K.
Roberto Calasso
I
IL SOVRANO SATURNINO
[15] All’inizio c’è un ponte di legno coperto dalla neve. Nebbia spessa. K. alza gli occhi «verso quello che in apparenza era il vuoto», in die scheinbare Leere. Alla lettera: «verso il vuoto apparente». K. sa che in quel vuoto c’è qualcosa: il Castello. Non l’ha mai visto prima, forse non vi metterà mai piede.
Kafka intuì che del mondo circostante ormai andava nominato il numero minimo di elementi. Un affilatissimo rasoio di Occam affondava nella materia romanzesca. Nominare il minimo e nella sua pura letteralità. Perché questo? Perché il mondo tornava a essere una foresta primordiale, troppo carico di suoni ignoti e apparizioni. Tutto aveva troppa potenza. Perciò occorreva limitarsi a ciò che più era vicino, circoscrivere l’area del nominabile. Allora lì sarebbe defluita tutta la potenza, altrimenti diffusa. E in ciò che si nomina – una taverna, una pratica, [16] un ufficio, una stanza – si sarebbe addensata un’energia inaudita.
Kafka parla di un mondo precedente a ogni separazione e denominazione. Non è un mondo sacro o divino, né un mondo abbandonato dal sacro o dal divino. È un mondo che deve ancora riconoscerli, distinguerli dal resto. O che non sa più riconoscerli, distinguerli dal resto. C’è una sola compagine, che è solo potenza. Il bene nella sua pienezza, ma anche il male nella sua pienezza vi sono compenetrati. L’oggetto di cui Kafka scrive è la massa della potenza, ancora non dissociata, sceverata nei suoi elementi. È il corpo informe di Vṛtra, che trattiene le acque, prima che Indra lo trapassi con la folgore.
L’invisibile ha una beffarda tendenza a presentarsi come il visibile, quasi si distinguesse da tutto il resto soltanto per via di particolari circostanze, come il diradarsi di una nebbia. Così si è indotti a trattarlo come il visibile – e subito si viene puniti. Ma l’illusione rimane.
Il processo e Il Castello sono storie in cui si tratta di sbrigare una pratica: svincolarsi da un procedimento penale, avere conferma di una nomina. Il punto attorno a cui tutto ruota è sempre l’elezione, il mistero dell’elezione, la sua oscurità inscalfibile. Nel Castello, K. vuole l’elezione – e questo complica infinitamente ogni atto. Nel Processo, Josef K. vuole sottrarsi all’elezione – e questo complica infinitamente ogni atto. Essere prescelti, essere condannati: due modalità dello stesso procedimento. Il rapporto di Kafka con [17] l’ebraismo, che è stato indagato in ogni recesso, con accanimento spesso vano, è percepibile soprattutto in questo punto, che segna la differenza essenziale fra l’ebraismo e ciò che lo circondava. Ben più che il monoteismo o la legge o la superiore moralità. Dopo tutto, per ciascuno di questi caratteri si possono trovare precedenti o contrappesi egizi, mesopotamici, greci. Mentre l’insistenza sull’elezione: quella sì è unica – e fondata su una teologia dell’unico.
Il tribunale ha il potere di punire. Il Castello, quello di eleggere. I due poteri sono pericolosamente vicini, a tratti coincidenti. Nessuno più di Kafka, per atavismo e per vocazione, aveva antenne per riconoscerli. Per nessuno quella adiacenza e quella sovrapposizione erano altrettanto familiari. Ma non si trattava solo di un retaggio ebraico. Era cosa di tutti e di sempre.
Il processo e Il Castello hanno un identico presupposto: che l’elezione e la condanna non si distinguono quasi. Quel quasi è il motivo per cui i romanzi sono due e non uno. L’eletto e il condannato sono i prescelti, coloro che vengono isolati fra tanti, fra tutti. Da quell’isolamento ha origine l’angoscia che li avvolge, qualsiasi sia la loro sorte.
La principale differenza sta in questo: la condanna è sempre certa, l’elezione sempre incerta. Ignoti si presentano nella camera da letto di Josef K., divorano la sua prima colazione e gli notificano che un procedimento penale è in atto contro di lui. Il procedimento è già in sé la condanna. E nulla potrebbe essere indubitabile come quella irruzione davanti a testimoni. Quanto a K., invece, sussiste un [18] dubbio: la nomina ad agrimensore gli è mai arrivata? K. è stato chiamato o ha soltanto voluto essere chiamato? È il legittimo titolare di una carica, per quanto modesta – o è un millantatore che dà per acquisito qualcosa che non lo è affatto? Su questo punto K., che è agile e tenace nelle sue analisi, si dimostra sfuggente. Rimane fumoso ciò che è avvenuto prima del «lungo, difficile viaggio» che lo ha condotto verso il Castello. Aveva ricevuto una convocazione – o si era messo in viaggio appunto per ottenerla? Non vi è modo di saperlo con sicurezza. Ma vi sono molti modi per aggravare ed esasperare l’incertezza.
Così parla il sovrintendente del villaggio a K.: «Lei è stato accettato come agrimensore, come lei dice, ma purtroppo non abbiamo bisogno di un agrimensore». La crudeltà non sta nella conclusione della frase, ma in quel trafiggente «come lei dice». Né le autorità del Castello ammetteranno mai altro, lasciando aperta fino all’ultimo la possibilità che la convinzione di K. sia un delirio o una semplice impostura.
Certo è soltanto un fatto, come aggiunge il sovrintendente, che comunque tiene a precisare di essere «non abbastanza funzionario» – e perciò non all’altezza di tali questioni –, poiché è un «contadino e null’altro». E il fatto è questo: un giorno lontano è stato emanato un decreto che ordinava di nominare un agrimensore. Ma quel remoto decreto, che il sovrintendente avrebbe senz’altro dimenticato se la malattia non gli avesse offerto l’occasione di «riflettere sulle cose più risibili», non poteva in alcun modo riguardare la persona di K. Come tutti i decreti, planava al di sopra di cose e persone, senza indicare a chi e quando sarebbe stato applicato. Da allora, quel decreto giace fra le carte [19] stipate nell’armadio della camera da letto del sovrintendente. Sepolto in quel luogo intimo e inappropriato, ha però mantenuto la sua energia irradiante.
Ma il tormento dell’incertezza non finisce mai. Da una parte il sovrintendente continua a parlare con K., dando per sottinteso che K. ha buone ragioni per interrogarlo. Dall’altra non si spinge mai fino a riconoscere la legittimità della pretesa di K. – e sappiamo per lo meno da Hegel che essenziale per l’animale uomo è soltanto il riconoscimento. Così prosegue il sovrintendente: «Anche la sua chiamata venne ben ponderata, furono soltanto alcune circostanze collaterali a creare confusione». La chiamata di K. fu dunque sicuramente oggetto di riflessione, da parte delle autorità. Ma quale fu la conclusione? K. venne mai chiamato? Questo il sovrintendente si guarda bene dal dirlo.
Un grado ulteriore del tormento si mostra quando il sovrintendente – nel ricostruire la complicata vicenda del decreto per nominare un agrimensore e della mancata risposta che esso aveva ricevuto dal villaggio attraverso il sovrintendente stesso (mancata risposta testimoniata, secondo la ricostruzione, da una «busta vuota» nascosta da qualche parte) – lascia capire che talvolta, proprio «quando una faccenda è stata ponderata molto a lungo», può persino accadere che essa venga risolta «fulmineamente», «come se l’apparato dell’autorità non tollerasse più la tensione», la protratta esacerbazione della questione irrisolta, e perciò procedesse a liquidarla giungendo a una decisione «senza l’aiuto dei funzionari». Una tale possibilità, dunque, sussiste. Ed è lo stesso sovrintendente ad ammetterla. Ma è forse questo che è avvenuto nel caso di K.? Qui ancora una volta il sovrintendente si ritrae e non concede garanzie: «Non so [20] se una tale decisione sia stata presa nel suo caso – ci sono elementi a favore, altri contro».
Quanto alle altre due prove della sua nomina a cui K. si appella – la lettera del funzionario Klamm, a lui indirizzata, e la telefonata al Castello, avvenuta appena era arrivato all’Osteria del Ponte –, anche a queste, anzi soprattutto a queste, si applica il dubbio. La lettera di Klamm è palesemente (lo indica già l’intestazione) una lettera privata, perciò non può valere in alcun modo come dichiarazione dell’autorità, anche se la sua importanza può essere enorme per altri motivi. E la comunicazione telefonica non può che essere ingannevole, perché «non c’è nessun preciso collegamento telefonico con il Castello». Il mormorio, il canto che promana dagli apparecchi e si avverte appena sollevato un ricevitore nel villaggio, è l’unica forma acustica in cui si manifesta il Castello: forma indistinta – e soprattutto non linguistica. È una musica composta di parole che ritornano alla loro origine di pura materia sonora, precedenti e sottratte a ogni significato. Il Castello comunica con l’esterno attraverso un suono continuo e indecifrabile. «Tutto il resto è ingannevole» aggiunge il sovrintendente. Quindi in primo luogo la parola chiara e limpida. Arrivato a questo punto, come un grande accademico che chiude un seminario con gli studenti e li rimanda a un’altra sede e a un altro ciclo dei loro studi per continuare la discussione, il sovrintendente dice a K.: «Lei dovrebbe ormai sapere che la questione della sua chiamata quaggiù è troppo difficile perché possiamo darle una risposta qui nel corso di una piccola conversazione». Ma tutta la vita è una «piccola conversazione». E con questo viene riaffermato per un’ultima volta il principio dell’incertezza insopprimibile dell’elezione.
[21] I mondi del Processo e del Castello sono paralleli a qualsiasi altro mondo, ma non fra loro. Anzi, sono la prosecuzione l’uno dell’altro. Josef K. diventa K. In mezzo, una condanna e una esecuzione capitale. Ma la storia è la stessa – e continua. Ora non c’è qualcuno che viene a cercare Josef K., ma è K. a muoversi per cercare qualcosa. I termini si invertono. Il clima cambia, ma rimane affine. Donne, funzionari, vestiti. Lunghi dialoghi con sconosciuti, spesso terribilmente intimi. Un sentimento tenace di estraneità. «Non conosco ancora con sufficiente precisione il vostro sistema giudiziario» dice Josef K. – eppure in quel momento si trova in un quartiere periferico della sua città, il cui sistema giudiziario è abituato ad applicare ogni giorno, in quanto procuratore bancario. È come se vigessero due leggi simultanee e incompatibili. Questo è strano, ma tale non sembrerà, molto presto, a Josef K. E non solo a lui: anche al lettore. Fatto ancora più singolare. Nulla è così distante dal Processo quanto la sensazione del fantastico, del visionario e dello «straordinario» nel senso di E.A. Poe. Per chi legge, il sospetto costante è che si tratti di verismo. La lettura coglie il lettore di sorpresa così come la guardia Franz, con il suo «vestito da viaggio», coglie di sorpresa Josef K. nel momento «più rischioso fra tutti»: quello del risveglio. Il momento in cui si può essere facilmente «trascinati via», se non si è preparati. E nessuno, al risveglio, è preparato. Bisogna almeno trovarsi già in un ufficio, per esserlo. Come dice K. alla signora Grubach, «per esempio in banca sono preparato, lì qualcosa del genere non potrebbe mai succedermi».
Il processo e Il Castello avvengono all’interno di una stessa vita psichica. Dopo l’esecuzione della condanna, [22] Josef K. riappare sotto il nome K. e si allontana dalla grande città. Il Castello è il bar-do di Josef K.
Il mondo del bar-do – quello «stato intermedio» che il Libro Tibetano dei Morti insegna ad attraversare – non si presenta drasticamente diverso dal mondo dei vivi. Ma non concede facilmente il ritorno. Quando Frieda fantastica di fuggire con K., magari «nella Francia del Sud o in Spagna», le sue parole suonano estreme e irrealizzabili, come quelle di chi dicesse che agognerebbe di vivere nell’Egitto dei faraoni. Entrare nel bar-do, come mettere piede nel sogno, richiede solo una lieve torsione di ciò che è, ma irreversibile e tale da squilibrare tutti i rapporti. Fra le procedure del tribunale nella città di Josef K. e quelle dell’amministrazione del Castello sussiste un’evidente consanguineità. Nulla ci assicura però che i loro fini convergano. Sicure sono soltanto certe differenze di stile: al Castello non occorre né espellere né uccidere, come ancora usa il tribunale del Processo, forse più primitivo. Al Castello basta che la vita scorra. Il puro passare del tempo è il giudizio.
Ciò che distingue Il processo e Il Castello è che, dalla prima all’ultima riga, si svolgono sulla soglia del mondo ulteriore che si sospetta implicito in questo mondo. Mai quella soglia era stata una linea tanto sottile, che si incontra ovunque. Mai quei due mondi si erano tanto avvicinati, sino a dare l’impressione terrorizzante di combaciare. Di quel mondo ulteriore non sappiamo dire con sicurezza se sia buono o malvagio, celeste o infernale. L’unica evidenza è qualcosa che si impone e ci avvolge. Come K., alterniamo [23] sprazzi di lucidità e lassi di torpore, talvolta scambiando gli uni per gli altri, senza che alcuno abbia l’autorità per correggerci.
Rispetto a ogni altro personaggio di romanzo, K. è la potenzialità stessa. Per questo il suo aspetto non può mai essere descritto, né direttamente né indirettamente. Non sappiamo neppure se ha «occhi scuri» come Josef K., che è il suo predecessore. E non perché K., come Klamm, subisca continue metamorfosi. Ma perché K. è la forma di ciò che avviene.
Dicembre 1910, periodo di aridità e cupezza. Ora il diario serve a Kafka soprattutto per registrare osservazioni sulla propria incapacità di scrivere. «Con che cosa giustifico il fatto che oggi non ho ancora scritto nulla? Con nulla» si legge in un frammento. E subito dopo: «Ho continuamente nell’orecchio una invocazione: “O tu venissi, tribunale invisibile!”».
Con quelle parole, come se ricorresse a un potente sortilegio della mano sinistra, Kafka varca una soglia, entra nel recinto del Processo e del Castello – ma anche di tutto il resto della sua opera. Quello è il luogo del suo scrivere, nell’attesa di una condanna e nelle more di una pratica interminabile. Luogo torturante, ma anche l’unico a cui Kafka sa di appartenere. Appena arrivato al villaggio sotto il Castello, e già respinto e vessato, K. sa soltanto che è «venuto per rimanere qui», come se ogni altra forma di vita gli fosse ormai preclusa. E ripete: «Rimarrò qui». Poi, con il tono di chi «parla con se stesso», aggiunge: «Che cosa avrebbe potuto attirarmi [24] in questa terra desolata, se non il desiderio di rimanere qui». La «terra desolata» è la Terra Promessa. E la Terra Promessa è l’unica di cui si possa dire, come K.: «Non posso emigrare».
Essere sottoposto a processo dal tribunale o avere a che fare con il Castello significa accedere a quella vita nascosta, pericolosa e sfuggente da cui discende ogni altra vita – e di cui ogni altra vita è solo una debole contraffazione. Il funzionamento di una grande banca, come quella dove Josef K. lavora, con il nitore dei suoi uffici, delle sue spaziose anticamere, dei suoi corridoi, imita il sordido solaio dove hanno sede gli uffici del tribunale – non l’inverso. E basterà aprire una stanza dei rifiuti, negli uffici stessi della banca, per ritrovare all’opera il tribunale, rappresentato da un carnefice («il bastonatore») e due vittime. È il tribunale che accerchia la vita normale – e non la vita normale che ospita in sé il tribunale.
Lo scrivere ha inizio quando si entra in rapporto con il tribunale o con il Castello. Rapporto che sarà sempre, alla lettera, una causa persa. Lo aveva detto anche lo zio Karl, come citando un proverbio, quando era arrivato dalla campagna per dare una mano al nipote Josef K.: «Avere un processo del genere significa averlo già perso». E dei proverbi si usa dire che sono sempre veri.
L’articolazione e il funzionamento del «tribunale invisibile» sono all’opera in ogni pagina di Kafka, ma solo nel Processo e nel Castello diventano la sostanza stessa della narrazione. Il tribunale della grande città, che deve giudicare Josef K., è il «tribunale invisibile», ma lo è anche l’apparato degli uffici del [25] Castello, nei remoti territori del conte Westwest. Il «tribunale invisibile» si estende su tutto. Gli uffici del Castello sono amministrativi, non giudiziari, ma usano lo stesso linguaggio del tribunale della grande città. Per gli uni e per gli altri il mondo esterno è la «parte», chiunque essa sia o rappresenti. E si tratta sempre di stabilire quali rapporti ammettere con tale «parte», se mai si dovranno ammettere. Anche le procedure sono molto simili. Talvolta si sovrappongono. E comunque sono esasperanti, elusive, ingannevoli. Eppure Kafka, quando nella sua desolazione si azzardò a invocare una entità denominata «tribunale invisibile», null’altro chiedeva se non mettersi nelle mani del tribunale e del Castello, pur sapendo che cosa lì si preparava per lui. Ma sospettava che soltanto in quei tormenti fosse la vita che non avrebbe saputo raggiungere in altro modo.
Il processo e Il Castello si svolgono nello stesso strato del mundus imaginalis. Lì spiccano solitari. E non è facile né immediato stabilire contatti fra quello e altri strati. Mentre innumerevoli sono le connessioni fra i due libri. Kafka scrisse Il processo, romanzo incompiuto ma con un finale, in pochi mesi del 1914. Scrisse Il Castello, romanzo incompiuto e senza un finale, in pochi mesi del 1922. Nell’intervallo, non vi sono indizi che tornasse mai a occuparsi del Processo. Nel 1920 ne regalò il manoscritto a Max Brod. Quando cominciò a scrivere Il Castello, senza annotare commenti sull’impresa, fu come venisse proiettato di nuovo in quella terra di cui era l’unico abitante. In essa ora avrebbe agito come un esperto agrimensore. Gli sarebbe bastato spostarsi di poco, eppure in un «viaggio senza fine», dalla città di Josef K., con i suoi uffici, le sue scale e i suoi solai, al [26] villaggio dove giunge K. per offrire la sua opera al Castello.
Il tribunale che deve giudicare Josef K. e l’amministrazione del Castello da cui K. vuole farsi assumere sono due organizzazioni adiacenti, che risuonano l’una nell’altra. Abitate da funzionari scrupolosi e scorbutici. «Un popolo nervoso», quello del Castello. Gente «irascibile», quella del tribunale. In comune hanno una sensibilità facilmente vulnerata, pronta a percepire i minimi cambiamenti. E a patirne. Simili allo spazio, sensorium Dei, formano una ragnatela delicata, di cui non sono in grado di valutare essi stessi l’estensione. Ma in tutti loro, anche negli infimi, si avverte il respiro di un «grande organismo». Sia nel tribunale sia al Castello, quanto più si procede gerarchicamente verso l’alto, tanto più è facile perdersi. La vita comune si svolge sempre in basso, fra segretari e sostituti, se non fra servi e cameriere. Ma sempre invalicabile è la spaccatura fra coloro che appartengono all’organismo e le oscure parti, che con l’organismo tentano di stabilire un contatto. C’è una vita informe, e forse insignificante, che è la vita di tutti. E c’è un’altra vita, attraversata dalle forme come da una lama – o da una molteplicità balenante di lame. Ne sa qualcosa chi tratta con il tribunale o con il Castello. Quest’altra vita è fin troppo carica di significati, che tendono ad annullarsi. Tale è la ressa dei significati attribuiti, o attribuibili, al procedimento – parola usata per designare la fisiologia del «grande organismo» –, che esso appare in definitiva impenetrabile. Lo squilibrio fra i due mondi è permanente e non medicabile. Anche coloro, come l’avvocato Huld, che da lungo tempo sono avvezzi a [27] frequentare i magistrati, giungono a un punto in cui «nulla più sembra sicuro». E allora possono anche porsi la domanda più dolorosa: forse certi processi che «per loro natura procedevano bene sono poi finiti su strade sbagliate, e ciò grazie appunto all’assistenza», quindi all’opera specifica dell’avvocato. Questo implicherebbe che qualsiasi intervento, anche se condotto con le migliori intenzioni e da chi ha cognizione di causa – qui è d’obbligo dirlo – , sarebbe dannoso, ancor più che inutile. Soltanto una totale passività, come di una pianta scossa dal vento, avrebbe allora una seppur vaga probabilità di condurre a un buon esito.
Fra l’amministrazione del tribunale e quella del Castello la differenza è anche di stile, di maniera. La corruzione, per esempio, è d’uso in entrambe. Ma nel tribunale può assumere aspetti crudi e scomposti. Gli avvocati fanno ressa attorno agli «impiegati corruttibili», sempre con la mira di scoprire «lacune» nel «rigoroso isolamento» – quasi a chiusura stagna – del tribunale. A volte si è arrivati perfino – certo, «in tempi passati» – a riscontrare casi di furto di atti.
Con gli impiegati del Castello, invece, sembra che la corruzione sia tollerata per ragioni di eleganza, per «evitare discorsi inutili». Come se, accettando di farsi corrompere, gli impiegati sapessero di mettere a tacere le parti che continuano a importunarli, procurando loro l’illusione di aver fatto un gesto efficace, anche se «in quel modo non si può raggiungere nulla». Per l’amministrazione del Castello, la corruzione non è dissimile dal traffico di indulgenze. Ma non sembra praticata per interesse, piuttosto per tutelare una certa linearità e nettezza [28] dei procedimenti, evitando qualcosa che doveva suscitare una profonda avversione: i «discorsi inutili».
Fin dall’inizio il comportamento di K. appare «sospetto». E con qualche ragione. Svegliato mentre dorme nell’osteria su un pagliericcio, dice: «In quale villaggio mi sono perso? C’è proprio un Castello, qui?». Ma, già pochi istanti dopo, ammette di sapere benissimo dove si trova e di non essersi presentato al Castello solo perché l’ora era tarda. Questo comportamento ricorda quello che si osserva nei lettori di Kafka. Spaesamento, sconcerto, stupore. Eppure sanno esattamente dove si trovano – e perché.
Seduta sul bordo del letto del sovrintendente (e quante altre volte una rivelazione giungerà, sia a K. sia a Josef K., in quella posizione), Mizzi, sua inappariscente moglie e assistente, deve leggere al marito la lettera di Klamm a K. «Appena ebbe gettato uno sguardo sulla lettera giunse lievemente le mani, “Di Klamm” disse». Quell’a parte, simile a un sospiro, basta a evocare il timore reverenziale che incute il nome di Klamm e il vasto sottinteso che gli è collegato. Ma senza che tutto questo debba essere precisato, quasi che anche il nominarlo lo diminuisse. Mentre tutto si concentra in quelle due parole – «Di Klamm» –, sussurro dilagante in mezzo alla frase, e in quel gesto, appena accennato, del giungere le mani. Solo alla fine il sovrintendente si ricorda di Mizzi, quando la gamba torna a dolergli. Eppure era sempre stata lì seduta e «come persa in un sogno giocava con la lettera di Klamm, di cui aveva fatto una barchetta». K., «spaventato», le strappa la lettera [29] di mano. Teme che si sciupi quel foglio prezioso. Ma, più occultamente, è spaventato dalla visione irridente e infantile di quella barchetta di carta. Senza dirselo, sa che si tratta di uno dei molti enigmi che incontrerà lungo il cammino, sempre affidati a esseri femminili – molto spesso neppure percepiti e mai risolti.
K. desiderava soltanto essere un «piccolo agrimensore che lavora tranquillamente a un piccolo tavolo da disegno». Non chiedeva una speciale assistenza o la salvezza. Ma il suo desiderio, appunto perché modesto, aveva un potenziale dirompente. Soprattutto in quanto – come K. osò dire al sovrintendente – egli non voleva «doni graziosi dal Castello, ma il suo diritto». Il tono era quello dell’uomo libero che intende sottrarsi non soltanto all’oppressione dei potenti, ma anche alla loro benevolenza, altrettanto infida. E prende subito l’occasione per pronunciare una frase particolarmente oltraggiosa per l’autorità. Appena si entrava nell’ambito dei desideri, e ancor più quando i desideri si mescolavano con il diritto, il possente apparato del Castello, con le sue minuziose procedure e i ramificati regolamenti, diventava sensibilissimo e feroce nel respingere ogni rivendicazione del singolo – ovvero, come si usava dire nel lessico dei funzionari, della parte. Il desiderio è l’ignoto – e sull’ignoto non si possono accampare pretese. È l’ignoto a imperare, non colui che attraverso l’ignoto desidera. Non così parlavano i funzionari del Castello, per delicatezza e perché dovevano attenersi alle formule imposte dall’uso. Ma questo, talvolta, lasciavano trapelare.
[30]
K. assume presto il tono di chi è stato vittima di un sopruso. Però, se K. fosse davvero ineccepibilmente nel suo diritto, dovrebbe almeno avere in mano una lettera con la sua nomina formale ad agrimensore. E questa lettera non l’ha mai ricevuta, a quanto pare. Un sospetto di mistificazione aleggia su K. come su tutto ciò che fanno e dicono i funzionari del Castello. Così, se i contadini del villaggio hanno un’aria torva e diffidente, è anche perché hanno a che fare di continuo con comportamenti dubbi, sui quali molte ipotesi contrastanti sono ammissibili, si tratti dei funzionari che scendono dal Castello o di uno straniero come K. che si presenta nella taverna del villaggio. E massimamente sospetto appare ai contadini che K. si riveli ignaro delle maniere del Castello. Eppure anche K. sembra uno di loro, se così si indica tutto ciò che non appartiene al villaggio. O meglio, K. sembra una parodia di loro, ritagliata nel vuoto e spogliata di ogni emanazione del potere.
K. non parla quasi mai del suo passato. Soltanto con il sovrintendente accenna per un momento a lasciarsi andare. Insiste sul «lungo, difficile viaggio» che ha dovuto intraprendere – e già poco prima ha ricordato il suo «viaggio senza fine». Il potere del Castello, che lo aveva richiamato, si estendeva dunque sino a molto lontano. Forse anche nel tempo, se chi si avvicinava al Castello era come un viandante dei tempi antichi, solitario nella neve. Probabilmente per rendere la sua situazione più patetica – ma non possiamo dirlo, poiché null’altro ne sappiamo –, e certamente per far capire al sovrintendente quanto urga per lui ottenere l’incarico di agrimensore, K. [31] allude ai «sacrifici che ha compiuto per andare via da casa» e alle «fondate speranze che si era fatto di essere accettato quaggiù». Fin qui le sue parole non differiscono da quelle di un qualsiasi lavoratore che ha lasciato il suo paese in cerca di fortuna. Ma ora sopravviene qualcosa d’altro: K. parla della sua «totale mancanza di mezzi e impossibilità di trovare adesso a casa un lavoro corrispondente». Perché? Eppure al villaggio K. voleva sempre dare l’impressione di essere una persona capace, esperta, che non avrebbe difficoltà a lavorare altrove. Se ne desume che soltanto per un motivo che non dice, ma deve essere pressante, K. non può più tornare indietro. D’altra parte, come osserva il sovrintendente, non è costume del Castello cacciare via alcuno. «Nessuno la trattiene qui, ma questo non significa neppure che lei viene cacciato via». K. non insiste, forse si rende conto di aver detto troppo. Anzi, subito vuole confondere le acque e, per spiegare la precarietà della sua situazione, si riferisce a qualcosa di molto vicino: Frieda, la sua «fidanzata che è di qui» e di cui gli spetta occuparsi. Non precisa che Frieda è la sua fidanzata da poche ore. Comunque l’argomento è pretestuoso, osserva subito il sovrintendente con la sua pacata ironia: «Frieda la seguirebbe ovunque». K. si è scoperto – ed è forse per non imbarazzarlo che il sovrintendente cambia discorso. Accennando alla sua vita precedente, K. è andato vicino a svelare qualcosa che potrebbe nuocergli: la sua totale dipendenza dal Castello. Ogni ritorno è per lui escluso. Il quinto aforisma di Zürau dice: «Da un certo punto in là non vi è più ritorno. Quello è il punto da raggiungere». Un passo oltre quel punto ha inizio la storia di K.
[32]
Nella calligrafia di Kafka, la lettera K sprofondava verso il basso in una vistosa voluta, che lo scrivente detestava: «Trovo che le K sono brutte, quasi mi ripugnano eppure continuo a scriverle, devono essere molto caratteristiche di me stesso». Scegliendo il nome K., Kafka si obbligò a tracciare per centinaia di volte sotto i propri occhi un tratto che lo urtava e in cui riconosceva qualcosa che gli apparteneva. Se avesse narrato Il Castello in prima persona, come aveva cominciato a fare, la storia sarebbe stata meno profondamente immersa nella sua fisiologia, in zone sottratte all’imperio della volontà.
Ha mai accennato Kafka al suo procedimento di riduzione rigorosa agli elementi primi, come se cercasse di fissarne una tavola periodica? Forse in un passo di un quaderno del 1922. È un momento di stasi nell’elaborazione del Castello. Anche di forte dubbio su tutto. «Lo scrivere mi si nega» è la prima frase del frammento. Poi si accenna a un «progetto di indagini autobiografiche». Non è certo a che cosa si riferisca: forse alle Indagini di un cane, che appaiono poco dopo nei suoi quaderni? Segue una precisazione: «Indagine e scoperta di componenti il più possibile piccole». Per che farne? «Con queste [componenti] voglio poi costruirmi». Qui non si parla più di scrittura, ma di un costruirsi. E subito segue la traccia fosforescente di un racconto: «Come uno che ha una casa non sicura e vuole costruirsene accanto una sicura, se possibile con il materiale della vecchia. Però è un brutto affare se, mentre sta costruendo, la sua forza viene meno e ora invece di una casa non sicura ma completa ne ha una semidistrutta e una fatta a metà, quindi nulla. Quel che segue è follia, una specie di danza [33] cosacca fra le due case, durante la quale il cosacco con i tacchi dei suoi stivali raschia e svelle la terra finché sotto di lui si forma la sua fossa». Danza cosacca tra Kafka e la letteratura che lo aveva preceduto.
Certamente non è accaduto, come alcuni continuano a sostenere, che il religioso o il sacro o il divino siano stati sgretolati, dissolti, vanificati da un agente esterno, dalla luce dei Lumi. Ne sarebbe risultato un mondo fatto di funerali laici, nel loro tremendo squallore. È accaduto invece che il religioso o il sacro o il divino, per un oscuro processo di osmosi, sono stati assorbiti e occultati in un qualcosa di alieno, che non ha più bisogno di nominarli perché è autosufficiente e si appaga di essere descritto come società. Tutto il resto è, al massimo, un suo oggetto di studio e materiale da laboratorio – anche l’intera natura.
Con Kafka un fenomeno invade la scena: la commistione. Non c’è angolo sordido che non si lasci trattare come metafisica. E non c’è metafisica che non si lasci trattare come un angolo sordido. Questo non è dovuto a un’inclinazione personale dello scrittore. È un dato di fatto. Già Svidrigajlov, in Delitto e castigo, aveva osservato che per lui l’eternità si presentava come una stanza da bagno piena di ragnatele. Questa è una peculiarità dei tempi, un loro contrassegno.
Quando il segretario Bürgel parla di una pari «spietatezza» dei funzionari verso le parti e verso se stessi, e precisa che quella spietatezza è anche il supremo [34] «riguardo», poiché consiste nella «ferrea esecuzione e attuazione del servizio», le sue parole inevitabilmente hanno una risonanza sinistra, anche se Bürgel è forse il più benevolo tra i funzionari del Castello e le pronuncia dopo essersi stirato e aver sbadigliato, «il che era in sconcertante contrasto con la gravità delle sue parole».
La commistione si manifesta innanzitutto in questo: l’ordine sociale si sovrappone all’ordine cosmico, fino a coprirlo e inghiottirlo. Ma ne conserva la maestà e le articolazioni, pur cancellandone la memoria. Al villaggio non si parla certo del cosmo. E anche la natura potrebbe quasi non esistere. L’unica che la nomina è Pepi, la serva. E la visione è quella di un inverno, di «un lungo, lunghissimo e monotono inverno». Anche il colore è abrogato. Ma non si direbbe che alcuno ne avverta il bisogno o il ricordo. Le differenze si esprimono in gradazioni fra il chiaro e lo scuro. Nel ricco guardaroba dell’ostessa dell’Albergo dei Signori sono ammesse soltanto le più varie sfumature dello scuro: «vestiti grigi, marroni, neri», ordinati e compatti come una falange. Il paesaggio mitico ha perso la pigmentazione.
L’ordine cosmico, quale si presenta nei miti, potrebbe svanire con i miti stessi. La conoscenza scientifica gli sostituirebbe un’immagine sempre più complicata, sempre mutevole, nella quale le dimensioni si moltiplicano sino a vanificarsi. Ma così non accade. Mimetizzato all’interno dell’ordine sociale, l’ordine cosmico sussiste e continua ad agire. In fondo, non parlava soltanto di astri e di sfere, ma di potenze e di arconti. E quelle potenze non sono scomparse. Anzi, ora che non vi sono più nomi per evocarle, possono agire più liberamente e selvaggiamente, [35] anche a viso aperto. K. lo sperimenta ogni giorno durante la sua tormentosa permanenza al villaggio.
I signori del Castello sono gli arconti. Non perché «arconti» sia una interpretazione che si aggiunga, che si sovrapponga a Herren, «signori». Ma perché arconti significa «signori», se appena si lascia alla parola lo spazio per risuonare. E questo è il procedimento costante in Kafka: dietro le formule del linguaggio comune si apre improvvisamente questo spazio, dove le parole riverberano e gemmano significati, acquistando un’intensità che talvolta è paralizzante. Il linguaggio comune è, per eccellenza, il linguaggio dei servi, quindi della serva Pepi. Così, quando sarà lei a parlare di K., le sue parole suoneranno sovraccariche di significato e sembreranno dire ciò che sempre, ma quasi di nascosto, ci siamo chiesti su K.: «Che cosa vuole? Che strano uomo è?». E forse proprio dalla bocca di Pepi udremo le parole più drastiche: quando pungola K. perché trovi «la forza di appiccare il fuoco a tutto l’Albergo dei Signori e bruciarlo, ma totalmente, in modo che non ne rimanga traccia, bruciarlo come un pezzo di carta nella stufa». Bruciarlo come quel foglio strappato da un blocco per appunti che rimane sul carrello degli atti e K., solo poche ore prima, durante la scena della «distribuzione degli atti», ha pensato fosse il suo, quello su cui sarebbe stata scritta la sua sorte, perché gli atti che riguardano un singolo non possono essere nulla meno che la sua sorte.
Kafka non si può intendere se non lo si prende alla lettera. Ma allora la lettera va colta in tutta la sua [36]potenza e nella vastità delle sue implicazioni. Così si giunge fra l’altro a questo: gli atti di cui si occupano incessantemente i signori del Castello saranno gli acta, quindi la registrazione di azioni di ogni genere. Il Castello custodisce l’archivio degli atti, l’immenso registro del karman. Per questo i suoi funzionari sono sempre all’opera: perché gli atti non si arrestano mai. Come Kṛṣṇa spiegò ad Arjuna sul suo carro da guerra, anche quando si crede di non agire si agisce. Per questo il segretario Momus si affretta a riempire le ultime lacune di un verbale che descrive accadimenti di pochi minuti prima. Perché l’attività del Castello consiste innanzitutto nel prendere nota di ciò che già automaticamente avviene: l’accumularsi del karman.
Ma non si dovrà pensare che gli atti che si innalzano in colonne nella stanza di Sordini o quelli stipati negli armadi del sovrintendente o quelli continuamente offerti a Klamm e da lui allontanati con un gesto di ripulsa riguardino i soli abitanti del villaggio. Scarsi e grami, questi ultimi hanno però avuto in sorte il ferale privilegio di vivere sulla linea di confine con il Castello. E tanto basta a segnare il loro destino. Ma il Castello registra qualsiasi atto, anche di coloro che sono vissuti in paese straniero, come K., che crede di riconoscere in un foglietto abbandonato sul carrello degli atti la sua pratica, i suoi atti, mentre stanno per essere distribuiti o dispersi in una delle stanze dei funzionari. Il karmanha anche questo di terribile: che esso sussiste indipendentemente da ogni fede e da ogni culto. Si può essere irriverenti o increduli, anche all’estremo, ma i propri atti si accumulano e si depositano, al di là della nostra portata, esattamente come quelli dei bigotti. Perché il karman non sussistesse, ogni atto dovrebbe dissolversi immediatamente – quasi svaporando. [37] Ma, se così fosse, sarebbe impraticabile ogni azione premeditata e articolata. E così non è perché, se osserviamo la vita del villaggio, constatiamo che procede in modo sensato, come la piatta, consequenziale vita che tutti vivono.
Da un lato la stirpe degli arconti. Sono i magistrati del tribunale che giudica Josef K., i funzionari del Castello da cui K. vorrebbe essere assunto. Preoccupati di qualcosa che a loro soltanto è noto, rispetto a cui ogni fatto esterno è un potenziale disturbo. E ai fatti esterni appartiene, sul lato opposto, l’incessante, inarrestabile pullulare degli imputati o delle parti. Che sono come una vasta schiera, ogni giorno sciabordante verso gli arconti, sospinta da un moto di marea. Se si osserva da vicino ciò che accade, si scopre che vi è anche un movimento inverso, più irregolare e difficilmente percepibile, quasi una corrente sottomarina che scorre dagli arconti verso le parti – se usiamo questa parola come termine generico per indicare chiunque aspetti di essere trattato e giudicato da una superiore autorità. Gli arconti sono soggetti a un’ossessione erotica, che li spinge verso l’esterno. Molto cruda nel tribunale, segnata dall’asprezza del diritto penale. Là i magistrati sono una genia di «donnaioli». I loro libri di consultazione traboccano di immagini oscene. Più lirica e vaga tra i funzionari del Castello, che aspettano di essere sorpresi e sopraffatti dalle parti, nel cuore della notte. Agognano di essere costretti a qualcosa, loro che passano la vita a costringere. Gli arconti si comportano verso il mondo come la mente verso ciò che le è esterno. Presuppongono di essere sovrani e autosufficienti, ma continuamente sono attratti verso qualcosa di estraneo e refrattario, che gli [38] resiste e vogliono dominare. Temono sempre, anche se non lo dicono, che un granello del mondo esterno penetri nelle loro inaccessibili regioni, là dove si trovano soltanto fra loro, e le devasti.
Le gerarchie celesti – o anche terrestri o infernali o anche le gerarchie in genere o anche soltanto gli esseri che occupano cerchi concentrici – così si presentano: «Io ero inerme di fronte a quella figura, che sedeva quieta al tavolo e ne guardava il piano. Io giravo intorno a lei e da lei mi sentivo strangolato. Intorno a me girava un terzo e da me si sentiva strangolato. Intorno al terzo girava un quarto e si sentiva da lui strangolato. E così si proseguiva sino ai moti degli astri e oltre. Tutto sentiva la stretta al collo». Quella «stretta al collo» è il sentimento nel quale gli esseri comunicano. Come osservò Canetti, «l’armonia pitagorica delle sfere è diventata una violenza delle sfere». Questo è il quadro cosmologico per Kafka, implicito in ogni sua parola.
Il tutto è costituito da cerchi concentrici. Ogni cerchio accoglie, accanto ad altro, una riproduzione esatta del cerchio precedente. Così è facile non accorgersi dell’esistenza dei cerchi.
Ogni cerchio è autosufficiente. Offre fondamento e giustificazione a ciò che gli appartiene. I cerchi non comunicano, almeno ufficialmente. Non c’è via d’accesso costante e garantita dall’uno all’altro. In speciali circostanze – o per errore, ed è il caso più frequente – si aprono passaggi temporanei. Poi si richiudono, senza lasciare traccia.
[39] Canetti osserva: «Fra tutti gli scrittori, Kafka è il più grande esperto del potere, della potenza (Macht)». Parole che vanno intese restituendo alla parola Macht tutta la sua estensione, al tempo stesso di «potere» e di «potenza». «Potere» è una applicazione circoscritta della «potenza». E generalmente circoscritta alla società. Mentre la Macht di cui Kafka scrive investe tutte le sfere celesti e va oltre («sino ai moti degli astri e oltre»). Ma che cosa c’è in quell’oltre? L’«oceano celeste», dicevano i veggenti vedici: samudrá, che inonda di luce.
Caratteri architettonici del Castello: non è una rocca, non appartiene a un passato feudale, non ostenta sfarzo. Nulla vi è nuovo, come nella Perla di Kubin. Tutto è già impregnato di precedente vita psichica. Una striscia di edifici bassi, acquattati sulle pendici di una collina. Intonaci scrostati, da tempo. Potrebbe essere un insediamento militare, un monastero, un ministero, un ospedale – o anche il lembo di una «piccola città», invero «piuttosto misera». C’è una sola torre, che ha qualcosa di «folle», quando le sue piccole finestre luccicano al sole. E non dà l’impressione di una nobile ascesa verso l’alto. Ma fa pensare che un «tetro» abitante del luogo abbia «sfondato il tetto». Pur di sfuggire alla soffocazione. Residenza saturnina.
Il sovrano saturnino, celato nella torre che si erge fra gli edifici malandati del Castello, il conte Westwest che nessuno ha mai visto, che nessuno può chiedere di vedere, a nessuno somiglia come al personaggio di cui Kafka parla in un frammento, seduto alla scrivania con la testa fra le mani. Molti, fuori, [40] lo aspettavano. E tutti avevano «particolari richieste». Erano fantasmi, forse. O demoni. O persone qualsiasi, che si possono incontrare per la strada. L’ignoto personaggio era disposto ad «ascoltarli e poi rispondere». Ma non voleva mostrarsi sul balcone. Di fatto «non potrebbe, anche se lo volesse. D’inverno la porta del balcone è chiusa e la chiave non si trova». Ma inverno è sempre.
Se l’abitante della torre si mostrasse sul balcone o alla finestra, non sarebbe altro che un medium. La vita sarebbe un flusso di potenze che cozzano come scariche elettriche. Ma non riuscirebbe a raccontarsi. Tutto si ridurrebbe al gioco delle forze che si scontrano, nel visibile e nell’invisibile. Invece tutto è molto più opaco, incerto, incalcolabile. Le forze possono anche pretendere di ignorarsi. Ciascuna si costruisce un suo teatro, che un giorno verrà annichilito da una qualsiasi delle altre forze ignorate. Ma la finzione si può anche mantenere a lungo, quanto basta per essere considerata come natura. Chiuso nella sua stanza spoglia, con i gomiti sul tavolo, l’ignoto abitante della torre è il garante dell’opacità del mondo. A lui dobbiamo se la vita è avventurosa in ogni suo anfratto, da lui aspettiamo in ogni istante una risposta – e a lui siamo grati perché la risposta non arriva mai.
Josef K. e K. fondamentalmente aspettano. L’uno una sentenza, l’altro un’assunzione. Qualsiasi cosa facciano, la loro vita è sfibrante. Appartengono entrambi al vasto popolo di coloro che «qui aspettano» e si accalcano fuori, nel mondo, in una «massa sconfinata, che si perde nel buio». Dentro, nella torre [41] o nell’edificio del «tribunale invisibile», siedono coloro che dovrebbero rispondere. E forse lo vorrebbero. Ma qualcosa impedisce che la risposta sia diretta. Se la chiave del balcone riapparisse, tutto sarebbe risolto? No, anzi allora si rivelerebbe l’intenzione nascosta di chi abita dentro: non mostrarsi affatto e non lasciarsi mostrare ciò che sta fuori. Chiuso in una stanza che somiglia a una cella, con i gomiti appoggiati sulla scrivania, l’ignoto personaggio si tiene la testa fra le mani. Quella scrivania è l’unico oggetto indispensabile, l’unico contatto concesso. Pensa: «Non voglio vedere nessuno, non voglio lasciarmi confondere da nessuna visione, alla scrivania, quello è il mio posto». Elucubra figure e personaggi, come il Sigismondo di Calderón. Di là dai vetri, l’aria è gremita dalle tribù dell’invisibile.
II
DAI SOGNI DI PEPI
[45] Nell’Albergo dei Signori le cameriere addette alle pulizie stanno chiuse nella loro stanza, che «non è altro che un grosso armadio con tre ripiani». Ma la claustrofobia è accresciuta dal divieto di uscire nei corridoi per lunghe ore del giorno e della notte, quando correrebbero il rischio di disturbare i signori. O anche soltanto di vederli. «Di fatto i signori non li conosciamo, li abbiamo appena intravisti» osserva Pepi.
Ogni tanto le cameriere sentono battere alla pota e dettare ordinazioni. Ma il terrore si insinua quando «non viene nessuna ordinazione» e le cameriere odono qualcuno (o qualcosa) strisciare subito fuori. Allora le ragazze «origliano alla porta, si inginocchiano, si abbracciano nell’angoscia». E qui scocca la frase del terrore, che ormai sembra Lautréamont: «E continuamente si ode colui-che-striscia (den Schleicher) davanti alla porta». In Lautréamont, sempre incline al ghigno e alla beffa, questo equivarrebbe a: «Ma una massa informe lo insegue [46] con accanimento, sulle sue tracce, in mezzo alla polvere». Kafka, come sempre, sceglie la via più sobria. Con il minimo dispendio di parole l’effetto è massimo. Anche la parola Schleicher è comune e insieme allarmante. Schleicher è l’essere (o l’entità) che striscia, ma ha l’ulteriore significato di «ipocrita», in quanto persona che agisce di soppiatto, furtivamente. Qui la parola viene però ricondotta alla sua letteralità – e l’effetto è tanto più violento. Si può capire che allora, chiuse nella stanza, «le ragazze svengono dalla paura e, quando fuori finalmente torna il silenzio, si appoggiano alla parete e non hanno più la forza di salire sui loro letti». Questa scena cupa e lacerante, come in un dramma elisabettiano, non è però l’apice di una crisi all’interno di una funesta vicenda. È solo la descrizione di una giornata qualsiasi delle cameriere addette alle pulizie nell’Albergo dei Signori. E come tale viene assimilata dal lettore. È la pura vita di ogni giorno, raccontata da Pepi allo straniero di cui si è innamorata.
Qual è il cruccio delle cameriere addette alle pulizie? Qual è il pericolo che le minaccia? Quello di non truccarsi più. Perché dovrebbero? Sono prigioniere. Nessuno le vede – se non, fuggevolmente, il personale della cucina. Entrare poi con vestiti immacolati nelle stanze dei signori è «leggerezza e spreco». Tale è la sporcizia in cui le cameriere sono costrette a muoversi che tanto vale viverci sempre. Luce artificiale, aria viziata, troppo calda (il riscaldamento è sempre acceso). Una immane, costante stanchezza. L’oppressione che le cameriere subiscono è feroce e sottile. Ma, vista dall’esterno, la loro vita è quanto di più comune. Hanno una funzione, la svolgono. Per il resto del tempo, aspettano di tornare [47] in funzione. Quando hanno il pomeriggio libero, una volta alla settimana, il modo migliore di passarlo è «dormendo in pace e senza paura su un qualche tramezzo della cucina».
La sala della mescita, dove si aggirano Frieda e Pepi e dove talvolta siede lo straniero K., è un campo di forze altrettanto vibrante, delicato e complesso di un qualsiasi Palazzo del Governo o centro strategico o Corte imperiale. Ciò che vi si svolge non è più facile da districare né da intendere. Nei rapporti di potere, la tensione non è commisurata alla dimensione degli elementi in gioco. Una stanza può equivalere a un continente. Ma nella stanza i rapporti di potere si manifesteranno nella loro massima linearità, perché minimi sono gli elementi che possono distrarcene. Minimi, preziosi, rivelatori, come i nastri che adornano Pepi o la sottoveste frusciante di Frieda.
La riduzione agli elementi primi non implica affatto una riduzione nella complessità dei rapporti. Al contrario. Frieda viene osservata da molti occhi quando serve alla mescita, quando si comincia a sussurrare della sua relazione con Klamm, infine quando si è certi di quella relazione. Ogni suo gesto viene soppesato, interpretato, collegato con un’altra scena, che non è visibile. Ed è come Madame de Maintenon che conquista metodicamente l’intimità di Luigi XIV, scrutata dagli occhi di Versailles – e da quelli di Saint-Simon.
C’è una intimità fisica fra i signori e le cameriere che li servono alla mescita. Pepi parla del suo servizio [48] come fosse una questione di buone maniere, prontezza nell’organizzarsi, cura nel vestire. Ma poi si scopre che non basta «una parola, uno sguardo, un’alzata di spalle». C’è anche un contatto fisico. Fra i boccoli di Pepi si inoltrano ogni giorno, molte volte, le dita dei signori: «Con una tale frenesia tutte le mani affondavano nei boccoli di Pepi che dieci volte al giorno lei doveva rinfrescarsi la pettinatura». E Pepi aggiunge: «Alla seduzione di quei boccoli e nastri non resiste nessuno, neppure K., che è sempre così distratto». La mescita è un bordello in effigie, dove si ripetono alcuni gesti che si applicano a entrambi i luoghi, nel passare da un cliente all’altro. Per questo, poco dopo, replicando a Pepi, K. sente il bisogno di osservare: «La vera cameriera della mescita deve essere una cameriera della mescita, non l’amante di tutti i clienti» (così in un passo biffato del manoscritto).
Pepi discende dalle serve graziose e maliziose dell’opera buffa. Come loro, ha una precisa percezione del mondo e degli uomini. Quando vede K. abbandonato da Frieda, e ancora innamorato di lei appunto perché è scappata («non è difficile essere innamorati di lei ora che non c’è più»), gli fa una proposta: «Non hai né un lavoro né un letto, vieni da noi, le mie amiche ti piaceranno, troverai gradevole stare con noi, ci aiuterai nel lavoro, che è davvero troppo pesante per delle ragazze da sole, noi ragazze non dovremo contare soltanto su noi stesse e di notte non avremo più paura».
Ma come vive Pepi con le altre ragazze? In una stanza «calda e angusta». Le altre due ragazze si chiamano Henriette e Emilie. I loro deliziosi nomi francesi, del tutto anomali nel villaggio, ci introducono [49] già nel mondo morbido e astratto del music-hall. Vivere in quella stanza-armadio è come vivere in un camerino dietro le quinte, con aria viziata e luce artificiale. Ma «tutto quello che si trova fuori dalla stanza sembra freddo». È in fondo più attraente raccontarsi storie sul mondo in quella stanza minuscola che avere a che fare con il mondo stesso: «Là si sentono certe storie che lasciano increduli, come se fuori dalla stanza non potesse succedere veramente nulla».
L’invito di Pepi è cameratesco, quasi K. fosse un’altra ragazza da aggregare al gruppo. Non ci sono accenni erotici. Ma tutto ciò che Pepi dice è erotico. Se non altro perché, come ha osservato K., Pepi tratta tutti i clienti come amanti – e K. è il cliente per eccellenza, l’ignoto. Osserviamo i dettagli: dove starebbe K.? In uno dei letti delle ragazze. Forse a turno. La magnanimità di Pepi suggerisce anche a K. quale delle due amiche gli piacerà di più: Henriette. E la magnanimità si spinge oltre. Le tre ragazze parleranno a K. anche della sua amata assente: Frieda. Gli racconteranno le complicate storie di Frieda, che ben conoscono. E tireranno fuori anche «ritratti di Frieda» e glieli mostreranno. Tre graziose ragazze, ufficiali o potenziali amanti di un giovane uomo, stanno sedute sul bordo di un letto contemplando insieme a lui i ritratti di un’altra donna, anch’essa sua amante. E lo fanno per compiacere l’uomo. Quella vita durerebbe tutto l’inverno. K. ascolta e si pone due domande: una cosa simile sarebbe lecita? E poi, più sottilmente: quanto rimane ancora dell’inverno? Pepi è una grande esperta del tempo, sa valutare quanto essenziale possa essere un giorno in più o in meno – e la sua risposta va oltre la meteorologia. La vita al villaggio è soprattutto un inverno: «lungo, lunghissimo e monotono». Quando vengono la primavera e l’estate, nel ricordo occupano [50] un tempo «così breve come se non fossero più di due giorni». Segue un frammento di frase che ha un suono ominoso, esemplare del laconismo lirico di Kafka: «Perfino in quei giorni, anche nel giorno più bello a volte cade ancora la neve».
La confraternita delle ragazze, come Pepi la racconta, si oppone drasticamente a tutto ciò che avviene fuori. Fondata su una piena promiscuità e intercambiabilità, è pronta ad accogliere K. come fosse una nuova affiliata, che dà una mano nel lavoro, anche se non è ben chiaro in qual modo. E al tempo stesso K. conserverebbe le antiche prerogative maschili. Permetterebbe alle tre ragazze di «non aver più paura di notte». Le ragazze sarebbero «felici» di avere «un uomo che aiuta e protegge». Se lo offrirebbero a gara come amante, lascia intendere Pepi, anche se non lo dice, perché conserva sempre una certa ritrosia nel parlare di sesso. Ma le basterà accennare a K., come una sapiente cortigiana: «Soprattutto Henriette ti piacerà, ma anche Emilie». Perché nella minuscola stanza regnano la graziosità e il piacere. Anche se le ragazze sanno benissimo che la loro è una «vita miserabile», non vogliono affatto andarsene. E Pepi rivendica: «Viviamo quanto più graziosamente lì è possibile». Perché «anche in tre non ci siamo mai annoiate». E ora Pepi sospira, pensando all’arrivo di K.: «Ah, sarà divertente».
La complicità delle ragazze ha un solido fondamento: «Era proprio questo che ci ha tenuto insieme, sapere che a tutte e tre era precluso ugualmente l’avvenire». La stanza delle ragazze deve essere autosufficiente, perché fuori non ci sarà mai nulla. Occasioni di astio o risentimento non riescono a crearsi. Anche quando Pepi viene promossa alla mescita e per quattro giorni abbandona la stanza, le ragazze [51] non si sentono tradite. Anzi, la aiutano a prepararsi i vestiti. Con abnegazione, una le offre «una stoffa costosa, il suo tesoro», che tante volte aveva lasciato ammirare dalle altre e tante volte aveva sognato di indossare un giorno. Ebbene, ora, «poiché Pepi ne aveva bisogno, gliela sacrificò». Poi, sedute sui letti, una sopra l’altra, si erano messe a cucire, cantando. Allo stesso modo, quando Pepi tornerà, «probabilmente non si stupiranno e, solo per compiacerla, piangeranno un po’ e lamenteranno il suo destino». Così, anche K. non ha da preoccuparsi: «Non ci sono obblighi per te, non sarai legato per sempre alla nostra stanza, come lo siamo noi». Parole di somma penetrazione psicologica. La stanza delle ragazze è l’unico paradiso dove K. potrebbe entrare e uscire senza incorrere in obblighi o violare divieti. Purché serbi il segreto.
Con il suo tono da ragazza di campagna, che conosce qualcosa della vita e parla con semplicità, Pepi suggerisce ogni volta a K. le soluzioni più radicali ed estreme. Poco prima, ha insinuato che il gesto che farebbe di lui il suo «eletto» sarebbe quello di appiccare il fuoco all’Albergo dei Signori, finché «non ne rimanga traccia». Ora gli lascia intravedere un’altra possibilità: un minuscolo paradiso erotico, incuneato clandestinamente all’interno dello stesso Albergo dei Signori, e fondato – alla maniera degli antichi Misteri – sul segreto. Come altrettante ierodule di un culto proibito, le tre ragazze sono «incantate per il fatto che tutto deve rimanere un segreto». Questo le renderà «ancor più strettamente legate di prima». K. non deve far altro che unirsi a loro. E qui risuona in tutto il suo pathos l’appello di Pepi a K.: «Vieni, ti prego, vieni da noi!».
[52] Dobbiamo credere a Pepi? Certamente la sua immediatezza, il suo slancio, anche la sua eloquenza invogliano a seguirla. Ma poi certi elementi si sovrappongono, si confondono. Nel turbinoso sfogo con K., quando ha già abbandonato il posto di addetta alla mescita, Pepi finisce con la descrizione della sua vita con Henriette e Emilie – e con l’invito a K. perché la raggiunga. Al culmine della perorazione, la stanza delle ragazze si staglia come un luogo di felicità, una cesura rispetto a tutto il resto. Eppure, quasi vagando nella nebbia, ricordiamo che di quella stanza Pepi ci ha già parlato in tutt’altro modo – e nel corso dello stesso monologo. Ne ha parlato come di una «minuscola buia camera» dove le ragazze lavorano «come in una miniera», convinte di dovervi trascorrere «anni e nel caso peggiore l’intera vita, senza attirare l’attenzione di alcuno», spesso attanagliate dal terrore, come quando sentono strisciare qualcosa o qualcuno fuori dalla loro stanza, costantemente perquisita da brutali «commissioni» che frugano tra le loro povere cose alla ricerca di atti smarriti, o trafugati, in mezzo a «insulti e minacce». E mai pace. «Chiasso per metà della notte e chiasso fin dal primo mattino». Come avrebbero potuto accogliere K. in quella vita da schiave? Come poteva Pepi fargli intravedere quella stanza come un luogo di occulta delizia? E come avrebbero potuto custodire il segreto?
Quale delle due versioni è vera? Questa volta alla domanda non si può sfuggire con i soliti accorgimenti (diversità del punto di vista, diversità dell’umore). Il punto di vista è uno solo: quello di Pepi. Tutto il suo monologo ha la stessa tonalità – e le due opposte descrizioni si susseguono a pochi minuti l’una dall’altra.
Qui occorre volgersi indietro. Come Kafka ha trovato [53] la sua sostanza narrativa in qualcosa di ancora precedente allo sceverarsi degli dèi e dei demoni – ovvero delle potenze in genere –, così la narrazione stessa sembra essere risalita con lui all’origine delle varianti, a quel punto misterioso fra tutti dove ogni storia comincia a biforcarsi e a proliferare, pur rimanendo la stessa storia. Questo è il respiro di ogni mitologia. Ma Kafka non disponeva di riti e rapsodi, che variassero e ricombinassero per lui i gesti e i significati. Doveva agire senza ricorrere all’aiuto del mondo. Solitario davanti a un foglio di carta – e seguendo l’ultima forma che i tempi concedevano alle storie: quella del romanzo –, Kafka tesseva il monologo di Pepi. Dopo averla ascoltata silenziosamente, K. le dice: «Che selvaggia fantasia hai, Pepi». E poi: «Questi non sono altro che sogni nati nella vostra buia, angusta stanza delle ragazze là sotto, che lì sono al loro posto, ma qui all’aperto nella sala della mescita hanno un’aria molto strana». Quelle storie, come i vestiti e l’acconciatura di Pepi, sono «concrezioni di quel buio e di quei letti nella vostra stanza».
K. reagisce al monologo di Pepi non diversamente da come il mondo avrebbe reagito agli scritti di Kafka, scuotendo la testa nella sala della mescita. Anche gli scritti di Kafka erano pieni di sogni nati in una buia stanza sotterranea. Anzi, una volta Kafka volle precisare: «Ciascuno ha una sua maniera per risalire dal mondo sotterraneo, io lo faccio con lo scrivere». Quel mondo si presentava come una cantina. Era lì che Kafka si vedeva: «Ho pensato già varie volte che per me il modo migliore di vivere sarebbe di stare con l’occorrente per scrivere e una lampada nel vano più interno di una cantina vasta e chiusa. Il cibo mi verrebbe portato e verrebbe deposto sempre lontano dal mio vano, dietro la porta più [54] esterna della cantina. Il percorso per raggiungere il cibo, in vestaglia, sotto le volte della cantina, sarebbe la mia unica passeggiata. Poi tornerei al mio tavolo, mangerei lentamente e con circospezione e ricomincerei subito a scrivere».
