venerdì 16 luglio 2021

LA MENZOGNA DELL'IDENTITÀ Kwame Anthony Appiah


LA MENZOGNA DELL'IDENTITÀ 

  Introduzione 

Nel corso egli anni i tassisti di mezzo mondo si sono fatti un’idea del sottoscritto, mettendo a frutto le loro più disparate competenze: a San Paolo del Brasile mi hanno scambiato per un brasiliano e si sono rivolti a me in portoghese; a Città del Capo sono stato preso per un “coloured” locale; a Roma per un etiope; e a Londra un tassista non si capacitava che non parlassi hindi. Una volta a Parigi un tassista, forse convinto che fossi belga, mi aveva creduto un magrebino; un’altra volta, indossando un caftano mi sono confuso nella folla di Tangeri. Disorientati dalla strana combinazione tra il mio accento e il mio aspetto, i tassisti degli Stati Uniti e del Regno Unito mi chiedono regolarmente dove sono nato. “A Londra,” rispondo, ma non è quello che vogliono sapere davvero. Dietro le loro parole cova un’altra domanda: quali sono le origini della mia famiglia? O, ancora più direttamente: chisono io?

Per rispondere alla domanda sulle origini (sul dove, se non addirittura sul chi): vengo da due famiglie provenienti da due luoghi molto distanti fra loro. Quando sono nato, mia madre era vissuta periodicamente a Londra fin dall’infanzia, ma la sua vera casa era altrove, più lontano – per atmosfera, se non per distanza –, ai confini con le Cotswold Hills, nell’Inghilterra centrale, dove era cresciuta nella fattoria di una piccola cittadina situata tra l’Oxfordshire e il Gloucestershire. Suo nonno aveva fatto tracciare l’albero genealogico di famiglia, attraverso ben diciotto generazioni di antenati, arrivando fino a un cavaliere normanno degli inizi del tredicesimo secolo, vissuto a meno di venti chilometri da dove era nata mia madre settecento anni dopo.

Così lei, per quanto fosse in un certo senso londinese quando sono venuto al mondo io, si sentiva una donna di campagna che si era trasferita a lavorare nella capitale… Senza dimenticare che, durante e dopo la Seconda guerra mondiale, aveva vissuto per un certo periodo di tempo all’estero, in Russia, Iran e Svizzera. Forse, viste le sue esperienze internazionali, non stupisce che abbia trovato impiego in un’organizzazione londinese che si occupava di integrazione razziale in Gran Bretagna e nel suo impero, aiutando principalmente gli studenti delle ex colonie. Si chiamava Racial Unity. Fu allora che conobbe mio padre, uno studente di legge della Costa d’Oro. Lui era un attivista anticolonialista, il presidente del sindacato degli studenti dell’Africa occidentale, nonché portavoce in Gran Bretagna di Kwame Nkrumah, il grande politico che portò il Ghana all’indipendenza nel 1957, pochi anni dopo la mia nascita. Si potrebbe dire che mia madre ha messo in pratica ciò che predicava.

Dunque, l’altro ramo della mia famiglia viene dal Ghana, più precisamente dalla regione di Ashanti, nel cuore della moderna repubblica ghanese. Come ci raccontava mio padre, potremmo essere discendenti di Akroma-Ampim, un generale del diciottesimo secolo che, grazie alle vittorie in guerra, ottenne un vasto appezzamento di terra ai confini del regno. Era membro di quell’aristocrazia militare che aveva creato l’impero ashanti, che dominò per due secoli; io porto anche il suo nome. Mio padre ci ha cresciuti con le storie di famiglia. In un certo senso, però, non era la nostra famiglia. Essendo patrilineari, i parenti di mia madre ritenevano che io appartenessi alla famiglia paterna; invece, i parenti di mio padre, matrilineari, pensavano l’esatto contrario. Insomma, ai tassisti avrei potuto dire che non avevo una famiglia.

Questo libro contiene molte storie familiari, perché il mio scopo è indagare le modalità con cui queste forme narrative plasmano il senso di identità e di appartenenza. Ogni persona è condizionata inevitabilmente dal proprio background, a cominciare dalla famiglia, per poi allargarsi in molte altre direzioni: la nazionalità che ci lega a determinati luoghi; il genere che ci pone in relazione con l’altra metà circa dell’umanità; per non parlare di altre categorie come la classe sociale, la sessualità, l’etnia e la religione, che vanno ben oltre le nostre affiliazioni locali.

Con questo studio mi sono prefissato di discutere alcune delle idee che hanno determinato la nascita del moderno senso di identità, e di studiare certi errori che commettiamo di regola al riguardo. Personalmente non credo che i filosofi contribuiscano al dibattito pubblico sulla morale e la politica indicandoci cosa pensare, ma piuttosto elaborando una serie di concetti e teorie da utilizzare poi per pensare ognuno di noi in autonomia. Nelle pagine che seguono troverete moltissime affermazioni, ma, per quanto possa essere efficace il mio linguaggio, ricordatevi sempre che sono offerte alla vostra riflessione, in base alle vostre conoscenze ed esperienze di vita. Spero di dare il via a discussioni. Non di porvi fine.

Quello che non mi interessa approfondire è perché il dibattito sull’identità sia esploso in questi anni – problema affascinante che lascio a intellettuali e sociologi. Invece, mi occuperò delle idee prevalenti sulla nostra identità date per acquisite, e cercherò di sfidare alcune convinzioni radicate. Non solo: proverò a persuadervi che molte delle attuali idee sull’identità provengono da rappresentazioni che, a vari livelli, risultano inutili, se non addirittura errate. Pervenire a rappresentazioni più utili e vicine al vero nonrisolverà di certo nessuna urgente questione politica, ma credo che renderà le nostre discussioni più ragionevoli e proficue, e forse anche un po’ meno ostili. Ecco, in sostanza, il mio augurio. Se vogliamo vivere insieme in concordia e armonia, una discussione attenta ed equilibrata su questioni che ci coinvolgono nel profondo dell’anima è fondamentale.

Per gran parte della mia vita di adulto, tre elementi emergevano quando mi presentavo a qualcuno per la prima volta: sono un uomo, non sono bianco e parlo quello che si suole chiamare Queen’s English, l’inglese della Regina. Si tratta di elementi che riguardano il genere, l’etnia, la classe sociale e la nazionalità. E oggigiorno è abbastanza normale raggrupparli in un unico insieme. Riguardano, cioè, l’identità. E tutti noi supponiamo che identità di questo tipo non condizionino soltanto le risposte che gli altri danno a noi, ma il nostro stesso pensiero sulla nostra vita.

Ognuno dei cinque capitoli che seguono si concentra su un aspetto specifico legato all’identità: credo; nazionalità; colore; classe sociale e infine cultura. Ma all’inizio sarà il caso di dire qualcosa sulla domanda che sorge spontanea di fronte a questo elenco così vario e disparato, vale a dire: cos’hanno in comune tutti questi elementi? E ancora: come sono nate le identità? In tutti questi anni ci ho riflettuto a lungo e sono giunto a una risposta, che è stata il filo rosso di questo studio. È la risposta di un filosofo a una duplice domanda: cosa sono le identità? Perché sono così importanti? Spetterà al primo capitolo esplorare le manifestazioni, i meccanismi e i motivi dei molteplici sistemi di classificazione impiegati dagli esseri umani.

Alcune identità collettive sono estremamente “situazionali”: un caso tipico è rappresentato dal “noi” di questo libro che indica i miei lettori e me stesso, uniti da una serie di idee condivise dalle persone istruite di ogni continente. Le perplessità che cerco di combattere sono le stesse che ho provato io in prima persona. Poiché immagino lettori di svariati luoghi, a volte ho spiegato cose che alcuni di loro conoscono già: che cos’è la “confermazione” per un anglicano; chi è un dio indù; cos’è la “Sunna” per un musulmano. In un libro che si occupa di un ampio spettro di identità, è naturale attendersi un pubblico di lettori molto vasto ed eterogeneo, ciascuno con le proprie esperienze e un bagaglio di conoscenze molto vario.

In effetti, il messaggio principale riguardante queste cinque forme di identità, che ci accompagneranno nel corso del libro, è che noi viviamo ancora oggi con l’eredità di modi di pensare risalenti al diciannovesimo secolo ed è giunto il momento di sottoporli al vaglio del più avanzato pensiero del ventunesimo secolo. Gli intellettuali europei e americani che hanno fondato l’antropologia moderna verso la fine del diciannovesimo secolo ritenevano la religione centrale nel nostro sistema di convinzioni, e quell’idea è passata nella cosiddetta cultura generale. Cercherò di dimostrare che al centro della vita religiosa attraverso i secoli e i luoghi non c’è il credo. E una volta che esso non è più così essenziale, potremo anche convenire che le scritture – come fonte religiosa – contano meno di quanto si pensi abitualmente.

Quando si tratta di stati moderni, sorti da una forma di nazionalismo anch’esso nato nel diciannovesimo secolo, la legge e il senso comune suggeriscono che le persone hanno il diritto di decidere il proprio destino. Parliamo di autodeterminazione e autonomia, di indipendenza e libertà. Ma, come spiegherò, c’è qualcosa di sbagliato anche in questi modelli, a partire dalle risposte che abbiamo dato a una domanda fondamentale: cosa rende un gruppo di persone una nazione?

La razza (nozione alquanto vaga, come vedremo) è stata motivo di scontri tra gli uomini da quando il profilo del pensiero moderno iniziò a delinearsi con le nuove idee scientifiche sugli esseri umani considerati parte del mondo naturale. Queste idee balzarono alla ribalta nel diciannovesimo secolo, insieme all’autorità culturale della biologia, la nuova scienza della vita. Però molte delle elaborate sovrastrutture concepite riguardo alla cosiddetta razza sono state smantellate nel secolo scorso grazie al lavoro di antropologi e biologi che si sono occupati delle implicazioni delle teorie di Darwin e Mendel, e moltissime scoperte sono state compiute sulla teoria evolutiva, la biologia delle popolazioni umane e la genetica. Ma il mondo al di fuori della scienza non sembra essersene accorto granché. Ancora oggi troppi di noi sono vittime di una pericolosa cartografia del colore.

Il problema relativo alla classe sociale, discusso nel quinto capitolo, non è tanto che ne abbiamo una rappresentazione ingannevole, quanto che operiamo con una serie di idee incoerenti e inconsistenti. E la soluzione più diffusa concepita per affrontare le questioni sociali rischia, proprio come le sanguisughe e il salasso nella medicina del diciottesimo secolo, di peggiorare le condizioni che vorrebbe risolvere.

Non starò qui a riassumere gli innumerevoli errori commessi riguardo alle nostre identità culturali più ad ampio raggio, o alla stessa idea di Occidente. Lasciatemi però dire che è diffusissima la tentazione di un aut aut: considerare le persone o eredi della civiltà occidentale, oppure, all’opposto, estranee.

Nel libro vedremo come il genere – che è la più antica forma di identità umana – sottintende e riunisce i problemi delle altre identità. Pensare con maggiore chiarezza al genere (l’obiettivo della filosofia femminista da più di una generazione) ci aiuta a riflettere sulle altre identità. Per questo il genere è al centro del primo capitolo, perché pone sul tavolo alcune forme complessive di identità con cui abbiamo a che fare. Ma ogni identità presenta i suoi fraintendimenti specifici.

In ognuno dei cinque casi di studio, commettiamo un errore su cui mi soffermerò nel primo capitolo: supponiamo, cioè, che alla base di ciascuna di queste identità vi sia una profonda somiglianza che tiene insieme tutti i suoi detentori. Ma non è così. Ripeto: non è così! Convincervi di questo mio pensiero spetterà agli argomenti che di volta in volta proporrò, ma anche ai dettagli e alle storie con cui accompagnerò la trattazione. Certo, non possiamo fare a meno delle identità, ma dobbiamo capirle meglio se vogliamo sperare di poterle riconfigurare liberandoci di errori che durano ormai da un paio di secoli almeno. L’elemento più pericoloso riguarda il modo in cui le varie forme di identità – religione, stato, etnia, classe e cultura – ci dividono e ci oppongono gli uni agli altri. Possono diventare i nemici della solidarietà umana, provocare guerre devastanti, essere i cavalieri di una moderna apocalisse che va dall’apartheid al genocidio. Eppure questi errori sono anche fondamentali per come le identità ci tengono uniti oggi. Essi vanno ripensati e riformulati, dal momento che, al loro meglio, fanno sì che gruppi – grandi e piccoli – si ritrovino insieme ad agire. Sono le bugie che uniscono.

A proposito di identità

Fino alla metà del ventesimo secolo nessuno, interrogato sull’identità di una persona, avrebbe mai tirato in ballo l’etnia, il sesso, la classe sociale, la nazionalità, o la religione. Quando in Middlemarch George Eliot scrive che Rosamond Vincy “stava quasi perdendo il senso della propria identità”, si riferisce alle esperienze nuove che la sua eroina deve affrontare dopo la notizia che Will Ladislaw, l’uomo che pensa di amare, si è innamorato perdutamente di un’altra.1 In quel caso l’identità è specifica e personale. Le identità a cui pensiamo oggi, invece, sono spesso condivise da milioni, se non addirittura miliardi di persone. Sono identità sociali.

Invano si cercheranno riferimenti a questo genere di identità nelle scienze sociali degli inizi del ventesimo secolo. In Mente, sé e società, pubblicato nel 1934, George Herbert Mead delineò una teoria del sé che ebbe molta influenza: il sé come prodotto di un “Io” che risponde alle domande sociali degli altri, e una volta interiorizzato forma quello che lo psicologo chiama il “Me”. Ma nel grande pensiero classico sociale di inizio Novecento non troverete mai la parola “identità” nella nostra accezione moderna. La discussione sull’identità prende piede nella psicologia evolutiva dopo la Seconda guerra mondiale, per merito dell’illustre studioso Erik Erikson. Nel suo primo libro, Infanzia e società, del 1950, Erikson usa il termine con diversi significati: essenzialmente, però, riconosce l’importanza dei ruoli sociali e dell’appartenenza a gruppi nel definire il senso di sé, che con un linguaggio psicanalitico chiama “identità dell’ego”. Più tardi, si occupò delle crisi di identità che segnarono le vite di Martin Lutero e del Mahatma Gandhi, e pubblicò opere quali Identità e ciclo della vita (1959), Gioventù e crisi d’identità(1968), Aspetti di una nuova identità (1974).

Cresciuto nella Germania del Sudovest, Erikson raccontò un episodio della propria vita che coglie in pieno il nocciolo delle nostre odierne nozioni:

Il mio patrigno era un medico molto rispettato di una famiglia piccoloborghese profondamente ebraica, mentre io (che avevo origini mezzo scandinave) ero biondo con gli occhi azzurri, altissimo. Ben presto mi guadagnai il soprannome di “goy” nella sinagoga del mio patrigno, mentre per i miei compagni di scuola ero un “ebreo”.

Immagino che, mentre i confratelli ebrei usavano una parola yiddish che indica un gentile, i compagni tedeschi non ricorressero soltanto a un termine educato come “ebreo”. Il padre biologico era un danese, si chiamava Salomonsen; il cognome del padre adottivo era Homburger. Ma a un certo punto Erik decise di assumere il cognome di Erikson, che come rivelò acutamente la figlia suggeriva che egli si poneva come il padre di se stesso. Dunque, in un certo senso, era il risultato di una creazione personale.2L’identità, possiamo concludere, era una questione molto delicata.

Nel suo primo libro Erikson propose una teoria sul perché “noi”, per dirlo con le sue parole – ed è da notare che molto probabilmente intendesse “noi americani” –, abbiamo cominciato a “concettualizzare l’identità”. Secondo lui, l’identità era diventata un problema negli Stati Uniti perché il paese stava cercando di “costituire una superidentità sulla base di tutte quelle degli immigrati” e, precisava, “in un momento in cui queste identità essenzialmente agrarie e aristocratiche sono minacciate, anche nei loro paesi di origine, dal rapido sviluppo della meccanizzazione”.3 È una buona osservazione. Ma io non ci credo. Come vedremo nel corso del libro, l’identità, nella nostra accezione, era un problema già molto prima che si iniziasse a parlarne in questi termini moderni.

Se Erikson, oscillando tra forme personali e collettive di identità, contribuì a un’ampia diffusione del termine, il grande sociologo americano Alvin W. Gouldner fu tra i primi a fornire una definizione dettagliata di “identità sociale”. Ecco cosa scrisse in un saggio del 1957: “A quanto pare quello che si intende per ‘posizione’ è l’identità sociale che viene assegnata a una persona dai membri del suo gruppo”. E approntò una descrizione di ciò che significava in pratica nella vita sociale. Innanzitutto, “si osservano o si attribuiscono a una persona determinate caratteristiche”, che permettono di “rispondere alla domanda Chi è?”. In seguito, “queste caratteristiche, osservate o attribuite, sono […] interpretate nei termini di un sistema di categorie culturalmente prestabilite”.

In questo modo l’individuo viene “incasellato”: così è tenuto a essere un certo “tipo” di persona, un insegnante, un nero, un ragazzo, un uomo, o una donna. Il processo attraverso il quale l’individuo è classificato dagli altri del suo gruppo, secondo le categorie culturali predefinite, può essere chiamato assegnazione di una “identità sociale”. I tipi o le categorie a cui viene assegnato rappresentano le sue identità sociali […]. A diverse identità sociali corrispondono diversi ordini di aspettative, diverse configurazioni di diritti e doveri.4

Come vedremo, ritengo che Gouldner avesse parecchia ragione.

Gli appelli all’identità aumentarono enormemente negli anni sessanta del secolo scorso, e alla fine degli anni settanta in molte società nacquero movimenti politici basati sul genere e il sesso, la religione e l’etnia (e spesso con una politica classista che faceva da sfondo). In più di un posto movimenti su base regionale che cercavano di minare gli stati di lungo corso parlavano il linguaggio dell’identità nazionale. Nella sola Europa esistono il nazionalismo scozzese, quello gallese e catalano, e ancora quello basco, padano, fiammingo; verso la fine del ventesimo secolo la Jugoslavia collassò in una costellazione di stati; segnali si registrano anche in Bretagna, Corsica, Normandia… e l’elenco non è completo.

Un po’ di teoria

Da oltre tre decenni sono impegnato a scrivere e riflettere sulle questioni dell’identità. Iniziai a sviluppare un pensiero teorico a partire dalla cosiddetta razza, perché ero sinceramente stupito dai diversi modi in cui persone dei luoghi più disparati reagivano al mio aspetto. Non era tanto il caso dell’Ashanti, per la cui appartenenza, così mi sembrava, era sufficiente un solo genitore locale. Jerry Rawlings, capo di stato del Ghana dal 1981 al 2001, aveva un padre scozzese; in origine non venne scelto in modo democratico dal popolo – salì al potere per ben due volte con un colpo di stato – ma poi i suoi concittadini lo elessero presidente altre due volte. A differenza delle mie tre sorelle, nate come mio padre in Ashanti, io non sono mai stato cittadino ghanese. Sono nato in Inghilterra, prima dell’indipendenza del Ghana, da una madre inglese, e sono andato in Ashanti all’età di un anno. Per ottenere la cittadinanza ghanese occorreva fare domanda, ma i miei genitori non la presentarono mai. Quando potevo farlo io, mi limitai a dichiararmi ghanese con passaporto britannico. Una volta mio padre, in qualità di presidente del Ghana Bar Association, venne coinvolto nella stesura di una delle nostre numerose costituzioni. “Perché non cambi le regole, in modo che possa essere cittadino sia ghanese sia inglese?” gli domandai. “La cittadinanza è unitaria,” mi rispose. Ecco, con lui non avrei ottenuto un bel niente! Ma nonostante la mancanza di appigli legali, a volte, quando facevo qualcosa degno di nota, venivo associato, almeno da alcuni, al luogo che era la mia patria per metà soltanto della mia discendenza.

La faccenda dell’Inghilterra era altrettanto complicata. Nel villaggio della mia nonna materna, Minchinhampton, nel Gloucestershire, dove ho trascorso parte della mia infanzia, nessuno dei nostri conoscenti metteva in dubbio la nostra appartenenza a quel posto. Anche i miei zii vivevano in quella pittoresca cittadina dell’Ovest dell’Inghilterra, sede di un mercato storico. Mia zia era nata lì. Da bambino mio nonno materno aveva passato molto tempo in una casa in fondo alla vallata che apparteneva a suo zio, il cui mulino un tempo aveva tessuto la stoffa per le uniformi dei soldati inglesi e il panno verde per i tavoli da biliardo. Per un breve periodo il mio bisnonno, Alfred Cripps, era stato membro del parlamento di Stroud, pochi chilometri a nord, e il suo bisnonno, Joseph Cripps, aveva rappresentato Cirencester, altri pochi chilometri a est, per gran parte della prima metà del diciannovesimo secolo. In quella zona c’erano dei Cripps – qualcuno sepolto nel cimitero della chiesa di Cirencester – che risalivano addirittura al diciassettesimo secolo!

Ma il colore della pelle e gli antenati africani che condividevo con le mie sorelle ci bollavano come “diversi”, in modi di cui non eravamo sempre perfettamente consapevoli. Ricordo che molti decenni fa partecipai alla giornata degli sport organizzata da una scuola del Dorset che avevo frequentato da ragazzino. Incontrai un signore piuttosto anziano che era stato il mio preside. “Non si ricorderà di me,” mi scusai mentre mi presentavo. Sentendo il mio nome, l’uomo si illuminò e mi strinse la mano calorosamente. “Certo che mi ricordo,” rispose. “Sei stato il nostro primo rappresentante degli studenti di colore!” Quando ero giovane, l’idea di essere inglesi e non bianchi appariva bizzarra. Ma ancora nel primo decennio del ventunesimo secolo! Rammento lo stupore di un’attempata e distinta signora inglese che aveva ascoltato una mia conferenza all’Aristotelian Society di Londra. Non si capacitava di come potessi essere inglese. E nessun discorso sui miei antenati del diciottesimo secolo dell’Oxfordshire l’avrebbe persuasa!

Quando andai negli Stati Uniti, all’inizio le cose sembravano relativamente semplici. Avevo un padre africano e dunque, come più tardi il presidente Obama, ero nero. Ma anche qua la storia è complessa… ed è cambiata nel corso degli anni, in parte grazie al diffondersi dell’idea delle persone di etnia mista come gruppo identitario. In ogni caso il colore e la cittadinanza erano questioni separate: dopo la Guerra civile nessuna persona di buonsenso nutriva dubbi sul fatto che si potesse essere nero e insieme cittadino americano, almeno dal punto di vista della legge, nonostante il perdurare di un nazionalismo bianco di matrice razziale. Tornerò più avanti sulle idee di razza che hanno determinato questi fatti, ma spero siano chiari i motivi della mia perplessità sulla loro effettiva ragionevolezza.

Quando negli anni mi sono dedicato allo studio della nazionalità, della classe, della cultura e della religione come fattori di identità – a cui, poi, si sono aggiunti il genere e l’orientamento sessuale –, ho individuato tre aspetti sotto i quali questi diversi modi di raggruppare le persone presentano alcuni importanti elementi in comune.

Etichette: perché sono così importanti

La prima affermazione è ovvia: ogni identità si presenta con delle etichette, perciò comprendere un’identità comporta innanzitutto che tu abbia un’idea di come applicare queste etichette. Per spiegare cosa sono gli ewe, i jaina o i kothi occorre prima di tutto accennare alla specificità di ogni etichetta. In questo modo si può provare a individuare qualcuno provvisto di quell’identità, o provare a decidere se a una persona che incontri si può applicare quell’etichetta.

L’etichetta “ewe” (pronunciato di solito “eue”) è etnica, è quella che i sociologi chiamano un “etnonimo”: se i tuoi genitori sono entrambi ewe, anche tu lo sei. Si applica, in prima istanza, alle persone che parlano uno dei molti dialetti di una lingua chiamata “ewe”, perlopiù diffusa in Ghana e Togo, benché oggi sia presente in molte altre parti dell’Africa dell’Ovest e, sempre di più, con i flussi migratori, nel resto del mondo. Come è tipico delle etichette etniche, la sua applicazione suscita molte domande. Se soltanto uno dei genitori è ewe e non si conosce nessuna lingua di quella famiglia, si può essere considerati ewe? Dato che gli ewe sono patrilineari, conta di più che tuo padre sia ewe o tua madre? Inoltre, visto che l’ewe appartiene a un più ampio gruppo di lingue (di solito chiamate gbe, che è la parola che indica il linguaggio), che sfumano l’una nell’altra, non è facile stabilire con esattezza i confini tra la popolazione ewe e gli altri popoli parlanti gbe. (Immaginate di cercare i confini del “Southern speech” negli Stati Uniti o dell’accento cockney a Londra e capirete la difficoltà.) Nonostante tutto ciò, molte persone in Ghana e Togo affermeranno di essere ewe e i loro vicini saranno d’accordo.

Veniamo così al secondo aspetto fondamentale: le identità contano per le persone. Innanzitutto, perché possedere un’identità dà un senso di appartenenza a livello sociale: ogni identità rende possibile parlare come un “io” in mezzo a dei “noi”; evidenzia, cioè, l’appartenenza a un “noi”. Ma un altro aspetto cruciale è il fatto che l’identità consente di agire in un determinato modo. Vale, ad esempio, per un jaina, il che vuol dire appartenere a una particolare tradizione religiosa indiana. La maggior parte dei jaina sono figli di due jaina (come del resto la maggior parte degli ewe sono figli di due ewe), ma c’è molto di più: chiunque voglia seguire il cammino indicato dai jina, anime che si sono liberate dal giogo delle passioni terrene e vivono una beata eternità nel punto più alto dell’universo, può farlo. Bisogna seguire cinque voti o forme di devozione chiamati vrata, che sono: la nonviolenza, il non mentire, il non rubare, la castità e la rinuncia alla proprietà privata. (Come i tabù, così centrali per molte identità, i vrata definiscono chi sei in base a ciò che non sei o non fai. Anche nei Dieci comandamenti biblici molte prescrizioni cominciano con un “Non”.)5

Il contenuto dettagliato di ciascuna di queste indicazioni dipende, tra l’altro, dall’essere un laico, oppure, al contrario, un monaco o una monaca jaina. Però il punto centrale è che ci sono determinati comportamenti che le persone seguono o non seguono in ragione del loro essere jaina. Con questo intendo dire che loro stessi si ritrovano a pensare: “Devo essere fedele alla mia sposa… dire la verità… non fare del male agli animali… perché sono jaina”. In parte lo fanno perché sanno di vivere in un mondo dove non tutti sono jaina, e le persone di altre religioni possono pensarla diversamente.

Benché esistano molte e varie tradizioni religiose, essere ewe non è un’identità legata al culto e non presenta degli specifici codici etici. Un musulmano, un protestante o un cattolico possono essere ewe, e inoltre molti praticano i rituali tradizionali noti come vudu. (Come gli haitiani, hanno preso in prestito la parola dai popoli fon, loro vicini: il termine significa “spirito”.) Ma a volte gli stessi ewe dicono a se stessi: “Come ewe, dovrei…”, e proseguono precisando qualcosa che pensano di fare o non fare. Insomma, agiscono in un determinato modo perché sono ewe. E anche questa convinzione dipende, in parte, dalla consapevolezza che non tutti sono ewe e che i non-ewe potrebbero comportarsi in maniera diversa.

Le persone che forniscono motivazioni del genere – “Perché sono così, dovrei fare così” – non accettano soltanto l’etichetta; attribuiscono all’appartenenza al proprio gruppo quello che un filosofo chiamerebbe “significato normativo”. Stanno dicendo, cioè, che l’identità conta per la vita pratica: per le loro emozioni e le loro azioni. E uno dei modi più comuni in cui può contare è che queste persone provano una sorta di solidarietà con gli altri membri del gruppo. La loro comune identità, pensano, giustifica il fatto che si aiutino a vicenda. Crea quelle che potremmo definire norme di identificazione: regole su come comportarsi, alla luce della propria identità.

Ma come sorgono discussioni e scontri sui confini di un gruppo, su chi vi è incluso e chi no, così c’è quasi sempre disaccordo sul significato normativo di un’identità. Cosa può pretendere legittimamente un ewe o un jaina da un’altra persona? Essere ewe implica che bisogna insegnare per forza la lingua ewe ai figli? La maggior parte dei jaina pensa che la loro religione chieda di essere vegetariani, ma non tutti sono d’accordo sull’esclusione dei latticini. E così via. Anche se ogni ewe o jaina farà qualcosa in nome della propria identità, non farà sempre le stesse cose. E poiché a volte queste identità aiutano a rispondere alla domanda “Cosa devo fare?”, esse sono importanti nel condizionare la vita quotidiana.

A dimostrazione di quanto possa essere vero quest’ultimo assunto, eccoci giunti al terzo aspetto in comune a tutte le identità: non solo la nostra identità fornisce a noi dei motivi per comportarci in un certo modo, ma può dare ad altri motivi per comportarsi in una determinata maniera con noi. Ho già ricordato come le persone possono fare qualcosa a causa dell’identità: possono aiutarci soltanto perché abbiamo la stessa identità. Ma tra le azioni più significative vi è il ricorso alle identità come base di gerarchie e strutture di potere. Le caste nell’Asia del Sud implicano che certe persone siano nate con una posizione sociale superiore a quella di altri – i bramini, ad esempio. Essi appartengono alla casta religiosa, e il contatto con membri di caste considerate inferiori li “contamina”. In molte parti del mondo un gruppo etnico o razziale ritiene i propri membri superiori ed esige un trattamento migliore. Nel sonetto Ozymandias, il poeta inglese Percy Bysshe Shelley parla di “fronte corrucciata, labbra contratte e ghigno di gelido comando” sul volto di marmo della statua di un faraone morto secoli prima: gli eredi di questo “re dei re” intendevano dire che egli esigeva rispetto e obbedienza. Le identità dominanti pretendono di essere trattate come fonte di autorità; mentre le identità subordinate sono destinate a essere calpestate o ignorate.

Ma un’importante forma di lotta per l’identità si ha quando le persone sfidano i criteri di distribuzione iniqua del potere. Il mondo è pieno di identità onerose, il cui prezzo è l’ostilità da parte degli altri. I kothi in India lo sanno bene. Si tratta di persone che, nonostante un’identità maschile assegnata dalla nascita, si considerano donne e nutrono un’attrazione per uomini vistosamente virili. Per anni i kothi hanno subito insulti e abusi, e sono stati rinnegati dalle loro famiglie: molti di loro sono stati spinti dall’emarginazione sociale alla prostituzione. In anni recenti il diffondersi di nuove idee su genere e sessualità – con le nozioni di omosessualità, intersessualità, identità transgender, complessità dei nessi tra sesso biologico e comportamento umano – ha dato il via a movimenti che cercano di combattere l’esclusione sociale di persone dalla sessualità che non rientra nei canoni tradizionali. Da ultimo, la Corte suprema dell’India ha dichiarato che gli individui sono liberi di considerarsi maschi, femmine, o di un terzo sesso, come meglio credono.

Una volta che le identità esistono, le persone tendono a formarsi un’immagine di un membro tipico di un determinato gruppo: sono gli stereotipi. Per quanto possano avere tanto o poco fondamento nella realtà, di solito contengono sempre qualcosa di sbagliato. Alcuni indiani pensano che i kothi vogliano essere donne: sarebbero quelli che in Europa e in America si chiamano spesso “transessuali”. Ma non è sempre così. Alcuni ghanesi sono convinti che gli ewe usino il “juju” – la stregoneria o magia nera – contro i nemici. Ma la magia è una pratica tradizionale di tutto il Ghana, dunque, in effetti, è arduo fare distinzioni! (Una volta ho raccontato che durante il funerale di mio padre ho discusso di come affrontare la minaccia della stregoneria nella nostra famiglia. Noi eravamo ashanti, non ewe.)6 La gente crede che i jaina siano talmente dediti alla nonviolenza da coprirsi la bocca con una benda bianca per evitare di inghiottire per sbaglio degli insetti. Ma moltissimi jaina non indossano il muhapatti, così si chiama quella benda, e comunque quell’indumento ha una varietà di impieghi che non riguarda la salvezza di mosche e moscerini!

In conclusione, le identità si presentano, in primo luogo, con etichette e idee sul perché vadano applicate e a chi. Poi, l’identità modella i pensieri sui comportamenti da seguire; e infine condiziona il modo in cui gli altri ci trattano. Tutti questi aspetti si possono contestare, sollecitando una discussione sui seguenti punti: chi è incluso; a chi o cosa assomiglia; come deve comportarsi ed essere trattato.

Donna, uomo, altro?

Questa immagine dell’identità risulta, in effetti, una generalizzazione dei modi di pensare il genere elaborati dalle pionieristiche studiose del femminismo. Questo movimento utilizzò le idee teoriche per chiedere l’uguaglianza delle donne e la liberazione dai vecchi schemi oppressivi. Ogni società ha un modello di genere, un modo di pensare al significato della distinzione tra uomo e donna. Ma le teorie femministe ci consentono di vedere cosa hanno in comune tutti gli svariati modelli di genere, e allo stesso tempo di seguirne le varie differenze.

Soffermiamoci su alcuni dettagli. La stragrande maggioranza dei corpi umani appartiene a uno dei due generi biologici. Il semplice esame dei genitali – gli organi di riproduzione sessuale – ci permette di riconoscere un maschio (perché avrà il pene, lo scroto, i testicoli) e una femmina (sarà provvista di vagina, grandi e piccole labbra, utero, ovaie). Spesso in età adulta basta un colpo d’occhio per il riconoscimento: durante la pubertà alle femmine cresce il seno, nei maschi si sviluppa la peluria facciale, il timbro di voce cambia ecc. Dall’analisi cromosomica si sa che i maschi hanno un cromosoma X e uno Y, mentre le femmine due X. Sulla scorta di queste nozioni, tanto la gente comune quanto le persone esperte – in questo caso i medici – applicano le etichette di “uomo” e “donna”.

Ma queste sono solo due delle possibili combinazioni di cromosomi sessuali e relativa morfologia. Nel caso standard, all’inizio gli organi sessuali maschili e femminili si sviluppano in modo indistinto nell’embrione, e nelle prime fasi la struttura che poi diventerà un’ovaia o un testicolo è chiamata “gonade indifferenziata”. Nel tipico feto maschile i geni del cromosoma Y innescano i cambiamenti che producono il testicolo e il rilascio di ormoni che condizionano lo sviluppo delle altre componenti sessuali. Senza questo stimolo, la gonade diventa un’ovaia: dunque, è la presenza del cromosoma Y a determinare un maschio.

Questa è la combinazione di base. Ma esistono molte variazioni. Una possibilità, ad esempio, è che, nonostante un cromosoma Y, si sviluppino dei genitali femminili esterni. Può succedere per molte ragioni, una di esse risponde al nome di Ais (Androgen Insensitivity Syndrome, sindrome da insensibilità agli androgeni), il che significa che le cellule non sono sensibili agli ormoni sessuali maschili. Le persone con cromosoma XY affette da Ais possono avere genitali esterni maschili o femminili, o qualcosa di intermedio, ma le donne non sono fertili perché hanno i testicoli al posto delle ovaie.

Questa discrepanza tra apparato esterno e cromosomi sessuali si può sviluppare in altre modalità. Gli androgeni materni possono determinare uno sviluppo dei genitali in direzione maschile, con il risultato di una persona con cromosomi XX ma esternamente maschile. Una cellula uovo umana chiaramente XY può produrre una persona che sembra una donna, e viceversa una cellula con corredo XX un individuo mascolino. E ci sono altre combinazioni possibili: pene e ovaie, vagina e testicoli addominali, genitali esterni intermedi ecc.

E tutto ciò avviene a partire da due semplici cromosomi sessuali. Poi ci sono persone che hanno un corredo XO, cioè un solo cromosoma. È la sindrome di Turner, e chi ne è affetto ha un corpo da donna ed è di solito sterile e più basso di statura della media. (Per sopravvivere occorre almeno un cromosoma X – quello Y è più piccolo ed è carente di alcuni geni fondamentali per la vita umana – per questo non esistono maschi OY.) Chi soffre di questa sindrome può avere problemi di salute, ma tra loro c’è una ginnasta campionessa del mondo, Missy Marlowe, che è stata portavoce della Turner Syndrome Society, e l’attrice premio Oscar Linda Hunt.

Poi ci sono persone con un cromosoma X in più – XXY o XXX – o anche, caso molto raro, più di uno. Poiché nelle cellule femminili normali soltanto uno dei cromosomi X è attivo (gli altri presentano una forma compatta e perlopiù inattiva chiamata “corpo di Barr”), quelli extra di solito non fanno una grande differenza: se c’è un cromosoma Y, l’aspetto sarà maschile; in caso contrario, prevarrà la connotazione femminile. Per quanto tutte queste variazioni siano rare, bisogna anche ricordare che a livello di morfologia fisica non esiste una distinzione netta dell’essere umano in due sessi.

Ogni società inizia con uno spettro essenziale di possibilità, che è alla base della nostra biologia umana. Visto che statisticamente i casi intermedi sono meno frequenti, molte persone di comunità piccole interagiranno soltanto con maschi XY e femmine XX, con una morfologia sessuale standard. Ma, data la grande variabilità, non stupisce che le società abbiano concepito diverse modalità di assegnazione del genere. In molti posti i chirurghi hanno spesso cercato di “aggiustare” i genitali di bambini appena nati dotati di un apparato sessuale non standard: un tentativo di ricondurre ognuno in un sistema binario, in cui si è, più o meno chiaramente, o maschi o femmine. Ma non tutti la ritengono una buona idea.

Per molto tempo in India i kothi non sono stati trattati né come uomini né come donne, e il loro caso richiama un’altra forma di identità di genere dell’Asia del Sud nota come hijra.7 Gli hijra, come spiega la relazione di un comitato indiano di esperti del 2014, sono “maschi biologici che a tempo debito rifiutano la loro identità maschile per identificarsi come donne o non-uomini, o tra uomo e donna, o né uomo né donna”.8 Ma gli hijra hanno una lunga tradizione, come comunità, che prevede riti di iniziazione, uso di abiti da donna e trucco femminile. I kothi, invece, adottano il cross dressing soltanto in privato o in determinate situazioni di socializzazione; anzi, molti non portano vestiti femminili. A volte gli hijra si sottopongono a interventi chirurgici di riassegnazione sessuale; in passato molti venivano castrati. Da notare che nessuno di questi termini corrisponde ai nostri “transgender” o “omosessuale”, dal momento che (per ricordare soltanto una differenza) le categorie di pensiero dell’Asia del Sud non prevedono quelli che noi chiamiamo transessuali FtM o lesbiche.

Anjum, la protagonista del Ministero della suprema felicità, lo stupefacente e labirintico romanzo di Arundhati Roy, è quello che una volta veniva chiamato un ermafrodita: viene cresciuto come un ragazzo di nome Aftab perché la madre vuole nascondere il fatto che possiede gli organi sessuali sia maschili sia femminili.9 Ma il ragazzo Aftab non vuole essere un ragazzo, benché non sappia ancora con precisione cosavoglia essere. Poi una mattina di primavera:

vide una donna alta, dai fianchi sottili, con un rossetto vivace, un paio di sandali dorati col tacco alto e un salwar kameez di lucida seta verde, comprare braccialetti da Mir, il venditore di gioielli […]. Aftab non aveva mai visto nessuno che somigliasse a quella donna alta col rossetto. […]
Desiderò di essere lei.10

Aftab segue quell’hijra così colorato fino a casa, al Khwabgah – il complesso abitativo dove gli hijra di quella parte di Delhi vivono – e scopre un’intera comunità a cui sente, in qualche modo, di appartenere. Essere hijra significa molto di più che avere un corpo maschile e uno stile femminile: come impariamo dal romanzo, gli hijra hanno un ruolo nella società indiana, ed essere identificato come uno di loro non comporta soltanto vestirsi da donna. Certo, il personaggio di Aftab/Anjum è d’invenzione, anche se, così mi è stato riferito, è basato su una persona reale.

Anche dall’altra parte del globo alcune tribù indiane del Nordamerica prevedevano una certa varietà di genere. Ad esempio, nel diciannovesimo secolo i navajo chiamavano gli intersessuali maschili “dilbaa”, e quelli femminili “nádleehí”.11 Svolgevano un ruolo speciale nella vita religiosa. Più di recente molti attivisti indiani hanno usato il neologismo “Due Spiriti” per indicare chi non rientra perfettamente nelle categorie di uomo e donna. Il termine riflette il fatto che chi non era né uomo né donna, ma aveva tuttavia qualcosa – uno spirito – di entrambi, ricopriva un ruolo religioso importante in molte società indiane. Ed è così che oggi molti nativi americani, che altrove verrebbero definiti gay, lesbiche o trans, scelgono di farsi identificare.

Le teorie femministe ci hanno insegnato che, quando si parla di uomini e donne o di altri generi, non si parla soltanto di corpi. Nel momento in cui si chiama un individuo ragazzo o ragazza – si applica quell’etichetta –, ogni società si riferisce a molto di più di una pura morfologia sessuale. Per questo noi distinguiamo tra sesso (la condizione biologica) e genere (l’insieme di idee su cosa sono un uomo e una donna e su come si devono comportare). Secondo alcune ricerche un bambino ogni cento è – in qualche modo – intersessuale12: in un mondo con oltre sette miliardi di persone la percentuale dell’1 percento è un numero ragguardevole. Levatrici, ostetriche e coloro che assistono a molte nascite potranno imbattersi di tanto in tanto in casi del genere e dovranno decidere – semmai – come porsi di fronte al problema. Ma anche in un mondo con femmine esclusivamente XX e purissimi maschi XY il genere sollecita un problema strutturale di pensiero su cosa sono, o cosa dovrebbero essere, l’uomo e la donna.

Perché? Perché, come ho già detto, l’identità comporta etichette e stereotipi. Il che è più che mai ovvio nel caso del genere. Se vieni identificato come uomo, nella maggior parte delle società si presuppone che ti piacciano le donne, che cammini e usi le mani in una maniera “maschile”, che sia fisicamente più forte di una donna ecc. Viceversa, le donne dovrebbero essere attratte dagli uomini, camminare e parlare in un modo “femminile”, essere più gentili degli uomini ecc. Ho usato le parole “maschile” e “femminile” riguardo all’aspetto fisico, ma le utilizziamo anche per marcare altre differenze, basate su quel presupposto, e così continuiamo a ricorrervi a proposito del modo di pensare, provare sentimenti, comportarsi che le nostre rappresentazioni di genere ci inducono ad attribuire rispettivamente a un uomo e a una donna. Dunque gli uomini sono – o si presuppone che siano, dovrebbero essere – be’… “mascolini”: gli uomini in testa, le donne dietro, gli uomini comandano, le donne obbediscono. E quei “si presuppone che siano” e “dovrebbero essere” sono segnali sia descrittivi (così immaginiamo che sono gli uomini e le donne) sia normativi (così pensiamo che devono essere). Ma, ancora una volta, le persone si trovano in disaccordo su queste immagini tradizionali di uomo e donna – e di chi non è né l’uno né l’altra. Evidentemente queste nozioni cambiano con il tempo e lo spazio: molti newyorkesi di oggi accettano che una donna sia rude come uno scaricatore di porto e un uomo dolce e mite come “un bimbetto in culla” – per dirla con Shakespeare.

Etichette, stereotipi e idee su come comportarsi: tutto ciò, come ho detto, è presente in ogni identità. Il genere possiede anche l’ultima caratteristica che avevo menzionato: presuppone un’idea non solo di come comportarsi, ma anche di come gli altri si devono comportare con noi. In passato vigeva un codice di comportamento da gentiluomini (che rifletteva le gerarchie di potere), il quale prevedeva di aprire la porta, porgere la sedia, pagare i pranzi e le cene, e così via. Oggi sono emerse nuove norme di comportamento, riguardanti le interazioni fra donne, uomini, o fra donne e uomini. La prossima volta che vi trovate in un ascensore affollato di una moderna città cosmopolita, controllate un po’ se gli uomini si fanno da parte per lasciare passare le signore. Ora immaginatevi una donna che, in nome dell’abbattimento dei vecchi stereotipi, insiste per rifiutare una simile offerta. Alla luce di questo comportamento possiamo dire che l’identità presenta un aspetto soggettivo e uno oggettivo: non si può imporla, a casaccio, ma non dipende nemmeno esclusivamente da noi, non è uno schema che possiamo usare a nostro piacimento.

La configurazione di un’identità può essere accompagnata da altre identità concomitanti. Essere una donna ewe non comporta soltanto essere una donna ed essere ewe, come fosse una mera addizione matematica. Una donna ewe fronteggia determinate aspettative – che lei nutre verso gli altri e che gli altri nutrono verso di lei –, peculiari della sfera femminile ewe. Essere cinese e gay sarà diverso se si è originari di San Francisco piuttosto che di Zhumadian, nella remota provincia cinese dell’Henan, dove, non molto tempo fa, un ospedale ricoverò un uomo per “disordine della preferenza sessuale” e lo obbligò a sottoporsi a una terapia di “conversione”. Il peso sociale di un’identità può variare in base al reddito, l’età, l’aspetto fisico, il lavoro e qualunque altra coordinata vi passi per la mente. In un contesto politico un gruppo con un’identità può essere globale per sua esplicita ammissione (“Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!”, “Donne di tutto il mondo, ribellatevi!”), oppure appoggiarsi talora a vecchi schemi identitari mischiati a componenti più ampie e nuove (le persone di colore, Lgbtq). In questi casi l’identità svolge una funzione di solidarietà. Anzi, l’appartenenza a un gruppo che sia, per certi aspetti, subordinato non comporta necessariamente la simpatia verso altri gruppi (i neri americani, spesso per motivi religiosi, si oppongono di più ai matrimoni tra persone dello stesso sesso che a quelli con i bianchi), e a volte la più feroce ostilità proviene da un altro gruppo molto vicino (si pensi alle dispute religiose e alle eresie).

La complessità delle interazioni fra identità – come abbiamo visto nel caso dei kothi, dove le idee sulla sessualità e il genere sono cruciali – è uno dei motivi che ha indotto la giurista e attivista per i diritti civili Kimberlé Crenshaw a introdurre la nozione di intersezionalità. Il suo intento era studiare come le nostre molteplici identità interagiscono tra loro per produrre effetti che non sono la semplice somma di ciascuna di esse. Una lesbica nera non è la mera unione di norme di identificazione afroamericane, femminili e omosessuali: le norme di identificazione Lgbtq possono dipendere dalla razza e dal genere. Né, del resto, le reazioni sociali negative alle lesbiche nere sono una semplice combinazione di elementi razzisti e omofobi (che colpiscono anche i gay neri) e di avversione sessista, esperita anche dalle donne bianche della classe media.13 Il razzismo può spingere uomini bianchi ad avere paura dei neri e, al contempo, violentare le donne nere. In Sudafrica l’omofobia ha prodotto stupri di donne gay e omicidi di uomini gay. Il sessismo degli anni cinquanta teneva a casa le donne bianche della borghesia e mandava a lavorare per loro le operaie nere. Gli esempi di intersezionalità sono numerosissimi.

L’intersezionalità solleva un interrogativo su uno dei modi in cui le persone gestiscono la loro identità oggi. Immaginiamo che Joe, un uomo bianco, pretenda di parlare in quanto uomo o in quanto bianco. Oltre al fatto che sta parlando edè uomo o bianco, quali altre implicazioni dispiega quel gesto? Avere un’identità non significa, di per sé, essere autorizzati a parlare a nome di chiunque possegga quella stessa identità. Il privilegio di rappresentare un gruppo deve essere garantito in qualche modo. Ora, in mancanza di prove che Joe abbia ricevuto quell’autorizzazione o se la sia guadagnata, il suo intervento non vuol dire che egli parla per tutti i bianchi o per tutti gli uomini. Si potrebbe pensare che abbia almeno l’autorevolezza derivata dal sapere come si vive da uomo bianco. Ma si tratta di qualcosa di cui un uomo bianco può parlare con una specifica competenza, soltanto perché l’ha sperimentato in prima persona? No di certo, se assumiamo il punto di vista dell’intersezionalità: nella misura in cui l’insieme dei comportamenti degli altri nei nostri confronti condiziona la nostra vita, questa nozione evidenzia che esistono notevoli differenze nell’esperienza, ad esempio, di gay bianchi e di bianchi tout court; e se Joe è cresciuto nell’Irlanda del Nord, come cattolico bianco gay, i suoi amici bianchi gay protestanti potrebbero aver vissuto altre esperienze. E se ci riflettete un po’, capirete che, mentre la vostra identità influenza la vostra vita, non è detto che le vostre esperienze siano le stesse di quelle di altre persone con la vostra stessa identità.

Eppure il fatto, oggi più che mai lampante, che le identità sono molteplici e possono interagire in modi complessi convive con la semplicità di cui è fatta, almeno in astratto, ogni identità: un’etichetta e un’immagine da applicare che forniscano le norme secondo le quali le persone con questa etichetta e immagine dovrebbero comportarsi ed essere trattate dagli altri.

Habitus

Naturalmente niente di tutto questo è nuovo. “Donna”, “ewe”, “jaina”, “kothi”, “hijra” esistevano già molto prima che gli studiosi iniziassero a occuparsi di identità sociali. Da Shakespeare a Gilbert e Sullivan c’è una lunga tradizione che riguarda l’orgoglio di essere inglesi, che va dalle roboanti parole del discorso di Enrico V a Harfleur dove saluta i propri soldati come “nobili cavalieri, dalle membra forgiate in Inghilterra” fino ai più comici strali dell’operetta H.M.S. Pinafore, in cui il Nostromo dichiara che l’umile mozzo Ralph:

l’ha detto.
Ed è un gran verdetto:
Di essere un inglese!

Da ragazzo ero deliziato dalla registrazione a tinte satiriche fatta da Michael Flanders e Donald Swann che calcavano sulla frase “gli inglesi son il meglio, a esser onesto!” e cantavano allegramente che non avrebbero dato “due penny per tutto il resto!”. La novità consiste nel considerare le diverse etichette – inglese, donna, kothi ecc. – sostanzialmente equivalenti: la nascita dell’identità coincide con la nascita di questa idea.

Alla luce di questa concezione si possono porre domande riguardo al significato sociale e psicologico dell’identità. E proprio su questa dimensione molta della moderna psicologia e sociologia si è interrogata. Per completare il mio breve inquadramento teorico, voglio soffermarmi su tre importanti aspetti emersi nel corso del mio lavoro.

Il primo riguarda la centralità del nostro modo di usare il corpo. Il sociologo francese Pierre Bourdieu lo spiega così: ognuno di noi possiede quello che lui chiama un habitus, un insieme di modalità di reazione più o meno spontanee e inconsce al mondo esterno in determinate circostanze. Esso si forma in noi fin dall’infanzia: i genitori ci dicono di non parlare con la bocca aperta, di sedere tenendo la schiena dritta, di non toccare il cibo con la mano sinistra ecc., plasmando un determinato comportamento a tavola che probabilmente ci accompagnerà per il resto della nostra vita.14 Una volta interiorizzate, queste abitudini non vengono associate consapevolmente all’identità: gli inglesi della middle class non decidono di impugnare il coltello con la mano destra per comportarsi da inglesi, non più di quanto i ghanesi mangino soltanto con la mano destra per rivendicare il loro essere ghanesi. Eppure queste abitudini sono state plasmate dalle loro identità.

Bourdieu ha insegnato al prestigioso Collège de France di Parigi e ha avuto una carriera in seno all’élite accademica francese, ma è cresciuto in un villaggio della Francia del Sudovest, figlio di un contadino diventato impiegato postale, e ha mantenuto una distanza critica nei confronti dei codici sociali che l’hanno circondato da adulto. Ha visto come l’habitus si fondava sulla modalità peculiare con cui una persona usava il proprio corpo, modalità che ha definito “hexis corporea”, cioè una “maniera duratura di comportarsi, di parlare, di camminare, e, quindi, di sentire e di pensare”.15 (Se non dovessi ricorrervi anche più avanti, non mi sognerei di introdurre una terminologia così astrusa!) In questa nozione sono inclusi anche i modi di parlare, come ad esempio quello che una volta Bourdieu ha definito il “nuovo modo di parlare degli intellettuali, esitante, quasi imbarazzato, interrogativo (‘no?’), frammezzato”, che ha sostituito “il vecchio uso professorale (con i suoi periodi, i suoi imperfetti del congiuntivo ecc.)”.16

Noi impariamo a vestirci da uomo o da donna a seconda delle modalità configurate dagli abiti che abbiamo ricevuto da bambini, scelti in base al nostro sesso. Impariamo a camminare, in parte, osservando gli altri bambini e bambine. Se un uomo si trucca – come il profeta Maometto che si cerchiava gli occhi con il kajal o i guerrieri masai che si dipingono il viso di ocra – lo farà nei modi in cui lo fanno gli altri uomini: nella maggioranza delle società, il trucco femminile è diverso da quello maschile. Ma nessuno è particolarmente consapevole di queste azioni: quando compro una giacca, non penso “Mi devo vestire da uomo”. Quando passeggio per strada, non mi preoccupo di non dover camminare come una donna. Eppure, i miei vestiti e la mia andatura riflettono il mio sesso e i modelli di mascolinità a cui faccio riferimento. Come ci ricorda Aftab/Anjum, è attraverso i nostri processi di identificazione che noi riconosciamo i nostri modelli.

Le norme relative al genere vengono imposte in una miriade di modi. Mi torna alla mente un preside vecchio stampo della scuola che frequentavo – avrò avuto otto o nove anni. Si chiamava reverendo Hankey (che in bocca a un gruppo di irrequieti preadolescenti diventava “honkey”, il dispregiativo per un bianco) e un giorno ci impartì una severa lezione sul fatto che non dovevamo azzuffarci – “punzecchiarci” diceva nel castigato linguaggio della scuola – nella sala comune dove stazionavamo tra una lezione e l’altra. Qualche giorno dopo entrò nella sala e mi sorprese seduto sul petto di un mio compagno che, se la memoria non mi inganna, chiamavamo “Piggy”, Porcellino, perché di cognome faceva Hogsflesh (“Carne di porco”). Gli stavo facendo il solletico e lui si dimenava. Venimmo subito convocati nell’ufficio di presidenza. Per primo entrò Piggy. Sentii risuonare l’eco di quattro colpi inferti con una canna di bambù sul fondoschiena del malcapitato. Mi accingevo a subire il medesimo trattamento, quando al terzo fendente il reverendo Minkey si arrestò. “Te ne do uno in meno di Hogsflesh,” tuonò solenne. “Avevo detto di non punzecchiarvi. Ma dal momento che l’hai fatto, è senza dubbio meglio farlo… stando sopra.” (Quell’istituto, se non gli ideali di mascolinità del nostro preside, sparì una manciata di anni dopo.)

