In prima persona è narrata la Passione di Gesù. La genialità di Amélie si esprime appieno nel linguaggio. Spesso nelle interviste le hanno chiesto il motivo della brevità dei suoi romanzi. È l’estrema cura di ogni parola la risposta. Il Cristo di Sete è umano sopra ogni altra cosa, innamorato di Maria Maddalena, figlio amorevole e sofferente nel corpo. Adesso scoprivo la paura. Non la paura di morire, che è la più universale tra le astrazioni, ma la paura della crocifissione: una paura molto concreta. Un romanzo di passione che è anche una profonda riflessione sull’amore e sulla colpa. Nothomb, che ha sempre avuto la passione per le Sacre Scritture, non si limita a riscrivere il Vangelo ma ci mostra la versione più umana di Cristo. Un Cristo spaventato dal dolore, amareggiato per le testimonianze contro di lui, contrariato per la presenza di sua madre… Nothomb ci mostra la solitudine del figlio di Dio e la rende accessibile, comprensibile. Come? Partendo dalla sete, dall’appartenenza a un corpo."Per provare la sete, occorre essere vivi. Io ho vissuto così intensamente da morire assetato. Forse e proprio questa la vita eterna."
SETE
Ho sempre saputo che mi avrebbero condannato a morte. Il vantaggio di avere una certezza come questa è che posso accordare la mia attenzione a quanto lo merita davvero: i dettagli.
Pensavo che il mio processo sarebbe stato una farsa. E lo è stato in effetti, ma non nel modo che mi aspettavo. Al posto della rapida formalità che mi ero immaginato, hanno messo in piedi un circo al gran completo. Il procuratore non ha lasciato nulla al caso.
I testimoni d’accusa sono sfilati uno dopo l’altro. Non potevo credere ai miei occhi quando ho visto arrivare gli sposi di Cana, i miei primi miracolati.
– Quest’uomo ha il potere di trasformare l’acqua in vino – ha dichiarato lo sposo serio. – Eppure ha aspettato la fine delle nozze per servirsi del suo dono. Si è divertito con la nostra angoscia e la nostra umiliazione, mentre avrebbe potuto facilmente risparmiarci l’una e l’altra. Per colpa sua hanno servito un vino eccellente dopo uno appena passabile. Siamo diventati lo zimbello del villaggio.
Ho guardato il mio accusatore negli occhi con tranquillità. Ha sostenuto lo sguardo, sicuro di essere nel giusto.
Il funzionario del re ha parlato della riluttanza con cui gli ho guarito il figlio.
– Come sta adesso il bambino? – non ha potuto esimersi dal chiedere il mio avvocato, il peggior difensore d’ufficio che si possa immaginare.
– Benissimo. E sai che sforzo! Con la sua magia, a quello basta una parola.
I trentasette miracolati hanno messo in mostra ognuno i propri panni sporchi. Il più divertente è stato l’ex posseduto di Cafarnao.
– Dopo l’esorcismo la mia vita è diventata una noia mortale!
Il vecchio cieco si è lamentato di quanto il mondo sia adesso orribile ai suoi occhi, il vecchio lebbroso ha detto che nessuno gli fa più l’elemosina, il sindacato dei pescatori di Tiberiade mi ha accusato di aver favorito una barca rispetto alle altre, Lazzaro ha raccontato di come sia odioso vivere con quest’insopportabile puzza di cadavere che ti si incolla alla pelle.
Con ogni evidenza non c’è stato bisogno di corromperli né di incoraggiarli. Sono venuti tutti a testimoniare contro di me di loro spontanea volontà. Più d’uno ha detto quanto lo facesse sentire sollevato poter finalmente vuotare il sacco alla presenza del colpevole.
Alla presenza del colpevole.
Sono un falso calmo. Mi è costato uno sforzo enorme ascoltare quelle litanie senza reagire. Ogni volta ho guardato i testimoni negli occhi senz’altra espressione che una dolcezza stupita. Ogni volta hanno sostenuto il mio sguardo con arroganza, mi hanno sfidato, squadrandomi dall’alto in basso.
La madre di un bambino che avevo guarito è arrivata persino ad accusarmi di averle rovinato la vita.
– Quando il piccolo era malato, se ne stava tranquillo. Adesso si agita, grida, piange. Non ho più un minuto di pace, non dormo più la notte.
– Non è stata lei a domandare al mio cliente di guarirle il figlio? – ha chiesto l’avvocato d’ufficio.
– Di guarirlo, non di farlo ridiventare la peste che era prima della malattia.
– Avrebbe dovuto precisare questo punto.
– È onnisciente sì o no?
Buona domanda. Io so sempre Τί e mai Πω˜ς. Conosco i complementi diretti, ma non quelli circostanziali. Quindi no, non sono onnisciente: scopro gli avverbi man mano che mi si presentano e ne rimango ogni volta sorpreso. La gente ha ragione a dire che il diavolo si nasconde nei dettagli.
A dire il vero, non solo non c’è stato bisogno di spingerli a testimoniare, ma lo hanno voluto ardentemente loro stessi. La compiacenza con cui ognuno ha preso la parola contro di me mi ha lasciato sbalordito. Tanto più che non era davvero necessario. Sapevano tutti che sarei stato condannato a morte.
La profezia non ha niente di misterioso. Conoscevano i miei poteri e hanno potuto constatare che non me ne sono servito per salvarmi. Non avevano quindi alcun dubbio su come sarebbe finita la storia.
Perché ci hanno tenuto a infliggermi un’umiliazione così inutile? L’enigma del male non è nulla se paragonato a quello della mediocrità. Mentre testimoniavano, ho percepito il loro piacere. Godevano a comportarsi come miserabili davanti a me. La loro unica delusione era che la mia sofferenza non si vedeva poi troppo. Non che avessi voluto negare loro questa voluttà, ma semplicemente lo sbalordimento in me era molto più grande dell’indignazione.
Sono un uomo, niente di ciò che appartiene all’umano mi è estraneo. Eppure non riesco a decifrare la natura del sentimento che si è impadronito di loro al momento di scagliare contro di me quegli abomini. Considero questa mia incapacità di comprensione una sconfitta, una mancanza.
Pilato aveva ricevuto istruzioni sul mio conto e lo vedevo contrariato, non che gli fossi simpatico, ma evidentemente i testimoni stavano irritando l’uomo razionale che è in lui. Il mio stupore lo trasse in inganno, volle darmi l’occasione di protestare contro quella marea di sciocchezze:
– Accusato, hai qualcosa da dire? – mi chiese con l’espressione dell’uomo intelligente che si rivolga a un suo pari.
– No – ho risposto.
Scosse il capo, con l’aria di pensare che non serve a niente tendere una mano a chi si disinteressa a tal punto della propria sorte.
In realtà non ho detto nulla perché avevo troppo da dire. E se avessi parlato non sarei stato capace di nascondere il mio disprezzo. Provarlo mi tormenta. Sono stato uomo abbastanza a lungo per sapere che certi sentimenti non vanno repressi. Bisogna aspettare che passino senza cercare di combatterli: soltanto così non lasceranno alcuna traccia.
Il disprezzo è un demone dormiente. E un demone inattivo deperisce in fretta. Quando siamo in tribunale le nostre parole hanno valore di atti. Tacere il mio disprezzo significava impedirgli di agire.
Pilato si consultò con i consiglieri.
– Queste testimonianze sono false, lo prova il fatto che il nostro uomo non sta utilizzando alcuna magia per salvarsi.
– D’altra parte non è questo il motivo per cui vogliamo la sua condanna.
– Lo so. Per quanto mi riguarda, non chiedo altro che di condannarlo. Solo avrei preferito non avere l’impressione di farlo per delle banali imposture!
– A Roma, il popolo ha bisogno di pane e gladiatori. Qui ha bisogno di pane e miracoli.
– Bene. Se si tratta di politica non ho più nessuna remora.
Pilato si alzò e dichiarò:
– Accusato, sarai crocifisso.
Ho apprezzato molto la sua economia di parole. La natura della lingua latina non consente pleonasmi. Avrei trovato insopportabile che dicesse “sarai crocifisso a morte”. Una crocifissione non contempla altri finali possibili.
Ciò non toglie che sentirlo dalla sua bocca ha prodotto un certo effetto. Ho guardato i testimoni e ho percepito il loro imbarazzo tardivo. Eppure sapevano tutti che sarei stato condannato e avevano spinto lo zelo fino a contribuire attivamente alla sentenza. Adesso facevano mostra di trovarla eccessiva e di essere rimasti scioccati dalla barbarie della procedura. Alcuni cercavano di incrociare i miei occhi per dissociarsi dall’accaduto. Ho distolto lo sguardo.
Non sapevo di dover morire così. Non è stata una notizia da poco. Come prima cosa ho pensato al dolore. La mia anima ha vacillato: non si può concepire una sofferenza del genere.
La crocifissione è la condanna riservata ai crimini più vergognosi. Non mi aspettavo un’umiliazione simile. Era questo dunque che avevano chiesto a Pilato. Inutile perdersi in congetture: Pilato non si era opposto. Doveva condannarmi a morte, ma avrebbe potuto scegliere la decapitazione, ad esempio. In quale momento lo avevo indispettito? Di sicuro quando non ho sconfessato i miracoli.
Non potevo mentire: quei miracoli erano opera mia. E contrariamente a quanto hanno affermato i testimoni, mi erano costati sforzi inauditi. Nessuno mi ha mai insegnato l’arte di compierli.
Allora mi è venuto un pensiero curioso: perlomeno il supplizio che mi aspettava non mi avrebbe richiesto alcun miracolo. Dovevo solo lasciare che le cose facessero il loro corso.
– Lo crocifiggiamo oggi? – ha domandato qualcuno.
Pilato sembrò riflettere e mi guardò. Dovette pensare che mancava ancora qualcosa perché rispose:
– No. Domani.
Quando mi sono ritrovato da solo nella cella, ho capito cosa voleva farmi provare: la paura.Aveva ragione. Fino a quella notte non avevo mai saputo davvero cosa fosse. Nell’Orto degli Ulivi, prima dell’arresto, le mie erano state lacrime di tristezza e di solitudine.
Adesso scoprivo la paura. Non la paura di morire, che è la più universale tra le astrazioni, ma la paura della crocifissione: una paura molto concreta.
Ho la granitica convinzione di essere il più incarnato tra gli uomini. Quando mi sdraio per dormire, questo semplice abbandono mi procura un piacere tanto profondo che devo impedirmi di gemere. Se non mi controllassi, mangiare la più umile zuppa o bere acqua, magari neanche fresca, mi strapperebbe sospiri di voluttà. Mi è già successo di piangere di piacere, respirando l’aria del mattino.
Ma c’è una contropartita: il più lieve mal di denti mi procura un tormento atroce. Ricordo di aver maledetto la mia sorte per una scheggia. Tendo a nascondere questo lato così fragile della mia natura tanto quanto il precedente: sono cose che non si addicono troppo a quello che sono chiamato a rappresentare. Un malinteso in più.
In trentatré anni di vita ho avuto modo di rendermene conto: il più grande successo di mio padre è l’incarnazione. Che un essere disincarnato abbia avuto l’idea di inventare il corpo è un colpo di genio senza pari. E come poteva fare il creatore per non venire sopraffatto dalla propria creatura di cui non comprendeva fino in fondo la portata?
È per questo che mi ha messo al mondo, mi verrebbe da dire, ma non è vero.
Sarebbe stato un buon motivo.
Gli esseri umani si lamentano, a ragione, delle imperfezioni del corpo. La spiegazione è evidente: quale valore può avere una casa disegnata da un architetto senza dimora? Eccelliamo solo nelle cose di cui abbiamo pratica quotidiana. Mio padre non ha mai avuto un corpo. Per essere un ignorante, trovo che se la sia cavata egregiamente.
La mia paura di quella notte era una vertigine fisica al pensiero di ciò che avrei dovuto sopportare. Dai torturati ci aspettiamo sempre che si mostrino all’altezza. Quando non urlano di dolore, parliamo del loro coraggio. Ho il sospetto che si tratti d’altro: vedrò di cosa.
Avevo paura dei chiodi che mi avrebbero trafitto le mani e i piedi. Era stupido: ci sarebbero state di sicuro sofferenze molto più grandi. Ma queste me le potevo almeno immaginare.
Il mio carceriere mi disse:
– Cerca di dormire. Domani avrai bisogno di essere in forma.
Davanti alla mia espressione ironica, riprese:
– Non ridere. Ci vuole una bella tempra per morire. Io ti ho avvisato.
Non sbagliava. In più, per me che amo così tanto dormire, era l’ultima occasione. Ho provato, mi sono steso per terra abbandonando il corpo al riposo. Non c’è stato verso. Ogni volta che chiudevo gli occhi, invece del sonno trovavo immagini terrificanti.
Allora ho fatto come tutti: per lottare contro pensieri insopportabili mi sono aggrappato ad altri pensieri.
Ho rivissuto il primo miracolo, il mio preferito. Ho notato con sollievo che la penosa testimonianza degli sposi non ne aveva appannato il ricordo.
Peraltro l’inizio non era stato dei migliori. Andare a un matrimonio con la propria madre è un’esperienza pesante. Mia madre ha un bell’essere un’anima pura, resta comunque una donna. Mi guardava in tralice con l’aria di dire, e tu, figlio mio, cosa aspetti a trovarti una moglie? Facevo finta di non accorgermene.
Devo confessare che non amo i matrimoni. È un sentimento che resiste a ogni tentativo di analisi. Questo sacramento mi riempie di un’angoscia che comprendo ancora meno se penso che non mi riguarda. Io non mi sposerò e non lo rimpiango affatto.
Si trattava di un matrimonio come tanti: una festa in cui le persone si mostravano più gioiose di quanto non fossero. Sapevo che c’era qualcosa di più a cui sarei stato chiamato. Cosa? Lo ignoravo.
Un pranzo in grande stile: pane, pesce alla griglia, vino. Il vino non era granché, ma il pane ancora caldo di forno scrocchiava sotto i denti e i pesci salati alla perfezione mi piacevano moltissimo. Ero concentrato sul cibo, non volevo perdermi nulla di quei sapori e di quelle consistenze. Mia madre aveva l’aria contrariata per il fatto che non conversassi con gli invitati. In realtà è una cosa che ho preso da lei: non è certo una chiacchierona. Parlare per non dire nulla, io non ne sono capace e lei neppure.
Provavo verso gli sposi la cordiale indifferenza che si ha verso gli amici dei propri genitori. Doveva essere la terza volta che li vedevo e, come sempre, esageravano: “Gesù lo conosciamo da quando era piccolo” e “Sembri diverso con la barba”. L’eccesso di familiarità delle persone mi mette ogni volta a disagio. Avrei preferito non avere mai visto prima i novelli sposi. I nostri scambi sarebbero stati di sicuro meno finti.
Mi mancava Giuseppe. Quel brav’uomo, che non parlava certo più di me e mia madre, aveva però il talento di far sembrare il contrario: ascoltava le persone così intensamente che quasi si credeva di udire la sua risposta. Non ho ereditato da lui questa virtù. Quando le persone parlano per non dire nulla, non faccio nemmeno finta di ascoltarle.
– A cosa pensi? – ha mormorato mia madre.
– A Giuseppe.
– Perché lo chiami così?
– Lo sai.
Non sono mai stato sicuro che lei davvero lo sapesse, ma se occorre spiegare questo genere di cose alla propria madre, non se ne esce.
Nel frattempo era scoppiata una specie di sommossa.
– Non c’è più vino – ha detto mia madre.
Non ho capito dove fosse il problema. Sai che tragedia essere rimasti senza quel vinaccio! Ci saremmo tolti la sete con l’acqua fresca, e io intanto continuavo a mangiare imperterrito. Mi ci è voluto un po’ per rendermi conto che per quella famiglia la mancanza di vino costituiva un disonore irreparabile.
– Non c’è più vino – ha ripetuto mia madre, con aria d’intesa.
Mi si è spalancato un abisso sotto i piedi. Che donna curiosa mia madre! Vorrebbe che fossi normale e però pure che compissi prodigi!
Come mi sono sentito solo in quel momento! Non si poteva più tergiversare. È stato allora che ho avuto un’intuizione folgorante. Ho detto:
– Portatemi delle giare d’acqua.
Il padrone di casa ha ordinato che la mia richiesta venisse esaudita, è calato un grande silenzio. Fermarmi a riflettere sarebbe stata la mia rovina. Quello di cui avevo bisogno era il contrario di una riflessione. Ho annullato me stesso. Ho sentito che il mio potere stava proprio sotto la pelle e che sarei potuto arrivare a lui soltanto annullando il pensiero. Ho dato parola a ciò che da lì in poi avrei chiamato la scorza e non so cos’è successo. Per un tempo infinito ho cessato di esistere.
