lunedì 12 luglio 2021

INFINITE JEST David Foster Wallace


INFINITE JEST
David Foster Wallace



Tutto di tutto: Infinite Jest, vent’anni dopo
Tom Bissell

Succede qualcosa a un romanzo man mano che invecchia, ma cosa? Non matura né prende corpo come capita al formaggio o al vino, e non cade a pezzi, per lo meno non in senso metaforico. La narrativa non ha un periodo di dimezzamento. Siamo solo noi a invecchiare insieme ai romanzi che abbiamo letto, e a conoscere un autentico deterioramento. Un romanzo, cioè, è deperibile esclusivamente in virtú di come si conserva all’interno di quella botte fallata che è la nostra testa. Cosí basta che trascorrano pochi anni e un romanzo può sembrare «datato», «irrilevante» o (che Dio ci aiuti) «problematico». Se poi sopravvive a questo strano processo, ed è ripubblicato in una splendida edizione per il suo ventesimo anniversario, viene la tentazione di prenderlo e dire: «È sopravvissuto alla prova del tempo». I piú vedrebbero in queste parole un elogio, ma un romanzo con vent’anni sulle spalle funziona solo perché pare astutamente profetico e perché i lettori di oggi considerano i suoi scenari ancora «rilevanti»? Se fosse questo, il segno della narrativa che dura, Philip K. Dick sarebbe il piú grande romanziere di tutti i tempi. David Foster Wallace comprendeva il paradosso di provare a scrivere un’opera di fantasia che parlasse simultaneamente, e con la stessa forza, al pubblico contemporaneo e futuro. In un saggio scritto mentre lavorava a Infinite Jest, faceva riferimento alla «preveggenza oracolare» di un autore che idolatrava, Don DeLillo, i cui romanzi migliori –Rumore bianco, Libra, Underworld –si rivolgono al pubblico contemporaneo come un profeta che urla nel deserto, e intanto espongono al pubblico futuro l’analisi fredda e divertita di un professore emerito nonché defunto da quel dí. Wallace sentiva che l’« utilizzo mimetico di icone della cultura pop» da parte di scrittori privi della potente capacità d’osservazione di DeLillo «compromette la serietà della letteratura collocandola fuori da quella Eternità platonica dove dovrebbe risiedere» 1. Eppure è raro che Infinite Jest dia l’impressione di risiedere in questa Eternità platonica, che Wallace rifiutava sempre e comunque. (Come nel caso di molti altri proclami da manifesto, lui non piantava bandiere: piuttosto, in segreto le bruciava). Adesso ci troviamo cinque anni dopo quelli rappresentati nello schema temporale di Infinite Jest –Anno del Whopper, Anno del pannolone per Adulti Depend. Letto oggi, la sua visione intellettualmente farsesca del corporativismo sfrenato lo inserisce, con la stessa forza ed emblematicità dei Simpson e della musica grunge, fra inizio e metà anni Novanta. È in tutto e per tutto un romanzo del suo tempo. E allora com’è che lo sentiamo ancora cosí trascendentemente, elettricamente vivo? Teoria numero uno: ruotando intorno a un «intrattenimento» usato come arma per ridurre in schiavitú e distruggere chiunque lo osservi con occhio indagatore, Infinite Jest è il primo, grande romanzo imperniato su Internet. Sí, può darsi che William Gibson e Neal Stephenson lo abbiano preceduto con Neuromante e Snow Crash, in cui rispettivamente la Matrice e il Metaverso offrivano un’ipotesi piú accurata su cosa Internet sarebbe diventata e su come sarebbe stata percepita. (Wallace, tra l’altro, non ha saputo prevedere che l’intrattenimento si sarebbe lasciato alle spalle cartucce e dischi). Infinite Jest è stato però un avvertimento contro l’insidiosa viralità dell’intrattenimento popolare in anticipo su tutto e tutti, se si eccettuano i filosofi della tecnologia piú delfici. La condivisione di video, Netflix ventiquattr’ore su ventiquattro, il budino neurale alla fine di un’epica maratona di videogame, la seduzione perversa di registrare e divorare i nostri pensieri piú normali e umani su Facebook e Instagram –Wallace in qualche modo sapeva che tutto questo stava arrivando, e gli dava i brividi. Nelle interviste, Wallace diceva chiaro e tondo che l’arte deve avere uno scopo piú alto del puro e semplice intrattenimento: «La letteratura si occupa di cosa voglia dire essere un cazzo di essere umano» 2, è il suo pensiero piú celebre e bellicoso al riguardo. Ed è proprio qui l’enigma dell’opera di David Foster Wallace in generale e di Infinite Jest in particolare: un libro di infinito, compulsivo intrattenimento che avaramente nega ai lettori i piaceri fondamentali dell’intrattenimento letterario dominante, tra cui una linea narrativa centrale comprensibile, un movimento identificabile nel tempo e una qualsivoglia soluzione delle quattro trame principali. Infinite Jest, in altre parole, può essere oltremodo frustrante. Se si vogliono capire appieno gli intenti di Wallace bisogna leggerlo e rileggerlo, con devozione e concentrazione talmudiche. Per molti lettori questo è chiedere troppo. E cosí si sono formate delle fazioni –gli antinarrativisti contro i Jestiani contro i raccontisti –, anche se ogni fazione riconosce la centralità di Infinite Jest nel corpus letterario di Wallace. Il fatto che siano passati vent’anni e che noi siamo ancora qui a discutere sul significato di questo romanzo, o su che cosa cercasse davvero di dire, nonostante dicesse (apparentemente) di tutto, è un’ulteriore, perfetta analogia con Internet. Entrambi sono troppo grossi. Entrambi contengono troppo. Entrambi ti invitano a entrare. Entrambi ti mettono alla porta. Teoria numero due: Infinite Jest è un romanzo autenticamente e pionieristicamente imperniato sul linguaggio. Neanche i maestri del registro retorico alto/ basso si innalzano in modo piú panoramico o si abbassano in modo piú esuberante di Wallace: non Joyce, non Bellow, non Amis. «Afonia», «erompente», «eliotico», «fallotomia»! Parole inventate, parole messe in moto per corto circuito, parole reperibili solo nelle note a piè di pagina dei dizionari medici, parole utilizzabili solo nel contesto della retorica classica, parole da piccolo chimico, parole da matematico, parole da filosofo –Wallace è stato uno speleologo dell’Oxford English Dictionary e ha creato spericolati neologismi, verbi derivati da sostantivi, sostantivi derivati da verbi, dando vita non tanto a un romanzo di linguaggio, quanto a una nuovissima realtà lessicografica. Ma ricorrere da bravo nerd a parole pompose, o «tentare esercizi di acrobazia formale» 3 (per usare un’altra espressione di Wallace), può essere una pratica davvero vuota. Servono frasi per esporre le parole, e anche in questo caso Infinite Jest supera praticamente qualunque romanzo dell’ultimo secolo, mantenendo una maestria descrittiva coerente e sbalorditiva, come quando un tramonto viene descritto come «gonfio e perfettamente rotondo, e grande, e irradiava lame di luce […] Ciondolava e tremolava lievemente, come una goccia viscosa in procinto di cadere». (Nessuno è piú bravo di Wallace quando si tratta di cieli e condizioni atmosferiche, capacità che si può far risalire all’Illinois centrale in cui era cresciuto, una terra di piatta vastità infestata dai tornado). Come scrisse John Jeremiah Sullivan dopo la morte di Wallace: «Ecco una cosa difficile da immaginare: essere uno scrittore cosí inventivo che, quando muori, la lingua si impoverisce» 4. Sono passati sette anni da che Wallace ci ha lasciato, e nessuno sta rimpolpando le casse della Federal Reserve lessicale di David Foster Wallace. Nessuno sta scrivendo qualcosa di simile a questo: «La sirena del secondo turno delle 1600h alla Sunstrand Power & Light è attutita dal non-suono della neve che cade». O a questo: «Ma era uno scassinatore di talento quando scassinava –benché della dimensione di un giovane dinosauro, con una testa massiccia e quasi perfettamente quadrata che usava da ubriaco per divertire i suoi amici tenendola in mezzo alle porte degli ascensori mentre si chiudevano». Torniamo alle frasi di Wallace come monaci medievali ai testi sacri, tremanti e consapevoli della loro finita preziosità. Mentre non sono mai riuscito ad afferrare la sua nozione di spiritualità, penso sia un errore non considerarlo in tutto e per tutto uno scrittore religioso. La sua religione, come molte, era una religione imperniata sul linguaggio. Mentre le religioni per lo piú deificano soltanto certe parole, Wallace le esaltava tutte. Teoria numero tre: Infinite Jest è il piú avvincente dei romanzi imperniati sui personaggi. Anche i romanzieri molto raffinati lottano con i personaggi, perché crearli evitando di ridurli a spezzoni prismatici di se stessi è di una difficoltà suprema. In Come funzionano i romanzi, il critico letterario James Wood –la cui opinione su Wallace, rispettosa ma alla fin fine fredda, è sconcertante quanto il rifiuto di Melville da parte di Conrad e di Bellow da parte di Nabokov –si dedica alla famosa distinzione di E. M. Forster tra personaggi «piatti» e «tondi»: «Se cerco di distinguere fra personaggi maggiori e minori, “tondi”e “piatti”, e sostengo che differiscono in quanto a sottigliezza, profondità, tempo loro concesso sulla pagina, devo ammettere che molti personaggi cosiddetti piatti mi sembrano, per quanto di breve vita, piú vivi, e piú interessanti come studi umani, dei personaggi tondi cui si suppone siano subordinati» 5. Chiunque legga o rilegga Infinite Jest noterà una correlazione interessante: in tutto il libro, i personaggi piatti, minori, monocorde di Wallace camminano a testa alta come gli altri, pavoni di varia idiosincrasia. Wallace non si limita ad allestire una scena e non dà vita facile ai personaggi che vi inserisce; invece, si impegna con uno sforzo quasi metafisico a vedere la realtà con i loro occhi. Ne esiste un ottimo esempio praticamente all’inizio di Infinite Jest, nell’interludio «Dov’era la donna che aveva detto che sarebbe venuta». Qui incontriamo il paranoico Ken Erdedy, tossico da marijuana, il cui terrore di essere considerato uno che pensa solo e sempre a comprare la droga genera una situazione incresciosa: non è sicuro di essere effettivamente riuscito a organizzare un appuntamento con una donna che gli può procurare duecento grammi di marijuana «particolarmente buona» –marijuana che lui ci tiene moltissimo a fumare per tutto il weekend. Per undici pagine, Ederdy non fa che sudare e prefigurarsi l’arrivo sempre piú ipotetico della donna con gli agognati duecento grammi. Nessuno che abbia combattuto contro la tossicodipendenza, credo, può leggere questo passaggio senza contorcersi, boccheggiare o piangere. Non conosco nessun’altra pagina, nella letteratura intera, capace di penetrare in modo cosí
convincente in una coscienza strafatta e, al contempo, di rimanere un modello di chiarezza empatica. L’espressione tecnica per ciò che fa Wallace nell’interludio di Ederdy è stile indiretto libero, ma leggendolo si ha l’impressione che le esangui questioni tecniche lo seccassero. Invece, sentiva la necessità di diventare fisicamente i suoi personaggi, in qualche modo, e questo di sicuro è il motivo per cui scriveva cosí spesso, e cosí bene, in una terza persona tanto microscopicamente vicina. In questo specificissimo senso, può darsi che nella letteratura americana Wallace sia quanto di piú vicino sia mai esistito a un attore fedele al metodo, cosa che non posso immaginare prima di sottili traumi. Ed Ederdy non è che uno delle centinaia di personaggi-comparsa piú o meno danneggiati di Infinite Jest! A volte mi chiedo: quanto è costato a Wallace crearlo? Teoria numero quattro: al di là di ogni dubbio, Infinite Jest è il romanzo della sua generazione. Visto che sono un membro (per il rotto della cuffia) della medesima generazione di Wallace, uno scrittore i cui amici del cuore sono scrittori (in gran parte fan di Wallace) e una persona che ha letto Infinite Jest per la prima volta forse all’età ideale (ventidue anni, da volontario dei Peace Corps in Uzbekistan), la mia testimonianza al proposito può benissimo essere tacciata di partigianeria. Quindi permettetemi di far cadere la maschera del prefatore e di mostrarvi il semplice volto del fan prima, e dell’amico poi, di David Wallace. Quando leggevo Infinite Jest nelle prime, cupe ore del mattino che precedevano le lezioni di uzbeko, riuscivo a sentire la donna che mi ospitava in casa sua parlare con le galline nel fienile sul lato opposto del muro della mia stanza mentre sparpagliava a terra il mangime. Riuscivo a sentire il trambusto delle mucche e i loro muggiti profondi e spaventosi, oltre ai circa diecimila gatti selvatici dei dintorni che scorrazzavano nel solaio direttamente sopra il mio letto. Quello che sto cercando di dire è che avrebbe dovuto essere arduo concentrarsi sulle gesta di Hal Incandenza, Don Gately, Rémy Marathe e Madame Psychosis. Ma non lo era. Leggevo cosí per ore, mattina dopo mattina, con la mente ridotta a un turbinio. Alla prima lettura, per alcune centinaia di pagine devo confessare che Infinite Jest non mi piacque per niente. Perché? Gelosia, frustrazione, impazienza. Difficile ricordare il motivo esatto. Soltanto quando cominciai a scrivere alla mia ragazza –per lettera le descrivevo gli altri volontari dei Peace Corps, i membri della famiglia che mi ospitava e le lunghe passeggiate per tornare a casa attraverso una campagna che ai tempi della repubblica sovietica era collettivizzata, in quella che classificherei come una dilettantesca prosa wallaciana –mi resi conto che quel libro mi aveva resettato. Ecco una delle grandi innovazioni di Wallace: il potere rivelatorio della notazione mostruosamente accurata, del dettaglio che ingloba e controlla. In genere i grandi prosatori fanno sembrare il mondo reale ancora piú reale: è per questo che li leggiamo. Ma Wallace fa qualcosa di piú strano, qualcosa di piú sorprendente: anche quando non lo stai leggendo, ti allena a osservare il mondo reale attraverso le lenti della sua prosa. I nomi di svariati scrittori sono diventati aggettivi –kafkiano, orwelliano, dickensiano –, ma quegli scrittori tratteggiano umori, situazioni, il declino civile. La descrizione wallaciana non rappresenta qualcosa di esterno; rappresenta qualcosa di estaticamente interiore, uno stato di apprendimento (e apprensione) e di comprensione. Lui non nominava una condizione, insomma. Lui la creava. Come ho imparato –come hanno imparato i piú accaniti emuli di Wallace –come aveva imparato anche Wallace –lo stile che Wallace ha aiutato a svilupparsi con Infinite Jest aveva dei limiti, sebbene all’inizio paresse illimitato. Tutti i grandi stilisti finiscono per rimanere prigionieri del proprio stile e, ultima onta, si ritrovano chiusi nella stessa cella dei loro accoliti. Wallace ha evitato questo destino. Primo, non ha mai portato a termine un altro romanzo. Secondo, ha dilatato sempre piú lo spazio tra le due metà della sua carriera –il saggista simpatico e scintillante e il narratore difficile, tendenzialmente ermetico –in modo che, alla fine, restasse ben poco a collegarle. In altre parole, i saggi diventavano piú belli e divertenti –i piú divertenti dai tempi di Twain –man mano che la narrativa diventava piú cupa e teoricamente severa, anche se in gran parte eccelsa. L’ultima volta che ho visto David Wallace, nella primavera del 2008, scimmiottava alla perfezione un certo appagamento artistico, ma adesso so che provava il contrario. Tuttavia, dopo il nostro incontro ero eccitato per i progetti di cui mi aveva accennato. Ci ha dato un romanzo di rilievo generazionale; di sicuro avrebbe scritto il romanzo che ci avrebbe aiutato a definire la nostra percezione del nuovo secolo. Per noi è una grande perdita che non l’abbia fatto. Il grande regalo che invece ci ha fatto è che il mondo è piú wallaciano che mai –Donald Trump, le presento il presidente Johnny Gentle –e che ora tutti noi leggiamo a mente i libri che non ha scritto. David, dove sono adesso i tuoi lazzi, le tue capriole, i tuoi canti, i tuoi lampi d’allegria che a tavola alzavano scrosci di risate? 6 Sono qui, dove sono sempre stati. E dove sempre saranno. Ci hai portato in spalla mille volte. Per te, e per questo libro gioioso e disperato, scrosceranno le nostre risate per sempre incredule, per sempre addolorate, per sempre riconoscenti. Contro ogni speranza, spero che tu possa sentirci. TOM BISSELL Los Angeles, novembre 2015. 
