L'ANIMALE MORENTE
Philip Roth
Einaudi
«L’unica ossessione che la gente cerca: l’amore. Pensano, le persone, che innamorarsi sia come diventare parte di un tutto? L’unione platonica delle anime? Non per me. Sei una cosa unica prima di iniziare. Poi l’amore ti frantuma. Sei tutto intero, e poi finisci spaccato».....
.... «Riesci a immaginarla, la vecchiaia? Naturalmente no. Io no. Non ci riuscivo. Non avevo idea di che cosa fosse. Non ne avevo neanche un'immagine falsata: non ne avevo alcuna immagine. E non c'è nessuno che abbia voglia di fare previsioni. Nessuno desidera affrontare queste cose prima che venga il momento. Come andrà a finire, tutto? È di rigore l'ottusità.»
Un libro sincero e senza pudori che ti rimesta nel profondo. Si tratta di una meditazione condivisa, più che una narrazione, sul sesso, sulla vecchiaia, sulla morte che ti stimola a fare il punto sullo stato della tua più nascosta intimità.
David Kepesh – alter ego di Roth - non nasconde il fatto di portarsi a letto le ragazze più attraenti del suo corso, senza curarsi dei limiti deontologici del suo ruolo. Spesso, a dire il vero, sono le ragazze che si portano a letto lui. È ciò che succede con Consuela Castillo, meravigliosa ed elegante ragazza, figlia di immigrati benestanti cubani anticastristi.
Consuela appartiene a «una generazione di ragazze che tiravano dalla loro figa le conclusioni sulla natura dell’esperienza e sulle delizie del mondo». Quest'uomo che supera la sessantina, che ha sempre vissuto intensamente e liberamente anche nel privato, di fronte al declino, alla vecchiaia imminente, si trova ad affrontare improvvisamente qualcosa di inaspettato: scopre la gelosia. Consuela ha qualcosa di straordinario che attira morbosamente questo uomo. La sua sensualità mascherata dietro al perbenismo, una consapevole femminilità alla quale appare indifferente. Ma soprattutto Consuela è un'occasione (l'ultima) per rivisitare il proprio passato, e la sua ossessione per la sessualità e il rapporto con le donne. Dalla memoria emerge la ricchezza non sempre felice di una vita, insieme alle menzogne e meschinità, delle sue storie con le donne. Mentre si accorge per la prima volta in tutta la sua vita che non è più padrone totale dei sentimenti, delle passioni e degli impulsi, da questo amore nasce il dramma, e si passa dalla normalità la tragedia. La vecchiaia incrocia imprevedibilmente la malattia della sua giovane amante nel gioco crudele e straordinario dell'esistenza. Un romanzo tragico che racchiude tutta l'essenza dell'opera di Roth.
L'ANIMALE MORENTE
Nel corpo, non meno che nel cervello, è racchiusa la storia della vita.EDNA O’BRIEN
L’ho conosciuta otto anni fa. Frequentava il mio corso. Io non insegno piú a tempo pieno, e se volessi essere preciso dovrei dire che non insegno letteratura: già da molti anni tengo un solo corso, un grande seminario di critica letteraria, per i laureandi, che ho chiamato Practical Criticism. Le mie lezioni attirano un mucchio di studentesse. Per due ragioni. Perché l’argomento presenta un’allettante combinazione di glamour intellettuale e glamour giornalistico; e perché le ragazze mi hanno sentito recensire libri alla radio o visto parlare di cultura alla televisione. Negli ultimi quindici anni fare il critico culturale in un programma televisivo mi ha reso piuttosto popolare, localmente, e per questo il mio corso attira le ragazze. Nei primi tempi non mi ero reso conto che parlare alla Tv per dieci minuti una volta la settimana potesse fare l’effetto che fa a queste studentesse. Ma le ragazze sono irrimediabilmente attratte dalla celebrità, per insignificante che possa essere la mia. Ora, come sai, io sono molto