Le ragazze giapponesi vedono le altre ragazze coprirsi la bocca con le mani quando ridono. Così fanno lo stesso, e se non lo fanno vengono rimproverate. Ma per via di questo comportamento anche alcuni gay giapponesi si coprono la bocca quando ridono, e questo riflette il fatto che, a un certo livello, si identificano con le donne. Poiché i modi in cui uomini e donne camminano e si vestono nei vari gruppi sociali differiscono, si finisce per camminare e vestirsi nei modi che riflettono la propria identità, dunque non soltanto il sesso ma anche la classe sociale e l’etnia. L’andatura impettita degli afroamericani di certi quartieri degradati rispecchia tutti questi elementi: ceto, razza e sesso. L’Encyclopedia of African American Popular Culture descrive minuziosamente lo stile della “pimp walk”, la camminata da magnaccia, come una “dimostrazione di ardita mascolinità […] una sfrontata combinazione di andatura sorniona, estetica black e performance pubblica”.17 Una donna che camminasse in quel modo risulterebbe strana allo sguardo altrui; e la stragrande maggioranza dei pazienti nutrirebbe dei forti dubbi su un medico che avanzasse in quel modo, a prescindere dalla razza o dalle origini sociali.

Secondo Bourdieu tra gli elementi più significativi della nostra hexis corporea figurano i modi in cui usiamo la bocca: le persone acquisiscono un accento distintivo, una maniera di parlare riconoscibile, che riflette le caratteristiche della loro identità sociale.18 Un accento può distinguere una classe o anche una professione, come succede con il discorso del grottesco ufficiale di cavalleria Wellesley Ponto nel Libro degli snob di Thackeray del 1848. Thackeray lo descrive come un giovanotto “magro e ossuto”, che spiega con grande sincerità perché è necessario che il padre saldi i debiti che il figlio ha accumulato conducendo uno stile di vita al di sopra dei suoi più ricchi colleghi ufficiali.

“Dio mio! Il nostvoveggimento è tevvibilmente dispendioso. Bisogna andave a caccia, lo sapete. Non si può viveve nel veggimento se non si è cacciatovi. Anche la tavola è molto cava.”19

Thackeray ridicolizzava queste persone, ma l’accento era reale: la pronuncia blesa e strascicata connotava un’aristocratica indifferenza per la fretta eccessiva e un’attitudine languida e svogliata finalizzata a non sprecare energie nella conversazione. La rigidità del labbro superiore non era soltanto simbolica. Bourdieu propone un altro affascinante esempio di relazione tra gli habitus complessivi di due classi sociali distinte, analizzando il significato di due parole francesi per indicare la bocca, bouche e gueule. Il sociologo John Thompson riassume la questione in modo molto acuto:

In Francia esiste una distinzione tra una bocca chiusa, serrata (bouche) e una bocca aperta (gueule). Gli appartenenti alla classe operaia tendono ad attribuire un ulteriore significato sociale e sessuale: la bouche è associata ai borghesi e alle donne (ad esempio, le labbra strette), mentre la gueule contiene un elemento popolare e virile (ad esempio, una bocca grande, una bocca sporca).

Risultato: agli occhi di un operaio parlare come un borghese compromette la propria virilità.20

La maggior parte di noi non pensa al proprio accento come a qualcosa di scelto consciamente, né di solito riflettiamo sul fatto che il modo in cui parliamo rispecchia molti aspetti dell’identità, oltre alla regione di provenienza e alla classe di appartenenza. L’accento è parte del nostro habitus, una delle modalità con cui usiamo quotidianamente il corpo. Nell’Introduzione ho ricordato come a volte il mio accento spiazzi i tassisti, in parte perché non sono abituati a persone dalla pelle scura che parlano come membri dell’alta borghesia inglese; eppure, come la maggior parte delle persone, io parlo come parlavano i miei compagni di scuola. Non è così insolito acquisire da adulti in una nuova lingua la fluidità di un parlante nativo. Un ghanese che conosco, che ha vissuto in Giappone per molti anni, mi ha raccontato di essersi avvicinato un giorno a una giapponese che aveva dei problemi con la gomma bucata della bicicletta. Quando ha iniziato a parlare, lei non ha alzato la testa. Il suo giapponese le suonava normalissimo. Ma quando finalmente ha sollevato il capo, un’espressione di stupore ha attraversato il suo viso: non si aspettava di vedere uno straniero di colore. (Per la cronaca, la storia è finita bene: adesso la donna è sua moglie.)

L’habitus e l’identità sono in relazione fra loro perché riconosciamo determinate forme di comportamento – l’accento, ma anche il modo di camminare, di vestire – come segnali di forme di identità, e perché le nostre identità modellano inconsciamente i nostri habitus. Ho detto che l’identità è importante in quanto ci fornisce dei motivi per fare delle cose, motivi ai quali pensiamo consapevolmente. Ma la relazione tra identità e habitus comporta che l’identità conti anche a livello inconscio. Il famoso sociopsicologo americano Claude Steele riferisce che un giovane studente nero laureato all’università di Chicago, preoccupato delle reazioni ostili delle persone bianche, decide di fischiettare Vivaldi mentre passeggia per strada. In questo modo egli dimostra la propria conoscenza della “cultura alta”, e i bianchi (che potrebbero anche non conoscere Vivaldi) riconoscono però che si tratta di musica classica. “Senza accorgersene,” osserva Steele, essi abbandonano lo “stereotipo del nero portatore di violenza […] Presto la paura scompare dalle loro reazioni.”21I sociolinguisti hanno catalogato i numerosi modi in cui calibriamo il nostro stile verbale in base all’identità sociale delle persone che abbiamo di fronte, anche in questo caso senza esserne spesso del tutto consapevoli. Mi è stato detto che cerco di assumere una cadenza americana quando mi rivolgo a un tassista di New York. Non importa che in effetti il mio accento yankee sia tremendo: il mio scopo – avendone, per altro, soltanto una vaga consapevolezza – è di farmi capire più facilmente da persone che spesso, come me, sono immigrate e si sforzano di comprendere l’inglese locale.

Essenzialismo

Il secondo importante aspetto psicologico vanta un nome singolare: essenzialismo. Gli psicologi hanno scoperto che i bambini tendono a suddividere le persone in categorie molto prima che qualcuno insegni loro a farlo. Già all’età di due anni i bambini distinguono tra maschi e femmine e si aspettano comportamenti differenziati. Dopo aver classificato le persone, agiscono come se ciascun componente del gruppo possedesse qualche proprietà intrinseca – una specie di essenza – tale da giustificare la condivisione di tutte le altre caratteristiche. “L’essenzialismo è la convinzione che certe categorie hanno un sostrato di realtà o una natura autentica che non si può cogliere direttamente,” spiega la psicologa dello sviluppo Susan Gelman, “ma che dà forma all’identità ed è responsabile delle altre somiglianze di quella categoria.”22Dai quattro ai sei anni i bambini sono degli infallibili essenzialisti.

Dunque, non è vero che non notano i caratteri superficiali e più visibili delle persone. Niente di tutto questo. Anzi, il colore dei capelli o della pelle e altri elementi dell’aspetto fisico svolgono un ruolo decisivo nello stabilire le varie categorie di persone. So di una famosa agente letteraria nera di New York alla cui vista i bambini in ascensore allungano le braccia per farsi abbracciare: nel loro mondo le donne nere sono tate e le tate vanno abbracciate. L’essenzialismo ci vuole suggerire che i bambini presumono che queste differenze superficiali – le uniche che poi portano all’applicazione di un’etichetta – implicano differenze intrinseche più profonde che spiegherebbero un gran numero di comportamenti.

Le ricerche condotte sui bambini ci dicono che una delle strategie più comuni per capire il mondo è elaborare quelle che i linguisti chiamano generalizzazioni – come “Le tigri mangiano le persone” e “Le donne sono gentili”. Si è visto che è molto difficile stabilire cosa renda vere queste asserzioni. Esse non equivalgono ad affermazioni universali come “Tutte le tigri mangiano le persone”. Dopotutto, la maggior parte delle tigri non ha mai divorato un essere umano; in effetti succede molto, molto di rado. Lo stesso vale per la gentilezza delle donne: ma quali donne? Di certo non le spietate amazzoni (che i fon chiamavano rispettosamente “le nostre madri”) che nel diciannovesimo secolo combatterono al servizio del regno africano di Dahomey. Dunque la dichiarazione generica che “Le donne sono gentili” non significa che tutte le donne lo sono; come “Le tigri mangiano le persone” non vuol dire che la maggior parte di questi grandi felini si ciba di carne umana. In effetti, come ha sottolineato la mia amica filosofa Sarah-Jane Leslie, un epidemiologo può tranquillamente affermare che “Le zanzare trasmettono il virus del Nilo occidentale”, pur sapendo che il 99 percento di esse non lo fanno.

Le generalizzazioni funzionano sulla base di un principio di associazione di idee. Così pensare “Le tigri mangiano le persone” significa che, di fronte a una tigre, la nostra reazione automatica è credere che mangerà qualcuno – e magari proprio noi. L’asserzione “Le zanzare trasmettono il virus del Nilo occidentale” indurrà il nostro medico a misurarci la temperatura alla vista di punture sospette di zanzare.23Come ci suggeriscono questi esempi, un elemento che rende più probabile l’accoglimento di una generalizzazione è la preoccupazione che essa può generare in noi: il timore di essere sbranati, la paura della diffusione di un’epidemia.

Un altro elemento dirimente è ritenere queste classi (tigri, donne, zanzare) come un insieme unico, un gruppo con un’essenza condivisa. E fare in modo che i bambini vedano un gruppo di persone come un insieme compatto è estremamente facile. Il team della psicologa Marjorie Rhodes ha svolto il seguente esperimento: ha mostrato a dei bambini di quattro anni delle immagini di un gruppo di persone inventate, chiamate Zarpie. Erano immagini di un maschio, una femmina, una persona nera, una bianca, una latinoamericana, una asiatica, una giovane, una anziana. Con un gruppo le psicologhe hanno espresso affermazioni generiche, come “gli Zarpie hanno paura delle coccinelle” e così via. Con l’altro gruppo, invece, queste affermazioni venivano evitate (“Guardate questo Zarpie! Ha paura delle coccinelle!”). Qualche giorno dopo è stata mostrata l’immagine di uno Zarpie accompagnata dalla dichiarazione che faceva uno strano ronzio. Si è scoperto che i bambini che avevano ascoltato le generalizzazioni erano più propensi a credere che tutti gli Zarpie facessero strani ronzii. Gli assunti generici li incoraggiavano a pensare agli Zarpie come a una specie di unica persona; e quando i bambini pensano in questi termini, sono maggiormente indotti a dedurre che il comportamento di un solo Zarpie rifletta la natura di tutti gli Zarpie, e che dunque l’emissione di ronzii sia intrinseca all’essenza stessa degli Zarpie.24

Adesso cerchiamo di tirare le somme degli insegnamenti ricavati dagli ultimi due paragrafi. C’è il concreto rischio di essere spinti a considerare le persone – persino un gruppo molto variegato di individui di ambo i sessi e di ogni età – come un insieme indistinto, attraverso osservazioni generiche su di loro. Ed è più probabile che accettiamo un’affermazione generica su di un gruppo quando essa è negativa o fonte di apprensione. Noi umani siamo portati a “essenzializzare” più facilmente gruppi su cui abbiamo idee negative; ed è più facile avere idee negative su gruppi che abbiamo “essenzializzato”. Si crea un nefasto circolo vizioso. (Così la prossima volta che sentiamo dire da qualcuno che “I musulmani sono terroristi”, potremmo tenerne conto.)

La verità è che siamo davvero in grado di dare vita agli Zarpie e vederli con sospetto. Prendiamo il caso dei cagot dei Pirenei francesi e spagnoli. Benché nel diciannovesimo secolo si siano ampiamente dispersi, attraverso migrazioni e assimilazioni, per un intero millennio sono stati trattati come paria, relegati nei quartieri più malfamati, costretti a usare ingressi separati nelle chiese, dove prendevano l’ostia della comunione dall’estremità di un bastone. Poiché il contatto con loro era nocivo, veniva loro proibito severamente di bere dalla stessa fontana degli altri, di coltivare i campi, e persino di camminare scalzi per strada. Le canzoni su di loro – una della metà del diciannovesimo secolo dice: “Morte ai cagot! / Sterminiamoli! / Sterminiamoli tutti quanti! / Morte ai cagot!” – sanciscono l’ostilità nei loro confronti, ma non la spiegano. Cosa li differenziava dai loro vicini? Di certo non l’aspetto esteriore. (A tal punto che erano obbligati a rendersi riconoscibili con stemmi attaccati alle vesti, spesso zampe di oca o anatra, o facsimili di stoffa.) Non i loro nomi o cognomi. Non la lingua. Non la religione. Il vero mistero dei cagot, conclude Graham Robb nella sua storia della Francia, “era che non avessero alcun tratto distintivo rispetto agli altri”.25

In modalità grandi e piccole l’essenzialismo modella la nostra storia pubblica, e insieme a essa le nostre storie personali. Opera nella reazione di certi bianchi allo studente nero di Claude Steele che cammina per le strade intorno all’università di Chicago. È sottotraccia in alcune nostre affermazioni nel campo del genere: “I ragazzi devono fare i ragazzi”, gli uomini gli uomini, e così via. Ogni nostra aspettativa sul comportamento relativo al genere deriva dalla convinzione che esista qualcosa di più profondo che spiega non solo perché (come potremmo immaginare) gli uomini si assomigliano tra loro. E quando scopriamo per la prima volta un caso difforme – ad esempio, uomini a cui non piacciono le donne –, possiamo rimanere sorpresi. Di solito il passo successivo non è abbandonare l’idea che gli uomini non siano attratti dalle donne, ma rilevare un’eccezione, senza per questo rinunciare alla vecchia generalizzazione. Solo più tardi probabilmente adotteremo una nuova categoria, gli uomini gay, che ci permetterà di tornare alla nostra generalizzazione, più consolidata perché ora comprende gli uomini eterosessuali. (E, con ogni probabilità, il secondo passo sarà supporre che ogni uomo sia gay o etero, ma anche questo non è esattamente vero.)

Nel corso del libro incontreremo parecchie volte questa attitudine cognitiva, che è la più comune. Dunque è bene sottolineare fin da subito che l’essenzialismo applicato all’identità è di solito sbagliato: in generale, non esiste alcuna essenza intrinseca che spieghi perché le persone con una determinata identità sociale sono quelle che sono. Abbiamo già visto che ci sono svariati modi di essere uomo e donna. La storia del perché gli ewe parlino ewe o i jaina pratichino la loro religione non ha niente a che vedere con qualcosa di più profondo e condiviso che giustifichi il perché delle loro scelte. La maggior parte delle azioni compiute dalle persone non si spiega con il fatto che sono uomini o donne. Come gli immaginari Zarpie, la maggior parte dei gruppi, definiti da identità su vasta scala alla base del nostro mondo sociale, è incredibilmente varia.

Serpenti vs Aquile

L’ultimo elemento che voglio menzionare nell’ambito della psicologia dell’identità venne messo in luce da un esperimento durato alcuni giorni negli ameni boschi collinari delle San Bois Mountains dell’Oklahoma, nel lontano 1953. Quell’estate un team di ricercatori radunò due gruppi di ragazzini tra gli undici e i dodici anni, in campeggi vicini ma separati, in un luogo chiamato Robbers Cave State Park. I ragazzi venivano tutti dalla zona di Oklahoma City. Non si erano incontrati prima, ma avevano un background simile: bianchi, protestanti, classe media. La scelta rispondeva a un preciso disegno: i ricercatori stavano studiando la formazione di quelli che gli psicologi sociali chiamano “in-group” (gruppo di noi) e “out-group” (gruppo di loro) – le modalità con cui si innescano le tensioni fra i due gruppi e si risolvono – e l’esperimento di Robbers Cave è un classico delle scienze sociali.

L’area era isolata e boscosa: i ragazzi vi rimasero circa una settimana prima di scoprire che nelle vicinanze c’era un altro campeggio di coetanei. I due gruppi allora si sfidarono in diversi giochi competitivi, come baseball e tiro alla fune. Nei quattro giorni successivi si verificarono alcuni avvenimenti: i gruppi si scelsero un nome – i Serpenti e le Aquile – e sorse un forte antagonismo, che sfociò in bandiere bruciate, tende abbattute, sassi raccolti come armi per un eventuale attacco.26

Da notare che i ragazzi sentirono il bisogno di darsi un nome collettivo soltanto dopo aver saputo della presenza di altri coetanei nei paraggi. Ma, alla luce della nostra teoria, per formare un’identità servono etichette. Tra i Serpenti si sviluppò un ethos di “durezza”, dopo aver scoperto che uno dei ragazzi più carismatici del gruppo si era ferito senza lamentarsi e dire niente a nessuno: essendo dei duri, iniziarono anche a dire pesanti parolacce. Le Aquile li sconfissero in una partita di baseball e per distinguersi dai più sboccati avversari decisero di non dire parolacce. Queste differenze semiculturali si potevano cogliere nei modi in cui ciascun gruppo parlava di sé e degli altri: i ruvidi e macho Serpenti consideravano le Aquile delle “femminucce” e dei “poppanti”; le educate e civili Aquile ritenevano i Serpenti dei “buzzurri”.27 Le etichette arrivarono per prime, ma seguirono subito le “essenze”. I ragazzi non svilupparono identità oppositive perché avevano norme differenti; bensì svilupparono norme differenti perché avevano identità oppositive. Quando è in gioco l’identità, possono succedere molte cose nell’arco di quattro giorni!

Dunque, il nostro terzo principio psicologico è che noi esseri umani attribuiamo un grande significato alla distinzione tra chi condivide la nostra identità e chi no, gli “insider” e gli “outsider”, e questo vale per ogni tipo di identità: nuove di zecca (come i Serpenti e le Aquile), vecchie, grandi, piccole, superficiali o profonde.

Esiste un lungo elenco di tendenze psicologiche che accompagnano questa distinzione tra “in-group” e “out-group”. Può sembrare ovvio, ad esempio, che le persone tendano a favorire chi ha la loro stessa identità e a diffidare di individui esterni. Ma date le dimensioni di molti gruppi, questa ovvietà potrebbe essere meno scontata di quanto sembri a prima vista. Perché un indù dovrebbe preferire un altro indù che non conosce rispetto al suo vicino musulmano? Ci sono un miliardo di indù, e i nostri vicini possono essere al massimo poche centinaia. Eppure, in ogni parte del mondo, non ci meravigliamo di questa forma di parzialità.

Ci viene incontro il senso comune: siamo creatureclaniche – formiamo cioè dei clan. Non apparteniamo soltanto al genere umano; preferiamo il nostro genere e siamo facilmente propensi a scagliarci contro chi non è come noi. Secondo gli psicologi evolutivi un tempo queste tendenze erano adattative: aiutavano a sopravvivere grazie alla creazione di gruppi a cui appoggiarsi per affrontare i pericoli della vita primitiva, tra cui l’esistenza di altri gruppi in lotta per accaparrarsi le risorse. Certo, qualcosa del genere può essere verosimile, ma qualunque sia la spiegazione, è chiaro che non siamo soltanto inclini all’essenzialismo, ma abbiamo anche tendenze da clan e ciascuno di noi possiede un habitus modellato dalle sue molteplici identità.

La breve teoria dell’identità che ho tratteggiato qua e i tre principi psicologici che ho appena descritto (habitus, essenzialismo, in-group/out-group) mi hanno permesso di pensare in modo efficace alle specifiche forme di identità che sono l’argomento di questo libro. Sulla scorta di queste idee tracceremo un percorso tra la religione, la nazione, la razza, la classe e la cultura intese come fonte di identità. Comincerò con la religione perché molte moderne identità religiose ci mettono in contatto con alcune delle più antiche vicende umane. Si potrebbe discutere se, in questo senso, l’identità religiosa preceda quella nazionale, razziale o culturale; un fatto è certo: tutte queste moderne forme di identità hanno a che fare con la religione.

Nei capitoli che seguiranno indagherò una grande varietà di casi in cui le identità funzionano male e si possono considerare dannose. Ma alla base c’è questa clausola: per quanto l’identità ci crei problemi, non possiamo farne a meno. Senza dubbio vi ricorderete di questa vecchia barzelletta. Dunque, un uomo va da uno psichiatra. “Dottore,” gli dice, “mio fratello è impazzito, crede di essere una gallina.” Lo psichiatra replica: “Ma perché non l’ha portato qua?”. E l’uomo: “Oh, avrei voluto, ma prima deve finire di deporre le uova”. Ecco, le identità sociali sono spesso in errore, ma ci forniscono dei profili, delle abitudini, dei valori, degli obiettivi e dei significati, e noi abbiamo bisogno di… quelle uova.


CREDO

Predicare e praticare

Quando i miei genitori, nati a migliaia di chilometri di distanza, si sposarono negli anni cinquanta, molti li misero in guardia sulle difficoltà di un “matrimonio misto”. Anche loro erano d’accordo. Ma non perché, come pensavano gli altri, mia madre fosse bianca e mio padre nero. Il fatto era che mio padre era metodista e mia madre anglicana. E dalla metà del diciannovesimo secolo quella distinzione aveva creato molti problemi. Una volta John Wesley, il reverendo anglicano cofondatore del metodismo insieme al fratello Charles, disse piuttosto perentoriamente: “Temo che quando i metodisti lasceranno la Chiesa, Dio lascerà loro”.2Posso garantire che questa affermazione spunta di rado nelle conversazioni tra ghanesi metodisti: in ogni caso i metodisti lasciarono la Chiesa d’Inghilterra.

I miei genitori furono membri di due diverse Chiese cristiane per il resto della loro vita. Ma vissero insieme a Kumasi, la città del Ghana in cui sono cresciuto, fino alla morte di mio padre; un decennio e mezzo dopo mia madre venne sepolta accanto a lui. Uno dei motivi per cui il loro matrimonio funzionò, credo, era che ognuno di loro trovava conforto in una variante leggermente diversa della fede cristiana: quello che per altri era un fardello, per loro era una benedizione. Perché il cristianesimo non era semplicemente qualcosa che praticavano la domenica: ispirò nel profondo le loro vite. Ed è così anche per molte altre tradizioni religiose nel corso dei millenni.

Prendiamo il giudaismo, il più antico dei credo abramitici. Per migliaia di anni preghiere, rituali, testi sacri, prescrizioni alimentari hanno svolto un ruolo centrale nel definire una comunità ebraica e nel distinguerla dalle altre persone con cui gli ebrei vivevano. Si trattava di individui – un gruppo caratterizzato da una comune eredità, reale o immaginaria – che condividevano quella che chiameremmo una religione. Gli ebrei di Alessandria d’Egitto nel primo secolo a.C. sembravano diversi dai loro vicini per il modo di pettinarsi i capelli e la barba, di vestire e pregare: avevano una hexis corporea e un habitus specifici. Mangiavano anche cibi differenti e possedevano i propri testi sacri. Né loro né i vicini avrebbero saputo tracciare una linea di demarcazione netta tra i costumi e la pratica religiosa. Il giudaismo, come ha rilevato Mordecai Kaplan (fondatore del moderno ebraismo ricostruzionista), è la religione popolare degli ebrei. Ora, l’idea che l’identità potrebbe precedere la dottrina è in effetti piuttosto spiazzante. C’è un motivo per cui ci riferiamo all’identità religiosa con termini quali “fede”, “confessione” o “credo”, che viene dal latino e significa “Mi fido”: ed è che ci hanno insegnato a pensare alla religione soprattutto in termini di fiducia.

Va subito detto che si tratta di un enunciato fortemente ingannevole, che rischia, fra l’altro, di far apparire la concordia interreligiosa più difficile o facile di quanto sia in realtà. Voglio iniziare con il convincervi che la religione non è, in primo luogo, una questione di fiducia.

Di ogni religione si può dire che possegga tre dimensioni. Certo, esiste la fede. Ma poi c’è quello che si fa – vale a dire la pratica. E, ancora, le persone con cui si ha a che fare – la comunità o confraternita. Il problema è che noi tendiamo a enfatizzare i dettagli della fede rispetto alle pratiche e agli insegnamenti morali condivisi che costituiscono il fulcro della vita religiosa. La parola “ortodossia” viene da un vocabolo greco che significa “corretta opinione”, ma c’è anche un termine meno comune, ortoprassi, formato da un’altra parola greca, πρᾶξις, che vuol dire azione. L’ortoprassi, dunque, non riguarda una corretta opinione, ma una corretta azione.

Pensate a quegli ebrei di Alessandria d’Egitto. Già più di duemila anni fa era possibile appartenere a quella comunità senza dover credere in Dio: Filone di Alessandria, un filosofo ebraico vissuto nel primo secolo a.C., affronta il tema dell’ateismo. Certo, per criticarlo negativamente. Ma contestava una posizione che stava tentando qualcuno all’interno della sua comunità.3(Oggi le persone si ritengono ebraiche senza dover credere nel Dio ebraico.) Una volta Amartya Sen, il grande economista e filosofo indiano, mi raccontò come, da bambino, avesse posto delle domande sull’induismo al nonno. “Sei troppo giovane,” fu la risposta, “torna quando sarai più grande.” Così tornò quando era un ragazzo. Ma per cominciare aveva detto al nonno che nel frattempo aveva deciso di non credere agli dei. “Bene,” replicò il nonno, “dunque appartieni alla brancaateadella tradizione indù.”

Possiamo affrontare il problema da un’altra prospettiva. Nel dodicesimo secolo l’insigne studioso della Torah Maimonide sintetizzò l’essenza del giudaismo in Tredici Principi, quali “l’unità di Dio”, l’esistenza della profezia e l’origine divina della Torah. Immaginatevi di stare nel vostro studio e di trovarvi d’accordo su queste dichiarazioni: ciò non fa di voi degli ebrei. Queste credenze astratte hanno ben poco valore se manca una relazione diretta con le pratiche tradizionali, le interpretazioni consolidate, le comunità di culto.

Quello che spesso sfugge è che un’ammissione di fede è sia una performance sia un’affermazione. Il Credo atanasiano parla di “un solo Dio nella Trinità e la Trinità nell’unità”. Come si fa a stabilire cosa voglia dire per i singoli credenti sparsi nel mondo? È una promessa di fedeltà: l’atto dell’affermazione vale indipendentemente da quello che i filosofi chiamerebbero “contenuto proposizionale”. Ad esempio, quanti cristiani riuscirebbero a spiegare con esattezza cosa significa per loro il fatto che lo Spirito Santo “procede dal Padre e dal Figlio”, come recita il testo del Credo niceno?

I testi sacri sopravvivono in parte proprio perché non sono soltanto meri elenchi di convinzioni o di istruzioni su come vivere. Ma anche i documenti religiosi che hanno il compito di definire tali questioni – che poi di solito distinguono un gruppo da un altro – richiedono un’interpretazione, come ho imparato da mia madre, di fede anglicana. Mi ha raccontato che, mentre si stava preparando per la cresima, la cerimonia che segna il passaggio alla piena appartenenza adulta alla Chiesa anglicana, aveva confidato a suo padre di avere qualche difficoltà con alcuni dei Trentanove Articoli di fede alla base della loro religione fin dal regno di Elisabetta I. “Bene,” rispose il nonno, “ho un amico che può aiutarti.” L’amico era William Temple, allora arcivescovo di York e più tardi di Canterbury, guida spirituale della comunità. Mia madre andò a trovarlo: ogni volta che lei diceva che qualche articolo era di difficile comprensione, lui le dava ragione. “Sì, è vero,” rispondeva il religioso, “è difficile da credere.” Mia madre tornò a casa e disse a mio nonno che se anche l’arcivescovo aveva i suoi stessi dubbi, poteva essere certamente una buona anglicana.

Quello che dichiarava mia madre mentre pronunciava i Trentanove Articoli di fede riguardava lei; ciò che interessava alla Chiesa, innanzitutto e soprattutto, era che lei li enunciasse. Nel mondo dell’identità gli enunciati hanno una funzione distinta dal loro significato. La frase “Verdi idee incolori dormono furiosamente”, scelta dal linguista Noam Chomsky come esempio di enunciato grammaticalmente corretto ma privo di senso, potrebbe svolgere benissimo la funzione di credo di qualche setta, magari confondendo i novizi, ma sospingendo gli adepti verso un’ineffabile rivelazione. Alcune pratiche contemplative si basano sui cosiddetti “koan zen” (“Qual è il suono di una sola mano?”) o su altre forme di conoscenza esoterica che possono essere comprese soltanto da chi ha raggiunto un elevato stato di illuminazione e appartiene a una cerchia privilegiata. La setta di origine musulmana dei drusi custodisce dottrine sulla natura ultima di Dio e del mondo di cui la maggior parte dei drusi stessi non è al corrente. (“Esoterico” significa “riservato a un ristretto gruppo”.) Così le credenze che non possediamo personalmente – non perché le rifiutiamo, ma perché non vi abbiamo accesso – possono diventare centrali per la nostra religione.

Gore Vidal descrisse questa tendenza in Giuliano, un grandioso romanzo sull’ultimo imperatore romano pagano, Giuliano l’apostata, vissuto intorno alla metà del quarto secolo d.C.: nel libro si parla di “quei templi di Roma dove, anno dopo anno, si intonano canti imparati a memoria di cui nessuno, nemmeno i sacerdoti, conosce il significato, perché sono composti nell’antica lingua degli etruschi, da lungo tempo dimenticata”.4 Ma ciò non rende i riti privi di senso, come il personaggio di Vidal credeva: molti di noi sono testimoni del potere delle cerimonie celebrate in una lingua che non si conosce. Per il lutto gli ebrei usano una versione aramaica di preghiera chiamata “kaddish”, in comunità che non parlano l’aramaico da più di mille anni. Ascoltarla recitata in un funerale è un’esperienza toccante, anche se non si ha la più pallida idea del suo significato. Molti anziani cattolici, tra cui persone che non conoscono il latino, rimpiangono i fasti dell’antica messa tridentina in latino, scoraggiata dopo il Concilio Vaticano II dei primi anni sessanta. In tutti questi casi la dottrina non c’entra, perché la dottrina, per definizione, sopravvive alle traduzioni da una lingua all’altra. Il che implica anche che se, come molti credono, il Corano è intraducibile, il suo valore consiste in qualcosa che trascende la dottrina in esso espressa.

Ho distinto tra fede, pratica e comunità. Ma, come si può intuire, ognuna di queste componenti compenetra le altre. La dichiarazione di una fede, come ho detto, è una forma di pratica. Alcune credenze (non ultimi i precetti etici) impongono determinate pratiche, mentre il significato di una pratica può essere modellato dalle convinzioni che esprime. (Se qualcuno alza un coltello contro di noi, il nostro sistema di deduzioni ci consente di decidere se si tratta di un’aggressione o di un’operazione chirurgica.) E, naturalmente, le comunità definiscono se stesse in base e per mezzo di credenze e pratiche. Questo è il motivo per cui le differenze di credo definiscono i gruppi religiosi, ma non li creano direttamente. Quando parliamo con singoli cristiani, musulmani, buddisti o ebrei, si colgono differenze anche all’interno di aggregazioni minime, ad esempio mia madre era in disaccordo con alcuni membri della sua minuscola chiesa di Kumasi. Le persone possono frequentare chiese, templi, moschee e proclamare identità settarie, ma quando si giunge al cuore della fede, a volte può sembrare che ognuno di noi faccia parte per se stesso. Perciò ogni religione ha delle zone di “libera circolazione delle differenze”. Talora può trattarsi di distinzioni rilevanti, e quando si presentano adeguatamente sostenute possono essere accolte, com’è successo con gli ordini religiosi (francescani, benedettini, domenicani, gesuiti ecc.) inglobati nella Chiesa cattolica. Quali differenze escludano i seguaci dall’in-group è, in effetti, una questione politica, non semplicemente teologica: gli eretici non vengono uccisi perché si discostano in qualche arcano dettaglio filosofico, ma perché rigettano, e minacciano, l’autorità di chi detiene il potere.

Allo stesso tempo, piccole variazioni nella pratica permettono di riconoscere gli altri come membri della nostra particolare confessione o forma di culto – o come intrusi appartenenti a un’altra. Consideriamo l’uso fatto dai musulmani del dito indice durante il tashahhud. (I musulmani osservanti pregano cinque volte al giorno, e il tashahhud è quella parte di preghiera in cui ci si inginocchia verso la Mecca.) Nel tashahhud si offre lode a Dio e pace al Profeta, si testimonia che non esiste altro dio all’infuori di Allah, il cui servo e messaggero è Maometto. I sunniti tendono ad alzare l’indice: i religiosi sunniti inseriscono questo gesto tra quelli raccomandati (mustahabb), non obbligatori. Si ritiene che in questo modo si indichi la grandezza di colui al quale ci si rivolge. Eppure ci sono differenze sensibili su come e quando alzare l’indice tra una scuola e l’altra, persino tra una congregazione e l’altra.

Alcuni musulmani, seguaci della scuola giuridico-religiosa hanafita, pensano che, quando si dice (in arabo) “Non c’è altro dio all’infuori di Allah”, il dito vada sollevato in corrispondenza del “Non” e abbassato su “all’infuori di Allah”. Altri, aderenti allo sciafeismo, alzano l’indice al passaggio “all’infuori di Allah”. Altri ancora alzano il dito per tutta la preghiera. E poi: come compiere esattamente questo gesto? Alcuni muovono il dito a sinistra e a destra, altri in alto e in basso, altri lo tengono fermo. E tra chi lo muove in alto e in basso tiene banco la discussione su quale movimento sia più appropriato: alcuni religiosi disapprovano angoli troppo ampi e ritengono che ci si debba attenere a una sorta di dondolio limitato, concentrato soprattutto verso l’alto. Per orientarsi in tutte queste opzioni, esistono vari testi sacri da consultare, interpretare e soppesare, ma conta anche la continuità della pratica all’interno del gruppo. Una regola moderna, elaborata dal Comitato permanente per la Ricerca e l’Emissione di fatwa con sede in Arabia Saudita, avverte che tali questioni “non devono condurre a dispute e divisioni” – e così dicendo, si ammette che può succedere e che esistono già.5Queste sottigliezze relative all’hexis corporea permettono di stabilire la comunità di appartenenza. Fissano suddivisioni e gradazioni di identità religiosa – quel genere di suddivisioni non molto importanti finché non lo diventano.

In ogni caso queste differenze di pratica non riguardano soltanto il mondo musulmano: il sito wikiHow fornisce istruzioni su come i cristiani si fanno il segno della croce sul proprio corpo, nelle diverse tradizioni occidentali e orientali. Ma ci vuole ben più di un sito per scoprire quando è opportuno farsi il segno della croce in base alle varie prescrizioni. E inoltre i protestanti, a differenza di certi anglicani, metodisti e luterani, tendono a non farselo del tutto.

Gli esseri umani sono inclini a costituire nuove comunità religiose, così come tendono a definire le proprie per contrasto rispetto alle altre. Non state facendo la cosa giusta è un potente ammonimento. C’è una vecchia barzelletta su un ebreo naufragato su un’isola deserta. Nel corso degli anni costruisce tre edifici. Quando viene ritrovato, i suoi salvatori gli chiedono conto di quelle costruzioni. “Questa è casa mia. Quest’altra è la sinagoga dove vado. E questa,” conclude, “è la sinagoga dove non vado.”

L’uno e i molti

Se per religione si intendesse un sistema coeso e coerente di dottrine, precetti e pratiche, allora nessuna delle religioni note sulla faccia della terra – tantomeno le migliaia di culti tradizionali locali – sarebbe una religione. Al massimo risulterebbe un’accozzaglia cangiante di religioni, ribollente di nuove forme ogni giorno. Tutti insieme buddisti, cristiani, ebrei, indù, musulmani, taoisti costituiscono i due terzi dell’intera popolazione mondiale, ma sono divisi in una miriade di sette e congregazioni.

Sotto questo aspetto, forse non capiamo bene quanto la nostra religione si sia distaccata da quella di coloro che consideriamo i nostri predecessori correligionari: le pratiche religiose sviluppate nel corso del tempo si comportano come tutte le tradizioni, sono un insieme di continuità e discontinuità. La tendenza delle religioni a separarsi è indice di un costante disaccordo su chi è dentro e chi fuori. È facile trovare specifiche comunità ebraiche – o cristiane – così eterodosse da sollevare seri dubbi sulla loro identificazione. Ad esempio in passato i mormoni, benché si autodefinissero “Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni”, venivano considerati largamente dei non cristiani, in parte perché non credevano alla Trinità e invece ritenevano che Dio avesse un corpo fisico (per quanto perfetto ed eterno). Sappiamo anche che molti ebrei ultraortodossi considerano il giudaismo moderno per nulla ebraico.

A volte sarebbe meglio non essere visti dagli altri come appartenenti ad alcunché. I religiosi musulmani tendono a ritenere i seguaci della fede bahá’í – nata in Iran nel diciannovesimo secolo, e all’inizio considerata una setta islamica – alla stregua di apostati ed eretici, mentre loro stessi si reputano membri di una religione a sé. Le frequenti persecuzioni subite dai bahá’í in Iran presuppongono, in un certo senso, che siano dei cattivi musulmani. In casi del genere, quando uno stato perseguita chi è giudicato un membro dissidente della religione ufficiale, è meglio trovarsi esclusi dal gruppo che inclusi. In Pakistan la legge proibisce agli ahmadi, che si considerano musulmani, di chiamarsi così; d’altro canto, è permesso ai cristiani di praticare il loro culto senza subire persecuzioni. In Lahore, nel 1953, centinaia, se non migliaia, di ahmadi vennero uccisi nel corso di violenti scontri; nel 2010 quasi un centinaio fu trucidato dai talebani del Punjab; nel 2016 una moschea ahmadi è stata bersaglio di un attacco il giorno della nascita del Profeta. (Qualche mese prima i cristiani erano stati aggrediti da gruppi dissidenti di talebani, ma avevano ricevuto la solidarietà e il sostegno di molti sunniti, che là sono la maggioranza.) Argomenti del genere non toccano soltanto i gruppi religiosi più piccoli. Profondi disaccordi sull’identità religiosa serpeggiano nell’induismo, che risulta, dati alla mano, la terza religione più diffusa al mondo.

La parola “induismo” comparve nel diciannovesimo secolo e con essa, secondo alcuni studiosi, la religione stessa. Stupiti dalla ricchezza di divinità e culti pagani, i coloni inglesi cercarono di riunire quella varietà in un’unica entità complessiva, e da cristiani timorati e acculturati si misero sulle tracce di testi sacri che potessero giustificare quella presunta tradizione, chiedendo la collaborazione dei bramini che leggevano il sanscrito. In questo modo vennero ricavati un canone di testi e la relativa ideologia, e con essi nacque l’induismo. Altri studiosi mettono in dubbio questa versione, evidenziando il senso di consapevolezza di un’identità indù precedente quel periodo, definita in gran parte dal contrasto con l’Islam.6 (Una vicenda simile riguarda anche le altre “religioni globali”.) Naturalmente non ci aspettiamo di risolvere il problema, che coinvolge il peso che attribuiamo ai punti di somiglianza e a quelli di differenza. E gli studiosi di entrambe le correnti riconoscono l’enorme pluralismo che ha caratterizzato, e continua a caratterizzare, le fedi, i rituali, le forme di culto di quella parte di Asia del Sud che viene identificata come indù.

Si capisce perché sia ardua l’idea dell’induismo come insieme unico e coerente, una volta che si è di fronte all’ampiezza e alla molteplicità degli scritti religiosi in sanscrito da prendere in considerazione. Il più lungo di essi è un poema epico, il Mahābhārata, che conta la bellezza di circa un milione e ottocentomila parole, vale a dire dieci volte la lunghezza di Iliade e Odisseamesse assieme. Poi c’è il Rāmāyan.a, che narra le gesta eroiche del principe Rāma impegnato nell’impresa di liberare la moglie dalle grinfie del re dei demoni. È composto di ventiquattromila versi, verso più verso meno: all’incirca quanti ne contiene la Bibbia ebraica. I Veda, i più antichi scritti in sanscrito, comprendono inni e testi magici e liturgici: il più antico di essi, il R.gveda, consta di quasi undicimila versi di lode agli dei. E quanti sono gli dei? Dunque, ci sono Brahmā, il Creatore; Viţn.u, il Conservatore; Śiva, il Distruttore. Poi, tra i più popolari, possiamo ricordare il figlio maggiore di Śiva, Gan.eśa, raffigurato con la testa da elefante; Rāma, l’incarnazione di Viţn.u; Kr.ţn.a, associato agli insegnamenti del Mahābhārata; Sarasvatī, la moglie di Brahmā, dea della scienza e dell’arte. Ma questo è solo l’antipasto, un detto indiano dice che ci sono trentatré crore (equivalenti a trecentotrenta milioni!) di divinità. E non ho nemmeno iniziato a citare le centinaia di feste e le migliaia di rituali che si svolgono nelle centinaia di migliaia di templi sparsi per tutto il subcontinente indiano.

Dal punto di vista critico, la storia dell’induismo fa da eco a una questione ben più ampia: nonostante religio – che vuol dire legame, unione – sia una parola molto antica (e già Lucrezio, più di duemila anni fa, avanzava dure critiche nel poema De rerum natura), il concetto moderno di religione – categoria che può comprendere Islam, cristianesimo, taoismo e buddismo – ha preso piede soltanto nel diciannovesimo secolo.7

Determinismo scritturale

Data la natura estremamente variegata delle pratiche religiose, si è stati tentati di stabilire l’unità essenziale delle religioni attraverso una radice comune diversa dalla pratica: e nelle religioni dei popoli provvisti di scrittura il candidato ideale è il corpus di testi che vengono considerati sacri. Prima ho suggerito che noi tendiamo a distorcere la natura dell’identità religiosa concentrandoci prevalentemente sulla fede. Questo errore di prospettiva si intreccia con un altro: il determinismo scritturale che, nella sua versione più semplice, comporta la convinzione che il nostro credo si basi sui testi sacri, e che essere credente voglia dire credere in ciò che si legge lì, come se da essi si potesse distillare, quasi fosse un vino pregiato custodito in una botte, la natura immutabile di una religione e dei suoi seguaci.8

Oggi molte persone, almeno negli ambienti che frequento io, non sanno granché di sacre scritture. In Inghilterra, Canada o Australia si può essere anglicani in occasione di matrimoni, funerali e poco altro. (In quel film molto “british” che è Quattro matrimoni e un funerale il testo più lungo letto in ciascuna delle cinque cerimonie è una poesia di Auden.) Un tempo i maschi ebrei studiavano regolarmente la Torah, adesso molti non conoscono nemmeno il brano che si viene chiamati a leggere durante il bar mitzvah, la cerimonia di passaggio all’età adulta. (Negli ultimi decenni del ventesimo secolo le cerimonie non ortodosse del bat mitzvah, il corrispondente per le ragazze, si sono avvicinate di molto a quelle dei ragazzi, ma ciò non significa che la maggior parte delle moderne donne ebraiche possegga una profonda conoscenza della Torah.) Gli indù inglesi o americani, come molti loro corrispettivi dell’Asia del Sud, non conoscono il sanscrito, né sono in grado di raccontare più di una manciata delle migliaia di storie del ricchissimo corpus di antichi scritti religiosi. I musulmani devoti studiano il Corano, ma la maggior parte di loro non possiede le competenze necessarie per interpretare le tradizioni orali trascritte – i cosiddetti “hadith” – che riportano i detti e i fatti del Profeta, e comprendere a pieno la Sunna, la raccolta di esempi tratti dalla vita del Profeta e dei suoi compagni. È il caso, dunque, di soffermarci su alcuni aspetti in comune a questi testi sacri, dal momento che le argomentazioni dei deterministi richiedono una nostra valutazione sulla base dell’interpretazione dei vari passi.

Procederemo in maniera più o meno rapsodica. Cominciamo con l’inizio di Isaia, un libro della Bibbia di cui molti cristiani, per quanto sporadici frequentatori di chiese, hanno sentito parlare, se non altro perché molti passaggi risuonano nelle messe di Natale: “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce […] Consigliere meraviglioso, Dio forte, Padre eterno, Principe di pace”. (Qualcuno riconoscerà anche le parole del Messiah di Händel: “E un germoglio spunterà dal tronco di Jesse…”.) Queste frasi riecheggiano nei miei ricordi di ragazzino, frammenti di serate illuminate dalla luce delle candele, mentre io ascoltavo, rapito dal mistero dell’incarnazione… eccitato all’idea dei regali di Santa Claus che mi aspettavano il mattino dopo.

Ecco l’incipit del libro:

Visione che Isaia, figlio di Amoz, ebbe su Giuda e Gerusalemme al tempo di Ozia, Iotam, Acaz ed Ezechia, re di Giuda.
Udite, cieli, ascolta, terra, poiché parla il Signore: “Ho cresciuto dei figli, li ho esaltati, ed essi si sono ribellati contro di me. Il bue riconosce il suo proprietario, e l’asino la mangiatoia del suo padrone, ma Israele non sa e il mio popolo non capisce”.

Molti testi sacri sono scritti in un linguaggio arcano come questo: un linguaggio che è, senza dubbio, poetico e metaforico, ma anche oscuro. Compaiono molti racconti, alcuni chiaramente storici, altri, come le parabole di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento, di pura invenzione. E mentre chi studia le scritture dedica del tempo a ricercare dei significati profondi, le storie di per sé, a differenza delle favole di Esopo, non contengono nessun insegnamento finale. Prendete, ad esempio, la parabola del buon samaritano del Nuovo Testamento: un uomo viene derubato e lasciato moribondo sul ciglio della strada. Un sacerdote e un levita (un membro della tribù ebraica incaricata del culto nel Tempio) gli passano accanto e vanno oltre. Un samaritano, appartenente a un gruppo disprezzato dagli ebrei, si ferma per soccorrerlo. Gesù racconta questa storia in risposta alla domanda di un fariseo che gli chiede: “Chi è il mio prossimo?”. Ma non spiega perché il samaritano è un modello di comportamento. Si limita a concludere: “Va’ e fa’ lo stesso”. Come applicare questo precetto alla frenetica vita del ventunesimo secolo? Forse ci suggerisce che ciascuno di noi deve farsi carico di una famiglia di rifugiati siriani?

Ma non tutte le sacre scritture sono così ellittiche. Pensando sempre ai nostri ebrei alessandrini, potremmo occuparci di qualcosa che non sembra prestare il fianco a dubbi, pronto com’è per l’uso: la kashrut, le prescrizioni alimentari che stabiliscono cosa è kosher e cosa è impuro. Parrebbe un manuale a prova di stupido. I passaggi ricavati dalla Torah sono norme specifiche o liste ancora più dettagliate di cibi. Ad esempio, si può mangiare soltanto pesce che abbia le scaglie: controlla. Ma come la mettiamo con i pesci che hanno strane scaglie? Il pesce spada ha scaglie che cambiano con gli anni, e le scaglie dello storione sono ganoidi, cioè non si possono togliere senza lacerare la pelle, come le più diffuse scaglie ctenoidi e cicloidi. Così le autorità rabbiniche sono in disaccordo sullo status di questo pesce. La Torah ebraica, nell’autorevole versione masoretica, fornisce un elenco di uccelli proibiti. Ma non troveremo i nomi che potremmo trovare nella nostra guida per il birdwatching. Ad esempio un esemplare viene indicato come “vomitante”: si tratta di un pellicano? È una congettura, non avremo mai la certezza assoluta. Un altro uccello viene descritto come “vermiglio”. È un fenicottero? O un cardinale vermiglio? Nessuno lo sa. Se mettiamo da parte i volatili, la situazione non migliora: c’è una proibizione che riguarda gli anaqah, termine che significa “lamentatori”. Qualcuno pensa siano i gechi. Qualcun altro i furetti. Ma la stragrande maggioranza del Pentateuco è così, un ginepraio di incertezze: la gente cerca la chiarezza del “Questo sì, questo no”, e invece si trova a dover interpretare una poesia ermetica di Mallarmé!9

Spesso i paletti sono ben più insormontabili di uno storione nel menu. Come comportarsi di fronte al fatto che, mentre il giudaismo è monoteistico, la Torah è piena di riferimenti ad altre divinità (ad esempio, quando si esalta Jahvè al di sopra di tutti gli altri dei)? Alcuni cristiani credono che Gesù sia davvero, in un certo senso, Dio, il creatore dell’universo che ha parlato con Mosè da un cespuglio ardente. Altri invece ritengono che fosse un essere umano molto speciale. Entrambi citano le scritture a supporto delle loro tesi. Nel Vangelo di Giovanni, Cristo appena resuscitato dice a sua madre: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro”. Il che sembra sottintendere che lui non è Dio. Ma alcuni capitoli prima, durante l’Ultima Cena, così si rivolge ai suoi discepoli: “Chi ha visto me ha visto il Padre”. Implicando dunque che lui è il Padre.

Un’altra fondamentale disputa cristiana riguarda la nostra salvezza: cosa ci salva? Le opere o la fede? Nella Lettera agli Efesini si legge: “Siete salvi per la grazia tramite la fede: ciò non proviene da voi, ma è un dono di Dio, non dalle opere, perché nessuno se ne vanti”. Ma Giacomo avverte: “La fede senza le opere è morta”, e san Paolo nella Lettera ai Romani dichiara che Dio “compenserà ciascuno secondo le sue opere”. Si può immaginare un esempio valido in entrambi i casi; ma si può anche argomentare che, se si ha fede, sarà evidente nelle azioni particolarmente qualificanti per la salvezza. Ciò che non si può fare è usare le scritture come se fossero uno shaker: agitare con forza e versare i contenuti a casaccio, in cerca di qualche illuminante indicazione.

L’esegesi più scrupolosa si avvale anche delle più antiche interpretazioni. Nel Nuovo Testamento san Paolo usa il verbo ἀρσενοκοῖται (arsenokòitai) due volte in un elenco di condotte riprovevoli: una volta nella Prima lettera ai Corinzi, e l’altra nella Prima lettera a Timoteo.10Secondo molti studiosi questo termine indica persone coinvolte in un particolare atto sessuale. Se si vive in un mondo dove si presume che il cristianesimo sia ostile all’omosessualità, è probabile che si riterrà questo passaggio una convincente dimostrazione dell’avversione di Paolo; le traduzioni moderne tendono a considerare ἀρσενοκοῖται – derivato da due radici, “maschio” (ἄρσην) e “letto” (κοίτη) – riferito a omosessuali. Tuttavia, come succede spesso con le scritture sacre, gli studiosi sono divisi, per motivi ignoti alla maggior parte dei comuni cristiani, tra cui il fatto che la parola non è nota in Grecia prima di san Paolo e che questi due passaggi non vengono citati dai primi Padri della Chiesa nelle rare occasioni in cui si discute di sesso tra uomini.

La parola ἀρσενοκοῖται rimanda a brani dell’antica traduzione in koinè greca del Levitico in cui si condanna “chi giace con un uomo come se fosse una donna”, in particolare a un caso, tradotto in modo esplicito, ma fedele, così: “E chi va a letto con un uomo nel letto di una donna” (il testo greco dice ἄρσενος κοίτην, àrsenos kòiten). Ma questo è solo uno dei molti aspetti che occorre tener presente per giungere a una moderna interpretazione della parola. Infatti, tra i motivi per dubitare che “omosessuale” sia una traduzione efficace, vi è l’idea che l’omosessualità – la propensione, quasi costituzionale, a essere attratti sessualmente solo, o perlopiù, da persone dello stesso sesso – non è una categoria presente nel mondo greco dell’epoca di san Paolo. Senza dubbio per gli antichi greci era normale che un uomo più grande avesse una relazione erotica con un giovane: è famoso il caso di Socrate che ne parla nel Simposio di Platone. I greci e i romani del periodo classico sembrano dare per scontato che gli uomini possano essere attratti da persone di entrambi i sessi. Semmai la distinzione riguardava chi doveva assumere il ruolo “passivo” e chi quello “attivo”. Ma non spingiamoci troppo oltre11: il mio obiettivo qua è mostrare che ci sono ragionevoli punti di vista da ambo le parti. Il fatto che le parole di san Paolo sottintendano una condanna dell’omosessualità in certi ambienti riflette il potere delle percezioni esperite quotidianamente. Percezioni però non determinate dal solo testo.

La nozione di omosessualità è talmente penetrata in molte menti contemporanee che suona bizzarro sentir dire che un tempo alcune società non ne avevano idea. Questo pensiero può essere reso ancora meno bizzarro ricordando agli scettici che una donna può desiderare un’altra donna per una miriade di motivi. Ad esempio, non è tenuta a pensare all’oggetto del proprio desiderio in termini femminili, perché quella persona potrebbe svolgere un ruolo sessuale maschile. Potrebbe essere attratta da qualcuno, rimanendo indifferente al sesso (o proprio per questo motivo); oppure potrebbe semplicemente essere curiosa o voler fare sesso senza rischiare di avere un figlio. (Naturalmente ciò vale, mutatis mutandis, anche per gli uomini.) La nostra idea degli omosessuali è focalizzata soltanto su un punto: il desiderio erotico rivolto a persone dello stesso sesso. Si suppone inoltre che persone con questi orientamenti abbiano qualcosa di significativo in comune tra loro e ciò fornisce all’omosessuale i tratti distintivi di una persona. Ma nessuno di questi pensieri è inevitabile. In Ghana, ad esempio, il desiderio omosessuale maschile è considerato spesso in termini di negazione, come la volontà di non avere rapporti sessuali con le donne. Questo modo di pensare rende i bisessuali privi di interesse e gli asessuali strani come i gay. La storia della sessualità mostra che le idee sull’identità e la sessualità si manifestano in svariati modi.

Quali scritture?

Esiste un altro problema che le tradizioni scritturali sollevano: è possibile essere in disaccordo sui testi appartenenti agli scritti sacri. La Bibbia cristiana è un ottimo caso di studio12: è interessante capire come sia stata ricavata una Bibbia canonica dall’ampio corpus di scritti e tradizioni orali che fanno capo a essa.

Cominciamo con il dire che le sacre scritture, benché centrali per il cristianesimo da quasi due millenni, non sono mai state considerate l’unico testo degno di attenzione da parte dei fedeli. Esistono altri testi da consultare, magari meno autorevoli, tra cui quelli che un tempo alcuni consideravano “scritturali”. E soprattutto: l’idea di un elenco definitivo di libri della Bibbia – βίβλος/βιβλίον in greco antico significa “libro” – e di una versione concordata del testo di ciascun libro era del tutto assente nel giudaismo all’epoca di Cristo.

La più antica traduzione conservata dei testi sacri in ebraico e aramaico è quella dei Settanta, in koinè greca, probabilmente approntata per la biblioteca di Alessandria fondata da Tolomeo II nel terzo secolo a.C. (È la fonte del testo del Levitico che ho citato prima.) Sotto questa forma erano note le sacre scritture agli ebrei ellenistici del primo secolo in Palestina, e da lì sono ricavate di solito le citazioni bibliche contenute nel Nuovo Testamento. La Bibbia dei Settanta comprende i cinque libri di Mosè (il Pentateuco) e molti altri libri, ed è la base della Bibbia cattolica. Ma quella che oggi noi chiamiamo Bibbia ebraica assume la sua forma usuale soltanto nel secondo e terzo secolo d.C., ed esclude molti libri presenti nella versione dei Settanta: Tobia, Giuditta, i due libri dei Maccabei, Sapienza, Ecclesiastico e Baruc (insieme ad alcuni passaggi di altri libri, ritenuti inserti successivi). Quando, dopo la Riforma, i protestanti eliminarono questi libri dal loro Antico Testamento, il motivo della scelta era che non erano accolti nel canone del giudaismo rabbinico. Ma non c’è motivo di dubitare che al tempo di Cristo tutti i libri dei Settanta fossero ritenuti scritturali.