1. La citazioni sono tratte da D. F. Wallace, E unibus pluram: gli scrittori americani e la televisione, in Id., Tennis, Tv, trigonometria e tornado, trad. it. di V. Ostini, C. Raimo e M. Testa, minimum fax, Roma 1997, p. 59 [le note a piè di pagina sono a cura della traduttrice]. 
2. L. McCaffery, A Converation with David Foster Wallace, in «The Review of Contemporary Fiction», estate 1993, vol. 13.2 (trad. it. di M. Testa in Un antidoto contro la solitudine. Interviste e conversazioni, a cura di Stephen J. Burn, minimum fax, Roma 2013, p. 62). 
3. Ibid, p. 59. 
4. Cfr. J. J. Sullivan, Too Much Information, in «GQ», 31 marzo 2011: http:// www.gq.com/ story/ david-foster-wallace-the-pale-king-john-jeremiah-sullivan. 
5. J. Wood, Come funzionano i romanzi, trad. it. di M. Parizzi, Mondadori, Milano 2010, p. 72. 6. Citazione letterale dall’Amleto di Shakespeare (trad. it. di P. Bertinetti, atto V, scena 1, Einaudi, Torino 2005). 
Nota del traduttore. 
Nella traduzione di questo straordinario romanzo si è deciso di attenersi il piú possibile alla lingua, allo spirito dell’opera e all’intento dell’Autore. Si è dunque cercato di evitare –quando possibile –di appesantire la lettura inserendo note di traduzione in un romanzo di piú di mille pagine e con oltre cento pagine di note. Si sono mantenute nel testo italiano le sgrammaticature di tutti i personaggi non americani e di molti dei giovani tennisti –americani e non –dell’Eta. Si è preferito non spiegare, in traduzione o in nota, certi termini medici o farmacologici o tecnologici, poiché l’Autore stesso ci disse di preferire che il lettore interessato/ attento andasse a cercare il significato di quei termini nel Dizionario o nell’Enciclopedia. I

INFINITE JEST


ANNO DI GLAD 
Mi siedono in un ufficio, sono circondato da teste e corpi. La mia postura segue consciamente la forma della sedia. Sono in una stanza fredda nel reparto Amministrazione dell’Università, dei Remington sono appesi alle pareti rivestite di legno, i doppi vetri ci proteggono dal caldo novembrino e ci isolano dai rumori Amministrativi che vengono dall’area reception, dove poco fa siamo stati accolti lo zio Charles, il Sig. deLint e io. Sono qui dentro. All’altro lato di un grande tavolo in legno di pino che splende della luce del mezzogiorno dell’Arizona, tre facce sono materializzate sopra giubbotti sportivi leggeri e Windsor a mezze maniche. Sono tre Decani –Ammissione, Affari Accademici e Affari Atletici. Non so attribuire le facce. Credo di sembrare un tipo normale, forse perfino simpatico, anche se mi hanno consigliato di apparire il piú normale possibile, e di non provare nemmeno a fare quella che a me parrebbe un’espressione simpatica o un sorriso. Ho deciso di incrociare le gambe come si deve, con attenzione, caviglia sul ginocchio e mani riunite in grembo. Tengo le dita intrecciate e mi sembrano diventare una serie di x vista allo specchio. Il resto delle persone presenti nella sala include: il Direttore di Composizione dell’Università, l’allenatore di tennis, e il prorettore dell’Accademia, il Sig. A. deLint. C.T. è accanto a me; gli altri sono rispettivamente seduto, in piedi, in piedi, alla periferia del mio campo visivo. L’Allenatore di tennis giochicchia con degli spiccioli. C’è qualcosa di vagamente digestivo nell’odore della stanza. La suola ad alta trazione della mia Nike regalatami dalla Nike è parallela al mocassino fremente del fratellastro di mia madre, qui nel suo ruolo di Preside, seduto anche lui davanti ai Decani a quella che spero sia la mia destra. Il Decano sulla sinistra, un uomo magro e giallognolo il cui sorriso fisso ha la precarietà delle cose impresse su materiale non-cooperativo, fa parte di un tipo di personalità che di recente ho imparato ad apprezzare; è il tipo che, raccontando per me, a me, la mia versione dei fatti, allontana la necessità di una qualunque risposta da parte mia. Ha davanti a sé una pila di fogli scritti al computer appena passatigli da un Decano spelacchiato al centro, sta praticamente parlando a quelle pagine e sorride. «Lei è Harold Incandenza, diciott’anni, conseguirà la maturità di Scuola superiore all’incirca entro un mese da oggi, attualmente frequenta l’Enfield Tennis Academy di Enfield, nel Massachusetts, il collegio presso cui risiede». Ha degli occhiali da lettura rettangolari, a forma di campo da tennis, con le righe in cima e in fondo. «Lei è, secondo l’Allenatore White e il Decano [incomprensibile], un giocatore di tennis juniores classificato a livello regionale,
nazionale e continentale; un potenziale atleta di livello Onancaa, una grande promessa. È stato contattato dall’Allenatore White attraverso uno scambio di corrispondenza con il qui presente Dott. Tavis a partire dal…febbraio di quest’anno». Una volta letta, la pagina in cima alla pila viene metodicamente messa in fondo al mazzo. «Lei vive alla Enfield Tennis Academy dall’età di sette anni». Sto cercando di capire se posso correre il rischio di grattarmi il lato destro della mascella, dove ho una cisti sebacea. «L’Allenatore White fa presente ai nostri uffici di tenere in alta considerazione i programmi e i risultati conseguiti dall’Enfield Tennis Academy, dice che la squadra di tennis dell’Università dell’Arizona ha tratto beneficio dall’aver immatricolato in passato numerosi ex studenti Eta, uno dei quali è un certo signor Aubrey F. deLint, che sembra essere qui con lei, oggi. L’Allenatore White e il suo staff ci hanno convinto—» L’eloquio dell’amministratore giallastro è piuttosto mediocre, ma devo ammettere che si è fatto capire. Il Direttore di Composizione sembra avere piú sopracciglia del normale. Il Decano sulla destra guarda la mia faccia in un modo un po’strano. Lo zio Charles sta dicendo che, pur sapendo che i Decani potrebbero valutare le sue affermazioni come quelle di un interessato sostenitore dell’Eta, si dichiara disposto a garantire ai Decani qui riuniti che è tutto vero, che l’Accademia annovera attualmente fra i suoi ospiti non meno di un terzo dei trenta migliori juniores del continente, in ogni fascia di età, e che io qui presente, «Hal», sono «proprio là in testa, fra la crema della crema». Il Decano sulla destra e quello al centro fanno un gentile sorriso professionale, le teste di deLint e dell’allenatore s’inclinano mentre il Decano a sinistra si schiarisce la gola: «—che perfino come matricola lei potrebbe apportare un contributo sostanziale al programma tennistico di questa Università. Siamo lieti», dice o forse legge, mettendo a posto un’altra pagina, «che lei abbia scelto di essere qui tra noi, oggi, dandoci cosí l’opportunità di riunirci tutti insieme e parlare un po’della sua domanda di iscrizione, del potenziale accoglimento, da parte nostra, della sua immatricolazione e della sua borsa di studio». «Mi è stato chiesto di aggiungere che il nostro Hal è la terza testa di serie nel singolo maschile Under 18 del prestigioso torneo juniores WhataBurger Southwest Invitational al Randolph Tennis Center—» dice quello che ipotizzo essere Affari Atletici, la testa chinata di traverso a mostrare uno scalpo punteggiato di efelidi. «Là al Randolph Park, vicino al fantastico El Con Marriott», si inserisce C.T., «una sede sportiva che si dice sia il meglio del meglio, che—» «Proprio cosí, Chuck, e vorrei anche aggiungere che, come dice il nostro Chuck, Hal ha già giustificato il suo numero di testa di serie entrando in semifinale con la vittoria, mi si dice schiacciante, di questa mattina, e domani giocherà di nuovo contro il vincitore di uno dei quarti di finale di stasera, e quindi giocherà domani, credo alle 0830h—» «Cercano di anticipare questo maledetto caldo. Anche se ovviamente è un caldo secco». «—e a quanto pare si è anche già qualificato per gli Indoor Continentali di quest’inverno su a Edmonton, mi dice Kirk—» e si inclina un altro po’per guardare in su e a sinistra verso l’allenatore, i cui denti splendono contro la violenta scottatura del viso. «Il che non è davvero poco». Mi guarda, sorride. «Tutto giusto, Hal?» C.T. ha incrociato le braccia con noncuranza; la carne dei suoi tricipiti è screziata nella luce filtrata dall’aria condizionata. «Tutto giustissimo, Bill». E sorride. Le due metà dei suoi baffi non sono mai perfettamente parallele. «E se mi è consentito vorrei aggiungere che Hal è entusiasta, entusiasta all’idea di essere stato invitato al torneo per il terzo anno consecutivo; di ritrovarsi ancora una volta in una comunità per la quale nutre un autentico affetto; di potersi intrattenere con i vostri studenti e i vostri istruttori; di aver già giustificato il suo numero di testa di serie passando indenne per le difficili sfide di questa settimana; di essere ancora in ballo, per cosí dire; ma naturalmente, sopra ogni cosa, Hal è entusiasta di avere l’opportunità di incontrare voi, signori, e di poter dare un’occhiata a strutture e servizi. Da quanto ha avuto modo di constatare, qui tutto è davvero di prima categoria». Silenzio. DeLint appoggia la schiena ai pannelli della stanza e ritrova l’equilibrio. Mio zio fa un gran sorriso e raddrizza il cinturino dell’orologio, già dritto di suo. Il 62,5 per cento delle facce nella stanza è rivolto verso di me, in cortese e compiaciuta attesa. Il torace mi sussulta come una centrifuga in azione con delle scarpe dentro. Cerco di mettere insieme quello che dovrebbe esser visto come un sorriso. Mi volto da una parte e dall’altra, lentamente, lievemente, come a dedicare il sorriso a ognuno di loro. Di nuovo silenzio. Le sopracciglia del Decano giallastro si fanno circonflesse. Gli altri due Decani guardano il Direttore di Composizione. L’allenatore di tennis è andato a sistemarsi accanto alla grande finestra e si tocca sulla nuca i capelli tagliati a spazzola. Lo zio Charles si carezza l’avambraccio, subito sopra l’orologio. Sul lucore del tavolo di pino si muovono piano le ombre arcuate e affilate delle foglie di una palma, l’ombra dell’unica testa riflessa pare una luna nera. «Chuck, scusa, ma Hal si sente bene?» chiede Affari Atletici. «Mi pare che l’espressione di Hal sia…be’, molto tesa. Sta male? Ti senti male, figliolo?» «Hal sta che è una meraviglia», sorride mio zio, e muove l’aria con un movimento noncurante della mano. «È solo una specie di…come si può dire…è un leggero tic, una cosa da niente che gli è venuta per via dell’adrenalina che gli si è scaricata in corpo al pensiero di trovarsi qui nel vostro magnifico campus; per aver dato prova di meritare la sua testa di serie nel torneo…finora non ha perso neanche un set; per aver ricevuto quell’offerta scritta ufficiale dall’Allenatore White sulla carta intestata di una università della Pac 10, nella quale si parlava non solo del solito, semplice rimborso spese, ma di una sorta di diaria; e infine il ragazzo è molto emozionato per la possibilità di poter firmare proprio oggi, qui e ora, una Lettera d’Intenti di livello Nazionale. Questo mi ha detto poco fa». C.T. mi guarda fisso, con uno sguardo orribilmente mite. Io faccio la cosa piú sicura: rilasso i muscoli facciali, lascio defluire qualsiasi espressione. Guardo con attenzione il nodo Kekuliano della cravatta del Decano in mezzo. La mia risposta silenziosa alla silenziosa aspettativa comincia a pesare sull’atmosfera della stanza: i granelli di polvere e i peluzzi caduti dalle fibre delle giacche sportive danzano a scatti nella lama di luce che viene dalla finestra, agitati dal flusso dell’aria condizionata; l’aria sopra il tavolo mi ricorda lo strato di effervescenza che sta sopra l’acqua minerale appena versata. L’allenatore, con un lieve accento né britannico né australiano, sta dicendo a C.T. che la procedura di esame delle domande di ammissione, pur essendo in genere poco piú di una piacevole formalità, risulta forse accentuata se il richiedente dice qualche parola. I Decani di destra e di centro hanno avvicinato le teste in un sommesso consulto, formando una specie di tepee di pelle e capelli. Credo che la parola che l’allenatore di tennis intendeva dire quando ha detto accentuata fosse facilitata, anche se accelerata, pur essendo ben piú forte di facilitata, sarebbe stato un errore foneticamente piú comprensibile. Il Decano con la faccia giallastra e piatta si è sporto in avanti, le labbra ritirate a scoprire i denti in quella che mi pare preoccupazione. Le sue mani raggiungono la superficie del tavolo nello stesso momento. Le sue dita sembrano intrecciarsi proprio mentre la mia quadruplice serie di x si dissolve e mi viene da stringere forte i braccioli della sedia. Comincia col dire che occorre discutere con franchezza dei potenziali problemi della mia domanda di iscrizione. Fa un riferimento alla franchezza e al suo valore. «L’ostacolo che ha incontrato il mio ufficio riguarda il punteggio di alcuni test riportato nella tua domanda di ammissione, Hal». Abbassa lo sguardo su un foglio colorato chiuso nella trincea delle sue braccia. «Il dipartimento Ammissione sta analizzando i punteggi da te ottenuti nei test standard, punteggi che, come sono certo sai e puoi motivare, sono…diciamo…subnormali». Devo spiegare. È chiaro che questo giallastro campione di sincerità a sinistra è Ammissione. E allora il piccoletto sulla destra con l’aria da uccello è senz’altro Affari Atletici, perché la faccia rugosa del Decano spelacchiato in mezzo si