TODO MODO
Leonardo Sciascia
«A somiglianza di una celebre definizione che fa dell’universo kantiano una catena di causalità sospesa a un atto di libertà, si potrebbe» dice il maggior critico italiano
dei nostri anni «riassumere l’universo pirandelliano come sin diuturno servaggio in un mondo senza musica, sospeso ad una infinita possibilità musicale: all’intatta e appagata musica dell’uomo solo».
Credevo di aver ripercorso, à rebours, tutta una catena di causalità; e di essere riapprodato, uomo solo, all’infinita possibilità musicale di certi momenti dell’infanzia, dell’adolescenza: quando nell’estate, in campagna, lungamente mi appartavo in un lungo, che mi fingevo remoto e inaccessibile, di alberi d’acqua; e
tutta la vita, il breve passato e il lunghissimo avvenire, musicalmente si fondevano, e
infinitamente, alla libertà del presente. E per tante ragioni, non ultima quella di esser
nato e per anni vissuto in luoghi pirandelliani, tra personaggi pirandelliani, con
traumi pirandelliani (al punto che tra le pagine dello scrittore e la vita che avevo
vissuta fin oltre la giovinezza non c‘era più scarto, e nella memoria e nei sentimenti);
per tante ragioni, dunqne, rivolgevo nella mente, sempre più precisa (tanto che la
trascrivo ora senza controllare), la frase del critico: appunto come frase o tema
dell’infinita possibilità musicale di cui disponevo. O, almeno, di cui mi illudevo di
disporre.
Per dirla più semplicemente: non avevo impegni di lavoro o sentimento; avevo quel
tanto, poco o molto (ma fingevo fosse poco), che mi consentiva di soddisfare ogni
bisogno o capriccio; non avevo né un programma né nna meta (se non quelle,
fortuite, delle ore dei pasti e del sonno); ed ero solo. Nessuna inquietudine, nessuna
apprensione. Tranne quelle, oscure e irreprimibili, che ho sempre avute, del vivere e
per il vivere; e vi si innestavano e diramavano l’inquietudine e l’apprensione per
l’atto di libertà che dovevo pur fare: ma leggere e leggermente stordite, come mi
trovassi dentro un giuoco di specchi, non ossessivo ma luminuso e quieto come l’ora
e i luoghi che percorrevo, pronto a ripetere, a moltiplicare, quando sarebbe scattato,
quando avrei voluto farlo scattare, il mio atto di libertà.
Andavo in automobile. E questo mezzo, che di solito detestavo e di cui pochissimo
mi servivo, era entrato a far parte della mia libertà, al mumento che avevo deciso di
esser libero. La guidavo non velocemente, con una calma che rendeva innocue le
distrazioui in cui frequentemente cadevo. E appunto la moderata velocità, e il quieto
piacere di guardare intorno mentre guidavo, mi diede modo di cogliere, ad una svolta,
la scritta Eremo di Zafer 3, nera su giallo: a cui subito abboccò, come ad un amo,
quella mia inquietudine, quella mia apprensione. Fermai l’automobile e poi la feci
lentamente scivolare indietro, fino ad aver di fronte la tabella gialla e nera. Eremo di
Zafer 3. La parola eremo, il nome Zafer, il numero 3: cose ugualmente e
diversamente suggestive, per me; e vi si aggiungeva la suggestione che erano tre, il
tre che si ripeteva: e anche nel fatto che proprio da tre giorni liberamente vagavo
(ché, lo confesso, sono affetto da una piccola ma tenace, non so come formatasi e
stabilitasi, nevrosi da trinità). L’eremo è luogo di solitudine; e non di quella
solitudine oggettiva, di natura, che meglio si scopre e più si apprezza quando si è in
compagnia: un bel posto solitario, come si suol dire; ma di quella solitudine che ne ha
specchiato altra umana e si è intrisa di sentimento, di meditazione, magari di follia. E
in quanto a Zafer: un santone musulmano o cristiano? Ed era a tre chilometri:
soltanto, esattamente e giustamente. Feci la breve manovra per entrare nella stradetta
asfaltata (e l’asfalto avrebbe dovuto mettermi in guardia) e mi avventai alla salita.
Querce da sughero e castagni facevano galleria, l’aria profumava di tardive ginestre.
E improvvisamente un vastissimo spiazzo anch’esso asfaltato, un lato chiuso da un
casermone di cemento orridamente bucato da finestre strette e oblunghe. Mi fermai,
deluso e arrabbiato; poiché non si vedeva che la strada potesse continuare, e dunque
l’eremo era ormai quella mostruosa costruzione. Un albergo, con tutta probabilità. E
stetti per un po’ indeciso: se tornarmene indietro senza scendere dall’automobile o se
scendere per guardarmi intorno e domandare chi avesse piantato lì quel casermone, e
perché. Vinse la curiosità; e anche il gusto di rivalermi della delusione dicendo a
qualcuno, ché dentro qualcuno doveva pur esserci anche se sembrava inabitato e tutto
era assolutamente silenzioso, l’indignazioue che provavo a trovare invece di un
eremo un albergo. Scesi dall’automobile e la chiusi a chiave, ché il silenzio aveva un
che di misterioso e di sinistro. La porta centrale dell’edificio, grande, a vetri, era
aperta. Entrai e mi trovai, per come avevo previsto, nell’atrio di un albergo. Al banco
del portiere, il casellario irto di chiavi dietro, c’era un prete. Giovane, bruno,
zazzeruto. Stava leggendo «Linus». Vedendomi entrare, l’occhio gli si spense di noia.
Rispose al mio saluto senza voce, muovendo le labbra.
«Mi scusi: questo è un eremo o un albergo?» domandai con una certa violenza e
ironia.
«È un eremo ed è un albergo».
«L’eremo di Zafer?».
«L’eremo di Zafer, appunto».
«E l’albergo?».
«L’albergo che?». Molto seccato.
«L’albergo che nome ha?».
«Di Zafer». E distaccando le parole, ché me le piantassi nella memoria «hotel di
Zafer».
«Eremo di Zafer, hotel di Zafer. Bene. E chi era, Zafer?».
«Un eremita, naturalmente: se questo era un eremo».
«Era» sottolineai.
«È».
«L’ha detto lei: era... Comunque: un eremira musulmano? ».
«Ma che musulmano: crede che avremmo continuato a onorare un musulmano?».
«E perché no? L’ecumenismo…».
«L’ecumenismo non c’entra... Era stato musulmano, poi si convertì alla vera fede».
«La vera fede: ma questa è una espressione musulmana». Volevo continuare a
seccarlo.
«Sarà» disse il prete: e tornò a gettar l’occhio su «Linus», a farmi capire the stavo
annoiandolo e disturbandolo.
«Se non la distorbo» calcando per dire che apponto volevo disturbarlo «desidererei
sapere qualcosa su Zafer, sull’eremo... E sull’albergo».
«Lei è un giornalista?».
«No. Perché?».
«Se è un giornalista, perde il suo tempo: lo scandalo c’è già stato».
«Che scandalo?».
«Per l’albergo: che non si doveva fare, che è brutto... C’è già stato: tre anni fa».
«Non sono un giornalista. E mi piacerebbe sapere qualcosa anche dello scandalo».
«Perché?».
«Non ho niente da fare. E neanche lei, vedo».
Gettò su «Linus» uno sguardo ormai senza speranza. «Veramente» disse «qualcosa
da fare l’avrei».
«Che cosa?» domandai: con impertinenza, con provocazione.
«Oh...» disse, facendo con la mano un gesto che comprendeva le tante cose che
aveva da fare, la grande confusione in cui si sarebbe dovuto immergere chi sa per
quanto tempo e con quanta fatica: e perciò, intanto, a tenersi fresco per la prova,
leggeva «Linus».
Glielo dissi. Se ne sentì punto, ma divenne più affabile.
«Che rosa vuole che le dica? Dello scandalo, cioè di come le cose sono state
presentate da certi giornali e da certi uomini politici, so poco... Che c’è stato: e
basta... C’era un eremo: una casa diroccata, una chiesetta mal tenuta; e don Gaetano,
tre anni fa, ha tirato su quest’albergo... La Repubblica tutela il paesaggio, lo so; ma
poiché don Gaetano tutela la Repubblica... Insomma: la solita storia». Sorrise acre.
Non si capiva se ce l’aveva con don Gaetano o con la Repubblica.
«E chi è, don Gaetano?».
«Non sa chi è don Gaetaoo?». Tra meravigliato ed incredulo.
«Non lo so. Dovrei saperlo?».
«Direi di sì». Cominciava a divertirsi.
«E perché?».
«Ma per le cose che ha fatto, per le cose che fa…».
«Ha fatto questo albergo: sono tutte di quest’ordine le cose che fa?».
«Quest’albergo l’ha fatto, per così dire, con la mano sinistra».
«E con la destra?».
«Scuole: a diecine, forse a centinaia. Dovunque. Di ogni grado. Persino
un’università».
«Centinaia di scuole e un albergo».
«Tre alberghi».
«Ah, tre alberghi. E sempre distruggendo eremi?».
«Gli eremi non li distrugge: li ingloba. Qui, l’eremo di Zafer è infatto. È diventato
una cripta».
«E si può vedere?«.
«Sì che si può vedere». Sospirò di stanchezza, aspettandosi che gli chiedessi di
vederlo.
Non glielo chiesi. «E don Gaetano?» domandai.
«Don Gaetano che?».
«Si può vedere anche don Gaetano?».
«Certo: è qoi. Ci passa tutta l’estate. Tra gli alberghi che ha fatto, questo gli è
carissimo».
«E perché?».
«Non so. Forse è legato al luogo da ricordi d’infanzia. Forse perchè il farlo gli è
costata una guerra più lunga... Ma l’ha vinta».
«Evidentemente, non poteva che vincerla».
«Eh sì, non poteva che vincerla» convenne. Il tono era d’orgoglio, ma con una
smorzatura di pudore.
Mi girai intorno. «Per essere tranquillo, è tranquillo» dissi. «È anche comodo?».
«L’albergo? Comodissimo».
«Mi ci fermerei per qualche giorno» dissi.
«Non è possibile».
«Tutto occupato?». Ironicamente: poiché pareva, ed era, deserto.
«In questo momento, compreso il personale di servizio, siamo in ventuno. Ma
dopodomani arriva la piena».
«I clienti arrivano tutti in una volta?».
«Sono clienti particolari». Fece una pausa; poi, come mi confidasse un segreto
«Esercizi spirituali».
«Oh, esecizi spirituali». Fingendo una meraviglia adeguata alla confidenza che mi
elargiva. Ma, per la verità, on po’ meravigliato lo ero. Da anni, da molti anni, non
sentivo parlare di esercizi spirituali; e credevo non se ne facessero più. Se ne parlava
tanto quando ero bambino, all’arrivo in paese delle missioni paoline: che era,
nell’annata, un avvenimento importante quanto l’arrivo della compagnia d’operette
Petito-D’Aprile e di quella drammatica D’Origlia-Palmi; e altrettanto puntuale. I
paolini facevano prediche per tutti, esercizi spirituali per pochi; e infine piantavano,
in qualche punto della periferia, una croce di ferro, a ricordo della missione: e se ne
andavano. L’ultima volta che avevo sentito di esercizi spirituali era stato nel
dopoguerra: ché avvicinandosi le elezioni, le prime, un padre domenicano era venuto
a predicare, talmente entusiasmando gli uomini del ceto insegnante e impiegatizio da
tirarseli dietro, in una villa messa a disposizione da un benestante devoto, per tutta
una settimana. E il bello fu che ci andarono anche i massoni, tornandone affilati nel
corpo e nello spirito quanto quelli che massoni non erano.
«Esercizi spirituali» ribadì il prete. «Ogni anno, puntualmente: l’ultima domenica di
luglio cominciano i turni».
«E quanto dura, un turno?».
«Una settimana».
«E quauti turni?».
«Tre, quattro. Tre fino all’anno scorso, quattro quest’anno».
«I fedeli aumentano».
«Sì, certo» disse il prete: ma formalmente. Aveva qualche dubbio. E tornando alla
confidenza «Ma il Più importante è il primo turno».
«Perché?».
«Per le persone che vi partecipano». E abbassando la voce e stringendo ancora di
più la confidenza «Ministri, deputati, presidenti e direttori di banche, industriali... E
tre direttori di giornali, anche».
«Davvero importante» dissi. «E mi piacerebbe tanto trnvarmi qui, mentre queste
persone fanno gli esercizi spirituali».
«Impossibile».
«Capisco... Ma oggi e domani, fin tanto che non arriva, come lei dice, la piena:
potrei restare, no?».
«Teoricamente
«E in pratica?».
«In pratica, sempre che don Gaetano dica di sì, bisogna che lei si contenti, che si
adatti: i servizi difettano; e la cucina, poi…».
«E sarei il solo, diciamo così, ospite pagante?».
«Non il solo, ce ne sono altri cinque». E tra l’esasperato e il misterioso «Cinque
donne».
«Vecchie e straniere» dissi.
«Ma no: non sono vecchie e non sono straniere».
«Ma sole?».
Gli passò nello sguardo un lampo di malizia; e come a lavarsene le mani disse
«Sono arrivate sole».
«Ma lei ha il dubbio che siano davvero sole».
«No, no…». Debolmente; e a formale riparazione «Volevo dire: sono arrivate sole
ma ora si fanno compagnia».
«Io sarei dunque il sesto».
«Bisogna sentire don Gaetano».
«Sentiamolo».
«Non ora. Più tardi, quando sarà l’ora della refezione. Non si può disturbarlo mentre
è in raccoglimento: sta nella cappella qui sotto». Puntò l’indice verso il pavimento.
«L’eremo di Zafer» dissi.
«Precisamente... Intanto, lei può muoversi come vuole: dentro o fuori». Il colloquio
era irrimediabilmente finito: avidamente i suoi occhi riapprodarono a «Linus».
Andai fuori: oltre lo spiazzale, nel bosco. Man mano che mi alluntanavo
dall’albergo, gli alberi diventavano più fitti, l’aria più fresca e odorosa di resine. La
solitudine era perfetta. E mi dicevo di tanta perfezione, e della libertà con cui stavo
godendomela, quando tra gli alberi intravidi come un lago di sole e dei colori che vi
si muovevano. Mi avvicinai cautameute. Nella radura, al sole, c’erano delle donne in
bikini. Erano certamente quelle dell’albergo, di cui mi aveva detto il giovane prete.
Cinque, infatti. Mi avvicinai ancora, sempre silenziosamente. E stavano in silenzio
anche loro: distese sugli asciugamani a spugna dai colori vivaci, quattro; una invece
seduta, immersa nella lettura. Era un’apparizione. Qualcosa di mitico e di magico. A
immaginarle del tutto nude (e non ci voleva molto), tra l’ombra cupa del bosco in cui
io stavo e la chiazza di sole in cui stavano loro, con quei colori, in quell’assorta
immobilità, ne veniva un quadro di Delvaux (non mio: chè io non ho mai saputo
vedere la donna in mito e in magia, nè pensosa, nè sognante). Era di Delvaux la
disposizione, la prospettiva in cui stavano rispetto al mio occhio; e anche quello che
non si vedeva e che io sapevo: il fatto che stavano, sole, in quel cieco casermnnc
tenuto da preti. Stetti un po’ a spiarle: avevano bei corpi. Quattro erano bionde, una
bruna. I grandi occhiali da sole che portavano, mi impedivano di vedere se erano
belle; e la distanza anche, nonostante la mia presbiopia.
Debbo confessare che vagheggiai l’avventura; e che mi sentii felice, a immaginarmi
al centro della loro compagnia, quanto poco prima, e anzi più, sentendomi in perfetta
solitudine. Ma mi allontanai, tornando verso l’albergo.
Trovai don Gaetano (non poteva essere che lui) appoggiato, da fuori, al banco su cui
il prete-portiere leggeva ora, invece di «Linus», un libro rilegato in nero. Alto nella
lunga veste nera, immobile; gli occhi di uno sguardo lontano, fissamentesperso; una
corona a grossi grani, nera, avvolta nella mano sinistra; la destra grande e quasi
diafana sul petto. Sembrava non vedermi, ma mi venne incontro. E sempre come non
vedendomi, dandomi la curiosa sensazione, da sfiorare l’allucinazione, che si
sdoppiasse visivamente, fisicamente - una figura immobile, fredda, propriamente
discostante, che mi respingeva al di là dell’orizzonte del suo sguardo; altra piena di
paterna benevolenza, accogliente, fervida, premurosa - mi diede il benvenuto
all’Eremo di Zafer. Che non era più, o non era soltanto, un eremo, ma un albergo:
senz’altro brutto, lo riconosceva; ma che si può fare mai con questi architetti, oggi?...
Presuntuosi, fanatici, inaccostabili... Meglio, oh quanto meglio, i capimastri di una
volta... Della bruttezza, comunque, non aveva colpa; della comodità, un po’ di
merito... Gli architetti! Le due grandi imposture del nostro tempo: l’architettura e la
sociologia. E stava per accompagnarvisi la medicina, ormai al livello della più
ignobile stregoneria... E come preso da improvvisa preoccupazione «Spero che lei
non sia né architetto nè sociologo né medico».
«Sono un pittore» dissi.
«Un pittore... Già, mi pare di riconoscerla... Aspetti, non mi dica il suo nome... In
televisione, circa tre mesi fa: facevano vedere come nasce un quadro, un suo quadro...
Francamente, poteva farsi vedere a dipingere un quadro più bello... Ma l’ha fatto
apposta, immagino: come nasce un brutto quadro per un brutto mondo, un quadro
senza intelligenza per quei milioni di esseri senza intelligenza che stanno davanti a un
televisore».
«C’era anche lei, davanti a un televisore» dissi un po’ irritato.
«È un complimento, ma forse non ne sono degno: guardo troppo spesso la
televisione, perché possa dirmi completamente immune della lebbra dell’imbecillità...
Troppo spesso: e finirò, se già non ci sono finito, col contagiarmene... Perché, me ne
confesso, la contemplazione dell’imbecillità è il mio vizio, il mio peccato... Proprio:
la contemplaziune... Giulio Cesare Vanini, che è stato bruciato come eretico,
riconosceva la grandezza di Dio contemplando una zolla; altri contemplando il
firmamento. Io la riconosco dall’imbecille. Non c’è niente di più profondo, di più
abissale, di più vertiginoso, di più inattingibile... Solo the non bisogna contemplare
troppo... Ecco, ci sono arrivato: lei è…» e disse il mio nome.
«La meccanica per cui è arrivato a ricordarsi del mio nome, debbo dire che non mi
lusinga» dissi scherzoso ma con una punta di risentimento.
«Oh no: mentre dicevo dell’imbecillità, una parte della mia mente ruotava a cercare
il suo nome, a ingranarlo... È una macchinetta a parte, la memoria: la mia, almeno...
Dunque, lei vuole restare qui per oggi e per domani. Sarà un onore per noi, ma credo
non sarà un piacere per lei. Comunque: tutto l’albergo, tranne le poche camere che
sono già occupate, è a sua disposizione».
«Ma mi piacerebbe restarci oltre domani: ho saputo che si terranno esercizi
spirituali».
«Vuol farli anche lei?».
«Diciamo che vorrei esercitare la mia spiritualità facendo da spettatore agli esercizi
spirituali degli altri».
«Pura curiosità, insomma».
«Lo ammetto».
«O peggio: il gusto di cogliere altri in pratiche che lei, forse, ritiene non degne degli
uomini; di deriderli...».
«Forse».
«Beh, non si puù mai dire».
«Che cosa?».
«Niente: lei ha sentito degli esercizi spirituali, e le è venuto il desiderio di
assistervi... E crede che questo impulso le venga dalla voglia di divertirsi, di
deridere... Ma non si sa mai, quello che può nascere da un simile impulso: un atto di
libertà…».
«…a cui poi si saldano gli anelli della causalità».
Mi guardò, per la prima volta, con un certo interesse. «Già» disse «la catena».
S’inchinò leggermente. E scomparve.
Scesi dalla camera quando sentii, nel corridoio, prolungatamente trillare un
campanello, come nelle stazioni quando si annuncia l’arrivo di un treno: lo stesso
suono. Lo interpretai come avviso che la colazione era pronta; e non sbagliai.
Il refettorio era vasto, fitto di tavole rotonde e quadrate di cui solo due erano
apparecchiate e occupate. Don Gaetano mi chiamò alla sua. Il mio posto, alla sua
destra. E c’erano altri quattro preti, il portiere compreso. Le cinque donne stavano ad
una tavola molto lontana dalla nostra; ma non tanto che non si sentissero le loro voci,
i loro discorsi: e si confondevano in quel cerchio come acqua che da cinque bocche
sgorgasse in una fontana. Tacquero quando don Gaetano si alzò per la preghiera e la
benedizione: e quest’ultima la diresse anche verso di loro, ma con un gesto che senza
perdere di solennità aveva una sfumatura noncurante e insieme beffarda: come di chi,
mangiata la polpa, getta poi l’osso al cane. Le donne compuntamente si segnarono di
croce, mormorarono la preghiera, si riseguarono. E ripresero a cicalare. Don Gaetano
si risedette e, cominciando da me, versò il vino a tutti, lodandolo da intenditore, ma
con quelle parole francesi che ora usano i non intenditori. Era un vino, disse, della
zona; di mezza costa, tra la montagna e il mare; e citò in greco il poeta greco che, a
sua opinione, proprio quel vino, di quella zona, aveva celebrato. Non parlò d’altro.
Beveva con piacere e mangiava svogliato. E c’era di che svogliarsi, nei cibi: mal
cucinati, insipidi; e altro non si poteva, per mandarli giù, che aggiungere sale e pepe,
che almeno stuzzicavano al vino, davvero eccellente. Alla fine, scusandosi, don
Gaetano mi disse che il cuoco sarebbe arrivato l’indomani sera: e sarebbe stato
tutt’altro mangiare.
Uguale il pranzo; e così la colazione dell’indomani. Non fosse stata la curiosità che
avevo per gli esercizi spirituali, e per coloro che vi avrebbero partecipato, me ne sarei
andato; anche se la conversazione di don Gaetano mi dava un grande piacere:
parlasse del vino o di Arnobio, di sant’Agostino, della pietra filosofale, di Sartre.
Il pranzo della seconda sera fu davvero migliore, anche se relativamente. Il cuoco e
i suoi aiutanti erano arrivati nel tardo pomeriggio: e soltanto avevano potuto
correggere, rimediare. Ma il miglioramento bastò a sollevarci in un certo buonumore,
come constatò don Gaetano: e passò così a deprecare quegli stupidi che mostrano di
non curarsi di quello che mangiano o sono tanto naturalmente rozzi o ineducati da
non curarsene davvero. Parlò della cucina francese: la sola, e meritatamente, che
annoverasse un eroe come Vatel, da paragonare a Catone l’uticense; ché se questo si
era ucciso per la libertà che se ne andava, quello per il pesce che non arrivava. E
l’atto, davanti a Dio, aveva lo stesso valore, mosso com’era dalla stessa passione: il
rispetto di sé.
«Ma» obiettai «c’è rispetto di sé e rispetto di sé: non si può, e nemmeno Dio
dovrebbe, mettere sullo stesso piano il pesce, che peraltro non era che una delle tante
portate alla tavola del decimoquarto, e la libertà».
«E perché no? Lasciando stare Dio, poiché quel che sappiamo del suo giudizio è
dato dalle scelte che noi operiamo per salvarci, e io penso che conti più la nostra
volontà di salvarci che le scelte; lasciando stare Dio, ecco: ammesso che il rispetto di
sé sia una giusta scelta, più esemplarmente la testimonia Vatel che Catone l’utitense:
il pesce doveva arrivare, e infatti arrivò un’ora dopo che Vatel si era suicidato... Ma
la libertà?».
Si accese una discussione che la partecipazione degli altri quattro preti subito
confuse, aggrovigliò. Lasciammo, don Gaemno ed io, che si sbrigliassero: ognuno a
dire la sua senza minimamente far conto di quella degli altri; e, finito il pranzo, li
lasciammo che erano quasi arrivati agli insulti.
Uscendo dal refettorio, don Gaetano mi chiese se ero proprio deciso a restare per
assistere agli esercizi spirituali. Risposi che sì, ero deciso. Mi parve se ne rallegrasse,
maliziosamente; ma mi fece, agitando in aria, di taglio, la grande mano bianca, un
gesto di scherzosa riprovazione e minaccia; come a dire: cattivo miscredente che vuoi
sorprendere il buon credente nel suo nido, nel suo fortilizio: dovrai renderne conto. E
così, lasciandomi negli occhi quella sua mano, sparì. (E qui debbo spiegare perché
dicendo di don Gaetano che se ne va, che se ne è andato, ho usato i verbi scomparire
e sparire; e ancora li userò, e forse anche altri come svanire e dissolvere. E debbo
ricorrere al ricordo di un giuoco che si faceva da bambini: si disegnava su un foglio
una silhouette tutta in nero, un solo punto bianco al centro; si guardava fissamente
quel punto bianco contando fino a sessanta; poi si chiudevano gli occhi o si guardava
al cielo: e si continuava a vedere la silhouette, ma bianca, ma diafana. Con don
Gaetano succedeva qualcosa di simile: quando se n’era già andato, la sua immagine
persisteva come negli occhi chiusi o nel vuoto; sicché non si riusciva mai a cogliere il
momento preciso, reale, in cui si allontanava. Che era poi un effetto conseguente a
quella specie di sdoppiamento di cui ho tentato di dire. Il fatto è che stando con lui si
stabiliva come una sfera di ipnosi. Ma è difficile rendere certe sensazioni).
Per una certa impazienza che mi aveva agitato anche nel sonno, mi alzai all’alba di
quel gran giorno. Non volevo perdermi l’arrivo di coloro che per tutta una settimana
si sarebbero dedicati a quella ginnastica dello spirito ma senza mortificare la carne,
poiché il famoso cuoco era arrivato. Anticipai di troppo, però; anche se non ebbi a
pentirmene. Non vedevo l’alba, così, da una finestra, sulla terra, almeno da venti
anni. Ne avevo visto qualcuna, in tanto tempo, viaggiando in aereo: ma non era la
stessa cosa. Stetti per un po’ alla finestra, a godere di quel compiuto e perfetto
equilibrio tra la natura e i miei sensi. E mi venne voglia di dipingere. Ma subito me
ne distolsi nel limure di squilibrare, di guastare; e cioè di non rendere. Vale a dire che
era una voglia del tutto banale e, in un certo senso, accademica; da luogo comune,
insomma. Di chi, non sapendo dipingere, o sapendo dipingere senza essere davvero
pittore, di fronte a uno spettacolo della natura, a un paesaggio, a una certa
disposizione di cose nello spazio e nella Jucc, dice «sarebbe da dipingere» che è,
appunto, il più banale e accademico elogio della natura nel tempo stesso che si
svaluta e degrada la pittura; la quale, almeno per me, si volge a tutto quel che non
sarebbe da dipingere. Era una falsa voglia, del resto: e lo sapevo nel momento stesso
in cui mi insorgeva. Lo sapevo dal fatto che avevo i piedi freddi: poiché da quando ho
letto la battuta di Voltaire, che per dipingere bene bisogna-avere i piedi caldi (anche
se si riferiva ai pitturi inglesi: e direi giustamente, Bacon e Sutherland inclusi), ne ho
tenuto conto e ne ho fatto, su me, verifica. I quadri che ho dipinto a piedi freddi sono
i miei peggiori; ma ciò non toglie che siano, dai critici e dai collezionisti, i più
apprezzati. E ne avevo dipinti tanti, a piedi freddi, perché mi venisse davvero voglia
di dipingerne uno mentre mi sentivo libero, non più legato al mestiere, al mercato,
alle mostre, al denaro, alla fama; anche se questa libertà, purtroppo, mi veniva dal
fatto che avevo già tutto: molta fama, molto denaro, mostre in ogni parte del mondo,
un mercato in continua ascesa, un mestiere che mi permetteva di buttar giù anche due
o tre quadri al giorno. A piedi freddi, beninteso. Quelli dipinti a piedi caldi, non molti
ormai, li tenevo per me: cioè per una più tarda e giusta fama. Ma ad esser sincero,
non mi importa poi molto della fama oltre la morte.
Mi sentivo libero da tutto, comunque. E anche dalla pittura. O meglio (poiché siamo
al discorso, non è inopportuno che tenti di spiegarmi fino in fondo), questa mia specie
di fuga, questa mia illusiooe di libertà, altro non volevano essere che una pausa, una
battuta d’aspetto: per tornare a una pittura, secondo la saggia prescrizione voltairiana,
a piedi caldi. Impossibile ritorno, e a sprazzi me lo dicevo: avrei continuato a
dipingere molto a piedi freddi e poco, pochissimo, a piedi caldi. Ma le cose, dentro di
noi, sono sempre maledettamente complicate; e tanto più inganniamo noi stessi, o
tentiamo, quanto più evidente e immediato si prospetta il disinganno.
Stetti dunque, per un po’, alla finestra: a godere quel compiuto e perfetto equilibrio,
et coetera... Mi immersi poi nell’acqua ben calda, a riscaldarmi i piedi e a togliermeli
così dalla coscienza. E infatti uscii dal bagno rinfrancato. Mi sbarbai, mi pettinai, mi
vestii. E scesi giù.
C’era gran movimento, nell’atrio. Il personale di servizio si era moltiplicato. E
anche i preti, ne contai sette di nuovi, che andavano e venivano, indaffaratissimi.
Troppa confusione; e me ne uscii sullo spiazzale, dove avevano messo tante sedie a
sdraio: tutte vuote, ma afflosciate e improntate dai corpi che avevano accolto, e
disposte come avessero da sé disfatto un ordine di platea per comporne uno di circoli,
davano, anche per i colori del legno e della tela grezza, a bande verticali azzurre e
rosse, l’impressione di un quadro metafisico. Entrai a completare il quadro: a chi si
fosse affacciato da una finestra alta dell’albergo, sarei sembrato un manichino
abbandonato su una sedia (io vivo i quadri altrui più dei miei; e specialmente quelli
dei pittori da me più lontani).
Lo spiazzale era, mi pare di averlo già detto, vastissimo. Oltre lo spazio occupato
dalle sedie, ce n’era da consentire posteggio e manovra alle tante automobili che
sarebbero arrivate. Ma si fecero le nove prima che cominciassero ad arrivare.
Le prime quattro arrivarono in rapida successione. Nel momento in cui la prima si
fermò davanti alla porta dell’albergo, don Gaetano si materializzò sulla soglia. Ma
forse c’era già da prima. Dall’automobile scese un vescovo. E un vescovo scese da
ognuna delle tre che seguivano. Quando furono insieme, mi accorsi che uno dei tre
aveva lo zucchetto rosso invece che viola. Un cardinale: e lo distinsi, con scarso
rispetto, debbo ammetterlo, per il ricordo di un verso del Belli, «se levò er nero e cce
se messe er rosso»: di quando una pattuglia di gendarmi fa irruzione in un postribolo,
e il brigadiere che la comanda si vede venire incontro, «serio serio», un prete the
solennemente, togliendosi lo zucchetto nero e mettendosi quello rosso, si
metamorfosa in cardinale: con grande confusione del brigadiere.
Un principe della Chiesa: e perciò una diecina di motociclette, con altrettanti
poliziotti che, un piede puntato a terra, vi si scosciavano sopra, rombavano nello
spiazzale impedendomi di sentire quel che si dicevano il cardinale, i vescovi e don
Gaetano. Ma pareva si scambiassero complimenti e arguzie. Don Gaetano, come al
solito, in abito talare; gli altri quattro in pantaloni e giacca grigioferro, pettorale dello
stesso colore su cui spiccava il crocefisso d’argento, colletto duro e lucente. E lo
zucchetto. Nessuno dei quattro mi pareva avesse spiccata personalità. Due avevano
faccia da contadini e due da burocrati. Il cardinale da burocrate: di quelli col
regolamento alla mano, di strenua pignoleria. Se si fossero tolto lo zucchetto, a darla
ad indovinare, chi tra i cinque la faceva da cardinale era don Gaetano; e gli altri
sarebbero sembrati dei parroci, due di città e due di campagna. Pur in atteggiamento
di filiale devozione, di gioia e a tratti d’ilarità, don Gaetano manteneva un distacco,
una freddezza, una severità che mi suscitavano sentimento di piena ammirazione.
Altro che cardinale: poteva anch’essere il papa.
I motociclisti si allontanarono levando più alto il loro rombo. Nell’improvviso
silenzio, sentii il cardinale lodare la bellezza e grandiosità dell’albergo. Don Gaetano,
così mi parve, guardò dalla mia parte con un ammicco di ironico compatimento: per
quel povero cardinale che avrebbe dovuto sapere, e non sapeva, quel che è veramente
grandioso, veramente bello. Poi disse «Eminenza…» e si tirò dentro l’albergo quel
piccolo grappolo di gerarchia.
Nell’attenzione a cogliere quel che si dicessero il cardinale, i vescovi e don
Gaetano, non mi ero accorto dell’arrivo di altre antomobili. Quasi tutte con autista in
divisa, e quindi di enti o di ministeri. Chi ne scendeva doveva essere un ministro, un
sottosegretario, un direttore generale, un presidente, un vicepresidente. Qualcuna
aveva invece al volante una donna: e mi ci volle poco a capire che si trattava di mogli
che accompagnavano i mariti, ma per riportarsi indietro l’automobile. Una mi diede
alla fantasia: non propriamente bella (ma le donne propriamente belle non le ho mai
amate, una l’ho soltanto sposata e subito lasciata), ma alta e formosa; una espressione
intelligente, ironica; qualcosa nei movimenti, nel sorriso, nella luce degli occhi di
appena contenuto, di impaziente: come stesse per prorompere in un grido di
liberazione; in una corsa, quasi un volo, di gioia. E mentre il marito apriva il
portabagagli e ne estraeva le valige, lei volubilmente parlava; e la sua voce suonava
per me come un invito, quasi che le raccomandazioni al marito di non prender freddo,
di mangiare con moderazione, di mettere a sera il golfino e di non dimenticare ai
pasti le pillole, volessero dire per me (ché mi aveva notato e torse riconosciuto): ora
lascio questo cretino, questo porco, questo ladro; e per una settimana sarò libera,
libera, libera... E mentre decifravo questo suo invito mi sogguardò, ilare e languida,
sfidando e promettendo, a confermarmelo. Ebbi per un momento la tentazione di
andarle dietro o, più sbrigativamente, di chiederle un passaggio per la città: davanti al
marito, cui una certa apprensione nei riguardi della moglie, se era capace di averne,
avrebbe giovato per gli esercizi che si appressava a fare. Ma la guardai partire senza
muovermi: un distratto bacio al marito, un ultimo sguardo a me, le gambe ben
scoperte nel momento in cui tirava a sé lo sportello. E del resto, qualcuno, forse, già
l’aspettava: ho accompagnato quel porco all’eremo di Zafer, per i suoi esercizi
spirituali; finalmente, una settimana tutta per noi... Ma per un po’ coltivai l’illusione
che per me avrebbe piantato l’uomo che l’attendeva.
Lo spiazzale era ormai pieno di automobili e mucchietti di valige e borse. I facchini
andavano e venivano, in affano e sudore; ma non sapevano, evidentemente,
riconoscere il grado degli ospiti che erano già arrivati o arrivavano, e perciò alcuni di
costoro li chiamavano e protestavano con un tono che voleva dire: il bagaglio che stai
prendendo prima del mio è del mio vicepresidente, mentre io sono il presidente, e
vengo prima di lui anche se sono arrivato dopo; o qoalcosa di simile. Ma a parte
queste punte di irritazione, che si riversavano sui facchini, l’atmosfera era di una
compagnoneria facile e sguaiata: gridi di sorpresa, abbracci, manate, scherzosi insulti.
All’arrivo di un ministro la compagnoneria si spense, ci fu un silenzioso movimento
di risucchio, verso l’automobile da cui scendeva, come di limatura di fèrro verso la
calamita. E così all’arrivo di altri tre o quattro, che non riconobbi. E quando, ad un
certo punto, comparve don Gaetano, quel movimento, coinvolgendo il ministro e gli
altri a me ignoti potenti, da ogni parte gli si riversò: arrestandosi però alla distanza di
di un buon metro, in semicerchio. E mi parve che in quel semicerchio l’ordine delle
precedenze si ricostituisse perfettamente, a baciargli la mano. Don Gaetano riconobbe
tutti, per ognuno richiamò un particolare relativo alle funzioni o alla famiglia o allo
stato di salute; e tutti erano felici di essere stati così riconosciuti e distinti. Ma sempre
c’era, in tutto quello che don Gaetano diceva o faceva, come una vibrazione o
sfumatura d’irrisione: che, evidentemente, nessuno di quel gregge che intorno gli si
raccoglieva era in grado di avvertite. E io l’avvertivo e me ne incantavo: perché mi
parevano, quella distillata irrisione, quel sottile disprezzo, esercitati in una specie di
consorteria, di solidarietà, che si era stabilita tra lui e me; e che la sua immagine
fosse, più vecchia e saggia e consumata, la mia cui aspiravo.
Improvvisamente lo spiazzale si svuotò, tornò deserto e silenzioso come al mattino.
O improvvisamente ne presi coscienza.
Rientrai in albergo. I preti-portieri erano due, ora: quello che c’era al mio arrivo e
un altro che era dei quattro che avevo conosciuto a mensa.
«E ora che succede?» domandai.
«Gli ospiti sono andati alle loro camere: tra una mezz’ora scenderanno per la messa.
La celebrerà il cardinale. Poi parlerà don Gaetano».
«Nella cappella qui sotto?».
«Sì, nella cappella qui sotto».
«Potrei assistervi?».
«Credo di sì: don Gaetano non ha niente in contrario, che lei assista agli esercizi
spirituali, così mi è parso di capire; e poiché gli esercizi cominciano con questa
messa...».
Ringraziai e mi allontanai. Ero indeciso. E non perché mi paresse un’indiscrezione,
ché appunto ero rimasto lì per commetterla, quanto perché temevo di annoiarmi e di
essere costretto, per discreziune, a non andarmene prima che tutto finisse.
Ma ci andai. E mi annoiai moderatamente. Non assistevo a una messa da almeno un
quarto di secolo (e scrivere un quarto di secolo invece che venticinque anni
s’appartiene alla mia civetteria d’invecchiare). E poiché era la prima volta che la
sentivo in italiano, mi abbandonai a riflessioni sulla Chiesa, la sua storia, il suo
destino. E cioè il suo passato splendore, il suo squallido presente, la sua inevitabile
fine. Sotto specie estetica, credevo: ma c’era invece, in quel che andavo
disordinatamente pensando, qualcosa di più remoto ed oscuro; qualcosa di più
pericoloso. Un fondo di disagio, di apprensione; come in chi, partendo, appena
partito, sente di aver dimenticato o smarrito qualcosa, e non sa precisamente che. Ma
a voler confessare pienamente, e magari in eccesso, quello stato d’animo: mi sentivo
un po’ defraudato e sperduto. Quell’immobile macigno cui mi ero, nemico, affilato
per anni; quel macigno di superstizioni e paure, di intolleranza, di latino: eccolo
friabile e povero come la zolla più povera. Ricordavo ancora (a dieci anni avevo
servito messa) certi passi della messa in latino: e li confrontavo all’italiano cui erano
stati ridotti; propriamente ridotti, e anche nel senso di quando si dice com’è ridotto il
tale. «L’acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di Colui
che ha voluto assumere la nostra natura umana». Che insulsa dicitura, da far pensare
a quegli esseri insulsi che a tavola allungano il vino con l’acqua. «Deus, qui humanae
substantiae dignitatem mirabiliter condidisti, et mirabilius reformasti: da nobis per
hujus aquae et vini mysterium, ejus divinitatis esse consortes, qui humanitatis nustrae
fieri dignatus est particeps, Jesus Christus Filius tuus Dominus noster: Qui tecum
vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus: per omnia saecula saeculorum»:
dov’era ormai il senso di queste parole e, al di qua o al di là del senso, il mistero?
Ma tu, mi dicevo, volevi appunto questo: che il mistero si dissolvesse, che di quel
grandioso scenario, di quella maestosa illusione, restassero i nudi e squallidi tralicci,
come quando si entra in teatro per i Sei personaggi di Pirandello... Però quella
demistificazione del teatro, in Pirandello, è una forma che lo reinventa e riafferma: e
volevi dunqne che la Chiesa, rinunciando alla mistificazione e all’inganno, si
reinventasse e riaffermasse?... Ma no, volevo che finisse. Ed è già alla fine...
Eppure... La verità è che tante cose in noi, che crediamo morte, stanno come in una
valle del sonno: non amena, non ariostesca. E sul loro sonno la ragione deve sempre
vigilare. O magari, a prova, qualche volta svegliarle e lasciare che da quella valle
escano: ma perché se ne tornino giù mortificate e impotenti... Ma se la prova non
riesce? Ecco il punto. Al quale, per la verità, non mi ero mai trovato: poiché tutto,
dentro di me e intorno a me, era ormai da anni finzione. Non vivevo che
ingannandomi, e facendomi ingannare. Soltanto le cose che si pagano sono vere, che
si pagano a prezzo di intelligenza e di dolore. E io non pagavo ormai, soltanto, che
attraverso le banche. Non c’era sentimento, convinzione, idea per cui mi si chiedesse
altro che una firma su un assegno. O su un quadro: poiché quel che dà valore a un
quadro è la firma, appunto come ad un assegno. (Una volta o l’altra farò una mostra
di tele con la sola mia firma, da vendere a prezzi piuttosto alti; e suggerirò al
mercante questo slogan: «fatevelo da voi, un grande pittore ve lo ha già firmato»).
Anche del dolore altrui (la malattia, la miseria, il disastro che colpivano persone che
conoscevo o che senza conoscerle mi si rivolgevano; la guerra in cui bruciavano o
l’oppressione in cui gemevano popoli interi), bastava una firma perché subito le
immagini ne svanissero e me ne liberassi. E mi ero così liberato di tante cose; di
troppe perché non mi sentissi, in quel momento, lontano dalla verità, dalla vita... Mi
assalì allora il pensiero, un po’ molesto un po’ ironico, che continuando così a
riflettere e ad accusarmi, avrei finito col fare davvero gli esercizi spirituali: e sarei
stato il solo, poiché tutti quegli altri che a fare gli esercizi erano venuti sembravano,
ed erano, del tutto alieni dal farli. Durante la messa non facevano che parlarsi
all’orecchio, i vicini; salutarsi con cenni e con sorrisi, i lontani. Si sentivano in
vacanza: ma una vacanza che permetteva di riannodare fruttuose relazioni, ordire
trame di potere e di ricchezza, rovesciare alleanze e restituire tradimenti.
«La messa è finita: andate in pace». Ma non dovevano andare: per cui il trapestio e
tramestio, che subito si era levato, si spense all’apparire, dietro la balaustrata del
coro, di don Gaetano. Quelli che si erano lasciati andare, evidentemente si
vergognavano: e sulla loro silenziosa contrizione don Gaetano grandinò il suo
biasimo. Parlava con voce strascicata, come chi a stento contiene uno sbadiglio
continuamente insorgente; e senza mutar tono passò dai rimproveri alle spiegazioni:
del senso e della necesiità di quegli esercizi, per ciascuno e per tutti bilancio di
coscienza e per l’anno che era trascorso e per quello che si apriva; consuntivo e di
previsione. E come tutti coloro che si erano in quel luogo raccolti, per esercitare lo
spirito e rinnovellarne le forze, rappresentavano il mondo cristiano e cattolico nel
governo della cosa pubblica e comunque nelle cose volte al pubblico bene, bisognava
che in quella settimana mi domandassero, principalmente, assolutamente: abbiamo
dato a Dio quel che è di Dio?
A questo punto, uno che mi stava davanti sussurrò all’orecchio del vicino
«Certamente vuol fare un altro albergo». Ma subito girò lo sguardo intorno, timoroso;
e sospettando che io avessi sentito, mi fece un sorriso d’intesa, credendomi della sua
schiera: e che non potevo perciò ignorare come quel sant’uomo di don Gaetano,
senz’altro santo ma piuttosto esigente, intendesse il dare a Dio. Don Gaetano,
peraltro, non entrò nel merito del dare a Dio (omettendo del tutto, si capisce, il dare a
Cesare): lasciò che quel tema echeggiasse nelle singole coscienze, a tradursi, secondo
la branca di potere e le funzioni di ognuno, in concrete immagini o cifre.
«Ora potete andare» disse infine don Gaetano, caricando sulla prima parola il
residuo del rimprovero con cui aveva cominciato.
Tutti, compostamente questa volta, si alzarono e si avviarono all’uscita. Il cardinale
e i tre vescovi erano già spariti, forse dalla sacrestia. Restammo, nella cappella che
sembrò più grande, don Gaetano ed io. Don Gaetano pareva, come al solito, non
vedermi; ma dopo un po’ cominciò a parlarmi. Aveva capito perché ero rimasto.
«Lei non ha ancora visto bene la cappella, che è poi la chiesetta dell’eremo... Come
vede, è stata risparmiata: le ultime manomissioni risalgono al seicento... L’eremo di
Zafer! Tutta una storia inventata a tavolino: nella seconda metà del secolo scorso, da
un erudito locale... C’era la tradizione, la leggenda, di un eremita dalla faccia scura e
dalla barba bianca; e il farmacista del paese qui a valle gli diede un nome, Zafer... Io
credo che, nella testa del farmacista, le cose si siano combinate così: c’era il nome
della contrada, Zaffù; ed era stata pubblicata da poco la traduzione, di Michele
Amari, del Solwan el Mota’ di Ibn Zafer. Chissà, il testo gli sarà parso cristiano:
capita che isolando qualche passo si veda, in un testo tutt’altro che cristiano,
baluginare il cristianesimo... Zaffù, Zafer: tanto più bello Zafer; lo zaffiro, la zaffera,
lo zafferano... E poi c’era quel quadro». Me lo indicò, e fino a quel momento non lo
avevo visto: un santo scuro e barbuto, un librone aperto davanti; e un diavolo
dall’espressione tra untuosa e beffarda, le corna rubescenti, come di carne scorticata.
Ma quel che più colpiva, del diavolo, era il fatto che aveva gli occhiali: a pince-nez,
dalla montatura nera. E anche l’impressione di aver già visto qualcosa di simile,
senza ricordare quando e dove, conferiva al diavolo occhialuto un che di misterioso e
di pauroso: come l’avessi visto in sogno o nei visionari terrori dell’infanzia. «Su
questo quadro» continuò don Gaetano «il farmacista custruì una leggenda: Zafer, il
santo, non ha più una buona vista; il diavolo gli porta in dono le lenti. Ma queste lenti
hanno, ovviamente, una diabolica qualità: se il santo le accetterà, attraverso di esse
leggerà il Corano, sempre, invece che il Vangelo o Sant’Anselmo o Sant’Agostino.
“Ahimè che il puro segno delle tue sillabe si guasta in contorto cirillico si muta...”».
La citazione mi sorprese: don Gaetano aveva letto quello che io considero l’ultimo
poeta italiano, nel tempo della poesia italiana: e ne aveva versi a memoria. «In questo
caso, in cufìco o come si chiama la scrittura del Corano... Inutile dire che Zafer
sospetta dell’inganno e non accetta il dono: anzi, ignora addirittura la presenza del
diavolo... Ma questo quadro, come lei sa, non è che una copia, piuttosto rozza, di
quello del Manetti che si trova a Siena, nella chiesa di Sant’Agostino. Un quadro
curioso, comunque. Lasciando perdere le fantasie del farmacista, direi anche
inquietante... Il diavolo con gli occhiali: quello che voleva dire il Manetti è
abbastanza ovvio, in rapporto al suo tempo; ma oggi…».
«Come allora: ogni strumento che aiuta a veder bene, non può essere che opera e
offerta del diavolo. Dico per voi, per la Chiesa».
«Interpretazione laica, di vecchio laicismo: quello delle associazioni intitolate a
Giordano Bruno e a Francesco Ferrer... Io invece direi: ogni correzione della natura
non può essere che opera e offerta del diavolo».
«Interpretaziooe sadista».
«Ma Sade era cristiano» disse don Gaetano distogliendosi dalla contemplazione del
qoadro e guardandomi meravigliato: meravigliato che non lo sapessi, che nessuno
fino allora me l’avesse detto.
«Se lo dire lei…». Con troppo scoperta ironia.