Quando sono tornato in me gli invitati erano entusiasti:
– È il vino più buono che abbiamo mai bevuto in questo paese!
Ognuno assaggiava il nuovo vino con l’espressione che ci si aspetterebbe da lui durante una cerimonia religiosa. Ho dovuto reprimere una colossale voglia di ridere. Dunque mio padre aveva pensato bene di farmi scoprire i miei poteri per ovviare a una mancanza di vino. Che umorismo! E come dargli torto? Cosa c’è di più importante del vino? Ero uomo da abbastanza tempo per sapere che la gioia non si può dare per scontata e che il buon vino è spesso l’unico mezzo per trovarla.
Una perfetta letizia è scesa allora sulle nozze. Gli sposi sembravano finalmente felici. Lo spirito della danza li ha rapiti e quello del vino non ha risparmiato nessuno.
– Non bisogna servire un vino eccellente dopo uno appena passabile! – ha detto qualcuno agli sposi.
Garantisco che la frase non fu detta in tono polemico. D’altra parte era un’affermazione abbastanza discutibile. Io penso l’opposto. È molto meglio cominciare con un vino qualunque così che i nostri cuori si aprano da subito alla gioia. E solo quando ha il cuore colmo di felicità l’uomo può davvero essere in grado di accogliere un grande vino e di tributargli la suprema attenzione che merita.
È il mio miracolo preferito. La scelta non è difficile, è l’unico miracolo che ho amato. Avevo appena scoperto la scorza e ne ero rimasto abbagliato. La prima volta che si fa qualcosa così al di sopra di sé, si dimentica subito l’enormità dello sforzo e si ricorda solo la meraviglia del risultato.
E poi si trattava di vino, era una festa. In seguito qualcosa è andato storto e si è trattato solo di sofferenze, di malattie, di morte o di catturare poveri pesci che avrei preferito lasciare vivi e in libertà. Soprattutto ricorrere al potere della scorza, con cognizione di causa, è stato mille volte più duro che riceverne la rivelazione.
La cosa peggiore era l’aspettativa delle persone nei miei confronti. A Cana, a parte mia madre, nessuno mi aveva chiesto nulla. Dopo, ovunque andassi, avevano già predisposto tutto, sul mio cammino trovavo sempre un infermo o un lebbroso. Compiere un miracolo non significava più concedere una grazia, ma assolvere al mio dovere.
Quante volte ho letto, nello sguardo di quelli che mi tendevano un moncherino o un moribondo, non un’implorazione ma una minaccia! Se avessero osato formulare il loro pensiero, sarebbe stato: “Sei diventato famoso con questi giochetti, adesso fai in modo di continuare, altrimenti guai a te!” È successo che non riuscissi a compiere il miracolo richiesto perché non avevo la forza di annullare me stesso e liberare così la potenza della scorza: quanto sono stato odiato allora!
In seguito, ci ho riflettuto e non mi è piaciuta molto questa storia dei prodigi. Hanno falsato ciò che ero venuto a portare, l’amore non era più gratuito, doveva servire a qualcosa. Per non parlare di quanto ho scoperto stamattina durante il processo: nessuno dei miracolati ha per me la minima gratitudine, al contrario, mi rimproverano aspramente i miracoli, perfino gli sposi di Cana.
Non voglio più pensarci. Voglio solo ricordarmi della letizia di Cana, l’innocenza della nostra felicità nel bere quel vino venuto da chissà dove, la purezza di quella prima ubriacatura. Una sbornia ha valore solo se è condivisa. La sera di Cana eravamo tutti ebbri e nel migliore dei modi. Sì, anche mia madre aveva bevuto, e questo per lei non era che un bene. Dopo la morte di Giuseppe di rado l’avevo vista felice. Mia madre danzava, ho danzato con lei, la mia buona mamma che amo così tanto. La mia ebbrezza le diceva che l’amavo, e sentivo la sua risposta senza neppure bisogno che fosse pronunciata, figlio mio, lo so che sei speciale, e ho il sospetto che questo ti creerà più di un problema un giorno, ma adesso sono semplicemente fiera di te e felice di bere il buon vino che hai creato per noi con la tua magia.
Ero ubriaco quella sera, e di un’ubriachezza santa. Prima dell’incarnazione non avevo peso. Il paradosso è che bisogna essere pesanti per conoscere la leggerezza. L’ebbrezza ci libera del nostro carico e dà l’idea di poterci alzare da terra. Lo spirito non vola, si sposta senza ostacolo, è una cosa molto diversa. Gli uccelli possiedono un corpo, il loro volo ha il valore di una conquista. Non lo ripeterò mai abbastanza: avere un corpo è quanto di più bello possa mai capitare.
Ho il sospetto che domani, quando il mio corpo verrà sottoposto al supplizio, penserò il contrario. Ma posso rinnegare per questo tutte le scoperte che mi ha regalato? Le gioie più grandi della vita le ho conosciute con il corpo. E occorre forse precisare che né la mia anima né il mio spirito si sono sottratti?
Anche i miracoli li ho compiuti con il corpo. Quella che io chiamo “scorza” è un fatto fisico. Utilizzarla presuppone un momentaneo annullamento dello spirito. Non sono mai stato altro che me stesso, ma ho l’intima convinzione che questo potere lo possiedano tutti. La ragione per cui se ne fa così poco uso, è l’enorme difficoltà del procedimento. Occorrono coraggio e forza per sottrarsi allo spirito, non è una metafora. Alcuni esseri umani ci sono riusciti prima di me, altri esseri umani ci riusciranno dopo di me.
La mia concezione del tempo non è diversa da quella del mio destino: io so Τί, ignoro Πω˜ς. I nomi appartengono a Πω˜ς, non conosco quindi il nome dello scrittore che un giorno dirà: “Quello che c’è di più profondo nell’essere umano è la pelle.” Arriverà a sfiorare la rivelazione, ma ad ogni modo persino coloro che lo glorificheranno non comprenderanno fino in fondo la concretezza di questa frase.
Non è esattamente la pelle, è appena più sotto. Lì risiede l’onnipotenza.
Questa notte non ci saranno miracoli. Non ho la minima intenzione di sottrarmi a quanto mi attende domani. Non che non lo desideri, ovviamente.
Una volta soltanto ho usato male il potere della scorza. Avevo fame, i frutti del fico non erano ancora maturi. Desideravo così tanto mordere un fico caldo di sole, succoso e zuccherino, che ho maledetto l’albero, condannandolo a non avere mai più frutti. Ho usato come pretesto una parabola, e neppure una tra le più convincenti.
Come ho potuto commettere una simile ingiustizia? Non era stagione di fichi. È il mio unico miracolo di distruzione. Quel giorno mi sono comportato come un uomo comune. Frustrato nella mia ingordigia, ho lasciato che il desiderio si trasformasse in collera. La gola è una cosa bellissima, sarebbe bastato mantenerla intatta, dirsi che da lì a uno o due mesi avrei potuto soddisfarla.
Non sono senza difetti. C’è una rabbia dentro di me che chiede soltanto di esplodere. C’è stato l’episodio dei mercanti nel Tempio: almeno in quel caso avevo un buon motivo. Ma da qui a dire “sono venuto a portare la spada”, ce ne corre.
La notte prima di morire mi accorgo che non mi vergogno di nulla, salvo che del fico. Me la sono presa con un innocente. Non che ora voglia piangermi addosso con sterili rimorsi, semplicemente sono contrariato del fatto di non poter andare a raccogliermi sotto quell’albero, abbracciarlo, chiedergli perdono. Basterebbe che mi perdonasse e la sua maledizione svanirebbe all’istante, potrebbe di nuovo dare frutti e inorgoglirsi del loro delizioso peso sui rami.
Mi ricordo di un frutteto attraversato insieme ai discepoli. I meli si piegavano sotto il carico dei frutti, ci eravamo rimpinzati di mele, le migliori che avessimo mai assaggiato, croccanti, profumate, succose. Avevamo smesso solo quando era davvero impossibile continuare, la pancia sul punto di esplodere, ed eravamo crollati per terra ridendo della nostra gola.
– Tutte queste mele che non potremo mangiare, che nessuno mangerà! – ha detto Giovanni. – Che tristezza!
– Tristezza per chi? – ho chiesto.
– Per gli alberi.
– Tu credi? Gli alberi sono felici di portare le mele, anche se nessuno le mangia.
– Che ne sai?
– Sii l’albero.
Giovanni era rimasto in silenzio per un po’ e poi aveva detto:
– Hai ragione.
– La tristezza è per noi, quando capiamo di non poter mangiare tutto.
Risate generali.
Ero stato un uomo migliore con il melo che con il fico. Perché? Perché avevo saziato la mia gola. Siamo persone migliori quando il nostro piacere è stato soddisfatto, non è poi così difficile da comprendere.
Solo nella mia cella, mi sembra di essere il fico che ho maledetto. È un pensiero che mi rende triste e allora faccio come tutti: cerco di passare ad altro. Il problema è che questo metodo non sempre funziona alla perfezione. Melo, fico – mi sono chiesto a quale albero si fosse impiccato Giuda. Mi hanno detto che il ramo si è rotto. Non doveva essere un albero molto solido, dal momento che Giuda non pesava granché.
Ho sempre saputo che Giuda mi avrebbe tradito. Conformemente alla natura della mia preveggenza, non sapevo però in che modo sarebbe successo.
Il mio incontro con lui fu particolarmente forte. Ero in un villaggio sperduto in cui non riuscivo a comprendere nessuno. Mentre parlavo sentivo montare l’ostilità, al punto che potevo vedermi con gli occhi degli altri ed ero partecipe della loro costernazione verso questo idiota venuto a predicare l’amore.
Tra la gente c’era un ragazzo magro e cupo che trasudava malessere da tutti i pori. Mi interpellò in questi termini:
– Tu che dici che bisogna amare il prossimo, ami anche me?
– Certo.
– Non ha alcun senso. Nessuno mi ama. Perché dovresti farlo tu?
– Non c’è bisogno di una ragione per amarti.
– Sì vabbè. Stai vaneggiando.
La folla scoppiò in una risata complice. Lui ne sembrò turbato: con ogni evidenza era la prima volta che qualcuno, nel suo paesino, stava dalla sua parte.
È allora che mi fu rivelato quanto sarebbe successo: quest’uomo mi avrebbe tradito, e sentii una stretta al cuore.
Il gruppo di persone si disperse. Rimase lui solo davanti a me.
– Vuoi unirti a noi? – gli chiesi.
– Noi chi?
Gli mostrai i discepoli seduti su alcune rocce poco lontano.
– Sono i miei amici – dissi.
– E io cosa sono per te?
– Un amico.
– E tu che ne sai?
Capii che rispondere non sarebbe servito a niente. C’era in lui qualcosa che non andava.
Immagino che ognuno di noi abbia un amico del genere: un amico di cui gli altri continuano a chiedersi perché sia diventato amico nostro. I discepoli avevano fatto gruppo da subito. Con Giuda non era stato così semplice.
Ci si metteva d’impegno. Ogni volta che si sentiva apprezzato e accolto diceva esattamente quanto serviva perché la gente si allontanasse.
– Lasciatemi in pace, non ho niente a che spartire con voi.
Ne seguivano interminabili discussioni in cui veniva fuori tutta la sua malevolenza.
– E in che cosa saresti diverso da noi, Giuda?
– Non sono mica nato con il culo al caldo io.
– Proprio come la maggior parte di noi.
– Ma non si vede? Non lo vedete che non sono come voi?
– Cosa vuol dire essere come noi? Simone e Giovanni, ad esempio, non hanno niente in comune l’uno con l’altro.
– Invece sì: stanno sempre lì a pendere dalle labbra di Gesù.
– Non pendono dalle labbra di Gesù: lo amano e lo ammirano, come tutti noi.
– Io no. Gli voglio bene, ma non lo ammiro.
– Allora perché lo segui?
– Perché me lo ha chiesto.
– Nessuno ti ha costretto.
– Ho incontrato una marea di altri profeti che non sono da meno di lui.
– Non è un profeta.
– Profeta, messia, è la stessa cosa.
– Neanche un po’. Lui porta l’amore.
– E cos’è questo suo amore?
Con Giuda bisognava ricominciare ogni volta da zero. Avrebbe scoraggiato chiunque, ha scoraggiato anche me più di una volta. Amarlo aveva il valore di una scommessa, e proprio per questo lo amavo ancora di più. Non che io preferisca l’amore quando è difficile, al contrario, ma con lui questo sovrapprezzo era indispensabile.
Se avessi frequentato soltanto gli altri discepoli avrei forse dimenticato che ero venuto per le persone come Giuda: i problemi ambulanti, i portatori di imbarazzo, quelli che Simone chiama i rompiscatole.
“E cos’è questo suo amore?” Buona domanda. Ogni giorno e ogni notte dobbiamo cercare dentro di noi questo amore. Quando lo abbiamo trovato, la sua evidenza è così potente da farci chiedere perché abbiamo faticato tanto per arrivare a lui. Poi, bisogna rimanere nella sua corrente inarrestabile. L’amore è energia e quindi movimento, non c’è nulla che possa ristagnare in lui e dobbiamo gettarci nel suo flusso senza chiederci se riusciremo a reggere, perché non c’è niente al mondo che gli si possa paragonare.
Appena ci siamo dentro, lo vediamo. Non è una metafora: quante volte mi è stato dato di scorgere il fascio di luce che lega tra loro due innamorati? Quando è indirizzata verso di noi questa luce diventa meno visibile ma più sensibile, percepiamo i raggi che penetrano nella pelle – e nessuna sensazione è più meravigliosa. Se in quel momento fossimo capaci di tendere l’orecchio, potremmo sentire un crepitio di scintille.
Tommaso crede solo a ciò che vede. Giuda non credeva neppure a quello. Diceva: “Non voglio essere tradito dai miei sensi.” Quando un luogo comune viene pronunciato per la prima volta, fa comunque un certo effetto.
Giuda è uno dei personaggi su cui verrà scritto il più alto numero di chiose nella Storia. Come stupirsene con un ruolo del genere? Si dirà che è stato il prototipo del traditore. Un’ipotesi che non avrà vita facile. L’enorme richiamo suscitato da questa condanna porterà al suo esatto contrario. A partire da una medesima scarsità di informazioni, Giuda verrà dichiarato come il discepolo che più mi amava, il più puro e il più innocente. Le opinioni degli uomini sono così prevedibili che provo una sincera ammirazione per il loro modo di prendersi tanto sul serio.
Giuda era un tipo curioso. Qualcosa in lui sembrava resistere a ogni forma di analisi. Era molto poco incarnato. Per essere più precisi, percepiva soltanto le sensazioni negative. Diceva: “Ho mal di schiena” con l’aria di chi ha appena scoperto un teorema.
Se gli dicevo:
– Com’è piacevole questa brezza primaverile.
Rispondeva:
– Può dirlo chiunque.
– Sì, è vero, e proprio per questo mi piace ancora di più – insistevo.
Faceva spallucce, non aveva tempo da sprecare per rispondere a un sempliciotto.
All’inizio tutti i discepoli hanno avuto qualche problema con lui. Dal momento che erano gentili cercavano di confortarlo. Questo rendeva Giuda molto aggressivo. Poco a poco hanno capito che era meglio non dargli troppo retta. D’altra parte non si poteva neppure ignorarlo, il silenzio irritava la sua suscettibilità ancor più delle parole.
Giuda rappresentava un problema permanente, innanzitutto per sé stesso. Quando non esistevano motivi per irritarsi, si irritava. Quando non c’erano che contrarietà, dava di matto. Proprio per questo conveniva frequentarlo durante i periodi difficili: si trovava più a suo agio. Prima di conoscerlo, ignoravo l’esistenza di questa specie perpetuamente immersa nella cupezza. Non so se lui sia stato il primo, ma so di certo che non fu l’ultimo.
Noi lo amavamo. Lui se ne rendeva conto e si sforzava di farci ricredere.
– Non sono un angelo, ho un pessimo carattere.
– Ce ne siamo accorti – rispondeva qualcuno di noi sorridendo.
– Cosa? Ma senti chi parla!
Quando non istruiva il suo processo immaginario, lavorava per disfare il nostro affetto nei suoi confronti.
