mercoledì 14 luglio 2021

AGENZIA A Matsumoto Seichō


AGENZIA  A

Matsumoto Seichō 


Recensione

Chiara Carnio

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Quanto è bella la copertina di questo giallo giapponese? Di più, di più! Ma è ancora più bello quello che c’è dentro, perché si trovano ancora i temi cari a Matsumoto, quali la paura dello scandalo, l'ansia di essere scoperti che conduce alla rovina e al disonore sociale, un dettaglio che non quadra, la vendetta. 

Il tutto ha inizio con la scomparsa di Ken’ichi, responsabile dell’agenzia pubblicitaria A, nella sede di Kanazawa, nel nord del Giappone. Una scomparsa avvenuta a qualche giorno dopo il matrimonio combinato a Tokyo con Teiko. Una scomparsa misteriosa per due aspetti, uno spaziale poiché nessuno dei suoi colleghi sapeva dove vivesse, e uno temporale, dato che era scomparso proprio subito dopo che si era sposato, a 36 anni - età non più verde per un uomo.

La moglie Teiko decide di recarsi nel nord e cercare il marito, per capire che cosa gli sia successo. Inizia quindi ad indagare con l’aiuto di un collega di Ken’ichi, ma da quel momento esplode una catena di delitti apparentemente inspiegabili, in qualche modo legati a quella misteriosa sparizione.

Come al solito, Matsumoto costruisce un giallo classico basato sull’intuizione, sulla ricerca del movente iniziale con un disvelamento progressivo dei dettagli che sembrano condurre sempre verso vicoli ciechi, finché tutti i tasselli del mosaico finiscono per incastrarsi alla perfezione. 


Dei suoi che ho letto, credo che sia quello più avvincente sebbene la trama sia meno complessa di altre da lui architettate. Qui esce un po’ dagli schemi del giallo “suiri” (psicologico) per rientrare nel “tantei”, ossia il giallo ad enigma, pur non dimenticando la critica sociale agli schematismi nipponici o l’arrivismo sociale. E anche qui, come in altri suoi romanzi, c’è sempre una “partecipazione” ferroviaria, ossia le linee e gli orari ferroviari possono indicare tracce da seguire per far quadrare il cerchio.

AGENZIA A

Un marito

1

Quell’autunno, Itane Teiko sposò Uhara Ken’ichi, la cui proposta di matrimonio le era stata caldeggiata da un conoscente.

Lei aveva ventisei anni, lui, Uhara, trentasei: un’età del tutto compatibile con la sua, che però Teiko temeva potesse sembrare un po’ troppo matura agli occhi della gente.

«Se non è ancora sposato a trentasei anni, c’è da pensare che abbia avuto qualche altra storia, in passato.»

Era stata la prima preoccupazione di sua madre quando lui si era fatto avanti.

Forse l’aveva avuta davvero qualche altra storia. Teiko non avrebbe potuto scommettere che non avesse intrattenuto nessuna relazione con una donna fino a trentasei anni! Se le avesse detto una cosa del genere, non gli avrebbe creduto, e poi, come uomo, le avrebbe dato piuttosto un’impressione di debolezza. Teiko la pensava così, dopo tanti anni trascorsi a lavorare in un ambiente prevalentemente maschile. Di fatto, gli uomini che non avevano mai avuto alcuna relazione avevano tutti qualche aspetto deprecabile, o forse, più che averlo, era la sensibilità femminile a trovarlo in loro. Difficile che un uomo sembrasse puro perché illibato; suggeriva invece di essere debole, sia nel fisico che sul lavoro.

Teiko non aveva niente in contrario all’idea che nel passato del suo uomo ci fossero storie con altre donne. Le sarebbe dispiaciuto sentire che aveva già vissuto con qualcun’altra, ma in ogni caso pensava che non avrebbe potuto fargliene una colpa, purché fosse tutto definitivamente concluso. Le bastava, insomma, che il passato fosse ormai archiviato, senza strascichi spiacevoli.

Non l’avrebbe pensata allo stesso modo se fosse stata più giovane. E forse avrebbe giudicato il futuro sposo in base a parametri ben più severi, se non avesse già avuto due o tre storie sentimentali. Dopo tutto, l’età e quel minimo di esperienza l’avevano resa più indulgente e matura.

Al lavoro, Teiko rientrava nel gruppo delle ragazze definite “belle”. Quella sua reputazione le era stata riferita con una certa malizia dalle amiche, e poi i complimenti che le facevano gli uomini si riferivano soprattutto alle sue caratteristiche fisiche.

Stranamente non aveva mai trovato l’amore. Era lei a tirarsi indietro prima che le cose si facessero serie. Non era riuscita a decidersi perché gli uomini con cui aveva a che fare non erano alla sua altezza, ma anche per una certa vigliaccheria personale. Se, nonostante questa, capitava che si stesse sviluppando in lei un sentimento che le pareva amore, e magari proprio allora le arrivava una proposta di matrimonio da un altro uomo, si aggrappava a quel sentimento e rifiutava l’offerta. Quando non era impegnata, capitava che fosse la proposta a non convincerla e, anche se le si presentavano in continuazione aspiranti mariti, stranamente era ancora libera da legami.

In un momento del genere, le avevano parlato di Uhara Ken’ichi.

Uhara era a capo della succursale dell’agenzia pubblicitaria A nell’area dello Hokuriku. A presentarle la sua proposta era stato il signor Saeki, un amico del defunto padre di Teiko che aveva rapporti con l’agenzia A.

Il signor Saeki diceva che si trattava di un’impresa nota a Tōkyō come agenzia d’intermediazione pubblicitaria. Né Teiko né la madre avevano ben chiaro che tipo d’impresa fosse un’agenzia d’intermediazione pubblicitaria.

Il signor Saeki aveva aperto un giornale e l’aveva mostrato alle due donne.

«Vedete quante inserzioni pubblicitarie si trovano in un giornale? L’editore non riuscirebbe mai a coprire le spese con il magro ricavato delle vendite, quindi si finanzia con queste pubblicità. Per una serie di ragioni, l’editore non tratta direttamente con gli inserzionisti, ma passa attraverso un agente: un’agenzia d’intermediazione pubblicitaria» aveva spiegato. «La più grande in Giappone è la D, ma loro sono su un altro livello, perché, oltre ai giornali, trattano anche la pubblicità su riviste, alla radio e in televisione. La A si occupa solo di giornali, ma credo sia la seconda o la terza per volume d’affari. Considerando anche le sedi regionali, impiega circa trecento persone. Insomma, è una delle migliori del settore. Uhara è responsabile della succursale dell’area dello Hokuriku. È un uomo tranquillo, con brillanti prospettive davanti a sé.»

Teiko aveva più o meno compreso il lavoro di Uhara Ken’ichi. Da profana non poteva capirlo con chiarezza, come non avrebbe potuto capire questioni di vendita di apparecchi elettronici o di produzione di medicinali, ma se n’era fatta una vaga idea.

Uhara non aveva finito l’università. Saeki disse che aveva interrotto gli studi allo scoppio della guerra. Era tornato dalla Cina due anni dopo la fine del conflitto; in seguito, aveva lavorato due o tre anni e, sei anni prima, era entrato nella A, dove si trovava tuttora.

«Uno che in sei anni è arrivato a dirigere una succursale, in ogni caso è in gamba. È l’ufficio di Kanazawa, eh!»

Il signor Saeki non smetteva di tesserne le lodi.

«Quindi, se si sposano, come funziona? Mia figlia dovrà trasferirsi lì a Kanazawa?» aveva chiesto la madre.

«No, non credo sia necessario. Uhara torna a Tōkyō per una decina di giorni al mese: ha del lavoro da svolgere anche qui. Nel senso che le imprese con stabilimenti nello Hokuriku hanno quasi tutte sede a Tōkyō, e quindi lui deve venire per degli incontri di lavoro. E poi torna anche per mantenere i contatti con la sede centrale. Dice che intende restare a Tōkyō anche quando avrà famiglia» aveva risposto il signor Saeki.

«Però un marito in viaggio di lavoro per venti giorni al mese sarebbe più assente che presente, no?» si era preoccupata la madre.

«Ma no! Comunque è deciso che lo richiameranno a Tōkyō in tempi brevi, perché ormai sono trascorsi due anni da quando è andato a Kanazawa. Già due o tre volte hanno parlato di richiamarlo in sede: hanno rimandato solo perché lui stesso ha chiesto di aspettare.»

«Come mai?»

«Questioni d’affari. A essere onesti, l’area dello Hokuriku è campagna, per cui non ci sono molte imprese che chiedono servizi pubblicitari e il lavoro non è poi tanto. La speranza di Uhara è di riuscire a far qualcosa su quel versante. È normale che non voglia tornare prima di aver migliorato almeno un po’ i risultati nell’area che gli hanno affidato a quello scopo. In effetti, si è impegnato così tanto che i risultati stanno migliorando gradualmente, anche se di poco» aveva spiegato ancora il signor Saeki. «Perciò Uhara dice che, se lo richiameranno dalla sede centrale, con il matrimonio vorrebbe rientrare a Tōkyō. Tuo marito viaggerebbe molto per lavoro solo per i primi tempi.»

Il signor Saeki si era rivolto a Teiko, che ascoltava seduta accanto a sua madre, e le aveva sorriso.

L’incontro tra i due promessi sposi si era svolto nel rispetto della prassi, al teatro Kabuki. Accanto al signor Saeki, che era di bassa statura, Uhara Ken’ichi le era parso invece alto e ben proporzionato. Teiko si sarebbe aspettata che sembrasse più giovane dei suoi trentasei anni, visto che era single, e invece aveva un aspetto più vecchio di quanto avesse immaginato. Poteva essere forse colpa degli zigomi leggermente alti. Tuttavia, riguardandolo senza pensare all’idea che se n’era fatta, il viso dall’incarnato un po’ scuro dimostrava né più né meno dei suoi trentasei anni.

Teiko non avrebbe potuto affermare, in base a quel loro primo incontro, che Uhara fosse un tipo vivace: più che tranquillo, le sembrò pesante. E tuttavia capitava che gli affiorasse a sorpresa sul volto un’allegria che pareva contraddire quell’impressione, quasi a rivelare altro. Intuì in Uhara Ken’ichi una certa complessità.

Mentre pranzavano insieme, la mamma di Teiko aveva chiesto a Uhara: «Kanazawa deve essere un posto piacevole, no? Io a dire il vero non ci sono mai stata».

«In realtà è un posto noioso. È così buio, tutto l’anno: deprimente.»

Con quella risposta sembrava intendere che era costretto a portare pazienza, perché era lì per lavoro. E in effetti, mentre abbassava gli occhi sul piatto e manovrava forchetta e coltello, le parve che sulla sua fronte aleggiasse una certa malinconia, proprio come se avesse recato con sé l’aria dello Hokuriku.

Dopo aver acconsentito alla proposta, Teiko si era dimessa dalla ditta per cui aveva lavorato fino a quel momento.

2

Tennero la cerimonia a metà novembre.

Uhara Ken’ichi era riuscito a ottenere una settimana di ferie dalla ditta solo per quel periodo. Al banchetto di nozze, nella sala T, intervenne uno dei dirigenti, nonché capo dell’ufficio commerciale, e pronunciò anche un discorso d’auguri: «Uhara è un giovane capace, uno di quelli in cui la nostra impresa ripone maggiori speranze. Il mio potrà sembrarvi un discorso puramente formale, ma abbiate la cortesia di ascoltare il seguito. Sono pur sempre il superiore di Uhara, e una mia promessa fatta qui davanti a tutti voi è una garanzia: avrà un aumento di stipendio. Può stare tranquilla, signora: non è solo un augurio formale il mio!».

Con quelle parole fece sorridere gli ospiti.

«Questa sera incontro la sposa per la prima volta, e spero mi perdonerete se mi permetto di dire che sono meravigliato dalla sua bellezza e dalla sua intelligenza. Uhara ha trentasei anni e fino a oggi avrà avuto ogni genere di tentazione… immagino, anche se non ne so granché. Ma credo di capire come abbia potuto resistere, e attendere nella speranza che arrivasse questo giorno. Saprete di certo che il nostro lavoro consiste nel convincere gli sponsor a fare pubblicità sulla carta stampata. È un lavoro che richiede una buona dose di perseveranza e io, nel mio intimo, penso con orgoglio che, se Uhara è riuscito a perseverare nel celibato finora, in modo da poter cogliere l’opportunità di avere una sposa così bella, sia stato grazie all’effetto che ha avuto su di lui il lavoro nella nostra ditta.»

Gli invitati ascoltavano ridendo. Teiko guardava in basso, ma il discorso arrivava anche alle sue orecchie. Non si concentrava particolarmente su quell’augurio, che le pareva tipico di uno abituato a simili circostanze. Molto tempo dopo, però, avrebbe ricordato quelle parole dando loro un senso del tutto diverso.

I genitori di Uhara erano morti, ma aveva un fratello maggiore che viveva ad Aoyama con la moglie. Il fratello non gli assomigliava per niente ed era paffuto e pesante. Di lui Teiko sapeva che era capufficio in un’impresa commerciale, amava bere e aveva un viso dai tratti infantili. Sua moglie – la cognata di Teiko – era magra e aveva gli angoli degli occhi un po’ tirati verso l’alto. Per i suoi zigomi sporgenti, si sarebbe detto che fosse lei la sorella di Uhara Ken’ichi e lui il cognato.

Fino ad allora, Uhara aveva abitato a casa del fratello ad Aoyama, ma in vista del matrimonio con Teiko aveva preso in affitto un nuovo appartamento a Shibuya: si trovava su un’altura e dalle finestre era possibile abbracciare con lo sguardo tutta Tōkyō, che si estendeva come un mare ai suoi piedi. In particolare il panorama notturno, con le sue luci, era stupendo.

Da quando aveva accettato la proposta al giorno della cerimonia era passato poco tempo e, forse per questo motivo, Teiko non aveva mai avuto occasione di fare una passeggiata da sola con Uhara. Anche volendo, lui era stato quasi sempre a Kanazawa, e non a Tōkyō. Lei, poi, non era interessata come un tempo a una frequentazione prematrimoniale, e nemmeno Uhara aveva espresso alcun desiderio in tal senso. Teiko era soddisfatta di quel poco che aveva visto in Uhara al loro primo incontro.

Non avrebbe certo potuto affermare che le piacesse davvero. Soprattutto perché erano troppe le cose di lui che le erano ignote. Sapeva solo in quale ditta era impiegato, quale lavoro faceva e che viveva con suo fratello e sua cognata. Ma le pareva che quelle poche informazioni le bastassero a farsi un’idea di che tipo di persona fosse Uhara Ken’ichi. E poi, il loro non era l’unico caso del genere: la persona con cui ci si sposa, in fondo, non è sempre qualcuno cui ci si lega senza sapere davvero chi sia? Le donne sono intimorite e affascinate da quanto non conoscono del partner. Poi, dopo il matrimonio, scoprono sempre di più su di lui, il timore sparisce e il fascino si banalizza. Teiko la vedeva così.

Era probabile che gli avesse chiesto di fare il viaggio di nozze nello Hokuriku proprio nella speranza di conoscere al più presto quanto di lui le era ignoto. Era lì che Uhara lavorava. Teiko si rendeva chiaramente conto di nutrire il desiderio di visitare quei posti: lo percepiva dietro le fantasie che si faceva su quel cielo cupo e quel mare nordico, agitato, a quanto le avevano descritto, da violente mareggiate.

A quel proposito, Saeki, l’intermediario, le aveva comunicato che Uhara avrebbe preferito recarsi ad Atami o Hakone, o al massimo da qualche parte nel Kansai.

«Pare non abbia molta voglia di andare nello Hokuriku. Forse perché lo ha sempre sotto gli occhi. Dice che, data l’occasione, preferirebbe un posto più allegro.»

Nell’udire quelle parole, per qualche motivo Teiko aveva ricordato la vaga ombra da malinconico paese nordico che aveva visto incupire la fronte di Uhara.

Però aveva ribattuto che non le andavano Hakone o il Kansai. Aveva espresso invece il desiderio di fare un giro dello Shinshū passando per Miso, per arrivare a Nagoya e poi tornare a Tōkyō. Erano in pieno autunno, il periodo migliore per ammirare i colori del fogliame.

Nonostante quella piccola divergenza, appena terminato il banchetto, andarono direttamente a prendere posto in un vagone di seconda classe di un treno in partenza da Shinjuku.

Arrivarono a Kōfu la sera tardi. Alla stazione, un impiegato della reception del ryokan, avvisato in anticipo, venne loro incontro con una lanterna.

Chiamò una delle automobili lì in attesa, li fece salire a bordo e chiuse la portiera salutandoli con un inchino. Teiko ebbe l’impressione che quell’uomo la stesse spingendo a imboccare una strada secondaria della sua vita.

Il ryokan si trovava a Yumura. Li fecero accomodare in una stanza che aveva un ampio giardino dal quale, durante il giorno, avrebbero goduto della vista del monte Fuji, proprio lì di fronte. Ma era buio, e si vedevano solo l’erba e le pietre decorative più vicine.

Appena la cameriera si ritirò, Uhara per la prima volta le si avvicinò, le cinse il collo tra le braccia e la baciò. Fino a quel momento, anche in treno, aveva tenuto un comportamento incredibilmente controllato e maturo, ma ora, all’improvviso, mostrava una passionalità da ragazzo.

Non accennava a lasciarla, e Teiko sfuggì alle sue labbra dicendo: «La cameriera tornerà subito».

Quando, in effetti, la cameriera tornò, lui si allontanò verso le poltrone poste nell’engawa, per aver modo di calmare il respiro affannoso.

Vennero ad avvertirli che il bagno era pronto, ma Teiko insistette perché ci andassero ognuno per conto proprio.

«Perché?» domandò lui, un po’ preoccupato.

«Solo per questa volta» rispose Teiko abbassando la voce, per timore che la cameriera potesse essere in ascolto al di là dei fusuma. Uhara le disse che aveva dei begli occhi e lei gli lanciò uno sguardo da sotto in su, finendo per mostrargli senza intenzione quel suo vezzo.

La sera, fino a tardi, lì nella hall del ryokansuonavano dei dischi. Teiko invitò il marito ad andare ad ascoltare, anche se lui non sembrava averne molta voglia. Alcune coppie di giovani sui ventidue o ventitré anni, probabilmente impiegati in gita sociale, ballavano pezzi dal ritmo veloce.

Lei rimase a guardare per un po’, in piedi vicino al muro, ma poi, sorridendo al marito, disse: «Balliamo?».

Era più bravo di quanto avesse immaginato. Si rese conto che, danzando con lui un pezzo dopo l’altro, stava prolungando quel momento di spensieratezza.

Solo allora sentì le lacrime salirle agli occhi.

L’indomani, appena finita la colazione, andarono in auto alla gola di Shōsenkyō, per passarvi la mattinata. Una marea di gente era uscita per godere della vista dei colori autunnali. Le automobili avanzavano a fatica sulla strada stretta.

Uhara non era affatto diverso dal giorno precedente: il suo volto da trentaseienne emanava calma, i suoi movimenti mostravano controllo. Da quel punto di vista non era cambiato. Teiko, tuttavia, conosceva una parte di lui che non era più lo Uhara Ken’ichi del giorno prima. In una notte, un angolo del mistero che lo avvolgeva si era frantumato. Magari lo stesso discorso valeva anche per lei, solo che, probabilmente, l’uomo è più propenso a credere di aver capito, in quel modo, quasi tutto ciò che c’è da capire. Ne è prova l’espressione rincuorata che compare sul volto di quasi tutti gli uomini dopo la prima notte di nozze.

Anche lui le mostrava un’espressione rincuorata. Ma rincuorata per cosa? Si era forse tranquillizzato nel constatare che il corpo di Teiko non aveva un passato? L’espressione sul suo viso diveniva sempre più quella di un marito: a prima vista non era diverso dallo Uhara Ken’ichi del giorno precedente, ma nel suo atteggiamento controllato si percepiva l’orgoglio di essere ora un uomo sposato.

«È la prima volta che vieni alla gola di Shōsenkyō?» le chiese con aria comprensiva, mentre lanciava uno sguardo alle foglie variopinte protese sul corso del ruscello montano.

«Sì» annuì lei.

«Davvero? Bene, allora!» sorrise lui, soddisfatto.

La Teiko di un tempo detestava con tutta se stessa quando qualcuno le parlava in quel modo, come rivolgendosi a una bambina. Invece ora… be’, anche ora continuava a non sopportarlo, ma si conteneva in nome della tolleranza verso l’infantile – quella sì – supponenza del marito. Significava che, senza nemmeno rendersene conto, era diventata una moglie. Quando si fosse accorta che lì entrava in gioco un bisogno di tenerezza, la nuova coppia avrebbe salutato la nascita di una complicità sentimentale.

Lasciarono Kōfu nel pomeriggio. Nel finestrino alla loro destra scorrevano lente le lunghe pendici della catena dei monti Yatsugatake. Uhara guardava fuori, con il gomito appoggiato al telaio del vetro. Lì era tutto più secco e nei boschi molte foglie erano già cadute. Nel profilo dell’uomo spiccava lo zigomo, e sottili rughe stanche segnavano l’orlo dell’occhio. Teiko pensò che sì, suo marito aveva trentasei anni.

Anche se stanno insieme da anni e sono molto intimi, due amanti non si guarderanno mai come si guarda una coppia sposata. Si rese conto in quel momento del modo in cui lo stava osservando. La spaventò l’idea di essere cambiata, senza nemmeno accorgersene, a cominciare dal corpo.

Uhara si girò verso di lei.

«Che c’è?» le chiese, con l’aria di aver percepito il suo sguardo.

«Niente.»

Teiko arrossì. “Che c’è?”: le era parso che quel modo un po’ brusco con cui le si era rivolto avesse un nesso con la notte appena trascorsa.

Il treno aveva superato Shinano-Sakai e stava correndo rapido attraverso Fujimi. Sul declivio dell’altopiano sorgevano case dai muri bianchi e dai tetti rossi e blu.

«Che bello!» disse lei a bassa voce.

Uhara lanciò fuori uno sguardo veloce, ma poi aprì subito il settimanale piegato sulle sue ginocchia. Non pareva, però, che leggesse: sembrava pensasse ad altro.

Dopo un po’ mise da parte la rivista e, come se si fosse finalmente deciso, si rivolse alla moglie: «Ho saputo che tu avresti preferito fare questo viaggio nello Hokuriku, vero?».

Si accese una sigaretta, e strizzò un po’ gli occhi, come infastidito dal fumo.

«Sì» ammise Teiko. «Forse era un capriccio, ma volevo vedere la regione una volta.»

«Lì non è bello come qui.»

Stava evidentemente facendo un confronto con il panorama dell’altopiano di Fujimi per cui Teiko aveva espresso ammirazione. Dopo quelle parole, Uhara espirò il fumo. Nel suo modo di esprimersi risuonava un senso di rigetto: pareva volesse dire che aveva visto quei posti fino ad averne piene le tasche e ne faceva volentieri a meno. Il fumo uscito dalle sue labbra finiva sul finestrino e lo risaliva fluttuando nell’aria. Un panorama coperto di nuvole scorreva oltre il vetro.

Teiko provò a immaginare perché Uhara ce l’avesse tanto con lo Hokuriku. Magari un giro nella regione in cui lavorava tutti i giorni non gli pareva un viaggio di nozze. Ormai stava lì da due anni. In un mese passava venti giorni a Kanazawa e dieci a Tōkyō. In pratica era come se fosse un abitante di Kanazawa. Le pareva di capire perché volesse cambiare posto per il viaggio di nozze. Hakone, Atami o il Kansai potevano essere mete banali, ma non le riusciva difficile vederle come una reazione ai malinconici panorami dello Hokuriku.

Perché però aveva ignorato il desiderio della moglie di vedere i posti in cui lavorava? Perché non ne era stato, invece, contento? Non pareva aver preso affatto in considerazione quel punto di vista: d’improvviso Teiko lo sentì lontano.

«Sei cresciuta in città: è per questo che l’immagine malinconica dello Hokuriku ti affascina.»

Forse si era accorto dell’espressione scontenta di Teiko, perché aveva parlato con il sorriso sulle labbra, sbirciando appena nella sua direzione.

«Ma quanto a poesia, ce n’è molta di più qui tra le montagne dello Shinano e del Kiso. Be’, nello Hokuriku ci possiamo andare quando vogliamo: sarà per il prossimo viaggio, va bene?» disse come per consolarla. Teiko si ricordò di quando, da piccola, chiedeva una cosa a sua madre, e lei gliene dava un’altra per farla star buona.

Quando videro il lago Suwa estendersi alla loro sinistra, Uhara si alzò e iniziò a tirar giù le valigie dalla reticella portabagagli. Lei fece per allungare le braccia ma, mentre le prendeva entrambe, lui disse: «Non ti preoccupare».

«Mi rincresce» rispose Teiko.

Con quelle parole intendeva scusarsi anche per il suo capriccio di prima, ma non avrebbe saputo dire se lui l’avesse capito. In realtà, non era ancora convinta che il suo fosse stato un capriccio, e provava una certa pena nei confronti di se stessa per averlo pensato.

Anche alla stazione di Kami-Suwa venne loro incontro un impiegato della reception del ryokan.

«Preferite andare in macchina? In realtà a piedi ci vogliono sette, otto minuti» disse l’uomo.

«Eh già. Anche a piedi è vicino, ma abbiamo i bagagli: meglio l’auto» rispose Uhara.

Da come aveva parlato, si sarebbe detto che fosse già stato lì.

La pensione era un po’ distante dalla riva del lago. Aprendo gli shōji della finestra non si vedeva la distesa d’acqua, ma il piccolo giardino lì a un palmo di naso, limitato da una palizzata, oltre la quale c’era un altro ryokan. Teiko era un po’ delusa, perché sperava si vedesse il lago.

«Lo dicono tutti i nostri clienti. Sarebbe davvero bello se da qui si vedesse lo specchio d’acqua!» disse la cameriera, mentre versava loro il tè.

La camera, però, era graziosa.

«Allora dopo andiamo a fare una passeggiata verso il lago» propose Uhara.

Appena la cameriera uscì, lui si accovacciò accanto a Teiko e la baciò. Le sue labbra carnose e dure la cercavano con passione. Come la sera precedente. Sbilanciata, si trovò costretta a puntare una mano sul tatami per non cadere. E lui, pur avendolo notato, non si fermò.

Teiko non era del tutto priva di esperienza in campo amoroso, però era la prima volta che un uomo le si imponeva fisicamente in quel modo. Ancor più la sconcertava quel comportamento del marito in privato, se lo rapportava alla calma che ostentava in pubblico. Non poteva fare a meno di pensare che un uomo di quell’età dovesse essere così. O era proprio l’amore fisico a essere tanto violento? Non ne aveva idea. Comunque, non aveva motivo di lamentarsi…

Il giorno volgeva al crepuscolo e il colore dell’acqua si era incupito. C’era vento, le onde increspavano la superficie e salici spogli oscillavano sulla riva.

Da un barcone turistico che girava ancora al largo, giungeva la voce della guida, diffusa da un altoparlante. Strati di nubi si allungavano paralleli all’orizzonte in un disegno che ricordava la parete di una faglia, e il sole, tramontando alle loro spalle, rifiniva con linee luminose le sottili fratture che le inframmezzavano. Anche lì la luce si faceva sempre meno bianca.

Sotto le nuvole, si susseguivano livide le creste di basse montagne.

Indicando una spaccatura nel crinale proprio davanti a loro, Uhara le spiegò: «È lì che sfocia il fiume Tenryū, e quell’alta montagna è il passo Shiojiri. Tra i due ci sono il monte Hotaka e il monte Yari, ma con le nuvole di oggi non si vedono».

Anche la cima del passo Shiojiri era incappucciata da nubi basse. Teiko le osservava mentre continuavano ad allargarsi nel cielo: quella distesa così cupa e tanto più ampia della superficie del lago incombeva sullo specchio d’acqua.

Sotto un angolo di quel manto di nuvole c’era lo Hokuriku: il colore di quei nembi, ormai bui, era il simbolo della triste regione del Nord. Forse a quaranta chilometri da lì, o magari a ottanta, da quella parte c’era una cittadina di tetti bassi e campi aperti e un mare agitato da onde violente. Teiko pensò a diversi scenari, e immaginò il marito trascorrervi venti giorni della sua vita ogni mese.

«Cosa guardi?» le chiese lui, con occhi che parevano scrutarle fin dentro l’animo. «Se restiamo troppo qui fermi in piedi rischiamo di ammalarci. Dài, rientriamo. Torniamo in albergo e facciamoci un bagno caldo.»

Diede l’esempio, girandole le spalle e incamminandosi. Lei non disse nulla.

La sala della vasca termale, piuttosto piccola, era illuminata da una luce molto forte e, attraverso l’acqua limpida, si vedevano in trasparenza le piastrelle del pavimento. Teiko si rannicchiò nell’acqua, come per proteggersi da quella luce insolente.

Uhara si era bagnato la testa e, da sotto i capelli che gli pendevano disordinati dalla fronte, i suoi occhi la osservavano vivaci.

«Hai un corpo giovane» disse con aria soddisfatta.

«Ma cosa dici! Mi metti in imbarazzo!»

Teiko arretrò in un angolo.

«No, sul serio: sei bella!» insistette lui.

Teiko si coprì il volto con le mani, e intanto pensava che il marito stesse forse facendo un confronto tra i loro due corpi: che fosse infastidito da quella differenza tra i suoi trentasei anni e i ventisei di lei? Però non sentiva nemmeno un’ombra di invidia, né nel suo sguardo né nel suo tono. Allora, per la prima volta, le venne in mente: forse la stava paragonando a una delle donne con cui era stato? A pensarci, il modo in cui l’aveva detto dava proprio quella impressione. Non conosceva ancora nulla di quell’aspetto del passato del marito. D’ora in poi avrebbe saputo sempre di più su di lui, ma quell’aspetto in particolare sarebbe forse rimasto l’ultimo baluardo di mistero.

Dopo che ebbero cenato e bevuto il tè, Teiko disse: «Oggi, mentre guardavo il lago, pensavo allo Hokuriku». L’aveva detto perché si era ricordata dello sguardo che lui le aveva rivolto in quel momento, e aveva immaginato che potesse essersene accorto.

«Ah, è per quello che avevi gli occhi fissi in quella direzione?» rispose lui, con tono noncurante. «Se ci tieni tanto, prima o poi ti ci porto. Non quando ci vado per lavoro, però.»

Seduto sul pavimento a gambe incrociate, dopo averne invertito la posizione aggiunse: «Perché a dire il vero è stato deciso che io torni in sede a Tōkyō. Così posso finalmente chiudere con Kanazawa».

«Il signor Saeki me ne aveva parlato. Ma accadrà così presto?» domandò Teiko alzando lo sguardo su di lui.

«Sì. È probabile che avrò la comunicazione appena rientriamo a Tōkyō. Così il prossimo sarà il mio ultimo viaggio di lavoro a Kanazawa.»

«Ci sei stato a lungo?»

«Due anni interi! Ma a pensarci ora mi pare siano passati in un baleno!»

Tirò dalla sigaretta e sbuffò fuori il fumo, stringendo poi gli occhi, come infastidito. Era la stessa smorfia che gli aveva visto fare in treno. A essere diversa era la sua espressione deconcentrata, come se stesse pensando a qualcos’altro.

Doveva esserci un banchetto da qualche parte, perché arrivavano loro musica di shamisen e canti.

Uhara si alzò.

«Sono stanco» disse, guardandola dall’alto.

Ma poi all’improvviso le si avvicinò e la strinse fra le braccia, bloccandola.

«Mi piaci!» ripeté più volte. «Hai le labbra morbide come marshmallow!» aggiunse, dopo averle assaporate. Teiko ebbe di nuovo l’impressione di essere paragonata a qualcuno del suo passato.

Dieci giorni dopo il loro rientro a Tōkyō, Teiko accompagnò alla stazione di Ueno il marito in partenza per il suo viaggio di lavoro a Kanazawa.

Era sera, e la stazione era affollata.

Come previsto, aveva ricevuto l’ordine di trasferimento e sarebbe partito con il suo sostituto, un impiegato più giovane di lui.

«Mi chiamo Honda Yoshio. Mi permetta di farle le mie congratulazioni» la salutò il giovane. Teiko aveva pensato che si riferisse al matrimonio, ma poi si rese conto che parlava della promozione del marito. Era un ragazzo dagli occhi grandi e le sopracciglia folte.

La sera precedente, Ken’ichi le aveva comunicato che doveva occuparsi dell’avvicendamento e sistemare alcune faccende, ma in una settimana al massimo sarebbe tornato.

Proprio prima di attraversare i tornelli d’ingresso, il marito entrò in uno dei negozi della stazione a comprare qualche prodotto tipico da portare in regalo: ne uscì con in mano cinque pacchetti contenenti alghe essiccate e torte Castella.

«Visto che è l’ultima volta, devo andare a salutare tutti quelli che ho conosciuto» spiegò a Teiko.

Lei annuì sorridendo, ma pensò che, se solo gliel’avesse detto, avrebbe preparato lei i doni il giorno precedente, andando a comprarli in qualche grande magazzino, piuttosto che in un negozio della stazione.

Prima della partenza, si fermarono tutti e tre a chiacchierare sulla banchina. Però Honda, probabilmente per discrezione, salì in carrozza in anticipo. Aveva qualcosa in mano, forse delle bottiglie mignon di whisky. L’interno del vagone era pieno di lampade molto luminose, uno splendore che ricordava una donna truccata di tutto punto che aspetti di essere portata fuori.

«È tardi: fai attenzione quando rientri. Dalla metro a casa prendi subito un taxi» le raccomandò il marito, mostrando un’attenzione scrupolosa nei suoi confronti.

«Sì. Aspetto il tuo ritorno al più presto» rispose lei, aggiungendo poi: «La prossima volta porti anche me su questo treno, vero?».

«Sì.»

Le labbra del marito sorridevano, ma le sopracciglia erano lievemente aggrottate.

«L’anno prossimo, per le vacanze estive.»

Al suono della campanella, il marito si voltò ed entrò nel vagone.

I due uomini si affacciarono al finestrino uno di fianco all’altro. Entrambi le sorridevano. Teiko agitò la mano, finché i loro volti furono portati via dal treno.

Restò lì in piedi a fissare il buio in cui sparivano i binari, finché non rimasero che poche persone intorno a lei. Nell’oscurità spiccavano isolate le piccole luci rosse e verdi del semaforo. All’improvviso Teiko avvertì un vuoto dentro di sé. “È questo il sentimento che lega due persone sposate?” si domandò allora.

Fu l’ultima volta che vide suo marito, Uhara Ken’ichi.

Non ultima, la sua meravigliosa capacità di descrizione del paesaggio, che qui appare cupo e crepuscolare, quasi sospeso, in perfetta sintonia con gli stati d’animo dei suoi personaggi, in un Giappone post bellico (è il 1958), in una profonda fase di mutamento della società e dei costumi.

All’inizio dicevo che c’è molto di bello, ma c’è anche del brutto: ora mi resta da leggere solo un suo romanzo. E poi?

La scomparsa

1

Teiko trascorreva i giorni nella noia mentre attendeva il ritorno del marito dal suo viaggio di lavoro.

Le aveva preannunciato il rientro per una settimana dopo. Non era un lasso di tempo breve. Detto questo, non è che fosse così impaziente di vederne la fine. Se si annoiava era perché non aveva nessuno al suo fianco: non sarebbe cambiato molto quando sarebbe stata a casa da sola ad aspettare un marito che usciva la mattina e tornava la sera.

Nelle piccole stanze del loro appartamento, giacevano in disordine le cose sue e quelle del marito. Non si erano ancora mescolate in un tutto armonico. A Teiko pareva che le proprietà del marito fossero espressione delle istanze del marito, e le cose della moglie di quelle della moglie. Era la consapevolezza della superficialità del sentimento che li legava come coppia a spingerla a vederle in quel modo.

In realtà non sentiva ancora suo Uhara Ken’ichi. Sarebbe stato suo quando avesse saputo tutto di lui. Sentiva di non essere ancora qualificata che in minima parte per quel possesso: tra loro aveva iniziato a instaurarsi una qualche forma di sentimento di coppia, ma era ostacolato dalle numerose incognite che circondavano la persona di lui.

Quelle incognite si sarebbero certo svelate dopo il suo ritorno a Tōkyō. Allora sarebbe iniziata la loro vita quotidiana insieme, e da lì i misteri sarebbero stati pian piano risolti. Significava che anche lei gli si sarebbe mostrata: sarebbe stata una rivelazione reciproca. Da quel momento in poi, pensava, avrebbero iniziato a diventare come tutte le coppie normali che vivono insieme da dieci o vent’anni.

Teiko andò anche a fare una visita a casa del cognato. Si trovava a Minamichō, nel quartiere di Aoyama, ai piedi di una discesa. La casa era circondata da un piccolo muro di cinta.

«Prego, accomodati.»

Era domenica e il cognato era in casa. Sedeva a gambe incrociate accanto alla moglie, con il volto infantile rischiarato da un sorriso.

«Come va? Vi siete sistemati?»

Aveva in braccio il loro figlio di cinque anni.

«No, non ancora. Per un motivo o per un altro, gli scatoloni sono ancora lì, e non riesco proprio a mettere ordine» rispose Teiko, guardando a turno il cognato e la cognata.

Lì, stretti al loro bambino, le apparivano la rappresentazione perfetta della famiglia. “Ah,” pensò “questa sì che è una coppia!” Appariva evidente che si fossero già svelati l’un l’altro tutti i rispettivi misteri.

«Ma certo! La vostra vera vita inizierà dopo il rientro di Ken’ichi. Ti sei ritrovata sola appena tornati dal viaggio di nozze!» disse la cognata guardandola in viso.

«Quando torna da Kanazawa?» domandò il cognato.

«Mi ha parlato di una settimana: mancano ancora tre giorni.»

«Per fortuna lo hanno trasferito qui! Anche se pare che glielo avessero proposto già diverse volte e lui avesse sempre rifiutato» commentò la cognata, porgendole il tè che la domestica aveva portato.

«Perché, in fondo, anche Tōkyō non è divertente come si pensa» si inserì il cognato. «Non è male vivere venti giorni a Kanazawa e dieci a Tōkyō, come Ken’ichi.»

«Colgo dell’invidia nelle tue parole, ma una vita del genere va bene finché sei solo!» disse la cognata guardando il profilo del marito.

«Certo! Una volta sposato ti devi stabilire in un posto» approvò semplicemente lui.

«Stai a vedere che, dopo tanti anni, invidi tuo fratello!» La cognata insisteva a stuzzicarlo. «Potresti fare a meno di usare la scusa di aver passato la notte con gli amici a giocare a mah-jong!»

«Ma cosa vai a tirar fuori, davanti a Teiko!» rispose lui, con aria imbarazzata.

«Ah!» sorrise Teiko.

«È chiaro che un uomo ha delle relazioni sociali. Però, a parte quello,» continuò lui «dopo tanti anni di vita in famiglia, uno sente il bisogno di respirare un’aria diversa. Come quel tale che, arrivato a una certa età, dopo aver accumulato una certa quantità di beni e cresciuto i figli, non dovendosi quindi più preoccupare del loro futuro, dico, ha abbandonato la famiglia ed è andato via di casa. In cerca di una nuova vita, eh! Non è che non lo capisca. È una storia che ho letto in un romanzo straniero, però.»

«Se la cava così perché è il protagonista di un romanzo straniero. Ma pensa alla moglie, lasciata in quel modo!»

«Be’, quello è il sogno di noi uomini, ma quando si tratta di passare ai fatti, nessuno ne ha il coraggio!»

«Voi uomini avete il diavolo in corpo!» esclamò la cognata. Poi, rivolgendosi a Teiko: «Per Ken’ichi non hai da preoccuparti. È un tipo tranquillo».

«Ah, lui è un po’ strano» commentò il cognato con enfasi. «Uno scapolo che non si trovi impelagato in nessuna questione di donne al giorno d’oggi è una rarità!»

«Stai tranquilla Teiko» aggiunse la cognata sorridendo. «Te lo possiamo garantire! Tuo marito è proprio il contrario del mio: lui non trascurerà la moglie!»

Teiko lasciò la casa del cognato.

Sulla via del ritorno, si fermò dalla madre.

«Se arriva fra tre giorni, venite entrambi la prossima volta» la invitò lei. «Ti ha dato notizie?»

«No, non ancora.»

Dopo averci riflettuto un po’, la madre le si avvicinò e, a bassa voce, le chiese: «Cosa ne pensi? Che tipo di persona credi che sia?».

Era evidente che avesse ancora dei dubbi a proposito del lungo celibato del genero.

«Ti dirò, mi pare fondamentalmente una brava persona» rispose Teiko.

C’erano comunque molte cose che ancora non sapeva di lui: poteva parlare solo delle impressioni che aveva avuto fino a quel momento.

«Davvero? Mi fa piacere. Be’, in ogni caso, portalo con te la prossima volta che vieni. E in sua assenza, mi raccomando…»

Nel modo di parlare della madre le pareva di cogliere l’intenzione di sottoporre Ken’ichi a un esame scrupoloso, quando fossero tornati insieme a trovarla.

A casa trovò una cartolina illustrata da parte del marito. La foto a colori riproduceva ballerine che danzavano la tradizionale okesadi Sadō.

“Sto girando insieme a Honda, per salutare i clienti e presentarlo loro come mio successore. Ci vorrà un po’ più del previsto, ma credo di riuscire a tornare il dodici. Immagino che ti dia fastidio la casa così in disordine, ma ti prego di aspettare il mio ritorno per sistemare i pacchi.”

Era scritta con la penna stilografica, in una grafia piuttosto regolare. Era la prima volta che Teiko vedeva la sua scrittura. Il timbro postale era di Kanazawa.

“Immagino che ti dia fastidio la casa così in disordine, ma aspetta il mio ritorno per sistemare i pacchi” voleva dire “non mettere in ordine”? Leggendo semplicemente le sue parole, sembrava dire che per una donna da sola sarebbe stato troppo pesante, e che sarebbe stato meglio che lei aspettasse il suo ritorno, in modo da farsi aiutare. Però Teiko aveva la vaga sensazione che intendesse altro. Forse pensava troppo, probabilmente perché non conosceva ancora bene il marito.

Si avvicinò alla finestra. Tōkyō si estendeva sempre come un mare lì sotto. La maggior parte della vista era occupata dal cielo e la città sprofondava sotto la pressione di quel vuoto.

In quel momento quasi sperò che il marito tornasse prima del previsto. Le pareva che se solo fosse stata insieme a lui, se, cioè, lui fosse stato fisicamente presente accanto a lei, non avrebbe avuto tutti quei dubbi.

Già i ricordi del marito durante il viaggio di nozze si rarefacevano. Le sue parole e gli atti amorevoli che le accompagnavano le divenivano via via più confusi nella memoria. Era come se in quei ricordi Ken’ichi non ci fosse più. Sentiva il vuoto al suo fianco, e le pareva che anche tutto ciò che aveva provato con lui fosse risucchiato e sparisse in quel vuoto.

Il giorno prima del rientro del marito, Teiko aprì uno dei suoi scatoloni di libri. Erano ancora tutti chiusi, sparsi qui e lì senza ordine. Quello conteneva solo una dozzina di volumi; trattavano quasi tutti di economia. Tre o quattro erano in lingua originale. Non c’era nemmeno un’opera letteraria. Teiko li trovò noiosi.

Prese un volume in caratteri occidentali e lo aprì, con una mezza idea di fare un po’ di esercizio d’inglese. Aveva pensato fosse un testo di economia, e invece era un trattato di giurisprudenza. Verteva in particolare sull’esecuzione delle pene. Non sembrava avesse molto a che fare con i volumi sull’economia che lo affiancavano. E poi, mentre questi non presentavano tracce di una lettura approfondita, al contrario, i tre o quattro sull’applicazione delle pene apparivano tutti molto maneggiati, come quelli che si potevano trovare sugli scaffali delle librerie dell’usato: alcuni brani erano sottolineati con la matita rossa.

Non riusciva proprio a immaginare cosa Ken’ichi avesse intenzione di studiare. Che in passato avesse pensato di diventare magistrato o avvocato? A rifletterci, si rese conto che non sapeva nulla di lui. Le era stato detto che era arrivato alla sua attuale occupazione dopo aver svolto diversi lavori, ma non le era stato spiegato di che genere di lavori si trattasse. A ben guardare, però, non era corretto dire che non le fosse stato spiegato: in pratica, lui non ne aveva mai parlato perché lei non l’aveva mai chiesto. In fondo erano sposati da pochi giorni.

Che poi, non era forse vero che in quasi tutte le coppie normali la moglie era stranamente indifferente a cosa facesse il marito prima del matrimonio? L’interesse della sposa pareva focalizzarsi solo su quanto accadeva dopo il “sì”. Teiko aveva l’impressione che le mogli fossero tranquille a proposito del passato dei loro mariti, fintanto che questo non proiettava alcuna ombra sul loro presente.

Non riuscendo a districarsi con le lunghe parole del testo inglese, fece per chiudere il libro, quando notò quelle che sembravano delle schede, infilate tra la copertina posteriore e l’ultima pagina. Non si trattava di schede, però: erano due fotografie.

Non avrebbe saputo se si potessero definire panoramiche; entrambe le foto, comunque, avevano come soggetto una casa. La prima era un’abitazione sontuosa, mentre la seconda, in rapporto a quella, era una casetta misera. La dimora elegante aveva una lunga recinzione in blocchi di calcestruzzo, all’interno della quale crescevano alberi rigogliosi, dietro cui si intravedeva un edificio a due piani in stile misto giapponese e occidentale. Solo quello: non si vedevano tetti di case vicine né monti sullo sfondo. L’impressione era quella di un’area residenziale di Tōkyō. L’altra era stata senza dubbio scattata nello Hokuriku: la casa era piccola, con un ingresso stretto. La gronda era profonda e lungo tutto il perimetro esterno erano montate grate verticali, come quelle delle finestre tradizionali. La foto doveva essere stata fatta in autunno e accanto alla casa un albero di cachi allargava i suoi rami, da cui pendevano frutti rotondi. Questa seconda casa non era stata ripresa frontalmente, ma in diagonale, per cui su un lato dell’edificio si scorgeva un panorama montuoso. Però quel particolare occupava una parte minima dell’immagine complessiva, per cui non si vedeva che un angolino delle montagne. In nessuna delle due fotografie erano ritratti esseri umani o animali che vivacizzassero l’immagine. Inoltre, entrambe sembravano risalire a un bel po’ di tempo prima, ma quella della casa povera appariva molto vecchia, a differenza della fotografia della casa lussuosa, che pareva più recente.

Che fossero di quelle che si definiscono “foto artistiche”? Ma no, erano troppo spoglie. Allora le avevano scattate perché i due edifici erano interessanti? Però, se pure si poteva ammetterlo nel caso della casetta popolare, l’altra, la dimora elegante, non aveva nulla di inconsueto o di caratteristico: ce n’erano a volontà di quel tipo nelle zone residenziali di Tōkyō. Teiko era sicura che fosse stato Ken’ichi a scattarle.

Rigirò le foto. Sul retro qualcuno, probabilmente lo sviluppatore, aveva annotato in tratti rapidi “35” su quella della casa elegante, “21” dietro la casetta popolare.

Teiko infilò le foto dove le aveva trovate e rimise il libro nello scatolone. Per qualche strano motivo, però, i due scatti rimasero nei suoi pensieri…

Il giorno dopo, il marito non tornò. Teiko era andata al mercato a fare la spesa, aveva preparato tutto e si era messa ad attenderlo, ma nemmeno quando fu sera la porta di casa si aprì.

Dovendo rientrare da Kanazawa, in linea di massima avrebbe dovuto prendere il treno notturno. La cosa più normale sarebbe stata, una volta arrivato a Ueno la mattina presto, passare da casa, ma immaginò che si fosse recato direttamente in ditta. Lo aspettò allora per la sera; lui però non si presentò. Quella notte Teiko rimase in piedi fino a tardi e andò a dormire da sola.

2

Il quattordici, Teiko telefonò in ditta. Chiese alla centralinista se Uhara fosse rientrato. Lei le domandò di attendere un momento e poi sparì, ma pochi istanti dopo le chiese: «Chi lo desidera?».

«Sono una parente» rispose lei.

«Capisco. Il signor Uhara non è ancora rientrato dalla trasferta» disse la centralinista.

Teiko tornò a casa. Il marito non era ancora rientrato in ufficio dalla trasferta. Era in ritardo di due giorni sul previsto. Che fosse sempre così? Teiko pensò di aver sbagliato a chiamare lì.

Trascorse la giornata in uno stato di agitazione.

Arrivò la sera. Sentì dei rumori di passi davanti alla porta dell’appartamento dei vicini. Un improvviso andirivieni animava le scale del palazzo. Teiko guardò l’orologio. Erano le sei: doveva essere il rumore dei mariti, che di solito a quell’ora tornano a casa e rivedono i familiari.

Suonarono alla porta. Teiko pensò fosse il campanello dei vicini. Ma quando lo scampanellio si ripeté, comprese: era alla sua porta che qualcuno aveva suonato due volte di seguito. Corse ad aprire.

Non fu il volto di Ken’ichi a comparirle davanti. Uno sconosciuto magro e di mezza età stava lì in piedi, con il cappello in mano. Era vestito piuttosto bene.

«È lei la padrona di casa?»

«Sì» rispose Teiko trattenendo il fiato. Lui le porse il biglietto da visita e lei vide i caratteri del nome, Yokota Hideo, e la qualifica di capufficio nella ditta del marito.

Teiko si tolse il grembiule, lo salutò con un inchino e lo invitò ad accomodarsi. Le palpitazioni violente nel suo petto si trasmettevano fino alla punta delle dita.

Il signor Yokota entrò con fare discreto e, dopo i convenevoli, estrasse una sigaretta, l’accese e si mise a parlare per un po’ del più e del meno. Seduta di fronte a lui, Teiko sorrideva. Quelle chiacchiere erano un atto di cortesia che preannunciava probabilmente un discorso grave. Teiko continuava a respirare a fatica.

Schiacciata la sigaretta nel posacenere, il capufficio andò al sodo.

«A proposito: ha notizie di suo marito?»

Aveva parlato in modo tranquillo, ma Teiko pensò: “Lo sapevo!”. Si alzò e andò a prendere la cartolina ricevuta dal marito, che quasi le sfuggì dalle mani.

«Mi permetta» disse il capufficio prima di leggerla.

Gli occhi dell’uomo si muovevano seguendo i caratteri. Teiko li fissava.

Lui estrasse un taccuino su cui scrisse qualcosa a matita. Probabilmente la data prevista per il ritorno: il dodici. Poi girò il cartoncino, osservò il timbro e appuntò anche quel dato sul taccuino.

«Grazie» disse restituendole la cartolina.

«Mi scusi, ma la trasferta di mio marito durerà ancora a lungo?»

La domanda di Teiko aveva un tono inquisitorio. Forse per la fretta di sapere qualcosa dal suo interlocutore.

«Ecco…»

Il capufficio strizzò gli occhi e si agitò sulle ginocchia.

«Uhara dovrebbe essere partito da Kanazawa la sera dell’undici, come dice la cartolina.»

Teiko rimase senza fiato e senza parole.

«Tuttavia, oggi è il quattordici, come sa. E in ditta non si è ancora presentato. Per scrupolo abbiamo chiamato la sede di Kanazawa per avere informazioni, ma Honda – sa, il collega che ha sostituito Uhara – be’, stando a quanto dice lui, suo marito dovrebbe essere partito la sera dell’undici.»

“Dovrebbe essere partito? Allora non è certo che sia partito davvero!” pensò Teiko. Ma non lo disse.

«Allora noi…» continuò il capufficio «abbiamo immaginato che, arrivato a Ueno, fosse tornato direttamente a casa. E che poi, per qualche motivo – be’, visto che si è appena trasferito, magari poteva avere qualcosa da sistemare – si fosse preso un permesso fino a oggi.»

Il capufficio accennò un sorriso: era ovvio che aveva detto “trasferito”, ma aveva pensato “sposato”.

«Tuttavia, mi pareva strano che non si facesse sentire per due giorni e, a dire il vero, stavo giusto pensando di mandare qualcuno qui da voi. Proprio allora, era già pomeriggio se non erro, lei ha telefonato. Perciò mi sono affrettato a chiamare Kanazawa. Honda ha confermato quanto aveva già detto: Uhara non è lì. Allora ho provato a telefonare a tutti i clienti che mi sono venuti in mente cui avrebbe potuto far visita sulla via del ritorno, ma non è andato da nessuno di loro. Non sappiamo più cosa pensare… E quindi, insomma, nemmeno lei ha qualche idea?»

Il capufficio la scrutò.

«No, nemmeno io» rispose Teiko abbassando lo sguardo.

Ma intanto si frugava freneticamente la memoria in cerca di un posto dove il marito potesse essere andato. D’un tratto le aveva attraversato la mente il dubbio che si trovasse dal fratello, ma si era detta subito che non era plausibile.

«Da qualche parente o amico?»

Lei non sapeva ancora nulla di conoscenti e amici del marito. Ma se anche fosse passato da qualcuno di loro, non avrebbe certo tralasciato di avvertire in ditta per ben due giorni. Era impensabile.

«Anche su questo, non saprei che dirle. Solo…»

Appena iniziato a parlare, aveva pensato che, in fin dei conti, sarebbe stato meglio, in ogni caso, chiedere al cognato. Lo disse al capufficio, che la pregò di chiamarlo.

Scese a chiedere di poter usare il telefono della portineria. Mentre faceva le scale non si sentiva le gambe.

Le rispose la cognata.

«Ken’ichi non è ancora tornato dalla trasferta. Doveva rientrare ieri. È venuto il suo capufficio a dirmi che non si è presentato nemmeno in ditta.» Per non farsi sentire dal portiere, Teiko copriva la cornetta con la mano. «Non è che per caso è passato lì da voi?»

«No, non l’abbiamo visto. Certo che è strano!» rispose la cognata. «Magari ha fatto un salto a trovare un conoscente.»

La cognata aveva avuto la stessa idea del capufficio.

«Sì, ma non saprei chi. Sōtarō potrebbe avere qualche idea?»

«Hai ragione. Lo chiamo subito al lavoro e provo a chiederglielo. Ma non star lì a preoccuparti troppo: magari domani mattina te lo vedi tornare come se niente fosse.»

Tuttavia, la voce della cognata era turbata.

Il capufficio era appena andato via quando arrivò la telefonata del cognato. Le disse che non aveva trovato Ken’ichi da nessuna parte.

Uscita dalla portineria, Teiko stava salendo le scale quando le tornarono improvvisamente in mente le due fotografie infilate nel libro in inglese: un’associazione d’idee del tutto immotivata.

3

Il giorno seguente, verso mezzogiorno, le telefonarono dalla ditta.

«Suo marito non è ancora tornato?»

Prima di farle quella domanda, l’interlocutore all’altro capo del filo si era presentato come Yokota, il capufficio di cui aveva ricevuto la visita la sera prima.

«No, non ancora.»

«Capisco.»

Dopo un attimo di silenzio, l’uomo proseguì: «A dire il vero, pensavo di mandare qualcuno a Kanazawa, questa sera. E mi chiedevo se lei non volesse aggregarsi. Partendo con il treno notturno, arrivereste domattina».

La ditta inviava qualcuno! Cosa stava accadendo? Teiko percepì della tensione.

«Mi scusi, ma non è che Ken’ichi vi sta creando dei problemi?»

«Problemi?»

«Non so, questioni di soldi…»

«No, assolutamente! Siamo solo preoccupati perché Uhara non ha dato notizie di sé per ben tre giorni dopo la data prevista per il suo rientro. Perciò preferiamo controllare mandando qualcuno sul posto, piuttosto che limitarci a telefonare a Kanazawa: tutto qui. Pensando che anche lei potesse sentire questa necessità, le sto proponendo di partire insieme al nostro uomo, se lo desidera.»

«Parto!» rispose subito lei.

Se in quella cartolina Ken’ichi non le avesse detto che sarebbe tornato il dodici, probabilmente non avrebbe risposto così, su due piedi: intuiva che la scomparsa del marito non dipendeva dalla sua volontà, ma da quella di qualcun altro.

Yokota le indicò l’orario in cui il treno sarebbe partito, la sera stessa, e la salutò.

Subito dopo arrivò la telefonata del cognato.

«Ken’ichi non è ancora tornato?»

«Non ancora.»

«Ma che tipo!» commentò, quasi schioccando la lingua per la stizza.

Teiko gli riferì della telefonata appena ricevuta dalla ditta. Il cognato doveva essersi reso conto che la situazione era più seria del previsto.

«Pensi che dovrei venire anch’io? Che guaio! Sono alle prese con un lavoro che non posso trascurare.»

La sua voce tradiva indecisione.

«Ma no, non è necessario. Vado io! Mi raggiungerai quando mi sarò fatta un’idea di cosa sia successo» gli rispose.

«Facciamo così? Allora, mi raccomando» disse lui, chiudendo la conversazione.

Teiko risalì nel suo appartamento. Le palpitazioni non erano più tanto veloci. Fuori dalla finestra, le case degli altri parevano onde in un mare. L’ampio spazio occupato dal cielo quel giorno era velato da fredde nuvole, il cui colore si spandeva in fasce di diversa luminosità. Le tornarono in mente le nubi del Nord viste sul lago Suwa.

Nel preparare i bagagli, sfilò le due fotografie dal libro del marito e le mise sul fondo della valigia…

Alla stazione di Ueno, un uomo magro di mezz’età attendeva Teiko presso i tornelli d’ingresso.

«Lei è la moglie di Uhara?» le chiese.

Disse di essere un collega d’ufficio di Ken’ichi. Aveva un aspetto abbastanza ordinario.

Le comunicò che aveva prenotato, mostrandole i biglietti, e si incamminò rapido verso il binario.

I posti erano all’estremità di un vagone di seconda classe.

«Mi chiamo Aoki. Immagino sia preoccupata, data la situazione» disse. «A destinazione troveremo Honda. Penso che, facendo ricerche più approfondite sul posto, riusciremo a capire cosa sia accaduto. Pare che oggi Honda abbia contattato la polizia di Kanazawa, ma loro non hanno rinvenuto corpi non identificati negli ultimi quattro o cinque giorni.»

Aoki aveva parlato a bassa voce.

Teiko era senza parole: non hanno rinvenuto corpi non identificati.

… Sicuramente lo aveva detto per tranquillizzarla. Ma lei aveva sentito un tuffo al cuore.

Erano già a quel punto? Mentre lei era all’oscuro di tutto, il corpo di suo marito aveva subito un cambiamento repentino e violento. Ken’ichi veniva trascinato via, in un luogo oscuro e irraggiungibile. Teiko si rese conto di essersi illusa, fino ad allora. Poi si accorse che le tremavano le dita.

Non riuscì a dormire. Aoki aveva incrociato le braccia e si era assopito quasi subito.

Fuori dal finestrino scorreva l’oscurità. Ogni tanto, lucine quasi impercettibili scivolavano via, come trascinate dalla corrente di un fiume. Le stelle si vedevano solo negli intervalli tra le montagne.

Numata, Minakami, Ōsawa, Muikamachi: i nomi delle stazioni passavano illuminati da luci tristi.

La regione dello Hokuriku si avvicinava. Teiko non avrebbe mai immaginato di giungere con un simile stato d’animo in quelle terre del Nord, che avevano sempre esercitato un certo fascino su di lei. Non chiuse occhio.

Il treno lasciò Naoetsu la mattina, quando era ancora buio. Sollevando la tendina azzurra per sbirciare fuori, Teiko vide nel riquadro del finestrino luci lontane, rade e ghiacciate. Si muovevano lente nel vetro appannato.

4

Teiko aprì gli occhi, percependo un movimento al suo fianco.

«Mi scusi» disse Aoki, pronto ad alzarsi portando con sé il necessaire per il bagno.

Allora si rese conto di essersi assopita e che una pallida luce filtrava nel vagone.

Qui e lì, dove le tendine erano state aperte, scorgeva qualcosa di bianco attraversare i finestrini in diagonale. Teiko tirò il cordino. L’avvolgibile si arrotolò rumorosamente e un panorama in movimento si aprì davanti ai suoi occhi.

Nevicava. Nell’aria bluastra, non ancora illuminata dal sole, la neve appariva ammassata in soffici cumuli. Le linee nere degli alberi vi affondavano, nella scarsa luce che filtrava da sotto i tetti sommersi. A un certo punto comparve un falò, e il colore del fuoco spiccava vivido. Il cielo doveva essere nuvolo, sembrava rinchiuso in un grigio fumoso.

“Ecco il Nord!” pensò, come risvegliandosi. Quell’anno non era nevicato a Tōkyō. E non era la neve l’unica vista insolita arrivando in quei luoghi: non avrebbe potuto vedere neanche quegli alberi o i tetti delle case di campagna, senza superare le catene montuose e venire al Nord. La scarsa luce mattutina era perfetta per sottolineare quella desolazione. Guardò l’orologio: erano quasi le otto.

Aoki tornò dalla toilette. Posò la mano sulla cornice del finestrino e diede un’occhiata fuori. Poi le disse: «Ci siamo quasi».

Sulle guance scavate dell’uomo, di mezz’età, era cresciuta una barba disordinata.

Teiko si truccò guardandosi nello specchio sporco del bagno. Era instabile sulle gambe per via del sussultare del treno. Faticava a reggersi in equilibrio, si sentiva agitata, con l’animo in subbuglio. La pelle secca non le permetteva di stendere bene il trucco. Chissà a che ora si era addormentata, quella mattina. Ricordava vagamente di aver visto la luce della stazione di Toyama.

Tornata al posto, trovò che Aoki si era acceso una sigaretta. Non si sentiva affatto in confidenza con quell’uomo, come se viaggiassero insieme per caso. Gli diede il buongiorno.

Un mare nero era apparso in lontananza. Il Mar del Giappone era una striscia più stretta di quanto avesse immaginato, limitato com’era da una dolce cresta di monti. Solo le loro cime innevate spiccavano bianche come zanne sul cielo grigio.

«È la penisola di Noto» fu la laconica spiegazione di Aoki.

Era quella la penisola di Noto? Le venne in mente la forma sulla cartina geografica, aggettante come una mano. Ma le montagne apparivano di una monotonia opposta a quella forma. Di quello che aveva imparato alle elementari, Teiko non ricordava che i nomi di pochi posti, come Wajima, Nanao…

Mentre guardava quelle lontane montagne muoversi a poco a poco, all’improvviso le venne in mente una domanda: «Mio marito andava anche nella penisola di Noto per lavoro?».

Aoki si tolse la sigaretta di bocca.

«Mah» rispose strizzando gli angoli rugosi degli occhi. «Non conosco bene la situazione, però non credo ci siano grandi inserzionisti dalle parti di Noto.»

Con quel suo modo di parlare apatico, Aoki le stava dicendo che Ken’ichi non aveva niente da fare da quelle parti. Probabilmente aveva ragione: anche Teiko, a vedere quei monti spogli non poté fare a meno di pensare che nella penisola di Noto vi fossero solo deprimenti villaggi di pescatori.

Il mare scomparve alla vista, e gli edifici neri sulla neve divennero più numerosi. Il treno si fermò. Gente avvolta dalla testa ai piedi in nere coperte camminava sulla strada che costeggiava i binari. Lesse i caratteri “Tsubata” sul cartello del nome della stazione.

«È la prossima, Kanazawa.»

All’idea di scendere, il volto di Aoki sembrò animarsi leggermente. A pensarci, da quando erano saliti a Ueno, aveva avuto per tutto il tempo un’aria sonnolenta.

Nella carrozza, i passeggeri iniziarono a prepararsi per l’arrivo. Teiko ebbe l’impressione che quella frenesia la spingesse verso un luogo cui le sembrava di essere predestinata. Si sentì di nuovo agitata da un brutto presentimento. Le ricordava qualcosa che le era già accaduto. Ma sì! Era stato il primo giorno del viaggio di nozze, dentro l’automobile che la conduceva dalla stazione di Kōfu all’albergo: era quella sensazione di trovarsi a scivolare lungo un piano inclinato, la stessa che aveva provato quando l’impiegato dell’albergo aveva chiuso la portiera e la macchina era partita.

Il treno rallentò, l’enorme edificio della stazione si allargò su di loro, la banchina carica di gente si avvicinava scorrendo come un pontile.

Aoki si stiracchiò e si avviò all’uscita, precedendola. Sul bavero sollevato del suo cappotto c’era un po’ di cenere di sigaretta, ma Teiko non ebbe il coraggio di allungare la mano per toglierla.

Appena scesi sul marciapiede, Aoki tirò fuori un tono di voce inaspettatamente forte. Alle sue spalle spuntò il volto di un uomo dal colorito sano. Teiko conosceva quelle folte sopracciglia e quegli occhi grandi: era Honda Yoshio, il compagno di viaggio e sostituto del marito, conosciuto quando aveva salutato Ken’ichi per l’ultima volta alla stazione di Ueno.

«Sarà stanca.» C’era un sorriso nei grandi occhi che Honda posò su di lei. «Immagino abbia avuto difficoltà a dormire stanotte in treno.»

«Mi dispiace che lei sia dovuto venirci a ricevere così presto al mattino» rispose Teiko con un inchino. «E…» stava per iniziare, ma poi s’interruppe. Si sarebbe scusata in seguito per le preoccupazioni causate da suo marito.

«Honda» chiese Aoki «hai poi saputo qualcos’altro su Uhara?»

Aveva parlato con voce molto alta. Honda si limitò a scuotere appena il capo. Per il resto lo ignorò, e si rivolse a Teiko: «L’altro ieri è nevicato anche qui. È stata una tormenta terribile».

Poi iniziò a camminare senza fretta. Teiko percepì quel passo lento come una piccola attenzione nei suoi confronti.

Davanti alla stazione, salirono su un taxi. La piazza era stata liberata dalla neve, che giaceva ammucchiata da un lato. Il sole filtrava dagli spiragli nella pesante coltre di nubi. Sotto quei raggi si distendeva la Kanazawa mattutina. Proprio davanti a loro si vedevano i tetti di un grande tempio.

L’ufficio si trovava nella traversa di una via commerciale molto animata. Era un primo piano in affitto, sopra un negozio che vendeva porcellana Kutani. Il negozio era vecchio, anche se vivacizzato dall’esposizione di vasi e leoni cinesi colorati di rosso e oro. Da lì si saliva una scala e si entrava in una camera di una ventina di metri quadrati, con quattro scrivanie piene di libri contabili e altro: quella che era in origine una semplice stanza in stile giapponese era stata adattata per ospitare un ufficio.

«Questa era la scrivania del signor Uhara.»

Honda indicava il tavolo accanto alla finestra che ora era la sua postazione di lavoro. Forse perché apparteneva al direttore, era un po’ più grande delle altre. Teiko immaginò suo marito seduto lì a controllare i libri contabili e scrivere lettere, come aveva fatto per due anni.

Era mattino presto e gli altri impiegati non erano ancora arrivati.

Honda se ne stava impalato, col cappotto ancora addosso e l’aria infreddolita.

«I cassetti…» Era stato Honda a parlare. «… non erano stati svuotati del tutto. Anche se, in effetti, per lo più contenevano documenti d’affari. Comunque, per praticità, ho raccolto tutto qui dentro.»

Aprì il cassetto inferiore della scrivania. Teiko diede un’occhiata, ma pareva contenere solo documenti contabili.

«Non aveva ancora finito di ordinare queste carte. Ciò significa, signora» proseguì Honda, rivolgendole un sorriso quasi consolatorio «che pensava di passare di nuovo qui in ufficio.»

A quelle parole Teiko si stupì: allora il marito non era partito da Kanazawa direttamente per Tōkyō. Eppure il capufficio le aveva detto così.

«Honda» disse Aoki tirando a sé una sedia vuota per sedervisi di traverso «l’ultima volta che hai visto Uhara è stato in questo ufficio?»

«A mio avviso, anche la signora dovrebbe sentire quel che ho da dire in proposito, perciò ora vi do la mia spiegazione» rispose Honda.

La luce che penetrava dalla finestra si era fatta più chiara.

«Il signor Uhara mi disse che sarebbe partito la sera dell’undici dicembre. Io pensai che avrebbe preso l’espresso Hokuriku per Tōkyō, che parte alle venti e venti da Kanazawa, e mi offrii di accompagnarlo alla stazione. Lui, però, mi disse di avere un impegno a Takaoka, per cui sarebbe andato via prima. Poi sarebbe ripassato per l’ufficio, qui a Kanazawa, il giorno dopo e la sera sarebbe partito. Se volevo essere così gentile da accompagnarlo, mi pregava di farlo allora. Quindi uscì da solo dall’ufficio poco dopo le tre del pomeriggio.»

«Per andare a Takaoka?» chiese Aoki. «Di che impegno si sarà trattato? Lavoro?»

«No, a Takaoka la ditta non ha nessun affare. Ho pensato che potesse essere una questione privata e non ho approfondito. Lei, signora, sa se a Takaoka abita qualche conoscente di suo marito?»

«Non che io sappia» rispose lei. Magari Ken’ichi aveva anche qualche conoscente a Takaoka, solo che erano sposati da così poco tempo che, semplicemente, lei non ne aveva sentito parlare. Si sentì inutile, nella posizione in cui si trovava.

«Capisco» annuì Honda. Dal modo in cui lo fece, era evidente che conosceva la situazione di Teiko.

