domenica 11 luglio 2021



 ARCIPELAGO N

Vittorio Lingiardi 


Il libro

Il narcisismo abita i nostri amori e tutte le relazioni. Può essere fragile o contundente. Finché cerchiamo di rinchiuderlo in una definizione, non lo capiremo. Occorre una bussola psichica per navigare nei mari insidiosi della stima di sé, tra isole che si chiamano Insicurezza, Egocentrismo, Rabbia, Invidia, Vergogna.

Narciso era un giovane di grande bellezza, nella quale annegò dando vita a un fiore. Ovidio lo raccolse e ne fece un mito, Freud una realtà psichica: il narcisismo. Abita i nostri amori, attraversa i nostri discorsi, seduce politici e artisti, ma anche criminali. Funambolo dell’autostima, Narciso cammina sul filo teso tra un sano amore di sé e la sua patologica celebrazione, che può diventare una diagnosi: il disturbo narcisistico di personalità. Finché cerchiamo di rinchiuderlo nella gabbia di una sola definizione, non lo conosceremo: ci serve un sestante per navigare tra gli scogli della stima di sé. Ci sono narcisisti arroganti oppure timidi, con la pelle spessa o sottile. Tutti nuotano in un arcipelago di possibilità: saziati dalla prepotenza, circonfusi dal carisma, baciati dal successo, afflitti dalla depressione, tormentati dall’insoddisfazione, abitati dal vuoto, suicidi per frustrazione. Possono avvelenare una relazione fino al sadismo e manipolare gli altri fino alla psicopatia. Sono braccati da cinque fiere: l’egocentrismo, l’insicurezza, la rabbia, l’invidia e la vergogna.



Introduzione

Il meccanismo auto-erotico allogasi, qual piú qual meno, in tutte le anime.

CARLO EMILIO GADDAL’Adalgisa. Disegni milanesi.

Siamo tutti narcisisti, ma non allo stesso modo. E non tutti abbiamo un disturbo narcisistico di personalità. Scrivendo Arcipelago N avevo in mente due obiettivi: illustrare le diverse forme di narcisismo ed esplorare la zona di confine tra un carattere con tratti narcisistici, piú o meno accentuati, e una patologia narcisistica. Un territorio importante perché è lí che il piacere di piacersi e di piacere si trasforma in sofferenza: molto spesso per sé, quasi sempre per l’altro. «Fiore dell’amore», scrive García Lorca, «Narciso, il mio dolore, sempre».

Funambolo dell’autostima, Narciso cammina su una corda tesa fra un sano amor proprio e la sua patologica celebrazione. Tra questi estremi c’è il narcisismo delle nostre vite quotidiane, condizionato dal contesto culturale e decisamente in crescita. Pieno di sfumature e riflessi, il narcisismo è un arcipelago di possibilità. C’è quello dell’arroganza e quello della fragilità, che spesso convivono a loro insaputa. Piú di trent’anni fa uno psicoanalista inglese, Herbert Rosenfeld, propose, con un’immagine molto toccante, di distinguere i narcisisti «a pelle spessa» (thick skin) da quelli «a pelle sottile» (thin skin). Anche se in modi opposti, entrambi testimoniano un fallimento nella regolazione dell’autostima, l’incapacità di raggiungere un equilibrio tra l’affermazione di sé e il riconoscimento dell’altro.

Sappiamo che la nostra biologia influenza il contesto e il contesto influenza l’espressione della nostra biologia. Bene, tutti i disturbi del carattere rappresentano un tentativo di affrontare un problema al limite fra il temperamento e l’accudimento, la biologia della nostra personalità e la storia del suo sviluppo nel contesto familiare. Quando terapeuta e paziente riescono a entrare in contatto con questo «problema», cioè a riconoscerlo, ancor prima di conoscerlo, il processo di cura è avviato.

Navigare nel mondo narcisistico, una traversata che attrae e spaventa, significa incontrare sirene e mostri marini, e fare scalo in molte isole. Un’odissea anch’essa a rischio di naufragio narcisistico, vista l’ambizione del compito. Per intraprendere il viaggio verso l’Arcipelago N, ho consultato varie mappe, ma soprattutto ho fatto appello alla conoscenza clinica che ho degli altri e di me stesso. Senza trascurare gli atlanti (del mito, della mia disciplina, delle opere umane), farò affidamento sulla mia esperienza delle relazioni. Perché, per quanto raffinati siano i manuali diagnostici, è nello stile di una relazione che avvertiamo la dimensione narcisistica, nostra e dell’altro. Ci sono narcisismi che seducono e narcisismi che repellono. A ciascuno il suo, nella vita di tutti i giorni o nelle apparizioni televisive. Come dicevo, o meglio come diceva Rosenfeld, è una questione di pelle.

Di ritorno da un funerale, un collega mi confessa di non aver pensato neppure un secondo all’amica che aveva perso la sorella. «Eppure le voglio bene», dice, «siamo cresciuti insieme. Ma non potevo fare a meno di pensare a me, alle mie cose, a come sta andando il mio lavoro, che, devo dirtelo, sta andando proprio bene. È possibile che mi chiamino per un incarico al Ministero». L’incapacità di spostare l’attenzione da sé per rivolgerla a un altro è uno dei tratti piú vistosi di certi narcisisti. Si può chiamare in vari modi. Uno di questi è egocentrismo, cioè essere intrappolati nel proprio punto di vista perdendo cosí alcune dimensioni necessarie alla relazione, come la curiosità e l’empatia. L’egocentrismo da solo non basta per trasformare un aspetto della personalità in un suo disturbo; ma se aggiungiamo una costante ricerca di ammirazione, l’aspettativa di un trattamento speciale, un senso esagerato della propria importanza e la tendenza a sfruttare gli altri, la diagnosi di personalità narcisistica è probabile.

Alla presentazione online di un bel romanzo, il coordinatore, dopo una breve introduzione in cui invita i tre relatori ospiti a mantenere il loro intervento attorno ai quindici minuti, cosí da lasciare spazio a un dibattito conclusivo, dà la parola alla prima dei tre, un’importante critica letteraria. Nell’imbarazzo generale, la signora parla per tre quarti d’ora occupandosi piú dei suoi traguardi professionali (con un lungo rosario di io-io-io) che del libro in questione.

Quanto sono importante, io? E gli altri, quanto pensano che io valga? I due tipi di narcisisti che poco fa menzionavo in versione epidermica possiamo anche chiamarli covert, se sono timidi e nascosti, e overt, quando sono pieni di sé e reclamano ogni attenzione senza esserne consapevoli. Entrambi oscillano sul precipizio dell’autostima e da quella posizione scomoda si sentono guardati dagli altri. Solo che loro, gli altri, li vedono poco: li trattano come un pubblico, da conquistare o di cui temere le critiche. Li svalutano o li idealizzano. Avviene anche con il terapeuta, che può diventare lo specchio di uno splendore a due, per poi essere rapidamente dismesso come un incompetente che li ha delusi.

Possedute dall’invidia, eccitate dalla prepotenza, baciate dal successo, circonfuse dal carisma, prive di coscienza morale, schiacciate dall’ombra depressiva, abitate dal vuoto, tormentate dall’insoddisfazione, capaci di inquinare un amore fino al sadismo o di manipolare gli altri fino alla psicopatia, le personalità narcisistiche sono varie, diverse tra loro e vanno sempre pensate lungo un continuum di gravità. Una stessa caratteristica, mettiamo la mancanza d’empatia, si presenta in modi diversissimi se appartiene alla personalità di un artista posseduto dal suo talento, di un’accademica arrivista o di un omicida seriale sadico.

Il narcisismo ci colpisce per i suoi aspetti ipertrofici, grandiosi e prepotenti. Meno visibile, ma altrettanto diffuso, è il narcisismo silenzioso, la cui pelle sottile avvolge i nostri sentimenti di insoddisfazione, inadeguatezza, indegnità, la paura di non essere visti, il timore del giudizio. Sono diverse risposte difensive ai traumi dello sviluppo. Ma non tutto il narcisismo è patologico. C’è anche un salubre amore di sé, fatto di soddisfazione e capacità di cura, che certo non esclude qualche preoccupazione per come siamo e come ci vedono gli altri. È un ingrediente necessario alla conoscenza di noi stessi che ci consente di compiere, nel modo migliore possibile, il passo dall’io verso il tu. È un amor proprio senza presunzione, l’equilibrio precario dell’«ama il prossimo tuo come te stesso». Non di piú e non di meno: come. «Un precetto facile da esigere», diceva Freud, «ma difficile da attuare».

La mia esperienza delle persone narcisiste mi spinge a pensare che, anche quando non se accorgono, sono infelici perché non riescono a provare un vero piacere per quello che fanno. Una paziente molto creativa scriveva brillanti saggi di critica letteraria, ma li considerava dilettanteschi, non ne era mai contenta e quasi se ne vergognava. Non riusciva ad amare il suo talento, ed era cosí non solo con i suoi scritti, ma anche con i suoi sentimenti, che maltrattava. Un altro paziente aveva capacità artistiche piuttosto mediocri, ma le esibiva come fossero oro. Finché arrivò una doccia fredda: partecipò a una piccola mostra collettiva, ma fu l’unico a non vendere neppure un quadro (l’episodio non intaccò la sua vanità, ma almeno lo portò in analisi per lamentarsi di essere un genio incompreso). Il lavoro con un altro paziente mi ha fatto capire che certe forme squisite di gentilezza nascono dal timore narcisistico di non essere apprezzati. Ovvio, non tutte le persone premurose sono narcisiste, ma alcune sí. Lo si percepisce da qualche sfumatura masochistica o rabbiosa della loro premura. Come se il proposito ultimo, la vera ragione della loro cortesia, non fosse far star bene voi, ma essere sicuri di venire apprezzati.

Come spesso accade, la grande letteratura sa rendere vive le nostre intuizioni psicologiche. Gadda, per esempio, sancisce l’esistenza di due io. Uno è «pimpante… eretto... impennacchiato di attributi di ogni maniera... paonazzo, e pennuto, e teso, e turgido... come un tacchino..., in una ruota di diplomi ingegnereschi, di titoli cavallereschi... saturo di glorie di famiglia...»

L’altro è un io «saturnino e alpigiano, con gli occhi incavernati nella diffidenza, con lo sfinctere strozzato dall’avarizia, e rosso dentro l’ombra delle sue lèndini... d’un rosso cupo... da celta inselvato tra le montagne... [...] l’io d’ombra, l’animalesco io delle selve... e bel rosso, bello sudato... l’io, coi piedi sudati... con le ascelle ancora piú sudate dei piedi...» Sono, commenta il critico Emilio Manzotti, l’io-esibitivo e l’io d’ombra: «L’io-commendatore e l’io-calibano, diversi e contrapposti, ma tutti dotati di una testa-monade catafratta contro ogni influsso esterno, impermeabile alla ragione».

Le persone narcisiste sono braccate da varie fiere – l’insicurezza, la paura, l’invidia, la rabbia, la vergogna – e vivono in un clima di costante confronto con gli altri. Alcune si sentono irrimediabilmente inferiori, altre sprezzantemente superiori, le piú sono torturate dalle oscillazioni di questa altalena. La pressione del narcisismo sulla nostra personalità dipende da dimensioni esplorabili, ma non del tutto note: la storia familiare, il tipo di educazione e di cure ricevute, le aspettative dei genitori, il conflitto con i fratelli, ma anche l’insondabile interazione tra disposizione genetica, circuiti cerebrali ed esperienze di vita.

Sulla scia della fortunata formula di Christopher Lasch, che alla fine degli anni Settanta inaugurò il concetto di «cultura del narcisismo», tendiamo ad attribuire alla società, e ai suoi sviluppi virtuali, molte responsabilità della nostra crescente narcisizzazione. Ne riconduciamo le cause all’indebolirsi dei legami di solidarietà e all’incoraggiamento di una certa egolatria fatta di ossessioni identitarie, economiche, estetico-chirurgiche. Il narcisismo, del resto è la sua missione, ha catturato l’attenzione dei media. E da tempo è entrato in politica. Viviamo in un’epoca che facilita lo sviluppo di immagini di sé fragili che si traducono in paura dei rapporti duraturi, terrore di invecchiare o imbruttire, rimozione della vulnerabilità, ricerca di apprezzamento a buon mercato (i like) e presenzialismo iterativo (i selfie). Non che sia un male coltivare l’autostima e concentrarsi su di sé. Il problema – e qui è lo spartiacque tra il narcisismo temperato dell’ambizione e dell’assertività e quello torrido della grandiosità e dell’insensibilità – è se questa ricerca è fatta con gli altri o a loro discapito.

Il pugno della pandemia da Covid-19 ha incrinato lo specchio narcisistico dei nostri assetti psicologici e sociali. Se gran parte della popolazione ha mostrato risposte mature e capacità di adattamento in situazioni oggettivamente difficili, reazioni problematiche sembrano giungere proprio dalle componenti piú narcisistiche, con difese onnipotenti e di diniego («io non prenderò il Covid, quindi il Covid non esiste») e difese di ritiro depressivo o fobico («il Covid non perdona», «chi se la sente di uscire di casa?», «statemi alla larga»).

Le patologie del narcisismo sono in aumento? Stando alla cronaca, rosa e nera, sembrerebbe di sí. Ma attenzione: se ogni disturbo della personalità è l’esito di un modello bio-psico-sociale, sociale è solo un terzo del problema. Rimangono il temperamento e le relazioni familiari, attuali e passate. La vita deve mettersi d’impegno per farci superare la soglia che separa il comune narcisismo della vita quotidiana da quello maligno che intossica, di volta in volta, l’ambiente di lavoro, le relazioni affettive, la vita politica.

Anche se l’egocentrico, per definizione, mette al centro dell’attenzione l’io, l’io non è, con buona pace di Gadda, sempre cosí concentrato su se stesso. Anzi, nella tradizione psicoanalitica, l’Io (maiuscolo o minuscolo che sia) dovrebbe essere una funzione che regola il rapporto tra interno ed esterno, desiderio e realtà, legge e pulsione. Il governatore della casa, si potrebbe dire. Una casa che, nella sua complessità, potremmo chiamare, con un’altra parola che ha fatto la storia della psicoanalisi, il . I monoteisti della psiche lo scrivono maiuscolo e singolare, io sono un politeista e di solito (tranne quando uso il concetto di Sé grandioso, che ha precise radici nella psicoanalisi) lo preferisco minuscolo e plurale. I sé siamo noi che negoziamo con noi stessi garantendoci, con maggiore o minore successo, la continuità dell’esistere. Un cuore autentico, ma duttile, capace di adattarsi senza perdere la sua originalità. Se dovessi riassumere uno dei problemi di oggi, direi: poca fiducia nell’io, troppa nell’Ego; poco impegno nei sé, troppo nei selfie. Niente a che vedere con il narcisismo generoso di alcuni narcisisti, cosí ben descritto, da poeta a poeta, da Vittorio Sereni a proposito di Umberto Saba:

Sempre di sé parlava ma come lui nessuno

ho conosciuto che di sé parlando

e ad altri vita chiedendo nel parlare

altrettanta e tanta piú ne desse

a chi stava ad ascoltarlo.

Il narcisismo ci costringe a fare i conti con domande a cui non vorremmo rispondere: valgo qualcosa? Quanto conta per me il giudizio degli altri? Ho bisogno di sentirmi importante? Sono molto invidioso? Uso gli altri per i miei scopi? Li disprezzo, li seduco, li temo? Il mio altruismo è al servizio dell’autostima? Combattendo fin da piccoli con queste domande, spudoratamente e teneramente legate allo sguardo amoroso che (non) ci ha riconosciuto, da adulti possiamo diventare grandiosi, arroganti e privi di empatia. Ma anche timidi, timorosi del giudizio, vulnerabili alla critica, vergognosi di ciò che siamo e invidiosi di ciò che non abbiamo.

Per raccontare l’arcipelago N ho radunato molte fonti: le immagini del mito, del cinema e della letteratura; i tentativi della psicoanalisi di spiegare come e perché si diventa narcisisti; le configurazioni di una diagnosi insidiosa che attrae e respinge il clinico; i lividi e i lutti della cronaca nera. Ho dato anche voce alla biologia del temperamento e ai contributi che le neuroscienze ci offrono per la comprensione della personalità narcisistica.

Per circumnavigare l’arcipelago dei narcisismi una Vela sembra il mezzo piú adatto. Per solcare i mari insidiosi della stima di sé ho puntato il mio sestante psichico su due costellazioni, quella classica e quella clinica. In alcuni momenti della traversata, ho avuto l’impressione di entrare in contatto con dimensioni mitiche, narrazioni capaci di parlare a tutti e di cogliere nel segno. Per questo ho deciso di partire dal racconto di Ovidio per poi addentrarmi nei miti moderni della psichiatria e della psicoanalisi. Il testo che leggerete è infatti diviso in due parti: il «caso mitico» e il «caso clinico». L’una si riflette nell’altra, spero non narcisisticamente, anzi in un dialogo in cui ciascuna mantiene la propria voce.

Non riesco a mettermi in viaggio senza aprire un libro di poesie. Ho preso in mano il mio volume di Rilke e mi sono imbattuto in una poesia sugli specchi, cioè sull’origine di tutto il discorso sul narcisismo:

Specchi: nessuno cosciente ha descritto

cosa nasconda la vostra essenza. […]

Talvolta grandi pitture siete.

Sembrano donne in voi trasfuse –,

altre sdegnosi non accogliete.

Gli ultimi versi, li riporto qui sotto, sembrano attraversati dalla calma, non priva di mistero, di quando si intravede la conclusione dell’analisi di chi, col narcisismo, ha combattuto la sua battaglia:

Ma la piú bella resta, il suo viso

penetrerà nelle guance dischiuse

un giorno il chiaro dissolto Narciso.

Che sia d’auspicio per la navigazione.


Arcipelago N

E piú profondo ancora è il significato della storia di Narciso: non riuscendo ad afferrar l’immagine soave, tormentosa che scorgeva nella fonte, si tuffò e morí annegato. Ma quella medesima immagine noi stessi la scorgiamo in ogni fiume e in ogni oceano. È l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita: e questa è la chiave di tutto.

HERMAN MELVILLEMoby Dick o la balena.

Capitolo primo

Il caso mitico

Si illude, e vagheggia se stesso; è attratto

dall’altro e lo attrae;

si cerca, e il se stesso lo cerca: s’infiamma

del fuoco che ha acceso.

OVIDIOLe Metamorfosi, Libro III, vv. 425-426.

Innamorato di me stesso, morirò del mio

stesso amore.

PEDRO CALDERÓN DE LA BARCAEco y Nar-ciso, vv. 1091-92.

Oracoli e specchi d’acqua.

Tutto inizia con uno stupro e un oracolo. Posseduta dai vortici del fiume Cefisio, la ninfa Liriope partorisce un bambino bellissimo e, dice Ovidio, «dal primo momento adorabile». Gli dà nome Narciso e si rivolge a Tiresia per conoscere il futuro del piccolo, se mai avrebbe visto la stagione della vecchiaia. L’indovino, che della vita aveva conosciuto il mistero, essendo stato, lui uomo, per nove anni donna, risponde con una formula in apparenza insensata, ma gravida di conseguenze: «Si se non noverit» («Se riuscirà a non conoscersi»)1. Sarà infatti la conoscenza di sé a dare la morte a Narciso. Quello di Tiresia è un oracolo opposto al «conosci te stesso» inciso all’ingresso del tempio di Delfi dedicato ad Apollo; opposto, ma complementare, perché entrambi indicano la strada della consapevolezza a partire da un limite. Il detto delfico, infatti, esorta a conoscersi nella propria finitezza (come mostra il memento mori di un mosaico delle Terme di Diocleziano a Roma, che sotto uno scheletro sdraiato riporta il γνῶθι σεαυτόν delfico). Analogo monito verrà da sant’Agostino: «Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas» («Non uscire da te stesso, rientra in te: nel profondo dell’uomo risiede la verità»). Anche l’oracolo di Tiresia contiene la verità e prefigura la morte: la conoscenza di sé chiede la fine dell’inganno narcisistico, cioè elaborare e accettare la perdita dell’onnipotenza infantile che celebra il sé. Il narcisista che riesce a non conoscersi, prigioniero della sua illusione continuerà uguale a se stesso, senza metamorfosi. Tiresia offre un «conosci te stesso» al contrario. Che io ritrovo nel verso di una struggente poesia di García Lorca, intitolata Narciso: «Nel fondo c’è una rosa | e nella rosa un altro fiume».

Cosa è un’analisi se non accompagnare qualcuno a lambire quello che ancora non è potuto essere? Ha ragione il vecchio Gaston Bachelard quando, valorizzando la rêverieacquatica, dice che Narciso, «meditando sulla propria bellezza, medita sul proprio avvenire». Per Giorgio Colli, esegeta della sapienza greca, lo specchio è il «simbolo dell’illusione, perché quello che vediamo nello specchio non esiste nella realtà, è soltanto un riflesso»; ma è anche il «simbolo della conoscenza, perché guardandomi nello specchio io mi conosco». In India, fin dai tempi dei primi Veda, l’acqua è considerata una manifestazione dell’essenza divina. Immergersi significa avvicinarsi al mistero della māyā, al segreto ultimo della vita. Quando il saggio Nārada chiede di conoscere questo segreto, Viṣnu non fornisce la risposta, si limita a indicare l’acqua. «Illimitate e imperiture, le acque cosmiche sono allo stesso tempo la fonte immacolata di tutte le cose e la loro terribile tomba».

Narciso non è solo l’innamorato di se stesso. La psicoanalisi ha privilegiato questa lettura (e noi ne seguiremo la traccia), ma come ogni mito anche quello di Narciso contiene storie infinite e multiple visioni. Nell’esergo che ho scelto per questo libro, Melville vede in Narciso «l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita, la chiave di tutto». L’acqua, che è superficie e profondità, riflesso e immersione, non è solo uno specchio freddo e senza interiorità. L’acqua è anche la sorgente, la forma liquida della psiche, il richiamo dell’origine.

Bab’Aziz. Il principe che contemplava la sua anima è un film del regista tunisino Nacer Khemir. Bab’Aziz passa le sue giornate nel deserto, seduto sulla riva di una pozza d’acqua, cercando di vedere l’anima nel riflesso della sua immagine. «È vero che il principe si specchia nell’acqua», dice il regista, «ma a differenza di Narciso non vede il proprio volto, perché chi vede solo il proprio riflesso è incapace di amare. Il principe guarda ciò che è invisibile». Siamo come iceberg, solo un decimo di noi è visibile, il resto giace sotto il mare. L’idea del film gli è venuta guardando una pagina iraniana illustrata del XII secolo che ritrae un principe sulla riva di uno specchio d’acqua con vicino una scritta che dice: «Il principe che contempla la sua anima».

Le illusioni narcisistiche sono soluzioni patologiche di sopravvivenza, ma è necessario che il terapeuta sappia guardarle anche come tentativi di negoziare con il dolore del proprio mondo interno. In un breve poema in prosa, L’angelo, scritto nel corso di una crisi affettiva del 1921 e poi ripreso nel 1945, poche settimane prima della morte, Paul Valéry parla di un angelo che, nel riflesso del proprio volto, vede quello di un uomo in lacrime: «Una sorta d’angelo era seduto sul bordo di una fontana. Vi si specchiava, e si vedeva Uomo, e in lacrime, e si meravigliava enormemente di apparire a se stesso nell’onda nudo come una preda dalla tristezza infinita […] E per tutta un’eternità, egli non smise di conoscere e di non capire».

Come suggerisce lo psicoanalista Stephen Mitchell, il narcisista è anche l’artista «che trae dalle illusioni la sua ispirazione». «Lo specchio della fonte», direbbe Bachelard, «è l’occasione per un’immaginazione aperta»: curvo sull’acqua che riflette la sua immagine «Narciso sente che la sua bellezza continua, che non si è completata, che occorre completarla».

Slancio e torpore.

Aveva sedici anni, Narciso, e già infiammava i cuori di ragazzi e ragazze. Tutte e tutti lo bramavano, lo adulavano, «ma dentro alla sua molle bellezza» vi era «un orgoglio durissimo»: nessuno era in grado di risvegliare in lui il minimo interesse. Freddo e distaccato, pensava solo a sé. La piú accesa per Narciso era Eco, «la ninfa fatta di voce», punita da Giunone perché, «sciolta di lingua», l’aveva distratta intrattenendola e coprendo cosí i tradimenti di Giove. La punizione di Giunone aveva lasciato alla voce di Eco una sola facoltà: ripetere. E cosí non poteva iniziare discorsi, e meno ancora dichiararsi, ma soltanto raccogliere la voce dell’altro. Narciso era rimasto solo, separato dal gruppo dei compagni, e li cercava: «C’è qualcuno?» chiedeva. «Qualcuno…» rispondeva la ninfa. Finché, giunta al suo cospetto, gli getta le braccia al collo. «Giú quelle mani, non stringermi!» le grida Narciso inorridito. «Meglio morire che cedermi a te». Il disprezzo annienta la povera Eco che, tornata nei boschi, si consuma d’insonnia e affanni finché di lei «non rimasero che voce e ossa». Nessuno la vedrà piú, di lei solo e per sempre ascolteremo la voce che ripete. Eco e Narciso, la dipendente e il controdipendente, una coppia destinata a non toccarsi mai.

Tra i molti delusi e umiliati, un giorno uno levò le braccia pregando che anche a Narciso capitasse il destino di innamorarsi senza speranza. Cosí accadde. Giunto vicino a una sorgente, Narciso si china per dissetarsi. In quel momento «gli appare un riflesso bellissimo» per cui perde la testa, senza capire che quel volto, somigliante «a una statua scolpita nel marmo di Paro», altro non è che il suo. Un volto di marmo, perfetto ma senza vita. Vuole toccare quel riflesso, si illude di farlo suo, ne è rapito. «Si cerca, e il se stesso lo cerca». È un’altra eco, questa volta visiva, una ripetizione senza alterità, senza distanza, senza diffrazione. Un amore, dice ancora Valéry, che non deve turbare «l’onda misteriosa», un incantesimo che ha bisogno del sonno, «che fino al brivido teme il crollo di una piuma», per cui «Ninfe! se m’amate, bisognerà dormire», perché basta una foglia «a rompere un universo dormiente», «il minimo sospiro che emanasse da me, mi porterebbe via proprio quello che adoro». Narciso è narcosi.

Il desiderio narcisista non può essere raccolto e trasformato, ma solo imitato e restituito uguale a sé: «Con mille inutili baci ribacia la fonte ingannevole, immerge le braccia nell’acqua per mille volte, e gli pare di stringerle al collo dell’altro, che è lui, ma non giunge a toccarsi». Suggellando la trama mortifera del mito di Narciso, questi versi di Ovidio mi riportano agli abbracci impossibili con creature prigioniere dell’ombra. L’ombra dell’amico Casella che Dante incontra nel Purgatorio: «Tre volte dietro a lei le mani avvinsi, | e tante mi tornai con esse al petto...» L’ombra della madre che Odisseo incontra nel regno dell’Ade: «Tre volte tentai e mi spinse ad abbracciarla il mio animo, | e tre volte mi volò dalle mani simile a un’ombra | o a un sogno». L’ombra del padre che Enea incontra nel regno dei morti:

Or dammi, padre mio, dammi ch’io giunga,

la mia con la tua destra, e grazia fammi,

che di vederti e di parlarti io goda.