sensibile alla bellezza femminile. Tutti hanno qualcosa davanti a cui si sentono disarmati, e io ho la bellezza. La vedo e mi acceca, impedendomi di scorgere ogni altra cosa. Queste ragazze vengono al mio corso, e io capisco quasi subito qual è quella che fa per me. C’è un racconto di Mark Twain dove lui scappa, inseguito da un toro, e quando si rifugia sopra un albero il toro alza gli occhi e pensa: «Voi siete la mia preda, signore». Be’, quando le vedo in aula quel «signore» si trasforma in «signorina». Sono passati otto anni, dunque: io ne avevo già sessantadue e la ragazza, che si chiama Consuela Castillo, ne aveva ventiquattro. Consuela non è come le altre. Non ha l’aria di una studentessa, non di una comune studentessa, per lo meno. Non è una mezza adolescente, non è una ragazza sbracata, sciatta, pullulante di «cioè». È raffinata nel parlare, misurata, e il suo portamento è perfetto: sembra che sappia qualcosa della vita degli adulti, oltre a stare seduta, stare in piedi e camminare. Come entri nell’aula, capisci che questa ragazza o la sa piú lunga delle altre o a questo aspira. Il modo in cui si veste, per esempio. Non è proprio quella che chiameremmo eleganza, la sua, e non ha sicuramente nulla di vistoso, ma, tanto per cominciare, Consuela non è mai in jeans, stirati o gualciti che siano. Veste con cura, sobrietà e buon gusto, gonne, abiti e calzoni su misura. Non per desensualizzarsi, si direbbe, ma per professionalizzarsi, veste come l’attraente segretaria di un prestigioso studio legale. Come la segretaria del presidente di una banca. Ha una camicetta di seta color panna sotto un blazer di buon taglio blu con i bottoni d’oro, una borsetta marrone con la patina della pelle piú costosa e un paio di stivaletti alla caviglia intonati alla borsetta, e porta una sottana di maglia grigia un po’elastica che rivela le linee del suo corpo con tutta la malizia che può metterci una sottana come quella. I capelli sono acconciati con naturalezza, ma con cura. Il colorito è pallido, la bocca arcuata, anche se le labbra sono piene, e la fronte è tondeggiante, una fronte levigata di un’eleganza brancusiana. È cubana. I suoi sono prosperi cubani che stanno nel New Jersey, oltre il fiume, nella Bergen County. Ha capelli nerissimi, lustri, ma un po’grossi. Ed è grande. È una ragazzona. La camicetta di seta è slacciata fino al terzo bottone, e questo ti permette di vedere che Consuela ha due seni prepotenti, bellissimi. Noti subito il solco tra i seni. E vedi che lei lo sa. Vedi che, nonostante la compostezza, la meticolosità, lo stile cautamente soigné (o forse proprio per questo), Consuela è cosciente del proprio fascino. Viene alla prima lezione con la giacca abbottonata sopra la camicetta, ma cinque minuti dopo se l’è già tolta. Quando guardo di nuovo dalla sua parte, vedo che se l’è rimessa. In questo modo capisci che è cosciente del suo potere, ma che ancora non sa come usarlo, non sa cosa farne, non sa nemmeno quanto lo desidera. Quel corpo le riesce ancora nuovo, deve ancora metterlo alla prova, ci sta ragionando su, un po’come un ragazzo che cammina per la strada con una pistola carica e deve ancora decidere se andare in giro armato per difendersi o per iniziare una vita di delitti. Ed è cosciente anche di un’altra cosa, una cosa che non potevo dedurre da quel primo incontro in aula: la cultura è importante, per lei, anche se in un modo antiquato e deferente. Non che sia una cosa da cui voglia trarre il suo sostentamento. Non vuole e non potrebbe –è stata allevata troppo bene e in un modo troppo conforme alla tradizione, per questo –, ma la cultura è importante e meravigliosa come nessun’altra delle cose che