«Mi aspettavo che il signor Uhara venisse in ufficio il giorno dopo, perché, a parte tutto, anche se sono pochi, erano rimasti questi documenti da sistemare, come vi dicevo. Però il giorno dopo – parliamo del dodici – l’ho aspettato per tutta la mattinata e non si è fatto vedere. Visto che non è venuto nemmeno nel pomeriggio né il giorno successivo, ho pensato semplicemente che fosse rientrato a Tōkyō direttamente da Takaoka. I documenti fuori posto non erano niente di cruciale, e potevamo venirne a capo anche senza che lui ce ne spiegasse il contenuto. La telefonata con cui dalla sede di Tōkyō chiedevano come mai, a ben tre giorni rispetto al previsto, il signor Uhara non fosse rientrato, è stata un fulmine a ciel sereno.»

«Senti, Honda…» Aoki sembrava seccato perché la spiegazione pareva rivolta solo a Teiko. «… allora devi aggiustare quanto hai riferito per telefono alla sede, e cioè che l’undici Uhara aveva lasciato Kanazawa per Tōkyō. Nel senso che l’undici è andato a Takaoka, dove aveva un impegno, e sarebbe dovuto ripassare per Kanazawa il dodici. Quindi, per essere precisi, Uhara sarebbe dovuto ripartire per Tōkyō la sera del dodici. Ma, visto che dopo essersi recato a Takaoka l’undici pomeriggio, non è rientrato, hai pensato che fosse andato direttamente a Tōkyō. Ed è per questo che hai concluso che fosse partito l’undici sera, vero?»

«Esatto. Che altro avrei dovuto pensare?»

Honda stava rispondendo ad Aoki, ma la domanda di Aoki riguardava il punto su cui Teiko, poco prima, aveva avuto un dubbio, e la risposta di Honda fornì una spiegazione anche a lei.

«Takaoka… Takaoka, eh? Cos’ha detto che andava a fare laggiù, Uhara? Ha qualche idea in proposito, signora?»

Aoki si era girato verso Teiko.

«Proprio no» negò ancora una volta lei.

«Ci andava spesso?» chiese, tornando a rivolgersi a Honda.

«Mah! Io sono appena arrivato e non ne ho idea, ma ho chiesto ai colleghi più anziani e nessuno ne ha mai sentito parlare.»

«Che strano!» disse Aoki, inclinando il capo con aria dubbiosa.

Nemmeno a Teiko pareva normale: cosa poteva avere da fare a Takaoka il marito, prima di lasciare quella sede?

«Avevate completato il passaggio delle consegne, tu e Uhara? Avevate fatto, cioè, il giro di tutti clienti dei dintorni insieme?» chiese Aoki.

«Per quello sono bastati cinque giorni. Li ho conosciuti tutti.»

«Mentre andavate in giro insieme, lui non ha accennato a nulla che potesse avere a che fare con quanto sta accadendo?»

«Non mi pare proprio.»

«Dove abitava Uhara?»

«Come?»

«Di sicuro doveva avere una camera in affitto presso una famiglia o una pensione, ma dove?»

Una certa confusione attraversò lo sguardo di Honda, ma scomparve subito.

«Mi ha detto che era a pensione dalle parti di Tsubata, un villaggio che si trova a est, a meno di otto chilometri da qui.»

Teiko si ricordò della stazione dove si erano fermati prima di arrivare a Kanazawa. Il marito abitava in quel posto triste? Ecco un’altra cosa che sentiva per la prima volta.

«La stanza l’aveva lasciata?»

«Penso proprio di sì.»

Aoki estrasse le sigarette dalla tasca del cappotto e ne accese una.

«Mi rendo conto» disse dopo aver lanciato uno sguardo a Teiko «che non è gradevole per lei, signora, ma per ogni evenienza… perché non presenta una denuncia di scomparsa alla polizia? Sa, con oggi fanno già cinque giorni.»

«Sono d’accordo» disse Honda. «Mi sembra un passo necessario. Se lo desidera, posso accompagnarla in questura anche subito.»

Teiko annuì. Si sentiva come svuotata.

5

Al fianco di Honda, Teiko uscì dal negozio di porcellana Kutani sopra il quale si trovava l’ufficio. C’era il sole, ma il vento era freddo. Finalmente il numero dei passanti era aumentato.

«Aoki» iniziò Honda, mentre camminavano «è un uomo molto diretto. Non vorrei che avesse urtato i suoi sentimenti. In fondo però è una brava persona.»

«Ma no, per carità. Mi dispiace che si preoccupi per me» disse Teiko, intendendo rivolgere quelle scuse, in realtà, anche a lui.

La questura non era lontana.

«Vorremmo presentare una denuncia di scomparsa.»

Honda aveva parlato al posto suo. Un giovane agente appena entrato in servizio porse loro un modulo da compilare.

«Scriva nei dettagli l’età, i segni particolari, gli abiti che indossava la persona quando è uscita di casa.»

In effetti la pagina era divisa in riquadri da compilare con tali informazioni. Quel foglio stampato avrebbe cercato un uomo scomparso. Le fece una strana impressione. Non riusciva a non vedere una fondamentale incompatibilità nel rapporto tra esseri umani e documenti. Mentre compilava uno a uno gli spazi dedicati alle caratteristiche del viso, all’altezza, al peso, agli abiti, al denaro e agli oggetti che lo scomparso aveva con sé e ai posti dove avrebbe potuto essere, il marito si allontanava man mano nella sua percezione, ed ebbe l’illusione di descrivere una persona di nome Uhara Ken’ichi, con cui non aveva alcuna relazione.

«Aveva qualche motivo per andarsene?» chiese il funzionario, con l’aria di domandarlo per prassi.

Dal suo volto inespressivo si capiva che per lui Ken’ichi era solo un caso che si aggiungeva alle decine che aveva trattato.

«No. Né abbiamo alcuna altra idea che potrebbe esservi utile» spiegò Honda al posto di Teiko.

Il funzionario ogni tanto prendeva qualche appunto a matita.

In quel momento, un poliziotto che era appena entrato in servizio notò Honda e si avvicinò con passo deciso.

«È venuto di nuovo? Ancora nessuna notizia?»

Era un poliziotto più anziano. Honda lo guardò e lo salutò con un cenno del capo. Portava il distintivo di viceispettore.

«Non ancora. Le presento la moglie della persona scomparsa.» Poi si rivolse a Teiko: «È il funzionario con cui ho parlato l’altro giorno. Ha svolto delle ricerche in zona» disse, presentandole il poliziotto.

Teiko capì subito che parlando di “ricerche in zona” si riferiva a casi di morte accidentale.

Lo ringraziò.

«Immagino sia molto preoccupata» osservò il viceispettore, e prese il modulo della denuncia di scomparsa dalle mani del poliziotto giovane. «Ormai è il sesto giorno!» aggiunse dopo aver alzato gli occhi dal foglio.

«Sì.»

Dallo sguardo si capiva che il viceispettore stava riflettendo, poi si rivolse a Honda: «Proveremo a controllare le denunce di morti accidentali di tutta la regione, invece di limitarci a Kanazawa. E anche quelle delle regioni limitrofe. Aveva con sé i biglietti da visita, vero?».

«Penso che avesse con sé il porta-biglietti da visita.»

«Adesso chiedo a lei, signora: riesce a immaginare un possibile movente che potesse spingerlo a suicidarsi, o comunque aveva qualche timore che lo facesse?»

«Nemmeno lontanamente!» rispose Teiko.

Ma, appena pronunciate quelle parole, si rese conto per la prima volta di non esserne poi così sicura. Si erano sposati da meno di un mese: che cosa sapeva, poi, di lui? Le cose che ignorava erano una montagna. Il moventeavrebbe potuto celarsi in quel terreno inesplorato. Semplicemente, lei non lo conosceva. Non poteva far altro che rispondere in base a quanto le era noto.

«A proposito delle regioni limitrofe, penso che possiamo limitarci a Toyama e Fukui, perché le altre non sono ben collegate, come trasporti» suggerì il viceispettore.

Honda concordò.

A Teiko sembrò un po’ strano che Honda non parlasse della storia di Takaoka. Non aveva spiegato che suo marito era uscito dicendo di avere un impegno in quella città? Allora avrebbe dovuto riferirlo prima di ogni altra cosa. Non ne parlò affatto. Alla fine uscirono dalla questura senza che lui avesse nemmeno accennato alla questione.

«Andiamo alla casa dove il signor Uhara era a pensione» propose Honda quando furono in strada.

«Ma non stava a Tsubata?» si sorprese Teiko.

«In precedenza ha soggiornato in una casa qui in città. Facciamoci un salto. E poi…» Honda abbassò un po’ la voce. «Devo parlarle di una cosa.»

L’ultima sillaba di quelle parole le rimase nelle orecchie. Vi colse del mistero.

Salirono su un piccolo tram verde. Rivolta al finestrino, Teiko osservava il panorama cittadino muoversi piano. Le case antiche e imponenti erano la maggior parte. Gli edifici più nuovi si insinuavano tra quelle come corpi estranei. Sui tetti, le tegole invetriate risplendevano sobriamente, riflettendo la luce solare. Quella città era scampata alla sciagura della devastazione della guerra.

«Ci siamo» disse Honda.

Ci erano voluti meno di dieci minuti.

Lasciata la via percorsa dal tram, imboccarono una traversa in lieve pendenza. In fondo alla discesa, c’erano un piccolo ponte che attraversava un ruscello e una strada che ne seguiva le sponde serpeggiando. La strada era fiancheggiata da un lungo muro in terra battuta, e anche sull’argine del fiume si allungava un muro bianco costruito con la tecnica tradizionale usata per i magazzini. In quella zona i passanti erano più rari. La presenza del muro divideva la strada in due parti, una esposta alla luce e una in ombra, e l’effetto chiaroscuro si trasferiva identico sulle spalle di Teiko e Honda, mentre la percorrevano.

«A proposito dell’alloggio di suo marito…» iniziò Honda, camminandole al fianco a una certa distanza «… no, non sto parlando di quello dove stiamo andando, che è dove abitava prima. Parlo di quello che ha usato nell’ultimo anno e mezzo.»

«Un anno e mezzo? Ma allora in quello precedente è rimasto solo per sei mesi?» gli chiese di rimando Teiko.

«Così sembra. Nel senso che personalmente non ne ho idea, ma così dicono i colleghi che stanno qui da molto tempo. Però nessuno sa dove si trovi il suo ultimo alloggio.»

Mentre Honda parlava, Teiko ne scrutò il profilo.

«Come sarebbe?»

«Come lei sa, il signor Uhara trascorreva dieci giorni al mese a Tōkyō. Gli altri venti li passava qui, ma di questo lasso di tempo, una settimana circa gli serviva per far visita agli inserzionisti girando per tutta l’area dello Hokuriku. È così che funziona il nostro lavoro. Gli altri dodici o tredici giorni li passava a lavorare in ufficio, dove si recava ogni giorno, tranne la domenica. Com’è ovvio, veniva dal suo alloggio, ma nessuno sa dove si trovasse. Anche se pare che lui dicesse di stare a Tsubata. Tuttavia, i colleghi dicono che non è possibile. Nel senso che ci sono degli impiegati che vengono da lì, e non ne hanno mai sentito parlare.»

«Mio marito» chiese Teiko con il cuore in subbuglio «non l’ha mai detto esplicitamente?»

«Pare di no. Si era mantenuto sul vago. E, dal momento che il suo lavoro lo faceva bene, la questione dell’alloggio non è mai stata messa in questione, immagino.»

«Ma non era un problema non sapere dove abitasse, quando, per dire, bisognava contattarlo per questioni di lavoro?»

«Sarà strano, ma non è mai capitato. Perché veniva regolarmente in ufficio, e per il resto era fuori in trasferta. Con quello che è successo, anch’io penso che sia stato un guaio non avere il suo indirizzo. E comunque, pure se lo avessimo avuto, ormai dovrebbe aver lasciato la stanza, per cui non credo che sia questo il problema. Ma non ne ho parlato con Aoki.»

Teiko lesse anche in queste parole un’attenzione di Honda nei suoi confronti.

«E del fatto che è partito dicendo che andava a Takaoka?»

Teiko gli stava chiedendo indirettamente perché non ne avesse parlato prima in questura.

«Non l’ho detto per una ragione un po’ strana: ho avuto l’impressione che il signor Uhara abbia mentito al riguardo, e quindi ho appositamente evitato di parlarne alla polizia.»

Teiko intuì che Honda doveva sapere altro a proposito di suo marito.

Il muro in terra battuta, con la sua aria decadente che ricordava una residenza di nobili samurai, si allungava su un lato. Le tegole incrinate che lo coronavano erano coperte di neve. Un passante con indosso un haori si rigirò a guardare le loro schiene allontanarsi.

Il sospetto del Nord

1

Sbucati sulla riva di un ampio corso d’acqua, Teiko e Honda proseguirono sulla strada che lo costeggiava. Il vento che si levava dal fiume era freddo. Rallentato il passo, Honda estrasse un taccuino e lo aprì.

«Ho chiesto ai colleghi l’indirizzo del vecchio alloggio del signor Uhara. Dovrebbe essere da queste parti.»

Dopo essersi guardato intorno, svoltò in una stradina. Molte delle case che la costeggiavano su entrambi i lati avevano porte basse e grate alle finestre.

«Deve essere questa» disse fermandosi e girandosi verso Teiko.

Su una vecchia targa era scritto “Katō”.

Qualunque fosse l’occupazione dei proprietari, la casa sembrava molto estesa in profondità, anche se l’ingresso in terra battuta era piccolo. Camminando lentamente, un’anziana donna apparve dalla penombra dell’interno.

«Posso fare qualcosa per voi?»

La vecchina canuta si sedette sui tatami e dal basso puntò gli occhi incavati sui due estranei in piedi davanti al gradino d’ingresso.

«Sono dell’agenzia pubblicitaria A» disse Honda a voce un po’ alta, pensando che la donna potesse avere problemi di udito. «Mi risulta che il mio collega Uhara sia stato suo ospite, o sbaglio?»

«Non sbaglia. Il signor Uhara… parliamo di un anno e mezzo fa, però.»

La vecchia sembrava sentire meglio di quanto Honda si aspettasse.

«Sì, è stata gentile a ospitarlo, in quel periodo» ringraziò Honda.

Poi, però, accortosi che la signora fissava Teiko, la presentò e lei salutò.

«Eh? La moglie del signor Uhara? Quando stava qui da me non era sposato. E che bella moglie che ha trovato!»

La vecchia tornò a guardare Honda.

«Siamo venuti per chiederle» riprese lui «se per caso il signor Uhara non le abbia detto dove si trasferiva, quando ha lasciato casa sua.»

«Bah, non ne so niente. Se ne è andato dicendo che si trasferiva altrove per questioni di lavoro e da allora non mi ha mai spedito nemmeno una cartolina.»

Le sue labbra sporgenti esprimevano scontento.

«Capisco. Mi dispiace.»

«Non sapete dove si trova ora?»

Vedendola improvvisamente interessata, Honda parve agitarsi un po’.

«No, siamo qui solo per farle qualche domanda» si affrettò a dire. «E quindi, quando il signor Uhara ha lasciato casa sua, è venuto qualche trasportatore a ritirare i suoi effetti personali più ingombranti, come i futon, per esempio?»

In piedi al suo fianco, Teiko capì subito il senso di quella domanda: Honda mirava a chiedere alla ditta di trasporti l’indirizzo cui avevano recapitato il mobilio.

«Ecco, non mi pare che abbia chiamato un trasportatore. Se ricordo bene, si è occupato personalmente di preparare i bagagli, ha chiamato un taxi e ha portato tutto con sé.»

«Un taxi?» borbottò Honda a mezza voce.

«Era un tipo tranquillo. Stava qui da me solo un paio di settimane al mese: il resto del tempo viaggiava per lavoro, a quanto mi diceva. In compenso non andava a donne né beveva: era proprio un tipo tranquillo. Poco prima che lasciasse casa mia, i suoi viaggi di lavoro erano diventati più frequenti» raccontò con gentilezza la donna, quando i due erano sul punto di andarsene.

Tornarono sulla strada lungo il fiume. La portata del Sai – questo era il nome del corso d’acqua – era ridotta, e la neve si era accumulata sulle rive asciutte come in un nevaio.

«Se mio marito ha caricato i bagagli su un taxi senza ricorrere a un trasportatore, vuol dire, mi pare, che il suo nuovo alloggio doveva essere qui in città, no?» chiese Teiko.

«Mah!» Mentre camminava Honda inclinò il capo, dubbioso. «Non è detto. Potrebbe essere arrivato in taxi fino alla stazione e aver spedito il bagaglio da lì, con l’apposito servizio. Non abitava in città, altrimenti qualcuno dell’ufficio lo saprebbe.»

Nel modo di parlare di Honda, Teiko percepì un’ombra di rimprovero nei confronti del marito e dei suoi segreti. Era vero: il marito senza dubbio nascondeva intenzionalmente una parte della sua vita. Non erano cose che non sapeva lei perché si erano sposati da poco: si trattava di segreti che si riferivano a questioni più intime, in un certo senso.

In lontananza si vedeva un lungo ponte, e al di sopra di quello si stendeva il crinale innevato dei monti dello Hakusan. Nuvole color cenere si concentravano in quel punto. Le parve di avere di nuovo davanti agli occhi le montagne del Nord come le aveva viste dal lago Suwa. Allora il marito non desiderava portarla con sé oltre quelle montagne, eppure lei ora era lì.

«Un taxi è difficile da rintracciare» mormorò Honda. «Non rimane che indagare alla stazione, sperando che si sia fatto portare lì. Ma non è facile: parliamo di un anno e mezzo fa, e poi non sappiamo se abbia spedito i bagagli tramite il servizio apposito, oppure li abbia messi nel bagagliaio sul treno o ancora li abbia portati con sé.»

Honda volle provare comunque ad andare alla stazione e Teiko non si oppose. Le pareva di fluttuare tra le nubi.

Sul tram erano seduti tre monaci che parlavano tra loro. Teiko pensò distrattamente che erano molti i monaci in quella città. I tre scesero appena il mezzo passò davanti a un grande tempio.

«È lo Honganji: in quest’area è molto diffuso il buddhismo della Terra Pura» disse Honda al suo fianco.

Ecco a quale tempio apparteneva il grande tetto che aveva visto quella mattina all’arrivo.

Entrati nell’edificio della stazione, si incamminarono allo sportello di accettazione dei bagagli. I due addetti sembravano presi dal lavoro, e Teiko e Honda attesero che avessero un momento libero.

«Di cosa si tratta?» chiese un impiegato grassoccio, dopo aver sistemato un pacco.

«Siamo venuti per chiedere informazioni su alcuni bagagli spediti un anno e mezzo fa. Potrebbe darci qualche notizia al riguardo, se facesse un controllo?» chiese Honda.

«Un anno e mezzo fa?» l’impiegato era perplesso. «Il bagaglio non è ancora arrivato?»

«No, non è questo. Vorremmo controllare l’indirizzo di spedizione.»

«Volete sapere a chi è stato spedito. Capisco. Mi dite il luogo?»

«Non lo sappiamo. Il nome del mittente è Uhara Ken’ichi.»

«Valigie o pacchi?»

«Non sappiamo nemmeno quello.»

«Ovviamente non avete la ricevuta, vero? Un anno e mezzo fa è un bel po’ di tempo. La data della spedizione?»

«Non conosciamo la data esatta. Sappiamo solo il nome del mittente.»

«Sta scherzando?» L’impiegato pareva arrabbiato. «Come faccio a cercare una spedizione di un anno e mezzo fa, senza sapere né cosa né dove né quando è stato spedito?»

E come dargli torto? Non poterono far altro che andarsene. Honda iniziò a camminare e tirò una boccata da una sigaretta.

«È normale che l’addetto si sia innervosito: è una storia senza capo né coda!» ammise. «In conclusione, non c’è speranza di trovare il nuovo indirizzo di suo marito indagando in stazione. Cosa facciamo allora?» Guardò l’orologio. «Sono le quattro passate. Passiamo alla polizia? Potrebbe esserci qualche novità sulla nostra denuncia di stamane.»

Si riferiva alla richiesta alle questure della regione e delle regioni vicine di verificare eventuali rinvenimenti di cadaveri non identificati di persone decedute di morte violenta. Teiko s’incupì.

«Possibile che abbiano già informazioni al riguardo?»

«Potrebbero. Al giorno d’oggi, con i telefoni, la polizia ci mette poco a comunicare fra una questura e l’altra.»

Honda si avviò verso la fermata del tram, con l’aria di voler procurarsi quelle informazioni il prima possibile.

Il viceispettore che avevano incontrato in mattinata si accorse di loro e si avvicinò di sua iniziativa allo sportello dell’accoglienza. Era un uomo alto, che all’apparenza aveva superato la quarantina.

«Abbiamo i risultati di quasi tutti i posti cui abbiamo fatto richiesta» disse.

«Grazie davvero.»

Honda e Teiko abbassarono entrambi il capo in segno di ringraziamento.

«A partire dall’undici dicembre – cioè da quando la persona che cercate è scomparsa, in questa regione e nelle regioni vicine di Toyama e Fukui non è stato ritrovato alcun corpo non identificato di deceduti di morte violenta. Finora, s’intende.»

Malgrado quell’ultima puntualizzazione, Teiko si sentì sollevata dalla pena che aveva provato fino a quel momento.

«Capisco.» Honda stava riflettendo. «Ci vuole più tempo per avere le risposte delle altre regioni, vero?»

«Ah, di quelle se ne parlerà dopo che avremo diffuso la vostra denuncia di scomparsa in tutto il paese. Immagino che ci vorranno più di due settimane.»

«Quindi in queste tre regioni non c’è stata, da quel giorno, nemmeno una morte accidentale.»

«Non di persone non identificate. Altro discorso sono i casi in cui i familiari hanno riconosciuto il corpo e, dal punto di vista legale, la questione è stata risolta: solo nella nostra regione abbiamo avuto tre suicidi e una morte in seguito a lesioni, nella regione di Fukui una morte per ustioni e un suicidio, nella regione di Toyama due suicidi. Certo che, raggruppandole in questo modo, le persone che hanno fatto una fine sfortunata in così poco tempo sono un bel po’!» Letti gli appunti, con aria sorpresa il viceispettore aggiunse: «Strano che siano esattamente quattro uomini e quattro donne!».

Il poliziotto doveva essere una brava persona, perché aveva parlato come esprimendo sollievo perché nella lista dei decessi non compariva il soggetto che cercavano loro.

«Allora la prego di contattarci qualora trovaste persone, vive o morte, che potrebbero riguardare il nostro caso» disse Honda.

A queste parole il poliziotto chiese: «Dobbiamo contattare chi ha sporto la denuncia?» e lanciò uno sguardo ai dati sul modulo, dov’erano riportati il nome di Teiko e il suo indirizzo di Tōkyō.

Lei sbirciò Honda in volto, al che lui si rese conto della situazione e rispose: «Certo. Se tuttavia il ritrovamento dovesse avvenire da queste parti, vi chiederei di contattare me, che resto a Kanazawa. Perché la signora tornerà a Tōkyō a breve. Le ho dato il mio biglietto da visita quando ci siamo incontrati l’altra volta, vero?».

«Sì. Allora farò come dice» annuì il viceispettore.

Appena usciti dal portone della questura, Honda si fermò.

«Per il momento è un sollievo non aver trovato conferma alle nostre paure. Anche se ho sempre pensato che nulla di così grave poteva essere accaduto al signor Uhara… È vivo e vegeto da qualche parte» assicurò, forse per tranquillizzare Teiko. «Non crede? Perché non aveva alcun motivo di morire. Ci siamo agitati più del necessario. Presto, quando meno ce lo aspettiamo, ricomparirà.»

Tuttavia, Teiko non si spiegava perché il marito dovesse sparire in quel modo. Honda non accennava a possibili motivi, e lei esitava a tirare in ballo l’argomento. La gente tende a rimandare, quando deve affrontare questioni fondamentali.

«Mi pare che pensiamo troppo solo agli aspetti più cupi. Non crede? Se per esempio, e sottolineo se, suo marito avesse sottratto denaro alla ditta, si potrebbero immaginare diverse possibilità. Ma, dato che non è questo il caso, possiamo dimenticarcele. Poi, come mi ha confermato anche lei, non ha alcun motivo per darsi alla macchia. E, ovviamente, non sono plausibili né il suicidio né l’omicidio. In ultima analisi, non abbiamo alcuna ragione di preoccuparci» sentenziò Honda.

Quel discorso pareva mirato a tranquillizzare Teiko, ma anche a convincere se stesso. La logica di fondo, però, non convinceva Teiko: da qualche parte dentro di sé sentiva una sorta di resistenza. Non riuscì tuttavia a dare forma a quel sentimento per esprimerlo a parole.

Il sole filtrava tra le nubi, ma era già molto inclinato a occidente.

«Sarà stanca! Che ne dice di andarsene diretta in albergo, per oggi?» chiese Honda guardando i colori del tramonto. «Spero che le piacerà il ryokan che le abbiamo riservato: è il più tranquillo che abbiamo trovato. La accompagno.»

Teiko lo ringraziò e s’incamminò con lui. Honda le disse che le avrebbe fatto avere al più presto il bagaglio che aveva lasciato in ufficio.

Il ryokan era a pochi passi da una strada su cui passava il tram. Immediatamente alle sue spalle si vedevano il castello e un’altura.

«Oltre quella collina è tutto giardino Kenrokuen» disse Honda indicando il panorama fuori dalla finestra. Sentendosi responsabile, era salito con Teiko per verificare la stanza. Ma non si fermò nemmeno cinque minuti. «Ho del lavoro da sbrigare. La saluto, allora» concluse.

«La ringrazio di tutto, davvero. Con quello che avrà da fare!» rispose Teiko, rivolgendogli un inchino formale con le mani posate sul tatami.

«No, per carità. A Tōkyō non eravamo nello stesso ufficio, e quindi non avevo un rapporto particolarmente stretto con suo marito, ma ciò non toglie che sia un mio superiore, e per di più mi ha ordinato la ditta di cercarlo, per cui non si faccia alcuno scrupolo al riguardo: si lasci aiutare pensando che lo faccio per lavoro» disse Honda con aria un poco imbarazzata, prima di andarsene.

C’era un kotatsu nella stanza, ma Teiko al momento non aveva voglia di sedervisi. Riaprì gli shōji e guardò fuori. Iniziava a fare notte, e solo le mura bianche delle torri erano ancora visibili nella luce residua. La collina sullo sfondo era completamente coperta di pini.

Quello era il Kenrokuen? Si ricordò di come gliene avevano parlato a scuola e di tutte le foto di quel panorama che aveva visto ma, anche se non le dispiaceva viaggiare, questa volta non aveva nessuna voglia di andare a visitarlo.

Una cameriera entrò portando del tè.

«Deve sembrarle proprio campagna, qui, rispetto a Tōkyō!»

Mentre posava la tazza sul ripiano del kotatsu, la donna le aveva parlato con tono complimentoso.

«Ma no, è un posto così vivace.»

Teiko chiuse gli shōji e si sedette.

«Mah, i locali si vantano ancora come se la loro fosse una grande città, perché è chiamata “il borgo da un milione di goku”. È vero che è anche molto attiva dal punto di vista culturale.»

«È di Tōkyō anche lei?»

«Sì. Vivevo a Shibuya, ma sono sfollata qui e ho finito per stabilirmici» disse la donna di mezz’età, prima di chiederle se desiderava cenare subito.

Teiko rispose che avrebbe aspettato ancora un po’. Non aveva affatto appetito.

Rimasta sola, si sentì assalire per la prima volta dalla malinconia, nel vedere la propria ombra proiettarsi solitaria sui tatami, alla luce della lampada.

Fino a quel momento era comunque sempre stata con qualcuno: con Aoki sul treno, con Honda in seguito. Invece adesso, senza più nessuno al fianco, ebbe di colpo la sensazione di essere stata abbandonata. In parte era l’inquietudine di trovarsi in un posto sconosciuto.

Un posto sconosciuto… Era davvero così. C’erano, è vero, in quel posto, tracce della presenza di suo marito, ma erano così vaghe da risultarle sfuggenti. Quel desiderio di recarsi sotto il cielo del Nord, che l’aveva colta quando l’aveva visto da lontano durante il viaggio di nozze, era stato solo un miraggio. Le sembrava che anche il suo matrimonio con Uhara Ken’ichi non fosse realtà, ma illusione.

E d’improvviso Teiko si trovò a chiedersi se la sparizione di suo marito non fosse iniziata quando lei era diventata sua moglie.

2

La cameriera la chiamò da oltre i fusuma: «C’è una consegna per lei».

Entrò con la sua valigia.

«Oh, è già arrivata? La persona che l’ha portata è ancora qui?»

Teiko aveva intenzione di dirgli una parola di ringraziamento, se fosse stato ancora lì.

«È il signore che l’ha accompagnata prima. È ancora nell’ingresso» rispose la donna.

Non si aspettava che Honda venisse a portarle la valigia di persona. Si affrettò a scendere al piano di sotto e lo trovò in piedi sul pavimento in pietra dell’ingresso.

«Oh, la ringrazio per la sua gentilezza! Pensavo che avrebbe mandato qualcuno, e invece è venuto di persona: sono desolata per il disturbo che le ho arrecato.»

«Non si preoccupi. Al lavoro per oggi avevo finito, e sono passato sulla via del ritorno. Per qualsiasi cosa si rivolga senza indugio al personale dell’albergo» disse lui, restandosene lì un po’ imbarazzato.

La ditta si sarebbe occupata di saldare il conto del ryokan per quella notte. Questo era il senso delle sue parole.

«Grazie. Sale un momento?» chiese Teiko, alzando gli occhi su di lui.

«La ringrazio, ma è meglio che vada.»

La risposta di Honda si riferiva all’inopportunità di una visita serale.

«Ma così mi mette a disagio!»

Non poteva certo lasciarlo andare senza nemmeno offrirgli qualcosa. Né poteva uscire insieme a lui. Ma aveva visto una stanza di fianco all’ingresso, una specie di sala d’attesa a disposizione degli ospiti, e lo invitò a entrarvi.

Era una saletta di appena quindici metri quadri, arredata in stile occidentale, con dei cuscini.

Teiko chiese del caffè alla cameriera.

«Non si preoccupi» disse Honda, abbassando lo sguardo per tirare fuori una sigaretta, dopo aver preso posto su una sedia. «Mi fermerò pochissimo perché immagino sia stanca. Aoki le manda i suoi saluti.»

Teiko abbassò il capo in segno di ringraziamento e le tornò alla mente il volto antipatico di Aoki.

«Lui torna a Tōkyō domani mattina. Anche se dovrà fermarsi in due o tre posti lungo la strada.»

Teiko dedusse che sarebbe andato a cercare il marito: i due tre posti di cui parlava Honda dovevano essere le sedi di clienti della ditta.

«Sono davvero desolata per il disturbo che mio marito sta arrecando a tutti voi» si scusò di nuovo.

«Ma no, se non ci si aiuta in momenti simili! Lei, piuttosto, sarà preoccupata. È accaduto tutto così in fretta!»

Lei capì che si riferiva alla loro breve vita matrimoniale e sentì un lieve rossore avvamparle le guance.

«Ha ragione, signor Honda,» rispose «ho vissuto solo pochi giorni con Uhara Ken’ichi. Non so se sia il caso di dirle certe cose, ma io non sapevo nulla di mio marito prima del matrimonio. Anzi, anche ora che siamo sposati non ne so molto. Quindi non ho la minima idea di cosa stia accadendo. Lei, signor Honda, ci capisce qualcosa? Non le viene in mente un possibile motivo per la sua sparizione?»

Teiko aveva toccato il nocciolo della questione, che non aveva osato affrontare durante la giornata.

«Ci ho riflettuto a lungo» rispose lui, abbassando lo sguardo «Non riesco a immaginarne nessuno. Ho provato a chiedere ai colleghi in ditta, ma non circolano dicerie di alcun tipo sul suo conto. Sul lavoro era serissimo, e non pare fosse dedito a divertimenti poco ortodossi: beveva poco e non gli piaceva nemmeno il gioco d’azzardo, tipo corse di cavalli o mah-jong. E, mi scusi se mi permetto di tirare fuori l’argomento con lei, ma non pare avesse nemmeno storie con donne. Credo che fosse, fondamentalmente, un tipo senza altri interessi che il lavoro. Neppure io ci capisco granché.»

Mentre ascoltava Honda parlare, Teiko aveva la sensazione che le sue parole le scivolassero addosso, senza colpirla davvero nel profondo. Lì per lì non riuscì a capire da dove le venisse quel senso di insoddisfazione.

«Avrà fatto perdere volontariamente le sue tracce? Oppure…»

Teiko lasciò intendere che si chiedeva se non fosse stato qualcun altro a costringerlo a sparire.

«È ancora presto per dire che il signor Uhara sia scomparso di sua volontà. Visto che non abbiamo scoperto alcun motivo che potrebbe averlo spinto a farlo… E poi quando ci siamo lasciati, il giorno undici, mi ha detto che sarebbe tornato di nuovo in ufficio e, di fatto, ha lasciato delle cose da sistemare nei cassetti.»

Giusto! Teiko si ricordò che Uhara le aveva mandato una cartolina da Kanazawa, nella quale le diceva che sarebbe tornato il dodici. Quindi era immaginabile che avesse intenzione di lasciare Kanazawa l’undici. Ma, a quanto pareva, quel giorno era andato a Takaoka, dicendo che aveva un impegno lì, e che sarebbe tornato di nuovo a Kanazawa il dodici per ripartire per Tōkyō. Però Takaoka era sulla strada per Tōkyō. Se aveva un impegno lì, perché non vi aveva fatto tappa sulla via del ritorno? Sarebbe stato molto più comodo che tornare a Kanazawa e risalire su un altro treno per Tōkyō.

Teiko parlò a Honda di quei suoi dubbi, e lui annuì: «Ha ragione. Perché il signor Uhara il giorno undici è uscito dicendo che sarebbe andato a Takaoka? Perché aveva intenzione di tornare a Kanazawa il giorno dopo? Sono questioni fondamentali. Forse è lì la chiave di tutto».

«Ma non è che mio marito si fosse trasferito» disse Teiko sentendo nascerle dentro una certa agitazione «proprio a Takaoka?»

«Ci avevo pensato anch’io, ma non è così» rispose Honda. «A dire il vero, prima che lei arrivasse sono stato a Takaoka a fare ricerche. Finora non ho trovato traccia di una sua presenza lì. E poi, come dice lei, Takaoka è sulla strada per Tōkyō, quindi lui non avrebbe avuto necessità di ripassare per Kanazawa. Mi domando, allora, se non sia andato altrove, in un posto dal quale fosse indispensabile tornare a Kanazawa per salire su un treno diretto a Tōkyō.»

Nel sentire queste parole, Teiko si ricordò che la mattina Honda le aveva già confidato di credere che Uhara avesse mentito quando aveva detto che sarebbe andato a Takaoka.

Ma perché avrebbe dovuto mentire? E, soprattutto, perché non aveva mai comunicato il suo nuovo indirizzo ai colleghi dell’ufficio?… A quel punto le divenne chiaro il motivo del senso di insoddisfazione che aveva provato poco prima alle parole di Honda.

«Forse ho capito perché lei stesse cercando il corpo di mio marito ancor prima che io arrivassi.»

Dallo sguardo di Honda si indovinava che quelle parole lo coglievano alla sprovvista.

«È perché nessuno sa dove abitasse, vero? Nel senso che, nel momento stesso in cui è scomparso, quell’aura di mistero che lo circondava l’ha spinta a pensare a una morte violenta.»

Honda prese la tazza e l’accostò alle labbra. Aveva bisogno di tempo per trovare una risposta.

«Chiedere l’aiuto della polizia comporta, bene o male, anche quel tipo di ricerca» rispose dopo aver sorbito un sorso di caffè. «Lei ha troppa immaginazione. Come le ho già detto diverse volte, non penso ci sia da preoccuparsi. Ritengo che il signor Uhara sia sano e salvo.»

Senza sapere bene perché, Teiko distolse lo sguardo. A dispetto dei tentativi di Honda di incoraggiarla, le parve che l’intuizione che aveva avuto avesse colto nel segno. Ma quale segreto poteva nascondere suo marito?

Gli occhi le erano caduti sulla parete color crema, dov’erano appese fotografie incorniciate che riproducevano panorami di Kanazawa. Si ricordò delle due foto appartenenti al marito che aveva messo in valigia.

Chiese all’uomo di aspettarla un istante, e salì in camera a prenderle. Tornò da lui portandole con sé.

«Erano inserite tra le pagine di un libro di mio marito. Non so se abbiano a che fare con quanto sta accadendo, ma le dicono qualcosa queste case?»

Lui prese le fotografie in mano e le osservò. Una riproduceva un edificio di lusso, che ricordava un po’ quelli all’occidentale di moda prima della guerra; l’altra una povera casa di contadini. Sullo sfondo si vedevano pendici montane.

«Proprio no» rispose Honda inclinando il capo. «Non le ho mai viste prima. Le ha scattate il signor Uhara?»

«Credo di sì. La macchina fotografica ce l’ha.»

«Questa bella casa potrebbe essere anche a Tōkyō. Ma visto che non si vede niente di particolare sullo sfondo, non saprei dire dove. Magari invece si trova in provincia.»

Honda la pensava come Teiko.

«Questa che sembra una casa di contadini, invece, è chiaramente nella campagna da queste parti. L’ingresso piccolo, la gronda profonda e le grate di legno simili a quelle che si mettono alle finestre sono caratteristiche tipiche della zona. Chissà dov’è, però.»

Le voltò.

«Le ha portate da uno sviluppatore. Qui ci sono le sue annotazioni: 35 e 21. Dato che la carta è vecchia, non sono recenti. A quale laboratorio si rivolgeva di solito?»

«Non saprei, perché da quando ci siamo sposati non l’ho mai visto portare foto a sviluppare.»

«Capisco. Comunque, forse qualcuno in ufficio lo sa: proverò a chiedere.»

«Allora, signor Honda, dovrebbe farmi il favore di chiedere anche un’altra cosa: qualcuno potrebbe sapere dove si trovino queste due case e, se così fosse, vorrei che me lo dicesse.»

«Ho capito.»

Honda si infilò le due foto in tasca. Teiko non gliene aveva parlato, ma anche lui pareva sospettare una possibile relazione tra le case nelle foto e il misterioso alloggio di Uhara.

L’uomo si alzò, spiegando che si stava facendo tardi.

«La ringrazio per tutto il suo aiuto» gli disse Teiko, dopo averlo accompagnato nell’ingresso.

Mentre gli rivolgeva quelle parole di gratitudine, pensò che da quel momento si sarebbe trovata costretta ad arrecargli ancora molto disturbo.

Tornata in camera, rimase un po’ sovrappensiero. La tensione che l’attanagliava dalla mattina si allentò di colpo. Diverse cose le ruotavano nella testa, vaghe come panorami lontani.

Perché il marito, dopo aver lasciato l’ufficio l’undici dicendo che sarebbe andato a Takaoka, aveva intenzione di tornare a Kanazawa il giorno successivo? Honda le aveva confidato di ritenere che fosse quella la chiave di tutto. Poi si ricordò che aveva detto: “Mi domando, allora, se non sia andato altrove, in un posto dal quale fosse indispensabile tornare a Kanazawa per salire su un treno diretto a Tōkyō”.

Teiko chiamò la reception. «Vi sarei grata se mi portaste una cartina della regione Ishikawa, se l’avete.»

Gliela portò la cameriera che l’aveva accolta. «Pensa di andare in gita ora? Le piace viaggiare! Purtroppo questa non è una buona stagione, ma a partire dalla primavera è bello fare il giro della penisola di Noto.»

Teiko si limitò a sorridere.

Aprì la cartina. Non erano molte le linee secondarie che partivano da Kanazawa. C’era la linea Nanao, diretta all’estremità settentrionale della penisola di Noto, che si diramava da Tsubata, la stazione immediatamente successiva a Kanazawa. A Tsubata si fermavano i semiespressi, ma era comunque il caso di prenderla in considerazione, perché era vicina a Kanazawa. C’era poi la linea che si dirigeva a sud dalla stazione di Kanazawa Ovest, seguendo il fiume Sai attraverso le valli della catena dello Hakusan. Poi c’erano una tratta che da Kanazawa puntava alla laguna di Kahoku facendo capolinea ad Awagasaki, e due linee private che correvano sulla costa in direzione di Ōnominato. Quelle erano le prime quattro tratte da controllare.

Ma a parte le diramazioni, c’erano altre possibilità. Ken’ichi avrebbe potuto prendere la linea principale nella direzione opposta a Tōkyō, verso Fukui, a ovest. Se fosse sceso a una stazione piccola, di quelle dove non fermano i semiespressi, magari vicino a Kanazawa, avrebbe dovuto usare un locale.

E c’erano anche gli autobus, che partivano in tante di quelle direzioni diverse, che era difficile decidere quali considerare. I trasporti si erano sviluppati a un livello tale ormai che, anche focalizzandosi sulla sola stazione di Kanazawa, Teiko non era in grado di limitare il numero delle possibili mete di suo marito, in quell’undici dicembre.

Rinunciò a studiare la cartina.

Il giorno undici Uhara Ken’ichi era andato da qualche parte con l’intenzione di tornare in seguito a Kanazawa. E da allora non se ne avevano più notizie. Questo era l’unico dato di fatto.

Teiko ripensò a strani episodi di sparizioni di cui le era capitato di leggere sui giornali in passato: un giovane studioso scomparso sul tragitto per l’università; un impiegato uscito dicendo che andava a fare una passeggiata e mai tornato; un ragazzino volatilizzatosi mentre stava giocando all’aperto. In tutti i casi i parenti dicevano di non avere idea di quali potessero essere i motivi della scomparsa. Aveva letto in un articolo su una rivista che non erano pochi i casi di quel genere in tutto il paese.

Che anche la sparizione di suo marito fosse solo un altro di quei casi? Non aveva nessun senso. Ken’ichi aveva affermato di voler tornare il giorno dopo in ufficio a Kanazawa, ed effettivamente non aveva riordinato i cassetti della scrivania, quindi non aveva intenzione di far perdere le proprie tracce o di suicidarsi.

Tuttavia, Teiko non riusciva a convincersi al cento per cento di quell’apparente mancanza di senso. C’era almeno una connessione importante, anche se non lampante. Due aspetti di quella vicenda erano in qualche modo collegati: un aspetto spaziale, cioè che non si sapesse nulla dell’abitazione di suo marito, e un aspetto temporale, cioè che il fatto si fosse verificato subito dopo il loro matrimonio.

Appena se ne rese conto, Teiko fece richiesta per due telefonate interurbane, a due numeri di Tōkyō.

Entrambi risposero subito. Il primo era la casa del cognato. Sentì la voce della cognata.

«Ciao, sono Teiko.»

«Oh, ciao!» rispose la voce acuta. «Cos’è successo?»

«Non lo so ancora. Mi stanno aiutando nelle ricerche anche degli impiegati della sede di qui.»

«Che situazione! Non si sa niente di niente?» chiese la cognata in tono preoccupato.

«No. Ho presentato anche una denuncia alla polizia. A voi non è arrivata nessuna notizia?»

«No, nessuna. Anche tuo cognato è preoccupato. In questo momento non è in casa, però. Se è necessario, gli dico di raggiungerti.»

«Sì, se i suoi impegni di lavoro glielo permettono, gliene sarei grata.»

«Va bene, glielo dico. Però, Teiko, non ti preoccupare troppo: è probabile che poi si scoprirà che era una scemenza. Certo, anche in quel caso, non è piacevole!»

Dopo quei commenti un po’ incoerenti, la cognata chiuse la comunicazione.

Teiko aveva chiamato a casa del cognato perché era suo dovere almeno informarlo. Ma l’idea che lui la raggiungesse lì ovviamente la agitava.

Si mise ad aspettare accanto al telefono che le passassero la comunicazione con la casa di sua madre.

Era probabile che si sarebbe preoccupata. Però Teiko aveva bisogno di saperne di più su suo marito, in particolare sulla sua vita precedente. Piuttosto che chiedere ai parenti di lui, meglio domandare a una terza persona di informarsi.

“La causa della sparizione di Ken’ichi non è forse da cercarsi nel nostro recente matrimonio?”

Quella era la sua sensazione. Avrebbe dovuto farsene una ragione, anche se non era facile.

3

Un campanello trillò. Dal centralino della locanda, le dissero che Tōkyō aveva risposto. Appena disse «Pronto?», all’altro capo sentì la voce della madre: «Qui casa Itane…».

Le parve vicina, come se fosse una telefonata urbana.

«Mamma? Sono Teiko.»

«Oh!» rispose la voce «Sei a Kanazawa? Così ha detto la centralinista, vero?»

«Sì, sono a Kanazawa. Sono venuta qui senza avvertirti…»

«Questo non ha importanza, ma…» Sentendola chiamare da un posto dove non si aspettava si trovasse, la madre tradiva un certo turbamento nella voce. «Ken’ichi è con te, no?»

«No, sono da sola.»

«Oh, è uscito?»

«Non è uscito. Non c’era già al mio arrivo.»

La madre tacque, come se non riuscisse a capire il senso delle sue parole. La durata di quel silenzio le fece percepire la grande distanza che separava Tōkyō da Kanazawa. Per riprendere la conversazione, Teiko ripeté: «Pronto?».

«Sì, sì! Ma cos’è successo?»

«Ken’ichi è partito da qui l’undici, e da allora nessuno ha più avuto sue notizie. Io mi sono preoccupata e sono venuta a chiedere informazioni ai suoi colleghi della ditta, ma non sono riuscita nemmeno a capire per dove sia partito. Ho già avvertito il fratello ad Aoyama.»

«Eh?»

Sentì che, all’altro capo della linea, la madre era rimasta senza parole. Le parve di vedere l’espressione che compariva sempre sul suo volto in circostanze simili.

«Però non pare sia per forza una cosa per cui preoccuparsi più di tanto. Mi raccomando, mamma, non ti agitare!»

«Eppure, Teiko, mi sembra grave! Cosa mai può essere successo?»

La voce le tremava un po’.

«Ti racconterò i particolari al mio ritorno a Tōkyō. Ma ho una richiesta da farti in proposito.»

«Di cosa si tratta?»

«Vorrei che cercassi di sapere tutto il possibile su di lui.»

«Cioè, tu…»

«No, non parlo solo del presente, ma anche del passato. Noi, per dire, sappiamo a malapena il nome della scuola che ha frequentato e dell’agenzia pubblicitaria A per cui lavora ora. Nessuno ci ha mai raccontato niente di cosa facesse prima.»

«Sì, ma quello…»

La madre sembrava voler dire che non era poi tanto importante. In effetti, nei matrimoni combinati di solito era così: le ricerche si facevano soprattutto sulla provenienza geografica, la formazione scolastica, la situazione socioeconomica attuale, le parentele, le amicizie – in particolare femminili –, i comportamenti abituali. Ma non si facevano indagini così approfondite su quanto accaduto dopo gli studi. Ci si focalizzava, cioè, troppo sul presente, per andare a scandagliare la storia personale passata. Magari, chissà, le indagini prematrimoniali si tenevano in qualche modo a distanza dal passato perché il matrimonio si fonda e si costruisce sul presente.

«No, è che non so ancora se possa avere a che fare con la scomparsa di Ken’ichi. Però intanto vorrei scoprire qualcosa in proposito.»

«Ma da chi?»

«Il fratello di Ken’ichi, quello che vive ad Aoyama, credo sia il più informato, ma se lo interrogassi sembrerebbe che sospetti qualcosa. E poi sarebbe imbarazzante se, magari, si rifiutasse di parlare, per motivi poco chiari. Perciò penso che potresti chiedere al signor Saeki, che ci ha fatto da intermediario.»

«Ma anche il signor Saeki dice che lo conosce solo tramite l’agenzia A, non penso che ne sappia molto» rispose la madre.

A Teiko parve di vedere il suo volto contratto.

«Hai ragione. Ma basterà quello che riesci a scoprire. Vorrei che ti facessi raccontare da lui tutto quello che sa. In ditta dovrebbero avere una copia del curriculum di Ken’ichi. Mi farò mostrare anche quello. Certo è un po’ strano, arrivati a questo punto» si lasciò sfuggire Teiko.

Erano richieste che avrebbe dovuto fare prima del matrimonio. Però, era anche possibile che un intermediario dicesse cose diverse una volta che il matrimonio era stato celebrato, rispetto a prima. Un intermediario che non fosse ancora riuscito a far concludere le nozze non farebbe mai nessun tipo di ammissione. E non si tratta di disonestà da parte degli intermediari giapponesi, quanto piuttosto di una specie di ambizione da artigiano che vuole portare a compimento la propria opera.

Sua madre sembrò aver colto l’idea di Teiko.

«Giusto. Allora proverò a chiedere al signor Saeki. Però, che guaio! Non potrai nemmeno tornare presto a Tōkyō, con Ken’ichi in questa situazione.»

Aveva ragione. In quella situazione non sapeva dire quando sarebbe potuta tornare a Tōkyō.

«No, non credo ci vorrà molto. Anche i suoi colleghi di qui mi stanno dando una mano a rintracciarlo. In ogni caso, se riesci a sapere qualcosa dal signor Saeki prima che io rientri, spediscimi un espresso.»

Appena quelle parole le sfuggirono di bocca, Teiko ebbe la sensazione improvvisa che forse non avrebbe mai scoperto che fine avesse fatto il marito. Era una specie di presagio cui non avrebbe potuto dare una spiegazione razionale.

«E che cosa ti hanno detto i parenti di Aoyama?»

«Li ho appena chiamati. Mio cognato non c’era e ho parlato solo con sua moglie, ma, da quello che mi ha detto, credo che lui verrà qui.»

«Davvero? Bene. La sua presenza ti rassicurerà.»

Dopo di che la madre le disse altre due o tre parole su Ken’ichi, le chiese il numero del telefono da cui la chiamava e chiuse la comunicazione. Teiko non riuscì più a cancellare il ricordo della sua voce ansiosa.

Rimase un po’ ferma lì, sovrappensiero. Appena svanita la voce della madre, Tōkyō le era parsa improvvisamente lontanissima, e dall’atmosfera intorno l’aveva assalita la chiara percezione di trovarsi sola, in un posto a centinaia di chilometri da casa. Ferma immobile com’era in quel momento, pareva proprio stesse confermando a se stessa quella sensazione.

Da qualche parte proveniva un canto di teatro Nō. Si udiva il piccolo tamburo che lo accompagnava. Teiko si decise ad alzarsi per andare ad aprire gli shōji. La collina nerissima era proprio davanti a lei e sulla sua cima spiccava, nera anch’essa, la sagoma del castello. Rade luci si inerpicavano sul pendio. La voce del canto continuava a giungerle dal fondo della notte.

«Permesso!»

La cameriera aprì i fusuma ed entrò.

«Sono venuta a prepararle il futon» disse, inchinandosi con le mani posate sulla soglia.

Teiko chiuse gli shōji e, tenendosi un po’ in disparte, vicino alla parete, si mise a osservare i gesti della donna.

Inginocchiatasi, con la destrezza data dall’abitudine, la cameriera stendeva i futonpiegati. Era una donna di mezz’età, ma indossava un kimono dalle tinte vivaci e anche l’obi che la cingeva aveva ampi motivi decorativi. Da dietro si vedeva brillare alla luce della lampada il filo d’argento del ricamo floreale sul nodo a tamburo.

Mentre la osservava, Teiko iniziò a scrutare in profondità dentro se stessa. O forse sarebbe più giusto dire che la sua attenzione cadde su qualcosa che aveva in animo. In ogni caso, nella cameriera che stava preparando il letto di fronte a lei iniziò a vedere una donna, e una donna con una sua vita.

«Mi perdoni per il disturbo. Buonanotte.»

Si eclissò dietro i fusuma, dopo aver posato una brocca d’acqua con un bicchiere vicino al cuscino e aver preparato il posacenere, come avrebbe fatto con un cliente di sesso maschile. In quel momento Teiko se ne rese conto con chiarezza: suo marito aveva una donna, una donna che lei non conosceva, e doveva anche stare al suo fianco da molto prima di lei…

Quell’intuizione fu subito una certezza.

Esistono cose che noi esseri umani percepiamo vagamente a un livello subconscio, ma che non affiorano in modo chiaro. E per trasformarsi in pensieri precisi probabilmente hanno bisogno di uno stimolo concreto che agisca dall’esterno, traendole in superficie. L’interpretazione razionale nasce da lì in poi. E fu proprio in quella forma che prese corpo l’“interpretazione” cosciente di Teiko.

Nelle notti del loro viaggio di nozze il marito l’aveva stretta a sé. Erano stati momenti di tale turbamento da rimanere senza fiato, durante i quali lui l’aveva investita con parole piene di passione. Le ricordava ancora. Con quelle parole le aveva giurato fedeltà. Le aveva detto che voleva renderla felice, che era convinto che il loro matrimonio sarebbe stato felice. Ancora adesso Teiko non pensava mentisse.

Ma per lei quelle parole mancavano di sostanza. Anzi, forse sarebbe meglio dire che, nonostante la passione con cui lui le pronunciava, lei non riusciva a percepirne la sostanza. Chissà come mai.

E poi c’era dell’altro: nell’albergo a Suwa, quando si erano immersi nel bagno termale, lui aveva fissato il suo corpo con uno sguardo acceso e aveva detto: “Hai un corpo giovane”.

Aveva un’espressione soddisfatta, e poi aveva aggiunto: “No, sul serio: sei bella!”.

In quel momento lei aveva avuto la sensazione di essere paragonata a qualcuno. Aveva avvertito con chiarezza che con quegli sguardi il marito la stava valutando. Quell’impressione non aveva mai smesso di turbarla. Le era tornata all’improvviso in mente anche in seguito, quando, per esempio, il marito le aveva ripetuto più volte che gli piaceva e le aveva fatto i complimenti: “Hai le labbra morbide come marshmallow!”.

Il marito la stava paragonando a qualcuno. Teiko aveva percepito che stava facendo un confronto mentale mentre pronunciava quelle parole. Era il motivo per cui, pur sentendo il respiro bollente di lui sulla guancia, le sue parole le erano parse prive di sostanza.

Chissà a chi la stava paragonando. Al momento si era chiesta se non si trattasse di una sua ex. Non sarebbe stato strano che ci fosse qualcuno nel suo passato, visto che aveva trentasei anni. Certo, anche se fosse stata una donna del passato, non le avrebbe fatto piacere essere messa a confronto con lei, come se fosse ancora presente nella sua vita. Se aveva potuto avvertire tutte queste sensazioni solo in modo vago, era per via della scarsa conoscenza che aveva del marito in generale.

Ma ora le cose erano cambiate. Ora poteva esser certa che la donna cui lui la paragonava non apparteneva al passato: si trovava da qualche parte, nel presente. Aveva un rapporto di qualche tipo con la vita di suo marito. Un rapporto iniziato molto prima che Teiko sposasse Uhara Ken’ichi.

Le sue intuizioni erano frammentarie, ma molto chiare. A volte il marito aveva uno sguardo assorto. La prima volta era accaduto, se ben ricordava, sul treno durante il viaggio di nozze. Fuori dal finestrino era comparso l’altopiano di Fujimi, lei aveva detto a bassa voce che era bello, e Uhara aveva aperto un settimanale. Ma non aveva iniziato a leggerlo: aveva uno sguardo che non metteva a fuoco, come se stesse pensando ad altro.

Teiko aveva notato qualcosa di simile anche in seguito. Quando tornava accanto a lui dopo averlo lasciato solo per un po’, le capitava spesso di trovarlo con quello sguardo. Un volto terribilmente scuro, un’espressione indecifrabile, come se fosse assorto in difficili meditazioni. Teiko si era detta che forse gli uomini a volte fanno quella faccia, che capita quando sono assorti in questioni di lavoro. Riflettendoci ora, però, non era così. Lo sguardo di suo marito era davvero cupo, come se avesse un tormento. Non erano gli occhi di qualcuno che pensa al lavoro. Non pensava, invece, all’altra? Le pareva ancora di vedere il lungo cilindro di cenere sulla sigaretta stretta tra le sue dita.

Dove si trovava l’altra? Le era facile immaginarlo. Nei due anni appena trascorsi, il marito aveva risieduto a Kanazawa, come responsabile di zona per l’area dello Hokuriku dell’agenzia pubblicitaria A. In un mese, viveva venti giorni a Kanazawa e dieci a Tōkyō. In quei due anni era stato a Kanazawa per due terzi della sua vita. Se era nato un rapporto con una donna mentre era solo, doveva essere stato nell’ambito di quei due terzi di vita. Era l’ipotesi più logica.

E aveva degli indizi al riguardo: quando avevano deciso di sposarsi, lei aveva espresso il desiderio di visitare Kanazawa, il posto in cui lui lavorava. Era attratta dall’idea di un viaggio nello Hokuriku perché non ci era mai stata, certo, ma voleva andarci anche per vedere dove viveva colui che stava per diventare suo marito.

Però lui non aveva voluto. Su sua richiesta, per il viaggio di nozze avevano visitato località che si trovavano lungo la linea ferroviaria Chūō. E mentre erano proprio su uno di quei treni, il marito le aveva detto: “Ho saputo che tu avresti preferito fare questo viaggio nello Hokuriku, vero?”.

E poi, mentre tirava una boccata dalla sigaretta: “Lì non è bello come qui” aveva concluso con poche parole. Il fumo strisciava, come perdendosi, su per il vetro del finestrino.

“Sei cresciuta in città: è per questo che l’immagine malinconica dello Hokuriku ti affascina. Ma quanto a poesia, ce n’è molta di più qui tra le montagne dello Shinano e del Kiso. Be’, nello Hokuriku ci possiamo andare quando vogliamo: sarà per il prossimo viaggio, va bene?”

Gliel’aveva detto come per consolarla.

Perché non era felice di portarla con sé nello Hokuriku? Ora Teiko lo capiva: lì aveva un’altra donna, un’altra vita che voleva tenerle nascosta.

Certo, non poteva temere che la cosa venisse a galla durante quell’unico breve viaggio. Però, dal punto di vista psicologico, le pareva comprensibile che il marito non intendesse portarla lì.

Aveva un’altra. Viveva con lei da qualche parte.

Da qualche parte… In quel posto che nessuno conosceva. Il posto dove si era trasferito quando aveva lasciato la stanza in affitto sulla riva del fiume Sai. Nessuno sapeva dove. Il marito lo teneva nascosto a tutti i colleghi. Era evidente che avesse una vita di cui Teiko era completamente all’oscuro.

… Il pomeriggio del giorno undici dicembre, il marito aveva lasciato Honda per recarsi da qualche parte. Gli aveva detto che il giorno dopo sarebbe partito per Tōkyō, dopo essere ripassato per Kanazawa. A cominciare da Honda, nessuno sapeva dove si fosse diretto. Ma non era probabile che fosse andato proprio dall’altra? Ma sì, Teiko era certa che fosse così. Quella sua deduzione doveva essere la realtà.

Con la testa infilata sotto il futon, si vedeva davanti il marito e la sconosciuta camminare nel cupo panorama dello Hokuriku: due piccole ombre umane che percorrevano, una di fianco all’altra, una via costeggiata da case basse, sotto un cielo immenso.

Dov’era finito suo marito?

Una personalità locale

1

Teiko si svegliò alle otto del mattino. La testa le pesava; pensò dipendesse dal fatto che la sera prima aveva tardato ad addormentarsi. Il lavabo era dotato anche di acqua calda, ma volle appositamente lavarsi il viso con acqua gelida come il ghiaccio.

L’apparecchio telefonico sul tavolino della stanza squillò alle sue spalle. Si affrettò ad andare a rispondere.

Dal centralino le annunciarono: «Chiamata da Tōkyō».

Pensava fosse sua madre, e invece era la voce della cognata.

«Teiko? Buongiorno. Nessuna novità?»

Parlava di Ken’ichi.

«No, non mi hanno fatto sapere niente.»

«Accidenti! Senti, ora ti passo mio marito.»

Alla voce un po’ stridula della cognata si sostituì quella bassa del cognato.

«Oh, Teiko! Buongiorno» la salutò.

«Buongiorno. Mi dispiace darti tanti pensieri» rispose lei.

«Ma quindi non sai ancora dove sia Ken’ichi?»

«No, nonostante tutto quello che stanno facendo i suoi colleghi di qui per aiutarmi a trovarlo.»

«Capisco.» A quel punto, tra sé e sé, il cognato borbottò: «Ma dove sarà andato, accidenti a lui!».

Dal suo modo di parlare si sarebbe detto che il fratello fosse in giro a divertirsi.

«Dovrei venire anch’io a cercarlo» iniziò. «Purtroppo, però, il presidente della ditta per cui lavoro, da tempo molto malato, è venuto a mancare ieri sera. Sono impegnato nei preparativi per i funerali e non riesco in nessun modo a venire lì a Kanazawa. Ma spero di liberarmi fra tre giorni.»

«Non ti preoccupare. Qui basto io» rispose Teiko. «Per ora le ricerche non hanno dato nessun esito particolare, quindi fai pure quello che devi.»

«Davvero? Perdonami se ti lascio da sola a occuparti della questione ancora per un po’» disse lui, con una voce più serena. «Ti raggiungerò appena risolvo qui.»

In tutta franchezza, anche Teiko si sentì sollevata quando chiuse quella telefonata. L’arrivo del cognato, per qualche motivo, la metteva a disagio e la innervosiva.

Quando controllò l’ora, dopo aver finito la colazione, erano le nove passate. Fuori dalla finestra della sua camera, le mura bianche del castello splendevano nel sole della tarda mattinata. Le strade in salita erano gremite di persone: doveva essere l’orario in cui si recavano al lavoro.

Era probabile che pure gli impiegati dell’agenzia A stessero andando in ufficio. Anche Honda Yoshio doveva essere in cammino. Teiko non avrebbe saputo dire perché le fosse subito venuto in mente lui.

Il telefono squillò di nuovo.

«Signora? Sono Honda.»

Teiko trattenne un’esclamazione di sorpresa.

«Buongiorno, e grazie per ieri» lo salutò.

«A dire il vero, la chiamo perché ho qualcosa da riferirle su suo marito.»

Il suo tono era calmo, ma Teiko trasalì.

«Qualcosa? Qualcosa su Ken’ichi?»

«No, aspetti» rispose lui. «Vorrei venire lì da lei per spiegarle bene di cosa si tratta. Le dispiace?»

«No, certo.»

Ovviamente Teiko era agitatissima. Cosa le voleva dire Honda? Poteva pensare che avesse trovato una qualche traccia del marito, ma anche il contrario. Non aveva modo di capirlo da quella semplice telefonata di preavviso. Trascorse in preda all’ansia i trenta minuti che gli ci vollero per arrivare.

Honda entrò nella stanza di Teiko con un atteggiamento discreto, e si sedette sul cuscino che lei gli porgeva con aria imbarazzata.

Quando la cameriera uscì, dopo aver portato il tè, lanciò uno sguardo indagatore a Honda, prima di richiudere i fusuma. Chissà quale idea sbagliata si era fatta su quell’uomo, che era venuto a trovarla sia ieri che quella mattina. Teiko si sentì a disagio.

«Sto prendendo contatti con i nostri principali referenti di zona, nella speranza che possano aiutarci a rintracciare il signor Uhara» iniziò Honda, dopo i saluti. «Come sa, suo marito è stato qui abbastanza a lungo, e ho pensato che così potessimo arrivare a qualcosa. In questa zona c’è un’impresa che produce mattoni refrattari e, come inserzionista, è un buon cliente della nostra succursale. Il signor Uhara gode del favore del presidente di questa ditta. Stando ai colleghi della succursale, il signor Uhara è stato anche invitato a pranzo a casa sua. Allora ieri ho mandato una persona da lui, ma purtroppo questa persona non ha trovato il presidente in ditta e ha parlato solo con il capo dell’ufficio commerciale, credo, prima di venir via.»

Honda spiegava con calma.

«Poi, appena sono arrivato al lavoro oggi, mi è arrivata una telefonata dal loro presidente. Gli ho spiegato l’accaduto, e lui ha detto che è una cosa preoccupante e che forse aveva qualche idea in proposito, per cui mi ha chiesto se volevo andare, intanto, a parlarne con lui. Subito ho pensato che fosse il caso venisse anche lei a sentire cos’ha da dire, e l’ho informato della sua presenza qui a Kanazawa. Lui mi ha invitato subito a portare anche lei. Mah, non so cosa ci si possa aspettare da quanto ha da dirci, però, che gliene pare, le va di fare un tentativo?»

Honda appariva ancora imbarazzato nel rivolgere quella domanda a Teiko.

«Grazie. Certo, assolutamente» rispose subito lei.

Come diceva lo stesso Honda, non sapeva se l’incontro sarebbe stato utile. Ma, in ogni caso, se quel signore era stato così gentile con suo marito, era suo dovere andare a salutarlo. E poi, se Ken’ichi era tanto in intimità con lui da essere invitato a pranzare a casa sua, forse gli aveva confidato qualcosa su di sé. Da quel punto di vista, si poteva anche sperare che avesse qualche idea. Le parve di avere davanti agli occhi il bandolo della matassa.

«Allora andiamoci subito» disse Honda, come incoraggiato dalla reazione positiva e immediata di Teiko.

La piccola carrozza del trenino su cui salirono era affollata. In piedi accanto a Honda, Teiko si reggeva a una maniglia, mentre lui le dava informazioni sul produttore di mattoni refrattari che stavano andando a visitare.

«Si chiama Murota Gisaku. È un affabile gentiluomo sui cinquant’anni. Anch’io sono stato assegnato a questa sede da poco, per cui non ne so molto: sono quasi tutte informazioni che mi hanno riferito i colleghi della succursale. Pare che il signor Murota sia anche membro della camera di commercio di Kanazawa e, per di più, presidente emerito di diverse associazioni. Insomma, è un notabile della zona. Io l’ho incontrato due volte: quando sono andato a presentarmi al mio arrivo e poi in un’altra occasione. Mi è sembrato una persona rispettabile, di grande dignità. Sembra che il signor Uhara gli piacesse, tanto che, da un anno a questa parte, il signor Murota aveva improvvisamente duplicato le inserzioni pubblicitarie, cioè gli ordini. Di fatto, la Murota Mattoni Refrattari è tra i nostri risultati migliori. Un cliente prezioso, direi. Ed è stato l’impegno del signor Uhara ad aprire quel canale.»

Honda non aveva dimenticato di lodare il lavoro di Ken’ichi.

Gli uffici della Murota Mattoni Refrattari S.p.A. si trovavano vicino alla stazione. Il bell’edificio a tre piani splendeva bianco nella luce del sole.

Appena Honda presentò il proprio biglietto da visita all’accoglienza, li accompagnarono all’ufficio del presidente, al primo piano. Mentre salivano l’ampia scalinata, Honda sussurrò: «Raccontiamogli le cose esattamente come stanno, così anche lui ci dirà di certo tutto quello che sa».

Teiko annuì.

Quando bussarono, la porta dell’ufficio del presidente si aprì dall’interno. Un gentiluomo alto, dal bel colorito, stringeva la maniglia sorridendo, mentre con l’altra mano li invitava a entrare.

«Prego, accomodatevi.»

Gli occhi del presidente Murota si spostarono su Teiko, che avanzava dietro Honda.

Nella stanza spiccava un grande tavolo, ma in una metà dello spazio erano distribuiti tavolini, poltroncine e divanetti per ricevere gli ospiti. Sia i dipinti a olio alle pareti sia i colori dell’arredamento e delle decorazioni erano molto sobri.

«Ci scusi se la disturbiamo: immagino sia molto impegnato» iniziò Honda, prima di presentargli Teiko.

«Oh, lei è la moglie del buon Uhara. Prego, prego!»

Le indicò una poltroncina. Parlava con una voce bassa e calma.

«Mi hanno riferito della sua gentilezza verso mio marito. Grazie.»

Anche se brevemente, Teiko gli aveva espresso gratitudine come moglie di Uhara Ken’ichi. Il presidente la invitò nuovamente a sedersi, e prese a sua volta posto su un divanetto.

Forse per via dei capelli bianchi sulle tempie, a vederlo di fronte sembrava più vecchio. Aveva gli occhi sottili, con le palpebre inferiori cascanti. Le labbra, però, esprimevano proprio la forza di volontà che deve avere un uomo a capo di un’impresa.

«Mi dicono che non si sa ancora dove sia andato. Immagino sia preoccupata. È comprensibile che sia voluta venire da Tōkyō: so che siete sposati da poco.»

Da quelle parole, Teiko capì che il presidente Murota doveva essere stato aggiornato da Honda. Il gentiluomo prese una sigaretta dalla scatola sul tavolino e se la mise tra le labbra. Dalla scioltezza dei suoi movimenti si capiva che era un gesto abituale.

«Prima, al telefono,» iniziò Honda «mi è parso di capire che lei, presidente Murota, abbia una qualche idea a proposito di quanto è accaduto al signor Uhara. Siamo venuti a pregarla di parlarcene.»

«Ah, quello?»

Il presidente Murota sbuffò qualche nuvola di fumo.

«Mi è venuto in mente e ho pensato che potesse esservi utile. Il signor Uhara è un uomo molto dedito al lavoro e, forse perché questa sua caratteristica ci avvicinava, eravamo entrati in confidenza anche nel privato. A volte veniva pure a casa mia. Perché era ancora single. Mangiava con piacere i piatti che mia moglie gli preparava personalmente. Eh già: anche mia moglie lo stimava per la brava persona tranquilla che era, e lo accoglieva sempre a braccia aperte quando veniva a trovarci.»