Mentre cosí dicea, di largo pianto

rigava il volto, e distendea le palme;

e tre volte abbracciandolo, altrettante

(come vento stringesse o fumo o sogno),

se ne tornò con le man vote al petto.

Ma Casella, la madre di Odisseo, il padre di Enea erano affetti carissimi in vita e ora dolorosamente presenti nel ricordo, mentre l’abbraccio solubile di Narciso è per se stesso vivo e al tempo stesso morto.

In uno dei suoi scritti piú noti, Narcisismo di vita, narcisismo di morte, lo psicoanalista francese André Green descrive un narcisismo negativo che aspira allo zero e permea di distruttività e disinvestimento tutte le relazioni d’oggetto. Si manifesta nell’incapacità di amare, di valorizzare le proprie risorse, di godere dei propri risultati. Spesso è la conseguenza di una ferita narcisistica originaria: il «complesso della madre morta». Non si tratta di un lutto reale, dice Green, ma di una forma di depressione che ha portato la madre a spegnere il suo investimento affettivo sul figlio. È una madre che resta in vita, continua a occuparsi di lui ma senza gioia, senza vitalità. Un distacco emotivo a cui il bambino non riesce a dare un senso e che crea nel suo mondo interno un buco, un’assenza: la madre morta, appunto, nella quale si identifica. Di come le relazioni primarie, cioè le relazioni con i genitori, influiscono sullo sviluppo di una personalità narcisistica ci occuperemo piú avanti. Ci basti dire qui che non stupisce che un ragazzo che ha per padre un fiume violento e in fuga e per madre una ninfa abusata e abbandonata impari ad amarsi attraverso un ingannevole riflesso acquatico. E che sí, l’immagine positiva di sé sopravviverà solo si se non noverit.

In un breve scritto intitolato Emilio e Narcisso Gadda riscrive in chiave spassosamente psicoanalitica il mito di Eco e Narciso. Con lui possiamo dire che la profezia di Tiresia diventa una «cognizione del dolore». Dopo aver parafrasato il racconto ovidiano, commenta cosí la morte del ragazzo: «La fase narcissica è sublimata, e in certa guisa cade annichilata, nel normale sviluppo (del corpo e dell’animo): la violenta, la tempestosa carica autoerotica si discioglie nei succhi etici della pubertà, della virilità, e, in genere, in quel solvente specifico che è tutto il gran lago della vita, della collettività civilmente consociata, che è lago e mare aperto quando non è beninteso invece pozzanghera o addirittura fogna e latrina».

Gadda vede il narcisista come un innamorato dello specchio dal quale «esige l’approvazione, la richiesta d’amore». La carica erotica del narcisista, dirà altrove, richiede infatti una «parete di rimbalzo cioè superficie di riflessione: di uno specchio grande […] lusingatore». Eco è lo specchio psichico di Narciso.

Un altro mito, quello del rapimento di Persefone, o Core, da parte di Ade re degli inferi, ci insegna che il narciso, «mirabile fiore raggiante, spettacolo prodigioso», cosí viene descritto nell’Inno a Demetra, è un fiore dell’amore, della visione e della morte. Dal racconto di Roberto Calasso: «Là dove i cani non riescono a seguire le tracce per la violenza del profumo dei fiori, in una prateria solcata dall’acqua, che ai margini si sollevava per precipitare poi fra rocce scoscese, nell’ombelico della Sicilia, vicino a Enna, avvenne il ratto di Core. Nel momento in cui la terra si squarciò e ne apparve la quadriga di Ade, Core stava guardando il narciso». Ancora una volta il narciso unisce il regno invisibile della morte e l’azione del guardare, ancor piú se pensiamo che Core in greco non significa soltanto «fanciulla», ma anche «pupilla». Non solo, nella lingua greca per dire «io so» si usa lo stesso verbo (οἶδα) che si usa per dire «io ho visto», poiché o ἶδα («io so») è l’aoristo di ὁράω («io vedo»). Sapere è dunque «aver visto». La visione è il tramite della conoscenza profonda che uccide la vanità di Narciso.

Vittima di quell’errore «ch’accese amor tra l’uomo e il fonte», come canta Dante, Narciso rimane bloccato davanti alla sua immagine senza capire. Ovidio lo chiama «ingenuo», uno che si lascia ingannare e insegue «fuggevoli fantasmi». E come un buon padre gli ricorda la realtà, le cose come stanno. «Quello che cerchi non c’è: quello che ami, lo perdi solo a voltarti. Non è che un riflesso, quest’ombra che vedi. Di suo non ha nulla: ti segue e si ferma con te, con te si allontana, se mai riuscirai ad allontanarti». Lo struggimento di Narciso è a propria immagine e somiglianza: «Ti tendo le braccia e tu, dal di là, me le tendi». Ignorata la sua concavità psichica, l’altro è pura superficie riflettente. L’amore è rispecchiamento autocelebrativo, privo di reciprocità, profondità e separatezza. È il collasso del riconoscimento reciproco: un’implosione io-io al posto dell’attesa esplosione io-tu. «Avete rovinato questa mia solitudine», dice Narciso alla Ninfa. Che, per voce di Valéry, replica: «Solo l’onda amavate, ed io sono certezza. | La mia presenza infatti non resta prigioniera d’uno specchio; | Migliore della luce, io non muoio di sera. Nel cuore della notte, anzi, vi farò apprendere | Piú ardentemente che durante il giorno il fuoco del mio essere […] | La mia bocca potrebbe cancellare questo gelido labbro | Che ti trasmette il freddo del limpido sudario | Dell’onda, ove il tuo bacio su sé solo si posa...»

Ma Narciso: «Voi!…, Ma ho sete soltanto di un amore perfetto | Che, gli occhi nei suoi occhi, si inebri dello scambio | Tra sé e se stesso, dei segreti aneliti… | Sono solo. Son io. Sono vero... Vi odio».

Il nome di Narciso non sembra scelto a caso, poiché rimanda alla parola greca νάρκη (nárke), che è sonno e torpore. Anche Gadda si sofferma sull’etimologia del nome Narciso: «Ναρκάω ha significato d’intorpidire, di irrigidire, anche d’inebetire e stordire, donde narcòtico». Dunque Narciso è «l’irrigidito in sé, l’intorpidito, il sonnolente […] quegli che non dà: che non si dà: che non si sdà». Narciso ha un blocco affettivo, ma anche cognitivo. Non solo, continua Gadda, sprigiona un «sottil veneno di bellezza» che può «tirar fuor di senno» chiunque «vi s’indugi» o «vi s’incanti». Narciso è anestesia, forma narcotica di vita immobile, sospesa nel riconoscimento ingannevole o mancato. Secoli dopo, tutti gli amori di Don Giovanni saranno giocati sul falso riconoscimento: «Chi son io tu non saprai». Non solo perché Don Giovanni, come Narciso, è un mito e quindi mai davvero conoscibile, ma anche perché, come nel sipario-specchio che nella magnifica regia di Robert Carsen riflette il pubblico in platea, Narciso e Don Giovanni siamo noi.

Il mito prevede un’agnizione tragica e rivelatrice: «Ma sono io, questo tu! Non mi abbaglia il riflesso, ho capito: io brucio d’amore per me, questo fuoco io l’accendo e lo soffro. Che faccio? Lo prego, mi prego? E pregarlo di che? Ce l’ho già, quello che voglio: è la stessa ricchezza a mandarmi in miseria». Come vaticinato, nel momento in cui si rivela a se stesso Narciso muore. L’identità costruita sull’ideale, che sia d’amore o di potere, di bellezza o di talento, precipita dal piedistallo. Il suo dolore narcisistico non può che essere il piú grande di tutti i dolori: «Foreste che vivete da secoli, vi viene mai in mente che in tutto quel tempo qualcuno giungesse a struggersi tanto?» Rimane solo il tempo per un ultimo grido: «Ma dove fuggi? Fermati, non lasciarmi, mi strazi, ti amo! Lo so, non ti posso toccare, ma posso guardarti, sfamare questa mia triste demenza». Eco lo sente e, «benché risentita al ricordo», è colta da pena e, condannata alla ripetizione, fa l’unica cosa che può fare: per ogni singhiozzo di Narciso rende un singhiozzo uguale. «Ah, ragazzo che ho amato inutilmente!» dice a se stesso Narciso. «Addio!» La frase riecheggia per la valle. «Addio!...» La testa si adagia sull’erba, gli occhi si chiudono e Narciso muore, «assorto», dice Ovidio con dolente epitaffio, «come uno schiavo nel riflesso».

Giunto agli Inferi, dopo un ultimo sguardo al proprio riflesso persino nelle acque dello Stige, ennesimo abbraccio mancato, giunge il momento della metamorfosi. L’ennesima del lungo racconto ovidiano, a ribadire che dietro l’apparente anarchia del poema si affaccia sempre una rivelazione, il movimento psichico che attraversa ogni trasformazione. Il corpo adolescente di Narciso svanisce, lasciando al suo posto un fiore «color di croco al centro, e in giro petali bianchi».

Ovidio lo raccolse e ne fece un mito, Freud una realtà psichica: il narcisismo. «Chiamiamo narcisismo», scrive, «lo stato in cui l’Io trattiene presso di sé la libido, e ciò in ricordo della favola greca del giovane Narciso, che s’innamorò della propria immagine riflessa». È il passaggio di testimone dalla sapienza mitica a quella psicologica, perché non c’è psicologia senza apertura al mito: l’«immaginazione mitopoietica» di Jung, lo sviluppo psichico nel «dominio del mito» di Bion, la «psicomitologia» di Freud. Per il quale «i miti non sono piovuti giú dal cielo», ma lassú sono stati proiettati dopo esser nati tra gli uomini: «Ed è a questo contenuto umano che si rivolge il nostro interesse».

Stando ai racconti di Virginia Woolf e di Hilda Doolittle, il narciso era il fiore preferito da Freud.

«Il bacio che gli rese era di gelo».

Il mito ovidiano, un giovane che muore spasimando per il proprio riflesso mentre la voce di Eco fa rimbalzare il suo dolore nella valle, contiene i principali temi, le dominanti mitiche, che hanno contribuito a creare l’ossatura diagnostica e clinica di ciò che, a partire dalla fine dell’Ottocento, è stato chiamato «narcisismo»: l’insensibilità all’amore, l’incapacità di amare, l’autosufficienza, il culto della bellezza, la superbia, il disprezzo, la freddezza; ma anche la solitudine, l’illusione, la depressione e la disperazione. Sogno di un popolo, il mito, scrive Maurizio Bettini, «non è mai esaurito, c’è sempre un’altra versione da leggere; non è mai concluso, c’è sempre un’altra versione da scrivere». Il mito, a maggior ragione quello di Narciso, è un gioco di specchi, rifrazioni e varianti. Nel mondo greco, anche se in forme piú semplici e solo nel contesto di racconti erotici o morali, la storia di Narciso già esisteva. È però con le Metamorfosi che conquista la sua fama. Seguiranno le versioni di Stazio, Filostrato, Pausania, Plotino; poi le varianti medievali, alcune delle quali, piú sensibili alla cristianità, suggeriscono nel riflesso della fonte un’immagine femminile; poi Boccaccio, Calderón de la Barca, il dramma pastorale cinquecentesco Pastor fidodel Guarini. E ancora Keats, Wilde, Gide, Rilke, Valéry, Hesse, fino a Seamus Heaney, che trasforma l’incanto del riflesso in uno splendore poetico:

Da bambino non potevano tenermi lontano da pozzi

e vecchie pompe con argano e secchio.

Adoravo la discesa nel buio, il cielo intrappolato, gli olezzi

d’erbaccia acquatica, funghi e umido muschio.

Uno, in una mattonaia, aveva un’asse marcia sul colmo.

Gustavo l’intenso impatto quando un secchio

vi cadeva alla fine di una corda a piombo.

Cosí profondo che non vi si vedeva specchio.

Uno, sotto un muretto a secco, poco profondo,

fruttificava come un acquario. E se tiravi

lunghe radici dal pacciame sul fondo

un viso bianco vi aleggiava.

Altri avevano echi, restituivano i richiami

con una nuova nitida musica. E un altro

metteva paura perché laggiú, tra felci e digitali,

attraverso il mio riflesso schizzò un ratto.

Adesso, curiosare tra radici, tastare il limo,

contemplare, Narciso dai grandi occhi, qualche sorgente

va oltre ogni dignità di adulto. Rimo,

per potermi vedere, per rendere il buio echeggiante.

Non mancano gli splendori pittorici, come le raffigurazioni di epoca romana (nella sola Pompei se ne contano moltissime) o il Narcisodi Caravaggio, doppio come una carta da gioco, uno sventurato e fosforico fante di picche, solo, immerso nel buio, illuminato di luce propria. Con i ritratti di Narciso, spesso raffigurato con Eco (dunque ancor di piú risalta la solitudine del ritratto caravaggesco), si potrebbe riempire una galleria: da Domenichino a Poussin, da Waterhouse a Turner, fino alla Metamorfosi di Narciso di Dalí. Da piú di duemila anni ci domandiamo cosa ha visto Eco in Narciso e cosa Narciso nel suo riflesso.

Conone, scrittore di origini ateniesi, visse in epoca augustea e fu contemporaneo di Ovidio. Il suo Narciso è ambientato in Beozia, a Tespie. Anche in questa versione è un giovane bello ma cosí arrogante che tutti rinunciano a corteggiarlo. Tutti tranne Aminia, che per lui avrebbe dato la vita. Al culmine del disprezzo, il superbo gli dona allora una spada perché si uccida, e Aminia lo prende in parola. Secondo Conone, Narciso continua a contemplarsi nello specchio lacustre della sua vanità, ma non riuscendo a possedersi viene afferrato dalla disperazione. Al punto che, in un lampo inatteso di identificazione con il dolore suicida di Aminia, impugna anche lui la spada e si uccide pensando alla morte che ha causato. Mentre la terra assorbe il sangue di Narciso, ecco spuntare il suo fiore. «Da allora», scrive Conone, «gli abitanti di Tespie stabilirono di onorare e venerare ancor piú Eros, e di offrirgli sacrifici, sia in pubblico sia in privato». Un epilogo morale che, insegnando ai piú giovani la colpa e la pietà, ribadisce che chi rifiuta Eros, l’amore in ogni sua forma, fa una brutta fine. Non solo, innamorarsi di Narciso porta sventura. È cosí per Eco, è cosí per il giovane Aminia, sarà cosí per la povera Sybil innamorata di Dorian Gray. E per molti di noi: quelle e quelli che, innamorati di narcisi inaccessibili, sono convinti, con la devozione o con la guerra, di poterli cambiare, suggellando la fatale attrazione tra il narcisismo di chi non si concede e l’onnipotenza masochista di chi attende la resa. Quanti romanzi raccontano questa storia, e quanti film. Bel ami di Maupassant e Ritratto di signora di James, La strada scarlatta di Lang (un catena perversa dove ogni personaggio riflette nel proprio il narcisismo dell’altro) e Gaslight di Cukor.

Brevissima è la versione di Pausania, scrittore e geografo greco del II secolo d.C. La riassume in poche righe, a partire dalla convinzione «logica» che è impossibile non saper distinguere un riflesso da una persona reale; anzi, dice espressamente che «un giovane cosí idiota non può esistere». Pausania pensa che Narciso avesse una gemella con la quale condivideva i piaceri della caccia e della quale era innamorato. Lei però morí e dunque ogni volta che Narciso si specchiava in una fonte pensava al viso della sorella, cercando nella propria immagine quella di lei. Convinto che il fiore di narciso esistesse ben prima del mito, essendo citato nei versi epici del poeta Pamfo, di molto precedente a Ovidio, Pausania propone una trama razionale che azzera la complessità narrativa e psicologica del racconto: mancano Tiresia, Eco e la metamorfosi floreale. Non resta che il profumo di un amore gemellare e incestuoso.

Soffermiamoci sulla morte di Narciso. In Ovidio, una volta consapevole di non poter possedere l’oggetto del suo desiderio, Narciso muore di consunzione amorosa. Dunque, come profetizzato da Tiresia, è ucciso dalla conoscenza. In Conone, dove il fiore sgorga dal sangue, muore suicida nel sangue del senso di colpa. Narciso è sempre (per Eco come per Aminia) un altro inaccessibile attento solo a sé. Narciso è narciso perché non fa i conti con l’altro, o li fa troppo tardi. Vive in un mondo autoreferenziale. L’omosessualità di Narciso, messa in risalto da varianti mitiche e iconografiche, al di là della facile suggestione anatomica dell’amore per l’uguale a sé (ma dalla freudiana «anatomia come destino» abbiamo fatto molta strada), non sembra portare nuovi elementi di riflessione. Maestro degli studi psicoanalitici sul narcisismo, Heinz Kohut accoglieva con qualche riserva la tesi freudiana per cui l’omosessualità starebbe in una posizione intermedia tra amore oggettuale e narcisismo, dove si ama qualcuno perché è piú simile a noi. «Ci sono tipi di relazione eterosessuale», scrive Kohut, «che sono molto narcisistici e ci sono relazioni omosessuali molto evolute in cui il partner è riconosciuto come un individuo a pieno titolo». Una frase che lessi negli anni della mia formazione e cambiò la mia vita di futuro psicoanalista, e non solo la mia.

Dopo tante varianti antiche, veniamo alla commedia che Calderón de la Barca compose nel 1661: Eco y Narciso. Qui Liriope incinta si rifugia dal mago Tiresia che la inizia alle arti magiche e le predice che il figlio Narciso morirà per aver visto, o anche solo ascoltato, una creatura bellissima. Liriope decide allora di crescerlo in una caverna, isolato dal mondo. Narciso si allontana dalla caverna, si imbatte in Eco, ne rimane incantato e, ricordando le raccomandazioni della madre, fugge via. Nel frattempo Liriope, preoccupatissima, decide, con un incantesimo, di togliere la voce a Eco, come aveva fatto Giunone, lasciandole solo la facoltà di ripetere le parole dell’altro. Intanto Narciso vede la sua immagine riflessa in una fonte e se ne innamora, ancor piú di quanto gli era accaduto con Eco. La quale, con furbizia, si mette alle sue spalle e cerca di convincerlo che l’immagine che lui vede appartiene a lei. Narciso non capisce piú niente e crede che la ninfa abbia due corpi. È Liriope a fargli comprendere l’errore, mettendosi a sua volta alle spalle del figlio che finalmente capisce che la bellezza per cui si è perduto altro non è che la propria. Una vicenda tortuosa che mette in luce quanto Narciso sia in balia di una realtà che fino a quel momento, sequestrato dalla madre, non aveva mai incontrato. Nell’ultimo atto un cataclisma porrà fine, nello stesso istante, alla sua confusione e alla sua vita. Ancora una volta, dalla sua morte sboccerà il fiore.

Le ali di Icaro.

Per capire la complessità narcisistica c’è un altro mito a cui dobbiamo rivolgerci: Dedalo e Icaro. Ci pensa lo psicoanalista Stephen Mitchell in un saggio del 1986. La storia è nota, ma la riassumo brevemente. Dedalo, grande architetto e scultore ateniese, era stato condannato all’esilio nell’isola di Creta in seguito all’omicidio di suo nipote Talo, al quale aveva insegnato il mestiere ma dalla cui bravura si sentiva minacciato. A Creta, il re Minosse lo accoglie con benevolenza e gli commissiona la costruzione del Labirinto in cui rinchiudere il Minotauro. Ma Arianna, figlia di Minosse, proprio a Dedalo chiede consiglio per aiutare Teseo a uccidere la creatura mostruosa. Grazie al suggerimento di usare un filo per non perdersi nel Labirinto, Teseo riesce nell’impresa. Una volta fuggiti Arianna e Teseo, a Minosse non rimane che vendicarsi rinchiudendo Dedalo, con il figlio Icaro, nel Labirinto da lui costruito. Dedalo inventa un metodo ingegnoso per evadere: costruisce due paia d’ali, per sé e per Icaro, e insieme tentano la fuga spiccando il volo. Dedalo aveva raccomandato al figlio di stargli sempre al fianco, senza avvicinarsi troppo al sole perché il calore avrebbe sciolto la cera che teneva insieme le penne. Invece Icaro, inebriato dal volo, si allontana dal padre: le sue ali, come temuto, si disfano e il ragazzo precipita in mare. «La figura mitologica di Icaro», scrive Mitchell, «coglie in maniera vivida l’intensa relazione tra il bambino e le illusioni genitoriali». L’uso di quelle ali «richiede un autentico senso di equilibrio dialettico»: se voli troppo in alto corri il rischio che il sole le sciolga, se voli troppo in basso, corri il rischio che si inzuppino per l’umidità dell’oceano. Il saggio di Mitchell ci aiuta a cogliere il ruolo delle illusioni genitoriali nello sviluppo narcisistico dei figli. Tutti noi, infatti, dobbiamo fare i conti, spesso per tutta la vita, con le illusioni e le aspettative dei nostri genitori. «Come Icaro, quindi, tutti abbiamo indossato le ali di Dedalo».

Lo spiega ancora Gadda in una lettera a Gianfranco Contini in cui definisce il suo romanzo La cognizione del dolore: un «disperato tentativo di giustificare la mia adolescenza di “destinato al fallimento dallo egoismo narcisistico e follemente egocentrico dei predecessori, dei vecchi, e degli autori de’ miei anni in particolare”». Lo stile e l’altezza del nostro volo dipendono da queste ali. Alcuni di noi riescono a goderne e a dargli una direzione personale. Altri rimangono vittime del peso delle illusioni e finiscono per volare troppo in alto, bruciandosi, o, al contrario, non riescono ad alzarsi da terra. Molti sembrano portati dal volo proprio là dove vogliono andare, ma un occhio esperto capisce se il volo è forzato, muscolare, oppure se è un volo leggero, di libertà.

I principali modelli psicoanalitici del narcisismo erano rappresentati, negli anni Ottanta, da due teorie non compatibili: una tendeva a considerare le caratteristiche della personalità narcisistica, mettiamo la grandiosità o l’idealizzazione, come difese regressive dalla frustrazione, dall’invidia o dalla dipendenza; un’altra le considerava come l’esito di un fallimento nella capacità genitoriale di rispecchiare, valorizzare e ammirare il bambino e il suo bisogno creativo di grandezza e perfezione. Se nel primo caso, commenta Mitchell, il narcisista prototipico è il bambino, il pazzo o il selvaggio, nel secondo è l’artista creativo, che immerge l’ispirazione nelle sue illusioni. La prospettiva di Mitchell vuole invece assegnare, nella teoria del narcisismo, un posto di rilievo al carattere dei genitori e alle loro fantasie. Molte caratteristiche del narcisista si sviluppano precocemente nel contesto familiare e si confermano come modelli prevalenti di relazione anche al di fuori della famiglia. Anche quando ce ne accorgiamo sul piano clinico, sul piano eziologico non sottolineiamo mai abbastanza l’importanza della personalità dei nostri genitori e i modi, piú o meno benefici, con cui le loro illusioni narcisistiche hanno colonizzato e forgiato il nostro stile e le nostre relazioni. Quando facciamo i conti con gli aspetti difensivi degli ideali narcisistici non dobbiamo sottovalutare il loro ruolo nella costruzione della nostra salute e della nostra creatività; ma quando consideriamo il ruolo delle illusioni narcisistiche in relazione alla crescita, non possiamo sottovalutare il modo in cui spesso finiscono per interferire con la spontaneità del coinvolgimento nelle relazioni con gli altri.

A ben guardare, entrambe le posizioni, illusioni come zavorra difensiva e illusioni come potenziale fonte di crescita, sono plausibili. Ma cosa determina un uso piuttosto che l’altro? La risposta di Mitchell è perentoria: «L’uso che di questo bisogno è stato fatto nelle relazioni del passato». Un genitore che prende troppo sul serio il volo narcisistico finirà per sopravvalutare se stesso, il bambino e la sua relazione con lui. Le illusioni narcisistiche diventano necessarie per il genitore e condizionano sempre piú il suo modo di porsi nei confronti del figlio. A questo punto, tali illusioni diventeranno fondamentali anche per il bambino, che inizierà a vivere come se l’unico modo per sentirsi amato e in contatto con il padre o la madre sia partecipare alle loro illusioni, per non dire realizzarle. Si creano cosí beatitudini narcisistiche a due (o anche a tre, se sono coinvolti entrambi i genitori) che, se non elaborate e precocemente messe in discussione, sono il piú delle volte destinate a naufragare; o a bloccarsi nelle strettoie del bivio narcisistico: «se affermo me stesso perderò il tuo amore», ma anche «se affermo me stesso ti darò un dolore».

Gli adolescenti che portano sulle loro scapole questo tipo di ali vorranno sempre volare in modo impeccabile per confermare la propria importanza agli occhi dei genitori, e quindi dei propri. Inevitabilmente, sostenere l’ideale del genitore diventa lo stile di ogni tipo di legame: la tirannia narcisistica del non poter deludere, che il piú delle volte ci fa sentire aquile che temono di essere scambiate per passeri.

Le illusioni narcisistiche ci accompagnano per tutta la vita. Riguardano la considerazione di sé e delle proprie capacità; l’idealizzazione delle qualità altrui, che possiamo ammirare e invidiare; la fantasia di un’unione senza conflitti con qualcuno che, senza che ne siamo consapevoli, garantisce con la sua presenza, temuta o riverita, la nostra sopravvivenza narcisistica. È molto importante riconoscere se, dal punto di vista narcisistico, stiamo mettendo il piede nel campo della psicopatologia o se ci stiamo muovendo in territori compatibili con la capacità di uno sguardo autocritico e un buon funzionamento delle relazioni. Molto dipende dal nostro atteggiamento nei confronti delle illusioni narcisistiche. A volte non è tanto una questione di ingredienti, ma di dosaggio. Sopravvalutare e sottovalutare, idealizzare o svalutare, venerare o disprezzare sono caratteri distintivi dello stile relazionale narcisistico che tutti conosciamo per averli provati in prima persona o per esserne stati l’oggetto. Il punto è quanto prendendosi sul serio, e soprattutto quanto spesso. Il problema del narcisismo non riguarda solo il contenuto dei nostri pensieri, ha molto a che fare col modo in cui li trasformiamo, e con la forma del nostro carattere. Riguarda la nostra capacità di guardare se lo specchio, oltre a noi stessi, riflette qualcun altro. Di solito ci sono altre persone: se non le vediamo è un problema.

Peter Puer.