Fatto fondamentale: Cristo stesso era una sorta di dotto ebraico nel periodo in cui l’idea di testi dotati di una particolare autorità religiosa – a cui lui stesso probabilmente pensa quando usa, ad esempio, l’espressione “la Legge e i Profeti” nel Vangelo di Matteo, o “la Legge di Mosè, i Profeti e i Salmi” in Luca – era centrale nella vita e nella pratica ebraica, per quanto questi testi fossero ancora privi di una forma definitiva concordata. Dunque è molto probabile che i contemporanei di Cristo conoscessero la Torah (i cinque libri di Mosè) e i libri profetici, ma non avessero ancora l’idea di un unico libro sacro. Senza dubbio i primi cristiani non avevano la nostra idea della Bibbia, la quale include il cosiddetto Nuovo Testamento, composto in relazione alla vita di Cristo. Circolavano molti testi scritti dopo la morte di Cristo, diffusi nelle prime comunità cristiane, che cominciavano a distinguersi da altre forme di giudaismo. Ci vollero parecchi secoli per giungere a quello che sarebbe stato canonizzato come il Nuovo Testamento, inteso come la testimonianza delle promesse di Cristo all’umanità, un nuovo patto dopo quello della Bibbia ebraica, stipulato tra Jahvè e il popolo di Israele.

Il Nuovo Testamento contiene molti riferimenti alle scritture ebraiche, sia nel loro insieme (“la Legge e i Profeti”) sia attraverso citazioni puntuali che iniziavano, come si usava all’epoca, con la formula “È scritto che”. Ma, dal momento che il Tempio del primo secolo non possedeva un canone fisso, non possiamo considerare queste citazioni allusioni esplicite a quello che noi chiamiamo Antico Testamento o Bibbia ebraica. Dalle parole di Cristo in Luca 24,44 e in altri passi sappiamo che “la Legge e i Profeti” includevano i Salmi, perciò è presumibile che l’espressione non si riferisca soltanto a quelli che sarebbero stati chiamati più tardi la Torah (La Legge) e i Neviim (I libri dei Profeti). Lo stesso Cristo, nei Vangeli che leggiamo oggi, non cita niente all’infuori della Bibbia ebraica, e ha una predilezione per i Salmi, il Deuteronomio e Isaia, mentre non menziona mai il Cantico dei Cantici, Rut, il Libro delle Lamentazioni, l’Ecclesiaste, Ester, Ezra, Neemia, Abdia, Naum, Abacuc e Aggeo. Eppure, il Vangelo di Giovanni ci avverte: “Gesù fece molti altri gesti in presenza dei suoi discepoli, che non sono riportati in questo libro”. E dunque qual è il canone preferito dalla figura fondatrice del cristianesimo? Se consideriamo il Nuovo Testamento nella sua interezza, ci sono riferimenti a quasi ogni libro della Bibbia ebraica, con le sole eccezioni di Giudici, Rut ed Ester. Dunque questi tre andrebbero esclusi dal canone cristiano?

Almeno una volta san Paolo – nella Prima lettera ai Corinzi – cita come scritturale un testo che non sembra esistere più: “Sta scritto infatti: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano”.13A quanto pare san Paolo – con ogni probabilità il primo cristiano “ufficiale” – aveva in mente una serie di testi in parte diversi da quelli a noi noti.

Diamo un’occhiata agli scritti ebraici citati dalla successiva generazione di Padri della Chiesa: Clemente Romano, Ignazio di Antiochia, Policarpo di Smirne, gli autori della Didaché e del Pastoredi Erma – i cosiddetti Padri apostolici che si riteneva fossero stati in contatto diretto con alcuni degli Apostoli. Gli studiosi hanno notato che talora essi menzionano libri dei Settanta esclusi dalla definitiva Bibbia ebraica e non ne citano altri (Rut, Ezra, Neemia, il Libro delle Lamentazioni, Abdia, Michea e Aggeo) che invece risultano inclusi. Nel quarto secolo san Girolamo è stato probabilmente il primo dei Padri della Chiesa a scegliere il canone ebraico – ben consolidato all’epoca. Ma sbagliava a pensare che fosse un canone noto a Cristo o da lui autorizzato.

Spettò ai Padri della Chiesa decidere quali Vangeli – il resoconto delle “buone notizie” sulla vita di Cristo – e quali Lettere degli Apostoli (la prima generazione di seguaci di Cristo, a capo delle prime comunità) considerare legittimi. Dovettero anche decidere se includere il libro dell’Apocalisse, del quale oggi sappiamo (ma loro non potevano saperlo) che quasi certamente non è stato scritto da un apostolo. Per far ciò dovettero seguire dei criteri, impliciti o più articolati.

I testi di cui disponiamo sono stati composti tutti dopo la crocefissione. I biblisti parlano di tre fasi nella definizione della versione canonica del Nuovo Testamento. Innanzitutto, il riconoscimento come testi scritturali: di ispirazione divina, svolgono un ruolo centrale nel guidare la vita e la pratica dei seguaci di Cristo, i cristiani. In secondo luogo, l’organizzazione in categorie – Vangeli, Lettere – e, infine, il costituirsi in un determinato canone. Ma questo processo ebbe inizio in una comunità di credenti che aveva ricevuto gli insegnamenti dagli Apostoli ed era in grado di attingere a un significativo corpo di tradizione orale riguardante la vita e la predicazione di Gesù. Molti appartenenti a questa prima fase della Chiesa pensavano di vivere gli “ultimi giorni” dell’umanità: Cristo sarebbe tornato presto e dunque non c’era urgenza di occuparsi di una trasmissione a lungo termine della storia della vita di Gesù. Quando i Vangeli e le Lettere vennero scritti, non furono composti come testi scritturali: la loro autorità derivava dalla vita e dalle parole di Cristo che essi riportavano, non dall’ispirazione divina. Le Lettere di san Paolo testimoniano una familiarità con le tradizioni orali a cui guardano anche i Vangeli sinottici – Matteo, Marco e Luca – e gli Atti degli Apostoli. Quasi certamente i Vangeli canonici nacquero come scritti anonimi, a cui vennero attribuiti i nomi degli Apostoli (Matteo e Giovanni) e dei loro discepoli (Marco e Luca) soltanto dopo la metà del secondo secolo. Nel terzo secolo Ireneo è il primo Padre della Chiesa a usare i nomi correnti dei Vangeli.

Tutto questo è successo molto tempo fa. Ma i cristiani devono porsi la questione di ciò che è stato incluso ed escluso in una determinata epoca? Ad esempio, i biblisti moderni dubitano per una serie di motivi che la Prima lettera a Timoteo, una delle due occorrenze in cui compare la parola ἀρσενοκοῖται, sia stata scritta da san Paolo. Questo significa che la sua inclusione nel canone biblico è il risultato di incomprensioni e abbagli? Cosa dovrebbe fare allora un cristiano di oggi, informato di questa situazione?

Per concludere, in tutta questa vicenda c’è una miriade di motivi che giustifica l’incertezza su quali libri accogliere come parti del Libro, la Bibbia, che molti cristiani considerano ispirato direttamente da Dio. Non stupisce, allora, che sotto le diverse denominazioni siano confluiti elenchi differenti di testi. I libri del canone cristiano cattolico esclusi dai protestanti, a partire da Martin Lutero, spesso vengono pubblicati in una sezione a parte intitolata “Apocrifi”, e benché privi di autorità scritturale, vennero ritenuti dallo stesso Lutero “una buona e utile lettura”. Nel sesto dei Trentanove articoli, gli anglicani affermano che questi libri possono essere usati per “l’insegnamento nella vita quotidiana, ma non per la definizione della dottrina”. Al contrario, nel sedicesimo secolo, durante la Controriforma, il Concilio di Trento dichiarò che per la Chiesa cattolica di Roma quei libri erano “sacri e canonici”, e così ancora oggi i cosiddetti Libri deuterocanonici hanno quello statuto per i cattolici. I dettagli di queste dispute sono complessi e affascinanti.

Interpolazioni e interpretazioni

I cristiani non sono in disaccordo soltanto su quali libri facciano parte del vero canone biblico, ma anche su quale sia il loro contenuto. Questi libri sono stati assemblati da una grande varietà di manoscritti, copie di copie di testi che i primi Padri della Chiesa come san Girolamo e sant’Agostino adottarono nel loro elenco ufficiale dei libri dell’Antico e Nuovo Testamento. Ma, come in tutte le tradizioni manoscritte, ci sono in agguato le varianti. Si sa, i copisti sbagliano: aggiungono pezzi che credono necessari o ne tolgono altri giudicati superflui. Ad esempio, i biblisti nutrono dei dubbi sul fatto che il testo della Prima lettera ai Corinzi così come lo conosciamo corrisponda alla versione inviata a Corinto. Nella chiesa ecumenica di St. George a Kumasi, che frequentavo da bambino, a volte le persone discutevano del diritto delle donne di parlare in chiesa, chiamando in causa soprattutto il capitolo 14:

Le donne tacciano in chiesa; non sia permesso loro di parlare, ma stiano sottomesse, come dice anche la legge. E se vogliono imparare qualcosa, interroghino a casa i loro mariti: è disdicevole per una donna parlare in chiesa.

Chissà quanto tempo e fatica avremmo potuto risparmiare se avessimo conosciuto l’opinione del domenicano Jerome Murphy-O’Connor, autorevole studioso del Nuovo Testamento ed esperto della Prima lettera ai Corinzi, secondo cui questo passaggio sarebbe una “inserzione postpaolina”.14 Le persone reagiranno in maniera diversa a queste considerazioni – e alle molte altre ricavate dagli studi sulle interpretazioni delle attitudini omosessuali e di genere presenti nel Nuovo Testamento. Ancora una volta la mia attenzione va al fatto che le decisioni dei cristiani sono spesso condizionate da propensioni e pratiche usuali e quotidiane.15

L’interpretazione è di per sé una pratica. Immaginate di mandare la Torah e il Talmud a una sperduta tribù dell’Amazzonia e di convincere i loro membri a creare una religione basata su quei testi. Verrà fuori di nuovo il giudaismo rabbinico? Ho forti dubbi. E se si appassionassero alle parti sui massacri e le uccisioni e trascurassero quelle sulla carità? O se semplicemente ne dessero una lettura nuova e insolita? Potrebbe nascere qualunque cosa, non c’è dubbio. Sarebbe un po’ come recapitare un violino agli alieni per poi scoprire che l’hanno usato come un tamburo, uno strumento di misurazione o una superficie su cui incidere poesie d’amore.

Se è vero che l’interpretazione è una forma di pratica, bisogna anche ricordare che la pratica muta nel tempo, a volte lentamente, a volte più in fretta, e che un cambiamento di pratica può portare a un cambiamento di pensiero. I passaggi scritturali possono essere soggetti a nuove letture, e se non si adattano, spesso vengono abbandonati. Prendiamo il passaggio finale del Salmo 137 con le parole “Beato chi prenderà i tuoi bambini e li sbatterà contro la roccia”; oppure l’invito della Prima lettera di Pietro agli schiavi a essere sottomessi ai loro padroni, anche quelli crudeli: tutte affermazioni da cui prendiamo le distanze! La mossa vincente di san Paolo è stata quella di appoggiarsi agli scritti ebraici mentre esortava i cristiani a distaccarsene perché rivolti esclusivamente agli ebrei. In sintesi, se i testi sacri non fossero soggetti all’interpretazione – nonché successive reinterpretazioni –, non sarebbero in grado di influenzare le persone per secoli. E quando si tratta di sopravvivere, questa propensione all’apertura non è un limite ma un aspetto decisivo.

La tradizione e i suoi nemici

Tuttavia anche questo aspetto si dirama in varie direzioni. Come sappiamo tutti noi oggi, tra le frange più accese dei determinismi scritturali trovano posto i fondamentalismi, animati dall’idea di dare un’unica versione alle grandi tradizioni religiose. Questi movimenti – che siano cristiani, buddisti, indù, ebraici o musulmani – puntano tutti alla difesa e alla diffusione di una sola Verità, spesso immaginata come risalente ai tempi antichi in cui è stata rivelata. Ed è là che i fondamentalismi vogliono condurre chi li ascolta – soprattutto quelli con la loro stessa etichetta religiosa.

I fondamentalismi hanno un altro tratto in comune: benché venerino i testi antichi, sono tutti recenti – non essendo altro che nuove forme di reazione al mondo moderno. Nello specifico, coinvolgono due aspetti centrali di questo mondo. In primo luogo, dal momento che quasi tutti sono diventati consapevoli dell’esistenza di vistose differenze nelle fedi religiose, il nostro credo è uno di quegli elementi che ci definiscono rispetto agli altri: per questo è importante seguirlo correttamente. È parte della questione globale relativa all’identità. In secondo luogo, la società di massa ha creato un mondo in cui quasi tutti possono avere accesso diretto ai testi sacri e così fare a meno dell’autorità degli interpreti tradizionali, ritenuti compromessi o corrotti.

In passato l’ortodossia dipendeva dalla presenza di una classe di persone altamente istruite – sacerdoti, teologi, rabbini, bramini – le cui interpretazioni avevano valore per i comuni fedeli, non ultimo perché i profani non erano in grado di leggere i testi. La legittimità a interpretare gli scritti sacri si accompagnava al diritto di indicare quali rituali e pratiche seguire sul versante della prassi. Questi esperti, come in generale tutti gli intellettuali, conoscevano le tradizioni e il pensiero di chi li aveva preceduti. Per loro era normale agire alla luce di quel determinato contesto. Quando un cristiano o un musulmano dei giorni nostri legge un passaggio della Bibbia o del Corano, cercando di capirne da solo il significato, spesso lo fa senza quel contesto, perché non possiede una competenza specifica. Ma, dal momento che ognuno interpreta inevitabilmente in base a conoscenze pregresse, non è vero che non c’è un contesto, semplicemente il contesto è quello fornito dalle proprie esperienze e convinzioni personali. Ne risultano nuove interpretazioni che possono marcare ulteriormente il divario tra i fondamentalisti e i loro disprezzati correligionari.

In modalità su cui tornerò, molti che cercano di caratterizzare particolari tradizioni religiose si ritrovano a fare causa comune con i fondamentalisti. Ritengono che essi rappresentino la religione nella sua forma più pura e autentica, mentre le forme più convenzionali di identità religiosa sarebbero esiti annacquati dal tempo o rifletterebbero usanze locali. (Dare a qualcuno del “musulmano moderato” può suggerire che il legame di questa persona con la fede islamica è di per sé moderato, tenue.) Eppure, quale che sia l’etichetta che si sbandiera, Islam, buddismo o cristianesimo, esistono altre persone sincere e devote che quella stessa etichetta rivendicano pensandola diversamente. Certo, i fondamentalisti possono insistere che questi ultimi non sono i veri musulmani, buddisti o cristiani, ma ciò vorrebbe dire che la maggioranza delle persone che possiede quelle stesse etichette sta sbagliando; e le etichette non avrebbero molta utilità se non si potessero applicare alla maggior parte delle persone che le hanno dichiarate.

Una volta messe a fuoco queste perplessità, alcune affermazioni piuttosto diffuse sull’identità religiosa acquistano una nuova luce. Ad esempio, il ruolo della donna nell’Islam è un tipico argomento di discussione nelle comunità di tutta la Gran Bretagna, musulmane e non. Spesso si sentono argomentazioni di questo tenore:

Nel Corano ci sono molti passaggi che considerano chiaramente le donne inferiori agli uomini. Nella sura An-Nisa (Le donne, 4,11) si dice che gli uomini devono ereditare in quantità doppia rispetto alle donne; nella sura Al-Baqarah(La vacca, 2,282) si afferma che in una disputa su un contratto commerciale la testimonianza di due donne può essere sostituita da quella di un solo uomo; oppure sempre nella sura An-Nisa (4,34) più avanti si legge: “Gli uomini sono preposti alle donne, perché Allah ha deciso che gliuni prevalgano sulle altre”. Questi passaggi dimostrano che le società islamiche devono continuare a ritenere l’uomo superiore alla donna.

A un determinismo scritturale di questo genere, come si può vedere, ricorre sia il non-islamico (outsider) per attaccare l’Islam sia l’islamico (insider) per difendere le pratiche che sostiene. Mettiamo pure da parte il fatto che questa argomentazione ignora molti altri dati rilevanti, come, ad esempio, che il Pakistan e il Bangladesh, in cui l’Islam è religione di stato, hanno avuto primi ministri donne e una percentuale di donne impiegate nei loro apparati superiore a quella degli stessi Stati Uniti. Certo, la disuguaglianza di genere rimane la regola, come in quasi ogni altra parte del mondo. Eppure la condizione delle donne nell’Islam non si affronta con una manciata di citazioni. C’è una grande quantità di fonti autorevoli da prendere in considerazione: oltre al Corano e agli hadith, c’è il fiqh (che significa “comprensione profonda”), che riguarda lo sviluppo della giurisprudenza musulmana e ha l’obiettivo di individuare la legge eterna rivelata dal Corano e dalla Sunna.16Chiaramente tutto ciò ha un peso considerevole.

Come le femministe cristiane hanno sottolineato la centralità delle donne all’interno della cerchia di Gesù, così alcuni musulmani hanno evidenziato il fatto che Khadija, la prima moglie di Maometto, fosse anche la prima convertita all’Islam; che ‘Ā’isha, la favorita tra le mogli, fosse spesso presente quando il Profeta riceveva le sue rivelazioni, e che lei stessa è fonte di alcuni importanti hadith. (Inoltre, guidò le truppe in battaglia contro il quarto califfo, poiché costui non aveva vendicato l’assassinio del suo predecessore.) Nella sura Al-Ahzab (Le fazioni alleate, 33,35) si proclama che le ricompense per la sottomissione ad Allah spettano sia alle donne sia agli uomini, in un passaggio citato sovente per dimostrare la fondamentale uguaglianza tra i sessi. Come ho detto, però, queste tradizioni non parlano con una sola voce. Per essere un vero seguace scritturale bisogna sapere qualipassaggi leggere e quali saltare.

Certo, non tocca a un estraneo come me indicare come affrontare questi problemi. Naturalmente è compito dei musulmani, anche se mi auguro che essi si rendano conto che a volte possono anche imparare dai loro amici, così come (nei modi che discuterò nel capitolo finale) molti non musulmani hanno imparato da loro. Da notare, inoltre, che gli argomenti scritturali sulla sottomissione della donna nell’Islam hanno alcuni paralleli con quelli evocati dal giudaismo e dal cristianesimo. “Le mogli siano soggette ai mariti come al Signore,” proclama san Paolo nella Lettera agli Efesini, riecheggiando le parole stesse di Dio a Eva nella Genesi: “Tuo marito […] dominerà su di te”. In effetti, agli inizi del ventesimo secolo, sulla scorta della Bibbia e delle tradizioni religiose, nessuno avrebbe mai detto che alla fine del secolo ci sarebbero state donne rabbino o vescovi anglicani.

Eppure la prima donna rabbino è stata ordinata a Offenbach-am-Main nel 1935: si chiamava Regina Jonas ed è morta ad Auschwitz. Alcune organizzazioni di ebrei ortodossi, come la Agudath Israel of America, negano che le donne godano di questa prerogativa: secondo loro Regina Jonas non era un vero rabbino. Ma negli Stati Uniti, dove vivo, ci sono donne rabbino in ciascuna delle principali correnti del giudaismo, compresi (senza ombra di dubbio) gli stessi ortodossi: basti pensare che nel 2009 a New York Rabba Sara Hurwitz (insieme a un rabbino uomo) ha inaugurato la Yeshivat Maharat, la prima scuola per formare religiose ortodosse.

La prima donna sacerdote anglicano è stata nominata a Hong Kong circa dieci anni dopo Regina Jonas. Sei decenni più tardi il maggiore vescovo della corrente americana della Chiesa anglicana, il primate della Chiesa episcopale degli Stati Uniti, era una donna. (Nel 2014 in Inghilterra un sacerdote su cinque era una donna.)17 Le identità religiose modificano i loro punti di vista in continuazione.

Si tratta di un dato di fatto a livello globale. Alcuni buddisti non credono che le monache possano avere un grado superiore a un monaco, ma il buddismo ha una tradizione di donne sante e devote fin dagli albori. Nel Vimalakirti Sutra, un testo di duemila anni fa, una divinità trasforma Sariputra, uno dei primi discepoli di Budda, in una dea, spiegando l’accaduto in questi termini:

Sariputra, che non è una donna, appare nel corpo di una donna. E lo stesso vale per tutte le donne: benché esse abbiano un corpo femminile, non sono donne. Per questo il Budda insegna che ogni cosa non è né maschile né femminile.18

Lo stesso san Paolo, secondo il quale le donne devono coprirsi la testa in chiesa mentre gli uomini no, annunciava ai Galati: “Non esiste uomo o donna, poiché tutti voi siete una sola persona in Cristo Gesù”.

A meno di non ritenere l’Islam completamente diverso dalle altre tradizioni religiose, dovremmo aspettarci che l’identità musulmana si evolva attraverso i dibattiti tra i fedeli. Non c’è motivo per dare credito all’affermazione deterministica che, poiché un’interpretazione di alcuni testi o tradizioni è stata centrale a un certo punto della storia, i seguaci dell’Islam debbano attenersi per sempre a quella. La storia dei testi sacri è sempre stata la storia dei loro lettori: di interpretazioni che cambiavano e spesso si scontravano. Del resto è comprensibile perché a volte i fedeli neghino tutto ciò: vorrebbero che la loro verità fosse eterna e immutabile. Ma gli osservatori obiettivi vedono che la religione, come ogni altro importante fenomeno umano, evolve. E alcuni di questi osservatori appartengono a queste tradizioni e accolgono questi sviluppi come il segno di una più profonda comprensione della loro fede.

Il testo nel tempo

La combinazione di analisi storica e testuale è un modo con cui le interpretazioni evolvono, in parte perché, nel decidere cosa accogliere in un testo, spesso si prende in considerazione il contesto. Quando san Paolo dichiara che le donne devono coprirsi la testa, è ragionevole domandarsi quali fossero gli usi in vigore a Corinto all’epoca. Se si viene a sapere che era disonorevole per una donna andare in giro a capo scoperto in quella città, allora si può concludere, come faceva mia madre, che quando si è in chiesa ci si deve vestire in base agli standard locali. Cioè quelli di Kumasi, dove andava in chiesa, non quelli di Filkins, il villaggio dell’Oxfordshire dove era cresciuta – né tantomeno quelli della Corinto del primo secolo d.C. La chiesa di St. George a Kumasi era un edificio semplice, bianco, con un’unica sala, il tetto fatto di lamiere ondulate, l’altare collocato in fondo su una piattaforma appena rialzata e sulla parete dietro di esso torreggiava una grossa croce di legno. St. Peter invece, la chiesa dove era cresciuta, era una costruzione gotica di età medio-vittoriana, con le vetrate colorate dipinte da William Morris, e così descritta dal poeta John Betjeman, profondo conoscitore dell’architettura ecclesiastica inglese: “Semplice e slanciata nella sua pietra locale”. Difficile immaginarsi due chiese più diverse. E la gente la domenica non poteva essere vestita in maniera più differente. In Inghilterra gli uomini in abito scuro, le donne in distinti tailleur di tweed, i cappellini alla moda leggermente inclinati; in Ghana una festa di colori, gli uomini nella loro toga di tradizione ashanti, il ntoma, o in fresche camicie di lino bianco, le donne in vaporosi foulard di seta avvolti al capo. Ecco, san Paolo avrebbe certamente capito che l’abito di una modesta moglie cristiana varia da posto a posto.

L’efficacia delle prescrizioni e la loro durata dipendono anche dalla forza delle strutture istituzionali. Per questo, benché la Torah preveda la lapidazione per gli adulteri, nessuna moderna autorità ebraica o cristiana sosterrebbe mai quella sentenza. Nel caso degli ebrei, il più importante tribunale, il Sinedrio, che aveva sede nel Tempio di Gerusalemme, ha cessato di emanare pene capitali nel primo secolo d.C. I rabbini presero questa decisione per diversi motivi, ma in ogni caso i dominatori romani avevano il diritto di condannare a morte le persone in Palestina. Poi, con la distruzione del Tempio nel 70 d.C., il Sinedrio scomparve. Poiché la legge ebraica richiedeva il Sinedrio quale sommo tribunale per spiccare le sentenze capitali, nessun Sinedrio, nessuna lapidazione. Come ogni altra legge, quella ebraica era una forma di tradizione che si evolveva. Viste le vicissitudini del popolo ebraico, non poteva essere altrimenti.

Per i cristiani la questione è, per certi versi, forse ancora più interessante. Come sa chiunque abbia un minimo di familiarità con il Nuovo Testamento, nel Vangelo di Giovanni si racconta che Gesù, interrogato dai farisei sull’opportunità di lapidare una donna “sorpresa in adulterio”, rispose: “Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra”. Poiché nessuno osava condannarla, Gesù disse che nemmeno lui l’avrebbe fatto. Infine la congedò con queste parole: “Va’ e non peccare più”.

Il significato profondo di un episodio del genere nella vita di una figura esemplare non balza, per così dire, subito all’occhio. Ad esempio, Cristo non rinnega la legge mosaica. Certo, pone una condizione alla sua applicazione che nessun altro, tranne lui, può vantare. Pur essendo l’unica persona senza peccato, perdona. È naturale allora pensare che, come altri rabbini del primo secolo in Palestina, non avesse molta simpatia per la pena capitale, almeno in caso di adulterio. Ma non è quello che dice alla lettera. Un’analoga riflessione si potrebbe fare sul comportamento di Maometto nei confronti del medesimo peccato, dal momento che secondo il Corano ci vogliono quattro testimoni per accusare una donna (ed è prevista una punizione per chi accusa senza produrre testimoni). Data la natura del reato, è una richiesta significativa. Interpreti successivi hanno collocato l’episodio di Cristo e l’adultera in un contesto più ampio, sviluppato negli scritti di san Paolo, secondo cui alcune parti del complesso sistema di leggi della Torah non erano vincolanti per quei gentili divenuti seguaci di Gesù. La tradizione ebraica prevedeva che all’arrivo del Messia, il Salvatore finale, nuove leggi sarebbero sorte. Lo stesso Cristo, nel Discorso della Montagna, dice di essere venuto per “compiere la Legge”, non per distruggerla. Eppure san Paolo, l’apostolo dei gentili, era stato chiaro: per seguire Cristo i non ebrei non dovevano essere circoncisi, precetto invece essenziale della Torah.

Maimonide, che scriveva nel dodicesimo secolo, identificò nella legge ebraica 248 comandamenti (o mitzvot) positivi e 365 negativi. Le disposizioni rituali (quelle che, ad esempio, prescrivevano agli uomini di non tagliarsi i capelli ai lati della testa o di non radersi la barba con il rasoio) erano inframmezzate da altre più squisitamente di ordine morale, a favore della carità, contro l’adulterio, l’incesto e l’omicidio. L’interpretazione di san Paolo della legge ebraica eliminava non solo la circoncisione ma anche il divieto di mangiare maiale; dall’altra parte, però, riteneva che i precetti sull’adulterio, l’incesto e l’omicidio fossero validi, e i cristiani lo seguirono. Tra i comandamenti della Torah vi sono norme sullo svolgimento di specifiche funzioni, come quella di giudice, sacerdote o re. Sorge spontaneo un dubbio: il comandamento che riguarda gli adulteri – comandamento probabilmente a uso di tribunali e giudici – è da considerarsi più simile a quello sulla circoncisione maschile, che non è più obbligatoria, oppure – com’è presumibile – alla proibizione dell’omicidio?

Un compendio di tutte le discussioni su questo argomento nel corso dei duemila anni di storia cristiana sarebbe un’impresa enciclopedica. Da parte mia voglio soltanto evidenziare ciò che il determinismo scritturale nega: la grande complessità di una seria e approfondita interpretazione delle parole di Gesù.

Metafondamentalismo

Richiamarsi alla storia non funziona contro il fondamentalismo. Il fondamentalista si occupa di verità sacre e definitive, come quelle rivelate a un antico scriba o a un venerabile profeta, non delle tradizioni frutto dell’errore umano. Eppure, come abbiamo visto, lo stesso astoricismo è condiviso dai critici del fondamentalismo che mettono sullo stesso piano identità religiose e specifiche convinzioni o determinate interpretazioni degli scritti sacri. Cadono in quello che potremmo chiamare “errore da codice sorgente”, l’idea cioè che la vera natura di una religione si celi nei testi più reconditi e fondativi, del tutto staccata dal contesto del mondo reale degli attuali seguaci; l’idea che soltanto l’accesso a quel codice possa rivelare l’intima essenza della religione.

Oggi tutti noi conosciamo le interpretazioni dell’Islam utilizzate per giustificare la violenza contro musulmani e non, interpretazioni che incitano al terrore, alla morte e al massacro. Possiamo individuare le fonti della tradizione islamica a sostegno di queste idee, ma troveremo appelli sanguinari di questo genere in ogni grande tradizione religiosa. Eppure, l’idea che i musulmani debbano impegnarsi in una strage infinita poiché certi testi parlano di guerra non è meno presente e tangibile in altre religioni.

Nella chiesa di cemento bianco di St. George a Kumasi uno dei nostri inni preferiti diceva:

Soldati cristiani orsù!
Per la guerra marciate,
Con la croce di Gesù
avanti camminate!

Il brano ha una solenne melodia, composta da Arthur Sullivan, del duo Gilbert e Sullivan. Preso in sé, l’inno – un classico delle bande in marcia dell’Esercito della Salvezza – potrebbe condurci a una versione violenta del cristianesimo. E non è l’unico testo cristiano del genere. Dai tempi dell’imperatore Costantino, nel quarto secolo d.C., la croce è stata portata in battaglia dagli eserciti cristiani, accompagnata dall’antica iscrizione in latino “In hoc signo vinces”, “Con questo simbolo trionferai”. D’altro canto, in quel passaggio citato di Isaia che molti cristiani anglicani ascoltano ogni Natale nella cerimonia cosiddetta delle “Nove lezioni e canti natalizi” (Nine Lessons and Carols), il Messia è chiamato “Principe della pace”. I musulmani, come i cristiani, possono scegliere come interpretare le loro tradizioni. Negare ciò significa cadere in un determinismo che vi esorto ad abbandonare prima possibile.

Un tale essenzialismo non aiuterà di certo i musulmani d’Europa o i loro vicini non musulmani nella ricerca di efficaci forme di convivenza. I musulmani dell’Europa occidentale – come quelli del Nordamerica – stanno vivendo un esperimento moderno, sconosciuto alla maggior parte dei sapienti che hanno modellato le idee islamiche sulla politica, un esperimento per cui hanno scelto non soltanto di spostarsi per ragioni economiche o lavorative, ma di stabilirsi in pianta stabile in paesi non musulmani. In questo nuovo panorama, le questioni di genere saranno soltanto una parte della sfida complessiva. In questa sfida la consapevolezza che le identità sopravvivono attraverso i cambiamenti – anzi, che sopravvivono soltanto attraverso di essi – sarà un banco di prova fondamentale per tutti noi. Le identità religiose, come ogni altra forma di identità (e lo vedremo nei capitoli successivi), vivono nella storia.

Il culto degli antenati

Non molto tempo fa, in un villaggio del Ghana assai distante da New York dove vivo oggi, mi ritrovai in compagnia di alcuni capi locali a fare una cosa che fanno gli ashanti: offrire libagioni agli antenati. Da molto prima che nascessi, tradizione voleva che si versasse dello schnapps, un liquore particolarmente apprezzato, una delle merci più commerciate con l’Europa negli ultimi secoli. (Il preferito è il Kaiser Schnapps, la cui pubblicità recita: “Schnapps da re”.) Così, con le spalle scoperte in segno di rispetto, versai Kaiser Schnapps sulle tombe di famiglia. Un’offerta andò al fondatore della discendenza di mio padre (e del villaggio), il valoroso guerriero Akroma-Ampim. Nana Akroma-Ampim, bεgye nsa nom: Nonno Akroma Ampim, accogli questo alcol e bevilo, dissi. Un’altra libagione fu per mio padre: Papa Joe, bεgye nsa nom.

Per gli ashanti gli antenati sono spiriti che vengono in aiuto oppure creano ostacoli, cui bisogna offrire cibo e bevande con prudenza e sincerità di cuore. Tutto ciò fa parte della vita quotidiana, perché è proprio nella vita quotidiana che interagiamo con loro. Nessuno viene messo in guardia contro un’eventuale diminuzione della propria fede. Ecco, si capisce come l’ossessione della fede individuale sia un tratto distintivo della modernità religiosa, un assillo privato del tutto estraneo alle più antiche pratiche di culto. Infatti, quando mi trovo in Ghana a offrire libagioni, quello che mi impressiona è la straordinaria calma e assenza di stress.

Per molti in Ashanti la religione – quella che gli antropologi sono soliti chiamare “la religione tradizionale” – non è un semplice sacramento. È una forma di governo. Tra gli spiriti ci sono gli equivalenti dei locali membri dell’assemblea e del sindaco – insomma coloro che dovrebbero prendersi cura delle nostre esigenze – e poi ancora i signori e le cariche più alte, le cui implicazioni con la nostra vita sono più frequenti. Bisogna aspettare in fila, un po’ come alle poste. Ci sono richieste da inoltrare, scambi da proporre, tasse da pagare, soprattutto sotto forma di libagioni, omaggi e sacrifici. A volte le richieste vengono fermate o respinte. (Come ho detto, è una specie di governo.)

E queste pratiche sono seguite dalla maggior parte degli ashanti – inclusi vescovi cattolici e imam! – in totale concordia con altre confessioni, con l’essere musulmani o cristiani. Così era per mio padre. Come suo padre, era un membro anziano della Cattedrale metodista di Welsey a Kumasi, ma il suo metodismo conviveva con l’appartenenza agli ashanti. E così, quando mio padre apriva una bottiglia di liquore, versava le prime gocce in offerta agli antenati, chiedendo loro di vegliare sulla famiglia, come un cattolico italiano invocherebbe Maria, madre di Dio, o un musulmano indiano si rivolgerebbe alla tomba di un santo sufi. I missionari che convertirono mio nonno avrebbero detto che era un ritorno all’idolatria, ma lui e mio padre l’avrebbero trovata una dichiarazione assurda. Analizzando il Libro dell’Esodo, Filone di Alessandria ha in serbo qualche saggio consiglio: per essere fedele al tuo dio, dice, non devi disprezzare quello degli altri.19Ed eccomi nel villaggio ancestrale di mio padre a compiere queste libagioni – una pratica radicata nello spirito di una comunità e nel suo senso di appartenenza.

Su un solo punto possiamo essere d’accordo con i fondamentalisti: i nostri antenati sonopotenti, anche se in modi del tutto diversi. Nessuno di noi crea da zero il mondo che abita; nessuno di noi rafforza i propri valori e obiettivi se non attraverso un dialogo con il passato. Ma il dialogo non è determinismo. Quando si pensa l’identità religiosa in termini di pratiche soggette a cambiamenti piuttosto che di sistemi immutabili, la religione diventa più un verbo che un nome: l’identità si rivela come un’azione, non come un oggetto immobile. Ed è proprio delle azioni cambiare.

I nostri antenati ci coinvolgono in maniere che stentiamo a comprendere. Ma mentre versavo lo schnapps sugli antichi altari di famiglia, mi trovavo a riflettere che nell’ambito etico – sia esso laico o religioso – dobbiamo riconoscere che un giorno anche noi saremo antenati. Perché noi non seguiamo semplicemente le tradizioni: le creiamo.

TRE 

Nazione

– Mio Dio, – prega, salpando, il marinaio della Brettagna – proteggetemi: il mio battello è sì piccolo e il vostro Oceano così grande! E quella preghiera riassume la condizione di ciascun di voi, se non si trova un mezzo di moltiplicare indefinitivamente le vostre forze, la vostra potenza d’azione.
Questo mezzo, Dio lo trovava per voi quando vi dava una patria…
GIUSEPPEMAZZINI, Dei doveri dell’uomo(1860)1


 I confini dell’identità

Aron Ettore Schmitz (il futuro scrittore Italo Svevo) era nato a Trieste sul finire del 1861. Il padre e la madre erano ebrei, rispettivamente di origine tedesca e italiana. Trieste era una città libera, il principale porto commerciale dell’Impero austriaco, diventato uno snodo centrale nel diciannovesimo secolo grazie ai collegamenti con l’Asia. (“ ‘Il terzo ingresso al Canale di Suez’, così veniva chiamata,” ci dice la scrittrice e viaggiatrice inglese Jan Morris.)2 Il giovane Ettore, dunque, era un cittadino dell’impero, ribattezzato austroungarico quando aveva sei anni. E qualunque cosa volessero dire le parole “tedesco” e “italiano” all’epoca, non indicavano certo che era cittadino della Germania o dell’Italia. Quando nel 1874 Ettore arrivò in una nuova scuola vicino a Würzburg, in Baviera, la Germania era più giovane di lui: il paese era stato creato soltanto tre anni prima, con l’unificazione sotto la monarchia prussiana di oltre una ventina tra regni federati, ducati, principati, e tre città dell’antica Lega anseatica.

E l’Italia? Ettore e l’Italia erano praticamente nati insieme, come due gemelli: il moderno stato italiano venne creato lo stesso anno della nascita di Ettore, quando Vittorio Emanuele, re di Sardegna, venne proclamato re d’Italia, unendo la Sardegna e il Piemonte con i territori veneziani dell’Impero austriaco, gli stati papali e il Regno delle Due Sicilie. Così, come per la “teutonicità” paterna, anche l’italianità da parte di madre era più una questione di lingua e cultura che di cittadinanza. Soltanto alla fine della Prima guerra mondiale, quando Ettore aveva già più di cinquant’anni, Trieste diventò quello che è oggi, una città italiana. Dunque Ettore Schmitz – ebreo per educazione, cattolico per compiacere la moglie – dichiarò di essere sia tedesco sia italiano, e di sentirsi triestino, qualunque cosa volesse dire esattamente.3 Nato sotto l’Impero austriaco, morì sotto il Regno d’Italia. La sua vita pone con grande forza la questione di come scegliere la propria nazione – se mai è possibile.

Schmitz visse in un’epoca in cui gli stati-nazione stavano iniziando gradualmente a diventare le forme prevalenti di organizzazione politica nel mondo. Durante la sua giovinezza, quando si usavano etichette come “tedeschi” e “italiani”, non si pensava alla cittadinanza politica. Si pensava, come faceva lo stesso Schmitz, a persone con una lingua, una cultura e delle tradizioni in comune. In questo senso si può essere tedeschi o italiani senza avere il diritto a un passaporto tedesco o italiano. Nel 1914 si potevano trovare comunità tedesche non solo in Germania, Austria, Ungheria e Boemia, ma anche in Svizzera, Russia, Africa, America del Nord e del Sud, Australasia. (C’era persino una colonia tedesca a Tsingtao in Cina, così se oggi beviamo una birra Tsingtao in un ristorante cinese, abbiamo a che fare con una tradizione tedesca!) Comunità ebraiche erano sparse in ogni parte abitabile dei continenti. Gli slavi erano divisi tra l’impero austroungarico, l’ottomano e il russo e si trovavano in piccole enclave un po’ ovunque. C’erano arabi in tutto il Medio Oriente e l’Africa del Nord, naturalmente, non soltanto in Arabia; ma c’erano anche comunità libanesi e siriane nell’Africa occidentale e in Brasile. E tutti questi gruppi sapevano chi erano senza dover giurare fedeltà a un governo che li governasse nello specifico.

A partire dal diciannovesimo secolo, per poi proseguire nel ventesimo secolo, molte persone che non avevano mai avuto a che fare con un vero stato vennero coinvolte in movimenti che avevano l’obiettivo di dare un assetto politico al proprio senso di appartenenza: volevano degli stati-nazione per esprimere più compiutamente la convinzione di avere qualcosa di importante in comune. Dovendo trovare un nome che non implichi il possesso di una comune cittadinanza politica, ho deciso che continuerò a chiamare questi gruppi popoli. Come si è visto nel capitolo precedente, un popolo è un gruppo di esseri umani uniti da una discendenza, reale o immaginaria che sia, a prescindere dal fatto che condividano o meno uno stato.

Nel 1830 il grande filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel scrisse:

Nell’esistenza di un popolo, il fine sostanziale consiste nell’essere uno stato e mantenersi come tale. Un popolo senza formazione statuale (una nazione in quanto tale) non ha propriamente nessuna storia.4

Secondo Hegel, alla luce della storia mondiale, tutti i popoli che contavano dovevano diventare gradualmente degli stati sovrani: nel secolo successivo quel pensiero si sarebbe imposto in tutto il mondo.

Oggi, in un’epoca che mi piace pensare postimperiale, nessun principio politico riscuote maggiore consenso della sovranità nazionale. “Noi” non dobbiamo essere governati da “altri”, prigionieri di un’occupazione straniera; “noi” dobbiamo ottenere la possibilità di governarci da soli. Questo semplice ideale è diventato il concetto stesso di nazione. Servì per portare al collasso molti imperi e innescare la decolonizzazione. Le cartine vennero ridisegnate in funzione di quel principio; anche ai giorni nostri i confini hanno ceduto di fronte a quella causa. Rimane un principio assai celebrato del nostro ordine politico. Eppure questo ideale presenta una profonda incoerenza di fondo. Questo è il prossimo dei grandi errori sull’identità che andrò a indagare.

Nazioni

Per cominciare, chiediamoci perché, se tutti sono d’accordo sul fatto che “noi” dobbiamo governarci da soli, spesso è così difficile trovare un accordo su chi siamo “noi”. I nazionalisti proclamano: “Noi siamo un popolo, condividiamo una discendenza”. Ma se per questo anche una famiglia, se vogliamo restare nel più stretto ambito quotidiano; e anche tutte le specie, se invece vogliamo allargarci. Nell’individuare le nazioni, dove dobbiamo tracciare la linea di demarcazione? Gli ashanti in Ghana, dove sono cresciuto, hanno una discendenza in comune, certo, ma anche il gruppo (più ampio) dei popoli akan a cui apparteniamo. Non ci sono solo gli ashanti, ma gli abron, gli ahafo, gli akwapim, gli akyem, i baule, i fante, i kwahu, gli nzema e molti altri. Se siamo alla ricerca di uno stato-nazione, allora forse gli akan sono più titolati degli ashanti: forse nelle nazioni moderne più si è grandi, meglio è, e gli akan sono il doppio degli ashanti, sparsi per tutto il Ghana del Sud e la Costa d’Avorio. Ma allora, sulla scorta di questa idea, perché non cercare qualcosa di ancora più grande, come sostenevano i panafricanisti: un megastato di tutti i popoli di discendenza africana? Ma come dovrebbe essere? Non esistono confini di per sé naturali. Una volta che si va oltre la sfera circoscritta, una sorta di villaggio in miniatura, del faccia-a-faccia, gli altri saranno sempre una comunità di estranei. Ecco il primo problema: la scala dimensionale.

Il secondo problema è che, benché spesso si parli di qualcuno come appartenente a una nazione – la madre di Ettore Schmitz, ad esempio, era italiana –, tutti noi di fatto apparteniamo a molto di più di un semplice gruppo con una discendenza condivisa. I tabù sull’incesto garantiscono che la maggior parte delle persone sia il risultato dell’unione di due famiglie diverse, e molte persone – come Ettore Schmitz, come me – hanno genitori di due nazionalità. Cos’è allora, al di là di una nominale discendenza in comune, a renderci nazione? Come scegliere, tra i molti gruppi con la stessa discendenza, quelli a cui appartenere?

Vale la pena sottolineare che tutti noi abbiamo una molteplicità di modi con cui ci ricaviamo i nostri antenati. Nell’Introduzione ho ricordato che il nonno di mia madre tracciò l’albero genealogico di famiglia fino ai primi decenni del tredicesimo secolo, l’epoca di re Giovanni d’Inghilterra. L’esperto che lavorò alla ricerca seguì un solo ramo maschile. Ma se ci si allarga a esplorare anche gli antenati materni (come nel caso della mia discendenza ashanti) o a seguire indifferentemente uomini e donne indietro nelle generazioni passate, allora lo spettro di famiglie da tenere in considerazione aumenta notevolmente.

L’indagine genealogica era molto più complessa nel ventesimo secolo, prima che un’enorme quantità di dati si riversasse sul web. E il mio bisnonno si sarebbe divertito a scoprire – come ho fatto io – di discendere – per una via alquanto tortuosa – da Enrico II, o di vantare degli antenati che firmarono la Magna Charta. Ma il fatto non deve sorprendere. Quando si risale così indietro nel tempo, tutti noi abbiamo alberi genealogici con molti più rami di quante fossero le persone sul pianeta. Dipende dal fatto che molti di questi rami sono occupati dalle stesse persone, o, per dirla in un altro modo, se abbiamo qualche recente antenato inglese, è probabile che ci sia lo zampino di una discendenza multipla da uomini e donne inglesi del tredicesimo secolo. Lo storico Andrew Millard ha dichiarato che “una persona inglese moderna con una discendenza in prevalenza inglese” quasi certamente discende da Edoardo III, che regnò per oltre mezzo secolo, a partire dal 1327. Che siate o meno persuasi dei dettagli di questa affermazione, le possibilità restano molto alte. (E poiché Enrico II era un antenato di Edoardo III, il principio si applica anche a quest’ultimo.)5 Ma, al contempo, siamo anche quasi certi di avere antenati che non erano inglesi: la gente andava e veniva dalle Isole britanniche. Il Giovanni di Gand dello shakespeariano Riccardo IIpensava che “il mare d’argento” che lambiva le spiagge inglesi:

le protegge come un vallo
O come il fossato d’un castello
Dall’invidia di terre meno felici.

Ma spesso il paese calava i suoi ponti levatoi. Gli anglonormanni mantennero rapporti con i loro cugini in Francia; dei mercanti polacchi si stabilirono sull’isola nel sedicesimo secolo; nel diciassettesimo secolo ebrei olandesi vennero accolti con il permesso di Cromwell durante il periodo del Protettorato; diecimila ugonotti arrivarono agli inizi del diciottesimo secolo. E gli aristocratici inglesi, compresi i membri della famiglia reale, continuarono a scegliersi spose straniere. Se andiamo ancora più indietro nei secoli, sappiamo che gli antichi romani, insediati in Gran Bretagna nel primo secolo a.C., e padroni di un impero immenso che andava fino all’Egitto, hanno lasciato le loro tracce genetiche sull’isola; come pure i normanni della Scandinavia che nel nono secolo regnavano sul cosiddetto Danelaw, che comprendeva gran parte dell’Inghilterra del Nord e dell’Est, mentre Alfredo il Grande controllava il Wessex, a Sudovest. I movimenti andarono anche in altre direzioni: tra i vostri antenati inglesi ci sarà senz’altro qualcuno finito in altri luoghi del pianeta… magari marinai che lasciarono qualche figlio in uno degli innumerevoli porti in giro per il mondo… Queste sono soltanto alcune delle variabili che rendono arduo rispondere alla domanda “Come scegliere, tra i molti gruppi con la stessa discendenza, quello a cui appartenere?”.

Io penso che a questa domanda ci sia una sola risposta seria: una nazione è un gruppo di persone che si ritengono depositarie di un’origine comune e si occupano di questa condizione. Per essere una nazione non basta una situazione oggettiva di comune discendenza; è necessaria anche una situazione soggettiva che unisca insieme i cuori e le menti dei suoi membri. (In pratica, la condizione di comune discendenza non deve essere per forza oggettiva e stringente, in molti casi è presunta o addirittura immaginaria.) Secondo Hegel il punto sostanzialeera usare questa identità nazionale al fine di creare uno stato, se ancora mancava. Ma gli esseri umani possono occuparsi della loro provenienza comune – come fecero Ettore Schmitz e suo padre riguardo alla propria ebraicità – senza per questo voler vivere sotto un governo che sia esclusivamente loro. Per questo il sionismo è solo una delle risposte possibili all’essere ebrei. Ecco perché esistono nazionalità senza stati nazionali.

Prima ho affermato che non esistono confini di per sé naturali cui attenersi. Si potrebbero tracciare linee sempre più sottili, rendendo la propria nazione sempre più simile a una famiglia in senso letterale, e allora ci si potrebbe ritrovare con una nazione con molte cose in comune. Oppure si potrebbero segnare confini più elastici e finire con un gruppo probabilmente più variegato. Ma – fatto ancora più importante – la condivisione della discendenza e la condivisione generale di altri tratti sono due questioni distinte: e, in gruppi oltre una determinata dimensione, è estremamente improbabile che un’origine comune garantisca caratteri comuni. Si è detto che i celti della Bretagna, Cornovaglia, Irlanda, Scozia, Galles e Isola di Man hanno una discendenza comune; ma per essere una nazione un certo numero di loro dovrebbe occuparsi di volere agire insieme come popolo. Finora non è andata così. Non sono una nazione.

E così, se si vuole costruire uno stato a partire da una nazione, occorre fare molto di più di una semplice convocazione delle persone esistenti; occorre, ad esempio, elaborare una costituzione. Perché questo significa costituire una nazione: prendere una popolazione la cui maggioranza, per una serie di motivi, vuole vivere sotto un unico governo, e poi, dopo averli sottratti ai rispettivi stati in cui vivono, instillare in loro quei sentimenti e convinzioni comuni che possano rendere fattibile una proficua vita collettiva.

Confini mobili

Decidere la propria nazione è ancora più complicato quando i confini politici continuano a spostarsi. La vita di Ettore Schmitz sintetizza, in una forma ovviamente estrema, l’esperienza di milioni di persone del ventesimo secolo: essere cittadini di un paese e poi diventarlo di un altro senza spostarsi di casa.

L’inizio del ventesimo secolo fu un periodo di imperi. Nella cosiddetta Corsa per l’Africa, tra la Conferenza di Berlino del 1884-1885 e la Prima guerra mondiale, quasi tutti gli stati africani erano colonie dell’Europa. L’Ashanti, la regione in cui sono cresciuto, diventò protettorato inglese nel 1902. Nel 1900 la maggior parte dell’Europa centro-orientale era sotto l’impero russo, austroungarico oppure ottomano. Poi, dopo la Prima guerra mondiale, Albania, Austria, Bulgaria, gli stati baltici, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia e Romania si liberarono del giogo imperiale; gli stati-nazione indipendenti videro lentamente la luce. Alla fine del secondo conflitto mondiale milioni di cecoslovacchi parlanti tedesco vennero trasferiti nella Germania dell’Est e dell’Ovest. La Cortina di ferro ridisegnò ancora una volta la mappa del continente.

Ma non furono soltanto l’Europa e l’Africa ad assistere a questa danza dei confini. Con la spartizione dell’India inglese nel 1947 enormi masse di popolazione valicarono i nuovi confini tra India e Pakistan: gli indù e i sikh verso l’India, i musulmani verso il Pakistan (a sua volta diviso in due da oltre un migliaio di chilometri di confine indiano). In molte zone del subcontinente si scatenò la violenza – stupri di massa, aggressioni, incendi, uccisioni – dei musulmani contro gli indù, e degli indù contro i musulmani. Milioni di persone attraversarono i confini del Punjab, a ovest, e del Bengala a est, tra l’India e il Pakistan. Sei milioni e mezzo di musulmani si riversarono nel Pakistan occidentale, mentre quasi cinque milioni di indù intrapresero la direzione opposta verso l’India. Forse quasi un milione di musulmani andò nel Pakistan orientale, e più di due milioni e mezzo di indù si spostò da lì in India. Fu la più grande migrazione di massa della storia dell’umanità, e coinvolse un totale di quasi quindici milioni di persone. Tuttavia, fra i trenta e i quaranta milioni di musulmani restarono in India, che ben presto sarebbe diventato il paese musulmano più popolato al mondo.

Per molti abitanti dell’Asia del Sud quella zona di confine rappresentò una ferita dolorosa. Parecchi anni dopo quella suddivisione, lo scrittore indopakistano Sa’adat Hasan Manto scrisse una storia in urdu intitolata Toba Tek Singh, in cui si racconta della decisione del governo indiano e pakistano di scambiarsi i pazienti dei manicomi, come di solito si faceva con i prigionieri. Un paziente sikh di un manicomio di Lahore viene mandato in India, dove un custode gli dice che la sua città adesso è in Pakistan, mentre un altro gli garantisce che è, o presto sarà, in India. L’uomo decide allora di fermarsi tra i reticoli di filo spinato che separano le due nazioni, “in un fazzoletto di terra che non aveva alcun nome”. Il messaggio di Manto, naturalmente, è che la vera follia è quella dei confini.6

Va anche detto che nemmeno i precedenti confini fissati dalla Conferenza di Berlino erano molto più ragionevoli. Accadde che la spartizione dell’Asia del Sud fu soltanto il primo caso di una lunga serie di confini ridisegnati dopo la Seconda guerra mondiale. Con la fine degli imperi coloniali europei, decine di stati indipendenti di Africa e Asia si affacciarono alla ribalta mondiale.7 Nel 1945, nel continente africano, soltanto Egitto, Etiopia e Sudafrica erano indipendenti, l’Africa del Sudovest era amministrata da Pretoria come territorio di mandato, mentre il resto del continente veniva governato da Parigi, Londra, Lisbona o Madrid. La prima colonia inglese a ottenere l’indipendenza fu il Ghana (formato all’epoca dall’unione della Costa d’Oro e della parte amministrata dagli inglesi dell’ex colonia tedesca del Togo, per questo ci sono così tanti ewe in Ghana).8 Su tutto il continente africano il processo fu più lento e a volte più sanguinoso, ma si rivelò inarrestabile. Oggi gli stati indipendenti sono cinquantacinque.

Con il crollo dell’Unione Sovietica, altri quattordici stati indipendenti spuntarono nei Balcani, in Europa dell’Est, nel Caucaso e in Asia centrale. (Senza contare la Russia, naturalmente.) Nel territorio intorno alla Trieste di Ettore Schmitz-Italo Svevo la maggioranza delle persone parla sloveno, una lingua dalla storia e dalla tradizione scritta millenaria. Ma la prima volta che questa maggioranza di parlanti sloveno è stata riunita in un unico paese risale al 1991, quando la Slovenia nacque ai confini orientali dell’Italia nel caos della fine della Jugoslavia. Oggi l’Europa comprende altri sei paesi che un tempo erano stati jugoslavi. E se guardiamo il quadro variopinto offerto da quei paesi, ci accorgiamo che la pittura non si è ancora asciugata del tutto…

Cosa c’è di nuovo?