Parlava con voce bassa ma calorosa.

«Credo sia stato circa due mesi fa quando ci ha detto che si sarebbe sposato. Mi scusi se mi permetto, di fronte alla diretta interessata, ma pareva entusiasta della promessa sposa, e sembra che abbia mostrato anche a mia moglie le foto portategli dall’intermediario.»

Teiko abbassò il viso, arrossendo. Gli piaceva così tanto? Non era una bugia, quindi, l’amore che le aveva dimostrato da quando si erano sposati. Adesso lo capiva. Ma allora, perché era sparito senza dirle nulla poco dopo le nozze?

«Tuttavia,» continuò il signor Murota «in seguito, qualche altra volta in cui è tornato a trovarci, era sempre più, come dire, giù di corda. Ci sembrava strano. Non credete? Lo promuovevano trasferendolo a Tōkyō, si era trovato una bella sposa: era il momento migliore della sua vita! E invece, proprio sul punto di arrivarci, era stranamente depresso: che senso aveva?»

Scosse la cenere della sigaretta nel posacenere.

«Mia moglie era della stessa opinione, e mi diceva che le sembrava strano. Stavo proprio pensando di chiedergli di parlarmene, quando ho saputo dell’accaduto. Non so se il suo strano contegno abbia qualcosa a che vedere con la sua sparizione, ma ho voluto comunque riferirvelo, per ogni evenienza. Perché poi noi eravamo in buoni rapporti con lui e non lo consideravamo solo un partner d’affari.»

Teiko abbassò il capo. «Grazie di cuore per la gentilezza che avete mostrato verso mio marito.»

«Si figuri! Piuttosto, mi scusi, signora, ma lei non ha proprio alcuna idea a proposito di questo comportamento di suo marito?»

«Assolutamente nessuna» rispose lei.

Però mentiva. Le tornarono in mente i ragionamenti della sera prima: il marito aveva un’altra. Aveva una vita con lei da qualche parte. Ed era sparito in un angolo di quella sua vita segreta.

E l’espressione depressa che il presidente Murota diceva di aver visto sul volto di Ken’ichi non era, forse, lo stesso sguardo cupo che gli aveva sorpreso lei qualche volta? Quello sguardo distratto, come se avesse qualche pensiero, era la stessa espressione che mostrava a quest’uomo, con cui, a quanto pareva, si sentiva in confidenza. Da quando era arrivata a Kanazawa, Teiko non aveva trovato nulla su suo marito, ma presso questi signori una vaga traccia c’era. Proprio perché non aveva niente in mano, si sentì come se avesse avvistato in cielo una nuvola isolata foriera di tempesta. Quella prima traccia avrebbe potuto essere importante.

«Avrei dovuto approfondire di più con lui! Ora mi pento di non averlo fatto. Però era evidente che i suoi crucci riguardavano la sfera strettamente personale, per cui anche per noi era un po’ difficile chiedergli di parlarne.»

Il presidente Murota continuava a dire “noi”. Intendeva lui e la moglie. Giusto! Probabilmente sarebbe stato meglio parlare direttamente con la signora. Una donna sarebbe entrata più nei dettagli. E poi Teiko sentiva la necessità di ringraziarla per aver accolto Ken’ichi in casa e aver cucinato per lui.

«È molto gentile da parte sua preoccuparsi così. Se non è troppo d’incomodo, vorrei vedere anche sua moglie, per ringraziarla. Potrei farle visita a casa vostra?» chiese, con un certo imbarazzo.

Il presidente Murota distese invece le labbra in un sorriso, stringendo gli occhi. «Oh, dice davvero? Non è necessario che la ringrazi, ma se la incontrate, mia moglie potrebbe dirvi magari qualcosa di cui io non mi sono accorto. Certo, andate da lei. Aspettate solo un momento, l’avverto.»

Il presidente Murota telefonò a casa in loro presenza.

«Sachiko! È passata a trovarmi la moglie del signor Uhara. Vorrebbe venire da te ora. Va bene, vero?»

A quanto pareva la risposta era stata positiva.

«Bene.» Il signor Murota posò la cornetta e si girò verso di loro. «Mia moglie dice che vi aspetta» riferì con aria soddisfatta.

«Grazie.»

Honda si alzò, spostando la poltroncina, e si inchinò gentilmente.

Il presidente accompagnò Teiko fino alla porta.

2

Teiko e Honda lasciarono gli uffici della Murota Mattoni Refrattari S.p.A.

«Il signor Murota è un brav’uomo» disse Honda. «È gentile e sempre disponibile, quindi è molto stimato. Per questo ricopre posizioni dirigenziali in diverse organizzazioni. È una personalità da queste parti.»

«Sembra davvero una brava persona» rispose Teiko.

«Mi hanno detto che la signora Murota è la seconda moglie. Anche questo l’ho saputo dai colleghi della succursale. Pare ci siano diciassette o diciotto anni di differenza tra i due. La prima è morta, ma a detta di tutti lui adora la moglie attuale.»

Honda le raccontava quello che aveva saputo dagli impiegati della succursale.

«Che poi avevano una relazione già durante il lungo ricovero in ospedale della moglie precedente, che era malata di polmoni. Ha sposato la sua ex amante, insomma. Pare che il rapporto abbia avuto inizio durante un viaggio di lavoro del signor Murota a Tōkyō. Mi hanno detto che lei era un’impiegata nella ditta di un suo cliente.»

Camminavano diretti verso una strada ampia. In lontananza si vedeva l’edificio della questura.

«Stando a quanto dice un collega della succursale che la conosce, non è una bellezza eccezionale, ma è una signora allegra e socievole. Ed è anche iscritta all’associazione culturale delle signore di qui. È brava ad argomentare e sa scrivere, per cui a volte pubblica sui giornali locali e la fanno parlare anche alla radio. Ovviamente sarà in parte per via della sua posizione di moglie del presidente Murota, però anche lei è una personalità locale.»

La storia della signora Murota non era così particolare: di quel tipo se ne sentivano in qualunque città di provincia. Teiko la ascoltava distrattamente. L’edificio della questura si avvicinava pian piano.

«I coniugi Murota sono stati molto disponibili con mio marito, non le pare?»

«Credo siano rimasti colpiti dalla sua competenza.»

Honda aveva di nuovo lodato Ken’ichi.

«Non si può svolgere il lavoro di rappresentanza in modo ottimale se non inserendosi in questo modo presso i clienti. È per questo che le inserzioni della Murota Mattoni Refrattari sono quasi raddoppiate dopo l’arrivo del signor Uhara. Non andava altrettanto bene con il precedente responsabile.»

Era così capace suo marito? Il Ken’ichi che conosceva Teiko era un tipo taciturno, volendo un po’ malinconico. Sicuramente non un allegro uomo di mondo. Si vedeva proprio che, sul lavoro, per gli uomini giocava l’esperienza. In casi del genere la moglie non poteva non rimanere un po’ sorpresa nello scoprire capacità che il marito non le mostrava nella quotidianità.

Proprio davanti a loro avevano l’edificio della questura, che già da prima calamitava lo sguardo di Teiko: una specie di presentimento le velava l’animo.

«Ah, la polizia!» Honda se n’era appena accorto. «Visto che ci siamo, che ne dice se entriamo un momento?»

Teiko annuì.

L’uomo entrò precedendola. Si stava rannuvolando e l’interno dell’edificio era buio. C’erano poliziotti in divisa seduti alle scrivanie o in piedi. Teiko percepì un’agitazione respingente, si sentì fuori luogo e inquieta.

Il viceispettore della volta precedente era intento a sfogliare alcuni documenti in un angolo, ma alzò il volto dai fogli guardando verso di loro appena Honda comunicò la presenza di Teiko all’accoglienza, e poi li raggiunse ad ampie falcate, portando un foglio in mano.

«Ah!» disse guardando ora Honda ora Teiko. «Vi stavo proprio aspettando.»

Quelle parole colpirono Teiko in pieno: le parve di capire che il suo presentimento avesse colto nel segno. Sentì le labbra impallidire. Anche Honda aveva un’espressione tesa.

«Avete saputo qualcosa?» chiese l’uomo, con una voce diversa dal solito.

Il viceispettore non rispose, ma li invitò a seguirlo fino a un angolo del bancone cui gli estranei non accedevano, e la cosa la mise ancora più in tensione.

«Non so se si riferisca alla persona che state cercando,» iniziò il viceispettore «ma abbiamo ricevuto un rapporto dalla questura di Hakui. Eccolo.»

Dispiegò il foglio.

«Un uomo non identificato, dall’età apparente di trentacinque anni circa, è stato ritrovato morto suicida sulla costa di Akasumi, nel villaggio di Takahama, nel distretto di Hakui. Si suppone che dal decesso siano trascorse quarantotto ore. Piuttosto magro, volto allungato, taglio di capelli classico con riga di lato, relativamente alto. Indossava un completo marrone. L’etichetta sulla fodera della giacca è stata strappata. Non pare abbia lasciato messaggi, né effetti personali o altro da cui sia possibile identificarlo. Nel portafoglio di pelle, del tipo a libro, erano presenti duemilatrecentosessanta yen. … questo è più o meno tutto. Che ne pensa? Le dice qualcosa?»

Il viceispettore la guardò.

L’età, il taglio di capelli, la forma del volto e l’altezza corrispondevano. Anche il portafoglio le pareva fosse di pelle, fatto a libro. Il colore dell’abito, però, era diverso. Il completo di suo marito era grigio.

«Questo non è che un semplice rapporto. Potrebbe avere maggiori particolari recandosi a Hakui. Cosa pensa di fare?»

Teiko stava riflettendo. Ma non riusciva a ragionare a sangue freddo. Le caratteristiche descritte erano troppo simili a quelle di Ken’ichi, e la differenza di colore del vestito era troppo poco per negarlo.

Anche lo sguardo di Honda appariva turbato. Pareva chiederle: “Che facciamo?”.

«Dove si trova? Non conosco la zona.»

Il viceispettore portò una cartina della regione Ishikawa e la aprì.

«È qui» disse premendo il dito in un punto.

Era sulla costa occidentale della penisola di Noto, nell’area in cui si protende come un pugno nel Mar del Giappone. Paragonando la penisola a un pugno, quell’area corrispondeva al dorso della mano.

Guardandola, Teiko immaginò una linea costiera snodarsi triste e una terra gelida.

Trasalì. Il treno che arrivava a Hakui percorreva una linea secondaria che partiva da Kanazawa.

L’undici pomeriggio Ken’ichi era sparito da qualche parte, dopo aver detto che il giorno dopo sarebbe tornato a Kanazawa. Teiko aveva cercato su una cartina le linee secondarie usando le quali avrebbe potuto non fare in tempo a rientrare entro la sera dell’undici, e una era proprio quella: la linea Nanao. Coincideva alla perfezione.

Fu questo a indurla a decidere.

«In ogni caso, vado a controllare» rispose.

«Preferisce andare? Mah, non so, però è meglio che vada, per la sua tranquillità» disse il viceispettore, come per consolarla.

Quando uscirono dalla questura, il cielo era coperto di nuvole e sembrava dovesse piovere da un momento all’altro.

«Vuole andare davvero?» chiese Honda.

«Sì. Mi sentirò più tranquilla quando avrò controllato.»

«Credo che il colore dell’abito sia diverso: anche quello che ho visto io, per quanto mi ricordo, era grigio» borbottò lui.

Le parve lo dicesse per tranquillizzarla.

«Ma allora, la visita alla signora Murota?» domandò, come se gli fosse tornato in mente.

Già, c’era anche la visita. Era importante andare sul luogo del ritrovamento, ma Teiko non poteva non pensare alla signora che la stava aspettando.

«Andiamo. Per Noto partirò dopo.»

«Giusto» concordò lui.

Chiesero a un tassista di portarli all’indirizzo scritto sul biglietto da visita che avevano ricevuto dal presidente Murota.

Nell’automobile Teiko non disse una parola, e anche Honda restò in silenzio. La scoperta del corpo del suicida pesava sul cuore di lei come un macigno. Honda teneva lo sguardo rivolto in avanti, a fissare la strada che correva loro incontro. Di certo anche lui continuava a pensarci.

La vettura s’inerpicò su un’altura nella parte sud della città.

Era una bella zona residenziale.

«È qui» annunciò l’autista girandosi verso di loro, dopo aver fermato la macchina.

Scesa dall’automobile, Teiko alzò lo sguardo sulla casa che aveva di fronte. Oltre un lungo muro di mattoni di calcestruzzo, sorgeva un edificio raffinato, in stile misto, in cui si armonizzavano elementi occidentali ed elementi giapponesi.

“Un momento!” pensò Teiko. Guardò il nome sul campanello: “Murota”.

Alzò di nuovo lo sguardo sulla casa. Le sembrava di averla già vista.

Dopo aver pagato, Honda le si avvicinò. Il taxi stava ripartendo.

Teiko fu sul punto di lasciarsi sfuggire un’esclamazione di sorpresa. Si era resa conto che quella casa era la stessa di una delle foto spuntate dal libro di Ken’ichi.

Il cimitero in riva al mare

1

Mentre Honda suonava il campanello, un sole mite gli colpiva la schiena.

I raggi luminosi investivano anche le mura bianche della bella casa e le piante del giardino. C’erano palme cinesi, cedri dell’Himalaya, susini e, sullo steccato, dei tralci secchi di rosa rampicante. La luce invernale stagnava, debole, sulle piccole foglie.

Ma sì! Nell’immagine della foto comparivano anche quelle finestre, e le palme cinesi e i cedri dell’Himalaya. Si era imbattuta per caso nel panorama reale ripreso in una delle fotografie infilate nel libro.

Quella dimora signorile che avrebbe potuto trovarsi anche in una tranquilla zona residenziale di Tōkyō sorgeva su una collina un po’ elevata di Kanazawa. Era la casa del signor Murota. Suo marito era stato invitato più volte in quella dimora, e quindi non c’erano dubbi che fosse stato lui a realizzare quello scatto. Ma perché? Aveva solo voluto fare una foto dell’edificio? O magari c’era qualche altro motivo?

Mentre era assorta in quei pensieri, Teiko vide la porta d’ingresso aprirsi. La giovane domestica li guardò entrambi, come se li mettesse a confronto.

«Prego» disse loro.

Li fece accomodare direttamente: la padrona di casa doveva averla informata del loro arrivo.

Nel salotto in cui li condusse c’erano delle grandi porte finestre che si affacciavano sul giardino interno e, un po’ per i raggi del sole che si riversavano nella stanza, filtrati dalle tende di garza di seta, un po’ per la stufa a gas che scaldava l’ambiente, l’atmosfera pareva primaverile. Era arredato con un gusto discreto, tutto in toni di colore piuttosto caldi.

Quando la domestica portò loro del tè occidentale, Teiko ebbe la vaga impressione che lo sguardo della ragazza si concentrasse su di lei. Forse perché era incuriosita dalla signora che veniva da Tōkyō, pareva che le stesse riservando una particolare attenzione.

Poco dopo apparve anche la padrona di casa. Teiko fu un po’ sorpresa nel constatare che era più giovane di quanto si aspettasse. Indossava un kimono rosso cupo e un haoricorto di colore più tenue, su cui spiccava molto il colletto bianco: Teiko pensò subito che l’abbigliamento tradizionale le donasse. Aveva un volto minuto ed era longilinea.

«Vi stavo aspettando! Mio marito mi ha avvisato per telefono» disse sorridendo. «Mi chiamo Sachiko.»

Honda e Teiko si presentarono e salutarono a loro volta.

«Prego.»

Li invitò a sedersi e poi prese a sua volta posto in silenzio. La sua figura slanciata era molto gradevole.

Non era bella, ma aveva un viso piacevole e un incarnato di porcellana. Quando sorrideva, stringeva gli occhi, trasmettendo una cordiale simpatia.

«Veniamo da una visita a suo marito, in ufficio. Mi ha raccontato quanto è stata gentile nei confronti di Ken’ichi, e ho sentito il bisogno di esprimerle la mia gratitudine. Mi dispiace disturbarla così, all’improvviso.»

Teiko aveva ringraziato e si era scusata con gentilezza.

«È stato un evento del tutto inatteso per me!» rispose la signora. «Mi pare un incubo che il signor Uhara sia scomparso così! Quando mio marito me l’ha detto stentavo a credergli. Immagino che lei debba essere terribilmente preoccupata.»

«Sì. Grazie per la sua comprensione.»

A quel punto, Honda disse, rivolto alla signora: «Le esprimo anch’io la mia gratitudine per la gentilezza che avete mostrato al mio collega nel lavoro, ma anche in privato. Proprio per questo, mi chiedevo se non si fosse accorta di qualcosa di diverso in lui».

«Sì, a tale proposito,» la signora aveva spostato lo sguardo su Honda «come diceva anche mio marito, non c’è dubbio che ultimamente fosse un po’ giù di morale. E visto che avevo invece sentito che si era sposato a Tōkyō e che stava per essere richiamato alla sede centrale, mi è parso strano. Anche se ho notato che era giù di corda solo ripensandoci a posteriori, per cui non doveva essere una cosa molto evidente.»

«Non le ha detto niente di particolare?» le chiese Teiko.

La domanda le era sorta spontanea, perché aveva sentito proprio dal signor Murota che il marito andava spesso lì in visita.

«Il signor Uhara veniva sovente qui a casa, perché mio marito nutriva molta simpatia per lui.» La signora parlò come se avesse letto nella mente di Teiko e stesse dando un seguito alle sue riflessioni. «E capitava che, in assenza di mio marito, si fermasse un quarto d’ora a parlare con me in questo salotto, prima di andar via. Ma, ecco, non ricordo che mi abbia mai fatto particolari confidenze. Quando era presente mio marito si fermava più a lungo, ovviamente, e penso fosse in quelle circostanze che parlava sul serio di sé. Ma sì! Infatti è stato proprio in un’occasione del genere che ci ha detto di essere felice perché sua moglie era molto bella.»

Teiko abbassò il capo. Sentiva gli occhi della signora scrutarla con insistenza.

Nonostante il signor Murota avesse suggerito che la moglie avrebbe potuto sapere qualcosa di più, la visita non fruttò loro nessuna nuova informazione. Era anche il primo incontro, e forse l’etichetta aveva impedito sia a lei che a loro di approfondire troppo il discorso.

Per esempio, Teiko avrebbe voluto chiedere alla signora fino a quale punto conoscesse la vita privata del marito. Pensava alla donna che aveva vagamente immaginato al fianco di lui.

Non era certa che la signora Murota avrebbe saputo risponderle. Ma tra tutte le persone che aveva incontrato da quando era arrivata a Kanazawa, era lei quella più informata delle questioni personali di Ken’ichi. Insistendo, avrebbe potuto forse ottenere qualche dato utile a capirci qualcosa.

Ma Teiko non ebbe il coraggio di porre ulteriori domande. Non poteva far altro che accontentarsi di quell’allusione così vaga: suo marito era giù di corda.

La domestica portò un vassoio con una bottiglia di whisky, evidentemente d’importazione, tre bicchieri e un piatto con dei formaggi.

«Gradite?»

Teiko declinò l’offerta in tono gentile, mentre Honda accettò con un certo ritegno.

Mentre portava il bicchiere alle labbra, la signora Murota guardò di nuovo Teiko.

«Lei è proprio bella» la lodò. «Dove potrebbe essere andato il signor Uhara, abbandonando una moglie così bella?» continuò, quasi muovendo una critica a Ken’ichi.

«Ah, già!» disse Honda, come se gli fosse venuto in mente d’un tratto, posando il bicchiere. «Il signor Uhara non le ha mai detto dove abitasse?»

Era una domanda pertinente, ma non poteva essere Teiko, la moglie, a farla.

«Come?» fece la signora, sgranando gli occhi. «Non abitava a Kanazawa?»

Senza volerlo, Teiko arrossì. In quanto moglie, si sentì invadere dalla vergogna.

«Sì, all’inizio era a Kanazawa» disse Honda, un po’ impacciato. «Ma un anno e mezzo fa aveva lasciato l’alloggio in città per trasferirsi altrove. Nemmeno i colleghi dell’ufficio ne sanno molto e ora, con quello che è successo, è diventato un problema.»

«È la prima volta che lo sento» rispose la signora impassibile, tenendo a freno lo stupore con uno sforzo palpabile. Era una forma di cortesia nei confronti di Teiko, in quanto moglie.

Nel comprenderlo, però, lei si rattristò.

«Ho sempre pensato che stesse a Kanazawa: non mi ha mai detto niente in proposito» concluse la signora Murota, con aria dispiaciuta.

Nemmeno lei sapeva dove alloggiasse il marito. Nessuno se ne era preoccupato proprio perché lui era preciso e puntuale nel lavoro, e perché andava spesso fuori città in viaggio d’affari.

Teiko spostò la sedia, per togliere il disturbo.

«Non si preoccupi troppo» disse la signora dopo i saluti. Col suo sguardo gentile pareva voler consolare la donna più giovane. «Sono sicura che presto tornerà sano e salvo.»

Appena uscirono in corridoio, l’aria si raggelò all’improvviso. La signora li seguì fino alla porta.

Nell’ingresso Teiko si voltò verso la padrona di casa e, ponendosi dritto di fronte a lei, prese il coraggio a due mani e disse: «Mio marito aveva scattato una fotografia di questa casa. Oggi, vedendola, mi ha fatto quasi nostalgia».

Con il suo portamento elegante e il sorriso ancora sulle labbra, la signora la guardò sospettosa.

«Non lo sapevo» rispose gentile. «Ma, ora che me lo dice, è capitato, in passato, che il signor Uhara lodasse molto questa casa e dicesse di volerne costruire una del genere per sé. Magari ha scattato una foto dall’esterno pensando che potesse essergli utile a quello scopo.»

A quel punto Teiko la salutò definitivamente. Accanto alla signora, una pianta di Rohdea japonica protendeva le sue foglie, e il freddo dell’inverno pareva penetrarne il verde.

Usciti da casa Murota, Teiko e Honda si avviarono per la discesa.

L’altura si allargava in una piana da cui, alle spalle, si vedevano le cime innevate dello Hakusan, e davanti si dominava l’abitato di Kanazawa. Le nuvole avevano coperto il sole, ma sotto i suoi pallidi raggi si riusciva a distinguere, in lontananza, il mare di Uchinada, sul quale l’ombra sfumata dei monti di Noto si allungava come una cintura.

«Nemmeno a casa del signor Murota abbiamo raccolto una gran messe d’informazioni» disse Honda, con le mani nelle tasche del cappotto, mentre i suoi passi risuonavano sulla strada in discesa.

«In effetti.»

Teiko camminava fissando, senza però metterlo a fuoco, il panorama lontano.

«Anche la signora Murota non sapeva niente della casa del signor Uhara. Sembrava sorpresa» riprese Honda. Poi, come rendendosene conto in quel momento, si scusò: «Mi perdoni, se ho posto quella domanda davanti a lei».

«Niente affatto! Penso invece che abbia fatto bene» lo interruppe lei.

Era grata a Honda per la sua premura. Mentre l’uomo camminava un passo avanti a lei, le parve che in quelle sue spalle piene si palesasse la sua bontà d’animo. Quando aveva accompagnato alla stazione di Ueno il marito in partenza, Honda le aveva fatto le sue felicitazioni per il matrimonio e poi, probabilmente per discrezione, era salito subito sul treno portando con sé delle bottigline di whisky e qualcos’altro. Le tornò in mente perfino quell’immagine.

«Stavo proprio pensando che avrei voluto chiederlo io. Ma mi era un po’ difficile, e quindi mi ha fatto un piacere a domandarlo al posto mio.»

Teiko percepì di nuovo con forza la sensazione che il marito si nascondesse in qualche luogo dove gli occhi di nessun abitante di questo mondo avrebbero potuto vederlo.

«Dove diamine poteva vivere il signor Uhara, per non dirlo nemmeno alla signora Murota, che era stata così gentile con lui?!»

Honda parlava come se non si rivolgesse semplicemente a Teiko, ma stesse dando voce ai propri dubbi. Lei tacque. Il silenzio era, in quel caso, la sua maniera di rispondere.

«Ma, a parte questo, lei ha chiesto alla signora Murota della fotografia della casa, no?» proseguì Honda, dopo aver atteso che Teiko gli si affiancasse. «Quando l’ho sentita, me ne sono reso conto: la casa dei signori Murota è identica a quella della foto che mi ha mostrato ieri sera. Io non ci avevo fatto caso, lei, invece, se n’è accorta subito, vero?»

«Dal momento in cui l’ho vista. D’altra parte è proprio identica» disse lei.

«Già da questo si capisce che lei è molto più coinvolta di quanto possa esserlo io o chiunque altro.»

Honda riprese a camminare a passo normale.

«Ma, a quanto dice la signora Murota, non era niente di particolare. La foto, intendo, non aveva un significato speciale.»

No, non aveva un significato speciale. Almeno stando alla spiegazione della signora. Ma non c’era un significato speciale nel modo in cui il marito l’aveva conservata? Era infilata, come nascosta, tra le pagine di un libro di argomento legale. E insieme a un’altra foto che ritraeva una casa di campagna. Se un significato c’era, si celava in quel contrasto tra le due foto.

Se il marito aveva scattato la foto della bella casa dei Murota pensando potesse essergli utile per realizzare un sogno futuro, in vista di quale tipo di sogno aveva scattato quella della misera casa contadina? E poi, le due foto erano nascoste insieme tra le pagine del libro. Che significato aveva la coesistenza di quelle due case così diverse nel cuore del marito?

Le venne voglia di chiedere a Honda cosa ne pensasse.

«Ah, parla della foto di quella casa contadina, vero?»

Se ne ricordava.

«Non saprei, ma forse il signor Uhara ha fotografato quella casa quando è arrivato in questa regione, perché era rimasto colpito dal suo aspetto caratteristico. Perciò penso che sia stato quando era appena stato mandato qui. Ed è per questo che la foto è piuttosto vecchia.»

Nelle supposizioni di Honda, la questione aveva più o meno trovato una soluzione.

Ma era così? La spiegazione era davvero tanto semplice? Il marito aveva raccolto in album altre foto di paesaggi che aveva scattato. Perché non aveva allora messo in un album anche quelle foto, e invece le aveva nascoste tra le pagine di un libro?

Tuttavia Teiko non ebbe il coraggio di parlargli anche di quel dubbio. In fondo era un collega di Ken’ichi: non doveva dimenticarlo. Era sua intenzione tenere per sé i segreti del marito, senza metterne a parte degli estranei. Anche se non ne era cosciente, era quello il suo modo di sentirsi a tutti gli effetti la moglie di Uhara Ken’ichi.

«Piuttosto: che intende fare adesso?»

Honda si era fermato all’improvviso e si era girato a guardarla. Lei capì subito di cosa parlasse. Sulla costa di Noto giaceva un corpo senza vita che lei, per tutto il tempo, aveva avuto in mente. Di sicuro anche Honda aveva continuato a pensarci.

«Intendo recarmi sul posto adesso» gli rispose.

Mentre proseguivano sulla discesa, l’ombra allungata delle montagne di Noto, visibili da dove si trovavano prima, stava sparendo.

Honda guardò l’orologio da polso.

«Uhm, sono le dodici passate. Se parte adesso, tornerà piuttosto tardi.»

«Però devo andarci.»

«Certo! Deve controllare il prima possibile» disse Honda con enfasi. «È solo che spero non sia lui.»

«Grazie.»

«Qualsiasi ora dovesse farsi, l’aspetterò in albergo per sapere com’è andata» aggiunse lui, e poi la fissò in volto per un istante.

Confusa dall’inattesa intensità di quello sguardo, Teiko distolse gli occhi.

Dalla base della discesa tre o quattro persone, uomini e donne, salivano stringendosi nelle spalle con aria infreddolita. Si sentì vicino lo sferragliare del tram in corsa.

2

Teiko lasciò Kanazawa con il treno delle tredici e cinque diretto a Wajima.

La carrozza era stretta e spartana. Si sedette da sola accanto al finestrino. Davanti a lei, due ragazzi del posto chiacchierarono di cinema fino a quando non scesero, alla stazione di Tsubata.

Allontanatosi dalla linea principale, il treno correva fermandosi spesso in piccole stazioni. Si vedeva dell’acqua, che pareva un lago, e le montagne si avvicinavano: stavano inerpicandosi sulla penisola disegnata a forma di pugno sulla cartina.

Ci volle circa un’ora fino alla stazione di Fukui. Lì Teiko cambiò treno, prendendone uno ancora più piccolo, e impiegò un’altra ora abbondante per arrivare a Noto Takahama.

Per tutto il tempo, il mare compariva e scompariva alla vista.

Quando si fu stancata di guardare il paesaggio, Teiko aprì senza troppa convinzione il giornale locale che aveva comprato alla stazione di Kanazawa. Mentre lo sfogliava distrattamente, le capitò sotto gli occhi un titolo sulla riunione del comitato dell’associazione delle signore di Kanazawa. L’articolo riferiva delle risoluzioni cui era giunto il comitato, elencando i nomi dei partecipanti alla riunione: quello di Murota Sachiko era citato per terzo.

Le parve di avere davanti agli occhi la donna, con la sua figura alta e slanciata vestita in abiti tradizionali e il suo viso affilato. Era una persona dal sorriso gentile.

La moglie di un presidente d’azienda era senza dubbio una celebrità, in provincia. A quanto pareva, la signora Murota era una brillante personalità della zona di Kanazawa. Teiko lesse due volte il breve articolo, per farsi un’idea della sua attività.

Quando scese alla stazione di Noto Takahama erano le quattro passate. Il crepuscolo iniziava già a tingere il cielo della breve giornata invernale.

Si recò al commissariato di Takahama, un edificio poco più grande di un semplice posto di polizia.

«Siamo stati avvisati dalla centrale di Kanazawa e l’aspettavamo» disse l’anziano sovrintendente capo che l’aveva accolta. «Il corpo è stato sepolto provvisoriamente, ma ne abbiamo scattato una fotografia: intende visionarla? Oppure le mostro prima gli effetti personali ritrovati sul morto?»

«Mi mostri la foto, grazie» rispose lei.

Il sottufficiale recuperò la foto del cadavere. Teiko si sentì stringere il cuore e chiuse gli occhi.

«Ecco.»

Udendo la voce del poliziotto, si fece coraggio e li riaprì.

Alla sua vista comparve il volto di un perfetto sconosciuto. Era l’ingrandimento di una testa sudicia; chiazze nere si allargavano sulla bocca e sul naso.

Scosse il capo, senza parlare, e si coprì la bocca con il fazzoletto. Ebbe un conato e sentì la fronte imperlarsi appena di sudore.

«Non è lui? Bene.»

L’anziano poliziotto le sorrise. Rigirò rapidamente la fotografia e la ripose dove l’aveva trovata.

«In un caso del genere, meglio essere venuta per niente, anche se da lontano!» commentò l’uomo sorridendo. «Questo, come altri, è morto dopo aver assunto dei medicinali sulla scogliera. La costa da queste parti è fatta di rocce a picco sul mare, e abbiamo tre o quattro casi all’anno di gente che si suicida gettandosi da lì. Anche Tōjinbō è diventato famoso come meta dei suicidi: pare che agli esseri umani piaccia lanciarsi dai dirupi! A me fa così paura solo guardare giù da una simile altezza, che non mi verrebbe nemmeno in mente.»

Teiko annuì, ma le parole le restarono bloccate in gola.

«Proprio poco tempo fa si è verificato un altro suicidio nello stesso posto in cui si è ucciso l’uomo della foto. Anche se di quello abbiamo scoperto subito l’identità e una persona è venuta a reclamarne il corpo. Sono i casi migliori, perché è un problema per noi non riuscire a identificare il morto. Il suicida probabilmente preferisce che non si sappia chi sia, ma dal nostro punto di vista è come se il morto non riuscisse più a trovare pace: ci rimane una spiacevole sensazione.»

Teiko finì a fatica una tazza di tè e lasciò la sede della polizia.

Takahama era un villaggio di pescatori e mentre camminava le arrivava alle narici l’odore del pesce. Teiko chiese ad alcuni locali dove si trovasse il tratto di costa a picco sul mare e le indicarono Akasumi. Le dissero anche che ci volevano una ventina di minuti in autobus per arrivarci.

Salì su quell’autobus. Il mezzo procedeva su una strada serpeggiante tra le alture e il mare. L’area collinare si copriva man mano di campi, il colore della terra sapeva di povertà.

Akasumi era una frazione di appena quindici o sedici case, in parte di agricoltori e in parte di pescatori. Le donne non smettevano di seguirla con sguardo curioso, mentre camminava.

Percorse la strada che portava al precipizio. Non le ci vollero nemmeno dieci minuti. Il sole stava iniziando ad affondare nelle nuvole compatte, proiettando appena un po’ di colore sulla distesa d’acqua desolata.

Quando fu in piedi sulla scogliera, il vento freddo che soffiava dal largo la colpì in volto. Le scompigliò i capelli ma lei non se ne curò, e rimase ferma a fronteggiare il mare.

Il suolo era cosparso di rocce ed erba secca: i flutti marini ruggivano molto più in basso. Le nubi incombevano sulla superficie grigio-blu che si arricciava tutta in bianche creste d’onda. Solo dove arrivavano i raggi solari si formavano fioche pozze di luce.

Teiko non avrebbe saputo spiegare razionalmente perché si trovasse in quel luogo. Per qualche motivo, aveva voluto provare a stare in piedi su una scogliera a picco sulle onde urlanti. Le nubi minacciose e il mare nero dello Hokuriku l’avevano sempre attirata.

Mentre continuava a fissare il mare scuro, iniziò a sentire che in quel mare c’era la morte di suo marito. Non giaceva forse muto, sotto quelle onde schiumose? Era il colore cupo di quelle acque a far nascere naturalmente in lei quell’allucinazione.

Cos’era lei, da sola in un luogo come quello, a fissare il mare del Nord? Era una moglie sventurata che vagava alla ricerca del marito scomparso: una giovane moglie senza speranze…

Il sole tramontò del tutto. Le nubi lente si fecero sempre più scure e la distesa del mare divenne all’improvviso più nera. Il fragore delle onde si intensificò, sovrastato, tuttavia, dall’ululato del vento.

Teiko era gelata, le mani e i piedi di ghiaccio. Però non se ne rendeva conto, e le tornarono invece in mente i versi di un poeta straniero, letti quando era ancora a scuola:

Ma ecco, adesso, un fremito nell’aria!

L’onda… qualcosa là si sta muovendo!

Quasi le torri avessero scostato

le acque cupe, sprofondando piano,

le loro cime avessero lasciato

un vuoto aperto nel cielo velato,

ora le onde brillano più rosse,

le ore quasi trattengono il respiro…

E quando, fra gemiti d’altri mondi…1

Teiko li ripeteva a mente. I suoi occhi continuavano a fissare i cambiamenti del mare, sempre più buio.

In her tomb by the sounding sea!2

All’improvviso un verso le era sfuggito dalla bocca. Teiko pianse.

Nel suo sepolcro laggiù in riva al mare

nella sua tomba dove echeggia il mare!3

3

Quando il treno arrivò alla stazione di Kanazawa era calata la sera. Un vento gelido spazzava la banchina. Con le teste incassate nelle spalle, i passeggeri sputati fuori dai convogli avanzavano in fila verso i tornelli. Teiko, che era su un vagone di coda, camminava dietro il gruppo in movimento. Le pareva di avere ancora addosso da qualche parte l’odore del mare della costa di Noto.

L’orologio segnava le nove e trenta. Il quadrante era rischiarato da una luce calda. Al di sotto dell’orologio si vedevano i tornelli del controllo biglietti, e lì la scia di persone si stringeva momentaneamente, per poi allargarsi e disperdersi sulla piazza della stazione.

Lo sguardo di Teiko catturò uno di quel gruppo. Sgranò gli occhi perché, “Ehi!”, aveva visto una figura di spalle che le pareva di riconoscere. Si fermò d’istinto, cercando di accertarsene, ma quelle spalle si sovrapposero ad altre, nel flusso della folla che si allontanava verso il lato opposto della piazza.

Non era suo cognato? Quella testa tonda e quelle spalle ampie non somigliavano moltissimo a quelle di Uhara Sōtarō, il fratello di Ken’ichi? Teiko affrettò il passo e uscì dai tornelli del controllo, quando… «Bentornata!» la salutò la persona che le si era avvicinata e si inchinava proprio davanti a lei.

«Oh!»

Guardandolo, Teiko si accorse che era Honda Yoshio, lì in piedi un po’ imbarazzato. Quando spostò di nuovo lo sguardo nella direzione di prima, la figura che stava cercando era scomparsa tra la folla.

«È qui per me?»

Teiko tornò a guardare Honda. I neon lontani splendevano fiochi sulle spalle del suo cappotto.

«Ho pensato che probabilmente avrebbe preso questo treno. Volevo sapere al più presto come fosse andata a Noto» disse lui, con un tono di scusa, abbassando un po’ lo sguardo.

«La ringrazio molto!» disse lei inchinando il capo. Però stava pensando ancora alla figura intravista poco prima.

Somigliava molto a suo cognato, ma forse le era solo sembrato: doveva essere stato un abbaglio. Non c’era motivo che il cognato comparisse lì in quel momento.

«Com’è andata?» chiese Honda con aria preoccupata. Si riferiva al corpo ritrovato a Noto.

Teiko tornò a concentrarsi sulla situazione presente.

«Non era lui. Mai visto prima» disse, ricordandosi il volto estraneo nella foto.

«Non era lui?» rispose Honda, palesemente rincuorato. «Per fortuna! Che sollievo!»

«Mi dispiace davvero averla fatta preoccupare. Tanto da venirmi incontro fin qui, poi…»

«Ma no, per carità…»

La folla si era dispersa e Teiko e Honda erano rimasti soli. Il vento li investiva dal basso.

«Le va un tè?» chiese Honda.

Teiko sentiva il bisogno di bere qualcosa di caldo, così lo seguì in un modesto locale davanti alla stazione.

«Sarà stanca!» disse Honda con sollecitudine, le mani intrecciate sulla tovaglia di plastica del tavolo al quale si erano seduti, uno di fronte all’altra. La guardava dritta in faccia. Lei, memore della complessa espressione che aveva visto sul suo volto mentre percorrevano la discesa, di ritorno da casa Murota, evitò il suo sguardo.

«Era un posto incredibile» rispose in tono normale.

«In effetti, è l’area meno sviluppata della regione» confermò lui.

«Però sono contenta di esserci andata.»

«Certo: era necessario che si accertasse che non fosse suo marito.»

«Sì, anche. Ma, a parte quello, sono stata felice di vedere quei paesaggi marini così tipici del Nord, perché non penso che mi capiterà di tornarci ancora.»

Quelle parole avrebbero potuto sembrare un po’ indelicate. Honda restò qualche secondo in silenzio, ma poi disse: «Evidentemente ha potuto sentirsi così perché si è tranquillizzata. In ogni caso, non poteva andare meglio».

Portarono loro del tè inglese. Era caldo, e la lingua di Teiko ne assorbì la dolcezza. Da qualche parte sulle labbra le restava il salmastro dell’aria gelida del Mar del Giappone.

«Ah, ma forse non ha ancora cenato?» chiese Honda alzando il volto.

A quelle parole, Teiko si rese conto di non aver messo nello stomaco nulla che potesse definirsi un pasto dalla mattina. Nella campagna di Noto non aveva trovato da mangiare, e in treno non le era venuto appetito, né all’andata né al ritorno.

«No, ma… non è che ne abbia tanta voglia» disse.

«Non le fa bene. Non le andrebbe di mangiare qualcosa di buono da qualche parte?» chiese lui in tono timido. Il suo sguardo, però, era entusiasta.

«Grazie,» disse Teiko, esprimendogli comunque riconoscenza «ma mangerò una volta rientrata in albergo.»

«Capisco» fece lui, senza insistere. Sul suo viso si leggeva un briciolo di delusione.

Un po’ perché era venuto apposta alla stazione ad aspettarla a quell’ora, un po’ per l’espressione che trapelava a volte per qualche istante dai suoi occhi, Teiko aveva iniziato a capire cosa provasse Honda. In quella situazione, la cosa le sembrava un po’ triste e complicata. Non ci sarebbe stato nulla di male a cenare insieme, ma temeva che avrebbe potuto lasciarsi invischiare in quella complicazione.

Usciti dal locale, si separarono. Data l’ora, Teiko prese un taxi. Restando in piedi nel vento freddo, Honda la seguì con lo sguardo e lei si sentì in colpa.

Quando arrivò al ryokan, ovviamente era distrutta.

Dopo il bagno e una cena tarda, s’infilò subito tra le coperte ma, a dispetto della stanchezza, non riusciva a prendere sonno.

L’indomani tornò alla polizia, senza però ottenere risultati.

La sera del giorno seguente, il telefono sul tavolino squillò.

«Da Tōkyō» annunciò il centralinista.

«Pronto? Teiko?»

Era la voce di sua madre. Le parve di vedere il posto in cui si trovava il telefono, nella sua vecchia casa.

«Allora, hai capito cos’è successo?»

«Non ancora.»

Teiko spinse forte la cornetta sull’orecchio, per sentire quanto più vicina possibile la voce della madre.

«Davvero? Che guaio!»

«E tu hai saputo qualcosa?»

«No, niente. Ah, già, mi avevi chiesto del passato di Ken’ichi. Oggi sono andata a informarmi dal signor Saeki.»

«Davvero?»

«Ho qui degli appunti che ho preso: te li leggo. Dopo aver interrotto gli studi, è subito entrato nell’impresa commerciale R. Era ancora nella stessa ditta, quando, nel ’42, ha ricevuto la chiamata alle armi ed è andato in Cina. Due anni dopo la fine della guerra era in Giappone. L’anno successivo si è dimesso dalla R ed è diventato agente presso il dipartimento di polizia di Tōkyō, venendo distaccato nel commissariato di Tachikawa…»

«Cosa?!» Teiko non aveva potuto evitare di chiedere. «Ha fatto il poliziotto?»

«Sì. Anch’io sono rimasta sorpresa. Non l’avrei mai detto.»

Suo marito, Uhara Ken’ichi, era stato agente di polizia nel commissariato di Tachikawa … A Teiko tornarono in mente i caratteri ormai rovinati dal tempo dei libri ancora fuori posto, ammucchiati negli armadi a muro dell’appartamento: erano testi di giurisprudenza.

«Poi, dicevamo, dopo un anno e mezzo ha lasciato la polizia ed è entrato nell’agenzia A. È stato il signor Saeki a informarsi e a dirmi queste cose, quindi credo siano notizie attendibili…

«Pronto?» fece la madre, prima di continuare: «Dunque, poi, quando gliel’ho chiesto, il signor Saeki mi ha detto che, per quanto ne sappia, Ken’ichi non ha rapporti con altre donne. E anche in questo caso, non mi pare possibile che abbia mentito per salvare le apparenze.»

«Già.»

Teiko aveva pensato che il signor Saeki non lo avrebbe fatto.

«Pronto?» Il tempo a disposizione era ormai poco e la voce della madre tradiva fretta. «Quanto conti di restare lì?»

«Che ti devo dire? Se le cose continuano come ora e non riesco a sapere niente di più, a questo punto penso di tornare a Tōkyō tra uno o due giorni.»

«Ma sì, meglio! Puoi tornare qui a Tōkyō ad aspettare gli sviluppi.»

Evidentemente la madre voleva che rientrasse.

«Sì, farò così.»

«Come stai? Dicono che fa freddo da quelle parti. Non ti sarai mica presa qualche malanno?»

«Sto bene.»

La madre chiuse la telefonata dicendo che, allora, aspettava il suo ritorno.

A quel punto Teiko aveva chiara la storia personale del marito. L’unico particolare che l’aveva sorpresa era che avesse fatto il poliziotto per circa un anno e mezzo. Non le aveva mai accennato nulla in proposito. La spiegazione poteva essere che non amava molto quella parte del suo passato lavorativo.

Ricordandosi dei vecchi libri che ancora conservava, però, le venne il dubbio che forse Ken’ichi avesse pensato, tempo addietro, di fare carriera come funzionario di polizia. Era possibile che stesse studiando con lo scopo di arrivare ai gradi più alti, partendo dalla posizione di agente. Teiko supponeva che esistesse una serie di concorsi per arrivarci e immaginò che i libri di giurisprudenza di suo marito gli servissero a prepararsi per superarli.

Perché Ken’ichi aveva rinunciato a quell’aspirazione? Aveva forse cambiato idea, convincendosi che avrebbe avuto più prospettive per il futuro entrando nella A anziché restando in polizia? Oppure, magari, si era deciso a farlo perché qualcuno lo aveva convinto? In ogni caso, se dopo circa sei anni dall’ingresso in ditta gli avevano affidato la responsabilità di un’area, entrare nella A non era stato un errore.

Teiko ebbe improvvisamente l’idea di telefonare a casa del cognato. In stazione aveva visto un uomo che gli somigliava, poi la madre l’aveva chiamata da Tōkyō ed era venuta a sapere del passato lavorativo di Ken’ichi: tutte queste cose insieme le avevano suggerito di fare quella telefonata.

La comunicazione con Tōkyō fu stabilita in un attimo, come se fosse una chiamata urbana. La domestica passò subito il telefono a sua cognata.

«Oh, Teiko, buonasera. Hai fatto bene a chiamarmi!» la salutò l’altra, con la sua solita voce vivace. «Allora? Hai notizie di Ken’ichi?»

«No, non ancora» replicò lei.

«Non ancora? Oh, ma quanti giorni sono passati?» domandò la cognata.

Quando Teiko le rispose commentò: «Così tanti? Dove potrà mai essere andato?».

Da quelle parole, si capiva che non lo credeva in pericolo di vita. Attraverso la cornetta le arrivava la voce dei bambini che giocavano.

«Sōtarō è lì?» chiese.

«Ah, no. È a Kyōto per lavoro da due giorni. Ah, già, ha detto che se si sbriga presto forse passa lì da te.»

La voce della cognata era piena di brio.

Allora l’uomo che aveva visto due sere prima alla stazione non era, in effetti, il cognato, dedusse Teiko. Se era andato a Kyōto due giorni prima, non poteva essere lì proprio la sera in cui era partito.

«Sarebbe bene se riuscisse davvero a raggiungerti lì!» disse la cognata allegramente.

«Sì, se venisse mi farebbe un grande favore!» rispose Teiko.

«Non deve essere facile per te, così da sola! Sōtarō potrebbe darti man forte. Sarebbe fantastico se riuscisse a passare, ma, certo, è anche impegnato con il lavoro.»

Scambiarono ancora due o tre chiacchiere, dopo di che la telefonata si concluse.

Quella notte Teiko, stanca com’era, dormì.

La mattina dopo si svegliò più tardi del solito e, finita la colazione, stava guardando distrattamente fuori dalla finestra, verso il castello, quando squillò il telefono.

Prese il ricevitore pensando fosse Honda.

«Teiko?»

Inaspettatamente, era la voce del cognato.

«Sōtarō?» fece Teiko con tono sorpreso.

«Buongiorno. Sono appena arrivato a Kanazawa. Ho allungato il rientro da Kyōto. Mi sono fatto dare il tuo recapito telefonando alla sede locale della A.»

«Davvero? Hai fatto bene.»

«Ti dispiace se vengo lì da te adesso?»

«No, certo. Ti aspetto.»

Appena chiusa la telefonata, Teiko entrò in agitazione. Era naturale che il cognato fosse venuto. Anzi, era anche tardi. Ma ora che era finalmente arrivato, lei sentiva la tensione e la responsabilità di fargli spazio laddove, fino a quel momento, era stata da sola.

Dopo una trentina di minuti, accompagnato dalla cameriera, Uhara Sōtarō si presentò, col suo fisico tozzo e corpulento, nella camera di Teiko.

La donna portò anche la sua valigia.

Sorridendo a Teiko, Sōtarō si lasciò aiutare dalla cameriera a spogliarsi del cappotto, per poi sedersi sui tatami del salottino con un «Oplà!».

«Benvenuto! Mi dispiace, con tutto quello che avrai da fare!»

Il cognato rispose alle sue parole di saluto raccogliendo con un gesto composto le grosse ginocchia.

«Sarei dovuto venire prima, ma purtroppo sono stato preso dal lavoro. Avevo un impegno a Kyōto e ho approfittato per proseguire fin qui, dopo aver sbrigato in fretta le mie faccende. Sono appena arrivato.»

Aveva un velo di barba e pareva stanco per il viaggio.

Teiko si convinse che, allora, quello che aveva visto la sera del diciassette alla stazione dovesse proprio essere qualcun altro.

«Mi dispiace! Sarai stanco.»

«Tu, piuttosto! Dev’essere stato terribile.» Il cognato estrasse una sigaretta e fece scattare l’accendino. «Hai poi saputo qualcosa su Ken’ichi?»

«Ancora niente. E pensa che anche il signor Honda, preoccupato, si sta impegnando nelle ricerche.»

«Chi è questo signor Honda?» chiese il cognato sbuffando fuori il fumo.

«Il successore di Ken’ichi. È stato appena inviato da Tōkyō.»

«Ah, capisco.»

«Ah, già, avrei dovuto dirtelo prima, ma ieri ho telefonato a casa tua, e tua moglie mi ha detto che ti trovavi a Kyōto per lavoro. E anche che, se fossi riuscito, forse saresti passato di qui.»

«Davvero?»

Forse del fumo gli era finito negli occhi, perché li strizzò come fosse abbagliato. Quell’espressione le ricordò molto suo marito.

Sōtarō riportò il discorso su Ken’ichi: «Ma non abbiamo nemmeno un indizio?».

«No. A dire la verità, su consiglio del signor Honda ho anche presentato una denuncia di scomparsa alla polizia, ma neppure loro hanno trovato tracce. E l’altro ieri sono andata in un paesino dove avevo sentito che era stato ritrovato il corpo di un suicida, per verificare. Per fortuna non era lui.»

«Suicidio?» per la prima volta, il cognato aveva alzato la voce. «È impensabile! Che ragione avrebbe Ken’ichi di suicidarsi? Non è credibile che possa fare una cosa del genere!» Sōtarō aveva perfino indurito lo sguardo. «È vivo! Stai certa che è vivo, da qualche parte.»

1. E.A. Poe, The city in the sea., trad. it. di R. Montanari, La città nel mare, in Il Corvo e altre poesie, Feltrinelli, Milano 2009. (NdT)

2. E.A. Poe, Annabel Lee. (NdT)

3. E.A. Poe, Annabel Lee, trad. it. di R. Montanari, Annabel Lee, in Il Corvo e altre poesie, op. cit. (NdT)

Il comportamento del cognato

1

Uhara Sōtarō, seduto davanti a Teiko, insisteva, con espressione allegra, che il fratello Ken’ichi era ancora vivo.

Ma anche se lui ripeteva, come se nulla fosse, che il suicidio era impensabile, che Ken’ichi non aveva alcuna ragione di uccidersi e che non era credibile che potesse fare una cosa del genere, Teiko non riusciva a persuadersi.

Affermare con convinzione: «È vivo! Stai certa che è vivo, da qualche parte» non voleva dire niente.

Con quel suo modo di esprimersi sembrava quasi vaneggiare, come se stesse dicendo: “È vivo perché è mio fratello!”.

Era inevitabile pensare che quella convinzione nascesse dall’affetto per una persona cara. Non seguiva nessuna logica, come un vecchio testardo. Teiko aspettò in silenzio delle spiegazioni che non vennero.

La cameriera portò del tè e se ne andò.

«Ma allora hai un’idea» disse Teiko alzando il viso «del perché Ken’ichi non si faccia ancora vedere?»

L’uomo non rispose subito, e allungò la mano per afferrare la tazza bollente. Poi protese le labbra e soffiò sul vapore.

«Non in particolare» rispose. «Però è sempre stato un tipo spensierato, da quando era piccolo. Anche prima di sposarti, aveva il vizio di partire senza nemmeno avvisarci, magari per farsi un giro del Kyūshū, se gli veniva in mente. Secondo me, pure questa volta sarà da qualche parte a divertirsi, e a un certo punto rispunterà come se niente fosse.»

Sōtarō sorbì rumorosamente un sorso di tè.

Teiko restò in silenzio. Per quale motivo era venuto a Kanazawa, se non perché era in pensiero per Ken’ichi e voleva sapere come stavano le cose? Con quel modo di parlare, come se non si preoccupasse affatto di che fine avesse fatto il fratello, pareva fosse solo passato in visita prima di rientrare a casa dal viaggio di lavoro.

O magari parlava con ottimismo per tranquillizzare Teiko? Sarebbe stata una gentilezza inutile, che non la consolava nemmeno.

«Che ne pensano qui in ditta?» domandò lui, scrutando l’espressione abbattuta di Teiko. Evidentemente, come c’era da aspettarsi, era preoccupato.

«Non hanno nessun elemento decisivo, per cui non capiscono di cosa si tratti: sono disorientati» rispose lei. «È scomparso la sera prima della data prevista per il rientro a Tōkyō, ed è tutto così incomprensibile che anche loro non sanno che pesci prendere. Sta dando un bel po’ di grattacapi anche al signor Honda.»

Nulla sarebbe stato più fuori luogo da parte di Ken’ichi che far perdere le sue tracce per un capriccio, come sosteneva il fratello. Teiko non aveva potuto dirglielo chiaramente, però, parlando in quel modo, aveva espresso il suo dissenso rispetto ai discorsi assurdi del cognato.

Quanto a lui, restò in silenzio, aspirando dalla sigaretta. La sua espressione giuliva si era un po’ rannuvolata. Teiko pensò che le proprie parole avessero colto nel segno.

«Sia come sia,» disse il cognato, aggrottando le sopracciglia «è inqualificabile: farti angosciare così, appena sposati!»

Persino lui sembrava non sapere cosa dire.

«No, davvero, non darti pensiero per me. Quello che mi angoscia sul serio, piuttosto, è non avere nessuna notizia di Ken’ichi. Da quanto mi hai detto, non aveva nessun motivo per suicidarsi, e questo mi ha tranquillizzato, ma ho un’altra preoccupazione»

Vide un rapido guizzo negli occhi del cognato.

«Un’altra preoccupazione? Quale?» chiese lui.

«Che qualcuno possa avergli fatto del male. Non avendo sue notizie, mi vengono in mente anche questi brutti pensieri.»

Mentre schiacciava il mozzicone nel posacenere, il cognato rise. «Se stai parlando di un omicidio, dovrebbe esserci un qualche rancore, o una storia di soldi. Ma Ken’ichi non è il genere di persona che si fa odiare. Sono suo fratello maggiore, e conosco bene il suo carattere: è un tipo terribilmente schivo. Molto più schivo di me.» Il cognato insistette sul carattere introverso del fratello. «Quindi non si può pensare a un rancore. Resta la possibilità di una questione di denaro. Aveva in affidamento dei soldi della ditta?»

«No, non ne aveva.»

«Be’, allora non poteva avere con sé molto denaro. Non si può nemmeno pensare che sia stato ucciso per furto. Di conseguenza, le tue apprensioni sono ingiustificate.»

Il cognato si sforzava di persuaderla.

«Anch’io vorrei crederlo. Però, quando la polizia mi ha avvisato del ritrovamento di un corpo non identificato compatibile con la sua descrizione, mi sono precipitata nella penisola di Noto con il cuore in gola.»

«Noto?» Il cognato sgranò gli occhi. «Sei stata nella penisola di Noto?» chiese fissandola.

«Sì. Mi avevano detto che era stato ritrovato il corpo di un suicida di trentacinque o trentasei anni e sono andata a verificare. Era un’altra persona ma, quando mi hanno descritto le caratteristiche del corpo, ho avuto paura che potesse essere lui.»

«Quando è successo?»

«Il diciassette. Sono tornata qui la sera tardi. La costa lì è molto scomoda da raggiungere.»

«Dove?»

«Era la periferia di un posto chiamato Takahama. Si cambia treno in una stazione di nome Hakui e, all’arrivo, si deve prendere anche un autobus.»

Senza mostrare alcuna reazione, il cognato estrasse un’altra sigaretta e la accese con calma.

«Mi sembri un po’ tesa. Così non posso non preoccuparmi» commentò lui. «Che ne dici di tornare a Tōkyō, a questo punto? Penso che per te sia meglio aspettare lì, piuttosto che star qui a consumarti i nervi.»

«Sì, anche mia madre mi ha detto la stessa cosa, al telefono.»

«Ecco. Non sarebbe meglio che ti distraessi andando a far visita a tua madre o a mia moglie?»

«Certo. Ci sto pensando.»

«Fallo: è una buona idea» suggerì lui.

Teiko lo guardò in faccia.

«Tu cosa farai?»

«Io?» Nell’espressione del cognato fece capolino una certa esitazione. «Be’, visto che sono venuto apposta, potrei mettermi un po’ a cercare Ken’ichi. Ma ho anche il mio lavoro, quindi non posso trattenermi a lungo.»

Cercare? E come pensava di fare a cercare Ken’ichi? Teiko avrebbe voluto chiederglielo, ma sul momento non le venne. Se non era riuscita a porre sinceramente quella domanda, era perché qualcosa nel contegno del cognato l’aveva indotta a trattenersi. Il telefono nel tokonoma squillò.

«C’è il signor Honda per lei» annunciarono dalla reception.

«Mi dicono che è venuto il signor Honda, della A. È il collega che ha preso il posto di Ken’ichi. È preoccupato per lui, con quello che è successo. Lo faccio salire?» chiese Teiko al cognato, senza abbassare la cornetta.

«Sì. Arriva al momento giusto. Voglio conoscerlo anch’io, per ringraziarlo.»

Il cognato si sistemò meglio a sedere sullo zabuton.

Honda Yoshio entrò con la sua solita aria imbarazzata. Accortosi in quel momento della presenza dell’ospite, assunse un’espressione spaesata.

«Il fratello maggiore di mio marito» lo presentò Teiko.

Honda si inginocchiò e salutò il cognato di Teiko con cortesia.

«Mi dispiace per tutte le preoccupazioni che le sta dando.»

Anche lui con le mani posate sul tatami e le braccia tese, Sōtarō si era scusato per il fratello.

«Quando è arrivato?» chiese Honda.

«Stamattina, con l’espresso. Ah, e ho telefonato in ufficio da voi: un vostro impiegato è stato così gentile da indicarmi l’albergo di Teiko» disse Sōtarō accennando un inchino.

«Per carità, dovere! Ma sarà stanco. È venuto direttamente da Tōkyō?»

«No. Ero a Kyōto per lavoro, e sono venuto da lì.»

«Oh, caspita! Dev’essere terribile: arriva così presto, la mattina!»

«Sì. Però, una volta sceso dal treno, ho visto Kanazawa e mi è piaciuta. Ho camminato un po’, visitando la città, e mi ha dato proprio l’impressione del borgo di un grande castello nordico.»

Mettendo la sigaretta tra le labbra, Sōtarō rivolse un sorriso a Honda.

«E…?» iniziò Honda, come se volesse chiedergli qualcosa. Poi però guardò di sfuggita Teiko e tacque. Abbassando gli occhi, estrasse le sigarette dalla tasca.

I due uomini parlarono di un paio di argomenti, ma era una conversazione formale, senza scopo. Nell’aria, impossibile da nascondere, aleggiava l’imbarazzo di un primo incontro. Forse per quello, il cognato andò via poco dopo, senza nemmeno chiedere a Honda particolari su Ken’ichi.

«Teiko, io ho delle faccende da sbrigare. Comunque torno in serata» disse, prima di rivolgere un saluto a Honda e uscire.

Teiko lo accompagnò fino all’ingresso.

«Questo signor Honda è una persona seria?» chiese Sōtarō a bassa voce, mentre scendevano.

Teiko capì il senso della domanda del cognato, e pensò che doveva tornare a Tōkyō al più presto.

«Ciao, allora.»

Il cognato attraversò la strada dondolando lievemente le spalle nel camminare.

Vedendolo da dietro, Teiko si ricordò della silhouette che gli somigliava così tanto intravista alla stazione di Kanazawa, al ritorno dalla penisola di Noto qualche giorno prima. L’aveva subito persa tra la folla, ma più ci pensava più le pareva che ci fosse una forte somiglianza. Però, dal momento che il cognato era arrivato quella mattina da Kyōto, doveva essere stato un abbaglio.

Tornata in camera, trovò Honda agitato.

«Forse suo cognato non ha gradito la mia visita?» chiese.

Stringeva gli occhi come se fosse abbagliato.

«Ma no, assolutamente! Mi ha detto che apprezza molto quello che fa per noi. Non si faccia di questi scrupoli, la prego.»

«Davvero?» commentò Honda, però sembrava ancora impensierito.

Le parlò del motivo della sua visita. Aveva ricevuto una comunicazione dalla sede centrale, nella quale si confermava l’assenza di notizie da parte di Uhara Ken’ichi.

«Suo cognato è venuto perché ha avuto qualche idea?» chiese poi.

«No. Non sembra nemmeno che abbia molto chiara la situazione.»

Teiko evitò appositamente di riferirgli quanto le aveva detto Sōtarō.

«Capisco.» Honda tacque per un po’, ma poi si decise a domandare: «Suo cognato è davvero arrivato stamattina?».

«Come?» Teiko tornò subito a guardarlo in faccia.

«No, è che ha detto una cosa… strana.»

Era arrossito un po’.

«Cosa?» lo incalzò Teiko, mantenendo un’aria disinvolta.

«Che, appena arrivato a Kanazawa, ha approfittato per farsi una passeggiata e visitare, allo stesso tempo, la città. È strano.» Honda iniziò a spiegare: «C’è un solo espresso che arriva direttamente da Kyōto la mattina. È il Nihonkai, che parte da Kyōto alle ventitré e cinquanta e arriva a Kanazawa alle cinque e cinquantasei, quando qui è ancora buio pesto».

Teiko trasalì.

Era sicura che il cognato avesse detto di essere arrivato da Kyōto con l’espresso. Buffo che avesse raccontato di aver visitato a piedi la città prima dell’alba: da come ne aveva parlato, pareva proprio che avesse visto strade e palazzi risplendere nel sole del mattino.

Teiko intuì che il cognato non era arrivato da Kyōto. Era probabile che l’avesse detto perché aveva sentito da qualcuno che l’espresso da Kyōto arrivava a Kanazawa la mattina, e non si era reso conto che era inverno e a quell’ora non era ancora sorto il sole. Doveva trattarsi di una menzogna.

Ripensò subito alla silhouette che le ricordava il cognato intravista nella folla della stazione di Kanazawa due sere prima. Le venne in mente solo in quel momento che quelle persone erano tutti passeggeri del treno che veniva da Noto Wajima. Forse Uhara Sōtarō si trovava in un’altra carrozza dello stesso treno con cui era arrivata lei?

«Mi scusi, ma ci sono treni provenienti da Kyōto o da Tōkyō all’ora in cui io sono arrivata in stazione l’altra sera?» chiese.

Honda assunse un’espressione meravigliata, comunque tirò fuori dalla tasca un orario dei treni portatile.

«Dunque… erano le ventuno e ventotto, vero? Ecco…»

Rigirò due o tre volte le pagine, ma poi concluse: «No, non ce ne sono. Quello da Ueno arriva alle diciannove e dodici, quello da Kyōto alle diciotto e sei. Non ci sono treni che arrivino intorno a quell’orario».

E quella sera, Teiko seppe da Honda una cosa ancora più bizzarra su Sōtarō.

«Oggi ho visto suo cognato in città» le disse, quando arrivò da lei. «Lui, invece, non si è accorto di me. Usciva da uno strano negozio.»

«Uno strano negozio?» chiese lei perplessa.

«Ecco, se abitasse qui sarebbe del tutto normale: era una lavanderia.»

Una lavanderia? Anche Teiko lo trovò strano.

«E non lontano da quella c’è un’altra lavanderia. Pareva che qualcosa non andasse; allora ho continuato a guardarlo, e lui è entrato pure nella seconda lavanderia. Però anche da lì è uscito subito.»

«…»

«Dal modo in cui procedeva, mi chiedo se non stia girando tutte le lavanderie della città.»

Teiko era basita. Non sapeva cosa dire.

2

Suo cognato Sōtarō stava facendo il giro delle lavanderie di Kanazawa. Quando Honda glielo disse, Teiko ne fu inspiegabilmente turbata.

«Cosa poteva avere da fare in lavanderia?»

Teiko lo guardò in faccia.

«Non lo so.» Anche Honda aveva un’espressione perplessa. «Lei non ha qualche idea in proposito?»

«Assolutamente nessuna.»

Intuiva cosa avesse in animo Honda nel porle quella domanda. Nel circolo familiare costituito da Ken’ichi, suo fratello e lei, c’erano delle particolari condizioni che dall’esterno era impossibile conoscere: l’uomo tentava timidamente di mettere in connessione quel bizzarro girare per lavanderie del cognato con tali condizioni a lui ignote.

«Se fossimo a Tōkyō potrei anche capire, ma perché mai, appena arrivato a Kanazawa, così all’improvviso dovrebbe avere qualcosa da fare in lavanderia?»

Era chiaro che non aveva nulla da fare in lavanderia: cercava un nesso tra quelle lavanderie e Ken’ichi.

«Non starà forse chiedendo di suo marito nelle lavanderie?» disse Honda, esprimendo la stessa idea.

«Lo penso anch’io. Visto che Ken’ichi ha vissuto qui a lungo…»

Suo marito era stato distaccato a Kanazawa per due anni. All’epoca era celibe, e aveva di certo mandato il bucato in lavanderia. Ma cosa cercava di sapere Sōtarō a proposito di quei bucati di Ken’ichi?

In tal caso, poi, avrebbe dovuto parlarne anche a lei. Perché, invece, se ne andava in giro da solo a far ricerche di nascosto?

«Non so se sia opportuno dirle una cosa del genere, ma…» continuò Honda imbarazzato, arrossendo un po’ «non è che suo cognato sa qualcosa a proposito della scomparsa di suo marito?»

Teiko trasalì. A pensarci, le parve avesse ragione.

Il cognato non lasciava facilmente Tōkyō. Con la scusa dei numerosi impegni lavorativi, non era neppure venuto subito a Kanazawa, quando aveva saputo che il fratello aveva fatto perdere le sue tracce laggiù. Fino a quel momento, Teiko aveva attribuito quell’atteggiamento al suo ottimismo, ma anche quell’ottimismo, a pensarci, doveva essere motivato da ragioni speciali che solo lui conosceva.

Lo dimostrava il fatto che, da quando era arrivato a Kanazawa, dava l’impressione di muoversi fin troppo. Diceva di essere venuto da Kyōto, dove era andato per lavoro, ma in realtà alcuni indizi lasciavano capire che si era recato in segreto nella penisola di Noto. Se era vero, perché tenerlo nascosto a Teiko?

Era il fratello maggiore di Ken’ichi. Forse in virtù di quella posizione era al corrente di una parte dei suoi segreti? Segreti di cui, magari, non pensava fosse il caso di parlare a lei, che di Ken’ichi era la moglie?

Dopo aver riflettuto in silenzio, con un filo di voce e a occhi bassi, Teiko disse: «Non so bene, ma forse ha ragione».

«Signora!» esordì lui, come per riscuoterla. «Mi pareva di immischiarmi troppo in cose che non mi riguardano, ed esitavo a proporglielo, ma che ne direbbe se provassimo a passare in quelle lavanderie a chiedere cosa ci è andato a fare suo cognato?»

Teiko alzò il volto.

«Insomma,» Honda esitò un po’ «in questo modo forse perderò la stima di suo cognato, ma, date le circostanze, mi pare sia indispensabile. Se è andato in quelle lavanderie per una ragione che ha a che fare con la scomparsa di suo marito, anche noi vogliamo esserne informati. Tuttavia pare che suo cognato, per qualche motivo, non possa parlarcene, e allora non abbiamo altro sistema per saperlo che andare a chiedere in quelle lavanderie senza dirlo a nessuno» disse con foga.

Aveva ragione. E se si infervorava così era perché quelle visite fatte da suo cognato alle lavanderie apparivano connesse alla scomparsa di Ken’ichi.

«Sì, allora andiamoci subito» accettò lei, infine.

«Davvero?»

Honda parve rasserenarsi un po’.

Mentre, in un’altra stanza, si preparava a uscire, Teiko si disse che Honda nutriva nei confronti del cognato i suoi stessi dubbi. A pensarci, pareva che il cognato non gli stesse molto simpatico già da quando si erano visti la prima volta. E la cosa doveva essere reciproca.

“Questo signor Honda è una persona seria?” le aveva anche chiesto Sōtarō a bassa voce nel corridoio.

In quel momento Teiko si era sentita infastidita. Aveva intuito il senso della domanda del cognato e aveva sentito su di sé il suo sguardo indagatore. Il cuore le aveva gridato che doveva tornare a Tōkyō al più presto.

Quella reazione esprimeva, allo stesso tempo, il disagio: lo sguardo che Honda le rivolgeva era talmente particolare! Si controllava, ma a volte ciò che provava era così evidente da metterla in imbarazzo. Già il fatto di accorgersene e di arrossirne in piena consapevolezza la faceva sentire in fallo di fronte al cognato.

Era probabile che anche Honda avesse colto, con la sua sensibilità, quello sguardo di Sōtarō. Nemmeno lui pareva provare simpatia per il cognato.

I due uscirono dalla pensione. Era già sera. Salirono ancora una volta su un piccolo tram verde. Stranamente, anche quel mezzo di trasporto era ormai parte integrante della vita quotidiana di Teiko.

Arrivati a una fermata all’incirca a metà di una discesa, Honda disse che era il momento di scendere.

