mercoledì 14 luglio 2021

TOKYO EXPRESS Matsumoto Seichō

 


TOKYO EXPRESS

Matsumoto Seichō

La trama

In una cala rocciosa della baia di Hakata, i corpi di un uomo e di una donna vengono rinvenuti all’alba. Entrambi sono giovani e belli. Il colorito acceso delle guance rivela che hanno assunto del cianuro. Un suicidio d’amore, non ci sono dubbi. La polizia di Fukuoka sembra quasi delusa: niente indagini, niente colpevole. Ma, almeno agli occhi di Torigai Jutaro, vecchio investigatore dall’aria indolente e dagli abiti logori, e del suo giovane collega di Tokyo, Mihara Kiichi, qualcosa non torna: se i due sono arrivati con il medesimo rapido da Tokyo, perché mai lui, Sayama Ken’ichi, funzionario di un ministero al centro di un grosso scandalo per corruzione, è rimasto cinque giorni chiuso in albergo in attesa di una telefonata? E perché poi se n’è andato precipitosamente lasciando una valigia? Ma soprattutto: dov’era intanto lei, l’amante, la seducente Otoki, che di professione intratteneva i clienti in un ristorante? Bizzarro comportamento per due che hanno deciso di farla finita. Per fortuna sia Torigai che Mihara diffidano delle idee preconcette, e sono dotati di una perseveranza e di un intuito fuori del comune. Perché chi ha ordito quella gelida, impeccabile macchinazione è una mente diabolica, capace di capovolgere la realtà. Non solo: è un genio nella gestione del tempo.Con questo noir dal fascino ossessivo, tutto incentrato su orari e nomi di treni – un congegno perfetto che ruota intorno a una manciata di minuti –, Matsumoto ha firmato un’indagine impossibile, ma anche un libro allusivo, che sa con sottigliezza far parlare il Giappone.


I
I TESTIMONI

La sera del tredici gennaio Yasuda Tatsuo invitò a cena uno dei suoi clienti al ristorante Koyuki di Akasaka. L’invitato era un alto funzionario di un certo ministero.

Yasuda era a capo di una ditta che produceva macchinari industriali. Negli ultimi anni, la ditta era molto cresciuta e si diceva che questa crescita fosse dovuta al gran numero di ordinativi da parte del governo. Ecco perché Yasuda usava invitare al Koyuki quel genere di persone. E ci andava spesso.

Non era certo tra i migliori della zona, ma proprio per questo ci si sentiva tranquillo e a proprio agio, diceva. Inoltre le ragazze che intrattenevano i clienti erano tutte di prima scelta. Yasuda era considerato un buon cliente, uno che non badava a spese. Lo definiva il suo «investimento» e gli ospiti erano di quelli che si facevano influenzare. Quanto a lui, non lasciava mai trapelare con le ragazze chi fossero i suoi invitati, nonostante con alcune di loro avesse ormai una certa confidenza.

In quel periodo si faceva un gran parlare di uno scandalo che, in autunno, si era abbattuto sul ministero e pare che vi fossero implicati molti uomini d’affari. Per il momento riguardava soprattutto i gradi più bassi, ma i giornali prevedevano il coinvolgimento dei vertici già a partire dalla primavera.

La situazione era difficile e Yasuda divenne ancora più cauto riguardo ai suoi ospiti. Con alcuni di loro era stato visto anche sette o otto volte. Le ragazze li chiamavano signor X o signor Y e della loro vera identità non sapevano nulla. Intuivano soltanto che si trattava per lo più di alti funzionari statali. In ogni caso questo non aveva importanza. Era Yasuda a pagare, e al Koyuki dovevano solo cercare di compiacerlo.

Yasuda Tatsuo aveva trentacinque o trentasei anni, la fronte spaziosa, il naso pronunciato. Il colorito era leggermente scuro, ma i suoi occhi avevano un che di delicato, con sopracciglia folte e ben disegnate. Aveva modi affabili e disinvolti, come si conviene a un uomo d’affari. Alle ragazze piaceva, ma non faceva niente per approfittarsene e non sembrava interessato a nessuna in particolare. Era gentile con tutte allo stesso modo.

La prima volta gli assegnarono Otoki, che era di turno quella sera, e da allora fu sempre lei a tenergli compagnia, ma Yasuda non si spinse mai oltre certi limiti.

Otoki aveva ventisei anni, ma con quella sua carnagione così fresca e luminosa ne dimostrava ancora di meno. I grandi occhi neri facevano subito colpo sui clienti. Rispondeva alle loro battute guardandoli dal basso, un po’ imbronciata, e questo li divertiva. Lei lo sapeva bene, e lo faceva apposta. Aveva un bel profilo, il mento grazioso, un ovale perfetto.

Non stupiva, quindi, che dei clienti cercassero di sedurla. Capitava a tutte. Prendeva servizio alle quattro del pomeriggio e alle undici tornava a casa. Alcuni la aspettavano alla stazione di Shimbashi, sotto il ponte della ferrovia, e le chiedevano un incontro. Trattandosi di clienti, non poteva rifiutare in modo troppo categorico. «Va bene, va bene» rispondeva, ma il più delle volte gli dava buca. Sperava che prima o poi avrebbero capito.

«Che perfetti imbecilli, e se la prendono pure... Guardate che pizzicotto mi ha dato l’altra sera uno di loro! Insopportabile!».

Così dicendo, Otoki scostò il kimono e mostrò la gamba alle altre ragazze. Sulla pelle candida spiccava un livido bluastro.

«Sei stata sciocca a incoraggiarlo» commentò Yasuda sorridendo, mentre sorseggiava il suo sakè. Era evidente che con lui le ragazze si sentivano a proprio agio.

«Tu invece Ya-san non ci degni di uno sguardo, eh?» disse Yaeko, una delle ragazze.

«E a che servirebbe? Tanto voi mica ci stareste».

«Sì, sì... ti conosco io» ribatté Kaneko in tono scherzoso.

«Non dire sciocchezze».

«Piantala Kane-chan» disse Otoki «noi siamo tutte innamorate di Ya-san, ma lui non ci vede neanche. Faresti bene a rassegnarti».

«Uffa...» brontolò Kaneko.

Effettivamente, come aveva detto Otoki, quasi tutte le ragazze del Koyuki erano invaghite di Yasuda. E se avesse preso l’iniziativa, è probabile che qualcuna di loro ci sarebbe stata. Il suo aspetto e i suoi modi avevano fascino, era un tipo che piaceva alle donne.

Perciò quando, dopo avere accompagnato all’uscita il suo ospite, Yasuda ritornò in sala e domandò: «Sentite, che ne direste di mangiare con me domani?», Yaeko e Tomiko non se lo fecero dire due volte e accettarono con gioia.

«E Otoki?» disse Tomiko guardandosi intorno «non vuoi portare anche lei?». Otoki evidentemente aveva da fare altrove.

«No, sareste troppe, bastate voi due. La prossima volta inviterò anche lei».

Aveva ragione. Le ragazze dovevano presentarsi al Koyuki alle quattro. Cenare insieme a lui le avrebbe fatte tardare. E se ad arrivare in ritardo fossero state in tre sarebbe stato ancora peggio.

«Allora siamo d’accordo: vi aspetto domani, alle tre e mezzo, al caffè Levante di Yūrakuchō» disse Yasuda facendo l’occhiolino.

 

 

Il giorno seguente, il quattordici gennaio, alle tre e mezzo circa, Tomiko arrivò al Levante e trovò Yasuda, seduto a un tavolo in fondo, che beveva un caffè.

«Ehi, sono qui» disse, e le indicò la sedia che aveva di fronte. Tomiko arrossì, quindi si mise a sedere. L’idea di incontrarsi con un cliente in un posto diverso dal Koyuki la rendeva un po’ nervosa.

«Yae-chan non è ancora arrivata?».

«Vedrai che non tarderà».

Yasuda sorrise e ordinò un altro caffè. Qualche minuto dopo, Yaeko entrò nel locale, anche lei un po’ a disagio. Gli altri tavoli ospitavano per lo più delle coppie e sarebbe stato difficile non notare le due donne, il cui abbigliamento non lasciava dubbi su quale fosse la loro professione.

«Che volete mangiare? Cucina europea, tempura, anguilla, cucina cinese o cos’altro?» domandò Yasuda.

«Cucina europea» risposero all’unisono. Di cibo giapponese ne vedevano già fin troppo nel locale dove lavoravano.

Uscirono dal Levante e si diressero verso Ginza. A quell’ora non c’era quasi più nessuno in giro. Il tempo era bello, ma tirava un vento freddo. Camminarono lentamente fino all’angolo di Owarichō, dove attraversarono la strada in direzione dei grandi magazzini Matsuzakaya. Rispetto a tre settimane prima, durante le feste, Ginza era decisamente più silenzioso.

«Ti ricordi che cosa c’era qui la sera di Natale?».

Sentiva le due donne conversare dietro di sé.

Yasuda salì le scale del Coque d’or. Non c’era gente neanche lì.

«Allora, cosa prendete?».

«Va bene qualsiasi cosa» risposero Yaeko e Tomiko, entrambe esitanti, ma poi presero il menu e cominciarono a parlottare tra loro, senza riuscire a decidersi.

Yasuda lanciò un’occhiata discreta all’orologio. Yaeko se ne accorse e gli domandò: «Ya-san, hai qualche impegno?».

«No, nessun impegno, ma in serata devo essere a Kamakura per sbrigare alcune faccende» rispose, incrociando le mani sul tavolo.

«Oh, ci dispiace. Su, Tomi-chan, scegliamo in fretta!».

E così finalmente ordinarono.

Dalla zuppa alla fine della cena passò un bel po’ di tempo. Conversarono del più e del meno e Yasuda sembrava di buon umore. Quando portarono la frutta, controllò di nuovo l’orologio.

«Non stai facendo tardi?».

«No, non è tardi, non ti preoccupare» rispose Yasuda. Ma al momento del caffè portò ancora una volta la mano al polsino della camicia.

«È ora, su. Andiamo» disse Yaeko, e fece per alzarsi.

Yasuda, con la sigaretta in bocca, socchiuse gli occhi come se stesse riflettendo su qualcosa. Poi disse: «Sentite, mi dispiace un po’ salutarvi così» e dalla sua espressione non si capiva bene se diceva sul serio. «Perché non mi accompagnate fino alla stazione?».

Le due ragazze si guardarono. Erano già parecchio in ritardo e se fossero andate fino alla stazione di Tokyo lo sarebbero state ancora di più. Tuttavia c’era qualcosa nel volto di Yasuda, un’ombra di malinconia, che dette loro l’impressione che fosse sincero. Si chiesero se non gli dispiacesse davvero. E poi, dopo essere state invitate a cena, si sentivano in colpa a rifiutare.

«Va bene» fu Tomiko a parlare per prima, «chiamo il Koyuki per avvisare che tarderemo ancora un po’».

Così dicendo, si avviò verso il telefono per poi tornare, tutta sorridente, pochi minuti dopo.

«Fatto, possiamo andare».

«Ah, sì? Scusatemi» disse Yasuda alzandosi in piedi.Controllò l’orologio un’altra volta e le ragazze pensarono che lo guardava davvero troppo spesso.

«A che ora è il treno?» domandò Yaeko.

«Vorrei prendere quello delle 18:12, oppure quello dopo. Sono le cinque e trentacinque, se ci avviamo adesso arriveremo in tempo» rispose Yasuda affrettandosi verso la cassa.

L’automobile impiegò all’incirca cinque minuti per raggiungere la stazione e durante il tragitto Yasuda si scusò ancora: «Non me ne vogliate, davvero».

«Suvvia, Ya-san, non preoccuparti. Sarebbe imperdonabile da parte nostra non farti questo piccolo favore» lo rassicurò Yaeko.

«Ma certo» aggiunse l’altra.

Una volta arrivati in stazione, Yasuda comprò il biglietto e consegnò alle ragazze i tagliandi d’accesso ai binari.

I treni per Kamakura erano quelli della linea Yokosuka, che partivano dal binario tredici. L’orologio elettronico segnava quasi le sei.

«Meno male. Riuscirò a prendere quello delle 18:12» disse Yasuda.

Al binario tredici, però, il treno non era ancora arrivato. Yasuda guardò verso sud, in direzione del marciapiede accanto. Era quello che serviva i binari quattordici e quindici, da cui partivano i treni a lunga percorrenza, uno dei quali era fermo al binario quindici proprio in quel momento. Riuscivano a vederlo perché non c’era nessun convoglio fermo ai binari tredici e quattordici.

«Quello è l’Asakaze, l’espresso per Hakata, in Kyūshū» spiegò Yasuda alle due ragazze.

Vicino al treno c’era un andirivieni di passeggeri e di accompagnatori. Il marciapiede di fronte era già immerso nell’atmosfera un po’ triste e indaffarata tipica delle partenze.

In quel momento Yasuda disse: «Ehi, ma quella non è Otoki?».

Le ragazze si voltarono e guardarono entrambe nella direzione indicata da Yasuda.

«È vero. È proprio Otoki» esclamò Yaeko.

Era Otoki, camminava in mezzo alla folla al binario quindici. Il suo abbigliamento, come la valigia che aveva in mano, non lasciavano il minimo dubbio: si apprestava a salire su quel treno. Finalmente anche Tomiko la individuò e disse: «Ma sì, è lei!».

 

 

Quello che sembrò loro più strano, però, era che accanto a Otoki c’era un giovane a cui si rivolgeva in modo confidenziale. Non l’avevano mai visto prima. Portava un soprabito scuro e una piccola valigia. Confusi tra la folla, i due entravano e uscivano dal loro campo visivo, procedendo in direzione dei vagoni di coda.

«Ma dov’è che sta andando?» sussurrò Yaeko agitata.

«Chi sarà quell’uomo?» aggiunse Tomiko, anche lei con un filo di voce.

Senza sapere di essere osservata, Otoki camminava accanto al suo accompagnatore, quindi si fermò davanti a una carrozza e ne lesse il numero. L’uomo salì per primo, lei lo seguì e le due figure scomparvero all’interno.

«Hai capito Otoki... Proprio brava, va a farsi un viaggetto in Kyūshū con il fidanzato» disse Yasuda sorridendo.

Le ragazze erano sbalordite. Sul loro viso era stampata la sorpresa di quella scoperta. Fissavano in silenzio la carrozza in cui era sparita Otoki, davanti alla quale continuava l’andirivieni di passeggeri.

«Ma si può sapere dov’è che sta andando?» disse di nuovo Yaeko. «Se prende un espresso non è certo per restare nei paraggi».

«Quindi Otoki ha un uomo?» bisbigliò Tomiko.

«E che ne so io? Non me l’aspettavo proprio».

Le due ragazze parlottavano a bassa voce, come se avessero appena visto qualcosa di incredibile.

Ma né Yaeko né Tomiko erano al corrente dei dettagli della vita privata di Otoki. Non era il tipo di persona che ama parlare di sé. Sapevano che non era sposata e niente lasciava supporre che avesse un fidanzato, ma nemmeno le si attribuivano avventure. Tra le ragazze che lavoravano al Koyuki ce n’erano alcune che raccontavano qualsiasi cosa alle altre, che si confidavano con loro, ma c’era anche chi se ne stava muta come un sasso. Otoki era una di queste.

Ecco perché, avendo scoperto per caso un aspetto della sua vita che prima ignoravano, erano rimaste così turbate.

«Voglio andare a vederlo dal finestrino» disse Yaeko con voce eccitata.

«Basta. Lasciali stare, sono affari loro» disse Yasuda.

«Come, Ya-san, ma non sei geloso?».

«Geloso di cosa? Io sto andando da mia moglie» rispose ridendo.

In quel momento arrivò il treno della linea Yokosuka, e si fermò al binario tredici, coprendo quello che stazionava al binario quindici. Erano le 18:01. Yasuda salì a bordo salutando le ragazze con la mano. La partenza era prevista undici minuti dopo, c’era ancora un po’ da aspettare. Quindi si sporse dal finestrino e disse: «Va bene così. Avrete da fare, andate pure. Grazie».

«Giusto» rispose Yaeko, che non vedeva l’ora di correre al binario quindici per dare un’occhiatina all’accompagnatore di Otoki.

«Arrivederci allora, Ya-san. Noi andiamo».

«Andate, andate. Ci vediamo presto».

Le due donne gli strinsero la mano e si allontanarono.

Mentre scendevano le scale, Yaeko disse: «Ehi, Tomi, vogliamo dare un’occhiata?».

«Non si fa» rispose Tomiko senza convinzione, e si precipitarono al binario quindici.

Confuse tra la folla di accompagnatori, si avvicinarono all’espresso e guardarono attraverso il finestrino. L’interno degli scompartimenti era ben illuminato. Videro immediatamente Otoki e il giovane accanto a lei seduti ai loro posti.

«Guardala, sembra proprio che si stia divertendo» disse Yaeko.

«È un bell’uomo, non è vero? Chissà quanti anni ha».

La curiosità di Tomiko era tutta per lui.

«Ventisette, ventotto forse? Venticinque?» ribatté Yaeko sforzandosi di vedere meglio.

«Suppergiù l’età di Otoki allora».

«Perché non entriamo? Così vediamo che fa».

«Piantala, Yae-chan!» la rimproverò Tomiko. Restarono ancora un po’ a spiarli, poi Tomiko ordinò a Yaeko, che non ne voleva sapere di muoversi: «Su, andiamo. Si è fatto tardi».

Non appena giunsero al Koyuki, corsero subito a informare la padrona. Restò sorpresa anche lei.

«Davvero? Otoki ieri mi ha chiesto cinque o sei giorni di permesso, ha detto che doveva tornare dalla sua famiglia. Ma questa poi... un uomo, dite?» rispose sgranando gli occhi.

«È sicuramente una bugia. Non era della zona di Akita?».

«Sembrava un tipo così riservato, e invece... Già me la vedo che passeggia tutta allegra nei dintorni di Kyōto!». Le tre donne si scambiarono un’occhiata d’intesa.

La sera seguente Yasuda portò un altro cliente al Koyuki. Dopo la cena accompagnò l’ospite all’uscita, come faceva di solito. Poi, rientrato, disse a Yaeko: «E Otoki? Immagino che oggi non sia venuta, no?».

«Mica solo oggi! Si è presa un’intera settimana!» esclamò Yaeko inarcando le sopracciglia.

«Ma allora è in luna di miele con quello lì?» replicò Yasuda, scostando il bicchiere dalle labbra.

«Sembrerebbe proprio di sì. Che delusione...».

«Delusione per cosa? Dovreste farlo anche voi».

«Già, come no. O forse, Ya-san, volevi essere tu a portarci via da qui?».

«Io? No, io no di certo. Non posso mica prendervi tutte!».

Rimasero ancora un po’ a conversare, poi Yasuda andò via. Non poté tornare, forse per via del lavoro, che un paio di sere dopo, portandosi dietro due clienti a cui offrì da bere.

Anche quella sera in servizio c’erano Yaeko e Tomiko, e il discorso cadde di nuovo su Otoki.

Ma è in un luogo sperduto che, di lì a poco, il cadavere di Otoki sarebbe stato ritrovato accanto a quello dell’uomo che avevano visto con lei.


II
I CORPI DEI DUE AMANTI

Sulla vecchia linea Kagoshima, arrivando da Moji, vi è una piccola stazione proprio tre fermate prima di Hakata: la stazione di Kashii. Se da lì ci si incammina in direzione delle montagne, si giunge a un promontorio affacciato sulla baia di Hakata, nei pressi di un vecchio santuario Kanpei.

Davanti al promontorio si estende un cordone sabbioso che chiamano «Umi no Nakamichi», il sentiero del mare, in fondo al quale il profilo montuoso di Shika affiora dalle acque, mentre a sinistra, oltre la foschia, si gode della splendida vista dell’isola di Noko.

Questo promontorio si chiama Kashiigata, l’antica baia di Kashii, su cui Ōtomo no Tabito, governatore di Dazai, scrisse i celebri versi: «Andate giovani / alla baia di Kashii / bagnate le maniche delle candide vesti / per cogliere le alghe da mangiare al mattino».

Ma l’arida realtà del presente non rifletteva in alcun modo i sentimenti di quei nobili tempi. Alle sei e mezzo di un gelido mattino, il ventuno di gennaio, un operaio attraversò la spiaggia. Non stava andando a «cogliere le alghe da mangiare al mattino», bensì a lavorare, in una fabbrica di Najima.

Si era appena fatto giorno. Il mare era avvolto in una foschia lattiginosa. Shikanoshima, l’isola dei cervi, si vedeva a malapena, così come il sentiero del mare. Tirava una brezza fredda e salmastra. L’operaio, col bavero alzato e il capo chino, procedeva a passo svelto. Attraversava quella spiaggia rocciosa per arrivare prima in fabbrica, come era sua abitudine. Ma qualcosa di totalmente inatteso attirò il suo sguardo, sempre rivolto al suolo. Due corpi adagiati su una lastra di roccia scura stonavano incredibilmente con quel paesaggio a lui così familiare.

Nella pallida luce del sole ancora nascosto, quei due corpi distesi sembravano congelati. I lembi delle vesti tremavano esposti al vento freddo. Insieme alle punte dei loro capelli, erano l’unica cosa che si muoveva. Le scarpe nere e i candidi tabi erano immobili.

Fuori di sé, l’operaio si mise a correre nella direzione opposta a quella che era solito prendere ogni mattina. Si precipitò in paese e bussò alla porta a vetri della stazione di polizia.

«Ci sono dei morti sul promontorio!».

«Dei morti?» replicò un anziano poliziotto abbottonandosi la giacca, infreddolito. Poi prestò orecchio al racconto concitato dell’operaio.

«Sì. Sono due. Un uomo e una donna».

«E dove li hai visti?», il poliziotto spalancò gli occhi sbigottito.

«Proprio qui vicino, sulla spiaggia. Vi accompagno».

«Va bene. Allora aspetta solo un momento».

Pur essendo agitato, il poliziotto prese nota del nome e dell’indirizzo dell’uomo e telefonò al commissariato di Kashii. Poi uscirono in fretta dalla stazione. Il loro respiro era bianco nell’aria ghiacciata.

Quando giunsero al promontorio, i due cadaveri erano sempre lì, esposti alla brezza marina. L’operaio, rassicurato dalla presenza dell’agente, riuscì a guardarli con maggiore attenzione.

Più ancora dell’uomo, lo colpì la donna. Era distesain posizione supina. Aveva gli occhi chiusi ma le labbra semiaperte lasciavano scorgere i denti bianchi. Il suo volto era roseo. Portava un cappotto grigio e un kimono da viaggio color ruggine, il colletto candido era leggermente aperto. I suoi vestiti erano in ordine, giaceva composta. Solo l’orlo del kimono si sollevava al vento, lasciando intravedere la fodera gialla. Ai piedi ben allineati portava dei tabiperfettamente puliti. Non erano sporchi di sabbia. Accanto erano adagiati dei sandali neri di gomma.

L’operaio rivolse quindi lo sguardo all’uomo. Il capo era inclinato. Anche le sue guance erano rosate, come se fosse ancora vivo. Sembrava un ubriaco addormentato. Sotto un soprabito blu scuro portava pantaloni marroni e scarpe nere, i piedi erano in posizione normale. Le scarpe erano ben lucidate e si intravedevano dei calzini blu a righe rosse.

I due cadaveri erano disposti a pochissima distanza l’uno dall’altro. Un piccolo granchio spuntò da una fessura nella roccia e cercò di arrampicarsi su una bottiglia di succo d’arancia che si trovava accanto al corpo dell’uomo.

«Un doppio suicidio» disse il vecchio poliziotto guardandoli dall’alto.

«Che peccato. Sembrano così giovani».

Il paesaggio intorno a loro si tingeva a poco a poco dei colori del giorno.

 

 

Erano passati quaranta minuti quando, ricevuta la telefonata da Kashii, giunsero sul posto le auto con a bordo il capo della sezione investigativa del commissariato di Fukuoka, due agenti, il medico legale e l’esperto incaricato dell’identificazione.

Dopo aver fotografato i cadaveri da diverse angolazioni, il medico, un uomo di bassa statura, gli si accovacciò accanto.

«Hanno preso del cianuro, sia l’uomo che la donna»disse. «Si capisce dal colorito acceso delle guance, vedete? Probabilmente era nel succo».

Sul fondo della bottiglia, che era rotolata a terra, c’era un residuo di liquido arancione.

«Dottore, quanto tempo è passato dal decesso?» domandò il capo della sezione investigativa, un uomo con dei baffetti.

«Per capirlo devo prima rientrare e fare gli esami necessari, ma a occhio e croce non più di dieci ore».

«Dieci ore» mormorò l’investigatore, guardandosi intorno. Quindi doveva essere accaduto la sera prima tra le dieci e le undici. Forse stava cercando di immaginarsi la dinamica di quel doppio suicidio.

«Hanno preso il veleno nello stesso momento?».

«Sì. Devono averlo ingerito con il succo».

«Sono venuti a morire in un posticino bello freddo, eh?» disse qualcuno a bassa voce, quasi un sussurro, come se parlasse tra sé e sé. Il medico legale alzò lo sguardo verso di lui. Era un uomo magro, di mezza età, portava un cappotto malandato e aveva un aspetto insignificante.

«Ehi, Torigai,» disse il medico legale rivolto a quel viso avvizzito «solo i vivi possono uscirsene con una frase del genere! I posti dove si muore non sono mai né caldi né freddi. A pensarci bene neanche il succo di frutta si addice all’inverno. Che tipi strani». E sorrise leggermente.

«Dovevano trovarsi in uno stato mentale alterato, del tutto lontano da una condizione normale. Una sorta di estasi farneticante».

Il medico aveva usato delle espressioni particolarmente ricercate, che con quel personaggio dalla corporatura tozza e di bassa statura un po’ stonavano, tanto che alcuni tra gli agenti ridacchiarono.

«E poi ci vuole parecchia determinazione per mandare giù del veleno, non credete? È stata proprio la loro mente deviata a fargli desiderare una morte simile» aggiunse l’investigatore.

«Capo, non è possibile che uno dei due abbia costretto l’altro a uccidersi?» domandò, con un forte accento del posto, uno dei poliziotti.

«Non credo. I loro abiti sono in ordine e non ci sono segni di colluttazione. Erano d’accordo, hanno preso il veleno e sono morti».

Doveva essere andata così. La donna era distesa in posizione composta. I tabi candidi, come se si fosse sfilata i sandali di gomma solo pochi istanti prima, le mani giunte in grembo.

Era così evidente che si trattava di un suicidio d’amore che sui volti degli agenti aleggiava un senso di delusione. Senza un crimine non avevano un bel niente da fare. In altre parole, non c’era bisogno di cercare un colpevole.

I due corpi furono messi in un furgone e trasferiti al commissariato. Gli agenti, infreddoliti, montarono in macchina. Dietro di loro restò soltanto la baia di Kashii, ormai sgombra da quelle insolite presenze, esposta ai deboli raggi del sole invernale e al vento freddo, immersa nella quiete.

Al commissariato i cadaveri furono esaminati con cura. Si procedeva sollevando uno strato di indumenti per volta e scattando foto a ognuno.

Dal taschino della giacca dell’uomo spuntò un portabiglietti da visita. Così poterono risalire alla sua identità. All’interno c’era anche l’abbonamento del treno, che copriva la tratta da Asagaya a Tokyo. Si chiamava Sayama Ken’ichi e aveva trentun anni. Ma il biglietto da visita diceva di più. Accanto al nome c’era scritto: «Ministero X. Sezione X. Ufficio X. Vice-capo», e a sinistra era riportato l’indirizzo di casa.

Gli agenti si guardarono a vicenda. L’ufficio X del Ministero X era quello al centro del grosso scandalo, di cui i giornali parlavano ogni giorno.

«Messaggi ne ha lasciati?» chiese il capo.

Cercarono dappertutto. Niente che avesse l’aria di un messaggio di addio, in nessuna tasca. Meno di diecimila yen in contanti, un fazzoletto, un calzascarpe, il giornale ripiegato del giorno precedente, la ricevuta tutta accartocciata del vagone ristorante.

«Che strana roba si portava dietro questo tipo» disse il capo, e prese la ricevuta. Sembrava che l’avesse dimenticata in fondo a una tasca. Quindi l’aprì: «La data è il 14 gennaio, il treno è il numero 7. Coperti, uno solo. Totale: trecentoquaranta yen. Che cosa ha mangiato non viene detto» disse leggendola punto per punto.

 

 

«E la donna invece chi è?».

Venne fuori anche quello. Nel borsellino, che conteneva appena ottomila yen, trovarono quattro o cinque biglietti da visita di piccole dimensioni, tutti uguali, su cui era scritto in caratteri corsivi: «Ristorante Koyuki. Tokyo, Akasaka. Otoki».

«Otoki dev’essere il nome della donna. Forse lavorava nel ristorante Koyuki di Akasaka...» concluse il capo, poi aggiunse: «Il suicidio di un funzionario e della ragazza di un ristorante. Possibile, direi».

Poi ordinò di inviare dei telegrammi agli indirizzi trovati sui biglietti da visita dell’uomo e della donna.

Il medico legale procedette a un esame più approfondito dei cadaveri. Non vi erano segni di ferite superficiali. La causa del decesso era avvelenamento da cianuro di potassio. L’ora presunta: tra le nove e le undici della sera precedente.

«A quanto sembra hanno fatto una passeggiata in riva al mare e si sono suicidati insieme» disse uno degli agenti.

«Ci hanno messo un bel po’ prima di decidersi a farla finita...» osservò l’altro insinuante.

Tuttavia l’esame dei corpi non evidenziò alcun segno di rapporti sessuali prima della morte. Quando ne furono informati, gli agenti rimasero visibilmente sorpresi e uno di loro disse che in fondo era stato un modo pulito di morire. Fu confermato che la causa del decesso era avvelenamento da cianuro.

«A quanto pare sono partiti da Tokyo il quattordici» disse il capo leggendo la data sullo scontrino del vagone ristorante. «Una settimana fa, quindi, perché oggi è il ventuno. Devono aver fatto un giro nella zona per poi venire a morire qui a Fukuoka. Senti, prova a chiedere alla stazione a cosa corrisponde questo numero 7».

Uno degli agenti stava parlando al telefono, ma si interruppe immediatamente per rispondere: «Il treno è l’espresso che parte da Tokyo diretto a Hakata. Pare che si chiami Asakaze».

«Come? Un espresso che va fino a Hakata?». L’investigatore capo scosse la testa. Quindi disse rivolto agli agenti: «Allora devono essere arrivati direttamente da Tokyo. Si saranno fermati a Fukuoka per tutta la settimana o da lì avranno fatto un giro del Kyūshū. In ogni caso dovevano avere dei bagagli, bisogna cercarli. Fate un giro dei ryokan della città e portate con voi delle fotografie».

«Capo,» si fece avanti uno degli agenti «potrebbe mostrarmi un momento quello scontrino?».

Era quello magro, di carnagione scura, dall’aria trascurata e con gli occhi sporgenti. Uno dei poliziotti sopraggiunti sulla spiaggia di Kashii quando erano stati rinvenuti i due cadaveri. I suoi vestiti erano logori come il cappotto, e portava una vecchia cravatta tutta spiegazzata. Era l’ispettore di lungo corso Torigai Jūtarō.

Torigai aprì la ricevuta con le sue dita ossute e tutt’altro che pulite.

«Da solo? Questo signore è andato a mangiare da solo?» disse, come tra sé e sé.

Sentendolo, l’investigatore capo ribatté: «E allora? Forse la donna non aveva voglia di mangiare e non è andata insieme a lui al vagone ristorante».

«Però...» mormorò Torigai.

«Però cosa?».

«Voglio dire, capo, che alle donne in genere non manca l’appetito. Anche con lo stomaco pieno, se il loro accompagnatore mangia, prendono sempre qualcosa insieme a lui. Magari solo un budino o un caffè».

Il capo scoppiò a ridere.

«È vero. Ma questa donna doveva essere così piena da non riuscire proprio a fargli compagnia!» disse con tono scherzoso.

L’ispettore Torigai fu sul punto di replicare, ma poi cambiò idea. Si mise il cappello – un vecchio cappello dalle falde sformate, che ben si intonava con la sua persona – e se ne andó trascinando le scarpe scalcagnate.

Una volta uscito Torigai, l’atmosfera nella stanza deserta si fece improvvisamente malinconica. Restarono solo uno o due agenti più giovani, che di tanto in tanto andavano ad aggiungere carbone al braciere o portavano del tè al capo.

Andò avanti così fino a dopo mezzogiorno, ma quando i raggi del sole che filtravano dalla finestra si fecero meno intensi si cominciò a sentire ovunque un rumore di passi. Erano arrivati i giornalisti.

«Commissario, pare che un certo Sayama Ken’ichi, vice-capo di sezione del Ministero X, si sia tolto la vita insieme a una donna. Ci hanno informato dalla sede di Tokyo e ci siamo precipitati subito qui».

Si accalcavano, vociavano. Forse alla redazione di Tokyo avevano subodorato qualcosa per via del telegramma partito quella mattina dal commissariato di Fukuoka, e così avevano immediatamente avvertito i loro corrispondenti.

 

 

Le edizioni del mattino, il giorno successivo, dedicavano ampio spazio al doppio suicidio del vice-capo di sezione Sayama Ken’ichi. Oltre ai due maggiori quotidiani giapponesi – che si stampavano a Kokura e a Moji – i più influenti giornali locali presentavano la notizia a tutta pagina. Non si trattava solo di un suicidio di natura passionale. C’entrava anche il caso di corruzione che in quel periodo stava investendo il ministero. Tutti i giornali collegavano la morte di Sayama allo scandalo. Riportavano che la procura di Tokyo non lo aveva ancora mai convocato. Ma si dicevano certi che sarebbe stato presto sentito come persona informata sui fatti, avanzando l’ipotesi che Sayama si fosse tolto la vita insieme all’amante per evitare di coinvolgere i propri superiori.

Accatastati uno sopra l’altro, tutti quei giornali occupavano un angolo della scrivania del commissario. Il quale, nel frattempo, aveva cominciato a esaminare il contenuto di una valigetta di pelle. Gli era stata consegnata la mattina stessa, non appena era arrivato in ufficio. Il giorno prima infatti, da mezzogiorno fino a notte inoltrata, gli agenti avevano passato al setaccio i ryokan di Fukuoka e alla fine erano riusciti a trovarla.

L’aveva scovata un giovane agente che, entrato nel ryokan Tanbaya, aveva mostrato la fotografia al gestore e era venuto a sapere che l’uomo ritratto si era fermato proprio lì. Sul registro figurava sotto il nome di «Sugawara Taizō, anni 32, domiciliato al 26 di Minami naka dōri, comune di Fujisawa. Professione: impiegato». Era arrivato la sera del quindici, aveva soggiornato da solo e la sera del venti aveva pagato il conto e se n’era andato. Aveva anche chiesto di custodirgli la valigetta fino a quando non fosse tornato a riprenderla.

Il contenuto fu esaminato con cura, ma c’erano soltanto accessori da toeletta, una camicia di ricambio, biancheria intima, due o tre riviste che doveva aver comprato in treno, nessun messaggio di addio, né qualcosa che somigliasse vagamente a un taccuino.

Dopo aver finito di rovistare, l’investigatore capo si rivolse al giovane agente che aveva consegnato il reperto.

«Quindi ti ha detto che l’uomo era solo?».

«Sì, così pare».

«Uhm, strano. E la donna che faceva? Dov’era andata? La sera del quindici è quella in cui è arrivato qui a Hakata da Tokyo, a bordo dell’Asakaze. Vorrebbe dire che fino al venti, per quasi una settimana, è rimasto sempre in albergo?».

«Sempre da solo nella sua stanza, non è andato da nessuna parte».

«E la donna non gli ha mai fatto visita?».

«No, non si è visto nessuno».

Di nuovo, durante questo scambio di domande e risposte, Torigai Jūtarō si dileguò. Mise il vecchio cappello e lasciò la stanza senza fare rumore.

Uscì in strada e prese il tram. Fissò distrattamente il paesaggio che gli scorreva davanti agli occhi, e dopo qualche minuto, arrivato a una certa fermata, scese. Si inoltrò in un dedalo di vicoli. Camminava a passo lento, come un vecchio. Alzò piano la testa per leggere l’insegna di un albergo – il Tanbaya – quindi entrò dentro e si ritrovò alla fine di un corridoio con il pavimento tirato a lucido.

Il portiere uscì da dietro il banco e, visto il distintivo, si mise subito a disposizione.

Dopo avere verificato le informazioni già riferite al capo dall’agente più giovane, Torigai sorrise, contraendo il volto rugoso, e domandò:

«Che aria aveva l’ospite quando è arrivato?».

«Non saprei, sembrava molto stanco, è andato a dormire subito dopo cena».

«Starsene chiuso in stanza tutto il giorno doveva essere una bella noia, non le pare?».

«Non faceva salire neanche la cameriera, stava spesso a letto, oppure leggeva. E in effetti anche lei diceva che era un ospite piuttosto schivo. In realtà, però, aspettava con ansia di ricevere una telefonata».

«Una telefonata?» ribatté Torigai, con gli occhi che gli brillavano.