«Non lo dico io» disse bruscameote don Gaetano. Si aggirò un pò per la cappella
come se io non ci fossi più; poi tornò al qoadro. Io, un po’ irritato con me stesso per
la banale ironia di quel se lo dice lei, tentavo di combinare una frase più sottilmente
ironica; ma don Gaetano, saliti i gradini dell’altare, aveva tirato fuori, da una tasca
interna all’altezza del petto, gli occhiali e, inforcabili, alzandosi sulla punta dei piedi
si era inclinato a scrutare l’angolo destro del quadro. Quando si voltò per dirmi «C’è
la firma, venga a vedere» ebbi un momento di vertiginoso stupore: i suoi occhiali
erano una copia esatta di quelli del diavolo. Non colse, ché doveva essere visibile, il
mio stupore; o finse di non coglierlo, godendoselo. Del resto, io passai subito a
rintuzzare il colpo, se da parte sua c’era stato il gusto di far colpo, assumendo
un’espressione che voleva dire: vecchio istrione, serba per il tuo gregge di imbecilli
la trovata di questi occhiali. Ma non sembrò far caso nemmeno al mio passaggio dallo
stupore al dispregio. Mi avvicinai a leggere la firma. Stentatamente decifrai: b, u, t, a,
s, u, o, c, o; Butasuoco.
«Buttafuoco» corresse don Gaetano. «Lei non ha visto la seconda t e ha letto s la f...
Nicolò Buttafooco, un pittore locale. E secondo un altro erudito, di due secoli fa e
non meno fantasioso del farmacista, nel diavolo è il suo autoritratto, corna
comprese... Un giorno, mentre dipingeva una Madonna, poiché aveva come modella
una baldracca, gli venne da dire: “allora questa Madonna farà miracoli, quando a me
spunteranno le corna”; ed ecco che gli spuntarono, e fu il primo di una lunga serie di
miracoli che quella Madonna poi fece... Meritatissime corna, per come bestialmente
dipingeva».
Si tolse gli occhiali e se li ripose in petto. E con la voluta indifferenza di chi ha
ormai fatto il colpo, del gatto che si è mangiato il canarino, continuò «A questo
nome, Bottafuoco, si collega sempre, nella realtà come nella fantasia, qualcosa che ha
a che fare col male, o almeno con l’imbroglio: questo pittore che si fa un autoritratto
da diavolo; il Buttafuoco di Boccaccio, nella novella di Andreuccio da Perugia...
Deliziosa, quella ricerca del Croce sulla novella di Boccaccio: l’aver trovato nei
registri angioini un Buttafuoco tra i profughi siciliani…» e continuò così a divagare,
tenendomi sottobraccio, andando verso il refettorio.
Mi volle ancora alla sua tavola. Al posto dei quattro preti c’erano il cardinale e i tre
vescovi; e due posti erano stati aggiunti, per il ministro e un industriale. Mi sentivo in
grande disagio. E non perché mai ero stato a tavola con ministri, industriali e prelati
(ché d’ordinario, anzi, non c’era giornata che non me ne trovassi qualcuno, o tutto un
assortimento, a mensa); ma per il luogo e il momento: un albergo tenuto da preti, un
raduno di cattolici per esercizi spirituali. E come io ero sorpreso e stranito per il fatto
di trovarmici, ancora di più quegli altri quando don Gaetano fece le presentazioni
(impeccabilmente presentò me ai quattro prelati e presentò a me il ministro e
l’industriale). E forse credettero, subito, a una mia conversione; ma quando,
porgendumi il cardinale la mano al bacio, io gliela abbassai nell’usuale stretta, si
dipinsero di perplessità: ma verso don Gaetano. Su di lui conversero sguardi tra
l’interrogativo e il preoccupato: e don Gaetano spiegò che mi trovavo lì per caso, per
curiosità, quasi per avventura.
Poiché quel che faceva don Gaetano non poteva che andare a buon fine, si
rassicurarono. E tutti, subito, si credettero in dovere di lodare qualche mio quadro: i
prelati quelli che avevano visto in mostre o collezioni, il miuistro e l’industriale i
propri (e mi risultava ne avessero, e anche di quelli dipinti a piedi caldi). Si passò
così a parlare di pittura: e nonostante i complimenti che mi avevano rivolto, fu
immediatamente chiaro che per i quattro prelati la pittura era bella e morta da un
secolo o quasi, ultimo a praticarla essendo stato Nicolò Barabino (e mi affiorò alla
memoria, a questo nome, l’immagine della Madonna dell’Ulivo che mia madre si
teneva, in riproduzione oleografica, a capo del letto e che io, forse dalla prima volta
che ebbi in mano una matita, per anni copiai: sempre prodigiosamente, secondo mia
madre; alla fine passabilmente, secondo me); e che per il ministro e l’industriale non
era mai esistita se non, ad un certo punto della loro vita e della loro ricchezza, sotto
specie di investimento e quotazione. E non erano perciò d’accordo coi prelati: poiché
in antiquariato le quotazioni andavano incerte sui pittori minori e incalcolabili, al di
là di ogni vero e proprio apprezzamento, sui grandi; mentre sicure, e in sicura ascesa,
andavano sui contemporanei, grandi o piccoli che fossero. Solo che tra i
contemporanei non c’erano grandi, obiettò il cardinale. Ma subito, senza convinzione,
aggiunse «A parte, si capisce, il nostro amico qui presente». Io, senza convinzione,
mi schermii e feci il nome di Guttuso. Il cardinale disse che ci voleva altro, alla
grandezza. Don Gaetano prese invece a lodare, di Guttuso, quella Crocefissione che
trent’anni prima aveva fatto scandalo e che ora si sperava, disse, acquisire ai musei
vaticani. Uno dei vescovi domandò perché lo scandalo. «Perché tutti i personaggi vi
sono nudi» disse don Gaetano, con tono di beffarda meraviglia verso coloro che
trent’anni fa si scandalizzavano a veder popolata di nudi la scena della Crocefissione.
I prelati convennero che spogliare il Cristo, la Madonna e le dolenti era cosa del tutto
innocente, se con innocenti intenzioni e risultati; e poi, ben altre bestemmie rivolgeva
il tempo nostro a quella sublime tragedia. E si stava passando a classificare le
bestemmie del nostro tempo, quando uno dei vescovi tornò su Guttuso, avanzando la
riserva che era comunista.
«E chi non lo è?» disse don Gaetano. E con intonazione parodiante «Perché non
possiamo non dirci comunisti».
Non si capiva se dicesse sul serio o scherzasse. Si ebbe perciò, da parte di tutti, e
anche da me, ambigua approvazione. E cadde il silenzio.
Lo ruppi, intimidito ma sforzandomi a un tono leggero, quasi un tono di scherzo e di
scherno, domandando cosa pensassero della restaurazione del diavolo operata da
Paolo VI.
«Oh, il diavolo» sbuffò ironicamente il cardiisale. E la sua ironia, come subito dopo
verificai, non era rivolta soltanto a me che ne domandavo.
«Con tutto il rispetto, si capisce, con tutta la filiale devozione che si deve al Santo
Padre» disse il ministro «io mi domando se questo era il momento di tirar fuori la
questione del diavolo». E mi guardò a sfida, a farmi prendere atto della sua
spregiudicatezza, del suo coraggio, di fronte a un cardinale, tre vescovi e un prete
noto per ingegno, dottrina e potenza.
«È il momento» disse don Gaetano facendo perno sull’è.
Successe, mi parve di indovinare, una specie di movimento di assessamento: nelle
menti dei quattro prelati, dei due devoti. Come quando si dice che una casa appena
costruita si è assestata: ed è che vi compare qualche crepa. In quelle menti ne
rameggiava ora qualcuna.
«Non dico che non sia il momento» disse il cardinale. «Dico, ecco, il modo... Non
so... Forse si poteva…». E tacque, astutamente lasciando che gli altri si lanciassero a
scalare quel si poteva, in cima al quale sarebbero stati colpiti dalle folgori dottrinarie
di don Gaetano. Ma non meno astutamente, i tre vescovi e i due devoti elusero la
discussione teologica (e mi delusero); e si diedero a parlare del discorso di Paolo VI
sul diavolo come di un fatto puramente burocratico, di una circolare ministeriale; e
del papa come di un ministro i cui decreti, più o meno maldestri, più o meno oscuri,
sono poi opera dei direttori generali: e ce ne sono di devoti al ministro ma incapaci, di
capaci ma non devoti, di capaci e devoti, di incapaci e non devoti.
«E la salute, la salute del papa?» s’informò l’industriale.
«I papi» disse don Gaetano «sono sempre in buona salute. Si può dire, anzi, che non
solo muoiono in buona salute ma di buona salute. Parlo, si capisce, di salute mentale»
rivolgendosi all’industriale «poiché la sua domanda, indubbiamente senza malizia, a
quella alludeva... Altri mali, altri acciacchi, non contano».
«Già» io dissi «non si è mai dato il caso di un papa che per età, per arteriosclerosi,
cominci a sragionare. Voglio dire: non si è mai saputo».
«Non si è mai dato, appunto» disse il cardinale.
«Non si è mai saputo» ribadii.
«Le cose che non si sanno, non sono» disse don Gaetano.
«Io direi che certe cose possono non sapersi, ma sono» risposi.
«Sì, d’accordo. Ma tenga presente che stiamo parlando della Chiesa, del papa» disse
don Gaetano. «Una forza senza forza, un potere senza potere, una realtà senza realtà.
Quelle che in ogni altra cosa mondana non sarebbero che apparenze, a nascondere o a
mistificare, nella Chiesa e in coloro che la rappresentano sono le interpretazioni o
manifestazioni visibili dell’invisibile. E cioè tutto... Ciò non toglie che, volendo,
possiamo anche prenderci il gusto di dar la caccia alle stramberie, di temperamento o
senili, di qualche papa... Di Pio Il, per esempio, a scrutar bene quei suoi deliziosi
Commentari... Intanto, la stramberia che è nel fatto stesso di scrivere, da papa, la
storia della propria vita: che è affezione più da avventuriero che da papa…».
Cardinale e vescovi si irrigidirono, negarono: ma venne fuori che non avevano letto
i Commentari, mentre don Gaetano era in grado di citare a memoria tutti i passi che
gli facevano giuoco. «Direi» continuò «che ad un certo punto, il punto in cui
comincia a dettare i Commentari, Pin II non riuscisse più a contenere la propria
soddisfazione per quell’ascesa al pontificato in cui il suo spirito aveva avuto più parte
che lo Spirito Santo. L’irresistibile voglia di proclamare: guardatemi, qui sul soglio di
Pietro; sono il vecchio Enea Silvio, quello della Storia dei due amanti; ce l’ho fatta,
ve l’ho fatta... Un eroe stendhaliano avant la lettre…». E a tranquillizzare il cardinale,
che in imbarazzo già tentava di richiamarlo all’ordine con stizzosi colpettini di tosse
«Ma è stato un grande papa, eminenza: grandissimo e santo. E poi, è morto più di
cinque secoli addietro... E mi viene un’idea: poiché è morto nella notte dal 14 al 15
agosto del 1464, alla chiusura del secondo turno di esercizi, che cade proprio alla
ricorrenza, parlerò di Pio II agli esercitanti».
«Buonissima idea» disse il cardinale: ma freddamente.
«Ottima» farfugliò, masticando grosso, il ministro: e indicava, muovendo la
forchetta come un aspersorio, il proprio piatto. Diceva per la faraona farcita, che era
davvero apprezzabile. E qui mi accorgo che per riferire i discorsi che si facevano ho
trascurato di descrivere l’animatissima sala e l’andamento della refezinne (ché così
erano indifferentemente chiamati i pasti del mezzogiorno e della sera). Il menù, un
pieghevole a stampa, carta spessa, il diavolo che tenta il santo riprodotto al tratto
sulla prima facciata, era particolarmente ricco: e veniva materializzandosi davanti a
noi, apprezzabile, come ho detto, nella qualità oltre che nella quantità. Di colpo, tutto
era cambiato all’hotel di Zafer: il refettorio era gremito, un cuoco dava il meglio di
sé, il servizio era celere e accurato. Lo disimpegnava, oltre a una diecina di camerieri,
una squadra di ragazze cui l’appartenere a non so che ordine terziario non le privava
di una certa procacità e civetteria. Altri particolari: su ogni tavola esplodeva un
bouquet vivacemente disposto; le cinque donne erano scomparse; a benedire le mense
fu il cardinale. E a questo proposito potrei dire che mi sentii come un cane in chiesa,
ma per amore alle mie opinioni dico come un uomo in un canile, quando tutti si
levarono in piedi, si segnarono, dissero la preghiera, si risegnarono. Debbo però
confessare che non ce la feci, per come mi proponevo, a restar seduto mentre tutti si
levavano.
Uscendo dal refettorio agganciai il prete zazzeruto, quello che leggeva «Linus», per
domandargli dove fossero finite le cinque donne. «Ma le pare? Se ne stanno in
camera» alquanto oscuramente mi rispose, e quasi fuggendo.
Nel pomeriggio, il cardinale aprì il corso degli esercizi. Parlò per più di un’ora. Lo
seguii distrattamente, ma meno distrattamente che i suoi. Tambureggiò La Bibbia,
particolarmente l’Esodo, argomentando sul movimento teologico, credo nuovo, della
speranza. Da quel che riuscii a capire, questo movimento chiamava speranza la
disperazione. Non un riferimento ai Vangeli; e solo due o tre volte il nome di Cristo.
Quando il cardinale voltò l’ultimo dei foglietti che era andato leggendo, il discreto
respiro di sollievo di ognuno si fuse in un tutto che somigliò allo sbuffo di un
aerostato che si sgonfia. Ci furono, alla fine del discorso, applausi. Il cardinale fece
un gesto a farli tacere; e quando si spensero, don Gaetano prescrisse che ognuno si
ritirasse nella propria camera, a far meditazione per un’ora sul discorso di sua
eminenza. Colsi, nel gregge che usciva, tutt’altra intenzione. Si dicevano di libri da
leggere, relazioni da fare, corrispondenza da sbrigare, telefonate che attendevano.
Indicando un tipo dall’aria ascetica, piccolo, lenti grosse, uno che nell’uscire mi ero
trovato a lato mi disse «Quello sa che cosa fare, in camera». Domandai chi fosse e
che cosa avesse da fare in camera.
«Ma come, non lo conosci. È…». Disse un nome che conoscevo.
«Ecco, mi pareva... E che cosa ha da fare?».
Mulinò la mano a dire cose meravigliose, cose dell’altro mondo, mentre la faccia gli
si dipingeva di gaudente malizia, di golosità, d’invidia. E si allontanò da me,
improvvisamente diffidente.
Nello spiazzale c’erano soltanto due, che animatamente discorrevano. Parlavano di
strade, di appalti. Don Gaetano, che uscì dopo di me, così li colse. Puntò su loro
l’indice, e vibratamente «Avvocato, onorevole! Mi meraviglio di voi: ancora qui, a
parlare delle vostre e nostre miserie! Andate in camera a meditare sulle parole di sua
eminenza!».
Come bambini sorpresi a rubacchiare in dispensa, i due si separarono; e uno dietro
all’altro si infilarono nell’albergo. Don Gaetano sorrise e venne verso di me.
«Scommetto che lei mediterà più di tutti loro, sul discorso di sua eminenza».
«Non mi faccia tanto credito» dissi. «Sto meditando, sì: ma su un’allusione, credo
maliziosa, che ho colto ora, all’uscire dalla cappella. Un tale, indicando…» e feci il
nome dell’uomo che mi era stato indicato «ha detto: quello sì, che sa che cosa fare in
camera; o qualcosa di simile. Mi chiedevo a che volesse precisamente alludere».
«A una donna, naturalmente».
«A una donna che si tiene in camera?».
«Non precisamente: la donna ha una sua camera».
«Ho capito: è una delle cinque».
«Una delle cinque, sì. E tutte e cinque sono qui per lo stesso motivo. Ma non per lo
stesso uomo, si capisce».
«E lei permette...?».
«Amico mio: io permetto tutto. Ammetto e permetto».
«Ma, dico, gli esercizi spirituali…».
«Ho l’impressione che lei ci creda più di me: che li prenda cioè alla lettera o nel
significato originale, ignaziano... E del resto credo che il laicismo, quello per cui vi
dite laici, non sia che il rovescio di un eccesso di rispetto per la Chiesa, per noi preti.
Applicate alla Chiesa, a noi, una specie di aspirazione perfezionistica: ma standone
comodamente fuori. Noi non possiamo rispondervi che invitandovi a venir dentro e a
provare, con noi, ad essere imperfetti... Comunque, voglio mettermi dal suo punto di
vista, e cioè nel concetto degli esercizi spirituali come macerazione... Ebbene: questi
cinque disgraziati hanno mogli, figli, elettori, avversari, amici e nemici che li
ricattano, amici e nemici che controllano i loro passi e i loro telefoni... Si sono fatta la
loro amante, come d’uso. E per tutto un anuo vagheggiano questa settimana, qui,
degli esercizi: e finiscono col farli davvero... Mandano prima le loro donne;
raccomandandomele, si capisce, ché non le accetterei senza le loro raccomandazioni,
come persone dai nervi a pezzi, che cercano serenità e riposo alle loro vicissitudini
familiari, alle loro sventure, in un ambiente confortevolmente religioso. Io faccio
finta di non capire, di non sapere: e le accetto. Perché so bene che quel loro
vagheggiamento di una settimana di amore si risolverà in una settimana d’inferno... Il
cretino che lei ha sentito immagina delizie e deliri erotici. E invece sa che cosa stanno
facendo, questi cinque adulteri, questi cinque peccatori? Stanno litigando. E stanno
litigando senza motivo, o per qualche motivo futile, per una specie di autopunizione:
appunto perché si sentono adulteri, si sentono peccatori... Se lei va ad ascoltare dietro
le loro porte (lo fanno tanti, in questo momento), li sentirà litigare: più che una
qualsiasi coppia legittima, con più furore, con peggior crudeltà... Mi creda: il miglior
modo di fare all’amore è quello immediato, fuggevole, che offrono le prostitute...».
«Ma lei, così...».
«È una cosa talmente semplice, il fare all’amore... Che è poi l’amore: non ce n’è
altro, tra un uomo e una donna... È come aver sete e bere. Non c’è niente di più
semplice che aver sete e bere; essere soddisfatti nel bere e nell’aver bevuto; non avere
più sete. Semplicissimo. Ma pensi se l’uomo avesse dedicato all’acqua, alla sete, al
bere (per un diverso ordine della creazione e dell’evoluzione) tutto il sentimento, il
pensiero, i riti, le legittimazioni e i divieti che ha dedicato all’amore: non ci sarebbe
niente di più straordinario, di più prodigioso, del bere quando si ha sete... E in quanto
alle prostitute: consideri se le migliori bevute che abbiamo fatto nella nostra vita non
sono quelle a una fontanella all’angolo di una strada, al pozzo lungo lo stradale di
campagna…».
«Non è nuova, questa della sete e del bere».
«Una rivoluzionaria russa; ma Lenin, se ricorda, pose la questione del bicchiere: che
rifiutava di bere nel biechiere a cui altri aveva bevuto. Piuttosto reazionario, non le
pare?».
«Puritano, direi puritano. Tutti i rivoluzionari lo sono».
«Sì, se avesse detto: io bevo sempre nello stesso bicchiere...».
«D’accordo. Ma non le pare di essere tanto più reazionario, postulando l’esistenza
delle prostitute?».
«Ma io sono tanto reazionario quanto rivoluzionario».
«E non fa questione di bicchieri». Alquanto maliziosamente.
«Alt. Non diventi grossolano: cerchi di liberarsi di quella malevola e volgare
letteratura sui preti di cui tutti gli italiani, anche quelli che praticano la religione, sono
impeciati. Sia più sottile, e più serio... Io posso dire di me quello che un cronista
medievale diceva di Arrigo VII: “egli stava casto della persona, e la castità doveva
averlo infracidato dentro”. È la castità che mi porta a semplificare quello che si osa
chiamare amore. Ed è la non castità che porta lei a complicarlo. Certo, lo riconosco,
la castità è spaventosa: ma soltanto nei primi tempi che la si sceglie ed affronta... Poi
avviene qualcosa di simile, lei mi può capire, a quel che succede nell’arte, per chi la
fa: i limiti e le preclusioni espressive ne sono la forma, non sono limiti e preclusioni.
Allo stesso modo, la castità è la forma più sublime cui l’amor proprio può accedere:
un far diventare arte la vita».
«Io non posso vivere» dissi «se non amando una donna: e con tutte le complicazioni
possibili. Non sempre la stessa donna, si rapisce. Ne scompare una, dalla mia vita, e
ne compare un’altra. E a volte la seconda compare prima che sia scomparsa la
prima».
«E scommetto che è sempre la stessa. Voglio dire nel carattere, se non addirittura
anche nel fisico».
Ci pensai un po’. «Forse vincerebbe la scommessa» dissi.
«Lo vede? Lei è affetto da un male piuttosto comune, piuttosto banale... Si finisce
dall’essere bambini con la pubertà, ma i più trovano modo di continuare ad esserlo
nel campo dell’attività erotica in cui la pubertà immette... Mi spiego: la cosa più seria
che hanno scoperto gli studiosi della psicologia infantile tra le tante non serie, è
quella denominata legge della ripetizione del simile o dell’uguale, non ricordo bene.
Era così facile da scoprire, peraltro!... Un bambino chiede che gli si racconti la stessa
fiaba, preferisce lo stesso giocattolo, ripete lo stesso giuoco: fino a che non è più
bambino. Il dongiovannismo non è che il prolungamento di questa legge oltre la
pubertà: nella giovinezza, alla vecchiaia. E sono passati dalla giovinezza alla
vecchiaia, saltando lo stadio della maturità, appunto perché la maturità, negli uomini
afflitti da un simile male, non esiste. Il dongiovannismo è un prolungamento di
immaturità: fino al rimbambimento, che è poi la giusta preconclusione, e alla morte...
Ci faccia caso: tutti i dongiovanni finiscono col rimbambire».
«Mi ucciderò un po’ prima. Ammesso che io sia davvero affetto da
dongiovannismo».
«Lo è. E non si ucciderà un po’ prima: per il semplice fatto che non riuscirà a
vedere la linea di demarcazione, il confine».
«Non le pare di stare usando le vecchie armi della sessofobia cattolica, in questo
momento, contro di me? Con la variante che mi promette il rimbambimento invece
che l’inferno».
«Si sbaglia di grosso: non c’è mai stata una sessofobia cattolica. Nel passato, non si
è fatto altro che arricchire e raffinare. Se mai oggi, nella permissività, si può
intravedere un movimento di sessufobia... E in quanto a promettere, cioè a
minacciare, non le minaccio niente. La mia è una constatazione. Può farla anche lei,
se appena si guarda intorno. Di uomini che sono andati dietro a donne, una dopo
l’altra o due e tre assieme, penso ne avrà conosciuti: provi a ricordare gli ultimi anni
della loro vita». E mi lasciò a questa desolante recherche.
Puntualmente, dopo un’ora, gli ospiti ripullularono nello spiazzale. Avevano
meditato, e si vedeva. Erano in preda all’ansietà di comunicarsi i risultati della
meditazione; proposte in numeri e numeri in proposte, piccanti aneddoti a carico di
amici-nemici e di nemici-amici, adulazioni, condiscendenti apprezzamenti; e qualche
barzelletta oscena piuttosto arretrata. I più, a due a due, si parlavano nell’orecchio: e
mi venne da pensare al nunquam duo che è regola dei seminari, e dovrebbe essere di
ogni riunione di cattolici. Era facile immaginare che i due che si parlavano vicino a
me stessero complottando qualcosa contro quegli altri due che stavano dalla parte
opposta, e viceversa; e così ogni coppia contro ogni altra distante: sicché lo spiazzale
diventava come un telaio su cui si stendeva una fitta trama di inganni, di tradimenti; e
le spole che passavano da una mano all’altra.
Andavo da una coppia all’altra, da un gruppo all’altro, cogliendo parole, frammenti
di frasi, intere frasi: sussurrate, a volte sospese ed esitanti, a volte ferme.
Nell’insieme, pareva che tutti parlassero della refezione consumata a mezzogiorno e
di quella che sarebbe stata consumata tra un paio d’ore: della inappetenza di qualcuno
e della fame dei più. Quello mangia, quello ha una fame, quello non ha mangiato
ancora, non vuole mangiare, vuole, non può, bisogna farlo mangiare, deve finire di
mangiar tanto, c’è un limite al mangiare; e così via. Mi resi tonto che era un parlar
figurato, e spinsi la figurazione a vederli tutti annaspare dentro una frana di cibi in
decomposizione.
Mi allontanai verso il bosco. E tornai in albergo che tutti erano già a tavola.
Dun Gaetano mi chiamò con un gesto al mio solito posto. Il cardinale e i vescuvi
non c’erano più. Al loro pusto sedevano altri personaggi, che don Gaetano mi
presentò. Non mi erano ignoti i nomi e le cariche di ognuno. Feci il proposito di
ripartire l’indomani.
Alla conversazione, per quanto diversi fossero gli argomenti su cui trascorse, non
partecipai. Non l’ascoltai, anzi, se non nei momenti in cui don Gaetano interveniva.
Ed erano sempre interventi affilati e rapidi: citazioni che cadevano con fredda
autorità, calembours, battute. In gran parte a mio beneficio, chè mostrando sempre
occhi senza sguardo, lontani o vacui, invece mi scrutava e decifrava la ragione del
mio silenzio. Mi offriva perciò la sua solidarietà nel disprezzo; come a dire: capisco
la sua insofferenza, ma guardi come li tratto. Io però ce l’avevo anche con lui.
Finita la refezione e man mano che i commensali uscivano all’aperto, vidi che tutti
andavano raccogliendosi inturno a don Gaetano: non casualmente, ma come per
un’adunata stabilita, prescritta. E il mio malumore si dissolse nella curiosità.
Facevano cerchio. Ad un certo punto, forse quando ritennero di essere tutti presenti,
il cerchio si scomupose e prese forma di quadrato. Don Gaetano, che era stato al
centro del cerchio, si trovò nel mezzo della prima fila del quadrato. Così ordinati,
stettero un momento fermi e in silenzio: poi si alzò la voce di don Gaetano «Nel
nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen» e il quadrato si mosse. Lo
spiazzale, come ho detto, era vasto; e ancora più vasto lo rendeva il fatto che le luci vi
erano state quasi tutte spente. Il quadrato marciò dalla porta dell’albergo al margine
opposto. Arrivandoci, mi parve si aggrumasse in confusione e stentasse a ricomporsi,
mentre in coro recitavano il Padrenostro. Ricomposto, venne verso l’albergo con
l’Ave-maria: e alla luce che veniva dalla porta e dalla finestra del pianterreno, vidi
che in prima fila, con don Gaetano sempre nel mezzo, non c’erano gli stessi di poco
prima. E mi accorsi che il movimento era in effetti più ordinato di quanto mi era
parso da lontano: fermandosi un po’ prima del dietrofronte, don Gaetano lasciava che
il quadrato si aprisse al suo star fermo e andasse avanti, ricongiungendosi, finché lui
non si fosse trovato, al momentu del dielrofronte, al centro dell’ultima fila, che
diventava la prima. Certo, qualcuno si confondeva: ma la recitazione del Rosario non
perdeva ritmo.
Accanto a me venne a sedersi qualcuno. Non ci feci caso; ma quando sentii che
pianamente rideva e sogghignava, mi voltai a guardarlo. Era in maniche di camicia,
una salvietta al collo, un’altra in mano che si passava sulla testa e sulla faccia. Mi
disse «Ci vengo a ogni estate per non perdermi questo spettacolo, anche se mi pagano
male. Li goardi». Fece una breve risata, un sogghigno; poi rapidamente, come al
cinema quando non si vuol perdere il filo dell’azione, l’entrata di un personaggio
«Sono il cuoco» e si immerse, emettendo di tanto in tanto un trillo di godimento,
nello spettacolo.
E c’era di che. Quell’andare su e giù nello spiazzale quasi buio, non come in un
quieto passeggio ma a passo svelto, appunto come chi ha paura del buio e si affretta a
raggiungere la zona di luce (che era quella all’ingresso dell’albergo: e lì infatti il loro
passo si faceva più lento, a indugiarvi prima di riaffrontare il cammino verso la parte
più buia); quelle loro voci che si levavano nel Padrenostro, nell’Ave-maria, nel
Gloria con un che di atterrito e di isterico; la voce di don Gaetano, che succedeva alle
loro, distante e fredda: e da quella voce espressioni come «misterioso messaggio»,
«mistero della salvezza», «antico serpente», «spada che trafiggerà l’anima» si
intridevano di un senso tutto fisico, non più metafore ma eventi che stavano
realizzandosi, che si realizzavano, in quel posto al confine del mondo, al confine
dell’inferno, che era l’hotel di Zafer. E in quel momento anche chi, come me e come
il cuoco, li vedeva nell’abietta mistificazione e nel grottesco, scopriva che c’era
qualcosa di vero, vera paura, vera pena, in quel loro andare nel buio dicendo
preghiere: qualcosa che veramente attingeva all’esercizio spirituale: quasi che fossero
e si sentissero disperati, nella confusione di una bolgia, sul punto della metamorfosi.
E veniva facile pensare alla dantesca bolgia dei ladri.
«Le è piaciuta la scena del Rosario?» mi domandò l’indomani don Gaetano.
«Moltissimo».
«Sapevo che le sarebbe piaciuta».
«Peccato che si fosse solo in due a goderla: il cuoco ed io».
«Ah, il cuoco... Sì, lo so, è un aficionado. Un uomo intelligente, e si vede da come
cucina: ma un anticlericale arrabbiato, all’antica. Non credo che sia comunista;
repubblicano, forse, o socialista... Ma lei sbaglia, a credere che eravate solo in due a
godervela: me la godevo anch’io».
«Mi permette una domanda?».
«Prego».
«Che prete è lei?».
«Un prete come tutti gli altri preti».
«No, proprio non direi».
«Lei ne conosce molti, di preti?».
«Ne ho conosciuti. Da ragazzo, da giovane. In un piccolo paese. Due o tre buoni,
nove o dieci cattivi. I buoni erano quelli che non si intrigavano nei fatti degli altri;
non erano esosi nelle tariffe per matrimoni, funerali e battesimi; facevano qualche
abbellimento, cioè qualche guasto, alla loro chiesa; non davano luogo a maldicenze. I
cattivi erano quelli avidi e avari; che lasciavano andare a pezzi la loro chiesa; che
confessando le mogli aizzavano contro i mariti; che avevano intorno orsoline, figlie
di Maria e bigotte danarose. Ma sia i buoni che i cattivi, nel modo più totale
ignoranti».
«Capisco il suo problema: non sa se mettermi tra i buoni o tra i cattivi... Ebbene:
sono molto cattivo».
«No, non è questo il mio problema».
«Ma sì, è questo... E lei l’avrebbe già risolto mettendomi tra i cattivi, se non ci fosse
la piccola difficoltà che non sono ignorante... J’ai lu tous les livres... Ma può
rimuoverla, questa difficoltà: sono un prete cattivo che, a differenza di quegli altri
cattivi che ha conosciuto un tempo, ha letto tanti libri... Le voglio anzi regalare un
piccolo paradosso, a spiegazione del mio classificarmi tra i cattivi non per modestia
ma per convinzione: i preti buoni sono quelli cattivi. La sopravvivenza, e, più che la
sopravvivenza, il trionfo della Chiesa nei secoli, più si deve ai preti cattivi che ai
buoni. È dietro l’immagioe dell’imperfezione che vive l’idea della perfezione: il prete
che contravviene alla santità o, nel suo modo di vivere, addirittura la devasta, in
effetti la conferma, la innalza, la serve... Ma questa è una verità del tutto banale:
potrei anche assottigliarla o complicarla».
«Il più grande papa è stato dunque Alessandro VI».
«Anche questa è una banalità: una battuta, mi scusi, che potrei aspettarmi dal cuoco.
Ma voglio seguirla sul suo terreno: Alessandro VI, malgré lui, è stato un grande papa.
Se mi chiedesse di scegliere tra Pio X e Alessandro VI…».
«Sceglierebbe Alessandro VI».
«Appunto. Ma siamo, lo tenga presente, nella sfera del paradosso. Se ne usciamo,
posso anche dirle che la grandezza della Chiesa, la sua transumanità, sta nel fatto di
consustanziare una specie di storicismo assoluto: l’inevitabile e precisa necessità,
l’utilità sicura, di ogni evento interno in rapporto al mondo, di ogni individuo che la
serve e la testimonia, di ogni elemento della sua gerarchia, di ogni mutamento e
successione...».
«Lei è un fanatico».
«Crede che potrei non esserlo, con questa veste? Se, beninteso, per lei fanatico è chi
ha delle certezze... Ma le mie certezze, lei questo non lo sa, sono altrettanto corrosive
che i suoi dubbi... Comunque, possiamo rientrare nel paradosso, se il paradosso è la
forma di verità che più le aggrada».
«No, restiamone fuori. Anzi, nella forma più diretta, più semplice, mi dica: che cosa
è la Chiesa?».
«Ecco: un prete buono le risponderebbe che è la comunità convocata da Dio; io, che
sono un prete cattivo, le dico: è una zattera, La zattera della Medusa, se vuole; ma
una zattera».
«Ricordo il quadro di Géricault, ma non ricordo bene che cosa è accaduto su quella
zattera, anche se parecchi anni fa ho letto tutto un libro. Qualcosa di terribile:
proverbialmente... Si è salvato qualcuno, su quella zattera?».
«Quindici, su centoquarantanove: forse troppi... Oh no, non dico per La zattera
della Medusa: dico per quella della Chiesa. Il dieci è percentuale piuttosto alta».
«E quello che hanno fatto quei quindici per salvarsi?».
«Non mi interessa. Cioè: non mi interessa dal momento che La zattera della
Medusa è metafora, per me, di ciò che è la Chiesa».
«Preferisco perire subito, nel naufragio».
«Ma no, lei sta nuotando per raggiungere la zattera. Perché il naufragio c’è già
stato…». Fece un sorriso quasi divertito «Non se ne è accorto?».
Restai solo. E pensando alla Zattera della Medusa, cercando di ricordare quel che vi
era accaduto, mi avviai verso la mia automobile. Non riuscivo a raggiungere, nella
memoria, quei fatti; ma ne risentivo l’orrore provato allora leggendoli. Del
cannibalismo, quasi certamente. «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue». Il
Totem e tabù, il mio primo incontro con Freud: una grande rivelazione, un lampo
abbagliante. Poi ci si rende conto che le grandi rivelazioni vengono da una luce più
discreta e continua, quasi inavvertitamente... Ma no, non stavo nuotando per
raggiungere la zattera. E nemmeno c’era già stato il naufragio. La vita era ancora, per
me, un vascello di equilibrata e librata alberatura (come tradurre lo «steamer
balançant ta mâture» della poesia di Mallarmé da cui don Gaetano aveva citato quel
mezzo verso, «ho letto tutti i libri»? E così, ripetendomi dal principio «La chair est
triste, hélas! et j’ai lu tous les livres…» mi distrassi dall’irritante pensiero del
naufragio e della zattera).
Me ne andai in città. Un forno: ma mi ci immersi con un certo piacere; come a
contraddire, accettando il caldo, l’estate rovente, don Gaetano e il suo eremo-albergo:
quella frescura, quella delizia dei venti.
Riguadagnai l’eremo nel primo pomeriggio, ma per andarmene a dormire nel bosco.
Questa, almeno, era l’intenzione. Finii però nella radura dove le donne prendevano il
sole, e stavolta tra loro. Un pomeriggio delizioso. Ma non spinsi troppo oltre il
giuoco, e specialmente con quella che più ci stava (ma ci stava di più perché non ero
riuscito a nascondere che la preferivo), poiché l’indomani, avevo ormai deciso, me ne
sarei andato. E ci restavo ancora per una notte, in quell’orribile albergo, soltanto
perché volevo di nuovo assistere alla scena del Rosario. Ne ero anch’io affascinato,
proprio come il cuoco.
Ma alla catena della causalità, e della casualità, stava saldandosi un altro anello.
Il pranzo trascorse come al solito. C’erano altri quattro al posto di quei quattro che
il giorno prima erano al posto del cardinale e dei vescovi. Capii che don Gaetano,
tenendo fissi il ministro e l’industriale, non so con quale criterio di precedenza o
preferenza rinnovava ogni giorno i quattro commensali. Me li presentò. Nomi non
ignoti, né a loro ignoto il mio. Uno dei quattro era presidente di un grosso ente di
Stato, si era da poco dimesso da senatore per assumere quella presidenza. Una faccia
acuta, volpina. Tutt’altro che sprovveduto, in fatto di patristica e di scolastica: e per
tutto il pranzo, tra lui e don Gaetano, ci fu un rimbalzo di citazioni, come una partita
di ping-pong. Alla fine, ero piuttosto interessato a Origene, a Ireneo e allo Pseudo
Dionigi, ma in senso del tutto eterodosso. Alla Borges, tanto per intenderci.
Come la sera precedente, alla fine sciamammo tutti nello spiazzale. Andai a sedermi
accanto al cuoco, che era già al suo posto. «Ci ha preso gusto anche lei» mi disse a
modo di saluto.
«Eh sì, è uno spettacolo straordinario«».
«Impagabile: glielo dico io che un po’ lo pago. E una volta o l’altra lo pagherò a
prezzo pieno: mi verrà una polmonite mi verrà». Si asciugò accuratamente con la
salvietta the aveva in mano: faccia, nuca, testa, orecchie. «Lei non sa che inferno
sono le cucine: e io vengo fuori a questa arietta senza le giuste precauzioni, per il da
fare che ho dentro e per la fretta di non perdermi lo spettacolo fuori... Ma è una
soddisfazione, Cristo, una grande soddisfazione: vedere tutti questi figli di puttana
andare su e giù a recitare il Rosario...».
«La Chiesa» dissi »dà delle soddisfazioni anche ai non credenti».
«Forse è così. Ma io della Chiesa me ne fotto».
«Ma com’è che si è trovato ad avere a che fare con questo albergo di preti?».
«Per caso. Cioè: per inganno di un amico. Mi ha detto: sto male, va’ a sostituirmi
per un paio di giorni. Invece si era trovato un altro posto, meglio pagato. Quando l’ho
saputo, volevo piantar tutto. Ma don Gaetano... E poi, c’era questo spettacolo... Ma io
a don Gaetano gliel’ho detto: un giorno o l’altro getterò un chilo di stricnina nella
minestra, e chi s’è visto s’è visto».
«E don Gaetano?».
«Sa che cosa mi ha risposto, questo gran figlio di puttana?» ma mettendo
nell’espressione ammirazione e devozione. «Mi ha risposto: figlio mio, quando sarà il
giorno avvertimi, ché io salterò la minestra... Vede che tipo?... Ma oh, sta
cominciando» e si assestò nella sedia.
Stava cominciando, infatti. Il quadrato si mosse, mentre si levava la voce di don
Gaetano «Nel nome del Padre, del Piglio e dello Spirito Santo. Amen».
«Un angelo inviato dal Padre...».
«Padre nostro che sei nei cieli…».
«Ave Maria…».
«Gloria al Padre...».
«Il Padre fin dall’eternità…».
«Il Padre dopo il peccato…».
«Padre nostro…».
«Ave Maria…».
«Gloria al Padre...».
«Salve, o Regina…».
Ora dalla voce di don Gaetano, ora da quella del coro, le preghiere si levavano
nell’oscurità della notte: e tutto, le voci, il senso delle parole, quell’assurda marcia da
animali in gabbia, quel battere e indugiare nella poca luce e il più veloce e spaurito
andare verso il buio; tutto sembrava s’appartenesse a una evocazione, a un sortilegio:
ma con quel tanto di mistificatorio e di grottesco che è nelle sedute spiritiche, per chi
non ci crede.
«Santa Maria».
«Santa Madre di Dio».
«Santa Vergine delle vergini».
«Madre di Cristo».
«Madre della Divina Grazia».
«Madre purissima…».
Mi affiorava il ricordo non delle parole latine di prima, ma di come quelle parole
erano pronunciate dalle donne che d’inverno intorno al braciere, d’estate nel cortile,
si raccoglievano a dire il Rosario, negli anni della mia infanzia. E quel ricordo
aggiungeva grottesco al grottesco, e specialmente ricordando la «turris eburnea» che
diventava burrea: quasi una promessa, per il paradiso, di pane imburrato, a me che da
bambino piaceva.
«Torre d’avorio».
«Casa d’oro».
«Arca dell’alleanza».
«Porta del cielo».
E don Gaetano aveva appena finito di dirlo, e stava levandosi il coro del «prega per
noi» quando si sentì come uno stappo.
Il quadrato era al margine dello spiazzale, nel punto più lontano dall’ingresso
dell’albergo e da dove il cuoco ed io sedevamo. Si era appena ricomposto nel
dietrofronte: ed ecco che tra la porta del cielo e il prega per noi quel colpo lo fermò e
sospese per un attimo; e subito dopo lo scompose, lo centrifugò.
Resto, fermo dov’era, don Gaetano. E dietro di lui, a dieci o quindici metri, una
macchia chiara, più che una macchia una massa.
Mi ci vollero una trentina di secondi, credo, perché quella massa prendesse la forma
di un uomo caduto; quanti ce ne vollero perché don Gaetano, che era rimasto fermo
come una statua a guardare verso l’albergo, si voltasse indietro e andasse verso il
caduto. Lo vidi chinarsi e muoverlo. Il cuoco ed io simultaneamente ci alzammo e
corremmo verso quel punto. Ci arrivammo che don Gaetano, un ginocchio poggiato a
terra, la destra sospesa in aria, diceva «Ego te absolvo in nomine Patris, Filii et
Spiritus Sancti». Ci guardò, si rialzò. «È morto» disse.
Era 1’ex senatore, presidente di quel grosso ente di Stato, che durante il pranzo
aveva giocato alle citazioni con don Gaetano. Nella morte, la sua faccia aveva
perduto l’espressione volpina e preso un che di fragile, come modellata in una fragile
materia, e di dolorosamcote peotoso. Lo guardai bene, alla luce vacillante del mio
accendisigari. Poi guardai don Gaetano e il cuoco. Impassibile, il pretaccio. E il
cuoco sudava peggio che davanti ai fornelli.
Tutti che erano scappati, ora tornavano. E nel loro convergere verso di noi c’era
impazienza e cautela, la curiosità di sapere e vedere e la paura per quel che avrebbero
visto e saputo. Si domandavano, e avvicinandosi a noi domandavano «Chi è? Ma che
è successo? Ma come? Gli hanno sparato? Chi ha sparato?» febbrilmente. Finché
fecero, intorno a noi e al morto, un cerchio compatto. Sgomitando ne uscii, seguito
dal cuoco. Don Gaetano disse «Bisogna chiamare la polizia» e raccomandando di non
toccare il morto, ne uscì anche lui, dirigendosi con passi lunghi e fermi verso
l’albergo.
Tornammo alle nostre sedie. Stranamente, ero tornato a una disposizione da
spettatore: quasi mi lossi reso conto che il delitto era una puntata da happening, a
rendere più movimentata e consona ai tempi quella incredibile recitazione del
Rosario. Ma il cuoco era molto inquieto. «Meno male» mi disse con voce tremante
«che stavo seduto con lei».
«Perché, crede che ci avrebbero sospettato?».
«Non si sa mai… Qualcuno da sospettare debbono trovarlo: e non lo cercheranno
tra quelli... Le pare possano essere sospettati di avere ammazzato un fratello, e mentre
si dicevano il santo Rosario per giunta?».
«Ma non può essere stato che uno di loro».
«Questo lo dice lei e lo dico io; ma la polizia comincerà a pensare a qualcuno di
loro soltanto dopo che si sarà accertata che i camerieri, gli sguatteri, i contadini della
zona, lei ed io non avevamo ragione al mondo per far fuori quel galantuomo...
Accertati, dico: e vedrà come... Ma forse per lei avranno dei riguardi».
«Anche perché» scherzai «non ho mai espresso l’intenzione di avvelenarli».
«Non mi ci faccia pensare: perché lei sta scherzando, ma la polizia, se gli arriva
all’orecchio una cosa simile, non mi molla più. La conosco, in; oh se la conosco…».
«Ha avuto a che fare con la polizia?».
«Sì, ma non per qualcosa che io ho fatto: per qualcosa che hanno fatto a me. Da
derubato. Derubato del portafogli, da uno sconosciuto cui avevo dato un passaggio.
Ho fatto la denuncia. E sa che hanno pensato?».
«Simulazione di reato».
«Appunto. Mi hanno torchiato per mezza giornata: sposato, sì; una relazione extra,
no; giuoco, mai giuocato; nemmeno al lotto, nemmeno al lotto; debiti, neanche di una
lira; quanto avevo nel portafogli, qualcosa come centomila lire; esattamente, non lo
so; impossibile, possibilissimo... E batti e ribatti su questo punto finché, esasperato,
ho detto al maresciallo “mi dica lei quanto ha nel portafogli, esattamente”. Ci ha
pensato un po’, ché non se l’aspettava, poi secco mi ha risposto
“trentasettemilacinquecento”. E io, ingenuamente “vediamolo”. È successo il
finimondo. Poi hanno chiamato mia moglie, e le hanno messo il dubbio che io
mantenessi un’altra donna. Insomma: ho passato un guaio. Da derubato. Figuriamoci
se vengono a sapere di quella mia frase... Ma don Gaetano mi conosce, e non gliela
riferirà; se poi qualcuno gliela va a soffiare, sono certo che mi difende».
«Ma si capisce» dissi: pentito di aver scherzato.
Don Gaetano rivenne fuori. Si fermò sulla soglia, batté le mani a richiamo, poi a
voce alta disse «Tutti qui».
Lentamente tutti si avvicinarono. Don Gaetano disse «La polizia sta arrivando... Mi
è stato raccomandato di non muovere il cadavere e di starne il più lontano possibile.
E che nessuno lasci l’albergo, naturalmente, o se ne vada a letto: ché lo farebbero
venir giù... Sedete tutti da questa parte, dunque: e cercate di ricordare quello che
avete visto o sentito al momento del colpo o poco prima. Più sarete chiari e brevi
nelle risposte, prima ci sbrigheremo». Di nuovo batté le mani, ma verso l’interno
dove i camerieri stavano aggrumati «Portate un lenzuolo per coprire il morto; e
accendete tutte le luci».
La luce venne in tre ondate: un crescendo accecante. Al margine dello spiazzale, il
morto apparve, dal mio punto di vista, in iscorcio, più morto; ma qualche momento
dopo due camerieri gli nevicarono sopra un lenzuolo. La notte si popolò di fitte danze
di moscerini, di gechi che strisciavano sui muri verso le lampade ora accese. Ne ebbi
come la rivelazione di un orrore fino allora invisibile. Anche il silenzio che si dislagò
mi parve fosse della qualità di quello in cui i gechi si muovevano. (Ho avuto sempre
ribrezzo dei gechi: e coloro che ne sostengono l’utilità nell’ordine della natura, in
quanto si nutrono di moscerini alle piante nocivi, debbono ammettere che il disordine
se non nell’esistenza dei gechi è da riconoscerlo nell’esistenza dei moscerini: e che
un miglior ordine sarebbe nella inesistenza e dei moscerini nocivi e dei gechi che li
divorano).
A un certo punto si levò, un poco tremula in contrasto con l’arrogante significato
delle parole, la voce del ministro «Don Gaetano, ha detto alla polizia che qui ci siamo
noi?».
«Noi chi?» disse don Gaetano con ferma e fredda voce.
«Ma noi… Noi tutti, insomma... Io, gli amici…». Il ministro era caduto
nell’imbarazzo.
«Ho detto che c’è lei: sì» disse don Gaetano, Ma come dicesse: ho dovuto
confessare che frequento cattiva compagnia. Mi piacque molto. E piacque anche al
cuoco, che mi diede di gomito.
Il ministro si afflosciò. La platea, poiché si stava disposti, guardando verso il morto,
come in platea, ristette in silenzio. Poi don Gaetano disse «Non voglio nemmeno
pensare che sia stato qualcuno di voi…». Tutti, improvvisamente, lo pensarono, che
era stato qualcuno di loro. A parte, si capisce, l’assassino. Si guardarono l’un l’altro,
quasi che ognuno potesse subito riconoscerlo nel proprio vicino, l’uomo che aveva
ucciso. «Penso» continuò don Gaetano «che avrà sparato qualcuno dal bosco: magari
per giuoco».
