio al figlio, che frequentava il primo liceo, prese degli indumenti di ricambio e qualche cosmetico e si allontanò in fretta. «Devo andare a Ōsaka per lavoro. Rientrerò domani, nel pomeriggio. Mi raccomando»: aveva scritto cosí su un foglietto volante. Quel “mi raccomando” suonava talmente ipocrita che arrossí per la vergogna. Ma al contempo sentiva crescere dentro di sé una gioia e un’eccitazione incontenibili. Stava partendo per un breve viaggio d’amore con Seiji! La felicità di poter stare al suo fianco aveva cancellato in un istante il rimorso di tradire la madre, il marito e il figlio, lo scrupolo di trascurare il lavoro e perfino il senso di colpa nei confronti del suo povero e viziatissimo cane.
Arrivò alla stazione con cinque minuti di ritardo. Quando la vide, Seiji la accolse con un sorriso smagliante colmo di affetto e passione. Aveva già preso i biglietti. Tamaki lo aveva immaginato, cosí come aveva immaginato che, mentre lei tornava a casa per lasciare la macchina, Seiji avesse telefonato alla moglie e in ufficio per dire che si sarebbe assentato, adducendo una qualche scusa. Tra loro c’era una sintonia perfetta, facevano e pensavano le stesse identiche cose. In fondo era cosí che ingannavano le rispettive famiglie, le persone con le quali lavoravano e anche un po’ se stessi.
«Tutto bene a casa?» chiese Seiji a Tamaki, mentre avanzavano a grandi passi.
«Sí, nessun problema» gli rispose lei in tutta convinzione.
In realtà, era piú che probabile che i suoi familiari ce l’avessero con lei, ma non aveva esitato a mentire. Invece lui era totalmente disteso e rilassato. Le sue incombenze familiari erano ben diverse dalle responsabilità che sentiva di avere Tamaki. Quest’ultima di tanto in tanto si ritrovava a riflettere su questo, ma non aveva mai chiesto a Seiji in cosa consistessero di preciso. E con ogni probabilità non lo avrebbe mai fatto.
«Meno male. Non puoi immaginare quanto sia felice di partire con te» disse Seiji, rivolgendole un sorriso radioso. Tamaki si voltò dalla sua parte e ricambiò il sorriso. Erano l’immagine perfetta di un amore maturo con un tocco di spensieratezza: un uomo e una donna di mezza età che si tenevano per mano senza pudore sul marciapiede di una stazione ferroviaria. Non provavano nessuna vergogna, era come se esistessero solo loro due e non ci fosse nessun altro al mondo.
In treno, Seiji comprò delle arachidi e due birre in lattina. Tamaki sgranocchiò le arachidi e sorseggiò la birra con immenso piacere. Poi, mentre guardava il paesaggio scorrere a gran velocità fuori dal finestrino, si sentí vincere dal sonno. La data di consegna del suo ultimo lavoro si avvicinava e lei era in ansia al pensiero del duro lavoro che la attendeva, ma decise di ignorare tutto e chiuse gli occhi. Seiji, seduto dalla parte del corridoio, le prese la mano e gliela strinse. Quando si tenevano per mano in quel modo, si sentivano invadere da una strana sensazione. Sembrava fossero un solo corpo e che il sangue, circolando, trasportasse le malinconie e i tormenti dell’uno nelle vene e nel cuore dell’altra, dove venivano in qualche modo depurati e trasformati in qualcosa di completamente diverso prima di tornare nuovamente a scorrere. Dal punto di vista fisico erano separati, eppure vivevano l’uno nell’altra, creando un mondo a parte.
Arrivarono a Ōsaka un poco prima delle quattro del pomeriggio. Nuvole grigie si addensavano nel cielo, minacciava pioggia. E in piú faceva un caldo umido terribile. Scesero dal treno alla stazione di Shin Ōsaka e si misero in fila in attesa di un taxi. Dovettero aspettare solo un paio di minuti.
«Dōtonbori» disse Seiji al tassista, non appena ebbe prese posto accanto a Tamaki. Aveva intenzione di passare la notte in un albergo piuttosto stravagante nella zona centrale del quartiere. Assomigliava a una specie di lounge bar ed era caratterizzato da una struttura in vetro e metallo. Lo aveva scoperto l’ultima volta che era stato in città, ma in quell’occasione non aveva trovato camere libere. Stavolta era stato piú fortunato: ce n’era una a disposizione, che si sviluppava tutta in lunghezza tanto da sembrare un corridoio. Dalla vetrata in fondo si poteva godere una splendida vista su Dōtonbori. Piccola, poco costosa e simile a un giocattolo, quella stanza al nono piano era perfetta: sembrava sospesa nel cielo. Lí pareva non esserci posto per la tristezza. Come se vi fossero stati catapultati dall’alto all’improvviso, l’uno accanto all’altra, Seiji e Tamaki contemplavano il panorama in silenzio. Lui appena un passo indietro, perché soffriva di vertigini e si sentiva come sull’orlo di un magnifico precipizio.
«E adesso che si fa?» disse Tamaki come se parlasse a se stessa. Prima di tutto immaginò di andare in giro con Seiji senza una meta. Scoprire come sempre nuovi vicoletti e stradine, evitando di seguire un percorso prestabilito, ed entrare in numerosi bar e ristorantini senza trattenersi piú di tanto, soprattutto se non risultavano di loro gusto. Avanti cosí, senza mai fermarsi, ripetendo piú volte lo stesso schema in totale spensieratezza, fino a notte fonda. Tamaki continuava a domandarsi dove andare, lo sguardo fisso al cielo offuscato dallo smog e dai gas di scarico.
Di colpo le tornò in mente la sensazione di apatia che aveva provato al mattino, quando lei e Seiji avevano girovagato in macchina per le strade di Tōkyō prima di rifugiarsi in un parco. Allora le venne spontaneo pensare che percorrendo a piedi le strade di Ōsaka, una città che conosceva molto bene, non avrebbe potuto fare chissà quali nuove scoperte. E provò un certo sfinimento, se non addirittura un senso di panico all’idea di dover passare un’intera serata ad ammazzare il tempo, né piú né meno come era accaduto al mattino. Non poteva permettere che andasse a finire cosí, quelle ore insieme se l’erano conquistate a caro prezzo e dovevano sfruttarle con gioia fino all’ultimo istante. Tamaki si sentiva spesso e volentieri in bilico tra due forze opposte: da una parte l’energia che metteva nella storia con Seiji e dall’altra la fatica che ne derivava. Da quando non erano piú capaci di sfruttare al meglio e con serenità
il loro tempo libero? Erano forse troppo avidi e insaziabili e pretendevano sempre di piú?
«Conosco un posto dove mi piacerebbe portarti» disse all’improvviso Seiji, con una lieve esitazione, interrompendo il flusso di pensieri di Tamaki.
«Ah sí? Dove?»
«Il quartiere dove sono nato. Che ne dici? Ti va?»
Che strano. Non era la prima volta che andavano insieme a Ōsaka, ma Seiji non le aveva mai proposto di visitare il posto dove era cresciuto. Tamaki sapeva che si trattava di un quartiere popolare della parte vecchia della città e che la madre di Seiji non ci abitava piú da diversi anni, da quando era rimasta sola, essendosi trasferita in una zona residenziale nell’area nord della metropoli. Con voce uggiosa, Seiji le disse che da quelle parti non aveva piú nessuno, né parenti né amici.
«È una proposta insolita da parte tua. Che ti succede?» gli chiese Tamaki.
«Bah, non lo so» rispose lui, piegando perplesso il capo da un lato.
«Comunque mi va, andiamoci».
«Ti avverto, non è niente di che, è un posto noioso».
«Non importa, sono curiosa. Però è strano che lo dica tu, è il tuo quartiere, no?» commentò Tamaki con un risolino.
«Bene, allora andiamo» disse Seiji, alzandosi in piedi.
Finalmente avevano una meta e lasciarono con entusiasmo la stanza dell’albergo. Giú in strada, salirono subito su un taxi. Si fecero portare fino alla stazione di Umeda e presero un treno delle ferrovie Hanshin. Tamaki era contenta, per lei si trattava di una novità assoluta. Nel vagone, mescolati ai pendolari che tornavano dal lavoro, si guardavano intorno con la stessa curiosità di una coppia di turisti. Poco dopo essere saliti in treno, attraversarono un ampio fiume. Tamaki chiese a Seiji come si chiamasse e lui le disse che era lo Yodogawa. Seiji continuava a fissarne in silenzio la superficie, come rapito. Al crepuscolo, quel grande fiume grigio metallo si fondeva con il cielo plumbeo, e i suoi argini in lontananza si distinguevano a malapena.
«Da bambino» mormorò Seiji, lo sguardo rivolto al corso d’acqua, «venivo spesso a portare dei gatti al fiume».
«Gatti? Vuoi dire dei cuccioli?»
«Sí, ne trovavamo sempre tanti, abbandonati per strada. Li mettevamo in una cesta e li affidavamo alla corrente. Tu non lo facevi?»
«Poverini, che cosa triste e crudele!» rispose Tamaki, portandosi la mano alla bocca e scuotendo la testa.
Seiji si mise a ridere. Poi la guardò e aggiunse: «Lo fanno tutti i bambini, ovunque».
«Non credo proprio, forse lo fanno solo dalle tue parti».
Mentre pronunciava quella frase, Tamaki ci ripensò su e concluse che lei non lo aveva mai fatto non perché le sembrasse una cosa triste e crudele, ma per la semplice ragione che nelle vicinanze di casa sua non c’era nessun fiume dove poter abbandonare dei gattini appena nati. E immaginò che se fosse stata insieme a Seiji avrebbe finito per farlo anche lei. Ora lui era lí, al suo fianco, lo sguardo fisso agli argini del fiume.
Scesero dal treno alla stazione che era sulla sponda opposta. Doveva essere stata rinnovata da poco, era nuovissima e sopraelevata. Quando scesero giú, al livello della strada, videro diverse bancarelle allineate nell’ampio spazio sotto il ponte ferroviario. Alcune vendevano sandali di plastica di vari colori, altre fermagli e nastri per capelli, altre ancora cd di vecchie canzoni popolari. Tamaki si fermò d’istinto. Mentre guardava i fermagli, un vecchietto la chiamò con un cenno della mano e le disse ad alta voce: «Venga, signora, non abbia paura, ne ho qui una montagna!». Prese una borsa e gliene mostrò degli altri, tirandoli fuori a gran velocità. Tre o quattro uomini dall’aria sfaccendata, spuntati fuori da chissà dove, si avvicinarono e si misero a osservare la scena, gli occhi che si spostavano dai fermagli al viso di Tamaki. Seiji, intanto, si era allontanato di qualche metro e la aspettava piú avanti con un’espressione seria in volto. Allora Tamaki fece un gesto di gentile rifiuto in direzione del vecchietto e si affrettò a raggiungerlo.
«Scusami, mi sono lasciata attrarre da quelle bancarelle».
Seiji le disse che non era grave, eppure sembrava molto teso. Era la prima volta che faceva ritorno nel quartiere della sua infanzia, da quando lo aveva lasciato all’epoca della scuola media. Perciò doveva sentirsi nervoso al pensiero di vedere quanto quel posto fosse cambiato e di come gli sarebbe apparso a distanza di diversi anni.
A destra della stazione si estendeva un’area industriale. C’era anche una specie di fossato simile a un canale, dove erano ormeggiate alcune chiatte nere e altre piccole imbarcazioni. Seiji e Tamaki si avviarono verso il lato opposto. Fin dal primo sguardo, era evidente che si trattava di un quartiere caotico, che in tutta probabilità si era sviluppato senza seguire un piano regolatore. Stradine anguste si diramavano in varie direzioni, piú che altro in diagonale. Accanto a un vecchio e polveroso negozio di sake, poteva sorgere una palazzina di recente costruzione: non c’era alcuna armonia, e quell’incoerenza assoluta risultava addirittura fastidiosa. Ma la zona doveva essere comoda e in una buona posizione, come si poteva dedurre dal numero non indifferente di nuove abitazioni. In fondo a una serie di basse costruzioni, si intravedevano gli alti argini del grande fiume che Seiji e Tamaki avevano attraversato poco prima con il treno delle ferrovie Hanshin. Tamaki immaginò Seiji da bambino che andava fin laggiú per affidare al fiume una cesta piena di gattini. Si sentí stringere il cuore e provò per lui un moto di affetto profondo. Amava quell’uomo come forse non aveva mai amato nessuno.
«Questa strada me la ricordo» esclamò di colpo Seiji, avvicinandosi a una casa col tetto rivestito di tegole nere. Poi tornò subito indietro. Guardava un po’ dappertutto, facendo vagare lo sguardo a destra e a sinistra, assorbito nei suoi pensieri. Arrestava il passo all’improvviso, assottigliava lo sguardo e ripartiva di corsa in un’altra direzione. Sembrava impaziente di trovare qualcosa. A un certo punto, disse con rammarico che il vecchio quartiere era stato quasi del tutto demolito per fare spazio alle nuove costruzioni e che era completamente cambiato.
Nel frattempo aveva cominciato a piovere, stava per scatenarsi un temporale. Tamaki andò a ripararsi sotto la tettoia di un vecchio negozio di sake, in attesa che Seiji la raggiungesse. Ma poco dopo lo vide ad alcune decine di metri di distanza, lí che si sbracciava facendole segno di raggiungerlo. Lei corse sotto la pioggia battente e lui, grondante acqua, le indicò una vecchia casa a un solo piano.
«È questa, credo. Lí dietro c’è la casa di mio zio, mentre qui abitavamo noi. Ce l’aveva affittata lui».
«Tuo zio abita ancora qui?» gli chiese Tamaki.
«No, non credo… Si è trasferito altrove» rispose Seiji, stavolta indicando la targa con un nome sconosciuto all’ingresso della casa a due piani sul retro.
«Altrove? È tuo zio e non sai neanche dove sia?»
«Certo che lo so, è morto!»
Inzuppati di pioggia fino all’osso, sollevarono all’unisono lo sguardo verso la casa dove Seiji era vissuto da bambino. Il tetto di lamiera e la facciata erano invasi dall’edera, i cui rami spogli e nerastri davano l’impressione che l’intera costruzione fosse costellata di lunghe e sottili crepe. Come per magia, Tamaki immaginò che la piccola porta d’ingresso di legno si aprisse e Seiji bambino sgattaiolasse fuori in silenzio. Se lo figurava in canottiera bianca, pantaloncini corti grigi e berretto da baseball degli Hanshin Tigers, lí che si guardava intorno con circospezione prima di mettersi a correre in direzione del fiume.
«Mia madre faceva la sarta» disse Seiji. «Aveva messo su un piccolo laboratorio in una stanza della casa e dava anche lavoro ad alcune signore».
«Ah, brava, quindi tua madre era una donna piuttosto intraprendente, eh?» commentò Tamaki.
Seiji rilassò i muscoli della mascella e scoppiò in una risata. Si voltò verso le case là intorno e disse: «Comunque, questo posto me lo ricordavo molto peggio. È passata una vita, ero un bambino quando vivevo qui».
Il viso gocciolante di pioggia, spostò piano lo sguardo al fiume. Poi, quasi si fosse appena accorto della presenza di Tamaki, assunse una strana espressione. Lei pensò che quel repentino cambio di atteggiamento fosse dovuto a una sorta di antico rimpianto.
«Andiamo?» le disse con voce spenta, come se avesse smarrito in un sol colpo tutto l’entusiasmo. A Tamaki avrebbe fatto molto piacere dare un’occhiata al fiume e ai suoi argini, ma la pioggia non accennava a smettere e Seiji non sembrava piú interessato. Senza dire una parola, tornarono camminando fianco a fianco alla stazione. Quando passarono davanti alle bancarelle sotto il ponte ferroviario, Tamaki vide di spalle il vecchietto che aveva tentato di venderle i fermagli per capelli intento a fumare una sigaretta. Forse perché aveva sentito il suo sguardo su di sé, l’uomo si voltò di scatto e la guardò per qualche istante, ma non parve riconoscerla e tornò alla sua sigaretta.
Seiji e Tamaki presero il primo treno delle ferrovie Hanshin diretto alla stazione di Umeda. Nel vagone, Seiji teneva lo sguardo fisso verso il quartiere della sua infanzia, oltre la zona industriale. Anche Tamaki gettò un’occhiata all’agglomerato di case nei pressi del fiume e le venne spontaneo pensare alla gente che abitava da quelle parti e al frastuono dei treni che passavano di continuo. Era calata la notte, tutto era immerso nell’oscurità, e la pioggia rendeva ancora piú buio ed evanescente il quartiere dove Seiji era vissuto da bambino.
Al piano sotterraneo dei grandi magazzini Hanshin, Tamaki si mise in fila al chiosco dell’ikayaki insieme agli impiegati che rientravano dal lavoro. Seiji le aveva detto che era la specialità del posto e voleva assaggiarla a tutti i costi. In piedi, mangiando a pieni bocconi quella gustosa pietanza, sorseggiarono insieme una birra alla spina. Presero due porzioni in piú di ikayaki, con l’intento di consumarle dopo in albergo, ma Tamaki pensò subito che non le avrebbero toccate. Finiva sempre cosí quando andavano da qualche parte: si lasciavano prendere dall’avidità, volevano troppo.
«E ora che si fa?» chiese Tamaki a Seiji.
«Già, che facciamo?» ribatté lui, completamente privo dell’allegria del mattino e dell’eccitazione che aveva manifestato all’arrivo a Ōsaka. Abbassò lo sguardo e si mise a riflettere.
«Torniamo a Dōtonbori?» propose Tamaki, vedendolo svogliato e stanco.
«Uhm» rispose senza troppa convinzione Seiji, lí a guardare con aria assente le persone che facevano avanti e indietro per le corsie del grande reparto alimentare.
Finalmente, all’arrivo a Dōtonbori, acquistarono un ombrello di plastica trasparente in un konbini. Abbracciati stretti, sfidando la pioggia, si trascinarono per le vie del quartiere. Le luci colorate delle insegne al neon si riflettevano nelle pozzanghere come in specchi deformanti. Era uno spettacolo che metteva addosso una certa tristezza. E in piú avevano entrambi lo stomaco pieno e non avevano molta voglia di bere. Dopo un po’, Seiji scorse un ristorantino e lo indicò gridando.
«E se andassimo lí?» disse. «Era uno dei miei posti preferiti quando ero uno studente del liceo».
Il locale apparteneva a una nota catena di piccoli ristoranti piuttosto economici specializzati in gyōza. Che genere di liceale era Seiji? Com’era a sedici o diciassette anni? Tamaki gli rispose di sí con un cenno del capo, mentre faceva lavorare come al solito l’immaginazione. Il ristorante era molto affollato e pieno di giovani del posto. Si sedettero a un tavolino in un angolo in fondo, su dei piccoli sgabelli in similpelle appiccicosi e unti di grasso. Senza chiedere il parere di Tamaki, Seiji ordinò una birra in bottiglia e due porzioni di gyōza. Dopo mangiato, sazia fino a scoppiare e con la pancia gonfia di birra ghiacciata, Tamaki si accese una sigaretta. Di colpo, mentre leggeva i nomi delle pietanze scritti in grande alla parete, Seiji richiamò la sua attenzione dandole di gomito.
«Ehi, lo conosci il jingisukan?» le chiese. «Quando venivo qui, lo prendevo sempre».
«Allora prendiamone una porzione, no?»
Il jingisukan era un piatto di carne di agnello cotto alla piastra e condito con una salsa a base di cipolle, verdure varie e altri ingredienti.
Nel giro di pochi minuti, ne fu servita in tavola una porzione molto abbondante e stracolma di condimento: era la classica pietanza che doveva far gola agli studenti pieni di energia di un liceo maschile.
«Buonissimo!» esclamò Tamaki, mentre raccoglieva il cibo dal piatto con la punta delle bacchette e ripensava agli avvenimenti delle ultime ore. «È stata una giornata strana, eh?» aggiunse dopo una breve pausa, trattenendo a stento una risata.
«Trovi?» ribatté Seiji.
«Sí. Tanto per cominciare, non avevamo in programma di venire a Ōsaka, no? Poi mi hai portata per la prima volta nel quartiere dove sei nato e cresciuto, e adesso addirittura nel ristorantino che frequentavi quando eri un adolescente. Si potrebbe dire che siamo nel bel mezzo di un piccolo viaggio sentimentale all’insegna della nostalgia, o sbaglio? Venivi qui al ritorno da scuola?» chiese alla fine Tamaki.
«Sí, ci venivo con i miei compagni di classe tra un cambio di treno e l’altro» rispose Seiji, lasciando vagare lo sguardo tutt’intorno e dopo aver fatto un tiro di sigaretta. «Però, pensandoci bene, ora mi risulta difficile dire che sono di Ōsaka, perché me ne sono andato quando avevo solo diciotto anni. Ho trascorso molto piú tempo a Tōkyō che non qui, tu lo sai».
«Certo, ma sei nato in questa città, in quel quartiere in riva al fiume. Da bambino era lí che giocavi e ti divertivi, abbandonando i gattini alla corrente e a chissà quale destino».
«Sí, andavo molto spesso al fiume… Mi piaceva, mi divertivo da matti. Però in quel punto era poco piú che un canale e puzzava da morire, ricordo che mi veniva sempre il voltastomaco. Ancora oggi, quando per un motivo o per l’altro penso a un fiume, mi viene subito in mente quel canale putrido e non il corso principale dello Yodogawa. A proposito, visto che siamo in tema di ricordi, c’era un tizio molto strano che lavorava con mia madre e a volte si fermava a casa per diverse ore: se solo lo vedevo, mi veniva il nervoso e restavo di cattivo umore per un bel pezzo. A dire il vero, non ho molti bei ricordi della mia infanzia».
«È normale, è piú o meno cosí per tutti. I bambini sono molto sensibili soprattutto agli eventi negativi e tendono a ricordarli piú di quelli belli e positivi. Neanche la mia infanzia è stata chissà quanto piacevole, te lo assicuro. Se ti va, la prossima volta ti mostrerò il posto dove sono nata. Che ne dici?»
«Sí, d’accordo».
Seiji fece una risatina e si versò dell’altra birra nel bicchiere. Allora Tamaki ricordò l’espressione di rimpianto che era emersa poco prima sul suo viso, quando erano nel quartiere sull’altra sponda del fiume, e le venne spontaneo chiedersi se avrebbe reagito anche lei allo stesso modo nel rivedere i posti della propria infanzia.
Di colpo squillò un cellulare. Era quello di Seiji, il quale chiese scusa e uscí fuori dal locale. Tamaki, rimasta sola, bevve un lungo sorso di birra e allungò adagio una mano a sfiorare il pacchetto che conteneva le due porzioni di ikayaki ormai fredde.
2
Ogniqualvolta Tamaki riandava con la mente al paesaggio dell’altra riva del Gange, le succedeva sempre di restare attonita. Avvolta nella bruma del mattino, l’altra riva aveva l’aspetto di una terra incolta e desolata che pareva estendersi all’infinito. Mentre la sponda dove era lei, fiancheggiata da magnifiche costruzioni e gremita di gente che pregava ad alta voce, era molto animata.
Tamaki e Seiji, varcando una “linea” dopo l’altra, si erano sentiti in obbligo di approssimarsi all’estremità ultima della loro storia d’amore. Alcune di quelle linee le avevano superate senza accorgersene, altre con una certa esitazione. E alla fine avevano attraversato il grande fiume che non consentiva loro di tornare indietro.
Ora, risalendo la corrente del tempo, Tamaki provava un senso di sfinimento al ricordo della vacuità che aveva percepito in India, quando si era fermata a contemplare quella landa desolata che si estendeva sull’altra riva del grande fiume. In quel preciso istante, le numerose linee che aveva varcato insieme a Seiji le erano apparse di colpo come un’unica successione di mere illusioni: i pomeriggi al cinema, il corso di yoga iniziato in primavera, le lunghe e lente passeggiate in un enorme centro commerciale delle Hawaii. Momenti intensi e pieni di gioia di vivere, tali da rendere di colpo insignificanti i piaceri del presente. Ma poi tutto era finito, come un sogno, un’illusione.
Anche Midorikawa Mikio, sua moglie Chiyoko e la sua amante X avevano senza dubbio attraversato un grande fiume ed erano approdati sull’altra riva, dove non restava altro da fare che voltarsi di continuo verso il passato, senza smettere di guardare il paesaggio desolato che avevano davanti e pensando al tempo che li separava dalla fine della vita terrena.
Era successo circa otto anni prima, in un giorno di primavera. Per sfuggire agli sguardi indiscreti, Tamaki e Seiji camminavano a breve distanza l’una dall’altro per le stradine laterali del quartiere di Nakano. Viuzze un po’ equivoche dove si susseguivano bar di vario genere, night club e ristorantini di rāmen. Tamaki aveva da poco preso in affitto un nuovo appartamento non lontano dal suo studio e stava andando a visitarlo insieme a Seiji. Era stato proprio quest’ultimo a insistere perché affittasse un alloggio piú grande, dal momento che lei si lamentava spesso dell’esiguità dello studio e ripeteva che aveva bisogno di piú spazio. Una volta, scherzando, le aveva detto chiaro e tondo: «Prendi in affitto un posto piú grande, che cosa aspetti? I soldi ce li hai, no? Altrimenti la gente penserà che sei tirchia e non comprerà piú i tuoi libri». Ma quando poi Tamaki era passata all’azione e aveva deciso di seguire il suggerimento, lui le aveva detto in tutta nonchalance: «Che bisogno c’era di affittare un appartamento? Lo studio non andava bene?». Roba da matti, a volte Seiji parlava a vanvera ed era impossibile riuscire a capirlo.
Tamaki, alquanto irritata dal suo comportamento a dir poco contraddittorio, camminava a passo rapido per lasciarlo indietro. E lui non faceva il minimo sforzo per raggiungerla: procedeva tranquillo alla stessa andatura, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, accontentandosi di seguirla a qualche metro di distanza. In quella scena, dietro i loro volti corrucciati, si celava come non mai la paura del cambiamento.
Seiji amava trascorrere il suo tempo nel piccolo studio dove Tamaki lavorava. Quando per esempio pranzava fuori, non mancava mai di passare da lei e di fermarsi il piú a lungo possibile. Aveva l’abitudine di sedersi come meglio poteva sullo striminzito divano per gli ospiti e di appoggiare il bicchiere di whisky sul tavolino del computer, pronto a discutere di vari argomenti. Apriva le buste con le riviste e i giornali che Tamaki riceveva quasi tutti i giorni, correggeva le bozze che si portava sempre dietro, leggeva i libri che trovava sugli scaffali. A volte si fermava fino al mattino seguente e dormiva sul divano-letto, lamentandosi della sua eccessiva durezza e delle molle di scarsa qualità. Quello studio era il suo secondo ufficio, un luogo che gli permetteva di sfuggire alla routine quotidiana e di lavorare con piacere.
Seiji lo trovava comodo, ma Tamaki aveva un’assistente, e perciò dovevano prendere le dovute precauzioni per mantenere una certa riservatezza. Quando lui si presentava all’improvviso e decideva di restare anche per la notte, al mattino Tamaki aspettava che andasse via e si dava da fare per rimettere tutto a posto e non lasciare tracce. Non era facile fare il bucato in fretta e furia e riporre le lenzuola e gli asciugamani senza dare nell’occhio. Per Tamaki era un vero grattacapo, ma Seiji non ci faceva caso e si concentrava come al solito sul lato piacevole delle cose. Una volta lei gli aveva rivelato che si prendeva la briga di andare a lavare le lenzuola in una lavanderia automatica a gettoni, e lui si era limitato a sfoggiare un ampio sorriso e a dichiararsi felice all’idea che se ne prendesse cura di persona. Allora Tamaki, sulle prime indispettita, gli aveva fatto notare che il tutto le costava tempo e fatica e che avrebbe dovuto mostrarsi perlomeno un po’ piú riconoscente. Ma in fondo Seiji era fatto cosí, e quel suo candore disarmante le piaceva molto. Piú che essere viziato, forse desiderava solo un posto speciale, un’oasi che fosse il piú possibile lontana dalla sua quotidianità. O almeno questo era ciò che pensava Tamaki.
Ben presto, gli incontri segreti allo studio di Tamaki erano diventati un’abitudine, anche se i suoi romanzi cominciavano a vendere abbastanza e la mole di lavoro era in costante aumento. A quel punto, il dubbio era: traslocare in uno studio piú grande o prendere in affitto un secondo alloggio? Tamaki esitava, ma Seiji l’aveva spinta a optare per la seconda soluzione.
«In che zona si trova?»
Seiji sembrava leggermente spaventato. Aveva un’espressione timorosa, quasi fosse preoccupato perché alla fine Tamaki aveva preso in affitto un appartamento riservato ai loro incontri clandestini. Eppure era stato lui a insistere! La nuova realtà lo metteva a disagio, poiché costituiva senza dubbio una prima “linea” molto importante e difficile da superare. Solo in quel momento Tamaki si rese conto di quanto fosse complicato per Seiji accettare la nuova situazione. In fondo per lei era stato tutto piú semplice, perché aveva già varcato la sua prima “linea” superando certi timori quando aveva acquistato il divano-letto che aveva collocato in un angolo dello studio, una cosa all’apparenza di poca importanza. Da quando Seiji era entrato nella sua vita, il fuoco della passione era scoppiato ed era diventato sempre piú ardente. Dopo aver a lungo tentennato, alla fine Tamaki aveva deciso di acquistare quel divano cedendo alle insistenze dello stesso Seiji, oltrepassando cosí la sua prima “linea”. Ora, a confronto con l’esitazione di quel primo passo, la decisione di prendere in affitto un nuovo appartamento si era rivelata quanto mai facile e razionale, dal momento che si trattava di una logica conseguenza della scelta precedente. Senza contare che avere un appartamento a disposizione era anche un modo per evitare che chiunque potesse vederli insieme nello studio di Tamaki e intuire la natura della loro relazione. In definitiva, l’apprensione di Seiji quel giorno a Nakano appariva a Tamaki assolutamente ingiustificata e le faceva sospettare una mancanza di complicità.
«Aspetta ancora un po’ e lo vedrai da solo. Ci siamo quasi».
L’appartamento non era lontano dallo studio ed era ormai in vista, ma Tamaki aveva preferito non anticipargli niente, voleva vedere che faccia avrebbe fatto. L’alloggio si trovava in una palazzina situata tra un locale a luci rosse e un love hotel. Seiji, come era prevedibile, fu attratto dall’insegna molto kitsch del locale a luci rosse e si fermò a guardarla. Entrambi avevano una certa predilezione per le zone chiassose e un po’ equivoche, e perciò Tamaki era quasi certa che Seiji avrebbe apprezzato la sua scelta.
«Eccoci, siamo arrivati» disse Tamaki arrestando il passo davanti all’ingresso della palazzina.
«Wow, è uno sballo!» esclamò Seiji.
Come lei si aspettava, il suo viso si era disteso in un’espressione di pura gioia.
«È il genere di posto che piace a te, no?»
«Certo, puoi dirlo forte!» rispose Seiji, guardando Tamaki con occhi colmi di felicità.
Si trattava di una palazzina di cinque piani con i muri esterni bianchi, il tetto rivestito di tegole blu e la facciata rossa, che accentuava non poco l’aria chiassosa e stravagante dell’insieme. L’atrio di ingresso era modesto ma ben pulito, anche se non c’era il portiere. In un angolo risaltavano le cassette metalliche della posta, molte delle quali con lo sportello completamente spalancato. Di fronte c’era un piccolo ascensore che poteva ospitare non piú di quattro persone.
Tamaki e Seiji salirono al quinto e ultimo piano. Al terzo, come indicava la targhetta sulla pulsantiera dell’ascensore, c’era un alloggio adibito a “sala di riposo” per i lavoratori di un noto ristorante della zona. Quella era l’unica targhetta leggibile: le altre, vuote o cancellate dall’usura del tempo, erano vecchie e sporche. L’appartamento che Tamaki aveva affittato era situato in fondo al ballatoio scoperto, illuminato dai raggi potenti del sole di aprile. Da lí, sporgendosi dal parapetto, era possibile scorgere l’ingresso del locale a luci rosse dell’edificio accanto. Seiji e Tamaki gettarono d’istinto un’occhiata all’interno, attraverso la porta a vetri viola resa trasparente dalla luce intensa del sole, e intravidero le gambe fasciate da sottili collant di alcune ragazze in attesa dei clienti.
Tamaki aprí la porta dell’appartamento con la chiave che aveva appena ricevuto dall’agenzia immobiliare. Le era piaciuto subito e aveva deciso di prenderlo già dopo la prima visita, per cui era solo la seconda volta che ci metteva piede. Si era stupita lei stessa della sua rapida e ardita decisione. La porta, rivestita da un pannello di compensato scurito dal sole, era resa rovente dai raggi che vi battevano direttamente.
«D’estate sarà un forno» commentò Tamaki mentre apriva la porta.
«Sí, puoi ben dirlo» concordò Seiji con aria poco entusiasta. Forse, in quel momento, immaginava di essere sotto il sole cocente dell’estate, in attesa che Tamaki aprisse la porta per fare l’amore.
L’appartamento era in pratica un monolocale: ingresso con angolo cottura, un piccolo bagno e un’unica stanza di circa dieci tatami. Vuoto, senza mobili, sembrava abbastanza ampio. Tamaki si mise a sedere sul parquet e si accese una sigaretta, utilizzando una vecchia lattina di birra come posacenere. Intanto Seiji andò ad aprire la portafinestra scorrevole e diede un’occhiata fuori: uno striminzito balcone si affacciava su una stradina laterale. Di fronte c’era una palazzina simile, con al pianterreno un izakaya di quelli molto popolari. A destra, spiccava un piccolo edificio che ospitava una tipografia e, al piano interrato, un locale notturno. Era facile immaginare che lí davanti, nelle ore serali, comparissero puntuali un paio di procacciatori di clienti che promettevano belle ragazze e divertimento a volontà. Infine, a sinistra, c’era l’ennesima palazzina a uso misto residenziale e commerciale, occupata dal pianterreno al secondo piano da un karaoke, e da alloggi in locazione nei restanti due o tre piani. A farla breve, l’appartamento si trovava nel bel mezzo di un caotico quartiere notturno. Per Tamaki si trattava di una nuova esperienza, non aveva mai abitato in un posto simile ed era molto eccitata, al pari di Seiji.
«Il posto è carino, mi piace» disse Seiji, chiudendo la portafinestra e avvicinandosi a Tamaki. Lei gli sorrise, gettò uno sguardo intorno e fece un sospiro. Era convinta che fosse stata una buona idea prendere in affitto quell’appartamento, ma non c’erano ancora le tende e neanche l’ombra di un mobile. Bisognava partire da zero, aveva un mucchio di cose da fare. Prima di tutto occorreva pensare alla mobilia e all’arredamento. Ma con una certa oculatezza, evitando di acquistare troppi pezzi, altrimenti sarebbe stato un problema sbarazzarsene in caso di necessità. Per cominciare, poteva portare lí il famoso divano-letto, che in fondo allo studio era d’ingombro, e limitarsi a prendere un tavolo nuovo e delle sedie. Naturalmente le servivano anche un telefono e un fax, visto che l’appartamento avrebbe fatto da secondo studio. Senza dimenticare le tende per le finestre e la tendina della doccia. E poi c’erano i piccoli accessori, quelli di cui non si poteva fare a meno, dal portasapone al calzascarpe. Anche puntando solo all’essenziale, arredare una casa richiedeva pur sempre tempo e fatica, oltre che denaro.
«Quant’è l’affitto mensile?» chiese di punto in bianco Seiji.
«Centotrentacinquemila yen» rispose Tamaki.
«Facciamo a metà?» le propose lui, dopo averci pensato un attimo.
«Ma no, non è il caso» disse subito lei.
«Sei sicura?»
«Certo. In fondo ho intenzione di utilizzarlo anche come secondo studio».
Seiji assentí con un sorriso, l’espressione sollevata. Tamaki era sorpresa di se stessa, non riusciva a capire perché avesse rifiutato in modo cosí categorico la collaborazione economica di Seiji. Si era data una gran pena per prendere in affitto quell’alloggio, in tutti i sensi. Aveva fatto il giro delle agenzie immobiliari, esponendosi in prima persona, e aveva dovuto chiedere a uno zio di farle da garante, secondo prassi. Tra le spese di agenzia, il deposito cauzionale e le mensilità a fondo perduto, aveva dovuto sborsare piú di ottocentomila yen. Senza contare che aveva perso un sacco di tempo. In circostanze normali, avrebbe chiesto alla sua assistente di occuparsi di tutto, ma stavolta per ovvie ragioni era stata costretta a fare da sola. Piú ci pensava e piú le sembrava assurdo che dovesse accollarsi tutte le spese, ma d’altra parte non voleva ricorrere all’aiuto di Seiji, non voleva che lui tirasse fuori un solo yen. Anche perché sapeva che in fondo non era disposto a farlo. E poi, visto che delegava tutto a lei e dava tutto per scontato, non era di certo facendogli pagare la metà di un affitto che avrebbe capito e apprezzato i suoi sacrifici. Perciò alla fine si era rassegnata e non gli aveva chiesto niente. Per una sua forma di orgoglio non parlava mai di soldi con lui.
«La prossima volta, vieni direttamente al nuovo appartamento, d’accordo?» gli disse piú tardi, mentre erano sulla via del ritorno verso lo studio.
«Sí, va bene».
Seiji sembrava turbato. Se allo studio ci andava anche in quanto editor di Tamaki, in quell’appartamento riservato agli incontri segreti ci sarebbe andato solo come semplice amante. La nuova situazione lo inquietava parecchio, glielo si leggeva in faccia. Anche Tamaki era preoccupata, aveva paura, ma preferí non dirglielo. D’altra parte quella era l’unica soluzione per alleggerire la tensione e proteggere il loro segreto. Ma perché era toccato a lei fare il passo? La risposta era scontata: perché lui non lo avrebbe mai fatto, e anche perché tra i due era lei quella che soffriva di piú della situazione.
Dopo che si furono salutati con la promessa di rivedersi quella sera stessa, Seiji si diresse alla casa editrice e Tamaki tornò al nuovo appartamento per prendere le misure per le tende. Le annotò su un pezzo di carta e, senza perdere tempo, andò in un negozio di arredi per la casa. Scelse il tessuto, il colore e firmò il modulo per l’ordinazione. Dopo di che passò al supermercato e comprò stracci e detersivi. Lasciò le buste con gli acquisti nell’appartamento e, approfittando dello slancio del momento, portò le lenzuola, le federe dei cuscini e gli asciugamani alla lavanderia automatica. A fine giornata, dopo un appuntamento di lavoro allo studio, era sfinita, non aveva neanche piú la forza di parlare. Era molto occupata e aveva un bel po’ di lavoro arretrato: in altre circostanze non si sarebbe mai sognata di complicarsi la vita in quel modo. Ma ora era diverso, sentiva il brivido di una nuova avventura, e l’idea di aver affittato quell’appartamento le dava la giusta carica per fronteggiare la stanchezza. Voleva pensare positivo e godersi il momento, anche se il tutto le costava denaro, fatica e preoccupazioni.
In serata, Seiji le telefonò e si diedero appuntamento al solito bar di Nakano. Si sentiva un po’ a disagio, forse perché, a differenza del solito, erano passate poche ore dal loro precedente incontro. Si guardarono in faccia e risero senza un motivo particolare, dopo di che ordinarono due birre alla spina e si misero a chiacchierare del piú e del meno. All’epoca, Seiji era tormentato da un problema sorto con un certo scrittore. Tuttavia non ne aveva ancora parlato con Tamaki. Quest’ultima, invece, aveva cominciato a pensare di scrivere anche per altre case editrici, senza dipendere solo da Seiji. Voleva provare a cavarsela con le proprie forze e a farsi strada da sola, anche perché non erano marito e moglie e non c’era nessuna garanzia che la loro storia potesse durare per sempre. Seiji sembrava aver intuito le sue intenzioni e non era granché contento. Nella sua veste di editor, spesso era turbato dal comportamento lunatico e bizzoso degli scrittori, tanto da arrivare a detestarli. E certe volte capitava che finisse per riversare il suo odio e la rabbia anche su Tamaki, prendendosela ingiustamente con lei. Il suo esordio letterario era abbastanza recente e non era ancora una scrittrice affermata, e talvolta lui criticava i suoi lavori con una durezza tale da spingerla sull’orlo delle lacrime. Lei aveva bisogno di un rapporto paritario per poter lavorare serenamente e crescere come scrittrice, il legame sentimentale con Seiji non doveva influire piú di tanto sulla sfera lavorativa, altrimenti non ne avrebbe cavato fuori niente di buono. In quel periodo, la loro relazione non si era ancora consolidata e non avevano ancora conquistato una fiducia reciproca.
«Ehi, non ti andrebbe di sapere come si sta di notte nel tuo nuovo appartamento?» le chiese Seiji, pieno di curiosità.
In realtà anche Tamaki aveva voglia di passare qualche ora in quell’appartamento, ma non c’era niente, era ancora spoglio.
«Sí…» rispose dopo averci pensato un po’ su. «Potremmo andare allo studio e prendere il materasso del divano-letto, che ne dici?»
Seiji rimase ammutolito, non si aspettava una proposta cosí audace. Ma Tamaki riuscí a convincerlo e a farsi seguire. E dire che a un certo punto aveva pensato di sbarazzarsi di quel divano, mai e poi mai immaginando che da un momento all’altro potesse rivelarsi tanto prezioso. Il materasso si rimuoveva con facilità dalla struttura e poteva essere appoggiato direttamente sul parquet. Non aveva senso acquistare un letto nuovo, avrebbe solo rischiato di creare problemi in futuro, vale a dire nell’eventualità di una rottura con Seiji. Naturalmente Tamaki si augurava che quel momento non arrivasse mai, ma preferiva essere previdente e agire con un minimo di razionalità.
Seguendo le direttive di Tamaki, Seiji prese il materasso, lo portò nel vano d’ingresso dello studio e lo mise fuori dalla porta. Poi lo trasportarono in due lungo l’angusto ballatoio esterno, Seiji in testa. Era piú alto e pesante di quanto Tamaki immaginasse.
«Questo materasso pesa come un macigno» si lamentò presto, incapace di tenerlo sollevato da terra. «Non ce la faccio piú».
Cosí toccò a Seiji caricarselo. Tanto meglio, in fondo era meno difficoltoso trasportarlo da solo, anche se era molto ingombrante. Se lo sistemò sulla schiena e partí a passo spedito nella notte, Tamaki che lo seguiva a un paio di metri di distanza. A quell’ora non c’era quasi nessuno in giro, per cui non diedero nell’occhio. Ma non appena misero piede nella zona dei ristoranti e dei locali notturni, Seiji diventò il centro dell’attenzione. Gli sguardi degli impiegati ubriachi e delle coppiette sottobraccio si concentrarono su di lui e sul materasso come fossero l’attrazione principale di uno spettacolo. «Che imbarazzo, che vergogna!» brontolava Seiji a denti stretti, ogni due o tre passi. Dopo oltre una decina di minuti di cammino e dopo essere passati davanti all’ingresso del locale a luci rosse della palazzina accanto, finalmente giunsero a destinazione. Per far entrare il materasso nell’ascensore lo misero in posizione verticale e inclinato, cosicché Seiji e Tamaki si ritrovarono come divisi da un paravento e nessuno dei due poteva vedere il viso dell’altro.
«Giuro che questa è la prima e l’ultima volta che mi costringi a fare una cosa del genere! Che figura, non lo dimenticherò per tutta la vita».
La voce di Seiji arrivava da dietro il materasso. Tamaki soffocò una risata e prese il mazzo di chiavi dalla borsa. E intanto, dall’altro lato, Seiji continuava a mugugnare.
«Io ti amo» le disse, bofonchiando.
«Anch’io ti amo».
Giunsero al quinto piano. La loro storia si stava evolvendo, ma cosa sarebbe successo da lí in avanti? Fin dove sarebbero arrivati, ora che avevano preso in affitto quell’appartamento e avevano superato una “linea” importante? Tamaki non ne aveva la piú pallida idea. Ma andava bene lo stesso, perché al momento tutto filava liscio ed era soddisfatta.
Uscirono dall’ascensore, si guardarono per un attimo negli occhi e scoppiarono in una risata. Non riuscivano piú a fermarsi, ridevano a crepapelle.
«Se qualcuno ci avesse visto per strada» disse Seiji mentre si asciugava le lacrime, «sarebbe stata la fine».
«Sí, è vero».
Tamaki tornò seria in un attimo e cominciò a tormentarsi. Una rivista di gossip aveva da poco pubblicato un articolo molto ironico sulla loro presunta relazione. E Seiji aveva commentato dicendo che stavano correndo un grosso rischio e che prima o poi qualcuno li avrebbe fotografati insieme. Si sentivano perseguitati ed erano diventati entrambi paranoici, ormai potevano fidarsi solo l’uno dell’altra.
«Dobbiamo stare molto attenti» disse Seiji, affrettandosi a portare il materasso all’interno dell’appartamento. Tamaki chiuse la porta e mise la catenella di sicurezza. Certo che attraversare quel quartiere cosí frequentato trascinandosi dietro un materasso a due piazze era stata una mossa tutt’altro che cauta. Tamaki stava per mettersi a ridere, ma si trattenne. Di colpo, figurandosi la struttura nera del divano-letto senza materasso nel suo studio, pensò piú convinta che mai che lei e Seiji avevano appena superato la “linea” piú importante e pericolosa da quando stavano insieme.
Quell’appartamento circondato da night club e locali a luci rosse si rivelò molto piú confortevole e accogliente di quanto Tamaki non avesse immaginato. Quando era lí si sentiva serena, soprattutto perché non doveva preoccuparsi, come invece succedeva nel suo vecchio studio, degli sguardi della sua assistente e delle persone con le quali aveva appuntamenti di lavoro, e finalmente aveva uno spazio tutto suo dove conservare gli oggetti personali e le lettere che non voleva che gli altri vedessero.
Presto anche Seiji cominciò a portare i suoi libri e i cd nel nuovo appartamento. Quel monolocale diventò tra l’altro il luogo dove potevano conservare il materiale relativo ai loro progetti di lavoro, un vero e proprio luogo di discussione dove dare forma ai romanzi di Tamaki. Inoltre quest’ultima continuava a svolgere gran parte del suo lavoro nell’altro studio, cosicché nel nuovo appartamento, dove aveva comunque provveduto a installare il telefono e il fax, poteva concedersi il lusso di trascorrere diverse ore a leggere tranquilla sdraiata sul materasso del divano-letto.
Durante il lungo ponte di inizio maggio, Seiji le propose di fare qualcosa insieme. Di solito, nei periodi di vacanze lunghe come l’Obon e il Capodanno, non si faceva mai vivo e non si vedevano, ma quell’anno le cose andarono diversamente e, una volta tanto, prese l’iniziativa. La sua famiglia era partita per un viaggio ed era rimasto da solo in città: aveva un bel po’ di tempo libero a disposizione. D’altronde, Seiji era uno di quei tipi che in certi momenti soffrono in modo particolare la solitudine. Quando per esempio era fuori città per lavoro, spesso chiamava Tamaki anche in piena notte.
«Perché non sei andato con loro?» gli disse lei al telefono.
«Non ne avevo voglia».
Era la prima volta che succedeva. Di norma tutti gli anni passava le vacanze con la famiglia a casa di amici.
Dopo la telefonata, Seiji si presentò da Tamaki con una sgargiante camicia hawaiana gialla. Non aveva messo il gel sui capelli: la frangia folta, che gli copriva una buona parte della fronte, lo faceva sembrare un altro.
«Ehi, quasi non ti riconoscevo!» esclamò Tamaki.
«A casa mia le camicie hawaiane e gli occhiali da sole sono banditi, perciò ho pensato di approfittarne» disse Seiji, senza pensarci.
«Perché? Invece secondo me stai molto bene» replicò Tamaki, storcendo le labbra in una smorfia.
In quel momento le venne spontaneo immaginare che Seiji fosse un buon padre. Cosí come lei era convinta di essere una buona madre. Eppure giocavano a fare i fidanzatini e se la spassavano in un vivace quartiere del vizio. Lí si concedevano l’illusione di vivere la vita con la massima intensità, anche se poi avevano entrambi una casa e una quotidianità alle quali fare ritorno. E quando, come in quell’occasione, capitava che si vedessero in un giorno festivo, quella sensazione di mordere la vita ed evadere dalla routine era piú che mai forte.
Uscirono sottobraccio a fare la spesa per il pranzo. Erano sereni e spensierati come in un giorno di vacanza. Quando rientrarono, notarono una motocicletta di grossa cilindrata posteggiata vicino alla porta a vetri del locale a luci rosse. Accanto alla moto, c’era un tizio col casco che fumava una sigaretta, il quale gettò loro un’occhiata rapida e distolse lo sguardo. Indossava uno di quei gilet da fotografo pieni di tasche, il che mise in allarme soprattutto Tamaki. Tuttavia lei e Seiji, ancora sottobraccio e senza scomporsi, entrarono di filato nel palazzo.
«Lo hai visto quel tizio?» chiese Tamaki. «Non era lí anche prima?»
«Non lo so, ma la cosa non mi piace» disse Seiji.
Tamaki ricordò di aver sentito dire che la gente che lavorava per le riviste di gossip girava spesso in moto, cosí da avere maggiore libertà di movimento. Paranoie e deliri di persecuzione a parte, la situazione iniziava a destare inquietudine. Seiji andò a dare un’occhiata senza farsi vedere e tornò agitando le mani, l’espressione angustiata.
«Non lo so, ma forse è meglio tornare su di nascosto, senza prendere l’ascensore. Se quel tipo è qui per noi, non dobbiamo assolutamente permettere che scopra qual è il nostro appartamento».
La serenità spensierata dei giorni festivi era ormai per Seiji e Tamaki solo un lontano ricordo. Si avviarono su per le scale a capo chino, in modo da non farsi riconoscere, e percorsero il ballatoio esterno che portava all’appartamento camminando piegati in due dietro il parapetto. Si erano lasciati suggestionare? Si stavano comportando come due matti? Poteva anche darsi ma, non potendo sapere chi fosse il tipo con la moto, preferivano agire con la massima cautela. Tamaki, che era davanti, aprí la porta senza fare rumore e sgattaiolò subito dentro. E Seiji, che la seguiva a breve distanza portando la busta con i bentō e le lattine di birra, fece altrettanto.
«Secondo te era qua fuori già da prima?» chiese non appena ebbe chiuso la porta.
Tamaki annuí. Il tizio si aggirava davanti al locale a luci rosse fin dal mattino. Ne era certa: lo aveva notato e aveva pensato che fosse un cliente.
«È pazzesco. Cazzo, come avranno fatto a trovarci?» disse in tono spazientito Seiji. Poi aprí adagio la porta di casa e si affacciò con cautela al parapetto per dare di nuovo un’occhiata in basso. «È ancora lí, non se ne va» fece rientrando, dopo aver tratto un sospiro. «Forse ha chiamato il fotografo e lo sta aspettando. Fanno sempre cosí: prima un giro di ricognizione in moto e poi chiamano i rinforzi. Certo che ne hanno di soldi da buttare, eh? Bastardi!»