Aveva orrore della menzogna. Parlando con lui, avevo notato che non sapeva identificarla con chiarezza. Ad esempio non riusciva a capire la differenza tra menzogna e segreto.
– Non divulgare un’informazione vera non è mentire – gli dissi un giorno.
– Nel momento in cui non diciamo tutta la verità, stiamo mentendo – rispose.
Non demordeva. Visto che con la teoria non vedevo risultati, provai con la casistica.
– Esiste una nuova legge secondo cui tutti coloro che sono gobbi devono essere condannati a morte, il tuo vicino ha la sfortuna di avere una gobba, le guardie ti chiedono se conosci un gobbo. Tu ovviamente rispondi di no. Bene, questa non è una bugia.
– Sì, lo è.
– No, è un segreto.
Se Giuda avesse abitato il suo corpo con maggiore intensità, avrebbe posseduto ciò di cui difettava: la sottigliezza. Quello che lo spirito non riesce a comprendere, lo coglie il corpo.
Ho pochi ricordi prima dell’incarnazione. Le cose letteralmente mi sfuggono: cosa possiamo ricordare di quanto non abbiamo mai provato? Non c’è arte più grande che quella di vivere. Gli artisti migliori sono quegli uomini i cui sensi possiedono una finezza assai sviluppata. Inutile lasciare traccia altrove che non sulla propria pelle.
Per quanto poco lo si ascolti, il corpo è sempre intelligente. In un futuro che non so situare misureranno il quoziente intellettivo. È una cosa che non servirà a nulla. Il valore più alto di un uomo, ovvero il suo grado di incarnazione, per fortuna si può valutare soltanto con l’intuizione.
Il problema in questa storia è che esistono persone capaci di abbandonare il proprio corpo. Se si sapesse quanto è facile, non avremmo tutta quest’ammirazione per una prodezza abbastanza inutile, e nel peggiore dei casi anche pericolosa.
Se uno spirito nobile esce dal suo corpo, non farà particolare danno. Senza dubbio si può trovare piacevole un viaggio per il solo motivo di non averlo mai fatto prima. Allo stesso modo, percorrere la via di casa in senso inverso rispetto a quanto facciamo tutti i giorni è divertente. La cosa finisce qui. Il problema è che questa pratica verrà imitata anche da spiriti meno elevati. Mio padre avrebbe dovuto proteggere meglio l’incarnazione. Certo, capisco il suo rispetto per la libertà dell’uomo. Ma i risultati del divorzio tra spiriti fragili e corpi saranno disastrosi per loro stessi e per tutti.
Un essere incarnato non commette mai azioni abominevoli. Se arriva a uccidere, lo fa per difendersi. Non dà in escandescenze senza un giusto motivo. Il male nasce sempre dallo spirito. Senza la protezione del corpo, i danni dello spirito sono liberi di fare il proprio corso.
Allo stesso tempo, capisco. Anch’io ho paura di soffrire. Cerchiamo di disincarnarci per garantirci una via di fuga. Domani io non ne avrò.
La notte da cui scrivo non esiste. I Vangeli sono categorici. La mia ultima notte di libertà la passo nell’Orto degli Ulivi. Il giorno seguente vengo condannato e la sentenza è immediata. Ci vedo, d’altra parte, una forma di umanità: lasciare qualcuno ad aspettare, significa moltiplicare il suo supplizio.
Eppure esiste questa dimensione inesplorata che non mi sembra di essermi inventato: un tempo di un ordine diverso che ho inserito tra me e la morte. Io sono come tutti, ho paura di morire. Non penso mi verrà riservato un trattamento di favore.
Ho scelto? Così sembrerebbe. Come ho potuto scegliere di essere me? Per la ragione che presiede la stragrande maggioranza delle scelte: per incoscienza. Se fossimo consapevoli, sceglieremmo di non vivere.
Ciò non toglie che una scelta come la mia sia la peggiore in assoluto. Il mio grado di incoscienza ha dovuto essere altissimo. Fortunatamente in amore non funziona così. Ci accorgiamo di essere innamorati per un motivo molto semplice: non lo abbiamo scelto. Le persone con un ego troppo grande non si innamorano perché non sopportano di non scegliere. Si infatuano di una persona che hanno selezionato: nulla a che vedere con l’amore.
Nel momento inconcepibile in cui ho scelto il mio destino, non sapevo che questo avrebbe implicato il fatto di innamorarmi di Maria Maddalena. Da qui in poi la chiamerò Maddalena. I nomi doppi non mi entusiasmano e trovo fastidioso chiamarla Maria di Magdala. Quanto a chiamarla Maria e basta, lo escludo. Non è raccomandabile confondere l’innamorata con la propria madre.
In amore non esistono rapporti di causa-effetto, dato che non esistono scelte. I perché li inventiamo dopo, per il nostro piacere. Mi sono innamorato di Maddalena non appena l’ho vista. Qualcuno potrebbe argomentare: se il senso della vista ha avuto un ruolo così importante, si potrebbe considerare la bellezza perfetta di Maddalena come una causa. Si dà il caso che lei in quell’istante non stesse parlando e quindi l’ho vista prima di ascoltarla. La voce di Maddalena è ancora più bella del suo aspetto: se l’avessi conosciuta attraverso l’udito, il risultato sarebbe stato identico. E se estendessi questo ragionamento ai tre sensi restanti, potrei arrivare a conclusioni impudiche.
Non c’è nulla di sorprendente nel fatto che mi sia innamorato di Maddalena. Che lei si sia innamorata di me è invece assolutamente straordinario. Eppure è accaduto nell’istante stesso in cui mi ha visto.
Ci siamo raccontati questa storia mille volte, pur sapendo che la fantasia ci aveva ormai un po’ preso la mano. Abbiamo fatto bene: la cosa ci ha procurato un piacere infinito.
– Quando ho visto il tuo viso, sono rimasto senza parole. Non immaginavo fosse possibile tanta bellezza. Poi mi hai guardato ed è stato persino peggio: non credevo si potesse guardare così. Quando mi guardi, mi manca il respiro. Ma tu guardi tutti in questo modo?
– Non direi. Non sono famosa per il mio sguardo. Ma vedi un po’ da che pulpito viene la predica. È il tuo sguardo, Gesù, a essere celebre. Le persone arrivano da ogni parte perché tu le guardi.
– Non guardo nessuno come guardo te.
– Lo spero bene.
L’amore riunisce la certezza e il dubbio: si è sicuri di essere amati tanto quanto se ne dubita, e non a momenti alterni, ma in una simultaneità sconcertante. Provare a sbarazzarsi di questa sfumatura dubitativa facendo mille domande alla propria amata, significa negare la natura radicalmente ambigua dell’amore.
Maddalena aveva conosciuto molti uomini e io nessuna donna. Eppure la nostra mancanza di esperienza ci poneva su uno stesso livello. Riguardo a quanto ci stava succedendo eravamo ignoranti come neonati. L’abilità consiste nell’accettare questo stato convulsivo con entusiasmo. Oso dire di eccellere in quest’arte, e anche Maddalena. Ma il suo caso è ancora più degno di ammirazione: gli uomini l’hanno abituata al peggio senza che lei abbia perso fiducia in loro. È stata straordinaria.
Quanto mi manca! Richiamarla a me con il pensiero, non è che un palliativo. Forse sarebbe più dignitoso rifiutare di farmi vedere da lei in questo stato. Ma ciò non toglie che darei qualsiasi cosa pur di rivederla e stringerla tra le braccia.
Si dice che l’amore accechi. Ho potuto constatare il contrario. L’amore universale è un atto di generosità che presuppone una dolorosa lucidità. Essere innamorati rivela splendori invisibili a occhio nudo.
La bellezza di Maddalena era un fenomeno conosciuto. Eppure, nessuno quanto me ha avuto piena coscienza della sua bellezza. Ci vuole coraggio per riuscire ad accettare una bellezza simile.
Spesso le ho fatto questa domanda che tutto era tranne che retorica:
– Che effetto fa essere così bella?
Lei rispondeva elusiva:
– Dipende da chi hai di fronte.
Oppure:
– Non è male.
O ancora:
– Come sei gentile.
L’ultima volta ho insistito:
– Non te lo chiedo per galanteria, mi interessa davvero.
Lei ha sospirato:
– Prima di conoscerti, le rare volte in cui me ne rendevo conto, ne ero annichilita. Da quando sei tu a guardarmi, ho imparato a esserne felice.
Tra le cose che non le ho mai detto, per paura che potessero essere travisate, c’è questa: di tutte le gioie che ho provato con lei, nessuna ha eguagliato la contemplazione della sua bellezza.
– Smettila di guardarmi così – diceva a volte.
– Tu sei il mio bicchiere d’acqua.
Nessun godimento può competere con quello che ci procura un bicchiere d’acqua quando stiamo morendo di sete.
L’unico evangelista ad aver manifestato un talento di scrittore degno di questo nome è Giovanni. Anche per questo la sua parola è la meno affidabile. “Chi beve di quest’acqua non avrà mai più sete”: io non l’ho mai detto, sarebbe stato un controsenso.
Non è un caso se ho scelto proprio questa regione del mondo: non mi bastava che fosse un paese dilaniato politicamente. Mi occorreva una terra ad alto tasso di arsura. Nessuna sensazione come la sete riesce a evocare meglio ciò che voglio ispirare. Forse perché nessuno l’ha mai provata quanto me.
In verità vi dico: ciò che sentite quando state morendo di sete, coltivatelo. Lo slancio mistico non è che questo. E non è una metafora. La fine della fame si chiama sazietà. La fine della stanchezza si chiama riposo. La fine della sofferenza si chiama conforto. La fine della sete non ha nome.
La lingua, nella sua saggezza, ha capito che non è possibile creare il contrario di sete. Ci si può dissetare, ma la parola dissetamento non esiste.
Ci sono uomini che pensano di non essere dei mistici. Sbagliano. Basta essere stati sul punto di morire di sete, anche solo per un attimo, per avere pieno diritto a questo appellativo. L’istante ineffabile in cui l’assetato porta alle labbra un bicchiere d’acqua è Dio.
È un istante di amore assoluto e di meraviglia senza limiti. Colui che lo vive, nel momento in cui lo sta vivendo, non può che essere nobile e puro. Io sono venuto a insegnare questo slancio, nient’altro. La mia parola è di una semplicità tale da risultare sconcertante.
È una cosa talmente semplice da essere votata all’insuccesso. L’eccessiva semplicità è un ostacolo alla comprensione. Bisogna conoscere la trance mistica per aprirsi allo splendore di quello che il pensiero umano di norma definisce come indigenza. La buona notizia è che la sete portata al suo estremo è una trance mistica perfetta.
Io consiglio di prolungarla. Che l’assetato ritardi il momento di bere. Non indefinitamente, ovvio. Non si tratta di mettere la propria salute in pericolo. Non chiedo di meditare sulla propria sete, chiedo di sentirla a fondo, corpo e anima, prima di estinguerla.
Provate a fare quest’esperienza: dopo aver patito a lungo la sete, non bevete l’acqua del vostro bicchiere d’un fiato. Prendetene un sorso, tenetelo in bocca per qualche secondo prima di mandarlo giù. Prendete coscienza di questa meraviglia. Questa sensazione abbacinante è Dio.
Non è la metafora di Dio, lo ripeto. L’amore che state provando in quel preciso istante per il sorso d’acqua è Dio. Io sono colui che prova questo esatto amore per tutto l’esistente. Questo è essere il Cristo.
Fino a oggi non è stato facile. Domani sarà mostruosamente difficile. Allora, per riuscirci, voglio prendere una decisione che mi aiuterà: non berrò l’acqua della brocca che il carceriere ha lasciato nella cella.
La cosa mi rende triste. Mi sarebbe piaciuto provare per l’ultima volta la più sublime tra le sensazioni, la mia preferita. Ci rinuncio in piena coscienza. È un’imprudenza: la disidratazione mi renderà più debole quando dovrò portare la croce. Ma mi conosco al punto da sapere che la sete mi proteggerà. Può raggiungere un’ampiezza tale da far tacere ogni altra sofferenza.
Devo cercare di dormire. Mi stendo sul pavimento della cella, ancora più sporco della terra. Ho imparato a non curarmi dei cattivi odori. Mi basta pensare che niente puzza apposta, per cattiveria – non so se sia vero, ma comunque il ragionamento mi permette di accettare anche gli odori più pestilenziali.
Sdraiarmi affidando il mio peso al suolo mi ha sempre lasciato senza parole. Per quanto io pesi poco, che meraviglioso senso di libertà! L’incarnazione implica di tirarsi dietro il proprio bagaglio di carne. Quest’epoca apprezza le persone floride. Io ho rinunciato a questo canone, sono magro: non si può predicare di essere venuti per i poveri ed essere grassi nello stesso tempo. Maddalena mi trova bello, è la sola. Mia madre quando mi vede si lamenta: “Mangia, fai pietà!”
Mangio l’indispensabile. Portare in giro più dei miei cinquantacinque chili mi lascerebbe senza fiato. Ho notato che parecchie persone si rifiutano di ascoltarmi a causa della mia magrezza. Nei loro occhi leggo: “Che saggezza ci può essere in uno spilungone simile?”
È anche per questo che ho scelto Pietro come capogruppo: meno ispirato di Giovanni, meno fedele di chicchessia, ha il pregio di essere un colosso. Quando parla lui, la gente rimane impressionata. Il colmo è che questo vale anche per me. So che mi rinnegherà, e tuttavia mi ispira una grande fiducia. E non soltanto perché è grande e grosso. Adoro guardarlo mangiare. Non ha schifo di nulla, prende il cibo con le mani e lo divora senza fare complimenti con la gioia rude dei coraggiosi. Allo stesso modo svuota una brocca intera in un’unica sorsata, rutta e si asciuga la bocca con il dorso della sua mano possente. Non lo fa per posa, non si accorge che gli altri mangiano in maniera diversa. Non si può fare a meno di amarlo.
Giovanni mangia come me. Non so se la sua parsimonia cerchi di imitare la mia. Sta di fatto che questa cosa tiene il mio affetto a distanza. Che specie curiosa la nostra! Niente di ciò che appartiene all’umano mi è estraneo. A tavola devo trattenermi dal dire a Giovanni: “Insomma, mangia, smettila di fare tanti complimenti, sei insopportabile!” E la cosa assurda è che il suo modo di fare è identico al mio.
Per poter amare Giovanni, devo alzarmi da tavola. Quando camminiamo insieme e mi ascolta, lo amo. Mi dicono che sono bravo ad ascoltare. Non so che effetto faccia essere ascoltati da me. So che il modo in cui ascolta Giovanni è amore e mi emoziona profondamente.
Quando parlo a Pietro, spalanca gli occhi e mi ascolta per un minuto. Poi vedo la sua attenzione diminuire. Non è colpa sua, non se ne rende conto, il suo sguardo vaga alla ricerca di qualcosa su cui posarsi. Quando rivolgo la parola a Giovanni, lui abbassa leggermente le palpebre come se sapesse che le mie confidenze lo toccheranno al punto di commuoverlo. Non appena finisco di parlare, rimane in silenzio per un po’ e poi torna a guardarmi con gli occhi lucidi.
Anche Maddalena mi ascolta con la stessa intensità. Su di lei questa cosa mi fa meno effetto per un motivo ingiusto: nella mia epoca alle donne si insegna ad ascoltare così. Ma sono comunque rare quelle che ascoltano bene come Maddalena. Quanto vorrei passare questa ultima notte con lei! Mi diceva: “Dormiamo d’amore folle.” Poi si rannicchiava a cucchiaio contro di me e si addormentava immediatamente. Non ho mai avuto un buon sonno, ed era come se lei dormisse per tutti e due.
Grazie a lei ho imparato che dormire è un atto d’amore. Quando dormivamo così, le nostre anime si mescolavano ancor più che facendo l’amore. Era una lunga assenza dal mondo in cui ci addentravamo insieme. Quando alla fine sprofondavo nel sonno, avevo la sublime sensazione di naufragare.
La mia illusione si confermava al risveglio. Avevo a tal punto perduto ogni riferimento che il nostro giaciglio era diventato la riva su cui ci eravamo arenati e in cui ci ritrovavamo stupiti di essere ancora vivi. Che immensa gratitudine svegliarsi sulla spiaggia accanto alla propria amata!
L’impressione di essere dei sopravvissuti era così forte che il giorno appena nato si sentiva in dovere di portarci la sua parte di gioia. Il primo abbraccio, la prima parola d’amore, la prima sorsata.