«Sì, disse sia alla cameriera sia a me che stava aspettando una telefonata, e ci pregò di chiamarlo immediatamente, non appena fosse arrivata. Mi domando se non era proprio quello il motivo per cui non usciva mai».

«È probabile» annuì Torigai. «Ma poi è arrivata, questa telefonata?».

«Sì. Sono stato io a rispondere. Il venti, intorno alle otto di sera. Era una voce femminile, chiedeva del signor Sugawara».

«Una voce femminile... E ha chiesto non di Sayama, ma di Sugawara?».

«Esatto. Sapevo con quanta ansia aspettava quella chiamata, quindi gliela passai immediatamente in stanza. Vede, noi abbiamo installato un centralino che ci permette di smistare le chiamate trasferendole direttamente alle stanze dei nostri ospiti».

«E non sa di che hanno parlato?».

A quella domanda il portiere sogghignò.

«Ecco, vede... di solito non ho l’abitudine di origliare le conversazioni telefoniche dei clienti».

Deluso, Torigai fece un profondo sospiro.

«E poi che è successo?».

«Hanno parlato per un minuto appena. Subito dopo lui è sceso e ha chiesto di preparargli il conto, quindi ha pagato, mi ha lasciato la valigia e se n’è andato. Non avrei mai potuto immaginare che si sarebbe suicidato».

Torigai si passò le dita sulla barba sfatta e rifletté. Il vice-capo di sezione Sayama era rimasto per una settimana in albergo ad aspettare con ansia la telefonata di una donna. Poi, la sera in cui questa l’aveva finalmente chiamato, si erano tolti la vita insieme... Una storia ben strana!

Continuava a tornargli in mente la scritta «tavolo per uno» sulla ricevuta del vagone ristorante. Poi mormorò tra sé e sé: «Sayama ha atteso in albergo l’arrivo della donna. Perché diavolo aspettare quasi una settimana la persona con cui si sarebbe suicidato?».

III
LE DUE STAZIONI DI KASHII

Torigai Jūtarō tornò a casa intorno alle sette. Sebbene aprendo la grata avesse fatto rumore, nessuno venne ad accoglierlo. Mentre si sfilava le scarpe nello spazio angusto dell’ingresso, sentì oltre il fusuma la voce della moglie che diceva: «Bentornato. Il bagno è pronto». Come sempre prima di cena usava fare il bagno. Quando aprì la porta scorrevole la trovò che metteva via il lavoro a maglia. I piatti sul tavolo erano coperti da una salvietta bianca. «Immaginavo che avresti fatto tardi, quindi Sumiko e io abbiamo già mangiato. Lei poi è andata al cinema con Nitta. Dai, va’ a fare il bagno adesso».

Jūtarō si svestì in silenzio. La fodera della vecchia giacca iniziava a sfilacciarsi. Dentro il risvolto dei pantaloni aveva del fango e della sabbia, che si sparsero sul tatami. Sentiva tutta la stanchezza di quella giornata passata a spostarsi da un posto a l’altro.

Non tornava mai a casa a un’ora fissa, era sempre stato così. La moglie e la figlia sapevano che dopo le sei e mezzo, se non era ancora rientrato, loro potevano mangiare. Sumiko era sua figlia, Nitta l’uomo che di lì a poco sarebbe diventato suo marito. Quella sera quindi non c’erano perché erano andati al cinema.

Come sempre, Jūtarō fece il bagno in silenzio. Immerso nella solita vecchia vasca Goemon di metallo.

«Come va?» chiese la moglie, per capire se doveva aggiungere altra acqua calda.

«Bene» rispose seccato Jūtarō. Era seccato perché non aveva voglia di parlare. Aveva l’abitudine di riflettere mentre faceva il bagno.

Pensava ai cadaveri dei due suicidi rinvenuti il giorno precedente. Perché si erano tolti la vita? Era arrivato un telegramma per avvisare che i familiari, da Tokyo, sarebbero andati a prendere i corpi, quindi forse tra poco sarebbe stato tutto più chiaro. I giornali dicevano che il vice-capo di sezione Sayama era coinvolto fino al collo nel caso di corruzione del ministero e che la sua morte aveva in qualche modo sollevato i suoi superiori. Pare che Sayama fosse una brava persona, ma pavido e fondamentalmente debole. E, stando sempre a quanto scrivevano i giornali, tra lui e Otoki c’era un legame molto stretto che – si era persino lasciato sfuggire una volta – per lui costituiva un problema. Questo voleva dire che Sayama era stato spinto al suicidio dalle preoccupazioni per lo scandalo e per la relazione con quella donna. O forse si poteva immaginare che la causa principale fosse lo scandalo, mentre la storia con la donna aveva più che altro accelerato le cose.

«Però,» pensò Jūtarō passandosi l’acqua calda sul viso «se la donna è arrivata insieme a lui alla stazione di Hakata con l’Asakaze, quando Sayama si è sistemato al ryokan lei dov’è andata? Sayama la sera del quindici alloggia al Tanbaya. La data sullo scontrino del vagone ristorante e quella sul registro dell’albergo non lasciano dubbi sul fatto che sia arrivato a Hakata proprio quel giorno, il che significa che dalla stazione è andato direttamente al ryokan, ma da solo. Nessuno ha ancora visto la donna. Per cinque giorni, dal quindici al venti, Sayama aspetta con ansia una sua telefonata. Che cosa aveva fatto Otoki per tutto quel tempo? Dov’era stata?».

Jūtarō si strofinò il viso con l’asciugamano.

«Era chiaro che per lui quella telefonata era importante, altrimenti non sarebbe rimasto tutti quei giorni ad aspettarla senza nemmeno uscire dalla sua stanza. Alla fine, la sera del venti, alle otto, la telefonata è arrivata, e la voce era quella di una donna. Che forse era Otoki. Perché al portiere dell’albergo non ha chiesto di passarle Sayama, bensì il signor Sugawara. Evidentemente erano d’accordo di usare questo nome falso. Quindi Sayama parla con lei e subito dopo, come se non aspettasse altro, se ne va. Quella stessa sera si reca sulla spiaggia di Kashii e si suicida con l’amante. Un po’ rapido per un doppio suicidio. Ora che finalmente si erano ritrovati, potevano prendersela un po’ più comoda!».

Jūtarō si alzò dalla vasca, ma invece di insaponarsi rimase seduto sul bordo, lasciando al suo corpo il tempo di rinfrescarsi.

«Le circostanze erano tali da non concedersi nemmeno un’ultima gioia? E se così fosse, di che circostanze poteva mai trattarsi? E poi nemmeno un messaggio di addio. Ma questo non vuol dire granché, in fondo. In genere sono i ragazzi a scrivere biglietti prima di uccidersi, da adulti si tende a non farlo. Chi ha più motivi per farla finita di solito non lascia spiegazioni. Inoltre uno come Sayama non poteva scrivere un biglietto d’addio così a cuor leggero, e la donna certamente è stata influenzata da lui. Dunque si è trattato di un doppio suicidio. Non c’è dubbio. Eppure...».

Jūtarō si accorse di avere freddo e tornò a immergersi nella vasca.

«È solo che non riesco a togliermi dalla testa quello scontrino del vagone ristorante per una sola persona. Ma forse sto esagerando».

«Ancora non hai finito?».

 

 

Torigai Jūtarō si sedette a tavola con il viso ancora tutto fumante. Mentre cenava gli piaceva sorseggiare lentamente due bicchieri di sakè. Davanti a sé aveva un piatto su cui erano disposti dei ricci di mare,sashimi di seppia e del merluzzo essiccato. Aveva camminato tutto il giorno, era stanco. Il sakè gli parve squisito.

La moglie stava cucendo un kimono. A giudicare dal colore rosso e dalla fantasia vivace, doveva sicuramente essere della figlia, che era prossima a sposarsi. Il lavoro di cucito sembrava assorbirla totalmente.

«Riso» disse lui posando il bicchiere.

«Sì» rispose la moglie, e lasciati per un attimo ago e filo, lo servì per poi rimettersi subito a cucire. Cuciva e aspettava che Jūtarō le chiedesse di servirlo di nuovo.

«Perché non prendi almeno una tazza di tè insieme a me?».

«No, non mi va» gli rispose senza neanche alzare la testa. Jūtarō mangiava il riso e intanto la fissava. Era invecchiata anche lei. Arrivata a quest’età, una donna non ci tiene a fare compagnia al marito mentre mangia. Addentò la verdura e buttò giù un sorso di tè dal colore giallastro.

In quel momento rientrò la figlia. Sembrava raggiante, chissà perché.

«E Nitta?» domandò la madre.

«Mi ha accompagnato fino a un certo punto e poi è tornato a casa» rispose la figlia con tono allegro, togliendosi il cappotto e mettendosi seduta.

Jūtarō, che stava per cominciare a leggere il giornale, lo mise da parte e si voltò verso la figlia.

«Senti, Sumiko, tornando dal cinema tu e Nitta siete andati a bere qualcosa?».

La figlia si mise a ridere.

«Che domande sono, papà? Sì, certo, abbiamo preso un tè insieme».

«Davvero? Allora senti,» continuò Jūtarō come se gli fosse venuto in mente qualcosa «metti per esempio che Nitta avesse fame e ti proponesse di mangiare con lui, mentre tu hai lo stomaco pieno e non riusciresti a mandar giù nemmeno...».

«Che strana idea!».

«Ascoltami. E se Nitta ti dicesse: “Mentre io mangio tu fatti un giro, guarda qualche vetrina”, tu che faresti? Lo staresti a sentire?».

«Che farei...?» ripeté la figlia con aria pensierosa. «Ma no, andrei con lui al ristorante. Se no mi annoierei, scusa».

«Davvero? Ecco, come pensavo. Anche se non avessi voglia nemmeno di una tazza di tè?».

«Ma sì. Vorrei comunque stare con Nitta. Se proprio non riuscissi a mangiare niente potrei comunque prendere un caffè per fargli compagnia».

Appunto, è così, pensò il padre annuendo. Aveva fatto quelle domande con un’aria così seria che la moglie, fino a quel momento tutta assorta nel lavoro di cucito, si mise a ridere.

«Ma che domande fa papà?».

«Taci tu!» la zittì Jūtarō, ancora offeso perché non aveva voluto prendere il tè insieme a lui. E rivolto alla figlia: «Lo faresti perché non farlo ti sembrerebbe poco gentile nei confronti di Nitta, giusto?».

«Be’, sì. Non è tanto una questione di appetito, quanto di affetto» rispose la figlia.

«Già».

Proprio così, pensò. Sumiko aveva espresso perfettamente il pensiero che per tutto quel tempo il padre aveva covato dentro di sé. Dunque non una questione di appetito, ma di affetto.

Torigai continuava a pensare ossessivamente a quello scontrino del vagone ristorante per una sola persona, perché sentiva in modo confuso che la chiave dell’enigma era lì. Un uomo e una donna stanno andando a morire nel lontano Kyūshū. Devono amarsi più di chiunque altro. E viaggiano in treno. Per quanto poco appetito potesse avere la donna, nel momento in cui il suo uomo si è alzato per andare nel vagone ristorante lei avrebbe dovuto seguirlo e prendere almeno un caffè insieme a lui: era una questione di affetto. Avevano i posti prenotati, quindi non c’era nemmeno il rischio che qualcuno li occupasse mentre erano via. A meno che la donna fosse rimasta per controllare il bagaglio. Ma gli sembrava strano. Qualcosa tra quei due, Sayama e Otoki, secondo Jūtarō proprio non tornava.

Dal loro arrivo a Hakata tutto era diventato così strano. La donna aveva lasciato Sayama da solo nel ryokan per cinque giorni per andarsene chissà dove. Al quinto giorno gli aveva telefonato e avevano deciso di suicidarsi la sera stessa. Ma nulla nel comportamento di Otoki faceva presagire una simile decisione. Doveva esserci sotto qualcosa.

Eppure quei due cadaveri distesi uno accanto all’altro sulla spiaggia di Kashii parlavano chiaro: era stato un suicidio. L’aveva visto con i propri occhi, era andato lui stesso sul luogo del ritrovamento. Non potevano esserci dubbi.

«Forse è soltanto una mia fissazione» mormorò tra sé e sé Torigai Jūtarō, con aria cupa, e si accese una sigaretta.

 

 

L’indomani i familiari giunsero a Fukuoka da Tokyo per prelevare i corpi che, dopo l’ultimo esame autoptico, erano stati deposti nella camera mortuaria.

A prendere Sayama Ken’ichi venne il fratello, un uomo sulla quarantina, con la barba e una corporatura massiccia. Mostrò all’agente un biglietto da visita, da cui risultava che era direttore di filiale di una certa banca.

Per Otoki invece si presentò una signora sui sessantacinque anni che affermava di essere la madre, accompagnata da una giovane donna elegante di ventisei o ventisette anni, che dichiarò di chiamarsi Tomiko, e di essere una cameriera del Koyuki di Akasaka, dove lavorava con Otoki.

Si verificò, tuttavia, una situazione incresciosa. Entrambe le parti non si rivolsero mai la parola. Nella stanza per gli interrogatori del commissariato, così come nella sala d’aspetto dell’ospedale, evitarono accuratamente di guardarsi nonostante fossero sempre insieme. Questo dipendeva soprattutto dal fratello di Sayama, il direttore di banca. Rivolgeva alle due donne occhiate ostili e mantenne per tutto il tempo un contegno glaciale, dal quale trasparivano, però, tutto il suo rancore e il suo disprezzo. Le donne, dal canto loro, non sapevano come comportarsi. Provavano soggezione, ed erano intimorite dal suo sguardo. Tutto questo divenne palese quando il capo della sezione investigativa li interrogò.

Alla domanda: «Ha un’idea dei motivi per cui suo fratello potrebbe essersi tolto la vita?» il direttore di banca rispose con tono altezzoso:

«Sono oltremodo imbarazzato per la condotta indecorosa tenuta da mio fratello in questa vicenda. Riguardo alle cause della sua morte, sui giornali si legge di tutto, ma io dei suoi affari al ministero non so nulla. Quindi non so neanche se morendo abbia cercato di proteggere i suoi superiori dallo scandalo di cui tutti parlano. Sono passate circa tre settimane dall’ultima volta che l’ho incontrato, e allora sembrava piuttosto abbattuto. Mio fratello era una persona molto riservata, e non mi ha detto nulla in proposito. Aveva perso la moglie tre anni fa e da qualche tempo si era ventilata l’ipotesi di un nuovo matrimonio, ma a lui non interessava, e la cosa non era andata avanti. Quanto a ciò che è accaduto, vengo solo ora a conoscenza del fatto che frequentasse una donna di quel genere. Prima di partire per venire qui, alcuni amici mi hanno detto che aveva una storia, ma essendo una persona molto seria, questo per lui era fonte di grande preoccupazione. Mi dispiace che non abbia voluto parlarmene. È stato uno sciocco. Ma soprattutto mi rincresce che la sua amante fosse la cameriera di un ristorante di Akasaka. Avrei capito se si fosse trattato di una donna più rispettabile, ma così proprio non riesco a darmi pace. Non era abituato a spassarsela con le donne, mentre lei, che sugli uomini ne sapeva una più del diavolo, deve averlo ingannato fino a spingerlo al suicidio. Forse era lei ad avere motivi per farla finita, e si è portata dietro anche lui. Mio fratello aveva tutta la vita davanti, come la detesto per avergli fatto una cosa simile».

L’uomo sembrava voler riversare tutto il suo odio sulle due donne che erano venute a recuperare il corpo di Otoki. Non soltanto si rifiutava di parlare con loro, ma se non ci fosse stato nessun altro presente e non avesse dovuto controllarsi, le avrebbe coperte di insulti e forse sarebbe persino arrivato a picchiarle.

La madre di Otoki invece alla domanda dell’investigatore rispose così, quasi scusandosi: «Il vero nome di Otoki è Kuwayama Hideko. Siamo di Akita e abbiamo sempre fatto i contadini. Lei si era sposata, ma il matrimonio era finito male e dopo essersi separata dal marito è andata a lavorare a Tokyo. Prima del Koyuki aveva cambiato vari locali, ma a me scriveva solo una o due volte l’anno, e che tipo di vita facesse proprio non lo so. Però, vede, io ho altri cinque figli, e anche se di lei m’importava non potevo occuparmene più di tanto. Mi sono precipitata appena ho ricevuto il telegramma dal Koyuki. Che terribile disgrazia!».

La donna aveva parlato con difficoltà, balbettando dall’inizio alla fine. Aveva rughe profonde – fin troppo per la sua età – e gli occhi spenti erano arrossati e gonfi, come fossero malati.

Tomiko, la cameriera del Koyuki, invece, dichiarò quanto segue: «Otoki e io andavamo molto d’accordo, per questo la proprietaria del Koyuki ha chiesto a me di venire qui al posto suo. Otoki ha iniziato a lavorare con noi tre anni fa, sapeva intrattenere i clienti ed era amata da tutti. Ma non credo che si vedesse con qualcuno fuori dall’orario di lavoro. Era una persona molto riservata, che non parlava mai di sé, e persino io, che ero sua amica, non sapevo granché della vita che conduceva. Ma non ho mai sentito pettegolezzi sul suo conto. Ecco perché la notizia di questo suicidio mi ha sconvolto. Tutte noi, anche la proprietaria, non riusciamo a spiegarci da dove sia spuntato quest’uomo per lei così importante. Non ho idea di chi sia il signor Sayama. Abbiamo visto la foto sui giornali, ma né la proprietaria né le altre ragazze lo hanno riconosciuto, quindi non può essere un nostro cliente. Io e Yae, però, li abbiamo visti insieme alla stazione di Tokyo. Anche Yae lavora al Koyuki, è una mia amica».

«Li avete visti? In che senso?» domandò l’investigatore.

«Era il pomeriggio del quattordici. Io e Yae avevamo accompagnato alla stazione un cliente abituale del ristorante, il signor Yasuda, quando per puro caso abbiamo visto Otoki e quell’uomo salire sull’espresso. Noi ci trovavamo al binario tredici, loro al quindici, ma in mezzo non c’era nessun treno fermo, quindi si vedeva bene. Il signor Yasuda ci ha detto: “Ehi, ma quella non è Otoki?”, indicandocela col dito, così l’abbiamo vista anche noi. Otoki e l’uomo percorsero il marciapiede e salirono sull’espresso per il Kyūshū. Fummo molto sorprese. Otoki che va a farsi un viaggio in dolce compagnia... Ci sembrò davvero strano. Pensammo di aver scoperto un suo segreto e questo ci incuriosì, quindi, dopo aver salutato il signor Yasuda, io e Yae siamo corse al binario quindici e abbiamo sbirciato attraverso il finestrino. Otoki era seduta accanto a quell’uomo e stavano conversando amabilmente. Non riuscivamo a crederci».

«In quella circostanza avete parlato con Otoki?».

«Stavano partendo per un viaggio insieme, e in gran segreto. Non volevamo disturbarla, quindi ce ne siamo andate senza dire niente. L’uomo che abbiamo visto era lo stesso della foto che ora è su tutti i giornali, il signor Sayama: non c’è alcun dubbio. Quindi stavano partendo per andare a suicidarsi. Non l’avrei mai immaginato. Otoki si era presa alcuni giorni di vacanza: evidentemente aveva già deciso. Era una brava ragazza, mi dispiace così tanto. Non so che motivi potesse avere per uccidersi. Come ho detto prima, non era una persona che parlava volentieri di sé, quindi non so come stessero le cose, ma i giornali dicono che il signor Sayama era coinvolto in un caso di corruzione, e forse Otoki si è lasciata trascinare dalla pena che provava nei suoi confronti, non crede?».

Questo fu, grosso modo, il contenuto delle deposizioni delle tre persone a cui sarebbero state restituite le salme. Accanto all’investigatore capo, l’ispettore Torigai Jūtarō aveva ascoltato tutto.

 

 

I corpi furono riconsegnati alle famiglie. Furono eseguite due cremazioni separate, sempre nella città di Fukuoka, quindi i tre ripartirono portandosi dietro le urne. Il caso della spiaggia di Kashii scivolò presto nel dimenticatoio e nessuno ne parlò più.

Torigai non sapeva come tornare sulla vicenda. Due cose proprio non gli quadravano. In primo luogo quello scontrino del vagone ristorante per una sola persona – la questione di appetito e affetto. E poi il fatto che la donna aveva lasciato Sayama da solo nel ryokan e per cinque giorni se n’era andata chissà dove.

Ma non avrebbe potuto far riaprire il caso sulla base di dettagli così insignificanti. Il capo non l’avrebbe mai appoggiato. Lui stesso, se provava a ragionare in maniera obiettiva, si rendeva conto che quegli indizi non stavano in piedi. Jūtarō, quindi, sebbene riluttante, si tappò la bocca e rinunciò a intervenire, anche se il suo silenzio non significava che si fosse dato per vinto. Anzi, il fatto stesso di non pronunciarsi accresceva la sua impazienza. Non avrebbe avuto pace fino a quando non fosse riuscito a trovare le risposte che cercava.

«E se invece fosse stato soltanto un doppio suicidio?» si disse a un certo punto. Allora non c’era nessun crimine. Non doveva pensarci più. E poi aveva così tanto lavoro da fare, arrivavano sempre nuovi casi. Tuttavia... continuava a dubitarne, era più forte di lui.

«E va bene, porterò avanti la mia indagine senza dirlo a nessuno» mormorò fra sé e sé. E nell’istante stesso in cui prese questa decisione, si sentì stranamente sollevato.

L’idea sulla quale si era concentrata l’attenzione della stampa, ossia che il suicidio fosse da collegare al caso di corruzione, era stata data subito per scontata. In modo fin troppo rapido. L’ipotesi del suicidio era apparsa così ovvia che erano arrivati dritti al risultato senza prima aver fatto i conti. Ma Jūtarō sentiva che mancava qualcosa, qualcosa che gli era sfuggito e stava proprio davanti ai suoi occhi. Così decise di recarsi da solo sulla spiaggia di Kashii, dove erano stati rinvenuti i cadaveri. Prese il tram e scese a Hakozaki, e qui salì su un treno della linea Nishitetsu diretto a Wajiro. Era decisamente più pratico rispetto al treno della ferrovia statale. La differenza era che i treni della Nishitetsu percorrevano la litoranea.

La stazione Nishitetsu distava appena un quarto d’ora di cammino dalla spiaggia del ritrovamento. Dopo un tratto di strada abbastanza isolato, con poche case sparse su entrambi i lati, si sbucava in una pineta, attraversata la quale ci si ritrovava su un’ampia spiaggia sassosa. Tutta l’area era stata sottratta al mare.

Spirava ancora un vento freddo, ma il colore dell’oceano lasciava già presagire la primavera. Le tinte fredde e smorte dell’inverno si erano ormai dileguate. L’isola di Shika era avvolta nella nebbia.

Torigai Jūtarō si trovava sul luogo del ritrovamento. Quasi non riconosceva quella spiaggia frastagliata, piena di rocce nere e uniformi. Rispetto al paesaggio circostante era davvero un posto desolato, e se anche vi fosse stata una battaglia, non ne sarebbe rimasta traccia alcuna.

Jūtarō si chiese perché Sayama e Otoki avessero deciso di morire proprio lì. Avrebbero potuto trovare un posto migliore. Due innamorati prossimi al suicidio dovrebbero scegliere con cura il luogo in cui morire. Vicino a una fonte termale, per esempio, o in una località rinomata per la sua bellezza. Certo, anche lì la vista era bella, ma perché proprio su quelle rocce dure e non su un morbido prato?

Poi si ricordò che il suicidio era avvenuto di notte. Erano usciti dal ryokan verso le otto e si erano tolti la vita intorno alle dieci. Tutto lasciava pensare che avessero previsto ogni cosa fin dall’inizio. Era buio e dovevano conoscere la zona molto bene.

Il che significa... Significa che almeno uno di loro c’era già stato, pensò improvvisamente. Che era «pratico del posto», come dicono i poliziotti. I loro spostamenti sarebbero stati impossibili se non avessero conosciuto la zona.

Jūtarō tornò indietro a passo svelto. Oltrepassò la stazione di Kashii-Nishitetsu e si diresse verso quella di Kashii delle ferrovie nazionali. Distavano appena cinquecento metri l’una dall’altra e la strada che le collegava era molto frequentata. Arrivato in stazione raggiunse l’ufficio del telegrafo, estrasse un vecchio taccuino dalla tasca, controllò gli indirizzi che aveva annotato e inviò due telegrammi. Contenevano delle richieste di informazioni per il fratello di Sayama Ken’ichi e per la madre di Otoki. Riuscì a mala pena a farle stare nello spazio risicato di venti caratteri.

Quindi entrò nell’atrio della stazione e diede uno sguardo al tabellone degli orari. Venti minuti dopo sarebbe arrivato un treno diretto a Hakata. Nell’attesa si infilò le mani nelle tasche e, in piedi davanti all’entrata, si mise a guardare fuori. Il solito scenario malinconico e sempre uguale delle stazioni. C’era una mensa, un piccolo emporio e una frutteria. Nella piazzetta antistante era parcheggiato un furgone e dei bambini giocavano. Era una splendida giornata di sole.

Mentre osservava distrattamente quella scena, Jūtarō fu colto all’improvviso da un dubbio. Fino ad allora tutti avevano sempre dato per scontato che Sayama e Otoki fossero scesi alla stazione Nishitetsu, ma in realtà sarebbero potuti scendere anche a quella delle ferrovie nazionali. Controllò di nuovo l’orario e vide che c’era un treno proveniente da Hakata, arrivava alle 21:24!

Jūtarō chiuse gli occhi per un attimo e rifletté. Decise che non avrebbe più preso il treno, attraversò la piazza e a passo lento si avviò verso il negozio del fruttivendolo. Doveva assolutamente fargli una domanda. Aveva uno strano presentimento.

IV
GENTE DI TOKYO

L’ispettore Torigai era di fronte alla frutteria della stazione di Kashii.

«Chiedo scusa, dovrei farle una domanda».

Il proprietario, un uomo sulla quarantina intento a lucidare una mela, si voltò. Di solito i negozianti rispondono controvoglia se qualcuno pone loro delle domande, ma quando Jūtarō gli disse di essere un poliziotto, il fruttivendolo assunse un’espressione seria.

«Fino a che ora tiene aperto il negozio?» chiese Jūtarō.

«Fino alle undici circa» rispose il fruttivendolo con tono gentile.

«Quindi da qui riesce a vedere i viaggiatori che escono dalla stazione alle nove e mezzo?».

«Alle nove e mezzo? Ah, sì. C’è un treno che arriva da Hakata alle nove e ventiquattro, e da qui si vedono i passeggeri. A quell’ora c’è poca gente in negozio e io sto sempre a guardare, nella speranza che qualcuno entri a comprare qualcosa».

«Ho capito. E mi dica, la sera del venti, a quell’ora, ha per caso visto uscire dalla stazione un uomo sulla trentina vestito all’occidentale insieme a una donna di circa venticinque anni, con indosso un cappotto e un kimono?».

«La sera del venti? È un bel po’ di tempo fa, eh? Mi lasci pensare...» disse inclinando la testa. Jūtarō capì che la domanda, posta così, era troppo difficile. Erano passati già quattro o cinque giorni e specificare la data non sarebbe servito a molto. Così decise di porgliela in modo diverso.

«Sa che pochi giorni fa una coppia si è suicidata su una spiaggia qui vicino?».

«Parla di quei cadaveri rinvenuti al mattino? Ne ho sentito parlare, ho anche letto la notizia sul giornale».

«Ecco. Quella era la mattina del ventuno. Il venti dunque era la sera prima, si ricorda qualcosa?».

«Ah, sì» rispose l’uomo picchiettando con le dita sul pesante grembiule su cui era impresso il nome del negozio. «Ora mi ricordo. Quindi era la sera prima... Sì, li ho visti».

«Come? Li ha visti?» replicò Jūtarō incredulo.

«Sì. Me lo ricordo perché il giorno successivo tutti non facevano che parlare del suicidio. Eh, sì, quella sera saranno scese appena dieci persone dal treno delle nove e ventiquattro. Lo prendono veramente in pochi quel treno lì, sa? E tra loro c’erano proprio un uomo vestito all’occidentale, come ha detto lei, insieme a una donna in kimono. Mi avevano dato l’impressione di voler comprare della frutta, per questo sono rimasto a guardarli».

«E l’hanno comprata alla fine?».

«Macché. Non hanno comprato un bel niente. Sono andati dritti verso la stazione Nishitetsu e dopo non li ho più visti: ci sono rimasto male. E poi è vero, la mattina dopo c’è stato tutto quel trambusto. Mi sono anche chiesto se non fossero proprio loro i due suicidi, ecco perché me li ricordo».

«E si ricorda che facce avevano?» domandò Jūtarō.

«Be’, era lontano, sa» rispose quello passandosi una mano sulla guancia. «Poi erano controluce, con quei fari così forti proprio alle spalle, ho visto più che altro delle sagome scure, le facce non me le ricordo. I giornali hanno pubblicato una fotografia dell’uomo, ma non le saprei dire».

«Uhm, capisco», le spalle di Jūtarō si incurvarono leggermente. «E com’erano vestiti?».

«Neanche di quello mi ricordo bene. Li ho visti che si allontanavano, so solo che l’uomo aveva un soprabito e la donna era in kimono, ma è un ricordo confuso».

«Ha potuto vedere il kimono?».

«E come?» replicò il fruttivendolo con un sorrisetto. Jūtarō era un po’ deluso. Nel negozio c’era un uomo intento a scegliere dei mandarini, ma che cercava anche di ascoltare la loro conversazione.

«Ha detto di averli visti procedere in direzione della stazione Nishitetsu, cioè lungo la strada che porta alla spiaggia?».

«Sì, proprio così. Se la si percorre fino in fondo si arriva alla spiaggia».

Jūtarō ringraziò e andò via.

Mentre si incamminava, pensò che forse il suo presentimento era fondato. Ci aveva visto giusto. Aveva intuito che il fruttivendolo poteva sapere qualcosa, e in effetti li aveva visti. Era un peccato che non si ricordasse dei loro volti, ma con ogni probabilità le persone che aveva visto erano Sayama Ken’ichi e Otoki. Arrivati alla stazione di Kashii a bordo di un treno proveniente da Hakata, la sera del venti, alle nove e ventiquattro. Un tragitto di quindici minuti.

Sayama aveva ricevuto la telefonata della donna e si era precipitato fuori dal ryokan poco dopo le otto: dove si erano incontrati, e che cosa avevano fatto durante quell’ora, prima di salire sul treno alla stazione di Hakata? Era un’indagine difficile, e forse senza possibilità di soluzione. Hakata era un distretto molto grande: sarebbe stato come cercare un ago in un pagliaio.

Torigai Jūtarō procedeva verso la stazione Nishitetsu immerso in questi pensieri, quando improvvisamente si sentì chiamare da qualcuno dietro di sé.

«Mi scusi...».

Jūtarō si voltò e vide un giovane uomo, che aveva tutta l’aria di essere un impiegato, avanzare verso di lui sorridendo timidamente.

«Lei è un poliziotto?».

«Sì».

L’osservò e vide che teneva in mano un sacchetto pieno di mandarini. Era il cliente della frutteria.

 

 

«Vede, mentre stavo comprando i mandarini vi ho sentiti parlare» disse il giovane, in piedi accanto a lui. «Per la verità, la sera del venti, alle nove e mezzo circa, ho visto anch’io una coppia che potrebbe essere quella del suicidio».

«Davvero?» disse Jūtarō spalancando gli occhi. Guardandosi intorno vide un posticino che non si capiva bene se fosse una trattoria o un caffè, e invitò il giovane impacciato a bere qualcosa con lui. Mentre sorseggiavano il caffè, che somigliava più a una brodaglia scura e zuccherata, lo guardò dritto negli occhi e gli disse:

«Mi racconti tutto nei dettagli».

«Be’, non è che di dettagli ce ne siano tanti» replicò l’uomo grattandosi il capo. «È solo che quando l’ho sentita parlare con il fruttivendolo mi sono detto che forse anche il mio racconto le sarebbe potuto tornare utile, e quindi...».

«Prego, mi dica» lo incoraggiò Jūtarō.

«Io sono di qui, ma lavoro presso una ditta di Hakata,» esordì il giovane «e la sera precedente al ritrovamento dei due corpi, vale a dire la sera del venti, ho visto anche io una coppia, però su quello che arrivava alla stazione Nishitetsu, alle nove e trentacinque.

«Un momento» lo fermò Jūtarō con un gesto della mano. «Si riferisce al treno?».

«Sì, il treno che parte da Keirinjō-mae alle nove e ventisette. Impiega otto minuti appena ad arrivare fino a qui».

Keirinjō-mae si trovava a Hakozaki, nella parte più orientale di Hakata, dove si era combattuta un’antica battaglia ai tempi dell’invasione mongola, e nei pressi del fiume Tatara c’erano ancora i resti delle fortificazioni. Oltre la pineta si vedeva il golfo di Hakata.

«Capisco. Quindi ha visto la coppia sul treno?».

«No, perché il treno di quella linea ha solo due carrozze e io ero seduto in quella posteriore. I passeggeri erano pochi, e se loro due fossero stati nella mia li avrei notati. Sicuramente erano nell’altra».

«E quand’è che li ha visti, allora?».

«Dopo aver passato i tornelli, mentre mi avviavo verso casa. Quella sera ero uscito a bere a Hakata ed ero brillo, quindi camminavo lentamente. Due o tre persone scese dal mio stesso treno mi hanno superato. Tutta gente del posto, che conoscevo già di vista. Poi anche quella coppia mi superò, e a passo piuttosto svelto. L’uomo portava un soprabito, la donna un cappotto con sotto il kimono. Si incamminarono lungo una strada isolata che porta alla spiaggia. Sul momento non ci badai e svoltai l’angolo per il viottolo che porta a casa mia, ma la mattina dopo venni a sapere del suicidio. I giornali dicevano che era accaduto intorno alle dieci, quindi mi sono chiesto se non si trattasse proprio di quei due».

«E li ha visti in faccia?».

«Come le ho detto, sono arrivati da dietro e mi hanno superato, quindi li ho visti solo di spalle».

«Uhm. Non si ricorda per caso il colore del soprabito? O il disegno del kimono?».

«No, affatto. Quella strada è poco illuminata, e poi avevo bevuto. Però ho sentito la donna dire una cosa».

«Che cosa?» a Jūtarō si illuminarono gli occhi. «Che ha detto?».

«Mentre mi passavano accanto, l’ho sentita dire all’uomo: “Che posto desolato però, non ti pare?”».

«Che posto desolato però, non ti pare?» gli fece eco Jūtarō sovrappensiero. «E l’uomo che cosa ha risposto?».

«È rimasto in silenzio. E ha tirato dritto».

«C’era qualcosa di particolare nella voce della donna?».

«Ecco... Era una voce molto limpida. E non aveva l’accento di qua. Da queste parti la gente non parla così. Doveva essere di Tokyo».

Jūtarō prese una sigaretta dal suo pacchetto sgualcito di Shinsei e l’accese. Buttò fuori una nuvola di fumo azzurrognolo e rifletté sulla domanda successiva.

«È sicuro che il treno sia arrivato alle nove e trentacinque?».

«Sicurissimo. Anche se mi fermo a bere a Hakata faccio sempre in modo di rientrare con quel treno».

Jūtarō rifletté sulla risposta. La coppia di cui parlava quel giovane era la stessa che il fruttivendolo diceva di aver visto scendere all’altra stazione di Kashii, quella delle ferrovie nazionali? L’impiegato non li aveva visti sul treno. Se li era trovati alle spalle, insieme agli altri passeggeri scesi dietro di lui, così ha immaginato che fossero a bordo anche loro. Il treno della linea nazionale arrivava alla stazione di Kashii alle nove e ventiquattro. Quello della linea Nishitetsu alle nove e trentacinque. C’era uno scarto di undici minuti. Le stazioni distavano circa cinquecento metri l’una dall’altra. Usciti da quella di Kashii si prendeva una strada che passava accanto alla Nishitetsu e proseguiva fino al mare: la direzione era quella, i tempi anche.

«Questo è tutto quanto le posso dire» concluse l’impiegato mentre si alzava, osservando il viso pensieroso di Jūtarō. «Quando l’ho sentita fare domande al fruttivendolo sulla coppia dei suicidi, ho pensato che fosse il caso di parlargliene...».

«Gliene sono molto grato, davvero».

Jūtarō gli chiese nome e indirizzo e poi chinò profondamente il capo in segno di gratitudine. Gli aveva riferito le parole pronunciate dalla donna, non era poco.

Quando uscì dal locale era già scesa la sera.

«Che posto desolato però, non ti pare?». Le parole della donna continuavano a risuonare nella mente di Jūtarō come se le avesse udite lui stesso. Da come era stata detta quella frase si potevano dedurre tre elementi. Primo: la donna parlava il giapponese di Tokyo, quindi non era del posto. A Fukuoka, come nel resto del Kyūshū, non si parlava in quel modo, e a Hakata in particolare, l’accento era inconfondibile. Secondo: le parole della donna facevano supporre che quella fosse la sua prima volta laggiù. Terzo: non si aspettava che l’uomo fosse d’accordo con lei, ma semplicemente stava comunicando la propria impressione a una persona che, invece, era pratica del luogo. E il fatto che lui abbia tirato dritto senza neanche risponderle ne era una conferma.