«È da qui che l’ho visto» disse l’uomo, mentre dall’incrocio indicava una traversa. All’altezza del quinto o sesto edificio a partire dall’angolo, l’insegna bianca di una lavanderia era appesa sotto un lampione. Due biciclette dotate di un grande cesto per portare il bucato erano parcheggiate di fronte al negozio.

Dentro trovarono due uomini in piedi affiancati davanti alle tavole da stiro. Stavano manovrando dei grossi ferri.

Honda li interrogò. Teiko ascoltava, restando un po’ indietro.

«Sì, in effetti in mattinata è venuto un tale che corrisponde alla sua descrizione» rispose uno dei due, un uomo grasso, che pareva il proprietario, dopo aver posato il ferro su un lato ed essersi voltato verso di loro. Le camicie pronte erano piegate e impilate con cura. «Ha chiesto se avevamo un cliente di nome Uhara Ken’ichi» aggiunse, rispondendo a una domanda di Honda.

«Davvero? E voi avete un cliente con quel nome?» chiese ancora Honda.

«No, non è un nostro cliente. Per scrupolo ho anche sfogliato il libro dei conti, ma nessuno ci ha mai portato la giacca di un certo signor Uhara.»

«La giacca?»

«Sì. Il signore ha detto che forse poteva trattarsi solo di una giacca: un doppiopetto color grigio topo.»

Come quella con cui Ken’ichi era partito per Kanazawa, pensò Teiko.

«Ma noi non l’abbiamo. Quando gliel’ho detto, il signore è andato via.»

Il proprietario della lavanderia prese di nuovo in mano il manico del ferro da stiro.

Usciti dalla lavanderia, i due si incamminarono, ma a un certo punto si girarono a guardarsi in faccia.

«Perché il signor Uhara avrebbe mandato solo la giacca in lavanderia?» disse Honda con aria confusa.

«Mah! Non saprei neppure io.»

Era inusuale portare in lavanderia solo la giacca di un completo. Perché non avrebbe mandato a lavare anche i pantaloni? Era normale portare a lavare solo i pantaloni, per cambiarsi, ma solo la giacca era un po’ strano.

Magari il cognato sapeva che Ken’ichi aveva quella particolare abitudine?

A Teiko venne in mente all’improvviso: «Mi scusi, signor Honda: ricorda per caso il colore della giacca che mio marito indossava l’ultima volta che è venuto in ufficio?».

«Ecco…» Honda ci pensò un po’. «Era proprio grigio topo! Era lo stesso abito che indossava quando siamo partiti insieme da Tōkyō.»

«Capisco.»

Allora Ken’ichi avrebbe mandato la giacca a lavare in seguito.

«In ufficio ha sempre usato quel completo?»

«Sì, solo quello.»

Questa volta Honda aveva risposto con decisione.

Quindi Ken’ichi avrebbe portato la giacca in lavanderia dopo aver fatto perdere le proprie tracce. Aveva una ragione per far lavare solo la giacca? Era accaduto qualcosa per cui la sua giacca si era particolarmente sporcata? E poi, come faceva suo cognato a saperlo?

In ogni caso, tra tutte quelle ipotesi, una cosa sola appariva certa: suo marito era rimasto nascosto da qualche parte in città. Altrimenti non avrebbe portato in lavanderia solo la giacca.

Per quale motivo era rimasto nascosto in città senza dirlo a nessuno? A pensarci, forse si stava ancora nascondendo nello stesso posto. E la cosa ancora più inspiegabile era che suo cognato fosse al corrente di quella circostanza, almeno entro certi limiti.

Honda condusse Teiko in un’altra lavanderia.

Anche il proprietario di questa rispose: «Sì, è venuta la persona di cui parlate, e ha domandato la stessa informazione, ma nemmeno noi abbiamo la giacca».

«Cerchiamo ancora un po’?» chiese Honda guardandola.

«No, basta così.»

Teiko era stanca. Credeva che visitare una lavanderia dietro l’altra non li avrebbe portati a un risultato diverso.

«Capisco» disse lui guardandola con aria dispiaciuta. «Allora prendiamo qualcosa da queste parti?» la invitò.

Mentre sorseggiavano un caffè, seduti uno di fronte all’altra in una caffetteria, Teiko gli comunicò le proprie intenzioni: «Signor Honda, domani penso di prendere un treno e tornare temporaneamente a Tōkyō».

«Come?» Senza posare la tazza, Honda la guardò. «Quindi ha deciso di rientrare?»

Si mostrava chiaramente deluso.

Teiko abbassò il viso, evitando il suo sguardo. La presenza di Honda era uno dei motivi per cui voleva allontanarsi da Kanazawa…

«Senza rendermene conto, sono stata qui molto a lungo. E poi ci sono delle cose, relative a quanto accaduto, che posso sapere solo tornando a Tōkyō: voglio andare a controllarle.»

Lo pensava davvero.

Honda annuì in silenzio, ma l’espressione delusa indugiava sul suo viso. Le comunicò un senso di oppressione.

«E tornerà a Tōkyō con suo cognato?» chiese lui, scrutandola.

«No. Lo chiamerò solo al suo albergo per avvertirlo, ma tornerò da sola.»

Quelle parole erano espressione di sfiducia verso il cognato. O anche di dissenso nei suoi confronti.

Honda dovette comprenderne il significato al volo, perché si mostrò finalmente tranquillizzato.

«Sì, forse è meglio» concordò, un po’ imbarazzato come al solito. «È possibile che suo cognato si trattenga ancora un po’: la informerò via posta di quanto farà durante la sua permanenza» dichiarò guardandola dritta in volto.

Gli antecedenti

1

Teiko tornò a Tōkyō con un treno che arrivava alla stazione di Ueno la mattina. Ai suoi occhi ormai abituati ai paesaggi innevati di Kanazawa, il cielo terso e azzurro della capitale, le sue strade pavimentate e gli edifici risplendenti nei luminosi raggi del sole fecero l’effetto di una fresca novità.

Quando arrivò in taxi a casa dei suoi, a Setagaya, la madre le corse incontro all’ingresso.

«Ciao.»

«Bentornata! Sarai stanca» la accolse scrutandola in volto con insistenza. Parve preoccupata dalle sue guance scavate. «Faceva freddo lì, vero?»

«Sì.»

La madre sollevò la trapunta del kotatsu e ravvivò in fretta il fuoco.

«Stai tranquilla, mamma: qui fa caldo!»

La donna pareva pensare che il freddo di Kanazawa le fosse rimasto attaccato addosso. Penetrando nella stanza attraverso i vetri dell’engawa, i raggi del sole intiepidivano i tatami.

La madre si accinse a preparare il tè.

«Ci penso io» disse Teiko accennando ad alzarsi.

L’altra, però, la fermò. «Non ti preoccupare.»

Teiko si sentì toccata dalle attenzioni che le mostrava.

«Non si riesce proprio a capire che fine abbia fatto Ken’ichi?» le domandò la madre. Si era appena seduta di fronte a lei, e aggrottava la fronte con un’aria tra il preoccupato e lo spaventato.

«No. Come ti ho detto al telefono.»

Teiko le spiegò i particolari. Senza parlare affatto, però, del comportamento del cognato: non erano cose da raccontare alla madre. Si limitò a riferirle che era passato per Kanazawa, di ritorno da un viaggio di lavoro a Kyōto.

«Ha fatto bene, però, tuo cognato ad andare a Kanazawa: sono fratelli, magari stando sul posto riesce a trovare più indizi di te» se ne rallegrò la madre.

La sua lettura dei fatti era semplificata ma, senza alcun dubbio, sul conto di Ken’ichi il cognato ne sapeva molto più di lei.

«Ken’ichi non dà notizie, e nemmeno le ricerche della polizia approdano a niente: cosa potrà essere successo?»

La donna evitava espressioni infauste, ma pareva preoccupata per la sorte del genero.

«Stando a mio cognato, però, Ken’ichi è vivo e sta bene.»

Teiko aveva tirato fuori la teoria un po’ forzata del cognato.

«Davvero? Dice così?»

Alla madre bastò per mostrare un sorriso: pareva convinta che, se lo diceva un parente stretto, non c’era da preoccuparsi; e forse sperava, allo stesso tempo, che Teiko potesse tranquillizzarsi grazie a quelle parole.

«E quindi tuo cognato è rimasto a Kanazawa?» le chiese.

«Sì.»

«Allora penso che presto si risolverà tutto. Tu aspetta tranquilla fino al suo ritorno.»

La madre riponeva tutte le sue speranze nel cognato.

Teiko pensava che Ken’ichi e suo fratello avessero comunicato in qualche modo: doveva essere quella la spiegazione dell’ottimistica teoria del cognato sulla sorte di suo marito. Ma se lui, che non si allontanava facilmente da Tōkyō, alla fine era venuto a Kanazawa con la scusa del viaggio di lavoro a Kyōto, non era forse perché la latitanza di Ken’ichi si era protratta per troppo tempo? Le pareva di cogliere del panico nel comportamento del cognato.

Uhara Sōtarō stava girando tutte le lavanderie di Kanazawa. Chiedeva se avessero la giacca di Ken’ichi, ma che senso aveva? Che legame esisteva tra la scomparsa di Ken’ichi e il lavaggio dei suoi vestiti?

Se aveva mandato un capo d’abbigliamento a lavare, si doveva per forza supporre che fosse sporco. Doveva aver fatto qualcosa per sporcarlo. O, comunque, il cognato doveva averlo ritenuto possibile.

Ma, in quel caso, cosa aveva a che fare con la scomparsa di Ken’ichi?

Per qualche ragione, Teiko pensò al sangue: macchie di sangue annerito sull’abito. Non avrebbe saputo dire se fosse il sangue dello stesso Ken’ichi o di qualcun altro: quello sarebbe stato un motivo valido per far perdere le proprie tracce.

E allora, se il cognato stava setacciando le lavanderie, era perché sapeva qualcosa che gli permetteva di immaginare il comportamento di Ken’ichi. In altre parole, aveva più di una vaga idea sulla sua scomparsa.

E non voleva, evidentemente, parlarne con lei. Non poteva. Allora, per la prima volta, Teiko si chiese se la scomparsa del marito non fosse legata a qualche crimine…

Uscì dicendo alla madre che sarebbe andata a fare un saluto a sua cognata, che aspettava il ritorno del marito nella casa di Aoyama. In fondo al cuore sperava che la donna si lasciasse sfuggire un qualche tipo di suggerimento.

La cognata giocava con i figli al sole, accanto all’ingresso, e, quando la vide arrivare, le rivolse un sorriso schietto. «Oh, bentornata! Faceva freddo a Kanazawa, vero?»

«Sì, c’era molta neve.»

«Su, dài, entra!» La invitò a seguirla in soggiorno. «So che non si hanno ancora notizie di Ken’ichi.»

«Infatti: non si capisce dove sia andato!»

«Che guaio!» Osservando la sua figura, la cognata commentò: «Sei un po’ dimagrita?».

«Mah, non saprei…» Teiko sorrise abbassando lo sguardo.

«A Kanazawa hai incontrato mio marito, vero?»

«Sì. Mi dispiace avergli dato tante preoccupazioni.»

«È ancora lì.»

«Con tutti gli impegni che ha! Sono davvero desolata!»

«Ma no: è suo fratello! Si sente responsabile per lui anche nei tuoi confronti.»

«Mi dispiace.»

«E poi lui è il tipo che non sa stare fermo. Date le circostanze, sono sicura che laggiù starà girando come una trottola!»

Non se lo sarebbe mai aspettato, ma la cognata le stava lasciando intendere che, quindi, la presenza di Sōtarō a Kanazawa sarebbe stata molto più fruttuosa delle ricerche di Teiko.

La donna aveva semplicemente fiducia nell’attivismo del marito, mentre dal canto suo Teiko nutriva dubbi sulla sua attività. Ragion per cui non riuscì ad annuire con sincerità alle parole della cognata.

«Il viaggio a Kyōto di Sōtarō era deciso già da molto tempo?» le domandò, cambiando argomento.

«No. Sai quando ti abbiamo telefonato? Quel giorno me l’ha comunicato all’improvviso ed è partito subito. Perché?»

«No, è che mi chiedevo se il suo scopo non fosse stato di venire a Kanazawa.»

«Niente affatto. Per lui, sai, gli affari sono la cosa più importante» protestò l’altra, con poca convinzione e in tono lagnoso. «Si è trovato nelle condizioni di venire a Kanazawa perché, proprio al momento giusto, c’era stata quella trasferta a Kyōto.»

Quindi suo cognato era andato a Kanazawa senza dirlo nemmeno alla moglie. Perché Teiko era certa che il viaggio di lavoro a Kyōto fosse una bugia. Per quale motivo suo cognato aveva dovuto nascondere di essere andato direttamente a Kanazawa?…

La cognata le portò del tè.

«Ma voi» disse Teiko in tono confidenziale «da quanti anni siete sposati?»

L’altra fraintese e scoppiò a ridere. «Eh, fanno quindici o sedici anni, ormai! Anche se non me ne sono nemmeno resa conto.»

«Davvero?» Teiko abbassò lo sguardo.

«Ma cos’hai? Sei strana!»

«Pensavo a una cosa che riguarda Ken’ichi» Teiko alzò gli occhi. «Una volta faceva il poliziotto, no?» chiese con nonchalance.

«Sì, sì. Proprio così» confermò tranquillamente la cognata.

Quando si erano sposati a Teiko non lo avevano detto ma, a giudicare dalla reazione della cognata, non sembrava che la famiglia lo tenesse nascosto di proposito. Le parve lecito supporre che non avessero parlato di quei precedenti di Ken’ichi semplicemente perché non erano così brillanti da voler dar loro particolare evidenza.

«Prestava servizio nel commissariato di Tachikawa?» chiese.

«Sì. Ti vedo informata. Te l’ha detto Ken’ichi?»

«Sì, mi pare che me ne abbia parlato una volta» rispose Teiko, mantenendosi sul vago. «In quel periodo capitava che ti portasse a casa qualche collega del commissariato?» domandò a sua volta.

«Uhm…» Gli occhi della cognata si fecero pensosi. «Ora che me lo dici, mi pare che si portasse dietro uno con cui era in confidenza. Ricordo di averlo invitato spesso a mangiare con noi. Anche se non è che potessi offrirgli chissà cosa, visto che stiamo parlando all’incirca del 1950, e ai tempi c’era penuria di tutto.»

«Ti ricordi il nome di questo amico?»

«Dunque… aspetta un momento» rifletté, volgendo gli occhi in alto, con espressione concentrata. «Sì, mi ricordo! Si chiamava Hayama.»

Accennò un sorriso, contenta di essersi ricordata il nome.

«Hayama…» mormorò Teiko, in modo da memorizzarlo.

«Sì. Me lo ricordo perché è anche il nome del posto in cui si trova una delle ville imperiali. Con il suo carattere, evidentemente Ken’ichi non aveva molti amici e, a quanto pare, era in confidenza solo con questo Hayama.»

«Capisco.»

«Ma non stai mica pensando di andare a fare domande al signor Hayama!» La cognata assunse un’espressione dubbiosa.

«Sì, direi di sì.» Teiko lo disse con tono mite, come se con quelle parole si rivolgesse al cognato e non a sua moglie. «Per come mi sento, mi attaccherei a qualsiasi cosa, come si suol dire.»

«Ma scusa,» l’altra si fece ancora più perplessa «parliamo di quasi dieci anni fa! Da allora Ken’ichi e Hayama non si sono visti più. Non hanno più rapporti: che vuoi che ne sappia?»

«In effetti» rispose Teiko in tono conciliante. Ma contava di dirigersi subito a Tachikawa, appena uscita da quella casa. «Quando torna Sōtarō?» chiese, mentre si preparava a far scivolare le ginocchia fuori dallo zabuton.

«Mah, non so di preciso, perché ancora non mi ha fatto sapere niente, però immagino che domani verrà a casa: non può neanche assentarsi più di tanto dal lavoro!» rispose la cognata. Poi, come per rincuorarla, aggiunse: «Penso che, al suo ritorno, saprò qualcosa: ti telefono per informarti».

Uscita da casa del cognato, Teiko prese un taxi in direzione della stazione di Shinjuku. Attraverso il finestrino vedeva un tiepido sole, che iniziava a sapere di primavera, riversarsi sull’erba del parco esterno al tempio Meiji Jingū: colori completamente diversi dalla cupa neve di Kanazawa.

Aveva negli occhi le nuvole grigie e basse e il mare nero della penisola di Noto.

2

Appena un’ora dopo, scendeva alla stazione di Tachikawa.

Era la prima volta che ci andava. Un soldato straniero percorreva l’ampia strada a braccetto con una giovane giapponese vestita di rosso. Proprio sulla testa di Teiko, un grande aereo militare si levò in volo con un frastuono tale da farla trasalire. I passanti dovevano esserci abituati, perché nessuno alzava nemmeno lo sguardo, nonostante quel rombo così forte da farle venire voglia di tapparsi le orecchie.

Il commissariato di Tachikawa era un edificio non molto grande, situato diversi metri più indietro rispetto alla strada principale.

«Vorrei vedere il signor Hayama» annunciò all’agente all’accoglienza.

L’uomo, già avanti con gli anni, girò solo il volto verso di lei.

«Hayama? Hayama chi?» chiese.

Teiko non conosceva il nome di battesimo di Hayama, e glielo disse.

«Un agente con molti anni di servizio?» s’informò l’uomo, che ora si era voltato per intero nella sua direzione.

«Lavorava presso questo commissariato una decina di anni fa.»

Era tutto ciò che Teiko sapeva di lui.

«Ah, allora» annuì l’agente, lasciando intendere che aveva capito di chi si trattasse «è il viceispettore Hayama. C’è solo lui con quel cognome che sta qui da tutto quel tempo.»

«C’è, ora?»

«Sì. Glielo chiamo. Il suo nome?»

«Gli dica che c’è Uhara, per favore.»

L’agente sparì all’interno.

Pochi istanti dopo, un poliziotto di trentasei o trentasette anni con la divisa da viceispettore venne avanti a passo svelto, precedendo l’agente.

«Signora Uhara…?» disse, guardandola con gli occhi sgranati.

«Sì, sono io.» Teiko chinò il capo. «Lei è il signor Hayama?»

«Sì, sono io. Ma se lei è la signora Uhara, allora Uhara Ken’ichi…?»

Dalla sua espressione era chiaro che aveva capito.

«Sì, sono sua moglie» disse Teiko, inchinandosi più profondamente.

«Ah, ecco: la moglie di Uhara! Lieto di conoscerla. Prego, si accomodi.»

Avviandosi, le indicò con la mano una saletta dove si ricevevano gli ospiti esterni.

Nella piccola stanza, Teiko si sedette a un tavolo rotondo di fronte al viceispettore Hayama, un uomo dal viso rubicondo, con un inizio di pinguedine da mezz’età. Quando rideva, i suoi occhi già sottili parevano trasformarsi in due fili, e parlava con tono allegro.

Dopo che si furono di nuovo presentati, il viceispettore le chiese notizie di Ken’ichi. Le disse che non lo vedeva da sette o otto anni.

«Mi perdoni se glielo chiedo così a bruciapelo,» esordì Teiko «ma di cosa si occupava mio marito in questo commissariato?»

«Era alla buoncostume. Io ero alla stradale, ma con lui ci intendevamo in modo particolare.»

«Alla buoncostume? In quale campo?» si informò lei.

Al che Hayama, prima di rispondere, chiese a sua volta: «Signora, è successo qualcosa a Uhara?».

Era una strana domanda. Che avesse una qualche idea in mente, per chiederle una cosa del genere pochi minuti dopo averla conosciuta?

D’istinto, Teiko lo scrutò in volto e l’altro sembrò rendersi conto di quella stranezza.

«No, mi perdoni» si scusò arrossendo un poco. «Sa, non lo vedo da sette o otto anni, e lei è venuta a trovarmi senza che nemmeno ci conoscessimo: mi è venuto d’istinto di farle questa domanda inopportuna.»

Da quel punto di vista, non aveva tutti i torti: se una donna che afferma di essere la moglie di un vecchio collega viene a trovarti, probabilmente la prima cosa cui pensi è che gli sia accaduto un incidente.

«Sa,» disse il viceispettore «quando l’agente dell’accettazione è venuto ad avvertirmi che una signora di nome Uhara mi cercava, ho pensato subito che fosse una parente di Uhara Ken’ichi. Perché il cognome Uhara non è così diffuso.»

«Abbiamo celebrato il matrimonio a novembre» spiegò Teiko, abbassando lievemente il capo. «So che lei è stato molto vicino a mio marito, e la ringrazio, anche se all’epoca non eravamo ancora sposati.»

«Si figuri! Piuttosto,» rispose lui un po’ confuso «vorrei fargli i miei auguri. È un bel po’ che non ci vediamo…»

“… sta bene?” parve sul punto di chiedere il viceispettore, prima di fermarsi all’ultimo momento.

«Come lei stesso stava supponendo, se sono venuta all’improvviso a cercare lei è perché gli è accaduta una cosa un po’ strana» iniziò Teiko.

«Ah! Di che si tratta?» rispose lui sgranando gli occhi sottili.

«Forse sa che attualmente mio marito lavora per l’agenzia pubblicitaria A.»

«Sì. Me lo ha comunicato tempo fa con una cartolina.»

«Era responsabile della regione dello Hokuriku per l’agenzia, e stava per lo più a Kanazawa.» Teiko spiegò nei particolari come il marito avesse ottenuto il trasferimento a Tōkyō, ma fosse scomparso senza tornare mai da Kanazawa, dove era andato un’ultima volta per passare le consegne al suo successore. «I suoi colleghi della ditta, preoccupati, sono impegnati nelle ricerche, e ho fatto anche denuncia alla polizia, ma non si capisce ancora cosa sia accaduto» disse. «Ci siamo sposati da poco e non so molto di lui, però non ha una situazione familiare complicata, per cui è improbabile che c’entri qualcosa. In ditta hanno controllato, e anche sul versante del lavoro non hanno trovato ragioni plausibili. Nessuno ha, insomma, una pur minima idea sul motivo della sua scomparsa.»

In quel momento le passò un attimo per la testa l’immagine del fratello di Ken’ichi, ma non poteva parlarne al viceispettore.

«Ha detto “scomparsa”?» Il viceispettore, che fino a quel momento l’aveva ascoltata con attenzione, intervenne per la prima volta. «Intende un atto volontario da parte di Uhara?»

«Non posso esserne certa, ma penso di sì» rispose lei con convinzione. «Personalmente non riesco a immaginare che sia stato portato via da estranei con la forza o con qualche altra forma di pressione.»

«Capisco.»

Il viceispettore Hayama annuì e bevve il tè ormai tiepido.

«Quindi lei mi sta chiedendo cosa facesse Uhara quando lavorava qui, per trovare un motivo per la sua sparizione?» chiese lui dopo aver posato la tazza sul tavolo.

«Come le stavo spiegando,» proseguì Teiko «ci siamo sposati da poco e, visto che è stato un matrimonio combinato, non posso proprio dire che sapessi tutto di lui. Quando, di recente, ho scoperto che aveva fatto il poliziotto, a dire il vero sono rimasta sorpresa.»

«Di recente?» Il viceispettore aveva un’espressione stupita. «Uhara non gliene aveva parlato?»

«Non ne sapevo niente: non me lo aveva raccontato lui, ma neppure suo fratello.»

«Capisco.»

«L’impressione che ho adesso è che non me ne volesse parlare. Non che me lo tenesse nascosto, ma che non desiderasse dire a sua moglie di aver fatto il poliziotto.»

«Temo, signora, che lei stia pensando un po’ troppo» affermò l’uomo, in tono controllato. «Se Uhara si è dimesso dalla polizia non è certo per una ragione disonorevole. Lavorava con entusiasmo, tanto che, quando ha iniziato a dire di volersi dimettere, tutti, a cominciare dal commissario capo, abbiamo tentato di dissuaderlo. Ci tengo molto che lei lo sappia, anche per Uhara.»

«La ringrazio» fece Teiko abbassando lievemente il capo, in un gesto rivolto più che altro alla simpatia che l’uomo mostrava verso suo marito. «E… mi ha appena detto che Ken’ichi era nella buoncostume, ma cosa faceva in particolare??»

«Uhara era da noi ai tempi dell’occupazione» iniziò a spiegare lui. «Ancora oggi qui abbiamo una base dell’aeronautica americana, ma all’epoca questo piccolo centro era letteralmente invaso dai soldati statunitensi: parevano il doppio dei giapponesi. E poi, le pan pan – che a guardarle non si capiva se fossero americane o giapponesi – erano tante quanti i soldati stranieri. Ora che l’esercito americano si è ritirato e il numero degli uomini nella base si è molto ridotto, anche le ragazze sono sparite, ma all’epoca era incredibile.»

Teiko ne sapeva qualcosa, lo aveva letto su giornali e riviste.

«La polizia faceva spesso retate fra le pan pan. Erano come le mosche sul cibo: le cacciavamo e le ricacciavamo, ma non finivano mai. Era una situazione impossibile! A fronteggiare questa grande seccatura erano gli uomini della buoncostume.»

Teiko ricordò le foto, pubblicate sui giornali dell’epoca, di donne pressate come chicchi di riso da sushi nelle camionette della polizia.

«È stata dura anche per Uhara, che era dei loro. Anche se i miei compiti non avevano relazione con i suoi, eravamo amici, e mi parlava spesso di quel lavoro ingrato. Ora che mi ricordo, a volte diceva: “Le pan pan sono ragazze ignoranti, ma alcune di loro sono in gamba. Qualcuna ha anche un’educazione di un certo livello e una bella testa. Altre, invece, non sono istruite, ma così buone di cuore… quasi ingenue. Stando a contatto con loro, impari a conoscerle, a capire, come dire?, chi sono davvero. E così ti diventa difficile trattarle con durezza, anche se è il tuo lavoro”.»

«È per questo che ha lasciato la polizia?»

«Immagino non sia stato solo per questo. All’epoca la Polizia Militare americana aveva un potere assoluto. Noi eravamo una specie di scagnozzi, strumenti della PM! Uhara nutriva dei dubbi sul suo lavoro di poliziotto e ci stava male anche per quello stato di cose. E così, penso che abbia pian piano perso la voglia di guadagnarsi da vivere come funzionario di polizia.»

Teiko uscì dal commissariato di Tachikawa.

Aveva incontrato il viceispettore Hayama e si era fatta raccontare da lui di quando Uhara Ken’ichi faceva il poliziotto, ma non aveva scoperto, in quel luogo, una remota ragione che giustificasse la sua scomparsa. In breve, aveva saputo solo che ai tempi dell’occupazione lui lavorava nella buoncostume, che il suo compito consisteva soprattutto nel tenere sotto controllo le pan pan, che nutriva dei dubbi sulla polizia dell’epoca, che per questo si era stancato di quel lavoro e aveva deciso di rassegnare le dimissioni.

All’inizio lei aveva vagamente immaginato che Ken’ichi potesse essersi licenziato in seguito a un qualche tipo di incidente. Non le aveva mai accennato al suo passato di poliziotto. Aveva un po’ l’impressione che glielo nascondesse. Proprio perché le era parso che lui non gliene volesse parlare, aveva supposto un “incidente” in cui fosse stato coinvolto a quei tempi. Un oscuro evento del genere avrebbe potuto costituire il remoto capo di un filo legato alla sua attuale inspiegabile scomparsa, no?

Però non c’era stato alcun incidente. O, almeno, non era riuscita a scoprirlo dalle parole del viceispettore Hayama. Ma allora, se Ken’ichi non le aveva raccontato di aver fatto il poliziotto, significava forse che quel suo passato gli causava un qualche tipo di complesso nei confronti della moglie? Una sua amica le aveva detto che un uomo non parla di un lavoro che non ha amato a una moglie che gli piace. E a Teiko pareva di poterlo capire.

Mentre camminava verso la stazione, una ragazza vestita di rosso spuntò da un lato della strada, accompagnandosi a un militare americano. La giovane parlava inglese e il soldato piegava il suo lungo corpo annuendo, mentre camminavano davanti a lei. Teiko lanciò uno sguardo all’edificio da cui erano usciti: pareva una casa di campagna ristrutturata, circondata da alberi frangivento. Attraverso quegli alberi, si vedeva la piana di Musashi, con le sue ampie strisce di campi coltivati. Lontano, il sole la illuminava e le chiazze di luce si spostavano con il migrare delle nubi.

Quando sbucò sulla strada più animata, vide, tra le indicazioni stradali, anche nomi in inglese. Un rombo squarciò l’aria, sopra la sua testa.

Tornò a casa un po’ stanca.

«Ti aspettavo» disse la madre, guardandola con aria stranamente tesa. «Tua cognata ha chiamato diverse volte da Aoyama. Ha chiesto di mandarti subito lì da lei, appena fossi tornata. Mi è parsa molto agitata.»

«Eh? Che sarà successo?»

La prima cosa che le venne in mente fu che avesse qualche notizia di Ken’ichi. Si sentì impallidire.

«Forse tuo cognato è tornato e sa cos’è successo a Ken’ichi» disse la madre, anche lei come se le mancasse il fiato.

«Forse» annuì appena Teiko.

«Saranno buone notizie? O no?»

La madre aveva uno sguardo spaventato: non potevano essere buone notizie, altrimenti la cognata sarebbe stata felice di metterne a parte anche lei. Se, con voce sgomenta, aveva chiesto che Teiko andasse da lei subito, appena tornata, era chiaro che si trattava di brutte notizie.

«Be’, non è detto!» disse comunque Teiko. «In ogni caso, vado subito ad Aoyama.»

Essendo appena rientrata, non ebbe bisogno di prepararsi.

«Teiko, qualsiasi cosa ti dicano, mantieni la calma. E appena sai di che si tratta, telefonami, per favore.»

La madre proferì le ultime sillabe con voce tremante.

«Sì, sì» Teiko si sforzò di sorridere. «Stai tranquilla, mamma.»

Ma, una volta uscita di casa, lungo il tragitto per Aoyama, il panorama cittadino che scorreva oltre il finestrino del taxi le parve grigio, come se avesse perso ogni colore. Aveva un nodo in gola e il battito accelerato. Si sentiva come se le si fosse aperta dentro una voragine.

Davanti alla casa di Aoyama, i due bambini giocavano.

«Zia!» dissero, battendo le mani.

«Papà è tornato?» chiese lei.

«Mmh, non ancora!» risposero scuotendo il capo.

La cognata comparve sulla porta, e Teiko notò subito che aveva un’espressione stranamente cupa.

«Ho fatto tardi, scusami» esordì, e l’altra, che di solito era così allegra, la fece entrare senza rivolgerle nemmeno un sorriso. I bambini si mossero per seguirla, ma la madre li fermò, redarguendoli.

«Teiko, c’è un problema» disse subito. L’espressione sul suo viso era tesa.

«Che succede?»

Teiko era preparata a qualsiasi notizia.

«Mio marito…» la guardava in faccia, parlando con una voce diversa dal solito «è scomparso.»

«Cosa?»

Teiko era stupita. La cognata non era in ansia per Ken’ichi, ma per suo marito, Uhara Sōtarō.

«Cosa vuol dire che è scomparso?» chiese di rimando, con uno sguardo stupefatto.

«È scomparso! Hanno chiamato dalla ditta per sapere perché non si presentasse in ufficio, e io ho spiegato che, di ritorno dal viaggio di lavoro a Kyōto, era passato a sistemare una questione a Kanazawa; però l’impiegato della ditta mi ha detto che non aveva nessun impegno di lavoro a Kyōto.»

«Ah!»

Teiko sgranò gli occhi. Ma la cognata non poteva capire da cosa derivasse la sua sorpresa: il viaggio a Kyōto del cognato era una menzogna; come aveva intuito lei, era andato direttamente a Kanazawa. Le venne in mente la figura di spalle, così simile a lui, che aveva visto alla stazione di Kanazawa, quando era scesa dal treno, di ritorno dalla penisola di Noto.

«Allora ho subito telefonato al ryokan di Kanazawa dove pernottava, quello da cui mi aveva telefonato quando è arrivato lì. E mi hanno risposto che non sanno cosa gli sia accaduto, è uscito l’altro ieri dopo le tre e da allora non ha dato notizie.»

Il pomeriggio di due giorni prima: il giorno in cui le aveva fatto visita alla pensione!

«Parliamo del pomeriggio di due giorni fa, quindi sarebbe dovuto arrivare a Tōkyō ieri mattina, o al limite ieri sera. Se non è ancora rientrato, forse gli è successo qualcosa, no? Mi dà sempre notizie, di solito.»

«Però» disse Teiko «con oggi fanno solo uno o due giorni: non credo sia il caso che ti preoccupi così.»

«Sì, mi sto sforzando di convincermene, ma…» La sua espressione rimaneva tesa. «Con la storia di Ken’ichi, sono in pensiero. In primo luogo non so perché mio marito mi abbia mentito sostenendo che andava a Kyōto per lavoro. In ufficio dicono che aveva preso tre giorni di permesso, spiegando che un suo parente aveva avuto una disgrazia. Sai, Teiko, temo che possa essergli accaduta la stessa cosa che è capitata a Ken’ichi.»

Il telegramma che confermava le sue paure arrivò meno di un’ora dopo.

Portò una brutta notizia, definitiva, a differenza di quelle che riguardavano Ken’ichi.

Avvelenato

1

Il campanello della porta suonò due volte di seguito. Il trillo era troppo poco garbato e troppo forte per trattarsi di un visitatore: aveva un che d’imperioso.

A Teiko parve che il colorito della cognata cambiasse: la fissava ed esitava, come se non sapesse se alzarsi. L’angoscia che l’atterriva parve trovare espressione immediata nel richiamo scandito chiaramente da fuori la porta: «Signor Uhara, c’è un telegramma! Signor Uhara: telegramma!».

Teiko sussultò e guardò la cognata.

«Teiko» disse lei distogliendo lo sguardo e stringendosi nelle spalle «puoi andare tu, per favore?»

La sua voce tradiva avvilimento: l’annuncio minaccioso del telegramma aveva alimentato l’ansia per il mancato rientro del marito, cancellando del tutto la sua abituale gaiezza.

Teiko andò ad aprire la porta.

«È la casa del signor Uhara Sōtarō, vero?» Il giovane postino stringeva in mano un telegramma.

«Sì.»

«Può apporre il timbro, per favore?»

Teiko prese la busta e tornò in soggiorno.

«È un telegramma. Hai il timbro?»

«Lo trovi nel cassetto piccolo sulla destra del mobile.»

Trovato il timbro, Teiko tornò alla porta, dove il postino attendeva, per imprimerlo sulla ricevuta, e poi rientrò in soggiorno; però il telegramma, posato accanto alla cognata, era ancora chiuso.

«Ma…»

«Leggilo prima tu, per favore, Teiko.»

La donna si appoggiava allo hibachi, quasi stringendolo al petto.

Teiko prese il foglio bianco ripiegato e lo aprì; le due righe in caratteri stampati colpirono come un pugno i suoi nervi ottici:

SIGNOR UHARA SŌTARŌ DECEDUTO STOP RICHIESTA VOSTRA PRESENZA KANAZAWA STOP QUESTURA KANAZAWA

Teiko restò muta, pietrificata. Si sentì impallidire.

«Hai letto, Teiko?» chiese la cognata, rimanendo di spalle, accoccolata sullo hibachi.

Ma Teiko sentiva la bocca intorpidita e non riusciva ad aprirla. Era come se le avessero improvvisamente riempito la testa di acqua calda.

“Sōtarō è morto!”

Si sentiva soffocare dal battito delle sue stesse pulsazioni. Cercò di focalizzarsi sul fatto che il mittente era la polizia di Kanazawa. Quel dato trasmise a qualche angolo della sua mente un minimo della freddezza che avrebbe avuto un estraneo.

«Teiko…» la voce era ancora più bassa. «Cosa dice il telegramma?»

La cognata era spaventata come un cucciolo.

“Signor Uhara Sōtarō deceduto STOPRichiesta vostra presenza Kanazawa STOPQuestura Kanazawa.”

L’annuncio di morte era stato inviato dalla questura di Kanazawa. Ma non si capiva se si trattasse di suicidio, omicidio o incidente. Teiko, però, sentiva che era stato un omicidio. La morte del cognato era legata alla scomparsa di Ken’ichi. E allora intuì che anche la scomparsa di suo marito era legata a un omicidio.

«Cara!»

Con il telegramma ancora in mano e i tratti del viso tesi, Teiko si sedette accanto alla cognata, posandole una mano sulla spalla…

Il treno arrivò nella stazione di Kanazawa che erano passate le sette di sera del giorno seguente.

Era un viaggio lungo dieci ore. Teiko non aveva quasi dormito la sera prima. Era tornata da sua madre, l’aveva avvertita dell’accaduto, aveva preparato di nuovo il bagaglio, era andata dalla cognata e aveva vegliato insieme a lei, fino a quando, sul far del giorno, non si erano precipitate alla stazione di Ueno. Data l’urgenza, la madre di Teiko si era trasferita a casa del cognato per occuparsi dei bambini durante la loro assenza.

Il viaggio non era stato solo lungo, ma anche esasperante. La cognata aveva pianto tutto il tempo, accasciata sui cuscini dei sedili. Se non piangeva, appoggiava il corpo sfiancato al finestrino, e guardava fuori con aria assente. Il paesaggio era coperto di neve. Sulle banchine delle stazioni di transito la neve spalata era ammassata in muri bianchi, e il forte riflesso che emanava sembrava bruciare gli occhi gonfi e arrossati della poveretta.

Teiko aveva provato a offrirle del tè, ma l’altra non lo aveva bevuto. Neanche a dirlo, aveva rifiutato scuotendo la testa il bentō che lei le aveva comprato. A tratti, scoppiava in singhiozzi come se non riuscisse più a contenersi.

Teiko le stava seduta accanto, nel ruolo di spettatrice: le era così vicina da sfiorarla, ma non riusciva in alcun modo a far propria, nemmeno in minima parte, la tristezza che la cognata provava. Le era impossibile, per quanto si sforzasse.

Il cognato che aveva appena perso non le piaceva un granché. Era un impiegato abbastanza normale, un “uomo di buonsenso”. Normale nel senso che le pareva uso a una certa smaliziata disonestà per cavarsela nella vita, uno che, anche sul lavoro, si muoveva scaltramente tra i superiori, mentre, da una parte, si arruffianava i colleghi, e dall’altra cercava sempre di stare nella posizione che più gli aggradava. Era l’impressione che le aveva dato sin dalla prima volta in cui l’aveva visto, ma con il comportamento che aveva tenuto dopo l’arrivo a Kanazawa aveva incupito ancora di più l’ombra che quell’impressione gettava sul suo cuore.

Il cognato, per dire, non si era agitato più di tanto quando Ken’ichi era sparito. Lei si era precipitata a Kanazawa, e invece lui aveva mostrato poca voglia di muoversi, dicendo che non poteva allontanarsi perché era morto il presidente della sua ditta, e che tanto per Ken’ichi non c’era da preoccuparsi. E quando si era deciso a raggiungerla, aveva inventato che passava di ritorno da un viaggio di lavoro a Kyōto. E anche in quel momento aveva insistito con la sua teoria che Ken’ichi fosse vivo.

A sembrarle strano era tutto quel girare per le lavanderie di Kanazawa. Sōtarō stava cercando un capo d’abbigliamento che Ken’ichi avrebbe mandato a lavare. Teiko non sapeva a che scopo e per quale motivo.

Però, a ripensarci, Sōtarō doveva sapere il motivo della scomparsa di Ken’ichi. Si era sempre dimostrato convintamente ottimista in proposito, e se insisteva sul fatto che fosse sano e salvo doveva crederlo davvero. Aveva mantenuto la stessa certezza anche dopo essere arrivato a Kanazawa. Se si era messo a girare per lavanderie, era perché conosceva qualche segreto di Ken’ichi di cui Teiko non aveva idea, no?

In altre parole, il cognato stava cercando Ken’ichi in base a dati di cui solo lui era in possesso. E forse era stato ucciso da chissà chi, quando aveva iniziato a capirci qualcosa.

Quel pensiero le riportò alla mente un’idea che aveva avuto tempo addietro, ovvero la possibilità che il vestito di Ken’ichi fosse macchiato di sangue. Che le informazioni in possesso del cognato si spingessero fino a quel particolare? Le pareva che una simile lettura desse finalmente un senso logico al suo giro per lavanderie.

Se il cognato era morto per mano di qualcun altro, era probabile che la cosa avesse un rapporto con la scomparsa di Ken’ichi. Forse questo voleva dire anche che Ken’ichi e suo fratello condividevano un segreto?

Mentre la cognata singhiozzava e sospirava al suo fianco, Teiko si chiuse nelle sue riflessioni solitarie.

2

Non c’era più luce quando arrivarono a Kanazawa. Dalla folla sulla banchina si staccò un uomo che venne verso di loro a passi veloci. Era Honda Yoshio.

«Ah, signor Honda!»

Teiko era in piedi e sosteneva la cognata, priva di energie.

«Buonasera.»

Honda la guardò, e il sorriso nei suoi occhi pareva esprimerle la gioia di rivederla, ma poi vide la cognata, e dovette capire subito chi fosse.

«Sarete stanche» disse rivolgendo un breve inchino a entrambe. «Ho chiesto in questura e mi hanno detto che avevate risposto con un telegramma che sareste arrivate con questo treno.»

«Mi dispiace per il disturbo.» Teiko era grata a Honda per la sua immutata gentilezza. «Ti presento il signor Honda, di cui ti ho parlato» spiegò alla cognata.

Nonostante il suo stato, la donna si inchinò gentilmente. Lui parve un po’ stupito dall’aria estenuata sul viso di lei. Disse che un’auto li stava aspettando e le precedette, portando le valigie di entrambe.

In macchina lui sedette accanto al conducente, mentre le due donne si accomodarono sul sedile posteriore, così fu impossibile fare alcun tipo di conversazione. Tutti e tre fissavano la carreggiata davanti alla vettura, in silenzio. La strada era bianca, ma lo strato di neve non era spesso.

Il ryokan era quello in cui si era fermata Teiko durante il suo soggiorno precedente.

«Alla fine abbiamo scelto lo stesso posto della volta scorsa» disse Honda girandosi, prima di scendere.

La stanza, però, era un’altra. Questo, forse, per un’intuizione di Honda: Teiko non avrebbe gradito, in quelle circostanze, alloggiare con la cognata nella stessa stanza in cui era stata diversi giorni da sola. Fu un po’ sorpresa dalla sensibilità che Honda aveva mostrato nel comprenderlo.

Quattro o cinque cameriere vennero loro incontro. Erano tutti volti che Teiko conosceva e fu forse per questo che, nonostante lei e la cognata fossero parenti della vittima di un atto criminoso, che doveva aver fatto scalpore in quella regione, non furono esposte a sguardi sfacciatamente curiosi.

Voleva sapere al più presto a quale tipo di destino fosse andato incontro il cognato. A voce bassa, in modo da non farsi udire dalla cognata, lo chiese a Honda.

«È omicidio» sussurrò lui. E mentre lo diceva, il suo sguardo era acceso di angoscia. «Comunque, intendo darvi delle spiegazioni in proposito.»

Se l’aspettava! La sua intuizione era esatta. Teiko annuì e abbassò lo sguardo.

Come lo stesso Honda aveva preannunciato, quando tutti e tre ebbero preso posto nella stanza, che misurava quasi quindici metri quadri, iniziò a spiegare.

«Non so come esprimerle, signora, il mio rincrescimento. Vorrei ragguagliarla sulle circostanze in cui suo marito ha perso la vita, in seguito a una sventura del tutto inattesa» esordì, inchinandosi alla moglie della vittima. «Dovrà subito recarsi alla polizia, dove penso che la informeranno sui particolari, ma prima di andare le faccio un breve resoconto.»

L’uomo pareva ritenere preferibile raccontarle per grandi linee l’accaduto, in modo da prepararla e informarla, piuttosto che farla cogliere alla sprovvista dalle notizie che le avrebbero dato in questura.

Teiko si avvicinò alla cognata e le prese la mano.

«Una linea ferroviaria privata parte da Kanazawa in direzione sud, verso un’area montuosa, e fa capolinea alla stazione di Hakusan-shita. Su quella linea si trova la frazione di Tsurugi. Con quel treno ci vogliono circa cinquanta minuti per raggiungerla da Kanazawa. Lì, in un ryokanchiamato Kanōya, la sera del venti Uhara Sōtarō è morto bevendo cianuro di potassio.»

La cognata sbarrò gli occhi, e iniziò a tremare. Teiko strinse più forte la sua mano, ma non riuscì a calmare gli spasmi della donna.

«Ho qui con me un giornale: ve lo leggo.»

Honda estrasse dalla tasca un giornale piegato in quattro e lo aprì:

Il venti dicembre, alle sei del pomeriggio passate, nel ryokan Kanōya, al numero XX di Tsurugi, si è presentato un uomo di circa quarant’anni, chiedendo una stanza per ricevere un ospite. Una cameriera lo ha allora accompagnato in una saletta di una decina di metri quadrati al primo piano. L’uomo ha detto di voler bere del whisky, e ha chiesto che gli portassero una brocca d’acqua e dei bicchieri. La cameriera ha risposto che non avevano whisky, ma il cliente ha estratto dalla tasca una piccola bottiglia e gliel’ha mostrata dicendo che gliel’avevano appena regalata, per cui pensava di berla durante l’incontro. La donna ha portato quanto richiesto e lui l’ha ringraziata; in quel momento stava guardando fuori dalla finestra. La cameriera è scesa a pianoterra ma, trascorsa un’ora, la persona attesa non si era ancora presentata. Allora è risalita a chiedere per quanto tempo l’uomo intendesse utilizzare la stanza e l’ha trovato morto, steso supino sui tatami. Alla bottiglia di whisky sul tavolino mancava circa un quarto del contenuto, e il bicchiere era vuoto.

Il posto di polizia cui compete la zona ha subito svolto delle indagini: il portafoglio era intatto, con trentottomila yen all’interno; gli abiti erano di discreta fattura, ma l’uomo non aveva con sé documenti adatti a identificarlo. Le condizioni del cadavere fanno sospettare un avvelenamento da cianuro, per cui è stata subito contattata la questura di Kanazawa, e il corpo è stato sottoposto ad autopsia nell’ospedale universitario XX in città. Nello stesso tempo si è proceduto al sequestro della bottiglina contenente il resto del whisky, ed è stato chiesto al laboratorio della stessa università di analizzarne il contenuto.

Dopo aver letto fin qui, Honda alzò il volto.

«Questo era un articolo di ieri mattina. Continuo leggendo l’edizione della sera di ieri e quella della mattina di oggi.»

Prese altri due giornali:

L’autopsia eseguita nell’ospedale universitario sul corpo dell’uomo morto misteriosamente nel ryokandi Tsurugi ha chiarito che il decesso è dovuto ad avvelenamento da cianuro di potassio; le analisi condotte sul whisky rimasto nella bottiglia hanno confermato che conteneva la stessa sostanza, di cui si sono riscontrate tracce anche nei residui sul fondo del bicchiere.

La sezione investigativa ha concluso, in base a quanto fin qui esposto, che si tratta di omicidio, ed è subito passata alle indagini:

1. Il whisky in questione era contenuto in una bottiglina tascabile, che la vittima ha detto alla cameriera del ryokan di aver ricevuto in regalo da una persona imprecisata.

2. L’uomo appariva davvero in attesa di qualcuno, come aveva affermato.

3. Aveva un aspetto allegro e non pareva intenzionato a suicidarsi.

Attualmente sono in corso approfondite ricerche volte a identificare al più presto la vittima, ancora sconosciuta.

Identificata la vittima dell’avvelenamento di Tsurugi

La questura di Kanazawa ha supposto che si trattasse di un abitante di Tōkyō o dell’area di Ōsaka, Kyōto e Kobe, e che quindi fosse venuto in città per un viaggio; in base a quest’ipotesi, sono state svolte ricerche negli alberghi della zona; intanto, appreso dell’accaduto dai giornali, il ryokan Kamei, nel quartiere XX di Kanazawa, ha presentato una denuncia. Si è scoperto quindi che il defunto era il signor Uhara Sōtarō, il quale era registrato nel ryokan come capo dell’ufficio vendite dell’impresa commerciale XX, residente al numero XX di Aoyama Minami, nel quartiere di Akasaka, nella circoscrizione di Minato a Tōkyō. Il signor Uhara era alloggiato in detto ryokan dalla sera del diciannove, ed era uscito alle tre del pomeriggio del venti. La questura ha convocato i familiari dell’uomo via telegramma e ha ispezionato il suo bagaglio rimasto in stanza, trovando però quasi esclusivamente abiti e accessori da toeletta, e niente che possa essere utile alle indagini.

Inoltre, stando alla denuncia presentata dall’albergo in seguito all’uscita degli articoli di giornale riguardanti il caso, si è capito che, prima di arrivare da loro, il signor Uhara aveva soggiornato al ryokan Itō dalla sera del diciassette fino al tardo pomeriggio del diciannove.

La questura di Kanazawa ha organizzato una squadra per le indagini, che attualmente sta investigando i movimenti del signor Uhara dal momento in cui è uscito dal Kamei a quando è arrivato al Kanōya a Tsurugi. A tale scopo, la squadra è alla ricerca di passeggeri che abbiano visto la vittima sul treno delle Ferrovie dello Hokuriku tra le quattro e le sei del pomeriggio. In particolare, si spera di rintracciare testimoni che abbiano notato la persona che lo accompagnava. Questo perché il signor Uhara aveva rivelato alla cameriera dell’albergo che il whisky in questione gli era stato “appena regalato”, e si suppone quindi che il colpevole abbia messo il cianuro nella bottiglia e l’abbia data alla vittima subito prima che entrasse al Kanōya.

Vicino al Kanōya il signor Uhara deve essersi separato dal suo assassino, il quale probabilmente si è allontanato con qualche scusa. Credendo alla sua promessa, Uhara si è messo ad aspettarlo nel ryokane, nell’attesa, ha bevuto il whisky in questione, allungato con acqua. Mancava un quarto del contenuto della bottiglina, per cui si può supporre che abbia ingerito una dose mortale di cianuro.

Si cerca anche di capire se la persona che il signor Uhara ha detto di aspettare sia la stessa che gli ha dato il whisky; sono in corso gli interrogatori dei possibili testimoni in tutta l’area di Tsurugi.

 

Le Ferrovie dello Hokuriku

1

Dopo il riconoscimento da parte di Teiko e di sua cognata, il cadavere di Uhara Sōtarō fu inviato al crematorio.

Alla questura di Kanazawa non ricevettero ulteriori informazioni rispetto a quelle riportate dai giornali.

L’uomo aveva lasciato il ryokan Kamei di Kanazawa alle tre e mezzo del pomeriggio del venti dicembre, per ricomparire alle sei e mezzo nel ryokan Kanōya di Tsurugi, undici chilometri a sud di Kanazawa.

Tsurugi è una stazione sulla linea che da Kanazawa porta a Hakusan-shita, e per raggiungerla ci vogliono circa cinquanta minuti.

Al Kanōya, Sōtarō aveva chiesto una stanza in cui ricevere un ospite, ed era morto dopo aver bevuto un whisky allungato con acqua, preso da una bottiglina tascabile in cui era stato versato del cianuro di potassio.

Stando alla testimonianza di una cameriera dell’albergo, quel whisky Sōtarō lo aveva “ricevuto da una persona”. Quindi lo aveva bevuto senza sapere che fosse avvelenato. Ne conseguiva che la persona che glielo aveva dato era il suo avvelenatore.

Sōtarō aveva detto di attendere una persona, ma non si sapeva nulla al riguardo. Nessuno si era presentato al Kanōya nemmeno dopo la sua morte, per cui era molto probabile che quella persona si aspettasse il suo decesso. Di conseguenza doveva di certo essere l’omicida, o un complice, o almeno qualcuno informato dei fatti.

La polizia era molto interessata a questo punto in particolare.

Visto che la sua vedova e la moglie del fratello minore erano venute entrambe a Kanazawa, i poliziotti le interrogarono subito in proposito.

«Suo marito aveva conoscenti a Kanazawa?» chiese l’ispettore responsabile dell’inchiesta.

«No. Era la prima volta che veniva a Kanazawa» rispose la cognata, alla presenza di Teiko.

«Lo scopo del suo viaggio?»

«Suo fratello minore, Uhara Ken’ichi, risiedeva qui in qualità di responsabile della sede locale dell’agenzia pubblicitaria A, ma all’improvviso non ha più dato notizie e mio marito, preoccupato, è venuto a cercarlo.»

«Oh! E quando è scomparso suo cognato?»

L’ispettore sembrava interessato.

«È mio marito: gliene parlo io» disse Teiko, e raccontò della scomparsa di Ken’ichi. «Ho anche presentato denuncia e ho parlato con uno dei vostri funzionari.»

«Davvero? Aspetti un momento.» L’ispettore si fece portare il faldone con le denunce di scomparsa e si mise a sfogliarle. «Ah, eccola. Chi l’avrà raccolta?» borbottò tra sé e sé.

«Ecco… era un viceispettore di una certa età» si intromise Teiko.

Sentendo queste parole, l’altro mostrò di aver capito a chi si riferisse.

«Ah, ora non è in sede: gli chiederò dopo di parlarmene. Potrebbe intanto dirmi lei qualcosa in proposito?» domandò.

Teiko si trovò a dover ripetere di nuovo tutta la storia di Ken’ichi. L’ispettore la ascoltava scorrendo con gli occhi il foglio della denuncia.

«A grandi linee ho capito» annuì. «Quindi non si sa ancora dove sia il signor Ken’ichi.»

«Esatto. Anche in ditta sono preoccupati per lui.»

L’ispettore stava riflettendo. Poi suppose: «Non possiamo immaginare che il signor Ken’ichi si trovasse da qualche parte e avesse un appuntamento con il fratello, e che fosse per quell’appuntamento che il signor Sōtarō si era recato a Tsurugi da Kanazawa?». A quanto pareva, l’ispettore pensava che la persona che Sōtarō aveva detto di attendere potesse essere Ken’ichi.

Teiko sussultò: giusto, era possibile!

Suo cognato insisteva che Ken’ichi era ancora vivo. E non sembrava che la sua fosse una vaga speranza: pareva ne avesse le prove. Era dunque possibile immaginare che Ken’ichi fosse vivo e avesse invitato il fratello nel ryokan di Tsurugi, promettendo di raggiungerlo lì.

Ma, in quel caso, chi aveva dato la bottiglia avvelenata a Sōtarō? Ammettendo che non fosse stato Ken’ichi, dato che “l’ospite atteso” che doveva raggiungere Sōtarō non si era presentato, significava che Ken’ichi aveva quantomeno saputo della morte del fratello.

«Cioè, a prescindere dalla storia del whisky avvelenato» disse l’ispettore, come se indovinasse cosa passava per la testa di Teiko.

«Non saprei. Però, se Ken’ichi è vivo, potrebbe anche darsi.»

«Capisco.»

L’ispettore era una persona dal viso lungo e dallo sguardo gentile, e parlava a bassa voce.

«Mi avete appena detto che il signor Sōtarō non aveva amicizie dalle parti di Kanazawa, vero? Ma non conosceva nemmeno qualcuno che avesse a che fare con il fratello?»

«Mah, non credo» rispose Teiko.

Al che l’altro si rivolse alla cognata, chiedendole conferma: «La pensa così anche lei?».

«Sì» annuì lei.

«Il signor Sōtarō ha mai soggiornato prima in questa regione, o ci è mai passato durante un viaggio?»

«No. Mio marito diceva che, nel periodo in cui Ken’ichi era a Kanazawa, avrebbe voluto venire a trovarlo, perché era un posto dove non era mai stato. Per cui penso che questa fosse la prima volta.»

«E qualcuno lo accompagnava durante questo viaggio?»

«Non credo. Mi ha detto che andava per lavoro a Kyōto da solo, e che forse sarebbe passato per Kanazawa al ritorno.»

A quel proposito avevano già interpellato i ryokan Itō e Kamei di Kanazawa, dove Sōtarō aveva dormito: era da solo.

«Non vi viene in mente un qualsiasi motivo per il quale il signor Sōtarō potesse suicidarsi?» domandò l’ispettore.

«Assolutamente no! Non ne avrebbe avuto alcun motivo, e niente nel suo atteggiamento o nel suo aspetto facevano pensare a una simile eventualità.»

La cognata aveva scosso con forza il capo.

«Allora qualcosa per cui qualcuno potesse serbargli rancore, oppure odiarlo?»

«Non penso. Mio marito era un tipo simpatico e non credo avesse nemici. Poi suppongo che me l’avrebbe detto, se ne avesse avuti.»

L’ispettore le ringraziò e concluse l’interrogatorio. Quindi, dato che era già stata portata a termine l’autopsia, diede il permesso di cremare il corpo.

«Sulla bottiglina di whisky» fu Teiko, questa volta, a porre la domanda «non avete rilevato impronte digitali?»

«Solo quelle del signor Sōtarō» rispose l’ispettore. Poi, però, aggiunse un commento poco chiaro: «Se su quella bottiglia ci fossero state le impronte della donna, ci sarebbe stato utile».

«Le impronte della donna?»

Sia Teiko che la cognata d’istinto fissarono l’ispettore in volto.

«Ecco, non vi avevo detto niente, ma era mia intenzione farvi qualche domanda in proposito: in realtà è saltata fuori la testimonianza di qualcuno che ha visto una signora andare a Tsurugi insieme al signor Sōtarō.»

Parlava in tono tranquillo, ma i suoi occhi osservavano le due interlocutrici con attenzione.

La cognata tratteneva il fiato.

«Il testimone» riprese il poliziotto «viaggiava su quel treno delle Ferrovie dello Hokuriku tra Kanazawa e Tsurugi e, a quanto dice, quando è sceso alla stazione di Tsurugi, intorno alle sei del pomeriggio del venti, ha visto un uomo che poteva essere proprio il signor Sōtarō scendere dallo stesso treno in compagnia di una giovane donna e dirigersi verso il Kanōya.»

«Una giovane donna?» chiese Teiko di rimando.

«Sì. L’ha guardata un momento: aveva ventitré o ventiquattro anni, era abbigliata con colori vivaci e portava un foulard sul capo. Qui sono stati annotati altri particolari a proposito dei suoi vestiti» disse l’uomo, tirando fuori un foglio dalla pila di documenti sul tavolo. «Il foulard era rosa pesca, con un disegno a piccoli motivi. Il cappotto di un rosso tendente all’amaranto, chiaro e vivace, infatti sembra che quel colore attirasse molto l’attenzione. Sapete, da queste parti non ci sono molti forestieri, e una persona che viene da fuori si nota subito. Questa donna, poi, stando a quanto ha detto il testimone, aveva un bel viso e la sciarpa verde che spuntava dal colletto del cappotto saltava agli occhi. Il testimone dice che la signora portava una valigia. Questa persona che li ha visti davanti alla stazione ha notato solo l’uomo che sembrava il signor Sōtarō andare verso il Kanōya parlando a bassa voce con questa giovane: alle sei il sole è calato ed è già buio, per cui non sa altro. Perché andava in un’altra direzione rispetto a loro.» L’ispettore continuò: «Poi abbiamo trovato un altro testimone che dice di aver visto quella che parrebbe la stessa donna, circa quaranta minuti dopo, sul treno partito per Terai alle sei e quaranta».

«Terai?»

«Ah, giusto: non lo sapete. Terai è la quinta fermata da Kanazawa in direzione ovest sulla linea principale Hokuriku. Due stazioni dopo c’è Awazu, dove ci sono le terme. Da Tsurugi passa sia una linea per Terai, sia una per Kanazawa: le tre stazioni sono proprio ai vertici di un triangolo.»

L’ispettore fece uno schizzo a matita mentre spiegava, in modo che le due donne potessero capire meglio.

«Ecco, quindi, quanto è accaduto: la ragazza con il cappotto rosso è arrivata in treno a Tsurugi da Kanazawa insieme al signor Sōtarō, il quale è entrato da solo al ryokan Kanōya; la ragazza lo ha lasciato quando erano ancora per strada, ed è salita sul treno per Terai. Stando al testimone, aveva proprio un foulard rosa pesca in testa, era seduta con la valigia sulle ginocchia e guardava distrattamente verso il finestrino.»

A questo punto l’ispettore osservò un po’ Teiko, un po’ la cognata.

«Allora? Avete idea di chi possa essere questa ragazza?»

Entrambe scossero il capo. «Assolutamente nessuna!»

Una donna di ventitré o ventiquattro anni. Una giovane donna dagli abiti sgargianti… Teiko si concentrava su quell’immagine, come se scrutasse nella nebbia.

«Ve lo chiedo di nuovo: non avete assolutamente nessuna idea in proposito?» insistette il poliziotto.

«No» rispose la cognata.

Però aveva un’espressione strana.

«So che non è bello chiederle una cosa del genere» iniziò l’ispettore un po’ imbarazzato, come se avesse compreso cosa provasse la cognata «ma non è possibile che il signor Sōtarō avesse una relazione con un’altra donna a sua insaputa?»

«Penso di poter affermare con sicurezza che non è possibile» rispose la cognata in modo categorico. «Mio marito era un uomo molto affidabile da quel punto di vista, non è mai accaduta una cosa del genere da quando ci siamo sposati.»

«Capisco» disse il poliziotto. Poi si scusò e aggiunse: «No, nemmeno noi pensiamo che questa ragazza avesse un rapporto particolare con suo marito. Perché è comparsa all’improvviso in occasione del viaggio a Tsurugi. Abbiamo indagato a fondo sul soggiorno di suo marito a Kanazawa, e lei non si era mai vista lì. Di conseguenza, il suo unico ruolo è stato di accompagnare il signor Sōtarō a Tsurugi. E poi è tornata subito non a Kanazawa, ma a Terai».

L’ispettore tirò fuori per la prima volta una sigaretta e l’accese.

«Non v’è dubbio che ci sia una stretta correlazione tra quella donna e l’avvelenamento di suo marito. In questo momento stiamo indagando dalle parti di Terai e ne sapremo presto qualcosa: sia che abbia cambiato treno a Terai per andare verso Fukui, sia che abbia proseguito scendendo ad Awazu, una donna vestita in quel modo non può essere passata inosservata.»

Subito dopo, l’ispettore si rivolse a Teiko.

«Voglio intensificare le indagini sulla scomparsa di suo marito. Il viaggio del signor Sōtarō qui a Kanazawa in cerca del fratello è alla base di questo caso: possiamo pensare che le due cose siano strettamente connesse tra loro» affermò sgranando gli occhi.

La scomparsa di Uhara Ken’ichi era stata considerata fino a quel momento come una semplice fuga, ma ora le cose cambiavano. La sua sparizione doveva per forza avere un legame con l’omicidio del fratello. Non era più un semplice fuggitivo: tutta la storia ora sapeva chiaramente di delitto.

L’ispettore non l’aveva detto a parole ma, a giudicare dalla sua espressione, nutriva seri dubbi sulla scomparsa di Ken’ichi.

«Mi dispiace doverglielo chiedere in un momento come questo,» disse l’uomo rivolgendosi a Teiko «ma potrebbe spiegarmi nei particolari le circostanze della scomparsa di suo marito? A breve arriverà il viceispettore che ha svolto le ricerche sulla base della sua denuncia, e vorrei approfondire il lavoro d’indagine.»

«Certo» disse Teiko. «Anzi, gliene sono grata. A tal proposito, c’è un collega di mio marito che, in ansia per lui, lo sta cercando: vorrei che sentisse anche quello che ha da dire quest’uomo.»

«Di chi si tratta?»

«Si chiama Honda Yoshio ed è il successore di mio marito.»

«Lo ascolterò senza dubbio: può essere solo un bene per noi!»

«A dire il vero, è già qui in questura.»

«Cosa? Dove?»

«All’accoglienza, in attesa che finiamo di parlare con lei.»

«Bene, lo faccio chiamare subito.»

La sera successiva, sua cognata salì sul treno per Tōkyō, portando con sé le ceneri del marito.

Teiko e Honda erano sulla banchina per salutarla. Attraverso il finestrino della carrozza di seconda speciale,1 il suo volto appariva pallido e inespressivo, come se fosse stordita.

«Al più presto, appena la polizia mi dice che non ha più bisogno di parlare con me, torno anch’io a Tōkyō» disse Teiko alla cognata, prendendole la mano. Sussultò nel sentirla umida e fredda e rendendosi conto che era bagnata delle lacrime che la cognata non asciugava.

Un po’ più in là sulla banchina, un gruppo di una decina di vivaci signore stava scortando un passeggero del vagone letto. Anche dal loro costoso abbigliamento si capiva che provenivano tutte da famiglie agiate. Il passeggero che accompagnavano aspettava davanti alla porta dello scompartimento che il treno si muovesse. Era un signore anziano dai bei capelli bianchi, con un sorriso stampato sul volto rubizzo. Riunite a semicerchio davanti a lui, le signore chiacchieravano e ridevano con discrezione. Quelli che parevano i flash di giornalisti illuminavano a ripetizione il volto dell’uomo.

Attratto da quei lampi, Honda stava guardando il gruppo delle donne, quando si lasciò sfuggire, a bassa voce: «Ehi!».

2

Quando, in piedi accanto a lei sulla banchina, Honda si lasciò sfuggire quell’esclamazione mentre guardava il gruppo di signore raccolte davanti al vagone letto, anche Teiko rivolse loro l’attenzione.

Avevano dai trenta ai quarant’anni, alcune erano abbigliate in abiti occidentali, altre in kimono, ma tutte elegantissime. L’atmosfera di lusso che le circondava le identificava come “notabili”, come si dice, della regione.

«Signora» la richiamò Honda a bassa voce. «C’è anche la signora Murota!»

La signora Murota… Ah! La moglie del presidente della fabbrica di mattoni refrattari. Teiko capì subito di chi parlasse. Pochi giorni prima erano andati a farle visita.

La cercò con lo sguardo.

«Non la vede? È proprio lì davanti a quel signore» disse Honda indicandogliela.

Allora Teiko se ne accorse: il gentiluomo dai capelli bianchi era tutto sorridente, in piedi davanti alla porta del vagone letto; le signore che lo accompagnavano erano disposte a semicerchio intorno a lui e, più o meno a metà del semicerchio, Teiko riconobbe il profilo della signora Murota.

La sua figura era alta e slanciata, ed era bella la linea disegnata dal profilo del suo viso allungato, con il naso dritto e sottile. Altrettanto bello era il sorriso che rivolgeva all’uomo.

Pensando di andare dopo a salutarla, Teiko tornò a rivolgere lo sguardo alla cognata. Incorniciato dal finestrino del treno, il suo viso appariva desolato, con gli occhi gonfi e arrossati.

«Ce la farai, cara?» le domandò scrutandola attraverso il vetro. «Io torno tra poco. So che ti sentirai sola, ma cerca di tenere duro, ti prego.»

La cognata annuiva in silenzio. Stringeva ancora sulle ginocchia l’involto bianco dalla forma quadrangolare. Lei, così allegra di carattere, era talmente abbattuta da non riuscire a parlare.

Suonò il segnale che annunciava la partenza.

Teiko strinse la mano della cognata. Avevano in comune il dolore di aver perso il marito, e il contatto di quella mano tiepida glielo trasmise. La cognata scoppiò in un pianto violento. Le persone sedute nei posti vicini le rivolsero sguardi indiscreti.

Si udì un applauso: era partito dalle signore raccolte davanti alla carrozza letto. Il treno si mosse.

«Vieni a casa presto, Teiko!»

Furono le uniche parole che la cognata disse, all’ultimo momento, prima che il treno portasse via il suo volto in lacrime. E quando quel volto fu divenuto minuscolo, all’improvviso comparve il viso allegro del vecchio al finestrino.

Sorridendo, l’uomo agitava appena la mano. Pareva proprio che salutasse lei. Mentre si allontanava, non smetteva di agitare la mano. Teiko non sapeva più dove fosse la cognata.

Quando si girò, le signore di buona famiglia stavano ancora lì con le mani sollevate. Avevano tutte visi allegri e sorridenti, ma il cerchio che formavano era per metà rotto.

Honda si era affrettato a raggiungerle. Una delle signore che avevano iniziato a sciamare via si fermò all’improvviso, per rispondere al suo saluto. Il kimono a fondo nero le stava molto bene.

Sentendo la voce di Honda, la signora Murota si era girata, volgendo il viso dall’incarnato pallido proprio verso Teiko, che si vide costretta a muoversi dal punto in cui era ferma a osservare la scena.

«Buonasera!»

La signora le si rivolse per prima. Le luci dei lampioni sulla banchina creavano complessi giochi di ombre che facevano risaltare il suo sorriso.

«Grazie per l’altro giorno» le rispose Teiko con gentilezza, quando le fu davanti.

«Ma no, e di cosa?» sorrise la signora. «Avete accompagnato qualcuno?»

A quanto pareva, non sapeva ancora nulla.

«Ecco, in effetti…»

L’ultima sillaba delle parole di Teiko si spense vaga, e la signora proseguì allegramente: «Anch’io sono venuta con le altre a salutare qualcuno: il maestro Mita, il poeta di tanka. Lo conoscerà, credo!».

Le tornò in mente il volto del vecchio dai capelli bianchi che agitava la mano dal finestrino. Era un’autorità nella corrente Araragi2 ed era spesso presente su giornali e rotocalchi.

«Si trovava a Kyōto e noi l’abbiamo invitato a Kanazawa. Ieri gli abbiamo fatto da guida nella penisola di Noto. Oggi abbiamo tenuto una kermesse di poesia fino all’ora di cena!»