Seiji sapeva quello che diceva, dal momento che in passato aveva lavorato per la stampa scandalistica.
«Sono disposti a investire del denaro su di me? Valgo cosí tanto?» chiese Tamaki, perplessa.
«Purtroppo sí, puoi giurarci» rispose Seiji scoppiando in una risata. «“Clamoroso doppio adulterio tra la scrittrice Suzuki Tamaki e il suo editor A!”: un titolo del genere non passerebbe inosservato».
«Tu dici? Secondo me non è di grande richiamo, non se lo filerebbe nessuno».
Seiji e Tamaki si guardarono negli occhi e si scambiarono un sorriso complice. Bisogna viverla cosí, non c’è altra scelta, pensò lei in quell’istante. Ormai avevano varcato la “linea” e dovevano andare avanti, insieme.
Tuttavia, circa sei mesi dopo, Tamaki decise di lasciare il nuovo “studio” accanto al locale a luci rosse. Perché l’anziana proprietaria, che si occupava anche delle pulizie della palazzina, era troppo curiosa. Tutte le volte che incrociava Tamaki, la squadrava da capo a piedi e la guardava fisso negli occhi, come se volesse sottoporla a un interrogatorio. A quanto pareva, l’impiegata dell’agenzia immobiliare le aveva riferito che la nuova inquilina era una nota scrittrice. E l’anziana signora non perdeva mai occasione di spiare i movimenti di Tamaki. Guarda caso, si dilungava tutti i giorni nelle pulizie del ballatoio del quin-to piano, quasi fosse un agente segreto in incognito. Era irritante, Tamaki non la sopportava. E piú di una volta, uscendo di casa al mattino, lei e Seiji se l’erano ritrovata davanti.
Dopo qualche tempo, Tamaki aveva ricevuto una telefonata dall’agenzia immobiliare. Le proponevano di trasferirsi in un altro alloggio, in una palazzina alle spalle della prima: l’affitto era piú caro, ma il livello di sicurezza era maggiore, grazie a un sistema di videocitofono e al portone automatico. «Gli dia almeno un’occhiata, le assicuro che non se ne pentirà» le aveva detto l’agente immobiliare. E lei, al colmo dell’esasperazione, aveva deciso di seguire il suggerimento. Non ne poteva piú della proprietaria ficcanaso, desiderava un po’ di privacy.
Il nuovo appartamento si trovava giusto di fronte a un love hotel. Dal ballatoio esterno, era facile vedere uomini di pelle scura intenti a pulire le camere e rifare i letti. L’alloggio era nuovo e appena un po’ piú piccolo di quello precedente. Ma essendo esposto a nord era immerso nella penombra al pari di un antro sotterraneo, il che non dispiaceva affatto a Tamaki, la quale in quel momento era piú che altro alla ricer-ca di una sorta di nascondiglio. Come aveva temuto, nei mesi estivi l’appartamento vicino al locale a luci rosse era caldo e afoso come una sauna, e neanche il condizionatore al massimo bastava a rinfrescarlo a dovere. Invece quest’ultimo era l’esatto opposto, e in piú gli accessori della stanza da bagno e della cucina erano nuovi di zecca e di ottima qualità. Mentre si guardava intorno, pensò che avrebbe potuto rintanarsi lí anche per scrivere. Poteva essere per davvero il suo secondo studio, uno spazio estremamente privato.
«Ho deciso di traslocare nella palazzina alle spalle di quella attuale» disse a Seiji, a cose ormai fatte.
«Perché? Non ti trovi bene dove sei adesso?» obiettò lui. «Il posto è bello, mi piace un sacco».
«Sí, ma la proprietaria mi fissa sempre con quello sguardo insolente, come se sapesse tutto di me e di noi, non la sopporto piú».
Seiji non fece alcun commento in proposito, lui che si era mostrato cosí nervoso in occasione dell’episodio dell’uomo con la motocicletta. Andava da Tamaki in media una o due volte a settimana e gli capitava di incrociare la vecchia ficcanaso solo di rado, per cui era una faccenda che non lo riguardava. Tamaki era convinta che la sua reazione fosse dovuta solo a questo, ma preferí non dirglielo per evitare discussioni.
Sborsò ancora una volta una barca di soldi per le spese di agenzia, la cauzione e le mensilità a fondo perduto, dopo di che fece sgombrare l’alloggio accanto al locale a luci rosse e si trasferí in quello piú lussuoso di fronte al love hotel. Trattandosi di un nuovo appartamento, aveva superato un’altra piccola “linea”. E una volta che aveva superato una nuova “linea”, per quanto piccola e insignificante, Tamaki guardava avanti senza mai voltarsi indietro.
Per la portafinestra scorrevole del balcone decise di utilizzare le stesse tende di prima, che per fortuna si adattavano bene. Ma in prossimità dell’angolo cottura c’era una finestra fissa ad altezza d’uomo che bisognava assolutamente schermare: andò allo stesso negozio della volta precedente e acquistò delle ten-dine a vetro di colore scuro, che proteggevano dalla luce e da possibili occhi indiscreti. Piazzò il tavolo con le sedie contro la portafinestra e sistemò il famoso materasso in un angolo della stanza. Avendo, oltre al tavolo e alle sedie, anche un piccolo frigorifero e altri accessori, aveva preferito rivolgersi a una ditta di traslochi.
«In tanti anni di lavoro non mi era mai capitato un trasloco cosí strano» le disse con aria perplessa il tizio della ditta, un uomo che aveva abbondantemente superato la sessantina. «Tra lí e qui ci sono solo poche decine di metri, personalmente non ci vedo nessuna differenza».
La distanza tra le due palazzine era davvero minima, bastava attraversare una strada. Era legittimo concludere che si trattasse di un puro capriccio. Forse Seiji aveva addirittura pensato che Tamaki si fosse lasciata intortare dall’agente immobiliare. Ma lei, dopo l’episodio del tizio in motocicletta e l’invadenza della proprietaria dell’alloggio precedente, aveva perso la tranquillità e non aveva potuto fare a meno di compiere quel passo, per quanto breve e forse non del tutto efficace. D’altra parte, un’eventuale fotografia scattata di nascosto e pubblicata su qualche rivista da quattro soldi non avrebbe ritratto solo lei, ma anche Seiji. Correva pure lui lo stesso rischio! A impensierirla piú di ogni altra cosa e a spingerla a traslocare era stato senza dubbio il timore che qualcuno avesse individuato l’appartamento e potesse spiare i loro movimenti.
Seiji era di cattivo umore quando andò a trovarla per la prima volta nel nuovo alloggio.
«Uhm, non è male qui» le disse sedendosi su una sedia. Ma a Tamaki non sfuggí l’espressione contrariata che era emersa sul suo viso, mentre teneva lo sguardo rivolto alle spesse tendine di merletto della cucina.
«Che cos’è che non ti piace?»
«Niente! Ti ho detto che non è male, no?»
Il problema, forse, era che Seiji non aveva voglia di varcare altre “linee”. Era esattamente questo ciò che pensò Tamaki in quel momento. Fino a poco prima non faceva una piega quando si trattava di andare da lei in quel misero monolocale incastrato tra una miriade di night club e locali a luci rosse di infimo ordine, e invece ora si permetteva di fare il difficile nonostante l’appartamento fosse molto piú carino ed elegante. Tamaki sentí affiorare dentro di sé una tristezza enorme e al contempo una rabbia incontenibile nei confronti di un simile egoismo.
3
Oltre la porta spalancata, Tamaki vide ammassate numerose scatole di cartone. Ce n’era una montagna, erano cosí tante che ostruivano l’accesso alla stanza da bagno e non consentivano di mettere piede nell’appartamento. Dando un’occhiata dal ballatoio, si chiese stupefatta come potesse starci tutta quella roba nel suo piccolo studio. Al di là delle pile di scatoloni, sentí il rumore di nastro adesivo che veniva srotolato con energia. Evidentemente Erie, la sua assistente, stava imballando dei pacchi. Da fuori, le disse ad alta voce: «Grazie mille per l’aiuto!».
Erie fece capolino da dietro gli scatoloni, si aggiustò gli occhiali sul naso con la punta dell’indice e la salutò con voce strascicata: «Buongiorno». Aveva un berretto di lana e una vistosa mascherina per proteggersi dalla polvere. Le lenti degli occhiali erano tutte appannate per via di quella mascherina che le copriva naso e bocca. Tamaki le aveva affidato il compito di occuparsi da sola del trasloco. Si inchinò come fosse un ospite che entrava in casa d’altri e si aprí pian piano un varco tra le scatole di cartone.
«Ha ricaricato il cellulare?» le chiese Erie, in tono leggermente preoccupato. Al che Tamaki si limitò a fare di sí con la testa. «Ne è sicura? Il signor Abe ha telefonato qui diverse volte chiedendo di essere richiamato. Ha detto di aver provato invano a raggiungerla al cellulare. A dire il vero, ci ho provato anch’io, ma senza riuscirci».
«Ah, che strano…»
In realtà non c’era niente di strano, Tamaki stava facendo la gnorri. Il suo cellulare era fuori uso, la sera prima lo aveva scagliato contro il muro di casa e lo aveva fracassato.
«In ogni caso, forse dovrebbe telefonargli. Pare si tratti di un’intervista o qualcosa del genere, è urgente».
Bugiardo, ma quale intervista?!, pensò tra sé e sé Tamaki. Constatando che la sua datrice di lavoro se ne restava ferma e immobile, Erie si avvicinò al telefono con fax, appoggiato in equilibrio precario su uno degli scatoloni, e compose di sua iniziativa il numero di Seiji.
«Buongiorno, la signora Tamaki è appena arrivata, gliela passo subito».
Dopo il gesto inaspettato e le parole molto formali di Erie, Tamaki si sentí in obbligo di prendere il ricevitore. Ma il cavo dell’apparecchio era corto e per parlare fu costretta a restare china per tutto il tempo. «Eccomi, sono io» disse, la schiena piegata quasi in due. Dopo di che, all’altro capo della linea, sentí Seiji emettere un sospiro di sollievo.
«Si può sapere che cosa è successo? È da ieri sera che sto cercando di mettermi in contatto con lei, avrò provato a chiamarla come minimo dieci volte. Ho persino temuto che le fosse successo qualcosa».
Seiji non doveva essere solo, ecco perché le si rivolgeva dandole del lei. Anche se la formalità con cui si esprimeva era contraddetta in pieno dal tono impaziente della voce.
«Non è successo niente. Mi dispiace di averla fatta preoccupare» rispose con studiata esitazione Tamaki.
Stupita dalla spudorata lentezza delle proprie parole, lasciò vagare lo sguardo da un angolo all’altro del suo piccolo studio. Finí col pensare a dettagli che non avevano niente a che fare con lei e Seiji, come la sveglia che giaceva dimenticata in fondo a uno degli scaffali della libreria, o i libri che aveva preso in prestito e messo da parte e che forse Erie aveva impacchettato insieme a tutti gli altri.
«Oggi è il giorno del trasloco?» le chiese Seiji.
«Sí. Gliel’ho detto che ho trovato un nuovo appartamento in un bel palazzo, no?»
«Ah, già, è vero. E l’altro lo lascia?»
Seiji aveva abbassato la voce. Si riferiva al secondo appartamento riservato ai loro incontri clandestini, quello di fronte al love hotel.
«Credo di sí».
«Finisco di lavorare e vengo a darle una mano».
«No, non si preoccupi, ho già chi mi aiuta. La ringrazio per la gentilezza».
Dopo quella semplice frase di circostanza, Tamaki riagganciò. Aveva preso la sua decisione già da un pezzo, e ormai parlarne con Seiji le costava solo fatica. Era esausta. Se avesse potuto, si sarebbe infilata nel letto e avrebbe dormito per due giorni di seguito. Si sentiva spossata al punto da non voler pensare a niente, ma al contempo era felice come una bambina. Incrociò lo sguardo di Erie, la quale la guardava con occhi colmi di ansia. Sembrava preoccupata per il suo aspetto. Tamaki indossava una vecchia giacca di pile rossa piena zeppa di pallini e una gonna nera lunga alla caviglia. Aveva attraversato a piedi il quartiere dei locali notturni ed era arrivata al vecchio studio in quella miseraffazzonata, per di piú calzando dei brutti e rumorosi zoccoli di legno. Di solito usava quel tipo di abbigliamento in casa e non si azzardava mai a mettere il naso fuori conciata in quel modo. La sera prima, impegnata fino a tardi con i preparativi per il trasloco, si era addormentata con quegli abiti addosso e il mattino seguente, senza neanche cambiarsi e truccarsi, era uscita in tutta fretta e si era diretta al vecchio studio. Camminare in una zona affollata e piena di negozi nei pressi di una stazione con indosso i vestiti di casa non rientrava di certo tra le sue abitudini. La morsa che le serrava il cuore si era forse allentata?
«Oggi verrà anche il signor Abe?» le chiese un po’ impacciata Erie.
«Non lo so» rispose Tamaki, inclinando il capo da un lato. «Forse lo ha detto tanto per dire, come suo solito».
Erie ebbe un sussulto e la fissò in volto. Era facile intuire che avrebbe voluto chiederle che cosa fosse successo e se potesse rendersi utile, ma era lí che esitava, sapendo che non era nella posizione di rivolgerle una domanda del genere. Ci pensò la stessa Tamaki a toglierla dall’imbarazzo, cambiando subito argomento.
«Allora, posso contare sul suo aiuto per il trasloco? Può farmi la cortesia di restare qui per controllare che tutto vada bene?» le chiese.
«Ma certo, ci conti pure» rispose Erie, la voce un po’ strozzata.
Senza aggiungere altro e senza neanche guardarla negli occhi, Tamaki lasciò in fretta lo studio. Suo malgrado, aveva finito col sentire la voce di Seiji. E ne aveva ricavato una sensazione molto sgradevole, come quando si respira il fumo della sigaretta di un’altra persona mentre si sta cercando di smettere di fumare.
Tamaki aveva preso una decisione definitiva: rompere una volta per tutte con Seiji. Sapeva che non sarebbe stato facile e temeva fortemente di non riuscirci, ma era determinata ad andare fino in fondo. Doveva mettere da parte qualsiasi scrupolo e mollarlo, non doveva lasciarsi ingannare dalle sue moine. Gli eventi che si erano consumati di recente l’avevano fatta rinsavire, costringendola di colpo a vedere Seiji sotto un’altra luce. L’amore si era tramutato in odio, e la fiducia in sfiducia. Tutto le sembrava futile e insensato, si sentiva invadere sempre piú da una voglia irrefrenabile di lasciar perdere ogni cosa. E al fondo di tutto c’era una tristezza infinita, un abisso desolato in cui sprofondava.
Nel secondo appartamento, avevano iniziato a discutere sempre piú spesso. Seiji continuava a farsi vivo di frequente, con una certa regolarità, ma ultimamente si mostrava cinico e parlava molto dell’importanza della famiglia. Tutte le coppie, dopo una lunga frequentazione, attraversano dei momenti difficili, ma forse loro erano giunti a un punto morto. Seiji glielo aveva detto chiaramente: «Il nostro rapporto non porta da nessuna parte». Le aveva ripetuto piú volte che, se si fossero incontrati prima, forse tutto sarebbe stato diverso e avrebbero potuto compiere un vero percorso insieme. I suoi discorsi erano sempre molto vaghi, non le dava mai delle spiegazioni valide e razionali, ma si limitava piú che altro a ripetere fino alla noia che le loro strade si erano incrociate troppo tardi e non portavano da nessuna parte. E che l’unica soluzione era continuare a frequentarsi come avevano fatto fino ad allora, vivendo il rapporto alla giornata e senza pretendere di cambiare alcunché.
«E questo, secondo te, sarebbe amore?» le aveva chiesto una volta Tamaki.
«Certo che sí».
«Ma siamo come due piante dalle radici aeree… Secondo te è possibile andare avanti cosí?»
A quelle parole, Seiji si era lasciato sfuggire un sorriso ironico.
«In che senso? Non capisco».
«Non hai mai sentito parlare di quelle piante le cui radici si sviluppano al di fuori del terreno? Noi due siamo come loro, ecco».
Tamaki capiva che Seiji ne aveva abbastanza e che non sopportava piú quel suo modo di parlare per metafore. Ma anche lei non ne poteva piú di lui, era affranta e stremata. Solo che non riusciva a gridarglielo in faccia, perché era troppo amareggiata e le sembrava tutto cosí insulso. Seiji aveva completamente trasformato la loro relazione. Per quanto tempo ancora potevano resistere in quel mondo ormai sottosopra?
Tamaki aveva reagito con prontezza alla situazione e, all’incirca un mese dopo, aveva acquistato un appartamento in un palazzo di nuova costruzione nei pressi dell’uscita Sud della stazione di Nakano. Di conseguenza aveva deciso di lasciare senza alcuna esitazione il monolocale destinato agli incontri segreti con Seiji. Era come se il suo istinto di sopravvivenza, messo in allarme dal pericolo di una violenta e sconosciuta crisi psicologica, le avesse gridato: «Presto, devi scappare via!».
«Erie, ha presente quel palazzo che stanno costruendo vicino all’uscita Sud della stazione?» aveva detto in quei giorni alla sua assistente. «Ho appena comprato un appartamento e, non appena tutto sarà pronto, ho intenzione di trasferire lí lo studio».
«Ah, che splendida notizia!» aveva replicato sorpresa Erie. «Ha già visto un appartamento finito? Non sarebbe stato meglio aspettare ancora un po’?»
«Ne ho visto uno, una sola volta».
«Mmh, una casa è un acquisto impegnativo, è sicura di non aver agito di fretta? Di solito, si valutano varie opzioni e ci si prende il tempo necessario per decidere con calma».
Tamaki sapeva che Erie aveva ragione. Ma in quel momento le interessava solo scappare. Non voleva piú avere due appartamenti, uno per il lavoro e l’altro per gli incontri con Seiji, era stanca di amare quell’uomo. Non sopportava l’idea di aver fatto un passo piú di lui. Ormai era evidente: il peso del rapporto gravava solo sulle sue spalle. Non era giusto, non si poteva andare avanti cosí. Quanti bocconi amari aveva dovuto mandare giú? Quante volte si era astenuta dal dirgli quello che pensava?
Finalmente, dopo aver lasciato il monolocale di fronte al love hotel, aveva provato un senso di sollievo. Ora toccava a lui muovere un passo e sentire il peso della situazione sulle spalle. L’aveva fatta franca per troppo tempo. E siccome mai e poi mai gli sarebbe saltato in mente di prendere in affitto un nuovo alloggio, la loro storia poteva anche finire lí. Perché non gli avrebbe mai permesso di mettere piede nell’appartamento che aveva appena acquistato. Era stato lui a spingerla a varcare quella “linea”, ma poi aveva rinunciato a seguirla e l’aveva lasciata sola, tradendo le sue aspettative.
Quando lo aveva messo al corrente dell’acquisto della casa, Seiji era apparso sconvolto.
«Perché non mi hai detto niente? Perché non hai chiesto il mio parere?» le aveva detto, gli occhi fuori dalle orbite.
«Mi dispiace, ma ho preferito decidere da sola».
«E l’altro appartamento?»
«Sono già stata in agenzia e ho disdetto il contratto d’affitto. Posso starci ancora per un mese. Se vuoi, puoi pensarci tu a prenderne un altro».
«Certo, è quello che farò!» aveva replicato Seiji serio, messo con le spalle al muro dalla determinazione di Tamaki.
Lei si era limitata a guardarlo negli occhi con aria di sfida. Credeva fosse inutile ribattere con frasi del tipo «Bene, fallo!», perché sapeva che non sarebbe mai stato capace di prendere un’iniziativa del genere. Quelle di Seiji erano parole buttate al vento, quell’uomo non aveva la volontà necessaria per prendere una decisione drastica. Gli conveniva non agire, e in ogni caso non aveva la forza per cambiare le cose. Nei giorni successivi fece il giro delle agenzie immobiliari alla ricerca di un monolocale ma, guarda caso, il risultato era sempre lo stesso: uno non andava bene perché era troppo piccolo e vecchio, un altro era rumoroso, un altro ancora era lontano dalla stazione e cosí via. E naturalmente stava sempre attento a fare a Tamaki il resoconto dettagliato dei mille difetti che riscontrava, sommergendola di lamentele quasi a volerla sfinire.
«Ammesso che si riesca a trovare qualcosa di decente» le aveva detto nel corso di una delle numerose discussioni, «ci sarebbe il problema delle consegne: se per esempio si compra un frigorifero o qualcos’altro, ci deve pur essere qualcuno in casa, no? E io, col mio lavoro, non posso rendermi facilmente disponibile».
«Eppure io l’ho fatto, e per ben due volte! Pensi forse che io abbia tempo da perdere e che il mio lavoro non mi tenga abbastanza impegnata?» aveva replicato stizzita Tamaki.
Seiji si era ammutolito all’istante e non aveva piú tirato in ballo l’argomento. Fine della breve ricerca dell’appartamento. Da quel momento, Tamaki aveva avuto la netta sensazione che Seiji si stesse allontanando da lei, ora che il suo atteggiamento nei suoi confronti era cambiato.
Tra un battibecco e l’altro, i lavori del nuovo appartamento di Tamaki erano stati ultimati. Dopo il sopralluogo finale, nonostante tutto, lei aveva cercato di stabilire di comune accordo una data per il trasloco, ma Seiji aveva continuato a tergiversare e a rimandare accampando ogni volta un pretesto diver-so. Che cosa aveva in testa? Se non aveva voglia di collaborare, perché non lo diceva chiaro e tondo? Tamaki era fuori di sé, non ne poteva piú di dover sconvolgere i suoi programmi a causa del comportamento di Seiji. Tanto piú che ormai sapeva perché agiva in quel modo. Preferiva non muovere un dito sperando che facesse tutto lei come al solito. Ma se voleva tirarsene fuori, doveva avere il coraggio di non farsi piú vivo: ormai era cosí che la pensava Tamaki. Aveva aperto gli occhi una volta per tutte, e stentava a credere di essere stata cosí stupida da lasciarsi soggiogare tanto a lungo. Non era piú disposta a dare le chiavi del suo mondo a un uomo del genere.
In un accesso di collera, mentre era nel vecchio appartamento alla vigilia del trasloco, Tamaki aveva afferrato le tendine della piccola finestra dell’angolo cottura e le aveva strappate con forza. Si era sentita invadere da uno strano piacere nel vedere l’orlo merlettato lacerarsi producendo uno stridio sordo. Poi le erano riaffiorati alla mente la frenesia e il nervosismo che aveva provato quando le aveva acquistate ed era sprofondata di nuovo nello sconforto. Sembrava tutto cosí vacuo e inutile, aveva la sensazione di aver perso solo tempo. E al pensiero che Seiji non condividesse la sua stessa disperazione, si sentiva ancora piú esasperata e avvilita. Alla fine si era decisa a telefonargli e a dirgli tutto quello che pensava, ma purtroppo aveva trovato la segreteria telefonica.
Ecco il messaggio che gli aveva lasciato: «Non posso aspettarti in eterno, cosí non risolviamo niente. Ho deciso di fare il trasloco domani. Ora puoi anche dimenticarmi».
Dopo, era rimasta immobile per qualche secondo, lí a fissare il cellulare stretto nella mano destra. Adesso non le restava che attendere la risposta al messaggio. Ne aveva abbastanza, la sua pazienza era ormai arrivata al limite. Non voleva ritrovarsi prigioniera di Seiji. O meglio, non voleva restare ingabbiata chissà per quanto tempo ancora nella relazione che avevano costruito insieme. Non aveva nessuna intenzione di restare sola e abbandonata nel mondo desolato che si estendeva al di là dell’ultima “linea” che solo lei aveva varcato. Sentiva il bisogno di fuggire altrove, il piú in fretta possibile. E, mentre rifletteva, aveva scagliato con forza il telefonino contro la parete. Sulla carta da parati plastificata, che il proprietario si vantava di avere da poco sostituito, era rimasto un segno evidente. Il cellulare era rimbalzato con violenza sul pavimento e si era frantumato. E quando Tamaki lo aveva raccolto da terra, come c’era da aspettarsi, non funzionava piú. Una relazione amorosa distrutta insieme a un telefono cellulare. Senza volerlo, aveva preso ad accarezzare con la punta delle dita quel piccolo e innocuo apparecchio che non c’entrava niente. E cosí, al di là della tristezza, aveva cominciato a provare anche un senso di liberazione. Basta, ora abbiamo chiuso per sempre!, continuava a ripetersi tra sé. È finita!
Quella notte, mentre imballava un pacco dopo l’altro, aveva bevuto da sola brindando alla decisione che finalmente aveva preso. «Non lasciarti imprigionare, sei una donna libera» mormorava tra sé e sé. «Devi rinascere e vivere una nuova vita!» Esausta nel fisico e nella mente, si era poi messa a osservare lo spettacolo della vita notturna di Nakano attraverso le tendine di merletto ridotte a brandelli. Qua e là brillavano le insegne al neon dei bar e dei locali notturni, era tardi, si spegnevano una dopo l’altra. Regnava ormai l’oscurità e di lí a poco sarebbe sorta l’alba. Ed ecco che erano spuntati i primi raggi del sole e il cielo si era colorato di un rosa pallido, annunciando l’arrivo di un nuovo e tardivo mattino invernale. Poi, quando i primi corvi erano apparsi sulla strada e avevano cominciato a far sentire il loro grido spettrale, Tamaki aveva aperto le ante inferiori della credenza e i cassetti e aveva iniziato a riempire un paio di scatole di cartone con documenti, fotocopie, riviste e fotografie. Aveva avvolto nella carta di giornale le poche stoviglie in suo possesso e le aveva messe con cura in un sacchetto di carta. Quante volte aveva traslocato negli ultimi sei mesi? Nel pensarci, non poté fare a meno di increspare le labbra in un sorriso amaro. Dopo aver finito di imballare tutti i pacchi, era andata a stendersi per un’ultima volta sul materasso che lei e Seiji avevano trasportato insieme per le strade del quartiere e che ora aveva intenzione di buttare. A quel pensiero, finalmente i tratti del suo viso si distesero e si lasciò prendere dal sonno.
Seiji si fece vivo dopo che Tamaki era stata allo studio ed era rientrata nell’appartamento. Stringeva una sigaretta tra le dita e indossava un pesante cappotto blu scuro, che lei era solita chiamare “il cappotto della polizia di frontiera”. Quella mattina la temperatura era scesa sottozero. La nuvola di vapore che fuoriusciva dalle sue labbra insieme al fumo della sigaretta era bianchissima.
«Ah, sei venuto?»
«Certo, perché ti stupisci? Mi hai fatto preoccupare. Mi lasci un messaggio in cui mi dici “Ora puoi anche dimenticarmi”, come se tra noi non ci fosse piú niente… Yumi-chan, sei terribile, non credi di esagerare? Dài, pensa a quanto ci vogliamo bene».
Era nel suo stile, tentava subito la carta delle lusinghe.
«Smettila! Quando una donna sta per sfuggirti, le corri dietro per non perderla, eh?»
Tamaki abbozzò un sorriso freddo e si mise a scattare alcune foto dell’appartamento con la sua fotocamera digitale: il solco lasciato dal cellulare sulla carta da parati; i resti delle tendine di merletto; i cumuli di polvere negli angoli della stanza, sulla moquette che per tre mesi non aveva mai beneficiato dell’aspirapolvere. Aveva un mal di testa terribile a causa della mancanza di sonno.
«Perché, ti stai allontanando da me?» le chiese Seiji aggrottando le sopracciglia, afferrandola per la giacca di pile rossa.
«Non lo so, tu che dici?» rispose Tamaki senza ten-tare di divincolarsi, limitandosi a inclinare dubbiosa il capo da un lato. Voleva evitare ogni malinteso. Voleva fargli capire che non stava fuggendo da lui, ma dal loro rapporto ormai logorato che la teneva in trappola. Puntò l’obiettivo della fotocamera su Seiji e inquadrò il suo volto, sul quale campeggiava un sorriso infantile.
«Perché stai scattando tutte queste fotografie?»
«Per ricordo. Perché non prenderò mai piú un appartamento in affitto».
«In che senso? Che vuoi dire?»
Seiji la guardava con il fiato sospeso. E Tamaki emise un lungo sospiro prima di replicare.
«Quello che ho detto…» rispose in tono afflitto. «Non prenderò mai piú un appartamento in affitto in tutta la mia vita».
Di colpo Seiji si adombrò e il suo viso divenne una maschera malinconica e dolente. Non disse niente, trasse solo un profondo sospiro e abbassò la testa. Forse in quel momento era anche lui triste e disperato e provava al contempo un senso di liberazione, solo che non era facile leggerglielo in faccia.
«Buongiorno!» dissero ad alta voce i traslocatori, presentandosi all’improvviso alla porta. Erano in due, entrambi sulla ventina e con i capelli lunghi. Avevano lo stesso sorriso giocondo stampato in faccia, come fossero in preda a uno stato di euforia immotivata.
«Questo è tutto?» dissero a bassa voce guardandosi l’un l’altro, perplessi di fronte all’esiguità dei bagagli da trasportare. In mezz’ora circa portarono via il tavolo, i libri e tutto il resto. Infine si avvicinarono al materasso.
«No, quello no» disse Tamaki. «Devo liberarmene, non serve piú».
«Vuoi che me ne occupi io?» intervenne Seiji con aria sconsolata.
«Sí, grazie. Puoi portarlo qui dietro, nell’apposito spazio per i rifiuti».
Per qualche attimo si domandò se fosse il caso di accompagnarlo, ma sapeva che non doveva cedere ai rimpianti. Cosí lasciò che ci andasse da solo e si ritrovò a contemplare l’appartamento vuoto. Aveva le lacrime agli occhi, era emozionata al ricordo dell’entusiasmo che aveva provato quando aveva preso in affitto quel monolocale, appena tre mesi prima. Si era sentita al settimo cielo, presa da un’eccitazione speciale che solo lei poteva capire. Era cosí felice di poter preservare il suo segreto, in quell’appartamento molto piú tranquillo di quello precedente. Le piaceva molto, e tra l’altro era anche nuovo.
«Ecco fatto, l’ho buttato» disse Seiji, che intanto sembrava aver socializzato con i traslocatori.
«La scattiamo qui la foto ricordo?» gli chiese uno dei due, indicando la fotocamera di Tamaki. Al che Seiji, ridacchiando e senza dire niente, afferrò Tamaki per un braccio e la tirò a sé. L’uno accanto all’altra nel ballatoio esterno, a braccia conserte, guardarono fisso nell’obiettivo abbozzando un sorriso artefatto. Il giovane traslocatore scattò due foto a breve distanza l’una dall’altra, per sicurezza. Dopo, guardando il display della fotocamera, Seiji e Tamaki si accorsero che in entrambi gli scatti c’era un uomo mediorientale alle loro spalle, forse un addetto alle pulizie. Il tizio aveva sporto la testa da una delle finestre del love hotel di fronte e li osservava tutto divertito.
Nel palazzo di nuova costruzione dove Tamaki stava per trasferire il suo studio, tutto procedeva per il meglio. Erie aveva chiesto aiuto a due amiche e insieme si davano un gran da fare, come fossero una squadra ben affiatata. Per non destare inutili sospetti, Tamaki disse che aveva portato da casa il tavolo e le sedie che in realtà provenivano dall’appartamento degli incontri segreti. Ci pensarono lei e Seiji a sistemarli in un angolo, precisando che sarebbero serviti per le riunioni. Poi, da sola, ripose con cura sugli scaffali i libri, le riviste e i documenti di lavoro. Una giornata non bastava per mettere tutto in ordine, perciò Erie e le sue amiche si diedero appuntamento per l’indomani mattina e andarono via.
«È nuovo ed è molto accogliente, complimenti. Ed è anche bello ampio» commentò Seiji con voce squillante, guardandosi in giro, mentre tutt’intorno aleggiava un odore gradevole di legno nuovo. Tamaki era su di giri, felice di ripartire da zero. Ma aveva ancora qualcosa di molto importante da dire a Seiji.
«Senti, Sei-chan…» Seiji, che intanto stava sorseggiando una lattina di birra, si voltò di scatto verso di lei. «Credo sia meglio che tu non venga piú qui…» Seiji rimase impietrito e abbassò la testa. «Ci ho riflettuto a lungo, ma se davvero è impossibile, allora è meglio smettere».
«Che cosa è impossibile?»
Il comportamento di Seiji era inammissibile, stava eludendo la domanda, come al solito. Tamaki era esasperata.
«Tra noi due non c’è futuro, lo sai benissimo».
Frattanto, dal momento che Seiji se ne stava zitto, un’altra voce risuonava nel fondo della sua coscienza e le diceva: «No, non è vero, sai che non è cosí. Il fatto è che non sei stata capace di monopolizzare il suo amore». Sí, era vero, monopolizzare… Quando si ama, non c’è verso, è cosí.
«Ora te lo dico chiaro e tondo, visto che continui a far finta di non capire» disse Tamaki guardando Seiji dritto negli occhi. «Io non voglio dividerti con nessun’altra persona. È molto semplice: se non è possibile averti tutto per me, preferisco soffrire e mettere fine alla nostra storia. Ecco perché ti ho chiesto di non farti piú vedere».
Prima di rispondere, Seiji mandò giú un sorso di birra e distorse il viso in una smorfia, come se fosse molto amara.
«In poche parole, mi stai chiedendo di scegliere?»
«Sí, proprio cosí» disse Tamaki.
Seiji, lo sguardo basso, sprofondò in un lungo silenzio. Poi, dopo quasi cinque minuti, disse: «Allora scelgo te».
Tamaki rimase senza parole, non riusciva a credere alle sue orecchie. Oltre che sbalordita, era anche molto felice: non era pronta a una risposta del genere, si aspettava tutt’altro.
«Non posso vivere senza di te» continuò Seiji. «Sei troppo importante per me, non ti lascerò mai. Separiamoci dalle nostre rispettive famiglie e continuiamo a stare insieme come abbiamo fatto finora. Forse dovrò lasciare il lavoro alla casa editrice, ma non m’importa, so solo che voglio stare con te».
Non appena ebbe pronunciato l’ultima parola, si gettò ai piedi di Tamaki, sul parquet nuovo di zecca. Lei era ancora piú stupefatta, sconvolta, tanto da non riuscire ad aprire bocca. Non gli aveva fatto quel discorso per vederlo prostrato ai suoi piedi. E solo in seguito, molto tempo dopo, si rese conto che lo aveva messo con le spalle al muro perché desiderava che anche lui varcasse finalmente una “linea” importante.
Nei suoi ricordi lontani non c’erano dei limiti netti e ben definiti. Seduta davanti al pc, Tamaki lasciava che gli eventi del passato affiorassero alla rinfusa dal fondo della memoria, uno dopo l’altro. Forse a scatenare il flusso dei ricordi era il profumo stordente di gardenie sfiorite, che aleggiava nell’aria e riportava in superficie sia gli episodi belli che quelli brutti, indiscriminatamente.
Il trasloco di Tamaki e la scelta inaspettata di Seiji avevano costituito un punto di svolta fondamentale nella loro relazione. In seguito avevano vissuto una nuova luna di miele e il loro legame si era consolidato, ma alla fine erano arrivati lo stesso al capolinea, cinque anni piú tardi.
Seiji, esattamente come nella precedente occasione, le aveva chiesto di ripensarci e di restare ancora insieme, piú o meno una settimana prima del litigio furioso in cui Tamaki avrebbe perso il controllo e lo avrebbe schiaffeggiato. In quale stato d’animo si trovava lui quella seconda volta? Tamaki era forse talmente fuori di sé da non essere in grado di capire i veri sentimenti di Seiji? Il suo giudizio sull’uomo con il quale aveva condiviso diversi anni della sua vita era sbagliato? Mentre si poneva queste e altre domande, perse il filo dei suoi pensieri e si sentí molto confusa.
Il cellulare squillò. Era Nakagusuku. Di recente, aveva cominciato a interessarsi seriamente al romanzo che Tamaki era in procinto di scrivere e che le stava costando tanta fatica e afflizione, L’indecenza. Si era messo a fare numerose ricerche e si teneva in contatto costante con lei, nella speranza di rendersi utile.
«Sono Nakagusuku. Come procede il lavoro?»
«Non male, sto andando avanti» rispose come suo solito Tamaki, mentendo spudoratamente.
«Perfetto, non vedo l’ora di leggere qualcosa. In realtà, le ho telefonato perché devo dirle una cosa molto importante, si tenga forte».
La voce del giovane editor tradiva un entusiasmo impetuoso, come se avesse tra le mani una notizia bomba.
«Di che si tratta?»
«Non ci crederà, ma ho scoperto chi è la X dell’Innocente!»
«Davvero?»
Tamaki sentí il battito del cuore accelerare, non stava piú nella pelle.
«Sí! La scrittrice Miura Yumi!»
Era la prima volta che sentiva quel nome. Un altro scrittore, pensò, mentre lo annotava nel bloc-notes che era sulla scrivania. Del resto non c’era molto da stupirsi: Midorikawa Mikio, secondo alcune fonti non confermate, aveva avuto piú di una relazione con donne che gravitavano intorno alla sua rivista letteraria. Era in ogni caso una notizia inaspettata, Tamaki era sbalordita.
«Che genere di libri scriveva?» chiese col fiato sospeso.
«Giusto, è una domanda molto sensata, ma pare che non abbia scritto granché. Comunque, farò qualche ricerca e le porterò al piú presto del materiale, va bene?»
Nakagusuku pronunciò quell’ultima frase con una foga tale da far pensare che si sarebbe precipitato subito in biblioteca.
«Aspetta un attimo… Si tratta di notizie certe? Da chi le hai sapute?»
«Piú che certe, direi. La mia fonte è Fujiyama Mamoru».
Fujiyama Mamoru, scrittore passato dalla letteratura pura ai romanzi erotici, era l’autore della celebre serie intitolata Il club della carne. Alcuni decenni prima, la sua espressione “stato d’animo e passione” aveva fatto tendenza, creando un’aura di scandalo intorno al suo nome. Tamaki aveva sentito dire che era ancora vivo, ma non avrebbe mai immaginato di apprendere grazie a lui la verità su X. Nutriva una sorta di pregiudizio nei confronti degli scrittori legati a Shusui ed era pressoché certa che nessuno di loro avrebbe mai aperto bocca riguardo alla misteriosa amante di Midorikawa.
«Come hai fatto a metterti in contatto con Fujiyama Mamoru e a sapere certe cose da lui?»
«È semplice, sono andato a trovarlo e gliele ho chieste. Avevo un impegno di lavoro a Odawara e ne ho approfittato per fargli visita. Ha ottant’anni, ma gode di ottima salute ed è in possesso di una memoria prodigiosa. Pensi che all’inizio credeva che fossi andato da lui per chiedergli di scrivere qualcosa per noi. È ancora molto arzillo, non ne vuole sapere di smettere di lavorare».
Dopo aver riattaccato, Tamaki provò a fare una ricerca sul web digitando il nome “Miura Yumi”, ma c’era ben poco, non piú di venti risultati. Una pagina, però, riferiva un episodio di notevole interesse:
Nell’ottobre del 1955, presso una sala comunale della cittadina di Tobari, era in programma una conferenza di due scrittrici che attendevo con molta trepidazione. Protagoniste dell’incontro sarebbero dovute essere Murakami Sadako e Miura Yumi. Amavo moltissimo le storie tristi di operaie scritte da Murakami Sadako, nelle quali mi identificavo non poco. All’epoca, mi occupavo della contabilità in una fabbrica di coperte, ma prima avevo lavorato anch’io come semplice operaia. Per fortuna, dopo un certo periodo, mi avevano affidato un lavoro d’ufficio, che era molto meno faticoso e mi dava maggiori soddisfazioni. Quando vedevo le mie giovani colleghe spaccarsi la schiena in fabbrica, mi ripetevo che ero stata davvero fortunata. Nei suoi libri, Murakami Sadako descriveva quelle povere ragazze con grande vivacità, ma anche con straordinaria tenerezza. La ritenevo una scrittrice formidabile e la rispettavo moltissimo, era una delle mie preferite. Ma in quel giorno di ottobre, mi sentii tradita e la mia opinione cambiò del tutto. Lei e Miura Yumi decisero di annullare la conferenza perché le terme di Beppu, dove erano state la sera precedente, erano piaciute loro cosí tanto da spingerle a prolungare il soggiorno! Pare addirittura che Miura Yumi avesse detto qualcosa del tipo «Freghiamocene della conferenza, restiamo qui un’altra notte». Il che mandò in bestia gli abitanti di Tobari, me compresa.
Il brano, di cui era autrice un’anonima settantacinquenne, era riportato in un sito Internet dedicato a Murakami Sadako. Miura Yumi, menzionata solo in rapporto alla collega e criticata in termini negativi, ci faceva tra l’altro una pessima figura. Murakami Sadako era nota per il suo forte legame con il movimento della letteratura proletaria e, al di là del fatto che era strano trovare il suo nome associato a quello di Miura Yumi, era molto difficile crederla capace di annullare una conferenza solo per godersi qualche giorno in piú in una stazione termale. Tamaki reputò la storia alquanto inverosimile e avvertí un alone di malevolenza intorno a quella scrittrice di cui non aveva mai sentito parlare in precedenza: Miura Yumi.
Se era davvero lei X, allora non era improbabile che avesse scritto qualcosa riguardo all’Innocente. O almeno era questo ciò che Tamaki sperava, mentre un sorriso amaro le affiorava sulle labbra. Midorikawa Mikio, sua moglie Chiyoko – in seguito diventata scrittrice di libri per bambini con lo pseudonimo di Midorikawa Midori –, Miura Yumi… Scrittori, nient’altro che scrittori! Perché? Che cosa poteva significare?
5
Incertezza
1
Nell’Innocente di Midorikawa Mikio, X era una presenza sfuggente e non appariva quasi mai in prima persona. Era un rumore di passi che si avvicinava adagio ai coniugi Midorikawa, un’ombra nera che si insinuava tra marito e moglie. X non aveva bisogno di essere descritta nel dettaglio per essere viva e palpabile, e riusciva a trasmettere in ogni caso il senso di minaccia e timore che rappresentava per lo scrittore e la sua consorte. C’era un’unica scena che raccontava un incontro inaspettato tra lei e Midorikawa.
Mi voltai e, nella penombra del ballatoio, vidi X. Aveva una borsetta appesa al braccio e indossava un magnifico cappottino giallo e un cappello e una sciarpa neri. Sorrideva radiosa nella sua mise elegante, e d’un tratto quell’angolo di quel vecchio edificio parve illuminarsi come sotto un raggio di sole.
Se quanto si leggeva rispondeva al vero, X abitava da sola in una vecchia palazzina, ma amava vestirsi con abiti vistosi ed eleganti e, fatto abbastanza raro per i giapponesi di quell’epoca, forse aveva nel suo appartamento un bel divano e un letto all’occidentale e usava scaldarsi con una stufa a cherosene. Seguiva uno stile di vita cittadino all’ultima moda, in cui non trovavano spazio il kotatsu, lo hibachi e altri oggetti d’arredo tradizionali che molto probabilmente erano utilizzati in casa Midorikawa. Inoltre, nella scena in cui riconosceva Mikio in piedi nel ballatoio buio, gli si rivolgeva chiamandolo “Mickey”. Tamaki, riflettendoci, non poté fare a meno di pensare che quella descrizione fosse molto lontana dalle atmosfere di assoluta sobrietà che si ritrovavano nei romanzi di Murakami Sadako e di altre scrittrici proletarie della stessa generazione. Per inciso, l’opera che aveva dato a Sadako notorietà raccontava la storia di alcune giovani operaie impiegate presso una fabbrica di coperte che, per quanto sfruttate e malpagate, si dedicavano anima e corpo al lavoro e affrontavano la vita con coraggio.
Tamaki lesse con attenzione una breve nota biografica su Miura Yumi pubblicata in una pagina Internet. Era nata nel 1914 e morta nel 1967, all’età di cinquantatré anni. C’era scritto che la sua prematura scomparsa era avvenuta a causa di una malattia, ma non era specificato altro, il che ispirava una sensazione di malinconica tristezza. Midorikawa Mikio era nato nel 1919 e morto nel 1988. Sua moglie Chiyoko era nata nello stesso anno ed era ancora in vita. Miura Yumi, che forse era la misteriosa X, aveva cinque anni piú di Midorikawa. Ma a preoccupare Tamaki e a smorzare in parte il suo entusiasmo era soprattutto l’anno di pubblicazione dell’Innocente, il 1973: il libro era stato dato alle stampe dopo la morte di Yumi, la quale, anche se fosse stata la X del romanzo, non aveva potuto leggerlo e replicare scrivendo qualcosa o rilasciando anche solo una breve dichiarazione.
Forse i fatti stavano davvero cosí, forse quella scrittrice semisconosciuta era la X dell’Innocente. Tamaki si mise a contemplare una fotografia di Yumi che aveva appena trovato sul web. In kimono, seduta al tradizionale tavolino basso con la schiena ben dritta, fissava dei fogli manoscritti con l’aria della scrittrice. Era una bella donna, aveva un viso ovale e grazioso, ma i lineamenti di Chiyoko, la moglie di Midorikawa, erano molto piú dolci e raffinati.
«Secondo voi, Miura Yumi è veramente X? In questo caso, dal momento che L’innocente è un romanzo molto famoso e che X viene descritta in modo enigmatico e suggestivo, perché non se n’è mai parlato? È strano, no?»
Tamaki era perplessa. Ora che il mistero principale dell’Innocente sembrava essere risolto, i suoi editor erano accorsi in fretta da lei per una riunione.
«È vero, in effetti non se n’è mai parlato» concordò Nakagusuku, l’espressione confusa. Andare fino a casa di Fujiyama Mamoru per estorcergli un segreto era stata una vera prodezza, un colpo di genio, ma Saitō gli aveva fatto notare che una persona dotata di buon senso non si sarebbe mai spinta fino a tanto, e forse era per questo che ora sembrava turbato.
«In ogni caso, che impressione ti ha fatto Fujiyama?» gli chiese Saitō, mentre giocherellava con la sua agendina di pelle.
«Quando sono arrivato da lui, è venuta la moglie ad aprirmi la porta e mi ha detto che era in giardino, sul retro. Allora ho fatto il giro della casa e l’ho raggiunto: un anziano signore dall’aria energica e basso di statura, con un asciugamano intorno al collo. Aveva appena finito di scavare una buca con la pala in un angolo del giardino e vi stava gettando dentro un piccolo cumulo di scarti umidi».
Nakagusuku fece una breve pausa e Tamaki e Saitō si lasciarono scappare una risatina. All’epoca in cui Fujiyama Mamoru era molto attivo come autore di romanzi erotici, sul suo conto circolavano diverse voci decisamente stravaganti. Si diceva per esempio che spendesse piú di un milione di yen a sera nei locali di Ginza, che le ragazze dei night club gli gironzolassero intorno nella speranza di diventare le protagoniste dei suoi libri e altre cose del genere. Nakagusuku era troppo giovane per essere al corrente di quei fatti.
«Quando gli ho detto che lavoravo per Danronsha» andò avanti imperterrito, «lui mi ha voltato le spalle con aria imbarazzata e, senza guardarmi in faccia, mi ha detto: “Mi dispiace, ma non scrivo piú romanzi erotici”. Allora gli ho spiegato la vera ragione della mia visita e lui finalmente si è girato dalla mia parte, stavolta con un’aria un po’ sconsolata».
«Poverino, ci sarà rimasto molto male, avresti potuto almeno far finta di commissionargli un breve testo, no?» intervenne Tamaki. «A uno scrittore fa sempre piacere ricevere una richiesta da un editore».
Saitō fece una smorfia di disappunto. Trovava forse insensato e da superficiali il suggerimento di Tamaki?
«Non lo so, mi ha detto che adesso scrive solo ed esclusivamente romanzi di alto valore letterario» disse Nakagusuku.
«Ah, questa sí che è bella, si va di male in peggio» commentò Saitō sogghignando. Nakagusuku, evidentemente colpito dall’affermazione irriverente del collega, abbassò lo sguardo e si mise a giocherellare nervoso con l’involucro di carta della cannuccia del suo caffè freddo. Intanto Tamaki, lí in silenzio, pensò ancora una volta con un certo stupore che in quella faccenda erano coinvolti un bel po’ di scrittori: dopo Murakami Sadako, adesso era il turno di Fujiyama Mamoru.
«“Sto facendo delle ricerche sull’Innocente di Midorikawa Mikio, in particolare sul personaggio chiamato X” gli ho detto. “Non è che lei saprebbe darmi qualche informazione in proposito?”» continuò dopo qualche secondo Nakagusuku. «Al che lui mi ha risposto senza indugio: “Ma certo, X è Miura Yumi!”. Ci sono rimasto di stucco, e quando gli ho chiesto chi fosse, mi ha detto: “Una collega della nostra rivista letteraria”. Potete immaginare come mi sono sentito in quel momento, no? Ero su di giri, non avrei mai pensato di fare centro al primo colpo. E mentre mi annotavo il nome della scrittrice, Fujiyama ha aggiunto: “Tutti lo sapevano, ma nessuno osava parlarne”. Allora gli ho chiesto come mai, e lui, in tono brusco, mi fa: “Riflettici bene e troverai da te la risposta”».
«Per delicatezza nei confronti di Chiyoko?» ipotizzò Tamaki.
«Sí, certo, ma non solo… Sono convinto che deve esserci dell’altro».
Tamaki e i due editor provarono a riflettere insieme, ma non giunsero ad alcun risultato. Saitō, dopo aver scritto qualcosa nell’agendina, sollevò lo sguardo.
«Bene. Forse è il caso di fare qualche ricerca alla Biblioteca nazionale del Parlamento» affermò in tono convinto. Di recente si era lasciato crescere un pizzetto che gli conferiva una vaga aria da messicano.
«Murakami Sadako è morta» disse Tamaki, «ma può darsi che tra i suoi conoscenti ci sia qualcuno in grado di aiutarci».
A quelle parole, Saitō ebbe un sussulto. «Ma sí, certo» le disse. «Controllerò anche questo e le farò sapere».
La sera seguente, Tamaki ricevette un’e-mail da Saitō:
Ho verificato un po’ di cose, le faccio qui un breve resoconto.
Murakami Sadako è nata nel 1905, quindi aveva nove anni piú di Miura Yumi. Non ne ho la certezza assoluta, ma pare che Miura fosse un’allieva della stessa Murakami. Quest’ultima aveva una figlia nata nel 1934, proverò a rintracciarla e a ottenere qualche informazione in piú.
Due giorni piú tardi arrivò una seconda e-mail:
La figlia di Murakami Sadako si chiama Shizuko, è viva e ha settantuno anni. Abita a Ōme. Sono riuscito a mettermi in contatto con lei, gode di ottima salute e mi ha assicurato che ci dirà tutto quello che sa. Al telefono è stata molto cordiale e mi è parsa sveglia e intelligente.