C’è un’altra creatura alata nell’arcipelago N e ha una sua isola: «l’isola che non c’è». Zampilla ai primi del Novecento dalla penna dello scrittore inglese James Matthew Barrie, che era stato un bambino gracile, portato per le storie fantasiose, segnato all’età di sei anni dalla morte del fratello maggiore per un incidente mentre pattinava sul ghiaccio. Fu la perdita irrimediabile della sua infanzia, e forse il motivo della sua letteratura. Peter Pan compare per la prima volta nell’opera L’uccellino bianco del 1902, per poi diventare il protagonista del famoso romanzo. Peter è un bambino che non vuole crescere, è magico e volante, libero e pieno di fantasia. La psicologia pop si è inventata una sindrome a lui ispirata, descritta nel 1983 dallo psicologo Dan Kiley nel libro The Peter Pan Syndrome. Men Who Have Never Grown Up. Generica e suggestiva, giustamente ignorata dalla diagnostica scientifica, vorrebbe indicare, un po’ moralisticamente, la resistenza psicologica di alcuni individui, soprattutto maschi, a diventare grandi assumendosi le responsabilità che la società, vissuta come ostile, impone. La bellezza della storia di Peter Pan non è certo nella sua spendibilità diagnostica, bensí nel racconto – soprattutto in un’epoca in cui alla vita dei bambini veniva dato poco peso – della fantasia infantile come mondo-rifugio per rinviare l’incontro con l’eccessiva dose di realtà della vita adulta. Quando Wendy Darling, una bambina che Peter trascina con sé in un immaginario viaggio notturno, gli chiede dove abiti, Peter risponde: «Seconda stella a destra, poi dritto fino al mattino». Una risposta poetica, data per fare colpo: Peter Pan, infatti, ha le caratteristiche letterarie del bambino di strada seduttore e un po’ sbruffone, avventuroso e travolgente. È l’idolo di una piccola banda, quella dei Bambini Perduti, che non vogliono tornare in famiglia e si troveranno a vivere con lui, con Wendy e i suoi fratellini battaglie rocambolesche contro il cattivissimo Capitan Uncino. A complicare le cose il carattere capriccioso della gelosa fatina Campanellino (Tinker Bell), amica di Peter, capace di risolvere i problemi ma anche di creare scompiglio. Alla fine Wendy sceglierà la comodità del suo lettino e l’affetto protettivo dei genitori e del grande cane-tata Nana. Peter rimarrà nel mondo dei sogni e delle fantasie, una tentazione archiviata nel sapore della nostalgia. La forza dei legami reali alla fine vince sul rifugio immaginario di Peter, che è sempre in volo e sempre sostanzialmente solo: «Tutti i bambini crescono, meno uno», questo l’incipit del romanzo. Non ci sono vincitori né vinti e al lettore resta l’esperienza della scelta, sapendo che scegliere implica sempre una perdita.

L’eternizzazione dell’infanzia è anche un tema del romanzo di Lewis Carroll Attraverso lo specchio, seguito delle Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, alla quale Humpty Dumpty dirà: «Sette anni e sei mesi. Un’età molto scomoda! Se tu avessi seguito il mio consiglio, ti avrei detto: fermati a sette! Ma ormai è troppo tardi».

La psicologia junghiana riconosce nella figura di Peter Pan, come in quella del Piccolo Principe (libro che ogni anno vende piú di due milioni di copie nelle trecentoquaranta lingue in cui è tradotto), l’archetipo del puer aeternus, anch’esso proveniente, come il mito di Narciso, dalle Metamorfosi, quando, celebrando Dioniso, Ovidio dice: «Libero, giovinezza intatta, fanciullo in eterno, bello come nessuno a mirarsi nel cielo supremo…» Quella del Puer, al femminile Puella, è una figura psichica che sul versante positivo rappresenta il mondo delle possibilità infinite, la creatività, la spontaneità, la curiosità e l’anticonformismo; e anche lo scorrere dell’acqua, la bellezza del volo, lo stato di giovane promessa, forza creativa e mercuriale. Mentre sul versante negativo rappresenta la mancanza di autonomia psicologica, l’instabilità, la pericolosa passione per il volo che prelude la caduta (come per Icaro e Saint-Exupéry). Dunque in bilico tra l’espressione propulsiva di un mondo fantastico prezioso e creativo e una forma patologica di infantilismo e disimpegno dalle responsabilità.

«L’eterno fanciullo nell’uomo», scrive Jung, «è un’esperienza indescrivibile, un’incongruenza, uno svantaggio e una prerogativa divina, un imponderabile che determina il valore o il disvalore ultimo di una personalità […]. Il fanciullo è l’abbandonato e l’esposto a tutto, e al tempo stesso il divinamente potente, l’inizio insignificante e dubbioso e la fine trionfante».

Anche se viene in mente il paradiso infantile, cristallizzato e post-traumatico, del Neverland Ranch di Michael Jackson, quasi a costruire un ponte tra fuga nell’infanzia e trauma infantile, sarebbe ingiusto ridurre il nostro Peter Puer al complesso narcisistico di chi non vuole crescere, alla negazione del tempo e alla paura di invecchiare, alla fuga dalla realtà e al rifiuto dei suoi necessari compromessi. Non dimentichiamo il vecchio insegnamento di James Hillman per cui «se i terapeuti della nevrosi fossero dottori in filosofia sarebbero in grado di vedere non soltanto quanto di nevrotico c’è in ogni filosofia ma anche quanto di filosofico c’è in ogni nevrosi».

Il Puer volante, nella sua impossibilità di fermarsi a raccogliere i frutti, è anche il mondo della fantasia, la vivacità immaginativa, il fascino dell’avventura, l’energia dell’impresa. È la potenzialità. Ma poiché le potenzialità vanno raccolte, il Puer è sempre una figura «mancante» che richiede un completamento, un incontro, anche se vi si oppone caparbiamente. In modo del tutto indipendente dalle reificazioni di genere, il suo completamento non può che essere il Senex, cioè Saturno, la disposizione depressiva, la pesantezza della conoscenza, l’autorevolezza della funzione paterna. Il Puer che non incontra il Senex rischia di rimanere una creatura-fiore e come tale appassire prima del frutto e del seme: forma di possibilità, perenne stato di giovane promessa. Ma il Senex che non incontra il Puer rischia il rigore della freddezza, la caduta plumbea nella depressività mortifera dei suoi simboli che sono la falce e la clessidra. Senex e Puer sono i poli di un unico aspetto dinamico e hanno l’uno bisogno dell’altro. La risoluzione del loro conflitto dipende dalla funzione mediatrice della psiche, dalla possibilità di incontrare le immagini del mondo interno per integrare gli opposti, che spesso è il senso di un’analisi. Ignorare l’integrazione degli opposti è rischioso: forse per questo gli Etruschi veneravano Tages, spirito ragazzino dai capelli bianchi, immagine del Puer senilis, il Paedogeron dipinto da Albrecht Dürer. Alla struttura Puer unilaterale manca il recipiente psichico che permette di contenere e trattenere la ricchezza dissoluta del suo slancio liquido, consentendogli di far da padre a se stesso. Il passaggio da una psiche incontinente a una psiche contenuta, da una dimensione tutta-puer a una dimensione puer-et-senex, non può che passare dal sale delle lacrime. ll Puer è uno «scialacquatore, affascinante e irritante» che, scrive il collega Augusto Romano, «sparge intorno a sé semi che altri, forse, utilizzeranno». Utilizzandoli lo tradiremo e al tempo stesso gli renderemo omaggio.

Il riflesso di Lacan.

Come mai mi sono talmente spaventato in sogno da ridestarmi?

Non mi si è forse avvicinato un fanciullo che portava uno specchio?

FRIEDRICH NIETZSCHECosí parlò Zarathustra.

Inseguendo le storie di Narciso è inevitabile imbattersi in quello stadio dello sviluppo infantile che Jacques Lacan, riprendendo le ricerche sperimentali sulla percezione compiute da Henri Wallon, teorizza come «stadio dello specchio» e considera un «crocevia strutturale» nella costituzione della soggettività umana. Quando, tra i sei e i diciotto mesi di vita, il bambino si guarda nello specchio e dà segno di riconoscere la propria immagine, è lí, dice Lacan, che nella sua mente inizia a costituirsi il nucleo dell’Io. A quell’età la coordinazione motoria e l’identità del bambino sono ancora immature. Riconoscersi nell’immagine riflessa nello specchio li entusiasma, incuriosisce e diverte, cosí almeno sembra dalla loro mimica. La loro unità somatopsichica, fino a quel momento niente affatto armoniosa, prende forma. Si tratta di un’acquisizione di identità attraverso l’identificazione (con la propria immagine riflessa) che al tempo stesso segna però una frattura insanabile vista l’impossibilità di ricongiungersi con l’immagine speculare. Non è questo il dilemma di Narciso? «Questa Gestalt», scrive Lacan, «simbolizza la permanenza mentale dell’Io e al tempo stesso ne prefigura la destinazione alienante». L’immagine sostituisce la realtà fisica, un’immagine che riflette il desiderio dell’altro attraverso lo sguardo della madre con cui il bambino si identifica e della quale assume il desiderio come proprio. In questo senso, per Lacan, l’Io, diversamente dall’essere un’istanza centrale della personalità come nella cosiddetta «psicologia dell’Io», è fin dall’inizio alienato e quasi «minacciato» da quell’altro che gli consente di esistere. Il nucleo piú profondo dell’Io, dice Lacan, è paranoico. Si prefigura qui l’idea del soggetto lacaniano come strutturalmente diviso ed è per questa via che Lacan sottolinea la dimensione tragica dello stadio dello specchio, la cui essenza è quella di essere una «lacerazione originale» in cui l’essere del soggetto è per sempre separato dalla sua proiezione ideale. Lo stadio dello specchio è dunque un passaggio drammatico e paradossale delle nostre vite: mentre diventiamo Io ci dividiamo definitivamente da noi stessi. E chissà se potrebbe essere anche questo il significato dell’oracolo di Tiresia.

Lacan sottolinea il ruolo della madre in questo momento fondamentale della costruzione della nostra identità: è lei, infatti, che tenendo in braccio il bambino gli dice «quello sei tu». «Lo specchio», commenta Massimo Recalcati, «offre al bambino la possibilità di costituire la propria identità attraverso un’immagine che egli percepisce come quella di un altro ideale». Da una parte il corpo reale e ancora scoordinato del bambino, dall’altra lo «splendore narcisistico che riveste la sua immagine speculare»: «il sorgere dell’Io (moi)», continua Recalcati, «avviene quindi sulla sfasatura tra l’al di qua e l’al di là dello specchio, tra la frammentazione del corpo reale e l’unità narcisistica dell’Io ideale». Unità irraggiungibile che alimenta una rappresentazione di sé animata da un’«erotizzazione rivaleggiante». Lo stadio dello specchio è una sorta di miraggio perché, scrive Nicolò Terminio, «l’essere del soggetto non coinciderà mai con il riflesso dell’immagine». Senza l’incontro con «l’alterità radicale che l’attende oltre il miraggio dello specchio», l’Io rischia di perdersi nel suo doppio. Per il narcisista la relazione con l’altro è solo la conferma di un gioco di specchi. Non dimentichiamo che per Freud il narcisismo segna il rapporto con la propria immagine ideale (l’Io ideale) nella formazione dell’Io. Nasciamo a noi stessi grazie al corpo materno – che guarda, accarezza, nutre – e il corpo riflesso. Da qui le future forme dell’amore, piú dipendenti o piú rispecchianti. Ancora con Valéry: «È ben altra cosa amore | che baciare sopra l’acqua | il riflesso di una rosa».

Nel 1967 Donald Winnicott, pediatra e psicoanalista, svilupperà in chiave relazionale il tema lacaniano. Quando è ancora piccolo e si guarda allo specchio, raramente il bambino è solo. C’è un genitore che lo mette davanti allo specchio che rifletterà l’immagine di entrambi. Festeggiano insieme questo momento, giocano e ridono. Qui Winnicott dice una cosa bellissima e importante: la scoperta dello specchio presuppone un’esperienza precedente in cui il bambino è stato già «rispecchiato» dallo sguardo materno che è il vero precursore dello specchio: «Che cosa vede il lattante quando guarda il viso della madre? Secondo me [...] vede se stesso. In altre parole la madre guarda il bambino e il modo in cui lei appare è in rapporto con ciò che vede». Winnicott riconosce il suo debito nei confronti di Lacan, ma dice qualcosa di molto diverso: lo specchio del bambino è il volto della madre. Come se madre e bambino si rispecchiassero continuamente (ri)creandosi l’un l’altro e contraddicendo l’incipit straziante dello Specchio di Sylvia Plath: «Sono d’argento e rigoroso. Non ho preconcetti. | Quello che vedo lo ingoio all’istante | cosí com’è, non velato da amore o da avversione».

Torniamo a Lacan: nella prima fase il bambino identifica l’immagine riflessa con quella di un altro sconosciuto; nella seconda è in grado di riconoscere l’altro, ma solo come immagine e non come reale; nella terza riconosce l’altro come propria immagine riflessa. Allora potremmo dire che Narciso, proprio nel momento in cui raggiunge il culmine evolutivo della fase dello specchio, soccombe perché non riesce a liberarsi di quella fascinazione ingannevole. Da qui le due ipotesi: quella terapeutica per cui soccombe il narcisista e rinasce il soggetto consapevole della sua parzialità; quella mitologica, per cui collassa l’identità intera e vi sono disperazione, frammentazione, suicidio. Quella oracolare le comprende entrambe, poiché, ancora con Eraclito: «Il signore, il cui oracolo è a Delfi, non dice né nasconde, ma indica». Fuor dall’oracolo, aggiungo che molto dipende dall’organizzazione di personalità che dà casa allo stile narcisistico. Ma di questo parleremo nella seconda parte del libro.

Specchio delle mie brame.

I tacchi tripli da far eccellere la su’ naneria: e nient’altro.

CARLO EMILIO GADDAEros e Priapo.

Si può riflettere sullo specchio senza evocare Biancaneve e Dorian Gray? Nella favola dei fratelli Grimm, ma anche nella versione annacquata di Walt Disney (dove comunque i temi psichici rimangono potenti: infanticidio, blocco della crescita, fasi dello sviluppo psichico, conflitto madre-figlia, scissione madre buona/cattiva, riconoscimento evolutivo o celebrazione narcisistica), la matrigna passa il tempo ad ammirarsi allo specchio e a chiedersi non se è bella, ma se è «la piú bella». Grimilde, la matrigna narcisista di Biancaneve, ha bisogno di essere rassicurata sulla supremazia della propria bellezza e si carica di rabbia non appena la sente minacciata. Grandiosa perché insicura, egocentrica per non lasciare spazio al confronto, prepotente perché invidiosa. Mi ricorda una persona con cui ho lavorato che dava in escandescenze narcisistiche (nel suo caso c’era anche un tocco antisociale per completare il quadro) tutte le volte che qualcuno dei suoi collaboratori aveva un punto di vista diverso dal suo. Per questo si circondava di collaboratori-specchio che tutte le mattine la rassicuravano: «Sei tu la piú bella del reame». Ma un giorno, anche per lei, arrivò Biancaneve. Era gentile e ascoltava gli altri, non solo se stessa. In poche settimane quasi tutti i collaboratori le voltarono le spalle perché alla domanda consueta: «Specchio, servo delle mie brame, chi è la piú bella del reame?», persino uno specchio fedele può rispondere: «Bella tu sei bella, o mia Regina, ma attenta una fanciulla c’è, assai piú bella di te».

Oscar Wilde ambienta Il ritratto di Dorian Gray nella Londra vittoriana di fine Ottocento. Anche qui, come nel mito, l’esagerato amore di sé conduce alla rovina. Dorian è un giovane molto bello che, ritratto dal pittore Basil Hallward, si scopre a provare invidia per quell’immagine destinata a non invecchiare mai. Non posso fare a meno di riportare i versi conclusivi della già citata poesia di Sylvia Plath, dove lo specchio parla di una fanciulla: «Ogni mattina è sua la faccia che prende il posto del buio. | In me ha annegato una ragazza e in me una vecchia | sale verso di lei giorno dopo giorno come un pesce tremendo». Dorian, però, fa un patto con il diavolo: lui rimarrà sempre giovane, sarà il quadro a invecchiare. Tuttavia, con i segni della decadenza fisica il ritratto mostrerà anche quelli della decadenza morale, imbruttendosi ogni volta che Dorian si comporta in modo crudele o ingiusto. Il ritratto non riproduce il volto, ma la coscienza, e Dorian decide di sbarazzarsi di entrambi, ritratto e coscienza, nascondendoli in soffitta.

Provò un senso di dolore pensando all’infamia che avrebbe offuscato il bel viso dipinto. Un giorno, parodiando fanciullescamente Narciso, aveva baciato, o finto di baciare, quelle belle labbra che ora gli sorridevano cosí crudelmente. Mattine e mattine s’era seduto davanti al ritratto, meravigliandosi della sua bellezza; gli era parso talora d’esserne innamorato. D’ora innanzi la sua vita avrebbe mutato ad una ad una le fattezze delle quali egli si era compiaciuto. Sarebbe divenuto una cosa mostruosa e ripugnante, da chiudersi in una camera buia?

Come nel mito ovidiano, chi si innamora di Dorian dovrà subire le conseguenze del suo spietato narcisismo: l’attrice Sybil Vane si suiciderà dopo essere stata abbandonata per una recita giudicata non all’altezza, il pittore Basil Hallward verrà ucciso. Finché, spinto da un’indomabile rabbia narcisistica, Dorian finirà per pugnalare il suo stesso ritratto: il suo cadavere verrà trovato dai servitori, un uomo vecchio e rugoso con un pugnale conficcato nel cuore, mentre il volto dipinto tornerà al giovanile splendore. Il ritratto di Dorian Gray è una grande opera letteraria ma anche uno straordinario quadro clinico su una personalità narcisistica grandiosa e al tempo stesso fragile: l’egocentrismo, l’idealizzazione della bellezza, l’invidia distruttiva, la vergogna di sé, la svalutazione dell’altro, l’incapacità di amare, il sentimentalismo compiaciuto, il vuoto che cresce dentro e attorno a sé e le fantasie grandiose che cercano di compensarlo. Fino alla forma piú maligna, che si sottrae alla coscienza morale, elimina la colpa e il rimorso, accentua il sadismo.

Le dominanti mitologiche e letterarie ricompaiono nelle teorie cliniche e nei criteri che i manuali diagnostici elencano per guidare i terapeuti alla diagnosi del disturbo narcisistico di personalità. Dopo aver concluso, nel 1914, la stesura della sua Introduzione al narcisismo, Freud scrive all’amico Karl Abraham: «Il narcisismo è stata una dura fatica e porta tutti i segni delle sue deformità». La frase continua a risuonare, non solo perché abbiamo appena distolto lo sguardo dalle deformità fisiche e morali del ritratto di Dorian Gray, ma anche perché, nonostante la mole di studi clinici e teorici, il riflesso di Narciso continua a mostrarsi inafferrabile e difforme: non solo nella personalità individuale, ma anche, sempre di piú, in quella collettiva.

Nella seconda parte del libro proverò a descrivere il narcisismo utilizzando un approccio contrario a quello che ho usato fin qui: non per aprirmi al mito ma per inclinarmi alla diagnosi, cioè a quello strumento indispensabile che, mentre ci racconta l’unicità del singolo paziente, contemporaneamente ci indica la sua appartenenza a una categoria piú generale di persone con simili caratteristiche. Lo scopo sarà dunque descrivere la personalità narcisistica in modo piú disciplinato, ma sempre grato, per usare ancora le parole di Gadda, al «genio di quel popolo che intuí e divinò e di poi descrisse e di poi celebrò nelle sue favole i dimolti moti della psiche». Perché, scrive Sallustio, «queste cose non avvennero mai, ma sono sempre».

1. Tutte le traduzioni di Ovidio presenti in questo capitolo sono di Ludovica Koch per il volume curato da Alessandro Barchiesi e Gianpiero Rosati per la Fondazione Lorenzo Valla.


Capitolo secondo

Il caso clinico

Ci sono almeno due punti su cui tutti concordano: uno è che il concetto di narcisismo è uno dei piú importanti contributi della psicoanalisi, l’altro è che è uno dei piú confusi.

SYDNEY F. PULVERNarcissism. The term and the concept.

Narcisismo sano e patologico.

La consapevolezza del nostro valore, il bisogno di essere amati e riconosciuti, la capacità di tollerare le frustrazioni e di regolare l’autostima sono tra le principali componenti del nostro equilibrio psichico. Determinano il colore delle nostre relazioni e costruiscono il livello di sicurezza e piacere delle nostre vite. Stiamo bene quando abbiamo una percezione realistica, quindi non idealizzata, delle nostre qualità e competenze, e non ci sentiamo minacciati o troppo vulnerabili. Quando abbiamo una fiducia affettuosa, né troppo elevata né troppo scarsa, in noi stessi, quindi anche nel nostro corpo, di cui accettiamo limiti e difetti, e sperimentiamo in modo elastico sentimenti di padronanza, efficacia e vitalità. Sono caratteristiche che iniziano a formarsi nel contesto delle prime relazioni con i nostri genitori, quando l’esperienza di sintonizzazione reciproca ci consente di interiorizzare le cure che riceviamo. Chi si occupa di noi, ci nutre e ci accarezza, contribuisce a farci crescere pensandoci meritevoli d’amore. Un amore che restituiamo facendo sentire l’altro utile e competente: accolti con il sorriso premiamo con il sorriso. La costruzione della nostra salute narcisistica vive nello scambio, mentre impariamo a camminare sull’asse d’equilibrio che collega l’io al tu e inevitabilmente al noi. Sappiamo bene come è facile cadere su quel cammino, quante sfide e quanti ostacoli incontriamo: arrivano dal temperamento, dal tipo di accudimento ricevuto, dal contesto e dalle circostanze. Per fronteggiarli, certo non nel migliore dei modi, facciamo la coda come pavoni, carichiamo come tori, ci gonfiamo come tacchini, twittiamo come usignoli, volteggiamo come farfalle, ci mimetizziamo come camaleonti. Per sentirci invulnerabili, per non sentire il sapore dell’umiliazione o della paura, ci costruiamo un vestito con la stoffa disponibile, escogitiamo difese con gli strumenti che abbiamo. Siamo i sarti del nostro narcisismo, che può essere un abito elegante o semplicemente adatto all’occasione, oppure un travestimento insincero e autocelebrativo, troppo appariscente o magari dimesso in modo sospetto.

Di solito usiamo la parola narcisismo con un’accezione negativa, perché tutti abbiamo subito gli effetti del narcisismo patologico. Ma c’è anche un narcisismo sano che, in alcuni casi di sottovalutazione di sé, va stanato, irrobustito, valorizzato. A fronte di tante persone che si guardano troppo allo specchio ce ne sono alcune che non si guardano mai. Lo psicoanalista inglese Christopher Bollas ha coniato l’espressione «antinarcisista» per definire chi, anziché cercare e inventare relazioni e oggetti capaci di articolare il proprio idioma, vive in una condizione di «stagnazione psichica», coltiva un narcisismo negativo che preclude la realizzazione del vero Sé e si oppone, dice Bollas, «al proprio destino».

Cosa intendiamo dunque per narcisismo sano? Direi prima di tutto la capacità di riconoscere le nostre qualità positive e di regolare l’autostima; la convinzione del valore e della dignità personale, con l’aggiunta di un’equilibrata soddisfazione per le nostre caratteristiche fisiche o mentali, le nostre capacità, i successi. Una specie di gioia di sé che è intermittente ma ci sostiene senza bisogno di cancellare l’altro o attivare dinamiche di rivalità invidiosa. È la collaborazione costruttiva fra lo sguardo degli altri e l’auto-osservazione, l’equilibrio tra il bisogno di riconoscimento e la capacità di farne a meno. Un amor proprio senza presunzione, la capacità di provare gratitudine. Che è anche il titolo dell’ultimo libro di Oliver Sacks, quattro brevi testi scritti con la consapevolezza della morte imminente: «Non posso fingere di non aver paura. A dominare, però, è un sentimento di gratitudine. Ho amato e sono stato amato; ho ricevuto molto, e ho dato qualcosa in cambio; ho letto e viaggiato e pensato e scritto. Ho avuto un contatto con il mondo, di quel tipo particolare che ha luogo tra scrittori e lettori. Piú di tutto, sono stato un essere senziente, un animale pensante, su questo pianeta bellissimo, il che ha rappresentato di per sé un immenso privilegio e una grandissima avventura».

In una cultura come la nostra, piú volte definita «narcisistica», dove l’esibizione e l’autocelebrazione sono sempre piú rinforzate dal contesto, non è facile riconoscere la linea di demarcazione fra il tratto narcisistico e l’adattamento culturale. Un buon sistema è considerare lo stile delle relazioni, l’autenticità nell’amicizia, la generosità nell’amore, la sincerità del proprio interessarsi agli altri, la capacità di perdonare le imperfezioni proprie e altrui e di tollerare le frustrazioni. Clinica e ricerca concordano su una cosa: le persone che soffrono di un disturbo narcisistico di personalità non riescono a far stare bene le persone che le amano. Un tema oggi messo a fuoco persino da una fiorente manualistica di «auto-aiuto» con titoli come «Difendersi dai narcisisti», «Il manipolatore narcisista», «Disarmare il narcisista».

Tutti abbiamo dei tratti narcisistici e anche grazie a essi riusciamo a perseguire i nostri obiettivi, essere orgogliosi dei nostri successi, provare gioia per ciò che facciamo, raccogliere i frutti della nostra simpatia o del nostro fascino, nutrire le aspirazioni creative. Ma quando questi tratti diventano troppo marcati e pervasivi, allora lo stile narcisistico diventa un disturbo narcisistico e interferisce con la nostra vita psichica e relazionale. Dipende anche dall’età: tratti narcisistici particolarmente evidenti durante l’adolescenza appartengono al percorso di crescita e non indicano necessariamente un’evoluzione problematica (anche se desta preoccupazione una crescente sofferenza narcisistica dell’adolescente, che porta con sé un aumento di comportamenti autolesivi e purtroppo suicidari); nella vita adulta, i tratti narcisistici possono accentuarsi in particolari momenti di competizione o di successo e mettersi al servizio della propria immagine sociale; nella seconda metà della vita la necessità di misurarci con l’invecchiamento del corpo può richiedere una corsa ai ripari narcisistici.

Come schematizzato in Figura 1 potremmo collocare il narcisismo sano nella posizione intermedia di una curva che ha due estremi patologici: da una parte un’immagine troppo negativa di sé, con sentimenti di inferiorità e impotenza; dall’altra un’immagine troppo positiva di sé, con sentimenti di superiorità e onnipotenza che possono impennarsi a configurare un disturbo narcisistico di personalità fino a esprimersi in forma grave nella sindrome del «narcisismo maligno».

Il disturbo dei disturbi.

Per raccontare le diagnosi del narcisismo parto dalla piú nota, anche se parziale e controversa: il disturbo narcisistico di personalità secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) dell’American Psychiatric Association. Ci servirà a tracciare i contorni di una casistica che, come vedremo, ha molte forme e varianti. Giunto alla sua quinta edizione (la prima risale al 1952, ma il primo riferimento a un disturbo narcisistico compare solo nella terza edizione del 1980), il DSM definisce genericamente il disturbo di personalità come «un pattern costante di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo, è pervasivo e inflessibile, esordisce nell’adolescenza o nella prima età adulta, è stabile nel tempo e determina disagio o menomazione». Stando al DSM-5, la prevalenza del disturbo narcisistico può arrivare fino al 6,2 per cento, a seconda dei campioni di popolazione, con il 50-75 per cento di individui diagnosticati di genere maschile. Numeri che ci dicono poco, dal momento che una rilevazione attendibile è praticamente impossibile, se non altro perché la maggior parte delle persone narcisiste raramente si rivolge spontaneamente a un clinico in cerca di aiuto. Piú attendibile il riferimento alla maggioranza maschile, anche se ritengo esistano espressioni narcisistiche con diverse connotazioni di genere, legate sia agli aspetti costituzionali sia alle aspettative sociali e culturali (per cui, mediamente, gli uomini tenderebbero a manifestazioni piú «esternalizzanti» e le donne piú «internalizzanti»).