In breve, si sarebbe potuto concludere che l’uomo conosceva il posto, mentre la donna lo visitava insieme a lui per la prima volta. La donna parlava come la gente di Tokyo e i fatti risalivano a poco prima dell’ora presunta del suicidio (se era avvenuto alle dieci, si trattava di trenta o quaranta minuti prima, se era avvenuto alle undici, di circa un’ora e mezzo. C’era un margine di due o tre ore). Con ogni probabilità, la coppia vista dal fruttivendolo e dall’impiegato era la stessa che poi si era suicidata.

A pensarci bene, però, quella restava soltanto un’ipotesi. La sola Hakata accoglieva migliaia di visitatori provenienti da Tokyo, e anche il fatto che stessero camminando lì a quell’ora potrebbe essere soltanto una coincidenza non collegata al suicidio. Ma non è il caso di rifletterci troppo, si disse Jūtarō, facciamo finta che quei due fossero proprio gli amanti suicidi...

Spirava un vento freddo. Le tende dei negozi ondeggiavano tristemente. Sullo sfondo nero del cielo, le stelle scintillavano come punte di lame acuminate.

Jūtarō ritornò alla stazione di Kashii e, arrivato a destinazione, controllò l’orologio che aveva al polso. Era un vecchio orologio, ma molto preciso.

Quindi si rimise in marcia, diretto verso la stazione Nishitetsu. A testa bassa, le mani in tasca, camminando veloce, come se avesse azionato un cronometro. Il vento gli sferzava l’orlo del soprabito.

Arrivò alla stazione, era tutta illuminata. Controllò l’orologio. Sei minuti esatti in quell’istante. Il che significava che per andare dalla stazione di Kashii a quella della linea Nishitetsu ci volevano sei minuti scarsi.

Jūtarō rifletté un istante. Guardò l’orologio e si avviò di nuovo verso la stazione delle ferrovie statali. Stavolta camminò più lentamente. Misurando la velocità sul ritmo dei propri passi.

Giunto in stazione, controllò l’orologio. Un po’ più di sei minuti.

Poi rifece una terza volta il percorso in direzione opposta. Stavolta a passo decisamente lento, quasi flemmatico, buttando l’occhio alle case su entrambi i lati della strada. Quando arrivò alla stazione Nishitetsu si rese conto di aver impiegato solo otto minuti.

Da queste tre prove risultava chiaro che per andare da una stazione all’altra erano necessari, a passo normale, dai sei ai sette minuti.

Il fruttivendolo li ha visti alla stazione delle ferrovie statali alle nove e ventiquattro, l’impiegato alle nove e trentacinque, insieme ai passeggeri usciti dalla stazione Nishitetsu. In mezzo ci sono undici minuti. Poniamo che si tratti della stessa coppia: avrebbero impiegato undici minuti.

Che diavolo significa? si domandò Jūtarō. Quanto dovevano andare piano per percorrere in undici minuti un tratto di strada che ne richiede sette al massimo?

A questo punto si ricordò le parole dell’impiegato: «Poi anche quella coppia mi superò, e a passo piuttosto svelto».

Sì, ma a passo svelto non ci avrebbero messo neanche cinque minuti. Come poteva spiegarsi quello scarto temporale?

Prima ipotesi: strada facendo si sono fermati per qualche motivo. Forse per comprare qualcosa.

Seconda ipotesi: la coppia vista dal fruttivendolo non è la stessa che ha visto l’impiegato, sono due coppie differenti. Entrambe le ipotesi erano verosimili.

La prima era estremamente plausibile. La seconda avrebbe eliminato il problema dello scarto temporale. In effetti nulla provava che si trattasse della stessa coppia. Coincidevano soltanto il soprabito dell’uomo e il kimono della donna. Ma nessuno li aveva visti in volto, né era stato in grado di indicare quale fosse il colore o la fantasia del kimono.

Perciò... Qui il ragionamento di Jūtarō s’interruppe.

La coppia descritta dall’impiegato era quella che sembrava più simile a Sayama e Otoki. Le parole della donna erano un elemento importante.

Detto ciò, non si poteva escludere che la coppia fosse la stessa della stazione delle ferrovie statali. Anche la prima ipotesi era molto verosimile. Jūtarō non si sentiva ancora pronto a scartare questa eventualità.

Senza poter giungere a una conclusione, alla fine tornò a Hakata, rincasò e andò a dormire.

Quando, il mattino seguente, arrivò al commissariato, Jūtarō trovò ad attenderlo due telegrammi.

Aprì il primo: «Sayama andava spesso a Hakata per lavoro».

Quindi lesse il secondo: «Hideko non è mai stata a Hakata».

Erano le risposte ai telegrammi che Jūtarō aveva inviato il giorno prima dalla stazione di Hakata. Una del direttore di banca, il fratello di Sayama Ken’ichi. L’altra della madre di Otoki, ovvero Kuwayama Hideko.

Dunque Sayama andava spesso a Hakata per lavoro, cosa che faceva di lui una persona pratica del posto. Otoki invece non c’era mai stata.

Torigai Jūtarō d’un tratto vide materializzarsi davanti ai propri occhi le sagome scure di una donna che diceva: «Che posto desolato però, non ti pare?», e di un uomo silenzioso, che la conduceva a passo rapido verso la spiaggia.

 

 

Quella mattina Torigai Jūtarō aveva sbrigato una certa faccenda. Lasciando il commissariato aveva preso il tram fino a Hakozaki e da lì aveva proseguito a piedi fino a Keirinjō-mae. Il tram andava fino al porticciolo di Tsuyazaki, sul litorale nord, e la stazione Nishitetsu era proprio a metà strada.

Era una bella giornata, mite come accade di rado in inverno.

Jūtarō mostrò il distintivo al capostazione.

«È successo qualcosa?» gli domandò l’uomo grassoccio e paonazzo che stava dietro la scrivania.

«La sera del venti a che ora è partito il treno che arriva alla stazione Nishitetsu alle 21:35?».

«Alle 21:27» rispose l’altro immediatamente.

«Dovrei rivolgere delle domande al controllore che era di turno, c’è?».

«Non saprei...».

Il capostazione chiese al suo vice di cercarlo. Trovarono il nome sul prospetto dei turni e venne fuori che il controllore quella mattina era presente. Il vice andò a chiamarlo.

«C’è stato un incidente, per caso?» domandò il capostazione mentre aspettavano.

«Be’, non proprio» rispose Jūtarō, bevendo un sorso di bancha che gli avevano offerto poco prima.

«Lavoro faticoso il suo, eh?».

Il giovane controllore fece il suo ingresso. Si mise sull’attenti davanti al capostazione e lo salutò.

«È lui» disse il capostazione a Jūtarō.

«Ah, sì? Mi scusi se l’ho fatta chiamare. La sera del venti, all’arrivo del treno delle 21:27, lei si trovava ai tornelli?».

«Sì, ero di turno».

«Per caso ha visto una coppia, un uomo sulla trentina, con un soprabito, e una donna in kimono, di venticinque anni circa?».

«Non saprei...» replicò il controllore sbattendo le palpebre. «Sono in molti a portare il soprabito, saprebbe dirmi almeno di che colore era?» domandò.

«Era blu scuro, e i pantaloni marroni. La donna aveva un cappotto grigio e un kimono color ruggine». Jūtarō descrisse gli abiti che aveva visto indosso ai due cadaveri.

Il controllore guardò nel vuoto assumendo un’espressione pensierosa.

«Non me li ricordo. Per controllare i biglietti guardiamo sempre le mani e, a meno che non vi sia qualcosa di particolarmente strano, le facce neanche le vediamo. Senza contare che questa è la stazione di origine di molti treni, quindi capita spesso che all’apertura dei tornelli i passeggeri si precipitino sui binari tutti nello stesso momento».

«A quell’ora, però, non devono essere stati così tanti, o sbaglio?».

«È vero. Saranno stati trenta o quaranta. Come sempre in quell’orario».

«Le donne oggigiorno tendono a vestire all’occidentale e sono in poche, credo, a portare il kimono. Proprio non se la ricorda?».

«Mi spiace, no».

«Ci pensi bene» insisté Jūtarō.

Il controllore, però, scosse il capo e ripeté che non se lo ricordava. Poi a Jūtarō venne un’altra idea.

«Mi dica, a quell’ora ha visto passare qualcuno che conosceva?».

«Be’, sì. Qualcuno l’ho visto».

«E chi era?».

«È gente che vedo tutti i giorni, so come si chiamano e dove abitano. Solo tre persone, però».

«Dica pure, la ascolto».

Jūtarō prese nota di nomi e indirizzi, quindi ringraziò il controllore e uscì dall’ufficio del capostazione. Si era già messo in movimento. Abitavano tutti e tre lungo la ferrovia. Il primo a Wajiro, il secondo a Shingū, il terzo a Fukuma.

«Ero seduto nella prima carrozza,» gli disse l’uomo di Wajiro «e di donne col cappotto grigio ne ho viste due. Una era sulla quarantina, l’altra avrà avuto ventisei o ventisette anni. Tutte e due, però, avevano l’aria di stare rientrando dal lavoro. Uomini col soprabito blu scuro non mi pare di averne visti».

Jūtarō tirò fuori dalla tasca la foto di Otoki e gliela mostrò.

«La più giovane era questa qui?».

«No. Il viso era completamente diverso».

Poi fu la volta dell’uomo di Shingū, che gli disse di essersi seduto nella seconda carrozza.

«Una donna con un cappotto? Non saprei, non ricordo... Mi pare che ce ne fosse una, però. È che mi è venuto sonno, capisce? Non ho fatto caso se c’erano uomini col soprabito blu scuro».

Jūtarō gli fece vedere le fotografie dei due suicidi, ma l’uomo rispose che non si ricordava niente.

Il passeggero di Fukuma, infine, gli disse:

«Anche io ero nella seconda carrozza, e sì, a pensarci bene c’era una donna con quel tipo di cappotto. Proprio sui venticinque o ventisei anni».

«Era grigio?».

«Il colore non me lo ricordo, ma i cappotti come quello sono tutti grigi, mi pare, o no? Ha chiacchierato tutto il tempo con l’uomo che le era seduto accanto».

«Un uomo?» Jūtarō sussultò: «Che uomo?». Ma la risposta fu deludente.

«Sembravano marito e moglie, anche se lui era molto più grande, direi sulla quarantina. Tutto in ghingheri, con un bel kimono di seta».

Gli mostrò le fotografie come aveva fatto con gli altri, ma quello gli disse che non erano loro. E aggiunse di non riuscire a ricordare se nella vettura ci fosse anche un uomo con un soprabito blu scuro.

Incapace di trovare una sola prova che Otoki e Sayama fossero su quel treno, Jūtarō se ne ritornò scoraggiato a Hakata.

Quando ormai stanco rimise piede al commissariato, il suo capo, che lo stava aspettando, si alzò di scatto dalla sedia e lo chiamò: «Eccoti, Torigai. C’è un collega di Tokyo che ti vuole parlare».

Accanto a lui, un giovane uomo in giacca e cravatta, lo guardava sorridendo.

V
IL PRIMO DUBBIO

Quando vide Jūtarō, lo sconosciuto che sorrideva si alzò in piedi. Doveva avere una trentina d’anni. Non era alto, ma aveva un fisico robusto e tarchiato, che al vecchio investigatore, chissà perché, fece venire in mente un grosso scatolone. Il viso, invece, aveva un’aria infantile, roseo, le sopracciglia folte, gli occhi vispi.

«Ispettore Torigai? Sono Mihara Kiichi, ispettore aggiunto della seconda sezione investigativa. Lieto di conoscerla».

Sfoderò un sorriso bianchissimo e gli mostrò il distintivo.

Non appena sentì nominare la seconda sezione investigativa, Torigai capì che era venuto per raccogliere informazioni sul suicidio di Sayama. La prima sezione si occupava di crimini violenti, mentre la seconda indagava sui casi di corruzione.

In quel periodo, a Tokyo, un grosso scandalo stava investendo il ministero, e i giornali erano in fibrillazione. Al centro del mirino c’era il reparto in cui lavorava Sayama. Un suo collega era già stato arrestato. E appena una settimana prima, ai piani alti di una potente organizzazione non governativa che intratteneva rapporti con il ministero, c’erano stati altri due arresti. Ma non era ancora finita. Il caso era nelle mani della seconda sezione investigativa.

«Sono venuto a raccogliere informazioni sul suicidio del vice-capo di sezione Sayama Ken’ichi, del Ministero X, che si è tolto la vita insieme a una donna da queste parti» esordì l’ispettore aggiunto rimettendosi a sedere. Esattamente come previsto.

«Il suo superiore mi ha già spiegato la situazione a grandi linee» disse Mihara voltandosi per un momento in direzione del capo. Che annuì.

«Mi ha anche mostrato tutto il materiale in vostro possesso, che mi è parso molto utile».

In effetti sulla scrivania c’erano le fotografie del luogo del ritrovamento, il referto dell’autopsia e altri documenti.

«Mi dicono però che lei, ispettore Torigai, nutre dei dubbi in merito a questo doppio suicidio, non è così?».

Torigai lanciò una rapida occhiata in direzione del capo. Questi buttò fuori una boccata di fumo e intervenne: «Torigai, avevi delle tue idee a riguardo, no? Quando le ho accennate all’ispettore Mihara lui le ha trovate interessanti. Spiegagliele meglio tu».

«Proprio così. Il suo superiore mi ha detto che lei è di un parere diverso a proposito del suicidio, e questo mi ha incuriosito, ecco perché ho atteso il suo ritorno».

Nelle maniere di Mihara c’era qualcosa di accattivante. Il capo invece aveva un’aria scettica, che tradiva un certo imbarazzo.

«Non sono proprio dei dubbi, è solo una sensazione» disse un po’ esitante Torigai, sentendo su di sé lo sguardo del suo superiore. Ma questo fu sufficiente ad attirare l’interesse di Mihara.

«Va bene, anche se è solo una sensazione, me ne parli».

Messo alle strette, Torigai gli disse della ricevuta del vagone ristorante per una sola persona». Gli tornò in mente il discorso della figlia sull’appetito e l’affetto, ma naturalmente non ne fece parola.

«Un’osservazione molto acuta» disse Mihara sempre sorridendo, con l’aria compiacente del venditore. «Avete ancora la ricevuta?».

«Pur trattandosi di un caso complesso non siamo di fronte a un crimine, quindi abbiamo restituito tutto alle famiglie» spiegò il capo.

«Ah, sì?» ribatté Mihara con un’ombra di disappunto, che gli fece inarcare un sopracciglio. Quindi domandò a Torigai: «E riportava esattamente la data del 14 gennaio?».

«Sì».

«Che è il giorno in cui Sayama ha preso il treno Asakaze insieme a Otoki, la cameriera del Koyuki, dunque...» esordì, poi tirò fuori un taccuino dalla tasca e lo sfogliò. «Mi sono annotato l’orario dell’Asakaze. Parte da Tokyo alle 18:30, arriva ad Atami alle 20:00, a Shizuoka alle 21:01, a Nagoya alle 23:21 e a Ōsaka alle 2:00, del mattino si intende, quindi il giorno seguente, nel nostro caso il 15. Il che significa che la ricevuta deve essere stata emessa al più tardi alle 23:21, in corrispondenza della stazione di Nagoya».

Ascoltandolo, Torigai intuì quello che voleva dire Mihara. E capì che stavano pensando alla stessa cosa. Sembrava un venditore, ma era un vero poliziotto.

A questo punto Mihara si rivolse al capo: «Ora vorrei vedere il luogo del ritrovamento. So che il signor Torigai è molto impegnato, ma posso chiederle di prestarmelo? Vorrei che mi accompagnasse lui».

Non potendo fare altrimenti, il capo acconsentì.

 

 

Una volta saliti sul tram, l’ispettore aggiunto Mihara avvicinò la maniglia a cui era aggrappato a quella di Torigai e gli sussurrò: «Il suo capo non sembrava granché contento, vero?».

Torigai accennò un sorriso forzato. E le rughe gli segnarono il volto.

«Non importa, è sempre la stessa storia. Mi interessa quello che pensa lei. Ho capito che non avrebbe potuto parlare davanti al suo capo, per questo ho pensato di trascinarla con me sul luogo del ritrovamento».

«Le dirò tutto quando arriveremo» rispose Torigai, compiaciuto della simpatia che gli manifestava il giovane ispettore.

A Keirinjō-mae presero il treno fino alla stazione della linea Nishitetsu. In meno di un quarto d’ora sarebbero arrivati sul posto.

Giunti sulla spiaggia, Mihara si fermò ad ammirare il panorama. Era una bella giornata, e il mare aveva già un colore primaverile. L’isola e la baia erano avvolte nella foschia.

Mihara era impressionato dalla bellezza di quel mare. «Questo è il famoso Mare di Genkai? Mentre arrivavo l’ho intravisto dal treno, ma vederlo qui da vicino è tutta un’altra cosa».

Torigai gli mostrò finalmente il luogo in cui erano stati rinvenuti i due cadaveri. Gli spiegò in che posizione li avessero trovati. Mihara tirò fuori le fotografie dalla tasca e annuì più volte.

«Il suolo è tutto roccioso, eh?» domandò Mihara guardando verso il basso.

«Sì. Come vede, prima di arrivare alla sabbia ci sono solo rocce».

«E quindi non restano impronte».

Mihara diceva ad alta voce tutto ciò che pensava.

«Allora, ispettore Torigai, lei che idea si è fatto?» gli domandò quando, tornati indietro dal luogo del ritrovamento, si erano messi a sedere uno accanto all’altro su uno scoglio. I raggi del sole pomeridiano riscaldavano le loro spalle avvolte nei cappotti. A vederli così si sarebbe detto che stessero tranquillamente prendendo il sole.

«Tanto per cominciare, c’è la faccenda del vagone ristorante...» esordì Torigai. Quindi gli espose le ragioni dei suoi sospetti e gli accennò persino a quello che aveva detto sua figlia sulla famosa questione di «appetito e affetto». «Ecco perché penso che Sayama fosse da solo su quel treno».

Mihara lo ascoltava attento.

«Interessante. Avevo avuto anche io quest’impressione. Però ci sono dei testimoni che li hanno visti salire insieme sul treno alla stazione di Tokyo».

«È vero. Ma non potremmo supporre che a un certo punto la donna, cioè Otoki, sia scesa a un’altra stazione?» domandò Torigai.

«È una possibilità. Poniamo il caso che sia scesa» disse Mihara estraendo il taccuino dalla tasca. «La ricevuta porta la data del quattordici, quindi siamo ancora prima di Nagoya, dove il treno si è fermato alle 23:21. Ma ovviamente Sayama deve esserci andato prima della chiusura della carrozza ristorante, che è alle 22:00. E questo potrebbe far supporre che Otoki sia scesa ad Atami alle 20:00 oppure a Shizuoka alle 21:01».

«Esatto. Proprio così» annuì Torigai con convinzione. Mihara aveva dato voce a un pensiero che fino ad allora lo aveva solo sfiorato.

«Va bene. È passato del tempo e non è sicuro che otterremo dei risultati, ma vale la pena provare: cerchiamo tra le stazioni e gli alberghi di Atami e Shizuoka. Una donna che viaggia da sola potrebbe non passare poi così inosservata» disse Mihara, e aggiunse: «C’è altro?».

«Sayama ha soggiornato da solo in un ryokan di Hakata, il Tanbaya, dal quindici al venti. Il quindici è il giorno in cui è arrivato da Tokyo».

Torigai gli raccontò che Sayama aveva aspettato per tutto il tempo una telefonata, che la sera del venti, alle otto circa, una donna lo aveva cercato chiedendo del signor Sugawara, che lui se n’era andato immediatamente dopo e che il presunto suicidio era avvenuto quella sera stessa.

Mihara lo aveva ascoltato con grande interesse, poi gli domandò: «Se ha usato un nome falso doveva essere per forza Otoki, non crede? Significa che si erano messi d’accordo prima, sia sull’alloggio sia sul nome da usare».

«Credo di sì. C’è un punto, però, che continua a rimanere oscuro».

«Di che si tratta?».

«Finora avevo sempre pensato che Sayama e Otoki fossero arrivati insieme a Hakata e che poi lei se ne fosse andata da sola chissà dove, ma adesso, sentendola parlare, l’ipotesi che invece sia scesa a una stazione intermedia ha iniziato a sembrarmi più plausibile: potrebbe essersi ritrovata con lui dopo, no? Significa che Otoki è scesa ad Atami o a Shizuoka, ha mandato avanti Sayama e poi lo ha raggiunto a Hakata il venti. Quindi lo ha chiamato e, dal momento che Sayama aspettava la telefonata, evidentemente si erano messi d’accordo» disse Torigai. Poi aggiunse: «Su una cosa, però, non si erano messi d’accordo».

«E su cosa?».

«Su quando Otoki sarebbe arrivata a Hakata. Sayama ha aspettato con ansia quella telefonata per giorni: dunque non sapeva quando lei lo avrebbe raggiunto».

 

 

Mihara continuava a tracciare segni a matita sul suo taccuino. Poi si fermò e lo mostrò a Torigai: «È così, giusto?».

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«Sì, sì, proprio così» rispose Torigai dopo aver osservato lo schema.

«Ma perché Otoki sarebbe scesa a metà strada?» chiese Mihara.

Questo era il punto. Perché? Torigai non riusciva a spiegarselo. Continuava a pensarci, ma non ne aveva idea. «Proprio non lo so» rispose passandosi una mano sul viso.

Mihara incrociò le braccia. I suoi occhi guardavano distratti verso il mare alla ricerca di una risposta. L’isolotto di Shika faceva capolino all’orizzonte.

«Senta, Mihara» disse a un certo punto Torigai.

Si era finalmente deciso a fargli la domanda che gli ronzava in mente fin dall’inizio.

«Perché la polizia di Tokyo si sta interessando solo adesso alla morte di Sayama?».

Mihara non rispose subito. Offrì una sigaretta a Torigai e gliel’accese, poi ne prese una per sé e tirò una boccata di fumo grigiastro.

«Torigai, lei è stato così gentile con me che credo di doverglielo» disse. «Sayama Ken’ichi era uno dei principali testimoni sul caso di corruzione del Ministero X. Pur essendo solo un vice-capo di sezione, vantava una grande esperienza ed era molto addentro a tutte le pratiche amministrative. Quindi doveva aver avuto un ruolo importante in questo caso. In effetti, più che un testimone, lo si dovrebbe definire un vero e proprio sospetto. Ma siamo stati incauti: eravamo ancora agli inizi di tutta la vicenda e non lo abbiamo sorvegliato a dovere. E ora lui è morto».

Mihara batté col dito sulla sigaretta, per far cadere la cenere, poi riprese a parlare.

«Sono davvero in molti, però, a dare l’impressione di aver tratto beneficio dalla sua morte. Più andiamo avanti nell’indagine e più ci rendiamo conto che avremmo avuto tante domande da fargli. Ci siamo lasciati sfuggire un testimone chiave. È un vero peccato, un brutto colpo. Ma mentre noi ci mangiamo le mani, quei farabutti fanno i salti di gioia. Forse la morte di Sayama li ha salvati. Tuttavia da qualche tempo ha preso piede un nuovo sospetto».

«Un nuovo sospetto?».

«Che la sua morte non sia stata un fatto volontario, ma pilotato dall’esterno».

Torigai fissava il volto di Mihara.

«Avete degli elementi per dirlo?».

«Niente di certo» rispose Mihara. «Ma non ha lasciato biglietti di addio. Né ne ha lasciati la donna, giusto?».

Sì, era la stessa cosa che Torigai aveva detto al capo.

«Inoltre a Tokyo abbiamo fatto indagini su Sayama, ma non è emerso nulla che lo colleghi a Otoki».

«Cosa intende dire?».

«Vede, abbiamo saputo che Sayama aveva un’amante, ma non è certo che si trattasse di Otoki. Lo stesso vale per lei: ho parlato con le sue compagne del Koyuki e ho fatto domande ai vicini di casa, e pare che un uomo ce l’avesse. Lui la chiamava spesso al telefono e di tanto in tanto lei restava a dormire fuori. Ma non si sa chi fosse quest’uomo. Perché, a quanto dicono, non si è mai presentato a casa sua. Potrebbe anche trattarsi di Sayama, ma prove concrete non ce ne sono».

Torigai trovò la cosa curiosa. In fondo Sayama e Otoki si erano suicidati insieme, o no?

«Senta, però, Mihara, ci sono due testimoni, al Koyuki, che hanno visto Sayama e Otoki salire insieme sull’ Asakaze. Anzi, a dire il vero i testimoni sono tre, perché c’è anche un cliente del ristorante, se non ricordo male. Sono stati in tre a vederli. E poi si sono suicidati, proprio qui, dove ci troviamo adesso. Io ho potuto constatarlo con i miei occhi, e lei in commissariato ha visto le fotografie dei loro corpi».

«È vero». Per la prima volta Mihara sembrava perplesso. «Sono venuto quaggiù, ho visto tutti quei documenti e non ho dubbi che si sia trattato di un suicidio, ma ora sono confuso. Il sospetto che mi portavo dietro da Tokyo ha perduto fondamento, si è fatto più vago».

Torigai cominciava a sentire anche lui la confusione che provava Mihara.

 

 

«Che ne dice, rientriamo?» propose Mihara, così si alzarono e tornarono indietro.

Quando giunsero alla stazione Nishitetsu, Torigai si voltò e gli disse: «A cinquecento metri di distanza da questa stazione c’è quella delle ferrovie nazionali. Sa, mi hanno raccontato una cosa interessante». E gli riferì della sera del venti, delle due stazioni e della coppia. Poi gli descrisse in dettaglio anche l’esperimento che aveva fatto.

«Davvero sorprendente», Mihara sembrava entusiasta. «Lasci provare anche me».

Torigai ripeté insieme a Mihara lo stesso esperimento di due giorni prima, andando avanti e indietro da una stazione all’altra per tre volte e con passo sempre diverso.

«Eh, sì: anche se si va piano non ci vogliono più di sette minuti» concluse Mihara guardando l’orologio.

«E undici sono troppi. A meno che non ci si fermi da qualche parte lungo la strada».

«È anche possibile che si tratti di due coppie diverse, però...» Mihara levò lo sguardo verso l’alto e assunse un’espressione pensierosa «io credo che siano la stessa coppia. Cioè che siano scesi alla stazione di Kashii delle ferrovie nazionali e abbiano camminato fino alla spiaggia passando davanti alla stazione della linea Nishitetsu».

Torigai gli riferì in dettaglio la conversazione avuta con il controllore in servizio nell’ora del presunto avvistamento e la testimonianza del passeggero del treno. Mihara si annotò tutto, poi guardò il vecchio Torigai Jūtarō, esaminò la sua figura esile e, come per consolarlo, gli disse: «Insomma, non se ne viene a capo. Ma è questo a essere interessante. Certo che ci è capitata proprio una bella gatta da pelare, eh?».

La sera successiva Torigai accompagnò fino al binario della stazione di Hakata l’ispettore aggiunto Mihara, che ritornava a Tokyo. Il suo treno, l’Unzen, partiva alle sei e due minuti.

«A che ora è previsto l’arrivo a Tokyo?».

«Alle tre e quaranta di domani pomeriggio».

«Sarà stanco».

«No, è stato un piacere, mi è stato di grande aiuto».

«Ne dubito» rispose Torigai, ma Mihara ripeté: «No, Torigai, grazie a lei il mio viaggio in Kyūshū si è rivelato davvero prezioso» e lo pensava sul serio.

L’Unzen, che partiva da Nagasaki, sarebbe arrivato dodici o tredici minuti dopo. Restarono ad aspettare lì in piedi, uno accanto all’altro.

I treni entravano e uscivano dal loro campo visivo. Al binario di fronte era fermo un treno merci. L’atmosfera era sempre quella, indaffarata e caotica, tipica delle stazioni. Il viso di Mihara si fece malinconico al pensiero del lungo viaggio che lo attendeva.

«Anche alla stazione di Tokyo dev’esserci un bell’andirivieni di treni sui binari, vero?». Torigai provò a immaginarsela. Non l’aveva mai vista.

«Sì. È impressionante. I treni entrano ed escono dai binari in continuazione» rispose Mihara sovrappensiero. Poi però ebbe come una folgorazione. Gli era venuto in mente qualcosa di importante, qualcosa su cui, fino a quel momento, non aveva riflettuto.

Alla stazione di Tokyo, Sayama e Otoki erano stati visti salire a bordo dell’Asakaze. Se non ricordava male, i testimoni erano al binario tredici e il treno, invece, al binario quindici. Tra il tredici e il quindici, però, c’è il quattordici. In una stazione come quella di Tokyo, dove i treni partono e arrivano incessantemente, era davvero possibile vedere cosa accadeva a due binari di distanza senza incontrare alcun ostacolo?

VI
UN INTERVALLO DI QUATTRO MINUTI

Mihara arrivò alla stazione di Tokyo nel pomeriggio. Quel lungo viaggio in treno gli aveva fatto venire voglia di un buon caffè. Uscito dalla stazione prese un taxi fino a Yūrakuchō e si fece lasciare al solito kissaten.

«Signor Mihara, da quanto tempo!» gli disse sorridendo la cameriera.

Mihara andava a prendere il caffè in quel posto quasi tutti i giorni. La cameriera non lo vedeva da circa una settimana, e non sapeva niente del suo viaggio nel Kyūshū. Riconobbe due o tre facce che gli erano familiari. Non era cambiato nulla. La cameriera, come i clienti, continuavano a fare le cose che facevano sempre. Anche Ginza, fuori dalle vetrate, era quella di sempre. Sembrava che solo Mihara, per cinque o sei giorni, fosse stato catapultato fuori da lì. Nessuno era a conoscenza di cosa avesse fatto o visto in quell’intervallo di tempo, né avrebbe potuto immaginarlo. Era del tutto normale, ma lo fece sentire solo.

Il caffè era eccellente. Soltanto a Tokyo sapevano farlo così. Si alzò in piedi, prese la borsa, e si concesse un altro taxi fino al commissariato. Quando aprì la porta dell’ufficio della seconda sezione investigativa, su cui era affissa la targa con il nome del commissario Kasai, il suo capo era già lì.

«Eccomi qua».

«Finalmente. Sarai stanco» disse il commissario girando il collo taurino e guardandolo sorridente.

Gli altri agenti erano tutti usciti e un novellino versò a Mihara una tazza di tè.

«Allora, com’è andata?».

Mihara tirò fuori dalla borsa i documenti relativi al caso di Sayama e Otoki, che aveva ricevuto dal commissariato di Fukuoka.

«Uhm». Il capo osservò attentamente le fotografie del luogo del ritrovamento, lesse il referto dell’autopsia e tutti i rapporti, poi li posò e con le sue grosse labbra disse: «E così è proprio un doppio suicidio». Lo disse con tono convinto, ma dalla sua voce traspariva tutta la sua delusione.

«Ti ho fatto fare un viaggio a vuoto» aggiunse, come per scusarsi.

«Non lo definirei esattamente un viaggio a vuoto» rispose Mihara, e Kasai lo guardò con aria stupita.

«Che vuoi dire?».

«Ho appreso delle cose interessanti».

«E cioè?».

«Non è la posizione ufficiale del commissariato di Fukuoka, ma un certo Torigai, uno dei loro investigatori più esperti, mi ha fornito dei dettagli piuttosto curiosi».

Quindi Mihara gli riferì per filo e per segno la storia della ricevuta del vagone ristorante, l’esperimento tra le stazioni di Kashii e Nishitetsu e tutto il resto.

«Notevole l’osservazione sulla ricevuta del vagone ristorante» disse il capo dopo aver riflettuto un po’. «Quindi Otoki sarebbe scesa dal treno ad Atami o Shizuoka, avrebbe trascorso quattro o cinque giorni lì in zona, per poi recarsi a Fukuoka e infine avrebbe telefonato a Sayama, che era già lì e l’aspettava: torna tutto, no?».

«Direi di sì».

«Allora come prima cosa dobbiamo capire perché Sayama l’ha fatta scendere a metà strada e cosa le ha chiesto di fare nei quattro o cinque giorni in cui è stata ad Atami o Shizuoka».

«Capo, pensa anche lei quello che penso io?».

Il commissario e Mihara si guardarono dritti negli occhi.

«A giudicare dalle prove raccolte, non c’è dubbio che si siano suicidati. Ma ho la sensazione che dietro tutto questo ci sia dell’altro, non lo pensa anche lei?».

Il capo guardò nel vuoto, poi aggiunse.

«Mihara, ascolta. Penso che ci stiamo sbagliando. La morte di Sayama ha danneggiato a tal punto la nostra indagine che ci siamo messi a dubitare perfino del suo suicidio. Senza nemmeno accorgercene ci siamo trasformati in dei secondini sospettosi».

Era vero, il rischio che nella loro mente fosse scattato un meccanismo del genere c’era, eccome. Mihara, però, voleva andare fino in fondo. Se anche così non fosse arrivato a nulla, avrebbe rinunciato. Altrimenti non sarebbe riuscito a darsi pace.

Quando lo disse al capo, questi annuì. Anche lui era di quell’idea.

«E va bene, proviamoci. Anche se questa volta rischiamo di infilarci in una strada senza uscita» disse incrociando le braccia. «Ascolta, l’Asakaze è un rapido, i posti a sedere vengono tutti assegnati su prenotazione, anche in seconda classe. Quindi se Otoki è scesa a metà strada lo scopriremo. Bisogna controllare. Portati qualcuno e va’ a parlare con il capotreno».

 

 

Il giorno successivo Mihara Kiichi si recò alla stazione di Tokyo. Si era fatto una bella dormita e adesso si sentiva bene. Alla sua età una notte di sonno era sufficiente a spazzare via la stanchezza.

Andò al binario tredici e si mise a guardare in direzione dell’uscita Yaesu. Vi restò per oltre un’ora fingendosi in attesa di qualcuno. Ma aveva sempre davanti agli occhi qualche treno che gli impediva di vedere in lontananza. Il binario tredici era quello della linea Yokosuka, e i lunghi convogli arrivavano e ripartivano a un ritmo impressionante. Anche il quattordici era un continuo andirivieni di treni. Da lì era dunque impossibile vedere il binario quindici. Se un treno partiva dal tredici, ce n’era sempre uno fermo al quattordici e trattandosi della stazione di origine, ogni sosta durava molto a lungo. Quando finalmente il treno del binario quattordici si muoveva, ecco che al tredici ne entrava uno della linea Yokosuka. Insomma, lo spazio tra il binario tredici e il binario quindici era sempre occupato da uno di questi treni che ostacolavano la visuale.

«E va bene» borbottò tra sé e sé. Era rimasto lì in piedi per più di un’ora senza riuscire a vedere il binario quindici. «A questo punto che succede? I testimoni dicono di aver visto Sayama e Otoki salire sull’Asakaze, e sicuramente si trovavano qui, al binario tredici, quello della linea Yokosuka. E l’Asakaze parte dal binario quindici. Vuol dire che li hanno visti nell’unico momento in cui era effettivamente possibile vedere qualcosa da un binario all’altro?».

Mihara rifletté per qualche istante, quindi si incamminò lentamente verso le scale e si diresse verso l’atrio della stazione.

Andò dal vice-capostazione e gli mostrò il distintivo: «Devo farle una domanda un po’ strana: alle 18:30, quando dal binario quindici parte l’Asakaze, è possibile vederlo dal binario tredici?».

Il vice-capostazione, un uomo brizzolato, lo guardava con aria interrogativa.

«Vuol sapere se dal binario tredici si vede l’Asakazeche invece è al quindici... Ah, ho capito, intende se c’è un momento in cui al binario quattordici non stazionano treni?».

«Esattamente».

«Mah, così su due piedi le direi di no, c’è sempre qualche treno in mezzo, ma in ogni caso controlliamo. Aspetti un momento».

Così dicendo aprì il diagramma sul tavolo. Scorse con il dito quel groviglio infinito di linee e poi, con l’espressione di chi ha appena fatto una scoperta sensazionale, disse: «Invece sì! Si tratta solo di pochi minuti, ma c’è un momento in cui sui binari tredici e quattordici non stazionano treni e si vede l’Asakazefermo al binario quindici. Ma pensi un po’!».

«Davvero? Quindi è possibile vederlo».

Mihara non nutriva grandi speranze, ma quello che il vice-capostazione gli disse poco dopo lo risvegliò.

«Sì, solo per quattro minuti, però».

«Quattro minuti?» ripeté Mihara. Non stava più nella pelle. «Si spieghi meglio».

«Voglio dire» esordì il vice-capostazione «che l’Asakaze arriva al binario quindici alle 17:49 e riparte alle 18:30. Quindi staziona al binario per quarantuno minuti. Se guardiamo i treni in arrivo e in partenza dai binari tredici e quattordici in questo lasso di tempo, vediamo che al tredici, alle 17:46, arriva il locale 1703 diretto a Yokosuka, che poi riparte alle 17:57. Il successivo è il locale 1801, che arriva al binario alle 18:01 e riparte alle 18:12. Nel frattempo, però, al binario quattordici arriva, alle 18:05, il treno 341 per Shizuoka, che staziona lì fino alle 18:35, nascondendo l’Asakaze che è sempre fermo al binario quindici».