Così Kafka scriveva della sua cantina a Felice, per spaventarla. Così Pepi raccontava della stanza delle ragazze a K., per attirarlo. La minuscola stanza delle cameriere addette alle pulizie, affollata di nastri e sottovesti, e la nuda cantina con il tavolo e l’occorrente per scrivere sono due luoghi affini. Ricavate a fatica nella compatta superficie del mondo, sono nicchie che ospitano una vita occulta, non percepibile dall’esterno, che accetta di essere simultaneamente paradisiaca e infernale.
Pepi ama disperatamente K., lo ama «come non aveva mai amato nessuno prima», lo ama come le ragazzine che leggono i romanzi e i fotoromanzi e sognano uno straniero che le rapisca, «un eroe, un liberatore di fanciulle». Attraverso di lei parla un innumerevole popolo femminile, di principesse e di schiave, di borghesi e di contadine, di impiegate e di cameriere. Qualunque sia la posizione sociale, le parole sono le stesse, la dedizione è la stessa – e i sogni sono sempre «selvaggi».
Klamm è un funzionario di una certa età, abitudinario, sempre vestito con una «redingote nera dalle lunghe code», che si aggira con aria fra il trasognato e il sonnolento, e talvolta «a quanto pare non pronuncia una parola per ore e poi improvvisamente dice una tale volgarità che fa rabbrividire». Sprazzo di pura comicità. Ma siamo sicuri con ciò di essere giunti al [55] fondo di Klamm? Come dice Olga, che ne sa qualcosa: «Che sappiamo noi dei pensieri dei signori!».
Fra tutti i signori, soltanto Klamm suscita esaltazione e sacro timore. Non solo nell’ostessa della Locanda del Ponte e in Frieda, che sono addette al suo culto. Ma anche in Pepi, la serva incendiaria. Che Klamm non si sia fatto vedere nei giorni in cui Pepi prestava servizio alla mescita è la sua pena più grave. Lo ha aspettato «in ogni momento, anche di notte». E la delusione l’ha stremata. Aveva osato anche andare ad aspettarlo in un incavo del corridoio vietato, pensando: «Ah, se ora Klamm venisse, se potessi prendere il signore dalla sua stanza e portarlo giù sulle mie braccia nella stanza degli ospiti. Sotto questo peso non crollerei, per quanto grande fosse». Klamm, questo signore simile per aspetto agli altri signori, «anziani e attaccati alle loro abitudini», appare qui inerme come un bambino, amorevolmente trasportato fra le salde braccia della serva Pepi, protetto da una frivola e fervida Maddalena. In fondo, per Klamm anche questa non sarebbe che una fra le sue tante metamorfosi.
Nella sua vana attesa di Klamm, Pepi si è resa conto della qualità del silenzio che regna nel corridoio dei signori. È un silenzio tale «che lì non si può reggere a lungo», un silenzio che «respinge». Eppure Pepi non cedeva. «Dieci volte cacciata, dieci volte Pepi tornava a salire». Perché? Pepi, che ha il dono dell’espressione diretta, lo sa dire: «Era senza senso, ma se [Klamm] non veniva, quasi tutto era senza senso». Aspettare Klamm non ha senso. Ma soltanto Klamm dà senso a «quasi tutto». Perciò aspettare Klamm è quasi l’unica cosa che ha senso. Questo è il paradosso di Pepi, che meriterebbe di essere accolto nei trattati di logica. Una sua applicazione è Il Castello.
III
«QUI NON C’È TRAFFICO»
[59] Già la mattina dopo il suo arrivo, K. rinuncia a presentarsi al Castello. Una improvvisa spossatezza è scesa su di lui, quale non aveva mai provato durante il lungo viaggio («come era andato avanti per giorni, calmo, passo dopo passo!»). Appena uscito, K. decide che, se riuscirà a «spingere la sua passeggiata almeno sino all’entrata del Castello, avrà fatto più che abbastanza». Ma presto si accorge di non sapere quale strada conduca all’entrata del Castello. La strada principale del villaggio, affiancata da case basse, sprofondate nella neve, tutte con le porte chiuse, una strada lunga, che non finisce mai, dà soltanto l’illusione di essere diretta al Castello. Ma a un tratto devia – e mantiene, a partire da quel punto, sempre la stessa distanza dal Castello.
In questi primi passi, in queste prime osservazioni è già prefigurata tutta la storia di K. I suoi movimenti gli sembrano casuali, capricciosi, come quelli di un viaggiatore che comincia a guardarsi intorno in un luogo sconosciuto. Ma così non è. Ogni dettaglio, [60]ogni battuta che gli viene detta lo accerchiano, lo ingabbiano. Basterebbe che si soffermasse su alcune di quelle frasi e si spaventerebbe. Ma K. le intende ogni volta come frasi qualsiasi, buttate lì da persone alle quali non annette importanza: l’oste, il maestro di scuola incontrato per strada, il conciatore nella cui casa è entrato. Eppure sono frasi molto nette. «Non penso che tu abbia potere» ha detto l’oste. «Il Castello non piace a nessuno straniero» ha detto il maestro. E poi: «Fra i contadini e il Castello non c’è nessuna differenza». Infine: «Da noi l’ospitalità non è usanza, non abbiamo bisogno di ospiti» ha detto il conciatore. Parole che fanno paura. Nell’antro fumoso e oscuro dove due uomini barbuti sono immersi in una grossa tinozza, dove una giovane donna dagli «stanchi occhi azzurri», abbandonata in «un’alta poltrona», tiene un lattante al seno, «inerte», e guarda verso l’alto, «verso un luogo indefinito», come una Madonna della melanconia, mentre dall’unica apertura sul muro in fondo una scialba luce di neve dà un «riflesso come di seta» al suo vestito – in questa penombra arcaica e torpida dove l’unica legge riconosciuta potrebbe essere la legge dell’ospitalità, udiamo queste parole brutali e ferme, che forse non erano mai risuonate in un romanzo: «Da noi l’ospitalità non è usanza». Ma soprattutto: «Non abbiamo bisogno di ospiti». Queste ultime parole sono le più dure che a K. capiterà di udire. Ma ci passa subito sopra: «Certo, e perché mai avreste bisogno di ospiti?». Frase che vuole addirittura stabilire una complicità – e serve a K. per introdurre il punto che gli sta più a cuore: se stesso come eccezione, come l’eletto. K. prosegue: «Ma, ogni tanto, di qualcuno avrete pur bisogno, per esempio di me, dell’agrimensore». Così, di slancio, K. passa oltre l’occasione per capire. [61] Una nebbia ancora lo avvolge, lo protegge, lo beffa.
La gente del villaggio sa – e dà per sottinteso – che lì vigono leggi diverse da quelle del resto del mondo. Innanzitutto perché il villaggio è quanto di più prossimo vi sia al Castello. Ma anche per un altro motivo: il villaggio è costituito in modo diverso rispetto al resto del mondo. Ha un’altra fisiologia. Nel villaggio, la religione è ridotta a riferimento topografico: si desume che vi sia una chiesa semplicemente perché viene nominata una volta, ma altrimenti nulla di religioso viene nominato. E forse suonerebbe empio e incongruo, perché il villaggio è totalmente assorbito nella sua prossimità al Castello. Quanto ai libri, mai ne viene fatta menzione. Solo nelle ultime righe del romanzo si fa cenno a un libro che sta leggendo, china, la vecchia madre del carrettiere Gerstäcker, in una capanna appena rischiarata dalla luce del fuoco. Ma non sapremo altro di quel libro perché lì si interrompe il romanzo, mentre la vecchia muove le mani tremanti verso K. e gli sussurra qualcosa di incomprensibile. I libri come pluralità appaiono invece solo al Castello, in un vasto ufficio. Sono disposti su un alto e lungo leggio che divide la stanza in due. Solo i funzionari li compulsano, soltanto loro sanno che cosa sta scritto in quei libri – e se ha un qualche rapporto con le parole che gli stessi funzionari dettano sussurrando agli scrivani. Perché «qui si scrive molto», osserva una volta lateralmente K., con la sua usuale mescolanza di perspicacia e sfrontatezza. Come si può desumere dal comportamento del segretario Momus, nulla è compiutamente avvenuto se non è stato messo a protocollo. Così, seduto a un tavolo nella sala [62] della mescita, Momus completa con zelo il verbale di ciò che è accaduto pochi minuti prima, e intanto sbriciola fra le pagine del documento il suo bretzel al cumino. Ma, a parte gli atti, con i quali i funzionari del Castello hanno continuamente a che fare – o per redigerli o per consultarli o per conservarli o anche per sottrarsi alla loro vista, come avviene a Klamm –, a parte questi innumerevoli fogli vergati a mano, talvolta con sottolineature in blu, non si menzionano altri scritti. E soprattutto: non vi è traccia di alcunché di stampato. E forse non esiste. Difficilmente si immaginano scaffali nei bui antri dei contadini. Nella sala della mescita ci sono tavoli, sedie e botti. Nelle stanze delle serve ci sono panni sporchi ammonticchiati. La sola stanza dei signori dove K. si tratterrà, quella di Bürgel, è spoglia. L’unico esemplare di realtà rappresentata è, all’Osteria del Ponte, un singolare ritratto, che K. suppone raffiguri il conte Westwest. Prima e gravissima gaffe, perché invece è il ritratto del custode del Castello. Si può dunque supporre che, al villaggio, religione e cultura sussistano come mere quinte, perché la vita vi deve avere un’aria di famiglia con il resto del mondo. Ma, nella sostanza, sono state amputate. Così, mancando ogni sorta di mediazione, il villaggio risulta essere l’ultimo avamposto del manifesto che quasi aderisce all’immanifesto. Questa è l’origine dell’atmosfera oppressiva, soffocante, di cronica angosciosità, che grava sul villaggio. Questo è il sottinteso dell’espressione che si riscontra nei suoi abitanti, come in esseri soggetti a qualcosa di superiore alle loro forze, a una tensione insopportabile, non commisurata a quel poco che apparentemente avviene nel villaggio. Perciò anche K., come ogni straniero, è considerato da tutti abissalmente «ignaro» – e come tale non solo viene disprezzato, ma anche [63] invidiato, in segreto, perché K. è ancora avvolto dal soffio beato dell’incoscienza. E, quando Frieda accenna alla possibilità di «andarsene via» con K. dal villaggio, dove per altro nulla li costringe a restare, avvertiamo nella sua voce un’euforia incontrollabile.
Se gli abitanti del villaggio vedessero gli esegeti del Castello parlare diffusamente di dèi e di Dio, e di come interferiscano nella loro vita, probabilmente assumerebbero un’espressione di insofferenza. Come sarebbe semplice avere a che fare con gli dèi o con Dio… Basterebbe studiare un po’ di teologia e affidarsi alla devozione del cuore – penserebbero. Ma i funzionari del Castello sono qualcosa di più intricato. Non c’è scienza né disciplina che aiuti a trattarli. Solo l’esperienza – un’esperienza trasmessa in sussurri di casa in casa o di tavolo in tavolo nella sala della mescita.
In fatto di riduzione, nessuno ha raggiunto la maestria di Yājñavalkya. Interrogato dallo scaltro Śākalya, seppe ridurre i tremilatrecentosei dèi all’unico brahman. Davanti al re Janaka, mostrò che tutti i mondi sono tessuti sull’unico brahman. Ma il brahman, qualsiasi cosa esso sia, non può che dividersi in due parti: «immanifesta» e «manifesta», avyakta e vyakta. L’unico è perciò sempre due. E, fra le due, la sua prima parte è sempre più grande. Tre quarti del brahman sono l’immanifesto, un quarto è il manifesto. Il brahman è l’oca selvatica, lo haṃsa di cui i testi dicono che, «ascendendo, non solleva una zampa dall’acqua. Se lo facesse non ci sarebbero né l’oggi né il domani». L’acqua è il brahmanimmanifesto, l’oca selvatica che ne emerge il brahman manifesto.
Kafka nacque in un mondo dove la parte dell’immanifesto [64] – la parte preponderante di ciò che è – sempre più veniva ignorata e rinnegata. Del mondo si sentiva dire che era nato dal nulla, senza che ormai si cogliesse l’enormità e la blasfemia di quelle parole. Blasfemia non rispetto a un Dio, ma rispetto al tutto. Al tempo stesso, il mondo veniva ridotto al visibile, al vyakta. Di esso si diceva che fosse fisica più chimica. Perciò tutto visibile: o dai nostri occhi o dagli occhi di ingombranti macchine appostate nei laboratori. Questo era il mondo in cui Kafka nacque e fu educato, da ebreo benestante e assimilato di Praga, che parla tedesco e impara presto che il mondo ormai, nella normalità del suo funzionamento, sa fare a meno di ogni specie di Dio e di ogni specie di dèi. Era un mondo dove la distinzione fra vyakta e avyakta non veniva certo formulata in quei termini. Ma una traduzione accessibile e immediata si dava quando ci si riferiva al visibile e all’ invisibile. Ed erano poi i termini più familiari alla liturgia cristiana. La porta della sala della mescita nell’Albergo dei Signori, dove Frieda ha praticato un minuscolo foro che permette a K. di contemplare Klamm, immobile e forse assopito davanti a un tavolo, quella porta è l’iconostasi.
Parlare di dèi, di Dio e del divino a proposito del Castello è una grave indelicatezza, perché nulla di questo vi è mai menzionato, a meno che non si intenda tutto Il Castello come una favola esopica. Ma è davvero tale? La novità letteraria del Castello sta innanzitutto nel non essere una favola. Mentre molte altre narrazioni di Kafka – dalle Indagini di un canealla Tana, alla Costruzione della muraglia cinese – possono (e forse devono) essere intese almeno come apologhi. E da ciò traggono anche la loro forza. [65]Mentre la forza narrativa del Castello sta altrove. Il Castello è un romanzo affine a quelli di Dickens o di Dostoevskij, che Kafka venerava. La differenza sta nel luogo dove il romanzo si svolge: che è il discrimine fra vyakta e avyakta. Nessuno si era azzardato a scrivere un romanzo su quella linea di confine, che poi non riesce a essere una vera linea di confine, perché la strada del villaggio non giunge mai al Castello, ma piega prima e prosegue costeggiandolo senza avvicinarsi oltre un certo limite. Questa è solo una delle varie stranezze che si incontrano in quei luoghi.
Ancora più del Processo, Il Castello ha suscitato una cronica vertigine negli esegeti. Non c’è romanzo più adatto per avviare i suoi lettori al «tormento di un commento senza fine». Che però pochi sono in grado di sostenere, poiché rara è la fibra dei talmudisti. I più non reggono a quel «tormento» e cercano requie in una interpretazione onniavvolgente. Così non si dà romanzo che tanto scrupolosamente venga scortato, come da occhiute dueñas, dalle sue interpretazioni. Si tratta per lo più di interpretazioni tolleranti, magnanime, pronte ad ammetterne innumerevoli altre, anche incompatibili, purché interpretazione vi sia. E spesso pronte a battersi il petto e a dichiarare la propria inadeguatezza. Eppure loquaci e invadenti.
All’inizio, K. è un agrimensore che giunge in un villaggio per prendere il suo posto. Alla fine, è bidello nella scuola del villaggio. E il carrettiere Gerstäcker gli offre di governare i suoi cavalli. Anche se K. «non capisce nulla di cavalli». Ma non importa, [66] dice Gerstäcker. Allora perché quell’offerta? Perché Gerstäcker conta su una certa influenza che K. può esercitare in suo favore su un segretario del Castello, Erlanger. Dal punto di vista di K., ciò che gli è accaduto dopo il suo arrivo al villaggio è una costante regressione verso l’incongruo, congiunta a un intensificarsi delle umiliazioni. Ma, al tempo stesso, ora per la prima volta gli viene attribuita un’influenza, come se ormai egli facesse parte della rete dei rapporti del Castello, che si estendono su tutto il territorio del villaggio. Già all’inizio era stato detto che se qualcuno «abita o pernotta qui [nel villaggio], abita o pernotta in certo modo (gewissermassen) nel Castello». Quel gewissermassen corrisponde alla particella iva che incontriamo così spesso nei Brāhmaṇa – e segnala che ci si addentra nelle zone più segrete del pensiero, dove tutto va inteso come fosse preceduto da quell’iva, «in certo modo, per così dire». L’offerta di Gerstäcker è l’ultimo stadio che conosciamo nelle peregrinazioni di K. E allora, come spesso accade intorno al Castello, certe parole già sepolte fra tante altre irrilevanti tornano improvvisamente a rintoccare, dense di significato e di sarcasmo. Quando K. e il carrettiere si erano incontrati, il primo giorno, e non sapevano neppure il nome l’uno dell’altro, si erano scambiati queste battute: «“Chi aspettate?”. “Una slitta che mi prenda” disse K. “Qui non passano slitte,” disse l’uomo “qui non c’è traffico”. “Ma è la strada che porta al Castello” obiettò K. “Lo stesso, lo stesso,” disse l’uomo con una certa inesorabilità “qui non c’è traffico”».
K. si prepara alla visita al sovrintendente del villaggio. È il quarto giorno dal suo arrivo e K. non ha avuto alcun rapporto diretto con un rappresentante [67] dell’autorità comitale. Ora deve cominciare – e non certo dall’alto. Eppure è «scarsamente preoccupato». Si è già stabilita una ingiustificata intimità fra K. e la potenza del Castello, pur quiescente sinora. K. sente quella potenza, come un pianista sente i tasti. Le sue osservazioni sul «servizio» del Castello sono finissime: ha già percepito che esso ha un «mirabile carattere di unità», una continuità nell’operare che altrove non si riscontra. Anzi, che «là dove apparentemente essa non era presente si presagiva che raggiungesse una particolare perfezione». È qui un taoista che parla? Non proprio, perché un taoista non lotta, mentre K. lotta, anzi è «l’attaccante» che assale quelle stesse «autorità» che pure «in larga misura gli venivano incontro». Anche se soltanto «in cose inessenziali». Ma di che altro si era trattato in quelle prime ore?
Una ulteriore questione, più urgente, si pone: perché K. attacca? Che bisogno ne avrebbe, poiché deve soltanto prendere possesso di una funzione che, pur fra qualche equivoco, potrebbe – a quanto pare – essergli concessa? Ma la lotta c’è. E subito si delinea nel suo singolare carattere: da una parte le autorità, che devono «difendere cose remote, invisibili, sempre e soltanto in nome di remoti, invisibili signori». Definizione fulminea, dove il punto decisivo non sta nell’invisibilità e lontananza dei signori ma delle coseche le autorità devono difendere. Cose di quale natura? E come mai queste autorità, invece che di imporsi, come usualmente accade, si preoccupano subito di proteggersi da un oscuro straniero, da un aspirante «lavoratore», con tutto ciò che di penoso a tale parola si accompagna? Rispetto alle autorità – e al loro rapporto esclusivo con ciò che è remoto e invisibile –, K. è l’estremo opposto: qualcuno che «lottava per qualcosa di vivissimamente vicino, [68]per se stesso». Lottare per se stesso: questo doveva apparire sconveniente, forse anche ripugnante, alle autorità, abituate ad altri spazi.
Eppure le autorità avevano mostrato verso K., sin dall’inizio, una generica benevolenza, lasciandolo «sgattaiolare ovunque voleva», anche se nel termine traspariva già qualcosa di spregiativo. Ma così al tempo stesso «lo viziavano e lo indebolivano». Forse quella benevolenza, allora, era una superiore malizia, che serviva a spingere K. sempre più in mezzo alla «vita non ufficiale, totalmente indominabile, torbida, strana». E che altro era quella specie di «vita» se non la vita stessa senza qualifiche, nel suo stato grezzo, informe, sfrangiato? Sarebbe così potuto accadere che K., impaniato in quella vita informe, si rovinasse. E allora si sarebbe potuto assistere a questo spettacolo: «L’autorità, pur sempre mite e amichevole, sarebbe dovuta intervenire, in certo modo controvoglia ma in nome di un qualche ordinamento pubblico a lui [K.] ignoto, per spazzarlo via». In queste righe per la prima volta si dichiara la posta in gioco – e si capisce che il gioco può essere terribile. Perché l’autorità, pur mantenendo il suo atteggiamento «mite e amichevole», potrebbe da un momento all’altro, e forse a malincuore, «spazzare via» K. come un rottame che ingombra la strada. Si constaterebbe allora che la sottigliezza teologica e la brutalità poliziesca non appartengono a mondi diversi. Possono convivere. Possono anzi essere il presupposto l’una dell’altra. Forse soltanto in questo modo è possibile, con una tale ostentazione di mitezza, «spazzare via» qualcuno che dopo tutto può essere solo accusato di avere «condotto incautamente» un qualche frammento, per quanto breve, della sua «altra vita» («altra», si deve intendere, dalla vita ufficiale). Già questo basterebbe a diffondere [69] terrore. Ma non c’è tempo per fermarsi. K. passa oltre – e giustamente si chiede: «Che cos’era veramente, qui, quell’altra vita?». Subito precipitando verso una osservazione presaga: «Da nessuna parte K. aveva visto servizio e vita così intrecciati come qui, così intrecciati che a volte poteva sembrare che servizio e vita si fossero scambiate le posizioni». Ora al terrore succede la vertigine. Forse la vita gretta del villaggio era il vero servizio, preoccupato solo di cose «remote, invisibili» ? E forse il servizio era la vita stessa, come sempre «totalmente indominabile, torbida, strana»? Ma, soprattutto, che cosa significava quell’intreccio così intimo fra i due estremi, tale da contraffarne i tratti? Per esempio: finora l’autorità era stata per K. innanzitutto un nome: Klamm. Ma dove si manifestava la sua potenza: nella firma in calce alla sua lettera di capo della Decima Sezione, che si rivolgeva a K. alternando parole di rispetto e riconoscimento con altre imperiose e velatamente minacciose? O non era aleggiata, ben più solennemente, quando Gardena, l’ostessa della Locanda del Ponte, si era seduta accanto al letto di K., con la sua «gigantesca figura che quasi oscurava la stanza», in quella stanza delle serve che egli definiva un «buco ripugnante», e allora l’ostessa gli aveva spiegato, «come se questa spiegazione non fosse un’ultima cortesia, ma già il primo castigo da lei impartito», che da parte di K. il proposito di vedere Klamm era «impossibile» («Che razza di idee»! – e poi: «Lei desidera l’impossibile»)? Sì, in quel luogo sordido e soffocante, dove non si distinguevano, per terra, i panni sporchi delle serve e i corpi raggomitolati dei due assistenti di K., lì si può dire che per la prima volta dal suo arrivo al villaggio K. avesse udito un discorso di vasta portata, che mescolava astrazione e pettegolezzo nello stesso amalgama – ed era anche [70] un discorso denso di allusioni a ciò che fare si poteva o non si poteva, in obbedienza a regole che K. ignorava. Anche per quanto riguardava lui stesso, K. in quei momenti per la prima volta si era visto imprigionato in una definizione: «Lei qui è il più ignaro di tutti e sia cauto» aveva detto Gardena. Ma forse proprio questo ultimo affondo aveva dato a K. l’opportunità di riaprire il gioco, appunto perché «all’ignaro tutto appare possibile». Fu quello il momento – temerario – in cui K., già aprendo la porta della stanza, disse a Gardena: «Ma lei di che cosa ha paura? … Non avrà forse paura per Klamm?».
L’audace ipotesi di K., che «servizio» e «vita» possano addirittura scambiare le loro «posizioni», implica conseguenze che solo a poco a poco si sveleranno. La prima riguarda il modo di comportarsi– punto fondamentale, poiché di questo innanzitutto si tratta nella storia di K. E appunto su questo si prospetta un rovesciamento assai difficile da applicare, perché va contro il senso comune: «qui» – pensa K., intendendo ciò che circonda il Castello, e l’avverbio ha la stessa pregnanza del «quaggiù» che usa Platone – forse sarebbe «appropriato» (am Platze, «nel suo luogo») mantenere «un atteggiamento un po’ leggero, una certa scioltezza soltanto quando si ha a che fare direttamente con le autorità, mentre per il resto era sempre necessaria una grande cautela, un guardarsi intorno da tutte le parti prima di ogni passo». Non c’è nulla di più pericoloso – si deve intendere – della vita normale. Lì, nei gesti più indifferenti e insignificanti, occorre ricordare che si è perennemente sotto sorveglianza. Lì ogni passo va calcolato guardandosi intorno, come se fossimo stretti d’assedio. Mentre, una volta che si è di fronte [71] alle autorità, quando il gesto usualmente è anchilosato per il timore di sbagliare, di commettere infrazioni pregiudizievoli alla nostra causa, proprio allora si raccomanda una qualche leggerezza, un certo abbandono, che in genere viene escluso perché potrebbe facilmente sembrare noncurante, irrispettoso, frivolo. In una sola frase, quello che si delinea non è altro che una rivoluzione copernicana del comportamento. K. la intravede quando ancora non ha avuto modo di accedere al primo incontro con una delle autorità: il sovrintendente del villaggio. E appunto presso di lui K. potrà constatare come la promiscuità fra «servizio» e «vita» vada molto oltre: il sovrintendente tiene gli atti ufficiali, quelle carte che sono la concrezione stessa del servizio, stipati nell’armadio della camera da letto. Quando quei grossi rotoli di carta si rovesciano per terra «legati come si usa legare le fascine», la moglie del sovrintendente, Mizzi, balza di lato, «spaventata». Evidentemente Mizzi sa che quei vecchi fogli sono materia irradiante, corrosiva, anche a distanza di anni.
La prima caratteristica di K. è una certa insolenza. L’insolenza dell’ignaro, qualcuno insinuerà, finché Gardena non glielo dice nel modo più crudo. Ma K. non riesce a trattenersi. Quando il sovrintendente gli racconta la storia della sua pratica, dove la parola «agrimensore» era sottolineata in blu, pratica che da lungo tempo si è insabbiata per una serie di circostanze e qualche errore, K. trova la storia «divertente» – e poi precisa: «Mi diverte soltanto perché mi permette di ricavarne una visione del risibile marasma che in certe occasioni decide dell’esistenza di un uomo». Qui il linguaggio non è certo quello con cui è raccomandabile rivolgersi a un funzionario. [72] Ma il sovrintendente prosegue, implacabile e «serio». Vuole subito obiettare che se dal suo racconto K. suppone di aver ricavato una qualche «visione» si sbaglia, perché il racconto è appena iniziato – e K. ancora lo ignora.
K., però, non è meno tenace e implacabile del sovrintendente. Lo lascia parlare, lascia che il sovrintendente sempre più si avviluppi nella descrizione di quell’errore del quale «chi potrebbe mai dire definitivamente che è un errore» – ed è appunto l’errore che concerne K. Ma subito dopo K. riprende la sua distinzione. Da una parte – egli dice – ci sono i servizi, gli uffici e ciò che avviene al loro interno: mondo autosufficiente, che soltanto nei termini «ufficiali» può essere inteso. Dall’altra un essere che sta «al di fuori degli uffici» ed è una «persona reale» che si scopre minacciata di subire «un danno da parte degli uffici» – e oltre tutto un danno «così insensato» che K. stenta a «credere alla gravità del pericolo». Ancora una volta, l’enunciazione di K. è spigolosa e secca, in chiaro contrasto con l’andamento ondoso e avvolgente delle argomentazioni del sovrintendente. Ma non per questo K. rinuncia a rispettare – forse anche con ironia – un certo cerimoniale di omaggi e riconoscimenti, poiché subito esalta la «stupefacente, straordinaria conoscenza della materia» che il sovrintendente avrebbe appena dimostrato. Premessa che rende tanto più efficace la frecciata che segue: «Però io a questo punto vorrei sentire anche una parola a proposito di me».
Al sovrintendente piace soprattutto parlare di Sordini. K., che sta seduto accanto al suo letto, è un buon pretesto per tornare sempre di nuovo a parlare [73] di Sordini, di quell’italiano «famoso per la sua scrupolosità» che opera come relatore nella sezione B. «Posizione che è quasi la più subalterna» osserva pensoso il sovrintendente. Persino a lui, che pure è un «iniziato», appare «inconcepibile» che «un uomo delle sue capacità» venga utilizzato in quel modo. Eppure, anche se Sordini occupa una posizione minore, c’è qualcosa in lui che incute sgomento. Ben lo sanno coloro a cui capita di essere oggetto di un suo attacco. Allora egli diventa «una visione terrificante per chi è attaccato, splendida per i nemici di chi è attaccato». Qualcosa di ferino si mescola alla sua alta capacità di «attenzione, energia, presenza di spirito», come se in lui ci fosse sempre una molla pronta a scattare. Certo, anche il sovrintendente ha due armadi, oltre al fienile, pieni di carte. Ma resta un contadino, che agisce occasionalmente da funzionario, sapendo benissimo di non essere all’altezza del ruolo. Mentre Sordini… Il sovrintendente ricorda, sognante, le descrizioni che gli hanno fatto della stanza di Sordini. Perché quella stanza non l’ha mai vista – così come non ha mai visto Sordini, che non scende mai, sempre «sovraccarico di lavoro». Ebbene: «tutte le pareti sono coperte da colonne di grossi incartamenti ammonticchiati». Si tratta solo degli atti su cui Sordini sta lavorando al momento. Spesso occorre perciò estrarre carte e reinserirle. E, poiché questo avviene «in gran fretta», continuamente si ode un sordo rumore provenire dalla stanza di Sordini: sono le colonne di carte che cedono, crollando una dopo l’altra. Quel suono è considerato caratteristico della stanza di Sordini. Arrivato a questo punto del racconto, assorto, il sovrintendente aggiunge un’osservazione generale: «Sì, Sordini è un lavoratore e dedica al caso più piccolo la stessa cura che al più grande».
[74]Anche davanti a questa visione maestosa, che sembra esigere il silenzio, K. non perde una certa sfrontatezza. E subito si appiglia, da buon contendente, alla menzione del piccolo e del grandeper insinuare al sovrintendente che il suo caso, seppure in origine «uno dei più piccoli», come in varie riprese gli è stato detto, forse anche per tenerlo a bada, proprio «attraverso lo zelo di funzionari del genere del signor Sordini è diventato un grande caso». Già in queste parole si può ravvisare una certa mancanza di rispetto. Ma quelle che seguono sono palesemente provocatorie. Non ci teneva affatto a diventare un «grande caso», dice K.: «Perché la mia ambizione non è volta a far sorgere grandi colonne di atti che mi riguardino e poi a farle crollare, bensì a lavorare in pace come piccolo agrimensore davanti a un piccolo tavolo da disegno». Nulla di più semplice, nulla di più lontano dalla fosca frenesia della stanza di Sordini. Ma anche nulla di più irrinunciabile, se ricordiamo ciò che Kafka scriveva in una lettera, nel periodo della stesura del Castello, a proposito del rapporto fra chi scrive e la scrivania: «L’esistenza dello scrittore dipende realmente dalla scrivania, se vuole sfuggire alla follia egli non può mai veramente allontanarsi dalla scrivania, con i denti deve tenercisi attaccato». Quell’essere attaccato con i denti a qualcosa che è la possibilità di una scrivania vale anche a descrivere il comportamento di K.
La tensione è palese. Eppure, anche un funzionario «non abbastanza funzionario» come il sovrintendente sa schivare ogni provocazione. Quasi rassicurante, puntualizza: «No, [il suo] non è un grande caso, sotto questo riguardo non ha motivo di lamentarsi, è uno dei casi più piccoli fra i piccoli. Il volume del lavoro non determina il rango del caso». Frase che suona come una regola generale nel funzionamento [75]degli uffici – e serve anche, una volta di più, a ricacciare indietro K., l’attaccante. L’arma più forte del funzionario verso lo straniero è l’umiliazione implicita.
All’inizio del Castello, quando si tratta del «riconoscimento» della qualifica di agrimensore per K., il testo parla di tale riconoscimento come «senz’altro spiritualmente superiore». Ma il testo cancellato rivela un’oscillazione: prima di giungere a quello «spiritualmente superiore», Kafka aveva scritto: «come tutto ciò che è spiritualmente superiore, anche un po’ opprimente». E un’altra incertezza c’era stata fra «opprimente» e «misterioso». Ora, in quella oscillazione fra qualcosa di schiacciante e qualcosa di segreto, intesi l’uno e l’altro come prima caratteristica di ciò che è «spiritualmente superiore», si accenna alla sostanza stessa della «lotta» che K. è venuto a condurre. Perché ciò che è «spiritualmente superiore» deve essere anche un peso che opprime chi gli si avvicina? Perché il suo modus operandi deve essere così simile alla persecuzione, anche – e forse innanzitutto – quando interviene la più alta delle sue prerogative: il riconoscimento? La frase più sconcertante che prende forma in K. consegue immediatamente all’attimo in cui K., sempre per via indiretta e attraverso il telefono, è venuto a sapere di essere stato «nominato agrimensore». Invece di rallegrarsi e tranquillizzarsi, K. si dice: «E se credevano, con questo riconoscimento del suo stato di agrimensore, riconoscimento che di per sé era senz’altro cosa spiritualmente superiore, di poterlo tenere costantemente nel terrore, si ingannavano, ebbe un lieve brivido, ma fu tutto». È facile passar sopra questa frase quando si è ancora all’inizio del [76]romanzo, come se fosse una normale rivendicazione. Ma, se ci si sofferma a guardarla, è come un territorio lunare, costellato di crateri.
Per gli abitanti del villaggio K. è irritante, ha l’aria di qualcuno che non sa come è fatta la vita. Ma è anche un essere romanzesco, avvolto dal soffio di un altro mondo. Così è almeno per le donne. Sia Frieda sia Pepi sia Olga: tutte rispondono con immediatezza a K., quasi con una antica familiarità. E K. è sicuro, diretto, ogni volta che si rivolge a loro. Che un’aura romanzesca circondi K. lo accertiamo però, per la prima volta, da un bambino, Hans. Quando Frieda gli chiede che cosa vuole diventare, Hans le dice: «Un uomo come K.». Ma che cos’è K. in quel momento? Un bidello appena licenziato. Seduto davanti a una cattedra, sta finendo la sua prima colazione, in uno spazio ghiacciato che è insieme palestra con qualche attrezzo ginnico, aula scolastica con qualche banco, e provvisoria camera da letto, segnalata da un pagliericcio steso per terra e «due coperte dure e ispide». I resti della cena sono sparsi sul pavimento, insieme con olio di sardine, cocci di una caffettiera, vestiti. Hans, bambino attento, ha visto questa miseria, ma K. rimane il suo ideale. Perché? Hans ha colto che K. non è una persona, ma la potenzialità stessa. È il regno del possibile che si insinua nell’automatismo coatto del Castello. Così può nascere in Hans «la credenza che, seppure K. si trovava ancora in una condizione bassa e spregevole, in un futuro, per altro quasi inconcepibilmente lontano, avrebbe però superato tutti». Con il suo tono di «cupa gravità», il piccolo Hans si dimostra altamente percettivo. È Hans il primo che riconosce [77] in K., per quanto meschino possa essere il suo stato presente, qualcosa di «più vasto» e persino di più giovane rispetto a qualsiasi creatura del villaggio. Perché lì i bambini nascono vecchi – o almeno sono subito costretti, come Hans stesso, ad assumere un tono altklug, «da vecchi saputi».
Il Castello è tramato di conversazioni – esaltanti, sfibranti. Talvolta sembrano dispute di sofisti. Spesso ci conducono in regioni che poco hanno a che fare con il punto di partenza della conversazione. E lì ci abbandonano, perplessi. Ma tale è la sottigliezza e la precisione dei dialoghi che ogni volta procediamo oltre con l’impressione che qualcosa di essenziale sia stato detto – e che ci sia sfuggito. L’esasperazione cresce, nel lettore come in K. Ma c’è un sollievo: il comico. Come uno squarcio nel tessuto dei dialoghi sopraggiungono scene di movimento, quali la prima notte passata da K., in funzione di bidello-custode, nella gelida palestra della scuola. Pantomima grandiosa, dove la parola viene esautorata e trionfa il gesto. Come in un musical di Busby Berkeley, i personaggi – K., Frieda, gli assistenti – si danno il cambio al centro della scena, con la muta assistenza degli attrezzi ginnici, di qualche banco e di una cattedra con la sua pedana. Regista occulto e demoniaco, un gatto vecchio e grasso che balza sul corpo di Frieda addormentata, terrorizzandola. E ugualmente evoca l’essenza più penetrante del musical la furibonda, astratta scena – verso la fine – della distribuzione degli atti. Dove Kafka sembra citare se stesso, rimandando alla matrice di ogni musical, che è – nel Disperso – la scena del cambio di turno dei sottoportieri all’Hotel Occidental, con il suo implacabile [78] incrociarsi di movimenti centrifughi e centripeti.
Il comico è il minuzioso: questa è la regola. Kafka la formulò, ma subito cancellando il passo dove la dichiarava (e si può leggere nell’apparato del Castello: «Il comico vero è senz’altro il minuzioso»). Quanto alle applicazioni, le ha disseminate in tutti i suoi scritti. Di qualsiasi cosa si tratti, basta essere puntigliosi, esigenti nel precisare i passaggi, inflessibili nel seguirne le fasi – e il comico erompe. Invincibile, sovrano.
Nella vita normale, scopre K. a un certo punto, è consigliabile «un guardarsi intorno da tutte le parti prima di ogni passo». Così agisce chi sa di essere sorvegliato dall’alto. Ma quando Klamm, che è l’emanazione prima ed esemplare dell’alto, viene visto muoversi, tutti concordano nel dire che «uscendo all’aperto, si è guardato intorno più volte». E c’è chi dice che lo faceva con aria molto «inquieta». «Forse cercava me» osserva K. – e le sue parole suscitano una generale ilarità nella sala della mescita. Ma, allora, di che cosa aveva timore Klamm? Da chi temeva di essere sorvegliato? Da K. stesso, insinua il segretario Momus: «Siccome lei ha smesso di montare la guardia, Klamm è potuto andare via».
Il basso e l’alto sono speculari, dice la Tabula Smaragdina. Ma non per questo devono toccarsi. O possono toccarsi impunemente. Tutta la vicenda del Castello è la storia di un incontro ostacolato, di un incontro che, per motivi non dichiarati ma di vasta portata, non deve avvenire. Per K., tutto congiura per [79] impedirgli di presentarsi a Klamm. E nulla inquieta Gardena, guardiana dei segreti, quanto il pensiero che K. possa intraprendere in proposito qualcosa «di testa sua». Ma anche Klamm non deveneppur pensare alla eventualità di incontrare K. Addirittura ci si preoccupa che il suo sguardo non abbia occasione di posarsi su alcuna traccia avvertibile della presenza di K. Perciò le orme nella neve di K. nel cortile dell’Albergo dei Signori vengono subito cancellate. Questo dovrebbe rassicurare Klamm, aiutarlo a ignorare K. O altrimenti – ed è l’ipotesi più audace – qualcuno vuole impedire a Klamm di avere un pretesto per pensare che potrebbe incontrare K. L’alto e il basso non devono toccarsi: da questa regola è governato il corso del mondo. Eppure Klamm e K. continueranno a essere in rapporto, anche se mai faccia a faccia. Pochi minuti dopo l’uscita di Klamm dall’Albergo dei Signori, K. riceve una sua lettera, consegnata da Barnabas, che si conclude con queste parole: «Io non La perdo di vista».
Più che una persona, Klamm è una emanazione, un elemento, come l’azoto. «C’è già troppo Klamm qui» dice Frieda – e sembra parlare della composizione dell’aria. «Tu vedi Klamm dappertutto» replica K. poco dopo, da teologo a teologa.
Del potere molto si fantastica nel villaggio sotto il Castello, ma K. brama di assistere a una sua epifania. Solo una volta gli è dato – e di sorpresa. K. si aggira nel cortile coperto di neve dell’Albergo dei Signori. Aspetta Klamm, ha l’ardire di aspettare Klamm. Un cocchiere avvolto in una pelliccia sta seduto a cassetta davanti a due cavalli. Dietro di lui, [80] scura, come un animale acquattato, la slitta di Klamm. Con familiarità non giustificata, il cocchiere intirizzito invita K. a prendere una fiaschetta di cognac da una tasca interna della slitta e a dividerla con lui. K. non si chiede neppure ragione di quella sfrontatezza. La slitta lo attira irresistibilmente. È lo scrigno del potere, il suo mobile tabernacolo. Appena vi mette la testa, K. avverte un tepore che non somiglia ad alcun altro – e non diminuisce a contatto con il gelo esterno. Nella slitta non si sta seduti ma si affonda, fra coperte, cuscini, pellicce: «Da qualsiasi parte ci si girasse e allungasse, sempre si sprofondava nella morbidezza e nel tepore». Il potere è un elemento avvolgente. Come il tepore nella slitta di Klamm. Qualcosa che lascia sprofondare in sé, che rende futile ogni pensiero di tornare al mondo esterno. L’aria che K. respira all’interno della slitta di Klamm è l’aura.
Un lieve annebbiamento coglie K. L’ovvia considerazione che non sarebbe bene per lui farsi sorprendere in quella posizione non è più tanto evidente, ma gli giunge «alla coscienza solo indistintamente, come un lieve disturbo». E poi il cognac… Finalmente K. estrae una fiaschetta da una tasca della slitta: «Senza volerlo dovette sorridere, da quanto il profumo era dolce, carezzevole, come se uno sentisse, da una persona che ha molto cara, lodi e buone parole e non sapesse neppure precisamente a proposito di che cosa e non lo volesse neppure sapere e fosse soltanto felice nella consapevolezza che è proprio quella persona a parlare in quel modo». Così profondo è l’incanto di quel profumo che K. si domanda se nella fiaschetta c’è davvero cognac. E osa assaggiarlo. «Sì, era cognac, stranamente, e bruciava e riscaldava». Eppure «bevendolo si trasformava da qualcosa che era quasi soltanto veicolo di un [81] dolce profumo in una bevanda da cocchieri». K. lo ignora, ma quello è l’ultimo istante in cui gli viene concesso di odorare l’essenza del potere. Improvvisamente il cortile viene illuminato, da ogni parte, con urtanti luci elettriche. Sì, quel tranquillo albergo di campagna era crivellato di lampade, «sulle scale, nel corridoio, nell’androne, fuori al di sopra dell’entrata». Così diventava il cortile di una caserma di polizia. Con quello stridente segnale la visione si chiude.
IV
LA VIA DELLE DONNE
[85] Frieda, Pepi, Olga, Leni: questi esseri femminili bisillabici, subalterni, erotici sono gli unici interlocutori con i quali K. e Josef K. parlano come se parlassero con se stessi. L’intimità sessuale è solo una conseguenza di una precedente intimità psichica, come se ciascuno di questi esseri abitasse da sempre una nicchia nella mente di K. e di Josef K., cariatidi davanti a cui l’occhio passava senza soffermarsi, accennando un saluto – e ora hanno il respiro e la mobilità dei corpi di carne. Non solo: hanno una voce e si offrono come consigliere, anche se non è chiaro verso dove la loro parola possa guidare.
Come Talleyrand, K. pensa che, per ottenere un risultato, occorra «faire marcher les femmes». Ma questa non è solo una sua inclinazione. È anche l’unica via apparentemente praticabile. Al villaggio, le attività degli uomini hanno un profilo incerto. Sappiamo che ci sono un calzolaio, un conciatore, un carrettiere, [86] un maestro di scuola. Ma non li vediamo all’opera, né si tratta mai di ciò che fanno. I primi uomini che K. incontra vivono – si scoprirà presto – in uno stato di sudditanza alle donne che hanno accanto: l’oste soggiogato da Gardena, Schwarzer accucciato ai piedi della cattedra di Gisa, «pago di vivere nella vicinanza, nell’aria, nel calore di Gisa».
Ben diverso è il modo di presentarsi delle donne. Quello che subito veniamo a sapere di loro converge verso un punto: il sesso. Gardena vive nel ricordo di tre incontri amorosi con Klamm. Frieda è innanzitutto l’amante en titre di Klamm e diventa amante di K. pochi minuti dopo averlo conosciuto. Pepi flirta con i clienti dell’Albergo dei Signori. Olga si dà regolarmente per denaro ai servi dei signori. La vita di Amalia è tutta una conseguenza dell’aver rifiutato le oltraggiose profferte erotiche di un signore del Castello, stracciando la lettera che le conteneva. Parlare di queste donne significa parlare delle loro vicissitudini sessuali. E sono le storie che innervano la vita del villaggio, altrimenti amorfa e inerte. Attraverso quelle storie si può avvertire la tensione esacerbata tra il villaggio e il Castello. È inevitabile perciò che K. entri nell’intimità di queste donne, se vuole accedere a una qualche conoscenza dei luoghi. Il sesso è per lui l’unica lingua franca.
Che la via delle donne scelta da K. sia una via efficace viene confermato quando finalmente è il Castello, attraverso il segretario Erlanger, a chiedere qualcosa a K. E la cosa in questione riguarda Frieda. Il Castello desidera che Frieda torni a servire nella sala della mescita, perché anche un irrilevante mutamento nelle abitudini di Klamm potrebbe arrecargli disturbo. O più precisamente: perché l’eventualità [87] che Klamm possa essere disturbato non disturbi gli altri funzionari che «vegliano sul benessere di Klamm». Quanto più Erlanger insiste sulla piccolezza, anzi sull’irrilevanza, del favore richiesto a K., assimilato al ripristino del «minimo cambiamento sulla scrivania, l’eliminazione di una macchia di sporco che c’era da sempre» – dove alla «macchia di sporco» corrisponde, nel paragone, Frieda stessa –, tanto più quel favore appare sospetto, come se si volesse occultare che la sua importanza è enorme, al punto che da esso dipende la «pace» dei funzionari, quindi di tutto l’apparato del Castello. Erlanger si abbassa fino a dire a K.: «Se lei darà buona prova in questa piccolezza, ciò potrà tornarle utile, all’occasione, nel suo cammino futuro». Qui, per un istante, K. assiste all’umiliazione del Castello, che usualmente è la fonte di ogni umiliazione. Come in un dialogo fra diplomatici o fra mercanti o fra criminali, Erlanger accenna che a un piccolo gesto di favore risponderà un giorno, dall’altra parte, un altro gesto di favore, forse anche più considerevole.
Ma K. ha ormai sviluppato un orecchio troppo fine verso il Castello per non avvertire nelle parole di Erlanger un sottotono di «derisione». Di fatto, anche se K. volesse mostrarsi zelante per ottenere il risultato richiesto da Erlanger, non potrebbe. Semplicemente perché quel risultato è già stato raggiunto. Frieda ha già concordato con l’oste di riprendere servizio nella sala della mescita. Hanno solo deciso di ritardare il rientro di ventiquattr’ore per non infliggere a Pepi «l’onta di dover abbandonare immediatamente la mescita». Di tutto questo K. è stato informato a cose fatte. E dov’è in quel momento Frieda? A pochi passi da lì, a letto con l’assistente Jeremias. Come poteva Frieda resistere a quel «compagno di giochi dell’infanzia»? Oltre tutto lo cura, [88] perché Jeremias è un po’ malconcio, dopo le vessazioni dei giorni precedenti.
Così, anche nell’unico caso in cui si richiedeva a K. di intervenire, si confermava la regola del luogo: che, qualsiasi fossero gli ordini del Castello – e potevano essere «non favorevoli o favorevoli, e anche quelli favorevoli avevano sempre un ultimo nocciolo sfavorevole» –, in ogni caso, per K., «passavano sopra la sua testa». Perché? Evidentemente, riflette K., perché «egli era situato troppo in basso per intervenire su di essi o magari farli tacere e ottenere che la sua voce trovasse ascolto».
Ma allora Erlanger voleva solo beffarlo, chiedendogli un aiuto per risolvere qualcosa di già risolto? Non è certo. Con l’indefettibile perspicacia che è propria dei funzionari del Castello, forse Erlanger aveva preso come puro pretesto il ritorno di Frieda nella sala della mescita, mentre voleva soltanto che K. accettasse di comportarsi in un certo modo verso di lei: che dichiarasse la propria disponibilità a farla tornare al suo posto nell’ordine del villaggio. Ricondurla alla mescita equivaleva a riconsegnarla a Klamm.
È vero che, pochi minuti prima, Frieda aveva detto a K.: «Mai, mai tornerò da te, rabbrividisco a pensare a una tale possibilità». Ma questo si riferiva alla vita con K. al villaggio. E Frieda aveva aggiunto che ancora fantasticava su che cosa sarebbe successo se fossero «andati via subito quella stessa notte», la prima notte. Ora sarebbero «da qualche parte al sicuro». Ma «al sicuro» da che cosa? La minaccia sottesa a ogni attimo della vita intorno al Castello qui sta per affiorare. È forse questo che Erlanger temeva? E forse temeva anche il sentimento di Frieda quando dirà a K., subito dopo: «Stare vicino a te, credimi, è l’unico sogno che io sogni, non ce n’è un altro». Se così era, Erlanger aveva richiesto a K. di soffocare [89] l’unico sogno della sua fidanzata. Questo sarebbe stato certamente ascritto a merito di K. Era l’unico suo merito che il Castello si dichiarava pronto a compensare.
Quando K. giunge al villaggio sotto il Castello, con le donne che incontra ripete gesti e reazioni che erano stati di Josef K. all’inizio del suo processo. Anche Josef K., come K., si era sentito «il primo straniero che passa», appena una donna aveva buttato gli occhi su di lui. Nel suo caso era stata la lavandaia, moglie dell’usciere del tribunale, e subito Josef K. si era domandato se non lo faceva perché «stufa dei funzionari del tribunale». La stessa insofferenza verso un alto funzionario del Castello che K. attribuirà a Frieda. E immediatamente Josef K. si era messo a indagare sugli eventuali «rapporti» fra la lavandaia e gli alti funzionari, per poterli usare a proprio vantaggio. Così Pepi dirà di K. che si è fidanzato con Frieda soltanto perché attirato dai suoi «collegamenti di cui nessuno è al corrente» con funzionari del Castello.
Ma anche le reazioni femminili a Josef K. coincidono con quelle che provoca K. La lavandaia, Frieda, Pepi: queste donne che a tratti sembrano a disposizione dei funzionari, come in un bordello di guarnigione, sognano subito di farsi portare via dallo straniero ignaro – Josef K. o K. Vogliono emigrare, fuggire per sempre. Alla fine del loro primo dialogo, la lavandaia sussurra a Josef K., mentre già sta allontanandosi verso un altro uomo: «Se lei mi porta con sé, vado ovunque lei vuole, lei può fare di me quello che vuole, sarò felice se sarò lontana da qui per il tempo più lungo possibile, meglio ancora se per sempre».
[90]Certo, grande è la differenza fra gli amanti di Frieda e della lavandaia. Klamm è un alto funzionario, il cui nome basta a incutere reverenza nei servi come nei signori. E c’è chi mette in dubbio che K. possa mai riuscire anche solo a rivolgergli la parola. Mentre Bertold è solo uno studente: piccolo, con le gambe storte e una corta barba rossiccia. Convoca la lavandaia, sua schiava erotica, «soltanto con un dito». La lavandaia lo considera «una persona repellente» e, in sua presenza, lo chiama «piccolo mostro». Ma di lui si dice che «verosimilmente sarebbe giunto un giorno a un alto grado come funzionario». Questo futuro incombente basta a permettergli di esercitare la sua «tirannia» sulla lavandaia. Appena la vede la tocca, la bacia, la spoglia, la rovescia per terra, incurante di chi sta intorno, che sia tutto il pubblico ammassato nella sala delle udienze o il solo Josef K. Il corpo di lei, che appare agli occhi di K. «rigoglioso, flessuoso, caldo, dentro un vestito scuro di stoffa rozza, pesante», viene stretto dallo studente dovunque può, contro un muro, contro una finestra, contro il pavimento. Anche se la lavandaia apparentemente detesta lo studente, Josef K. sospetta che lo ami e ne è geloso. Come lo è del giudice istruttore che ha soltanto visto la lavandaia dormiente e le ha detto che «non avrebbe mai dimenticato quella visione». Poi «attraverso lo studente, nel quale ha molta fiducia ed è suo collaboratore», ha fatto avere alla lavandaia delle calze di seta, che la lavandaia trova «belle ma veramente troppo fini e non adatte» per lei.
Rispetto al mondo del Castello, quello del Processoè più brutale, crudo. I passaggi sono più urtanti, stridenti, spigolosi. I meccanismi erotici sono identici – e si ripetono puntualmente.
[91]Le donne sono attirate da Josef K. come «il tribunale è attirato dalla colpa». A partire dal momento dell’arresto, K. è circonfuso, ovunque vada, da un alone erotico. Ogni suo rapporto con il tribunale e con i suoi rappresentanti, ufficiali o no, è contrappuntato dal sesso. Durante la sua prima deposizione, K. si accorge di un certo trambusto sul fondo della sala. Attraverso una luce «biancastra e abbagliante» riesce a intravedere una donna che viene stretta al muro da uno sconosciuto. È la lavandaia che poco prima gli ha aperto la sala delle udienze, guardiana della soglia del tribunale. Anzi, si scoprirà, quella donna è la moglie dell’usciere del tribunale e quei luoghi sono il suo appartamento. Ogni volta che c’è udienza, devono sgombrare la stanza adiacente. K. aveva sentito subito, senza alcun motivo e «fin dalla sua comparsa», che quella donna avrebbe prodotto «un grave disturbo». Ora pur nella ressa, e interrompendo la sua deposizione, K. ha modo di fissare lo sguardo sulla «sua camicetta sbottonata», che «le pendeva intorno alla vita» mentre lo sconosciuto la forzava (passo biffato).
In seguito verremo a sapere questo: la lavandaia è entrata nella sala delle udienze perché attratta da K., in particolare dai suoi «begli occhi scuri». Così ha compiuto un gesto che non arrischiava mai. Perché la sala delle udienze le era «in certo modo proibita». Forse per questo, come un vecchio marinaio che vede una donna calcare il ponte del suo battello, K. aveva subito avvertito la sua presenza come segnale di «un grave disturbo».
La donna entra nella sala mentre l’imputato sta deponendo. Le parole di K. sono veementi, potrebbero essere prese addirittura per un atto d’accusa contro il tribunale stesso. Subito la donna viene stretta al muro da uno studente che la perseguita da [92] tempo. Poi i due si congiungono sul pavimento. Quando la donna rivede K., una settimana dopo, si rammarica di avere perso una parte del suo discorso, che per altro le è «piaciuto molto», perché «durante il finale stava sdraiata con lo studente sul pavimento».
Difficile pensare un intreccio più inconfessabile e sfrontato di quello fra la vita del tribunale e la vita privata di chi gli è collegato. Nei locali degli uffici spesso viene stesa la «biancheria ad asciugare» e questo rende ancora più «irrespirabile» l’aria dei solai surriscaldati dal sole e sovraffollati per il «grande traffico delle parti». La domenica mattina, quando è ufficialmente fuori servizio, l’usciere viene mandato a consegnare un «messaggio comunque inutile» solo per allontanarlo qualche minuto da casa e permettere allo studente Bertold, che collabora con il giudice istruttore negli uffici al piano di sopra, di portarsi via la moglie dell’usciere stesso, magari sulle spalle. E magari non per sottoporla alla sua foia – ma per offrirla al giudice istruttore.
L’usciere sa benissimo che l’incarico a lui affidato è un pretesto e corre via, sperando al ritorno di sorprendere lo studente. Ma lo studente arriva sempre prima, perché deve soltanto «scendere le scale del solaio». È come una scena di Feydeau, con una sola differenza: qui il seduttore non sta nascosto dietro un paravento, ma dietro la porta dell’ufficio di un tribunale. Intanto cresce la furia vana dell’usciere. Vede già lo studente spiaccicato contro il muro, con le sue gambe storte e schizzi di sangue intorno. «Ma finora è stato solo un sogno» confessa a Josef K., poco dopo avergli stretto la mano per la prima volta. Se nessuno osa far nulla contro lo studente, è perché [93]«tutti hanno paura del suo potere». E paradossalmente nessuno potrebbe agire se non uno come K., un imputato. L’usciere è un subalterno fra tanti, la sua vita è compressa, quasi strozzata fra la sala delle udienze, che confina con il suo appartamento, e gli uffici del tribunale, pochi gradini più sopra. Non è eloquente, ma si sente che sa di che cosa parla. Simile a Pepi, la serva che pungola K. ad «appiccare il fuoco» all’Albergo dei Signori, anche l’usciere fa capire a Josef K. che sarebbe felice di vederlo intervenire con violenza, anche se non ci conta. E aggiunge: «Ci si ribella sempre». Nessun altro, neppure K., dirà parole altrettanto asciutte e radicali.
La natura erotica delle donne del Processo e del Castello produce un sommovimento psichico incontrollabile in Benjamin e Adorno. È come se quei personaggi li obbligassero a svelare le loro più riposte fantasticherie sessuali. Per Benjamin, le donne di Kafka emergono dal «mondo della polvere, della peluche e della muffa come da una scena preistorica». Il loro psicopompo è Bachofen, inventore e cantore di uno stadio eterico della palude sulla cui soglia incontreremo Leni con la sua membrana natatoria. Ma in altri passi Benjamin è meno sognante e più corrucciato, parla di «donne puttanesche», che corrispondono alla «spudoratezza del mondo della palude», con le sue luteae voluptates– e non possono perciò accedere alla «bellezza», come per una inadeguatezza morale... Quanto a Adorno, è l’unico esegeta che sembra fortemente colpito dalla figura dell’insegnante Gisa, personaggio laterale che appare soltanto in una scena del Castello, quando riprende possesso della sua aula nella scuola dove K. e Frieda si sono accampati con gli assistenti. [94] Kafka descrive Gisa come «una ragazza bionda, alta, bella, appena un po’ rigida». Nulla di più. Adorno così la descrive: «La bionda insegnante Gisa, forse l’unica bella ragazza, crudele e amante degli animali, che da lui [Kafka] viene raffigurata illesa, come se la sua durezza irridesse il vortice kafkiano, appartiene alla razza preadamitica delle fanciulle di Hitler, che odiano gli ebrei ben prima che questi vi siano».
Implicazioni della frase: Gisa, la bionda insegnante, dal corpo «pieno e rigoglioso», dai larghi fianchi, in quanto appartenente a una «razza preadamitica» rappresenterebbe forse quegli ur-indoeuropei boreali evocati da Herman Wirth? Che si immaginano in attesa di odiare gli ebrei che ancora non ci sono, perché troppo moderni? Forse aspettano che finalmente venga creato il primo ebreo per scagliarsi su di lui. Sarà Adamo.