1. L’arcipelago N.

1. L’arcipelago N.

Il disturbo narcisistico è uno dei dieci disturbi di personalità classificati dal DSM-5, che sono: il paranoide, caratterizzato da sfiducia e sospettosità, per cui le motivazioni degli altri vengono interpretate come malevole; lo schizoide, con distacco dalle relazioni sociali e una gamma ristretta di espressività emotiva; lo schizotipico, con disagio acuto nelle relazioni affettive, distorsioni cognitive o percettive ed eccentricità nel comportamento; l’antisociale, segnato da inosservanza e violazione dei diritti altrui; il borderline, con instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e degli affetti, e marcata impulsività; l’istrionico, dominato da emotività eccessiva e ricerca di attenzione; l’evitante, con inibizione sociale e sentimenti di inadeguatezza e ipersensibilità ai giudizi negativi; il dipendente, con comportamento sottomesso e adesivo, legato a un eccessivo bisogno di essere accudito; l’ossessivo-compulsivo, dominato da preoccupazione per l’ordine, perfezionismo ed esigenze di controllo. Quanto al disturbo narcisistico di personalità, il DSM-5 lo descrive come caratterizzato da grandiosità (nella fantasia o nel comportamento), bisogno di ammirazione e mancanza di empatia. Per formulare la diagnosi, devono essere soddisfatti almeno cinque dei nove criteri che elenco qui sotto. Sono criteri molto chiari e semplici, persino troppo, e sono certo che, leggendoli, penserete ad alcuni personaggi pubblici e a qualche conoscente:

  1. Ha un senso grandioso di importanza (per esempio, esagera risultati e talenti, si aspetta di essere considerato superiore senza un’adeguata motivazione).
  2. È assorbito da fantasie di successo, potere, fascino, bellezza illimitati, o di amore ideale.
  3. Crede di essere «speciale» e unico e di poter essere capito solo da, o di dover frequentare, altre persone (o istituzioni) speciali o di classe sociale elevata.
  4. Richiede eccessiva ammirazione.
  5. Ha un senso di diritto (cioè l’irragionevole aspettativa di speciali trattamenti di favore o di soddisfazione immediata delle proprie aspettative).
  6. Sfrutta i rapporti interpersonali (cioè approfitta delle altre persone per i propri scopi).
  7. Manca di empatia: è incapace di riconoscere o di identificarsi con i sentimenti e le necessità degli altri.
  8. È spesso invidioso degli altri o crede che gli altri lo invidino.
  9. Mostra comportamenti o atteggiamenti arroganti, presuntuosi.

Quando espliciti, grandiosità e bisogno di ammirazione sono tratti ben riconoscibili. Quanto alla mancanza di empatia, che spesso si traduce nel non fare caso al dolore che si può procurare a un’altra persona, mi viene in mente un’amica che, lasciata da qualche mese dal suo compagno, e ancora visibilmente provata, incontra il suo ex in un negozio e lui non riesce a trovare di meglio che dirle quanto sia felice con l’attuale compagna, che definisce «la donna della mia vita». Ma anche raccontare quanto ci sentiamo in forma a un amico provato da una chemioterapia è un esempio che fa capire in un lampo cosa si intende per «mancanza di empatia».

Il disturbo narcisistico, pur con il suo profilo differenziato, può coesistere (si chiama «comorbilità») con altri tratti o disturbi di personalità, direi quasi tutti. Convive con il disturbo istrionico, assumendo una coloritura seduttiva, esibizionistica, frivola o erotizzata; convive con il borderline, alimentando i temi abbandonici e rivendicativi, una certa precarietà dell’immagine di sé e difficoltà nella regolazione dell’impulsività; e convive con l’antisociale, con piú spiccate caratteristiche di insensibilità, freddezza emotiva e tendenza alla manipolazione. La personalità narcisistica può includere anche tratti paranoidi, evitanti e ossessivi. Il che significa che la dimensione narcisistica è un elemento chiave del funzionamento della personalità attorno al quale si possono organizzare, piú o meno difensivamente, altre diverse disposizioni del carattere. Dei territori fragili e nascosti del narcisismo parleremo piú avanti, ma è chiaro che, quando si esprime con aspetti evitanti, il narcisismo non mostrerà i suoi tratti arroganti, bensí quelli vergognosi, ritirati, ipersensibili alla critica. La persona pienamente evitante, però, manca di quella dimensione di grandiosità segreta che è tipica del cosiddetto narcisista ipervigile.

Narcisismo e ossessività sono due strade, che talvolta si incrociano, per inseguire la perfezione. E anche il controllo sugli altri: per il narcisista, il controllo è un modo di avere una claque e coltivare il bisogno di primeggiare, al punto da vivere l’autonomia altrui come una sorta di tradimento; per l’ossessivo è un modo di evitare imprevisti e improvvisazioni, convinto com’è che gli altri non sappiano fare le cose bene come potrebbe farle lui. Sul piano relazionale le dinamiche ossessive non sono però distruttive come quelle narcisistiche: si tratta di individui puntigliosi e spesso rigidi, la cui ricerca di perfezione e controllo non ha carattere ambizioso e manipolatorio, semmai compensativo e riparativo rispetto a sentimenti inespressi e misconosciuti di rabbia o ribellione, trasformati difensivamente in devozione e coscienziosità. La propensione critica verso gli altri, spesso accompagnata da un’insoddisfazione costante di sé e della propria vita, e un sentimento di appagamento irraggiungibile possono funestare la vita tanto dei narcisisti quanto degli ossessivi: come insoddisfazione svalutante e mancanza di senso nel primo caso, come sentirsi in difetto per non aver fatto abbastanza nel secondo. Il tema della rabbia, però, li differenzia: muta e incarcerata quella dell’ossessivo, piú a fior di pelle e facile all’esplosione quella del narcisista.

Molte persone, spesso anche di successo, presentano tratti fortemente narcisistici, ma è solo quando diventano inflessibili e persistenti, quando affliggono la vita di tutti i giorni e compromettono il piacere delle relazioni, che dobbiamo prendere in considerazione l’eventualità di un disturbo narcisistico di personalità. Diagnosi che in molti casi accompagna e favorisce condizioni di pertinenza piú psichiatrica: disturbi dell’umore, abuso di alcol o sostanze (spesso cocaina), disturbi del comportamento alimentare.

È un tema a cui ho già fatto cenno e che riprenderò tra poco, ma per una buona conoscenza dell’arcipelago N è importante segnalare che la diagnosi DSM, nell’ultima come nelle precedenti edizioni, ha sempre e solo guardato alla forma sprezzante e aggressiva del disturbo narcisistico, trascurando quella ipersensibile e allarmata. Non a caso, anche per rispondere alle critiche ricevute, l’ultima edizione del manuale propone, per tutti i disturbi di personalità, un (complicato) «modello alternativo», dove il clinico ha la possibilità di diagnosticare, nel caso del disturbo narcisistico, l’intera ampiezza delle fluttuazioni d’autostima. Infatti il narcisismo patologico non si esprime solo con un’opinione inflazionata di sé, superbia, scarsa empatia e pretesa di ogni privilegio, ma anche con autostima labile, ipersensibilità alla critica (la famosa «pelle sottile» di Rosenfeld), fragilità ipocondriaca, fantasie mute di grandezza e rivalsa, vergogna e timore di esporsi.

L’esperienza analitica che consente di seguire e conoscere nel tempo una persona, ma anche la frequentazione di amici o colleghi (e naturalmente di se stessi!), insegnano che le due facce del narcisismo tendono a coesistere, magari in occasioni diverse, nello stesso individuo. In molti casi, i due volti del narcisismo altro non sono che due espressioni, due smorfie dello stesso volto alle prese con il dramma del proprio valore: il narcisista vulnerabile è sempre legato alla sua parte grandiosa, il narcisista grandioso cova sentimenti d’inadeguatezza e teme l’insuccesso. Approcci diagnostici piú calati nella complessità spesso contraddittoria della clinica («Mi contraddico? Sí, mi contraddico. | Sono vasto, contengo moltitudini», dice Walt Whitman nel Canto di me stesso), come il Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM-2), forniscono descrizioni che prevedono sia la compresenza dei versanti overt e covert sia la distribuzione dei tratti narcisistici su vari livelli di organizzazione della personalità: sana, nevrotica, borderline o psicotica. Ecco il bisogno di conferme della propria importanza, con sentimenti di eccitazione quando le si ottengono e di rabbia o depressione quando vengono a mancare; ecco la perdita di piacere nelle relazioni quotidiane, ecco le giornate vuote e «prive di significato», magari dopo avere raggiunto un traguardo.

Lo sguardo diagnostico sulla personalità narcisistica ha subito vari mutamenti nel corso del tempo. Man mano che si faceva piú dettagliato registrava incrementi di frequenza nella popolazione generale. Al punto che, qualche anno fa, un gruppo di lavoro dell’American Psychiatric Association, aveva proposto di eliminarla dai manuali diagnostici, considerandola una diagnosi poco affidabile. I maggiori esperti internazionali intervennero per confermarne la necessità e oggi la diagnosi di disturbo narcisistico di personalità continua a vivere, negli studi di psicoterapia come nelle aule dei tribunali, avvolta nelle sue luci e nelle sue ombre.

Pelle spessa e pelle sottile.

Finché cercheremo di rinchiudere il narcisismo nella gabbia di una sola definizione non riusciremo a comprenderlo. Ci servono un caleidoscopio e la pazienza di fissarne i disegni cangianti. Le nostre manifestazioni narcisistiche, piú o meno attenuate, servono a preservare un senso di stabilità e sicurezza nelle sfide esistenziali che riguardano l’autonomia, l’autostima, l’autenticità e in fin dei conti il sentimento della nostra identità. La quantità di variabili in gioco è tale da moltiplicare le configurazioni narcisistiche. Ho iniziato a descriverne due: la forma estrovertita, appariscente, pretenziosa, grandiosa; e quella introvertita, fragile, timorosa delle critiche. Anche se ci appaiono come il giorno e la notte, entrambe condividono lo stesso sistema solare, i cui satelliti, benché illuminati in modo diverso, ruotano attorno agli stessi pianeti: una certa presunzione, la concentrazione su di sé a discapito dell’attenzione rivolta agli altri, l’aleggiare di un sentimento di inautenticità, il morso dell’invidia, le fantasie onnipotenti coltivate piú o meno in segreto, il fantasma dell’insuccesso. A partire da questa base comune, il narcisista di pelle spessa (anche Gadda parla della «impenetrata pelle dello ippopotamo egolatra») rifletterà i tratti legati alla grandiosità, all’aggressività e al dominio, mentre quello di pelle sottile coverà una grandiosità taciturna e insicura, con sentimenti di inadeguatezza, incompetenza e inefficacia.

Gli individui vulnerabili sono di solito persone timide, con mille antenne, sensibili alle critiche, tanto da avvertire nelle parole degli altri sempre un motivo di offesa o una ferita al loro amor proprio. Se nel caso a pelle sottile c’è il vissuto degli affetti negativi, in quello a pelle spessa c’è il terrore profondo e sconosciuto di sperimentarli. È il caso della vergogna: inaccessibile alla coscienza nei quadri grandiosi e presenza continua e insidiosa in quelli vulnerabili.

Sul concetto di vergogna – un sentimento di inadeguatezza, turbamento o disagio suscitato dal timore della riprovazione e della paura di venire ridicolizzati o mortificati – le patologie narcisistiche hanno molto da insegnarci. In ogni narcisista grandioso si nasconde un bambino che si vergogna, in ogni narcisista depresso e autocritico si annidano le fantasie grandiose di un bimbo onnipotente. Come case infestate da fantasmi, tutte le persone narcisiste portano dentro di sé sentimenti di inadeguatezza, debolezza e vergogna. Possono compensarli in modi diversi, con la rabbia, la paranoia o la malinconia, spesso li proiettano disprezzando gli altri e svalutandoli, oppure li nascondono gelosamente, svalutando se stessi e riservando le loro idealizzazioni ad alcune figure speciali della cui luce si nutrono.

Importante differenziare la vergogna dalla colpa: nel caso della colpa i sentimenti negativi sono suscitati da una riprovazione interna per aver violato i propri standard morali; nel caso della vergogna nascono dal sentire che la riprovazione arriva dall’esterno, è nello sguardo dell’altro. Il punto di vista depressivo della colpa è interno, quello narcisistico della vergogna è esterno: è lo sguardo del mondo sulla nostra insufficienza. La colpa è la convinzione di essere cattivi, la vergogna è il sentimento di essere considerati cattivi.

L’altra grande emozione negativa della persona narcisistica è l’invidia: invidiare gli altri oppure, proiettivamente, sentirsi invidiati. Chi vive al soldo dell’inconscio ricatto di non avere le carte in regola e venire scoperto difficilmente saprà godere dei successi degli altri, che saranno per questo fonte di invidia. L’invidia, che Søren Kierkegaard definisce un’ammirazione infelice e segreta, sarà il motore di un atteggiamento svalutativo e ipercritico, nei casi piú gravi distruttivo: non posso tollerare che tu abbia qualcosa che a me manca, a maggior ragione se io dipendo da questo bene in piú che tu possiedi. Inaccessibile dunque, come insegna Melanie Klein in uno dei suoi scritti piú belli, il sentimento della gratitudine.

In un bel saggio sui Mille volti di Narciso, Fabio Madeddu ci ricorda, attraverso James Grotstein, che gli individui narcisisti «odiano essere soli, odiano avere bisogno dei loro oggetti e negano la loro invidia nascondendo nella fantasia proprio gli aspetti che la provocano, evitando cosí l’invidia stessa e la gratitudine». Ma non possono evitare la vergogna che li afferra quando si rendono conto di quanto pericolante e fragile sia la loro strategia. A questo va aggiunta una riflessione di Herbert Rosenfeld sull’improvvisa vulnerabilità di alcuni pazienti quando sentono la loro protezione narcisistica infrangersi sotto il peso di frustrazioni e umiliazioni. Sul tema dell’umiliazione si sofferma un altro analista kleiniano, John Steiner, descrivendola come la vera bestia nera della personalità narcisistica, dalla quale alcuni si difendono nascondendosi per non essere visti, altri esibendosi per suscitare ammirazione, altri ancora proteggendosi attaccando e umiliando qualcun altro. Talvolta, in questi momenti di vergogna e imbarazzo per il timore di essere visti nudi come tartarughe senza carapace, è possibile un momento di incontro, un attraversamento terapeutico per raggiungere quel dolore narcisistico sepolto da anni o che forse non ha mai visto la luce.

Tornando alla classificazione dei sottotipi narcisistici, una ricerca condotta da un gruppo di ricercatori coordinati da Drew Westen ne ha individuati empiricamente (cioè per mezzo di rilevazioni cliniche poi elaborate statisticamente) tre e li ha chiamati: «grandiosi-maligni», «fragili» e «ad alto funzionamento». Prima di descriverli, anche con l’aiuto dei protagonisti di qualche film, voglio però ricordare che l’espressione delle patologie narcisistiche, come di ogni altra patologia della personalità, va inquadrata in quei contenitori del funzionamento psichico che chiamiamo «livelli di organizzazione della personalità».

Personalità e difese.

Dovrebbe essere piú che chiaro a questo punto che il narcisismo è un arcipelago da navigare nell’unicità delle storie personali e nella varietà delle strutture difensive e di personalità. I suoi livelli di gravità, di conseguenza, sono molto variabili. Otto Kernberg propone un approccio diagnostico alla personalità che si dispiega lungo un continuum di gravità: sano, nevrotico, borderline (di alto e basso livello), psicotico. Questo significa che le manifestazioni narcisistiche assumono connotati specifici in base al tipo di organizzazione della personalità del soggetto: da una normale preoccupazione per come ci vedono gli altri (livello sano) a un delirio di grandezza per cui siamo una reincarnazione di Gesú e il nostro compito è salvare il pianeta dal Covid-19 (livello psicotico).

Il livello di organizzazione della nostra personalità – cioè la coesione dell’identità, la qualità dei meccanismi di difesa, la tenuta dell’esame di realtà – è come un contenitore che consente ai tratti narcisistici di esprimersi in modi piú o meno patologici: nel nostro mondo interno, nelle relazioni interpersonali e amorose, nel funzionamento sociale. Del narcisismo sano abbiamo già parlato: la cura di noi stessi e della nostra realizzazione si accompagna a sentimenti realistici di benessere, sicurezza, vitalità e autostima che, anche in situazioni nuove o stressanti, mantengono una loro stabilità.

A livello nevrotico la persona narcisista si muove in modo adeguato al contesto affettivo e sociale; pur non essendo molto capace di intimità autentica, può esercitare un certo fascino e sa sviluppare relazioni affettive durature. Nel lavoro si impegna con passione, ma in situazioni stressanti (quando, per esempio, viene messo in discussione o criticato) il suo stato d’animo può essere molto turbato. Il timore del giudizio degli altri e la traballante fiducia nelle proprie capacità, spesso compensati da atteggiamenti «pieni di sé», sono un tallone d’Achille che può richiedere «infusioni» di conferme esterne circa la propria importanza e il proprio valore. Quando impiega meccanismi di difesa tipicamente narcisistici, per esempio l’idealizzazione, la svalutazione e l’onnipotenza, lo fa senza distorcere il dato di realtà e con un grado di intensità e frequenza tale da non compromettere irreversibilmente i rapporti con gli altri.

A livello borderline i sentimenti di vuoto, vulnerabilità e inadeguatezza prevalgono sulla stabilità dell’autostima. Sono presenti incongruenze evidenti tra l’autostima implicita e quella esplicita, tra l’esperienza interna e il comportamento manifesto: compensazioni grandiose e sprezzanti sottendono sentimenti di vulnerabilità e inferiorità, il sentimento della propria identità inizia a incrinarsi. Quando il contesto non fornisce sufficienti conferme, gli individui narcisistici di livello borderline possono cadere in pozzi depressivi, provare vergogna e invidiare chi riesce a ottenere ciò che loro non hanno. Man mano che avanziamo nello spettro di gravità, il ricorso ai meccanismi di difesa è sempre piú massiccio, con una crescente distorsione nella lettura del mondo esterno e interno: sono convinti di possedere doti speciali e di meritare dunque trattamenti speciali; svalutano gli altri con ferocia; negano e disconoscono i segnali frustranti della realtà; attuano comportamenti maligni; si rifiutano di accettare i propri limiti e inseguono ideali irrealistici fino a convincersi di averli raggiunti. Vederli cosí drammaticamente assorbiti in se stessi, incapaci di provare piacere nel lavoro o in amore, può essere molto penoso: è come se all’amore di Narciso si accompagnasse la fatica di Sisifo.

Nelle strutture narcisistiche piú patologiche, verso l’estremo psicotico del continuum, l’identità e il sentimento di sé sembrano sgretolarsi e frammentarsi, magari celandosi dietro facciate onnipotenti. Le rappresentazioni di sé e degli altri sono poco differenziate, come pure il discrimine tra fantasia e realtà. Possono comparire comportamenti molto distruttivi e tossici, fino alla devianza psicopatica e antisociale. Compaiono angosce di annientamento e, quando l’esame di realtà viene compromesso, le difese arrivano a implicare proiezioni e dinieghi francamente deliranti. È il caso, per esempio, di quegli uomini che, incapaci di tollerare di essere stati lasciati dalla propria compagna, continuano a perseguitarla con minacce, ricatti emotivi, stalking e aggressioni sadiche. La presenza di un conclamato delirio di grandezza, pur rappresentando un’esplosione psichica delle dinamiche narcisistiche, evade dal repertorio delle organizzazioni di personalità per rientrare nei disturbi psicotici e dello spettro della schizofrenia.

Narcisi ad alto funzionamento.

Isak Borg è un medico rispettato. La nuora Marianne lo accompagna da Stoccolma a Lund per ritirare un premio accademico alla carriera. È il protagonista del Posto delle fragole e forse non è un caso che Ingmar Bergman abbia scritto questo film durante un ricovero in ospedale, quindi in una pausa di riflessione e fragilità. Il posto delle fragole è un luogo dell’infanzia di Isak e il film è una ricerca del tempo perduto, un viaggio della memoria alle radici di sé, della propria solitudine e delle proprie aspirazioni deluse. Nonostante le diffidenze di Bergman verso la psicoanalisi, potremmo dire che è un film psicoanalitico sul dialogo tra la memoria e il sogno. Si apre infatti con un sogno, in cui Isak vede orologi senza lancette e un carro funebre da cui cade una bara dalla quale esce il braccio di un Isak morto che afferra l’Isak che sogna. Ci sono dunque due Isak, uno vivo e uno morto, e una temporalità immobile, come le relazioni affettive del dottore, che a un certo punto del film, rendendosi conto dell’aridità della sua vita e dell’incapacità di comprendere i sentimenti del figlio, dirà: «Sono morto pur essendo vivo». In un altro sogno l’anziano professore deve sostenere un esame e torna a vestire i panni dello studente. Non sa rispondere alle domande, non riesce a vedere al microscopio, non ricorda il primo dovere del medico («chiedere perdono», lo ammonisce il docente). L’esame onirico termina con un’accusa di egoismo e la condanna alla solitudine. Dopo tanti incubi Isak sarà cambiato, il potere della memoria gli ha mostrato il valore dei legami: quelli dell’infanzia, per esempio, che ritornano nella riconciliazione. Come in un’analisi, la ricostruzione della propria storia e lo sviluppo della capacità di mentalizzare (cioè di rappresentare la mente propria e altrui) rendono possibile una trasformazione. Senza forzare un capolavoro agli obblighi necessariamente schematici di una diagnosi (si veda la citazione di Virginia Woolf a pagina 76 di questo libro), penso al Dottor Borg come a una personalità con un funzionamento narcisistico di alto livello. E non mi stupisco che Il posto delle fragoleabbia ispirato Woody Allen che, in Harry a pezzi, ricostruisce il passato del suo alter ego Harry con tutti i tic egocentrici e ipocondriaci che ben conosciamo, fino a un finale in cui, dopo essere stato all’inferno a colloquio nientemeno che con Satana, incontra i personaggi dei suoi libri che, a differenza delle donne che ha amato, non lo hanno abbandonato e anzi lo applaudono per la vita letteraria che è riuscito a dar loro. La valutazione diagnostica di un narcisista ad alto funzionamento descrive un individuo caratterizzato da forte egocentrismo, sostenuto dall’ambizione, dalla capacità di perseguire i propri obiettivi e da importanti realizzazioni professionali. Di solito senza rilevanti comorbilità psichiatriche, ma spesso con caratteristiche di ossessività, perfezionismo e un’enorme dedizione al lavoro, dal quale possono sentirsi piú gratificati che dalle relazioni interpersonali, i narcisisti ad alto funzionamento sanno usare i loro talenti in modo efficace e produttivo, sono carismatici, energici e articolati nel dialogo. In poche parole hanno un buon livello, spesso ottimo, di adattamento e riescono a mettere il proprio narcisismo al servizio del successo. La combinazione di aspetti narcisistici e ossessivi può portarli a comportamenti prepotenti, con la tendenza a controllare gli altri, senza però perdere alcune doti empatiche nelle relazioni. Capaci di scherzare sulla loro ossessività, piú raramente riescono a mettere a fuoco il loro narcisismo. Per il terapeuta sono pazienti stimolanti e a volte affascinanti, e proprio per questo è spesso necessario piú tempo per rilevare clinicamente le dimensioni narcisistiche sottostanti. Ci vogliono un po’ di tempo, sensibilità terapeutica e capacità di sintonizzazione per cogliere le sottostanti dolorose vicissitudini dell’autostima di questi pazienti, spesso legate alla difficile gestione interna delle aspettative dei loro genitori. Alcuni clinici considerano il tipo narcisistico ad alto funzionamento alla stregua, piú che di un «disturbo», di una rosa di tratti o piú semplicemente di uno «stile» narcisistico.

Narcisi fragili.

I sogni segreti di Walter Mitty, diretto e interpretato da Ben Stiller (dall’originale del 1947 di Norman McLeod con Danny Kaye), non passerà alla storia del cinema ma ci offre un quadro interessante di quello che i cartografi del narcisismo definiscono variante covert e vulnerabile. Walter è un impiegato della rivista «Life», introverso e riservato, destinato a una vita monotona e a un lavoro che non sembra ripagarlo particolarmente. Nelle situazioni sociali è timido, tende a ingraziarsi gli altri e a farsi sottomettere. Non stupisce che sia segretamente innamorato di una collega, alla quale non riesce a dichiararsi. La sua «vera» vita si svolge nei rifugi della fantasia, in una quotidianità abitata da sogni a occhi aperti, dove è sempre l’eroico protagonista. Nelle sue fantasie grandiose Walter è un esploratore avventuroso, un amante appassionato, un combattente intrepido. In una di queste, immagina di catapultarsi all’interno di una palazzina appena esplosa per salvare un cane in pericolo e riportarlo alla proprietaria, uscendone completamente illeso. È bisognoso del riconoscimento altrui, ma teme il giudizio, e dunque si ritira in se stesso coltivando un immaginario grandioso. Il film ci propone un lieto fine: Walter sarà davvero un eroe. Ma questo è il sogno del cinema. La realtà del narcisista fragile è un’altra, la sua grandiosità nascosta, difficile da cogliere dall’esterno, al servizio di standard troppo elevati, è necessaria per regolare l’autostima e svolge una funzione difensiva, proteggendolo da antiche ferite e allontanando sentimenti dolorosi di inferiorità e insicurezza, vergogna e timore del giudizio, ma anche invidia. Il narcisista fragile deve tenere a bada la tendenza a essere molto critico verso sé e gli altri. Quando l’impalcatura difensiva regge sembra raggiungere una condizione di appagamento che gli consente di riconoscere il lavoro degli altri, le loro capacità, i loro piccoli o grandi successi. Poi, quando le difese falliscono, gli affetti negativi e i sentimenti di inadeguatezza emergono, spesso accompagnati da sentimenti di rabbia. I narcisisti fragili guardano con ammirazione invidiosa (spesso accompagnata da Schadenfreude, che è il godimento per l’altrui sventura) quelli che «ce l’hanno fatta» e hanno bisogno di sentirsi importanti e privilegiati, a volte cercando la compagnia e la protezione di persone importanti da idealizzare e alla cui luce brillare in modo riflesso. Per questo tendono a compiacere le aspettative degli altri fino a non sentirsi piú autenticamente se stessi, sperimentando un vuoto interiore. Traggono poco piacere dal lavoro e dalle relazioni e vorrebbero per sé ciò che hanno gli altri, impiegando molte energie emotive in un continuo confronto tra il proprio status e quello altrui. I narcisisti fragili sono indicati per la psicoterapia, da cui possono trarre beneficio grazie a interventi mirati al riconoscimento di entrambi gli aspetti del loro conflitto narcisistico: la grandiosità segreta e i sentimenti di vulnerabilità che la governano. Dal momento che non sempre sono consapevoli della loro fragilità, è importante che il contatto con le loro componenti piú vulnerabili avvenga in modo cauto e delicato.