è contratta a raccontare un oltraggio lontano, e ha un’espressione del tipo sto-mangiando-qualcosa-che-mi-farà-veramente-apprezzare-qualsiasi-cosa-ci-berrò-insieme che svela tutte le sue professionali riserve Accademiche. Dunque, al centro c’è una semplice lealtà al rispetto degli standard. Mio zio guarda Affari Atletici con una certa perplessità. Si sposta leggermente sulla sedia. C’è un’incongruenza pazzesca tra il colore delle mani e del volto di Ammissione. «—punteggi negli esami orali un po’troppo vicini allo zero per non metterci a disagio, soprattutto se paragonati ai risultati di scuola media superiore rilasciati dall’istituto del quale sono amministratori sia tua madre che il fratello di lei—» legge direttamente dal fascio di fogli dentro l’ellisse delle sue braccia—«che, è vero, sono un po’calati nell’ultimo anno, ma solo perché nei tre anni precedenti si erano mantenuti a livelli d’eccellenza francamente incredibili». «Fuori da ogni standard». «La maggior parte delle scuole non ha neppure una votazione di A seguita da multipli +», dice il Direttore di Composizione, con un’espressione indecifrabile. «Questo genere di…come devo definirla…incongruenza», dice Ammissione con un’espressione franca e preoccupata, «devo proprio informarti che lancia un segnale preoccupante per le procedure di ammissione». «Perciò ti invitiamo a spiegarci questa apparente incongruenza, sempre che non si tratti di una vera e propria truffa». Affari Accademici ha una vocina assurdamente stridula, considerato da quale faccione sorte fuori. «Di certo per incredibili lei intende dire molto molto molto notevoli, piuttosto che, letteralmente, “impossibili da credersi”», dice C.T., e lancia un’occhiata all’allenatore accanto alla finestra che continua a carezzarsi la nuca. L’enorme finestra mostra un panorama fatto di luce accecante e terra riarsa, e vedo tutto tremulo per via del gran caldo. «E poi rimane l’ulteriore questione dei saggi allegati alla domanda, non i due richiesti, ma addirittura nove, alcuni dei quali di lunghezza quasi monografica, e tutti senza eccezione di livello—» altro foglio, «—l’aggettivo che diversi addetti alla valutazione hanno speso è, cito testualmente, “astronomico”». Dir. Comp.: «Nel mio giudizio, comunque, ho deliberatamente fatto uso dei termini lapidario e logoro». «—e come ricorderai benissimo, Hal, hanno temi e titoli come: Premesse neoclassiche nella grammatica prescrittiva contemporanea, Le implicazioni delle trasformazioni post-Fourier per un cinema olograficamente mimetico, L’emergere della stasi eroica nell’intrattenimento trasmesso—» «La grammatica di Montague e la semantica della modalità fisica?» «L’uomo che cominciò a sospettare di essere fatto di vetro?» «Simbolismo terziario nell’erotica giustiniana?» Adesso mostra gengive retratte per un bel pezzo. «Mi pare basti a dire che esiste una franca e sincera preoccupazione per la persona che ha avuto punteggi cosí scadenti nei test, per quanto questo si possa forse spiegare, ed è nel contempo l’unico autore di tali saggi». «Non sono sicuro che Hal si renda conto di ciò che si sta insinuando», dice mio zio. Il Decano di centro si tasta le mostrine della giacca mentre guarda di nuovo gli sgradevoli dati dei test. «Quello che l’Università sta dicendo è che, da un punto di vista strettamente accademico, esistono problemi d’ammissione che Hal deve sforzarsi di aiutarci ad appianare. Il primo ruolo di un nuovo iscritto all’Università è e deve restare quello di studente. Non possiamo accettare uno studente che abbiamo ragione di sospettare non sia in grado di tagliare la mostarda con un coltello, al di là di quanto potrebbe essere importante averlo in campo con i nostri colori». «Sul campo da tennis naturalmente, Chuck, questo intende il Decano Sawyer», dice Affari Atletici, la testa protesa con decisione in modo da rivolgersi anche a White dietro di lui. «Per non parlare delle regole Onancaa e dei loro investigatori, sempre pronti a fiutare l’aria a caccia del minimo sentore di irregolarità». L’allenatore di tennis guarda l’orologio. «Partendo dal presupposto che i risultati dei nostri test siano in grado di darci un’idea delle capacità del ragazzo», dice Affari Accademici, la voce stridula ora si è fatta seria, lo sguardo fisso e disgustato sui fogli dei miei test, «vi dico subito che secondo il mio parere non sarebbe giusto ammetterlo. Non sarebbe giusto nei confronti degli altri candidati. Non sarebbe giusto nei confronti della comunità universitaria». Mi guarda. «E sarebbe particolarmente ingiusto nei confronti dello stesso Hal. Ammettere un ragazzo che vediamo esclusivamente come una risorsa atletica equivarrebbe a sfruttarlo. Siamo soggetti a una miriade di controlli tesi ad accertare che qui non si sta sfruttando nessuno. I suoi risultati d’esame, figliolo, indicano che potremmo essere accusati di sfruttarla». Lo zio Charles sta chiedendo all’Allenatore White di chiedere al Decano degli Affari Atletici se verrebbe sollevato lo stesso polverone riguardo ai test nel caso io fossi, mettiamo, una giovane promessa del football capace di attirare contributi da ogni dove. Sta montando il mio solito panico di quando non mi capiscono, ho il petto scosso da sussulti e colpi sordi. Uso una grande energia per rimanere completamente silenzioso, sulla sedia, vuoto, gli occhi due grandi zeri pallidi. Qualcuno ha promesso di farmi superare tutto questo. Eppure lo zio C.T. ha l’aria disperata di chi è con le spalle al muro, e la sua voce prende un timbro strano, come stesse gridando mentre indietreggia. «Ci tengo a precisare che l’Eta non è un campeggio o una fabbrica, è un’Accademia accreditata sia dal Commonwealth del Massachusetts che dall’Associazione nordamericana delle Accademie sportive, e concentra le sue attenzioni sia sul giocatore che sullo studente. È stata fondata da una figura intellettuale di tale importanza che pronunciarne il nome in questa sede diventa inutile, ed è stato proprio lui a volerla improntare sul rigoroso modello curricolare del Quadrivio-Trivio di Oxbridge. È una scuola dotata di personale docente e infrastrutture di prim’ordine, i voti che ha conseguito Hal sono stati dati da quel personale docente e dovrebbero testimoniare che mio nipote è perfettamente in grado di tagliare qualsiasi tipo di mostarda in qualsiasi università della Pac 10, e che—» DeLint si muove verso l’allenatore di tennis, che scuote la testa. «—e si avverte chiaramente, in tutta questa faccenda, il sentore del pregiudizio nei confronti di uno sport minore», dice C.T., accavallando e disaccavallando le gambe mentre ascolto, composto e interessato. Il silenzio effervescente della stanza adesso è ostile. «Penso che ora sia giusto lasciar parlare il candidato», dice Affari Accademici, con grande calma. «E la cosa pare impossibile se lei continua a rimanere qui, signore». Affari Atletici fa un sorriso stanco al riparo della mano che gli massaggia l’arco del naso. «Forse potresti scusarci per un momento e aspettare fuori, Chuck». «Allenatore White, le dispiace accompagnare alla reception il Sig. Tavis e il suo collega?» dice il Decano giallastro, e sorride nei miei occhi sfocati. «—stato fatto credere che tutto fosse già stato sistemato, dal—» dice C.T. mentre lui e deLint vengono accompagnati alla porta. L’allenatore di tennis stende un braccio ipertrofico. Affari Atletici dice: «Qui siamo tutti amici e colleghi». Non funziona. Mi viene in mente che per uno di madrelingua latina, le scritte EXIT apparirebbero come cartelli luminosi con su scritto EGLI ESCE. Cederei all’impulso di lanciarmi verso la porta prima di loro se solo fossi certo che questo sarebbe ciò che vedrebbero queste persone. DeLint mormora qualcosa all’allenatore di tennis. Sento rumori di tastiere e centralini telefonici mentre la porta si apre per un momento, poi viene richiusa con decisione. Sono solo fra i capi amministrativi. «—intendiamo offendere nessuno», sta dicendo Affari Atletici, con la sua giacca sportiva marroncina e la sua cravatta a disegni minuscoli, «al di là della sola abilità fisica nel gioco del tennis che pure, ti prego di credere, noi rispettiamo profondamente». «—dubbio su questo, altrimenti non saremmo cosí ansiosi di parlare con te direttamente, capisci?» «—venuti a conoscenza nell’esaminare numerose precedenti domande di iscrizione pervenuteci dall’ufficio dell’Allenatore White, che Enfield è gestita, senza dubbio in modo ragguardevole, da parenti stretti di tuo fratello maggiore, e ricordo benissimo quanto stesse dietro a quel ragazzo il predecessore di White, Maury Klamkin, e perciò è fin troppo facile mettere in discussione l’obiettività di quei voti—» «Può farlo chiunque: la Naaup, altre università rivali della Pac 10, l’Onancaa—» I saggi sono vecchi, sí, ma sono miei, de moi. Certo, sono vecchi, e non riguardano esattamente il tema della domanda di iscrizione: L’Esperienza Didattica Piú Significativa Di Tutti I Tempi. Se ve ne avessi dato uno dell’anno scorso, vi sarebbe sembrato il battere casuale sulla tastiera di un bambino, a voi che usate chiunque come soggetto di una frase. In questa compagnia ora piú ristretta, il Direttore di Composizione sembra essersi improvvisamente animato, rivelandosi sia il vero capo del branco sia molto piú effeminato di quanto non sembrasse all’inizio. Si alza di scatto con una mano sul fianco, passeggia dondolando le spalle, giocherella con gli spiccioli mentre si tira su i pantaloni e si lascia scivolare sulla sedia ancora calda del tepore del sedere di C.T. Accavalla le gambe in modo da spingersi ben dentro la mia porzione di spazio, e riesco a vedere i suoi tic oculari e le reti di capillari che gli attraversano le borse sotto gli occhi, sento bene l’odore dell’ammorbidente della giacchetta e di una mentina per l’alito ormai inacidita. «…un ragazzo brillante e solido, ma molto timido, sappiamo quanto lei sia timido, Kirk White ci ha raccontato tutto ciò che gli ha detto il suo giovane, atletico e scostante istruttore», dice amabilmente il Direttore, portando una mano a coppa sulla mia giacca, sui miei bicipiti (ma non è possibile), «ma ora non devi far altro che tirare un bel respirone e raccontare con la massima fiducia la tua versione della storia a questi signori che, credimi, non hanno nessuna ostilità nei tuoi confronti e stanno solo facendo il loro lavoro, nell’interesse di tutti». Riesco quasi a vederli deLint e White, seduti con i gomiti sulle ginocchia nella posizione defecatoria tipica degli atleti a riposo, deLint si guarda i pollici enormi mentre i passi di C.T., che parla al telefonino, disegnano una stretta ellissi nell’area reception. Sono stato preparato a questo, come se fossi un boss mafioso a un’udienza davanti a una commissione d’inchiesta. Un silenzio neutrale e ininfluente. Il tipo di partita difensiva che Schtitt mi faceva giocare: la miglior difesa: lascia che le cose ti rimbalzino addosso; non fare nulla. Vi direi tutto quello che volete, e anche di piú, se poteste capire i suoni che farei. Affari Atletici, con la testa riemersa da sotto l’ala: «—evitare procedure di ammissione che possano far pensare a una scelta di tipo unicamente sportivo. Potrebbe venir fuori un bel casino, figliolo». «Bill si riferisce all’apparenza, non necessariamente alla realtà dei fatti di questa faccenda, quella puoi fornircela solo tu», dice il Direttore di Composizione. «—l’apparenza congiunta delle tue ottime prestazioni come atleta, dei risultati subnormali nei test, dei saggi di livello piú che accademico, degli incredibili voti usciti fuori da un contesto che potrebbe essere giudicato nepotistico». Il Decano giallastro si è sporto cosí tanto in avanti che la sua cravatta ne riporterà una piega orizzontale fatta dal bordo del tavolo e, con una faccia gialla e gentile e decisa, dice: «Senti, Sig. Incandenza, Hal, spiegami solo perché non potremmo essere accusati di sfruttarti, figliolo. Dimmi perché qualcuno non potrebbe presentarsi e dirci: be’, sapete che c’è Università dell’Arizona, voi qui state usando un ragazzo solo per il suo corpo, un ragazzo cosí timido e riservato che non riesce neanche a parlare per sé, un goliardo coi voti truccati e una domanda di iscrizione che gli ha compilato qualcun altro». La luce riflessa dal tavolo diventa un’eruzione rossa dietro le mie palpebre chiuse. Non riesco a farmi capire. «Non sono solo un goliardo», dico lentamente. Con chiarezza. «Può darsi che i miei voti dell’anno scorso siano stati un po’ritoccati, ma è stato per farmi superare un momento difficile. I voti precedenti a quelli sono de moi». Ho gli occhi chiusi; la stanza è silenziosa. «Ora non riesco a farmi capire». Parlo lentamente e con chiarezza. «Dev’essere per via di qualcosa che ho mangiato». Strano che certe cose non si ricordino. Ricordo appena la nostra prima casa nei sobborghi di Weston, invece mio fratello maggiore Orin dice che si ricorda del cortile sul retro della casa e di quando una volta, all’inizio della primavera, era lí fuori con la Mami e l’aiutava a cavare una specie di giardinetto dalla terra dura del cortile. Marzo o inizio aprile. L’area del giardino aveva una forma vagamente rettangolare ed era delimitata da spago e bastoncini di legno. Orin stava togliendo le pietre e le zolle piú dure dal percorso della Mami, che