Prefigurazione di tutte coloro che successivamente si presenteranno sotto i nomi di Leni, Pepi, Frieda, Olga è Fini, che appare dalle macerie carbonizzate dell’Hotel Kingston di Istanbul, in un racconto incantevole che Kafka lasciò sospeso. Colui che le spetterebbe di sviare e trascinare in una «dubbia avventura» si chiama Liman, è appena arrivato a Istanbul in un viaggio d’affari e si è fatto condurre all’albergo dove scende abitualmente. Il cocchiere si guarda bene dal dirgli che nell’ultimo incendio di Istanbul l’Hotel Kingston è stato distrutto. Così Liman si trova dinanzi a un cumulo di rovine. Che però subito si scoprono abitate da una parte del personale dell’albergo, rimasta senza lavoro. Già a questo punto respiriamo in un’attesa felice, come in un qualsiasi film degli anni Trenta che si svolga a Macao [95] – o anche a Istanbul. Ma il sigillo che ci dà la certezza di trovarci in una situazione consona a Kafka è l’apparizione di un signore «in redingote nera e cravatta rosso vivo», che comincia a raccontare dettagliatamente la storia dell’incendio, avvolgendo «la punta della sua lunga barba sottile alle dita». Sappiamo già, a questo punto, che Liman sta per essere invischiato in una storia che lo condurrà lontano e certamente dove egli non vorrebbe. Ma per ora è solo un viaggiatore che ha subìto un contrattempo e vuole sistemarsi al più presto in un albergo. «Hotel Royal» ordina Liman al cocchiere. Invano. L’uomo con la redingote ha già offerto di alloggiarlo in camere predisposte in abitazioni private dalla direzione dell’albergo, che non vuole rinunciare ai suoi vecchi clienti. E soprattutto l’uomo con la redingote ha chiamato in suo appoggio Fini. Tanto basta a diffondere un fremito tra le macerie. «Tutti cercavano Fini», come un nuovo Figaro. E Fini appare: ride, si tiene le mani sull’acconciatura dei capelli ancora troppo fresca, corre verso la carrozza. E subito si presenta: «Sono Fini» dice, «a voce bassa», e intanto fa «scorrere le mani sulle spalle» di Liman «accarezzandole». Poi si sviluppa una di quelle comiche colluttazioni che Kafka non rinuncia mai a descrivere in tutte le loro fasi, come nel Disperso. Fini vuole entrare a forza nella carrozza; Liman vuole impedirlo, già presago di complicazioni incresciose. Con l’aiuto dell’uomo in redingote, che la spinge da dietro, Fini prevale e riesce a sedersi nella carrozza, aggiustandosi subito «frettolosamente la camicetta e poi, con maggiore attenzione, l’acconciatura». Liman ricade sul suo sedile, di fronte a Fini. «È inaudito» lo sentiamo esclamare – come fossero le sue ultime parole prima di sprofondare in una nebbia morbida ed equivoca, dove soltanto [96] la mano di Lubitsch potrebbe guidarlo. E qui il racconto si interrompe, dissipandosi in una scia di profumo turco.
All’inizio, Leni è «due grandi occhi neri» che guardano dallo spioncino di una porta. La porta non si apre. Poco dopo i due occhi riappaiono, «ora sarebbero quasi potuti sembrare tristi». Finalmente Leni si mostra: indossa un lungo grembiule bianco, come si conviene alla sua funzione di infermiera, e tiene una candela in mano, che getta una luce malferma nell’appartamento dell’avvocato Huld. Fin dal primo momento Josef K. fissa Leni – e Leni fissa K. che guarda la sua faccia di bambola, in ogni parte rotonda, bombata, fino all’attaccatura dei capelli, che sono «folti, scuri, strettamente raccolti». Quando Leni parla, nel suo tono si intromette, quasi irresistibilmente, qualcosa di beffardo. Per attirare K. fuori dalla camera da letto dell’avvocato, rompe un piatto contro il muro. E, quando K. apre la porta per vedere che cosa è successo, lo rimprovera subito perché l’ha fatta aspettare. Intanto la sua piccola mano si è già posata su quella di K., prima ancora che questa lasci la maniglia. Leni vuole diventare al più presto l’amante di K. Gli chiede informazioni sulla sua amante en titre, scavalca i dinieghi di K., studia a lungo una istantanea di Elsa mentre balla e si concentra subito sui suoi difetti fisici. Poco dopo bacia K., gli morde il collo e i capelli – ed esulta: «Vede, ora mi ha già scambiata!». Intendendo: K. mi ha già scambiata con Elsa, ora ho occupato il posto di Elsa, che è «goffa e rozza» oltre che un po’ pingue. E soprattutto, insinua Leni, non saprebbe sacrificarsi per K. Tutto si mescola vorticosamente, come sempre accade appena K. incontra una donna: l’intimità sessuale [97] immediata, le informazioni sul processo. Che sono in palese contrasto con le «chiacchiere dei vecchi signori» nella stanza accanto. Leni è sobria, secca, precisa, e non si può escludere che sia l’unica a sapere come «sfuggire» al tribunale. Accenna a un intervento risolutore, a un sottofondo misterico, tra frivolezze e civetterie, di cui fa parte il gioco in cui Leni svela il suo «difetto fisico»: la membrana natatoria fra il medio e l’anulare della sua mano destra. «Che grazioso artiglio» dice K. e subito depone un galante baciamano su quello «scherzo della natura». È il primo bacio fra loro, un patto siglato all’istante fra K. e la natura non ancora del tutto emersa dalle acque. Ed è allora che Leni prende la sua testa fra le mani e lo bacia e morde sul collo «fin dentro i capelli». Intanto «frettolosamente, con la bocca aperta, si arrampicava con le ginocchia sul ventre» di K. esalando il suo «amaro eccitante odore come di pepe». Poi i due corpi intrecciati scivolano sul tappeto, palude primordiale sfiorata dal chiarore lunare. «Ecco le mie chiavi, vieni quando vuoi» sono le ultime parole di Leni accompagnate da un «bacio vagante». Per pura intensità erotica, la letteratura libertina ha poco da contrapporre a questa scena, immersa in quell’«odore come di pepe».
Appena K. incontra per la prima volta Pepi, nell’Albergo dei Signori, subito sembra mettersi in moto una macchina che registra puntualmente i dati del suo aspetto fisico e del suo vestiario. Come in una scheda segnaletica annota: «piccola, rossa, sana». Osserva la sua «rigogliosa capigliatura biondofulva, annodata in una grossa treccia». Non gli sfugge la sua aria «quasi infantile» né la sua carnosità. E al tempo stesso si accorge che Pepi è vestita in modo [98] sbagliato, inadatto, «corrispondente all’idea esagerata che lei aveva dell’importanza di una cameriera della mescita». Questo avviene in pochi secondi, mentre Pepi gli parla, con quel tono di istantanea intimità che sembrano avere tutte le donne del villaggio con K., mentre da parte sua K. sembra conoscerla già così bene da poter dire subito quali idee incongrue lei si faccia sul suo lavoro.
È evidente ciò che intanto passa per la mente di K.: con lei sarebbe potuto accadere tutto quello che è accaduto con Frieda, «se appena avesse avuto ragione di percepire che Pepi ha un qualche rapporto con il Castello». Questo dicono alcune righe biffate del manoscritto. Anzi, aggiungono un tratto violento: «Avrebbe tentato di strapparle il segreto con gli stessi amplessi, come aveva dovuto fare con Frieda». Mentre il testo definitivo testimonia soltanto che K. respinge questo pensiero e si dice: «Oh sì, con Frieda era diverso».
Quanto alla rapacità sessuale di K., ora si è spostata in una denegazione. Con il risultato che ne viene esaltata l’evidenza: «Mai K. avrebbe toccato Pepi. Tuttavia ora dovette coprirsi gli occhi un momento, da quanto avido era il suo sguardo». Le righe biffate sono ciò che il lettore riesce a intravedere, anzi: che riesce a vedere. Ma soltanto il lettore deve giungere a quella formulazione asciutta, drastica. Giungere al filo di ferro. Lo scrittore deve coprirlo, con brandelli di stoffa, argilla, foglie, stecchi – o qualsiasi altro materiale gli capiti fra le mani.
Frieda, Pepi, Olga, Amalia, la madre di Hans, Gardena, Leni, la lavandaia: tutto ciò che è femminile viene predato dai giudici del tribunale e dai funzionari del Castello. E comunque appartiene al tribunale [99] e al Castello. Nessuno osa affermare che una donna possa non essere sempre a disposizione di un funzionario o di un giudice qualsiasi. Eppure sarebbe sviante considerarle alla stregua di prostitute i cui clienti siano tutti soci dello stesso club. Si tratta piuttosto di ierodule, addentro non meno dei sacerdoti ai segreti del culto – e più di loro pronte a esporli e sondarli. Gardena è l’esempio di una ierodula matura, che ha già addestrato un’altra ierodula a sostituirla: Frieda. Le ragazzine per le scale di Titorelli sono le ultime allieve, che ancora giocano prima di assumere il loro ruolo. Un sentimento le accomuna, a eccezione di Gardena, che è custode rigorosa del culto – e difende strenuamente il Castello così come il cappellano delle carceri difende il tribunale. Le altre sognano tutte un amante che sia straniero al loro mondo, quindi già per questo colpevole. Come K. è attratto da Frieda o Josef K. dalla lavandaia perché immaginano che esse abbiano «rapporti» o «collegamenti» con il Castello o con il tribunale, e già pensano a utilizzarle ai loro fini, così per Frieda e la lavandaia K. o Josef K. emanano innanzitutto l’attrazione dello straniero, di colui che giunge da là dove si respira un’aria meno densa e soffocante di quella in cui le ierodule sono immerse. Questo non implica però che esse si oppongano drasticamente al Castello o al tribunale. L’unica radicale oppositrice – muta e reietta – è Amalia. Le altre hanno sentimenti misti e compositi. Frieda alla fine preferisce a K. i suoi vecchi giochi erotici con gli assistenti e riprende il suo posto all’Albergo dei Signori, come se si fosse assentata soltanto per far sentire più acutamente la sua mancanza. Ed è difficile stabilire fino a che punto la lavandaia sia tormentata e fino a che punto sia complice dei suoi persecutori sessuali. È vero che, mentre lo [100] studente se la porta via come un sacco, la lavandaia aveva salutato Josef K. «alzando e abbassando le spalle», nel tentativo di «fargli capire di non aver colpa del rapimento». Ma è vero anche che «quel gesto non esprimeva eccessivo rammarico», come se K. non stesse assistendo a una scena di sopraffazione, ma alla ripetizione di un rito, macchinosa e ineluttabile. Allora K. le aveva gridato: «E poi lei non vuole essere liberata».
Frase che va lontano. Si può sospettare che tutti e tutte – Josef K., K. e le donne – vogliano sopra ogni cosa addentrarsi sempre più nel tribunale e nel Castello, anche se li attraversa, talvolta, il pensiero lancinante di distruggerli. Ma intanto agiscono per esserne distrutti essi stessi.
Le «barnabassiche»: così venivano chiamate nel villaggio, con sprezzante sarcasmo, le due sorelle di Barnabas. Una, Amalia – l’«incomparabilmente ritrosa», la «maledetta barnabassica» –, era l’intoccabile della comunità. Nessuno le rivolgeva la parola. E nessuno avrebbe ricevuto risposta. Olga, il sostegno della famiglia, tale era in quanto prostituta ufficiale, addetta a soddisfare i servi nelle stalle. Così come per K. erano «ripugnanti», anche solo a nominarli, i suoi assistenti, altrettanto per gli abitanti del villaggio lo erano le barnabassiche. Bersaglio prediletto della perfidia, in primo luogo da parte delle altre donne. Prima fra tutte, Frieda. Nel suo ultimo colloquio con K. – il dialogo della rottura –, Frieda gli fa capire che il vero contrasto insanabile fra loro, quello dove affiorava la loro provenienza da «mondi totalmente diversi», era rappresentato dalla tensione fra gli assistenti e le barnabassiche. Si poteva stare o con gli uni o con le altre. Ma non con [101] entrambe le parti. Era un’incompatibilità senza rimedio. Quando si toccava quel punto, si avvertiva un segnale di allarme. Ora non era più tempo per argomentare e «confutare», attività a cui Frieda e K. si dedicavano con fervore. Su quel punto valeva solo una ripulsa immediata, fisiologica. Appena dopo aver detto che stare vicino a K. era il suo «unico sogno», Frieda accoglie beffardamente la perorazione di K. in difesa dei suoi rapporti con le barnabassiche e si chiude con l’assistente Jeremias nella sua stanzetta, per prendersi cura di lui. Lo accudisce come un bambino malato e come un vecchio amante. Jeremias aveva vinto – e in K. si formulava il sospetto che anche «in qualsiasi altra lotta» Jeremias avrebbe vinto. Non molte ore dopo essere giunto al villaggio con la pretesa di agire come «attaccante», K. era arrivato alla conclusione che, in qualsiasi scontro, sarebbe uscito sconfitto anche dalla creatura più spregevole del Castello. Finalmente si avvicinava a rimuovere ciò che sino allora era stato l’ostacolo più grave. Finalmente capiva che l’onnipotenza di Klamm si rifletteva anche nei suoi due assistenti. Per questo Jeremias, occupando il posto di Klamm nel letto di Frieda, pretendeva di sentirsi «un piccolo Klamm». E Frieda stessa, quando stava con gli assistenti, riusciva a trovare anche «nella loro sporcizia e nella loro libidine tracce di Klamm».
Soltanto quando sono in coppia gli assistenti incedono con un’andatura snodata, «elettrizzata», lesta. Altrimenti, se si presentano da soli, come accade a Jeremias, hanno un aspetto «più vecchio, più stanco, più rugoso». Anzi, Jeremias «zoppica un po’» e sembra «nobilmente malaticcio». K. stenta a riconoscerlo. Perché? «Perché sono solo» risponde [102] Jeremias, perfettamente cosciente del cambiamento. Sa che, da solo, non è più mosso dalla forza perturbante del doppio.
Altri scrittori, per esempio un romantico tedesco, avrebbero presentato gli assistenti di K. come virgulti demoniaci, creature «simili come serpenti», una natura primordiale mal conciliabile con l’ordine civilizzato. Non così Kafka. Artur e Jeremias sono falsi giovani, dalle «guance arrossate che sembravano fatte di carne floscia». «Apparentemente bonari, infantili, buffi, irresponsabili», sarebbero soltanto molesti se alcuni dettagli non insinuassero sospetti molto più gravi. Quando il sovrintendente del villaggio sorride, K. scopre che il suo sorriso è «indistinguibile» da quello degli assistenti. All’ombra del Castello, gli assistenti giocavano con Frieda, da bambini. Giochi sicuramente erotici, che ora sono pronti a riprendere, pur di strapparla a K. Nel villaggio, Artur e Jeremias sono «vecchi conoscenti», addirittura l’oste li stima – e questa familiarità di tutti con loro è per K. la conferma della propria irrimediabile estraneità. Se c’è qualcosa di radicale che muta nella sua conoscenza del Castello, questo si osserva nel suo atteggiamento verso gli assistenti. All’inizio li tratta come tafani da scacciare, che gli sono stati assegnati in modo «sconsiderato». E il sovrintendente gli replica, paziente e pacato: «Qui non accade nulla in modo sconsiderato». Alla fine, con disappunto, K. si rende conto di aver sempre trascurato l’importanza degli assistenti. «Continuo a sottovalutarli, temo» sussurra a Frieda, che ormai ha perduta. Si impone una conclusione imprevista: «Forse sarebbe stato persino più accorto farsi tormentare da loro, tenendoli come assistenti, piuttosto che lasciarli girovagare in modo così incontrollato, ordendo liberamente [103] i loro intrighi, per i quali sembravano avere una particolare predisposizione». Farsi tormentare da qualche funzionario o da Artur e Jeremias è in fondo equivalente. Anche quei due esseri beffardi sono «insufflati dall’alto, dal Castello».
La storia della famiglia di Barnabas occupa sei capitoli su venticinque e centoquindici pagine del Castello, come un romanzo nel romanzo. Nel Processo nessuna vicenda di personaggi laterali si espande su altrettanto spazio. Inoltre, scarse sono le connessioni dirette fra la storia della famiglia di Barnabas e le vicissitudini di K. (il messaggio consegnato da Barnabas, l’astio di Frieda verso le barnabassiche). Nel suo insieme, si tratta di una storia chiusa in se stessa – e separata per un impercettibile dislivello da tutte le altre del villaggio.
Se K. ha subito l’impressione che questa famiglia abbia «qualcosa di particolare», che sia composta di «persone alle quali, almeno esteriormente, le cose andavano in modo simile a come andavano a lui stesso, e perciò si poteva unire a loro, e con loro poteva intendersi su molte cose», se K. avverte un’aria di famiglia in quella famiglia, è perché le sottintese speranze e le paure permanenti della famiglia di Hermann Kafka le erano molto simili. La principale differenza stava nella figura del padre, che nella famiglia di Barnabas perdeva ogni tratto imperioso e diventava l’essere più patetico e inerme. Per il resto, che il capofamiglia confezionasse ottimi stivali o vendesse merceria all’ingrosso, l’assetto delle due piccole comunità familiari, soprattutto nelle maniere, nei sentimenti, nei timori e nelle aspettative, era straordinariamente affine. E mai K. sarà così crudele, mai così partecipe come nei rapporti con la famiglia di [104] Barnabas, diviso fra una certa ripugnanza, che prova soprattutto per l’angolo della tavola dove siedono i genitori, gementi e incapaci di muoversi, e una invincibile inclinazione a lasciarsi andare, come di chi si trova fra i suoi. Così K. pensa che dormire presso di loro è per lui al tempo stesso «penoso» e «la cosa più naturale in tutto il villaggio».
Ancor prima che qualcuno gli abbia detto che la famiglia di Barnabas è condannata ed esecrata dalla comunità del villaggio, K. sembra saperlo già. Appena entrato nella casa ha una «brutta impressione». E questo soltanto perché ha visto lo sguardo di Amalia, che «di per sé non era brutto, ma fiero». Se K. si spingesse un passo oltre, si accorgerebbe che quella casa gli sembra brutta perché è qualcosa che conosce troppo. Lui che si sforza di presentarsi a chiunque nella luce migliore, perché si aspetta che chiunque possa tornargli utile, «soltanto di questa gente non si preoccupa affatto». Solo «davanti a loro non aveva per così dire alcun pudore». Ad Amalia, che conosce appena, parla senza remore: «Sei sempre così triste, Amalia. C’è qualcosa che ti tormenta? Non puoi dirlo?». Sì, il tormento c’è – e Amalia non può nominarlo.
Nella casa di Olga, K. avverte e riconosce quel sentimento di familiarità che l’ebreo assimilato provava nella casa di altri ebrei assimilati. Anzi, l’intimità era ancora maggiore: come egli stesso, quella intera famiglia apparteneva a coloro che sono al tempo stesso assimilati e espulsi. E non erano stranieri, ma abitanti del villaggio. Quella eccessiva facilità e immediatezza nei rapporti, quell’increscioso [105] capirsi subito che egli avvertiva nella casa di Olga, provocava in lui un senso di ripulsa. Era come se lì affondasse in un elemento troppo noto, che lo tratteneva e lo invischiava invece di dargli appigli ed energie per andare avanti. Mentre era appunto a questo che gli piaceva servissero le donne.
La psicologia si affila e raggiunge una esasperata sottigliezza – a tratti così dolorante da apparire impresentabile – quando la famiglia ebraica abbandona lo shtetl o comunque la profonda provincia dell’Europa centrale e si installa in un appartamento borghese della metropoli. È un momento che dura circa due generazioni, da quella di Freud a quella di Joseph Roth: percettività estrema, temeraria, mai più ritrovata.
Kafka ne fu, con malcelata insofferenza, intriso – fino a sentirne ribrezzo. Quando scrisse: «Per l’ultima volta psicologia!», forse intendeva che la psicologia si doveva attraversare, per poi sbarazzarsene. In quelle lande acquitrinose avrebbe saputo muoversi con perizia e agilità animalesca. Paragonabili forse soltanto a quelle mostrate, negli stessi anni, da un altro ebreo assimilato: Marcel Proust.
K. non è soltanto sfrontato e spavaldo. All’occasione può diventare mellifluo e pronto a ingraziarsi l’interlocutore con ogni mezzo. Accade due volte nella stessa notte. Prima con Frieda che lo rimprovera per le ore che ha passato con le barnabassiche. Poi con l’oste e l’ostessa dell’Albergo dei Signori, indignati per i suoi inammissibili vagabondaggi notturni nei corridoi sui quali si aprono le stanze dei funzionari.
Con Frieda, K. vuole mostrare che fondamentalmente [106] condivide il suo ribrezzo per le barnabassiche, le due reiette con le quali si era trovato anche troppo a casa. Sentimento che per il resto gli era ignoto al villaggio. Di Amalia, K. non ha neppure l’ardire di pronunciare il nome. Quanto a Olga, si affretta ad assicurare che non è «seducente», sempre per neutralizzare la gelosia di Frieda. E con ciò offrendole la battuta: «Gli stallieri la pensano diversamente», quando passano la notte con lei «da più di due anni almeno due volte la settimana». Ma soprattutto K. vuole far capire che anche lui, come la collettività del villaggio, condanna la famiglia: «Capisco la tua avversione per la famiglia e posso condividerla». Se ha avuto a che fare con loro, è solo per interesse, in quanto aspettava notizie da Barnabas e contava di utilizzare il messaggero a suo vantaggio. Come chi dicesse che con ebrei ha avuto sì a che fare, ma solo per necessità professionali.
Con l’oste e l’ostessa dell’Albergo dei Signori, K. si discolpa in modo non meno dubbio. Attribuisce i suoi errori alla stanchezza e al fatto di «non essere ancora abituato allo sforzo degli interrogatori». Dimentica di precisare che sia con Bürgel sia con Erlanger non ha pronunciato quasi una parola. Ha solo ascoltato – o dormito. È perciò almeno enfatico dire che ha «dovuto affrontare due interrogatori di fila». Quanto alla distribuzione degli atti, K. nega di essere «stato in grado di vedere alcunché». E il contrario è vero. Sono giustificazioni che possono apparire ingenue, ma toccano punti sensibili. E soprattutto si dimostrano efficaci per il tono ossequioso. Infatti «il rispetto con cui parlava dei signori dispose l’oste in suo favore». Nulla si dice dell’ostessa. Ingannare lei era molto più difficile.
[107] La Festa dei Pompieri viene celebrata il 3 luglio. Era il compleanno di Kafka. Come per Emma Bovary il giorno dei Comices agricoles, così quella festa avrebbe segnato la sorte di Amalia. Le feste fiutano la disgrazia. Riuniscono comunione e ferita, nozze e immolazione. Sono le eredi del sacrificio.
Adorna come una sposa, e accompagnata dalle infelici parole del padre: «Oggi, ve lo dico io, Amalia trova un fidanzato», con la collana di granati boemi prestata da Gardena – amica di famiglia – a Olga, e da questa passata alla sorella, con la blusa bianca ricoperta di pizzi, Amalia incede verso la festa. Il suo sguardo ha sempre qualcosa di «fosco», ma soprattutto è sovrano, la gente «quasi si inchinava, senza volerlo, davanti a lei». Già allora, in mezzo alla folla, «il suo sguardo era freddo, chiaro, immobile come sempre, non era esattamente puntato su ciò che osservava, ma gli passava accanto – e questo era disturbante – di poco, in modo appena avvertibile ma indubitabile». E non era certo per timidezza o per «imbarazzo», ma per una vocazione che era in lei già prima che diventasse la reietta del villaggio, un «desiderio di solitudine, superiore a ogni altro sentimento», come se volesse eliminare ogni sua aderenza al mondo. Amalia è l’unico essere che semplicemente non vuole accettare le regole del villaggio e quindi del Castello. Mentre K. vuole innanzitutto capirle – e poi usarle per aprirsi la strada.
Fu forse appunto questo che colpì il funzionario Sortini, «minuto, gracile, meditabondo», mentre si teneva appoggiato al carro dei pompieri. Allora corrugò la fronte nella sua caratteristica maniera, per cui «tutte le rughe si incidevano a ventaglio sulla fronte verso la radice del naso».
Amalia non era clamorosamente bella. Aveva «l’aspetto senza età delle donne che non invecchiano, [108] ma che non sono mai state veramente giovani». Ciò che aveva di unico era proprio quello sguardo, che non poteva sfuggire a un funzionario come Sortini, appena alzò gli occhi verso Amalia, poiché Amalia «era molto più alta di lui». Non fu soltanto l’attrazione a colpirlo, ma un certo senso del pericolo, come se per la prima volta avesse sfiorato qualcosa di totalmente estraneo. Questo può forse aiutare a capire perché Sortini, un funzionario tanto riservato, sarebbe ricorso a maniere così brutali per invitare Amalia a incontrarlo. Agiva insieme come corteggiatore e come custode delle regole del Castello. Quel messaggio era una sfida che avrebbe costretto Amalia a scoprirsi.
Nel suo racconto, con sicurezza e drasticità, Olga presenta Sortini come un tracotante prevaricatore. Ma tutto ciò che altrimenti sappiamo di lui è la sua fama di funzionario riflessivo e ritroso. A questo si aggiunge la violenta reazione di Amalia a un messaggio che soltanto lei e sua sorella avevano visto. Così si insinua un dubbio, non su Amalia ma su Sortini. Forse il loro rapporto non era così semplice e grezzo come sembrava. Forse Sortini era innanzitutto un funzionario che si distingueva per un’alta, quasi morbosa percettività, che gli aveva permesso di riconoscere in Amalia, con meritoria preveggenza, e forse soltanto per via della singolarità dello sguardo di lei, la traccia di un empio, generale rifiuto del Castello. E forse anche Amalia si era accorta di essere stata smascherata. La sua disperazione era forse giustificata da questo, più che da un oltraggio sessuale, che sarebbe stato in plateale contrasto con le maniere e la natura di Sortini. Dopo tutto, non sappiamo che cosa dicesse il suo messaggio. Forse [109] diceva ad Amalia soltanto questo: «Sei in trappola». Forse era l’annuncio di un ricatto o addirittura una proposta di omertà. O anche soltanto l’avvertimento che qualcuno vedeva chiaro nel suo gioco. Questo sì Amalia non avrebbe mai potuto svelare. Perché quell’avvertimento equivaleva già a un’espulsione dalla comunità del villaggio – e individuava nella sua apostasia la colpa di Amalia, che avrebbe condotto alla rovina l’intera famiglia.
Amalia è una Antigone che non si appella alla legge naturale, ma semplicemente rifiuta di «farsi iniziare» a quell’amalgama innominabile di comunità e culto che è il Castello. Non accetta le regole ben più radicalmente di quanto appaia dal suo gesto di strappare la lettera di un funzionario che chiede bruscamente, rozzamente, minacciosamente di incontrarsi con lei. Il messaggio non avrebbe potuto comunque essere uno scandalo inaudito, perché al villaggio, come spiegherà la sorella Olga a K., i rapporti fra donne e funzionari avevano una singolare caratteristica: «Noi sappiamo però che le donne non possono fare a meno di amare i funzionari se mai questi si rivolgono a loro, anzi esse amano i funzionari già prima, per quanto vogliano negarlo». Olga, donna accorta e lucida, a cui K. concede «piena fiducia», non parla mai in modo approssimativo. E qui usa due volte il verbo «amare». Non si tratta di affermare che talvolta, per interesse, le donne del villaggio cedono ai potenti funzionari che gli rivolgono attenzioni. Olga afferma che tutte le donne del villaggio amano i funzionari, prima ancora che qualcuno si rivolga a loro. Il gesto di Amalia è perciò qualcosa che scardina l’ordine nel profondo, qualcosa che nega il fondamento stesso [110] della vita del villaggio: l’attrazione irresistibile verso qualsiasi cosa emani dal Castello – e in primo luogo verso i suoi funzionari.
Prima del gesto di Amalia, la sua famiglia era fra quelle più in vista al villaggio. Il padre era pieno di clienti che gli ordinavano stivali. Amalia stessa cuciva «vestiti molto belli» per la gente più distinta. Avevano amici influenti e premurosi, come Gardena. Il padre sperava di avere presto una promozione nella Società dei Pompieri. Vivevano in una casa da borghesi. Quel fatale 3 luglio, la Festa dei Pompieri avrebbe dovuto rappresentare il culmine di una lenta e sicura ascesa sociale. Il buon esito della festa avrebbe potuto persuadere le autorità a nominare il padre di Amalia istruttore presso i pompieri del Castello. In mezzo a tutto questo, mentre ancora risuonano nelle orecchie i «suoni più selvaggi» delle trombe che avevano accompagnato la festa, Amalia compie il suo gesto – e distrugge tutto. Non occorre punizione. Basta che il mondo si ritiri dalla famiglia, a poco a poco. Ogni linfa cessa di scorrere. Presto si ritroveranno «seduti insieme con le finestre chiuse nella calura del luglio e dell’agosto. Non accadeva niente. Nessuna convocazione, nessuna notizia, nessuna visita, niente».
Non c’è immagine di umiliazione più lacerante di quella del padre di Amalia che assilla gli scrivani del Castello perché gli comunichino quale colpa ha commesso e così egli possa tentare di ottenere in seguito il perdono. Ma nessuno gli risponde, perché il calzolaio non ha commesso alcuna colpa – e allora egli pensa che «gli nascondano la colpa perché non paga abbastanza». E non sa neppure che negli uffici del [111] Castello «ci si lascia corrompere, ma per ragioni di semplicità al fine di evitare discorsi inutili, e comunque in quel modo non si può raggiungere nulla».
Corrompere per ottenere il favore di essere accusato. Soltanto Block, nel Processo, tocca comparabili vette di umiliazione. Che però nel suo caso ha bisogno di accompagnarsi alla vessazione fisica dispensata da Leni, carceriera erotica. Il padre di Amalia si punisce da solo, con il suo sommesso, straziato rimuginare.
Fra il gesto di Amalia che straccia la lettera di Sortini e gli sfibranti tentativi del padre di farsi ascoltare come postulante si espande il repertorio di situazioni che accompagnavano la persecuzione degli ebrei nell’Europa Centrale. Ciò che accadde poi, negli anni di Hitler, fu innanzitutto la letteralizzazione di questo processo, che Kraus avvertì quando scrisse che «mettere sale nelle piaghe aperte» aveva cessato di essere una metafora perché la metafora veniva «riassorbita nella sua realtà». La parola ora incideva direttamente la carne, come la macchina della Colonia penale.
La storia della famiglia di Barnabas fa capire che cosa accade se qualcuno si sottrae al gioco delle usanze e dei precetti sottaciuti. La condanna è arcaica e feroce: colpisce non solo chi ha agito, ma tutti i suoi consanguinei. Il Castello non richiede atti specifici di devozione. Ma presuppone un assenso inscalfibile al suo ordine. E si vendica come la natura, se una delle sue equazioni viene messa in dubbio.
[112] A parte lo sguardo, Amalia ha un’altra peculiarità, che K. nota subito – e lo allarma: è a tal punto «sovrana che non soltanto si appropria di tutto ciò che viene detto in sua presenza, ma le viene anche concesso spontaneamente tutto». È come se Amalia sapesse impadronirsi delle parole dette dall’altro e rovesciarle fino a raggiungere un significato ulteriore, l’unico che importa. Chi ha detto quelle parole così le intendeva, ma non osava rendersene conto. Perciò parlare con Amalia implicava cedere a lei il proprio pensiero nascosto.
Nei brevi scambi di battute con K., questo accade due volte. K. le dice, dando alle sue parole il significato più comune: «Forse non sei iniziata alle faccende di Barnabas, allora va tutto bene e lascio cadere la cosa, ma forse sei iniziata – ed è piuttosto questa la mia impressione – e allora è un brutto affare, perché ciò significherebbe che tuo fratello mi inganna». K. sembra concentrarsi soltanto sulle sue capziose e insinuanti distinzioni. Ma per Amalia è come se K. avesse detto una sola parola: «iniziata». E così Amalia risponde: «Stai tranquillo, non sono iniziata, nulla potrebbe indurmi a farmi iniziare, nulla potrebbe indurmi, nemmeno un riguardo per te, per il quale pure farei tante cose, perché come hai detto noi siamo bonarie». In queste parole Amalia accenna a K. il suo segreto: non vuole essere iniziata, a nessun costo. È l’unico essere del villaggio che non vuole sapere ciò che anche K. agogna di sapere. E questo perché, si può supporre, lo sa già – e non vuole accettarlo. C’è qualcosa di roccioso in lei, di refrattario alle emanazioni del Castello, al suo potere invischiante. Forse ciò che Amalia pensa è un errore, eppure è l’unica persona capace, fra tutte quelle che K. incontra, di rimanere «faccia a faccia con la verità». Degli eventi orribili che, a causa di lei, colpiscono la sua famiglia, [113] sicuramente vede in trasparenza i motivi. Ed è facile immaginarla mentre «stava tranquilla sullo sfondo e contemplava la devastazione».
Il secondo caso è meno evidente. K. aveva appena detto: «“Voi siete” – K. cercava la parola giusta, non la trovò subito e si contentò di una più vaga – “forse i più bonari (gutmütig) fra tutta la gente del villaggio che ho conosciuto finora”». Nel suo goffo tentativo di mantenere le distanze, K. ha scelto la parola più sbagliata. Soprattutto per quanto riguarda Amalia. Come Olga gli fa notare pochi istanti dopo, «Amalia può essere tante cose, ma bonaria certamente non lo è». Amalia stessa si è ben guardata dal precisarlo. Anzi, ha subito sottoposto la parola usata da K. al suo trattamento di appropriazione, fingendo di accettarla («perché come hai detto noi siamo bonarie»). Qui assistiamo a un superiore e severo marivaudage. Intanto Amalia usa la parola sbagliata, che K. ha scelto, come pretesto per dirgli che farebbe «tante cose» per lui. E questo, per un essere come Amalia, che non dice una parola invano, è come una esaltata ammissione amorosa. Al tempo stesso, con la sua perenne ironia, Amalia fa capire a K. che il suo stridente «bonario» dovrebbe essere sostituito da un altro aggettivo. Forse buono, termine che non sembra di uso frequente al villaggio.
Gli scambi di parole fra Amalia e K. sono scarni, toccano subito il fondo di tutto – e lì si arrestano. Chi parla in continuazione è invece Olga. In certi momenti si ha l’impressione che potrebbe proseguire senza fine. Ma Amalia a un tratto entra e la interrompe: «Si raccontano storie del Castello? State ancora [114] seduti insieme? E tu che volevi congedarti subito, K., e ora sono quasi le dieci. Allora queste storie ti preoccupano? Qui c’è gente che si nutre di queste storie, si mettono seduti insieme, come voi ora, e si tormentano a vicenda, ma tu non mi sembri appartenere a questa gente». Ogni parola di Amalia è carica di significato, ma – come spiegherà Olga più tardi – «non è facile capirla con precisione, perché spesso non si sa se parla ironicamente o seriamente, per lo più è seria, ma suona ironica». È questo il caso con K. L’ironia va insieme all’ultimo, serissimo, quasi disperato tentativo di strappare K. a quello che Amalia definisce «influsso del Castello». Ma K. non la segue, anzi va all’attacco con parole dure verso Amalia stessa: «Eppure io appartengo proprio a loro, mentre la gente che non si preoccupa di quelle storie e lascia che siano altri a preoccuparsene non fa su di me una grande impressione». Parole dette per ferire, ben calcolate. Ma Amalia ha riflessi pronti e risponde con un apologo nel quale, se appena lo volesse, K. potrebbe riconoscere la propria storia, vista in trasparenza e disegnata con il più crudele e illuminato sarcasmo. Così dice Amalia: «Ho sentito parlare una volta di un giovane che notte e giorno si dedicava a pensare al Castello, trascurava tutto il resto, si temeva che perdesse il senno perché con tutta la sua mente stava lassù al Castello, ma alla fine venne fuori che lui non mirava veramente al Castello, ma solo alla figlia di una che lavava i pavimenti negli uffici, poi comunque riuscì a ottenerla e tutto tornò a posto». Quelle parole erano cifrate: soltanto K. poteva sapere quanto erano precise – e quanto erano sprezzanti.
[115] L’ultima scena compiuta dell’incompiuto Castello si svolge fra K. e l’ostessa dell’Albergo dei Signori, nell’ufficio adiacente alla mescita. L’ostessa è irritata per l’impertinenza di K., che ha osato fare, poche ore prima, un’osservazione sui suoi vestiti. E glielo ricorda. K. finge di non ricordare. Eppure aveva detto una frase innegabilmente sfacciata: «Non guardo te, ma il tuo vestito». Il dialogo si fa acceso, con K. sulla difensiva e l’ostessa all’attacco. Ma che cosa hanno a che fare i vestiti dell’ostessa con la complicata, ramificata vicenda dell’agrimensore K., ormai ridotto al rango di bidello? Non lo sappiamo e non ci viene detto. Eppure, come in altri episodi, sentiamo aleggiare in quel dialogo qualcosa che potrebbe avere importanza vitale – e continua a sfuggirci. Questa incertezza del lettore è condivisa da K., il quale ha una sola convinzione e osa dichiararla all’ostessa: «Tu non sei solo ostessa, come pretendi». E poco dopo ribadisce: «Tu non sei solo ostessa, tu miri a qualcos’altro». Ma quale potere camuffato può rappresentare l’ostessa? E perché camuffato? E sino a quali altezze si spingerà quel potere?
Tutto questo rimarrebbe vano e astratto, se non ci fossero i vestiti dell’ostessa. Messo alle strette come un bambino colto in flagrante, K. così li definisce: «Di buona stoffa, costosi, ma antiquati, sovraccarichi, spesso ritoccati, lisi». Inoltre, dice all’ostessa, «non sono adatti né alla tua età né alla tua figura né alla tua posizione». Insolente bidello. Eppure, ancora una volta, percettivo.
Quando l’oste e l’ostessa, la notte prima, erano accorsi rimproverando K. di essere rimasto nel corridoio durante la distribuzione degli atti, K. aveva subito notato che l’ostessa era abbigliata in modo strano, con un «vestito scuro, dall’ampia gonna, frusciante come seta, mal abbottonato e allacciato». E si [116] era chiesto: «Da dove mai l’avrà tirato fuori, nella fretta?». Ora l’ostessa glielo rivela. Proprio lì nell’ufficio, accanto alla cassaforte di ferro, l’ostessa fa scorrere le ante di un armadio vasto e profondo. Come un satrapo, svela i suoi tesori: innumerevoli vestiti, sempre nelle più varie gradazioni dello scuro, stretti l’uno all’altro. E l’ostessa aggiunge: «Di sopra ne ho altri due armadi pieni, due armadi, ciascuno grande quasi come questo». Dopo la rivelazione, il dialogo si fa serrato. K. osa dire: «Mi aspettavo qualcosa di simile, l’avevo detto che tu non sei solo ostessa, tu miri a qualcos’altro». E l’ostessa osa rispondere: «Non miro ad altro che a vestirmi bene». Qui l’espressione «vestirsi bene» sembra entrare a far parte del linguaggio figurato degli arcana imperii. Può darsi che, a Siracusa, Platone e il tiranno Dionigi si siano scambiate parole simili. Ciascuna battuta poteva essere detta dall’uno o dall’altro. E forse Platone si sentì dire un giorno ciò che subito dopo l’ostessa disse a K.: «Tu sei un pazzo o un bambino, oppure un uomo molto maligno e pericoloso. Su, vattene, ora!».
Il ruolo di ostessa – si tratti di Gardena, che sovrintende alla più modesta Locanda del Ponte, o dell’ostessa dell’Albergo dei Signori – presuppone un rapporto occulto con il Castello. E K. se ne sente subito attratto. Così la perspicace Pepi avrebbe insinuato che K., più che a Frieda, era interessato a Gardena, sicché «quando si parla di Frieda si parla in verità dell’ostessa, della quale Frieda è una creatura».
Gardena è la prima ierodula del culto di Klamm. Frieda è una aspirante prima ierodula, pronta ad abiurare. I vestiti che l’ostessa dell’Albergo dei Signori [117] tiene chiusi nel suo vasto armadio sono i paramenti templari. Come Io conobbe brevi visite di Zeus e una lunga vita di erranza, ricordo e disperazione, così Gardena sopravvive contemplando i minuscoli cimeli che è riuscita a sottrarre a Klamm. Ma la sua devozione è accresciuta dall’assenza dell’amato. Ora è la custode dello spazio inviolabile che circonda Klamm ovunque egli si muova. Per questo Gardena è la più tenace e la più «potente nemica» di K. Lo ha subito individuato, come gli alti funzionari dell’Ochrana sapevano riconoscere il giovane terrorista in una massa informe di studenti.
Massiccia, solenne, unica portatrice della gravitasnell’aria densa della taverna dove impera, Gardena è l’erede delle innumerevoli generazioni di coloro che, prima ancora di essere devoti al brahman o a Yahweh, lo erano a certi occhiuti brahmani o figli di Aronne che si preoccupavano soprattutto di tenere quanto più possibile separati il luogo e la liturgia dell’autorità da quella ondosa, informe, impura distesa che era il resto del mondo. Per lei, K. è il granello di sabbia nell’ingranaggio. Sua grande, implacata avversaria, Gardena lo contrasta più di chiunque altro – e più di chiunque altro lo capisce. O, almeno, capisce la sua pericolosità.
Profondamente affine a Gardena, ma a un livello di più alta formalità, è l’ostessa dell’Albergo dei Signori: una devota della funzione, che non considera per sua natura al servizio di qualcosa. Anzi, la funzione è il fine verso cui il resto converge. I veri funzionari sono coloro che tutelano i funzionari. Tale è l’ostessa.
[118] Il soggiorno di K. al villaggio poggia su due pilastri: i dialoghi con le due ostesse. Entrambe lo istruiscono, lo ammoniscono e lo controllano. Gardena, l’ostessa della Locanda del Ponte, è inferiore in grado e più esposta al contatto con la gente comune del villaggio. Anche più vulnerabile e patetica. L’altra, l’ostessa dell’Albergo dei Signori, è strettamente addetta al culto e al servizio dei funzionari. Rispetto a Gardena, è più severa e più crudele. Ma condividono lo stesso sapere. Di entrambe si potrebbe dire ciò che K., a un certo punto, pensa di Gardena: «Una natura intrigante, che in apparenza opera come il vento, senza alcun senso, seguendo ordini remoti, estranei, che non si riusciva mai a penetrare».
Il cerchio superiore, al quale K. vorrebbe trovare accesso, dove anzi vorrebbe insediarsi, poiché è «venuto per rimanere», non è certo il luogo del bene, come vogliono gli interpreti benevoli, e neppure il luogo del male, come vogliono gli interpreti malevoli, ma il luogo dove il bene e il male si compongono in forme non riconoscibili e distinguibili per chi li abbia incontrati soltanto in altri cerchi. Un antico cinese non ne sarebbe sorpreso: direbbe che sono le due componenti congiunte nel Luogo Santo. Ma chi ormai sa ragionare come un antico cinese? L’ostessa dell’Albergo dei Signori è l’unica capace di adorare e venerare il Luogo Santo in quanto tale, senza chiedere ulteriori spiegazioni. Tutti gli altri, non solo lo straniero K. ma gli abitanti del villaggio, sembrano divisi nel ricordo fra i benefici e i malefici che hanno subìto. Solo in un punto concordano: preferirebbero tacere, come i superstiti di una pattuglia sfuggita a un agguato. [119] Non hanno voglia di parlare e inavvertitamente si passano le dita sulle cicatrici.
L’ostessa dell’Albergo dei Signori è la vera custode dell’ortodossia. Per lei le distanze fra le parti – cioè fra tutti – e il Castello non sono mai sufficienti. L’argomento dell’ostessa è innanzitutto estetico – e dipende dalla sua «morbosa aspirazione alla finezza». Non è bello, semplicemente, che le parti facciano ressa negli stessi spazi dove circolano i funzionari. «“Se così ha da essere e devono proprio venire,” usava dire “almeno, per l’amor del cielo, che si mettano in fila”». Per l’ostessa la parte, chiunque essa fosse e qualsiasi cosa volesse trattare, non era che una variante, appena più dignitosa, del postulante. In sostanza, tutte nature miserevoli, incapaci di sussistere per propria forza. Intralci più o meno molesti per il funzionamento del Castello. Così l’ostessa aveva a poco a poco ricacciato le parti: prima in un corridoio, poi sulla scala, poi sul pianerottolo, poi nella mescita – e alla fine per la strada. «Ma nemmeno questo le bastava. Trovava intollerabile “essere assediata” continuamente, così si esprimeva, in casa propria». Come avrebbe potuto essere bello tutto, se soltanto non ci fosse stato quel traffico delle parti… In fondo le sfuggiva a che cosa mai servissero. «A fare sporco davanti alle scale» le aveva detto una volta un funzionario, con tono iroso. Ma l’ostessa si era ben guardata dal chiedersi se quel sarcasmo non fosse per caso rivolto alla domanda che era venuta da lei. Anzi «usava volentieri citare quella frase». Ora la sua ultima idea era stata di far costruire un edificio apposito per le parti in attesa, davanti all’Albergo dei Signori. E se ne parlava molto… Tuttavia il progetto non era che un ripiego. La [120] soluzione perfetta sarebbe stata che alle parti non fosse neppure concesso di mettere piede nell’Albergo dei Signori. Ma a questo, per disgrazia, si erano opposti i funzionari stessi.
I signori del Castello – o per lo meno quei funzionari che talvolta si lasciano vedere al villaggio – tendono a comportarsi come artisti o come eccentrici più che come impiegati di una vasta amministrazione. Si considerano sempre di passaggio. Qualcosa urge in loro, li fa apparire immersi in altri pensieri rispetto a ciò che hanno di fronte. Anche al livello più basso, quello dei segretari, sono facilmente irritabili perché conducono «una vita irrequieta, non adatta per chiunque». Ma, se pure è vero che «i nervi soffrono nel praticare il mestiere», non sarebbero disposti per ragione alcuna ad abbandonarlo, perché «non potrebbero più fare a meno di questo genere di lavoro». Ogni altro lavoro gli «apparirebbe insipido». Come tutti gli artisti non conoscono «differenza fra tempo comune e tempo di lavoro». Anche quando dormono, sotto le coperte tengono un taccuino. Trattano le questioni del loro mestiere seduti alla mescita o nel loro letto, lasciando capire che sono quelli i momenti migliori, i più adatti per affrontarle. Talvolta se ne occupano subito prima di addormentarsi, quasi non potessero distaccarsene e volessero introdurle anche nel sonno. Alcuni – come Bürgel – confessano che passano direttamente dalle conversazioni d’ufficio al sonno e viceversa. Sono restii a spostarsi «con tutti i loro scritti», come se una scia vorticosa di parole si fosse agglutinata e ormai facesse parte del loro corpo. Si direbbe che in loro si compia un lavorio oscuro e incessante. Che doveva sfibrarli, se [121] talvolta ricorrevano – per distrarsi, per deflettere le loro energie, per esercitare le membra e soprattutto «per riprendersi dal continuo sforzo intellettuale» – a occasionali lavori di «falegnameria, meccanica di precisione e altro del genere». In questo molto simili a Kafka, che più volte avrebbe provato a dedicarsi alla falegnameria e al giardinaggio pur di sfuggire all’ossessività dei pensieri. Certo, i personaggi del Castello sono più perseveranti, perché anche di notte, nelle loro stanze senza finestre all’Albergo dei Signori, lasciavano udire i colpi dei loro martelli.
L’ostessa dell’Albergo dei Signori, che conosceva bene i funzionari del Castello, si inchinò davanti alla loro volontà e fu capace di apprezzarne i motivi, quando le fecero sapere che non avrebbero accettato la proposta di trasferire colloqui e interrogatori delle parti in un nuovo edificio, seppur separato di pochi metri dall’Albergo dei Signori, e concepito appunto per evitare che nell’Albergo dei Signori le parti mettessero piede. Ogni deviazione era un fastidio, ogni cambiamento una lesione nella delicata sequenza dei loro atti.
Come i due capi di opposti servizi segreti, K. e l’ostessa dell’Albergo dei Signori tutto possono tranne credere l’uno all’altra. Il gioco è cifrato da entrambe le parti. Per l’ostessa, K. non è un agrimensore e neppure un aspirante agrimensore (attività che per altro l’ostessa ignora e «la faceva sbadigliare»). Per K., l’ostessa non è «solo ostessa». Bastano a provarlo i suoi vestiti: inadatti al mestiere, tempestati «di ruches e pieghe», sovraccarichi come quelli di un dignitario bizantino. Se i due avversari principali non sono ciò che dicono di essere – e al tempo stesso [122] non possono dire che cosa l’altro è («Che cosa sei veramente?» chiede l’ostessa a K.) –, il dubbio plana su tutto. Anche il villaggio potrebbe essere una improvvisazione alla Potëmkin. Anche il Castello.
Certo, si potrebbe essere tentati di considerare le vicende di K. come un’affannosa e inefficace sequenza di tentativi per farsi valere da parte di un aspirante agrimensore che si ritrova a fare il bidello della scuola. Quindi, in definitiva, come una serie di eventi di scarsa importanza. Ma diversamente pensa l’ostessa dell’Albergo dei Signori, che conosce il mondo. Per lei, che pure ha «avuto a che fare con gente riottosa di vario genere», K. è il caso più grave che abbia incontrato. Con il suo comportamento irresponsabile e irrispettoso, che l’ha resa «tremante di indignazione», K. è riuscito a far accadere «ciò che mai prima era accaduto». Se il pericolo che K. introduce è così temibile, se i signori sono ridotti a desiderare di essere «finalmente liberati da K.», ciò implica che quanto è accaduto in precedenza attorno a lui – le miserevoli schermaglie, gli equivoci derisori, le lunghe e tortuose conversazioni – doveva aver toccato in qualche oscuro modo i punti nevralgici da cui dipendeva la mirabile organizzazione del Castello, «priva di lacune» come Hilbert avrebbe voluto che fosse l’assiomatizzazione della matematica. Di tutto questo K. «dovrà certamente rispondere», non mancano di precisare l’ostessa e l’oste, da vere autorità di polizia. E la punizione potrebbe anche essere il semplice protrarsi della sua vita tormentosa al villaggio. Ma rimane il fatto, quanto mai preoccupante, che ripercorrendo passo per passo gli eventi accaduti a K. altri avranno modo di scoprire vari punti [123] delicati e arcani del Castello. E forse di far accadere di nuovo «ciò che mai prima era accaduto».
Una parte, una larga parte di ciò che è non deve essere accessibile alla conoscenza. Non è chiaro se ciò avvenga perché la conoscenza produrrebbe dei guasti o soltanto perché sarebbe, di là da un certo punto, inopportuna. Comunque, la conoscenza è la prima nemica. Questo il presupposto dell’ostessa dell’Albergo dei Signori. Questo il santuario che vuole proteggere. Per lei K. è l’intruso, colui che – per incoscienza, curiosità, interesse personale, spavalderia, sfida – vuole accedere a tutto. Perciò dovrà essere escluso da tutto. Nello scontro fra l’ostessa e K. ogni parola ha una doppia risonanza. Fin dall’inizio, con la complicità dei monomaniaci, trattano soltanto una questione – e ne sono consapevoli. Ma ne trattano parlando incessantemente d’altro. Anche di vestiti.
V
POTENZE
In certo modo ho il privilegio di vedere i fantasmi della notte non soltanto nello stato di inermità e beato abbandono del sonno, ma al tempo stesso incontrandoli nella realtà, quando ho tutta la forza della veglia e una tranquilla capacità di giudicare.
La tana
[127] Nello stesso quaderno in ottavo, e a distanza di poche righe, Kafka ha annotato, senza titolo, due apologhi che hanno come protagonisti rispettivamente Sancho Panza e Odisseo. Di dodici righe l’uno e circa cinquanta l’altro, sono il più alto gesto di omaggio di Kafka alla letteratura occidentale e, al tempo stesso, alla perizia occidentale nel sopravvivere. Come sempre per i casi essenziali, sono storie che hanno a che fare con i demoni.
Sancho Panza e Odisseo sono accomunati da questo: entrambi si salvarono usando «mezzi inadeguati, anzi puerili». Don Chisciotte invece si è perso. Ma scopriremo, attraverso la storia narrata da Kafka, che Don Chisciotte era un fantoccio. Non era stato lui a leggere per anni romanzi di cavalleria e a infervorarsi nelle sue fantasticherie. Era stato Sancho Panza. Il quale presto capì che quelle storie, con tutti i demoni che risvegliavano, in breve tempo lo avrebbero ucciso. Allora escogitò la figura di Don Chisciotte. Così egli volle chiamare il «diavolo» che [128] lo abitava. E decise di «allontanare da sé» il suo pernicioso imperversare. Una volta che avesse trovato un nome e fosse diventato un personaggio, lo si sarebbe potuto osservare a una certa distanza e non soltanto subire. E, soprattutto, si poteva pensare anche ad altro. Sancho Panza sapeva benissimo che nulla era appassionante nella vita quanto il rapporto con i demoni. Che però presto induceva a compiere «le azioni più folli», come un giorno si sarebbe constatato appunto con Don Chisciotte. Meglio allora, per Sancho Panza, deviare su un altro essere l’azione dei demoni. Poi avrebbe potuto riprendere la propria vita di modesto interesse senza rinunciare però a seguire Don Chisciotte nelle sue spedizioni, innanzitutto per un certo «senso di responsabilità», poiché in fondo il cavaliere era una sua creatura. Ma anche perché Don Chisciotte aveva incessantemente a che fare con i demoni. E Sancho Panza riconobbe subito che quella situazione gli avrebbe offerto «un divertimento grande e utile». Così Sancho Panza sopravvisse e, fra l’altro, ci raccontò la storia di Don Chisciotte.
In tempi più antichi, quando ancora si poteva apparire belli e audaci, e non era d’obbligo assumere un aspetto goffo e trasandato, Odisseo era stato un precursore di Sancho Panza. Allora apparteneva al sapere comune – e non solo di quei pochi che si ritiravano in solitudine a leggere romanzi d’avventure e a fantasticarci sopra – che la vita fosse innanzitutto l’attesa di essere posseduti da altre voci, che imponevano ogni felicità e ogni lutto. Si tramandava poi che le più irresistibili fra queste voci, tali da offrire la suprema felicità, e subito dopo la sicura rovina, fossero quelle delle Sirene. Tutti sapevano che vivere significava essere esposti – un giorno – al canto delle Sirene. Gli uomini provarono gli artifici più [129] disparati per riuscire a passare davanti alle Sirene e sopravvivere. Alcuni ci riuscirono. Sfilarono in prossimità delle rocce delle Sirene e le videro trascorrere davanti ai loro occhi. Nell’aria, un perfetto silenzio. Pensarono allora che il canto delle Sirene fosse una superstizione. Ma questa scoperta provocò in loro una tale «tracotanza» che subito commisero qualche azione sconsiderata e perirono. Così nessuno venne mai a sapere che il canto delle Sirene semplicemente non esisteva e l’umanità perseverò nella erronea credenza che quel canto uccidesse.
Allora apparve Odisseo. Tale era l’esperienza accumulata dagli uomini con le Sirene che nessuno provava più a usare certi espedienti come quello di riempirsi di cera le orecchie e legarsi all’albero della nave. Ma Odisseo ebbe fiducia soltanto in quei «mezzucci». (E qui la versione di Kafka si discosta da Omero, secondo cui Odisseo fu l’unico del suo equipaggio a non mettersi la cera nelle orecchie). Quando la sua nave passò davanti a loro, le Sirene – ben consapevoli di avere a che fare con un avversario durissimo – ricorsero all’arma che era «ancora più terribile del loro canto, e cioè il loro silenzio». Così Odisseo passò indenne davanti a loro, pensando che il canto delle Sirene non fosse penetrato oltre la cera nelle sue orecchie. Così l’arma del silenzio non poté agire, perché Odisseo era convinto che le Sirene avessero cantato. Ricordava l’ansimo del loro petto, «gli occhi colmi di lagrime, la bocca semiaperta», come se tali gesti fossero gli accessori di quelle «arie che non udite risuonavano intorno a lui». Se le Sirene lo lasciarono passare illeso, fu probabilmente per l’ammirazione verso colui che aveva retto al loro silenzio rimanendo legato a un albero con la cera nelle orecchie. Immagine certo puerile [130] e forse ridicola. Eppure Odisseo era l’unico che, una volta passato davanti alle Sirene, non si era messo a smaniare pretendendo di avere conquistato poteri che ormai nessuno avrebbe potuto sopraffare. Non solo: fra tutti coloro che passarono senza morire davanti alle Sirene, Odisseo era stato anche l’unico a non mettere in dubbio la potenza del loro canto. Può darsi che le Sirene abbiano considerato con benevolenza questo omaggio. Vi è poi un’ultima ipotesi, la più temeraria e apparentemente blasfema, mentre in verità è la più devota, secondo cui Odisseo «in realtà si è accorto che le Sirene tacevano e ha opposto a loro e agli dèi quella versione fittizia sopra riferita soltanto, per così dire, come uno scudo protettivo». Se così avvenne, non vi fu contrasto con la versione precedente: Odisseo sarebbe stato a tal punto complice degli dèi e delle Sirene che la loro benevolenza parrebbe sottintesa. Anzi, Odisseo risulterebbe aver collaborato con loro a elaborare la leggenda del canto delle Sirene, estrema metamorfosi di quel canto stesso.
Don Chisciotte è solo un fantoccio, incaricato di subire i fantasmi di Sancho Panza, che infieriscono su di lui e lo squassano. Sancho Panza siede in silenzio e riflette. Guarda con affetto quella creatura convulsa e febbrile che ha gettato nel mondo e nella letteratura semplicemente per poter egli stesso – Sancho Panza – ritrarsi e respirare. Don Chisciotte può parlare impunemente di teologia – o di cavalleria – e lasciarsene consumare. Sancho Panza tace e lo osserva. «Per altro non se ne è mai gloriato». Secondo alcuni, ne ha fatto solo un romanzo.
[131] Nel giugno 1913, Kafka annotò nei Diari: «Il mondo immenso che ho nella testa. Ma come liberarmi e liberarlo senza strappare. E mille volte meglio strappare che trattenerlo o seppellirlo in me. Per questo sono qui, questo mi è del tutto chiaro». Strappare, ma che cosa? La testa o i fantasmi? O l’una e gli altri? Occorreva agire con sapienza, perché i fantasmi, svellendosi dalla testa, non la ferissero – o rimanessero sfigurati. In ogni caso la liberazione era sempre doppia: dei fantasmi e dai fantasmi. Per questo Sancho Panza aveva inventato Don Chisciotte.
Per Kafka, come per Sancho Panza, il rapporto con le potenze è talmente radicato nella fisiologia, e percepibile già nel respiro, che il primo pensiero, e anche il più avventato, è quello di liberarsene. Ma Kafka sa che una liberazione del genere sarebbe illusoria.
Il raggiungimento più alto consiste nello stabilire una certa distanza. Sedere a un tavolo e osservare le potenze, come le apparizioni nello sfrenato delirio di Don Chisciotte. Con sollievo, anche con partecipazione. Seguendole mentre si trasformano, ma sempre stando da parte, come una comparsa. Di più non si può chiedere. Questa è la suprema saggezza. Sancho Panza è l’unico essere che Kafka ha definito «un uomo libero».
C’è un punto in cui le potenze vengono risucchiate nello stesso pozzo. Il più vicino possibile a quel punto stava il tavolo di Kafka. Per questo, come scriverà un giorno a Oskar Baum, «lo spostamento di un tavolo nella propria stanza» gli appariva non [132] meno tremendo della prospettiva di un viaggio a Georgental. E poi precisava perché quel viaggio gli faceva tanta paura: «In ultima o penultima analisi è soltanto paura della morte. In parte anche la paura di attirare su di me l’attenzione degli dèi; se continuo a vivere qui nella mia camera, se ogni giorno passa regolarmente come il precedente, è ovvio che qualcuno si dovrà occupare di me, però la cosa è già avviata, la mano degli dèi regge solo meccanicamente le briglie, è così bello, così bello non essere notati, se accanto alla mia culla c’era una fata doveva essere la fata “Pensione”».