Se c’era un fiume nelle vicinanze, Maddalena mi invitava a bagnarmi con lei. “Non c’è nulla di meglio per iniziare la giornata” diceva. In effetti niente è così efficace per lavare via gli odori di una notte di intensa felicità.
– Approfittane per toglierti la sete, – aggiungeva – perché non ho nulla di meglio da offrirti.
Non abbiamo mai fatto colazione al mattino. L’idea di mangiare appena sceso dal letto mi ha sempre nauseato, faccio fatica a credere che per la gente sia una consuetudine. Ma qualche sorsata d’acqua era comunque perfetta per rinfrescarmi l’alito.
Questi pensieri deliziosi non hanno alcun potere ipnagogico. Se voglio addormentarmi per davvero, devo provare con la noia. Ci vuole una volontà di ferro per annoiarsi a comando. Ahimè, di fronte alla morte imminente, nulla mi appare noioso, perfino i discorsi dei Farisei, che riuscivo a malapena ad ascoltare, adesso mi sembrano comici. Cerco di ricordarmi gli sforzi di Giuseppe quando tentava di insegnarmi l’arte della falegnameria. Che pessimo allievo ero! E l’aria sconcertata di Giuseppe, che pure non si arrabbiava mai!
Cristo significa dolce. L’ironia ha voluto che i miei genitori umani fossero mille volte più dolci di me. Si sono trovati: è scoraggiante che esistano esseri di una bontà tanto sconfinata. Io che so leggere nei cuori, capisco subito quando qualcuno si sforza di essere buono, attitudine che d’altra parte è stata spesso la mia. Giuseppe era buono per natura. Mi trovavo accanto a lui quando è morto, non ha neppure maledetto lo stupido incidente che gli è costato la vita, mi ha sorriso e ha detto:
– Stai attento che non succeda anche a te.
Ed è spirato.
No Giuseppe, io non morirò cadendo da un tetto.
Mamma è arrivata troppo tardi.
– Non ha sofferto – ho detto.
Lei ha fatto il gesto tenero di accarezzargli il viso. I miei genitori non erano innamorati uno dell’altra, ma si amavano molto.
Anche mia madre è molto migliore di me. Il male le è talmente estraneo che neppure lo riconosce quando lo incontra. Le invidio questa ignoranza. A me il male non è estraneo. Per poterlo identificare negli altri, è indispensabile che io ne sia provvisto.
Non me ne lamento. Se non portassi dentro di me questa traccia oscura, non avrei potuto innamorarmi. L’amore non tocca mai le creature estranee al male. Non che ci sia qualcosa di male nell’amore, ma per conoscerlo dobbiamo contenere abissi in grado di accogliere la profondità della sua vertigine.
Ciò non significa che io sia un cattivo uomo, né che Maddalena sia una cattiva donna. Dentro di noi la traccia oscura era a riposo. Più in Maddalena che in me, certamente. Lei non avrebbe mai dato in escandescenze di fronte ai mercanti del Tempio. Anche se era per una causa giusta, che orribile ricordo ho di quello scatto di collera! La sensazione di un veleno che si diffonde nel sangue e mi ordina di gettare fuori le persone urlando: ho detestato farlo.
Per fortuna ora non provo nulla di simile. Perfino al processo, quando ho assistito a quelle ripugnanti testimonianze, la mia collera non si è risvegliata. L’indignazione è un fuoco diverso, non causa la stessa sofferenza abominevole. Se sono riuscito a tacere il mio disprezzo è perché, contrariamente alla collera, non è un sentimento di natura esplosiva.
Gesù, non è così che riuscirai a dormire. Non hai alcuna volontà!
Mi sveglio.
Mi è stato dunque concesso di sprofondare nel sonno. È un dono. Ringrazio Dio e penso che è davvero il colmo dovergli dire grazie in un giorno simile. Ma sta di fatto che ho dormito.
Sento scorrere nelle vene la dolcezza del riposo. Basta qualche minuto di sonno per provare questa voluttà. La assaporo con la certezza che sia l’ultima volta.
Non mi sveglierò più.
Un poeta di cui non conosco il nome dirà in futuro: “Tutto il piacere dei giorni è nel loro mattino.” La penso così anch’io. Amo le mattine. Quell’ora del giorno ha una forza inesorabile. Anche se la notte prima è accaduto il peggio, il mattino mantiene la propria purezza.
Mi sento pulito. Non lo sono. La mia anima è pulita questa mattina. Il disprezzo provato ieri non esiste più. Non vorrei rallegrarmene troppo presto, ma ho la netta sensazione che morirò senz’odio. Spero di non sbagliarmi.
Un’ultima pipì in un angolo della cella, torno a sdraiarmi e accade un miracolo: piove.
Questa pioggia non è di stagione. Mi ritrovo a sperare che duri. Dovranno annullare lo spettacolo: una crocifissione sotto la pioggia sarebbe un fiasco, il pubblico la diserterebbe. I romani hanno bisogno che i loro supplizi attirino le folle, altrimenti lo interpretano come un segno di disapprovazione. Per loro il popolo vuole divertirsi e se ne frega delle consorterie politiche. Il brutto tempo ignora le circostanze, ma Roma ha orecchie che arrivano lontano: crocifiggere tre uomini senza che la plebe accorra in massa verrebbe percepito come un affronto.
Ho sempre amato starmene al riparo mentre fuori piove forte. È una sensazione meravigliosa. Viene associata un po’ scioccamente alla serenità. In realtà ha a che fare con il piacere. Il rumore della pioggia esige un tetto come cassa di risonanza: trovarmi sotto questo tetto è il posto migliore per apprezzarne il concerto. Deliziosa partitura, sottilmente cangiante, rapsodica ma senza esagerare, ogni pioggia è una benedizione.
Sta diventando un diluvio. Immagino un altro destino. Le guardie fuggono davanti alla montata delle acque. Mi rilasciano. Ritorno nelle terre dove sono nato, sposo Maddalena, conduciamo la vita semplice delle persone comuni. Troppo negato come carpentiere, divento pastore. Facciamo formaggio di pecora. I nostri bambini lo mangiano ogni sera e crescono forti come alberi. Invecchiamo felici.
Sono tentato? Sì. Da giovane mi piaceva essere un eletto. Adesso non ho più questa fame, si è calmata. Preferirei raggiungere la dolcezza dell’anonimato, ciò che chiamano a torto la banalità. Eppure non c’è nulla di più straordinario di una vita normale. Amo il quotidiano. La sua ripetizione permette di approfondire le meraviglie del giorno e della notte: mangiare il pane appena uscito dal forno, camminare a piedi nudi sulla terra ancora impregnata di rugiada, respirare a pieni polmoni, sdraiarmi accanto alla donna che amo – cosa si può desiderare d’altro?
Anche questo tipo di vita termina con la morte. Nondimeno suppongo che morire sia molto diverso quando è opera dell’età: ci si spegne accanto ai propri cari, deve essere come addormentarsi.
Se potessi sottrarmi alla violenza del mio verdetto, non chiederei nulla di meglio.
Ha smesso di piovere. Questa deliziosa ipotesi finisce qui.
Tutto si compirà.
“Accetta” mi sussurra dentro la testa una voce amorevole.
In Asia un saggio dice che speranza e paura sono il dritto e il rovescio di uno stesso sentimento e che per questo motivo occorre rinunciare a entrambe. È sensato: ho provato speranza invano e adesso il mio terrore è diventato molto più grande. Tuttavia sto per morire in nome di una parola che non condanna la speranza. Forse è una chimera, ma l’amore di cui sono intriso contiene una speranza che non richiede la sua contropartita di paura.
Ciò non toglie che dovrò passare attraverso questa infinita sofferenza. “Accetta.” Ho scelta? Accetto per soffrire meno.
Sono venuti a prendermi.
Tiro un sospiro di sollievo. Il peggio è passato. L’attesa del supplizio è finita.
Vengo ben presto disilluso. Inizia la farsa. Mi mettono una corona di spine in testa, così serrata da farmi sanguinare. Il senso del ridicolo non ha il potere di uccidere, peccato.
Mi flagellano pubblicamente. Non capisco a cosa serva questa scena. Sembrerebbe un antipasto. Prima della crocifissione come portata principale, non c’è nulla di meglio che una flagellazione per risvegliare l’appetito. A ogni frustata il mio corpo si tende per il dolore. La voce gentile dentro la testa mi ripete di accettare. Una voce beffarda risuona dietro di lei: “Non abbiamo ancora finito di divertirci.” Soffoco una risata nervosa che potrebbe venir interpretata come un’insolenza. Che peccato non essere impertinente, mi divertirei molto.
Mi sforzo di non pensare alla frusta che mi sta straziando: quanto arriverà più tardi sarà ben più doloroso. E dire che è possibile soffrire ancora più di così!
Ci sono spettatori, ma neanche troppi. È una cosa per un pubblico altamente selezionato, per intenditori in grado di apprezzare. Sembrano contenti: il boia frusta bene, la vittima mostra il giusto pudore, uno spettacolo di qualità. Grazie Pilato, i tuoi eventi continuano a essere all’altezza della loro fama. Scusaci, ma non assisteremo al prosieguo dei festeggiamenti, che si annuncia un po’ volgare.
Fuori mi aspetta un sole infuocato. Mi hanno frustato così a lungo? Non è più mattino. I miei occhi ci mettono qualche minuto per abituarsi alla luce abbacinante. A un tratto vedo la folla. Adesso è una vera ressa. Ci sono così tante persone che non si riescono neppure a distinguere l’una dall’altra. Hanno tutti un unico sguardo, quello dell’avidità. Non vogliono perdersi nemmeno una briciola dello spettacolo.
La pioggia non ha lasciato la minima traccia di freschezza nell’aria. Il suolo invece ne conserva il ricordo, c’è fango dappertutto. Mi accorgo della croce contro il muro. Valuto mentalmente il suo peso. Sarò in grado di portarla? Ce la farò?
Domande inutili, non ho scelta. Capace o no, dovrò cavarmela.
Mi caricano la croce addosso. È così pesante che potrei sprofondare. Ho un attimo di smarrimento. Non ci sono scappatoie. Riuscirò a farcela?
Camminare il più in fretta possibile, è l’unica soluzione. Fosse semplice: le gambe vacillano sotto di me. Ogni passo mi costa uno sforzo inimmaginabile. Calcolo la distanza che mi separa dal Golgota. Impossibile. Morirò prima. È quasi una buona notizia, non verrò crocifisso.
E invece so che lo sarò. Devo farcela. Forza, non pensare, non serve a niente, cammina. Se solo non affondassi in questo fango che raddoppia il peso della croce!
A peggiorare le cose le persone si accalcano al mio passaggio. Sento commenti meravigliosi:
– Allora, adesso facciamo meno i furbetti, eh?
– Se sei davvero un mago, perché non ti tiri fuori da questo impiccio?
Il vantaggio della situazione in cui mi trovo è che non devo sforzarmi di non disprezzarli. Non ci penso proprio. Il carico assorbe tutta la mia energia.
Non cadere. È vietato. In più, se cadi dovranno rialzarti. Sarà peggio. Sì, esiste anche un peggio. Non cadere, ti scongiuro.
Sento che sto per cadere. È questione di secondi. Non posso farci nulla, c’è un limite e l’ho quasi superato. Eccoci, cado. La croce mi schianta, ho la faccia nel fango. Almeno posso godere di qualche istante di sollievo. Assaporo questa strana libertà, gusto il piacere della mia debolezza. Ovviamente si abbatte subito su di me una gragnuola di colpi, quasi non li sento dal male che ho già dappertutto.
Forza, sollevo di nuovo questo peso mostruoso. Rieccomi in piedi, arranco, conscio ormai del prezzo da pagare. Matteo 11,30: “Il mio giogo è infatti dolce e il mio peso leggero.” Non per me, amici. La buona novella non è riservata a me. Lo sapevo, certo. Ma viverlo è un’altra cosa. Tutto il mio essere protesta. Ciò che mi permette di andare avanti è questa voce – suppongo sia quella della scorza – che continua a mormorare: “Accetta.”
Credevo di avere toccato il fondo, ed ecco mia madre. No. Non guardarmi, per favore. Ahimè, vedo che vedi e che capisci. Hai gli occhi spalancati per l’orrore. È al di là della pietà, provi ciò che io provo, in peggio, perché è sempre peggio quando si tratta di tuo figlio. È contro natura morire prima della propria madre. Se poi lei assiste al supplizio, è il colmo della crudeltà.
Non è il nostro ultimo bel momento, è il nostro momento peggiore. Non ho la forza di dirle di andarsene e anche se l’avessi lei non mi ascolterebbe. Mamma ti amo, non guardare tuo figlio mentre soffre come un cane, ignora quello che sto patendo. Se soltanto tu potessi svenire, mamma!
Mio padre, che non mi esaudisce mai, ha una curiosa maniera di manifestarmi non dico la sua solidarietà e ancor meno la sua compassione, ma quella che non potrei definire altrimenti se non la sua esistenza. I romani iniziano a capire che non arriverò vivo al Golgota. Sarebbe per loro un fiasco incredibile: che senso ha crocifiggere un morto? Allora prendono un tizio al ritorno dai campi, un bellimbusto che passa di lì.
– Sei requisito. Aiuta questo condannato a portare il suo carico.
Anche se ha ricevuto un ordine, quest’uomo è un miracolo. Non si pone alcuna domanda, vede uno sconosciuto che arranca sotto un peso troppo grande per lui, non ci pensa due volte, mi aiuta.
Mi aiuta!
Non è mai successo in vita mia. Non sapevo cosa significasse. Qualcuno mi aiuta. Non importa il motivo.
Potrei piangere. In mezzo a questa specie abietta che mi copre di ingiurie e per cui mi sto sacrificando c’è un uomo che non è venuto a divertirsi per lo spettacolo e che, lo sento, mi sta aiutando di cuore.
Se fosse passato per caso e mi avesse visto arrancare sotto la croce, penso che avrebbe avuto la stessa reazione: sarebbe corso ad aiutarmi senza riflettere neppure un secondo. Esistono persone così. Non sanno di essere rare. Se qualcuno chiedesse a Simone di Cirene perché si comporta in questo modo lui non capirebbe la domanda: non sa che è possibile agire diversamente.
Mio padre ha creato una specie ben curiosa: o sono bastardi dotati di opinioni o sono anime generose che non pensano. Nello stato in cui mi trovo, non riesco a pensare a niente neanche io. Scopro in Simone un amico: ho sempre amato gli uomini robusti. Non creano mai problemi. Mi sembra che la croce non pesi più nulla.
– Lasciami portare la mia parte – gli dico.
– Davvero, è più facile se lasci fare a me – risponde.
Per me va bene. Ma per i romani non tanto. Simone, da brav’uomo qual è, cerca di spiegare il suo punto di vista:
– La croce in sé non è pesante. Il problema è il condannato che mi impaccia.
– Il condannato deve portare la sua parte – urla un soldato.
– Non capisco. Volete che lo aiuti sì o no?
– Adesso ci hai davvero rotto. Levati!
Mogio, Simone mi guarda come se avesse commesso uno sbaglio. Gli sorrido. Era troppo bello per essere vero.
– Grazie – gli dico.
– Grazie a te – risponde stranamente.
Mi guarda come se sapesse.
Non ho tempo di salutarlo meglio. Bisogna che continui a camminare trascinando questo peso morto. Mi accorgo di una cosa imprevista: la croce è meno pesante. Resta terribile, ma l’episodio di Simone ha cambiato la situazione. È come se il mio amico avesse portato con sé la parte più disumana del carico.
Questo miracolo, perché non possiamo chiamarlo altrimenti, non è affatto merito mio. Trovatemi una magia più straordinaria in tutte le Scritture. Cercherete invano.
Fa un caldo terribile. Le sopracciglia non bastano, il sudore della fronte mi cola negli occhi, non vedo più dove sto andando. I romani mi indicano la strada a colpi di frusta, sistema tanto brutale quanto inefficace. Non sapevo si potesse sudare fino a questo punto. Come possono esserci dentro di me tanta acqua e tanto sale?
Improvvisamente un panno mi dà qualche sollievo: una stoffa dolce e deliziosa si sposa con il mio viso in una carezza di seta. Chi può essere capace di un tale gesto? Qualcuno buono quanto Simone di Cirene, ma quel pezzo d’uomo non sarebbe certo capace di asciugarmi il viso con una simile delicatezza.
Vorrei che non finisse mai e allo stesso tempo vorrei vedere il mio benefattore. Il panno viene tolto e mi ritrovo davanti alla donna più bella del mondo. Lei sembra colpita tanto quanto me.