Mihara tirò fuori il taccuino. Non era sicuro di aver seguito tutto il discorso.

Il vice-capostazione, vedendolo, gli disse: «Spiegato a voce è difficile da capire, vero?». Facciamo così: le metto per iscritto i punti più importanti.

E disegnò per lui uno schema degli orari.

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Mihara tornò al commissariato, dove per un po’ rimase a studiare l’orario trascritto dal vice-capostazione, quindi tirò fuori dei fogli di carta dal cassetto della scrivania e rifece lo schema a matita.

Ecco, mettendolo per iscritto in questo modo aveva capito. Il locale 1703 partiva alle 17:57 dal binario tredici, mentre il successivo, il 1801, arrivava alle 18:01, il che significa che per quattro minuti appena si riusciva a vedere l’Asakaze.

Dunque i testimoni che avevano visto Sayama e Otoki salire a bordo dell’Asakaze si erano trovati per caso al binario tredici proprio in quei quattro minuti.

Mihara si rese conto solo allora di quanto quella testimonianza fosse decisiva. Perché era l’unica a sostegno della tesi del doppio suicidio: «Sayama e Otoki sono saliti insieme sull’Asakaze».

Non vi era alcuna altra prova oggettiva del fatto che i due avessero una relazione. Si diceva che sia Sayama sia Otoki fossero legati a qualcuno, ma i soli che li avessero visti insieme per davvero erano i testimoni che, in quei quattro minuti, si trovavano per pura coincidenza al binario tredici.

«E che coincidenza, trovarsi lì proprio in quel momento! » pensò Mihara, ma già sentiva un altro pensiero farsi strada nella sua mente.

«Sarà poi una vera coincidenza?».

Se avesse cominciato a dubitare anche di quello, non ne sarebbe più venuto fuori. Tuttavia l’idea di una coincidenza che si verifica proprio in un intervallo di quattro minuti lo faceva pensare a qualcosa di molto più complesso.

Ripensò ai testimoni. Due cameriere del Koyuki insieme a un cliente. Il cliente doveva andare a Kamakura e le due donne lo hanno accompagnato fino al binario tredici, da dove hanno visto Sayama e Otoki salire sull’Asakaze. Mihara lo sapeva perché prima di partire per Fukuoka ne aveva parlato con una delle due, Yaeko. Sul momento non aveva prestato particolare attenzione al suo racconto, ma ora pensò che fosse il caso di farle qualche altra domanda.

Il Koyuki era uno di quei ristoranti di Akasaka che aprono nella tarda mattinata, e quando Mihara arrivò trovò Yaeko in tenuta da lavoro, nel bel mezzo delle pulizie.

«Accidenti, guardi in che stato mi trova!» esclamò arrossendo Yaeko.

«Volevo ringraziarla per la volta scorsa» disse Mihara. «Senta, sono venuto a farle qualche domanda sul giorno in cui lei e la sua collega avete accompagnato quel cliente alla stazione di Tokyo e avete visto Sayama e Otoki».

«Prego, mi dica».

«L’altra volta mi sono distratto e ho dimenticato di chiederle il nome del cliente».

Yaeko lo guardava fisso.

«Non abbia timore. Non ho nessuna intenzione di recare disturbo al vostro cliente. Vorrei solo fargli delle domande, dopotutto anche lui è una persona informata sui fatti» aggiunse Mihara intuendo lo stato d’animo di Yaeko. Capiva la sua esitazione: in posti come quello, i clienti abituali sono tenuti in grande considerazione.

«Si chiama Yasuda Tatsuo» rispose, a bassa voce, Yaeko.

«Yasuda Tatsuo? Uhm. E che lavoro fa?».

«So che ha un’azienda di macchinari industriali, dalle parti di Nihonbashi».

«Capisco. Frequenta il Koyuki da molto tempo?».

«Da tre o quattro anni. Di solito era Otoki a intrattenerlo».

«Quindi la conosceva bene. E senta, mi perdoni, posso chiederle anche chi è stato il primo a notare Otoki quando eravate al binario?».

«Il signor Yasuda. È stato il signor Yasuda a dire: “Ma quella non è Otoki?”, indicandocela, così l’abbiamo vista anche io e Tomi-chan».

«È stato il signor Yasuda, quindi, bene bene».

Mihara restò in silenzio per qualche istante. Forse rifletteva sulla domanda successiva, o forse su qualcos’altro.

 

 

Poi, con aria sorridente, riprese. «Avete deciso sul momento, lei e Tomi-chan, che avreste accompagnato alla stazione il signor Yasuda?».

«Sì, mentre eravamo a cena con a lui al Coque d’or di Ginza».

«Come? Siete andati a cena insieme a Ginza? Quindi vi eravate messi d’accordo prima».

«Sì, la sera precedente il signor Yasuda è venuto qui e ci ha chiesto di incontrarlo il pomeriggio seguente, alle tre e mezzo, a Ginza».

«Alle tre e mezzo. E poi?».

«Quando abbiamo finito di mangiare, ha detto che doveva andare a Kamakura e ci ha chiesto di accompagnarlo alla stazione, e io e Tomi-chanabbiamo accettato».

«Verso che ora? Se lo ricorda?».

«Dunque, mi faccia pensare...». Yaeko inclinò la testa e socchiuse gli occhi per un momento. «Ah, sì! Io gli ho chiesto a che ora partiva il suo treno e lui ha detto che voleva prendere il locale delle 18:12 della linea Yokosuka, e mi ricordo che ha aggiunto che, essendo le cinque e trentacinque, se ci fossimo mossi subito saremmo arrivati in perfetto orario».

«Il locale delle 18:12 della linea Yokosuka».

Mihara ripensò allo schema che si era fatto la sera precedente. Il locale delle 18:12 arrivava al binario tredici alle 18:01. Yasuda aveva visto l’Asakaze al binario quindici, il che voleva dire che lui e le due ragazze erano arrivati prima di quell’ora. Mihara pensò che fosse un dettaglio di importanza cruciale.

«Quando siete andati al binario, il treno non era ancora arrivato, vero?».

Yaeko rispose all’istante: «No, non era arrivato».

«Quindi saranno state le sei o poco prima».

Mihara aveva parlato tra sé e sé, ma Yaeko intercettò le sue parole e rispose: «Esatto. L’orologio della stazione segnava quasi le sei».

«Ah, ci ha fatto caso».

«Sì, perché prima, in taxi, Yasuda non faceva che guardare l’orologio, allora anche io ho cominciato a preoccuparmi che non facesse in tempo a prendere il treno delle 18:12».

Quelle parole colpirono Mihara.

«Come? Il signor Yasuda guardava sempre l’orologio?».

«Proprio così, continuamente. Già quando eravamo al Coque d’or di tanto in tanto controllava l’ora».

Mihara era pensieroso. E continuò a riflettere anche una volta sull’autobus, dopo essersi congedato da Yaeko.

Dunque Yasuda guardava sempre l’orologio. Era solo perché temeva di perdere il treno? O era qualcos’altro che temeva di perdere? E se avesse temuto di perdere quei quattro minuti?

Per vedere l’Asakaze, non doveva arrivare né prima né dopo. Se fosse arrivato troppo presto, avrebbe trovato fermo al binario 13 il locale precedente, quello delle 17:57 della linea Yokosuka, e quindi avrebbe potuto prenderlo. Se fosse arrivato dopo le 18:01, il locale successivo non gli avrebbe permesso di vedere l’Asakaze. Yasuda guardava l’orologio perché aveva paura di perdere quei quattro minuti.

«Forse sto esagerando con i sospetti» si rimproverò per un momento Mihara. Ma non riusciva a liberarsene. Più cercava di rimuoverli, più quelli tornavano a farsi pressanti.

Perché Yasuda avrebbe messo in piedi tutta quella storia? L’ipotesi di Mihara calzava a pennello: voleva che Yaeko e Tomiko vedessero Sayama e Otoki salire sull’ Asakaze. E così, senza farsi notare, si è fabbricato dei testimoni.

Mihara era inquieto. La figura di Yasuda andava ingigantendosi sempre più nella sua mente.

«Devo incontrarlo» pensò, e mise subito in atto il suo proposito.

Poco dopo si trovava già nella sala d’aspetto, illuminata dal sole pomeridiano, dell’ufficio di Yasuda. Questi, ricevuto il biglietto da visita di Mihara, uscì fuori e con un sorriso di circostanza lo invitò a sedersi.

VII
COINCIDENZA O MESSINSCENA?

«So che è molto occupato. Mi sono permesso di disturbarla perché dovrei farle qualche domanda» esordì Mihara.

«Prego, si accomodi, mi dica pure» rispose Yasuda, quindi tirò fuori una sigaretta dal pacchetto che era sul tavolo, a disposizione degli ospiti, e gliela offrì. Poi ne prese una anche per sé e l’accese. I suoi gesti erano calmi, disinvolti. Doveva avere trentacinque o trentasei anni ma era già leggermente stempiato, aveva il volto pieno, un bel colorito, occhi seducenti. Dal suo modo di fare traspariva la sicurezza di un uomo abituato a dirigere una grande società.

«Ecco, si tratta del suicidio del vice-capo di sezione Sayama, del Ministero X. Ne avrà sentito parlare immagino, era su tutti i giornali» disse Mihara. Yasuda tirò una boccata e annuì. «Certo, non solo ne ho sentito parlare, ma si dà il caso che conoscessi bene Sayama. Il suo ministero si riforniva abitualmente presso di noi. Erano questi i nostri rapporti».

E così Mihara apprese che l’azienda di Yasuda era in stretto contatto con il ministero.

«Mi dispiace per Sayama. Era un uomo a posto, unabrava persona. Non avrei mai pensato che uno come lui potesse suicidarsi insieme a una donna». La sua voce tradiva una certa emozione.

«Si tratta proprio di Sayama, vede...» disse Mihara mettendo la mano in tasca, incerto se prendere o meno il taccuino. «Pare che lei lo abbia visto con quella donna salire su un treno alla stazione di Tokyo, non è così? L’ho saputo da una cameriera del Koyuki».

«Proprio così» rispose Yasuda cambiando posizione e sporgendosi in avanti. «Era di pomeriggio, io avevo un impegno a Kamakura e due ragazze del Koyuki mi hanno accompagnato. In quel momento abbiamo visto il signor Sayama e Otoki salire sul treno. Sono stato io a notarli e a dirlo alle ragazze. Per la verità ero un po’ sorpreso, perché li conoscevo entrambi, e non avrei mai sospettato che tra loro ci fosse un rapporto di quel tipo. Il mondo è proprio piccolo, mi sono detto».

Yasuda strinse gli occhi, forse per via del fumo.

«Chi avrebbe potuto immaginare che stessero andando a suicidarsi. Sono davvero dispiaciuto per loro». E aggiunse: «Con certe donne non ci si dovrebbe mai spingere troppo oltre».

Quando sorrideva i suoi occhi diventavano ancora più seducenti.

«Sa se il signor Sayama è mai andato al Koyuki?» gli domandò Mihara.

«Credo di no. Io frequento spesso quel locale per i miei incontri di lavoro, ma Sayama non ce l’ho mai portato. Pagare la cena a un funzionario pubblico attira troppi occhi addosso. Sa com’è. Non mi fraintenda, non lo dico perché lei è un poliziotto. Il ministero non ha bisogno di un mio invito a cena, è già nei guai fino al collo».

«Si dice anche che il suicidio di Sayama sia servito a coprire i suoi superiori. È possibile che Otoki si sia fatta coinvolgere fino a morire con lui?».

«Be’, non saprei».

L’espressione di Yasuda sembrava voler dire: è compito tuo scoprirlo, non mio.

«Mi ha solo stupito vederli insieme, perché li conoscevo entrambi. Non lo avrei mai detto, mi creda».

«Conosceva bene Otoki?».

«Ecco, al ristorante me l’assegnavano sempre, e quindi... la conoscevo bene. Ma non pensi a chissà cosa. La nostra frequentazione avveniva dentro le mura del Koyuki. Fuori da quelle mura, non avevamo alcun tipo di rapporto. Lei mi ha chiesto se la conoscevo e io le dico che sì, la conoscevo. Ma non più di tanto. Non avevo la minima idea, per esempio, del fatto che fosse l’amante del signor Sayama».

Mihara gli fece un’altra domanda. Una domanda importante.

«Lei va spesso a Kamakura?».

Yasuda sorrise.

«A Kamakura abita mia moglie».

«Sua moglie?».

«Ha dei problemi ai polmoni. Viviamo separati ormai da molto tempo. Le ho preso in affitto una casa vicino al Gokurakuji e le ho messo accanto una persona che la assiste. E io vado a trovarla una volta alla settimana».

«Davvero? Mi dispiace».

Yasuda chinò leggermente la testa in segno di riconoscenza. Cosa restava da chiedere? Mihara aveva l’impressione di avere ancora altro da chiedergli, ma non riusciva a ricordarsi cosa.

«Grazie. Mi scuso per averla disturbata».

Mihara si alzò dalla poltrona e Yasuda lo seguì.

«Si figuri. Non credo di esserle stato di grande aiuto. Se dovesse aver bisogno d’altro non esiti a contattarmi» disse sorridendo con gentilezza. I suoi occhi erano diventati come fessure.

Mihara si avviò lungo la strada assolata e pensò: «Yasuda sapeva che in quei quattro minuti la visuale tra un binario e l’altro era libera. Va sempre a trovare la moglie, quindi aveva avuto modo di accorgersene. O perlomeno è probabile che sia così».

 

 

Mihara tornò in centrale e riferì al commissario Kasai. Non gli fece un vero e proprio rapporto. Voleva soltanto attirare la sua attenzione sulla faccenda dei quattro minuti, e gliene parlò. Aggiunse anche di aver incontrato Yasuda Tatsuo.

Il commissario Kasai sembrava più colpito del previsto. «Questo è un elemento importante» disse, incrociando le mani sul tavolo. «Come abbiamo fatto a non rendercene conto prima?».

Il capo era così interessato che Mihara tirò fuori dalla tasca il foglio con lo schema che aveva tracciato il giorno prima, quello con i binari tredici, quattordici e quindici e al centro i quattro minuti tra le 17:57 e le 18:01, e glielo mostrò. Kasai lo prese in mano e lo studiò attentamente.

«Caspita, come te ne sei accorto, eh? Ottimo lavoro» si felicitò il capo. Ma Mihara sapeva in cuor suo che doveva quella scoperta a un’intuizione dell’ispettore Torigai, del commissariato di Fukuoka.

«Resta solo da capire se questo Yasuda si sia procurato casualmente dei testimoni in quei quattro minuti o se sia stata una messinscena».

Il capo aveva ragione. Si fece ripetere tutta la storia da Mihara e si appuntò le cose più importanti:

1) Yasuda aveva invitato le ragazze del Koyuki la sera prima, ma sapeva già che si sarebbe fatto accompagnare alla stazione

2) Mentre erano a tavola, continuava a guardare l’orologio

3) Ha fatto in modo di arrivare al binario tredici entro quei famosi quattro minuti

4) È stato Yasuda a notare Sayama e Otoki mentre salivano sull’Asakaze e a dirlo alle due ragazze.

Quando ebbe finito di scrivere, Kasai, tenendo la matita appoggiata a una guancia, come uno scolaro, rimase a fissare quel foglio.

«No» disse qualche istante dopo. «Non è stata una coincidenza. È una messinscena».

Mihara lo guardò con gli occhi che gli brillavano. «Se è una messinscena, allora sarà una cosa grossa».

«È una cosa grossa» gli fece eco il commissario. Chiuse gli occhi e rifletté, quindi chiamò a gran voce un agente: «Senti, la società di Yasuda ha stretti rapporti di lavoro con il ministero. Vedi di capire quanto sono stretti».

«Ricevuto, capo» disse l’agente. Si appuntò il nome nel taccuino e uscì di corsa.

«Dunque,» riprese Kasai, osservando attentamente ciò che aveva appena scritto «se è una messinscena, quale può essere stato lo scopo di Yasuda?».

Prese una sigaretta e se la infilò tra le labbra.

Una messinscena ha sempre uno scopo, un interesse. Quale interesse avrebbe potuto avere a procurarsi dei testimoni che vedessero Sayama e Otoki salire su un treno diretto a Hakata?

«Aveva bisogno di testimoni che fossero estranei ai fatti» disse Mihara dopo averci riflettuto.

«Estranei ai fatti?».

«Proprio così. Yasuda non poteva essere il solo a vederli. Era necessario che qualcun altro, oltre a lui, li vedesse».

«Yasuda dunque non sarebbe estraneo ai fatti».

«Esattamente».

«Deve essere per forza così, no?» sembravano dire gli occhi di Mihara, mentre fissavano quelli del capo. Questi assunse un’aria pensierosa.

«Va bene. Ricapitoliamo» disse Kasai come parlando tra sé e sé. «Sayama e Otoki si sono suicidati vicino a Hakata. Sono partiti con un rapido da Tokyo. Yasuda ha fatto in modo che altre due persone li vedessero salire sul treno... Che strano».

Mihara sapeva bene che cosa il suo capo trovasse strano. A che servivano dei testimoni se quei due stavano andando a suicidarsi? E Yasuda, se non era estraneo ai fatti, che ruolo poteva aver avuto in quel suicidio? Neanche Mihara riusciva a darsi delle risposte.

«C’è qualcosa sotto».

«Già» annuì Kasai. «Effettivamente, tutto depone a favore di una messinscena orchestrata da Yasuda. Una messinscena che, però, non sembra avere uno scopo. E una messinscena presuppone sempre uno scopo, solo che per il momento noi non lo vediamo».

«Ma se indaghiamo sui motivi della messinscena, arriveremo anche al suo scopo» disse Mihara.

«Giusto» rispose il commissario. I loro sguardi si incrociarono pieni di attesa.

«Capisci perché Yasuda ha puntato tutto su quei quattro minuti durante i quali era possibile vedere il binario quindici dal tredici, vero? Se voleva che vedessero il rapido, avrebbe potuto portarle direttamente al quindici, non ti pare?» gli domandò il capo come se lo stesse sottoponendo a un esame.

«Sì, ma dal binario quindici partono i treni a lunga percorrenza, e se fosse andato lì loro si sarebbero insospettite. Era molto più normale dire che doveva andare a Kamakura, andare al binario tredici e poi vederli da lontano. Yasuda ha puntato su quei quattro minuti proprio per dare l’impressione che si trattasse di un fatto casuale».

Il commissario sorrise. Era d’accordo.

«Ah, nel frattempo è arrivata la dichiarazione del capotreno che era sull’Asakaze il quattordici gennaio».

«E allora?» ribatté Mihara sporgendosi in avanti.

«Purtroppo non è potuto risalire alle prenotazioni di quel giorno. Dice che è passato troppo tempo. Veramente un buono a nulla quel capotreno. Se fosse stato più attento, a quest’ora sapremmo già dov’è scesa Otoki».

VIII
HOKKAIDŌ E KYŪSHŪ

La mattina seguente, quando Mihara giunse in ufficio, il commissario Kasai era già arrivato.

«Buongiorno» gli disse Mihara, al che l’altro alzò la testa dai documenti che stava esaminando e rispose: «Buongiorno. Vieni un po’ qua» e con la mano gli fece segno di avvicinarsi. «Come va? Sei riuscito a riposarti un po’ dopo il viaggio nel Kyūshū?» gli disse. Stava bevendo del tè da una grande tazza simile a quelle che si vedono di solito nei ristoranti di sushi.

«Sì. Queste due notti ho dormito bene» rispose sorridendo Mihara.

«Avrei voluto concederti un giorno di riposo, ma con tutto quello che c’è da fare non è possibile, abbi pazienza».

«Nessun problema».

«Senti, volevo parlarti di Yasuda Tatsuo... Siediti un momento».

Mihara prese posto sulla sedia di fronte alla sua scrivania.

«Dalle informazioni pervenute, sembra che abbia parecchi agganci al ministero».

«Come pensavamo».

«Per il momento la quantità degli ordinativi non è altissima, ma pare che uno dei capi lì al ministero, un certo Ishida Yoshio, sia in stretti rapporti con lui».

«Ishida Yoshio?».

Mihara guardò fisso negli occhi il commissario. Ishida Yoshio era una delle figure cardine del Ministero X, e dirigeva proprio il dipartimento coinvolto nello scandalo di cui tutti parlavano. Nel suo ambiente aveva fama di essere una persona in gamba e un gran lavoratore, ma da alcune indagini portate avanti in segreto erano emersi numerosi sospetti sul suo conto.

«Sì, si dice che siano molto vicini. E credo che questo ci possa essere utile».

«Decisamente».

 

 

Mihara ripensò all’atteggiamento di Yasuda durante il loro incontro del giorno prima. Era in grado di riconoscere uno che sa il fatto suo. Lo sguardo affabile e insieme sempre all’erta dell’uomo avvezzo agli affari, i modi inappuntabili. Era sicuro di sé e questo suscitava una certa soggezione in chi gli stava di fronte. Lo stesso Mihara non aveva percepito in lui nessun segno di debolezza. Sì, un uomo come quello non avrebbe avuto la minima difficoltà a entrare nelle grazie di Ishida Yoshio.

«E con il defunto Sayama che rapporti intratteneva?» domandò.

«Stai pensando anche tu alla stessa cosa, vero? In realtà è presto detto,» rispose Kasai tenendo stretta la tazza tra le mani «nella sua veste di vice-capo sezione, Sayama doveva sicuramente conoscere bene Yasuda. Tuttavia, stando a quanto emerso finora, i loro rapporti erano strettamente di lavoro. Non abbiamo nessuna prova che tra i due potessero esserci altri accordi clandestini».

«È così?».

Mihara prese una sigaretta dal pacchetto che gli offriva il capo. Era una Shinsei.

«Che dici, teniamo d’occhio Yasuda?». Il commissario Kasai sporse il mento in avanti. Era un suo gesto abituale, ogni volta che qualcosa lo intrigava.

«Sì, credo che dovremmo farlo. Posso occuparmene io» rispose Mihara guardando il capo, i cui occhi si erano improvvisamente accesi.

«La questione è se è stato un caso o una messinscena, no?» disse il capo, riprendendo il discorso del giorno prima. La domanda dimostrava che il commissario cominciava seriamente a interessarsi alla faccenda.

«Propenderei per la messinscena. Una messinscena durata quattro minuti. Non può essere stata una coincidenza».

«Se indaghiamo sui motivi della messinscena arriveremo anche al suo scopo. L’hai detto tu, no?».

«Già, l’ho detto io».

«Perché Yasuda aveva bisogno di altri due testimoni che dichiarassero di aver visto Sayama e Otoki salire su quel treno che li avrebbe condotti verso la morte? La messinscena era finalizzata a dare l’impressione che si trattasse di un caso, hai detto anche questo, o sbaglio?».

«Sì, penso che sia andata così».

«Bene, lo penso anch’io» convenne nuovamente Kasai. «Fa’ a modo tuo, hai carta bianca».

Mihara spense la sigaretta nel posacenere e, chinando leggermente la testa, disse: «Ho capito. Vedrò fin dove mi posso spingere».

Il commissario, però, non sembrava volerlo lasciare andar via così facilmente.

«Da dove pensi di cominciare?».

«Come prima cosa cercherò di ricostruire i suoi movimenti nelle giornate del diciannove, venti e ventuno».

Kasai sembrava sovrappensiero.

«Il diciannove, il venti e il ventuno. Giusto: il ventuno è il giorno in cui i corpi sono stati rinvenuti a Kashii, quindi tu vuoi sapere cosa ha fatto nei due giorni precedenti. Perché ci vogliono due giorni per andare e tornare da Tokyo al Kyūshū».

«Sì, e in effetti, ora che mi ci fa pensare, dovrei informarmi anche sul ventidue».

«Quanto ci mette il treno per andare da Tokyo a Hakata?».

«Venti ore abbondanti. Se è un rapido – l’Asakaze, per esempio – ci vogliono diciassette ore e venticinque minuti».

«Quindi soltanto per il viaggio sono circa quaranta ore tra andata e ritorno».

Il commissario continuava a riflettere, con il pollice appoggiato sulla fronte mentre teneva ancora la sigaretta tra l’indice e il medio.

 

 

Mihara fu accompagnato nella stessa sala d’aspetto del giorno precedente. Questa volta, però, Yasuda era al telefono, e la giovane donna che gli portò una tazza di tè lo pregò di pazientare qualche istante. Ma fu più di qualche istante. Mihara guardò distrattamente la natura morta appesa alla parete. Proprio mentre si stava chiedendo se le telefonate d’affari durassero tutte così a lungo, lo vide arrivare con la solita aria sorridente.

«Mi perdoni se l’ho fatta aspettare».

Come il giorno prima, Mihara sentì una certa soggezione.

«Mi scusi lei se la disturbo ancora quando è così impegnato» ribatté Mihara alzandosi.

«Stia, stia. Ero al telefono e le cose sono andate per le lunghe, mi scuso ancora» ripeté Yasuda, sempre calmo e con il sorriso incollato sulle labbra.

«Sono lieto di vedere che gli affari la tengono molto impegnata».

«La ringrazio. In realtà però non era una telefonata di lavoro a tenermi occupato. Chiamavano da Kamakura».

«Ah, sua moglie?» domandò Mihara ricordandosi della conversazione avuta il giorno prima, a proposito della moglie malata che stava a Kamakura.

«Non lei, la donna che se ne occupa. Sa, negli ultimi tempi la malattia si è aggravata. Non potendole fare visita ogni giorno, cerco di informarmi per telefono».

Il solito sorriso non accennava a scomparire dal suo volto.

«Mi spiace, sarà molto in ansia».

«La ringrazio per la sua comprensione».

«Ecco, signor Yasuda, sono venuto a farle ancora qualche domanda» disse Mihara cercando di mantenere un tono il più possibile distaccato.

«Sì, mi dica pure».

Dall’espressione di Yasuda non traspariva la minima preoccupazione.

«È passato del tempo, ma le posso chiedere se tra il venti e il ventidue gennaio si trovava a Tokyo? Stiamo soltanto raccogliendo delle informazioni».

Yasuda si mise a ridere.

«Non mi dirà che avete dei sospetti su di me?».

«Ma no, non si preoccupi. Sono solo domande di routine».

Mihara credeva che Yasuda avrebbe menzionato il suicidio di Sayama, ma non lo fece. Dalla sua faccia era impossibile capire se fosse consapevole dell’importanza di quelle date.

«Dunque, il venti gennaio dice?».

Yasuda chiuse gli occhi, poi li riaprì e tirò fuori un’agendina dal cassetto della scrivania, quindi si mise a sfogliarla.

«Ah, sì, ora mi ricordo. Quel giorno sono partito per lo Hokkaidō: impegni di lavoro».

«Come? Per lo Hokkaidō?».

«A Sapporo c’è una compagnia, la Futaba, che è tra i nostri clienti più importanti. Sono andato da loro. Sono rimasto lì solo due giorni e il venticinque sono rientrato a Tokyo» disse Yasuda guardando l’agenda.

In Hokkaidō... Mihara sembrava interdetto. Era esattamente dalla parte opposta rispetto al Kyūshū.

«Vuole maggiori dettagli?» chiese Yasuda tornando a guardarlo.

«Sì, se non le dispiace». Mihara tirò fuori matita e taccuino.

«Dunque, il venti sono partito dalla stazione di Ueno con il rapido delle 19:15. Il Towada».

«Aspetti un momento. Ha viaggiato da solo?».

«Sì, da solo. Normalmente per lavoro viaggio sempre da solo».

«Ho capito. La prego, vada avanti».

«Sono arrivato ad Aomori alle 9:09 del mattino successivo. Alle 9:50 partiva il traghetto per Hakodate, e ho preso quello».

Mentre parlava, Yasuda scorreva con il dito i caratteri scritti sull’agenda.

«Il traghetto è arrivato a Hakodate alle 14:20. Lì mi aspettava la coincidenza, un rapido diretto a Nemuro, il Marimo, che partiva alle 14:50. Sono arrivato a Sapporo alle 20:34. Un certo Kawanishi, un dipendente della Futaba, è venuto a prendermi alla stazione e mi ha accompagnato al ryokan Marusō. Siamo alla sera del ventuno. Il ventidue e il ventitré sono rimasto lì e il ventiquattro ho lasciato lo Hokkaidō per rientrare a Tokyo il giorno seguente, cioè il venticinque».

Mihara trascrisse tutto sul taccuino.

«Pensa che le possano essere utili queste informazioni?» chiese Yasuda, sempre con un sorriso, mentre riponeva l’agenda nel cassetto della scrivania.

«È stato molto chiaro. La ringrazio» rispose Mihara sorridendo a sua volta.

«Il suo lavoro non dev’essere facile. Andarsene in giro a fare tutte queste domande...». Lo disse con aria tranquilla, ma Mihara percepì una vena di sarcasmo.

«Non me ne voglia. Dovevamo verificare alcune cose e per questo sono venuto da lei».

«Ma no, che dice, non gliene voglio affatto. Anzi, mi consideri a sua completa disposizione».

«La lascio. Scusi ancora per il disturbo».

Yasuda accompagnò Mihara fino all’uscita. Nessuna inquietudine sembrava turbare i suoi modi rilassati e tranquilli.

Prima di tornare in centrale, Mihara si recò al solito caffè di Yūrakuchō. Ordinò qualcosa di caldo e ingannò l’attesa rileggendo gli appunti presi da Yasuda e facendone uno schema.

 

20 gennaio. Partenza da Ueno ore 19:15 (Towada) → Arrivo ad Aomori ore 9:09 del 21. Partenza da Aomori ore 9:50 (traghetto Aomori-Hakodate) → Arrivo a Hakodate ore 14:20. Partenza da Hakodate ore 14:50 (Marimo) → Arrivo a Sapporo ore 20:34 (lo vanno a prendere).

21 (inizio permanenza al ryokan Marusō) → 24. Partenza per Tokyo e arrivo il 25.

 

Mentre Mihara era intento a rileggere i suoi appunti, la cameriera gli portò il caffè che aveva ordinato e, sbirciando da sopra la sua testa, gli domandò: «Signor Mihara, che fa, parte per lo Hokkaidō?».

«Può darsi...». Mihara ridacchiò un po’ a disagio, e lei riprese, con aria invidiosa: «Beato lei. È appena tornato dal Kyūshū e già se ne va in Hokkaidō? Dall’estremo sud all’estremo nord!».

Già. La scena si stava ormai allargando a tutto il Giappone.

 

 

Mihara tornò in centrale e fece rapporto al commissario Kasai. Gli riferì il contenuto della conversazione avuta con Yasuda e gli mostrò lo schema che aveva fatto.

Il capo lo esaminò attentamente.

«Certo che lo Hokkaidō proprio non me l’aspettavo. Un bel po’ lontano dal Kyūshū».

«Sì, che disdetta». In effetti Mihara aveva l’aria di esserci rimasto male.

«Sarà vero?» domandò Kasai appoggiando la testa su una mano.

«Yasuda è un uomo scaltro, non credo proprio che si lascerebbe smascherare così facilmente. Penso che sia vero».

«Uhm... Sempre meglio verificare».

«Naturalmente. Posso chiedere ai colleghi di Sapporo di interrogare il dipendente della Futaba incaricato di andarlo a prendere e il personale del ryokan dove ha alloggiato».

«Sì, fai così».

Mihara fece per alzarsi in piedi, ma il capo lo fermò.

«Aspetta un secondo. Che mi dici della famiglia di Yasuda?».

«È sposato, ma la moglie ha una malattia ai polmoni e abita a Kamakura».

«Questo me l’hai già detto ieri. E siccome va spesso a Kamakura, sapeva che in quei famosi quattro minuti si può vedere cosa succede da un binario all’altro».

«Esatto. La moglie sta male e anche oggi, quando sono andato da lui, mi ha detto di aver parlato al telefono con Kamakura».

«Quindi lui sta qui da solo, no?».

Viveva ad Asagaya, dove aveva due donne a servizio. Era una delle informazioni che avevano raccolto sul suo conto. Glielo disse e il capo rimase in silenzio, sembrava quasi non ascoltarlo.

Mihara inviò un lungo telegramma al commissariato di Sapporo. Per la risposta avrebbe dovuto aspettare almeno fino all’indomani, se non addirittura al giorno successivo. Ma non si faceva grandi illusioni. Era impensabile che uno come Yasuda fosse tanto imprudente da raccontare bugie facilmente smascherabili. Non sembrava proprio una persona così ingenua.

Mihara non sapeva che fare, si sentiva le mani legate. Forse, dentro di sé, sperava che qualcosa di concreto venisse fuori dalla risposta dei colleghi di Sapporo. Lo colse un senso di frustrazione. E fu mentre rimuginava a quel modo, che gli venne in mente una cosa a cui prima non aveva pensato.

«Ma la moglie di Yasuda si starà veramente curando a Kamakura?».

Era solo un vago sospetto.

Con ogni probabilità, la moglie di Yasuda non aveva alcun legame con il caso. Tuttavia c’era la faccenda di quei quattro minuti. Yasuda lo sapeva, perché faceva avanti e indietro tra Tokyo e Kamakura per far visita alla moglie. A questo punto sorgeva il dubbio. E se invece fosse andato a trovare qualcun altro? Il suo viaggio in Hokkaidō sarebbe stato sicuramente confermato. Sapeva che avrebbero effettuato delle verifiche. Ma la moglie, la sua malattia... Era una storia così facile da credere, che non ci aveva fatto attenzione. Proprio per questo poteva celare un inganno.

«Attento» mormorò Mihara fra sé e sé, come se volesse mettersi in guardia da qualcosa.

Lanciò un’occhiata verso la scrivania del capo, che però nel frattempo doveva essere andato da qualche parte, perché non c’era. Lasciò un biglietto con su scritto «Vado a Kamakura» e uscì dal commissariato. E questo significava che non sarebbe tornato prima di sera.

Comprò una scatola di dolci in una famosa pasticceria che si trovava vicino alla stazione. Se veramente la persona che andava a visitare era una donna malata, non si sarebbe potuto presentare a mani vuote.

Raggiunse il binario tredici e salì sul treno, che era entrato in stazione proprio in quel momento. Guardò in direzione del binario quindici e anche allora non riuscì a vederlo per via di un altro treno che stazionava nel mezzo.

«In effetti non era facile accorgersi di quei quattro minuti» pensò ancora una volta Mihara.

Non poteva proprio trattarsi di una coincidenza, doveva essere per forza una messinscena di Yasuda.

«Ma certo! Yasuda ha usato le ragazze del Koyuki come testimoni, perché si aspettava che prima o poi avremmo indagato sul suo conto. Ecco perché aveva bisogno di testimoni estranei ai fatti».

Il treno partì. Per arrivare fino a Kamakura ci volle circa un’ora. La sua testa era tutta un turbinio di pensieri. Dietro il comportamento di Yasuda si nascondeva qualcosa, ne era certo. Ma cosa? E se si era trattato solo del suicidio di una coppia di amanti, perché a Yasuda servivano dei testimoni? Non riusciva a capire dove volesse arrivare.

Per di più, tra la sera del venti, quando Sayama e Otoki si erano suicidati, e il ventuno, Yasuda era in viaggio verso lo Hokkaidō. Kyūshū e Hokkaidō, Hokkaidō e Kyūshū. Che cosa li legava?

Giunto a Kamakura, Mihara prese un treno diretto a Enoshima. Era pieno di scolari in gita, sembravano uno stormo di rondini cinguettanti.

Scese alla fermata del Gokurakuji. Non conosceva l’indirizzo, ma l’abitato era poco più di un mucchietto di case tra le montagne, e se quella della moglie di Yasuda esisteva davvero non avrebbe avuto difficoltà a individuarla.

Mihara entrò nel piccolo commissariato di quartiere, si identificò e chiese se da quelle parti ci fosse l’abitazione di un certo Yasuda.

«Quella in cui vive la signora ammalata?» ribatté l’agente. Queste parole furono sufficienti a provocare in Mihara uno strano senso di delusione. Quindi era vero. Yasuda non mentiva.

Ma ormai era arrivato laggiù. Con il suo pacchetto sottobraccio, Mihara si incamminò nella direzione indicatagli dall’agente.

Era un posto tranquillo. Le case avevano ancora i tetti di paglia. La montagna da un lato, oltre i tetti l’azzurro del mare.

IX
UN PAESAGGIO FATTO DI NUMERI

La casa si trovava in fondo a una strada lievemente in salita e piuttosto distante dalla ferrovia. Nella zona la maggior parte delle abitazioni era circondata da recinti di bambù o di legno di cipresso. Quella di Yasuda era una bella casetta a un piano, immersa nel verde, un posto perfetto per alloggiare una moglie malata.

Negli spazi vuoti tra una casa e l’altra, scorci di mare azzurro.

Mihara premette il campanello. Lo sentì suonare all’interno e trattenne il respiro. Era una visita delicata, e lui lo sapeva.