«Ghe gran figlio di...» mi sossurrò il cuoco, mentre dalla platea si 1evava un coro di
approvazione.
Non si era ancora spento che arrivò, rumorosamente, la polizia.
«Bene bene» disse il commissario a colpo d’occhio: noi tutti da una parte, il morto
bene isolato: per come aveva raccomandato. Si avvicinò a don Gaetano e gli strinse la
mano.
«Caro commissario» salutò don Gaetano.
«Che guaio» disse il commissario. E si diresse verso il morto seguito da don
Gaetano. Istintivamente mi alzai e andai anch’io; e il cuoco con me.
Il commissario sollevò il lenzuolo, guardò, sospirò; lo lasciò ricadere. «Chi è?»
domandò a don Gaetano.
«Il presidente della Furas, l’ onorevole Michelozzi… Eletto senatore, alle ultime:
ma si è dimesso per assumere la presidenza della Furas. Ottima persona: colta,
zelante, onesta…».
«E se ne può dubitare?» disse il commissario. Ma ci mise una vibrazione d’ironia,
come a dire: anche se volessi, non potrei.
«Già» disse don Gaetano, riflettendo quella vibrazione come un raggio su uno
specchietto e rimandandola al commissario col senso di: non c’è niente da fare, mio
caro, bisogna che tu ci strida.
«Il personale dell’albergo?» domandò il commissario.
Il cuoco mi diede un colpo di gomito alle costole.
«A posto» rispose don Gaetano. «Niente da dire, su nessuno».
«E qui nella zona?... Voglio dire: qualche contadino che ce l’abbia con lei, con
l’albergo... Non so...».
«Nessuno ce l’ha con me» disse don Gaetano, risentito. «E i contadini, quei pochi
che ancora ci sono, hanno avuto dei vantaggi, dall’albergo: vendono come di pollaio,
del loro pollaio, le uova che vanno a comprare in città, i formaggi, le verdure... La
gente viene qui, e quando se ne va si illude di portarsi a casa le buone e sane cose
della campagna».
«Ma a volte, qualche fanatico…».
«Lei allude alle storie che ci sono state quando ho inglobato l’eremo dentro
l’albergo... Ma no, tutto passato: i grandi guadagni fanno scomparire i grandi princìpi,
e i piccoli fanno scnmparire i piccoli fanatismi».
«Ma una ragione deve pur esserci... Cioè, lasciando stare la ragione: qualcuno deve
aver sparato. Perché per sparare hanno sparato, no?». Si voltò anche a me e al cuoco,
aspettando conferma.
«Pare di sì» disse don Gaetano.
«E chi?».
«Ma questo, caro commissario, penso che toccherà alla polizia di scoprirlo».
«Eh sì» disse il commissario, con un sospiro di rassegnazione «tocca alla polizia,
certo che tocca alla polizia... Solo che la polizia, qui, quando hanno sparato non
c’era…».
«E noi invece si, lei vuol dire... Ma mi creda: siamo nelle stesse condizioni della
polizia che non c’era; almeno tutti quelli che stavamo intruppati a recitare il
Rosario».
Il cuoco di nuovo mi diede di gomito.
«Tranne l’assassino» io dissi.
Don Gaetano mi guardò: al suo solito, come se non mi vedesse. E con profondo
stupore, quasi che la mia risposta l’avrebbe precipitato nel dolore o sollevato nella
speranza «Ma lei crede sia stato uno di noi, uno di quelli che recitava il Rosario con
me» calcando sul con me «a uccidere?».
«Mi dispiace: ma credo di sì».
«E perché?».
«Perché ho questa convinzione? Innanzitutto perché amando tirare di pistola e di
fucile ho, diciamo, un certo orecchio: e il colpo l’ho sentito opaco, attutito; come se
l’arma fosse stata appoggiata al bersaglio, al corpo. E mi sentirei di scommettere che
gli hanno sparato alle spalle e che la giacca, nel punto in cui è stato colpito, sarà
bruciacchiata».
«Non possiamo verificare subito, bisogna aspettare il procuratore e il medico» disse
il commissario.
«E poi?» don Gaetano domandò con la condiscendenza dell’esaminatore che ha già
deciso di bocciare il candidato.
«E poi, ma questa è una illazione, penso che se a tirare fosse stato qualcuno da
fuori, da lontano, dal margine del bosco, i colpi sarebbcro stati più di uno: due o tre,
per il divertimento di tirare sul mucchio».
«E se a qualcuno, appostato ai margini del bosco per cogliere il coniglio o la lepre,
fosse inavvertitamente scappato un colpo?».
«Questo tipo di caccia» spiegai «si fa al chiaro di luna, e la luna non c’è. Si fa col
fucile, e invece abbiamo sentito un colpo di pistola».
«L’ha sentito lei, il colpo di pistola. Io ho sentito un colpo che poteva essere di
pistola o di fucile o di stappo di champagne» precisò don Gaetano.
«Non è stato ammazzato da un tappo di champagne» disse il cuoco.
Mi sorprese che don Gaetano non reagisse all’ironia del cuoco. Disse «Già, già...» e
scomparve.
Arrivò il procuratore, e subito dopo il medico. Il procuratore ebbi l’impressione di
averlo già incontrato: ma non mi riuscì di ricordare quando e dove. Era come quando
si incontra uno che abbiamo conosciuto grasso, ed è magro; o magro, ed è grasso. Ma
il procuratore non era magro ne’ grasso. Quando il suo occhio cadde su di me, dopo
quella che nel loro gergo si dice ricognizione del cadavere, notai che nella sua mente
stava avvenendo quel che avveniva nella mia: dalla fissità dello sguardo, dal
movimento della mano sul mento. E quando, ad un certo punto, sentì dal cuoco il mio
nome, guardandomi come chi è arrivato per primo alla soluzione di un problema su
cui l’altro annaspa, mi disse «Ti ricnrdi? Prima b, anno 1941... O 42?».
«41 ... Sì, ecco, mi ricordo: Schembri».
«Scalambri» precisò.
«Già, Scalambri…».
«Dopo più di trent’anni... E credo ti avrei riconosciuto subito, in un altro posto: ma
qui!».
«Sei meravigliato di trovarmi qui. E anch’io, per la verità, di trovarmici…».
Mi prese familiarmente a braccetto. «Raccontami, raccontami…».
Cominciai a sentirmi in disagio. Ho sempre evitato, accuratamente, l’incontro sia
coi vecchi compagni di scuola sia con le donne amate nella giovinezza. L’incontro,
dico, a distanza di anni. E ora, al disagio di averne incontrato uno dopo più di
trent’anni, si aggiungeva quello del luogo in cui mi trovavo, della circostanza, della
fonziune che il mio vecchio compagno vi assumeva, della familiarità con cui mi
trattava. L’essere stati per alcuni mesi nella stessa aula, non significava poi tanto, in
ordine alle affinità, agli affetti. Due soli compagni avevano avuto importanza nei miei
anni di scuola: uno che avevo poi visto sempre, un altro che non ho più incontrato.
Eravamo, tutti e tre, a basso livello di rendimento scolastico; ma leggevamo tanti libri
che non avevano niente a che fare con la scuola, andavamo ogni sera al cinema, ci
confidavamo amori e disamori... Scalambri, per quanto ricordavo, era invece dei
bravi; e dei bravi che non passavano, da copiare, la versione dal greco o dall’italiano
in latino (e quest’ultimo era il compito che più odiavamo, come la più insensata delle
vessazioni).
Non avevo niente da raccontargli. Volevo invece, con lui, parlare di quel delitto. Ma
appena tentai di entrare in argomento, mi sfuggì. Noncurante, distratto: o, per regola e
abitudine professionale, fingendo; o perché realmente il suo interesse al caso, al
problema, non riusciva a disgiungersi dal fastidio di essere stato chiamavo a
quell’ora, in quell’ambiente di preti e nomini politici che gli imponevano una cautela
di indagini, uno scrupolo, una meticolosità al di là delle sue abituali (non potevo
dubitarne, mettendo sempre meglio a fuoco il ricordo di com’era a scuola).
Comunque, a interrompere il nostro colloquio, si avvicinò il ministro. Scalambri lo
riconobbe. Lasciò il mio braccio: e da quel momento in poi mi dimenticò.
Il ministro fu ossequioso fino all’estremo. E non meno il mio vecchio compagno.
«Signor procuratore» disse il ministro dopo i più arzigogolati, e contraccambiati,
conveuevoli «lei, immagino, vorrà sentire le impressioni di ciascuno di noi, poiché
nient’altro che d’impressioni credo che si sia in grado di riferire... Ma siamo tanti,
come vede... E non si potrebbe, mi permetto di chiedere, rimandare a domani mattina,
all’ora che a lei piacerà di stabilire...?».
«Ma certo, certo...» acconsentì precipitosamente Scalambri.
«La ringrazio» disse il ministro. Restò un momento assorto, a scrutare la faccia di
Scalambri come fosse una mappa su cui stentava a trovare un nome familiare, un
paese conosciuto. Poi sospirò lungamente; e in coda al sospiro lanciò l’esclamazione
«Che pasticcio».
«Non so nolla» disse Scalambri, guardingo. «Tranne, si capisce, quel poco che mi
ha detto il commissario: l’identità del morto, il colpo di arma da fuoco…».
«Un uomo di una correttezza, di una dirittura morale, di una coerenza…».
«Esemplari» completò Scalambri.
«Davvero esemplari» disse il ministro: come se senza il suo davvero l’esemplarità
corresse il rischio di sfaccettarsi d’incredibilità e d’ironia.
«Appunto perciò» osservò Scalambri «la fartenda ha tutte le possibilità di diventare,
come lei ha ben detto, un pasticcio... Come si fa, non dico a trovare, ma a immaginare
un movente?».
«Eh sì, ha ragione: non si può nè trovare né immaginare... Mi permetto di anticipare
che non c’è stato».
«C’è sempre, signor ministro, c’è sempre: futile, folle, invisibile all’occhio della
normalità; ma c’è sempre».
«Giusto» ammise il ministro «giusto: ma futile, ma folle... Non può che essere stato
vittima della follia, il povero caro Michelozzi». E il nome gli uscì come in un
singhiozzo.
«Un uomo insostituibile» disse Scalambri, ma tanto per mostrare al ministro che
partecipava al suo dolore.
«Insostituibile» fece eco il ministro; e mi suscitò nella memoria altra eco,
lontanissima: del gatto che nel gran libro di Collodi ripete sempre l’ultima parola
della volpe. «Pensi» continuò «che aveva lasciato il mandato parlamentare per
assumere la presidenza della Furas».
«Nobile sacrificio» disse Scalambri.
Già dalle prime battute mi pareva di stare a sentire del Ionesco. Ma il troppo è
troppo: e poiché i due si assorbivano l’un l’altro da far pensare a una coppia sulla
panchina davanti Saint-Germain, avviticchiata mentre intorno scorre l’ora di punta,
discretamente mi allontanai.
Ritrovai il tuoco, ancora inquieto. Lo iucoraggiai, gli diedi la buonanotte: e mi
ritirai nella mia camera, dove fino alle tre del mattino continuai a sentire il brusio, che
ogni tanto si impennava in voci impazieuti, dei poliziotti.
Mi svegliai alle nove. E dapprima con la sensazione di aver sognato quel che la sera
prima era accaduto. Ma ne presi subito coscienza e conferma aprendo la finestra:
c’erano poliziotti nello spiazzale, automobili grigioverdi della polizia; e dove
l’onorevole Michelozzi era caduto, c’era una sinistra sagoma disegnata col gesso e
una macchia di un rosso terroso, nella posizione e forma dei polmoni, dentro la
sagoma.
Degli ospiti dell’albergo, non se ne vedeva uno: se ne stavano ancora in camera,
come me, o continuavano i loro esercizi?
Quando uscii dalla camera, il silenzio dei corridoi mi fece pensare a un convento;
ma avvicinandomi all’ascensore, alle scale, sentivo un mormorio indistinto e
continuo, profondo, quasi sotterraneo.
Erano tutti nell’atrio, come stivati. In gruppi che sembravano ghirigori, nella
continuità tangenziale che si stabiliva tra l’uno e l’altro e infine tra tutti,
serpeggiando. Era come un disegno di Steinberg.
Percorrendo i ghirigori, appresi che il procuratore, nello studio di don Gaetano,
aveva già cominciato a interrogare. Aveva chiesto che si facessero avanti, per primi,
quelli che erano nella stessa fila dell’onorevole Michelozzi, quando l’onorevole
Michelozzi, dopo lo sparo, era caduto: ma nessuno si era fatto avanti. Il procuratore
aveva espresso, con misurate parole, la sua riprovazione: e totti gli davano ragione e
riprovavano. «Com’era possibile che uno non si ricordasse se aveva o no a lato il
povero Michelozzi?». Ma tant’è che questa domanda se la facevano anche quelli che
dovevano averlo avuto vicino: e dunque o effettivamente non se ne ricordavano o si
schermivano; a parte colui che aveva sparato, che aveva tutte le ragioni per
nascondersi. Comunque, il procuratore aveva cominciato a interrogare per ordine
alfabetico: e stavano lì ad aspettare la chiamata anche quelli della zeta, cui ad andar
bene sarebbe toccata a tarda sera.
Scalambri era stato tra i primi della classe, sarà magari stato tra i primi nel concorso
per magistrato, ma nel mestiere d’inquirente non era certo un’aquila. Avrebbe dovuto
cominciare da me e dal cuoco, che eravamo fuori; e poi procedere a una
ricostruzioine del quadrato, facendo appello alla memoria di ognuno. Così aveva
invece creato un certo panico, e tutti cercavano di defilarsi: propriamente.
Mi avvicinai alla porta dello studio di don Gaetano. C’era a guardia un poliziotto,
che credette di prevenirmi dicendo «Mi dispiace, ma deve aspettare che il signor
procuratore la chiami». Io non avevo avuto l’intenzione di passar quella porta, ma
l’impedimento me la fece venire. Tirai fuori il taccuino e vi disegnai, al modo di
Steinberg, il quadrato degli oranti; sotto scrissi: «bisogna ricostruire il quadrato». E
affidai il messaggio al poliziotto. «Glielo darò quando mi chiama» promise il
poliziotto.
Lo chiamò qualche minuto dopo. E vennero fuori in tre, dallo studio di don
Gaetano: Scalambri, il poliziotto e l’uomo che era stato appena interrogato. Costui si
tuffò subito tra i suoi amici come fuggendo da Scalambri: per mimetizzarsi, per
sparire. Il poliziotto mi indicò a Scalambri, ma questi veniva già verso di me agitando
il foglietto col disegno e dicendo «Me lo devi firmare». La richiesta, quasi gridata,
ebbe l’effetto di far tacere tutti. Si voltarono verso Scalambri aspettandosi, credo, di
vedergli in mano un assegno: ed ebbero la sorpresa di vedere invece un disegnino.
Ero sorpreso anch’io, ma diversamente. Più che abituato, stufo di setirmi chiedere
una firma - generalmente da parte di camerieri - per ogni scarabocchio che -
generalmente aspettando, e aspettando una donna - meccanicamente, per impazienza,
mi trovavo a fare su una salvietta di carta o un giornale, la richiesta di Scalambri mi
parve toccasse l’assurdità, la follia. Mi venne da rispondere come una volta Picasso a
una ragazza che voleva le firmasse un disegno che le aveva appena regalato: «eh no,
mia cara: questo disegno non vale niente, ma la mia firma vale un milione di
franchi»; ma mi contenni. Dissi «Ma no, è una cosa da niente, una cosa non mia:
sembra di Steinberg o di Flora; te ne farò uno con tutti i sacramenti». L’espressione
divertì Scalambri. «Con tutti i sacramenti: vedo che ti conformi all’ambiente». E poi
«Ma sul serio, me lo prometti?». «Te lo prometto». «Oggi?». «Oggi». Rassicurato,
ma ad ogni buon conto mettendosi il tasca il foglietto, mi domaodò «Vuoi dice che
bisogna far disporre questa gente così come era ieri sera per la recita del Rosario?».
«Esattamente».
«Hai ragione: interrogandoli uno a uno non si cava niente; già ne ho passati sei o
sette: non ricordano nemmmeno il loro nome». Si voltò al poliziotto e gli ordinò di
cercare il commissario; poi batté le mani a chiedere l’attenzione di tutti gli ospiti.
Quando l’ottenne, disse «Signori, mi sono reso conto che l’interrogarvi uno ad uno è
completamente inutile; farò perciò un tentativo per risvegliare la memoria di alcuni,
nella speranza che altri siano sollecitati o costretti a ricordare... Siete pregati di uscire
fuori e di disporvi come ieri sera, quando avete cominciato a recitare il santo
Rosario». E disse la parola santo così ambiguamente da valere per quelli un «sono dei
vostri» e per me tutta la sua viscerale irrisione al Rosario e a coloro che lo recitavano.
Ci fu una certa agitazione, qualche impennata di protesta indiretta e che Scalambri
finse di non sentire. Ma il commissario, che intanto era arrivato, cominciò coi
poliziotti a dare esecuzione all’ordine: e si muovevano come i cani dei pastori quando
debbono fare entrare il gregge nel recinto.
Tutti fuori, finalmente; e tuoi intorno a don Gaetano, che era improvvisamente
apparso. Come la sera prima, solo che il mutamento da cerchio a quadrato sarebbe
stato meno spontaneo e più difficile. «Immagino» mi sussurrò Scalambri «che tu non
stessi intruppato con loro: e dunque sei il solo che può aiutarmi».
«Non il solo; c’era il cuoco, seduto accanto a me».
«Portatemi qui il cuoco» gridò Scalambri.
Glielo portarono, stravolto di terrore che mi pentii di averlo tirato in ballo.
Scalambri, sul gradino dell’ingresso, era come un direttore d’orchestra sul podio.
«Voi due» al cuoco e a me «ai posti dove eravate ieri sera... Don Gaetano» più
morbidamente «cerchi lei di aiutarmi: chi stava con lei in prima fila, quando siete
partiti?».
«Sua eccellenza il ministro, sicuramente: e sicuramente il povero onorevole
Michelozzi».
«Michelozzi stava dunque in prima fila: almeno questo, finalmente, lo sappiamo»
disse Scalambri. «E poi, cerchi di ricordare chi c’era ancora, in prima fila... Quanti
erano, sulla prima fila?» rivolgendosi a me e al cuoco.
«Sette otto» io dissi.
«Sette otto» mi fece eco il cuoco.
«Sette otto» ripeté Scalambri. E implorante «Don Gaetano, eccellenza: cercate di
ricordare».
«Vediamo: io stavo alla destra di don Gaetano» disse il ministro «e alla mia destra
stava... Chi stava alla mia destra?».
«Io» gridò uno; e alzò la mano.
«Benissimo. Prenda nota, commissario: il professor Del Popolo alla destra di sua
eccellenza... E alla sua destra, professor Del Popolo?».
«Alla mia destra... Dio mio, chi si ava alla mia destra?».
«Io».
«Prenda nota: l’onorevole Frangipane alla destra del professor Del Popolo... E alla
sua destra, onorevole Frangipane?».
«Alla mia destra, l’ingegnere Lodovisi» rispose sicuro l’onorevole.
«Già» disse l’ingegnere facendosi avanti con la mano alzata.
«E alla sua destra, ingegnere Lodovisi?».
«Alla mia destra, nessuno». Quasi felice.
«Alla sinistra di don Gaetano» disse Scalambri con un sospiro che diceva
rassegnazione per sé e compianto per il defunto di cui stava per fare il nome «c’era
dunque il povero onorevole Michelozzi. Ma chi stava alla sinistra di Michelozzi?».
Galò un terribile silenzio. Poi tremula si alzò una voce, esitante una mano «Forse...
Non so... Mi pare…».
«L’avvocato Voltrano» constatò Scalambri.
«Sì, però...» disse l’avvocato.
«C’era o non n’era?».
«Sì, c’ero. Però…».
«Però?» Scalambri era diventato duro, brusco. «Niente, così: un’impressione».
«Che impressione?».
«L’impressione, ecco, di non averlo avuto sempre a lato».
«Come sarebbe?» Sralambri dava ora nel feroce.
L’avvotato Voltrano sembrò trovare la forza dell’innocenza. «Sarebbe che ho questa
impressione: di non averlo avuto sempre a lato».
«Ah» fece Scalambri: sospettoso, ironico.
«Naturalmente» mi trovai a dire. Senza volerlo.
Scalamri mi fulminò di un’occhiata. Non fosse stato per la passata dimestichezza e
per il disegno che gli avevo promesso, certo mi avrebbe fatto cacciar via. Si calmò e
rassegnò a un «Naturalmente che?».
Mi alzai, mi avvicinai a lui, me lo tirai in disparte. «Naturalmente, dico, perché i
casi, come sempre, sono due: o l’avvocato Voltrano ha fatto fuori Michelozzi e, nel
timore che presto o tardi scopriremo che gli stava alla sinistra, mette le mani avanti
fingendo di avere il dubbio che qualcuno si sia insinuato tra lui e Michelozzi; o
l’avvocato è innocente, e sta dunque dicendo la verità: che qualcuno ha manovrato in
modo da spostarsi cautamente dalla propria fila per trovarsi, quando giungessero
nella zona più buia, accanto a Michelozzi... Trova un altro, di altra fila, che abbia lo
stesso dubbio dell’avvocato, e cioè di non aver avuto a lato, ad un certo punto, quello
che gli era vicino alla partenza: e avrai in mano l’assassino».
Tanto era sensato, quel che dicevo, che Scalambri se ne urtò. Da primo della classe.
«Ma tu» mi disse con un sorriso di compatimento «sei un lettore di romanzi
polizieschi o addirittura li scrivi?».
«Li scrivo e li pubblico con pseudonimo» risposi con una serietà che lo lasciò
perplesso.
«Comunque, questo non è un romanzo» disse tornando ai suoi inquisiti. Ma da quel
momento, si mosse sulla linea che gli avevo tracciata.
Tutta la mattinata passò così: chi c’era alla sua destra, chi alla sua sinistra, se alla
sua destra o alla sua sinistra ognuno avesse avuto sempre la stessa persona. Tranne
quattro, con l’avvocato Voltrano cinque, tutti assicurarono che nessun mutamento,
nessuna sostituzione, era avvenuta alla loro destra o alla loro sinistra. Certo, non
potevano giurarlo sul Vangelo: il passaggio dalla zona illuminata alla zona buia,
l’intensa (dicevano) partecipazione al Rosario, il fattu che non potevano nemmeno
immaginare tra loro il delitto, e che si manifestasse proprio nel mnmento di quelle
umili e concordi preghiere (enciclica Supremi Apostolatus di Leone XIII, citata dal
ministro) che erano onorifico distintivo della cristiana pietà: tutto ciò aveva fatto sì
che la loro memoria pochissimo o quasi nulla registrasse di quello che ora il
magistrato pretendeva che ricordassero. In quanto ai cinque che avevano qualche
dubbio sulla permanenza ai loro lati delle persone che sicuramente c’erano quando
era cominciata la recita del Rosario, tutti si trovavano nella condizione dell’avvocato
Voltrano: fugaci impressinni, e null’altro. Nè sapevano o volevano indicare chi ad un
certo punto si erano trovati a lato invece del compagno con cui erano partiti.
Scalambri era furioso. Per come gli avevo suggerito, era riuscito, dopo quattro ore, a
ricostruire il quadrato (che non risultò poi un quadrato, ma un trapezio isoscele);
aveva trovato cinque persone che vagamente ricordavano di non avere avuto sempre
a lato, sulla destra o sulla sinistra, la stessa persona: ma la sua inchiesta era al punto
di partenza, nè si intravedeva la possibilità che almeno gli si materializzasse davanti
un indiziato qualsiasi, magari da prosciogliere poi in istruttoria. A tal punto era
furioso che, davanti al ministro e a don Gaetano, si lasciò andare a beffardi
apprezzamenti sulla fede e le pratiche di fede di tutti quei galantuomini che non
ricordavano.
Il ministro si rodeva, mordeva il freno. Calmissimo invece don Gaetano: e non
diceva parola. Soltanto a tavola, dopo la preghiera e la benedizione, sollecitato da
Scalambri, che stava alla sua sinistra (a destra io), cominciò a disgelarsi: ma evitando,
con impareggiabile perizia, di avvicinarsi al delitto, tutte le volte che Scalambri tentò
di condurvelo. Sapeva, secondo me; o almeno intuiva. E anche secondo Scalambri,
che quando ci alzammo da tavola mi suisurrò all’orecchio «Se questo pretaccio
parlasse...» in un rantolo di rabbia da mastino che non può addentate la preda.
«Che facciamo, signor procuratore?» si avvicinò a quel punto a domandare il
commissario.
«E che vuoi fare?» disse Scalambri. «Restiamo qui, ospiti dell’albergo di don
Gaetano: che esca qualcosa o non esca nulla, altro non possiamo fare che star qui, ad
osservare, a spiare».
«Posso parlare?» domandò il commissario accennando con l’occhio alla mia
presenza.
«Parli».
«Li arresterei tutti, don Gaetano compreso».
«A chi lo dice, caro commissario, a chi lo dice...». Con aria sognante.
«Tanto» incalzò il commissario «sono tutti nella condizione di quel tale che quando
gli lessero la sentenza di condanna disse “per tanti che ne ho fatto mai mi avete
incastrato, per questo che non ho fatto mi state condannando”. Non le pare?».
«Mi pare, caro commissario, mi pare...». E da sognante diventando imbambolato, e
in un barlume accorgendosene, Scalambri impastò «Ma oh, questo vino fa scherzi...
A letto, me ne vado a letto» e si allontanò malfermo, lasciandomi col commissario.
«E anche lui» borbottò il cummissario guardando Scalambri allontanarsi. Anche lui
da arrestare o anche lui che si metteva a complicare le cose, avendo bevuto più di
quanto doveva, dentro una situazione che richiedeva lucidità e prontezza. Ma subito
colto da preoccupazione, per la familiarità con cui Scalambri ed io ci trattavamo,
volle correggere e addolcire. «Anche lui, dico, come me: ha fatto un certo effetto
anche a me, questo vino... E si sa: dove c’è prete c’è buona cantina».
«Don Gaetano è un intenditore» dissi per stuzzicarlo. «Un vero intenditore».
«Non solo di vini: di tutto».
«Anche di delitti?».
«Di delitti in genere, non lo so. Certo, in confessione, fogne aperte ne ha viste... Ma
guardi: mi giuocherei i..., insomma: sarei disposto a scommettere qualunque cosa,
che di questo delitto qualcosa ha capito, qualcosa sa».
«Ne sono convinto anch’io».
Il commissario passò a un tono inquisitorio. «Lo conosce bene?».
«Non credo ci sia uno che possa conoscerlo bene».
«Già» approvò malinconicamente.
«È un uomo straordinario».
«Straordinario».
«Terribile».
«Terribile».
«Molto imstelligente».
«Molto intelligente, sì; terribile; straordinario... Ma guardi: se lo avessi tra le mani
per ventiquattro ore, ad interrogarlo come dico io, come so io, don Gaetano
vomiterebbe l’anima sua, se anima ha... E non pensi, per carità!, a maltrattamenti, a
torture... Lo farei soltanto scendere dal piedistallo, gli farei soltanto sentire che per
me lui sta alla pari del ladro di galline, del debosciato pescato coi suoi tre grammi di
eroina in tasca... Quando uno che si crede potente entra in un posto di polizia e si
sente ordinare di togliersi le stringhe dalle scarpe e la cintura dai pantaloni, crolla,
mio caro amico, crolla che lei non se lo immagina nemmeno».
«Anche don Gaetano?».
«Anche don Gaetano, e il papa, e domineddio... Provi a immaginare la scena: il
posto di polizia, una stanza squallida come la mia, quel tipico odore che Gadda fa
sentire così indelebilmente e che assale le narici ogni volta che si parla di polizia (e lo
sento anch’io nonostante gli anni di assuefazione); dietro la scrivania il commissario
che non si alza, che non fa il minimo gesto non dico di ossequio ma di saluto; il
brigadiere in piedi, che con indifferenza o addirittura disprezzo dice “signor Montini,
si tolga le stringhe dalle scarpe e la cintura dai pantaloni”... La fine, mio caro amico,
la fine».
«Mi piace di più immaginare la scena con domineddio al posto del papa».
«La immagini, la immagini…». Si allontanò sorridente ma subito tornò indietro
preoccupato. «Ma oh, mi raccomando: questo è uno sfogo che ho fatto a lei in
confidenza, perché so che lei la pensa come me».
Sorridendo d’intesa, e come per giuoco, domandai «E come la pensiamo, noi due?».
«La pensiamo che zac». E mosse la mano in semicerchio: a mietere, a decapitare. E
di nuovo sorridente, si allontanò.
Per la verità, da anni non mi avveniva di pensare che - zac - ci fosse da mietere, da
decapitare; e che un simile pensiero o vagheggiamento, in me spento, tanto
rigogliosamente germogliasse in un commissario di polizia, anche se celato, non avrei
creduto. Ma tante cose avevo perso di vista; di tanti mutamenti non mi ero accorto, di
tante novità. E non soltanto io: anche la gente che incontravo ogni giorno era nella
mia stessa condizione. Ministri, deputati, professori, artisti, finanzieri, industriali:
quella che si suole chiamare la classe dirigente. E che cosa dirigeva in concreto,
effettivamente? Una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili
d’oro.
Rimuginando desolatamente sulla ragnatela, sul filo d’oro cui ero appeso, e come
uno scostarsi di rami, un colpo di vento, potevano facilmente devastarla (e mi ero
fermato davanti a una ragnatela che brillava argentea, non aurea come la nostra, tra i
rami di un nocciolo: e scostai uno dei rami cui era attaccata, lo curvai verso di me per
poi lasciarlo andare come balestra; e vidi i fili d’argento spezzarsi e i ragni andarvi
giù e su come pazzi), mi ero avviato verso la radura dove negli altri giorni le donne
prendevano sole. Non c’erano. Andai oltre di un centinaio di metri: e
improvvisamente mi accorsi di don Gaetano che, seduto su una pietra rotonda, una
mola di antico frantoio o mulino, mi guardava fissamente ma, come al solito,
dandomi l’impressione che non mi vedesse. Mi avvicinai: e più sgradevole e
pungente ebbi l’impressione che non mi vedesse, che non volesse vedermi. Mi venne
perciò di rivoltarmi, di essere con lui sgradevole e pungente.
«Qualcuno le ha rivelato in confessione di aver commesso il delitto o di aver
testimoniato il falso?».
«Si sieda» disse don Gaetano indicandomi il posto accanto a sé, sulla mola.
Smontato, cercai di resistere. Recitai «Nessuno può saper da chi sia amato quando
felice in su la ruota siede». Ma mi calai accanto a lui, sulla pietra fresca, umida come
se trasudasse.
Il silenzio era vasto, reso ancora più vasto e consistente da un lontano orizzonte di
voci, motori, cani che abbaiavano. Facciamo una gara di silenzio, mi dissi: ché la
campagna, quella campagna, mi riportava all’infanzia, ai giuochi; tra cui erano quelli,
stanchi dei più movimentati, del non parlare, del non ridere, dello stare ad occhi
chiusi. Sapevo però che l’avrei persa. Infatti, dopo un po’ domandai «Che gliene
pare, di come conduce l’inchiesta il mio amico Scalambri?».
«Ah, è un suo amico?».
«Per niente, l’ho detto per come si usa dire: siamo stati compagni al liceo, non lo
vedevo da parecchi anni, nemmeno sapevo che fosse entrato in magistratura... Crede
che arriverà a un risultato?».
«E lei?».
«E come vuole che ci arrivi, poverocristo, indagando dentro questa specie di
congregazione?».
«Non dica poverocristo: di poverocristo ce n’è uno solo, ed è il Cristo... E sbaglia di
grosso a credere che questa sia una specie di congregazione: è un canestro di vipere».
«Si stanno mordendo tra loro?».
«E non se ne accorge?».
«Non ho l’occhio così esercitato da accorgermene... In ogni caso, non si
morderanno a beneficio del povero Scalambri».
«E chi lo sa? Basterà, forse, tirarle fuori dal canestro e vedere chi ha meno morsi».
«E chi ne ha di meno è colpevole, immagino».
«Immagini quello che vuole».
«E lei?».
«Io che?».
«Lei non farà niente perché Scalambri risolva il problema?».
«Il problema è di Scalambri. Non può e non deve essere mio».
«Ma la giustizia, la colpa, l’espiazione...».
«No». Fermamente. Poi, come estraendo le parole da una remota lontananza, in uno
stato di divinazione «Veda: credere che Cristo abbia voluto fermare il male è l’errore
più vecchio e più diffuso del mondo cristiano. “Dio non esiste, dunque nulla ci è
permesso”. Queste grandi parole, nessuno ha mai veramente tentato di rovesciarle:
piccola, ovvia, banale operazione. “Dio esiste, dunque tutto ci è permesso”. Nessuno,
dico, tranne Cristo. E nella sua vera essenza, questo è il cristianesimo: che tutto ci è
permesso. Il delitto, il dolore, la morte: crede sarebbero possibili, se Dio non ci
fosse?».
«Dunque il trionfo del male…».
«Non il male, non il trionfo del male: bisognerebbe decollare da queste parole, dalle
parole... Eppure non abbiamo che parole... Bisognerebbe entrare nell’inesprimibile
senza sentire la necessità di esprimerlo... Ma lei, capisco, non sa che farsene
dell’inesprimibile; e dunque scendiamo... Scendiamo, ecco, alle antiche accuse, alle
antiche difese. A Tertulliano, per esempio, che tanto disperatamente quanto
inutilmente tentò di difendere i cristiani dall’accusa di essere totalmente sterili nella
vita pubblica: “Pratichiamo anche noi il foro, i mercati, i bagni, i negozi, i magazzini,
gli alberghi e ogni altro vostro commercio; con voi coabitiamo nel secolo...”.
Giustissimo: solo che per noi il secolo, il mondo, è ben altra cosa. È l’orlo
dell’abisso: dentro di noi, fuori di noi. L’abisso che invoca l’abisso. Il terrore che
invoca il terrore. Perciò voi, giustamente, ci temete: e aveva torto Tertulliano a
chiedersi di non temerci, a rassicurarvi; mentre aveva ragione a concludere che nella
misura in cui voi ci condannate, Dio ci assolve».
«Voi chi?».
«Voi che vedete il secolo, il mondo, regolato dal foro; e il foro da Dio, anche se
chiamate Dio con altri nomi».
«E scendendo ancora, lei che cosa mi dirà? Che di questo omicidio accaduto qui, tra
i suoi ospiti; del fatto che uno dei suoi ospiti è stato ammazzato e che un altro,
assassino, molto probabilmente non pagherà, a lei uon importa nulla... Mi dirà
questo?».
«Potrei anche dirglielo. Ma sto soffrendo».
«E perché?».
«Perché c’è una parte di me ancora esposta, ancora scoperta; ancora vulnerabile, se
vuole».
«E non è la parte migliore, mi pare di capire».
«Ecco che lei torna alle parole che decidono, alle parole che dividono: migliore,
peggiore; giusto, ingiusto; bianco, nero. E tutto invece non è che una caduta, una
lunga caduta: come nei sogni...». L’ultima parola restò come imbevuta dall’aria, dagli
alberi, da me stesso: sicché quando mi ritrovai solo, seduto su quella pietra rotonda,
intorpidito, mi parve di essere stato colto per un momento dal sonno e di aver
sognato; e forse più che per un momento.
Mi alzai e mi incamminai verso l’albergo. E già prima di arrivarci, dai rumori, dalle
voci, capii che qualcosa di nuovo era accaduto.
Era accaduto che l’avvocato Voltrano, volando, si credeva, dalla finestra della sua
camera, all’ottavo piano, era andato a spiaccicarsi su un mucchio di mattoni e tegole:
dietro l’albergo, dalla parte su cui davano le cucine, Il cuoco, che stava a
sonnecchiare su una sdraio, si era svegliato al rumore: e dapprima non vide, ché da
sdraiato non vedeva tutta la superficie del mucchio; poi, vedendo qualche mattone
ancora scivolare, alzandosi scoprì quel corpo in pigiama che, a faccia sotto, ancora
strattava: e diede un tale grido che tutti, anche quelli che avevano camera dall’altra
parte, lo sentirono. Lo sentì anche Scalambri, attraverso la fitta nebbia del sonno da
vino: ed era lì, ora, dalla parte delle cucine, ormai ben sveglio, arrabbiatissimo,
vociante.
Pallido, il mento che gli tremava, il cuoco era circondato da aiutanti e sguatteri; uno
dei quali, di tanto in tanto, gli porgeva un boccale di vino. Il cuoco lo prendeva a due
mani, ché con una non ce la faceva per il tremore, beveva un breve sorso e lo
restituiva. Quando il commissario se ne accorse, gridò che stavanso ubriacandoglielo:
e a lui serviva con la mente netta. A mezza voce il cuoco sgranò bestemmie: alla
Madonna, ai santi più familiari. «La mente netta! E perché io la debbo avere, la
mente netta? Che c’entro, che so? Io sono stato svegliato da un rumore e ho visto
uno, in pigiama, che si muoveva su quei mattoni come una lucertola quando è presa
alla testa da un colpo di fionda. E questo è tutto». Allungò la mano verso il boccale e
subito la ritrasse, bestemmiando ancora. «E non posso nemmeno bere un sorso di
vino».
Il giovane prete zazzeruto mi si avvicinò. «È sconvolto, poveretto: mai lo avevo
sentito bestemmiare». A giustificare il cuoco e l’albergo. E poi «Il povero avvocato
Voltrano: lei lo conosceva?».
«No».
«Un uomo di valore: Sacra Rota, sciogliomenti di matrimoni; ma negli ultimi anni
si era dedicato alla politica; così, senza apparire molto: ma con abilità, con prestigio...
Poveretto, ogni anno che veniva si raccomandava tanto: “per favore, una camera
all’ultimo ptano”. E l’accontentavamo sempre».
«Anche quest’anno» constatai.
«Già, anche quest’anno». Ed ebbe come un brivido.
«Ma non abbia rimorsi, per averlo accontentato: sarebbe morto anche cadendo dal
settimo o dal sesto. O stando al primo piano, senza la formalità di gettarlo sotto».
«Ma lei erede che l’hanno ammazzato?».
«Lei no?».
«Dio mio, un altro!».
«Quando una cosa si comincia, tutto sta nel continuarla».
«Ma il delitto...».
«Appunto nel delitto non ci si può fermare».
«Lei crede dunque che ce ne saranno altri?».
«Ma no: qui ed ora è possibile che tutto si sia concluso. Non ci si può fermare,
intendo, finché non si eliminano gli errori, gli incidenti, le sbavature che si sono
verificati commettendo il primo; e poi, correggendo con altro delitto, quelli che
ancora, imponderabilmente, insorgono; e così via... Questo, ovviamente, nei delitti il
cui autore ha tutto calcolato per riuscire all’impunità. E poiché non c’è calcolo che
non abbia un margine in cui l’imponderabile, il fortuito e insomma la fortuna non
giuochino un ruolo fatale... E siamo appunto a questo caso: se l’avvocato Voltrano,
stamattina, non avesse manifestato il dubbio, l’impressione, di non avere avuto
sempre, durante la marcia del Rosario, 1’onorevole Michelozzi a lato, sarebbe ancora
vivo».
«Dunque lei crede che per quello che ha detto stamattina…».
«O per quello che non ha detto».
Il commissario doveva avere nelle orecchie invisibili tentacoli se lontano com’era, e
tutto occupato come pareva a risolvere il problema di come l’avvocato Voltrano
poteva esser caduto dalla propria finestra sul mucchio di mattoni, se c’era uno scarto
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di almeno dieci metri (un agente stava alla finestra della camera di Voltrano, e stava
calando giù una pietra appesa a un filo), colse le due ultime battute e mi gridò
«Giustissimo: per quello che non ha detto... Ed è stato buttato giù dalla terrazza, lo
vede?, non dalla finestra della sua camera».
«E che vuol dire?» domandò il prete.
«Vuol dire, mio caro amico, che sulla terrazza l’avvocato Voltrano c’è andato da sé;
e c’è andato perché aveva appuntamento con la persona che l’ha ammazato».
«Commissario, la prego: tenga per sé, e per me, ogni deduzione» intervenne
duramente Scalambri.
«Mi scusi, signor procuratore, mi scusi: ma si è data una curiosa coincidenza... Il
suo amico, qui, stava avanzando una ipotesi proprio nel momento su cui io, che
l’avevo fatta per mio conto, stavo verificandone la giustezza... Nemmeno la fisica è
un’opinione: lo vede?». Mostrò l’agente che stava alla finestra, tra le mani il capo del
filo da cui la pietra, a un metro dal suolo, lontana dal mucchio di mattoni, oscillava.
«Ma il mio amico, lei non lo sa, scrive romanzi polizieschi» disse placato, e
scherzosamente, Scalambi. «Non è soltanto il grande pittore che tutti conosciamo... E
a proposito: il disegno? Come disse Orazio, promissio boni viri est obligatio... O è
Trilussa che l’attribuisce ad Orazio per far rima con obligatio?».
«Non mi ricordo: tu sai che di latino, io…».
«Io l’amavo, invece, l’amavo». Sospirò di malinconia dietro la sorte che da
Cicerone e Lucrezio lo aveva distolto per condurlo ad investigare su due delitti
misteriosi, tra gente potente e malfida. «E il disegno, dunque?».
«L’avrai stasera o domani. Tanto, per come si son messe le cose, da qui né tu né in
ti muoviamo».
«Siamo come una carovana impantanata».
«Signor procuratore» interruppe il commissario «vuole venire anche lei sulla
terrazza? Credo che una ricognizione…».
«Certo certo» disse Scalambri. E come lasciandosi andare a una generosità per lui
eccezionale e per me insperabile «Vieni anche tu».
Con l’ascensore fino all’ottavo piano; poi, per una scaletta incassata come in una
botola, uscimmo sulla grande terrazza a mattonelle smaltate, accecante di sole.
Nel punto vicino alla ringhiera da cui, in precisa perpendicolare, l’avvocato
Voltrano era andato a piombare sul mucchio di mattoni, c’erano macchie di sangue.
«Perfetto» disse il commissario. Soddisfatto di sé, contento. Si fregò le mani,
persino. «E ora dobbiamo trovare l’oggetto» guardandosi intorno «con cui quel figlio
di puttana lo ha colpito».
«Io penso» dissi timidamente «che l’oggetto non cui l’ha colpito, l’assassino l’avrà
buttato giù: e subito dopo aver dato il colpo, o i colpi. Appena ha visto l’avvocato
afflosciarsi. Non poteva tenersi l’oggetto in mano, mentre buttava giù l’avvocato».
«Poteva posarlo, nel dubbio che l’avvocato si riprendesse: per servirsene ancora»
obiettò il commissario.
«Giusto. Ma che abbia buttato giù prima l’oggetto e poi l’avvocato o prima
l’avvocato e poi l’oggetto…».
«In ogni caso, lei dice, l’oggetto l’avrà buttato giù... Eh sì, non se lo sarà portato in
camera». E dalla meditazione passando all’azione «Corro a cercarlo».
«E lo cerchi un po’ più lontano di dove è caduto l’avvocato» gli gridai dietro, ormai
sicuro di me.
Restammo, sulla terrazza battuta da un sole che sarebbe stato feroce senza il vento
che dolcemente vi mulinava, Scalambri ed io (l’agente di guardia alla scala, lontano e
dava l’impressione dormisse all’impiedi, come i muli); e mentre guardavamo giù,
aspettando che vi comparisse il commissario, con aria confidente e condiscendente,
Scalambri mi disse «Vedi: a me di come è avvenuto questo secondo delitto, del
mattone o della grasta con cui Voltrano è stato colpito, importa poco o nulla. Mi
importa sapere perché Voltrano è stato ammazzato. E lo so. Voltrano è stato
ammazzato perché sapeva chi era l’assassino di Michelozzi e voleva ricattarlo».
«Ma questo lo sai dal momento in cui è stato accertato che l’incontro tra l’assassino
e la sua seconda vittima è avvenuto qui, sulla terrazza. Se Voltrano fosse stato
aggredito nella sua camera, buttato giù dalla finestra della sua camera, questa
certezza non l’avresti».
«D’accordo, d’accordo: non avrei la certezza. Ma il dubbio che l’avvocato sapesse
qualcosa di più di quello che ha detto, e volesse servirsene a ricattare l’assassino, ce
l’ho fin da stamattina».
«Io invece, stamattina, ho creduto fosse sincero: che non sapesse niente di più di
quello che ha detto, che non ricordasse...».
«Ti è parso sincero, in confusione, quasi mortificato dal fatto di non poter dire di
più, di non poter ricordare meglio... Ma quello era un uomo che la verità non la
diceva nemmeno su quello che aveva mangiato a pranzo o sull’orario dei treni.
Sistematicamente. E se ha detto quello che ha detto, fingendo come per te, non per
me, ha saputo fingere, uno scopo doveva averlo di certo. E sai che ti dico? Molto
prubabilmente lui non ha visto niente: si è inventata quell’impressione, ha finto di
avere quel vago ricordo, in base a un calcolo che avrà immediatamente fatto, di fronte
alla ricostruzione che noi stavamo facendo... Poco fa io ti ho detto che stamattina mi
era venuto il dubbio che l’avvocato sapesse. Stavo sbagliando: l’avvocato non sapeva
niente. Ma appena ha afferrato che, stando alla sinistra di Michelozzi, qualcosa
poteva aver notato, ha calcolato che dicendo di avere avuto quell’impressione, di
qualcuno che si fosse insinuato tra lui e Michelozzi, quel qualcuno, conoscendolo,
avrebbe fatto di tutto per fermare la sua memoria; di tutto, cioè, per compensare in
favori e denaro il suo silenzio, come tra loro usano... Non ha calcolato, però, che uno
che ha già commesso un delitto facilmente, nel panico, può commetterne un altro».
«Tu lo conoscevi bene, mi pare».
«Benissimo, lo conoscevo benissimo. Mi ha dato più fastidi lui che tutti costoro
messi insieme. Astuto, perfido; e di una tenacia, nei suoi disegni più perfidi... Una
volpe: e si è finalmente imbattuto in un lupo».
«Dunque, secondo te, stamattina, dicendo quello che ha detto, Voltrano gettava
l’amo alla cieca, senza sapere chi avrebbe abboccato».
«Ne sono quasi certo, ora».
«Stamattina, invece, hai pensato che lui sapesse già chi sarebbe corso all’esca... Ma
che sapesse o no, tenerlo d’occhio si poteva, sorvegliarlo discretamente…».
«Quel cretino del commissario! lo glielo avevo detto che Voltrano non mi
convinceva... Comunque, questo secondo delitto soltanto fortuitamente, per caso, può
condurci al colpevole; il problema vero, quello in cui cercare i dati per risolverli tutti
e due, è il primo. Il movente del secondo è chiaro: il ricatto. Ma è un movente che
non ci conduce al colpevole. Se invece troviamo il movente del primo, il colpevole
l’abbiamo in mano... Il fatto è, però, che di moventi, tra questa gente, ne puoi trovare
a migliaia. Ce ne sono tanti, e così gravi, che è un miracolo non si azzannino e
scannino qui, sotto i nostri occhi».
«Problema insolubile, dunque».
«Non è detto... Vedi: c’era in Michelozzi una particolarità, qualcosa di diverso
rispetto a questi altri. Era sì un ladro, uno che, in altri tempi, avrei rubricato mille
volte per malversazione e peculato, per corruzione, per tutti quei reati che i legislatori
hanno constatato o previsto in rapporto all’amministrazione del denaro pubblico; ma
per la morale corrente, per la prassi oggi in uso, era considerato strenuamente onesto:
e soltanto perché pochissimo, o addirittura nulla, rubava per sé. Tutti costoro
possiedono case, ville, aziende agricole modello; hanno la loro parte in piccole,
medie e grandi industrie; da anni portano denaro in Svizzera, a centinaia di milioni, a
miliardi: Michelozzi no: non possedeva una casa né un pezzo di terra; stava a
pensione da suore e frati; si dice che persino distribuisse ai poveri parte del suo
stipendio... Come facesse poi a trovare i poveri, non lo so... La sua diversità,
insomma, consisteva in questo: che nessuno di costoro poteva ricattarlo con la
minaccia di rivelare le sue malversazioni e corruzioni, e per il semplice fatto che tutti,
dico tutti, dai reati commessi da Michelozzi hanno cavato vantaggi. Il corrotto non
può provocare rovina sul corruttore senza restare sepolto dalle stesse macerie».