Una collega in supervisione mi racconta il caso di un paziente che segue in psicoterapia da qualche mese. È un uomo sposato, sulla trentina, con una sintomatologia depressiva sottile e pervasiva. Si sente abitato da troppe contraddizioni: si definisce generoso, ma ammette di invidiare i successi degli altri; ha fantasie di potere (si immagina di annunciare ai colleghi di avere rilevato l’azienda dove lavorano), ma passa giornate in cui si percepisce vuoto, inadeguato e vulnerabile. Dalla moglie si sente incompreso e spesso entra in competizione con i figli. Gli capita di pensare di avere diritto a trattamenti preferenziali: quando fa la fila per entrare in un museo immagina che l’addetto alla biglietteria gli dica: «Non c’è bisogno che il signore faccia la fila!» È sottilmente passivo-aggressivo e poco empatico, non in grado di cogliere i pensieri e gli stati d’animo altrui. Serba rancore e nutre segreti conflitti verso figure piú potenti e autorevoli di lui. La collega mi dice che sono tutti temi di cui riescono però a parlare in terapia, che sta iniziando a dare qualche risultato.

Lo psichiatra Glen Gabbard, a cui dobbiamo la definizione di narcisista «ipervigile» in opposizione al narcisista «inconsapevole», descrive questi pazienti come ipersensibili alle reazioni altrui ed estremamente insicuri circa la propria capacità di amare ed essere amati, sempre alla ricerca di qualcuno che li ammiri, provi empatia per i loro bisogni, confermi la loro eccezionalità oppure si presti a fungere da oggetto idealizzato che mai li umilierà o li farà sfigurare. Un’impresa ardua, che va incontro a delusioni. Mi è venuto in mente Frédéric, protagonista di un film di Eric Rohmer, L’amore il pomeriggio, e sono andato a cercare i dialoghi del film. Ne riporto alcuni:

Sento che la mia vita passa, che altre vite passano parallele alla mia e sono frustrato di rimanervi estraneo, di non aver saputo trattenere ognuna di queste donne anche per un istante nella loro corsa verso chissà quale lavoro, verso chissà quale piacere. E sogno, sogno di possederle tutte, per davvero.

Se c’è una cosa che non sono piú in grado di fare è la corte a una ragazza. Non so cosa potrei dirle e d’altronde non c’è ragione che le dica qualcosa, non voglio niente da lei, non ho niente da proporle. Tuttavia sento che il matrimonio mi blocca, mi imprigiona e ho voglia di evadere […] Sogno una vita fatta solo di primi amori, d’amori durevoli. […] Per questo amo la città, la gente passa e sparisce, non la si vede invecchiare. Quel che rende straordinario ai miei occhi lo scenario di Parigi, le sue strade, è la presenza costante e fuggevole di donne che si incrociano ad ogni momento e che quasi certamente non rivedrò mai piú, purché siano là, indifferenti e inconsapevoli del loro fascino, felici di verificarne l’effetto su di me come io verifico il mio su di loro, per un tacito accordo senza sguardi o sorrisi anche appena accennati. Sento il loro potere d’attrazione senza esserne attratto.

Certe fragilità narcisistiche sono colme di vuoto malinconico legato al fatto che nulla riesce a dar loro il brivido di quella trionfale realizzazione di sé che fantasticano sia loro dovuta.

Narcisi grandiosi.

In un piccolo disegno a inchiostro di Lucian Freud intitolato Narcissus, un ragazzo si tiene il volto tra le mani mentre guarda in basso, verso uno specchio. Il riflesso si interrompe all’altezza degli occhi e non è dato sapere se ha uno sguardo fiero o implorante. Comunque uno sguardo dal basso, un’occhiata fragile, speculare a quella invece sprezzante del Narcissus grandioso che ora incontreremo.

Molti di voi avranno visto In Treatment, la serie televisiva americana basata su un originale israeliano, con Gabriel Byrne nei panni dello psicoterapeuta Paul Weston (oppure la sua versione italiana con Sergio Castellitto). Nella versione americana il paziente del martedí si chiama Alex ed è un pilota militare afro-americano, sposato con due figli. Durante una missione in Iraq ha colpito un obiettivo che si è poi rivelato essere una scuola coranica: la sua bomba uccide sedici bambini. Alex chiarisce subito di non sentirsi minimamente in colpa e di dormire sonni tranquilli: ha solamente eseguito gli ordini e anzi, visto che ha colpito l’obiettivo indicato, considera la sua missione andata a buon fine. Come pilota si sente parte di un’élite, un cavaliere del cielo che anni di esperienza hanno reso una macchina bellica perfetta e infallibile. Ora è in licenza, ma vuole tornare in Iraq per riprendere il controllo della situazione e constatare con i propri occhi la portata della sua azione. Nel corso delle sedute emergeranno i rapporti difficili con la moglie, che Alex ha appena lasciato, e con il padre. Brillante e competitivo, cogliamo subito il tratto grandioso-arrogante, il suo bisogno di controllare e dominare l’altro, la negazione di ogni minimo, e sano, bisogno di dipendenza. Paga ogni seduta in anticipo, per sottolineare che lui sta solo comprando qualcosa che gli serve e al tempo stesso segnalare la sua indipendenza, convinto di non aver bisogno della seduta successiva. Ha fatto una ricerca online per essere sicuro di scegliere il miglior terapeuta sulla piazza. «Per i migliori ci vogliono i migliori», dice – ma questo non gli impedisce di svalutarli. Ecco uno stralcio della prima seduta:

PAUL: Mi sta mettendo alla prova?

ALEX: Penso di avere il diritto di metterla alla prova. Pago per tutto questo.

PAUL: In realtà, Alex, credo che lei mi stia mettendo alla prova da quando ha varcato la porta: ha chiesto di me e della mia reputazione; ha preteso che le facessi determinate domande che lei pensava io non vedessi l’ora di farle. Penso fosse molto importante per lei che io aderissi a determinati standard da lei stabiliti prima di varcare quella porta.

ALEX: Cosa c’è di sbagliato in questo? Senta, mi sono documentato. Ci vuole un’ora e mezza di macchina per arrivare sino a qui e la pago profumatamente. E dovrei raccontare a lei, un perfetto sconosciuto, le cose piú intime della mia vita. È chiaro che ci sono dei rischi, qui. La Marina non mi darà una medaglia se le apro il mio cuore. E io non ho intenzione di aprirmi con lei senza sapere chi ho di fronte.

narcisisti grandiosi hanno una rabbia ribollente, la tendenza a manipolare gli altri e controllarli, vogliono comandare, non conoscono il rimorso, hanno poca empatia e molte pretese. L’insicurezza e l’invidia che li accompagnano sono del tutto inconsapevoli e raramente affiorano alla coscienza. Si difendono con l’onnipotenza, l’idealizzazione (di sé e di pochi eletti) e la svalutazione. Non mettono mai in dubbio il proprio comportamento e quando incontrano un problema è sempre causato da qualcuno che si è messo di traverso a rovinare la festa. Solo dopo grandi delusioni possono affondare in stati depressivi.

Il cinema ci viene in aiuto nel ritrarre molte personalità con narcisismo grandioso o, per usare la terminologia clinica di Nancy McWilliams, arrogant/entitled (a differenza dei loro fratelli fragili, depressed/depleted). Il primo esempio che mi viene in mente è Charles Foster Kane, protagonista di Citizen Kane di Orson Welles. Kane è un magnate della stampa che ama il potere e vuole essere amato «alle sue condizioni». Col tempo attorno a lui si creerà il vuoto, e morirà solo. Con una serie di flashback e interviste, Welles ricostruisce la vita di quest’uomo: un puzzle caratteriale fatto di egocentrismo, mancanza di empatia, bisogno di ammirazione, difficoltà a gestire i fallimenti e gli abbandoni. Cruciale la scena in cui lo vediamo riflettersi all’infinito negli specchi del corridoio della sua megalomanica residenza Xanadu (detta anche «la collezione di tutto»): un Sé grandioso moltiplicato a dismisura e al tempo stesso imprendibile. L’unico indizio per afferrarlo, e dunque comprenderlo, sarà noto solo alla fine del film e riconduce al trauma infantile di Kane: la madre lo aveva affidato alla tutela di un uomo d’affari incaricato di amministrare un’imprevista, colossale eredità. Il bambino Kane, strappato all’infanzia e all’amore materno, da adulto concepirà l’amore solo come possesso e risarcimento, mai come dono. «Tutto quello che voleva dalla vita era amore: la sua storia è di come lo ha perso», conclude amaramente il suo migliore amico Leland. «L’amore, questo è il motivo per cui fa quel che fa [...] Charlie Kane ha amato, ovviamente, ma non ha mai creduto in nulla eccetto se stesso». E ancora, rivolgendosi a Kane: «Parli della gente come se fosse una cosa che ti appartiene. Hai sempre detto di accordare agli altri i loro diritti, come si trattasse di un tuo dono personale a compenso dei servizi ricevuti».

La tendenza a credere di non essere mai veramente capito, la mancanza di empatia e la continua manipolazione dell’altro sono ben rappresentate dal dialogo con Susan, quando lei lo lascia:

SUSAN: Non mi hai mai dato qualcosa perché ti importasse, hai sempre cercato di comprarmi per farti dare qualcosa da me […]. Tu non mi ami, tu pretendi di essere amato.

CHARLES: Qualunque cosa faccia, la faccio perché ti amo.

SUSAN: Non mi ami. Vuoi che ti ami. «Certo, sono Charles Foster Kane. Qualunque cosa tu voglia, chiamala ed è tua. Ma devi amarmi!» [Kane la schiaffeggia]. Non dirmi che ti dispiace.

[…]

SUSAN: Arrivederci Charlie.

CHARLES: Susan. Per favore non andare. No. Per favore, Susan. D’ora in poi, tutto sarà esattamente come vuoi che sia, non come penso tu lo voglia, ma a modo tuo. Non devi andare. Non puoi farmi questo!

SUSAN: Capisco. Quindi è a te che viene fatto questo. Non sono affatto io. Non quello che significa per me. [ride] Non posso farti questo? Sí, posso.

Come intuiamo dalla scena degli specchi, la «grandezza» del narcisismo di Kane è anche nell’inganno delle sue molteplici configurazioni: per la prima moglie Emily è un traditore solo interessato ai suoi successi professionali; per l’amico Leland è un uomo distrutto dal suo egoismo; per il suo impiegato e braccio destro Bernstein è un capo carismatico; per Thatcher, banchiere e suo tutore legale, è un uomo pericoloso e senza scrupoli; per il maggiordomo Raymond è un gigante dai piedi di argilla. Chi era per Susan, lo abbiamo visto. Dopo che Susan lo ha lasciato, Kane inizia a sfasciare la sua stanza. D’improvviso si ferma quando nota una piccola sfera di vetro con la neve e pronuncia una parola misteriosa: «Rosebud». Di lí a poco morirà e nessuno saprà mai, tranne noi spettatori, che «Rosebud» è il marchio dello slittino con cui il bambino Kane stava giocando quando la madre lo consegnò al tutore. Dietro tanta devastazione narcisistica, dunque, il trauma di un’ambizione materna, di un abbandono e di un’infanzia spezzata. Nell’ultima inquadratura, lo slittino, l’oggetto piú prezioso, finirà bruciato, insieme ad altri oggetti «inutili», dalla ditta incaricata di inventariare i mobili di Xanadu.

Quanto a narcisismo grandioso, pare che lo stesso Welles non scherzasse. Un film di David Fincher intitolato Mank racconta la nascita di Citizen Kane. Mank sta per Mankiewicz: non John, il fratello celebre e ossequioso, regista di Cleopatra ed Eva contro Eva, ma Herman, quello insofferente e autopernicioso. Siamo nel 1940 e Herman (un magnifico Gary Oldman), confinato in un ranch ai margini del Mojave, la gamba ingessata per un incidente stradale, una fisioterapista tedesca e una dattilografa inglese che lo assistono, deve scrivere in due mesi la sceneggiatura del film che da noi si chiamerà Quarto potere. Un giovanotto di nota insolenza e sommo genio la aspetta: Orson Welles, al quale la produzione ha dato carta bianca. Tra i litri di whisky che lo porteranno alla tomba e i fumi della memoria che lo consegneranno alla malinconia, Mank scrive il capolavoro su cui Welles costruirà il prodigio. Fior di libri raccontano funeste versioni sulla paternità di questa sceneggiatura: collaborazione? Esproprio? Vendita? Una cosa è certa: mentre Orson e Herman litigavano, la sceneggiatura si aggiudicò un Oscar. Fincher riesce a tirare i fili dei mille tragitti mentali che attraversano questo film sul film: la natura ambigua delle collaborazioni creative; le fluttuazioni fragili o arroganti dell’amore di sé; la spietata convivenza di alcol e scrittura (molti esempi, illustri e maschili: Raymond Carver, John Cheever, Francis Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway…) Mank non è un film sull’imponente Orson ma sul diafano Herman, il suo spaesamento e la beffarda autodistruzione. Giocatore d’azzardo, eterno straniero in perenne esilio, Mank è al centro essendo fuori posto. È il narciso stropicciato e tignoso che inevitabilmente appassisce vicino a Orson, il narciso corpulento e maliardo.

Narcisi maligni.

Se ricordate la crudeltà con cui Charles Boyer tenta di fare uscire di senno («sei pazza», «ti ricordi male», «te lo sei sognato») e ridurre in suo potere Ingrid Bergman in Gaslight (il titolo italiano è Angoscia) di George Cukor; l’efferatezza con cui Catherine Deneuve persegue i suoi piani in La Sirène du Mississipi (il titolo italiano è La mia droga si chiama Julie) di François Truffaut; il talento malvagio con cui Gilbert Osmond riesce a irretire Isabel Archer in Ritratto di signora di Henry James (nella versione cinematografica di Jane Campion erano John Malkovich e Nicole Kidman) vi sarà piú facile mettere a fuoco cosa intendiamo con l’espressione «narcisista maligno».

Il primo a coniare l’espressione «narcisismo maligno» fu lo psicoanalista e sociologo tedesco Erich Fromm nel 1964. È però Otto Kernberg a includere la sindrome tra i disturbi gravi della personalità, arrivando a proporla come diagnosi psichiatrica nel 1984. Suggerimento che l’American Psychiatric Association non raccolse, preferendo mantenere una distinzione tra il disturbo narcisistico e il disturbo antisociale. Quando il Sé grandioso del disturbo narcisistico di personalità si sostiene per mezzo di tratti paranoidi, comportamenti antisociali e aggressività infiltrata di sadismo, ci troviamo di fronte a un paziente con una sindrome da narcisismo maligno. Non è un bel trovarsi di fronte: sono persone distruttive, calcolatrici, incapaci di rimorso e invece capaci di trasformare le persone in cose e quindi in vittime da manipolare e dominare, anche con violenza, per i propri fini. Frequente è il passaggio dalla relazione perversa al comportamento criminale, tanto che per molti psicoanalisti il narcisismo maligno è diventato la configurazione psicologica in grado di spiegare la malvagità nei suoi aspetti piú calcolati, spesso tristemente raccontata dai fatti di cronaca. Il narcisismo maligno va considerato all’interno dello spettro del narcisismo patologico, la cui massima espressione di gravità è rappresentata dalla psicopatia. L’accezione di malignità deriva da due ordini di fattori: la prevalenza di affetti ostili e la prognosi riservata. Si tratta di pazienti che possono presentare complicazioni come una potente idealizzazione delle loro parti aggressive, una grave attivazione paranoide che può condurre al suicidio, in assenza di depressione, come forma di controllo estremo sugli altri, un congedo grandioso da un mondo disprezzato, un’esibizione di trionfo sulla morte. Alcuni hanno avvicinato il concetto di narcisismo maligno a una configurazione psichica, suggestiva anche se non scientificamente ancorata, chiamata «dark triad»: una combinazione di narcisismo, psicopatia e machiavellismo (inteso, peggiorativamente, come uso spregiudicato e a volte spietato dell’altro per i proprio fini).

Una differenza tra il normale disturbo narcisistico di personalità e il narcisismo maligno è la caratteristica del sadismo, il godimento gratuito per il dolore degli altri. Per realizzare i propri desideri egoistici, un narcisista «comune» danneggerà deliberatamente altre persone, ma può pentirsi e in alcune circostanze mostrare rimorso per averlo fatto, mentre un narcisista maligno danneggerà gli altri con piacere, senza empatia né rimpianto per il male causato. La possibilità (o l’impossibilità) di accesso alla dimensione empatica, all’esperienza del rimorso e alla coscienza morale, e l’eventualità del godimento nell’infliggere dolore psichico o fisico all’altro, segnano le tappe del continuum dal disturbo narcisistico di personalità al narcisismo maligno, per alcuni fino alla psicopatia. Se l’esperienza di relazione con un narcisista grandioso è dolorosa, il danno ricevuto dalla relazione con un narcisista maligno è devastante: per quest’ultimo l’altro non è solo uno strumento che serve a sostenere l’immagine di sé, è una preda da soggiogare e sfruttare a proprio vantaggio.

La lettura del romanzo di Nicola Lagioia La città dei vivi mi spinge a riflettere sul caso dell’omicidio di Luca Varani, ventitre anni, da parte di due uomini poco piú grandi di lui, Manuel Foffo e Marco Prato. Un omicidio compiuto in un appartamento alla periferia di Roma, dopo tre giorni di analfabetismo affettivo, implosione narcisistica e una quantità esorbitante di cocaina e alcol. Non saprei in che ordine mettere queste tre variabili, ma so che Foffo e Prato erano ormai alla deriva di sé, in balia di una vertigine e senza una corda ancorché consumata in grado di ancorarli fosse pure a un’ultima eco della propria identità. Era il marzo 2016. Prato si suiciderà in carcere meno di un anno piú tardi. Foffo, dichiarato in grado di intendere e volere, verrà condannato a trent’anni. Varani quasi non li conosceva, e quella sera li aveva incontrati per arrotondare, come faceva ogni tanto. Erano i soldi per giocare alle slot o fare un regalino alla sua ragazza. Perché quell’omicidio? «I motivi potrebbero essere tutti e nessuno», afferma Foffo in tribunale. Questo è il punto. Che ne tiene insieme parecchi: il terrore di avere a che fare con le proprie parti deboli e indifese, il senso cronico di fallimento, il vuoto morale, il salto di specie che sa trasformare l’altro in cosa, passatempo e giocattolo. Un oggetto non umano che si può seviziare, umiliare. La ricompensa per tanta distruzione è il senso di dominio e momentanea ebbrezza che viene dall’annientamento della propria vulnerabilità scissa e assegnata all’altro. In questo collasso bio-psico-sociale (cosí recita la formula che ci permette di dire molto sapendo poco) è l’assassino a chiedere ai suoi accusatori «ditemi voi perché l’ho fatto». Nessun delitto dostoevskiano, nessun Raskol′nikov. Riconoscimento del proprio coinvolgimento nel delitto, sí, ma nessuna assunzione di responsabilità.

Nessuno riconosceva a se stesso la possibilità del male. Era il narcisismo di massa? […] Ai delinquenti consapevoli si sostituivano cosí gli assassini a propria insaputa […] Non era piú l’uomo che affonda il coltello sapendo ciò che fa, ma il criminale che si sorprende di essere riconosciuto tale, quando non se ne scandalizza […] Quale speranza potevano avere Marco e Manuel di riconoscersi colpevoli – e di capire, di attraversare lo specchio oltre il quale avrebbero riconosciuto infine Luca, la loro vittima?

Narcisi psicopatici.

C’è davvero un continuum, come vorrebbe Kernberg, una sequenza sempre piú devastante dal narcisismo grandioso alla psicopatia? Oppure ci sono linee di confine poco attraversabili che, a dispetto dei tratti comuni, separano queste personalità? Si tratta solo di intensità, e quindi di quantità, o anche di qualità? Le porte dell’inferno sono cosí scorrevoli oppure entrarci è tutt’altro che facile? Anche i piú grandi esperti (di psicoanalisi, biologia, criminologia) faticano a rispondere a queste domande che evocano l’antico e mai risolto quesito sull’origine del male. Male o malattia? Siamo originariamente distruttivi o la violenza umana è il risultato di una sciagura ambientale?

Ancora una volta sono da prendere in considerazione i singoli individui, le loro storie e psicologie al di là delle configurazioni diagnostiche, pur non abbandonando la tensione necessaria tra la categoria generale e l’individuo specifico. La stessa terminologia è ondivaga e in parte contraddittoria: se nel corso dell’Ottocento si alternavano definizioni derivate dal giudizio morale (l’«insanità morale» di James Pritchard) o dall’ipotesi di un deficit costituzionale (il «delinquente dalla nascita» di Cesare Lombroso), oggi c’è chi, sulla scia degli studi di Harvey Cleckley, Robert Hare e Reid Meloy, preferisce il termine «psicopatico» a quello, piú diffuso, «antisociale». Sottolineando cosí il carattere psicologico piú che l’impatto sociale. Il termine psicopatico, infatti, implica che questi soggetti non siano necessariamente in aperto contrasto con le regole sociali. Anzi, molti individui con personalità psicopatica possono perseguire i loro obiettivi ricevendo approvazione sociale e perfino ammirazione. In alcune professioni il comportamento psicopatico può persino essere «premiato». Anche qui bisogna addentrarsi nei sottotipi: psicopatia e criminalità hanno molti punti in comune, ma non sono categorie equivalenti. C’è una forma aggressiva, sadica e violenta, e una disonesta e manipolativa. Se pure ci sono aspetti di narcisismo patologico che accomunano Jordan Belfort di The Wolf of Wall Street e Hannibal Lecter del Silenzio degli innocenti (o l’ex banchiere truffatore Bernard Maddoff e il serial killer Ted Bundy, per prendere esempi dalla vita e non dal cinema), è comunque evidente che non ci troviamo di fronte allo stesso tipo di persone. La psicopatia ha diverse gradazioni di colore e non è la stessa cosa quando è rossa come il sangue o verde come il dollaro. Tanto è vero che la diagnostica psicodinamica, oltre a distinguere i sottotipi narcisistici (fragile, grandioso, maligno), giustamente differenzia, nelle personalità psicopatiche, il sottotipo parassitario-disonesto da quello apertamente aggressivo. A questi si aggiungono i quadri diagnostici delle personalità sadiche e di quelle paranoidi. Senza ignorare le comorbilità: tutto sta nella crudele combinazione dei tratti e nella loro espressione genetico-ambientale.

Una crescente mole di studi evidenzia le implicazioni neurobiologiche della psicopatia, dalle interazioni gene-ambiente al circuito neuroendocrino dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Rilevante il ruolo del testosterone, visto che viene spesso segnalato come il disturbo psicopatico sia fino a quattordici volte piú frequente nei maschi che nelle femmine. Elevati livelli di testosterone costituiscono una determinante biologica essenziale in quanto potenziali inibitori della maturazione della corteccia orbito-frontale destra, e quindi dell’area deputata alla risposta ai segnali sociali, provocando una diminuzione dell’empatia e un aumento del comportamento aggressivo – aspetti questi che, a loro volta, aumentano il rischio di comportamenti antisociali cronici). Diversi studi indicano la presenza di un tratto influenzato geneticamente e definito callous-unemotional (insensibile, con indifferenza emotiva), che descrive bambini con poca empatia, incapacità di provare rimorso, legami affettivi superficiali, alti livelli di aggressività, relazioni disfunzionali. Suggestivo, anche se distante dal punto di vista esplicativo, il riferimento a una dimensione «callosa» della personalità, esasperazione semantica della «pelle spessa» di rosenfeldiana memoria. Dove la «pelle spessa» evocata da Rosenfeld indica, però, che la sensazione di controllo e potere è ottenuta attraverso l’aggressione delle proprie parti fragili e dipendenti proiettate nell’altro aggredito; mentre la genetica callous-unemotional mette l’accento su un originario deficit di risonanza del cervello relazionale. La presenza di questo tratto, rilevata in studi su gemelli e tendenzialmente stabile nel tempo, andrebbe a designare un sottogruppo di adulti antisociali gravi con esordio in età precoce. Le componenti biologiche non bastano però a spiegare lo sviluppo di queste personalità. Per seguire l’evoluzione di una personalità va aggiunto l’impatto del contesto. Gravi patologie dei caregivers, trascuratezza, maltrattamento e abuso, traumi evolutivi, insicurezza, instabilità e inaffidabilità concorrono a formare quel funesto mismatching tra le caratteristiche temperamentali del bambino e la personalità degli adulti che dovrebbero prendersi cura di lui. Allan Shore, psicoanalista con un piede nelle neuroscienze, ci ricorda come l’interazione fra attaccamenti traumatici e disfunzioni a livello di corteccia cerebrale predisponga a disturbi della condotta, comportamenti aggressivi e problemi affettivi e relazionali in adolescenza.

La ricerca sulle neuroscienze del narcisismo è ai suoi albori e soprattutto concentrata sul narcisismo grandioso e sugli aspetti di (dis)continuità tra narcisismo maligno e psicopatia. In entrambi i casi sono presenti, rispetto a popolazioni di controllo, una minore attivazione fisiologica all’esposizione di stimoli negativi, scarse capacità empatiche, deficit nel riconoscimento delle emozioni, compromissione nell’inibizione del comportamento a seguito di punizioni, aumentata reattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Per quanto riguarda le dinamiche interpersonali, è indubbio che gli individui psicopatici presentano attitudini impulsive, aggressive e di calcolata disonestà che tendenzialmente non caratterizzano i quadri narcisistici classici. Nel tentativo di differenziare tra un grave disturbo narcisistico di personalità e un disturbo antisociale in senso stretto, il DSM-5 propone i seguenti criteri (almeno tre devono essere soddisfatti, con la premessa che l’individuo deve avere almeno diciotto anni e aver manifestato un disturbo della condotta in adolescenza). Sono criteri che sottolineano la violazione fisica e psichica dei diritti dell’altro, ma a mio avviso trascurano la dimensione manipolatoria, calcolatrice e anaffettiva della persona psicopatica:

  1. Incapacità di conformarsi alle norme sociali per quanto riguarda il comportamento legale, come indicato dal ripetersi di atti passibili di arresto.
  2. Disonestà, come indicato dal mentire ripetutamente, usare falsi nomi o truffare gli altri, per profitto o per piacere personale.
  3. Impulsività o incapacità di pianificare.
  4. Irritabilità e aggressività, come indicato da ripetuti scontri o aggressioni fisiche.
  5. Noncuranza sconsiderata della sicurezza propria o degli altri.
  6. Irresponsabilità abituale, come indicato dalla ripetuta incapacità di sostenere un’attività lavorativa continuativa o di far fronte a obblighi finanziari.
  7. Mancanza di rimorso, come indicato dall’essere indifferenti o dal razionalizzare dopo aver danneggiato, maltrattato o derubato un altro.