Essere un popolo non dipende soltanto da come ci vediamo noi. Quello che pensano gli altrifuori dal gruppo è altrettanto fondamentale. Come abbiamo visto nel primo capitolo, l’identità è frutto di negoziazioni tra chi sta dentro e chi fuori. E per tutto il ventesimo secolo il tuo destino poteva essere deciso da altre persone che stabilivano per te a quale popolo appartenevi. Molti genocidi – contro gli armeni in Turchia, gli ebrei in Europa, i tutsi in Ruanda – vennero compiuti da un popolo contro un altro con l’obiettivo di assicurare l’omogeneità della nazione. Ma si tratta soltanto degli estremi di uno spettro che comprende molto altro: espulsioni di massa, assimilazioni forzate, soppressione delle minoranze…

Ho accennato alle prime due difficoltà per realizzare una nazione. Innanzitutto, quanto deve essere ampio il raggio? Ashanti, akan, o qualcosa di ancora più grande? In secondo luogo, come comportarsi di fronte al fatto che tutti noi apparteniamo (almeno potenzialmente) a più popoli? Infine, una terza questione preme. Accanto agli akan vivono uomini e donne di altre discendenze. Ad esempio, ci sono i guan, i cui antenati sono emigrati in Ghana forse mille anni fa. La logica della condivisione di discendenza offre tre possibili risposte: distruggere; espellere (insieme a tutti quelli che hanno altre provenienze); oppure assimilare, inventandosi la storia di una comune origine per risolvere il problema. Tutte queste tre “soluzioni” sono state tentate negli ultimi secoli. Nessuna di loro sarebbe necessaria, se non cercassimo di adattare gli stati a nazioni.

I pensatori che hanno sviluppato il nazionalismo hanno fatto ricorso a una serie di idee sul significato di popolo e nazione sorte durante il diciottesimo e il diciannovesimo secolo in Europa. Hanno usato queste idee per definire la propria nazione, ma anche per dare un’identità alle altre. E in un periodo di crescente interconnessione culturale queste idee si sono diffuse in Europa e poi nel mondo.

Può sembrare strano insistere sul fatto che il nazionalismo è un’invenzione recente. La sua diffusione globale risulta un fenomeno moderno, anche se potremmo pensare di averlo già sentito riecheggiare nei drammi storici di Shakespeare. Enrico V si rivolge ai suoi soldati chiamandoli “nobilissimi inglesi, / il cui sangue discende dai vostri padri, signori della guerra!”. Non è nazionalismo, questo? Cosa c’è di nuovo allora?

E così, tra le righe di queste parole, possiamo sentire gli echi dell’Eneide di Virgilio, i cui primi versi raccontano di Enea che portò “gli dei nel Lazio, dove sorsero i padri latini e albani e le mura della superba Roma”, o del discorso di Pericle riportato da Tucidide, in cui Atene appare come una sorta di “scuola della Grecia”.9Qualcosa – gli dei del Lazio, il sangue inglese, la civiltà ateniese – univa insieme queste persone. E di solito queste storie celebravano i rispettivi popoli in maniera esagerata, un gruppo inclusivo a cui appartenere era un grande onore. Come ho detto all’inizio, l’appartenenza a un clan è un tratto distintivo della psicologia umana.

A questo punto mi siano consentite alcune rapide osservazioni su cosa c’è di nuovo o meno. A lungo gli uomini si sono raccontati storie su eroi che hanno condotto i loro popoli ad azioni valorose e audaci. È una caratteristica dei drammi storici shakespeariani ma anche delle narrazioni ashanti della mia giovinezza… oltre che dell’Iliade, dell’Eneide, del Mahābhārata, degli Annali delle primavere e degli autunni, per citare alcuni classici in greco, latino, sanscrito e cinese. Nella città in cui sono cresciuto ogni bambino era nutrito a pane, acqua e racconti sul nostro primo re, Osei Tutu, e sul nobile sacerdote Okomfo Anokye, che lo aiutò a creare la nazione; sapevamo che Yaa Asantewaa, regina madre di Ejisu, aveva combattuto le ultime guerre degli ashanti contro gli inglesi. Conoscevamo le loro storie, perché quelle azioni erano anche nostre, ci appartenevano. L’Antico Testamento è pieno di nomi di popoli: assiri, babilonesi, cananei, caldei, cusciti, edomiti, medi, persiani, filistei, siriani ecc. Queste popolazioni sono un gruppo di “agenti collettivi”: cioè, compivano azioni insieme. Gli assiri attaccano Israele; gli ashanti resistono alle truppe inglesi; i romani conquistano i greci… e poi, come ricorda il famoso verso di Orazio, la cultura greca catturò Roma.10

Ma verso la fine del diciottesimo secolo in Europa qualcosa di nuovo in effetti arrivò, nel modo di pensare i popoli. In reazione ai vincoli del razionalismo e dell’Illuminismo il Romanticismo diede vita a nuove idee e sentimenti, soprattutto nelle classi medie in espansione. Tra le molte caratteristiche del movimento c’era una grande varietà di atteggiamenti: un rinnovato entusiasmo per le emozioni, una rivalutazione della natura rispetto all’imporsi prepotente dell’industria, una passione per lo spirito democratico della Rivoluzione francese, e allo stesso tempo una paradossale celebrazione delle tradizioni popolari, come dimostrano le favole dei fratelli Grimm, e degli eroi moderni. I romantici erano affascinati dalle imprese militari di Napoleone come dal genio creativo di Beethoven, Byron e Goethe, ma esaltavano anche le canzoni e le storie di uomini e donne comuni.

In Scozia – la Caledonia dell’antico Impero romano – ai confini dell’Europa occidentale, Robert Burns, il bardo dell’Ayrshire, vissuto nella seconda metà del diciottesimo secolo, incarnò molti di questi aspetti: raccolse e adattò le canzoni popolari, compose versi nella lingua di tutti i giorni, si profuse in struggenti sentimenti romantici nelle poesie d’amore, visse in comunione con la natura. Il suo amore era “come una rossa, rossa rosa […] appena sbocciata a giugno”; simpatizzò con un topo a cui distrusse il nido; ma dichiarò anche che:

La Caledonia ha argomenti in abbondanza di storia
che mostrar potrebbe la Musa tragica per la sua gloria.11

Un poeta apparteneva, soprattutto, alla sua nazione.

Spiriti nazionali

Il nazionalismo crebbe con il Romanticismo, e uno dei temi centrali fu una nuova idea romantica di popolo. La comprensione del carattere nazionale subì un mutamento attraverso la celebrazione di qualcosa di spirituale: l’anima o spirito del popolo, il cosiddetto Volksgeist, per usare il termine coniato dalla filosofia tedesca che ne sviluppò il concetto. Sembra che Hegel sia stato il primo filosofo a ricorrere alla parola, ma l’idea di uno spirito nazionale è già presente negli scritti del grande filosofo tedesco di ispirazione romantica Johann Gottfried Herder.

Nel movimento letterario e filosofico che diede inizio al Romanticismo europeo, noto come Sturm und Drang (Tempesta e impeto) per i suoi sentimenti tumultuosi, Herder indagò l’intuizione che il popolo tedesco era tenuto insieme da uno spirito incarnato, innanzitutto, nella lingua e nella letteratura, proprio come la Scozia dei versi di Robert Burns. Nei primi anni del diciannovesimo secolo Walter Scott raccolse le canzoni popolari scozzesi nei Canti giullareschi della frontiera scozzese, con lo scopo, come scrisse, di “contribuire in qualche modo alla storia del mio paese natale”. Con la diffusione sempre più capillare della stampa e della letteratura, un numero crescente di persone comuni avrebbe iniziato a pensarsi come membri di una vasta comunità nazionale, in parte leggendo autori come Burns e Scott. E con il passare del tempo questa idea essenziale diventò sempre più urgente. Il patriota rivoluzionario genovese Giuseppe Mazzini, fervente repubblicano e fondatore della società segreta La giovine Italia, ispirò molte persone con il suo appello a risvegliare l’anima dell’Italia.

Però nella Trieste di Ettore Schmitz molti potevano avere interesse a mantenere quell’anima assopita. La città era composta, come l’impero a cui apparteneva, da una notevole eterogeneità di persone: la maggior parte parlava tedesco o triestino, il dialetto locale, ma, come ho già ricordato in precedenza, nel territorio tutt’intorno alla città si parlava sloveno.12Il nazionalismo italiano e slavo si scontrava con i tedeschi istruiti che difendevano il cosmopolitismo di un impero multinazionale come quello austroungarico. Nel 1847, durante una cena in onore del politico liberale inglese Richard Cobden, un tale von Bruck urlò: “Noi siamo triestini, siamo cosmopoliti […] non abbiamo niente da spartire con gli italiani e i tedeschi!”.13

Eppure Ettore Schmitz, nonostante il padre tedesco, l’educazione teutonica e la cittadinanza austriaca, non era sordo al richiamo mazziniano di risvegliare l’anima dell’Italia. Isabel Burton, moglie del console inglese a Trieste negli anni settanta e ottanta del diciannovesimo secolo, riferì che la maggior parte degli ebrei triestini appoggiava quelli che lei chiamava gli “Italianissimi”– i più italiani degli italiani.14Schmitz seguì quell’esempio e, quando iniziò la sua carriera letteraria, decise di scrivere in italiano, non senza difficoltà. Ma non esattamente come un italiano. Infatti adottò lo pseudonimo di Italo Svevo, con il cognome che è un riferimento alla Svevia, una regione della Germania del Sud: dunque un evidente omaggio alla sua duplice eredità.

Forse oggi non sapremmo granché di Italo Svevo se non fosse intervenuto un irlandese che visse a Trieste dal 1904 al 1920, e fu suo insegnante di inglese. Quest’uomo si chiamava James Joyce, ed ebbe anche lui un rapporto complicato con il nazionalismo. Joyce lesse il manoscritto del suo celebre racconto I morti a Svevo e alla moglie Livia Veneziani, e ricevette non solo parole di elogio ma anche un mazzo di fiori del giardino di Livia.15Nella storia Miss Ivors, una nazionalista irlandese, dice a Gabriel, il protagonista – il quale vuole viaggiare in “Francia o Belgio, o forse Germania” –, che deve visitare la “propria terra” per conoscere il “proprio paese”. I temi nazionalisti erano onnipresenti nella letteratura dell’epoca.

Svevo fu uno dei primi entusiasti lettori di Joyce, e Joyce ricambiò con generosità. Quando alcuni anni dopo lesse La coscienza di Zeno, pubblicato a spese dell’autore, lo ammirò a tal punto che ne patrocinò una traduzione a Parigi dove si era trasferito. Il romanzo era passato praticamente sotto silenzio in Italia: l’italiano scritto di Svevo, modellato sul triestino, veniva giudicato dai critici troppo imperfetto. (Lo stesso direbbe un impeccabile inglese della lingua di Robert Burns!) La traduzione francese voluta da Joyce riscosse grande consenso, e ancora oggi La coscienza di Zeno è considerato, a ragione, uno dei capisaldi del romanzo europeo.

Svevo è un emblema della complessità delle identità nazionali e culturali nella vita moderna. Ma la sua condizione di ebreo cosmopolita, abitante di una città internazionale, lo rende esemplare sotto un altro punto di vista: egli è un importante modello per Leopold Bloom, il protagonista dell’Ulisse, il capolavoro di Joyce che descrive la giornata di un ebreo dublinese non osservante, circondato da cattolici. Bloom viene presentato come un uomo dai forti appetiti: la prima volta che compare, Joyce ci avverte sagacemente che “mangiava con soddisfazione gli organi interni di bestie e volatili da cortile”.16Ma, come Svevo, è soprattutto un uomo che vaga per la sua città, pronto ad assorbire paesaggi, odori, rumori.

Una volta Umberto Saba, un altro scrittore triestino di origine ebraica e cattolica, scrisse che “Svevo poteva scrivere bene in tedesco; preferì scrivere male in italiano”.17 Come si comportò dunque Italo Svevo nel crearsi un’identità letteraria? Non provava un vero legame con l’Austria e nutriva scarso entusiasmo all’idea del servizio militare sotto la bandiera dell’impero. Il giovane Ettore aveva ricevuto la tradizionale circoncisione e il padre era un importante membro della sinagoga; prima di frequentare il collegio in Baviera, era andato in una scuola israelitica e aveva imparato un po’ di ebraico. Ma, come per Kafka, la sua “ebraicità” era più un fattore culturale – magari anche di “dislocazione” culturale – che una questione propriamente di fede. Nonostante una conversione “interessata” al cattolicesimo (in occasione del matrimonio con Livia Veneziani), rimase di fatto un ateo per il resto della vita. In ogni caso, come ebreo assimilato, non poteva prendere in considerazione di scrivere in ebraico o in yiddish – come altri scrittori del suo tempo fecero, ad esempio Sholem Aleichem o Sholem Asch – perché, in primo luogo, erano lingue di cui non aveva padronanza. Per quanto facesse parte della Mitteleuropa, Trieste si affacciava sull’Adriatico.18

Naturalmente, lo pseudonimo Italo Svevo indicava sia i debiti con la cultura tedesca sia la fedeltà verso quella italiana; ma l’aspirazione all’“italianità” era diffusa in tutta Trieste. Questo sentimento si può cogliere in un passaggio significativo della Coscienza di Zeno che rivela le connessioni fra identità tedesca, italiana e triestina. Zeno è innamorato di Ada, la quale a sua volta ama un giovane affascinante di nome Guido Speier. Quando Ada li presenta, Zeno fa un sorriso forzato. Poi dice:

Il mio sorriso si fece più spontaneo perché subito mi si presentava l’occasione di dirgli qualche cosa di sgradevole:
– Lei è tedesco?
Cortesemente egli mi disse che riconosceva che al nome tutti potevano crederlo tale. Invece i documenti della sua famiglia provavano ch’essa era italiana da varii secoli. Egli parlava il toscano con grande naturalezza mentre io e Ada eravamo condannati al nostro dialettaccio.19

Il nostro Italo Svevo si gode quei momenti di autodenigrazione, ma allo stesso tempo, quasi malgrélui, esprime tutto il fascino di Trieste e della sua varietà. Benché una volta si fosse riferito alla città chiamandola “crogiolo assimilatore” – insomma, una sorta di melting pot –, sapeva quanto c’era di non assimilato. Il suo Zeno è soprattutto un esploratore indefesso della città, un vero e proprio boulevardier, un escursionista urbano, la attraversa a piedi da un quartiere all’altro. Ma è anche un uomo in perenne lotta con la propria irrequietezza, sempre intento a fumarsi l’“ultima sigaretta”, sempre pronto a tradire gli ideali e a sondare pregiudizi e preferenze, come un problematico etnografo. Vuole affrontare verità scomode – confrontarsi con la realtà, per quanto dolorosa.

E la realtà di una grande varietà linguistica e culturale all’interno di una comunità, ci ricorda Svevo, può essere in attrito con la visione romantica e nazionalista di un gruppo unito da lingua e cultura. Tuttavia, questo attrito, questa tensione è la norma, piuttosto che l’eccezione.

Tensioni

Prendiamo di nuovo il caso della Scozia, la patria di Robert Burns. Per centinaia di anni è stato un paese dove trovavano posto più lingue (gaelico, scozzese detto anche lallans o broad scots, inglese) e più religioni (la Chiesa di Scozia, l’anglicanesimo, il cattolicesimo), con differenze regionali tra la cultura delle Highlands e delle Lowlands, delle isole e dell’entroterra, della campagna e della città – persino tra Edimburgo e Glasgow. Ciò che hanno in comune fondamentalmente gli scozzesi è oltre un millennio di legami istituzionali con la corona di Scozia: i canti giullareschi di Scott e i versi in “puro lallans” di Burns hanno ben poco da spartire con i canti popolari gaelici. Molti degli elementi identificati come tipici della cultura scozzese non sono ampiamente condivisi. Oggi meno di sessantamila scozzesi parlano il gaelico, che è stata la lingua madre della maggioranza degli scozzesi per ben cinque secoli. Si parla della Scozia come della patria della “Protestant Kirk” (la Chiesa di Scozia), ma a Glasgow, la più grande città della Scozia, i cattolici superano per numero gli aderenti a questa confessione. E, come nella maggior parte dell’Europa, si registra una consolidata presenza ebraica e una crescente percentuale di musulmani.

Ma la “scozzesità” (scottishness) non appartiene soltanto al territorio della Scozia. Gli scozzesi ebbero un ruolo cruciale nel creare e amministrare l’impero inglese. Se da Glasgow si procede verso nordovest e a Oban si prende la nave per la minuscola isola di Colonsay, con i suoi paesaggi di roccia e torba, e un miracoloso giardino di rododendri reso possibile dalle calde acque della Corrente del Golfo, si trovano la casa dei Lord Strathcona e Mount Royal. Strathcona è un altro nome per Glencoe, una celebre zona collinare scozzese, ma Mount Royal è Montréal in Québec; e il primo Lord Strathcona, Donald Smith, fu governatore generale del Canada, discendente da una famiglia di agricoltori di Knockando, a est di Inverness. La festa della Burns Night, in onore del poeta Robert Burns, è celebrata nelle comunità scozzesi di tutto il mondo. Le cerimonie di laurea alla New York University, dove insegno, iniziano con una banda di suonatori di cornamuse.

Questa complessità che si riscontra in Scozia – scusate se insisto – non è molto diversa nel resto d’Europa. L’Inghilterra è stata sia protestante sia cattolica, all’incirca da quando è stata creata questa distinzione. Quando frequentai per la prima volta l’università in Inghilterra, conobbi un giovane studente di medicina che veniva da Newcastle. In teoria c’era questa lingua chiamata inglese che era la lingua madre di entrambi, eppure le prime settimane del semestre faticai a capire cosa dicesse. Dovetti imparare il suo accento. (Lui capiva il mio, senza dubbio, perché io parlavo come uno speaker radiofonico!) I famosi racconti degli uomini dello Yorkshire sono differenti dalle tradizioni popolari del West Country, così come i loro idiomi. Il multiculturalismo inglese non è nato con l’arrivo degli abitanti delle Indie occidentali negli anni cinquanta del ventesimo secolo.

Complessità interne di questo genere sono comuni in tutto il mondo. Lo storico americano Eugen Weber – nascita rumena, educazione inglese – ha spiegato a più di una generazione di studiosi di storia francese che, verso la fine del 1893, quasi un quarto dei trenta milioni di cittadini metropolitani francesi non aveva dimestichezza con il francese.20 Come abbiamo visto, l’Italia venne realizzata dai sovrani del regno di Savoia a metà del diciannovesimo secolo, ma si parlava una straordinaria varietà di dialetti tra loro incomprensibili. Ancora oggi esistono almeno venti dialetti regionali, per non dire dell’amarico o dell’arabo parlati da un numero crescente di immigrati. La lingua convenzionale imparata a scuola e letta sui quotidiani è stata definita “lingua toscana in bocca romana”.

Se gli stati dell’Europa occidentale, dove l’ideologia di Herder è nata e si è sviluppata, non si adattano al modello dello stato-nazione monoetnico, è difficile trovare qualcosa di simile altrove. India, Cina e Indonesia sono profondamente diverse nelle loro etnie, che ne siano consapevoli o meno. I paesi delle Americhe, Stati Uniti compresi, riconoscono tuttile loro origini in una molteplicità di popoli. Ma ci sono senza dubbio dei candidati per stati “herderiani”: in Giappone il 99 percento della popolazione si identifica come giapponese.21 Ma la scrittura giapponese deriva da quella cinese; la seconda religione più diffusa, il buddismo, proviene dall’India; e il sito Ethnologue.com elenca ben quindici idiomi giapponesi, compreso il linguaggio dei segni nipponico. Come regola, un popolo non vive in stati-nazione monoculturali, monoreligiosi e monolinguistici. Né è mai successo.

Date queste realtà, come ci siamo comportati di fronte al fatto che l’autodeterminazione – che potrebbe disgregare qualunque ordine politico immaginabile – resta un ideale sacrosanto? Con cautela e incoerenza. Consideriamo l’ultimo dei paesi riconosciuti in Europa dopo il collasso della Jugoslavia. L’Onu riconosce l’“integrità territoriale” degli stati esistenti, e al tempo stesso il principio dell’autodeterminazione. Considerando le due questioni su richiesta dell’Assemblea generale dell’Onu, la Corte internazionale di giustizia affermò, in un parere consultivo del 2010, che la dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo era legittima dal punto di vista del diritto internazionale. Il rappresentante inglese dell’Onu era d’accordo: l’integrità territoriale, disse, era “autorizzata dal principio di autodeterminazione”. Con quello spirito oltre un centinaio di paesi riconobbe il Kosovo come nazione sovrana. Naturalmente i serbi si opposero, sostenendo che il Kosovo era la “culla” della loro identità nazionale. E nessuno più di Vladimir Putin strillò a favore dell’integrità territoriale serba.

Molti anni dopo si presentò la questione della Crimea e il referendum del 2014. Sotto lo sguardo vigile dell’esercito russo, alla popolazione della penisola della Crimea venne chiesto se volevano unirsi alla Federazione russa. Quando vennero comunicati i risultati altamente improbabili – il 96,7 percento favorevole all’annessione alla Federazione, con un’affluenza dell’83 percento in una regione dove tradizionalmente andava a votare meno della metà di quella percentuale – l’opinione pubblica mondiale si divise sull’accettazione o meno di quel voto. Come le squadre di cricket cambiano campo al termine di un inning, così i difensori dell’autodeterminazione si scoprirono strenui avvocati dell’integrità territoriale, mentre il grande sostenitore dell’integrità territoriale, l’Orso russo, divenne un ringhioso paladino dell’autodeterminazione. L’Assemblea generale dell’Onu votò per la condanna del referendum, 100 a 11, con l’astensione di 58 paesi.

Da notare, tuttavia, che nessuno osò criticare apertamente la premessa che un popolo è autorizzato ad abbandonare uno stato e a costituirne un altro. Le diplomazie occidentali eccepirono sulla validità formale del referendum. Ma si poteva invocare anche autogoverno controautogoverno. Si argomentava che tutti gli ucraini, non soltanto quelli che vivevano in Crimea, avevano il diritto di essere consultati. Esistevano davvero i “crimei”? Si tratta di una strategia di antica data, dal momento che i desiderata di un “popolo” dipendono sempre da come sono stati tracciati i confini. Uno degli argomenti di Abramo Lincoln contro la secessione sudista è identico a quello usato dalla Cina contro l’indipendenza del Tibet, o dalla Spagna contro le richieste della Catalogna: il popolo – ovverosia la maggioranza dei cittadini di quel paese – è contrario.

Non credo che tutti questi casi siano uguali. Vero è che l’ideale di sovranità nazionale resta un forte motivo di legittimazione, per quanto ondivaga e oscura sia la definizione di popolo. Siamo di fronte all’incoerenza che avevo promesso di individuare all’inizio di questo capitolo: ecco, “noi” abbiamo il diritto di autodeterminarci, ma questa idea può guidarci soltanto una volta che abbiamo deciso chi siamo “noi”. E questa domanda, come ho cercato di suggerire, non ha quasi mai una sola risposta possibile.

Una moderna città-stato

Quando si forma un’identità nazionale, ci sono sempre scelte da fare. La storia di stampo romantico e nazionalista che ha dominato il periodo dalle guerre napoleoniche alla metà del ventesimo secolo non è l’unica soluzione. Trieste, il solo luogo in cui Svevo sentiva un profondo senso di patria, rimase ufficialmente un territorio libero, una città-stato per molti anni dopo la Seconda guerra mondiale, e gli odierni sostenitori del movimento per il Territorio libero di Trieste sottolineano la pluralità culturale (e insistono sulla validità di un trattato del 1947 che riconosceva l’indipendenza di Trieste ponendola direttamente sotto il controllo del Consiglio di sicurezza dell’Onu). “Questo territorio è il crocevia delle culture latine, slave e tedesche, intrinsecamente multiculturale e multilingue”, come afferma un’organizzazione a sostegno dell’indipendenza triestina. “Diversità vuol dire ricchezza.”22A quanto pare qualche triestino è ancora cosmopolita, ma è più probabile che ottenga l’indipendenza il ducato di Grand Fenwick dello spassoso film Il ruggito del topo con Peter Sellers; eppure, dall’altra parte del mondo, esiste una fiorente città-stato, nata a metà degli anni sessanta del ventesimo secolo, che si definisce in parte attraverso la propria eterogeneità etnica.

Si tratta di Singapore, ed è un esempio istruttivo di un’identità nazionale fondata in buona parte sulla pluralità delle origini e sulla complessità della questione “Chi siamo noi?”. La città del leone (singa in malese significa “leone”, pura in sanscrito “città”) è stata una colonia britannica a partire dalla prima metà del diciannovesimo secolo, ed è poi passata ai giapponesi durante la Seconda guerra mondiale; la sua esistenza postcoloniale inizia nel 1963 come parte della nuova federazione della Malesia, che rappresentava l’unione della vecchia federazione della Malesia con tre ex colonie inglesi: Borneo del Nord, Sarawak e, appunto, Singapore. Ma appena due anni dopo Singapore venne estromessa. L’unione non funzionò per svariati motivi, ma la ragione più evidente è che la popolazione di Singapore era prevalentemente di origine cinese, mentre il resto della federazione era per due terzi malese. Insomma, la Malesia indipendente cercò di farsi governare da malesi.

Al contrario Singapore dovette conquistarsi una autoconsapevolezza assai diversa. Nell’estate del 1964 violenti scontri razziali sconvolsero l’isola: tutto iniziò con l’attacco di un gruppo di cinesi a una processione di circa ventimila malesi che festeggiavano la nascita del profeta Maometto, e finì con spargimenti di sangue e decine di morti. Il risultato fu una sorta di trauma nazionale che colpì le politiche interne portate avanti fino a quel momento.

Le eredità linguistiche e demografiche non erano mai state chiare. Al termine del periodo coloniale, molte famiglie cinesi in città avevano scelto l’inglese come loro idioma perché era la lingua franca del governo e del commercio. Però all’inizio del ventesimo secolo la maggior parte delle famiglie parlava cinese a casa, non il mandarino, ma altri tipi di dialetto spesso incomprensibili a chi usava il mandarino. Il più comune era l’hokkien, parlato dai due quinti della popolazione, perché molti cinesi di Singapore provenivano dalla provincia del Fujian nella Cina del Sudest, dove si parlavano in prevalenza dialetti hokkien. I cinesi di Singapore usavano anche il teochew, il cantonese, l’hakka, i dialetti di Hainan e di Shanghai.

C’erano anche persone di origine mista, cinese e malese, le cui famiglie erano il risultato di matrimoni tra uomini cinesi, emigrati in Malesia tra il quindicesimo e il diciassettesimo secolo, e le locali donne malesi. Queste persone parlavano una lingua creola chiamata baba, con molti prestiti dall’hokkien.23 Nei primi anni del ventesimo secolo, però, importanti personalità di Singapore di origine cinese svilupparono un sistema di scuole che insegnava il mandarino e ne raccomandarono caldamente l’uso nella comunità cinese: in questo modo il mandarino si diffuse velocemente e divenne, come nella Cina continentale, la lingua “di prestigio” per molti. All’inizio del nuovo millennio quattro persone su cinque che vivevano a Singapore erano cittadini o avevano diritto alla residenza permanente, e circa tre quarti dei residenti (e la maggioranza dei non residenti) si identificarono come cinesi.

Un secondo gruppo consistente è di origine malese, dal momento che Singapore è un’isola dell’arcipelago malese: circa il 15 percento dei cittadini risulta malese, e visto che sono giunti da diverse zone della Malesia, i loro dialetti e lingue sono alquanto diversificati.

Un terzo gruppo invece proviene dall’India, soprattutto dal Sud dove si parla il tamil; altri vengono da diverse regioni del subcontinente e parlano svariati idiomi. In tutto, circa il 7,5 percento dei cittadini di Singapore sono indiani. E, come in tutte le società moderne, ci sono cittadini e residenti permanenti che hanno antenati di altre parti del mondo.

Con l’indipendenza di Singapore, il partito al governo rispose a questa notevole complessità etnica e linguistica con una soluzione che potrebbe sembrare una radicale semplificazione. Tutti i cittadini vennero classificati ufficialmente in quattro gruppi “razziali”: cinesi, malesi, indiani, o altro, con il cosiddetto sistema CMIO (Chinese, Malay, Indian, Other). Però scegliere una lingua associata a uno dei gruppi principali come lingua ufficiale del governo (soprattutto se si trattava del cinese) avrebbe voluto dire svantaggiare gli altri gruppi, così alla fine si optò per la stessa decisione adottata in molte parti degli ex imperi britannico e francese, con l’obiettivo di evitare conflitti etnici: utilizzare la lingua coloniale. Inoltre si sostenne che l’anglofonia avrebbe rafforzato la capacità di competere sul mercato globale, la linfa vitale di una città portuale.

Allo stesso tempo il governo perseguì un complesso piano politico: benché l’inglese fosse la lingua ufficiale di stato, il malese era la lingua nazionale, così si riconosceva ai malesi lo status di popolazione indigena. L’inno nazionale era in malese, così come gli ordini impartiti durante le parate delle forze armate. Tutti i cittadini avrebbero imparato l’inglese a scuola. Se si era cinesi o indiani, si sarebbe studiato anche il mandarino o il tamil; se malesi, il malese. Tutti dovevano essere almeno bilingui, ma la seconda lingua veniva determinata dall’origine etnica.

Quale lingua? Quale religione?

Si potrebbe pensare che la realizzazione dell’identità di Singapore comportasse uno svilimento delle differenze etniche e linguistiche. La vicina Malesia aveva una concezione etnica dello stato: era un paese dove i malesi (che per legge dovevano essere musulmani) godevano, come recita la costituzione, di una “posizione speciale”.24 Al contrario, Lee Kuan Yew, il padre politico di Singapore, insistette molto su un modello multirazziale, multireligioso e multiculturale per garantire un’identità coesa alla nuova nazione. (L’efficienza governativa e l’assenza di corruzione avrebbero dovuto essere – e in effetti furono – altri elementi di legittimazione in una regione dove non erano dati per scontati.) Da moderni fondatori di stati, i leader politici di Singapore conoscevano il linguaggio dell’identità, sapevano che era fondamentale attribuire alcuni significati normativi all’etichetta comune “abitante di Singapore”. Dal momento che i “singaporiani” non si pensavano come un unico popolo, il modello romantico ispirato a un preesistente Volksgeistera destinato al fallimento. Il paese non era un solo popolo – almeno non ancora. Ma poteva diventare un’unione di popoli. Per questo era necessaria una serie di operazioni lungimiranti.

Venne dunque sviluppato un sistema in cui ogni gruppo partecipava alla vita nazionale, ma era anche sostenuto nella sua più ristretta dimensione comunitaria dal riconoscimento delle “lingue madri” per ciascuno dei principali gruppi “razziali”. Lo stato fece in modo che C, M, I e O non fossero troppo segregati a livello geografico: realizzò numerosi quartieri con palazzi di edilizia pubblica in cui le persone di tutti i gruppi vissero fianco a fianco.

Ma non era sufficiente agire con una gentile persuasione. Chiunque commentasse pubblicamente in termini negativi i costumi dei propri vicini rischiava severe condanne per “sedizione”: ad esempio, in base al Sedition Act, è considerato un reato “promuovere sentimenti di avversione e ostilità tra le diverse etnie o classi della popolazione”.25 Si tratta di un potente divieto: del resto, vista e considerata la nostra tendenza al clan, commenti su eventuali differenze comportano spesso il rischio di instillare diffidenza, o peggio. Ad esempio, nel 2012 un’alta dirigente dello staff del Ntuc (National Trades Union Congress, la federazione nazionale dei sindacati), residente permanente di origine cinese, venne licenziata in tronco per essersi lamentata di un matrimonio malese svoltosi nello spazio pubblico – il cosiddetto “void deck” – del suo condominio. I suoi post su Facebook trasudavano livore, suggerendo che i malesi erano “tirchi” (se “pagano così poco per un matrimonio,” insinuava la signora, “forse divorziare non costerà poi molto”) e “sconsiderati”: “Quale razza di società permette di sposarsi per cinquanta bigliettoni?” protestava.

Naturalmente si tratta di dichiarazioni di chi non ha un corretto ed equilibrato giudizio sui malesi: non ultimo perché divorziare per i musulmani di Singapore (e la maggioranza dei malesi è musulmana) costa meno rispetto alla media e negli ultimi anni si registra un calo delle pratiche. Così non stupisce che quei post, ampiamente circolati in rete, abbiano suscitato indignazione, o che la loro autrice abbia perso il lavoro l’indomani. Ma le cose sarebbero potute andare anche peggio. Tre anni prima una coppia di cristiani evangelici di Singapore venne accusata di violazione del Sedition Act (nonché dell’Undesirable Publications Act) per aver inviato via mail degli opuscoli che denigravano l’Islam e il cattolicesimo definendole false religioni: i due furono condannati a sedici settimane di prigione. Sull’onda del caso dei post su Facebook della sindacalista inviperita del Ntuc, la segretaria di un Inter-Racial and Religious Confidence Circle (un’organizzazione locale che promuove il dialogo interrazziale e interreligioso) presentò un esposto alla polizia, che si presentò dall’accusata ed emanò una notifica ufficiale: dopo aver capito che aria tirava, la donna decise di tornare in Australia, dove era nata.26 Questo è il prezzo da pagare per un post sconveniente su Facebook, ma l’intensità delle reazioni riflette la sensibilità diffusa a Singapore. La polizia non deve controllare i social media alla ricerca di dichiarazioni sospette: sono gli stessi cittadini, convinti dell’efficacia della politica nazionale, che le segnalano con solerzia alle autorità. In questo modo, come c’è da aspettarsi, a volte anche qualche osservazione meno fanatica può creare ugualmente parecchi problemi.

La politica “una razza una lingua” ha sortito anche qualche esito sfortunato. I nonni che parlano hokkien possono non avere una lingua in comune con i nipotini educati con il mandarino; gli indiani naturalizzati che parlano hindi possono ritrovarsi figli che si esprimono in tamil; inoltre ci possono essere bambini figli di cinesi e di indiani. Nel frattempo l’unica lingua caratteristica di Singapore – il creolo misto di inglese, malese, cinese e tamil noto come “singlish” – è oggetto di pubblica disapprovazione. Insomma, non è la lingua che tu o i tuoi antenati parlavate, ma l’identità affibbiata dallo stato che decide qual è la tua lingua. Del resto è arduo negare che il sistema CMIO riflettesse idee correnti sull’identità etnica a Singapore: se così non fosse stato, non avrebbe funzionato. Ma, d’altra parte, ha comportato una radicale semplificazione di una realtà etnolinguistica molto complessa.

Finora mi sono occupato soltanto delle diverse origini linguistiche dei singaporiani. Allo stesso modo avrei potuto porre l’attenzione sul fattore religioso. Molti malesi di Singapore (e qualche indiano) sono musulmani: circa un settimo dei residenti ufficiali. La sontuosa moschea del sultano a North Bridge Road ha quasi un secolo e venne costruita per sostituirne una più antica – anch’essa centenaria –, diventata troppo piccola per i sunniti della città. Spiccano poi i coloratissimi templi indù, dedicati, tra i molti dei del pantheon, a Gan.eśa, Śiva e Vis.n.u: a Singapore un residente su venti è indù. Quasi un terzo degli abitanti è buddista e il Tempio del dente reliquia di Budda, sulla South Bridge Road, svetta con i suoi meravigliosi tetti rossi in stile Tang, progettati nell’ultimo scorcio del primo millennio, anche se l’edificio è stato completato soltanto nel 2007. Inoltre, la città vanta chiese cattoliche, protestanti e ortodosse orientali, scuole presbiteriane, anglicane e metodiste, per il quinto circa di singaporiani che sono cristiani. Un abitante su dieci segue il taoismo, e il tempio di Thian Hock Keng risale ai primi decenni del diciannovesimo secolo. Il buddismo e il taoismo sono strettamente legati tra loro, e molte famiglie cinesi hanno delle piccole cappelle a casa e compiono rituali in onore degli antenati, qualunque sia la loro appartenenza ufficiale. Infine, come non ricordare le due sinagoghe ebraiche proclamate monumenti nazionali?

La sindrome di Medusa

Un’isola a maggioranza cinese circondata da acque malesi; un paese con una minoranza musulmana, stretto tra Malesia e Indonesia, il primo uno stato islamico per costituzione, il secondo ufficialmente laico ma con il più grande numero di musulmani al mondo; una popolazione di meno di sei milioni, i cui vicini hanno rispettivamente più di trenta e più di duecentosessanta milioni di abitanti. In queste condizioni, direi che non stupiscono gli sforzi della legislazione di Singapore di porre un freno a eventuali tensioni razziali e religiose. La volontà di mantenere la situazione sotto controllo e in ordine nel campo dell’etnia, della lingua e della religione si rispecchia in altre pratiche, dall’attenta gestione dei rifiuti alla scrupolosa limitazione delle critiche politiche al governo.

Gli eccezionali sforzi di Singapore di evitare spaccature interne, attraverso un progetto nazionale di trattamento rispettoso delle varie differenze razziali e religiose, rappresentano i pro e i contro di quella che il filosofo canadese Charles Taylor ha chiamato “la politica del riconoscimento sociale”. In questo modello le diverse identità ricevono una legittimazione da parte dello stato. Con pro e contro, appunto: riconoscimento vuol dire rispetto, ma anche, per richiamare uno dei nostri temi, essenzialismo.

Quando lo stato volge il suo sguardo su di noi – con le sue carte d’identità, le condizioni educative e altri strumenti di riconoscimento –, irrimediabilmente fissa e cristallizza dei fenomeni che non sono né fissi né cristallizzati. Ho chiamato questo processo “la sindrome di Medusa”: tutto ciò che lo stato guarda, tende a trasformarsi in pietra.27 Esso scolpisce in modo rigido ciò che pretende di riconoscere. Come abbiamo visto, la strategia di ricomporre le identità che tendono a svilupparsi a fisarmonica, con innumerevoli pieghe e fessure, è inadeguata dinanzi alla complessità del mondo odierno. Ma forse è l’unica strategia che uno stato-nazione del genere può mettere in campo. Negli ultimi anni i discorsi del leader Lee Kuan Yew si erano concentrati meno sui valori e le aspirazioni, e di più sulla politica, soprattutto perché l’identità di Singapore era stata determinata a un certo livello. Se lo stato che aveva creato era vigile e invasivo secondo gli standard di una democrazia liberale europea, aveva anche convinto la maggior parte dei cittadini dell’importanza di essere coinvolti tutti insieme in un significativo progetto nazionale. Una volta una persona me lo spiegò in questi termini: il governo non solo vegliava sugli abitanti, ma sorvegliava. La morte di Lee Kuan Yew nel 2015 produsse una vasta e genuina ondata di dolore: venne proclamata una settimana di lutto nazionale con le bandiere a mezz’asta. Quasi 450mila persone andarono a rendere omaggio al feretro rimasto esposto in parlamento per tre giorni e tre notti, con i trasporti pubblici in funzione ventiquattr’ore su ventiquattro per consentire il regolare svolgersi delle visite. Ma il silenzio imposto dallo stato sulle difficoltà tra i vari gruppi rimane. Qualcuno continua a sorvegliare, ma i giovani non sono più così contenti di essere controllati.

Governare le identità significa governare qualcosa di per sé ingovernabile. Qualunque decisione si prenda, la gente comune non si atterrà ai confini prestabiliti. Nel primo decennio di questo millennio il numero dei matrimoni misti è praticamente raddoppiato.28 Oggi un quarto delle nuove unioni attraversa i confini tra C, M, I e O. Non sto dicendo che il governo di Singapore dovrebbe ignorare le identità etniche e religiose dei suoi cittadini, ma bisognerà pure riconoscere che non è più soltanto la società a essere multirazziale: sempre di più lo sono i cittadini in carne e ossa.

Un impero al capolinea

Finora ho descritto stati-nazione emersi da un’epoca di imperi. Nei decenni successivi alla nascita di Singapore molti teorici della globalizzazione previdero un’inversione di tendenza: lo stato-nazione, ci dissero, si sarebbe ridotto a un’entità intermedia, un mero snodo in un immenso flusso transnazionale fatto di capitali e lavoro, trattati bancari e accordi commerciali, protetto da un sistema di sicurezza sovranazionale a difesa di nemici transnazionali, dai cartelli della droga ai terroristi. L’età delle nazioni era destinata a essere scalzata da quella dei “network”.

Oggi invece ovunque spuntano forze di opposizione a questa globalizzazione. Proprio a esse fece appello Boris Johnson, sindaco di Londra, e poi segretario di stato per gli Affari esteri, quando nel 2016 dichiarò che la Brexit era “un diritto sacrosanto del popolo di questo paese di decidere del proprio destino”. Ma di qualepopolo stava parlando? Non degli scozzesi, che votarono in massa contro l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa, e due anni prima, con oltre il 40 percento, si dissero favorevoli a una separazione dall’Inghilterra. Non degli abitanti di Londra, che votarono nella stragrande maggioranza per restare in Europa. Dunque, “noi” chi?

Se esistono sciovinisti patriottardi a favore della Brexit, non è difficile trovare altri espliciti nazionalismi in giro per il mondo. In India, il partito al governo, il Bjp (Bharatiya Janata Party), ottenne un grande consenso affermando che soltanto l’Hindutva (l’essere indù), presunta unità di lingua, religione e cultura, può tenere unita la nazione. Fare presente a un congresso del Bjp che l’induismo potrebbe essere un’invenzione inglese del diciannovesimo secolo sarebbe una pessima idea… In Austria il Partito della Libertà (in tedesco Pbö) ha superato il 20 percento alle elezioni legislative del 2017, proclamando che la patria austriaca – la mitica Heimat – è frutto dell’eredità germanica. In Ungheria e Polonia (ma anche altrove) i partiti di maggioranza hanno rilasciato dichiarazioni analoghe: difendono i “valori cristiani” contro i migranti provenienti da Africa e Medio Oriente, denunciano gli “eurocrati” ed esaltano la purezza dell’eredità nazionale. Nel loro panorama politico l’idea di “network” non esiste. E, nel difendere il nazionalismo, negano alle minoranze etniche e religiose, come rom o musulmani, un posto all’interno della nazione. Come osserva il politologo Jan-Werner Müller, i populisti dichiarano di rappresentare la totalità della popolazione, liquidando gli oppositori come traditori oppure stranieri tout court, dunque non appartenenti al popolo.29

Queste spinte reazionarie hanno dei precedenti. Non ci stupisce allora scoprire che Ettore Schmitz, con il suo lucido realismo, ebbe a che fare con simili dichiarazioni di purezza. Durante il fascismo lo stato italiano iniziò a spingere i nuovi cittadini come lui ad adottare un cognome italiano. Schmitz propose il suo pseudonimo letterario, Italo Svevo. Gli venne risposto di no: il nuovo cognome doveva essere la traduzione italiana di quello vecchio. “Ho già due cognomi, perché un terzo?” si racconta borbottasse perplesso. Il suo entusiasmo per l’“italianità” aveva i suoi limiti! Una volta che respingiamo l’idea di un’unità naturale alla base della formazione dei paesi, ci resta un tormentoso dubbio amletico: cosa tiene insieme i paesi?

Inventarsi nazioni

Singapore tentò una soluzione “top-down”, decisa cioè dall’alto. Il Ghana – ad appena sette anni dalla nascita – ne sperimentò un’altra, meno turbolenta e più sistematica. Una volta mio padre, un fervente anticolonialista e attivista del movimento per l’indipendenza del Ghana, pubblicò un articolo dal titolo Vale la pena morire per il Ghana?. Per lui era l’unica domanda che aveva senso porsi e, naturalmente, la risposta era: sì. E non era una questione astratta. Quando nel 1979 Jerry Rawlings andò al potere con un colpo di stato, mio padre venne catturato negli arresti di massa che seguirono. Si trovò in cella con il generale Akwasi Afrifa, l’uomo che aveva guidato il primo colpo di stato nel 1966, quando venne deposto il presidente Nkrumah. Una mattina Afrifa venne preso e fucilato. Mio padre si salvò soltanto perché riuscì a convincere un gruppo di soldati esaltati che aveva sempre agito al servizio del Ghana. Forse era stato aiutato dalla sua esperienza di avvocato nei tribunali. Se l’era vista proprio brutta.

Eppure per che cosa esattamente avrebbe dovuto morire il mio patriottico padre? Come a Singapore, l’identità del Ghana è molto complessa. Singapore ha il sistema CMIO e tutte quelle religioni che abbiamo visto, ma in Ghana quella varietà sembra addirittura poca cosa. Più della metà della popolazione è cristiana, più di un quarto musulmana, e molti (compresi coloro che si considerano cristiani e musulmani) seguono tuttora uno dei numerosi culti indigeni. Ma ci sono persone di quasi ogni fede: nella capitale Accra spicca un’enorme chiesa mormone, e a meno di dieci chilometri a nordovest sorge uno dei più grandi templi buddisti Nichiren Shōshū al di fuori del Giappone. L’unica rarità religiosa è l’ateismo… Dicasi lo stesso per la varietà linguistica: in Ghana nove lingue sono tutelate dal governo, ma oltre cinquantamila persone parlano altre ventitré lingue, e in totale ci sono circa ottanta lingue. Più di diciassette milioni di ghanesi (su una popolazione di circa ventotto milioni) parla il twi, la più diffusa lingua indigena, con i suoi tre dialetti principali; quasi quattro milioni usano una variante di ewe, ma la lingua più parlata risulta l’inglese, la lingua del governo. È la lingua del Ghana ma non, si potrebbe dire, di tutti i popoli del Ghana.

Come ho già ricordato, utilizzare un idioma coloniale per la gestione politica è stata una pratica comune nelle ex colonie francesi e inglesi. Kenya, Uganda e Tanzania usano anche lo swahili, ampiamente diffuso in quella zona dell’Africa orientale come lingua franca per i commerci: lo swahili funziona perché, nonostante sia la lingua madre di pochi milioni di persone, la maggior parte di africani (dai cinquanta ai cento milioni di persone) che lo usa non lo associa ad alcuna etnia. In questo modo non sembra garantire nessun privilegio a un solo gruppo. Invece si fa fatica a considerare il twi lingua nazionale (benché sia la lingua madre più diffusa in Ghana), poiché per molti ghanesi era la lingua dei re ashanti, che furono i dominatori incontrastati prima dell’arrivo degli inglesi.

In ragione di queste diversità i ghanesi – come i singaporiani – sono perfettamente coscienti di non essere un popolo nell’accezione del romantico Herder, con un’unica storia e cultura, un solo, unificante Volksgeist. Ma questa condizione non impedisce loro di considerarsi ghanesi in occasione delle elezioni, oppure quando seguono le Olimpiadi o la Coppa del mondo di calcio, o quando viaggiano o si trasferiscono all’estero. (I ghanesi vivono sparsi su tutto il globo: ce ne sono centinaia di migliaia in Nigeria, quasi centomila negli Stati Uniti e nel Regno Unito, alcune migliaia in Olanda, Sudafrica e moltissimi altri paesi.) Non bisogna essere per forza ashanti per essere fieri dell’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan, o fante per compiacersi dei romanzi di Ama Ata Aidoo. Il kente, il tessuto di seta dei re ashanti, originariamente prodotto nella città di Bonwire, vicino a Kumasi, è sfoggiato con orgoglio da tutti i ghanesi in giro per il mondo. E così, lentamente, anche i ghanesi stanno diventando un popolo, riunitosi insieme da pochi decenni, proprio come gli scozzesi lo sono stati per secoli, vivendo sotto un unico governo. È questo il processo che conta.

Per mio padre, dunque, la coscienza nazionale non era un minerale da estrarre, come la bauxite, ma una stoffa da tessere, come, ma sì!, il kente. Sarebbe stato d’accordo con l’osservazione di Svevo/Zeno che “inventare è una creazione, non già una menzogna”.30L’identità nazionale non richiede di essere già tutti uguali in partenza. Eppure per essere governati i cittadini devono avere delle lingue in comune. Nel definire l’educazione nazionale lo stato decide quali lingue debbano essere insegnate, e quali no. Sarebbe bello se a scuola, durante le ore di storia, si spiegasse perché quel popolo si è costituito in quello stato; e un governo, che ha a cuore il benessere collettivo dei suoi cittadini, apprezzerebbe un tale genere di storia. Con una popolazione eterogenea, dove traspaiono in filigrana storie e tradizioni locali potenzialmente divisive, sarebbe necessario sorvolare con estrema cautela sulle posizioni conflittuali che si ammantano di verità. Del resto già nel 1882 lo storico e patriota francese di orientamento conservatore Ernest Renan annotò: “L’oblio, e dirò persino l’errore storico, costituiscono un fattore essenziale nella creazione di una nazione”.31

Riconosciamo che le nazioni sono frutto d’invenzione e ci accorgeremo che esse vengono reinventate di continuo. Un tempo, per essere inglese, i tuoi antenati dovevano essere registrati da almeno mille anni nel Domesday Book, il celebre libro del catasto creato da Guglielmo I il Conquistatore. Adesso un Rohit, un Pavel, un Muhammad o un Kwame possono essere inglesi. Un tempo era la Chiesa anglicana a definire l’“inglesità”; oggi un’infinità di religioni trovano accoglienza nella nazionale di cricket. Oggi, uno scozzese dalla pelle scura, il cui nonno veniva da Mumbai, può essere fiero dell’Illuminismo scozzese o emozionarsi al racconto della battaglia per l’indipendenza di Bannockburn.

Ma, come ricordava Renan, nella creazione di una nazione, oltre alle storie condivise, ciò che conta davvero è “il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme”. Ecco perché, prosegue lo storico francese, l’esistenza di una nazione “è (mi si perdoni la metafora) un plebiscito di tutti i giorni”.32Ciò che ci rende un popolo, in ultima istanza, è la decisione di condurre una vita insieme.

Difficoltà democratiche

La sfida che si prospetta per le democrazie liberali è esaltante. Gli stati liberali alimentano una sorta di credo laico che li fa sentire potenti e, al contempo, agili: abbastanza potenti da prendere in considerazione l’idea di cittadinanza, abbastanza agili da condividere con i cittadini diverse religioni e appartenenze etniche. Lo stato romantico era orgoglioso di essere l’emanazione diretta di un unico Volk e della sua coscienza primordiale; lo stato liberale deve cavarsela con un atteggiamento meno liturgico e misticheggiante. Se lo stato romantico poteva identificarsi in toto con la Volontà generale, lo stato liberale deve accontentarsi di una Volontà generica. Se lo stato romantico chiama a raccolta i suoi cittadini al grido altisonante e unificante “Un popolo!”, l’inno dello stato liberale suona piuttosto: “Insieme possiamo farcela”.

Ecco, insieme è una parola che torna sovente. Da tempo in America si sa ciò che molti in Europa sono arrivati a capire: si può stare insieme anche senza una religione in comune e persino senza gli inganni di una discendenza condivisa! Nel secondo decennio del ventunesimo secolo molti movimenti indipendentisti sono prepotentemente emersi nel vecchio continente, dalla Scozia alla Catalogna. Nemmeno la logica dell’integrità territoriale o quella della sovranità nazionale possono risolvere questioni così delicate. Ma non bisogna affrontare questi problemi nei termini dell’antico spirito del Volk: per ogni nazione moderna vale l’assunto che l’unità politica non è mai garantita da una preesistente comunità nazionale. Ciò che tiene insieme i cittadini è l’impegno, attraverso il plebiscito quotidiano di Renan, di condividere la vita di uno stato moderno, unito da istituzioni, procedure e ordinamenti in comune.

Mio padre, che come sottotitolo alle proprie memorie scelse Autobiografia di un patriota africano, amava festeggiare la Burns Night. Però, anche dopo una serata alcolica, dove il whiskey era corso a fiumi, non si illudeva di essere scozzese. Ammirava i nobili principi del poeta, insieme alla sua arte. Tutto qui. Perché quando Burns immagina che Robert Bruce, il mitico primo re degli scozzesi, invochi la fedeltà dei suoi seguaci, non lo fa in nome di una presunta identità scozzese, ma in nome della libertà:

Chi, per il re e la legge di Scozia, brandirà
Con forza la spada della libertà
Da uomo libero vivrà o cadrà,
Orsù, mi segua!33

Per quanto ardente fosse il sentimento di amor patrio, Burns comprese che la Scozia non era un destino, ma un progetto.

Mentre una nuova pericolosa ondata di nazionalismo di destra attraversa l’Europa, non possiamo non pensare a quanto possa apparire fragile il pluralismo. Di questa fragilità Italo Svevo ebbe sempre un’acuta percezione, come pochi altri, lui che durante la Prima guerra mondiale era stato sottoposto più volte a interrogatori dalle autorità austriache e più tardi si era ritrovato invischiato nelle politiche fasciste di italianizzazione.34 Come Zeno Cosini, la sua più grande creazione, Svevo era l’uomo più felice al mondo quando passeggiava nei diversi quartieri di Trieste; con la sua profonda ironia, cercò di essere una specie di ebreo, una specie di tedesco e infine una specie di italiano. Per Svevo, che in fondo era un uomo senza patria o cause per cui battersi, la vita era una danza di ambiguità. E quando dopo la sua morte il fascismo sconvolse l’Europa, la sua famiglia dovette scontrarsi con forze che detestavano l’ambiguità e veneravano la certezza assoluta – sua moglie Livia, cattolica, fu costretta a registrarsi come ebrea, i suoi nipoti vennero fucilati come partigiani o morirono nei campi di sterminio.

Eppure, nel canone della nostra cultura, Italo Svevo è ancora con noi. Certo, quella modernità tollerante, pluralista, piena di dubbi e domande, cosmopolita, incarnata dallo scrittore triestino, è oggi sotto attacco. Chi sostiene la pluralità sarà sempre guardato con diffidenza dai fanatici pretoriani del nativismo. Ma abbracciare la complessità che ci offre Svevo significa capire che non esiste alcuna scelta forzata tra globalismo e patriottismo, e che noi non dobbiamo accettare questa semplificazione. Le strutture che creiamo funzionano di gran lunga meglio quando affrontano la sfaccettata realtà delle nostre differenze.

QUATTRO 

Colore

C’è chi guarda la nostra razza scura con orrore.
“Diabolico è il loro colore.”
Ricordate, cristiani: i negri, più di Caino brutti, posson migliorare e unirsi agli angelici putti.
PHILLISWHEATLEY, Sull’essere portata dall’Africa in America (1773)

 L’esperimento

Nel 1707 un bambino di non più di cinque anni lasciò Axim, sulla Costa d’Oro in Africa, alla volta di Amsterdam, a bordo di una nave della Compagnia olandese delle Indie occidentali. A quei tempi per raggiungere l’Europa ci volevano molte settimane, ma l’approdo al porto olandese non fu la fine di quel lungo viaggio. Il bambino dovette percorrere ancora alcune centinaia di chilometri fino a Wolfenbüttel, dove abitava un grande sostenitore dell’Illuminismo, il duca di Brunswick-Wolfenbüttel Anton Ulrich. Per dire, il suo bibliotecario era Gottfried Leibniz, uno dei più importanti filosofi e matematici dell’epoca, inventore, insieme a Isaac Newton, del calcolo infinitesimale; la biblioteca ducale di Wolfenbüttel ospitava una delle più cospicue collezioni di libri al mondo.