Della «paura di attirare l’attenzione degli dèi» Kafka torna a parlare in una lettera del giorno dopo a Brod. Ma questa volta l’espressione è l’accordo iniziale per una Leçon de Ténèbres sullo scrivere. Ciò che segue è quanto di più approssimato a una demonologia della scrittura ci sia pervenuto. Anche se lo scrittore restringe il suo campo visivo a una stanza, e all’interno di essa a una scrivania, non per questo la sua condizione è sicura. Ciò che gli manca è il suolo, «fragile o addirittura inesistente» sotto i suoi piedi. E quel suolo copre «una tenebra, da cui la potenza oscura fuoriesce a suo arbitrio e senza curarsi del mio balbettio distrugge la mia vita». In che cosa consiste allora lo scrivere? «Lo scrivere è una dolce mirabile ricompensa, ma per che cosa? Di notte mi era chiaro, con la nitidezza di una dimostrazione per i bambini, che è la ricompensa per aver servito il diavolo. Questa discesa verso le potenze oscure, questo scatenamento di spiriti che per natura sono legati, amplessi loschi e tutto il resto che può capitare là sotto, e di cui non si sa poi più niente quando si sta sopra e alla luce del sole si scrivono storie. Forse esiste anche un altro scrivere, io conosco solo questo, di notte, quando la paura non mi fa dormire, conosco solo questo. [133] E il suo elemento diabolico mi appare chiarissimo. È la vanità e l’avidità di piaceri, che volteggia continuamente intorno alla nostra figura o anche a una estranea – allora il movimento si moltiplica, diventa un sistema solare della vanità – e ne gode. Ciò che l’uomo ingenuo talvolta desidera: “Vorrei morire e vedere come mi piangono”, questo viene messo in opera continuamente da uno scrittore del genere, egli muore (o non vive) e si piange continuamente. Da ciò ha origine la sua terribile paura della morte, che non deve per forza manifestarsi come paura della morte, ma può anche apparire come paura del cambiamento, paura di Georgental». Il vortice è rapinoso. Ma la parte più ardua ed esoterica non è quella che riguarda la «discesa verso le potenze oscure», nella quale sembrano convergere la più alta tradizione romantica e lo spirito distillato della décadence. La parte più volte cifrata, e inattesa, è quella dove Kafka parla di «vanità e avidità di piaceri» che appartengono a una certa pratica dello scrivere, l’unica che dichiara di conoscere. Di quali piaceri, di quale vanità si parla? E qual è la «potenza oscura» che investe la vita di chi scrive per distruggerla? Kafka lo indica poco dopo nella stessa lettera: «Io sto qua seduto nella comoda posizione dello scrittore, pronto per tutto ciò che è bello, e devo osservare senza intervenire – perché che altro posso fare se non scrivere? – come il mio Io reale, che è povero, inerme (l’esistenza dello scrittore è un argomento contro l’anima, perché l’anima ha manifestamente abbandonato l’Io reale, ma è diventata soltanto scrittore, non è riuscita ad andare oltre; la separazione dall’Io dovrebbe forse poter indebolire l’anima a tal punto?), per un pretesto qualsiasi, per un piccolo viaggio a Georgental viene punzecchiato, bastonato e quasi triturato dal diavolo». Queste [134]righe vanno accostate a certe confessioni sciamaniche. Allora le parole che sembravano oscure e irte diventano di una lacerante chiarezza. Quel corpo abbandonato, quel cadavere vivente, quel «cadavere da sempre», di cui lo scrittore è pronto a osservare la «singolare sepoltura» è il corpo dello sciamano esanime e immobile mentre il suo spirito viaggia lontano, fra i rami dell’albero del mondo, in compagnia di animali e altri assistenti soprannaturali. Non è il caso però di compiacersi troppo di quel viaggio (come forse vorrebbe la «vanità»): scindendosi dall’«Io reale», l’anima finisce per indebolirsi ed è capace soltanto di diventare «scrittore, non è riuscita ad andare oltre» (acme del sarcasmo). E così la sua attività sarà innanzitutto quella di «godere con tutti i sensi o, il che è lo stesso, voler raccontare» ciò che avviene con il «vecchio cadavere» dello scrittore. Ma questo può riuscire soltanto in uno stato di «pieno oblio di sé – non la veglia, ma l’oblio di sé è il primo presupposto dell’essere scrittori». Per due volte, in questo inciso e nella parentesi sull’anima e la sua scissione dall’«Io reale», Kafka si è spinto molto lontano nel descrivere la prima materia della letteratura. È questa la sua Kamciatka. Per coloro che volessero seguirlo ha lasciato, alla fine della lettera, la definizione più concisa di quella specie di scrittore che sentiva di essere: «La definizione dello scrittore, di uno scrittore di questo genere, e la spiegazione degli effetti che suscita, se mai questi effetti vi sono: egli è il capro espiatorio dell’umanità, egli concede agli uomini di godere un peccato senza colpa, quasi senza colpa». Ironia dolorosa e abissale di quel «quasi senza colpa»: accenno alla illusoria innocenza del piacere che vincola ogni lettore alla letteratura.
[135] C’era un grafologo a Sylt, nella pensione dove Felice stava passando le sue vacanze. Felice gli chiese di esaminare la scrittura di Kafka, al quale poi comunicò l’analisi. Che apparve a Kafka falsa e piuttosto ridicola. Ma «l’affermazione più falsa fra tutte le falsità» era questa: secondo il grafologo, il soggetto mostrava «interessi artistici». No, questo era un oltraggio. Kafka replicò con una frase secca: «Non ho interessi letterari, ma sono fatto di letteratura, non sono altro e non posso essere altro».
Pochi giorni dopo, e sempre nel tentativo di spiegare a Felice perché si riteneva inadatto alla vita in comune, Kafka descrisse se stesso come un essere che «è incatenato con invisibili catene a una invisibile letteratura e che grida se qualcuno si avvicina, perché pensa che tocchi quella catena».
È goffo parlare di simboli in Kafka, perché Kafka viveva tutto come simbolo. Non per scelta, se mai per condanna. I simboli appartenevano a ogni sua percezione, così come la liquidità appartiene alla percezione dell’acqua. Non li chiamava Symbole, ma Sinnbilder, «emblemi», almeno in origine – ed è sostantivo composto da Sinn, «senso, significato», e Bild, «immagine». Immagini che hanno significato: Kafka si sentiva costretto a viverci perennemente in mezzo. Talvolta desiderava evaderne.
Quando si manifestò la tubercolosi, scrisse a Brod: «In ogni caso qui c’è ancora la ferita, di cui la ferita ai polmoni è soltanto l’emblema (Sinnbild)». E nei Diari scriveva due giorni dopo le stesse parole: «Se la ferita ai polmoni è soltanto un emblema, come affermi, emblema della ferita, la cui infiammazione si chiama Felice e la cui profondità si chiama giustificazione, [136] se così è, allora anche i consigli dei medici (luce aria sole quiete) sono un emblema. Afferralo».
Ma come si passa dai simboli al racconto? Kafka traspose la sua malattia in forma teatrale: una prima volta, per accenni, nella lettera a Brod dove si parla della «ferita»; una seconda volta, più crudamente, in una delle lettere iniziali a Milena: «Avvenne così che il cervello non poteva più sopportare le angosce e i dolori che gli venivano accollati. Disse: “Mi arrendo. Ma se qui c’è ancora qualcuno a cui importa qualcosa la conservazione del tutto, allora voglia prendersi qualcosa del mio fardello e si andrà avanti ancora un poco”. A quel punto si fecero avanti i polmoni, che non avevano molto da perdere. Queste trattative fra cervello e polmoni, che avvenivano a mia insaputa, devono essere state spaventose». La scena è già predisposta. Entrano i personaggi. Il dialogo potrebbe essere come certi scambi di battute che si incontrano qua e là nei Diari, acefali, erratici. Qualcosa di simile a questo: «Ammazzalo tu, io non ce la faccio». «Sì, ma ci vuole un po’ di tempo». «D’accordo, ma non dimenticare».
Insofferenza di Kafka per le parole grosse. Se le pronunciava una giovane donna, con respiro ansimante, aveva l’impressione che le uscissero «come grossi topi dalla piccola bocca».
«Quando passa il treno, gli spettatori si irrigidiscono». È la prima frase dei Diari, isolata. Il treno è il tempo, che non ci concede di cogliere la sua forma. Solo un vento improvviso, profili confusi. Ma ci accorgiamo che sta passando. Ed è inevitabile irrigidirsi, mentre lo si osserva: segno di un’ultima resistenza. [137] Questo è un esempio di ciò che Kafka non riusciva ad astenersi dal percepire: riflessi, gesti obbligati, gesti involontari, metafore morte che covano il loro segreto, come l’insetto chiuso nell’ambra.
Metafora e lettera avevano per Kafka lo stesso peso. Agevole il passaggio dall’una all’altra. Anzi, la metafora poteva prendere il posto della lettera e trasformare la lettera in metafora. Che la vita sia un processo scandito da castighi poteva dare origine alla metafora della vita intera come processo giudiziario. Ma poi il processo giudiziario poteva trasformarsi nella lettera e la sua articolazione diventare così ramificata e sottile da evocare come metafora il processo della vita stessa. Lo scambio fra i due piani era continuo e inavvertito. E la presenza del piano della metafora aveva anche l’effetto di scalzare la lettera dalla sua adiacenza al suolo delle cose, che la rende densa e sorda, priva di quel respiro che può essere donato soltanto dalla capacità di sdoppiarsi.
Come Wittgenstein sui margini del Ramo d’oro di Frazer, così Kafka svelava il suo «sguardo primitivo» soltanto di sfuggita o fra parentesi. Accadde esemplarmente in una lettera a Robert Klopstock del marzo 1922 (sono i mesi del Castello): «Lei deve soltanto sapere che scrive a un povero, piccolo uomo posseduto da tutti i possibili spiriti maligni di ogni specie (un merito indiscutibile della medicina sta nell’aver introdotto, al posto del concetto di possessione, il consolante concetto di nevrastenia, il che ha comunque reso più difficile la guarigione e inoltre ha lasciato aperta la questione se siano la debolezza [138] e la malattia a suscitare la possessione o se invece la debolezza e la malattia non siano esse stesse già uno stadio della possessione, la preparazione dell’uomo a diventare un letto di riposo e di piacere per gli spiriti impuri), un uomo che si sente tormentato, se questa sua condizione non viene riconosciuta, ma per il resto permette che ci si possa intendere passabilmente con lui». Dal trattato di Psello sui demoni sino al presidente Schreber e a Freud, un lungo, frastagliato tratto di storia della psiche viene attraversato con impassibile ironia in quelle righe fra parentesi, che sembrano scritte da un Padre del Deserto, sapiente nel discernimento degli spiriti.
Un giorno Kafka raccontò a Milena un episodio che liquidava in anticipo una vasta parte della letteratura che si sarebbe accumulata su di lui: «Ultimamente un lettore della Tribuna mi ha detto che dovevo aver fatto grandi studi in manicomio. “Soltanto nel mio” gli ho detto. E a quel punto lui ha tentato di farmi ancora dei complimenti per il “mio manicomio”».
Perentorio, improvviso, Kafka scrive una volta nei Diari che «tutta questa letteratura» (intendendo in primo luogo la propria) era un «attacco alla frontiera», anzi «avrebbe potuto svilupparsi in una nuova dottrina segreta, in una cabbala» (e aggiungeva, con una precisazione che dice il fondo del suo pensiero sull’ebraismo moderno: «se non si fosse messo in mezzo il sionismo»). Nel frammento precedente l’«attacco alla frontiera» viene esplicitato come «attacco all’ultima frontiera terrena». Ma in che modo Kafka era giunto a quella espressione? Il frammento [139] dove compare si presenta come il resoconto di una crisi acutissima e soverchiante, sopravvenuta nel gennaio del 1922, poco prima che si avviasse la stesura del Castello: «Nell’ultima settimana è accaduto come un crollo, così totale come forse soltanto in quella notte di due anni fa, non ho esperienza di altri esempi. Tutto sembrava finito e anche oggi non sembra qualcosa di molto diverso». Ma che cosa era avvenuto? «In primo luogo: crollo, impossibilità di dormire, impossibilità di rimanere sveglio, impossibilità di sopportare la vita, o più precisamente la sequenza della vita». Ciò che produce il crollo è una lacerazione nel tessuto del tempo. Il tempo esterno e il tempo interno hanno ora due passi diversi: «Gli orologi non si corrispondono, quello interno va a caccia in un modo diabolico o demoniaco o comunque inumano, quello esterno prosegue nel suo corso usuale, stentato». Non solo è opposta la velocità, ma la direzione: così «i due diversi mondi si separano e continuano a separarsi o comunque si lacerano in una maniera atroce». La parola decisiva qui è già risuonata: la caccia. Il processo interno somiglia a una caccia forsennata, una caccia che «prende la direzione che la allontana dall’umanità». Il suo «carattere selvaggio» non può essere descritto in altri termini – e di fatto la parola «caccia» torna sei volte in poche righe. Alla fine, Kafka però riconosce che quella caccia è «soltanto un’immagine». Ma con che cosa si può sostituire un’immagine? Solo con un’altra immagine. Che sarà questa: quella caccia potrebbe essere chiamata «attacco all’ultima frontiera terrena». Quindi un’immagine potenziata – e ancor più cifrata. L’enigma può essere risolto soltanto da un enigma ulteriore. E, quasi a provarlo, Kafka subito spezza in due l’immagine dell’attacco alla frontiera. Perché si possono dare [140] due tipi di attacco: un «attacco da sotto, dalla parte degli uomini», che può farsi «sostituire, poiché anche questa è soltanto un’immagine, con l’immagine dell’attacco dall’alto, rivolto contro di me». Se c’è un passo che condensa il procedimento peculiare di Kafka, è questo. La conoscenza implica che venga evocata un’immagine. E dell’immagine va subito riconosciuto che è «soltanto un’immagine». Che occorrerà sostituire, per andare oltre. E sarà allora con un’altra immagine. Il processo è inarrestabile. Non esiste immagine di cui non si possa dire che è «soltanto un’immagine». Ma anche non esiste conoscenza che non sia un’immagine. Questo circolo vizioso non ammette uscite ed è quasi la definizione più approssimata della letteratura. Per immagine.
Qui il passo si interrompe. E il seguente comincia con le parole: «Tutta questa letteratura è attacco alla frontiera». A cui segue subito il riferimento a «una cabbala» – ulteriore immagine. Caccia e cabbala si sprigionano l’una dall’altra.
Ma che cosa nutre di una perenne, indomabile energia quella «caccia» ? Kafka riconosce che il frenetico «passo interno» può avere «motivi vari», ma certo «il più visibile è l’autoosservazione, che non permette ad alcuna rappresentazione di quietarsi, anzi continua a cacciarla sempre più avanti per poi farsi a sua volta cacciare essa stessa in quanto rappresentazione da una nuova autoosservazione». L’elemento demoniaco, istigatorio, perseguitante è dunque l’autoosservazione. Che in Kafka era esacerbata. Ma appunto perché tanto ne era esperto, Kafka ha guardato sempre con cautela e sospetto all’autoosservazione, un po’ come i personaggi omerici guardavano agli dèi, perché talvolta li incontravano. [141] E di quegli incontri portavano le cicatrici. Sfuggire all’autoosservazione gli apparve perciò a volte come una felice evasione, ma proprio due mesi prima della crisi della caccia, nel novembre 1921, Kafka aveva constatato che l’autoosservazione era un «obbligo ineludibile». E lo motivava con ragioni che sembrano già implicare in sé le movenze di un suo racconto: «Se vengo osservato da qualcun altro, è naturale che mi debba osservare anch’io, se non vengo osservato da nessuno, allora debbo osservarmi con tanto maggiore precisione».
L’autoosservazione appariva dunque inevitabile, come il respiro. D’altra parte, era l’autoosservazione a provocare e aizzare la caccia sfrenata che rendeva poi intollerabile la vita, per il divario enorme che si creava fra il tempo interno – il tempo della coscienza osservante – e il tempo del mondo al di fuori. Questa constatazione non ammetteva via d’uscita, se non quella che, una volta sola e quasi affrettandosi subito a coprirla, Kafka provò a tracciare: una via d’uscita offerta dallo scrivere: «Strana, misteriosa, forse pericolosa, forse liberatoria consolazione dello scrivere: il saltar fuori dalla serie degli assassini atto-osservazione, atto-osservazione, creando una specie superiore di osservazione, superiore ma non più acuta, che quanto più alta è, quanto più è irraggiungibile a partire dalla “serie”, tanto più indipendente diventa, tanto più il suo cammino segue proprie leggi di movimento, tanto più è incalcolabile, gioioso, ascendente». Trostlos, «sconsolato», è parola che Kafka ha usato sempre in punti nevralgici. «Il bene è in un certo senso sconsolato» dice il trentesimo aforisma di Zürau. E nel Castello, quando Bürgel svela a K. come il mondo mantenga il suo equilibrio, dice che questa «istituzione» è mirabile, ma «sotto un altro aspetto sconsolata». Tanto più sorprendente è che [142] Kafka attribuisca una qualche specie di «consolazione» allo «scrivere». Soltanto qui lo scrivere appare come unica possibilità di sottrarsi (hinausspringen, «saltar fuori», è il verbo fortemente dinamico usato da Kafka) alla catena assassina di azione e reazione, composta di materia e di mente, che stringe e coarta altrimenti la nostra vita. Quella possibilità di salvezza sta tutta in uno sdoppiarsi dello sguardo. E non occorre che sia «più acuto» quello sguardo ulteriore, basta che si ponga a una certa distanza (per osservare la totalità del processo sotto di sé). La ferita prodotta dallo sdoppiarsi dell’autoosservazione può dunque essere sanata soltanto da un ulteriore sdoppiarsi. Con ciò negando tutte le ingenue visioni di una salvezza raggiungibile attraverso una recuperata unità del soggetto. Che non c’è mai stata, se non come abbaglio fomentato dal terrore di disperdersi. Non una parola Kafka aggiunse in questo contesto. E non riprese più il tema di questa annotazione, che è del gennaio 1922. Ma l’unica per lui formulabile promesse de bonheur connessa alla scrittura si era manifestata in quelle righe.
Subito dopo le parole sulla «strana, misteriosa, forse pericolosa, forse liberatoria consolazione dello scrivere», Kafka annota: «Pur avendo io scritto chiaramente il mio nome all’albergo, e pur avendolo essi stessi scritto già due volte giusto a me, sul registro sta tuttora scritto Josef K. Devo essere io a spiegare a loro come stanno le cose o devo farmele spiegare da loro?».
«È come se da qualche parte in una radura della foresta ci fosse il combattimento spirituale». Simile a un [143] redivivo padre Scupoli, e senza alcuna moderna attenuazione, Kafka afferma che tutto ruota attorno a quel combattimento. Di che altro si poteva trattare? Ma come avvicinarsi? Qui la scena si confondeva subito, si aggrovigliava, diventava un racconto senza esito: «Penetro nella foresta, non trovo nulla e presto, per debolezza, mi affretto a uscirne; spesso, quando abbandono la foresta, odo o credo di udire lo sferragliare delle armi di quel combattimento. Forse gli sguardi dei combattenti mi cercano attraverso l’oscurità della foresta, ma io so di loro soltanto ben poco, e quel poco è ingannevole». Se la foresta, l’araṇya, è il luogo del sapere esoterico, i combattenti sono come dei ṛṣi che osservano il mondo attraverso l’intrico oscuro dei rami invece che dall’alto degli astri dell’Orsa Maggiore. Chi si avventura nella foresta si sente inseguito dal loro sguardo, ma non gli è dato vederli. E quanto si racconta su di loro è ormai molto dubbio. Si è perso il ricordo dei nomi, dei caratteri. Rimane quel suono di ferraglia che cozza nell’oscurità.
Nelle prime settimane del 1922, quando il tempo interno si è strappato dal tempo esterno e corre una corsa folle, la veglia è perenne, angustiante. La distanza dal mondo cresce. Si affollano i demoni – o i fantasmi. Di chi parlerebbe Kafka, altrimenti, quando annota: «Sfuggito a loro»? Loro: il pronome della possessione e dell’ossessione. È in corso una lotta invisibile, un gioco di astuzie, un protratto duello: «Sfuggito a loro. Un qualche salto abile. A casa accanto al lume nella stanza silenziosa. Imprudente dirlo. Questo li richiama dai boschi, come se si fosse acceso il lume per aiutarli a trovare la pista». Stenografia demoniaca. Soltanto lo scrivente e i fantasmi sanno esattamente di che cosa si parla. Gli altri possono [144] al massimo avvertire una certa vibrazione violenta nell’aria immobile, fra la neve, i boschi, poche case acquattate, nel paesaggio del Castello.
L’ultima annotazione nei Diari sembra sottintendere che ormai «gli spiriti» hanno preso la mano a Kafka. Ancora una volta, in senso letterale. Perciò lo scrivente ha paura di tracciare segni su un foglio: «Ogni parola, rivoltata nella mano degli spiriti – questo slancio della mano è il loro movimento caratteristico – diventa una lancia puntata contro colui che parla. E una osservazione come questa in particolare». La scrittura stessa è diventata l’arma che gli spiriti usano per trafiggere lo scrivente. E il processo si ripete «all’infinito», per colui che si riconosce ormai «incapace di tutto, fuorché di dolori».
Cautele opportune nell’avvicinarsi a Kafka, secondo Canetti: «Ci sono certi scrittori – ben pochi, di fatto –, i quali sono così totalmente se stessi che qualsiasi dichiarazione su di loro uno si arroghi potrebbe sembrare una barbarie. Uno di tali scrittori fu Franz Kafka; così, pur correndo il pericolo di apparire non libero, uno deve tenersi il più stretto possibile alle sue stesse dichiarazioni».
Annotazione nei Diari: «Non credo che vi siano persone la cui condizione interiore sia simile alla mia, o almeno posso immaginarmi tali persone, ma che attorno alle loro teste voli continuamente il corvo segreto come attorno alla mia, questo non riesco neppure a immaginarlo». Avvicinandosi a Kafka, l’aria è appena smossa da quelle ali nere.
VI
SULLE ACQUE DEI MORTI
[147] Il cacciatore Gracchus è coperto da un «grande scialle di seta a fiori con le frange», come una donna del Sud. Il suo aspetto non ha nulla della rigidità cadaverica, anche se è «immobile, e in apparenza non respira». Anzi, il viso adusto, i capelli e la barba folti, arruffati emanano la vitalità e la virilità del cacciatore. O del lupo di mare. Questo giovane cacciatore della Foresta Nera inseguiva un giorno – nel quarto secolo dopo Cristo – un camoscio. Precipitò da una roccia e morì. Da allora vaga su una barca, alla deriva da tutto. Osiride aveva insegnato come si attraversa, sulla barca dei morti, il cielo notturno. Quali sono le tappe, quali le correnti, quali le formule da pronunciare. Ma non molto era stato detto di ciò che può accadere se si prende la rotta sbagliata, per un giro inavvertito del timone, per «un momento di disattenzione del pilota». A quanto pare, non c’è rimedio. Come dice il cacciatore Gracchus, «il pensiero di volermi aiutare è una malattia e deve essere guarita stando a letto».
[148] Era un pagano, Gracchus? Era un cristiano? Non lo sappiamo. Era un cacciatore. Come un marinaio nella taverna, ma anche con l’ossessività dei solitari, Gracchus continua a ripetere: «Ero cacciatore, forse che questa è una colpa?». Gracchus non sa che la sua esistenza è come una botola che fa precipitare lungo le pareti del tempo. E, più si precipita, più appare chiaro che la sua domanda ha una risposta: «Sì, è una colpa. Anzi, è la colpa». Se c’è qualcosa che l’essere umano ha sentito costantemente come tale, sotto ogni latitudine, è quell’inaudito passaggio per cui, dopo essere stato sbranato per millenni da predatori invincibili, divenne egli stesso predatore, inventandosi come protesi la punta della freccia, per gareggiare con le zanne dei grandi felini. Gli altri animali non hanno perdonato all’uomo quel passaggio. Loro hanno continuato a essere fedelmente ciò che erano. Uccidevano e si facevano uccidere secondo le antiche regole. Soltanto l’uomo osava espandere il repertorio dei suoi gesti. Gracchus era l’ultima testimonianza di quel passaggio, l’ultima apparizione del cacciatore allo stato puro. La più moderna, anche se vecchia di quindici secoli. Quella sua vita – ormai remota – gli appariva come l’ordine stesso della natura: «Come cacciatore, ero assegnato alla Foresta Nera, dove a quel tempo c’erano ancora i lupi. Mi appostavo, scoccavo la freccia, colpivo, scuoiavo, forse che questa è una colpa? Il mio lavoro è stato benedetto. Il grande cacciatore della Foresta Nera, così mi chiamavo. Forse che questa è una colpa?». Tenace, però, sussisteva il dubbio, senza ragione. Se non forse perché, nelle lunghe ore in cui giaceva nella bara, coperto dallo scialle a fiori con le frange, Gracchus era costretto a vedere «sulla parete di fronte una piccola immagine, chiaramente un boscimano, che mi punta contro una lancia e si protegge più che può dietro uno [149] scudo magnificamente dipinto». Quella immagine, «una delle più stupide» fra le tante incongrue e casuali che si trovano su imbarcazioni di ogni genere, tratta da un qualche «Magasin pittoresque», irritava il cacciatore Gracchus perché, nella sua assurdità, gli ricordava qualcosa. Gli ricordava la storia, la storia che si perde nell’oscurità del tempo, quella storia di cui Gracchus stesso non era che un trascurabile segmento – eppure già eccessivo, se lo si voleva capire, seguire. Troppe cose erano successe, in millecinquecento anni. E ora, chissà perché, era finito in quel porto di un lago italiano, e uno sconosciuto, con aria grave e curiosa, gli chiedeva quali erano le «connessioni». Le connessioni! Che cosa pretendevano di saperne? Qui erompeva il sarcasmo di Gracchus, doloroso sarcasmo. «Le antiche, antiche storie. Tutti i libri ne sono pieni» risponde il cacciatore – e chi lo ascolta si accorge che Gracchus sta per essere sopraffatto da una singolare forma di afasia: l’afasia che nasce dalla storia. «È passato tanto tempo. Come posso tenere tutto in questo cervello strapieno» dice Gracchus quasi parlando fra sé. Per chi vive in questo sovraffollamento di storie che non possono più essere capite non resta altro che versare ancora vino all’ignaro sconosciuto che continua a molestarlo con le sue domande – ed è pur sempre una compagnia, un interlocutore qualsiasi, come si incontra in ogni porto e sempre dà sollievo, perché permette di ripetere certe frasi, le stesse che già altri hanno udite in tanti altri porti: «Ed eccomi qui, morto, morto, morto. E non so perché sono qui». Una frase da ripetere ancora una volta prima che il racconto si interrompa e gli occhi di Gracchus tornino a posarsi sul boscimano che gli punta contro la lancia.
[150] Molti sono i patimenti che deve subire il cacciatore Gracchus. Come il marinaio della leggenda, ha una storia da raccontare che nessuno ascolterà sino alla fine. O nessuno potrà capire. Perché Gracchus è fatto di tempo. Il suo corpo ha accumulato un’impazienza di secoli. Gracchus sa che cosa vuol dire avvicinarsi, per decine e decine di volte, alle acque celesti ed essere ogni volta ricacciato indietro. Senza violenza, ma come per un gioco di correnti. Eppure quelle acque sembravano così simili. Il passaggio sembrava agevole. E così era stato per innumerevoli morti. Non per Gracchus, però. Su una immane scalinata di acque la sua barca a tratti saliva, a tratti scendeva, «a volte a destra, a volte a sinistra, sempre in movimento». Ma non riusciva mai a raggiungere le acque liberatrici, celesti.
Al tempo stesso, questa condizione aberrante e solitaria, per cui Gracchus è totalmente vivo e insieme «morto, morto, morto», non è neppure oggetto di curiosità, per gli uomini. «Tu non sei l’argomento di cui si parla in città» gli dice il suo anonimo e crudele interlocutore, che appartiene alla terra. Che Gracchus vaghi per tutte le acque terrestri senza mai accedere alle acque celesti non è una notizia, per chi vive sulla terra, quando ormai una figura come «il grande cacciatore della Foresta Nera» si trova soltanto in qualche libro per bambini o in una enciclopedia etnografica. Gli uomini, se si mettono a parlare con il cacciatore Gracchus, pretendono magari che gli vengano chiarite le «connessioni» della sua storia, però nulla hanno vissuto che appartenga a quell’epoca in cui nella Foresta Nera c’erano ancora i lupi. Come spiegare, come raccontare? Agli uomini bastano gli storiografi, che stanno «nel loro studio a bocca aperta davanti al remoto passato e lo descrivono incessantemente». Descrivono, certo. [151] Ma sanno? Hanno forse provato quel terrore, quella meraviglia? Questo si chiede il cacciatore Gracchus, mentre nel suo cervello turbinano troppe storie che non troveranno mai uno sbocco, un orecchio capace di intenderle, così come la barca che lo trasporta non solcherà mai le acque celesti.
VII
UNA FOTOGRAFIA
Con una bella ferita sono venuto al mondo; di null’altro ero provvisto.
Un medico di campagna
[155] Kafka visse nella notte del 22 settembre 1912 il suo atto di nascita come scrittore. Fu un parto, avrebbe scritto un giorno: Il verdetto «uscì» dal suo autore «coperto di sporcizia e di muco». Durò otto ore, dalle dieci di sera alle sei di mattina. Una tessitura, una composizione chimica mai sperimentata si presentavano al mondo in una configurazione perfetta, chiusa e compatta. La cerimonialità e la drasticità dell’evento avevano fatto convergere nel racconto le forze dominanti nello scrittore. Leggendo Il verdetto sembrano sfilare, in parata, i caratteri che poi si ritroveranno ovunque in Kafka. E innanzitutto una irreprimibile tendenza a giocare con la sproporzione. Da una parte si osserva il passo costante del narrare, con il suo tono pacato, ponderato, diligente. E dall’altra l’enormità, anche l’orrore dei fatti narrati.
La trama è di un’insolente assurdità. Una domenica mattina, un giovane commerciante (Georg Bendemann) [156] guarda dalla finestra della sua casa lungo il fiume. Ha appena finito di scrivere una lettera a un amico che anni prima si è trasferito in Russia. Senza risultati degni di nota. Mentre il giovane commerciante, negli stessi anni, ha fatto fiorire gli affari del suo negozio. E ora è imbarazzato nello scrivere all’amico: pensa che ogni accenno ai propri successi possa suonare come allusione ai fallimenti dell’altro. Così ha evitato sempre di raccontare con precisione la sua vita. Ma ora c’è un fatto nuovo: il giovane commerciante si è fidanzato. Dovrà rivelarlo all’amico? Decide di farlo con la lettera scritta quella domenica mattina.
Poi passa nella stanza del padre e gli dice che ha scritto all’amico, annunciando il fidanzamento. Il padre, dopo qualche scambio di battute, chiede al figlio se il suo amico di Pietroburgo esiste davvero. Poco dopo, afferma che l’amico di Pietroburgo non esiste. Il figlio ribadisce che il padre ha addirittura incontrato l’amico tre anni prima. Poi prende il padre in braccio e lo depone sul letto. Dopo qualche altra battuta, il padre si alza in piedi sul letto e comincia a infuriare. Dice che conosce l’amico del figlio. Chiede al figlio perché lo ha ingannato. Poi si mette a parlare della fidanzata e dichiara che il figlio l’ha scelta «perché ha alzato le sottane». Padre e figlio continuano a litigare. E il padre conclude: «Ora ti condanno a morte per annegamento!». Il figlio si sente «scacciato dalla stanza» e si precipita verso il ponte. Con agilità si getta nel fiume, gridando: «Cari genitori, eppure vi ho sempre amati».
Il verdetto è un racconto scarno. Se lo si riduce ai fili della trama, la sua stranezza diventa ancora più imponente. Nella narrazione nulla viene spiegato, [157] ma si sentono premere forze immani. È psicologia? O una bufera astrale? E, anche se è psicologia, come nominarne gli elementi, come isolarli? Per questa unica volta, è stato Kafka stesso a farlo, come un ostetrico: soltanto lui poteva avere «la mano che può spingersi fino al corpo e ne ha la voglia». Così ha precisato che il nome Bendemann è una trasformazione di Franz Kafka, ottenuta attraverso alcune operazioni elementari sulle lettere, di un genere che numerosi scrittori praticano quasi per automatismo, senza bisogno di ricorrere alla cabbala, come alcuni hanno supposto per eccesso di zelo. Così anche il nome della fidanzata di Georg, Frieda Brandenfeld, corrispondeva a quello della futura fidanzata di Kafka, Felice Bauer, a cui il racconto è dedicato. Sarebbe difficile indicare in modo più netto il rapporto fra il racconto e certi fatti nella vita dell’autore. Non solo del suo passato e del suo presente, ma del suo futuro. Un passo anticipa una scena che sarebbe accaduta sette anni dopo nella vita di Kafka. Nel racconto, quando il padre infuria contro Georg, improvvisamente diventa suo bersaglio la fidanzata: «“Perché ha alzato le sottane,” il padre cominciò a sussurrare con voce flautata “perché ha alzato le sottane così, quell’oca schifosa,” ed egli sollevò, per mostrarlo, la sua camicia da notte così in alto che sulla coscia si vedeva la sua cicatrice di guerra “perché ha alzato le sottane così, così e così, allora tu ti sei fatto avanti con lei e, per poter fare i tuoi comodi con lei senza disturbi, hai oltraggiato la memoria della nostra mamma, hai tradito il tuo amico e hai cacciato tuo padre a letto in modo che non possa muoversi”». Parole feroci e grottesche. A questo punto il racconto, avviato come la cronaca di un qualsiasi fatto quotidiano in un interno borghese, degno di essere narrato solo per [158] un certo gioco di sfumature, si spalanca su una orribile intimità. Così eccessiva che sembra distaccarsi da qualsiasi pretesto autobiografico. Impressione errata. Anzi, è appunto questo il passo dove si prefigura una scena che sarebbe avvenuta qualche anno dopo nella vita di Kafka, così come altrove il racconto espone nel 1912 l’amico di Georg a «rivoluzioni russe» che solo nel 1917 sarebbero culminate.
Un giorno del 1919 Kafka rivelò al padre la sua intenzione di sposare Julie Wohryzek e ottenne in risposta le seguenti parole, che si leggono tra virgolette nella Lettera al padre: «Quella lì probabilmente si è messa una camicetta ricercata, come sanno fare le ebree di Praga, e tu subito naturalmente hai deciso di sposarla. E oltre tutto il prima possibile, fra una settimana, domani, oggi. Io non ti capisco, sei una persona adulta, vivi in città e non sai trovare altra soluzione che sposare la prima venuta». Le sottane alzate del racconto sono diventate la «camicetta ricercata» della scena tra padre e figlio. Manca però nel racconto la conclusione del dialogo: «Non ci sono altre possibilità? Se ti fanno paura, verrò io con te». Pur di allontanare il figlio trentaseienne dal proposito di sposarsi, Hermann Kafka si offriva di accompagnarlo al bordello, se aveva paura ad andarci da solo. Mentre il padre parlava, la madre entrava e usciva dalla stanza, spostando oggetti dal tavolo con una espressione di tacita intesa con il marito. A questi muti movimenti Kafka dedicò allora la sua attenzione. Il padre intanto continuava ad accumulare parole, ancora «più circostanziate e più chiare».
[159] In una pagina dei Diari, scritta mentre stava correggendo le bozze del Verdetto, Kafka volle descrivere «tutti i rapporti» che gli erano «diventati chiari nella storia». Il risultato fu qualcosa di quasi intollerabilmente psicologico, che non somiglia però a nulla che sia passato sotto tale nome né prima né dopo di lui. Osserviamo: innanzitutto che cos’è, chi è l’amico lontano? «L’amico è il legame tra padre e figlio, è la loro più grande comunanza». Seduto davanti alla finestra, subito dopo aver chiuso la lettera all’amico, «Georg sguazza in questa comunanza con voluttà, crede di avere il padre dentro di sé e tutto gli sembra pacificato, salvo per una fuggevole tristezza nel riflettere». Per un momento, il figlio ha l’illusione di inglobare in sé il padre, quindi di dominarlo. Ma «lo sviluppo della storia» mostrerà che questo è un abbaglio: come un demone dalla bottiglia, il padre «fuoriesce dalla comunanza, dall’amico» e si contrappone a Georg, appropriandosi anche di altri elementi comuni, quali la madre morta o «la clientela, che in origine il padre si era conquistata per il negozio». Il padre ha dunque tutto, «Georg non ha niente». Anche la fidanzata non sussiste, perché «non può entrare nel circolo sanguigno che si estende intorno a padre e figlio». Perciò essa viene «facilmente respinta dal padre». Questo dunque è il «rapporto» padre-figlio: un «circolo sanguigno» che espelle ogni elemento estraneo – e traccia intorno a loro un cerchio magico, fatto di sangue. Georg passa dalla convinzione delirante di «avere il padre dentro di sé» alla certezza che quel «circolo sanguigno» esclude la sua esistenza. Il suo posto infatti è occupato da un altro Georg, dall’amico, fantoccio «mai sufficientemente protetto, esposto a rivoluzioni russe» e comunque ormai «estraneo, [160] diventato autonomo». Che cosa rimane allora a Georg? «Lo sguardo sul padre». Così Kafka definisce l’occhio che vede la scena che la sua mano sta scrivendo nel Verdetto. E se la conclusione, con la condanna e il suicidio, nel racconto appare mostruosamente irragionevole, ora sembra essere l’ultimo, consequenziale e quasi sottinteso passaggio nello svolgimento di una equazione.
Finché Bendemann sta a rimuginare nella sua stanza, la vicenda che si prospetta si direbbe un chiaroscuro psicologico, oltre tutto di scarso interesse. Mentre la prosa si fa subito notare per una incisività e nettezza nel tratto che sembrano quasi eccessive in rapporto alla esiguità della vicenda. Qualcosa cambia quando il giovane Bendemann si sposta dalla sua stanza in quella del padre, «dove non era stato da mesi». E subito si avverte, anche se non si saprebbe dire perché, un cambiamento nel tono. La stanza è buia, il padre è seduto accanto alla finestra. Sul tavolo, i resti di una prima colazione. Poi il padre si alza e cammina. La sua pesante vestaglia si apre e il figlio pensa: «Mio padre è pur sempre un gigante». Questa frase ci introduce a un nuovo registro, che è nel segno della sproporzione. Ma una sproporzione che non viene segnalata. Tutto procede con passo normale, come se il padre fosse un vero gigante, costretto in una piccola stanza, mentre il lettore e anche il figlio lo considerano tale soltanto per metafora.
Una impercettibile linea di demarcazione separa ciò che avviene nella camera del figlio – ed è piatto, tranquillo, ragionevole – da ciò che avviene nella camera del padre – ed è oscuro, violento, estremo. I grandi narratori ottocenteschi condividevano il culto [161] – o almeno il rispetto – di quella linea. Alcuni si ponevano nella stanza del figlio, altri nella stanza del padre. E talvolta passavano dall’una all’altra. Ma sempre con le dovute precauzioni – e avvertendo ogni volta che stavano passando dall’altra parte. Questo con Kafka non avviene. Il passaggio è continuo e nulla lo preannuncia. Una corrente trascina la narrazione. Quella a cui Kafka accennò nel raccontare le otto ore consecutive passate a scrivere nella notte, da cima a fondo, Il verdetto: «Lo sforzo spaventoso e la gioia, come la storia si dispiegava davanti a me, mentre avanzavo dentro un flutto». E al tempo stesso si sentiva dominato dalla sensazione che «tutto si può osare», perché «per tutte le idee, anche le più strane, è già pronto un grande fuoco in cui si dissolvono e risorgono».
Il padre è un gigante sdentato. Appena comincia a parlare con il figlio, l’intensità cresce. Il tono diventa allusivo, carico di pathos. Sentiamo parlare di «certe cose non belle accadute da quando è morta la nostra cara mamma». E subito segue una domanda che è una sfida: «Tu hai veramente questo amico a Pietroburgo?». Uno dei due è pazzo, pensa subito il lettore. O il figlio che mette insieme con ogni sorta di accorgimenti una lettera per una persona inesistente. O il padre che è convinto che il figlio parli con lui di un amico inesistente. A questo punto, il terreno della narrazione è già sprofondato sotto i piedi del lettore. Ma non del narratore, che procede imperturbabile.
Il figlio ora si dichiara preoccupato per la salute del padre. Forse pensa che il padre sia pazzo, ma si limita a consigliargli qualche cambiamento nel suo «modo di vivere». Intanto più luce (come se il padre stesse abitualmente al buio). Aprire la finestra. Magari cambiare stanza. Ma le premure del figlio [162] vanno oltre: vuole mettere a letto il gigante, aiutarlo a spogliarsi. Viene il sospetto che padre e figlio si considerino pazzi a vicenda. Riprende allora il dialogo tormentoso. «Tu non hai nessun amico a Pietroburgo. Sei sempre stato un giocherellone e non ti sei frenato neppure con me» dice il padre. Più che come pazzo, il figlio appare ora come un beffardo ingannatore. Il figlio sta intanto spogliando il padre. Lo solleva dalla sedia, come un bambino o un malato. E pazientemente gli spiega che il padre stesso ha conosciuto l’amico tre anni prima. Ricorda che in quella occasione l’amico aveva raccontato «storie incredibili della rivoluzione russa» (del 1905). Prosegue la svestizione del padre: ora il figlio gli toglie le mutande lunghe di lana e i calzini. Osserva inoltre che la biancheria non è «particolarmente pulita». Si domanda se non dovrebbe preoccuparsi lui stesso di cambiarla. E questo si collega a un’altra questione, ben più importante: dove vivrà il padre quando il figlio sarà sposato? Il figlio aveva già pensato di farlo «rimanere solo nel vecchio appartamento». Ma ora improvvisamente, mentre lo spoglia, il figlio decide che porterà il padre con sé nella nuova casa. E a quel punto prende in braccio il padre e lo depone sul letto. In poche righe il gigante si è rattrappito. È inerme e leggero, eppure il figlio ha una «sensazione spaventosa» mentre si avvicina al letto tenendolo in braccio. Il padre è assorto a giocare con la catena dell’orologio del figlio. Tenace, non vuole mollarla. Forse questo implica già qualcosa di terribile. Poi il padre si stende e si copre fin sopra le spalle. Sembra che questa scena di premura filiale stia per finire – e non sappiamo ancora se delirante sia il padre o il figlio, o se lo siano entrambi.
E qui bruscamente si entra nella terza fase del racconto, di pura violenza. Il padre getta via la coperta. [163] Si alza sul letto, appoggiando «appena una mano al soffitto». (È tornato a essere un gigante? O la stanza è particolarmente angusta?). Le sue parole svelano uno scenario nuovo. L’amico di Pietroburgo esiste, certo, anzi sarebbe stato per il padre «un figlio come piace a lui». E il padre aggiunge: «Perciò lo hai ingannato per tutti questi anni». Il figlio è ora accusato nuovamente di essere un ingannatore: non più del padre ma dell’amico. Però l’occhio del padre «per fortuna» sa vedere attraverso il figlio, che non può sottrarsi al suo sguardo. Ormai il padre appare al figlio come uno «spauracchio». E anche l’immagine dell’amico in Russia ora è del tutto diversa, spicca su uno sfondo turbinoso, fosco. L’amico appare «perso nella vasta Russia», sulla porta di un negozio saccheggiato, «fra le macerie degli scaffali e delle merci fatte a pezzi». Il padre non ha finito di infierire. Ora tocca al sesso. La fidanzata sarebbe stata prescelta soltanto «perché ha alzato le sottane», dice il padre, e imita «quell’oca schifosa» sollevando la sua camicia da notte fino a mostrare in cima a una coscia «la sua cicatrice di guerra».
La sproporzione è ormai esasperata. Il figlio sta in un angolo e osserva, tentando di controllarsi. Ma poi una parola gli sfugge: «Commediante!». Il padre continua a imperversare. E accusa il figlio di averlo soppiantato, «andando trionfante per il mondo a concludere affari» che il padre stesso aveva predisposto con lungo lavoro.
La tranquilla, oziosa domenica mattina in un interno borghese è diventata il palcoscenico di un duello feroce. Il figlio si osserva formulare questo desiderio: «Se cadesse e si sfracellasse!». Ma il padre non cade. Dice: «Sono ancora molto più forte di te». Ora le sue parole si tendono in un’ultima arcata. Dice che quella scena della lettera se l’aspettava da anni. [164] È come se tutto ciò che è accaduto fra padre e figlio si condensasse in quella lettera. Anche l’amico a Pietroburgo sapeva tutto. Il figlio ha un ultimo soprassalto: «Allora mi hai spiato!». Ma nulla può frenare il padre, che si avvicina al momento della condanna: «E perciò, sappi: ora ti condanno a morte per annegamento!». Dritto sul letto nella sua camicia da notte, con i bianchi capelli stopposi e la bocca sdentata, il padre ha emesso il suo verdetto. E il figlio si sente scacciato dalla camera. Ora si preoccupa soltanto di lasciar passare il tempo più breve fra il verdetto e la sua esecuzione. Così si getta nel fiume con un gesto «da eccellente ginnasta, quale era stato da ragazzo, con grande fierezza dei suoi genitori». Mai una morte raccontata era apparsa così irragionevole, mai così ben preparata e dimostrata come un teorema. La sproporzione è un compasso aperto fino al punto di appiattirsi sul foglio. E su quel foglio si sarebbe scritta, in un palinsesto progressivo, tutta l’opera di Kafka.
Il romanzo ottocentesco aveva provocato un graduale disvelamento degli orrori familiari e coniugali, sino al calor bianco di Strindberg («l’enorme Strindberg», che Kafka leggeva «non per leggerlo ma per abbandonarmi sul suo petto»). Le scene diventano sempre più vergognose e sempre più comiche. Ma un padre che, in piedi sul suo letto, in camicia da notte, pronuncia la condanna a morte del figlio (precisando: «per annegamento»); e un figlio che si precipita a eseguire la condanna con scioltezza rivendicando, un attimo prima di sparire nel fiume, il suo amore per i genitori, così come un sovversivo dichiara la sua fede nella rivoluzione davanti al plotone che sta per fucilarlo, ma qui la rivoluzione [165] è il plotone stesso: la psicologia, per quanto avvelenata, non si era ancora spinta così in là. E si può supporre che, giunti a questo punto, la storia veleggi oltre, in una zona dove il rapporto fra le immagini e ciò che accade è gravemente dissestato e non tornerà più a essere quello di prima.
La mattina dopo aver scritto Il verdetto, Kafka entrò «tremando» nella stanza delle sorelle e lesse il racconto. Una delle sorelle disse: «L’appartamento (nella storia) è molto simile al nostro. Io: Ma come? Allora il babbo dovrebbe stare nel gabinetto». Quello stesso giorno, tornando con la mente alla notte del Verdetto, Kafka pensò fra le altre cose «naturalmente a Freud».
Nell’edizione critica dei Diari si legge una serie di frammenti dell’anno 1910 che nelle edizioni precedenti erano stati in buona parte eliminati. Perché? Sicuramente per la loro imbarazzante ripetitività, come di un disco rotto. Eppure, appunto quella ripetitività era il tratto decisivo. Osserviamo i frammenti: sono sei, di lunghezza oscillante fra le quattordici righe e le quattro pagine, scritti in successione. Ecco gli inizi:
«Se ci penso, devo dire che la mia educazione sotto vari riguardi mi ha molto danneggiato».
«Se ci penso, devo dire che la mia educazione sotto vari riguardi mi ha molto danneggiato».
«Spesso ci rifletto e poi ogni volta devo dire che la mia educazione, sotto vari aspetti, mi ha molto danneggiato».
[166] «Spesso ci rifletto e lascio che i pensieri seguano il loro corso senza immischiarmi e ogni volta, comunque la metta, giungo alla conclusione che la mia educazione, sotto vari aspetti, mi ha terribilmente danneggiato».
«Spesso ci rifletto e lascio che i pensieri seguano il loro corso senza immischiarmi, ma ogni volta giungo alla conclusione che la mia educazione mi ha rovinato più di quanto io possa capire».
«Ci rifletto spesso e lascio che i pensieri seguano il loro corso senza immischiarmi, ma ogni volta giungo alla stessa conclusione, che l’educazione mi ha rovinato più di tutta la gente che conosco e più di quanto io riesca a comprendere».
Doveva essere ben convinto di quell’incipit Kafka, se lo ha variato per sei volte. Ma chi è l’io che qui parla? Immediatamente si pensa a Kafka stesso, perché questo quaderno è pieno di riferimenti a singoli episodi della sua vita. Se così fosse, questi incipit meriterebbero quasi di figurare come testo inaugurale di una certa letteratura di recriminazione psicologica che sarebbe poi dilagata nel secolo. Dietro quell’insegna araldica potrebbero sfilare le coorti di coloro che avrebbero dichiarato di essere stati rovinati dalla mamma, dal papà, dalla famiglia, dalla scuola, dall’ambiente, dalla società. Vasta compagnia, per lo più tediosa e petulante. Ma, anche se l’espressione psicologica, come non di rado in Kafka, è qui di una peculiare nettezza e incisività, anzi quasi brutalità, la psicologia stessa non è certo il punto di mira della narrazione. Anzi, si vedrà che qui la psicologia viene spinta all’estremo, ma quasi per irriderla.
Come constatarlo? Semplicemente osservando le [167] variazioni nell’elenco dei colpevoli, quali appaiono nelle varie versioni. In successione:
«Questo rimprovero colpisce una quantità di persone, cioè i miei genitori, alcuni parenti, certi visitatori della nostra casa, vari scrittori, una cuoca ben precisa, che mi ha accompagnato a scuola per un anno, un mucchio di insegnanti (che nel mio ricordo devo comprimere, altrimenti me ne perdo uno qua e là, ma siccome li ho così premuti insieme il tutto ricomincia, in certi punti, a sbriciolarsi), un ispettore scolastico, dei passanti che camminano lentamente, in breve questo rimprovero si torce come un pugnale attraverso la società».
«Questo rimprovero è rivolto a una quantità di persone, le quali comunque si ritrovano qui e come nei vecchi ritratti di gruppo non sanno che fare tutte insieme, non gli viene neanche in mente di abbassare gli occhi e non osano sorridere, perché sono in attesa. Ci sono i miei genitori, alcuni parenti, alcuni insegnanti, una cuoca ben precisa, alcune ragazze delle lezioni di ballo, alcuni visitatori della nostra casa precedente, alcuni scrittori, un maestro di nuoto, un bigliettaio, un ispettore scolastico, poi alcuni che ho incontrato solo una volta per la strada e altri di cui ora non riesco a ricordarmi e certi di cui non mi ricorderò mai più e infine certi al cui insegnamento a quel tempo, perché in qualche modo distratto, non ho fatto attenzione, in breve sono così tanti che bisogna stare attenti a non nominarne uno due volte».
«In questo riconoscimento è implicito un rimprovero che è rivolto a una quantità di persone. Ne fanno parte i genitori, con i parenti, una cuoca ben precisa, gli insegnanti, alcuni scrittori, famiglie amiche, [168] un maestro di nuoto, gli abitanti dei luoghi di villeggiatura, alcune signore nel parco centrale, che non danno da vedere certe cose, un parrucchiere, una mendicante, un esattore, il medico di casa e molti altri ancora e sarebbero ancora di più se volessi e potessi chiamarli tutti per nome, in breve sono così tanti che bisogna stare attenti a non nominarne uno due volte, nel mucchio».
«[I rimproveri] sono rivolti a una quantità di persone, questo può fare spavento e non solo io ma chiunque altro preferirebbe guardare il fiume dalla finestra aperta. Ne fanno parte i genitori e i parenti, e il fatto che mi abbiano danneggiato per amore rende ancora più grande la loro colpa, perché quanto avrebbero potuto essermi utili per amore, poi famiglie amiche con uno sguardo malevolo, che fanno resistenza perché consapevoli della colpa e non vogliono emergere nel ricordo, poi la schiera delle tate, degli insegnanti e degli scrittori e in mezzo a loro una cuoca ben precisa, e poi, confusi per punizione uno con l’altro, un medico di casa, un parrucchiere, un esattore, una mendicante, un venditore di carta, un guardiano del parco, un maestro di nuoto e poi certe signore straniere del parco centrale, che non danno da vedere certe cose, alcuni abitanti dei luoghi di villeggiatura, che sono una irrisione della natura innocente, e molti altri; ma sarebbero ancora di più, se volessi e potessi nominarli tutti per nome, in breve sono così tanti che bisogna stare attenti a non nominarne uno due volte».
Queste furiose, esilaranti galoppate ruotano attorno al tema prediletto da Kafka: la colpa. Si tratta di elencare tutti coloro che hanno danneggiato in varia misura colui che scrive. Allo stesso modo in [169] cui Josef K., poco prima di essere condannato a morte, avrà la visione del gruppo di quelli che lo accusano come di un coro compatto e unanime; così il giovane Franz Kafka si guarda intorno e riconosce tutti coloro che sono colpevoli verso di lui – fino a diventare i suoi giustizieri. Alcune presenze sono immancabili: i genitori e i parenti. Ma altrettanto immancabile è «una cuoca ben precisa» che aveva accompagnato a scuola Kafka per un anno. È lei che ritroveremo finalmente in una lettera a Milena del 21 giugno 1920: «La nostra cuoca, piccola asciutta magra con il naso a punta, le guance scavate, giallognola, ma ferma, energica e superiore, mi portava a scuola ogni mattina». Parole che bastano a farci entrare nelle stanze segrete della memoria di un singolo che si chiama Franz Kafka. Ma, quando già l’ignaro psicologo si congratula con se stesso perché pensa di aver trovato la vera materia che si nasconde dietro ogni letteratura, lo scrittore Kafka gliela sottrae e la vanifica. Perché la sua lucidità va ben più lontano. Padre e madre sono certamente i primi fra i colpevoli. Ma gli altri si fanno avanti in una sequenza inarrestabile. Dove si riconoscono non solo la cuoca giallognola, ma certi che hanno avuto il torto, un certo giorno, di camminare piano, certe ragazze della scuola di ballo, un maestro di nuoto, un bigliettaio, un esattore, un parrucchiere, una mendicante, un venditore di carta. E alla fine tutti si disporranno insieme, come in una foto di gruppo. Un po’ imbarazzati perché molti fra loro non si conoscono e non si sono mai visti prima. Ma tutti accomunati dalla colpa. Persi in mezzo a loro, e dimenticati nella folla, anche i genitori.
Nella sua furia, Kafka non si pone limiti: della sequenza dei colpevoli fanno parte anche alcune persone [170] incontrate per la strada una volta e altri di cui non riesce a ricordarsi. La colpa dunque non solo si estende a tutto ciò che è stato percepito, seppur fievolmente e una volta sola. Ma anche a tutto ciò che ci è passato davanti senza essere percepito. A questo punto ogni psicologia deflagra dall’interno, aprendo una breccia verso la letteratura. Innanzitutto quella di Kafka.
Quale esperto dell’estraneità, Kafka arrivò, nell’ultimo periodo, a contemplarla e mostrarla all’opera in situazioni fra le più comuni, che diventavano di colpo illuminanti. Per esempio, il rito della partita a carte in famiglia. Per anni, la sera, i genitori di Kafka giocavano a carte. Per anni, gli avevano chiesto di partecipare. Per anni, il figlio aveva detto di no. Ma non per questo se ne andava. «Stavo lì ad assistere, solo, totalmente estraneo». Un giorno si fermò a riflettere: «Che cosa significava quel rifiuto più volte ripetuto, sin dall’infanzia?». L’invito a giocare rappresenta una chiamata a partecipare alla comunità. E il gioco in sé, osservava Kafka, «non lo avrebbe neppure troppo annoiato». Tuttavia la sua risposta era stata invariabilmente negativa. Da tale caparbietà Kafka desumeva qualcosa che andava molto lontano: quella scheggia di comportamento in famiglia bastava a far capire perché «la corrente della vita» non lo aveva mai trascinato, perché era sempre rimasto sulla soglia di qualcosa che poi eludeva. Si avverte una sottile comicità, in un primo momento, nel vedere quali gravi conseguenze vengono tratte da una piccola scena domestica. Ma Kafka, imperturbabile, fa un passo più in là. Una delle sere successive al giorno in cui aveva scritto queste osservazioni decise di [171]partecipare in qualche modo al gioco, «annotando i punti per mamma». E allora si accorse che quella nuova situazione in cui veniva a trovarsi corrispondeva beffardamente allo stato normale delle sue relazioni con il mondo esterno: in quel modo, «però, non si produsse una maggiore vicinanza e, se anche poteva esservene un accenno, veniva sommerso dalla stanchezza, dalla noia, dalla tristezza per il tempo perso. E sarebbe sempre stato così. Questa terra di confine tra solitudine e comunità l’ho abbandonata solo in casi rarissimi, anzi è lì che mi sono stabilito, ancor più che nella solitudine stessa. Che terra bella e viva era in paragone l’isola di Robinson». Qui Kafka ha situato se stesso, quasi definendosi come un luogo geometrico, nella vita comune.
Un sospetto di Kafka, affiorato anch’esso dalle sue osservazioni sul gioco in famiglia, era che, qualsiasi iniziativa pratica egli prendesse per camuffarsi in una normalità (e potevano essere così diverse come il lavoro d’ufficio o incerti tentativi di dedicarsi al giardinaggio o alla falegnameria), fosse comunque un palliativo o un goffo modo di nascondere un comportamento che rimaneva inconfondibile, nella sua disperante incongruità, «come il comportamento di un uomo che caccia via dalla porta il misero mendico e poi da solo fa la parte del benefattore mettendo l’elemosina dalla mano destra nella sinistra». A questo comportamento corrispondeva la sensazione di vivere premendo la testa «contro il muro di una cella senza finestre e senza porte». Il resto – «la famiglia, l’ufficio, gli amici, la strada» – era «tutto fantasia, più vicina o più lontana». Fra [172]queste, «la più vicina» era «la donna». Da ciò gli inesauribili malintesi, con qualsiasi donna. Da ciò l’inesauribile attrazione, perché quella fantasia più vicina poteva condensare in sé tutte le altre e agire come un loro emissario.
«Le metafore sono una delle molte cose che mi fanno disperare dello scrivere» annota Kafka nel dicembre 1921, commentando la frase finale di una sua lettera a Klopstock, che diceva soltanto: «Mi ci riscaldo in questo triste inverno». Una lente potentissima raggiunge una frase apparentemente innocua, vi riconosce lo sgorgare della metafora, se ne dispera. Perché? Caparbio naturalista della metafora, Kafka riusciva a ricondurre quasi tutto, e in primo luogo lo scrivere, a quel momento misterioso in cui dalla lettera si sprigiona l’immagine – e, da quel preciso momento, ciò che poteva essere considerato reale si dissesta. Ma non perché si affermi allora una sovranità dello scrivere, che è già in sé una metafora. Anzi, se ne rivela piuttosto l’invincibile dipendenza da altro. Così Kafka prosegue: «La non autonomia dello scrivere, il suo dipendere dalla cameriera che accende la stufa, dal gatto che vi si riscalda, anche dal povero vecchio che si riscalda. Tutte queste sono operazioni autonome, che obbediscono a una loro legge, soltanto lo scrivere è inerme, non abita in se stesso, è divertimento e disperazione». Isoliamo qualche parola: soltanto lo scrivere «non abita in se stesso»: lo scrivere allora è il primo fra tutti gli estranei. Perciò raccontare le avventure dell’estraneo è raccontare lo scrivere stesso, «divertimento e disperazione».