Restiamo imprigionati in quell’attimo, il tempo non esiste più, non so più chi sono né perché sono venuto qui, non m’importa di nulla, esiste solo lo sguardo di questi occhi puri, non ho più passato né futuro, il mondo è perfetto, che ogni cosa si fermi di fronte all’ineffabile. Il colpo di fulmine non è che questo, l’accadere di qualcosa di gigantesco, al nostro desiderio adesso manca soltanto una musica, ed ecco che è possibile ascoltarla.
– Mi chiamo Veronica – dice.
È incredibile quanto possa essere bella una voce sconosciuta.
Le frustate mi riportano alla realtà. La croce torna a opprimermi, mi trascino, l’inferno ricomincia.
Ciò non toglie che da quando è iniziato questo supplizio la sorte sembra accanirsi su di me, mi succede di tutto, il peggio e il meglio, ho incontrato l’amicizia e ho incontrato l’amore, faccio ancora fatica a crederci. Veronica – chi potrà mai essere? –, la musica della sua voce mi risuona ancora nelle orecchie mentre scopro che una melodia può alleggerire l’universo e un viso pieno di freschezza dare la forza di portare lo strumento della propria tortura.
Su questo pianeta esistono Simone di Cirene e Veronica. Due coraggi di una sublimità senza pari.
Ritorno in me. Lotto. Con quali energie potrò evitare una nuova caduta? Una parte del mio cervello calcola il momento dell’incidente. Gli occhi vedono il luogo in cui succederà. Scendo a patti con me stesso: “Solo un passo in più… Solo un mezzo passo in più…”
La caduta è un sollievo illusorio. Eppure assaporo l’idea di cadere una seconda volta. Che bello lasciarsi andare e sottomettersi alla legge di gravità! Una gragnuola di frustate si abbatte immediatamente su di me, la dolce sensazione è durata appena un secondo, ma nello stato in cui sono anche i secondi contano.
Mi sembra di trascinare questa croce da ore. È di certo inesatto. Fatico a ricordare la mia esistenza di prima. Da quando ho iniziato la salita al calvario, sono rimasto colpito da un uomo e poi da una donna. Ho anche rivisto mia madre. Hanno detto spesso che preferisco le donne. Preferire un sesso rispetto all’altro sarebbe ai miei occhi un segno di disprezzo.
Le figlie di Gerusalemme si accalcano attorno a me piangendo. Cerco di convincerle ad asciugare le lacrime:
– Suvvia, non è che un brutto momento, passerà, si sistemerà tutto.
Non credo a una sola parola di ciò che dico. Non si sistemerà niente, sarà sempre peggio. Però i loro singhiozzi non mi lasciano respirare. Come si fa ad aiutare qualcuno? Di sicuro non piangendo davanti a lui. Simone mi ha aiutato, Veronica mi ha aiutato. Nessuno dei due piangeva. Non si profondevano neppure in larghi sorrisi, agivano concretamente.
No, non preferisco le donne. Penso che mi proteggano. È la diretta conseguenza della dolcezza che mostro nei loro confronti, cosa piuttosto rara per gli uomini di queste parti. Occorre precisare che non preferisco nemmeno gli uomini? Ci sono verbi che evito con cura, come preferire o sostituire – non possiamo immaginare quanto i due verbi si equivalgano. Ho visto persone lottare per essere le preferite agli occhi di qualcuno, senza accorgersi di rendersi così sostituibili.
Un giorno si affermerà che nessuno è insostituibile. Io predico l’esatto contrario. L’amore che mi consuma afferma che ognuno di noi è insostituibile. È terribile sapere in anticipo che il mio supplizio non servirà a nulla.
Non è del tutto vero. Qualcuno sarà in grado di comprendere. E non escludo che non avrebbe avuto bisogno del mio sacrificio per questo. Non lo saprò mai. Meglio non indugiare su un’amarezza che renderebbe la mia sorte ancora più orribile.
Si fanno pensieri curiosi quando si trascina una croce. Chiamarli pensieri è esagerato, sono frammenti, cortocircuiti. Quanto sto portando è davvero troppo pesante per me. Non mi sono mai sentito così miserabile.
Peccato che finora io lo abbia ignorato: non portare carichi troppo pesanti è un ideale di vita sufficiente. Una stramaledetta lezione che non mi sarà di alcuna utilità. Mi ricordo di aver camminato giornate intere rallegrandomi all’idea di essere felice di nulla. Non ero affatto felice di nulla, assaporavo la leggerezza.
Cado per la terza volta. Mordere la polvere assume tutto il suo significato. Il suolo non è più fangoso, il sole ha seccato la terra. Intravedo la sommità del Golgota. Perché ho tanta fretta di arrivare? Stento a credere che una volta sulla croce soffrirò più di quanto non stia soffrendo adesso sotto di essa.
È un’esperienza comune: quando si sale su una montagna, la si guarda dapprima dal basso, e non sembra poi troppo alta. Bisogna arrivare in cima per rendersi conto dell’altitudine. Il Golgota non è che una collina, ma ho l’impressione che non finirò mai di scalarlo.
Non so come ho fatto a rimettermi in piedi. Al punto in cui sono, ogni cosa è uno sforzo, sento male ovunque. Devo avere una bella tempra, perché non svengo. Gli ultimi passi sono i peggiori, non posso nemmeno provare la gioia di chi ha superato una prova, so che sta per cominciare qualcosa di tutt’altro genere.
Non tardano a farmelo notare nel modo più semplice: mi spogliano dei miei vestiti. Si trattava solo di una tunica di lino e una cintura: mi rendo finalmente conto del valore di questi stracci.
Finché siamo vestiti, siamo qualcuno. Non sono più nessuno. Non sono più nulla. Una piccola voce nella mia testa sussurra: “Ti hanno lasciato una stoffa a cingerti i fianchi. Potrebbe andare peggio.” L’intera condizione umana si può riassumere così: potrebbe andare peggio.
Non oso guardare i due uomini crocifissi che sono già al proprio posto. Risparmio loro il dolore di sentirsi osservati, dolore che ho imparato a conoscere salendo fin qui.
Uno dei due mi dice con aria beffarda:
– Se sei il figlio di Dio, chiedi a tuo padre di tirarti fuori da questo impiccio.
Ammiro sinceramente che, in una situazione come la sua, riesca ancora a fare del sarcasmo.
Sento l’altro rispondergli:
– Taci, di certo se lo merita meno di noi.
Soffrire così e avere la bontà di difendermi è un comportamento che mi commuove. Lo ringrazio.
No, non gli ho detto che si sarebbe salvato. Dire una cosa simile a qualcuno che sta patendo un supplizio del genere, è una presa in giro. E dire a uno dei due crocifissi “tu ti salverai” e niente all’altro, sarebbe stato il colmo del cinismo e della meschineria.
Chiarisco questo punto perché i Vangeli non lo riporteranno così. Il motivo? Lo ignoro. Gli evangelisti non erano accanto a me quando è successo. E per quanto se ne possa dire, non mi conoscevano. Non ce l’ho con loro, ma non c’è nulla di più irritante di chi con il pretesto di amarvi si arroga il diritto di conoscervi profondamente.
In verità ho avuto uno slancio fraterno verso entrambi i crocifissi, per la semplice ragione che avrei patito ben presto il loro stesso supplizio. Un giorno inventeranno l’espressione “discriminazione positiva” per indicare quello che avrebbe potuto essere il mio atteggiamento nei confronti dell’uomo che chiameranno il buon ladrone. Non ho opinioni in merito, so soltanto che questi due condannati mi hanno commosso ognuno a suo modo. Perché se ho amato ciò che ha detto il buon ladrone, ho amato anche la fierezza del cattivo, che peraltro cattivo non era, non vedo cosa ci sia di grave nel rubare del pane, e posso capire che in una situazione come questa non si abbiano rimorsi.
Il momento è giunto: mi stendo sulla croce. L’ho portata fin qui, da adesso in poi lei porterà me. Vedo arrivare i chiodi e i martelli. La paura mi toglie il respiro. Mi inchiodano i piedi e le mani. Non ci vuole molto, ho appena il tempo di rendermene conto. E poi alzano la mia croce tra quelle dei miei fratelli.
Ed è lì che scopro questa sofferenza indicibile. Avere dei chiodi che ti attraversano i palmi non è nulla in paragone a pesarci sopra. E ciò che è vero per le mani va moltiplicato per mille per i piedi. La regola è soprattutto quella di non muoversi. Il minimo movimento decuplica un dolore già insostenibile.
Mi dico che mi abituerò, che i nervi non possono provare a lungo un orrore del genere. Scopro invece che ne sono assolutamente capaci, e che questo trabiccolo registra le variazioni più sottili come le più macroscopiche.
E dire che quando trascinavo la croce pensavo che lo scopo della vita fosse non portare carichi troppo pesanti! Il senso della vita è non soffrire. Nient’altro che questo.
Non ho via d’uscita. Sono interamente consegnato al mio dolore. Nessun’idea, nessun ricordo può darmi sollievo.
Guardo quelli che mi guardano. “Che effetto fa?” leggo negli innumerevoli occhi di chi mi compatisce o mi osserva con crudeltà. Se dovessi rispondere non troverei le parole.
Non ce l’ho con le persone crudeli. Innanzitutto perché la sofferenza monopolizza ogni mia facoltà, e poi perché, se il mio dolore può dare piacere a qualcuno, lo preferisco.
Ecco Maddalena. Vedere mia madre mi aveva addolorato, vedere la mia innamorata mi commuove. È talmente bella che la compassione non riesce a sfigurarla. Soffro al punto che la mia anima urla, anche se la bocca resta chiusa, incapace persino di immaginare un grido all’altezza di tanto dolore.
L’urlo della mia anima penetra Maddalena. Non è una metafora. È per la sofferenza intollerabile o per l’approssimarsi della morte? Vedo l’amore di Maddalena sotto forma di raggi. Il termine raggio non è esatto, si tratta di qualcosa di più delicato e rotondo, concentrico, un’onda luminosa che da lei arriva fino a me, ed è tanto dolce quanto è doloroso ciò che io, in cambio, le rimando.
Vedo l’urlo della mia anima, o meglio la mia anima sotto forma di una corrente impetuosa che raggiunge l’anima piena d’amore di Maddalena e si mescola alla sua. E ne provo, se non un sollievo, una misteriosissima gioia.
La sete, che mi ero conservato come arma segreta, si riaffaccia in me. È stata un’idea eccellente. Il tormento estremo della gola mi permette di uscire dall’orrore del corpo straziato, il mio stato di arsura porta in sé una salvezza concreta.
L’onda che mi unisce a Maddalena è obliqua e la sua obliquità, più che alla mia posizione rialzata, sembra in qualche modo legata al carattere azzurro della luce. La mia innamorata e io esultiamo in segreto per qualcosa che soltanto a noi è concesso conoscere.
E quando dico soltanto a noi significa che mio padre ne è escluso. Lui non ha corpo e l’amore assoluto che Maddalena e io stiamo vivendo in questo momento scaturisce dal corpo esattamente come la musica dallo strumento. Verità così profonde non si apprendono se non avendo sete, amando e morendo: tre attività che necessitano di un corpo. Anche l’anima è indispensabile, certo, ma non può in alcun caso bastare da sola.
Ci sarebbe di che ridere. Non mi arrischio, mi strapperebbe uno spasmo di dolore. Se occorre che muoia, non deve succedere così. Ho una paura atroce di rovinare la mia morte. Soffro a tal punto che potrei fallire il grande momento.
Questa crocifissione è un errore. Il progetto di mio padre doveva mostrare fin dove ci si può spingere per amore. Se questa idea fosse solo stupida, potrebbe limitarsi a rimanere inutile. E invece no, è anche tremendamente nociva. Una sfilza di uomini sceglierà il martirio a causa del mio esempio imbecille. E fosse solo questo! Perfino coloro che avranno la saggezza di optare per una vita semplice ne saranno contagiati. Perché ciò che mio padre mi infligge testimonia un disprezzo così profondo del corpo che non può non lasciare tracce.
Padre, sei stato superato dalla tua invenzione. Potresti andare fiero di questo risultato, che è prova del tuo genio creatore. Invece, con la scusa di dare una lezione d’amore edificante, stai mettendo in scena la punizione più odiosa e la più carica di conseguenze che si possa immaginare.
Eppure era cominciata bene. Generare un figlio solidamente incarnato era una bella storia, avresti potuto imparare molto, se solo fossi stato un minimo interessato a capire quanto ti sfuggiva. Tu sei Dio: che senso può avere per te un tale orgoglio? Si tratta davvero di questo? L’orgoglio non è cattivo. No, io ci vedo anche qualcosa di ridicolo: sei suscettibile.
Sì, la tua non è che suscettibilità. Altro segnale: non sopporti che esistano rivelazioni al di fuori della tua. Ti infastidirà che uomini vicini o lontani vivano la trascendenza in modi diversi. A volte facendo anche sacrifici umani che tu avrai la faccia tosta di trovare barbari!
Padre, perché agisci con tanta piccineria? Sono blasfemo? È vero. Puniscimi allora. Puoi punirmi più di così?
Eccomi servito: soffro mille volte di più. Perché lo fai? Ti critico. Ho forse detto che non ti amo? Ce l’ho con te, sono arrabbiato con te. L’amore autorizza certi sentimenti. Ma che ne sai tu dell’amore?
È proprio questo il problema. Non conosci l’amore. L’amore è una storia, bisogna avere un corpo per raccontarla. Quanto ho appena detto non ha alcun senso per te. Se soltanto fossi consapevole della tua ignoranza!
Il dolore sta assumendo proporzioni tali che spero di morire al più presto. Purtroppo so che ne avrò ancora per molto. La fiamma della vita non vacilla. Soprattutto non devo muovermi, pago ogni minimo movimento oltre l’immaginabile. L’orribile svantaggio dell’indignazione è che provoca sussulti. Gli indignati sono incapaci di immobilità.
Accetta, amico mio. Sì, è a me che parlo. Provare amicizia verso sé stessi è quello che ci vuole. Provare amore sarebbe sgradevole: l’amore provoca eccessi che non è sano infliggersi da soli. Per l’odio vale la stessa cosa e in più è ingiusto. Io mi sono amico, provo affetto per l’uomo che sono.
Accetta, non perché sia accettabile, ma perché soffrirai meno. Non accettare va bene quando è di qualche utilità: qui non servirebbe a niente.
Non hai forse a disposizione una tripletta vincente? Stai riassumendo le tre situazioni in assoluto più radicali: la sete, l’amore, la morte. Sei all’esatta intersezione delle tre. Approfittane, amico mio. Questo verbo è spregevole. Non posso comunque dire “gioiscine”, avrei l’aria di prendermi in giro da solo.
Il fatto è il seguente: sto vivendo un’esperienza cruciale, è proprio il caso di dirlo. Non posso mettere da parte la sofferenza e allora mi tuffo nella sete, non per sfuggire alla situazione, ovvio, ma perlomeno per pensare ad altro.
Che sete grandiosa! Un capolavoro di arsura. La lingua si è trasformata in pietra pomice, la sfrego contro il palato, è abrasiva. Esplora la tua sete, amico mio. È un viaggio, ti conduce a una fonte, quanto è bella, ascolta, sì, è una canzone meravigliosa, devi tendere l’orecchio, ci sono musiche al mondo che bisogna sapersi meritare, questo tenero mormorio mi riempie di gioia, in bocca sento un certo gusto di pietra. Ci sarà un paese così povero che nel suo idioma bere e mangiare saranno un unico verbo da impiegarsi con estrema parsimonia, bere è un po’ come inghiottire sassolini liquidi – no, questa immagine funziona solo se l’acqua scende goccia a goccia, e nel mio viaggio l’acqua non stilla ma sgorga potente, io mi sdraio così da avvicinare la bocca e lei mi ama esattamente come ama la fonte santa. Bevimi senza limiti, amore mio, che la tua sete ti appaghi senza estinguersi mai dal momento che questa parola non esiste in nessuna lingua.
Come stupirsi che la sete conduca all’amore? L’innamoramento parte sempre da un invito a bere qualcosa insieme. Forse perché nessuna sensazione è così poco deludente. Una gola secca si immagina l’acqua come un delirio estatico e un’oasi è a prova di qualsiasi attesa. Chi beve dopo avere attraversato il deserto non si dice mai: “Che cosa sopravvalutata!” Offrire da bere a chi ci apprestiamo ad amare significa suggerire che il godimento sarà come minimo all’altezza dello sperato.
Mi sono incarnato in un paese secco. Era necessario che nascessi non solo là dove regna la sete, ma anche in un luogo martoriato dal caldo.