Il bambino era stato mandato al duca come “dono”, e il duca, a sua volta, lo affidò al figlio, August Wilhelm; e noi abbiamo sentito parlare di lui per la prima volta come membro della famiglia di August Wilhelm. Dal battesimo fino al 1735 il bambino crebbe sotto la protezione dei duchi di Brunswick-Wolfenbüttel (nel frattempo ad Anton Ulrich era succeduto August Wilhelm, e dopo sarebbe toccato al fratello Ludwig Rudolf). E da bambino dovette senz’altro incontrare Leibniz che, come abbiamo detto, viveva presso i duchi.

Non sappiamo quale fosse la condizione del bambino africano: era stato catturato come schiavo? Era stato mandato in Europa dai missionari per ricevere un’educazione cristiana? Quello che sappiamo è che Anton Ulrich mostrò un grande interesse, occupandosi della sua formazione, dandogli in occasione del battesimo il suo nome cristiano e quello del figlio: così il giovane venne conosciuto come Anton Wilhelm. I duchi avevano colto l’occasione del dono di un bambino africano per condurre uno di quei famosi esperimenti illuministici, che aveva l’obiettivo di stabilire se un selvaggio poteva accogliere e assorbire una moderna scolarizzazione. Forse la famiglia ducale era al corrente di un esperimento analogo iniziato alcuni anni prima dallo zar Pietro il Grande che adottò uno schiavo africano come figlioccio con il nome di Gannibal, o Hannibal. Il giovane diventò un valoroso generale russo e fu il bisnonno di Aleksandr Puškin, il fondatore della letteratura russa moderna. (Non solo: Puškin scrisse, senza mai terminarlo, un romanzo dal titolo Il moro di Pietro il Grande, ispirato a quella vicenda.)

Non sappiamo quando Anton Wilhelm iniziò a usare il suo nome nzema, Amo. Alla cresima gli archivi ecclesiastici di Wolfenbüttel lo registrano come Anton Wilhelm Rudolph Mohr – Mohr in tedesco significa “moro”. Ma più tardi l’uomo si fece chiamare spesso Anton Wilhelm Amo Afer, quest’ultima parola vuol dire africano in latino, che era la lingua usata a scuola. Dunque voleva essere conosciuto come Amo l’africano.

L’esperimento dovette essere un successo. La nostra conoscenza dei suoi primi anni di istruzione è molto parziale, ma Amo, in quanto figlioccio del duca, forse venne istruito alla Wolfenbüttel Ritter-Akademie, insieme ai figli dell’aristocrazia locale (Ritter in tedesco significa cavaliere). Sappiamo certamente che frequentò la vicina università di Helmstedt, fondata più di un secolo prima da un antenato del duca. Dovette conseguire degli ottimi risultati, perché nel 1727 acquisì il diritto di proseguire a studiare legge ad Halle, allora – come oggi – una delle più prestigiose università del paese.

Halle non era sotto il ducato, ma apparteneva allo stato del Brandeburgo, governato all’epoca dal re prussiano. Amo si laureò ad Halle – con una tesi sulla legislatura europea della schiavitù – e poi andò a studiare a Wittenberg, dove un giovane Martin Lutero aveva insegnato teologia, diventando il primo africano nero a conseguire un dottorato europeo in filosofia. Wittenberg si trovava sotto il governo dell’Elettore di Sassonia, che presto divenne anche re di Polonia. Oltre al diritto e alla filosofia, Amo studiò anche medicina e astronomia. Quando l’Elettore venne in visita all’università, Amo venne scelto per guidare la parata degli studenti. La sua tesi, pubblicata nel 1734 con il titolo di De humanae mentis apatheia(Sull’apatia della mente umana), avanzava critiche significative alla teoria della percezione di Cartesio.

Amo, che conosceva l’olandese, il tedesco, il francese, il latino, il greco, l’ebraico antico, e forse l’inglese, insegnò ad Halle e Jena, e nel 1738 pubblicò un trattato intitolato De arte sobrie et accurate philosophandi (Sull’arte di fare filosofia con sobrietà e accuratezza), in cui affrontava svariati temi in quasi ogni campo filosofico. Aveva molti illustri ammiratori. Il grande medico e filosofo Martin Gotthelf Löscher, che discusse la tesi presentata all’università di Wittenberg, definì la Costa d’Oro “madre […] di menti feconde” e aggiunse:

Tra queste menti feconde, la sua spicca in special modo, mio nobilissimo e illustrissimo signore, avendo dato eccelsa prova di felicità e superiorità di genio, solidità e raffinatezza di apprendimento e insegnamento, in innumerevoli esempi precedenti, e adesso anche nella nostra università, con grandi onori in ogni materia degna di nota, e ora con la sua tesi.1

Abbiamo detto che l’educazione di Amo fu un esperimento. Ma dobbiamo esaminare con attenzione quali ipotesi volesse verificare un tale esperimento. Come abbiamo visto, Amo viene indicato come “moro” negli archivi ecclesiastici, e lui stesso si definiva “afer”, africano. Il trattato sulle leggi inerenti alla schiavitù si intitolava De iure maurorum (Sulla legge dei mori). Alla voce “Moro” la più autorevole enciclopedia tedesca dell’epoca, la Zedler, considera la parola di origine etiope o abissina, ma prosegue: “questo nome viene dato a tutti i negri e a tutti i popoli africani di quel colore”.2 Nel latino classico “afer” si riferiva al popolo degli afri che viveva nell’antica Cartagine. Ma gradualmente indicò una persona proveniente dalle colonie africane di Roma, e infine chiunque fosse originario di quel continente. Però è chiaro che il colore scuro della pelle richiamava, nella mente dei tedeschi dell’epoca, non solo tutte le persone nere, ma anche gli abitanti dell’Africa. Anche loro, come noi, sapevano però che non si trattava della stessa cosa.

Quando il rettore di Wittenberg, Johann Gottfried Kraus, si complimentò con Amo per l’efficace difesa delle sue argomentazioni, partì dal suo background africano, citando alcuni dei più importanti scrittori africani dell’antichità, tra cui il commediografo Terenzio – che, come Amo, si fregiava dell’appellativo di Afer –, Tertulliano e sant’Agostino, oltre a molti altri Padri della Chiesa nativi dell’Africa del Nord. Ricordò i mori che conquistarono la Spagna. Tutte queste persone, come senz’altro Kraus sapeva, erano di origine berbera, fenicia o romana. Nessuno di loro però aveva la pelle scura o i capelli ricci come Amo. Quando Martin Lutero viveva a Wittenberg, abitava in un monastero di agostiniani, ma non c’era nessuna rappresentazione che raffigurasse sant’Agostino con fattezze nere.

Così, se i duchi protettori di Amo si fossero interrogati sulla possibilità che un africano diventasse un grande filosofo, avrebbero scoperto che erano già esistite personalità come Terenzio, Tertulliano e sant’Agostino che avevano reso possibile tutto ciò. Però forse a loro, più che gli africani, interessavano i cosiddetti “negri”. Ma quale lezione si poteva trarre da un singolo esperimento con un nero? Il duca Anton Ulrich e i suoi amici avrebbero concluso che qualunque bambino nero preso a caso, una volta ricevuta l’educazione di Amo, sarebbe potuto diventare un filosofo? E se Amo non avesse superato gli esami, si sarebbe concluso che quell’incapacità valeva per tutti i neri?

Nascita della razza

Tre secoli dopo consideriamo la storia di Amo alla luce dell’idea moderna di razza. Ai tempi di Amo la situazione era completamente diversa. All’epoca tutti erano convinti che quelli che ho chiamato “popoli”, gruppi di esseri umani definiti da una discendenza comune, reale o immaginaria, esistessero fin dall’inizio dei tempi. Ma l’idea che ogni popolo condividesse una comune natura biologica ereditata non era così diffusa. In primo luogo, la maggior parte delle persone credeva ancora nella veridicità della storia biblica della creazione, il che implicava, da una parte, che ogni uomo discendesse da Adamo ed Eva, e dall’altra che provenisse anche da uno dei figli di Noè, la cui famiglia era stata l’unica a salvarsi dal Diluvio universale. In secondo luogo, il concetto di una distinzione tra elementi biologici e non negli esseri umani era di là da venire. Quando Leibniz si occupò dei fattori che distinguevano un popolo da un altro, pensava al linguaggio. (Proprio per questo motivo dedicò molta della sua vita a ricercare informazioni sulle lingue dei vari popoli d’Europa e Asia.) E se leggiamo i resoconti sulle differenze dei diversi popoli negli scritti dei viaggiatori europei e dei filosofi, scopriamo che il grande dibattito verteva sul ruolo del clima e della geografia nel modellare il colore e le usanze, e non si discuteva per nulla dell’ereditarietà delle caratteristiche fisiche.

Non ci dobbiamo stupire. La parola “biologia” è stata coniata soltanto agli inizi dell’Ottocento – in Germania. Fino a quel momento la discussione sulla natura degli esseri viventi rientrava sotto la categoria “Storia naturale”. Soltanto con il naturalista svedese Carlo Linneo, contemporaneo di Amo, gli studiosi iniziarono a pensare agli uomini come parte della natura, nel senso che possiamo essere classificati, esattamente come gli altri animali e piante, per genere e specie. Linneo, il padre della moderna tassonomia, fu il primo a classificarci come Homo sapiens, e ci collocò nell’ordine naturale accanto a scimmie e scimpanzé. Come scrisse a un amico: “Chiedo a te e a tutto il mondo qual è la differenza di genere tra un uomo e una scimmia in base ai principi della storia naturale. Io so per certo che non esiste”.3

Negli anni in cui Amo visse in Europa, nacque un dibattito tra la vecchia idea biblica della natura umana e una nuova sviluppata dal crescente prestigio delle scienze applicate all’uomo. Ai tempi di Amo quasi tutti erano convinti che, poiché gli uomini discendevano dai figli di Noè, i vari popoli erano diversi in quanto discendenti di Sem, Cam o Jafet. Questa divisione di base era triplice: i semiti, come gli ebrei, gli arabi e gli assiri; le popolazioni dalla pelle scura dell’Africa, compresi egizi ed etiopi; infine, le genti di pelle più chiara dell’Europa e dell’Asia, come i greci, i medi e i persiani. Da qui le tre razze: semiti, neri e bianchi.4

Ma i viaggi degli scienziati ed esploratori europei contribuirono ad aumentare la conoscenza delle varie tipologie di esseri umani, insieme a quella di altri primati. Divenne sempre più difficile inserire ogni tipo umano in quella cornice. Tanto per cominciare dall’elenco biblico mancavano gli orientali, come cinesi e giapponesi, o gli amerindi. Qualche filosofo iniziò anche a domandarsi se gli uomini discendevano tutti direttamente da Adamo. Durante il diciannovesimo secolo nel corso di un dibattito concitato emersero soprattutto tre idee. Idee che rendevano molto complicata l’adesione all’originario quadro biblico.

La triade razziale

Molte caratteristiche dei singoli esseri umani si potevano spiegare come un prodotto della loro razza. Le persone venivano assegnate alla razza nera sulla base del colore della pelle e dei capelli, le labbra carnose e i nasi larghi. Ma queste differenze visibili, benché importanti per la classificazione, erano soltanto l’inizio di un catalogo di differenze più profonde. (Si avvertirà l’eco dell’essenzialismo analizzato nel primo capitolo.) Arthur de Gobineau, un conte francese che a metà del diciannovesimo secolo pubblicò il mastodontico Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, espose le differenze di attitudini e predisposizioni sottese alle diversità morfologiche, distinguendo non soltanto tra bianchi, neri e gialli, ma individuando all’interno della razza bianca una famiglia particolarmente privilegiata, quella “ariana”. Per Gobineau la razza era un leitmotiv della storia. Altri teorici produssero mappature razziali che mutavano nei dettagli, ma l’idea essenziale – cioè che la razza fosse il fattore distintivo degli esseri umani – era ampiamente diffusa.

Potremmo chiamare questa idea “fissazione razziale”: nella seconda metà del diciannovesimo secolo era diffusissima in tutto l’Atlantico del Nord. Non si trovava soltanto tra i medici come Josiah Nott, il cui libro Types of Mankind (Tipi di umanità), scritto insieme all’egittologo George Gliddon, diventò la bibbia delle gerarchie razziali per i proprietari di piantagioni degli Stati Uniti del Sud. Critici letterari come Matthew Arnold in Inghilterra o Hippolyte Taine in Francia illustravano le opere di poeti e romanzieri parlando del carattere innato della razza cui appartenevano. “Oggi la scienza ha reso visibile a chiunque i grandi e significativi elementi di differenza presenti nella razza,” scrive Arnold intorno al 1860. I fisiologi possono contribuire alla comprensione della natura delle razze catalogando le varie differenze fisiche, prosegue Arnold, ma il critico letterario deve considerare “i dati […] forniti dalla nostra letteratura, dal genio e dalla produzione spirituale nel complesso”.5Perché ogni razza ha un “genio” specifico, uno spirito che si rivela nella letteratura. La citazione si riferisce alla razza celtica, ad esempio, che comprende i popoli del Galles, dell’Irlanda, della Scozia e di parti della Francia: “Il genio celtico [ha] il sentimento come base principale, tra i pregi ci sono l’amore per la bellezza, l’eleganza e la spiritualità, tra i difetti una certa arrendevolezza e un’eccessiva caparbietà”.6 E questi elementi vengono colti dal critico nelle rispettive tradizioni letterarie.

Scrive un decennio più tardi Taine:

Una razza, come quella degli antichi ariani, disseminata dal Gange fino alle isole Ebridi, insediata in ogni clima e in ogni fase di civilizzazione, plasmata da trenta secoli di rivoluzioni, nondimeno manifesta nelle sue lingue, religioni, letterature, filosofie, la comunanza di sangue e intelletto che tiene insieme ancora oggi le varie ramificazioni.7

Come per Arnold, anche per Taine la storia della letteratura è parte dello studio scientifico della razza. Ai suoi tempi il francese apparteneva alla ristretta cerchia degli storici e critici più influenti d’Europa – il tempestoso filosofo tedesco Friedrich Nietzsche lo chiamò “il primo degli storici viventi”.8 Matthew Arnold invece era il più importante critico letterario inglese della seconda metà del diciannovesimo secolo. A quei tempi, dunque, la razza era una preoccupazione al centro non solo delle scienze sociali e biologiche, ma anche della storia e della critica letteraria.

Dalla “fissazione razziale” germinò una seconda idea forte negli anni successivi alla venuta di Amo in Europa. Se il carattere individuale – non soltanto il corpo, ma anche il temperamento, le abitudini, la sensibilità artistica – è plasmato in modo determinante dalla razza, allora la natura specifica di una razza si può cogliere in ogni suo membro. Ciascuno di noi non solo appartiene a una razza, ma ne esprime la natura intrinseca. Dunque, ogni membro di un gruppo ne è il tipico rappresentante.

Questa forma di convinzione, che potremmo definire “pensiero tipologico”, fece in particolare di Amo un esempio cruciale nel dibattito sulla capacità dei “negri” di partecipare all’Illuminismo e non solo. L’esistenza di Amo dimostrava qualcosa che riguardava non un singolo individuo, ma tutti i “negri”, e cioè che, nonostante un apparente background sfavorevole, la loro razza era in grado di raggiungere i più alti risultati filosofici.

Nel 1808 l’abbé Grégoire, il rivoluzionario sacerdote francese antischiavista, pubblicò un’indagine sulle conquiste culturali conseguite dai neri (De la littérature des nègres). Come sottotitolo mise “Ricerche sulle loro facoltà intellettuali, le loro qualità morali e la loro letteratura”, e indicò in Amo la prova dell’unità della razza umana e della fondamentale uguaglianza dei neri. Nelle Note sullo stato della Virginia (1785) Thomas Jefferson aveva osservato di non aver mai sentito un nero esprimere un pensiero che andasse “al di là del semplice racconto”.9 L’abbé Grégoire inviò una copia della sua opera a Jefferson, compresa la dettagliata descrizione della vita e delle opere di Amo, invitando il politico americano a rivedere la propria posizione.

Amo non era l’unico controesempio alla visione oscurantista di chi la pensava come Jefferson. Grégoire citava anche Angelo Soliman, un altro schiavo dell’Africa dell’Ovest, catturato da bambino e poi istruito da una marchesa di Messina, divenuto precettore a Vienna dell’erede del principe di Liechtenstein, e affiliato alla stessa loggia massonica di Mozart qualche decennio dopo l’ascesa di Amo. Soliman era famoso perché passeggiava per la città a braccetto con l’imperatore.10 L’abbé menzionava anche la storia di Juan Latino, il poeta e professore di grammatica latina nella Granada del sedicesimo secolo: compare come “El negro Juan Latino” nella prima delle poesie burlesche scritte da Cervantes all’inizio di Don Chisciotte. Viene menzionato perché possiede “il dono delle lingue” e sa scrivere in latino, a differenza di Cervantes che compone in spagnolo.

Leggendo De la littérature des nègres Jefferson si sarebbe ricordato anche della sua connazionale Phillis Wheatley, che nel 1773 pubblicò la prima raccolta di poesie scritte da un afroamericano. Dopo aver ricevuto una copia della poesia patriottica Sua eccellenza George Washington, il futuro primo presidente americano definì la donna “favorita delle Muse”.11Tutte queste vite, molto diverse l’una dall’altra, sono però accomunate da una domanda: “Quali sono le capacità intellettuali dei neri?”.

Oltre alla fissazione razziale e al pensiero tipologico, esiste un terzo abito mentale: ancora una volta ci troviamo di fronte al nostro naturale essenzialismo, calato nel cuore di una teoria scientifica. Dalla fine del diciottesimo secolo si era sempre più diffusa la convinzione che ognuno di noi portasse in sé qualcosa proveniente dalla razza di appartenenza che spiegava le nostre potenzialità fisiche e mentali. Questa “essenza razziale” veniva ereditata per via biologica e trasmessa attraverso la procreazione. Se i genitori erano della stessa razza, si acquisiva la loro essenza comune. Se persone di razze diverse si sposavano, i loro figli possedevano qualcosa dell’essenza razziale di ognuno dei genitori.

Naturalmente l’esistenza di questa caratteristica connaturata non avrebbe spiegato a tutti i costi la propensione di Amo per la filosofia; del resto nessuno si sognava di pensare che, poiché Platone e Cartesio erano europei, ogni europeo fosse in grado di comporre geniali opere filosofiche. Ma la centralità di Amo nelle argomentazioni dell’abbé Grégoire derivava soprattutto dal fatto che, secondo molti, l’essenza razziale dei neri non prevedeva alcuna capacità intellettuale. In una postilla del 1753 il grande filosofo David Hume, uno dei fari dell’Illuminismo scozzese, sentenziò: “Non è mai esistita nessuna civiltà di altro colore che non fosse bianco, né alcun individuo eminente per azione o speculazione che non fosse di quella carnagione”. Dunque, nessun impero mali, nessuna filosofia cinese, nessuna grandiosa architettura dell’impero moghul…

Nel 1764 il più influente filosofo europeo del diciottesimo secolo, Immanuel Kant, dichiarò – in un momento non particolarmente ispirato – che essere nero “dalla testa ai piedi” era “una ragione sufficiente per affermare che ciò che sosteneva era sciocco”.12 L’esistenza di Amo negava recisamente quella posizione, ma gli scettici insistevano che si trattava di una singolare eccezione. L’abbé Grégoire non raccolse soltanto decine di illuminanti controesempi, ma riferì di una visita a un gruppo di bambini neri della Sierra Leone, istruiti in una scuola di Londra fondata da William Wilberforce, il celebre antischiavista inglese profondamente religioso, e concluse che, da quanto poteva constatare, “non esiste alcuna differenza se non quella del colore”.13

Razionalità della razza

Sullo sfondo del dibattito intorno alle capacità dei “negri” c’era l’esplosione della schiavitù africana nelle nuove colonie europee delle Americhe. Negli anni trascorsi da Amo in Germania, il commercio transatlantico di schiavi raggiunse il picco verso la fine del secolo, quando circa ottantamila persone all’anno venivano portate in ceppi dall’Africa al Nuovo Mondo. Secondo molti storici un motivo dell’opinione sempre più negativa nei confronti dei neri in quegli anni era dovuto alla necessità di salvaguardare le coscienze di chi trafficava e sfruttava gli schiavi. Come disse l’abbé Grégoire, in modo tetro ma chiaro: “Hanno calunniato i negri innanzitutto per ottenere il diritto di schiavizzarli, e poi per giustificare il fatto stesso di averlo fatto”.14

Insomma, molti in Europa avevano bisogno di credere che la sottomissione dei neri si spiegasse alla luce della loro naturale inferiorità. Questa argomentazione – che alcune persone sono per natura schiavi – ha una lunga tradizione classica, che risale ad Aristotele. Come all’epoca del filosofo greco, l’idea si basava sulla constatazione degli scarsi risultati ottenuti dagli schiavi. Ma, insistevano l’abbé Grégoire e altri, non si poteva dire molto delle capacità dei neri limitandosi a osservare quelli che vivevano nelle durissime condizioni di schiavitù cui erano piegati. Chissà cosa sarebbe successo se avessero avuto la stessa educazione di Anton Wilhelm Amo? (O, viceversa, se Amo fosse stato mandato, come il fratello, a lavorare da schiavo nei campi di canna da zucchero del Suriname?)

Vale la pena sottolineare che la scoperta di un’eventuale predisposizione alla filosofia di più di un nero era una spina nel fianco alla giustificazione della schiavitù. Come ammise Thomas Jefferson rispondendo al sacerdote rivoluzionario: “Poiché sir Isaac Newton aveva un’intelligenza superiore a quella degli altri, non per questo signoreggiava sulla persona o la proprietà altrui”.15 Il disprezzo per i “negri” poteva aver salvato qualche coscienza cristiana, ma non poteva giustificare i crimini compiuti a danno di milioni di neri.

Eppure l’ideologia, espressa sotto forme di dominazione che vanno dalla schiavitù al colonialismo, ci aiuta a spiegare perché gli scienziati, mentre abbandonavano nozioni medievali come il flogisto, per secoli ritenuto la componente principale del fuoco, si prodigavano in enormi sforzi per ribadire l’esistenza delle razze. C’erano gli antropologi fisici con i loro strumenti di misurazione del cranio (i cosiddetti craniometri); c’erano gli etnologi e i fisiologi che, ignorando Darwin, sostenevano concetti come la degenerazione della razza e l’origine separata, “poligenica” delle varie razze. Vennero chiamate in causa illustri discipline per rendere conto della questione del colore. Fu così che nel corso del diciannovesimo secolo, in una babele di argomentazioni pro e contro, la nozione moderna di razza si diffuse.

Mendelismo

La teoria dell’essenza razziale si sviluppò prima della genetica moderna. Nel 1866 un monaco ceco di nome Gregor Mendel pubblicò un saggio in cui sosteneva che determinati elementi, che oggi chiamiamo geni, spiegavano i fattori relativi all’ereditarietà dei caratteri nei vari organismi.16 Per oltre trent’anni non si capì il valore di quel contributo. La moderna teoria genetica, che considera la nostra eredità biologica frutto di decine di migliaia di fattori individuali, iniziò soltanto ai primi del Novecento.

Una volta accolti i principi mendeliani, si profilava un’alternativa forte all’idea di un’essenza razziale. Non c’era bisogno di qualcosa di individuale e innato che spiegasse perché i neri erano neri, o i caucasici caucasici. L’aspetto comune era il risultato della condivisione di geni specifici, e quei geni non svolgevano un ruolo determinante nel decidere i gusti in fatto di poesia o le varie opinioni. I pregiudizi che trovarono espressione in Arnold e Taine non avevano più un fondamento scientifico. Non c’era più una teoria a sostegno della “fissazione” razziale.

Secondo le vecchie teorie, se si diceva che i neri avevano ritmo, si affermava che un senso del ritmo faceva parte dell’essenza nera. Alla luce dei nuovi contributi scientifici, se i neri amavano la musica, poteva dipendere dal fatto che provenivano da luoghi dove veniva insegnata – un ambiente condiviso, dunque – oppure dal fatto che, oltre ai geni del colore della pelle e dei capelli, possedevano quelli del ritmo. Quando nei primi anni del ventesimo secolo vennero scoperti i cromosomi, si capì che i geni venivano ereditati perlopiù indipendentemente gli uni dagli altri, e persino quelli di uno stesso cromosoma potevano trovarsi separati nelle divisioni cellulari che precedono la creazione degli spermatozoi e delle cellule uovo.

Grazie alla moderna genetica un altro elemento diventò chiaro. Qualunque sia la razza, tutti gli esseri umani normali condividono l’enorme mole di materiale genetico. Naturalmente si è scoperto che condividiamo una significativa percentuale del genoma con i nostri cugini primati, anche se siamo gli unici, tra le grandi scimmie, a possedere ventitré paia di cromosomi. Il dato più importante era che la varietà delle popolazioni non corrispondeva alle vecchie categorie razziali. Altrettanto rilevante era la varietà all’interno delle popolazioni di Asia, Europa e Africa. Il 90 percento dell’intera gamma genetica esistente al mondo è presente in ogni gruppo cosiddetto razziale. Prendiamo due esseri umani scelti a caso: l’origine continentale della maggior parte dei loro antenati svolge un ruolo relativamente marginale nella spiegazione delle differenze genetiche.

Tutti e tre gli elementi dell’antica teoria si sono dimostrati fallaci: la fissazione razziale e il pensiero tipologico avevano senso soltanto in presenza di un’essenza razziale, ma dato che essa non esiste, ogni essere umano è un insieme di caratteristiche e bisogna eventualmente trovare altri motivi per supporre che Anton Wilhelm Amo, africano, fornisca dati significativi su un altro africano più di quanto non possa fare un bianco, con cui condivide la maggior parte dei geni.

Analizzando attentamente i geni di una persona si può dire se ha recenti antenati africani, asiatici o europei, e sarà abbastanza naturale scoprire che molti di essi provengono da due o tre continenti. (Proprio come la mia famiglia, per fare un esempio di cui ho parlato.) Ma questo succede perché ci sono svariati tipi di geni nelle popolazioni – un fatto che riguarda i gruppi – e non perché esistono specifici geni condivisi dai membri di una stessa razza – che sarebbe un fatto relativo a singoli individui. Alcuni geni che segnano la mia eredità ashanti sono diversi da quelli che identificano altre persone di recente discendenza africana. E moltissime persone al mondo vivono al confine tra più razze (così come venivano immaginate dalla scienza del diciannovesimo secolo): al confine tra neri africani e caucasici europei ci sono gli etiopi, gli arabi e i berberi; a metà strada fra le razze gialle dell’Asia dell’Est e i bianchi europei si trovano i popoli dell’Asia centrale e meridionale. Dov’è in India il confine netto tra bianchi, neri e meticci?

Dall’inizio del nuovo secolo abbiamo fatto incredibili passi avanti nella comprensione del genoma umano: sofisticati metodi statistici permettono di ricostruire le vie percorse – o meno – dai geni nel corso dei secoli. In questo modo, attraverso l’esame del materiale genetico, siamo in grado di individuare numerosi punti di contatto che consentono di raccogliere le popolazioni in gruppi che a loro volta sfumano in altri gruppi. Poiché i confini non sono netti, in alcuni casi vengono messi in relazione due gruppi che risulterebbero distinti se venisse adottato un altro approccio. Secondo alcuni biologi è ragionevole preferire dei raggruppamenti ad altri, in quanto sono in grado di distribuire il maggior numero di persone in pochi gruppi, individuando le caratteristiche più diffuse del vasto panorama statistico offerto dalla varietà umana. Queste caratteristiche rispecchiano i modi in cui i gruppi umani si sono spostati negli ultimi centomila anni e i fattori che hanno selezionato e plasmato le popolazioni locali. Ciò che dal punto di vista biologico rende voi le persone che siete e me Anthony Appiah non può essere spiegato semplicemente rintracciando i rispettivi antenati; adesso entra in gioco la totalità del nostro patrimonio genetico: quali geni – nell’esigua percentuale del nostro genoma che varia in modo biologicamente significativo – in effetti possediamo. (È chiaro che contano anche quali microrganismi vivono in e con noi.) Nelle popolazioni vi sono determinate caratteristiche ricorrenti, ma alla fine ognuno di noi è un essere individuale. Sostenere che questi dati statistici spiegano le teorie razziali del diciannovesimo secolo sarebbe come dire che la relazione su base statistica tra il mese di nascita e la lunghezza della carriera nella National Hockey League (la lega professionista di hockey degli Stati Uniti e del Canada) conferma le previsioni degli oroscopi.17

È evidente che i geni fanno la differenza, insieme all’ambiente, nel determinare l’altezza o il colore della pelle. Certe persone hanno una maggiore sensibilità musicale o linguistica di altre, e senza ombra di dubbio parte della spiegazione si trova anche nei loro geni – oltre all’ambiente, come sempre. Ma questi geni non si ereditano in “pacchetti razziali”, e così, nonostante la nostra storia genetica sia di gran lunga più dettagliata oggi rispetto a un secolo fa, rimane in gioco un elemento fondamentale. Se vogliamo pensare a come l’eredità genetica condizioni le capacità umane, le tre razze stabilite nel diciannovesimo secolo – nera, caucasica e orientale – non ci sono di grande aiuto.

Più di tutto a noi interessa il fatto che le persone hanno connessioni che passano attraverso la lingua e la cultura, oltre che attraverso l’aspetto fisico. Del resto, come già sapeva Leibniz, la condivisione (o meno) di una lingua segna una profonda differenza nelle interazioni reciproche. Prendiamo il modo prevalente di classificare le persone in un numero limitato di gruppi sulla base delle somiglianze genetiche: in ciascuno di questi gruppi le lingue più diffuse al mondo – ad esempio, inglese, cinese, hindi – saranno parlate con uguale facilità e scorrevolezza; in ognuno di questi gruppi ci saranno cristiani, musulmani e buddisti; e anche, perché no?, filosofi e maniaci.

La moderna genetica ha fatto capire che la vecchia idea della razza fondeva (e confondeva) questioni biologiche e culturali: voleva spiegare ogni differenza tra i gruppi in termini di un’innata essenza razziale, trasmessa di generazione in generazione. Oggi invece è chiaro che uno dei tratti più caratteristici della nostra specie è che l’eredità è sia biologica sia culturale. Ogni generazione di esseri umani di una determinata società si può basare sugli insegnamenti di chi è venuto prima; al contrario, tra i nostri cugini appartenenti alle grandi scimmie, l’eredità culturale è minima e nella maggioranza degli altri organismi è praticamente pari a zero. Ciò che ci rende specie “sapiente” – sapiens, per usare il termine latino – è che grazie ai geni il nostro cervello assorbe cose che non si trovano nei nostri geni. La capacità di Amo di discutere la filosofia di Cartesio dipendeva dai suoi insegnanti europei, non soltanto dai suoi geni africani. Il prolungato periodo di dipendenza noto come infanzia è necessario perché per diventare un membro attivo della nostra specie bisogna avere il tempo sufficiente per assimilare ciò che ci rende umani.

Il colore della politica

Gli assunti razziali del diciannovesimo secolo non si limitavano a pretendere di essere scientifici: volevano anche essere morali. Le persone non appartenevano soltanto ai tipi previsti dalla natura; mostravano pure una naturale e lecita preferenza per la propria “razza” – cui, del resto, erano vincolati in modo speciale. Edward W. Blyden, uno dei fondatori del panafricanismo, nato ai Caraibi ma trasferitosi presto in Liberia, espresse benissimo questo pensiero condiviso universalmente: “Abbandonare il sentimento della razza,” scrisse su un quotidiano della Sierra Leone nel 1893, era come cercare di “liberarsi della forza di gravità”.18

In realtà, la storia del mondo ci dimostra che l’odio e la guerra sono diffusi sia tra le varie “razze” sia all’interno delle singole. Su vasta scala, conflitti tra bianchi europei, o tra neri africani, o ancora tra gialli asiatici erano molto più comuni, poiché là dove c’è contatto c’è conflitto. Non c’era nulla di razziale nelle guerre del quinto secolo a.C. che dilaniarono la Cina, nelle battaglie del sedicesimo secolo che portarono alla nascita dell’impero moghul, negli scontri tra ashanti e denkyira in Africa occidentale al volgere del diciottesimo secolo, o ancora tra i vari stati amerindi del Messico prima dell’arrivo degli spagnoli.

Eppure, questa dinamica, in cui l’idea della razza diventa la moneta corrente della negazione e dell’affermazione, del dominio e della resistenza, si rivela difficile da estirpare. È un fatto scoraggiante. Perché ormai sussistono ben pochi dubbi che l’idea di razza sia associata a nefasti disastri morali fin dagli albori. Non solo il pensiero razziale europeo ha consentito, almeno in parte, di razionalizzare la tratta atlantica degli schiavi, ma ha svolto un ruolo centrale – spesso pernicioso – nello sviluppo e nella pratica dei progetti coloniali europei del diciannovesimo e ventesimo secolo; e con i nazisti è stato fondamentale nell’organizzazione del genocidio di milioni e milioni di persone, ebrei e rom, considerati razza inferiore. Nei genocidi degli armeni, degli herero e dei ruandesi il linguaggio della razza ha ricoperto una funzione letale insieme al linguaggio della nazione. Difficile pensare alla razza senza menzionare il razzismo, una parola coniata – quasi tardivamente, si direbbe, vista la sua storia – non per evocare l’ostilità bianca nei confronti dei neri ma per descrivere l’antisemitismo dei nazionalsocialisti tedeschi.

Nel 1900, in un discorso “Alle nazioni del mondo” durante il primo congresso panafricano a Londra, l’eminente intellettuale nero W.E.B. Du Bois affermò che “il problema del ventesimo secolo” era “la linea del colore”, vale a dire la discriminazione razziale:

la domanda è fino a che punto le differenze di razza – che si mostrano principalmente nel colore della pelle e nella consistenza dei capelli – diventeranno in futuro la base per negare a più della metà del mondo il diritto di beneficiare delle opportunità e dei privilegi della moderna civilizzazione.19

Du Bois ricevette la migliore educazione che la civiltà del Nordamerica potesse offrire all’epoca. Frequentò un dottorato in Germania, ma tornò in patria senza averlo conseguito soltanto perché non poté soddisfare i requisiti richiesti per la residenza, e (quasi come premio di consolazione) ottenne, primo afroamericano, il dottorato all’università di Harvard nel 1895. Un anno prima del congresso di Londra pubblicò The Philadelphia Negro, il primo studio approfondito di carattere statistico e sociologico su una comunità americana: chiunque fosse intellettualmente onesto non poteva esimersi dal prendere sul serio quello scritto. Che ancora oggi è valido.

Non credo che sarebbe particolarmente proficuo interrogarsi in queste pagine su quale dei molti problemi che hanno funestato i terribili cento anni successivi alla dichiarazione di Du Bois possa essere annoverato come il problema del ventesimo secolo. Ma non si può negare che la razza, come aveva intuito Du Bois, era un nodo centrale nella vita morale e politica di quel secolo. Du Bois non era affatto provinciale nei suoi interessi o nelle sue analisi, e quando sosteneva che la razza era il problema del secolo, non si riferiva soltanto al suo paese né alla sua etnia. Giustamente parlava di “più della metà del mondo”: in quel discorso non si limitava ai “milioni di neri in Africa, America e nelle infinite isole del mare”, ma menzionava anche “le miriadi di meticci e gialli sparsi nel mondo”.20 Aveva ben presenti le modalità con cui operava l’idea di razza negli schemi coloniali europei che stavano ridefinendo l’Africa e l’Asia, e il ruolo decisivo nelle ingiustizie sociali negli Stati Uniti, come aveva sperimentato in prima persona.

Quando Du Bois interveniva a Londra, le conquiste coloniali europee in Africa erano ancora in corso. In Africa occidentale la presa definitiva di Kumasi, dove sono cresciuto, da parte degli inglesi avvenne appena qualche settimana dopo il congresso londinese, e il califfato di Sokoto, nella Nigeria del Nord, venne espugnato nel 1903. Se si sale a nord, il Marocco diventò un protettorato francese nel 1912, e l’Egitto passò agli inglesi nel 1914. Spostandosi a est, l’Etiopia rimase indipendente fino al 1936 (e tornò indipendente soltanto cinque anni più tardi). A sud, le guerre boere imperversavano ancora mentre Du Bois parlava. In tutti questi conflitti l’idea di razza svolse un ruolo decisivo, e dopo la Conferenza di Berlino del 1884-1885, che diede inizio alla cosiddetta “Corsa per l’Africa”, regolando l’intervento europeo nei territori africani, la condizione delle popolazioni sottomesse nelle colonie belghe, inglesi, francesi, spagnole e portoghesi fu definita in termini razziali.21

La voce del sangue

Du Bois non fu l’unico a cui sfuggì che la razza avrebbe avuto un ruolo disastroso anche nella storia dell’Europa a metà del ventesimo secolo; ma, profondo conoscitore della cultura tedesca di inizio secolo, era consapevole che l’atteggiamento nei confronti degli ebrei e degli slavi aveva forti analogie con il razzismo contro i neri diffuso in America. Nondimeno, la sua permanenza in Germania non lo lasciò del tutto immune dall’antisemitismo che si stava già diffondendo. Nel 1893, un anno dopo l’arrivo a Berlino, scriveva:

Va ricordato che i grandi capitalisti tedeschi, i padroni delle industrie sono ebrei; inoltre, uniti insieme dalle oppressioni subite nel passato, si aiutano gli uni con gli altri, e sostenuti dalle loro vaste ricchezze e dalle grandi capacità naturali, hanno conquistato cittadella dopo cittadella, fino a controllare oggi di fatto il mercato azionario, ad avere in mano la stampa, a occupare la magistratura e l’avvocatura, e tutte le professioni – insomma, sembra non ci sia fine alla crescita del loro potere. Tutto ciò, naturalmente, è una minaccia per questo paese da poco unificato.22

Quel “naturalmente” avrebbe ricevuto più di un mormorio di consenso in molte parti dell’Europa e degli Stati Uniti. In questa affermazione Du Bois dava conto non solo delle comuni lamentele dei nemici degli ebrei tedeschi, ma anche dell’idea che la nazione tedesca fosse la casa di una razza tedesca, una razza a cui gli ebrei di Germania, per quanto integrati, non appartenevano; e riflettendo in termini razziali, seguiva le teorie a cui abbiamo accennato. Queste convinzioni ebbero vita lunga per tutto il ventesimo secolo: durante la Seconda guerra mondiale, il medico di Winston Churchill annotò nel suo diario riguardo all’atteggiamento del primo ministro nei confronti della Cina: “Winston pensa soltanto al colore della loro pelle, e quando parla di indiani o cinesi ribadisce di essere un vittoriano”.23

Nonostante le giovanili rimasticature dei luoghi comuni antisemiti, Du Bois è stato per il resto della sua vita uno strenuo oppositore dell’antisemitismo e di ogni altra forma di razzismo. Nel 1936 visitò la Germania nazista per sei mesi – assistendo anche al Lohengrin di Wagner a Bayreuth – e una volta tornato in America scrisse con grande franchezza (in uno dei quotidiani di punta del movimento nero, il “Pittsburgh Courier”) che “in vita mia non ho mai visto una campagna di pregiudizio razziale così feroce, vendicativa e offensiva; e io di cose ne ho viste”. E proseguì, in netto contrasto con il tono conciliante del 1893: “Nei tempi moderni non c’è stata tragedia eguale per esiti nefasti alla lotta contro gli ebrei in Germania. Si tratta di un attacco a una civiltà equiparabile soltanto agli orrori dell’inquisizione spagnola e della tratta dei neri d’Africa”.24 E queste parole anticipano di più di cinque anni la creazione del primo Todeslager, come i nazisti chiamavano i campi specializzati nello sterminio di massa.

Tuttavia non furono i nazisti a inventare il moderno sterminio di massa per motivi razziali. Il primo genocidio del ventesimo secolo avvenne nella colonia tedesca dell’Africa del Sudovest, oggi Namibia. Nel 1904 il generale Lothar von Trotha emanò un ordine di sterminio noto come Vernichtungsbefehl, in cui si disponeva che gli herero dovessero lasciare le loro terre e che, in caso contrario, ogni herero maschio, con o senza armi, andasse fucilato. Inoltre, donne e bambini venivano espulsi, oppure a loro volta giustiziati.25E, come adesso si sa, i frequenti massacri di armeni nell’impero ottomano arrivarono al livello di vero e proprio genocidio durante la Prima guerra mondiale, mentre la Turchia diventava uno stato moderno. Forse gli armeni non rientravano nell’idea di razza avversata da Du Bois, ma gli ottomani li consideravano una comunità di antica discendenza, con una religione e una cultura in comune: basta poco per pensarla in termini razziali. Nel genocidio in Ruanda del 1994 la divisione della popolazione in due “razze”, hutu e tutsi (con una terza presenza minoritaria, twa), è un prodotto del colonialismo belga. Tutti questi tre casi stanno dalla parte della “linea del colore”, anche se ciò che Du Bois intendeva per “linea del colore” non riguarda letteralmente il colore.

Sullo sfondo di questo cupo scenario, non possiamo dimenticare i milioni (tra i sei e i nove) di cittadini sovietici morti sotto Stalin, o il numero ancora maggiore di cinesi deceduti durante il disastroso piano economico noto come Grande balzo in avanti, o i milioni di cambogiani uccisi dalle politiche scellerate di Pol Pot, o le centinaia di migliaia di morti nella ripartizione dell’India o nelle campagne anticomuniste in Indonesia negli anni sessanta: tutti questi sono stati vittime di ostilità basate sull’ideologia o la religione, in cui la “razza” c’entrava poco o niente.26

L’ampio ventaglio del razzismo

La violenza e i morti non sono l’unico problema che Du Bois associava alla “linea del colore”. Le disuguaglianze sociali ed economiche tra le varie “razze” – prodotte vuoi dalle politiche di un governo, vuoi dalle discriminazioni private, vuoi dalla complessa combinazione di questi due fattori – sono stati elementi pervasivi negli stati all’inizio del ventesimo secolo, e lo rimasero così a lungo che il primo congresso panafricano diventò presto un lontano ricordo. Tutto il mondo conosce le lotte degli afroamericani o dei neri in Sudafrica per l’uguaglianza, ma altrettanto importanti sono state le mobilitazioni in Australia, Nuova Zelanda e nella maggior parte delle nazioni delle due Americhe, sia che a domandare giustizia fossero i nativi, i discendenti degli schiavi africani o gli operai sfruttati del Sudest asiatico. Nel corso del tempo, mentre molti non europei, tra cui cittadini degli ex imperi europei in Asia e Africa, sono emigrati in Europa in numero considerevole, e le questioni della disuguaglianza razziale nei diritti, nell’educazione, nel lavoro, negli alloggi, nel reddito e nella ricchezza, sono venute alla ribalta, anche i giapponesi e i cinesi erano, nella visione di Du Bois, dalla stessa parte della “linea del colore”.

Ma l’indifferenza (e anche peggio) di molti giapponesi nei confronti della Cina nei decenni tra la Prima guerra sino-giapponese (1894-1895) e la Seconda guerra mondiale va considerata anche in termini razziali. L’inaudita ferocia delle uccisioni e degli stupri perpetrati nel massacro di Nanchino, la capitale della Repubblica di Cina, nel 1937-1938, dove decine o forse centinaia di migliaia di persone vennero trucidate dai soldati giapponesi, è un paradigma della violenza razzista. L’ostinata negazione da parte di parecchi giapponesi delle dimensioni, se non addirittura dell’esistenza, di queste atrocità rispecchia le dinamiche di chi nega i genocidi degli armeni in Turchia o degli ebrei sotto il nazismo.

Meno violente, ma sempre condizionate da un fondamento razziale, sono le reazioni antiafricane riscontrate da molti visitatori neri in Cina, che si sentono descritti come “hei gui” (fantasmi neri). Viceversa, tra le centinaia di migliaia di cinesi che oggi lavorano in Africa è diffusa una sorta di “accondiscendenza razziale”, familiare fin dai tempi del periodo coloniale europeo (e, purtroppo, negli ultimi anni frequenti sono state le aggressioni contro i cinesi).27Sebbene questi atteggiamenti degli asiatici abbiano radici in tradizioni piuttosto recenti di quel sentimento xenofobo storicamente attestato un po’ in tutto il mondo, non si possono dire del tutto indipendenti dal razzismo di origine europea e nordamericana. La discriminazione e l’odio rimangono fenomeni globali.

Eppure, ancora una volta, è il caso di ribadire che la disuguaglianza etnorazziale non è l’unica esistente a livello sociale. Nel 2013 i quasi trenta milioni di bianchi sotto la soglia di povertà negli Stati Uniti costituiscono più della metà di tutti i poveri del continente americano.28 Né quella razziale è la sola forma significativa di discriminazione. Chiedete ai cristiani della Somalia o dell’Indonesia, ai musulmani europei, o ai Lgbtq dell’Uganda. Chiedete alle donne ovunque nel mondo.

Localizzare la razza

I concetti razziali funzionano in maniera particolare in determinati luoghi. Negli Stati Uniti l’idea che avere un genitore nero implicasse automaticamente l’essere nero significava che una persona poteva essere socialmente nera ma avere la pelle bianca, i capelli lisci e gli occhi azzurri. Walter Francis White, leader storico della National Association for the Advancement of Colored People (il cui nome è uno dei suoi molti lasciti ironici), così scrisse nella propria autobiografia: “Sono un negro. Ho la pelle bianca, gli occhi celesti, i capelli biondi. I tratti della mia razza non sono visibili in me”. (E nella Ballata di Walter White il poeta afroamericano Langston Hughes lo dice in maniera ancora più icastica: “Walter White ora / è luce d’aurora”.)29

Nel contesto coloniale il pensiero razziale produceva anche anomalie. Ad esempio, trattare tutti gli africani della Nigeria come “negri” comportava raggruppare persone con caratteristiche biologiche molto disparate. La percentuale di parti plurimi era molto più alta tra le donne yoruba che tra quelle hausa, per fare un esempio, senza considerare le notevoli differenze culturali tra i due gruppi.30 Dunque, i tratti rilevanti del carattere nazionale potevano appartenere al massimo ai gruppi etnici, non alla razza; e, come si sa, i membri di un gruppo – gli arabi dal Marocco all’Oman, gli ebrei della diaspora – presentano un ampio spettro di colori e di tipologie di capelli.

Come ho ricordato prima, in anni recenti qualche studioso ha tentato di reintrodurre la nozione biologica di razza, ricorrendo a sofisticate tecniche statistiche che identificano elementi tra i genotipi individuali che riflettono una discendenza comune. Ma nessuna di queste argomentazioni potrebbe avallare la tesi che i confini tra le cosiddette “razze” sono determinati da fattori biologici piuttosto che sociali.31 Una discussione sul significato sociale di razza, dunque, non va confusa con considerazioni sulla natura biologica dei gruppi in questione. I membri di un aggregato sociale possono differire statisticamente gli uni dagli altri sotto il profilo biologico (si pensi, ad esempio, a come la popolazione rurale degli Stati Uniti differisca da quella urbana per determinati indicatori di salute); e come trattare una persona in virtù delle caratteristiche medie statistiche del gruppo di (presunta) appartenenza è sempre un problema diverso dall’interrogarsi sull’effettiva esistenza di tali differenze. Quando si affronta l’incidenza della “razza” nella vita sociale e politica, assai di rado è una buona idea, come ha sottolineato tra i primi Du Bois, buttarla sulla biologia.

Si potrebbe pensare che, poiché le differenze razziali non sono biologiche, la questione è più duttile, ma sarebbe un grave errore. Quanto un fattore biologico sia duttile dipende dalla sua natura: come tutti sanno, il colore della pelle può dipendere dall’esposizione al sole; la consistenza dei capelli può essere modificata chimicamente; la predisposizione a una malattia può essere eliminata dai vaccini; i nasi possono essere raddrizzati dalla chirurgia. Al contrario, come si vede negli Stati Uniti, le disparità razziali nella ricchezza e in molti altri ambiti possono durare a lungo anche dopo che lo stato ha cessato – per una serie di motivi – di intervenire. Nel 2009 il reddito medio di una famiglia bianca era venti volte superiore a quello di una nera, a oltre mezzo secolo dal Voting Rights Act, che nel 1965 garantiva il diritto di voto ai neri.32 Certo, riconoscere che queste differenze sono il prodotto di processi sociali non ne rende più agevole la modifica.

Il “palinsesto” della razza

Giunti nel ventunesimo secolo, si spererebbe di vedere segnali che dicano che il pensiero razziale e le ostilità basate sulle cosiddette “razze” – il problema della “linea del colore” – stanno scomparendo. Invece la convinzione in una differenza “naturale” tra Noi e Loro resiste e, anzi, molti continuano a pensare che essa venga trasmessa ed ereditata. E, naturalmente, le disparità tra gruppi, definite da una discendenza comune, possono essere il fondamento dell’identità sociale – che si creda o meno all’esistenza di una base biologica. Risultato: le categorie etnorazziali sono ancora importanti nelle politiche nazionali, e le identità “di razza” determinano le varie affiliazioni.

Una volta che i gruppi etnorazziali sono in campo, le disuguaglianze tra loro, qualunque siano le cause, forniscono un potente strumento per la mobilitazione politica. Oggi molti sanno che siamo un’unica specie e pensano che le differenze di razza siano, dal punto di vista biologico, una menzogna, ma di rado questa convinzione ridimensiona il valore che assumono per loro le identità e le aggregazioni razziali. Nel mondo molte persone hanno proposto, e ottenuto, misure contro la discriminazione nei confronti dei propri gruppi etnorazziali. Negli Stati Uniti, in parte per queste azioni, i sondaggi sull’opinione pubblica mostrano notevoli divergenze su molte questioni relative alle “linee del colore”.33 Nei campus americani, dove l’affermazione “La razza è una costruzione sociale” riecheggia come un mantra, identità asiatiche, nere e bianche continuano la loro esperienza sociale. Al contrario (in parte, sospetto, per colpa dell’essenzialismo così innato in noi, in fondo) molte persone nel mondo semplicemente non credono che la razza, per come la sperimentiamo nel quotidiano della vita sociale, sia una “costruzione”.

Quando penso al perché la “fissazione razziale” sia durata così a lungo, a volte mi viene in mente la fusione a cera persa con cui in Ghana si forgiano i pesi. Funziona così: bisogna creare un modello in cera, coprirlo con l’argilla, e infine liquefare la cera versandoci dentro del bronzo fuso. In questo caso la nozione di razza del diciannovesimo secolo è la cera persa: lo stampo può essersi sciolto, ma intanto abbiamo riempito con cura lo spazio che si è creato. Negli Stati Uniti l’obiettivo dei nativisti era definire il paese in termini di colore e credo (rispettivamente, bianco e cristiano). Dall’altra parte della “linea del colore”, il persistere di disuguaglianze materiali conferisce una sorta di missione alle identità razziali – del resto, come si può discutere di ingiustizie basate sul colore senza riferirsi inevitabilmente a gruppi definiti proprio dal colore?

Un motivo per cui la razza continua a svolgere un ruolo centrale a livello internazionale è rappresentato anche dalla politica di solidarietà razziale che Du Bois aiutò a inaugurare nel mondo nero, con la tradizione del panafricanismo. Ecco alcuni dati degni di attenzione: gli afroamericani sono più interessati dei bianchi alle politiche degli Stati Uniti in Africa; nel 2014 a Port Harcourt, in Nigeria, la gente protestò per l’uccisione di Michael Brown da parte di un poliziotto bianco a Ferguson, nel Missouri; i neri americani hanno una corsia preferenziale per i passaporti ghanesi; il rastafarianesimo nei Caraibi celebra l’Africa come la casa del popolo nero; il cosiddetto “heritage tourism”, una forma di turismo storico-culturale, dalle Americhe e i Caraibi verso l’Africa occidentale, ha conosciuto un vero e proprio boom negli ultimi anni.34

Ma il panafricanismo non è l’unico movimento in cui gruppi definiti da una discendenza comune mostrano una solidarietà transnazionale: molti ebrei seguono con interesse le politiche dello stato di Israele; i cinesi partecipano alla sorte dei connazionali nella loro diaspora mondiale; i giapponesi si informano su quello che succede a San Paolo in Brasile, dove vive oltre un milione di loro discendenti, e forse un altro milione di discendenti arabi (perlopiù libanesi), alcuni dei quali si interessano alle vicende del Medio Oriente.35 Le identità radicate nella realtà (o nella fantasia) di discendenze comuni restano centrali nella nostra politica, interna ed estera. In questo nuovo secolo, come nello scorso, la “linea del colore” e relativi parenti sono ancora forti. Si potrebbe dire che la “razza” è diventata quello che in paleografia si chiama “palinsesto”, cioè una pergamena scritta da più mani di più generazioni successive, senza che nulla risulti completamente cancellato. Spesso con le migliori intenzioni – a volte con le peggiori – continuiamo a trascrivere le stesse parole con penne diverse.

Casa, dolce casa

A un certo punto Amo depose la propria, di penna. Superati i quarant’anni, decise che era giunto il momento di tornare a casa, e nel 1747 si imbarcò per la Costa d’Oro, alla volta dei villaggi nzema dove era nato. Fu una scelta coraggiosa. Una persona cresciuta nel cuore dell’Illuminismo europeo, con una prestigiosa carriera accademica in alcune delle migliori università del continente, voltava le spalle al grande esperimento che aveva incarnato e andava a vivere in un posto che aveva intravisto soltanto da piccolo.

Le ragioni? Possiamo solo intuirle. In quel periodo il crescente pregiudizio per il colore della pelle in Germania – i primi segnali della “fissazione razziale” in Europa – può aver contribuito alla decisione: nel 1747 ad Halle andò in scena un’operetta satirica in cui una giovane tedesca, Astrine, rifiuta il corteggiamento di un insegnante di filosofia africano di Jena di nome Amo. “L’anima mia,” dichiara la fanciulla, “mai un moro amar potrà.”36 Lo spettacolo dimostra che Amo era una figura molto nota nella cittadina universitaria. Ma il rifiuto è di Astrine, non dell’autore dell’opera, e qualcuno sospetta che non sia stato un pregiudizio razziale ad allontanare Amo, bensì una sofferenza d’amore.

Sappiamo ben poco di cosa gli sia successo in seguito. Un medico navale olandese lo incontrò ad Axim, in Ghana, a metà degli anni cinquanta. “Il padre e una sorella erano ancora vivi e abitavano a quattro giorni di viaggio nell’entroterra,” riferisce l’uomo. Il quale descrive lo stesso Amo come “un grande saggio” che aveva acquistato la “reputazione di stregone”.37Saggio e stregone: ecco le caratteristiche di una persona che riteneva le conquiste dell’Illuminismo europeo non meno sue delle tradizioni degli antichi antenati africani nzema.