Tamaki chiese a Saitō di organizzare un incontro con Shizuko al piú presto. Nel frattempo, ordinò alcuni libri di Murakami Sadako e Miura Yumi con l’intenzione di immergersi nella loro lettura. Fino ad allora ne aveva letti diversi della prima, ma non si era mai imbattuta in un libro dell’altra. Del resto non sapeva nemmeno chi fosse e non l’aveva mai sentita nominare. Al pensiero che Miura Yumi potesse essere X, si sentiva talmente impaziente da avere le palpitazioni: non ne poteva piú di aspettare l’arrivo dei testi che aveva ordinato a una libreria dell’usato, non vedeva l’ora di leggerli. Finalmente avrebbe potuto sentire la voce di questa X cancellata dal mondo. Sperava con tutta se stessa che avesse scritto qualcosa su Midorikawa Mikio, o perlomeno che ne avesse fatto il personaggio di uno dei suoi romanzi.
Sotto pressione a causa dei continui rinvii nella consegna del lavoro a Diablo, mise in qualche modo su carta il racconto degli eventi degli ultimi giorni e raggiunse il numero minimo di cartelle concordato per la pubblicazione della prima parte del romanzo. La nuova clamorosa scoperta le fece dimenticare completamente Seiji, che fino a poco prima aveva rappresentato per lei una vera e propria ossessione. Ma aveva comunque ben presente che la sua scrittura, compreso il nuovo romanzo, era il risultato del grande lavoro svolto al suo fianco. Qualunque cosa facesse o scrivesse, si chiedeva sempre cosa ne avrebbe pensato Seiji e come avrebbe reagito.
Quattro giorni prima dell’incontro con Shizuko, la figlia di Murakami Sadako, finalmente la libreria dell’usato le consegnò una raccolta di saggi di Miura Yumi e il suo romanzo d’esordio, quello con cui si era aggiudicata un noto premio letterario per scrittori esordienti, intitolato L’imprevedibile.
I saggi raccontavano in dettaglio alcuni episodi dell’infanzia della scrittrice nello Shikoku, il suo vizio del fumo e le abitudini quotidiane, i luoghi che frequentava assiduamente. Tamaki li lesse con molto interesse, anche perché le ricordavano la vita quotidiana di Chiyoko cosí come era descritta nelle pagine dell’Innocente. Le donne di quella generazione erano vissute nella parsimonia, dando prova della medesima ingegnosità nel ridurre le spese e risparmiare qualche soldo. Ecco perché il modo di vestire di X, che indossava come fosse un’attrice «un magnifico cappottino giallo e un cappello e una sciarpa neri», era a dir poco inusuale.
In uno dei saggi, l’infanzia di Yumi era cosí descritta:
Quando viene l’estate, mi ricordo sempre con infinita nostalgia la mia infanzia a Kōchi, una cittadina che si estende a nord di capo Muroto, sull’oceano Pacifico. Ci eravamo trasferiti lí con tutta la famiglia perché mio padre aveva ottenuto la gestione dell’unica sala cinematografica della città. All’epoca non era servita molto bene dai trasporti pubblici. Per andare a Ōsaka, per esempio, dove avevamo vissuto fino ad allora, il mezzo piú pratico era il traghetto. Raggiungerla via terra, sia con il treno che con l’autobus, richiedeva un’intera giornata di viaggio. Era una sperduta cittadina di provincia, al punto che non sarebbe esagerato paragonarla a una landa remota e isolata.
Ma durante l’estate il paesaggio cambiava completamente. I raggi del sole erano cosí forti e abbaglianti che tutto sembrava bianco, e le tegole annerite sui tetti delle case e i muri un po’ sporchi riflettevano la luce come grandi specchi scintillanti, che brillavano talmente da non poter tenere gli occhi aperti. Faceva molto caldo ma, grazie alla bellezza dei raggi del sole e alla frescura della brezza marina, tutta la città diventava luminosa come per magia e i suoi abitanti erano sempre allegri e festosi.
Nel corso delle vacanze estive, andavamo tutti i giorni a piedi alla spiaggia piú vicina per fare il bagno. Avevo ereditato da mia sorella piú grande un costume blu scuro che mi piaceva moltissimo. Lo prendevo io stessa dallo stenditoio tutte le mattine ed era la prima cosa che mettevo addosso. A lungo andare, si era infeltrito e ristretto, perché era di lana e perennemente umido. Ma aveva una splendida cintura bianca ed era per questo che lo adoravo cosí tanto. Una cintura con una fibbia lucida e dorata con al centro un’àncora, che al sole era tutta un luccichio.
Io e mia sorella facevamo il bagno a mare con un sacchetto di lino bianco appeso alla cintura del costume. Quel sacchetto era opera di nostra madre e conteneva una manciata di legumi. Dopo che eravamo state in acqua per buona parte della giornata, quei legumi impregnati di acqua marina diventavano teneri e salati al punto giusto, pronti da mangiare. Quando eravamo stanche di nuotare, andavamo a stenderci sulla spiaggia fianco a fianco e spilluzzicavamo i nostri deliziosi legumi. Poi, una volta che li avevamo finiti, ripiegavamo con molta cura i sacchetti, li riponevamo in borsa e correvamo a rituffarci in acqua. Ogniqualvolta mi riaffiora alla mente la gioia che provavamo in quei momenti, non so perché, ma mi viene da ridere. Forse, adesso che ci penso, è la prova di un’infanzia felice.
Molti anni dopo, una volta che mi è capitato di raccontare questa storia, una persona mi ha chiesto: «Per caso ti ricordi come si chiamavano quei legumi?». Ma non sono stata in grado di rispondere, perché a casa avevamo l’abitudine di chiamarli semplicemente “fagioli di mare”.
Lo stile non era granché, ma il brano aveva una sua autenticità e suggeriva appieno l’idea di un’infanzia felice. A Tamaki venne spontaneo pensare che una ragazzina cosí allegra e vivace, una volta diventata adulta, avrebbe potuto certamente divertirsi a chiamare qualcuno “Mickey”.
Quanto all’Imprevedibile, il romanzo d’esordio di Miura Yumi, che raccontava in modo sincero ma fin troppo convenzionale la storia del passaggio all’età adulta di una ragazzina trasferitasi dalla provincia alla grande città, era una sorta di pedissequa imitazione delle opere di Murakami Sadako. Tamaki provò una forte delusione al pensiero che uno scrittore del calibro di Midorikawa frequentasse una scrittrice del genere. In cuor suo, forse aveva sperato che la misteriosa X amante di Midorikawa Mikio fosse un’autrice capace di rivaleggiare con lui in quanto a talento e bravura.
Il giorno dopo che Tamaki ebbe ultimato la lettura dell’Imprevedibile, arrivarono un messaggio e un fax da parte di Saitō.
Il messaggio, lasciato sulla segreteria telefonica, diceva: «Sono stato in biblioteca e ho trovato uno scritto in ricordo di Miura Yumi pubblicato poco dopo la sua morte. Ho fatto una fotocopia, gliela invio subito via fax. Il contenuto mi ha lasciato senza parole, direi che è alquanto sconcertante. Lo legga e capirà a cosa mi riferisco. Ci sentiamo piú tardi al telefono».
La fotocopia inviata via fax riproduceva una pagina di una rivista letteraria del 1967, l’anno del decesso di Miura Yumi. L’autore del brano era un certo Miyazaki Yūto, critico letterario. Tamaki conosceva molto bene gli ambienti letterari di quegli anni, ma quel nome non le diceva niente.
Yumi, anche se ho appreso in via definitiva la notizia della sua scomparsa, non riesco a credere che lei non sia piú tra noi.
Lei è stata portata via da un tumore al peritoneo, aveva solo cinquantatré anni, e sono affranto al pensiero di quanto deve avere sofferto. Dove sono Dio, il Buddha e le altre divinità? Forse non ci sono mai stati, forse non esistono.
Ho sentito dire che la malattia l’aveva resa molto forte. Sono certo che avrà impiegato fino all’ultimo istante di vita tutte le energie residue nella dura lotta contro il male. Perdere un’autrice brillante e promettente come lei è per il mondo della letteratura giapponese di secondo piano una notizia estremamente scoraggiante, oltre che un grave lutto.
Tutti parlavano male di lei. Dicevano che non aveva talento, che era protetta da un grande e noto scrittore, che si faceva scudo delle sue “astuzie femminili” e cosí via. Lei non dava importanza a quelle chiacchiere insensate, ma io non potevo fare a meno di provare una rabbia incontenibile ogniqualvolta mi arrivavano all’orecchio. Le persone come lei, sincere e spontanee, sono molto rare: perché nessuno era disposto a riconoscerlo? Naturalmente, non oso affermare che tutte quelle voci fossero solo il frutto di maligni pettegolezzi e semplici malintesi. Forse lei non se ne rendeva conto, abbagliata com’era dall’entusiasmo, ma il suo primo romanzo, per esempio, non meritava quel prestigioso premio per scrittori esordienti. E credo che la maggior parte degli addetti ai lavori condividesse appieno questo parere. Tuttavia la dedizione sincera e instancabile che ha messo nel lavoro negli anni a seguire è bastata a cancellare le chiacchiere e le critiche, dissipando ogni dubbio sul suo valore di scrittrice. Nonostante le numerose e continue maldicenze, non ha mai smesso di scrivere e di darsi da fare. Ed era proprio questo che amavo di piú in lei: la sua forza indefessa, quasi sovrumana.
Yumi, ora tutto è finito. Presto il suo lavoro sarà purtroppo dimenticato. Ma può star certa che io non dimenticherò mai la realtà e l’energia della sua lotta. Riposi in pace, che il suo sonno eterno possa essere sereno e tranquillo.
Miyazaki Yūto
(23 aprile 1967)
Tamaki era scioccata. Non le era mai capitato di leggere un brano in memoria di qualcuno cosí poco intriso di cordoglio. Non riusciva a capire il senso di quel “mondo della letteratura giapponese di secondo piano”, e ancor meno capiva quel “dicevano che non aveva talento” e la necessità di menzionare tutte quelle critiche: era il tipico modo di fare di chi cita calunnie e maldicenze varie al solo scopo di renderle note e confermarle. Come dimostrava anche la pagina Internet che raccontava l’episodio dell’annullamento della conferenza con Murakami Sadako a Tobari, invidia e ostilità avevano accompagnato la figura di Miura Yumi. Forse si erano accaniti contro di lei perché aveva vinto immeritatamente quell’importante premio letterario per scrittori esordienti? A proposito di invidie e gelosie nel mondo delle lettere, Tamaki ricordava di aver letto da qualche parte un brano in cui la famosa scrittrice Enchi Fumiko diceva le seguenti parole sulla collega Hayashi Fumiko, poco dopo la sua morte: «Hayashi è stata una donna molto fortunata. Dirò una scortesia, ma era piú bella in fotografia che non dal vivo, e i suoi romanzi erano di gran lunga preferibili a lei come persona. Ora che è passata a miglior vita, i suoi lati negativi sono scomparsi e sono rimasti solo quelli positivi».
Tamaki era rimasta interdetta nell’apprendere che una scrittrice del calibro di Enchi Fumiko fosse capace di scrivere parole cosí sgradevoli, non se lo sarebbe mai aspettato. Ma dentro di sé aveva pensato che anche quando si trattava di esprimere pure e semplici cattiverie, un vero scrittore non rinunciava mai a fare mostra di una tecnica e di uno stile sopraffini.
Piú ci pensava e piú detestava il brano su Miura Yumi scritto da tale Miyazaki Yūto. Al di là delle personali riflessioni sul carattere della defunta, trovava crudele e inammissibile soprattutto quella frase verso la conclusione: “Presto il suo lavoro sarà purtroppo dimenticato”. Ma come si era permesso? Trattandosi di un critico letterario, era legittimo ipotizzare che ci fosse stato qualche screzio tra lui e la scrittrice, e forse il caporedattore della rivista gli aveva affidato lo stesso l’incarico di scrivere quel pezzo perché non aveva trovato nessun altro disponibile.
All’epoca Murakami Sadako, che aveva fatto un po’ da mentore a Yumi, aveva solo sessantadue anni: perché non lo aveva scritto lei quel brano in ricordo della sua allieva? Tamaki non vedeva l’ora di incontrare la figlia Shizuko, aveva una montagna di cose da chiederle. Shizuko, che adesso era vedova, conduceva una vita tranquilla e abitava in una casa vicina a quella in cui viveva il figlio maggiore con la propria famiglia.
Enami Shizuko li stava aspettando, seduta nella hall del Palace Hotel. Tamaki la riconobbe da lontano, perché somigliava molto alla madre, perlomeno a giudicare dalle fotografie che aveva avuto modo di vedere sul web. Solo che a differenza della madre, vestita sempre in kimono e con i capelli raccolti in uno chignon basso, Shizuko aveva i capelli tinti di castano chiaro legati in due grosse trecce che le cadevano sulle spalle e una frangia lunga fin quasi alle sopracciglia, e indossava una camicetta bianca e un cardigan rosa salmone su una gonna a campana viola. Non era molto truccata, il che faceva risaltare ancora di piú i capelli tinti e il rossetto scarlatto.
Tamaki non immaginava che si sarebbe trovata di fronte a un’anziana signora dall’aspetto eccentrico, ma prestò molta attenzione a non lasciar trasparire la sua sorpresa, al contrario di Saitō e Nakagusuku, che se ne stavano lí impalati come se avessero visto un fantasma. Quando Tamaki si avvicinò, Shizuko si alzò in piedi sorridendo: forse doveva aver visto qualche sua foto. Stringeva un tascabile tra le mani diafane e rugose.
«Lei deve essere la signora Enami Shizuko, giusto? Io sono Suzuki Tamaki, molto piacere».
Shizuko rispose con un inchino che sembrava una sorta di riverenza, come fosse una dama che accettava un invito a danzare.
«Il piacere è tutto mio» disse, «sono onorata di fare la sua conoscenza».
Poi sollevò la testa e le mostrò il tascabile che aveva in mano. Era una pubblicazione recente di Tamaki, sulla copertina c’era la sua fotografia: ecco perché l’aveva riconosciuta.
«Quello è un mio libro, vero?»
«Sí, certo. Ho pensato che non sarebbe stato gentile non riconoscerla e non sapere niente di lei. Mi scusi, posso dirle quello che penso di questo libro?» Tamaki, disorientata, fece un cenno di assenso col capo. «Bene, ho visto che era la storia di una vedova e mi sono immersa nella lettura con immenso piacere. Perché, sa, anch’io sono vedova. Ma le cose non stanno esattamente come lei le ha descritte, la realtà è ben diversa… Da una parte ho trovato tutto molto interessante, ma dall’altra, mi scusi se mi permetto, ho provato una certa delusione e, a esser sincera, anche una lieve irritazione».
«Mi dispiace molto, sono davvero desolata».
Mentre pronunciava quella frase, Tamaki abbozzò un mezzo sorriso e si chiese come mai si fosse sentita in obbligo di scusarsi. Di tanto in tanto le capitava di imbattersi in lettori convinti che fosse assolutamente necessario riferire all’autore quello che pensavano del suo libro: «L’ho comprato con entusiasmo, ma mi ha deluso», «Il protagonista, agendo in quel modo, perde ogni credibilità», «Mi è piaciuto, ma la storia non è abbastanza verosimile» e cosí via. Tamaki ascoltava in paziente silenzio il giudizio dei lettori, ma ogni volta finiva col chiedersi se anche lei, come lettrice, avrebbe osato esprimere in modo cosí diretto e brutale il proprio parere. E la risposta era sempre la stessa: non lo avrebbe mai fatto, perché sapeva che un autore non si sarebbe mai azzardato a stravolgere la propria opera facendosi condizionare dalle opinioni dei lettori. Un vero scrittore si rifà unicamente a ciò che sente dentro, al proprio mondo interiore, che in quanto tale è chiuso e forse immutabile.
«Ho perso mio marito sette anni fa» continuò Shizuko. «Dicono che il tempo aggiusti tutto, ma non è cosí, è falso. O almeno, nel mio caso, non è stato cosí».
Pronunciò quelle parole con un certo trasporto, in tono commosso, ma Tamaki vi percepí anche una critica al suo romanzo e abbassò lo sguardo. Poi, con la coda dell’occhio, notò un’espressione smarrita farsi spazio sul volto di Nakagusuku.
«Permettetemi di fare le presentazioni» intervenne allora Saitō, la fronte corrugata. «Signora Enami, questi sono la scrittrice Suzuki Tamaki e il suo editor Nakagusuku. Io sono Saitō, responsabile della rivista letteraria Diablo, ci siamo sentiti l’altro giorno al telefono».
Porse il biglietto da visita a Shizuko, accostandoglielo al palmo della mano come se volesse forzarla ad accettarlo. Nakagusuku lo imitò e le allungò subito anche il suo. Lei li lesse entrambi avvicinandoseli al viso e stringendo gli occhi, doveva essere presbite.
«Diablo… Che cosa significa?» chiese.
«“Diavolo”, in spagnolo» rispose Saitō.
Shizuko lo fissò negli occhi per un breve attimo e applaudí con uno strano entusiasmo. «Forse si riferisce al fatto che i romanzi sono come dei demoni?» disse esibendo un ghigno beffardo. «A meno che i demoni non siano gli scrittori…»
Annuendo per pura cortesia e senza lasciarle il tempo di aggiungere altro, Saitō condusse il gruppo al bar dell’albergo. Shizuko lo seguí senza batter ciglio, con passo elegante e facendo ondeggiare la sua lunga gonna. Trovarono posto a un tavolo in un angolo e si accomodarono intorno a lei in modo che fosse al centro dell’attenzione.
«La ringrazio molto per essere venuta fin qui da Ōme» le disse Saitō.
«Non c’è problema, vengo a Tōkyō tutti i mercoledí per andare al cinema a Hibiya» rispose con voce affettata Shizuko.
«Che film ha visto oggi?» le domandò allora Nakagusuku.
«Parla con lei di Almodóvar, qualcuno lo ha visto?» replicò lei, gli occhi che le brillavano.
Ignorando la domanda di Shizuko, Tamaki decise di andare dritto al sodo e di cominciare a porre le sue. Si era accorta, dall’espressione radiosa che le si era dipinta in viso, che l’anziana signora gradiva molto chiacchierare con degli estranei, perciò aveva pensato bene di metterle un freno. Altrimenti, di quel passo, avrebbero rischiato di rimanere al Palace Hotel fino a tarda sera.
«La ringrazio anch’io moltissimo per aver accettato di venire, ma non voglio approfittare del suo tempo e vorrei iniziare a farle alcune domande» disse Tamaki risoluta, ma stando ben accorta a evitare un tono brusco che sarebbe potuto risultare scortese. «Dunque, per cominciare, conosce Miura Yumi? Pare sia stata un’allieva di sua madre. Se ha avuto modo di incontrarla e frequentarla, vorrei che ci dicesse qualcosa su di lei e sul suo carattere».
Shizuko si portò alla bocca un paio di cubetti di gelatina di agar-agar della sua macedonia di frutta sciroppata con marmellata di azuki e gelato. Le labbra le si riempirono di piccole rughe. Poi prese a parlare gesticolando vistosamente.
«Certo che la conosco. Ci frequentavamo e andavamo molto d’accordo, eravamo come sorelle. Yumi aveva vent’anni piú di me, ma era molto giovane di spirito, ed era per l’appunto come una sorella maggiore per me che ero figlia unica. Era una donna speciale, piena di vita, e quando capitava qualcosa di bello si metteva subito a correre e saltellare come una ragazzina felice. Se per esempio vedeva qualcosa che destava in lei sorpresa o meraviglia, cominciava a gridare e a battere le mani a piú non posso. Io la prendevo in giro e la chiamavo “Sazae-san”, come il cartone animato, ma a mia madre non piaceva questo lato del suo carattere. “Dài, Yumi, smettila di agitarti come una mezza matta!” la rimproverava spesso. Forse sbagliava a usare un’espressione del genere, molto poco rispettosa, ma lei era per me, per Yumi e per i compagni del Partito una sorta di autorità, e nessuno osava contraddirla o farle una rimostranza per questa o quell’altra cosa».
«Mi scusi se la interrompo» disse Tamaki, «ma per “Partito” intende il Partito comunista?»
«Ovvio che sí!» rispose Shizuko, sollevando un solo sopracciglio come per dire: “Perché mi chiede una cosa cosí banale e scontata?”. «Mia madre apparteneva al movimento della letteratura proletaria e, prima della guerra, era regolarmente iscritta al Partito comunista giapponese. Una volta fu anche arrestata, ed era fiera di non aver mai rinnegato le sue convinzioni. Dopo la guerra prese le distanze dal Partito, ma quando Yumi arrivò da noi ne faceva ancora parte, ne sono sicura. Invece Yumi non si è mai iscritta al Partito. Questo potrebbe sembrare un dettaglio insignificante, ma a ben guardare rivela molto di lei, di certe sue fragilità. Pare fosse spaventata dalla politica. Mia madre aveva un carattere molto forte, aveva una tempra d’acciaio, e credo abbia provato non poco ad aiutarla a superare la sua debolezza. Ma purtroppo non ci è riuscita».
«Come mai?» chiese Nakagusuku.
«Mmh…» prese tempo Shizuko, giocherellando con le sue lunghe trecce. «Yumi era già una donna adulta. E voler cambiare certe cose dopo che una persona è cresciuta è un’impresa impossibile».
In quel momento, Tamaki avrebbe voluto chiederle se Yumi frequentasse qualcuno, se avesse un fidanzato, ma rinunciò nel timore di risultare impaziente.
«Come ha fatto Yumi a diventare allieva di una scrittrice famosa come Murakami Sadako?» le chiese allora, a mo’ di domanda di riserva.
«Per quello che ne so io, aveva letto i libri di mia madre ed era riuscita a farle sapere che ne era rimasta folgorata e che voleva imparare da lei. Ma non so quanto ci sia di vero in questa storia» rispose Shizuko con una risatina sarcastica. Poi, prima di dire altro, spinse da una parte la coppa di vetro con il gelato, ormai ridotto a una poltiglia liquida. «Bussò a casa nostra subito dopo la guerra. All’epoca, se non sbaglio, avevo dodici o tredici anni. Perciò lei doveva averne trentadue o trentatré. Da un giorno all’altro, non so bene come e perché, prese l’abitudine di venire da noi molto spesso e si mise a lavorare come assistente personale di mia madre. Credo lo facesse gratis, ma mia madre ripeteva sempre che era molto efficiente e che le era di grande aiuto. A casa nostra, come può immaginare, si presentava un sacco di gente che lavorava in case editrici, giornali e riviste, e Yumi era molto brava a gestire tutti e a organizzare il lavoro. Inoltre era una cuoca provetta e, in assenza di mia madre, mi preparava delle ottime cenette e talvolta capitava che mangiassimo insieme. Veniva ad assistere alle gare sportive, alle recite e alle iniziative culturali della mia scuola, e addirittura alle giornate “porte aperte” dedicate ai genitori. E io, a essere sincera, ero molto piú contenta quando veniva lei che non mia madre».
«Per caso lei conosce la storia dei “fagioli di mare”?»
Tamaki le rivolse la domanda in modo un po’ brusco. Le era affiorato alla mente l’episodio che aveva letto nella raccolta di saggi di Miura Yumi e moriva dalla voglia di sapere se fosse Shizuko la persona alla quale molti anni dopo la scrittrice aveva parlato dei suoi deliziosi “fagioli di mare”. Ma Shizuko si limitò ad assumere un’aria perplessa, come a voler dire: “Mi spiace, ma non ho la piú pallida idea di cosa stia parlando”.
«Mi scusi se oso farle questa domanda, ma lei lavorava?» le chiese ancora.
«Ormai ho settantuno anni, ma fino a tre anni fa curavo una rubrica in una rivista di cinema. Adoro in particolare il cinema europeo e ho scritto anche dei libri. Ma non volevo una vita come quella di mia madre, e perciò, dopo il matrimonio, ho deciso di fare la casalinga. Mi sembrava la scelta migliore, ecco. Io non ho niente contro le donne che lavorano, per carità, ma l’esempio di mia madre mi ha condizionata negativamente. La stessa Yumi, con tutte quelle persone che un giorno le facevano i complimenti e il giorno dopo la denigravano, non deve aver avuto una vita facile e avrà faticato non poco per conservare una sua integrità mentale. Ecco perché decisi di dedicarmi alla casa e alla famiglia e soprattutto di non vivere di scrittura. Eppure dopo molti anni, in età avanzata, mi sono messa a scrivere. Se mia madre fosse ancora viva, me ne direbbe di tutti i colori e si farebbe una grande risata. Dopotutto se ne è andata in pace, è morta sei anni fa, a novantaquattro anni. Ha vissuto una vita lunga e tutto sommato felice. E io ho cominciato a scrivere i miei saggi sul cinema solo dopo la sua scomparsa… È strano, no?»
«Come reagí sua madre alla morte di Yumi?» chiese di colpo Saitō, forse accortosi che la conversazione si stava spostando su tutt’altro argomento.
«All’epoca Yumi si era resa già indipendente e non veniva piú molto spesso da noi. Non si era allontanata del tutto, ma mia madre aveva smesso di considerarla una sua allieva. Io intanto mi ero sposata, avevo lasciato la casa natale e avevo appena avuto un bambino, perciò non conosco i dettagli precisi e posso fare piú che altro delle ipotesi. Yumi si ammalò all’improvviso e morí nel giro di poco tempo, fu un vero shock. Non riuscivo a crederci, quello è stato il periodo piú triste della mia vita. Comunque, grazie a mia madre, si era fatta strada e le cose procedevano bene. Aveva cominciato a scrivere e alcuni suoi brevi saggi e articoli erano stati pubblicati sulla rivista del Partito. Poi, dopo aver ricevuto quel premio letterario molto importante, la sua carriera di scrittrice era decollata e lei ne era ovviamente molto contenta».
«Mi rendo conto che può essere una domanda difficile, ma quando ha ricevuto quel premio, non è che per caso si è attirata le invidie di altri scrittori?» chiese Tamaki.
«Questo non lo so, mi dispiace». Shizuko fece una pausa, tirò fuori un pacchetto di sigarette da un sacchettino di stoffa con merletto e se ne accese una. Prima di proseguire, si lasciò andare a un mesto sospiro e sbuffò fuori una nuvola di fumo. «Non so cosa dirle, erano passati circa cinque anni dal suo arrivo a casa nostra. Qualche problema ci sarà pure stato, anche per mia madre».
«Perché?»
«Non lo sa? Mia madre, per puro caso, faceva parte della giuria. Ma lei non c’entrava niente, odiava i favoritismi e ha sempre detto e ripetuto di aver letto e giudicato il romanzo di Yumi al pari di tutti gli altri. Non voleva nella maniera piú assoluta che un domani si potesse dire che aveva avuto un peso determinante nell’assegnazione del premio, e difatti decise di non sostenere in nessun modo quel romanzo. Ma a volte la gente può essere molto cattiva, si sa, e non tutti si mostrarono propensi a crederle. In ogni caso, penso che Yumi ne abbia pagato le conseguenze e abbia sofferto piú di tutti, poverina. Però anche mia madre, pur se affermava il contrario, deve aver penato parecchio».
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«Quindi sua madre, Murakami Sadako, si era ritrovata a far parte della giuria del premio solo per caso e non per sua volontà?»
Nel porre la domanda, Tamaki lasciò trasparire suo malgrado una certa sorpresa.
«Certo, per puro caso, anche se mi rendo conto che può risultare difficile crederci» rispose con disinvoltura Shizuko. «E comunque, come lei ben sa, i candidati vengono preselezionati da un comitato di esperti, secondo una procedura corretta e trasparente, perlomeno all’inizio. Quello che sto cercando di dire è che gli esperti, cosí come una buona parte delle persone nelle case editrici, non sapevano che Miura Yumi fosse un’allieva di mia madre. Inoltre, in via del tutto confidenziale, ci tengo ad aggiungere che in seguito mia madre mi ha rivelato che non avrebbe mai sostenuto un romanzo come quello di Yumi, per il semplice fatto che non lo riteneva all’altezza di un simile riconoscimento. Furono gli altri membri della giuria a votarlo e a permettere che Yumi si aggiudicasse il premio. Mia madre deve essersi sentita molto amareggiata per tutto quello che è stato detto dopo quella decisione, ha dovuto subire delle accuse del tutto infondate. Ma lei lo ha letto quel romanzo, L’imprevedibile?»
«Sí, l’ho letto» rispose Tamaki, senza sbilanciarsi. Nel tono con cui Shizuko aveva pronunciato l’ultima frase era possibile cogliere una sfumatura negativa, confermata subito dopo dalla durezza del suo giudizio.
«Il titolo è bello, lo trovo semplice e raffinato, ma per il resto il romanzo mi pare piú che altro un libro per adolescenti. La solita storia della ragazzina che viene dalla provincia e subisce le angherie delle sue coetanee di città, e che alla fine trova qualche buona amica e riesce a conquistarsi la sua indipendenza. Quando fu pubblicato, ricordo che molti affermarono che era una lettura adatta soprattutto alle ragazze in età adolescenziale. In ogni caso, trattandosi di un romanzo che aveva ottenuto un prestigioso premio letterario per esordienti, mi sembra ovvio che i critici e gli addetti ai lavori facessero a gara per dire la propria. All’epoca avevo diciassette anni e lo lessi tutto d’un fiato, e ricordo che trovai la protagonista un po’ apatica, nel senso che secondo me avrebbe dovuto avere uno spirito molto piú esuberante e combattivo. Per farla breve, provai piú delusione che altro. Yumi aveva un temperamento energico, tanto da sembrare un ragazzo, eppure quello che scriveva era diverso, non corrispondeva alla sua indole. È strano, no?»
“Un libro per adolescenti”, “una lettura adatta soprattutto alle ragazze in età adolescenziale”: quelle espressioni erano cariche di un disprezzo spropositato e d’altri tempi. Nel pensarci, Tamaki ebbe quasi l’impressione di vedere davanti a sé il viso sconfortato della povera Yumi, afflitta dalle mille voci che screditavano il riconoscimento che le era stato conferito.
«Io penso che i sentimenti dell’ingenua e timida protagonista dell’Imprevedibile siano descritti molto bene, in modo molto realistico» disse Tamaki, in quel momento desiderosa piú che mai di prendere le difese di quella sfortunata scrittrice. «Personalmente lo ritengo un elemento positivo, un punto di forza, anche perché all’epoca romanzi del genere non esistevano ancora. In ogni caso, se il romanzo avesse avuto per protagonista un ragazzo e non una ragazza, credo che le stroncature sarebbero state molto meno numerose».
A quel punto, un po’ in imbarazzo, Tamaki temette di aver espresso con eccessiva franchezza il proprio parere e di aver urtato la suscettibilità di Shizuko. Ma questa, tutt’altro che adombrata, tornò ad affermare il suo punto di vista.
«Ma eravamo in piena epoca Shōwa5, erano stati pubblicati già un bel po’ di libri per ragazze!» ribatté in tono bellicoso. «E alcuni erano anche romanzi di indubbio valore. Riguardo al discorso dell’eventuale invidia da parte di altri scrittori, ci ho riflettuto e credo di poterle dire che si tratta di un’ipotesi poco credibile. Le critiche mosse all’Imprevedibile erano piú che legittime e provenivano da ambienti letterari di tutto rispetto, e l’invidia e altre questioni del genere non c’entravano niente. Del resto anche mia madre ripeteva spesso che Yumi era molto piú portata per i saggi che non per i romanzi. E io, ma a questo punto credo sia ben chiaro, la penso nello stesso identico modo».
«Sí, ma purtroppo è scomparsa a soli cinquantatré anni, forse non aveva ancora dato il meglio di sé. Ho letto uno scritto in suo ricordo di un certo Miyazaki Yūto, pubblicato poco dopo la sua morte su una nota rivista letteraria, e devo dire che l’ho trovato poco rispettoso, se non addirittura offensivo. Secondo lei è giusto scagliarsi contro uno scrittore con tanta animosità, per giunta a breve distanza dalla sua scomparsa?»
Tamaki, che senza accorgersene si era leggermente alterata, prese dalla cartellina una fotocopia del pezzo in questione e la lesse ad alta voce. Shizuko la ascoltò in rigoroso silenzio, tenendo gli occhi chiusi. Perché ho preso tanto a cuore la storia di questa scrittrice di cui fino a poco fa non sospettavo neanche l’esistenza?, si chiedeva Tamaki, mentre con la coda dell’occhio spiava l’espressione solenne emersa sul volto della sua interlocutrice. Chi era veramente Miura Yumi? Quella donna intorno alla quale si addensavano ancora nubi scure, gonfie di acredine e livore, a molti anni di distanza dalla sua morte. Quella scrittrice sulla quale Tamaki cominciava a farsi un’idea attraverso il ricordo di Shizuko, figlia della famosa Murakami Sadako, che aveva avuto modo di conoscerla bene.
«Ha ragione, sono parole davvero terribili» commentò Shizuko, riaprendo gli occhi in una smorfia di sdegno. «Il motivo è ovvio: questo Miyazaki Yūto detestava il Partito comunista».
«Ma Yumi non era iscritta al Partito, giusto?» le chiese Tamaki.
«No, solo mia madre era regolarmente iscritta» rispose lei scuotendo la testa. «Yumi era una semplice simpatizzante. Come le ho già detto, Yumi non aveva abbastanza coraggio per diventare un membro del Partito».
Shizuko aveva alzato la voce, come a voler sottolineare quel dettaglio per lei di importanza capitale.
«Era davvero solo una questione di coraggio?» ribatté Tamaki, quasi in tono di sfida.
«Certo che sí! Iscriversi al Partito significava prendere una posizione ben precisa, non era da tutti».
«Ne è sicura? Essere un membro del Partito non offriva anche una certa protezione?»
Prima di rispondere, Shizuko aggrottò le sopracciglia e assunse un’espressione arcigna.
«Lei è una scrittrice, no? All’epoca, la repressione era tremenda. Non sto parlando del fascismo dell’anteguerra, ma del periodo successivo al conflitto. Dopo la resa eravamo, come lei ben sa, sotto il Comando supremo delle forze alleate. Avrà sentito certamente parlare della misteriosa scomparsa e della morte di Shimoyama Sadanori, il presidente delle Ferrovie nazionali giapponesi, o del terribile incidente del treno impazzito alla stazione di Mitaka, no?»6
«Se non erro, erano già trascorsi quattro o cinque anni dalla fine della guerra, doveva essere il 1949. In quel periodo, anche i semplici simpatizzanti del Partito comunista giapponese erano guardati con sospetto e non avevano vita facile, o sbaglio?»
«Sí, ma la situazione era molto complessa, non è possibile generalizzare. Mia madre, in seguito, fu radiata dal Partito. Non lo trova assurdo? Subire un tale disonore dopo che si era schierata apertamente a favore del comunismo e si era spesa tanto per il Partito. Yumi era solo una simpatizzante poco convinta, non rischiava niente, e nel suo caso non erano in gioco questioni come l’onore e la dignità. In fondo non era una donna capace di scrivere qualcosa di cosí impegnativo e rigoroso come un romanzo. L’arte nasce dall’attitudine stessa di una persona».
Shizuko si era espressa in tono categorico, senza mai abbassare lo sguardo e fissando Tamaki dritto negli occhi.
«Io non credo che essere membri o simpatizzanti del Partito c’entrasse piú di tanto con l’essenza e la capacità di scrivere un romanzo» disse Tamaki senza aggiungere altro. Si era resa conto che la discussione rischiava di trasformarsi in un’aperta polemica e voleva evitarlo a ogni costo. D’altronde Shizuko era irremovibile, convinta di avere ragione su tutta la linea, e la sua prosopopea continuava ad abbattersi come una grande onda su Tamaki e i due editor. Nakagusuku, per esempio, se n’era stato per tutto il tempo in silenzio e a testa bassa. L’atmosfera era diventata pesante, ma Shizuko era agguerrita e pronta ad andare avanti. Doveva essere ben avvezza alla discussione, lo si intuiva anche dai suoi gesti sicuri e precisi, per esempio dal modo in cui spense la sigaretta, senza il minimo nervosismo, e dall’espressione del volto fiera e impassibile.
«Poco fa ha detto che a volte Yumi sembrava un ragazzo» intervenne Saitō, dopo essersi schiarito la gola, «ma cosa intendeva di preciso?»
Prima di rispondere, Shizuko si accese in tutta calma un’altra sigaretta e lo guardò negli occhi. La sua espressione si era leggermente addolcita.
«Come ho già detto, Yumi era una donna piena di vita, non si fermava mai. Proprio come Sazae-san. Era molto occupata e andava sempre di fretta, era impossibile starle dietro. Ma era anche molto risoluta, se cosí si può dire. Fisicamente era minuta, ma teneva sempre la schiena dritta e dava un’impressione di notevole spigliatezza e intelligenza. Le sopracciglia folte e ben disegnate accentuavano la sua aria fiera e decisa. Aveva dei lineamenti molto marcati, che le conferivano una certa durezza virile. I suoi gusti in fatto di kimono erano abbastanza eccentrici e spesso indossava degli indumenti che si addicevano ben poco alla sua persona. Una volta andò ad assistere insieme a mia madre e ad alcuni amici a una rappresentazione di kabuki, e il famoso traduttore Mizoguchi la prese in giro facendole notare che il motivo del suo haori era degno di quello di una geisha: sagome nere di carrozze trainate da cavalli su fondo bianco».
«Carrozze nere su fondo bianco? Nel senso che era qualcosa di poco adatto e un po’ kitsch?» chiese Nakagusuku.
«Sí, esatto» rispose Shizuko, voltandosi dalla sua parte con uno sguardo sorpreso, come se si fosse ricordata solo in quel momento della sua presenza. «Ma era anche quello che la rendeva unica e intrigante. Prima ho espresso dei giudizi molto duri sul suo conto, ma ci tengo a sottolineare che mi riferivo esclusivamente all’aspetto letterario, a lei come scrittrice. Al di là di questo, mi piaceva molto, adoravo la sua personalità. Solo che a volte era troppo frenetica e sbrigativa, e in certe occasioni anche un po’ prepotente. Con Komoda, per esempio, si comportava sempre con molta arroganza e non faceva altro che dirgli “Fai questo e fai quello”, come una maestra con i suoi allievi».
A quel ricordo, Shizuko si mise a ridere da sola. E intanto Tamaki si annotò il nome che aveva appena sentito pronunciare: Komoda.
«Yumi indossava solo kimono e abiti tradizionali?» chiese ancora Nakagusuku, il quale non sembrava soddisfatto della risposta alla sua domanda precedente.
«No, affatto» disse Shizuko, smettendo di colpo di ridere. «Portava soprattutto abiti occidentali. Di solito i kimono li riservava per le cerimonie e le occasioni mondane».
«Per caso aveva un cappottino giallo e un cappello e una sciarpa neri?» insisté Nakagusuku.
«Non era mica Audrey Hepburn o Grace Kelly!» replicò con aria esasperata Shizuko. «A essere sincera, non le ho mai visto indossare abiti cosí eleganti. Ma dopo il famoso premio, i suoi impegni erano aumentati e non ebbi piú la possibilità di frequentarla come in precedenza, perciò può anche darsi che avesse preso l’abitudine di vestirsi in modo diverso. Prima ho detto che aveva dei gusti eccentrici in fatto di kimono ma, adesso che ci penso, chissà se era la stessa cosa per gli abiti occidentali. In fin dei conti, non era una persona molto raffinata: veniva dalla provincia, non aveva una gran cultura e, soprattutto all’inizio, non aveva molto gusto nel vestire».
Tamaki ricordò il breve saggio che Yumi aveva scritto sulla sua infanzia a Kōchi. La ragazzina innocente che amava tanto il suo costume da bagno con la fibbia dorata non avrebbe mai potuto immaginare che un giorno, dopo la sua morte, qualcuno avrebbe detto che non aveva gusto nel vestire.
Nakagusuku e Saitō si scambiarono un’occhiata rapida e rivolsero lo sguardo verso Tamaki. L’incontro con Shizuko, almeno fino a quel momento, si stava rivelando meno fruttuoso di quanto sperassero. Miura Yumi era davvero la X dell’Innocente?
«Mi scusi, poco fa lei ha citato un certo Komoda: potrebbe dirci chi era?» chiese Tamaki, mentre leggeva il nome che si era appuntata qualche minuto prima.
«Komoda… Komoda Kyōichi. Era il marito di Yumi. Aveva una quindicina di anni meno di lei!» rispose Shizuko, soffocando una risata. «All’inizio non aveva il coraggio di dire in giro che era suo marito, lo presentava come il figlio di un lontano parente. Raccontava che non era riuscito a trovare un alloggio in affitto e che viveva temporaneamente da lei. Ha mentito anche a me e a mia madre».
«Miura Yumi era sposata? Non lo sapevo».
«In realtà, era un’unione illegittima». Di colpo Shizuko appariva seccata. Era stanca o c’era dell’altro? «Komoda, per quanto ne sappia, era un amico del figlio del proprietario della casa in cui Yumi abitava quando viveva a Ōsaka. Non ricordo se gliel’ho già detto, ma mia madre non riusciva a credere che Yumi potesse avere successo con gli uomini, a volte lo diceva apertamente, senza riuscire a controllarsi: “Ma come fa a piacere una come lei, con quell’aria stramba che si ritrova?”».
«Di che cosa si occupava Komoda, che lavoro faceva?»
«Se non sbaglio, lavorava per una ferrovia privata, forse la Keiō o la Odakyū. Ma non ne sono sicura, l’ho dimenticato» disse con voce un po’ spenta Shizuko.
E finalmente Tamaki si decise a porle la domanda fondamentale: «Miura Yumi, come lei certamente sa, era un membro della rivista letteraria Shusui. Ha mai sentito parlare di una sua possibile relazione con Midorikawa Mikio?».
Shizuko si lasciò sfuggire un gridolino di stupore. Poi si mise a parlare a raffica, come se avesse ritrovato l’energia perduta.
«Non saprei, la cosa mi suona del tutto nuova. Midorikawa Mikio, l’autore dell’Innocente, giusto? Ho sempre considerato quel romanzo come un vile tradimento nei confronti di sua moglie. Detesto i libri di quel genere, non li accetto. Midorikawa si erge su un piedistallo e si sente autorizzato a offendere la dignità femminile. È assurdo che abbia scritto in un modo cosí irrispettoso e sfrontato di sua moglie e della sua amante».
«A quanto pare» intervenne Saitō, in tono timoroso ma andando dritto al sodo, «qualcuno sostiene che la X di cui si parla nel romanzo potrebbe essere Miura Yumi. Lei sa qualcosa al riguardo?»
Shizuko emise un nuovo grido, stavolta ben piú acuto. Al punto che diversi clienti del bar si voltarono dalla sua parte. Senza lasciarsi intimidire da quegli sguardi curiosi, anzi ricambiandoli con un’occhiata truce, ribatté con una domanda: «Qualcuno? Chi, di preciso?».
«Lo scrittore Fujiyama Mamoru, per esempio» rispose stavolta Nakagusuku.
«È la prima volta che ne sento parlare. Comunque, Yumi faceva parte del gruppo che gravitava intorno a Shusui fin da prima della guerra, per cui non ne so piú di tanto, ma mi pare di aver sentito dire che aveva avuto modo di incontrare Midorikawa a Ōsaka».
«Si tratta di notizie certe? In che modo ne parlava Miura Yumi?» chiese Tamaki, sporgendosi con il busto in avanti.
«Suppongo di sí, anche se Yumi non scendeva mai nei dettagli. Però ricordo che una volta, durante una riunione in casa mia, disse con evidente compiacimento che intorno a quella rivista c’erano scrittori importanti come Midorikawa e Fujiyama. Al che gli scrittori e i traduttori amici di mia madre replicarono che non li avevano mai sentiti nominare e lei si innervosí non poco, affermando che era strano e ribadendo che si trattava di due scrittori formidabili e pieni di talento. Non ho mai sentito nulla circa un’eventuale relazione con Midorikawa o altri scrittori. Ma sono certa che non è possibile, si tratterà delle solite voci false e infondate».
«Mi perdoni se glielo chiedo, ma sarebbe cosí gentile da dirmi come fa a esserne tanto sicura?»
Tamaki si era espressa in modo molto gentile, cosí da prevenire la reazione di Shizuko, sempre incline all’aggressività.
«Perché subito dopo la guerra stava già con Komoda e viveva con lui! Era un ragazzo giovane e aitante, non aveva ancora vent’anni… Se una cosa del genere accadesse oggi, di sicuro i media sbatterebbero la notizia in prima pagina, trattandosi pur sempre di una relazione tra una scrittrice adulta e un minorenne, no?»
Se Yumi era X, significava che aveva una relazione con Midorikawa all’insaputa di Komoda. Era mai possibile?
Saitō lanciò una rapida occhiata a Shizuko, ora assorta nei suoi pensieri, e le chiese: «Komoda è ancora vivo?».
«Sí» rispose lei annuendo. «Abita a Nishi Tōkyō».
Saitō le domandò allora se avesse un suo recapito, e lei inforcò gli occhiali da presbite e si mise a frugare nella borsa. Tamaki immaginava che tirasse fuori un’agendina o qualcosa del genere, e fu sorpresa quando invece la vide estrarre un cellulare, che maneggiava con fare avvezzo mentre guardava il display e continuava a parlare con Saitō. Dopo aver dettato a quest’ultimo l’indirizzo di Komoda, abbassò leggermente il capo e fissò Tamaki al di sopra delle lenti.
«Ora ho capito qual è il suo scopo» le disse in tono perentorio, facendola sentire in soggezione. Dopo di che, prima di continuare, si tolse gli occhiali e li ripose nel loro astuccio. «Lei sta cercando questa X che compare nell’Innocente di Midorikawa Mikio».
«Sí, esatto» rispose in tutta franchezza Tamaki, riacquistando una certa disinvoltura.
«Mi sa che lei e i suoi amici vi siete lasciati prendere in giro da Fujiyama Mamoru… Ah-ah-ah!» La risata isterica e stridente di Shizuko colse Tamaki di sorpresa. «Che vecchiaccio terribile, si è inventato tutto, non dovete dargli credito. Quello che vi ha detto è falso, ve lo assicuro. Non fatevi fregare!»
«Dice cosí perché lo conosce bene? Fujiyama è uno che si lascia andare spesso a questo genere di scherzi?»
«Non lo so, non ne ho la piú pallida idea. Però sa bene anche lei che si è divertito un bel po’ con le donne per scrivere i suoi romanzetti».
«E con questo che cosa vuole affermare? Che ha commesso un sacrilegio nei confronti dell’arte, forse?»
Tamaki si era sentita assalire da una voglia improvvisa di replicare con ironia alle parole di Shizuko, la quale colse la provocazione e raddrizzò le spalle, pronta a controbattere.
«No, che c’entra? Sono due cose ben diverse. La robaccia che ha scritto quel signore non ha niente a che fare con l’arte. Ecco perché insisto che non deve prendere sul serio quello che dice».
Tamaki sentí un brivido correrle lungo la schiena. “Forse si riferisce al fatto che i romanzi sono come dei demoni? A meno che i demoni non siano gli scrittori”: percepiva ancora l’eco della voce squillante di Shizuko quando aveva risposto a una delle domande di Saitō. A volte i suoi romanzi demolivano la realtà, o almeno tentavano di farlo, nel senso che scriveva della propria vita reale come fosse una finzione. In quei momenti, nella sua veste di scrittrice, Tamaki pensava effettivamente di essere posseduta da un demone e che la finzione artistica potesse essere diabolica. Ma per creare un romanzo diabolico in grado di demolire la realtà, bisognava costruirlo con un’attenzione e una precisione ben superiori a quelle della realtà stessa. Shizuko si sbagliava, aveva un’idea troppo astratta ed elitaria della letteratura, in fondo un romanzo era solo un romanzo e non poteva macchiarsi di chissà quale misfatto.
Spossati dalla lunga conversazione con Shizuko, Tamaki e i due editor se ne stavano seduti immobili intorno al tavolo del bar, come dei fantocci, senza prendere appunti e desiderosi solo che l’incontro giungesse al piú presto al termine. Intanto Shizuko fumava l’ennesima sigaretta, lo sguardo rivolto al giardino dell’albergo. Tamaki la guardava trattenendo il fiato, convinta che il suo profilo conservasse qualcosa della sua antica giovinezza, anche se era la prima volta che la incontrava. Non riusciva a spiegarsene il perché, ma aveva il respiro corto, come se fosse in preda all’ansia.
«Bene, posso raccontarvi ancora una cosa?» disse di colpo Shizuko. «Forse non la troverete interessante ma, visto che sono vecchia e non credo di avere molti anni da vivere, preferisco condividerla con qualcuno. Avete ancora un po’ di tempo?» chiese gettando un’occhiata al suo piccolo orologio e accorgendosi che erano già passate quasi due ore dall’inizio della conversazione. Dopo di che mandò giú il sorso di caffè ormai freddo che era rimasto sul fondo della tazza.
«Sí, ma cerchi di fare in fretta, per favore, abbiamo altri impegni» rispose Saitō, il quale doveva essere piuttosto contrariato per esprimersi in un modo cosí scortese. Per fortuna Shizuko non fece una piega, il volto impassibile.
«Certo, sarò breve, non si preoccupi» disse assentendo con assoluta docilità, quasi si fosse trasformata in un’altra persona. «Quando Yumi iniziò a frequentare casa nostra, le volevo molto bene e la consideravo una sorella maggiore. Aveva preso in affitto un piccolo alloggio a Ōtsuka e veniva tutti i giorni da noi a Nezu, attraversando l’intero quartiere. Come ho già detto, spesso veniva al posto di mia madre alle riunioni dei genitori e in occasione di vari eventi a scuola. Un giorno, piú o meno nel periodo in cui le fu assegnato quel premio, andai a trovarla a casa sua e mi imbattei per la prima volta in Komoda. Si era da poco laureato all’università di Waseda e se ne stava sdraiato sui tatami in camicia bianca e pantaloni neri da studente. Ero molto tesa e ricordo che lo salutai con un certo imbarazzo, perché aveva solo qualche anno piú di me. Aveva dei lineamenti gentili, la carnagione chiara e sembrava molto dolce. Giusto in quel momento arrivò Yumi, di ritorno dalla spesa. “Ehi, Shizu-chan, benvenuta!” mi salutò. “Sei riuscita a venire fin qui senza perderti, eh? Brava!”. Poi passò subito alle presentazioni: “Lui è Komoda Kyōichi, è mio nipote. È stato appena assunto da una società ferroviaria privata”. Komoda sembrava un po’ intimidito, ma si voltò dalla mia parte e mi sorrise con il suo viso dolce. Mi ricordo tutto come fosse ieri, la sua camicia bianca con le maniche risvoltate e il sole calante che illuminava la stanza…»
Il discorso, nonostante la promessa di Shizuko, rischiava di andare per le lunghe. Saitō e Nakagusuku non prestavano molta attenzione alle sue parole. E anche Tamaki ne aveva abbastanza e non vedeva l’ora di andare via. Ma lei, senza badare al loro atteggiamento, proseguí imperterrita.
«Non ho mai confidato a nessuno quello che sto per dirvi, neanche a mio marito, è ovvio, né tanto meno a mia madre e alle mie amiche piú care. E non so perché ora mi sia saltato in mente di dirlo a voi, che siete dei perfetti estranei».