conosce. Consuela è la ragazza che trova affascinanti gli impressionisti, ma il Picasso cubista deve guardarlo bene, aguzzando gli occhi (sempre con un senso di fastidiosa perplessità) e mettendocela tutta per cogliere l’idea. Lei sta lí, in attesa della nuova e sorprendente sensazione, del nuovo concetto, della nuova emozione, e quando non viene (non viene mai), si accusa di essere inadeguata e priva di…cosa? Si accusa di non riuscire a capire nemmeno che cosa le manca. L’arte che puzza di modernità non la lascia soltanto perplessa, ma anche delusa di sé. Vorrebbe che Picasso contasse di piú, che operasse in lei qualche trasformazione, magari, ma teso sulla ribalta del genio c’è un telo trasparente che le offusca la vista e tiene un po’a distanza la sua venerazione. Consuela dà all’arte, a tutte le arti, assai piú di quanto ne riceva, una specie di zelo che non manca di un suo fascino struggente. Un cuore generoso, un bel viso, uno sguardo insieme invitante e remoto, due seni stupendi; e nata, come donna, da cosí poco tempo che trovare dei frammenti del guscio attaccati a quella fronte ovoidale non sarebbe stata una sorpresa. Capii immediatamente che quella sarebbe stata la mia ragazza. Ora, da una quindicina d’anni a questa parte io ho una regola fissa alla quale non vengo mai meno. Non cerco di avere contatti personali con nessuna di queste ragazze finché non hanno superato l’esame finale e ricevuto il voto, cioè fino al momento in cui io non sono piú, ufficialmente, in loco parentis. Nonostante le tentazioni –e anche di fronte a un chiarissimo invito a farmi avanti per iniziare il corteggiamento –non infrango questa regola da quando, verso la metà degli anni Ottanta, il numero telefonico della hotline per le molestie sessuali venne affisso per la prima volta fuori della porta del mio ufficio. Non cerco prima questi contatti per non scontrarmi con quegli esponenti dell’università che, se potessero, farebbero di tutto per impedirmi di godermi la vita. Insegno ogni anno per quattordici settimane, e in questo intervallo non cerco avventure. Ricorro, invece, a un trucco. È un trucco onesto, un trucco molto chiaro e trasparente, ma è pur sempre un trucco. Dopo l’esame finale e l’assegnazione dei voti, organizzo nel mio appartamento una festa per gli studenti. Riesce sempre benissimo ed è sempre la stessa. Li invito per un drink verso le sei. Dico che dalle sei alle otto berremo qualcosa, e loro si fermano sempre fino alle due del mattino. I piú audaci, dopo le dieci, si trasformano in esuberanti personaggi e mi spiegano che cosa li interessa veramente. Nel seminario di Practical Criticism ci sono una ventina di studenti, certe volte anche venticinque, dunque saranno quindici o sedici ragazze e cinque o sei ragazzi, due o tre
dei quali eterosessuali. Metà di questo gruppo se n’è andata prima delle dieci. Generalmente, restano un eterosessuale, forse un gay, e otto o nove ragazze. Sono invariabilmente i piú colti, intelligenti e vivaci di tutti. Parlano di quello che stanno leggendo, di quello che stanno ascoltando, delle mostre che hanno visto: entusiasmi dei quali normalmente non mettono a parte i loro genitori né, necessariamente, i loro amici. Questi ragazzi si trovano frequentando il mio corso. E trovano me. Durante quella festa scoprono all’improvviso che io sono un essere umano. Non sono il loro insegnante, non sono la mia reputazione, non sono uno dei loro genitori. Ho un appartamento su due piani gradevole e ordinato, vedono la mia grande biblioteca, corridoi di doppi scaffali che ospitano le letture di una vita e occupano tutto il piano inferiore, vedono il mio pianoforte, vedono con quale dedizione faccio quello che