[173] L’estraneo, lo straniero non era solo il costante protagonista dello scrivere di Kafka. Doveva essere anche un compagno segreto, che appariva e riappariva, che lo accompagnava senza esserne richiesto. Pochi giorni dopo aver commentato la frase finale della lettera a Klopstock, Kafka annota: «Mi sono svegliato di soprassalto da un profondo sonno. In mezzo alla stanza stava seduto a un tavolinetto, alla luce della candela, un estraneo. Stava seduto nella penombra, largo e pesante, la giacca invernale sbottonata lo faceva sembrare ancora più largo».
L’estraneità è il rumore di fondo in Kafka. Tutto la presuppone, tutto vi sfocia. Kafka conosceva quel sentimento nelle sue varie diramazioni: dalle più ovvie, e anche banali, manifestazioni psicologiche (il sentirsi escluso da un gruppo, da un genere di esseri, da una comunità), alle sue estreme figurazioni metafisiche (lo gnostico come lo Straniero nel mondo e al mondo). All’origine, c’era un senso acutissimo della singolarità – sino all’intraducibilità – della propria esperienza psichica. Di cui Kafka non si compiaceva, anzi la combatteva sino a cercare l’umiliazione dei soggiorni in colonie naturiste, come allo Jungborn o a Hellerau, dove l’attrazione prima era offerta dall’illusione di confondersi in un gruppo. (E presto si rendeva conto che, in mezzo ai nudisti, spiccava ancora di più, anche se soltanto come «l’uomo con il costume da bagno»).
Tutta l’opera di Kafka è un esercizio (nel senso delle Études di Chopin) sulle molte gamme dell’estraneità. Karl Rossmann è lo straniero nel senso più radicale e letterale: l’adolescente che viene espulso dalla sua patria e gettato in un continente nuovo. K. è lo straniero nel senso tradizionale: colui [174] che arriva dalla città in un paese di campagna, chiuso e inospitale. Josef K. è straniero, nel senso di ignaro, all’interno di una grande organizzazione che lo risucchia al suo interno. Il cacciatore Gracchus è straniero al mondo intero, perché viaggia senza tregua nella zona intermedia fra la terra e il mondo dei morti. Il viaggiatore nella Colonia penale è lo straniero che visita luoghi esotici e prende nota dei loro strani costumi. Gregor Samsa è il più irrimediabile fra gli stranieri, perché nella propria stanza è diventato l’irriconoscibile stesso, non più straniero ma biologicamente estraneo. Al medesimo tempo, Gregor Samsa è immerso nelle situazioni più comuni. Sarebbe facile riconoscerlo in certe descrizioni che Kafka ha lasciato della sua vita in famiglia. Ma nessun racconto dissuade dal commento come La metamorfosi, forse a causa della altissima «indubitabilità della storia», sensazione che Kafka aveva avvertito per la prima volta scrivendo Il verdetto.
Prima di analizzare il testo davanti ai suoi studenti di Ithaca, Nabokov si sentì tenuto a dire alcune parole semplici e definitive: «Bellezza sommata a pietà – questa è la massima approssimazione che si può raggiungere nel definire l’arte. Dove vi è bellezza vi è pietà, per la semplice ragione che la bellezza muore sempre, la maniera muore con la materia, il mondo muore con l’individuo. Se La metamorfosi di Kafka colpisce qualcuno come qualcosa di più di una fantasia entomologica, allora mi congratulo con lui perché si è unito alla schiera dei buoni e grandi lettori».
Sino alla morte del figlio Franz, Hermann Kafka – per quanto possiamo giudicare dalle fotografie superstiti – non gli somigliava. A sessantadue anni, [175] quindi già vent’anni più vecchio di quel che Kafka sarebbe mai diventato, il padre era un uomo massiccio, con i capelli corti brizzolati, volitivo, dai tratti spessi. È facile immaginarlo dietro un banco. Ma non più quello della macelleria del padre a Wossek. Ora la sua merceria all’ingrosso occupava l’angolo destro del Palais Kinsky. Hermann Kafka tiene fra le gambe il nipote Felix, del quale aveva annunciato la nascita – scrisse Kafka – girando per tutta la casa in camicia da notte, «come se il bambino non soltanto fosse nato ma avesse già anche condotto una vita onorata e fosse stato celebrato il suo funerale».
Ora spostiamo lo sguardo su una fotografia di Hermann Kafka nel 1930, sei anni dopo la morte del figlio e un anno prima della sua. Sta in piedi, accanto alla moglie, che nel suo cappotto lungo e scuro sembra concresciuta al suolo. Hermann è magro, il collo della camicia è troppo largo, il cappotto è aperto e gli sta appeso, con una certa eleganza, come su una stampella. Il volto è quello di Franz Kafka se fosse invecchiato. Tutto è uguale: l’attaccatura dei capelli, le orecchie sporgenti, la lieve inclinazione della testa, l’ossatura del viso triangolare, la quieta desolazione dello sguardo. Soltanto di quest’ultimo si può dire che non corrisponda pienamente a quello del figlio. Ma lo presuppone.
VIII
LA COLTRE DI MUSCHIO
[179] La tana è quanto più si avvicina, in Kafka, a uno scritto testamentario. E il racconto fu composto nel suo ultimo inverno, 1923-1924. Il tono è quello di un resoconto scrupoloso, come di chi dicesse: se davvero volete sapere qual era la mia vita qui troverete il diario di bordo, ma spogliato di ogni accidentalità, ridotto alla geometria dei movimenti, sopra e sotto la coltre di muschio che apriva l’accesso alla tana. Tutto il racconto è una catena deduttiva che discende da un singolo enunciato, quattro parole dei Diari scritte all’inizio del 1920: «Meine Gefängniszelle – meine Festung». «La mia cella di prigioniero – la mia fortezza».
Di che cosa si parla nella Tana? Di una questione su cui Kafka si era soffermato più volte, nei Diari e in numerose lettere. Sempre per accenni, mai in modo sistematico. Si trattava di un «modo di vivere», quelo che gli apparteneva – era giunto a pensare – irriducibilmente, [180] ma che all’inizio era stato quasi un gioco, una sfida, una provocazione. Mentre alla fine si era rivelato una necessità. Quel modo di vivere – o piuttosto quel regime della sopravvivenza – si era svelato in maniera sempre più netta e rigorosa grazie all’azione di ciò che Kafka chiamava lo scrivere. Ma a sua volta lo scrivere aveva soltanto fatto affiorare qualcosa che comunque era già presente: uno scarto, una cesura rispetto alla «corrente della vita», da cui riconosceva di non essere «mai stato trascinato». Non c’era riuscito, non aveva voluto, non aveva potuto.
Ogni tanto, Kafka era preso dalla curiosità di indagare come era cominciato tutto, come aveva cominciato a manifestarsi quel «modo di vivere» che poi sarebbe diventato per lui l’unico modo di vivere. E una volta descrisse quegli inizi con parole così terse e pacate da suonare definitive, in una notazione dei Diari che risale al gennaio 1922: «L’evoluzione è stata semplice. Quando ero ancora contento, ho voluto essere scontento e mi sono spinto nella scontentezza, usando tutti i mezzi dell’epoca e della tradizione che mi erano accessibili, però volevo pur sempre poter tornare indietro. Insomma ero sempre scontento, anche della mia contentezza. La cosa strana è che la commedia, se la si applica in maniera sufficientemente sistematica, può diventare realtà. La mia decadenza spirituale è cominciata con un gioco puerile, e comunque consapevole nella sua puerilità. Per esempio contraevo ad arte i muscoli del viso, camminavo per il Graben con le braccia incrociate dietro la testa. Giochi infantilmente fastidiosi, ma efficaci. (Qualcosa di simile accadde con l’evolversi dello scrivere, solo che quell’evolversi dello scrivere disgraziatamente in seguito si inceppò). [181] Se in questo modo è possibile costringere l’infelicità a lasciarsi evocare, allora tutto dovrebbe lasciarsi evocare. Per quanto l’evoluzione successiva sembri confutarmi e per quanto il fatto di pensare così contrasti in genere con il mio essere, non posso ammettere in alcun modo che i primordi della mia infelicità siano stati interiormente necessari, forse avranno avuto una loro necessità, ma non interiore, arrivarono in volo come mosche e come mosche si sarebbero potuti facilmente scacciare».
La lingua tedesca ha due parole che significano «tana»: Höhle e Bau. Parole opposte: Höhle designa lo spazio vuoto, la cavità, la caverna; Bau designa la tana come costruzione, edificio, articolazione dello spazio. Per l’animale che parla nella Tana, le due parole corrispondono a due diversi modi di intendere lo stesso luogo. La Höhle è la tana come rifugio, «buco di salvataggio», pura reazione di terrore, tentativo di eludere il mondo esterno. Mentre il Bau, la tana come costruzione, ha un carattere autosufficiente e sovrano, anzi preoccupato soprattutto di verificare continuamente la propria autosufficienza e sovranità. Confondere i due significati è quasi offensivo – e l’ignoto animale lo rigetta con sdegno: «Ma la tana (Bau) non è certo soltanto un buco di salvataggio!» dice. Difatti mai una volta usa la parola Höhle per designare la sua tana. E per nessuno mostra tanto disprezzo come per quell’ipotetico animale – sicuramente «un brutto straccione» – che nella tana pretendesse di «abitare senza costruire».
La tana è un’unica colata di parole, nelle ultime pagine priva di capoversi, che si interrompe in mezzo [182] a una frase. Ma, secondo il principio animatore del testo, il narratore saprebbe continuare indefinitamente a narrare. Un solo essere può interromperlo: la sua controparte tenebrosa, se per avventura uscisse da un’esistenza soltanto acustica, cessando di scavare nella tana come fosse la propria per mostrarsi muso a muso. Sarebbe allora uno scontro mortale. O altrimenti quell’essere indefinito e persecutorio potrebbe anche dileguarsi, sostituito da un’altra ipotesi e altre inquietudini. In ogni caso, l’interruzione del testo sarebbe fortuita e brusca. Perché, come il sibilo che si avverte dietro le pareti delle gallerie è costante e tenace, così il ronzio delle parole dell’animale narrante non conosce pause. Nulla può acquietarlo, nemmeno la certezza. «Sono arrivato al punto che la certezza non voglio neppure averla» confessa il costruttore della tana – e tanto basta a rivelarci la natura inesauribile e coatta della sua impresa.
Nella Tana, Kafka sottrae la coazione dello scrivere a ogni contingenza e ce la mostra nella sua elementarità, come pura catena di gesti. Tutto diventa immensamente astratto, ma al tempo stesso su questa scena spoglia e occulta la parola assume un pathos che mai prima aveva raggiunto nel narrare se stessa. E alcune frasi o frammenti di frasi spiccano con una intensità dolorosa, risuonando senza fine nel vuoto delle gallerie:
«il mormorio del silenzio sulla piazzaforte»;
«è come se si schiudesse la sorgente da cui scorre il silenzio della tana»;
[183] «Appunto in quanto proprietario di questa grande e sensibile opera io sono beninteso inerme di fronte a ogni attacco che sia un po’ più serio, la felicità di possederla mi ha viziato, la sensibilità della tana ha reso sensibile me stesso, le sue ferite mi fanno male come se fossero le mie»;
«la grande tana sta lì, inerme, e io non sono più un piccolo apprendista ma un vecchio capomastro e quelle forze che ancora posseggo mi vengono meno, quando si giunge alla decisione».
Gregor Samsa è un essere affine all’animale indefinito che parla nella Tana. Ma di quell’animale non ha il genio costruttivo né la mente speculativa. Gli manca appunto una tana. La sua stanza ha subìto soltanto un accenno di trasformazione, che si rivela nelle sue tre porte chiuse a chiave. Semplicemente perché Gregor non ha avuto tempo per pensarci, costretto com’è a precipitarsi nel mondo esterno, fra un treno e l’altro, aizzato dalla sveglia, a guadagnare quanto basta per mantenere la famiglia e saldare i debiti del padre. Ma anche Gregor avrebbe bisogno di una coltre di muschio che occultasse la soglia della sua stanza. Non possedendola, è l’essere più esposto. Il mondo esterno non può che ferirlo, come le mele maligne che suo padre gli getta contro. Anche se, in piedi, Gregor è grande quanto un cane, la sua natura di insetto – anzi di indeterminato Ungeziefer, parola che già in sé implica la nocività – lo predispone a una sola fine possibile: essere eliminato. Nessuno come lui avrebbe bisogno di una tana, anche della specie più umile, quella che è soltanto un «buco che serve per salvarsi la vita» e come tale viene disprezzata dal sapiente animale [184] che parla nella Tana e nutre ben altre ambizioni. Ma Gregor non l’avrà. Non dispone d’altro che di nude pareti da percorrere all’impazzata e un divano sotto il quale acquattarsi. La sua sensazione costante è quella di chi si trova nudo e accerchiato da esseri vestiti, coperti, protetti, armati. Mentre le sue esili zampe sono inadatte a brandire una qualche arma.
La metamorfosi è una storia di porte che si aprono e si chiudono. E, soprattutto, che vengono chiuse a chiave o forzate. La stanza di Gregor Samsa ha tre porte. Quando Gregor, una mattina piovosa, si risveglia trasformato in qualcosa di simile a un coleottero della lunghezza di circa un metro, subito pensa con angoscia all’ora tarda e al tormento connaturato al suo mestiere di commesso viaggiatore che ha l’obbligo di alzarsi presto, mentre altri rappresentanti possono permettersi di «vivere come le donne di un harem». Ma poco dopo sente bussare con insistenza a tutte e tre le porte: prima sente la voce della madre, dietro la porta che dà sul soggiorno; poi è il padre, dietro la porta che dà sul corridoio; poi è la sorella, dietro la porta che dà sulla stanza da letto di lei. Gregor è assediato dalle voci. E tutte e tre le porte sono chiuse a chiave. Perché Gregor usava «la cautela presa nei suoi viaggi di chiudere a chiave anche a casa tutte le porte durante la notte». Così ragionevole e quotidiano è il corso dei pensieri di Gregor fino a quel momento che nessuno si sofferma – e neppure Gregor si sofferma – sulla stranezza di quel fatto. Chiudere a chiave ogni notte tre porte nella propria casa, abitata da padre, madre e sorella ai quali Gregor è legato dai sentimenti più affettuosi, non è affatto qualcosa di ovvio. Ora, non solo Gregor si era imposto quel rituale, [185] ma «se ne compiaceva». Chiudendo a chiave quelle porte, Gregor aveva predisposto uno spazio sigillato, pronto per la metamorfosi. Visto con gli occhi persecutori del mondo, quel gesto del chiudere a chiave era una dichiarazione di ostilità verso l’esterno. Come dirà con tono accusatorio il procuratore della sua ditta, venuto ad accertarsi di che cosa accadeva a Gregor Samsa: «Lei si barrica nella sua stanza». Ma appunto quella stanza, invero «un po’ troppo piccola», arredata con i più comuni mobili di famiglia, con il solo tocco personale della fotografia di un’ignota con cappello, boa e manicotto di pelliccia, appesa a una parete dentro una cornice che Gregor stesso aveva intagliato con la sua sega in un’ora di svago, era un recinto chiuso e invalicabile, condizione preliminare per il compiersi di ogni metamorfosi, inclusa quella che si sarebbe manifestata nel corpo stesso di Gregor. Certo, Gregor non lo sapeva. Aveva voluto soltanto separarsi in modo appena un po’ più netto da quella piccola comunità a cui dedicava tutti i suoi sforzi, soprattutto da quando si era riproposto di saldare i debiti del padre. Anzi, forse non lo aveva neppure voluto. Ma la separazione si era prodotta. E ogni separazione, anche minima, è equivalente a una separazione totale. Questa legge fisica e metafisica non era mai stata oggetto dei pensieri di Gregor. Però le leggi agiscono comunque, anche per coloro che le ignorano.
Dal momento in cui, andando a letto, Gregor ha chiuso, senza nemmeno farci caso, le tre porte della sua stanza, tutta la sua vita è diventata una vicenda di porte che si aprono e che si chiudono. All’inizio sarà Gregor stesso a non voler aprire, perché ancora non sa come muovere il suo corpo di grosso coleottero. Alla fine è la sorella, la sua giustiziera, a ricacciarlo nella sua stanza, ormai invasa da «matasse di [186] polvere e sporcizia». E Gregor la sentirà gridare: «Finalmente!» mentre gira la chiave nella serratura. Fra questi estremi, una serie angustiante di situazioni intermedie. La porta che si apre perché la sorella porta il cibo all’insetto. La porta che di nuovo si apre perché la sorella e la madre tentano di spostare i mobili dalla stanza. La porta che si apre perché Gregor, in piedi sulle sue zampe posteriori, come un cane, riesce faticosamente a girare la chiave con le sue mandibole. La porta che rimane aperta, la sera, in modo che Gregor, «rimanendo nell’oscurità della sua stanza e invisibile dalla sala da pranzo, possa vedere tutta la famiglia al tavolo illuminato e ascoltare i loro discorsi, in certo modo con il permesso di tutti». La porta socchiusa attraverso la quale Gregor riesce a spiare i tre pensionanti con barba che masticano il cibo servito dalla madre.
Nei tre mesi in cui Gregor vive la sua vita da insetto, la porta è per lui l’insegna della «terra di confine tra solitudine e comunità». Se Kafka l’aveva abbandonata «solo in casi rarissimi», Gregor ci riuscirà una volta sola. Rivestito come Glauco che emerge dal mare non già da alghe, muschi e conchiglie, ma da «filamenti, capelli e rimasugli di cibo sul dorso e i fianchi», estenuato dal digiuno e dall’insonnia, ancora dolorante per la ferita che il padre gli aveva prodotto scagliandogli addosso una mela, Gregor Samsa non ha «alcun ritegno ad avanzare per un tratto sull’immacolato pavimento della sala da pranzo». Il suo gesto è eroico – e preannuncia il mistico suicidio. Indifferente alla musica finché era uomo, soltanto nella metamorfosi animale i suoni gli hanno rivelato «la via verso il nutrimento agognato e ignorato». Per quel nutrimento Gregor è disposto non solo a morire, ma a muovere all’attacco. Dopo aver mostrato per settimane il più [187] delicato pudore nel nascondersi dietro una coperta e sotto il divano, per non offendere la vista di nessuno, Gregor si azzarda a pensare di «trarre vantaggio per la prima volta dal suo aspetto terrificante» (simile, in questo, a Kafka che scrive La metamorfosi) pur di raggiungere la fonte della musica. Questo soltanto avrà il potere di aprirgli la strada sino alla sorella e al suo violino. Allora le avrebbe confidato il suo piano di mandarla al conservatorio, ed ergendosi sulle due zampe posteriori, ormai avvezze a questi sforzi, si sarebbe sollevato sino all’altezza delle spalle di lei e l’avrebbe «baciata sul collo», esposto nella sua nudità, «senza nastri o colletti». L’ingombrante coleottero che bacia il collo della sorella è il più lancinante fra i moments musicaux. E anche una visione erotica intollerabile. Tanto basterebbe a riattizzare quel «turbine che soffia dal passato», da milioni di anni, di cui parlerà un giorno lo scimpanzé Rotpeter in una sua relazione accademica. Ma questo non è accettabile. Quel turbine, osserverà Rotpeter con la sua suprema ironia, ormai può essere soltanto «un soffio che solletica il tallone di chiunque si muova qui sulla terra: del piccolo scimpanzé come del grande Achille». Perciò, all’apparizione temeraria di Gregor sul pavimento della sala da pranzo fa seguito, a distanza di pochi minuti, il verdetto della sorella: «Dobbiamo tentare di sbarazzarci di lui». E la mattina dopo risuona il grido della serva ossuta: «Guardate qua, è crepato!».
IX
FAZZOLETTI PER SIGNORA
[191] L’apparecchio – un «singolare apparecchio» dice con affettuoso compiacimento l’ufficiale addetto a farlo funzionare – è incassato nella terra, in una piccola valle sabbiosa e assolata della colonia penale. Si respira una «maledetta, maligna aria tropicale». Intorno all’apparecchio, quattro uomini: l’ufficiale; un condannato in catene, che dà segni di abbrutita devozione nell’attesa di venire adagiato nella macchina; un soldato, che deve sorvegliare il condannato; un viaggiatore (non un semplice turista, ma un ospite d’onore del quale si dice che è un «grande studioso»). In questa severa scena maschile – militare, penitenziaria, coloniale – si immette un unico elemento femminile: «due delicati fazzoletti per signora» che l’ufficiale ha compresso fra il bavero dell’uniforme e il collo adusto e madido. L’uniforme è pesante per il clima tropicale, osserva subito il viaggiatore. Così attirandosi una dichiarazione di principio da parte dell’ufficiale: certo, quelle uniformi sono pesanti, «ma significano la patria; e [192] non vogliamo perdere la patria». I delicati fazzoletti per signora servono allora a mitigare le sofferenze a cui l’ufficiale si espone, in un clima che altrimenti potrebbe fargli «perdere la patria».
Accanto all’apparecchio c’è un «mucchio di sedie di bambù», come in un caffè concerto abbandonato. Una viene offerta al viaggiatore perché possa comodamente assistere all’esecuzione. Intanto l’ufficiale continua a spiegare, implacabile, in francese, il funzionamento della macchina. Il viaggiatore nasconde a fatica una certa indifferenza – e interloquisce a un tratto con una piccola frase ebete che dovrebbe rassicurare sulla vivacità della sua attenzione: «Dunque l’uomo sta lì disteso». Mentre il viaggiatore dice queste parole, incrocia le gambe e si appoggia allo schienale della sedia di bambù. Ora è pronto a guardare.
Dalle parole dell’ufficiale si delinea, possente, la figura del «vecchio comandante». La concezione della macchina è dovuta interamente a lui. Ed è un’opera totale. Il viaggiatore chiede conferma: «Allora ha riunito in sé tutto? È stato soldato, giudice, costruttore, chimico, disegnatore?». «Certamente» risponde l’ufficiale, fiero. Sempre più il vecchio comandante appare come uno di quei titani che fiorirono nell’Ottocento e abbattevano ogni barriera. Erano geni di professione, che volevano agire sull’umanità come su una docile tastiera. Con la sua macchina il vecchio comandante era riuscito ad attuare la più profonda aspirazione gnoseologica della sua epoca, quella che Hebbel descrisse una volta nei suoi Diari: «In giorni come questo uno si sente come se la penna, invece che nell’inchiostro, si intingesse direttamente nel sangue e nel cervello». Il corso del mondo aveva la stessa mira, ma eliminando il «come se», ultimo ostacolo. Ogni conoscenza mediata – attraverso [193] il suono della parola, attraverso l’inafferrabile mente – era una diminuzione, una attenuazione. Per raggiungere un grado di verità indubitabile, la conoscenza doveva essere scritta – nel senso di incisa – sul corpo. Solo così si poteva essere sicuri che la parola entrasse all’istante nel sangue. E il vecchio comandante aveva mostrato la via: l’erpice sostituiva la penna e scriveva «direttamente» (avrebbe detto Hebbel) sul corpo del condannato. È questa l’unica conoscenza assoluta, che rende superflua ogni altra. Per questo il condannato non veniva informato della sentenza. Non ne aveva bisogno, come spiegava l’ufficiale: «la sperimenta sul suo corpo». Anche Kafka avrebbe scritto nei Diari (nel 1922, otto anni dopo la stesura e tre anni dopo la pubblicazione della Colonia penale) un’osservazione che poteva corroborare i pensieri del vecchio comandante (e del suo divulgatore, l’ufficiale): «Vista con sguardo primitivo, la vera, inconfutabile verità, indisturbata da un qualsiasi elemento esterno (martirio, sacrificio per un uomo), è soltanto il dolore fisico. Strano che il dio del dolore non sia stato il dio principale delle prime religioni (ma forse solo di quelle più tarde). Ogni malato ha il suo dio domestico, il malato di polmoni ha il dio della soffocazione. Come si può sopportare il suo avvicinarsi, se non si partecipa di lui ancor prima dello spaventoso congiungimento». Il vecchio comandante era un devoto di quel dio originario che non c’è mai stato, di quel dio che sceglie di manifestarsi nell’unica modalità che non tollera equivoci: il dolore fisico. Allora non è più questione di simboli o di metafore o di cerimonie: tutti accorgimenti tardivi, attenuati. Al tempo stesso, il vecchio comandante era un progettista, esperto di ingranaggi e di ruote dentate. E perciò quanto di più avanzato. In lui si univano l’arcaico allo [194] stato puro (così puro che forse non era mai esistito) e il moderno allo stato puro. Come meravigliarsi che pochi riuscissero a mantenersi all’altezza di una tale tensione?
Il vecchio comandante era dunque riuscito a sopravanzare i tempi antichi (quelli ancora dominati dal dio del dolore fisico), ma ne aveva salvaguardato alcune importanti dottrine. Per esempio, quella dell’ornamento. Perché la scrittura sul corpo del condannato era circondata da quelle sottili, fitte, labirintiche volute, che ricordavano certi tatuaggi o remote decorazioni? Come si spiegava quello horror vacui? Era il segno di una mente ancora infantile o la traccia di una più alta sapienza? Presto si sarebbe capito che si trattava di quest’ultima. Solo l’ornamento permette di risolvere una grave questione: la scrittura «non deve uccidere subito», bisogna che sussista la possibilità di «passare molto tempo a leggerla». Altrimenti il dio non lascerebbe ai suoi fedeli il tempo sufficiente per riconoscerlo e adorarlo. Inoltre occorre considerare che il condannato non può leggere con gli occhi la scrittura che viene incisa sul suo corpo. Deve leggerla «con le sue ferite». Perciò ha bisogno di tempo per abituarsi, per esercitarsi. Questa è la ragione ultima dell’ornamentazione: far sì che il condannato abbia l’agio di imparare a leggere senza usare gli occhi. O meglio a leggersi, perché il testo fa ormai parte del suo corpo. A quel punto l’erpice può infilzarlo da parte a parte e rovesciarlo nella fossa. Il lavoro è finito.
Intanto le parole dell’ufficiale cominciavano a illuminare anche la figura del nuovo comandante. Si trattava innanzitutto di un riformatore. Cauto ma deciso, cercava di muoversi in una «direzione nuova, mite». Le questioni della colpa e della pena non lo toccavano in sé, ma soltanto per il timore che le [195]istituzioni della colonia scandalizzassero gli stranieri. Per il resto, si occupava soprattutto di costruzioni. «Costruzioni al porto, sempre costruzioni al porto!»: di questo si parlava nelle assemblee. Il suo atteggiamento verso gli stranieri era da subalterno. Adulava il viaggiatore, lo definiva con tono pomposo «grande studioso dell’Occidente» e, pur sapendo che «viaggiava solo con l’intenzione di vedere e non certo di cambiare le istituzioni giudiziarie straniere», si aspettava di ottenere da lui una sollecitazione appunto per cambiare i procedimenti in uso nella colonia. Come se non avesse potere sufficiente per agire da solo, con la sua «voce tonante». Ma questo era falso. E poi sempre quelle signore che lo circondavano come uno sciame di pretoriani – o di mature collegiali. Onnipresenti, capaci anche di impadronirsi delle mani dello straniero e di «giocare con le sue dita»… Le parole dell’ufficiale avevano un timbro di accorato disprezzo. Parlare del nuovo comandante era come parlare dei tempi nuovi e della loro pochezza. Ma ormai l’ufficiale sapeva di essere l’unico a parlare così. Gli ultimi seguaci del vecchio comandante tacevano nell’ombra, come una setta clandestina.
Così, con patetica tenacia, l’ufficiale tentava per un’ultima volta di suscitare nel viaggiatore un’adeguata, convinta ammirazione per la macchina, ma era un tentativo disperato. Il mondo aveva già scelto una strada meno pura e rigorosa, quella del nuovo comandante, con il suo codazzo di donne. La verità fa paura, pensava l’ufficiale. Tutti dichiarano ipocritamente di agognare la certezza, ma nessuno è capace di vivere nel mondo della certezza, dove «la colpa è sempre indubitabile» e la pena corrispondente si incide sui corpi. Perfetto equilibrio, intatta trasparenza. Non a caso una delle «difficoltà tecniche» [196] era stata quella di costruire l’erpice in vetro. Perché solo così la trasparenza era garantita. E, pur di arrivare a quel risultato, non era stata «risparmiata alcuna fatica». Il dio del dolore fisico poteva così finalmente avvolgersi, come in una fusciacca, nella perfetta limpidezza della parola.
E quei fazzoletti per signora, allora? che proteggevano il collo dell’ufficiale intriso di sudore? Si doveva pensare che persino l’ufficiale avesse bisogno di attenuare qualcosa, per lo meno la dura regola dell’uniforme? Ma da dove venivano quei fazzoletti? Fu chiaro soltanto alla fine. L’ufficiale aveva preso la sua decisione. «Allora è venuto il momento» aveva detto. Se il viaggiatore non era stato convinto dalla macchina, l’ufficiale si sentiva tenuto a prendere il posto del condannato per farsi incidere sulla schiena le parole: «Sii giusto». Poi il suo corpo sarebbe stato trafitto da molteplici punte e la macchina sarebbe andata in pezzi, ruota dopo ruota. Finiva un mondo. Prima di adagiarsi sul letto della macchina, l’ufficiale volle gettare i due fazzoletti al condannato, al quale aveva appena restituito la libertà. Disse: «Ecco i tuoi fazzoletti». E poi, rivolto al viaggiatore: «Doni delle donne». Ancora le maledette donne del nuovo comandante. Erano state dunque loro a donare al condannato quei fazzoletti vaporosi. Sempre per mitigare la sua pena. Così come lo avevano ingozzato di dolciumi, che naturalmente aveva subito vomitato, quando la macchina aveva cominciato a funzionare. Perciò l’ufficiale aveva sottratto quei fazzoletti al condannato. Perché l’aveva fatto? Per abissale meschinità? O forse soltanto perché quei fazzoletti disturbavano la purezza del procedimento? Alla fine li aveva usati egli stesso. Era stata una debolezza? E ora, appena il condannato era tornato in possesso dei suoi fazzoletti già il soldato [197] voleva strapparglieli. Di quei fazzoletti sembrava impossibile disfarsi. Il sangue scorreva, il sole infieriva, gli ingranaggi gemevano. E i fazzoletti continuavano a circolare. Fra il dio del dolore e lo sfacelo della sua macchina era trascorsa tutta la storia. A testimoniarla restavano soltanto quei due rancidi fazzoletti. E un ammasso di rottami.
Avviene in Kafka la commistione fra un qualcosa di arcaico, ma di una specie rispetto a cui ogni arcaico conosciuto è già una tarda derivazione, e un qualcosa di attuale che non aveva ancora avuto modo di manifestarsi. Il risultato è un composto chimico potente, che nessuno sa trattare. Affiorò una volta, come un banco corallino, nella Colonia penale – affrettandosi a inabissarsi di nuovo. Non si lasciava guardare a lungo, ma la sua presenza era avvertibile sotto il filo dell’acqua.
Una sera di novembre, «con perfetta indifferenza», Kafka lesse la sua «sporca storia» (Nella colonia penale) in una galleria di Monaco, davanti a una cinquantina di persone e quadri di Van Dongen e Vlaminck appesi alle pareti. Si sentiva freddo come «la bocca vuota di una stufa». Mentre leggeva, il grafologo Max Pulver ebbe l’impressione che nella sala «si diffondesse uno sciapo odore di sangue». A un certo punto si sentì un tonfo sordo. Era svenuta una signora e venne subito portata fuori. Altri si allontanarono prima della fine. Altri si lamentarono perché la lettura era durata troppo a lungo.
X
COLLUTTAZIONI E FUGHE
[201] Karl Rossmann è il piccolo eroe delle fiabe che viene gettato nel mondo. Serio, tenace, pronto a tutto, curioso, robusto. Incontra orchi e orchesse, altri ragazzi e ragazze, poliziotti e vagabondi: con tutti parla da adulto, con gravità e proprietà. La condanna, che lo precede e lo ha espulso da patria e famiglia, non pregiudica e oscura ai suoi occhi il mondo, che in America gli si mostra innanzitutto dilatato e moltiplicato. «Com’è alta» pensa Karl della Statua della Libertà, mentre la nave le passa lentamente davanti. Non si meraviglia se la statua brandisce una spada e non una fiaccola. Karl osserva, prende nota. E questo sarà il suo atteggiamento più costante: misurare il mondo, le sue quantità crescenti, le porte, i cassetti, gli scomparti, i gradini, i piani, i veicoli sempre più numerosi. Nulla di più naturale per lui, che si è «sempre interessato moltissimo alla tecnica». Sarebbe diventato senz’altro un ingegnere se non lo avessero costretto a partire per l’America. Ciò che appare viene subito percepito da [202] Karl come elemento di una serie. E questa serialità del percepito modifica innanzitutto l’occhio del percipiente. Che si riconoscerà sostituibile come una delle tante figure puntiformi che, viste dall’alto, si muovono per strada e presto svaniscono. O altrimenti potrebbero essere sempre le stesse, che continuamente riappaiono. L’effetto non cambierebbe. La ripetizione dell’identico e l’incessante sostituzione si presentano sotto le stesse sembianze.
Una inspiegabile, insopprimibile allegria circola nelle pagine del Disperso. Non se ne coglie il motivo. Dopo l’iniziale colpo di fortuna dell’incontro con Edward Jakob, lo «zio d’America» delle frasi fatte, il cammino di Karl Rossmann è sempre più tormentoso. Ogni passo comporta qualcosa di vessatorio. E sembra diretto verso una progressiva degradazione. Ma Karl ha il dono dei grandi mistici che ignora: accoglie tutto ciò che gli capita con lo stesso animo. Riconosce chi gli è ostile ed è capace di opporsi a ciò che lo conculca. Ma non sviluppa mai acrimonia. Karl è concentrato su un punto: vuole fare bene quello che gli occorre di fare. Anche nelle situazioni più scoraggianti riesce a dirsi: «Bisogna solo conoscere il meccanismo». Usa le dozzine di scomparti della prodigiosa scrivania che lo zio gli ha procurato con quell’attenzione e quel puntiglio che metterà nel comporre, da una serie di rimasugli sbocconcellati, un presentabile vassoio della prima colazione per l’obesa Brunelda.
Kafka sperimentò nel Disperso qualcosa che non era congeniale alla sua epoca: l’ingenuità epica. E, anche per lui, fu un tentativo isolato. L’artificio di [203]cui si servì fu quello di raggiungerla attraverso un personaggio che fosse egli stesso l’ingenuità epica, immettendolo in un luogo che avesse ancora il potere di ospitarla: l’America, quale si svelava agli occhi stupefatti di un adolescente europeo all’inizio del secolo. Sulla base della sola lettura del Fuochista, e senza sapere che si trattava del primo capitolo di un romanzo, Musil divinò il punto: «Si tratta di un’ingenuità intenzionale, che però non ha nulla della spiacevolezza di quest’ultima. Perché è ingenuità vera, che in letteratura (esattamente come quella falsa; non sta lì la differenza!) è qualcosa di indiretto, complicato, conquistato, una nostalgia, un ideale». E presto seguono le parole più belle che sul Dispersosiano state scritte: là dove Musil dice che il romanzo è retto da «quel sentimento delle preghiere fervide dei bambini e ha qualcosa dello scrupolo irrequieto dei compiti a casa ben fatti».
L’aria che circola nel Disperso è quella purissima del romanzo di avventure. Non perché gli eventi che vive Karl Rossmann siano stupefacenti. Ma la disposizione del suo animo è tale da fargli apparire il mondo con una peculiare nettezza nei profili. Delle persone e delle cose. È come se Karl portasse in dono all’America quella visione iperreale che soltanto l’obiettivo ci concede. Nella sua valigia da emigrante nascondeva l’allucinazione del cinema.
I passeggeri di una nave europea stanno sbarcando a New York. Un giovane tedesco si accorge di aver dimenticato l’ombrello. Affida la sua valigia a un conoscente occasionale e torna indietro a cercarlo. Quanto di più banale, una di quelle scene che il [204]romanziere – anche Dickens, che qui è il modello per Kafka – usa sbrigare rapidamente per raggiungere un qualche snodo della narrazione. Ma non questa volta. Appena Karl Rossmann cambia direzione e torna indietro a cercare il suo ombrello, il lettore si accorge che sta accadendo in lui un singolare fenomeno: sprofonda nei dettagli. Tutto improvvisamente diventa di grande importanza. Acquista rilievo, troppo rilievo. Già quattro righe dopo, quando Karl Rossmann si ritrova a cercare «faticosamente la sua strada attraverso innumerevoli piccoli locali, corridoi pieni di curve, brevi scale, che si susseguivano senza interruzione, e una stanza vuota con una scrivania abbandonata», percepiamo oscuramente che non ci troviamo più soltanto su una nave ma in una nuova terra, dove tutto è sottoposto a una esacerbata attenzione e l’occhio che osserva si sente obbligato a fissarsi su ogni gesto, ogni passo, ogni tratto dei personaggi. Tutto si dilata, ogni frammento occupa l’intero campo visivo. Si accumula una irragionevole tensione. A lungo ci chiediamo perché, come se quella tensione servisse a preparare qualche straordinario avvenimento. Ma poi lo dimentichiamo, appagati da ciò che già sta accadendo. Se un massiccio fuochista tedesco, di cui non conosciamo neppure il nome, si lamenta per le malversazioni subite dal capofuochista Schubal, che a quanto pare preferisce gli stranieri ai tedeschi, e Karl Rossmann, il quale lo ha appena conosciuto, vuole aiutarlo a far valere le sue ragioni, questo cattura il nostro interesse, come se ci trovassimo di fronte a un giudizio divino. Lo sprofondamento nel dettaglio non è ancora finito. Quando il fuochista e Karl Rossmann si presentano al capitano, di là dalle tre finestre della stanza navi maestose si incrociano con le bandiere al vento – e dietro si protende New [205] York. È forse questo il momento in cui per la prima volta Karl Rossmann vede la città? No, piuttosto è il primo momento in cui Karl viene visto: New York «fissava Karl con le centomila finestre dei suoi grattacieli». Migliaia e migliaia di occhi convergono sulla stessa figura: accompagneranno Karl nelle sue peripezie, senza staccarsi da lui. Anche per questo ogni vicenda che lo coinvolga è così tesa e fantasmatica, senza che Karl possa rendersene conto. Una immensa, anonima platea lo sta guardando. È la nascita del cinema. Ma le posizioni sono rovesciate. Questa volta la platea sta in alto, verso il cielo, in piena luce.
Kafka aveva voluto raccontare «la New York modernissima». Grande fu la sua delusione quando gli arrivò la prima copia del Fuochista. Su consiglio di Werfel, Kurt Wolff aveva messo in copertina una incisione del porto di New York nel 1840. Un vapore dall’alto fumaiolo, qualche vela in lontananza, il vago profilo di una città sullo sfondo. Una graziosa scena di genere. Ma quanto remota da ciò che l’autore intendeva. In quella striscia di case basse e lontane non c’era traccia di occhi che guardavano. Kafka nascose il disappunto fra espressioni di gratitudine. Con stile da mandarino, concludeva dicendo a Wolff che dopo tutto era meglio non gli fosse stata sottoposta la copertina, perché l’avrebbe rifiutata – e così si sarebbe «perso quella bella immagine».
Fin dalle prime pagine del Disperso, le parole si allineano sempre con lo stesso peso, equidistanti come le righe di un quaderno di scuola. Questo carattere [206] si mantiene intatto anche nel Processoe nel Castello, che pure si inoltrano in zone più ombrose e astratte. Tutto viene raccontato come il percorso di Karl Rossmann sulla nave alla ricerca del suo ombrello. La superficie è immancabilmente compatta, la densità costante. Ogni parola esige attenzione. La descrizione minuziosa di un gesto, una osservazione meteorologica e una digressione sulla legge si pongono sullo stesso piano e proseguono senza sbalzi l’una nell’altra. Nulla è platealmente importante, nulla è irrilevante. Forse nessun altro romanziere ha dato al suo lettore questa tranquilla certezza, simile a quella che ha l’atleta quando sente sotto i piedi la terra battuta della pista. Sempre ugualmente dura ed elastica.
Quando Kafka scriveva Il disperso, l’aria della grande città, pervadente e fuligginosa, come in Balzac, in Dickens, in Dostoevskij, non era ancora penetrata nel romanzo tedesco. Ora, appena Kafka comincia a descrivere New York, la scena si staglia con la perspicuità della prima volta – e delle tavole di Little Nemo, ancora fresche dei colori di Winsor McCay, che Kafka non aveva mai visto.
Fortissima è la natura visiva del Disperso. Mentre nel Processo o nel Castello tutto si svolge, prima che altrove, all’interno della psiche di un singolo e l’immagine si frappone occasionalmente, sbattendo sui ragionamenti le sue ali di pipistrello, qui si trascorre da un quadrante all’altro di una vasta superficie esterna, che Karl Rossmann ha il compito di percorrere con lo sguardo. E così fa, come un bravo scolaro. Se poi certe figure – lo zio, la capocuoca, Klara [207] Pollunder o Brunelda – assumono a un tratto nomi e vita propria, è come se si animassero provvisoriamente e prendessero congedo da una loro postazione su quella superficie, lasciandovi però in evidenza le loro sagome mute e ritagliate. E un giorno o l’altro lì torneranno, adagiandovisi come nell’incavo ancora tiepido di un letto.
La luce di New York? È «possente», «corporea», continuamente si disperde e si raccoglie. Al punto da far pensare che «ad ogni istante una lastra di vetro che copre tutto venga infranta con tutta la forza».
Pericoli di New York: appena arrivati, mettersi sul balcone della propria stanza e fissare il traffico per ore, come «pecore smarrite».
L’incanto americano: nella casa dello zio Jakob, un ampio montacarichi trasporta al sesto piano il pianoforte per Karl. E Karl sale in parallelo sull’ascensore per le persone, tenendosi sempre alla stessa altezza del pianoforte. Intanto guarda attraverso una parete di vetro «il bello strumento che ormai era sua proprietà».
La «prima poesia americana» che Karl impara a memoria è la «descrizione di un incendio». Recita i versi allo zio, che batte il tempo, mentre stanno a una finestra della sua camera e guardano il cielo ormai scuro.
[208] Nel centro di New York, al sesto piano di un edificio dall’ossatura di ferro, con le finestre spalancate sul fragore del traffico che sale dalla strada insieme a un vortice di polveri e odori, Karl suona al pianoforte «una vecchia canzone di soldati della sua terra, che i soldati si cantano la sera da finestra a finestra, quando stanno alle finestre della caserma e guardano verso l’oscurità della piazza». Questo è Mahler in parole. E Karl non escludeva, fantasticando prima di addormentarsi, che quel suo modo di suonare il pianoforte potesse esercitare «un influsso immediato sulla situazione americana».
I Pollunder sono ospitali e pieni di premure verso Karl. Ma la serata nella loro dimora di campagna ha un sottofondo di oscura violenza. Soprattutto Green, il messaggero funesto, con i suoi gesti precisi e talvolta repellenti, dà a Karl l’impressione che i loro rapporti «si definiranno nel tempo con la vittoria o l’annientamento di uno dei due». In quel momento, Karl non sa ancora che l’istante dell’annientamento è vicino a scoccare: quando, due ore dopo, Green consegnerà a Karl la lettera con cui lo zio lo congeda.
Lo zio Jakob, Pollunder, Mack, Klara, Green: figure minuziosamente delineate e studiate, fabbricate da un eccelso artigiano, specializzato in fantocci di caucciù.
Pollunder e Green siedono uno di fronte all’altro, dopo cena. Hanno fumato un grosso sigaro. Ora, con un bicchiere di liquore in mano, parlano di affari. Ma di quali affari? «Se uno non avesse conosciuto [209] il signor Pollunder, avrebbe potuto benissimo pensare che qui si discutesse di qualcosa di criminale e non di affari». Ma chi conosce veramente il signor Pollunder?
Lirismo nel Disperso. Tanto più intenso perché la prosa non si concede di prenderne atto. Karl entra nella camera da letto che gli è stata destinata nella dimora dei Pollunder. Si siede sul davanzale della finestra e osserva la notte: «Un uccello allarmato sembrava muoversi attraverso le fronde del vecchio albero. Il fischio di un treno della periferia di New York risuonò da qualche parte nella campagna. Per il resto c’era silenzio». Perché vibri questo lirismo non c’è bisogno neppure della natura. Quando Karl fa il lift all’Hotel Occidental, ancora una volta ne è sfiorato in piena notte: «Si appoggiò con tutto il suo peso alla ringhiera accanto al suo ascensore, mangiava lentamente la mela, che fin dal primo morso aveva emanato un forte profumo, e guardava in basso, in un cavedio che era circondato dalle grandi finestre delle dispense, dietro le quali baluginavano nell’oscurità masse di banane appese».
Per due volte, Karl viene espulso nelle tenebre esteriori. La prima volta dai genitori, la seconda dallo zio d’America. E sempre più verso occidente: dalla Germania a New York, poi da New York alla California. In tutti e due i casi, preludio alla condanna è la colluttazione con una donna. Un letto, un canapé. L’aitante Karl viene soffocato, schiacciato. La prima volta da una povera cuoca, fra piumini, trapunte e guanciali. La seconda da una «ragazza americana», [210] una ereditiera dalle labbra rosse e dalla gonna stretta, pratica di jujutsu.
Continuamente Karl Rossmann viene trattenuto, con prove di forza e trucchi per immobilizzargli le braccia o le gambe. La colluttazione originaria è quella che si trasforma in coito con la serva Johanna e determina la sorte di Karl, perché Johanna rimane incinta. Ma altre colluttazioni seguiranno. Prima Klara, l’ereditiera, poi il portiere capo dell’Hotel Occidental, poi Robinson, poi Delamarche, infine Brunelda: tutti vogliono impedire a Karl la fuga da un qualche luogo irrespirabile. Un numero ragguardevole di episodi del romanzo è dedicato a queste scene di lotta. Descrizioni minuziose, rallentate, esasperanti. Se lo si guarda da una certa distanza, il gesto da cui si riconosce Karl è il divincolarsi – il sempre rinnovato tentativo di sfuggire a una stretta, a una sopraffazione, di riconquistarsi la propria condizione di espulso, «disperso», di straniero vagante. Finché un giorno, nel teatro di Oklahama, Karl troverà il luogo ecumenico che accoglie tutto, registra tutto ciò che esiste e lo iscrive su un tabellone. Nel suo caso, con un nome fittizio: Negro. Un nome che evoca una razza, prima che un singolo. Ma in fondo è Karl stesso che così ha voluto. Forse soltanto in quel modo riuscirà a sfuggire ai maltrattamenti che colpiscono l’unico, accettando di mimetizzarsi in una serieanch’essa maltrattata.
Le colluttazioni in cui Karl Rossmann incorre hanno sempre qualcosa di demoniaco. Sono stratagemmi del male. Il male sa che «l’invito alla lotta» è uno dei suoi «più efficaci mezzi di seduzione». Sa che tutte quelle lotte sono «come la lotta con le donne, [211] che finisce a letto». Precisamente in quel modo era stato deciso il destino di Karl. Che ora vagava per l’America nell’attesa che una mano brutale lo prendesse per il colletto della giacca e lo scaraventasse in una nuova direzione, lontano: «E guardava inquieto la mano del poliziotto, che in qualsiasi momento poteva sollevarsi per acciuffarlo».
Insieme ai vagabondi Robinson e Delamarche, Karl risale a piedi il traffico che in cinque file compatte avanza verso New York. Tutto ciò che pullula produce alla fine un effetto di stasi e di quiete. Come New York, vista da un’altura, gli apparirà presto «vuota e inutile», circondata da «un nastro d’acqua liscio e inanimato», così ora «Karl era soprattutto sorpreso dalla calma generale. Non fosse stato per il gridio degli animali ignari che venivano portati al macello, forse non si sarebbe sentito altro che lo sbattere degli zoccoli e il sibilo degli pneumatici». Questa è l’acusticità del nuovo mondo, quasi fosse isolata in laboratorio. Ma non a questo pensava Karl Rossmann, sempre attaccato alla sua valigia.
Karl Rossmann e Jakob von Gunten sono personaggi affini. Essere allievo nell’Istituto Benjamenta o lift all’Hotel Occidental presuppone una simile vocazione allo zero. «Naturalmente un lift non significa nulla» si dice Karl; da parte sua, Jakob vede il prediletto compagno Kraus come «un’autentica opera divina, un nulla, un servitore» e se stesso come «un incantevole rotondo zero nella vita futura». Come Jakob, Karl sa che può essere da un momento all’altro spazzato via, per la furia di un capocameriere o di un capoportiere, senza che alcuno ci faccia [212] caso, se non Therese e la capocuoca, che pure finirà per approvare la condanna. Anche Karl potrebbe dire: «Un giorno un colpo mi raggiungerà, un colpo veramente distruttivo, e allora tutto, tutte queste confusioni, questa nostalgia, questa ignoranza, questo tutto ... questo credere di sapere e questo mai sapere finiranno. Eppure io desidero vivere, non mi importa come».
Come se questo fosse il sigillo delle sue esperienze, nelle avventure di Karl la fierezza talvolta si congiunge con la cruda umiliazione. Mai in modo così acutamente avvertibile come quando Karl prova la sua uniforme di lift dell’Hotel Occidental. Che «all’esterno» si presentava «magnifica, con bottoni e cordoni d’oro». Ma, nel calzarla, Karl ha un brivido, «perché soprattutto sotto le ascelle la giacchetta era fredda, dura e al tempo stesso irrimediabilmente umida del sudore dei lift che l’avevano indossata prima di lui».
È l’alba. Nell’Hotel Occidental ancora c’è quiete. Ma nella stanza del capocameriere si sta svolgendo un processo. Imputato è il lift Karl. Con l’appoggio del capoportiere, il capocameriere lo accusa di aver abbandonato per qualche minuto il suo posto. Questa scena compressa in un minimo spazio, ignorata dal mondo e vicina quanto più possibile all’irrilevanza è la cellula originaria di ogni processo, di ogni interrogatorio, di ogni condanna. Ma anche di ciò che generalmente avviene. Ogni inizio ha qualcosa di incongruo e sproporzionato, di cui sembra agevole liberarsi. Ma poi converge verso una condizione di impotenza e inermità dell’imputato (o del [213]singolo): «È impossibile difendersi se non c’è la buona volontà» pensa Karl Rossmann, con una lucidità che Josef K. non saprà mai raggiungere. Il punto è che il mondo non ha una buona volontà verso colui che lo attraversa – e che ogni volta è un potenziale imputato. Nella stanza del capocameriere dell’Hotel Occidental avviene qualcosa che un giorno si espanderà in tutti i solai della periferia nella grande città e continuerà a mostrarsi persino nel duomo o nel ripostiglio di un ufficio bancario. Anche allora accadrà che qualcuno scuoterà la testa guardando l’accusato, come ora fa la capocuoca con Karl – e dirà: «Le cose giuste hanno anche un’aria giusta e la tua storia, devo proprio confessarlo, non ce l’ha». Perché nessuna storia ha l’«aria giusta». E già con questo si compie la condanna, trasmessa dalle parole di colei che fino a quel momento era stata l’alta protettrice di Karl.
Mentre redige il verbale di ciò che è appena accaduto nella sala della mescita, il segretario Momus sbriciola un bretzel al cumino. Il capocameriere dell’Hotel Occidental legge un elenco e intanto rimuove un velo di zucchero da un pezzo di dolce. K. e Karl li osservano, concentrati, tesi. È come se lo scrivere e il leggere – atti sempre misteriosi – dovessero farsi accompagnare dalla dispersione di un pulviscolo, dal dissiparsi di una materia friabile.
Quando si è vicini alla conclusione, c’è sempre qualcuno che chiede se non siamo contenti perché «le cose sono andate a finire così bene». E talvolta c’è qualcuno che dice, come Karl Rossmann: «Ma certo» – e intanto si domanda «perché dovrebbe [214]rallegrarsi di essere cacciato via come un ladro». Decisiva è la simultaneità della risposta affermativa e del silenzioso formularsi della domanda nella testa di Karl.
È misterioso come Il disperso riesca a emanare un tale senso di felicità e insieme di acuta disperazione. Una combinazione così sconcertante non si saprebbe trovare altrove. Karl passa di asservimento in asservimento, di umiliazione in umiliazione, si perde e si disperde sempre più nel mondo, ma portando con sé, come nella sua valigia da emigrante con il salame di Verona, una capacità illesa di percepire ciò che gli accade con quella nettezza da decalcomania che è già un preannuncio di felicità.
Come gli assistenti per K., i due vagabondi Delamarche e Robinson sono qualcosa di cui è vano tentare di liberarsi. «Rossmann, che cosa saresti senza Delamarche!» dice una volta Robinson – e le parole suonano beffarde. Ma non per questo false. I due vagabondi sono per Karl l’irretimento stesso nella vita, insanabile e sempre più soffocante.
Vestita di rosso e con un ombrellino rosso, l’obesa Brunelda si affaccia a un balcone dell’ottavo piano di una «caserma di appartamenti in affitto» in un quartiere operaio di periferia.
Brunelda «è una magnifica cantante», secondo il vagabondo Robinson, che è la «colpa vivente» di Karl Rossmann. Passa le giornate nella penombra, distesa su un canapé che occupa interamente. Si scuote dalla sua immobilità soltanto per acchiappare [215] qualche mosca che le dà noia. La stanza è stracolma, soprattutto di stoffe disparate. Tende, vestiti, tappeti sono accatastati. L’aria è stagnante. Si respira polvere. A gambe larghe sul canapé, Brunelda deve farsi aiutare a togliere le spesse calze bianche. Nelle mani piccole e grasse regge un minuscolo ventaglio, aperto. Brunelda stronfia, non solo di notte ma «a tratti» anche quando parla. La cantante è molto sensibile. Non tollera il chiasso. Soffre spesso di mal di testa e di gotta. Geme nel sonno, tormentata da «sogni opprimenti». Per un certo genere di uomini, quali Robinson e Delamarche, il corpo di Brunelda è irresistibile. «Era tutta da leccare. Era tutta da bere»: così Robinson la descrive nella sua prima apparizione, con un vestito bianco e l’ombrellino rosso.
Brunelda è fuggiasca per amore. Ha abbandonato un ricco industriale del cacao per seguire il vagabondo Delamarche. Robinson racconta le sue gesta come fosse un’eroina romantica: «Per via del Delamarche la Brunelda ha venduto tutto ciò che aveva e con tutte le sue ricchezze si è trasferita qui, in questo appartamento di periferia, per potersi dedicare totalmente a lui e perché nessuno li disturbi, il che per altro era anche il desiderio del Delamarche». Come certi grandi amanti del passato, Brunelda e Delamarche hanno bisogno di solitudine e di servitù che li accudisca in silenzio. Robinson e Karl sono adibiti a questo, in una stanza stipata e soffocante. La composizione del luogo, nel senso degli esercizi di sant’Ignazio, è così perfetta che non richiede commento, ma contemplazione.
Colluttazione particolarmente violenta di Karl con Delamarche. Alla fine, Karl sbatte la testa contro [216]un armadio e perde i sensi. Si risveglia con un vecchio pizzo di Brunelda avvolto come un turbante ancora umido attorno alla testa. Karl scosta la tenda che dà sul balcone e torna a insinuarsi nella stanza dei suoi padroni e carcerieri. «I respiri uniti dei tre dormienti lo accolsero». Brunelda, Delamarche e Robinson formano un corpo solo, insieme molle e nodoso, che Karl urta continuamente nella semioscurità. Una volta è uno stivale di Robinson, un’altra la carne traboccante di Brunelda. Propaggini di un essere policefalo, a cui non è dato sfuggire. Anche il severo studente Josef Mendel, piccolo talmudista chino nella notte a studiare sul balcone, prescrive a Karl di rimanere «assolutamente» in quella stanza. E la parola sembra un decreto pronunciato da un’altra voce, «più profonda di quella dello studente», che forse è un ventriloquo del fato.
Brunelda è una grassa Melusina, che si compiace di ricordare i giorni in cui nuotava nel Colorado, «la più agile fra tutte le sue amiche». Ora, mentre Delamarche la sottopone a interminabili abluzioni dietro armadi e paraventi, il suo richiamo insidioso risuona ancora. Invita il servo Robinson a guardarla nuda, ma appena Robinson fa sbucare la sua testa, lei e Delamarche l’afferrano e gliela tuffano in una tinozza. È una tortura che Brunelda vorrebbe far subire anche a Karl. Già lo guata – e lo chiama «il nostro piccolo».
Segue l’angosciosa ricerca del profumo per Brunelda, fra «cianfrusaglie infeltrite e appiccicate», cassetti rigonfi di scatole di cipria, spazzole, spartiti, lettere, romanzi inglesi. Cassetti che una volta aperti non si chiudono più. Ma Karl non si perde d’animo, perché non si perde mai d’animo, e dice: «Che lavoro [217] tocca, ora?». Che si tratti di studiare l’inglese, suonare il pianoforte, accompagnare i clienti in ascensore, preparare un vassoio con la colazione per Brunelda: Karl è sempre pronto ad applicarsi, la sua buona disposizione è inattaccabile. E, come all’inizio si era fatto avanti a perorare per il fuochista di fronte al comandante della nave, così ora si offre di intervenire in favore del maltrattato Robinson, incurante del luogo dove parla e di chi beffardamente lo ascolta.
Quanto più si addentra nei vasti spazi americani, tanto più Karl si impania. Non solo perché c’è sempre qualcuno che lo trattiene con violenza. Ma perché il terreno attorno a lui è un acquitrino. Che ha un gorgo centrale: la stanza di Brunelda. Robinson gli spiega che la cantante «non è trasportabile». Non perché malata, ma perché troppo pesante. Chi sta con lei non può che sprofondare. Poco dopo vediamo Karl che in un corridoio tenta, con scrupolo e perizia, di comporre una prima colazione accettabile dai resti di numerose altre prime colazioni di ignoti. Pulisce coltelli e cucchiaini, taglia panini già sbocconcellati, raccoglie fondi di latte, scrosta bave di burro, per «eliminare le tracce dell’uso». È questo il momento più disperante delle sue avventure. Ma Karl ha il dono di non accorgersene. È concentrato nel suo lavoro, anche se Robinson gli assicura che è inutile, perché «varie altre volte la prima colazione aveva un aspetto molto peggiore». E, mentre Brunelda già mangia avidamente, allungando la sua «mano molle e grassa, che schiacciava tutto quello che poteva», Karl riflette come un tecnico che giudica la propria opera e si dice: «La prima volta non [218] sapevo come bisogna preparare tutto, la prossima volta farò meglio».
Di prima mattina, quando le strade sono vuote, Karl spinge una carrozzella traballante sotto un carico informe, coperto da un panno grigio. Sacchi di patate, pensa qualcuno. Sacchi di mele, dirà Karl a un altro. E invece è Brunelda. Di Robinson e Delamarche non si sente più parlare. Nella sua via verso l’irreparabile, Karl è andato ancora un passo più in là. È solo con quel suo carico di cui è arduo disfarsi. Finalmente arriva a un «vicolo stretto e oscuro dove si trovava l’impresa n. 25». Lì Karl e la cantante incontrano qualcuno che li aspetta, impaziente. Ma che cos’è l’impresa n. 25? Un ufficio? Una fabbrica? Un bordello? Una galleria di mostruosità? Un circo? Non lo sapremo mai, anche se la breve descrizione che ci è rimasta, prima che il manoscritto si interrompa definitivamente, fa piuttosto pensare a un bordello. Le pareti sono dipinte, ci sono palme artificiali, «appena impolverate». Ma ciò che colpisce Karl è innanzitutto un certo carattere del luogo: la sua «sporcizia non tangibile». Questo è un ostacolo metafisico, che va oltre il dato di fatto. Qui «tutto era grasso e ripugnante, era come se di tutto si fosse fatto un cattivo uso e nessuna opera di pulizia potesse ormai rimediarlo». Qui perfino Karl, il più affermativo, aperto e disponibile di tutti gli eroi, si riconosce per la prima volta impotente e scopre l’immedicabile: «Karl, quando arrivava in un posto, amava pensare che cosa vi poteva essere migliorato e quale gioia sarebbe stata intervenire subito, senza preoccuparsi del lavoro forse interminabile che avrebbe provocato. Ma questa volta non sapeva che cosa ci sarebbe stato da fare». Sulla via dell’abiezione [219] – un’abiezione del tutto involontaria e ordita dalle circostanze – Karl è arrivato al punto finale. Per la prima volta non sapeva che cosa ci sarebbe stato da fare.