La sua voce suonava sincera. Attratta dal tono malinconico di quelle parole, suo malgrado, Tamaki volse lo sguardo alle labbra di Shizuko dipinte di rosso carminio.
«All’epoca avevo solo diciassette anni e mi innamorai follemente di Komoda. Fu un autentico colpo di fulmine».
Tamaki non riusciva a credere che una donna come Shizuko potesse parlare di se stessa con tanta franchezza. Stava dicendo la verità?
«Quindi lei non sapeva che cosa c’era tra lui e Yumi?» le chiese, leggermente confusa.
«Non me n’ero resa conto. Del resto non mi dissero che tra loro non c’era alcun legame di sangue, si comportavano come due parenti. Yumi lo redarguiva come fosse uno scolaretto. Per esempio, gli diceva: “Komoda, non startene sdraiato lí per terra, ti si sgualcisce la camicia!”. Piú tardi, riflettendo, mi dissi che era strano chiamare il proprio nipote per cognome, ma ero giovane, e alla fine non vi diedi alcuna importanza, anzi la reputai addirittura una scelta originale e raffinata. A ogni modo, da quel giorno sono iniziate tutte le mie sofferenze…»
«Non ha mai confessato a Komoda i suoi sentimenti?»
«Certo che no!» rispose Shizuko abbassando la testa e lasciandosi sfuggire un risolino, come se si vergognasse. «Ero solo una ragazzina, continuavo a ripetermi che ero una donna troppo giovane e inesperta, e speravo tutti i giorni di diventare al piú presto adulta, bella e intelligente. D’altro canto non avevo molte possibilità di vederlo. Dopo il premio, Yumi era sempre piú impegnata e non aveva tempo per aiutare mia madre come prima. Però continuava a venire a casa nostra e gli editori la chiamavano di continuo per chiederle di scrivere qualcosa per loro. Stava riscuotendo un buon successo, era una delle scrittrici del momento. Del resto anche Komoda, da poco entrato nel mondo del lavoro, non aveva tempo. Insomma, non ci vedevamo quasi mai. Solo di rado, quando per esempio andavo con mia madre e i suoi amici a vedere il kabuki o i fuochi d’artificio durante l’estate, mi capitava di incontrarlo insieme a Yumi. La sua sola presenza bastava a mandarmi fuori di testa, non ero piú in grado di esprimermi correttamente e diventavo burbera e scontrosa. In piú, siccome noi due eravamo suppergiú coetanei e gli altri erano parecchio piú anziani, finivamo sempre seduti l’uno accanto all’altra. Provavo un imbarazzo tale da non capirci piú niente, non mi rendevo conto né di quello che dicevo né di quello che ascoltavo. Ma Komoda era molto gentile e cordiale, era un ragazzo per bene, come pochi. Se per esempio non mangiavo l’intero contenuto del mio bentō, lui mi chiedeva con grande garbo: “Shizuko, ti dispiace se quello lo mangio io?”, e infine allungava le bacchette senza il minimo imbarazzo e senza mai smettere di sorridere. Era un giovane molto aperto e alla mano, un vero tesoro. Quando arrivò la proposta di matrimonio, mi ero da poco laureata».
«Quale proposta di matrimonio?» chiese con un sussulto Saitō.
«Quella che mi fece Komoda, no?» rispose in tono vivace Shizuko.
«Ma lui non stava con Yumi? Non credo di capire…» intervenne allibita Tamaki.
Shizuko, prima di rispondere, sfoderò un sorriso plateale, come se volesse deridere se stessa.
«Fu la stessa Yumi a far pervenire la proposta» disse. «Dopo la laurea in un’università femminile, avevo iniziato a lavorare come segretaria di mia madre. Naturalmente lei e Yumi continuavano a essere in ottimi rapporti e si vedevano con una certa frequenza, e di conseguenza in quel periodo anch’io avevo modo di incontrarla almeno un paio di volte a settimana. Un giorno mi prese in disparte e mi domandò a bruciapelo: “Shizu-chan, che ne pensi di Komoda?”. Colta di sorpresa, le diedi una risposta vaga, del tipo “Credo sia un bravo ragazzo, è molto educato e gentile”. Allora lei rifletté qualche istante e mi disse: “Dal tuo punto di vista, forse Komoda ha un’aria e dei modi talmente gentili da sembrare una persona debole e indecisa, ma ti assicuro che non è cosí e che si tratta di un uomo tutto d’un pezzo, nonostante la sua giovane età. Secondo me, a meno che non lo trovi del tutto inadatto a te, potreste anche pensare di sposarvi. Ti sembrerò troppo diretta e indiscreta, lo so, ma ti giuro che ci ho pensato a lungo e sono sicura che sareste una bella coppia. Che ne dici? Non vorresti sposarlo? Sai, essendo sua zia, ti confesso che sono un po’ preoccupata per lui, se ne sta sempre da solo ed è molto timido. Gli anni passano per tutti, non vorrei che arrivasse a una certa età senza mai essere stato con una ragazza”. Come potete immaginare, ero esterrefatta, non me lo sarei mai aspettata. Riuscii a rispondere solo un laconico: “Fammici pensare un attimo, per favore”. Poi, il cuore che mi batteva nel petto come impazzito, cercai di rifletterci su. Non solo mi si offriva l’occasione di frequentare il mio primo amore, ma addirittura di sposarlo, e subito! Dire che mi sembrava di toccare il cielo con un dito non basta a esprimere la felicità che provavo in quel momento. Avevo paura che il cuore potesse scoppiarmi da un istante all’altro. Ecco perché non ci misi piú di tanto a decidere: ero d’accordo, mi pare ovvio, desideravo sposare il mio principe azzurro… Solo che all’ultimo momento mi resi conto di un fatto strano e mi prese un dubbio atroce».
«Credo di aver capito quale fosse il suo dubbio: perché Komoda non è venuto a farmi la proposta di persona?» disse Nakagusuku.
«Esatto, proprio cosí» annuí Shizuko, guardandolo dritto negli occhi. «Persino io, che ero innamorata pazza di Komoda, sospettai subito che lui non c’entrasse niente e che fosse sua “zia”, per cosí dire, a volersene sbarazzare per qualche motivo. In ogni caso, ero terrorizzata all’idea che Yumi volesse farmelo sposare anche se lui non mi amava, non riuscivo a capirci niente. Al colmo del tormento, non potendone piú, decisi di chiedere consiglio a mia madre. Come c’era da aspettarsi, fu molto sorpresa di non essere stata consultata in anticipo su una questione di tale importanza. E alla fine mi disse: “Non ti resta che andare da Komoda e chiedere a lui, non hai altra scelta”. Decisi di seguire alla lettera il suo consiglio, dovevo sapere, non ci dormivo piú la notte. Cosí telefonai alla sede della società dove lavorava e gli chiesi di vederci. Lui uscí dall’ufficio senza farmi attendere e andammo a prendere un tè. Mi disse che si aspettava che mi sarei fatta viva e che era contento di vedermi. “Purtroppo non sono abbastanza bravo con le parole e non riesco mai a spiegarmi bene” esordí dopo che ci fummo seduti a un tavolino. “Quando mia zia ha cominciato a insistere che era venuto il momento di farmi una famiglia, ho pensato subito a te. Noi due non abbiamo mai avuto modo di parlare molto, ma ho la sensazione che un po’ ci somigliamo e che possiamo andare d’accordo. Io ti amo e vorrei averti al mio fianco e proteggerti per tutta la vita”. Aveva la tendenza a tenere lo sguardo basso, e questo mi preoccupava non poco, ma ero soddisfatta perché finalmente avevo deciso di agire e di verificare tutto di persona. Alla fine mi invitò da lui e da Yumi il sabato successivo. Tornai a casa contenta e ringalluzzita e raccontai tutto a mia madre. Ricordo che era anche lei molto felice, festeggiammo con una bottiglia di buon vino e condividendo lacrime di gioia. Il sabato pomeriggio seguente, come da programma, andai a trovare Yumi e Komoda. Nel frattempo si erano trasferiti, non abitavano piú a Ōtsuka, ma nella zona di Waseda, dove avevano trovato una casa piú grande. Mentre mi apprestavo a bussare, mi bloccai davanti alla porta, perché sentii Yumi lamentarsi e piangere a dirotto. Ero stupefatta, in pubblico era sempre calma e tranquilla, e capii subito che doveva esserci dietro qualcosa di terribile».
Shizuko fece una pausa per riprendere fiato e bere un sorso d’acqua. Tamaki, intrigata come non mai da quella storia, non vedeva l’ora di conoscere il seguito.
«Che cosa diceva Yumi? Riusciva a distinguere le sue parole?» chiese, spalancando gli occhi.
«“Komoda, perdonami, ti prego. Riuscirai a perdonarmi, vero?” si scusava tra un singhiozzo e l’altro. Mi domandavo che cosa fosse successo, ero molto scossa e volevo saperlo a tutti i costi. Feci il giro della casa e mi appostai in un angolo sul retro. Era una vecchia casa e in piú era piena estate, per cui le porte scorrevoli erano spalancate e si sentiva tutto. A un certo punto, Yumi si mise a gridare come una pazza isterica: “Non voglio lasciarti tra le braccia di un’altra, non voglio! Perdonami, ti prego! Ti chiedo scusa! Non devi andare da lei, io sono la tua unica donna!”. Ero talmente atterrita da non riuscire a muovere un dito, ero come paralizzata. Alla fine rinunciai a bussare alla porta e tornai di filato a casa. Non dissi niente a mia madre, non ne parlai con nessuno e feci finta di dimenticare quella faccenda, seppellendola per sempre dentro di me».
«E Komoda? Lui non diceva niente? Mentre lei era lí fuori, non sentí anche la sua voce?» chiese Saitō.
«Sí» rispose Shizuko. «Ripeteva in tono lamentoso: “Io ho fatto solo quello che mi hai detto di fare tu”, e piangeva a dirotto anche lui. Per farla breve, all’epoca Yumi era diventata una scrittrice piuttosto conosciuta e Komoda era un uomo adulto. Erano due persone in vista, non potevano rischiare che si parlasse di loro e che scoppiasse uno scandalo. Avevano riempito di frottole parenti e amici, le loro scuse non potevano reggere ancora a lungo. E cosí, alla fine, Yumi aveva avuto l’idea di lasciare Komoda e di farmelo sposare».
Dopo che Shizuko se ne fu andata, Tamaki era esausta e non aveva alcuna voglia di rimettere in ordine gli appunti che aveva preso. Si immerse insieme ai due editor nella lettura del menu e Saitō propose di bere qualcosa e indicò una birra Heartland.
«All’inizio ho pensato che avesse una sorta di complesso nei confronti della madre» commentò lo stesso Saitō. «La nominava ogni minuto, anche quando non era necessario».
«Secondo me» osservò Tamaki, «Shizuko è una donna tradita. Anche se Yumi è morta, non le ha mai perdonato quello che ha fatto».
«A me ha fatto molta paura» disse Nakagusuku, mentre si accendeva una sigaretta. «Parlava a raffica, era cosí tesa, e si vedeva che dentro di sé covava una grande rabbia».
Al cameriere che arrivò per prendere le ordinazioni, Tamaki chiese una birra alla spina, Nakagusuku un gin tonic e Saitō una Heartland. I tre si scambiarono uno sguardo, come i membri di una giuria in procinto di emettere il verdetto.
«Io non penso che Miura Yumi sia X» disse Tamaki.
Bisognava ripartire da zero.
«Vuole che provi a mettermi in contatto con questo Komoda e che organizzi un incontro?» le chiese Saitō, sfogliando l’agenda.
«No, per il momento va bene cosí, sono stanca» rispose in tono scoraggiato Tamaki. Intanto il cameriere si riavvicinò al tavolo per sostituire il posacenere pieno di cicche, la maggior parte delle quali apparteneva a Shizuko.
«In ogni caso» disse Nakagusuku, «se Shizuko ha il recapito di Komoda nella rubrica del cellulare, significa che sono tuttora in buoni rapporti, no? Non è da escludere che poi si siano sposati, dopo la morte di Yumi…»
Il giovane editor prese in fretta il biglietto da visita di Shizuko per verificare il cognome e si rese conto di aver detto una sciocchezza, il volto distorto in un sorriso imbarazzato.
5. 1926-1989 (N.d.T.).
6. Shimoyama Sadanori, funzionario del ministero dei Trasporti e primo presidente di Nihon kokuyū tetsudō (Japanese National Railways), fu responsabile di circa trentamila licenziamenti il 4 luglio del 1949 e scomparve il giorno successivo in un grande magazzino di Tōkyō. Il 6 luglio, il suo cadavere investito da un treno fu rinvenuto sui binari e non fu possibile stabilire se si trattasse di omicidio o suicidio. Dieci giorni piú tardi, il 15 luglio, un treno fuori controllo deragliò nella stazione di Mitaka in seguito a un probabile sabotaggio, provocando sei morti e venti feriti. Furono sospettati, senza l’ausilio di prove concrete, alcuni membri del Partito comunista giapponese appartenenti al sindacato dei ferrovieri. A questi due incidenti se ne aggiunse un terzo – pertanto si suole parlare dei “Tre grandi misteri della Japanese National Railways“ – avvenuto a Fukushima il 17 agosto dello stesso anno: un altro deragliamento a causa di un sospetto sabotaggio, occorso tra le stazioni di Kanayagawa e Matsukawa, che provocò tre vittime (N.d.T.).
6
Inseparabili
1
«Cosa intende fare? Eventualmente resta da sentire solo la moglie di Midorikawa. Che ne pensa, ci proviamo?»
La stesura del romanzo procedeva molto a rilento e Saitō, fuori di sé, aveva telefonato a Tamaki per chiedere notizie e metterle pressione. Lei avrebbe voluto avere la forza di rispondergli in tutta sicurezza, ma purtroppo il recente incontro con Enami Shizuko la aveva fortemente demoralizzata. Che cosa cercava? Che cosa voleva scrivere? Non lo sapeva piú neanche lei. Avrebbe voluto immergersi subito nella storia, ma non sapeva chi mettere in scena e che cosa raccontare. Perché la tesi secondo cui Miura Yumi era X era stata smentita da Shizuko.
Naturalmente, come per tutti gli scrittori, dei periodi di stasi creativa erano inevitabili. Scrivere un romanzo non era l’impresa piú facile di questo mondo: occorreva andare in giro e scandagliare il terreno senza mai fermarsi, fino a trovare la chiave giusta per passare al livello successivo. Il problema, stavolta, era che Tamaki dubitava che ci fosse un livello successivo, si trovava in un’impasse per lei senza precedenti.
Che cosa ne era stato della X descritta nell’Innocente? Con quale stato d’animo quella donna aveva letto il romanzo di Midorikawa? E se non lo avesse mai letto? In ogni caso, che le fosse capitato o meno tra le mani, che cosa avrebbe pensato della storia e del modo in cui l’autore aveva parlato di lei? Tamaki era completamente all’oscuro della reazione di quella donna, e questo impediva alla sua immaginazione di mettersi in moto e la rendeva sempre piú tesa e vulnerabile di fronte al trascorrere del tempo. L’innocente era un romanzo molto famoso, eppure X era introvabile. Che disdetta! Finché Tamaki non fosse riuscita a sapere qualcosa di X e del suo mondo interiore, il suo romanzo e il sospirato tema della “soppressione del rapporto d’amore” rischiavano di restare incompiuti.
«Sta forse dicendo che dovremmo chiedere spudoratamente alla moglie di Midorikawa chi è X? Io non ne ho il coraggio. E lei?» chiese Tamaki.
«No, nemmeno io» rispose in tono pacato Saitō.
La moglie di Midorikawa Mikio aveva ottantasei anni. Ne erano passati circa diciassette da quando il marito era morto, all’età di sessantanove anni. In passato era nota con lo pseudonimo di Midorikawa Midori, autrice di libri per bambini, ma adesso, dal momento che aveva abbandonato la scrittura da un paio di decenni, era per tutti semplicemente la signora Midorikawa Chiyoko.
«Nell’Innocente è citata con il suo vero nome, al pari degli altri componenti della famiglia Midorikawa, no? Questo mi induce a pensare che si tratti di un romanzo molto realistico e che la descrizione delle liti cruente tra lei e il marito siano estremamente veritiere. Non è che da qualche parte ne parla lei stessa in modo dettagliato? Non lo so, in un saggio o magari in un’intervista?»
«Purtroppo no, o perlomeno dal materiale che ho consultato fino a oggi non è emerso niente».
Nel tono della voce di Saitō c’era una velata critica alla precisione meticolosa di Tamaki. Forse voleva dirle che era una scrittrice e di tanto in tanto poteva anche permettersi di affidarsi alla fantasia, soprattutto nel caso di dettagli e situazioni di cui nessuno era al corrente. Nessuno le vietava di creare dal nulla un’altra verità. Ma lei desiderava a tutti i costi sapere chi era X, ormai non ne poteva fare a meno.
Non c’era traccia di articoli, interviste o altri scritti in grado di fornire a Tamaki un suggerimento utile. A suo tempo, nessuna delle persone vicine a Midorikawa e alla sua famiglia aveva voluto aprire bocca sull’argomento. Forse anche per una forma di discrezione e rispetto verso la tragica scomparsa per annegamento del figlio piú piccolo, Yōhei.
Esisteva un unico appiglio: uno speciale televisivo registrato poco dopo la morte di Midorikawa, al quale aveva partecipato anche Chiyoko. Era andato in onda diciassette anni prima e sfortunatamente non era disponibile la registrazione. In base al racconto di alcune persone che avevano visto il programma in televisione, Chiyoko rispondeva a una domanda dell’intervistatore affermando, con una punta di nostalgia, che gli insulti e le parolacce gridati al marito nelle pagine dell’Innocente non erano altro che il frutto di un’invenzione narrativa.
«Se vuole, proverò a mettermi in contatto con lei e cercherò di organizzare un incontro» disse Saitō. «Ma bisogna fare in fretta, non c’è tempo da perdere».
“Bisogna fare in fretta, non c’è tempo da perdere”: quelle parole si riferivano all’età avanzata di Chiyoko o al ritardo di Tamaki nella stesura del romanzo?
«Va bene, proceda pure» rispose Tamaki, senza starci troppo a pensare.
«Perfetto. Posso accennare alla sua intenzione di scrivere un romanzo sull’argomento, vero?»
«Sí, non ci sono problemi».
Tamaki aveva deciso, bisognava giocare quell’ultima carta. Sapeva che Saitō, come suo solito, avrebbe fatto tutto il possibile per accontentarla. Forse sarebbe riuscito a fissare un appuntamento con la moglie di Midorikawa, o forse no. Ormai non restava che affidarsi al cielo.
Dopo aver riattaccato, Tamaki pensò che X poteva anche essere un’invenzione di Midorikawa. Intorno a lui gravitavano numerose figure femminili, su questo non c’erano dubbi. La piccola Mōcha, per esempio, con la quale aveva avuto una relazione durata circa sei anni, e chissà quante altre donne con le quali aveva avuto delle semplici avventure. Ma X e il suo telegramma, che diceva: «Ieri sera, dimenticato chiavi da me», forse esistevano solo nelle pagine dell’Innocente.
Poteva darsi che per Midorikawa Mikio tutte le donne all’infuori di sua moglie Chiyoko fossero X, cosí come forse lo erano per la stessa Chiyoko. Niente poteva escludere che quell’amante misteriosa non fosse altro che una fantasia nata da una complicità di coppia. D’un tratto Tamaki ebbe l’impressione di vedere X sgonfiarsi davanti ai propri occhi come un palloncino, senza né volto né consistenza fisica, e trasse un profondo sospiro. L’innocente non era niente di piú che una storia d’amore tra un uomo e una donna. Tra Mikio e Chiyoko.
Qualche giorno dopo, arrivò una nuova telefonata da parte di Saitō.
«La chiamo a proposito di Midorikawa Chiyoko, ha accettato!» le disse con voce eccitata. «Però non subito, perché pare che al momento sia molto occupata. All’inizio mi aveva prospettato di rimandare all’anno prossimo, ma poi ci ha ripensato e mi ha proposto di combinare per novembre. “Alla mia età, è meglio non rinviare troppo” mi ha detto, “perché la chiamata dall’aldilà potrebbe arrivare da un giorno all’altro”. Che ne pensa? È un’ottima notizia, no?»
Saitō fece seguire alle sue parole una breve risata. Chiyoko doveva essere una donna intelligente e dotata di senso dell’umorismo. Tamaki si sentiva in salvo, almeno per il momento, grazie a quella brusca e indiscreta richiesta di incontro rivolta alla moglie di Midorikawa Mikio.
«Ci toccherà andare fino in Hokkaidō» aggiunse subito dopo Saitō. «Chiyoko vive lí insieme a una persona che pare le faccia da assistente o qualcosa del genere. La figlia secondogenita, Michiko, abita vicino a lei e sarà presente all’incontro».
Tamaki rispose che era d’accordo e chiuse la comunicazione. Finalmente aveva l’opportunità di conoscere di persona Midorikawa Chiyoko. Con un misto di timore e speranza, non poté fare a meno di chiedersi che cosa la spingesse ad andare avanti e che cosa stesse cercando di preciso. Ma d’altra parte sapeva bene che occorreva innanzitutto agire, altrimenti non avrebbe mai avuto nulla di concreto tra le mani.
Era ora di dare fondo a tutto il suo coraggio. E nel frattempo le arrivò un’e-mail da parte di Nakagusuku.
Gentile Suzuki Tamaki,
ho saputo oggi da Saitō che avrà presto occasione di incontrare la signora Midorikawa Chiyoko. Pare sia molto restia ad accettare interviste, perciò credo che in qualche modo abbia percepito la sua ossessione di conoscere la verità in quanto scrittrice. Mi rendo conto che essere in troppi potrebbe complicare le cose, ma la prego di farmi venire con voi, ci terrei molto a essere presente all’incontro. Non c’entra niente, ma all’improvviso mi sono ricordato dei miei genitori. Mia madre ha sofferto a lungo perché mio padre aveva un’altra, ma dall’oggi al domani, non so come, ha capito qualcosa e di colpo è diventata una “persona positiva”, che sorrideva per tutto il tempo serafica, come la statua del grande Buddha. La cosa mi faceva una paura incredibile. Perché gli individui che raggiungono l’illuminazione perdono ogni desiderio – mi chiedevo – e il loro volto perennemente sorridente finisce per diventare grottesco e raccapricciante?
Non so che genere di persona sia Midorikawa Chiyoko, ma ho ragione di sospettare che non sia affatto una donna tranquilla e “illuminata”.
Venendo al suo romanzo, lei ha detto che procede a rilento e subisce delle battute d’arresto, ma d’altra parte ha scelto un tema complesso e non facile da sviluppare. Ora, a costo di risultarle sfacciato, mi permetto di dirle che forse converrebbe procedere per linee esterne, ovvero affrontando l’argomento senza puntare direttamente al nocciolo, non crede?
Nakagusuku Yōichi
Erano tutti molto eccitati all’idea di poter finalmente incontrare Midorikawa Chiyoko. Tamaki era rimasta colpita dalla parola “ossessione” utilizzata da Nakagusuku all’inizio della sua e-mail. Era vero: il tema della “soppressione del rapporto d’amore” si legava all’“ossessione” di vivere l’amore fino alle sue estreme conseguenze.
Allora, come fosse tentata dal “demonio”, Tamaki si sentí invadere dal folle desiderio di incontrare di nuovo Seiji. Quando si erano rivisti, il 7 luglio, aveva pensato che non si sarebbero incontrati mai piú. E invece ora aveva una voglia irrefrenabile di vederlo al piú presto, subito. Da dove nasceva quel desiderio urgente? “Non siamo piú cosí giovani, non sappiamo chi di noi due morirà per primo. È inutile rimandare, dobbiamo vederci”: era forse ossessionata da questa frase che aveva pronunciato lei stessa e che l’aveva lasciata confusa?
Aveva anche voglia di chiedergli del suo “problema di salute”, al quale Seiji aveva fatto cenno solo in modo vago. Dopo la loro violenta separazione, era come se Tamaki volesse riparare la rottura con un mastice chiamato “ansia e preoccupazione”. Forse sognava di riconquistare come per magia l’intimità di un tempo, di poter ritrovare la confidenza e la naturalezza che le avrebbero consentito di fare a Seiji tutte le domande che voleva? No, devo smetterla con queste assurdità, questo è puro egoismo!, pensò ridendo amaramente di se stessa, come se tentasse di far prevalere il suo lato razionale.
Se avesse rivisto Seiji, che cosa avrebbe fatto? Come sarebbe andata a finire? Di tanto in tanto cercava di immaginarselo e di darsi una risposta, magari mentre leggeva uno dei tanti blog sconclusionati di cui il web era pieno. Forse avrebbero finito per riflettere insieme sullo stato della loro storia, che negli anni avevano approfondito, piegato e distrutto. Ma ciò che piú di tutto turbava Tamaki era la metamorfosi di Seiji, la cui ragione era racchiusa in quella frase che lui aveva pronunciato nel corso del loro ultimo incontro: «Ho deciso di prendere la vita alla leggera, non mi importa piú di niente».
“Prendere la vita alla leggera”…
Imponendosi di soffocare l’amore, l’odio e la collera, Seiji voleva vivere il resto dei suoi giorni col sorriso sulle labbra. «Perché gli individui che raggiungono l’illuminazione perdono ogni desiderio e il loro volto perennemente sorridente finisce per diventare grottesco e raccapricciante?» aveva scritto il giovane Nakagusuku nella sua e-mail. E in effetti l’espressione allegra di Seiji, quel giorno, aveva per l’appunto qualcosa di sinistro.
Nonostante tutto, Tamaki non poteva fare a meno di pensare che il loro viaggio non fosse ancora finito. Non voleva rassegnarsi all’idea, anche se era pressoché certa che lui la pensasse diversamente e che l’avrebbe liquidata in malo modo. Sentiva che qualcosa era rimasto in sospeso. Forse non si sarebbero mai piú rivisti, non si sarebbero mai piú stretti l’uno nelle braccia dell’altra e non si sarebbero mai piú guardati negli occhi alla disperata ricerca di ciò che giaceva in fondo alla loro anima. Eppure non tutto era finito, anche solo per il fatto che avevano costruito insieme una lunga relazione. Erano ancora in viaggio.
Ma come fare, allora, a mettere un punto fermo alla loro storia? In che modo si poteva arrivare una volta per tutte alla fine del viaggio? La soluzione era una sola: sopprimere. Bisognava sopprimere il loro rapporto d’amore. E difatti era questo il tema che Tamaki aveva scelto per il suo nuovo romanzo, L’indecenza. Forse Seiji, con l’intenzione di “prendere la vita alla leggera”, aveva già soppresso qualcosa? No, era impossibile. Voleva certamente sopprimere qualcosa, ovvero il loro amore e il loro passato, ma non ci era ancora riuscito. Tamaki ne aveva avuto una prova lampante quando si erano rivisti, nell’istante in cui aveva percepito le scintille della sua collera non ancora spenta.
Ora voleva sapere, non voleva avere piú dubbi: nei loro cuori restavano ancora tracce di odio e di rabbia? Quando sarebbero definitivamente scomparse? Aveva bisogno di scoprirlo a tutti i costi, riflettendo sullo stato attuale della loro relazione.
Era ottobre. Tamaki decise di scrivere un’e-mail a Seiji. Lui le rispose e si scambiarono una corrispondenza serrata. E alla fine Tamaki pensò che prima o poi si sarebbero rivisti, anche se non nell’immediato.
Caro Seiji,
buongiorno. È da un po’ che non ci sentiamo.
Come stai? Di recente ho pensato a te e ho deciso di scriverti questa breve e-mail.
In questi ultimi tempi sono molto occupata con il mio nuovo romanzo, quello su Midorikawa Mikio.
Se ti va e hai tempo, che ne diresti di vederci e prendere un tè insieme?
Yumiko
Cara Yumiko,
è vero, è un bel po’ che non ci sentiamo. Ti ringrazio molto per la tua e-mail.
Posso ben immaginare quanto sia difficile e impegnativo essere occupati con la stesura di un romanzo. Non appena avrai un momento libero, vediamoci e prendiamo un tè insieme.
Io sto bene, niente di nuovo.
Sono contento, non vedo l’ora di rivederti.
Seiji
Caro Seiji,
grazie per l’e-mail.
Sono molto felice di sapere che stai bene.
Avresti per caso un momento libero la seconda o la terza settimana di questo mese, preferibilmente tra il lunedí e il mercoledí?
A presto
Yumiko
Cara Yumiko,
grazie per l’e-mail.
Scusami, ma in questo mese di ottobre dovrò andare all’estero per lavoro e sono molto occupato. Ti dispiace se rimandiamo il nostro incontro piú in là?
Mi farò vivo io, non preoccuparti.
A presto
Seiji
Una di quelle notti, Tamaki sognò Seiji. Era molto tempo che non le succedeva ed era facile supporre che fosse dovuto alla recente ripresa dei loro contatti. In effetti, anche quando stavano insieme, le capitava di sognarlo solo di rado, e a maggior ragione stavolta provava imbarazzo anziché nostalgia o un altro sentimento simile.
Nel sogno, si apprestava a uscire con qualcuno. Un perfetto sconosciuto, un uomo molto piú giovane di lei che incontrava per la prima volta e che assomigliava a un attore che spesso appariva in televisione. Ora, mentre nella realtà non provava il minimo interesse per quell’attore, nel sogno era su di giri e si sentiva fortemente attratta da quell’uomo che gli assomigliava. Il tizio, chissà perché, indossava un completo grigio da impiegato e camminava impettito, come a voler fare mostra del suo fisico possente. Tutt’a un tratto, Tamaki si accorgeva della presenza di Seiji dall’altro lato della strada. Era in compagnia di una donna bassa di statura e portava un cappello calato sulla nuca che formava come un’aureola. A ben vedere, si trattava del cappello preferito del figlio di Tamaki, una buffa paglietta con la lingua dei Rolling Stones stampata sul davanti. Seiji, con in testa quel ridicolo cappello che non gli si addiceva per niente, la guardava di continuo. Aveva un’aria triste e sofferente, che il colorito scuro e il viso gonfio accentuavano. Ma Tamaki, senza provare alcuna pietà, non faceva che pensare che il suo nuovo compagno, al quale si teneva molto stretta, fosse mille volte meglio di lui. Se Tamaki avanzava, avanzavano anche Seiji e la donna dall’altro lato della strada. Procedevano in parallelo, passo dopo passo. E Tamaki, osservandoli, si chiedeva con curiosità cosa pensasse Seiji in quel momento. Inoltre era molto fiera del giovane uomo che la accompagnava e si domandava chi fosse la donna al fianco di Seiji.
Al risveglio, stupefatta per la vividezza del sogno, Tamaki provò a rimuginarci su. Desiderosa di sapere se i dettagli corrispondessero alla realtà, andò prima di tutto nella stanza del figlio per controllare la paglietta. Quando faceva dei sogni strani, aveva l’abitudine di riflettere in modo sistematico sui possibili stimoli sensoriali ed emotivi che avevano potuto generare un determinato scenario onirico. La paglietta degli Stones richiamava forse il berretto patchwork made in China che Seiji portava spesso in occasione di interviste, presentazioni di libri e altri simili eventi? Quando era in compagnia di Tamaki, si sbizzarriva a indossare indumenti e accessori stravaganti e talvolta addirittura di pessimo gusto. Ma in effetti era proprio perché era insieme a lei che si sentiva libero di lasciarsi andare a ogni tipo di stramberia. La stessa Tamaki, del resto, aveva preso l’abitudine di indossare jeans e t-shirt con disegni e decorazioni sgargianti acquistati nei mercatini di Ōsaka.
E, guarda caso, la loro relazione aveva iniziato a deteriorarsi esattamente quando Seiji aveva cominciato a portare per pura ostentazione un paio di occhiali non graduati con la spessa montatura nera e quel berretto patchwork. Il cappello del sogno era con ogni probabilità il simbolo di quel deterioramento senza ritorno.
Quanto al tizio palestrato e alla donna di bassa statura che li accompagnavano, Tamaki concluse che dovevano simboleggiare l’antagonismo che esisteva tra lei e Seiji. Di fronte alla semplicità estrema del suo ragionamento, si ritrovò a sorridere con amarezza. Poi, entro breve, anche quel sogno finí insieme a tutti gli altri nel dimenticatoio.
Qualche giorno dopo, Tamaki accettò di sottoporsi insieme a un altro scrittore a un’intervista organizzata da una rivista letteraria. Nel corso dell’incontro le squillò il cellulare, che aveva dimenticato di spegnere. Guardò in fretta il display e si accorse che la chiamata proveniva dall’amica Hitomi Yōko, anche lei scrittrice. Erano suppergiú coetanee e si sentivano con una certa frequenza, soprattutto via e-mail. Non si telefonavano quasi mai, se non in caso di stretta necessità, perché erano molto occupate con il lavoro. Tamaki, pur se imbarazzata, si scusò e disse che doveva rispondere per forza in quanto si trattava di una comunicazione urgente.
«Ciao, perdonami se ti disturbo, ma devo dirti una cosa importante. Ti ho telefonato perché ho pensato che al tuo posto avrei voluto che qualcuno mi avvertisse».
Tamaki intuí fin dalle prime parole che doveva essere successo qualcosa di grave. Qualcosa che senza ombra di dubbio riguardava Seiji. Ebbe un brutto presentimento e si sentí prendere dall’inquietudine.
«Ti ringrazio molto. In questo momento sto facendo un’intervista, ti richiamo io piú tardi».
«Va bene, d’accordo».
Subito dopo aver finito l’intervista, Tamaki chiamò Yōko dal taxi che la stava riportando a casa.
«Scusami per prima. Che cosa è successo?»
«Sí, dunque…» cominciò a dire l’amica con molta esitazione, facendo un lungo sospiro. «Me lo hanno appena comunicato… Seiji ha avuto un’emorragia cerebrale, tu lo sapevi?»
Tamaki era certa che prima o poi quel giorno sarebbe arrivato. Se lo aspettava, almeno a livello inconscio. Si sentiva frastornata e non riusciva a esprimersi a dovere.
«No… Quando è successo?»
“Verso febbraio ho avuto un problema di salute. Ma credo che riuscirò a tenere duro fino alla pensione”…
Le parole di Seiji le tornarono di colpo alla mente, come fossero pronunciate dalla sua viva voce. Purtroppo era successo. Era stato colpito da un aneurisma al cervello, come lui stesso temeva. Al pensiero che il brutto presentimento di poco prima si era rivelato fondato, Tamaki sentí un brivido freddo lungo la schiena. Anche Yōko doveva essere sconvolta, la sua voce era bassa e rauca.
«Venerdí sera. La situazione è molto delicata, le prossime ore saranno decisive».
«Significa che è grave?»
«Temo di sí… La persona che mi ha dato la notizia non vuole che si sappia in giro, trattandosi di questioni private, ma io ho pensato che non potevo non dirtelo».
«Grazie, hai fatto benissimo. Ciao, a presto».
Subito dopo aver chiuso la comunicazione, Tamaki telefonò alla persona in questione per avere informazioni piú dettagliate. Si trattava di Yamaguchi, l’editor che in passato era intervenuto nel tentativo di sanare il loro rapporto, quando le cose avevano cominciato a volgere al peggio.
«Buonasera, sono Suzuki Tamaki».
«Ah, salve, è un bel po’ che non ci sentiamo».
La voce di Yamaguchi suonava molto cupa.
«Ho appena saputo quello che è successo ad Abe, potrebbe dirmi come sta?»
«Ah, lo ha saputo… A dire il vero, mi ero chiesto se fosse il caso di avvertirla, ma poi ho desistito, mi scusi».
«Avrebbe dovuto chiamarmi» gli disse in tono secco Tamaki, pur sapendo che né Yamaguchi né altri sapevano che di recente lei e Seiji si erano rivisti. In fondo era normale che non avesse reputato opportuno metterla al corrente dell’accaduto, immaginando che non si frequentassero piú da diverso tempo.
«Mi spiace non averlo fatto» si scusò Yamaguchi. «In realtà, venerdí ero con lui, abbiamo passato una parte della serata insieme. Poi mi ha detto che aveva un impegno a Shinjuku e ci siamo separati. Pare che abbia perso i sensi mentre era per strada e che lo abbiano trasportato subito all’ospedale in ambulanza. Non so di preciso dove sia accaduto e come sia successo, non me l’hanno detto. Anche i familiari non sanno ancora granché, in questi casi si sta molto attenti alla privacy, è normale. Ha avuto una grave emorragia cerebrale in seguito alla rottura di un aneurisma. Versa in condizioni critiche. Sabato ha avuto un arresto cardiaco, ma per fortuna sono riusciti a intervenire tempestivamente. Naturalmente è ancora in rianimazione, nelle prossime ore decideranno se staccarlo o meno dalle macchine. Io non l’ho piú visto da venerdí sera, sto ricevendo qualche notizia da varie persone».
«Quindi è molto grave?» chiese senza giri di parole Tamaki.
«Sí, purtroppo. Credo che Abe non resterà tra noi ancora per molto».
Seiji stava per andarsene, stava per partire per il suo ultimo viaggio e non avrebbe mai piú fatto ritorno in questo mondo. Dov’era in quel preciso momento? Dove si stava dirigendo? Mentre se lo chiedeva, Tamaki teneva lo sguardo fisso sui grattacieli che si stagliavano nel cielo notturno, visibili dall’autostrada metropolitana numero quattro. Quante volte aveva fatto quella stessa strada in taxi con Seiji? Andavano sempre in giro insieme, chiacchierando, mano nella mano. Stranamente, Tamaki non versò neanche una lacrima. Sentiva un vuoto nel petto e continuava a chiedersi ossessivamente dove si stesse dirigendo Seiji tutto solo.
Da quando si erano conosciuti, Seiji era rimasto sempre dentro di lei e non si era mai allontanato, neanche per un istante. E in fondo era proprio quello il problema, ciò che impediva a Tamaki di “sopprimere” la loro storia d’amore. Forse Seiji, non potendone piú, aveva deciso di partire per un altro mondo. Un mondo lontano e oscuro.
Quel sogno, in cui lui le era apparso dopo tanto tempo, risaliva alla notte di venerdí… È forse venuto a dirmi addio?, si chiese Tamaki, lasciandosi sfuggire un risolino. Questo è il classico pensiero di una scrittrice arrogante e presuntuosa!, si disse subito dopo, in tono di rimprovero. Se fosse stata lei ad avere un malore in strada e ad apparirgli in sogno, Seiji non avrebbe mai concluso che si era fatta viva apposta per salutarlo, o comunque, se anche quel pensiero l’avesse sfiorato, lo avrebbe subito ricacciato indietro.
Tornata a casa, Tamaki si rassegnò all’idea di dover affrontare un lungo e triste periodo di tenebre. Quelle tenebre legate al ricordo dei giorni in cui si era decisa a riferire a Seiji che voleva sopprimere una volta per tutte il loro amore. Perché non poteva continuare a vivere cosí, con nella testa e nel cuore Seiji, doveva estinguere quella miriade di dettagli grandi e piccoli che glielo ricordavano in ogni momento e la facevano soffrire da morire. Doveva cancellare il ricordo di tutte le parole cattive che si erano detti e del male che si erano fatti.
Le toccava fare tutto da sola, aveva bisogno di rimettere tutto a posto, ora che Seiji aveva deciso di partire in completa solitudine verso un altro mondo. Non poteva trascurare niente, doveva occuparsi delle cose belle e di quelle brutte, delle gioie e dei dolori. Una lunga serie di immagini e pensieri prese ad attraversarle la mente e, come era naturale aspettarsi, quella notte non riuscí a chiudere occhio.
Mentre un uomo in rianimazione lottava disperatamente tra la vita e la morte, le belle giornate d’autunno si susseguivano una dopo l’altra. Era l’estate indiana: i giornali annunciavano che da qualche parte fiorivano i susini, ma Tamaki non ricordava dove di preciso. La notizia non la riguardava. Cosí come non riguardava Seiji. Anche se era terrorizzata all’idea che lui sparisse per sempre da questo mondo, lei doveva portare a termine il suo lavoro. Anche se il cervello di Seiji era sommerso da una marea di sangue, anche se le sue funzioni vitali si deterioravano una dopo l’altra e i suoi ricordi sbiadivano alla velocità della luce, Tamaki non poteva impedirsi di ricordare i tanti momenti trascorsi al suo fianco.
E intanto il giorno dell’incontro con Midorikawa Chiyoko si avvicinava. Tamaki andò alla Biblioteca nazionale del Parlamento, trovò una raccolta di saggi di Midorikawa Mikio fuori stampa che in precedenza non era riuscita a procurarsi e la lesse. Si soffermò su un brano in particolare, un breve scritto del 1960 intitolato Il significato nascosto. Il testo era stato pubblicato in origine su una brochure pubblicitaria di una via dello shopping.
Non l’ho mai confidato a nessuno, ma io vado matto per le jelly beans. Sono le mie caramelle preferite! La loro forma e i loro mille colori, la piacevolezza al tatto e la sensazione che si prova quando le si assapora mi mandano in estasi. Non posso fare a meno di pensare che un giorno ne mangerò tante fino a scoppiare! Ne compro una montagna facendo finta che siano per le mie figlie e finisco per divorarne a piú non posso con somma goduria.
Che delizia, che bontà! Me le pappo in quest’ordine preciso: rossa, gialla, arancione, bianca e poi azzurra e viola. E di nuovo, ancora: rossa, gialla, arancione, bianca e cosí via. E mentre ripeto il giro a una velocità inaudita, ecco che comincio a sentirmi la pancia gonfia e sono costretto a mettere via il sacchetto con i miei gioiellini multicolori. Sono un uomo adulto, lo so, ma è piú forte di me: amo mettere in fila sulla tavola da pranzo decine e decine di jelly beans in ordine di colore e mangiarle a partire da una delle estremità.
Qualche giorno fa, il mio amico Yoshiyuki mi ha fatto notare che nello slang americano jelly bean può significare “adescatore” o qualcosa del genere. Allora sono andato a controllare in un buon dizionario inglese-giapponese e ho trovato diversi significati e sinonimi: tipo dall’aspetto appariscente, adescatore, sfruttatore, dongiovanni, bellimbusto, cascamorto eccetera. Credo sia la forma a fagiolo delle caramelle a evocare in qualche modo numerosi e vari significati. E, per finire, devo dire che sono rimasto stupefatto nel constatare che il termine poteva indicare anche certe compresse di anfetamina! D’altra parte i fagioli sono un alimento di cui talvolta conviene diffidare, perlomeno a giudicare dalle mille superstizioni che li riguardano. La loro immagine, cosí come il suono stesso della parola, rivela chissà perché un senso di astruso mistero, di indecenza e di miseria. Tuttavia, ora che ci penso, ricordo che una mia cara amica mi ha detto che da bambina mangiava certi “fagioli di mare”. È una donna originaria dello Shikoku, la quale mi ha raccontato con immensa gioia e nostalgia che d’estate, nella cittadina dove abitava con la famiglia, andava al mare con un sacchetto di lino contenente dei legumi legato alla cintura del costume da bagno. Dopo aver nuotato per tutta la giornata, estraeva quei fagioli dal sacchetto e li mangiava: pare che, impregnati di acqua salata, diventassero molto teneri e gustosi. Quando ho provato a chiederle di che tipo di legumi si trattasse, lei mi ha risposto cosí, facendo spallucce: «A dire il vero, non saprei… a casa avevamo l’abitudine di chiamarli semplicemente “fagioli di mare”». Dunque al mondo esistono anche dei fagioli puri, candidi e innocenti!
Dopo aver finito di leggere il brano, Tamaki si lasciò sfuggire una risatina. Finalmente aveva trovato un punto di contatto tra Miura Yumi e Midorikawa Mikio. Facevano entrambi parte del gruppo di scrittori e aspiranti tali che orbitavano intorno alla rivista Shusui, ed era pertanto lecito supporre che piccole storie come quella menzionata nel breve saggio di Midorikawa fossero all’ordine del giorno. Era possibile individuare tracce di un legame particolare in quelle semplici frasi affettuose scritte a proposito dei famosi “fagioli di mare”?
Tamaki fotocopiò il brano e controllò il display del cellulare: niente, nessun messaggio. Seiji si stava avviando da solo verso la morte. E di fronte a quel vuoto sconfinato non c’era niente che lei potesse fare.
2
Era passata già una settimana da quando Seiji era stato ricoverato in ospedale in fin di vita. In contrasto con l’umore cupo e uggioso di Tamaki, l’autunno avanzava fresco e splendente. Al mattino, prima di andare allo studio, Tamaki aveva preso l’abitudine di passare in un santuario dei paraggi per fare una preghiera. Sapeva che la situazione era disperata ed era pronta al peggio, ma non aveva idea di come porsi davanti a quella nube scura che rischiava di esplodere da un momento all’altro.
In passato, quando suo padre era sul letto di morte, Tamaki aveva sentito una tensione indescrivibile montare dentro di sé giorno dopo giorno. In quel periodo, non appena scorgeva la facciata dell’ospedale dalla stazione di Ochanomizu, si precipitava verso l’ingresso, terrorizzata all’idea di non riuscire a salutare il padre per un’ultima volta. Se qualcuno le avesse chiesto perché si scapicollava per raggiungere l’ospedale, avrebbe risposto senza alcun dubbio che lo faceva spinta dall’urgenza di ristabilire un legame soddisfacente con il genitore prima che se ne andasse via per sempre, dal momento che non erano mai andati molto d’accordo. Il suo comportamento era una prova lampante di uno smisurato egoismo.
Ma stavolta Tamaki era fuori dai giochi. E anche se era consapevole che non poteva essere altrimenti, si sentiva estromessa e ne soffriva. Era sfinita. Il suo unico appiglio era Yamaguchi, e per giunta sapeva che le avrebbe telefonato solo per annunciarle la triste notizia. Per quanto potesse sembrare assurdo, mentre Seiji lottava tra la vita e la morte, la vita quotidiana procedeva come di consueto. Tamaki non riusciva a capacitarsene, e per questo si sentiva ancora piú impotente e avvilita, ma d’altra parte era la stessa routine quotidiana a darle almeno un po’ di sollievo. In apparenza tutto andava avanti come sempre, ma nel suo cuore regnava il caos, tanto che a volte si sentiva sprofondare in uno stato di stordimento totale.
E intanto la data di consegna del nuovo capitolo del romanzo si avvicinava implacabile. Riempí alcuni fogli riassumendo l’incontro con Enami Shizuko e si affrettò a inviarli alla redazione della rivista. Poco dopo ricevette una telefonata da Saitō, il quale le annunciava che le bozze della parte che aveva appena inviato sarebbero state pronte già in serata, dopo le nove, e che occorreva rileggerle e rimandarle subito indietro, altrimenti non avrebbero fatto in tempo.
Tamaki decise di restare allo studio in attesa del fax. Erie era andata via al solito orario e toccò quindi a lei fare il giro dell’appartamento per chiudere le tende. Quelle tende che aveva ordinato lei stessa, allo stesso negozio dove aveva acquistato le tendine a vetro per l’appartamento di fronte al love hotel.
Incapace di tranquillizzarsi, fece vagare a lungo lo sguardo per la stanza, mentre il buio continuava ad avanzare. Sotto la luce azzurrognola dei neon, tutto sembrava freddo e irreale.
Dopo la separazione da Seiji, Tamaki aveva perso in fretta l’abitudine di restare fino a tarda notte allo studio, per il semplice motivo che i ricordi legati a lui e a quel posto le facevano un male terribile, ora che non stavano piú insieme. Prima, Seiji passava una buona parte del suo tempo con lei. Nei periodi in cui lavoravano fianco a fianco a un nuovo libro, andava allo studio quasi tutti i giorni. E per cinque lunghi anni solo di rado non avevano trascorso insieme anche il fine settimana. In linea di massima, restavano senza vedersi per piú di sei o sette giorni di fila solo in occasione delle festività di Capodanno. C’erano giornate in cui anche chiacchierare fino all’alba sembrava non bastare. Avevano voglia di passare un’infinità di tempo insieme. Le tende erano impregnate del respiro e del fumo di sigaretta di Seiji. Quando avevano cominciato a discutere dell’eventualità di lasciarsi, lui aveva reagito dicendo: «Non avrò piú un posto dove andare».
Tamaki abbassò gli occhi a terra: sul pavimento marrone erano visibili due tracce bianche. Risalivano alla fine di dicembre di un paio di anni prima, quando Seiji, in preda a uno scatto d’ira, aveva scaraventato una sedia per aria gridando: «Vuoi che sfasci tutto?!». Quella lite, che per loro rappresentava un’autentica novità, era stata qualcosa di atroce e brutale. Tamaki ne ricordava molto bene il motivo: la sua decisione di fare a meno di Seiji come editor. E all’origine di quella scelta c’era il fatto che alla fine lui aveva scelto la sua famiglia e non lei. In quel momento, avevano stabilito di separarsi sia sul piano personale che su quello professionale.
Al termine della lite, quando Tamaki, furibonda, lo aveva schiaffeggiato in pieno viso, Seiji era diventato insolitamente rosso per la rabbia e l’aveva spinta contro il muro gridando: «Ringrazia il cielo che sei una donna, altrimenti ti spaccherei la testa!». E subito dopo aveva afferrato la sedia per la spalliera e l’aveva scaraventata per terra. Poi aveva recuperato in fretta il controllo e, raggomitolandosi tutto, aveva cominciato a scusarsi in tono piagnucoloso. Tamaki aveva subito preso due tranquillanti mandandoli giú con un paio di sorsi di sake, ma non si era affatto calmata e aveva continuato a piangere e urlare. Era stata una notte infernale. Parlare e tentare di ragionare non serviva a niente: si trovavano ormai in una strettoia dalla quale non era possibile uscire.
E ora Seiji stava per morire. La morte si trovava forse al fondo di quella strettoia? Tamaki guardò il cellulare per controllare se ci fossero chiamate o messaggi in arrivo. Da quando Seiji era in ospedale, lo faceva di continuo, era diventato un vero e proprio gesto compulsivo. Il display non segnalava nulla. Seiji era ancora aggrappato alla vita, forse solo per miracolo.
Sollevata, Tamaki prese un vecchio libro che era in un angolo della scrivania. L’immagine d’altri tempi sulla copertina mostrava una bambina con una gonna rossa che teneva le braccia alzate al cielo in segno di sorpresa, lo sguardo rivolto verso una scimmietta appollaiata sul ramo di un albero. Si trattava delle Avventure di Chiyoko, il primo libro per bambini scritto dalla moglie di Midorikawa Mikio, sotto lo pseudonimo di Midorikawa Midori. Tamaki aveva intenzione di rileggerlo in occasione dell’incontro in programma all’inizio della settimana successiva.