manovrava un Rototiller preso in affitto, un affare a forma di carretto che andava a benzina, ruggiva, sbuffava e s’impennava, e nei suoi ricordi, piú che essere spinto dalla Mami, sembrava la trascinasse; alla Mami, alta com’era, toccava curvarsi faticosamente per spingerlo, e i suoi piedi lasciavano impronte da ubriaco sul terreno smosso. Orin si ricorda che nel bel mezzo di questo lavorio io uscii di casa di corsa piangendo come una fontana e mi presentai in cortile con una tutina rossa e pelosa tipo orso, e urlavo e tenevo nel palmo della mano qualcosa di davvero sgradevole a vedersi. Dice che avevo piú o meno cinque anni e piangevo ed ero tutto rosso nell’aria fredda della primavera. Continuavo a ripetere qualcosa che non capiva, finché mia madre non mi ha visto, ha spento il Rototiller e si è avvicinata per vedere cosa avevo in mano. Era un grosso pezzo di muffa –Orin pensa venisse fuori da qualche angolo buio della cantina della casa di Weston, che era sempre calda per via della caldaia e ogni primavera si allagava. Per come lo descrive lui, quel pezzo di muffa era orripilante: verde scuro, viscido, a tratti irsuto, punteggiato qua e là di chiazze fungiformi gialle, arancioni e rosse. Ma quel che è peggio, videro che quell’affare appariva stranamente incompleto, come fosse stato morsicato; e c’era un po’di quella roba nauseante intorno alla mia bocca aperta. Stavo dicendo: «Ho mangiato quest’affare». Porsi il pezzo di muffa alla Mami, ma lei per fare giardinaggio si era tolta le lenti a contatto e quindi, sulle prime, vide solo il suo bambino in lacrime che le offriva qualcosa; e con il piú materno dei riflessi, la Mami, che temeva e disprezzava infinitamente sia la sporcizia sia la sola idea di viziare i figli, fece per prendere quella cosa –qualunque fosse –che il suo bambino le stava porgendo, come era già accaduto per chissà quanti Kleenex usati, caramelle sputate, cicche di gomma in chissà quanti cinema, aeroporti, sedili posteriori di macchine, sale d’attesa dei tornei di tennis. O. aveva in mano una zolla gelida, racconta, giocava con il Velcro del piumino e guardava la Mami che, piegata verso di me, a mani protese, gli occhi presbiti stretti a fessura, a un certo momento si fermò all’improvviso, si immobilizzò, perché aveva cominciato a identificare quello che tenevo in mano e che davo prova di aver mangiucchiato. Ricorda che la faccia della Mami era al di là di ogni descrizione. La sua mano protesa, ancora tremante di Rototiller, era sospesa nell’aria di fronte alla mia. «Ho mangiato quest’affare», dissi. «Come hai detto?» O. dice che riesce solo a ricordare (sic) di aver detto qualcosa di caustico mentre si piegava indietro come in un passo di limbo per via di una fitta improvvisa alla schiena. Dice di aver avvertito una tremenda ansia incombente. La Mami si era sempre rifiutata perfino di entrare in cantina. O. ricorda che io avevo smesso di piangere e stavo lí ritto, col mio pigiama rosso con i piedi, in tutto simile a un idrante, e porgevo la muffa alla mamma, serio, come fosse un documento riservato. O. dice che a questo punto i suoi ricordi si confondono, forse a causa dell’ansia. Ci sono due versioni. Nella prima la Mami comincia a girare per il cortile in ampi cerchi di pura isteria: «Dio!» esclama. Nella seconda versione, la Mami continua a strillare: «Aiuto! Mio figlio ha mangiato quest’affare!» e tiene con due dita la patacca di muffa e corre in tondo lungo il perimetro rettangolare del giardino mentre O. assiste sbalordito al suo primo attacco isterico di un adulto. Le teste dei vicini si affacciano alle finestre e sopra le staccionate. O. ricorda che io inciampai sullo spago mentre cercavo di starle dietro, mi rialzai tutto sporco e in lacrime e continuai a seguirla. «Dio! Aiuto! Mio figlio ha mangiato quest’affare! Aiuto!» continuava a gridare la Mami, e correva all’interno del quadrilatero fatto di spago; e mio fratello Orin ricorda di aver notato come, perfino sotto shock isterico, le sue traiettorie fossero precise, le sue impronte corressero lineari come quelle di un pellerossa, e le sue svolte, dentro l’ideogramma di spago, fossero nette e marziali mentre gridava: «Mio figlio ha mangiato quest’affare! Aiuto!» Mi strinse due volte al petto, poi Orin non ricorda altro. «La mia domanda d’ammissione non l’ho comprata», sto dicendo loro, nell’oscurità della caverna rossa che si apre di fronte ai miei occhi chiusi. «Non sono solo un ragazzo che gioca a tennis. La mia è una storia intricata. Ho esperienze e sentimenti. Sono una persona complessa. «Leggo, io», dico. «Studio e leggo. Scommetto che ho letto tutto quello che avete letto voi. Non pensate che non abbia letto. Io consumo le biblioteche. Logoro le costole dei libri e i lettori Rom. Sono uno che fa cose tipo salire su un taxi e dire al tassista: “In biblioteca, e a tutta”. Con il dovuto rispetto, credo di poter dire che il mio intuito riguardo alla sintassi e alla meccanica sia migliore del vostro. «Ma vado oltre la meccanica. Non sono una macchina. Sento e credo. Ho opinioni. Alcune sono interessanti. Se me lo lasciaste fare, potrei parlare senza smettere mai. Parliamo pure, di qualunque cosa. Credo che l’influenza di Kierkegaard su Camus venga sottovalutata. Credo che Dennis Gabor potrebbe benissimo essere stato l’Anticristo. Credo che Hobbes non sia altro che Rousseau in uno specchio oscuro. Credo, con Hegel, che la trascendenza sia assorbimento. Potrei mettervi sotto il tavolo, signori», dico. «Non sono solo un creātus, non sono stato prodotto, allenato, generato per una sola funzione». Apro gli occhi. «Vi prego di non pensare che non m’importi». Li guardo. Davanti a me c’è l’orrore. Mi alzo dalla sedia. Vedo mascelle crollare, sopracciglia sollevate su fronti tremanti, guance sbiancate. La sedia si allontana da me. «Santa madre di Cristo», dice il Direttore. «Sto bene», dico loro restando in piedi. A giudicare dall’espressione del Decano giallastro, li ho impressionati. La faccia di Affari Accademici è invecchiata di colpo. Otto occhi si sono trasformati in dischi vuoti fissi su ciò che vedono, qualunque cosa sia. «Mio Dio», mormora Affari Atletici. «Vi prego di non preoccuparvi», dico. «Posso spiegare». Carezzo l’aria con un gesto tranquillizzante. Entrambe le braccia mi vengono immobilizzate da dietro dal Direttore di Comp., che mi scaraventa a terra e mi schiaccia giú con tutto il suo peso. Sento in bocca il sapore del pavimento. «Che c’è che non va?» «Niente non va», dico io. «Va tutto bene! Sono qui!» mi urla nell’orecchio il Direttore. «Chiedete aiuto!» grida un Decano. Ho la fronte premuta contro un parquet che non avrei mai pensato potesse essere cosí freddo. Sono paralizzato. Provo a trasmettere un’impressione di docilità e arrendevolezza. Ho la faccia spiaccicata contro il pavimento; il peso di Comp. non mi fa respirare. «Cercate di ascoltarmi», dico molto lentamente, la voce attutita dal pavimento. «Per amor del cielo, cosa sono quei…» esclama un Decano con voce acuta, «…quei suoni?» Sento il picchiettare dei tasti di un centralino, il rumore di tacchi in movimento, un fascio di fogli di carta velina che cade. «Dio!» «Aiuto!» Alla periferia sinistra del mio sguardo si apre una porta: un cuneo di luce alogena, scarpe da tennis bianche e un paio di Nunn Bush consumate. «Fatelo alzare!» È deLint. «Non c’è niente che non va», dico al pavimento, lentamente. «Sono qui dentro». Vengo preso per le ascelle e sollevato, poi sbatacchiato a forza dal Direttore per farmi calmare. L’uomo ha la faccia violacea: «Torna in te, figliolo!» DeLint attaccato al braccio dell’omone: «La smetta!» «Non sono quello che vedete e sentite». Sirene in lontananza. Una presa brutale. Delle sagome alla porta. Una giovane donna ispanica porta una mano alla bocca mentre mi guarda. «Davvero», dico. Non si possono non amare i bagni degli uomini: l’odore di limone delle pasticche deodoranti nei lunghi pisciatoi di porcellana; gli scanni con le porte di legno e l’intelaiatura di marmo freddo; le file di sottili lavandini sorretti da tubature a vista dalle forme vagamente alfabetiche; gli specchi sopra le mensole di metallo; dietro tutte le voci il rumore leggero di uno sgocciolio incessante dilatato dall’eco, e un freddo pavimento di piastrelle il cui disegno a mosaico sembra quasi islamico, cosí da vicino. Il casino che ho causato mi vortica intorno. Sono stato praticamente trascinato, ancora immobilizzato, attraverso un assembramento di impiegati amministrativi dal Direttore di Comp. –il Dir. di Comp. sembra pensare alternativamente che io abbia le convulsioni (e allora mi spalanca la bocca per controllare che la lingua non mi soffochi), che in qualche modo stia soffocando (e allora mi fa una perfetta manovra Heimlich che mi lascia rantolante), che sia psicoticamente fuori controllo (e allora applica varie mosse e prese per assumere lui quel controllo) –mentre intorno a noi si agitano: deLint che cerca di liberarmi dalla presa del Direttore, l’allenatore di tennis che trattiene deLint, il fratellastro di mia madre che rivolge rapide combinazioni di polisillabi al trio ansimante dei Decani che si asciugano le fronti, si torcono le mani, si allentano le cravatte, puntano dita in faccia a C.T. e lo minacciano con dei fascicoli di moduli ormai superflui. Vengo rovesciato a pancia in su sulle mattonelle a disegni geometrici. Penso docilmente al perché in America i bagni pubblici debbano sempre apparirci come le ideali infermerie in caso di problemi, i posti giusti per riacquistare il controllo. La mia testa è ora cullata nel grembo morbido del Direttore inginocchiato, e lui mi tampona la faccia con i classici fazzoletti di carta marroncina che gli vengono passati da una mano fra quelle della folla che ci sta intorno e sopra, e io fisso i piccoli bozzi sulla sua mascella con tutta la vacuità che riesco a radunare. Diventano peggiori sulla linea indistinta del mento, ovvie cicatrici di un’acne antica. Lo zio Charles, che spara cazzate come nessuno mai, ne sta infilando una dietro l’altra per cercare di calmare gente che sembra molto piú in difficoltà di me. «Sta bene», continua a dire. «Guardatelo, non potrebbe essere piú calmo». «Non hai visto che cosa è successo là dentro», risponde un Decano ingobbito, le mani sulla faccia. «A volte si agita, tutto qui, ma solo a volte, è un ragazzo eccitabile, impressionato da—» «Ma i suoni che faceva». «Indescrivibili». «Come un animale». «Erano rumori e suoni subanimaleschi». «Per non parlare dei gesti». «Ha mai fatto aiutare questo ragazzo da qualcuno, Dott. Tavis?» «Come una specie di bestia con qualcosa in bocca». «Questo ragazzo ha dei danni cerebrali». «Come un panetto di burro colpito da una mazza». «Un animale che si contorce con un coltello nell’occhio». «Che cosa mai le era passato per la testa, a cercare di iscrivere questo—» «E le braccia». «Lei non l’ha visto, Tavis. Le sue braccia—» «Sussultavano. Era una specie di terribile contorcersi. Si dimenavano», e il gruppo guarda per un momento qualcuno fuori dal mio campo visivo che tenta di dimostrare qualcosa. «Come una frazione temporale, la vibrazione di una qualche mostruosa…crescita». «Somigliava molto, anzi era il rumore di una capra che affoga. Una
capra che affoga in qualcosa di vischioso». «Questa serie di belati soffocati e—» «Sí, si dimenavano». «Cosí adesso è un delitto dimenarsi e agitarsi un po’, eh?» «Lei, signore, è nei guai. È nei guai». «E la faccia. Come se lo stessero strangolando. Bruciando. Credo di aver visto l’inferno». «Ha qualche problema a comunicare, è disturbato a livello comunicativo, nessuno lo nega». «Il ragazzo ha bisogno di cure». «Invece di occuparsi del ragazzo lei lo manda qui a iscriversi, a competere?» «Hal?» «Nemmeno nei suoi incubi peggiori si è mai sognato la quantità di guai in cui si è cacciato, Dott. cosiddetto Preside, educatore». «…stato dato a credere che questa fosse solo una formalità. L’avete colto di sorpresa, ecco tutto. È un timido—» «E lei, White, lei cercava di farlo ammettere!» «—e si sarà terribilmente impressionato e agitato, là dentro, senza di noi, e però ci avete chiesto di uscire, perché se non l’aveste—» «L’avevo solo visto giocare. Sul campo è fantastico. Forse un genio. Non avevamo idea. Il fratello è nella stramaledetta Nfl, per Dio. Abbiamo pensato, ecco un giocatore di prima classe, con radici del Sudovest. Le sue statistiche erano fuori da ogni standard. L’abbiamo osservato per tutto il WhataBurger lo scorso autunno. Nessun dimenio, nessun suono. Un collega disse che era come vedere danzare un grande ballerino». «Per la miseria se era un balletto quello che guardavate là fuori, White. Questo ragazzo si muove come un ballerino classico, è un vero giocatore». «Allora è una specie di athlète savant. Dev’essere una sorta di compensazione coreutica di gravi problemi che lei, signore, sceglie di mascherare imbavagliando il ragazzo». Un paio di costose espadrilles brasiliane passa sulla sinistra ed entra in uno scanno, poi le espadrilles fanno il giro e si fermano di fronte a me. Sento lo sgocciolio del pisciatoio dietro le piccole eco delle voci. «—forse è meglio andarsene», sta dicendo C.T. «L’integrità del mio sonno è compromessa per sempre, signore». «—pensato di poter intrufolare qui un candidato con dei danni cerebrali, fabbricargli le credenziali, fargli passare un colloquio pilotato e