Più tardi Amo si trasferì da Axim a Fort San Sebastian, sede di uno dei circa venti forti e castelli sulla costa ghanese utilizzati per la tratta degli schiavi, vicino alla città di Shama, dove è sepolto. (A una decina di chilometri da dove nacque, un secolo e mezzo dopo, Kwame Nkrumah, il più famoso nzema, futuro presidente del paese.) Oggi ci restano alcune domande. Cosa avrà detto alla sua gente di quello che aveva imparato nel lungo soggiorno in Europa? E come avrà spiegato la sua decisione di abbandonare tutto quello che aveva costruito laggiù? È impossibile non domandarsi se la sua non sia stata una fuga dalla consapevolezza del proprio colore, in un luogo dove non era definito dalla carnagione. Un luogo dove Amo poteva essere di nuovo Amo, e basta. Dove non doveva essere a ogni costo l’Africano. La sua odissea ci spinge a immaginare quello che sembra il suo desiderio più profondo: un mondo senza pregiudizi razziali. Ci chiede se mai riusciremo a creare un mondo dove il colore sia un mero accidente, non un tratto distintivo o addirittura un destino. Ci chiede se mai potremo diventare migliori abbandonando le nostre tipologie razziali, un modo completamente sbagliato di pensare che iniziò a diffondersi proprio negli anni in cui Anton Wilhelm Amo era un famoso filosofo tedesco al meglio delle sue facoltà intellettuali.

CINQUE 

Classe

Maggiordomi della generazione di mio padre, direi, tendevano a vedere il mondo come fosse una scala – le case reali, duchi e nobili delle più antiche famiglie collocati in cima; più in basso i “nuovi ricchi”, e così via fino a quando si raggiungeva un punto al di sotto del quale la gerarchia era determinata semplicemente dal denaro – o dalla mancanza di esso.
KAZUOISHIGURO, Quel che resta del giorno (1989)1

  Beata gioventù

Michael Dunlop Young aveva quattordici anni quando giunse nell’istituto che determinò il corso della sua vita. Si chiamava Dartington Hall. Dartington era l’idea geniale di Leonard e Dorothy Elmhirst, tra i maggiori filantropi inglesi del ventesimo secolo. Entrambi detestavano la mediocrità e il capitalismo spinto, e cercarono di cambiare la società cambiando le anime. Il collegio sperimentale che frequentava Young si trovava nella comunità utopistica che stava nascendo in un vasto possedimento nel Devon, la pittoresca regione inglese nell’estremo Sudovest.

Dartington non era un esperimento comune, in parte perché gli Elmhirst non erano persone comuni. Leonard, nato nella selezionata aristocrazia terriera dello Yorkshire, studiò al Trinity College di Cambridge e alla Cornell University nello stato di New York, e diventò il segretario di Rabindranath Tagore, lo scrittore indiano premio Nobel, anch’egli cresciuto in una comunità simile in Bengala. Dorothy invece era figlia di William Collins Whitney, un finanziere e uomo politico americano (fu segretario della Marina sotto il presidente Grover Cleveland), membro di una delle più antiche e prestigiose famiglie statunitensi. Un antenato era uno dei mitici Padri Pellegrini e fu governatore della colonia di Plymouth nel diciassettesimo secolo, e gli Whitney appartenevano all’élite sociale ed economica da secoli. Secondo alcuni il padre di Dorothy ispirò la figura di Adam Verver del romanzo La coppa d’oro di Henry James: come Verver, William Collins non era soltanto incredibilmente ricco (lasciò un patrimonio valutato in seicento milioni di dollari attuali), ma anche affascinante, divertente e astuto. Da parte sua Dorothy abbracciò gli ideali progressisti dell’epoca, aiutando a creare e fondare la New School for Social Research di New York e la rivista “New Republic”, che a partire dalla Prima guerra mondiale incarnò per generazioni lo spirito del liberalismo americano.

L’intervento degli Elmhirst riguardò anche l’architettura di Dartington. Oswald Milne, che aveva disegnato gli interni del Claridge’s Hotel di Londra, progettò l’edificio scolastico principale in stile neogeorgiano; William Adams Delano, che curò l’aggiunta di una balconata nel portico sud della Casa Bianca, progettò una scuola materna; Walter Gropius portò i dettami della Bauhaus nella costruzione del teatro; e il grande architetto modernista svizzero William Lescaze disegnò High Cross Hill, la casa del preside, descritta sulla rivista “Country Life” in modo poco lusinghiero come “l’esempio probabilmente più estremo in tutta l’Inghilterra del tipo di casa funzionale che si associa al nome di Le Corbusier”.2 Con i loro contatti gli Elmhirst accolsero bambini di un’élite progressista: Bertrand Russell vi mandò la figlia Kate nei primi anni trenta; il filosofo, suo amico, G.E. Moore e gli scrittori Aldous Huxley e Sean O’Casey fecero altrettanto; i nipoti di Freud, Lucian, futuro pittore, e Clement, futuro chef, vi passarono parecchio tempo.

Ma chi era Michael Young? Era nato in Inghilterra – un anno dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale, in un villaggio nei pressi di Manchester – ma non da genitori inglesi. Il padre, Gibson, era arrivato dall’Australia per studiare violino al Royal Manchester College of Music. La famiglia aveva potuto mandarlo laggiù perché il nonno di Gibson si era arricchito grazie a una pepita d’oro scovata durante la leggendaria Gold Rush, la corsa all’oro di metà diciannovesimo secolo, e aveva fondato un giornale, il “Bendigo Advertiser”, in una cittadina ad alcune ore da Melbourne. La madre di Michael, Edith, era figlia di una irlandese, Louisa Fitzpatrick, e di uno scozzese, Daniel Dunlop, un abile uomo d’affari seguace del teosofo austriaco Rudolf Steiner. Il tempo trascorso dai nonni celtici di Michael a Dublino spiega perché Daniel Dunlop, come Italo Svevo, colpì l’attenzione di James Joyce, a tal punto da meritarsi una menzione nell’Ulisse, dove compare in un elenco con altre importanti figure della teosofia.3

Nel 1917, due anni dopo la nascita di Michael, il padre e la madre andarono in Australia nel tentativo di salvare il loro matrimonio. (Edith aveva un amante russo e l’obiettivo era dimenticarlo lasciando l’Inghilterra.) Gibson tornò in Inghilterra da solo alcuni anni dopo, sua moglie e il figlio lo seguirono nel 1925, il matrimonio era ormai naufragato. Edith Young diventò una scrittrice, protagonista della vita bohémienne di Londra. La carriera di violinista di Gibson non decollò mai, e diventò direttore di coro, poi critico musicale per il quotidiano “Daily Express”, prima di tornare in Australia ed essere nominato direttore della Commissione nazionale telecomunicazioni.

L’educazione nomade di Michael Young iniziò nelle scuole di stato australiane e inglesi, e in seguito (nonostante il fatto che i genitori fossero socialisti) in un paio di istituti privati superiori a Bristol e a Cockfosters, un quartiere a nord di Londra, dove il ragazzo si sentiva prigioniero di regole e punizioni severe. Dartington Hall venne suggerita dalla sorella del padre, Florence, che più tardi sposò il preside di un’illustre scuola dell’Africa occidentale – il Prince of Walles College, ad Achimota, che si contendeva il titolo di migliore istituto della Costa d’Oro con Mfantsipim, la scuola che frequentò mio padre. Agli inizi del ventesimo secolo la famiglia di Michael lo mise in contatto con il vasto mondo dell’impero britannico.

Dartington diede al ragazzo sia l’habitus sia il capitale sociale (detto brutalmente, le conoscenze) con cui farsi strada. Nel nuovo istituto il giovane sbocciò e gli Elmhirst lo accolsero nella loro famiglia, incoraggiandolo e sostenendolo. Dal momento che Dorothy aveva già un figlio di nome Michael, lo chiamò Michael il Giovane (in inglese Michael Youngster, giocando con il cognome). Grazie agli Elmhirst, il ragazzo venne introdotto nell’élite internazionale: frequentò la Casa Bianca del presidente Franklin D. Roosevelt nel 1933, dandogli consigli su Cuba; ascoltò le conversazioni tra Leonard ed Henry Ford durante l’attraversata dell’oceano su un transatlantico; tramite la rete delle ricche e potenti personalità che gravitavano intorno a Dartington, conobbe il meglio dei progressisti inglesi.

Diventò una figura centrale nello sviluppo della sociologia in Gran Bretagna, e dedicò molte energie a studiare il ruolo della classe sociale nel paese in cui era nato e cresciuto. Fu un eccezionale realizzatore di istituzioni, un infaticabile promulgatore di idee e argomenti, ad esempio tra gli architetti promotori del welfare dell’Inghilterra postbellica. “Ricorda,” gli scrisse una volta Leonard Elmhirst, “che le scienze sociali sono semplicemente un altro nome della dinamite politica, perché la psicologia e l’economia devono condurre dritti al cuore delle faccende umane.”4 Nel corso della propria vita Young poté contare su un cospicuo bagaglio di esperienze personali. I suoi genitori non furono mai particolarmente ricchi (quando divorziarono, si parlò anche di dare Michael in adozione) e, a parte il pagamento delle occasionali tasse scolastiche, non poteva aspettarsi molto dai facoltosi nonni. Dunque crebbe in ristrettezze ai margini della solida middle class, ma Dartington lo mise in contatto con un mondo di ricchezza e potere che compensò ampiamente le modeste origini.5

Young, che fu un pioniere della moderna indagine scientifica sulla vita sociale della classe operaia inglese, non si occupò soltanto di studiare le classi; cercò di migliorare i danni che ne potevano derivare. Gli ideali di Dartington riguardavano la coltivazione della personalità e delle attitudini di ognuno, e se la struttura delle classi inglesi impediva questo percorso, occorreva prendere delle misure per correggerne le storture. Cosa avrebbe sostituito l’antico sistema delle gerarchie sociali simili alle caste? Per molti oggi la risposta è la “meritocrazia”, una parola coniata dallo stesso Young alla fine degli anni cinquanta. La meritocrazia rappresenta una visione in cui il potere e i privilegi dipendono dal merito dei singoli, non dalle proprie origini sociali.

Incoraggiati dagli ideali meritocratici, molti allora cercano di immaginare come organizzare la distribuzione del denaro e dello status nella società. Naturalmente sono contrari al vecchio modo di attribuirli in base alla nascita, e pensano che il lavoro non vada assegnato per i contatti che si hanno, ma per le capacità, indipendentemente dalla classe di appartenenza… o, nel caso, dall’etnia, dal genere, dall’orientamento sessuale, o da altre identità più irrilevanti. Ogni tanto sono contemplate delle eccezioni: la discriminazione positiva, si dice, aiuta a vanificare gli effetti dei comportamenti precedenti. Ma queste eccezioni, motivate dal desiderio di annullare le violazioni del passato, sono transitorie: quando il fanatismo del sesso, della “razza”, della classe e della casta sarà scomparso, le eccezioni cesseranno di esistere. Dunque si rifiuta la vecchia idea di società classista. Questo pensiero definisce ciò che si ritiene giusto rispetto al passato.

Nei capitoli sul credo e la nazione, ho evidenziato come persista una certa tendenza a esagerare il dato della continuità di queste categorie nel tempo. Quando si parla di classe, direi che è l’esatto opposto: in questo caso la continuità è di gran lunga superiore a quanto si crede. Abbracciando gli ideali della meritocrazia, abbiamo pensato di superare le vecchie incrostazioni delle gerarchie ereditarie. Ma come ben sapeva Michael Young, non è così.

La scomparsa delle classi (utopia o realtà?)

All’inizio del libro ho menzionato tre elementi concettuali che le identità condividono. Il primo elemento è la serie di etichette e di regole da attribuire alle persone. Il secondo riguarda il fatto che queste etichette abbiano un significato per chi le assume, a tal punto che a volte modellano il comportamento e il pensiero, in modi di cui si è più o meno consapevoli. Il terzo elemento è il fatto che questo significato è condizionato dal modo in cui i detentori di tali etichette vengono trattati dagli altri. (Ecco perché l’identità ha sempre una duplice dimensione, soggettiva e oggettiva.) Questi tre ambiti – l’attribuzione delle etichette, le norme comportamentali, il trattamento conseguente – sono oggetto di discussioni e contestazioni, un fatto ovvio quando si tratta di classi sociali. Scandaglierò i problemi in ciascuno di questi ambiti: quelli relativi alle etichette, al significato di classe per i suoi detentori, e infine al trattamento delle varie classi che vengono di volta in volta etichettate e così riconosciute. Nel corso dell’analisi prenderò parte anche a qualcuna di queste discussioni.

Allora, innanzitutto: cosa scrivere su queste etichette e come attribuirle? Di cosa parliamo quando parliamo di classe? Non esiste un’unica risposta comunemente accettata. L’idea di classe può sembrare recente, storicamente parlando. In Inghilterra il termine si diffuse soltanto nel diciannovesimo secolo, come reazione dei conservatori agli scompigli prodotti dalla Rivoluzione francese. Ma risalire a un concetto attraverso una parola può provocare confusione. E un concetto del genere è in effetti piuttosto datato. Gli antichi greci e romani erano senza ombra di dubbio consapevoli delle gerarchie sociali. L’Europa medievale si vedeva divisa in “feudi e reami” – sul cui numero e confini circolavano svariate idee. Di solito il clero e la nobiltà erano ben distinti, mentre contadini, mercanti e commercianti venivano raggruppati o suddivisi nelle maniere più disparate.

Le teorie moderne sulle classi cominciano con gli scritti di Karl Marx risalenti alla metà del diciannovesimo secolo: nel suo resoconto piuttosto stilizzato dell’economia inglese agli albori del capitalismo industriale, egli individuava due classi principali definite dai loro “rapporti con i mezzi di produzione”. Da una parte c’erano i capitalisti, proprietari delle fabbriche, e dall’altra i lavoratori che si guadagnavano da vivere producendo oggetti, cose. Marx chiamò la classe capitalistica borghesia, utilizzando la parola che una volta si riferiva ai commercianti e agli artigiani che vivevano in città (bourgs, borghi, in francese). Invece diede il nome di proletariato ai lavoratori. E un aspetto importante di questa distinzione, che comparve in concomitanza con la nascita delle associazioni dei lavoratori e poi dei sindacati, era che queste classi rappresentavano delle identità precise: avevano un valore normativo per chi vi apparteneva. Le persone sipensavano e agivano come membri della classe operaia; mostravano una solidarietà di classe ed erano orgogliosi delle proprie conquiste collettive. La classe come identità è un concetto implicito nel pensiero di Marx che vuole il proletariato sia come “oggetto” che “soggetto” della storia, forza che viene agita e allo stesso tempo agisce, consapevole di sé. Nel suo celebre Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra lo storico di scuola marxista Edward Palmer Thompson spingeva il pedale su questa idea quando scriveva che la classe operaia “fu presente al suo ‘farsi’ ”. E in modo meno epigrammatico: la classe nasce quando comuni esperienze fanno sì che alcuni uomini “sentono ed esprimono un’identità di interessi sia fra loro, sia nei confronti di altri gruppi con interessi diversi e, solitamente, antitetici”. In questo caso si trattava dei “loro governanti e imprenditori”.6

Non serve poi ricordare come questa biforcazione di base del pensiero marxista tagliasse fuori ampi strati di popolazione. C’era la vecchia nobiltà aristocratica. C’erano i contadini e i piccoli proprietari terrieri delle campagne. C’erano i signorotti che affittavano i campi e c’era chi svolgeva una professione come barbieri, avvocati, medici, infermieri. E poi c’era quella che Marx chiamava piccola borghesia: i commercianti e quanti erano coinvolti negli affari, fornendo beni e servizi. Infine, c’erano i servitori dello stato di ogni livello: professori, soldati, poliziotti, amministratori, chi supervisionava il lavoro del proletariato. Marx era nato in una famiglia tedesca di origine ebraica della Prussia; i nonni erano rabbini, il padre era un avvocato di grido, possessore di una vigna, membro della ricca classe media. Cosa c’entrava Marx con tutto questo?

Scrivendo un paio di generazioni più tardi, il sociologo tedesco Max Weber (figlio di un importante politico di area berlinese) elaborò una concezione più articolata: non nel trattamento specifico dell’idea di classe, che egli definì come fatto puramente oggettivo ed economico, ma nel più dettagliato resoconto della cosiddetta “stratificazione sociale”. Vi aveva incluso anche l’idea di “gruppo di status” (in tedesco Stand) che comportava una “specifica valutazione sociale, positiva o negativa, dell’onore”; e un terzo concetto che chiamò “partito” (Partei), che rifletteva le relazioni con il potere e la capacità di conseguire i propri obiettivi. Queste tre categorie erano strettamente connesse tra loro. La ricchezza presentava un complesso rapporto con le distinzioni di status; anche il potere poteva conferire status, ed essere garantito dalla ricchezza. Secondo le sue parole l’onore “si esprime normalmente soprattutto nell’esigere una condotta di vita particolare da tutti coloro che vogliono appartenere a una data cerchia”. (Weber aveva uno spiccato senso dell’onore, basti pensare che una volta sfidò a duello un collega universitario in difesa della moglie Marianne, impegnata politicamente a favore delle donne.)7

Da questa concezione si è sviluppato un concetto di classe che attinge a tutt’e tre le nozioni weberiane. Non riteniamo sia possibile stabilire la classe di qualcuno dalla sua dichiarazione dei redditi. Il voto di povertà di un cardinale gesuita non implica che egli debba vivere come un povero, né quell’impegno lo colloca in una condizione di inferiorità. Uno studente universitario a corto di soldi è ben diverso, socialmente, dal custode del suo dormitorio. La letteratura del diciannovesimo secolo è piena di esempi di relazioni squattrinate, pensiamo a Jayne Eyre di Charlotte Brontë o alle Dashwood di Jane Austen, fanciulle alla perenne ricerca di un lavoro, un marito o un protettore che le aiuti, benché ci tengano a dichiararsi di “nobili natali”. Al contrario, il possesso di una fortuna non garantisce una classe elevata. Nel Dottor Thorne, uno dei romanzi ambientati nella contea di Barset, Anthony Trollope parla di un personaggio, sir Roger Scatcherd, descrivendolo come ricco, pieno di titoli e grande proprietario terriero. Alta società? Niente affatto, secondo il parere concorde di tutti quanti: si tratta di un ex carcerato, a lungo scalpellino, che ha fatto fortuna – e si è procurato il titolo nobiliare – come abile imprenditore ferroviario. Dunque la classe è semplicemente una questione di status? La tentazione di un tale assunto è forte, ma in questo caso la dimensione economica è tutt’altro che un elemento incidentale o fortuito, e del resto non tutte le forme di status hanno a che vedere con lo status di classe: ad esempio, i calciatori di una squadra professionista hanno un indubbio vantaggio dal punto di vista dell’onore e dei guadagni rispetto ai componenti di un team dilettantistico, ma la nozione di classe non renderebbe bene l’idea di questa condizione. L’eredità fa parte del quadro, così come la prospettiva di una mobilità verso l’alto o verso il basso. Per quanto complesso, il legame tra ricchezza e classe è indubbiamente indissolubile.

Iniziamo intanto a capire perché la classe è diventato il problema principale delle scienze sociali: più variabili entrano in gioco, più difficile si prospetta la soluzione. Date le incertezze sulla precisa definizione e demarcazione di questa nozione, molti sociologi nel corso dei decenni hanno cercato di bandire almeno la parola – abolire direttamente le classi era molto più arduo. Ma come il personaggio di Italo Svevo, Zeno, che tenta in continuazione, e senza successo, di smettere di fumare, anche noi non siamo riusciti a mantenere l’impegno. Nel dopoguerra i sociologi hanno introdotto il termine “status socioeconomico” per indicare quella che era la vecchia classe, ma in realtà hanno semplicemente nascosto le perplessità nel prefisso socio-, proprio come si nasconde la polvere sotto lo zerbino.

La mortificante verità è che, qualunque designazione si proponga, la gerarchia sociale è talmente introiettata nella nostra storia e cultura che persino le espressioni più comuni e quotidiane di elogio o biasimo vi attingono, come ha acutamente osservato il grande critico letterario (nonché biografo di Italo Svevo) Philip Nick Furbank.8 La parola “onesto” rimanda a “onore”, e nell’antica Roma onestus indicava una condizione sociale di “nobili natali”. Quando nella celeberrima prima poesia del terzo libro delle OdiOrazio scrive che il candidato a una carica è generosior (v. 10),nonintende dire che è più generoso, bensì che appartiene a una famiglia migliore: il termine “generoso” viene dal latino. Nel francese medievale “gentile” significava altolocato e da lì è passato in inglese (se vi ricordate nel prologo dei Racconti di CanterburyChaucer parla di un cavaliere “verray, parfit, gentil”, cioè “autentico, impeccabile, nobile”). “Cortese” indicava le buone maniere di corte. L’inglese boor, zotico, viene dall’antico francese bovier, che significa bovaro, da bovis, genitivo di bos che in latino indica il bue o la mucca. Nel Medioevo churl (villano), da cui anche l’aggettivo churlish, intrattabile, era una persona di umili origini, come la stessa parola villano viene dal latino villa, casa di campagna, e all’inizio indicava chi vi lavorava, il contadino. Nel quattordicesimo secolo il termine mean (medio), proveniente da una radice germanica che significa “comune, condiviso da tutti”, si riferiva a persone che erano, secondo la definizione del celebre dizionario di Samuel Johnson, “di basso rango”. Questo aspetto si coglie nei versi di un’ode oraziana di Andrew Marvell del 1650 dedicata al ritorno di Cromwell dall’Irlanda, dove riguardo all’esecuzione di Carlo I si legge: “Nulla fece di comune o volgare [mean] / In quella scena epocale”. C’è poco da fare: la classe è elusiva e inevitabile.

Zii e zie

Naturalmente il sistema delle classi non è peculiare della sola Europa. A Kumasi, in Ghana, vivevamo proprio sotto la collina del palazzo del re dell’Ashanti – in lingua twi Asantehene. Quando ero bambino, Otumfuo Sir Osei Agyeman Prempeh II viveva a Palazzo Manhyia, com’era chiamata la sua residenza. Una delle mogli era la sorella di mia nonna, così mio nonno era cognato del re, e alcuni cugini di mio padre erano ahenemma, principi e principesse.

Spesso la domenica, dopo messa, io, mia madre e mia sorella andavamo a palazzo, dove venivamo fatti accomodare in una veranda, all’ombra di rigogliose piante rampicanti che davano frescura, in attesa dell’incontro con il mio prozio. A un certo punto arrivava, avvolto nel suo elegante kente – la toga di seta indossata dall’élite ashanti nelle occasioni speciali –, noi ci alzavamo in piedi per salutarlo e tornavamo a sederci soltanto una volta che lui si era seduto. Lui e mia madre chiacchieravano per qualche minuto, mentre noi bambini bevevamo la gazzosa offerta dal suo assistente, comportandoci, come avevamo promesso, nel modo più educato possibile. Prempeh II era ammantato dal carisma che gli conferivano i molti anni di governo: ai miei occhi appariva una persona cordiale e allo stesso tempo autorevole, in grado di unire il mondo moderno con un passato leggendario. Questi incontri mi sembravano normali, e soltanto molti anni più tardi mi resi conto dell’eccezionalità di un simile privilegio.

Quando avevo circa sedici anni, Prempeh II andò, come si dice da noi in modo allusivo, “al suo villaggio”, era il quattordicesimo Asanteheneche dormiva con i suoi antenati. Il suo successore era un uomo che avevo sempre conosciuto come “zio Matthew”, il marito di mia zia Victoria, la “sorella” preferita di mio padre, i cui figli erano i più vicini alla mia famiglia.9 Da bambino mi prendeva per mano e passeggiavamo per la casa; adesso era investito della maestà regale e in sua presenza ero tenuto a scoprire le spalle e a togliermi le scarpe in segno di rispetto. Otumfuo Opoku Ware II, così venne chiamato, viveva nel palazzo ancora più grande accanto a quello dove noi bambini sedevamo con il suo predecessore, rinnovando così quella magnificenza che si era persa dopo che gli inglesi avevano distrutto l’antica dimora al termine delle guerre anglo-ashanti.

Poiché mio padre era il capofamiglia – ricordate, siamo matrilineari, per via di zia Vic –, si occupò lui dell’educazione dei figli reali, seguendoli a scuola e svolgendo un ruolo importante nelle loro vite. Così crescemmo insieme. L’appartenenza alla famiglia reale era una faccenda di sangue, antenati e onore, non di ricchezza – almeno non in modo prioritario.10C’erano molti cugini non particolarmente ricchi, che vivevano in case modeste, dormendo anche in tre o quattro per stanza, ma che (come certi aristocratici inglesi privi di terre e costretti a fare economia) sapevano benissimo come comportarsi in società. Alla fine del diciannovesimo secolo, in Ashanti come in Inghilterra, le file dell’aristocrazia militare e di corte vennero infoltite da uomini e donne la cui ricchezza proveniva dal commercio piuttosto che dalle terre o dalle mostrine: da noi erano chiamati asikafoo, la gente d’oro, gli uomini dei soldi. La vera aristocrazia riguardava la famiglia reale e i nobili che vantavano antiche discendenze, titoli illustri e grandi proprietà terriere.

Certo, dove c’è nobiltà c’è sempre inevitabilmente il suo opposto: chi viene stigmatizzato, anziché elogiato, per le sue origini. Una volta da bambino chiesi a mio padre in una stanza piena di persone perché eravamo imparentati con una donna che conoscevo e mi stava simpatica, e che viveva in una delle case di famiglia. In effetti la consideravo una delle mie tante “zie”. Mio padre non rispose. Soltanto più tardi, quando rimanemmo soli, mi spiegò che non dovevo fare domande in pubblico sui parenti delle persone. Come tutti gli adulti sapevano, quella donna discendeva da una famiglia di schiavi: questo significava che era di un rango inferiore al nostro. Noi bambini dovevamo essere gentili con tutti gli adulti, anche quelli di origine più umile: ciò non implicava di per sé la loro inferiorità. Non sto riportando il pensiero di mio padre o il mio su quella signora. Mio padre aveva cercato soltanto di non metterla in imbarazzo, ma quasi certamente lui non pensava che quella discendenza fosse motivo di imbarazzo di per sé. Purtroppo la donna veniva spesso trattata dalle persone che conoscevo in modi che riflettevano il loro disprezzo. E sospetto che anche lei lo considerasse normale: in fondo pensava di appartenere a un mondo inferiore. Accettare il sistema delle classi comportava che queste forme di autodenigrazione risultassero alla fine naturali.

La condizione di privilegio dava la facoltà di insultare le persone ritenute subalterne in modi molto più incisivi del puro disprezzo. Nella Kumasi del diciannovesimo secolo le distinzioni sociali erano visibili nelle diverse pene previste per l’adulterio. Se si veniva sorpresi con una delle mogli dell’Asantehene, il re, la morte era lunga e atroce. Viceversa, se un uomo di alto rango importunava la moglie di un cittadino comune, la punizione era molto meno gravosa.11 In questi casi genere e classe entrano in gioco in modalità già viste, nonostante fosse una società in cui le donne della famiglia reale avessero un potere e un’autorità notevoli, e le donne non aristocratiche potessero accumulare grandi fortune con il commercio. Ma il punto alla base resta sempre lo stesso: le classi superiori godevano di un privilegio sociale che dava loro il potere sulle vite degli altri.

Una dinamica analoga, riguardante stavolta i privilegi nell’Inghilterra dello stesso periodo, opera in una storia che ho letto nel diario di Lady Frances Shelley. La donna racconta che un giorno del 1819 il marito andò a caccia di volatili con il duca di Wellington, il quale non era un gran cacciatore. Dopo aver “ferito un segugio”, “impallinato” gli stivali di un guardacaccia, il duca conclude la funesta giornata venatoria centrando un’anziana signora che aveva avuto la malaugurata idea di stendere il bucato alla finestra aperta di casa sua. “Mio dio, mi hanno colpito!” urlò la donna. “Mia brava donna,” annota Lady Shelley, “potrebbe essere il momento più glorioso della tua esistenza. Hai avuto l’onore di essere scelta dall’illustre duca di Wellington!”12

American Way

Come la maggior parte degli inglesi, molti americani hanno una conoscenza puramente velleitaria delle antiche gerarchie inglesi, basata su serie televisive come Downton Abbey. Ma in America il fatto è considerato pittoresco e addirittura esotico, un po’ come un documentario del National Geographic su una tribù aborigena; e per certi aspetti lontano e strano come può essere il mondo della corte ashanti. Fin dall’inizio gli Stati Uniti hanno respinto l’idea di un’aristocrazia titolata. Il primo articolo della Costituzione americana è chiarissimo: “Nessun titolo nobiliare sarà valido negli Stati Uniti”. Qui in America gli unici titoli sono i democratici Mr, Mrs e Ms, l’accademico Professore, il professionale Dottore, e quelli giudiziari e politici Vostro Onore, Senatore, Senatrice, Deputato (Congressman) e Deputata (Congresswoman). (Quando John Adams propose in senato che il presidente degli Stati Uniti dovesse essere chiamato “Sua Altezza”, Thomas Jefferson scrisse a James Madison che si trattava della “cosa più superlativamente ridicola mai udita”. Da allora il presidente è sempre stato semplicemente Signor Presidente, Mr President.) Uno straniero beneducato si rivolgerà a noi con “Sir” o “Madam”, nella volontà di quel secolare spirito egualitario. Thomas Paine, uno dei grandi pensatori della Rivoluzione americana, aveva scritto che gli “altisonanti titoli conferiti a uomini indegni […] intimidiscono il volgo superstizioso e gli impediscono di indagare nel carattere di costoro”.13

Ma il riferimento al “volgo superstizioso” evidenzia il fatto che l’ostilità dei Padri Fondatori alla corruzione morale associata ai titoli ereditari non comportava un rifiuto della distinzione per classi. Nella prima fase della repubblica la nuova élite politica comprendeva molti uomini preoccupati di mantenere il proprio status di gentiluomini, ad esempio, sfidandosi a duello. Alexander Hamilton, il primo segretario del tesoro e creatore del sistema bancario nazionale, morì in un celebre duello con il vicepresidente Aaron Burr; e prima di allora aveva già duellato una decina di volte. Il duello era un affare d’onore riservato, per definizione, ai gentiluomini. Uno dei motivi che spinse Hamilton ad accettare la sfida può essere stata la condizione incerta del suo status, in quanto figlio illegittimo di uno scozzese emigrato ai Caraibi. Rifiutare i titoli non significava di certo abbandonare l’idea dell’onore, o l’idea che per certe persone fosse fondamentale. Uno dei migliori libri sulla cultura politica di quegli anni si intitola proprio Affairs of Honor.14

All’inizio del diciannovesimo secolo in America, come in Inghilterra, da una parte c’erano i signori e le signore, e dall’altra le classi più umili. In quel periodo molte persone, in virtù della loro nascita, occupavano posizioni modeste nelle varie gerarchie. Come scrisse Thomas Jefferson in una lettera del 1816 al suo amico della Virginia Samuel Kercheval, in una vera democrazia alcune persone dovrebbero “essere escluse dalle decisioni. 1. I bambini, finché non raggiungono l’età della ragione. 2. Le donne che, per evitare la corruzione dei costumi e l’ambiguità della situazione, non dovrebbero partecipare a incontri pubblici promiscui con uomini. 3. Gli schiavi, il cui sventurato stato di cose li priva del diritto del libero arbitrio e della proprietà”.15Dunque, le donne e gli schiavi non avevano diritto di voto, ma la Costituzione americana, apparentemente così democratica, non garantiva il diritto di voto nemmeno a tutti gli uomini bianchi. Molti non ne godevano perché non soddisfacevano determinati requisiti patrimoniali (il che varrà in Inghilterra fino al 1918), oppure perché non erano in grado di pagare le tasse. L’effetto di queste norme portò all’aumento del potere politico dei benestanti. Il diritto di voto a livello nazionale venne esteso ai neri dopo la Guerra civile, e alle donne nel 1920; il criterio del pagamento delle imposte per accedere al voto venne abolito soltanto nel 1964.16

Eppure nel diciannovesimo secolo la ricchezza era più equamente distribuita in America che in Europa, come osservava Alexis de Tocqueville, e gran parte di essa era posseduta da persone che l’avevano ottenuta da sole. “La fortuna,” scriveva nel suo capolavoro La democrazia in America, “vi circola con una rapidità incredibile, e l’esperienza insegna che è raro vedere due generazioni raccoglierne i favori.” Il risultato tra coloro che chiamava angloamericani (cioè la popolazione bianca) era che le relazioni sociali erano più eque che nelle società del vecchio continente. Per il filosofo francese la democrazia era una condizione della società in cui gli uomini si trattavano alla pari. Soltanto indirettamente entrava in gioco il diritto di voto. Così concludeva: “Ciò che più importa alla democrazia non è che non esistano grandi fortune, ma che le grandi fortune non restino nelle stesse mani. In tal modo, vi sono dei ricchi, ma essi non formano una classe”.17

Questa non era necessariamente l’esperienza vissuta dall’interno. L’instabilità della struttura delle classi, non la sua inesistenza, può essere stata una leva della storia politica del paese. Quando l’America iniziò a diventare un centro manifatturiero, a partire dai primi decenni del diciannovesimo secolo, i rampolli delle famiglie benestanti del Nord cominciarono a sentirsi socialmente e politicamente spaesati. Educati per diventare l’élite alla guida della nazione, così ha argomentato lo storico americano David Herbert Donald, non trovavano chi li seguisse: il potere si stava spostando dal mondo agricolo a quello, emergente, degli affari, dove – per usare le parole di Donald – “un’educazione troppo fine, una moralità troppo sensibile rappresentavano degli handicap”. E così questi giovani, divenuti adulti negli anni trenta del diciannovesimo secolo, assunsero i panni dei riformatori – nello sforzo, secondo la tesi di Donald, di rivendicare lo status sociale che avevano perso. “Qualcuno lottò per la riforma delle carceri; qualcuno per i diritti delle donne; qualcuno per la pace nel mondo; ma in definitiva la maggior parte di loro identificò in modo del tutto naturale la ricca aristocrazia commerciale con la manifattura tessile e il cotone coltivato dagli schiavi nel Sud,” prosegue lo storico. “Così l’attacco alla schiavitù si rivelò il loro migliore, per quanto inconscio, attacco al nuovo sistema industriale […] Le riforme davano un senso alle vite di quella élite ormai disorientata.”18 Di rado un’analisi basata sulle classi è indulgente, ma questi ideali morali ottennero un vasto e autentico seguito. Mantennero viva l’immagine di una politica egualitaria che secondo alcuni era implicita nella repubblica americana.

Certo, da qui a dire che tale progetto si realizzò ce ne corre. Se una politica egualitaria era sfuggente, altrettanto lo era l’ideale di una società analoga. In America la “razza” è un elemento di grande complicazione e divisione, ma tra i bianchi, come tra i neri, esistevano gerarchie di status associate alle distinzioni di habitus tra chi veniva da famiglie prive di un’educazione, nelle quali uomini e donne lavoravano con le loro mani, e chi invece apparteneva a famiglie beneducate e non si guadagnava da vivere con il lavoro manuale. Nei primi anni settanta del ventesimo secolo due sociologi americani studiarono il caso di un idraulico che guadagnava il doppio del suo vicino di casa insegnante: “Quando si incontrano, l’idraulico chiama l’insegnante ‘Mister’, mentre l’insegnante lo saluta usando il nome proprio”.19(Temo che tutto questo rispetto per gli insegnanti sia diminuito.)

Con l’accesso di massa all’università, dopo la Seconda guerra mondiale, prima per i bianchi che per i neri, e il relativo incremento delle professioni che richiedevano – o così si pensava – un’istruzione universitaria, si creò una divisione sostanziale tra chi si fermava alla scuola superiore e chi proseguiva al college. Per un certo periodo questa divisione riguardò in modo sostanziale il reddito e lo stile di vita, fattori che così non dipendevano più dalla famiglia di provenienza. Possiamo pensare a questo come a una sorta di democratizzazione delle opportunità. Ma non dobbiamo pensare nemmeno per un istante che ciò implicasse l’eliminazione delle gerarchie.

Reciprocità

Parlare di classi superiori e inferiori chiama in causa un sistema nel quale si presuppone che le prime godano di una deferenza sociale da parte delle seconde, mentre possiamo immaginare che la classe media, nota anche come middleclass, si collochi tra i due gruppi, potendo guardare sia verso il basso (come le classi più agiate) sia verso l’alto (come le classi più povere). Un sistema di classi implica inevitabilmente elementi gerarchici, con relazioni tra le varie classi per forza di cose asimmetriche. Ciò non significa che chi sta in alto nella gerarchia sia libero di trattare chi sta sotto come gli pare e piace: esistono forme di rispetto che, per così dire, guardano sia verso il basso sia verso l’alto. Ma in generale chi occupa i ranghi più alti di un sistema di status riceve il rispetto da chi è più in basso, e si aspetta che i propri bisogni e interessi risultino più importanti.

Ma parlare di sistema può essere ingannevole. Non tutti, infatti, accetteranno le gerarchie che altri danno per scontate. Come ho detto all’inizio del libro, le etichette e il relativo significato normativo a esse legato sono oggetto di contestazione. Chi occupa un determinato posto nella scala gerarchica avrà un punto di vista sulle priorità nettamente diverso rispetto a chi sta più in basso o più in alto.

In uno studio del 1957 intitolato Family and Kinship in East London (Famiglia e parentela a East London), pubblicato da Michael Young insieme a Peter Willmott, cofondatore dell’Istituto di Studi Comunitari (Institute for Community Studies), le famiglie operaie di Bethnal Green, all’estremità di East London, esprimevano un atteggiamento complesso nei confronti dei cosiddetti “colletti bianchi”. Da una parte, quando parlavano dei loro figli, dicevano frasi come: “Non voglio che faccia un lavoro manuale. Preferirei che lavorasse con la testa piuttosto che con le mani”. Ma poi il commento finale poteva essere velenoso: “Mi piacerebbe che facesse chimica. È una cosa completamente inutile e perciò ben pagata”. Molti di loro avevano un’opinione del prestigio di varie professioni che avrebbe meravigliato e stupito la maggior parte delle persone delle classi ufficialmente superiori. Ecco cosa scrivono Young e Willmott:

Una considerevole minoranza di uomini a Bethnal Green manifesta un punto di vista molto diverso rispetto ai “colletti bianchi” sullo status del lavoro manuale, collocando professioni come direttore d’azienda o ragioniere contabile in fondo alla scala, e posizionando in alto lavori come contadino, minatore e muratore. Gli uomini d’affari sono visti con sospetto perché “Non fanno niente. Fanno i soldi andando in giro”, e quanto agli impiegati statali, “ci sono altri modi di usare i miei soldi”. Invece godono di grande considerazione i contadini perché “ci danno da mangiare frutta e verdura”, i minatori perché “senza carbone le industrie si fermano”, e infine i muratori perché “serve il cibo e poi servono le case”.

Eppure la maggioranza di quelle persone accettava il fatto che le condizioni economiche dei loro figli sarebbero migliorate se non si fossero fermati a mediocri scuole medie e fossero andati in “scuole tecniche superiori, tutt’altra cosa rispetto alla solita minestra riscaldata”.20 Deridevano le gerarchie, abbracciando valori in contrasto con quelli delle classi “superiori”, ma non potevano far finta che l’ordine gerarchico non esistesse.

Ecco perché uno dei valori umani centrali è il rispetto: verso di sé e verso gli altri. Nella sua accezione più generale, il rispetto comporta un atteggiamento positivo verso una persona, determinato da qualcosa che la riguarda – non a caso si parla del “dovuto rispetto”.Capire i codici di una società richiede la comprensione dei molteplici fattori che garantiscono un comportamento positivo e le corrispondenti forme di trattamento rispettoso. Nella vita sociale una forma essenziale di rispetto è la deferenza manifestata a persone la cui identità conferisce uno status sociale più elevato rispetto al nostro; e questa deferenza è alla base dei sistemi sociali come quelli che conosciamo in Ashanti, Inghilterra e Stati Uniti. La classe implica un sistema di status e di diritti associato alla famiglia di nascita, e poiché l’onore è in sostanza una questione di diritti socialmente attribuiti da rispettare, la classe, nelle sue prime forme, era profondamente radicata nell’onore visto come diritto acquisito per nascita.21Quando la distribuzione dell’onore risulta meno associata alla nascita e più legata alla conquista personale, possiamo immaginare di aver abbandonato la distinzione per classi, e anzi di averla trasformata in qualcos’altro. Ma è davvero così?

Soffermiamoci su quella che nel diciottesimo secolo veniva chiamata “accondiscendenza”, cioè quando una persona di status più elevato trattava con generosità una di status più basso, in modo che sembrassero sullo stesso livello. (“Sottomissione volontaria per apparire uguale a chi è inferiore”, questa la definizione che ne dà lo storico dizionario già citato di Samuel Johnson.) Era una forma di gentilezza e, quando funzionava, gratificava tanto il beneficiario quanto l’ego del benefattore. Il fenomeno ci ricorda che le signore e i signori erano coinvolti in reti di rapporti non soltanto fra di loro, ma anche verso i loro “inferiori”.

Ecco cosa si dice di un personaggio di buona famiglia nel romanzo epistolare Evelina di Fanny Burney (1778):

pensa che le tocchi sostenere la dignità dell’intera discendenza. Fortunatamente per il mondo si è convinta che l’accondiscendenza sia la più ragguardevole virtù dell’aristocrazia, cosicché quell’orgoglio di famiglia che rende gli altri altezzosi, nel suo caso è fonte di affabilità.

Si potrebbe affermare che niente segni tanto chiaramente la rottura tra quell’epoca e la nostra quanto l’idea distorta che l’accondiscendenza sia un valore.

Già al tempo di Jane Austin il termine provocava disagio o derisione. Quando Mr Collins in Orgoglio e pregiudizio, pubblicato nel 1813, esalta la “affabilità e accondiscendenza” di Lady Catherine, i lettori non potevano fare a meno di ricordarsi che quel reverendo era estremamente snob e ossequioso. Lo storico Don Herzog racconta di un incontro tra il duca del Devonshire e il suo bibliotecario, John Payne Collier, intorno al 1830. Il duca lo invitò a pranzo nella sua dimora a Chatsworth, ancora oggi uno dei più sontuosi castelli di tutta l’Inghilterra. Nel suo diario Collier annotò:

Il duca fa tutto il possibile per ridurre la distanza tra noi e per mettermi a mio agio, al suo livello […] Non la chiamo accondiscendenza (lui non tollererebbe quell’espressione), ma gentilezza, e sarei un ingrato se non facessi del mio meglio per ricambiare.22

Negando di essere accondiscendente, il duca stava trattando Collier in un modo che presupponeva la loro sostanziale uguaglianza, ma poiché nessuno dei due ne era realmente convinto, quella stessa negazione era una forma di sofisticata accondiscendenza. Si può essere accondiscendenti fingendo di non esserlo.

Ai nostri (più democratici) tempi non possiamo ammettere di essere accondiscendenti, né, d’altro canto, possiamo confessare l’intimo piacere che avvertiamo nell’accondiscendenza dei nostri “superiori”. Non possiamo riconoscere questi sentimenti, perché non osiamo ammettere che pensiamo di essere migliori di altri – né tantomeno che altri lo siano. Rifiutando l’assunto che il duca del Devonshire sia superiore al suo bibliotecario (un assunto che comportava accondiscendenza ogni volta che Sua Grazia trattava Collier come un suo pari), non si può più pensare a quell’atteggiamento come a una concessione, un dono. Al giorno d’oggi ci accorgiamo che qualcuno tratta gli altri da inferiori quando ci diciamo che non dovrebbe agire in un certo modo. Quando invece lo fa con cognizione di causa – ad esempio quando si rivolge a un bambino di cinque anni apostrofandolo “Senti, genietto” –, allora non scorgiamo alcuna traccia di accondiscendenza.

Eppure, l’assunto gerarchico alla base è ancora valido, per quanto si sia restii ad ammetterlo.23Esso si manifesta quando si riconosce di mal sopportare l’insolenza, che è una sorta di immagine speculare dell’accondiscendenza, cioè quando si tratta un superiore da pari, o addirittura da inferiore. E in effetti qualcosa di simile all’accondiscendenza del diciottesimo secolo risulta ancora oggi una pratica piuttosto diffusa: semplicemente non abbiamo più il termine per designarla. Quando un professore universitario smette di parlare formalmente con uno studente dopo la lezione, riducendo così la gerarchia prevista dallo status accademico, lo studente ne resta impressionato. Cattolici laici e religiosi provano un’intensa sensazione di gratificazione quando un cardinale si rivolge loro; dicasi lo stesso per il custode di un museo nei confronti del direttore che ricorda il suo nome, o per il giudice che si occupa di infrazioni stradali nei confronti della disponibilità di un magistrato della Corte suprema. In casi di questo genere è naturale per il beneficiario descrivere il comportamento del superiore come “cordiale”, “gentile”, “umile”, “alla mano”, presupponendo che non sia così dovuto.

Quando gli “inferiori” si rivolgono ai “superiori”, allora l’accondiscendenza, nella sua valenza del diciottesimo secolo, è ciò che essi si augurano di trovare: vogliono che il superiore finga di essere un loro pari, e la gratificazione che ne ricavano quando ciò avviene è la prova di quella superiorità tacitamente riconosciuta. Ciò che destabilizza di più è la reazione opposta: il disprezzo. Esso può essere pieno di odio o distaccato, profondo o edulcorato, divertito o arrabbiato, ma, come l’accondiscendenza, richiede il sistema dello status alla base. La sua espressione naturale – è importante che vi sia – tende a una sorta di ghigno.

L’eroina eponima del romanzo Cecilia di Fanny Burney (1782) ci ricorda un elemento cruciale di questa famiglia di pratiche e sentimenti associati alla gerarchia, e lo fa con un’osservazione sul disprezzo. Il suo amante Delvile le ha detto che devono fuggire insieme se vogliono sposarsi, perché la sua famiglia “non acconsentirà mai alla nostra unione”:

“Allora, Sir,” urlò Cecilia con trasporto, “nemmeno io!… non entrerò in una famiglia contro la sua volontà. Non accetterò nessun legame che mi esponga all’indegnità! Niente è più contagioso del disprezzo! I suoi amici potrebbero risentirne e chi mi assicura che non ne verrà contagiato pure lei?”24

La possibilità che il disprezzo di uno raggiunga i vicini riflette la natura sociale di questi sentimenti e comportamenti, e le modalità con cui operano. Ci preoccupiamo della nostra reputazione tra amici e conoscenti, che si riflette nelle manifestazioni del loro rispetto o disprezzo. Queste valutazioni così contagiose restano la forza centrale che modella a livello sociale il comportamento umano. Il punto critico è che si tratta di valutazioni espresse dai nostri “superiori”. Uno scienziato che dirige un prestigioso laboratorio viene a sapere che qualcuno del suo staff lo ritiene un arrogante, e si limita ad alzare gli occhi al cielo, chiedendosi perché mai non capiscono che semplicemente i suoi standard sono alti; gli riferiscono che un premio Nobel del suo settore lo considera una mezzacalzetta e non dorme per giorni. Nei rapporti gerarchici si distingue nettamente tra chi nutre un risentimento da inferiore e chi un disprezzo da superiore: il primo caso è una seccatura, il secondo un’umiliazione.

Per quanto riguarda la classe, le forme di rispetto dimostrate verso chi sta più in alto rispecchiano non soltanto le caratteristiche individuali, ma anche quelle del gruppo identitario – la classe sociale – di appartenenza. Come per ogni identità, le risposte nei nostri confronti sono modellate non solo dalle nostre azioni, reazioni, comportamenti, risultati, ma anche dalla complessità di fatti che toccano il nostro gruppo.

L’identità del lavoro

I sistemi relativi all’onore implicano dal punto di vista sociale dei diritti riconosciuti da rispettare, ma non dobbiamo pensare che si trovino soltanto tra i più avvantaggiati: come gli aristocratici, anche i contadini hanno i loro codici d’onore. E l’attribuzione dell’onore è un modo con cui i gruppi hanno reagito al disprezzo degli altri.

“La povertà appare triste agli adulti, ancor di più ai bambini, loro non hanno idea di una povertà industriosa, attiva, rispettabile”: così riflette Jane Eyre a un certo punto del romanzo. L’opera della Brontë venne pubblicata nel 1847, due anni dopo l’uscita della Condizione della classe operaia in Inghilterra di Friedrich Engels, un’accorata denuncia dei danni causati dal lavoro in fabbrica. Si profilavano cambiamenti in vista. In Inghilterra, negli ultimi anni del diciottesimo secolo e nella prima metà del secolo successivo, le persone un tempo definite “plebe” svilupparono un crescente rispetto di sé, che si manifestò in una “coscienza di classe”. Non più definiti negativamente dalla bassa posizione occupata nella gerarchia – da ciò che non erano –, i membri delle associazioni operaie inglesi consideravano il lavoro manuale non solo una fonte di guadagno ma anche un motivo di orgoglio. Questo modo di pensare, evidente nel fatto che questi gruppi si chiamavano Associazioni di Uomini, coinvolgeva uomini e donne della classe operaia in ruoli diversi. Ma le donne non si limitavano a occuparsi degli uomini, lavoravano loro stesse. (Ecco uno dei molti casi in cui l’intersezionalità è fondamentale.) E anche se il lavoro non era piacevole o interessante, i lavoratori (e le lavoratrici) erano fieri di ciò che producevano e guadagnavano. Grazie al rinnovamento delle identità sociali, potevano dunque mobilitarsi per combattere lo sfruttamento e chiedere condizioni migliori.

A metà del ventesimo secolo, quando nacqui e crebbi io, dividere i componenti di un’economia moderna in classe operaia, bassa, media, medio-alta e alta – per usare una tassonomia elaborata nella seconda metà del diciannovesimo secolo – sembrava implicare una complessa combinazione di reddito e status, che a sua volta derivava da una composita serie di considerazioni.25 La mia nonna materna poteva avere i soldi, l’accento e la lingua, le maniere e persino un titolo aristocratico, ma in quanto nipote di un farmacista che aveva fatto fortuna grazie a un farmaco, era saldamente ancorata alla classe medio-alta. Così in America, dove vigevano distinzioni economiche che andavano oltre la tua busta paga. Gli operai venivano solitamente pagati a ore e con degli extra se lavoravano oltre un determinato numero di ore settimanali; la classe media riceveva un salario, non una paga oraria (anche se i compensi di certe professioni – ad esempio gli avvocati – erano calcolati a ore). Ma, al di là della piccola aristocrazia, gli elementi chiave dello status riguardavano soprattutto il modo di parlare e il comportamento – dunque l’habitus – frutto di una determinata educazione.

Come negli Stati Uniti, l’accesso all’università aumentò in Inghilterra dopo la Seconda guerra mondiale e diventò sempre di più uno dei parametri di classe. Lo status di classe media di bibliotecari scarsamente retribuiti rispecchiava l’esigenza professionale di un’educazione oltre le scuole superiori; il fatto che gli operai di una catena di montaggio, pagati meglio, appartenessero alle classi inferiori rifletteva l’assenza di una tale esigenza. E, ancora, i lavori che richiedevano poco sforzo fisico e lasciavano le mani pulite erano associati alla classe media, a prescindere dal reddito. La coscienza della classe operaia inglese – presente nel nome stesso del Partito laburista (da labour, lavoro), fondato nel 1900 – parlava di mobilitazione, a tutela degli interessi collettivi; l’età nascente dell’educazione invece parlava di mobilità, con le tute blu che cedevano il posto ai colletti bianchi. La mobilità avrebbe indebolito la coscienza di classe?

Tutte questioni ben presenti a Michael Young quando si trovò nella condizione di fare qualcosa. Naturalmente non successe in una notte. L’alunno di Dartington Hall aveva studiato legge e seguito dei corsi alla prestigiosa Lse, la London School of Economics. (Dove incontrò per la prima volta il mio nonno materno, Stafford Cripps, vestito, come scrisse lo stesso Young, “di nero come un avvocato togato, con un cravattino a pois, l’ultima persona che avresti detto socialista”.)26 Alla fine decise di laurearsi in economia alla Lse. Aveva molte credenziali e contatti.

Era anche quello che si diceva un uomo di sinistra. Dopo la laurea in economia, lavorò per il Pep (Political and Economic Planning), un centro di ricerca (oggi lo chiameremmo think tank) sulla politica di carattere apartitico, concepito a Dartington Hall quando Young era ancora studente, alla cui fondazione contribuirono gli Elmhirst. Esonerato dal servizio militare per l’asma, durante la Seconda guerra mondiale scrisse di politica – e imparò anche qualcosa sull’industria, lavorando per un anno come dirigente di una fabbrica di munizioni –, prima di tornare a dirigere il Pep. Nel 1942, in un incontro a Dartington Hall, rivide mio nonno, che all’epoca lavorava per il Consiglio di guerra di Churchill e stava meditando sul suo futuro. Mio nonno era un membro indipendente del parlamento, essendosi allontanato dal Partito laburista. (Che aveva sfidato apertamente aiutando a formare un fronte politico trasversale per opporsi al fascismo, in risposta al silenzio del governo.) Young fu tra coloro che convinsero mio nonno a rientrare nel partito. E quando il Partito laburista vinse le prime elezioni dopo la guerra, mio nonno divenne Cancelliere dello Scacchiere.

Dopo aver lasciato nel 1945 il Pep per il centro di ricerca del partito, Michael Young aveva scritto molte parti del manifesto con cui il partito vinse quelle elezioni. Nel manifesto, dal titolo Let Us Face the Future (Affrontiamo il futuro), si annunciava che “l’obiettivo finale” era “creare la comunità socialista di Gran Bretagna [Socialist Commonwealth of Great Britain], libera, democratica, efficiente, progressista, di ispirazione pubblica, con le risorse materiali organizzate al servizio del popolo inglese”.27 Il partito alzò l’obbligo scolastico a sedici anni, aumentò l’istruzione per gli adulti, migliorò l’edilizia pubblica, rese libero l’accesso alla scuola secondaria, istituì un servizio sanitario nazionale, estese a tutti le garanzie sociali, ridusse al minimo la disoccupazione e nazionalizzò i carburanti, l’energia elettrica, il trasporto pubblico, la produzione di ferro e acciaio. Come vedete, si trattava di un manifesto ambizioso e le conquiste del partito furono decisamente più numerose di quanto molti si aspettassero.

Risultato, la vita della classe operaia inglese iniziò a cambiare radicalmente in meglio. Grazie all’impegno dei sindacati e a leggi mirate venne ridotto l’orario di lavoro degli operai, aumentando così le ore libere a loro disposizione. L’incremento dei salari rese possibile l’acquisto in massa di televisori e frigoriferi. (Così si passava più tempo a casa davanti alla tivù, a bere birra fresca di frigo, anziché starsene al pub con gli amici.) Questi mutamenti – ampiamente descritti in Family and Kinship in East London, opera nata dalla tesi di dottorato in sociologia di Young discussa all’università di Londra nel 1954 –riguardavano i piani bassi della gerarchia sociale, ma anche in alto successe qualcosa, in parte con le nuove imposte di successione. Nel 1949 mio nonno, in qualità di cancelliere laburista, introdusse una tassazione dell’80 percento sui patrimoni che superavano il milione di sterline.28(Se vi preoccupate per i “poveri” ricchi, con l’inflazione galoppante equivalgono a trentaquattro milioni di sterline del 2017.) Per un paio di generazioni questi sforzi di riforma sociale protessero la classe operaia permettendo ai loro figli di scalare la gerarchia delle professioni e dei redditi e, in un certo senso, dello status. Young era profondamente cosciente di queste conquiste – e, allo stesso tempo, dei loro limiti.