Per poco che lo conosco, il freddo avrebbe scombinato le carte. Perché sopisce la sete, ma soprattutto azzera qualsiasi altra sensazione. Chi ha freddo, ha freddo e basta. Chi muore di caldo è capacissimo di soffrire al contempo per mille altre cose.
Sono ancora maledettamente vivo. Sudo – da dove viene tutto questo liquido? Il sangue circola, cola dalle piaghe, il dolore è giunto al culmine, ho così male che la geografia della pelle si è modificata, ho l’impressione che le zone più sensibili del corpo siano ormai le spalle e le braccia, questa posizione è intollerabile, e dire che un essere umano un giorno ha avuto l’idea della crocifissione, ci ha proprio pensato su… La più grande sconfitta di mio padre è tutta in questa osservazione: la sua creatura è stata capace di inventarsi un supplizio di tale portata.
Ama il prossimo tuo come te stesso. Insegnamento sublime di cui sto professando il contrario. Accetto questa messa a morte mostruosa, umiliante, indecente, interminabile: chi accetta una cosa simile non si ama affatto.
A mia discolpa potrei sostenere la tesi dell’errore paterno. Con il suo progetto, in effetti, ha preso una sonora cantonata. Ma io, come ho potuto sbagliarmi fino a questo punto? Perché ho aspettato di essere sulla croce per rendermene conto? Sospettavo qualcosa, certo, ma non al punto da rifiutare l’affare.
La prima scusa che mi viene in mente è che mi sono comportato come farebbe chiunque: ho vissuto giorno per giorno senza pensare troppo alle conseguenze. Mi piace molto questa versione in cui in fondo non sono stato che un uomo – e quanto ho amato esserlo!
Ahimè, non posso continuare a far finta di non vedere, c’è ben altro rispetto alla sottomissione a mio padre, qualcosa di peggio, di molto peggio. L’amicizia che mi sono appena concesso arriva troppo tardi. Se ho accettato l’indicibile non è unicamente in virtù di un’incoscienza che mi discolperebbe, ma perché in me circola un veleno comune a tutti: l’odio verso di sé.
Come ho potuto esserne contagiato? Provo a tornare indietro con la memoria. Da quando ho saputo a cosa ero destinato, ho preso a odiarmi. Ma ho ricordi di prima dei ricordi, frammenti in cui non dico io, in cui la coscienza non mi ha raggiunto e in cui ancora non mi odio.
Sono nato innocente, qualcosa poi si è guastato. Come, lo ignoro. Non do la colpa a nessuno se non a me stesso. Che errore curioso commettiamo verso i tre anni. Attribuircene la colpa non fa che aumentare l’odio verso noi stessi, assurdità supplementare. Nella creazione c’è chiaramente un vizio di forma.
Ed ecco che, come tutti, rendo mio padre responsabile del mio sbaglio. La cosa mi dà un grande fastidio. Maledetta sia la sofferenza! Senza di lei andremmo sempre in cerca di un colpevole?
Operaio dell’ultima ora alla vigna del padrone, tento infine di diventarmi amico. Occorre che mi perdoni per essermi sbagliato così di grosso. La difficoltà maggiore è convincermi della mia ignoranza. Davvero non sapevo?
Una voce interiore mi assicura che sapevo. E allora come ho potuto? Odiare sé stessi è terribile, ma io che predicavo “Ama il prossimo tuo come te stesso” sono costretto ad ammettere la logica del mio ragionamento: come ho potuto odiare gli altri? E odiarli a tal punto?
Questa commedia atroce è stata solo opera del diavolo?
Oh, ne ho abbastanza di lui. Non appena qualcosa va storto, lo invochiamo. Troppo facile. Nella mia posizione, mi concedo ogni blasfemia: non credo al diavolo. Credere in lui è inutile. C’è già abbastanza male sulla terra senza doverne aggiungerne altro.
La folla che assiste al mio supplizio è formata per la maggior parte da cosiddette brave persone, lo dico senza ironia. Le guardo negli occhi e ci vedo il male sufficiente per legittimare non solo la disavventura capitata a me, ma anche tutte quelle passate e future. Perfino lo sguardo di Maddalena contiene una traccia maligna. Perfino il mio. Non conosco il mio sguardo, eppure so cosa abita dentro di me: ho accettato la mia sorte, non ho bisogno di altre prove.
Non accontentarsi di questa spiegazione e chiamare Diavolo quella che è solo meschinità latente, significa rivestire la nostra miseria di una parola grandiosa, attribuendo così a quest’ultima un potere mille volte superiore. Un giorno una donna eccezionale dirà: “Mi fa più paura chi teme il diavolo del diavolo in persona.” Una frase che dice tutto.
Alcuni diranno che se chiamiamo Dio il bene, è giocoforza attribuire un nome anche al male. Ma da dove salta fuori che Dio è il bene? Io ho forse l’aria di esserlo? Vi sembra che mio padre, che ha concepito quanto ho accettato, sia credibile in questo ruolo? D’altra parte non lo rivendica affatto. Dice di essere amore. L’amore non è il bene. C’è solo una intersezione tra i due, e neanche sempre.
E quanto sostiene di essere, lo è poi davvero? A volte è così difficile distinguere la forza dell’amore dagli altri sentimenti a cui si accompagna. Mio padre mi ha abbandonato per amore verso la sua creatura. Trovatemi atto d’amore più perverso.
Non voglio autoassolvermi. A trentatré anni ho avuto tutto il tempo per riflettere sulla scelleratezza di questa storia. Non è giustificabile in alcun modo. La leggenda afferma che sto espiando i peccati di tutti gli uomini che mi hanno preceduto. Quand’anche fosse vero, che ne sarà allora dei peccati degli uomini che verranno? Non posso usare l’ignoranza come paravento perché so cosa accadrà. E se anche lo ignorassi, che razza di imbecille dovrei essere per avere dubbi al riguardo?
D’altra parte, come credere che il mio supplizio possa espiare qualcosa? La mia infinita sofferenza non cancella nulla del dolore che quei poveretti hanno sofferto prima di me. L’idea stessa di espiazione è ripugnante per il suo assurdo sadismo.
Se fossi masochista mi perdonerei. Ma non lo sono: non c’è traccia di voluttà nell’orrore che sto provando. Tuttavia bisogna che mi perdoni. Nel guazzabuglio di parole che sono venuto a diffondere, l’unica in grado di portare salvezza è: perdono. Io ne offro un controesempio significativo. Perdonare non richiede alcuna contropartita, si tratta semplicemente di uno slancio del cuore. Come spiegare allora il mio sacrificio? Immaginate qualcuno che volendo convincere gli altri a diventare vegetariani immolasse un agnello: la gente gli riderebbe in faccia.
Io mi trovo proprio in questa situazione. Ama il prossimo tuo come te stesso, non infliggergli ciò che non sopporteresti, se si è comportato male con te non chiedere che venga punito, volta pagina con generosità. Dimostrazione: mi odio al punto da infliggermi una simile atrocità, la mia punizione è il prezzo da pagare per gli errori che voi avete commesso.
Come sono potuto arrivare fin qui? A poco a poco mi accorgo che questo accumulo di preterizioni rappresenta il culmine dell’argomento a fortiori: se riesco a perdonarmi colpevole come sono, allora tutto sarà compiuto.
Ne sono capace?
Ci sono mille modi di interpretare il mio atto. Impossibile determinare il più abominevole. Prendiamo quello che diventerà ufficiale: mi sacrifico per il bene di tutti. Ignobile! Un padre morente chiama i figli al suo capezzale e dice loro:
– Miei adorati, ho vissuto una vita di stenti, non mi sono concesso nessun piacere, ho sopportato un lavoro detestabile, non ho mai speso un soldo e tutto per voi, perché possiate avere una buona eredità.
Chiamare amore un atteggiamento del genere è da mostri. Io l’ho fatto. E così l’ho formalizzato come norma da seguire.
Prendiamo mia madre. Lo ripeto, è una donna migliore di me. È così buona da non essere nemmeno qui adesso: sa che la sua presenza aumenterebbe il mio dolore. Eppure è consapevole di quanto mi sta succedendo. Ciò che subisce è infinitamente peggio di quello che sto subendo io, con la differenza abissale che lei non lo ha né scelto né accettato. Io sono colui che infligge questo dolore alla propria madre.
Maddalena: io e lei siamo legati. Sono innamorato di lei così come lei è innamorata di me. Invertiamo la situazione: io sono al posto suo, assisto alla crocifissione di Maddalena sapendo che è lei ad averla voluta.
– Ci amavamo alla follia, e nondimeno ho scelto il pubblico supplizio. Buone notizie, amore: hai il permesso di guardarmi.
Potrei continuare così a lungo. Tra la folla che ho sotto gli occhi ci sono dei bambini. Prima della pubertà siamo diversi, non innocenti certo, possiamo tranquillamente fare del male, ma non abbiamo filtri, tutto ci tocca in profondità. In questo preciso momento, giovani creature aperte e fiduciose si stanno lasciando impregnare da un orrore senza limiti.
Posso perdonarmi questa cosa?
Uso la parola cosa apposta. Mi rifiuto di utilizzare qualsiasi altra parola per dire crocifissione. Risulterebbe troppo elegante e preziosa. Quanto sto vivendo è laido e volgare. Se almeno potessi contare sul rapido oblio dei popoli! Ciò che mi opprime di più è sapere che ne parleranno nei secoli dei secoli, e non per deplorare la mia sorte. Nessuna sofferenza umana sarà mai oggetto di una glorificazione così colossale. Mi ringrazieranno per questo. Mi ammireranno per questo. Crederanno in me per questo.
Ed ecco perché non riesco a perdonarmi. Sono il responsabile del più grande controsenso della Storia, e del più deleterio.
Non posso sostenere la tesi della sottomissione a mio padre. Gli ho disobbedito più volte. A cominciare da Maddalena: non avevo diritto né alla sessualità né a innamorarmi. Con Maddalena non ho esitato a infrangere il divieto. E non sono stato punito.
Ma no, diamine. Faccio davvero ridere a pensare di aver beneficiato dell’impunità di mio padre infrangendo le sue proibizioni con Maddalena. In verità, il mio castigo era stato deciso dall’inizio.
Oppure il mio torto è stato quello di crederci. Ho talmente creduto alla mia condanna da non concedermi nessun’altra possibilità.
Anche se non è più tempo ormai, immaginiamo.
Nell’Orto degli Ulivi mi avrebbe raggiunto Maddalena. Con qualche bacio mi avrebbe convinto a scegliere la vita. Saremmo fuggiti insieme, saremmo andati a vivere in una terra lontana, sconosciuti a tutti, e avremmo condotto laggiù la meravigliosa esistenza della gente normale. Ogni notte mi sarei addormentato stringendo la mia donna al petto, ogni mattino mi sarei svegliato accanto a lei. Non esiste felicità paragonabile a una fantasticheria simile.
A non funzionare in questa versione è che faccio dipendere la mia scelta da un’altra persona. Cosa mi ha impedito di avere questa idea da solo? Dovevo soltanto trovare Maddalena e tenderle la mano. Lei mi avrebbe accompagnato senza esitare.
Non ci ho mai neanche pensato.
Ho compiuto diversi miracoli. Adesso non potrei più. Soffro troppo per accedere alla scorza. Il potere della scorza mi veniva da un’assoluta incoscienza. L’eccesso di dolore mi sbarra ormai la strada. Giuro che se potessi compiere un ultimo miracolo, mi libererei di questa croce.
Razza di sognatore, la vuoi smettere di farti del male? Sì, ce l’ho con me stesso.
Devo perdonarmi. Perché non riesco?
Perché ci sto pensando. Più ci penso, meno mi perdono.
La riflessione impedisce il perdono.
Devo perdonarmi senza riflettere. Dipende solo dalla mia decisione, non dall’orrore del mio atto. Devo decidere che è cosa fatta.
Avevo dieci anni, i bambini del villaggio giocavano a buttarsi nel lago dall’alto di uno strapiombo, per me era impossibile. Un ragazzino mi ha detto:
– Il segreto è saltare senza riflettere.
Ho svuotato la testa e sono saltato. È passato qualche tempo prima che mi ritrovassi nell’acqua. Ho adorato quell’esaltazione.
Devo riuscire a svuotare la testa. Creare il nulla là dove imperversa il rumore. Ciò che chiamano pomposamente “pensiero” in fondo non è che un acufene.
Ecco.
Mi perdono.
È fatta. È un verbo performativo. Basta dirlo – nel modo giusto, nel senso assoluto del verbo – e ogni cosa è compiuta.
Mi sono appena salvato e ho dunque salvato tutto l’esistente. Mio padre lo sa? Sicuramente no. Non ha alcun senso dell’improvvisazione. Non è colpa sua: per poter improvvisare, bisogna avere un corpo.
Io ne ho ancora uno. Non sono mai stato così incarnato: la sofferenza mi inchioda al mio corpo. L’idea di lasciarlo mi ispira sentimenti contrastanti. Malgrado l’immensità del dolore, mi ricordo quanto devo a questa incarnazione.
Perlomeno la mia testa ha smesso di torturarsi. È un considerevole sollievo perdermi nello sguardo di Maddalena: sente che ho vinto. Annuisce.
Da quanto tempo sono su questa croce?
Le labbra di Maddalena abbozzano parole che non riesco a sentire. Sono indirizzate a me, vedo la loro traiettoria dorata dirigersi verso di me. Il crepitio di scintille dura più a lungo delle frasi stesse, ricevo il loro urto in pieno petto.
Affascinato, la imito. Pronuncio parole mute verso di lei, le vedo uscire da me sotto forma di raggi d’oro e so che lei le incorpora.
Gli altri mantengono la loro aria impietosita. Non hanno capito. Bisogna riconoscere che la mia vittoria è quasi impercettibile.
Non sono ancora morto. Come arrivare fino in fondo? Per quanto strano, sento che potrei crollare, e questo significa che ancora non sono crollato.
Per evitare di cedere, ricorro al vecchio metodo: l’orgoglio. Il peccato d’orgoglio? Se preferite. Nella mia situazione, questo peccato mi sembra così risibile che me lo perdono in anticipo. Orgoglio, sì: al momento occupo un ruolo che ossessionerà l’umanità per i prossimi millenni. Che sia tutto un malinteso, non cambia niente.
Questo punto di osservazione è concesso a una persona soltanto, non che io sia l’ultimo crocifisso della specie – sarebbe troppo bello – ma nessun’altra crocifissione avrà mai una risonanza simile. Mio padre ha scelto me per questo ruolo. È un errore, una mostruosità, ma rimarrà una delle storie più sconvolgenti di tutti i tempi. La chiameranno la Passione di Cristo.
Nome calzante: una passione designa qualcosa che si subisce e, per conseguenza semantica, un eccesso di sentimento a cui la ragione non ha preso parte.
Mio padre non ha avuto torto nell’attribuirmi questo ruolo. Ne convengo. Sono stato sufficientemente cieco da sbagliarmi fino a tal punto, sufficientemente pieno d’amore da perdonarmi, e sufficientemente orgoglioso da mantenere la testa alta.
Ho commesso l’errore più grande. Avrà conseguenze incalcolabili. Ebbene, ecco: è nella natura degli errori avere conseguenze. Se io posso perdonare me stesso, allora chiunque commetterà errori atroci potrà perdonarsi.
– Tutto è compiuto.
L’ho detto. Me ne accorgo solo dopo aver parlato. Tutti hanno sentito.
Le mie parole seminano il panico. Il cielo all’improvviso si oscura. Non riesco a credere al potere della mia voce. Mi piacerebbe parlare ancora per scatenare altri fenomeni, ma non ne ho la forza.
Luca scriverà che ho detto: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno.” Controsenso. È me che devo perdonare: sono il più colpevole tra gli uomini e non è a mio padre che ho chiesto perdono.
Mi dà sollievo non averlo detto: sarei stato troppo condiscendente verso gli uomini. La condiscendenza è la forma di disprezzo che trovo più esecrabile. E francamente non sono nella situazione di poter disprezzare l’umanità.
Non ho neppure detto a Giovanni (che non era qui al pari degli altri discepoli): “Ecco tua madre”, né a mia madre (che ha avuto la bontà di non essere presente): “Madre, ecco tuo figlio.” Giovanni, ti amo tanto. Ma questo non ti autorizza a parlare a vanvera. Ormai non ha alcuna importanza.
Devo risparmiare le energie: ho raggiunto lo stadio in cui parlare produce finalmente l’effetto voluto. Che performance linguistica voglio ottenere adesso?