Le avventure di Chiyoko, contrariamente alla banale semplicità del titolo, era una favola originale che raccontava la storia di una bambina di circa dieci anni, Chiyoko per l’appunto, della quale nessuno conosceva l’età esatta. Era orfana e non andava a scuola. Rinchiusa in una grotta buia da una vecchia, aveva preso per madre un cane venuto da chissà dove ed era convinta che i numerosi pipistrelli che volavano vicino al soffitto della grotta fossero i suoi vicini. Tutte le mattine, la vecchia le portava da mangiare in una ciotola, che lei ripuliva avidamente come aveva imparato a fare da mamma cane, leccava le gocce d’acqua che colavano lungo le stalattiti e si lavava al ruscello sotterraneo. Da un foro in alto penetrava un po’ di luce, e di tanto in tanto la piccola Chiyoko andava a mettersi lí sotto e scarabocchiava sulla parete vicina, imparando a scrivere da sola. La vita della protagonista, in un certo senso semplice e felice, subiva a un certo punto un triste cambiamento: mamma cane moriva e la colonia di pipistrelli migrava altrove. Cosí, rimasta sola, la bambina scappava dalla grotta e partiva all’avventura nel luminoso mondo in superficie. Voleva trovare innanzitutto la vecchia che l’aveva segregata nella grotta, per chiederle perché lo avesse fatto e dove fosse la sua vera mamma. Essendo vissuta per molto tempo al buio, i suoi occhi erano sensibilissimi alla luce e di giorno a stento riusciva a tenerli aperti. Per vivere nel mondo luminoso di sopra aveva un bisogno assoluto di un paio di occhiali da sole. Purtroppo, però, la felicità in quel mondo pieno di luce non sembrava alla sua portata. Difatti gli occhiali da sole che aveva acquistato da un venditore ambulante erano di qualità scadente e le avevano danneggiato la vista. In ultimo era diventata cieca e, quando dopo tanto cercare aveva trovato la vecchia, non era stata piú in grado di riconoscerla.
Tamaki aveva sentito dire che all’epoca della pubblicazione il libro aveva riscosso scarso successo tra i bambini, ma gli adulti che avevano avuto modo di leggerlo lo avevano trovato molto interessante. Una recensione apparsa su una rivista femminile proponeva una chiave interpretativa arguta e affascinante, partendo dal presupposto che il personaggio di Chiyoko incarnasse la figura della donna di casa: il ruolo della madre affidato a un cane maschio anziché femmina simboleggiava il predominio dell’uomo sulla donna nella società maschilista, la grotta rappresentava il focolare domestico retrogrado e feudale, e il mondo luminoso della superficie evocava certamente un mondo libero e opulento. Oltre alle ovvie domande sull’Innocente, Tamaki aveva in mente di chiedere a Chiyoko anche il motivo che l’aveva spinta a scrivere quella strana favola e perché avesse deciso di farne un libro per bambini.
Di colpo squillò il telefono. Pensando che Saitō volesse comunicarle l’ora di invio delle bozze, Tamaki si precipitò a rispondere. Ma all’altro capo della linea, invece di quella del suo editor, sentí una voce sconosciuta che sembrava appartenere a un uomo di mezza età.
«Mi scusi tanto, parlo con casa Suzuki?»
L’accento era strano, aveva un’inflessione dialettale che Tamaki non era in grado di riconoscere, e inoltre dal tono era possibile immaginare che si trattasse di una persona poco abituata a parlare al telefono. Chissà chi era e da dove chiamava. In ogni caso, Tamaki si pentí subito di aver risposto con tanta fretta. Intenzionata a liquidare la questione al piú presto, decise di rispondere in modo sbrigativo.
«Sí, ma lei chi è?» disse. «Che cosa desidera?»
«Ah, chiedo scusa, io…» tentennò l’uomo, in palese difficoltà a causa della brusca reazione di Tamaki. «Vorrei parlare con la signora Suzuki Tamaki…»
«Sono io, mi dica».
«Oh, mi spiace tanto se la disturbo, immagino sia molto occupata…» Il tizio era impacciato e nervoso, Tamaki percepiva la tensione all’altro capo della linea. «Il mio nome è Uragasumi e la chiamo da Fukushima. Ecco, noi non ci conosciamo, e mi deve perdonare se mi sono permesso di telefonarle. Posso rubarle solo qualche minuto?»
Tamaki era seccata, ma d’altra parte era curiosa di conoscere il motivo di quella misteriosa telefonata. Intanto aveva preso carta e penna e aveva scritto il nome dell’uomo e la data. E, scrivendo, si era resa conto che “Uragasumi” era molto simile al nome di un noto sake, Urakasumi. Nel frattempo ascoltava con sospetto le parole del suo interlocutore, che continuava a balbettare. Le disse che abitava in un posto che lei non aveva mai sentito nominare e che era un funzionario comunale.
«Leggo i suoi libri da diverso tempo… Li trovo molto interessanti e mi piace soprattutto, non so come dire, il modo schietto ed efficace in cui lei esprime le sue idee, abbastanza insolito per una donna. Ho preso subito anche il suo ultimo romanzo, il giorno stesso in cui è arrivato in libreria. Mi è piaciuto moltissimo».
«Grazie, lei è davvero gentile».
Era un semplice fan? Tamaki era decisamente pentita di avergli risposto. Soprattutto quando ricordò che Seiji le ripeteva spesso di evitare di avere rapporti diretti con i lettori e di non rispondere personalmente al telefono. Roba da matti, sembrava uno scherzo del destino. Ora che si sentiva afflitta all’idea della scomparsa imminente di Seiji, aveva risposto senza pensarci alla telefonata di un perfetto sconosciuto.
«Ora sto leggendo il romanzo che sta scrivendo a puntate sulla rivista Diablo… L’indecenza. Glielo dico perché ho notato una coincidenza incredibile, ed è per questo che mi sono permesso di telefonarle».
«Quale coincidenza? A cosa si riferisce?» chiese Tamaki, raddrizzando di colpo la schiena.
«Mia madre, che ha ottantacinque anni, è ricoverata da qualche tempo in ospedale ed è molto debilitata. Alla fine dell’estate, le sue condizioni hanno subíto un netto peggioramento e non le resta molto da vivere. Ah, mi scusi, non gliel’ho ancora detto, ma in questo preciso momento mi trovo all’ospedale, la sto chiamando da lí. Sono uscito fuori in terrazza per chiamarla. Ora, in camera con mia madre, ci sono mia sorella, i nipoti e anche i pronipoti. Siamo tutti qui a tenerle compagnia in questi ultimi giorni di vita. I medici dicono che purtroppo non manca molto, se ne andrà presto. E allora mi sono deciso a fare questa telefonata perché vorrei poter dire a mia madre, prima che ci lasci per sempre, che sono riuscito a riferirle una cosa alla quale teneva moltissimo e che voleva farle sapere a tutti i costi. Sono sicuro che in questo modo si congederà da questo mondo con animo piú sereno».
Tamaki non credeva alle sue orecchie, ora toccava a lei sentirsi tesa e nervosa. Per un istante ebbe addirittura l’illusione che quell’uomo fosse una specie di messaggero inviato da Seiji in punto di morte. Aveva le lacrime agli occhi.
«Mi dispiace molto per lei e la sua famiglia. Ma che cosa voleva dirmi sua madre?»
«Che è lei la X dell’Innocente».
L’uomo aveva pronunciato quella frase con un tono pieno d’orgoglio, quasi che rivelare quella verità lo facesse sentire importante. Tamaki restò muta, non riuscí a fare altro che deglutire a vuoto, il respiro bloccato in gola.
«Nell’Indecenza, ovvero nella parte del romanzo fin qui pubblicata» proseguí l’uomo, «lei dice di essere alla ricerca di X e di voler “sopprimere” l’amore, giusto? Ora, quando ne ho parlato con mia madre, mi ha detto che prima di morire voleva assolutamente che mi mettessi in contatto con lei per parlarle della sua storia, me lo ha fatto promettere, ed ecco che finalmente sono riuscito a tenere fede alla mia promessa».
«È incredibile, glielo ha chiesto lei stessa?»
Tamaki era attonita, ma nello stesso tempo non stava piú nella pelle per l’eccitazione.
«Sí, esatto. Come ho già detto, ho una sorella, ed entrambi siamo a conoscenza dei fatti da molto tempo. Per essere precisi, nostra madre ci ha raccontato tutto diciassette anni fa. Un giorno, ci chiamò e ci disse che doveva parlarci di una cosa molto importante. Non potrò mai dimenticarmelo, cominciò col dirci che aveva appena avuto una triste notizia: il grande amore della sua vita era morto. Sbalordito, le chiesi di chi si trattasse, e lei pronunciò il nome del famoso scrittore Midorikawa Mikio. Andò a prendere la sua copia dell’Innocente da uno scaffale della libreria e, con gli occhi bassi, ci disse che si vergognava ma che era lei la donna misteriosa di cui si parlava nel romanzo. Se non ricordo male, una delle pagine riguardanti X era contrassegnata da un segnalibro di legno di betulla. Io e mia sorella, che come può immaginare eravamo sconvolti, ci immergemmo subito nella lettura di quel libro di cui non avevamo mai sentito parlare. Io mi appassionai molto alla vicenda e ricordo che il romanzo non mi dispiacque affatto, ma mia sorella, che non ama leggere piú di tanto, disse che era riuscita a finirlo con difficoltà e che aveva provato una certa ripugnanza. All’epoca, ero vicino ai quarant’anni, mentre lei doveva averne quasi trentacinque. È chiaro che una donna, messa di fronte alla vita intima della propria madre, per di piú da un momento all’altro, possa provare un forte imbarazzo».
Se Tamaki lo avesse lasciato parlare, ora che gli si era sciolta la lingua, c’era da scommetterci che Uragasumi sarebbe andato avanti ancora molto a lungo.
«Aspetti un attimo, per favore» lo interruppe. «Suo padre sapeva qualcosa? Come reagí?»
«Mia madre e mio padre non sono sposati. Io e mia sorella siamo nati da relazioni occasionali, per giunta da padri diversi. Il mio ha un ristorante nella zona dello shitamachi di Tōkyō, mentre quello di mia sorella pare insegnasse all’università. Nostra madre ci ha tirati su gestendo un bar a Shinbashi. Ma quando Midorikawa è morto, aveva già smesso di lavorare e viveva con me a Fukushima».
Tamaki prendeva appunti, riempiendo un foglietto dopo l’altro. Originaria di Fukushima, bar a Shinbashi, figli nati da relazioni occasionali, alla morte di Midorikawa aveva rivelato ai figli di essere la X dell’Innocente… Eppure qualcosa non le quadrava: non è che si trattava di una storia inventata di sana pianta, di uno scherzo?
«Prima, lei ha detto che sta leggendo il mio romanzo su Diablo, ma in genere la gente non legge le riviste letterarie, a meno che non si tratti di esperti del settore o di grandi amanti della letteratura. Perciò, mi scusi se glielo chiedo, ma mi viene spontaneo domandarmi come abbia fatto a sapere che stavo cercando X».
«I parenti del marito di mia sorella hanno una libreria. Diciamo che leggere è una passione di famiglia, i libri ci interessano molto e siamo sempre attenti alle novità. E poi io leggo tantissimo, sia i romanzi che le riviste».
«E i miei romanzi li compra lí?»
«No, perché in realtà quella libreria, dove lavorano mia sorella e suo marito, si trova in un’altra città. Però mia sorella si diletta a scrivere dei racconti ed è molto addentro al mondo dell’editoria, è stata lei a dirmi della serializzazione del suo romanzo su Diablo».
«Un momento, ma non mi aveva detto che sua sorella non ama piú di tanto leggere?»
«Sí, ma non in quel senso… Quello che volevo dire è che legge solo quello che le piace, in base al genere, perché ci sono dei libri che ama e altri libri che non sopporta. Non so se ho reso l’idea».
Il discorso non era molto coerente. Tamaki aveva l’impressione che la conversazione stesse prendendo un’altra piega e iniziava a spazientirsi. Forse c’era qualcosa di sconvolgente nel fatto che uno scrittore indagasse sul romanzo di un altro scrittore e sul suo significato. Difatti si rese conto con una certa inquietudine che L’indecenza, il romanzo che stava scrivendo, al di là che si trattasse di verità o di pura finzione, attirava a sé una grande varietà di persone: Mōcha, Miura Yumi, Enami Shizuko e chissà chi altri ancora. Senza accorgersene, era rimasta in silenzio per diversi secondi, il ricevitore incollato all’orecchio.
«Pronto? Pronto? È ancora lí, signora Suzuki? Che succede?» chiese preoccupato Uragasumi, alzando la voce.
«Niente, sono solamente un po’ sorpresa».
«In ogni caso, ci tengo a ribadire che mi sono permesso di disturbarla perché ho paura che di qui a poco mia madre non sarà piú tra noi e sentivo il dovere di lasciarla andare via serena. Spero che non me ne vorrà, l’ho fatto solo per il suo bene. Ora finalmente potrò dirle che sono riuscito a telefonarle e a riferirle tutto, sempre che lei sia d’accordo».
Uragasumi era fin troppo schietto e gentile. C’era qualcos’altro dietro?
«Mi scusi, potrei sapere qual è il nome esatto di sua madre?»
«Uragasumi Haruko. Uragasumi si scrive con il carattere di “baia” e con quello di “foschia”, lo stesso che si usa anche per Kasumigaseki; mentre Haruko si scrive con il carattere che significa “governare”, “garantire stabilità” e quello di “ragazzo”».
Tamaki annotò tutto.
«Potrebbe dirmi anche dove si sono conosciuti sua madre e Midorikawa Mikio?»
«Sul posto di lavoro, mi pare ovvio».
«Si riferisce al bar che sua madre gestiva a Shinbashi? Si ricorda come si chiamava?»
«Mi sa di no. Non lo ricordo piú. Ho sentito dire che era uno di quei posti dove usavano riunirsi scrittori, editori e altra gente del mestiere. Mi scusi tanto, adesso devo lasciarla perché dovrei tornare in stanza da mia madre…»
Uragasumi, senza dirlo in modo esplicito, cercò di chiudere la comunicazione.
«Aspetti ancora un attimo» si affrettò a dire Tamaki. «Mi dispiace trattenerla, ma vorrei che mi desse qualche informazione in piú».
In quel momento, ebbe l’impressione di sentire un risolino compiaciuto all’altro capo della linea. Uragasumi era forse felice di aver destato il suo interesse?
«Che cosa vuole sapere di preciso? Mi dica pure».
«Prima di tutto, che cosa pensava sua madre di ciò che Midorikawa aveva scritto sul suo conto nell’Innocente?».
«Non lo so, non me ne ha mai parlato, ma credo che ne andasse abbastanza fiera» rispose schiarendosi la gola Uragasumi, dopo un attimo di silenzio. «Forse il mio discorso le sembrerà cinico e contorto, ma secondo me era soddisfatta perché aveva avuto conferma che la sua esistenza aveva creato problemi alla famiglia dell’amante e pesanti conseguenze. Invece l’amore prima o poi si spegne e sparisce per sempre, no? Purtroppo non ci sono prove concrete, non sappiamo niente di sicuro. Però ricordo che una volta mia madre mi disse che era felice al pensiero che sarebbe rimasta viva in eterno nelle pagine dell’Innocente, e che era molto grata a Midorikawa per aver parlato di lei nel suo romanzo».
«Ah, ho capito. Senta, sarebbe possibile avere una fotografia di sua madre?»
«Di quando era giovane?»
«Sí, se non chiedo troppo».
«Va bene, ne cercherò una e gliela spedirò».
Uragasumi accondiscese alla richiesta senza fare una piega e chiuse la comunicazione. Che strano tipo, all’inizio sembrava timido e introverso, e invece pian piano si era dimostrato molto loquace e sul finire della telefonata era stato addirittura brusco. Tamaki provò un pizzico di angoscia, anche se forse si era impressionata senza motivo. Una cosa era certa: se quella telefonata era frutto di una storia inventata, bisognava ammettere che era stata architettata con notevole ingegno. Suonava tutto cosí vero, autentico, ogni minimo dettaglio era stato raccontato con precisione. E alcuni particolari, come il segnalibro di legno di betulla, sapevano di verità. Di solito, le persone che inventano delle storie per ingannare gli scrittori finiscono per tradirsi, perché l’eccessiva tracotanza le spinge a esagerare e a inserire elementi del tutto inverosimili. Ma in questo caso era diverso, non c’era motivo di ritenere a priori falso e infondato quel che Uragasumi aveva detto. E soprattutto il punto di vista di sua madre, che l’uomo aveva riferito con viva chiarezza, arricchiva tutta la vicenda di una verità importante: l’amore prima o poi si spegne e sparisce per sempre, ma può sopravvivere in eterno se viene affidato alle pagine di un romanzo.
Tutt’a un tratto, nella stanza silenziosa echeggiò il segnale di un fax in arrivo. I fogli delle bozze venivano fuori dall’apparecchio uno dopo l’altro. Tamaki pensò di parlare a Saitō della telefonata che aveva appena ricevuto, ma prima doveva rileggere e rispedire le bozze. Sennonché, mentre il fax continuava a sputare gli ultimi fogli, le squillò il cellulare. Temendo che fosse Yamaguchi, ebbe un sussulto e sentí il cuore salirle in gola. Ma quando gettò l’occhio al display, si accorse che la chiamata proveniva da Saitō.
«Mi scusi» le disse, «volevo solo ricordarle che le bozze servono subito, va bene?»
«Le rivedrò adesso, non c’è problema. Comunque, ne approfitto per dirle che è successa una cosa stranissima…»
Tamaki rabbrividí nel pronunciare quella frase. Riflettendoci bene, un figlio che aspettava la morte della madre e che per tranquillizzarla si allontanava dalla stanza d’ospedale per fare una telefonata a dir poco insolita era qualcosa di per sé molto sinistro. In ogni caso, raccontò per sommi capi il contenuto della telefonata a Saitō.
«Non si preoccupi, verificherò immediatamente il nome di Uragasumi Haruko» rispose lui alla fine. «La richiamerò non appena saprò qualcosa».
«Grazie. Ma, pensando a quello che sta succedendo ad Abe, non trovi tutto un po’… macabro? Insomma, Abe e la donna che dice di essere X si trovano entrambi in un letto d’ospedale, in fin di vita…»
«È solo una coincidenza, no?» replicò a bassa voce Saitō.
«Forse… Eppure ho la strana sensazione che una serie di fatti inspiegabili stia invadendo la realtà, sotto forma di menzogne e di rivelazioni misteriose».
«Ma chi si prenderebbe la briga di architettare questo genere di cose?» chiese Saitō, stavolta in tono cupo.
«Non ne ho idea. Forse siamo noi stessi, a livello inconscio, a desiderare e provocare tutto questo».
Dopo aver pronunciato quella frase di getto, Tamaki ci rifletté un po’ su e si rese conto che in fondo l’arte del romanzo consisteva nel raccogliere i desideri inconsci della gente e inserirli in una storia verosimile, entro un’adeguata cornice temporale, dando cosí vita a ulteriori e nuovi desideri. Poi diede una rapida scorsa agli appunti che aveva preso durante la telefonata con Uragasumi e concluse che la tesi secondo la quale quell’anziana signora in punto di morte fosse X non poteva essere vera. E mentre correggeva le bozze, si convinse che quell’uomo doveva essersi inventato tutto. Forse era lui che si dilettava a scrivere romanzi, e non la sorella.
I dubbi di Tamaki sull’identità della X dell’Innocente, espressi nel suo romanzo che veniva pubblicato a puntate su Diablo, avevano con ogni probabilità contribuito alla creazione di quella burla telefonica. D’umore ombroso, aprí la tenda e guardò fuori dalla finestra. Innumerevoli stelle brillavano nel cielo terso della notte. Quel venerdí sera, le vie dei negozi di Nakano erano invase da coppiette felici e innamorate, proprio come lei e Seiji tempo addietro. E un’onda lunga di malinconia la sommerse.
Dopo aver rimandato indietro le bozze, Tamaki si preparava a lasciare lo studio quando sentí suonare il citofono. Chi poteva essere, alle dieci passate della sera? Il cuore prese a martellarle forte nel petto. Il condominio era dotato di portone a chiusura automatica e videocitofono.
Sganciò il ricevitore e le venne la pelle d’oca: era Seiji! Se ne stava in piedi davanti alla telecamera, lo sguardo un po’ basso.
«Sono io, Seiji» disse con un filo di voce.
Il suo viso, al centro del piccolo schermo del videocitofono, aveva un’aria cosí contenta e soddisfatta da ricordare a Tamaki la sua voce squillante quando la chiamava al telefono e le diceva: «Ciao, sono io».
«Sí, ti apro» rispose d’istinto Tamaki, schiacciando il pulsante di apertura del portone.
Seiji entrò nell’atrio del palazzo. Tamaki intravide la sua giacca, che ricordava molto bene. Com’era possibile? Non era in sala di rianimazione, sospeso tra la vita e la morte? Per quanto fosse assurdo, non poté fare a meno di chiedersi se l’uomo che aveva appena varcato il portone automatico ed era entrato in ascensore diretto all’ottavo piano fosse il fantasma di Seiji o magari il suo spirito separatosi dal corpo ancora in vita. D’un tratto si accorse che stava tremando al punto che le battevano i denti.
Il campanello della porta suonò. Tamaki era spaventata a morte, il cuore le batteva all’impazzata. Accese la luce dell’ingresso e aprí piano la porta.
«Buonasera» la salutò Seiji guardandola dall’alto e sorridendo. Nello stesso identico modo in cui aveva fatto in passato per sette lunghi anni, senza mai saltare una sola settimana. Indossava una giacca grigia a righe sottili nere e una t-shirt nera. E aveva uno zainetto dello stesso colore in spalla, il Gregory che le aveva regalato lei.
«Buonasera» gli rispose Tamaki, mentre apriva l’anta della scarpiera e cercava le pantofole riservate a lui. Ma poi si ricordò di averle gettate e gliene porse un paio di quelle per gli ospiti. Sollevando la testa con timore, lo guardò in viso e si accorse che stava sorridendo in totale spensieratezza. Lui ricambiò lo sguardo, si sfilò le scarpe da ginnastica nere con i lacci ed entrò in casa come fosse la cosa piú normale di questo mondo.
«Come va, tutto bene?» le chiese.
«Tutto bene, grazie. E tu?»
«Non mi posso lamentare, dài».
La sua voce suonava allegra. Si guardava intorno con curiosità, come se si aspettasse qualcosa di piacevole.
«Sei-chan… io pensavo che tu fossi all’ospedale» gli disse Tamaki.
Seiji, che intanto si era infilato una sigaretta tra le labbra ed era in cerca di un posacenere, la guardò con aria interrogativa. Sembrava non essere al corrente delle sue condizioni disperate.
Tamaki, nel tentativo di scacciare la paura che la attanagliava, provò a convincersi che si trattava di una sorta di allucinazione provocata dal romanzo che stava scrivendo. Qualcosa che assomigliava alla realtà ma che realtà non era, un sogno che non era un sogno.
Seiji accese la sigaretta e sbuffò fuori una nuvola di fumo. Era una Peace, le fumava all’inizio della loro relazione, poi, dopo alcuni anni, si era adeguato alla stessa marca che fumava Tamaki. Quindi il Seiji che era lí in quel momento era quello dei primi tempi in cui stavano insieme. Ecco perché era cosí giovane!
«Yumi-chan, che cosa sono queste bozze?» le chiese, gli occhi fissi sulle pagine dell’Indecenza arrivate via fax. «Posso vederle?»
«Certo, prendile pure» gli disse lei, raccogliendole dalla scrivania e porgendogliele. Al che Seiji si immerse per qualche minuto nella lettura.
«Che te ne pare?» gli chiese Tamaki subito dopo.
«Uhm, non male» rispose lui convinto, gli occhi che gli brillavano.
Di solito, in situazioni come quella, cominciavano a parlare per ore e ore del romanzo. Era un momento di somma beatitudine in cui il corpo e lo spirito di entrambi, cosí come le loro opinioni e il giudizio finale, concordavano pienamente. Ma Tamaki si limitò a sorridergli e cambiò argomento.
«Sei-chan, vuoi bere qualcosa?» gli chiese semplicemente.
«Hai della birra?»
Tamaki si ricordò che non aveva né birra né altre bevande alcoliche nel frigorifero. Allora, senza dire niente, fece bollire dell’acqua e preparò un tè. Seiji, o meglio la sua “apparizione”, era in grado di bere un tè caldo? Allungò lo sguardo oltre il bancone divisorio della cucina e lo vide curiosare un po’ dappertutto mentre si grattava il mento, come faceva di solito, soprattutto accanto agli scaffali della libreria. Il suo comportamento riaccese in lei una scintilla di nostalgia. Poi i loro sguardi si incrociarono.
«Sei stanca?» le chiese impensierito Seiji.
«Sí, molto. Perché tu mi stai lasciando per sempre» gli rispose lei solo nel proprio cuore, senza avere il coraggio di pronunciare una frase del genere. Riusciva a sentire perfino l’odore del fumo della sua sigaretta, provando un’inquietudine crescente. Che cosa stava succedendo? Era solo un sogno a occhi aperti, una specie di miraggio che nasceva dal suo romanzo? Forse, quello che aveva scritto fino a quel momento era una finzione che superava la realtà. Un romanzo di valore doveva avere il potere di trascendere la realtà: lei e Seiji ne erano sempre stati convinti. Ma ora la realtà della morte di Seiji, mostrando una forza contro la quale niente e nessuno poteva opporsi, non si stava forse accanendo contro di lei fino a renderla incapace di reagire?
«A che cosa pensi?» le chiese ancora Seiji.
Tamaki sollevò il capo e vide i suoi occhi che la fissavano, colmi di una luce intensa.
«Perché sei venuto da me?» gli domandò.
Seiji si limitò a sorriderle in silenzio e mandò giú in un solo sorso il tè verde che gli aveva servito. Questa è l’ultima volta, non lo rivedrò mai piú, pensò tra sé e sé Tamaki, sicura che la morte stesse per portarselo via per sempre. E in quel momento le parve evidente che quell’apparizione non era altro che un’inspiegabile emanazione del suo romanzo, L’indecenza. Coincidenze, caso, destino… Era il lavoro di scrittura al quale avevano consacrato buona parte della loro vita ad aver generato quell’apparizione. Era cosí, non poteva essere altrimenti.
«Ti ringrazio molto per essere venuto, Sei-chan. Ora puoi tornare sereno in ospedale».
«Perché?»
Seiji, il capo inclinato da un lato, sorrideva innocente.
«Tutti ti aspettano. Va’, non devi stare qui».
«E tu?» le chiese lui riponendo in tasca il pacchetto di sigarette, il viso di colpo avvolto in un velo di apprensione.
«Io me la caverò, e tenterò di andare avanti prendendo la vita alla leggera».
Nel pronunciare quelle parole, gli occhi le si riempirono di lacrime. Seiji si alzò e percorse con passo leggero il breve corridoio che conduceva alla porta. Tamaki, immobile, capí che stava per uscire dall’appartamento.
Quando sentí la porta d’ingresso richiudersi, tornò in sé e gli corse dietro. Anche se era solo un’apparizione, voleva vedere per un’ultima volta la schiena dell’uomo che non sarebbe mai piú tornato da lei. Ma il ballatoio era deserto, non c’era nessuno. E in piú l’ascensore era fermo al terzo piano e non si sentiva alcun rumore di passi per le scale. Lo spirito era venuto e aveva trascorso il venerdí sera da Tamaki prima di sparire, né piú né meno come Seiji negli anni passati. Non c’era altro.
Tamaki avanzò nell’oscurità del ballatoio alla ricerca di una traccia di Seiji. Poi, rassegnata, tornò dentro ed ebbe la netta impressione che la luce fosse aumentata d’intensità. Nella stanza di colpo illuminata a giorno, iniziò a tremare senza riuscire a fermarsi. Non tanto per lo spavento, ma soprattutto perché rimpiangeva di mescolare confusamente, nel suo lavoro, realtà e finzione. Eppure aveva scelto con piena consapevolezza di avventurarsi in quel territorio ambiguo e pieno di mistero. Dunque, a conti fatti, era difficile parlare di “rimpianto”, forse non era il termine esatto. Non sapeva bene neanche lei ciò che sentiva in quel momento.
In realtà, provava anche un grande rimorso. Perché aveva detto con tanta facilità a Seiji di tornare all’ospedale? Perché non aveva approfittato della sua apparizione e non era rimasta al suo fianco piú a lungo? Ci teneva ancora tanto a lui. Aveva una voglia incredibile di parlare di loro e del lavoro come in passato, anche se si erano odiati e fatti del male a vicenda. Poi, rammentando la sua espressione di stupore quando gli aveva detto che sarebbe andata avanti prendendo la vita alla leggera, si lasciò sfuggire un sorriso. Perché aveva usato le sue stesse parole.
Tamaki gettò lo sguardo al mozzicone di Peace nel posacenere. Si era consumato quasi del tutto, trasformandosi in cenere. Quando provò a sfiorarlo con la punta del dito, si disgregò all’istante. Lasciandosi cogliere da quel malore improvviso, Seiji aveva forse voluto giocarle un brutto scherzo? Ma infine era tornato da lei, giovane e forte, mentre il Seiji del presente soffriva in bilico tra due mondi. La guancia appoggiata sulla scrivania, Tamaki contemplava da una prospettiva inedita il suo studio, che di colpo le parve familiare come mai lo era stato.
Quattro mesi prima, il 7 luglio, quando si erano rivisti, Seiji aveva già perso ogni interesse nella letteratura. Per Tamaki, rimasta sola nel mondo del romanzo, l’apparizione di Seiji non era altro che un sogno che capitava al momento opportuno. I sogni e le illusioni che spesso il suo lavoro di scrittura le mostrava finivano per modificare a sua insaputa la realtà circostante. Se, per esempio, descriveva un legame leggero e delicato tra due persone, tutto intorno a lei diventava leggero e delicato. Se evocava delle emozioni violente, il mondo che la circondava diventava violento. Se raccontava di relazioni intense e profonde tra i suoi personaggi, ecco che la sua stessa relazione con Seiji diventava intensa e profonda. Ora, scrivendo della soppressione dell’amore in riferimento alla X dell’Innocente, Tamaki non aveva forse voluto sopprimere la sua relazione con Seiji? Stando cosí le cose, il risultato che aveva ottenuto era la morte del grande amore della sua vita.
Tamaki non poté evitare di pensare che il suo lavoro fosse terrificante e abominevole. Quell’orrore la logorava o la stimolava? Che senso aveva tutto ciò?
Lo stesso Midorikawa Mikio non aveva provato il medesimo senso di vuoto? Agghiacciante è la realtà di coloro ai quali la scrittura ruba l’anima. Nel momento in cui Tamaki si avvicinò alla libreria e prese
L’innocente dallo scaffale, il suo cellulare squillò. Era di nuovo Saitō, chiamava dalla redazione di Diablo.
«Pronto? Ha le bozze lí con lei?»
«Sí, certo, sono ancora allo studio».
«Perfetto».
Chiaramente sollevato, Saitō pose a Tamaki diverse domande su alcuni punti oscuri.
«A proposito del viaggio in Hokkaidō» le disse poi, «lunedí mattina una macchina passerà a prenderla alle nove, abbiamo l’aereo alle undici. Spero sia tutto chiaro e che non abbia dimenticato niente».
Chissà perché, ora la sua voce suonava preoccupata.
«Sí, grazie per avermelo ricordato».
Tamaki emise un risolino nervoso. L’emorragia cerebrale di Seiji aveva stravolto la stesura del romanzo che stava scrivendo. La tragicità del reale modificava la finzione. Realtà e finzione andavano e venivano e, in quel continuo viavai, trasformavano senza pietà il mondo che le stava intorno.
«Cambiando argomento, per fortuna pare che Abe stia tenendo duro. Secondo lei, fino a quando riuscirà a resistere?» chiese Tamaki, come se parlasse a se stessa.
«Non lo so, come faccio a saperlo?» rispose Saitō. «Comunque, io ho sentito dire che forse si tratta solo di un lieve miglioramento momentaneo».
«È assurdo che debba andarsene cosí…»
«Sí, è davvero assurdo».
Saitō preferí non aggiungere altro, era al corrente di tutto quello che c’era stato tra Seiji e Tamaki.
«Sarebbe stupendo se accadesse un miracolo e guarisse…»
Ma ora che aveva visto lo spirito di Seiji, Tamaki sapeva che quella era una speranza. Dopo aver riattaccato, prese una bottiglia di whisky da uno scaffale e se ne versò un dito in un bicchiere. Era un pezzo che non lo beveva liscio, e sentí le labbra, la punta della lingua e la gola ardere al contatto con l’alcol. Presto, però, il bruciore svaní lasciando il posto a una sensazione di calore, sempre piú forte: ancora un po’ e sarebbe stata ebbra. Guardò di nuovo i segni bianchi sul pavimento. Seiji si era scusato tanto, ma Tamaki non lo aveva perdonato. E lui, a sua volta, non aveva mai perdonato lei.
3
Seiji era molto severo e arrogante come editor. «Non ha un briciolo di talento», «Il suo romanzo vale meno di zero, non c’è niente da fare», «Come si fa a chiamare scrittore un tipo cosí mediocre?», «Dovrebbe essere lui a offrirci la cena, perché in realtà non ci fa guadagnare neanche uno yen»… Queste erano solo alcune delle sue frasi preferite. Aveva una particolare abilità a sputare giudizi taglienti di ogni tipo e peso. Pare che molti scrittori ce l’avessero a morte con lui e avessero giurato di spaccargli la faccia.
Inoltre amava bere. La sua passione per l’alcol aveva causato problemi e disastri di varia natura. Era rimasto coinvolto in piú di una lite per via della sua spiccata tendenza a ingiuriare gli altri, e le chiacchiere sulle sue conquiste galanti erano all’ordine del giorno. Una volta Tamaki aveva sentito una editor di un’altra casa editrice affibbiargli il nomignolo di “specialista delle tresche sul lavoro”. Aveva allungato le mani su una ragazza che lavorava part-time, aveva palpato i seni di una collega durante una serata alcolica in izakaya, aveva costretto un’altra collega con la quale aveva avuto una relazione adulterina a dare le dimissioni e chi piú ne ha piú ne metta. Sul suo conto circolava una marea di voci di dubbia autenticità, ma altre voci di tutt’altra specie elogiavano la sua straordinaria competenza e la passione ineguagliabile che metteva nel lavoro. Per farla breve, pur essendo oggetto di critiche feroci, lodi sperticate e maldicenze varie, Abe Seiji era uno dei migliori editor del mondo letterario giapponese. Tuttavia, all’epoca in cui non si occupava ancora di lei, Tamaki non faceva caso piú di tanto a quello che gli altri dicevano e pensavano sul suo conto.
Quando si decise che Seiji sarebbe stato il suo editor, Tamaki fu molto contenta e cominciò immediatamente a sperare che grazie a lui avrebbe fatto grandi progressi. Il suo esordio letterario risaliva a circa due anni prima. Anche se si dedicava alla scrittura con eccezionale impegno, spesso provava una frustrazione indicibile, in particolare quando si scontrava con i propri limiti, che le apparivano come una muraglia invalicabile. Non ne parlava mai con nessuno e sentiva il bisogno urgente di confrontarsi con una persona competente e di indubbia autorevolezza.
Tuttavia capí molto presto di essere stata ingenua e di aver riposto in Seiji troppe aspettative. In fondo era solo un estraneo, perché avrebbe dovuto aiutarla? All’epoca del loro primo incontro gli aveva detto qualcosa che aveva finito per offenderlo. Non sapeva con esattezza di cosa si trattasse, perché lui non aveva mai voluto tornare sull’argomento, ma si era fatta una certa idea.
«A proposito, ho sentito dire che lei avrebbe definito il mio ultimo romanzo un semplice libro per ragazze…»
Bastò questa breve riflessione perché Seiji, fino a quel momento loquace e allegro, impallidisse all’istante.
«Non ho mai detto niente di simile!» replicò, dopo qualche attimo di silenzio.
Ma non c’è mai fumo senza fuoco, si sa. Tamaki non diede il minimo credito alla sua smentita, perché aveva ricevuto quella confidenza da un editor che conosceva bene e di cui si fidava, e anche perché sapeva che Abe Seiji era piú che capace di lasciarsi andare a giudizi di quel tipo. In ogni caso, al di là di tutto, ci teneva ad avere una sua opinione sincera sul romanzo in questione.
«Le ripeto che l’ho sentito dire in giro. Comunque, se non le dispiace, ci terrei a sapere in che cosa il mio romanzo sarebbe un “libro per ragazze”».
«Forse non mi sono spiegato bene, io non ho detto niente del genere!»
Seiji, dopo aver negato ancora una volta ad alta voce, si ammutolí e assunse un’aria indispettita. Era contrariato per il fatto che le sue parole avventate su quel libro fossero arrivate all’orecchio dell’autrice. In seguito, iniziò a contrastare Tamaki in tutto e per tutto, quasi come se cercasse lo scontro di proposito. Quando, per esempio, lei gli comunicò la data in cui intendeva consegnare il nuovo lavoro, lui le rispose che in quel periodo era già molto occupato e avrebbe avuto bisogno di almeno un mese per leggerlo.
«Un mese? Ma è tanto! Ce l’ho messa tutta per scrivere e rispettare le scadenze, non potrebbe fare un po’ piú in fretta? Ho bisogno di conoscere la sua opinione, non posso aspettare tutto questo tempo».
Tamaki non aveva ceduto e Seiji aveva accettato, anche se a malincuore. Le rimandò indietro le bozze una decina di giorni dopo, il titolo del romanzo barrato da una grande croce con scritto a margine: «Cambiare titolo?». Tamaki era allibita, c’era davvero bisogno di un intervento del genere? Il titolo di un romanzo era fondamentale, e per deciderne uno a volte potevano essere necessari anche dei mesi. Il suggerimento di Seiji la lasciò sbigottita, a maggior ragione perché era convinta della sua scelta e il titolo le piaceva molto.
Quando guardò il resto degli interventi sul testo, rimase ancora piú scioccata e avvilita. Le crocette e le sottolineature erano state calcate e ricalcate, al punto che in alcune parti i fogli erano stati quasi strappati. Era lecito supporre che Seiji avesse letto fin dall’inizio il romanzo con una disposizione d’animo negativa, forse addirittura con acredine.
In quel periodo Tamaki non aveva ancora in programma di scrivere un romanzo a puntate su una rivista, né tanto meno era in possesso della capacità e dell’abitudine di scrivere due o piú romanzi contemporaneamente. Al momento, dopo il lavoro destinato alla casa editrice di Seiji, aveva in mente di mettersi all’opera per un altro editore. Prima, però, doveva assolutamente portare a termine la revisione del lavoro che aveva appena consegnato. Del resto non aveva altri obiettivi immediati.
Dopo qualche giorno, si rasserenò e decise di contattare Seiji per dirgli che avrebbe corretto le bozze del romanzo e che voleva vederlo di persona per parlargliene. Lui sulle prime reagí stizzito, obiettando come al solito che aveva troppi impegni e neanche un attimo libero, ma alla fine si convinse e le concesse un appuntamento serale, qualche settimana dopo. Tamaki provò di nuovo molta amarezza, l’atteggiamento di Seiji nei suoi confronti le dava sui nervi e la turbava sempre. Presto, la sera dell’incontro di lavoro arrivò, e Tamaki si presentò all’ora stabilita presso la hall dell’albergo dove si erano dati appuntamento. Seiji era già lí, seduto su un divano in un angolo, assorto nella lettura di alcune bozze mentre fumava una sigaretta. Aveva un’aria molto seria e concentrata, le sopracciglia aggrottate. Tamaki pensò che le sue bozze doveva averle lette con molto meno interesse e, riandando con la mente alle crocette e alle sottolineature che avevano devastato il manoscritto, provò una profonda tristezza.
Quando gli si avvicinò, Seiji sollevò lo sguardo e le sorrise assumendo un’espressione distesa.
«Ah, salve» la salutò, alzandosi in piedi. «Mi scusi tanto per averla fatta venire fin qui». Poi la invitò a seguirlo ed entrarono insieme nel bar accanto alla hall, immerso nella penombra per via di luci soffuse e ambrate.
«Le va bene qui?» le chiese.
E no che non andava bene, era troppo buio! Era quasi impossibile leggere i caratteri e prendere appunti, e per giunta il tavolo era piccolo e non c’era abbastanza spazio per disporre comodamente i fogli. Tamaki era seccata all’idea di dover rivedere le bozze sottoponendosi a un simile stress, ma preferí non dire niente. Intanto Seiji ordinò un whisky on the rocks diluito con acqua. Al che Tamaki dovette fare uno sforzo non indifferente per non sbottare: come se non bastasse – pensò furibonda – pretende di bere mentre lavoriamo! Non riusciva a capacitarsene, le sembrava tutto cosí assurdo. Provò a calmarsi e ordinò un caffè, dopo di che dispose come meglio poteva i fogli delle bozze sul piccolo tavolo rotondo.
«Contrariamente a quanto mi aspettavo» esordí Seiji, «non ho trovato errori ortografici né caratteri cinesi sbagliati».
Quella frase lasciò Tamaki a bocca aperta. Erano parole da dirsi a una scrittrice professionista? Non era solo un modo per continuare a trattarla dall’alto in basso? In quell’istante, Tamaki prese per la prima volta piena coscienza del carattere acrimonioso e vendicativo di Seiji.
«In ogni caso, come le ho scritto, bisogna assolutamente cambiare il titolo» andò avanti nello stesso tono supponente, indicando il primo foglio. «Questo non mi convince, non va bene. E poi l’intreccio è troppo complicato, si fa fatica a seguire la storia. Ci sono troppi elementi, occorre lavorarci ancora un bel po’ e semplificare la struttura».
Era quello il grande editor di cui le avevano parlato? Tamaki non riusciva a darsi pace, era incredula. Ma d’altra parte pensava che forse si stava sbagliando e che la sua impressione fosse condizionata da una visione oltremodo soggettiva delle cose. All’epoca era poco piú che alle prime armi, e il giudizio di un editor esperto bastava a farle perdere tutta la sicurezza in se stessa e a farla vacillare. Annotava senza battere ciglio tutto ciò che Seiji le diceva su dei post-it che incollava sulle pagine di riferimento. Colpito da quell’atteggiamento cosí serio e scrupoloso, Seiji si chiuse a poco a poco nel silenzio.
«Va bene» gli disse alla fine Tamaki, «riscriverò tutto dopo averci riflettuto un po’ su, in base ai suoi suggerimenti».
Quando lei, dopo averlo ringraziato, ebbe riposto i fogli e tutto il resto nella borsa, Seiji gettò un’occhiata all’orologio.
«Che ne dice di andare a mangiare un boccone da qualche parte?» le propose.
Aveva già bevuto tre bicchieri di whisky diluito con acqua e sembrava un po’ alticcio. Visto che erano quasi le otto, Tamaki accettò l’invito e uscirono dall’hotel. Allora Seiji le indicò un ristorantino specializzato in okonomiyaki sul lato opposto della strada.
«Le andrebbe un okonomiyaki?» le chiese.
«Un okonomiyaki?»
«Sí, io li adoro».
Parlava con voce spensierata e ridacchiava. Tamaki era sempre piú convinta che fosse un tipo egocentrico e pieno di sé, ma al contempo sentiva che la sua asprezza si andava addolcendo e che ora era ben disposto nei suoi confronti. Seiji era indubbiamente un uomo scostante e dal carattere molto difficile. Si arrabbiava subito, cambiava facilmente umore ed era vendicativo. Tamaki non riusciva a sentirsi tranquilla: in certi momenti sembrava l’uomo piú cordiale e alla mano del mondo, ma in altri, non appena qualcosa girava storto o qualcuno osava contraddirlo, si trasformava in un orco pieno di livore e ostilità.
«A quanto vedo, in fatto di cibo, lei ha dei gusti piuttosto popolari, eh?» commentò Tamaki prendendolo in giro.
Seiji rise di gusto, mettendo in mostra i suoi denti bianchi. Tamaki andava a mangiare l’okonomiyaki solo di rado, e in ogni caso stava attenta a evitare quei ristoranti dove il cliente doveva servirsi da solo dall’apposita piastra incassata nel tavolo. Seiji ne preparò uno anche per lei, ma non era molto capace. I vari ingredienti non cuocevano bene e la pastella si disfaceva tutta. Rassegnata, Tamaki prese da sé un paio di cucchiaiate di pastella e le versò sulla piastra bollente, cercando di fare del proprio meglio.
«Sembriamo una coppia di fidanzatini innamorati, non le pare?» disse in tono allegro Seiji.
Aveva pressoché stroncato il suo romanzo e si permetteva di scherzare in quel modo? Tamaki si sentiva ribollire di rabbia, era sdegnata. Sarà pure un editor bravo e famoso – pensò avvilita –, ma non ha la piú pallida idea di quale sia lo stato d’animo di uno scrittore quando scrive un libro. Si sentiva stringere in una morsa di tristezza e sconforto, ora che era costretta a lavorare insieme a un uomo del genere, e non sapeva come stabilire un rapporto di fiducia con lui. E intanto, mentre lei si disperava, Seiji sembrava non essersi accorto di niente e divorava tutto contento il suo okonomiyaki mal fatto.
Tamaki impiegò due mesi circa per rivedere il romanzo e inviarlo a Seiji, il quale la contattò poco dopo e le diede appuntamento ad Aoyama per restituirglielo.
Anche stavolta, Tamaki dovette rassegnarsi ad appoggiare come meglio poteva i fogli e gli accessori di cancelleria sul piccolo tavolo rotondo di un caffè. Quando spostò la tazza di tè da un lato, ne fece cadere una goccia e guardò con la coda dell’occhio la macchia marrone chiaro che si era formata sui fogli.
«Bene, devo dire che ha corretto tutto con molto scrupolo» esordí Seiji. «Ma, a essere sincero, non credo di aver capito fino in fondo la storia».
Mentre pronunciava quelle parole, storceva di continuo la bocca e guardava da un lato, come se gli risultasse difficile parlare. Era molto strano, era la prima volta che assumeva un atteggiamento simile.
«In che senso? Le dispiacerebbe spiegarsi meglio?» gli chiese Tamaki, scrutandolo in viso.
«Per farla breve, non so piú se vada bene o no» rispose abbozzando un sorrisetto ironico. «Il nuovo titolo, per esempio, non mi convince. Quasi quasi era meglio quello di prima…»
Tamaki era furiosa. Avrebbe voluto gridargli in faccia: «Mi stai prendendo in giro o che, brutto idiota?!», ma si trattenne. Tuttavia era impossibile nascondere del tutto i suoi sentimenti, e lei stessa sentiva che i lineamenti le si erano induriti per la rabbia.
«Bene, capisco» disse in tono secco e perentorio.
Seiji la guardò fisso negli occhi, come se volesse chiederle che cosa aveva capito. Quel giorno indossava una camicia di jeans con una cravatta a fantasia minuta di un rosso cupo. Gli si addicevano molto, anche perché aveva la testa non molto grande e i capelli corti. Ma di tanto in tanto, a seconda dell’angolazione della luce, si potevano distinguere delle piccole macchie disseminate qua e là sulla cravatta. Tamaki aguzzò la vista per cercare di capire di cosa si trattasse e concluse che dovevano essere tracce di grasso di carne alla griglia, tipo yakiniku o qualcosa del genere.
«Mi dispiace…» mormorò Seiji.
Perché si scusava, in modo cosí ipocrita?
«Non si preoccupi, non è cosí grave. A questo punto, preferisco lasciar perdere tutto» disse Tamaki, fissando le macchioline di grasso di cui molto probabilmente lui non si era accorto.
Seiji sosteneva che il romanzo che le era costato piú di un anno di lavoro, per il quale si era presa la briga di andare a raccogliere informazioni fino in Hokkaidō e che aveva rivisto per ben due volte, non valeva granché. Del resto era evidente che una buona parte delle modifiche apportate fosse poco pertinente e che il testo fosse addirittura peggiorato rispetto alla stesura precedente. Tamaki era convinta che gli interventi suggeriti da Seiji erano sbagliati in partenza e che lei, non essendo abituata a lui e al suo modo di fare, li aveva presi per buoni e si era lasciata trascinare in un pantano. In poche parole, attribuiva in tutto e per tutto a Seiji la responsabilità della sua confusione. Si sentiva profondamente scossa e insoddisfatta.
«Mi scusi» disse Seiji, stavolta un po’ agitato, «adesso che cosa intende fare?»
«Che cosa vuole che faccia?» replicò stizzita Tamaki, mentre riponeva in borsa il suo romanzo, ormai revisionato al punto da non avere quasi piú niente della sua forma originaria. Non sapeva cosa dire e come comportarsi, si sentiva presa in trappola, la testa completamente vuota. La rabbia per aver riposto la sua fiducia in un editor come Seiji e i pensieri negativi di cui era preda non le davano tregua. Ormai era chiaro che lui non volesse avere niente a che fare con lei e con il suo romanzo. Esisteva una qualche via d’uscita?
«E se per il momento mettessimo da parte questo romanzo e provassimo a farne un altro?» le suggerí di colpo Seiji. «Potrebbe essere una buona idea ripartire insieme da zero, no?»
La proposta aveva un che di artificioso, suonava troppo improvvisa e azzardata. Evidentemente Seiji aveva percepito l’amara delusione di Tamaki e cominciava a preoccuparsi. Non voleva correre il rischio che a causa del suo comportamento un’altra casa editrice potesse soffiargli una scrittrice, seppure a suo parere priva di talento.
«Mmh, non saprei…» mormorò a bassa voce Tamaki, come se riflettesse tra sé e sé. Difatti si stava giusto chiedendo se valesse la pena mostrare il romanzo a una editor di sua conoscenza che collaborava con la casa editrice per la quale aveva intenzione di scrivere il lavoro successivo. In ogni caso, in quel momento era fermamente intenzionata a non condividere un solo istante della sua vita professionale con Seiji.
Al pensiero che delle parole pronunciate con leggerezza in occasione del loro primo incontro avessero prodotto un simile risultato, Tamaki provò una disperazione tale che le vennero le lacrime agli occhi. Si sentiva stupida e ingenua, non poteva fare a meno di rimproverarsi per essersi fidata di un uomo che non conosceva, del suo nuovo editor. E quasi si malediceva per aver pensato che un editor potesse aiutarla a migliorare in poco tempo.
«Si è fatto tardi, vogliamo andare?» disse Seiji prendendo il conto dal tavolo e avviandosi verso la cassa. Avevano in programma un secondo appuntamento di lavoro: dovevano cenare in compagnia di un altro scrittore di cui si occupava Seiji, in un ristorante non lontano da quel caffè. L’autore in questione, oltre a pagare la cena al proprio editor, si era offerto di dare dei consigli a Tamaki, in virtú della sua esperienza e della maggiore età. Era una gentilezza di non poco conto, ma di cui lei avrebbe fatto volentieri a meno quella sera, se solo non avesse corso il rischio di fare la figura della maleducata. Cosí, seppure a malincuore, si rassegnò all’idea di condividere la tavola con quei due uomini.
Al ristorante, l’altro scrittore era già arrivato e stava sorseggiando del vino. Parlando del piú e del meno, a un certo punto la conversazione si spostò su un giovane autore in notevole ascesa, del quale si diceva che fosse in lizza per un importante premio letterario. Tamaki ascoltava ed esprimeva di tanto in tanto la sua idea, con un’espressione che rivelava un pizzico di invidia.