La donna pronunciava le parole con chiarezza, lentamente e con un accento dolce.

Dietro di lei, due o tre signore di mezza età erano ferme in piedi, evidentemente in attesa che finisse di parlare. Perciò Teiko non volle trattenerla oltre.

«Mi scusi per averla disturbata. Allora, con permesso…» disse inchinandosi.

A queste parole la signora Murota aggrottò la fronte, fino a quel momento serena. «Oh, ma che peccato! Le vorrei parlare di tante cose!»

Pure lei si preoccupava delle amiche che l’aspettavano. Teiko immaginò che, se desiderava parlarle, era sicuramente a proposito di Ken’ichi. Era probabile che, a modo suo, pure lei fosse in pensiero.

«Anche mio marito è in apprensione! Non si sa ancora niente?» chiese a bassa voce.

«Non ancora! Ho chiesto anche l’aiuto della polizia.»

La signora Murota non sembrava al corrente della morte del cognato. Magari l’aveva letto sui giornali, ma non si era resa conto del legame con la scomparsa di Uhara Ken’ichi. Non era però una cosa che Teiko poteva dirle così, mentre conversavano in piedi sulla banchina, e poi non le si presentò l’occasione.

«Che guaio! Sarà terribilmente in ansia!»

Il volto della signora si era rannuvolato.

Honda, che stava scambiando convenevoli con le gentildonne in attesa alle spalle della signora Murota, si riavvicinò in quel momento.

«Ah, signor Honda!» disse la signora Murota. «Domani, nel pomeriggio, andrò in ufficio da mio marito. Intorno alle due. Lei e la signora potreste venire! Vi va?»

«Oh, è gentile…» Honda si inchinò brevemente.

«Anche mio marito è preoccupato. È un’occasione per vederci, così potrete raccontarci cos’è successo dopo.»

«Grazie.»

Honda lanciò un rapido sguardo verso Teiko: le chiedeva con gli occhi cosa intendesse fare.

«Se non disturbiamo,» disse Teiko, lieta della benevolenza dei Murota «veniamo volentieri.»

«Ah, che bello!» esclamò la signora con il sorriso di nuovo sulle labbra. «Allora siamo intesi! Dove ci potremmo incontrare, signor Honda?»

«Direttamente lì?»

«Potrebbe anche andar bene, ma ho delle spese da fare, prima di passare da mio marito, e non vorrei mi prendessero tempo.» La signora parve rifletterci un po’. Quindi disse: «In tal caso, scusatemi, ma vi proporrei di vederci nella caffetteria dei grandi magazzini XX. Alle due in punto…».

«Va bene, certo» rispose Teiko.

«Perdonatemi se vi chiedo di venire incontro alle mie esigenze» si scusò la signora con gentilezza nel salutarli. «Allora a domani. Arrivederci!»

«Arrivederci» dissero Honda e Teiko inchinandosi allo stesso tempo.

La signora Murota accennò un inchino alle amiche che la stavano aspettando a mo’ di scusa per il suo ritardo, poi si allontanò dalla banchina con loro.

«Quelle signore» spiegò Honda a Teiko «sono tutte mogli di notabili di Kanazawa: una è la moglie del capo della camera di commercio; una del vicesindaco; l’altra del direttore dell’ospedale.»

Le quattro donne stavano scendendo le scale della banchina. La figura slanciata della signora Murota spiccava anche in quel gruppo.

«Pare che sia lei a guidare quel circolo di signore dell’alta società. Mi hanno detto che anche la kermesse poetica è stata organizzata su sua iniziativa» disse Honda, mentre camminavano.

A Teiko quelle donne parvero creature di un altro mondo, molto distante dal suo.

3

Alle due in punto, quando Teiko arrivò alla caffetteria dei grandi magazzini, Honda era già lì in attesa.

«Grazie per ieri sera» la accolse, alzandosi dalla sedia.

«Al contrario. Sono io che la ringrazio per essere venuto apposta.»

Gli era grata perché era andato con lei ad accompagnare sua cognata, ma anche per la gentilezza con cui si impegnava in quella storia, trascurando il suo lavoro. Perché era vero che si trattava di una sciagura capitata a un suo collega, e che lo faceva anche a nome della ditta, ma le sue premurose attenzioni non erano così scontate.

«È molto che aspetta?»

«No, sono appena arrivato.»

Però nella sua tazza era rimasto solo un terzo di caffè, e una sigaretta ridotta in cenere bianca era schiacciata nel posacenere.

Un cameriere venne a prendere l’ordinazione. Ma, proprio quando stava per chiedere qualcosa a Honda, Teiko vide la signora Murota avvicinarsi alle sue spalle.

Teiko e Honda si alzarono.

«Buongiorno!»

Quel pomeriggio la signora indossava un kimono diverso, di un sobrio tessuto di Shiozawa. Sia il vistoso kimono formale del giorno prima, sia questo più discreto le stavano bene.

«Aspettate da molto?» La signora guardò il suo piccolo orologio da polso.

«No, anch’io sono appena arrivata» rispose Teiko, che l’aveva salutata e stava per indicarle una sedia, ma l’altra, con l’aria di aver fretta, disse: «Bene. Scusatemi, ma andiamo subito. Un tè ve lo posso offrire anche lì. Così avremo il tempo per parlare un po’ con mio marito».

«Come preferisce. Allora…» fece Honda afferrando il conto posato sul tavolino.

Appena usciti dai grandi magazzini, la signora si fermò.

«Sono venuta in auto» disse agli altri due.

In quel momento, uno straniero che stava vagando dalle parti dell’ingresso, visto Honda, gli si avvicinò e iniziò a parlargli. Si esprimeva senza dubbio in inglese, ma a una tale velocità che Honda, con espressione imbarazzata, scosse il capo per fargli intendere che non lo capiva.

Teiko, invece, aveva capito.

Allora si intromise, e lo stranierò posò gli occhi azzurri su di lei e parlò di nuovo rapidamente.

Teiko rispose, l’americano annuì più volte, ringraziò e si allontanò dall’altro lato della strada. Durante lo scambio Honda era rimasto in piedi al loro fianco, sorridendo e guardando con aria vaga in faccia prima Teiko, poi lo straniero e infine la signora Murota.

«È brava in inglese! Per me è arabo!» si complimentò la signora.

«No, il mio inglese è terribile. Ma quando ero ancora a scuola lo studiavo con piacere.»

Teiko arrossì.

«Cosa diceva quell’uomo?» domandò Honda, un po’ a disagio.

«Chiedeva se non ci fosse un aereo da Kanazawa a Tōkyō. Mi pareva di aver sentito che in inverno non ce ne sono, e gliel’ho detto. Ma, visto che non ne ero certa, l’ho indirizzato a un’agenzia di viaggi.»

«Ah, è di questo che si trattava? Non riesco a cogliere una parola! È da quando ero studente che la comprensione è il mio punto debole.»

Honda aveva parlato con un sorrisetto di autocommiserazione sulle labbra, ma poi vide l’espressione della signora Murota e si diede un contegno.

«L’automobile è arrivata» disse lei, indicando la vettura.

Una macchina straniera con lo spoiler posteriore scivolò sull’asfalto fino a fermarsi davanti a loro. L’autista scese fulmineo e aprì solerte la portiera.

«Prego» li esortò la signora.

Teiko accettò docilmente l’invito. Sebbene Honda si fosse accomodato tra le due donne, in quell’automobile non avevano affatto la sensazione di stare stretti.

L’auto stava seguendo la strada percorsa dal tram e, dopo aver percorso un tratto in pendenza, in meno di dieci minuti arrivò davanti a un edificio bianco a tre piani: la sede centrale della Murota Mattoni Refrattari S.p.A.

Dall’esterno sembrava una palazzina piuttosto piccola, circondata da alberi. Era costruita da poco (e quindi la struttura era moderna). Era la seconda volta che la vedevano, eppure Teiko non poté evitare di dire alla signora: «Oh, è proprio bella!».

«Ma no, è piccola» rispose l’altra. Poi, rivolta all’autista disse: «Aspetti qui, così dopo potrà riaccompagnare i nostri ospiti».

All’ingresso, sulla destra, c’era la portineria, dove sedeva un’impiegata da sola. Quando vide la signora Murota, che era entrata per prima facendo strada agli altri, si alzò e si inchinò. Era il suo saluto alla moglie del presidente.

La signora fece un cenno del capo, ma poi, come se le fosse d’improvviso venuto in mente qualcosa, si diresse verso di lei.

«Mi sembra che stia bene, vero?» chiese, sorridente.

«Sì, la ringrazio» rispose l’impiegata, con gentilezza.

«Bene. Piano piano si è abituata al lavoro?»

«Sì. Sono tutti sempre così gentili!»

Mentre rispondeva alla signora, l’impiegata aveva rivolto un inchino agli ospiti alle sue spalle, e per un po’ si era soffermata a guardare Teiko.

Pur sedendo in portineria, come un’impiegata alle prime armi, doveva avere sui trent’anni. Aveva un viso magro, ma piuttosto grazioso, e occhi tondi e grandi.

Detto questo, Teiko non capiva perché la donna la fissasse. Forse si era incuriosita, sentendo che era un’ospite della signora.

«Bene» questa. «Mi raccomando: in gamba!»

«Sì, grazie!»

Da oltre la finestra della portineria, la donna salutò la signora e, subito dopo, fece un inchino ai suoi ospiti. Anche allora, lanciò un’occhiata a Teiko.

Dal loro scambio di pochi istanti prima, era chiaro che quell’addetta all’accoglienza era stata appena assunta nella ditta. Questo Teiko l’aveva capito da sola. Ma mentre salivano le scale, la signora Murota spiegò: «Il marito dell’impiegata che avete appena conosciuto lavorava nella nostra fabbrica ed è venuto a mancare di recente. Mio marito mi ha detto che ha assunto anche lei, per compassione».

«Ah, davvero?» commentò Honda, con aria ammirata. «Generoso da parte sua!»

… A Teiko parve di toccare con mano la durezza della situazione di una vedova. E pensò a sua cognata, che quella mattina era a Tōkyō, probabilmente in lacrime.

4

Murota Gisaku, presidente della Murota Mattoni Refrattari, accolse nel suo ufficio Teiko e Honda come ospiti.

«Benvenuti.»

Andò incontro a Teiko con la stessa tranquilla affabilità che le aveva mostrato la volta precedente. Era un uomo alto. I capelli sulle tempie erano sale e pepe, però il volto aveva un bel colorito. Sotto gli occhi la pelle aveva un po’ ceduto in un accenno di borse, ma era un particolare che aumentava l’impressione di pacatezza che già trasmetteva.

«Vi aspettavo: mia moglie mi ha avvertito ieri» disse, rivolgendo uno sguardo gentile alla signora Murota, che era entrata al loro seguito.

«Li ho costretti a venire!» precisò quest’ultima al marito, mentre avanzava verso le poltroncine per gli ospiti. «Prego.»

Rivolgendosi con un sorriso a Teiko, le indicò una seduta posta sotto la cornice di un dipinto a olio.

Dopo aver salutato con cortesia il signor Murota, Teiko si accomodò dove le veniva indicato. Honda prese posto al suo fianco e il signor Murota davanti a lei, mentre la signora restò in piedi dietro il marito, sempre sorridendo. La sua figura slanciata era bella.

«Perché non ti siedi anche tu?»

Il signor Murota guardava la moglie da sotto in su, con la testa girata verso di lei. Il suo profilo era gentile come le sue parole.

«Subito» rispose lei, prima di uscire dalla stanza.

Perché, poco dopo, tornò con un’impiegata per servire caffè e pasticcini.

«Non ho molto da offrirvi, mi spiace.»

Sorridendo, distribuì personalmente agli ospiti le tazze che l’impiegata le porgeva. Mentre era accovacciata davanti al tavolino, il suo profilo era così bello che Teiko ne era incantata.

Stava distribuendo anche la frutta nei piattini di ciascuno.

«Veloce!» le disse il marito. «Non possiamo parlare, finché tu non ti siedi.»

Si capiva anche dal suo sguardo e dalle parole che le rivolgeva che il signor Murota amava sua moglie.

«Sì, sì.»

Ridendo, la signora si sedette sulla poltroncina accanto al marito. I due andavano d’accordo. Lì al suo fianco il marito aveva un’espressione felice. Teiko provò invidia. Fu l’immagine di sua cognata, più che la propria, a venirle in mente. Quella era stata un’altra coppia felice. Dall’istante della morte del marito, lei era stata gettata, come fosse un sassolino, in una valle di lacrime…

«Ho saputo che non si hanno ancora notizie di Uhara, vero?» chiese il signor Murota scrutando Teiko. Doveva averglielo detto la moglie la sera prima. Anche questa aveva smesso di sorridere e la guardava.

«Sì, non si riesce a venirne a capo» rispose lei, dopo un breve inchino.

«Certo che è passato un bel po’ di tempo!» Il signor Murota abbassò lo sguardo e sorseggiò il caffè. «Ma siamo sicuri che la polizia lo stia cercando sul serio?» disse, e guardò Teiko.

Lei abbassò gli occhi.

«Presidente» intervenne Honda, seduto al suo fianco.

«Sì?» rispose l’altro, voltando lo sguardo su di lui.

«A questo proposito, in realtà è accaduta una cosa terribile» continuò Honda, con un tono grave nella voce.

«Una cosa terribile?!» replicarono insieme moglie e marito, fissando su di lui uno sguardo intenso.

«In effetti, il fratello del signor Uhara è venuto a mancare in un modo orribile.»

«Ah!»

Era stata la moglie a lasciarsi sfuggire l’esclamazione.

«Ma allora quell’articolo di giornale…» disse, sbarrando gli occhi, e fissando a turno Honda e Teiko.

«Oh, l’ha letto?» chiese Honda.

«Sì, l’ho letto» confermò. Poi si girò di scatto verso il marito. «Hai visto, caro? Era proprio così.»

Il signor Murota aveva un’espressione sorpresa ma, alle parole della moglie, annuì con un quasi impercettibile «Mmh».

«A dire il vero, quando ho visto quell’articolo ne ho parlato solo con mio marito, senza accennarne ad altri: ero preoccupata. Perché dicevano che la vittima si chiamava Uhara, no? E si tratta di un cognome insolito» osservò, agitata, rivolgendosi a Honda e Teiko. «Tanto che stavo quasi per telefonarle e domandarglielo, signor Honda. Però, data la natura della questione, così particolare, non me la sono sentita, anche se non riuscivo a non pensarci.»

«Non so come esprimerle il mio rammarico per questo susseguirsi di dolorose sfortune» disse il signor Murota con gentilezza a Teiko, alzandosi dalla sedia.

«Davvero, deve essere terribile! Non trovo le parole. Voglia accettare le mie più sentite condoglianze.» La fronte aggrottata, la signora le aveva espresso con calore la propria vicinanza.

«Vi sono grata. Anche a nome di mia cognata.»

Teiko si era alzata e aveva fatto un inchino.

«Oh, la prego, stia comoda!» disse il signor Murota, con un gesto della mano che pareva spingerla di nuovo a sedere. «E come stanno andando le cose? Dai giornali ci siamo fatti un’idea dell’accaduto, però non sappiamo quali indizi siano stati raccolti sull’assassino» disse, questa volta rivolto a Honda. Doveva aver pensato che, per Teiko, rispondere potesse essere penoso.

«Su quello neppure la polizia sembra avere ancora alcuna idea» rispose Honda.

«Se ricordo bene, dicevano che era morto a Tsurugi. Qualche incombenza l’aveva portato da quelle parti?» chiese la signora Murota.

«Sì, ma per spiegare il perché devo prima chiarire» intervenne Teiko alzando lo sguardo «che in realtà mio cognato era venuto a cercare Ken’ichi.»

«Suo marito?» Il presidente Murota aveva sollevato il volto sorpreso, ma poi aveva subito annuito. «Certo, erano fratelli! E aveva trovato qualche indizio a Tsurugi?»

«Non sappiamo. Però pensiamo che avesse scoperto qualcosa a Kanazawa.»

Si riferiva all’indagine nelle lavanderie svolta dal cognato e, alla successiva domanda di Murota, gliene parlò. Marito e moglie si guardarono con espressione sorpresa.

«Allora il signor Sōtarō era andato a Tsurugi perché aveva trovato un indizio?» chiese il presidente Murota.

«Si può supporre sia così. Ma non ne ho parlato direttamente con mio cognato, per cui non saprei dire» rispose Teiko.

Al che la signora, come se le fosse appena venuto in mente, fece: «Ah, ora che ci penso, sul giornale dicevano che è morto bevendo del whisky avvelenato in un albergo e che ha avuto la bottiglia da qualcuno. E anche che sembrava stesse aspettando una persona, lì in albergo».

«Esatto.» Fu Honda a prendere la parola per rispondere. «La polizia ha scoperto che una persona lo accompagnava: hanno trovato delle testimonianze in proposito. Dicono che ci fosse una giovane donna con un foulard rosa pesca e un cappotto rosso insieme a lui sul treno delle Ferrovie dello Hokuriku che viaggiava da Kanazawa verso Tsurugi.»

«Un foulard rosa pesca e un cappotto rosso… un abbigliamento piuttosto vistoso!» disse la signora, come se si stesse figurando quegli abiti.

«In effetti. Mi ricorda il modo in cui vestivano certe ragazze che un tempo anche a Tōkyō mi capitava di veder accompagnarsi ai soldati americani la sera» osservò Honda in tono noncurante.

Teiko, però, sussultò: per un istante le ricomparvero davanti agli occhi le vie di Tachikawa.

«Chi potrebbe essere questa signora?»

«Non si sa. Per il momento non sappiamo nemmeno se avesse un qualsiasi rapporto con uno dei fratelli, e neppure se sia stata lei a dare il whisky avvelenato alla vittima.»

«E la persona che il signor Sōtarō aspettava nel ryokan di Tsurugi?»

«Anche qui, non sappiamo se fosse quella donna, o il fratello, o qualcun altro. In ogni caso, abbiamo un altro testimone che ha visto la donna sul treno diretto da Tsurugi a Terai.»

«Ah, allora sarebbe andata a Tsurugi con il signor Sōtarō da Kanazawa, ma al ritorno sarebbe salita sul treno per Terai…» disse la signora fissando il vuoto, come immersa nelle sue elucubrazioni.

«Non è chiaro se fosse insieme a lui o no, ma, se era con lui, sarebbe andata proprio così» disse Honda.

«Che strana storia!» commentò la signora, con un sospiro.

«Allora, se il signor Sōtarō è incorso in questa sciagura inattesa per essere venuto a cercare il fratello…» disse il signor Murota «vuol dire che il caso ha a che fare con la scomparsa di quest’ultimo, no?»

«È quello che pensa la polizia. E secondo gli investigatori è una strana coincidenza che non si sappia dove si trovi Ken’ichi» disse Teiko a occhi bassi.

«Questo poi no!» esclamò il signor Murota. «Vorrebbe dire che lo sospettano di essere implicato nella morte del fratello: sarebbe un errore da parte loro!»

«Chissà perché la polizia guarda tutti con sospetto!» rincarò la signora con aria arrabbiata.

«Be’, è il loro mestiere» osservò il marito, mentre prendeva le sigarette sul tavolino. «Piuttosto, cosa cercava il signor Sōtarō nelle lavanderie di Kanazawa?»

Il signor Murota aveva un’espressione perplessa.

«Infatti: cosa cercava?» fece eco la signora, inclinando anche lei il capo con aria dubbiosa e guardando il marito in volto.

«Avrei dovuto contattare mio cognato e chiederglielo» fece Teiko. «È stato un errore da parte mia.»

In realtà, il cognato si era mosso da solo, di nascosto da Teiko, e le sue azioni erano avvolte nel mistero. Però non era una cosa da raccontare a degli estranei come i Murota.

«Ma no! È stata una sfortuna!» la consolò il signor Murota, sorridendo. Il sole entrava dalla finestra, colpendo le spalle dell’uomo coi suoi raggi luminosi.

Squillò il telefono.

La signora si alzò, andò alla scrivania e sollevò il ricevitore.

«Sì, è l’ufficio del presidente» disse con la cornetta all’orecchio. «Ah, capisco.» Allontanò la cornetta e si rivolse al marito: «Caro, c’è il signor Wilkinson all’ingresso».

Il presidente Murota spense la sigaretta con espressione seccata.

«Di nuovo?» borbottò. Si diede qualche colpetto sul collo con una mano.

«Di che si tratta?» La signora copriva il ricevitore con il palmo.

«Eh, vuole che gli trovi delle porcellane Kokutani. Al giorno d’oggi delle buone Kokutani non si trovano facilmente. Ma lui insiste!»

Evidentemente non era un ospite che ci tenesse a incontrare.

«Dico che sei impegnato?» chiese la moglie da dove si trovava.

«No, meglio che lo riceva. Per forza. Però chiedi di farlo attendere un po’ all’ingresso.»

«Va bene.» La signora parlò di nuovo nella cornetta: «Chieda al signor Wilkinson di attendere, per favore».

Teiko e Honda capirono che era il momento di accomiatarsi.

«Perdonateci per esserci trattenuti così a lungo, quando avete tante altre cose da fare! Grazie di tutto.»

Teiko si alzò e rivolse un inchino ai Murota.

«Andate? Per carità, vi abbiamo solo ascoltato, senza potervi essere di nessun aiuto.»

Il signor Murota si mise in piedi lentamente, facendo forza sui braccioli della poltroncina.

«Sì, invece!»

«E comunque non si demoralizzi troppo» disse con gentilezza la signora, affiancandosi a Teiko «Sono certa che presto si chiarirà tutto. Si faccia coraggio.»

«Grazie.»

«Scusi» il signor Murota chiamò Honda e gli parlò a bassa voce.

Doveva trattarsi di lavoro, perché Honda abbassò il capo in un inchino e prese appunti su un taccuino.

«Allora vi saluto qui» fece il signor Murota inchinandosi, sulla porta dell’ufficio.

«Io vi accompagno all’uscita, invece.»

«Sì, cara, grazie» disse lui.

«La prego di non disturbarsi» si oppose Teiko.

«Si figuri! È qui sotto.»

La signora sorrise e li seguì.

Scese le scale, si trovarono davanti alla portineria. Uno straniero di alta statura chiacchierava, piegato sulla finestrella del gabbiotto, con la donna dal viso magro e grazioso che la signora Murota aveva spiegato essere vedova. Lei continuava a scambiare battute con lo straniero, senza rendersi conto, evidentemente, che i tre erano scesi.

Il loro breve dialogo arrivò alle orecchie di Teiko, che rimase sorpresa sentendoli parlare inglese.

Finalmente la donna della portineria si accorse di loro e si affrettò a salutarli con un inchino. Anche lo straniero si voltò. Aveva ancora un sorriso allegro: certo doveva essere stata la chiacchierata a lasciarglielo sulle labbra.

Teiko osservò la donna: il suo viso era grazioso, ma restava quello di una trentenne. Anche l’altra fissò gli occhi su Teiko, più che sulla signora Murota. Sentì il suo sguardo sulla schiena.

«Vi prego di usare la nostra macchina.»

La signora indicò l’automobile in attesa. Il suo sorriso era radioso.

Appena arrivati in una zona commerciale, rimandarono indietro la vettura. Su richiesta di Teiko, erano scesi davanti a una caffetteria.

Come pareva essere l’uso della regione, nella vetrina sulla strada la caffetteria esponeva grandi piatti, leoni cinesi e altri oggetti di porcellana Kutani. Erano pezzi che saltavano subito agli occhi, per il vermiglio e la polvere d’oro delle decorazioni.

«Di che si tratta?»

Dall’altra parte del tavolino, Honda aveva un’espressione un po’ tesa, perché Teiko gli aveva annunciato di avere qualcosa di piuttosto importante di cui parlargli.

«Come sa, pochi giorni fa sono tornata a Tōkyō.»

«Sì.»

«Ne ho approfittato per andare a Tachikawa.»

«Tachikawa?»

Lo sguardo di Honda richiedeva spiegazioni.

«Non gliene ho ancora parlato, ma ho raccolto informazioni su cosa facesse Ken’ichi prima di entrare nella A.»

«Oh!» Honda sgranò gli occhi. «Io non ne so niente. Cosa faceva?»

Doveva aver compreso che il mestiere di Uhara aveva a che fare con l’accaduto, perché il suo sguardo brillava d’interesse.

«Ken’ichi era un agente di polizia.»

«Come?! Non ne avevo idea!» Sembrava davvero sorpreso. «Di che periodo parliamo?»

«Intorno al 1950.»

«Mmh… negli anni ruggenti dell’occupazione.»

«Sì. Ed era nella buoncostume.»

«La buoncostume?» Honda la fissava. «Quindi doveva tenere sotto controllo le donne che andavano con i militari americani, eh?»

«Esatto! Un suo collega dell’epoca, con cui ho parlato al commissariato di Tachikawa, me lo ha confermato.»

Honda rimase in silenzio per alcuni istanti.

«E questo ha a che fare con quanto è accaduto adesso?» chiese calmo.

«Non so se i fatti dell’epoca del commissariato di Tachikawa abbiano un collegamento diretto con l’accaduto, ma…» Teiko parlava con uno sguardo pensieroso. «… ho la sensazione che ci sia un nesso. Anche se è solo un vago presentimento…»

Honda annuì brevemente.

«Potrebbe anche darsi che io sia rimasta fin troppo colpita dalla mia puntata a Tachikawa. C’è una bella differenza tra vedere di persona un posto e non vederlo: magari mi faccio condizionare dall’impressione particolare che quella cittadina mi ha fatto.»

«Posso capirlo» rispose Honda.

«Lei ha visto, poco fa, la signora nella portineria dell’impresa del signor Murota, vero?»

«Sì. Quella che, a detta della signora Murota, è la vedova di un loro dipendente, giusto?»

Honda la guardava come per chiederle cosa c’entrasse.

«Sì. Quella donna sulla trentina. Ha visto che, mentre noi ce ne stavamo andando, parlava con quel signore americano?»

«Esatto. Sembrava parlar bene l’inglese. Ora che mi ci fa pensare, anche lei lo parla bene!» disse lui, ricordandosi, evidentemente, di quando Teiko aveva dato le informazioni allo straniero per strada.

«Il mio è un’inglese scolastico, incerto» rispose lei. «L’inglese di quell’impiegata è imparato sul campo. Anche se ho sentito solo un breve scambio.»

«Ah, quindi quella signora potrebbe essere stata in America?»

«No, non è quel tipo di inglese. È un inglese americano imparato con la pratica, frequentando i militari americani qui in Giappone.»

Era un americano anomalo parlato con uno strano misto di immaturità e competenza, padroneggiando senza difficoltà un vocabolario gergale.

«Ho capito» disse Honda sgranando gli occhi. «È la lingua usata da quelle ragazze, l’americano delle pan pan

«È quello che penso anch’io» disse Teiko, arrossendo lievemente. «Ho avuto una strana sensazione. All’epoca dell’occupazione, c’erano molte di quelle ragazze a Tachikawa. E visto che non riesco a togliermi dalla testa il periodo che Ken’ichi ha trascorso lì, la coincidenza mi ha colpita.»

«Mmh.» Honda incrociò le braccia. «In effetti è piuttosto interessante.»

«Certo, non so se quanto accaduto in questi giorni abbia un qualche nesso con il periodo di Ken’ichi a Tachikawa, e l’impiegata della Murota potrebbe non avere una storia del genere alle spalle. Anche se l’avesse, poi, magari non a Tachikawa, visto che di ragazze che andavano con i soldati americani ce n’erano un po’ ovunque in Giappone.»

«Anche questo è vero, ma…» Honda si sporse un po’ in avanti «… basta qualche ricerca per saperlo. Se non è come pensa lei, finisce lì. Mi informo sull’impiegata?» Gli brillavano gli occhi. «A pensarci, anche la ragazza che pareva accompagnare il signor Sōtarō sul treno delle Ferrovie dello Hokuriku, con quel foulard rosa pesca e quel cappotto rosso, mi ha fatto pensare a una pan pan. Forse non è una semplice coincidenza come dice lei!»

Quella sera Teiko era già sotto le coperte, nel ryokan, quando le arrivò la telefonata di Honda.

“A quest’ora!” si disse, e guardò l’orologio: era quasi mezzanotte.

«Ormai è tardi per venire a trovarla» disse la voce di Honda nella cornetta. C’era un certo fervore nel suo tono. «Si tratta della donna della portineria di cui abbiamo parlato: sono sul punto di scoprire qualcosa di interessante su di lei.»

«Davvero?»

Stava per chiedergli cosa, ma lui aggiunse: «Le darò più particolari domani sera, quando ci vedremo. Non avrò notizie certe prima di domani».

Non disse altro.

Con queste parole, chiuse la telefonata.

1. Negli anni Cinquanta le ferrovie giapponesi apportarono una serie di migliorie ad alcune carrozze di seconda classe, istituendo una classe intermedia tra prima e seconda, lievemente più costosa. (NdT)

2. Gruppo di poeti legati alla rivista «Araragi», pubblicata dal 1908 al 1997. (NdT)


La fuga

1

Teiko si svegliò verso le otto.

La sera prima, quel “sono sul punto di scoprire qualcosa di interessante sulla donna della portineria” che Honda le aveva detto al telefono aveva continuato a girarle in testa, e non era riuscita a prender sonno prima dell’una.

Di cosa si trattava? Nella sua mente, l’americano fluente ma volgare e infarcito di slang dell’impiegata della Murota e la donna tipo pan pan col foulard rosa pesca e il cappotto rosso, che dicevano avesse viaggiato con Sōtarō sul treno delle Ferrovie dello Hokuriku, si sovrapponevano e si allontanavano. Era questo quello che aveva capito Honda?

Era anche strano che le avesse telefonato quando era quasi mezzanotte.

Si erano lasciati nella caffetteria delle porcellane Kutani all’incirca alle quattro del pomeriggio: che Honda avesse trascorso le successive otto ore a fare ricerche sulla “donna della portineria”?

Quando tornò dal bagno avevano levato il futon e sul ripiano del kotatsu c’erano del tè e delle prugne essiccate conservate sotto zucchero.

Accanto era posata, ripiegata, l’edizione mattutina del giornale. Sedutasi sulla sedia in rattan, Teiko la aprì. Ovviamente era una pubblicazione locale.

Il suo sguardo fu subito attirato da un titolo sulla sinistra della pagina di cronaca: Caso di avvelenamento a Tsurugi: stallo nelle indagini? … Ancora nessun indizio valido.

Lesse l’articolo:

Riguardo al caso di avvelenamento verificatosi a Tsurugi il venti dicembre scorso, l’ufficio competente ha organizzato una squadra apposita, profondendo il massimo impegno nelle indagini, senza però arrivare, a tutt’oggi, ad alcun indizio utile, e l’inchiesta pare essersi arenata. In primo luogo, non si ha idea del motivo per il quale la vittima, Uhara Sōtarō (41 anni) capo dell’ufficio vendite dell’impresa commerciale XX – residente al numero XX di Aoyama Minami, nel quartiere di Akasaka, nella circoscrizione di Minato a Tōkyō – sia venuto da Tōkyō a Tsurugi. Interpellata, la ditta presso la quale era impiegato ha negato potesse avere impegni di lavoro sul posto, e anche i familiari affermano di non saperne nulla.

Inoltre, poiché al ryokan Kanōya, dove è arrivato da solo, il signor Uhara aveva detto di “aspettare qualcuno”, si sono svolte ricerche in tutta l’area di Tsurugi, senza però trovare nessuno che potesse identificarsi come la persona attesa, e sta prendendo forza l’ipotesi che l’ospite fosse solo un pretesto: lo scopo per cui il signor Uhara fosse venuto a Tsurugi è un vero mistero.

Per quel che riguarda, poi, la donna di ventitré o ventiquattro anni con abiti dai colori vistosi, notata in compagnia dell’uomo identificabile come Uhara Sōtarō alla stazione di Tsurugi delle Ferrovie dello Hokuriku alle sei del pomeriggio del venti, non si hanno elementi per stabilire se abbia in effetti rapporti con il caso e, nonostante le ricerche svolte sulla base di una testimonianza che la collocava sul treno delle sei e quaranta diretto a Terai, non se ne hanno notizie. In breve, allo stato attuale l’impressione è che le indagini siano giunte a un punto morto.

Il responsabile dell’inchiesta, ispettore Yoneda, afferma: «Se l’indagine si fa sempre più difficile è anche perché la vittima, Uhara Sōtarō, è un forestiero che non aveva niente a che fare con questa regione. Tuttavia, stiamo continuando a impegnarci per trovare una soluzione».

Nell’articolo non si accennava al fatto che la polizia condivideva le supposizioni di Teiko sulla possibile connessione tra la puntata del cognato a Tsurugi e la scomparsa di Ken’ichi. Che lo stessero tenendo nascosto ai giornali?

Non riusciva a capire se l’indagine si era arenata sul serio, come diceva il giornale, o se quella era solo la versione ufficiale, mentre, al riparo dai riflettori, stava facendo progressi. Tuttavia, la sensazione era che ci fossero delle difficoltà concrete e oggettive.

E allora, Teiko voleva sentire al più presto cosa aveva da raccontarle Honda. Nella telefonata della sera prima le aveva detto che gliene avrebbe parlato di persona la sera, ma lei non aveva capito se fosse impegnato per lavoro o se avesse bisogno della giornata per completare le sue ricerche.

«Buongiorno!»

La cameriera era venuta a portarle il pasto mattutino.

«Oggi farà freddo: potrebbe nevicare già dall’ora di pranzo» disse la donna mentre disponeva le pietanze sul kotatsu.

In effetti, nella cornice della portafinestra che si vedeva dall’engawa, nubi lente e nere si allargavano basse sull’orizzonte.

Teiko si tenne leggera e mangiò solo una pietanza.

«Oh, ma perché non prende qualcos’altro?» la suggerì la cameriera.

Rispose di non avere appetito. Forse perché era tesa, non le veniva voglia di mangiare.

Honda aveva detto che sarebbe venuto a parlarle quella sera, ma Teiko non riuscì ad aspettare: appena passate le dieci, sperando che Honda potesse essere al lavoro, telefonò al suo ufficio.

«Non è ancora arrivato» le risposero. «Ha avvertito che oggi aveva un impegno e forse avrebbe tardato un po’.»

Lei pensò che, come aveva immaginato, Honda stesse “indagando”.

Chiese di farla richiamare quando fosse arrivato in ufficio.

Per le successive tre ore Teiko fu nervosissima. E certo lo sarebbe stata ancora più a lungo, se Honda non avesse chiamato.

«Pronto, sono Honda.»

Dalla voce sembrava un po’ sovreccitato. Oppure, pensò Teiko, così le era parso perché era lei a essere agitata. Ascoltando il seguito, però, si rese conto che in effetti l’uomo parlava con un tono alto.

«Mi hanno detto che mi ha cercato» disse lui. «Anch’io ho qualcosa di cui parlarle al più presto. Vorrei venire da lei subito, se non le dispiace.»

«La aspetto» rispose Teiko, mostrandosi entusiasta.

Già al telefono le era parso in preda a un’agitazione che non era da lui, ma quando arrivò al ryokan, mezz’ora più tardi, aveva un’espressione terribilmente scossa.

«Grazie per ieri» lo salutò Teiko, sistemandogli lo zabuton davanti al kotatsu.

«No, meglio qui» disse lui, avanzando nell’engawa e prendendo posto su una delle sedie di rattan.

Forse provava un certo imbarazzo a infilare le gambe sotto il kotatsu insieme a Teiko ma, soprattutto, sembrava impaziente di iniziare a parlare.

«Ho saputo qualcosa sull’impiegata della Murota!» esordì subito lui, con gli occhi che gli brillavano.

«È quello che mi ha detto al telefono. Oh, ora che ci penso, grazie per ieri sera!» replicò lei, riferendosi alla telefonata.

«Anzi, mi scusi per aver chiamato a quell’ora! A dire il vero ieri, dopo il nostro incontro, sono partito per Nanao.»

«Come?» si sorprese Teiko.

«Dopo averla salutata, sono dovuto andare a controllare una cosa nella fabbrica di mattoni refrattari Murota a Nanao.»

Teiko lo guardava in volto.

«Andando con ordine,» Honda estrasse il taccuino «la donna della portineria si chiama Tanuma Hisako e ha trentun anni. Attualmente abita in un piccolo appartamento in città, ed è stata assunta nell’impresa di Murota da pochissimo tempo… Questi particolari li ho saputi da un impiegato della Murota che conosco, chiedendogli di non farne parola con il presidente. A quest’amico ho chiesto se effettivamente il marito di Tanuma Hisako fosse un dipendente della Murota, e se fosse morto.»

La cameriera portò il tè, e Honda ne sorbì un sorso, interrompendo il racconto.

«E lui» riprese quando il suono dei passi della cameriera si fu spento in fondo al corridoio «mi ha risposto di non saperne niente. Aveva una faccia sorpresa e mi ha detto di aver sentito dire che la donna è stata assunta per interessamento diretto del presidente, e che non sapeva che fosse la moglie di un operaio. Allora gli ho chiesto di informarsi presso l’ufficio del personale, ma pare che tutto quello che riguarda gli operai sia gestito dallo stabilimento di Nanao, e che qui nella sede centrale non ne sappiano niente. Quindi, ho deciso di andare all’impianto di Nanao, ma prima mi sono fatto trascrivere il curriculum di Tanuma Hisako conservato nell’ufficio del personale. Eccone i punti essenziali.»

Detto questo, aprì un foglio che aveva infilato nel taccuino e lo mostrò a Teiko.

A penna stilografica c’era scritto:

CURRICULUM VITAE

Sede anagrafica originaria: Aza Sueyoshi, Takahama, distretto di Hakui regione Ishikawa.

Domicilio: Appartamenti Wakabasō, XX, Kanazawa.

Capofamiglia: Tanuma Shōtarō, agricoltore. Prima figlia femmina: Hisako, nata il 2 giugno 1927.

Diploma scuola media superiore di Takahama, regione Ishikawa.

1947 Impiego presso l’impresa commerciale Tōyō di Tōkyō.

1951 Dimissioni dalla Tōyō per motivi personali.

1956 Trasferimento alla sede anagrafica originaria.

1957 Matrimonio con Sone Masusaburō, operaio della Murota Mattoni Refrattari S.p.A.

1958 Decesso di Sone Masusaburō.

«Questi sono i punti salienti» disse Honda, mentre osservava lo sguardo di Teiko seguire i caratteri tracciati sul foglio.

«La signora Tanuma, quindi, è stata a Tōkyō per cinque anni a partire dal 1947.»

«Esatto. Nella fase confusa del dopoguerra» rispose Honda, come se indovinasse i pensieri di Teiko: quello era il periodo in cui l’inglese americano era usato prettamente da un certo tipo di donne.

«A quel punto, visto che alla sede centrale non sapevano altro, ho deciso su due piedi di partire per Nanao» continuò Honda. «Sono andato allo stabilimento della Murota a Nanao, e ho parlato con il capo dell’ufficio del personale. Mi ha confermato che un operaio di nome Sone Masusaburō lavorava lì da loro, e che è morto.»

Se lo diceva il capo dell’ufficio del personale della fabbrica, non c’erano dubbi.

Ma Honda proseguì: «Però, come si capisce già leggendo questo curriculum, anche se diceva di essere sposata con il signor Sone, non era ufficialmente registrata nel suo stato di famiglia. La loro era una convivenza, potremmo dire. E allora ho chiesto al capo del personale se avessero liquidato la buonuscita alla signora Tanuma. Lui deve aver pensato che non fossero affari miei, perché mi ha fissato un po’ e poi ha detto: “Certo che gliel’abbiamo liquidata! Anche se era solo la convivente, visto che era riconosciuta da tutti come la moglie, era la cosa più normale da fare”».

Teiko non capiva bene perché Honda avesse posto quella domanda.

«Ottenuta questa risposta, sono andato all’ufficio postale di Nanao e ho telefonato a quell’impiegato che conosco alla sede centrale della Murota a Kanazawa. Perché anche nel caso degli operai, se il diretto interessato muore, non credo che la liquidazione corrisposta sia una cifra trascurabile, e il versamento deve necessariamente risultare dai registri contabili della sede principale. Ho chiesto di verificare se risultasse davvero.»

L’uomo continuava a spiegare.

«Al telefono il mio amico ha detto che aveva bisogno di tempo per appurarlo e che mi avrebbe fatto sapere. Ma non è stato molto chiaro. La mia supposizione è che non ci sia stato il pagamento della buonuscita. Quando sono rientrato a Kanazawa erano le undici di sera, perciò non ho potuto avere la risposta. E allora, ho pensato che, invece di complicarmi la vita, avrei fatto meglio a parlare direttamente con la signora Tanuma. Ma ieri era troppo tardi per cui mi sono detto che sarei andato a parlarle stamane, e intanto le ho fatto quella telefonata.»

«Gliene sono grata» disse Teiko, abbassando il capo in un inchino. «Questa mattina è poi andato dalla signora Tanuma?»

«Sì. Verso le otto. La mia idea era di arrivare prima che uscisse per andare al lavoro.»

«E l’ha incontrata?»

«No.» Honda scosse il capo. Negò con particolare decisione. «È fuggita da Kanazawa.»

«Eh?!» Teiko sgranò gli occhi. «Cosa?!»

«Che sia fuggita è la mia impressione. Stamattina, quando sono arrivato agli Appartamenti Wakabasō, si è presentato il portiere e mi ha detto che la signora Tanuma era andata via la sera prima portando con sé una grossa valigia, dopo aver pagato l’affitto, spiegando che doveva trasferirsi all’improvviso.»

«Mah!» Teiko era rimasta di stucco.

«Anche il portiere era sorpreso par quella decisione così improvvisa, e ha chiesto alla signora Tanuma cosa fosse successo. Pare abbia risposto che, in seguito a circostanze non meglio specificate, doveva andare a Tōkyō. Non aveva molto nel suo appartamento: un vecchio cassettone, una toletta, il futon, e qualche utensile da cucina, e pare abbia chiesto a lui di darli via e di tenere il ricavato come ringraziamento per la sua gentilezza. Il portiere dice che gli è sembrata terribilmente agitata e che aveva una brutta cera.»

D’improvviso a Teiko non usciva più la voce, e non poté far altro che guardare Honda in volto. Tanuma Hisako era fuggita a Tōkyō. Teiko rifletteva cercando di far collimare il senso di quell’avvenimento con la scomparsa di Ken’ichi, l’avvelenamento del cognato Sōtarō e la linea che Honda stava seguendo.

2

Perché Tanuma Hisako era fuggita? Teiko fissò Honda. «Il signor Murota ne è al corrente?»

«Suppongo che non lo sappia ancora. In fondo sto parlando delle otto di questa mattina» rispose lui, come se stesse riflettendo.

«E lei cosa ne pensa di questa fuga, signor Honda?»

Teiko ipotizzò che la donna con il foulard rosa pesca e il cappotto rosso che si accompagnava al cognato sul treno delle Ferrovie dello Hokuriku fosse Tanuma Hisako. Era certa che anche Honda ne fosse convinto. Non lo aveva ancora detto apertamente, ma lo si capiva dalla sua espressione.

«In ogni caso» rispose lui «per ora proverò a chiedere al signor Murota della fuga di Tanuma Hisako. Se lui avesse un’idea plausibile sulla ragione che l’ha spinta ad andarsene, sarebbe già un buon punto di partenza.» L’uomo guardò l’orologio. «Sono già quasi le due: o gli telefoniamo subito o vado a chiederglielo io di persona.»

Teiko si decise a domandargli: «Lei ritiene che la donna che era insieme a mio cognato sul treno delle Ferrovie dello Hokuriku fosse la signora Tanuma?».

«Penso che, se la signora Tanuma ha un passato da pan pan, collimerebbe con l’aspetto della donna sul treno. Diciamo che lo ritengo possibile all’ottanta, novanta per cento.»

«Se anche fosse,» lo sguardo che Teiko gli rivolse era dubbioso «perché è fuggita all’improvviso? Mica perché ha capito che noi abbiamo scoperto i suoi precedenti!»

«Non credo che sia fuggita a causa nostra» disse lui spostando un po’ le ginocchia. «Supponendo che avesse tenuto nascosti i suoi precedenti al signor Murota, potrebbe essere accaduto qualcosa che le ha fatto temere si scoprissero, o un evento negativo legato a quei precedenti, no?»

Mentre ascoltava, Teiko continuava a riflettere per conto suo.

«Ma davvero il signor Murota potrebbe non essere al corrente dei precedenti della signora Tanuma?»

«Penso che non ne sappia nulla» rispose subito lui. «È solo la moglie di un operaio che ha assunto per pietà: non c’è motivo per cui debba sapere molto sul suo conto. Quanto alla sua fuga, comunque, penso sia successo qualcosa che non ha a che fare con noi.»

Ammettendo che fosse Tanuma Hisako la viaggiatrice che accompagnava Sōtarō, quella dagli abiti vistosi che facevano pensare a un tipo particolare di donna, e che avesse un qualche collegamento con l’assassinio del cognato, che rapporto c’era tra lei e Sōtarō? Teiko non riusciva a immaginarlo. Il cognato non conosceva nessuno a Kanazawa. Era solo venuto lì in viaggio.

Di conseguenza, ovviamente, il rapporto doveva averlo con suo marito, Uhara Ken’ichi. Non ne conseguiva che la donna fosse, cioè, saltata fuori mentre Sōtarō cercava Ken’ichi? E che lei lo avesse ucciso perché le stava alle costole? Ma era un’accusa troppo grave per parlarne a Honda.

Mentre metteva in tasca le sigarette, guardandola, l’uomo le disse: «Ah, già: non l’ho ancora informata. Devo partire all’improvviso per Tōkyō. Prenderò il treno di stasera».

«Per Tōkyō?»

Teiko si chiese subito se Honda non partisse per seguire le tracce di Tanuma Hisako. Ma non era così.

«A dire il vero, ieri dalla sede centrale mi hanno comunicato che dovevo rientrare subito.»

«Parte oggi?»

«Prendo l’espresso Hokuriku di stasera» rispose lui.

Era lo stesso treno con cui era tornata a Tōkyō la cognata, portando tra le braccia le ceneri del cognato.

«Se a Tōkyō riesco a scoprire dove è andata Tanuma Hisako, cerco di trovarla.»

Ma Teiko si chiese come avrebbe fatto Honda a rintracciare Tanuma Hisako nella vastità di Tōkyō. Pur non avendo nemmeno un indizio, Honda parlava con una certa sicurezza. In quel momento, Teiko pensò che quello del collega di Ken’ichi fosse un semplice auspicio, o un tentativo di incoraggiarla. Ritenne insomma che avesse detto semplicemente la prima cosa che gli era venuta in mente per rincuorarla.

«Stasera l’accompagno al treno» gli promise, prima che lui si alzasse per andarsene.

«Le sono grato del pensiero, ma non è necessario che si disturbi, perché tornerò molto presto» declinò lui.

Teiko, però, aveva deciso che sarebbe andata in ogni caso.

Date le circostanze, si sentiva in obbligo verso di lui. Si diceva che, appena assunto il nuovo incarico, Honda si era trovato ad avere a che fare con la questione di Ken’ichi, e probabilmente non poteva concentrarsi molto sul lavoro. Perciò non si sarebbe sentita la coscienza a posto se non lo avesse accompagnato al treno, ora che doveva recarsi a Tōkyō per lavoro. Lui era stato così gentile da venire anche a salutare la cognata, quando lei era partita.

Quel giorno Teiko lo trascorse in camera. Come al solito, dalla finestra si vedeva un angolo del castello. Giovani avvolti in cappotti camminavano senza fretta sulle salite, sotto un cielo di nuvole. Capì che tirava un forte vento dallo svolazzare dell’orlo di quei cappotti. A pensarci, da quando era arrivata a Kanazawa non le era mai venuta voglia di visitare le sue bellezze.

Uscì. In effetti il vento soffiava freddo. Si infilò in una viuzza dall’altro lato della strada percorsa dal tram; lì i passanti erano rari e le case che la costeggiavano dovevano essere dimore di famiglie samuraiche, perché i due lati erano un susseguirsi di vecchi muri in terra battuta che iniziavano a sgretolarsi. In alto sui muri le edere rampicanti erano secche, e le estremità dei loro rami fremevano nel vento.

Percorse una salita che attraversava quel rione di famiglie di samurai. Le mura bianche del castello splendevano fredde nella debole luce del sole invernale. In cima alla salita c’era una pietra con inciso il nome del giardino Kenrokuen. Teiko entrò nel parco fitto di alberi. Non c’era quasi nessuno. Mentre camminava sulla riva dello stagno, i suoi pensieri si soffermarono su Tanuma Hisako.

Perché era fuggita? Ebbe l’impressione che comprenderlo l’avrebbe portata a risolvere in una sola volta sia il mistero della sparizione di suo marito, sia quello dello sciagurato decesso del cognato. O, se pure non fosse venuta a capo di entrambi in un colpo solo, era plausibile che li avrebbe compresi almeno in parte.

Ammettendo che fosse stata la donna del treno, quella che aveva l’aria di una bella di notte, a uccidere suo cognato, dove erano entrati in contatto lui e Tanuma Hisako? Il motivo che aveva portato Sōtarō a Kanazawa era la ricerca di Ken’ichi. In quel momento, sapeva già dell’esistenza di Hisako? Teiko non lo credeva probabile. Per qualche motivo aveva l’impressione che Tanuma Hisako gli si fosse presentata all’improvviso. E allora, che dire di quella comparsa inattesa? Quella donna era stata la moglie di un operaio della Murota Mattoni Refrattari ed era ora impiegata nella portineria della sede centrale della stessa ditta. Teiko non riusciva a trovare alcuna connessione tra questi fatti e suo cognato Sōtarō.

Se lui l’aveva incontrata nel corso delle ricerche, era ovvio che doveva essere stato per via del rapporto tra Tanuma Hisako e suo marito Ken’ichi. Ma anche Ken’ichi, che relazione poteva avere con la moglie di un operaio della Murota che ora sedeva nella portineria della stessa ditta? Teiko non riusciva in alcun modo a venirne a capo. Però non poteva nemmeno credere che Hisako fosse del tutto estranea a quelle sue riflessioni.

Una volta arrivata, si rese conto che il parco era abbastanza in alto perché si vedessero, verso sud, i monti della catena dello Hakusan coperti di neve: si susseguivano in una linea orizzontale sullo sfondo del terso cielo invernale.

Teiko pensò all’imminente partenza di Honda.

Il significato di “marito”

1

Poco prima delle otto, quando Teiko entrò nella stazione di Kanazawa, Honda era già nella sala d’aspetto. Pareva in attesa di vederla arrivare, e si alzò dalla panchina per andarle incontro con un sorriso sul volto.

«Grazie, non doveva! Mi rincresce che sia venuta fin qui per salutarmi, quando poi a breve sarò di ritorno.»

Dall’espressione sul suo volto pareva felice.

«Sì, torni presto» gli disse lei. «Quando pensa sarà, più o meno?»

«Ecco… Domani non avrò molto da fare per tutto il giorno. Da dopodomani avrò delle riunioni e penso di poter tornare il giorno successivo.»

Teiko contò i giorni a mente.

«Il giorno del mio arrivo a Tōkyō, come le dicevo, non avrò molti impegni di lavoro, per cui farò del mio meglio per rintracciare Tanuma Hisako» aggiunse lui con aria grave.

Teiko si chiese di nuovo con quali mezzi Honda pensasse di cercare la donna, ma, dopo tutto, non riusciva a non credere che dicesse tanto per dire.

In quel momento lui le si avvicinò un po’.

«A proposito di Tanuma Hisako,» disse a bassa voce «sono andato subito a domandare informazioni agli uffici della sua anagrafe d’origine.»

«Oh! E cos’ha saputo?»

«Dunque, il certificato storico di stato di famiglia dice che suo marito Sone Masusaburō è morto nel 1958. Di questo ho intanto avuto conferma lì all’anagrafe.»

Teiko non capiva bene perché fosse necessario verificare quel dato.

«Quindi» proseguì Honda «questo Sone Masusaburō era davvero il suo convivente ed è morto, come era scritto nel curriculum della donna. Tuttavia,» il suo tono si era fatto stranamente serio «tuttavia la morte non è avvenuta per malattia.»

«Come? Non è morto di malattia?»

«Esatto. In effetti nel curriculum c’è scritto che è morto, e questo è esatto. Solo che, in linea di massima, leggendo “morto” tendiamo a pensare a una morte per malattia. Ma, stando alla risposta dell’anagrafe, quest’uomo si è suicidato.»

«Suicidato?» Teiko sgranò gli occhi.

«La risposta che mi hanno fatto avere oggi pomeriggio è molto stringata e non chiarissima, ma sembra proprio che si sia tolto deliberatamente la vita, lasciando anche un messaggio d’addio, e che la polizia abbia confermato che si tratta di suicidio. È stata completata anche la procedura indicata per questo genere di casi.»

«Ma perché mai si sarà ucciso?»

«Non saprei. Se ne avessi avuto il tempo, mi sarei recato oggi stesso sul posto, ma purtroppo mi hanno chiamato dalla sede centrale, e non posso. Però mi pare che il suicidio del convivente di Tanuma Hisako possa avere implicazioni importanti.»

Sentendo quelle parole, Teiko ebbe la stessa impressione.

Ormai era ora di partire, e Honda si avviò verso la banchina. Teiko lo seguì. Il treno arrivò scivolando sui binari dalla direzione di Fukui.

«Bene» disse Honda, fermo davanti alla carrozza di seconda classe. «Come le ho detto, rientrerò fra tre giorni. Per allora spero di sapere qualcosa di più su Tanuma Hisako.»

Ancora una volta dalle sue parole trapelava la certezza di poter rintracciare la donna.

«Al mio ritorno mi darò subito da fare per chiarire questo caso. Fino ad allora attenda tranquilla.»

Quando suonò il segnale della partenza, Honda si bloccò, come se gli fosse venuto in mente qualcosa, e tornò verso di lei.

«Stavo per dimenticarlo, eppure è importante» disse. «La morte di Sone Masusaburō è avvenuta nel 1958, cioè quest’anno, in data dodici dicembre.»

Prima che Teiko si rendesse chiaramente conto del senso di quella data, Honda era già salito sul predellino. Mancavano ancora alcuni minuti alla partenza.

«Sul curriculum di Tanuma Hisako era scritto che dal 1947 al 1951 ha lavorato presso l’impresa commerciale Tōyō di Tōkyō. Quindi penso intanto di fare un tentativo alla Tōyō.»

Giusto! Era una possibilità: Teiko si era chiesta come avrebbe fatto Honda a scoprire dove, nell’enorme Tōkyō, si trovasse Tanuma Hisako, ma l’idea dell’uomo era di iniziare andando a fare ricerche nell’impresa dove, stando al suo curriculum, la donna aveva lavorato per cinque anni.

«Anche se in quel documento non dice in quale parte di Tōkyō si trovi questa Tōyō, e non ne ho idea. Mah, la cercherò sull’elenco telefonico o in qualunque altro modo, quando sarò lì.»

Suonò ancora il segnale della partenza e Honda agitò la mano. Il treno si allontanò, rimpicciolendosi, in direzione di Tōkyō. Si vedeva Honda affacciato al finestrino. Alla fine il convoglio curvò, sempre più piccolo, con le rosse luci posteriori in vista.

Gli accompagnatori si allontanarono dalla banchina, sparpagliandosi. Finché non rimasero solo poche persone intorno a lei, Teiko restò lì in piedi a fissare i binari addentrarsi nel buio. Spiccavano solo le piccole luci verdi e rosse dei semafori, isolate nell’oscurità. Ricordò di aver già vissuto una scena simile. Era stato quando aveva accompagnato il marito alla stazione di Ueno.

Uscì dall’edificio della stazione. Tirava un vento freddo. Nel cielo non c’era nemmeno una stella. Persino le luci dell’area commerciale davanti alla stazione davano l’impressione di essere congelate. Le facevano male le guance. Le parve di capire per la prima volta il freddo dei paesi del Nord.

Quando si svegliò, la mattina, nevicava. La cameriera portò il fuoco da mettere nel kotatsu.

«Sta nevicando abbondantemente stamane!» annunciò.

Teiko guardò fuori e vide che il castello di Kanazawa e il bosco dalle parti del giardino Kenrokuen, dove aveva passeggiato il giorno prima, erano completamente bianchi. Le finestre erano appannate, perché minuti fiocchi di neve ne colpivano i vetri.

«Pensa che oggi la neve attaccherà?» chiese Teiko, mentre guardava fuori.

«No, non è ancora così tanta. D’ora in poi questa regione sarà sempre più chiusa nella morsa del gelo, e inizieranno a mettere sui binari i treni spazzaneve.»

Dette quelle parole, la cameriera le servì la colazione.

Dopo il pasto, quando Teiko si accinse a prepararsi per uscire, la donna sgranò gli occhi. «Oh! Ma esce in una giornata come questa?»

«Sì, starò fuori un po’.»

«Dove va? In città?»

«No, alla penisola di Noto.»

«Noto?» chiese l’altra sorpresa. «Caspita! Lì sì che c’è tanta neve!»

«Oh! Davvero così tanta?»

«Sì, nell’interno della penisola si deposita sempre più di qui. Però sulla costa non credo si accumuli più di tanto perché il vento è forte.»

«Io vado sulla costa» sorrise Teiko.

«Quale costa?»

«La costa occidentale.»

«Sulla costa occidentale il vento è molto forte: non penso che ci sia tanta neve. Però farà freddo.»

2

Teiko salì sul treno che partiva dalla stazione di Kanazawa alle dieci e quindici per Wajima. Era la stessa linea dell’altra volta. Si ricordò che nel viaggio precedente, per tutto il tragitto di circa un’ora fino alla stazione di Hakui, due ragazzi seduti davanti a lei non avevano fatto altro che parlare di cinema. Quel giorno, invece, due uomini, evidentemente membri di qualche consiglio comunale di quelle parti, discussero tutto il tempo del bilancio preventivo del loro paesino. I passeggeri indossavano cappotti neri e alcune donne avevano appoggiate sulle spalle delle coperte simili a quelle che si vedevano nell’epoca Meiji:1 era proprio un paese del Nord!

Fuori dal finestrino, la neve non era tanta quanto aveva temuto. Il cielo era nuvoloso, ma non nevicava e solo le cime lontane dei monti erano imbiancate.

Scesa a Hakui, cambiò e prese un altro piccolo treno. Da lì alla stazione di Takahama ci voleva circa un’ora, e il convoglio corse tutto il tempo con i colori freddi e smorti del Mar del Giappone nei finestrini. Quando scese alla stazione di Takahama, si ritrovò davanti lo stesso identico paesaggio della volta precedente. Anche lì non c’era molta neve, e la poca che si era depositata sui tetti di paglia al di là della strada principale saltava agli occhi.

Teiko si avviò in cerca dell’ufficio comunale. Lo trovò appena girato l’angolo a un piccolo incrocio. Si avvicinò a uno sportello la cui insegna recitava UFFICIO ANAGRAFE, dove trovò un magro impiegato sui quarant’anni intento a scrivere qualcosa in un grosso registro.

«Mi scusi» lo richiamò Teiko.

L’uomo aprì il vetro dello sportello.

«Vorrei avere informazioni sullo stato civile della signora Tanuma Hisako, residente a Aza Sueyoshi, Takahama.»

Dall’espressione con cui l’addetto la guardò, si capiva che era meravigliato di avere davanti quella sconosciuta mai vista prima in paese. Tuttavia, si alzò in piedi di scatto e andò a prendere un voluminoso registro da uno scaffale.

«La signora Tanuma Hisako, diceva?»

Dopo aver chiesto anche il numero civico, si mise a sfogliare il librone.

«Ecco.»

Nel registro risultava una Hisako, prima figlia femmina di Tanuma Shōtarō, proprio come era scritto nel curriculum.

Teiko scoprì solo che sia Tanuma Shōtarō, sia la madre di Hisako e suo fratello maggiore erano tutti morti. Era l’ultima rimasta di una famiglia per il resto estinta.

Nello stato di famiglia non c’erano le notizie su Sone Masusaburō che Teiko sperava di trovare. Ma era naturale: visto che convivevano senza essere sposati, non era stato registrato.

Come avrebbe potuto scoprire qualcosa su di lui? Lo chiese all’uomo che aveva davanti. Il magro impiegato di mezz’età, che sapeva di vecchio, era, ovviamente, del posto, ed era informato sulla famiglia di Hisako.

«Ah, parla dell’uomo con cui conviveva? Abbiamo la denuncia della sua morte.»

L’uomo estrasse un altro registro e iniziò a sfogliarlo. Trovato il punto, glielo mostrò.

«È deceduto il dodici dicembre del 1958!» disse, guardandola in faccia.

«Ci sarà anche un certificato di morte, vero?»

«Certo. Altrimenti gli uffici non possono autorizzare la tumulazione.»

«Di quale malattia è morto?»

«Malattia?» L’impiegato la fissò. «Mi perdoni, ma lei che rapporto ha con la signora Tanuma?»

Era una domanda naturale e Teiko si era preparata la risposta. «Sono una sua conoscente, e sono venuta per sapere qualcosa di più su di lei.»

Con quelle parole voleva far intendere che ci fosse in ballo un nuovo matrimonio per Hisako. E l’impiegato, ingenuamente, le credette.

«Più che un certificato di morte, il dottore ha prodotto un accertamento medico-legale. Perché in realtà Sone Masusaburō non è morto di malattia» disse con aria un po’ contrita.

«Come? Non è morto di malattia?» Teiko assunse a bella posta un’espressione sorpresa. «E di cosa è morto?»

«Suicidio» rispose lui.

«Ah!» esclamò lei. Ma questo lo aveva già saputo da Honda: il suo obiettivo era ottenere qualche notizia più particolareggiata e specifica. «Ma perché si sarebbe suicidato?»

L’impiegato spostò un po’ la propria sedia verso di lei, si inchinò in avanti e abbassò la voce.

«Noi qui non abbiamo idea della situazione privata del diretto interessato, ma…» disse «stando all’autopsia, questo signor Sone Masusaburō è stato ritrovato cadavere la mattina del tredici dicembre. È morto battendo la testa dopo essersi lanciato dalla scogliera di Ushiyama.»

«Dove si trova Ushiyama?»

Teiko aveva il fiato corto.

«Ushiyama si trova circa quattro chilometri a nord della nostra spiaggia. Lì la costa forma una falesia molto alta. Ecco: avrà sentito parlare del Kumgang, il Monte dei Diamanti, sul mare, in Corea, no?»

«Sì, ho sentito parlare del monte perché forma delle falesie molto alte.»

«Esatto. Sulla costa da queste parti abbiamo un posto identico al Kumgang, tanto che lo chiamano “Diamante di Noto”. È da lì che si è buttato: chiunque sarebbe morto all’istante. Non c’è modo di sopravvivere, nemmeno per sbaglio. Alcuni pescatori della zona l’hanno ritrovato cadavere la mattina del tredici verso le dieci, e hanno avvertito la polizia.»

Le labbra di Teiko erano esangui.

«Chi è il medico che ha stilato il rapporto autoptico?»

«Il dottor Nishiyama, un medico di qui, di Takahama. Se cerca la clinica Nishiyama lo trova facilmente.»

Teiko prese un appunto.

«Non sa perché il signor Sone si sia suicidato?»

«Noi non ne abbiamo idea» rispose l’impiegato scuotendo lievemente il capo. «Sa, ognuno ha i suoi problemi. Ho sentito delle chiacchiere, ma non potrei dire se corrispondano alla realtà. Però il signor Sone ha lasciato un messaggio d’addio, e il dottor Nishiyama potrebbe sapere qualcosa in più.»

«Un’ultima cosa:» domandò Teiko «avete lo stato di famiglia di questo signor Sone?»

«No, perché erano solo conviventi, e non si è iscritto qui da noi. Abbiamo anche chiesto a Hisako, ma dice che non sa in quale comune fosse registrato. Comunque, visto che non c’era modo di saperlo, abbiamo emesso l’autorizzazione all’inumazione, permettendole di fornire una dichiarazione di sede anagrafica originaria del signor Sone quando saprà di dove fosse originario.»

«Dichiarazione di sede anagrafica originaria?»

«Come dice il termine, un documento che dichiari quale fosse la sua sede anagrafica originaria, da presentare quando la signora Tanuma scoprirà da dove venisse.»

«E se non riuscisse a scoprirlo?»

«Se non ci riuscisse, mi limiterei a segnalare il documento come mancante. In ogni caso non si può lasciare il morto in sospeso, per cui la questione dei documenti non può che passare in secondo piano.»

Teiko abbassò il capo.

«La ringrazio» disse.

Quando uscì dagli uffici, il vento freddo le colpì le guance.

Mentre camminava si sentiva sempre più confusa. Sone Masusaburō si era suicidato lanciandosi nel vuoto il dodici dicembre. All’improvviso ebbe la sensazione di un’eco che risuonasse potente accanto alle sue orecchie. Aveva in mente la faccia di Honda mentre glielo comunicava.

3

La clinica Nishiyama era un villino. Varcata la soglia dell’ingresso, Teiko vide una sala d’attesa con il pavimento di tatami. Una donna rannicchiata sullo hibachi stringeva al seno il figlio con aria infreddolita. Oltre la finestrella dell’accoglienza, sedeva un’infermiera sui diciotto o diciannove anni dall’aspetto terribilmente campagnolo.

«C’è il dottore?» le chiese.

«È qui per una visita?» domandò l’altra a sua volta.

«No. Sono venuta perché ho un’informazione da chiedergli.»

Mentre l’infermiera dalle guance rubiconde si infilava in una stanza dell’interno, un riflesso le fece brillare gli occhiali.

«Prego» disse la ragazza subito dopo.

Entrata nello studio, Teiko trovò il dottore, un uomo con la testa tonda in parte scoperta da un’incipiente calvizie, intento a leggere un libro con le gambe allungate vicino alla stufa.

«Permesso» si annunciò, entrando con atteggiamento riguardoso. Era chiaro che il dottore non si aspettava una simile ospite perché, appena la vide, ritirò istintivamente le gambe, raddrizzandosi.

«Mi scusi per l’irruzione» lo salutò Teiko. «In verità, sono venuta a chiederle del marito della signora Tanuma Hisako, che si è suicidato il dodici dicembre scorso.»

«Davvero?» Il dottore le indicò la sedia davanti a lui. «A quale proposito?»

Nei suoi occhi si leggeva una sorpresa curiosità: non doveva capitargli spesso di ricevere un’ospite di città com’era lei.

«Io» iniziò Teiko con un lieve inchino «sono una conoscente della signora Tanuma Hisako, e sono venuta per ottenere informazioni su di lei.»

«Oh» il dottore annuì.

«Dunque, a proposito del suicidio del marito della signora Tanuma, lei, dottore, ne ha esaminato il corpo, vero?»

«Sì» rispose lui.

«Le sarei grata se potesse parlarmene.»

Il medico esaudì con inattesa docilità la richiesta di Teiko.

«È stata una vera disgrazia. Mi hanno mandato a chiamare dalla stazione di polizia e mi sono subito recato sul posto in una loro camionetta. Perché quando c’è bisogno di un medico legale da queste parti, be’, sono io a farne un po’ le veci. Perciò, anche il tredici ho raggiunto il posto con una macchina della polizia, e siamo arrivati, se non erro, che erano le dodici passate.»

Detto questo, il dottore si mise a frugare tra i documenti in un cassetto del mobile alle sue spalle, finché non ne tirò fuori un foglio.

«Ecco gli appunti che ho preso durante l’esame» spiegò, guardando quella che sembrava una specie di cartella clinica. «Quando l’ho visto, come le ho detto, era circa mezzogiorno e dalla morte dovevano essere trascorse tredici o quattordici ore. Di conseguenza, doveva essere morto tra le dieci e le undici della sera precedente.»

Mentre prendeva appunti, Teiko si rappresentava nella mente una persona in piedi sulla scogliera nel buio della notte.

«La ferita fatale è stata la contusione alla testa. Ovviamente, l’urto sugli spuntoni di roccia nella caduta è compatibile con una frattura cranica. In poche parole, aveva la testa fracassata: la morte è stata istantanea, sul colpo» disse il dottore, chiosando con un gesto della mano. «Capita spesso che si suicidino lanciandosi da quella scogliera. Abbiamo avuto tre casi negli ultimi due o tre anni, e sono morti tutti con la testa spaccata. Proprio come questo signor Sone, che è spirato sul colpo.»

«Ha eseguito un’autopsia, vero?»

«No: era chiaro che si trattava di suicidio.»

«Cosa l’ha spinta a esserne così sicuro?»

«C’era un messaggio d’addio. Inoltre, nel posto dal quale si suppone si sia lanciato nel vuoto, sulla scogliera, hanno trovato le sue scarpe, affiancate con cura, in ordine, e l’agenda con il messaggio di cui le dicevo infilato tra le pagine: nessuno potrebbe pensare ad altro che a un suicidio premeditato.»

«Quindi» disse Teiko deglutendo «lei sa cosa c’era scritto nel messaggio d’addio?»

«Ecco, quello non ha a che fare con il mio lavoro, e non so se posso parlargliene. Però sì, per vederlo, l’ho visto.»

«Se non è un problema per lei, potrebbe dirmi qualcosa in proposito, per favore?»