La risposta mi viene dal cuore. Dalla parte più profonda di me sgorga il desiderio che più mi somiglia, il mio bisogno adorato, la mia arma segreta, la mia vera identità, ciò che mi ha fatto amare la vita, ciò che me la fa amare ancora:
– Ho sete.
Richiesta sbalorditiva. Nessuno ci aveva pensato. Davvero un uomo che soffre così da ore può avere una necessità tanto banale? La mia supplica suona bizzarra quanto potrebbe esserlo chiedere un ventaglio.
È la prova che sono salvo: sì, al grado di dolore a cui sono arrivato, posso ancora trovare la felicità in una sorsata d’acqua. La mia fede è intatta fino a questo punto.
Di tutte le parole che ho pronunciato sulla croce, è di gran lunga la più importante, anzi, è la sola che conti. Crescendo si impara a non soddisfare la fame appena compare. Mentre nessuno ci insegna a ritardare il momento in cui placheremo la nostra sete. Quando si presenta, ci appelliamo a lei come a un’urgenza indiscutibile. Interrompiamo le nostre attività quali che siano, cerchiamo da bere.
Non è una critica, bere è così delizioso. Nondimeno mi rammarico che nessuno esplori l’infinità della sete, la purezza di questo impulso, l’aspra nobiltà che ci caratterizza nell’attimo in cui la proviamo.
Giovanni 4,14: “Chi beve di quest’acqua non avrà mai più sete.” Perché il mio discepolo preferito formula un controsenso così enorme? L’amore di Dio è acqua che non disseta mai. Più se ne beve, più si ha sete. Finalmente un piacere che non placa il desiderio!
Fate la prova. Qualunque sia la vostra occupazione fisica o mentale, associatela a una gran sete. I vostri gesti e i vostri pensieri assumeranno tutt’altro acume, precisione, magnificenza. Non dico di non bere mai, suggerisco solo di aspettare un po’. C’è tanto da scoprire nella sete.
A cominciare dalla gioia di bere, che non viene mai celebrata abbastanza. Trattiamo con sufficienza il precetto di Epicuro: “Datemi un bicchiere d’acqua e morirò di piacere.” Quanto abbiamo torto!
In verità vi dico, pure inchiodato a questa croce un bicchiere d’acqua mi farebbe davvero morire di piacere. Immagino che non ne avrò. Sono fiero anche solo di averlo desiderato e felice di sapere che altri dopo di me proveranno questa voluttà.
Con ogni evidenza nessuno ha previsto una situazione simile. Sul Golgota non c’è acqua. E anche se ce ne fosse, non ci sarebbe modo di sollevarsi fino alla mia testa per accostarmi una tazza alle labbra.
Ai piedi della croce sento un soldato dire al suo capo:
– Ho dell’acqua mescolata con aceto. Gliene allungo un po’ su una spugna?
Il superiore lo autorizza, probabilmente perché non ha colto l’importanza della mia richiesta. Fremo all’idea di provare questa sensazione un’ultima volta. Ascolto il rumore della spugna che si riempie di liquido: quel suono voluttuoso mi scioglie di felicità. Il soldato conficca la spugna sull’estremità di una lancia e la alza fino alla mia bocca.
Per quanto sia stremato, mordo la spugna e ne aspiro il succo. Esulto. Quanto è buono. Il gusto di aceto, che meraviglia! Succhio il liquido sublime di cui la spugna è così ricca, bevo, concentrando tutto me stesso in questa deliziosa sensazione. Non lascio una sola goccia nella spugna.
– Ne ho ancora – dice il soldato. – Gli tendo di nuovo la spugna?
Il capo rifiuta:
– Basta così.
Bastare. Che verbo orribile! In verità vi dico: nulla basta.
Il centurione non ha più motivi per rifiutare di quanti non ne avesse per acconsentire.
Comandare è un compito oscuro. Mi ritengo fortunato di aver potuto bere un’ultima volta, anche se la mia sete non si è minimamente placata. Ce l’ho fatta.
Sta per scoppiare un temporale. La gente vorrebbe che morissi. Ne ha abbastanza di questa agonia che non finisce più. Anch’io vorrei morire in fretta. Ma non ho il potere di accelerare il trapasso.
Il cielo si squarcia, lampi, tuoni, piove a dirotto. La folla si disperde, scontenta, fortuna che non abbiamo pagato, non è neanche morto, non è successo un bel niente.
Non ho la forza di tendere la lingua per catturala, ma la pioggia mi bagna comunque le labbra e provo una gioia indicibile nel respirare ancora una volta il meraviglioso profumo che un giorno porterà il bel nome di petricore.
Maddalena è sempre qui, davanti a me, la morte sarà perfetta, piove e guardo negli occhi la donna che amo.
Ecco arrivato il grande momento. La sofferenza scompare, il cuore si disserra come una mascella e riceve una carica d’amore inaudita, è al di là del piacere, tutto si apre all’infinito, non ci sono limiti a questa sensazione di libertà, il fiore della morte non cessa più di schiudere la sua corolla.
L’avventura comincia. Non dico: “Padre, perché mi hai abbandonato?” L’ho pensato parecchio tempo fa, ma adesso non lo penso, non penso a niente, ho di meglio da fare. Le mie ultime parole saranno: “Ho sete.”
Mi è concesso di entrare nell’altro mondo senza abbandonare nulla. È una partenza senza separazioni. Non ho lasciato Maddalena. Porto il suo amore là dove tutto ha inizio.
La mia ubiquità ha finalmente un significato: sono al contempo dentro e fuori il mio corpo. Gli sono troppo legato per non lasciare in lui una parte della mia presenza: l’eccesso di dolore che ho provato nelle ultime ore non è stato il miglior modo di abitarlo. Non mi sento amputato da lui, al contrario, ho l’impressione di possedere ancora alcuni suoi poteri, come la scorza.
Il soldato che mi aveva dato da bere si accorge del mio decesso. È un uomo che non difetta d’intuito: la differenza tra prima e adesso non è così evidente. Avvisa il suo capo che mi guarda con aria dubitativa. Mi diverte molto: se non fossi del tutto morto cosa cambierebbe? Il centurione deve credere nella mia magia per temere che io mi stia prendendo gioco di lui! Francamente, se anche volessi resuscitare ne sarei incapace per una semplice ragione: sono sfinito. Morire stanca.
Il capo ordina al soldato di trapassarmi il cuore con la lancia. L’ordine turba il poveretto che mi ha preso in simpatia: ha usato la lancia per darmi da bere, gli ripugna usarla per ferirmi.
Il suo superiore si innervosisce, vuole che gli si ubbidisca subito. Bisogna accertarsi che sia morto, forza, eseguire! Il soldato punta la lancia verso il mio cuore, lo manca apposta, come se volesse risparmiarmi quest’organo, mi trapassa appena più sotto, non conosco a sufficienza l’anatomia del mio corpo per sapere di preciso cosa ha colpito, sento la lama dell’arma dentro di me, ma non provo dolore. Cola fuori un liquido che non è sangue.
Convinto, il centurione annuncia:
– È morto.
I pochi ancora in piedi davanti a me se ne vanno, a testa bassa, desolati e rassicurati a un tempo. La maggior parte si aspettava un miracolo: è accaduto ma nessuno se n’è accorto. È stato troppo poco spettacolare, una crocifissione banale, se non fosse arrivato un temporale alla fine si sarebbe davvero potuto credere che l’Eterno se ne stesse infischiando.
Maddalena corre ad avvertire mia madre:
– Tuo figlio ha smesso di soffrire.
Si gettano una nelle braccia dell’altra. La parte di me che ormai sorvola il mio corpo le vede e ne rimane commossa.
Maddalena prende per mano mia madre e la porta sul Golgota. Il centurione ha ordinato al soldato e ad altri due di togliermi dalla croce, che adesso giace per terra. Hanno la delicatezza di rimuovere i chiodi dalle mani e dai piedi prima di staccarmi così che non si lacerino. Ammetto di essere sensibile a questa attenzione: amo il mio corpo e non vorrei che lo si maltrattasse ancora.
Mia madre chiede che le consegnino il cadavere e nessuno le contesta il suo diritto. Da quando non hanno più dubbi sul fatto che io sia morto, è incredibile quanto sono diventati gentili i romani. Chi potrebbe credere che sono gli stessi che mi hanno brutalizzato a più riprese da stamattina? Sembrano sinceramente toccati dalla donna venuta a reclamare le spoglie del figlio.
Amo questo momento. L’abbraccio di mia madre è di una dolcezza estrema, ci ritroviamo per un’ultima volta, sento le sue carezze e il suo amore, le madri a cui muore un bambino hanno bisogno del corpo del figlio scomparso, proprio perché così, ai loro occhi, scomparso non sia.
Tanto avevo detestato incontrare mia madre dopo la prima caduta sotto il peso della croce, quanto adesso amo stare un’ultima volta tra le sue braccia. Non piange, quasi percepisse il mio benessere, mi dice parole adorabili, mio piccolino, mio passerotto, mio agnello da latte, mi bacia sulla fronte e sulle guance, l’emozione mi fa trasalire, e stranamente non ho dubbi sul fatto che lei se ne accorga. Non sembra triste, al contrario. Ciò che chiamano la mia morte l’ha ringiovanita di trentatré anni, com’è bella la mia mamma adolescente!
Mamma, che privilegio essere tuo figlio! Una madre che ha il talento di far sentire al suo bambino quanto lo ama è la grazia assoluta. Ricevo questa ebbrezza meno comune di quanto non si pensi. È un piacere che mi manda in estasi.
Che curioso statuto ha il mio corpo, morto alla sofferenza ma non alla gioia! Non so neppure se ho fatto ricorso al potere della scorza, è come se il miracolo sgorgasse spontaneamente, la mia pelle è viva dal momento che vibra di felicità, e mia madre ne raccoglie tra le braccia ogni singolo fremito.
La deposizione dalla croce è una scena che darà luogo a un gran numero di rappresentazioni artistiche: la maggior parte di loro testimonierà di questa ambiguità. Maria ha quasi sempre l’aria di accorgersi di un’anomalia che non dice. Quanto alla mia estasi, è ogni volta evidente.
Non hanno tutti i torti: anche i meno mistici tra i pittori coglieranno che la mia morte è una ricompensa. È il mio riposo del guerriero. Che ci sia o no immortalità dell’anima, come non tirare un sospiro di sollievo per questo poveretto che ha finalmente smesso di soffrire?
Io che ho accesso alle opere d’arte del mondo intero e di tutti i secoli amo guardare le deposizioni dalla croce. Non considero neppure di sfuggita le scene che riproducono la mia crocifissione: mi ricordano il supplizio. Ma mi commuovo profondamente per le statue o i quadri in cui vedo le mie spoglie tra le braccia di mia madre. Mi colpisce l’acutezza dello sguardo degli artisti.
Alcuni, e non i meno noti, hanno percepito il ringiovanimento di mia madre. Nessuna delle Scritture ne fa menzione, forse perché non lo si ritiene importante. La mater dolorosa ha ben altre gatte da pelare delle sue rughe, d’accordo.
Di solito sono i defunti ad apparire ringiovaniti sul letto di morte. Non è il mio caso. In effetti, dopo una crocifissione, si tende sempre a sembrare un po’ sciupati. Tra noi si direbbe quasi che sia stata mia madre a beneficiare della famosa giovinezza post mortem. Mi piace molto il legame che c’è tra i nostri corpi.
Nella Pietà all’entrata della basilica di San Pietro, Maria sembra avere sedici anni. Potrei essere suo padre. Il rapporto tra noi è talmente invertito che mia madre è diventata la mia orfana. Comunque sia, le rappresentazioni della mater dolorosa sono sempre inni all’amore. La madre riceve il corpo di suo figlio con tanto più trasporto sapendo che quella sarà l’ultima volta.
Potrà raccogliersi sulla sua tomba ogni giorno, ma sa che nulla vale quanto stringerlo a sé: sì, perfino con un corpo morto, tutto l’amore del mondo non riesce mai a esprimersi così bene come attraverso un abbraccio.
Sono qui. Non ho mai smesso di essere qui. In un’altra maniera, certo, ma sono qui.
Non c’è bisogno di credere in qualcosa per sondare il mistero della presenza. È esperienza comune. Quante volte siamo qui senza essere presenti? Non è necessario sapere a cosa sia dovuto.
“Concentrati” diciamo. E il vero significato è: “Richiama la tua presenza.” Quando parliamo di un allievo indisciplinato descriviamo il fenomeno di una presenza che si disperde. Perché questo accada basta un minimo di distrazione.
La distrazione non è mai stata il mio forte. Essere Gesù forse è proprio questo: qualcuno presente per davvero.
Mi è difficile fare paragoni. Ho accesso soltanto alla mia esperienza, in questo sono come tutti gli altri. La mia cosiddetta onniscienza mi lascia in realtà all’oscuro di parecchie cose.
Il fatto è questo: qualcuno presente per davvero non lo si incontra tutti i giorni. La mia tripletta vincente – amore, sete, morte – insegna a ben guardare anche tre modi di essere incredibilmente presente.
Quando ci innamoriamo, siamo presenti fino al parossismo. In seguito, non è l’amore a venire meno, è la presenza. Se volete amare come il primo giorno, dovete coltivare la vostra presenza.
L’assetato è presente al punto da diventare fastidioso. Non c’è bisogno di chiosare sull’argomento.
Morire è l’atto di presenza per eccellenza. Non mi capacito dell’enorme quantità di persone che si augura di morire nel sonno. L’errore è tanto più profondo in quanto morire dormendo non garantisce alcuna incoscienza. E perché poi vogliono perdersi il momento più interessante della loro esistenza? Per fortuna nessuno muore senza rendersene conto, per il semplice motivo che è impossibile. Perfino l’uomo più distratto viene immediatamente riportato al presente nell’ora del trapasso.
E dopo? Nessuno lo sa.
Quanto a me, io sento di essere qui. Alcuni affermeranno che è un’illusione della coscienza. Eppure tutti abbiamo notato l’estrema presenza dei morti. Poco importa in cosa crediamo. Quando qualcuno muore, è incredibile quanto si pensi a lui. Per molte persone è addirittura l’unico momento in cui si pensa a loro.
In seguito, la cosa tende a esaurirsi. Oppure no. Ci sono riapparizioni straordinarie. Individui che tornano in mente dieci, cento, mille anni dopo il decesso. Possiamo negare che questa sia una forma di presenza?
Quello che vorremmo sapere è se questa presenza è cosciente. Il morto sa di essere qui? Io direi di sì, ma dato che sono morto, si potrebbe obbiettare che sto portando acqua al mio mulino. E d’altra parte, ammettiamo pure che io non sia un morto come tanti.
Ancora una volta, non ho certezze. Non sono mai stato un morto diverso da me. Forse tutti i morti sentono la propria presenza quanto io sento la mia.
La prima cosa che scompare quando moriamo è il tempo. Stranamente, occorre tempo per accorgersene. La musica diventa l’unico elemento che ci permette di averne ancora una vaga nozione: senza il suo continuo fluire, il morto non avrebbe più nessuna idea del concetto di cambiamento.
Dopo numerosi canti, sono stato messo nel sepolcro. Molte persone sono più spaventate dalla sepoltura che dal decesso: è un terrore per nulla insensato. Morire, perché no? Essere rinchiuso in una cripta, magari con altri cadaveri, che incubo! La cremazione rassicura alcuni e atterrisce altri. È una paura che ha ottime ragioni. Quelli che gridano a gran voce: “Fate del mio corpo ciò che volete, me ne frego! Sarò morto, mi è del tutto indifferente” di certo non hanno riflettuto abbastanza. Hanno davvero così poco rispetto per la porzione di materia che ha permesso loro di conoscere la vita per così tanti anni?
Non ho suggerimenti al riguardo; ci vuole un rito, ecco tutto. E infatti ce n’è sempre uno. Nel mio caso, hanno sbrigato la faccenda in fretta, è normale quando si tratta di un condannato. Non si è mai visto giustiziare qualcuno per poi fargli un funerale di stato.
Con gesti dolcissimi sono stato avvolto in un sudario e deposto in una rientranza della cripta, una specie di cuccetta. Le persone hanno preso congedo da me e hanno chiuso la porta del sepolcro.
Allora ho provato un momento di pura vertigine: essere lasciato solo con la propria morte. Poteva finire male. È stato tanto meraviglioso perché sono Gesù? Spero di no. Vorrei che funzionasse così per la maggior parte dei morti. Non appena tutto si è concluso, per me è cominciata la festa. Il cuore mi è esploso di gioia. Una sinfonia di letizia ha preso a risuonare dentro di me. Sono rimasto sdraiato a esplorare questa felicità finché non ce l’ho più fatta. Mi sono alzato e ho danzato.