Il teatro di Oklahama è certamente «il più grande teatro del mondo» – e alcuni ritengono si estenda «quasi senza limiti». Ma i pochi che si soffermano fuori dall’ippodromo sono piuttosto sospettosi, come se quell’insegna celasse qualcosa di equivoco. Karl ha forse intuito perché: «È possibile che le lusinghe usate dalla vostra compagnia di reclutamento falliscano proprio per via della loro grandiosità». C’è una sproporzione ineliminabile fra questo spettacolo che quasi coincide con il mondo e gli abitanti del mondo stesso. Lo spettacolo è troppo vasto, sconfinato. Agisce da solo, in una sorta di autismo cosmico. Al massimo, si potrà riuscire a parteciparvi da comparsa, come Fanny con la sua tromba – come lo stesso Karl quando accenna sulla stessa tromba una canzone che ha sentito una volta in una bettola.
Gli esegeti più divergenti concordano nel provare al tempo stesso sgomento e euforia davanti al teatro di Oklahama. Per alcuni è l’unica apparizione della felicità in Kafka. Per Adorno, è anche l’unica immagine plausibile di quell’utopia che intrideva il suo pensiero. È come se il richiamo del cartellone che invita all’ippodromo di Clayton si rivolgesse a ciascuno, singolarmente. Eppure, siamo in un mondo pieno di cartelloni – e «ai cartelloni nessuno credeva più». Ma questo cartellone suona come un annuncio escatologico, che è poi il primo dei cartelloni. «Il grande teatro di Oklahama chiama voi! Chiama soltanto [220] oggi, soltanto una volta!». L’appello è diretto al singolo che legge. E il singolo scopre di essere tutti: «Chiunque è benvenuto!». Ma a questa apertura totale corrisponde un crudele arbitrio nella durata: «A mezzanotte viene chiuso tutto e non si riapre più!». A cui si aggiunge il codicillo impietoso di ogni escatologia: «Maledetto sia chi non crede a noi!».
Se c’è un luogo che, nel secolo ventesimo, è stato deputato a rappresentare la felicità irresponsabile e matematica, questo è il set del musical hollywoodiano. Ma, quando Kafka scriveva Il disperso, il musical non esisteva ancora. E neppure il sonoro. Che irruppe nella metastoria, in accompagnamento e anticipazione della storia, con il suono disordinato delle trombe che accolgono Karl davanti all’ippodromo di Clayton. La visione che gli si parava davanti agli occhi era la scena originaria del musical: una variazione che finalmente scompaginava la simmetria delle schiere angeliche nel paradiso di Dante. La regia era insieme semplice e grandiosa. Ogni particolare spiccava, ma soprattutto questo: la compresenza di centinaia di donne. «Davanti all’ingresso dell’ippodromo era stata costruita una lunga e bassa piattaforma, sulla quale centinaia di donne abbigliate da angeli, con vesti bianche e grandi ali sulla schiena, suonavano lunghe trombe scintillanti d’oro. Non poggiavano direttamente sulla piattaforma, ma ciascuna stava su un piedistallo, che però non si poteva vedere perché le lunghe, svolazzanti vesti del costume da angelo lo avvolgevano completamente. Ma poiché i piedistalli erano molto alti, addirittura fino a due metri, le figure delle donne apparivano gigantesche, soltanto le loro piccole teste disturbavano un po’ quell’impressione di grandezza, anche i [221] loro capelli sciolti sembravano troppo corti e quasi ridicoli nel loro modo di cadere giù fra le grandi ali e di lato. Perché non risultasse alcuna uniformità, avevano usato piedistalli delle misure più varie, c’erano donne molto basse, poco più alte della grandezza naturale, ma accanto a loro altre donne si libravano sino a una tale altezza che al minimo soffio di vento si credeva fossero in pericolo. E ora queste donne suonavano insieme». Parole che bastano per trasmettere una sensazione quasi insopportabile di felicità. E questa volta senza motivo, liberata da ogni cruccio di elezione o di esclusione. È un puro fatto visivo e uditivo. Non c’è bisogno di più. La vita perfetta non avrebbe bisogno di essere introdotta da nulla di più.
Nel 1914, fra agosto e ottobre, Kafka si trovò a scrivere un nuovo romanzo, che era Il processo, e nello stesso tempo a tentare di concludere un romanzo interrotto, che era Il disperso. Qualche mese dopo annotò queste parole: «Rossmann e K., l’innocente e il colpevole, alla fine entrambi ugualmente ammazzati per punizione, l’innocente con mano più leggera, più spinto da parte che abbattuto». Parole che possono risolvere molti dubbi degli esegeti. Finalmente veniamo a sapere, da fonte autorevole, che Josef K. è colpevole, senza ulteriori precisazioni; e che Karl Rossmann è innocente, senza ulteriori precisazioni. Ma questo è irrilevante rispetto a un potere superiore che vuole soltanto ucciderli. Con una esecuzione, per K. Mentre per Karl Rossmann non occorre altro che spingerlo sul bordo della strada, come un animale investito da un’automobile.
XI
IL MOMENTO PIÙ RISCHIOSO
Tutto rimane al suo posto, insensato, inscrutabile.
Un fratricidio
[225] «La cosa strana è che, quando uno si sveglia al mattino, per lo meno in linea generale ritrovi le cose allo stesso posto che avevano la sera. Eppure nel sonno e nel sogno uno si è trovato, per lo meno apparentemente, in uno stato essenzialmente diverso dalla veglia e occorre una infinita presenza di spirito o, meglio, prontezza per cogliere tutto, nell’aprire gli occhi, per così dire allo stesso posto dove uno lo ha lasciato la sera prima». Queste righe, che sono l’accordo fondamentale del Processo, furono biffate da Kafka (e anche questa volta sorge il sospetto che venisse biffato innanzitutto ciò che dava troppa evidenza al pensiero nascosto del testo). Le incontriamo nella scena iniziale, quando Josef K. comincia a parlare con le guardie. Allora ricorda quello che gli ha detto una volta un indefinito «qualcuno» sul fatto che il risveglio è «il momento più rischioso». E quell’ignoto aggiungeva: «Se uno riesce a superarlo senza essere trascinato via dal suo posto, può stare tranquillo tutta la giornata». Il processo, storia di un [226] risveglio forzato. Josef K. è colui per il quale nulla tornerà più al proprio posto.
All’inizio, Josef K. non è certo lo straniero a cui può capitare qualsiasi cosa. È dirigente in una grande banca. La sua mira immediata è di scalzare l’attuale vicedirettore e insediarsi al suo posto (parola che già lo assillava). In ufficio, gli viene riconosciuto uno speciale talento per l’organizzazione. Ha una buona memoria. Sa parlare discretamente l’italiano. Possiede nozioni di storia dell’arte. Sempre per conto della banca, è stato membro della società per la conservazione dei monumenti della città. Vive presso una rispettabile signora, che affitta alcune camere del suo appartamento. La sua amante di notte si esibisce in un locale e di giorno lo riceve una volta alla settimana.
L’esistenza di K. è profondamente annidata nell’ordine. In banca, K. può far aspettare chi vuole parlare con lui, anche se si tratta di imprenditori importanti. Il tempo vibra, «ogni ora passa velocissima» – e K. vuole goderla «come un giovanotto». Un pensiero lo importuna: chissà se i superiori della banca lo guarderanno con sufficiente benevolenza per offrirgli il posto di vicedirettore?
Josef K. non sa che tutto questo lo predispone a subire un processo. Come una materia fragrante e friabile, sprigionerà nel trattamento nuovi caratteri. Anche la struggente bellezza dell’imputato, se è vero che «gli imputati sono i più belli fra tutti».
La situazione di Josef K., quando si avvia il suo processo, somiglia molto a quella di Franz Kafka [227]nella primavera del 1908. Entrambi impiegati brillanti. Kafka più giovane, di cinque anni. Sta per essere assunto, preceduto da lusinghieri giudizi, all’Istituto di Assicurazioni per gli Incidenti sul Lavoro, dopo essersi dimesso dalle Assicurazioni Generali. Tutti e due si preoccupano di «godere le brevi serate e le notti». Kafka frequenta il Trocadero e l’Eldorado, insegne eloquenti del demi-monde praghese. Una volta architettò un piano per presentarsi in quei locali dopo le cinque di mattina, come un milionario esausto e dissipatore. Josef K. tiene nel portafoglio una fotografia dell’amante Elsa, che «di giorno riceveva soltanto a letto». Kafka racconta una sua visita di fine pomeriggio all’incantevole Hansi Szokoll. Stava seduto sul sofà accanto al letto di Hansi, che celava il suo «corpo di ragazzo» sotto una coperta rossa.
Hansi si presentava su un suo biglietto da visita come «Artistin» e «Modistin», due termini sufficientemente vaghi per non escludere nulla. Secondo Brod, Kafka avrebbe detto di lei che «sul suo corpo erano passati interi reggimenti di cavalleria». Sempre secondo Brod, Hansi avrebbe fatto soffrire Kafka, durante la loro «liaison». Di certo sappiamo questo: che posarono insieme per la foto più bella che ci rimane di Kafka. Elegante, chiuso in una redingote, Kafka porta la bombetta e poggia la mano destra sull’orecchio di un cane lupo che sembra un ectoplasma animale. Ma c’è un’altra mano che carezza il cane: quella di Hansi, la cui figura innumerevoli volte è stata tagliata dalla fotografia, come in un documento sovietico. Hansi sorride, sotto le molteplici volute di una capigliatura presumibilmente fulva, sormontata da un cappellino rotondo. Kafka e Hansi stanno seduti, in posa, simmetrici. In mezzo a loro, il cane sfuocato e demoniaco – e le loro mani quasi si toccano.
[228] Secondo Brod, in quella fotografia Kafka avrebbe l’aria di chi «vuole scappare un momento dopo». Ma è un’insinuazione malevola. L’espressione, se mai, è di assorta malinconia. C’è da diffidare, piuttosto, quando Kafka sorride in fotografia, come in quella scherzosa posa al Prater con tre amici, affacciati a un aereo dipinto. Lì Kafka è addirittura l’unico che sorride, mentre sappiamo che proprio in quelle ore soffriva di acuta disperazione.
K. e Karl Rossmann sono due figurazioni dello straniero, di colui che mette piede in un mondo del quale nulla sa e nel quale deve farsi strada, passo per passo. Ma il loro sguardo conserva sempre, sul fondo della pupilla, il riflesso di un’altra vita. Josef K. è ben diverso: non solo non è fin dall’inizio lo straniero, ma viene incaricato dai suoi superiori di far da guida a uno straniero di passaggio in città. Lo straniero è colui che è costretto a capire, che non può permettersi di non avere la vocazione a capire, se vuole sopravvivere. Josef K. invece è il nativo, e corrisponde pienamente alla funzione che svolge nella banca dove lavora, a tal punto che può essere scelto per un compito di rappresentanza. Non gli è richiesto di capire quanto di assecondare l’ordine di cui fa parte.
K. e Karl Rossmann vivono in uno stato di veglia protratta, di cronico allarme. Josef K. viene sottoposto a un risveglio forzato. Se ne incaricano due guardie che potrebbero anche essere finte. E il momento scelto è il primo mattino, il momento che corrisponde al risveglio fisiologico. Quando i due risvegli tendono a confluire, si può essere certi che uno strano, indominabile evento sta per manifestarsi: tutto diventa lettera. E perciò più pericoloso. Dal [229]momento del suo risveglio forzato, Josef K. è costretto non a capire ma a riconoscere l’esistenza di un mondo ulteriore, dissimulato da sempre nella sua città, per lo più in luoghi anonimi e squallidi: il tribunale che ha emanato il suo ordine di arresto. Rispetto a quel mondo, finalmente Josef K. si troverà nella posizione dello straniero, che non gli era congeniale e non aveva cercata.
Josef K. è dunque uno straniero acquisito. È colui che viene costretto a diventare straniero. Mentre Karl Rossmann e K. lo sono sin dall’inizio. Karl Rossmann per imposizione dei genitori, K. per propria scelta. Karl è l’unico che ha dietro di sé una ramificata parentela: quella di coloro che per circostanze avverse sono dovuti andare a cercar fortuna nel mondo. Josef K. e K. invece non hanno precedenti così chiari e consanguinei così numerosi. La semplice K che li contraddistingue annuncia la scomparsa di quello scrigno di dettagli che definisce il personaggio romanzesco nella sua variante balzachiana. Quella lettera è un segno algebrico, che sta per un ventaglio di possibilità. Ma ciò non implica una maggiore astrazione. Anzi, ormai i personaggi dalle folte cartelle segnaletiche sono diventati un atavismo. Mentre il dato di fatto più frequente è la convivenza sotto lo stesso nome – o sotto uno stesso sigillo – di molte persone, anche incompatibili, che spesso si incrociano senza riconoscersi, magari a distanza di pochi istanti, come i frequentatori abituali di una metropolitana.
Il primo momento in cui Josef K. potrebbe capire la gravità della sua situazione è quello in cui vede le due guardie che sono venute per arrestarlo «sedute davanti alla finestra aperta». A fare che cosa? «Divoravano [230] la sua prima colazione». Il verbo usato da Kafka, verzehren, è più forte dell’usuale essen, «mangiare». La voracità delle due guardie presuppone la loro piena sovranità e l’irrilevanza di colui al quale la prima colazione era destinata. In un attimo, Josef K. viene esautorato dall’esistenza. La sua prima colazione è come la sua biancheria, che le guardie hanno già sequestrato, oltre tutto dicendo: «È meglio che queste cose le dia a noi piuttosto che al deposito».
Non meno intima della biancheria, la prima colazione segna la chiusura della delicata fase del risveglio e l’entrata nella normalità della giornata. Ma è proprio da questo che le guardie vogliono escludere Josef K. D’ora in poi, dovrà rimanere perennemente esposto, vulnerabile, inerme, come chi si è appena riscosso dal sonno e non sa ancora bene dove si trova. Ora si dovrà abituare a quello stato, fino a considerarlo normale. Non ci saranno più prime colazioni. Al massimo, sarà concesso a K. di addentare una mela, rimasta sul suo comodino da notte. Questo sottintendono le guardie, mentre affondano il pane e burro nel miele. Ciò che accade è come lo sguardo della guardia Franz, «verosimilmente pieno di significato, ma incomprensibile».
Quando Josef K. si rende conto che due ignoti si sono presentati per arrestarlo, per qualche minuto pensa che si tratti di uno scherzo, anzi di uno «scherzo grossolano» che gli avrebbero ordito «i colleghi della banca, per ragioni ignote, forse perché oggi era il suo trentesimo compleanno». Ciò che lo rassicura è comunque il pensiero di vivere «in uno Stato di diritto», nel quale «ovunque regnava la pace e tutte le leggi stavano in piedi».
[231] Eppure, quando K. si ritira per un momento nella sua camera, si meraviglia – o «per lo meno si meravigliava seguendo il modo di ragionare delle guardie» – che «lo avessero spinto nella stanza e lo avessero lasciato solo, là dove pur aveva dieci volte più possibilità di uccidersi». Riprendendo poi per un momento il «suo modo di ragionare», K. si chiedeva «quale motivo mai avrebbe potuto avere per farlo». E subito si rispondeva: «Magari perché i due stavano seduti nella stanza accanto e gli avevano sottratto la sua prima colazione?». Qui avviene il passaggio più delicato. Fin dal primo istante K. ha provato a «insinuarsi in qualche modo nei pensieri delle guardie» per poterli poi volgere in suo favore (vizio o virtù a cui spesso si abbandonerà nelle varie fasi del suo processo). Così facendo, ha scoperto che l’arresto equivaleva a una condanna a morte. Perciò il pericolo del suicidio, che vorrebbe anticiparla. Ma subito dopo, quando pensa al possibile motivo del suicidio, K. è già tornato a circolare nel suo «modo di ragionare» – e lì si trova a formulare l’ipotesi risibile secondo cui il suo suicidio potrebbe essere provocato dal fatto che le due guardie gli hanno sottratto la sua prima colazione. K. giudica questo pensiero «assurdo», eppure è il pensiero più lucido che abbia avuto sino a quel momento: la visione delle due guardie che divorano la sua prima colazione sottintende che la sua condanna a morte sia stata notificata. E che notificazione ed esecuzione tendano a coincidere. La prima colazione che le guardie stanno mangiando è già la prima colazione di un morto. Ormai la commistione psichica è avvenuta: sempre più difficile sarà per K. distinguere fra il suo «modo di ragionare» e quello dei suoi persecutori. E l’abbaglio diventerà sempre più probabile.
In un tempo brevissimo, lo stesso evento [232] – l’arresto – è apparso come una stolta futilità e come l’annuncio di una condanna a morte, con il connesso pericolo che il condannato la eluda suicidandosi. Quanto al suicidio stesso, poteva anche essere motivato dal fatto che le due guardie stavano mangiando la prima colazione di K. Il quale si rifiuta di accettare queste assurdità, come farebbe chiunque. Non osserva però che tutto si era formulato nella sua mente nel giro di pochi istanti: lo scherzo – l’insulso scherzo –, la condanna a morte, il suicidio come anticipazione della condanna e il suicidio come protesta perché le guardie stanno mangiando la sua prima colazione. K. è tutto questo. Se alla fine, al posto delle guardie, appariranno due carnefici che conficcheranno e gireranno un coltello nel petto di K., anche quello accadrà in conseguenza di un pensiero che K. ha avuto nei primi istanti. Allora si era detto che l’ipotesi del suicidio aveva un difetto: «Sarebbe stato talmente assurdo uccidersi che, anche se avesse voluto farlo, non ci sarebbe riuscito, a causa di quella assurdità». Così, quando un giorno K. verrà preso in consegna dai carnefici, fra gli ultimi suoi pensieri vi sarà quello che «sarebbe stato suo dovere afferrare il coltello, che si librava sopra di lui passando da una mano all’altra, e trafiggersi». Certo, ormai il gesto sembrava molto meno assurdo. Eppure Josef K. non riuscirà a compierlo neppure quella volta.
Josef K. considera con insofferenza le guardie che sono venute ad arrestarlo. Gli sembrano di livello troppo basso. Pensa: «La loro sicurezza è possibile soltanto grazie alla loro stupidità». Eppure una delle guardie gli ha appena detto una frase che potrebbe illuminarlo su ciò che gli avverrà: «La nostra autorità, nella misura in cui la conosco, e la conosco [233]soltanto nei gradi più bassi, non va in cerca della colpa nella popolazione, ma viene, come si dice nella legge, attratta dalla colpa e deve inviare noi guardie. Questo è legge». La legge riconosce esplicitamente l’attrazione che la colpa esercita, unico magnete di qualsiasi azione. La legge è come un animale che fiuta la preda: segue solo il richiamo che emana dalla colpa. Dalla vita in genere.
Josef K. cade successivamente in vari errori. All’inizio, prova addirittura «disprezzo» per il processo, come fosse un penoso, indecoroso disturbo. Non capisce che i suoi aspetti meschini alludono per antifrasi alla maestà del processo stesso. In seguito, dopo aver osservato «già per mesi» l’avvocato Huld che pretende di essere al lavoro sulla sua causa, K. decide di intervenire direttamente. Il processo gli appare allora come una delle tante pratiche che deve sbrigare in banca. Se si tratta davvero, come sembra, di una «grande organizzazione», avere a che fare con essa costituirà un «grosso affare» che, come tutti gli affari, potrà concludersi con profitti o con perdite. Perciò non implicherà certo «pensieri su una qualche colpa». Anzi, e qui K. si permette, nelle sue riflessioni, di essere drastico: «Di colpa non si trattava». Colpa e affare sono parole che appartengono a sfere ben distinte. Con il piglio dell’impiegato brillante, K. decide di trattare la sua vita come un affare della banca. Il suo è un delirio che si presenta con i gesti della ragionevolezza. Ora K. si identifica con una banca. Ma il passaggio successivo lo fa ricadere nella più imbarazzante intimità. Appena K. decide di scrivere da solo la sua memoria, si rende conto che quel documento non potrebbe che somigliare a una confessione generale. Qualcosa a cui [234] non può pensare senza «un sentimento di vergogna». Quella stessa «vergogna» che gli sarebbe «sopravvissuta» dopo l’esecuzione della sua condanna a morte. Tutte le storie del processo e dello scrivere in rapporto al processo sono immerse nella vergogna come loro elemento vitale. È l’aria in cui avvengono. Ci sono solo due specie di aria che noi possiamo respirare: quella del paradiso e quella della vergogna. Sono le due sole specie di aria che Adamo ha respirato.
Il piano di Josef K. si presenta così: per dimostrare la sua innocenza, l’imputato si propone di esaminare la propria vita raggiungendo quell’alto grado di organizzazione e quella capacità di esercitare sorveglianza su tutto che normalmente vengono attribuite al tribunale stesso: «Tutto doveva essere organizzato e sorvegliato, il tribunale doveva finalmente imbattersi in un imputato che sapeva far valere i suoi diritti». Il singolo imputato rivendica l’uso degli stessi strumenti del possente indefinito tribunale. Vuole batterlo sul suo terreno. Ma nello stesso momento K. si sente sopraffatto dalla «difficoltà» dell’impresa a cui si accinge. Difficoltà legata non solo all’oggetto della memoria, ma al fatto stesso dello scrivere. L’unica possibilità – pensa subito – sarebbe quella di scriverla «a casa, di notte».
Da questo punto in là, ciò che viene detto della memoria si applica anche allo scrivere in genere, così come Kafka lo concepiva. «Tutto fuorché rimanere a mezza strada, questo era la cosa più sciocca non solo negli affari ma sempre e dovunque. Certo, la memoria significava un lavoro quasi infinito. Non occorreva avere un carattere molto apprensivo per arrivare facilmente a credere che fosse impossibile [235]portare mai a termine la memoria. Non per pigrizia o per scaltrezza, che sole potevano impedire all’avvocato di portarla a termine, bensì perché, essendo all’oscuro dell’accusa attuale e anche delle sue possibili amplificazioni, la vita intera fino alle minime azioni e accadimenti doveva essere rievocata, esposta e vagliata da tutte le parti. E com’era triste, per di più, un tale lavoro».
Intesa in senso radicale, la «memoria» presuppone una conoscenza senza lacune della propria vita. È questo il delirio di onnipotenza della letteratura: inevitabilmente connesso alla sua origine, che presuppone la colpa – o almeno l’accusa. E origine esso stesso di ogni dubbio, di ogni sospetto di impotenza e di inadeguatezza. L’oscillazione perenne fra il sospetto di una totale futilità e l’aspirazione a un totale dominio fa sì che il sentimento connesso a questa pratica assuma una tonalità di tristezza. Tristeè proprio questo scrivere, questa elaborazione di una conoscenza totale a cui K. si sente costretto. Compito al tempo stesso immane e puerile, come la letteratura. Ma anche senile, se si vuole infierire: lavoro «forse adatto per tenere occupata la mente ormai diventata infantile, dopo il pensionamento, e per aiutarla a far passare le lunghe giornate».
Il doppio di Josef K. nella vita al di fuori del processo è il vicedirettore. Da una parte, K. non pensa che a prenderne il posto. Dall’altra, «il vicedirettore sapeva appropriarsi di tutto ciò che K. adesso era costretto ad abbandonare». Ciascuno dei due tende ad appropriarsi del ruolo dell’altro. La loro essenza è la sostituibilità. Il vicedirettore entra nell’ufficio di K. e fruga «nello scaffale, come se fosse stato il proprio». K. avverte lo stesso malessere, percepisce [236] la stessa invadenza di quando il vicedirettore, per illustrare una barzelletta di Borsa, si era messo a disegnare sul blocco per appunti destinato alla memoria di K. Allo stesso modo, il vicedirettore si appropria poco dopo dei clienti che a lungo e invano hanno atteso di parlare con K. E sarà lui a concludere l’affare con l’industriale che voleva concluderlo con K. «Un uomo affascinante, il suo vicedirettore, ma certo non innocuo» dirà poi l’industriale a K., come per avvertirlo. Appena K. volta le spalle per entrare nel mondo inconfessabile del processo, sa che qualcun altro prende il suo posto e compie i gesti che dovrebbero spettare a lui. K. non è ancora uscito dalla banca e già il vicedirettore rovista fra le carte del suo ufficio. Cerca un contratto, a quanto pare. E subito dopo esce dicendo che l’ha trovato. Ma sotto il braccio tiene «un grosso fascio di scritti», che certamente contengono ben più del contratto. Tutta la sostanza di cui K. dimagrisce, nel corso del processo, viene subito assimilata dal vicedirettore, rafforza il suo aspetto, quel suo volto dove «rughe fitte e dritte non sembravano segni dell’età ma del vigore».
Dietro a tutto questo, perdurava in K. il ricordo delle guardie che divoravano la sua prima colazione. Sempre all’opera è una potenza espropriante, che si manifesta lateralmente, come per caso, ma con una sicurezza totale.
Josef K. ha passato due ore assorto, nel suo ufficio, a pensare alla memoria che vuole scrivere. Così ha tenuto in attesa vari clienti. Quando alla fine riceve il primo, un industriale, nella stanza compare il vicedirettore, «non proprio nitido, come dietro un velo di garza». Già questo ci avverte di ciò che ormai [237] sappiamo: il vicedirettore non è un personaggio qualunque, con i suoi tratti distintivi ben netti e spesso in evidenza. Il vicedirettore è una larva di K. Ovunque egli appaia, qualcosa di delicato sta accadendo a K., in K. stesso. Questa volta il vicedirettore si mette a parlare cordialmente con il cliente – e presto le due figure sovrastano K. Ora, se una lente si avvicinasse alla scena e la isolasse dal resto ne risulterebbe questo: K. sta seduto alla sua scrivania e, alzando lo sguardo, ha l’impressione che «al di sopra della sua testa due uomini, dei quali esagerava con la fantasia la statura, negoziassero su lui stesso. Lentamente, girando con prudenza gli occhi in su, cercò di accertare che cosa avveniva in alto, prese dalla scrivania senza guardare uno dei fogli, lo depose sul palmo della mano e lo sollevò a poco a poco, mentre egli stesso si alzava, verso i due signori». Due giganti trattano, in linguaggio cifrato, della vita di un essere inferiore, quasi schiacciato dai loro corpi, che per farsi notare solleva lentamente verso di loro un foglio sul palmo di una mano. Ma chi mai, in un normale ufficio, offre un foglio a qualcuno sollevandolo lentamente sul palmo di una mano? K. lo sa benissimo: «Non pensava a nulla di preciso, agiva soltanto con la sensazione che si sarebbe dovuto comportare così, una volta che avesse composto la grande memoria che doveva scaricarlo totalmente». Anche per K. gli eventi si dispongono su due piani ben distinti: da una parte, nel mondo della normalità quotidiana, si svolge una scena di ufficio come tante, con tre persone – due funzionari e un cliente – che parlano di affari; dall’altra, nel mondo segreto del processo, si prospetta qualcosa che forse accadrà un giorno, quando K. fosse riuscito a compiere il gesto decisivo per la sua sorte, il solo gesto che avrebbe potuto «scaricarlo totalmente»: scrivere la [238]«grande memoria». Per giungere a quel momento, occorre offrire uno scritto dal basso verso l’alto, rischiando di non essere notati, oppure – ed è il caso peggiore: e puntualmente avviene – che la propria offerta venga giudicata priva di interesse. «Grazie, so già tutto» dice infatti il vicedirettore, dopo aver appena scorso con gli occhi il foglio. Ma perché il vicedirettore è così sbrigativo? «Perché ciò che era importante per il procuratore non lo era per lui». Da una parte, allora, la «grande memoria» che K. si propone di scrivere deve contenere ogni minimo dettaglio della sua vita, raggiungendo l’intimità estrema e indicibile; dall’altra essa corre il rischio di non essere neppure presa in considerazione perché troppo personale. Per quale ragione, infatti, dovrebbe essere importante per il vicedirettore ciò che è importante per K.? Domanda maligna, paralizzante. K. non sa come disfarsene. E intanto il vicedirettore è uno dei due giganti che stanno trattando la sua sorte, anzi forse l’hanno già decisa.
In un oscuro modo beffardo, il vicedirettore sembra sapere che cosa avviene nella mente di Josef K. E lo sa perché egli è nella sua mente. Se K. pensa al momento in cui la memoria potrebbe «scaricarlo (entlasten) totalmente», pochi attimi dopo il vicedirettore dice che quel giorno K. ha l’aria di essere «sovraccarico (überlastet)» – e perciò incapace di trattare alcunché. E aggiunge: «C’è gente in anticamera che lo aspetta ormai da ore». Insinuando il più sgradevole sospetto: che K., il quale già si sente perseguitato da un’autorità sfuggente, si comporti allo stesso modo, facendo aspettare per puro capriccio i clienti della banca, così come i giudici fanno aspettare lui. La sovrapposizione sembra perfetta. [239] Quando si accenna che Josef K. non pensa neppure a far entrare un altro cliente, il testo dice: «far entrare una qualche altra parte (irgendeine andere Partei)», usando quella stessa parola, Partei, che designa la «parte» in genere – e non solo è d’obbligo in un processo, ma apparirà un giorno irradiata di mistero nelle speculazioni di Bürgel rivolte a K., verso la fine del Castello.
Una «grande memoria», quale la concepisce Josef K., deve essere in primo luogo inconfondibile. Deve essere la voce stessa di una peculiarità. Ma come tratta il mondo la peculiarità? «Ogni uomo è peculiare e chiamato a operare in forza della sua peculiarità, però deve trovare gusto nella sua peculiarità» scrisse Kafka una volta. Proseguendo con una frase drastica: «Per quanto risulta dalla mia esperienza, sia a scuola sia a casa si lavorava al fine di cancellare questa peculiarità». Se dunque l’uomo, nella sua generalità, è caratterizzato dal suo essere peculiare, è anche vero che i primi poteri collettivi con cui viene in contatto (la famiglia, la scuola) si preoccupano subito di cancellare ciò che lo definisce. Tutti cospirano perché ogni singolo uomo non possa «trovare gusto nella sua peculiarità».
La terza frase infierisce ulteriormente: «Ciò facendo si facilitava il lavoro dell’educazione, ma si facilitava anche la vita al bambino, il quale comunque doveva prima assaporare il dolore provocato dalla costrizione». L’abrasione del carattere principale del singolo (la sua peculiarità) è dunque al tempo stesso una parte del «lavoro» educativo e un aiuto che il nuovo essere riceve per vivere. La vita vivibile implica l’estinguersi della peculiarità. Ma questo ha qualcosa di mostruoso e inconcepibile, così [240] come tale sembra al bambino l’invito ad abbandonare la lettura di una «storia emozionante» per andare a letto. La mostruosità è implicita nella sproporzione degli elementi: per il bambino che leggeva, «tutto era infinito o si perdeva nell’indistinto», perciò quella «argomentazione a lui circoscritta» per persuaderlo a interrompere la lettura appariva incongrua, anzi così inconsistente che «non raggiungeva neppure la soglia di ciò che merita di essere preso in considerazione». La peculiarità del bambino stava appunto nella determinazione di «continuare a leggere». Per l’adulto, diventerà determinazione di continuare a scrivere. In tutti e due i casi, nella notte. Allora, «persino la notte era infinita».
Nella visione del bambino, il senso del «torto che gli veniva fatto» era riferito soltanto a lui stesso, come se quell’ingiustizia fosse stata escogitata apposta per l’occasione. Così, commenta quel bambino a distanza di anni, «si svilupparono gli inizi dell’odio che determina la mia vita in famiglia e a partire da allora, sotto certi aspetti, la mia vita intera».
Due parole colpiscono subito: «lavoro» e «odio». Parole sprigionate dal processo di cancellazione della peculiarità. Dalla scena del bambino immerso nella lettura e costretto ad andare a letto si viene sbalzati in uno scenario minaccioso e opprimente. Così si giunge al passaggio decisivo: «La mia peculiarità non veniva riconosciuta; ma, poiché io la sentivo, dovevo riconoscere in questo comportamento verso di me una disapprovazione, tanto più che in proposito ero molto sensibile e sempre all’erta». Quella disapprovazione è il preludio di una condanna. La peculiarità e la colpa convergono. Anzi: la peculiarità è la prima delle colpe. La condanna viene dichiarata all’esterno, ma presto applicata all’interno dal bambino stesso, che «teneva nascoste [certe peculiarità] [241] perché egli stesso riconosceva in esse un piccolo torto». Ormai siamo su un piano inclinato, alla fine del quale può esserci solo l’autocondanna: «Se però tenevo nascosta una peculiarità, allora la conseguenza era che odiavo me stesso o il mio destino – mi consideravo cattivo o maledetto». Insensibilmente il clima si è trasformato: il cerchio di luce attorno al bambino che legge è ora quello che isola l’imputato. Non si tratta più ormai di peculiarità da difendere ma di confessioni da rendere. D’un tratto ci ritroviamo nella situazione in cui Josef K. dibatte fra sé come comporre la sua «grande memoria» per il tribunale. Se mai questo è possibile. La risposta, negativa, ci viene data qui: «Le peculiarità esibite si moltiplicavano quanto più mi avvicinavo alla vita per me accessibile. Ma questo non portava con sé una liberazione, la massa di ciò che veniva tenuto segreto non diminuiva in questo modo, anzi l’affinarsi dell’osservazione mise in evidenza che non era mai stato possibile confessare tutto e persino dalle confessioni apparentemente complete dei primi tempi risultò che la radice ancora sussisteva all’interno». Affiora qui la tessitura del Processo: si parla di «confessioni apparentemente complete», di «massa di ciò che veniva tenuto segreto», della «radice» inestirpabile di qualcosa che va considerato come una colpa. Solo all’interno della regione del Processo queste parole possono essere capite. Anzi, esse sono situate nelle sue zone estreme. Qui si tratta dell’impossibilità di dichiarare il segreto – e perciò di esaurirlo. E, poiché il segreto riguarda le peculiarità, e le peculiarità sono la colpa stessa, si tratta della inestinguibilità della colpa che ci accompagna. Punto in cui si raggiunge il picco della lucidità, prima che l’analisi ricada nel vortice: «Questo non era un inganno, ma soltanto una forma particolare [242] della conoscenza che, per lo meno fra viventi, nessuno può sbarazzarsi di sé». A questo punto, sospesi nel vuoto, passa perfino inosservato l’inciso: «per lo meno fra viventi».
Non è sufficiente scrivere da soli la memoria in propria difesa, pensa Josef K.: occorre consegnarla «subito e se possibile premendo ogni giorno perché venga esaminata». E qui si incunea una scheggia estranea: «A tale fine naturalmente non basterebbe che K. come gli altri sedesse nel corridoio e mettesse il cappello sotto la panca. Egli stesso o le donne o altri messaggeri dovrebbero assediare giorno per giorno i funzionari, costringendoli a mettersi a tavolino e studiare la memoria di K. invece di guardare nel corridoio attraverso la grata». Le donne, dice K. Ma quali donne? Chi sono le donne a cui K. allude, che dovrebbero «assediare» i funzionari per costringerli a leggere alcune pagine scritte da K.? La signorina Bürstner, la signora Grubach, la lavandaia, l’infermiera Leni, la ballerina Elsa: soltanto di loro sappiamo. Non molto hanno in comune, ma allora ricordiamo un’altra riflessione che era occorsa a K. mentre teneva Leni sulle ginocchia: «Sto cercando l’aiuto di donne, pensò quasi stupito, prima la signorina Bürstner, poi la moglie dell’usciere del tribunale, infine questa piccola infermiera, che sembra avere un bisogno incomprensibile di me». Già qui affiora un punto non facilmente spiegabile e comunque tale da interrompere il flusso consequenziale dell’argomentazione: l’«incomprensibile bisogno» che una donna appena conosciuta mostra verso Josef K. Molto simile a quello che altre donne – Frieda, Pepi, Olga – mostreranno verso K. al villaggio del Castello. Ma come collocare quell’incomprensibile [243] bisogno femminile in un rigoroso piano di autodifesa, come quello che Josef K. sta studiando? E poi, quali sarebbero i «messaggeri» che, all’occasione, potrebbero sostituire le donne? Qui ci sentiamo ancora più perplessi. Quell’oscillazione momentanea e quasi impercettibile dell’argomentare rischia di vanificarlo tutto, così come l’inciso frettoloso di un paranoico può aprire e subito richiudere lo spiraglio su un vasto delirio, che inficia un ragionamento per altri versi impeccabile. Già l’idea che «le donne», in genere, possano essere d’aiuto per costringere i funzionari del tribunale a leggere la memoria scritta da K. ha qualcosa di incongruo, comico o troppo preciso, seppure di una precisione che sfugge al lettore. Non però al cappellano del carcere, che un giorno dirà a K.: «Tu cerchi troppo l’aiuto dagli altri e soprattutto dalle donne».
Ma i «messaggeri» ? Finora K. non ne aveva fatto cenno – e sembra difficile immaginarne la funzione. Quali messaggeri? Usati per comunicare che cosa? E investiti di quali poteri? Qui la risposta non è ricavabile da alcun ragionamento precedente di K. Siamo nell’incertezza totale. Ma, se lo sguardo si spinge più avanti, si profila la livrea argentea di Barnabas nel Castello ancora non concepito. Come se stesse affiorando il profilo tratteggiato di un altro mondo, nel quale il mondo del Processo è destinato a proseguire.
Gli uffici del tribunale stanno nei luoghi di ciò che si vuole dimenticare: nei solai della grande città. Ma il tribunale stesso è incapace di dimenticare. È la riserva universale, lo horreum della memoria di cui parlava Giordano Bruno, il «granaio» di ciò che accade. Non se ne vedono gli argini, perché ogni solaio [244] può proseguire in un altro solaio, con uffici ancora più estesi. Ciò che il tribunale richiede, se un singolo si azzarda – come Josef K. – a redigere una sua memoria, è una conoscenza totale della propria vita, ricomposta in ogni dettaglio. Ovviamente nessuno è in grado di rispondere in modo soddisfacente. E questo stabilisce una volta per sempre il dislivello fra il tribunale e il singolo. Così il tribunale può opprimere il singolo senza sforzo alcuno, semplicemente perché si cura di mantenere vive le tracce di qualsiasi cosa sia accaduta. Talvolta pericolosamente vive.
Come Odradek, la vita del tribunale si incontra nelle stanze dei rifiuti. Là dove persino i più poveri gettano il loro ciarpame, si esercita il potere che tutti paventano, a cominciare da coloro che lo servono. Anche in una stanza dell’ufficio di Josef K., fra «vecchi stampati inservibili e calamai di terraglia, vuoti e rovesciati», è all’opera un rappresentante del tribunale: il bastonatore dalle braccia nude e dal viso abbronzato di marinaio, «selvaggio e fresco», chiuso in una guaina di cuoio scuro, come uscisse da un club sadomasochista. Gli è affidata una variante del punire: sordida, segreta, adatta a personaggi infimi come le guardie che sono andate ad arrestare K. e si sono impadronite della sua biancheria. Deve bastonarle, forse a morte, perché K. nella sua deposizione le ha denunciate. E sappiamo che il tribunale vuole «fare una buona impressione».
K. tenta di intervenire, poi si allontana terrorizzato all’idea di essere scoperto da qualche commesso della banca. E subito sviluppa, con formidabile agilità, una serie di giustificazioni del suo comportamento, includendovi persino una vaga minaccia verso [245] «i veri colpevoli, gli alti funzionari, dei quali ancora nessuno aveva osato mostrarglisi», come fossero loro a dover rispondere a lui – e non lui a loro. Questo rovesciamento così palesemente incongruo segnala che K. è ormai in uno stato di estrema debolezza. Il terrore è in lui. Ma non solo per la non mitigata ferocia della scena a cui ha assistito. In ufficio, il giorno successivo, K. «continua ad avere in mente le guardie». Si domanda: dove sono ora? Apre la porta della stanza dei rifiuti e ritrova la stessa scena della sera prima in tutti i dettagli. Non rimane che richiudere la porta e batterci contro i pugni, «come se questo la chiudesse meglio».
L’episodio del bastonatore rivela a K. qualcosa che non ha rimedio: il tribunale non solo si è insinuato, attraverso solai e ripostigli, nei recessi dello spazio, ma ha sequestrato il tempo. La durata è trafitta in ogni istante da una successione di tableaux vivants. Incessantemente il bastonatore alza il braccio nudo sulle due guardie gementi. La porta chiusa si apre sempre sulla stessa scena. E nessun istante nuovo è in grado di sgombrarla.
Tornando da una visita all’aborrita (e certamente assassina) fabbrica di amianto di suo cognato, del quale era stato costretto a diventare socio passivo, Kafka osservò che il senso dell’estraneità si coglie non tanto in una città straniera quanto nella periferia della propria città. Della città straniera ci si può facilmente disfare, fino a «rinunciare ai paragoni», come se fosse una allucinazione o un paesaggio che scorre dietro il finestrino di un treno. Bastano invece poche fermate di un tram, basta una passeggiata di mezz’ora per varcare l’impercettibile confine che separa da quel «bordo misero, oscuro, scavato da [246] solchi come una grande gola» che è la periferia della propria città. «Perciò,» aggiungeva «ogni volta mi addentro nella periferia con un sentimento misto di angoscia, desolazione, pietà, curiosità, superbia, gioia per il viaggio, virilità e ne ritorno con un senso di benessere, gravità e tranquillità». Accortamente il tribunale a cui doveva presentarsi Josef K. aveva le sue sedi in periferia. Quando l’imputato vi arrivava, era già indebolito, più vulnerabile, esposto all’ignoto, eppure ciò che vedeva era quanto di più comune, scene che si ripetevano ovunque: bambini che giocano, ignoti che guardano da una finestra o attraversano un cortile. I mutamenti più gravi sono di questo genere: modesti in termini di spazio, scarsamente avvertibili mentre il movimento è in corso, soverchianti quando ormai si è accolti nel «bordo oscuro» del significato.
Ciò che Josef K. dice contro il tribunale, nella sua spavalda, veemente deposizione – la prima e l’unica –, è quello che, per secolare tradizione, si usa dire contro ogni centro del potere: che è fondato sull’arbitrio e sul sopruso (come esempio, K. cita la storia del suo arresto), sulla brutalità e sull’imbroglio (anche nel pubblico della sala delle udienze ci sarebbero «persone che vengono dirette da quassù») ; che d’altra parte, pur nella rozzezza delle sue manifestazioni, dietro di esso si intravede una «grande organizzazione». Perché la macchina funzioni è ovviamente imprescindibile la corruzione, che dovrà estendersi dalle semplici guardie fino al «giudice supremo». E, «nell’innumerevole e indispensabile seguito» dei collaboratori della macchina, accanto a «uscieri, scrivani, gendarmi e altri aiuti», K. non si [247] trattiene dall’includere «forse perfino dei carnefici». Già una piccola parte di tutto questo sarebbe sufficiente a incriminare K. per oltraggio all’autorità. Ma il giudice istruttore non si scompone. Vuole soltanto mettere in chiaro che, con la sua deposizione, K. si è «privato del vantaggio che un interrogatorio costituisce in ogni caso per l’arrestato».
Il tribunale non sembra temere le tremende accuse pubblicamente esposte da K.: sono accuse che si trovano in tutti i libri di storia. Se il tribunale fosse solo un centro di potere corrotto e arbitrario, pronto a qualsiasi malversazione, si perderebbe la sua peculiarità e il suo profilo si confonderebbe fra tanti altri. Eppure, nella appassionata orazione di K., pronunciata a nome non di se stesso ma dei molti che patiscono simili abusi e che K. suppone essere presenti nel pubblico («A nome di questi io mi batto, non per me» egli dice, col tono del tribuno), si celava un passo che poteva davvero preoccupare il tribunale, per le sue implicazioni: «Qual è il senso di questa grande organizzazione, miei signori? Consiste in questo, che persone innocenti vengono arrestate e contro di esse viene avviato un procedimento insensato e per lo più, come nel mio caso, privo di esito». Anche la corruzione sarebbe necessaria proprio per sorreggere questa «insensatezza del tutto». Qui si fa luce una visione nuova: il fine della «grande organizzazione» non sarebbero il potere, né il denaro, né l’imposizione di una qualche idea: le tre forme di cui la storia offre con dovizia gli esempi. Il vero fine sarebbe quello di arrestare innocenti e successivamente punirli. Il fine è la punizione in sé, attività autosufficiente, come l’arte. E riconoscibile per il nitore della sua «insensatezza».
Ma K. non riesce a proseguire su questa via – e [248]forse non si è accorto neppure della forza di ciò che ha appena detto. La sala già rumoreggia, il pubblico preferisce ora fare il voyeur mentre lo studente placca e palpa la lavandaia «in un angolo vicino alla porta» della sala. Nel momento in cui si guarda indietro, tutti i presenti – e non più solo qualcuno fra loro – appaiono a K. come infiltrati del tribunale: «Siete tutti funzionari, a quanto vedo, siete la banda corrotta contro la quale ho parlato». In pochi istanti, il popolo oppresso di cui K. si ergeva a difensore è diventato una compatta rappresentanza degli oppressori. Non rimane che prendere il cappello e abbandonare la scena. Mentre K. corre giù per le scale, lo accompagna «il rumore dell’assemblea che si era rianimata per discutere i fatti, probabilmente come fanno gli studenti».
Una domenica mattina, Josef K. visita gli uffici del tribunale, «per curiosità». Vede altri imputati che siedono su panche in attesa, come per vizio. Gli abiti sono «trascurati», ma da vari segni ci si accorge che la maggior parte di loro «apparteneva alle classi superiori». Il tribunale ha molto a che fare con i ranghi sociali. Non è attratto dalla colpa del popolo. È nella borghesia, in questa classe metamorfica, che vuole e sa sostituirsi a tutto, imitare l’aristocrazia e intridere il proletariato, che la colpa cresce rigogliosa. Non molto differenzia quel pubblico da coloro che si troverebbero nell’anticamera dell’ufficio di K., in banca, se non fosse quella trascuratezza nel vestiario. E una terribile ipersensibilità. «Gli imputati in generale sono talmente sensibili» osserva l’usciere del tribunale, quando un distinto signore, «collega» di K. in quanto imputato, improvvisamente grida come se K. «non [249] l’avesse toccato con due dita, ma con una tenaglia rovente».
Il tribunale che mette sotto accusa Josef K. «non è molto conosciuto tra la popolazione», come se avesse una vocazione esoterica. Perciò si preoccupa di presentarsi bene e ha istituito la figura dell’informatore, incaricato di dare «tutte le informazioni alle parti in attesa». Quest’uomo ha due caratteristiche: «conosce una risposta per tutte le domande» ed è elegante, indossa «un panciotto grigio con due lunghe punte di buon taglio». I suoi vestiti sono stati acquistati grazie a una colletta comune degli impiegati del tribunale e degli imputati, perché l’amministrazione si è dimostrata «piuttosto strana» al riguardo. Nei solai che ospitano gli uffici del tribunale, nonché nel desolante corridoio dove gli imputati siedono in attesa, con il cappello sotto le panche, quest’uomo si muove con la disinvoltura di un maestro di cerimonie nei saloni di un Grand Hôtel. Ma talvolta non riesce a frenarsi e ride in faccia agli imputati. Così accade anche con K. L’impiegata che gli sta accanto commenta: «Adesso tutto sarebbe pronto per fare una buona impressione, ma con la sua risata rovina tutto di nuovo e spaventa la gente». L’informatore è una concrezione del tribunale: immerso da sempre nell’atmosfera stagnante dei solai, mal sopporta l’aria fresca, come se temesse di decomporsi al di fuori degli uffici di cui è il genius loci e la guida turistica. È cerimonioso e feroce. «Come sa parlare bene con le parti» sussurra l’impiegata a K., che annuisce.
Josef K. prova a parlare con un imputato, che chiede soltanto di essere lasciato aspettare («Ho pensato [250] che potevo aspettare qui, è domenica, ho tempo e qui non disturbo» implora). L’aria è stantia, toglie il respiro. Una sorta di «mal di mare» invade K. Dal fondo del corridoio sente «un rombo di acque che scrosciavano, come se il corridoio oscillasse di traverso, e gli imputati in attesa sui due lati si sollevassero e abbassassero». Ora finalmente K. sa dove si trova. Risuona la risata dell’informatore e il sottile sarcasmo delle sue parole: «Ho proprio detto giusto. Soltanto qui il signore non si sente bene, non in generale». Soltanto qui: ma K. ha appena constatato quanto vasto è quel qui: è un mare che solleva e travolge tutto ciò che incontra. C’è un’oscura equazione che connette quei luoghi e il lavoro della punizione. E K. sta per riconoscerlo, quando lo coglie la vertigine. Ma non c’è da preoccuparsi: «Quasi tutti hanno attacchi di questo genere, quando vengono qui per la prima volta» gli dice l’impiegata premurosa.
Nelle stesse stanze dei solai, a seconda dei giorni, si stendono i panni ad asciugare o si svolgono le udienze del tribunale. Ma quale differenza si può stabilire tra una fila di panni stesi ad asciugare e l’opera del tribunale? In larga parte coincidono. O almeno si impregnano a vicenda. Il tribunale è una allucinazione sovrapposta a tutto. Investe tutto dal basso, dai margini, dall’alto. Si espande dalle periferie, dai quartieri poveri, dai solai. Produce afa e vapore sospeso. Comunque, se si vuole, c’è sempre una spiegazione di buon senso: stendere i panni nei solai è cosa che «non si può proibire del tutto agli inquilini», fa notare a K. l’impiegata che lo soccorre, mostrando «quell’espressione severa che hanno certe donne proprio nel fulgore della giovinezza». E poi aggiunge: «Perciò i locali non sono [251] molto adatti per uffici, sebbene per altri versi presentino grandi vantaggi». Quali siano questi «grandi vantaggi» non viene specificato.
La signora Grubach tiene molto alla «felicità» di Josef K., che «è il migliore e il più caro fra i suoi pigionanti», ma non riesce a dare troppo peso al suo arresto. Per lei, non è «grave» quanto essere arrestato come un ladro. No, quello di K. è un arresto che sembra «come qualcosa da sapienti». Perciò qualcosa di cui la signora Grubach pensa: «Non lo capisco, ma neanche si deve capirlo». K. risponde invece come se avesse capito al volo l’allusione. Più che «qualcosa da sapienti», egli dice, quell’arresto va considerato un «nulla». E aggiunge: «Sono stato assalito di sorpresa, questo è quanto». Ma non si ferma qui e dà una spiegazione: «Se subito dopo il risveglio, senza lasciarmi sviare dal mancato arrivo di Anna, mi fossi alzato subito e, senza riguardi per chiunque mi fossi trovato davanti, fossi venuto da lei, e in via eccezionale avessi fatto la prima colazione in cucina, se mi fossi fatto portare da lei i vestiti dalla mia stanza, in breve se avessi agito ragionevolmente, non sarebbe accaduto null’altro. Tutto ciò che voleva divenire sarebbe stato soffocato».
Questo dialogo con l’affittacamere, mentre la signora Grubach rammenda pazientemente certe calze nelle quali K. «di tanto in tanto affondava una mano», è uno dei più vertiginosi scambi di battute di tutto Il processo. Ma nessuno dei due interlocutori se ne accorge, e tanto meno il lettore, perché siamo all’inizio della storia. Le parole esistono e agiscono da sole, attraversando occasionalmente le persone. Ma a loro non appartengono – e infatti vengono subito dimenticate. Soltanto la mano di uno scrittore [252]potrà un giorno raccoglierle e disporle nel loro luogo, nelle nervature di ciò che accade.
Per controbattere la teoria della signora Grubach, secondo cui il suo arresto presupporrebbe una dottrina, e forse una complessa e antica dottrina, K. vuole ridurlo a puro fatto fisiologico. L’arresto è qualcosa «che voleva divenire», ma che avrebbe potuto essere «soffocato» se K. avesse mostrato sufficiente prontezza nell’attimo del risveglio («subito», gleich, è parola ripetuta due volte in tre righe). Ciò che segue è comico nella sua circostanziata laboriosità – spostarsi subito in cucina, fare la prima colazione in cucina, farsi portare i vestiti dalla camera da letto –, ma immensamente serio è il suo scopo: «soffocare» qualcosa che sta per avvenire. La tesi implicita è la seguente: se si agisce «ragionevolmente», si può giungere al risultato per cui «tutto ciò che voleva divenire sarebbe stato soffocato». Audace tesi metafisica. Antico terrore del divenire, colto nell’istante del risveglio, quindi alla scaturigine di ciò che diviene. Ed è il tutto, perché il mondo stesso è qualcosa «che voleva divenire». Ma il risveglio presuppone una virtù: la prontezza di reazione su cui può contare solo chi è preparato. E qui K. è costretto ad ammettere, come ruminando: «Siamo così poco preparati». Soltanto per questo si finisce invischiati in un processo. Ma che cosa occorre per essere preparati (quindi per agire «ragionevolmente»)? Per lo meno un ufficio. E K. aggiunge: «Per esempio in banca sono preparato, lì qualcosa del genere non potrebbe mai succedermi». Alcune conseguenze si possono trarre, da questo a parte fulmineo. Innanzitutto, per agire «ragionevolmente» occorre ospitare in sé l’equivalente di un ufficio, poiché non si può pretendere che il risveglio avvenga dentro un ufficio. E l’azione «ragionevole» ha, tra [253] le sue funzioni, quella di soffocare certe cose che vogliono accadere. Se i fatti si svolgono diversamente, se due ignoti divorano la nostra prima colazione, se gli stessi ignoti sequestrano i nostri vestiti, ciò significa che c’è stato un disturbo del risveglio, che è «il momento più rischioso». Tutta la storia di Josef K. ci mostrerà di quale rischio si tratti: che la rivelazione si trasformi in persecuzione.
Il risveglio, la bodhi di cui parla incessantemente il pensiero indiano, dai Veda al Buddha, è qualcosa che avviene all’interno della veglia, uno scarto invisibile, un mutamento istantaneo delle distanze e del passo mentale grazie a cui la coscienza riesce a osservare se stessa. Quindi riesce a osservarsi nella sua normale postazione di osservatrice. La metafora più efficace di questo accadimento è il risveglio dal sonno, il passaggio dal sogno alla veglia. Quel momento aurorale di pienezza, di stupore – ma anche, all’occasione, di sconcerto e angoscia – che si manifesta allora è una allusione all’altra pienezza che può manifestarsi in ogni istante della vita desta. Non molti vivono l’atto del risveglio sempre rinnovato, all’interno della veglia, atto definitivo soltanto nel Buddha. Anche se soltanto di loro, secondo alcuni, si può dire che pensano. Mentre tutti vivono l’atto dello svegliarsi, del riscuotersi dal sonno. Ma il fenomeno che si manifesta in tutti, ogni giorno, è solo un esempio, un accenno, una figurazione approssimata dell’altro fenomeno, che i più ignorano.
Un mattino piovoso, Josef K. si appresta a uscire dall’ufficio per andare ad accompagnare un cliente [254] italiano della banca in visita ai monumenti della città. Arriva una telefonata. È Leni, che gli chiede come sta. K. le dice che ha un appuntamento al duomo e le spiega perché. Leni «improvvisamente» gli dice: «Ti danno la caccia». K. riappende il telefono, disturbato da quell’avvertimento. E intanto dice a se stesso: «Sì, mi danno la caccia».
È forse questo il momento di più puro terrore nella storia di K. Dietro la voce dell’invisibile Leni sentiamo spalancarsi un’immensità sconosciuta e minacciosa. Ancora una volta, soltanto una donna può farne presagire l’esistenza. Sino a un momento prima, K. pensava che accompagnare quel cliente in giro per la città fosse una incombenza inopportuna, perché «ogni ora sottratta all’ufficio lo inquietava». Una piccola noia che apparteneva alla vita di ogni giorno. Ma, appena risponde a Leni, K. sente che quell’appuntamento al duomo ha qualcosa di fatale – e preordinato. Glielo dice una voce in lui che si accorda perfettamente con quella di Leni. Anzi, le due voci si fondono: «Sì, mi danno la caccia». La vita normale nell’ufficio è diventata ormai un guscio trasparente e fragile, sotto il quale si lascia riconoscere una creatura abissale, dal respiro lento e funesto: la vita indominabile del processo.
Diario del 2 novembre 1911: «Questa mattina per la prima volta da lungo tempo di nuovo la gioia al pensiero di un coltello che viene girato nel mio cuore». Terz’ultima frase del Processo: «... mentre l’altro gli conficcava il coltello nel cuore e ve lo girava due volte». Si nota innanzitutto la ripetizione: già nel 1911, il coltello nel cuore è come una vecchia conoscenza che ricompare. Poi l’attenzione al gesto: come se in tutta la scena il punto decisivo fosse il verbo [255] drehen, «girare». Infine «la gioia» che il pensiero suscita, parola rara in Kafka. Sino all’ultimo Josef K. si ribella – e insieme collabora con la potenza che vuole ucciderlo. Quando i due carnefici si presentano a prelevarlo, K. è già pronto. Anche il suo vestiario si accorda con quello dei carnefici. Loro in redingote, «con cilindri in apparenza inamovibili». K. «vestito di nero», con «guanti nuovi stretti alle dita». Sta seduto vicino alla porta, «nell’ atteggiamento di chi attende ospiti». Quando K. e i due carnefici camminano insieme per la strada e i carnefici lo tengono stretto, formano «un’unità quale può formare quasi soltanto una materia senza vita». Perciò era del tutto disinteressata, e priva di ogni possibile applicazione al suo caso, l’ultima argomentazione della sua rivolta, così sottile da offrirsi come un rompicapo: «C’erano obiezioni che erano state dimenticate? Certo che c’erano. La logica è, sì, incrollabile, ma non resiste a un uomo che vuole vivere». Quanto a lui, aveva cessato da un anno di essere «un uomo che vuole vivere».
I due carnefici vogliono che la testa di Josef K. poggi bene sul «masso staccato» che sta nel «posto adatto» della cava prescelta per l’uccisione. Si ostinano a trovare la giusta posizione, anche grazie alla «accondiscendenza che K. mostrava verso di loro», in qualche modo aiutandoli. Eppure la «sua posizione rimaneva molto forzata e inverosimile». È questo il vero punto finale del Processo. Anche se i carnefici e il condannato fanno convergere le loro forze, la postura della vittima rimane «inverosimile». L’esecuzione è effettiva, i gesti hanno qualcosa di incongruo e distorto. Questo il sigillo di tutta la vicenda. E forse a questo pensò K. pochi istanti dopo, [256] quando vide i due carnefici passarsi il coltello da macellaio ma evitò di prenderlo in mano e ficcarselo in corpo da solo. In fondo, non poteva «sollevare le autorità da tutto il lavoro». Così commetteva un «ultimo errore», certo: ma chi ne portava «la responsabilità», se non «colui che gli aveva negato il resto della forza occorrente» ? Ma chi era costui? Chi si era preoccupato di togliere a K. quel tanto di forza necessaria non solo per aiutare i carnefici a disporre bene la sua testa sul masso, ma anche per aprirsi il corpo con un coltello da macellaio? È questa la domanda estrema che Il processo lascia sospesa. Anche la più paurosa. Ma rischia di passare inosservata: troppo nitida è la sequenza dei gesti che si stanno compiendo perché l’attenzione si preoccupi di seguire anche quell’ultima elucubrazione di K.