lanciarlo nei rigori della vita universitaria?» «Il nostro Hal funziona, coglioni. Sempre che si trovi in un clima favorevole. Sta bene da solo. Sí, ha qualche problema di eccitabilità nella conversazione. L’avete mai sentito mentre lo negava?» «Signore, là dentro siamo stati testimoni di qualcosa che potrebbe definirsi solo marginalmente mammifero». «Proprio cosí. Dategli un’occhiata. Aubrey, come ti sembra che stia il tuo ragazzino eccitabile?» «Lei, signore, è un uomo malato. Questa storia non finisce qui». «Quale ambulanza? Ma allora non mi state ad ascoltare? Vi sto dicendo che c’è—» «Hal? Hal?» «Lo droga, cerca di non fargli mai aprire bocca, e ora lui è lí sdraiato, catatonico, con lo sguardo fisso». Lo scrocchio delle ginocchia di deLint. «Hal?» «—gonfiare questa cosa pubblicamente e travisarla in qualsiasi modo. L’Accademia ha ex allievi illustri, avvocati validissimi. Hal qui ha una competenza dimostrabile. Credenziali da lasciare a bocca aperta, Bill. Il ragazzo legge come un aspirapolvere. Digerisce le cose». Io me ne sto semplicemente là disteso, annuso i fazzoletti di carta, guardo un’espadrille che piroetta. «Può darsi che vi giunga nuova, ma nella vita c’è di piú che starsene seduti a stabilire contatti». E come si fa a non amare lo speciale ruggito leonino di un gabinetto pubblico? Non per niente Orin diceva che quaggiú la gente non fa altro che muoversi in branco da un posto con l’aria condizionata all’altro. Il sole è un martello. Sento che un lato della mia faccia sta cominciando a cuocere. Il cielo blu è lucido e gonfio di caldo, pochi cirri sottili sfumano in ciocche vaporose. Il traffico non ha niente a che vedere con quello di Boston. La barella è del tipo speciale, con le cinghie. Lo stesso Aubrey deLint, che per anni avevo considerato una specie di mediocre soldataccio, si è inginocchiato accanto alla barella a tenermi la mano legata e mi ha detto: «Sta’lí tranquillo, campione», prima di tornare nella mischia con gli amministrativi agli sportelli dell’ambulanza. È un’ambulanza speciale, e preferisco non sapere da dove sia stata mandata. A bordo, oltre ai paramedici, c’è anche una qualche specie di psichiatra. Gli assistenti mi sollevano con gentilezza e si vede che hanno familiarità con le cinghie. Il Dottore, la schiena appoggiata alla fiancata dell’ambulanza, gesticola pacatamente cercando di mediare tra i Decani e C.T., che continua a dare pugnalate verso il cielo con l’antenna del cellulare, ed è oltraggiato dal fatto che, senza alcuna ragione, io venga portato in ambulanza in qualche pronto soccorso, contro la mia volontà e i miei interessi. Viene dibattuta su due piedi la questione se le persone con danni cerebrali ce li abbiano o no una volontà e degli interessi, mentre una specie di caccia supersonico troppo in alto per essere udito affetta il cielo da sud a nord. Il Dottore alza le mani con calma e fa segno a tutti di quietarsi. Ha una grande mascella blu. All’unico altro pronto soccorso nel quale sono stato portato, quasi un anno fa, la lettiga psichiatrica era stata parcheggiata accanto alle sedie della sala d’attesa. Queste sedie erano di plastica arancione; tre erano occupate da persone che tenevano in mano dei flaconi di medicinali vuoti e sudavano abbondantemente. E già questo non era molto incoraggiante, ma seduta sull’ultima sedia in fondo, proprio accanto alla mia testa assicurata con le cinghie alla lettiga, c’era una donna in maglietta con la pelle legnosa e un berretto da camionista che aveva cominciato a raccontare, a me steso e legato e immobile, che durante la notte si era ritrovata con un repentino e anomalo gigantismo al seno destro, che chiamava tettina; aveva un accento del Québec quasi parodistico, e prima che mi portassero via mi aveva descritto per venti minuti buoni l’anamnesi e le possibili diagnosi della «tettina». Il movimento e la scia del jet ricordano un’incisione, come se dietro il blu del cielo ci fosse una carne bianca e continuasse ad allargarsi nel solco della lama. Una volta ho visto la parola knife scritta col dito sullo specchio appannato di un bagno non pubblico. Sono diventato un infantofilo. Sono costretto a ruotare in alto o di lato gli occhi chiusi per evitare che la cavità rossa si infiammi per via della luce del sole. Il traffico in costante movimento sulla strada sembra dire «Silenzio, silenzio, silenzio». Quando il sole mi colpisce gli occhi vedo le macchie blu e rosse di quando si guarda una lampadina. «Perché no? Perché no? Perché non no, allora, se tutto ciò che riesce a dire è perché no?» È la voce di C.T. che viene meno per l’indignazione. Ora riesco solo a vedere le magistrali stilettate della sua antenna, al limite destro del mio campo visivo. Mi porteranno in una stanza di un pronto soccorso e mi ci terranno finché non risponderò alle domande, poi, quando avrò risposto alle domande, verrò sedato; quindi sarà il contrario del viaggio standard ambulanza-pronto soccorso: stavolta prima farò il viaggio poi perderò conoscenza. Penso brevemente al defunto Cosgrove Watt. Penso al Terapeuta del Dolore ipofalangiale. Penso alla Mami che mette in ordine alfabetico le minestre in scatola nell’armadietto sopra il microonde. All’ombrello di Lui in Persona, appeso per il manico al bordo della scrivania nell’ingresso della Casa del Preside. La caviglia malandata non mi ha fatto male neanche una volta quest’anno. Rivedo John N.R. Wayne –che avrebbe vinto il WhataBurger di quest’anno –fare il palo, mascherato, mentre Donald Gately e io dissotterriamo la testa di mio padre. Non c’è dubbio che Wayne avrebbe vinto. E Venus Williams ha un ranch nella Green Valley; potrebbe benissimo venire a vedere le finali Under 18 Maschili e Femminili. Ne uscirò fuori in tempo per le semi di domani; ho fiducia nello Zio Charles. Il vincitore di stasera sarà quasi certamente Dymphna, che ha già sedici anni ma li compie due settimane prima della data limite del 15 aprile; e Dymphna sarà ancora stanco domani alle 0830h, mentre io, sedato, avrò dormito come un sasso. È la prima volta che affronto Dymphna in torneo, e non ho mai giocato con le palle sonore per i ciechi, ma mi è bastato guardarlo lottare negli ottavi con Petropolis Kahn, e so che è mio. Comincerà nel pronto soccorso, al banco accettazioni se C.T. è in ritardo nel seguire l’ambulanza, o nella stanza con le mattonelle verdi che viene dopo quella con le macchine digitali invasive; oppure, visto che a bordo di quest’ambulanza c’è uno psichiatra, potrebbe perfino cominciare qui, durante il viaggio: il Dottore dalla mascella blu, pulito fino a raggiungere uno splendore antisettico, con il nome ricamato in corsivo sul taschino del camice bianco e una bella penna stilo, comincerà a fare domande al paziente in barella secondo il metodo socratico, con tanto di eziologia e diagnosi, con ordine e punto per punto. Secondo l’o.e.d. VI, esistono diciannove sinonimi non arcaici di insensibile, nove dei quali di origine latina e quattro sassone. La finale di domenica la giocherò contro Stice oppure Polep. Forse di fronte a Venus Williams. Però alla fine, inevitabilmente, sarà qualche addetto non specializzato –un aiuto infermiere con le unghie rosicchiate, una guardia della Sicurezza ospedaliera, un precario cubano stanco –che, mentre si affanna in qualche tipo di lavoro, guarderà in quello che gli parrà essere il mio occhio e mi chiederà: Allora, ragazzo, che ti è successo? ANNO DEL PANNOLONE PER ADULTI DEPEND Dov’era la donna che aveva detto che sarebbe venuta. Aveva detto che sarebbe venuta. Erdedy pensò che avrebbe dovuto essere già arrivata, a quell’ora. Si sedette a pensare. Era in salotto. Quando aveva cominciato ad aspettare una finestra era inondata di luce gialla e proiettava una chiazza di luce sul pavimento, ed era ancora seduto ad aspettare quando quella chiazza aveva iniziato a sbiadire e si era incrociata con una seconda chiazza, piú luminosa, che proveniva dalla finestra sull’altra parete. C’era un insetto su una delle mensole d’acciaio che reggevano l’impianto stereo. L’insetto continuava a entrare e uscire da uno dei buchi delle traverse che sostenevano le mensole. Era scuro e aveva un guscio lucente. Lui lo teneva d’occhio. Una o due volte fu sul punto di alzarsi per avvicinarsi e guardarlo, ma temeva che se si fosse avvicinato e l’avesse guardato da vicino gli sarebbe venuto da ammazzarlo, e aveva paura di ammazzarlo. Non poteva usare il telefono per chiamare la donna che aveva promesso di venire perché non voleva occupare la linea proprio nel momento in cui lei provava a chiamarlo, e aveva paura che a trovare il numero occupato lei si sarebbe arrabbiata e avrebbe pensato che lui non fosse interessato e forse avrebbe portato a qualcun altro quello che aveva promesso a lui. Aveva promesso di procurargli un quinto di chilogrammo di marijuana, duecento grammi di marijuana particolarmente buona per 1250 $ Us. Aveva già provato settanta o ottanta volte a smettere di fumare marijuana. Prima di conoscere questa donna. Lei non sapeva che lui aveva provato a smettere. Era sempre riuscito ad arrivare a una settimana, o due settimane, o forse due giorni, poi ci aveva pensato e aveva deciso di fumarsene un po’a casa per l’ultima volta. Per questa ultimissima volta aveva bisogno di uno spacciatore nuovo, uno al quale non avesse già detto che doveva necessariamente smettere di fumare e mai piú per nessuna ragione, per favore, doveva trovargli la roba. Doveva essere uno nuovo, perché aveva detto a tutti gli spacciatori che conosceva di lasciarlo fuori dal giro. Doveva essere qualcuno di assolutamente nuovo, perché ogni volta che comprava la roba da qualcuno sapeva che quella doveva essere l’ultima volta, e cosí chiedeva un favore personale allo spacciatore, lo pregava di non trovargliela mai, mai piú. E dopo che aveva parlato cosí a qualcuno, non poteva tornare a chiedergliela, perché era un tipo orgoglioso, e anche gentile, e non voleva mettere nessuno in quel tipo di situazione contraddittoria. Poi, quando si trattava di roba, lui si vedeva come un tipo cupo, che dava i brividi, e temeva che anche gli altri lo vedessero in quel modo. Si mise a sedere e pensare e aspettare in mezzo alla x irregolare fatta dalla luce che veniva dalle due finestre. Una o due volte guardò il telefono. L’insetto era nuovamente scomparso nel buco della traversa che reggeva la mensola. Lei aveva promesso di venire a una certa ora e quell’ora era passata. Alla fine lui cedette e la chiamò senza la funzione video. Lasciò suonare parecchie volte, preoccupato di tutto quel tempo in cui la sua linea era occupata, finché non rispose la segreteria, un accenno ironico di musica pop, poi la voce di lei e una maschile che insieme dicevano vi richiameremo, e quel «noi» li faceva sembrare una coppia, l’uomo era un bel ragazzo nero che faceva Giurisprudenza, lei era scenografa, e lui non lasciò nessun messaggio perché non voleva che lei capisse quanto aveva bisogno della roba, lui, ora. All’inizio, quando lei aveva detto di conoscere un tizio di Allston che aveva un mucchio di roba bella resinosa, lui aveva fatto un po’il sostenuto, aveva sbadigliato e aveva detto, mah, forse, ehm, perché no, ma sí, per un’occasione speciale, non ne compro un po’da non so quanto tempo. Lei aveva detto che questo tizio di Allston viveva in una roulotte e aveva il labbro leporino e teneva dei serpenti e non aveva telefono, e insomma non era esattamente un gran bel ragazzo, ma vendeva spesso la roba alla gente di teatro di Cambridge e aveva un bel seguito di aficionado. Lui aveva detto che, da quanto tempo era passato, non si ricordava nemmeno piú l’ultima volta che l’aveva comprata. Disse che forse gliene avrebbe chiesta un discreto mucchietto, perché pochi giorni prima degli amici l’avevano chiamato per chiedergli se ne aveva un po’. Lo faceva spesso di dire che cercava la droga piú che altro per darla ai suoi amici. Cosí, se la donna poi non riusciva a trovarla anche se aveva detto che gliel’avrebbe trovata e lui diventava ansioso, poteva sempre dire alla donna che erano i suoi amici che stavano diventando ansiosi, e gli dispiaceva seccare la donna per una cosa cosí, ma i suoi amici erano in ansia e stavano cominciando a seccarlo per quella cosa, e insomma lui voleva solo sapere che cosa doveva dirgli. Avrebbe detto che si trovava tra l’incudine e il martello. Poteva dire che i suoi amici gli avevano dato i soldi e adesso erano ansiosi e lo pressavano da vicino, gli telefonavano, protestavano. Però questa tattica non era possibile con questa donna che aveva detto che sarebbe arrivata con la roba, perché lui non le aveva ancora dato i 1250 $. Lei non aveva voluto. Era ricca. La sua famiglia era ricca, aveva detto lei per spiegare come mai abitasse in un condominio cosí carino quando per lavoro disegnava scenari cupi e sudici per una compagnia teatrale di Cambridge che sembrava mettesse in scena solo pièce tedesche. Dei soldi non le importava un granché, aveva detto che avrebbe pagato lei quando sarebbe andata ad Allston Spur per vedere se il tizio era in casa, insomma nella roulotte, e lei era certa che oggi l’avrebbe trovato, lui le avrebbe reso i soldi poi, quando lei gli avrebbe portato la roba. Questo accordarsi cosí alla leggera l’aveva subito reso ansioso, e cosí era stato ancora piú sostenuto e aveva