«Non potendo dunque ricattarlo…».
«Ma si poteva far leva su altre cose, sollecitare interventi autorevoli... Per esempio:
don Gaetano. La coscienza di tutti costoro, don Gaetano la maneggia e modella come
cera; e se don Gaetano avesse detto a Michelozzi di fare o di non fare una certa
azione in favore di colui che si è trovato invece costretto a commettere due omicidi...
Ecco, mi è venuto di dire invece: invece di raccomandarsi a don Gaetano... Ed è
possibile che prima di decidersi a un’azione così estrema, così disperata, e così
rischiosa, l’assassino non abbia giuocato la carta di raccomandarsi a don Gaetano?...
Ah, ecco finalmente un punto fermo: don Gaetano sa tutto. Ci sono arrivato».
«E ci resterai».
«Eh sì, lo so: ma debbo tentare».
Da giù, ce ne eravamo distratti, il commissario gridava esultanza: aveva trovato, e
l’agitava in alto (una cosa rossastra che faceva corolla al centro di una salvietta
bianca), il curpus delicti.
Scalambri tentò. Per circa tre ore. Ne uscì stanchissimo, vinto. Da quel che mi
raccontò, don Gaetano aveva eluso e deluso ogni sua domanda vaporizzando dottrina
cristiana. «Come un gas» diceva Scalambri «come se avessi aperto il rubinetto del
gas e mi fossi seduto lì, ad aspettare che mi stordisse... Ipocrita, delinquente…». Ma
stancamente, non aveva nemmeno la forza di essere arrabbiato. Soltanto si animò
quando il commissario, poco prima di scendere in refetturio, gli disse di aver saputo
che nell’albergo c’erano state, fino al momento in cui era stato ammazzato
Michelozzi, cinque donne: ed erano scomparse.
«E me lo dice ora?» rimproverò Scalambri.
«Ora l’ho saputo e ora glielo dico».
«Prima, avrebbe dovuto saperlo. Subito. Appena arrivato» incalzò Scalambri.
Il commissario allargò le braccia, reclinò la testa sulla spalla sinistra: un crocefisso.
«È una cosa senza importanza» dissi, in soccorso al commissario. «Sono sicuro che
non hanno niente a che fare coi delitti; e se sono scomparse, se le hanno allontanate la
sera stessa, senza che ce ne accorgessimo, si può solo dedurre che don Gaetano si è
preoccupato di quel tanto di scandaloso, di boccaccesco, che poteva venirne fuori».
«Appunto» disse Scalambri, sorridendo malizia e vendetta «appunto...». Si capiva
che avrebbe usato l’argomento a convincere don Gaetano a dirgli qualcosa sul delitto;
o soltanto per vendicarsi. E non resistette al piacere di dargliene avviso a tavola.
Maldestramente: ché don Gaetano, apprendendo che Scalambri sapeva delle donne e
minacciava di farne scandalo, prese immediatamente le sue misure e si mostrò pronto
al contrattacco.
Come per improvvisa e disinteressata curiosità, Scalambri aveva cominciato col
domandare «Ma questo è un albergo o, che so, una specie di monastero, di asilo?».
«È un albergo che periodicamente diventa, come lei dice, una specie di monastero».
«Ma, dico, è gestito come un albergo, no?».
«Che vuol dire: gestito come un albergo?». Don Gaetano era già attento, guardingo.
«Voglio dire: è tenuto ad osservare le stesse norme di legge, lo stesso regolamento
di polizia, che osservano gli alberghi non gestiti da enti ecclesiastici o da religiosi?».
«Non lo so» disse don Gaetano.
«Ma qualcuno lo saprà, immagino».
«Certo». Suonò il campanellino che aveva davanti, e nel silenzio che subito si fece,
chiamò «Padre Cilestri…».
Dal suo tavolo, il chiamato si alzò. «Resti, resti dov’è» disse don Gaetano. «Dica
soltanto, al signor procttratore che vuol saperlo, se noi siamo tenuti a schedare i nostri
ospiti e a mandare copie delle schede alla polizia» e abbassando la voce e
rivolgendosi a Scalambri «ché immagino sia questo che lei vuol propriamente
sapere».
«Siamo tenuti» disse padre Cilestri.
«Grazie» disse don Gaetano. E a Scalambri «Siamo tenuti, dunque; ma dubito molto
che padre Cilestri l’abbia mai fatto».
«E perché?».
«Come, perché» si risentì il ministro. «Ma perché, caro signor procuratore, qui
siamo sempre tra noi: come in una specie di monastero, per usare la sua giusta
espressione».
«Una specie di monastero; ma non è un monastero».
«Non lo è di forma, ma lo è di fatto. Ci raccogliamo qui, ogni anno, in tre o quattro
turni, per meditare, per pregare...». Il ministro sembrava aver dimenticato i due
delitti. E chi avrebbe avuto l’indelicarezza di ricordarglieli?
L’ebbe il commissario, dopo aver constatato, girando lo sguardo, che nessuno era
pronto, chi sbalordito chi timoroso, al sacrificio. «Due delitti, eccellenza, due». (Mi
disse poi «Me ne fotto: io tra due mesi vado in pensione»).
Il ministro arrossì di collera, ma si contenne. «Lei, signor commissario, può tenersi
la sua opinione; ma non ha nulla, non una prova, non un indizio, per contrastare la
mia. Che è questa: nessuno di coloro che siamo qui, in questa sala, ha commesso i
due delitti».
«Lei dice: nessuno dei presenti» intervenne Scalambri.
«Proprio: nessuno dei presenti».
«Dei presenti» fece eco, con intenzione, Scalambri.
«Dei presenti» ribadì il ministro, ma con qualche esitazione, come sospettando una
trappola. E poi, preoccupato, rivolgendosi a don Gaetano «Manca forse qualcuno?».
«Nessuno» disse don Gaetano con esasperata fermezza. E fissò Scalambri d’uno
sguardo che lentamente, come un obiettivo, si restringeva a diventate, da spento che
sembrava, acuto e rapido; e al mutamento dello sguardo si accompagnava un
movimento della mano destra, a somiglianza della zampa di un gatto nel giuoco di
tirar fuori le unghie e di ritirarle.
«E poiché nessuno manca» continuò il ministro «confermo e sottoscrivo la mia
opinione: l’assassino non è tra noi».
Poiché aveva alzato la voce e, dal momento che don Gaetano aveva chiamato padre
Cilestri, tutti stavano in silenzio a seguire quel che si diceva al nostro tavolo, le parole
del ministro furuno salutate da un coro di «benissimo, giustissimo, bravo» e poi da un
battimano frenetico e prolungato.
Quando si spense, il ministro disse «Mi fa piacere notare che tutti condividiate la
mia opinione» sollevandosi sulla sedia e facendo un quarto di giro verso destra e un
quarto verso sinistra.
«Aveva il dubbio che qualcuno fosse di diversa opinione?» disse don Gaetano,
beffardo. Fu come se gli avesse gettato in faccia un secchio di acqua diaccia. Al
ministro mancò il respiro, annaspò a dire qualcosa. Ma non la disse.
Peraltro, don Gaetano era passato subito a dire, per cambiar discorso, e cioè per
tornare a quello tra lui e Scalambri «Sì, temo proprio che padre Cilestri abbia sempre
trascurato il dovere di trasmettere alla polizia le schede dei nostri ospiti... È una
infrazione grave?».
«Per un qualsiasi gesture d’albergo, gravissima».
«Lei vuol dire che io non sono un qualsiasi gestore d’albergo? La ringrazio».
«L’ha detto sua eccellenza» disse Scalambri indicando il ministro.
«Ma io lo dicevo così, come opinione personale, senza sapere, senza conoscere; e
soprattutto senza la più lontana intenzione di immischiarmi, di interirire... Del resto,
non sono ministro dell’Interno o della Giustizia; mi occupo di ben altre cose, per mia
fortuna».
«Non intendeva elargirci immunità» concluse don Gaetano. «Piuttosto, lasciando da
parte la gravissima infrazione in cui siamo caduti, in cui sono caduto, voglio dirle, ma
convivialmente e, spero me lo conceda, amichevolmente, i pensieri che mi sono
venuti quando lei ha fatto la prima domanda ex abrupto; e s’intende che uso
1’espressinne con malizioso richiamo al procedimento cui una volta dava nome...
Una volta: convenzionale e immeritato omaggio al nostro tempo, poiché ogni
procedimento diciamo di giustizia si è svolto e si svolge sempre ex abrupto, anche se
diluito nei tempi e nelle modalità... Quando lei, dunque, ha fatto la prima domanda:
se questo è un albergo o una specie di monastero (e credo sarebbe stato più esatto
domandare se è un albergo o una sede di confraternita), io ho subito pensato…». Fece
una pausa, come aspettando che Sralambri gli desse il permesso di continuare. E di
essergli amico.
«Dica» incoraggiò Scatambri. Ma con una certa inquietudine.
«Ho pensato, ecco: siamo a tavola a spezzare lo stesso pane e a bere lo stesso vino;
ma lui non dimentica di essere inquisitore e giudice come io non dimentico di essere
prete... Che terribili missioni, le nostre! Terribili e necessarie: e direi che sono
terribili nella misura in cui sono necessarie, e necessarie nella misura in cui sono
terribili... Siamo i morti che seppelliamo altri morti... Dio mio!». Si prese la testa tra
le mani, i gomiti puntati sulla tavola, e coprendosi gli occhi come per vedere dentro
di sé tanta terribile necessità.
Fece un certo effetto. Anche su di me, debbo ammetterlo. Solo il cummissario restò
a sogguardare con ironia lui e noi.
Quando don Gaetano riemerse tra noi, lasciando cadere le mani a palma in su, quasi
a mostrare le stigmate della crocefissione da cui scendeva, disse «Ma come mi
spaventa l’essere prete, di più mi spaventerebbe l’essere giudice... Le parole di Cristo
sono tremende: “Non giudicate, affinché non siate giudicati”. Non proibisce il
giudicare, ma lo pone in diretto e inevitabile rapporto con l’essere gindicati. “Leva
prima la trave dat tuo occhio, e allora avrai la vista capace per togliere la pagliuzza
nell’occhio del fratello”. E noti: la trave nell’occhio di chi giudica, la pagliuzza
nell’occhio di chi è giudicato. Non avrà voluto intendere che solo i peggiori
giudicano, scelgono di giudicare, possono giudicare, in forza delle loro colpe, della
loro colpa, ma dopo essersene confessati e liberati?». Scalambri stava in penosa
attenzione e tensione; e per concedergli tregua, come il gatto col topo, don Gaetano
divagò. «La trave: dalla prima volta che ho letto questo passo o che l’ho sentito,
sempre ho pensato a Polifemo accecato da Ulisse, a Poliferno che si strappa
dall’occhio la trave fumigante... E chissà se a Gesù non sarà accaduto di sentire da un
qualche cantastorie l’avventura di Ulisse, o da un mercante... Pensi quanto poco noi
conosciamo della vita di Gesù: come se ciascuno di noi trovasse dei testimoni della
propria vita dal momento in cui io sono stato ordinato sacerdote, lei è entrato nella
magistratura, il commissario nella polizia, il professore» indicando me «ha fatto la
sua prima mostra; e così via... E la nostra vita conta sì per il fatto che io sono prete,
lei giudice, il commissario cummissario e il professore pittore: ma l’infanzia,
l’adolescenza, i luoghi in cui siamo vissuti, le persone tra cui abbiamo passato
l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza? E i libri che abbiamo letto, e gli amori, e gli
inganni? E possiamo anche fare a meno dell’adolescenza e della giovinezza: ma un
uomo è quale i primi dieci anni di vita lo hanno fatto; e nulla sappiamo di lui se nulla
sappiamo di questi suoi dieci anni... Naturalmente, la vita di Gesù non ha niente a che
fare con la nostra: di lui ci bastano gli anni folgoranti, gli anni testimoniati; ma io
sono stato sempre affascinato dai suoi anni oscuri, e sempre mi hanno dato alla
fantasia». E a Scalambri «Come è stata la sua infanzia? Felice, infelice? Spero per lei
che sia stata infelice, le infanzie felici germinano noia, tristezza, nequizia…». E
subito riprendendosi e rimproverandosi «Non la consideri una domanda e non mi
risponda. È un mio vizio: quando una persona comincia a interessarmi, ecco che gli
faccio delle domande sulla sua infanzia... Ma qui è lei che deve far domande, non io.
Io stavo invece dicendo…». Restò come ad aspettare da noi, suggeritori nella buca, il
punto cui riannodare il discorso che stava facendo. Ma sapeva benissimo ritrovarlo da
sé. E infatti «Dicevo del giudicare; dell’inquisire e del giudicare. E che Cristo avrà
voluto forse affermare che solo i peggiori possono assumersi un simile compito;
soltanto gli ultimi essere in questo i primi... Ma, per carità!, non veda in questo mio
divagare la minima allusioue personale. Io di lei non so nulla. Nulla, assolutamente»
e lo disse fissandolo, e come se invece sapesse tutto. «E d’altra parte, i termini
peggiori e migliori io li pronuncio in senso evangelico: appunto dei primi che saranno
gli ultimi, degli ultimi che saranno i primi». Stese la mano, lentamente, la planò su
quella di Scalambri. La faccia gli si illuminò di benevolenza, di affetto. «Non so nulla
di lei» e ancora si fermò sul nulla a farlo diventar tutto «ma le voglio bene».
Scalambri si alzò da tavola che sembrava tutt’altro uomo. Si appoggiò anzi al mio
braccio con una certa pesantezza, come malfermo. E quando il commissario si
avvicinò a chiedergli sottovoce «Signor procuratore, diamo dentro a questa faccenda
delle donne scomparse?» lui, di un tono più alto del neeessano, a farsi sentire da
coloro che intorno a noi, senza parere, sempre si aggiravano, nervosamente rispose
«E che vuol dare dentro? Non capisce che queste donne, ammesso che ci fossero, non
hanno niente a che fare col delitto e che se ci mettiamo ad inseguirle rischiamo di
perdere del tutto il filo?».
«Quale filo?» domandò con aria tonta il commissario. Si divertiva.
«Ma il filo…» disse confuso, e sottovoce, Scalambri. «Il filo del denaro, degli
interessi, degli affari loro, dei ricatti: che è l’unico possibile».
«Solo che non lo teniamo» disse il commissario.
«Non lo teniamo, va bene...». La voce di Scalambri vibrò istericamente. «Va bene,
non lo teniamo: ma dobbiamo cercare di raggiungerlo, di afferrarlo... Ho già dato
disposizioni: dei miei colleghi, in più luoghi, stanno indagando. Non dormo, io…» e
mi trascinò via, piantando il commissario. Mi voltai a guardarlo. Era soddisfatto;
soddisfatto e ghignante, il commissario; e mi ammiccò a dire: è ridotto male, il suo
amico. E a prova Scalambri stava dicendomi «Questo cretino del commissario: vuol
farmi correre dietro alle donne, che chi sa poi se c’erano veramente».
«C’erano».
«Ah, c’erano davvero?... Comunqne, non c’entrano... Vedi: io mi sono fatta una
precisa opinione di questi delitti, e mi pace di avertene parlato oggi, mentre stavamo
sulla terrazza. Tendo perciò ad eliminare tutte le scorie, tutti i fatti e gli indizi che
finirebbero col fuorviarci, col confonderci... Il commissario, non so se in buona fede,
perché è un cretino, o interessatamente, perché è un cretino corrotto, vuole gettarmi
tra i piedi l’inciampo delle donne: per farmici cadere sopra. Io invece lo scavalco e
procedo».
Caritatevolmente, non gli ricordai che poco prima di andare a tavola era stato lui, e
non il commissario, a credere importante la presenza e la scomparsa delle donne.
«Ma mi pare che don Gaetano tenga molto a che non si parli delle donne; e nella
misura in cui lui ci tiene... Pensa che succederebbe, sui giornali, se venisse fuori che
gli esercizi spirituali di cinqne di questi potenti erano confortati dalla presenza delle
loro amanti».
«A parte il fatto che non un giornale, non uno dico, ne parlerebbe... Che cosa credi
che succederebbe? Pochi si indignerebbero, molti si divertirebbero; e qualcuna di
queste donne finirebbe col fare un film, e magari un film intitolato Esercizi spirituali:
lei nuda e un centinaio di facce ipocrite intorno... A me succederebbe invece,
nell’ordine: il mio capo avocherebbe a sé l’inchiesta, mi promuoverebbero, mi
trasferirebbero. E su questi due delitti calerebbe per sempre la dicitura “ad opera di
ignoti”. Ti pare che valga la pena?».
«Tu dunque conti di risolverli, di trovare il colpevole?».
«Spero, spero...». Ma svogliatamente. E passando alla curiosità, alla malizia «E
come sono, queste donne? Giovani? Belle? E chi se le era portate dietro?».
«Non brutte, e piuttosto giovani. Del tipo che pnò piacere a costoro: un po’
abbondanti, un po’ sgargianti, un po’ volgari. C’è una netta demarcazione, per
costoro, tra le donne da sposare e far prolificare e le donne con cui peccare: queste
bisogna che emanino il senso del peccato a prima vista, a primo odore... Ma a chi
appartenessero, le cinque che erano qui, non saprei».
«Voglio saperlo; almeno questo voglio saperlo».
«Può servire» ambignamente dissi.
«Non servirà, ma voglio saperlo. O me lo dice don Gaetano o li chiamerò uno a
uno».
«Penso che, promettendogli il silenzio, don Gaetano te lo dirà».
«Lo penso anch’io» disse Scalambri. Mi diede una protettiva manata sulla spalla e
se ne andò; certo in cerca di don Gaetano.
Vedendomi solo, il ministro mi si avvicinò. Ebbi la seconda protettiva manata sulla
spalla della serata. «Mio caro amico» come saluto ma scuotendo la testa con
sconforto, con desolazione; come a dice: qui siamo, a fare i conti con le miserie
umane, coi delitti, coi giudici, coi poliziotti: anche noi due che non c’entriamo per
nulla, che siamo ugualmente e diversamente puri. Poiché, nella sua concezione, la
pura inutilità dell’arte restituiva l’artista a una purezza quale, per lui, il suo vivere
cristiano: salva restando la diversità e superiorità del suo vivere cristiano.
E io dissi quello che lui mimava. «Terribile esperienza: non avrei mai sospettato,
quando ho imboccato la strada dell’eremo, ehe sarei entrato in questa specie di
incubo».
«A chi lo dice! Io, poi, che vengo qui ogni anno come ad un luogo di ricreazione, di
elevazione, può immaginare se potessi aspettarmi una cosa simile... Due delitti, due
miei carissimi e vecchi amici uccisi nel giro di poche ore. E tutti noi sfiorati dal
sospetto del giudice, dei giornalisti, dell’opinione pubblica... Ma che dico, sfiorati?
Addirittura covati, dal sospetto. Ha sentito il commissario, a tavola? Il mestiere, la
deformazione professionale: va bene. Ma, Dio mio, un po’ di riguardo, un po’ di
tatto... E non per quello che ognuno di noi è, per quello che ognuno di noi rappresenta
nella vita pubblica: ci mancherebbe, la legge è uguale per tutti... Ma direi per il luogo,
per la ragione per cui ci troviamo qui: la meditazione, la preghiera...». E arrivando al
punto cui voleva arrivare «Io spero che il suo amico, il procuratore, non veda le cose
dallo stesso angolo visuale del commissario: chè è proprio il caso di parlare d’angolo;
angolo mentale, angolo morale…».
«È una sfinge».
«Come?».
«Il mio amico, il procuratore: è una sfinge. Non si lascia sfuggire nulla delle sue
opinioni sui delitti, delle sue intenzioni... Quando gli domando qualcosa sui delitti,
risponde oracolando».
«Tutti così, questi magistrati: oracoli sono, oracoli... Ma mi creda: non fanno gli
oracoli perché sanno e non vogliono dire; fanno gli oracoli così come da sempre si è
fatto il mestiere dell’oracolo».
«Ma forse Scalambri qualcosa sa, un filo lo tiene».
«Lei crede?» disse il ministro sforzandosi di assumere una espressione di ironica
incredulità.
«Sì, mi pare che qualcosa in mano ce l’abbia: un indizio, un’informazione...».
«Un indizio, un’informazione...» fece eco il ministro, di colpo cadendogli la
maschera dell’ironica incredulità. «E che mai può essere questo indizio, questa
informazione?».
«Non avendo conosciuto le vittime, non sapendo nulla del loro carattere, delle loro
attività, dei loro intrighi, non sono in grado di decifrare gli oracolamenti di
Scalambri».
«Per esempio...?». Con la speranza che io me lo ricordassi.
«Per esempio, poco fa, e stavamo parlando dei delitti, mi ha detto: “Nessuno merita
di essere lodato per la sua bontà se non ha la forza di essere cattivo”».
«“Nessuno merita di essere lodato per la sua bontà se non ha la forza di essere
cattivo”: ha detto esattamente così?».
«Esattamente». E completai mentalmente la citazione: «ogni altra bontà non è il più
delle volte che una pigrizia o una impotenza della volontà».
«Sembra una di quelle massime che una volta si trovavano negli involucri dei
cioccolatini... “Nessuno merita di essere lodato per la sua bontà se non ha la forza di
essere cattivo”... Ma come massima, direi che è cretina: chi ha la forza di essere
cattivo è cattivo». E messo a posto François de La Rochefoucauld, il ministro si diede
a trovar senso a una massima tanto cretina in rapporto al caso di cui si preoccupava.
«Forse avrà voluto alludere al povero Michelozzi: che era naturalmente buono... Ma
questo che c’entra? Non l’avranno certo ammazzato per la sua bontà. Se tutti dicono
che era buono, e anch’io lo dico, ché siamo stati vicini per quasi mezzo secolo, chi
l’ha ammazzato voleva metter fine al pericolo che Michelozzi rappresentava per lui:
non c’è altra spiegazione».
«Dunque lei non crede più che sia stato ammazzato per caso?».
«Per caso? E come potrei crederlo, dopo il secondo delitto?».
«Ma se lei esclude che a commettere i delitti sia stato uno di voi…».
«Non ci siamo solo noi, qui. Credo ci siano da venti a trenta persone che vanno e
vengono dall’albergo; e sono poi quelle che meno si notano, che per il fatto che
stanno dove debbono stare e fanno quello che debbono fare diventano quasi
invisibili».
Pensai al timore del cuoco, e quanto fosse fondato. «Ma un cameriere, uno
sguattero, una di queste orsoline o figlie di Maria che aiutano a servire a tavola, per
quale ragione avrebbero ammazzato Michelozzi e poi Voltrano?».
«Lei non ha mai sentito parlare di delitti commissionati, di killers? Le cose, mio
caro amico, di solito sono meno complicate di come appaiono o di come noi le
rendiamo». Mi diede altra manata sulla spalla; di compatimento, questa volta. E se ne
andò verso un gruppo dei suoi, certo a comunicare la massima di La Rochefoucauld
che io per divertimento avevo attribuito a Scalambri.
Rientrai in albergo proprio mentre Scalambri usciva dallo studio di don Gaetano.
Era soddisfatto, godeva dentro di sé del segreto che certamente don Gaetano gli
aveva rivelato. Era così beato che mi passò accanto senza vedermi. Io tirai verso lo
studio di don Gaetano, bussai, aprii la porta.
Don Gaetano stava alla scrivania. Levò gli occhi dalle carte dicendo «Avanti». Gli
orchi e gli occhiali; ché levando dritto lo sguardo, gli occhiali, appinzati a metà del
naso, con lo sguardo non stavano più in linea ma sembravano assumerne altro meno
freddo e impassibile. Curioso effetto, e veniva dalle rifrazioni della luce colorata che
gli stava accanto; una lampada dalla coppa in pasta di vetro, di quelle che al principio
del secolo venivano da Nancy e da Vienna e che oggi ovunque si rifabbricano,
ovviamente più brutte. Pagliettata di verde, di giallo e di blu, e predominando il viola,
la luce si rifrangeva nelle lenti mobilmente, come animandole; mentre spenti
restavano gli occhi di don Gaetano.
Chi leggerà questo manoscritto o, se mai sarà pubblicato, questo libro, si domanderà
a questo punto perché non ho più parlato degli occhiali di don Gaetano. Ebbene, non
ne ho parlato più perché non è vero che non mi avessero impressionato, la prima
volta che glieli vidi tirar fuori. O forse allora mi impressionarono meno di quanto poi
pensandoci e rivedendoglieli. Certamente, anzi; perché cominciai ad avvertire
l’inquietudine che quegli occhiali mi avevano seminato nel momento in cui, nella mia
camera, mi ritrovai a disegnarli. Più volte, sullo stesso foglio; sicché ne venne un
campo di occhiali come di meloni; grandi, piccoli, appena accennati, vuoti di lenti,
con le lenti; e qualcuno con dietro gli occhi seuza sguardo di don Gaetano. Uno
strano disegno, tra quelli che faccio di solito; e chi lo vedesse senza conoscere queste
pagine, forse penserebbe sia venuto fuori in margine a una lettura di Spinoza, che
fabbricava occhiali di quel tipo; o che fossi rimasto impressionato degli occhiali di
don Antonio de Solis, in quel ritratto che adorna il frontespizio della edizione
settecentesca della sua Istoria della conquista del Messico; o che avessi studiato di
illustrare i versi di quel porta arabo-siculo sulle lenti. Ed ecco che in questo
momento, mentre scrivo, il fatto di ricordare queste immagini (immagini vere e
proprie e immagini da parole) mi sorprende e aggiunge inquietudine all’inquietudine.
Com’è che così nitidamente vedo Spinoza nella sua bottega di ottico, l’ombra della
sera, le lenti come piccoli laghi in un paesaggio di manoscritti, tra le selve delle
parole scritte (quella grafia secentesca che sembra agitata come da un vento,
stormente); che così nitidameute ricordo il ritratto di don Antonio e i versi di Ibn
Hamdis? Non c’è qualcosa, nelle lenti, negli occhiali, che mi suscita, remoto,
imprecisabile, un senso di stupore e insieme di apprensione? Non c’è qualcosa che ha
a che fare con la verità e con la paura di scoprirla? (E sto anche pensando a quel
racconto di Anna Maria Ortese che appunto s’intitola Un paio di occhiali: della
bambina di vista debolissima cui danno finalmente gli occhiali; e la miseria del vicolo
napoletano in cui vive le balza improvvisamente incontro, le provoca vertigine e
vomito).
Gli occhiali di don Gaetano, dunque; e l’inquietudine che mi davano. Era un caso
che li avesse del modello di quelli del diavolo o se li era procurati apposta? Ed ero
stato più volte tentato di domandarglielo, ma sempre avevo resistito.
Resistetti anche quella sera, sedendo davanti a lui, la scrivania di mezzo, per come
mi aveva invitato e indicato.
«Spero di non discurbarla» dissi.
«Nessutto mi disturba, mai». E dopo un lungo scrutarmi, ma come al solito
fingendo di non vedermi «Ha qualche problema? O vuole forse lasciarci?».
«Non potrei andarmene, credo; e comunque, ho curiosità di vedere come va a
finire».
«Non va a finire. La sua curiosità resterà inappagata... Ha qualche problema?
Voglio dire: qualcosa che vuol sapere, qualcosa che vuol confidarmi? In questo
momento, tutti quelli che sono qui o vogliono sapere qualcosa da me o qualcosa
vogliono confidarmi».
«Sì, avrei anch’io una cosa da domandarle…».
«Ecco. Domandi pure». E sollevò gli occhiali a livello degli occhi. Per non vedermi
meglio, ostentatamente.
«Stasera, a tavola: non so in quale preciso momento la sua freccia è partita; ma l’ho
vista che vibrava ancora, infissa nel costato di Scalambri».
«Bella immagine, molto letteraria». Sorrise indecifrabilmente, forse di
soddisfazione. «La freccia, il costato: davvero una bella immagine... E non dubito che
lei l’abbia vista, infissa al costato di Scalambri e ancora vibrante. Posso anzi
ammettere di averla vista anch’io. Solo che non l’ho tirata».
«Vuol dire, cioè, che ne ha tirate tante senza sapere quale sarebbe andata al
bersaglio?».
Non rispose.
«Il povero Scalambri» dissi dopo un po’, non sapendo come riagganciare don
Gaetano che aspettava che parlassi o che me ne andassi.
«Povero: ecco una parola usata sempre a sproposito».
«Non mi pare di averla usata a sproposito, cristianamente parlando. L’ho visto per
un momento nudo e ferito; e quindi, per un momento, povero. Vestire gli ignudi,
visitare gli infermi… O ricordo male?».
«Cristianamente parlando... Lei, dunque, parla cristianamente».
«Faccio l’avvocato del diavolo».
«Ruolo interessante: l’ho assunto, propriamente, una tolta. In un processo di
beatificazione. Divertente, anche... Comunque, non ricorda male: vestire gli ignudi,
visitare gli infermi... Ma cinque minuti fa, Scalambri era seduto dove è seduto lei:
vestito di tutto punto e in buonissima salute... Stava ricattandomi».
«Ma davvero?» dissi, fingendo incredulità.
«Non finga di non sapere o, se non sa, di non capire».
«Ha ragione. Ma era propriamente un ricatto?».
«Non propriamente. Solo che riassicurandomi del suo silenzio sulla faccenda delle
donne voleva che io rompessi il mio: come segno di cortesia che risponde a cortesia,
se non di riconoscenza».
«E lei?».
«Sono stato riconoscente».
«Più che cortese, dunque».
«I cinque nomi avrebbe potuto saperli da chiunque, qui. E gli ho dato in più cinque
storie. Il suo amico se ne è deliziato. Era come un cane cui finalmente si getta un osso
da spolpare: ronfava di soddisfazinne, di godimento».
«Non è mio amico. Se lo fosse, non potrei condividere il suo disprezzo».
«Ah, lei lo disprezza? Io no. Non è disprezzo, il mio. Non ho, nei riguardi del suo
amico (mi scusi: del signor procuratore) alcun sentimento, come non ne ho nei
riguardi di una qualsiasi ruota o molla di quest’orologio». Indicò quello sul tavolo.
«Ma ne ha nei riguardi dell’orologio».
«Non direi. A meno che non si voglia chiamare sentimento la stizza di quando
voglio sapere l’ora e mi accorgo che è fermo».
«Giusto il contrario di quel che le accadrebbe con Scalambri se, guardandolo per
constatare che è fermo, si accorgesse che invece si muove. Che si muove, voglio dire,
verso il colpevole di questi due omicidi».
«Lei sta per ripetere quello che mi ha detto ieri: che dovrei aiutare Scalambri a
risolvere il problema. Ma il problema è di Scalambri non mio».
«Professionalmente è di Scalambri, solo professionalmente. Se qui fossimo
nell’isolamento più assoluto, al di fuori di ogni giurisdizione, non erede che saremmo
costretti a inventare tra noi la legge che Scalambri rappresenta e a perseguire il
colpevole?».
«È possibile anche il contrario: che tutti si diventasse, uno contro l’altro, colpevoli.
E in verità quella che lei chiama l’invenzione della legge altro non è che questo: il
diventare tutti colpevoli. Ma lasciamo andare questo discorso, ché ci porterebbe
lontano... Non siamo isolati, non siamo al di fuori di ogni giurisdizione: il suo amico
Scalambri c’è, ha tutta l’autorità e tutti i mezzi per risolvere il problema... E stavolta
non le chiedo scusa per aver detto il suo amico: che lei lo disprezzi o meno, sta dalla
sua parte, non può che stare dalla sua parte».
«Sì, non posso che stare dalla sua parte. Lei invece…».
«Non ho una parte da cui stare. Aspetto che tutto si compia».
«Cioè che tutto non si compia».
«Dal suo punto di vista, sì: che tutto non si compia. Ma dal mio... Ricorda il
Vangelo di Luca? L’ha mai letto?... “Io sono venuto a portare fuoco sulla terra; e che
voglio, se già divampa? Ora devo essere battezzato di un battesimo, e come sono
angustiato fin tanto che ciò non si compia”».
«Quale battesimo aspetta?».
«Il dolore, la morte: non ce n’è altro».
«Ma per aspettare questo battesimo, che bisogno c’è di tutto questo? Che bisogno
ha lei di fare un albergo, di amministrarlo, di fare e amministrare tante altre cose?
Che bisogno hanno i suoi amici di governare, di comandare: con la sua benedizione
se non addirittura per suo mandato?».
«Questa volta tocca a me protestare: non sono miei amici. Ma sono anche loro il
fuoco che divampa. E per quanto li disprezzi, al tempo stesso che li amo: “che voglio,
se già divampa?”».
«Bisogna dunque distruggere».
«Non c’è altra via, non c’è altro scampo. Distruggere, distruggere... Il nostro più
grande errore, il più grande errore che sia stato commesso da coloro che hanno
governato, o che hanno creduto di governare, la Chiesa di Cristo, è stato quello di
identificarsi, ad un certo momento, con un tipo di società, con un tipo di ordine. È un
errore che perdura, anche se molti ormai cominciano ad avere coscienza che è un
errore. Approssimativamente, con una battuta, le posso dire: il secolo diciottesimo ci
ha fatto perdere il senno, il ventesimo ce lo farà riguadagnare. Ma che dico, ce lo farà
riguadagnare? Sarà finalmente la vittoria, il trionfo».
«La fine».
«Dal suo punto di vista, sì: la fine... Ma sarà l’epoca, o almeno il principio
dell’epoca più cristiana che il mondo può conoscere... Tutto concorre, tutto ci aiuta;
anche tutto ciò che quelli di noi che avevano perduto il senno o che ancora non
l’hanno riacquistato credevano e credono nemico... Ci aiuta la scienza, ci aiuta la
sazietà; così come ancora, si capisce, ci aiutano l’ignoranza e la fame... Pensi: la
scienza... L’abbiamo combattuta tanto! E infine, che scruti la cellula, l’atomo, il cielo
stellato; che ne carpisca qualche segreto; che divida, che faccia esplodere, che mandi
l’uomo a passeggiare sulla luna: che fa se non moltiplicare lo spavento che Pascal
sentiva di fronte all’universo?».
«Non mi pare che sia preso da questo spavento cosmico, l’uomo di oggi. Al
contrario».
«È tanto indaffarato a spostare i confini, come dopo una guerra vinta, che ancora
non lo avverte; ma le incrinature già ci sono, da cui si insinuerà lo spavento. E lo
spavento cosmico sarà nulla di fronte allo spavento che l’uomo avrà di se stesso e
degli altri... Ricorda? “E sempre lo contraddico, finché non comprenda che è un
mostro incomprensibile”; e poiché come non mai oggi Dio ci contraddice...».
«Noi fuggiamo da Dio».
«Non c’è fuga, da Dio; non è possibile. L’esodo da Dio è una marcia verso Dio». E
lo disse con un che di disperato, o mi parve: chè togliendosi in quel momento gli
occhiali e come per stanchezza chiudendo gli occhi, il volto gli prese un’espressione
di fragilità e lontananza da farmi pensare ad uno che fosse invecchiato in prigione e
ricordasse che una volta aveva tentato di evadere.
Ancora ad occhi chiusi (o che leggesse quello che pensavo o che fossi io a leggere
quel che lui pensava), disse «L’evasione...». Riaprì gli occhi, s’inclinò verso di me
sulla scrivania. «È stato detto che il razionalismo di Voltaire ha uno sfondo teologico
incommensurabile all’uomo quanto quello di Pascal. Io direi anche che il candore di
Candide vale esattamente quanto lo spavento di Pascal, se non è addirittura la stessa
cosa. Solo che Candide trovava finalmente un proprio giardino da coltivare... “Il faut
cultiver notre jardin”... Impossibile: c’è stato un grande e definitivo esproprio. E forse
si possono oggi riscrivere tutti i libri che sono stati scritti; e altro anzi non si fa,
riaprendoli con chiavi false, grimaldelli e, mi consenta un doppio senso banale ma
pertinente, piedi di porco. Tutti, Tranne Candide”».
«Ma si può leggere».
Fece un gesto di noncuranza. «Lo legga». E vivacemente «Deve leggerlo, anzi: per
rendersi conto che è solo e che non ha scampo». E dolcemente «Ma perché vuole
reprimere in sé tutto ciò che la porta verso di noi? Perché vuol cuntraddirsi?».
«Perché lei mi contraddice, perché mi contraddice il suo Dio. Non sono un mostro
incomprensibile».
Mi alzai. Per una volta, volevo essere io a lasciarlo. «Buonanotte» dissi. Non mi
rispose.
Non persi tempo a salire nella mia camera, uscendo dallo studio di don Gaetano: il
tempo di attraversare il corridoio e l’atrio, di chiamare l’ascensore, salire, attraversare
quasi due lati del quadrato che i corridoi facevano ad ogni piano, aprire, accendere la
luce, entrare. Ripeto i miei movimenti per come li ricordo, e credo di ricordarli
esattamente. Ma forse, soprappensiero, avrò passato aspettando l’ascensore più tempo
di quanto riesca a valutarne nel ricordo: ché non si spiega altrimenti il fatto che sul
tavolinetto, spiccando sui fogli da disegno, stava un libro rilegato in nero, in quella
rilegatura che i francesi chiamano giansenista. Non aveva diciture nè sul piatto né sul
dorso, ma sapevo, prima di aprirlo, che erano i Pensieri di Pascal. Come avesse fatto
don Gaetano a farmelo arrivare in camera prima che io vi arrivassi, era da spiegare
con una perdita di tempo, ripeto, da parte mia inavvertita. O l’aveva fatto portare
prima: ed era spiegazione anche più inquietante.
L’aprii al frontespizio e poi dove era il nastrino nero a segnale. L’occhio mi cadde,
naturalmente, sulla pagina destra, che cominciava col numero 460, numero del
pensiero e non della pagina (e per un momento divagai nel pensiero dei pensieri
numerati, e se tutti i pensieri, di ciascuno e di tutti, scritti, detti o soltanto pensati, non
fossero enumerazioni e numeri ingoiati, assimilati e calcolati da una immensa e
invisibile macchina). Lo lessi, il 460: «Poiché la sua vera natura è andata perduta,
tutto diventa la sua natura; come, essendo perduto il vero bene, tutto diventa il suo
vero bene». E poi gli altri, fino al 477.
Il segnalibro era per caso a quel punto, o don Gaetano ve lo aveva messo per me?
Non volli pensarci, nè andare avanti a leggere. Chiusi il libro e lo misi da parte. E
cominciai a disegnare. Poiché era il disegoo da regalare a Scalambri, facevo un nudo
femminile quanto più osceno e sgradevole mi era possibile: perché Scalambri,
conoscendolo come mi pareva di conoscerlo, se ne disfacesse vendendolo; e dalla
somma che ne avrebbe ricavato, sarebbero indubbiamente cresciuti il suo
apprezzamento e la sua invidia nei miei riguardi.
Ora il disegnare, una volta stabilito il tema o l’oggetto, è per me un fatto talmente
automatico che la mano e gli occhi è come se mi si allontanassero e appartassero,
andando per loro conto e alleggerendomi la mente come da un peso, da una scoria.
Pensando a tutt’altro che al disegno, disegnando i miei pensieri si fanno più esatti e
lucidi, insomma, meglio concacenati; e più nitida e alacre la memoria. E così,
disegnando il nudo per Scalambri, sviluppai una ipotesi che mi era avvenuto di fare
dopo il primo delitto; la sviluppai, voglio dire, come il cavaliere Carlo Augusto
Dupin sviluppa le sue nei racconti di Poe. Mentre la mano e gli occhi vagavano sul
foglio, la mia mente vagava sul terreno davanti all’albergo, un semicerchio di un
centinaio di metri profondo verso il bosco. Ne vedevo ogni pietra, ogni anfratto, ogni
albero: come fossi affacciato alla finestra della mia camera, e di pieno giorno. Ma
non voglio dire di più. Finii di disegnare quando mi parve di aver risolto il problema.
Molto lavorato, carico e con qualche cincischiatura, il disegno; ma la soluzione del
problema netta e quasi ovvia: molto simile a quella della Lettera rubata di Poe. E
rimandando all’indomani la verifica, mi misi a letto e quasi subito mi addormentai.
L’indomani, la prima persona che incontrai fu il commissario. Stava nell’atrio, in
poltrona, a sfogliare i giornali. Con allusiva ironia subito mi comunicò «Abbiamo il
filo».
Mi invitò con un gesto a sedergli accanto.
«E qual è, questo filo?».
«Quello che il procuratore cercava. Ma che dico, il filo? Migliaia di fili, e tutti
ammatassati... Un mazzo così» ne segnò il volume da terra al suo ginocchio «di
fotocopie di assegni. Tutti firmati da Michelozzi, sui fondi speciali o segreti di cui
disponeva... Il procuratore ci impazzirà». E soavemente degustò l’idea che Scalambri
ci impazzisse.
«Ma ci sono assegni a favore di qualcuno che si trova qui?».
«Di qualcuno? Di tutti. Non ce n’è uno che non abbia avuto la sua parte».
«E dunque?».
«E dunque da tutti questi assegni possono uscire centinaia di piccoli processi per
malversazione, concussione, peculato; o un solo processone. Ma un processo per
omicidio, mai».
«Lo credo anch’io».
«Il procuratore, invece, è convinto che la chiave del primo delitto, e quindi anche
quella del secondo, la troverà tra quegli assegni... Non che il suo ragionamento sia del
tutto campato in aria: solo che la difficoltà di farne verifica è tale, che è come se lo
fosse... Lui ragiona così: Michelozzi dava a costoro del denaro non perché se ne
andassero a donne o corressero a depositarlo in Svizzera; glielo dava per il Partito,
per le correnti nel Partito, per le sezioni, le clientele, i singoli clienti; qualcuno invece
se lo sarà tenuto: tutto, e non una quota più o meno larga, com’è d’uso; Michelozzi,
suspenando o sapendo, l’avrà minacciato…».
«Minacciato di che? Denunciarlo non potcva».
«Minacciato di non dargliene più».
«Ne avrcbbe trovato altrove».
«È quello che dico anch’io... Tuttavia, qualcosa di attendibile nell’ipotesi dcl
procuratore c’è; ma se la deviamo su un terresso diverso... Io dico: e se Michelozzi si
fosse accorto che il denaro che passava ad uno di costoro serviva a finanziare il
disordine, l’assassinio? Oppurc: e sc lo avessc finanziato consapevolmente e ora
avesse voluto ritrarsene, abbandonare la partita diventata troppo pericolosa?».
«L’ipotesi si fa più sensata, così; ma fermandoci alla prima domanda, ché dicono
Michelozzi amasse il prossimo suo come se stesso».
«Lei, mi scusi, non sa di che cosa è capacc la gente casa e chiesa, la gente col libro
da messa in mano, la gente che dice di amarc il prossimo suo come se stessa... Tra
due mesi, e non mi pare l’ora, avrò compiuto trent’anni di servizio nella polizia:
ebbene, i delitti più efferati in cui mi sono imbattuto, i più razionali, i più difficili da
scoprire, come anche i più folli e i più facili, sono stati quelli commessi da uomini e
donne che avevano i ginocchi così» modellò come una grossa pagnotta «per lo stare
dietro le balaustrate del coro e la grata del confessionale... E alcuni, si capisce, per
sesso; ma la maggior parte, mi creda, per denaro; e quasi sempre per denaro da
ereditare dal prossimo più prossimo». Si alzò «Vado a vedere che filo è riuscito a
tirare dalla matassa, il procuratore... Vuole che le lasci i giornali?».
«No, grazie: vado a passeggiare un po’ nel bosco».
E ci andai, ma per fare la ricerca che mi ero, è il caso di dire, disegnata la scra
avanti.
Ci ritrovammo tutti nel refettorio, per la colazione. Don Gaetano non che fosse
allegro, ché forse non lo era mai stato in vita sua, ma aveva un che dì divertito, come
avesse preparato uno scherzo per qualcuno di noi, o per tutti noi, e aspettava che
scattasse. Scalambri era stanchissimo, gli occhi arrossati; e tanta voglia di parlare non
aveva. Al mattino, gli avevo mandato in camera il disegno. Me ne ringraziò
seccamente: certo non gli era piaciuto. Il commissario se lo covava con uno sguardo
tra beffardo e compassionevole, e frequentemente rivolgeva poi a me lo sguardo
come a dire: lo guardi com’è sfinito, a sgomitolare quella matassa senza capo e senza
fine. Il ministro era piuttosto nero: tra gli assegni di Michelozzi, seppi poi, Scalambri
ne aveva trovato uno a lui intestato; e gli aveva chiesto spiegazione. Ancora più nero
l’altro commensale, presidente della banca sulla quale Michelozzi spiccava gli
assegni: e Scalambri se lo era tenuto a colloquio per un paio d’ore, non ottenendo
altro che l’odio di cui il presidente lo fulminava.
Dal ringraziamento che mi fece Scalambri per il disegno, don Gaetano prese avvio.
«Che cosa rappresenta» domandò a Scalambri «il disegno che le ha regalato?».
«Un nudo, un nudo di donna».
«Ah» fece don Gaetano. Come a dire: e che altro?
«Un brutto nudo» dissi, come a giustificarmi.
«Ah». E stavolta conte a dire: va un po’ meglio.
«Ma molto ben disegnato» disse, per pura cortesia, Scalambri.
«Ma certamente: vuole che alla sua età, con la sua esperienza, col suo valore, il
professore non disegni bene? Benissimo, deve disegnare: sempre, e qualunque cosa
faccia» disse don Gaetano. E a me «Io, e mi pare di essermene già scusato, ho visto
poche cose sue; e quasi sempre in riproduzioni. Ma dal poco che ho visto... E mi
viene una curiosità: ha mai dipinto o disegnato qualcosa che avesse a che fare con la
nostra religione? Un Cristo, una Madonna, un Santo; o, che so, una festa, una
chiesa...?».
«Una Maddalena, parecchi anni fa».
«Si capisce, una Maddalena... E come l’ha fatta?».
«L’ho fatta…».
«No, aspetti; mi lasci indovinare... L’ha fatta come una prostituta in ritiro: vecchia,
sformata, pietosamente e grottestamente imbellettata».
«Ha indovinato». Scontrosamente.
«Ne ho piacere, vuol dire che qualcosa di lei ho capito». E come se, avendo io
risposto esattamente alla prima domanda, potesse andar oltre nell’esame «E non la
tenterebbe l’idea di dipingere qui, per noi, per la nostra cappella, un Cristo? E noti
che sto usando il verbo tentare».
«Non mi tenta» dissi, duramente. Ma poiché vidi che don Gaetano della mia
durezza era soddisfatto, come di una reazione positiva, andai su altro registro. «Dopo
Redon, dopo Rouault... No, non mi tenta».
«Ha ragione» disse don Gaetano. Ma sapendo, credo, che il suo darmi ragione mi
avrebbe irritato. «Dopo Redon, dopo Rouault... Per non andare più indietro nel
tempo: a Grünewald, a Giovanni Bellini, ad Antonello... Per me, una delle più
inquietanti immagini di Cristo, è quella di Antonello, che si trova oggi, mi pare, al
museo di Piacenza: quella maschera di ottusa sofferenza... Terribile... Ma nei tempi
nostri, sì, senz’altro: Redon e Rouault... Altissimo, il Miserere di Rouault, di una
passione che non chiude ma annuncia... Voglio dire: qualcuno potrebbe anche credere
che con Rouault si chiuda la storia della passione diciamo cristologica dell’umanità,
che ne sia l’ultima voce, l’ultimo anelito; e invece nuovamente si apre e si invera...
Ma Redon... Ecco, Redon non è meno inquietante di Antonello, ma in altro senso... E
parlo, si capisce, del Cristo che è nella terza serie della sua Tentation... Si ha
l’impressione, fortissima, sconvolgente, che solo attraverso una rivelazione,
un’apparizione, Redon abbia potuto disegnare il volto di Cristo come lo ha disegnato;
che Cristo, cioè, abbia veramente avuto quel volto e che solo per una volta, a distanza
di secoli, l’abbia svelato a Redon... Non agli apostoli, non agli evangelisti: ché
evidentemente volle che del suo volto si smemorassero. A Redon... Le mani, a santa
Teresa di Ávila; il volto, a Redon. Perché?... Lo domando a lei perché certo sa di
Redon più di quello che so io».
«Non so... Forse perché Redon aveva sempre rifiutato di guardare quel che era
nudo».
«Quel che era nudo?».
«Diceva: “Je ne regarde jamais ce qui est nu”».