Il medico parve esitare un istante. Ma alla fine iniziò a parlare a voce bassa: «Quel messaggio d’addio l’hanno mostrato anche a me, alla presenza degli agenti. In poche parole, era il testamento di Sone Masusaburō. Era indirizzato alla signora Tanuma Hisako e diceva: “Ho troppe preoccupazioni e mi è divenuto difficile continuare a vivere. Non voglio spiegarti tutti i particolari. Ho deciso semplicemente di scomparire per sempre, portando con me i miei tormenti”. Una cosa del genere».

Teiko ripassò a mente quelle frasi.

Aveva deciso di sparire dalla vista di lei portando con sé i suoi tormenti… Cosa intendeva? Come testamento era molto oscuro, e le pareva che l’obiettivo fosse di far comprendere le proprie vere intenzioni solo alla diretta interessata, senza che nessun estraneo potesse capire chiaramente le circostanze.

«Quanto al corpo,» continuò il medico «abbiamo subito avvertito Tanuma Hisako, chiedendole di venire sul posto. Lei lo ha riconosciuto e lo ha portato via, rinunciando a ulteriori approfondimenti, perché dalle circostanze era evidente che si trattava di un suicidio.»

«Ma la signora Tanuma immaginava che il compagno potesse suicidarsi?» chiese Teiko scrutando il dottore.

«Diceva di no. Tuttavia lui aveva lasciato quel messaggio, e poi, è vero che la signora ha negato, ma in una famiglia possono esserci circostanze di cui non si vuole parlare con gli estranei. Più o meno tutti rispondono in quel modo, quando la polizia glielo domanda. Di fatto, la signora Tanuma non ha espresso grandi dubbi sulla conclusione che si trattasse di suicidio, e quando ha portato via il corpo pareva in qualche modo convinta.»

«Gli abiti del deceduto erano in disordine?»

«No, affatto. Era vestito, anzi, di tutto punto: la giacca era abbottonata e la cravatta annodata. E mi ha colpito che all’interno della giacca, sopra il nome “Sone”, che avevano cucito alla fodera, si fosse attaccato un piccolo isopode marino.»

Il nome “Sone” cucito sulla fodera dell’abito del suicida… Quando Teiko lo sentì, un’immagine le si affacciò alla mente: il suo defunto cognato, Sōtarō, che si aggirava a far domande per le lavanderie di Kanazawa…

«Ha detto che sulla scogliera è stata rinvenuta l’agenda del morto, vero?»

«Sì. L’agenda era posata con cura accanto alle scarpe, e il messaggio era infilato tra le sue pagine.»

«E nell’agenda non c’era scritto niente che avesse a che fare con il suicidio?»

«Mah, la polizia l’ha letta e pare che contenesse solo degli appunti del signor Sone, niente che in apparenza avesse un qualche tipo di collegamento con la ragione del suicidio.»

«Che fine ha fatto quell’agenda?» chiese Teiko.

«È stata consegnata alla moglie, ovviamente.»

Teiko non aveva altro da chiedere. Si scusò per aver disturbato il dottore durante le visite, lo ringraziò di cuore e lasciò la clinica.

Aveva una gran confusione in testa. Per mettervi ordine, avrebbe dovuto verificare ulteriormente i fatti. Decise che si sarebbe recata nella casa dove aveva abitato Tanuma Hisako.

Il borgo chiamato Aza Sueyoshi era un agglomerato piccolo e misero circa due chilometri a nord del centro di Takahama, abitato da agricoltori e pescatori. Sullo sfondo, lungo la strada provinciale, si levava l’alta dorsale della penisola, coperta di neve. In un negozietto di tabacchi, Teiko chiese informazioni sulla casa che cercava. Le seppero subito spiegare dove si trovava l’abitazione dei Tanuma. Seguendo le indicazioni, avanzò un po’ sulla provinciale, girò verso est e trovò un piccolo agglomerato di case: quella dei Tanuma sorgeva isolata in disparte rispetto alle altre.

Quando si fermò davanti all’edificio, Teiko si lasciò sfuggire un’esclamazione sorpresa. Dubitò dei propri occhi. Quella casa l’aveva già vista. O meglio, dal vivo era la prima volta, ma quella casa e quel panorama li aveva già visti in fotografia: una delle due foto che Ken’ichi aveva infilato in quel voluminoso libro straniero. Come d’uso da quelle parti, sul tetto erano posate delle pietre. La porta d’ingresso era stretta. La gronda era profonda e sull’esterno delle finestre erano incastrati alcuni tralicci, come nelle finestre con le grate: ogni particolare era proprio come nella foto. Finalmente le sue domande su quelle fotografie trovarono una risposta.

Uhara Ken’ichi conservava due fotografie: una ritraeva la casa del presidente Murota, l’altra quella di Tanuma Hisako. Era probabile che avesse scattato quella della casa del presidente Murota come ricordo di qualche evento, perché era un posto in cui si recava spesso, dato che era benvoluto dal proprietario. Ma se aveva fotografato quella di Tanuma Hisako, voleva dire qualcos’altro: era la casa in cui Ken’ichi viveva. Glielo diceva il suo intuito. Ciò che Teiko temeva da un po’ le era stato confermato: ormai era certa che suo marito Ken’ichi e Sone Masusaburō fossero la stessa persona.

Faceva freddo e una neve fine come polvere le colpiva di traverso la pelle. Le pareva bollente sulle guance. Si sentiva bruciare la testa.

4

Teiko cercò di ottenere informazioni su Sone Masusaburō interrogando i vicini di casa dei Tanuma. Una donna di mezza età, intenta a coltivare i campi, le raccontò: «Hisako era l’unica figlia femmina. La sua era una famiglia di contadini da generazioni. Purtroppo sia i genitori che il fratello maggiore si sono ammalati di tubercolosi e sono morti. Quando era rimasto solo suo fratello… dunque… doveva essere il 1947 o ’48, Hisako è partita all’improvviso per Tōkyō. Pare sia scappata perché non andavano d’accordo, e lei non gli scriveva, né nessuno, da queste parti, sapeva cosa facesse nella capitale. Però, circa cinque anni fa, è ricomparsa di punto in bianco. E dicono che quando è arrivata» a questo punto la donna cambiò tono, come se trovasse il particolare molto interessante «indossasse abiti molto vistosi, e così eleganti che si stentava a riconoscerla. Tanto che la gente malignava su cosa facesse a Tōkyō. Col tempo, però, lei stessa deve essersi riadattata alle abitudini della provincia, e non si conciava più in quel modo così appariscente. Dopo la morte del fratello, poi, pare che si occupasse della casa, coltivando quel po’ di terreno che aveva. Non era una vita facile. Ma ecco che…» e di nuovo lo sguardo della donna si accese «sarà stato all’incirca un anno e mezzo fa, tutt’a un tratto Hisako ha preso marito. Però non era un matrimonio ufficiale e, ovviamente, non hanno fatto né la cerimonia né il banchetto. I primi tempi lei faceva il possibile per tenerlo nascosto anche a noi vicini, ma, alla fine, ci ha detto che quell’uomo era suo marito. Era lui Sone Masusaburō. Il signor Sone parlava di rado con noi, anche se ci incontrava: piuttosto si girava dall’altro lato. Mah, date le condizioni in cui si erano messi insieme, anche noi non è che non lo capissimo… Comunque era uno di poche parole.

«Stando a quello che raccontava Hisako, pare che il signor Sone facesse l’agente per un’impresa: usciva la mattina presto e la sera tornava molto tardi. Sì, visto che di solito prendeva l’ultimo autobus, non era mai a casa prima che facesse buio pesto. E poi era in viaggio di lavoro a Tōkyō per dieci giorni ogni mese, durante i quali non rientrava proprio. Hisako si vantava terribilmente di quei viaggi di lavoro a Tōkyō, ma non mi chieda di quale tipo di affari si occupasse, perché nessuno di noi ne ha idea.»

Teiko sentì racconti simili anche da un contadino e da un pescatore di mezz’età. Quanto ai motivi del suicidio, tutti dicevano: «Hisako sembrava molto innamorata di Masusaburō. A noi pareva che tenesse molto a lui. Non sappiamo bene perché si sia suicidato ma, secondo noi, potrebbe essersi appropriato indebitamente di denaro della ditta: capita, tra gli agenti di commercio. Non c’era motivo perché Hisako venisse a raccontare a noi come mai il marito si era suicidato e in quel periodo era così triste da non riuscire a dire una parola. Poi all’improvviso ha chiuso la casa, ha venduto i terreni e le proprietà, e si è trasferita a Kanazawa. Ci ha detto che aveva trovato lavoro in una ditta lì in città».

Questo era, per grandi linee, quello che Teiko era venuta a sapere. Secondo i vicini, quindi, Sone Masusaburō non sarebbe stato un operaio della Murota Mattoni Refrattari, come sosteneva il presidente Murota, ma il rappresentante di una ditta non meglio identificata. Su due piedi Teiko non avrebbe saputo dire se fosse vera la storia dei vicini o quella del presidente Murota. Magari Hisako pensava di fare una figura migliore dicendo che il marito era un rappresentante piuttosto che un operaio di una fabbrica di mattoni. Però Teiko aveva l’impressione che la verità fosse quella raccontata dai vicini.

In ogni caso, il presidente Murota mentiva.

Se Sone Masusaburō era Uhara Ken’ichi, non poteva essere un operaio della fabbrica di mattoni. D’altra parte, il Sone Masusaburō che le avevano descritto gli abitanti del villaggio fisicamente corrispondeva in tutto e per tutto a Ken’ichi. E la vita di Sone, di cui Hisako si era tanto vantata con i vicini, fatta di venti giorni a Kanazawa e dieci a Tōkyō, combaciava alla perfezione con la vita di Ken’ichi, che trascorreva venti giorni nell’area di Kanazawa, a cercare inserzionisti per conto della A e negli altri dieci tornava a Tōkyō.

Perché il presidente Murota aveva dovuto mentire in quel modo?

Intanto, Teiko non riusciva a non pensare a quando le pareva che il marito la stesse confrontando fra sé con un’altra donna, a quando la riempiva di complimenti e, dal modo in cui lo faceva, sembrava che la stesse paragonando a un’altra. Allora si era detta che si trattava solo di un’impressione, ma ora, venendo a sapere come stavano davvero le cose, capì che la sua intuizione era giusta. Perché, quindi, Ken’ichi, suo marito, si era suicidato?

In ogni caso, provava il desiderio di andare a vedere il luogo dove dicevano che si fosse tolto la vita. Secondo quanto le avevano riferito i vicini, era raggiungibile in autobus, a ben quattro chilometri da lì. Il mezzo non passava che tre volte al giorno, e le toccò aspettarlo quasi un’ora sul ciglio della strada, ferma sotto la neve. L’autobus impiegò circa venti minuti ad arrivare fino al posto indicato. Già dalla strada su cui transitarono, vedendo quanto il mare fosse lontano là in basso, capì che sotto i finestrini di sinistra doveva esserci un precipizio.

Quando scese alla fermata, si trovò sola. Nella neve che cadeva turbinando, si incamminò verso la scogliera. L’erba era corta e secca. Le nubi basse. Quando si era recata da quelle parti la volta precedente, raggi luminosi filtravano in lontananza tra le nuvole, rischiarando a tratti la superficie del mare. Ma quel giorno le nuvole erano spesse e il cielo del tutto nascosto dalla loro coltre: non si muovevano e non lasciavano mai intravedere il sole.

Non aveva idea di dove potesse essere, in realtà, il luogo in cui suo marito era morto. Ma doveva senza dubbio trovarsi da quelle parti. Guardando verso il mare, vide diverse rocce spuntare dalla superficie. Dal punto di vista estetico, era effettivamente un panorama che ben meritava il soprannome di Diamante di Noto, ma per lei, in quel momento, non era che un cimitero nel mare. Le tornò in mente la poesia che già aveva ricordato quando era venuta lì, giorni addietro:

Ma ecco, adesso, un fremito nell’aria!

L’onda… qualcosa là si sta muovendo!

Quasi le torri avessero scostato

le acque cupe, sprofondando piano,

le loro cime avessero lasciato

un vuoto aperto nel cielo velato,

ora le onde brillano più rosse,

le ore quasi trattengono il respiro…

E quando, fra gemiti d’altri mondi…

Nel suo sepolcro laggiù in riva al mare

nella sua tomba dove echeggia il mare!

Pianse. Non avrebbe saputo dire se per il dolore o per il vento freddo che le soffiava forte dritto negli occhi.

Perché era morto suo marito? Perché si era ucciso?

Era arrivato per lavoro in quella regione due anni prima. Il suo rapporto con Tanuma Hisako doveva essere nato allora. Non aveva modo di sapere come. Però sapeva che il marito aveva assunto il suo incarico lì due anni prima, e dopo sei mesi aveva iniziato a convivere in segreto con quella donna, nel villaggio sulla riva del mare.

Le parve quasi di iniziare a comprendere perché si fosse ucciso. Nel senso che si chiedeva se la causa scatenante del suo gesto non potesse essere stata proprio il loro matrimonio. Ken’ichi l’amava, e però amava anche l’altra, Tanuma Hisako. Ma Teiko immaginava di essere lei, la nuova sposa, la preferita. Perciò lui aveva certamente tentato di mettere fine a quell’anno e mezzo di convivenza con Hisako. Magari, però, non ci era riuscito, e si era buttato da quella scogliera cedendo allo sconforto.

Sone Masusaburō era morto il dodici dicembre. Suo marito, Uhara Ken’ichi, era scomparso dal pomeriggio dell’undici dicembre. Era partito dicendo che sarebbe tornato a Kanazawa l’indomani, ma non si era più visto. A quel punto era chiaro il motivo per cui Ken’ichi aveva dovuto passare la notte altrove: lasciata Kanazawa verso sera, era stato costretto a dormire a casa di Hisako, lì a Takahama, perché non ci sarebbe stato un treno per tornare in città quello stesso giorno.

In origine, doveva aver progettato di separarsi da Hisako quella notte e rientrare il giorno dopo a Kanazawa per ritornare a Tōkyō da Teiko. E invece, la sera stessa si era gettato da quel precipizio.

Prima di salire sul treno per Tōkyō, Honda le aveva detto che Sone Masusaburō era morto il dodici dicembre: doveva aver già capito che Sone e Ken’ichi erano la stessa persona. Era proprio per quello, probabilmente, che si era entusiasmato nelle sue ricerche, e mirava a incontrare Tanuma Hisako a Tōkyō…

… I cumuli di nubi sul mare illividirono rapidamente. Anche la superficie dell’acqua si scurì. Teiko rimase per un po’ lì, immobile, sotto la sferza del vento freddo e della neve.

Quando Teiko rientrò a Kanazawa erano le nove di sera passate.

Appena arrivò all’albergo, guardandola in viso la cameriera le disse: «L’hanno cercata diverse volte al telefono, mentre era via».

«Ah! Chi?»

Teiko alzò lo sguardo: aveva pensato subito a sua madre.

«Chiamavano dall’agenzia pubblicitaria A: deve trattarsi di una cosa molto urgente, perché nelle ultime due ore hanno telefonato tre volte.»

«Grazie» rispose con il cuore in gola.

Se la chiamavano dall’agenzia, doveva trattarsi per forza di Ken’ichi o di Honda. Magari a Tōkyō Honda aveva trovato qualche traccia importante. Ma, in quel caso, le pareva più probabile che telefonasse direttamente lì in albergo, senza passare per l’agenzia. Non riusciva a immaginare di cosa si potesse trattare. Non le pareva possibile che in ditta avessero saputo ora di Ken’ichi.

Chiamò l’ufficio della A. Mentre aspettava che il centralino la mettesse in comunicazione, sentiva il cuore battere all’impazzata.

Dall’altra parte rispose una voce maschile.

«Pronto? Sono Uhara.»

«Ah, la signora Uhara?» rispose l’altro. «Sono Kimura, dell’agenzia pubblicitaria A.»

A giudicare dal tono di voce, anche l’interlocutore doveva essere agitato.

«Mi scusi se non ho risposto, ma ero uscita.»

«A dire il vero» disse l’altro precipitosamente «è accaduta una cosa molto grave, e abbiamo dovuto contattarla subito. Le dispiace se vengo da lei adesso?»

Non le disse di che si trattasse, nemmeno per grandi linee. Il che, d’altro canto, le diede un’idea della gravità della cosa.

«Certo. L’aspetto.»

Anche dopo aver chiuso la telefonata, il suo cuore continuò a battere all’impazzata per tutto il tempo che l’uomo impiegò a correre fin lì. A Ken’ichi non poteva essere accaduto più niente, ormai. Doveva trattarsi di Honda.

Teiko chiese alla cameriera di accendere il fuoco nel kotatsu e alimentare quello nello hibachi. Non sapeva se l’ospite sarebbe stato solo o se sarebbe venuto accompagnato, ma per sicurezza chiese di preparare tre zabuton. Dalla reception chiamarono trenta minuti dopo: c’era il signor Kimura, dell’agenzia pubblicitaria A, con due agenti della polizia locale. Sentendo dei poliziotti, Teiko rimase senza fiato: ebbe la certezza che fosse accaduto qualcosa di eccezionale, qualcosa per cui doveva intervenire la polizia! Con il cuore tremante, ascoltò i passi salire le scale.

«Permesso?»

La voce pareva soffocata, al di là dei fusuma.

«Prego.»

Ovviamente Teiko non conosceva nessuno dei nuovi arrivati. Sia il primo a entrare, sia i due che lo seguivano indossavano un completo e avevano il cappotto sul braccio. Il primo si presentò: «Sono Kimura, dell’agenzia pubblicitaria A». Poi indicò i due uomini di mezz’età al suo fianco. «I signori sono della questura di Kanazawa.»

«Da ieri fa più freddo» esordì uno dei poliziotti, con aria affabile. Estrasse dalla tasca una sigaretta storta e iniziò a fumarla con aria tranquilla mentre, senza darlo a vedere, scrutava Teiko in volto con attenzione.

Servito loro il tè, la cameriera uscì dalla stanza.

Come se non aspettasse altro, Kimura iniziò: «Purtroppo, signora, è accaduta una cosa terribile».

Teiko lo fissò. Aveva immaginato che non si trattasse di un fatto banale, ma a sentirselo dire chiaramente le parve di trovarsi per la prima volta ad affrontare la realtà.

«Si tratta del signor Honda…»

“Ah! Lo sapevo!” gridò Teiko in cuor suo.

«Presumo lei sappia che il signor Honda si trovava a Tōkyō per lavoro. Alle quattro di oggi pomeriggio la questura di Kanazawa è stata informata del suo decesso improvviso.»

«Ah!»

Teiko impallidì. Supponeva che potesse essergli accaduto qualcosa, ma non si sarebbe mai aspettata che fosse morto. Per di più, data la presenza della polizia, intuì di che tipo di morte si trattasse. Sentì il sangue defluirle dalle labbra.

«E quel che è ancora più terribile» continuò Kimura, anche lui evidentemente agitato «è che il signor Honda è stato ucciso.»

Teiko non riusciva a parlare. Aveva sospettato l’accaduto ma, quando lo sentì raccontare a parole, la testa le si svuotò completamente.

«Sarò io» disse il poliziotto al suo fianco, prendendo con calma la parola «a farle un rapido resoconto in proposito. Stando alla Questura Centrale di Tōkyō, oggi, alle ore dodici, il portiere del condominio Seifusō, sito al numero XX del quartiere XX nella circoscrizione di Setagaya a Tōkyō, ha trovato il signor Honda morto in uno degli appartamenti. Il portiere dice che era stato dato in affitto la sera precedente a una donna di circa trent’anni, presentatasi come Sugino Tomoko. L’indomani è arrivato il signor Honda, ha chiesto al portiere se si fosse trasferita lì una certa signora Sugino, si è fatto dare il numero dell’appartamento ed è entrato. È accaduto alle nove circa. Poi, come ho appena detto, il corpo del signor Honda è stato trovato in quell’appartamento poco prima delle dodici, cioè tre ore dopo. È morto per avvelenamento da cianuro di potassio. Lo si è capito perché accanto al corpo è stata rinvenuta una bottiglia di whisky e le analisi della scientifica hanno rilevato la presenza del veleno nella bottiglia. Quindi, il signor Honda ne ha bevuto. Inoltre, il portiere ha testimoniato di aver visto uscire la signora Sugino poco dopo le nove. Pare avesse molta fretta.»

Teiko si limitava a guardarlo in faccia. Non sapeva cosa dire.

«Di conseguenza,» proseguì lui, continuando tranquillo a fumare «avremmo alcune domande da rivolgerle. Sappiamo che il signor Honda era andato a Tōkyō in primo luogo per ragioni di lavoro. Però, diamo per scontato che abbia fatto visita alla signora Sugino per questioni private. A questo proposito vorremmo una sua opinione, visto che lo conosceva abbastanza.»

1. Anni di regno dell’imperatore Meiji: 1868-1912. (NdT)

Angoscia nel paese delle nevi

1

Per qualche minuto Teiko non riuscì a rispondere al poliziotto. Non perché non capisse la domanda, ma perché, prima ancora di trasformarsi in parole, i pensieri le si accavallavano confusi nella testa.

Honda Yoshio era stato ucciso…

Non riusciva a credere che fosse vero. All’improvviso, gli oggetti intorno a lei parvero piegarsi.

Aveva la sensazione di avere davanti agli occhi, enorme, solo l’ultima visione che aveva avuto di Honda, quando si erano salutati: dopo essere salito sul treno si era affacciato al finestrino e aveva continuato a guardare verso di lei, rimasta in piedi sulla banchina. Quel volto che la fissava le parve dilatarsi fino a riempire tutto il suo campo visivo.

«Quindi, signora?» la sollecitò lo stesso poliziotto.

«Con il signor Honda» disse infine lei «non avevo un rapporto così stretto, a livello personale.»

Mentre parlava, Teiko non era certa di rispondere con sincerità: in parte si era accorta di quello che Honda provava per lei.

Se, appena assunto il nuovo incarico, si era impegnato anima e corpo nella ricerca di Ken’ichi, trascurando del tutto, in pratica, il lavoro, più che per amicizia verso il collega, era stato con ogni probabilità per amore nei confronti di Teiko. Da principio lei aveva creduto che lo facesse per lealtà verso suo marito, poi, però, mentre lo cercavano insieme, aveva iniziato a rendersi conto di quel sentimento che lui lasciava vagamente trapelare.

L’impegno di Honda nella ricerca di Ken’ichi era stato davvero eccezionale. Le era chiaro come il sole che l’amore per lei occupasse un posto sempre maggiore nei pensieri di quell’uomo, e la cosa le creava un problema. Le pareva anche di essersi trattenuta troppo a lungo a Kanazawa: non voleva dar modo a quel sentimento di approfondirsi.

Non lo ricambiava. Gli era solo grata perché lui le voleva bene con discrezione, e l’aiutava con buona volontà.

«Con il signor Honda non avevo un rapporto così stretto a livello personale» ripeté al poliziotto. «Semplicemente, come collega e successore di mio marito, si preoccupava per lui.»

Gli agenti appartenevano alla questura di Kanazawa e sapevano che il marito di Teiko, Uhara Ken’ichi, era scomparso.

«Capisco» annuì il poliziotto. «Ha però qualche idea sul perché sia stato ucciso?»

«No, nessuna.»

Teiko non conosceva quella Sugino Tomoko che, a quanto dicevano, viveva nell’appartamento nel quale era stato ucciso Honda. Era un nome che udiva per la prima volta.

Però, dato che la donna si era trasferita lì il giorno prima, e visto che Honda le aveva detto di voler cercare Tanuma Hisako nel tempo che il lavoro gli lasciava libero, sospettava che quella Sugino Tomoko e Tanuma Hisako potessero essere la stessa persona.

Tanuma Hisako, l’impiegata della portineria della Murota Mattoni Refrattari, aveva fatto improvvisamente perdere le proprie tracce. Secondo Honda era andata a Tōkyō: era quello che aveva scoperto su di lei.

Una circostanza che da diversi punti di vista coincideva con il fatto che, durante la permanenza a Tōkyō, Honda avesse fatto visita a quella Sugino Tomoko.

Sugino Tomoko doveva essere senza dubbio un nome falso usato da Tanuma Hisako. Le tornò alla mente la donna magra dall’aria posata che sedeva nella portineria della Murota. Era la stessa donna che usava quelle espressioni particolari chiacchierando con l’americano.

Da come ne parlava, Honda doveva nutrire forti sospetti su di lei. Aveva molti dubbi sulla morte del suo convivente, Sone Masusaburō. Teiko aveva scoperto di persona la verità su quella morte, ma qualcosa le diceva che anche Honda l’avesse subodorata. E che avesse iniziato a pensare che proprio Tanuma Hisako ne fosse la principale indiziata.

A quel punto, non doveva averci messo molto tempo Honda a immaginare che Sugino Tomoko fosse lo pseudonimo di Tanuma Hisako, visto l’impegno con cui stava indagando sulla vita di quella donna.

Perché Tanuma Hisako lo aveva ucciso?

Teiko aveva un’espressione assente, mentre il suo cervello ragionava a tutta forza. Al che il poliziotto insistette: «Lei non ha alcuna idea del perché il signor Honda sia stato ucciso, quindi?».

Udita la risposta di Teiko, la informò che, a seconda dell’andamento delle indagini, avrebbero potuto avere la necessità di incontrarla di nuovo per porle altre domande. Poi se ne andarono.

Rimasta sola, Teiko si immerse in una profonda riflessione.

Non aveva rivelato ai poliziotti che la scomparsa di suo marito aveva un rapporto stretto con il defunto compagno di Tanuma Hisako, Sone Masusaburō: in parte perché era ancora solo una supposizione e non aveva alcuna prova al riguardo, e poi perché le pareva che la situazione fosse troppo complessa per parlarne alla polizia in quel momento.

Di nascosto da Teiko, suo marito Ken’ichi viveva in una vecchia casa colonica sulla costa del Mar del Giappone insieme a Hisako. La sua scomparsa e la morte di Sone Masusaburō, conosciuto come compagno di Hisako, erano lo stesso evento.

Poteva Hisako non sapere che Sone Masusaburō e Uhara Ken’ichi erano la stessa persona? A pensarci, dei due anni a Kanazawa, un anno e mezzo Ken’ichi l’aveva vissuto come marito di Tanuma Hisako.

Si recava ogni giorno negli uffici dell’agenzia pubblicitaria A di Kanazawa partendo dalla casa di Hisako sulla costa occidentale di Noto. E sempre da lì partiva quando andava a far visita ai vari inserzionisti della regione.

Per dieci giorni al mese, Ken’ichi doveva recarsi a Tōkyō a fare rapporto alla sede centrale. In quel lasso di tempo, Sone Masusaburō risultava in viaggio di lavoro a Tōkyō per la Murota Mattoni Refrattari. Quindi, ogni mese, il ritorno nella sede centrale di Uhara Ken’ichi coincideva con il viaggio a Tōkyō del piazzista Sone Masusaburō.

A Teiko era venuta in mente anche un’altra cosa: quando si era trasferito a Kanazawa come responsabile di zona, Ken’ichi aveva abitato all’inizio in una vecchia casa, in una piccola traversa del lungofiume. Però l’aveva lasciata dopo appena sei mesi. Quando lei e Honda vi si erano recati, l’anziana proprietaria aveva detto di non sapere dove si fosse trasferito. Secondo la signora, aveva addirittura portato via da solo le sue cose, chiamando un taxi.

Erano andati a informarsi persino alla stazione di Kanazawa, ma non erano riusciti a sapere dove si fosse diretto. Ken’ichi non voleva che qualcuno scoprisse la casa sulla costa occidentale della penisola di Noto, e si era mosso in modo da tenerla segreta. Ovviamente all’epoca ancora non sapeva nemmeno che Teiko esistesse: era ai colleghi di lavoro che aveva nascosto il luogo in cui viveva con Hisako.

Ma la famiglia di Ken’ichi, suo fratello Sōtarō in primo luogo, lo sapevano? In quel momento, le pareva possibile che Sōtarō lo sapesse. Quando aveva fatto loro visita per la prima volta, durante l’assenza di Ken’ichi, il cognato l’aveva rassicurata che suo fratello, quanto a donne, era un tipo serio. Le pareva che la sua espressione, in quel momento, fosse fin troppo enfatica: erano belle parole rivolte alla novella sposa del fratello. Però, non sembrava che la cognata sapesse niente. Sōtarō teneva nascosto il segreto del fratello persino alla propria moglie?

Le aveva detto che sarebbe andato a Kyōto per lavoro, e invece era venuto direttamente a Kanazawa. E solo alcuni giorni dopo la scomparsa di Ken’ichi.

Perché non si era precipitato lì appena sentito che era sparito?

A quel punto a Teiko venne un’idea: era più che probabile che Ken’ichi avesse rivelato la sua vita segreta solo al fratello Sōtarō. E le sembrava probabile che lo avesse fatto subito dopo che il matrimonio con Teiko era stato combinato.

Ken’ichi doveva aver pensato che, per dare inizio alla sua nuova vita, doveva porre fine a quella che aveva vissuto per ben un anno e mezzo insieme a Tanuma Hisako. Ma certo non poteva confessarglielo così facilmente, dato l’amore che lei gli mostrava. Non era assurdo supporre che perciò avesse confidato, almeno in una certa misura, quei suoi problemi al fratello.

Nel momento in cui Ken’ichi, intrappolato tra l’amore di Hisako e quello di Teiko, si era suicidato, suo fratello Sōtarō aveva saputo solo della sua scomparsa, per cui si era di certo convinto che il fratello ci stesse semplicemente mettendo più del previsto a lasciare l’amante. Forse pensava che quella di Ken’ichi apparisse a tutti come una scomparsa, perché nessuno sapeva della casa in cui viveva con quella donna. Ragion per cui Sōtarō, pur venendo a sapere che il fratello non si trovava più, non aveva fatto una piega e non si era mosso. Aveva detto, allora, che Ken’ichi sarebbe di certo rispuntato: intendeva dire che sarebbe tornato dopo aver chiuso la questione sentimentale. Era quello il motivo per cui Sōtarō sosteneva l’ipotesi che Ken’ichi fosse sano e salvo mentre tutti gli altri si preoccupavano della sua sorte.

Teiko continuava a riflettere…

Ken’ichi, però, non ricompariva. E allora anche Sōtarō aveva iniziato a preoccuparsi.

Fingendo di dover andare a Kyōto, era invece venuto direttamente a Kanazawa. E in segreto aveva dato inizio alle sue ricerche. Se non si era mosso insieme a Teiko, era perché lui era informato, almeno in parte, della situazione di suo fratello.

Almeno in parte, perché era evidente che Ken’ichi non gli aveva confidato proprio tutto. Arrivato a Kanazawa, infatti, Sōtarō si era comportato in modo alquanto strano. Si era messo, per esempio, a fare ricerche in giro per le lavanderie della città.

Probabilmente Ken’ichi non gli aveva confessato di avere una donna con cui conviveva da un anno e mezzo. E quindi non gli aveva certo detto come si chiamasse e dove abitasse. Teiko però l’aveva visto tra i passeggeri del treno proveniente dalla penisola di Noto, la sera stessa in cui era arrivato a Kanazawa. Evidentemente Sōtarō aveva immaginato che il fratello potesse nascondersi là: si poteva supporre che Ken’ichi gli avesse raccontato almeno quello. Ma, in ogni caso, non se l’era sentita di rivelargli tutto, e questo aveva reso l’accaduto inesplicabile.

2

Teiko continuava a seguire il filo del suo ragionamento…

A quel punto, era più che certo che la convivente di Ken’ichi fosse Tanuma Hisako. Le ricerche di Sōtarō erano forse partite dalla conoscenza di quel dato.

Era facile immaginare il legame tra Ken’ichi e Hisako: lui era stato, in passato, nella buoncostume del commissariato di Tachikawa. Anche da come se la cavava con l’inglese, si poteva supporre che lei fosse stata, a sua volta, una di quelle donne particolari che se la facevano con i soldati americani. Quindi, se quando Ken’ichi faceva il poliziotto a Tachikawa lei faceva la bella di notte nello stesso posto, era possibile che l’avesse conosciuta in servizio.

Forse, in quel periodo tra i due era nato un rapporto speciale. Non era possibile che, magari, Hisako avesse abbandonato quella vita e fosse tornata al proprio paese, nella penisola di Noto, proprio nel periodo in cui Ken’ichi aveva rassegnato le dimissioni dalla polizia di Tachikawa? … No, qualcosa non tornava: tra le dimissioni dalla polizia di Ken’ichi e la sua assunzione nell’agenzia pubblicitaria A restava circa un anno di vuoto. Se a quell’epoca fossero stati già insieme, avrebbero iniziato subito a convivere.

Era più naturale pensare che Ken’ichi fosse stato assunto dalla A, poi fosse stato nominato responsabile dell’area di Kanazawa e, mentre girava nella regione, in visita ai clienti, avesse incontrato Hisako per caso. All’epoca era scapolo. Perciò, dopo averla rivista e aver riallacciato i rapporti con lei, aveva deciso di andare a viverci insieme. Dopo circa sei mesi dal suo arrivo a Kanazawa, aveva quindi lasciato la stanza in affitto e portato le sue cose da Hisako, facendo di tutto perché nessuno venisse a sapere dove andava.

E doveva essersi presentato anche a Hisako con un nome finto: non aveva intenzione di sposarla, e poi, visto che intendeva comunque tornare alla sede centrale di Tōkyō, non contava di restare con lei nella casa di campagna per sempre. Sulla base di queste conclusioni, si poteva pensare che, ai tempi in cui era poliziotto, Ken’ichi conoscesse Hisako solo di vista e che lei non sapesse nemmeno il suo nome.

Poi, anni dopo, quell’incontro fortuito nello Hokuriku aveva acceso i loro sentimenti, e alla fine Ken’ichi, presentandosi come Sone Masusaburō, aveva iniziato la sua vita con Hisako. Era una situazione plausibile per uno scapolo mandato in provincia per lavoro. Adesso era chiaro che la stessa Tanuma Hisako aveva ucciso Honda Yoshio.

Perché lo aveva fatto?

Mentre si informava su di lei, Honda doveva essere venuto a conoscenza dei suoi segreti, almeno in parte. Se era plausibile che Hisako lo avesse ucciso per quella ragione, allora si poteva immaginare che sempre lei avesse assassinato anche Sōtarō, il cognato di Teiko (ma era ancora una supposizione) per lo stesso motivo. Sia Sōtarō che Honda, insomma, mentre indagavano sulla scomparsa di Ken’ichi avevano iniziato a comprendere qualcosa per cui Tanuma Hisako li aveva eliminati.

Ma quindi, di cosa si trattava? Forse il fatto che Hisako e Ken’ichi vivevano insieme in segreto? No, a Teiko non pareva normale uccidere per una cosa del genere. Doveva trattarsi di altro.

Si mise a riflettere un po’ a occhi chiusi.

Doveva essere per forza qualcosa che aveva a che fare con la morte di Ken’ichi. Se si fosse trattato non di un suicidio, ma di un omicidio, sarebbe stato plausibile che Sōtarō e Honda, entrambi avvicinatisi alla verità, fossero stati eliminati da chi l’aveva perpetrato. E in quel caso, l’omicida non poteva essere che Tanuma Hisako. Assassinato Ken’ichi, aveva fatto passare la sua morte per un suicidio, aveva ucciso Sōtarō quando questi l’aveva scoperto e poi aveva attirato in trappola Honda, uccidendo anche lui…

… Fin qui, la storia che Teiko aveva immaginato reggeva.

Però la morte di Ken’ichi era stata un suicidio. Non poteva essere un omicidio. Dal verbale della polizia sapeva che il marito, arrivato sul posto, si era messo in ordine gli abiti e, con un riflesso psicologico tipico dei suicidi, aveva appaiato le scarpe, disposto meticolosamente gli oggetti che aveva con sé e perfino scritto un messaggio d’addio. Giusto! C’era il messaggio… Era senza dubbio di Ken’ichi. Era un dato inoppugnabile.

La morte di suo marito era stata un suicidio. Ma perché Sōtarō e Honda erano stati uccisi mentre indagavano proprio sulla sua scomparsa? Non riusciva davvero a capire.

Certo, Ken’ichi si era suicidato sotto il nome di Sone Masusaburō. Il suo corpo era stato legittimamente trattato in tutto e per tutto come quello del convivente di Tanuma Hisako. Ma anche se qualcuno l’avesse scoperto, non era certo un segreto per cui ucciderlo. Teiko non capiva… non capiva… non aveva un’idea in proposito.

In ogni caso, era chiaro che fosse stata Tanuma Hisako a uccidere Honda, ma Teiko non poteva concludere in modo altrettanto definitivo che avesse ucciso anche suo cognato. I testimoni affermavano che la donna che accompagnava Sōtarō sul treno delle Ferrovie dello Hokuriku sembrava una di quelle pan pan. Questo particolare la collegava a Hisako, ma non era nemmeno assodato che fosse stata lei a uccidere Sōtarō.

Certo, era legittimo supporlo. Dal momento che era stata lei a uccidere Honda, sicuramente ne sarebbe stata in grado. Era impensabile immaginare un secondo assassino che avesse eliminato Sōtarō.

Un complice… A quel punto Teiko ebbe un’idea.

Era stato il presidente Murota a dire che Sone Masusaburō, il marito di Tanuma Hisako, era un operaio della Murota Mattoni Refrattari. E il capo dell’ufficio del personale l’aveva confermato a Honda, quando questi aveva fatto ricerche in proposito. Però, in realtà, Sone Masusaburō era Uhara Ken’ichi, e i vicini di casa, lì nella penisola di Noto, dicevano che, stando a Hisako, faceva l’agente di commercio per un’impresa.

Alla luce di quei fatti, non si poteva pensare che il presidente Murota avesse inventato che il marito di Hisako era un suo operaio dopo la sua morte? Se la cosa avesse fatto parte di un piano prestabilito, Hisako non avrebbe detto ai vicini che faceva il piazzista. Al contrario, supponendo che il signor Murota si fosse inventato che era un proprio operaio dopo la sua morte, tutto tornava. Ma perché lo aveva fatto?

A quel proposito le tornò in mente quanto le aveva spiegato la signora Murota, Sachiko: “Il marito dell’impiegata che avete appena conosciuto lavorava nella nostra fabbrica ed è venuto a mancare di recente. Mio marito mi ha detto che ha assunto anche lei, per compassione”.

Insomma, il signor Murota aveva spacciato il convivente di Tanuma Hisako per un operaio della propria fabbrica allo scopo di avere una scusa per assumere quella donna come impiegata. E poi, con la sua autorità di presidente, aveva imposto anche all’ufficio del personale di raccontare quella storia, nel caso qualcuno esterno alla ditta fosse venuto a fare domande. Ovviamente non era stata erogata alcuna buonuscita. Infatti, anche se il capo dell’ufficio del personale aveva affermato il contrario, quando Honda aveva controllato, dalla contabilità della ditta non risultava. Però doveva aver dato disposizioni affinché, se qualcuno avesse chiesto, gli fosse risposto che si trattava di un loro operaio, perché così, nei fatti, avevano riferito a Honda.

Ma come mai il signor Murota aveva avuto bisogno di un simile sotterfugio?

Era evidente che mentisse. Ma quale motivo lo aveva spinto a fingere, spacciando per un dipendente uno che non aveva nulla a che fare con la sua impresa? Era evidente che si trattava di una scusa per poter assumere Tanuma Hisako. Uhara Ken’ichi, cioè Sone Masusaburō, marito di Hisako, si era suicidato, lei aveva perso ogni forma di sostentamento e il presidente Murota l’aveva aiutata. Ma in che rapporto era il presidente Murota con quella donna, per avere una ragione particolare per aiutarla?

3

A quel punto c’era da chiedersi perché Tanuma Hisako fosse scappata a Tōkyō all’improvviso.

Honda stava indagando con ogni energia sul suo conto. Da come le aveva parlato delle proprie ricerche, pareva abbastanza sicuro del risultato. Si poteva dedurne che fosse andato piuttosto a fondo. Tanuma lo temeva. Aveva un motivo per temerlo.

Honda aveva detto a Teiko che presto le avrebbe raccontato tutto con calma, ma era morto prima di poterlo fare, quindi lei non sapeva quale genere di ricerche avesse compiuto. Però, se Hisako era fuggita a Tōkyō e, quando Honda l’aveva seguita fin lì, era arrivata a ucciderlo, doveva sicuramente nascondere un segreto terribile.

A quel punto Teiko si arenava sullo stesso scoglio di prima: di che segreto si trattava? Probabilmente era correlato alla morte di Ken’ichi, ma che segreto poteva custodire Hisako per arrivare a uccidere pur di difenderlo?

C’era una cosa che Teiko ancora non capiva. Hisako si era appena trasferita nell’appartamento di Tōkyō usando un falso nome: come faceva Honda a saperlo?

Honda era a Tōkyō per un incarico di lavoro ufficiale: in linea di massima il suo viaggio non sembrava legato alle sue indagini su quella donna. Certo, magari aveva avuto fortuna, ma come poteva sapere dove si trovasse Hisako quando lei si era trasferita appena il giorno prima in quell’appartamento? Come aveva fatto a trovarla, se lei usava un nome falso? Per un altro verso, significava che le indagini di Honda erano arrivate davvero a buon punto.

La mente di Teiko era un turbinio di dubbi.

Fino a che punto Murota Gisaku era implicato in quella storia? Teiko non riusciva a capire bene se il motivo per cui aveva aiutato Tanuma Hisako fosse del tutto indipendente o se avesse qualche rapporto con l’accaduto. Intanto però avrebbe fatto bene a incontrare il presidente Murota. Era necessario, perché era uno dei migliori clienti con cui Honda trattava per la A e, visto che era stato sempre così disponibile verso di loro in quel frangente, era anche un preciso dovere di Teiko informarlo.

Il giorno dopo Teiko telefonò alla sede centrale della Murota. Il centralinista le passò direttamente il presidente.

«Pronto, sono Murota.»

«Sono Uhara Teiko. Mi scusi se la chiamo così all’improvviso» esordì.

«Ma no, prego, mi dica» la esortò lui.

«Si è verificato un evento inatteso di cui vorrei parlarle.»

«Di cosa si tratta?»

La voce dell’uomo era tranquilla.

«Si tratta di Honda Yoshio, che lei ben conosce.»

«Ah, il buon Honda! Che ha fatto?»

Pareva fosse ancora all’oscuro di tutto. Ovviamente la questura locale non era al corrente del legame tra i due. Erano solo il responsabile di un’agenzia pubblicitaria e un suo cliente: non c’era motivo che la polizia lo informasse della morte di Honda.

«Mi hanno comunicato ieri che Honda è stato ucciso.»

«Eh?!» La voce dell’uomo aveva rimbombato nella cornetta. «Cos’ha detto?! Ripeta, per favore.»

Teiko obbedì.

«È sicuro sia Honda?»

Sui giornali del posto la notizia non era ancora apparsa. Anche se la stampa ne era stata informata, probabilmente le edizioni locali non ne avrebbero parlato prima del giorno dopo.

«È stata la polizia ad avvertirmi. Non credo ci siano dubbi.»

«Chi è stato?» domandò subito Murota.

«È stata…» iniziò Teiko. Poi esitò: l’unica a pensare che la colpevole fosse Tanuma Hisako era lei e… chissà se il presidente conosceva il nome di Sugino Tomoko.

«Sugino Tomoko?» le chiese di rimando Murota, appena Teiko completò la frase. Dal suo tono di voce pareva che quel nome gli fosse del tutto nuovo. Teiko ascoltava con la massima concentrazione, per cercare di interpretare in modo giusto la voce dell’interlocutore in ogni singolo istante. Ma, fino a quel momento, non le pareva che rivelasse particolare sgomento. E nemmeno che mentisse. Era davvero la prima volta che Murota sentiva il nome Sugino Tomoko?

«Mi perdoni, ma se lei avesse il tempo di ricevermi adesso» disse Teiko «vorrei venire a spiegarle meglio.»

Doveva incontrarlo: voleva guardarlo dritto in faccia per comprendere fino a che punto conoscesse Tanuma Hisako. Credeva che il presidente sarebbe stato restio, invece acconsentì: «Certo. Il tempo in ogni caso lo trovo. La aspetto».

Anche dopo aver chiuso la telefonata, Teiko continuò a riflettere.

Tanuma Hisako era scappata a Tōkyō di propria iniziativa? Non era partita invece su indicazione di qualcun altro, magari?

Se fosse stata convinta che il presidente Murota non avesse proprio niente a che fare con le azioni di Hisako, allora il discorso sarebbe stato diverso. Tuttavia, c’era qualcosa che le faceva supporre che la donna si muovesse secondo il volere del signor Murota. Era stato il presidente, per esempio, a farla assumere alla Murota, fingendo che il suo compagno Sone Masusaburō fosse stato un operaio della fabbrica. Hisako poteva essere corsa a Tōkyō per sfuggire a Honda, che ormai era a un passo da lei, ma non era detto che non avesse chiesto consiglio a qualcuno in proposito. Quindi, se avesse avuto l’impressione che il presidente Murota fosse a conoscenza di quegli ultimi avvenimenti, Teiko avrebbe potuto anche pensare che Hisako fosse andata via su sua indicazione.

Però, almeno a giudicare dalla voce al telefono, le era parso che il signor Murota non provasse niente di particolare, se non un sincero stupore.

Ma non le bastava ascoltare la voce per capire. Non si sarebbe convinta se non guardando di persona l’espressione di Murota, la sua reazione.

Quando arrivò alla sede della Murota, l’impiegata della portineria le disse di recarsi direttamente nell’ufficio del presidente: doveva essere stata avvisata. Inutile dire che si trattava della sostituta di Tanuma Hisako.

Il presidente la fece entrare subito. Sembrava stesse lavorando, ma si interruppe e le venne incontro.

«La notizia che mi ha dato al telefono mi ha lasciato di sasso! Cosa diamine è successo a Honda? Finire ammazzato, così, all’improvviso: stento a crederlo!»

Teiko si scusò per il tempo che gli stava facendo perdere. Il presidente Murota sembrava solo sorpreso per l’evento inatteso, e Teiko non riuscì a cogliere sul suo viso alcun indizio che potesse farle sospettare che stesse nascondendo qualcosa.

Era corpulento e aveva un bel colorito. I suoi occhi sottili le avevano sempre dato l’impressione di una brava persona e non le parve che, in quella circostanza, fossero diversi dal solito. Se era solo una finzione e stava mentendo, era proprio un attore eccezionale.

Teiko non riusciva ancora a giungere a una conclusione.

«Mi racconti meglio quanto accaduto, per favore» le chiese Murota.

Naturale che volesse saperne di più, visto che al telefono Teiko gli aveva detto solo che Honda era stato ucciso.

«Nemmeno io so molto: la polizia mi ha soltanto informato dell’accaduto» premise Teiko, iniziando a raccontare.

Non intendeva lasciarsi sfuggire nemmeno un cambiamento infinitesimale nell’espressione del signor Murota, mentre gli parlava.

«Stando a quanto mi ha detto la polizia, Honda è stato trovato morto ieri, verso mezzogiorno, in un appartamento del condominio Seifusō, che si trova al numero XXdel quartiere XX nella circoscrizione di Setagaya a Tōkyō.»

Teiko aveva tirato fuori un piccolo taccuino, e parlava consultandolo.

«Pare che l’appartamento fosse stato preso in affitto la sera prima da una donna sulla trentina, che si è presentata come Sugino Tomoko. Quindi il signor Honda sarebbe andato a trovare la signora Sugino il mattino successivo, verso le nove. E il suo corpo sarebbe stato ritrovato verso le dodici.»

Teiko alzò gli occhi e intercettò lo sguardo del presidente Murota, fisso su di lei. Aveva l’espressione di quando si ascolta con grande attenzione un discorso, scrutando l’interlocutore in volto.

«La polizia ha individuato la causa della morte nell’ingestione di cianuro di potassio.»

«Cianuro di potassio?» chiese di rimando il signor Murota.

«Sì. La polizia ne ha trovato tracce in una bottiglia di whisky che era rimasta accanto al cadavere. Quindi, stando alle ipotesi degli investigatori, questa Sugino Tomoko avrebbe offerto il whisky al signor Honda, che era andato a trovarla, avvelenandolo.»

«Capisco. Mi aveva già fatto il nome di questa Sugino Tomoko al telefono, ma che relazione aveva con Honda?»

A giudicare dalla sua espressione, il presidente Murota sembrava solo incuriosito.

«Non saprei proprio. Il signor Honda si è dimostrato un amico in occasione dei recenti avvenimenti, ma non ho idea di che vita conducesse. Non mi ha mai fatto il nome di Sugino Tomoko.»

«E la polizia che ne pensa?»

«Per il momento pare che nemmeno loro abbiano indizi sull’identità della donna. Risulta che sia uscita in tutta fretta dall’appartamento in cui è morto Honda all’ora in cui è probabile che sia avvenuto il decesso. È quello che ha testimoniato il portiere.»

Nell’ascoltarla il signor Murota si mostrava semplicemente stupito. Sbarrava gli occhi sottili e osservava Teiko senza mai nemmeno muovere le pupille. In quell’espressione di sorpresa non pareva esserci menzogna. Se riusciva a fare quella faccia per non lasciar intuire a Teiko quello che aveva in mente, era un attore senza pari.

4

Teiko sospettava che Sugino Tomoko e Tanuma Hisako fossero la stessa persona. Ma era una sua supposizione, e non sapeva ancora come stessero davvero le cose. Non era abbastanza in confidenza col presidente Murota per raccontargli congetture su Tanuma Hisako che non aveva ancora ben chiare lei stessa.

Se fosse stata sicura che Sugino Tomoko fosse Tanuma Hisako, avrebbe voluto chiedergli perché avesse fatto dire che Sone Masusaburō, il convivente di Hisako, era un operaio della Murota Mattoni Refrattari, sebbene non fosse vero. Ma, per il momento, non era il caso. Dalla sua espressione, si capiva che il presidente Murota sentiva il nome di Sugino Tomoko per la prima volta. Teiko decise di rimandare la domanda a un’altra occasione.

Però, a quel punto, poteva supporre che il presidente Murota non avesse mai visto Sone Masusaburō in carne e ossa, perché altrimenti avrebbe scoperto che Sone altri non era che quell’Uhara Ken’ichi dell’agenzia pubblicitaria A che veniva sempre a mostrargli le bozze delle inserzioni pubblicitarie. Ne derivava, quindi, che Murota avesse inventato che il defunto compagno di Tanuma Hisako fosse un operaio della fabbrica, dopo la sua morte; e, per di più, doveva averlo fatto fidandosi ciecamente di quanto diceva Hisako.

Teiko non sapeva quale rapporto ci fosse tra Murota e quella donna, ma intanto lui l’aveva assunta come impiegata nella propria ditta. Anche se era solo un lavoro di portineria, per prenderla all’improvviso alle sue dipendenze doveva avere una ragione sufficiente a convincere tutti gli altri. Si era quindi inventato che il defunto compagno fosse un operaio della fabbrica. Una manifestazione di paternalismo.

Chissà se era stata Hisako a esprimere il desiderio di essere assunta, oppure Murota lo aveva fatto di sua iniziativa. Non era chiaro. Però, in ultima analisi, il presidente Murota non conosceva Sone Masusaburō.

Quindi se aveva assunto Hisako, doveva essere per forza per via del rapporto che lo legava a lei. Le supposizioni di Teiko potevano spingersi fin lì, ma non oltre. In ogni caso, la faccia del presidente Murota, davanti ai suoi occhi, non esprimeva altro che lo stupore, assolutamente sincero, per l’incredibile storia che gli aveva raccontato.

«La polizia se ne sta occupando» disse Murota «quindi a breve questa Sugino Tomoko sarà arrestata. Visto che il crimine è avvenuto a Tōkyō, poi, è la Questura Centrale a indagare: possiamo stare tranquilli. Mah, la gente ha tante questioni personali che gli altri non conoscono: quando la colpevole verrà arrestata, si saprà cos’è accaduto.»

Da quanto diceva, si capiva che pensava a un rapporto particolare tra Sugino e Honda. Teiko non riusciva ancora a capire se quelle parole fossero espressione sincera dell’opinione del signor Murota.

In quel momento suonò il telefono sulla scrivania.

«Mi scusi» disse l’uomo, alzandosi. «Ah, sei tu?» fece a bassa voce. «Sì, certo, certo…» proseguì, rispondendo all’interlocutore. «Inizia alle sei? Allora pensi di passare da qui?»

Teiko intuì che parlava con la moglie.

«Non passi? Ah, vai prima dalla moglie del governatore? Allora non ne avresti il tempo. Va bene, non ti preoccupare.»

A quel punto la signora doveva aver detto tutto quello che aveva da dire, ma il presidente Murota riprese, cambiando tono: «Volevo informarti che ho qui la signora Uhara: è successa un’altra disgrazia».

Teiko non poteva sentirla, ma la signora Murota, stupita, doveva aver chiesto di cosa si trattasse.

«Sai Honda? Lo conosci anche tu,» disse Murota nella cornetta «il signore che era venuto insieme a lei per la questione di suo marito. Ebbene, è stato ucciso ieri a Tōkyō.»

All’altro capo del filo, invisibile ai suoi occhi, la moglie doveva aver mostrato sorpresa.

«A Tōkyō. Honda sarebbe andato a far visita a una signora, e lì sarebbe stato avvelenato con un whisky in cui avevano sciolto del cianuro di potassio. Sono rimasto di sasso! E la moglie del signor Uhara è venuta a parlarmene adesso. Sì, comunque ti racconto meglio dopo.»

La voce nel ricevitore doveva aver esclamato: “Mio Dio!”.

Murota ora stava dicendo: «No, no, non ti preoccupare». La moglie gli aveva probabilmente domandato se non fosse il caso che lei passasse in ufficio per incontrare Teiko. «Oggi non hai tempo, la signora ti scuserà.»

Murota chiuse la comunicazione e tornò a sedersi.

«Era mia moglie» spiegò. «Anche lei era sorpresa da quello che è successo al signor Honda. Voleva venire subito qui a incontrare lei, ma purtroppo oggi partecipa a una tavola rotonda in una radio locale.»

Le parve che, nel parlare di sua moglie, il signor Murota si inorgoglisse un po’. La questione di Honda sembrò in certo qual modo passare in secondo piano.

«È venuto il famoso professor A da Tōkyō e l’emittente locale ha programmato una tavola rotonda sul tema “La cultura in provincia”, invitando la moglie del governatore e la mia a partecipare.»

«Oh, mi sembra molto interessante!»

Ovviamente Teiko conosceva il nome del signor A: era professore ordinario dell’Università T e uno dei maggiori saggisti della sua generazione. Che la signora Murota partecipasse a una tavola rotonda con la moglie del governatore e con il professor A doveva significare che era una delle donne più in vista della regione.

L’idea che Teiko si era fatta di lei corrispondeva a quell’immagine. Era sempre serena e composta. Ma, allo stesso tempo, quando conversavano, l’agilità dei suoi ragionamenti rivelava saggezza e cultura. Senza dubbio a Teiko pareva appropriato considerarla una delle signore più rappresentative fra gli intellettuali del luogo.

Teiko si alzò, accomiatandosi dal signor Murota. L’uomo l’accompagnò fino alla porta.

«Oggi sono letteralmente rimasto di sasso, sentendo il suo racconto. Immagino che prima del nostro prossimo incontro verranno pubblicate nuove notizie sui giornali, e forse si saprà la verità. Venga ancora a trovarmi» le disse con gentilezza.

Niente nella sua espressione suscitava dubbi in Teiko. E tuttavia lei non poteva sapere fino a che punto fosse sincera: il presidente Murota non aveva detto una parola sulla fuga di Tanuma Hisako.

5

Erano quasi le sei quando Teiko entrò in un caffè, dopo aver camminato un po’. Per qualche motivo non aveva voglia di ritornare subito in albergo. Era l’imbrunire. Pareva che i nuvoloni neri della mattinata si fossero trasformati, senza soluzione di continuità, in un cielo notturno, e faceva un freddo terribile.

Il caffè era un piccolo locale. Lo aveva scelto apposta, per come si sentiva in quel momento: voleva un posto tranquillo. Per fortuna all’interno non c’era un apparecchio televisivo; si udiva solo la radio accanto alla cassa.

Si mise a riflettere, sorseggiando un caffè caldo.

Che Sugino Tomoko fosse lo pseudonimo di Tanuma Hisako era ormai un dato di fatto. Se Hisako aveva ucciso Honda, era perché lui le stava alle calcagna. Qual era il segreto di Hisako che Honda conosceva?

Doveva averlo scoperto mentre cercava Ken’ichi. Era probabile che, indagando su quella scomparsa, Honda si fosse imbattuto in Tanuma Hisako e avesse scoperto il suo segreto. E per questo era stato assassinato.

Anche suo cognato Sōtarō, poi, era stato ucciso mentre cercava Ken’ichi. E per di più, a giudicare dall’aspetto da pan pan della donna che allora era con lui sul treno, era possibile, in teoria, che l’omicidio fosse opera proprio di Hisako: l’inglese da pan pan di Hisako e la donna tipo pan pan al fianco di Sōtarō coincidevano alla perfezione.

Ma allora il segreto che entrambi gli uomini uccisi da Tanuma Hisako avevano scoperto doveva avere a che fare con quella sua oscura vita passata. Ovviamente non poteva trattarsi solo dell’essere stata un particolare tipo di donna nel confuso periodo del dopoguerra: non si arriva mica a uccidere per un segreto del genere! Teiko aveva però l’impressione che i trascorsi di Hisako gettassero almeno un’ombra di qualche sorta sul movente degli omicidi.

Le tornò in mente il viceispettore Hayama, che aveva conosciuto quando si era recata al commissariato di Tachikawa. Era stato amico di Ken’ichi, all’epoca in cui faceva il poliziotto. Tanuma Hisako e Ken’ichi: una donna che faceva un lavoro particolare nel caos del dopoguerra e un agente della buoncostume, di quelli preposti a tenere sotto controllo proprio quel tipo di donne. Ovviamente Teiko non riusciva proprio a immaginare quale tipo di contatto ci fosse stato tra i due. Ma era probabile che sia Honda, sia Sōtarō si fossero avvicinati in una certa misura al segreto più grande che legava Hisako a Ken’ichi. E aveva l’impressione che fosse quello il motivo della loro morte.

Giusto! Sarebbe andata a Tachikawa a incontrare di nuovo il viceispettore Hayama. Forse sarebbe riuscita a sapere qualcosa di più del passato di suo marito chiedendo a quel suo vecchio collega.

La radio diffuse il notiziario delle sei, e poi fu annunciata la tavola rotonda. Teiko si mise istintivamente in ascolto. Si ricordò di quanto le aveva detto il presidente Murota: stava per iniziare la tavola rotonda della signora Murota e della moglie dell’attuale governatore con il noto professor A come ospite d’onore.

La voce della signora Murota suonava proprio come dal vivo. I suoi accesi interventi non erano da meno dei discorsi del professor A, tanto che la moglie del governatore sembrava meno brillante.

L’incontro durò circa un quarto d’ora. Ascoltarlo era stato stimolante, come c’era da aspettarsi, dato che era il professor A, uno dei critici più à la page del momento, a parlare delle donne in provincia. Ma quello che ricopriva maggior interesse per Teiko, ovviamente, più dei contenuti era la voce della signora Murota: sentita alla radio, una voce conosciuta sembrava più interessante.

Quando la tavola rotonda si concluse, all’improvviso le arrivò alle orecchie la conversazione del tavolo accanto.

«Certo che Murota Sachiko è diventata una personalità da queste parti!»

Si girò e vide che a parlare erano tre uomini, in apparenza impiegati, tutti sui trent’anni.

«Mah, non avendo rivali all’altezza… Con il suo acume farebbe una splendida figura anche a Tōkyō» commentò un altro.

«Oh, be’, se è per questo non è che le donne di Tōkyō siano chissà che. Con un po’ di fortuna, con l’ambiente e le opportunità, lì chiunque non sia particolarmente stupido può divenire una celebrità senza grandi sforzi.»

«Allora» disse quello che pareva più anziano «è un bello svantaggio stare in provincia.»

«Infatti! Per cominciare, se sei in provincia la stampa non ti dà grande risalto. Come la giri e come la volti, chi vive al centro di tutto è avvantaggiato.»

«Comunque» disse un altro «la signora Murota ora è la migliore da queste parti. Ha in pugno tutta l’associazione culturale delle signore, e da quando ne è presidente il gruppo è diventato molto attivo, no?»

«Be’, è un genio del nostro tempo!»

Teiko ascoltò i pettegolezzi sulla signora Murota fino a quel punto, e poi uscì dal locale. Cadeva una neve asciutta e fine. Era davvero il paese delle nevi: aveva iniziato a nevicare mentre era nel caffè e un sottile strato si era già depositato sui tetti.

Quando rientrò in albergo, trovò il fuoco acceso nel kotatsu.

«Ben tornata» la salutò la cameriera, apparendo sulla porta. «Le porto la cena?»

Ma quel giorno, per qualche motivo, Teiko si sentiva oppressa, e non aveva appetito. Perciò rifiutò, dicendo che in quel momento non le andava.

«Capisco» rispose l’altra, iniziando a far scivolare le imposte scorrevoli.

Allora Teiko si accorse che in lontananza, dove un lampione illuminava solitario l’oscurità, i rami dei pini tutt’intorno erano coperti di neve.

Dopo aver finito con le imposte, la donna si inginocchiò vicino a lei. «Se ha del bucato da fare, signora, me lo dia senza complimenti.»

Pareva pensare che Teiko si sarebbe trattenuta ancora un po’.

«No, non si preoccupi. Ho approfittato a lungo della vostra ospitalità, ma penso di tornare a Tōkyō domani.»

«Ah, davvero?» la donna la guardò in volto. «Giusto! Fra tre giorni è Capodanno: immagino avrà molte cose da fare.»

Le cameriere del ryokan avevano capito che il soggiorno di Teiko non era come tutti gli altri: l’arrivo della polizia e le visite frequenti di Honda avevano senza dubbio chiarito loro che quella cliente non era lì per turismo.

Sentendoselo ricordare, Teiko si rese conto che, sì, ormai erano quasi alla fine dell’anno. Ebbe l’impressione di aver soggiornato fin troppo a lungo in quella città dello Hokuriku. Da quando era arrivata, in cerca del marito Ken’ichi, erano accadute varie cose ma, in realtà, le pareva che si fossero accumulate una sull’altra inutilmente. “Torniamo a Tōkyō…” Le era venuta voglia, all’improvviso, di vedere sua madre.

Però, quando la cameriera le aveva domandato se non avesse del bucato da fare, le era venuta in mente all’improvviso l’immagine di suo cognato Sōtarō, che girava per le lavanderie di Kanazawa. Glielo aveva rivelato Honda. Ancora non capiva bene perché Sōtarō girasse per lavanderie. Sapeva, certo, che stava cercando il bucato di Ken’ichi, ciò che non capiva era perché. Immaginò che anche questo potesse avere a che fare con la sua convivente Hisako. Aveva la sensazione che fosse stato quello strano comportamento a permettere a Sōtarō di ottenere almeno in parte dei risultati nelle sue ricerche sui segreti della vita di Hisako e sulla scomparsa di Ken’ichi.

6

Teiko era in camera e ascoltava la radio. Attraverso lo shōji vetrato, vedeva la collina bianchissima, dalle parti del giardino Kenrokuen. Non nevicava più, ma il cielo coperto di nuvole era di un gelido color piombo.

Stavano trasmettendo il notiziario delle dodici. Erano le notizie nazionali, e pensò che forse sua madre stava ascoltando quella stessa voce. Le venne voglia di tornare a casa al più presto, già quella sera.

Quando la voce passò alle notizie locali, una in particolare attirò la sua attenzione.

Il cadavere di una donna è stato ritrovato sotto un dirupo, a Tsurugi, nel distretto di Ishikawa… Questa mattina, verso le sette, la signora Yamada Kyōko, agricoltrice di XX, a Tsurugi, passando su un dirupo della zona ha scoperto il cadavere di una donna alla base dello stesso dirupo e ha presentato denuncia all’ufficio competente, che ha subito inviato un funzionario incaricato. In base alle indagini, il corpo appartiene a una donna di trentadue o trentatré anni. Dalle ferite e dalle contusioni sul capo, nonché dallo stato del cadavere, si deduce che si sia gettata dalla scogliera sul fiume Tedorigawa, alta quindici metri. Un esame approfondito ha chiarito che sarebbero passate circa tredici ore dalla morte, che quindi sarebbe avvenuta intorno alle sei del pomeriggio del giorno ventotto. La donna indossava un abito grigio, un cappotto rosso tendente all’arancione e una sciarpa bianca. Aveva una borsa che conteneva ventimila yen in contanti e degli accessori da trucco; un’etichetta nella fodera del cappotto riportava il nome “Tanuma”. Nonostante non sia stato reperito alcun messaggio d’addio, si propende per l’ipotesi di un suicidio premeditato. Inoltre, dato che la descrizione e l’abbigliamento della donna coincidono con quelli dell’assassina del signor Honda Yoshio, su cui indaga la Questura Centrale di Tōkyō, si stanno svolgendo ricerche in tal senso.

Teiko rimase senza fiato. D’istinto si irrigidì e iniziò a tremare.

Tanuma Hisako era morta…

Era sicuramente di lei che parlava la radio. Nella fodera del cappotto c’era scritto solo “Tanuma”, ma chi altri avrebbe potuto essere? Che fosse stato un suicidio premeditato dovevano averlo supposto perché si trattava della donna che aveva ucciso Honda.

Teiko si preparò subito. Venne la cameriera, che le chiese: «Esce?».

Lei le domandò come si arrivasse a Tsurugi.

«Tsurugi» fece l’altra, guardando fuori. «Potrebbe esserci molta neve lì.»

Poi le spiegò il tragitto.

Teiko andò in taxi fino alla stazione di Shiragikuchō. Aveva pensato di passare alla questura di Kanazawa, ma il corpo era stato recuperato a Tsurugi: sicuramente si trovava ancora lì, e solo lì avrebbe avuto informazioni particolareggiate. Era a Tsurugi che doveva andare.

Da Shiragikuchō fino a Tsurugi ci volevano circa quaranta minuti di treno. Quando salì in carrozza, pensò che il cognato Sōtarō doveva aver preso lo stesso convoglio.

Il treno attraversava la campagna incipriata di neve. Lungo i binari non si vedevano altri edifici a parte quelli di piccole stazioni e, all’incirca a metà strada tra queste, agglomerati di una ventina di tombe qui e lì, sparsi sulla destra o sulla sinistra.

La cameriera dell’albergo si era preoccupata per la neve, ma non se ne era accumulata poi tanta. Però le montagne erano talmente bianche che persino l’interno della carrozza su cui viaggiava Teiko ne era rischiarato.

Aveva pensato che la donna morta a Tsurugi dovesse essere sicuramente Tanuma Hisako per via del nome sulla fodera, però…

Sussultò: finalmente aveva capito che senso avessero i giri di Sōtarō per le lavanderie di Kanazawa alla ricerca della giacca di Ken’ichi.

Sōtarō cercava abiti di Ken’ichi che riportassero la scritta “Uhara”.

Quando tornava a Tōkyō e quando andava a casa di Tanuma Hisako, Ken’ichi doveva cambiarsi.

Non avrebbe potuto tornare da Hisako con il nome “Uhara” nella giacca: di fronte a lei doveva sempre e comunque presentarsi come Sone Masusaburō.

Era per quello che, probabilmente, prima di andare a casa di Hisako, Ken’ichi lasciava la giacca con il nome “Uhara” in lavanderia, mettendo al suo posto quella con scritto “Sone”, che aveva portato a lavare in precedenza.

Al contrario, quando tornava a Tōkyō, lasciava la giacca con la scritta “Sone”, ritirava quella con la scritta “Uhara” e la indossava. In pratica, la lavanderia era il luogo nel quale si cambiava.

Sōtarō doveva essere a conoscenza della vita segreta di Ken’ichi, non fosse altro che per quel particolare. Dal momento che Ken’ichi era scomparso mentre era a casa di Tanuma Hisako, in una lavanderia di Kanazawa doveva essere rimasta una giacca con il nome “Uhara”. Era il motivo per cui suo cognato la cercava in tutte le lavanderie della città. Ken’ichi non gli aveva detto il nome del negozio da cui si serviva.

A quel punto, finalmente, a Teiko parve di avere una chiara visione della doppia vita di Ken’ichi.

La stazione di Tsurugi apparteneva a una cittadina desolata. Chiese informazioni e le dissero che il commissariato si trovava lì vicino. Appena entrata nel piccolo edificio, si trovò di fronte lo sportello dell’accoglienza. Stava per rivolgere una domanda all’agente di servizio, quando sentì una voce: «Oh! Ma è lei, signora?».

Si voltò sorpresa e vide l’ispettore che era venuto in albergo ad avvisarla di quanto era accaduto a Honda.

Teiko sgranò gli occhi.

Il poliziotto, un uomo di mezz’età, aveva un’espressione stupita.

«Perché mai è venuta fin qui?» chiese, scrutandola.

«Ho sentito al notiziario radiofonico di mezzogiorno che l’assassina del signor Honda si era suicidata qui a Tsurugi» spiegò lei.

«Ah, capisco» rispose lui annuendo due o tre volte. «Sono veloci! L’hanno già detto alla radio?!» Poi, come se finalmente avesse fatto mente locale, la precedette, invitandola a seguirlo: «Prego, venga. Non possiamo parlare qui!».

Entrarono in un sobrio salottino, che probabilmente utilizzavano per gli ospiti esterni.

Teiko si sedette di fronte all’ispettore.