detto, certo, d’accordo, va bene comunque. Ripensando a quel momento, era sicuro di aver detto comunque, il che in retrospettiva lo preoccupava perché poteva aver dato l’idea che non gliene fregasse proprio nulla, neanche un po’o cosí poco che non avrebbe avuto importanza se lei si fosse dimenticata di portargli la roba o di chiamare, mentre una volta che lui aveva deciso di farsi ancora di marijuana a casa sua, importava eccome. Importava eccome. Era stato troppo sostenuto con la donna, avrebbe dovuto farle prendere subito i 1250 $, dirle che era per un minimo di cortesia, dirle che non voleva scomodarla finanziariamente per una cosa cosí banale. Il denaro crea un senso di obbligazione, e lui avrebbe dovuto far sentire obbligata la donna a fare ciò che aveva detto, una volta che si era cosí invogliato all’idea che lei facesse davvero quello che aveva detto. Ora che lui ci aveva fatto la bocca, questa storia importava cosí tanto che aveva quasi paura di far vedere quanto. Una volta che le aveva chiesto di prendergli la roba, si era impegnato a seguire diverse linee d’azione. L’insetto sulla mensola era tornato. Sembrava non facesse nulla. Era semplicemente uscito dal buco nella traversa e, raggiunto il bordo della mensola di metallo, si era fermato là. Dopo un po’sarebbe scomparso di nuovo nel buco della traversa, ed era quasi certo che non facesse nulla neppure là dentro. Si sentiva simile all’insetto dentro la traversa che reggeva la mensola, ma non sapeva con certezza perché. Appena aveva deciso di prendere la marijuana per un’altra ultima volta, si era impegnato a seguire diverse linee d’azione. Si era collegato via modem con l’agenzia per dire che c’era un’emergenza e stava inviando un’e-note al terminale di una collega per chiederle di prendere le sue chiamate per il resto della settimana dal momento che lui sarebbe stato irreperibile per diversi giorni a causa di quest’emergenza. Aveva registrato un messaggio audio sulla sua segreteria telefonica che diceva che a partire da quel pomeriggio sarebbe stato irreperibile per diversi giorni. Aveva pulito la camera da letto perché una volta avuta in mano la roba non sarebbe piú uscito dalla camera se non per andare al frigorifero e in bagno, e anche allora gli spostamenti sarebbero stati molto rapidi. Aveva dovuto buttare via tutta la birra e gli alcolici, perché se avesse bevuto alcolici mentre fumava la roba si sarebbe sentito male, ma se aveva alcolici in casa non poteva essere certo di non berne appena cominciato a fumare. Aveva dovuto comprare un po’di cose. Aveva dovuto comprare delle cose da mangiare. Ora una sola antenna dell’insetto sporgeva dal buco nella traversa. Sporgeva, ma non si muoveva. Aveva dovuto comprare dell’acqua brillante, biscotti Oreo, pane, carne macinata da hamburger, maionese, pomodori, M& M, biscotti Almost Home, gelato, una torta gelata al cioccolato Pepperidge Farm e quattro barattoli di crema di cioccolato che avrebbe mangiato a cucchiaiate. Aveva dovuto ordinare una cartuccia film a noleggio all’InterLace Entertainment. Aveva dovuto comprare dell’antiacido per il mal di stomaco che gli sarebbe venuto nel bel mezzo della notte per via della roba che avrebbe mangiato. Aveva dovuto comprare un nuovo bong, perché ogni volta che finiva quella che avrebbe dovuto essere la sua ultima botta di marijuana, decideva che era tutto finito, chiuso, non gli piaceva neppure piú, stop, basta nascondersi, basta scaricare le sue cose sui colleghi e cambiare messaggio sulla segreteria e parcheggiare la macchina lontano dal condominio e chiudere finestre e tende e scuri e vivere in rapidi vettori tra i film del teleputer InterLace in camera da letto e il frigo e il gabinetto, e perciò prendeva il bong che aveva appena usato e lo buttava via avvolto in diverse buste di plastica perché non si vedesse cos’era. Il suo frigorifero faceva il ghiaccio in piccoli blocchi opachi a forma di mezzaluna, e lui li adorava; quando fumava la roba in casa beveva sempre tantissima acqua brillante allungata con acqua ghiacciata. Quasi se la sentiva in bocca. Guardò il telefono e l’orologio. Guardò le finestre ma non il fogliame e la strada appena asfaltata al di là delle finestre. Aveva già passato l’aspirapolvere sulle veneziane e sulle tende, tutto era pronto per essere chiuso. Una volta arrivata la donna che aveva detto che sarebbe venuta, avrebbe spento l’intero sistema. Gli venne in mente che sarebbe scomparso in un buco in una traversa dentro di sé che reggeva qualcos’altro dentro di sé. Non era certo di cosa fosse quella cosa dentro di sé e non era pronto per impegnarsi a seguire la linea d’azione che sarebbe stata necessaria a sviscerare la questione. Ormai erano passate quasi tre ore dall’ora in cui la donna aveva detto che sarebbe venuta. Durante il programma di recupero cui si era sottoposto due anni prima, un assistente, Randi, con la i, baffi da ranger canadese a cavallo, gli aveva detto che lui non sembrava sufficientemente impegnato a seguire la linea d’azione necessaria a eliminare le sostanze dal suo stile di vita. Aveva dovuto comprare un nuovo bong da Bogart in Porter Square, a Cambridge, perché ogni volta che finiva la roba buttava sempre via tutto, pipe e bong, filtri e tubi e cartine da rollare e pinzette, accendini e Visine e Pepto-Bismol e biscotti e crema di cioccolato per eliminare ogni futura tentazione. Dopo aver buttato via quella roba si sentiva sempre risoluto e ottimista. Aveva comprato la mattina il nuovo bong e le provviste, ed era tornato a casa ben prima dell’ora in cui la donna aveva detto che sarebbe venuta. Pensò al nuovo bong e al pacchetto nuovo di filtri d’ottone rotondi nella busta di Bogart sul suo tavolo di cucina, nella cucina illuminata dal sole, e non riuscí a ricordarsi di che colore fosse il nuovo bong. L’ultimo era stato arancione, quello prima di un rosa scuro che in soli quattro giorni aveva preso una sfumatura fangosa sul fondo per via della resina. Non riusciva a ricordarsi il colore di quest’ultimo, definitivo bong. Pensò di alzarsi per andare a controllare il colore del bong che avrebbe usato, ma decise che l’ossessione di controllare tutto e i movimenti convulsi potevano compromettere l’atmosfera di calma casuale che aveva bisogno di mantenere mentre, sporgendosi senza muoversi, aspettava la donna che aveva incontrato a una sessione di design per la piccola campagna pubblicitaria che la sua agenzia aveva fatto per il nuovo festival Wedekind della compagnia teatrale di lei, mentre aspettava questa donna, con la quale per due volte aveva avuto rapporti sessuali, per onorare la sua promessa casuale. Cercò di decidere se la donna fosse carina o no. Un’altra cosa che comprava se decideva di prendersi una vacanza alla marijuana era la vaselina. Quando fumava marijuana si masturbava tantissimo, ci fossero o no possibilità di rapporto, e quando fumava preferiva masturbarsi che scopare, e la vaselina serviva a non farselo diventare molle e dolorante appena tornava alla normalità. Esitava ad alzarsi per controllare il colore del bong anche perché per arrivare in cucina avrebbe dovuto passare proprio davanti al telefono, e non voleva sentirsi tentato di chiamare nuovamente la donna che aveva detto che sarebbe venuta perché non gli andava di seccarla riguardo a una cosa che le aveva spacciato come del tutto casuale, e aveva paura che a lei scocciasse trovare in segreteria tanti messaggi fatti solo del rumore di quando si riattacca, e inoltre si sentiva ansioso al pensiero che avrebbe potuto occupare la linea proprio nel momento in cui, metti caso, lei telefonava, come di certo avrebbe fatto. Decise che si sarebbe fatto mettere l’Attesa di Chiamata, aveva un costo praticamente simbolico, poi ricordò che, essendo questa indiscutibilmente l’ultima volta in cui avrebbe voluto o perfino potuto lasciarsi andare a quella che Randi, con la i, aveva definito una dipendenza in tutto e per tutto rapace quanto l’alcolismo, non ci sarebbe stato nessun bisogno dell’Attesa di Chiamata, poiché una situazione come quella attuale non si sarebbe mai piú ripresentata. Questa linea di pensiero lo fece quasi arrabbiare. Per salvaguardare la compostezza con la quale stava seduto ad aspettare sulla sua sedia, nella luce, concentrò ogni senso su ciò che lo circondava. Ora dell’insetto non era in vista nessuna parte. Il ticchettio dell’orologio portatile era in realtà composto di tre miniticchettii che lui supponeva stessero per preparazione, movimento e riposizionamento. Cominciò a provare disgusto per se stesso, lí fermo ad aspettare con tanta ansia l’arrivo promesso di qualcosa che comunque ormai non era piú divertente. Non sapeva neppure piú perché gli piaceva. La bocca gli si disidratava, e anche gli occhi che poi gli diventavano rossi, e la faccia gli si afflosciava e lui non sopportava che gli si afflosciasse la faccia, era come se l’integrità dei muscoli del suo volto venisse erosa dalla marijuana, e lui sapeva benissimo che la faccia gli si stava afflosciando, e tanto tempo fa si era proibito di fumare roba in presenza di altri. Non sapeva neppure piú che cosa fosse ad attrarlo. Da quanto la cosa lo imbarazzava, se il giorno prima aveva fumato, quando ritornava al lavoro non sopportava di avere gente intorno. E la roba spesso gli faceva venire una dolorosa pleurite se la fumava per due giorni interi, senza smettere mai, di fronte al visore InterLace della camera da letto. Gli faceva schizzare i pensieri all’impazzata in direzioni strane e lo lasciava a fissare rapito le cartucce di intrattenimento come un bambino rincitrullito –quando metteva da parte le cartucce film per una vacanza con la marijuana preferiva quelle in cui un sacco di cose esplodevano e cozzavano l’una nell’altra, e uno specialista di fatti spiacevoli come Randi avrebbe subito sottolineato come ciò avesse delle implicazioni non buone. Si slacciò pian piano la cravatta mentre chiamava a raccolta intelletto, volontà, autocoscienza e decisione, e stabilí che quando quest’ultima donna fosse arrivata, come certamente avrebbe fatto, sarebbe stata né piú né meno la sua ultimissima crapula di marijuana. Ne avrebbe fumata cosí tanta in cosí poco tempo da disgustarsi e rimanere con un ricordo talmente repellente che, dopo averla consumata il piú rapidamente possibile e dunque averla bandita dalla sua casa e dalla sua vita, non avrebbe mai piú voluto farsela. Si sarebbe messo d’impegno per associare una serie di brutture terribili al ricordo della roba. La droga lo spaventava. Gli metteva paura. Non che avesse paura della roba, era che fumarla gli faceva temere tutto il resto. Da un mucchio di tempo aveva smesso di essere una liberazione o un sollievo o un divertimento. Quest’ultima volta avrebbe fumato tutti i duecento grammi –centoventi grammi puliti, tolti i gambi delle foglie –in quattro giorni, piú di un’oncia al giorno in un’unica, fortissima, continua dose, con un ottimo bong vergine, una quantità giornaliera folle, incredibile, ne avrebbe fatto una missione, l’avrebbe considerata una punizione e allo stesso tempo un regime di modifica del comportamento, si sarebbe fumato ogni giorno trenta grammi puri, cominciando dal momento in cui si svegliava e usava l’acqua ghiacciata per staccarsi la lingua dal palato e prendeva un antiacido –facendo in media duecento o trecento tirate al giorno, una quantità folle e deliberatamente spiacevole, e lui ne avrebbe fatto una missione di fumarla di continuo anche se, nel caso in cui la marijuana fosse buona come diceva la donna, avrebbe fatto cinque tirate e poi non avrebbe piú avuto voglia di farsene un’altra per almeno un’ora. Ma lui si sarebbe costretto a farlo comunque. L’avrebbe fumata tutta anche se non ne avesse avuto voglia. Anche se avesse cominciato a fargli girare la testa e a farlo star male. Avrebbe usato disciplina e tenacia e volontà e avrebbe reso l’intera esperienza cosí spiacevole, cosí degradata e perversa e spiacevole, che il suo comportamento ne sarebbe risultato da lí in poi cambiato per sempre, non avrebbe mai piú voluto rifarlo perché il ricordo dei quattro giorni di follia a venire sarebbe stato fermamente e terribilmente incastonato nella sua memoria. Si sarebbe curato con l’eccesso. Si aspettava che la donna, quando sarebbe venuta, avrebbe voluto fumare un po’dei duecento grammi con lui, chiacchierare, rintanarsi, ascoltare qualcosa dalla sua notevole collezione di dischi di Tito Puente e probabilmente fare sesso. Mai, neppure una volta, aveva avuto un vero e proprio rapporto sessuale sotto marijuana. Francamente, l’idea lo disgustava. Due bocche riarse che sbattono l’una contro l’altra cercando di baciarsi. I pensieri imbarazzati che si avvolgono su se stessi come un serpente su un bastone mentre lui si inarca e sbuffa a gola secca sopra di lei, con gli occhi rossi e gonfi e la faccia afflosciata, e le sue guance pendule magari toccano, a singhiozzo, le guance pendule della faccia di lei, anche lei afflosciata, che sbatacchia avanti e indietro sul cuscino mentre la sua bocca lavora a secco. Il pensiero era ributtante. Decise che l’avrebbe fatta fermare sulla porta e di lí si sarebbe fatto lanciare quello che lei aveva promesso di portare, poi lui le avrebbe lanciato i 1250 $ in biglietti di grosso taglio e le avrebbe detto di stare attenta a non farsi colpire il culo dalla porta mentre