«Perché andava sempre al di là del nudo, come i raggi x».
Stranamente, avevo sempre avuto una sensazione simile a quella che don Gaetano
aveva precisato, di fronte al Cristo di Redon. Ma dissi «Quello che lei dice non ha
fondamento che in un fatto abbastanza insignificante, che forse s’appartiene più alla
vanità che alla mistica ispirazione: Redon ha voluto, semplicemente, fare un Cristo
diverso».
«Ma tanto diverso, e di una tale intensità... Comunque: lei non vuole o non sente di
provarsi a darci una sua immagine di Cristo?».
«Non sento ma voglio».
«Ah, vuole... Benissimo. Vedremo». E come solo allora accorgendosi che gli altri si
annoiavano, cambiò discorso. «La vedo affaticata, signor procuratore».
«Eh sì» sospirò Scalambri.
«E lei riposato, signor commissario». Malignamente.
«Già» commentò acre Scalambri.
«Non posso trarne il giudizio che lei» a Scalambri «fa con pena quello che il
commissario fa con gioia: ma il commissario…».
«Il commissario» disse il commissario «tra due mesi se ne va: ed ecco spiegata la
sua gioia».
«Se ne va?».
«Dalla polizia. In pensinne. In campagna».
«Beato lei» si complimentò il ministro.
«Perché va via dalla polizia?» domandò al ministro, sorridendo ironicamente, don
Gaetano.
«Ma no, non mi permetterei: io ho tanto rispetto, tanta ammirazione, per la nostra
polizia... Perché se ne va in campagna».
«È una beatitudine facilmente guadagnabile: e specialmente per lei, per il signor
presidente…». Il presidente ebbe un piccolo sussulto. «Il commissario è costretto ad
aspettare altri due mesi, voi invece potete farlo subito».
Il ministro e il presidente si fecero più cupi di quanto già non fossero. Credo
pensassero che don Gaetano volesse alludere agli assegni che Scalambri aveva in
mano e che li avrebbero, forse, costretti alle dimissioni. E forse don Gaetano voleva
proprio alludere. Ad una voce dissero «Magari!».
«È difficile uscirne? Vi trattengono a forza?» domandò, fingendo candore e stupore,
don Gaetano.
«Oh Dio, proprio a forza no» rispose il ministro. «Certo, però, uscirne non è facile».
Il presidente ripetutamente annuì.
«Specialmente ora» disse ambiguamente don Gaetano. Voleva dire vi cacceranno
via subito oppure non ve ne andrete prima di aver reso conto di quel che facevate con
Michelozzi? Fatto sta che alludeva. E si divertiva.
Il ministro trovò la forza di dare altro senso alle parole di don Gaetano. «Certo,
specialmente ora: mentre le cose vanno male, andarsene sarebbe una fuga, una
defezione».
«Un tradimento» precisò ironicamente don Gaetano.
«E per audar male, non c’è che dire, vanno proprio male» intervenne il
commissario.
«Non esageriamo» disse il ministro.
«Non esageriamo» gli fece eco il presidente.
«Non esageriamo» suggellò Scalambri.
«Insomma: vanno o non vanno male?» domandò don Gaetano a tutti e tre.
«Secondo i punti di vista» rispose il ministro.
«Dal punto di vista» disse il commissario «di chi tiene le mani nelle proprie tasche,
vanno malissimo».
Si fece silenzio: come tra gente educata che scopre nella compagnia un maleducato.
Poi il presidente disse «Il problema non è quello di tenere le mani nelle proprie tasche
o nelle altrui; il problema è...».
«... Che si possa continuare a fare l’esercizio di destrezza di cavare ancora qualcosa
dalle tasche altrui» completai. «E cioè, di trovarci ancora qualcosa».
«Lo Stato non è un borsaiuolo» disse con indignazione il ministro.
«Certo, non è un borsaiuolo» confermò, con più moderata indignazione, il
presidente.
«Ma signori» disse don Gaetano al ministro e al presidente «spero non mi darete il
dolore di dirmi che lo Stato c’è ancora... Alla mia età, e con tutta la fiducia che ho
avuto in voi, sarebbe una rivelazione insopportabile. Stavo così tranquillo che non ci
fosse più…».
Il ministro e il presidente istantaneamente, d’un rapido sguardo che si scambiarono,
decisero di prenderla come una facezia. Risero. Ridevano ancora quando ci alzammo
da tavola.
Rientrai in albergo a pomeriggio inoltrato; e andai direttamente nella mia camera,
ché mi era venuta un’idea per il Cristo che avevo promesso a don Gaetano. Non
promesso, precisamente; ma ormai la potevo considerare una promessa da mantenere.
Disegnai per un paio d’ore. La mia mano era appena un po’ più nervosa del solito;
ma non un solo tratto che sul foglio mi si spezzasse o impennasse, anche
impercettibilmente. Soltanto una inusitata celerità e quasi ritmica, come dettata da un
lontano e segreto tempo musicale. Un tempo che non voleva diventare tema, frase;
ma si intrideva e appagava nei segni che scorrevano sul foglio, nei pensieri e nelle
immagini che anche più febbrilmente scorrevano nella mente. E i pensieri e le
immagini non erano, come solitamente mi accadeva nel disegnare, di cose che non
avevano niente ache fare con quel che venivo tracciando e crudamente ombreggiando
sul foglio (da non intendere, l’ombreggiare, come nelle scuole di disegno, se ancora
ci sono, si intende).
Sentii ad un certo punto, nell’albergo fino allora silenzioso, sorgere e levarsi, come
una spirale che dall’atrio salisse da un piano all’altro girando nei corridoi, un brusio
concitato, uno sbattere di porte, uno scalpiccio. Ma non mi mossi se non quando il
rumore cominciò a defluire verso l’atrio e a coagularsi laggiù: un rombo ininterrotto e
crescente.
L’atrio era fitto come all’indomani del primo delitto. Vociando istericamente tutti,
l’un l’altro, si chiedevano «Quando? Dove? Come?».
Qualcuno aveva trovato morto don Gaetano: ma non si sapeva se nella camera o nel
suo studio o nella cappella o nel bosco. Finalmente da fuori uno gridò «Nel bosco, al
vecchio mulino» e la mandria uscì nello spiazzale, si sparpagliò, di nuovo si serrò, ad
imbuto, verso il sentiero che portava al vecchio mulino.
Andai anch’io: ultimo, a chiudere quella fila piuttosto grottesca di uomini di mezza
età che quasi correvano, ansando e incespicando, per il sentiero. E sentivo quelli
davanti a me chiedersi a respiro mozzo se don Gaetano era stato ucciso o era morto di
morte naturale. Come se la morte, e don Gaetano avrebbe dovuto insegnarglielo, non
fosse sempre e comunque naturale.
Era stato ucciso. Al vecchio mulino, che era poi quello di cui restava la mola di
pietra. E la mola, da cui era scivolato, gli faceva ora da spalliera.
Non mi fece forte impressione, rivederlo morto. La morte, che anche agli imbecilli
conferisce solennità, a don Gaetano un po’ ne aveva sottratta. Era scomposto e come
disarticolato. Le gambe, aperte quasi a squadra, tendevano l’abito talare; che nello
scivolare era andato su, scoprendo le calze bianche, di lana grossa. E quelle calze
calamitavano gli sguardi, e perché facevano spicco tra il nero delle scarpe e il nero
della veste, e perché erano da pieno inverno e si era in piena estate. Distogliendosi
dalle calze, l’occhio, almeno il mio, si fermava poi agli occhiali che, dal cordoncino
attaccato al petto, erano scivolati su una radice e vi stavano in curiosa angolazione
rispetto a un raggio che, di tra le foglie, vi cadeva. Sembrava il particolare di un
quadro di caravaggesco minore. E dico minore perché tutto, in don Gaetano morto e
intorno a lui, era minore; voglio dire sminuito, ridotto, sommesso: rispetto a come era
da vivo.
A poca distanza dalla sua mano sinistra, c’era una pistola: corta, a tamburo. Tanto
vicina alla mano che qualcuno, vicino a me, domandò se si era suicidato.
Risposi «Ma le pare possibile?».
«I nervi li abbiamo tutti» disse l’altro, piccato. E il metterlo alla pari di tutti, da
parte di un suo devoto, mi parve confermasse la mia impressione che la morte,
almeno in quel momento, in quella scena, aveva degradato don Gaetano.
Ci eravamo tutti fermati, in semicerchio, a una diecina di passi dal corpo di don
Gaetano e da Scalambri e il commissario che gli stavano ai lati e lo scrutavano come
se ne aspettassero un segno di vita, un risveglio.
Attraversai quello spazio e andai vicino a Scalambri. Con un ghigno di soddisfatta
sconfitta, come se una sua previsione si fosse realizzata, ma a suo danno, ad
accrescergli responsabilità e fatica, mi disse «Omnia bona trina». Il suo latino. E
subito lo assalì la preoccupazione che la frase potesse suonare di vera e propria
soddisfazione, senza quel compianto di sé da cui era venuta fuori. «Voglio dire:
siamo in un bel guaio». Ma aveva ancora fatto una zeppa, con quel bel. «Un guaio
grosso, un guaio tremendo». E riprese a scrutare il morto.
«Quello che mi intriga...» disse il commissario, come parlando tra sé e fissamente
assorto sulla pistola. E lasciò sospesa la frase.
«Che cosa la intriga?» domandò Scalambri. Al limite della sopportazione; come
dicesse che di quel che pensava il commissario, delle sue ipotesi, delle sue deduzioni,
dei suoi dubbi, non aiuto ne aveva ma intralcio.
«La pistola» disse il commissario.
«Che cosa c’è, nella pistola?». Con lo stesso tono di insopportazione.
«Nella pistola, niente. Nel fatto che l’abbiamo trovata, che ce l’abbia fatta trovare,
qualcosa. Qualcosa che dà a pensare».
«E le pare il caso di dirlo coram populo?».
«Infatti, non lo avevo detto; ho risposto poi alla sua domanda».
Invece di ribattere, chè non poteva, Scalambri prese una decisione che sembrò
improvrisa, e forse non lo era. Rivolgendosi a quello che nel suo latino aveva
chiamato popolo, disse «Vi prego, signori, di tornare in albergo. E preparatevi a
lasciarlo entro stasera».
Sorse un brusio di protesta.
«È una misura che si impone: per la vostra sicurezza, per la mia responsabilità…».
«Giusto» disse il ministro. «Forse bisognava pensarci un po’ prima».
Scalambri non raccolse il rimprovero. Ma con più ferma e irata autorità ribadì
«Entro stasera, l’albergo deve essere sgombrato; non deve restarci nemmeno il
gatto».
«Il gatto» disse padre Cilestri, staccandosi dagli altri e venendo verso Scalambri
«non c’è, abbiamo usato sempre topicidi…». Non si capiva se volesse smontare
Scalambri o se era tanto dolorosamente confuso da prendere alla lettera l’espressione.
«Ma io, gli altri sacerdoti che stanno con me…».
«Tutti» disse Scalambri «tutti... Chiudo l’albergo, padre, chiudo e faccio mettere i
sigilli». E addolcendosi «Vi prego, signori: andate a preparare. le valige.. Dobbiamo
lavorare, qui».
Se ne andarono, il ministro in testa.
Di lavorare, lavorava soltanto il fotografo. Poi venne il medico. Poi vennero due
con una barella di tela, vi adagiarono sopra don Gaetano, lo portarono via. Gli
occhiali pendevano dalla barella, dondolavano al passo dei portatori.
Li seguii fino al furgoncino, che era davanti all’albergo. Poi salii in camera, a
prepararmi per la partenza.
Le valige, avevo solo da chiuderle. Ebbi per un momento l’indecisione se portar via
o lasciare il libro che don Gaetano mi aveva fatto arrivare la sera avanti. Lo lasciai,
accanto al Cristo che avevo disegnato.
Non era ancora buio, ma l’albergo tutto illuminato dava, nello spiazzale, il senso
che appunto tutta quella luce chiamasse la notte ad ammatassarsi intorno a noi.
Qualche automobile già partiva. Scalambri e il commissario assistevano all’esodo. Mi
avvicinai.
«Hai fatto presto» constatò Scalambri guardandomi le valige.
«Non vede l’ora, è naturale, di lasciare questa bolgia» disse il commissario.
«Se si continuava a star tutti qui» disse Scalambri «sarebbe finita come in quel
romanzo di Agatha Christie: tutti ammazzati, uno appresso all’altro. E avremmo
dovuto resuscitarne uno, per trovare il colpevole».
«Non si troverà, il colpevole; non si troverà mai» disse malinconicamente il
commissario.
«Ma la pistola?» domandai. «Lei mi pare avesse fatto, sulla pistola, una
riflessione... E credo coincida con la mia».
«Qual è, la tua riflessione?» domandò Scalambri con condiscendenza.
«Semplicemente questa: perché, scomparsa al primo delitto, ve la fanno ritrovare
accanto al cadavere di don Gaetano?».
«Esatto» disse il commissario. «Proprio quello che io ho pensato».
«E se» dissi «ad uccidere don Gaetano fosse stato un altro, uno che sapeva dove
stava nascosta la pistola o che per caso l’avesse trovata?».
«Oh Dio» disse Scalambri «ma perché dobbiamo complicare le cose, che sono già
abbastanza complicate?... La pistola era nascosta dove colui che ha sparato a
Michelozzi l’aveva nascosta, e ben nascosta; nessun altro poteva saperlo né, per caso
o per ragionamento, scoprirla. Se poi il commissario la pensa come te, e ammette la
possibilità che un altro potesse trovarla, dovrebbe riconoscere la propria incapacità e
senza perdere un minuto dimettersi: ché era compito suo quello di trovarla, e per due
giorni l’ha cercata con perquisizioni nelle camere, nei bagagli, guardando ogni
ripostiglio e scrutando palmo a palmo il terreno». E puntando l’indice sul
commissario «Lei crede che qualche altro abbia trovato la pistola, che ad uccidere
don Gaetano non sia stata la stessa persona che ha ucciso Michelozzi?».
«Non credo niente, io... Soltanto, non mi spiego la ragione per cui la pistola sia stata
lasciata lì, accanto a don Gaetano».
«Perché non serviva più: può essere una spiegazione, no?».
«Può essere». disse il commissario. Ma per tagliar corto.
«E se può essere, perché dobbiamo cercarne altre più complicate e che
complicano?». E rivolgendosi a me «Pensa: nell’ora in cui don Gaetano è stato fatto
fuori, quasi tutti erano nelle loro camere; e il quasi esclude soltanto me, te, il
commissario, gli agenti, il cuoco, il personale di servizio; e don Gaetano. Comunque,
tutti i sospettabili erano dentro, ciascuno nella propria camera. Così almeno mi
assicurano e giurano... L’agente che era di guardia tra la scala e l’ascensore, dice che
nessuno è uscito; né ha visto rientrare qualcuno che non aveva visto uscire. La stessa
cosa dice quello che era di guardia alla scala di servizio. E il commissario, che se ne
stava qui, a fare la siesta su una sdraio, conferma: nessuno è uscito, nessuno è
rientrato... E allora?».
Non ebbe da noi risposta, e se la diede da sé: con soddisfazione. «E allora io trovo
una spiegazione abbastanza semplice, abbastanza sensata: uno dei tre, due dei tre,
tutti e tre, si sono allontanati per un momento o, più facilmente, si sono
addormentati».
«Non io» disse il commissario.
«Va bene: lei non si è né allontanato né addormentato. Va bene. E nemmeno
l’agente che stava tra l’ascensore e la scala. Ma quello che era di guardia alla scala di
servizio... Ecco, lei dov’era precisamente?».
«Lì» indicò il commissario.
«E da lì lei può giurare di aver costantemente sorvegliato la porta principale e quella
di servizio? E tanto più che lei non stava lì per sorvegliare, ma per fare la siesta, per
riposare...».
«Non posso giurarlo».
«Ecco, vede: l’agente deve essersi addormentato e lei poteva star guardando altrove,
quando l’assassino è sgattaiolato fuori. Non c’è altra spiegazione, se vogliamo restare
sul terreno della realtà, del buon senso. Se poi vogliamo uscirne, possiamo arrivare
dove vogliamo: anche a pensare che uno di noi tre... Ecco: lei dire di essere rimasto
qui, a fare la siesta; ma è lei che lo dire... E tu» a me «tu dici di essere andato... Dov’è
che te ne sei andato?».
«A uccidere don Gaetano» dissi.
«Lo vedi dove si arriva, quando si lascia la strada del buon senso?» disse
trionfalmente Scalambri. «Si arriva che tu, io, il commissario diventiamo sospettabili
quanto costoro, e anche più: e senza che ci si possa attribuire una ragione, un
movente... Io lo dico sempre, caro commissario, sempre: il movente, bisogna trovare,
il movente…».
Rimasero entrambi silenziosi per qualche lempo. Non pioveva più; un raggio
sbucava di tra le nubi. La vettura, sabbalzando lentamente, rientrava in Roma.
«In questo caso so quel che mi resta a fare» riprese Antimo con la sua voce più
decisa. «Li metto in piazza».
Giulio sussultò.
«Amico mio, lei mi spaventa. Lei si farà scomunicare certamente».
«Da chi? Se è un falso Papa, chi se ne frega?».
«Ed io che speravo di aiutarla a gustare in questo segreto qualche virtù
consolatrice» riprese Giulio costernato.
«Scherza!?... E chi può dirmi se Fleurissoire avvivando in Paradiso non scoprirà
che anche il suo buon Dio non è più quello vero?».
«Vediama un po’, Antimo caro, lei divaga. Come se ce ne potessero essere due!
come se ce ne potesse essere un altro».
«No... però lei può parlarne tranquillamente perché non ha abbandonato niente per
lui e perché tutto, vero o falso che sia, torna a suo profitto... Ah! basta!... Ho bisogno
di prendere un po’ d’aria».
Si chinò fuori del finestrino, toccò con la punta del bastone la spalla del vetturino e
fece fermare la carrozza. Giulio si preparava a scendere con lui.
«No, mi lasci andare. Ne so abbastanza per scegliere una linea di condotta. Tenga
il resto per un romanzo. Per quel che mi riguarda, questa sera stessa scrivo al Gran
Maestro, e domani ricomincio le mie cronache scientifiche sulla Dépêche. Riderà
bene chi riderà l’ultimo».
«Come? zoppica ?» disse Giulio sorpreso di vederlo nuovamente claudicante.
«Sì, da qualche giorno i miei dolori mi hanno ripreso».
«Ah! me la dica tutta!» disse Giulio che, senza guardarlo allontanarsi, si
rincantucciò nella carrozza.
(Gide, I sotterranei del Vaticano)
- FINE –«A somiglianza di una celebre definizione che fa dell’universo kantiano una catena
di causalità sospesa a un atto di libertà, si potrebbe» dice il maggior critico italiano
dei nostri anni «riassumere l’universo pirandelliano come sin diuturno servaggio in
un mondo senza musica, sospeso ad una infinita possibilità musicale: all’intatta e
appagata musica dell’uomo solo».
Credevo di aver ripercorso, à rebours, tutta una catena di causalità; e di essere
riapprodato, uomo solo, all’infinita possibilità musicale di certi momenti
dell’infanzia, dell’adolescenza: quando nell’estate, in campagna, lungamente mi
appartavo in un lungo, che mi fingevo remoto e inaccessibile, di alberi d’acqua; e
tutta la vita, il breve passato e il lunghissimo avvenire, musicalmente si fondevano, e
infinitamente, alla libertà del presente. E per tante ragioni, non ultima quella di esser
nato e per anni vissuto in luoghi pirandelliani, tra personaggi pirandelliani, con
traumi pirandelliani (al punto che tra le pagine dello scrittore e la vita che avevo
vissuta fin oltre la giovinezza non c‘era più scarto, e nella memoria e nei sentimenti);
per tante ragioni, dunqne, rivolgevo nella mente, sempre più precisa (tanto che la
trascrivo ora senza controllare), la frase del critico: appunto come frase o tema
dell’infinita possibilità musicale di cui disponevo. O, almeno, di cui mi illudevo di
disporre.
Per dirla più semplicemente: non avevo impegni di lavoro o sentimento; avevo quel
tanto, poco o molto (ma fingevo fosse poco), che mi consentiva di soddisfare ogni
bisogno o capriccio; non avevo né un programma né nna meta (se non quelle,
fortuite, delle ore dei pasti e del sonno); ed ero solo. Nessuna inquietudine, nessuna
apprensione. Tranne quelle, oscure e irreprimibili, che ho sempre avute, del vivere e
per il vivere; e vi si innestavano e diramavano l’inquietudine e l’apprensione per
l’atto di libertà che dovevo pur fare: ma leggere e leggermente stordite, come mi
trovassi dentro un giuoco di specchi, non ossessivo ma luminuso e quieto come l’ora
e i luoghi che percorrevo, pronto a ripetere, a moltiplicare, quando sarebbe scattato,
quando avrei voluto farlo scattare, il mio atto di libertà.
Andavo in automobile. E questo mezzo, che di solito detestavo e di cui pochissimo
mi servivo, era entrato a far parte della mia libertà, al mumento che avevo deciso di
esser libero. La guidavo non velocemente, con una calma che rendeva innocue le
distrazioui in cui frequentemente cadevo. E appunto la moderata velocità, e il quieto
piacere di guardare intorno mentre guidavo, mi diede modo di cogliere, ad una svolta,
la scritta Eremo di Zafer 3, nera su giallo: a cui subito abboccò, come ad un amo,
quella mia inquietudine, quella mia apprensione. Fermai l’automobile e poi la feci
lentamente scivolare indietro, fino ad aver di fronte la tabella gialla e nera. Eremo di
Zafer 3. La parola eremo, il nome Zafer, il numero 3: cose ugualmente e
diversamente suggestive, per me; e vi si aggiungeva la suggestione che erano tre, il
tre che si ripeteva: e anche nel fatto che proprio da tre giorni liberamente vagavo
(ché, lo confesso, sono affetto da una piccola ma tenace, non so come formatasi e
stabilitasi, nevrosi da trinità). L’eremo è luogo di solitudine; e non di quella
solitudine oggettiva, di natura, che meglio si scopre e più si apprezza quando si è in
compagnia: un bel posto solitario, come si suol dire; ma di quella solitudine che ne ha
specchiato altra umana e si è intrisa di sentimento, di meditazione, magari di follia. E
in quanto a Zafer: un santone musulmano o cristiano? Ed era a tre chilometri:
soltanto, esattamente e giustamente. Feci la breve manovra per entrare nella stradetta
asfaltata (e l’asfalto avrebbe dovuto mettermi in guardia) e mi avventai alla salita.
Querce da sughero e castagni facevano galleria, l’aria profumava di tardive ginestre.
E improvvisamente un vastissimo spiazzo anch’esso asfaltato, un lato chiuso da un
casermone di cemento orridamente bucato da finestre strette e oblunghe. Mi fermai,
deluso e arrabbiato; poiché non si vedeva che la strada potesse continuare, e dunque
l’eremo era ormai quella mostruosa costruzione. Un albergo, con tutta probabilità. E
stetti per un po’ indeciso: se tornarmene indietro senza scendere dall’automobile o se
scendere per guardarmi intorno e domandare chi avesse piantato lì quel casermone, e
perché. Vinse la curiosità; e anche il gusto di rivalermi della delusione dicendo a
qualcuno, ché dentro qualcuno doveva pur esserci anche se sembrava inabitato e tutto
era assolutamente silenzioso, l’indignazioue che provavo a trovare invece di un
eremo un albergo. Scesi dall’automobile e la chiusi a chiave, ché il silenzio aveva un
che di misterioso e di sinistro. La porta centrale dell’edificio, grande, a vetri, era
aperta. Entrai e mi trovai, per come avevo previsto, nell’atrio di un albergo. Al banco
del portiere, il casellario irto di chiavi dietro, c’era un prete. Giovane, bruno,
zazzeruto. Stava leggendo «Linus». Vedendomi entrare, l’occhio gli si spense di noia.
Rispose al mio saluto senza voce, muovendo le labbra.
«Mi scusi: questo è un eremo o un albergo?» domandai con una certa violenza e
ironia.
«È un eremo ed è un albergo».
«L’eremo di Zafer?».
«L’eremo di Zafer, appunto».
«E l’albergo?».
«L’albergo che?». Molto seccato.
«L’albergo che nome ha?».
«Di Zafer». E distaccando le parole, ché me le piantassi nella memoria «hotel di
Zafer».
«Eremo di Zafer, hotel di Zafer. Bene. E chi era, Zafer?».
«Un eremita, naturalmente: se questo era un eremo».
«Era» sottolineai.
«È».
«L’ha detto lei: era... Comunque: un eremira musulmano? ».
«Ma che musulmano: crede che avremmo continuato a onorare un musulmano?».
«E perché no? L’ecumenismo…».
«L’ecumenismo non c’entra... Era stato musulmano, poi si convertì alla vera fede».
«La vera fede: ma questa è una espressione musulmana». Volevo continuare a
seccarlo.
«Sarà» disse il prete: e tornò a gettar l’occhio su «Linus», a farmi capire the stavo
annoiandolo e disturbandolo.
«Se non la distorbo» calcando per dire che apponto volevo disturbarlo «desidererei
sapere qualcosa su Zafer, sull’eremo... E sull’albergo».
«Lei è un giornalista?».
«No. Perché?».
«Se è un giornalista, perde il suo tempo: lo scandalo c’è già stato».
«Che scandalo?».
«Per l’albergo: che non si doveva fare, che è brutto... C’è già stato: tre anni fa».
«Non sono un giornalista. E mi piacerebbe sapere qualcosa anche dello scandalo».
«Perché?».
«Non ho niente da fare. E neanche lei, vedo».
Gettò su «Linus» uno sguardo ormai senza speranza. «Veramente» disse «qualcosa
da fare l’avrei».
«Che cosa?» domandai: con impertinenza, con provocazione.
«Oh...» disse, facendo con la mano un gesto che comprendeva le tante cose che
aveva da fare, la grande confusione in cui si sarebbe dovuto immergere chi sa per
quanto tempo e con quanta fatica: e perciò, intanto, a tenersi fresco per la prova,
leggeva «Linus».
Glielo dissi. Se ne sentì punto, ma divenne più affabile.
«Che rosa vuole che le dica? Dello scandalo, cioè di come le cose sono state
presentate da certi giornali e da certi uomini politici, so poco... Che c’è stato: e
basta... C’era un eremo: una casa diroccata, una chiesetta mal tenuta; e don Gaetano,
tre anni fa, ha tirato su quest’albergo... La Repubblica tutela il paesaggio, lo so; ma
poiché don Gaetano tutela la Repubblica... Insomma: la solita storia». Sorrise acre.
Non si capiva se ce l’aveva con don Gaetano o con la Repubblica.
«E chi è, don Gaetano?».
«Non sa chi è don Gaetaoo?». Tra meravigliato ed incredulo.
«Non lo so. Dovrei saperlo?».
«Direi di sì». Cominciava a divertirsi.
«E perché?».
«Ma per le cose che ha fatto, per le cose che fa…».
«Ha fatto questo albergo: sono tutte di quest’ordine le cose che fa?».
«Quest’albergo l’ha fatto, per così dire, con la mano sinistra».
«E con la destra?».
«Scuole: a diecine, forse a centinaia. Dovunque. Di ogni grado. Persino
un’università».
«Centinaia di scuole e un albergo».
«Tre alberghi».
«Ah, tre alberghi. E sempre distruggendo eremi?».
«Gli eremi non li distrugge: li ingloba. Qui, l’eremo di Zafer è infatto. È diventato
una cripta».
«E si può vedere?«.
«Sì che si può vedere». Sospirò di stanchezza, aspettandosi che gli chiedessi di
vederlo.
Non glielo chiesi. «E don Gaetano?» domandai.
«Don Gaetano che?».
«Si può vedere anche don Gaetano?».
«Certo: è qoi. Ci passa tutta l’estate. Tra gli alberghi che ha fatto, questo gli è
carissimo».
«E perché?».
«Non so. Forse è legato al luogo da ricordi d’infanzia. Forse perchè il farlo gli è
costata una guerra più lunga... Ma l’ha vinta».
«Evidentemente, non poteva che vincerla».
«Eh sì, non poteva che vincerla» convenne. Il tono era d’orgoglio, ma con una
smorzatura di pudore.
Mi girai intorno. «Per essere tranquillo, è tranquillo» dissi. «È anche comodo?».
«L’albergo? Comodissimo».
«Mi ci fermerei per qualche giorno» dissi.
«Non è possibile».
«Tutto occupato?». Ironicamente: poiché pareva, ed era, deserto.
«In questo momento, compreso il personale di servizio, siamo in ventuno. Ma
dopodomani arriva la piena».
«I clienti arrivano tutti in una volta?».
«Sono clienti particolari». Fece una pausa; poi, come mi confidasse un segreto
«Esercizi spirituali».
«Oh, esecizi spirituali». Fingendo una meraviglia adeguata alla confidenza che mi
elargiva. Ma, per la verità, on po’ meravigliato lo ero. Da anni, da molti anni, non
sentivo parlare di esercizi spirituali; e credevo non se ne facessero più. Se ne parlava
tanto quando ero bambino, all’arrivo in paese delle missioni paoline: che era,
nell’annata, un avvenimento importante quanto l’arrivo della compagnia d’operette
Petito-D’Aprile e di quella drammatica D’Origlia-Palmi; e altrettanto puntuale. I
paolini facevano prediche per tutti, esercizi spirituali per pochi; e infine piantavano,
in qualche punto della periferia, una croce di ferro, a ricordo della missione: e se ne
andavano. L’ultima volta che avevo sentito di esercizi spirituali era stato nel
dopoguerra: ché avvicinandosi le elezioni, le prime, un padre domenicano era venuto
a predicare, talmente entusiasmando gli uomini del ceto insegnante e impiegatizio da
tirarseli dietro, in una villa messa a disposizione da un benestante devoto, per tutta
una settimana. E il bello fu che ci andarono anche i massoni, tornandone affilati nel
corpo e nello spirito quanto quelli che massoni non erano.
«Esercizi spirituali» ribadì il prete. «Ogni anno, puntualmente: l’ultima domenica di
luglio cominciano i turni».
«E quanto dura, un turno?».
«Una settimana».
«E quauti turni?».
«Tre, quattro. Tre fino all’anno scorso, quattro quest’anno».
«I fedeli aumentano».
«Sì, certo» disse il prete: ma formalmente. Aveva qualche dubbio. E tornando alla
confidenza «Ma il Più importante è il primo turno».
«Perché?».
«Per le persone che vi partecipano». E abbassando la voce e stringendo ancora di
più la confidenza «Ministri, deputati, presidenti e direttori di banche, industriali... E
tre direttori di giornali, anche».
«Davvero importante» dissi. «E mi piacerebbe tanto trnvarmi qui, mentre queste
persone fanno gli esercizi spirituali».
«Impossibile».
«Capisco... Ma oggi e domani, fin tanto che non arriva, come lei dice, la piena:
potrei restare, no?».
«Teoricamente
«E in pratica?».
«In pratica, sempre che don Gaetano dica di sì, bisogna che lei si contenti, che si
adatti: i servizi difettano; e la cucina, poi…».
«E sarei il solo, diciamo così, ospite pagante?».
«Non il solo, ce ne sono altri cinque». E tra l’esasperato e il misterioso «Cinque
donne».
«Vecchie e straniere» dissi.
«Ma no: non sono vecchie e non sono straniere».
«Ma sole?».
Gli passò nello sguardo un lampo di malizia; e come a lavarsene le mani disse
«Sono arrivate sole».
«Ma lei ha il dubbio che siano davvero sole».
«No, no…». Debolmente; e a formale riparazione «Volevo dire: sono arrivate sole
ma ora si fanno compagnia».
«Io sarei dunque il sesto».
«Bisogna sentire don Gaetano».
«Sentiamolo».
«Non ora. Più tardi, quando sarà l’ora della refezione. Non si può disturbarlo mentre
è in raccoglimento: sta nella cappella qui sotto». Puntò l’indice verso il pavimento.
«L’eremo di Zafer» dissi.
«Precisamente... Intanto, lei può muoversi come vuole: dentro o fuori». Il colloquio
era irrimediabilmente finito: avidamente i suoi occhi riapprodarono a «Linus».
Andai fuori: oltre lo spiazzale, nel bosco. Man mano che mi alluntanavo
dall’albergo, gli alberi diventavano più fitti, l’aria più fresca e odorosa di resine. La
solitudine era perfetta. E mi dicevo di tanta perfezione, e della libertà con cui stavo
godendomela, quando tra gli alberi intravidi come un lago di sole e dei colori che vi
si muovevano. Mi avvicinai cautameute. Nella radura, al sole, c’erano delle donne in
bikini. Erano certamente quelle dell’albergo, di cui mi aveva detto il giovane prete.
Cinque, infatti. Mi avvicinai ancora, sempre silenziosamente. E stavano in silenzio
anche loro: distese sugli asciugamani a spugna dai colori vivaci, quattro; una invece
seduta, immersa nella lettura. Era un’apparizione. Qualcosa di mitico e di magico. A
immaginarle del tutto nude (e non ci voleva molto), tra l’ombra cupa del bosco in cui
io stavo e la chiazza di sole in cui stavano loro, con quei colori, in quell’assorta
immobilità, ne veniva un quadro di Delvaux (non mio: chè io non ho mai saputo
vedere la donna in mito e in magia, nè pensosa, nè sognante). Era di Delvaux la
disposizione, la prospettiva in cui stavano rispetto al mio occhio; e anche quello che
non si vedeva e che io sapevo: il fatto che stavano, sole, in quel cieco casermnnc
tenuto da preti. Stetti un po’ a spiarle: avevano bei corpi. Quattro erano bionde, una
bruna. I grandi occhiali da sole che portavano, mi impedivano di vedere se erano
belle; e la distanza anche, nonostante la mia presbiopia.
Debbo confessare che vagheggiai l’avventura; e che mi sentii felice, a immaginarmi
al centro della loro compagnia, quanto poco prima, e anzi più, sentendomi in perfetta
solitudine. Ma mi allontanai, tornando verso l’albergo.
Trovai don Gaetano (non poteva essere che lui) appoggiato, da fuori, al banco su cui
il prete-portiere leggeva ora, invece di «Linus», un libro rilegato in nero. Alto nella
lunga veste nera, immobile; gli occhi di uno sguardo lontano, fissamentesperso; una
corona a grossi grani, nera, avvolta nella mano sinistra; la destra grande e quasi
diafana sul petto. Sembrava non vedermi, ma mi venne incontro. E sempre come non
vedendomi, dandomi la curiosa sensazione, da sfiorare l’allucinazione, che si
sdoppiasse visivamente, fisicamente - una figura immobile, fredda, propriamente
discostante, che mi respingeva al di là dell’orizzonte del suo sguardo; altra piena di
paterna benevolenza, accogliente, fervida, premurosa - mi diede il benvenuto
all’Eremo di Zafer. Che non era più, o non era soltanto, un eremo, ma un albergo:
senz’altro brutto, lo riconosceva; ma che si può fare mai con questi architetti, oggi?...
Presuntuosi, fanatici, inaccostabili... Meglio, oh quanto meglio, i capimastri di una
volta... Della bruttezza, comunque, non aveva colpa; della comodità, un po’ di
merito... Gli architetti! Le due grandi imposture del nostro tempo: l’architettura e la
sociologia. E stava per accompagnarvisi la medicina, ormai al livello della più
ignobile stregoneria... E come preso da improvvisa preoccupazione «Spero che lei
non sia né architetto nè sociologo né medico».
«Sono un pittore» dissi.
«Un pittore... Già, mi pare di riconoscerla... Aspetti, non mi dica il suo nome... In
televisione, circa tre mesi fa: facevano vedere come nasce un quadro, un suo quadro...
Francamente, poteva farsi vedere a dipingere un quadro più bello... Ma l’ha fatto
apposta, immagino: come nasce un brutto quadro per un brutto mondo, un quadro
senza intelligenza per quei milioni di esseri senza intelligenza che stanno davanti a un
televisore».
«C’era anche lei, davanti a un televisore» dissi un po’ irritato.
«È un complimento, ma forse non ne sono degno: guardo troppo spesso la
televisione, perché possa dirmi completamente immune della lebbra dell’imbecillità...
Troppo spesso: e finirò, se già non ci sono finito, col contagiarmene... Perché, me ne
confesso, la contemplazione dell’imbecillità è il mio vizio, il mio peccato... Proprio:
la contemplaziune... Giulio Cesare Vanini, che è stato bruciato come eretico,
riconosceva la grandezza di Dio contemplando una zolla; altri contemplando il
firmamento. Io la riconosco dall’imbecille. Non c’è niente di più profondo, di più
abissale, di più vertiginoso, di più inattingibile... Solo the non bisogna contemplare
troppo... Ecco, ci sono arrivato: lei è…» e disse il mio nome.
«La meccanica per cui è arrivato a ricordarsi del mio nome, debbo dire che non mi
lusinga» dissi scherzoso ma con una punta di risentimento.
«Oh no: mentre dicevo dell’imbecillità, una parte della mia mente ruotava a cercare
il suo nome, a ingranarlo... È una macchinetta a parte, la memoria: la mia, almeno...
Dunque, lei vuole restare qui per oggi e per domani. Sarà un onore per noi, ma credo
non sarà un piacere per lei. Comunque: tutto l’albergo, tranne le poche camere che
sono già occupate, è a sua disposizione».
«Ma mi piacerebbe restarci oltre domani: ho saputo che si terranno esercizi
spirituali».
«Vuol farli anche lei?».
«Diciamo che vorrei esercitare la mia spiritualità facendo da spettatore agli esercizi
spirituali degli altri».
«Pura curiosità, insomma».
«Lo ammetto».
«O peggio: il gusto di cogliere altri in pratiche che lei, forse, ritiene non degne degli
uomini; di deriderli...».
«Forse».
«Beh, non si puù mai dire».
«Che cosa?».
«Niente: lei ha sentito degli esercizi spirituali, e le è venuto il desiderio di
assistervi... E crede che questo impulso le venga dalla voglia di divertirsi, di
deridere... Ma non si sa mai, quello che può nascere da un simile impulso: un atto di
libertà…».
«…a cui poi si saldano gli anelli della causalità».
Mi guardò, per la prima volta, con un certo interesse. «Già» disse «la catena».
S’inchinò leggermente. E scomparve.
Scesi dalla camera quando sentii, nel corridoio, prolungatamente trillare un
campanello, come nelle stazioni quando si annuncia l’arrivo di un treno: lo stesso
suono. Lo interpretai come avviso che la colazione era pronta; e non sbagliai.
Il refettorio era vasto, fitto di tavole rotonde e quadrate di cui solo due erano
apparecchiate e occupate. Don Gaetano mi chiamò alla sua. Il mio posto, alla sua
destra. E c’erano altri quattro preti, il portiere compreso. Le cinque donne stavano ad
una tavola molto lontana dalla nostra; ma non tanto che non si sentissero le loro voci,
i loro discorsi: e si confondevano in quel cerchio come acqua che da cinque bocche
sgorgasse in una fontana. Tacquero quando don Gaetano si alzò per la preghiera e la
benedizione: e quest’ultima la diresse anche verso di loro, ma con un gesto che senza
perdere di solennità aveva una sfumatura noncurante e insieme beffarda: come di chi,
mangiata la polpa, getta poi l’osso al cane. Le donne compuntamente si segnarono di
croce, mormorarono la preghiera, si riseguarono. E ripresero a cicalare. Don Gaetano
si risedette e, cominciando da me, versò il vino a tutti, lodandolo da intenditore, ma
con quelle parole francesi che ora usano i non intenditori. Era un vino, disse, della
zona; di mezza costa, tra la montagna e il mare; e citò in greco il poeta greco che, a
sua opinione, proprio quel vino, di quella zona, aveva celebrato. Non parlò d’altro.
Beveva con piacere e mangiava svogliato. E c’era di che svogliarsi, nei cibi: mal
cucinati, insipidi; e altro non si poteva, per mandarli giù, che aggiungere sale e pepe,
che almeno stuzzicavano al vino, davvero eccellente. Alla fine, scusandosi, don
Gaetano mi disse che il cuoco sarebbe arrivato l’indomani sera: e sarebbe stato
tutt’altro mangiare.
Uguale il pranzo; e così la colazione dell’indomani. Non fosse stata la curiosità che
avevo per gli esercizi spirituali, e per coloro che vi avrebbero partecipato, me ne sarei
andato; anche se la conversazione di don Gaetano mi dava un grande piacere:
parlasse del vino o di Arnobio, di sant’Agostino, della pietra filosofale, di Sartre.
Il pranzo della seconda sera fu davvero migliore, anche se relativamente. Il cuoco e
i suoi aiutanti erano arrivati nel tardo pomeriggio: e soltanto avevano potuto
correggere, rimediare. Ma il miglioramento bastò a sollevarci in un certo buonumore,
come constatò don Gaetano: e passò così a deprecare quegli stupidi che mostrano di
non curarsi di quello che mangiano o sono tanto naturalmente rozzi o ineducati da
non curarsene davvero. Parlò della cucina francese: la sola, e meritatamente, che
annoverasse un eroe come Vatel, da paragonare a Catone l’uticense; ché se questo si
era ucciso per la libertà che se ne andava, quello per il pesce che non arrivava. E
l’atto, davanti a Dio, aveva lo stesso valore, mosso com’era dalla stessa passione: il
rispetto di sé.
«Ma» obiettai «c’è rispetto di sé e rispetto di sé: non si può, e nemmeno Dio
dovrebbe, mettere sullo stesso piano il pesce, che peraltro non era che una delle tante
portate alla tavola del decimoquarto, e la libertà».
«E perché no? Lasciando stare Dio, poiché quel che sappiamo del suo giudizio è
dato dalle scelte che noi operiamo per salvarci, e io penso che conti più la nostra
volontà di salvarci che le scelte; lasciando stare Dio, ecco: ammesso che il rispetto di
sé sia una giusta scelta, più esemplarmente la testimonia Vatel che Catone l’utitense:
il pesce doveva arrivare, e infatti arrivò un’ora dopo che Vatel si era suicidato... Ma
la libertà?».
Si accese una discussione che la partecipazione degli altri quattro preti subito
confuse, aggrovigliò. Lasciammo, don Gaemno ed io, che si sbrigliassero: ognuno a
dire la sua senza minimamente far conto di quella degli altri; e, finito il pranzo, li
lasciammo che erano quasi arrivati agli insulti.
Uscendo dal refettorio, don Gaetano mi chiese se ero proprio deciso a restare per
assistere agli esercizi spirituali. Risposi che sì, ero deciso. Mi parve se ne rallegrasse,
maliziosamente; ma mi fece, agitando in aria, di taglio, la grande mano bianca, un
gesto di scherzosa riprovazione e minaccia; come a dire: cattivo miscredente che vuoi
sorprendere il buon credente nel suo nido, nel suo fortilizio: dovrai renderne conto. E
così, lasciandomi negli occhi quella sua mano, sparì. (E qui debbo spiegare perché
dicendo di don Gaetano che se ne va, che se ne è andato, ho usato i verbi scomparire
e sparire; e ancora li userò, e forse anche altri come svanire e dissolvere. E debbo
ricorrere al ricordo di un giuoco che si faceva da bambini: si disegnava su un foglio
una silhouette tutta in nero, un solo punto bianco al centro; si guardava fissamente
quel punto bianco contando fino a sessanta; poi si chiudevano gli occhi o si guardava
al cielo: e si continuava a vedere la silhouette, ma bianca, ma diafana. Con don
Gaetano succedeva qualcosa di simile: quando se n’era già andato, la sua immagine
persisteva come negli occhi chiusi o nel vuoto; sicché non si riusciva mai a cogliere il
momento preciso, reale, in cui si allontanava. Che era poi un effetto conseguente a
quella specie di sdoppiamento di cui ho tentato di dire. Il fatto è che stando con lui si
stabiliva come una sfera di ipnosi. Ma è difficile rendere certe sensazioni).
Per una certa impazienza che mi aveva agitato anche nel sonno, mi alzai all’alba di
quel gran giorno. Non volevo perdermi l’arrivo di coloro che per tutta una settimana
si sarebbero dedicati a quella ginnastica dello spirito ma senza mortificare la carne,
poiché il famoso cuoco era arrivato. Anticipai di troppo, però; anche se non ebbi a
pentirmene. Non vedevo l’alba, così, da una finestra, sulla terra, almeno da venti
anni. Ne avevo visto qualcuna, in tanto tempo, viaggiando in aereo: ma non era la
stessa cosa. Stetti per un po’ alla finestra, a godere di quel compiuto e perfetto
equilibrio tra la natura e i miei sensi. E mi venne voglia di dipingere. Ma subito me
ne distolsi nel limure di squilibrare, di guastare; e cioè di non rendere. Vale a dire che
era una voglia del tutto banale e, in un certo senso, accademica; da luogo comune,
insomma. Di chi, non sapendo dipingere, o sapendo dipingere senza essere davvero
pittore, di fronte a uno spettacolo della natura, a un paesaggio, a una certa
disposizione di cose nello spazio e nella Jucc, dice «sarebbe da dipingere» che è,
appunto, il più banale e accademico elogio della natura nel tempo stesso che si
svaluta e degrada la pittura; la quale, almeno per me, si volge a tutto quel che non
sarebbe da dipingere. Era una falsa voglia, del resto: e lo sapevo nel momento stesso
in cui mi insorgeva. Lo sapevo dal fatto che avevo i piedi freddi: poiché da quando ho
letto la battuta di Voltaire, che per dipingere bene bisogna-avere i piedi caldi (anche
se si riferiva ai pitturi inglesi: e direi giustamente, Bacon e Sutherland inclusi), ne ho
tenuto conto e ne ho fatto, su me, verifica. I quadri che ho dipinto a piedi freddi sono
i miei peggiori; ma ciò non toglie che siano, dai critici e dai collezionisti, i più
apprezzati. E ne avevo dipinti tanti, a piedi freddi, perché mi venisse davvero voglia
di dipingerne uno mentre mi sentivo libero, non più legato al mestiere, al mercato,
alle mostre, al denaro, alla fama; anche se questa libertà, purtroppo, mi veniva dal
fatto che avevo già tutto: molta fama, molto denaro, mostre in ogni parte del mondo,
un mercato in continua ascesa, un mestiere che mi permetteva di buttar giù anche due
o tre quadri al giorno. A piedi freddi, beninteso. Quelli dipinti a piedi caldi, non molti
ormai, li tenevo per me: cioè per una più tarda e giusta fama. Ma ad esser sincero,
non mi importa poi molto della fama oltre la morte.
Mi sentivo libero da tutto, comunque. E anche dalla pittura. O meglio (poiché siamo
al discorso, non è inopportuno che tenti di spiegarmi fino in fondo), questa mia specie
di fuga, questa mia illusiooe di libertà, altro non volevano essere che una pausa, una
battuta d’aspetto: per tornare a una pittura, secondo la saggia prescrizione voltairiana,
a piedi caldi. Impossibile ritorno, e a sprazzi me lo dicevo: avrei continuato a
dipingere molto a piedi freddi e poco, pochissimo, a piedi caldi. Ma le cose, dentro di
noi, sono sempre maledettamente complicate; e tanto più inganniamo noi stessi, o
tentiamo, quanto più evidente e immediato si prospetta il disinganno.
Stetti dunque, per un po’, alla finestra: a godere quel compiuto e perfetto equilibrio,
et coetera... Mi immersi poi nell’acqua ben calda, a riscaldarmi i piedi e a togliermeli
così dalla coscienza. E infatti uscii dal bagno rinfrancato. Mi sbarbai, mi pettinai, mi
vestii. E scesi giù.
C’era gran movimento, nell’atrio. Il personale di servizio si era moltiplicato. E
anche i preti, ne contai sette di nuovi, che andavano e venivano, indaffaratissimi.
Troppa confusione; e me ne uscii sullo spiazzale, dove avevano messo tante sedie a
sdraio: tutte vuote, ma afflosciate e improntate dai corpi che avevano accolto, e
disposte come avessero da sé disfatto un ordine di platea per comporne uno di circoli,
davano, anche per i colori del legno e della tela grezza, a bande verticali azzurre e
rosse, l’impressione di un quadro metafisico. Entrai a completare il quadro: a chi si
fosse affacciato da una finestra alta dell’albergo, sarei sembrato un manichino
abbandonato su una sedia (io vivo i quadri altrui più dei miei; e specialmente quelli
dei pittori da me più lontani).