Le musiche più grandiose del presente, del passato, del futuro hanno fatto irruzione nel mio petto e ho conosciuto l’infinito. Di solito occorre tempo per comprendere la bellezza di un brano e per estasiarsene. Stavolta mi è stato concesso di cogliere il sublime al primo ascolto. Molte musiche erano umane, ma non tutte: provenivano dai pianeti, dagli elementi, dagli animali e da altre fonti non sempre identificabili.
C’era anche un aspetto meccanico in questa gioia: se consideriamo i nostri stati d’animo, alti e bassi si succedono gli uni dopo gli altri. Mi ha molto colpito constatare che questo principio di compensazione funziona anche dopo la morte.
Quando la cripta non è stata più sufficiente a contenere la mia esultanza sono uscito. Ci si è spesso domandati come ho fatto, con quale magia. È stato così naturale per me che non so rispondere. Sono stato molto felice di ritrovarmi fuori. Il silenzio seguito alla musica è stato delizioso, l’ho davvero apprezzato.
C’era vento e ho respirato a pieni polmoni. Non chiedetemi come un morto possa riuscirci. Gli amputati conservano la sensazione dell’arto perduto, immagino che la spiegazione sia questa. Non ho mai smesso di provare le cose per cui ne vale davvero la pena.
Ho iniziato la mia vita eterna. Quest’espressione codificata non significa ancora niente per me: la parola eternità ha senso solo per i mortali.
Esistono svariate versioni sul resto della storia. Ecco la mia: a forza di passeggiare dove ne avevo voglia, ho incontrato le persone che amavo. Anche qui, cosa c’è di più naturale? Non avevo alcun desiderio di andare in luoghi che non mi piacciono, né di far visita a individui sgradevoli.
Come spiegare che mi abbiano visto e sentito? Non lo so. Non è un fenomeno comune, ma non è neppure così unico. Esistono altri casi nella Storia di morti che sono stati visti, sentiti, e forse anche qualcosa di più. Ci sono stati casi celebri e casi sconosciuti. Se volessimo censire tutte le esperienze di contatti sconvolgenti con i defunti, dovremmo riempire cataloghi su cataloghi.
Chiedo a ogni uomo di testimoniare, chiunque abbia perduto un proprio caro ha fatto esperienza di un momento inesplicabile. Alcuni hanno persino epifanie con esseri che non hanno mai conosciuto. In verità, non esistono limiti a quella che chiamiamo vita.
Questo non impedisce e non impedirà a un’ampia percentuale di persone di affermare che dopo la morte non c’è niente. È un’idea che non mi sciocca, se non fosse per la sua perentorietà, e soprattutto per il senso di superiore intelligenza di cui si fregiano i suoi sostenitori. Come stupirsene? Sentirsi più intelligenti degli altri è sempre sintomo di stupidità.
In verità vi dico: neppure io sono più intelligente degli altri. E non vedo nemmeno dove stia l’interesse di rivendicarlo. Non ho fantasticherie di uguaglianza tanto quanto non ne ho di superiorità, entrambe le cause mi sembrano vane, la qualità di un essere non è misurabile. Esattamente come non è misurabile il grado attivo o passivo di quello che viene ritenuto il mio ultimo miracolo: ho resuscitato me stesso o sono resuscitato? Se analizzo quanto mi è successo, direi che sono resuscitato. Ho soltanto lasciato che le cose facessero il loro corso. Il terzo giorno? Non ci ho fatto caso. Il mio passaggio dalla vita alla morte ha comportato un significativo cambio di percezione, specie per tutto ciò che concerne la durata. Dal decesso in poi, il mio destino è stato diverso da quello degli altri? Non ho mezzi per saperlo, ma posso intuire di non essere il solo ad aver avuto una simile esperienza.
Uno scrittore tra i più grandi dirà che il sentimento d’amore scompare con la morte per trasformarsi in amore universale. Ho voluto verificarlo andando da Maddalena. Ancora prima che lei si accorgesse della mia presenza, ritrovarla mi ha molto turbato. Il ricordo del mio corpo l’ha presa tra le braccia, lei mi ha stretto a sé con frenesia, il nostro fervore è rimasto immutato.
Lo stesso scrittore tratta questo tema in una novella dal titolo La fine della gelosia. Il narratore, morbosamente geloso, guarisce dalla sua malattia nell’istante in cui muore, smettendo al contempo di essere innamorato. Questo scrittore ha una concezione molto particolare della gelosia: ai suoi occhi costituisce la quasi totalità dell’amore.
Dal momento che sono stato anche un uomo come tanti, mi sono ricordato che quando ero vivo l’idea di Maddalena insieme a un altro mi era sgradevole. Adesso devo riconoscere che tale prospettiva mi è indifferente. Quindi lo scrittore ha ragione: la gelosia non lascia tracce dopo la morte. Però ha anche torto, almeno per quel che mi riguarda: la gelosia e l’amore non sono completamente sovrapponibili.
Se mi sono manifestato a coloro che amo, è più per onorare il messaggio di mio padre che per un mio bisogno profondo. Ecco un’altra differenza importante rispetto alla vita: l’amore non richiede più grande necessità di contatto. Soprattutto se ci si è lasciati senza malintesi o inquietudini. Io non dubito dell’amore di Maddalena, so che lei non dubita del mio: perché moltiplicare gli incontri? Ciò che è vero per lei lo è a fortiori per gli altri.
Non si tratta di freddezza. È una questione di fiducia. Certo, mi ha commosso rivedere alcuni tra i miei discepoli e amici. La loro felicità nel trovarmi così bene si è riverberata anche su di me. Cosa c’è di più naturale? Eppure mentre vivevo questi momenti di festa, avevo fretta che finissero. L’eccesso di tensione mi era un po’ faticoso. Avevo voglia di starmene in pace. Sentivo che i miei amici richiedevano la mia presenza e ho cercato di accontentarli. Ma l’ho fatto per loro, non per me.
Se rimproverate al vostro adorato defunto di non manifestarsi, non dimenticate che siete voi ad averne bisogno e non il contrario. Quando amiamo davvero qualcuno, pretendiamo che si sacrifichi per noi? La prova d’amore più bella che si possa offrire non è forse permettergli di abbandonarsi a un’egoistica tranquillità? Richiede meno sforzo di quanto non si creda, basta un po’ di fiducia.
In verità, se il vostro caro estinto tace, rallegratevene. Significa che se n’è andato nel modo migliore. Che vive bene la sua morte. Non saltate alla conclusione che non vi ami. Vi ama nella maniera più bella: non sforzandosi di fare per voi spiacevoli acrobazie.
È dolce essere morti. Tornare da voi è fastidioso. Immaginate: è inverno, ve ne state sdraiati sotto le coperte, riposando in un delizioso tepore. Anche se adorate i vostri amici avreste voglia di uscire al freddo per dirglielo? E se siete l’amico, vorreste davvero costringere chi vi manca ad affrontare il disagio del gelo per rassicurarvi?
Se amate i vostri morti, abbiate tanta fiducia in loro da rispettarne il silenzio.
Nei miei confronti hanno parlato di abnegazione. D’istinto è un concetto che non amo. Il mio sacrificio è stato già un grande errore: bisogna davvero attribuirmi anche la virtù che ne è stata la causa?
Non vedo in me la minima traccia di tale disposizione. Le persone toccate da abnegazione dicono con una fierezza che trovo sconveniente: “Oh, per me non ha importanza, io non conto.”
O mentono – e perché inventarsi una menzogna così assurda? – oppure dicono la verità, ed è una cosa indegna. Il desiderio di non contare nulla non è che umiltà fuori luogo, vigliaccheria.
Ognuno di noi conta in proporzione così enorme da risultare incalcolabile. Niente è più importante di ciò che si pensa essere infinitesimo.
L’abnegazione presuppone il disinteresse. Io non posso provare disinteresse perché sono una leva. Il contagio è la mia missione. Vivi o morti, tutti abbiamo la possibilità di diventare leve. Non esiste potere più rilevante.
L’inferno non esiste. I dannati sono quelli che trovano sempre qualcosa da ridire. Tutti ne abbiamo incontrato almeno uno nella vita: quello perennemente contrariato, l’insoddisfatto cronico, l’invitato a un sontuoso banchetto che nota solo la pietanza mancante. Perché dovrebbero privarsi della loro passione per le lamentele nel momento di morire? Hanno tutto il diritto di fallire la propria morte.
I defunti hanno anche l’opportunità di incontrarsi tra loro. Noto che se ne astengono quasi sempre. Per quanto intensa sia stata la loro amicizia o il loro amore, quando sono morti non sembrano avere più granché da dirsi. Non so perché parlo di questo fenomeno in terza persona, in fin dei conti vale anche per me.
Non si tratta di indifferenza, ma di un’altra maniera di amare. È come se i morti fossero diventati lettori: il rapporto che intrattengono con l’universo è simile alla lettura. È un’attenzione calma, paziente, un lento e ponderato decifrare. Una condizione che esige solitudine – una solitudine propizia alla folgorazione. Su un piano generale, i morti sono meno stupidi dei vivi.
E qual è questa lettura che ci intrattiene dopo il trapasso? Il libro si costituisce in funzione del nostro desiderio, è quest’ultimo che genera il testo. Ci troviamo nella lussuosa situazione di essere a un tempo l’autore e il lettore: uno scrittore che crea per il suo personale incanto. Nessun bisogno di penna o tastiera, scriviamo sul tessuto della nostra stessa delizia.
Se non siamo in cerca d’incontri, è perché ci ricordano la nostra individualità di quando eravamo vivi, a cui non teniamo affatto. Quando mi ha trovato, Giuda mi ha chiamato per nome, il che mi ha sorpreso.
– Hai dimenticato che ti chiami Gesù?
– Dimenticare non è il verbo corretto. Non sono ossessionato dal mio nome, ecco tutto.
– Non sai quanto sei fortunato. Io non penso che a questo: ti ho tradito. Sono il cattivo della tua storia.
– Se ti dà fastidio pensa ad altro.
– E a cos’altro potrei pensare?
– Non hai nemmeno un pensiero felice dentro di te?
– Non capisco la tua domanda. Io sono colui che ha tradito il Cristo. Come vuoi che non ne sia ossessionato?
– Se ti fa piacere, potrai rimuginarci sopra nei secoli dei secoli.
– Vedi! Mi stai incoraggiando ad avere rimorsi!
Non avevo affatto detto questo. Accorgermi che i malintesi sopravvivono alla morte mi ha provocato una curiosa emozione.
Cosa mi rimane dell’essere stato un uomo chiamato Gesù?
Sul letto di morte, gli uomini dicono spesso: “Se potessi tornare indietro…” e precisano cosa rifarebbero o cosa cambierebbero. Questo atteggiamento dimostra che sono ancora vivi. I morti non sentono né approvazione né rimorso per quanto hanno o non hanno fatto. Guardano la loro vita come se fosse un’opera d’arte.
Al museo, davanti al quadro di un grande autore nessuno pensa: “Io al posto di Tintoretto avrei fatto così.” Contempliamo, prendiamo atto. E anche se un tempo siamo stati quel famoso Tintoretto, non diamo giudizi, ma semplicemente ammettiamo “mi riconosco in quella pennellata”. Non ci poniamo la questione se abbiamo fatto bene o male e non veniamo mai sfiorati dal pensiero che avremmo potuto comportarci altrimenti.
Perfino Giuda. Soprattutto Giuda.
Non ripenso mai alla crocifissione. Non ero io.
Contemplo solo ciò che ho amato, ciò che amo. La mia tripletta vincente funziona ancora. Anche se per me morire non è più all’ordine del giorno, ne è valsa comunque la pena. Morire è meglio della morte, così come amare è molto meglio dell’amore.
La grande differenza tra me e mio padre, è che lui è amore e io amo. Dio dice che l’amore è per tutti. Io che amo so bene che è impossibile amare tutti allo stesso modo. È una questione di respiro.
In francese, è una parola troppo facile. In greco antico respiro si dice pneuma: termine brillantemente coniato per indicare che il respiro non è un’attività poi così scontata. Il francese, lingua dello humour, conserverà nella vita quotidiana solo il termine pneumatico.
Quando abbiamo a che fare con qualcuno con cui sappiamo già che non funzionerà, diciamo che a naso non ci piace. Questa impressione olfattiva ci impedisce di respirare in presenza dell’importuno.
Il colpo di fulmine è l’esatto contrario: all’inizio ci manca il respiro e poi i polmoni si dilatano all’infinito. Proviamo il bisogno disperato di annusare la persona il cui odore ci sconvolge così nel profondo.
Per quanto sia morto, provo ancora la vertigine del respiro. L’illusione recita la sua parte alla perfezione.
Il mio unico rimpianto è la sete. Lo slancio che ci spinge a bere mi manca più dell’atto stesso. Tra marinai si è soliti dire di uno che beve come una spugna che “beve senza sete”. Con ogni evidenza è un insulto che non ho mai corso il rischio di meritare.
Per provare la sete, occorre essere vivi. Io ho vissuto così intensamente da morire assetato.
Forse è proprio questa la vita eterna.
Mio padre mi ha inviato sulla terra per portare la fede. Fede in cosa? In lui. Anche se si è degnato di includermi all’interno del concetto con l’idea di trinità, trovo tutto allucinante.
L’ho pensato quasi subito. D’altra parte, in quante situazioni ho ripetuto a questa o quella persona in difficoltà: “La tua fede ti ha salvato”? Mi sarei permesso di mentire a questi infelici? La verità è che ho cercato di giocare d’astuzia con mio padre. Mi sono accorto che la parola fede ha una strana proprietà: diventa sublime a condizione di essere intransitiva. Il verbo credere obbedisce alla stessa legge.
Credere in Dio, credere che Dio si sia fatto uomo, avere fede nella resurrezione, sono cose che suonano strano. Quanto stride all’orecchio, stride anche al pensiero. Queste frasi suonano stupide perché di fatto lo sono. Siamo allo stesso livello terra terra della scommessa di Pascal: credere in Dio significa puntare tutte le nostre fiches su di lui. Il filosofo si spinge perfino a spiegarci che, qualsiasi numero esca, a questa roulette vinciamo comunque.
E io, in tutto ciò, a cosa credo? All’inizio ho accettato questo progetto demenziale perché credevo nella possibilità di cambiare gli uomini. Abbiamo visto come è finita. Se sono riuscito a cambiarne tre, è già tanto. E del resto, che convinzione stupida! Bisogna proprio non sapere niente di niente per pensare di poter cambiare qualcuno. Le persone cambiano solo se la cosa parte da loro, ed è rarissimo che lo vogliano davvero. Nove volte su dieci il loro desiderio di cambiamento riguarda gli altri. La frase “questa situazione deve cambiare”, che abbiamo sentito ad nauseam, vuol dire né più né meno che “la gente” dovrebbe cambiare.
Io sono cambiato? Sì, certo. Non tanto quanto avrei voluto. Potete fidarvi del fatto che ci ho provato seriamente. Ammetto la mia irritazione nei confronti di quanti ripetono senza sosta di essere cambiati mentre si sono limitati solo a desiderarlo.
Ho fede. Una fede senza oggetto. Questo non significa che non creda in nulla. Credere è bello solo nel senso assoluto del verbo. La fede è un’attitudine e non un contratto. Non ci sono caselle da barrare. Se conoscessimo la natura del rischio in cui consiste la fede, questo slancio non sopravvivrebbe al calcolo delle probabilità.
Come sappiamo di avere fede? È come per l’amore, lo sappiamo e basta. Non abbiamo bisogno di nessuna riflessione per determinarlo. Nel repertorio gospel c’è una frase – “And then I saw her face, yes I’m a believer” – che mostra esattamente come fede e innamoramento si somiglino: vediamo un volto e all’improvviso tutto cambia. Non abbiamo neppure contemplato questo volto, lo abbiamo appena intravisto. Questa epifania è stata sufficiente.
So che per molti quel volto sarà il mio. Mi convinco che non ha alcuna importanza. Eppure, a voler essere onesto, e voglio esserlo, mi lascia senza fiato.
Bisogna accettare questo mistero: non potete sapere cosa vedono gli altri nel vostro volto.
Ma c’è una contropartita altrettanto misteriosa: mi guardo allo specchio. Ciò che vedo nel mio volto a nessuno è dato saperlo. Questa si chiama solitudine.