usciva. Avrebbe detto culo invece di sedere. Sarebbe stato cosí maleducato e sgradevole che il ricordo della sua mancanza di una minima decenza e quello del volto teso e offeso di lei sarebbero stati degli ulteriori futuri disincentivi a richiamarla e ripetere la linea di azione alla quale si era ora impegnato. Non era mai stato cosí ansioso per l’arrivo di una donna che non voleva vedere. Ricordava chiaramente l’ultima donna che aveva coinvolto nel suo tentativo di un’ultima vacanza con la roba e gli scuri chiusi. L’ultima donna era stata un’artista d’appropriazione, il che sembra voler dire che copiava l’arte degli altri e la vendeva in una prestigiosa galleria di Marlborough Street. Il suo manifesto artistico parlava di tematiche radical-femministe. Aveva lasciato che lei gli desse uno dei suoi dipinti piú piccoli –copriva comunque metà della parete sopra il suo letto e mostrava una famosa attrice di cinema, di cui non riusciva mai a ricordare il nome, e un attore meno famoso intrecciati nella scena di un vecchio film molto conosciuto, una scena romantica, un abbraccio copiato da un manuale di storia del cinema, molto ingrandito e rilavorato, pieno di oscenità scarabocchiate qui e là in rosso vivo. L’ultima donna era stata sexy ma non carina, cosí come la donna che ora non voleva vedere ma aspettava con ansia era carina in quel modo appassito e sciupato à la Cambridge che la faceva sembrare carina ma non sexy. L’artista d’appropriazione era stata indotta a credere che lui fosse un ex anfetaminomane, lui ricorda di averla definita dipendenza intravenosa da cloridrato di metanfetamina1, aveva perfino descritto l’orribile gusto di cloridrato che si spande nella bocca del tossico subito dopo l’iniezione, aveva fatto ricerche approfondite sull’argomento. Era stata inoltre indotta a credere che la marijuana lo trattenesse dal fare uso della droga con la quale aveva il vero problema, e perciò se sembrava ansioso di averne un po’dopo che lei si era offerta di trovargliela era solo perché stava eroicamente resistendo al bisogno di una droga molto piú oscura, profonda e terribile, e aveva necessità che lei lo aiutasse. Non riusciva bene a ricordare quando e come le fossero state date tutte queste impressioni. Non lo aveva  fatto apposta, a mentirle in quel modo, era stata piú un’impressione che lui aveva trasmesso e coltivato e aiutato a prendere vita e forza proprie. Ora l’insetto era completamente visibile. Era sulla mensola che reggeva l’equalizzatore digitale. L’insetto poteva anche non essersi mai ritirato fino in fondo dentro il buco nella traversa della mensola. Quello che pareva un riemergere poteva essere stato in realtà un modificarsi della sua attenzione o l’effetto della luce dalle due finestre o il contesto visivo della stanza. La traversa sporgeva dal muro ed era un triangolo di acciaio bombato con dei fori per fissarci i ripiani. Le mensole metalliche che sostenevano l’impianto stereo erano pitturate di color verde industriale e in origine dovevano reggere cibi in scatola. Erano disegnate per essere mensole di cucina. L’insetto stava nel suo guscio lucente con un’immobilità che sembrava essere il raccoglimento di una forza, era come la carrozzeria di un veicolo dal quale fosse stato temporaneamente rimosso il motore. Era scuro e aveva un guscio lucente e antenne che sporgevano ma non si muovevano. Doveva usare il bagno. Il suo ultimo contatto con l’artista d’appropriazione –con la quale aveva fatto sesso e lei durante il rapporto aveva spruzzato un qualche profumo nell’aria da un nebulizzatore che teneva nella mano sinistra mentre stava sotto di lui producendo un’ampia gamma di suoni e spruzzando profumo nell’aria, sicché lui aveva sentito una nebbiolina fredda posarglisi sulla schiena e sulle spalle e questa cosa lo aveva gelato e disgustato –il suo ultimo contatto dopo che si era rintanato con la marijuana che lei gli aveva procurato era stato un biglietto che lei gli aveva spedito, un pastiche fotografico di uno zerbino d’erba di plasticaccia verde con su scritto WELCOME e una sfacciata foto pubblicitaria dell’artista d’appropriazione tratta dalla sua galleria nella Back Bay, e tra di loro un segno simmetrico, o meglio un segno simmetrico attraversato in diagonale da una barra, e anche un’oscenità, che aveva ritenuto fosse indirizzata a lui, scritta in pastello rosso in maiuscolo lungo il fondo, con punti esclamativi multipli. Lei si era offesa perché si erano visti ogni giorno per dieci giorni e poi, quando finalmente lei gli aveva procurato cinquanta grammi di supermarijuana idroponica, lui aveva detto che gli aveva salvato la vita e gliene era grato e gli amici ai quali aveva promesso di trovarne un po’le erano grati, e adesso però lei doveva andare immediatamente perché lui aveva un appuntamento e doveva scappare, ma l’avrebbe chiamata piú tardi quel giorno stesso, di sicuro, si erano scambiati un bacio umidiccio e lei aveva detto che gli sentiva battere il cuore attraverso la giacca e se n’era andata con la sua macchina arrugginita e lui era andato a parcheggiare la macchina in un garage sotterraneo parecchi isolati piú in là, ed era tornato indietro di corsa, e aveva chiuso scuri e tende già pulite, e aveva cambiato il messaggio audio della segreteria telefonica blaterando di una improvvisa partenza dalla città per via di un’emergenza, aveva chiuso gli scuri in camera da letto, aveva preso il nuovo bong rosa dalla busta di Bogart e non si era fatto vedere per tre giorni, ignorando piú di due dozzine di messaggi audio e protocolli e e-mail piene di preoccupazione per l’emergenza nel suo messaggio, poi, poi non l’aveva mai piú chiamata. Aveva sperato che lei pensasse a una sua nuova caduta nel cloridrato di metanfetamina e che lui non volesse farla assistere all’agonia della sua discesa nell’inferno della dipendenza chimica. In realtà lui aveva nuovamente deciso che quei cinquanta grammi di roba zeppa di resina, cosí potente da fargli venire al secondo giorno un attacco d’ansia tanto paralizzante da farlo evacuare in un boccale di ceramica della Tufts University pur di non dover lasciare la camera da letto, rappresentavano la sua ultimissima orgia di droga, e doveva tagliare i ponti con ogni possibile futura fonte di tentazione e approvvigionamento, e fra queste andava indubbiamente inclusa l’artista d’appropriazione che, ricordava bene, era arrivata con la roba esattamente all’ora promessa. Dalla strada gli giunse il rumore di un cassonetto dei rifiuti che veniva svuotato in un enorme camion-chiatta della Ewd. La vergogna che provava per ciò che lei avrebbe potuto percepire come una condotta viscidamente fallocentrica nei suoi confronti gli rendeva però piú facile evitarla. Anche se non era proprio vergogna, per la verità. Era piú un sentirsi a disagio. Per mandar via l’odore del profumo aveva dovuto far lavare e stirare due volte coperte e lenzuola. Entrò nel bagno con l’intenzione di usarlo, deciso a non guardare né l’insetto visibile sul ripiano sulla sinistra né la consolle telefonica sulla workstation laccata sulla destra. Aveva preso l’impegno di non toccare nessuna delle due cose. Dov’era la donna che aveva detto che sarebbe venuta? Il nuovo bong nella busta di Bogart era arancione, il che voleva dire che forse si era ricordato male e il bong precedente non era arancione. Questo era di un arancione autunnale carico che si schiariva fino a un arancione piú tipo agrume quando veniva messo contro la luce del tardo pomeriggio che giungeva dalla finestra sopra il lavandino di cucina. Il metallo dello stelo e della coppa era semplice acciaio inossidabile, granuloso, non rifinito, tutto funzionalità. Il bong era alto mezzo metro e aveva una base zavorrata rivestita di finta pelle scamosciata. La plastica arancione era spessa e il tubo sul lato opposto allo stelo era stato tagliato male, per cui dal piccolo foro sporgevano filamenti irregolari di plastica che potevano fargli male al pollice mentre fumava, il che decise di considerare parte della penitenza alla quale si sarebbe sottoposto dopo che la donna fosse venuta e andata via. Lasciò la porta del bagno aperta per essere sicuro di sentire il telefono quando avesse suonato, o il campanello della porta d’ingresso del suo stabile condominiale quando avesse suonato. Nel bagno la gola gli si chiuse improvvisamente e pianse forte per due o tre secondi prima che il pianto cessasse di colpo e lui non riuscisse piú a farlo ricominciare. Adesso erano passate piú di quattro ore da quando la donna si era casualmente impegnata a venire. Dov’era quando aveva cominciato ad aspettare, in bagno o sulla sedia accanto alla finestra e vicino alla consolle telefonica e all’insetto e alla finestra che aveva lasciato entrare una sbarra perfettamente rettangolare di luce. La luce attraverso questa finestra stava entrando con un angolo sempre piú obliquo. L’ombra era diventata un parallelogramma. La luce che veniva dalla finestra a sudovest era diritta e sempre piú rossa. Aveva pensato di aver bisogno di usare il bagno ma non ci riusciva. Provò a infilare un’intera pila di cartucce film nel caricatore del lettore disc poi ad accendere l’enorme teleputer in camera da letto. Poteva vedere l’opera d’arte d’appropriazione nello specchio sopra il Tp. Abbassò il volume al minimo e puntò il telecomando al Tp come fosse un’arma. Si sedette sul bordo del letto con i gomiti sulle ginocchia ed esaminò la pila di cartucce. Ogni cartuccia nel caricatore cadeva a comando e andava a occupare il drive con un clic e un fruscio da insetto, e lui guardava cosa conteneva. Ma non poté distrarsi con il Tp perché non riusciva a sopportare nessuna delle cartucce d’intrattenimento per piú di pochi secondi. Nel momento in cui riconosceva quello che c’era su una cartuccia provava la sensazione carica d’ansia che ci fosse qualcosa di meglio su un’altra cartuccia e che potenzialmente se lo stava perdendo. Poi si rese conto che avrebbe avuto tutto il tempo di godersi ogni cartuccia e capí intellettualmente che non aveva senso provare il panico di perdersi qualcosa. Il visore era appeso al muro, anche lui non piú grande di metà dell’oggetto d’arte femminista. Guardò cartucce per un po’. La consolle telefonica suonò durante questa fase di ansioso guarducchiare. Già alla fine del primo squillo era in piedi e si muoveva verso la consolle, pieno di eccitazione o forse sollievo, con il telecomando del Tp ancora in mano, ma era solo un amico e collega che lo aveva chiamato, e quando sentí che la voce non era quella della donna che aveva promesso di portare ciò che nei giorni successivi si era impegnato a bandire dalla propria vita per sempre quasi si sentí male per il disappunto, con tutta quell’adrenalina malriposta che gli si agitava in circolo, e per liberare la linea e lasciarla disponibile per la donna interruppe la comunicazione col collega tanto rapidamente che di certo quello dovette pensare che fosse o arrabbiato con lui o semplicemente un gran maleducato. Era anche piú irritato al pensiero che il suo rispondere al telefono cosí tardi nella giornata non quadrava con il messaggio d’emergenza che lo diceva irreperibile e che il collega avrebbe trovato sulla segreteria telefonica se l’avesse richiamato dopo che la donna fosse venuta e andata e lui avesse sigillato l’intero sistema della sua vita, e cosí rimase in piedi accanto alla consolle telefonica cercando di decidere se il rischio di una nuova chiamata del collega o di qualcun altro dall’agenzia fosse tale da giustificare un cambio del messaggio audio sulla segreteria telefonica con uno nuovo che informava di una partenza d’emergenza in serata anziché nel pomeriggio, ma decise che, poiché la donna si era senza dubbio impegnata a venire, lasciare il messaggio immutato sarebbe stato un gesto di fedeltà nei confronti del suo impegno e, in qualche contorto modo, avrebbe anche potuto rafforzare quell’impegno. Il camion-chiatta della Ewd stava svuotando cassonetti su e giú per tutta la via. Tornò alla sedia accanto alla finestra. In camera da letto il lettore disc e il visore del Tp erano ancora accesi e attraverso l’angolo della porta della camera poteva vedere le luci dello schermo ad alta definizione ammiccare e passare da un colore primario all’altro nella stanza buia, e per un po’cercò di ammazzare il tempo provando, senza guardare il visore, a immaginare quali scene d’intrattenimento potessero suggerire i cambi di colore e d’intensità. La sedia era rivolta alla stanza anziché alla finestra. Leggere mentre era in attesa della marijuana era fuori questione. Prese in considerazione l’idea di masturbarsi ma non lo fece. Piú che rifiutare l’idea non vi reagí e la lasciò scorrere via. Pensò per sommi capi ai desideri e alle idee che venivano pensate ma non attuate, pensò agli impulsi depredati d’espressione prosciugarsi e scorrere via, e su qualche piano sentí che questo aveva qualcosa a che fare con lui e le circostanze in cui si trovava e quello che –se quest’ultima estenuante perversione alla quale si era impegnato non avesse per qualche ragione risolto il problema –si sarebbe senz’altro dovuto chiamare il suo problema, ma non riuscí neppure a tentare di capire in che modo l’immagine degli impulsi essiccati che scorrevano via fosse connessa a lui o all’insetto, che si era ritirato nel suo buco nella traversa, perché in quel preciso momento il telefono e il citofono suonarono contemporaneamente, due suoni forti e strillati e cosí improvvisi che parevano esser stati cacciati con uno strattone attraverso un buco piccolissimo dentro la grande mongolfiera di silenzio colorato nella quale sedeva in attesa, e lui si mosse prima verso la consolle telefonica, poi verso il citofono, poi convulsamente verso il telefono che trillava, poi, alla fine, cercò chissà come di muoversi verso entrambi contemporaneamente, e rimase a gambe divaricate, le braccia protese al massimo come qualcosa che fosse stato lanciato, allargato, seppellito dai due suoni, senza un solo pensiero in testa. 