Fu una cameriera sui cinquant’anni ad aprire la porta.

«Mi chiamo Mihara, vengo da Tokyo. Sono un conoscente del signor Yasuda. Mi trovavo da queste parti e ho pensato di far visita alla sua signora».

L’anziana donna lo ascoltò, si inchinò rispettosamente e andò a riferire il messaggio.

«Prego, entri pure» disse quando fu di ritorno, e questa volta si inchinò piegando le ginocchia.

Mihara fu condotto in una stanza più interna. Era grande all’incirca otto tatami. I raggi del sole filtravano da una porta a vetri esposta a sud e illuminavano metà della stanza dove si trovava un giaciglio, che nella luce invernale appariva candido.

Una donna pallida si era messa seduta in attesa dell’ospite. La cameriera le aveva appoggiato addosso uno scialle. Quella stoffa scura punteggiata di rosso era stranamente lucente, e dava all’insieme un’aria gradevole. La donna doveva avere poco più di trent’anni. I capelli legati in modo semplice, un velo di trucco applicato frettolosamente sul volto magro per ricevere quella visita inattesa.

«Lieto di conoscerla. Scusi se sono venuto così all’improvviso» esordì l’ispettore. «Mi chiamo Mihara e a Tokyo ho avuto l’onore di conoscere suo marito, il signor Yasuda. Mi trovavo a passare di qui, e perdoni davvero la mia impudenza, ho pensato di venire a trovarla».

Non era il caso di mostrarle il biglietto da visita della polizia.

«Non lo dica neppure, mi fa piacere che conosca mio marito».

La moglie di Yasuda era bella. Aveva grandi occhi e un profilo regolare. Nonostante le guance incavate, non dava quell’impressione di decadenza fisica che è propria delle persone malate. Anzi, l’aspetto emaciato, insieme alla fronte spaziosa, le conferiva un’aria intelligente.

«Come si sente?» le domandò Mihara. La stava ingannando, ne era consapevole, e il suo tono tradiva il vago senso di colpa che provava.

«Grazie per l’interessamento. Sono malata da tempo e ormai mi sono rassegnata all’idea che non guarirò tanto presto» disse curvando le piccole labbra in un sorriso appena accennato.

«Non deve rassegnarsi. E poi il clima è migliorato, sono certo che questo gioverà anche alla sua salute. Ho saputo che lo scorso inverno è stato particolarmente freddo».

«Da queste parti,» disse la moglie di Yasuda guardando verso la porta a vetri con gli occhi socchiusi «l’inverno è mite e mi dicono che le temperature sono anche di tre gradi più alte rispetto a quelle di Tokyo, ma fa freddo comunque. Adesso si sta bene, per fortuna».

Poi guardò Mihara, come se volesse chiedergli qualcosa. Aveva occhi straordinariamente luminosi e sembrava consapevole dell’effetto che producevano su chi guardava.

«Mi perdoni: ha rapporti di lavoro con mio marito?».

«Sì, più o meno».

Mihara si mantenne sul vago. Si sentiva a disagio. Con Yasuda avrebbe trovato una giustificazione in seguito.

«Ah, davvero? Bene, mi fa piacere, spero che vorrà onorarci della sua amicizia ancora a lungo».

«Ma no, il piacere è tutto mio» rispose Mihara mentre un rivolo di sudore gli scivolava lungo la fronte. «Ma mi dica: il signor Yasuda viene spesso a trovarla?» si affrettò a cambiare discorso.

«Vede, è una persona molto impegnata. Ma una volta alla settimana riesce a venire qui» rispose l’ammalata con un sorriso pacato.

Combaciava perfettamente con il racconto di Yasuda.

«Che sia impegnato è una cosa positiva. Anche se per lei mi dispiace».

Mentre parlava, Mihara esaminò la stanza. Intorno al letto c’erano molti libri. I malati si annoiano. In cima a una pila vide delle riviste. Non erano dei giornaletti qualsiasi, ma riviste letterarie, il che lo sorprese. Poco più in là c’erano dei romanzi stranieri, e subito sotto, dei libretti dello stesso spessore ma di piccolo formato. Le copertine non erano visibili e Mihara non poté leggerne i titoli.

La cameriera portò il tè. Mihara capì che era giunto il momento di togliere il disturbo e iniziò a congedarsi.

«Mi scuso ancora per questa visita improvvisa. Abbia cura di sé».

La moglie di Yasuda lo guardò. I suoi occhi erano freddi e limpidi.

«La ringrazio per la sua premura. Grazie davvero».

Lui le consegnò l’omaggio che aveva portato e lei siinchinò leggermente. Mihara notò per la prima volta quanto fossero gracili le sue spalle.

La cameriera lo accompagnò alla porta. Mentre si infilava le scarpe, Mihara le domandò a voce bassa: «Chi è il medico che ha in cura la signora?».

La donna rispose senza batter ciglio: «Il dottor Hasegawa, che lavora all’ambulatorio vicino al Dai-Butsu».

 

 

Mihara prese il trenino della linea Enoden e scese davanti al Dai-Butsu. Come sempre, intere scolaresche procedevano in fila schiamazzando.

Trovò subito l’ambulatorio del dottor Hasegawa. Qui poté mostrare tranquillamente il suo biglietto da visita. Il dottore era un uomo grassoccio, dal viso rubicondo e dei capelli bianchi pettinati con cura. Posò il biglietto di Mihara sul tavolo e si sedette di fronte a lui.

«Vorrei farle delle domande sullo stato di salute della signora Yasuda» esordì Mihara.

«Ha qualche attinenza con il suo lavoro?» chiese il medico dopo aver dato una sbirciata al biglietto e poi al suo proprietario.

«Sì, direi di sì».

«E impone di venir meno al segreto professionale?».

«No, non si preoccupi. Sono le sue condizioni che mi interessano. Non sarà necessario entrare nei particolari».

Il dottore annuì. Poi chiese a un’infermiera di portare la cartella clinica.

«Soffre di una tubercolosi polmonare detta “disseminata”. Una condizione che richiede lunghi periodi di cura e in ogni caso è difficile da guarire. La seguo da tre anni, ma in tutta onestà le possibilità di una guarigione completa sono minime. L’ho detto chiaramente anche al signor Yasuda, suo marito. Per il momento siamo riusciti a stabilizzarla grazie a un nuovo farmaco che le somministriamo per via endovenosa».

«Vuol dire che deve starsene sempre a letto?».

«No, di tanto in tanto si alza».

«Ma la sua malattia non le permette affatto di uscire di casa?».

«Qualche passeggiata può farla. Credo che abbia dei parenti a Yugawara e delle volte riesce perfino a fermarsi due o tre giorni da loro. Questo, più o meno, è quello che può fare» rispose il medico.

«E lei va a visitarla tutti i giorni?».

«Le sue condizioni non subiscono variazioni improvvise, quindi non è necessario. La visito regolarmente solo il martedì e il venerdì. E qualche volta ci vado anche la domenica pomeriggio».

Mihara l’aveva guardato in modo strano, e il medico accennando un sorriso proseguì.

«Vede, la signora ha una passione per la letteratura. In genere le persone malate si appassionano agli haiku o al waka, lei invece ama i romanzi e di tanto in tanto scrive anche delle piccole cose».

Ascoltando le parole del medico, Mihara si ricordò delle riviste letterarie e dei romanzi stranieri che aveva visto nella stanza della donna.

«A dire il vero, anche io mi diletto a scrivere. Pensi che ho conosciuto Kume Masao. Qui a Kamakura adesso vengono molti scrittori, anche se io ho avuto modo di frequentare soltanto lui. Provo un po’ di imbarazzo a parlarne, perché sa, alla mia età... Ma dal momento che è una cosa che mi piace, insieme ad alcuni amici scrivo brevi saggi e poesie, waka e haiku, e li pubblichiamo su una rivistina trimestrale. Per noi è un po’ come avere l’hobby del bonsai. E siccome anche la signora ha la mia stessa passione, qualche volta la domenica pomeriggio vado a trovarla e ne discutiamo. Fa piacere anche a lei. Circa sei mesi fa mi ha anche dato un suo breve scritto».

Il medico parlava con trasporto e gli chiese se voleva vedere il numero in cui era stato pubblicato. Mihara rispose di sì.

Tornò con in mano una rivista che non contava più di una trentina di pagine, sulla cui copertina si leggeva il titolo Nanrin, «La foresta del Sud». Mihara scorse l’indice e la aprì alla pagina che gli era stata indicata.

Il titolo del testo era «Un paesaggio fatto di numeri», il nome dell’autrice Yasuda Ryōko. Così si chiama Ryōko, pensò Mihara. E iniziò a leggere quel racconto dallo strano titolo.

 

«È molto tempo, ormai, che sono costretta a letto, e mi viene voglia di leggere i libri più disparati. Ma ultimamente i romanzi non mi interessano più. Riesco a leggerne qualche decina di pagine, poi mi annoio e li lascio lì, mi capita spesso. Un giorno mio marito se n’è andato dimenticandosi l’orario dei treni. Non avendo altro da fare l’ho preso in mano e mi sono messa a sfogliarlo. I viaggi sono fuori dalla portata di una persona che, come me, deve starsene sempre a letto, ma quell’orario mi incuriosì. Mi appassionò più di tanti insulsi romanzi. Mio marito si sposta di frequente per lavoro e acquista sempre gli orari ferroviari. Ormai deve conoscerli quasi a memoria, ma nel suo caso c’è un motivo pratico, per me è un fatto tutto diverso.

«Ci sono scritti i nomi delle stazioni di tutto il Giappone, e leggendoli riesco a immaginarmi il paesaggio di ciascuno di quei luoghi. Sono le linee locali, in particolare, a portarmi più lontano con la fantasia. Toyotsu, Saikawa, Sakiyama, Yusubaru, Magarikane, Ita, Gotōji: tutti nomi di piccole stazioni del Kyūshū. E poi Shinjō, Masugata, Tsuya, Furukuchi, Takaya, Karigawa, Amarume: stazioni di una linea secondaria del Tōhoku. Leggo “Yusubaru” e mi immagino un villaggio stretto tra le montagne del Sud, nel folto della vegetazione, mentre “Amarume” è una cittadina immersa nel paesaggio desolato del Tōhoku, sotto un cielo di cenere. Davanti ai miei occhi si materializzano le atmosfere di tutti quei villaggi e di quelle città, le case e persino la gente per strada. Ricordo un passo delle Ore d’ozio di Kenkō che dice: “Sento un nome e subito m’immagino le sue sembianze”, ed è proprio così che capita a me. Quando mi annoio, aprire le pagine dell’orario ferroviario mi distrae. Me ne vado a spasso nelle regioni del San’in, dello Shikoku, dello Hokuriku.

«Da quel momento, il mondo degli orari ha continuato ad alimentare la mia immaginazione. Guardo l’orologio. È l’una e trentasei del pomeriggio. Scorro le pagine dell’orario in cerca di una stazione che porti i numeri 13:36. Trovo la stazione di Sekiya sulla linea Echigo, il treno 122 è in arrivo. Anche ad Akune, sulla linea Kagoshima, i passeggeri stanno scendendo dal treno 139. A Hidamiyata è arrivato l’815. A Fujiu, sulla linea San’yō; a Iida, nello Shinshū; a Kusano, sulla linea Jōban; a Kitanoshiro, sulla linea Ōu; a Ōji, sulla linea Kansai: in ciascuna di queste stazioni c’è un treno fermo sui binari.

«E così, nel mio letto, mentre seguo con gli occhi i movimenti delle mie dita sottili, vedo, in un solo istante, i treni fermi dell’intero paese. Folle di persone che salgono e scendono rincorrendo le proprie esistenze. Chiudo gli occhi e provo a immaginarmi la scena. L’orario mi racconta di treni che, seguendo le linee più diverse, si incrociano in questa o quella stazione. E mi appassiona. Il tempo obbliga i treni a incontrarsi, le persone a bordo, invece, si incontrano solo per caso. Posso immaginarmeli all’infinito che vanno e vengono attraverso lo spazio che ho qui proprio davanti a me. Più ancora di un romanzo frutto dell’immaginazione altrui, è la mia a interessarmi. Quel libretto pieno di numeri e non solo di ideogrammi è divenuto ormai una delle letture che amo di più. Il mio diletto solitario, un sogno fluttuante».

 

«Sono idee singolari, non trova?» disse il medico con aria ammirata, dopo aver atteso che Mihara finisse di leggere. Quando sorrideva i suoi occhi si assottigliavano ulteriormente. «Certo, sono i pensieri di una donna costretta all’immobilità».

«Già» rispose Mihara con un cenno distratto del capo. Più che dalla sensibilità di Ryōko, era rimasto colpito dalla frase «Mio marito si sposta di frequente per lavoro e acquista sempre gli orari ferroviari. Ormai deve conoscerli quasi a memoria», e per qualche istante si era dimenticato della presenza del dottore.

 

 

Erano le otto di sera quando Mihara rientrò al commissariato. Kasai era già andato via.

Sulla scrivania trovò un telegramma con sopra una bottiglietta di inchiostro, poggiata lì per non farlo volare via. Mihara era sorpreso che fosse già arrivato. Ancora in piedi, lo aprì. Come immaginava, era la risposta a quello che lui aveva inviato al commissariato centrale di Sapporo.

 

SECONDO TESTIMONIANZA DI IMPIEGATO FUTABA, KAWANISHI, LUI E YASUDA SI SONO INCONTRATI PRESSO STAZIONE DI SAPPORO IN DATA 21 GENNAIO. 22 E 23 YASUDA HA ALLOGGIATO AL MARUSŌ.

 

Malgrado se lo aspettasse, Mihara non poté impedirsi di provare una certa delusione e si lasciò cadere sulla sedia.

E così questo Kawanishi, che lavorava presso l’azienda Futaba, a Sapporo, il ventuno gennaio lo aveva davvero incontrato alla stazione e il ventidue e il ventitré Yasuda aveva soggiornato in città, al ryokan Marusō. I due racconti combaciavano.

Mihara prese una sigaretta e l’accese. Nella stanza non c’era nessuno. La situazione ideale per riflettere.

Il contenuto del telegramma non era una sorpresa. Nessuna contraddizione rispetto alle dichiarazioni di Yasuda. Il quale non avrebbe mai detto delle bugie facili da smascherare. Quindi era arrivato in Hokkaidō il ventuno. Il venti Sayama e Otoki si erano suicidati. Quando la mattina del ventuno erano stati rinvenuti i loro cadaveri, Yasuda si trovava a bordo del rapido Towada, diretto in Hokkaidō. Altrimenti non avrebbe potuto incontrarsi con il signor Kawanishi, l’impiegato della Futaba, alla stazione di Sapporo.

Mihara, tuttavia, non riusciva a togliersi dalla testa l’idea che Yasuda si fosse deliberatamente procurato dei testimoni nei quattro minuti in cui Sayama e Otoki lasciavano la stazione di Tokyo, anche se non ne comprendeva ancora il motivo. Proprio per questo aveva la sensazione che i movimenti di Yasuda tra il venti (la sera, quando Sayama e Otoki si erano tolti la vita) e il ventuno (la mattina, quando i loro cadaveri erano stati ritrovati) nascondessero un qualche legame con quello che era accaduto nel Kyūshū. O meglio, la sua era una specie di fissazione dovuta al desiderio che le cose stessero proprio così, se ne rendeva conto. Ma il problema era che Yasuda non andava verso il Kyūshū, bensì dalla parte opposta. Invece che a sud, era diretto a nord!

«Un momento» pensò. «Il fatto stesso che sia andato da tutt’altra parte però è strano».

Mihara si accese un’altra sigaretta. Aveva l’impressione che l’essere andato così lontano fosse un trucco di Yasuda. Così come la messinscena di quei quattro minuti.

All’improvviso gli venne in mente una cosa e tirò fuori dal cassetto la busta con i documenti relativi all’indagine su Sayama. Quelli raccolti con tanta cura dall’ispettore Torigai del commissariato di Fukuoka. Si ricordò il volto emaciato e le rughe intorno agli occhi del vecchio Torigai Jūtarō.

Il referto dell’autopsia faceva risalire l’ora del suicidio di Sayama e Otoki – dovuto all’ingestione di cianuro – alla sera del venti, tra le nove e le undici.

Mihara si procurò un orario ferroviario e cominciò a sfogliarlo. In quell’intervallo di tempo, il rapido Towada correva lungo la linea Jōban attraversando Nakoso, famosa per i suoi resti archeologici, Taira, Hisanohama e Hirono.

Quindi fece un altro tentativo con l’orario del ritrovamento dei due cadaveri, verso le sei e mezzo del mattino del ventuno, e vide che a quell’ora il treno era appena partito dalla stazione di Ichinoe, nella prefettura di Iwate. Se Yasuda era a bordo, le distanze spaziali e temporali facevano sì che non potesse avere avuto alcun ruolo nei fatti avvenuti a Kashii, su una spiaggia del Kyūshū.

Mentre era immerso in questi pensieri, Mihara si rese conto che il suo modo di leggere l’orario ferroviario somigliava a quello descritto dalla moglie di Yasuda e sorrise amaramente.

Aveva affermato che Yasuda consultava abitualmente l’orario dei treni, e che anzi si poteva presumere che lo conoscesse quasi a memoria. E se lo avesse usato per costruirsi un alibi?

Parlare di alibi non era esatto però. Avevano verificato: Yasuda non era a Tokyo. Ma un vero alibi avrebbe dovuto provare che non era andato nel Kyūshū.

Mihara prese ancora una volta il telegramma e lo rilesse, giocherellando con i lembi del foglio che teneva tra le dita. La veridicità del suo contenuto non era certo in discussione. Le cose erano andate sicuramente come diceva. Però continuava ad avere la sensazione di stare osservando un edificio soltanto dalla facciata. Senza riuscire a vedere la struttura interna che lo teneva in piedi.

«E sia, andrò in Hokkaidō».

Per trovare la falla dell’edificio era necessaria una ricerca in profondità. Mihara decise che avrebbe esaminato ogni dettaglio e verificato ogni prova.

Il mattino seguente attese l’arrivo del commissario Kasai in piedi davanti alla sua scrivania.

«È arrivato il telegramma di risposta da Sapporo» disse, mostrandoglielo. Il capo lo lesse e, alzando gli occhi verso di lui, commentò: «Coincide con la versione di Yasuda».

«Già» assentì Mihara.

«Forza, ti ascolto» disse, intuendo che Mihara aveva qualcosa da dirgli.

«Ieri, quando lei non c’era, sono andato a Kamakura».

«Sì, ho letto il messaggio che mi hai lasciato».

«Sono andato a trovare la moglie di Yasuda. Volevo accertarmi che ci avesse detto la verità, e in effetti lei è costretta a letto da una tubercolosi polmonare».

«Quindi le dichiarazioni di Yasuda sono tutte attendibili».

«Be’, diciamo che hanno tutta l’apparenza di esserlo. Però ho trovato qualcosa di interessante».

Mihara gli riferì che il medico gli aveva mostrato il racconto della moglie di Yasuda, dove era scritto che il marito conosceva gli orari dei treni quasi a memoria.

«Capisco, in effetti questo potrebbe significare qualcosa» disse il commissario poggiando le braccia incrociate sulla scrivania. «Tanto per cominciare, spiegherebbe la storia dei quattro minuti alla stazione di Tokyo».

«L’ho pensato anch’io» disse Mihara, soddisfatto per l’interesse manifestato dal commissario. «Il fatto che si sia procurato dei testimoni per quei quattro minuti alimenta il sospetto che Yasuda abbia avuto un ruolo nel suicidio del vice-capo di sezione Sayama. Naturalmente è solo un’ipotesi, ancora non ho le idee chiare. Ma sono certo che ci deve essere dell’altro».

Voleva dire che, secondo lui, il suicidio era stato in realtà un omicidio.

«È proprio così» replicò subito Kasai.

«Ecco perché le chiedo l’autorizzazione a partire per lo Hokkaidō. La storia che il giorno del suicidio era diretto in Hokkaidō Yasuda non me la dà a bere. Credo che il telegramma inviatoci dal commissariato di Sapporo dica la verità, ciononostante ho il sospetto che Yasuda abbia architettato qualcosa. E quando avrò capito di che si tratta riuscirò anche a sciogliere l’altro enigma: perché aveva bisogno di testimoni alla stazione di Tokyo quando il vice-capo Sayama era in partenza?».

Kasai non rispose subito, distolse lo sguardo e rifletté, poi disse soltanto: «E va bene. Sei arrivato fino a questo punto, ora vai fino in fondo. Col capo parlerò io».

Mihara fu sorpreso da quelle parole e per qualche istante rimase a fissarlo.

«Perché, il capo è contrario a questa indagine?».

«Non proprio contrario» rispose vago Kasai. «Ma mi ha chiesto perché ci ostiniamo a indagare su un caso già archiviato come doppio suicidio. Diciamo che non ne è entusiasta. Ma non ti devi preoccupare. Lo convincerò io».

Il commissario sorrise, come se volesse rincuorare Mihara.

X
IL TESTIMONE DELLO HOKKAIDŌ

Il pomeriggio successivo, Mihara partì da Ueno a bordo del rapido Towada. Lo stesso Towada su cui aveva viaggiato Yasuda. Da un lato gli permetteva di raggiungere comodamente lo Hokkaidō, dall’altro si prestava al suo «esperimento sul campo».

Superata Taira, Mihara si addormentò. La coppia seduta di fronte a lui aveva continuato a parlare ad alta voce in dialetto del Tōhoku, infastidendolo e impedendogli di prendere sonno. Ma quando ormai ci si avvicinava alle undici, la stanchezza di tutta una giornata lo fece crollare. A Sendai ci fu un po’ di trambusto e aprì gli occhi, ma del tragitto fino ad Asamushi non si accorse neanche.

Il mare, immerso nel bianco latteo dell’alba, emanava un senso di freschezza. All’interno del treno, i passeggeri si preparavano a scendere.

Arrivò il controllore. Si fermò sulla porta e diede il buongiorno a tutti. «Siamo in arrivo alla stazione di Aomori, termine della corsa. Grazie per essere stati nostri ospiti a bordo. I passeggeri diretti a Hakodate con il traghetto sono pregati di registrare il proprio nome sull’apposita carta d’imbarco. Alzi la mano chi ne ha bisogno».

Il controllore distribuì i moduli ai passeggeri che avevano alzato la mano. Era la prima volta che Mihara andava in Hokkaidō. Prese anche lui una carta d’imbarco. Si trattava di un foglio soltanto, ma stranamente aveva due colonne, numero 1 e numero 2, che andavano compilate con i medesimi dati. All’uscita lo consegnò all’addetto.

Arrivarono ad Aomori alle 9:09. Mancavano ancora quaranta minuti alla partenza del traghetto, ma già sulla lunga piattaforma i passeggeri si accalcavano nel tentativo di accaparrarsi il posto migliore per la traversata. Mihara fu spintonato varie volte.

Giunse a Hakodate alle 14:20. Attese altri trenta minuti e arrivò il rapido Marimo. I collegamenti erano a catena. Durante le successive cinque ore e mezzo, Mihara guardò annoiato il paesaggio dello Hokkaidō, che vedeva per la prima volta in vita sua. Quando, la sera, arrivò a Sapporo, era distrutto. Yasuda doveva aver viaggiato in un vagone letto o in una carrozza di prima classe, ma data la scarsità di fondi a disposizione per gli spostamenti, a un ispettore di polizia non era concesso neanche di desiderarli, certi lussi. Mihara aveva la schiena tutta indolenzita.

Si fermò a dormire in un alberghetto economico di fronte alla stazione. Se fosse andato al Marusō avrebbe anche potuto indagare meglio su Yasuda, ma non poteva permetterselo e dovette accontentarsi.

In serata iniziò a piovere. E con il rumore della pioggia nelle orecchie, Mihara, ormai stremato, sprofondò nel sonno.

Il mattino seguente si alzò che erano le dieci passate. Aveva smesso di piovere e la luce del sole illuminava il tatami. Faceva freddo. Eh, sì, sono proprio in Hokkaidō, pensò.

Mihara fece colazione e si recò al commissariato centrale di Sapporo, più che altro per buona creanza, e li ringraziò per l’aiuto che gli avevano dato.

«C’è qualche problema?».

Sapendo che era venuto apposta dalla sede di Tokyo, il capo della sezione investigativa lo accolse con un’espressione preoccupata. Mihara lo rassicurò e spiegò che si trovava lì per motivi di poco conto, un’indagine personale.

Quando disse che sarebbe andato al Marusō, gli misero accanto un agente. Gli faceva comodo e non rifiutò.

Il proprietario del ryokan aveva già risposto una volta alle domande della polizia, e così fecero alla svelta. La cameriera di turno tirò subito fuori il registro degli ospiti e gli mostrò il nome di Yasuda Tatsuo.

«È arrivato qui intorno alle nove di sera del ventuno gennaio e si è fermato anche il ventidue e il ventitré. Di giorno restava fuori a lavorare e nel pomeriggio rientrava. Non faceva nulla di strano. Era una persona tranquilla».

La descrizione fatta dalla cameriera corrispondeva alle caratteristiche di Yasuda. Per ogni evenienza, Mihara si fece consegnare il registro con la sua firma. Poi, lasciato il ryokan, congedò l’agente che lo aveva accompagnato. Da quel momento in poi preferiva restare da solo.

La Futaba occupava un edificio di discrete dimensioni sulla strada principale, e vendeva macchinari industriali. Nelle vetrine al piano terra erano esposti dei motori.

Il responsabile delle vendite, Kawanishi, era un uomo calvo, sulla cinquantina. Quando vide il distintivo di Mihara, sgranò gli occhi. «Qualche giorno fa è venuto anche un agente del commissariato di Sapporo per chiedermi se fossi davvero andato a prendere il signor Yasuda. Sospettate di lui per qualche motivo?» domandò con aria molto sorpresa.

«No, non è per quello. Sto effettuando delle verifiche per motivi legati a un’indagine che non lo coinvolge direttamente. Non ha nulla di cui preoccuparsi. È molto tempo che fa affari con il signor Yasuda?» chiese, placido, Mihara.

«Saranno cinque o sei anni, si tratta di un cliente fidato, una persona per bene» garantì Kawanishi. Mihara annuì con aria enfatica, per metterlo a proprio agio.

«Quindi il ventuno gennaio, quando il signor Yasuda è arrivato alla stazione di Sapporo, lei è andato a prenderlo?» domandò Mihara, andando dritto alla domanda per cui aveva fatto tutta quella strada.

«Esattamente. Ho ricevuto un suo telegramma, in cui diceva che sarebbe arrivato il ventuno con il Marimo e mi pregava di attenderlo nella sala d’aspetto della stazione. Purtroppo l’ho strappato e poi l’ho gettato via» rispose Kawanishi.

«Va sempre a prenderlo?» chiese Mihara.

«No, non sempre. Ma era sera, l’ufficio era chiuso, e inoltre mi aveva detto che doveva parlarmi di affari urgenti, perciò ci sono andato».

«Capisco. E quindi il signor Yasuda, dopo essere sceso dal Marimo, è venuto subito da lei nella sala d’aspetto?».

A questa domanda, Kawanishi rimase per qualche istante pensieroso.

«Be’, non proprio subito. Il rapido arriva alle 20:34. Dalla finestra della sala d’aspetto ho visto i passeggeri attraversare i tornelli e riversarsi nella piazza, ma mi sembra di ricordare di averlo atteso più a lungo, una buona decina di minuti».

Quel ritardo di dieci minuti non significava niente. Quello che contava era che Yasuda fosse effettivamente arrivato con il Marimo. Mihara era amareggiato. Si aspettava che potesse finire così, ma nutriva ancora qualche debole speranza. Ora invece era in preda a un tale sconforto che per un attimo lo sfiorò perfino il sospetto che non si trattasse di lui.

Dunque Yasuda era arrivato a Sapporo la sera del ventuno con il rapido delle 20:34. A partire da quella sera, si era fermato a dormire al ryokan Marusō. Non c’era più alcun dubbio. Mihara aveva l’impressione di trovarsi davanti a una parete di roccia. Provava un gran senso di colpa per il sostegno ricevuto dal commissario Kasai, che vedendolo così coinvolto in quell’impresa insensata aveva creduto in lui. Il loro capo fin dall’inizio si era mostrato scettico. Era stato proprio Kasai a insistere. Ora Mihara si sentiva addosso tutto il peso di quella responsabilità.

Aveva un’espressione così cupa che Kawanishi per un po’ lo scrutò senza parlare, poi, esitante, gli disse con un filo di voce: «Ha detto di chiamarsi Mihara, giusto? Ciò che sto per dirle non è bello nei confronti del signor Yasuda, ma lei è venuto appositamente da Tokyo, quindi credo che sia mio dovere informarla. Anche se si tratta soltanto di un dettaglio, niente di più. E non vorrei che gli attribuisse troppa importanza».

«A cosa si riferisce?» disse Mihara guardandolo dritto negli occhi.

«Prima le ho detto che il signor Yasuda voleva vedermi per una faccenda urgente, ma quando ci siamo incontrati mi sono reso conto che le cose che mi stava dicendo non erano poi così urgenti».

«Davvero?» domandò Mihara. Aveva un groppo in gola.

«Sì. Me ne avrebbe potuto parlare tranquillamente in ufficio il giorno dopo. Sul momento mi è parso strano».

Mihara sentì che nella parete di roccia si era appena aperta una crepa. Il cuore gli batteva forte, ma continuò a fare domande a Kawanishi con aria tranquilla e si fece ripetere tutta la storia ancora una volta.

Perché Yasuda aveva fatto venire Kawanishi alla stazione se poi non c’era nulla di così urgente? Yasuda voleva un testimone, qualcuno pronto a giurare che la sera del ventuno era arrivato alla stazione di Sapporo a bordo del Marimo. E aveva scelto Kawanishi. Era questo il motivo. Solo questo. Come per le testimoni di quei quattro minuti a Tokyo. La stessa messinscena. Ancora una volta.

Ma allora, se veramente era una messinscena, la realtà doveva essere un’altra. Vale a dire che forse Yasuda non era arrivato con quel treno.

Mihara si era appena reso conto dell’importanza di un particolare, e per quanto cercasse di trattenersi, non riusciva a nascondere la sua eccitazione.

«Mi dica, signor Kawanishi, lei si è incontrato nella sala d’aspetto con il signor Yasuda?».

«Sì» rispose l’uomo, ansioso di sentire la sua prossima domanda.

«Quindi non l’ha aspettato al binario, giusto?».

«No. Perché il telegramma diceva che dovevamo incontrarci nella sala d’aspetto».

«Dunque» insisté Mihara «lei non ha visto il signor Yasuda scendere dal treno, dico bene?».

«Non l’ho visto, però...». Però, sembrava dire l’espressione di Kawanishi, il fatto stesso che Yasuda Tatsuo, di Tokyo, si trovasse nella sala d’aspetto della stazione a quell’ora dimostrava che era arrivato con quel treno.

Mihara uscì dalla Futaba. Era in uno stato tale che non si ricordava nemmeno se aveva ringraziato e salutato Kawanishi. Si smarrì per le strade sconosciute di Sapporo, i marciapiedi degli ampi viali, tra lunghe file di alberi di acacia con i rami protesi verso l’alto. Ma lui a malapena se ne accorgeva. Vagava per la città inseguendo un unico pensiero.

Yasuda mentiva. Aveva finto di arrivare con il Marimo e per telegramma si era dato appuntamento con Kawanishi, all’ora in cui il treno arrivava, nella sala d’aspetto della stazione di Sapporo. E così si erano «incontrati alla stazione». Questa era stata la risposta del commissariato di Sapporo. Ora, se uno dice «sono andato a prenderlo alla stazione», è naturale immaginarsi che sia andato a prendere un passeggero appena sceso dal treno. Yasuda aveva scommesso proprio su questo equivoco.

Le due ragazze del Koyuki erano le testimoni che si era procurato a Tokyo. Kawanishi quello dello Hokkaidō.

«E adesso ti smaschererò, Yasuda» si disse.

Mihara tirò fuori il taccuino dalla tasca e rilesse i propri appunti. Il racconto di Yasuda era il seguente:

20 gennaio. Partenza da Ueno con il rapido Towada, arrivo ad Aomori il 21. Partenza da Aomori ore 9:50 con il traghetto e arrivo a Hakodate ore 14:20. Partenza da Hakodate con il rapido Marimo e arrivo a Sapporo ore 20:34.

Mentre leggeva, Mihara ebbe improvvisamente una folgorazione. «Come ho fatto a non pensarci prima?». I passeggeri del traghetto Aomori-Hakodate dovevano riempire la carta d’imbarco, no? Sarebbe stato sufficiente controllare perché l’alibi del viaggio di lavoro di Yasuda crollasse completamente!

Se davvero era salito sul traghetto, la carta d’imbarco con i suoi dati doveva essere rimasta da qualche parte.

 

 

Mihara era su di giri, ma all’improvviso sentì montare dentro di sé l’inquietudine. Dal ventuno gennaio era passato già un mese. Conservavano ancora le carte d’imbarco dei passeggeri del traghetto dopo tutto quel tempo? Se se n’erano disfatti, quell’unico appiglio sarebbe venuto meno.

Doveva saperlo. Arrivò trafelato alla stazione di Sapporo. Entrò nell’ufficio della polizia ferroviaria, mostrò il distintivo e domandò per quanto tempo venivano conservate le carte d’imbarco.

«Le carte d’imbarco dei passeggeri del traghetto Aomori-Hakodate» disse un impiegato di mezza età passandosi la mano sul viso «vengono conservate per sei mesi».

Sei mesi. Più che sufficiente. Mihara tirò un sospiro di sollievo. «Quindi mi basterà andare ad Aomori per consultarle, giusto?».

«Si tratta di qualcuno che si è imbarcato ad Aomori?».

«Sì».

«Allora non è necessario che vada fin laggiù. Le può trovare anche a Hakodate».

Mihara sembrava non aver capito, quindi l’impiegato gli spiegò: «I passeggeri riempiono con i propri dati due colonne. Il modulo poi viene tagliato in due e nella stazione di partenza tengono la prima parte, mentre il capitano del traghetto tiene la seconda e la consegna alla stazione di arrivo. Ecco perché le può trovare anche a Hakodate».

Ah, ecco, pensò Mihara. Si ricordava di aver compilato anche lui le due colonne.

«Che giorno le interessa?» gli domandò l’impiegato.

«Il ventuno gennaio, si tratta del traghetto arrivato a Hakodate alle 14:20».

«Il numero 17. Vuole che li chiami al telefono per fargliele preparare in previsione della sua visita?».

«Gliene sarei davvero grato. Proceda pure, la prego».

Mihara fece trasmettere il messaggio in cui avvertiva che sarebbe partito da Sapporo la sera stessa per arrivare a Hakodate di primo mattino, quindi lasciò l’ufficio.

Il treno notturno partiva alle 22:00. Mancavano otto ore. Aveva fretta di sapere. Avrebbe voluto vederle subito, quelle carte d’imbarco, ma tra i tempi di attesa e quelli del viaggio c’erano ancora sedici odiose ore da far passare.

Nelle otto ore che precedevano la partenza, Mihara restò a bighellonare per le strade di Sapporo. Ma era così nervoso che non riuscì a fare il turista.

Finalmente arrivò il tramonto. Tra sonno e impazienza, le sedici ore alla fine passarono. Gli parvero un’eternità.

Giunse a Hakodate che non erano ancora le sei. Spirava un vento gelido.

Nelle altre due lunghe ore che mancavano all’arrivo dell’addetto, Mihara cercò con scarso successo di ingannare il tempo.

Era un giovane impiegato. Quando Mihara gli ebbe spiegato il motivo della sua visita, quello sciolse lo spago che teneva insieme il mazzetto dei moduli compilati dai passeggeri del traghetto e disse: «Ieri mi hanno telefonato per avvisarmi, perciò li ho preparati. Il 17 del giorno ventuno, giusto? Sono divisi per prima e seconda classe, quali le servono?».

«Credo la prima, ma potrebbe essere anche la seconda».

Quelli di seconda classe erano molto più numerosi e sicuramente avrebbe impiegato un bel po’ di tempo a controllarli uno per uno.

«La prima è tutta qui».

Non arrivavano neanche a trenta.

Mihara cominciò a sfogliarli. Mentre scorreva i nomi ripetendosi, come un ritornello, che Yasuda Tatsuo non poteva esserci, che non doveva esserci, al dodicesimo o tredicesimo foglio i suoi occhi furono attirati da un nome: «Ishida Yoshio. Funzionario pubblico. 50 anni. Tokyo».

Mihara sapeva che Ishida era il capo della sezione incriminata del ministero. Lo sapeva fin troppo bene. Era il funzionario al centro delle indagini della seconda sezione investigativa sul famoso caso di corruzione.

Dunque il capo di sezione Ishida era a bordo di questo traghetto diretto in Hokkaidō? Fu assalito da un brutto presentimento.

Mihara riprese a sfogliare con attenzione le carte d’imbarco. E arrivato suppergiù alla quinta, soffocò a stento un grido.

Eccolo! «Yasuda Tatsuo. Macchinari industriali. 36 anni. Tokyo».