Lo spiazzale era, mi pare di averlo già detto, vastissimo. Oltre lo spazio occupato
dalle sedie, ce n’era da consentire posteggio e manovra alle tante automobili che
sarebbero arrivate. Ma si fecero le nove prima che cominciassero ad arrivare.
Le prime quattro arrivarono in rapida successione. Nel momento in cui la prima si
fermò davanti alla porta dell’albergo, don Gaetano si materializzò sulla soglia. Ma
forse c’era già da prima. Dall’automobile scese un vescovo. E un vescovo scese da
ognuna delle tre che seguivano. Quando furono insieme, mi accorsi che uno dei tre
aveva lo zucchetto rosso invece che viola. Un cardinale: e lo distinsi, con scarso
rispetto, debbo ammetterlo, per il ricordo di un verso del Belli, «se levò er nero e cce
se messe er rosso»: di quando una pattuglia di gendarmi fa irruzione in un postribolo,
e il brigadiere che la comanda si vede venire incontro, «serio serio», un prete the
solennemente, togliendosi lo zucchetto nero e mettendosi quello rosso, si
metamorfosa in cardinale: con grande confusione del brigadiere.
Un principe della Chiesa: e perciò una diecina di motociclette, con altrettanti
poliziotti che, un piede puntato a terra, vi si scosciavano sopra, rombavano nello
spiazzale impedendomi di sentire quel che si dicevano il cardinale, i vescovi e don
Gaetano. Ma pareva si scambiassero complimenti e arguzie. Don Gaetano, come al
solito, in abito talare; gli altri quattro in pantaloni e giacca grigioferro, pettorale dello
stesso colore su cui spiccava il crocefisso d’argento, colletto duro e lucente. E lo
zucchetto. Nessuno dei quattro mi pareva avesse spiccata personalità. Due avevano
faccia da contadini e due da burocrati. Il cardinale da burocrate: di quelli col
regolamento alla mano, di strenua pignoleria. Se si fossero tolto lo zucchetto, a darla
ad indovinare, chi tra i cinque la faceva da cardinale era don Gaetano; e gli altri
sarebbero sembrati dei parroci, due di città e due di campagna. Pur in atteggiamento
di filiale devozione, di gioia e a tratti d’ilarità, don Gaetano manteneva un distacco,
una freddezza, una severità che mi suscitavano sentimento di piena ammirazione.
Altro che cardinale: poteva anch’essere il papa.
I motociclisti si allontanarono levando più alto il loro rombo. Nell’improvviso
silenzio, sentii il cardinale lodare la bellezza e grandiosità dell’albergo. Don Gaetano,
così mi parve, guardò dalla mia parte con un ammicco di ironico compatimento: per
quel povero cardinale che avrebbe dovuto sapere, e non sapeva, quel che è veramente
grandioso, veramente bello. Poi disse «Eminenza…» e si tirò dentro l’albergo quel
piccolo grappolo di gerarchia.
Nell’attenzione a cogliere quel che si dicessero il cardinale, i vescovi e don
Gaetano, non mi ero accorto dell’arrivo di altre antomobili. Quasi tutte con autista in
divisa, e quindi di enti o di ministeri. Chi ne scendeva doveva essere un ministro, un
sottosegretario, un direttore generale, un presidente, un vicepresidente. Qualcuna
aveva invece al volante una donna: e mi ci volle poco a capire che si trattava di mogli
che accompagnavano i mariti, ma per riportarsi indietro l’automobile. Una mi diede
alla fantasia: non propriamente bella (ma le donne propriamente belle non le ho mai
amate, una l’ho soltanto sposata e subito lasciata), ma alta e formosa; una espressione
intelligente, ironica; qualcosa nei movimenti, nel sorriso, nella luce degli occhi di
appena contenuto, di impaziente: come stesse per prorompere in un grido di
liberazione; in una corsa, quasi un volo, di gioia. E mentre il marito apriva il
portabagagli e ne estraeva le valige, lei volubilmente parlava; e la sua voce suonava
per me come un invito, quasi che le raccomandazioni al marito di non prender freddo,
di mangiare con moderazione, di mettere a sera il golfino e di non dimenticare ai
pasti le pillole, volessero dire per me (ché mi aveva notato e torse riconosciuto): ora
lascio questo cretino, questo porco, questo ladro; e per una settimana sarò libera,
libera, libera... E mentre decifravo questo suo invito mi sogguardò, ilare e languida,
sfidando e promettendo, a confermarmelo. Ebbi per un momento la tentazione di
andarle dietro o, più sbrigativamente, di chiederle un passaggio per la città: davanti al
marito, cui una certa apprensione nei riguardi della moglie, se era capace di averne,
avrebbe giovato per gli esercizi che si appressava a fare. Ma la guardai partire senza
muovermi: un distratto bacio al marito, un ultimo sguardo a me, le gambe ben
scoperte nel momento in cui tirava a sé lo sportello. E del resto, qualcuno, forse, già
l’aspettava: ho accompagnato quel porco all’eremo di Zafer, per i suoi esercizi
spirituali; finalmente, una settimana tutta per noi... Ma per un po’ coltivai l’illusione
che per me avrebbe piantato l’uomo che l’attendeva.
Lo spiazzale era ormai pieno di automobili e mucchietti di valige e borse. I facchini
andavano e venivano, in affano e sudore; ma non sapevano, evidentemente,
riconoscere il grado degli ospiti che erano già arrivati o arrivavano, e perciò alcuni di
costoro li chiamavano e protestavano con un tono che voleva dire: il bagaglio che stai
prendendo prima del mio è del mio vicepresidente, mentre io sono il presidente, e
vengo prima di lui anche se sono arrivato dopo; o qoalcosa di simile. Ma a parte
queste punte di irritazione, che si riversavano sui facchini, l’atmosfera era di una
compagnoneria facile e sguaiata: gridi di sorpresa, abbracci, manate, scherzosi insulti.
All’arrivo di un ministro la compagnoneria si spense, ci fu un silenzioso movimento
di risucchio, verso l’automobile da cui scendeva, come di limatura di fèrro verso la
calamita. E così all’arrivo di altri tre o quattro, che non riconobbi. E quando, ad un
certo punto, comparve don Gaetano, quel movimento, coinvolgendo il ministro e gli
altri a me ignoti potenti, da ogni parte gli si riversò: arrestandosi però alla distanza di
di un buon metro, in semicerchio. E mi parve che in quel semicerchio l’ordine delle
precedenze si ricostituisse perfettamente, a baciargli la mano. Don Gaetano riconobbe
tutti, per ognuno richiamò un particolare relativo alle funzioni o alla famiglia o allo
stato di salute; e tutti erano felici di essere stati così riconosciuti e distinti. Ma sempre
c’era, in tutto quello che don Gaetano diceva o faceva, come una vibrazione o
sfumatura d’irrisione: che, evidentemente, nessuno di quel gregge che intorno gli si
raccoglieva era in grado di avvertite. E io l’avvertivo e me ne incantavo: perché mi
parevano, quella distillata irrisione, quel sottile disprezzo, esercitati in una specie di
consorteria, di solidarietà, che si era stabilita tra lui e me; e che la sua immagine
fosse, più vecchia e saggia e consumata, la mia cui aspiravo.
Improvvisamente lo spiazzale si svuotò, tornò deserto e silenzioso come al mattino.
O improvvisamente ne presi coscienza.
Rientrai in albergo. I preti-portieri erano due, ora: quello che c’era al mio arrivo e
un altro che era dei quattro che avevo conosciuto a mensa.
«E ora che succede?» domandai.
«Gli ospiti sono andati alle loro camere: tra una mezz’ora scenderanno per la messa.
La celebrerà il cardinale. Poi parlerà don Gaetano».
«Nella cappella qui sotto?».
«Sì, nella cappella qui sotto».
«Potrei assistervi?».
«Credo di sì: don Gaetano non ha niente in contrario, che lei assista agli esercizi
spirituali, così mi è parso di capire; e poiché gli esercizi cominciano con questa
messa...».
Ringraziai e mi allontanai. Ero indeciso. E non perché mi paresse un’indiscrezione,
ché appunto ero rimasto lì per commetterla, quanto perché temevo di annoiarmi e di
essere costretto, per discreziune, a non andarmene prima che tutto finisse.
Ma ci andai. E mi annoiai moderatamente. Non assistevo a una messa da almeno un
quarto di secolo (e scrivere un quarto di secolo invece che venticinque anni
s’appartiene alla mia civetteria d’invecchiare). E poiché era la prima volta che la
sentivo in italiano, mi abbandonai a riflessioni sulla Chiesa, la sua storia, il suo
destino. E cioè il suo passato splendore, il suo squallido presente, la sua inevitabile
fine. Sotto specie estetica, credevo: ma c’era invece, in quel che andavo
disordinatamente pensando, qualcosa di più remoto ed oscuro; qualcosa di più
pericoloso. Un fondo di disagio, di apprensione; come in chi, partendo, appena
partito, sente di aver dimenticato o smarrito qualcosa, e non sa precisamente che. Ma
a voler confessare pienamente, e magari in eccesso, quello stato d’animo: mi sentivo
un po’ defraudato e sperduto. Quell’immobile macigno cui mi ero, nemico, affilato
per anni; quel macigno di superstizioni e paure, di intolleranza, di latino: eccolo
friabile e povero come la zolla più povera. Ricordavo ancora (a dieci anni avevo
servito messa) certi passi della messa in latino: e li confrontavo all’italiano cui erano
stati ridotti; propriamente ridotti, e anche nel senso di quando si dice com’è ridotto il
tale. «L’acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di Colui
che ha voluto assumere la nostra natura umana». Che insulsa dicitura, da far pensare
a quegli esseri insulsi che a tavola allungano il vino con l’acqua. «Deus, qui humanae
substantiae dignitatem mirabiliter condidisti, et mirabilius reformasti: da nobis per
hujus aquae et vini mysterium, ejus divinitatis esse consortes, qui humanitatis nustrae
fieri dignatus est particeps, Jesus Christus Filius tuus Dominus noster: Qui tecum
vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus: per omnia saecula saeculorum»:
dov’era ormai il senso di queste parole e, al di qua o al di là del senso, il mistero?
Ma tu, mi dicevo, volevi appunto questo: che il mistero si dissolvesse, che di quel
grandioso scenario, di quella maestosa illusione, restassero i nudi e squallidi tralicci,
come quando si entra in teatro per i Sei personaggi di Pirandello... Però quella
demistificazione del teatro, in Pirandello, è una forma che lo reinventa e riafferma: e
volevi dunqne che la Chiesa, rinunciando alla mistificazione e all’inganno, si
reinventasse e riaffermasse?... Ma no, volevo che finisse. Ed è già alla fine...
Eppure... La verità è che tante cose in noi, che crediamo morte, stanno come in una
valle del sonno: non amena, non ariostesca. E sul loro sonno la ragione deve sempre
vigilare. O magari, a prova, qualche volta svegliarle e lasciare che da quella valle
escano: ma perché se ne tornino giù mortificate e impotenti... Ma se la prova non
riesce? Ecco il punto. Al quale, per la verità, non mi ero mai trovato: poiché tutto,
dentro di me e intorno a me, era ormai da anni finzione. Non vivevo che
ingannandomi, e facendomi ingannare. Soltanto le cose che si pagano sono vere, che
si pagano a prezzo di intelligenza e di dolore. E io non pagavo ormai, soltanto, che
attraverso le banche. Non c’era sentimento, convinzione, idea per cui mi si chiedesse
altro che una firma su un assegno. O su un quadro: poiché quel che dà valore a un
quadro è la firma, appunto come ad un assegno. (Una volta o l’altra farò una mostra
di tele con la sola mia firma, da vendere a prezzi piuttosto alti; e suggerirò al
mercante questo slogan: «fatevelo da voi, un grande pittore ve lo ha già firmato»).
Anche del dolore altrui (la malattia, la miseria, il disastro che colpivano persone che
conoscevo o che senza conoscerle mi si rivolgevano; la guerra in cui bruciavano o
l’oppressione in cui gemevano popoli interi), bastava una firma perché subito le
immagini ne svanissero e me ne liberassi. E mi ero così liberato di tante cose; di
troppe perché non mi sentissi, in quel momento, lontano dalla verità, dalla vita... Mi
assalì allora il pensiero, un po’ molesto un po’ ironico, che continuando così a
riflettere e ad accusarmi, avrei finito col fare davvero gli esercizi spirituali: e sarei
stato il solo, poiché tutti quegli altri che a fare gli esercizi erano venuti sembravano,
ed erano, del tutto alieni dal farli. Durante la messa non facevano che parlarsi
all’orecchio, i vicini; salutarsi con cenni e con sorrisi, i lontani. Si sentivano in
vacanza: ma una vacanza che permetteva di riannodare fruttuose relazioni, ordire
trame di potere e di ricchezza, rovesciare alleanze e restituire tradimenti.
«La messa è finita: andate in pace». Ma non dovevano andare: per cui il trapestio e
tramestio, che subito si era levato, si spense all’apparire, dietro la balaustrata del
coro, di don Gaetano. Quelli che si erano lasciati andare, evidentemente si
vergognavano: e sulla loro silenziosa contrizione don Gaetano grandinò il suo
biasimo. Parlava con voce strascicata, come chi a stento contiene uno sbadiglio
continuamente insorgente; e senza mutar tono passò dai rimproveri alle spiegazioni:
del senso e della necesiità di quegli esercizi, per ciascuno e per tutti bilancio di
coscienza e per l’anno che era trascorso e per quello che si apriva; consuntivo e di
previsione. E come tutti coloro che si erano in quel luogo raccolti, per esercitare lo
spirito e rinnovellarne le forze, rappresentavano il mondo cristiano e cattolico nel
governo della cosa pubblica e comunque nelle cose volte al pubblico bene, bisognava
che in quella settimana mi domandassero, principalmente, assolutamente: abbiamo
dato a Dio quel che è di Dio?
A questo punto, uno che mi stava davanti sussurrò all’orecchio del vicino
«Certamente vuol fare un altro albergo». Ma subito girò lo sguardo intorno, timoroso;
e sospettando che io avessi sentito, mi fece un sorriso d’intesa, credendomi della sua
schiera: e che non potevo perciò ignorare come quel sant’uomo di don Gaetano,
senz’altro santo ma piuttosto esigente, intendesse il dare a Dio. Don Gaetano,
peraltro, non entrò nel merito del dare a Dio (omettendo del tutto, si capisce, il dare a
Cesare): lasciò che quel tema echeggiasse nelle singole coscienze, a tradursi, secondo
la branca di potere e le funzioni di ognuno, in concrete immagini o cifre.
«Ora potete andare» disse infine don Gaetano, caricando sulla prima parola il
residuo del rimprovero con cui aveva cominciato.
Tutti, compostamente questa volta, si alzarono e si avviarono all’uscita. Il cardinale
e i tre vescovi erano già spariti, forse dalla sacrestia. Restammo, nella cappella che
sembrò più grande, don Gaetano ed io. Don Gaetano pareva, come al solito, non
vedermi; ma dopo un po’ cominciò a parlarmi. Aveva capito perché ero rimasto.
«Lei non ha ancora visto bene la cappella, che è poi la chiesetta dell’eremo... Come
vede, è stata risparmiata: le ultime manomissioni risalgono al seicento... L’eremo di
Zafer! Tutta una storia inventata a tavolino: nella seconda metà del secolo scorso, da
un erudito locale... C’era la tradizione, la leggenda, di un eremita dalla faccia scura e
dalla barba bianca; e il farmacista del paese qui a valle gli diede un nome, Zafer... Io
credo che, nella testa del farmacista, le cose si siano combinate così: c’era il nome
della contrada, Zaffù; ed era stata pubblicata da poco la traduzione, di Michele
Amari, del Solwan el Mota’ di Ibn Zafer. Chissà, il testo gli sarà parso cristiano:
capita che isolando qualche passo si veda, in un testo tutt’altro che cristiano,
baluginare il cristianesimo... Zaffù, Zafer: tanto più bello Zafer; lo zaffiro, la zaffera,
lo zafferano... E poi c’era quel quadro». Me lo indicò, e fino a quel momento non lo
avevo visto: un santo scuro e barbuto, un librone aperto davanti; e un diavolo
dall’espressione tra untuosa e beffarda, le corna rubescenti, come di carne scorticata.
Ma quel che più colpiva, del diavolo, era il fatto che aveva gli occhiali: a pince-nez,
dalla montatura nera. E anche l’impressione di aver già visto qualcosa di simile,
senza ricordare quando e dove, conferiva al diavolo occhialuto un che di misterioso e
di pauroso: come l’avessi visto in sogno o nei visionari terrori dell’infanzia. «Su
questo quadro» continuò don Gaetano «il farmacista custruì una leggenda: Zafer, il
santo, non ha più una buona vista; il diavolo gli porta in dono le lenti. Ma queste lenti
hanno, ovviamente, una diabolica qualità: se il santo le accetterà, attraverso di esse
leggerà il Corano, sempre, invece che il Vangelo o Sant’Anselmo o Sant’Agostino.
“Ahimè che il puro segno delle tue sillabe si guasta in contorto cirillico si muta...”».
La citazione mi sorprese: don Gaetano aveva letto quello che io considero l’ultimo
poeta italiano, nel tempo della poesia italiana: e ne aveva versi a memoria. «In questo
caso, in cufìco o come si chiama la scrittura del Corano... Inutile dire che Zafer
sospetta dell’inganno e non accetta il dono: anzi, ignora addirittura la presenza del
diavolo... Ma questo quadro, come lei sa, non è che una copia, piuttosto rozza, di
quello del Manetti che si trova a Siena, nella chiesa di Sant’Agostino. Un quadro
curioso, comunque. Lasciando perdere le fantasie del farmacista, direi anche
inquietante... Il diavolo con gli occhiali: quello che voleva dire il Manetti è
abbastanza ovvio, in rapporto al suo tempo; ma oggi…».
«Come allora: ogni strumento che aiuta a veder bene, non può essere che opera e
offerta del diavolo. Dico per voi, per la Chiesa».
«Interpretazione laica, di vecchio laicismo: quello delle associazioni intitolate a
Giordano Bruno e a Francesco Ferrer... Io invece direi: ogni correzione della natura
non può essere che opera e offerta del diavolo».
«Interpretaziooe sadista».
«Ma Sade era cristiano» disse don Gaetano distogliendosi dalla contemplazione del
qoadro e guardandomi meravigliato: meravigliato che non lo sapessi, che nessuno
fino allora me l’avesse detto.
«Se lo dire lei…». Con troppo scoperta ironia.
«Non lo dico io» disse bruscameote don Gaetano. Si aggirò un pò per la cappella
come se io non ci fossi più; poi tornò al qoadro. Io, un po’ irritato con me stesso per
la banale ironia di quel se lo dice lei, tentavo di combinare una frase più sottilmente
ironica; ma don Gaetano, saliti i gradini dell’altare, aveva tirato fuori, da una tasca
interna all’altezza del petto, gli occhiali e, inforcabili, alzandosi sulla punta dei piedi
si era inclinato a scrutare l’angolo destro del quadro. Quando si voltò per dirmi «C’è
la firma, venga a vedere» ebbi un momento di vertiginoso stupore: i suoi occhiali
erano una copia esatta di quelli del diavolo. Non colse, ché doveva essere visibile, il
mio stupore; o finse di non coglierlo, godendoselo. Del resto, io passai subito a
rintuzzare il colpo, se da parte sua c’era stato il gusto di far colpo, assumendo
un’espressione che voleva dire: vecchio istrione, serba per il tuo gregge di imbecilli
la trovata di questi occhiali. Ma non sembrò far caso nemmeno al mio passaggio dallo
stupore al dispregio. Mi avvicinai a leggere la firma. Stentatamente decifrai: b, u, t, a,
s, u, o, c, o; Butasuoco.
«Buttafuoco» corresse don Gaetano. «Lei non ha visto la seconda t e ha letto s la f...
Nicolò Buttafooco, un pittore locale. E secondo un altro erudito, di due secoli fa e
non meno fantasioso del farmacista, nel diavolo è il suo autoritratto, corna
comprese... Un giorno, mentre dipingeva una Madonna, poiché aveva come modella
una baldracca, gli venne da dire: “allora questa Madonna farà miracoli, quando a me
spunteranno le corna”; ed ecco che gli spuntarono, e fu il primo di una lunga serie di
miracoli che quella Madonna poi fece... Meritatissime corna, per come bestialmente
dipingeva».
Si tolse gli occhiali e se li ripose in petto. E con la voluta indifferenza di chi ha
ormai fatto il colpo, del gatto che si è mangiato il canarino, continuò «A questo
nome, Bottafuoco, si collega sempre, nella realtà come nella fantasia, qualcosa che ha
a che fare col male, o almeno con l’imbroglio: questo pittore che si fa un autoritratto
da diavolo; il Buttafuoco di Boccaccio, nella novella di Andreuccio da Perugia...
Deliziosa, quella ricerca del Croce sulla novella di Boccaccio: l’aver trovato nei
registri angioini un Buttafuoco tra i profughi siciliani…» e continuò così a divagare,
tenendomi sottobraccio, andando verso il refettorio.
Mi volle ancora alla sua tavola. Al posto dei quattro preti c’erano il cardinale e i tre
vescovi; e due posti erano stati aggiunti, per il ministro e un industriale. Mi sentivo in
grande disagio. E non perché mai ero stato a tavola con ministri, industriali e prelati
(ché d’ordinario, anzi, non c’era giornata che non me ne trovassi qualcuno, o tutto un
assortimento, a mensa); ma per il luogo e il momento: un albergo tenuto da preti, un
raduno di cattolici per esercizi spirituali. E come io ero sorpreso e stranito per il fatto
di trovarmici, ancora di più quegli altri quando don Gaetano fece le presentazioni
(impeccabilmente presentò me ai quattro prelati e presentò a me il ministro e
l’industriale). E forse credettero, subito, a una mia conversione; ma quando,
porgendumi il cardinale la mano al bacio, io gliela abbassai nell’usuale stretta, si
dipinsero di perplessità: ma verso don Gaetano. Su di lui conversero sguardi tra
l’interrogativo e il preoccupato: e don Gaetano spiegò che mi trovavo lì per caso, per
curiosità, quasi per avventura.
Poiché quel che faceva don Gaetano non poteva che andare a buon fine, si
rassicurarono. E tutti, subito, si credettero in dovere di lodare qualche mio quadro: i
prelati quelli che avevano visto in mostre o collezioni, il miuistro e l’industriale i
propri (e mi risultava ne avessero, e anche di quelli dipinti a piedi caldi). Si passò
così a parlare di pittura: e nonostante i complimenti che mi avevano rivolto, fu
immediatamente chiaro che per i quattro prelati la pittura era bella e morta da un
secolo o quasi, ultimo a praticarla essendo stato Nicolò Barabino (e mi affiorò alla
memoria, a questo nome, l’immagine della Madonna dell’Ulivo che mia madre si
teneva, in riproduzione oleografica, a capo del letto e che io, forse dalla prima volta
che ebbi in mano una matita, per anni copiai: sempre prodigiosamente, secondo mia
madre; alla fine passabilmente, secondo me); e che per il ministro e l’industriale non
era mai esistita se non, ad un certo punto della loro vita e della loro ricchezza, sotto
specie di investimento e quotazione. E non erano perciò d’accordo coi prelati: poiché
in antiquariato le quotazioni andavano incerte sui pittori minori e incalcolabili, al di
là di ogni vero e proprio apprezzamento, sui grandi; mentre sicure, e in sicura ascesa,
andavano sui contemporanei, grandi o piccoli che fossero. Solo che tra i
contemporanei non c’erano grandi, obiettò il cardinale. Ma subito, senza convinzione,
aggiunse «A parte, si capisce, il nostro amico qui presente». Io, senza convinzione,
mi schermii e feci il nome di Guttuso. Il cardinale disse che ci voleva altro, alla
grandezza. Don Gaetano prese invece a lodare, di Guttuso, quella Crocefissione che
trent’anni prima aveva fatto scandalo e che ora si sperava, disse, acquisire ai musei
vaticani. Uno dei vescovi domandò perché lo scandalo. «Perché tutti i personaggi vi
sono nudi» disse don Gaetano, con tono di beffarda meraviglia verso coloro che
trent’anni fa si scandalizzavano a veder popolata di nudi la scena della Crocefissione.
I prelati convennero che spogliare il Cristo, la Madonna e le dolenti era cosa del tutto
innocente, se con innocenti intenzioni e risultati; e poi, ben altre bestemmie rivolgeva
il tempo nostro a quella sublime tragedia. E si stava passando a classificare le
bestemmie del nostro tempo, quando uno dei vescovi tornò su Guttuso, avanzando la
riserva che era comunista.
«E chi non lo è?» disse don Gaetano. E con intonazione parodiante «Perché non
possiamo non dirci comunisti».
Non si capiva se dicesse sul serio o scherzasse. Si ebbe perciò, da parte di tutti, e
anche da me, ambigua approvazione. E cadde il silenzio.
Lo ruppi, intimidito ma sforzandomi a un tono leggero, quasi un tono di scherzo e di
scherno, domandando cosa pensassero della restaurazione del diavolo operata da
Paolo VI.
«Oh, il diavolo» sbuffò ironicamente il cardiisale. E la sua ironia, come subito dopo
verificai, non era rivolta soltanto a me che ne domandavo.
«Con tutto il rispetto, si capisce, con tutta la filiale devozione che si deve al Santo
Padre» disse il ministro «io mi domando se questo era il momento di tirar fuori la
questione del diavolo». E mi guardò a sfida, a farmi prendere atto della sua
spregiudicatezza, del suo coraggio, di fronte a un cardinale, tre vescovi e un prete
noto per ingegno, dottrina e potenza.
«È il momento» disse don Gaetano facendo perno sull’è.
Successe, mi parve di indovinare, una specie di movimento di assessamento: nelle
menti dei quattro prelati, dei due devoti. Come quando si dice che una casa appena
costruita si è assestata: ed è che vi compare qualche crepa. In quelle menti ne
rameggiava ora qualcuna.
«Non dico che non sia il momento» disse il cardinale. «Dico, ecco, il modo... Non
so... Forse si poteva…». E tacque, astutamente lasciando che gli altri si lanciassero a
scalare quel si poteva, in cima al quale sarebbero stati colpiti dalle folgori dottrinarie
di don Gaetano. Ma non meno astutamente, i tre vescovi e i due devoti elusero la
discussione teologica (e mi delusero); e si diedero a parlare del discorso di Paolo VI
sul diavolo come di un fatto puramente burocratico, di una circolare ministeriale; e
del papa come di un ministro i cui decreti, più o meno maldestri, più o meno oscuri,
sono poi opera dei direttori generali: e ce ne sono di devoti al ministro ma incapaci, di
capaci ma non devoti, di capaci e devoti, di incapaci e non devoti.
«E la salute, la salute del papa?» s’informò l’industriale.
«I papi» disse don Gaetano «sono sempre in buona salute. Si può dire, anzi, che non
solo muoiono in buona salute ma di buona salute. Parlo, si capisce, di salute mentale»
rivolgendosi all’industriale «poiché la sua domanda, indubbiamente senza malizia, a
quella alludeva... Altri mali, altri acciacchi, non contano».
«Già» io dissi «non si è mai dato il caso di un papa che per età, per arteriosclerosi,
cominci a sragionare. Voglio dire: non si è mai saputo».
«Non si è mai dato, appunto» disse il cardinale.
«Non si è mai saputo» ribadii.
«Le cose che non si sanno, non sono» disse don Gaetano.
«Io direi che certe cose possono non sapersi, ma sono» risposi.
«Sì, d’accordo. Ma tenga presente che stiamo parlando della Chiesa, del papa» disse
don Gaetano. «Una forza senza forza, un potere senza potere, una realtà senza realtà.
Quelle che in ogni altra cosa mondana non sarebbero che apparenze, a nascondere o a
mistificare, nella Chiesa e in coloro che la rappresentano sono le interpretazioni o
manifestazioni visibili dell’invisibile. E cioè tutto... Ciò non toglie che, volendo,
possiamo anche prenderci il gusto di dar la caccia alle stramberie, di temperamento o
senili, di qualche papa... Di Pio Il, per esempio, a scrutar bene quei suoi deliziosi
Commentari... Intanto, la stramberia che è nel fatto stesso di scrivere, da papa, la
storia della propria vita: che è affezione più da avventuriero che da papa…».
Cardinale e vescovi si irrigidirono, negarono: ma venne fuori che non avevano letto
i Commentari, mentre don Gaetano era in grado di citare a memoria tutti i passi che
gli facevano giuoco. «Direi» continuò «che ad un certo punto, il punto in cui
comincia a dettare i Commentari, Pin II non riuscisse più a contenere la propria
soddisfazione per quell’ascesa al pontificato in cui il suo spirito aveva avuto più parte
che lo Spirito Santo. L’irresistibile voglia di proclamare: guardatemi, qui sul soglio di
Pietro; sono il vecchio Enea Silvio, quello della Storia dei due amanti; ce l’ho fatta,
ve l’ho fatta... Un eroe stendhaliano avant la lettre…». E a tranquillizzare il cardinale,
che in imbarazzo già tentava di richiamarlo all’ordine con stizzosi colpettini di tosse
«Ma è stato un grande papa, eminenza: grandissimo e santo. E poi, è morto più di
cinque secoli addietro... E mi viene un’idea: poiché è morto nella notte dal 14 al 15
agosto del 1464, alla chiusura del secondo turno di esercizi, che cade proprio alla
ricorrenza, parlerò di Pio II agli esercitanti».
«Buonissima idea» disse il cardinale: ma freddamente.
«Ottima» farfugliò, masticando grosso, il ministro: e indicava, muovendo la
forchetta come un aspersorio, il proprio piatto. Diceva per la faraona farcita, che era
davvero apprezzabile. E qui mi accorgo che per riferire i discorsi che si facevano ho
trascurato di descrivere l’animatissima sala e l’andamento della refezinne (ché così
erano indifferentemente chiamati i pasti del mezzogiorno e della sera). Il menù, un
pieghevole a stampa, carta spessa, il diavolo che tenta il santo riprodotto al tratto
sulla prima facciata, era particolarmente ricco: e veniva materializzandosi davanti a
noi, apprezzabile, come ho detto, nella qualità oltre che nella quantità. Di colpo, tutto
era cambiato all’hotel di Zafer: il refettorio era gremito, un cuoco dava il meglio di
sé, il servizio era celere e accurato. Lo disimpegnava, oltre a una diecina di camerieri,
una squadra di ragazze cui l’appartenere a non so che ordine terziario non le privava
di una certa procacità e civetteria. Altri particolari: su ogni tavola esplodeva un
bouquet vivacemente disposto; le cinque donne erano scomparse; a benedire le mense
fu il cardinale. E a questo proposito potrei dire che mi sentii come un cane in chiesa,
ma per amore alle mie opinioni dico come un uomo in un canile, quando tutti si
levarono in piedi, si segnarono, dissero la preghiera, si risegnarono. Debbo però
confessare che non ce la feci, per come mi proponevo, a restar seduto mentre tutti si
levavano.
Uscendo dal refettorio agganciai il prete zazzeruto, quello che leggeva «Linus», per
domandargli dove fossero finite le cinque donne. «Ma le pare? Se ne stanno in
camera» alquanto oscuramente mi rispose, e quasi fuggendo.
Nel pomeriggio, il cardinale aprì il corso degli esercizi. Parlò per più di un’ora. Lo
seguii distrattamente, ma meno distrattamente che i suoi. Tambureggiò La Bibbia,
particolarmente l’Esodo, argomentando sul movimento teologico, credo nuovo, della
speranza. Da quel che riuscii a capire, questo movimento chiamava speranza la
disperazione. Non un riferimento ai Vangeli; e solo due o tre volte il nome di Cristo.
Quando il cardinale voltò l’ultimo dei foglietti che era andato leggendo, il discreto
respiro di sollievo di ognuno si fuse in un tutto che somigliò allo sbuffo di un
aerostato che si sgonfia. Ci furono, alla fine del discorso, applausi. Il cardinale fece
un gesto a farli tacere; e quando si spensero, don Gaetano prescrisse che ognuno si
ritirasse nella propria camera, a far meditazione per un’ora sul discorso di sua
eminenza. Colsi, nel gregge che usciva, tutt’altra intenzione. Si dicevano di libri da
leggere, relazioni da fare, corrispondenza da sbrigare, telefonate che attendevano.
Indicando un tipo dall’aria ascetica, piccolo, lenti grosse, uno che nell’uscire mi ero
trovato a lato mi disse «Quello sa che cosa fare, in camera». Domandai chi fosse e
che cosa avesse da fare in camera.
«Ma come, non lo conosci. È…». Disse un nome che conoscevo.
«Ecco, mi pareva... E che cosa ha da fare?».
Mulinò la mano a dire cose meravigliose, cose dell’altro mondo, mentre la faccia gli
si dipingeva di gaudente malizia, di golosità, d’invidia. E si allontanò da me,
improvvisamente diffidente.
Nello spiazzale c’erano soltanto due, che animatamente discorrevano. Parlavano di
strade, di appalti. Don Gaetano, che uscì dopo di me, così li colse. Puntò su loro
l’indice, e vibratamente «Avvocato, onorevole! Mi meraviglio di voi: ancora qui, a
parlare delle vostre e nostre miserie! Andate in camera a meditare sulle parole di sua
eminenza!».
Come bambini sorpresi a rubacchiare in dispensa, i due si separarono; e uno dietro
all’altro si infilarono nell’albergo. Don Gaetano sorrise e venne verso di me.
«Scommetto che lei mediterà più di tutti loro, sul discorso di sua eminenza».
«Non mi faccia tanto credito» dissi. «Sto meditando, sì: ma su un’allusione, credo
maliziosa, che ho colto ora, all’uscire dalla cappella. Un tale, indicando…» e feci il
nome dell’uomo che mi era stato indicato «ha detto: quello sì, che sa che cosa fare in
camera; o qualcosa di simile. Mi chiedevo a che volesse precisamente alludere».
«A una donna, naturalmente».
«A una donna che si tiene in camera?».
«Non precisamente: la donna ha una sua camera».
«Ho capito: è una delle cinque».
«Una delle cinque, sì. E tutte e cinque sono qui per lo stesso motivo. Ma non per lo
stesso uomo, si capisce».
«E lei permette...?».
«Amico mio: io permetto tutto. Ammetto e permetto».
«Ma, dico, gli esercizi spirituali…».
«Ho l’impressione che lei ci creda più di me: che li prenda cioè alla lettera o nel
significato originale, ignaziano... E del resto credo che il laicismo, quello per cui vi
dite laici, non sia che il rovescio di un eccesso di rispetto per la Chiesa, per noi preti.
Applicate alla Chiesa, a noi, una specie di aspirazione perfezionistica: ma standone
comodamente fuori. Noi non possiamo rispondervi che invitandovi a venir dentro e a
provare, con noi, ad essere imperfetti... Comunque, voglio mettermi dal suo punto di
vista, e cioè nel concetto degli esercizi spirituali come macerazione... Ebbene: questi
cinque disgraziati hanno mogli, figli, elettori, avversari, amici e nemici che li
ricattano, amici e nemici che controllano i loro passi e i loro telefoni... Si sono fatta la
loro amante, come d’uso. E per tutto un anuo vagheggiano questa settimana, qui,
degli esercizi: e finiscono col farli davvero... Mandano prima le loro donne;
raccomandandomele, si capisce, ché non le accetterei senza le loro raccomandazioni,
come persone dai nervi a pezzi, che cercano serenità e riposo alle loro vicissitudini
familiari, alle loro sventure, in un ambiente confortevolmente religioso. Io faccio
finta di non capire, di non sapere: e le accetto. Perché so bene che quel loro
vagheggiamento di una settimana di amore si risolverà in una settimana d’inferno... Il
cretino che lei ha sentito immagina delizie e deliri erotici. E invece sa che cosa stanno
facendo, questi cinque adulteri, questi cinque peccatori? Stanno litigando. E stanno
litigando senza motivo, o per qualche motivo futile, per una specie di autopunizione:
appunto perché si sentono adulteri, si sentono peccatori... Se lei va ad ascoltare dietro
le loro porte (lo fanno tanti, in questo momento), li sentirà litigare: più che una
qualsiasi coppia legittima, con più furore, con peggior crudeltà... Mi creda: il miglior
modo di fare all’amore è quello immediato, fuggevole, che offrono le prostitute...».
«Ma lei, così...».
«È una cosa talmente semplice, il fare all’amore... Che è poi l’amore: non ce n’è
altro, tra un uomo e una donna... È come aver sete e bere. Non c’è niente di più
semplice che aver sete e bere; essere soddisfatti nel bere e nell’aver bevuto; non avere
più sete. Semplicissimo. Ma pensi se l’uomo avesse dedicato all’acqua, alla sete, al
bere (per un diverso ordine della creazione e dell’evoluzione) tutto il sentimento, il
pensiero, i riti, le legittimazioni e i divieti che ha dedicato all’amore: non ci sarebbe
niente di più straordinario, di più prodigioso, del bere quando si ha sete... E in quanto
alle prostitute: consideri se le migliori bevute che abbiamo fatto nella nostra vita non
sono quelle a una fontanella all’angolo di una strada, al pozzo lungo lo stradale di
campagna…».
«Non è nuova, questa della sete e del bere».
«Una rivoluzionaria russa; ma Lenin, se ricorda, pose la questione del bicchiere: che
rifiutava di bere nel biechiere a cui altri aveva bevuto. Piuttosto reazionario, non le
pare?».
«Puritano, direi puritano. Tutti i rivoluzionari lo sono».
«Sì, se avesse detto: io bevo sempre nello stesso bicchiere...».
«D’accordo. Ma non le pare di essere tanto più reazionario, postulando l’esistenza
delle prostitute?».
«Ma io sono tanto reazionario quanto rivoluzionario».
«E non fa questione di bicchieri». Alquanto maliziosamente.
«Alt. Non diventi grossolano: cerchi di liberarsi di quella malevola e volgare
letteratura sui preti di cui tutti gli italiani, anche quelli che praticano la religione, sono
impeciati. Sia più sottile, e più serio... Io posso dire di me quello che un cronista
medievale diceva di Arrigo VII: “egli stava casto della persona, e la castità doveva
averlo infracidato dentro”. È la castità che mi porta a semplificare quello che si osa
chiamare amore. Ed è la non castità che porta lei a complicarlo. Certo, lo riconosco,
la castità è spaventosa: ma soltanto nei primi tempi che la si sceglie ed affronta... Poi
avviene qualcosa di simile, lei mi può capire, a quel che succede nell’arte, per chi la
fa: i limiti e le preclusioni espressive ne sono la forma, non sono limiti e preclusioni.
Allo stesso modo, la castità è la forma più sublime cui l’amor proprio può accedere:
un far diventare arte la vita».
«Io non posso vivere» dissi «se non amando una donna: e con tutte le complicazioni
possibili. Non sempre la stessa donna, si rapisce. Ne scompare una, dalla mia vita, e
ne compare un’altra. E a volte la seconda compare prima che sia scomparsa la
prima».
«E scommetto che è sempre la stessa. Voglio dire nel carattere, se non addirittura
anche nel fisico».
Ci pensai un po’. «Forse vincerebbe la scommessa» dissi.
«Lo vede? Lei è affetto da un male piuttosto comune, piuttosto banale... Si finisce
dall’essere bambini con la pubertà, ma i più trovano modo di continuare ad esserlo
nel campo dell’attività erotica in cui la pubertà immette... Mi spiego: la cosa più seria
che hanno scoperto gli studiosi della psicologia infantile tra le tante non serie, è
quella denominata legge della ripetizione del simile o dell’uguale, non ricordo bene.
Era così facile da scoprire, peraltro!... Un bambino chiede che gli si racconti la stessa
fiaba, preferisce lo stesso giocattolo, ripete lo stesso giuoco: fino a che non è più
bambino. Il dongiovannismo non è che il prolungamento di questa legge oltre la
pubertà: nella giovinezza, alla vecchiaia. E sono passati dalla giovinezza alla
vecchiaia, saltando lo stadio della maturità, appunto perché la maturità, negli uomini
afflitti da un simile male, non esiste. Il dongiovannismo è un prolungamento di
immaturità: fino al rimbambimento, che è poi la giusta preconclusione, e alla morte...
Ci faccia caso: tutti i dongiovanni finiscono col rimbambire».
«Mi ucciderò un po’ prima. Ammesso che io sia davvero affetto da
dongiovannismo».
«Lo è. E non si ucciderà un po’ prima: per il semplice fatto che non riuscirà a
vedere la linea di demarcazione, il confine».
«Non le pare di stare usando le vecchie armi della sessofobia cattolica, in questo
momento, contro di me? Con la variante che mi promette il rimbambimento invece
che l’inferno».
«Si sbaglia di grosso: non c’è mai stata una sessofobia cattolica. Nel passato, non si
è fatto altro che arricchire e raffinare. Se mai oggi, nella permissività, si può
intravedere un movimento di sessufobia... E in quanto a promettere, cioè a
minacciare, non le minaccio niente. La mia è una constatazione. Può farla anche lei,
se appena si guarda intorno. Di uomini che sono andati dietro a donne, una dopo
l’altra o due e tre assieme, penso ne avrà conosciuti: provi a ricordare gli ultimi anni
della loro vita». E mi lasciò a questa desolante recherche.
Puntualmente, dopo un’ora, gli ospiti ripullularono nello spiazzale. Avevano
meditato, e si vedeva. Erano in preda all’ansietà di comunicarsi i risultati della
meditazione; proposte in numeri e numeri in proposte, piccanti aneddoti a carico di
amici-nemici e di nemici-amici, adulazioni, condiscendenti apprezzamenti; e qualche
barzelletta oscena piuttosto arretrata. I più, a due a due, si parlavano nell’orecchio: e
mi venne da pensare al nunquam duo che è regola dei seminari, e dovrebbe essere di
ogni riunione di cattolici. Era facile immaginare che i due che si parlavano vicino a
me stessero complottando qualcosa contro quegli altri due che stavano dalla parte
opposta, e viceversa; e così ogni coppia contro ogni altra distante: sicché lo spiazzale
diventava come un telaio su cui si stendeva una fitta trama di inganni, di tradimenti; e
le spole che passavano da una mano all’altra.
Andavo da una coppia all’altra, da un gruppo all’altro, cogliendo parole, frammenti
di frasi, intere frasi: sussurrate, a volte sospese ed esitanti, a volte ferme.
Nell’insieme, pareva che tutti parlassero della refezione consumata a mezzogiorno e
di quella che sarebbe stata consumata tra un paio d’ore: della inappetenza di qualcuno
e della fame dei più. Quello mangia, quello ha una fame, quello non ha mangiato
ancora, non vuole mangiare, vuole, non può, bisogna farlo mangiare, deve finire di
mangiar tanto, c’è un limite al mangiare; e così via. Mi resi tonto che era un parlar
figurato, e spinsi la figurazione a vederli tutti annaspare dentro una frana di cibi in
decomposizione.
Mi allontanai verso il bosco. E tornai in albergo che tutti erano già a tavola.
Dun Gaetano mi chiamò con un gesto al mio solito posto. Il cardinale e i vescuvi
non c’erano più. Al loro pusto sedevano altri personaggi, che don Gaetano mi
presentò. Non mi erano ignoti i nomi e le cariche di ognuno. Feci il proposito di
ripartire l’indomani.
Alla conversazione, per quanto diversi fossero gli argomenti su cui trascorse, non
partecipai. Non l’ascoltai, anzi, se non nei momenti in cui don Gaetano interveniva.
Ed erano sempre interventi affilati e rapidi: citazioni che cadevano con fredda
autorità, calembours, battute. In gran parte a mio beneficio, chè mostrando sempre
occhi senza sguardo, lontani o vacui, invece mi scrutava e decifrava la ragione del
mio silenzio. Mi offriva perciò la sua solidarietà nel disprezzo; come a dire: capisco
la sua insofferenza, ma guardi come li tratto. Io però ce l’avevo anche con lui.
Finita la refezione e man mano che i commensali uscivano all’aperto, vidi che tutti
andavano raccogliendosi inturno a don Gaetano: non casualmente, ma come per
un’adunata stabilita, prescritta. E il mio malumore si dissolse nella curiosità.
Facevano cerchio. Ad un certo punto, forse quando ritennero di essere tutti presenti,
il cerchio si scomupose e prese forma di quadrato. Don Gaetano, che era stato al
centro del cerchio, si trovò nel mezzo della prima fila del quadrato. Così ordinati,
stettero un momento fermi e in silenzio: poi si alzò la voce di don Gaetano «Nel
nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen» e il quadrato si mosse. Lo
spiazzale, come ho detto, era vasto; e ancora più vasto lo rendeva il fatto che le luci vi
erano state quasi tutte spente. Il quadrato marciò dalla porta dell’albergo al margine
opposto. Arrivandoci, mi parve si aggrumasse in confusione e stentasse a ricomporsi,
mentre in coro recitavano il Padrenostro. Ricomposto, venne verso l’albergo con
l’Ave-maria: e alla luce che veniva dalla porta e dalla finestra del pianterreno, vidi
che in prima fila, con don Gaetano sempre nel mezzo, non c’erano gli stessi di poco
prima. E mi accorsi che il movimento era in effetti più ordinato di quanto mi era
parso da lontano: fermandosi un po’ prima del dietrofronte, don Gaetano lasciava che
il quadrato si aprisse al suo star fermo e andasse avanti, ricongiungendosi, finché lui
non si fosse trovato, al momentu del dielrofronte, al centro dell’ultima fila, che
diventava la prima. Certo, qualcuno si confondeva: ma la recitazione del Rosario non
perdeva ritmo.
Accanto a me venne a sedersi qualcuno. Non ci feci caso; ma quando sentii che
pianamente rideva e sogghignava, mi voltai a guardarlo. Era in maniche di camicia,
una salvietta al collo, un’altra in mano che si passava sulla testa e sulla faccia. Mi
disse «Ci vengo a ogni estate per non perdermi questo spettacolo, anche se mi pagano
male. Li goardi». Fece una breve risata, un sogghigno; poi rapidamente, come al
cinema quando non si vuol perdere il filo dell’azione, l’entrata di un personaggio
«Sono il cuoco» e si immerse, emettendo di tanto in tanto un trillo di godimento,
nello spettacolo.
E c’era di che. Quell’andare su e giù nello spiazzale quasi buio, non come in un
quieto passeggio ma a passo svelto, appunto come chi ha paura del buio e si affretta a
raggiungere la zona di luce (che era quella all’ingresso dell’albergo: e lì infatti il loro
passo si faceva più lento, a indugiarvi prima di riaffrontare il cammino verso la parte
più buia); quelle loro voci che si levavano nel Padrenostro, nell’Ave-maria, nel
Gloria con un che di atterrito e di isterico; la voce di don Gaetano, che succedeva alle
loro, distante e fredda: e da quella voce espressioni come «misterioso messaggio»,
«mistero della salvezza», «antico serpente», «spada che trafiggerà l’anima» si
intridevano di un senso tutto fisico, non più metafore ma eventi che stavano
realizzandosi, che si realizzavano, in quel posto al confine del mondo, al confine
dell’inferno, che era l’hotel di Zafer. E in quel momento anche chi, come me e come
il cuoco, li vedeva nell’abietta mistificazione e nel grottesco, scopriva che c’era
qualcosa di vero, vera paura, vera pena, in quel loro andare nel buio dicendo
preghiere: qualcosa che veramente attingeva all’esercizio spirituale: quasi che fossero
e si sentissero disperati, nella confusione di una bolgia, sul punto della metamorfosi.
E veniva facile pensare alla dantesca bolgia dei ladri.
«Le è piaciuta la scena del Rosario?» mi domandò l’indomani don Gaetano.
«Moltissimo».
«Sapevo che le sarebbe piaciuta».
«Peccato che si fosse solo in due a goderla: il cuoco ed io».
«Ah, il cuoco... Sì, lo so, è un aficionado. Un uomo intelligente, e si vede da come
cucina: ma un anticlericale arrabbiato, all’antica. Non credo che sia comunista;
repubblicano, forse, o socialista... Ma lei sbaglia, a credere che eravate solo in due a
godervela: me la godevo anch’io».
«Mi permette una domanda?».
«Prego».
«Che prete è lei?».
«Un prete come tutti gli altri preti».
«No, proprio non direi».
«Lei ne conosce molti, di preti?».