Per continuare a distinguere l’ambito narcisistico da quello psicopatico, con la tenebrosa terra di mezzo del narcisismo maligno, oltre all’assenza di un disturbo della condotta in anamnesi e all’incomparabilità dell’attitudine impulsiva, un discorso a parte merita il tema dell’invidia. Rispetto a quelli narcisisti, gli individui con disturbo antisociale appaiono infatti meno invidiosi e meno bisognosi dell’ammirazione altrui, sostanzialmente meno concentrati su come appaiono agli occhi degli altri. Quanto alla componente sadica, è piú frequente nel curriculum psicopatico che in quello narcisistico. Marchio di fabbrica del sadismo sono il distacco emotivo e la determinazione spietata e priva di rimorsi con cui vengono ricercati il dominio e il controllo sugli altri. Questo atteggiamento distaccato, che può includere la preparazione sistematica di uno scenario sadico, ha l’effetto di disumanizzare l’altro (e probabilmente ne esprime pure l’intento). Anche le implicazioni terapeutiche sono molto diverse, tanto che Kernberg definisce i pazienti antisociali come intrattabili con la psicoterapia, spiegando come, per esempio, il mirroring empatico che conforta la maggior parte dei narcisisti provoca invece il disprezzo degli antisociali. Priva di requisiti anche minimi di empatia, moralità e colpa, affrancata dai tremori dell’ansia che toglie lucidità e accompagnata invece dalla freddezza del controllo, la dimensione psicopatica mostra la capacità «mentalizzante» di leggere con precisione gli stati emotivi altrui. Si potrebbe descrivere come un’empatia «non empatica», finalizzata non a identificarsi per aiutare o comprendere, bensí a sfruttare e distruggere. Un carisma sinistro che può mietere vittime.

Lo psicopatico, diceva negli anni Quaranta lo psichiatra Harvey Cleckley, «non ha familiarità con i fatti o gli elementi primari di ciò che possiamo definire valori morali» e, nonostante possa esibire una spiccata intelligenza, «non fa caso al fatto che gli altri provino emozioni». Sono figure che da sempre esercitano fascino mediatico, innamoramenti patologici compresi (c’è persino un termine, «ibristofilia», per descrivere l’investimento erotico-mediatico nei confronti di una figura criminale in quanto tale, spesso un omicida o uno stupratore).

Anders Breivik, autore della carneficina sull’isola norvegese di Utøya, dove era in corso un raduno di giovani laburisti, provocò la morte di sessantanove ragazze e ragazzi, mirati uno per uno in un sadico tiro al bersaglio. La sua vicenda psichiatrico-forense è controversa e macchinosa: se in un primo momento venne diagnosticato come schizofrenico paranoide, su sua precisa richiesta fu sottoposto a una seconda perizia e dichiarato affetto da disturbo narcisistico di personalità. Quindi capace di intendere e volere: riconoscimento per lui decisivo in quanto confermava la lucidità politica e l’intenzionalità della sua dichiarazione di guerra contro «i migranti, i marxisti, gli islamisti e i membri dell’élite». Il film di Paul Greengrass 22 luglio mostra quanto sia difficile tracciare un confine diagnostico fra il paradosso di una personalità narcisistica, lucida e crudele, il suo comportamento psicopatico e gli abissi psicotici che s’impongono in forme deliranti di grandezza. La pellicola ricostruisce in modo efficace l’escalation psicopatologica che trasforma un adolescente narcisista in un adulto omicida e paranoide. «Il male è due cose», dice Kernberg. «È una patologia individuale che va trattata, ma può anche evolvere in forza sociale indipendente dal singolo e provocare un’epidemia generale, che a quel punto non deve piú essere curata, ma combattuta».

Se una serie televisiva come Narcos mostra il volto organizzato del narcisismo psicopatico di Pablo Escobar, una piú recente, The Undoing, regia del premio Oscar Susanne Bier, ci riporta alla psicopatia su scala «familiare» (qui l’omicidio è uno solo, ma comunque efferato). Nicole Kidman e Hugh Grant vestono gli eleganti abiti dei coniugi Grace e Jonathan Fraser: lui oncologo pediatrico, britannico e arguto, lei terapeuta cognitiva, distaccata e accudente (con padre ricchissimo). Una famiglia modello dell’Upper East Side con figlio che frequenta la scuola d’élite e sembra, ma non è, piú adulto dei suoi sedici anni. Sono felici, ma poiché The Undoing è un thriller psicologico, nel giro di un episodio non lo saranno piú. Noi spettatori restiamo col fiato sospeso per sei episodi nel classico dilemma: chi mente? A chi devo credere? Senza rivelare troppo, segnalo le figure dello spettro narcisistico che abitano l’intera vicenda e i suoi protagonisti: la corsa dell’onnipotenza, il potere dell’intimidazione, il grimaldello della manipolazione; e molte carezze senza intimità. Fino agli estremi della «triade oscura».

Tracotanza trumpiana.

Nel 1964 la rivista «Fact» inviò un questionario a 12 356 psichiatri statunitensi chiedendo se il candidato Barry Goldwater fosse psicologicamente idoneo alla presidenza del Paese: il 27,2 per cento rispose che lo era, il 23,6 per cento che non aveva elementi per pronunciarsi, il 49,2 per cento che non lo era. Nella parte riservata ai commenti veniva definito impulsivo, instabile, paranoide. Goldwater citò in giudizio il direttore della rivista e vinse la causa. Nel 1973 l’American Psychiatric Association istituí un principio, appunto la «regola Goldwater», per cui non è etico formulare una diagnosi senza un’adeguata consultazione clinica. È una regola giusta: la diagnosi richiede un contesto clinico, un colloquio, un’anamnesi. Nel 2016 l’elezione di Trump riportò in auge il dibattito su questa regola. Molti psichiatri ritennero giusto violarla per mettere in guardia i concittadini da ciò che rappresentava Trump non in termini politici, ma di salute mentale e personalità. Gli assegnarono la diagnosi di «narcisismo maligno», che ai tratti narcisistici affianca, come abbiamo visto, quelli paranoidi, antisociali e sadici. Comportamenti e dichiarazioni di Trump, affermò il noto psicologo John Gartner, parlano chiaro. Negli ultimi anni sono usciti vari volumi «diagnostici» su Trump. Nel piú noto, The Dangerous Case of Donald Trump, decine di professionisti della salute mentale segnalano la sua pericolosità e i rischi della sua influenza antisociale sulla popolazione. Mentre scrivo queste pagine lo ascolto alla Cnn mentre continua a mentire sui risultati delle elezioni (che Biden ha vinto per trecentosei voti elettorali contro duecentotrentadue) e arringa manifestanti che finiranno per assaltare, armati, il Campidoglio. Ai quali twitta: «Capisco il vostro dolore per lo scandalo di un’elezione rubata. Vi voglio bene, siete speciali».

Il documentario di Dan Partland #Unfit - La psicologia di Donald Trump ricostruisce, attraverso varie testimonianze, la personalità dell’ex presidente degli Stati Uniti. Le considerazioni diagnostiche sono sostanziate da molte esternazioni: «Potrei sparare a qualcuno in piena Fifth Avenue e non perderei voti»; «Tutte le donne del reality show The Apprentice hanno flirtato con me, consciamente o inconsciamente: me lo aspettavo»; «Io sono il piú grande costruttore e costruirò il muro piú grande che avrete mai visto»; «Chiedere scusa è una gran cosa, però devi aver sbagliato. Se mai mi capiterà di sbagliare, chiederò scusa». Le persone come Trump, sostengono i colleghi americani, ragionano solo in termini di vincitori e perdenti, godono nell’esibire sentimenti di trionfo e disprezzano i propri avversari. Molti suoi comportamenti documentano l’inflazione dell’autostima, la sua onnipotenza, la convinzione di avere ogni diritto, e poi fraudolenza, menzogna, bullismo, misoginia. «I narcisisti come Trump», afferma uno dei clinici che ha partecipato al volume, «si sentono costantemente spinti a dimostrare di essere i “vincitori” del mondo, spesso con sentimenti di trionfo o di disprezzo nei confronti degli altri vissuti come “perdenti”».

Queste descrizioni mi hanno fatto ripensare a una diagnosi, mai ratificata, proposta una decina di anni fa sulla rivista «Brain» dallo psichiatra Jonathan Davidson e dal politico laburista inglese Lord David Owen: la sindrome da hỳbris (in greco ὕβρις, oltraggio e tracotanza, verso dèi e uomini). Indica una forma di superbia fondata sul proprio potere politico, economico o sociale, con ostinata sopravvalutazione delle proprie forze. Implica grandiosità, bisogno di ammirazione, mancanza di empatia, ricerca di attenzione, scarso rispetto per le regole e le procedure istituzionali, violazione della dignità e dei diritti degli altri, assenza di colpa o rimorso, promozione compulsiva dei propri interessi e della propria immagine, di cui si preoccupano in modo sproporzionato, tendenza a far coincidere se stessi con lo Stato, l’istituzione o il partito che rappresentano, dire di poter essere giudicati solo da Dio o dalla Storia, autoesaltazione e atteggiamento messianico quando prendono la parola, temerarietà e impulsività. Difficile non riconoscere qualcuno, di ieri e di oggi. Uscito dalla scena politica, Trump rimarrà in quella del dibattito psichiatrico e psicologico clinico, dove verrà indicato per anni come caso paradigmatico.

Se lo psicopatico criminale è studiato da piú di un secolo, la psicologia dello psicopatico dal colletto bianco è stata meno approfondita. Chi fosse interessato al tema può leggere il libro Snakes in Suit («Serpenti in giacca e cravatta») di Robert Hare, professore di psicologia all’Università della British Columbia, e Paul Babiak, psicologo aziendale. Hare e Babiak ci spiegano che la capacità di certi leader di reggere pressioni e stress lavorativo, il loro presenzialismo, il loro essere convincenti e coraggiosi vengono a volte scambiati per attitudini positive e carismatiche, mentre a ben guardare sono tratti di spregiudicato narcisismo. Poi un giorno apriamo gli occhi e ci accorgiamo di quanta prepotenza e disonestà abbiamo subito, magari assecondandola. Oltre al mobbing, una delle tecniche di questi leader è il gaslighting, cioè (come scopriamo con crescente sgomento nell’omonimo film di Cukor) convincere che non sono loro a dirti una bugia ma sei tu che non capisci, non hai mente strategica, non hai percezioni corrette.

I narcisi di Elsa.

In latino «maschera» (termine forse di origine etrusca) si diceva «persona», perché da essa usciva la voce dell’attore (personare = «suonare attraverso»). Come le maschere del teatro antico, i sottotipi psicologici sono prototipi utili per mettere a fuoco le tipologie, come fece Teofrasto con i suoi trenta «caratteri»: il simulatore, l’adulatore, il cerimonioso, lo zotico, lo spudorato... E come ha fatto Elsa Morante regalandoci, in un piccolo scritto apparso su «Il Mondo» nel 1950, tre fulminanti ritratti narcisistici. Faccio questa divagazione letteraria per ritrovare, proprio nella letteratura, il gusto della varietà diagnostica. Il pezzo si intitola I tre Narcisi e inizia cosí: «La scorsa domenica, al Caffè di Piazza del Popolo, il caso ci offrí uno spettacolo dei piú singolari: Angelo, Saverio e Ludovica riuniti insieme a conversazione». La particolarità di questo trio dipende dal fatto che, dal giorno della morte di Narciso, mai si videro persone innamorate di se stesse al pari di ciascuno di questi tre amici. «Di piú: ognuno di loro è un perfetto esempio di uno dei tre diversi aspetti che può prendere, su questa terra, il fatale amore di sé».

Angelo è un «Narciso felice», Saverio un «Narciso furioso» e Ludovica un «Narciso infelice». Il primo «piace a se stesso, e non dubita di piacere agli altri», che per lui sono solo uno specchio da cui ricevere conferma della propria convinzione. La vita intera è per lui «una festa in suo onore». Anche il secondo «piace a se stesso, non dubita di essere bello e affascinante, né di essere un genio», ma purtroppo gli altri non la pensano cosí: «Egli non trova negli altri che la negazione e l’indifferenza. Non perciò la sua fede si scuote, anzi, tanto piú gli altri la ripudiano, tanto piú lui ne diventa fanatico». E cosí finisce preda dell’odio e del disprezzo per tutti quanti.

La terza è «l’enigma piú strano»: non si piace ed è convinta di non piacere agli altri; non disprezza il suo prossimo, ma odia se stessa. Chi dunque la consolerà? «Chi, se non Ludovica stessa? Ecco, dunque, l’inconfessato riscatto di Ludovica. Nel tempo stesso che si odia e si disprezza, Ludovica si adora. In lei convivono due Narcisi, di cui l’uno adora l’altro, che purtroppo non lo ricambia. Essere l’innamorata non ricambiata di se stessa: essere, insieme, la propria nemica e la propria complice!»

Anzi, «nessuno dei Narcisi già descritti amerà mai tanto se stesso quanto Ludovica si ama. Non potendo, però, proclamare al mondo il proprio smodato affetto per un oggetto indegno, Ludovica è divenuta ipocrita, e, ostentando umiltà, si prodiga e sacrifica per il mondo. (Ma il suo vero fine è di ottenere qualche merito alla sua cara Ludovica). Se non oserà sventolare il proprio sacrificio come una bandiera, ella offrirà a se stessa l’ultimo omaggio: il gusto d’essere incompresa e sola».

Fatta chiarezza sui tipi di Narciso – il felice, il furioso e l’infelice –, Morante chiude il suo apologo paragonando l’incontro al Caffè di Piazza del Popolo «all’impossibile concerto di tre strumenti, i quali suonino, ciascuno per suo conto, un proprio diverso e patetico Assolo».

Freud soleva dire che spesso i poeti arrivano prima degli scienziati. Come scrive Emanuele Trevi, «non è che la letteratura sia piú “elegante”, o piú “metaforica” della psichiatria – meno che mai le si può attribuire d’ufficio un maggiore grado di autenticità o profondità». Ma una differenza esiste, ed è che «la psichiatria […] per essere efficace deve astrarre, ridurre la molteplicità dei casi e dei sintomi a delle costanti, creare delle definizioni». Al contrario, continua Trevi, «la letteratura deriva la sua stessa ragion d’essere dal rifiuto di ogni generalizzazione: è sempre la storia di quella persona, murata nella sua unicità, artefice e prigioniera della sua singolarità». Per Karl Jaspers, il piú grande psicopatologo del secolo scorso, la diagnosi deve costituire un «tormento»: affermazione che ho sempre letto come la necessaria tensione del clinico tra il caso singolo e la categoria generale. Per Virginia Woolf it is no use trying to sum people up: «è inutile pretendere di riassumere una persona». Per Jorge Luis Borges «non c’è classificazione dell’universo che non sia arbitraria e congetturale», eppure questo «non può dissuaderci dal tracciare disegni umani, anche se li sappiamo provvisori». Le nostre definizioni diagnostiche, continua Trevi, possiedono «un valore che arriva fino al punto in cui l’individuo, proprio perché è un individuo, scarta di lato, e dopo, dietro quella curva, non c’è nome che lo possa piú inseguire». Diversamente dai sottotipi diagnostici manualizzati, in quelli di Morante, del cinema (tra cui i già citati Charles Foster Kane di Quarto potere e Jordan Belfort di The Wolf of Wall Street, ma anche Stéphane Lachaux de Un cuore in inverno, Jasmine Francis di Blue Jasmine e l’indimenticabile Norma Desmond del Viale del tramonto), e ancor piú nei single cases narrati dalla psicoanalisi, sentiamo la vita del singolo, la sua unicità, compresa quella della sua relazione con noi. Da psichiatra dedicato all’impresa diagnostica, la penso come Trevi: ogni diagnosi deve avere due anime, una si misura con l’esperanto nosografico della comunità scientifica, l’altra nasce dall’incontro vivo con il paziente e le sue radici personali, familiari, biologiche. Due anime che si tormentano e ci tormentano nel dialogo infinito tra l’universale e il particolare.

L’anima psicoanalitica del narcisismo.

C’è un solo punto di vista che mette d’accordo tutti gli psicoanalisti che, da Freud in poi, hanno cercato di spiegare cosa può aver visto Narciso nel suo riflesso: che un punto di vista non basta. La varietà di pazienti riconducibile all’area dei disturbi narcisistici è cosí ampia da richiedere diverse prospettive teoriche e quindi vari approcci terapeutici. Heinz Kohut, lo psicoanalista che ha dedicato tutta la vita allo studio e alla cura delle personalità narcisistiche, lo dice cosí: «Per riuscire a esporre le diverse tematiche del narcisismo […] le conoscenze e le capacità di un singolo autore risulterebbero inadeguate». Aggiungo una considerazione personale: se per un terapeuta il confronto con le idee scaturite da piú di un secolo di psicoanalisi è fondamentale, lo è altrettanto, per riconoscere una struttura narcisistica, l’esperienza della relazione, il modo in cui si sente durante l’interazione personale. Considerazione non priva di ricadute teoriche, dato che per spiegare il fenomeno narcisistico è necessaria una prospettiva relazionale. I pazienti con disturbo narcisistico di personalità sono tra i piú impegnativi da seguire in psicoterapia. Per questo è fondamentale che, soprattutto con loro, il terapeuta sappia monitorare continuativamente i suoi stati d’animo e le sue reazioni emotive. Con il mio gruppo di ricerca ho condotto numerosi studi empirici sulle risposte controtransferali al disturbo narcisistico di personalità, rilevando come alcune di esse siano particolarmente intense, frustranti e difficili da gestire. Abbiamo cosí potuto classificare le risposte emotive del terapeuta in seduta col paziente narcisista in base a quattro principali fattori: ostile-arrabbiato, criticato-svalutato, impotente-inadeguato e distaccato.

«Il termine narcisismo», scrive Freud, «è stato scelto da Näcke nel 1899 per designare il comportamento di una persona che tratta il proprio corpo allo stesso modo in cui è solitamente trattato il corpo di un oggetto sessuale, compiacendosi cioè sessualmente di contemplarlo, accarezzarlo e blandirlo, fino a raggiungere attraverso queste pratiche il pieno soddisfacimento». L’intelligenza freudiana fu quella di superare la riduzione comportamentale e indagare piuttosto le dinamiche psicologiche. È Isidor Sadger, uno dei piú focosi allievi di Freud, a importare il vocabolo nella terminologia psicoanalitica, sostenendo che il narcisismo doveva trovare una collocazione nel normale sviluppo psicosessuale dell’individuo. Negli stessi anni Otto Rank lo mette in relazione a caratteristiche come la vanità e l’autoammirazione. Freud lo impiega per la prima volta in una riunione del novembre 1909 della Società psicoanalitica di Vienna, per poi sottoporlo a continue revisioni. Almanaccando sulla sessualità di Leonardo da Vinci, parla di una scelta oggettuale narcisistica che spinge il giovane maschio fissato nei bisogni erotici sulla figura materna, e con lei identificato, a cercare un oggetto d’amore identico a sé. Il giovane omosessuale, dice, «trova i suoi oggetti d’amore sulla via del narcisismo, poiché la leggenda greca parla di un giovane, Narciso, cui nulla piaceva tanto quanto la propria immagine riflessa e che venne trasformato nel bel fiore che porta questo nome». Teoria clinicamente inconsistente e culturalmente dannosa che ha rinforzato il pregiudizio che vede nell’omosessualità sia l’immaturità amorosa sia il compiacimento estetizzante. Con il Caso clinico del Presidente Schreber, siamo nel 1910, Freud afferma che il delirio di grandezza sarà una diretta conseguenza del ritiro psicotico della libido che, sottratta agli oggetti, ritorna sull’Io. Nel 1914, nell’Introduzione al narcisismo, ipotizza che il narcisismo rappresenti uno stadio evolutivo necessario nella transizione «dall’autoerotismo all’amore oggettuale» e sia un dato strutturale all’origine dell’Io: «Il completamento libidico dell’egoismo della pulsione di autoconservazione». Per descrivere l’alternarsi tra investimento libidico dell’Io e investimento libidico degli oggetti ricorre alla metafora degli pseudopodi dell’ameba, postulando

un investimento libidico originario dell’Io, di cui una parte è ceduta in seguito agli oggetti, ma che in sostanza persiste e ha con gli investimenti d’oggetto la stessa relazione che il corpo di un organismo ameboidale ha con gli pseudopodi che emette.

Freud distingue due forme di narcisismo: primario e secondario. Nel narcisismo primario il bambino investe tutta la sua carica erotica su di sé, qualcosa che si potrebbe definire piú un amore con sé che un amore di sé. Mette poi in risalto il ruolo dei genitori nel sostenere il narcisismo del bambino, cioè la tendenza «a sospendere in favore del bambino tutte le acquisizioni della civiltà al cui rispetto essi stessi hanno costretto il proprio narcisismo, e a rinnovare per lui la rivendicazione di privilegi a cui da tempo hanno rinunciato». Per il loro piccolo, dice Freud, mamma e papà anelano a una sorte migliore di quella capitata a loro e fanno di tutto perché non subisca le inevitabili durezze della realtà.

Malattia, morte, rinuncia al godimento, restrizioni imposte alla volontà personale non devono valere per lui, le leggi della natura al pari di quelle della società devono essere abrogate in suo favore, egli deve davvero ridiventare il centro e il nocciolo del creato, quel «His Majesty the Baby», che i genitori si sentivano un tempo.

Riflettendo sul narcisismo infantile, e inevitabilmente parentale, Freud vede il bambino come colui che è destinato ad appagare i sogni e i desideri che i suoi genitori non sono riusciti a realizzare. «Il maschio deve diventare un grand’uomo e un eroe in vece del padre, la femmina deve andar sposa a un principe in segno di riparazione tardiva per la madre». Su questo, ancora oggi non possiamo dargli torto, stereotipi di genere compresi. Il bambino è per il genitore il rifugio per fronteggiare la massima vulnerabilità del proprio sistema narcisistico: «L’immortalità dell’Io che la realtà mette radicalmente in forse». Commovente e in fondo cosí infantile, dice Freud, l’amore dei genitori «non è altro che il loro narcisismo tornato a nuova vita; tramutato in amore oggettuale, esso rivela senza infingimenti la sua antica natura».

Il narcisismo secondario è invece quando la libido viene sottratta agli oggetti e riportata sull’Io, in una sorta di regressione patologica alla preesistente e infantile condizione narcisistica. Il delirio di grandezza, per esempio, non è che «l’immediata espansione dell’Io causata dal ritiro degli investimenti libidici oggettuali». Freud introduce i concetti di Io ideale e ideale dell’Io, istanze irraggiungibili ma necessarie per la costruzione dell’autostima, ponendoli alla convergenza tra narcisismo dell’Io, identificazioni con i genitori e ideali collettivi. E suggerisce lo sviluppo dell’ideale dell’Io (come aspiriamo a essere) come struttura separata dal Super-Io (come «dovremmo» essere, in base all’interiorizzazione, piú o meno persecutoria, delle regole ricevute dall’educazione). Il narcisismo, suggerisce Freud, ora si sposta su questo Io ideale che, come l’Io di quando eravamo bambini, gode di tutte le piú preziose qualità. A questa «perfezione narcisistica» infantile l’Io non vuole rinunciare e, quando è sottoposto agli ammonimenti altrui, ma anche alle richieste del suo stesso giudizio critico, si sforza di riconquistarla nella nuova forma ideale.

Siamo solo nella prima metà del Novecento e già il narcisismo è un rompicapo. Di volta in volta è infatti una perversione sessuale; uno stadio del normale sviluppo della «libido»; una caratteristica della schizofrenia nella quale la libido viene ritirata dal mondo esterno e investita sul soggetto; un tipo di scelta dell’oggetto d’amore, nella quale l’oggetto verrebbe scelto in quanto rappresenta quello che il soggetto era o vorrebbe essere. Arriviamo agli anni Cinquanta e Melanie Klein non vede di buon occhio l’idea freudiana di una fase di narcisismo primario che precede le relazioni oggettuali. Anche quegli stati che per Freud rappresentano un ritiro narcisistico sono per lei caratterizzati dall’investimento libidico di oggetti, in questo caso di oggetti idealizzati, interiorizzati e assimilati al Sé. Di converso, l’attitudine allo sfruttamento interpersonale e al dominio sull’altro ritenuto inferiore rifletterebbero l’uso dell’oggetto come «contenitore» delle parti cattive del Sé. Il distacco, la grandiosità e l’incapacità di stabilire legami duraturi sarebbero connessi alle difese mobilitate contro l’invidia, ovvero l’odio per l’oggetto buono che possiede e controlla tutto ciò che è desiderabile. La psicoanalisi kleiniana mette in luce il ruolo dell’invidia nei disturbi narcisistici: un sentimento che rappresenta la forma psicologica degli impulsi umani piú distruttivi, impedisce lo stabilirsi di un rapporto valido con gli oggetti buoni, mina il senso di gratitudine e rende incerta la distinzione tra buono e cattivo. Muovendosi su un piano piú clinico e sviluppando il concetto kleiniano di invidia, Rosenfeld, che ormai conosciamo per la sua distinzione tra pelle spessa e pelle sottile, aggiunge che gli individui narcisisti sviluppano un’immagine grandiosa e idealizzata di sé, svalutando gli oggetti e le relazioni, per sfuggire alla dipendenza e all’angoscia depressiva che proverebbero se fossero consapevoli di distruggere in modo invidioso gli oggetti che amano. La loro costellazione di difese serve a distanziare il dolore connesso alla dipendenza da oggetti, esterni e interni, differenziati dal Sé.

Se nella teorizzazione kleiniana e post-kleiniana emerge il ritratto del narcisista abitato da un’elevata conflittualità, distruttività e invidia, a partire dalla metà del secolo scorso diversi autori hanno descritto problematiche narcisistiche che derivano principalmente da fallimenti ambientali e relazionali, spostando l’attenzione sul deficit (piú che sul conflitto) e sugli aspetti fragili e vulnerabili del paziente narcisista. Tra i primi contributi in questa direzione voglio brevemente ricordare quelli di Donald Winnicott, secondo cui le patologie che oggi chiamiamo narcisistiche sarebbero l’esito di un fallimento materno nel sostenere lo sviluppo dello spazio potenziale generato dalla dialettica tra illusione di autosufficienza e dipendenza da una realtà riconosciuta come esterna. Le madri di questi pazienti non avrebbero permesso loro di arrivare a fare esperienza dell’uso dell’oggetto, cioè di conoscere e rapportarsi all’oggetto nella sua alterità, ma solo dell’entrare in rapporto con l’oggetto attraverso identificazioni. Le situazioni di indisponibilità emotiva da parte della madre descritte da Winnicott pongono il bambino nella dolorosa situazione di doversi occupare delle esigenze emotive della madre al fine di garantirsi il vissuto della dipendenza, ma al prezzo di dissociare parte della propria esperienza piú viva e autentica. A questo tipo di pressioni ambientali che suscitano agonie primitive, il bambino reagisce infatti per mezzo di una dissociazione attiva dei propri stati emotivi e corporei, garantendosi un adattamento alla realtà esterna ma rinunciando al proprio senso di continuità, vitalità e spontaneità. Questa dissociazione verrebbe a strutturare un «falso Sé» che svolge la funzione di celare e nascondere un sé segreto e autentico. Anche altri autori, come Arnold Modell e Vamık Volkan, ricorrendo a espressioni come «bozzolo narcisistico» e «bolla di vetro», hanno messo in luce la funzione del ritiro narcisistico come tentativo di proteggersi da una dipendenza che procura dolore, per coltivare in maniera solitaria una parte piú vera e preziosa del proprio Sé. Per usare le parole di una paziente di Modell: «Condividere dei sentimenti sarebbe stato come provocarmi una lesione che mi avrebbe resa indifesa, il prezioso tuorlo sarebbe uscito e sarebbe andato perduto per sempre». Per usare quelle di un mio paziente: «Tradire il segreto dei miei pensieri profondi potrebbe inquinare l’incantesimo della mia solitudine».