Fissò quei caratteri. Non credeva ai suoi occhi, sembrava impossibile. E invece erano lì, ben visibili proprio davanti a lui.

Mihara era senza fiato. Con le dita tremanti tirò fuori dalla borsa il registro del Marusō e lo aprì accanto alla carta d’imbarco. Le due grafie erano identiche e parevano farsi beffe di lui.

E così Yasuda era salito su quel traghetto!

Mihara ebbe la sensazione di essere impallidito.

La prova che aveva preso il traghetto era anche laconferma che era salito sul Marimo. Tutto coincideva alla perfezione con il racconto di Yasuda.

La crepa che aveva creduto di vedere nella parete di roccia era pura illusione. Mihara si sentì irrimediabilmente sconfitto. Con il registro ancora aperto davanti a sé, si prese la testa fra le mani e per qualche istante non riuscì a muovere un muscolo.


XI
LA PARETE INCROLLABILE

Uscito dalla stazione di polizia, Mihara salì sul tram diretto a Shinjuku. Erano passate le otto di sera, quindi anche l’ora di punta. Il tram era quasi deserto. Si sedette comodamente e incrociò le gambe.

A Mihara piaceva andare in tram senza una destinazione precisa. Poteva sembrare un’abitudine bizzarra, ma starsene lì seduto a pensare lo aiutava a venire a capo delle questioni più spinose. L’andatura lenta e quel lieve dondolio gli conciliavano la riflessione. Ogni volta che il tram si fermava e poi ripartiva, lui si stringeva nel suo sedile, si chiudeva in se stesso e si abbandonava al fluttuare dei propri pensieri.

Yasuda aveva fatto venire Kawanishi, della Futaba, alla stazione di Sapporo per parlargli di affari urgenti che in realtà non lo erano. Perché allora lo aveva chiamato? Mihara rifletteva, aveva gli occhi stanchi. Non sentiva né le voci degli altri passeggeri, né il rumore di chi saliva e di chi scendeva. Se Yasuda lo aveva fatto venire, era perché dicesse che lui era arrivato con il Marimo. In altre parole, Yasuda, mostrandosi a Kawanishi, si era procurato un testimone che confermasse il suo alibi.

Alibi? Mihara si soffermò per qualche istante su quella parola: la prova che lui era altrove. Ma rispetto a quale luogo? Dov’è che Yasuda non doveva trovarsi?

Mihara si sforzava di dare forma a un pensiero che fino a quel momento era rimasto come sospeso nella sua mente. Quel dove poteva essere soltanto la spiaggia di Kashii, nel Kyūshū. La prova che lui non si trovava sul luogo del doppio suicidio.

Mihara tirò fuori dal taschino il suo compagno inseparabile di quel periodo: l’orario dei treni. Se il suicidio di Sayama e Otoki era avvenuto tra le nove e le undici del venti gennaio, il treno più veloce per Tokyo da Hakata sarebbe stato il rapido Satsuma, in partenza alle 7:24 del mattino successivo. Ma Yasuda era comparso alla stazione di Sapporo, in Hokkaidō, alle 20:44 circa (orario in cui aveva incontrato Kawanishi), quando il Satsuma aveva appena lasciato Kyōto.

Yasuda voleva dimostrare proprio questo. Che lui non si trovava sul luogo del doppio suicidio. Ma perché voleva dimostrarlo?

«Scusi signore...» disse il controllore dandogli un colpetto sulla spalla. Erano arrivati al capolinea, Shinjuku. Mihara scese. Vagò per un po’ qua e là, poi si incamminò lungo una strada illuminata e salì su un altro tram. Questo andava a Ogikubo.

Il comportamento di Yasuda aveva un precedente. Mihara si sistemò al suo nuovo posto e riprese il filo dei suoi pensieri. Si trattava della testimonianza relativa ai famosi quattro minuti alla stazione di Tokyo. Fino ad allora era stato convinto che Yasuda volesse far vedere Sayama e Otoki alle due ragazze del Koyuki mentre i due salivano insieme a bordo del treno, ma adesso si rendeva conto che aveva anche un altro obiettivo. Yasuda voleva che loro testimoniassero la sua totale estraneità al suicidio dei due amanti. Ecco perché aveva detto: «Ma quella non è Otoki?». Una simile domanda lo poneva indiscutibilmente in una posizione di estraneità. Di fatto, le due ragazze del Koyuki avevano visto Sayama e Otoki salire sull’Asakaze mentre Yasuda stava partendo per Kamakura con un treno della linea Yokosuka, un’altra prova della sua assenza. E non basta: la sera successiva e quella ancora dopo si era fatto vedere al Koyuki. Non cercava forse di dimostrare qualcosa?

La testimonianza casuale su quei quattro minuti non era più casuale, ma necessaria. Necessaria a Yasuda. Kawanishi a Sapporo, come le due ragazze a Tokyo, erano testimoni che Yasuda si era procurato per provare che non si trovava sul luogo del suicidio.

Gli incontri combinati da Yasuda nelle stazioni di Sapporo e di Tokyo finivano entrambi per portare a Kashii, periferia di Hakata, nel Kyūshū. Volevano costruire un’immagine ben precisa: quella della sua assenza.

Arrivato a questo punto, Mihara era sempre più convinto invece che Yasuda Tatsuo si trovava lì. Tutte le sue macchinazioni dimostravano che quell’immagine era falsa. Aveva capovolto la realtà. La sera del venti gennaio, tra le nove e le undici, Yasuda era sicuramente nel Kyūshū, sulla spiaggia di Kashii dove Sayama e Otoki si erano tolti la vita. E di sicuro faceva qualcosa! Faceva qualcosa. Cosa stesse facendo, Mihara non lo sapeva ancora. Ma sapeva che lui si trovava lì, quel giorno, a quell’ora. Aveva visto Sayama Ken’ichi e Otoki ingerire il veleno e cadere morti. Era tutt’altro che altrove: era lì, presente sul luogo del suicidio. Procedendo a ritroso, tutti gli sforzi di Yasuda per provare la sua assenza spingevano a pensare il contrario.

Il ragionamento portava a questa conclusione. Yasuda allora si sarebbe dovuto mettere in viaggio da Hakata alle 7:24 del mattino successivo. Ma il rapido Satsuma sarebbe arrivato a Kyōto alle 20:30 per poi ripartire alle 20:44, proprio quando lui stava incontrando Kawanishi alla stazione di Sapporo, in Hokkaidō. Non era pensabile che Kawanishi mentisse. Nessun dubbio su questo. Yasuda si era presentato al ryokan Marusō di Sapporo intorno alle 21:00. A quell’ora il Satsuma correva lungo il lago Biwa, a Ōmi. Come risolvere simili incongruenze?

E c’era altro. Ad avvalorare la versione di Yasuda erano anche i registri dei passeggeri a bordo del traghetto Aomori-Hakodate. Una certezza che come un martello si abbatteva sull’ipotesi di cristallo formulata da Mihara.

Eppure non si dava per vinto. Qualcosa lo spingeva ad andare avanti nella sua battaglia. Era l’istintiva diffidenza che Yasuda gli ispirava.

«Mi scusi signore...».

Di nuovo il controllore. Il tram era arrivato a Ogikubo e ormai non c’era più nessuno. Mihara scese, salì su un altro tram e ritornò indietro.

Yasuda era stato bravo. Il suo sembrava un edificio solido, ma doveva avere un punto debole. Dove poteva essere?

Mihara, con in faccia il vento che entrava dal finestrino, continuava a rimuginare questi pensieri con gli occhi socchiusi. Dopo una quarantina di minuti li riaprì bruscamente e il suo sguardo cadde su un volantino pubblicitario attaccato a una maniglia – solo la réclame di una marca di cosmetici, senza alcuna importanza. Non era certo stato quello a svegliarlo: si era appena ricordato che, alla stazione di Hakodate, mentre scorreva le carte d’imbarco dei passeggeri del traghetto, aveva visto il nome del capo di sezione Ishida Yoshio.

 

 

«Per quanto riguarda Ishida ora la situazione è chiara» disse il commissario Kasai a Mihara.

Mandare un ispettore a interrogare direttamente un alto funzionario sarebbe stata una provocazione che era meglio evitare – senza contare che Ishida aveva già i nervi tesi per lo scandalo su cui stavano indagando, quindi era necessaria molta prudenza. Evidentemente Kasai c’era già arrivato per altre vie.

«Il venti gennaio è andato in Hokkaidō per lavoro. È partito da Ueno alle 19:15 con il rapido Towada ed è arrivato a Sapporo il ventuno alle 20:34 con il Marimo. Quindi ha preso gli stessi identici treni di Yasuda Tatsuo».

Il commissario gli mostrò gli appunti relativi agli spostamenti di Ishida. Secondo quanto aveva scritto, Ishida non era sceso a Sapporo, ma aveva proseguito fino a Kushiro. Poi aveva visitato le diverse giurisdizioni dello Hokkaidō.

«Gli ho anche chiesto di Yasuda Tatsuo. Ha confermato che fino a Sapporo erano sullo stesso treno. Anche Yasuda viaggiava in prima classe, ma in una carrozza diversa. A un certo punto è passato a salutarlo, per questo è sicuro che fosse a bordo. È un imprenditore a cui affidano regolarmente delle commesse, quindi lo aveva già visto prima».

«Davvero?» rispose deluso Mihara. Ecco. Era spuntato un altro testimone pronto a giurare che Yasuda si trovava su quel treno. E questa volta non se l’era procurato lui. Era un alto funzionario ministeriale il cui programma di viaggio era deciso da giorni. Il suo nome figurava anche tra i passeggeri del traghetto. Non c’era ombra di dubbio.

Il commissario Kasai vide Mihara abbattuto e, alzandosi in piedi, gli disse: «Ascolta. È una bella giornata. Andiamo a fare due passi, solo cinque minuti».

In effetti, fuori c’era un bel sole. La luce era così forte da far pensare che l’estate fosse vicina. E quasi tutti erano in maniche di camicia.

Il capo, che camminava avanti, attraversò i binari del tram, invasi dalle auto, e si accovacciò accanto al fossato che costeggiava il Palazzo Imperiale, le cui mura erano di un bianco abbacinante. Per i loro occhi abituati alla penombra delle stanze del commissariato, era come passare dalla notte al giorno. Proseguirono ancora un po’ e poi si sedettero su una panchina. A guardarli dall’esterno, potevano sembrare due impiegati che fossero sgattaiolati fuori dall’ufficio per prendere un po’ d’aria.

«Mentre eri in Hokkaidō ho fatto riesaminare con cura la relazione tra Sayama e Otoki» disse Kasai mettendosi una sigaretta in bocca e offrendone un’altra a Mihara, che lo guardava con aria interrogativa.

Esaminare la relazione tra due amanti che si sono tolti la vita insieme. Non capiva. Cosa stava cercando? «Per quanto possa sembrare superfluo indagare nel passato di due suicidi, ho voluto farlo ugualmente» aggiunse Kasai, come in risposta alla perplessità di Mihara. «Perché, sai, anche se sembra che la storia fili alla perfezione, non c’è nessuno che fosse al corrente di una relazione tra i due. Persino le ragazze del Koyuki sono rimaste di stucco quando hanno saputo che Otoki si era suicidata con Sayama. Ed è strano che delle ragazze come loro, che hanno fiuto per questo genere di cose, non si siano accorte di niente. Eppure...».

«Eppure...» disse il commissario tirando una profonda boccata – faceva sempre così quando stava per dire qualcosa di importante – «sembrerebbe sicuro che Otoki avesse un amante. Viveva sola nel suo piccolo appartamento, ma pare che ricevesse spesso delle telefonate. Secondo la portiera si trattava di una donna che diceva di chiamarsi Aoyama, e a volte nel sottofondo si sentiva un grammofono, quindi forse era la cameriera di un caffè. Sembrerebbe, in ogni caso, sempre stando al racconto della portiera, che non appena la ragazza rispondeva, la voce femminile lasciasse il posto a quella di un uomo, qualcuno che evidentemente le aveva chiesto il favore di chiamare. Ogni volta che arrivavano queste telefonate, Otoki si preparava in fretta e usciva. Pare che questa storia sia andata avanti per circa sei mesi fino alla sua morte. Ma non ha mai invitato uomini a casa. E ciò significa che doveva essere molto prudente».

«E l’uomo sarebbe stato Sayama?» chiese Mihara con uno strano presentimento.

«È probabile. Ho fatto indagare a fondo anche su di lui, ma è ancora più misterioso di Otoki. È sempre stato una persona discreta, e per di più molto cauta. Non era il tipo che andava in giro a raccontare i fatti propri. Una cosa è certa: se si è tolto la vita insieme a Otoki doveva avere una relazione con lei».

Il tono di Kasai tradiva tutta la sua incertezza verso la conclusione a cui lui stesso era approdato. E Mihara si sentì ancora più inquieto.

«Poi ho fatto mettere il naso nella vita sentimentale di Yasuda Tatsuo» disse Kasai, volgendo lo sguardo verso le cime dei pini del Palazzo Imperiale. In alto, sopra le mura di pietra, si vedeva la piccola sagoma di una guardia.

Mihara fissò il capo negli occhi. Mentre era in Hokkaidō, un vortice invisibile si era messo in movimento intorno a lui. E certo il commissario non era che una piccola ruota del grande ingranaggio delle indagini.

«Ma neanche su di lui abbiamo appurato molto» disse, indifferente alle reazioni di Mihara. «Una volta alla settimana va a Kamakura per far visita alla moglie malata. Si potrebbe ipotizzare che abbia relazioni con altre donne, ma non siamo riusciti a trovare nulla che lo dimostri. Se pure ne avesse una, con ogni probabilità starebbe molto attento a non farsi scoprire. O magari sono solo nostre illazioni e Yasuda è un uomo fedele. In effetti, dalle indagini è emerso che marito e moglie vanno d’amore e d’accordo».

Mihara annuì. Anche lui aveva avuto quest’impressione parlando con la moglie, a Kamakura.

«Insomma, Otoki, Sayama, Yasuda, e – nel caso Yasuda abbia un’altra donna la cosa vale anche per lei – sono stati tutti molto bravi a non far trapelare nulla della loro vita privata».

A quelle parole, Mihara trasalì. Il suo vago presentimento andava assumendo una forma precisa.

«Commissario Kasai!» esclamò Mihara col cuore che gli batteva forte. «Che cosa succede? Perché avete fatto fare tutte queste indagini?».

«Pare che il Grande Capo si sia improvvisamente interessato a questo caso di suicidio».

Mihara capì seduta stante che non era solo il loro capo a essersi interessato, ma qualcuno ancora al di sopra. E aveva ragione. Kasai glielo confermò.

Il giorno successivo, appena Mihara rientrò in ufficio, il commissario lo mandò a chiamare.

«Senti, ci è pervenuta una dichiarazione da parte del capo di sezione Ishida».

Kasai appoggiò i gomiti sul tavolo e incrociò le mani. Lo faceva ogni volta che qualcosa lo impensieriva.

«Non è venuto lui di persona. Ha mandato un dipendente. Ecco qui il suo biglietto da visita. C’era scritto: «Ministero X. Sasaki Kitarō. Funzionario».

Mihara gli diede un’occhiata in attesa che il capo riprendesse a parlare.

«Ishida ha mandato a dire che qualche giorno fa gli sono state fatte delle domande a proposito di Yasuda Tatsuo, e poiché ha capito che la polizia sta indagando su di lui ha deciso di ripetere direttamente a noi ciò che ha già dichiarato. Ossia che il venti gennaio, quando è partito per lo Hokkaidō, Yasuda si trovava sul suo stesso treno. Le carrozze erano diverse, ma a un certo punto lui è passato a salutarlo, e quindi si sono visti. Se dovessimo aver bisogno di altri testimoni, ci invita a rivolgerci a un funzionario della prefettura dello Hokkaidō, tale Inamura Katsuzō, che dalla stazione di Otaru in poi ha viaggiato nello stesso scompartimento di Ishida ed era presente anche lui quando Yasuda è passato poco prima di scendere a Sapporo. Fine del messaggio».

«Be’, si preoccupa molto per Yasuda, non le pare?» osservò Mihara.

«Può darsi. Ma chissà, forse ora che la polizia sta indagando su di lui gli è venuta voglia di collaborare» ribatté Kasai sorridendo. E Mihara capì che quel sorriso voleva dire qualcosa.

«Quali sono i rapporti tra Ishida e Yasuda?».

«Quelli tra un funzionario e un fornitore. Te li puoi immaginare, no? E non dimentichiamoci che Ishida è al centro dello scandalo di corruzione. In ogni caso, finora non sembra esserci niente di sospetto su di loro. Da tempo però, Yasuda è un assiduo frequentatore del ministero, e immagino che non abbia mancato di manifestare la sua gratitudine al capo sezione. Forse l’iniziativa di Ishida è un modo per ricambiare».

Il commissario fece scrocchiare le dita.

«Ma anche in questo caso, se quanto afferma corrisponde alla verità c’è poco da fare. Per sicurezza ho inviato un telegramma a quel funzionario dello Hokkaidō, ma sono certo che la risposta combacerà con la testimonianza di Ishida. Vale a dire che è vero che Yasuda il ventuno gennaio era a bordo del Marimo».

Ecco un altro testimone che lo conferma, pensò Mihara. E di pessimo umore si congedò dal commissario.

Era giusto mezzogiorno. Mihara si recò alla mensa, al quinto piano della centrale di polizia. Era una sala grande come il ristorante di un centro commerciale di provincia. A quell’ora era piena di sole. Mihara non aveva granché appetito, quindi prese un tè e ne bevve un sorso, poi aprì il taccuino e con la matita buttò giù qualche appunto.

Viaggio di Yasuda in Hokkaidō:

1. Sul traghetto per Hakodate (numero 17), in coincidenza con il Marimo, c’era la carta d’imbarco con il suo nome.

2. Il capo sezione Ishida conferma la presenza di Yasuda sul Marimo.

3. Un funzionario dello Hokkaidō, superata la stazione di Otaru, incontra sul treno Yasuda, presentatogli da Ishida.

4. Alla stazione di Sapporo Yasuda si vede con Kawanishi.

Mihara rilesse quanto aveva scritto e rifletté. Quei quattro punti erano come quattro spessi strati di roccia apparentemente indistruttibili. Ma lui doveva farli crollare. Doveva assolutamente riuscirci.

Tra il rapido Satsuma, partito da Hakata alle 7:24 del ventuno, e il Marimo, arrivato a Sapporo alle 20:34 dello stesso giorno, non poteva esserci alcun collegamento. La sola cosa certa era la presenza di Yasuda in Hokkaidō, alla stazione di Sapporo.

Mihara, tenendosi la testa tra le mani, lesse e rilesse gli appunti più di dieci volte. Finché si accorse di un particolare curioso. Il funzionario dello Hokkaidō, quell’Inamura, aveva visto Yasuda dopo la fermata di Otaru. Le testimonianze dicevano che Yasuda era passato a salutare Ishida venendo da un’altra carrozza, ma era strano che prima di Otaru non si fosse mai fatto vivo.

Ishida, Inamura e Yasuda erano saliti tutti a Hakodate, anche se su carrozze diverse. Come mai Inamura lo aveva visto soltanto dopo la stazione di Otaru, quando Yasuda era andato a salutare Ishida?

Mihara tirò fuori l’orario. Scoprì che tra Hakodate e Otaru ci sono cinque ore esatte di viaggio. Yasuda era troppo legato a Ishida per starsene rintanato nella propria carrozza per ben cinque ore senza andarlo a trovare nemmeno una volta. Anzi, perché mai, sapendo di avere cinque ore di viaggio davanti a sé, non aveva preso posto nella sua stessa carrozza? Avrebbero potuto conversare. E se anche lo avesse fatto per discrezione, restava da capire che cosa, per tutto quel tempo, l’aveva trattenuto dal farsi almeno vedere.

Inamura era un testimone imparziale, e il fatto che lo avesse visto dopo Otaru doveva significare qualcosa. E se Yasuda fosse salito sul Marimo proprio a Otaru?

Questo dubbio si era insinuato nella mente di Mihara. Così si sarebbe spiegato il motivo per cui Inamura l’aveva visto solo dopo aver superato quella stazione, e perché Yasuda aveva scelto una carrozza diversa: evidentemente non voleva far sapere che sarebbe salito a Otaru. Così tutto aveva senso. Una volta sul treno, si era materializzato davanti agli occhi di Ishida e Inamura in tutta tranquillità, lasciandogli credere di essere salito a Hakodate.

Mihara ebbe l’impressione di scorgere, in mezzo a una fitta nebbia, una luce fioca che gli permetteva di distinguere i contorni di ciò che aveva davanti a sé, e trattenne il respiro.

 

 

Ma che Yasuda fosse salito a Otaru non era possibile. Perché per farlo sarebbe dovuto partire da Hakodate e arrivare lì prima del Marimo. Considerando gli orari, era un’ipotesi plausibile?

L’idea, però, che fosse partito da Otaru, aveva risvegliato qualcosa nell’animo di Mihara. Non riusciva ancora a capire, ma forse se avesse cercato a fondo avrebbe scovato qualcosa. Quello che si celava dietro ai fatti.

Mihara afferrò finalmente la tazza di tè ormai freddo e ne bevve fino all’ultima goccia, quindi uscì dalla mensa. Si sentiva come in un sogno, in un mondo ovattato. Scese le scale senza neanche accorgersene.

Che motivo aveva Yasuda per prendere il Marimo a Otaru, perché doveva partire proprio da lì? Mihara continuava a ripetersi queste parole come un ritornello.

Per salire a Otaru doveva aver preso un treno precedente al Marimo. Ce n’era uno, lo Akashia, che partiva da Hakodate alle 11:39. Prima ancora c’erano soltanto due locali e il primo rapido della giornata, quello delle 6:00. Era sempre meno verosimile.

Per Mihara Yasuda doveva necessariamente trovarsi sul luogo del suicidio, la spiaggia di Kashii, in Kyūshū, tra le nove e le undici della sera del venti. Sul movente avrebbe riflettuto in seguito. Per il momento gli bastava collocare Yasuda in quel punto preciso. Da Hakata avrebbe potuto raggiungere lo Hokkaidō soltanto con il rapido per Tokyo, che partiva alle 7:24 del mattino successivo. Più ci pensava e più gli sembrava impossibile.

«A meno che non avesse le ali, Yasuda non poteva arrivare in Hokkaidō partendo a quell’ora» disse Mihara tra sé e sé, e in quell’istante scivolò sull’ultimo scalino. Ma non perché fosse buio. Come aveva fatto a non capirlo? Le orecchie gli ronzavano.

Tornò di corsa in ufficio e con le dita che gli tremavano sfogliò le ultime pagine dell’orario. Vi erano riportati i voli della Japan Airlines. Controllò quelli del mese di gennaio.

 

Fukuoka, ore 8:00 → Tokyo, ore 12:00 (volo 302)

Tokyo, ore 13:00 → Sapporo, ore 16:00 (volo 503)

 

«Eccoli!».

Mihara fece un respiro profondo. Continuavano a ronzargli le orecchie. Così Yasuda sarebbe potuto partire da Hakata alle otto del mattino e arrivare a Sapporo alle quattro del pomeriggio. Perché fino a quel momento non gli era venuto in mente l’aereo? Si era così fissato sui treni, che aveva finito per arenarsi sul Satsuma, il rapido che partiva da Hakata alle 7:24. Avrebbe voluto prendere a pugni quella sua stupida testa. A questo punto tutti i suoi presupposti si erano dimostrati falsi.

Mihara telefonò agli uffici della compagnia aerea e si informò sui tempi di percorrenza della navetta che da Chitose, l’aeroporto di Sapporo, portava in città. Gli fu risposto che ci voleva all’incirca un’ora e venti e che la fermata distava dieci minuti a piedi dalla stazione.

Aggiungendo un’ora e trenta minuti alle 16:00, si arrivava alle 17:30. A quell’ora Yasuda si sarebbe potuto presentare alla stazione di Sapporo. Restava però un margine di altre tre ore prima dell’arrivo del Marimo, alle 20:34. Che cosa poteva aver fatto in quell’intervallo di tempo?

Con il dito Mihara si mise a seguire sulla carta la linea ferroviaria tra Hakodate e Sapporo. C’era un locale che partiva da Sapporo alle 17:40. L’arrivo a Otaru era previsto per le 18:44.

Poi verificò i treni che andavano nella direzione opposta. Il Marimo partiva da Hakodate alle 14:50 e arrivava a Otaru alle 19:51, giusto? Restavano un’ora e sette minuti. Yasuda avrebbe atteso con calma alla stazione di Otaru prima di salire sul Marimo. Lo stesso treno faceva poi ritorno a Sapporo. Doveva avere incontrato Inamura subito dopo.

Ecco la ragione per cui Yasuda non si era fatto vedere prima. Non era rimasto per tre ore a Sapporo con le mani in mano. Sceso dalla navetta, aveva camminato a passo svelto verso la stazione per prendere il treno locale diretto a Otaru, che partiva dieci minuti dopo.

Dieci minuti a Sapporo, un’ora a Otaru: aveva saputo sfruttare al massimo quel tempo così risicato. Proprio come aveva fatto con i quattro minuti alla stazione di Tokyo. «Questo Yasuda è un genio in fatto di tempi» pensò Mihara con ammirazione.

Andò verso la scrivania del commissario, gli mostrò l’orario e gli spiegò tutto. Era così agitato che la voce gli tremava. Quando ebbe finito di ascoltarlo, Kasai lo guardò dritto negli occhi ed esclamò: «E così ce l’hai fatta!». Nel suo sguardo brillava un’eccitazione rabbiosa.

«Ce l’hai fatta, bravo» ripetè ancora, come se quelle parole gli uscissero dalla bocca in modo automatico. «Con questo l’alibi di Yasuda crolla. Anche se è strano chiamarlo alibi, non trovi?».

«No, neanche un po’» ribatté Mihara. «Perché adesso non abbiamo più motivo di pensare che a quell’ora Yasuda non poteva trovarsi sul luogo del suicidio».

Ne era fermamente convinto.

«E se viene meno questo presupposto,» soggiunse il commissario tamburellando con le dita sul bordo della scrivania «significa che, al contrario, ci si poteva trovare?».

«Esatto» rispose, trionfante, Mihara.

«Adesso sta a te dimostrarlo» disse Kasai, guardandolo di nuovo fisso negli occhi.

«Ancora non posso. Mi dia un po’ di tempo» ribatté Mihara. Qualcosa lo tormentava.

«Ci sono ancora tante cose che non ti tornano, vero?».

«Già».

«L’alibi di Yasuda, per esempio, non è ancora del tutto crollato». Il commissario aveva un’espressione indecifrabile. Ma Mihara capì subito.

«Si riferisce alle dichiarazioni del capo sezione Ishida, vero?».

«Sì».

I loro sguardi si incrociarono per un attimo. Poi fu Kasai il primo a parlare.

«Con Ishida me la vedrò io».

Mihara aveva colto un certo imbarazzo nel volto del commissario e capì che per il momento non era il caso di aggiungere altro. Si sarebbero chiariti in seguito.

«Al di là di questo, però, c’è ancora una parete da buttare giù. Cosa pensi di fare della carta d’imbarco? Quella non è una testimonianza, che può essere falsa, ma una prova oggettiva».

Era vero. Era stata quella prova, alla stazione di Hakodate, a generare in Mihara un profondo senso di sconfitta. Ma adesso stranamente non aveva più quella sensazione. D’accordo, la parete non era ancora crollata. Ma lui non si sentiva più fuori combattimento.

«Abbatterò anche quella, glielo prometto».

A queste parole di Mihara, il commissario Kasai finalmente sorrise.

«Sei in forma, vedo, non come quando sei tornato dallo Hokkaidō. Coraggio, hai carta bianca».

Ma quando Mihara fece per allontanarsi, il commissario lo trattenne con un gesto.

«Sai cosa penso? Che a forza di voler coprire Yasuda, Ishida ha finito per metterci sulla pista giusta».

 

 

Mihara era certo ormai di aver mandato all’aria il macchinoso piano che Yasuda aveva imbastito intorno al Marimo. Adesso però doveva trovare delle prove concrete.

Cominciò a prendere qualche appunto: rivolgersi agli uffici della compagnia aerea per ottenere i nomi di quelli che avevano prenotato il volo delle otto da Fukuoka e la coincidenza dell’una da Tokyo per Sapporo il ventuno gennaio.

A questo punto Mihara pensò: un momento, Yasuda ha dichiarato di aver preso il Towada, alla stazione di Ueno, alle 19:15 del venti, il che vuol dire che fino al pomeriggio del venti è sicuramente rimasto a Tokyo. Sapeva che ci sarebbero state delle indagini, e non avrebbe mai commesso un’azione imprudente come assentarsi da Tokyo proprio il venti. Certamente si sarà fatto vedere in ufficio o da qualche altra parte. E dato che, restando a Tokyo nel pomeriggio, non sarebbe riuscito ad arrivare in tempo a Hakata e poi a Kashii, dev’essere andato anche lì in aereo. Mihara consultò di nuovo l’orario dei voli. L’ultimo da Tokyo a Fukuoka partiva alle 15:00 e arrivava alle 19:20. In taxi si raggiunge l’aeroporto di Haneda in una mezz’ora. Non sarebbe stato strano immaginare Yasuda che esce dall’ufficio verso le due e dice che sta andando alla stazione di Ueno.

A questo punto, annotò i voli e i treni presumibilmente presi da Yasuda e formulò un’ipotesi in merito ai suoi spostamenti.

 

20 gennaio: partenza da Tokyo-Haneda alle 15:00, arrivo a Fukuoka-Itazuke alle 19:20 (poi va a Kashii e forse si ferma a dormire nel centro di Fukuoka).

21 gennaio: partenza da Itazuke alle 8:00 e arrivo a Haneda alle 12:00; partenza da Haneda alle 13:00 e arrivo a Sapporo-Chitose alle 16:00; partenza da Sapporo (treno locale) alle 17:40 e arrivo a Otaru alle 18:44; partenza da Otaru alle 19:57 (Marimo) e arrivo a Sapporo alle 20:34 (raggiunge la sala d’attesa e incontra Kawanishi).

21, 22 e 23 gennaio: soggiorna al Marusō di Sapporo, poi torna a Tokyo.

 

«Finito» pensò Mihara. Ma dopo aver riletto per l’ennesima volta gli appunti gli sorse un dubbio. «Perché Yasuda ha mandato un telegramma a Kawanishi dicendogli di aspettarlo nella sala d’attesa?».

Se Yasuda era sul Marimo, farsi aspettare da Kawanishi al binario e farsi vedere mentre scendeva dal treno avrebbe reso il suo alibi ancora più forte. E invece – come se preferisse evitarlo – gli aveva chiesto di aspettare nella sala d’attesa.

Yasuda era un uomo molto attento, quindi un motivo doveva esserci. Di che si trattava? Non riusciva a venirne a capo.

Basta, ci avrebbe pensato dopo. Per il momento doveva provare che i suoi movimenti erano stati quelli ipotizzati poco prima, quindi:

1) Controllare l’elenco dei passeggeri del volo. Cercare qualcuno che abbia visto Yasuda andare in taxi a Haneda, sull’autobus da Itazuke al centro di Fukuoka, o da Chitose a Sapporo: questa era la cosa più difficile, perché era passato molto tempo.

2) Trovare l’albergo di Fukuoka dove ha soggiornato Yasuda.

3) Cercare persone che lo abbiano visto sul treno locale da Sapporo a Otaru. A Otaru ha dovuto aspettare il Marimo per oltre un’ora, quindi qualcuno potrebbe averlo visto.

Le prove che avrebbe potuto raccogliere erano più o meno tutte qui. Tra tutte, la numero 3 era quella su cui poteva riporre le minori aspettative. La 1 e la 2 si sarebbero potute rivelare decisive.

Mihara si preparò e uscì dal commissariato. Fuori c’era ancora tanta luce. E Ginza era sempre piena di gente che andava a spasso. Un sole forte illuminava i volti dei passanti.

Entrò nell’ufficio delle linee aeree giapponesi e parlò con l’addetto ai voli nazionali.

«Avete ancora gli elenchi dei passeggeri del mese di gennaio?».

«Gennaio di quest’anno, immagino. Certo, che li abbiamo. Li conserviamo per un anno».

«Sto cercando il nome di una persona che ha prenotato il volo 305 per Fukuoka il venti gennaio e i voli 302 e 503, per e da Tokyo, il ventuno».

«È una persona sola?».

«Esatto».

«Dev’essere una persona che si sposta molto. Ce ne sono pochi in giro, lo troveremo subito».

L’addetto tirò fuori il registro con la lista dei passeggeri e lo aprì alla pagina del ventuno gennaio. La destinazione finale dell’aereo era Ōsaka, ma i passeggeri che avevano prenotato solo fino a Fukuoka erano quarantatré. Il ventuno erano stati in quarantuno ad andare da Fukuoka a Haneda, mentre da Haneda, alle 13:00, cinquantanove passeggeri erano decollati alla volta di Sapporo. Negli elenchi non figurava il nome di Yasuda Tatsuo, né vi erano nomi che si ripetevano.

Mihara era preparato all’eventualità che Yasuda viaggiasse sotto falso nome, ma quando vide che i passeggeri dei tre aerei avevano tutti nomi diversi ci rimase male. Centoquarantatré nomi uno diverso dall’altro. Come era possibile?

«Non si può prenotare il giorno stesso della partenza, vero?».

«Neanche quello prima. Se non si prenota con almeno tre o quattro giorni di anticipo, si rischia di non trovare posto».

Mihara sapeva che Yasuda doveva per forza prendere il volo 305 da Tokyo a Fukuoka il venti, il 302 da Fukuoka a Tokyo il ventuno e poi il 503 da Tokyo a Sapporo. In caso contrario, quel giorno non sarebbe potuto salire a bordo del Marimo. Per essere sicuro, doveva averli prenotati tutti e tre almeno tre o quattro giorni prima, non c’erano dubbi. Se anche l’avesse fatto sotto falso nome, quel nome sarebbe dovuto comparire nei tre elenchi. Ma aveva controllato con cura e non l’aveva trovato.

«La ringrazio. Mi permetta di prendere in prestito questi elenchi per un paio di giorni, per favore».

Mihara firmò una ricevuta e se li portò via. Quindi uscì. Era veramente abbattuto. Tutto il suo entusiasmo era svanito. Andò fino a Yūrakuchō e prese un caffè al solito kissaten. Mentre lo sorseggiava, i pensieri continuavano a perseguitarlo. Non capiva. Non è possibile, non è possibile, si ripeteva.

Uscì dal kissaten e andò a piedi al commissariato. All’incrocio di Hibiya trovò il semaforo rosso e si mise ad aspettare mentre le auto gli sfrecciavano davanti agli occhi. Il semaforo non voleva saperne di diventare verde.

Mihara guardava distrattamente quel fiume di automobili, una diversa dall’altra, che gli scorreva davanti. E fu forse quella monotonia a mettergli in moto il cervello. Trattenne a stento un grido di giubilo.

Che stupido! Non era necessario trovare un uniconome. Per quale motivo non avrebbe dovuto prenotare usando nomi diversi? Yasuda sicuramente non era andato di persona all’ufficio della compagnia aerea, ma si era servito di altri per fare le prenotazioni. Con il nome A era andato a Fukuoka, con il B era volato a Tokyo la mattina dopo e con il C aveva preso la coincidenza per Sapporo. E con un’ora a disposizione all’aeroporto di Haneda, aveva potuto tranquillamente passare inosservato.

Mihara si era lasciato sviare dalla convinzione che, essendo il passeggero uno solo, anche il nome dovesse essere uno. Come aveva fatto a non pensarci prima? Se non avesse avuto gente intorno, si sarebbe preso a schiaffi. Stava cominciando a cedere.

Scattò il verde. Mihara si rimise in cammino.

Quindi negli elenchi dovevano esserci tre nomi falsi. Che corrispondevano tutti a Yasuda Tatsuo. E va bene, li avrebbe controllati uno per uno. Avrebbe stanato i nomi e gli indirizzi falsi.

Mentre camminava, Mihara alzò lo sguardo. Finalmente intravedeva il cammino che l’avrebbe portato alla vittoria.

 

 

Quando, di ritorno, Mihara ne parlò al commissario, questi fu immediatamente d’accordo con lui.

«Va bene. In totale sono centoquarantatré, hai detto. E più della metà risiede in città. Gli altri indirizzi sono in provincia. Quelli di Tokyo li divideremo tra i nostri agenti. Per gli altri ci rivolgeremo ai vari commissariati locali».

Furono subito operativi. Gli agenti ricopiarono dagli elenchi gli indirizzi assegnati loro.

«Sì, per gli uffici e le case con il telefono sarà sufficiente chiamare. Quello che dovete chiedere all’interessato è se ha effettivamente preso l’aereo».

Poi, rivolto a Mihara, il commissario aggiunse: «Ma anche se veniamo a capo di questo problema, rimane ancora una difficoltà».

«Le carte d’imbarco dei passeggeri del traghetto, vero?».

La parete era sempre lì, incrollabile. Priva della benché minima crepa. Resisteva impassibile a tutti gli attacchi di Mihara.