«Se ha sentito la notizia alla radio, saprà più o meno cos’è accaduto, immagino» esordì lui. «La polizia di Tōkyō ci aveva informati di avere indizi che ponevano l’omicida del signor Honda su un treno partito dalla stazione di Ueno e diretto da noi. Da questa mattina stavamo quindi sorvegliando le stazioni, ma, a un certo punto, dal commissariato di Tsurugi ci hanno avvisati di questo suicidio. Dal momento che aspetto e abbigliamento della suicida corrispondevano in pieno a quelli comunicati dalla polizia di Tōkyō, sono accorso in tutta fretta.»

Un agente portò del tè e il racconto si interruppe per qualche minuto.

«Tuttavia, il nome segnalato dalla polizia di Tōkyō era Sugino Tomoko. Invece nella fodera della suicida era scritto “Tanuma”. Allora ho pensato che Sugino Tomoko fosse un nome falso, e che Tanuma fosse quello vero» spiegò l’ispettore, rivelandole le proprie supposizioni. «Nella sua borsa abbiamo trovato una busta vuota con il nome della Murota Mattoni Refrattari S.p.A. Allora abbiamo chiesto alla Murota se avessero un’impiegata di nome Tanuma. Il referente degli affari generali ci ha confermato che Tanuma Hisako era una loro impiegata, addetta alla portineria.»

E con questo Teiko ebbe la certezza che Sugino Tomoko e Tanuma Hisako fossero la stessa persona.

«Abbiamo chiesto informazioni al presidente Murota» proseguì l’ispettore. «Secondo quanto dicono in ditta, questa Tanuma Hisako era scomparsa dal proprio appartamento all’improvviso, la sera del venticinque. E siccome pare che fosse andata a Tōkyō, a maggior ragione ci siamo convinti che sia stata lei a uccidere Honda Yoshio. Anche la descrizione coincide perfettamente. Non abbiamo ancora mostrato la foto del cadavere al presidente Murota, ma non mi pare sussistano dubbi.

«La nostra ipotesi è che Tanuma Hisako si sia recata a Tōkyō con il notturno del venticinque, il ventisette abbia ucciso il signor Honda, che era andato a trovarla, e sia subito fuggita qui. Probabilmente si è suicidata perché la polizia le stava alle costole per l’omicidio del signor Honda.

«Signora,» aggiunse l’ispettore «temo di averle già posto questa domanda la volta scorsa, ma davvero non sa quale relazione ci fosse tra Tanuma Hisako e il signor Honda?»

«Del signor Honda, come le ho detto l’altra volta, so solo che era un amico di mio marito, e della sua vita privata non ho alcuna idea» rispose lei. «Quindi non so assolutamente nulla della signora Tanuma Hisako.»

«Capisco» l’ispettore annuì. «Tanuma Hisako non ha lasciato nemmeno un messaggio d’addio o altro che potesse chiarire il suo rapporto con il signor Honda. Ma, visto che si è suicidata sicuramente perché aveva ucciso lui, ci interessa fino a un certo punto. Bah, dal momento che si è eliminata da sé, non la perseguiremo oltre.»

«Quando è arrivata qui a Tsurugi la signora Tanuma?»

«È arrivata» spiegò l’ispettore «ieri in tarda mattinata. Qui in città c’è un albergo chiamato Nodaya; ci è entrata a mezzogiorno circa e pare abbia trascorso tutto il tempo a riposare. Secondo una cameriera dell’albergo, la signora era spaventata e inquieta. Era pallida, e non ha mangiato molto quando le ha portato il pranzo: insomma, aveva un’aria preoccupata. Il che fa supporre che temesse di avere la polizia alle calcagna.»

A quelle parole, Teiko rifletté.

Perché Tanuma Hisako era andata apposta fin lì a Tsurugi?

Teiko aveva una sua idea in proposito: il testimone affermava che la donna che accompagnava Uhara Sōtarō sul treno delle Ferrovie dello Hokuriku il giorno in cui era stato ucciso a Tsurugi aveva un aspetto da pan pan.

Ora lei sapeva con certezza che quella donna era Tanuma Hisako. Perché era stato in quell’occasione che Hisako aveva avuto modo di conoscere la zona.

Era stata lei quel giorno a invitare Uhara Sōtarō a recarsi a Tsurugi. Era insieme a lui sul treno ma, una volta scesi alla stazione, lo aveva lasciato solo. Si poteva immaginare che all’inizio avesse chiesto a Sōtarō di seguirla in quel posto isolato dicendogli che l’avrebbe condotto da Ken’ichi. Di sicuro si era allontanata da lui promettendogli che sarebbe andata a chiedere a Ken’ichi se poteva venire all’appuntamento al Kanōya. Altrimenti Sōtarō non avrebbe avuto motivo di starsene tranquillo in un albergo dove non aveva mai messo piede prima, dicendo che aspettava qualcuno.

Al momento di separarsi, Hisako aveva dato a Sōtarō la bottiglina di whisky con il cianuro. Probabilmente gli aveva suggerito di berlo nell’attesa. A Sōtarō piaceva bere, per cui doveva averlo accettato senza nutrire alcun sospetto e, appena arrivato all’albergo, l’aveva assaggiato, allungato con acqua.

Era lì a Tsurugi che Tanuma Hisako aveva ucciso Sōtarō. Ed era alla periferia di Tsurugi che si era suicidata. Come altri, aveva seguito l’istinto umano di tornare sul luogo del delitto.

Insomma, sia la storia personale di Hisako, sia gli abiti della donna che era con Sōtarō, sia il fatto che lui e Hisako erano entrambi morti lì a Tsurugi, tutto puntava alla colpevolezza di Tanuma Hisako.

Avevano detto che quando accompagnava Sōtarō indossava abiti vistosi e, di fatto, anche il cappotto che aveva indosso da morta era di un colore chiassoso, piuttosto inadatto alla sua età.

Eppure, la polizia non sapeva ancora che Tanuma Hisako era la donna che i testimoni avevano visto insieme a Sōtarō.

Però Teiko non se la sentì di parlarne all’ispettore in quel momento.

«A che ora» domandò «la signora Tanuma ha lasciato l’albergo?»

«Stando al racconto della cameriera, erano appena passate le cinque» rispose l’uomo. «Pare che fosse ancora terribilmente agitata e che sia uscita dicendo che sarebbe tornata presto. Anche se, quando all’arrivo le avevano chiesto se intendesse fermarsi per la notte, lei aveva risposto che non lo sapeva ancora. Hanno pensato, perciò, che stesse andando a trovare qualcuno che conosceva in paese.»

«Il punto da cui si è gettata è piuttosto isolato, no?» chiese Teiko.

«Sì. Non è un posto dove di solito chi viene da fuori abbia qualcosa da fare. C’è una comunale che parte da Tsurugi e conduce in un altro piccolo centro. A un certo punto, la strada passa sul dirupo. Tra la carreggiata e l’orlo dello strapiombo ci sono circa cinque metri. Per lanciarsi è arrivata fin lì: deve essere stato per forza un suicidio premeditato.»

«La signora Tanuma non aveva nessun motivo per andare in quel piccolo centro?» chiese Teiko.

«Ce lo siamo chiesti anche noi, in origine. Ma è una frazione di appena dodici o tredici case, e abbiamo domandato a tutti i residenti: in effetti nessuno di loro conosceva Hisako. Perciò deve essere stato un suicidio: non abbiamo elementi per pensare ad altro» disse l’ispettore dopo aver vuotato la sua tazza di tè. «Purtroppo stanotte è nevicato e in quell’area si è depositato un centimetro di neve, altrimenti avremmo trovato le impronte della Tanuma, che deve aver vagato da quelle parti in preda allo sconforto… I suicidi prima di morire passano momenti penosi a tormentarsi: nel caso degli uomini troviamo grandi quantità di mozziconi di sigaretta sparsi al suolo, mentre, nel caso delle donne, si rilevano impronte lasciate vagando senza meta nell’area. Ma la neve di stanotte le ha completamente coperte.»

La spiegazione del poliziotto era finita.

In linea di massima, a quel punto si poteva considerare assodato che Tanuma Hisako si era tolta la vita per il peso della colpa di aver ucciso Honda. Alcuni punti però non erano ancora ben chiari.

Posto che Hisako avesse ucciso Honda, Teiko non era ancora convinta del movente.

Come aveva più volte immaginato, Honda doveva aver saputo per caso dell’esistenza di Tanuma Hisako mentre indagava sulla scomparsa di Ken’ichi. In seguito, era venuto a conoscenza dei precedenti della donna e aveva scoperto che lei e Ken’ichi convivevano. Ma non era troppo poco per spingere Hisako a ucciderlo? Doveva esserci una ragione più profonda, una ragione che potesse diventare il movente di un omicidio. Teiko non la conosceva ancora.

Ma non era una cosa di cui parlare con quell’ispettore.

«Il corpo è stato già portato al crematorio. Abbiamo contattato il signor Murota e siamo d’accordo che, intanto, sarà lui a ritirare i resti.»

Giusto! Tanuma Hisako era sola: non aveva più i genitori né il fratello, né altri parenti. Sarebbe stato il signor Murota a occuparsene per l’ultima volta.

Teiko ringraziò l’ispettore e si alzò.

Sulle strade di Tsurugi, mentre camminava verso la stazione, le parve che un vento freddo le soffiasse sulle spalle e nel cuore.

Entrata nell’edificio della stazione, vide che mancavano dieci minuti alla partenza del treno. Nella sala d’attesa i passeggeri sedevano intorno a una stufa. Come d’uso da quelle parti, le signore più anziane erano avvolte in ampi scialli di lana e indossavano gli stivali. Solo Teiko si distingueva, e tutti la fissavano.

Era probabile che anche Tanuma Hisako, quando era scesa in quella stazione, spiccasse allo stesso modo. Anzi, era proprio per quello che aveva attirato l’attenzione degli altri passeggeri anche quando era scesa lì la volta precedente, insieme a Uhara Sōtarō. Stando a quanto le avevano detto, quella volta la donna era arrivata lì da Kanazawa e, al ritorno, era salita su un altro treno, per Terai. Terai era la quinta stazione da Kanazawa in direzione di Fukui.

Teiko si chiedeva perplessa perché mai Tanuma Hisako fosse andata a Terai.

Una volta ucciso Sōtarō, avrebbe potuto tornarsene dritta a Kanazawa. Perché si era diretta verso ovest? Sì, poteva trattarsi di un accorgimento preso per non attirare l’attenzione usando la stessa linea all’andata e al ritorno. Però quella spiegazione non la soddisfaceva appieno.

Perché Tanuma Hisako da Tsurugi si era diretta verso Terai? Perché era andata in una stazione più a ovest di Kanazawa?

7

Teiko tornò a Kanazawa.

Doveva incontrare di nuovo il presidente Murota. Perché doveva chiedergli di Tanuma Hisako, questa volta scavando più a fondo.

All’inizio aveva pensato di telefonare per controllare la sua disponibilità, ma quando era uscita dall’edificio della stazione aveva trovato un taxi disponibile e l’aveva preso al volo. Il presidente avrebbe dovuto, di norma, trovarsi in ufficio. Se fosse stato impegnato, avrebbe atteso che si liberasse.

Arrivata alla sede centrale della Murota Mattoni Refrattari, chiese in portineria e le risposero che il presidente Murota era a Tōkyō per lavoro. Teiko rimase sorpresa.

«Chi lo desidera?» si informò la sostituta di Tanuma Hisako.

«Uhara» rispose lei. La ragazza le chiese di attendere un momento e chiamò qualcuno al telefono.

Un impiegato di mezz’età venne alla portineria. Era il capo del reparto affari generali e quando la vide la salutò con un inchino. «La signora Uhara, vero? Prima di partire il presidente mi ha incaricato di trasmetterle un messaggio, se fosse venuta. Prego.»

L’uomo la fece accomodare in un salottino.

… Il signor Murota era a Tōkyō!

Teiko si sentì tremare le gambe. Perché il signor Murota, che fino al giorno prima non sembrava averne alcuna intenzione, si era recato all’improvviso a Tōkyō?

Le avevano parlato di un viaggio di lavoro per conto della ditta, e così doveva essere. Era il presidente, quindi era naturale che potesse andare a Tōkyō in qualsiasi momento per impegni improvvisi legati agli affari della sua impresa. Però quel momento era particolare: le dava una strana sensazione che il presidente Murota fosse partito per Tōkyō subito dopo il suicidio di Tanuma Hisako.

Stando a quanto le aveva detto l’ispettore del commissariato di Tsurugi, almeno fino a quella mattina il signor Murota era a Kanazawa. Perché si era catapultato a Tōkyō appena ricevuta la notizia del suicidio di Tanuma Hisako?

«Il presidente è dovuto partire per Tōkyō a causa di un impegno improvviso e ha preso un treno stamattina poco prima delle dieci. Mi ha quindi incaricato di dirle, se fosse venuta, che tornerà subito, appena risolta la questione a Tōkyō.»

Perché il presidente Murota si era preoccupato di farle avere quel messaggio? Aveva forse intenzione di dirle qualcosa a proposito di Tanuma Hisako? Così come lei aveva delle cose da chiedergli, lui forse aveva delle cose di cui parlarle?

In quel momento, qualcuno bussò alla porta del salottino. Il battente si aprì appena e un anziano gentiluomo fece capolino.

«Mi perdoni. Ha un’ospite, vedo.»

Il caporeparto si affrettò ad alzarsi in piedi. «Mi scusi un momento» disse a Teiko.

Iniziò a discutere con l’anziano signore subito, appena uscito dalla porta.

Le loro voci le arrivavano chiare. L’uomo anziano parlava con un tono di voce alto.

«Cos’è questa storia che il presidente è in viaggio a Tōkyō?!»

«Nemmeno noi abbiamo ben chiaro di cosa si tratti. Sappiamo per certo che farà una scappata alla succursale di Tōkyō» stava rispondendo il caporeparto.

«Se voi non avete ben chiaro di cosa si tratti, non deve essere nulla di che! Con tutto quello che c’è da fare in questo momento, mi pare se la prenda un po’ troppo comoda!»

Dal modo in cui parlava, il gentiluomo doveva essere uno degli amministratori.

«Ha ragione!» fece l’altro, con un tono, però, che mostrava rispetto verso il signor Murota anche in sua assenza. «Noi stessi siamo un po’ in difficoltà, perché avremmo tante cose di cui discutere con il presidente.»

«Ho sentito che anche ieri sera, H., il responsabile del personale, aveva intenzione di parlare con lui per dirgli che i negoziati con i sindacati sono in una fase critica, e per chiedergli consiglio, ma si è trovato in difficoltà perché il presidente era sparito prima delle cinque.»

«Infatti: l’abbiamo cercato ovunque, ma senza trovarlo.»

Teiko sussultò. Il presidente Murota era andato da qualche parte prima delle cinque, il pomeriggio del giorno precedente, quindi un’ora dopo che lei aveva lasciato quell’ufficio, perciò l’orario in cui si supponeva che Tanuma Hisako si fosse suicidata, le sei del pomeriggio circa, rientrava nel lasso di tempo in cui il signor Murota risultava irreperibile.

«Certo che anche il presidente…! In un momento così critico per la ditta, cosa gli è venuto in mente?»

«La verità è che era tormentato dai problemi con i sindacati» rispose il responsabile degli affari generali, con l’aria di giustificarsi.

«Immagino sia così, ma è un po’ strano! Non si sarà mica fatto prendere da un attacco di nervi!» Il gentiluomo si lasciò sfuggire una risatina. «Quando tornerà da Tōkyō?»

«Ha detto che sarebbe tornato la mattina del trentuno.»

«Stamattina ha preso un treno presto?»

«Un po’ prima delle dieci.»

«Strano orario per partire! Così arriverà a Tōkyō alle otto di stasera, no? Non è un orario molto utile per lavorare» osservò l’anziano dirigente senza mezzi termini.

Ascoltando le sue parole attraverso la porta, Teiko si rese conto che aveva ragione: come diceva lui, arrivando a Tōkyō la sera tardi, non avrebbe avuto tempo per occuparsi di lavoro. Di solito, in caso di viaggi d’affari, era normale partire con il treno notturno e arrivare a Tōkyō la mattina.

Un po’ perché l’addetto agli affari generali non aveva saputo spiegare lo scopo di quel viaggio d’affari, un po’ per lo strano orario di partenza del treno scelto, il comportamento del signor Murota non la convinceva.

«Se il presidente è assente non c’è nulla che possiamo fare. A questo punto me ne vado» disse l’amministratore, con tono seccato.

«Sono mortificato» si scusò l’altro.

Quando il rumore dei passi si fu allontanato, il caporeparto rientrò nel salottino. Aveva un’espressione un po’ stanca.

«Mi perdoni per l’interruzione» le disse con un cenno del capo.

Ma lei non aveva bisogno di restare oltre.

«Grazie di tutto. Conto di venire di nuovo quando il presidente sarà tornato» disse esprimendogli la sua gratitudine prima di andarsene.

Fuori soffiava un vento freddo. Non nevicava, ma era un giorno bigio. Teiko si chiese se in inverno il cielo del Nord fosse sempre così.

Salita su un taxi, si diresse a casa della signora Murota.

Aveva pensato di telefonare per chiederle se fosse disponibile, ma in quel momento sentiva di volerla vedere subito. Forse sperava di riempire quel senso d’insoddisfazione che provava per non aver trovato il presidente incontrando sua moglie.

Conosceva il posto, essendoci già stata con Honda. Era una tranquilla zona residenziale, su un altopiano un po’ più elevato rispetto alla città. Non ci vollero nemmeno venti minuti di automobile.

Ecco la lunga recinzione. La dimora elegante e signorile, nello stile in voga prima della guerra che conciliava elementi occidentali con caratteristiche giapponesi, era come la ricordava. Teiko scese dal taxi.

C’erano i cedri dell’Himalaya, le palme cinesi, gli alberi di susino, e sullo steccato si arrampicavano tralci secchi di rosa rampicante. Li riconobbe, ma i suoi ricordi risalivano a prima di quando ci era andata con Honda.

Quando si era recata lì con lui l’altra volta, era rimasta a bocca aperta, e anche in quel momento se ne ricordava bene: combaciava alla perfezione con l’edificio della foto che il marito aveva infilato tra le pagine di quel libro in inglese.

Prima di suonare il campanello, Teiko guardò di nuovo la casa. La recinzione, il tetto, i muri, le finestre, le varie siepi che la decoravano: ognuno di quei particolari era una parte di quella foto, ingrandita lì davanti ai suoi occhi.

A quale scopo Ken’ichi aveva fotografato l’edificio? La spiegazione che si era data in precedenza era che, durante le sue visite a quell’importante cliente che era la Murota Mattoni Refrattari, Ken’ichi avesse suscitato nel presidente Murota un interesse che andava al di là dalle questioni lavorative, tanto da essere invitato più volte a casa sua, e che avesse scattato la foto anche come ricordo della loro frequentazione.

Ma adesso Teiko sapeva che la casa rurale ritratta nell’altra foto era l’abitazione di Tanuma Hisako nella penisola di Noto, e la foto di casa Murota non le pareva più giustificabile con la semplice spiegazione che se ne era data. Non avrebbe saputo esprimerlo chiaramente a parole, ma sentiva che doveva esserci una motivazione più solida e profonda.

Ora che guardava al presidente Murota con maggior sospetto, quella vaga intuizione non le pareva sbagliata.

Una delle due foto di suo marito ritraeva una misera casa di campagna nella penisola di Noto, l’altra una raffinata dimora arricchita da elementi stilistici occidentali sull’altopiano di Kanazawa. Teiko aveva l’impressione che vi fosse una specie di elemento comune tra quei due edifici così diversi.

Ma così su due piedi non avrebbe potuto spiegare quella sensazione.

Due o tre donne, probabilmente vicine di casa, passarono fissando Teiko, ferma davanti al cancello. Quasi avvertendo la pressione dei loro sguardi, lei suonò il campanello di casa Murota.

Fino alla porta d’ingrasso, il giardino era come quando lo aveva attraversato con Honda. A giudicare dal colore, però, l’erba doveva essere più secca.

Udì un rumore oltre la porta chiusa, che si aprì. Fu la domestica a sporgere il viso, con sguardo indagatore.

Teiko aveva già conosciuto anche lei, quando era venuta con Honda, ma l’altra la osservò e abbassò il capo, chiedendo, come se l’avesse dimenticata: «Desidera?».

«Mi chiamo Uhara. Sono venuta per vedere la signora» rispose.

«Mi dispiace,» replicò la domestica in tono gentile «ma la signora in questo momento non è in casa.»

Pur avendo avuto il presentimento che potesse essere assente, nell’udire quelle parole Teiko si sentì a disagio. Avrebbe davvero voluto incontrarla quel giorno.

«Crede che farà tardi?» domandò, mostrandosi, senza volerlo, in difficoltà.

«Sì, ha detto che sarebbe rientrata a sera» rispose l’altra, con aria lievemente dispiaciuta.

«È andata lontano?»

«Non saprei di preciso, ma è uscita perché doveva partecipare a una tavola rotonda organizzata da un giornale, con un professore universitario. Ha detto che poi avrebbe avuto un altro paio di incontri e quindi avrebbe fatto tardi.»

La signora Murota, in quanto personalità locale, era molto impegnata. Sentendo che sarebbe tornata tardi, Teiko perse la voglia di provare a ripassare: non aveva tempo, perché aveva intenzione di rientrare a Tōkyō con il treno di quella notte. Avrebbe voluto vedere la signora ancora una volta, prima di andarsene da Kanazawa, ma pazienza.

Le piaceva, la signora Murota. Era una donna bella, posata, intelligente. I dubbi che nutriva adesso sul marito di lei la sconvolgevano, ma incontrarla avrebbe calmato almeno un po’ l’agitazione che provava: le faceva quell’effetto.

Teiko pregò la domestica di porgere i suoi saluti alla signora quando fosse tornata, e uscì dal cancello.

Lì fuori, la strada era in discesa e puntava alla parte bassa della città. La vista spaziava fino alla lontana linea di costa. In fondo si vedeva quello che pareva un lago e, all’orizzonte coperto di nubi, il mare appariva di un colore cupo. Un giorno, su quella salita, era rimasta disorientata dallo sguardo intenso che Honda le aveva rivolto, quasi una confessione d’amore. Ora che era di nuovo lì, le tornò in mente.

Teiko lasciò Kanazawa con il treno notturno di quella sera e arrivò a Tōkyō la mattina. Lì splendeva il sole.

Appena scesa dal treno, si diresse nella casa di Setagaya. La madre fu felice di vederla dopo tutto quel tempo.

Parlarono di molte cose: della morte di Sōtarō, di come stava sua moglie ad Aoyama… Avevano un’infinità di argomenti.

La mamma le raccontò che il funerale di Sōtarō si era tenuto in grande stile. La moglie, che aveva prima un carattere così solare, era diventata, al contrario, una donna malinconica, e, anche se passava a trovarla ogni tanto, non sapeva come consolarla.

Ma Teiko non poteva continuare a chiacchierare con sua madre all’infinito. Voleva recarsi il prima possibile a Tachikawa.

«Ehi! Esci di nuovo?» le chiese la madre, con aria un po’ delusa.

«Sì, ma torno presto.»

Non le parve necessario spiegarle dove andava. Ovviamente non le disse nemmeno cosa dovesse fare. Nella borsa aveva un ritaglio di giornale ripiegato; era tratto da un’edizione locale della regione di Kanazawa.

Dopo circa un’ora e mezzo, Teiko arrivò davanti al commissariato di Tachikawa.

All’ingresso chiese di vedere il viceispettore Hayama. Si era presentata come Uhara, e il viceispettore venne subito. Non le parve affatto cambiato dalla volta precedente.

«Oh, che piacere rivederla!» Guardandola in volto, Hayama salutò con un cenno del capo la moglie del suo vecchio amico. «Prego, si accomodi.»

Come per l’incontro precedente, l’accompagnò in un salottino laterale.

«Mi scusi per l’altra volta» disse Teiko.

«Per carità!»

Il viceispettore si lasciò sfuggire una lamentela sulla gran quantità di lavoro che aveva in quel periodo di fine anno. Dopo aver esaurito le chiacchiere di cortesia, Teiko tirò fuori dalla borsa il ritaglio di giornale.

«Mi scusi se sono qui di nuovo a farle domande ma, quando lavorava con mio marito, intorno al 1949 o 1950 o giù di lì, conosceva quelle donne particolari che frequentavano i militari americani della zona?» gli chiese.

«Sì, le conoscevo. Qui abbiamo la base militare, per cui ce n’erano una marea, tanto che anch’io, che avrei dovuto occuparmi del traffico stradale, a volte venivo impegnato nelle retate. Immagino che per Uhara e gli altri non dovesse essere facile!» rispose il viceispettore.

Teiko aprì il ritaglio di giornale. Riportava l’articolo sul suicidio di Tanuma Hisako a Tsurugi, con una sua foto in una cornice ovale.

«Questa persona…» domandò Teiko mostrandola al viceispettore «questo volto lo riconosce?»

L’uomo prese il ritaglio. Dopo averlo appena guardato fece una strana faccia: gli era bastata una rapida occhiata per cambiare espressione.

“Ecco!” pensò Teiko. Si disse che con quell’unico sguardo il viceispettore doveva aver capito chi fosse la donna, ma le parole che l’uomo pronunciò la sorpresero.

«Questa stessa foto» disse «è venuta a mostrarmela un’altra persona non più di un’ora fa.»

«Come?!»

Teiko deglutì, e non riuscì a dire altro.

«Sì. Mi ha dato anche il suo biglietto da visita: era il presidente di non so quale ditta. Anche lui mi ha mostrato la foto e mi ha chiesto se riconoscessi questa donna… Aspetti.»

Il viceispettore estrasse dalla tasca il porta-biglietti da visita.

Teiko si sentì impallidire. Anche senza che Hayama le dicesse di chi era il nome sul biglietto, lo sapeva già.

Come previsto, trovato il cartoncino, Hayama confermò: «Sì, sì: è lui! Murota Gisaku, presidente della Murota Mattoni Refrattari S.p.A.».

Agenzia A

1

Il viceispettore Hayama passò il biglietto da visita a Teiko. Nei caratteri a stampa erano elegantemente affiancati il nome e la qualifica di Murota Gisaku.

«Capisco» si limitò a commentare Teiko, mentre si sentiva il petto in subbuglio.

Nella sede di Kanazawa della Murota aveva saputo che il presidente era partito all’improvviso per un viaggio di lavoro a Tōkyō. A quanto pareva, nemmeno l’addetto agli affari generali della Murota sapeva bene cosa andasse a fare. Ora, invece, Teiko aveva capito che non era venuto nella capitale per lavoro, ma per recarsi al commissariato di Tachikawa a chiedere di Tanuma Hisako.

Perché, però, si era precipitato lì? Come aveva collegato Tanuma Hisako al commissariato di Tachikawa? Già quello faceva pensare che il presidente Murota fosse piuttosto informato sul conto della donna. E faceva supporre anche che fosse legato a lei da qualche tipo di rapporto. Era un’impressione che Teiko aveva da un po’.

«Questo signore» domandò «che cosa le ha chiesto? Spero che la mia domanda non sia importuna…»

«No, affatto» rispose il viceispettore allegramente. «Non si tratta di un segreto istruttorio né di nulla di simile.»

Sul volto dell’uomo affiorò un sorriso.

«Quel signore ha chiesto se per caso la donna della foto non fosse una delle ragazze che, dopo la guerra, svolgevano quel particolare tipo di professione, con i soldati americani della base locale come clienti.»

Era la stessa domanda che si era preparata Teiko. Quindi nemmeno Murota era al corrente del passato di Tanuma Hisako.

Di conseguenza, l’aveva conosciuta dopo che lei aveva abbandonato quella vita particolare. E sicuramente Hisako non gli aveva rivelato il proprio passato. Proprio per questo, adesso che gli era sorto un dubbio riguardo a quel passato, era andato lì a Tachikawa.

Ma come aveva capito che Hisako era stata una pan pan che se la faceva con i militari americani? Quali indizi lo avevano condotto a tale conclusione?

A far sorgere quel sospetto in Teiko era stato il particolare inglese americano parlato da Hisako, pieno di espressioni gergali. Ma il presidente Murota avrebbe dovuto notare molto prima di lei l’inglese di Hisako. Se aveva indovinato il tipo di vita condotto in passato da quella donna, doveva essere stato sulla base di un fatto più concreto. Ma Teiko non sapeva quale.

«E lei la conosceva?»

«Mah, la foto da sola non mi dice nulla» rispose Hayama. «Anche se, all’epoca, mi sono occupato di molte di quelle ragazze, insieme a suo marito. In realtà io ero incaricato del traffico, e non era proprio il mio campo, com’era invece per Uhara. Però, visto che si mettevano in strada, le arrestavamo con la scusa di qualche violazione del codice di viabilità. Comunque ho l’impressione di aver già visto la donna nella foto.»

«Se la ricorda?» chiese Teiko scrutando il suo volto, mentre lui fissava il ritratto.

«Non posso esserne sicuro. Però, se la memoria non mi tradisce, non è la prima volta che vedo questo viso. Dato che il mio ricordo è piuttosto sbiadito, credo fosse una che stava da queste parti molto tempo fa.»

«E il suo nome è quello scritto qui nell’articolo?»

«No» il viceispettore studiava i caratteri “Tanuma Hisako” sotto la fotografia. «Mi pare fosse un nome diverso. Ma non me lo ricordo. Però, se è la donna che io penso sia, lo sapranno sicuramente nella casa dove alloggiava all’epoca.»

«Dove si trova?» chiese Teiko col fiato corto.

«Un chilometro a sud di qui. È un po’ distante dall’abitato, e ora ci sono solo fattorie. Però ci dovrebbe essere un edificio dall’aspetto in parte occidentale che contrasta con la vera casa contadina di fianco. Era il posto dove a quei tempi si raccoglievano quelle donne: casa Ōkuma. La proprietaria all’epoca se ne occupava e dava loro alloggio: immagino che, se va a trovarla, le saprà dire.»

Questa fu la spiegazione del viceispettore.

Teiko aveva sbagliato a credere che incontrandolo avrebbe appurato subito il passato di Tanuma Hisako. Lui non ne sapeva molto perché non apparteneva alla buoncostume ma alla stradale. Però era valsa la pena arrivare fin lì, visto che le aveva indicato un’altra fonte d’informazioni.

D’altra parte, era sicura che anche il signor Murota fosse stato indirizzato dal viceispettore alla stessa casa. Provò a chiederglielo, e ne ebbe conferma: l’aveva indicata anche al presidente Murota.

«Però, signora,» disse Hayama inclinando il capo dubbioso «il gentiluomo che è venuto prima di lei aveva una fotografia formato tessera, ma entrambi siete alla ricerca di questa donna, e io vorrei sapere come mai.»

Il suo sguardo era sospettoso.

2

Arrivata sul posto indicatole dal viceispettore Hayama, si accorse di esserci già passata durante la visita precedente.

Alcune case di contadini sorgevano tra alberi frangivento. Davanti a quelle, si allargavano ampie risaie. In lontananza si vedeva un dolce pendio. Dell’altopiano di Musashino, quella zona era l’estremità settentrionale. La volta precedente, Teiko aveva visto una ragazza vestita di rosso uscire da uno di quegli edifici accompagnandosi a un soldato straniero.

Come le aveva detto il viceispettore, casa Ōkuma era per metà una vecchia casa contadina nello stile tradizionale, ma subito accanto sorgeva uno strano edificio che imitava lo stile straniero. Era una costruzione economica, e appariva così rovinata che non si sarebbe detto fosse trascorsa solo una decina d’anni dalla sua edificazione. La pittura dei muri era terribilmente scrostata.

Teiko chiamò dall’esterno e la proprietaria accorse subito all’uscio. Era una donna pienotta, sui cinquantaquattro o cinquantacinque anni, con le palpebre e le guance cadenti.

Quando Teiko le mostrò la foto, l’altra indovinò subito cosa volesse. C’era da aspettarselo, visto che era già passato il presidente Murota.

«È la seconda persona a chiedermi notizie» disse la donna.

Quindi Teiko poté porle la sua domanda senza troppi preamboli.

«Come ho già detto al signore che è venuto prima di lei,» rispose la donna «non c’è dubbio che questa ragazza sia stata qui da me, tempo fa. Non si chiamava Tanuma Hisako. Avevo ricevuto un certificato di trasferimento, ma non ne ricordo niente, nemmeno che nome ci fosse scritto. Perché qui non usiamo i nomi veri. Però sono sicura che non era questo nome qui. I soldati la chiamavano Amy. Non aveva un carattere molto estroverso e, anzi, era un po’ chiusa. Però quella sua timidezza piaceva ai soldati americani, e incontrava un certo successo. Da me è stata solo un anno.»

Mentre parlava, il suo sguardo non esprimeva particolari emozioni.

«Generalmente queste ragazze fanno fatica a restare a lungo nello stesso posto: già è strano che sia rimasta un anno!»

«E questa signora» chiese Teiko «le ha più dato notizie, dopo aver lasciato casa sua?»

L’altra ridacchiò in modo un po’ strano.

«Per quanto mi faccia in quattro per loro, le donne di quel tipo, una volta uscite da qui, in genere non spediscono nemmeno una lettera di ringraziamento. Però mi pare di ricordare di aver ricevuto una cartolina da Amy.»

«E l’ha qui in casa?»

«È successo molto tempo fa. Anche provando a cercarla, non credo che la troverei» rispose la donna, con l’aria di non averne voglia.

Teiko avrebbe voluto convincerla in qualche modo a tentare: la cartolina avrebbe potuto darle informazioni chiare sull’identità di Tanuma Hisako. Dalla signora aveva saputo solo che, per quanto si ricordava, il volto della foto somigliava a quello di una donna chiamata Amy.

Stando alla signora Ōkuma, la cartolina era arrivata molto tempo prima. In effetti, dovevano essere trascorsi sette, otto anni. Non avrebbe potuto chiederle di cercarla lì su due piedi.

«Di dov’era questa Amy?»

Teiko non poteva più fare altro, a parte porle quella domanda.

«Ecco…» la signora si mise di nuovo a riflettere. «Come dicevo, all’epoca da me c’era un andirivieni di ragazze, e non ricordo chi venisse da dove. Mah, Amy di dove sarà stata…?»

Dopo aver chiuso gli occhi apatici, la signora assunse un’espressione concentrata. Era una donna di mezz’età dall’aria malata e aveva un brutto colorito, insolito per una campagnola. Tanto da far sospettare che, considerato anche che ospitava quelle ragazze, lei stessa venisse da quel particolare giro d’affari.

«Forse era dello Hokkaidō?» borbottò la signora.

Se Amy veniva dallo Hokkaidō cambiava tutto. Ma a Teiko venne in mente una spiegazione: forse aveva a che fare con la neve? Era facile immaginare che Tanuma Hisako, parlando con la signora, avesse raccontato che al suo paese cadeva molta neve, e che quella, ricordandosene vagamente, avesse creduto si trattasse dello Hokkaidō.

Lo accennò subito alla donna.

«In effetti…» alzando il volto dal pessimo colorito, l’altra tornò a guardare Teiko con i suoi occhi opachi. «Forse è come dice lei. Ricordo bene che Amy diceva che c’era tanta neve e che d’inverno non si poteva fare niente.»

«Io credo che questa donna fosse della regione Ishikawa» spiegò Teiko «Non le ha mai detto nulla di simile?»

«Ishikawa?» ripeté tra sé e sé la signora, riflettendo. «Ora che me lo dice, mi pare quasi che la cartolina venisse da lì. Ricordo anche che riportava un indirizzo della regione Ishikawa. Aspetti qui un momento. Non so se riesco a trovarla, ma provo a cercarla.»

Era una fortuna che fosse stata lei a proporsi. Teiko le chiese di farle quel favore.

Mentre l’altra era in casa, Teiko rimase in piedi nel giardino illuminato dalla limpida luce invernale. I cespugli di nandina accanto alla recinzione erano carichi di frutti rossi. Non lontano si udiva il suono dei martelli che pestavano il riso per preparare l’impasto dei mochi. All’improvviso un boato squarciò l’aria. Data la vicinanza della base militare americana, si udivano spesso i decolli e gli atterraggi degli aeroplani. Il battere tranquillo e antico dei martelli dei mochi e quel frastuono che spaccava i timpani costituivano una combinazione stranamente moderna.

Udendo il rumore della preparazione dei mochi, Teiko sentì che a breve sarebbe stato Capodanno. Era metà di novembre quando si era sposata con Uhara Ken’ichi. Il mese e mezzo che era trascorso le sembrava un tempo molto più lungo. Aveva l’impressione di essere stata, in quel periodo, trascinata in un vortice folle che girava intorno alla misteriosa scomparsa del marito. Non riusciva a non pensare che anche suo cognato Sōtarō, Honda e Tanuma Hisako avessero perso la vita inghiottiti da un gorgo nero. Si era trattato di un periodo breve, ma quegli eventi le davano l’impressione di appartenere a un tempo anomalo, che pareva essere durato anni.

Dopo circa venti minuti, la signora paffuta riaffiorò dal buio all’interno della casa. Stringendo la cartolina in una mano, mostrava un fiacco sorriso.

«Scusi l’attesa. Finalmente l’ho trovata.»

La cartolina era vecchia e ingiallita.

«Grazie!»

In quell’istante, Teiko si sentì soddisfatta. Dopo tutto era valsa la pena di arrivare fin lì.

Controllò subito il nome del mittente. Probabilmente non aveva voluto dare indicazioni precise sul proprio indirizzo, perché c’era scritto solo “Distretto di Hakui, regione Ishikawa”.

Il nome risultava essere Amy. Ma già dall’indicazione “Distretto di Hakui, regione Ishikawa” era chiaro che si trattava di Tanuma Hisako. Evidentemente non voleva far conoscere l’indirizzo dove era tornata ad abitare. E di certo le era difficile anche scrivere il suo vero nome sulla cartolina, in quel momento in cui aveva cominciato una nuova vita.

Teiko girò il cartoncino.

Dopo tutto il tempo trascorso lì da lei, ho lasciato la città e sono tornata al mio paese natale. Le sono grata per la gentilezza che mi ha dimostrato. Mi stia bene.

Grazie

Erano poche, semplici parole. Ma dimostravano chiaramente che Amy era Tanuma Hisako.

«Anche solo perché mi ha spedito questa cartolina, si capisce che Amy è una ragazza di buon cuore» disse la signora, guardando Teiko in volto. «Le altre erano per lo più soggetti impossibili. Lei era diversa: anche ai soldati piaceva perché aveva qualcosa della brava mogliettina. Quel genere di gentile ragazza giapponese che li fa contenti.»

Rise. Teiko, per sicurezza, le chiese di descriverle l’aspetto di Amy. La foto sul giornale era piuttosto sfocata; aveva incontrato Hisako una volta e ne ricordava bene il volto. La descrizione che ne fece la signora coincideva perfettamente con l’impressione che ne serbava Teiko.

«La ringrazio.»

Le restituì la cartolina.

Solo lei l’aveva vista. Ovviamente nemmeno il presidente Murota ne sapeva niente. Non che quello avesse importanza: anche lui era giunto fin lì e si era informato sulla vita passata di Tanuma Hisako prima di tornarsene a casa. La differenza era che Teiko aveva avuto una chiara conferma, sulla base di prove fattuali.

Si diresse verso la stazione. Appurare che Tanuma Hisako era stata una bella di notte che frequentava i soldati americani l’aveva intristita, sebbene se lo aspettasse. Le parve di vedere la casa di Hisako sulla costa di quel paese del Nord. L’immagine della donna che lavorava la terra in silenzio laggiù e quella della stessa donna vistosamente vestita di colori sgargianti, a braccetto coi soldati americani, si confondevano nella sua mente.

3

Arrivata a casa, trovò che erano stati recapitati dei mochi di Capodanno preparati da un negozio della zona. Ormai era sera, e il bianco dei dolcini splendeva sotto la luce delle lampade.

Ogni volta che vedeva i mochi, le pareva di tornare bambina. Le sembrò di udire di nuovo il suono della preparazione dell’impasto sentito a Tachikawa.

«Dove sei stata?» chiese sua madre.

«A trovare un’amica» mentì lei.

La verità era che le pareva inutile raccontare a sua madre più del necessario. Non le andava di parlarne. La madre pareva aver capito che non era davvero andata da un’amica, però non le fece altre domande.

A modo suo, forse immaginava cosa la figlia pensasse e cosa tentasse di fare, ora che aveva perso il marito.

Teiko andò in camera sua, in quella stanza che aveva creduto non avrebbe mai più definito camera sua. La scomparsa di Uhara Ken’ichi l’aveva ricondotta nella sua vecchia casa. Aveva portato con sé dall’appartamento in cui aveva abitato da sposata una parte dei mobili, e la madre aveva avuto l’accortezza di disporli come quando era ragazza. Ma, come c’era da aspettarsi, l’atmosfera era diversa: si era rotto qualcosa. Come una linea spezzata da una frattura direttamente connessa alla scomparsa di Uhara Ken’ichi.

Chissà cosa stava facendo in quel momento il presidente Murota. Teiko se lo chiese, mentre fissava il fuoco di braci nello hibachi.

Il signor Murota doveva essere partito da Kanazawa la mattina del giorno precedente e arrivato a Tōkyō la sera. Quel giorno doveva essere andato a Tachikawa, seguendo lo stesso percorso di Teiko in anticipo su di lei. A quel punto poteva trovarsi sul treno di ritorno a Kanazawa, oppure stava sbrigando le questioni di lavoro… Teiko fece varie supposizioni.

Ma, in effetti, era abbastanza convinta che il presidente Murota stesse vagando per le strade di una Tōkyō crepuscolare, cercando tracce di Tanuma Hisako.

Che tipo di rapporto avevano quei due? Murota era al corrente della relazione tra Hisako e Ken’ichi?

Che Hisako e Ken’ichi vivessero insieme era un dato di fatto di cui non poteva più dubitare ed era facile immaginare che il signor Murota ne fosse a conoscenza, quando si era avvicinato a Hisako.

Perché, dopo la morte di Ken’ichi, il presidente Murota aveva accolto Hisako nella propria ditta. Non era possibile che avesse conosciuto la donna solo allora, quindi il suo rapporto con lei doveva sussistere da quando il marito di Teiko era ancora in vita. Di conseguenza, il signor Murota doveva per forza sapere che i due convivevano.

Ma in tal caso, qual era la posizione del signor Murota?

Se si fosse trattato di quello che comunemente viene definito un triangolo, il signor Murota avrebbe dovuto incontrare Hisako di frequente. Ma lei viveva nascosta nella casa sulla costa occidentale di Noto, ed era probabile che non andasse quasi mai a Kanazawa. Non dovevano avere molte occasioni di vedersi, lei e il signor Murota, con tutti gli impegni che tenevano lui sempre occupato.

E allora come poteva esserci un rapporto particolare tra loro? Sia dal punto di vista temporale, sia da quello spaziale, era impossibile individuare un punto d’incontro tra il presidente Murota, che si muoveva soprattutto a Kanazawa, e Hisako, sempre chiusa in casa in un freddo villaggio di pescatori.

Ne conseguiva che il rapporto tra quei due dovesse risalire a prima che Ken’ichi e Hisako iniziassero a vivere insieme. Quest’ultima aveva lasciato Tachikawa da ben sette anni, come indicava la data sulla cartolina mostrata a Teiko dalla donna presso cui Hisako aveva abitato all’epoca. Era quindi naturale supporre che ci fosse stato un periodo in cui Hisako e il signor Murota si frequentavano, prima che Ken’ichi la conoscesse.

Non poteva trattarsi di un periodo precedente al momento in cui Hisako si era chiusa nella casa di Noto, un periodo in cui era andata a Kanazawa e si era stabilita lì? Altrimenti non avrebbe certo avuto nessuna occasione di incontrare il signor Murota.

Riordinando gli avvenimenti, Hisako, dopo aver lasciato Tachikawa e aver trascorso uno o due anni a casa sua, si era trasferita a Kanazawa. A quel punto aveva incontrato il signor Murota. Tra loro si era instaurato un qualche tipo di rapporto, che era continuato per un po’. In seguito, quando Ken’ichi era diventato responsabile della succursale dell’agenzia pubblicitaria A a Kanazawa, Hisako aveva iniziato una relazione con lui, si era allontanata dal signor Murota ed era andata a convivere con Ken’ichi.

Però, dato il rapporto che avevano avuto, il signor Murota era a conoscenza della vita che Hisako aveva condotto. E immaginare che ne fosse al corrente nel caso specifico voleva dire, probabilmente, che Hisako, di quando in quando, andava a trovare il signor Murota. Il quale, per parte sua, non aveva rinunciato a lei e, appena Ken’ichi era morto, l’aveva subito accolta nella sua ditta, spingendola a trasferirsi a Kanazawa…

Non era possibile interpretare in modo diverso il rapporto tra il signor Murota e Hisako.

Fino a che punto Honda era venuto a conoscenza di quel rapporto, nelle sue indagini sulla scomparsa di Ken’ichi?

A Teiko lui aveva raccontato quasi tutte le sue supposizioni, ma gliene aveva tenute nascoste alcune. Anche la sera in cui le aveva telefonato al ryokan che era già tardi, le aveva detto che non sarebbe andato a farle visita, data l’ora, ma che forse era sul punto di scoprire qualcosa di abbastanza interessante sulla donna della portineria. E aveva aggiunto che non avrebbe saputo nulla di preciso prima del giorno successivo.

Quando lo aveva incontrato, il giorno dopo, le aveva mostrato il curriculum di Tanuma Hisako. In quell’occasione le aveva parlato del marito di lei, Sone Masusaburō, e sicuramente all’inizio, al momento di quell’incontro, anche Honda credeva a quanto riportato sul documento. Non era possibile, però, che si fosse reso conto molto prima di Teiko di quello che lei aveva capito in seguito? Teiko credeva, cioè, che Honda avesse scoperto che Ken’ichi era Sone Masusaburō e che c’era un qualche tipo di relazione tra Hisako e il presidente Murota.

Probabilmente Honda non se l’era sentita di raccontarle tutto mentre le sue ricerche erano ancora in corso. Teiko pensava che, trattandosi di una verità sgradevole su suo marito, intendesse raccontargliela insieme a tutto il resto della sua indagine, in modo da fornirgliene anche delle prove.

Poi, però, Honda a un certo punto era andato a Tōkyō, dove Tanuma Hisako, sotto il falso nome di Sugino Tomoko, lo aveva ucciso. Lo aveva ucciso perché lui si era avvicinato troppo al suo segreto.

Perché – non era certo la prima volta che Teiko lo pensava – quella donna doveva avere un segreto tale da costringerla a uccidere Honda. Lei non riusciva assolutamente a capire quale fosse.

Non poteva credere che sarebbe stato così traumatico per Hisako se si fosse scoperto che era stata una ragazza pan pan, frequentatrice di soldati americani, o che aveva avuto un rapporto clandestino con il presidente Murota. Certo, come donna sarebbe stata disonorata. Ma non le pareva un movente tale da spingerla a uccidere un uomo.

Cosa mai poteva essere, per doversi difendere fino a quel punto? Le sue riflessioni ricominciavano daccapo in un circolo vizioso.

Le era già capitato di pensare che Hisako avesse ucciso Honda e Sōtarō per una ragione connessa alla morte improvvisa di Ken’ichi: se quella morte era un omicidio, si poteva pensare che l’assassina, Hisako, avesse eliminato sia Sōtarō sia Honda, ormai vicini alla verità, per paura che la scoprissero.

Ecco perché Teiko aveva anche supposto che la morte di Ken’ichi potesse non essere un atto volontario, ma un omicidio mascherato da suicidio. Poi però aveva scartato lei stessa quell’ipotesi.

Un muro di indizi la smentiva, a cominciare dalle circostanze della morte di Ken’ichi, che non permettevano in nessun modo di attribuirla all’azione di qualcun altro. Immediatamente prima di morire, suo marito aveva sistemato tutto. Dalle note della polizia risultava che avesse messo in ordine le sue cose, lì sul posto, e avesse lasciato un messaggio d’addio, prima di farla finita. Era possibile che uno scaltro omicida sistemasse gli effetti personali del defunto in modo da farlo apparire un suicidio, ma non poteva certo scrivere un messaggio con la sua grafia.

“Ho troppe preoccupazioni e mi è divenuto difficile continuare a vivere. Non voglio spiegarti tutti i particolari. Ho deciso semplicemente di scomparire per sempre, portando con me i miei tormenti.”

Teiko ricordava ancora con chiarezza le parole del messaggio d’addio.

Però ci aveva riflettuto.

Al suo collega Honda, verso le tre del giorno undici, Ken’ichi aveva detto che stava andando a Takaoka, sarebbe ritornato a Kanazawa il giorno dopo e poi sarebbe rientrato a Tōkyō. Che Ken’ichi avesse mentito anche su quello? Non le pareva possibile. Era persuasa che quelle parole esprimessero le vere intenzioni di suo marito. Aveva anche ricevuto una sua cartolina, in cui diceva che sarebbe tornato il dodici. Ken’ichi amava la sua novella sposa. Teiko non poteva credere che avesse mentito anche a lei.

Inoltre, continuava a credere che non ci fosse falsità nell’amore che le aveva dimostrato quando erano andati nello Shinshū in viaggio di nozze. Era davvero contento di essere stato richiamato a Tōkyō dalla sede di Kanazawa. Era così felice di mettere su famiglia con lei a Tōkyō! Teiko non riusciva a immaginare una ragione per cui potesse uccidersi.

Aveva pure supposto che potesse essersi lanciato nel vuoto d’impulso, in preda a un raptus delirante, alla fine di una difficile battaglia interiore, perché non riusciva a porre fine alla sua lunga convivenza con Hisako, ma allora non avrebbe scritto un messaggio d’addio. In quel caso sarebbe stato più logico che si uccidesse senza lasciare una riga, no…?

Quel muro di indizi le si parava di fronte irremovibile. Ma, di nuovo, si domandò se Honda non lo avesse già incrinato. A pensarci, le sue supposizioni erano sempre un passo avanti a quelle di Teiko. Allora era naturale ritenere che avesse già aperto una breccia in quel muro. Non era, anzi, proprio per questo che Hisako lo aveva ucciso?

Dopo aver seguito il filo del ragionamento fino a quel punto, Teiko sentì d’improvviso il cuore accelerare.

Ma allora Hisako aveva ucciso Ken’ichi!

Altrimenti, lei non riusciva a trovare un motivo per cui Hisako avrebbe dovuto uccidere Honda. E nemmeno un motivo per cui avrebbe dovuto uccidere suo cognato Sōtarō, che lo aveva preceduto sulla stessa linea d’investigazione. Se erano stati eliminati entrambi, era per via di quell’indagine che li univa.

Dopo aver immaginato che Hisako avesse ucciso Ken’ichi, le parve che, alla luce di quella supposizione, il movente fosse relativamente chiaro. Poiché il suo cuore ormai apparteneva a Teiko, sua novella sposa, Ken’ichi si stava allontanando da Hisako, ma quest’ultima aveva deciso che non lo avrebbe lasciato andare. Se fosse tornato a Tōkyō, come previsto, la loro vita insieme sarebbe svanita per sempre. Lei non conosceva il vero nome di Ken’ichi: era convinta che si chiamasse Sone Masusaburō. Di conseguenza non sapeva nemmeno che Ken’ichi era impiegato nell’agenzia pubblicitaria A, e men che meno che a Tōkyō si fosse appena sposato. Sapeva però che se Sone Masusaburō fosse scomparso dalla sua vita, non lo avrebbe più rivisto. Hisako non era riuscita a sopportarlo.

Non era forse probabile che avesse invitato Ken’ichi ad andare sulla falesia nella penisola di Noto, lo avesse ucciso buttandolo in mare e avesse inscenato un suicidio? Se le cose stavano in quel modo, se ne poteva capire il motivo.

Però, in effetti, anche così qualcosa non le tornava: in tal caso, infatti, Ken’ichi non avrebbe certo scritto quel messaggio d’addio!

Ancora una volta, quel messaggio le si parava davanti come un muro inamovibile.

4

La madre era venuta a darle un’occhiata e, vedendola lì seduta da sola, l’aveva invitata ad assaggiare i mochi che aveva appena arrostito.

«Grazie, ma lo farò dopo» aveva risposto lei, declinando gentilmente l’invito.

La madre non insistette oltre. Vedendo Teiko immersa nei suoi pensieri, con le mani allungate sullo hibachi alla fioca luce delle lampadine, si rimangiò le parole con cui avrebbe voluto proseguire e se ne andò.

In ogni caso, Honda era giunto al cuore dell’indagine su quegli eventi molto prima di Teiko. Ed era stato ucciso da Hisako, dopo essersi lasciato sfuggire che, a quanto gli risultava, la stessa Hisako era scappata a Tōkyō. Ma lui come faceva a conoscere il suo indirizzo? Teiko dubitava avesse avuto il tempo di fare ricerche in proposito.

Hisako aveva lasciato il suo appartamento e aveva fatto perdere le proprie tracce la sera del venticinque. Honda era andato a cercarla in quell’appartamento e aveva saputo della sua scomparsa la mattina del giorno dopo, il ventisei. La sera stessa aveva preso il treno per Tōkyō, con la scusa di un impegno di lavoro nella sede centrale. Teiko lo aveva accompagnato alla stazione di Kanazawa.

Quindi, Honda aveva avuto a disposizione solo il tempo trascorso da quando aveva scoperto la scomparsa di Hisako, la mattina del ventisei, fino alla partenza del treno la sera stessa. Come aveva fatto, in quel numero limitato di ore, a scoprire non solo l’indirizzo di Hisako a Tōkyō, ma anche l’identità fittizia che aveva assunto?

Certo, lui era a conoscenza di molte cose di cui Teiko non era informata. Ma comunque non avrebbe avuto abbastanza tempo, subito dopo la scomparsa di Hisako, per cercare l’indirizzo dell’appartamento di Tōkyō e il nome sotto cui si nascondeva.

E se anche quel tempo fosse stato sufficiente, come avrebbe fatto? In effetti, era più naturale pensare che una terza persona glielo avesse rivelato, no? In quel caso non avrebbe avuto bisogno di tempo, né di svolgere complicate ricerche.

A ripensarci adesso, era anche strano che la sera del ventisei si fosse precipitato a Tōkyō dicendo di avere all’improvviso un impegno lì. Ovviamente poteva anche avere qualcosa da fare nella sede di Tōkyō, ma era lampante che fosse una questione secondaria, e che il suo vero obiettivo fosse rintracciare Tanuma Hisako. Se era partito di corsa all’inseguimento la sera stessa in cui aveva saputo della sua scomparsa, non era forse perché qualcuno lo aveva messo sulle tracce di lei?

Sulla banchina, prima della partenza del treno, Honda aveva detto a Teiko: “Rientrerò fra tre giorni. Per allora spero di sapere qualcosa di più su Tanuma Hisako. Al mio ritorno mi darò subito da fare per chiarire questo caso”.

La sua espressione, in quel momento, era estremamente sicura di sé. Non le pareva possibile che lo dicesse solo per consolarla.

In quell’occasione, Honda aveva detto anche: “Sul curriculum di Tanuma Hisako era scritto che dal 1947 al 1951 ha lavorato presso l’impresa commerciale Tōyō di Tōkyō. Quindi penso intanto di fare un tentativo alla Tōyō”.

Teiko si era chiesta come avrebbe fatto Honda a scovare Hisako in una città grande come Tōkyō e, in quel momento, lui aveva dato una risposta al suo dubbio: avrebbe trovato qualche indizio in quella ditta commerciale. Lì per lì la spiegazione l’aveva convinta, ma ora si era resa conto che non aveva senso. Honda non aveva preso proprio in considerazione l’impresa commerciale. Detto questo, si poteva pure immaginare che avesse intenzione di rivolgersi alla Tōyō per ottenere ulteriori indizi, ma in testa doveva avere già l’idea di andare dritto da “Sugino Tomoko” nel suo appartamento di Tōkyō. Se non lo aveva rivelato a Teiko, era solo perché pensava di parlargliene quando avesse saputo tutto con certezza.

Ma allora, chi aveva rivelato a Honda il nome Sugino Tomoko, e l’indirizzo dove abitava?

Non c’era bisogno di arrovellarsi: non poteva essere stato che il presidente Murota. Era lui la persona più vicina a Hisako, l’uomo che la conosceva meglio. Era stato lui a dirle di fuggire, a indicarle l’appartamento in cui nascondersi e a imporle il falso nome di Sugino Tomoko. Quindi Honda doveva avergli carpito in qualche modo quelle informazioni.

Teiko pensava che il motivo per cui il signor Murota aveva parlato con Honda fosse che Hisako gli aveva confidato che lui le stava alle calcagna. Le indagini su di lei erano un rischio anche per il signor Murota.

Honda era andato nella casa che Hisako aveva preso in affitto sotto il nome di Sugino Tomoko; lì aveva bevuto il whisky avvelenato che lei gli aveva offerto ed era morto. Quanto al signor Murota, rivelando a Honda dove Hisako si trovasse, ovviamente si aspettava che lui le facesse visita. Il suo piano era proprio di dargli quello spunto, in modo da farlo andare da Hisako.

Quindi Teiko immaginò che il signor Murota avesse preparato il whisky avvelenato, lo avesse consegnato a Hisako prima che lei partisse, e le avesse raccomandato di offrirlo a Honda quando lui fosse andato a trovarla. Magari lei non sapeva nemmeno che fosse avvelenato! Seguendo le indicazioni del signor Murota, lo aveva servito a Honda, quando si era presentato all’appartamento di Tōkyō. E lui era caduto al suolo ai suoi piedi.

Vedere Honda morire d’improvviso lì davanti ai suoi occhi doveva aver scioccato Hisako. Era uscita di casa in fretta e furia, e quel giorno stesso era salita su un treno per far ritorno a Kanazawa.

Si sarebbe anche potuto pensare che Hisako e il signor Murota fossero complici e lei sapesse del veleno nel whisky, ma l’aria sconvolta che aveva quando era fuggita lo smentiva. Se Hisako ne fosse stata al corrente, probabilmente sarebbe stata meno goffa nel compiere l’omicidio.

Aveva lasciato le sue cose nell’appartamento di Tōkyō. E anche il suo rientro a Kanazawa la sera stessa era illogico. Se si fosse trattato di un omicidio premeditato, e lei avesse saputo del veleno, sarebbe stato più naturale che fuggisse altrove, piuttosto che tornare a Kanazawa, no? L’interpretazione più logica, insomma, era che vedendo Honda cadere all’improvviso ai suoi piedi, Hisako avesse scoperto che il whisky consegnatole dal signor Murota era avvelenato, e si fosse precipitata da lui. In quel momento doveva sentirsi confusa.

Il signor Murota, per parte sua, aveva previsto che Hisako si sarebbe spaventata e che sarebbe tornata a Kanazawa in preda al panico.

Era pronto per quell’evenienza.

Teiko immaginava che, in passato, lui e Hisako dovessero per forza usare un posto in città per vedersi. Era lì, probabilmente, che lei si era recata, tornando da Tōkyō. E da lì aveva telefonato al signor Murota, per chiedergli di raggiungerla.

Come si era mosso il signor Murota, allora?

Contattato da Hisako, le aveva detto di andare subito a Tsurugi, perché era pericoloso per lei farsi vedere a Kanazawa. Hisako era spaventata e temeva soprattutto che la polizia fosse sulle sue tracce, visto che Honda era stato ucciso dal whisky che lei gli aveva offerto. In quella situazione non aveva altra scelta che seguire senza fiatare le indicazioni del signor Murota.

Da dove si trovava, era andata a prendere un treno delle Ferrovie dello Hokuriku ed era scesa a Tsurugi. Anche lì, il signor Murota le aveva senza dubbio indicato un luogo nel quale aspettarlo.

Ma non si trattava di un ryokan o di un altro posto del genere. A differenza di Kanazawa, lì in campagna un forestiero attirava l’attenzione dei locali. Il signor Murota non avrebbe mai scelto un luogo in cui sarebbero stati facilmente notati. Kanazawa, dove viveva, non era distante da Tsurugi, per cui conosceva abbastanza la zona. Anche Hisako c’era già stata. Sicuramente avevano scelto un posto in cui avrebbero attirato meno l’attenzione, tra quelli che conoscevano entrambi. Doveva essere un posto isolato, dove la gente del villaggio non passasse dopo il tramonto.

E Hisako doveva essersi recata là per prima da sola, ad aspettare il signor Murota, che l’avrebbe raggiunta dopo, di nascosto. Non era logico pensare che fosse andata così?

Prove ce ne erano. Per esempio, che per i due omicidi fosse stato usato lo stesso sistema: Honda era morto bevendo whisky avvelenato con cianuro di potassio e Uhara Sōtarō era stato ucciso proprio con whisky contenente cianuro di potassio.

A pensarci, c’era un’altra coincidenza: Tanuma Hisako era caduta nel fiume Tedorigawa da un dirupo alla periferia di Tsurugi e Ken’ichi era morto precipitando in mare dall’alto di una scogliera della costa occidentale della penisola di Noto. Quelle analogie suggerivano una matrice comune.

Teiko provò a mettere ordine nei ragionamenti che aveva portato avanti fino ad allora.

A giudicare dalle circostanze in cui era avvenuta, la morte di Ken’ichi era un suicidio, ma l’intuito le diceva che si trattava, invece, di un omicidio. C’erano, è vero, diverse incongruenze, ma avrebbe potuto spiegarsele in seguito. In ogni caso, quel suicidio celava un mistero.

Uhara Sōtarō era andato in cerca della verità sulla morte del fratello. Era al corrente, entro certi limiti, della doppia vita che Ken’ichi conduceva a Kanazawa. Quindi doveva aver fiutato la verità sulla sua morte: qualcuno – per il momento Teiko lo avrebbe chiamato X – lo aveva attirato a Tsurugi e lo aveva ucciso.

Non c’era da sbagliare a ritenere che la donna che si trovava con lui in quella circostanza fosse Tanuma Hisako. Quindi Hisako e X erano complici, oppure Hisako era stata usata da X.

Perché Sōtarō era stato così incauto da andare a Tsurugi insieme a lei? Non aveva ancora avuto conferma della morte di Ken’ichi, quindi non poteva essere certo che fosse vivo, ma nemmeno che fosse morto. Teiko riteneva che Hisako lo avesse invitato ad andare a Tsurugi, dicendogli che Ken’ichi era lì. Gli aveva mentito, facendogli credere che il fratello avesse lasciato la penisola di Noto e si fosse trasferito in un nascondiglio a Tsurugi. Sōtarō le aveva chiesto di farglielo incontrare.

Allora Hisako lo aveva accompagnato a Tsurugi e gli aveva chiesto di aspettarla al ryokan Kanōya mentre andava a prendere Ken’ichi. A quel punto, gli aveva dato la bottiglia tascabile col whisky avvelenato.

Così si spiegava perché Sōtarō avesse detto al personale dell’albergo che attendeva qualcuno. Teiko pensava che tutte quelle manovre di Hisako rientrassero nel piano di X.

X aveva ucciso Sōtarō, ma subito dopo Honda si era messo sulle sue tracce: per la stessa ragione per cui aveva ucciso Sōtarō, X doveva compiere un altro omicidio. Alla fine, approfittando dei sospetti di Honda su Hisako, aveva spinto quest’ultima a fuggire a Tōkyō. Da X, Honda aveva saputo l’indirizzo di Hisako a Tōkyō e il nome sotto cui si nascondeva, quindi si era lanciato al suo inseguimento. X ci contava. Quando aveva mandato Hisako a Tōkyō, prevedendo che Honda sarebbe andato da lei, le aveva fatto portare con sé la bottiglia di whisky avvelenato da offrirgli. Di conseguenza X doveva essere qualcuno che sapeva della passione di Honda per il whisky.

Hisako non era stata informata dell’avvelenamento della bevanda, per cui, dopo aver visto Honda caderle morto davanti agli occhi, si era precipitata a Kanazawa, in preda al panico, a cercare aiuto per tirarsi fuori dai guai. Da una parte aveva chiesto a X spiegazioni sull’avvelenamento del whisky, dall’altra aveva domandato la sua protezione per sfuggire alle indagini delle autorità.

X e Hisako avevano un posto dove incontrarsi. Da lì lei lo aveva chiamato al telefono. L’uomo le aveva detto di andare a Tsurugi con un treno delle Ferrovie dello Hokuriku. Era tutto parte del suo piano, già da quando aveva mandato Hisako a Tōkyō.

X si era recato al luogo convenuto. Senza dubbio era sera: difficile che passasse qualcuno in quel posto isolato. Dovevano essere arrivati lì senza che nessuno li vedesse. X l’aveva di certo persuasa spiegandole che, siccome era sospettata di aver ucciso Honda, avrebbe fatto meglio a restare nascosta in campagna per un po’. Forse le aveva detto che l’avrebbe accompagnata in una casa che conosceva. Hisako gli aveva creduto.

I due stavano camminando sulla comunale che costeggia il precipizio sulla riva del fiume Tedorigawa. A un certo punto X aveva afferrato Hisako e l’aveva trascinata fino al burrone, per poi spingerla nel vuoto: aveva ottenuto lo stesso effetto finale che se si fosse lanciata da sola.

Teiko aveva immaginato tutto fino a quel punto. Poi sentì le labbra impallidire: un pensiero improvviso le aveva attraversato la mente.

Ken’ichi si era lanciato nel vuoto da un dirupo della costa occidentale di Noto. Che si fosse gettato o fosse stato spinto da qualcuno, l’effetto finale non cambiava: erano le stesse esatte condizioni di quanto capitato a Hisako in seguito. Ma sì! Suo marito era stato spinto da qualcuno!

Nel posto in cui Ken’ichi aveva scritto il suo messaggio d’addio, erano sistemati in bell’ordine le scarpe affiancate, l’agenda e gli altri effetti personali. Agli occhi di chiunque, sul luogo del delitto erano presenti tutte le prove di un suicidio. L’assassino aveva fatto in modo che lo stesso Ken’ichi creasse quelle condizioni e poi lo aveva spinto nel precipizio.

Teiko immaginò un uomo accanto a Uhara Ken’ichi in piedi sul precipizio di Noto.

Era Murota Gisaku. Ken’ichi e il signor Murota non erano legati solo dal rapporto tra l’impiegato di un’agenzia pubblicitaria e un buon cliente. Una volta Honda le aveva detto: “Sembra che il signor Uhara gli piacesse, tanto che, da un anno a questa parte, il signor Murota aveva improvvisamente duplicato le inserzioni pubblicitarie. Ed è stato l’impegno del signor Uhara ad aprire quel canale”.

Sottintendeva che Ken’ichi coltivava un rapporto di amicizia con i signori Murota, e che un agente pubblicitario non poteva dirsi capace se non aveva agganci di quel genere.

In quell’occasione Teiko si era anche un po’ meravigliata che Ken’ichi fosse tanto abile. Il Ken’ichi che conosceva lei era un tipo taciturno, un po’ malinconico, volendo. Sicuramente non un allegro uomo di mondo. Si era stupita e aveva immaginato che, evidentemente, sul lavoro gli uomini mostrassero aspetti di sé sconosciuti alle donne.

Le tornò in mente in quel momento. E non per l’ingenuo stupore che l’aveva colta allora, ma per un altro motivo che riguardava Ken’ichi.

A legare suo marito e il signor Murota non erano le sue capacità relazionali. Teiko pensava che ci fosse, tra loro, una connessione più profonda, sconosciuta agli altri. Ed era quello il motivo per cui il signor Murota gli aveva commissionato il doppio delle inserzioni che commissionava al suo predecessore.

Qual era quella connessione? Teiko immaginava avesse a che fare con Tanuma Hisako. Proprio in ragione di quel legame complesso e profondo che univa i due uomini, ammettendo pure che Ken’ichi fosse pronto a morire mentre si trovava in piedi su quel precipizio, non era strano pensare che alle sue spalle ci fosse il signor Murota. Qualcosa li aveva portati entrambi in quel luogo.

Doveva trattarsi, probabilmente, di un legame nato dopo il trasferimento di Ken’ichi a Kanazawa. Perché Teiko non aveva mai, neppure una volta, sentito i suoi cognati parlare del signor Murota. Fosse stato un rapporto nato a Tōkyō, Sōtarō o sua moglie si sarebbero lasciati sfuggire almeno un accenno a quell’amico così intimo. In realtà, anche quando aveva accompagnato la cognata a Kanazawa, non le era parso che lei sapesse del signor Murota. E nemmeno Sōtarō aveva mai fatto cenno a quell’uomo: doveva aver saputo dei signori Murota solo mentre cercava Ken’ichi.

Quindi il rapporto segreto che legava Ken’ichi al signor Murota era nato dopo l’arrivo di Ken’ichi a Kanazawa, e i cognati non ne erano stati informati.

E Ken’ichi non aveva a che fare solo con il signor Murota: frequentava casa sua e conosceva bene anche la moglie. La coppia pareva essere molto in confidenza con lui, e quando Teiko era andata da loro a chiedere del marito, dopo la sua scomparsa, si erano mostrati premurosi e preoccupati.

La signora era una bella persona, dall’aria intellettuale. A Teiko era bastata la loro breve frequentazione per capire che aveva abbastanza intelligenza e spirito d’iniziativa da tenere sotto controllo le signore dell’alta società locale.

Ma non era quindi probabile che la signora fosse a conoscenza del rapporto che legava Ken’ichi e suo marito? Se aveva accolto Ken’ichi calorosamente, era solo per cortesia nei confronti di un ospite del marito?

All’improvviso Teiko ebbe un’idea.