Una posizione a parte occupa il contributo dello psicoanalista francese André Green. Gli scritti raccolti nel volume Narcisismo di vita, narcisismo di morte mettono in risalto vari elementi dell’esperienza narcisistica: per esempio, il legame con il masochismo; la sottotipizzazione in narcisismo corporeo, intellettuale (come forma di onnipotenza del pensiero) e morale; la duplicità intrinseca alla struttura dell’Io che da una parte si conosce mortale ma dall’altra si crede immortale. Per Green il narcisismo si presenta da un lato come sostegno della funzione unificante dell’Io attraverso la pulsione di vita, dall’altro come espressione della pulsione di morte che alimenta le aspirazioni dell’Io al proprio annullamento. Il narcisismo negativo, o narcisismo di morte, viene descritto come una condizione di paralisi del sé, un sentimento di grave vuoto, totale ritiro dell’investimento e aspirazione al Nulla. Basandosi sulla teoria pulsionale di Freud, Green ritiene che l’identificazione inconscia con una madre gravemente depressa e frustrante, che il bambino non può invocare ma neppure desidera abbandonare, contribuisce a uno stato di negazione delle relazioni vitali e a un senso di morte interiore, incapacità di amare e di credere nelle proprie risorse. Condizioni emotive che spesso si attualizzano, con l’implicita aggressività sabotatrice, nella relazione terapeutica. Green descrive il «complesso della madre morta» (vi abbiamo accennato nel cap. 1, par. Slancio e torpore) per spiegare non una reale perdita subita dal bambino nei primi anni di vita, ma la depressione materna che elimina il figlio dall’orizzonte affettivo. Un vuoto a cui il bambino non è in grado di attribuire un significato, un «buco» nella trama psichica soggettiva che lo accompagnerà fino nella vita adulta. Una vita che apparentemente potrà sembrare soddisfacente, ma continuerà a essere infestata da questo «lutto bianco», dalla madre morta con la quale il figlio si identifica. Ritroviamo una configurazione psichica simile nel personaggio di Richard Brown del film The Hours di Stephen Daldry: nonostante il successo nella carriera di scrittore, per tutta la vita Richard porterà dentro di sé il buco dell’assenza materna. Devastanti le scene di dolore psichico del piccolo Richie alle prese con l’ideazione suicidaria della madre, l’infelice Laura interpretata da Julianne Moore.

K and K.

Le concettualizzazioni piú note in tema di narcisismo sono quelle di Heinz Kohut e Otto Kernberg, entrambe formulate nella seconda metà del secolo scorso, ma oggi ancora molto vive nel dibattito teorico e nel lavoro clinico. Le loro posizioni, in un certo senso complementari, rappresentano una fondamentale tensione modellistica riguardo alla genesi e alle caratteristiche delle personalità narcisistiche. Kohut pone l’accento sugli aspetti deficitari dello sviluppo connessi a fallimenti nelle cure genitoriali e vede nel narcisismo patologico un arresto nel processo di costruzione dell’identità. Kernberg sottolinea gli aspetti conflittuali intrapsichici e aggressivi, e vede il narcisismo patologico come negazione di una dipendenza sana e realistica che prevede la capacità di amare, realizzare se stessi e riconoscere il valore proprio e altrui. L’originalità della teoria kohutiana risiede nella funzione degli «oggetti» esterni nella formazione della personalità narcisistica. Kohut conia il termine «oggetto-Sé» proprio per indicare il ruolo che il bambino attribuisce a qualcuno per soddisfare i suoi bisogni narcisistici. Il nostro Sé, dice Kohut, si forma attraverso le sollecitazioni e le interazioni con le figure significative del nostro ambiente di crescita. Nello sviluppo sano diventa un centro di azione indipendente e vitale. Contiene un polo delle ambizioni e un polo degli ideali, connessi da «un arco di tensione» su cui esprimiamo capacità e talenti, come se il Sé fosse dotato di un «programma nucleare» la cui realizzazione creativa determina soddisfazione.

Durante la primissima infanzia, le energie del bambino sono interamente dedicate alla ricerca del benessere e alla soddisfazione dei propri bisogni. Lo sviluppo della personalità infantile (e poi, in forme diverse, di quella adulta) richiede, secondo Kohut, l’esperienza di alcune configurazioni fondamentali: a) l’oggetto-sé speculare (che riconosce, accetta, conferma e ammira il nostro Sé nella sua grandezza, bontà e interezza); b) l’imago parentale idealizzata (che consente al Sé di fondersi con la rappresentazione dell’altro significativo, al quale attribuiamo potere, calma, saggezza e forza); c) l’oggetto-sé gemellare (che consente una relazione di similitudine che dà sostegno e infonde sicurezza). Col tempo, le caratteristiche infantili di queste rappresentazioni vengono superate ed elaborate sia per mezzo di «interiorizzazioni trasmutanti» (cioè l’appropriazione della capacità di svolgere da soli le funzioni finora svolte dagli oggetti-sé) sia per mezzo di «frustrazioni ottimali» e piccoli «fallimenti empatici» dei genitori (cioè esperienze non traumatiche e tempestive attuate dagli oggetti-sé per attenuare o rinviare l’urgenza del soddisfacimento dei bisogni parziali o piú arcaici di esibizionismo, grandiosità, fusionalità). La funzione evolutiva di queste frustrazioni aiuta il bambino a tollerare i suoi limiti e a differenziare l’esperienza di sentirsi adorati da quella di sentirsi riconosciuti e sostenuti, consolidando nel tempo una forma matura di narcisismo. Gli oggetti-sé rimangono però tutta la vita perché anche noi adulti abbiamo bisogno di questo tipo di relazioni narcisistiche, che impariamo a modulare in accordo con quanto richiesto dalla realtà.

Kohut elabora la teoria del narcisismo a partire dall’osservazione dei transfert sviluppati dai suoi pazienti. Nel transfert speculare predomina il bisogno di un oggetto la cui approvazione favorisce lo sviluppo dell’autostima; nel transfert idealizzante predomina il bisogno di «fusione» con un oggetto forte e speciale; nel transfert gemellare predomina la ricerca di un oggetto simile a sé, che assicuri e convalidi l’esperienza e l’umanità stessa del soggetto. Analizzando questi diversi transfert, Kohut nota come essi rappresentino la riattivazione analitica di processi psichici evolutivi che possono essere stati frustrati o disattesi durante l’infanzia. Distanziandosi dalla tradizione freudiana, afferma che il compito dell’analista non è frustrare i bisogni del paziente, magari interpretandoli come difese, ma accettarli e corrispondere empaticamente ad essi per permettere al Sé di svilupparsi. Non si tratta di desideri conflittuali, ma di bisogni legittimi del bambino (o del paziente)! Il conflitto tra il Sé e gli oggetti non è intrapsichico, come vorrebbe la teoria classica (che postula una conflittualità tra Es, Io e Super-Io): lo sviluppo narcisisticamente sano del bambino dipende dall’ambiente e dall’empatia dei genitori. Le manifestazioni del Sé grandioso ed esibizionistico nelle fasi precoci dello sviluppo infantile, in sé non patologiche, sono un’esperienza evolutiva necessaria per la costruzione dell’identità e la regolazione dell’autostima. Il Sé grandioso infantile esige il rispecchiamento del genitore (mirroring), l’accettazione e l’orgoglio per le sue potenzialità, lo scintillio della conferma e della gioia che appare nello sguardo dell’oggetto-Sé sintonizzato affettivamente. Considerato l’impatto delle relazioni precoci sullo sviluppo del bambino, la cui sopravvivenza e crescita psicologica dipendono dalla sollecita responsività degli oggetti-Sé, è comprensibile come, secondo Kohut, carenze empatiche, gravi privazioni affettive o cure insufficienti (per esempio in genitori disturbati, abusanti, depressi o psicotici) possano provocare deficit strutturali primari nella costituzione del Sé. Un arresto nella crescita psicologica del bambino impedisce di «trasformare» il narcisismo e l’amore oggettuale arcaici in un narcisismo e amore oggettuale maturi. Le personalità narcisistiche rimangono «impigliate» in uno stadio primitivo di grandiosità che si manifesta e riattualizza nelle relazioni con gli altri ogni volta che i bisogni infantili, negati o trascurati, si riattivano. Molte espressioni adulte di rabbia narcisistica sono rivolte ai fallimenti degli oggetti-Sé.

Se nella prospettiva kohutiana le forme narcisistiche si collocano lungo un continuum sano-patologico e sono indissolubilmente legate alle risposte piú o meno sintonizzate dell’ambiente, per Kernberg, che proviene da un modello pulsionale e kleiniano, il narcisismo patologico è il risultato di conflitti intrapsichici che danno vita a un «Sé grandioso patologico» onnipotente, intriso di aggressività, che attacca gli aspetti piú fragili e amorevoli del Sé, degli oggetti e delle relazioni di dipendenza. Il Sé grandioso patologico si sviluppa difensivamente per eludere l’intensità dell’invidia per gli oggetti buoni e proteggere l’individuo da angosce persecutorie e depressive (originate proprio dalla paura di perdere gli oggetti buoni, da cui il bambino sente di dipendere, e dai sentimenti di colpa che derivano dall’ostilità invidiosa rivolta contro di essi). Si tratta di una struttura in cui convergono le rappresentazioni reali e ideali del Sé e degli oggetti, sostenuta da meccanismi di difesa primitivi come la scissione (rappresentazioni polarizzate «tutte buone» per il Sé e «tutte cattive» per gli altri), la proiezione (aspetti negativi del Sé proiettati sugli oggetti), l’identificazione proiettiva (aspetti negativi del Sé inseriti negli oggetti), l’idealizzazione (del Sé) e la svalutazione (degli altri e delle relazioni), la negazione (dei propri bisogni affettivi e di dipendenza). Dominato dall’invidia e dalla rabbia, il mondo interno del paziente narcisista si esprime, secondo Kernberg, con atteggiamenti superbi, sprezzanti e carichi di un odio che emerge soprattutto quando sentimenti di fragilità e inferiorità minacciano di incrinare la rappresentazione grandiosa di Sé.

Alla luce delle divergenze teorico-cliniche che per molti anni hanno contrapposto gli approcci di Kohut e di Kernberg, è possibile ipotizzare una differenza contestuale. Se i pazienti di Kernberg sembrano rispecchiare le peculiarità di funzionamento del narcisista overt, insensibile a pelle spessa, quelli di Kohut sembrano piú riconducibili alle caratteristiche del narcisista covert, ipersensibile a pelle sottile. Una distanza che potrebbe affondare le sue radici nelle loro diverse esperienze cliniche: Kernberg ha trattato soprattutto pazienti ricoverati, piú gravi, piú distruttivi ed empaticamente meno «raggiungibili» (al punto da averlo portato a costruire la diagnosi di «narcisismo maligno» e a studiare i confini tra narcisismo, psicopatia, antisocialità e sadismo), mentre Kohut ha lavorato soprattutto con pazienti ambulatoriali, portatori di deficit relazionali e affettivi, piú vulnerabili al giudizio e bisognosi di conferme, ma anche piú dotati di capacità di adattamento.

In una clinica dove il modello deve aderire alle necessità del paziente, e non viceversa, i due approcci oggi appaiono piú conciliabili. Vari autori cercano di ricondurre le differenze tra i modelli di Kohut e Kernberg a una stessa curva i cui estremi sono la variante arrogante-grandiosa e la variante fragile-vulnerabile. «La persona narcisista», sintetizza Nancy McWilliams, «può essere immaginata, nella concezione di Kohut, come una pianta il cui sviluppo si sia arrestato in certi punti critici per scarsità di acqua e di sole; in quella di Kernberg, come una pianta che abbia subito un’ibridazione. [...] Alcuni approcci al narcisismo privilegiano la necessità di dare acqua e sole in abbondanza, in modo che possa infine fiorire; altri suggeriscono che deve essere potata delle sue parti ibride, in modo che possa diventare ciò che avrebbe dovuto essere». Con McWilliams condivido anche la scarsa propensione a cogliere una continuità diagnostica tra narcisismo e psicopatia, anche sulla base di ipotesi evolutive per cui il versante narcisistico deriverebbe da carenze e fallimenti dell’accudimento del figlio da parte dei genitori (per esempio, figli come protesi narcisistiche idealizzate o come oggetti svalutati mai all’altezza delle aspettative), mentre le personalità piú gravemente antisociali o psicopatiche mostrerebbero un retroterra gravemente traumatico, caratterizzato da trascuratezze, abbandoni e abusi.

Giardinieri di narcisi.

Difficile che i narcisisti grandiosi vengano in terapia: troppo onnipotenti, troppo autocentrati, troppo convinti di sé. Difficile che ci vengano quelli ad alto funzionamento: troppa fortuna, troppe conferme, troppi seguaci. Per gli uni e per gli altri la porta della psicoterapia si apre quando qualcosa della loro costruzione narcisistica crolla: solitudini impreviste, sconfitte lavorative, altri fallimenti relazionali. A quel punto può subentrare una risposta prima rabbiosa e poi depressiva, magari accompagnata dalla ricerca di un sostegno terapeutico, fosse anche solo per dimostrare, almeno inizialmente, l’ingiustizia degli accadimenti e l’invidiosa miseria degli altri. Piú frequente che a un terapeuta si rivolgano i narcisisti fragili, in quotidiano contatto con sfibranti vissuti di inadeguatezza. Piú facili da aiutare le persone narcisiste che giungono in terapia durante la mezza età o piú avanti, quando gli investimenti nel campo della bellezza, della fama, della ricchezza e del potere sono stati disattesi o hanno subito qualche contraccolpo, e loro sono costretti a confrontarsi con i limiti realistici delle loro aspettative.

Come ho piú volte ripetuto, le sfumature del narcisismo sono infinite; questo non significa solo approcci terapeutici diversi, ma anche alchimie relazionali paziente-terapeuta assai variegate. Che devono tenere conto di auree impegnative che possono addensarsi attorno al paziente narcisista: problemi da abuso di sostanze, disturbi di panico o dell’umore, rischio suicidario; cui si aggiunge il rischio di interruzioni premature e unilaterali del trattamento (il termine tecnico è «dropout»). Con realistico pessimismo Kernberg definisce questi pazienti almost untreatable, cioè proprio difficili da aiutare e con cui è difficile costruire una relazione caratterizzata da fiducia, collaborazione, accordo sugli obiettivi.

Di relazione terapeutica si sono occupati altri due esperti di narcisismo, coniugando in modo virtuoso le loro esperienze cliniche e i dati provenienti dalla ricerca. Se Elsa Ronningstam ci insegna come la ricerca empirica, e quindi la sfida della «misurazione», ci aiuti a lavorare con questi pazienti, Glen Gabbard ci indica come, in base alla tipologia narcisistica, la consapevolezza delle risposte emotive dei clinici (il controtransfert) sia sempre determinante per la riuscita del trattamento. Il terapeuta può essere «sedotto» dal carisma di certi pazienti narcisistici ad alto funzionamento, può provare ammirazione e invidia, persino aderire inconsciamente alle loro fantasie grandiose. Sentimenti che, se non riconosciuti dal clinico, portano a colludere con i bisogni grandiosi del paziente, causando situazioni di impasse e statica specularità nella reciproca idealizzazione.

Con i narcisisti fragili è necessario prestare attenzione ai propri sentimenti di irritazione o impazienza nei casi in cui il paziente, per mantenere la sua precaria autostima, esprima in modo passivo, talora aggressivo, il suo bisogno di essere ammirato e assecondato. Il paziente narcisista può attivare i bisogni narcisistici del terapeuta stesso, per esempio idealizzandolo e facendolo sentire infallibile. Essere oggetto di idealizzazione può suscitare anche reazioni di disagio, far sentire il clinico sotto pressione, «costretto» a mostrarsi sempre brillante e competente.

I pazienti grandiosi o maligni sembrano parlare piú «di fronte» al terapeuta che direttamente «al» terapeuta, rendendogli arduo il compito di sentirsi un vero «osservatore partecipe». Il clinico può quindi provare sentimenti di esclusione, invisibilità o impotenza che portano all’emergere (difensivo) di sensazioni di noia, distrazione, distacco, voglia che la seduta si concluda in fretta. Piú difficile ancora è fare i conti con la sensazione di sentirsi svalutati o disprezzati, che può portare a vissuti di rabbia, ostilità e persino paura. Tempo fa sono rimasto colpito da uno scambio clinico riportato proprio da Gabbard come esempio di contro-intervento ostile da parte del terapeuta. Era piú o meno cosí:

PAZIENTE: A volte mi sento una specie di re Lear. Non so quanto lei conosca l’opera di Shakespeare […]. Ha presente l’apertura del terzo atto di Re Lear?

TERAPEUTA: No, non la ricordo.

PAZIENTE: Già. Dimenticavo che lei probabilmente legge solo libri di psichiatria. In effetti la maggior parte degli psichiatri che ho conosciuto avevano interessi piuttosto ristretti. Quindi lei non ha mai letto Shakespeare?

TERAPEUTA [con tono seccato e sprezzante]: Guardi, se è per questo lo conosco bene, e ho anche visto parecchie volte Re Lear. Ho anche molto amato la versione che ne fa Kurosawa in Ran. Semplicemente non ricordo come inizia il terzo atto, tutto qui, non la farei troppo lunga.

PAZIENTE: Ma come siamo ipersensibili...

TERAPEUTA: Senta, mi sembrava necessario chiarire come stanno le cose, visto che mi considero un buon conoscitore di Shakespeare, checché lei ne pensi!

Nel mio lavoro mi è capitato di osservare spirali relazionali negative per cui il terapeuta nega e disconosce la sua rabbia o la sua frustrazione e si mostra, reattivamente, iper-empatico e comprensivo, producendo però, con un vistoso effetto boomerang, ancora piú disprezzo (e invidia misconosciuta) nel paziente. Queste riflessioni diventano ancora piú necessarie nel caso di pazienti psicopatici, che tendono a considerare ogni espressione di gentilezza come una debolezza da sfruttare a proprio vantaggio.

Il terapeuta, che per le sue virtú di attenzione, cura e pazienza, può pensarsi come un giardiniere, sa che il giardino dei narcisi è pieno di spine. Sa anche che, pur non esistendo linee guida univoche e condivise dalla maggioranza dei professionisti della salute mentale, una terapia psicodinamica a lungo termine può essere considerata l’indicazione elettiva per pazienti narcisisti con un livello di funzionamento nevrotico o borderline (non lo è invece per narcisisti maligni e ancor meno psicopatici). Altri approcci al trattamento del disturbo narcisistico sono quelli che derivano dagli studi sull’attaccamento e si concentrano sui deficit di mentalizzazione (il processo mentale attraverso cui leggiamo le azioni nostre e altrui come aventi un significato, cioè basate su stati mentali intenzionali), oppure quelli di matrice cognitivista che applicano la cosiddetta terapia metacognitiva interpersonale ai pattern piú disfunzionali di pensiero e relazione.

Al di là dei recinti teorici, talora fuorvianti, credo che il modello psicodinamico continui a fornire indicazioni molto utili per il trattamento dei pazienti narcisisti. Come abbiamo visto, Kohut mette in risalto l’importanza della sintonizzazione empatica e dell’esplorazione degli inevitabili fallimenti empatici del terapeuta, sapendo resistere alla tentazione di «confrontare» troppo precocemente il paziente con i suoi aspetti onnipotenti e irrealistici. Kernberg raccomanda di esplicitare, con tatto ma in modo netto, la presenza e la funzione delle difese contro la vergogna, l’invidia e la normale dipendenza. I clinici contemporanei sono piú propensi ad adottare un approccio integrato, confrontando il paziente con le sue difese quando queste sono visibili e rilevanti, ma sapendosi sintonizzare empaticamente con il dolore e la vulnerabilità sottostanti. Sul tema della trattabilità, Michael Stone ritiene che, di fronte alle manifestazioni piú maligne, sadiche o psicopatiche, l’approccio analitico funzioni piú in senso contenitivo che trasformativo. L’invidia narcisistica può, inoltre, essere alla base della paura di migliorare in terapia, poiché un miglioramento testimonierebbe sia che c’era qualcosa da migliorare sia che qualcuno è in grado di migliorarci… Nelle forme piú insidiose, dunque, i progressi sono piuttosto lenti, ma apprezzabili. E soprattutto apprezzati dall’entourage del paziente.

È comunque possibile elencare alcuni importanti indicatori di cambiamento: in ambito lavorativo, un miglioramento della capacità di collaborare in modo produttivo e di modulare le proprie aspirazioni sulle base delle competenze reali (riducendo la dolorosa discrepanza tra aspettative e ideali vs risorse e opportunità); nelle relazioni interpersonali, una riduzione della tendenza a svalutare e distanziarsi dagli altri, insieme a un aumento della capacità di fidarsi e preoccuparsi per loro; una maggiore capacità di comprendere il proprio mondo interiore, tollerare e regolare le emozioni piú intense e gestire le fluttuazioni dell’umore e dell’autostima. Sono molto belle le parole con cui Kohut descrive gli obiettivi di una sua terapia:

L’aumentata capacità di un analizzando di essere rassicurato dal gesto amichevole di un amico che, in silenzio, gli mette un braccio intorno alle spalle; la possibilità da poco raggiunta o ritrovata di ricevere forza e sollievo dall’ascolto della musica; la sensazione di sentirsi piú in armonia con le preoccupazioni del gruppo al quale appartiene; l’acquisita capacità di esibire con gioia i prodotti della sua creatività per ricevere l’approvazione di un pubblico oggetto-Sé…

2. Una sorpresa narcisistica (Guy Billout, Reflection, 1984).

2. Una sorpresa narcisistica (Guy Billout, Reflection, 1984).

Una buona terapia può aiutarci a realizzare il miracolo rappresentato da questa vignetta di Guy Billout (Figura 2): un giorno come Narciso ci specchiamo nell’acqua, ma anziché vedere riflessa un’immagine identica a noi stessi, vediamo con sorpresa un altro «noi stessi», un po’ diverso, che ci saluta. Il caso ha voluto che il disegnatore abbia pensato di raffigurare un giardiniere…

Il dominio del disamore.

Oscar Wilde propone una variazione del mito. Immagina che la sorgente, dopo la morte di Narciso, si trasformi in una pozza di lacrime salate. Sciogliendo le trecce verdi dei loro capelli le ninfe del bosco le confessano di non meravigliarsi di tanto pianto, talmente bello era Narciso. «Ah, Narciso era bello?» domanda la fonte. «Chi potrebbe saperlo meglio di te?» rispondono in coro le ninfe: «È nello specchio delle tue acque che rifletteva la sua bellezza». Ma la sorgente le coglie di sorpresa annunciando la ragione del suo pianto: amava Narciso perché, quando lui si inchinava sulla sua riva, lei poteva ammirare la propria bellezza nello specchio dei suoi occhi. Nel gioco di specchi il narcisismo si moltiplica: quando nell’altro vediamo solo noi stessi, la relazione si acceca.

L’incapacità di vedere l’altro è al cuore del film di Noah Baumbach Storia di un matrimonio. Un resoconto di come l’odio possa scaturire dall’amore, il disprezzo dalla tenerezza, la diffidenza dalla fiducia, il rancore dalla devozione. Nicole e Charlie si amano e amano il loro bambino, ma su questo amore c’è l’ipoteca della miopia narcisistica: in modi diversi non vedono lo spazio di cui l’altro ha bisogno per crescere. Nicole sente che la sua vita è prigioniera di quella del marito Charlie; Charlie non pensa che la sua vita ingombri quella di Nicole. Se la coppia fosse una competizione, entrambi potrebbero avere ragione, invece hanno entrambi torto. La coppia è una creatura delicata perché facilmente si trasforma in un’incubatrice di rivendicazioni narcisistiche e rivalità inconfessate.

Rilke diceva che un buon matrimonio è quello in cui ciascuno nomina l’altro custode della sua solitudine: «E questo piú umano amore (che si compirà infinitamente attento e sommesso, e buono e chiaro nel legare e nello sciogliere) somiglierà a quello che noi con lotta faticosa prepariamo, all’amore che in questo consiste, che due solitudini si custodiscano, delimitino e salutino a vicenda». Ecco cosa manca ai due competitivi sposi di Baumbach: analfabeti sentimentali, non si sono mai soffermati sul legare e sullo sciogliere, sanno elencare le virtú del coniuge e ancor piú le proprie, ma non si sono davvero chiesti «che cosa ci faccio qui». Si sono amati e forse continuano ad amarsi, ma non hanno imparato a prendersi cura di sé curandosi reciprocamente. L’idea meno narcisistica di coppia è quella di due persone che si dedicano a una terza «persona»: la loro relazione. Alimentata dal riconoscimento reciproco, è lei che garantisce all’amore il suo spazio, la sua pienezza faticosa e vitale. Basta poco per muovere i piatti della bilancia e trasformare la coppia in un gioco di potere che pratica il narcisismo del comando e quello della sottomissione. Come nell’amore ricambiato, anche in quello non accolto cadiamo vittime di imboscate narcisistiche. Un esempio è la forma masochistica del donarsi a chi si concede senza darsi; asservirsi all’oggetto che ci rifiuta (come nel disamore di Eco e Narciso) oppure, piú doloroso ancora, che ha da offrire solo la sua ambivalenza. Talvolta è un tentativo di riscrivere la propria storia, cercando di farsi scegliere da grandi perché non siamo stati scelti da piccoli. Come si sposano bene, cioè male, il narcisismo fragile della vittima complice e quello contundente della divinità prepotente!

«In che modo il dominio è radicato nei cuori di coloro che vi si sottomettono?» si domanda la psicoanalista Jessica Benjamin. Immagino se lo siano chiesto anche i lettori di Persone normali, romanzo di Sally Rooney di grande successo (ne è stata tratta anche una bella serie). Benjamin affida l’analisi del masochismo amoroso allo studio dell’immaginazione erotica in Histoire d’O, dove «il piacere di O risiede, per cosí dire, nella sensazione della propria sopravvivenza e nella connessione con il suo potente amante. Fino a che riesce a trasformare la paura della perdita in sottomissione, fino a che rimane l’oggetto e l’espressione del potere di lui, O è salva». Farsi strada fino all’altro, per il sadico; essere trovato, per il masochista. Per entrambi, un tentativo di controllare la perdita di sé.

Una mia paziente aveva da anni una relazione con un uomo sposato, di cui era innamorata. Col passare del tempo, però, pativa sempre piú il peso di questa situazione che dapprima le andava bene, le dava un senso di libertà. Poi però aveva iniziato ad avvertire la solitudine di «una vita a metà che non mi fa mai sentire scelta, ma sempre in subordine». Le parole sono proprio queste, le ho trascritte dopo la seduta. Decise di parlargli, lo mise alle strette. La sua risposta la sbalordí: «Sei egoista», le disse. «Pensi solo a te stessa. Ora stiamo bene in due su tre. Se io lasciassi mia moglie staresti bene solo tu. E mi toglieresti la forza che mi viene dall’amore di due donne». Fu lei a lasciarlo, facendogli un regalo: un CD di Carmen Consoli intitolato Stato di necessità. Come biglietto, gli aveva stampato le parole di una canzone contenuta nell’album che inizia cosí: «Narciso, parole di burro…»

Ogni innamorato col cuore spezzato aveva il progetto grandioso di estorcere un «ti amo» a qualcuno che non riesce, non sa o non può dirlo. Roland Barthes ci ricorda che la vera risposta al «ti amo» non è semplicemente «anch’io», ma «ti amo anch’io».