Un momento dopo si accende la luce di una finestra all’«ultimo piano di un edificio adiacente alla cava» e vi si staglia una figura. Non si vede se sia uomo o donna. L’ultimo dei tanti esseri che erano apparsi a una finestra, come quelli che avevano osservato, dalle finestre di fronte, l’arresto di Josef K.
Se il fatto che Josef K. non trovi la forza di conficcarsi nel petto il coltello da macellaio è un «ultimo errore», ciò implica che, sin dall’inizio, il processo mirasse, nella sua forma pura e impeccabile, soltanto al suicidio di K. Ma ogni volta, nei momenti decisivi, veniva a mancare una certa dose di forza. O per rimanere svegli quanto bastava per ascoltare le parole rivelatrici. O per compiere, con la propria mano, il gesto risolutivo. Perciò i due carnefici di K. avevano l’aria di tenori o di comparse del varietà. Erano «uomini fatti fugacemente», avrebbe detto il [257] presidente Schreber, e servivano soltanto per quella momentanea incombenza di affondare il coltello nel corpo di K. Se l’ordine del mondo fosse stato più perfetto, non ci sarebbe stato bisogno di loro. E K. avrebbe agito da solo. Ma sarebbe avvenuto, allora, un processo? O il processo non sarebbe coinciso con l’atto della creazione, con quel lungo suicidio?
XII
CIÒ CHE APPARE NELLE LEGGENDE
[261] Per generazioni e generazioni, i pittori incaricati di dipingere i ritratti dei giudici del tribunale si sono trasmessi «regole disparate, numerose e soprattutto segrete». L’ultimo a cui è stato concesso di applicarle è Titorelli, pittore mitologico che predilige i paesaggi di brughiera. Come Reynolds dipingeva le Ladies eminenti del suo tempo atteggiate da Diana o da Minerva, così Titorelli dipinge un giudice appaiato a una dea: la dea della Giustizia, ovviamente. Ma potrebbe essere anche la dea della Vittoria, precisa l’artista. O forse anche la dea della Caccia, come appare dopo gli ultimi ritocchi, che Titorelli esegue davanti a Josef K. La dea è raffigurata in corsa, con ali alle caviglie. E ogni scossa non può che squilibrare la bilancia della giustizia. Una donna bendata che corre: questo sta dipingendo Titorelli. Prima che una dea, è un enigma, di cui non si intravede la soluzione. Solenne? Derisoria? Soltanto questo si lascia osservare con certezza: la dea della Giustizia si riconosce subito, la dea della Caccia si scopre [262] per ultima. Forse preannunciando il significato ultimo, esoterico del tribunale?
Josef K. e K. incontrano le rivelazioni decisive mentre stanno seduti sul bordo di un letto. Così K. sul letto di Bürgel; così Josef K. sul letto di Titorelli. Meno importante, ma sempre significativo, sedersi accanto a un letto. Così Gardena accanto al letto di K. nella stanza delle serve; così K. accanto al letto del sovrintendente. Quanto sia determinante anche la posizione che si assume sul letto si osserva nel comportamento di Titorelli. A lui non basta che K. sieda sul bordo del letto. Piuttosto, «lo spingeva dentro il piumino e i cuscini». Solo quando K. affonda in mezzo al letto, Titorelli gli pone «la prima domanda concreta». Dice: «Lei è innocente?». K. risponde: «Sì».
Il bordo del letto è la soglia di un altro mondo. E in tale altro mondo occorre sprofondare perché si possa porre la domanda più diretta e più essenziale. Solo nello studio di Titorelli, in quella tana opprimente lunga e larga due passi, solo in quell’aria viziata potranno risuonare quelle parole. Ma anche ciò che Titorelli afferma non si era mai prima udito. Innanzitutto: «Il tribunale non si lascia smuovere». Se ha visto una colpa, nessuno potrà persuaderlo che quella colpa non c’è. Per via indiretta, questa è una preziosa replica alla dichiarazione di innocenza appena pronunciata da K. In secondo luogo: le ragazzine corrotte che giocano sulle scale e hanno guidato K. da Titorelli «appartengono al tribunale». Anzi, precisa il pittore, «tutto appartiene al tribunale». Con le sue maniere cerimoniose e indifferenti, e soprattutto aggiungendo queste ultime parole, «metà per scherzo, metà per spiegare», Titorelli [263] ha offerto a K. rivelazioni che sarebbero di grande peso, se K. non le ritenesse, per sua invincibile diffidenza, «non credibili».
Ma poco dopo anche K., che del tribunale si è già fatto una sua «opinione», sebbene continui a interrogare capziosamente Titorelli tentando di «scoprire contraddizioni» nelle sue parole, dirà qualcosa sul tribunale che, nella sua asciuttezza, si presenta come un giudizio ultimo: «Un unico carnefice potrebbe sostituire l’intero tribunale». Quel carnefice è la morte stessa, che agisce senza bisogno di istruttorie e sentenze, così come la dea della Caccia, che K. aveva creduto di riconoscere nel quadro che sta sul cavalletto di Titorelli, colpisce dall’intrico della foresta, senza che un giudizio preliminare la autorizzi. K. ha percepito lucidamente che il tribunale è il luogo dove la dea della Giustizia e la dea della Caccia si sovrappongono, fino a coincidere. Titorelli insinua che nella stessa figura si potrebbe riconoscere anche la dea della Vittoria. Ma è un’aggiunta superflua. Vittoria si dà, per il tribunale, in ogni istante in cui il mondo esiste.
Agli occhi dell’industriale che per primo parla di lui a Josef K., Titorelli è un postulante, «quasi un mendicante», come in linea di principio ogni artista. Agli occhi di K. è innanzitutto un «pover’uomo» esattamente come K. stesso apparirà agli occhi di Titorelli. Eppure quel «pover’uomo» è l’unico che ha accesso immediato, attraverso il suo mestiere, al passato più remoto, alle «leggende».
Di leggende si giunge a parlare quando Titorelli spiega a K. che esistono assoluzioni di tre tipi: «l’assoluzione reale, l’assoluzione apparente e la procrastinazione». Titorelli non conosce alcun caso di assoluzione [264] reale. Ma sa che assoluzioni reali «devono comunque esserci state», almeno per i casi giudiziari tramandati dalle leggende.
Quando, nel Processo, si parla di «leggende» è come si parlasse del mito, parola che Kafka qui non usa. Forse perché contiene qualcosa di superfluo e di scolastico. Le leggende sono storie che trattano di giudizi altrimenti inaccessibili: le antiche sentenze del tribunale, che «non vengono pubblicate». Già questo dovrebbe renderle preziose. C’è però un abisso che ci separa da quelle leggende. Certo, sono «molto belle» – addirittura gli si può attribuire «una certa verità» (e qui sentiamo fremere, dietro le parole di Titorelli, la secolare disputa sul mito: Platone ci osserva), «ma non sono dimostrabili». E che cos’è un tribunale, se non il luogo dove si offrono prove? È possibile allora, chiede K., «davanti al tribunale richiamarsi a tali leggende?». Certamente no, risponde il pittore. E addirittura ride. Terribile riso. Il tribunale è immerso nelle leggende, già nei ritratti dei suoi giudici – e quelle leggende sono l’unica via d’accesso a una parte della sua storia. Se non altro, hanno bellezza e «una certa verità». Ma non possono essere usate, perciò «è inutile parlarne», conclude K.
Questa feroce amputazione ha molte conseguenze: innanzitutto diventerà vano pensare all’«assoluzione reale». Perché di assoluzioni reali si tratta soltanto nelle leggende – e di leggende è inutile parlare. È come se il mondo accettasse, con un semplice gesto, di abolire una parte di se stesso. E fra l’altro quell’unica parte dove l’aggettivo «reale» è applicabile. Tutto il resto del mondo, che finirà presto per essere considerato la totalità del mondo, è diviso fra «assoluzione apparente» e «procrastinazione». All’interno di quel mondo qualcosa è provabile, ma [265] non è sicuro che sia reale. E certamente non sarà «reale» l’assoluzione che vi si può ottenere. Nell’angusto, soffocante studio di Titorelli, in poche battute fra due persone che si sono appena incontrate si è arrivati a una conseguenza capitale: in nome della realtà, prescindere dalla realtà. Come subito dirà K., con la sbrigatività di chi persegue un risultato palpabile: «Allora prescindiamo dalla assoluzione reale». Che cosa rimane? L’assoluzione apparente e la procrastinazione. Esse soltanto trovano applicazione. Soltanto di esse è utile parlare. Nel frattempo Titorelli viene incontro a K.: «Ma non vuole togliersi la giacca, prima che ne parliamo? Deve avere un gran caldo». K. annuisce – e dice: «È quasi insopportabile». È quasi insopportabile soprattutto perché K. si è spinto troppo vicino a capire qual è la sua situazione. Così, nel momento in cui si appresta a trattare ciò che più potrebbe essergli utile, ha «la sensazione di essere totalmente isolato dall’aria». E qui comincia una breve, densa diatriba fra lui e Titorelli su aria, nebbia, finestre, calore, porte. Come quando nel Castello ci si sofferma a parlare di vestiti, così nel Processo tutto ciò che ha a che fare con finestre, aria e respiro è il segnale che ci si trova in zona altamente sensibile, vibrante.
Ciò che K. vuole conoscere è irrespirabile. Titorelli lo sa – e annuisce «come se capisse molto bene il malessere di K.». L’aria viziata, opprimente dello stambugio di Titorelli ora è pronta a espandersi sulla vasta landa dell’assoluzione apparente e della procrastinazione.
Che le leggende non siano usabili come prova indica una loro debolezza intrinseca – o un loro privilegio? [266] Poiché le leggende trattano di «antichi casi giudiziari» per i quali «le sentenze finali del tribunale non vengono pubblicate», si può presumere che l’inutilizzabilità delle leggende come prova dipenda dall’impossibilità di verificare ciò che affermano. D’altra parte, la formulazione di Titorelli non dice soltanto che un tempo le sentenze finali del tribunale non venivano pubblicate. Il pittore afferma che mai le sentenze del tribunale vengono pubblicate. Se così è, non solo le leggende ma anche tutte le altre prove, di qualsiasi tipo, sarebbero inadeguate. Mancherebbe sempre la possibilità di una verifica. Quanto alle leggende, sarebbero però gli unici testi che almeno «contengono assoluzioni reali», quindi che incorporano alcune di quelle sentenze finali. Certo, le leggende potrebbero essere tutte un’impostura. Ma potrebbero anche essere l’unico vestigio sopravvivente delle sentenze finali del tribunale. L’unico vestigio di qualcosa di «reale», in un mondo che è isolato dalla realtà come K. lo è dall’aria.
A lungo, durante la parte più lunga della loro storia, il mito fu per gli uomini la fonte prima del sapere. Poi divenne una sequenza di storie insidiose e vane, significativa soltanto per capire come gli uomini erano vissuti nel passato. Altre erano diventate le fonti del sapere. Ciò che il mito prima raccontava, ora si dimostrava e si applicava. Ma qualcuno si accorse che una parte del sapere del mito era rimasta sigillata all’interno del nuovo sapere. Poco male, pensarono i più. Sapremo qualcosa di meno sul nostro passato. Ma che importa il passato, quando abbiamo di fronte l’immensità del presente? Alcuni però insistevano. Si erano accorti che quella parte [267] inaccessibile del mito trattava delle «sentenze finali del tribunale». E nessun altro testo ne trattava, perché quelle sentenze «non vengono pubblicate». Nacque così in pochi la speranza che attraverso i miti si potesse venire a conoscere qualcosa che altrimenti non si sarebbe mai riusciti a scoprire. I più lo ritennero una grave illusione. Ma non potevano provare che lo fosse, perché gli mancavano recenti sentenze del tribunale che potessero contrapporre a quelle antiche. Infatti le sentenze tuttora non venivano pubblicate. Intanto il mondo continuava a essere avviluppato in processi e sentenze, mai definitive però. I processi erano tutti visibili, le sentenze tutte provvisorie. Sottratta ogni realtà, tutto era un intreccio di apparenza e procrastinazione.
Perché le assoluzioni reali non vengono pubblicate? Perché si vuole tutelare un segreto, perché «il tribunale supremo» vuole proteggere il suo esclusivo diritto di «assolvere definitivamente» in modo tale da ribadire la sua inaccessibilità? Nulla infatti è così inaccessibile come ciò che non c’è. Questo sostengono molti, convinti che lo sbarramento del segreto serva soprattutto a consentire la massima libertà d’azione nelle sfere più alte. Ma, per quanto plausibile e seducente, questa spiegazione coglie solo l’aspetto più esteriore e più facile del segreto. Il cui fondamento appare quando Titorelli descrive che cosa accade nell’evenienza di una assoluzione reale: «Tutti gli atti processuali devono essere accantonati, scompaiono totalmente dal procedimento, non solo l’accusa, anche il processo e persino l’assoluzione vengono distrutti, tutto viene distrutto». Se tutto viene distrutto, si capisce anche perché l’assoluzione reale non venga mai resa pubblica: [268] perché è stata distrutta nel momento stesso in cui si è manifestata. L’estinzione dell’atto – e qui, ancora una volta, si travalica il senso evidente di «atto giudiziario» e traspare il significato letterale: quello di atto come karman – è l’unica via d’uscita dal processo, conseguente all’esercizio, da parte dei giudici supremi, del «grande diritto di liberare dall’accusa». Tutto il resto è fatto di cappi che si allentano o si stringono, secondo la volontà dei giudici ordinari, che dispongono soltanto del «diritto di sciogliere dall’accusa».
Quanto alle assoluzioni apparenti: è chiaro che coprono una vasta parte delle possibilità – e Titorelli lascia capire che a quell’ambito appartiene la soluzione più congeniale a Josef K. Tipica dell’assoluzione apparente è la sua caratteristica di concedere il temporaneo sollievo di una vittoria, ma all’interno di un continuo angoscioso. Chi ottiene una assoluzione apparente e torna a casa soddisfatto non può mai essere sicuro di non trovarvi qualcuno incaricato di imputargli di nuovo la stessa accusa. L’accusa, per sua natura, tende a rimanere «viva» e «continua ad aleggiare» sull’imputato come un volatile tenebroso. Non meraviglia se, «appena viene l’ordine superiore», può di nuovo «entrare subito in azione». E qui Titorelli accenna a un punto cruciale: un processo può sfociare in una sentenza, ma «il procedimento permane attivo». Il processo è solo una teatralizzazione temporanea di qualcosa che non si arresta mai, anzi «prosegue nel suo moto pendolare, con oscillazioni più o meno ampie, con intoppi più o meno gravi» – ed è il «procedimento». Con la sua descrizione minuziosa Titorelli non fa che confermare la visione che K. ha avuto poco prima: [269] «Un unico carnefice potrebbe sostituire l’intero tribunale». Dietro tutto il suo imponente apparato, il tribunale è «privo di scopo». E comunque non serve all’accertamento della colpa, visto che in tutti i casi fin dall’inizio «il tribunale è fermamente convinto della colpa dell’imputato». Perché allora il tribunale sussiste? Non potrebbe un unico carnefice risparmiare quelle interminabili sequenze di atti che hanno tutte un termine già stabilito? E non somiglia questo a dire che ogni vita potrebbe subito essere conclusa dalla morte, senza bisogno di svilupparsi in ogni sorta di ramificazioni e fronde? A questo forse Titorelli sarebbe stato pronto ad accennare una risposta, se K. non avesse avuto tanta fretta di precipitarsi fuori da quello stambugio soffocante. Ma per tornare a respirare dove? Nei corridoi del tribunale, con i quali la stanza era in comunicazione attraverso la porta dietro il letto del pittore.
Nel suo lavoro alla banca, K. ha a che fare con leggi e tribunali di ogni genere. E quella pluralità gli procura sollievo, perché circoscrive ogni potere. Parlando con Titorelli, si accorge invece che le sue convinzioni sono errate. Tutto converge verso un solo tribunale – e quel tribunale si espande ovunque. Ma più sconcertante ancora della sua onnipresenza è il suo mimetismo. Il tribunale è pervasivo, eppure si può anche non notarlo. Si può anche confonderlo con altri tribunali. Ciò che fa il tribunale è capillarmente noto, ma al tempo stesso non si è tenuti a saperlo. Del processo a K. sono al corrente in molti, ma soltanto perché molti hanno qualcosa a che fare con il tribunale. Altrimenti sarebbe un segreto. Questo è il vero terrore: che vi sia una vita normale e proceda senza scosse, ma che all’interno di essa vi [270] sia un’altra vita, dagli scopi radicalmente diversi, e operi tranquillamente, quasi protetta dall’involucro della vita normale. Se così è, non sarà più possibile riferirsi a una normalità, e ancor meno a una natura, perché l’una e l’altra saranno sospette di servire soltanto di copertura a un altro processo, che segue tutt’altro corso. E ha tutt’altro significato.
«Nessun atto va perduto, il tribunale non dimentica nulla»: è sempre Titorelli che parla. Tutto si accumula e concresce. Ma sussiste qualcosa di definitivo, trasparente, indubitabile, nel corso di questo immane processo fatto di processi? Non si direbbe. Le assoluzioni reali vengono distrutte nel momento stesso in cui sono pronunciate. E le condanne? Non ci sono. Al di fuori del vuoto lasciato dalle assoluzioni reali distrutte si danno soltanto casi di assoluzioni apparenti, quindi per loro natura mai definitive, perché «il procedimento permane attivo», come tizzoni sotto la cenere; e casi di procrastinazione, dove il processo viene mantenuto accortamente «nel suo stadio più basso», in modo che non si giunga mai a una sentenza e all’eventuale condanna. Il processo dei processi sembra alla fine incapace di produrre non solo assoluzioni, ma condanne. Eppure Josef K. verrà condannato e ucciso nel modo più atroce, «come un cane». Un giorno il segretario Bürgel, che è una controparte secolare del cappellano del carcere, spiegherà a K. che «ci sono cose che rovinano a causa di null’altro che di se stesse».
Anche se «tutto appartiene al tribunale», soltanto in due casi si dice di qualcuno che appartiene al tribunale: Titorelli lo dice delle ragazzine corrotte che [271] lo circondano, il sacerdote nel duomo lo dice di se stesso. Le ragazzine irridono Josef K., il sacerdote si mostra «gentile» verso di lui più di chiunque altro prima. In entrambi i casi, si tratta di manifestazioni del tribunale, che non possono essere incompatibili fra loro. Al più, svolgeranno funzioni diverse all’interno dello stesso «grande organismo». Altrimenti cadrebbe l’intera costruzione, dove invece sappiamo che «tutto è connesso» e agevolmente «rimane immutato» anche in presenza di un qualsiasi disturbo. Forse ora si può cominciare a capire le parole che un giorno il cappellano dirà a K.: «Non si deve prendere tutto per vero, lo si deve prendere solo per necessario». Non c’è nulla di più strano, di più sviante, di più ingannevole della necessità. In questo senso K. ha buoni argomenti per affermare: «La menzogna diventa l’ordine del mondo». Ma, nel momento in cui diventa tale, la menzogna si diffonde su ogni manifestazione, perciò anche sul giudizio che la colpisce. Senza saperlo, in quel momento anche Josef K. appartiene al tribunale e alla sua menzogna.
Ci sono sempre almeno due mondi. E fra di essi non si dà contatto diretto. Anche se si racconta che quel contatto può occasionalmente prodursi, come un evento fuori da ogni norma. E incombe sempre, sotto forma di presagio. Riconoscibile anche in una porta disegnata nella parete. Josef K. l’aveva notata nello stambugio di Titorelli. Subito si era chiesto quale funzione avesse. Poi qualcuno gli aveva detto che gli uffici del tribunale erano in comunicazione con la stanza del pittore. Quella porta era l’intercapedine più sottile fra i due mondi. Parlando con Titorelli, Josef K. aveva raggiunto la massima vicinanza possibile al tribunale. Ma diffidava, così come [272] K., nel profondo della notte, esitava a credere alle parole del funzionario Bürgel. Una porta simile a quella nello studio di Titorelli si può presentare così: «Nel mio appartamento c’è una porta a cui non ho mai fatto caso. Sta nella camera da letto, sulla parete che confina con la casa vicina. Non ho mai pensato niente in proposito, anzi non me ne sono nemmeno reso conto. Eppure è ben visibile, la parte inferiore è coperta dai letti, ma si spinge molto più in alto, quasi non è una porta, quasi è un portone. Ieri è stata aperta. Stavo in sala da pranzo, che un’altra camera separa dalla camera da letto. Ero venuto a pranzo molto in ritardo, a casa non c’era più nessuno, solo la domestica che lavorava in cucina. Allora è cominciato il chiasso nella camera da letto. Mi precipito subito di là e vedo che la porta, la porta sino a quel momento a me ignota, viene aperta lentamente e al tempo stesso, con una forza gigantesca, i letti vengono spostati. Grido: “Chi è? Che cosa volete? Piano! Attenzione!” e mi aspetto di veder irrompere una torma di uomini violenti, invece è soltanto un giovane magro che, appena la fessura basta a farlo passare, scivola dentro e mi saluta allegramente». Quando scriveva, Kafka non sapeva mai se dalla fessura del muro sarebbe uscita «una torma di uomini violenti» o un «giovane magro» che poteva anche somigliargli tanto da essere indistinguibile.
XIII
VISITE ALL’AVVOCATO
[275] Josef K. va dall’avvocato Huld per ritirargli il mandato. Gli spiega che all’inizio gli capitava anche di dimenticarsi totalmente del processo, «se qualcuno non glielo ricordava in certo modo con violenza». Mentre ormai, dice, «il processo mi incalza sempre più da vicino». Nel testo: immer näher an den Leib rückt, alla lettera: «mi si accosta al corpo sempre più da vicino». E K. precisa: förmlich im Geheimen, «in modo del tutto segreto». Il processo è una macchina che si avvicina sempre più al corpo dell’imputato. Quando giunge a toccarlo, incide la sentenza, come la macchina nella colonia penale. Ma per ora nessuno vede la macchina, eccetto l’imputato stesso. Questa visione terrorizzante, che già accenna alla conclusione della storia, viene sprigionata dal fatto che una metafora morta (l’espressione an den Leib rücken) ha ripreso vita – e non più come metafora, ma come descrizione letterale di ciò che accade.
[276] Con i suoi grandi occhi neri, tristi e un po’ sporgenti, con il suo viso rotondo di bambola, con il suo lungo grembiule bianco, Leni presiede a ciò che avviene nello studio dell’avvocato Huld e nella camera da letto, che è come sempre il luogo delle rivelazioni. Il suo ruolo è insieme di infermiera e carceriera. Per gli imputati, distribuisce piacere e castighi. È la guardiana della loro metamorfosi, che li immerge sempre più nella colpa e così esalta la loro bellezza. Come Gardena o Frieda rispetto al Castello, Leni è profondamente addentro ai misteri del tribunale. Ogni sua parola è preziosa e allusiva. Ma sarebbe illusorio pensare di averla dalla propria parte. Se Leni ama tutti gli imputati e con loro è irresistibilmente promiscua, ciò non implica che voglia aiutarli. Leni è l’eros della legge, che avvolge amorosamente coloro a cui si applica, prima di colpirli.
Leni si dà a tutti gli imputati, per principio, perché li trova tutti belli. «Si attacca a tutti, li ama tutti, e a quanto pare sembra anche amata da tutti», come Uṣas con coloro che accolgono desti l’aurora e le offrono il primo dei sacrifici. Poi Leni torna dall’avvocato Huld e gli racconta qualcosa delle sue avventure, «per intrattenerlo». Certo, aggiunge l’avvocato, per riconoscere la bellezza degli imputati occorre avere «lo sguardo giusto». E giusto è certamente quello che si espande dai «grandi occhi neri» di Leni, già nel momento in cui appaiono per la prima volta a Josef K. dietro lo spioncino di una porta, dando l’impressione, forse ingannevole, di essere «tristi». Ma Leni, ci si accorgerà, sta dietro qualsiasi porta, come una ventosa che aderisce al mondo visibile. Il contatto con il corpo di Leni garantisce agli imputati che la loro bellezza sta fiorendo, che il [277]procedimento sta operando su di loro. In questo il tribunale è equo. Attraverso Leni riconosce che suo fondamento è l’attrazione sessuale per la colpa.
«C’era un silenzio totale. L’avvocato beveva, K. premeva la mano di Leni e Leni osava a tratti carezzare lievemente i capelli di K.». Anche in un’altra occasione Leni affonderà le dita «con grande delicatezza e prudenza» fra i capelli di Josef K., così come nella mescita i signori affondano le dita fra i boccoli di Pepi, certo con minore delicatezza, anzi «con frenesia». È il sigillo dell’intimità e del processo: di qualcosa di oscuro che si sta compiendo.
K. è colui che aspetta, che osserva – e intanto cerca un’altra via, premendo la mano di Leni: la via delle donne. Leni non lo scoraggia. Anzi, azzarda un gesto amoroso. Nel silenzio, l’avvocato Huld beve il suo tè «con una sorta di rapacità». Chino sulla tazza, sembra ignorare quello che lo circonda. Ma sentiamo che nulla gli sfugge.
Nelle scene in cui a Josef K. viene concessa una «visione del sistema giudiziario» ben più dettagliata di quella che usualmente ottengono le parti – e questo accade durante i dialoghi con Titorelli e con Huld – ci sono sempre orecchie femminili che ascoltano di nascosto. Le ragazzine corrotte, dietro le fessure dello studio di Titorelli; Leni, che appare nella camera da letto di Huld «quasi nello stesso istante in cui suona il campanello», poiché evidentemente origliava alla porta. La presenza femminile dietro la scena segnala il suo carattere iniziatico. Le ragazzine corrotte di Titorelli hanno anche l’impudenza di intervenire, come sacerdotesse tracotanti. Ingiungono [278] al pittore di non fare il ritratto di «un uomo così brutto» come K. Forse perché K. è ancora «un nuovo, un giovane» del processo, e il suo processo stesso è ancora «giovane», perciò il «procedimento» non ha avuto modo di far presa pienamente su di lui e di estrarre alla luce la sua bellezza? Forse perché K. è ancora troppo grezzo e deve essere fatto maturare, affinare dal «procedimento»?
Tutti i procedimenti giudiziari, nella loro imponente macchinosità, scrupolosità e gradualità, sono soltanto propedeutici a un giudizio che è immediato e estetico. Se tale vogliamo considerare il giudizio fisiognomico, quello che decide dell’innocenza o colpevolezza «sulla base del volto dell’imputato, e in particolare del disegno delle labbra». O, almeno, questo dice una superstizione, che Block giudica «ridicola». Ma al tempo stesso si premura di aggiungere che, secondo vari imputati, Josef K. sarebbe stato «condannato certamente e presto», condanna che desumevano «dalle sue labbra». Ma la superstizione è davvero una sciocchezza? O è «il deposito di tutte le verità», come scriveva Baudelaire? Se così fosse, la colpa non risiederebbe più in una qualche volontà, consapevole o inconsapevole, delle persone. Ma nella loro forma stessa. Allora gli avvocati, e anche il tribunale, avrebbero il compito di aiutare a rendersi palese una condanna che sussiste da sempre.
Quello che nel Castello è la parte, nel Processo è l’imputato. Lieve oscillazione, in fondo: è chiaro che ogni parte è innanzitutto colpevole. L’eros dominante è quello che muove dall’alto verso il mondo [279]esterno ed escluso: dal tribunale verso l’imputato, dai funzionari del Castello verso le parti. Eros di predatori, che avvertono il profumo dell’ignoto. Parallelo all’eros di chi appartiene al mondo esterno, all’informe apparenza – quindi le parti e gli imputati – e vorrebbe addentrarsi nel luogo dell’autorità e della legge. Squilibrio insanabile fra queste due traiettorie. Una giunge sempre, magari per vie lente e tortuose, alla sua meta. L’altra, quasi mai.
La colpa accresce la bellezza? Una domanda così audace forse non era mai stata posta. Ma è costretto a porsela Josef K., ascoltando l’avvocato Huld che parla dal suo letto. «Gli imputati sono i più belli»: questa è l’esperienza indubitabile a cui Huld si riferisce. Ma come spiegarla? È la gravità della colpa a stabilire l’intensità della bellezza? Ciò non può essere, precisa Huld, come spaventato: «Non può essere la colpa che li rende belli». Ma subito aggiunge: «Così per lo meno devo parlare in quanto avvocato». Questo inciso svuota di significato l’affermazione precedente. Infatti un avvocato, per dovere d’ufficio, deve innanzitutto sostenere l’innocenza dei suoi clienti. E perciò deve negare comunque che la loro innegabile bellezza sia dovuta alla colpa, che in questo modo ammetterebbe. Ma da che cosa dipenderà allora? Qui Huld avanza un’ipotesi che è forse ancora più allarmante dell’altra: «Può dipendere soltanto dal procedimento in corso contro di loro, che in qualche modo fa presa su di loro». È vero allora ciò che poco prima aveva osservato il commerciante Block, «quel verme miserabile» (parola di Huld) che partecipa anch’egli della bellezza degli imputati. Block aveva appena detto a K.: «Lei deve riflettere sul fatto che in questo procedimento si rendono [280] continuamente esplicite cose per le quali l’intelletto non basta più». Lasciando da parte la questione della colpa, e senza che alcun argomento valido sia stato ancora sollevato contro il suo inscindibile nesso con la bellezza, si è arrivati a supporre che il «procedimento» in sé, fra i suoi vari aspetti che vanno oltre le capacità dell’intelletto, abbia il potere di far presa sull’aspetto fisico degli imputati, come l’opus alchemico sulla prima materia. Il processo in senso giuridico è dunque un processo in senso generico, nel corso del quale una materia si trasforma. Quella materia è l’imputato. E la colpa sembra essere lo stato originario di ogni materia. Quanto più il procedimento incide sulla vita dell’imputato, tanto più l’imputato è bello, tanto più si può supporre che la sua colpa sia grave. E la maturità, la perfezione della bellezza è quel télos che significa anche fine, morte: l’esecuzione capitale. Si può supporre che in quel momento la bellezza dell’imputato sia abbagliante.
Josef K. si è accorto presto, con sgomento, che tutti sono al corrente del suo processo. Ma questo, fa notare l’avvocato Huld al suo cliente, non significa che il procedimento sia pubblico. Certo, lo può diventare, «se il tribunale lo ritiene necessario, ma la legge non lo prescrive».
A questo punto potrebbe svelarsi a Josef K. il nuovissimo arcaismo della sua situazione. È vero, ci sono state epoche in cui non si distingueva tra privato e pubblico. E altre in cui non si possedevano neppure quelle nozioni. Poi si svilupparono regole e definizioni sempre più precise per circoscrivere i significati e gli ambiti di quelle due parole. Che ora però sembrano di nuovo doversi applicare a una situazione indistinta, mentre al tempo stesso si continua [281] a fare ricorso alle varie differenze elaborate nei secoli. Tutti sono al corrente che Josef K. è sotto accusa, ma «l’atto d’accusa è inaccessibile all’imputato e alla sua difesa», perciò la prima memoria difensiva potrebbe toccare «soltanto per caso qualcosa che ha importanza per la causa». Se si osserva la situazione da una certa distanza, e una volta acquisita la sua snervante elusività, non si può negare che riveli una singolare coerenza: si tratta innanzitutto, in ogni procedimento, di tutelare la sovranità dell’ignoto. Ignotum per ignotius sembra essere il motto del tribunale. Qualsiasi mossa che, dalla parte dell’imputato, dovrebbe produrre un certo controllo, seppur parziale, sulla causa (Sache), che per la lingua tedesca è anche la cosa, viene successivamente scoraggiata, respinta, irrisa. Proseguendo, l’avvocato Huld giunge a esporre al suo cliente il principio che regge tutto: «Il procedimento in generale non soltanto è segreto per il pubblico, ma anche per l’imputato». Ciò che in primo luogo viene escluso è la conoscenza in sé. Il procedimento, per sua natura, è un fiume sotterraneo. Che a tratti si renda visibile a un imputato, al suo avvocato, a un pubblico, è un puro accidente. Tutto potrebbe cominciare e finire senza rendersi manifesto. L’imputato potrebbe vivere e morire senza sapere né di essere sotto processo né di essere condannato. E forse anche senza accorgersi che la condanna viene eseguita. Dal punto di vista dell’ordinamento generale, non cambierebbe molto.
Quel giorno l’avvocato Huld doveva essere in vena di rivelazioni se concesse al suo cliente perfino qualche scorcio della vita dei funzionari. Intanto non è vero che, dato il loro potere, abbiano vita facile. E occorre ricordare, perché è un fatto in sé notevole, come «i signori prendono straordinariamente [282] sul serio il loro mestiere» e possono perfino cadere in una «grande disperazione» se si trovano davanti a «ostacoli che per loro natura non possono superare». Ma quale sarà la natura dei funzionari, dei signori? Difficile dirlo, perché dall’esterno del tribunale la si può riconoscere solo in parte. Ma certo è che «ai funzionari mancano contatti con la popolazione», ed è appunto per questo che paradossalmente i signori si presentano talvolta negli studi degli avvocati, categoria in genere maltrattata e spregiata. Evidentemente vogliono sapere qualcosa del mondo, sospettano di non avere «il giusto senso dei rapporti umani». Forse perché «continuamente costretti, giorno e notte, all’interno della loro legge». È come se i funzionari anelassero ad avere a che fare con il mondo esterno – e allora, per comprensibile prudenza, si affacciano su un terreno intermedio, certamente ambiguo e infido: gli studi degli avvocati. Ma, se la loro vita è piena di incertezze e smarrimenti verso l’esterno, altrettanto ardua si mostra quando si volge verso l’interno. E qui, ancora una volta, Huld espone con magnanima condiscendenza un principio generale, che è prezioso per orientarsi: «La gerarchia e la successione verso l’alto dei gradi del tribunale sono infinite e anche per l’iniziato non dominabili». Appartenere al tribunale significa soltanto trovarsi su uno dei suoi gradini, senza sapere quanti vengano prima e soprattutto quanti vengano dopo. La stessa situazione di obbligatoria ignoranza che è peculiare dell’imputato si riproduce in qualche misura (anche questa non accertabile) all’interno del tribunale. Così il procedimento che usualmente – come già Huld ha rilevato – è segreto per l’imputato può rivelarsi tale anche «per i funzionari inferiori». Anche per loro (di nuovo: come per l’imputato) «la causa giudiziaria [283] appare nel loro campo visivo senza che molte volte essi sappiano da dove proviene, e va avanti senza che sappiano verso dove».
Quanto più Huld accenna alla ristrettezza del campo visivo dei singoli – si tratti degli imputati, degli avvocati o dei funzionari di rango inferiore –, tanto più si spalanca, per contrasto, la visione dell’immensità dell’insieme. Il tribunale è davvero un «grande organismo», un vasto animale cosmico di cui si riesce a cogliere l’imponenza, non però il profilo. Qualsiasi evento accada, «questo grande organismo giudiziario in certo modo rimane eternamente sospeso» (ma dove, ci si domanda, in quali regioni del cielo?) e, se mai qualcosa lo intacca o lo ferisce, «esso si procura facilmente da sé una compensazione altrove per il piccolo disturbo – tutto infatti è connesso – e rimane immutato, anzi se mai, ed è ben verosimile, diventa ancora più chiuso, ancora più attento, ancora più severo, ancora più cattivo». Queste righe potrebbero riferirsi, punto per punto, alle capacità autoregolatrici di un cervello, alle emanazioni di un pleroma divino, alle modalità operative di una rete informatica o di un cifrario segreto. Ma ciò che più colpisce, in queste parole di Huld, prima ancora che ci soffermiamo sull’identità dell’oggetto, è l’accenno ai suoi caratteri psichici. Il «grande organismo» di cui si parla è innanzitutto un sistema chiuso, che respinge ogni «proposta di miglioramento», quali di fatto soltanto gli esseri più ingenui, che sono immancabilmente gli imputati, soprattutto se ancora freschi e nelle prime fasi dei loro processi, si azzardano a presentare. E qui l’avvocato Huld ha la delicatezza di non usare come esempio di questo comportamento sconsiderato il suo stesso cliente Josef K. Ma la descrizione gli si attaglierebbe perfettamente.
[284] Inoltre il «grande organismo» è attento. Questa costanza della veglia è la qualità suprema dell’organismo, quella da cui ogni altra dipende. Il «grande organismo» è cosciente, acutamente cosciente, perennemente cosciente. Ogni attacco non può che esaltare la sua capacità di presenza mentale. Perciò – ed è questo il consiglio più utile di Huld – occorre «soprattutto non attirare l’attenzione». Come i Greci verso i loro dèi, coloro che più conoscono il «grande organismo» si distinguono per la loro abilità nel passare inosservati. Se già i funzionari sono «irascibili», tanto più si può supporre lo sia il «grande organismo» di cui essi sono minuscole cellule. Nominata l’attenzione, si è nominata la chiave di volta nella vita dell’organismo: la sua ininterrotta vita mentale. Ma questo implica qualche conseguenza nel comportamento: innanzitutto il «grande organismo» sarà «severo». E perché mai? C’è un patto fra la veglia e la legge. Anzi, si può anche supporre che la legge sia la paredra della veglia, come se la veglia non fosse concepibile se non congiunta a una legge. La pura contemplazione, appagata di sé, senza alcuna funzione di controllo, evidentemente è esclusa. Ma questo introduce all’ultimo carattere del «grande organismo»: una certa malvagità. Per un oscuro meccanismo, che Huld non pretende neppure di sfiorare, alla veglia è connesso un carattere punitivo, una occhiuta volontà di colpire. Sarebbe concepibile una veglia che non punisce? Che non abbia bisogno di accompagnarsi al rigore di una legge? Su questo Huld non si pronuncia – e aggiunge soltanto il consiglio che gli interessa, ben fondato sulle sue parole precedenti: «Lasciamo dunque lavorare l’avvocato, invece di disturbarlo».
[285]Il commerciante in granaglie Block si fa difendere dallo stesso avvocato di Josef K. sia in «cause d’affari» sia in un processo del genere di quello che K. subisce. Questo suscita subito l’interesse di K., che gli chiede: «Allora l’avvocato accetta anche cause comuni?». Alla risposta affermativa di Block, K. sembra sollevato: «Quel collegamento fra tribunale e scienze giuridiche apparve a K. estremamente rassicurante». Fino a quel momento un sospetto corrosivo si annidava in K.: che il tribunale nulla avesse a che fare con la legge e con i codici. Forse era soltanto un possente e impenetrabile apparato sovrapposto alla prassi e alla terminologia giuridica, ma nel fondo del tutto separato, retto da altri presupposti. La risposta di Block in un primo momento è «rassicurante», perché fa apparire meno estranea e opaca l’esistenza del tribunale stesso. In fondo, potrebbe essere uno dei tanti tribunali, del quale K. per ragioni accidentali non fosse venuto prima a conoscenza. Ma, già il momento dopo, quelle parole aprono la via a un sospetto ancora più disturbante: il tribunale potrebbe sì appartenere alle «scienze giuridiche» e il fatto di passare al suo ambito da quello delle cause comuni potrebbe anche essere agevole, un’abitudine fra le tante di certi uomini di legge, ma così come è possibile sedersi tranquillamente a un caffè senza accorgersi che si è circondati soltanto da comparse mascherate. E un altro sospetto si insinua: se tutti i tribunali che trattano le «cause comuni» fossero solo una ingombrante e sviante copertura per l’unico vero tribunale, quello che giudica K. e preferisce mimetizzarsi fra i tribunali normali?
Block è l’ebreo assimilato che capita «sempre male a proposito», anche se è stato «chiamato». Qualsiasi [286] gesto faccia è sbagliato, eppure corrisponde scrupolosamente al gesto prescritto. Soltanto a lui può venire in mente di gloriarsi perché «ha studiato con precisione che cosa richiedono la decenza, il dovere e il costume giudiziario». Chi mai se non lui può prefiggersi di «studiare» che cosa richiede la «decenza»? Questa è già un’ammissione indecente.
Il commerciante deve subire da Josef K., che comunque si trova nella sua stessa condizione di imputato, quelle oscillazioni violente fra l’attrazione e l’avversione che subivano gli ebrei assimilati nel periodo fra le prime emancipazioni e Hitler. K. ascolta con la massima attenzione i racconti di Block, chino verso di lui. Ha l’impressione che stia dicendo «cose molto importanti» e che sappia anche raccontarle. Eppure, pochi istanti dopo, «improvvisamente K. non sopportò più la vista del commerciante». C’è qualcosa di spudorato in Block nel mostrare la sofferenza. K. lo guarda e pensa che certamente il commerciante aveva esperienza, «ma quelle esperienze le aveva pagate care». Block è una calamita che attira le umiliazioni. È come se sul suo corpo si fosse depositato quel supplemento di incertezza, di fatica e di ansia a cui non sfugge l’ebreo della grande città.
Nelle lettere a Milena, Kafka volle parlare una volta di ebrei in modo diretto e diffuso. Scriveva per rispondere a una domanda di Milena che lo aveva preso alla sprovvista e doveva sembrargli inverosimile («Lei mi chiede se sono ebreo, forse è soltanto uno scherzo»). L’occasione era perfetta. Scrisse: «La posizione incerta degli ebrei, incerta in sé, incerta fra gli uomini, dovrebbe rendere comprensibile più di ogni altra cosa per quale motivo essi possono credere di possedere soltanto ciò che tengono in [287] mano o fra i denti, che inoltre soltanto il possesso tangibile dà loro diritto alla vita e che ciò che hanno perso una volta non lo riacquisteranno mai più, ma si allontanerà beatamente da loro per sempre. Dalle parti più improbabili gli ebrei sono minacciati da pericoli o, se vogliamo essere più precisi, lasciamo stare i pericoli e diciamo “sono minacciati da minacce”». Di Block si aveva l’impressione che tenesse le sue carte processuali «fra i denti». E comunque mai lontano dagli occhi. Nella stanza senza luce dove Block dormiva «c’era un incavo nel muro, all’altezza della testiera del letto, e lì stavano scrupolosamente ordinati una candela, calamaio e penna, e anche un fascio di carte, probabilmente carte processuali».
L’umiliazione volontaria di Block davanti al letto dell’avvocato Huld, e in presenza di Leni e di Josef K., è un’empia parodia della devozione monoteistica, rispetto a cui ogni vignetta antisemita appare timida. Per questo la scena «quasi degradava lo spettatore» – e il lettore.
Già entrando nella stanza da letto, Block non riesce a guardare l’avvocato, «come se la visione dell’interlocutore fosse troppo abbagliante perché la potesse sostenere». Da questo punto in poi, ogni gesto assume una risonanza ulteriore, che è biblica, devozionale, rituale. Block comincia a tremare, l’avvocato gli parla volgendogli la schiena. Il volto sarebbe una visione insopportabile. Block mostra di volersi inginocchiare sullo scendiletto di pelle. L’avvocato e il commerciante si scambiano queste battute: «“Chi è il tuo avvocato?”. “Lei” disse Block. “E all’infuori di me?” chiese l’avvocato. “Nessuno all’infuori di lei” disse Block. “Allora non seguire [288]nessun altro” disse l’avvocato». È una professione di fede. Il suo modello è Mosè davanti a Yahweh. Poco dopo Block si inginocchia sullo scendiletto: «“Mi inginocchio, mio avvocato” disse». Poi, incoraggiato da Leni, bacia la mano dell’avvocato, per tre volte. Leni allunga il suo corpo flessuoso per chinarsi sulla testa di Huld e sussurrargli qualcosa. Forse intercede per Block, perché l’avvocato gli parli. Ora l’avvocato comincia a parlare e Block lo ascolta «con la testa abbassata, come se ascoltando trasgredisse un ordine (Gebot)». Ma Gebot è anche «comandamento». A quel punto K. ha la sensazione più acuta e decisiva: la scena non si sta componendo davanti ai suoi occhi, ma è la ripetizione di qualcosa «che si era già ripetuto molte volte, che si sarebbe ripetuto ancora molte volte e che soltanto per Block poteva non perdere la sua novità». Questa è una definizione del rito. Anzi, è la definizione del rito che rende evidente la sua affinità con la nevrosi ossessiva, secondo Freud.
L’avvocato e Leni, complici affiatati, vogliono condurre Block all’abiezione ultima, che è l’esecuzione di gesti rituali per un fine alieno. Questa è la profanazione più sottile. E Block li asseconda. Allora lo trattano come un animale in gabbia, un po’ schifoso. L’avvocato lo aveva già definito «quel verme miserabile». Ora chiede a Leni: «Come si è comportato oggi?». Leni risponde alla maniera di una governante disegnata da John Willie, corpetto di cuoio e frustino in mano: «È stato quieto e diligente». L’obiettivo di Huld era di trasformare il cliente in «cane dell’avvocato». Block era l’esempio che veniva mostrato a K. come modello e anticipazione di ciò che egli stesso sarebbe diventato. «Se [l’avvocato] gli avesse ordinato di strisciare sotto il letto come in una cuccia per cani e di mettersi ad [289] abbaiare da lì, lo avrebbe fatto con piacere». Perché l’abiezione si cristallizzi, occorre che i gesti devozionali si saldino al repertorio dei gesti animali.
Leni prosegue nella descrizione della giornata di Block, osservato dallo spioncino della sua cella. «Era sempre inginocchiato sul letto, aveva aperto sul davanzale della finestra gli scritti che gli hai prestato e vi leggeva». Magro, minuto, con folta barba, inginocchiato davanti a un testo, ora Block ci appare come un hasid immerso nella Torah. Secondo Leni è un segno di obbedienza all’avvocato: «Questo mi ha fatto una buona impressione; la finestra infatti si apre soltanto su un cavedio e non dà quasi luce. Che Block ciò nonostante leggesse mi ha mostrato quanto è obbediente». A questo punto si insinua Huld come una perfetta spalla che sa esacerbare una situazione, anche quando sembra già estrema: «Ma almeno capisce quello che legge?». E Leni di rimando, con tempismo: «Comunque ho visto che leggeva a fondo». Se c’è un’immagine che nei secoli ha distinto gli ebrei è quella del leggere a fondo. Un ebreo che legge, come in Rembrandt, sembra avere una carica di intensità, di concentrazione superiore a ogni altro. Che questa sia l’immagine sottintesa da Leni si conferma subito dopo: «Per tutto il giorno ha letto la stessa pagina e mentre leggeva seguiva le righe con il dito». Leni ha in mente le piccole mani d’argento che servono a tenere il segno nella Torah. Block non ne possiede una, non possiede più niente, ma rinnova il gesto. La sua vita, ci assicura Leni, è ormai fatta soltanto di studio, «quasi ininterrotto». Se si interrompe, è per chiedere un bicchiere d’acqua – e lo ha fatto «solo una volta». Allora, aggiunge Leni, «gli ho dato un bicchiere attraverso lo spioncino». Sappiamo che Leni può essere anche «affettuosa» con Block. Non gli nega un bicchiere [290] d’acqua. Dopo tutto, persino su di lui si rifrange la bellezza dell’imputato.
Mentre Leni e l’avvocato si davano il cambio nella loro messa in scena, sempre inginocchiato sullo scendiletto di pelle Block «si muoveva più liberamente e si spingeva sulle ginocchia da una parte e dall’altra». Erano segni di soddisfazione, come di un cane, perché aveva l’impressione che stessero raccontando «qualcosa di lusinghiero» su di lui. Buon momento per proseguire la tortura – e l’avvocato lo coglie al volo. Dice a Leni, con tono di rimprovero: «Tu lo lodi. Ma proprio questo mi rende difficile parlare. Il giudice infatti non si è pronunciato favorevolmente, né su Block né sul suo processo». A questo si voleva arrivare. E, come un commediante trascinato dalla sua parte, Huld va oltre, racconta certi suoi dialoghi con il giudice. Traendone pretesto per umiliare ulteriormente Block, con l’aria di difenderlo. Fra l’altro, riferisce, avrebbe detto al giudice: «Certo, [Block] come persona non è piacevole, ha brutte maniere ed è sporco, ma dal punto di vista processuale è irreprensibile». Anche questa crudeltà, che potrebbe sembrare superflua, ha una sua funzione: affina la tortura. Non c’è dubbio, Block «ha raccolto molta esperienza» di processi. Di quella esperienza e di nient’altro ormai è materiata la sua vita. A questo punto l’avvocato sferra l’ultimo attacco: «Che cosa direbbe se venisse a sapere che il suo processo non è neppure cominciato?». Il colpo è duro: nella sua natura di cane, Block comincia ad agitarsi, vuole addirittura rialzarsi. Poi rinuncia e si accascia di nuovo sulle ginocchia. E l’avvocato è pronto a rassicurarlo: «Non spaventarti per ogni parola … Non si può cominciare una frase senza che tu guardi uno come se ora venisse il tuo [291] giudizio finale». Di nuovo un accenno escatologico. E l’avvocato insiste: «Che paura insensata! Da qualche parte devi aver letto che il giudizio finale in certi casi viene all’improvviso da una qualsiasi bocca in un momento qualsiasi». È vero, Block deve avere letto qualcosa di simile. Si può dire anche dove. Ora l’avvocato conferma che, «seppure con molte riserve, è senz’altro vero». Nulla è così esasperante, nulla così beffardo come le riserve dell’avvocato. Che ora assume un tono accorato, perché vede nell’atteggiamento di Block «una mancanza della necessaria fiducia». Con questo rimprovero si direbbe che l’avvocato abbia concluso la sua perorazione. Eppure, c’è ancora un dettaglio letale che manca. In fondo, l’unica pretesa residua di Block è quella di capire. Capire – magari una minima parte ma pur sempre qualcosa del processo che ormai è tutta la sua vita e forse, come gli è stato appena detto, non è mai cominciato. Ed è proprio quella furia angosciosa di capire che «ripugna» a Huld. Per ferirla a morte, l’avvocato si decide allora a esporre il presupposto segreto, anzi strettamente esoterico, della sua attività. Ed eccezionalmente, a quel punto, si rivolge in modo diretto a Block: «Lo sai che le diverse opinioni si accumulano intorno al procedimento fino a renderlo impenetrabile». Voler capire è soprattutto inutile. E questa è la vera fine. «Imbarazzato», Block affonda le dita nella pelle dello scendiletto. Pensa e ripensa a quel che ha detto il giudice. Leni sente che è giunto il momento di chiudere la scena. Solleva Block prendendolo per il bavero della giacca. E gli ordina: «Ora lascia stare la pelle e ascolta l’avvocato».
[292] Le umiliazioni, i tormenti subiti da Block servono all’avvocato Huld per mostrare a Josef K., come in una lezione di anatomia, che cosa lo aspetta. Non solo la situazione di Block è affine a quella di K. e ne prefigura gli sviluppi, quando il suo processo sarà un po’ più stagionato. Ma – e questo è il punto più vulnerante – la persona Block è quanto di più vicino a K. Di fatto, Block è fino a quel momento l’unico altro imputato con cui K. si sia intrattenuto a lungo. In lui è obbligato a riconoscersi come in uno specchio repellente. E, se K. si comporta ancora verso Block come un signore che tiene a mantenere tutte le possibili distanze, subito Block stesso gli ribatte, con un guizzo da animale ferito e con velenosità concentrata: «Lei non è una persona migliore di me perché anche lei è imputato e anche lei ha un processo. Se, nonostante questo, lei è ancora un signore, allora lo sono anch’io allo stesso modo, se non addirittura un signore ancora più grande». Senza dire mai la parola «ebreo», impronunciabile nel Processo, Block vuole mettere questo in chiaro con K.: Tu sei un ebreo assimilato quanto lo sono io. È inutile che ostenti di disprezzarmi, anche tu esisti «sempre male a proposito».
Ogni volta che Josef K. si duplica, è in una figura che lo imbarazza – e alla fine gli fa orrore: nella vita normale, che è la vita dell’ufficio, nel vicedirettore; nella vita da imputato, in Block. Quando K. viene convocato per telefono al primo interrogatorio, chi sta aspettando di prendere la linea è il vicedirettore, che subito gli dice: «Cattive notizie?», senza alcuna ragione, «ma per distogliere K. dall’apparecchio». E subito invita K. a una gita in barca a vela, esattamente quella domenica in cui K. dovrà subire l’interrogatorio. [293] Quanto a Block, con il quale K. condivide l’avvocato difensore Huld, appena K. si propone di disfarsi dell’avvocato scopre che Block se ne è cercati altri cinque, anzi sei. E, se K. si prospetta di dover dedicare il più delle sue energie al processo, con Block scopre che questi da tempo dedica tutte le sue energie al processo, e che si è progressivamente ritirato dagli affari «investendo tutto quello che aveva nel processo». Nonché ritirandosi anche dal suo ufficio, fino a occupare solo una «cameretta sul retro, dove lavora con un apprendista». Certo, K. all’inizio trova Block «ridicolo», ma poi è «interessatissimo» a ciò che ascolta da lui. Non sarà Block la più attendibile fonte di informazioni sul processo, passa ora per la mente di K.? Anche Block, quando il suo processo «aveva all’incirca la stessa età» di quello di K., «non era molto contento» dell’avvocato Huld. Si direbbe quasi che K. ripercorra, passo per passo, il cammino di Block. Per questo K. «aveva ancora molto da chiedere e non voleva essere trovato da Leni in quella conversazione confidenziale con il commerciante». E addirittura giunge a pensare, mentre Block racconta: «Qui vengo a sapere tutto», sensazione che non ha avuto né parlando con Titorelli né con Huld. È questo il punto dove la figura di Block e quella di K. quasi si sovrappongono. Ma permane sempre una differenza: Block ha affidato all’avvocato il compito di scrivere le memorie per il tribunale. K. invece vuole rivendicare il compito a sé. K. vuole scrivere da solo ciò che lo riguarda. E poi: Block ritiene di aver accertato che comunque le memorie sono «del tutto prive di valore». K. è convinto che una sola memoria, se scritta da lui, possa essere risolutiva. Sarà la sua «grande memoria». Ma, a parte questa differenza, K. ora è pronto a riconoscere che Block è un «uomo di un certo valore, per lo meno aveva esperienze che sapeva trasmettere bene». E [294] Block, infaticabile, continua a parlare. «È tanto caro quanto chiacchierone» osserva Leni tornando in scena. A K. non sfugge che Leni «parlava con il commerciante affettuosamente, però anche con degnazione».
Se Josef K. non fosse stato risvegliato, una mattina, da una guardia vestita con «abiti da viaggio», che cosa sarebbe successo di lui? Forse avrebbe continuato la sua carriera in banca e un giorno sarebbe morto, senza accorgersi di nulla. O forse un giorno sarebbe stato raggiunto da un sogno che finalmente avrebbe al tempo stesso illuminato e dissolto la sua situazione, sogno che venne sognato da Kafka sette anni dopo la stesura del Processo: «Mio fratello ha commesso un delitto, credo un assassinio, io e altri siamo coinvolti nel delitto, il castigo, la risoluzione, la liberazione vengono da lontano, si fanno avanti di prepotenza, da molti segni si osserva il loro inarrestabile avvicinarsi, mia sorella, credo, annuncia ogni volta questi segni, che io ogni volta saluto con esclamazioni rapite, il rapimento cresce quanto più si avvicinano. Le mie singole esclamazioni, brevi frasi, pensavo che per la loro evidenza non avrei mai potuto dimenticarle e ora non ne so più nessuna con precisione. Potevano essere solo esclamazioni perché parlare era per me un grosso sforzo, dovevo gonfiare le guance e insieme storcere la bocca, come per un mal di denti, prima di riuscire a emettere una parola. La felicità consisteva in questo, che il castigo arrivava e io gli davo il benvenuto in modo così libero, convinto e felice, visione che doveva commuovere gli dèi, anche questa commozione degli dèi la sentivo quasi sino alle lacrime».
[295] Perché gli dèi si commuovano e al tempo stesso si commuova chi li contempla occorre che giunga, annunciato da segni imperiosi, il castigo. È la sola occasione in cui si può essere sicuri che gli dèi e l’uomo provino lo stesso sentimento. E, poiché il castigo consegue a un assassinio commesso da un uomo, il castigo – in quanto bene accetto sia agli uomini sia agli dèi, anzi capace di commuoverli in ugual modo – potrebbe essere ciò che in altre epoche era stato chiamato sacrificio.
XIV
INTERROGATORI NOTTURNI
[299] Il segretario Bürgel affiora appena da sotto le coperte, in una stanza angusta dell’Albergo dei Signori, occupata principalmente dal suo letto. Per il resto, c’è solo un comodino con un lume. K. entra per sbaglio in quella stanza e si siede sul bordo del letto. Ciò che Bürgel dice si perde nella caligine della spossatezza che avvolge K. Ed è quanto di più rivelatore sia stato detto sul Castello. Alla fine, mentre tenta di cambiare posizione, oppresso dal sonno, K. afferra un piede di Bürgel, «che sporgeva sotto la coperta». È l’unico contatto che avrà con un rappresentante del Castello, quindi con il Castello stesso. E Bürgel non ritrae il suo piede, «per quanto la cosa dovesse essere fastidiosa». K. allora si addormenta e Bürgel si accende una sigaretta: «Si abbandonò sui cuscini e guardò il soffitto facendovi salire il fumo» – Kafka aggiunge in un passo cancellato. Questo è, per K., il punto di massimo avvicinamento alla sua meta. Dorme, stringendo il piede di un funzionario. E il funzionario non si nega, come anche il [300] Castello non si nega. Il Castello si lascia toccare, ma da chi è profondamente immerso nel sonno provocato dall’ossessiva ricerca di un contatto con il Castello.
Nulla ha senso se non in rapporto al Castello. Perciò occorre stabilire un contatto con il Castello. Ma un contatto costante con il Castello rende invivibile la vita. Lo stesso, all’inverso, vale per i rappresentanti del Castello. I funzionari si occupano costantemente di quella parte che è il mondo al di fuori del Castello. Se ne occupano con un lavoro incessante che è arduo distinguere dall’inerzia. Ma non tollererebbero mai di avere sempre di fronte a sé la parte. Anzi, la sfuggono in tutti i modi, ricorrendo a ogni sorta di astuzie. C’è solo una striscia di tempo indominabile, quella degli interrogatori notturni, in cui qualcosa di imprevisto e soverchiante può accadere. Essenziale è che, di regola, nessun contatto avvenga.
Le parole con cui Bürgel, dal suo letto, congeda K. sono anche le uniche parole miti – e disperanti – che il Castello concede a quella parte che è il mondo: «No, perché mai dovrebbe scusarsi per la sua sonnolenza? Le forze fisiche arrivano soltanto fino a un certo limite, che ci può fare uno se proprio quel limite è pieno di significato anche per altri versi? No, nessuno ci può far niente. Così il mondo si corregge nel suo corso e mantiene l’equilibrio. Questa è una istituzione eccellente, di un’eccellenza che ogni volta torna ad apparire inconcepibile, anche se sconsolata sotto un altro aspetto». Qui, improvvisamente, attraverso il paffuto funzionario Bürgel, l’ordine del mondo prende la parola. E non si tratta di un generico ordine delle cose, ma è il vedico ṛta che affiora intatto (Il Castello è il suo romanzo). Che cosa potrebbe mai minacciarlo? Se per caso qualcuno – e [301] non è questo che accade a K. – riuscisse a «districarsi dal sonno». Allora che cosa succederebbe? Il mondo perderebbe il suo equilibrio – questo desumiamo dalle parole di Bürgel. O almeno il mondo non riuscirebbe più a correggere omeostaticamente il suo corso. Ma perché? Che cosa può temere il mondo dallo stato di veglia di un singolo uomo? Questo Bürgel non dice, ma lascia capire che quel meccanismo regolatore dell’ordine del mondo è in sé qualcosa di «eccellente». Che altro si può chiedere, che vada oltre l’eccellenza? La veglia perenne non potrebbe che disturbare quel meccanismo. Forse guastarlo per sempre.