Il capitale (culturale, sociale e umano)

Per capire l’importanza o meno di queste riforme dovremo però passare in rassegna altri elementi che hanno contribuito a fissare il significato sociale di classe. All’inizio mi chiedevo perché, dato che la classe non era riducibile al denaro, non si poteva escludere dall’analisi il fattore economico. Un motivo è che tutti ricorrono al denaro e desiderano, solitamente, averne sempre di più, in modi che richiamano la competizione per lo status. (Nei primi anni del secolo scorso il sociologo L.T. Hobhouse, quando domandava durante un seminario alla London School of Economics quale fosse lo standard di vita ideale, rispondeva: “Il 10 percento in più di ciò che si ha”.)29 Allo stesso tempo, lo stereotipo del nouveau riche è globale e di vecchia data, a partire dallo scetticismo degli antichi romani sull’homo novus, l’uomo nuovo, cioè il primo della famiglia ad arrivare a cariche pubbliche, fino alla spietata satira di Kevin Kwan, Asiatici ricchi da pazzi, ambientata a Singapore, dove gli arricchiti sono snobbati dai veri ricchi storici… in questo caso le famiglie cinesi di secolare insediamento con i loro pezzi d’antiquariato senza prezzo, oculatamente nascosti in tenute lontane da occhi indiscreti.

Ma se la ricchezza – il capitale economico-finanziario – è un fattore e la classe un altro, ci sono sempre stati modi di usare l’una per ottenere l’altra. In Ashanti e in Inghilterra, se diventavi ricco, bisognava far sì che la generazione successiva di famiglia acquisisse le maniere, l’hexis e l’habitus di un aristocratico: in Inghilterra mandando i figli maschi nelle migliori scuole e assicurando alle figlie femmine un’istitutrice; in Ashanti trovando una posizione, o uno sposo, a corte. Esiste un legame piuttosto intrinseco tra classe e denaro: gli indicatori comportamentali di status sono quelli più associati a una ricchezza di lunga data. E benché lo status delle classi alte non comporti sempre il possesso di denaro, implica comunque una certa prossimità sociale a esso. La povertà vera, è stato osservato, non riguarda soltanto la privazione materiale, ma anche l’isolamento sociale: i poveri non hanno reti di amicizie e contatti come chi sta sopra di loro.30 Per questo esitiamo a chiamare “povero” un giovane laureato squattrinato. Con una battuta si può dire che la classe è un modo con cui si beneficia dei soldi in tasca ad amici e conoscenti.

Se, infatti, pensiamo che il sistema di classi generi soltanto disuguaglianza, ci è sfuggito qualcosa di importante: esso crea sia uguali che disuguali. Come ogni identità, quella di classe comporta un gruppo interno (“in-group”), dotato di precisi meccanismi grazie ai quali gli appartenenti si riconoscono a vicenda. Nancy Mitford, figlia di un Pari d’Inghilterra e sorella della duchessa del Devonshire, scandalizzò i membri della sua classe svelando, in un articolo sull’aristocrazia inglese, alcune delle parole con cui si riconoscevano tra di loro. Poiché c’era il rischio di sembrare snob, decise di rendere la sua analisi più neutra, introducendo il personaggio di Alan Ross, professore di linguistica. “Il Professore, notando che oggigiorno le classi alte si distinguono esclusivamente per il linguaggio (dal momento che i loro membri non sono più puliti, più ricchi o più educati degli altri), ha inventato una formula efficace: parlante U (sta per “upper class”) e non-U.”

Ecco alcuni esempi significativi del professor Ross:

Carta da bagno: parola non-U per carta igienica.
Facoltoso: parola non-U per ricco.

E Mitford ne aggiunge altri di suo pugno:

Dolce: non-U per pudding.
Dentiera: non-U per denti finti.31

Naturalmente le scelte non-U sono degli eufemismi: l’idea era che i non-U – i ceti medi volenterosi e incerti – cercassero in tutti i modi di segnalarsi per raffinatezza, mentre gli U non ne avevano bisogno. Questi comportamenti fanno parte di una dimensione di classe che trascende la gerarchia in senso stretto: come l’etnia, l’appartenenza di classe comporta determinati meccanismi sociali. Le relazioni “povere” di persone altolocate come Jane Eyre avevano qualcosa che i poveri veri non potevano avere: le conoscenze. Avevano cioè un capitale sociale anziché economico. Una volta a Jane, orfana malamente trattata dai suoi parenti in una grande casa, viene chiesto se avrebbe preferito stare con dei poveri che fossero più gentili, e lei esita. “Non fui abbastanza eroica da scegliere la libertà al prezzo della casta,” ci dice. La vicinanza della ragazza al privilegio (garantito, per quanto astrattamente, dai nobili natali della madre) è l’elemento che le permette un’educazione che la fa diventare governante, lavoro che la porta a Thornfield Hall, dimora di Mr Rochester. Tutto ciò è possibile grazie ai contatti che le offre la sua classe, legami che la uniscono agli altri membri del suo stesso ceto.32

Parlando in generale, Jane Eyre prende il proprio capitale sociale e lo trasforma, attraverso l’istruzione e l’educazione, in capitale culturale: l’habitus e la hexis corporea di una donna istruita della sua classe e del suo tempo. C’erano alcuni lavori che non avrebbe potuto svolgere – come contadina o sarta – perché non pertinenti alla classe di appartenenza (mentre poteva benissimo cucire a casa). Questo habitus la rende non solo un’insegnante ideale, ma anche un’impeccabile compagnia per la sua giovane allieva. La postura e il modo con cui parla, la conoscenza della storia, del pianoforte e degli acquarelli identificano la sua classe distinguendola dalle domestiche e dalle cameriere che la circondano, e dalle contadine che lavorano nella tenuta.

Inoltre, la sua educazione le fornisce qualcos’altro. Non soltanto lo status e le giuste conoscenze, ma anche le opportune capacità: il sapere che la rende una perfetta istitutrice. Un sapere prezioso oltre allo status e al rispetto che comporta. Infatti può essere utilizzato per vivere. Fa parte di quello che un economista chiamerebbe il “capitale umano”: le conoscenze, le competenze, le capacità fisiche che valorizzano il suo lavoro.33

Il fatto che il capitale economico, quello sociale e culturale siano ben distinti è uno dei motivi per cui ridurre la classe a un’unica gerarchia non ha molto senso. Ho detto che la stratificazione sociale concepita da Weber ci lascia con un dilemma: non è un righello con delle misure precise che possa fornire un sistema per assegnare a ognuno una classe inequivocabile. La proposta che preferisco non risolve il problema. Anzi, mostra perché è impossibile risolverlo. La questione dell’“incommensurabilità” è stata spesso affrontata dal filosofo britannico Isaiah Berlin: non si può usare la stessa scala per misurare il valore della libertà e quello dell’uguaglianza. Qualcosa del genere succede con i diversi vettori di capitale.

Eppure, alcune forme di raggruppamento o di segmentazione possono essere più illuminanti di altre, a condizione che sia chiaro che è impossibile – per dirla con il Platone del Fedro – “sezionare la natura nelle sue articolazioni”. Nel più ampio studio mai intrapreso sulle classi sociali in Gran Bretagna, il Great British Class Survey del 2011, che ha misurato tutte e tre le forme di capitale, il sociologo inglese Mike Savage e i suoi colleghi hanno concluso che nell’attuale società non c’erano tre ma sette classi. In cima c’era sempre un’élite, provvista di soldi, reti sociali e istruzione, in grado di trasmettere ai propri figli il capitale economico, sociale e culturale. Questa classe rappresenta il 6 percento della popolazione, con un reddito medio di oltre 89mila sterline (circa 115mila dollari), un’educazione nelle università più prestigiose come Oxford e Cambridge, e un reticolo di contatti sociali sia con gli altri componenti del gruppo sia con la vecchia aristocrazia. Allo stesso modo in fondo alla gerarchia c’è una posizione ben definita: il 15 percento della popolazione britannica, indicata da Savage e dagli altri sociologi con il termine di “precariato”, con redditi bassi (intorno a ottomila sterline o poco sopra i 10mila dollari, al netto delle tasse), lavori irregolari e instabili, scarsa capacità di risparmio e pochi contatti con le classi superiori. Soltanto il 3 percento dei figli di questa classe potrà avere un’educazione universitaria.34

Tra questi due estremi Savage identificava cinque gruppi distinti, in base al capitale economico, sociale e culturale, non facilmente classificabili gli uni rispetto agli altri: lavoratori di settori emergenti come cuochi o assistenti di produzione, che vanno ai concerti, praticano sport, frequentano le palestre e usano i social media; una classe operaia tradizionale come camionisti o meccanici, che perlopiù hanno altri interessi; una classe di lavoratori benestanti; una classe media di tecnici; e infine una classe consolidata di professionisti o amministratori. Questi gruppi non hanno un’opinione comune delle attività che conferiscono o meno uno status – lettura vs videogiochi, musica classica vs pop, cricket vs calcio ecc. – e il relativo prestigio dei loro lavori è ben lungi dall’essere condiviso. Le classi sociali in Gran Bretagna non sono una scala: sono una montagna con molteplici sentieri per l’ascesa e la discesa. Però un fatto è certo: la cima della montagna e il fondovalle sono uno e uno soltanto.

Il rovescio della medaglia

A volte si dice che in America tutti appartengono alla middle class, la classe media. Ma questo non è esattamente ciò che gli americani pensano di sé. Nel 2014 un sondaggio del National Opinion Research Center ha proposto quattro opzioni di appartenenza: classe bassa, operaia, media e alta. Quasi l’8 percento si è collocato nella classe bassa, il 47 percento in quella operaia, il 2,7 percento in quella più alta, soltanto meno della metà, il 42,4 percento per essere precisi, ha scelto la classe media. Anche tra i laureati i tre quarti si sono detti classe media, l’1,7 percento classe bassa, il 16,4 percento classe operaia e circa l’8 percento classe alta.35

Una differente gamma di scelte, ne sono certo, si ricaverebbe da una diversa batteria di risposte. E non esiste una terminologia univoca per l’identità di classe. Molti americani invocherebbero ancora con orgoglio l’identità operaia, contrassegnata dall’espressione “tuta blu” (in inglese blue collar). Oggi redneck (alla lettera “collo rosso”), una vecchia e sprezzante espressione che indicava i bianchi con il collo bruciato dal sole perché lavoravano nei campi, può essere reclamata, almeno scherzosamente, come identitaria, benché implichi, come spesso accade in America, un significato razziale. (Ecco di nuovo operante l’intersezionalità!) Molti professionisti, ricchi e istruiti, ammettono di appartenere alla classe medio-alta, ma pochi di loro, come abbiamo visto, diranno di essere classe alta. Eppure, come ci ricordano questi risultati, il fatto che gli americani non parlino molto di classe non significa che manchi del tutto una coscienza di classe. I sistemi di status sociale del ventunesimo secolo presenti nel paese dove oggi vivo sono molto simili a quelli che hanno modellato il mondo in cui sono cresciuto. Una parte (una piccola parte, a dire il vero) della fiammata populista che ha portato Donald Trump al potere era espressione del risentimento contro una classe sociale definita dalla sua educazione e valori: le persone cosmopolite e laureate che controllano i media, l’opinione pubblica e le professioni di prestigio. I populisti credono che le élite liberali disprezzino gli altri americani, ignorino i loro problemi e usino il potere per avvantaggiare se stessi. Magari non si autodefiniscono classe alta, ma gli indicatori populisti usati per individuarli – i soldi, l’educazione, le reti sociali, il potere – sono gli stessi utilizzati per la vecchia classe alta e medio-alta del secolo scorso.36

Come ci insegna Nietzsche, questo genere di risentimento potrebbe essere una reazione contro un senso di inferiorità. Naturalmente molti americani rifiutano il sistema di valori che comporta il disprezzo delle classi meno istruite e magari avverse alle élite liberali. Eppure molti elettori bianchi della classe operaia provano un senso di soggezione, derivante dalla mancanza di un’istruzione adeguata, e ciò può avere un peso nelle loro scelte politiche. Lo si coglie bene in alcune conversazioni con operai di Boston registrate nei primi anni settanta del ventesimo secolo da Richard Sennett e Jonathan Cobb. Ecco, ad esempio, cosa dice un giovane al suo intervistatore fresco di studi universitari:

“Mmm, lascia che ti spieghi perché ero così nervoso all’inizio dell’intervista,” disse un imbianchino. “Non dipende da te, tu sei ok, ma vedi… mmm… ogni buona volta che sto con persone che hanno studiato, vedi, o che non sono come me, ecco… mi sembra di fare la figura del cretino se mi comporto normalmente, ecco…”.37

Il titolo del famoso studio di Sennett e Cobb era memorabile: The Hidden Injuries of Class, cioè Le ferite nascoste di classe. Queste ferite ci sono ancora oggi, eccome: nel racconto della sua giovinezza passata negli “hillbilly” (una comunità montanara di stanza negli Appalachi) James David Vance ricorda molti momenti di analoga ansia, quando era uno dei rari studenti bianchi della classe operaia alla Yale Law School.38

Abbiamo visto più volte come il significato delle identità sia sempre oggetto di contestazione. Così il senso di inferiorità può essere perfettamente speculare a quello di superiorità in altre situazioni: Vance si sente più fiero delle proprie conquiste rispetto a chi, provenendo da una famiglia medio-alta, le ha avute praticamente servite su un piatto d’argento. Non è certo una conquista essere nati nella bambagia, con tutto già pronto. I comportamenti e i valori fanno parte di ciò che distingue le classi, e spesso gli appartenenti alla classe operaia pensano che le persone delle classi medio-alte siano codarde oppure, al contrario, che si meritino la loro condizione. Ricordate l’operaio di Bethnal Green che voleva che il figlio studiasse chimica perché “è una cosa completamente inutile e perciò ben pagata”?

Eppure una significativa percentuale di coloro che chiamiamo classe operaia americana bianca è stata convinta che, in un certo senso, non si merita le opportunità che le sono state negate. Così possono lamentarsi che i neri e altre minoranze razziali sono ingiustamente favoriti nell’attribuzione di un lavoro o nella distribuzione dei benefici governativi (e qualcuno lo pensa pure delle donne), ma nondimeno non credono sia sbagliato non avere un lavoro per il quale non sono qualificati, o ricevere uno stipendio più basso. Pensano che i neri e altre minoranze razziali stiano ricevendo dei sussidi, ma non credono che la soluzione sia domandarli anche per sé. Piuttosto considerano questo trattamento una sorta di eccezione alla regola generale: di base ritengono che l’America sia – e debba essere – una società in cui le opportunità vadano a chi se le è guadagnate.

La gente continua a ritenere le professioni con un consistente capitale culturale più importanti rispetto alle occupazioni tipiche delle classi operaie e medio-basse. In un’indagine del 2012 sul prestigio dei lavori, gli americani collocavano i professori universitari quasi al livello dei sindaci delle grandi città, poco sotto i medici e sopra gli avvocati.39 In effetti noi accademici occupiamo uno strano posto nell’attuale sistema di classi. La nostra elevata istruzione ci conferisce parecchio capitale culturale, che a volte può anche tradursi in reti sociali e soldi – dunque, capitale sociale ed economico. Ma molti americani con laurea e dottorato hanno pochi soldi e svolgono lavori faticosi e poco remunerati. In questi casi possono unirsi in sindacati. Nondimeno il loro capitale culturale non li rende direttamente identificabili con la classe operaia. L’istruzione può portare a occupazioni pagate modestamente ma con uno spiccato prestigio – ad esempio, giornalisti o redattori nei programmi televisivi o nelle case editrici. Così alcuni americani si ritrovano regolarmente a eventi sociali con persone molto più ricche che hanno messo a profitto la loro educazione (o i loro contatti) per arrivare ai piani alti del business e della finanza.

Molti americani pensano che, se c’è qualcosa di sbagliato in questo quadro, non è nello status riservato alle persone istruite o nei guadagni elevati di certi lavori, ma piuttosto nel rapporto non equo tra educazione e denaro. Se classe vuol dire rispettare chi ha lavorato sodo per avere un’istruzione o diventare ricco, non c’è nulla di sbagliato. Quello che importa non è un’idea astratta di uguaglianza, ma il fatto che la distribuzione non sia equa.

Non si tratta di un sentimento moderno: è molto antico. Già nel quinto secolo a.C. Socrate stigmatizzava chi rivendicava con orgoglio nobili antenati, affermando che costoro erano troppo ignoranti per capire che “ogni uomo ha avuto migliaia e migliaia di avi, poveri e ricchi, re e schiavi, greci e barbari, in numero infinito”.40 Con queste parole Socrate/Platone non intendeva dire alla lettera che quasi ogni uomo ha antenati sia regali sia umili – che potrebbe anche essere vero –, piuttosto che l’essenza naturale dell’onore non consiste nella discendenza ma nel merito personale. Quattro secoli dopo Orazio, figlio di un liberto, uno schiavo liberato, esprimeva un’opinione analoga quando elogiava Mecenate, ricchissimo uomo di cultura dell’età augustea (da cui appunto il termine “mecenate”), il quale pensava che “non importa da quale padre uno provenga, purché sia un uomo dabbene”.41 Un secolo dopo Orazio Seneca scriveva in una sua lettera che “uno dei vantaggi della filosofia è che non guarda i titoli nobiliari”.42 Certo, la classe può conferire rispetto, ma se questo rispetto proviene esclusivamente dalla propria origine, è difficile capire perché dovrebbe essere ritenuto qualcosa di veramente “rispettabile”, degno di reale considerazione. Non sarebbe meglio preoccuparsi della stima che può derivare da ciò che si è fatto personalmente? Questo ideale non sarà una novità, ma ha avuto una grandissima influenza sotto un nome nuovo, moderno: meritocrazia.

La nuova classe dirigente

Vale la pena ricordare che la parola “meritocrazia” è stata inventata da Michael Young in un’opera satirica pubblicata nel 1958: L’avvento della meritocrazia. Non era un trattato di sociologia ma un libro di fantasia: a metà tra il saggio e l’indagine sociologica, si immagina scritto nel 2033 e analizza lo sviluppo di una nuova società inglese. In quel lontano futuro, a differenza della società per classi del 1950, ricchezza e ruoli venivano ottenuti, non ereditati, con il merito, che era il risultato della formula “Q.I.[Quoziente di intelligenza] + sforzo = merito”.43Parlando da un remoto futuro, l’alter ego immaginario di Michael Young trae le sue conclusioni dopo oltre mezzo secolo di esperienza sociale (naturalmente inventata per l’occasione!):

Oggi noi ammettiamo francamente che la democrazia non può essere altro che un’aspirazione, e abbiamo il governo non tanto del popolo quanto della parte intelligente del popolo; non un’aristocrazia del sangue, non una plutocrazia di ricchi, ma una vera meritocrazia dell’ingegno.44

Questa è la prima volta che compare la parola “meritocrazia”, e il libro aveva l’obiettivo di mostrare come sarebbe stata una società governata su quel principio. La visione distopica di Young ci offre un mondo in cui la ricchezza riflette sempre più un’equa distribuzione del talento naturale, i ricchi si sposano tra loro, la società risulta divisa in due classi e tutti accettano di avere più o meno ciò che si meritano. Si tratta di un’Inghilterra dove:

le persone in vista sanno che il successo è la giusta ricompensa della loro capacità, dei loro sforzi […] anche la situazione delle classi inferiori è diversa. Oggi ogni individuo, per quanto umile, sa di aver avuto tutte le possibilità. Tutti vengono esaminati più volte. […] Ma dopo che sono stati classificati come “somari” ripetutamente non possono più illudersi; l’immagine di se stessi che ora hanno di fronte è una fotografia veritiera e non lusinghiera.45

A volte i vecchi sistemi di classe che ho descritto erano anche chiamati “caste”. I miei antenati in Ashanti e in Inghilterra avevano uno status che non avevano scelto e a cui non era facile sfuggire. Da questo punto di vista, le vecchie classi erano simili alle caste in India. Si nasceva in una struttura gerarchica – in India, fra l’altro, incredibilmente complessa. Occasionalmente, grazie a una combinazione di talento, sforzo e fortuna si poteva salire più in alto; altrettanto occasionalmente, per colpa di incapacità, pigrizia o malasorte si poteva cadere più in basso. Le rivoluzioni sociali della fine del diciottesimo secolo in Francia e in America del Nord iniziarono un lungo e graduale processo di ridefinizione della classe dirigente, fino a quel momento ereditaria. L’uguaglianza propugnata dalla Rivoluzione francese riguardava la possibilità di rimuovere, in ogni campo, gli ostacoli che escludevano coloro che non appartenevano all’aristocrazia dell’ancien régime. È innegabile che Napoleone reintrodusse la monarchia, ma, come raccontava il suo medico irlandese sull’isola di Sant’Elena, la riteneva governata dall’ideale supremo della “carriera aperta ai talenti [carrière ouverte aux talents], senza alcuna distinzione di nascita o ricchezza, e questo sistema egualitario è il motivo per cui la tua oligarchia mi odia così tanto”.46

Abbiamo visto che anche nei primi decenni della repubblica americana le vecchie distinzioni ereditarie restarono, tra signori e signore, da una parte, e classi subalterne dall’altra. Ma in tutti questi posti lo status legato alla casta declinò nei due secoli successivi, e nella seconda metà del ventesimo secolo le politiche progressiste furono ispirate dalla volontà non solo di ridurre le gerarchie ereditarie di status ma di permettere a tutti, a prescindere dalla nascita o dalla ricchezza, un’educazione che consentisse di sviluppare le proprie capacità.

Tuttavia, come lo stesso Michael Young ebbe modo di riconoscere, questo ideale era destinato a scontrarsi con un fattore della vita umana inevitabile e solido quanto il riconoscimento del proprio talento, vale a dire il desiderio delle famiglie di trasmettere i propri vantaggi ai figli. Come ricorda Young nel suo libro: “Quasi tutti i genitori cercheranno sempre di ottenere per la loro prole vantaggi ingiusti”.47 E in presenza di disuguaglianze di reddito è normale perseguire quell’obiettivo.

Intendiamoci: non c’è nulla di sbagliato nel pensare ai propri figli, ma una società più giusta rivolta all’ideale del merito dovrebbe limitare questo impulso, per altro naturale, ma dannoso. Infatti, se i vantaggi economici della vita sociale dipendessero non solo dal talento individuale e dallo sforzo ma anche dal patrimonio economico e sociale dei genitori, la formula “Q.I. + sforzo = merito” non avrebbe più alcun senso.

Le preoccupazioni di Young si sono rivelate fondate. Basti pensare che, tra il 1979 e il 2013, le famiglie americane più ricche (in totale, un quinto della popolazione) hanno goduto di un aumento lordo di quattromila miliardi di dollari – mille miliardi in più rispetto a tutto il resto della popolazione! Certo, nessun ammontare di denaro o di status potrà garantire ai figli di queste famiglie di arrivare al livello dei genitori: secondo lo studio più ampio e aggiornato, toccherà soltanto al 37 percento. Eppure, in un libro dal titolo provocatorio Dream Hoarders (Ladri di sogni), Richard V. Reeves, del Brookings Institution, osserva: “Non si sono registrati aumenti della disuguaglianza sotto l’ordine del 18 percento. Sono stati tutti sopra questa soglia”.

Tra i “meccanismi di accaparramento” con cui questo quinto del popolo americano ottiene il massimo dei risultati per sé, Reeves indica la “scelta di vivere in aree residenziali esclusive” e “pressioni illecite per l’ammissione nei college più prestigiosi”.48 Come ha spiegato una giurista, zone residenziali esclusive comportano non solo belle case ma una vita in “quartieri bene” dove mandare i figli in ottime scuole. I ragazzi poveri che frequentano scuole d’élite potranno godere di benefici molto simili a quelli dei loro compagni più ricchi. Eppure si è scoperto che molte università prestigiose – tra cui Brown, Dartmouth, Penn, Princeton e Yale – hanno più studenti provenienti dall’1 percento più ricco della popolazione che dal 60 percento del restante bacino potenziale.49

“La meritocrazia americana,” sostiene Daniel Markovits, professore di diritto a Yale, che sta svolgendo analoghe indagini, “è diventata esattamente quello che all’inizio avrebbe dovuto combattere: un meccanismo di trasmissione dinastica, di generazione in generazione, della ricchezza e dei privilegi.” Nella misura in cui possiamo prevedere che molti figli delle élite acquisiranno in maniera del tutto sproporzionata – a differenza di molti figli delle classi inferiori – una posizione nella fascia più alta della ricchezza, del potere e del privilegio, abbiamo qualcosa di molto simile alla trasmissione intergenerazionale dello status tipico del sistema a caste. Secondo Markovits, “oggi la meritocrazia costituisce una moderna aristocrazia, si potrebbe dire, in un mondo dove le più grandi fonti di ricchezza non sono la terra o le aziende ma il capitale umano, il libero lavoro altamente specializzato”.50

Dopo l’elezione a presidente degli Stati Uniti di Donald Trump si sono accesi i riflettori su questi problemi: alcuni ritengono che la drastica separazione dei bianchi più poveri dalle “élite delle coste” sia in parte il risultato della convinzione che questi ultimi abbiano stabilito le regole del gioco a loro vantaggio. Ma il problema non è esclusivamente americano. Anche in Cina ricchezza e status sono determinati all’80 percento dalle condizioni dei genitori (e per le donne la percentuale sale).51 E parliamo di una società il cui partito al governo circa un secolo fa ha dichiarato ufficialmente di voler abolire le classi. In Gran Bretagna il distacco delle classi povere dalle élite cosmopolite che vivono soprattutto a Londra – un distacco diventato evidente con il voto della Brexit – si riflette nella concentrazione dei tre generi di capitale che abbiamo visto nelle mani di una classe alta che si autoperpetua.

Michael Young, che è vissuto fino a ottantasei anni, ha avuto modo di vedere cosa stava succedendo. In un articolo scritto all’inizio del nuovo millennio, un anno prima della morte avvenuta nel 2002, si lamentava che le istituzioni scolastiche erano state coinvolte in una nuova forma di stratificazione sociale che si stava via via consolidando. “Con un’incredibile batteria di certificati e diplomi a disposizione,” osservava, “l’educazione ha posto il suo sigillo di approvazione su una minoranza, e quello di disapprovazione sui molti che smettono di brillare da quando vengono relegati nei recessi della società all’età di sette anni o anche meno.” Così quelli che avrebbero dovuto essere dei meccanismi di mobilità sono diventate delle autentiche casseforti di privilegi. Young confrontava le élite istruite giunte al governo del paese con la compagine laburista di Clement Attlee del 1945: Ernest Bevin, ministro degli Esteri, aveva lasciato la scuola a undici anni e aveva lavorato come fattorino e carrettiere prima di entrare nel sindacato dei portuali di Bristol; Herbert Morrison, vice primo ministro, aveva smesso di studiare a quattordici anni per lavorare come commesso e centralinista prima di dedicarsi alla politica locale. Erano i membri del celebre “Big Five” (un gruppo che comprendeva anche mio nonno, Hugh Dalton e Attlee stesso), che cercò di combattere le disuguaglianze sociali che loro stessi avevano conosciuto personalmente.

Anche in altri ambiti Young vedeva che era emerso un drappello di meritocrati votati al mercato i quali “possono risultare molto più insopportabili e compiaciuti di coloro che sapevano di avercela fatta non per merito proprio ma perché, figli o figlie di qualcuno, erano beneficiari di nepotismo. Questi nuovi arrivati credono davvero di avere la morale dalla loro. In questo modo l’élite è rassicurata che non ci saranno praticamente ostacoli ai privilegi che rivendica per sé”.52 Risultato: la disuguaglianza aumentò mentre i salari delle classi alte salivano alle stelle e le stock option proliferavano, il “carapace del merito”, così argomentava Young, aveva protetto soltanto i vincitori dalla vergogna e dal disprezzo.

A quanto pare, la classe aveva assorbito la meritocrazia, e Young se ne doleva. Era una questione personale. Nessun sociologo più di lui si sforzò di esporre, e anche di risolvere, i danni provocati dalle classi sociali. “Michael Young assomigliava a Cadmo,” così scrisse di lui in modo memorabile Noel Annan, storico dell’intellighenzia inglese. “In ogni campo che coltivava, seminava denti di drago e dal suolo spuntavano fuori degli uomini armati pronti a formare un’organizzazione che correggesse gli abusi o incoraggiasse le virtù che aveva scoperto.”53 Dopo aver diretto il Pep, fondò un’importante associazione a difesa dei consumatori (Consumers’ Association), e negli anni sessanta del ventesimo secolo contribuì a creare l’Open University, un’università pubblica che, grazie anche a lezioni alla radio e alla televisione a cura della Bbc, per mezzo secolo garantì un insegnamento a distanza a oltre un milione e mezzo di studenti.54 E all’età di ottant’anni fondò la School for Social Entrepreneurs a Bethnal Green, il quartiere di Londra dove, molti decenni prima, aveva svolto la sua ricerca di dottorato. Adesso guardandosi intorno poteva cogliere gli esiti del lavoro di una vita intera: stava succedendo quello che aveva previsto.

Se un nuovo sistema dinastico stava prendendo forma, si poteva concludere che la meritocrazia aveva fallito perché non era abbastanza… meritocratica. Se il talento viene capitalizzato in modo efficace soltanto ai piani alti della società, allora vuol dire che si è semplicemente fallito nella proposta di un modello meritocratico. Si cercherà dunque di correggerlo, di essere più rigorosi, di fare in modo che ogni bambino, a prescindere dal ceto, abbia un’istruzione adeguata e goda dei vantaggi sociali che finora soltanto le famiglie altolocate hanno garantito ai propri rampolli. Non sarebbe questa la risposta giusta?

Class Action

Non secondo Michael Young. Secondo lui sarebbe sorto un problema anche se le classi superiori non avessero sfruttato i vantaggi che solitamente trasmettevano ai loro figli e negavano agli altri. Il problema non era comevenivano distribuiti questi vantaggi sociali; il problema erano i vantaggi in sé. Secondo Young, un sistema di classi basato sulla meritocrazia era destinato a essere comunque un sistema di classi: con una gerarchia sociale, che garantiva rispetto e dignità a chi stava in cima, e lo negava a chi non possedeva i talenti e le capacità che, uniti all’opportuna educazione, avrebbero assicurato i lavori meglio retribuiti. Ecco perché gli autori dell’immaginario Manifesto di Chelsea – che nell’Avvento della meritocrazia è l’ultimo baluardo contro il nuovo sistema – chiedono una società senza classi:

La società senza classi sarà quella che avrà in sé e agirà secondo una pluralità di valori. Giacché se noi valutassimo le persone non solo per la loro intelligenza e cultura, per la loro occupazione e il loro potere, ma anche per la loro bontà e il loro coraggio, per la loro fantasia e sensibilità, la loro amorevolezza e generosità, le classi non potrebbero più esistere. […] Ogni essere umano avrà quindi uguali opportunità non di salire nel mondo alla luce di una qualche misura matematica, ma di sviluppare le sue particolari capacità per vivere una vita ricca.55

Il Manifesto sostiene che in un sistema meritocratico le identità legate alle classi riducono le persone a una mera misura: soltanto chi ha una visione molto limitata può credere che le capacità umane si risolvano in questo modo. Così il Manifesto propone una prospettiva alternativa in cui riconoscere e valorizzare le molteplici forme di talento.

Del resto si trattava dell’insegnamento seguito da Michael Young a Dartington Hall: ognuno di noi dispone di una serie di talenti che hanno caratteristiche proprie di acquisizione e sviluppo. A Dartington ogni studente veniva incoraggiato a seguire la propria strada. Young racconta una storiella, forse, come lui stesso ammette, inventata, ma esemplare: “Una volta una ragazza disse: ‘Davvero, anche oggi posso fare quello che voglio per tutto il giorno?’ ”.56 Agli studenti di Dartington si insegnava innanzitutto a considerarsi tutti uguali: qualcuno era più bravo con la ceramica, qualcun altro con la poesia, con la falegnameria, la chimica, la geografia o il giardinaggio, ma nessuna disciplina era più importante delle altre.

Questa convinta aspirazione all’uguaglianza sociale, unita alla valorizzazione dei diversi talenti, può sembrare donchisciottesca, ma ci consegna una profonda lezione filosofica. Il compito centrale dell’etica è chiedersi: Cosa rende una vita umana degna di essere vissuta? Credo che una possibile risposta sia che vivere bene significa affrontare tre fattori: le proprie capacità, le circostanze in cui si è nati, e le proprie priorità. Vivere, come ha scritto una volta il mio caro amico e filosofo del diritto Ronald Dworkin, è “una performance che richiede molte capacità”, è “la sfida più importante e globale che possiamo affrontare”.57 Ma poiché ciascuno di noi è fornito di talenti diversi, è nato in circostanze altrettanto varie e ha progetti disparati, la sfida di ciascuno di noi è, alla fine, unica. Per questo non c’è una risposta soddisfacente alla domanda se una persona è stata all’altezza delle proprie sfide più di un’altra. Bertrand Russell ha avuto una vita migliore di Mozart? L’unica risposta ragionevole è che Russell è stato più bravo come filosofo, Mozart come musicista. So cosa peggiorerà o migliorerà la mia esistenza, ma non ha alcun senso domandarsi se essa è migliore della vostra. E ciò significa che non esiste nessun sistema di misurazione possibile, nessuna scala univoca di valori umani. Ne consegue che un metodo di selezione dei lavori e delle opportunità educative non può essere stabilito decidendo chi è più adatto, perché, come sosteneva Michael Young attraverso il Manifesto di Chelsea, non esiste un’unica scala di merito su cui basarsi. Poiché ciascuno di noi affronta specifiche sfide, alla fine quello che conta non è come veniamo incasellati gli uni rispetto agli altri. Non è indispensabile trovare il campo in cui eccelliamo, quello che importa è semplicemente che facciamo del nostro meglio. Come scrisse una volta Herder, dando voce a uno dei leitmotiv del Romanticismo: ciascuno di noi ha in sé la propria misura.58 John Stuart Mill espresse qualcosa di analogo nel meraviglioso terzo capitolo del saggio Sulla libertà: per avere carattere occorre essere una persona “che abbia desideri e impulsi propri – espressione della propria natura, così come è stata sviluppata e plasmata dalla propria cultura”.59 Se abbiamo un carattere, una nostra misura, i più importanti obiettivi da raggiungere sono chiaramente nostri e soltanto nostri.

L’ideale della meritocrazia confonde due questioni differenti: la prima riguarda l’efficienza; l’altra il valore umano. Se vogliamo persone adatte a lavori che richiedono talento, preparazione, sforzo, esercizio e pratica, dovremo essere in grado di identificare i candidati con la giusta combinazione di talento e voglia di fare, e fornire loro incentivi per esercitarsi e perfezionarsi. Così creiamo scuole e università e selezioniamo le persone che vi insegnino. Se le istituzioni funzionano bene, non si limitano a offrire mere credenziali (il che è sempre un pericolo), ma realizzano capitale umano. Ci affidiamo allora alle imprese, sociali e commerciali, e offriamo lavori con salari e altri vantaggi – un’occupazione interessante, rispetto e autonomia lavorativa, vacanze, pensione, assistenza sanitaria – e selezioniamo la gente per questo. Secondo la formula di Napoleone, forniamo carriere aperte ai talenti.

Ma alla fine, per forza di cose, ci sarà un’offerta limitata di opportunità educative e occupazionali, e dovremo trovare dei modi per erogarle. Con macchine sempre più intelligenti che controllano sempre più attività, l’offerta rischia di ridursi. A scuola e al lavoro dovremo usare dei metodi di selezione per individuare le persone adatte. Questi metodi potrebbero essere concepiti in modo tale che il sistema educativo produca persone con determinate competenze e che i lavori finiscano per essere svolti da queste persone preparate su misura.

Naturalmente sia il lavoro sia la scuola devono fare molto di più che preparare delle persone utili ad altre: il lavoro deve avere un senso, e la scuola deve formarci per la vita, come cittadini e persone – insomma come qualcuno che viva una vita degna di essere vissuta –, non soltanto come lavoratori specializzati. Anche queste considerazioni vanno inserite nel quadro più ampio della selezione per le scuole e le università e per il mondo del lavoro. Se questi principi di selezione sono stati adottati con ragionevolezza, allora si può dire che le persone che superano questi criteri per l’accesso alle scuole o al lavoro “si meritano” queste posizioni. A dire il vero, per usare un’espressione filosofica, si tratta di “deserto istituzionale”. Le persone si meritano queste posizioni esattamente come la gente che compra i biglietti di una lotteria si merita di vincere: queste posizioni sono state ottenute attraverso la corretta applicazione di certe regole.

Valore e valorizzazione

Tuttavia questo “deserto istituzionale” non ha nulla a che vedere con il valore intrinseco delle persone che frequentano l’università o svolgono determinati lavori, almeno non più di quanto i vincitori di una lotteria siano persone con meriti speciali e chi invece ha perso sia, in un certo senso, meno meritevole. Se premiamo il duro lavoro, la capacità al duro lavoro è di per sé il risultato di doti naturali ed educazione. Né il talento né lo sforzo, i due fattori che dovrebbero determinare la giusta valorizzazione nel mondo della meritocrazia, sono qualcosa di acquisito per davvero. Chi, come si racconta nell’Avvento della meritocrazia, è stato etichettato ripetutamente come “somaro”, possiede ancora capacità e attitudini, e dunque la possibilità di avere una vita significativa.

L’unico modo equo per selezionare le persone per scuole e lavori è domandarsi quali scuole e quali lavori siano i più appropriati e poi stabilire quale sia la migliore offerta per questi scopi. Gli obiettivi di una scuola o un’università sono complessi, e la maggior parte dei lavori presenta una varietà di aspetti che rendono assai ardua l’identificazione precisa di una sola persona come la più adatta. Sarebbe una pessima idea ammettere nella nostra università soltanto studenti bravi in letteratura o solo quelli brillanti in matematica. Se stiamo preparando dei medici, è opportuno, ad esempio, individuare persone che si trovino bene nei luoghi più disparati, perché dovranno andare ovunque. Se stiamo cercando avvocati per il nostro studio legale, saranno importanti il carattere e l’esperienza in tribunale perché saranno fattori che condizioneranno le reazioni altrui. Dato un cospicuo numero di candidati con svariati curriculum e temperamenti, di rado ci sarà un modo univoco di valutare equamente tutti gli elementi. Di solito si seguiranno diversi criteri di ragionevole selezione. Ma ci sono delle restrizioni per quelli ritenuti moralmente più o meno ammissibili. Ad esempio, l’origine sociale non è un motivo ammissibile per l’esclusione da un college. Né lo sono la razza, il genere o la religione. In un mondo avvelenato da pregiudizi rivolti a determinate identità, può essere senza ombra di dubbio una buona idea tenere in considerazione queste identità nei processi di selezione, se ciò contribuisce a porre fine a tali pregiudizi. E se agiamo in modo razionale e moralmente corretto, potremo anche scoprire che certe persone delle classi inferiori, certi neri, certe donne, certi musulmani si meritano posti che invece persone con la stessa qualifica ma della classe alta, di carnagione bianca, di religione cristiana o di sesso maschile non meritano.

Inutile ricordare che questi ultimi sono ugualmente meritevoli. Ed è altrettanto vero che le vite di chi ha certe opportunità non sono più degne di chi non le ha. Questo non perché, ci teniamo a ribadire, esiste una scala di valori umani su cui misurare e valutare. Ma proprio perché una tale scala non esiste. E dunque le vite dei più sfortunati non sono meno degne. Ma non perché siano altrettanto o più degne. Semplicemente non esiste un modo per paragonare le varie vite umane.

Questo, credo, sia un quadro più proficuo. I soldi e lo status sono ricompense sociali che possono incoraggiare a fare determinate cose. Sarà poi questione di fortuna se possediamo proprio quelle capacità richieste nella società in cui siamo nati; e saremo ancora più fortunati se queste capacità verranno altamente ricompensate. Del resto, possiamo tenere conto dei messaggi del mercato ed esercitarci. Una società migliore saprà sollecitare e utilizzare al meglio i talenti sviluppati.

Ma so anche che la mia posizione relativamente alta nell’attuale sistema sociale del Ghana sarebbe stata meno sicura nell’Ashanti del diciannovesimo secolo, dal momento che non ho il carattere e il piglio di un generale militare. Le capacità matematiche e scientifiche di Einstein non sarebbero state molto utili nella tribù amazzonica dei nukak. E il talento di Mozart si sarebbe rivelato insignificante in una società che avesse conosciuto il tamburo come unico strumento musicale.

Nella celebre Elegia scritta in un cimitero di campagna del 1751, il poeta inglese Thomas Gray parla dello sperpero del talento in una società che ignorava tanti suoi giovani:

Molte gemme di purissimi colori
Celano gli oscuri e inesplorati antri marini.
Fioriscono non visti molti fiori
Che disperdono nell’aria effluvi divini.

Nella società di Gray non esisteva l’idea dell’educazione universale, ed era inconcepibile l’eliminazione degli ostacoli a un successo che aveva basi esclusivamente legate alla nascita. Così forse, sottoterra, immaginava il poeta, riposava qualche “muto e ignoto Milton”, o qualche “Cromwell innocente per il sangue del suo paese”. Il pensiero va anche alla straordinaria Virginia Woolf, al saggio Una stanza tutta per sé, dove spicca una Judith Shakespeare, sorella del Bardo “meravigliosamente dotata”:

Era altrettanto desiderosa di avventura, altrettanto ricca di fantasia, altrettanto impaziente di vedere il mondo quanto lo era lui [William Shakespeare]. Non ebbe la possibilità di imparare la grammatica e la logica, men che mai quella di leggere Orazio e Virgilio. Di tanto in tanto prendeva in mano un libro, magari uno di quelli di suo fratello, e ne leggeva alcune pagine. Ma a quel punto arrivavano i genitori e le dicevano di rammendare le calze o badare allo stufato in cucina e smetterla di fantasticare fra libri e fogli di carta.60

Non solo Gray e Woolf, ma molti altri hanno accarezzato – con convinzione e senso della giustizia – l’idea di un talento naturale soffocato e messo a tacere.

Di più. La romantica vista del cimitero di campagna può anche indurci a immaginare che, in assenza di miserie e restrizioni, le persone fornite di opportuna educazione troveranno sempre un livello adeguato al proprio talento naturale: così ogni poeta troverà in sé il suo Milton, ogni tiranno il suo Cromwell. Però quello che manca in questo ragionamento (astratto) è la massiccia presenza della vita umana. Non sapendo chi potrebbe diventare il novello Milton, non sappiamo quali genitori potrebbero immergere i loro pargoli nell’immenso oceano della poesia mondiale; per preparare un nuovo Einstein, bisognerebbe sapere quali talenti sono richiesti per elaborare una teoria rivoluzionaria in fisica. Ma se lo sapessimo, non avremmo più bisogno di loro.

Mi sono dedicato alla filosofia all’inizio, credo, per puro caso: grazie a qualche amico e a un paio di insegnanti incontrati in un momento della vita in cui pensavo alla mia fede religiosa e al mio posto nel mondo. Un motivo per cui in quel frangente ho letto e amato Kant, Camus, Sartre e Ayer è che avevo trascorso buona parte della mia infanzia a leggere libri dalla libreria dei miei genitori, su suggerimento di mia madre, alcuni molto stimolanti. Ma una scuola diversa, amici e genitori diversi, una libreria diversa (o addirittura nessuna) ed ecco, avrei avuto un’altra vita.

Adoro la mia vita, ma avrei potuto vivere e amare molte altre vite. (Senza dubbio lo stesso valeva per Milton e Cromwell.) E la maggior parte delle persone potrebbe avere delle vite gratificanti, se solo il mondo rispettasse una vita ben vissuta: una vita in cui si dà agli altri il dovuto, si hanno relazioni soddisfacenti con la famiglia, gli amici, i concittadini, si perseguono progetti scelti con passione e cura. Poi, inevitabilmente, la distribuzione delle ricompense sociali sotto forma di ricchezza e onore avverrà in modo non equo, perché questo è l’unico modo per preservare il loro ruolo di incentivi del comportamento umano. Ma non dobbiamo negare la dignità a chi è meno fortunato nella lotteria genetica e nella contingenza delle situazioni.

Comunque giri la ruota, le persone vorranno sempre condividere i soldi e lo status con chi amano, ricoprendo i figli di gratifiche economiche e sociali. Le leggi sull’eredità permettono di trasferire il denaro ai figli; la classe consente di trasmettere loro lo status attraverso il sistema educativo, aumentandone il capitale culturale, e, grazie alle reti di conoscenze, anche il capitale sociale. Ma non bisognerebbe avvantaggiare i propri figli a discapito di una vita decente dei figli degli altri. Ogni bambino dovrebbe avere accesso a un’educazione di qualità; dovrebbe potersi sentire fiero di se stesso. Storicamente le imposte sulla successione sono state usate anche per agevolare le opportunità, dal momento che, se dare denari ai propri figli incentiva il genitore, non è detto che incentivi il figliolo. In linea teorica sappiamo come fare per attivare un’ulteriore democratizzazione delle opportunità, ma l’attuale frangente politico in Gran Bretagna e negli Stati Uniti rende la prospettiva alquanto improbabile. Ma bisogna anche impegnarsi per qualcosa che non sappiamo ancora come ottenere: sradicare il disprezzo verso chi è sfavorito dal modello di una competizione sfrenata. Di solito chi cerca di coltivare una coscienza di classe pensa che i lavoratori si uniscano in azioni collettive per i propri interessi; chi invece cerca di scoraggiarla si concentra sulle prerogative sociali dei privilegiati e sugli svantaggi dei meno fortunati. Young guardava in entrambe le direzioni. Così dovremmo fare anche noi oggi.

Lord Dartington

“È un’idea di buonsenso attribuire i lavori alle persone in base al merito,” scriveva Young. “È l’esatto opposto di quando chi è ritenuto meritevole di una determinata situazione si irrigidisce in una nuova classe sociale senza lasciare posto agli altri.”61 L’obiettivo non è eliminare le gerarchie e fare piazza pulita: viviamo in una miriade di gerarchie incommensurabili, e la circolazione della stima sociale sarà sempre a vantaggio del più sagace romanziere, del più brillante matematico, del più abile manager, del più veloce atleta, del più concreto imprenditore. Non possiamo di certo controllare a pieno la distribuzione del capitale economico, sociale e umano, o eliminare di colpo le variegate forme che emergono da questi intrecci. Ma le identità di classe non devono interiorizzare i danni che ne derivano: occorre fare tutto il possibile per un’urgente e collettiva revisione delle relative etichette, norme e trattamenti in nome di quella che possiamo chiamare “uguaglianza morale”.

Se tutto ciò può sembrarvi utopistico, pensate allora che nessuno è stato più pratico di Michael Young, il creatore di istituzioni par excellence. Young ha risposto a richiami sia della sua coscienza sia del sistema; del resto dava regolarmente il contenuto del suo portafoglio a un homeless che incontrava per strada. In fin di vita, ricoverato per cancro in un reparto ospedaliero, si informò se gli immigrati africani dell’impresa che aveva in appalto la mensa ricevessero un salario adeguato. Ma la sua compassione era supportata da un profondo senso di concretezza. Non si limitò semplicemente a sognare di ridurre i privilegi ereditati, ma immaginò misure concrete perché ciò si verificasse davvero, nella speranza che tutti i cittadini potessero avere la possibilità di sviluppare le proprie “particolari capacità per vivere una vita ricca”. Lui stesso l’aveva fatto. Nel futuro prospettato nell’Avvento della meritocraziaesisteva ancora una Camera dei Lord, ma era formata esclusivamente da persone che si erano guadagnate il posto segnalandosi per il loro eccezionale impegno pubblico. E se c’era qualcuno che meritava idealmente quel posto, quello era proprio Michael Young.

Cosa che invece non si poteva dire della vera Camera dei Lord con cui Young era cresciuto, probabilmente uno dei motivi per cui il suo protettore Leonard Elmhirst rifiutò un titolo nobiliare offertogli negli anni quaranta del ventesimo secolo: negli ambienti che frequentava, disse chiaramente, “una tale nomina non sarebbe stata facile per me da spiegare, né per i miei amici da accettare”.62Allora suona quasi come una beffa che quando una simile onorificenza venne proposta a Michael Young, lui, il grande difensore delle uguaglianze, la accettasse. Naturalmente scelse il titolo di barone di Dartington, rendendo onore all’istituzione di cui era amministratore da quando aveva trent’anni. Come ci si può aspettare, sfruttò l’occasione per parlare delle questioni che gli stavano più a cuore nel ramo nobile del parlamento inglese. Ma c’è un ultimo risvolto ironico. Uno dei motivi per cui Young aveva accettato il titolo (“con cautela”, come amava ripetere agli amici) era che aveva qualche difficoltà economica a viaggiare tra Londra e la casa di campagna. Ebbene, i membri della Camera dei Lord non godevano soltanto di una ricca diaria, ma viaggiavano anche gratis sui mezzi di trasporto. Young aveva fatto il suo ingresso nell’aristocrazia perché aveva bisogno di soldi.63


SEI 

Cultura

Sappiamo così dai nostri testi che la Grecia ebbe la fama più grande per cavalleria e scienza. Poi la cavalleria si spostò a Roma, insieme alla grande somma del sapere. Ora esse sono giunte in Francia.

CHRÉTIENDETROYES, Cligès (1176?)1

 

 Una “guerra” culturale

Come molti inglesi colpiti dalla tubercolosi nel diciannovesimo secolo, su consiglio medico. sir Edward Burnett Tylor visse all’estero, cercando l’aria secca delle regioni più calde. Tylor proveniva da una ricca famiglia di industriali quaccheri, così poté permettersi un lungo viaggio. Nel 1855, poco più che ventenne, partì per gli Stati Uniti, spingendosi l’anno successivo fino a Cuba, dove conobbe un altro facoltoso quacchero inglese, Henry Christy: i due finirono per attraversare insieme a cavallo le città e la campagna messicane, visitando le rovine azteche e gli antichi pueblo.

Sotto la guida di Christy, che era già un affermato archeologo, Tylor imparò a lavorare sul campo. Rimase impressionato da ciò che chiamò “la prova di una grandiosa popolazione antica, testimoniata dall’abbondanza di resti di opere d’arte”.2 Tornato in Inghilterra, pubblicò un resoconto dettagliato del viaggio in Messico: quel soggiorno aveva acceso in lui la passione per lo studio delle società lontane, antiche e moderne, che durò per tutta la vita. Nel 1871 uscì il suo capolavoro, Primitive Culture, che a ragione è considerato il primo libro di antropologia moderna. Con i decenni, mentre la barba si allungava sempre più, trasformandosi, da vittoriana, in un boscoso cumulonembo degno di un Gandalf, Tylor perfezionò le proprie conoscenze delle popolazioni mondiali con l’assidua frequentazione di musei e biblioteche.

Per certi aspetti Primitive Culture era in contrasto con un altro libro che aveva la parola “cultura” nel titolo: Culture and Anarchy di Matthew Arnold, una raccolta di saggi apparsa due anni prima. (Sì, è lo stesso Matthew Arnold incontrato un paio di capitoli prima come esempio di quella che abbiamo chiamato “fissazione razziale”.) Per Arnold, poeta e critico letterario, la cultura era “una ricerca della nostra perfezione totale mediante l’apprendimento, su tutti gli argomenti che più ci premono, del meglio che è stato pensato e detto nel mondo”.3 Arnold non era interessato a una cultura dilettantistica, magari di classe – il duetto di flauti del dopopranzo, la recita serale dei sonetti di Keats. Il suo era un ideale estetico e morale che trovava espressione negli esiti migliori dell’arte, della letteratura, della musica e della filosofia.

Ma Tylor pensava che la parola potesse indicare qualcosa di diverso, e in parte per motivi istituzionali lo dimostrò. Infatti venne nominato direttore dell’University Museum di Oxford e nel 1896 diventò il primo professore di antropologia di quell’università. È a lui più che a chiunque altro che dobbiamo l’idea dell’antropologia come una disciplina che studia la “cultura”, da lui definita “quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume, e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro della società”.4 La civilizzazione è semplicemente una delle molte manifestazioni della cultura.

Oggi, quando si parla di cultura, si pensa alla nozione di Tylor o di Arnold. Queste due idee sono, per certi aspetti, in contrasto tra loro: l’ideale di Arnold era “l’uomo di cultura”, e per lui l’espressione “cultura primitiva” era di per sé un ossimoro; il modello di Tylor invece nega che una persona possa essere priva di cultura. Eppure, come vedremo, queste due nozioni, apparentemente antitetiche, sono tenute insieme nella nostra idea di “cultura occidentale”, che secondo molti definisce l’identità moderna dell’Occidente. In questo capitolo finale mi occuperò della cultura come fonte di identità, e cercherò di districare alcuni nodi sulla cultura – sia di stampo tyloriano che arnoldiano – di quello che noi chiamiamo abitualmente Occidente.

Forse avete già sentito questa storia. Una volta qualcuno chiese al Mahatma Gandhi cosa pensasse della civiltà occidentale, e lui rispose: “Credo che sarebbe una buona idea”. Come molte delle migliori storie, purtroppo, temo sia falsa, ma come molte delle migliori storie è sopravvissuta perché contiene un nucleo di verità. Ho sostenuto che molti nostri pensieri sulle identità che ci definiscono sono ingannevoli e che se ci sforzassimo di ripensarli in maniera nuova avremmo una migliore visione delle sfide che ci attendono. In quest’ultimo capitolo mi propongo di condurre un’analisi ancora più serrata su una supposta identità “occidentale”: sia che la rivendichiamo, come molti europei e americani, sia che la rifiutiamo, come accade in giro per il mondo. Personalmente ritengo che dovremmo rinunciare all’idea di civiltà occidentale: nella migliore delle ipotesi è una fonte inesauribile di confusione, nella peggiore un ostacolo alle grandi sfide politiche dei nostri tempi. Pur esitando a contraddire Gandhi – seppure quello della leggenda –, non credo che la civiltà occidentale sia una buona idea, né che la cultura occidentale sia un miglioramento.