1 APRILE –ANNO DEI CEROTTI MEDICATI TUCKS «Tutto quello che so è che il mio babbo ha detto di venire qui». «Entra pure. C’è una sedia subito  oalla tua sinistra». «E cosí sono qui». «Perfetto. Una Seven-Up? Forse della limonata?» «Direi di no, grazie. Sono qui, ecco tutto, e mi sto chiedendo perché il mio babbo mi ci abbia mandato, capisce. Sulla porta non c’è scritto niente e sono stato dal dentista proprio l’altra settimana, e quindi mi chiedo perché sono qui, ecco tutto. È per questo che ancora non mi siedo». «Hai quanti anni, Hal, quattordici?» «Ne avrò undici a giugno. Lei è un dentista? È una specie di consulto dentistico?» «Sei qui per conversare». «Conversare?» «Sí. Scusami un momento mentre digito questa correzione d’età. Tuo padre ti ha inserito come quattordicenne, per qualche ragione». «Conversare cioè con lei?» «Sei qui per conversare con me, Hal, sí. Sono sul punto di implorarti di prendere una limonata. La tua bocca fa quei suoni asciutti, appiccicosi, di quando si rimane senza saliva». «Il Dott. Zegarelli dice che una delle cause di tutte le mie carie è che ho una bassa emissione salivale». «Quei suoni asciutti, appiccicosi, privi di saliva che possono essere la morte di una buona conversazione». «Ma davvero ho fatto tutta quella strada in bicicletta controvento fin qui per conversare con lei? È previsto che la conversazione cominci con me che chiedo perché?» «Comincerò io, chiedendoti se conosci il significato di implorare, Hal». «Forse mi prenderò una Seven-Up, allora, se sta per implorarmi». «Ti chiedo di nuovo se conosci implorare, signorino». «Signorino?» «Porti il farfallino, dopotutto. Non ti pare un invito a farti chiamare signorino?» «Implorare è un verbo regolare, transitivo: invitare o chiedere, con suppliche; pregare qualcuno, o per qualcosa, ardentemente; invocare; scongiurare. Sinonimo debole: esortare. Sinonimo forte: supplicare. Etimologia non composta: dal latino implorare, im cioè “in”e plorare cioè, in questo contesto, “piangere sonoramente”. Oed. Condensato Volume Sei pagina 1387 colonna dodici e un pezzetto della tredici». «Dio mio, non ha esagerato, eh?» «A volte mi cazzottano ben bene all’Accademia, per delle cose tipo queste. Ha qualche relazione col perché sono qui il fatto che sono un giocatore di tennis juniores classificato a livello continentale che sa anche recitare grossi pezzi di dizionario, verbatim, a piacere, e ogni tanto viene cazzottato, e porta il farfallino? Lei è uno specialista per ragazzi dotati? Significa che pensano che sia dotato?» SPFFFT. «Ecco qui. Bevi». «Grazie. SHULGSHULGSPAHHH…Mmm. Ah». «Avevi sete». «Perciò se mi siedo lei mi dirà tutto?» «…conversazionalista professionista conosce le mucose, dopotutto». «Potrei dover fare un ruttino a momenti, per via della bevanda gasata. L’avverto in anticipo». «Hal, sei qui perché sono un conversazionalista professionista, e tuo padre ha fissato un appuntamento con me, per te, per conversare». «MYURP. Mi scusi». Tap tap tap tap. «SHULGSPAHHH». Tap tap tap tap. «Lei è un conversazionalista professionista?» «Sono, sí, come credo di aver appena affermato, un conversazionalista professionista». «Non cominci a guardare l’orologio come se le stessi portando via tempo prezioso. Se Lui in Persona ha fissato un appuntamento per il quale ha pagato, il tempo dovrebbe essere mio, giusto? Non suo. E comunque, che cosa dovrebbe significare “conversazionalista professionista”? Un conversazionalista è solo uno che conversa molto. Davvero lei chiede un compenso per conversare molto?» «Un conversazionalista è anche uno che, come sono certo ricorderai, “eccelle in conversazione”». «Questo è il Webster Settimo. Questo non è l’Oed». Tap tap. «Io mi fido solo dell’Oed, dottore. Ammesso che lei lo sia. È un dottore lei? Ha un dottorato? Ho notato che alla maggior parte delle persone piace appendere i loro diplomi, se li hanno. E il Webster Settimo non è neppure aggiornato. Il Webster Ottavo rettifica in “chi conversa con molto entusiasmo”». «Un’altra Seven-Up?» «Lui in Persona ha ancora quest’allucinazione che io non parlo mai? È per questo che istiga la Mami a farmi pedalare fin quassú? Lui in Persona è il mio babbo. Lo chiamiamo Lui in Persona. Come tra virgolette “l’Uomo in Persona”. Proprio cosí. Chiamiamo mia madre la Mami. Il termine è stato coniato da mio fratello. So che non è una cosa inconsueta. So che nella maggior parte delle famiglie piú o meno normali i membri si rivolgono l’uno all’altro per mezzo di nomignoli, appellativi e soprannomi. Non si faccia nemmeno venire in mente di chiedermi qual è il mio soprannome privato». Tap tap tap. «Ma Lui in Persona ha delle allucinazioni, a volte, negli ultimi tempi, bisogna che lei lo sappia, anche perché siamo partiti da lí. Mi chiedo perché la Mami permetta che lui mi mandi a pedalare controvento fin quassú in cima alla collina quando alle 1500h ho una partita importante solo per conversare con un entusiasta con la porta senza targhetta e nessun diploma in vista». «Se posso dire la mia, mi piace pensare che abbia a che vedere con me non meno che con te. Che la mia reputazione mi abbia preceduto». «Non è abitualmente una frase peggiorativa?» «Parlarmi è un divertimento. Io sono un professionista consumato. La gente lascia il mio studio con le convulsioni. Tu sei qui. È tempo di conversazione. Vogliamo discutere l’erotica bizantina?» «Come sapeva che sono interessato all’erotica bizantina?» «Sembra che tu continui a prendermi per uno che si limita ad appendere una targa con su scritto Conversazionalista, e per giunta una targa di fortuna, messa insieme con chewing-gum e spago. Pensi che non abbia uno staff di supporto? Ricercatori al mio servizio? Pensi che non scaviamo a tutta forza nella psiche di coloro con i quali abbiamo un appuntamento per conversare? Non pensi che questa prestigiosa società sia interessata a ottenere dati su ciò che informa e stimola coloro con i quali conversiamo?» «Conosco soltanto una persona che userebbe a tutta forza in una conversazione casuale». «Niente è casuale quando si ha a che fare con un conversazionalista professionista e il suo staff. Noi scaviamo. Noi otteniamo risultati, poi ancora risultati. Signorino». «Okay, alessandrina o costantinopolitana?» «Pensi che non abbiamo analizzato nel dettaglio le tue connessioni con l’attuale crisi interprovinciale nel Québec meridionale?» «Quale crisi interprovinciale nel Québec meridionale? Pensavo che volesse dialogare di mosaici piccanti». «Questo è un distretto importante di una metropoli nordamericana strategica, Hal. Qui gli standard sono di alto livello. Un conversazionalista professionista strenuamente, a tutta forza, scava. Puoi pensare anche solo per un momento che un operatore professionale nel mestiere della conversazione potrebbe mancare di condurre un’inchiesta meticolosa sui sordidi legami della tua famiglia con il famigerato M. DuPlessis della Resistenza pan-Canadese e con la sua malevola ma a quanto pare irresistibile amanuense/ lavorante Luria P.——?» «Ascolti, si sente bene?» «E tu?» «Ho dieci anni, per la miseria. Mi sa che forse c’è un po’di casino nella sua agenda di appuntamenti. Io sono il dodicenne prodigio tennistico e lessicale la cui mamma è la punta di diamante a livello continentale nel mondo accademico della grammatica prescrittiva, e il cui babbo è figura di spicco nel mondo della visione e del cinema avant-garde e ha fondato da solo l’Enfield Tennis Academy, ma beve Wild Turkey alle 5 del mattino e certi giorni crolla a terra di lato durante i palleggi della mattina, mentre certi altri si lamenta perché vede le bocche delle persone muoversi ma non ne esce niente. Non sono neppure ancora arrivato alla J, nell’Oed condensato, né tantomeno al Québec o alle malevole Luria». «…del fatto che il passaggio non autorizzato a “Der Spiegel”di fotografie del sopra menzionato…legame è risultato negli strani decessi di un paparazzo di Ottawa e di un redattore capo degli affari internazionali bavarese, rispettivamente per mezzo di un bastone da montagna conficcato nell’addome e di una cipollina da cocktail andata di traverso?» «Ho appena finito insufficienza. Sto giusto cominciando con insufflare e il meccanismo generale degli strumenti a fiato. Non ho mai neppure sciato». «Che tu potessi avere il coraggio di immaginare che avremmo conversazionalmente mancato di prendere atto di certi, vogliamo definirli…incontri materni settimanali con un certo innominato Suonatore di fagotto nell’unità delle bande tattiche della Guardia segreta dell’Alberta?» «Accipicchia, è l’uscita quella che vedo laggiú?» «…che la tua spensierata noncuranza per le impennate della tua cara mammina grammaticale non con uno, non con due, ma con piú di trenta attaché medici mediorientali…?» «Sarebbe scortese se le dicessi che i suoi baffi sono storti?» «…che l’introduzione da parte di lei di steroidi mnemonici esoterici –stereochimicamente non dissimili dal supplemento ipodermico quotidiano “megavitaminico”di tuo padre, derivato da un certo composto organico per la rigenerazione testosteroidea distillato da uno sciamano jivaro del bacino centromeridionale di Los Angeles –nella tua ciotola mattutina di innocenti cereali Ralston…» «Per la verità, le dirò di piú, è la sua intera faccia che è un po’sfuggente, diciamo, può controllare se crede. Il naso le punta in basso». «Che la composizione a formula supersegreta dei materiali in resina di polibutilene policarbonato rinforzata da grafite ad alta resistenza dei racchettoni forniti dalla Dunlop in, tra virgolette, “omaggio”è organochimicamente identica, e dico identica, al sensore a bilanciamento giroscopico e alla carta di stanziamento mise-en-scène e alla cartuccia priapistico-intrattenitiva impiantate nientemeno che nel cerebro anaplastico del tuo padre di grande livello dopo la crudele serie di disintossicazioni e trattamenti anticonvulsivi e gastrectomia e prostatectomia e pancreatectomia e fallotomia…» Tap tap. «SHULGSPAHHH». «…potrebbe mai sfuggire all’attenzione investigativa combinata di…?» «E adesso mi accorgo che quel gilet di maglia a losanghe l’ho già visto, indiscutibilmente. Quello è il gilet di maglia a losanghe di Lui in Persona, riservato alla cena del Giorno dell’Interdipendenza, che lui si fa un vanto di non aver mai fatto pulire. Conosco quelle macchie. C’ero anch’io per quella chiazza di vitello al marsala lí sotto. È una cosa che ha a che vedere con le date tutto questo appuntamento? È un pesce d’aprile, Papà, o devo chiamare la Mami e C.T.?» «…chi richiede prova non piú che giornaliera del fatto che parli? Del fatto che riconosci ciò che occasionalmente vedi al di là della punta corpulenta del tuo generoso naso alla Mondragon?» «Hai affittato un intero ufficio e una faccia nuova per questa cosa, poi ti tieni addosso quel vecchio inconfondibile gilet di maglia? E come hai fatto ad arrivare quaggiú prima di me, con la Mercury dal meccanico…hai fregato C.T. e ti sei fatto dare le chiavi di una macchina funzionante?» «Chi pregava quotidianamente per il giorno nel quale il suo caro padre defunto si sarebbe seduto, avrebbe tossito, aperto quella maledetta copia del “Tucson Citizen”, e non avrebbe trasformato il giornale nella quinta parete della stanza? E chi dopo tutta questa luce e questo rumore ha propagato lo stesso silenzio?» «…» «Chi ha vissuto tutta la sua dannata, maledetta, spietata vita in stanze a cinque pareti?» «Papà, ho un match già fissato con Schacht fra circa dodici minuti, e non ce la farò mai. Ho questo strumenti-a-fiatologo che mi aspetta fuori dalla Brighton Best Savings alle cinque in punto, e per farsi riconoscere porta una cravatta particolare. Mi toccherà tagliargli l’erba del giardino per un mese intero per via di questo colloquio. Non posso starmene qui seduto a guardarti pensare che sono muto mentre il tuo naso finto punta verso il pavimento. E senti che sto parlando, Papà? La cosa parla. La cosa accetta la gazzosa e definisce implorare e conversa con te». «Pregando per una sola conversazione, dilettantesca o meno, che non finisca nel terrore? Che non finisca come tutte le altre: tu con gli occhi fissi e io che deglutisco?» «…» «Figliolo?» «…» «Figliolo?» 9 MAGGIO –ANNO DEL PANNOLONE PER ADULTI DEPEND Un altro modo in cui i padri influiscono sui figli è che i figli, una volta che le loro voci sono cambiate con la pubertà, invariabilmente rispondono al telefono con le stesse locuzioni e intonazioni dei loro padri. La cosa resta vera indipendentemente dal fatto che i padri siano ancora vivi o meno. Poiché Hal lasciava la sua stanza prima delle 0600h per gli allenamenti di primo mattino e spesso non vi tornava che dopo cena,