faccio, e si fermano. Un anno la mia studentessa piú divertente fu come la capretta della favola che va a nascondersi nella pendola. Alle due del mattino buttai fuori l’ultimo, e mentre ci stavamo salutando scoprii che mancava una ragazza. Dissi: «Dov’è il clown del nostro corso, la figlia di Prospero?» «Oh, credo che Miranda sia andata via», disse qualcuno. Rientrai in casa per rimettere un po’in ordine l’appartamento e al piano di sopra sentii una porta che si chiudeva. La porta di un bagno. E Miranda scese le scale, ridendo, un po’imbambolata da una specie di radioso abbandono –non avevo mai notato, fino a quel momento, che fosse cosí carina –, e disse: «Non sono stata brava? Mi sono nascosta nel bagno al piano di sopra, e ora andrò a letto con lei». Un cosino, forse un metro e cinquantacinque di statura; e si tolse il pullover e mi mostrò le tette, rivelando il busto adolescente di una vergine balthusiana incipientemente trasgressiva; e andammo a letto insieme, certo. Per tutta la sera, come una bambina sfuggita al periglioso melodramma di un quadro di Balthus per la baldoria della nostra festicciola, Miranda era stata carponi sul pavimento col sedere puntato verso il cielo o prostrata senza forze sul sofà o allegramente stravaccata tra i braccioli di una poltrona, apparentemente ignara del fatto che, con la gonna che le scopriva le cosce e le gambe indecorosamente aperte, aveva l’aria tipicamente balthusiana di essere seminuda pur essendo vestita di tutto punto. Ogni cosa si nasconde e nulla si cela. Molte di queste ragazze fanno sesso da quando avevano quattordici anni, e a venti ce ne sono almeno un paio curiose di farlo con un uomo della mia età, anche una sola volta, e ansiose il giorno dopo di raccontarlo a tutte le amiche, che arricciano il naso e chiedono: «Ma…E la pelle? Non aveva uno strano odore? E quei capelli bianchi, cosí lunghi? E la pappagorgia? E la trippa? Non ti è venuto da vomitare?» Miranda mi disse poi: «Sarai andato a letto con centinaia di donne. Volevo vedere come sarebbe stato». «E…?» E poi disse delle cose alle quali non credetti fino in fondo, ma questo non contava. Era stata audace: aveva visto che poteva farlo, per impaurita che potesse essere mentre si nascondeva, pronta a tutto, nel bagno. Lei scoprí il proprio coraggio affrontando questa strana giustapposizione, di poter vincere i propri timori iniziali e ogni iniziale ripugnanza, e io –quanto alla giustapposizione –mi divertii un mondo. Miranda, saltellante e sbracata, che faceva il pagliaccio e si metteva in posa lasciando cadere la biancheria. Per divertirsi bastava guardarla. Anche se questo piacere non fu l’unico premio. I lustri venuti dopo gli anni Sessanta hanno fatto molto per completare la rivoluzione sessuale. Questa è una generazione di regine della fellatio. Non c’è mai stato nulla di simile tra le ragazze del loro ceto. Consuela Castillo. La vidi e rimasi straordinariamente colpito dal suo comportamento. Quella ragazza sapeva quanto valeva il suo corpo. Sapeva che cos’era. Sapeva anche che non avrebbe mai potuto inserirsi nel mondo culturale in cui vivevo io: la cultura era una cosa dalla quale voleva essere abbagliata, non un mezzo di sostentamento. Perciò venne alla festa –prima della quale mi ero preoccupato che potesse non farsi viva –e lí, per la prima volta, si mostrò espansiva anche con me. Non sapendo fino a che punto sarebbe potuta arrivare la sua cautela, ero stato attento a non mostrare un particolare interesse per lei sia durante le lezioni che nelle due occasioni in cui ci eravamo visti nel mio ufficio per rileggere i suoi elaborati. E lei non fu, in quegli incontri privati, altro che sottomessa e