Ma una nuova idea gli attraversò la mente. Tra le carte d’imbarco degli aerei e del traghetto, non poteva esserci qualcosa in comune? Era anche quella un’idea sbagliata? Concentrarsi troppo sulle analogie non rischiava forse di indurlo in errore?

Mihara aveva una strana espressione e non parlava, allora Kasai gli domandò: «Che ti succede?».

«E lei che mi dice di quell’altro?» domandò a sua volta Mihara.

«Be’, a dire il vero, ieri mi ha chiamato il procuratore» disse Kasai a bassa voce. «Pare che le indagini procedano a rilento. Il suicidio di Sayama si è rivelato un grosso problema. I vice-capi di sezione sono veterani del mestiere. I superiori si affidano completamente a loro. Altrimenti non saprebbero dove mettere le mani. Sono talmente preoccupati di fare carriera che non hanno certo tempo da perdere con le scartoffie. Ecco perché i loro vice, dopo tanti anni, sono così informati su tutto. È un po’ come gli artigiani con i loro apprendisti, no? Loro, però, la carriera se la sognano. Possono solo stare a guardare i giovani diplomati che si fanno strada e li sorpassano. Benché rassegnati devono covare un profondo risentimento, ma non per questo smettono di fare il loro lavoro».

Il commissario sorseggiò il tè che gli aveva portato un agente.

«Ma se un superiore lo prende sotto la sua protezione, il vice si sente gratificato. Il successo a cui fino a poco prima aveva rinunciato comincia di nuovo a brillare davanti ai suoi occhi. Crede di poter coltivare quell’ambizione. E si fa in quattro per il suo superiore. Ma il capo, dal canto suo, che fa? Se è una brava persona, cerca di valorizzare il talento del proprio sottoposto e lo porta in alto. Ma se è mosso solo dal desiderio di sfruttarlo, è come se lo tenesse in trappola. Qualunque sia il suo ruolo, se non avrà a disposizione una persona esperta non sarà in grado di lavorare. E lo terrà d’occhio, non credi? Non si limiterà solo a dargli ordini. Quello ne sarà consapevole, ma penserà più alla carriera che a proteggersi, e finirà per fare come vuole il capo, collaborerà. In fondo è umano, non ti pare? È una questione di riconoscenza».

Il commissario appoggiò i gomiti sul tavolo.

«Come in questo caso: tutte le piste portano al vice-capo di sezione Sayama. Sayama era eccellente in quel genere di mansioni. Il procuratore rimpiange molto la sua morte. Il suo suicidio ha reso difficili le indagini, le ha fatte arenare. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: Sayama aveva in mano la sorte dei suoi superiori. Era la chiave di tutto, e adesso che la chiave è scomparsa il procuratore è perduto. Più vanno avanti con le indagini e più si rendono conto di quanto la sua morte sia stata una rovina. I pezzi grossi, intanto, se la ridono».

«E il capo di sezione Ishida è uno di quelli che se la ridono?».

«Lui è quello che ride più di tutti, ne sono sicuro. Sayama era un uomo onesto, e a lungo andare il senso di colpa lo avrebbe spinto al suicidio. Nei grandi casi di corruzione sono sempre i vice a suicidarsi».

«E quindi anche la morte di Sayama...».

«Finora, però, si erano quasi sempre suicidati da soli. Sayama invece si è portato dietro una donna. È un fatto strano, un elemento passionale che non si spiega».

Seguì qualche istante di silenzio. Mihara sapeva a cosa stava pensando il capo. Lo sapeva, ma non riuscì a dirgli niente. Capì però che il procuratore, il capo della sezione investigativa e il commissario Kasai lo stavano sostenendo. E questo gli diede coraggio.

Quel giorno Mihara riaprì il fascicolo del suicidio di Sayama e Otoki e lo esaminò di nuovo. Rilesse scrupolosamente il rapporto e il referto dell’autopsia, esaminò le fotografie e le dichiarazioni dei testimoni. Attento a ogni singola parola. Un uomo e una donna hanno ingerito del cianuro e sono morti uno accanto all’altra. Lo aveva letto decine di volte. Nessuna scoperta.

Mihara a questo punto provò a mettersi nei panni di Yasuda, e a immaginarsi perché si era dovuto procurare dei testimoni pronti a giurare di averli visti partire insieme.

Tre giorni dopo, le verifiche sui passeggeri degli aerei si conclusero.

Non c’era neanche un nome falso. Tutti i passeggeri presenti negli elenchi dei tre voli erano effettivamente saliti a bordo.

«Ho preso davvero quell’aereo. Posso provarlo».

Erano centoquarantatré, e tutti avevano fornito la stessa risposta.

Mihara era in preda allo sconforto. Si prese la testa fra le mani: non riusciva a darsi pace.

XII
LA LETTERA DI TORIGAI JŪTARŌ

Alla cortese attenzione 
dell’Ispettore aggiunto Mihara, 
da parte di Torigai Jūtarō

 

Gentile Ispettore Mihara,

perdoni il mio lungo silenzio. Sono passati tre mesi dal nostro incontro a Hakata e la prego di scusarmi per il ritardo con cui le rispondo. Sa, scrivo poco per natura. Ricevere inaspettatamente la sua lunga lettera mi ha fatto grande piacere. Gliene sono davvero grato.

Il tempo passa in fretta. Allora sul Mare di Genkai soffiava un freddo vento invernale e adesso che siamo a maggio inoltrato fa già troppo caldo per camminare sotto il sole. Come ogni anno, all’inizio del mese c’è stata la famosa festa del Dontaku, un evento che dalle nostre parti preannuncia l’arrivo dell’estate. Se una volta ne avrà il tempo, le consiglio vivamente di venire a Hakata in occasione di questa festa.

Ma a quanto leggo nella sua lettera, lei è ancora alle prese con quel caso di difficile soluzione e, mentre maledico l’età avanzata e la mia indolenza, non posso trattenermi dal provare una profonda ammirazione per la sua tenacia e il suo spirito di iniziativa. Guardo me stesso, un vecchio poliziotto di provincia, e riesco solo a pensare che vorrei tanto ritornare giovane. Ma perdoni, la prego, queste mie lamentele.

La mattina del ventuno gennaio, quando sulla spiaggia di Kashii trovammo i cadaveri dei due amanti, mi imbarcai in un’indagine che mi espose alla derisione dei miei colleghi. Ma sapere che, grazie a lei, questo caso si sta rivelando così importante mi emoziona e mi riempie di gioia, come mai prima d’ora. La ringrazio ancora per avermi voluto mettere al corrente dei successivi sviluppi.

Dalla sua lettera traspaiono tutti gli sforzi che ha fatto in questi mesi. Se avessi qualche suggerimento utile glielo darei ben volentieri, ma sono vecchio e stanco, e le intuizioni faticano ad arrivare. Non posso che provare una grande stima nei suoi confronti.

Sa meglio di me che la qualità di un investigatore coincide con la sua ostinazione nel voler risolvere ogni caso, anche quelli che altri vorrebbero archiviare. Non la biasimerei se ora sorridesse delle banalità che le sto scrivendo, ma confido nella sua benevolenza. Spero vorrà scusarmi se le sembrerà che io parli a sproposito.

Faccio questo lavoro da troppi anni, ho seguito un gran numero di casi, un numero di cui mi sorprendo io stesso. Mi ritengo fortunato per i risultati raggiunti, tuttavia non sono pochi i casi rimasti insoluti. Ed è stato per via della mia irresolutezza. Rimpiango di non essere andato fino in fondo. Sì, credo di aver mancato di perseveranza.

Per esempio, tra i casi che non riesco a dimenticare ce n’è uno che risale a vent’anni fa, quando nella periferia di Fukuoka, in un posto che si chiama Hirao, fu rinvenuto il cadavere di un’anziana donna in avanzato stato di decomposizione. Aveva i segni di una fune intorno al collo, quindi ne deducemmo che era stata strangolata. La ritrovammo a maggio. Il medico legale affermò che il decesso risaliva a tre mesi prima. E questo anche sulla base del fatto che la donna portava un chanchanko. Io avevo messo gli occhi su un uomo estremamente sospetto, che abitava nella casa accanto, ma lui si era trasferito lì da Taiwan solo all’inizio di aprile. Vale a dire che a gennaio, febbraio e marzo, cioè nei mesi freddi in cui si porta il chanchanko, lui si trovava ancora a Taiwan. La donna viveva da sola in una casa tra le montagne e non aveva rapporti con la gente del posto, quindi se anche fosse morta a febbraio non sarebbe stato così strano ritrovarla mesi dopo. Quel tizio su cui avevo messo gli occhi aveva decisamente l’aria del colpevole, ma i tempi non coincidevano, io non mi decisi ad arrestarlo e il caso rimase insoluto.

Ripensandoci a distanza di anni, mi sono reso conto che quel medico legale aveva l’abitudine di dilatare troppo le sue valutazioni temporali. Quando un cadavere viene ritrovato dopo molto tempo, stabilire il momento del decesso diventa più difficile, e ci sono medici che si tengono larghi, altri che si tengono stretti. Oggi chiameremmo questa abitudine «discrezionalità». Fatto sta che quel medico si era tenuto largo e nelle sue valutazioni si era fatto influenzare dal chanchanko trovato addosso alla donna.

A pensarci bene, all’inizio di aprile possono esserci ancora giornate molto rigide. Sempre per usare un’espressione dei nostri giorni, quando si avvicina «un fronte freddo» le temperature possono scendere sotto le medie stagionali. Forse quell’anziana donna aveva semplicemente freddo e quindi ha tirato fuori il suo chanchanko dal baule dove lo aveva già riposto. I vecchi lo fanno spesso. Il fatto che avesse quella giacca addosso non voleva dire necessariamente che fosse inverno. Poteva anche essere aprile. E quindi il colpevole poteva essere il mio sospettato.

Avrei voluto giungere a questa conclusione vent’anni fa. Se avessi insistito forse ci sarei arrivato, invece mi sono lasciato condizionare dal parere del medico e da quella giacca, e ho finito per andare fuori strada. Questo è solo un esempio. Ma ho dei rimpianti simili anche per altri casi.

Quello che voglio dire è che se si è convinti della colpevolezza di qualcuno bisogna fare più di un tentativo. Le persone tendono ad agire sulla base di idee preconcette, a passare oltre dando troppe cose per scontate. E questo è pericoloso. Quando il senso comune diventa un dato di fatto spesso ci induce in errore. Anche se una situazione ci sembra chiara, con le nostre indagini dovremmo sempre cercare di capovolgerla e metterla in discussione.

Trovo interessante la sua ipotesi che Yasuda abbia deliberatamente fatto in modo che quelle due ragazze vedessero Sayama e Otoki partire insieme verso il luogo del suicidio. Stando a quanto mi dice, non c’è dubbio che Yasuda abbia a che fare con la loro morte. Anzi, sono convinto che quella sera, a Kashii, lui fosse presente e che abbia avuto un ruolo importante nella vicenda.

Mi sono anche chiesto se non sia possibile che la sera del suicidio, il venti gennaio, le coppie uscite dalle due stazioni di Kashii fossero formate una da Sayama e Otoki e l’altra da Yasuda e una donna non ancora identificata. Le due coppie sono scese dal treno quasi alla stessa ora e si sono dirette verso la spiaggia di Kashii.

A questo punto resterebbe da chiedersi quale ruolo avesse la donna che era con Yasuda. In altre parole, se quella del doppio suicidio è stata una messinscena, perché Yasuda aveva bisogno di lei? Il piano che aveva architettato dunque necessitava della presenza di un’altra donna. Perché?

Dopo aver ricevuto la sua lettera, sono tornato sulla spiaggia di Kashii. E ci sono andato di sera. Diversamente da allora, adesso soffia una piacevole brezza. È anche quella, forse, ad attirare così tante coppie che ci vengono a passeggiare. Le luci della città sono lontane e le coppie solo ombre scure. Per dei giovani dev’essere un posto ideale. Perdoni ancora la banalità dell’osservazione, ma quello a cui voglio arrivare è che anche Sayama e Otoki, e Yasuda con l’altra donna, la sera del venti gennaio erano solo delle ombre scure che passeggiavano sulla spiaggia. Era così buio che sarebbe stato sufficiente camminare a una distanza di sei o sette metri l’uno dall’altro per non riuscire a vedersi. Purtroppo non posso dirle altro. Mi dispiace davvero.

Poi c’è la questione dell’alloggio in cui Yasuda avrebbe passato la notte del venti. Ho fatto tutte le ricerche che potevo, ma è passato troppo tempo, i registri dei ryokan sono pieni zeppi di nomi inventati, senza contare l’insolenza degli albergatori, che si rifiutano di mostrarli: fino a questo momento non sono riuscito a trovare niente. Cercherò ancora, ma temo proprio che ci siano poche speranze.

Ho avuto però un’altra idea: finora abbiamo pensato che la voce femminile della telefonata a Sayama appartenesse a Otoki, ma non potrebbe trattarsi della seconda donna, quella che era con Yasuda? Naturalmente non c’è nessuna prova. È solo una mia supposizione, ma se Yasuda era a conoscenza del nome falso usato da Sayama all’albergo, per lui non sarebbe stato difficile chiedere a una qualsiasi altra donna di farsi passare «il signor Sugawara». Non doveva per forza essere Otoki.

Se così fosse potremmo affermare che nella settimana trascorsa al ryokan Sayama non stesse aspettando una telefonata da Otoki, l’amante con cui si sarebbe tolto la vita, bensì dalla donna misteriosa. Questo spiegherebbe il motivo per cui, come lei ha ipotizzato, Otoki non proseguì fino a Hakata, ma scese invece ad Atami o Shizuoka. Vorrebbe dire cioè che il ruolo di Otoki era semplicemente quello di accompagnare Sayama in treno fino a un certo punto. E spiegherebbe anche la necessità di Yasuda di procurarsi dei testimoni che li vedessero partire insieme da Tokyo. Ma perché voleva che li vedessero partire insieme? Su questo sto ancora riflettendo, dal momento che non esistono prove.

Se tali ipotesi fossero fondate, resterebbe da capire cosa abbia fatto Otoki dopo essere scesa dal treno ad Atami o Shizuoka, fino alla sera del venti, quando si è tolta la vita sulla spiaggia di Kashii. Se lo scoprissimo avremmo anche le prove che ci servono. Sono convinto che lo scontrino del vagone ristorante trovato in tasca a Sayama sia di per sé un indizio importante del fatto che è arrivato a Hakata da solo. Di questo avevamo già parlato quando è venuto a Fukuoka.

Se la sera del venti Yasuda si trovava davvero sulla spiaggia di Kashii, non è possibile che il ventuno sia arrivato a Sapporo a bordo del Marimo. Ma il fatto che non vi sia traccia di lui nemmeno tra i passeggeri dei tre voli non vorrei che la mandasse fuori strada. Un po’ come è avvenuto con il mio chanchanko. Mi permetta di insistere, non si arrenda.

Leggere la sua lettera dopo tanto tempo mi ha fatto così piacere che ho finito per scrivergliene una ancora più lunga: la prego di scusarmi. Quasi mi vergogno di averla resa partecipe delle mie elucubrazioni. Perdoni la sfacciataggine di un vecchio ronzino che vuol dare lezioni a un cavallo di razza come lei, sia benevolo. E se c’è qualcosa che posso ancora fare per lei qui a Fukuoka, me lo dica senza riserve. Sarò felice di aiutarla.

Spero che grazie ai suoi sforzi si arrivi quanto prima alla soluzione di questo caso così complesso. E che avrà presto il tempo di venire nel Kyūshū per un viaggio di piacere.

La saluto cordialmente,

Torigai Jūtarō

 

 

Mihara era stanco. Si sentiva circondato da mura che non riusciva ad abbattere.

Si infilò in tasca la lettera di Torigai, uscì dal commissariato e andò a prendere un caffè al solito kissaten. Era primo pomeriggio e la sala era piena. Mentre cercava un posto dove sedersi, la cameriera gli disse: «Prego, venga con me» e lo portò verso un tavolo dove una donna, da sola, sorseggiava del tè. Era l’unico posto libero. Trovarsi allo stesso tavolo con una sconosciuta lo metteva a disagio. Si sedette sul bordo della sedia e, imbarazzato, cominciò a bere il suo caffè. Era seccato e non faceva nulla per nasconderlo.

La lettera di Torigai Jūtarō lo aveva rianimato in un momento di sconforto. Ma non era stata sufficiente a dargli coraggio. I suoi suggerimenti erano buoni, ma troppo vaghi.

L’idea che quella sera le coppie scese alle stazioni di Kashii fossero due, e che quindi vi fosse una donna misteriosa, era interessante. Ma, come lo stesso Torigai ammetteva, non ne esisteva alcuna prova. Quelle coppie potevano essere scese per puro caso in due stazioni diverse, senza avere alcun rapporto fra loro. Oppure poteva trattarsi sempre di Sayama e Otoki che, scesi alla stazione delle ferrovie nazionali, erano poi passati davanti alla Nishitetsu, ed erano stati visti da due persone diverse. Era un’ipotesi più che plausibile, del resto era stato lo stesso Torigai a calcolare la distanza tra le due stazioni.

Ormai era chiaro che Yasuda si trovava sulla spiaggia di Kashii e che aveva avuto una parte nel suicidio, ma aggiungere un nuovo personaggio al quadro gli sembrava un po’ azzardato. Il ruolo di Yasuda doveva essere stato complesso, difficile da determinare. E ancora non capiva quale fosse stato. Ma aveva la sensazione che presto ci sarebbe riuscito.

Anche la teoria di Torigai, secondo la quale non sarebbe stata Otoki a telefonare al ryokan, si fondava sull’altrettanto vaga ipotesi che le coppie fossero due: Sayama e Otoki, Yasuda e la donna X.

Piuttosto era strano che Torigai mettesse in dubbio il legame sentimentale tra Sayama e Otoki basandosi sull’osservazione che, alla stazione di Tokyo, Yasuda aveva fatto di tutto per far credere alle testimoni che i due erano una coppia di amanti. Perché era così importante? Voleva dire che in realtà Sayama e Otoki non stavano insieme e che Yasuda aveva architettato il suo piano per dimostrare il contrario. Ma quei due si erano suicidati alla periferia di Hakata, capolinea dell’Asakaze. Comunque la si vedesse, non si poteva dubitare che si fosse trattato di un suicidio. E qui i conti non tornavano più. Perché un uomo e una donna, che non avevano una relazione, si sarebbero dovuti suicidare insieme? Forse in questa incongruenza si poteva intravedere il ruolo di Yasuda.

La prima incertezza era legata al motivo per cui Otoki sarebbe scesa ad Atami o a Shizuoka, e su questo non si era ancora giunti a una conclusione. Era stato l’agente Torigai, sulla base della ricevuta del vagone ristorante trovata addosso a Sayama, a formulare questa ipotesi. Si trattava di un’idea affascinante, a cui Torigai era approdato riflettendo sulla psicologia femminile, ma che, come le altre, non si reggeva su niente. Restava una semplice supposizione. Il fiuto dell’investigatore, da solo, non bastava. Certo, potevano indagare sui movimenti di Otoki ad Atami o Shizuoka, ma era passato troppo tempo e le loro ricerche si sarebbero anche potute rivelare inutili.

Mihara, scuro in volto, beveva il suo caffè, quando ebbe l’impressione che ci fosse qualcuno vicino a lui, e notò che accanto alla donna ora si era seduto un giovane.

«Scusa, ho fatto tardi» le disse. Il viso della donna, che fino a un attimo prima aveva un’espressione imbronciata, era di nuovo luminoso.

«Cosa prendi?» gli domandò guardandolo con occhi vivaci.

«Un caffè» disse il giovane alla cameriera, poi, sorridendo alla donna, le domandò: «Hai aspettato molto?».

«Sì, quasi quaranta minuti. Un caffè non è stato sufficiente, ho dovuto prendere anche un tè per ingannare il tempo!».

«Scusami. L’autobus non voleva saperne di passare. Su quella linea non sono mai puntuali, maledizione. Ogni volta è la stessa storia».

«Che fai, dai la colpa all’autobus così non ti posso rimproverare?» chiese la donna con tono divertito. Poi sollevando il polso esile e indicando l’orologio aggiunse: «Dai, che è già iniziato. Forza, bevi in fretta il tuo caffè e andiamo».

Mihara ascoltò distrattamente la loro conversazione. Era un normale scambio di battute tra un uomo e una donna. Accendendosi una sigaretta, il giovane bevve un sorso di caffè e si avviò alla porta con la sua amica.

Mihara si sistemò sulla sedia. Le tazze lasciate dalla coppia erano ancora lì, e una delle due era piena.

Un autobus di linea che non passa in orario deve venire da chissà quale periferia fuori mano.

I ragionamenti di Mihara furono interrotti da questo pensiero sconclusionato. E invece non era sconclusionato. Nella sua testa si era accesa una lampadina. Il motivo per cui Yasuda aveva chiesto a Kawanishi di incontrarlo nella sala d’attesa e non al binario, era che aveva calcolato l’eventualità di un ritardo dell’aereo dovuto alle condizioni climatiche!

Mihara fissò per qualche istante il dipinto a olio appeso alla parete di fronte a sé.

Yasuda sarebbe arrivato a bordo del Marimo, quindi farsi vedere da Kawanishi al binario avrebbe confermato ulteriormente le sue dichiarazioni. Il motivo per cui lo aveva evitato era che sapeva che un aereo, per via del tempo o per motivi tecnici, può tardare anche di due o tre ore. Se ciò fosse accaduto, non avrebbe potuto mettere in atto il suo trucchetto: andare da Sapporo a Otaru e, da lì, prendere il Marimo. E se Kawanishi non lo avesse visto al binario, avrebbe potuto dichiarare che non era arrivato con quel treno.

Da uomo prudente Yasuda aveva calcolato anche questo: ecco il motivo del telegramma con cui dava appuntamento a Kawanishi nella sala d’attesa.

Mihara era raggiante.

«Ce l’ho fatta!» pensò. Tutte le accortezze di Yasuda non erano forse una conferma che aveva preso l’aereo?

Uscì dal kissaten in preda all’eccitazione. Fuori il sole splendeva.

Un momento, pensò. Da dove era stato inviato il telegramma di Yasuda?

 

 

Mihara decise di passare al setaccio il suo viaggio in Hokkaidō.

Era evidente, aveva previsto che ci sarebbe stata un’indagine su di lui. Lo si capiva dall’incontro con il funzionario Inamura, ma soprattutto dall’appuntamento dato a Kawanishi. Il quale aveva affermato che la «questione urgente» di cui doveva parlargli non era poi così urgente. Ma da dove aveva spedito il telegramma? Kawanishi gli aveva detto di averlo strappato e buttato via. E che non si ricordava da quale ufficio provenisse.

La mattina del ventuno Yasuda era partito da Fukuoka in aereo. Quindi poteva averlo inviato da lì, da Hakata o dall’aeroporto, ma forse no, non era andata così. Era un uomo troppo attento, doveva essersi posto il problema che sul telegramma potesse apparire l’ufficio di emissione, quindi certamente l’aveva mandato da Tokyo. Dall’arrivo a Haneda aveva avuto un’ora a disposizione prima di imbarcarsi sul volo per Sapporo: doveva averlo mandato da lì.

Ma non avrebbe avuto senso. Una volta arrivato a Haneda, avrebbe saputo se la coincidenza per Sapporo sarebbe partita in orario o no. Se fosse partita in orario, avrebbe avuto tutto il tempo di andare a Otaru e da lì prendere il Marimo, quindi non ci sarebbe stato motivo di farsi aspettare nella sala d’attesa. Gli sarebbe stato più utile farsi vedere mentre scendeva dal treno.

A questo punto, Mihara aprì il taccuino. Stando agli appunti che aveva preso, Kawanishi aveva dichiarato: «Si trattava di un telegramma ordinario e l’ho ricevuto il ventuno, intorno alle undici del mattino».

Un telegramma impiegava due ore circa ad arrivare da Tokyo a Sapporo, quindi doveva essere stato spedito verso le nove. A quell’ora Yasuda era già partito da Itazuke e si trovava in volo, forse sopra Hiroshima o Okayama. Quindi non poteva averlo inviato lui.

E se invece l’avesse inviato da Fukuoka? Anche in quel caso ci volevano un paio d’ore, quindi se l’avesse mandato prima del decollo, alle otto, Kawanishi avrebbe potuto riceverlo per le undici.

Ma era andata così?

Era un’informazione troppo semplice da ottenere e Yasuda era troppo scrupoloso, ma Mihara si disse che valeva la pena tentare e decise di telefonare al commissariato di Fukuoka per chiedere a loro di effettuare una verifica presso l’ufficio del telegrafo.

Rientrato in centrale, riferì tutto al commissario, che si complimentò con lui: «Hai avuto un’ottima intuizione. Finalmente abbiamo capito perché ha dato appuntamento a Kawanishi nella sala d’attesa. Intanto chiamiamo il commissariato di Fukuoka. Non pensi però che Yasuda avrebbe potuto chiedere a qualcun altro di inviare il telegramma da Tokyo al posto suo?».

«Ci ho pensato» rispose Mihara. «Stavo per parlargliene. Infatti vorrei controllare anche gli uffici del telegrafo di Tokyo».

«Bene».

Il commissario bevve un sorso di tè, quindi, ridendo, disse: «Quando esci a prendere il caffè torni sempre con delle buone idee».

«Si vede che il caffè mi fa bene» scherzò Mihara.

«In ogni caso, se pure dovessimo scoprire che ha inviato il telegramma da Tokyo non cambierebbe nulla, è ovvio. Sapere, invece, che l’ha inviato da Fukuoka sarebbe un gran bel colpo, perché proverebbe che era lì la mattina del ventuno».

«No» lo interruppe Mihara. «Se scoprissimo che l’ha inviato da Tokyo invece sarebbe importante. A quell’ora non lo avrebbe potuto mandare lui, quindi sapremmo con certezza che si è rivolto a qualcun altro. Ma a chi?».

«Un suo impiegato, forse».

«Impossibile».

«E perché?».

«Yasuda ha lasciato l’ufficio alle due di pomeriggio del venti, dicendo che partiva per Sapporo. Se lo avesse fatto spedire quel giorno sarebbe stato un conto, ma se avesse chiesto di inviarlo alle nove del giorno successivo qualcuno avrebbe potuto insospettirsi. Yasuda è un uomo attento a ogni minimo dettaglio. Ed era preparato all’eventualità che indagassimo su di lui».

La conversazione era finita lì.

Ma due o tre giorni dopo, una volta concluse tutte le verifiche, seppero che il telegramma non era stato inviato da nessuno degli uffici del telegrafo presenti in città.

Anche dal commissariato di Fukuoka arrivò la stessa risposta. Non era stato inviato né da lì né da Hakata.

Mihara si incupì.

Un telegramma deve essere stato per forza mandato da qualche parte. Da dove l’aveva mandato?

 

 

Mihara si batté la mano sulla fronte.

«Come ho fatto a essere così sbadato? Bastava chiedere all’ufficio di destinazione».

Questo caso lo stava facendo impazzire. Si rivolse immediatamente al commissariato di Sapporo e il giorno successivo ricevette la risposta che aspettava.

«Il telegramma è stato inviato il ventuno gennaio alle 8:50 dalla stazione di Asamushi, prefettura di Aomori».

Non era né Tokyo né Fukuoka. Incredibile: la località termale di Asamushi. La stazione prima del capolinea, cioè Aomori.

Rimase di stucco. Ma a pensarci bene non era poi così strano. In fondo si trovava sul percorso da Tokyo allo Hokkaidō. Si concentrò sull’ora dell’invio: le 8:50. Consultò l’orario e vide che era appena dopo la partenza da Asamushi del Towada, il rapido proveniente da Ueno.

Mihara capì subito. Il controllore passava a raccogliere i telegrammi dei passeggeri: doveva essere stato lui a inviarlo al posto suo.

Il Towada era proprio il treno su cui Yasuda sosteneva di trovarsi la mattina del ventuno. Dopo il passaggio da Aomori a Hakodate con il traghetto numero 17, avrebbe trovato il Marimo ad attenderlo.

Quindi Yasu da si trovava davvero a bordo del Towada!

Non riusciva a capacitarsene. Più indagava, e più le affermazioni di Yasuda si dimostravano fondate.

Vedendo Mihara in quello stato, il commissario gli disse: «Senti, sei sicuro che sia stato Yasuda in persona a inviare il telegramma?».

«Eh?» ribatté Mihara alzando la testa.

«Scusa, non l’hai detto tu stesso? Che volevi sapere chi fosse stato a inviarlo al posto suo».

Al posto suo.

Mihara fissò il commissario. «Già, è vero. Me ne ero dimenticato» disse, riprendendosi.

«Come fa uno a dimenticarsi così di quello che ha detto?» lo canzonò Kasai.

Mihara sollevò il ricevitore e compose il numero dell’ufficio della stazione di Ueno.

«Pronto? Qual è l’ufficio di pertinenza per i controllori del Towada nel tratto Sendai-Aomori?».

«Siamo noi».

A bordo di una volante, Mihara si precipitò immediatamente alla stazione di Ueno.

«Il Towada numero 205 del ventuno gennaio di quest’anno? Aspetti solo un secondo» gli disse l’impiegato. E consultò il prospetto dei turni.

«Il controllore era Kajitani. Dovrebbe essere qui, se può pazientare qualche minuto lo mando a chiamare».

«Gliene sarei grato».

Mihara aveva il cuore in gola.

Il controllore era un uomo sulla trentina e dall’aria sveglia.

«Non ricordo il contenuto, ma ricordo perfettamente che dalle parti di Kominato, vicino ad Asamushi, mi è stato consegnato un telegramma da inviare a Sapporo. Credo che fosse la mattina del ventuno gennaio. Non mi pare che nei giorni immediatamente precedenti o successivi qualcun altro mi abbia chiesto di inviare telegrammi da lì».

«La persona che glielo ha affidato aveva qualche segno particolare?».

Mihara pregava che il controllore se lo ricordasse.

«Sì. Era un passeggero della seconda classe».

«Capisco».

«Un uomo molto magro e alto, mi pare».

«Ah... non era un tipo robusto?» insisté Mihara, segretamente felice.

«No, non era robusto. Era magro».

Il controllore sembrava sempre più sicuro della propria memoria.

«E in realtà erano in due».

«Cosa? In due?».

«Ho fatto io il giro per controllare i biglietti, quindi ne sono certo. Quell’uomo mi ha mostrato il suo e quello della persona che era insieme a lui, che aveva l’aria di essere un suo superiore. Era piuttosto altezzoso, e quello magro lo trattava con ossequio».

«Quindi è stato lui, il sottoposto, che le ha consegnato il telegramma?».

«Esatto».

Adesso sapeva chi l’aveva inviato al posto diYasuda. Il superiore di cui parlava non poteva essere altri che Ishida. Il suo sottoposto un segretario o qualcosa del genere. Fino a quel momento, le conclusioni a cui era giunto Mihara erano state affrettate. Era convinto che Ishida fosse andato in Hokkaidō da solo. Ma in fondo un funzionario governativo non ha alcuna difficoltà a portarsi dietro almeno un segretario.

Mihara si recò al ministero e si fece dire di nascosto il nome dell’impiegato che era andato in Hokkaidō insieme al capo di sezione Ishida. Il suo nome era Sasaki Kitarō. La stessa persona mandata da Ishida, pochi giorni prima, a testimoniare davanti al commissario Kasai che Yasuda era sul treno Marimo.

Il giorno successivo Mihara volò ad Aomori e, con estrema attenzione, ricontrollò i moduli dei passeggeri saliti sul traghetto il giorno ventuno per Hakodate. C’era il nome di Ishida e anche quello di Yasuda Tatsuo. Ma quello di Sasaki Kitarō non c’era. Era dunque evidente che Sasaki si era imbarcato sotto il nome di Yasuda.

La parete che fino a poco tempo prima sembrava incrollabile, cominciava a sgretolarsi davanti agli occhi di Mihara. Questa volta aveva la vittoria in pugno!

Restava da capire come mai sulla carta d’imbarco ci fosse la firma di Yasuda. Ma, arrivato a quel punto, sarebbe stata una passeggiata.

XIII
IL RAPPORTO DI MIHARA KIICHI

Caro Ispettore Torigai,

è arrivato il caldo. A camminare sotto il sole cocente si rischia di affondare con le suole nell’asfalto. Quando rientro a casa dall’ufficio non vedo l’ora di spogliarmi e fare un bagno, e di bermi una bella birra fresca di pozzo. In giornate come queste ho una gran nostalgia del vento gelido che soffiava dal Mare di Genkai quando mi accompagnò sulla spiaggia di Kashii.

È tanto tempo che volevo scriverle una lettera con calma. Ci siamo conosciuti a gennaio di quest’anno. Sono passati sette mesi da quando l’ascoltavo raccontarmi tutte quelle cose mentre il vento freddo di Kashii quasi ci portava via. Questa indagine ha occupato tutte le mie giornate senza lasciarmi un attimo di requie. Oggi invece ho il cuore tranquillo, leggero come i raggi del sole di inizio autunno. Forse perché il caso è stato risolto, e quando si viene a capo di una faccenda così complessa si prova una straordinaria sensazione di sollievo. Ma non devo certo dirlo a un veterano come lei. Vede, ora mi sento talmente soddisfatto che mi è venuta voglia di raccontarle tutto. Del resto non soltanto glielo devo, ma è anche un grande piacere.

Ricorderà che, come le avevo già scritto, il viaggio di Yasuda in Hokkaidō era la parte più complicata della storia. E non immagina quanto la sua risposta mi sia stata di incoraggiamento e di aiuto. La ringrazio davvero.

Yasuda aveva reso una dichiarazione apparentemente inossidabile: il venti gennaio era partito da Ueno con il Towada, aveva raggiunto Hakodate a bordo del traghetto numero 17, poi aveva preso il Marimo e alle 20:34 del giorno successivo, il ventuno, era arrivato a Sapporo. Ebbene, siamo riusciti a smentirlo. All’inizio è stato come trovarsi davanti a un muro insormontabile, perché un funzionario dello Hokkaidō aveva dichiarato di averlo visto sul Marimo, un’altra persona lo aveva incontrato alla stazione di Sapporo e sulla carta d’imbarco del traghetto c’era la sua firma. Quello che mi ha creato più problemi è stata proprio la carta d’imbarco.

D’altra parte anche l’ipotesi che avesse viaggiato in aereo pareva non portarci a niente. Non solo non figurava, nemmeno sotto falso nome, in nessuna delle liste dei voli Tokyo-Fukuoka, Fukuoka-Tokyo e Tokyo-Sapporo, ma i centoquarantatré nomi corrispondevano tutti a persone reali, che avevano confermato di essere salite a bordo. Un altro punto a favore di Yasuda: sul treno diretto in Hokkaidō lui c’era, sull’aereo, invece, non c’era.

Mi insospettiva, però, il fatto che avesse chiesto con un telegramma a chi doveva andarlo a prendere a Sapporo di aspettarlo nella sala d’attesa, ed ero sicuro che l’avesse fatto per cautelarsi nell’eventualità che l’aereo arrivasse in ritardo (prendendo l’aereo, infatti, Yasuda sarebbe potuto arrivare a Otaru e da lì salire a bordo del Marimo). Allora ho cercato di capire quale ufficio avesse emesso il telegramma. Era stato inviato dal controllore del Towada, la mattina del ventuno, dalla stazione di Asamushi. Il controllore si ricordava l’aspetto del passeggero che glielo aveva affidato. Dalla sua descrizione ho capito che si trattava del capo di sezione Ishida, accompagnato dal suo segretario Sasaki. Era stato quest’ultimo a consegnargli il telegramma.

A quel punto ho avuto un’idea. Tra i nomi dei passeggeri del traghetto c’era quello di Ishida, ma non quello di Sasaki. Al momento di salire a bordo, Sasaki evidentemente doveva aver consegnato la carta d’imbarco di Yasuda. È stata la nostra disattenzione a impedirci di notare prima la presenza di questo accompagnatore. In seguito, indagando sul segretario Sasaki, abbiamo saputo che Yasuda si era procurato la carta d’imbarco una quindicina di giorni prima. Quei moduli si possono richiedere facilmente allo sportello del molo di Aomori, così come quelli per i telegrammi sono a disposizione negli uffici postali: chiunque può prenderne quanti ne vuole. Yasuda aveva chiesto a Ishida di procurargliene uno tramite un suo dipendente che doveva andare in Hokkaidō per lavoro, dopodiché lo aveva compilato, firmato e restituito a Ishida. Le spiegherò più avanti in dettaglio quali fossero i rapporti tra Yasuda e Ishida; in ogni caso la questione della carta d’imbarco che a lungo mi era parsa un ostacolo insormontabile, si è alla fine rivelata un trucco assai semplice.

E così avevamo risolto il problema del viaggio in Hokkaidō. Restava da sciogliere il nodo dei passeggeri dell’aereo, quando mi sono reso conto che il problema era esattamente l’inverso di quello del traghetto: lì c’era, qui non c’era.