Era mai possibile che, intelligente com’era, la signora Murota non si fosse accorta di quanto c’era tra Ken’ichi e il marito? Teiko dubitava che il signor Murota gliene avesse parlato. Ma, data la sua perspicacia, probabilmente la signora sapeva che tra suo marito e Ken’ichi c’era di mezzo Tanuma Hisako.

Si era mostrata così premurosa, così sollecita nei confronti di Teiko, così preoccupata per la scomparsa di Ken’ichi! Forse perché aveva intuito qualcosa dal comportamento del marito? Conoscendo il suo acume, Teiko riteneva di sì.

C’era una notevole differenza di età tra la signora Murota e il marito. Stando a quanto le aveva raccontato Honda, lei lavorava presso un cliente di Tōkyō della Murota Mattoni Refrattari. Il signor Murota ne aveva fatto la sua amante e poi l’aveva sposata ufficialmente dopo la morte della prima moglie. Teiko aveva capito subito che il signor Murota amava profondamente la consorte.

Però, d’altra parte, il signor Murota aveva anche una relazione con Tanuma Hisako. Era un rapporto simile a quello che esisteva tra la stessa Hisako, Ken’ichi e Teiko.

5

Arrivò la vigilia di Capodanno.

Il giorno dopo avrebbe avuto inizio l’anno nuovo.

Era un Capodanno triste. La famiglia del cognato era in lutto e si sarebbe astenuta dalle celebrazioni. Con quello che era accaduto a Ken’ichi, avrebbe trascorso un cupo inizio d’anno pure Teiko.

Però, anche su suggerimento di sua madre, decise di andare a far visita alla cognata: in compenso non ci sarebbe andata a inizio d’anno.

Non si recava alla casa di Aoyama da molto tempo. Era la prima volta che vedeva la cognata da quando si erano salutate alla stazione di Kanazawa.

La trovò meglio di quanto credesse. Pareva che il trascorrere del tempo avesse un po’ attenuato lo choc subito.

Ricordando com’era addolorata quando si erano separate in stazione, Teiko aveva sentito un peso sul cuore mentre andava da lei, ma il volto della donna adesso era meno cupo di quanto si aspettasse: pareva tornata la solita.

«Finalmente un po’ di calma!» disse «Da quando ci siamo viste l’ultima volta, prima c’è stato il funerale, poi ho dovuto sistemare le cose… è stata dura!»

«Perdonami» si scusò Teiko. «Non ho potuto nemmeno presenziare al funerale di Sōtarō.»

«Ma no, non ti scusare! Anche per te non è facile. Si è saputo qualcosa, poi, di Ken’ichi?»

«Non molto.»

Teiko abbassò lo sguardo. Non aveva voglia di spiegarle per filo e per segno l’evoluzione degli eventi fino a quel giorno.

«Oh, ma è terribile!»

La cognata aveva aggrottato la fronte in un’espressione demoralizzata. Pareva avesse intuito che Ken’ichi era già morto, ma non avesse il coraggio di affrontare l’argomento in quel momento.

«Oggi non hai fretta, vero?» disse, con l’aria di volerla trattenere.

«No.»

Teiko girò lo sguardo nel salotto riscaldato dai luminosi raggi del sole. Dovevano aver fatto anche le pulizie di fine anno e la stanza era tutta ben in ordine.

«I bambini?» chiese.

L’altra le rispose che erano entrambi fuori a giocare.

Sarebbe stata dura per lei, da quel momento in poi: avrebbe dovuto preoccuparsi della propria sussistenza, ma anche di crescere i piccoli. Teiko la guardò. Non se la sentiva di tirare in ballo l’argomento in quel frangente. Pensò che, per quel giorno, si sarebbe limitata a trascorrere qualche momento tranquillo con lei, senza parlare di problemi. Sperava così di rasserenarla: avrebbe fatto bene a entrambe.

La cognata le offrì vari manicaretti. Quell’anno non avrebbe ricevuto ospiti a inizio anno, ma aveva comunque preparato le pietanze tradizionali.

Per un po’ continuarono a parlare di Kanazawa. Per sua cognata era stato un viaggio tristissimo, ma anche la sua prima visita a quei luoghi, e ora pareva quasi averne nostalgia.

A un certo punto bussarono alla porta. La cognata andò ad aprire, poi tornò e disse: «È una persona della ditta di Sōtarō. Ti dispiace aspettarmi per qualche minuto? Magari guarda un po’ di televisione, se vuoi».

«Sì, certo. Fai pure.»

«Scusami! Dopo continuiamo tranquillamente, eh?»

Detto questo, tornò nell’ingresso. Si sentì la sua voce invitare l’ospite a entrare in un altro salottino.

Si trovavano in una tranquilla zona residenziale e non arrivavano voci dall’esterno. I tatami erano per metà investiti dalla luce chiara e allegra del sole.

Teiko accese il televisore. Non cambiò canale, e sullo schermo comparvero due signore di mezz’età e un uomo, seduti intorno a un tavolo a discutere.

Teiko conosceva le signore, le aveva viste su qualche giornale. Una era una saggista, l’altra una scrittrice di romanzi. Il moderatore era il referente per i problemi femminili nel consiglio editoriale di un quotidiano. Il dibattito era già iniziato, e Teiko non sapeva bene di cosa stessero parlando, ma il tema era “Ricordi delle donne sull’immediato dopoguerra”.

«Ormai sono trascorsi tredici anni dalla fine della guerra. E se “dieci anni paiono un secolo”, come si dice, allora è più di un secolo! Penso che gli adolescenti di oggi non sappiano molto di quel periodo. E allora vorrei che lei, signora Kakiuchi, ci parlasse un po’ delle donne di quell’epoca» disse il moderatore.

La saggista rispose: «Ecco, all’epoca le donne erano tutte molto spaventate dall’arrivo delle truppe americane. Tuttavia, anche se a livello locale pare si siano verificati alcuni problemi relativamente seri, ritengo che in linea di massima sia andato tutto molto più liscio di quanto si temesse. Mi chiedo se non sia stata una piccola sorpresa per le signore dell’epoca scoprire che i soldati americani erano dei galantuomini, anzi di più, erano estremamente gentili verso le donne».

«In effetti» concordò la scrittrice, muovendo le labbra sottili. «Penso che questo abbia, anzi, dato alle donne dell’epoca una maggiore autostima. Gli uomini giapponesi, fino ad allora, erano dispotici ed egoisti come pochi» disse con un risolino. «Ma l’incontro con i soldati americani cambiò la visione che le donne avevano degli uomini. Si potrebbe dire, credo, che se, fino ad allora, si erano mostrate remissive nel rapporto con il sesso forte, all’improvviso ritrovarono la fiducia in se stesse.»

«Eh già» annuì il moderatore. «Perché all’epoca gli uomini erano tutti demotivati: per colpa della sconfitta, avevano perso ogni stima di sé. Da quel punto di vista le donne erano molto più reattive.»

«Quanto a questo,» continuò la saggista riprendendo il tema «concordo che i tre o quattro anni successivi alla fine della guerra siano stati, per gli uomini, un’epoca di perdita di autostima. In compenso, si può dire che le donne giapponesi abbiano affrontato le truppe d’occupazione americane con il coraggio necessario a tener loro testa.

«È indubbio che le donne siano state molto intraprendenti, tanto da apparire irriconoscibili rispetto a com’erano prima. In parte, credo, perché gli uomini erano demotivati, ma in parte anche perché, finito quel periodo deprimente in cui tutte indossavano il monpe, vestirsi all’americana, con quei colori brillanti e vistosi, psicologicamente ha risvegliato in loro un energico dinamismo.»

«Sono d’accordo!» annuì il moderatore. «Anche dal nostro punto di vista, le signore che si vestivano di tinte cupe e si facevano i monpe con scampoli di tessuti tradizionali blu scuro o dai tipici disegni a chiazze, iniziando a indossare abiti di elettrizzanti rossi, gialli o blu hanno portato una ventata d’aria fresca.»

«Quelli» interloquì la scrittrice, muovendo il mento paffuto da lattante «li fornivano gli americani, perché in Giappone vestiti ancora non se ne trovavano. Alcune delle ragazze che frequentavano le truppe di occupazione si erano americanizzate anche nell’abbigliamento, un po’ come nello strano inglese che parlavano. Credo che questo abbia distrutto in loro la vecchia idea di femminilità.»

«C’erano anche motivi economici» aggiunse la saggista. Quest’ultima era un tipo magro, a differenza della scrittrice che era rotondetta. «Durante la guerra mancavano le risorse, e dopo la sconfitta, quasi tutti i ricchi e i membri della classe media vendevano i propri averi per vivere, no? Non sono poche le donne che sono state portate alla perdizione da questi drastici cambiamenti. Però ho idea che, all’epoca, stranamente, loro non avessero l’impressione di essere portate alla perdizione. O almeno non lo sentivano in modo così chiaro.

«Tanto per cominciare,» proseguì «la mia impressione è che i soldati americani fossero il sogno delle ragazze. Gli uomini giapponesi, che fino a quel momento si erano dati tante arie, erano diventati irresoluti e abulici, per cui penso ci fosse anche una certa repulsione nei loro confronti. Quindi è comprensibile che, a differenza delle prostitute di professione dei tempi successivi, all’epoca molte di loro fossero ragazze di buona famiglia.»

«In effetti,» commentò il moderatore «ho sentito diverse storie su ragazze anche istruite, diplomate in scuole di alto livello, che sono diventate le mantenute di soldati americani. Ora che sono passati ben tredici anni da quel periodo, quelle ventenni avranno sui trentadue, trentatré anni. Chissà cosa faranno adesso.»

«Mi chiedo se» chiosò la saggista «la maggior parte di loro non si sia sistemata inaspettatamente in qualche ottima famiglia. Ci saranno state, certo, anche donne che non sono riuscite a sottrarsi a quello stato di depravazione e sono scivolate inesorabilmente in una vita senza speranza, ma credo che molte abbiano, al contrario, ritrovato se stesse e ora se la cavino egregiamente.»

«È possibile» ribatté la scrittrice. «In seguito, il giro delle cosiddette pan pan si è stabilizzato, ma nell’immediato dopoguerra tra loro si trovavano tante donne diverse, persino molte laureate di università femminili. Però penso che queste ultime si siano ormai tutte più che affrancate da quella vita. Le più grandi avranno trentacinque o trentasei anni, per cui credo che, come dice lei, contro ogni aspettativa, saranno felicemente sposate e condurranno una vita tranquilla.»

«Ma, secondo voi, in tal caso avranno rivelato al marito la loro vita passata?» chiese il moderatore.

«Questo è un problema delicato» rispose la corpulenta scrittrice, sbattendo le palpebre sugli occhi sottili. «Immagino che, per mantenere la pace in famiglia, sia meglio tacere in proposito. Magari non quelle che si sono sposate direttamente dopo aver iniziato quel mestiere, ma quelle che a un certo punto sono uscite dal giro, hanno trovato un posto di lavoro rispettabile e si sono legate a qualcuno che hanno conosciuto lì, penso che, in linea di massima, mantengano il segreto. Però credo che ne abbiano il diritto.»

«Certo! Su questo siamo d’accordo» annuì la saggista. «Mah, l’immediato dopoguerra in Giappone è stato un’epoca in cui tutto pareva un incubo: dev’essere stato terribile per quelle persone. Ma se sono riuscite, a costo di grandi sforzi personali, a costruirsi una nuova vita, mi sento di salvaguardare la loro felicità, lasciandole in pace.»

«Giusto!» annuirono entrambi gli altri.

«Anche ora, in generale, si vedono tanti abiti vistosi in giro, ma non c’è l’atmosfera dell’epoca» disse il moderatore.

«Ha ragione. Perché, in effetti, adesso c’è grande prosperità e una profusione di capi d’abbigliamento, per cui siamo in condizione di scegliere i colori che più ci piacciono. E poi mi pare che, rispetto ad allora, le donne ora padroneggino le mode, e siano ormai in grado di esprimere la propria personalità attraverso di esse. Perché invece, come è stato detto poco fa, all’epoca era un’imposizione degli americani.»

«Però ancora oggi si continuano a incontrare signore vestite esattamente con gli stessi abiti di allora!»

«Be’, saranno donne che praticano quel mestiere, immagino!» disse la saggista. «Adesso, chi ha lasciato quel mondo veste abiti il più possibile diversi da quelli, secondo me.»

La conversazione proseguì su altri temi, dilungandosi vivacemente sulle ultime tendenze della moda, per passare poi ai rapporti tra uomini e donne e via discorrendo.

Il seguito Teiko non lo sentì nemmeno più: a un certo punto, mentre ascoltava, era sbiancata.

6

La mattina, Teiko arrivò a Kanazawa.

Era il primo dell’anno e, a esclusione degli alimentari davanti alla stazione, le strade erano un susseguirsi di negozi chiusi, secondo un copione tipico di Capodanno. Tutto era coperto da un sottile strato di neve.

Era la sua terza visita a quella città. Nel cielo nuvole grigie si susseguivano a sporadiche aperture. Su una parte dei tetti, chiazze di luce migravano col sole.

La stazione era affollata. Si trattava per lo più di gente in vacanza per Capodanno, e gli sciatori erano numerosi. Durante la notte trascorsa in treno, Teiko non aveva quasi chiuso occhio per via del chiasso che facevano i viaggiatori provenienti da Tōkyō.

Era difficile trovare un taxi. Alla fine riuscì a prenderne uno e si diresse a casa dei Murota. C’era neve anche sulla salita che conduceva all’altopiano che ormai conosceva. Tutte le case esponevano i pini decorativi di Capodanno e si percepiva l’atmosfera tipica del borgo antico. In quel giorno di festa, Teiko era corsa lì per una questione penosa, e la cosa la intristì.

Suonò il campanello della porta dei Murota e venne ad aprirle la donna di servizio. Davanti a sé Teiko vide in bella mostra il vassoio dove gli ospiti mettevano il loro biglietto da visita. Era la stessa domestica della volta precedente, ma ovviamente era abbigliata con un’eleganza idonea al periodo di festa.

«Vorrei vedere il presidente» disse Teiko.

L’altra si inchinò gentilmente, e poi rispose: «Il signore è assente da ieri».

«E potrebbe dirmi dove è andato?»

Teiko si stava chiedendo se non si fosse recato di nuovo a Tōkyō. Ma non era così.

«Alle terme di Wakura, come ogni anno.»

Wakura si trovava a poco più di due ore di treno da Kanazawa, verso il centro dell’area orientale della penisola di Noto. Non era lontano da Nanao, dove la Murota aveva uno stabilimento produttivo. Era l’impianto dove Honda si era recato poco tempo prima a indagare su Hisako.

«Posso vedere la signora, allora?» domandò Teiko.

«È partita anche lei con il signore» rispose la donna, con aria dispiaciuta.

Teiko immaginò che avessero l’abitudine di trascorrere insieme il Capodanno in quella località termale. Probabilmente sarebbero tornati due o tre giorni dopo. Lo chiese alla domestica e si sentì rispondere che, da programma, non sarebbero rientrati prima del quattro.

«Mi scusi, per caso sa in quale albergo alloggiano?»

Pensava di raggiungerli subito sul posto.

«Sì, certo.»

Non era la prima volta che Teiko faceva visita ai Murota, e la domestica la conosceva di vista, per cui non esitò a rivelarle il nome dell’albergo.

Lasciata la casa, Teiko si diresse nuovamente alla stazione di Kanazawa. Il giorno precedente aveva nevicato, e i monti della catena dello Hakusan si stagliavano bianchi sullo sfondo delle nuvole color antracite.

Teiko prese il treno da Kanazawa, diretta alle terme di Wakura. Anche quella linea locale era piena di passeggeri in viaggio per Capodanno. Pareva fossero tutti diretti alle terme di Wakura. Era il suo terzo viaggio anche su quella linea: la prima volta era stata quando si era recata a Takahama, sulla costa occidentale, perché la polizia le aveva comunicato il ritrovamento del cadavere di un suicida; la seconda volta era andata a cercare la casa di Tanuma Hisako, alla periferia sempre di Takahama. In entrambe le occasioni aveva cambiato treno lungo il percorso, alla stazione di Hakui, ma questa volta avrebbe proseguito sullo stesso convoglio, diretta a nord.

A un certo punto apparve un lago dall’aria gelida. Alla stazione successiva Teiko lanciò uno sguardo dal finestrino e vide salire sul treno un gruppo di uomini che portavano il pescato del lago in alcune ceste.

Oltrepassata quella di Hakui, che già conosceva, il treno si fermò in una serie di piccole stazioni: Chiji, Kanemaru, Notobe. Da lì la montagna iniziava a incombere enorme su un lato. Superare quei piccoli posti sconosciuti, chissà perché, le fece tristezza. Sulla banchina coperta di neve, il capostazione seguiva con lo sguardo la partenza del treno agitando il bastone pilota.1Per lo più, le donne che dalla banchina entravano nell’edificio della stazione avanzavano curve, avvolte in scialli quasi tutti neri. A ogni fermata, si mischiavano a loro pescivendoli ambulanti. Mentre guardava distrattamente fuori dal finestrino, Teiko pensava al prossimo incontro con i Murota.

Il dibattito che aveva seguito alla televisione mentre era a casa della cognata ad Aoyama le aveva suggerito un’idea. I partecipanti a quell’incontro dicevano che non erano poche le donne finite a fare un certo tipo di lavoro con i soldati americani nell’immediato dopoguerra che si erano poi felicemente ricostruite una vita e avevano trovato il loro posto in famiglie tranquille. Si poteva dire che quel discorso le avesse aperto gli occhi: nell’istante in cui lo aveva udito, lo spesso muro che le aveva impedito la vista fino a quel momento era crollato.

L’immagine che il crollo del muro le aveva chiaramente rivelato mostrava Tanuma Hisako come una di quelle donne. Ma non solo lei. Teiko aveva visto anche un’altra donna. Una donna che, fino a quel momento, non aveva neppure preso in considerazione.

Aveva pensato che il colpevole fosse Murota Gisaku. Ma si era sbagliata. Ora lo aveva sostituito con sua moglie Sachiko. In quel modo ogni pezzo del puzzle trovava posto senza sforzo.

Ken’ichi una volta aveva detto al suo collega dell’epoca, il viceispettore Hayama: “Le pan pan sono ragazze ignoranti, ma alcune di loro sono in gamba. Qualcuna ha anche un’educazione di un certo livello e una bella testa. Stando a contatto con loro, impari a conoscerle, a capire chi sono davvero”.

Glielo aveva raccontato il viceispettore Hayama quando era andata a parlare con lui. Teiko aveva individuato nella signora Murota, Sachiko, una di quelle donne intelligenti e solide.

Non sapeva molto della sua vita passata. Le avevano detto che era la seconda moglie del signor Murota, il quale l’aveva conosciuta in occasione di una visita d’affari nella ditta di Tōkyō presso cui lei lavorava in quel periodo, si era innamorato di lei e ne aveva fatto la sua amante; l’aveva poi sposata legalmente quando la prima moglie era deceduta.

Ken’ichi aveva lavorato come agente della buoncostume nel commissariato di Tachikawa. In quel periodo aveva avuto a che fare con molte donne di quel genere. Non dovevano essere poche quelle che magari vedeva spesso, senza però conoscerne né il nome né il passato. Una di loro era Tanuma Hisako, l’altra Murota Sachiko.

… Ecco cosa aveva pensato Teiko.

Secondo lei, quando Ken’ichi era diventato responsabile della succursale di Kanazawa dell’agenzia A e aveva iniziato a girare lo Hokuriku, aveva incontrato per caso Hisako, sua conoscenza dei tempi di Tachikawa. Pur riconoscendone il volto, Hisako probabilmente non sapeva il suo nome. Altrimenti lo stratagemma di presentarsi col nome falso di Sone Masusaburō non avrebbe funzionato. Il discorso del matrimonio con Teiko era ancora di là da venire, e quell’incontro fortuito aveva portato Ken’ichi ad abbandonare la sua vita da scapolo per andare a vivere con Hisako.

In quella situazione, non era mai stata intenzione di Ken’ichi sposare Hisako. Le aveva quindi mentito sulla propria identità e sul proprio mestiere, spacciandosi per un piazzista di nome Sone Masusaburō.

Nel frattempo, però, aveva conosciuto per lavoro il signor Murota, ne aveva guadagnato la confidenza e aveva incontrato anche sua moglie Sachiko. Probabilmente era accaduto in occasione di una visita della signora alla sede della ditta del marito.

Chissà quanto erano rimasti sorpresi, in cuor loro, per quell’incontro, quando si erano trovati faccia a faccia. Ma per la signora Sachiko, la sorpresa si era man mano mutata in terrore.

Aveva sposato il signor Murota tacendogli del suo passato, e ormai era diventata una delle signore più in vista della zona di Kanazawa. Quell’incontro improvviso con una persona che conosceva i suoi oscuri trascorsi l’aveva gettata in preda a inquietudine e paura.

Ken’ichi però non aveva nessuna intenzione particolare nei confronti della signora Murota. Di certo, scoprendo che si era ricostruita una vita, anzi, che era diventata un personaggio in vista, doveva aver gioito della sua buona sorte. Il loro rapporto ai tempi di Tachikawa era stato solo quello fra un poliziotto e una prostituta. Come nel caso di Hisako, dovevano conoscersi solo di vista. Era probabile, però, che dopo quel nuovo incontro il rapporto fosse diventato un po’ più complicato.

La signora Murota doveva essersi di certo tranquillizzata quando aveva capito che Ken’ichi non aveva cattive intenzioni, che non avrebbe raccontato in giro del suo passato né l’avrebbe ricattata. E per quel motivo aveva dovuto mostrargli una particolare benevolenza. Quella signora dell’alta società, che un tempo era stata una prostituta, di certo temeva più della morte che il suo passato potesse essere svelato per bocca di Ken’ichi. Così aveva esercitato la sua influenza sul marito in modo da aiutare Ken’ichi nel suo lavoro. Ecco svelato il segreto dell’improvviso raddoppio delle commesse di campagne pubblicitarie all’agenzia A da parte della Murota Mattoni Refrattari.

Il presidente Murota, ovviamente, era all’oscuro di tutto. Perciò, quando sua moglie Sachiko aveva preso a benvolere quel rappresentante di nome Uhara Ken’ichi, non aveva dato troppo peso alla cosa, e si era mostrato anch’egli bendisposto verso di lui. Era il motivo per cui lo scapolo Ken’ichi era invitato a pranzo o a cena a casa Murota, di tanto in tanto.

Per parte sua, la signora aveva pensato di prendere Ken’ichi sotto la propria ala protettrice con quell’atteggiamento amichevole, al solo scopo di far sì che non rivelasse il suo passato. Ken’ichi non aveva mai pensato di farlo, eppure Sachiko doveva senza dubbio vivere con quell’angoscia perenne.

Era riuscita finalmente a costruirsi una vita felice, addirittura invidiabile, giungendo perfino a occupare la brillante posizione di signora dei salotti bene della regione. Non avrebbe mai rinunciato a quell’onore e a quella felicità. Perciò l’esistenza di Ken’ichi le riempiva l’animo di apprensione, come un mucchietto di nuvole nere in un cielo azzurro.

D’altra parte, lo stesso Ken’ichi aveva un buon motivo per angosciarsi: il rapporto che lo legava a Tanuma Hisako, con cui conviveva senza aver mai avuto l’intenzione di sposarla.

Sapeva che il suo incarico a Kanazawa si sarebbe concluso nel giro di uno o due anni. Aveva sempre pensato, sin dall’inizio, che anche la loro convivenza sarebbe durata solo per quel periodo. Per questo aveva mentito persino sul proprio nome, in modo da non avere problemi in seguito. Se ne deduceva che, ai tempi di Tachikawa, quando Ken’ichi era nella buoncostume, Hisako lo conosceva solo di vista, e non sapevano niente l’una dell’altro. Altrimenti lui non avrebbe potuto presentarsi sotto falso nome.

E qui a Teiko venne in mente un’altra cosa.

La convivenza di Ken’ichi con Hisako era durata un anno e mezzo. Lei doveva essersi innamorata sempre più profondamente di Sone Masusaburō. Era stata fedele al suo compagno e gli si era dedicata con tutta l’anima. In quel lasso di tempo, in diverse occasioni dall’agenzia avevano proposto a Ken’ichi un trasferimento a Tōkyō. Lui aveva rifiutato ogni volta. Perché rifiutare un ambito incarico nella sede centrale? Ora Teiko capiva quel mistero.

Ken’ichi non riusciva ad affrancarsi dalla vita con Hisako, per via dell’amore premuroso di cui lei lo faceva oggetto. Dapprima aveva progettato di far sparire Sone Masusaburō e tornare a Tōkyō come Uhara Ken’ichi appena gli fosse stato proposto il trasferimento nella sede centrale, ma poi, trattenuto dall’amore fin troppo appassionato di Hisako, non era riuscito a scappare.

Tuttavia, alla fine si era presentata una circostanza che l’aveva fatto decidere a separarsi da Hisako: il matrimonio con Teiko.

7

Quando Ken’ichi le aveva chiesto consiglio, la signora Murota gli aveva suggerito il “suicidio”. Senza dubbio gli aveva spiegato che suicidandosi avrebbe stroncato qualsiasi velleità di Hisako di tentare di rintracciarlo. Ovviamente si sarebbe trattato di un finto suicidio, architettato per tornare, in realtà, a Tōkyō.

Nel caso specifico per fortuna Ken’ichi conviveva con Hisako sotto le mentite spoglie di Sone Masusaburō, ed era quindi una persona “diversa”. Di conseguenza, anche se Sone Masusaburō fosse morto, nessuno avrebbe nutrito dubbi su Uhara Ken’ichi. In effetti, persino Hisako era del tutto convinta che l’identità di Sone Masusaburō fosse autentica. La signora Murota doveva aver persuaso Ken’ichi che non esistesse un modo migliore.

Ecco spiegato il mistero del messaggio d’addio di Ken’ichi: aveva scritto quelle parole come Sone Masusaburō e aveva lasciato tutte le sue cose ben sistemate sul posto, ricreando l’ambientazione tipica di quando qualcuno si butta da una scogliera.

Ken’ichi non indossava mai la giacca con il nome Uhara sull’etichetta, quando andava da Hisako.

Era normale, per lui, premurarsi di indossare abiti con dentro il nome Sone.

Quindi, quando partiva da Kanazawa per recarsi a casa di Hisako sulla costa occidentale della penisola di Noto, lasciava in una lavanderia in città gli abiti in cui era cucita la targhetta col nome Uhara, e lì sul posto li cambiava con quelli di Sone Masusaburō.

Ken’ichi rientrava per comunicazioni nella sede di Tōkyō per dieci giorni al mese. Erano gli stessi giorni in cui Sone Masusaburō era in “viaggio di lavoro”. Gli altri venti giorni li trascorreva nell’ufficio di Kanazawa o in giro sulle strade dello Hokuriku per le sue visite ai clienti. Erano i giorni in cui Sone Masusaburō tornava a casa di Hisako.

Suo cognato Sōtarō sapeva del cambio di giacca. Il che le faceva pensare che Ken’ichi avesse rivelato al fratello la propria doppia vita, almeno entro certi limiti.

Dunque, su suggerimento della signora Murota, magari seguendo le sue istruzioni, Ken’ichi aveva preparato tutti i “particolari del suicidio”. Era stato il giorno in cui aveva lasciato il suo successore, Honda, dicendogli: “Stasera non posso tornare a Tōkyō, ma domani vengo a Kanazawa e parto per riprendere servizio nella sede centrale”. Poi Ken’ichi era tornato al paese di Hisako, e la sera stessa era andato su quello strapiombo, non lontano dalla casa della donna.

In quel momento, al suo fianco c’era qualcuno. Lo stesso qualcuno che gli aveva dato consigli su come costruire la scena del suicidio, che lo aveva assistito nell’operazione: la signora Murota, Sachiko.

Quando Ken’ichi le aveva chiesto consiglio, la signora doveva aver pensato che le si presentava un’occasione: se avesse ucciso Ken’ichi inscenando in ogni particolare un suicidio, nessuno avrebbe nutrito alcun sospetto. In particolare, se avesse portato Ken’ichi sull’orlo di un precipizio e, a sorpresa, lo avesse spinto in mare, nessuno avrebbe pensato ad altro che a un suicidio. Non avrebbe potuto trovare un sistema migliore per eliminarlo!

Se avesse chiuso per sempre la bocca a Ken’ichi, avrebbe potuto vivere senza nutrire più alcun timore per la propria posizione. Teiko non poteva sapere con certezza se quel piano fosse nato quando Ken’ichi le aveva chiesto consiglio, o se le fosse venuto in mente all’improvviso quella sera, sulla scogliera, quando lui aveva completato la preparazione della scena del suicidio. Le pareva più probabile il secondo caso: l’idea doveva esserle venuta dopo. Dapprima, forse, si era messa nei suoi panni e gli aveva dato quei suggerimenti per aiutarlo, ma quando si era resa conto che si trattava di un’occasione unica aveva preso la decisione di far sparire davvero Ken’ichi in quella messinscena.

Così, Ken’ichi aveva predisposto tutte le condizioni del proprio suicidio, e poi era stato spinto in mare da Sachiko. Quando il suo corpo era stato ritrovato, era stato identificato dalla polizia come Sone Masusaburō e consegnato a Hisako.

La denuncia alla polizia parlava di Sone Masusaburō e le pratiche al comune erano state sistemate da Hisako a nome del suo convivente, Sone Masusaburō. Tutto questo aveva cancellato completamente, a norma di legge, Sone Masusaburō, anzi, Uhara Ken’ichi, da questo mondo.

All’epoca Hisako non sapeva da dove venisse il suo compagno, ma in quegli ultimi tempi erano davvero molti i casi di conviventi di cui non si conosceva il paese d’origine. Al comune le avevano chiesto solo di tornare a dichiarare di dove fosse originario, qualora l’avesse scoperto. Poi aveva completato la sepoltura a norma di legge.

Quando Teiko era venuta a Kanazawa in cerca del marito, era andata alla questura a informarsi di persone fuggite da casa e di morti sospette. Le avevano riferito di tre suicidi e un omicidio, ma non si era certo resa conto che tra quei suicidi c’era proprio l’uomo che stava cercando.

Fino a quel momento aveva pensato che l’assassino fosse Murota Gisaku. Aveva creduto che sia nel caso del secondo omicidio, quello di Sōtarō, che del terzo, quello di Honda, e anche del quarto, quello di Tanuma Hisako, il colpevole fosse sempre lui. Ma ora provò, per ipotesi, a sostituirgli Sachiko. E si rese conto che le condizioni che aveva pensato per lui valevano anche per lei.

Era stata lei, per esempio, a uccidere Sōtarō, quando lui quasi arrivato alla verità sulla scomparsa di Ken’ichi. Teiko era stata convinta, fino ad allora, che fosse stata Hisako a invitare Sōtarō a recarsi con lei a Tsurugi. Ma si sbagliava. La donna con la sciarpa rosa pesca e il cappotto rosso vista sul treno delle Ferrovie dello Hokuriku in realtà era Sachiko.

Come la stessa Teiko aveva avuto modo di vedere con i suoi occhi, Sachiko vestiva in modo molto raffinato. Portava sempre kimono di buon gusto. Proprio per quello lei aveva pensato erroneamente che la donna abbigliata con quegli abiti dai colori accesi fosse Hisako.

Di certo Sachiko sceglieva vestiti quanto più diversi possibile da quelli della sua vita precedente. Ma per uccidere Sōtarō, per quel giorno solo, aveva scelto di nuovo un abbigliamento simile a quello che usava per lavoro un tempo.

Come Teiko aveva immaginato in precedenza, quando con Sōtarō erano saliti sul treno alla stazione di Kanazawa, diretti a Tsurugi, Sachiko lo aveva convinto a seguirla dicendogli che Ken’ichi e Hisako vivevano da quelle parti e che poteva accompagnarlo da loro. Poi aveva suggerito fosse meglio che Sōtarō non si presentasse subito dal fratello, si era offerta di andarlo a chiamare e così, a un certo punto, si erano separati. Come luogo d’incontro, gli aveva proposto il Kanōya, il ryokan dove poi Sōtarō era morto. Lui le aveva creduto, si era recato al Kanōya, aveva bevuto il whisky ricevuto da Sachiko allungandolo con l’acqua ed era stato ucciso dal cianuro che conteneva.

Suo cognato aveva conosciuto Sachiko mentre indagava sulla scomparsa di Ken’ichi, perché aveva saputo che quest’ultimo era molto in confidenza con i coniugi Murota ed era andato a parlarne con lei. Probabilmente Ken’ichi gli aveva raccontato, entro certi limiti, della sua vita con Hisako sulla desolata costa della penisola di Noto, ma non doveva avergli detto nulla della signora Murota. Perché, per il buon nome della signora, non voleva raccontare al fratello della vita che lei aveva condotto in passato. Quindi era ragionevole ritenere che Sōtarō avesse conosciuto la signora dopo il suo arrivo a Kanazawa, come Teiko aveva sempre pensato.

Sachiko non era tornata da Tsurugi utilizzando la stessa linea, probabilmente perché al momento di arrivare a Kanazawa avrebbe dovuto essere di nuovo la signora Murota. Da Tsurugi, quindi, aveva preso un’altra linea, in direzione Terai. Era una deviazione assurda rispetto al rientro diretto a Kanazawa, ma in quel modo Sachiko guadagnava tempo e spazio. Dopo essere salita sul treno per Kanazawa, doveva essersi chiusa in un bagno, dove si era spogliata degli abiti appariscenti che aveva indosso per tornare a essere la signora di sempre. La donna col cappotto rosso vista dal testimone portava una valigia e Teiko sospettava che quello fosse il motivo: la valigia conteneva gli abiti da signora Murota, con cui Sachiko si sarebbe cambiata.

Anche dopo aver ucciso Sōtarō, però, Sachiko non si sentiva ancora tranquilla: era allarmata dall’idea che potessero apparire un secondo o anche un terzo Sōtarō. Nutriva il timore che qualcun altro arrivasse a Tanuma Hisako. Per questo doveva nasconderla, allontanandola dalla casa dove abitava.

Aveva chiesto a suo marito Gisaku di assumere Hisako nella portineria della ditta. Perché la verità non si venisse a sapere, aveva convinto Hisako a non dire ai vicini di aver trovato lavoro alla Murota.

Hisako non sapeva niente di niente: era grata alla signora Murota per la sua benevolenza e aveva accettato il posto che le proponeva. Se quello era il caso, allora forse la signora Murota e Hisako, entrambe belle di notte ai tempi di Tachikawa, si conoscevano di vista. Giusto! A pensarci, quelle due fotografie che Ken’ichi teneva nascoste le aveva scattate probabilmente poco dopo aver conosciuto per caso le due donne, al suo arrivo a Kanazawa. I numeri annotati con tratto sottile sul retro avrebbero potuto essere solo appunti del fotografo che le aveva stampate, ma potevano anche avere a che fare con quel periodo buio della vita di Sachiko e Hisako: solo Ken’ichi lo sapeva. Però, Teiko ora era convinta che se Ken’ichi teneva quelle due foto a parte, separate dalle altre, fosse perché avevano un significato comune.

La signora Murota aveva concepito un altro stratagemma per il quale aveva chiesto ancora un favore al marito, Gisaku. Era accaduto quando Honda aveva intensificato le sue indagini e si era spinto fino ad andare a fare domande allo stabilimento della Murota. In origine, avendo all’improvviso preso Hisako come impiegata per la portineria, aveva dovuto trovare una scusa per quell’assunzione. Allora aveva inventato che il marito di Hisako era un operaio della fabbrica.

Se però Honda avesse insistito a indagare, la bugia sarebbe venuta a galla. Bastava che andasse, per dire, allo stabilimento di Nanao e parlasse con un addetto alla gestione del personale o del lavoro perché l’imbroglio venisse subito scoperto: se gli avessero risposto che quell’operaio non esisteva sarebbe stato tutto inutile.

Sachiko aveva senza dubbio chiesto a suo marito che, nel caso qualcuno avesse fatto domande in proposito, gli fosse risposto che il marito di Hisako era proprio un operaio della Murota e che, quando era morto, le era stata corrisposta la buonuscita. Il signor Murota, senza capire bene di cosa si trattasse, aveva dato disposizioni ai suoi dipendenti in tal senso, esattamente come chiedeva l’amata moglie. In quella circostanza era probabile che Tanuma Hisako fosse stata fatta passare come un’amica di Sachiko.

Ecco spiegato perché, quando Honda era andato alla fabbrica di Nanao, l’addetto gli aveva confermato che un operaio di nome Sone Masusaburō era effettivamente deceduto, ma quando aveva domandato alla sede centrale, dalla contabilità non risultava la distinta del pagamento della buonuscita. A quanto pareva, nemmeno la brillante signora Murota aveva pensato a quel particolare.

Sachiko si era resa conto che l’indagine di Honda Yoshio stava ormai accelerando. Era diventato necessario far sparire Hisako dalla Murota Mattoni Refrattari. L’indagine di Honda procedeva spedita e avrebbe potuto portare alla luce il passato di Hisako in qualsiasi momento. Di certo Sachiko aveva chiamato Hisako e le aveva dato disposizioni affinché partisse subito per Tōkyō. Come avesse spiegato a Hisako quel cambiamento di programma, a quel punto Teiko avrebbe dovuto chiederlo direttamente alla signora Murota.

In ogni caso, Hisako era all’oscuro di tutto ed era convinta che Sachiko la proteggesse, per cui aveva seguito alla lettera le istruzioni che questa le aveva dato.

Come Teiko aveva già immaginato, a quel punto, probabilmente aveva detto a Hisako che Honda sarebbe andato dritto da lei, e le aveva dato la bottiglia di whisky, suggerendole di offrirglielo quando fosse arrivato. Teiko supponeva che si trattasse di una bottiglia già aperta, da cui era stata tolta una minima quantità di bevanda, altrimenti non sarebbe stato possibile aggiungervi il cianuro.

Hisako l’aveva presa con sé senza nutrire alcun sospetto e quando, come previsto, già il giorno successivo Honda si era recato a casa sua, gli aveva offerto quel whisky ricevuto da Hisako.

Come faceva Honda a conoscere l’indirizzo a Tōkyō di Hisako, nonostante lei occupasse quell’appartamento come Sugino Tomoko? Anche in quel caso Teiko poteva attribuire a Sachiko ciò che prima collegava al presidente Murota: era stata lei a suggerire a Honda la destinazione di Hisako.

Honda avrebbe dovuto riferire tutti i particolari a Teiko solo dopo aver compreso chiaramente l’accaduto. Ecco perché aveva taciuto in parte sui motivi della sua trasferta a Tōkyō, provocando conseguenze infelici. Se avesse raccontato a Teiko tutto quello che era riuscito a scoprire fino a quel momento, lei avrebbe senza dubbio concentrato molto prima la sua attenzione sulla signora Murota. E magari avrebbe potuto impedire almeno la morte di Hisako.

Come previsto, Honda era morto bevendo il whisky. Sconvolta dall’evento inatteso, Hisako era fuggita a Kanazawa, dove aveva telefonato alla signora Murota. Quest’ultima le aveva dato appuntamento a Tsurugi per parlare. Le ipotesi che Teiko aveva formulato in precedenza a proposito di Murota Gisaku funzionavano senza problemi anche così.

All’improvviso, però, alzò gli occhi a fissare il vuoto.

C’era qualcosa che non la convinceva. Aveva la sensazione che in quel modo qualcosa non tornasse.

Era il contenuto di una telefonata della signora che le era capitato di ascoltare l’ultima volta in cui aveva fatto visita al presidente Murota.

Riferendole le parole della moglie al telefono, il presidente aveva detto a Teiko che, a partire dalle sei di quella sera, la signora avrebbe preso parte a una tavola rotonda trasmessa da una radio di Kanazawa, per cui si scusava di non poter venire a incontrarla.

E, in effetti, la stessa Teiko aveva sentito quella trasmissione da un caffè in città. Era una conversazione tra la signora Murota, la moglie del governatore della regione e un professore dell’Università T, venuto da Tōkyō. Teiko si ricordava anche che, in quel momento, alcuni altri clienti, seduti non lontano da lei, che parevano del posto, stavano parlando della signora Murota.

Erano circa le sei del pomeriggio. L’autopsia aveva stabilito che la morte di Hisako era avvenuta proprio verso le sei del pomeriggio. Sachiko, che stava parlando in radio alle sei del pomeriggio a Kanazawa, non avrebbe mai avuto il tempo di arrivare a Tsurugi, a cinquanta minuti di treno, e di raggiungere poi a piedi il luogo del delitto. La trasmissione radiofonica era la prova del fatto che Sachiko non era su luogo del delitto. Cosa poteva significare?

Il treno arrivò alla stazione di Wakura. Alcuni passeggeri aspettavano sulla banchina coperta di neve.

8

Alla stazione di Wakura Teiko prese un taxi. Era una zona turistica, e le strade erano eccellenti. Si vedeva un’isola e, oltre quella, il profilo sfumato di una catena di montagne bianche. Proprio di fronte svettava il Tateyama. Il mare era punteggiato di piccole imbarcazioni.

«Quelle raccolgono i cetrioli di mare» le spiegò il conducente, comprendendo che Teiko veniva da Tōkyō. Come in tutte le località termali, a un certo punto si iniziarono a vedere le lampade di carta ai bordi della strada: erano entrati nel quartiere dei ryokan.

Teiko aveva avuto il nome di quello in cui alloggiavano i Murota dalla loro domestica. Era l’edificio più grande della stazione termale. Appena entrata, chiese subito di chiamarle l’addetto all’accettazione. Quando domandò di vedere il signor Murota, il portiere le rispose con aria desolata: «Al momento non è in albergo».

«Allora forse c’è la signora?» tentò ancora lei.

«No, anche la signora è uscita.»

«Sa per caso dove siano?»

«La signora ha detto che sarebbe andata a Hakui ed è uscita in automobile» raccontò l’uomo. «In quel momento il signor Murota era impegnato in una conversazione nel salottino con una persona venuta dallo stabilimento di zona della Murota, ma quando ha sentito che la signora era uscita ha subito chiamato una vettura con conducente e immagino che poi l’abbia raggiunta.»

Quindi la signora Murota era partita per prima in automobile per Hakui, senza che il marito ne fosse al corrente. Lui l’aveva seguita quando era venuto a saperlo.

Nel sentire che Sachiko era andata a Hakui, Teiko era trasalita.

Hakui era sul tragitto verso il luogo in cui Ken’ichi si era suicidato. In treno, la diramazione per Takahama partiva da Hakui, dove si cambiava convoglio. Anche in automobile, da dove si trovava Teiko in quel momento, bisognava tornare verso sud, fino a Hakui, e poi dirigersi verso Fukura, seguendo la costa. A un certo punto di quella strada c’era l’erta scogliera dov’era morto Ken’ichi. In pratica, tra Wakura, sulla costa orientale dove Teiko si trovava in quel momento, e la costa occidentale, dov’era morto Ken’ichi, s’interpone una catena di monti che si estende da nord a sud e, per andare sull’altra costa, bisogna aggirarla deviando per Hakui.

«Quando sono partiti?» chiese Teiko.

«Ecco…» il portiere raccolse le ginocchia e inclinò il capo, pensieroso. «La signora sarà partita da un paio d’ore, credo. Il signore un’ora e mezzo fa.»

Teiko sentì all’improvviso un peso incomberle sul petto: era in preda all’ansia.

Aveva l’impressione che invisibili nubi nere attendessero i coniugi Murota a destinazione. Le sembrava che Sachiko, la signora Murota, si fosse avviata dritta dritta verso quelle nubi, da sola. E che il marito si fosse precipitato a seguirla.

«Devo assolutamente incontrare il signor Murota al più presto. Le posso chiedere di chiamarmi subito una vettura con conducente, per favore?»

Forse convinto dall’espressione di Teiko, il portiere acconsentì all’istante. A Teiko il tempo che la vettura, chiamata per telefono, impiegò ad arrivare sembrò infinito.

La sala d’ingresso del ryokan era ampia. Prodotti tipici della zona erano esposti in bacheche di vetro: c’erano porcellane Kutani e lacche Wajima.

In piedi da sola nella hall di un ryokansconosciuto in un posto sconosciuto, Teiko provava una terribile malinconia. Mentre guardava le porcellane Kutani, le tornarono in mente i motivi decorativi dei leoni cinesi e dei piatti del caffè in cui aveva parlato con Honda.

Era venuta in quei paesi del Nord che tanto l’affascinavano, ma probabilmente gliene sarebbero rimasti molti ricordi tristi.

Nel corridoio avanzavano dei clienti dell’albergo venuti a trascorrere il Capodanno: avevano l’aria di divertirsi. Anche i Murota dovevano apparire felici a occhi estranei.

Il sole stava tramontando piano piano, e i suoi tenui raggi a tratti illuminavano la neve sulla strada, a tratti erano coperti dalle nubi.

Finalmente arrivò la vettura.

Teiko mostrò al guidatore la cartina che aveva portato con sé: voleva chiedergli di prendere una scorciatoia, visto che altrimenti, passando per Hakui, non avrebbe mai raggiunto in tempo la signora Murota.

In ogni caso, doveva incontrare Sachiko il più presto possibile. La donna era già uscita da due ore e, se non avesse percorso un tragitto più breve, che richiedesse meno tempo, lei non ce l’avrebbe mai fatta a intercettarla.

«Non esiste una strada che da qui porti dritta sulla costa occidentale?» chiese.

«Non è che non ci sia, ma ieri è nevicato, e temo sia impossibile attraversare le montagne. La scorciatoia, vede, è questa» spiegò l’uomo mettendo il dito sulla cartina.

Al centro della penisola di Noto, protesa nel mare come un pugno, correva verticalmente una catena di montagne. La strada che le attraversava metteva in collegamento Wakura Terme con il vecchio porto di Fukura, sulla costa occidentale. Il conducente della vettura esitava perché la neve poteva rendere pericoloso percorrerla.

«Per favore! È molto urgente! Sono disposta a pagare qualsiasi supplemento: prenda quella strada, la prego!»

Non perché si fosse fatto convincere dal supplemento, ma perché vide il pallore di Teiko, il conducente acconsentì.

«Possiamo fare un tentativo!»

Fece salire Teiko. Lungo il tragitto si fermò in un garage, dove entrò a prendere le catene da neve.

Mentre le montava passò un altro taxi. Il conducente raddrizzò la schiena e si rivolse al tassista: «Ohi! Devo andare a Fukura passando dalle montagne: com’è la strada?».

L’altro sporse la testa dal finestrino per rispondere.

«Be’, l’autobus è fermo dal mese scorso… è pericoloso: bisogna fare molta molta attenzione» disse guardando Teiko, seduta sul sedile posteriore.

Lei pensò che non le importava. Quel che contava era arrivare a bloccare la catastrofe che incombeva sui Murota. A qualunque costo. Si sentiva in uno stato psicologico estremo, per cui non ammetteva di non poter incontrare i Murota per ascoltare direttamente dalle labbra della signora la spiegazione di quanto accaduto fino a quel momento.

«Siamo pronti, signora. Andiamo.»

Finito di montare le catene sugli pneumatici, il conducente si mise al volante.

Per un po’ avanzarono con la morbida curva della baia di Nanao sulla destra. Il sole era più coperto di prima. I raggi filtravano dal bordo superiore di pesanti nuvoloni neri, mescolando toni arancio sul mare gelido. Le barchette per la pesca dei cetrioli di mare erano ancora ferme al loro posto.

A un certo punto si allontanarono dalla costa. La strada correva verso l’area montuosa. Oltrepassarono diverse frazioni isolate. La carreggiata si faceva sempre più stretta. Lo strato di neve, in quella zona, via via più spesso.

Sui monti erano quasi tutti pini, cedri e cipressi. Dall’assenza di solchi di ruote sul tragitto si capiva che non era passata nemmeno una vettura prima della loro. Man mano che si addentravano tra le montagne, si faceva sempre più buio.

La strada era stata costruita per i turisti che, in primavera e in estate, andavano da Wakura al porto di Fukura, e si snodava serpeggiante tra le alture.

«Si sta annoiando, signora?» disse l’autista, rivolgendole la parola. «Da qui in poi non c’è altro che questi monti, per un’ora circa. Accendo la radio?»

Teiko non aveva voglia di ascoltare la radio, ma le pareva brutto rifiutare la gentile offerta dell’autista, e annuì senza parlare.

Appena l’uomo girò la manopola dell’interruttore, un’emittente non identificata diffuse le note di una vivace canzone in voga.

«È quello che ci voleva!» si rallegrò il conducente.

Teiko lo osservò e si rese conto che il suo volto aveva ancora un che d’infantile.

Quella desolata landa montana e la vivace canzone alla moda producevano uno strano contrasto.

Era un programma di Tōkyō, diffuso tramite una radio locale. Voci maschili e voci femminili si alternavano a cantare il brano. E ogni voce era un cantante diverso. Mentre guidava il veicolo sulla stretta strada ai cui bordi si vedevano capanne di carbonai e alberi abbattuti ammassati in cataste, l’uomo seguiva il ritmo della musica muovendo le spalle.

«Mi piace molto Mihashi Michiya.2 Spero che trasmettano presto una delle sue canzoni. A dire il vero, prima, quando sono partito per venire a prenderla, ne stavano trasmettendo una. Ma era un’altra radio. Come farà ad andare a cantare da tutte le parti!» L’autista aveva attaccato bottone con Teiko.

«Non credo canti dal vivo: lo registrano e poi mandano in onda la registrazione» rispose lei.

Quindi ebbe un sussulto.

Certo! Una registrazione!… Il dubbio che aveva avuto in treno fu inaspettatamente risolto dalle sue stesse parole.

La voce della signora Murota che aveva udito nel caffè di Kanazawa alle sei del pomeriggio non era dal vivo. Al presidente Murota aveva detto al telefono che stava per andare alla stazione radio, e dovevano essere le tre e mezzo circa. La registrazione doveva aver avuto luogo verso le quattro e mezzo. Poi era stata mandata in onda alle sei.

Non c’era affatto da meravigliarsi che alle sei del pomeriggio, mentre lei spingeva Tanuma Hisako nel Tedorigawa, la sua voce venisse trasmessa da una stazione radio.

E con questo Teiko pensò di aver trovato una spiegazione a tutti i suoi dubbi.

L’idea che la signora Murota fosse l’assassina funzionava perfettamente. Certo, non aveva nessuna prova che fosse stata una delle ragazze che intrattenevano rapporti con le truppe d’occupazione della base di Tachikawa, ma era probabile che quell’ipotesi fosse corretta.

Se il signor Murota ora stava inseguendo sua moglie, probabilmente significava che doveva essere accaduto qualcosa dopo il loro arrivo a Wakura Terme, la sera prima. Sachiko aveva preso all’improvviso l’automobile per correre a Hakui perché la sera precedente il marito, che aveva scoperto tutto, l’aveva interrogata fino a farle confessare le sue colpe? Andando a Tōkyō il signor Murota doveva aver senza dubbio trovato conferma del passato di sua moglie. Per questo Sachiko aveva forse perso la voglia di vivere, e si stava dirigendo su quella scogliera da cui, di sua propria mano, aveva fatto precipitare Ken’ichi. Il signor Murota l’aveva scoperto trenta minuti più tardi e, intuendo le intenzioni della moglie, si era lanciato al suo inseguimento.

Teiko guardò l’orologio.

Erano trascorsi quaranta minuti da quando avevano lasciato Wakura. Si trovavano ancora tra le montagne. La macchina continuava a salire.

A parte i cumuli di tronchi abbattuti qui e lì, non si vedevano altri segni di presenza umana su quella strada di montagna.

Per colpa della neve, l’automobile non avanzava rapida come aveva sperato. Teiko stava perdendo la calma. Aveva la sensazione che, mentre lei era ancora per strada, stesse accadendo qualcosa tra Sachiko e il signor Murota. E non poteva fare a meno di immaginare che i due stessero avanzando a velocità folle verso la rovina.

Sentiva dentro di sé il bisogno di pregare: “Fa’ che riesca ad arrivare in tempo! Fa’ che riesca ad arrivare in tempo!”.

Nonostante tutto, pensando a come doveva sentirsi Sachiko, Teiko non riusciva a non averne pena. Non sapeva nulla delle sue origini. Ma era certa che fosse cresciuta in una famiglia di un certo livello, ricevendo un’istruzione adeguata.

Dopo la sconfitta che aveva posto fine alla guerra, quando il Giappone era teatro di devastazioni di ogni tipo, forse l’onda d’urto aveva colpito anche la sua casa. Si poteva pensare che il declino della sua famiglia l’avesse portata a perdersi. Era possibile che il destino l’avesse trascinata per un periodo nel mondo delle donne di quel mestiere?

Se le cose stavano così, in seguito lei era riuscita a risollevarsi magnificamente. E la mano che il signor Murota le aveva porto per caso, dopo l’inizio di una nuova vita, era diventata il punto di partenza della sua fortuna. Una volta ottenuta la stabilità di quella vita un gradino superiore alla media, Sachiko era stata in grado di sviluppare senza limiti le proprie capacità. Quindi, come moglie del capo di un’impresa, si era trovata nella posizione di avere a che fare con le signore più in vista della regione. Il che aveva permesso la piena fioritura del suo talento.

Una volta messo piede nell’alta società della regione, era naturale che si distinguesse tra le altre signore che si accontentavano banalmente della posizione dei loro mariti. Presto aveva visto riconosciute le proprie capacità ed era divenuta una personalità di spicco di quell’ambiente. Come avevano detto i clienti in quel caffè, in breve tempo Murota Sachiko era diventata una nuova leader della vecchia capitale dello Hokuriku.

A quel punto, per puro caso, un giorno era comparso Uhara Ken’ichi. Sia per Ken’ichi, sia per Sachiko, quell’incontro fortuito era legato a un passato sgradevole.

Teiko immaginava cosa dovesse aver provato Sachiko e sentiva per lei una compassione infinita. Chi avrebbe potuto biasimare il movente di una signora che avesse ucciso per difendere il proprio onore? Teiko non se la sentiva di negare la possibilità che lei stessa, al suo posto, si sarebbe comportata in quel modo.

Aveva la sensazione che le cicatrici delle ferite inferte dalla guerra alle donne giapponesi non accennassero nemmeno a sparire, nonostante i tredici anni trascorsi, e che all’improvviso un trauma avesse fatto sgorgare di nuovo quel maledetto sangue da vecchie lesioni.

Fuori era un po’ meno buio. Non perché il cielo si fosse rasserenato, ma perché l’automobile era uscita dall’area montuosa fitta di boschi. Da un certo punto la strada era in discesa, e si iniziavano a incontrare frazioni di case dai tetti innevati.

Teiko guardò l’orologio: erano partiti da più di un’ora.

Le avevano detto che da Wakura al luogo del suicidio di Ken’ichi ci volevano tre ore passando per Hakui. La strada che stavano percorrendo li avrebbe portati lì nella metà del tempo. Davanti a loro, però, vedeva ancora sovrapporsi i profili di diversi monti.

«Manca ancora molto?» chiese all’autista.

«Arriveremo in una trentina di minuti» rispose lui senza voltarsi.

La discesa si era trasformata man mano in una strada in piano. Lo strato di neve era più spesso di quanto non fosse dal lato di Wakura, prima di oltrepassare le montagne. Da come oscillavano gli alberi, capiva che il vento era molto forte. Era bastato attraversare la catena montuosa perché il panorama cambiasse d’un colpo. Da questo lato il paesaggio era privo di grazia: solo l’asprezza saltava agli occhi, nelle sue tinte fosche.

Come aveva detto l’autista, arrivarono a Fukura trenta minuti dopo. Era un porto molto antico, attivo già durante l’epoca della Cina Song.3 Forse per ripararsi dal forte vento, tutte le case private avevano quelle protezioni simili a grate montate sulla facciata anteriore.

Si vedeva una parte del porto abbracciata dal promontorio. Le barche dei pescatori si stringevano le une alle altre sull’acqua gelida. Una porzione di mare al largo, visibile da dove stavano passando con l’auto, era cosparsa di onde spumose.

«Dove andiamo adesso, signora?» chiese il conducente.

Teiko si era fatta un’idea approssimativa del posto guardando la cartina.

«Si diriga verso Takahama, per favore.»

Dal porto di Fukura l’automobile puntò a sud. Adesso avanzavano con le acque agitate del Mar del Giappone sempre alla loro destra. Pesanti nuvoloni pendevano dal cielo, e la tenue luce che ne illuminava un punto in particolare rivelava dove il sole, coperto alla vista, stava calando in mare oltre la loro coltre.

La linea dell’orizzonte affondava sempre più in basso: la salita che stavano percorrendo era in forte pendenza. Di tanto in tanto rocce dalle strane forme sbucavano dal mare. Teiko scrutava con attenzione quei cambiamenti del paesaggio. Aspettava di scorgere dai finestrini dell’automobile in corsa lo scenario che aveva visto quando era stata lì in precedenza.

E, finalmente, quel panorama le si presentò.

Oltre la spalla dell’autista, davanti alla vettura, emerse il luogo dove l’altra volta, sull’alta scogliera, le erano tornati in mente i versi che parlavano del mare.

Proprio in quel momento il sole finalmente tramontò, e un paesaggio azzurro indaco iniziò a dilagare tutt’intorno. Al largo, nell’acqua nera, solo le onde bianche spiccavano come zanne scoperte.

“È lì!” gridò Teiko in cuor suo.

Ogni volta che la strada si allontanava, il posto che aveva riconosciuto le appariva diverso. Ma lei continuava a fissarlo, senza mai distogliere lo sguardo.

Era il luogo dove Ken’ichi era stato spinto nel vuoto. Se quella volta, pur non sapendolo, si era fermata lì, in piedi, forse era perché aveva avuto un qualche presentimento. Adesso era certa di quale fosse il luogo della fine di Ken’ichi: lo aveva identificato verificando sulla cartina dove fosse morto Sone Masusaburō. Quindici giorni prima, quando era appena arrivata a Kanazawa in cerca di suo marito, era venuta laggiù con il cuore in subbuglio per il riconoscimento di un corpo non identificato. Questi si era rivelato un perfetto sconosciuto con cui non aveva alcun legame, però, in quel momento, il poliziotto incaricato le aveva detto: “Proprio poco tempo fa si è verificato un altro suicidio nello stesso posto in cui si è ucciso l’uomo della foto. Anche se di quello abbiamo scoperto subito l’identità e una persona è venuta a reclamarne il corpo…”.

Non aveva più dubbi ormai: la persona venuta a reclamarne il corpo era Tanuma Hisako, e l’uomo che dicevano essersi suicidato era Uhara Ken’ichi, alias Sone Masusaburō.

«Va bene qui.»

Teiko scese dall’automobile. L’autista era sorpreso.

Non si vedeva alcuna abitazione nelle vicinanze: da un lato c’erano la scogliera e il mare, dall’altro la montagna incombente.

«Mi aspetti, per favore» chiese Teiko all’autista prima di iniziare a camminare.

Il vento era impetuoso e le colpiva le guance, freddo quasi da far male. Il rumore delle onde divenne d’improvviso più forte.

In quel momento l’ombra nera di una persona di schiena entrò nel suo campo visivo.

L’uomo era fermo in piedi, rivolto al mare. Senza nemmeno la necessità di guardarlo, Teiko sapeva che era Murota Gisaku.

Il signor Murota non si era nemmeno accorto del rumore dell’automobile, e stava in piedi quasi sull’orlo dello strapiombo, immobile come una roccia. Accanto a lui non c’era nessuno.

Nell’istante in cui l’aveva visto, Teiko aveva pensato che fosse tutto finito. Non c’era nessuna traccia della signora Murota. Solo la figura immobile del marito, investita dal vento, pareva misurarsi con il mare sempre più scuro.

«Signor Murota.»

Avvicinatasi furtivamente, Teiko gli aveva rivolto la parola.

Il vento ululava, il rombo del mare era fortissimo. Forse la sua voce non gli arrivava, perché l’uomo non si voltò subito. Teiko lo chiamò per la terza volta.

Finalmente la postura rigida del signor Murota si ammorbidì e girò il viso verso di lei. Con il cielo indaco e giallo lontano sullo sfondo, il volto dell’uomo era un’ombra scura di cui Teiko non riusciva a vedere bene l’espressione.

Gli si avvicinò.

Per qualche attimo onde invisibili si infransero in basso, e quel fragore si trasmise come una vibrazione attraverso le rocce ai loro piedi.

«Anche lei.»

Nel frastuono delle onde, accortosi di lei, il signor Murota aveva parlato.

«Anche lei alla fine è venuta qui?»

Teiko fece altri due o tre passi. I capelli in disordine le scendevano sulle guance.

«Signor Murota, sua moglie?»

Lui non rispose. Poi alzò lentamente la mano. Le dita puntavano al mare, di un azzurro indaco sempre più cupo.

«Mia moglie…» disse con voce roca. Una voce che pareva sul punto di scomparire nel rumore del vento e delle onde, ma che Teiko udì con chiarezza: «Mia moglie è laggiù».

Teiko guardò nella direzione che le sue dita indicavano. Tra gli strati di nuvole pesanti e il mare increspato, riuscì a stento a individuare un punto nero. Fluttuava. Tutt’intorno onde bianchissime si accavallavano le une alle altre.

«Quella è mia moglie.»

Senza accorgersene, Teiko era ormai spalla a spalla con il signor Murota.

La pressione del vento era tale da impedirle di respirare. Ma non era solo per via del vento: era talmente sconvolta da restare senza fiato.

«Non ho niente da spiegarle, vero? Presumo che, se è arrivata fin qui, ormai saprà tutto» disse lui guardando il mare.

Nel frattempo il puntino nero nella tempesta continuava a rimpicciolirsi.

Tra le spesse nuvole vicine all’orizzonte, le tinte giallastre che si stavano lentamente coagulando scomparivano via via, insieme agli altri cupi colori tutt’intorno. Un poco di luce gialla restava ancorata solo in un piccolo squarcio tra le nubi: pareva di guardare un vecchio e triste quadro nordeuropeo.

Grazie a quel tenue raggio di luce, il puntino nero restava visibile.

«Me ne sono accorto tardi» disse il signor Murota, continuando a fissare il mare. «Ieri sera, quando siamo arrivati a Wakura, l’ho interrogata. Lei ha confessato, sa? Se si fosse confidata prima con me, non sarebbe finita così! Devo chiederle perdono. È stata mia moglie a uccidere suo marito e suo cognato. Non la giustifico in nessun modo. Ha lasciato il ryokan prima di me e, senza darmi il tempo di fare alcunché, ha preso in affitto una barca ed è andata al largo.»

Gli si spezzò la voce.

«Non le ho detto che mia moglie era figlia di un armatore di una flotta da pesca di Bōshū Katsuura. È cresciuta in un’epoca prospera e ha frequentato un’università femminile di Tōkyō. Poi abbiamo perso la guerra. Non la biasimo più di tanto se la sua abilità nel parlare l’inglese è stata la sua rovina: un fenomeno tipico del Giappone del dopoguerra.»

I flutti impiegavano il loro tempo a frangersi sugli scogli. Mentre risuonava il rombo delle onde, il signor Murota attendeva, smettendo di parlare.

«Quando sono corso qui, mia moglie era già troppo lontana. Lei, signora, non può essersene accorta, ma Sachiko deve avermi visto qui in piedi, mentre era più vicina alla costa, e mi ha salutato con la mano dalla barca.»

Le onde si infransero di nuovo rombando sotto di loro. In quel lasso di tempo, il signor Murota tacque, forse per attendere che il frastuono passasse, o perché si sentiva sopraffare dall’emozione e temeva che trapelasse dalla sua voce.

«Anch’io, signora, ho agitato la mano. Poi, quando è arrivata lei, non riuscivo più a vedere altro che quel piccolo punto nero. So che mia moglie è lì sopra, ma non la vedo più. Sta remando sempre più al largo. Con questa burrasca la barca presto si ribalterà. Anzi, prima che si ribalti, di certo perderà la sua passeggera. Anche quel punto nero presto non si vedrà più. Io…»

Di nuovo le onde. Il signor Murota tacque ancora una volta. Poi, quando ricominciò a parlare, disse: «Io credo che la tomba di mia moglie sarà lì in fondo al mare. E ogni anno, in questo stesso periodo, verrò qui a farle visita».

D’un tratto a Teiko tornò in mente la poesia che aveva recitato dentro di sé una volta, su uno spuntone di roccia a meno di cento metri da dove si trovava in quel momento:

In her tomb by the sounding sea!

nella sua tomba dove echeggia il mare!

Il vento furioso le feriva gli occhi.

1. Bastone, in genere sormontato da un cerchio, che il capostazione si scambiava con il macchinista o il capotreno, tipo testimone, in segno di autorizzazione a passare su un tratto di binario, per evitare che più mezzi impegnassero la stessa tratta in contemporanea. (NdT)

2. 1930-1996. Noto cantante in voga all’epoca. (NdT)

3. Epoca in cui in Cina era al potere la dinastia Song: 960-1279 d.C. (NdT)

Glossario

Bentō pranzo preconfezionato. Può essere preparato a casa o venduto pronto in negozi e ristoranti. Di solito è sistemato in apposite scatole, che possono essere in vari materiali, dalla plastica alla lacca, divise in scomparti, ognuno dedicato a una pietanza.

Castella specie di pan di Spagna prodotto a partire dal XVI secolo su imitazione di dolci di origine iberica.

Engawa corridoio pavimentato in legno che si sviluppa lungo il perimetro esterno delle case giapponesi. Costituisce un’intercapedine tra gli ambienti esterni e l’interno, e può fungere da collegamento tra le diverse stanze che aprono su di esso. È anche il passaggio obbligato per accedere dal giardino alle stanze, con una funzione simile a quella di un portico.

Fusuma porta scorrevole utilizzata per chiudere stanze o armadi a muro, costituita da un telaio in legno ricoperto su entrambi i lati da carta o tessuto.

Futon completo di coperta imbottita (kakebuton) e materassino (shikibuton) che costituiscono il letto tradizionale, steso sui tatami (v.); durante il giorno di norma si ripiegano e si ripongono nell’armadio a muro. Il termine può indicare anche ognuno dei due elementi.

Goku tradizionale unità di misura di riso, sake e altro. Era anche il parametro con cui si misuravano la produttività e la ricchezza dei feudi locali. In particolare, il feudo di Kaga (antico nome dell’area geografica in cui è situata Kanazawa) era molto ricco e i Maeda, i signori locali, patrocinarono lo sviluppo di arti e artigianato di estrema raffinatezza.

Haori tradizionale soprabito che si indossa sul kimono.

Hibachi braciere tradizionalmente usato per scaldare gli ambienti, costituito da un grosso vaso di porcellana o da una specie di mobiletto a forma di cassetta, in legno e metallo, in cui, su uno strato di cenere, si accendono le braci.

Kotatsu tavolino basso sotto il quale è posta una fonte di calore – al giorno d’oggi, di solito una stufetta elettrica – e intorno al cui ripiano pende una trapunta che trattiene il tepore, in modo che, sedendovisi, ci si possa scaldare.

Mochi dolce tradizionale giapponese, realizzato pestando del riso cotto fino a ridurlo in una pasta collosa, che poi si modella e, eventualmente, si insaporisce o si farcisce.

Monpe pantalone da lavoro, quasi imposto alle donne durante l’ultima fase della guerra, percepito in seguito come simbolo di un periodo odioso e triste della storia giapponese.

Obi fascia di tessuto arrotolata più volte intorno alla vita che fa da cintura al kimono. Può essere di altezza diversa. Quello da uomo è, in genere, alto dieci o quindici centimetri. Quello da donna è, di solito, alto il doppio. Se ne distinguono vari tipi, tra cui il raffinato maruobi, molto lungo, con entrambi i lati decorati, il fukuroobi, più semplice, decorato solo da un lato, e l’obi di Nagoya, più corto.

Okesa le okesa odori (“danze okesa”) sono famose danze popolari diffuse a partire dall’antica regione di Echigo (attuale Niigata) e in particolare dall’isola di Sadō, eseguite al ritmo dei canti popolari chiamati okesabushi.

Pan pan così venivano chiamate le ragazze che, nell’immediato dopoguerra, sbarcavano il lunario prostituendosi con i soldati stranieri.

Ryokan albergo tradizionale giapponese, in cui, di solito, si dorme in futon (v.) stesi sul pavimento di tatami (v.).

Shamisen strumento musicale tradizionale, composto da una piccola cassa di risonanza con un lungo manico sul quale sono tese tre corde, suonate con un plettro piuttosto grande.

Shōji porta scorrevole che si usa per ripartire gli spazi interni, ma anche per chiudere finestre o come divisorio tra l’abitazione vera e propria e la veranda che circonda la casa tradizionale. Ne esistono diversi tipi, ma in genere consta di una intelaiatura di legno a riquadri, cui è incollata della carta traslucida.

Tanka poesia breve di trentuno sillabe in cinque versi, secondo lo schema 5-7-5-7-7.

Tatami stuoia di giunchi che riveste un materassino di paglia pressata. Può essere decorata con una passamaneria cucita sui lati lunghi. Usata per pavimentare le stanze nell’architettura tradizionale, costituisce anche un’unità di misura della dimensione degli ambienti. Ne esistono diversi tipi, ma la misura più comune è 91 × 182 cm.

Tokonoma nell’architettura tradizionale, nicchia ricavata su una parete della stanza di tatami (v.), in cui si espongono opere d’arte (stampe, calligrafie, vasellame, composizioni ikebana ecc.).

Zabuton cuscino su cui ci si siede, posandolo direttamente sul tatami (v.).