rispettosa, annotando ogni parola che dicevo, per irrilevante che fosse. Nel mio ufficio entrò e uscí, sempre, con la giacca sopra la camicetta. La prima volta che venne a trovarmi –e ci sedemmo fianco a fianco al mio tavolo, secondo le direttive, con la porta del corridoio spalancata, e i nostri otto arti, i nostri due busti contrastanti ben visibili a ogni Grande Fratello di passaggio (e anche con la finestra spalancata, aperta da me, quant’era larga, per paura del suo profumo) –, la prima volta indossava un paio di eleganti calzoni grigi di flanella col risvolto, e la seconda una sottana nera di jersey e collant neri, ma, come in aula, sulla sua pelle bianchissima c’era sempre la camicetta, la camicetta di seta di una certa nuance crema, slacciata fino al terzo bottone. Alla festa, però, si tolse la giacca dopo il primo bicchiere di vino, e senza giacca mi guardò spavaldamente, con un sorriso aperto e stuzzicante. Eravamo in piedi, a pochi centimetri di distanza, nello studio, dove le avevo mostrato un manoscritto di Kafka che possiedo: tre pagine di pugno di Kafka, il discorso che aveva tenuto alla festa per il pensionamento del capo della società di assicurazioni dove lavorava, dono, questo manoscritto del 1910, di una ricca signora sposata di trent’anni che era stata una mia studentessa, e mia amante, alcuni anni prima. Consuela stava parlando con calore di ogni cosa. Farle toccare il manoscritto di Kafka l’aveva elettrizzata, e cosí le cose venivano a galla tutte in una volta, domande che aveva covato per l’intero semestre mentre io segretamente covavo il mio desiderio. «Che musica ascolta? Davvero suona il piano? Legge tutto il giorno? Sa a memoria tutte le poesie dei libri che ha negli scaffali?» Da ogni domanda era chiaro quanto la meravigliasse –parola sua –la vita che facevo, la mia vita culturale tranquilla e coerente. Le domandai cosa faceva lei, com’era la sua vita, e lei mi disse che dopo il liceo non si era iscritta subito all’università, ma aveva deciso di fare la segretaria. Ed era questo che avevo visto subito: la dignitosa e leale segretaria, il bene piú prezioso dell’uomo di potere, del direttore di banca o del capo dello studio legale. Consuela apparteneva veramente a un’era tramontata, era un regresso a un tempo piú cortese, e io pensai che il suo modo di vedersi, come il suo modo di comportarsi, fosse molto condizionato dal fatto di essere la figlia di ricchi cubani emigrati, persone facoltose fuggite dopo la rivoluzione. Mi disse: «Fare la segretaria non mi piaceva. Ci ho provato per un paio d’anni, ma è un mondo noioso, e i miei genitori hanno sempre voluto e sperato che io andassi all’università. Cosí invece, alla fine, ho deciso di studiare. Forse cercavo di ribellarmi, immagino, ma era una reazione infantile, e allora mi sono iscritta qui. Qualunque tipo di arte mi riempie di meraviglia». Ancora quella parola, «meraviglia», che usava sinceramente e con larghezza. «Sí, e cosa le piace?» chiesi. «Il teatro. Ogni forma di teatro. Vado all’opera. Mio padre ama l’opera e al Met ci andiamo insieme. Il suo compositore preferito è Puccini. Con lui vado sempre volentieri». «Ama i suoi genitori?» «Moltissimo», disse. «Mi parli di loro». «Be’, sono cubani. Molto orgogliosi. E qui hanno fatto molta strada. I cubani che sono venuti qui per colpa della rivoluzione avevano un modo di vedere il mondo che, in una qualche maniera, ha fatto fare a tutti molta strada. Quel primo gruppo, come la mia famiglia, ha lavorato sodo, ha fatto tutto quello che si doveva fare, e ha fatto tanta di quella strada che, come una volta ci diceva mio nonno, alcuni di loro, che quando sono arrivati qui hanno avuto bisogno dell’assistenza