Abbiamo passato di nuovo al setaccio i centoquarantatré passeggeri, verificato le loro professioni e, in base al nostro obiettivo, ristretto il campo a cinquantasei persone. Lavoravano tutti per aziende che intrattenevano rapporti con il ministero. Abbiamo indagato su ognuno di loro e alla fine ci siamo concentrati su tre, che confessarono.

Il primo risultava sul volo Tokyo-Fukuoka, il secondo sul Fukuoka-Tokyo e il terzo sul Tokyo-Sapporo. Ma nessuno di loro aveva preso effettivamente l’aereo. Sapendo che un’indagine li avrebbe smascherati e che non avrebbero potuto farla franca, tutti e tre ammisero di essere stati contattati in segreto da Ishida e di avere accettato di fare da prestanome.

«Devo inviare una persona per svolgere un incarico della massima segretezza, se la polizia dovesse farle delle domande confermi di essere salito a bordo dell’aereo. Non avrà alcun fastidio, gliel’assicuro» aveva detto Ishida a ciascuno di loro. Essendo il caso di corruzione ancora aperto, i tre avevano pensato che la persona incaricata avesse il compito di calmare in qualche modo le acque, e dati i loro rapporti di affari con il ministero, accettarono. In seguito pare che Ishida si sia sdebitato favorendoli in svariate occasioni.

Quindi Yasuda ha fatto avanti e indietro tra Tokyo, Fukuoka e Sapporo usando i nomi di quei tre signori. Ne ha usati tre invece di uno perché sapeva che tutti quegli spostamenti avrebbero potuto destare sospetti. Yasuda era una persona estremamente cauta: sapeva che ci sarebbero state delle indagini e si è preparato a qualsiasi eventualità.

E così avevamo smontato l’alibi dello Hokkaidō e smascherato il suo viaggio a Hakata. Restava un problema. Il quattordici gennaio le ragazze del Koyuki avevano visto Sayama e la loro compagna Otoki salire insieme sull’Asakaze, in partenza dalla stazione di Tokyo alle 18:30. Anzi, per l’esattezza era stato Yasuda a farglieli vedere.

Ancora oggi non siamo in grado di definire la natura del rapporto tra Sayama e Otoki. Otoki era una ragazza riservata e perfino le altre del Koyuki, pur supponendo che avesse un uomo, non sapevano chi fosse. E avevano l’aria di essere sincere. D’altra parte sapevamo che spesso riceveva telefonate da parte di un uomo, ma lei non ha mai portato nessuno a casa. Credo di poter affermare con una certa sicurezza che avesse un amante, ma la sua identità non è mai venuta fuori. Dopo il doppio suicidio a Kashii, ovviamente, tutti hanno pensato che fosse Sayama Ken’ichi.

Restava però ancora un punto da chiarire.

Perché Yasuda aveva fatto in modo che altre due persone vedessero la coppia? Voleva che dichiarassero di averli visti salire sull’Asakaze, diretti verso il Kyūshū?

Ma perché doveva essere per forza l’Asakaze? Ci sono tanti treni che vanno in Kyūshū. E poi è in Kyūshū che i loro cadaveri sono stati ritrovati, quindi non potevano che essere andati lì. La ragione doveva essere un’altra.

Yasuda voleva che qualcuno li vedesse salire insieme sul treno. Per questo ha fatto di tutto per trascinare quelle due testimoni al binario. Voleva, in altre parole, che qualcuno potesse dire che i due erano amanti.

Ma le cose non erano così semplici. Perché era necessario far sapere che stavano insieme?

A furia di pensarci, mi sono convinto del contrario, e cioè che Sayama e Otoki non erano amanti. E proprio perché non lo erano, era necessario che qualcuno li credesse tali.

A questo punto ho seguito la sua brillante intuizione riguardo alla ricevuta del vagone ristorante per una sola persona, trovata nella tasca di Sayama. Il suo sospetto e quello che mi ha riferito della conversazione con sua figlia a proposito della psicologia di una donna innamorata mi hanno aperto gli occhi. Otoki era scesa a metà strada e Sayama aveva proseguito da solo fino a Hakata. Ecco come sono giunto alla conclusione che quei due non erano affatto amanti.

Yasuda era solito portare i propri clienti al Koyuki, era un frequentatore abituale del ristorante. Sayama non andava al Koyuki, ma conosceva Otoki. È possibile che, all’insaputa di tutti, Yasuda, Sayama e Otoki si fossero incontrati da qualche altra parte, magari più d’una volta. Sayama e Otoki, quindi, che già si conoscevano di vista, sono saliti a bordo dello stesso treno conversando tra loro. Guardandoli dall’esterno, sarebbe stato più che naturale crederli due innamorati in partenza per un viaggio. Era questo l’obiettivo di Yasuda. È stato lui a fare in modo che prendessero entrambi l’Asakaze. Era certo capace di farlo.

A questo punto, però, gli si presentò un problema. Voleva che le altre due ragazze li vedessero, ma doveva far sì che tutto avvenisse in modo apparentemente casuale. Il binario quindici era quello dei treni a lunga percorrenza, e se Yasuda le avesse portate lì, avrebbe destato dei sospetti. Era necessario che li vedessero da un altro binario, e il tredici (della linea Yokosuka), quello da cui partiva per andare a trovare sua moglie a Kamakura, era la scelta più naturale e gli consentiva di non dare nel’occhio.

Ma ecco un altro problema. Dal binario tredici, il treno fermo al binario quindici non si vedeva. Tra i due binari c’era un continuo andirivieni di treni. Gliene ho già scritto. Ma a forza di cercare, ho scoperto che c’era un solo momento, ogni giorno, in cui dal binario tredici è possibile vedere il rapido per il Kyūshū fermo al quindici, e cioè i quattro minuti tra le 17:57 e le 18:01. Quattro minuti preziosi, direi fondamentali.

Prima le ho scritto che avrebbero potuto prendere qualsiasi treno per andare nel Kyūshū, ma adesso è evidente il motivo per cui doveva essere proprio l’Asakaze. Qualsiasi altro treno per il Kyūshū avrebbe mandato all’aria i piani di Yasuda. È stato un colpo di genio, da parte sua, individuare quel minuscolo intervallo che gli consentiva di procurarsi due testimoni con una tale naturalezza. Penso che anche fra i dipendenti della stazione di Tokyo non siano in molti a sapere di quei quattro minuti.

E così abbiamo appurato che la partenza di Sayama e Otoki era stata architettata da Yasuda. C’era però un fatto inspiegabile. Sei giorni dopo i due si erano tolti la vita con il cianuro ed erano stati ritrovati sulla spiaggia di Kashii distesi uno accanto all’altra. L’autopsia, così come la scena del ritrovamento (che ho potuto vedere solo in fotografia), non lasciavano spazio a dubbi: era stato un doppio suicidio.

Non capivo. Perché un uomo e una donna, che non avevano un legame amoroso, si erano suicidati insieme? Non potevano essere così folli da seguire alla lettera le istruzioni di Yasuda arrivando perfino a uccidersi. Se non fossero stati amanti, per l’ipotesi del doppio suicidio non restava alcun appiglio. In caso contrario, pensavo che soltanto un legame profondo avrebbe potuto spiegare un gesto del genere.

Se la loro partenza era stata pianificata da Yasuda, il loro suicidio sulla spiaggia di Kashii non aveva senso. Eppure non si poteva negarne l’evidenza. La contraddizione sembrava insanabile. Perché se a farli mettere in viaggio era stato Yasuda, doveva per forza avere avuto un ruolo anche nella loro morte. Ne ero sicuro. Era solo il mio istinto a suggerirmelo, ma non potevo togliermi quest’idea dalla testa. Continuavo a vedere la sua ombra aggirarsi sulla spiaggia di Kashii anche mentre seguivo le sue tracce nello Hokkaidō. Di quale fosse questo ruolo non avevo idea. Non li aveva certo indotti con l’ipnosi a suicidarsi! E due persone sane di mente non si sarebbero tolte la vita soltanto perché era stato loro ordinato di farlo. Non sapevo ancora come, ma per me Yasuda era lì. In quel luogo, quella notte.

Fortunatamente eravamo riusciti a dimostrare che mentiva riguardo allo Hokkaidō, che il venti gennaio era partito da Haneda con l’aereo delle 15:00 alla volta di Hakata, che alle 19:20 era arrivato a Itazuke e che al momento del suicidio sulla spiaggia di Kashii, intorno alle 21:00 della stessa sera, lui c’era. Ma anche così non si riusciva a provare che ci fosse un collegamento con il suicidio dei due: eravamo arrivati a un punto morto, il muro era ancora lì di fronte a noi. Le avevo pensate tutte, ma non riuscivo a vedere la soluzione.

Dopo giorni di rimuginamenti continui, sono andato in un kissaten. Adoro il caffè. Il mio capo spesso mi prende in giro per questa mia passione, fatto sta che quel giorno mi sentivo giù e sono uscito a fare due passi. Normalmente vado in un kissaten di Yūrakuchō, ma pioveva e mi sono infilato in un caffè di Hibiya, lì accanto, dove non ero mai stato prima.

Era un locale a due piani. Stavo aprendo la porta quando mi trovai a fianco una donna piuttosto giovane. Da gentiluomo le cedetti il passo. Era una bella donna, indossava un impermeabile di colore vivace. Sorrise, fece un cenno di ringraziamento, salì al secondo piano e consegnò l’ombrello alla cameriera. Io salii dopo di lei e consegnai anch’io il mio ombrello, ma la cameriera, pensando che fossimo insieme, legò gli ombrelli con un unico laccio e mi dette una targhetta numerata. La donna arrossì leggermente e io mi affrettai a dire: «Aspetti, la signorina non è con me. Siamo ognuno per conto proprio».

La cameriera si scusò, separò gli ombrelli e prese un’altra targhetta.

 

 

Si starà forse chiedendo perché mi sia messo a raccontarle di questo piccolo equivoco, ma la verità è che grazie a quell’episodio ho avuto un’intuizione inattesa. Ero salito al secondo piano, mi era stato anche portato il caffè, ma per qualche istante non lo vidi nemmeno. Mi si era accesa una lampadina. La cameriera, vedendoci entrare insieme, ci aveva scambiati per una coppia. Una cosa normale. Chiunque l’avrebbe pensato. Senza conoscere i fatti, avrebbero immaginato che eravamo una coppia soltanto perché ci trovavamo uno accanto all’altra. Ecco come stavano le cose.

Noi – e mi perdoni se includo anche lei – abbiamo sempre creduto che Sayama e Otoki si fossero suicidati insieme solo perché sono stati ritrovati uno accanto all’altra. Finalmente avevo capito. Quei due erano morti in luoghi diversi, e soltanto dopo i loro corpi erano stati riuniti nello stesso posto. Qualcuno doveva aver fatto prendere il cianuro a Sayama e successivamente il suo cadavere era stato trasportato vicino a quello di Otoki, che a sua volta era stata avvelenata con una bevanda offertale da qualcun altro. Sayama e Otoki erano due unità distinte. Trovandoli insieme, siamo tutti approdati alla conclusione sbagliata.

Vedendo quei due corpi vicini abbiamo pensato a un suicidio e siamo caduti in errore, ma non biasimiamoci per questo. I suicidi di coppia ci sono sempre stati, fin dall’antichità. Migliaia, decine di migliaia di amanti si sono tolti la vita così. Nessuno ne ha mai dubitato. Trattandosi di suicidio, e non di omicidio, l’esame autoptico è meno rigoroso e non vi è alcuna indagine. L’obiettivo di Yasuda era questo.

Ricordo quello che mi aveva scritto tempo fa nella sua lettera: «Le persone tendono ad agire sulla base di idee preconcette, a passare oltre dando troppe cose per scontate. E questo è pericoloso. Quando il senso comune diventa un dato di fatto spesso ci induce in errore», e aveva ragione. Le cose sono andate proprio così. Un uomo e una donna vengono trovati morti uno accanto all’altra. È chiaro, è un doppio suicidio: il senso comune ha il sopravvento sulla ragione, la acceca. E così abbiamo finito per fare il gioco del nemico.

Il colpevole era riuscito a ingannarci, ma aveva ancora un problema da risolvere: Sayama e Otoki non erano amanti, bisognava farli apparire come tali. Dovevano dare l’impressione di «avere una relazione». Così ha fatto in modo che le ragazze del Koyuki li vedessero partire insieme dalla stazione di Tokyo. Ha preparato ogni cosa con cura, perché il suo piano reggesse. Ma era inquieto, pieno di dubbi. Ha preso in considerazione tutte le ipotesi. E alla fine ha scoperto quell’intervallo di quattro minuti.

A pensarci bene questo caso ruota tutto, dall’inizio alla fine, intorno a orari di treni e di aerei. Ne è quasi sommerso. Come poteva Yasuda conoscerli così a perfezione? Perché un piano del genere non poteva che essere l’opera di qualcuno che nutriva per quegli orari una vera passione. Lasciamo per un istante da parte il problema di come siano morti Sayama e Otoki e concentriamoci su questo.

C’era una donna che continuava ad affiorare nei miei ricordi. Aveva un bizzarro interesse per gli orari ferroviari. Ne ha scritto perfino in un racconto che ha pubblicato su una rivista. Con la sua scrittura poetica, riusciva a rendere più avvincenti di un romanzo tutte quelle cifre che a chiunque altro sarebbero sembrate aride e insignificanti. Lei invece leggeva quei numeri e già si sentiva in viaggio: era questa sensazione ad animare la sua scrittura. Costretta a letto da tempo per via di una tubercolosi polmonare, quei libretti degli orari ferroviari erano per lei quasi come una Bibbia, dei compagni fedeli in cui trovava conforto, mentre i grandi classici erano diventati ormai soltanto fonte di noia. Si tratta della moglie di Yasuda, che malata vive in una casa di famiglia a Kamakura. Il suo nome è Ryōko.

Si sente spesso dire che le persone che soffrono di polmoni abbiano una mente morbosamente lucida. E Ryōko, la moglie di Yasuda, quali pensieri covava dietro quel volto così pallido? O forse non è di pensieri che dovrei parlare, ma di calcoli. Seguendo quelle infinite combinazioni di numeri, continuava a comporle e scomporle nella sua mente, a tracciare linee, a formare diagrammi, come in una sorta di meditazione.

Così ho pensato che anche il nostro caso non fosse in realtà una macchinazione di Yasuda, bensì un’idea di Ryōko.

A questo punto tornavano in gioco le due coppie arrivate la sera del suicidio alle stazioni di Kashii, quella delle ferrovie nazionali e la Nishitetsu. Una era certamente formata da Sayama e Otoki. E se gli altri due fossero Yasuda e sua moglie Ryōko? Sembrava un’ipotesi plausibile. In realtà poi ho capito che le cose stavano così solo a metà.

Me lo aveva scritto anche lei nella sua lettera: «Resterebbe da chiedersi quale ruolo avesse la donna che era con Yasuda. In altre parole, se quella del doppio suicidio è stata una messinscena, perché Yasuda aveva bisogno di lei? Il piano che aveva architettato dunque necessitava della presenza di un’altra donna».

Ho pensato che avesse ragione e immaginando chela donna misteriosa fosse Ryōko ho deciso di riesaminare con cura tutti i suoi movimenti. Lei, però, era una donna malata. Poteva anche essere l’ideatrice del piano, ma quanto alla sua attuazione? Come le sarebbe stato possibile, per esempio, spostarsi da Kamakura fino al Kyūshū?

Allora sono tornato a Kamakura e ho incontrato di nuovo il suo medico. Lui mi aveva detto che Ryōko non era costretta a stare sempre a letto, e aveva aggiunto che di tanto in tanto andava a trovare alcuni parenti a Yugawara. Quando gli domandai dove fosse intorno al venti gennaio, lui rispose che dal diciannove al ventuno era stata fuori. Stava scritto sul registro delle visite. Il medico andava da lei soltanto due volte a settimana e l’aveva visitata il ventidue. Quel giorno Ryōko aveva la febbre, e quando il medico le aveva chiesto cosa avesse fatto aveva risposto: «Il diciannove sono andata a Yugawara e sono rientrata stamattina: forse ho esagerato».

Ci siamo, pensai. Partendo la sera del diciannove sarebbe potuta arrivare a Hakata il giorno successivo. Dunque, poteva trovarsi sul luogo del suicidio all’ora in cui era avvenuto. Mentiva riguardo a Yugawara. Capii che era andata in Kyūshū.

A questo punto ho contattato di nascosto la sua vecchia governante e l’ho messa sotto torchio. Alla fine ha ceduto e mi ha detto che alle due del pomeriggio Ryōko si era fatta portare a Yugawara con un’auto a noleggio. E così sono partito alla ricerca dell’autista.

 

 

L’autista mi disse che l’accordo era di portare Ryōko a Yugawara. Una volta arrivati a destinazione, però, Ryōko gli aveva ordinato di portarla ad Atami. Giunti al ryokan Kaifūsō, l’aveva aiutata a scendere ed era ripartito.

Ero senza fiato. Inutile dirle che mi sono subito precipitato ad Atami e ho cercato il Kaifūsō. Ed ecco cosa ho scoperto. Ryōko si era vista con la cliente della stanza «Kaede». La cliente era arrivata, da sola, la sera del quattordici gennaio dopo le otto e si era fermata per cinque giorni. A giudicare dall’età e dalla descrizione del suo aspetto, poteva trattarsi soltanto di Otoki. Sul registro degli ospiti ovviamente figurava sotto falso nome. Ma quel nome, pensi un po’, era «Sugawara Yukiko». E Sugawara era lo stesso cognome usato da Sayama all’albergo di Hakata. Arrivata al Kaifūsō, Ryōko chiese perciò della signora Sugawara. Era chiaro dunque che Sayama, Otoki e Ryōko si erano messi d’accordo. O meglio, più che di un accordo si trattava di un piano architettato da Ryōko. Le due donne avevano cenato insieme e lasciato il ryokan intorno alle dieci. Fu Ryōko a pagare il conto di Otoki.

Quindi sappiamo che Otoki arrivò al ryokan la sera del quattordici verso le otto e mezzo. L’Asakazefermava ad Atami alle 19:58, il che significava che la donna aveva effettivamente preso il treno a Tokyo insieme a Sayama, ma era scesa prima di lui. La sua ipotesi basata sul famoso «tavolo per uno» era fondata.

Il diciannove, dopo le dieci, le due donne avevano lasciato il ryokan. Stando all’orario dei treni, c’era il rapido Tsukushi che partiva da Atami alle 22:25 e arrivava al capolinea, la stazione di Hakata, il venti alle 19:45.

Tutto tornava. La telefonata al Tanbaya da parte della donna che chiedeva di Sayama era stata fatta proprio il venti intorno alle otto, si ricorda? Significava che gli avevano telefonato subito dopo essere scese dal treno.

Fin qui ero riuscito a ricostruire i fatti, ma poi mi ero arenato. Era stata Otoki o Ryōko a telefonare a Sayama? Inizialmente credevo fosse stata Otoki, ma c’era qualcosa che non mi convinceva. Se tra Sayama e Otoki non c’era nulla, perché lui avrebbe dovuto aspettarsi una sua telefonata? Considerando la trepidazione con cui per quasi una settimana Sayama l’aveva attesa, mi sembrava strano che potesse trattarsi di Otoki. L’idea che fosse Ryōko, invece, mi pareva plausibile. Il motivo è semplice: Ryōko era la moglie di Yasuda e quindi poteva contattarlo «al suo posto». Significa che in realtà Sayama era in attesa dell’arrivo di Yasuda. Ecco perché, sentendo che Ryōko era venuta in sua vece, si precipitò a raggiungerla.

I due si incontrarono e lei lo informò su quello che più di ogni altra cosa lo preoccupava. Ma solo dopo averlo portato alla spiaggia di Kashii. Non so cosa gli abbia potuto raccontare per convincerlo, ma sicuramente gli avrà detto che dovevano parlare in segreto, in un luogo lontano da occhi indiscreti. La spiaggia di Kashii era il posto perfetto.

Ciò che stava a cuore a Sayama erano gli sviluppi del caso di corruzione al ministero. Per via del suo ruolo, era al corrente di molti particolari importanti e stava per essere coinvolto nelle indagini. Ishida lo aveva convinto a rifugiarsi a Hakata per prendersi una «pausa». C’era proprio lui al centro dello scandalo, e aveva trascinato con sé anche Sayama, mettendolo in una brutta situazione. Ecco perché lo aveva persuaso a sparire. Gli aveva persino suggerito l’Asakaze come treno da prendere il quattordici. E poi gli aveva ordinato di chiudersi in albergo e aspettare l’arrivo di Yasuda.

Sayama aveva obbedito all’ordine del suo superiore. Non lo si può biasimare. Temeva di ritrovarsi nei guai, ora che l’onestà di Ishida era stata messa in discussione. Chiunque altro, nella sua posizione, si sarebbe comportato nello stesso modo. C’è persino chi si toglie la vita. Ed è proprio al suo suicidio che miravano i colpevoli.

Ishida gli aveva detto che Yasuda avrebbe cercato di calmare le acque e gli aveva consigliato di starsene per qualche tempo in disparte. Sayama attese dunque con ansia Yasuda. Ma Yasuda non si fece vivo, e «al suo posto» arrivò Ryōko. Sayama era stato a casa di Yasuda e conosceva Ryōko già da prima. Anzi, Yasuda doveva aver pianificato tutto, e averlo portato a Kamakura appositamente per fargliela conoscere.

I due presero il treno a Hakata e scesero alla stazione di Kashii delle ferrovie nazionali. Senza sapere che, poco dopo, Yasuda e Otoki sarebbero arrivati alla stazione Nishitetsu e avrebbero percorso lo stesso tratto di strada fino alla spiaggia. O meglio, era Sayama a non saperlo: Ryōko era al corrente di tutto.

Una volta arrivati sul posto lei lo tranquillizzò, dicendogli che ogni cosa si era sistemata per il meglio. Era una notte molto fredda e sapendo che Sayama amava bere gli offrì del whisky. Lui lo mandò giù senza sospettare nulla, ma dentro c’era il cianuro e crollò a terra esanime. La bottiglietta di succo di frutta ritrovata sulla spiaggia accanto al suo corpo deve essere stata un’altra idea di Ryōko.

Nel frattempo era arrivato anche Yasuda, atterrando alle 19:20 con un volo da Tokyo, si era visto con Otoki da qualche parte e adesso erano insieme. Otoki evidentemente sapeva dove incontrarlo, perché glielo aveva detto Ryōko. Quindi Yasuda arrivò sulla spiaggia insieme a lei. Lungo la strada un passante l’aveva sentita dire: «Che posto desolato però, non ti pare?».

Su quella spiaggia solitaria e deserta, Yasuda offrì a Otoki del whisky avvelenato, come sua moglie aveva fatto con Sayama. Poi prese il cadavere e lo sistemò accanto a quello di lui. Là c’era anche Ryōko. Probabilmente i due omicidi si sono consumati a non più di venti metri di distanza l’uno dall’altro. Nel buio, Otoki non aveva visto nulla. Dopo averla uccisa, Yasuda deve aver chiamato sua moglie e nell’oscurità l’ha sentita rispondere. Quindi ha trasportato il corpo esanime di Otoki avanzando nella direzione da cui proveniva la voce di Ryōko, e dove già si trovava il cadavere di Sayama. Una scena da gelare il sangue.

Provi a immaginare. Quel posto – mi ci ha condotto proprio lei – è una spiaggia completamente rocciosa. Non restano impronte nemmeno se si trascinano dei pesi. Si prestava alla perfezione al piano dei due assassini. Sicuramente Yasuda doveva conoscerla già da prima, ecco perché l’ha scelta come luogo per l’omicidio.

I coniugi decisero di comune accordo di farlo sembrare un doppio suicidio. Ryōko non era stata soltanto l’ideatrice del piano, ma in parte ne era stata anche l’esecutrice. Mentre Otoki, ingenuamente, non aveva fatto che obbedire alle istruzioni che quei due le avevano dato.

Quello che più mi lasciava interdetto era proprio il legame tra i coniugi Yasuda e Otoki. Come avrà già capito, con ogni probabilità Yasuda e Otoki avevano una relazione che era stata tenuta segreta e di cui nessuno sapeva nulla. Si erano conosciuti al Koyuki, dove la ragazza veniva spesso assegnata al tavolo di Yasuda. L’uomo che la chiamava al telefono e con il quale ogni tanto trascorreva la notte, doveva essere proprio lui.

Ma era il comportamento di Ryōko a sembrarmi il più enigmatico. Perché incontrarsi con l’amante del marito, prendere il treno insieme a lei e trattarla in modo così confidenziale?

Tutto mi è stato chiaro quando ho saputo che Ryōko pagò il conto di Otoki all’albergo di Atami. Ryōko sapeva ogni cosa. Era lei a corrispondere a Otoki la sua paga mensile. Deve pensare che, per via della sua malattia, il medico le aveva vietato qualsiasi tipo di rapporto con il marito. Quindi Otoki era l’amante autorizzata di Yasuda. Era un legame anomalo. Noi ce ne stupiamo, ma in realtà situazioni del genere sono meno rare di quanto si possa immaginare. Sono il retaggio di un passato feudale.

Probabilmente all’inizio avevano pianificato soltanto l’omicidio di Sayama. Ma sarebbe stato molto rischioso. Senza neanche un biglietto d’addio, la messinscena del suicidio sarebbe risultata piuttosto sospetta. Per questo hanno pensato a un «doppio suicidio». In quei casi le indagini sono molto meno approfondite, così come l’autopsia. E spesso non viene nemmeno aperta un’inchiesta. Insomma sarebbe stato un omicidio privo di rischi. Fatalmente, la povera Otoki è stata scelta per interpretare la parte dell’amante.

Yasuda non era molto legato a lei. Non avrebbe avuto difficoltà a trovare altre donne in grado di soddisfare i suoi «bisogni fisiologici». Ryōko, da parte sua, considerava Otoki uno strumento nelle mani del marito, e decise che lo sarebbe stato anche in quell’occasione. In fondo al proprio cuore non poteva che odiarla. Era una donna temibile. Capace di pensare a mente fredda e di agire a sangue freddo. Fu lei a sistemare il kimono di Otoki, a sostituire i suoi tabi sporchi di sabbia con un paio di tabi puliti che aveva portato con sé e a curare ogni dettaglio per far sì che il cadavere della ragazza facesse pensare a un suicidio pianificato da tempo.

Quella notte la coppia restò a dormire a Hakata, dopodiché Yasuda si imbarcò sul primo aereo per Tokyo e da lì per Sapporo, mentre Ryōko tornò in treno a Kamakura.

Quanto al motivo per cui Yasuda fece passare quasi una settimana prima di raggiungere Sayama a Fukuoka, è che sapeva che se si fosse allontanato prima da Tokyo qualcuno avrebbe potuto sospettare di lui. Infatti, nei due o tre giorni successivi al quattordici, si fece anche vedere spesso al Koyuki, dove ascoltò senza batter ciglio le altre ragazze che, ignare di tutto, parlavano di Otoki in viaggio con il suo amante. Voleva dare a ogni costo l’impressione di essere estraneo ai fatti. Per questo l’aveva lasciata ad aspettare per cinque giorni ad Atami.

E così, dietro richiesta di Ishida, Yasuda si era sbarazzato di Sayama e aveva messo al sicuro l’intera sezione. Non era infatti solo Ishida a poter tirare un sospiro di sollievo, ma tutti i superiori di Sayama. Al tempo stesso, ora l’azienda di Yasuda si trovava nella posizione di aver fatto un grosso favore al ministero.

I rapporti tra Yasuda e Ishida erano molto più stretti di quanto trapelasse all’esterno. Yasuda deve aver fatto di tutto per entrare nelle grazie di Ishida al solo scopo, come ovvio, di favorire l’espansione della propria azienda grazie alle commesse del ministero. E sicuramente non saranno mancate feste e regali. D’altronde il caso di corruzione su cui si sta indagando la dice lunga su che personaggio sia Ishida. Fino a quel momento non esistevano ancora grandi relazioni commerciali tra le due parti. Ma Yasuda ha saputo utilizzare tutto il suo talento allo scopo di ricevere, a tempo debito, favori importanti dal ministero, e alla fine è riuscito a portarli dove voleva. Era consapevole che le indagini avrebbero potuto coinvolgere anche lui e si è assunto la responsabilità di mettere fuori gioco la pedina più pericolosa di tutte: il vice-capo di sezione Sayama. Anzi, è probabile che sia stato lo stesso Yasuda a dare l’idea a Ishida, e a convincerlo di lasciar fare a lui.

Per la verità non penso che all’inizio Ishida avesse intenzione di uccidere Sayama. Piuttosto avrebbe voluto indurlo al suicidio, come le tante altre vittime di casi del genere. Ma non sembrava possibile.

Yasuda ha quindi escogitato un omicidio mascherato da suicidio. E un suicidio è più credibile se si è in due. Se ci si uccide da soli c’è sempre il rischio che qualcuno pensi a un omicidio, mentre se si muore insieme a una donna il rischio è assai minore. Aveva colto nel segno. Fu proprio quello a trarre in inganno gli investigatori.

Forse Ishida, non immaginando che Yasuda volesse uccidere Sayama, ma persuaso che si trattasse di una manovra per spingerlo a suicidarsi, ha seguito le sue indicazioni procurandogli la carta d’imbarco per il traghetto, le prenotazioni dei voli sotto falsi nomi e la missione in Hokkaidō. Un alto funzionario di un ministero può fare viaggi di lavoro quando vuole e non ha difficoltà a portarsi dietro un segretario.

In seguito però, quando venne a sapere che «Sayama si era tolto la vita insieme a una donnaingerendo del cianuro», Ishida deve essere impallidito. Capì che era stato Yasuda a ucciderli. A quel punto era lui a tenere il coltello dalla parte del manico, e Ishida era in suo potere. Si sentiva minacciato, e sotto le pressioni di Yasuda inviò il segretario Sasaki al commissariato perché testimoniasse in suo favore. Ma quella mossa si rivelò l’inizio della fine.

Yasuda si era ormai stancato di Otoki e non ha esitato a usarla per quell’omicidio. Quanto a Ryōko, credo che ci fosse ben altro che la volontà di aiutare suo marito. Voleva ucciderla. È vero, era l’amante autorizzata, ma restava una rivale. Una donna come lei, che non era più in grado di soddisfare i desideri del marito, doveva provare una gelosia incontenibile. Una fiamma, pallida come fosforo, dovette bruciare a lungo dentro di lei, in attesa di divampare alla prima occasione propizia. Senza voler sminuire la morte di Sayama, credo che l’autentica vittima, in tutta questa storia, sia Otoki. Forse lo stesso Yasuda non sapeva quale era stata la sua vera mira: uccidere Sayama per fare un favore a Ishida, o liberarsi di Otoki, ormai divenuta solo un peso.

Queste erano le mie ipotesi, avvalorate in seguito, anche se solo in parte, dal messaggio di addio dei coniugi Yasuda. Sì, perché Yasuda Tatsuo e sua moglie Ryōko si sono tolti la vita nella loro casa di Kamakura poco prima che andassimo ad arrestarli. Hanno preso entrambi del cianuro. Stavolta non era una messinscena.

Yasuda sapeva che gli stavamo alle costole. E ha messo fine alla vita della moglie, la cui malattia nel frattempo si era aggravata, e alla propria. Lui non ha lasciato messaggi, ma Ryōko sì. Diceva che morivano nella consapevolezza delle proprie colpe. Non so se crederle. Mi sembra strano che un uomo solido come Yasuda possa aver deciso di togliersi la vita. Credo piuttosto che Ryōko, sapendo che non avrebbe vissuto ancora a lungo, abbia architettato qualcosa per trascinare il marito via con sé. Quella donna era capace di tutto.

A dire il vero, però, la loro morte è stata per me un sollievo. Perché, vede, prove oggettive non ce n’erano. Avevamo solo prove indiziarie. Fu già un miracolo essere riusciti a ottenere un mandato d’arresto. Non so come sarebbe andata a finire se ci fosse stato un processo.

E a proposito di prove, non ne avevamo neanche a carico di Ishida. In seguito allo scandalo è stato trasferito a un’altra sezione che, pare, è anche migliore della precedente. Cosa vuole che le dica, il mondo dei funzionari ministeriali è pieno di misteri. C’è da aspettarsi che in futuro diventi direttore generale, poi sottosegretario e alla fine magari entri anche in parlamento. Il tutto a scapito dei dipendenti sacrificati alla sua ambizione. Quando un superiore mette gli occhi su di loro, quelli si sentono al settimo cielo. La «carriera» è veramente una cosa triste. Ah, dimenticavo: il segretario Sasaki Kitarō, che per aiutare Ishida si era prestato a fargli da complice, è diventato capo di sezione. E noi, adesso che i coniugi Yasuda sono morti, non possiamo fare altro che stare a guardare.

Questo caso mi ha lasciato davvero l’amaro in bocca. Stasera, mentre rientrato a casa mi rilassavo bevendo la mia birra fresca, non riuscivo proprio a sentire quella soddisfazione che in genere provo quando chiudo un’indagine e spedisco i colpevoli dal procuratore.

Mi perdoni se mi sono dilungato così tanto, spero di non averla annoiata.

Rispondendo al suo gentile invito, le prometto che il prossimo autunno mi prenderò qualche giorno di vacanza e verrò a trovarla in Kyūshū insieme a mia moglie.

Si riguardi, e attento ai malanni di stagione.1

 

Mihara Kiichi

GLOSSARIO

bancha  varietà di tè verde poco raffinato e di sapore piuttosto amaro.

-chan  suffisso posposto al nome di persone, più spesso bambini e giovani donne, con le quali si intrattengono rapporti particolarmente confidenziali.

chanchanko  giacca di spesso cotone, con o senza maniche e imbottita, che si indossa sopra i vestiti nei mesi più freddi.

fusuma  pannelli scorrevoli formati da fogli opachi di carta di riso, talvolta dipinti, fissati su una struttura in legno. Montati su apposite guide, fungono da pareti divisorie tra una stanza e l’altra della casa tradizionale.

Goemon  tipo di vasca da bagno, di forma circolare, il cui nome rimanda alla figura semileggendaria di Ishikawa Goemon (1558-1594), un criminale del periodo Tokugawa (1600-1868) che fu bollito vivo in una vasca da bagno, come punizione per aver tentato di assassinare il condottiero Toyotomi Hideyoshi (1537-1598).

haiku  composizione poetica indipendente di 17 sillabe sullo schema metrico 5-7-5. Vide la massima fioritura nel periodo Tokugawa (1600-1868) e a Matsuo Basho (1644-1694), Yosa Buson (1716-1784) e Kobayashi Issa (1763-1828) si devono i contributi più significativi. Nel corso del XX secolo l’influenza dello haiku si è estesa anche all’estero, per esempio tra gli autori della Beat Generation.

Hakata dontaku  festa tradizionale che si tiene a Fukuoka il 3 e il 4 maggio di ogni anno, con danze e sfilate di carri decorati con fiori e installazioni luminose. La parola «dontaku» deriva dall’olandese zontag (domenica).

Kenkō  Yoshida Kenkō (1284-1350), discendente di una famiglia di sacerdoti shintoisti, servì per qualche tempo a corte finché, per ragioni non ancora certe, intorno ai trent’anni diventò monaco buddhista. Visse, tuttavia, sempre nei pressi della capitale e continuò a intrattenere rapporti con esponenti dell’élite militare e politica. La sua opera più celebre, lo Tsurezuregusa (Ore d’ozio) è una raccolta di brevi saggi (zuihitsu) risalente alla prima metà del XIV secolo, che esprime una visione nostalgica e trasmette un’idea di natura come rifugio e conforto. Temi portanti dell’opera sono la morte e il senso di impermanenza, affrontati sia in un’ottica buddhista che secolare.

kissaten  locali in cui è possibile consumare bevande calde e fredde, snack e pasti leggeri.

Kume Masao   scrittore nato nel 1891 e morto nel 1952. Esordì come drammaturgo dalle colonne della rivista Shinshich per poi approdare alla prosa all’inizio degli anni Venti. Il romanzo Hasen (Il naufragio, 1922), in particolare, segnò l’inizio di una carriera come scrittore di narrativa popolare. Dopo il terremoto del Kantdel 1923 si trasferì nella vicina cittadina di Kamakura, come molti altri intellettuali del tempo, contribuendo alla fondazione del locale Pen Club.

ryokan  albergo in stile tradizionale, spesso a conduzione familiare, arredato con tatami (>) e futon.

-san  suffisso che si pospone al cognome o al nome di una persona in segno di rispetto. È, tuttavia, meno formale di -sama.

sashimi  fettine di pesce crudo che si consumano con un intingolo a base di salsa di soia.

tabi  calzini in cotone con una cucitura tra alluce e indice che permette di indossarli con sandali infradito.

tatami stuoie di paglia dalle dimensioni standard di 90 ×180 cm che ricoprono i pavimenti della casa tradizionale. Costituisce anche l’unità di misura per le stanze.

tempura  piatto composto di vari ingredienti, generalmente pesce, verdure e alghe, passati in una pastella a base di farina e fritti. Si consuma con un intingolo denominato tempura-tsuyu, e preparato con salsa di soia, aceto di riso e altri aromi.

waka  poesia tradizionale giapponese i cui versi si basano sullo schema sillabico 5-7-5-7-7.