«Qual è il suo prossimo progetto?» le chiese poi Seiji. Sembrava proprio che volesse approfittarne per tirare in ballo la faccenda del libro che le aveva proposto di scrivere. Tamaki, intuendo le sue intenzioni, gli rispose la prima cosa che le venne in mente, ben determinata a non dargli soddisfazione.
«Che ne direbbe di una storia un po’ folle ambientata in un ospedale popolato da false dottoresse che in realtà sono delle casalinghe?»
«Non male, potrebbe funzionare. Se non altro, suona molto intrigante e divertente» rispose Seiji, allungandosi con il busto in avanti.
Ma che dicesse sul serio o meno, Tamaki aveva giurato a se stessa che mai e poi mai avrebbe lavorato con lui. Aveva i nervi a fior di pelle, non sapeva neanche lei come faceva a non esplodere.
Dopo aver fatto il giro di vari bar, decisero di salutarsi e di fare ritorno alle rispettive abitazioni. Alle tre del mattino, nel cielo di Aoyama-dōri, era appena visibile uno spicchio di luna. L’ebbrezza dei fumi dell’alcol andava svanendo, sostituita pian piano da un senso di spaesamento. In piedi sul bordo della strada, Tamaki era in attesa che Seiji fermasse un taxi. Ma a quell’ora non ne passavano molti ed erano già tutti occupati. Era marzo, faceva freddo. Tamaki batteva i piedi al suolo con l’intento di riscaldarsi, quando di colpo Seiji le si avvicinò e la guardò dritto negli occhi.
«La prego» le disse, in un tono che tradiva un pizzico di imbarazzo, «lavoriamo insieme. Ci tengo molto, davvero».
Mentre pronunciava quelle parole, aveva chinato piú volte il capo, l’aria assolutamente seria. “La prego, davvero”… In seguito, con il senno di poi, Tamaki si chiese se quella richiesta non fosse solo il frutto del timore di perderla, ma sotto la pressione del momento disse subito sí. Forse Seiji era stato sedotto da quella “folle storia d’ospedale dove le dottoresse non erano altro che casalinghe”, che lei si era inventata su due piedi al ristorante.
Alla fine, impiegandoci piú di un anno, Tamaki scrisse sul serio quella storia surreale. Fu un periodo molto duro. Allo studio non riceveva mai visite, usciva di casa tutte le mattine con il suo notebook e andava a lavorare. Lungo la strada, si fermava da Muji e comprava un tramezzino da mangiare a pranzo. Erano giorni di solitudine. Seiji passava di tanto in tanto da lei per vedere come procedeva il lavoro, ma in realtà non facevano altro che mangiare un boccone insieme o bere un bicchiere o due. Tamaki aveva raccolto da sola tutte le informazioni e il materiale di cui aveva bisogno per scrivere il romanzo, prendendosi addirittura la briga di contattare alcune persone da intervistare.
Seiji la paragonava spesso ad altri scrittori e le diceva come se niente fosse che doveva sbrigarsi a diventare un’autrice di successo. Allora lei lo detestava ancora piú del solito. Ma lui, senza rendersene conto, continuava sullo stesso tono e amava vederla lavorare nella piú completa solitudine.
Uno scrittore e il suo editor sono legati da una fiducia reciproca. Quando lavoravano insieme alla stesura di un romanzo, Seiji non tollerava che Tamaki collaborasse con altre case editrici, cosí come Tamaki non sopportava che lui si occupasse di altri scrittori.
Una volta, all’approssimarsi delle vacanze di Capodanno e dell’impossibilità di vedersi per una decina di giorni, Seiji le propose di cenare insieme nonostante il consueto trambusto di fine anno. Quella sera le parlò di una scrittrice di cui si era occupato in passato e che di recente aveva vinto un prestigioso premio letterario grazie a un romanzo pubblicato con un’altra casa editrice. Sembrava molto contrariato e giú di morale. Non avendo letto il libro, Tamaki gli chiese di cosa parlasse, e lui le raccontò la trama nel dettaglio.
«Mi pare una storia molto interessante» commentò alla fine Tamaki. In quel periodo aveva in mente solo il suo romanzo e non aveva tempo per nient’altro, soprattutto ora che era alle battute finali. Era stata ancora una volta ingenua e frettolosa nell’esprimere quel giudizio finendo per maldisporre Seiji senza volerlo.
«Puoi ben dirlo, e di certo è molto piú interessante delle tue!» replicò lui infastidito, rosso di rabbia.
Perché cercava sempre di ferire gli altri? Stavolta, incapace di controllarsi, Tamaki finí col reagire.
«Lo sai che hai una brutta reputazione?» gli disse con sommo disprezzo. «In giro tutti parlano male di te e dicono che sei solo un ipocrita!»
Seiji si ammutolí all’istante. Rimpiangeva amaramente di aver costretto quella scrittrice a modificare il contenuto di un precedente romanzo al solo scopo di vincere un premio. Adesso era convinto di aver fatto una cosa sbagliata. Ma anche se aveva dei rimorsi che riguardavano altri scrittori, non si faceva scrupoli e continuava a trattare Tamaki con odioso sarcasmo, tutte le volte che si vedevano. Era come se avanzassero in un pericoloso campo minato, pronti a ferirsi l’un l’altra. Non poteva esserci niente di peggio. Si erano legati senza accorgersene, senza sapere che tra loro era sbocciata la passione. Il lavoro non c’entrava niente, era ancora incompiuto e non conoscevano a fondo le capacità l’uno dell’altra, e intanto la loro relazione privata si ingarbugliava sempre di piú. Del resto, all’inizio, il rapporto era andato avanti a forza di scontri piú o meno pesanti tra una scrittrice ancora insicura e un editor scaltro e intraprendente.
La bocciatura del romanzo precedente costituiva un ostacolo non indifferente. Tamaki faticava a digerire il fallimento e aveva continuato a nutrire rancore nei confronti di Seiji, il quale da parte sua rimpiangeva di aver perso le staffe e di aver preteso da lei degli sforzi inutili. Dopotutto era fatto cosí. Non era capace di controllare le emozioni, era un uomo impulsivo e irascibile: parlava oltre il dovuto, andava di frequente sopra le righe e finiva per offendere gli altri. E dopo un po’ se ne pentiva, ma era quasi sempre troppo tardi e finiva col distruggere una buona parte delle sue relazioni interpersonali e di lavoro, soffrendone non poco. Spesso il suo rancore durava come minimo un anno e gli capitava di meditare lente e subdole vendette. In fondo non era ben conscio della violenza che era capace di perpetrare nei confronti del prossimo.
Ma a volte anche il risentimento di uno scrittore può raggiungere vette inaudite. Mentre, giorno dopo giorno, il romanziere combatte alla ricerca delle idee e delle parole giuste da scrivere, il mondo nel quale vive non smette mai di evolversi. Ora, in caso di successo, è possibile che lo scrittore e il suo editor possano gioirne insieme, ma nel caso di Tamaki esisteva un problema in piú: lei non poteva fare a meno di pensare che, se non ci fosse stata quell’incomprensione iniziale, il loro rapporto sarebbe stato tutt’altro e sarebbero potuti andare fin da subito molto d’accordo. L’editor, come è ovvio che sia, valuta un lavoro oggettivamente ed è in grado di dare allo scrittore dei buoni consigli. Senza l’apporto dell’editor, è possibile che un romanzo non veda mai la luce. Ma fino a che punto l’editor è capace di comprendere la sofferenza dello scrittore alla ricerca delle parole giuste? È una questione cruciale, forse irrisolvibile.
Tutto questo Seiji lo sapeva, eppure il suo rancore verso gli scrittori non era affatto trascurabile. E quando qualcuno provava a dirgli che forse era tutta colpa di un complesso di inferiorità, andava su tutte le furie e gli veniva voglia di spaccare tutto.
Persone che amavano la letteratura, che insieme creavano un romanzo e alle quali il mondo della scrittura rubava persino l’anima. Lo scrittore e il suo editor costituivano nel bene e nel male un binomio inscindibile, fatto di momenti di assoluta beatitudine cosí come di momenti di profondo odio. Come l’amore. Scossi con violenza dal loro rapporto di amore e odio sul piano professionale, Tamaki e Seiji erano ugualmente condotti alla deriva dalle onde indomabili della loro relazione emotiva di amore e odio. Erano sballottati di continuo tra una doppia gioia e una doppia sofferenza.
Alla fine, la storia delle casalinghe e delle false dottoresse fu pubblicata, ma le recensioni e le critiche favorevoli si fecero attendere. Era o non era un buon romanzo? Si poteva parlare o no di successo? Nell’atmosfera difficile e pesante prima e dopo la pubblicazione, la tensione tra Tamaki e Seiji crebbe all’ennesima potenza a causa dei tanti refusi presenti nel testo. All’origine del problema c’era senza dubbio il fatto che Seiji, durante la lavorazione del libro, aveva ricevuto una promozione e gli era stato assegnato un ruolo di maggiore responsabilità, per cui non aveva avuto modo di occuparsi come al solito della revisione fin nei minimi particolari. Si potevano contare in tutto piú di venti refusi: una vera e propria sciagura che mandò Tamaki fuori di sé. «Non ci posso credere, è scandaloso!» si lamentò. «Non mi va di collaborare con una casa editrice che lavora in questo modo. In un libro si possono al massimo tollerare quattro o cinque refusi, qui ce n’è una ventina abbondante!» Seiji era mortificato, non sapeva come scusarsi. Ecco perché in seguito preferí occuparsi in prima persona e con una precisione maniacale della rilettura delle bozze.
Dopo un po’, grazie alle prime recensioni positive sulla stampa, le vendite del libro decollarono. Con l’arrivo del successo, finalmente il legame tra Tamaki e Seiji cominciò a rafforzarsi. Seiji si espresse in modo ottimistico e con pieno entusiasmo, parlando di “destino comune” e altri fatti del genere, ma restava ancora un vecchio problema: il romanzo stroncato.
Di tanto in tanto ne discutevano insieme, ma non riuscivano mai a trovarsi d’accordo. Seiji si sentiva responsabile del rifiuto e pregava Tamaki di rimettere mano al romanzo appena possibile. Ma lei era molto restia e ripeteva che con ogni probabilità avrebbe finito col chiuderlo per sempre in un cassetto. Quel rifiuto le aveva inflitto una ferita molto piú profonda di quanto lui immaginasse.
«Credi che mi sia voluto prendere gioco di te, che lo abbia fatto solo per ripicca?» le disse una volta Seiji, poco prima della pubblicazione del romanzo delle casalinghe.
«Non lo so, la cosa non mi riguarda» rispose in modo evasivo Tamaki.
«Non penso di essere quel genere di persona che si prende gioco degli altri senza motivo, no?» insisté lui, storcendo le labbra in una smorfia dubbiosa.
Tamaki ormai lo conosceva, Seiji non era cosí stupido. Era un uomo pieno di orgoglio e di amor proprio, e inoltre non perdonava facilmente quelli che lo offendevano e ce l’avevano con lui. In fondo Tamaki non era molto diversa. Finché il problema del “romanzo stroncato” non fosse stato risolto, il loro astio reciproco non si sarebbe mai placato.
«Che avresti fatto se io avessi deciso di scrivere quel romanzo per un altro editore?» gli chiese un giorno Tamaki.
«Sarei impazzito!» rispose Seiji, lo sguardo serio come non mai.
7
IN
1Takako e Michiko sguazzavano a riva, avanzando esultanti tra le piccole onde dell’immenso mare, un paio di metri davanti a Yōhei. Indossavano entrambe un costume da bagno blu scuro e ciascuna aveva un salvagente rosa intorno alla vita. Yōhei, che portava ancora i pannolini, correva barcollando dietro alle sorelle. Io guardavo i bambini dalla spiaggia, il volto disteso in un sorriso di pura gioia. Sulla sabbia scura della battigia restavano le impronte dei minuscoli piedi di Yōhei, simili a quelle di un piccolo animale.Di colpo mi sentii pervadere da un soffio di felicità. Volevo vedere tutto positivo. Mi voltai a guardare Chiyoko al mio fianco: riparandosi sotto il suo ombrello bianco, sorvegliava i bambini che giocavano in acqua a riva. Nel suo vestito leggero a motivi geometrici bianchi e neri acquistato l’anno prima, con un telo di spugna bianco in una mano, sembrava straordinariamente bella, assennata e serena.Provai a sfiorarle il braccio. Il violento litigio della sera precedente, interrotto da quella scena radiosa al mare, mi aveva lasciato un ricordo penoso. Ma ora Chiyoko non mi respingeva e pareva disposta ad accettare le mie carezze. Contento e pieno di speranza, presi a massaggiare con le dita la sua tenera carne.«Che c’è?» mi chiese all’improvviso, irrigidendosi appena, come se di colpo si fosse accorta che la stavo toccando.«Niente, il tuo braccio è cosí morbido, sembra uno habutaemochi».«Per essere uno scrittore, ricorri a paragoni piuttosto banali».Le sue parole non suonavano molto gentili, ma almeno sorrideva spensierata. Ne fui molto sollevato, non mi sentivo cosí bene da tempo immemorabile. «Non ti arrabbiare piú, per favore. Guarda i nostri bambini come sono felici».Senza rispondere, si chinò per scrollarsi di dosso la sabbia umida che le si era attaccata alle gambe, sfregando forte con il telo di spugna.«Ritrova il tuo buon umore, ti prego, proviamo a tornare quelli di un tempo» aggiunsi subito dopo. «Uhm, va bene…» disse lei con un filo di voce.In quel momento preciso, si sentí provenire un certo trambusto dalla riva. Al limite del mio campo visivo, distinsi una piccola sagoma bianca tra le braccia di un uomo.«Yōhei!» urlò disperata Chiyoko, sollevando di scatto la testa, i capelli sconvolti da un’onda di terrore. Invece io, non so perché, mi ero già rassegnato e lasciai vagare lo sguardo sulla sabbia bagnata alla ricerca delle impronte dei passi di mio figlio. Era atroce pensare che le onde le avessero cancellate per sempre.A bordo dell’aereo, Tamaki rileggeva le ultime pagine dell’Innocente. Dal rapporto di amore e odio che univa Midorikawa Mikio e sua moglie Chiyoko emergeva con prepotenza un’immagine: quella di una coppia che condivideva in egual misura quei due sentimenti contrastanti. Uno straordinario rapporto di amore e odio fortemente distruttivo.La relazione familiare e di coppia, intensa e travagliata, aveva finito per deformarsi e snaturarsi a loro insaputa. Lui, uno scrittore famoso che aveva una storia con un’altra donna, e lei, una moglie tradita che soffriva le pene dell’inferno essendo a conoscenza dell’esistenza dell’amante: anche se in apparenza la coppia non sprofondava, in realtà si piegava, scricchiolava, si torceva e si trasformava giorno dopo giorno. I figli avevano subíto loro malgrado il comportamento dei genitori, povere anime trascurate e ignare di tutto. E un giorno, da un momento all’altro, le cose erano cambiate per sempre.Nell’Innocente, Midorikawa identificava il momento del crollo definitivo nella disgraziata morte del piccolo Yōhei. Il libro si concludeva con il dramma della sua scomparsa improvvisa. Tuttavia, anche se il romanzo finiva lí, di certo la realtà non si era fermata. Le biografie dello scrittore riferivano che in seguito Chiyoko aveva cominciato a manifestare i sintomi di una grave depressione e che, nel quadro della terapia, si era messa a scrivere dei racconti per l’infanzia.Le avventure di Chiyoko, scritte sotto lo pseudonimo di Midorikawa Midori, si aprono con la ragazzina protagonista che, senza una ragione evidente, si ritrova rinchiusa in una grotta sotterranea. Un critico letterario aveva avanzato l’ipotesi che per l’autrice la morte del figlio potesse corrispondere alla sensazione di essere segregata in una caverna buia. E una studiosa, in un altro articolo, aveva scritto che la vecchia che aveva confinato la protagonista del racconto nella grotta poteva essere la X dell’Innocente. Del resto, era molto probabile che l’autrice stessa fosse all’oscuro del significato profondo di ciò che aveva scritto. Forse, inconsciamente, aveva voluto dire che X era l’unica responsabile della distruzione della sua famiglia. L’innocente era la versione cinica e impietosa della storia della famiglia Midorikawa, in cui la morte di Yōhei segnava in via definitiva la soppressione dell’amore tra Mikio e X.«L’ideale sarebbe domandare a Chiyoko cosa è successo e cosa ha provato in quel momento» disse Tamaki a Saitō, seduto al suo fianco, mostrandogli le pagine finali del libro che aveva in mano.«Sí, certo, ci proveremo, ma non credo che le faccia molto piacere parlare di quell’evento».Saitō aveva ragione. Tamaki aveva letto tutte le interviste di Chiyoko che lui e Nakagusuku le avevano procurato, e in nessuna c’era il minimo accenno alla morte del piccolo Yōhei. Nessuno osava porle domande sull’argomento, né tanto meno lei si azzardava a parlarne.La morte di Yōhei aveva provocato dei grandi cambiamenti nel destino della famiglia. L’esordio letterario di Chiyoko era uno di questi, e un altro era senza dubbio la penitenza di Mikio, il quale aveva deciso di farsi battezzare. Dopo la tragedia, aveva giurato a se stesso di vivere solo e unicamente per Chiyoko, e pertanto tutta la famiglia si era trasferita in Hokkaidō, dove lei era nata e cresciuta. Aveva continuato a scrivere romanzi, mentre insegnava inglese in un’università femminile di Sapporo. Del resto, la pubblicazione dell’Innocente risaliva proprio al periodo di Sapporo, dove lui e la famiglia conducevano una vita quieta e tranquilla.«Quella tragedia, di cui non erano responsabili, sembra quasi simboleggiare il contrasto all’interno della coppia» osservò Tamaki, come se parlasse a se stessa. «Per Chiyoko deve essere stato tremendo, sarà stata dilaniata dal dolore».Saitō assentí e fece due o tre colpi di tosse. L’aria nell’aereo era molto secca.«Credo che quello che dirà Chiyoko e quanto sarà capace di sbilanciarsi dipenderà soprattutto da lei e dal modo in cui le porrà certe domande» disse poi, come a voler rimettere l’esito dell’incontro solo nelle mani di Tamaki.«Forse quello che ho appena detto non ha molto senso. In fondo si è trattato di un incidente. Il povero Yōhei è annegato, è stupido affermare che la sua morte potesse simboleggiare il dissidio che esisteva tra i suoi genitori».Tamaki si era pentita di aver pronunciato quella frase, ma in effetti quella poteva essere una chiave di lettura dell’Innocente. L’autore si riteneva responsabile della morte del figlio, era evidente. Aveva avuto una lunga relazione con X, aveva ferito ed era stato ferito dalla moglie, cosí come aveva ferito ed era stato ferito da X, e alla fine ne era uscito con il cuore e con la mente a pezzi. E, come se non bastasse, il tutto si era concluso con la tragica scomparsa di Yōhei. Per lo scrittore, quella morte era un sipario che calava inesorabile sulla fine di un intero mondo.Nel frattempo Saitō si era appisolato. Tamaki volse lo sguardo fuori dall’oblò. L’aeroplano oscillava impercettibilmente attraversando le nuvole. Poi quello strato compatto di nubi si ridusse a una nebbia sottile e l’aereo sbucò al di sopra di un’immensa distesa bianca, quasi fosse in un’altra dimensione. Tamaki notò in lontananza alcune strane formazioni nuvolose in guisa di imponenti colonne. Mentre osservava quello spettacolo surreale, si chiese che cosa ne fosse di Seiji. Non aveva piú ricevuto la fatidica telefonata da Yamaguchi. Forse sta meglio, forse si salverà, pensava tra sé e sé, aggrappandosi a una flebile e impossibile speranza.Presto finí anche lei per chiudere gli occhi e addormentarsi. Fece uno strano sogno. Il tizio seduto davanti a lei si girava di colpo e le diceva, con aria seria: «I morti abitano il mare delle nuvole». Forse quel sogno era conseguenza di quanto accaduto poco prima, quando si era messa a osservare la distesa di nubi bianche fuori dall’oblò e aveva sentito un’esclamazione di stupore provenire dalla fila di sedili davanti?Uscirono dall’aeroporto di Chitose. La temperatura era molto bassa, vicina allo zero. Il cielo era coperto e di tanto in tanto si vedeva volteggiare qua e là qualche fiocco di neve. Tamaki e i due editor presero posto in un taxi e comunicarono all’autista l’indirizzo di Chiyoko. Abitava in un condominio nell’area urbana di Sapporo. Nello stesso palazzo, alcuni piani piú su, viveva la figlia secondogenita Michiko con la sua famiglia. Era lei che si occupava dell’anziana madre, cosí come aveva fatto sapere a Saitō.Michiko, che al pari dei suoi familiari appariva nelle pagine dell’Innocente con il suo vero nome, aveva subíto nella vita privata delle ripercussioni per essere diventata il personaggio di un simile romanzo? Tamaki aveva una gran voglia di chiederglielo di persona.«Incontreremo anche Michiko, vero?»«Sí» le rispose Saitō. «Abbiamo appuntamento con Chiyoko alle tre e sarà presente anche lei all’incontro».Man mano che si avvicinavano a Sapporo, il traffico diventava piú intenso. Nakagusuku, seduto sul sedile davanti del taxi che ora procedeva lento, si voltò indietro verso Tamaki e disse: «A proposito, non sapevo niente di Abe, me l’hanno detto solo ieri… È terribile».«Sí, è successo una decina di giorni fa».Nel rispondere, Tamaki ricordò la scintilla di speranza che aveva sentito accendersi dentro di sé in aereo.«Quando me l’hanno detto non volevo crederci, è stato un shock».«Sí, infatti».Tamaki aveva preferito rispondere in maniera evasiva. Nakagusuku sembrava sinceramente scosso dal fatto che un editor suo collega, famoso e all’apice della carriera, fosse stato colto da un malore improvviso.«Non è andata a trovarlo in ospedale?» chiese Saitō a Tamaki, con un certo imbarazzo.Lei si limitò a scuotere la testa.«Forse non è nelle condizioni di ricevere visite, eh?» aggiunse lui.Saitō, il quale sapeva che Seiji non aveva speranze, immaginava che Tamaki nutrisse in cuor suo il desiderio di poterlo vedere per un’ultima volta.«Già, proprio cosí. Ma va bene lo stesso, abbiamo rotto i ponti da un pezzo».«Sí, certo, ma se io fossi al suo posto, credo che vorrei vederlo almeno un’ultima volta».«Se fosse successo il contrario, neanche lui sarebbe venuto da me».Tamaki si disse ancora una volta che la loro relazione apparteneva ormai al passato. Il rapporto si era interrotto un anno e mezzo prima, e quando dopo oltre un anno si erano rivisti niente era cambiato. Seiji non le era forse apparso sotto forma di spirito per chiudere una volta e per sempre il lavoro che avevano iniziato insieme? Eppure, Tamaki non poteva evitare di sentirsi sul punto di crollare, afflitta da una malinconia inenarrabile. Che cosa potevano saperne i suoi attuali editor di quello che provava? Saitō e Nakagusuku sembravano aver perso la parola.Il condominio dove abitava Chiyoko sorgeva nel cuore di un quartiere residenziale nella zona sud di Sapporo. Costruito all’antica, con la facciata rivestita di mattoncini, dava un’impressione di grande solidità e ricordava le costruzioni operaie di certe regioni teutoniche. Saitō si avvicinò alla tastiera del citofono e digitò il numero corrispondente all’appartamento che gli era stato indicato. Una voce femminile molto cordiale disse: «Prego, salite». Doveva essere Michiko, che aprí con solerzia il portone d’ingresso servendosi dell’apposito pulsante.Quando arrivarono al terzo piano, la porta dell’appartamento era già aperta. In piedi sull’uscio ad attenderli c’era una donna di mezza età: Michiko, per l’appunto, la figlia piú piccola di Mikio e Chiyoko.«Vi stavamo aspettando. Grazie per essere venuti fin qui da Tōkyō».Le brillavano gli occhi, nero carbone come quelli di suo padre. Indossava un pullover di mohair bianco e una gonna nera. Il suo aspetto trasudava la piena maturità e la calma di una donna sulla cinquantina.«Ho letto tutti i suoi libri, non vedevo l’ora di conoscerla» disse rivolgendosi a Tamaki.«Grazie, molto gentile».Tamaki fu un po’ spaventata dall’accoglienza di Michiko. Era molto preoccupata, temeva che la sua visita rischiasse di causare nuove scosse nella famiglia Midorikawa. Saitō e Nakagusuku si presentarono e Michiko li fece entrare.Dall’ingresso partiva un lungo corridoio ricoperto da una spessa moquette. Le porte che si trovavano da una parte e dall’altra erano chiuse. Sembrava un appartamento come tanti. Nel vano d’ingresso non c’erano né piante né composizioni floreali, né tanto meno quadri appesi alle pareti. Non c’era nulla, nemmeno un paio di scarpe fuori posto, e per questo il pavimento e i muri, lucidi e impeccabili da sembrare nuovi, risaltavano in modo impressionante.Una porta in fondo al lungo corridoio si aprí. Un’anziana signora, magra e minuta, avanzò a piccoli passi. Aveva i capelli canuti come brina di ghiaccio e un abito rosso. Era Chiyoko, la moglie di Midorikawa. Tamaki era emozionatissima, tanto da restare impietrita. Quasi non riusciva a credere di trovarsi a tu per tu con quella donna conosciuta attraverso le pagine di un romanzo. Soggiogata dall’Innocente, mentre Seiji era sospeso tra la vita e la morte, finalmente era al cospetto di Chiyoko.«Benvenuti» li accolse la padrona di casa in fondo al corridoio, inchinandosi con molta educazione. In controluce, era impossibile distinguere chiaramente il suo viso. Tamaki, ma anche Saitō e Nakagusuku, erano rimasti senza parole, lí impalati come tre statue di cera.«È un vero onore fare la sua conoscenza» disse alla fine Tamaki, prendendo un po’ di coraggio.«Sono io a essere onorata, lei mi toglie le parole di bocca» replicò Chiyoko, ridendo con una voce bassa che colse Tamaki di sorpresa. «Entrate, vi prego».L’ampio soggiorno in cui Chiyoko accolse i tre ospiti era una stanza ad angolo con grandi finestre su due lati, il che dava una sensazione di libertà e leggerezza. Fuori, si estendeva sconfinato il cielo cupo e nuvoloso dello Hokkaidō. Tamaki lasciò vagare lo sguardo intorno a sé con discrezione. La stanza era pulita e ordinata, con dei bei piatti di ceramica giapponese esposti nella credenza e nessuna traccia dei libri di Midorikawa. In un angolo, faceva bella mostra di sé una testa bronzea che assomigliava a una maschera mortuaria. Tamaki ne fu attratta e non poté fare a meno di fissarla.«Quella è la maschera mortuaria di mio marito» le disse di colpo Chiyoko. «Di norma si fa il calco solo del viso, ma volevo ricordarmi anche la forma e le dimensioni della testa, e allora ordinai un calco completo in gesso».Era inquietante. La testa di Midorikawa Mikio, che Tamaki non aveva mai avuto occasione di vedere dal vivo, era enorme e caratterizzata da un osso occipitale molto sviluppato, simile a una specie di arma contundente.«Signora, le sono davvero grata per la sua disponibilità e per averci accolti in casa sua» disse Tamaki, rinnovando i suoi ringraziamenti.«Non mi chiami “signora”, va bene anche solo “Chiyoko”» le disse la padrona di casa, volgendo verso di lei il suo viso quasi del tutto privo di rughe.«D’accordo, allora metterò da parte l’etichetta, Chiyoko».Alla risposta di Tamaki, Chiyoko sorrise di gusto.«Sí, cosí è perfetto» le disse. «E io, se permette, la chiamerò semplicemente “Tamaki” e non “signora Suzuki”».Il tono della sua voce suonava molto gioviale e solare. Tamaki si sovvenne di una frase dell’Innocente che aveva letto in aereo: «Per essere uno scrittore, ricorri a paragoni piuttosto banali».Forse Chiyoko aveva pronunciato per davvero una frase cosí irriverente, quel giorno sulla spiaggia, poco prima della tragedia. La sua esistenza concreta e innegabile restituiva a quelle parole tutta la loro forza. Era una donna anziana, ma un’energia vitale di rara potenza vibrava in tutto il suo essere. Sembrava impossibile che avesse ottantasei anni. Le rughe sul volto non si notavano quasi, e il suo sguardo era vivo e penetrante. Tamaki si emozionò al pensiero di trovarsi di fronte a una donna dotata di una vitalità non comune. E quella donna era Chiyoko, la moglie di Midorikawa Mikio, che aveva conosciuto grazie all’Innocente. Le pareva tutto cosí incredibile, ed era felice di non essersi sbagliata riguardo alle sensazioni che aveva provato leggendo quel libro: il rapporto di amore e odio di quella coppia era molto piú forte e intenso di quello della maggior parte delle persone. Era proprio come aveva immaginato, si trattava di una storia tra un uomo e una donna eccezionali, i quali avevano poco o nulla di ordinario.Michiko entrò nella stanza portando un vassoio con il tè. Tè verde di qualità superiore in tazze di fine ceramica Kiyomizu di Kyōto, con tanto di rari sottocoppa di corno di bufalo indiano. Tamaki e i due editor restarono allibiti nel vedere apparire alle spalle di Michiko un uomo attempato e piuttosto alto, con in mano un bel cestino decorato pieno zeppo di mandarini.«Ce li hanno mandati giusto oggi. Sono freschi e deliziosi» disse Chiyoko. «Prendete, non fate complimenti».Dietro le sue insistenze, i tre ospiti ne presero uno ciascuno facendo un inchino col capo. E anche Chiyoko ne afferrò uno con decisione e lo sbucciò in quattro e quattr’otto, appoggiando la buccia direttamente sul tavolo. Di primo acchito si sarebbe potuto pensare che conducesse una vita di agi, circondata dal lusso, ma in realtà sembrava una donna modesta e non si dava per niente arie da gran signora. Anche se qualcosa nella sua espressione restava indecifrabile e non era facile cogliere la sua vera personalità. Tamaki sbucciò il suo mandarino e appoggiò come lei la buccia sul tavolo. Intanto Chiyoko rimuoveva i filamenti bianchi con molta cura, con le sue dita sottili e ossute, e nella stanza si sprigionò un odore intenso di agrumi che contribuí a rendere l’atmosfera piú rilassata.Il tizio che aveva portato i mandarini se ne stava in piedi da un lato e sorrideva. Tamaki pensava fosse il marito di Michiko, ma si sbagliava.«Buongiorno a tutti, molto piacere» disse il tizio subito dopo, senza smettere di sorridere. «Mi chiamo Tomonō, sono l’aiutante della signora Chiyoko».Dimostrava intorno ai sessantacinque anni. Aveva degli occhiali con la montatura metallica e la schiena leggermente ingobbita. Tamaki lo guardava senza troppa insistenza, mentre rifletteva sul legame che quell’uomo poteva avere con Chiyoko. Poi lui fece un inchino e lasciò la stanza, salutando con un educatissimo «Prego, signori, fate con comodo». Michiko, da parte sua, non disse nulla. Seduta accanto alla madre, se ne stava in silenzio con un mandarino stretto in mano. Era il momento di cominciare l’intervista, toccava a Tamaki dare il la e porre la maggior parte delle domande.«Chiyoko, mi permetta di ringraziarla ancora una volta per il tempo che vorrà concederci. Come certamente saprà, siamo venuti qui da lei perché ci terrei a chiederle alcune cose in relazione al romanzo che sto scrivendo. Non è facile sintetizzarne il contenuto in due parole, ma posso dirle che il tema principale è la “soppressione del rapporto d’amore”. Non si preoccupi, le spiegherò tutto nel dettaglio».Tamaki si interruppe per un attimo e Chiyoko ne approfittò per dire subito qualcosa.«Sono io che la ringrazio, cara Tamaki, e mi dispiace molto se l’ho costretta a venire fino a Sapporo» disse con voce chiara e squillante. «Tomonō mi ha procurato gli ultimi numeri della rivista su cui lei sta scrivendo il suo romanzo, L’indecenza. Ho letto tutto quello che è stato pubblicato finora, perciò non deve spiegarmi niente, non si preoccupi. Mi faccia pure tutte le domande che vuole, sono pronta».Tamaki si lasciò sfuggire un piccolo sospiro. Ora non le restava che prendere il coraggio a due mani e venire al punto.«Lei è davvero una persona squisita, grazie. Forse suonerò troppo diretta e magari anche scortese, ma non me l’aspettavo. Voglio dire che lei è una donna magnifica, unica, molto piú di quanto avessi immaginato. Mi perdoni se oso iniziare con una domanda del genere, ma lei si veste spesso cosí? Le piace molto il rosso?»«No, solo da poco, direi» rispose Chiyoko ridendo e sfiorandosi il vestito con la sua piccola mano esangue. «Visto che ho parecchi annetti e sono una nonnina, ho pensato che non era il caso di metterlo in evidenza con i soliti abiti sobri e scuri che indossano le donne di una certa età. Perciò sono andata in un bel negozio con Michiko e ho comprato questo vestito rosso fiammante».«Le dona molto, mi creda».«Grazie mille. Qualcuno potrebbe pensare che indossare un abito del genere alla mia età sia inopportuno, me ne rendo conto. E credo che molte persone, ora che sono solo la vecchia signora che in passato è apparsa in un romanzo come L’innocente, si tranquillizzerebbero nel vedermi appassire in silenzio e ridurmi a una vecchina innocua e grinzosa. Ma io non la penso allo stesso modo e non vivo per compiacere gli altri! I miei parenti, i conoscenti e gli amici mi hanno sempre considerata in un certo modo, hanno sempre pensato di sapere tutto di me, e perciò ho vissuto tutta la mia vita con in testa il chiodo fisso di dover nascondere il mio mondo interiore e di dovermi proteggere. Ecco perché adesso che ho piú di ottant’anni questo vestito rosso rappresenta un po’ la mia corazza, la mia armatura».Saitō e Nakagusuku, stupefatti dalla vitalità e dall’energia prorompente di quella donnina ottantaseienne, si lasciarono scappare un’esclamazione di profonda ammirazione.«Quindi, oggi, ha deciso di indossare quel vestito perché forse ha pensato che avremmo potuto farci un’impressione errata sul suo conto?» le chiese Tamaki, stando ben attenta a soppesare le parole.Chiyoko la guardò dritto negli occhi e sorrise. Tamaki, sempre piú convinta di trovarsi di fronte a una donna intelligente e sensibile come poche, ebbe una specie di vertigine improvvisa.«No, forse mi sono spiegata male. Questo vestito rosso è solo una corazza esterna, una sorta di armatura. Lo prenda solo per quello che è: una sottile armatura fatta di filo rosso che ho voluto usare per accogliere lei e i suoi collaboratori. Le assicuro che non è il caso di stupirsi, forse lei si sta facendo un’idea sbagliata su di me. Come dico sempre, solo il mio defunto marito conosceva la mia vera natura. Ovviamente si trattava della mia “vera natura” di allora, che corrispondeva a ciò che pensavo e dicevo in quel momento, e di certo non è uguale alla mia “vera natura” di adesso. E dirò di piú, sperando di essere precisa: quella non era la mia natura originaria, bensí un mio nuovo “sé”, nato dalla mia relazione con l’uomo che rispondeva al nome di Midorikawa Mikio. Non so se rendo l’idea, ma si trattava di una nuova realtà che scaturiva dalla coppia che lui e io formavamo insieme. Naturalmente, come avrà intuito, nel romanzo che Mikio ha scritto su di noi, c’è una parte di verità e una parte di finzione. Con questo non sto dicendo che L’innocente sia solo il frutto di pura invenzione, per carità. Anzi, devo dire che io e Mikio formavamo una coppia molto vicina a quella del romanzo. Ma d’altro canto, come affermavo poc’anzi, non tutto corrisponde alla verità, e ci sono parti e dettagli inventati, un po’ come in tutti i romanzi. Perché trasformare una coppia reale in una coppia fittizia? O meglio, perché utilizzarla per scrivere una finzione, un romanzo? Be’, questo lei dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro, visto che è una scrittrice, no? Sono molto curiosa di conoscere la sua opinione».Ora che si era lanciata, Chiyoko non riusciva piú a fermarsi e continuava a parlare a raffica. Saitō e Nakagusuku erano incantati e ammutoliti. Quanto a Tamaki, chiamata a esprimere la propria opinione, non poteva esimersi dal rispondere, pur temendo che l’intervista potesse prendere una piega diversa da quella che lei desiderava.«Direi perché in un romanzo la verità non è mai la verità fino in fondo» affermò convinta. «Uno scrittore che è consapevole di questo trasforma la verità in finzione nell’attimo stesso in cui la trasferisce su car-ta. Perché descrive la verità in modo molto piú intrigante e seducente rispetto alla realtà, finendo col darne una visione differente. D’altra parte, rovesciando la medaglia, un buon romanzo deve essere basato su una finzione verosimile. Ecco perché un ottimo romanzo è sempre un’ottima finzione».«Giusto, è proprio cosí!» esultò Chiyoko, e allungò la mano per prendere un altro mandarino ridacchiando. «Questa sí che è una risposta degna di una brava scrittrice».«Chiyoko, mi scusi, sta forse cercando di dirmi che tutte le sue risposte alle mie domande su di lei e sul romanzo di suo marito resteranno sospese tra la verità e la menzogna? O meglio, che lei stessa non potrà dirmi dove finisce l’una e dove comincia l’altra?» le chiese Tamaki con una certa apprensione.«No, no, per carità. Nella misura del possibile, le dirò tutta la verità, o almeno ciò che ritengo tale. Con il trascorrere del tempo siamo tutti soggetti alla tendenza ad amplificare e abbellire il nostro passato. L’odio si trasforma in malinconici ricordi, cosí come la passione. E le parole del presente non sono mai sufficientemente adeguate per rendere i ricordi di un tempo, non crede?»Chiyoko aveva pronunciato quelle ultime frasi con un’aria molto seria. Michiko tese il braccio e le appoggiò la mano sulla spalla, ma lei la respinse con delicatezza. E Michiko, forse perché ci era abituata, non sembrò prendersela piú di tanto e si rimise composta sulla sedia. Le interviste dovevano costituire una prova importante per Chiyoko, un impegno al quale teneva in modo particolare. Forse il gesto nei confronti della figlia significava che non voleva essere né disturbata né compatita.«Capisco molto bene quello che vuole dire e in parte sono d’accordo con lei» rispose Tamaki. «Ma non è forse proprio grazie al trascorrere del tempo che è possibile riflettere con obiettività sul nostro passato?»«Non saprei, lei crede che questo possa avere un senso?» ribatté Chiyoko, dopo essersi portata la mano alla bocca in un gesto meditabondo. «Il tempo è capace di trasformare anche i ricordi… E può darsi che io non mi accontenti solo di modificare i miei ricordi, ma che voglia in qualche modo giustificarmi. Sono fatta cosí, non so essere oggettiva, nemmeno quando si parla del passato. Perciò, quale significato potrà mai esserci in quello che le dirò?»«Potrei provare a farle qualche domanda e vedremo, no?» insisté Tamaki.«Va bene, d’accordo» assentí Chiyoko emettendo un risolino imbarazzato. «Mi chieda pure tutto quello che vuole».In quel momento, Tamaki ebbe la sensazione di scorgere qualche centimetro di pelle nuda sotto l’armatura rossa di Chiyoko. Era triste all’idea che una donna cosí straordinaria dovesse vivere indossando una corazza, e in ogni caso percepiva in lei una sofferenza e una durezza che nessuna protezione avrebbe potuto mai dissimulare.«Grazie, ho una montagna di domande da farle, comincio subito, eh? Prima ha detto che L’innocente, pur essendo una finzione, contiene allo stesso tempo una parte di verità, giusto? Ovvio che, se fosse stato scritto adesso e non molti anni fa, sarebbe completamente diverso. Tuttavia, anche se è stato scritto allora ed è in parte frutto di pura invenzione, nelle sue pagine non mancano degli sprazzi di verità, dico bene?»«Certo, è proprio cosí. Ecco perché bisogna leggerlo tenendo questo aspetto ben presente, altrimenti si corre il rischio di fraintenderlo».Chiyoko assunse un’espressione contenta e soddisfatta, le brillavano gli occhi.«Sí, è ovvio. L’autore, Midorikawa Mikio, crea un personaggio femminile che chiama semplicemente “X” e racconta nel dettaglio e in prima persona la sua intensa relazione con lei. E quando la moglie, Chiyoko, scopre il tradimento, scoppia tra loro un conflitto feroce e senza fine. Dunque il romanzo si può anche interpretare come la storia del rapporto di amore e odio di una coppia di coniugi, no? E a un certo punto, man mano che il racconto si focalizza sul contrasto tra marito e moglie, l’amante, X, viene relegata in secondo piano fino a scomparire del tutto. Secondo lei, come mai?»Tamaki ebbe l’impressione di scorgere una luce nello sguardo di Chiyoko, una luce che forse proveniva dal fondo della sua anima. L’anziana signora si protese in avanti e strinse forte i pugni. E in quell’istante, chissà come mai, il suo sguardo sembrava paradossalmente piú lontano, perduto nel vuoto.«Fino a oggi» disse in tono molto pacato, «nessuno mi aveva mai rivolto domande su X, anche se ho sempre pensato che molti avrebbero voluto farlo. Forse non ne avevano il coraggio e ci rinunciavano, temendo che potessi prendermela. Invece lei è stata sincera ed è andata fino in fondo, perciò le dirò la verità… In realtà, X non è mai esistita».Tamaki, allibita, si voltò suo malgrado verso Saitō e Nakagusuku. Il primo, sbalordito quanto lei, aveva la bocca spalancata. Nessuno dei due era in grado di spiccicare parola.«Davvero?»«Certo. X è un personaggio inventato da Mikio».«Quindi X esiste solo nel romanzo… Mi perdoni la domanda, ma nella realtà suo marito aveva altre donne?»«Credo proprio di sí. Mikio aveva un carisma eccezionale e riscuoteva molto successo con l’altro sesso». Mentre lo diceva, Chiyoko volse lo sguardo alla testa bronzea del marito. Poi aggiunse: «Però non aveva nessuna donna in particolare. Forse X era un insieme di tutte le donne che cercavano di intrufolarsi nel nostro mondo e volevano crearci dei problemi, il mondo esclusivo mio e di Mikio».«Scusatemi, ma non credo di capire…» intervenne finalmente Saitō. «Si è sempre detto che L’innocente raccontava vicende reali, e invece adesso scopriamo che X, l’amante che ha abortito piú di una volta, non esiste. Di conseguenza non esistono né la Chiyoko folle di gelosia, né il Mikio che cerca di difendersi con accanimento, né tanto meno le due bambine che giocano sempre da sole e in disparte, giusto?»«Sí, giusto» rispose con calma serafica Chiyoko. «Solo i nomi sono reali, ma i personaggi cosí come sono descritti esistono solo nel romanzo. Quella non è la realtà, è un mondo di finzione».«Però c’era Yōhei…» disse all’improvviso Michiko. La madre ebbe un sussulto e si voltò di scatto verso di lei, che abbassò all’istante gli occhi neri ereditati dal padre e continuò a parlare con voce flebile. «Lui esisteva tale e quale anche nella realtà, ma purtroppo adesso non c’è piú. È morto tanto tempo fa, quando era solo un bambino innocente, come è scritto nel romanzo. I nostri genitori stavano chiacchierando sulla spiaggia e non lo tenevano d’occhio con la dovuta costanza. Me lo ricordo bene, anche se ero piccola, perché una volta tanto non stavano litigando. Ero cosí contenta che lo dissi anche a mia sorella… “Ehi, hai visto?” le feci. “Oggi mamma e papà vanno d’accordo”. Lei era china a raccogliere delle conchiglie ma, nel sentire le mie parole, si voltò subito dalla loro parte per guardarli. In quel momento, scrutando l’espressione sul suo viso, mi resi conto che anche lei era preoccupata per loro e per la nostra famiglia. Eravamo molto unite, stavamo sempre insieme. Non so bene sotto quale luce io sia descritta nel romanzo e quanto ci sia di vero sul mio conto, ma posso dire che nella realtà giocavo sempre e solo con mia sorella, mentre i nostri genitori non facevano altro che litigare. E il povero Yōhei, quel maledetto giorno, è morto in solitudine, mentre nessuno gli prestava attenzione… Ecco perché non posso non pensare che forse anche nella realtà esisteva una donna che rispondeva piú o meno alla X del romanzo».«Che esistesse o meno, non è cosí importante» disse Chiyoko, dopo aver tratto un profondo sospiro. «Forse esisteva per davvero, o forse no. Vogliamo dire che esisteva? Bene, allora L’innocente andrebbe inteso come un romanzo in cui la verità è resa sotto forma di finzione. Ma poiché fin da principio ciò che era ambiguo è stato riadattato, trasformato in finzione e reso verosimile, è lecito affermare che non si tratta della pura verità!»«Mamma, perché devi farla sempre cosí complicata? Quando quel romanzo è stato pubblicato per la prima volta, a puntate, frequentavo il liceo e ricordo che se ne parlò molto. Circolavano voci e commenti di tutti i tipi».«Sí, ma tu che ne pensavi? Te la sarai fatta un’idea tua, no?» la ammoní in tono severo Chiyoko, che intanto si era sporta in avanti sulla sedia e guardava la figlia dritto negli occhi. Le sue iridi, il cui colore era sbiadito con l’età, lanciavano lampi di puro terrore. L’obiezione di Michiko l’aveva sorpresa fino a quel punto? Temeva forse che potesse dire qualcosa di imbarazzante? Tamaki, reprimendo il desiderio di studiare a fondo l’espressione di Chiyoko, si limitò ad abbassare lo sguardo e restò in silenzio. Si sentiva ancora in soggezione nei confronti dell’anziana e carismatica padrona di casa.«Su, spiegaci quello che hai pensato e provato in quei momenti» disse Chiyoko alla figlia che tardava a rispondere, prendendole le mani e stringendogliele forte. Ci stava mettendo tutta l’energia possibile, al punto che le sue piccole mani pallide diventarono ancora piú bianche. Michiko stava forse scegliendo le parole giuste prima di esprimersi?«Da quel punto di vista» disse dopo averci riflettuto su, sollevando di scatto la testa e rivolgendosi direttamente a Tamaki, «credo che io e mia sorella ci trovassimo nella posizione piú complicata».«Se non le dispiace, potrebbe parlarcene meglio?» le chiese imbarazzata Tamaki, sotto lo sguardo fisso di Chiyoko.Chiyoko doveva essere la protagonista assoluta dell’intervista, e di certo se l’era un po’ presa ora che l’attenzione si stava spostando sulla figlia. Tuttavia si sforzò di fare finta di niente e continuò a fissare con cipiglio Michiko. Allora Tamaki si rese conto che anche Chiyoko voleva scoprire a tutti i costi che cosa pensava la figlia.Michiko volse verso la madre il suo viso piuttosto squadrato, che ricordava molto quello di suo padre.«Voglio molto bene a mia madre» disse, stavolta rivolgendosi a tutti i presenti. «È una donna intelligente, forte e gentile. Come lei ce ne sono poche, è una persona eccezionale. Ma, come avete avuto modo di vedere, le capita ancora di scaldarsi e di perdere la calma. Perché, secondo voi? Be’, senza dubbio perché è la principale interessata in tutta questa storia. Il suo amore non si è ancora spento… Il suo amore per mio padre, Midorikawa Mikio. E allora voglio dirlo una volta per tutte, con la massima franchezza: mia madre non ha ancora perdonato X, né tanto meno ha perdonato mio padre».Chiyoko ritrasse con un gesto brusco le mani e se le portò alla bocca ridendo.«Ma che cosa ti salta in mente, Michiko?» esclamò ad alta voce. «Sono una donna di ottantasei anni!»«L’età non c’entra niente» ribatté subito la figlia. «Non troverai mai pace, lo sai bene».Michiko osservava la madre con uno sguardo perspicace. Chiyoko era ancora innamorata del marito?«Ha sentito quello che ha detto mia figlia?» disse Chiyoko a Tamaki sorridendo con gli occhi, in cerca di consenso. «Le assicuro che non è affatto vero e che sono una donna tranquilla e serena».Tamaki sorrise e volse di nuovo lo sguardo verso Michiko, come per esortarla ad aggiungere qualcosa. E quella, infastidita da un pelucco del suo maglioncino di mohair bianco che doveva esserle finito in bocca, si accostò l’indice alle labbra e lo rimosse dalla punta della lingua facendo una strana smorfia.«Come ho già affermato numerose volte, mia madre è la protagonista assoluta di tutta questa storia» disse subito dopo. «Ecco perché è in grado di farne una specie di grande romanzo. O forse si sente addirittura obbligata a metterla in questi termini. Anzi, pensandoci meglio, credo che le faccia comodo poter passare dalla realtà alla finzione e viceversa a suo piacimento, a seconda delle circostanze. Invece io e mia sorella siamo state delle semplici spettatrici, oltre che vittime dei suoi continui e violenti litigi con nostro padre. Ci hanno trascinate nostro malgrado nella spirale di amore e odio del loro tormentato rapporto di coppia. Ma l’essere piú sfortunato, in tutta questa storia, è il piccolo Yōhei, il quale ha perso la vita senza avere nessuna colpa. È lui la vera vittima innocente. La sua tragica morte è stata una sorta di sacrificio necessario alla sopravvivenza della nostra famiglia».Tamaki era talmente tesa che le mancava il respiro. Durante il viaggio in aereo aveva chiesto a Saitō se fosse il caso di porre delle domande sulla morte di Yōhei, ed ecco che ora il discorso era finito senza volerlo sullo sfortunato ultimogenito di casa Midorikawa.«Ah, mi è venuta in mente un’altra cosa» continuò Michiko, ignorando il borbottio di protesta della madre, che aveva cercato invano di prendere la parola. «Poco dopo i funerali di Yōhei, mia sorella disse a nostra madre: “Mamma, per favore, fai nascere presto un altro fratellino”. Adoravamo Yōhei ed eravamo molto tristi e dispiaciute. In piú lei, in quanto sorella maggiore, doveva sentirsi in colpa per non avergli prestato sufficiente attenzione mentre eravamo in acqua. Eravamo completamente assorbite dai nostri giochi al mare e non avevamo voglia di occuparci di nostro fratello, che all’epoca camminava ancora con passo malfermo. Ecco perché, nel suo cuore di bambina, si era accesa la speranza di poter ricominciare tutto da capo. Ora, in una famiglia normale, la madre avrebbe dovuto rispondere alla sua ingenua richiesta dicendole delle parole in grado di alleviare il suo dolore. Qualcosa del tipo: “Va bene, ci proverò, te lo prometto”. Anche a costo di mentirle, no? Perché in una circostanza come quella anche una semplice bugia sarebbe bastata a tranquillizzare una bambina. E invece sapete quale fu la reazione di nostra madre? Prima di tutto assunse un’espressione accigliata, da far paura, e poi fece esplodere la sua rabbia contro nostro padre, fissandolo e urlandogli in faccia: “Non potrei mai avere un altro bambino per sostituire Yōhei! È tutta colpa tua, maledetto!”. Ricordo come fosse ieri il suo volto inviperito e la smorfia di frustrazione e avvilimento emersa sul viso di nostro padre. Ero ancora piccola, ma percepii fino in fondo l’odio e la collera che provava nei suoi confronti. Anche se non lo diceva in modo esplicito, era fin troppo evidente che lo ritenesse responsabile della morte di Yōhei. Quanto a lui, sembrava odiare con tutto il cuore nostra madre, che per l’ennesima volta si era lasciata andare a una scenata folle in nostra presenza. Io e mia sorella, pensando di essere la causa della reazione violenta e del litigio dei nostri genitori, scappammo in un angolo della stanza e ci tenemmo strette l’una all’altra, tremando e piangendo. Purtroppo era una scena ricorrente, andava a finire sempre cosí. Loro litigavano furiosamente, e noi lí che ci abbracciavamo piú forte che potevamo per vincere la paura. Come ho detto prima, io e mia sorella andavamo molto d’accordo e giocavamo sempre insieme, ma il timore che i nostri genitori potessero bisticciare a causa nostra non ci abbandonava mai. Quando discutevano non pensavano affatto a noi e a come potevamo sentirci, era come se si dimenticassero della nostra esistenza. E ora mia madre, la protagonista principale di tutta la vicenda, continua a pretendere che si tratti soltanto di una finzione e che l’unica realtà sia legata ai nomi utilizzati nel romanzo! Roba da matti!»«La realtà di cui parli tu non esiste!» urlò Chiyoko alzandosi in piedi, come per dare inizio alla sua arringa di difesa. «All’epoca avevi solo tre anni, puoi forse negarlo? Si tratta solo di falsi ricordi, rimasti impressi nella tua mente. E forse questo è dovuto proprio a quel romanzo, L’innocente, che ti ha fatto confondere la verità con la menzogna. È assurdo! Se solo ci penso, mi vengono i brividi. Lo dico e lo ripeto, quel romanzo è tutta una finzione, è un mondo che non esiste nella realtà. La verità si trova solo nei flebili ricordi di ciascuno di noi. E quei ricordi non sono tutti uguali, ma differiscono leggermente da persona a persona. Tu e tua sorella eravate due bambine speciali alle quali avevano fatto dono di una bibbia intitolata L’innocente. E la lettura di una bibbia, come tutti sanno, può modificare i ricordi delle persone».Michiko, che era rimasta ad ascoltare immobile e in silenzio, scoppiò in una gran risata.«Si vede che è anche lei una scrittrice, eh? Mia madre ha una fantasia formidabile» commentò in tono gentile e senza troppa ironia, rivolgendosi in particolare a Tamaki. Poi, prima di continuare, lanciò uno sguardo anche a Saitō e Nakagusuku. «Una bibbia… Suona molto interessante, non lo nego. Ma se quel romanzo è veramente una specie di bibbia, allora lo è solo per lei e per mio padre. È uno strumento che mia madre utilizza per dare coerenza ai ricordi. Una bibbia in grado di dare nuova vita agli eventi di quel lontano passato, oltre che una prova d’amore. Loro due potevano leggerla e parlarne insieme in memoria dei tempi andati, sapendo come stavano le cose veramente e quali erano le verità e le menzogne. E allora, dopo aver fatto questa premessa, c’è una cosa che vorrei chiedere a mia madre… Mamma, io e mia sorella come dovremmo porci nei confronti della tua bibbia? Come dovremmo affrontare la realtà? Qual è il nostro posto in questa vita? Dimmelo, per favore».«Tu hai piú di cinquant’anni, Michiko!» rispose Chiyoko, mollandole una pacca sulla spalla. «Sei abbastanza matura per trovartelo da sola il tuo posto nella vita, non credi?»A quelle parole, il viso di Michiko si distese in un ampio sorriso.«Lo ripeto, secondo me, l’età non c’entra niente» disse subito dopo. «Però tu sei la solita, riesci sempre ad avere l’ultima parola e a capovolgere le cose a tuo piacimento. Sei incredibile, mamma!»Chiyoko si mise a ridere coprendosi la bocca con le mani. Madre e figlia ridevano insieme e si guardavano con complicità. E i tre ospiti, che avevano ascoltato quel lungo scambio di battute trattenendo il fiato, si lasciarono andare a loro volta a un riso goffo e forzato.2«Michiko, potrei sapere qual è stata la reazione delle persone con le quali aveva a che fare tutti i giorni dopo la pubblicazione dell’Innocente?» chiese Tamaki.Michiko, che sembrava un po’ stanca, mandò giú un sorso di tè verde e trasse un piccolo sospiro.«Me ne hanno dette e ne ho sentite di tutti i colori» rispose. «E hanno parlato male alle nostre spalle. Allora ho subito pensato che dovevano aver messo in giro delle voci false sul nostro conto. Per i miei genitori non era cosí grave, visto che facevano gli scrittori e potevano anche starsene in disparte a lavorare, senza avere contatti con gli altri. Ma per me e mia sorella era molto diverso. Quando la pubblicazione serializzata di quel romanzo è cominciata, io ero al primo anno di liceo e mia sorella al terzo e ultimo. Eravamo nel bel mezzo di un mondo immaturo e selvaggio. Le ragazze del club di letteratura e le nostre compagne di classe i cui genitori amavano leggere misero in giro una lunga serie di pettegolezzi e cattiverie gratuite sulla nostra famiglia. Per non parlare di tutti quelli che mi si avvicinavano al solo scopo di domandarmi se fossi davvero io la “Michiko” del romanzo. Ricordo che l’insegnante responsabile della classe cercava di consolarmi dicendomi che immaginava quanto fosse complicata la vita a casa e che dovevo tenere duro. E poi c’era addirittura gente che mi invidiava perché apparivo in un romanzo! Dopo la pubblicazione, come era ovvio che fosse, molti iniziarono a criticare severamente mio padre. Ma c’era anche chi si accaniva contro mia madre, sottolineando il suo comportamento folle e affermando che spesso esagerava. Alcune persone ci prendevano in giro senza ritegno, trattandoci davvero male. Ah, mi ricordo che qualcuno ci disse addirittura che nella realtà la nostra famiglia era meno peggio di quanto facesse intendere il romanzo. Insomma, le reazioni erano molte e di vario tipo. Io e mia sorella eravamo veramente disperate. Facevamo di tutto per comportarci come due ragazze normali e non darla vinta a quelli che sostenevano che eravamo dei mostri solo perché eravamo cresciute con dei genitori che non si facevano scrupolo di litigare davanti ai figli. Ma è innegabile che l’esperienza che abbiamo subíto durante l’infanzia abbia avuto delle conseguenze piú o meno gravi sulla nostra vita».Michiko si interruppe per spiare la reazione della madre, la quale sorseggiava il tè con aria impassibile.