pubblica, perché non avevano niente…Da alcuni di loro, dopo qualche anno, il governo americano ha cominciato a ricevere degli assegni coi rimborsi. Non sapevano che pesci pigliare, diceva mio nonno. La prima volta, nella storia del Tesoro americano, che avevano ricevuto un rimborso». «Lei vuol bene anche a suo nonno. Com’è?» chiesi. «Come mio padre: un uomo posato, molto tradizionalista, all’antica. Prima il duro lavoro e l’istruzione. Sopra ogni cosa. E, come mio padre, tutto casa e famiglia. Religiosissimo. Anche se in chiesa non ci va poi tanto spesso. Né tanto spesso ci va mio padre. Mia madre invece sí. Mia nonna sí. Mia nonna dice il rosario tutte le sere. Quando la gente vuole farla contenta le regala dei rosari. Ha i suoi preferiti. Lo ama, il suo rosario». «E lei ci va, in chiesa?» «Quando ero piccola. Ma ora, no. I miei sanno adattarsi. I cubani di quella generazione dovevano sapersi adattare, almeno fino a un certo punto. I miei vorrebbero che ci andassimo, io e mio fratello, ma no, io non ci vado». «Quali restrizioni ha avuto una ragazza cubana cresciuta in America che non sarebbero tipiche di un’educazione americana?» «Oh, un sacco di coprifuoco anticipato. D’estate, la sera, dovevo essere a casa quando tutte le mie amiche si erano appena incontrate. A casa alle otto di sera, d’estate, quando avevo quattordici o quindici anni. Ma mio padre non era un orco. È gentile, un padre come tutti gli altri. Solo, nessun ragazzo ha mai avuto il permesso di entrare in camera mia. Mai. Per il resto, quando ho compiuto sedici anni, sono stata trattata com’erano trattate le mie amiche, come orari e tutto». «E i suoi genitori, quando sono venuti?» «Nel 1960. Allora Fidel lasciava ancora la gente libera di andarsene. Si erano sposati a Cuba. Prima sono andati in Messico. Poi qui. Io sono nata qui, naturalmente». «Si considera un’americana?» «Sono nata qui, ma no, sono cubana. Cubana fino al midollo». «Mi sorprende, Consuela. La sua voce, il suo atteggiamento, il suo modo di parlare. Per me lei è americana al cento per cento. Perché si considera cubana?» «Appartengo a una famiglia cubana. Tutto qui. I miei hanno quest’orgoglio smisurato. Amano la loro patria. Ce l’hanno nel cuore. Ce l’hanno nel sangue. A Cuba erano cosí». «Cos’amano di Cuba?» «Oh, era un tale divertimento…Era una comunità di persone che avevano il meglio di tutto il mondo. Assolutamente cosmopolita, specie se abitavi all’Avana. Ed era bellissima. E tutti davano questi grandi ricevimenti. Era un vero spasso». «Ricevimenti? Mi parli dei ricevimenti». «Ho queste foto di mia madre a questi balli in costume. Di quando ha debuttato in società. Foto di lei al ballo con cui ha debuttato in società». «I suoi cosa facevano?» «Be’, è una storia lunga». «Me la racconti». «Be’, il primo spagnolo dal lato di mia nonna vi fu mandato col grado di generale. C’erano sempre un mucchio di soldi ereditati dagli avi spagnoli. Mia nonna aveva degli istitutori privati, e a diciotto anni andava a comprare i vestiti a Parigi. Nella mia famiglia, da tutt’e due le parti, ci sono dei nobili spagnoli. Alcuni sono di una nobiltà molto antica. Come mia nonna, che è duchessa…In Spagna». «E anche lei è una duchessa, Consuela?» «No, –disse lei con un sorriso, –sono solo una ragazza cubana fortunata». «Be’, potrebbe passare per una duchessa. Sui muri del Prado ci dev’essere una duchessa che le somiglia. Conosce il celebre dipinto di Velázquez, Las meninas? Anche se lí la principessina ha i capelli chiari, è bionda». «Non credo». «È a Madrid. Al Prado. Glielo mostro». Scendemmo la scala a chiocciola d’acciaio che porta agli scaffali della biblioteca, e io trovai un librone di riproduzioni