Un motivo della confusione intorno alla “cultura occidentale” proviene dalla confusione stessa intorno all’Occidente. Abbiamo usato questa espressione per una miriade di situazioni. Rudyard Kipling, il cantore dell’impero inglese, scriveva “Oh, l’Est è Est e l’Ovest è Ovest / e mai i due si incontreranno”, contrapponendo Europa e Asia, ma ignorando qualunque altro luogo.5Durante la Guerra fredda l’“Ovest” era da una parte della cosiddetta Cortina di ferro, e dall’altra parte c’era il suo nemico, l’“Est”: ma anche in questo caso si ignorava la maggior parte del mondo. Spesso in anni recenti l’“Occidente” indica il Nord Atlantico: dunque, l’Europa e le ex colonie europee dell’America del Nord. A cui si contrappone il mondo “non occidentale” di Africa, Asia e America Latina – ribattezzato “Sud globale” –, benché, ad esempio, molte persone dell’America Latina rivendichino un’eredità occidentale. Questa terminologia riguarda il mondo intero e mette insieme un numero considerevole di società molto diverse tra loro; fino a includere, con mirabile destrezza, gli abitanti non indigeni di Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica, cosicché alla fine sorge il dubbio che “occidentale” sia semplicemente un eufemismo per “bianco”.

Come tutti sanno, oggi parliamo anche di mondo occidentale non in contrapposizione al Sud, ma ai musulmani. A volte gli stessi musulmani si esprimono in modo analogo, distinguendo tra dār al-Islām, la casa dell’Islam, e dār al-kufr, la casa degli infedeli.6 Questo contrasto sarà l’argomento del capitolo finale. Come vedremo, europei e americani discutono sulle radici della cultura occidentale, interrogandosi se sia o meno un’eredità cristiana, una genealogia in cui la parola “cristianità” è stata sostituita da “Europa” e dall’idea dell’Occidente.

La creazione dell’europeo

Per lo storico greco del quinto secolo a.C. Erodoto la terra abitata si divideva in tre parti: a est si estendeva l’Asia, a sud un continente che lui chiamava Libia e tutto il resto era Europa. Sapeva che le persone, le merci e le idee potevano viaggiare da una terra all’altra, anche se con qualche difficoltà; lui stesso visitò il Nilo e Assuan, ed entrambe le sponde dell’Ellesponto, il confine tradizionale tra Europa e Asia. Erodoto, “il padre della storia”, ammetteva la propria perplessità per il fatto che “a una sola terra siano state date tre denominazioni diverse, derivanti da nomi di donne”.7 Eppure, per i greci e i romani, loro eredi, questi continenti erano la divisione geografica del mondo più significativa. Una divisione che, infatti, noi abbiamo ereditato.

Ed eccoci al punto centrale: Erodoto non si sarebbe mai sognato di pensare che queste tre denominazioni corrispondessero a tre distinti popoli, gli europei, gli asiatici e gli africani. Lui era nato ad Alicarnasso, l’attuale Bodrum in Turchia. Ma la nascita in Asia Minore non lo rendeva un asiatico: era di fatto un greco. E ai suoi occhi i celti – di cui dice soltanto che vivono “oltre le colonne d’Ercole” nell’estremo lembo occidentale dell’Europa – erano più estranei dei persiani o degli egizi, di cui invece conosceva molte cose. Usa il termine “europeo” soltanto come aggettivo, mai come sostantivo. Si trattava di un luogo, non di un’identità. Dopo di lui, per più di un millennio nessuno parlò di europei come di un popolo.

Poi la geografia di Erodoto fu radicalmente ridisegnata dall’avvento dell’Islam, nato in Arabia nel settimo secolo e diffusosi con incredibile rapidità a nord, est, ovest. Dopo la morte del Profeta, avvenuta nel 632 d.C., gli arabi riuscirono nel giro di una trentina d’anni a insidiare i due grandi imperi a nord: quello che restava di Roma a Bisanzio e l’impero persiano che si spingeva fino all’India.

La dinastia Omayyade, nata nel 661, si spinse a ovest in Africa del Nord e a est in Asia centrale. Nei primi mesi del 711 il suo esercito attraversò lo stretto di Gibilterra, approdò in Spagna, che gli arabi chiamavano al-Andalus, e attaccò i visigoti che da due secoli governavano la provincia romana dell’Hispania. In sette anni la maggior parte della penisola iberica cadde sotto il dominio musulmano, e soltanto quasi otto secoli dopo, nel 1492, tornò sotto la sovranità cristiana.8

I conquistatori musulmani della Spagna non avevano previsto di fermarsi ai Pirenei e negli anni successivi compirono svariati tentativi di sfondare a nord. Ma nel 732, a Tours, Carlo Martello, nonno di Carlo Magno, sconfisse l’armata di ‘Abd ar-Rāḥmān al Ghāfiqī, il governatore di al-Andalus, ponendo fine definitivamente alle mire arabe sull’Europa. Il grande storico inglese Edward Gibbon, probabilmente esagerando, scrisse che se gli arabi avessero vinto a Tours sarebbero arrivati fino al Tamigi. “Forse,” aggiunse, “oggi nelle scuole di Oxford si spiegherebbe il Corano e dai suoi pulpiti si dimostrerebbe a un popolo circonciso la santità e la verità delle rivelazioni di Maometto.”9

Quello che a noi interessa è che la prima attestazione scritta della parola “europei” per indicare delle persone sembra essere il frutto di questa storia di conflitti: infatti, una cronaca latina, composta in Spagna nel 754, chiama i vincitori della battaglia di Tours “europenses”, europei. Dunque, la prima idea di europei nacque per opporre i cristiani ai musulmani.10

Comunque nell’Europa medievale nessuno avrebbe usato la parola “occidentale” per distinguere i cristiani dai musulmani. In primo luogo, il punto più occidentale del Marocco, la patria dei mori, stava a ovest di tutta l’Irlanda. Il mondo musulmano si estendeva da ovest dell’Europa occidentale fino all’Asia centrale e meridionale: se i punti cardinali contano, gran parte di esso si trovava a sud dell’Europa. Inoltre, come abbiamo appena visto, parti della penisola iberica – che faceva parte in modo inequivocabile di quel continente chiamato da Erodoto Europa – rimasero sotto la sfera araba o berbero-musulmana dal 711 al 1492. Perciò, l’opposizione naturale non era tra Islam e Occidente, semmai tra cristianità e dār al-Islām, e ciascuno dei due considerava l’altro infedele per la religione.

Ma nessuno di questi dava il nome a uno stato: nel 750 il mondo musulmano era diviso politicamente in due regni – l’omayyade e l’abbaside – e gradualmente nel corso dei secoli si frammentò ancora di più mentre si spingeva verso est. In Europa la cristianità era suddivisa in un numero maggiore di regni, benché la grande maggioranza di essi rispettasse più o meno l’autorità dei papi di Roma. Ognuna delle due religioni copriva aree vastissime: al suo culmine l’impero omayyade si estendeva per oltre undici milioni di chilometri quadrati, comprendendo quasi il 30 percento della popolazione mondiale; il Sacro romano impero di Carlo Magno in Europa occidentale aveva una superficie di più di un milione di chilometri quadrati, e l’Impero bizantino, l’erede orientale dell’antico Impero romano, nel 814, alla morte di Carlo Magno, era di poco più piccolo.

Alla fine dell’undicesimo secolo la Prima crociata aprì un nuovo fronte militare fra cristiani europei e musulmani. Nel 1095 a Clermont in Francia papa Urbano II, su insistenza dell’imperatore bizantino Alessio I Comneno, dichiarò che chiunque, “per pura devozione, non per denaro o onori”, avesse liberato Gerusalemme dal dominio musulmano avrebbe ottenuto l’assoluzione e la remissione dei peccati. Ne seguì una serie di invasioni della Terra Santa da parte di eserciti cristiani, da ogni parte d’Europa, che culminò con la riconquista della città nel 1099 e la creazione di alcuni stati crociati in Palestina e Siria. Nel frattempo, nei tre secoli a venire, i turchi, che avevano fondato l’Impero ottomano, estesero gradualmente il loro controllo su varie parti dell’Europa: Bulgaria, Grecia, Balcani, Ungheria. Adesso l’Europa orientale e l’Asia Minore erano una variegata compagine di stati musulmani e cristiani, nati e mantenuti da guerre sanguinarie che alimentavano l’intolleranza reciproca. Soltanto nel 1529, con la sconfitta dell’esercito di Solimano il Magnifico a Vienna per mano del Sacro romano impero, iniziò la riconquista dell’Europa orientale: fu un processo lento, che si concluse nel 1699 quando gli ottomani persero definitivamente i loro possedimenti ungheresi; la Grecia diventò indipendente soltanto verso il 1830, la Bulgaria più tardi.

Dunque, abbiamo una chiara percezione e definizione dell’Europa cristiana (la Cristianità) attraverso un contrasto. Un modo per analizzare la cultura occidentale è pensare a essa come a un discorso di tipo culturale nell’accezione di Tylor: un insieme trasmesso socialmente che include “la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume” e altre caratteristiche che derivano dall’Europa cristiana appunto.

Storia di una pietra preziosa

Tuttavia, le persone acculturate dell’Europa cristiana avevano ereditato molte idee dalle società pagane precedenti. Così, benché la divisione tra Occidente e Islam sia iniziata con un conflitto religioso, non tutto nella civiltà occidentale è cristiano. Si tratta di una convinzione molto antica. Alla fine del dodicesimo secolo, Chrétien de Troyes, nato a un centinaio di chilometri a sudovest di Parigi, celebrò queste lontane radici: “La Grecia ebbe la fama più grande per cavalleria e scienza. Poi la cavalleria si spostò a Roma, insieme alla grande somma del sapere. Ora esse sono giunte in Francia”. L’idea che il meglio della cultura greca fosse passato, attraverso l’antica Roma, nell’Europa occidentale diventò nel Medioevo un luogo comune. In effetti questo processo aveva un nome: era chiamato “translatio studii”, cioè trasferimento del sapere. E si rivelò un’idea incredibilmente duratura. Ancora più di sei secoli dopo il grande filosofo tedesco Hegel così si rivolgeva agli studenti dell’istituto liceale che dirigeva a Norimberga: “La letteratura dei greci in primo luogo, e poi quella dei romani, debbono essere e rimanere, allora, il fondamento dello studio superiore”.11

Così dal tardo Medioevo attraverso Hegel fino a oggi i risultati migliori della cultura greca e latina sono stati considerati un’eredità europea, tramandata come una pietra preziosa, estratta dai greci, trasferita poi a Roma, all’epoca dell’Impero romano, dove divenne splendente. Poi nel Rinascimento fu divisa tra corti fiamminghe, fiorentine e la Repubblica di Venezia; i suoi frammenti toccarono città quali Avignone, Parigi, Amsterdam, Weimar, Edimburgo, Londra, e infine vennero di nuovo riuniti insieme nelle università d’Europa e degli Stati Uniti. Ora quel tesoro inestimabile è custodito in qualche università americana, magari proprio dove insegno io… o forse in quella biblioteca dietro l’angolo… Il suo contenuto è la cultura occidentale per come la intendeva Arnold, non quell’insieme complesso di vita secondo il modello di Tylor.

Ci sono molti modi di raccontare la storia della pietra preziosa. Si tratta, in ogni caso, di una questione di ordine storico – a maggior ragione se vogliamo rendere la nostra pietra il fulcro di una civiltà occidentale opposta all’Islam. Ma va subito chiarito un punto: l’eredità classica con cui si identifica è stata condivisa con i musulmani. Nella Baghdad del nono secolo, nel Bayt al-ḥikma, la splendida biblioteca realizzata dai califfi abbasidi, le opere di Platone, Aristotele, Pitagora ed Euclide vennero tradotte in arabo, diventando la base di un insegnamento tradizionale arabo chiamato falsafa, adattamento della parola greca filosofia. Nei secoli che Petrarca chiamò “bui”, quando l’Europa cristiana dava un esiguo contributo allo studio della filosofia greca classica e molti testi erano spariti dalla circolazione, furono i dotti musulmani a conservare queste opere e tramandare la capacità di interpretarle. E se oggi leggiamo molti dei testi della filosofia classica antica e li interpretiamo efficacemente, è grazie al fatto che gli umanisti europei li scoprirono tramite gli arabi.

Come abbiamo visto, nella mente di quel cronista medievale la battaglia di Tours opponeva gli “europenses” all’Islam, ma i musulmani di al-Andalus, per quanto bellicosi, non pensavano che combattere per la conquista di un territorio volesse dire non condividere delle idee. Intendiamoci: anche nel suo massimo fulgore, sotto ‘Abd ar-Rāḥmān II, che governò dal 912 al 966 e si proclamò califfo di Cordova, al-Andalus non fu certo un paradiso di pluralismo; il carattere di stato autoritario non si poteva scalfire. Eppure, alla fine del primo millennio, a Cordova (all’epoca la più grande città dell’Europa) e in altri centri del Califfato, ebrei, cristiani e musulmani, arabi, berberi, visigoti, slavi e innumerevoli altri popoli crearono una sorta di “gulash culturale” – una miscela speziata di componenti molto diverse fra loro – che produsse un autentico cosmopolitismo.12 Del resto, lo stesso califfo, che, come il padre, aveva una madre proveniente dal Nord cristiano, aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi: la miscela, dunque, in al-Andalus non era soltanto culturale.

Alla corte di Carlo Magno si aggiravano rabbini e studiosi musulmani, ufficialmente non riconosciuti; viceversa, nelle città di al-Andalus c’erano vescovi e sinagoghe. Recemundus, vescovo cattolico di Elvira, fu l’ambasciatore di Cordova a Costantinopoli presso l’imperatore bizantino Costantino VII e ad Aquisgrana presso Ottone I, l’imperatore del Sacro romano impero. Ḥasday ibn Shaprūt, a capo della comunità ebraica di Cordova verso la metà del decimo secolo, non era solo un illustre studioso di medicina, ma era anche il membro più autorevole del consiglio medico del califfo; e quando l’imperatore bizantino mandò al califfo un manoscritto in greco del De materia medica di Dioscoride, su suggerimento di ibn Shaprūt il califfo lo inviò a un monaco greco perché lo traducesse in arabo. Queste conoscenze fecero di Cordova uno dei più importanti centri di medicina d’Europa e del mondo musulmano.13

La traduzione in latino delle opere di ibn Rushd, nato a Cordova nel dodicesimo secolo, fu fondamentale per la riscoperta europea di Aristotele. Ibn Rushd proveniva da una famiglia autorevole di giuristi – il padre e il nonno erano giudici a Cordova – ma, benché come loro avesse studiato il diritto arabo, si dedicò a riscoprire le idee originali di Aristotele, ricoperte dalle incrostazioni secolari del platonismo. In latino era noto come Averroè, o ancora più comunemente come “Il Commentatore”, per i suoi vasti commenti al filosofo greco. Ad esempio, intorno al 1230 il De anima di Aristotele, fino ad allora sconosciuto, venne tradotto, accompagnato da un commento di Averroè, dall’arabo in latino, il linguaggio dei dotti del Medioevo e oltre, probabilmente ad opera dell’astrologo di corte di Federico II, uno dei cui titoli era Re di Gerusalemme. (La traduzione venne terminata mentre Federico si riprendeva dal fallimento della Quinta crociata e stava preparando la Sesta.) Il De anima diventò un libro importante del curriculum filosofico nelle università europee del Medioevo. Così la tradizione classica che avrebbe dovuto distinguere la civiltà occidentale dai discendenti dei califfi si rivela addirittura una sorta di legame di parentela!

Anche i successivi confini della cristianità si dimostrarono più complessi di quanto di solito si crede. All’apice dell’Impero ottomano i nostri fronti di battaglia erano, come potete immaginare, a est. Ma negli ultimi decenni del sedicesimo secolo Elisabetta I regina d’Inghilterra si alleò con il sultano ottomano Muràd III, in parte a causa dell’isolamento dalle grandi potenze cattoliche continentali. (Qualcuno nella sua corte protestante condivideva lo scetticismo di Muràd sul fallimento del cattolicesimo romano nella lotta contro l’idolatria. Il vescovo di Winchester dichiarò che il papa era “un nemico di Cristo più pericoloso dei turchi”, e il papato “più infedele della stessa Turchia”.)14 E l’alleanza franco-ottomana, che sporadicamente durò per ben tre secoli – dai tempi di Solimano il Magnifico fino a Napoleone –, vide soldati cristiani e musulmani combattere fianco a fianco, uniti contro i comuni nemici degli Asburgo.15

La storia della pietra preziosa immagina che la cultura occidentale sia l’espressione di un’essenza trasmessa di mano in mano durante il suo lungo viaggio. Ma in questo libro abbiamo toccato con mano più volte gli inganni di questo pensiero, il cosiddetto essenzialismo: nel secondo capitolo abbiamo visto come si creda (falsamente) che i testi scritti di una religione determinino la sua natura immutabile; nel terzo capitolo è stata la volta della nazione, tenuta insieme nel corso del tempo dalla lingua e dai costumi; nel quarto capitolo abbiamo smontato la condivisione da parte di neri o bianchi di una certa qual quidditas razziale. Nel quinto capitolo abbiamo constatato come sia vano cercare l’essenza delle classi sociali.

In ognuno di questi casi, le persone credevano che un’identità sopravvissuta nel tempo e nello spazio potesse essere sottoscritta da una più ampia e condivisa comunità, in nome di un’essenza che ne racchiudeva tutte le caratteristiche principali. Ma si tratta di un grave sbaglio. Pensate che cos’era l’Inghilterra ai tempi di Chaucer, il “padre della letteratura inglese”, morto ormai più di sei secoli or sono. Prendete un tratto che ritenete distintivo di quel periodo, una qualunque combinazione di costumi, idee e fattori materiali che resero l’Inghilterra di allora tipicamente inglese. Non coinciderà mai e poi mai con ciò che giudicate inglese oggi. Piuttosto, con il passare del tempo, ogni generazione riceve l’etichetta da quelle precedenti, e in ogni generazione l’etichetta porta con sé un’eredità. Ma mentre queste eredità si perdono e vengono scambiate con altri “tesori”, l’etichetta persiste. E così, quando qualcuno di una generazione si sposta altrove, lasciando i territori a cui è legata l’identità inglese – andando, ad esempio, in una nuova Inghilterra, oltreoceano –, l’etichetta viaggia con lui. Insomma, le identità possono essere tenute insieme dalle storie, senza bisogno di discorsi sull’essenza: non ci diciamo “inglesi” perché esiste una qualche essenza intrinseca a questa etichetta; siamo inglesi perché sulla base di determinate regole ci spetta questa etichetta – che ci collega con un luogo chiamato Inghilterra.

Ma, allora, ecco la domanda: come hanno fatto le persone di New York e della vecchia York, di Londra in Ontario e di Londra in Inghilterra, di Parigi in Texas e Parigi in Francia a risultare, tutte quante, connesse a un posto che chiamiamo Occidente e ad avere un’identità come membri di qualcosa che viene denominata “cultura occidentale”?

Un posto chiamato Occidente

In inglese l’idea di un “Occidente” per indicare un’eredità e un oggetto di studio emerge soltanto tra il 1880 e il 1890, durante un’epoca calda di imperialismo, e ottiene ampia diffusione nel ventesimo secolo. Dunque, si tratta di un concetto antico dal nome recente. Parlare di “civiltà” – al plurale – è un ulteriore contributo del diciannovesimo secolo. Quando gli studiosi della fine dell’Ottocento davano una descrizione della civiltà occidentale, essa era in contrasto con la nostra idea attuale: secondo loro le radici erano in Egitto e nell’antica terra dei fenici; o la vera culla erano i porti greci perché lì si concentravano elementi della civiltà egizia, siriana, persiana e indiana; o la civiltà veniva da Oriente.16

L’analoga espressione “cultura occidentale” è sorprendentemente moderna, senz’altro più recente, per dire, del fonografo di Edison. Come abbiamo visto, ci sono dei precedenti nelle idee di “cristianità” ed “Europa”. Nel capitolo precedente, a proposito della “classe”, avevo sottolineato come la storia della parola non fosse sempre uno strumento utile per approfondire la storia dei contenuti, ma in questo caso invece esiste una profonda relazione fra l’etichetta e ciò che essa “etichetta”. Ad esempio, è significativo che Tylor non parli mai di “cultura occidentale”, sebbene non avesse alcun motivo per non farlo, dal momento che era pienamente consapevole delle profonde diversità culturali anche all’interno del proprio paese. Nel 1897 riferisce di un caso di stregoneria avvenuto nel rurale Somerset: una raffica di vento in una locanda aveva scoperto nel camino alcune cipolle arrostite e trafitte da spilloni. “Una cipolla recava il nome di un mio fratello magistrato che il proprietario della taverna aveva particolarmente in odio,” spiega Tylor, “e di cui si sarebbe liberato conficcando e arrostendo la cipolla che lo rappresentava.”17 E questa che cos’è, se non cultura primitiva a tutti gli effetti?

Il tramonto dell’Occidente, scritto da Oswald Spengler nel periodo della Prima guerra mondiale, è stata l’opera con cui molti lettori di tutto il mondo hanno cominciato a familiarizzare con l’idea. (Il titolo tedesco è Der Untergang des Abendlandes, ossia Il tramonto della terra della sera, quella cioè più vicina al sole calante. Una volta il termine si riferiva alle province occidentali dell’antico Impero romano.) Eppure il concetto di Occidente di Spengler è incredibilmente diverso da quello comune diffuso oggi. Il filosofo tedesco rifiutava la convinzione che ci fosse una continuità tra cultura occidentale e mondo classico. “La parola Europa dovrebbe essere cancellata dalla storia,” rincarava la dose. “Un ‘europeo’ come tipo storico non esiste.”18Secondo lui l’Occidente si distingueva in opposizione alla cultura classica, a quella antica dei cristiani (e degli ebrei e dei musulmani), e da ultimo a quella “semiprogredita” degli slavi. Per altri, invece, le invasioni ottomane restavano la chiave di volta: durante un viaggio nei Balcani alla fine degli anni trenta del ventesimo secolo, la scrittrice Rebecca West riferì il parere del marito, il quale disse: “È ancora terribilmente recente la ferita che ha sconvolto dalle fondamenta la nostra cultura occidentale”. La “ferita recente” in questione era l’assedio di Vienna da parte dei turchi del 1683!

Se l’idea di cristianità era il risultato di una prolungata serie di scontri militari con gli eserciti musulmani, la nostra nozione moderna di culturale occidentale assunse in gran parte la forma attuale tra la fine degli anni quaranta e gli anni cinquanta del ventesimo secolo, durante la cosiddetta Guerra fredda. In quel periodo turbolento forgiammo una maestosa narrazione che andava da Platone alla Nato, e toccava la democrazia ateniese, la Magna Charta, la rivoluzione copernicana ecc.19 Dunque, i tratti fondamentali della cultura occidentale erano l’individualismo, la democrazia, la libertà, la tolleranza, il pensiero progressista, razionale e scientifico. Non dimentichiamoci però che l’Europa premoderna non aveva nessuna di queste caratteristiche e che fino al secolo scorso la democrazia era l’eccezione in Europa, un valore che pochi sostenitori del pensiero occidentale avrebbero abbracciato convintamente. L’idea che la tolleranza fosse alla base di una presunta cultura occidentale avrebbe sorpreso Edward Burnett Tylor, il quale, da quacchero, era stato messo al bando dalle più prestigiose università inglesi. (La sua nomina a Oxford arrivò dopo l’approvazione dell’Universities Tests Act del 1871, una legge che permise a chi non era anglicano di entrare a Oxford e Cambridge.) A ben pensarci, se la cultura occidentale esistesse davvero, non avremmo impiegato tutto questo tempo a parlarne. La “cultura”, qualunque essa sia, depositandosi su di noi come una bassa nebbia avvolgente, ha avuto il suo bel da fare. Ammetto che a volte mi sono chiesto se la nozione di cultura non sia come l’etere luminifero che i fisici del diciannovesimo secolo avevano ideato come mezzo di propagazione delle onde luminose, e alla fine spieghi meno di quanto si vorrebbe.

Eppure, tutti questi svolazzi storici e intellettuali non hanno scoraggiato fior fiore di studiosi dall’accettare quella narrazione che da Platone arriva fino alla Nato. “La libertà è l’essenza della cultura occidentale, il principio dei suoi trionfi, il centro focale della sua diffusione,” così dichiarò il filosofo e storico francese Raymond Aron a metà degli anni cinquanta del secolo scorso. Più di recente, la storica Gertrude Himmelfarb ha ribadito che la giustizia, l’uso della ragione e l’amore per l’umanità “sono, di fatto, valori prevalentemente, se non quasi esclusivamente, occidentali”.20

Una volta che “cultura occidentale” poteva risultare un’espressione elogiativa, essa si è prestata anche a diventare il suo opposto, un’espressione dispregiativa. Del resto, chi criticava la cultura occidentale, fornendone un’immagine negativa – trasformando le luci in ombre, e ponendo l’accento sulla schiavitù, la sottomissione, il razzismo, il militarismo e il genocidio –, commetteva lo stesso errore di essenzialismo: soltanto che, anziché una pietra preziosa, vedeva un fungo velenoso.

La filosofia dell’“ing”

Nelle modalità finora indagate, l’affermazione di una identità procede immancabilmente attraverso dinamiche di contrasto o di opposizione, e in questo caso alcuni studiosi si soffermano su un altro supposto mondo culturale, quello dell’Africa. In una battaglia contro le ideologie vittoriane dell’“eurocentrismo”, qualche osservatore aveva alzato gli scudi di un altro “ismo”, l’“afrocentrismo”. Eppure, gli “afrocentristi” sono stati spesso in dubbio se la cultura occidentale fosse un fardello da cui liberarsi o una conquista da rivendicare. Negli anni cinquanta del ventesimo secolo il letterato senegalese Cheik Anta Diop sostenne con forza le origini africane della civiltà greca (che, dunque, derivava da una civiltà egizia estremamente sviluppata, dove gli antichi egizi erano neri). Restavano però molte questioni spinose: ad esempio, se l’Occidente era nato dalla Grecia, nata a sua volta dall’Egitto, perché allora le popolazioni nere non avevano ereditato la stessa tradizione morale in ragione dell’etnocentrismo? Altri afrocentristi suggerivano uno sviluppo separato, contenti di non prendere in considerazione la Grecia e di enfatizzare invece le conquiste di civiltà tipicamente africane. In entrambi i casi, un modello del genere di trasmissione culturale si trova di fronte a un problema. Se l’ideologia della “cultura occidentale” comporta un’improbabile unità, da Alessandro il Grande ad Alfredo e Federico il Grande, senza distinzione di sorta, anche il pensiero dell’afrocentrismo avanza richieste analoghe per l’unità culturale africana.

Dove trovare un’essenza unificatrice? Molti si ispirarono al libro di Janheinz Jahn, Muntu. African Cultures and the Western World, pubblicato con grande successo negli Stati Uniti negli anni sessanta. L’autore era uno studioso tedesco di letteratura che, in parte per il legame di amicizia con il poeta e politico senegalese Léopold Sédar Senghor, diventò un sostenitore entusiasta della “négritude”, un movimento che evidenziava i punti in comune culturali e razziali delle persone di origine africana. Curiosamente, però, Jahn scoprì la forza della cultura africana dall’altra parte esatta del mondo, lontano dal continente africano, e la individuò nel concetto di “ntu”. Si tratta dell’ultima sillaba delle parole di lingua bantu-kinyarwanda “muntu” (persona), “kintu” (cosa), “hantu” (posto e tempo), “kuntu” (modo). “Ntu,” sosteneva Jahn, “rappresenta la forza universale.” Per gli africani spirito e materia sono strettamente legati, nella “forza cosmica e universale” di “ntu” che “unisce essere e esseri”. Al centro del mondo concettuale africano, dunque, c’era una nozione da cui i razionalisti occidentali si erano allontanati da tempo immemorabile: una profonda armonia e coerenza di tutte le cose.21

Quando mi confrontai per la prima volta con queste argomentazioni, ricordo che non potei fare a meno di immaginarmi una studiosa africana che torna da Londra a Lagos con una clamorosa notizia: ha scoperto la chiave della cultura occidentale. Così pubblica th-ingLa cosa. La cultura occidentale e il mondo africano, un’opera che espone la filosofia dell’“ing” in modo brillante ed esaustivo. Dunque, nella visione euroamericana l’“ing” è la profonda essenza dinamica del mondo. Nella struttura stessa delle parole inglesi do-ing, mak-ing, mean-ing, gli inglesi (e, per estensione, tutti gli occidentali) esprimono la compiuta realizzazione del loro pensiero, ma il cuore più intimo della questione risiede nella categoria ontologica di “cosa”, th-ing: ogni cosa, th-ing – o essere, be-ing, come dicono i saggi con la terminologia più specifica di una delle loro società segrete – non è stabile ma in perenne mutamento. Ecco svelata la spiegazione dell’incredibile amore per le novità della cultura occidentale: la realtà è cambiamento.

Naturalmente sto facendo una caricatura: a tali livelli di astrazione praticamente tutto e il contrario di tutto possono rientrare in un’idea di cultura. Quando le culture non occidentali sono esaltate per il loro senso della collettività e della cooperazione, per la spiritualità, di solito è per criticare certi difetti opposti dell’Occidente come il materialismo sfrenato, l’individualismo senza limiti e lo sfruttamento vorace. Ma anche questo comportamento critico fa parte del repertorio occidentale: la prospettiva di un osservatore esterno non occidentale è stata spesso utilizzata per commentare la società, soprattutto in certi epistolari di fantasia come le Lettere persiane di Montesquieu del 1721 (in cui, ad esempio, uno dei viaggiatori persiani annota amaramente: “E così posso assicurarti che non vi è mai stato regno in cui ci siano state tante guerre civili come nel regno di Cristo”),22 o le Letterecinesi di Oliver Goldsmith del 1761 (note anche come Il cittadino del mondo, in cui un filosofo cinese in visita a Londra si stupisce che, mentre “gli accordi di pace sono stesi con la massima precisione e ratificati con impeccabile solennità […] i popoli d’Europa sono quasi sempre in guerra tra loro”). L’obiettivo è, per usare le parole di Robert Burns, “vedere noi stessi come ci vedono gli altri”,23 o almeno cercare di immaginare come ci potrebbero vedere.

Tentazioni organicistiche

Semplicemente per questioni di dimensioni, parlare di “cultura occidentale” suona subito piuttosto implausibile. Al centro della sua identità c’è l’imbarazzo della scelta quanto a conquiste intellettuali e artistiche: filosofia, letteratura, arte, musica, gli studi umanistici, insomma quel genere di cose che Arnold apprezzava. Ma se la cultura occidentale era di casa a Troyes alla fine del dodicesimo secolo quando Chrétien scriveva, be’ allora aveva ben poco a che fare con la vita della stragrande maggioranza dei suoi concittadini, che non conoscevano né il latino né il greco, e non avevano la più pallida idea di chi fosse Platone. Oggi negli Stati Uniti l’eredità classica non svolge certo un ruolo più importante nell’esistenza quotidiana di milioni di americani. Guardiamoci intorno nelle nostre moderne metropoli, che devono essere i centri della civiltà occidentale, se un centro esiste: ci sono musei, biblioteche, teatri, auditori a profusione. Sono queste conquiste – che tanto piacerebbero ad Arnold – a tenerci uniti come cittadini? Certo che no. Quello che fa da collante è piuttosto la cultura nell’accezione ampia di Tylor: il nostro modo di vestirci e salutarci, le abitudini e i comportamenti che modellano le relazioni tra uomini e donne, genitori e figli, poliziotti e civili, commercianti e clienti. Gli intellettuali come me hanno il vizio di pensare che ciò che interessa a loro interessi a tutti. Non dico che siano quisquilie, ma senz’altro contano meno di quanto farebbe pensare la storia della pietra preziosa.

Allora come abbiamo gettato il ponte sull’abisso? Fuor di metafora: come siamo riusciti a convincerci di essere i legittimi eredi di Platone, san Tommaso e Kant, quando la materia delle nostre esistenze è fatta più che altro di Justin Bieber e Kim Kardashian? Be’, fondendo la visione di Tylor con quella di Arnold, il regno dell’ideale con quello del quotidiano. E la chiave si trovava già nell’opera di Tylor.

Ricordate la sua famosa definizione di cultura? Inizia con l’espressione “insieme complesso”.24Ecco, possiamo chiamare questo approccio “organicismo”: la cultura non è un libero assemblaggio di frammenti disparati, ma qualcosa di unitario e organico, dove ciascun componente, come gli organi in un corpo, occupa un posto preciso ed è essenziale al funzionamento complessivo. Le canzoni dell’Eurovision Song Contest, le figure di Matisse, i dialoghi di Platone fanno tutti parte di un insieme più ampio, e come tali, ognuno di essi ha un ruolo nel nostro “bagaglio culturale”, per così dire, anche se personalmente non li conosciamo. È la nostra eredità, il nostro patrimonio. L’organicismo spiegava come la nostra quotidianità poteva convivere con la famosa pietra preziosa.

Il problema è che non esiste un unico grande insieme chiamato “cultura” in cui tutti questi elementi sono uniti in modo organico. Certo, ci sono elementi organici nella nostra vita culturale: ad esempio, la musica, le parole, il disegno e la coreografia di un’opera lirica vanno in questa direzione. Si tratta di quella che Richard Wagner chiamava Gesamtkunstwerk, opera d’arte totale. Ma in senso tyloriano le culture dell’Atlantico del Nord non sono così compatte, non sono un insieme organico unico. Nel cuore dell’Occidente un paese come la Spagna ha resistito per ben due generazioni alla democrazia liberale – democrazia che ha fatto prima ad attecchire in India e in Giappone, la patria per eccellenza del dispotismo orientale. L’eredità culturale di Thomas Jefferson – i valori dell’antica Atene, la libertà anglosassone – non ha impedito agli Stati Uniti di creare una repubblica schiavista. Né, d’altro canto, l’avversione cristiana alla pratica dell’adulterio gli ha impedito di avere figli da Sally Hemings, la sua schiava. Allo stesso tempo, Franz Kafka e Miles Davis possono convivere felicemente insieme, anzi forse più felicemente di quanto potrebbero fare Kafka e il suo illustre concittadino austroungarico Johann Strauss, il re del valzer (i racconti intrisi di tetra comicità dello scrittore praghese non sono adatti per un allegro tre quarti…). L’hip-hop riecheggia nelle strade di Tokyo come in quelle di Takoradi in Ghana o di Tallinn in Estonia. Lo stesso vale per la cucina. Negli anni della mia giovinezza gli austeri britannici preferirono il pollo al curry al fish and chips (e mai scelta fu più saggia).25

Abbandonato dunque l’organicismo, possiamo delineare un quadro più cosmopolita in cui ogni elemento culturale – dalla filosofia o dalla cucina al modo di muoversi – è distinto, in linea di principio, da tutti gli altri: possiamo camminare e parlare in una maniera riconoscibile come afroamericana e adorare Immanuel Kant e George Eliot, esattamente come Bessie Smith e Martin Luther King, icone nere. Nessuna “essenza” musulmana impedisce agli abitanti del dār al-Islām di attingere a piene mani alle conquiste della civiltà occidentale, democrazia compresa. Come nessuna “essenza” occidentale proibisce a un newyorchese da generazioni di abbracciare l’Islam. In qualunque parte del mondo viviamo, Li Po può essere uno dei nostri poeti preferiti, anche se abitiamo a migliaia di chilometri dalla Cina.

Appropriazioni culturali

In qualche oscuro recesso di internet, fanatici dell’idea dell’Europa o del Nordamerica come patria della razza bianca celebrano le conquiste che attribuiscono all’Occidente. Mescolano insieme Shakespeare e nazionalsocialismo, Euclide ed eugenetica, Dante e democrazia. Il movimento tedesco di estrema destra Pegida (Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes, vale a dire Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente) ha inneggiato alla “preservazione e protezione della nostra cultura ebreo-cristiana”, esibendo una piacevole parola composta (“ebreo-cristiana”) il cui trattino nasconde una storia tragica di massacri, espulsioni e genocidi.26 Lascio volentieri ai nazionalisti bianchi il nazismo e l’eugenetica, ma da parte mia non invidio a nessuno le cose che anch’io amo, perché, al pari di Arnold, posso amare il meglio della tradizione di ognuno, condividendolo felicemente con gli altri. Eppure, se qualcuno crede nell’esistenza di una specie di essenza razziale, connessa a un nucleo organico, un Geist che pervade la cultura occidentale, costui non ha capito niente. Il meglio della cultura nell’accezione di Arnold attraversa razze, luoghi e tempi. Uno dei grandi cicli poetici di Goethe è il Divano occidentale-orientale: esso si ispira al poeta persiano Hafez, vissuto nel quattordicesimo secolo, la cui tomba a Shiraz è ancora oggi meta di pellegrinaggi. (“Divan” in persiano vuol dire raccolta di poesie, canzoniere, così il titolo goethiano è un esplicito omaggio a quella secolare tradizione.) Bashō, il sublime autore di haiku del diciassettesimo secolo, è stato ampiamente influenzato dal buddismo zen, così un indiano – Siddharta Gautama, il Budda – fa parte dell’eredità del poeta giapponese. Il trono di sangue di Kurosawa – con il minaccioso castello arroccato sul monte Fuji avvolto nelle nebbie – è una superba rilettura cinematografica del Macbeth.

Ecco perché dovremmo assolutamente evitare di usare l’espressione “appropriazione culturale” come se fosse un’accusa. Ogni pratica e prodotto culturale è mobile: per sua natura ama spostarsi e quasi sempre è il risultato di una mescolanza. Il kente, così tipico dell’Ashanti, è stato realizzato per la prima volta con della seta tinta, proveniente dall’Oriente. Insomma abbiamo preso qualcosa fatto da altri e lo abbiamo reso nostro. O meglio, è successo tutto nel villaggio di Bonwire. Dunque gli ashanti di Kumasi si sono appropriati di qualcosa che apparteneva alla cultura di Bonwire? Ma, del resto, i proprietari putativi possono essere considerati i primi ad aver compiuto l’appropriazione.

Il problema vero non è la difficoltà nel decidere a chi spetta una determinata cultura: l’idea stessa della proprietà è un modello sbagliato. La clausola sul copyright inserita nella costituzione americana (la cosiddetta Copyright Clause) è il possibile precedente per questa idea. Così recita: “Per promuovere il progresso della scienza e delle arti utili, assicurando per un determinato arco di tempo agli autori e inventori il diritto esclusivo sui rispettivi scritti e scoperte”. Ma le arti sono progredite benissimo nelle culture tradizionalmente prive di queste protezioni, e i prodotti e le pratiche di un gruppo – le canzoni e le storie, ma anche i segreti – non acquistano un significato più profondo alla luce della proprietà, né diventano più efficaci se restano legati alle loro origini.

Per secoli la gente dell’isola veneziana di Murano è vissuta grazie all’arte del vetro che aveva raggiunto livelli altissimi. I loro gioielli, con filamenti colorati, anche d’oro, erano tra le meraviglie artistiche del mondo. Per mantenere il cospicuo vantaggio commerciale, lo stato di Venezia proibì ai maestri vetrai di espatriare, con il rischio di svelare i preziosi segreti a estranei: pena la morte. Bene per Murano e i suoi profitti; male per tutti gli altri. (Come succede sempre, moltissimi artigiani riuscirono lo stesso a espatriare, diffondendo le loro conoscenze nel resto dell’Europa.) Già al volgere del diciassettesimo secolo i vetri veneziani erano importati in Costa d’Oro, dove arrivavano dal Sahara e costituivano una parte importante dei commerci con cui l’impero del Mali si era consolidato da secoli. Rotti e fusi per ricavare nuovi oggetti, i vetri diedero vita al caratteristico bodom ancora oggi in voga in Ghana, perle di vetro che mia madre e mia nonna usavano per fare braccialetti e collane.27 Quale progresso ci sarebbe stato se i veneziani avessero continuato a custodire gelosamente le tecniche di lavorazione del vetro? Sfortunatamente le potenti lobby del commercio hanno diffuso a livello mondiale l’idea della proprietà intellettuale, che oggi sembra dominare in tutto il mondo, e così accettare l’idea dell’“appropriazione culturale” consente di acquistare nel regime che esse favoriscono, dove le aziende si comportano da “guardiani culturali” e “posseggono” l’ambito tesoro della “proprietà intellettuale”, ricavando profitto dalla concessione ad altri di questo “bene”.

Ciò non vuol dire che le accuse di appropriazione culturale siano sempre infondate. Di solito, dove c’è un problema, ci sono in gioco forme di sopruso derivate da disuguaglianze nella gestione del potere: semplicemente l’appropriazione culturale è la diagnosi sbagliata. Quando Paul Simon fa una fortuna grazie alla musica mbaqanga del Sudafrica, è lecito domandarsi se il ricco americano ha dato agli africani molto più poveri che gliel’hanno insegnata la giusta parte che spetta loro. In caso contrario, non è un problema di furto culturale, ma di sfruttamento vero e proprio. Se siamo sioux, il nostro popolo ci appare ridicolizzato quando qualche confraternita universitaria indossa un finto copricapo di piume, simbolo della nostra antica tribù, e imita una goffa danza della pioggia. Ancora una volta il problema non è l’appropriazione, ma la mancanza di rispetto. Immaginiamo come debba sentirsi un rabbino ortodosso alla vista di un video in cui un cantante pop plurimilionario intona il kaddish per piangere la scomparsa di una Maserati che ha appena demolito contro un muro. L’offesa non è di certo l’appropriazione; è l’insulto che ne consegue, con la banalizzazione – nella migliore delle ipotesi – di qualcosa che un altro gruppo ritiene sacro. Chi vede queste trasgressioni in termini di proprietà ha accettato un sistema commerciale che è estraneo alle tradizioni da proteggere. In ultima analisi, ha permesso che un moderno regime capitalistico si appropriasse di quelle tradizioni.

Cultura come progettualità

Benché la nozione di cultura di Tylor ci abbia aiutati a creare la nostra, non era esattamente lanostra. A differenza di molti colleghi, egli considerava la cultura come qualcosa che si acquisiva e si trasmetteva, e non come un prodotto dell’eredità razziale. Tuttavia lo studioso non ha mai usato la parola al plurale: era un progressista (come Arnold, del resto) che pensava in termini di passaggi, da una condizione selvatica a una più prospera di civiltà. Eppure il suo interesse per la vasta gamma culturale presente nel mondo riconosceva l’umanità di quelli che studiava, in un modo che ridefinì un’intera disciplina. Per lui la cultura non era qualcosa di vago. Tylor amava i manufatti, che collezionava, benché una volta la sua folta barba si fosse impigliata in un arco che stava mostrando ai suoi studenti o i tentativi di accendere il fuoco con la selce non finissero sempre bene. Quando andò in pensione, lasciò alla sezione di antropologia di Oxford la sua enorme biblioteca, con una precisa raccomandazione: qualunque fossero le tue origini, potevi penetrare a fondo in altre forme di vita, ma bisognava lavorare sodo.

Tocca anche a noi farlo. Questo proposito può iniziare con l’ammissione che la cultura è caotica e stratificata, per nulla lineare e cristallina. E che non c’è alcuna essenza che ci rende quelli che siamo. Certo, le storie che collegano Platone o Aristotele, Cicerone o sant’Agostino al mondo contemporaneo americano o europeo hanno in sé un fondo di verità: queste grandi arcate sono sostenute dalle secolari colonne del sapere e del ragionamento. Non dimentichiamoci mai di quei cristiani del Medioevo che attraverso la lettura di Averroè cercano Aristotele; o di Chrétien de Troyes che attribuisce la cavalleria all’antica Roma. La delusione viene dal fatto di pensare che sia sufficiente avere accesso a questi valori, come se fossero una playlist di Spotify che non abbiamo ancora ascoltato. Questi pensatori possono far parte della nostra cultura come la intendeva Arnold, ma niente ci garantisce che il loro messaggio continuerà ad avere un senso per i figli di coloro che li considerano dei capisaldi, non più di quanto la centralità secolare di Aristotele nel pensiero musulmano garantisca al filosofo greco un posto di rilievo nelle comunità arabe di oggi.

I valori non sono un diritto acquisito per nascita: vanno coltivati. Vivere in Occidente, essere occidentali – qualunque significato abbiano per noi queste espressioni – non garantisce di per sé che avremo cura della relativa civiltà. I valori abbracciati dagli umanisti europei appartengono sia a un africano sia a un asiatico che li segue, non meno che a un europeo. Anzi, a rigor di logica tali valori nonappartengono a un europeo che non si è impegnato a capirli e assorbirli. Naturalmente lo stesso vale per le culture che noi chiamiamo “non occidentali”. La storia della pietra preziosa suggerisce che non possiamo fare a meno di occuparci delle tradizioni dell’Occidente perché sono le nostre. Ma, a ben pensarci, è anche vero il contrario: sono le nostre tradizioni soltanto se ci occupiamo di esse. Una cultura di libertà, tolleranza e razionalità: ecco, questa sarebbe una buona idea. Ma questi valori rappresentano scelte da fare, non dei semplici sentieri tracciati da un fantomatico Destino occidentale.

Nel 1917, l’anno della morte di Tylor, quella che noi abbiamo imparato a chiamare “civiltà occidentale” era precipitata in uno scontro mortale con se stessa: le nazioni della Triplice intesa e le potenze dell’Europa centrale si scagliavano addosso masse di corpi le une contro le altre, mandando a morte migliaia di giovani al grido “Difendiamo la civiltà”. I campi intrisi di sangue e le trincee avvelenate dai gas devono aver sconvolto le speranze illuminate e progressiste di Tylor e confermato i peggiori timori di Arnold sul reale portato della civiltà. Ma i due antropologi almeno su un punto si sarebbero trovati d’accordo: la cultura non è un test a risposte multiple sull’umanità; è un processo a cui l’unico modo di partecipare è vivere in armonia con gli altri.

EPILOGO 


Conoscete questa poesia? Konstantinos Kavafis – se mi è consentito introdurre un ultimo personaggio in chiusura – fu un poeta la cui identità era segnata da un punto interrogativo, proprio come Italo Svevo. Nato due anni dopo Svevo, morì a pochi anni di distanza da lui. Kavafis era un greco che non visse mai in Grecia. Impiegato governativo di fede cristiano-ortodossa cresciuto in un ex stato dell’Impero ottomano passato sotto il controllo inglese, trascorreva le serate passeggiando, cercando le divinità pagane nelle loro incarnazioni terrene e sensuali. Pubblicò pochissimo in vita, soltanto in edizioni limitate che distribuiva tra gli amici più intimi: un uomo la cui patria era un quartiere e un sogno. Molta della sua poesia è una mappa di Alessandria combaciante con il mondo della classicità – la moderna Alessandria e l’antica Atene – nel modo in cui la Dublino di Leopold Bloom si sovrappone alla Itaca di Ulisse. Nessun verso descrive meglio questo genio alessandrino delle parole dello scrittore Edward Morgan Forster che lo definì un “gentiluomo greco in paglietta, ritto in piedi e assolutamente immobile, ma posto lievemente di sbieco rispetto all’universo”.2 E al termine del nostro viaggio chiamo in causa Kavafis perché credo che, nella sua apparente anomalia, sia particolarmente rappresentativo di ciò che abbiamo detto.

Le poesie, come le identità, non hanno mai una sola interpretazione. Nella lirica In attesa dei barbari colgo una riflessione sulle promesse e i pericoli dell’identità. Per tutto il giorno hanno tenuto banco l’ansia e le aspettative degli abitanti: stanno aspettando i barbari che verranno a prendersi la città. L’imperatore con la corona in testa, i consoli nelle loro sgargianti toghe color porpora, il senato in silenzio, gli oratori muti, il popolo radunato: tutti in attesa di salutare il nuovo arrivo. Ma poi cala la sera e i barbari non arrivano: resta soltanto la delusione. Anche noi non vediamo mai i barbari. Non sappiamo chi sono. Ma il potere della nostra immaginazione ci fa vedere lo straniero, l’intruso, l’estraneo. E, come suggerisce Kavafis, è possibile che la semplice prospettiva del suo arrivo ci abbia salvati da noi stessi.

Come ho cercato di dimostrare in queste pagine, le etichette a cui aderiamo, le etichette che – volenti o nolenti – subiamo, agiscono sempre, anche a dispetto degli errori che le riguardano. Kavafis non era esattamente omosessuale, né esattamente greco o egiziano, né esattamente ortodosso o pagano. Ma ognuna di queste etichette ci racconta un pezzo di lui, se prestiamo attenzione al modo con cui egli le ha declinate. E l’Alessandria di Kavafis – come la Trieste di Svevo, come la meravigliosa città in cui vivo – era proprio quella fertile mescolanza che poteva dare spazio a ognuno di quei tratti distintivi, attraverso un’animata negoziazione con amici e conoscenti, un confronto costruttivo con la città: così il poeta poté plasmare una personalità che non era soltanto ostaggio delle varie identità che si agitavano in lui, ma era anche libera dal loro condizionamento. Nell’ultimo capitolo ho affermato che le nostre più ampie identità culturali possono renderci liberi soltanto se ci prefiggiamo di elaborare il loro significato tutti insieme e con consapevolezza. Non si può essere occidentali senza scegliere il proprio modo di essere tra miriadi di possibilità, proprio come non si può essere cristiani o buddisti, americani o ghanesi, omosessuali o eterosessuali, uomini o donne, senza riconoscere che ognuna di queste identità può essere vissuta in molteplici maniere.

La comunità a cui apparteneva Kavafis – la cosmopolita città di Alessandria – è scomparsa da tempo: la fine del protettorato britannico e la nascita del nazionalismo arabo hanno reso la città meno ospitale ai tanti e variopinti stranieri che la abitavano. In Miramar, romanzo del 1967 dello scrittore egiziano Nagib Mahfuz, la proprietaria di origine greca dell’eponima pensione riflette sulla sua gente: “No, non è più come ai vecchi tempi”. Monsieur Amer, un anziano amico egiziano, ospite della locanda, cerca di consolarla: “Siamo noi la tua famiglia, e in questo mondo ne succedono tanti di questi fatti”.3 Sacrosante parole. Ma così facendo (e dicendo) si va anche, purtroppo, nella direzione opposta: verso un’immaginaria purezza, un’essenza irreale, l’insistenza su un singolo significato di un’etichetta i cui significati invece devono essere aperti e oggetto di discussione. Se l’essenzialismo è un passo falso nell’ambito del credo, del colore, della nazione, della classe e della cultura, così come in quello del genere e della sessualità, allora vuol dire che l’identità ci lascia sempre scegliere. Gli esistenzialisti avevano ragione: l’esistenza precede l’essenza, noi siamo, prima di essere qualcosa in particolare. Ma il fatto che le identità non abbiano essenze non significa che siano prive di relazioni. Come il fatto che abbiano bisogno di interpretazioni e negoziazioni non implica che ognuno di noi possa fare di loro quel che vuole.

Le etichette appartengono alle comunità: sono un bene sociale. E la morale e la prudenza politica ci invitano a farle funzionare a vantaggio di tutti quanti. Nel corso della mia vita ho seguito, ho imparato, ho partecipato alla ridefinizione di ciò che vuol dire essere uomini e donne (e a volte nessuno dei due) nei diversi luoghi connessi tra loro in cui ho vissuto. Senza un ripensamento complessivo del genere che ci ha progressivamente liberati dai vecchi pregiudizi patriarcali, non avrei mai potuto vivere la mia vita di omosessuale, sposato con un altro uomo, sia in pubblico sia nel privato. Questa vita è stata resa possibile grazie alle lotte e ai contributi, grandi e piccoli, di altre persone, e ai rischi che mi sono preso con amici, colleghi e familiari. Se fossi rimasto in Ghana, dove sono cresciuto, come altri gay e lesbiche ghanesi, avrei avuto ancora molta strada da percorrere. Ma nel frattempo le donne della regione di Ashanti, più autonome che in molte altre parti del mondo, hanno visto i loro sforzi crescere e prosperare, e così molto di ciò che un tempo era considerato impossibile per le donne – perché erano donne, per la loro stessa presunta essenza – adesso è possibile; e si riconosce che un mondo di donne più protagoniste è anche vantaggioso per gli uomini.

Una fantasia liberale vuole che le identità si possano semplicemente scegliere, in modo da avere la completa libertà di essere ciò che si desidera. Ma le identità senza richieste precise rischiano di essere inutili. Esse funzionano soltanto perché, una volta che si sono impossessate di noi, ci comandano, parlandoci con una voce interiore; e perché gli altri, vedendoci in un determinato modo, si rivolgono a noi. Se non ci preoccupiamo delle forme che le nostre identità hanno assunto, non possiamo rifiutarle: esse non appartengono esclusivamente a noi. Dobbiamo invece lavorare con gli altri all’interno e all’esterno del gruppo di riferimento, per cercare di ridefinirle in modo che si adattino meglio a noi; e questa operazione collettiva si può compiere soltanto se riconosciamo che i risultati servono anche agli altri.

Nella poesia Muri Kavafis scrive:

Senza alcun riguardo, né vergogna, o compassione
hanno eretto tutto attorno a me massicci ed alti muri.
E qui, adesso, sto seduto e mi dispero.
Non penso ad altro; mi rimorde la mia sorte nella mente:
poiché ancora tanto c’era da fare per me, là fuori.4

Tutti noi abbiamo molte cose da fare “là fuori”, nel mondo. E il problema non sono tanto i muri in sé, quanto quelli che ci circondano: non hanno porte o finestre, bloccano la nostra vista e ostruiscono il nostro cammino, non ci lasciano respirare aria fresca e rigenerante.

Tutte le identità di cui ci siamo occupati possono diventare forme di isolamento, errori concettuali che ne sottoscrivono altri morali. Ma possono anche fornire una cornice ricca di senso alla nostra libertà: le identità di classe, quelle Lgbtq, quelle nazionali e religiose hanno combattuto importanti lotte in tutto il mondo. Le donne, negoziando la intersezionalità, hanno lavorato insieme al di là di ogni distinzione di ceto e linguaggio, credo e stato, in una protesta globale contro l’oppressione e le disuguaglianze. Le identità sociali inseriscono la piccola dimensione quotidiana in cui viviamo con amici e parenti in una scala più ampia di movimenti, principi e interessi. Possono contribuire a un mondo più comprensibile, vivo e animato. Possono estendere i nostri orizzonti a comunità più ampie di quelle che personalmente riusciamo a frequentare. E così, anche le nostre esistenze acquistano un senso più compiuto, in tali contesti. Viviamo in un’epoca in cui le nostre azioni, nel campo dell’ideologia come della tecnologia, hanno effetti sempre più globali. Quando si arriva all’ambito delle nostre preoccupazioni e affetti, l’umanità come tale non è un orizzonte troppo vasto.

Viviamo con altri sette miliardi di nostri simili su un piccolo pianeta che si sta riscaldando sempre di più. L’impulso cosmopolita che alimenta la nostra comune umanità non è più un semplice capriccio: è diventata una necessità. E nel ripensare questo antico e nobile ideale ci congediamo menzionando qualcuno che è una presenza costante nella cosiddetta civiltà occidentale: il commediografo latino Terenzio. Uno schiavo dell’Africa romana, un interprete delle commedie greche, uno scrittore dell’Europa classica che, come Anton Wilhelm Amo, si faceva chiamare l’Africano. Questo pensava Publio Terenzio Afro più di duemila anni fa:

Sono un uomo, niente di umano ritengo a me estraneo (Homo sum, humani nihil a me alienum puto).

Ecco un’identità che ci dovrebbe tenere tutti quanti uniti insieme.