«A proposito» intervenne Chiyoko, approfittando della pausa e assumendo un’espressione intrigante, «ora che mi ricordo, una volta si presentò da me un ragazzo che sosteneva di essere la reincarnazione di Yōhei».«La reincarnazione?» fece Saitō drizzando la schiena, di colpo interessato al discorso.«Sí, era poco piú che un adolescente, venne qui a casa» rispose Chiyoko mettendosi a ridere, mentre sbucciava un altro mandarino. «Lo so che può sembrare assurdo, ma ci è capitata anche questa. Poco dopo la pubblicazione del libro, un ragazzo che aveva l’aspetto di uno studente del liceo si presentò a casa nostra dicendo di essere Midorikawa Yōhei. Aveva i capelli rasati a zero e indossava per l’appunto una divisa scolastica da liceale. Mio marito ne fu molto incuriosito e lo lasciò entrare nel suo studio, dove rimasero a parlare da soli per un po’. Io mi limitai a lanciargli un’occhiata e, siccome non assomigliava per niente al nostro Yōhei, me ne andai subito in un’altra stanza. Però l’età piú o meno corrispondeva: Yōhei era morto una quindicina di anni prima e, se fosse stato ancora tra noi, a quel tempo avrebbe frequentato il liceo. Detestavo quel genere di superstizioni e di inganni, perciò rimasi per tutto il giorno di cattivo umore».«Mamma, tu parli di superstizioni e di inganni, ma hai dimenticato come era serio quel ragazzo? Non sembrava per niente uno scherzo, anche se era tutto molto strano, è ovvio. “Mamma, papà, sono Yōhei, avete visto come sono cresciuto nell’altro mondo?” diceva. “Dovete stare tranquilli, io sto bene. Voi, piuttosto, avete smesso di litigare? Non dimenticate che vi tengo sempre d’occhio e vi proteggo da lassú”».Michiko aveva cantilenato quelle frasi con una voce comica, mentre la madre teneva gli occhi strizzati in una smorfia assenziente.«Sí, hai ragione, disse proprio cosí» concordò Chiyoko. «E tuo padre lo prese anche un po’ in giro… “Ah, Yōhei, sei proprio tu? Che piacere rivederti dopo tutto questo tempo” gli disse, in un tono volutamente ambiguo. Dopo di che lo invitò a entrare e gli fece cenno di accomodarsi su una sedia».«Ma qual era lo scopo del… falso Yōhei?» le domandò Saitō.«Perché, secondo lei doveva avere per forza uno scopo?» ribatté Chiyoko, guardandolo con occhi miti. «Forse era solo un ragazzo buono e gentile. Doveva aver saputo che avevamo perso un figlio a causa dei nostri problemi familiari ed era venuto a darci il suo conforto, anche se in quel modo strambo e originale. In quel senso, era una specie di angelo».Tamaki si ricordò del tizio che le aveva telefonato per dirle che sua madre era X. Gente strana di cui il romanzo di Midorikawa si impadroniva e trascinava nella sua scia. Un romanzo capace di persuadere a torto una persona di essere uno dei personaggi della storia, un romanzo che attraeva verso zone liminali dove era impossibile esistere e resistere, e che alterava in gran segreto la bussola della vita. Per non parlare della misteriosa “apparizione” di Seiji. Tamaki lanciò uno sguardo pieno di ansia alle nuvole grigie attraverso le grandi finestre che sembravano sospese sull’immensa distesa celeste. Pensò che molto presto Seiji avrebbe abbandonato quel mondo in cui lei continuava a sopravvivere. Perché le veniva di fare quei pensieri? Forse perché finalmente era riuscita a incontrare la vera Chiyoko e poteva vedere il suo viso e ascoltare la sua voce mentre parlava dell’Innocente? Forse perché il mistero di quel romanzo stava ormai per risolversi?«Quel ragazzo è tornato altre volte?» chiese Nakagusuku.«No, è venuto una sola volta. Però, ora che ci penso, mio marito parlò di lui dopo tanto tempo, pochi giorni prima di morire».«E che cosa disse?» intervenne in tono interdetto Michiko.«Che forse era davvero Yōhei…»«Mamma, ti prego! Non ti sembra un discorso un po’ macabro? E poi hai detto tu stessa che non gli somigliava per niente, no?»Michiko si sfregava le braccia come infreddolita, lo sguardo inquieto.«Sí, ma tuo padre mi disse che in fondo nostro figlio era morto a un’età in cui neanche io, sua madre, ero in grado di immaginare l’uomo che sarebbe potuto diventare» continuò con voce seria Chiyoko. «Volle semplicemente farmi notare che nessuno poteva essere sicuro della verità e che non si poteva escludere che quel ragazzo non fosse Yōhei, niente di piú».«Dài, smettila, non amo questo genere di storie. Mi danno i brividi, lo sai» protestò Michiko storcendo le labbra.«Ma è solo una bugia!» replicò Chiyoko ridendo a crepapelle. «Tuo padre non credeva affatto nella reincarnazione, negli spiriti e in altre cose del genere».Quella donna era tremenda, sapeva essere molto cattiva. Tamaki osservò bene il suo sguardo trionfante, che poco a poco perse quella luce di esultanza. In particolare quando alla fine andò a posarsi sulla testa bronzea di Midorikawa.«In quell’occasione mia sorella ebbe molta paura, rimase turbata per giorni» disse Michiko.«Sí, è vero, Takako era molto sensibile riguardo a Yōhei, poverina» confermò Chiyoko, che per la prima volta sembrava aver assunto le sembianze di una vera madre.«Mia sorella, come sa, era la primogenita ed era convinta che la morte di nostro fratello fosse soprattutto colpa sua» puntualizzò Michiko rivolgendosi a Tamaki, avendo colto sul suo viso un’espressione interrogativa. «Credo che abbia sofferto molto piú di me per la scomparsa di Yōhei, perché come ho già detto si rimproverava di non averlo saputo tenere d’occhio a sufficienza».«Poverina!» esclamò suo malgrado Tamaki.«Sí, infatti. Ecco perché rimase sconvolta quando seppe che si era presentato da noi quel ragazzo che sosteneva di essere Yōhei. All’epoca faceva un po’ da segretaria a mio padre e si occupava anche di una parte delle faccende di casa. Ma quel giorno caso volle che fosse uscita per alcune commissioni. Al suo ritorno, se la memoria non mi inganna, i nostri genitori le riferirono l’accaduto e lei cominciò a fare una serie di domande a raffica. Insisteva in un modo strano, come se non riuscisse a darsi pace. “Ma era lui?”, “Era veramente Yōhei?”, “Forse era proprio il mio fratellino!” continuava a ripetere. A un certo punto nostra madre, intuendo che la situazione si stava facendo pesante, cercò di toglierle quell’idea dalla testa alzando la voce e gridandole in faccia: “Takako, falla finita, non essere ridicola! Smettila di dire idiozie!”. Ma mia sorella non si diede per vinta e non smise di pensare all’accaduto per un bel pezzo, ripetendo che avrebbe rintracciato quel ragazzo e verificato tutto di persona. Credo che questo dimostri quanto abbiamo sofferto tutti noi, mia sorella Takako in particolare, per la morte di Yōhei».«Dove abita adesso Takako?» chiese Tamaki.«A Tōkyō, da sola» rispose Chiyoko, precedendo la figlia e riprendendo in mano le fila del discorso. «Io e lei non andiamo molto d’accordo. Credo che non mi abbia mai perdonata».«Perché pensa una cosa del genere?»Chiyoko inclinò perplessa il capo da un lato e volse gli occhi a Michiko, la quale ricambiò lo sguardo e assunse un’aria impensierita.«Mia sorella è una persona molto buona e non ama litigare» rispose Michiko al posto di sua madre.«Non è vero, sta’ zitta!» ribatté con rabbia Chiyoko. «Tua sorella non mi ha mai perdonata perché a suo avviso sono la causa della rovina della nostra famiglia. E quindi della morte di Yōhei».«Questo significa che non ha perdonato lei ma che ha perdonato suo marito?» chiese ancora Tamaki.«Credo di sí. Takako gli era molto affezionata ed era sempre d’accordo con lui, in tutto e per tutto».Chiyoko aveva un’aria rassegnata. Nel materiale racimolato da Saitō e Nakagusuku, si diceva che Takako aveva lavorato a lungo come assistente del padre e che dopo la sua scomparsa aveva trovato impiego presso un centro specializzato in letteratura moderna. Considerando l’età, non doveva essere molto lontana dalla pensione.«Non vi vedete molto spesso?»«No, non viene mai qui» rispose Chiyoko, sollevando le spalle alla maniera degli occidentali. «Non so di preciso il perché, ma penso non esista al mondo un figlio che detesti piú di lei i libri scritti dal proprio padre. Eppure gli voleva un gran bene, per cui sono ancora piú allibita».Tamaki pensò che presto le sarebbe piaciuto incontrare anche Takako, ma per ovvie ragioni preferí non manifestare la sua intenzione in presenza di Chiyoko. Intanto Michiko teneva stretta la mano di sua madre per darle conforto.«E lei, Michiko, di tanto in tanto riesce a vedere sua sorella?» non poté fare a meno di chiederle Tamaki.«Be’, sa, non è facile, Tōkyō è lontana» rispose lei sorridendo. «Ci scambiamo qualche e-mail, piú che altro per questioni di natura amministrativa o per gli auguri in occasione delle feste comandate. Quando andrà in pensione, per esempio, pare non abbia nessuna intenzione di tornare qui, a Sapporo».«Vede, mia cara Tamaki» si inserí Chiyoko, «è possibile che Takako non mi abbia perdonata per il fatto di essermi salvata da sola grazie alla scrittura. Sono sicura che può capirmi, perché anche lei è una scrittrice».«Sta per caso alludendo al suo primo libro, Le avventure di Chiyoko?» le chiese Tamaki, voltandosi sorpresa dalla sua parte.«Sí. Come forse saprà, è un libro per bambini, ma scriverlo è stato fondamentale per la mia rinascita e per tutte le possibilità che mi ha dato. Io e mio marito siamo voluti uscire da soli da quel periodo tragico della nostra vita, senza preoccuparci piú di tanto della famiglia. Takako deve essere rimasta sconvolta dal nostro egoismo, ma non ha capito che non esistevano altre vie d’uscita».«Però alla fine anche sua figlia ha trovato un lavoro che ha a che fare con la letteratura, e in ogni caso ha perdonato il padre scrittore, no?»Chiyoko annuí con ripetuti cenni del capo. In lei non c’era piú spazio per sentimenti come il rancore e l’amarezza. Era tranquilla, serafica, ben consapevole che ormai era impossibile tornare indietro e riparare agli errori fatti in passato. Ora, negli ultimi anni della sua vita, dava la netta impressione di volersi lasciare tutto alle spalle, forte di una personalità straordinaria e di un carisma che finivano per imporsi sugli altri.«Mi scusi, Chiyoko, potrei farle una domanda riguardo a quello che ha detto poco fa sua figlia?» le chiese Nakagusuku, forse incoraggiato dall’atmosfera finalmente meno tesa.Chiyoko volse lo sguardo nella sua direzione e fece di sí con la testa. In quel gesto e nei suoi occhi regnava una calma che sembrava appartenere a un altro mondo.«Prima sua figlia ha detto che lei non ha mai perdonato X, giusto? Questo significa che una X esisteva anche nella realtà?»Tamaki dovette trattenersi per evitare di esultare, anche lei stava aspettando il momento giusto per rivolgere a Chiyoko la stessa domanda. Solo che non ci riusciva, perché stentava a trovare lo slancio necessario per rimettere sul tavolo un argomento che era stato già respinto in precedenza. Avrebbe voluto alzarsi in piedi e ringraziare Nakagusuku seduta stante per la sua sfrontata audacia. Come era lecito attendersi, Chiyoko mostrò una certa perplessità nell’ascoltare la domanda.«X non è mai esistita. Lo ribadisco e lo confermo. Mia figlia era solo una bambina e ha una visione distorta delle cose, non può sapere quello che appartiene alla generazione dei suoi genitori».Chiyoko era stata molto abile a tirare in ballo la figlia per negare con forza l’esistenza di X. Ormai era inutile rivolgere altre domande a Michiko in presenza di sua madre. Era evidente che ci fosse una ragione ben precisa dietro l’evasività di Chiyoko. In quelle condizioni, a Tamaki non restava altro che sperare in un’accesa discussione tra madre e figlia, cosí che perdendo in parte il controllo potessero lasciarsi andare a nuove dichiarazioni. Ma era lecito arrivare a tanto nel nome della verità? Tamaki cominciava a sentirsi estenuata. Intimidita fin dall’inizio dalla presenza di Midorikawa Chiyoko, finí col pensare che doveva essere proprio come diceva lei e che X esisteva soltanto nelle pagine del romanzo. Quell’anziana signora aveva una volontà di ferro, era una roccia granitica colma di violenta passione. Tamaki si sentiva sopraffatta da quella formidabile ottantaseienne, che alla sua età era ancora preda di quel desiderio cieco che è all’origine delle sofferenze terrene.Di colpo Michiko si alzò dalla sedia e uscí dalla stanza senza proferire parola, facendo ondeggiare la sua lunga gonna. Chiyoko, che non aveva per niente l’aria stanca, giocherellava con l’orlo del suo vestito rosso e si guardava le maniche e i polsini. E intanto Tamaki e i due editor, in preda all’imbarazzo, si scambiavano continue occhiate di sottecchi. Poi Tamaki guardò l’orologio e si rese conto che non restava molto tempo.«Adesso non scrive piú?» chiese Saitō alla padrona di casa, nel tentativo di rompere la tensione.Chiyoko, che nel frattempo aveva inforcato un paio di occhiali da presbite con una sottile montatura argentata, si mise a leggere le notizie sull’autrice sul risvolto di copertina del libro che Tamaki le aveva regalato.«Bene, mia cara Tamaki, voglio farle una confidenza» disse alzando di colpo gli occhi da dietro le lenti, malgrado la domanda le fosse stata rivolta da Saitō. «In realtà, sto scrivendo un romanzo. Sono a buon punto».Saitō e Nakagusuku si guardarono stupefatti e si trattennero dal ridere.«Che genere di romanzo?» chiese seria Tamaki.«Un romanzo d’amore…»«Sulla sua storia con Midorikawa?»
Chiyoko si limitò a sorridere con gioia, senza aggiungere altro. Tamaki aveva una voglia pazzesca di leggere quel romanzo, avrebbe fatto di tutto per averlo. Che cosa poteva mai scrivere una donna che a ottantasei anni non aveva ancora trovato pace? Cosa c’era nella testa di una scrittrice che circa cinquant’anni prima aveva raccontato la storia di una ragazzina rinchiusa in una grotta e che finalmente era approdata nel “mondo luminoso della superficie”?«Se non chiedo troppo, Chiyoko, mi piacerebbe molto leggerlo».«Ma certo, mia cara, glielo farò avere non appena lo avrò terminato».«Con quale editore lo pubblicherà?» le chiese Saitō, con una certa esitazione.«Kawakura shobō».«Ah, come pensavo» mormorò ancora Saitō, senza nascondere la sua delusione.Kawakura shobō aveva pubblicato anche Le avventure di Chiyoko, segnando il battesimo letterario di Midorikawa Midori. Era ovvio che esistesse un forte legame con quella casa editrice.«Il momento che ha segnato l’inizio della sua carriera di scrittrice di libri per l’infanzia è menzionato anche nell’Innocente» disse Tamaki. «Ma immagino che non abbia gradito piú di tanto il modo in cui l’episodio è stato descritto, vero?»«Diciamo pure che ci sono rimasta molto male, ecco» rispose subito Chiyoko. «Scrivere certe cose, in quel modo, è un insulto alla mia persona, non trova? Ho chiesto a mio marito di modificare quella parte un’infinità di volte, ma non ha mai voluto darmi ascolto. Forse non voleva correre il rischio che potessi diventare una scrittrice piú brava e famosa di lui».Saitō e Nakagusuku si guardavano ora col fiato sospeso, condividendo lo stesso timore di essere all’ascolto di una storia sconvolgente e terribile. Quanto a Tamaki, era impressionata piú che mai dalla disinvoltura di Chiyoko, la quale non nascondeva niente e non si faceva scrupolo di rivelare tutto quello che poteva. Tutto tranne la possibile esistenza di X, che si ostinava a negare.Nell’Innocente, Midorikawa aveva scritto il seguente passo:«T. è stato molto gentile e mi ha detto che la prossima volta mi presenterà un editor specializzato in letteratura per l’infanzia» proseguí Chiyoko con grande entusiasmo. «È fantastico, no? Voglio impegnarmi a fondo, è una grande occasione».«Sí, certo» mormorai a bassa voce. Chiyoko era su di giri, quasi irriconoscibile rispetto a poche ore prima. Ed ecco che cominciavo a provare una certa pena per X, che avevo appena lasciato. In quel momento non ero a conoscenza di un dettaglio importante: dopo essere andata via dalla casa editrice, Chiyoko aveva fatto visita a un’altra donna, portando con sé un coltellaccio da cucina.Tamaki aveva tirato fuori dalla borsa la sua copia del romanzo per rileggere il brano. Chiyoko fissò con occhi stupiti i numerosi post-it colorati attaccati alle pagine del libro.«Mi scusi tanto, ma c’è una cosa che vorrei assolutamente chiederle a proposito di questo passo» chiese Tamaki mostrando a Chiyoko la pagina in questione. «Qui, dove c’è scritto che lei ha un colloquio con T., l’editor di Midorikawa presso Kawakura shobō, il quale le promette di farle conoscere un altro editor specializzato in letteratura per l’infanzia. E poi ancora, subito dopo, qui dove si dice che va da un’altra donna portando con sé un coltello da cucina… I fatti si sono svolti in questo modo? È successo veramente?»Tamaki si aspettava che Chiyoko ribattesse all’istante che erano solo menzogne, che quegli episodi erano frutto della fantasia dell’autore. E invece, la mano appoggiata sul mento minuto e aggraziato, si mise a riflettere.«In verità, non so che cosa dirle» rispose dopo averci pensato su.In quel momento, la porta del soggiorno si aprí e fecero il loro ingresso Michiko e Tomonō, l’uno dietro l’altra e con in mano un vassoio ciascuno. Michiko serví in tavola dei graziosi piattini con dei cucchiaini d’argento: contenevano la crème caramel che Tamaki aveva portato per l’occasione. E Tomonō, subito a seguire, vi appoggiò accanto con fare delicato delle tazze di tè. Il suo contegno rivelava in ogni singolo gesto un’integrità ineccepibile.«Tomonō, per caso ricordi che cosa è successo dopo il nostro primo incontro, tanti anni fa?» gli chiese inaspettatamente Chiyoko.Nel rivolgergli la domanda, un sorriso divertito sulle labbra, gli indicò la pagina dell’Innocente che Tamaki le aveva appena mostrato. L’uomo diede una rapida scorsa e mugugnò imbarazzato un semplice «Ehm…». Dopo di che prese a toccarsi con fare nervoso il collo con la mano destra, entrambi dalla pelle molto rugosa. Che cosa gli era preso? Perché quella strana reazione? Tamaki era in confusione totale e non sapeva cosa dire, ma per fortuna intervenne Michiko.«Tomonō lavorava come editor per Kawakura shobō» disse.Tamaki non credeva alle sue orecchie. Si voltò e fissò il viso magro e smunto di Tomonō, il quale aveva preso a grattarsi il capo come un ragazzino impacciato.«In effetti ci sono anch’io in quel romanzo, per la precisione in due passi» disse finalmente. «Sono io l’editor T. di Kawakura shobō».«Sí, me lo ricordo» replicò Tamaki. «Il primo è quello in cui lei ha appuntamento con Midorikawa ma è costretto ad assentarsi a causa di un imprevisto. Il secondo, invece, è quello della scena in cui Midorikawa la abbandona in compagnia di Chiyoko. E poco piú avanti l’autore scrive che lei le aveva promesso di presentarla a un editor specializzato in libri per bambini. Giusto?»«Giustissimo!» confermò con voce squillante Tomonō, come se di colpo fosse ringiovanito di vent’anni. «Sono proprio io quel T. Si era verificata una grave perdita d’acqua presso gli alloggi per i dipendenti dove abitavo e dovetti accorrere subito sul posto, venendo meno all’appuntamento con Midorikawa: è tutto vero. Cosí come è vero che nell’occasione successiva conobbi sua moglie, Chiyoko. Ma quegli “abiti miseri” sono un’invenzione dell’autore. Quel giorno, Chiyoko indossava un vestito giallo molto carino, e ricordo che suscitò una certa impressione in redazione. Tra l’altro il vestito era impreziosito da un bel colletto bordato di nero. Era elegante e moderno. Chiyoko era davvero graziosa, aveva un viso molto bello, e quell’abito le stava a meraviglia. Non potei fare a meno di pensare che suo marito l’avesse portata con sé per una forma di compiacimento, orgoglioso di mostrarla».Tomonō non aveva parlato di menzogna, ma di un’invenzione dell’autore. Di fronte a quella rivelazione inattesa, Saitō e Nakagusuku rimasero per l’ennesima volta senza parole. Intanto Tamaki rilesse mentalmente il passo dell’Innocente in cui veniva descritto l’abbigliamento di Chiyoko: «Chiyoko, nella sua tenuta abituale costituita da maglione bordeaux, gonna marrone e calze nere rammendate, mi seguiva passo passo, in silenzio». Il vestito giallo elegante e moderno di cui parlava Tomonō evocava X nella penombra del ballatoio esterno di casa sua.«Come ho già cercato di dirle, quel romanzo è una sorta di sintesi, una specie di mosaico di varie persone e vari momenti e situazioni» affermò poco dopo Chiyoko. «Ecco perché ho insistito che va preso come una finzione. In quel brano si fa riferimento al mio primo incontro con Tomonō. Dopo continuammo il nostro discorso bevendo un paio di bicchieri in un bar nelle vicinanze della casa editrice. Mio marito ha aggiunto la storia del “coltellaccio da cucina” solo perché era geloso».Sopraffatta da un sentimento prossimo a pura ebbrezza, Tamaki scrutava con insistenza il volto di Tomonō. In effetti, a ben vedere, aveva la fronte alta e il cranio allungato, proprio come era descritto nell’Innocente.«Da quando Midorikawa è morto, io e Chiyoko viviamo insieme» disse l’uomo, con una punta di evidente fierezza nella voce.3L’attempato signore che aveva davanti agli occhi era dunque l’editor T. di cui Midorikawa Mikio parlava nel suo romanzo! Di fronte a quella realtà che andava ben oltre la sua immaginazione, Tamaki restò a bocca aperta. Anche Saitō guardava fisso Tomonō, il volto distorto da una smorfia di uguale stupore. Quanto a Nagakusuku, per poco non esplodeva in una risata isterica. La meraviglia nel veder materializzarsi come dal nulla il personaggio di un romanzo fece precipitare Tamaki nella confusione piú totale. Aveva la sensazione che la realtà fosse stata risucchiata dalla finzione e diluita, smarrendo ogni parvenza di verità e concretezza. Chiyoko e Tomonō, ora anziani, e la piccola Michiko diventata adulta avrebbero dovuto vivere solo tra le pagine di quel romanzo. Cosí come la testa in bronzo di Midorikawa, piú grande che non nella realtà. Tamaki aveva letto L’innocente con una passione e un coinvolgimento tali da impararlo a memoria. E lei? A quale dei due mondi apparteneva? In quel frangente non era in grado di dirlo con certezza, lo sguardo smarrito nel vuoto.«Vi chiedo scusa per avervi sorpreso» disse Tomonō sorridendo tutto contento, mentre si toccava la montatura degli occhiali con la punta delle dita. In lui dominava il grigio: dai capelli radi incollati al cranio ai pantaloni troppo larghi e al maglione. Quando lo aveva visto per la prima volta, Tamaki gli aveva dato una sessantina d’anni abbondante, ma nelle pagine del romanzo Midorikawa scriveva che aveva circa dieci anni meno di lui, per cui ora doveva averne settantacinque o settantasei. Sembrava piú giovane.«Siete rimasti senza parole, eh?» disse con un ghigno indisponente Chiyoko guardando a turno i tre ospiti, i quali si scambiavano continue occhiate incredule. «I nostri amici e conoscenti ne erano al corrente, ma voi non potevate saperlo».A Tamaki venne spontaneo pensare che forse Chiyoko e Tomonō ci provassero gusto a cogliere di sorpresa le persone che rendevano loro visita per avere notizie sull’Innocente. Solo Michiko, come se la faccenda non la riguardasse, continuava a gustare imperterrita il suo crème caramel.«Il mio nome completo è Tomonō Tsuguhiko» disse l’ex editor riprendendo la parola. «Come è scritto nelle pagine dell’Innocente, all’inizio mi occupavo dei libri di Midorikawa Mikio. Poi, dopo l’incontro con sua moglie, sono passato alla redazione dei libri per ragazzi e ho curato personalmente l’editing delle Avventure di Chiyoko, scoprendo una scrittrice molto brava e di grande talento. Fino ad allora non aveva osato scrivere piú di tanto perché, come era ovvio che fosse, era in stato di soggezione nei confronti del marito e si sentiva in imbarazzo».«A me non sembra una cosa cosí ovvia… Perché provare soggezione e imbarazzo?» chiese Tamaki, rivolgendosi direttamente a Chiyoko. Si rendeva conto di suonare aggressiva e persino scortese, ma non aveva potuto impedirsi di intervenire. Nell’Innocente, c’era una riflessione abbastanza spiritosa in cui Midorikawa si domandava come si sarebbe comportato e cosa ne sarebbe stato di lui se avesse scoperto che la moglie possedeva del vero talento come scrittrice. Tamaki, nel leggere quel passo, aveva pensato che si trattasse piú che altro di una canzonatura un po’ beffarda e maligna da parte di uno scrittore professionista che riteneva la moglie una semplice dilettante, anche perché l’autore sottolineava il proprio pensiero con un’ironia sottilmente offensiva.«Non è facile rispondere a una domanda del genere…» disse confusa Chiyoko, volgendo lo sguardo a Tomonō come fosse in cerca di aiuto.«Secondo me, sarebbe il caso di parlarne, altrimenti la situazione non si chiarirà mai» le suggerí con voce sincera Tomonō, il quale poi si rivolse a Tamaki e disse: «A patto che lei, signora Suzuki, ci prometta di non scrivere nulla in proposito nel suo romanzo».«Ma certo, ci mancherebbe».«Grazie, e mi scusi tanto per averglielo chiesto».Tomonō, dopo aver chinato il capo verso Tamaki, incrociò lo sguardo di Chiyoko e la fissò con molta dolcezza, come a volerla rassicurare. Allora Tamaki sentí accendersi dentro di sé un nuovo interesse. E di certo provarono la medesima sensazione anche Saitō e Nakagusuku, i quali di colpo si sporsero in avanti con occhi vivi e attenti.«Mia cara Tamaki» disse Chiyoko, «di solito la moglie di uno scrittore resta nascosta nelle retrovie, no? Lei ha una famiglia? Ha un marito e dei figli?»«Sí, sono sposata e ho un figlio» rispose Tamaki, facendosi un po’ indietro col busto perché aveva percepito nelle parole di Chiyoko un’insolita veemenza, un sentimento negativo prossimo a puro odio e rancore.«Bene, e come si comporterebbe se suo marito o suo figlio le dicessero che vogliono fare gli scrittori?»«Credo che leggerei prima di chiunque altro i loro lavori, in modo da farmi un’idea».«Perfetto!» esclamò in tono trionfante Chiyoko. «E dopo, che cosa farebbe?»«Se mi accorgessi che sono davvero bravi e che hanno talento, consiglierei loro di partecipare a un premio letterario o qualcosa del genere. E penso che darei un’occhiata ai loro scritti prima di farli inviare a chi di dovere».«Non chiederebbe anche a uno dei suoi editor di leggerli?» insisté Chiyoko.«Credo di no, avrei paura di dare fastidio e di mettere in difficoltà la persona in questione» rispose perplessa Tamaki, inclinando il capo da un lato. «Non sarebbe corretto, né nei riguardi dell’editor né tanto meno dell’aspirante scrittore. Insomma, non sarebbe giusto ricorrere a una corsia privilegiata, le cose bisogna guadagnarsele, no?»«Certo, ma immagino che questo varrebbe soprattutto per suo figlio, o sbaglio?» commentò con una certa malizia Chiyoko. «Ma se l’aspirante scrittore fosse suo marito? Cosa proverebbe se all’improvviso scoprisse che suo marito ha talento?»«Mmh, devo ammettere che forse ne sarei un po’ turbata» rispose in tutta franchezza Tamaki. Se il figlio avesse manifestato il desiderio di seguire le sue orme, sarebbe stata con ogni probabilità contenta e orgogliosa, pensando che in fondo fosse anche una questione di geni materni. Ma se a palesare velleità letterarie fosse stato il marito, sarebbe stato ben diverso e non poteva escludere che sarebbe subentrato un sentimento di rivalità. Ora, nel caso dei Midorikawa, a complicare la situazione c’era il fatto che l’aspirante scrittrice era lei, la moglie, che secondo la visione tradizionale delle cose avrebbe dovuto occuparsi solo della casa e dei figli. Oltre al timore della concorrenza professionale, forse Mikio aveva percepito una minaccia che rischiava di mettere a repentaglio la sua supremazia di fiero e indiscusso capofamiglia.
«Quindi suo marito» aggiunse Tamaki, dopo averci riflettuto un po’ su, «si sentiva minacciato e… come dire?, destabilizzato dal suo talento letterario?»Chiyoko si limitò a guardare in direzione di Tomonō, senza dire nulla, come se volesse esortarlo a prendere di nuovo la parola.«Mi scusi, risponderò io alla domanda, le spiegherò tutto per filo e per segno» intervenne lui, reagendo con sollecitudine alla muta richiesta di Chiyoko. Si esprimeva con molta vivacità e in tono gioviale, come era abituato a fare quando lavorava in casa editrice. «In effetti, Midorikawa lesse quel romanzo prima di chiunque altro. Il romanzo che Chiyoko scrisse nel poco tempo libero che aveva a disposizione, nelle pause tra le incombenze domestiche e l’educazione dei figli».«E lui ne fu scioccato, non è vero?» affermò in tutta sicurezza Tamaki, pur trovando il proprio tono fin troppo enfatico.«Sí, esatto» replicò Tomonō, esibendo un sorriso che mise in mostra la dentatura ingiallita dalla nicotina.«E non era un libro per ragazzi, ma un vero e proprio romanzo, giusto?» chiese conferma Saitō, incapace di tenere a freno la curiosità.«Sí, era un vero romanzo» intervenne Chiyoko voltandosi verso di lui, accompagnando la risposta con ripetuti cenni del capo. «Io amo i romanzi, li adoro».«Midorikawa riconosceva il talento letterario di Chiyoko» disse Tomonō, riprendendo il suo discorso esplicativo come fosse una voce fuori campo. «Una volta me ne parlò, anche se solo brevemente. Mi disse che sua moglie aveva scritto un romanzo e che non era affatto male, tanto che ne era rimasto sorpreso. Allora gli chiesi di mostrarmelo, e sapete lui che cosa mi rispose? È incredibile, se solo ci penso mi viene la pelle d’oca, anche se sono passati molti anni…»«“In una casa non c’è bisogno di due scrittori!”» intervenne a mezza voce Chiyoko, notando che Tomonō esitava a completare il discorso. «Sí, disse proprio cosí, sue testuali parole… Ma come ha osato? Ero tutt’altro che contenta, perbacco!»Il tono palesemente ironico di Chiyoko spinse tutti i presenti al riso e contribuí ad allentare la tensione.«Certo, adesso possiamo anche scherzarci su, ma Chiyoko è stata senza dubbio una vittima» riprese a parlare in tono serio Tomonō. «Quella stessa frase avrebbe potuto pronunciarla con pieno diritto anche lei: “In una casa non c’è bisogno di due scrittori!”. Si sa, spesso noi uomini siamo prepotenti e prevaricatori. O quanto meno, volendo essere un po’ piú clementi, diciamo che a volte manchiamo di generosità. Soprattutto se la persona in questione è un uomo giapponese di un certo stampo come Midorikawa Mikio».Tomonō, le gambe accavallate, si era lanciato in una specie di breve monologo.«Mamma, forse è da lí che nasce tutto il tuo rancore» intervenne allora Michiko, mentre appoggiava il cucchiaino d’argento sul bordo del piattino e si asciugava le labbra con un fazzoletto di carta che aveva appena estratto dall’apposito contenitore.«Tutto il mio rancore… Sí, è normale che dentro di me ce ne sia ancora tanto» disse con voce ferma Chiyoko, sfregandosi le mani fino a farle diventare rosse. «Dopotutto amavo la letteratura fin da bambina e mi piaceva da matti scrivere. Componevo poesie in verso libero e tanka, e mi inventavo anche un sacco di storie. Ecco perché sono andata subito d’accordo con Mikio e mi sono innamorata di lui, eravamo entrambi presi dalla magia della letteratura. Lui era una giovane promessa, eravamo una bellissima coppia. Nell’Innocente dà di proposito l’impressione di accorgersi per la prima volta che anch’io scrivevo, ma nella realtà non era cosí, lo sapeva benissimo. Però tutti hanno dato credito alla sua versione, non potendo sapere che si trattava di una mera invenzione letteraria, e alla lunga la situazione ha finito per esasperarmi. Ho accumulato odio e rancore senza neanche accorgermene».Tamaki ricordò che in una scena dell’Innocente Midorikawa si prendeva gioco di Chiyoko in merito a un suo vecchio pseudonimo letterario, dicendole: «Ah, come Kaga no Chiyo, la celebre poetessa del diciottesimo secolo, giusto?». E in quel preciso momento osservò il suo profilo con la coda dell’occhio, pensando che un simile paragone doveva aver ferito profondamente una donna come lei. Dopo di che le affiorò alla mente l’ennesimo passo dell’Innocente.«Comunque» continuò lei con grande spigliatezza, «sono stata molto contenta di scambiare quattro chiacchiere con T.»Povero T., chissà che imbarazzo – pensai subito, ricordandomi la sua fronte alta e il cranio allungato. Era poco piú che un ragazzo, aveva una decina di anni meno di me.«Di che cosa avete parlato?»«Anch’io scrivo delle poesie e delle favole, e perciò gli ho chiesto se poteva darci un’occhiata».La guardai basito. Era tutta fiera e gongolante. Non me ne aveva mai parlato, non sapevo che scrivesse.«Vivevamo tutti e due per i libri e per la scrittura» proseguí Chiyoko, «eppure lui voleva essere l’unico protagonista e non mi lasciava frequentare gli ambienti letterari. Si uní da solo a un gruppo di giovani scrittori sorto intorno a quella rivista amatoriale, Shusui, e dopo le riunioni se ne andava a bere con le aspiranti scrittrici che frequentavano la combriccola. Tornava sempre a casa ubriaco fradicio e farneticante, biascicando a piú non posso i commenti che con ogni probabilità si riferivano ai tentativi letterari di quelle donne: “Nei racconti di quella ragazza, le descrizioni non sono affatto male, tuttavia la trama e la struttura risultano troppo schematiche e convenzionali, mancano di ispirazione”, “Quella tizia è bravina, ma utilizza delle metafore davvero mediocri, non ha la stoffa della scrittrice professionista”… Andava avanti cosí molto a lungo, su di giri dopo le riunioni e le bevute, e continuava a farfugliare una frase dopo l’altra come impazzito, mentre io mi rodevo di rabbia e di invidia. Stavo chiusa in casa dalla mattina alla sera a occuparmi delle faccende domestiche e dei figli. Mi svegliavo all’alba, accendevo la stufa per riscaldare la casa, mettevo l’acqua a bollire e facevo cuocere il riso sul fuoco a legna, preparavo la zuppa di miso, ravvivavo il braciere a carbone per grigliare il pesce essiccato, svegliavo i bambini, li lavavo, li vestivo e davo loro la colazione, facevo i piatti e le pulizie nelle camere, lavavo i pannolini strofinandoli forte contro l’asse di legno per il bucato e li appendevo ad asciugare, infine spazzavo davanti alla porta di casa. Poi andavo con i bambini a fare la spesa, compravo il latte, il pane, gli udon, la verdura e tornavo di filato a casa per preparare il pranzo, dopo di che bisognava subito pensare ai preparativi per la cena. Era un continuo, non si finiva mai, ogni giorno uguale agli altri. E lui, senza mai alzare un dito per aiutarmi, non faceva altro che moltiplicare le sedute di lavoro con le sue fedeli ammiratrici. Quando andava alle riunioni della rivista, anche se non navigavamo nell’oro, si portava dietro un bel po’ di denaro che spendeva fino all’ultimo spicciolo. Faceva il gradasso con le ragazze offrendo cene a destra e a manca, mentre noi dovevamo arrangiarci alla meno peggio accontentandoci solo di pasti frugali. Da puro egoista, si era impadronito della stanza di sei tatami accanto all’ingresso e diceva che era il suo studio. Non permetteva a nessuno di avvicinarsi e faceva tutto quello che voleva, lasciando il futon perennemente steso sul pavimento. Quando le bambine tentavano di entrare, andava su tutte le furie e si metteva a sbraitare come un ossesso, gridando che doveva lavorare e che non voleva essere disturbato. E se solo provavo a chiedergli di darmi una mano, mentre se ne stava disteso lí dentro a poltrire, me ne diceva di tutti i colori e si lamentava perché avevo interrotto le sue riflessioni sul nuovo romanzo. Ero distrutta e depressa, non ne potevo piú. Ed ecco che, al colmo della disperazione, pensai di reagire e rendergli la pariglia scrivendo un romanzo. Ero sicura di non essere da meno rispetto a quelle pseudoscrittrici da quattro soldi che bazzicavano intorno alla rivista». Chiyoko fece una breve pausa per riprendere fiato e aggiunse, sorridendo: «Dopotutto sono sempre stata un osso duro, sono una testarda nata!».Tamaki immaginò che tra “quelle pseudoscrittrici da quattro soldi” ci fosse anche X e concluse che la violenta gelosia di Chiyoko non fosse solo l’espressione del sentimento di una donna tradita dal marito, ma anche una manifestazione di orgoglio e amor proprio legata alla volontà di autoaffermazione..«Come ho già avuto modo di dire» proseguí l’anziana padrona di casa dopo aver recuperato una certa calma, «nel romanzo di mio marito la realtà e la finzione si mescolano di continuo. Quel giorno mi sono incaparbita a seguirlo da Kawakura shobō non perché volessi mettere fine alla sua infedeltà, ma perché desideravo assicurarmi un editore per il mio romanzo, visto che lui era restio a presentarmene uno».«Questo sí che significa avere forza di volontà e spirito di iniziativa!» proruppe con piena ammirazione Nakagusuku.«Ero stanca di aspettare, era venuto il momento di agire!» replicò furente Chiyoko. «Gli avevo chiesto decine di volte di farmi conoscere un editore, ma lui continuava a tergiversare e a prendermi in giro. Perciò quel giorno, quando mi disse che aveva un appuntamento da Kawakura shobō, mi preparai in fretta e furia e andai con lui».«Indossando un bel vestito giallo!» aggiunse a tutta voce Tamaki, facendo sorridere di gusto Chiyoko.«Sí, esatto. Anche se avevo a disposizione solo un paio di minuti, feci del mio meglio per essere presentabile ed elegante. Era una chance che non potevo perdere, ormai sapevo che il mio futuro era nelle mie mani».Eppure Tamaki non poteva fare a meno di pensare che mostrare il manoscritto a un editor non fosse l’unico scopo di Chiyoko. All’epoca doveva essere molto invidiosa di X, la quale era un membro ufficiale di Shusui e poteva scrivere in tutta libertà, partecipare a pieno diritto alle riunioni in compagnia di Midorikawa e andare a bere con lui la sera. Facendo la conoscenza di un editor, sottoponendo alla sua attenzione il romanzo e sperando di pubblicarlo, Chiyoko non nutriva forse il desiderio segreto di superare la sua rivale? Doveva essere per questo che aveva accettato seduta stante l’invito al bar da parte di Tomonō. E nella gelosia di Midorikawa nei suoi confronti doveva esserci anche una certa invidia professionale.«Certo che arrivare a dire che in una casa non c’è bisogno di due scrittori mi pare eccessivo» fece osservare Saitō.«Però, d’altra parte, non si può negare che se ci fossimo dedicati entrambi alla scrittura a tempo pieno avremmo avuto qualche problema» ribatté serafica Chiyoko. «Chi si sarebbe occupato della casa, di preparare da mangiare e dei bambini?»Poi sorrise con dolcezza, assottigliando gli occhi, ma nessuno dei presenti ebbe la forza di imitarla. Perché la collera e la sofferenza di una donna trascurata avevano causato una frattura profonda e insanabile, che a lungo andare aveva provocato la tragica morte del piccolo Yōhei.Se, come si diceva in giro, la misteriosa X dell’Innocente era una delle giovani scrittrici che gravitavano nell’orbita di Shusui, allora una delle principali indiziate era Miura Yumi, la quale, qualche anno dopo la rottura con Midorikawa, aveva ottenuto un importante premio letterario per scrittori esordienti. Nello stesso periodo, Chiyoko stava attraversando il momento piú difficile della sua vita, prostrata e annichilita dalla scomparsa di Yōhei. Se non fosse stata una donna forte come poche, non sarebbe mai stata in grado di riprendersi da uno shock cosí tremendo.Tamaki gettò un’occhiata ai suoi appunti e sospirò. Come bisognava procedere? Conveniva porre altre domande su X? Si sentiva perduta. Nella stanza era sopraggiunta la penombra e non riusciva quasi piú a leggere le parole che aveva appuntato in fretta nel suo bloc-notes. Sollevò lo sguardo verso la finestra e si rese conto che era calata la sera. Il cielo, cupo e nuvoloso, aveva assunto il colore uniforme della notte. La stanza ad angolo, che sembrava puntare alla volta celeste come la prua di una nave, appariva ora sinistra, quasi stesse solcando un mare notturno e sconosciuto.In quel momento, come se da qualche parte fosse in corso un bombardamento, il cielo rosseggiò in lontananza. Tamaki si strinse nelle spalle e restò impietrita.«Sono lampi?» disse Chiyoko volgendo lo sguardo fuori dalla finestra. «È raro, all’inizio dell’inverno».Saitō e Nakagusuku, accortisi che fuori regnava l’oscurità, stavano confabulando qualcosa a bassa voce. Si era fatto tardi, avevano superato di quasi un’ora l’orario previsto per il rientro.«È diventato buio all’improvviso» disse Tomonō, alzandosi in piedi e facendo il giro della stanza per accendere le luci.«Ci scusiamo per esserci trattenuti tanto a lungo» disse Tamaki dopo aver dato un’occhiata all’orologio. «Non vorremmo avervi arrecato troppo disturbo».«Ma no, che cosa dice? Per me è stato un vero piacere» rispose Chiyoko. «Su, voglio completare almeno il discorso sul mio lavoro». Non mostrava alcun segno di stanchezza, era piena di vitalità come all’inizio. Tamaki la ringraziò con un profondo inchino, mostrando un’espressione di chiaro sollievo.«Mia madre è una roccia, mi chiedo da dove la prenda tutta questa energia» si inserí Michiko, che intanto era andata a preparare dell’altro tè e si accingeva a riempire le tazze degli ospiti con un sorriso gentile sulle labbra.«Eh sí, andò proprio cosí» riprese a raccontare Chiyoko. «Nonostante mio marito tentasse di ostacolarmi, riuscii a fare la conoscenza di Tomonō, che lesse molto volentieri il mio manoscritto e lo fece pubblicare qualche anno piú tardi».Finalmente l’atmosfera nella stanza si fece piú distesa e rilassata, anche perché Chiyoko aveva preso a parlare in tono pacato, come se stesse recitando.«Mio padre aveva il suo bel carattere, questo nessuno lo mette in dubbio» puntualizzò Michiko, mentre continuava a versare il tè nelle tazze, «ma non era di certo d’ostacolo».«Stavo solo scherzando!» ribatté Chiyoko. «Però mi domando se dentro di sé non reputasse la mia decisione di dedicarmi alla scrittura qualcosa di negativo. Altrimenti perché avrebbe dovuto chiedermi di fare quella promessa? Il romanzo era il suo campo, non avrebbe mai sopportato che i nostri libri facessero parte della stessa categoria e fossero messi addirittura a confronto, perciò mi fece promettere di dedicarmi solo ed esclusivamente alla narrativa per l’infanzia e alla poesia».«Davvero?» chiese senza volerlo Tamaki, colta di sorpresa da quella rivelazione inaspettata.«Sí!» rispose Tomonō al posto di Chiyoko. «Ho sempre pensato che Le avventure di Chiyoko siano un romanzo a tutto tondo, un piccolo capolavoro adatto agli adulti piú che ai bambini. Eppure finí per essere collocato nel genere della letteratura per l’infanzia. Per esempio, credo che la grotta di cui Chiyoko parla nel libro esprima la sua sofferenza per la mancanza di libertà, anche nell’ambito dello stesso processo creativo. Mentre il “mondo luminoso della superficie” è oltretutto la metafora della libertà creativa».«E che cosa ci dice a proposito della vecchia che rinchiude la piccola Chiyoko nella grotta?» chiese Tamaki.«Mah, forse si tratta dello stesso Midorikawa» intervenne Chiyoko lasciandosi andare a una risata composta e garbata, mentre dirigeva ancora una volta lo sguardo alla testa in bronzo del marito.«Quando la protagonista esce dalla grotta buia e raggiunge il “mondo luminoso”, va alla ricerca di un paio di occhiali da sole, no?» disse Michiko, quasi volesse approfittare del momento per esprimere i suoi dubbi. «Ma non ne trova di adatti e alla fine diventa cieca. Che cosa significa questo?»«Gli occhiali da sole rappresentano forse il lavoro» rispose di nuovo Tomonō. «Come se Chiyoko avesse voluto esprimere il suo rammarico per non aver trovato fino ad allora un lavoro all’altezza del suo talento».Chiyoko si limitò a sfoggiare un ampio sorriso, senza dire nulla.«Mi scusi, mi permetta di porle una domanda, anche se siamo in presenza di sua madre» disse Tamaki rivolgendosi a Michiko. «Prima, se non ho capito male, lei ha affermato che l’amore di Chiyoko per Midorikawa non si è mai spento. Le dispiacerebbe essere piú chiara?»Michiko, che intanto si era voltata di lato per mettersi del burro di cacao sulle labbra, ripose in tutta fretta il tubetto in una tasca e fece una smorfia impacciata.«Be’, è quello a cui accennavo prima, no?» disse un attimo dopo, balbettando e fissando Chiyoko con malizia. «Mia madre non ha mai voluto perdonare mio padre, perché è tuttora innamorata di lui».«Ma che cosa ti salta in mente? Non è vero, certo che l’ho perdonato!»Chiyoko rise a bocca spalancata, mettendo in mostra una dentatura inaspettatamente perfetta.«No, non lo hai perdonato!» insisté Michiko. «Avete visto tutti come ha reagito poco fa, no? È evidente che ha ancora molto rancore nei suoi confronti, e forse nutre tuttora un odio profondo per quella donna, X. Mia madre è una persona che non dimentica, non è disposta a cancellare con facilità le ferite che le sono state inflitte. Mio padre aveva molta paura delle sue reazioni, e credo che abbia iniziato a temerla in modo particolare dopo che l’aveva tradita e umiliata. Lei non è disposta a perdonarlo perché desidera mantenere a tutti i costi un legame con lui. Per questo insisto nel dire che a mio avviso è ancora innamorata follemente di mio padre».Mentre ascoltava le parole di Michiko, Tamaki ricordò il suo rapporto con Seiji. Loro due non si erano mai perdonati: questo significava che non sarebbero mai riusciti a “sopprimere” il loro amore?Di colpo le squillò il cellulare. Lo spegneva sempre prima di un incontro di lavoro o di un’intervista, ma il pensiero di incontrare Chiyoko l’aveva resa cosí nervosa che stavolta se n’era dimenticata. Si scusò e rifiutò la chiamata. Ma dando un’occhiata rapida riuscí a vedere il nome che compariva sul display: Yamaguchi. Allora, con il cuore in gola, non poté evitare di pensare che Seiji se ne fosse andato via per sempre. Perché Yamaguchi le aveva promesso che si sarebbe fatto vivo solo per annunciarle la sua morte.Tamaki osservò il cielo notturno al di là delle grandi finestre. Il lampo che aveva scorto qualche minuto prima non era forse un segno? Ora, sul vetro dove si riflettevano le luci della stanza, si delineava nitido anche il suo viso, i cerchi intorno agli occhi evidenti come non mai.Alla fine Seiji era partito per il suo viaggio nell’altro mondo. “Piangerò al momento della sua morte?”: quante volte Tamaki si era posta questa domanda nelle ultime settimane? Eppure, adesso, non le spuntava neanche una lacrima. Sentiva solo un grande vuoto, era terrificante. Ecco che cos’era la morte: un vuoto immenso, infinito. Come il cielo buio che si estendeva a perdita d’occhio fuori da quella stanza. In che modo avrebbe vissuto la nuova realtà in cui Seiji non c’era piú? Aveva cercato di prepararsi, era convinta di essere pronta ad affrontare la sua assenza, ma non aveva capito niente.«Tutto bene?» le chiese d’un tratto Chiyoko, avendo percepito che qualcosa non andava.«Sí, non è niente» rispose Tamaki scuotendo la testa, prima di riprendere la conversazione. «Allora, che cosa ne pensa dell’opinione di sua figlia? Mi deve scusare se oso addentrarmi nella sua vita privata, ma mi pare di aver capito che lei e il signor Tomonō vi vogliate molto bene, o sbaglio?»Tamaki voleva averne conferma dalla viva voce di Chiyoko. Ora che aveva capito che Seiji era morto, desiderava che quella donna la rassicurasse. Perché era sempre piú convinta che le somigliasse e vivesse alla sua stessa maniera, provando dei sentimenti molto simili.«Amavo mio marito piú di me stessa. Pensavo sempre e soltanto a lui ed ero convinta che mi amasse piú di ogni altra cosa al mondo. Ecco perché non sono ancora riuscita a perdonarlo per avermi tradita, cosí come non riesco a perdonare me stessa per non averlo perdonato. E inoltre non posso perdonare a entrambi di aver lasciato morire il nostro Yōhei. Tomonō è certamente una persona molto preziosa e importante per me, ma non lo amo come amavo Midorikawa».Tomonō, che intanto aveva chiuso gli occhi per ascoltare meglio le parole di Chiyoko, sorrise amareggiato.«Quindi, qualunque cosa io faccia» disse lui, «otterrò sempre il tuo perdono?»«Assolutamente sí» gli rispose con voce ferma Chiyoko.«E io, mamma?» le chiese Michiko. «Potrai perdonarmi anche se dovessi fare qualcosa di molto brutto?»«Certo, perché tu sei mia figlia».Tomonō e Michiko si guardarono negli occhi e scoppiarono in una risata.«Ora comincia a capire anche lei il modo di ragionare piú unico che raro di Chiyoko, non è vero?» disse il primo, rivolgendosi a Tamaki. Quest’ultima assentí con un lieve cenno del capo, ma la sua mente era altrove, ora che il grande vuoto della morte di Seiji le aveva invaso il cuore.«Per favore, potrei usare il suo bagno?» gli chiese, facendo per alzarsi.«Ma certo… Mi deve scusare, avrei dovuto mostrarle dove sono i servizi quando è arrivata» rispose Tomonō, alzandosi di scatto e facendole strada.La stanza da bagno si trovava accanto al vano d’ingresso. Dopo aver seguito con lo sguardo Tomonō che ritornava in soggiorno, Tamaki prese il cellulare e ascoltò il messaggio lasciato nella segreteria telefonica. Yamaguchi, la voce rotta dal pianto, diceva: «Buonasera… sono Yamaguchi. Abe se n’è andato per sempre, poco fa, esattamente alle sedici e trentasette… Ora sto andando a casa sua. È uno shock tremendo anche per me, non riesco a crederci».Doveva essere successo piú o meno quando quel lampo aveva rischiarato il cielo in lontananza. Tamaki ne era convinta perché qualche attimo dopo aveva gettato un’occhiata all’orologio, visto che l’incontro con Chiyoko si stava protraendo oltre il previsto. Dove se n’era andato Seiji, tutto solo? Si guardava intorno, come paralizzata, in piedi nel piccolo vano d’ingresso. Le mancava il calore di casa sua e si sentiva dilaniata dall’angoscia di trovarsi lontano, in Hokkaidō, in un ambiente sconosciuto.A quell’ora, Yamaguchi doveva essere arrivato a casa di Seiji insieme ai colleghi e con ogni probabilità se ne stava a capo chino di fronte alla sua salma, il volto inondato dalle lacrime. La casa di Seiji in cui Tamaki non aveva mai messo piede. Il corpo di Seiji adagiato sul letto di morte, circondato dai familiari che lei non aveva mai conosciuto. La moglie sprofondata in un baratro di dolore e cupa disperazione. Tamaki pensò per qualche istante al loro legame e chiuse gli occhi. Era esclusa dalla cerchia delle persone intime che avevano il diritto di stare intorno a Seiji. Nessuno l’avrebbe contattata per darle notizie sulla veglia e il rito funebre. E anche se per caso avesse saputo qualcosa, non avrebbe potuto presenziare. Erano stati insieme per tantissimo tempo, cosí uniti, eppure non avrebbe avuto la possibilità di toccarlo per un’ultima volta, ora che Seiji aveva lasciato per sempre questo mondo. Le loro conversazioni, i loro sguardi, il lavoro, le liti, il tempo condiviso, le emozioni, l’amore: tutto si sarebbe dissolto come fumo nell’aria? O forse sarebbe rimasto da qualche parte, in una dimensione parallela raggiungibile con una macchina del tempo? Di colpo, mentre era immersa nei suoi pensieri, Tamaki si accorse che stava per perdere la calma. Perché, malgrado tutto, non era in grado di concedere a Seiji il suo perdono. Era ancora immobile nella penombra e si sentiva strana.«Che cosa è successo, non si sente bene?»Tamaki sollevò la testa e vide Chiyoko, lí davanti a lei. Le arrivava piú o meno al mento, data la sua bassa statura.«Mi deve scusare, ma ho appena saputo che è mancata una persona che conoscevo molto bene».«Ah, mi dispiace!» esclamò Chiyoko, portandosi la mano davanti alla bocca. Poi, a sopracciglia aggrottate, si issò sulla punta dei piedi e le mormorò all’orecchio: «Non è che per caso è successo quando c’è stato quel lampo, poco fa?».«Temo proprio di sí, l’ora corrisponde…»«Forse quella persona ha voluto annunciarglielo lanciandole un segnale».«Non credo» ribatté Tamaki, abbozzando un sorriso stentato. «In fondo ci odiavamo, non penso che avrebbe mai fatto una cosa del genere per me».«Allora forse le ha mandato un messaggio diverso, quasi volesse dirle di ricordare tutto quello che c’è stato di bello tra voi».Tamaki sorrise e Chiyoko la prese per il braccio, con la sua mano che faceva pensare a un ramoscello avvizzito.«Venga con me» le disse, «voglio mostrarle una cosa».Tenendola per mano, aprí la porta di fronte a quella della stanza da bagno. Dava in un ambiente in stile occidentale ampio suppergiú otto tatami, con una grande scrivania e un piccolo letto coperto da un drappo di chintz. Doveva essere il suo studio, le pareti erano tappezzate di fotografie in cornice. In una di queste, Midorikawa, in piedi accanto a Chiyoko vestita con un bel kimono, aveva in testa un borsalino e guardava dritto nell’obiettivo con i suoi grandi occhi tenebrosi.«Era un bell’uomo, non le pare?» disse con voce fiera Chiyoko.«Sí» concordò Tamaki, assentendo soddisfatta come se quella fosse l’unica risposta possibile.Era quella la cosa che Chiyoko voleva mostrarle? Tamaki guardò una a una le fotografie appese alla parete.«Tenga, la prenda e la legga in tutta calma» le disse di colpo Chiyoko, allungandole davanti agli occhi una busta rettangolare marrone. Tamaki, stupefatta, la afferrò senza batter ciglio. Era una vecchia lettera indirizzata a Midorikawa Mikio da parte di un uomo che rispondeva al nome di Komoda Kyōichi. Quel nome non le era nuovo, ma sul momento non riuscí a ricordare a chi appartenesse.«Dopo la morte di mio marito, ho trovato questa lettera tra le sue cose. Komoda Kyōichi è il marito di Miura Yumi…»«Ah!» esclamò ad alta voce Tamaki.Finalmente l’arcano era stato svelato: la X dell’Innocente era Miura Yumi. Midorikawa, che in un breve saggio aveva scritto qualcosa a proposito dei famosi “fagioli di mare”, aveva avuto effettivamente una relazione con lei.«La busta contiene una lettera che Yumi ha scritto dopo aver saputo che le restava poco da vivere» proseguí Chiyoko. «Gliela presto, potrà rendermela con calma dopo che l’avrà letta. Magari, se ne avrà il tempo, la legga questa sera stessa in albergo, d’accordo?»«Lo farò senz’altro, non so come ringraziarla. Domani, prima di partire, tornerò qui da lei per restituirgliela».In ogni caso, quella notte Tamaki non avrebbe chiuso occhio, di tempo a disposizione ne aveva fin troppo. Si strinse forte al petto la lettera spedita dal marito di Yumi a Midorikawa, come fosse Seiji in carne e ossa.