Ci sono amori che si nutrono di incertezze e amori che si nutrono di progetti. Ostacolo e visione, desiderio e sicurezza devono invece procedere insieme, convivere con equilibrio nella relazione amorosa: la loro alternanza è lo spartito della sua sopravvivenza. Qui entrano in gioco la nostra personalità, il nostro attaccamento, le nostre difese, e saranno loro a scrivere la storia. Parlare d’amore è quasi sempre parlare di narcisismo, che è forse il suo peccato originale, stando almeno alla psicoanalisi quando afferma che l’innamoramento è un’idealizzazione in cui l’Io allenta i suoi confini e si proietta nell’altro per riparare a una mancanza, colmare un’assenza. La tragedia che affligge le persone narcisiste è l’incapacità amorosa: le caratteristiche delle loro relazioni amorose sono un indicatore «diagnostico». Il concetto di Narzissmus der kleinen Differenzen, che Freud ricava dall’antropologo britannico Ernest Crawley, vuole che siano spesso le piccole differenze «a provocare sentimenti di estraneità e ostilità tra gli individui». Da qui le forme di personalismo ostile, la necessità di esagerare le differenze:

Un narcisismo che tende all’autoaffermazione e si comporta come se la semplice presenza di uno scostamento dalla propria linea di sviluppo implicasse una critica di questa e un invito a modificarla.

Alla domanda «mi ama?» dovremmo aggiungere molte altre domande. Per esempio: «si prende cura di me?», «mi rende migliore?», «ha interesse per quello che penso?», «quando ci troviamo nel pieno di un nostro conflitto, sa riconoscere il suo contributo?» Il discorso sarebbe infinito e il libro si avvia alle ultime battute. Resta il tempo di ripercorrere alcuni dei sentieri che conducono alle relazioni narcisistiche: il bisogno di «fare colpo» (il grandioso terrà una conferenza su di sé, poco attento alle vostre reazioni; il fragile sarà tutt’orecchi e già preda dell’idealizzazione); la paura del legame paritario (mascherata dalla scelta di partner indisponibili); la conferma del proprio potere e il controllo attraverso la negazione della vostra autonomia; la facilità con cui ci si sente offesi o trascurati, con permalosità e recriminazioni che avvelenano l’atmosfera; l’intolleranza alla critica che fa montare l’aggressività; la distrazione o quella «doverosa» presenza che tradisce l’assenza; la rivalità, la svalutazione, l’invadenza…

Come si diventa narcisisti?

Nessuno sa rispondere alla domanda: come diventiamo quelli che siamo? Abbiamo numerose ipotesi, moltissime ricerche e tanta esperienza clinica, ma non sappiamo davvero spiegare la patogenesi di un disturbo di personalità, perché una persona lo sviluppa e un’altra no. Possiamo solo affermare che dipende da un intreccio di infinite variabili riconducibili alla triade, anch’essa oscura ma in tutt’altro senso, del modello bio-psico-sociale. Va aggiunto che gli studi empirici volti ad approfondire il disturbo narcisistico della personalità si basano su dati che provengono in gran parte da questionari autosomministrati, cioè compilati dal soggetto stesso: un limite rilevante, ancor piú nel caso di individui narcisisti, notoriamente ipersensibili al giudizio altrui.

Per semplicità, e per tirare le fila di quanto raccontato finora, provo a delineare in gran sintesi una possibile patogenesi del disturbo narcisistico. Riconducendola soprattutto a due variabili che, epigeneticamente, si influenzano a vicenda: il temperamento e l’accudimento. Iniziamo col dire, per esempio, che un bambino con un temperamento aggressivo, irascibile o facile alla frustrazione svilupperà piú facilmente una sindrome di personalità. Ma oltre al temperamento del bambino, di fondamentale importanza è quello di chi lo accudisce: questo matchinginfluenzerà l’intero sviluppo. Per chi non avesse confidenza con il termine, ricordo che «temperamento» si riferisce alle componenti costituzionali della personalità, presenti fin dalla nascita e dalla vita intrauterina (per esempio, l’esposizione prenatale agli ormoni). Quando parliamo di «epigenetica» ci riferiamo invece all’interazione tra i geni e l’ambiente e alle variazioni fenotipiche che ne derivano. L’annoso dibattito sull’influenza della «natura» o della «cultura» sullo sviluppo infantile si è progressivamente stemperato nel riconoscimento del ruolo interattivo di entrambi i sistemi.

Le ricostruzioni basate sulla storia dello sviluppo e sulle osservazioni cliniche indicano che il disturbo narcisistico si manifesta in persone che, nella prima età infantile, non hanno incontrato un accudimento adeguato ai loro bisogni. Già agli albori della psicoanalisi, Sándor Ferenczi descriveva come il figlio di un genitore abusante, che adoperi il bambino in funzione di una propria gratificazione, finisca per identificarsi con quel genitore aggressivo e rinunci all’espressione di sé pur di mantenere il suo amore e una certa padronanza sull’evento traumatico, compensando tale rinuncia con fantasie grandiose. La comprensione delle patologie narcisistiche si è strutturata attorno all’approfondimento dei modelli di Kohut e Kernberg, a cui abbiamo già dedicato alcune pagine: Kohut tende a vedere nella formazione della personalità narcisistica un fallimento empatico di genitori incapaci di rispondere alle richieste di un Sé infantile fisiologicamente grandioso; Kernberg vede invece il Sé di questi pazienti come una struttura patologica, non riconducibile a una fisiologica grandiosità infantile. Quello che Kohut considera un Sé bloccato nel suo sviluppo, con l’aggressività che gioca un ruolo secondario come risposta ai fallimenti genitoriali, Kernberg lo considera un Sé patologicamente grandioso, una difesa contro l’investimento sugli altri e la dipendenza da loro, con l’aggressività innata che gioca un ruolo primario e promuove stati di invidia intensa e distruttiva.

Al di là delle specifiche traiettorie delineate dai due autori, basterà qui ricordare che genitori di caso in caso distaccati, svalutanti, incapaci di rispecchiamento, silenziosamente ostili oppure molto richiedenti, intrusivi, idealizzanti e ipergratificanti in modo acritico, portati a esibire, sovraccaricare di aspettative, usare il figlio come protesi narcisistica a conferma dei propri bisogni di autostima favoriscono lo sviluppo di patologie a loro volta narcisistiche. Cioè patologie che rappresentano soluzioni in forma di autorappresentazioni grandiose compensatorie oppure autosvalutative, cariche di sentimenti di vuoto e mancanza di senso. Che si tratti di esiti moderatamente o estremamente patologici, per tutta la vita il futuro adulto continuerà a cercare una risposta ai suoi bisogni narcisistici. Questo potrà accadere in modi piú o meno consapevoli ed espliciti, sfruttando le relazioni oppure scomparendo in segreti rifugi della mente.

Anche esperienze traumatiche di abuso non solo emotivo possono portare a un grave danno nello sviluppo dell’autostima, come nel caso di sintomi narcisistici associati a trauma e caratterizzati da sentimenti profondi di vergogna, rabbia e desideri di vendetta. Invariabilmente danneggiata sarà la possibilità di vedere gli altri come fonti di conforto con cui sviluppare relazioni basate sulla fiducia. Diversi contributi, provenienti dall’Infant Research e dalla psicologia cognitiva, segnalano infine la presenza di problematiche legate alla sicurezza dell’attaccamento, alla funzione metacognitiva (cioè alla capacità di osservarsi e riflettere sui propri stati mentali) e a un adeguato sviluppo della capacità di mentalizzazione (cioè di rappresentarsi la mente propria e altrui). In una prospettiva cognitivo-evoluzionista, di grande ausilio clinico è la lettura del disturbo che Giovanni Liotti propone in termini di competizione e alleanza tra sistemi motivazionali (un numero definito di motivazioni alla base dei nostri comportamenti, frutto dell’evoluzione darwiniana, osservabili fin dalle prime fasi dello sviluppo infantile e associate a specifici correlati neurofisiologici), dove un ruolo di rilievo sarebbe legato da una parte al sistema del rango (dominanza-sottomissione, supremazia-resa), dall’altra al sistema cooperativo-paritetico (collaborazione, condivisione delle esperienze e degli obiettivi, sintonizzazione emotiva).

Veniamo ora all’influenza genetica sullo sviluppo del disturbo narcisistico, dei cui tratti numerosi studi sottolineano il carattere ereditario. Alcune ricerche si sono poste l’obiettivo di identificare e correlare al pattern narcisistico alterazioni nelle risposte fisiologiche (per esempio, frequenza cardiaca o conduttanza cutanea) a determinati stimoli target. Come ho già scritto a proposito della personalità psicopatica, in soggetti con disturbo narcisistico, rispetto a quelli di controllo, si riscontrano, in risposta a stimoli negativi, minori livelli di attivazione fisiologica e maggiore difficoltà a inibire comportamenti disfunzionali. Ricerche nel campo delle neuroscienze della personalità, da prendere con le pinze vista la complessità delle interconnessioni cerebrali, indicano un ruolo di primo piano della regione dell’insula anteriore (aINS), coinvolta nel circuito dell’elaborazione emotiva e della rappresentazione di segnali e «sentimenti» afferenti dal corpo. In particolare, il suo malfunzionamento sarebbe associato alla difficoltà di sperimentare empatia verso il prossimo e a un aumento dell’autoreferenzialità e della preoccupazione per il proprio sé. Come sottolinea Clara Mucci, studiosa della regolazione affettiva e delle esperienze traumatiche, studi neuroscientifici indicano lacune nello sviluppo di distinti sistemi neurali dell’empatia, sia nella sua componente di «contagio emotivo», che porta a riconoscere e condividere le emozioni dell’altro, sia nella componente di «assunzione della prospettiva», che porta a compiere inferenze su cosa un’altra persona sta pensando o sentendo. Deficit dei circuiti di regolazione orbito-frontale, implicati nello sviluppo della mentalizzazione coinvolta nel processo empatico, sono un riscontro sempre piú osservato nei quadri di alcuni disturbi della personalità.

Qualche riga finale un po’ piú complicata e anglofona, ma necessaria per ribadire il ruolo del cervello. Le strutture cerebrali primarie coinvolte nella mediazione delle componenti dell’empatia e della rappresentazione di sé nel tempo sono l’insula anteriore (AIns), la corteccia cingolata anteriore (ACC) e specifiche regioni della corteccia prefrontale mediale (MPFC). L’insula anteriore potrebbe svolgere un ruolo cruciale come hub-switchdinamico tra due reti separate: la rete esecutiva centrale (CEN), che si occupa dell’esecuzione efficace dei compiti, e il default mode network (DMN), che è coinvolto nei processi auto-riflessivi e di mind-wandering (ecco quindi il narcisista che immagina di intraprendere imprese grandiose alla Walter Mitty). È stato proposto che il deficit narcisistico di empatia potrebbe essere dovuto a una disfunzione dell’insula anteriore di destra che mantiene in costante attivazione il DMN in particolare nella componente legata all’autoreferenzialità a scapito dei processi empatici e della capacità di condividere e comprendere affettivamente le emozioni degli altri. Tale visione parrebbe confermata da una serie di studi di connettività funzionale nei quali i soggetti con basse capacità empatiche mostrano una minore connettività funzionale della MPFC e dell’ACC all’interno del DMN. Potremmo quindi ipotizzare che la regolazione dell’empatia dipende anche dal continuo bilanciamento dell’attività di queste strutture, e che le riduzioni della connettività funzionale in certi soggetti riflettano un’alterazione della capacità di mentalizzare gli stati mentali degli altri favorendo, tra l’altro, un aumento dell’immaginazione al servizio però di un assorbimento in fantasie autoriferite.

Narcisismo sociale.

Nell’omelia natalizia del 2015 papa Francesco ci richiama a un comportamento «sobrio, cioè semplice, equilibrato, capace di cogliere e vivere l’essenziale» e a uno stile «colmo di pietà», capace di contrastare la «cultura dell’indifferenza». Per descrivere questa cultura usa la parola attorno a cui abbiamo navigato finora: viviamo, dice, in una società «di apparenza e narcisismo». Con la sua voce autorevole sottrae il termine dal suo habitat clinico per immergerlo nel linguaggio comune. Accade a tutte le parole magnetiche, che anche cosí sanciscono la loro pregnanza.

L’attrazione semantica inizia alla fine degli anni Settanta, quando il sociologo americano Christopher Lasch (due anni dopo che il giornalista Tom Wolfe aveva infilzato quell’epoca nella formula The Me Decade, «Il decennio dell’Io») dà alle stampe un best-seller che si intitola La cultura del narcisismo. Al tempo non c’erano i selfie, ma Lasch inizia a intuire che «la gente risponde agli altri come se le proprie azioni fossero registrate e trasmesse simultaneamente a un pubblico invisibile oppure riposte per essere minuziosamente esaminate in seguito». Il tema del «pubblico invisibile» compare in uno dei piú sofisticati sistemi diagnostici oggi in uso, la Shedler-Westen Assessment Procedure (SWAP), che fornisce al clinico un elenco di criteri che lo guidano nell’inquadramento della personalità del paziente. Uno di questi criteri, rilevante per la descrizione dello stile narcisistico, dice: «Tende a trattare gli altri come un pubblico che deve testimoniare la sua importanza, il suo ingegno, la sua bellezza». Proprio come quel successivo esame minuzioso sembra invece evocare i timori descritti in altri criteri della SWAP, per esempio: «Tende a sentirsi inadeguato, inferiore o fallito», oppure «Tende a provare vergogna o imbarazzo».

Mescolando concetti psicoanalitici a un certo tradizionalismo di sinistra che celebra il valore della comunità, della famiglia e dell’autodisciplina, Lasch scrive un saggio sulle conseguenze di uno sviluppo sociale che fa affiorare i tratti narcisistici presenti in ciascuno di noi. L’idea è che le radici del narcisismo non possono essere ricondotte solo alle dinamiche familiari (a quel tempo le neuroscienze erano ancora timide), ma devono misurarsi con il contesto sociale allargato. Segue l’elenco di una serie di magagne narcisistiche, in gran parte riconducibili alla dimensione «edonismo-egoismo». Probabilmente simili a quelle che preoccupano il papa, verrebbero sicuramente anche notate da uno psicologo durante un colloquio: banalizzazione delle relazioni personali, scarsa consapevolezza, autoindulgenza, fuga dalla dipendenza affettiva, incapacità di gratitudine, orrore della vecchiaia. Lasch – e in genere tutti gli autori che ricorrono al concetto di narcisismo collettivo per segnalare, in modo ora sincero ora moralistico, le loro preoccupazioni epocali – trascura le componenti emotivamente dolorose del versante fragile e anche le dimensioni piú sane come la cura di sé e la ricerca di opportunità per la realizzazione individuale. Coglie però con puntualità quella «pienezza di vuoto» che accompagna chi insegue solo il successo della propria immagine.

A quarant’anni di distanza proviamo sgomenti analoghi, ma accresciuti. Basta frequentare Instagram, Facebook, TikTok, oppure, per chi lo fa, accendere la televisione. Di certo per le notizie, nere o rosa, vere o fake che siano, ma anche, stavo per dire soprattutto, per i contenuti «narcisistici» di buona parte del cosiddetto intrattenimento: fatuità, esibizione, falsificazione, autocelebrazione. Dunque la situazione è peggiorata irreversibilmente? Al punto che oggi il libro di Lasch si intitolerebbe La cultura della psicopatia? Sono casi patologici isolati o specchi deformanti del tempo quelli che ci propongono assassini giovanissimi che, dopo delitti senza movente, dichiarano che la vittima «era troppo felice», oppure si fanno un selfie con gli amici e lo postano sui social network, o addirittura tornano a casa a dormire come se nulla fosse? Dobbiamo rimpiangere il narcisismo sociale di una volta, come lo descrive Gadda nei suoi esilaranti, spietati ritratti della mondanità milanese nei primi decenni del secolo passato? «[A] quelli cui natura ha devoluto un temperamento narcissico: (indebitamente ritenuti socievoli e lodati come tali) [d]ella società non glie ne importa un cacchio: e vi si destreggiano secondo la brama e la tecnica centripeta del piú puro egoismo. Ma “vogliono” gli altri [...]. Gli umani funzionano per loro da specchio psichico: e, se essi talora li amano, soltanto li amano in quanto specchio lusingatore».

A proposito di specchi, un’opera dell’artista contemporaneo polacco Paweł Kuczyński mostra il famoso Narciso di Caravaggio che si riflette non piú in una fonte circondata dal boschetto delle ninfe, ma nello schermo di un gigantesco cellulare che in un attimo ci offre la visione del narcisismo sociale globale. Del resto, con una formula di grande successo, Zygmunt Bauman ha definito liquida la nostra società, sottolineando cosí, non so se intenzionalmente, l’elemento fondamentale del mito di Narciso.

In modo eccessivamente sintetico, ricondurrei il narcisismo sociale dentro cui galleggiamo a tre dinamiche principali: mistificazione della politica, mistificazione del corpo, mistificazione delle relazioni.

La mistificazione della politica serve a negare la complessità. La ricondurrei a tutti quei fenomeni di ipertrofia identitaria che hanno ricadute politiche in termini di conflitto tra il gruppo di appartenenza e «gli altri», coi noti corollari di odio sovranista, razzista, misogino, omofobo, transfobico, e cosí via. Un movimento narcisistico che passa attraverso l’idealizzazione di leader potenti e autoritari e la svalutazione di gruppi considerati inferiori o deboli, proiettando cosí all’esterno le proprie parti vulnerabili o spaventate per identificarsi con un genitore potente idealizzato, capace di semplificare le cose difficili da comprendere e di mettere fine a tutti i guai che ci circondano. Nel 1921, sull’orlo del precipizio nazionalsocialista, Freud scrive Psicologia delle masse e analisi dell’Io, dove riflette con amarezza sulla psiche collettiva e il suo bisogno di leader autoritari. Ipotizza che gruppi dominati «dall’affettività e dallo psichismo inconscio» e inclini alle illusioni siano portati a proiettare su un leader il proprio «ideale dell’Io». Cosí l’ideale dell’Io del capo diventa l’ideale dell’Io di tutti: quasi un investimento erotico, perché il capo «tiene unite tutte le cose del mondo». Fissarsi su un’identità che dividendo semplifica (letteralmente distinguendo il bianco e il nero) è piú rassicurante che consegnarsi a una somiglianza che avvicinando complica.

La mistificazione del corpo serve a negare la caducità. La ricondurrei all’esponenziale ricorso alla chirurgia estetica, all’ossessione per la forma fisica, all’inseguimento della magrezza o della muscolatura (tatuata), alla proliferazione ossessiva, nei nostri quartieri, di laboratori per la cura delle unghie, dove si lima la parte perché è difficile occuparsi dell’intero. Negli Stati Uniti, prima degli anni Duemila, pochissimi ricorrevano all’intervento di sbiancamento dei denti; negli ultimi vent’anni, complici pubblicità martellanti con testimonial famosi, avere i denti scintillanti è diventato un obbligo sociale. Secondo una ricerca, nel 2017 quarantacinque milioni di americani (14 per cento della popolazione) sono ricorsi allo sbiancamento professionale dei denti. La lista degli interventi cosmetici è infinita: dalla demandorlizzazione degli occhi in Corea agli impianti dei glutei in Brasile, un’epidemia globale di ritocchi ci aiuta a tollerare ciò che di noi riteniamo impresentabile.

La mistificazione delle relazioni serve a negare la dipendenza. Buona parte dei nostri rapporti, compresi quelli familiari, oggi avviene nella dimensione virtuale. Persino la voce, che è corpo e relazione, si è digitalizzata in forme rapide di comunicazione testuale. Le telefonate hanno lasciato il posto ai piú governabili WhatsApp: certo, a volte portano la preziosità della scrittura, ma speriamo di non dimenticare le voci dei nostri amici. Forse la dipendenza da un device risulta piú gestibile, e dunque tollerabile, di quella da una persona. Questo non impedisce alle relazioni virtuali di complicarsi narcisisticamente, per esempio con il cosiddetto fenomeno del ghosting: diventare fantasmi, sparire improvvisamente, non rispondere piú a messaggi e email lasciando l’altro senza spiegazioni. Fenomeno che comprende le varianti dello zombieing(ritornare all’improvviso, magari con un messaggio gentile, come niente fosse successo, anche dopo mesi di silenzio) e dell’orbiting (manipolare sottilmente una persona girandole intorno, scomparendo e riapparendo nella comunicazione online). Niente di nuovo, ennesime forme di microabusi emotivi. E anche se sembrano meno reali, meno fisici, magari meno dolorosi, non dimentichiamo che sono esperienze disturbanti che possono avere inizio fin dalla prima adolescenza.

Nel grande schermo di Kuczyński si riflette il nostro ripiegamento narcisistico con i suoi milioni di selfie, a volte cosí spericolati da provocare incidenti mortali che qualcuno ha chiamato selficidi. Dalle prime pagine di Apparizioni di Andrea Gentile:

La sera del 30 giugno 2017, a Charkiv, Ucraina, Dasha Medveveva, 24 anni, sta guidando la sua BMW. La sua amica, Sofia Magerko, 16 anni, con lo smartphone filma il momento. Siamo in diretta su Instagram. Le due amiche bevono alcol, urlano, scherzano. Una grida «Hi boys» alla camera. Dasha fa il segno della vittoria, indice e medio, con entrambe le mani. Spesso solleva entrambe le braccia in aria, accennando una danza. Viene il dubbio che la macchina non sia in movimento, ma poi Dasha tiene il volante, per qualche secondo, con la mano sinistra, guarda la strada. Poi ritorna con lo sguardo in camera, Sofia sposta l’obiettivo su di lei. Segno della vittoria. Un altro sorso. Urlano. Rumore di «tremendo impatto». Buio. Silenzio.

La credenza alla base dei selfie non è «mi vedo dunque sono», ma «sarò visto dunque sono». La tragedia dei selfie non è fotografarsi nella bellezza affettuosa o buffa di un autoritratto, ma ritrarsi e ritoccarsi per poi riprodursi in migliaia di sé da far rimbalzare sui social. È il bisogno di riconoscimento, per molti è proprio fame. Non di guardarsi, ma di essere guardati da migliaia di occhi. Dietro ogni fenomeno narcisistico c’è sempre la speranza di essere notati, forse per essere amati. Certo da una società, ma anche da una famiglia.

Uno studio di una decina di anni fa sponsorizzato dai National Institutes of Health degli Stati Uniti ha rilevato che i criteri per una diagnosi di disturbo narcisistico di personalità nella fascia d’età dai venti ai ventinove anni sono rappresentati tre volte in piú rispetto alla popolazione sopra i sessantacinque anni. Nel saggio The Narcissism Epidemic, gli psicologi Jean Twenge e Keith Campbell riportano vari studi sulla popolazione universitaria americana che mostrano, dal 1980 a oggi, una progressiva crescita dei punteggi al Narcissistic Personality Inventory. Se le rilevazioni di Lasch erano un po’ impressionistiche, quelle di Twenge e Campbell, che includono dati sugli stili genitoriali, la vita sui social media e l’uso degli smartphone, sembrano piú rigorose. Anche se siamo tutti uniti nella rete globale, è indubbio che la prospettiva in prima persona singolare, l’«I-mode», ha avuto la meglio su quella in prima persona plurale, il «We-mode». Detto questo, le generalizzazioni vanno smontate. Ci sono ricerche che raccontano l’empatia, la generosità, la responsabilità civile e la consapevolezza ambientale di molti millennials.

Anche se siamo pieni di nostalgia, tornare indietro, a maggior ragione dopo la stagione del Covid, è difficile. L’idea stessa di personalità con cui siamo cresciuti nel secolo scorso è probabilmente destinata a cambiare. Il nostro compito, e noi professionisti della salute mentale dovremmo essere in prima fila, è cercare modi psicologici e relazionali per abitare il nuovo mondo e le sue realtà parallele. Sapendo che c’è una differenza significativa tra il narcisismo di una persona e quello del «suo» stereotipo socio-culturale. L’incontro e l’ascolto clinico lo confermano, ed è uno dei motivi per cui continuo ad amare il mio lavoro. Anche nelle situazioni di emergenza sociale, la comprensione terapeutica è orientata alla storia personale, certo senza trascurare quella collettiva in cui si svolge. Dentro le corazze o le apnee narcisistiche c’è sempre qualcuno che ha bisogno di ascolto. Non sempre lo sa e non sempre sa raccontarsi, ma limitarsi a brontolare contro i danni della vita online e della «cultura del narcisismo» non servirà a noi né tantomeno a lui.

Le clausure della pandemia ci hanno insegnato molto in questo senso. La vita online, che tante volte abbiamo maledetto, e a cui in gran parte dobbiamo l’impennata narcisistica che ci riguarda, questa volta ci ha salvato. Ha garantito la continuità delle nostre relazioni e delle nostre terapie. L’incontro imprevisto, portato dal volo di un pipistrello, con la nostra fragilità ci ha costretto a mettere il nostro narcisismo sotto una lente d’ingrandimento. Chissà, senza saperlo forse anche per questo ho dedicato molti giorni del mio lockdown alla scrittura di questo libro. Sotto questa lente, ciascuno di noi ha visto cose diverse, anche perché le cose da vedere erano piú d’una. Non c’è il primato di una sola visione, e un primo insegnamento antinarcisistico è forse proprio quello della complessità, la conferma che non siamo pezzi unici né tutti d’un pezzo. Abbiamo toccato con mano i limiti dell’onnipotenza verso cui eravamo lanciati (corpi invincibili, morte rimossa), un po’ come già accadde, direbbe Freud, in occasione delle grandi mortificazioni dell’umanità: quella copernicana, che ha tolto la Terra dal centro dell’universo; quella darwiniana, che ha tolto lo scettro alla nostra specie; e, va da sé, quella psicoanalitica, che ci ha mostrato quanto poco padroni siamo in casa nostra. Le nostre quarantene, la chiusura dei confini, la preoccupazione del contagio (fino alle conseguenze regressive del rifugio nel narcisismo domestico), la negazione del contagio (fino alle conseguenze negazioniste del narcisismo irresponsabile), la cura e l’ascolto sono tutte esperienze di convivenza che abbiamo messo alla prova mettendoci alla prova. Fino alla piú impegnativa, la prima a coglierci alla sprovvista: l’elaborazione individuale e collettiva del lutto, la cura delle sue ferite. Abbiamo capito che non siamo un sistema isolato. Non lo è un individuo, non lo è una coppia, non lo è una famiglia, non lo è un Paese.

Non mi illudo, né cerco la perfezione. Immanuel Kant ci ha insegnato che «da un legno cosí storto come quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire nulla di perfettamente dritto». Isaiah Berlin la legge cosí, che «possiamo fare solo quello che possiamo, ma questo dobbiamo farlo, nonostante le difficoltà». Che poi la bellezza del legno sta nel fatto che è un legno. E se non è stato piallato, un legno dritto non c’è.