«Ne ho conosciuti. Da ragazzo, da giovane. In un piccolo paese. Due o tre buoni,
nove o dieci cattivi. I buoni erano quelli che non si intrigavano nei fatti degli altri;
non erano esosi nelle tariffe per matrimoni, funerali e battesimi; facevano qualche
abbellimento, cioè qualche guasto, alla loro chiesa; non davano luogo a maldicenze. I
cattivi erano quelli avidi e avari; che lasciavano andare a pezzi la loro chiesa; che
confessando le mogli aizzavano contro i mariti; che avevano intorno orsoline, figlie
di Maria e bigotte danarose. Ma sia i buoni che i cattivi, nel modo più totale
ignoranti».
«Capisco il suo problema: non sa se mettermi tra i buoni o tra i cattivi... Ebbene:
sono molto cattivo».
«No, non è questo il mio problema».
«Ma sì, è questo... E lei l’avrebbe già risolto mettendomi tra i cattivi, se non ci fosse
la piccola difficoltà che non sono ignorante... J’ai lu tous les livres... Ma può
rimuoverla, questa difficoltà: sono un prete cattivo che, a differenza di quegli altri
cattivi che ha conosciuto un tempo, ha letto tanti libri... Le voglio anzi regalare un
piccolo paradosso, a spiegazione del mio classificarmi tra i cattivi non per modestia
ma per convinzione: i preti buoni sono quelli cattivi. La sopravvivenza, e, più che la
sopravvivenza, il trionfo della Chiesa nei secoli, più si deve ai preti cattivi che ai
buoni. È dietro l’immagioe dell’imperfezione che vive l’idea della perfezione: il prete
che contravviene alla santità o, nel suo modo di vivere, addirittura la devasta, in
effetti la conferma, la innalza, la serve... Ma questa è una verità del tutto banale:
potrei anche assottigliarla o complicarla».
«Il più grande papa è stato dunque Alessandro VI».
«Anche questa è una banalità: una battuta, mi scusi, che potrei aspettarmi dal cuoco.
Ma voglio seguirla sul suo terreno: Alessandro VI, malgré lui, è stato un grande papa.
Se mi chiedesse di scegliere tra Pio X e Alessandro VI…».
«Sceglierebbe Alessandro VI».
«Appunto. Ma siamo, lo tenga presente, nella sfera del paradosso. Se ne usciamo,
posso anche dirle che la grandezza della Chiesa, la sua transumanità, sta nel fatto di
consustanziare una specie di storicismo assoluto: l’inevitabile e precisa necessità,
l’utilità sicura, di ogni evento interno in rapporto al mondo, di ogni individuo che la
serve e la testimonia, di ogni elemento della sua gerarchia, di ogni mutamento e
successione...».
«Lei è un fanatico».
«Crede che potrei non esserlo, con questa veste? Se, beninteso, per lei fanatico è chi
ha delle certezze... Ma le mie certezze, lei questo non lo sa, sono altrettanto corrosive
che i suoi dubbi... Comunque, possiamo rientrare nel paradosso, se il paradosso è la
forma di verità che più le aggrada».
«No, restiamone fuori. Anzi, nella forma più diretta, più semplice, mi dica: che cosa
è la Chiesa?».
«Ecco: un prete buono le risponderebbe che è la comunità convocata da Dio; io, che
sono un prete cattivo, le dico: è una zattera, La zattera della Medusa, se vuole; ma
una zattera».
«Ricordo il quadro di Géricault, ma non ricordo bene che cosa è accaduto su quella
zattera, anche se parecchi anni fa ho letto tutto un libro. Qualcosa di terribile:
proverbialmente... Si è salvato qualcuno, su quella zattera?».
«Quindici, su centoquarantanove: forse troppi... Oh no, non dico per La zattera
della Medusa: dico per quella della Chiesa. Il dieci è percentuale piuttosto alta».
«E quello che hanno fatto quei quindici per salvarsi?».
«Non mi interessa. Cioè: non mi interessa dal momento che La zattera della
Medusa è metafora, per me, di ciò che è la Chiesa».
«Preferisco perire subito, nel naufragio».
«Ma no, lei sta nuotando per raggiungere la zattera. Perché il naufragio c’è già
stato…». Fece un sorriso quasi divertito «Non se ne è accorto?».
Restai solo. E pensando alla Zattera della Medusa, cercando di ricordare quel che vi
era accaduto, mi avviai verso la mia automobile. Non riuscivo a raggiungere, nella
memoria, quei fatti; ma ne risentivo l’orrore provato allora leggendoli. Del
cannibalismo, quasi certamente. «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue». Il
Totem e tabù, il mio primo incontro con Freud: una grande rivelazione, un lampo
abbagliante. Poi ci si rende conto che le grandi rivelazioni vengono da una luce più
discreta e continua, quasi inavvertitamente... Ma no, non stavo nuotando per
raggiungere la zattera. E nemmeno c’era già stato il naufragio. La vita era ancora, per
me, un vascello di equilibrata e librata alberatura (come tradurre lo «steamer
balançant ta mâture» della poesia di Mallarmé da cui don Gaetano aveva citato quel
mezzo verso, «ho letto tutti i libri»? E così, ripetendomi dal principio «La chair est
triste, hélas! et j’ai lu tous les livres…» mi distrassi dall’irritante pensiero del
naufragio e della zattera).
Me ne andai in città. Un forno: ma mi ci immersi con un certo piacere; come a
contraddire, accettando il caldo, l’estate rovente, don Gaetano e il suo eremo-albergo:
quella frescura, quella delizia dei venti.
Riguadagnai l’eremo nel primo pomeriggio, ma per andarmene a dormire nel bosco.
Questa, almeno, era l’intenzione. Finii però nella radura dove le donne prendevano il
sole, e stavolta tra loro. Un pomeriggio delizioso. Ma non spinsi troppo oltre il
giuoco, e specialmente con quella che più ci stava (ma ci stava di più perché non ero
riuscito a nascondere che la preferivo), poiché l’indomani, avevo ormai deciso, me ne
sarei andato. E ci restavo ancora per una notte, in quell’orribile albergo, soltanto
perché volevo di nuovo assistere alla scena del Rosario. Ne ero anch’io affascinato,
proprio come il cuoco.
Ma alla catena della causalità, e della casualità, stava saldandosi un altro anello.
Il pranzo trascorse come al solito. C’erano altri quattro al posto di quei quattro che
il giorno prima erano al posto del cardinale e dei vescovi. Capii che don Gaetano,
tenendo fissi il ministro e l’industriale, non so con quale criterio di precedenza o
preferenza rinnovava ogni giorno i quattro commensali. Me li presentò. Nomi non
ignoti, né a loro ignoto il mio. Uno dei quattro era presidente di un grosso ente di
Stato, si era da poco dimesso da senatore per assumere quella presidenza. Una faccia
acuta, volpina. Tutt’altro che sprovveduto, in fatto di patristica e di scolastica: e per
tutto il pranzo, tra lui e don Gaetano, ci fu un rimbalzo di citazioni, come una partita
di ping-pong. Alla fine, ero piuttosto interessato a Origene, a Ireneo e allo Pseudo
Dionigi, ma in senso del tutto eterodosso. Alla Borges, tanto per intenderci.
Come la sera precedente, alla fine sciamammo tutti nello spiazzale. Andai a sedermi
accanto al cuoco, che era già al suo posto. «Ci ha preso gusto anche lei» mi disse a
modo di saluto.
«Eh sì, è uno spettacolo straordinario«».
«Impagabile: glielo dico io che un po’ lo pago. E una volta o l’altra lo pagherò a
prezzo pieno: mi verrà una polmonite mi verrà». Si asciugò accuratamente con la
salvietta the aveva in mano: faccia, nuca, testa, orecchie. «Lei non sa che inferno
sono le cucine: e io vengo fuori a questa arietta senza le giuste precauzioni, per il da
fare che ho dentro e per la fretta di non perdermi lo spettacolo fuori... Ma è una
soddisfazione, Cristo, una grande soddisfazione: vedere tutti questi figli di puttana
andare su e giù a recitare il Rosario...».
«La Chiesa» dissi »dà delle soddisfazioni anche ai non credenti».
«Forse è così. Ma io della Chiesa me ne fotto».
«Ma com’è che si è trovato ad avere a che fare con questo albergo di preti?».
«Per caso. Cioè: per inganno di un amico. Mi ha detto: sto male, va’ a sostituirmi
per un paio di giorni. Invece si era trovato un altro posto, meglio pagato. Quando l’ho
saputo, volevo piantar tutto. Ma don Gaetano... E poi, c’era questo spettacolo... Ma io
a don Gaetano gliel’ho detto: un giorno o l’altro getterò un chilo di stricnina nella
minestra, e chi s’è visto s’è visto».
«E don Gaetano?».
«Sa che cosa mi ha risposto, questo gran figlio di puttana?» ma mettendo
nell’espressione ammirazione e devozione. «Mi ha risposto: figlio mio, quando sarà il
giorno avvertimi, ché io salterò la minestra... Vede che tipo?... Ma oh, sta
cominciando» e si assestò nella sedia.
Stava cominciando, infatti. Il quadrato si mosse, mentre si levava la voce di don
Gaetano «Nel nome del Padre, del Piglio e dello Spirito Santo. Amen».
«Un angelo inviato dal Padre...».
«Padre nostro che sei nei cieli…».
«Ave Maria…».
«Gloria al Padre...».
«Il Padre fin dall’eternità…».
«Il Padre dopo il peccato…».
«Padre nostro…».
«Ave Maria…».
«Gloria al Padre...».
«Salve, o Regina…».
Ora dalla voce di don Gaetano, ora da quella del coro, le preghiere si levavano
nell’oscurità della notte: e tutto, le voci, il senso delle parole, quell’assurda marcia da
animali in gabbia, quel battere e indugiare nella poca luce e il più veloce e spaurito
andare verso il buio; tutto sembrava s’appartenesse a una evocazione, a un sortilegio:
ma con quel tanto di mistificatorio e di grottesco che è nelle sedute spiritiche, per chi
non ci crede.
«Santa Maria».
«Santa Madre di Dio».
«Santa Vergine delle vergini».
«Madre di Cristo».
«Madre della Divina Grazia».
«Madre purissima…».
Mi affiorava il ricordo non delle parole latine di prima, ma di come quelle parole
erano pronunciate dalle donne che d’inverno intorno al braciere, d’estate nel cortile,
si raccoglievano a dire il Rosario, negli anni della mia infanzia. E quel ricordo
aggiungeva grottesco al grottesco, e specialmente ricordando la «turris eburnea» che
diventava burrea: quasi una promessa, per il paradiso, di pane imburrato, a me che da
bambino piaceva.
«Torre d’avorio».
«Casa d’oro».
«Arca dell’alleanza».
«Porta del cielo».
E don Gaetano aveva appena finito di dirlo, e stava levandosi il coro del «prega per
noi» quando si sentì come uno stappo.
Il quadrato era al margine dello spiazzale, nel punto più lontano dall’ingresso
dell’albergo e da dove il cuoco ed io sedevamo. Si era appena ricomposto nel
dietrofronte: ed ecco che tra la porta del cielo e il prega per noi quel colpo lo fermò e
sospese per un attimo; e subito dopo lo scompose, lo centrifugò.
Resto, fermo dov’era, don Gaetano. E dietro di lui, a dieci o quindici metri, una
macchia chiara, più che una macchia una massa.
Mi ci vollero una trentina di secondi, credo, perché quella massa prendesse la forma
di un uomo caduto; quanti ce ne vollero perché don Gaetano, che era rimasto fermo
come una statua a guardare verso l’albergo, si voltasse indietro e andasse verso il
caduto. Lo vidi chinarsi e muoverlo. Il cuoco ed io simultaneamente ci alzammo e
corremmo verso quel punto. Ci arrivammo che don Gaetano, un ginocchio poggiato a
terra, la destra sospesa in aria, diceva «Ego te absolvo in nomine Patris, Filii et
Spiritus Sancti». Ci guardò, si rialzò. «È morto» disse.
Era 1’ex senatore, presidente di quel grosso ente di Stato, che durante il pranzo
aveva giocato alle citazioni con don Gaetano. Nella morte, la sua faccia aveva
perduto l’espressione volpina e preso un che di fragile, come modellata in una fragile
materia, e di dolorosamcote peotoso. Lo guardai bene, alla luce vacillante del mio
accendisigari. Poi guardai don Gaetano e il cuoco. Impassibile, il pretaccio. E il
cuoco sudava peggio che davanti ai fornelli.
Tutti che erano scappati, ora tornavano. E nel loro convergere verso di noi c’era
impazienza e cautela, la curiosità di sapere e vedere e la paura per quel che avrebbero
visto e saputo. Si domandavano, e avvicinandosi a noi domandavano «Chi è? Ma che
è successo? Ma come? Gli hanno sparato? Chi ha sparato?» febbrilmente. Finché
fecero, intorno a noi e al morto, un cerchio compatto. Sgomitando ne uscii, seguito
dal cuoco. Don Gaetano disse «Bisogna chiamare la polizia» e raccomandando di non
toccare il morto, ne uscì anche lui, dirigendosi con passi lunghi e fermi verso
l’albergo.
Tornammo alle nostre sedie. Stranamente, ero tornato a una disposizione da
spettatore: quasi mi lossi reso conto che il delitto era una puntata da happening, a
rendere più movimentata e consona ai tempi quella incredibile recitazione del
Rosario. Ma il cuoco era molto inquieto. «Meno male» mi disse con voce tremante
«che stavo seduto con lei».
«Perché, crede che ci avrebbero sospettato?».
«Non si sa mai… Qualcuno da sospettare debbono trovarlo: e non lo cercheranno
tra quelli... Le pare possano essere sospettati di avere ammazzato un fratello, e mentre
si dicevano il santo Rosario per giunta?».
«Ma non può essere stato che uno di loro».
«Questo lo dice lei e lo dico io; ma la polizia comincerà a pensare a qualcuno di
loro soltanto dopo che si sarà accertata che i camerieri, gli sguatteri, i contadini della
zona, lei ed io non avevamo ragione al mondo per far fuori quel galantuomo...
Accertati, dico: e vedrà come... Ma forse per lei avranno dei riguardi».
«Anche perché» scherzai «non ho mai espresso l’intenzione di avvelenarli».
«Non mi ci faccia pensare: perché lei sta scherzando, ma la polizia, se gli arriva
all’orecchio una cosa simile, non mi molla più. La conosco, in; oh se la conosco…».
«Ha avuto a che fare con la polizia?».
«Sì, ma non per qualcosa che io ho fatto: per qualcosa che hanno fatto a me. Da
derubato. Derubato del portafogli, da uno sconosciuto cui avevo dato un passaggio.
Ho fatto la denuncia. E sa che hanno pensato?».
«Simulazione di reato».
«Appunto. Mi hanno torchiato per mezza giornata: sposato, sì; una relazione extra,
no; giuoco, mai giuocato; nemmeno al lotto, nemmeno al lotto; debiti, neanche di una
lira; quanto avevo nel portafogli, qualcosa come centomila lire; esattamente, non lo
so; impossibile, possibilissimo... E batti e ribatti su questo punto finché, esasperato,
ho detto al maresciallo “mi dica lei quanto ha nel portafogli, esattamente”. Ci ha
pensato un po’, ché non se l’aspettava, poi secco mi ha risposto
“trentasettemilacinquecento”. E io, ingenuamente “vediamolo”. È successo il
finimondo. Poi hanno chiamato mia moglie, e le hanno messo il dubbio che io
mantenessi un’altra donna. Insomma: ho passato un guaio. Da derubato. Figuriamoci
se vengono a sapere di quella mia frase... Ma don Gaetano mi conosce, e non gliela
riferirà; se poi qualcuno gliela va a soffiare, sono certo che mi difende».
«Ma si capisce» dissi: pentito di aver scherzato.
Don Gaetano rivenne fuori. Si fermò sulla soglia, batté le mani a richiamo, poi a
voce alta disse «Tutti qui».
Lentamente tutti si avvicinarono. Don Gaetano disse «La polizia sta arrivando... Mi
è stato raccomandato di non muovere il cadavere e di starne il più lontano possibile.
E che nessuno lasci l’albergo, naturalmente, o se ne vada a letto: ché lo farebbero
venir giù... Sedete tutti da questa parte, dunque: e cercate di ricordare quello che
avete visto o sentito al momento del colpo o poco prima. Più sarete chiari e brevi
nelle risposte, prima ci sbrigheremo». Di nuovo batté le mani, ma verso l’interno
dove i camerieri stavano aggrumati «Portate un lenzuolo per coprire il morto; e
accendete tutte le luci».
La luce venne in tre ondate: un crescendo accecante. Al margine dello spiazzale, il
morto apparve, dal mio punto di vista, in iscorcio, più morto; ma qualche momento
dopo due camerieri gli nevicarono sopra un lenzuolo. La notte si popolò di fitte danze
di moscerini, di gechi che strisciavano sui muri verso le lampade ora accese. Ne ebbi
come la rivelazione di un orrore fino allora invisibile. Anche il silenzio che si dislagò
mi parve fosse della qualità di quello in cui i gechi si muovevano. (Ho avuto sempre
ribrezzo dei gechi: e coloro che ne sostengono l’utilità nell’ordine della natura, in
quanto si nutrono di moscerini alle piante nocivi, debbono ammettere che il disordine
se non nell’esistenza dei gechi è da riconoscerlo nell’esistenza dei moscerini: e che
un miglior ordine sarebbe nella inesistenza e dei moscerini nocivi e dei gechi che li
divorano).
A un certo punto si levò, un poco tremula in contrasto con l’arrogante significato
delle parole, la voce del ministro «Don Gaetano, ha detto alla polizia che qui ci siamo
noi?».
«Noi chi?» disse don Gaetano con ferma e fredda voce.
«Ma noi… Noi tutti, insomma... Io, gli amici…». Il ministro era caduto
nell’imbarazzo.
«Ho detto che c’è lei: sì» disse don Gaetano, Ma come dicesse: ho dovuto
confessare che frequento cattiva compagnia. Mi piacque molto. E piacque anche al
cuoco, che mi diede di gomito.
Il ministro si afflosciò. La platea, poiché si stava disposti, guardando verso il morto,
come in platea, ristette in silenzio. Poi don Gaetano disse «Non voglio nemmeno
pensare che sia stato qualcuno di voi…». Tutti, improvvisamente, lo pensarono, che
era stato qualcuno di loro. A parte, si capisce, l’assassino. Si guardarono l’un l’altro,
quasi che ognuno potesse subito riconoscerlo nel proprio vicino, l’uomo che aveva
ucciso. «Penso» continuò don Gaetano «che avrà sparato qualcuno dal bosco: magari
per giuoco».
«Ghe gran figlio di...» mi sossurrò il cuoco, mentre dalla platea si 1evava un coro di
approvazione.
Non si era ancora spento che arrivò, rumorosamente, la polizia.
«Bene bene» disse il commissario a colpo d’occhio: noi tutti da una parte, il morto
bene isolato: per come aveva raccomandato. Si avvicinò a don Gaetano e gli strinse la
mano.
«Caro commissario» salutò don Gaetano.
«Che guaio» disse il commissario. E si diresse verso il morto seguito da don
Gaetano. Istintivamente mi alzai e andai anch’io; e il cuoco con me.
Il commissario sollevò il lenzuolo, guardò, sospirò; lo lasciò ricadere. «Chi è?»
domandò a don Gaetano.
«Il presidente della Furas, l’ onorevole Michelozzi… Eletto senatore, alle ultime:
ma si è dimesso per assumere la presidenza della Furas. Ottima persona: colta,
zelante, onesta…».
«E se ne può dubitare?» disse il commissario. Ma ci mise una vibrazione d’ironia,
come a dire: anche se volessi, non potrei.
«Già» disse don Gaetano, riflettendo quella vibrazione come un raggio su uno
specchietto e rimandandola al commissario col senso di: non c’è niente da fare, mio
caro, bisogna che tu ci strida.
«Il personale dell’albergo?» domandò il commissario.
Il cuoco mi diede un colpo di gomito alle costole.
«A posto» rispose don Gaetano. «Niente da dire, su nessuno».
«E qui nella zona?... Voglio dire: qualche contadino che ce l’abbia con lei, con
l’albergo... Non so...».
«Nessuno ce l’ha con me» disse don Gaetano, risentito. «E i contadini, quei pochi
che ancora ci sono, hanno avuto dei vantaggi, dall’albergo: vendono come di pollaio,
del loro pollaio, le uova che vanno a comprare in città, i formaggi, le verdure... La
gente viene qui, e quando se ne va si illude di portarsi a casa le buone e sane cose
della campagna».
«Ma a volte, qualche fanatico…».
«Lei allude alle storie che ci sono state quando ho inglobato l’eremo dentro
l’albergo... Ma no, tutto passato: i grandi guadagni fanno scomparire i grandi princìpi,
e i piccoli fanno scnmparire i piccoli fanatismi».
«Ma una ragione deve pur esserci... Cioè, lasciando stare la ragione: qualcuno deve
aver sparato. Perché per sparare hanno sparato, no?». Si voltò anche a me e al cuoco,
aspettando conferma.
«Pare di sì» disse don Gaetano.
«E chi?».
«Ma questo, caro commissario, penso che toccherà alla polizia di scoprirlo».
«Eh sì» disse il commissario, con un sospiro di rassegnazione «tocca alla polizia,
certo che tocca alla polizia... Solo che la polizia, qui, quando hanno sparato non
c’era…».
«E noi invece si, lei vuol dire... Ma mi creda: siamo nelle stesse condizioni della
polizia che non c’era; almeno tutti quelli che stavamo intruppati a recitare il
Rosario».
Il cuoco di nuovo mi diede di gomito.
«Tranne l’assassino» io dissi.
Don Gaetano mi guardò: al suo solito, come se non mi vedesse. E con profondo
stupore, quasi che la mia risposta l’avrebbe precipitato nel dolore o sollevato nella
speranza «Ma lei crede sia stato uno di noi, uno di quelli che recitava il Rosario con
me» calcando sul con me «a uccidere?».
«Mi dispiace: ma credo di sì».
«E perché?».
«Perché ho questa convinzione? Innanzitutto perché amando tirare di pistola e di
fucile ho, diciamo, un certo orecchio: e il colpo l’ho sentito opaco, attutito; come se
l’arma fosse stata appoggiata al bersaglio, al corpo. E mi sentirei di scommettere che
gli hanno sparato alle spalle e che la giacca, nel punto in cui è stato colpito, sarà
bruciacchiata».
«Non possiamo verificare subito, bisogna aspettare il procuratore e il medico» disse
il commissario.
«E poi?» don Gaetano domandò con la condiscendenza dell’esaminatore che ha già
deciso di bocciare il candidato.
«E poi, ma questa è una illazione, penso che se a tirare fosse stato qualcuno da
fuori, da lontano, dal margine del bosco, i colpi sarebbcro stati più di uno: due o tre,
per il divertimento di tirare sul mucchio».
«E se a qualcuno, appostato ai margini del bosco per cogliere il coniglio o la lepre,
fosse inavvertitamente scappato un colpo?».
«Questo tipo di caccia» spiegai «si fa al chiaro di luna, e la luna non c’è. Si fa col
fucile, e invece abbiamo sentito un colpo di pistola».
«L’ha sentito lei, il colpo di pistola. Io ho sentito un colpo che poteva essere di
pistola o di fucile o di stappo di champagne» precisò don Gaetano.
«Non è stato ammazzato da un tappo di champagne» disse il cuoco.
Mi sorprese che don Gaetano non reagisse all’ironia del cuoco. Disse «Già, già...» e
scomparve.
Arrivò il procuratore, e subito dopo il medico. Il procuratore ebbi l’impressione di
averlo già incontrato: ma non mi riuscì di ricordare quando e dove. Era come quando
si incontra uno che abbiamo conosciuto grasso, ed è magro; o magro, ed è grasso. Ma
il procuratore non era magro ne’ grasso. Quando il suo occhio cadde su di me, dopo
quella che nel loro gergo si dice ricognizione del cadavere, notai che nella sua mente
stava avvenendo quel che avveniva nella mia: dalla fissità dello sguardo, dal
movimento della mano sul mento. E quando, ad un certo punto, sentì dal cuoco il mio
nome, guardandomi come chi è arrivato per primo alla soluzione di un problema su
cui l’altro annaspa, mi disse «Ti ricnrdi? Prima b, anno 1941... O 42?».
«41 ... Sì, ecco, mi ricordo: Schembri».
«Scalambri» precisò.
«Già, Scalambri…».
«Dopo più di trent’anni... E credo ti avrei riconosciuto subito, in un altro posto: ma
qui!».
«Sei meravigliato di trovarmi qui. E anch’io, per la verità, di trovarmici…».
Mi prese familiarmente a braccetto. «Raccontami, raccontami…».
Cominciai a sentirmi in disagio. Ho sempre evitato, accuratamente, l’incontro sia
coi vecchi compagni di scuola sia con le donne amate nella giovinezza. L’incontro,
dico, a distanza di anni. E ora, al disagio di averne incontrato uno dopo più di
trent’anni, si aggiungeva quello del luogo in cui mi trovavo, della circostanza, della
fonziune che il mio vecchio compagno vi assumeva, della familiarità con cui mi
trattava. L’essere stati per alcuni mesi nella stessa aula, non significava poi tanto, in
ordine alle affinità, agli affetti. Due soli compagni avevano avuto importanza nei miei
anni di scuola: uno che avevo poi visto sempre, un altro che non ho più incontrato.
Eravamo, tutti e tre, a basso livello di rendimento scolastico; ma leggevamo tanti libri
che non avevano niente a che fare con la scuola, andavamo ogni sera al cinema, ci
confidavamo amori e disamori... Scalambri, per quanto ricordavo, era invece dei
bravi; e dei bravi che non passavano, da copiare, la versione dal greco o dall’italiano
in latino (e quest’ultimo era il compito che più odiavamo, come la più insensata delle
vessazioni).
Non avevo niente da raccontargli. Volevo invece, con lui, parlare di quel delitto. Ma
appena tentai di entrare in argomento, mi sfuggì. Noncurante, distratto: o, per regola e
abitudine professionale, fingendo; o perché realmente il suo interesse al caso, al
problema, non riusciva a disgiungersi dal fastidio di essere stato chiamavo a
quell’ora, in quell’ambiente di preti e nomini politici che gli imponevano una cautela
di indagini, uno scrupolo, una meticolosità al di là delle sue abituali (non potevo
dubitarne, mettendo sempre meglio a fuoco il ricordo di com’era a scuola).
Comunque, a interrompere il nostro colloquio, si avvicinò il ministro. Scalambri lo
riconobbe. Lasciò il mio braccio: e da quel momento in poi mi dimenticò.
Il ministro fu ossequioso fino all’estremo. E non meno il mio vecchio compagno.
«Signor procuratore» disse il ministro dopo i più arzigogolati, e contraccambiati,
conveuevoli «lei, immagino, vorrà sentire le impressioni di ciascuno di noi, poiché
nient’altro che d’impressioni credo che si sia in grado di riferire... Ma siamo tanti,
come vede... E non si potrebbe, mi permetto di chiedere, rimandare a domani mattina,
all’ora che a lei piacerà di stabilire...?».
«Ma certo, certo...» acconsentì precipitosamente Scalambri.
«La ringrazio» disse il ministro. Restò un momento assorto, a scrutare la faccia di
Scalambri come fosse una mappa su cui stentava a trovare un nome familiare, un
paese conosciuto. Poi sospirò lungamente; e in coda al sospiro lanciò l’esclamazione
«Che pasticcio».
«Non so nolla» disse Scalambri, guardingo. «Tranne, si capisce, quel poco che mi
ha detto il commissario: l’identità del morto, il colpo di arma da fuoco…».
«Un uomo di una correttezza, di una dirittura morale, di una coerenza…».
«Esemplari» completò Scalambri.
«Davvero esemplari» disse il ministro: come se senza il suo davvero l’esemplarità
corresse il rischio di sfaccettarsi d’incredibilità e d’ironia.
«Appunto perciò» osservò Scalambri «la fartenda ha tutte le possibilità di diventare,
come lei ha ben detto, un pasticcio... Come si fa, non dico a trovare, ma a immaginare
un movente?».
«Eh sì, ha ragione: non si può nè trovare né immaginare... Mi permetto di anticipare
che non c’è stato».
«C’è sempre, signor ministro, c’è sempre: futile, folle, invisibile all’occhio della
normalità; ma c’è sempre».
«Giusto» ammise il ministro «giusto: ma futile, ma folle... Non può che essere stato
vittima della follia, il povero caro Michelozzi». E il nome gli uscì come in un
singhiozzo.
«Un uomo insostituibile» disse Scalambri, ma tanto per mostrare al ministro che
partecipava al suo dolore.
«Insostituibile» fece eco il ministro; e mi suscitò nella memoria altra eco,
lontanissima: del gatto che nel gran libro di Collodi ripete sempre l’ultima parola
della volpe. «Pensi» continuò «che aveva lasciato il mandato parlamentare per
assumere la presidenza della Furas».
«Nobile sacrificio» disse Scalambri.
Già dalle prime battute mi pareva di stare a sentire del Ionesco. Ma il troppo è
troppo: e poiché i due si assorbivano l’un l’altro da far pensare a una coppia sulla
panchina davanti Saint-Germain, avviticchiata mentre intorno scorre l’ora di punta,
discretamente mi allontanai.
Ritrovai il tuoco, ancora inquieto. Lo iucoraggiai, gli diedi la buonanotte: e mi
ritirai nella mia camera, dove fino alle tre del mattino continuai a sentire il brusio, che
ogni tanto si impennava in voci impazieuti, dei poliziotti.
Mi svegliai alle nove. E dapprima con la sensazione di aver sognato quel che la sera
prima era accaduto. Ma ne presi subito coscienza e conferma aprendo la finestra:
c’erano poliziotti nello spiazzale, automobili grigioverdi della polizia; e dove
l’onorevole Michelozzi era caduto, c’era una sinistra sagoma disegnata col gesso e
una macchia di un rosso terroso, nella posizione e forma dei polmoni, dentro la
sagoma.
Degli ospiti dell’albergo, non se ne vedeva uno: se ne stavano ancora in camera,
come me, o continuavano i loro esercizi?
Quando uscii dalla camera, il silenzio dei corridoi mi fece pensare a un convento;
ma avvicinandomi all’ascensore, alle scale, sentivo un mormorio indistinto e
continuo, profondo, quasi sotterraneo.
Erano tutti nell’atrio, come stivati. In gruppi che sembravano ghirigori, nella
continuità tangenziale che si stabiliva tra l’uno e l’altro e infine tra tutti,
serpeggiando. Era come un disegno di Steinberg.
Percorrendo i ghirigori, appresi che il procuratore, nello studio di don Gaetano,
aveva già cominciato a interrogare. Aveva chiesto che si facessero avanti, per primi,
quelli che erano nella stessa fila dell’onorevole Michelozzi, quando l’onorevole
Michelozzi, dopo lo sparo, era caduto: ma nessuno si era fatto avanti. Il procuratore
aveva espresso, con misurate parole, la sua riprovazione: e totti gli davano ragione e
riprovavano. «Com’era possibile che uno non si ricordasse se aveva o no a lato il
povero Michelozzi?». Ma tant’è che questa domanda se la facevano anche quelli che
dovevano averlo avuto vicino: e dunque o effettivamente non se ne ricordavano o si
schermivano; a parte colui che aveva sparato, che aveva tutte le ragioni per
nascondersi. Comunque, il procuratore aveva cominciato a interrogare per ordine
alfabetico: e stavano lì ad aspettare la chiamata anche quelli della zeta, cui ad andar
bene sarebbe toccata a tarda sera.
Scalambri era stato tra i primi della classe, sarà magari stato tra i primi nel concorso
per magistrato, ma nel mestiere d’inquirente non era certo un’aquila. Avrebbe dovuto
cominciare da me e dal cuoco, che eravamo fuori; e poi procedere a una
ricostruzioine del quadrato, facendo appello alla memoria di ognuno. Così aveva
invece creato un certo panico, e tutti cercavano di defilarsi: propriamente.
Mi avvicinai alla porta dello studio di don Gaetano. C’era a guardia un poliziotto,
che credette di prevenirmi dicendo «Mi dispiace, ma deve aspettare che il signor
procuratore la chiami». Io non avevo avuto l’intenzione di passar quella porta, ma
l’impedimento me la fece venire. Tirai fuori il taccuino e vi disegnai, al modo di
Steinberg, il quadrato degli oranti; sotto scrissi: «bisogna ricostruire il quadrato». E
affidai il messaggio al poliziotto. «Glielo darò quando mi chiama» promise il
poliziotto.
Lo chiamò qualche minuto dopo. E vennero fuori in tre, dallo studio di don
Gaetano: Scalambri, il poliziotto e l’uomo che era stato appena interrogato. Costui si
tuffò subito tra i suoi amici come fuggendo da Scalambri: per mimetizzarsi, per
sparire. Il poliziotto mi indicò a Scalambri, ma questi veniva già verso di me agitando
il foglietto col disegno e dicendo «Me lo devi firmare». La richiesta, quasi gridata,
ebbe l’effetto di far tacere tutti. Si voltarono verso Scalambri aspettandosi, credo, di
vedergli in mano un assegno: ed ebbero la sorpresa di vedere invece un disegnino.
Ero sorpreso anch’io, ma diversamente. Più che abituato, stufo di setirmi chiedere
una firma - generalmente da parte di camerieri - per ogni scarabocchio che -
generalmente aspettando, e aspettando una donna - meccanicamente, per impazienza,
mi trovavo a fare su una salvietta di carta o un giornale, la richiesta di Scalambri mi
parve toccasse l’assurdità, la follia. Mi venne da rispondere come una volta Picasso a
una ragazza che voleva le firmasse un disegno che le aveva appena regalato: «eh no,
mia cara: questo disegno non vale niente, ma la mia firma vale un milione di
franchi»; ma mi contenni. Dissi «Ma no, è una cosa da niente, una cosa non mia:
sembra di Steinberg o di Flora; te ne farò uno con tutti i sacramenti». L’espressione
divertì Scalambri. «Con tutti i sacramenti: vedo che ti conformi all’ambiente». E poi
«Ma sul serio, me lo prometti?». «Te lo prometto». «Oggi?». «Oggi». Rassicurato,
ma ad ogni buon conto mettendosi il tasca il foglietto, mi domaodò «Vuoi dice che
bisogna far disporre questa gente così come era ieri sera per la recita del Rosario?».
«Esattamente».
«Hai ragione: interrogandoli uno a uno non si cava niente; già ne ho passati sei o
sette: non ricordano nemmmeno il loro nome». Si voltò al poliziotto e gli ordinò di
cercare il commissario; poi batté le mani a chiedere l’attenzione di tutti gli ospiti.
Quando l’ottenne, disse «Signori, mi sono reso conto che l’interrogarvi uno ad uno è
completamente inutile; farò perciò un tentativo per risvegliare la memoria di alcuni,
nella speranza che altri siano sollecitati o costretti a ricordare... Siete pregati di uscire
fuori e di disporvi come ieri sera, quando avete cominciato a recitare il santo
Rosario». E disse la parola santo così ambiguamente da valere per quelli un «sono dei
vostri» e per me tutta la sua viscerale irrisione al Rosario e a coloro che lo recitavano.
Ci fu una certa agitazione, qualche impennata di protesta indiretta e che Scalambri
finse di non sentire. Ma il commissario, che intanto era arrivato, cominciò coi
poliziotti a dare esecuzione all’ordine: e si muovevano come i cani dei pastori quando
debbono fare entrare il gregge nel recinto.
Tutti fuori, finalmente; e tuoi intorno a don Gaetano, che era improvvisamente
apparso. Come la sera prima, solo che il mutamento da cerchio a quadrato sarebbe
stato meno spontaneo e più difficile. «Immagino» mi sussurrò Scalambri «che tu non
stessi intruppato con loro: e dunque sei il solo che può aiutarmi».
«Non il solo; c’era il cuoco, seduto accanto a me».
«Portatemi qui il cuoco» gridò Scalambri.
Glielo portarono, stravolto di terrore che mi pentii di averlo tirato in ballo.
Scalambri, sul gradino dell’ingresso, era come un direttore d’orchestra sul podio.
«Voi due» al cuoco e a me «ai posti dove eravate ieri sera... Don Gaetano» più
morbidamente «cerchi lei di aiutarmi: chi stava con lei in prima fila, quando siete
partiti?».
«Sua eccellenza il ministro, sicuramente: e sicuramente il povero onorevole
Michelozzi».
«Michelozzi stava dunque in prima fila: almeno questo, finalmente, lo sappiamo»
disse Scalambri. «E poi, cerchi di ricordare chi c’era ancora, in prima fila... Quanti
erano, sulla prima fila?» rivolgendosi a me e al cuoco.
«Sette otto» io dissi.
«Sette otto» mi fece eco il cuoco.
«Sette otto» ripeté Scalambri. E implorante «Don Gaetano, eccellenza: cercate di
ricordare».
«Vediamo: io stavo alla destra di don Gaetano» disse il ministro «e alla mia destra
stava... Chi stava alla mia destra?».
«Io» gridò uno; e alzò la mano.
«Benissimo. Prenda nota, commissario: il professor Del Popolo alla destra di sua
eccellenza... E alla sua destra, professor Del Popolo?».
«Alla mia destra... Dio mio, chi si ava alla mia destra?».
«Io».
«Prenda nota: l’onorevole Frangipane alla destra del professor Del Popolo... E alla
sua destra, onorevole Frangipane?».
«Alla mia destra, l’ingegnere Lodovisi» rispose sicuro l’onorevole.
«Già» disse l’ingegnere facendosi avanti con la mano alzata.
«E alla sua destra, ingegnere Lodovisi?».
«Alla mia destra, nessuno». Quasi felice.
«Alla sinistra di don Gaetano» disse Scalambri con un sospiro che diceva
rassegnazione per sé e compianto per il defunto di cui stava per fare il nome «c’era
dunque il povero onorevole Michelozzi. Ma chi stava alla sinistra di Michelozzi?».
Galò un terribile silenzio. Poi tremula si alzò una voce, esitante una mano «Forse...
Non so... Mi pare…».
«L’avvocato Voltrano» constatò Scalambri.
«Sì, però...» disse l’avvocato.
«C’era o non n’era?».
«Sì, c’ero. Però…».
«Però?» Scalambri era diventato duro, brusco. «Niente, così: un’impressione».
«Che impressione?».
«L’impressione, ecco, di non averlo avuto sempre a lato».
«Come sarebbe?» Sralambri dava ora nel feroce.
L’avvotato Voltrano sembrò trovare la forza dell’innocenza. «Sarebbe che ho questa
impressione: di non averlo avuto sempre a lato».
«Ah» fece Scalambri: sospettoso, ironico.
«Naturalmente» mi trovai a dire. Senza volerlo.
Scalamri mi fulminò di un’occhiata. Non fosse stato per la passata dimestichezza e
per il disegno che gli avevo promesso, certo mi avrebbe fatto cacciar via. Si calmò e
rassegnò a un «Naturalmente che?».
Mi alzai, mi avvicinai a lui, me lo tirai in disparte. «Naturalmente, dico, perché i
casi, come sempre, sono due: o l’avvocato Voltrano ha fatto fuori Michelozzi e, nel
timore che presto o tardi scopriremo che gli stava alla sinistra, mette le mani avanti
fingendo di avere il dubbio che qualcuno si sia insinuato tra lui e Michelozzi; o
l’avvocato è innocente, e sta dunque dicendo la verità: che qualcuno ha manovrato in
modo da spostarsi cautamente dalla propria fila per trovarsi, quando giungessero
nella zona più buia, accanto a Michelozzi... Trova un altro, di altra fila, che abbia lo
stesso dubbio dell’avvocato, e cioè di non aver avuto a lato, ad un certo punto, quello
che gli era vicino alla partenza: e avrai in mano l’assassino».
Tanto era sensato, quel che dicevo, che Scalambri se ne urtò. Da primo della classe.
«Ma tu» mi disse con un sorriso di compatimento «sei un lettore di romanzi
polizieschi o addirittura li scrivi?».
«Li scrivo e li pubblico con pseudonimo» risposi con una serietà che lo lasciò
perplesso.
«Comunque, questo non è un romanzo» disse tornando ai suoi inquisiti. Ma da quel
momento, si mosse sulla linea che gli avevo tracciata.
Tutta la mattinata passò così: chi c’era alla sua destra, chi alla sua sinistra, se alla
sua destra o alla sua sinistra ognuno avesse avuto sempre la stessa persona. Tranne
quattro, con l’avvocato Voltrano cinque, tutti assicurarono che nessun mutamento,
nessuna sostituzione, era avvenuta alla loro destra o alla loro sinistra. Certo, non
potevano giurarlo sul Vangelo: il passaggio dalla zona illuminata alla zona buia,
l’intensa (dicevano) partecipazione al Rosario, il fattu che non potevano nemmeno
immaginare tra loro il delitto, e che si manifestasse proprio nel mnmento di quelle
umili e concordi preghiere (enciclica Supremi Apostolatus di Leone XIII, citata dal
ministro) che erano onorifico distintivo della cristiana pietà: tutto ciò aveva fatto sì
che la loro memoria pochissimo o quasi nulla registrasse di quello che ora il
magistrato pretendeva che ricordassero. In quanto ai cinque che avevano qualche
dubbio sulla permanenza ai loro lati delle persone che sicuramente c’erano quando
era cominciata la recita del Rosario, tutti si trovavano nella condizione dell’avvocato
Voltrano: fugaci impressinni, e null’altro. Nè sapevano o volevano indicare chi ad un
certo punto si erano trovati a lato invece del compagno con cui erano partiti.
Scalambri era furioso. Per come gli avevo suggerito, era riuscito, dopo quattro ore, a
ricostruire il quadrato (che non risultò poi un quadrato, ma un trapezio isoscele);
aveva trovato cinque persone che vagamente ricordavano di non avere avuto sempre
a lato, sulla destra o sulla sinistra, la stessa persona: ma la sua inchiesta era al punto
di partenza, nè si intravedeva la possibilità che almeno gli si materializzasse davanti
un indiziato qualsiasi, magari da prosciogliere poi in istruttoria. A tal punto era
furioso che, davanti al ministro e a don Gaetano, si lasciò andare a beffardi
apprezzamenti sulla fede e le pratiche di fede di tutti quei galantuomini che non
ricordavano.
Il ministro si rodeva, mordeva il freno. Calmissimo invece don Gaetano: e non
diceva parola. Soltanto a tavola, dopo la preghiera e la benedizione, sollecitato da
Scalambri, che stava alla sua sinistra (a destra io), cominciò a disgelarsi: ma evitando,
con impareggiabile perizia, di avvicinarsi al delitto, tutte le volte che Scalambri tentò
di condurvelo. Sapeva, secondo me; o almeno intuiva. E anche secondo Scalambri,
che quando ci alzammo da tavola mi suisurrò all’orecchio «Se questo pretaccio
parlasse...» in un rantolo di rabbia da mastino che non può addentate la preda.
«Che facciamo, signor procuratore?» si avvicinò a quel punto a domandare il
commissario.
«E che vuoi fare?» disse Scalambri. «Restiamo qui, ospiti dell’albergo di don
Gaetano: che esca qualcosa o non esca nulla, altro non possiamo fare che star qui, ad
osservare, a spiare».
«Posso parlare?» domandò il commissario accennando con l’occhio alla mia
presenza.
«Parli».
«Li arresterei tutti, don Gaetano compreso».
«A chi lo dice, caro commissario, a chi lo dice...». Con aria sognante.
«Tanto» incalzò il commissario «sono tutti nella condizione di quel tale che quando
gli lessero la sentenza di condanna disse “per tanti che ne ho fatto mai mi avete
incastrato, per questo che non ho fatto mi state condannando”. Non le pare?».
«Mi pare, caro commissario, mi pare...». E da sognante diventando imbambolato, e
in un barlume accorgendosene, Scalambri impastò «Ma oh, questo vino fa scherzi...
A letto, me ne vado a letto» e si allontanò malfermo, lasciandomi col commissario.
«E anche lui» borbottò il cummissario guardando Scalambri allontanarsi. Anche lui
da arrestare o anche lui che si metteva a complicare le cose, avendo bevuto più di
quanto doveva, dentro una situazione che richiedeva lucidità e prontezza. Ma subito
colto da preoccupazione, per la familiarità con cui Scalambri ed io ci trattavamo,
volle correggere e addolcire. «Anche lui, dico, come me: ha fatto un certo effetto
anche a me, questo vino... E si sa: dove c’è prete c’è buona cantina».
«Don Gaetano è un intenditore» dissi per stuzzicarlo. «Un vero intenditore».
«Non solo di vini: di tutto».
«Anche di delitti?».
«Di delitti in genere, non lo so. Certo, in confessione, fogne aperte ne ha viste... Ma
guardi: mi giuocherei i..., insomma: sarei disposto a scommettere qualunque cosa,
che di questo delitto qualcosa ha capito, qualcosa sa».
«Ne sono convinto anch’io».
Il commissario passò a un tono inquisitorio. «Lo conosce bene?».
«Non credo ci sia uno che possa conoscerlo bene».
«Già» approvò malinconicamente.
«È un uomo straordinario».
«Straordinario».
«Terribile».
«Terribile».
«Molto imstelligente».
«Molto intelligente, sì; terribile; straordinario... Ma guardi: se lo avessi tra le mani
per ventiquattro ore, ad interrogarlo come dico io, come so io, don Gaetano
vomiterebbe l’anima sua, se anima ha... E non pensi, per carità!, a maltrattamenti, a
torture... Lo farei soltanto scendere dal piedistallo, gli farei soltanto sentire che per
me lui sta alla pari del ladro di galline, del debosciato pescato coi suoi tre grammi di
eroina in tasca... Quando uno che si crede potente entra in un posto di polizia e si
sente ordinare di togliersi le stringhe dalle scarpe e la cintura dai pantaloni, crolla,
mio caro amico, crolla che lei non se lo immagina nemmeno».
«Anche don Gaetano?».
«Anche don Gaetano, e il papa, e domineddio... Provi a immaginare la scena: il
posto di polizia, una stanza squallida come la mia, quel tipico odore che Gadda fa
sentire così indelebilmente e che assale le narici ogni volta che si parla di polizia (e lo
sento anch’io nonostante gli anni di assuefazione); dietro la scrivania il commissario
che non si alza, che non fa il minimo gesto non dico di ossequio ma di saluto; il
brigadiere in piedi, che con indifferenza o addirittura disprezzo dice “signor Montini,
si tolga le stringhe dalle scarpe e la cintura dai pantaloni”... La fine, mio caro amico,
la fine».
«Mi piace di più immaginare la scena con domineddio al posto del papa».
«La immagini, la immagini…». Si allontanò sorridente ma subito tornò indietro
preoccupato. «Ma oh, mi raccomando: questo è uno sfogo che ho fatto a lei in
confidenza, perché so che lei la pensa come me».
Sorridendo d’intesa, e come per giuoco, domandai «E come la pensiamo, noi due?».
«La pensiamo che zac». E mosse la mano in semicerchio: a mietere, a decapitare. E
di nuovo sorridente, si allontanò.
Per la verità, da anni non mi avveniva di pensare che - zac - ci fosse da mietere, da
decapitare; e che un simile pensiero o vagheggiamento, in me spento, tanto
rigogliosamente germogliasse in un commissario di polizia, anche se celato, non avrei
creduto. Ma tante cose avevo perso di vista; di tanti mutamenti non mi ero accorto, di
tante novità. E non soltanto io: anche la gente che incontravo ogni giorno era nella
mia stessa condizione. Ministri, deputati, professori, artisti, finanzieri, industriali:
quella che si suole chiamare la classe dirigente. E che cosa dirigeva in concreto,
effettivamente? Una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili
d’oro.
Rimuginando desolatamente sulla ragnatela, sul filo d’oro cui ero appeso, e come
uno scostarsi di rami, un colpo di vento, potevano facilmente devastarla (e mi ero
fermato davanti a una ragnatela che brillava argentea, non aurea come la nostra, tra i
rami di un nocciolo: e scostai uno dei rami cui era attaccata, lo curvai verso di me per
poi lasciarlo andare come balestra; e vidi i fili d’argento spezzarsi e i ragni andarvi
giù e su come pazzi), mi ero avviato verso la radura dove negli altri giorni le donne
prendevano sole. Non c’erano. Andai oltre di un centinaio di metri: e
improvvisamente mi accorsi di don Gaetano che, seduto su una pietra rotonda, una
mola di antico frantoio o mulino, mi guardava fissamente ma, come al solito,
dandomi l’impressione che non mi vedesse. Mi avvicinai: e più sgradevole e
pungente ebbi l’impressione che non mi vedesse, che non volesse vedermi. Mi venne
perciò di rivoltarmi, di essere con lui sgradevole e pungente.