4
Gentile sig. Midorikawa Mikio,chiedo scusa per questa lettera improvvisa. Mi chiamo Komoda Kyōichi e sono il marito della fu Miura Yumi.Yumi è deceduta il 21 marzo dello scorso anno all’ospedale dell’Università di Tōkyō, a causa di un tumore al peritoneo. Aveva cinquantatré anni. La sua morte è sopraggiunta con una rapidità tale da non lasciarmi neanche il tempo di riordinare le sue cose. In seguito sono stato contattato da una persona di una casa editrice, che mi ha pregato di controllare se per caso avesse lasciato dei manoscritti e se stesse lavorando a qualcosa in particolare. Cosí mi sono deciso a dare un’occhiata alla sua scrivania e alle sue carte.È stato allora che ho trovato in un cassetto la lettera sigillata che le ho inviato insieme a questo mio breve messaggio. Come avrà visto, sulla busta c’è scritto il suo nome, ma non ci sono né l’indirizzo né nessun’altra indicazione, per cui in un primo momento ho pensato che non avesse intenzione di spedirgliela. Ma poi mi sono detto che forse Yumi, consapevole che non le restava molto da vivere, aveva scritto qualcosa che voleva assolutamente comunicarle. Perciò alla fine mi sono deciso a inviargliela.La lettera è chiusa, ho preferito non aprirla.Mi scuso molto per l’eventuale disturbo che le ho arrecato e spero potrà continuare la sua attività con grande successo e piena salute.Con molta cordialità,Komoda KyōichiTamaki si accorse che le tremavano le mani. Era per il forte disagio di essere in possesso di un segreto altrui? O forse c’entrava lo shock per la morte di Seiji? Sola nella sua camera d’albergo, se ne stava seduta sul bordo del letto e si sforzava di riflettere sul da farsi. Ma il tempo sembrava scorrere a vuoto, come un filo d’acqua da un rubinetto rotto.Aveva a disposizione circa un’ora prima dell’appuntamento nella hall con Saitō e Nakagusuku per andare a cena. Di tempo per leggere la lettera di Yumi ce n’era a sufficienza, eppure continuava a esitare, aveva paura. Quale poteva essere il contenuto di una lettera indirizzata da qualcuno che stava per morire a qualcuno che era destinato a restare ancora in vita? Per giunta si trattava di due persone che ora non facevano piú parte di questo mondo, la qual cosa le ricordava con immenso dolore la scomparsa di Seiji, avvenuta poche ore prima.Finché il lutto riguardava solo gli altri, Tamaki riusciva a conservare il suo sangue freddo. Ma da quando aveva preso coscienza del grande vuoto che la morte rappresentava, si chiedeva come facessero i vivi a sopportare il pensiero che i loro cari non ci fossero piú. Anche se si era rassegnata al peggio, quella nuova e improvvisa realtà la riempiva di un’angoscia straziante.In quel momento, l’unico elemento concreto a sua disposizione era la lettera di Yumi che Chiyoko le aveva dato perché la leggesse da sola. Ecco come mai aveva preferito non farne parola con Saitō e Nakagusuku. Quando erano arrivati in albergo e si erano fermati alla reception per il check-in, non era neanche riuscita ad avvertirli della morte di Seiji. Non che avesse intenzione di non renderli partecipi, solo che non aveva trovato il modo e le parole giuste per dirglielo. Conveniva farlo in maniera fredda e impassibile? Facendo trasparire una tristezza devastante? O lasciando venir fuori la sua disperazione? Il problema era che nessuno di quei modi corrispondeva a quello che sentiva veramente. Sopraffatta solo da un senso di grande vuoto, non aveva avuto il tempo di fare chiarezza dentro di sé.In ogni caso, la notizia non avrebbe tardato a diffondersi nell’ambiente di lavoro. Era anche per questo che Tamaki aveva scelto di serbare il triste evento dentro di sé, senza condividerlo con nessun altro, cosí da comprendere appieno la propria reazione e capire fino a che punto si sentisse annichilita. Anche se cercava di farsi coraggio ripetendosi che era una scrittrice e doveva trovare nella scrittura la forza di reagire, sentiva dilagare dentro di sé una tristezza che aumentava a ogni respiro e le stritolava il cuore. Voleva fuggire, ma dove? Sapeva già che presto si sarebbe ritrovata da sola con se stessa, sfinita e svuotata.Quel che era certo era che quella sera doveva bere in onore di Seiji. E ubriacarsi fino a non pensare piú a niente e poi piombare in un sonno profondo. Perciò tanto valeva leggere subito la lettera di Yumi, adesso che era ancora lucida. Leggerla e rileggerla piú volte, cosí da imprimersela nella mente prima di restituirla a Chiyoko il mattino seguente. La tristezza e il dolore potevano aspettare, aveva tutto il tempo per abbandonarsi a quei sentimenti una volta tornata a Tōkyō. Si alzò in piedi stringendo in mano la lettera, in quella camera d’albergo anonima.Andò a sedersi sulla poltrona accanto alla finestra e diede un’occhiata all’interno della busta marrone. Rilesse prima di tutto le parole semplici e concise di Komoda. Poi tirò fuori una busta di carta spessa tradizionale fatta a mano: sul fronte, ingiallito dal tempo, c’era scritto in grande e con inchiostro blu scuro «Sig. Midorikawa Mikio». Il tratto tremante, piú che mai evidente perché i caratteri erano di grandi dimensioni, era segno evidente della malattia allo stato terminale. Ma sul lato opposto spiccavano maestosi i caratteri che componevano il nome «Miura Yumi», tracciati con una bella grafia estremamente curata. La lettera era scritta con la stessa penna stilografica e con lo stesso inchiostro blu scuro, su fogli di raffinata carta giapponese tradizionale, cosí sottili da risultare quasi trasparenti. I primi due fogli erano vergati in ottima grafia, le righe ben dritte ed equidistanti, ma piú ci si avvicinava alla fine e piú i caratteri si facevano confusi e difficili da leggere. Era un altro segno inequivocabile del cattivo stato di salute dell’autrice della missiva.Caro Midorikawa Mikio,ho lasciato passare tanto tempo senza darti mie notizie.Mi auguro che tu stia bene. Seguo sempre il tuo lavoro e mi permetto di gioire in cuor mio per i tuoi grandi successi.Di certo saprai (visto che negli ambienti letterari se ne è molto parlato) che all’incirca dieci anni fa ho sposato un bravo impiegato di una nota azienda che risponde al nome di Komoda Kyōichi e che ho avuto una vita felice. Tu hai cinque anni meno di me, giusto? Komoda è ancora piú giovane, lui ne ha addirittura quindici in meno.Il mio primo marito è partito per la guerra e non è piú tornato, aveva tre anni piú di me. Forse in parte è stato il dispiacere per la sua scomparsa a farmi innamorare solo di uomini piú giovani. L’espressione “vedova di guerra” appartiene ormai alla lingua morta, e senza dubbio io sono rimasta attaccata a un mondo antico, privo di forti legami con l’epoca in cui vivo. D’altronde tu sei un “sopravvissuto delle squadre speciali di assalto” e fai parte di quello stesso mondo antico, no? Ma ne è trascorso di tempo da allora, al punto che oggi ci sono persone che ignorano l’esistenza di quella nobile espressione: “sopravvissuto delle squadre speciali di assalto”. Il mondo è strano, non è vero? Dal momento che sei un uomo molto geloso, non te ne ho mai parlato, ma ho passato dei bei momenti in compagnia del mio primo consorte, nel corso dei soli due anni del nostro matrimonio. La nostra unione è stata breve ma intensa, leggevamo gli stessi libri, andavamo spesso al cinema e facevamo le ore piccole perdendoci in lunghe e piacevoli conversazioni. E un giorno, mentre vivevamo felici e contenti, è arrivata la chiamata alle armi. Fu uno shock tremendo, lui aveva già piú di trent’anni e alla fine non ho saputo neanche dove e come è morto. È assurdo, provo ancora molto dolore. Tutte le volte che ci penso è come se mi strappassero il cuore dal petto.Come mai ti sto dicendo queste cose del mio passato? Credimi, non volevo, anche perché questa è la prima lettera che ti scrivo dopo tanti anni. Ho cercato di fermarmi, ma la mia mano è andata avanti da sola, come fosse convinta che ci sia del bene in quei ricordi intrisi di sentimento. Il fatto è che tra un mese o due tutto questo non esisterà piú, perché sto per lasciare per sempre questo mondo.Sí, Mikio, è proprio cosí: ho un cancro allo stomaco allo stadio terminale e sono in attesa che la morte venga a prendermi. Oggi, per fortuna, mi sento abbastanza bene e riesco a stringere la penna in mano e a scrivere. Eppure di tanto in tanto devo fermarmi perché mi vengono delle fitte lancinanti alla nuca e alle spalle, come se qualcuno mi colpisse con un bastone. È una sofferenza atroce, non la auguro a nessuno. Inoltre ho problemi di respirazione e devo scrivere molto adagio, non posso affaticarmi. Roba da non credere, eh? Io che ero una donna piena di energia e non riuscivo mai a stare ferma, la terribile Yumi che Murakami Sadako rimproverava senza sosta dandole della “mezza matta” e della “sbadata”. Dopotutto la vita è imprevedibile, non sai mai cosa ti aspetta dietro l’angolo. Se penso che presto non avrò piú la forza di tenere la penna in mano, ho come la sensazione di essere impegnata in una folle corsa contro il tempo. Io che ero una buongustaia non riesco piú a sopportare la vista del cibo. Ormai la mia fine è vicina, lo sento. Provo un sentimento molto strano, difficile da spiegare a parole, qualcosa che assomiglia a un misto di rimpianto e dolore.A essere sincera, anche se cerco di sembrare forte, la morte mi fa paura. L’anno scorso, dopo l’intervento chirurgico al quale sono stata sottoposta, mi sentivo molto depressa. Sfogavo il mio cattivo umore prendendomela con mio marito e con mia madre, e la sola vista della copertina del numero di Shinsei che conteneva il tuo romanzo, L’innocente, mi ha dato cosí sui nervi che ho afferrato la rivista e l’ho scaraventata contro il muro.Di recente mi sento piú tranquilla. Del resto è per questo che ho deciso di scriverti questa ultima lettera. Ormai mi sono rassegnata, ripetendomi che tutti prima o poi dobbiamo morire ed è inutile tormentarsi. Sono molto meno triste quando penso che il mio primo marito mi sta aspettando nell’aldilà a braccia aperte. Durante la guerra lo mandarono al Sud, per cui è molto probabile che sia morto di fame nella giungla. Non appena ci rivedremo, lassú, gli preparerò una tavola piena di prelibatezze, cosí che possa rimpinzarsi a sazietà. Mikio, ti ricordi? Quando io e te eravamo innamorati, di tanto in tanto pensavamo alla morte e versavamo fiumi di lacrime. Eravamo due pazzi. Io mi lamentavo dicendo: «Se tu dovessi morire, non potrò venire nemmeno al tuo funerale per darti l’ultimo saluto, perché sono solo un’ombra nella tua vita». E tu mi rispondevi, tra un singhiozzo e l’altro: «No, io voglio che tu venga. Voglio che tu mi dica addio prima del mio viaggio verso l’altro mondo». Una volta mi hai anche detto: «Yumi, quando morirai, ti prometto che ti stringerò tra le mie braccia». Ma niente di tutto questo è successo, alla fine ci siamo lasciati e non potrai mantenere la tua promessa. Sto per andarmene via per prima, accudita e pianta da Komoda, stretta tra le sue braccia. La vita, come ho già detto, è imprevedibile. E quando chiuderò gli occhi per sempre, forse sentirai solo una lieve sensazione di vuoto al cuore e non verserai per me neanche una lacrima. Da quello che ho sentito dire, suppongo tu stia conducendo una vita di completo isolamento nel lontano Hokkaidō. Fino all’anno passato, talvolta mi capitava di partecipare a qualche party organizzato da una casa editrice o da una rivista letteraria, e notando la tua assenza mi sentivo al contempo triste e sollevata. In tutta onestà, non avevo una gran voglia di rivederti, ma ci tenevo a sapere come te la stavi cavando.Ora, permettimi di parlare dell’Innocente, il romanzo che stai scrivendo in questo momento e che viene pubblicato con cadenza irregolare nella rivista Shinsei. X sono io, non è vero? Ti confesso che da una parte ti ho odiato, perché hai scritto delle cose molto severe su di me. Ma non ti nascondo che dall’altra ho provato un certo piacere, perché mi hai descritta come una donna bella e attraente. Mi sono riaffiorati alla mente emozioni e sentimenti che credevo di aver dimenticato e che mi hanno resa nostalgica e malinconica. Però ho la netta sensazione che la donna descritta nel romanzo, la misteriosa X, sia io ma allo stesso tempo non lo sia. Senza dubbio perché hai fatto di me e Chiyoko un unico personaggio.Mi rendo conto che si tratta di un’invenzione letteraria, ma a causa dello stile realistico che hai utilizzato non posso fare a meno di sentirmi turbata, al punto che ho quasi l’impressione di aver indossato per davvero quel cappottino giallo e di averti chiamato “Mickey”. So bene che quella è Chiyoko, perché è lei a essere cosí raffinata e alla moda. D’altro canto è vero che quella volta sei venuto da me e hai dimenticato le chiavi. Cosí come è vero che ti ho spedito quel telegramma. Ma l’ho fatto per puro spirito di cortesia, senza la minima intenzione di scatenare l’inferno a casa tua. A meno che anche questo non faccia parte di uno schema preciso e sia solo un’altra invenzione letteraria. Hai deciso di sacrificare me e Chiyoko sull’altare della tua creatività? Io non sono capace di sacrificare e diffamare nessuno, e forse è per questo che non sono mai stata in grado di scrivere romanzi di buon livello. Capire i propri difetti e le proprie mancanze in punto di morte fa parte dell’ironia della vita, non credi?Non avevo la piú pallida idea che scrivessi di me e di noi nel tuo diario segreto. Ma ormai anche questo non ha piú senso. A che serve, infatti, apprendere un’altra verità a pochi passi dalla fine? Piuttosto, penso che abbiamo perduto entrambi qualcosa di molto grande. Vuoi sapere che cosa ho perduto io nello specifico? Te lo dico subito, è semplice, anche se è qualcosa che per te non ha importanza. Ho perduto il mio onore. Ora tutti sanno che mi hai costretta ad abortire. Hai rivelato a tutti che io e Chiyoko ci siamo contese il tuo amore come due acerrime nemiche. Forse penserai che la stessa cosa valga per te e per lei, per la vostra coppia. Ma proprio perché voi siete una coppia e vivete insieme, potete gridare al mondo che andate d’amore e d’accordo e che il contenuto del romanzo è solo una finzione. Io, invece, non posso farlo. So solo che mi sono stati rubati l’onore e la dignità.Ti chiedo scusa. Ho scritto delle parole molto cattive senza volerlo, mi sono lasciata trascinare dalla foga del momento. So bene che anche tu hai perduto qualcosa di molto importante, che di certo vale mille volte di piú del mio onore. Sono una persona misera e insignificante. Vorrei correggere alcune frasi che ho scritto fin qui, ma non ne ho la forza, perdonami.Lasciami però aggiungere un ultimo dettaglio. Il fatto che tu abbia messo la tua famiglia in primo piano e il nostro rapporto solo ai margini non corrisponde alla realtà. Il nostro amore era immenso e innegabile e avrebbe meritato di comparire al centro della scena, sotto la luce intensa dei riflettori. E invece tu lo hai relegato nella penombra, come fosse qualcosa di fugace e privo di valore. Per giunta X è presentata come l’unica e sola responsabile della rovina della tua famiglia, o sbaglio?Dal momento che ora ho anch’io una persona preziosa e importante nella mia vita, alla quale riservo giustamente il primo posto, sono in grado di capire molto bene l’impulso che ci spinge a considerare fugaci o addirittura privi di valore gli amori precedenti. Ma è anche vero che io e te ci siamo amati, e almeno una traccia del nostro amore resterà viva da qualche parte in eterno. Attenzione, non sto dicendo che voglio lasciare una mia traccia in questo mondo, non è questo che mi interessa. Ecco, per esempio, dopo che una persona ha avuto un attacco cardiaco o cerebrale, per quanto lieve, nel suo corpo non ne resta forse una traccia? Ora, si tratta solo di scoprire dove e in che forma è possibile individuare le tracce di un amore passato.Ritorno un attimo all’Innocente, perché ho sentito dire che la sua pubblicazione sulla rivista andrà avanti abbastanza a lungo. Nel caso dovessi trovare la mia presenza imbarazzante, ti assicuro che puoi stare tranquillo. Come ho già avuto modo di dirti, presto non farò piú parte di questo mondo e potrai scrivere tutto quello che vuoi senza temere la mia reazione.Ti senti meglio adesso? Ti ho tolto un peso dalle spalle? Oh, no, ti chiedo scusa, per un attimo avevo dimenticato che ti dà molto fastidio quando la si mette su questo tono. Perdonami, ti prego.A proposito, ho saputo che dopo la tragica scomparsa di tuo figlio hai ricevuto il battesimo e sei diventato cristiano. Ti sei trasferito con la famiglia in Hokkaidō, dove hai cambiato completamente vita. Mi sarebbe piaciuto molto parlarne con te almeno una volta, sapere come trascorri le tue giornate. Ma non credo sarà possibile, non è vero?Ah, sí, quasi me ne dimenticavo: il lavoro di Chiyoko come scrittrice è fantastico. Quella sua favola mi ha molto colpita, è bellissima. So che è passato un bel po’ dalla pubblicazione, ma ti prego di farle lo stesso i miei complimenti. Lei sí che ha talento, io sono una nullità al suo confronto.E al talento, come è ovvio che sia, si accompagna sempre l’orgoglio.So che Chiyoko era furibonda anche perché non sopportava l’idea che tu te la facessi con una donna che come scrittrice valeva poco o niente. Ho sentito dire che aveva letto i miei romanzi e aveva affermato che erano di scarso livello e che lei era molto piú dotata di me. E anche che non meritavo di vincere quel premio e che tu avresti dovuto vergognarti di avere un’amante come me.Il mio amore per te mi ha ferita e mi ha fatto soffrire segnandomi profondamente. Se solo ripenso a tutto quello che è successo, mi sento prendere da un’agitazione incredibile. Lo sai anche tu che Chiyoko si è presentata piú volte da me armata di coltello, no? E non si è fatta scrupolo di urlarmi contro, davanti a un mucchio di gente, frasi come: «Vieni fuori, se hai coraggio, maledetta puttana!». Era bella, aggressiva e intelligente. Ed è senza dubbio per questo che hai descritto in modo cosí leggero la sua follia nel tuo romanzo. Mentre la realtà era molto piú dura e orrenda. Per un certo periodo se l’è presa a morte anche con la madre di Ishikawa Motoko, credendo che fosse lei la tua amante. Non mi meraviglio che tu abbia preferito non scrivere niente su questi particolari scabrosi e infamanti. Dopotutto è normale, visto che si tratta pur sempre di tua moglie e che avete perso un figlio in un tragico incidente. Ma per me, relegata nell’ombra e descritta come piú ti conveniva, risulta tutto abbastanza seccante e persino offensivo.Comunque stiano le cose, è innegabile che io sia uno dei personaggi del romanzo. Ma perché quel titolo, L’innocente? Ci ho pensato molto mentre lo leggevo. Chi è innocente in questa storia? Di certo non lo siamo né tu, né io, né tanto meno Chiyoko. Chi, allora? Ora che sono vicina alla morte, ho pensato che forse “l’innocente” potrebbe essere l’amore perduto. Sono troppo romantica? Mi sembra quasi di vederti ridere. Come quando nel corso delle riunioni della nostra rivista non riuscendo a controllarti ti giravi da una parte per lasciarti andare a una risata.La morte sta venendo a prendermi, lo sento. Mentre scrivo, mille ricordi e pensieri mi si affastellano nella mente senza un ordine preciso. Sono confusa, ho paura. Secondo te, la morte è molto dolorosa? Ho sentito dire che si prova un’angoscia indicibile fino all’ultimo soffio di vita, e mi domando se riuscirò mai a sopportarlo. La sofferenza mi imbruttirà fino a rendermi irriconoscibile e morirò raggomitolata su me stessa. Quando ci penso, mi sento prendere da un terrore che mi toglie il respiro. Le ore belle e spensierate che abbiamo vissuto insieme venti anni fa si trovano adesso in paradiso? Riuscirò a ritrovarle? Dimmelo, ti prego, ora che sei un cristiano.La lettera si concludeva al settimo foglio. Non era firmata: forse Yumi aveva intenzione di scrivere ancora ma, presa dalla stanchezza, si era fermata e l’aveva infilata cosí com’era nella busta? La confusione nella parte finale lasciava intendere che, ormai senza forze, non fosse piú in grado di andare avanti. Si trattava della sua ultima lettera. Tamaki aveva sperato di trovarsi di fronte a una missiva perfetta e coerente, e provò una certa delusione per via della sua inconcludenza. Se Yumi avesse avuto modo di rileggerla, non avrebbe mai acconsentito a farla consegnare al destinatario cosí com’era. Che cosa aveva pensato Midorikawa nel riceverla e nel leggerne il contenuto?La morte – pensò ancora una volta Tamaki – è un grande vuoto perché recide ogni legame. Quelli che restano non possono fare altro che continuare a stringere in mano un filo il cui capo opposto pende pietosamente. La lettera di Yumi dava a Tamaki, anche lei influenzata dall’universo dell’Innocente, la sensazione di essere costretta a tenere in mano l’estremità di quel filo. Come diceva Yumi, essere il personaggio di un romanzo comportava davvero il rischio di perdere l’onore? Forse no: se Miura Yumi fosse stata una scrittrice in grado di competere con i coniugi Midorikawa, con ogni probabilità il contenuto stesso della sua missiva sarebbe stato molto diverso.Nell’attimo in cui Tamaki ripose la lettera nella cassaforte della stanza, fu invasa dalla sensazione spiacevole di scorgere in lontananza una Yumi incapace di placare la propria sofferenza, malgrado l’esistenza di uno sposo fedele al suo fianco.Saitō e Nakagusuku erano in attesa nella hall dell’albergo e leggevano dei dépliant. Tamaki si rese conto di essere in ritardo di una buona decina di minuti rispetto all’ora dell’appuntamento.«Vi chiedo scusa, ho fatto tardi senza accorgermene».Al suono della sua voce, i due editor sollevarono lo sguardo all’unisono e le lanciarono una breve occhiata interrogativa.«Tutto bene?» le chiese Saitō. «È riuscita a fare una doccia?»Tamaki scosse la testa e si decise a parlare.«Prima» disse, «ho ricevuto una telefonata da Yamaguchi: Abe è morto poche ore fa».«Mentre eravamo a casa di Chiyoko, vero?» chiese Nakagusuku trasalendo. «Quando le è squillato il cellulare, ho avuto un brutto presentimento. Lei è impallidita all’istante, poi è andata in bagno e ha tardato a tornare in soggiorno. Ho pensato subito che fosse successo qualcosa».Tamaki guardò a turno i due editor: proprio come pensava, la sua espressione al momento della telefonata di Yamaguchi aveva tradito appieno le sue emozioni.«Ero strana?» chiese Tamaki.«Piú che strana, direi che era distratta, assente» rispose Nakagusuku. «Per un attimo ho pensato di domandarle se fosse successo qualcosa, ma poi ci ho rinunciato, perché ero sicuro che non avrebbe aperto bocca».«È sicura di sentirsi bene?» insisté Saitō. «Non ha una bella cera».«Sí, sto bene. In fondo mi ero preparata al peggio, credo di farcela. Stasera ho voglia di bere».Tamaki si era imposta di apparire forte e coraggiosa, non voleva dare l’impressione di soffrire.«D’accordo, come vuole» assentí con aria decisa Saitō.Quanto a Nakagusuku, increspò le labbra in una lieve smorfia di incredulità e distolse lo sguardo.Uscirono insieme dall’albergo. Il freddo umido della notte li investí in pieno viso. Il ristorante specializzato in cucina locale che Saitō si era fatto consigliare alla reception si trovava a pochi minuti di cammino. Tamaki avanzava sull’ampio marciapiede in mezzo ai due uomini. Per un po’ nessuno aprí bocca. Poi, dopo un colpo di tosse, Saitō ruppe il silenzio.«Ma Abe non aveva ripreso conoscenza?» chiese a bassa voce.«Credo di no, le sue condizioni erano disperate, ma non so nulla di preciso» rispose laconica Tamaki.Aveva pensato piú di una volta di chiamare Yamaguchi per avere notizie dettagliate, ma alla fine aveva desistito, ricordando il suo tono turbato e la voce rotta dal pianto quando le aveva lasciato il messaggio in segreteria. Era distrutto, molto probabilmente non era in condizioni di reggere una conversazione telefonica. E in piú Tamaki non sapeva neanche cosa chiedergli.«Per fortuna ha reagito bene alla notizia, mi sembra abbastanza tranquilla» le disse Nakagusuku.«È solo un’impressione, non lo sono affatto» replicò Tamaki con un pizzico di rabbia. «Il fatto è che non ho il diritto né di piangere né di gridare. E sono certa che qualcuno non si farà scrupolo a dire che è colpa mia se Abe è morto».«No, questo è impossibile!» esclamò indignato Saitō.«La cosa non mi ferirebbe piú di tanto, ci ho fatto l’abitudine. A ogni modo, ho la sensazione che il viaggio sia finito».«Sí, è vero» concordò Saitō. «E siamo anche riusciti a incontrare Chiyoko».Seiji era morto proprio nel giorno in cui, dopo aver incontrato la moglie di Midorikawa, finalmente Tamaki aveva appreso che Miura Yumi era la X dell’Innocente. Che assurda coincidenza! A ben rifletterci, da quando aveva cominciato a dedicarsi a quel lavoro, non aveva fatto che pensare a Seiji.«In realtà, il viaggio non è ancora finito: le resta da completare il suo romanzo, L’indecenza» disse Nakagusuku.Le parole del giovane editor fecero affiorare un sorriso impercettibile sul viso di Tamaki. Era vero, doveva finire di scrivere quel romanzo, ma il suo viaggio con Seiji era terminato una volta per tutte. La sua morte aveva fatto calare per sempre il sipario sulla loro storia, prima dell’estinzione definitiva del loro amore. Tamaki si sentiva un nodo allo stomaco. Non aveva forse provato la medesima sensazione anche Midorikawa Mikio, quando aveva ricevuto la lettera in cui Yumi gli annunciava la sua morte? Tamaki chiuse gli occhi per qualche istante e cercò di ricordare le parole esatte di quella vecchia missiva che aveva riposto nella cassaforte della camera d’albergo. Al che Saitō e Nakagusuku, pensando che fosse stata invasa da un improvviso moto di tristezza, rinunciarono per un po’ a rivolgerle la parola.Nel momento in cui furono introdotti in una saletta privata del ristorante, il cellulare di Saitō squillò. «Sí, sí, certo, un attimo…» rispose a bassa voce, mentre tirava fuori l’agendina dalla tasca e usciva dal privé. A Tamaki venne spontaneo pensare che si trattasse di una telefonata che riguardava i funerali di Seiji. Forse lei non aveva il diritto di andarci, ma non poteva esimersi dall’inviare almeno una lettera di condoglianze con inclusa la tradizionale offerta in denaro. Che somma avrebbe dovuto mettere nella busta? Questa e altre preoccupazioni di tipo pratico le attraversavano la mente.Ricordò che, nella lettera a Midorikawa, Yumi aveva scritto che spesso avevano pianto insieme immaginando la loro morte. Lei si angosciava al pensiero di non poter assistere ai funerali del suo uomo, e questi faceva il bambino viziato dicendole che doveva infischiarsene di tutto ed essere presente a ogni costo. Ma i due innamorati non si erano minimamente preoccupati di stabilire l’ammontare della consueta offerta in denaro. Nel pensarci, Tamaki si lasciò sfuggire una risata.«Che succede?» le chiese allarmato Nakagusuku.«Niente. Mi sono ricordata un fatto divertente e mi è venuto da ridere».Se fosse morta lei per prima, quanto avrebbe offerto Seiji per le condoglianze? Di colpo, Tamaki rammentò il viso di Seiji che le era apparso in sogno, gonfio e con il mento cascante. La morte era un grande vuoto. Le venne un capogiro e le si annebbiò la vista.Il mattino seguente si svegliò di soprassalto, spaventata per aver riaperto gli occhi in una stanza che non era la sua. Le prime luci del giorno filtravano attraverso uno spiraglio nelle tende, ma le lampade all’interno della stanza erano accese e lei era distesa vestita sul letto. La sera prima aveva bevuto un bicchiere dopo l’altro ed era rientrata in albergo in compagnia dei due editor a notte fonda. Recuperò in fretta la lucidità e trasse un lungo sospiro. Le venne subito in mente la scomparsa di Seiji. Era per quel motivo preciso che aveva bevuto fino a stordirsi.Si infilò di nuovo sotto le coperte. Sentiva di stringere ancora forte in mano un’estremità del filo e non voleva essere ricondotta verso il grande vuoto della morte. Provò a resistere e chiuse forte gli occhi, fino a riaddormentarsi. Quando si risvegliò, erano ormai quasi le dieci. Aveva appuntamento con Saitō e Nakagusuku a mezzogiorno in punto per lasciare l’albergo e raggiungere l’aeroporto. Prima, però, doveva restituire la lettera a Chiyoko: fece una doccia veloce e si preparò per uscire.Disse al tassista di fermarsi davanti al palazzo e di aspettare una decina di minuti. Non aveva molto tempo a disposizione, doveva rientrare in hotel dove l’attendevano i suoi due compagni di viaggio. Suonò al citofono e fu sorpresa di sentire subito la voce di Chiyoko.«Buongiorno. Venga su, mia cara, la stavo aspettando».Quella voce possedeva una vitalità sorprendente per una persona della sua età.«La ringrazio moltissimo per ieri, è stata davvero gentile» le disse Tamaki non appena entrò in casa, mentre le porgeva la lettera. Chiyoko la prese senza verificare il contenuto della busta e chinò con grazia il capo. Indossava un maglioncino nero a collo alto e una gonna grigia lunga alle caviglie, ai piedi delle pantofole di feltro rosse. Aveva un aspetto molto ricercato ed elegante. Non c’era traccia di Tomonō, era forse uscito?«Le è piaciuta la lettera?» chiese Chiyoko abbozzando un sorriso sarcastico.«Direi di sí…» rispose Tamaki sorridendo a sua volta. «Certo, non vorrei sembrarle scortese, ma…» Si interruppe di colpo, incerta se continuare o meno la frase.«Su, mi dica, so bene che anche lei è una scrittrice» la esortò Chiyoko. Nei suoi occhi c’era una luce particolare, come se la stesse mettendo alla prova. Anche se era un’anziana donna di ottantasei anni, piccola e minuta, in quel momento Tamaki ebbe la sensazione di trovarsi di fronte a un gigante.«Va bene, grazie. Volevo chiederle questo: la lettera di Yumi l’ha presa in consegna lei quando è arrivata, non è vero? E, prima di darla a suo marito, non è che per caso l’ha… censurata?»«Se ne è accorta, eh?» rispose Chiyoko accostandosi la mano alla bocca e ridendo sottovoce. «Mi aspetti un attimo qui, vado a prendere la parte mancante».Tamaki era ancora lí in piedi a bocca aperta, quando Chiyoko, che si era ritirata per qualche momento all’interno del suo studio, riapparve sventolando in mano due fogli sottili. Due fogli della stessa carta da lettere della missiva di Yumi. Tamaki, immobile nel vano d’ingresso, lesse seduta stante il resto della lettera di Miura Yumi.Pensare alla morte mi toglie la tranquillità e mi fa sprofondare nella confusione piú totale. Ti prego di capirmi e ti chiedo scusa.Dopo la scomparsa del piccolo Yōhei, hai deciso di farti battezzare. Chiyoko è riuscita a sopravvivere dedicandosi con pieno successo alla scrittura, ma ho saputo che ha attraversato un periodo molto difficile, afflitta da una grave depressione. Quanto a me, sono riuscita a farmi strada nel mondo della letteratura, ma senza diventare una scrittrice di primo livello. Inoltre, in base a quanto hai scritto nell’Innocente, mi sono sentita addossare una grave colpa e sono stata relegata in un angolo buio, quasi come se non esistessi. E non credo affatto di essere vittima di un semplice delirio di persecuzione.In effetti, ciascuno a modo suo, abbiamo tutti sofferto e siamo rimasti profondamente segnati. Prima, ho parlato di amore perduto, ma credo che la traccia del nostro amore sia racchiusa proprio nelle pagine del tuo romanzo. Le differenze tra X e Chiyoko che hai messo in luce non contano, i nostri sentimenti e i ridicoli sforzi quotidiani per affermarli costituiscono le tracce stesse dell’amore. Ed è da lí che nascono sofferenze ancora piú grandi e atroci.In precedenza mi sono chiesta chi fosse l’innocente in tutta questa storia, e ora mi sono appena accorta di qualcosa. Qualcosa di cui forse neanche tu che sei l’autore del romanzo ti sei accorto. Gli innocenti sono quelli che lasciano per sempre questo mondo, quelli che muoiono. Quindi, per quel che ti riguarda, il povero Yōhei e anche io.Il momento dell’ultimo addio è arrivato.Mikio, ti ringrazio di aver pensato a me per tutto questo tempo. Ti auguro di stare sempre bene e di vivere felice fino all’ultimo dei tuoi giorni.Miura Yumi«Chiyoko, perché ha eliminato questa parte della lettera?» chiese commossa Tamaki, il viso inondato da calde lacrime, le prime che versava dopo la notizia della morte di Seiji. Chiyoko le guardava scorrere in silenzio, senza stupirsi piú di tanto. E in quel momento Tamaki capí perché quell’anziana donna preferiva restarsene zitta. Chiyoko non aveva mai perdonato né Midorikawa né Yumi. E quest’ultima non aveva perdonato nessuno di loro due.Se, come scriveva Yumi, gli innocenti sono quelli che lasciano per sempre questo mondo, anche Seiji, morendo, era diventato un innocente? Un innocente che non aveva mai concesso a Tamaki il suo perdono. Non c’erano dubbi, L’innocente era un romanzo diabolico.«Venga, mi segua» le disse Chiyoko sorridendo maliziosa, facendole segno con la sua piccola mano esangue. «Credo sia giunto il momento di mostrarle lo studio di mio marito».Tamaki avanzò all’interno dell’appartamento. Anche se tutto era ben in ordine, aleggiava un lieve odore di rifiuti organici. Quella casa aveva ritrovato la sua calma, regnava un silenzio irreale, al punto che Tamaki non poté non pensare che l’incontro del pomeriggio precedente, in presenza di Tomonō e Michiko, fosse solo un sogno.Intanto Chiyoko aveva aperto una porta in fondo al corridoio e la stava aspettando. La stanza si trovava di fianco al soggiorno ed era molto ampia, ma le tende erano chiuse e non si vedeva niente. Quando Chiyoko accese la luce, Tamaki dovette fare del suo meglio per non lasciarsi scappare un grido di sorpresa. Le pareti erano interamente ricoperte di scaffali, dove erano stipate senza un ordine preciso intere collezioni di libri e riviste. In piú, dal momento che lo spazio sui ripiani non era sufficiente, cumuli di libri, riviste e vecchi giornali erano ammonticchiati qua e là sul pavimento. C’era anche un mucchio di quaderni impilati l’uno sull’altro alla meno peggio ad altezza d’uomo, che minacciava di crollare da un momento all’altro. Anche se Midorikawa era morto ben diciassette anni prima, quella stanza conservava intatte in quel disordine le tracce della sua presenza come se, tuttora in vita, il celebre romanziere continuasse a scrivere tutti i giorni i suoi capolavori.«Ecco, questo è il diario di mio marito» disse Chiyoko indicando la pila di quaderni. Il diario segreto che era all’origine dell’Innocente. Tamaki guardò quei quaderni trattenendo il fiato. Allora Chiyoko prese quello piú in alto e lo aprí. Era pieno di caratteri scritti in modo fitto e con una grafia minuta, con dell’inchiostro blu scuro.«Ci teneva da matti al suo diario, era una vera e propria mania» continuò Chiyoko, senza staccare gli occhi dal quaderno. «Era convinto che se non avesse lasciato niente di scritto riguardo alla sua vita quotidiana, sarebbe mancata la prova tangibile della sua stessa esistenza. Inoltre aveva l’abitudine di fare degli album di ritagli di giornali e riviste, perché gli piaceva conservare e archiviare tutto ciò che gli interessava. Io, adesso, sto rileggendo il suo diario da cima a fondo e sto riscrivendo a modo mio tutto quello che mi sembra rilevante. È questo il romanzo di cui le parlavo».Si trattava del romanzo d’amore al quale le aveva detto che stava lavorando? Tamaki fece istintivamente un passo indietro. Le parole lasciate dagli altri avevano forse il potere di rendere folli le persone? Midorikawa aveva soppresso X, e ora Chiyoko si apprestava a sopprimere l’universo di Midorikawa. Tamaki scrutò con timore gli angoli bui della stanza per controllare che non vi fossero rannicchiati i fantasmi dei morti. E si rese conto che Seiji, il quale aveva affermato di non essere piú interessato alla letteratura, aveva abbandonato da solo il mondo delle parole.«Mi raccomando, sia sempre forte e continui a scrivere i suoi romanzi senza mai perdersi d’animo» le disse Chiyoko in tono pacato, battendole lievemente una mano sulla spalla.Quel contatto strappò Tamaki alle sue riflessioni riportandola alla realtà. In quel momento provava un’angoscia indicibile all’idea di ritrovarsi da sola e abbandonata nel mondo delle parole. Lei e Chiyoko, che era alle prese con il lungo diario di Midorikawa, erano ormai rinchiuse per l’eternità in una grotta buia. E quell’anziana signora, lí al suo fianco, le sorrideva come una cara e vecchia compagna.