Certo, l’«istituzione eccellente», se vista da un altro angolo, è «sconsolata», trostlos. Forse se vista dall’angolo delle parti (che è poi l’angolo di tutti, perché ciascuno è con uguale diritto una parte)? Anche questo non ci viene detto. L’ordine del mondo si dichiara laconicamente – e di rado. Ciò che preme a Bürgel è mostrare, per la prima volta, che all’autorità non è ignota l’indulgenza. Ma in un solo caso: il Castello è mite e comprensivo soltanto verso chi è già esausto. Il Castello non chiede giustificazioni a chi è allo stremo delle proprie forze fisiche – e nulla ha raggiunto.
Uno dei più misteriosi aforismi di Zürau: «Il bene è in un certo senso sconsolato (trostlos)». In gewissem Sinne, «in un certo senso». Iva, avrebbero detto i veggenti vedici.
L’organizzazione del Castello è «senza lacune», dice il segretario di collegamento Bürgel. Ed è una «grande, vivente organizzazione». Ma i suoi funzionari [302] soffrono di una perenne spossatezza. «Qui tutti sono stanchi» osserva ancora Bürgel. Perché? Una angoscia li rode, in ogni istante: il pensiero che qualcuno possa trovare una lacuna, che «un granello, singolare e formato in modo particolarissimo, piccolo e abile» riesca a scivolare attraverso l’«impareggiabile setaccio» del Castello. Basterebbe questo a ledere la sua capacità di non essere intaccato dal mondo. Allora accadrebbe l’evento più inverosimile: quel «granello», quindi la parte, con il suo carico di «povera vita», si troverebbe d’un tratto a «dominare tutto». E null’altro avrebbe da fare che «presentare in qualche modo la sua richiesta, il cui adempimento è già pronto, anzi si sporge verso di essa». Verrebbe così a cadere la stessa ragion d’essere dell’organizzazione, che sta in primo luogo nell’operare e nel vigilare perché nessuna richiesta venga esaudita. Una barriera inesorabile deve separare la mente che formula un desiderio e l’apparizione dell’oggetto del desiderio. È questo che giustifica l’imponenza dell’organizzazione. Chiunque le si avvicini avverte che in essa «molto è predisposto per terrorizzare». Ma egli non sa che è sufficiente il suo avvicinarsi all’organizzazione perché il terrore si diffonda anche al suo interno, tra le file dei funzionari. Su quei due terrori, paralleli e indifferenti l’uno all’altro, si regge il corso del mondo.
Nella sua appassionata perorazione Bürgel risponde a molte domande fra le più azzardate, ma evita quella che è all’origine di tutte le altre: come mai i segretari devono adoperarsi, con ogni possibile accorgimento, perché non avvengano gli interrogatori notturni – e perciò non si crei per la parte l’occasione, seppure improbabile, in cui la sua richiesta potrebbe [303] essere soddisfatta? La richiesta della parte è un desiderio, un atto mentale. Se al desiderio fosse garantito (e bürgen è il verbo di Bürgel) l’adempimento, il mondo non sarebbe più refrattario alla mente. Non offrirebbe più la sua misteriosa, opaca superficie. Ogni atto mentale sarebbe efficace. Tutto si ridurrebbe a un incrociarsi di turbini teurgici. Ma non perderebbe così il mondo la sua avventurosità, quella suprema incertezza che deriva dal fatto di non obbedire alla mente? Forse Bürgel non ha voluto precisarlo, per delicatezza, ma non è escluso che a questo pensasse quando, subito prima di congedarsi da K., aveva definito il mondo come istituzione «eccellente» e al tempo stesso «sconsolata». Il Castello, lasciava capire il funzionario, non è benevolo né malevolo. O almeno: non lo è più di quanto lo sia la costituzione stessa del mondo.
Al dialogo di Josef K. con il cappellano nel duomo corrisponde la conversazione notturna di K. con Bürgel nella camera da letto di quest’ultimo. In tutti e due i casi l’elemento risolutore è la spossatezza. Che in tutti e due i casi sopraggiunge appena è stata toccata l’acme della lucidità. La spossatezza di K. è come lo sgomento di Arjuna dinanzi all’epifania di Kṛṣṇa, come l’ammutolire di Giobbe quando Yahweh evoca il Leviatano. Ma a quei silenzi davanti a una visione soverchiante si sostituisce un’invincibile sonnolenza, più adatta a un’epoca che non riesce a inchinarsi alle epifanie ed è ormai avvezza a non incontrarle.
A ciò che si dimostra fa seguito ciò che si mostra: l’epifania. E ciò che si mostra è immensamente più potente. Fosse anche il sonno. Perché in questo caso non è nulla di meno del «mondo che si corregge [304]nel suo corso e mantiene l’equilibrio», utilizzando l’occasionale o costante torpore dei suoi abitanti.
Le persone che appartengono al tribunale sono variamente losche, abili nel tormentare, dubbie in ogni loro parola e aspetto. Il solo che da questi tratti si discosta è il cappellano del carcere, «giovane uomo dal viso glabro, scuro», dalla «voce possente ed esercitata», che fa risuonare parole solenni nella vasta cavità della cattedrale. Dopo averlo ascoltato, Josef K. gli dice: «Tu sei un’eccezione fra tutti quelli che appartengono al tribunale». Il cappellano non commenta, però nelle sue parole di congedo da K. ribadisce: «Anch’io appartengo al tribunale». Ma qual è allora il volto segreto del tribunale? È quello austero e solitario del cappellano o quello delle ragazzine sulle scale di Titorelli, che rivelano «una mescolanza di infantilità e abiezione» ? Eppure anche delle ragazzine si dice che «appartengono al tribunale».
Attorno a questo punto ruota la storia di Josef K.: il tribunale è un inganno? Il cappellano lo nega, appena scende dal pulpito e si mette a parlare con K. al suo livello: «Sul tribunale ti sbagli». E a tali parole fa seguito immediatamente la «storia» dell’uomo di campagna e del guardiano, che si trova «negli scritti introduttivi alla Legge». La storia tratta appunto di «tale inganno» (quello in cui K. è caduto nel considerare il tribunale stesso un inganno) e il cappellano la presenta come esempio per sfuggirgli. K. però riconosce l’inganno all’opera anche in quella storia: innanzitutto verso l’uomo di campagna che si presenta davanti alla porta della Legge; ma anche verso il guardiano stesso, come K. riconosce [305] alla fine, sulla base delle argomentazioni «ben fondate» del cappellano. «Ora credo anch’io che il guardiano viene ingannato» conclude K. E questo gli sembra una conferma dell’altro inganno, perché «se il guardiano viene ingannato, allora il suo inganno dovrà necessariamente trasferirsi all’uomo». Il cappellano nulla gli concede e fa osservare che «nella lettera del testo» della storia «non vi è nulla sull’inganno». La conversazione procede ora come attirata, dalle due parti, verso uno sbocco: «“No,” disse il cappellano “non si deve prendere tutto per vero, lo si deve prendere solo per necessario”. “Malinconica opinione” disse K. “La menzogna diventa l’ordine del mondo”». All’inizio l’inganno investiva il tribunale, poi la storia del guardiano della Legge, ora finalmente l’ordine del mondo: invece di dissiparsi, l’inganno si è espanso sino ai confini del tutto. Ma, se l’inganno è il tutto, che cosa allora non lo è?
Alla sprezzante affermazione di K. il cappellano non obietta, «anche se certamente non concordava con la sua opinione». E la conversazione ora si estingue, senza aver raggiunto una conclusione. Anche per K., la sua frase non è un «giudizio finale». Ma con quelle parole un passo avanti si è compiuto, forse quel passo oltre i «due passi» che il cappellano rimproverava a K. di vedere a mala pena davanti a sé. Ora non si tratterebbe più di parlare né di tribunale né di legge, ma di «ordine del mondo», Weltordnung, espressione passibile di un uso inappariscente, per designare le regole della vita di ogni giorno; e di un uso metafisico, per designare l’ordine che tiene insieme ciò che è. Ma proprio a questo punto, in cui tutto, comunque venisse inteso, dovrebbe cambiare nome, K. si ferma.
Ciò che blocca Josef K. dopo la frase sull’ordine [306] del mondo è una invincibile spossatezza, della stessa specie di quella che coglierà K. nella conversazione notturna con Bürgel. Allora Bürgel aveva congedato K. con parole rivelatrici, che riguardavano appunto l’ordine del mondo. Parole che si applicavano anche alla situazione di Josef K. nella cattedrale. Appena il pensiero si spinge sino ad affrontare «l’ordine del mondo», questo stesso lo copre con una caligine che gli è preziosa, perché soltanto «così il mondo si corregge nel suo corso e mantiene l’equilibrio». Artificio «di inconcepibile eccellenza», ma anche «sconsolato», dice Bürgel, in parallelo con Josef K. che definisce «malinconica», trübselig, la visione esposta dal cappellano sulla necessità che va sostituita alla verità. Se il pensiero di K. rimanesse desto e vigile, il mondo ne sarebbe disturbato, come lo fu Josef K. quando un ignoto si presentò nella sua camera per arrestarlo. E allora sarebbe il mondo a subire il processo. Ma non è questa un’ipotesi che si vanifica da sola? O è semplicemente un altro romanzo? Certo è che, quando Josef K. si rende conto di essere «troppo stanco per poter seguire tutte le conseguenze della storia» (la storia del guardiano della Legge), perché «essa lo conduceva per sentieri inusuali del pensiero», egli riconosce anche come su quei sentieri siano più adatti ad avventurarsi i funzionari del tribunale che non lui stesso. Eppure, ancora pochi momenti prima li aveva descritti come esseri prevenuti («hanno tutti un pregiudizio contro di me») e a tal punto lussuriosi che, «se mostri al giudice istruttore una donna da lontano, quello travolgerà il suo tavolo e l’imputato solo per raggiungerla al più presto».
[307] Molti hanno scritto glosse e commenti alla storia del guardiano della Legge, che il sacerdote racconta a Josef K. nell’oscurità del duomo. La più lunga e convincente glossa è stata scritta da Kafka stesso – ed è Il Castello. Per intenderla, occorre innanzitutto sostituire, in quella storia, la parola «Legge» con la parola «Castello». E poi leggere tutto Il Castello.
L’incanto del Castello sta anche nel suo distaccarsi dalla legge, nella sua capacità di rendere quella parola superflua, perché implicita. Ora, più che di leggi si parla di regole, come se tali regole costituissero un livello ulteriore rispetto alla legge. Se lo si confronta con il dialogo fra il cappellano e Josef K., il monologo di Bürgel si distingue innanzitutto perché non si concede alcun richiamo ad antiche storie e non abbandona mai il suo terreno apparentemente arido: quello delle pratiche amministrative. Non c’è filosofia o teologia a cui appellarsi, al massimo una consuetudine. Eppure, la parola di Bürgel assume a tratti un pathos che è assente nel sacerdote, anche se dovrebbe essergli familiare: il pathos dei Vangeli. L’ordine sembra abbandonare a poco a poco, in quelle parole, le sue varie intelaiature difensive – e sceglie di mostrarsi quasi come appare a se stesso, nella sua solitudine e nel suo desiderio insopprimibile di accogliere qualcosa di estraneo al suo tautologico autismo.
Con la testa appoggiata su un braccio steso sulla spalliera del grande letto di Bürgel, unico oggetto nella stanza a parte il comodino con un lume, K. ascolta le parole più lucide, più nette che abbia udito [308] sul Castello. E sono anche le uniche parole che trattano del Castello dall’interno, con cautela, esplicitando i dubbi e il senso di impotenza a risolverli che il Castello produce nei suoi funzionari stessi, i quali sentono di non avere «la giusta distanza» per offrire risposte. Ma chi allora avrebbe la «giusta distanza»? L’ostessa dell’Albergo dei Signori? O il conte Westwest? O forse K. stesso?
Tuttavia, ebbro di stanchezza, K. giudica Bürgel «dilettantesco». E deve sforzarsi di non «sottovalutarlo», come gli verrebbe spontaneo – in modo simile a come Josef K. spontaneamente diffidava di Titorelli. Intanto le parole di Bürgel precipitano verso il segreto. Rivelano a K. ciò di cui nessuno prima gli ha parlato e da cui tutto dipende. Perché, per esempio, i segretari sono tenuti a «condurre di notte la maggior parte degli interrogatori al villaggio» ?
Il pericolo principale degli «interrogatori notturni» sta in questo: che in tali occasioni tendono a cadere le barriere tra parti e funzionari. Allora comincia a filtrare qualcosa che prima non era ammesso – innanzitutto «sofferenze e ansie» delle parti –, le resistenze si allentano e alla fine può anche avvenire uno «scambio assolutamente improprio delle persone». Allora le parti diventerebbero funzionari e vice-versa. In piena notte, come in un passo di danza, là dove erano i segretari verrebbero a trovarsi le parti che ogni giorno li assediano. Si compirebbe così un rovesciamento inaudito e l’ordine subirebbe una lesione: nei suoi snodi più delicati si infiltrerebbe ciò che perennemente gli è esterno. Allora la pura accidentalità della singola parte assumerebbe la voce della necessità. Non ci può essere rischio più grande.
[309] Non è certo che gli interrogatori notturni facciano danno – e lo stesso Bürgel parla di loro «svantaggi forse solo apparenti» –, ma certo è che fanno paura. Sono l’ombra perenne delle regole. Perciò i funzionari prendono «misure» per difendersene. Proprio perché si trovano nei gradi più bassi della scala gerarchica – quelli più vicini alle parti –, i segretari hanno sviluppato una «sensibilità straordinaria per questo genere di cose» e inventano di continuo accorgimenti per ridurre i rischi. Sono «tanto capaci di resistere quanto vulnerabili». Nella loro postazione di confine, sanno come ogni ordine – per quanto onnipresente e flessibile – contiene un punto di rottura. Che si manifesta in certe rare occasioni in cui «attraverso una parola, attraverso uno sguardo, attraverso un cenno di fiducia si può raggiungere di più che attraverso gli sforzi sfibranti di tutta una vita». Certo, aggiunge Bürgel, quei momenti «non vengono mai sfruttati» – e questo sicuramente fa parte dell’ordinamento generale delle cose. Ma, per una sensibilità esacerbata come quella dei segretari, è sufficiente che quelle «occasioni» esistano. Qualcosa le accomuna a K., «agrimensore senza lavoro di agrimensore». Che però esiste e potenzialmente disturba. La sua situazione viene considerata «sorprendente», e forse inquietante, poiché – vuole precisare Bürgel – «qui da noi le cose non sono certo messe in modo tale che si possa lasciare inutilizzata una capacità tecnica».
Qual è il rapporto fra regole e interrogatori notturni? È vero che gli interrogatori notturni non sono prescritti da alcuna regola, ma è vero anche il fatto che il corso stesso delle cose – «la sovrabbondanza del lavoro, il tipo di occupazione che hanno i [310] funzionari nel Castello, la loro scarsa accessibilità, la prescrizione che l’interrogatorio delle parti avvenga solo una volta completate le indagini usuali, però immediatamente dopo» –, tutto questo fa sì che tali interrogatori diventino una «imprescindibile necessità». Anzi – e qui Bürgel si azzarda a formulare una frase che forse altri suoi colleghi giudicherebbero empia: «Ma se [gli interrogatori notturni] sono diventati una necessità – io dico – questo è pur sempre, almeno indirettamente, un risultato delle regole».
Appena si nomina la necessità, ci si trova nella regione delle regole. Sicché «trovare da ridire sull’essenza degli interrogatori notturni» aggiunge Bürgel, quasi spaventato dalla sua audacia, equivarrebbe a «trovare da ridire sulle regole». Gli interrogatori notturni, queste entità abnormi e perniciose, sono dunque anch’essi frutto delle regole. Fanno parte della stessa famiglia. E già per questo si rivela infondata la pretesa che le regole si estendano a ogni angolo, che non esista altro che le regole e la loro «ferrea esecuzione e attuazione», secondo la formula usata da Bürgel. Accanto, sussisteranno sempre gli interrogatori notturni. E appunto di quella zona oscura, informe, sfuggente era andato in cerca, senza saperlo, K., poiché era l’unica che avrebbe potuto accoglierlo, con il suo strascico di vicende non limpide e con il suo peso di «sofferenze e ansie». Soltanto «nella notte» sarebbe stato possibile «giudicare le cose da un punto di vista più privato», che rendesse giustizia alla peculiarità della persona e delle sue vicissitudini. Che allora finalmente essa avrebbe potuto descrivere nella loro stranezza. Appunto in quel momento, però, stremato dal sonno, K. non riesce più neppure a riconoscere la voce di colui che gli sta rivelando tutto questo, non lo vede più neppure come una persona ma come «un qualcosa che gli impediva [311] di dormire e il cui significato ulteriore non riusciva a trovare».
Bürgel è lo psicopompo che introduce K. al segreto degli interrogatori notturni. Ma ogni segreto appare diverso a seconda dell’angolo da cui lo si guarda. Visti dall’angolo, altamente significativo, dell’ostessa dell’Albergo dei Signori, quindi dall’angolo dell’ufficialità, gli interrogatori notturni hanno tutt’altro carattere e motivi. Secondo l’ostessa, avevano «l’unico scopo di permettere ai signori di interrogare velocemente, di notte, alla luce artificiale, le parti, la cui vista avrebbero considerato del tutto intollerabile di giorno, mentre così subito dopo l’interrogatorio avevano la possibilità di dimenticare nel sonno ogni bruttura».
Il mistero ha sempre qualcosa di losco. Perciò i primi Padri cristiani usarono Eleusi come argomento principe per diffamare i pagani. Ma la visione dell’ostessa, come sempre quella dell’ortodossia, non era soltanto riduttiva. È vero che la «smisurata delicatezza dei signori» veniva messa a dura prova negli interrogatori notturni. Ed è plausibile che sentissero un certo ribrezzo davanti all’informe ammasso di singolarità che gli si presentavano, via via che le parti scorrevano davanti ai loro occhi, ciascuna potenzialmente capace di agitarli rendendo «difficile o addirittura impossibile mantenere pienamente il carattere ufficiale delle udienze». K. era appunto, secondo l’ostessa, un esempio fra i più deteriori di tutto questo. Non solo si era «beffato di tutte le misure di sicurezza». Non solo si era aggirato come uno spettro là dove non era concesso, ma – a differenza degli spettri – non aveva accettato di svanire la mattina, anzi era «rimasto lì, con le mani in tasca», come [312] se tutto il resto – i signori e le loro stanze – fosse un’apparizione qualsiasi ed egli stesso l’unica realtà. Non solo: alla fine aveva assistito alla distribuzione degli atti, cerimonia che si deve compiere «a porte quasi chiuse», opera talmente «importante e fondamentale» che neppure «l’oste e l’ostessa avevano mai potuto vedere, pur svolgendosi a casa loro». K., quell’impudente, sconsiderato, insinuante straniero, era dunque giunto, come per caso ma piuttosto per la sua perversa insistenza, ad assistere al vero arcano: la distribuzione degli atti, delle sorti – quella scena che un tempo si raccontava soltanto nelle leggende, ma nessuno aveva osato vedere. L’ultimo a raccontarla era stato Er il Panfilio. E Platone ci ha trasmesso il suo racconto.
I dialoghi più densi di rivelazioni per Josef K. e K. – quelli con Huld, con Titorelli, con Bürgel – sono incessantemente contrappuntati da qualcosa che si alterna, oppone, intreccia alla voce che parla. Intanto ci sono le spie femminili. Ogni parola di Huld, ogni parola di Titorelli sembra esigerle. Dietro la porta di Huld avvertiamo il lieve respiro di Leni. Dietro le fessure della porta di Titorelli si intravedono gli occhi delle ragazzine «corrotte» che infestano le sue scale. E una di loro continua a muovere «un filo di paglia lentamente su e giù» da una di quelle fessure. Soltanto le parole di Bürgel non sembrano essere disturbate, se non dal sonno e dai sogni di K. Qui avviene davanti ai nostri occhi quel fenomeno che è inevitabile associare con Kafka: l’osmosi fra sogno e realtà. Mentre Bürgel parla, K. cade in un sonno nel quale «udiva le parole di Bürgel forse meglio di quando in precedenza le ascoltava da sveglio [313]nella sua spossatezza». Ora che «la molesta coscienza era scomparsa», K. ascoltava parola per parola e insieme celebrava una vittoria, addirittura «alzava la coppa di champagne in onore della vittoria». Ma ancora una volta le parole rivelatrici esigono e evocano un contrappunto, anche se nel sonno. All’inizio non è una donna, né una ragazzina, ma «un segretario, nudo». È Bürgel? È un suo collega? Non si sa. Sicuro appare soltanto che quel segretario è «molto simile alla statua di un dio greco». E K. lo incalza, mentre il segretario tenta di nascondere le sue nudità, come una Artemis sorpresa al bagno. Poi udiamo la sua voce, mentre sul fondo continuano a sgranarsi le parole di Bürgel. Ed è una voce femminile: «Questo dio greco squittiva come una fanciulla a cui viene fatto il solletico». Anche questa volta il contrappunto ha una voce di donna.
Non c’è critico, dai più banali ai più grandi, che non abbia fatto ricorso al sogno per parlare di Kafka. Ma «sogno» – come «inconscio» – è in questo caso una parola inerte. Serve per interrompere il flusso del pensiero, più che per guidarlo. A meno che non si tratti di quella forma di sogno che Kafka delinea una volta nei Diari (e che potrebbe anche essere una eccellente descrizione del Castello): «Un sogno vastamente ramificato, che contiene contemporaneamente mille correlazioni le quali diventano chiare in un colpo solo». Ma questo è un modo in cui, nel sogno, viene raffigurata una certa qualità della veglia. Che la veglia stessa ha difficoltà a raggiungere, perché ottenebrata da una incoercibile volontà di controllo. Di veglia però si tratta sempre. Anche se, per un’ironia che si incontra nel mondo come in Kafka, la sua immagine più precisa e più [314] efficace non si raggiunge con lo sforzo continuo e consapevole, ma «in un colpo solo» nel sogno. Anche questa è un’astuzia della veglia.
Il sogno di K. accompagna la prosecuzione del monologo di Bürgel, ormai giunto al punto in cui si deve affrontare un caso estremo, l’unico che le parti – a dispetto di tutte le «misure di sicurezza» – potrebbero avere l’ardire di «sfruttare a proprio vantaggio». Si tratta della «debolezza notturna dei segretari», certo «una possibilità molto rara o per meglio dire che non si dà quasi mai». Ma forse questo diminuisce la sua gravità? Non certo per i segretari, che vivono piagati da quel pensiero. La possibilità «consiste in questo, che la parte si presenti in piena notte senza preavviso». Con questa frase, che evoca subito il «ladro di notte» evangelico, Bürgel sembra aver oltrepassato la soglia di ciò che può dire. Subito dopo, come ricadendo nella coattività del suo mestiere per coprire l’eccesso della sua rivelazione, si abbandona a una snervante disamina burocratica, addentrandosi nelle differenze tra segretari competenti e non competenti. Come scosso da un demone, si placa soltanto dopo un periodo di tredici righe. Ora le parole sono tornate, per un momento, a diffondere una spessa nebbia protettiva.
K., semiaddormentato, annuisce sorridendo. «Ora credeva di capire tutto esattamente». E questo significava soltanto che si sentiva vicino a ripiombare nel sonno, «questa volta senza sogni e disturbi». Troppo tediosa e tormentosa era quella «organizzazione senza lacune», come Bürgel stesso definiva il Castello, con gli sciami dei suoi segretari, competenti e no. Forse era meglio lasciare andare, non insistere. E così, finalmente, «sfuggire a tutti». È questo [315] l’unico punto in cui K. si avvicina a qualcosa di simile a una liberazione. Ma non c’è mai requie. Dopo essersi ritratto nel più rigoroso gergo d’ufficio, Bürgel sembra aver ripreso forza. Le sue rivelazioni non sono ancora finite.
Bürgel parla di un’eventualità rarissima, anzi «la più inverosimile fra tutte». E insieme descrive, come un fedele cronista, ciò che sta accadendo nell’istante stesso in cui parla. A questo esercizio di trascendentale acrobazia si giunge dopo aver attraversato tante e così sorprendenti volute argomentative che l’attenzione si è smussata e stenta a cogliere l’assoluta novità di ciò che accade. Quando Bürgel dice a K. che la parte, «per conto suo, non si accorge di niente. Esausta, delusa, irriguardosa e indifferente per sfinimento e delusione è penetrata, a quanto crede, probabilmente soltanto per un qualche indifferente, casuale motivo, in una stanza diversa da quella che voleva, e sta lì seduta, ignara, ed è occupata a pensare, se di qualcosa si occupa, al suo errore o alla sua stanchezza»: queste parole sono la meticolosa descrizione di ciò che sta accadendo in quegli stessi istanti a K., seduto sul bordo del letto di Bürgel – e, dietro K., nella mente del lettore, che forse si sta domandando quanto durerà ancora quella laboriosa digressione. Ma simultaneamente Bürgel sta descrivendo la rarissima eventualità per sfuggire alla quale si addensa l’imponente matassa dei regolamenti che governano la vita dei funzionari del Castello. La massima generalità e la più irriducibile singolarità per un istante vengono a coincidere. E così anche la più alta inverosimiglianza e la pura registrazione protocollare di un dato di fatto. L’evento è così prodigioso che Bürgel viene sopraffatto dalla «loquacità [316] di chi è felice». E si chiede: «Ma si può abbandonare la parte a quel punto? No, non si può». Anzi, «occorre spiegarle tutto». È questa l’acme del Castello. Ma potrebbe il Castello sopravvivere a una spiegazione totale di se stesso? Probabilmente no. O per lo meno rimarrebbe leso per sempre. Perché la richiesta esaudita della parte «addirittura lacera l’organizzazione degli uffici – e questa è la cosa peggiore che possa capitare a uno nella pratica». Ma non accadrà, perché K. è già sprofondato nel sonno e si è «chiuso a tutto ciò che accadeva».
Che un funzionario del Castello sia colto dalla «loquacità di chi è felice» è un evento inaudito, se non altro perché l’attrazione del Castello – e, per via di emanazione, dei suoi rappresentanti – risiede innanzitutto nel silenzio. Ogni volta che K. alzava gli occhi a guardare il Castello stesso, non riusciva ad avvertirvi «il minimo segno di vita». Questo poteva essere dovuto semplicemente alla distanza. Ma c’era qualcosa di più, perché quel segno «gli occhi lo desideravano e non volevano tollerare il silenzio». Pretesa azzardata.
A che cosa somigliava allora quel silenzio? «A qualcuno che sta tranquillamente seduto e guarda davanti a sé, non perché perduto in pensieri e perciò chiuso a tutto il resto, ma libero e noncurante; come se fosse solo e nessuno lo osservasse; eppure doveva notare di essere osservato, ma ciò non lo toccava minimamente nella sua quiete e di fatto – non si sapeva se fosse causa o effetto – gli sguardi dell’osservatore non potevano rimanere fissi e deviavano». Questa immagine del Castello si era formata un giorno in K. mentre stava calando un’oscurità precoce. Ed era l’immagine più precisa che il Castello avrebbe [317] concesso di sé. Ma sempre un’immagine. Andare di là dall’immagine è come bere di sotterfugio il cognac di Klamm, trasformando «qualcosa che era quasi soltanto veicolo di un dolce profumo in una bevanda da cocchieri».
Non solo il Castello sta dove sembrava esserci il vuoto, come è apparso a K. arrivando al villaggio. Ma il Castello è come un essere che guarda nel vuoto – o comunque fissa qualcosa che non offusca mai il suo sguardo «libero e noncurante». Due diverse figure del vuoto si fronteggiano. Non possono scontrarsi, perché un vuoto non può battersi con un altro vuoto. Ma un vuoto potrebbe entrare in un altro vuoto. Potrebbe lasciarsi assorbire dall’altro vuoto.
C’è un solo modo per vincere la partita con il Castello. E Bürgel, contravvenendo alla perpetua elusività dei suoi colleghi, lo ha descritto a K., quando gli ha parlato della possibilità di diventare «un granello, singolare e formato in modo particolarissimo, piccolo e abile», capace, una volta assunta tale forma, di scivolare attraverso quell’«impareggiabile setaccio» che è l’organizzazione del Castello. Sembrano istruzioni per evadere da una prigione perfettamente sorvegliata. Applicabili? Su questo punto Bürgel risponde a se stesso, anzi si dà due risposte, fra loro incompatibili. La prima: «Lei crede che questo non possa accadere? Ha ragione, non può accadere». Ma subito segue l’altra: «Però una notte – chi può garantire (bürgen) per tutto? – ciò accade». È questo il momento di massima tensione nel suo monologo. Ciò che segue è una serie di elucubrazioni ulteriori per circoscrivere la gravità degli eventuali danni prodotti dall’accadimento, del quale si ribadisce che non è mai stato testimoniato, se [318] non come «voce». Ma neppure questo basterebbe a rassicurare. Ben più efficace è «provare, il che è molto facile», che per un evento del genere «non c’è posto in questo mondo». Esattamente come K. aveva sempre temuto che per lui non ci fosse posto nel Castello.
Il monologo di Bürgel è così efficace perché il segretario parla sempre dall’interno del Castello e non è neppure sfiorato dal pensiero di sabotarlo. Tanto più eloquenti sono le sue ammissioni – e tanto più probanti. Quando Bürgel si avvicina alla soglia ultima, cambia anche il suo linguaggio. Improvvisamente diventa semplice, diretto: «Certo, quando la parte è nella stanza, è già una cosa molto brutta. Stringe il cuore. “Quanto a lungo riuscirai a fare resistenza?” ci si chiede. Ma non ci sarà nessuna resistenza, lo sappiamo. Lei deve solo immaginarsi con esattezza la situazione. Davanti a noi è seduta la parte, la parte che non abbiamo mai vista, che abbiamo sempre aspettata, con vera sete, pur considerandola sempre ragionevolmente irraggiungibile. Già con la sua muta presenza invita a penetrare nella sua povera vita, a muoversi in essa come in una nostra proprietà e a partecipare alle sofferenze che nascono dalle sue vane pretese. Questo invito nel silenzio della notte è rapinoso. Lo si segue e in quel momento si cessa di essere un personaggio ufficiale». Di fatto, non si è più un funzionario, ma un grande mistico.
Ciò che Bürgel alla fine svela è l’occulta inermità dell’ordine. Accettare la richiesta della parte è cosa che «addirittura lacera l’organizzazione degli uffici». E questa è la maggiore disgrazia – e vergogna – che possa conoscere un funzionario. La parte [319]costringe l’ordine, quindi il funzionario, a compiere qualcosa che va al di là dell’ordine stesso. E qui Bürgel torna all’immagine evangelica del «ladro di notte». Ora la parte viene evocata come il «brigante della foresta che ci strappa nella notte sacrifici di cui mai altrimenti saremmo capaci». Il funzionario allora è disperato, ma anche felice. «Come può essere suicidale la felicità» dice Bürgel – e si direbbe che citi una frase dai Diari di Kafka.
Ma come potrebbe il mondo andare avanti, se questo accadesse? A una condizione sola: se la parte, anch’essa sopraffatta dalla stanchezza, non si accorge di tutto questo e si occupa d’altro, del suo «errore» o della sua «stanchezza», perché «è penetrata in una stanza diversa da quella che voleva». E, grazie a questo, l’ordine rimane intatto. Ora Bürgel sta descrivendo ciò che in quello stesso istante accade fra lui e K. Ma la scena non è finita. La tensione estrema ha prodotto una sovrabbondanza: la «loquacità di chi è felice».
E di una disperata felicità, come Bürgel. Allora la parte non può essere abbandonata a se stessa, alla sua distrazione e alla sua stanchezza, ma bisogna «mostrarle dettagliatamente che cosa è successo e per quali motivi è successo» – e soprattutto come la parte stessa, in quella rarissima occasione, dalla totale inermità che le è connaturata è passata per un momento a una condizione in cui «può dominare tutto», purché presenti «in qualche modo la sua richiesta, il cui l’adempimento è già pronto». Anzi – precisa Bürgel – ormai l’adempimento «si sporge» verso la richiesta. Con questo passaggio è «avvenuto ciò che più è necessario», nel senso che la necessità si è estesa fino al punto di incrinarsi, fino al punto di trasferire alla parte il potere che da sempre le è negato. Una translatio imperii che farebbe tremare il [320] mondo dalle fondamenta. Ma nulla prova che sia avvenuta – o che possa avvenire. Ormai, conclude Bürgel, non rimane che «accontentarsi e aspettare». Come si potrebbe definire questa scena? È «l’ora grave del funzionario». Ciò non implica che la scena avvenga. Però «tutto questo si deve mostrare», occorre almeno raccontarlo alle parti. Occorre almeno che Il Castello sia scritto.
XV
LO SPLENDORE VELATO
[323] Kafka soggiornò per otto mesi a Zürau, nella campagna boema, a casa della sorella Ottla, fra il settembre 1917 e l’aprile 1918. La tubercolosi si era dichiarata un mese prima, con uno sbocco notturno di sangue. Il malato non nascose un certo senso di sollievo. Scrivendo a Felix Weltsch, si paragonò all’«amante felice» che esclama: «Tutto il passato erano solo illusioni, soltanto ora amo veramente». La malattia era l’amante definitiva, che permette di chiudere i conti precedenti. Il primo dei quali era l’idea del matrimonio, che lo torturava (e torturava Felice) da cinque anni. Un altro conto era la vita d’ufficio. Un altro conto erano Praga e la famiglia.
Arrivato a Zürau, Kafka per un giorno non volle scrivere nulla, perché il luogo gli «piaceva troppo» e temeva che ogni sua parola mettesse la «battuta in bocca al male». Qualsiasi cosa scrivesse, prima che [324] all’interlocutore Kafka pensava ai demoni – e alla sua partita aperta con loro. Per chiuderla, non bastava neppure la malattia.
Zürau era un villaggio minuscolo in un paesaggio ondulato, fra macchie di boschi e prati. Centro della vita: la raccolta del luppolo. Fra gli abitanti, si notavano più gli animali che gli uomini. Kafka vide subito il luogo come «uno zoo allestito secondo princìpi nuovi». La casa di Ottla stava sulla piazza del mercato, accanto alla chiesa. Non fosse stato per amici e parenti, che minacciavano sempre di venire in visita, la situazione si avvicinava a quella riduzione al minimo degli elementi verso cui Kafka tendeva per vocazione nello scrivere – e avrebbe voluto estendere a tutta la sua vita.
Nell’unico suo periodo quasi felice si trovò circondato da animali semiliberi. Dopo tutto, quella condizione gli era ben nota. C’è una catena invisibile, generosamente lunga, che permette di aggirarsi qua e là senza avvertirla, purché non si vada troppo lontano nella stessa direzione. Allora d’improvviso la catena si fa sentire. Ma Kafka non ebbe mai l’autoindulgenza di pensare, come tanti, che tale situazione fosse un maligno accorgimento a lui riservato. Così la descrisse nel sessantaseiesimo aforisma di Zürau, riferendola a un «egli» che significa «chiunque»: «Egli è un cittadino libero e sicuro della terra, poiché è legato a una catena che è lunga quanto basta per dargli libero accesso a tutti gli spazi della terra, e però è di una lunghezza tale per cui nulla può trascinarlo oltre i confini della terra. Ma al tempo stesso egli è anche un cittadino libero e sicuro [325] del cielo, poiché è legato anche a una catena celeste, regolata in modo simile. Così, se vuole muoversi verso la terra lo strozza il collare del cielo, se vuole muoversi verso il cielo quello della terra. E ciò nonostante egli ha tutte le possibilità e lo sente, anzi si rifiuta di ricondurre il tutto a un errore commesso all’inizio nell’incatenarlo».
Mai come nei mesi di Zürau si ha l’impressione che Kafka si sia trovato in una situazione a lui gradita. Soltanto lì riesce a sfuggire a tutto: alla famiglia, all’ufficio, alle donne. E sono le principali potenze che da sempre lo braccano. Inoltre è difeso dalla barriera della malattia. La quale, come per incanto, ora non mostra «segni visibili». A un punto tale che una volta Kafka scriverà a Oskar Baum, in una parentesi provocatoria: «(d’altra parte non mi sono mai sentito meglio, per quanto riguarda la salute)». A Zürau, il mondo è quasi svuotato di esseri umani. È questo innanzitutto che suscita in Kafka un sentimento di lieve euforia. Rimangono gli animali: «Un’oca è stata ingrassata a morte, il sauro ha la rogna, le capre sono già state portate dal caprone (che deve essere proprio un bel giovane; una capra, che era già stata portata da lui, colpita da improvviso ricordo ha rifatto correndo la lunga strada da casa nostra al caprone) e il maiale dovrà essere senz’altro macellato al più presto». Bastano queste parole per evocare le scene sovrapposte di una perenne tragicommedia. Così Kafka aggiunge: «Questa è un’immagine condensata del vivere e del morire». La riduzione agli elementi primi si è compiuta, in un villaggio boemo dove il teatro della vita è affidato agli animali – e ai più comuni. Ed è già un sollievo. Ma, esattamente come aveva sperimentato [326] Strindberg, l’inferno è pronto a irrompere da un momento all’altro, preannunciato dal rumore. A Zürau, sarà il rumore dei topi.
La prima cronaca, simile a un bollettino di guerra, si trova in una lettera a Felix Weltsch (metà novembre del 1917): «Caro Felix, il primo grande difetto di Zürau: una notte dei topi, un’esperienza spaventosa. Io sono illeso e i miei capelli non sono più bianchi di ieri, ma è stato l’orrore del mondo. Già da un po’ avevo sentito ogni tanto (devo interrompermi continuamente nello scrivere, capirai poi perché), ogni tanto di notte avevo sentito un rosicare sommesso, una volta mi ero addirittura alzato, tremando, per controllare, e poi era finito subito – ma questa volta era un tumulto. Che popolo spaventevole, muto e chiassoso. Alle due sono stato svegliato da un fruscio vicino al letto e da quel momento non ha smesso fino al mattino. Su per la cassa del carbone, giù dalla cassa del carbone, corse in diagonale per la stanza, tracciando cerchi, rosicchiando il legno, sibilando leggermente durante la quiete e insieme a questo sempre il senso del silenzio, del lavoro clandestino di un popolo proletario oppresso, a cui appartiene la notte». Ma non era Kafka stesso a cui apparteneva la notte? Ora scopriva che accanto a lui, dietro di lui, sopra di lui, lo stesso pensiero dominava un «popolo proletario oppresso», che agiva senza tregua. L’angoscia era data innanzitutto dalla sensazione che quelle moltitudini avessero «già perforato cento volte tutti i muri intorno, e là stavano appostate». Era quello il popolo pronto a ossessionare, nell’invisibile, l’artefice della Tana, che un giorno avrebbe detto: «Che popolo incessantemente operoso e quanto molesto è il suo zelo». La loro piccolezza rendeva quegli esseri elusivi e inattaccabili, perciò ancora [327] più terrorizzanti. Quanto alla agognata solitudine notturna, ora si rivelava essere piuttosto una reclusione al centro di una superficie porosa, trafitta da innumerevoli sguardi malevoli.
Dopo quella prima notte, a chiunque scrivesse – fosse Brod o Baum o Weltsch –, Kafka parlava di topi. L’argomento si prestava a variazioni inesauribili, tanto più quando Kafka introdusse, per difendersi, la presenza di un gatto, che suscitava ulteriori interrogativi: «I topi li scaccio con il gatto, ma con che cosa scaccio poi il gatto? Tu credi di non avere niente contro i topi? Naturalmente, anche contro i cannibali non hai niente, ma se di notte spuntassero strisciando da sotto tutti gli armadi e digrignassero i denti, tu certamente non li potresti più soffrire. Del resto adesso cerco anch’io di temprarmi mettendomi a guardare nelle mie passeggiate i topi dei campi, non sono malvagi, ma la stanza non è un campo e il sonno non è una passeggiata». Lo stesso amalgama fra l’oltraggiosamente comico e l’atroce, che è un dono di Kafka come l’arcana elementarità di certi versi shakespeariani, si mostra in tutte le sue cronache epistolari da Zürau sui topi, da cui si dirameranno un giorno le speculazioni della Tana e le vicende di Josefine la cantante o Il popolo dei topi. Il «popolo dei topi» sarebbe rimasto per Kafka l’immagine ultima della comunità.
Brod, che riusciva a dare un tocco kitsch a qualsiasi cosa, descrisse il soggiorno di Kafka a Zürau come un «sottrarsi al mondo nella purezza». Lo trovava anche – così scrisse all’amico – un’impresa «riuscita e ammirevole». Difficile pensare due aggettivi che urtassero [328] Kafka maggiormente. Rispose a Brod con una lettera minuziosamente argomentata in cui gli spiegava che l’unica conclusione sensata a cui fosse giunto nella sua vita era «non il suicidio, ma il pensiero del suicidio». Se non era andato oltre, lo si doveva a una ulteriore riflessione: «Tu che non riesci a fare nulla, vuoi fare proprio questo?». E ora il suo amico più stretto veniva a parlargli di successo, di ammirazione, di purezza. In questa occasione Kafka citò per la prima volta (l’altra fu la Lettera al padre), riferendola a se stesso, la frase finale del Processo: «Era come se la vergogna dovesse sopravvivergli».
Il 15 settembre, già a Zürau da tre giorni, Kafka scriveva: «Tu hai, se mai ve n’è una, la possibilità di un inizio. Non sprecarla». Aveva inteso il manifestarsi della malattia come segnale di una provvisoria licenza dal tormento della vita normale. Cominciava un periodo che avrebbe avuto un carattere unico. Ripensando ai tempi di Zürau, scriverà un giorno a Milena, come parlando a se stesso: «Pensa anche a questo, che il periodo forse migliore della tua vita, di cui non hai ancora veramente parlato bene a nessuno, furono quegli otto mesi in un villaggio, circa due anni fa, quando tu credevi di avere chiuso la partita con tutto, quando ti sei ristretto soltanto a ciò che indubitabilmente è in te, quando eri libero, senza lettere, senza il quinquennale collegamento postale con Berlino, protetto dalla tua malattia, e quando non dovevi cambiare gran che in te stesso, ma solo ricalcare più fermamente i vecchi, angusti tratti del tuo essere (di faccia, sotto i capelli grigi, non sei quasi cambiato da quando avevi sei anni)». Restringere il proprio campo d’azione a ciò che era «indubitabile» in lui stesso sembra essere stato il [329] motto di Kafka per tutta la sua vita. Ma, se ci fu un momento in cui provò ad applicarlo con totale rigore, anche perché le circostanze esterne lo aiutavano («il diventar più quiete e meno numerose delle voci del mondo»), fu nei mesi di Zürau. Così dobbiamo intendere nella sua natura di esperimento azzardato, possibile soltanto in quelle condizioni, l’apparire di una nuova forma, quella degli aforismi. Nuova innanzitutto in senso fisico e tattile. Kafka usava scrivere su quaderni di scuola, che riempiva marcando appena il passaggio da un testo all’altro, a penna o a matita. Ora invece mette insieme una sequenza di centotré foglietti staccati, formato cm 14,5 ∞ 11,5, ciascuno dei quali contiene, con rare eccezioni, un solo frammento numerato, per lo più aforistico. Manca un titolo. Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via fu quello suggerito da Brod, bello e sviante, nella sua solennità. Ma giustamente allusivo al fatto che tali foglietti costituiscono l’unico testo di Kafka dove temi teologici vengono affrontati direttamente. Se una teologia di Kafka si dà, questa è l’unica occasione in cui Kafka stesso si è avvicinato a dichiararla. Ma, perfino in questi aforismi, raramente viene concesso all’astrazione di staccarsi dall’immagine e vivere di vita propria, come se dovesse scontare un castigo per essere stata troppo a lungo autonoma e volatile, in quell’epoca remota e avventata in cui esistevano ancora filosofi e teologi.
Prima di trascriverli sui foglietti in carta sottile, Kafka aveva annotato gli aforismi di Zürau su un quaderno in quarto, dove compaiono anche altri frammenti, talvolta dello stesso carattere e non meno incisivi. La numerazione segue, quasi senza eccezione, l’ordine in cui gli aforismi appaiono nel quaderno. [330] Perciò è impossibile attribuire alla sequenza una articolazione ragionata, come invece per esempio nel Tractatus di Wittgenstein. È anche impossibile stabilire perché alcuni aforismi sono biffati nei foglietti: non vi è tra di essi coerenza di genere – e oltre tutto alcuni sono fra i più significativi. Kafka stesso non ha mai alluso a questi aforismi né in lettera né in altre sue annotazioni. Non vi è perciò prova, neppure indiretta, che volesse pubblicarli. Ma già il loro modo di presentarsi induce a immaginare un libro di un centinaio di pagine dove ogni pagina corrisponderebbe a uno dei foglietti in carta sottile. Questo libro è come un diamante purissimo, annidato nei vasti giacimenti carboniferi che erano in Kafka. Sarebbe vano cercare, fra le raccolte di aforismi del secolo, una che sia altrettanto intensa ed enigmatica. Se pubblicati di seguito, questi frammenti occupano una ventina di pagine quasi irrespirabili. Perché ciascun frammento è un aforisma nel senso di Kierkegaard, un essere «isolato», che deve respirare circondato da uno spazio vuoto. Questo spiega l’accorgimento di trascriverne uno solo per ogni foglietto. Ma anche la definizione di «aforisma» è sviante, se si intende la parola nel senso corrente di «sentenza». Alcuni di questi frammenti sono narrativi (per esempio 8/9, 10, 20, 107), altri sono singole immagini (per esempio 15, 16, 42, 87), altri sono parabole (per esempio 88, 32, 39). Una simile mescolanza si incontra nella tessitura dei Diari di Kafka. Però qui ogni ridondanza, ogni accidentalità, ogni insistenza è abolita. Nella loro asciuttezza e ingannevole limpidezza, queste frasi hanno qualcosa di ultimativo. Sarebbe vano esigere una amplificazione o concatenazione. Sono i tratti subitanei del pennello di un maestro vecchissimo, che si concentra tutto in quelle minime oscillazioni del polso guidate [331] da un «occhio che semplifica fino alla desolazione totale». Così Kafka avrebbe definito il suo sguardo in una lettera di quel periodo.
Inutile allineare gli aforismi di Zürau a quelli di alcuni sommi del passato. Il confronto è sghembo, come se poggiasse su una base instabile. Se Kafka scrive che «impazienza e inerzia» sono i «due peccati capitali dell’uomo, da cui derivano tutti gli altri», è vano cercare altrove frasi avvicinabili, affini o opposte, sugli stessi temi. Così anche se scrive delle tre forme di volontà libera, concludendo che le tre forme sono una sola e non presuppongono una volontà, libera o no. Perché questo? Forse perché aveva «una sorta di indifferenza congenita alle idee correnti». E anche alle grandi idee correnti. Si ha sempre l’impressione che manchi il terreno comune, sebbene Kafka venerasse almeno alcuni di quegli scrittori (Pascal, Hebbel, Kierkegaard). Ma la peculiarità, la singolarità irriducibile e scoscesa che i suoi aforismi raggiungono è così alta da permettere di essere collegata soltanto con altri frammenti segnati dalla stessa peculiarità. Kafka può solo comunicare con Kafka. E neppure sempre. Arduo stabilire che cosa l’aforisma 8/9, che parla soltanto di una «cagna puzzolente, che ha partorito molte volte, qua e là già in decomposizione», abbia a che vedere con quelli che lo precedono o che lo seguono. Infatti Brod lo eliminò tacitamente. Forse pensò che stridesse con il nobile titolo che aveva scelto per gli aforismi. Eppure proprio qui è esclusa ogni casualità o contatto per mera giustapposizione. Soltanto quella volta Kafka si preoccupò di dare una forma visivamente e spazialmente perspicua a un suo testo, quasi preordinandone la disposizione tipografica. [332] Ciascuna di quelle frasi si presenta come se le fosse intrinseco un carattere di massima generalità. E al tempo stesso ciascuna sembra emergere da un vasto deposito di materia oscura.
Max Brod praticava infaticabilmente una specie di analisi psicologica non molto diversa da quella che un giorno sarebbe stata prediletta dai periodici femminili, anche se più folta, nebulosa e con occasionali complicazioni teologiche. Ogni tanto si azzardava a provocare Kafka: «Perché allora hai una particolare paura dell’amore, più che dell’esistenza terrena in genere?». Kafka gli rispose, come da una distanza astrale: «Tu scrivi: “Perché avere paura dell’amore più che di altre faccende della vita?”. E subito prima: “Ho vissuto l’intermittentemente divino prima che in altro, e più spesso che in altro, nell’amore”. Se congiungi queste due frasi, è come se volessi dire: “Perché non avere paura allo stesso modo di ogni roveto e del roveto ardente?”».
Kafka non era un collezionista di teologie. La parola stessa non gli era congeniale. Nominava poco gli dèi e usava accorgimenti per non attirare la loro attenzione. Credere in un Dio personale gli appariva innanzitutto come una delle modalità che permettevano al «qualcosa di indistruttibile» che è in noi di «rimanere nascosto». Formula enigmatica che incontriamo nel cinquantesimo aforisma di Zürau.
Sugli dèi si esprimeva generalmente per via obliqua. Si può supporre che la sua affermazione più temeraria sia celata in una riga dei Diari che dice soltanto: «Nella lettera di Hebel il passo sul politeismo». Il riferimento è a una lettera di Johann Peter Hebel a F.W. Hitzig, dove si legge: «Se esistesse ancora [333] la Società Teologica, questa volta le avrei scritto un saggio sul politeismo. Ti confesso – poiché una confessione fra amici non è meno sacra di quella davanti all’altare, che mi appare sempre più chiaro e che soltanto lo stato di cattività o di minorità nel quale ci mantiene la fede in cui siamo stati battezzati e allevati e sottoposti a prediche mi ha impedito sinora di edificare chiesette agli dèi beati».
Tutto questo considerato, non piccolo dovette essere l’imbarazzo di Kafka quando Max Brod gli sottopose il manoscritto del suo opus più ambizioso, che sarebbe apparso nel 1921 in due volumi, per un totale di seicentocinquanta pagine, sotto un titolo vagamente grottesco: Paganesimo Cristianesimo Ebraismo. Brod vi aveva prodigato il suo talento di orribile semplificatore.
Kafka lesse subito il manoscritto e ne diede conto all’amico con una lettera. All’inizio vi troviamo degli elogi piuttosto generici. Poi, dopo aver subìto tante spiegazioni su che cos’è il paganesimo, Kafka prende l’occasione per dire che cosa sono per lui gli antichi Greci. Usando argomenti che nulla hanno a che fare con il libro di Brod, neppure in senso polemico. Invece assistiamo con stupore al delinearsi di una visione della Grecia che include Kafka stesso in un angolo, come il donatore in una pala medioevale: «Insomma non credo a un “paganesimo” come lo intendi tu. I Greci, per esempio, conoscevano benissimo un certo dualismo, altrimenti che senso avrebbero avuto la Moira e tante altre cose? Solo che erano esseri particolarmente umili – per quanto riguarda la religione –, una specie di setta luterana. Ciò che è decisamente divino non potevano pensarlo mai abbastanza lontano da loro, tutto il mondo degli dèi era solo un mezzo per tenere distante ciò [334] che è decisivo dal corpo terreno, per dare aria al respiro umano. Era un grande mezzo di educazione nazionale, che incatenava gli sguardi degli uomini, ed era meno profondo della legge ebraica, ma forse più democratico (qui non c’erano guide e fondatori di religioni), forse più libero (li incatenava, ma non so con che cosa), forse più umile (perché la visione del mondo degli dèi faceva affiorare questo alla coscienza: allora non siamo neppure dèi e, se fossimo dèi, che cosa saremmo?). Il massimo avvicinamento alla tua concezione forse si ha dicendo: in teoria vi è una perfetta possibilità terrena di felicità, cioè credere al decisamente divino e non aspirare a raggiungerlo. Questa possibilità di felicità è tanto blasfema quanto irraggiungibile, ma ad essa i Greci sono stati forse più vicini di molti altri».
«In teoria vi è una perfetta possibilità terrena di felicità, cioè credere al decisamente divino e nonaspirare a raggiungerlo»: questo si legge alla fine della lettera a Brod (del 1920). «In teoria vi è una perfetta possibilità di felicità: credere all’indistruttibile in noi e non aspirare a raggiungerlo»: questo si legge nel sessantanovesimo aforisma di Zürau (del 1918). La frase della lettera ricalca l’aforisma, salvo in un punto: là dove l’aforisma parlava dell’«indistruttibile», la lettera parla del «decisamente divino». Ed è l’unica occasione in cui Kafka dà un aiuto per farci capire che cosa intenda con «l’indistruttibile». Ora sappiamo almeno che gli si può sovrapporre «il decisamente divino» (ma che cosa significherà quel «decisamente»?). Per il resto quell’«indistruttibile» è parola che appare esclusivamente in quattro dei centonove aforismi di Zürau. È vero che si tratta di frasi memorabili, ma perché quella [335] parola è apparsa soltanto là? perché non è stata mai spiegata? perché è stata scelta?
Ciò che appare può essere evanescente, inconsistente, ingannevole. Ma a un certo punto si tocca qualcosa che non cede. Kafka lo chiamò «l’indistruttibile». Parola che ricorda l’akṣara vedico più di qualsiasi termine usato in tradizioni meno remote. Kafka non ha mai voluto precisarne il senso. Ha voluto soltanto distinguerla accuratamente da ogni fede in un «Dio personale». Anzi, si è spinto sino ad affermare che «la fede in un Dio personale» non è altro che «una delle possibilità di esprimersi» di un fenomeno ampiamente diffuso: il «rimanere nascosto» dell’«indistruttibile». Mentre d’altra parte «l’uomo non può vivere senza una costante fiducia in qualcosa di indistruttibile dentro di sé». Chiunque agisca (e tutti senza eccezione agiscono), nel momento in cui agisce non può fare a meno di sentirsi immortale. E a che cosa può essere dovuto questo miraggio se non alla vaga percezione di «qualcosa di indistruttibile dentro di sé»? L’indistruttibile è qualcosa che non possiamo fare a meno di avvertire, come la sensazione di essere vivi. Ma che cosa l’indistruttibile sia tende a rimanerci nascosto. E forse è opportuno che sia così.
Kafka trattò del paradiso in sei degli aforismi di Zürau (3, 64, 74, 82, 84, 86). Che vanno intrecciati con quelli sull’indistruttibile, come viene indicato chiaramente: «Se ciò che nel paradiso deve essere stato distrutto era distruggibile, allora non era decisivo; ma, se era indistruttibile, allora viviamo in una falsa credenza». Ora, tutto il mondo era per Kafka [336] «una falsa credenza» – e di questo si parlava nei suoi scritti: degli enormi, inesauribili, tortuosi sviluppi di quella falsa credenza. Originata da che cosa? Da un fatale equivoco intorno ai due alberi che crescono al centro del paradiso. Gli uomini sono convinti di essere stati cacciati da quel luogo perché hanno mangiato il frutto dell’Albero della Conoscenza del bene e del male. Ma questa è un’illusione. Non era quella la loro colpa. La loro colpa sta nel non aver ancora mangiato dall’Albero della Vita. La cacciata dal paradiso era un pretesto per impedirlo. Noi siamo nel peccato non perché siamo stati cacciati dal paradiso, ma perché quell’espulsione ci ha resi incapaci di compiere un gesto: mangiare dall’Albero della Vita.
Nella visione di Kafka, che era malato di conoscenza, la conoscenza alla fine viene deprezzata. Di fatto, ci viene detto con celato sarcasmo, «dopo il peccato originale siamo essenzialmente uguali nella capacità di conoscere il bene e il male». Tutte le differenze di cui andiamo fieri sono poco rilevanti. Perché «le vere differenze cominciano al di là di questa conoscenza». Ma che cosa può essere una conoscenza che comincia al di là della conoscenza? Semplicemente lo «sforzo di agire in conformità ad essa». È qui che rovina ogni costruzione mentale. Perché quella capacità semplicemente non ci è stata data. E, nel vano tentativo di mettere in atto la conoscenza, non possiamo che fallire. Questo per l’uomo significa: morire. Kafka aggiunge, fra parentesi: «Forse è questo anche il senso originario della morte naturale». Si muore, allora, perché chiunque «deve distruggersi», nell’affanno di agire in accordo con una qualsiasi conoscenza. E intanto trascura [337] l’Albero della Vita, le cui fronde continuano a stormire intatte. Questo processo avviene in ogni momento. Per Kafka, il paradiso non era un luogo dove qualcuno era vissuto in passato e di cui si era tramandata memoria. Ma una presenza perenne, nascosta. In ogni momento, un ostacolo immenso e accerchiante impedisce di percepirla. Quell’ostacolo è esso stesso l’espulsione dal paradiso. Di cui diceva che era un processo «eterno nella sua parte principale».
Che cosa può essere quella «parte principale»? Appunto il terribile equivoco intorno alla conoscenza. Anche questa è una verità che appartiene al carattere «sconsolato» del bene. Ma poi ci accorgiamo che essa implica qualcosa che nessuno oserebbe più sperare: se la cacciata dal paradiso è un «processo eterno» – per lo meno nella sua oscura «parte principale» –, allora questo «rende possibile non solo che potremmo rimanere perennemente in paradiso, ma che di fatto perennemente vi siamo, ed è indifferente che qui lo sappiamo o no». Come l’indistruttibile, anche il paradiso può rimanerci nascosto. Anzi, è questa la condizione normale della vita. Forse soltanto in questo modo la vita è possibile. Eppure ricordiamo che «fummo creati per vivere in paradiso» – e in nessun luogo si afferma che il paradiso abbia cambiato la sua destinazione. Perciò tutto ciò che accade, «nella sua parte principale» accade in paradiso, anche se nell’attimo stesso in cui ne veniamo espulsi.
La magia è stata diffamata innanzitutto da coloro che l’hanno equiparata a una creazione. E della creazione pensavano che operasse ex nihilo. Doppia [338] ingenuità. Kafka non ha mai scritto di magia, ma ne aveva una nozione precisa, così precisa che ha saputo definirla una volta con sovrana pacatezza: «È senz’altro pensabile che lo splendore della vita circondi chiunque, e sempre nella sua intera pienezza, accessibile ma velato, nel profondo, invisibile, molto lontano. Però esso sta lì, non ostile, non riluttante, non sordo. Se lo si chiama con la parola giusta, con il nome giusto, allora viene. Questa è l’essenza della magia, che non crea ma chiama». Il culto degli idoli è in primo luogo il tentativo di evocare lo splendore della vita con i nomi, di volta in volta, giusti. Basterebbe questo riconoscimento per vanificare la lotta atavica contro gli dèi. Lotta che ignora come il singolare sia un modo di essere del plurale. E il plurale un modo di cogliere lo scintillio dello splendore velato.
Nei primi giorni di Zürau, Kafka annotò queste parole: «O bella ora, magistrale stato, giardino inselvatichito. Tu svolti dalla casa e sul sentiero del giardino ti viene incontro la dea della felicità». Dea che nominò soltanto quella volta.