di Velázquez, e ci sedemmo l’uno accanto all’altra a voltare le pagine per quindici minuti, un eccitante quarto d’ora in cui entrambi imparammo qualcosa: lei, per la prima volta, su Velázquez e io, di nuovo, sulla deliziosa imbecillità della lussuria. Tutte queste chiacchiere! Le mostro Kafka, Velázquez…Perché uno fa queste cose? Be’, qualcosa devi fare. Questi sono i veli della danza. Non confonderla con la seduzione. Questa non è la seduzione. Quella che mascheri è la cosa che ti ha spinto, la pura e semplice lussuria. I veli nascondono l’impulso, che è cieco. Mentre fai questi discorsi hai l’erronea sensazione, come lei, di sapere con che cosa hai a che fare. Ma non è come parlare con un avvocato o sentire il parere di un dottore, e le cose che si dicono non cambieranno la tua linea di condotta. Tu sai che lo desideri e sai che lo vuoi fare e che nulla te lo impedirà. In questa fase nessuno dirà nulla che possa cambiare qualcosa. Il grosso scherzo che ti fa la biologia è che raggiungi l’intimità con una persona prima di sapere qualcosa di lei. Fin dal primo momento, hai capito tutto. Inizialmente, l’attrazione è esercitata dalle superfici, ma c’è anche l’intuizione della dimensione piú completa. E l’attrazione non dev’essere necessariamente la stessa: lei può essere attirata da una cosa, tu da un’altra. È superficie, è curiosità, ma poi, boom, ecco la dimensione. È bello che lei sia di Cuba, è bello che sua nonna fosse questo e suo nonno quello, è bello che io suoni il piano e sia il proprietario di un manoscritto di Kafka, ma questa è solo una digressione lungo la strada che ci porta nel posto dove stiamo andando. È una parte dell’incanto, immagino, ma è la parte di cui io farei volentieri a meno, senza la quale mi sentirei molto meglio. Il sesso: ecco tutto l’incanto necessario. Le donne, per gli uomini, sono davvero tanto incantevoli, una volta tolto il sesso? C’è qualcuno che trova incantevole un’altra persona di questo o di quel sesso se non nutre per lei un interesse di natura sessuale? Da chi, ancora, ti fai incantare cosí? Da nessuno. Gli sto dicendo chi sono, pensa lei. Gli interessa sapere chi sono. Questo è vero, ma io sono curioso di sapere chi è perché la voglio scopare. Non ho bisogno di tutto questo grande interesse per Kafka e Velázquez. Mentre con lei faccio questa conversazione, penso, Quanto dovrò aspettare, ancora? Tre ore? Quattro? Arriveremo a otto? Venti minuti di veli, e sono già lí che mi domando, Cosa c’entra tutto questo con le sue tette, la sua pelle e il suo portamento? L’arte francese del corteggiamento non m’interessa. L’impulso selvaggio, sí. No, questa non è seduzione. Questa è una commedia. È la commedia che si recita per creare un collegamento che non è il collegamento –che non può competere con il collegamento –creato spontaneamente dalla lussuria. Questo è un istantaneo richiamarsi alle convenzioni, un darci subito qualcosa in comune, il tentativo di trasformare la lussuria in qualcosa di socialmente conveniente. Ma è proprio la radicale sconvenienza che fa della lussuria la lussuria. No, questo si limita a tracciare la rotta, non in avanti ma indietro, verso l’impulso primordiale. Non confondiamo la dissimulazione col problema sul tappeto. Certo, potrebbero esserci altri sviluppi, ma questi sviluppi non c’entrano niente con gli acquisti prematrimoniali di tendine e copripiumoni e l’iscrizione alla squadra evoluzionista. L’evoluzionismo è un sistema che può funzionare senza di me. Io voglio scopare questa ragazza e…Sí, dovrò rassegnarmi a una certa dissimulazione, ma sarà solo un mezzo per raggiungere uno scopo. Quanto c’è, di astuzia, in tutto questo? Tutto, oserei dire.