«Qualcuno le ha rivelato in confessione di aver commesso il delitto o di aver
testimoniato il falso?».
«Si sieda» disse don Gaetano indicandomi il posto accanto a sé, sulla mola.
Smontato, cercai di resistere. Recitai «Nessuno può saper da chi sia amato quando
felice in su la ruota siede». Ma mi calai accanto a lui, sulla pietra fresca, umida come
se trasudasse.
Il silenzio era vasto, reso ancora più vasto e consistente da un lontano orizzonte di
voci, motori, cani che abbaiavano. Facciamo una gara di silenzio, mi dissi: ché la
campagna, quella campagna, mi riportava all’infanzia, ai giuochi; tra cui erano quelli,
stanchi dei più movimentati, del non parlare, del non ridere, dello stare ad occhi
chiusi. Sapevo però che l’avrei persa. Infatti, dopo un po’ domandai «Che gliene
pare, di come conduce l’inchiesta il mio amico Scalambri?».
«Ah, è un suo amico?».
«Per niente, l’ho detto per come si usa dire: siamo stati compagni al liceo, non lo
vedevo da parecchi anni, nemmeno sapevo che fosse entrato in magistratura... Crede
che arriverà a un risultato?».
«E lei?».
«E come vuole che ci arrivi, poverocristo, indagando dentro questa specie di
congregazione?».
«Non dica poverocristo: di poverocristo ce n’è uno solo, ed è il Cristo... E sbaglia di
grosso a credere che questa sia una specie di congregazione: è un canestro di vipere».
«Si stanno mordendo tra loro?».
«E non se ne accorge?».
«Non ho l’occhio così esercitato da accorgermene... In ogni caso, non si
morderanno a beneficio del povero Scalambri».
«E chi lo sa? Basterà, forse, tirarle fuori dal canestro e vedere chi ha meno morsi».
«E chi ne ha di meno è colpevole, immagino».
«Immagini quello che vuole».
«E lei?».
«Io che?».
«Lei non farà niente perché Scalambri risolva il problema?».
«Il problema è di Scalambri. Non può e non deve essere mio».
«Ma la giustizia, la colpa, l’espiazione...».
«No». Fermamente. Poi, come estraendo le parole da una remota lontananza, in uno
stato di divinazione «Veda: credere che Cristo abbia voluto fermare il male è l’errore
più vecchio e più diffuso del mondo cristiano. “Dio non esiste, dunque nulla ci è
permesso”. Queste grandi parole, nessuno ha mai veramente tentato di rovesciarle:
piccola, ovvia, banale operazione. “Dio esiste, dunque tutto ci è permesso”. Nessuno,
dico, tranne Cristo. E nella sua vera essenza, questo è il cristianesimo: che tutto ci è
permesso. Il delitto, il dolore, la morte: crede sarebbero possibili, se Dio non ci
fosse?».
«Dunque il trionfo del male…».
«Non il male, non il trionfo del male: bisognerebbe decollare da queste parole, dalle
parole... Eppure non abbiamo che parole... Bisognerebbe entrare nell’inesprimibile
senza sentire la necessità di esprimerlo... Ma lei, capisco, non sa che farsene
dell’inesprimibile; e dunque scendiamo... Scendiamo, ecco, alle antiche accuse, alle
antiche difese. A Tertulliano, per esempio, che tanto disperatamente quanto
inutilmente tentò di difendere i cristiani dall’accusa di essere totalmente sterili nella
vita pubblica: “Pratichiamo anche noi il foro, i mercati, i bagni, i negozi, i magazzini,
gli alberghi e ogni altro vostro commercio; con voi coabitiamo nel secolo...”.
Giustissimo: solo che per noi il secolo, il mondo, è ben altra cosa. È l’orlo
dell’abisso: dentro di noi, fuori di noi. L’abisso che invoca l’abisso. Il terrore che
invoca il terrore. Perciò voi, giustamente, ci temete: e aveva torto Tertulliano a
chiedersi di non temerci, a rassicurarvi; mentre aveva ragione a concludere che nella
misura in cui voi ci condannate, Dio ci assolve».
«Voi chi?».
«Voi che vedete il secolo, il mondo, regolato dal foro; e il foro da Dio, anche se
chiamate Dio con altri nomi».
«E scendendo ancora, lei che cosa mi dirà? Che di questo omicidio accaduto qui, tra
i suoi ospiti; del fatto che uno dei suoi ospiti è stato ammazzato e che un altro,
assassino, molto probabilmente non pagherà, a lei uon importa nulla... Mi dirà
questo?».
«Potrei anche dirglielo. Ma sto soffrendo».
«E perché?».
«Perché c’è una parte di me ancora esposta, ancora scoperta; ancora vulnerabile, se
vuole».
«E non è la parte migliore, mi pare di capire».
«Ecco che lei torna alle parole che decidono, alle parole che dividono: migliore,
peggiore; giusto, ingiusto; bianco, nero. E tutto invece non è che una caduta, una
lunga caduta: come nei sogni...». L’ultima parola restò come imbevuta dall’aria, dagli
alberi, da me stesso: sicché quando mi ritrovai solo, seduto su quella pietra rotonda,
intorpidito, mi parve di essere stato colto per un momento dal sonno e di aver
sognato; e forse più che per un momento.
Mi alzai e mi incamminai verso l’albergo. E già prima di arrivarci, dai rumori, dalle
voci, capii che qualcosa di nuovo era accaduto.
Era accaduto che l’avvocato Voltrano, volando, si credeva, dalla finestra della sua
camera, all’ottavo piano, era andato a spiaccicarsi su un mucchio di mattoni e tegole:
dietro l’albergo, dalla parte su cui davano le cucine, Il cuoco, che stava a
sonnecchiare su una sdraio, si era svegliato al rumore: e dapprima non vide, ché da
sdraiato non vedeva tutta la superficie del mucchio; poi, vedendo qualche mattone
ancora scivolare, alzandosi scoprì quel corpo in pigiama che, a faccia sotto, ancora
strattava: e diede un tale grido che tutti, anche quelli che avevano camera dall’altra
parte, lo sentirono. Lo sentì anche Scalambri, attraverso la fitta nebbia del sonno da
vino: ed era lì, ora, dalla parte delle cucine, ormai ben sveglio, arrabbiatissimo,
vociante.
Pallido, il mento che gli tremava, il cuoco era circondato da aiutanti e sguatteri; uno
dei quali, di tanto in tanto, gli porgeva un boccale di vino. Il cuoco lo prendeva a due
mani, ché con una non ce la faceva per il tremore, beveva un breve sorso e lo
restituiva. Quando il commissario se ne accorse, gridò che stavanso ubriacandoglielo:
e a lui serviva con la mente netta. A mezza voce il cuoco sgranò bestemmie: alla
Madonna, ai santi più familiari. «La mente netta! E perché io la debbo avere, la
mente netta? Che c’entro, che so? Io sono stato svegliato da un rumore e ho visto
uno, in pigiama, che si muoveva su quei mattoni come una lucertola quando è presa
alla testa da un colpo di fionda. E questo è tutto». Allungò la mano verso il boccale e
subito la ritrasse, bestemmiando ancora. «E non posso nemmeno bere un sorso di
vino».
Il giovane prete zazzeruto mi si avvicinò. «È sconvolto, poveretto: mai lo avevo
sentito bestemmiare». A giustificare il cuoco e l’albergo. E poi «Il povero avvocato
Voltrano: lei lo conosceva?».
«No».
«Un uomo di valore: Sacra Rota, sciogliomenti di matrimoni; ma negli ultimi anni
si era dedicato alla politica; così, senza apparire molto: ma con abilità, con prestigio...
Poveretto, ogni anno che veniva si raccomandava tanto: “per favore, una camera
all’ultimo ptano”. E l’accontentavamo sempre».
«Anche quest’anno» constatai.
«Già, anche quest’anno». Ed ebbe come un brivido.
«Ma non abbia rimorsi, per averlo accontentato: sarebbe morto anche cadendo dal
settimo o dal sesto. O stando al primo piano, senza la formalità di gettarlo sotto».
«Ma lei erede che l’hanno ammazzato?».
«Lei no?».
«Dio mio, un altro!».
«Quando una cosa si comincia, tutto sta nel continuarla».
«Ma il delitto...».
«Appunto nel delitto non ci si può fermare».
«Lei crede dunque che ce ne saranno altri?».
«Ma no: qui ed ora è possibile che tutto si sia concluso. Non ci si può fermare,
intendo, finché non si eliminano gli errori, gli incidenti, le sbavature che si sono
verificati commettendo il primo; e poi, correggendo con altro delitto, quelli che
ancora, imponderabilmente, insorgono; e così via... Questo, ovviamente, nei delitti il
cui autore ha tutto calcolato per riuscire all’impunità. E poiché non c’è calcolo che
non abbia un margine in cui l’imponderabile, il fortuito e insomma la fortuna non
giuochino un ruolo fatale... E siamo appunto a questo caso: se l’avvocato Voltrano,
stamattina, non avesse manifestato il dubbio, l’impressione, di non avere avuto
sempre, durante la marcia del Rosario, 1’onorevole Michelozzi a lato, sarebbe ancora
vivo».
«Dunque lei crede che per quello che ha detto stamattina…».
«O per quello che non ha detto».
Il commissario doveva avere nelle orecchie invisibili tentacoli se lontano com’era, e
tutto occupato come pareva a risolvere il problema di come l’avvocato Voltrano
poteva esser caduto dalla propria finestra sul mucchio di mattoni, se c’era uno scarto
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di almeno dieci metri (un agente stava alla finestra della camera di Voltrano, e stava
calando giù una pietra appesa a un filo), colse le due ultime battute e mi gridò
«Giustissimo: per quello che non ha detto... Ed è stato buttato giù dalla terrazza, lo
vede?, non dalla finestra della sua camera».
«E che vuol dire?» domandò il prete.
«Vuol dire, mio caro amico, che sulla terrazza l’avvocato Voltrano c’è andato da sé;
e c’è andato perché aveva appuntamento con la persona che l’ha ammazato».
«Commissario, la prego: tenga per sé, e per me, ogni deduzione» intervenne
duramente Scalambri.
«Mi scusi, signor procuratore, mi scusi: ma si è data una curiosa coincidenza... Il
suo amico, qui, stava avanzando una ipotesi proprio nel momento su cui io, che
l’avevo fatta per mio conto, stavo verificandone la giustezza... Nemmeno la fisica è
un’opinione: lo vede?». Mostrò l’agente che stava alla finestra, tra le mani il capo del
filo da cui la pietra, a un metro dal suolo, lontana dal mucchio di mattoni, oscillava.
«Ma il mio amico, lei non lo sa, scrive romanzi polizieschi» disse placato, e
scherzosamente, Scalambi. «Non è soltanto il grande pittore che tutti conosciamo... E
a proposito: il disegno? Come disse Orazio, promissio boni viri est obligatio... O è
Trilussa che l’attribuisce ad Orazio per far rima con obligatio?».
«Non mi ricordo: tu sai che di latino, io…».
«Io l’amavo, invece, l’amavo». Sospirò di malinconia dietro la sorte che da
Cicerone e Lucrezio lo aveva distolto per condurlo ad investigare su due delitti
misteriosi, tra gente potente e malfida. «E il disegno, dunque?».
«L’avrai stasera o domani. Tanto, per come si son messe le cose, da qui né tu né in
ti muoviamo».
«Siamo come una carovana impantanata».
«Signor procuratore» interruppe il commissario «vuole venire anche lei sulla
terrazza? Credo che una ricognizione…».
«Certo certo» disse Scalambri. E come lasciandosi andare a una generosità per lui
eccezionale e per me insperabile «Vieni anche tu».
Con l’ascensore fino all’ottavo piano; poi, per una scaletta incassata come in una
botola, uscimmo sulla grande terrazza a mattonelle smaltate, accecante di sole.
Nel punto vicino alla ringhiera da cui, in precisa perpendicolare, l’avvocato
Voltrano era andato a piombare sul mucchio di mattoni, c’erano macchie di sangue.
«Perfetto» disse il commissario. Soddisfatto di sé, contento. Si fregò le mani,
persino. «E ora dobbiamo trovare l’oggetto» guardandosi intorno «con cui quel figlio
di puttana lo ha colpito».
«Io penso» dissi timidamente «che l’oggetto non cui l’ha colpito, l’assassino l’avrà
buttato giù: e subito dopo aver dato il colpo, o i colpi. Appena ha visto l’avvocato
afflosciarsi. Non poteva tenersi l’oggetto in mano, mentre buttava giù l’avvocato».
«Poteva posarlo, nel dubbio che l’avvocato si riprendesse: per servirsene ancora»
obiettò il commissario.
«Giusto. Ma che abbia buttato giù prima l’oggetto e poi l’avvocato o prima
l’avvocato e poi l’oggetto…».
«In ogni caso, lei dice, l’oggetto l’avrà buttato giù... Eh sì, non se lo sarà portato in
camera». E dalla meditazione passando all’azione «Corro a cercarlo».
«E lo cerchi un po’ più lontano di dove è caduto l’avvocato» gli gridai dietro, ormai
sicuro di me.
Restammo, sulla terrazza battuta da un sole che sarebbe stato feroce senza il vento
che dolcemente vi mulinava, Scalambri ed io (l’agente di guardia alla scala, lontano e
dava l’impressione dormisse all’impiedi, come i muli); e mentre guardavamo giù,
aspettando che vi comparisse il commissario, con aria confidente e condiscendente,
Scalambri mi disse «Vedi: a me di come è avvenuto questo secondo delitto, del
mattone o della grasta con cui Voltrano è stato colpito, importa poco o nulla. Mi
importa sapere perché Voltrano è stato ammazzato. E lo so. Voltrano è stato
ammazzato perché sapeva chi era l’assassino di Michelozzi e voleva ricattarlo».
«Ma questo lo sai dal momento in cui è stato accertato che l’incontro tra l’assassino
e la sua seconda vittima è avvenuto qui, sulla terrazza. Se Voltrano fosse stato
aggredito nella sua camera, buttato giù dalla finestra della sua camera, questa
certezza non l’avresti».
«D’accordo, d’accordo: non avrei la certezza. Ma il dubbio che l’avvocato sapesse
qualcosa di più di quello che ha detto, e volesse servirsene a ricattare l’assassino, ce
l’ho fin da stamattina».
«Io invece, stamattina, ho creduto fosse sincero: che non sapesse niente di più di
quello che ha detto, che non ricordasse...».
«Ti è parso sincero, in confusione, quasi mortificato dal fatto di non poter dire di
più, di non poter ricordare meglio... Ma quello era un uomo che la verità non la
diceva nemmeno su quello che aveva mangiato a pranzo o sull’orario dei treni.
Sistematicamente. E se ha detto quello che ha detto, fingendo come per te, non per
me, ha saputo fingere, uno scopo doveva averlo di certo. E sai che ti dico? Molto
prubabilmente lui non ha visto niente: si è inventata quell’impressione, ha finto di
avere quel vago ricordo, in base a un calcolo che avrà immediatamente fatto, di fronte
alla ricostruzione che noi stavamo facendo... Poco fa io ti ho detto che stamattina mi
era venuto il dubbio che l’avvocato sapesse. Stavo sbagliando: l’avvocato non sapeva
niente. Ma appena ha afferrato che, stando alla sinistra di Michelozzi, qualcosa
poteva aver notato, ha calcolato che dicendo di avere avuto quell’impressione, di
qualcuno che si fosse insinuato tra lui e Michelozzi, quel qualcuno, conoscendolo,
avrebbe fatto di tutto per fermare la sua memoria; di tutto, cioè, per compensare in
favori e denaro il suo silenzio, come tra loro usano... Non ha calcolato, però, che uno
che ha già commesso un delitto facilmente, nel panico, può commetterne un altro».
«Tu lo conoscevi bene, mi pare».
«Benissimo, lo conoscevo benissimo. Mi ha dato più fastidi lui che tutti costoro
messi insieme. Astuto, perfido; e di una tenacia, nei suoi disegni più perfidi... Una
volpe: e si è finalmente imbattuto in un lupo».
«Dunque, secondo te, stamattina, dicendo quello che ha detto, Voltrano gettava
l’amo alla cieca, senza sapere chi avrebbe abboccato».
«Ne sono quasi certo, ora».
«Stamattina, invece, hai pensato che lui sapesse già chi sarebbe corso all’esca... Ma
che sapesse o no, tenerlo d’occhio si poteva, sorvegliarlo discretamente…».
«Quel cretino del commissario! lo glielo avevo detto che Voltrano non mi
convinceva... Comunque, questo secondo delitto soltanto fortuitamente, per caso, può
condurci al colpevole; il problema vero, quello in cui cercare i dati per risolverli tutti
e due, è il primo. Il movente del secondo è chiaro: il ricatto. Ma è un movente che
non ci conduce al colpevole. Se invece troviamo il movente del primo, il colpevole
l’abbiamo in mano... Il fatto è, però, che di moventi, tra questa gente, ne puoi trovare
a migliaia. Ce ne sono tanti, e così gravi, che è un miracolo non si azzannino e
scannino qui, sotto i nostri occhi».
«Problema insolubile, dunque».
«Non è detto... Vedi: c’era in Michelozzi una particolarità, qualcosa di diverso
rispetto a questi altri. Era sì un ladro, uno che, in altri tempi, avrei rubricato mille
volte per malversazione e peculato, per corruzione, per tutti quei reati che i legislatori
hanno constatato o previsto in rapporto all’amministrazione del denaro pubblico; ma
per la morale corrente, per la prassi oggi in uso, era considerato strenuamente onesto:
e soltanto perché pochissimo, o addirittura nulla, rubava per sé. Tutti costoro
possiedono case, ville, aziende agricole modello; hanno la loro parte in piccole,
medie e grandi industrie; da anni portano denaro in Svizzera, a centinaia di milioni, a
miliardi: Michelozzi no: non possedeva una casa né un pezzo di terra; stava a
pensione da suore e frati; si dice che persino distribuisse ai poveri parte del suo
stipendio... Come facesse poi a trovare i poveri, non lo so... La sua diversità,
insomma, consisteva in questo: che nessuno di costoro poteva ricattarlo con la
minaccia di rivelare le sue malversazioni e corruzioni, e per il semplice fatto che tutti,
dico tutti, dai reati commessi da Michelozzi hanno cavato vantaggi. Il corrotto non
può provocare rovina sul corruttore senza restare sepolto dalle stesse macerie».
«Non potendo dunque ricattarlo…».
«Ma si poteva far leva su altre cose, sollecitare interventi autorevoli... Per esempio:
don Gaetano. La coscienza di tutti costoro, don Gaetano la maneggia e modella come
cera; e se don Gaetano avesse detto a Michelozzi di fare o di non fare una certa
azione in favore di colui che si è trovato invece costretto a commettere due omicidi...
Ecco, mi è venuto di dire invece: invece di raccomandarsi a don Gaetano... Ed è
possibile che prima di decidersi a un’azione così estrema, così disperata, e così
rischiosa, l’assassino non abbia giuocato la carta di raccomandarsi a don Gaetano?...
Ah, ecco finalmente un punto fermo: don Gaetano sa tutto. Ci sono arrivato».
«E ci resterai».
«Eh sì, lo so: ma debbo tentare».
Da giù, ce ne eravamo distratti, il commissario gridava esultanza: aveva trovato, e
l’agitava in alto (una cosa rossastra che faceva corolla al centro di una salvietta
bianca), il curpus delicti.
Scalambri tentò. Per circa tre ore. Ne uscì stanchissimo, vinto. Da quel che mi
raccontò, don Gaetano aveva eluso e deluso ogni sua domanda vaporizzando dottrina
cristiana. «Come un gas» diceva Scalambri «come se avessi aperto il rubinetto del
gas e mi fossi seduto lì, ad aspettare che mi stordisse... Ipocrita, delinquente…». Ma
stancamente, non aveva nemmeno la forza di essere arrabbiato. Soltanto si animò
quando il commissario, poco prima di scendere in refetturio, gli disse di aver saputo
che nell’albergo c’erano state, fino al momento in cui era stato ammazzato
Michelozzi, cinque donne: ed erano scomparse.
«E me lo dice ora?» rimproverò Scalambri.
«Ora l’ho saputo e ora glielo dico».
«Prima, avrebbe dovuto saperlo. Subito. Appena arrivato» incalzò Scalambri.
Il commissario allargò le braccia, reclinò la testa sulla spalla sinistra: un crocefisso.
«È una cosa senza importanza» dissi, in soccorso al commissario. «Sono sicuro che
non hanno niente a che fare coi delitti; e se sono scomparse, se le hanno allontanate la
sera stessa, senza che ce ne accorgessimo, si può solo dedurre che don Gaetano si è
preoccupato di quel tanto di scandaloso, di boccaccesco, che poteva venirne fuori».
«Appunto» disse Scalambri, sorridendo malizia e vendetta «appunto...». Si capiva
che avrebbe usato l’argomento a convincere don Gaetano a dirgli qualcosa sul delitto;
o soltanto per vendicarsi. E non resistette al piacere di dargliene avviso a tavola.
Maldestramente: ché don Gaetano, apprendendo che Scalambri sapeva delle donne e
minacciava di farne scandalo, prese immediatamente le sue misure e si mostrò pronto
al contrattacco.
Come per improvvisa e disinteressata curiosità, Scalambri aveva cominciato col
domandare «Ma questo è un albergo o, che so, una specie di monastero, di asilo?».
«È un albergo che periodicamente diventa, come lei dice, una specie di monastero».
«Ma, dico, è gestito come un albergo, no?».
«Che vuol dire: gestito come un albergo?». Don Gaetano era già attento, guardingo.
«Voglio dire: è tenuto ad osservare le stesse norme di legge, lo stesso regolamento
di polizia, che osservano gli alberghi non gestiti da enti ecclesiastici o da religiosi?».
«Non lo so» disse don Gaetano.
«Ma qualcuno lo saprà, immagino».
«Certo». Suonò il campanellino che aveva davanti, e nel silenzio che subito si fece,
chiamò «Padre Cilestri…».
Dal suo tavolo, il chiamato si alzò. «Resti, resti dov’è» disse don Gaetano. «Dica
soltanto, al signor procttratore che vuol saperlo, se noi siamo tenuti a schedare i nostri
ospiti e a mandare copie delle schede alla polizia» e abbassando la voce e
rivolgendosi a Scalambri «ché immagino sia questo che lei vuol propriamente
sapere».
«Siamo tenuti» disse padre Cilestri.
«Grazie» disse don Gaetano. E a Scalambri «Siamo tenuti, dunque; ma dubito molto
che padre Cilestri l’abbia mai fatto».
«E perché?».
«Come, perché» si risentì il ministro. «Ma perché, caro signor procuratore, qui
siamo sempre tra noi: come in una specie di monastero, per usare la sua giusta
espressione».
«Una specie di monastero; ma non è un monastero».
«Non lo è di forma, ma lo è di fatto. Ci raccogliamo qui, ogni anno, in tre o quattro
turni, per meditare, per pregare...». Il ministro sembrava aver dimenticato i due
delitti. E chi avrebbe avuto l’indelicarezza di ricordarglieli?
L’ebbe il commissario, dopo aver constatato, girando lo sguardo, che nessuno era
pronto, chi sbalordito chi timoroso, al sacrificio. «Due delitti, eccellenza, due». (Mi
disse poi «Me ne fotto: io tra due mesi vado in pensione»).
Il ministro arrossì di collera, ma si contenne. «Lei, signor commissario, può tenersi
la sua opinione; ma non ha nulla, non una prova, non un indizio, per contrastare la
mia. Che è questa: nessuno di coloro che siamo qui, in questa sala, ha commesso i
due delitti».
«Lei dice: nessuno dei presenti» intervenne Scalambri.
«Proprio: nessuno dei presenti».
«Dei presenti» fece eco, con intenzione, Scalambri.
«Dei presenti» ribadì il ministro, ma con qualche esitazione, come sospettando una
trappola. E poi, preoccupato, rivolgendosi a don Gaetano «Manca forse qualcuno?».
«Nessuno» disse don Gaetano con esasperata fermezza. E fissò Scalambri d’uno
sguardo che lentamente, come un obiettivo, si restringeva a diventate, da spento che
sembrava, acuto e rapido; e al mutamento dello sguardo si accompagnava un
movimento della mano destra, a somiglianza della zampa di un gatto nel giuoco di
tirar fuori le unghie e di ritirarle.
«E poiché nessuno manca» continuò il ministro «confermo e sottoscrivo la mia
opinione: l’assassino non è tra noi».
Poiché aveva alzato la voce e, dal momento che don Gaetano aveva chiamato padre
Cilestri, tutti stavano in silenzio a seguire quel che si diceva al nostro tavolo, le parole
del ministro furuno salutate da un coro di «benissimo, giustissimo, bravo» e poi da un
battimano frenetico e prolungato.
Quando si spense, il ministro disse «Mi fa piacere notare che tutti condividiate la
mia opinione» sollevandosi sulla sedia e facendo un quarto di giro verso destra e un
quarto verso sinistra.
«Aveva il dubbio che qualcuno fosse di diversa opinione?» disse don Gaetano,
beffardo. Fu come se gli avesse gettato in faccia un secchio di acqua diaccia. Al
ministro mancò il respiro, annaspò a dire qualcosa. Ma non la disse.
Peraltro, don Gaetano era passato subito a dire, per cambiar discorso, e cioè per
tornare a quello tra lui e Scalambri «Sì, temo proprio che padre Cilestri abbia sempre
trascurato il dovere di trasmettere alla polizia le schede dei nostri ospiti... È una
infrazione grave?».
«Per un qualsiasi gesture d’albergo, gravissima».
«Lei vuol dire che io non sono un qualsiasi gestore d’albergo? La ringrazio».
«L’ha detto sua eccellenza» disse Scalambri indicando il ministro.
«Ma io lo dicevo così, come opinione personale, senza sapere, senza conoscere; e
soprattutto senza la più lontana intenzione di immischiarmi, di interirire... Del resto,
non sono ministro dell’Interno o della Giustizia; mi occupo di ben altre cose, per mia
fortuna».
«Non intendeva elargirci immunità» concluse don Gaetano. «Piuttosto, lasciando da
parte la gravissima infrazione in cui siamo caduti, in cui sono caduto, voglio dirle, ma
convivialmente e, spero me lo conceda, amichevolmente, i pensieri che mi sono
venuti quando lei ha fatto la prima domanda ex abrupto; e s’intende che uso
1’espressinne con malizioso richiamo al procedimento cui una volta dava nome...
Una volta: convenzionale e immeritato omaggio al nostro tempo, poiché ogni
procedimento diciamo di giustizia si è svolto e si svolge sempre ex abrupto, anche se
diluito nei tempi e nelle modalità... Quando lei, dunque, ha fatto la prima domanda:
se questo è un albergo o una specie di monastero (e credo sarebbe stato più esatto
domandare se è un albergo o una sede di confraternita), io ho subito pensato…». Fece
una pausa, come aspettando che Sralambri gli desse il permesso di continuare. E di
essergli amico.
«Dica» incoraggiò Scatambri. Ma con una certa inquietudine.
«Ho pensato, ecco: siamo a tavola a spezzare lo stesso pane e a bere lo stesso vino;
ma lui non dimentica di essere inquisitore e giudice come io non dimentico di essere
prete... Che terribili missioni, le nostre! Terribili e necessarie: e direi che sono
terribili nella misura in cui sono necessarie, e necessarie nella misura in cui sono
terribili... Siamo i morti che seppelliamo altri morti... Dio mio!». Si prese la testa tra
le mani, i gomiti puntati sulla tavola, e coprendosi gli occhi come per vedere dentro
di sé tanta terribile necessità.
Fece un certo effetto. Anche su di me, debbo ammetterlo. Solo il cummissario restò
a sogguardare con ironia lui e noi.
Quando don Gaetano riemerse tra noi, lasciando cadere le mani a palma in su, quasi
a mostrare le stigmate della crocefissione da cui scendeva, disse «Ma come mi
spaventa l’essere prete, di più mi spaventerebbe l’essere giudice... Le parole di Cristo
sono tremende: “Non giudicate, affinché non siate giudicati”. Non proibisce il
giudicare, ma lo pone in diretto e inevitabile rapporto con l’essere gindicati. “Leva
prima la trave dat tuo occhio, e allora avrai la vista capace per togliere la pagliuzza
nell’occhio del fratello”. E noti: la trave nell’occhio di chi giudica, la pagliuzza
nell’occhio di chi è giudicato. Non avrà voluto intendere che solo i peggiori
giudicano, scelgono di giudicare, possono giudicare, in forza delle loro colpe, della
loro colpa, ma dopo essersene confessati e liberati?». Scalambri stava in penosa
attenzione e tensione; e per concedergli tregua, come il gatto col topo, don Gaetano
divagò. «La trave: dalla prima volta che ho letto questo passo o che l’ho sentito,
sempre ho pensato a Polifemo accecato da Ulisse, a Poliferno che si strappa
dall’occhio la trave fumigante... E chissà se a Gesù non sarà accaduto di sentire da un
qualche cantastorie l’avventura di Ulisse, o da un mercante... Pensi quanto poco noi
conosciamo della vita di Gesù: come se ciascuno di noi trovasse dei testimoni della
propria vita dal momento in cui io sono stato ordinato sacerdote, lei è entrato nella
magistratura, il commissario nella polizia, il professore» indicando me «ha fatto la
sua prima mostra; e così via... E la nostra vita conta sì per il fatto che io sono prete,
lei giudice, il commissario cummissario e il professore pittore: ma l’infanzia,
l’adolescenza, i luoghi in cui siamo vissuti, le persone tra cui abbiamo passato
l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza? E i libri che abbiamo letto, e gli amori, e gli
inganni? E possiamo anche fare a meno dell’adolescenza e della giovinezza: ma un
uomo è quale i primi dieci anni di vita lo hanno fatto; e nulla sappiamo di lui se nulla
sappiamo di questi suoi dieci anni... Naturalmente, la vita di Gesù non ha niente a che
fare con la nostra: di lui ci bastano gli anni folgoranti, gli anni testimoniati; ma io
sono stato sempre affascinato dai suoi anni oscuri, e sempre mi hanno dato alla
fantasia». E a Scalambri «Come è stata la sua infanzia? Felice, infelice? Spero per lei
che sia stata infelice, le infanzie felici germinano noia, tristezza, nequizia…». E
subito riprendendosi e rimproverandosi «Non la consideri una domanda e non mi
risponda. È un mio vizio: quando una persona comincia a interessarmi, ecco che gli
faccio delle domande sulla sua infanzia... Ma qui è lei che deve far domande, non io.
Io stavo invece dicendo…». Restò come ad aspettare da noi, suggeritori nella buca, il
punto cui riannodare il discorso che stava facendo. Ma sapeva benissimo ritrovarlo da
sé. E infatti «Dicevo del giudicare; dell’inquisire e del giudicare. E che Cristo avrà
voluto forse affermare che solo i peggiori possono assumersi un simile compito;
soltanto gli ultimi essere in questo i primi... Ma, per carità!, non veda in questo mio
divagare la minima allusioue personale. Io di lei non so nulla. Nulla, assolutamente»
e lo disse fissandolo, e come se invece sapesse tutto. «E d’altra parte, i termini
peggiori e migliori io li pronuncio in senso evangelico: appunto dei primi che saranno
gli ultimi, degli ultimi che saranno i primi». Stese la mano, lentamente, la planò su
quella di Scalambri. La faccia gli si illuminò di benevolenza, di affetto. «Non so nulla
di lei» e ancora si fermò sul nulla a farlo diventar tutto «ma le voglio bene».
Scalambri si alzò da tavola che sembrava tutt’altro uomo. Si appoggiò anzi al mio
braccio con una certa pesantezza, come malfermo. E quando il commissario si
avvicinò a chiedergli sottovoce «Signor procuratore, diamo dentro a questa faccenda
delle donne scomparse?» lui, di un tono più alto del neeessano, a farsi sentire da
coloro che intorno a noi, senza parere, sempre si aggiravano, nervosamente rispose
«E che vuol dare dentro? Non capisce che queste donne, ammesso che ci fossero, non
hanno niente a che fare col delitto e che se ci mettiamo ad inseguirle rischiamo di
perdere del tutto il filo?».
«Quale filo?» domandò con aria tonta il commissario. Si divertiva.
«Ma il filo…» disse confuso, e sottovoce, Scalambri. «Il filo del denaro, degli
interessi, degli affari loro, dei ricatti: che è l’unico possibile».
«Solo che non lo teniamo» disse il commissario.
«Non lo teniamo, va bene...». La voce di Scalambri vibrò istericamente. «Va bene,
non lo teniamo: ma dobbiamo cercare di raggiungerlo, di afferrarlo... Ho già dato
disposizioni: dei miei colleghi, in più luoghi, stanno indagando. Non dormo, io…» e
mi trascinò via, piantando il commissario. Mi voltai a guardarlo. Era soddisfatto;
soddisfatto e ghignante, il commissario; e mi ammiccò a dire: è ridotto male, il suo
amico. E a prova Scalambri stava dicendomi «Questo cretino del commissario: vuol
farmi correre dietro alle donne, che chi sa poi se c’erano veramente».
«C’erano».
«Ah, c’erano davvero?... Comunqne, non c’entrano... Vedi: io mi sono fatta una
precisa opinione di questi delitti, e mi pace di avertene parlato oggi, mentre stavamo
sulla terrazza. Tendo perciò ad eliminare tutte le scorie, tutti i fatti e gli indizi che
finirebbero col fuorviarci, col confonderci... Il commissario, non so se in buona fede,
perché è un cretino, o interessatamente, perché è un cretino corrotto, vuole gettarmi
tra i piedi l’inciampo delle donne: per farmici cadere sopra. Io invece lo scavalco e
procedo».
Caritatevolmente, non gli ricordai che poco prima di andare a tavola era stato lui, e
non il commissario, a credere importante la presenza e la scomparsa delle donne.
«Ma mi pare che don Gaetano tenga molto a che non si parli delle donne; e nella
misura in cui lui ci tiene... Pensa che succederebbe, sui giornali, se venisse fuori che
gli esercizi spirituali di cinqne di questi potenti erano confortati dalla presenza delle
loro amanti».
«A parte il fatto che non un giornale, non uno dico, ne parlerebbe... Che cosa credi
che succederebbe? Pochi si indignerebbero, molti si divertirebbero; e qualcuna di
queste donne finirebbe col fare un film, e magari un film intitolato Esercizi spirituali:
lei nuda e un centinaio di facce ipocrite intorno... A me succederebbe invece,
nell’ordine: il mio capo avocherebbe a sé l’inchiesta, mi promuoverebbero, mi
trasferirebbero. E su questi due delitti calerebbe per sempre la dicitura “ad opera di
ignoti”. Ti pare che valga la pena?».
«Tu dunque conti di risolverli, di trovare il colpevole?».
«Spero, spero...». Ma svogliatamente. E passando alla curiosità, alla malizia «E
come sono, queste donne? Giovani? Belle? E chi se le era portate dietro?».
«Non brutte, e piuttosto giovani. Del tipo che pnò piacere a costoro: un po’
abbondanti, un po’ sgargianti, un po’ volgari. C’è una netta demarcazione, per
costoro, tra le donne da sposare e far prolificare e le donne con cui peccare: queste
bisogna che emanino il senso del peccato a prima vista, a primo odore... Ma a chi
appartenessero, le cinque che erano qui, non saprei».
«Voglio saperlo; almeno questo voglio saperlo».
«Può servire» ambignamente dissi.
«Non servirà, ma voglio saperlo. O me lo dice don Gaetano o li chiamerò uno a
uno».
«Penso che, promettendogli il silenzio, don Gaetano te lo dirà».
«Lo penso anch’io» disse Scalambri. Mi diede una protettiva manata sulla spalla e
se ne andò; certo in cerca di don Gaetano.
Vedendomi solo, il ministro mi si avvicinò. Ebbi la seconda protettiva manata sulla
spalla della serata. «Mio caro amico» come saluto ma scuotendo la testa con
sconforto, con desolazione; come a dice: qui siamo, a fare i conti con le miserie
umane, coi delitti, coi giudici, coi poliziotti: anche noi due che non c’entriamo per
nulla, che siamo ugualmente e diversamente puri. Poiché, nella sua concezione, la
pura inutilità dell’arte restituiva l’artista a una purezza quale, per lui, il suo vivere
cristiano: salva restando la diversità e superiorità del suo vivere cristiano.
E io dissi quello che lui mimava. «Terribile esperienza: non avrei mai sospettato,
quando ho imboccato la strada dell’eremo, ehe sarei entrato in questa specie di
incubo».
«A chi lo dice! Io, poi, che vengo qui ogni anno come ad un luogo di ricreazione, di
elevazione, può immaginare se potessi aspettarmi una cosa simile... Due delitti, due
miei carissimi e vecchi amici uccisi nel giro di poche ore. E tutti noi sfiorati dal
sospetto del giudice, dei giornalisti, dell’opinione pubblica... Ma che dico, sfiorati?
Addirittura covati, dal sospetto. Ha sentito il commissario, a tavola? Il mestiere, la
deformazione professionale: va bene. Ma, Dio mio, un po’ di riguardo, un po’ di
tatto... E non per quello che ognuno di noi è, per quello che ognuno di noi rappresenta
nella vita pubblica: ci mancherebbe, la legge è uguale per tutti... Ma direi per il luogo,
per la ragione per cui ci troviamo qui: la meditazione, la preghiera...». E arrivando al
punto cui voleva arrivare «Io spero che il suo amico, il procuratore, non veda le cose
dallo stesso angolo visuale del commissario: chè è proprio il caso di parlare d’angolo;
angolo mentale, angolo morale…».
«È una sfinge».
«Come?».
«Il mio amico, il procuratore: è una sfinge. Non si lascia sfuggire nulla delle sue
opinioni sui delitti, delle sue intenzioni... Quando gli domando qualcosa sui delitti,
risponde oracolando».
«Tutti così, questi magistrati: oracoli sono, oracoli... Ma mi creda: non fanno gli
oracoli perché sanno e non vogliono dire; fanno gli oracoli così come da sempre si è
fatto il mestiere dell’oracolo».
«Ma forse Scalambri qualcosa sa, un filo lo tiene».
«Lei crede?» disse il ministro sforzandosi di assumere una espressione di ironica
incredulità.
«Sì, mi pare che qualcosa in mano ce l’abbia: un indizio, un’informazione...».
«Un indizio, un’informazione...» fece eco il ministro, di colpo cadendogli la
maschera dell’ironica incredulità. «E che mai può essere questo indizio, questa
informazione?».
«Non avendo conosciuto le vittime, non sapendo nulla del loro carattere, delle loro
attività, dei loro intrighi, non sono in grado di decifrare gli oracolamenti di
Scalambri».
«Per esempio...?». Con la speranza che io me lo ricordassi.
«Per esempio, poco fa, e stavamo parlando dei delitti, mi ha detto: “Nessuno merita
di essere lodato per la sua bontà se non ha la forza di essere cattivo”».
«“Nessuno merita di essere lodato per la sua bontà se non ha la forza di essere
cattivo”: ha detto esattamente così?».
«Esattamente». E completai mentalmente la citazione: «ogni altra bontà non è il più
delle volte che una pigrizia o una impotenza della volontà».
«Sembra una di quelle massime che una volta si trovavano negli involucri dei
cioccolatini... “Nessuno merita di essere lodato per la sua bontà se non ha la forza di
essere cattivo”... Ma come massima, direi che è cretina: chi ha la forza di essere
cattivo è cattivo». E messo a posto François de La Rochefoucauld, il ministro si diede
a trovar senso a una massima tanto cretina in rapporto al caso di cui si preoccupava.
«Forse avrà voluto alludere al povero Michelozzi: che era naturalmente buono... Ma
questo che c’entra? Non l’avranno certo ammazzato per la sua bontà. Se tutti dicono
che era buono, e anch’io lo dico, ché siamo stati vicini per quasi mezzo secolo, chi
l’ha ammazzato voleva metter fine al pericolo che Michelozzi rappresentava per lui:
non c’è altra spiegazione».
«Dunque lei non crede più che sia stato ammazzato per caso?».
«Per caso? E come potrei crederlo, dopo il secondo delitto?».
«Ma se lei esclude che a commettere i delitti sia stato uno di voi…».
«Non ci siamo solo noi, qui. Credo ci siano da venti a trenta persone che vanno e
vengono dall’albergo; e sono poi quelle che meno si notano, che per il fatto che
stanno dove debbono stare e fanno quello che debbono fare diventano quasi
invisibili».
Pensai al timore del cuoco, e quanto fosse fondato. «Ma un cameriere, uno
sguattero, una di queste orsoline o figlie di Maria che aiutano a servire a tavola, per
quale ragione avrebbero ammazzato Michelozzi e poi Voltrano?».
«Lei non ha mai sentito parlare di delitti commissionati, di killers? Le cose, mio
caro amico, di solito sono meno complicate di come appaiono o di come noi le
rendiamo». Mi diede altra manata sulla spalla; di compatimento, questa volta. E se ne
andò verso un gruppo dei suoi, certo a comunicare la massima di La Rochefoucauld
che io per divertimento avevo attribuito a Scalambri.
Rientrai in albergo proprio mentre Scalambri usciva dallo studio di don Gaetano.
Era soddisfatto, godeva dentro di sé del segreto che certamente don Gaetano gli
aveva rivelato. Era così beato che mi passò accanto senza vedermi. Io tirai verso lo
studio di don Gaetano, bussai, aprii la porta.
Don Gaetano stava alla scrivania. Levò gli occhi dalle carte dicendo «Avanti». Gli
orchi e gli occhiali; ché levando dritto lo sguardo, gli occhiali, appinzati a metà del
naso, con lo sguardo non stavano più in linea ma sembravano assumerne altro meno
freddo e impassibile. Curioso effetto, e veniva dalle rifrazioni della luce colorata che
gli stava accanto; una lampada dalla coppa in pasta di vetro, di quelle che al principio
del secolo venivano da Nancy e da Vienna e che oggi ovunque si rifabbricano,
ovviamente più brutte. Pagliettata di verde, di giallo e di blu, e predominando il viola,
la luce si rifrangeva nelle lenti mobilmente, come animandole; mentre spenti
restavano gli occhi di don Gaetano.
Chi leggerà questo manoscritto o, se mai sarà pubblicato, questo libro, si domanderà
a questo punto perché non ho più parlato degli occhiali di don Gaetano. Ebbene, non
ne ho parlato più perché non è vero che non mi avessero impressionato, la prima
volta che glieli vidi tirar fuori. O forse allora mi impressionarono meno di quanto poi
pensandoci e rivedendoglieli. Certamente, anzi; perché cominciai ad avvertire
l’inquietudine che quegli occhiali mi avevano seminato nel momento in cui, nella mia
camera, mi ritrovai a disegnarli. Più volte, sullo stesso foglio; sicché ne venne un
campo di occhiali come di meloni; grandi, piccoli, appena accennati, vuoti di lenti,
con le lenti; e qualcuno con dietro gli occhi seuza sguardo di don Gaetano. Uno
strano disegno, tra quelli che faccio di solito; e chi lo vedesse senza conoscere queste
pagine, forse penserebbe sia venuto fuori in margine a una lettura di Spinoza, che
fabbricava occhiali di quel tipo; o che fossi rimasto impressionato degli occhiali di
don Antonio de Solis, in quel ritratto che adorna il frontespizio della edizione
settecentesca della sua Istoria della conquista del Messico; o che avessi studiato di
illustrare i versi di quel porta arabo-siculo sulle lenti. Ed ecco che in questo
momento, mentre scrivo, il fatto di ricordare queste immagini (immagini vere e
proprie e immagini da parole) mi sorprende e aggiunge inquietudine all’inquietudine.
Com’è che così nitidamente vedo Spinoza nella sua bottega di ottico, l’ombra della
sera, le lenti come piccoli laghi in un paesaggio di manoscritti, tra le selve delle
parole scritte (quella grafia secentesca che sembra agitata come da un vento,
stormente); che così nitidameute ricordo il ritratto di don Antonio e i versi di Ibn
Hamdis? Non c’è qualcosa, nelle lenti, negli occhiali, che mi suscita, remoto,
imprecisabile, un senso di stupore e insieme di apprensione? Non c’è qualcosa che ha
a che fare con la verità e con la paura di scoprirla? (E sto anche pensando a quel
racconto di Anna Maria Ortese che appunto s’intitola Un paio di occhiali: della
bambina di vista debolissima cui danno finalmente gli occhiali; e la miseria del vicolo
napoletano in cui vive le balza improvvisamente incontro, le provoca vertigine e
vomito).
Gli occhiali di don Gaetano, dunque; e l’inquietudine che mi davano. Era un caso
che li avesse del modello di quelli del diavolo o se li era procurati apposta? Ed ero
stato più volte tentato di domandarglielo, ma sempre avevo resistito.
Resistetti anche quella sera, sedendo davanti a lui, la scrivania di mezzo, per come
mi aveva invitato e indicato.
«Spero di non discurbarla» dissi.
«Nessutto mi disturba, mai». E dopo un lungo scrutarmi, ma come al solito
fingendo di non vedermi «Ha qualche problema? O vuole forse lasciarci?».
«Non potrei andarmene, credo; e comunque, ho curiosità di vedere come va a
finire».
«Non va a finire. La sua curiosità resterà inappagata... Ha qualche problema?
Voglio dire: qualcosa che vuol sapere, qualcosa che vuol confidarmi? In questo
momento, tutti quelli che sono qui o vogliono sapere qualcosa da me o qualcosa
vogliono confidarmi».
«Sì, avrei anch’io una cosa da domandarle…».
«Ecco. Domandi pure». E sollevò gli occhiali a livello degli occhi. Per non vedermi
meglio, ostentatamente.
«Stasera, a tavola: non so in quale preciso momento la sua freccia è partita; ma l’ho
vista che vibrava ancora, infissa nel costato di Scalambri».
«Bella immagine, molto letteraria». Sorrise indecifrabilmente, forse di
soddisfazione. «La freccia, il costato: davvero una bella immagine... E non dubito che
lei l’abbia vista, infissa al costato di Scalambri e ancora vibrante. Posso anzi
ammettere di averla vista anch’io. Solo che non l’ho tirata».
«Vuol dire, cioè, che ne ha tirate tante senza sapere quale sarebbe andata al
bersaglio?».
Non rispose.
«Il povero Scalambri» dissi dopo un po’, non sapendo come riagganciare don
Gaetano che aspettava che parlassi o che me ne andassi.
«Povero: ecco una parola usata sempre a sproposito».
«Non mi pare di averla usata a sproposito, cristianamente parlando. L’ho visto per
un momento nudo e ferito; e quindi, per un momento, povero. Vestire gli ignudi,
visitare gli infermi… O ricordo male?».
«Cristianamente parlando... Lei, dunque, parla cristianamente».
«Faccio l’avvocato del diavolo».
«Ruolo interessante: l’ho assunto, propriamente, una tolta. In un processo di
beatificazione. Divertente, anche... Comunque, non ricorda male: vestire gli ignudi,
visitare gli infermi... Ma cinque minuti fa, Scalambri era seduto dove è seduto lei:
vestito di tutto punto e in buonissima salute... Stava ricattandomi».
«Ma davvero?» dissi, fingendo incredulità.
«Non finga di non sapere o, se non sa, di non capire».
«Ha ragione. Ma era propriamente un ricatto?».
«Non propriamente. Solo che riassicurandomi del suo silenzio sulla faccenda delle
donne voleva che io rompessi il mio: come segno di cortesia che risponde a cortesia,
se non di riconoscenza».
«E lei?».
«Sono stato riconoscente».
«Più che cortese, dunque».
«I cinque nomi avrebbe potuto saperli da chiunque, qui. E gli ho dato in più cinque
storie. Il suo amico se ne è deliziato. Era come un cane cui finalmente si getta un osso
da spolpare: ronfava di soddisfazinne, di godimento».
«Non è mio amico. Se lo fosse, non potrei condividere il suo disprezzo».
«Ah, lei lo disprezza? Io no. Non è disprezzo, il mio. Non ho, nei riguardi del suo
amico (mi scusi: del signor procuratore) alcun sentimento, come non ne ho nei
riguardi di una qualsiasi ruota o molla di quest’orologio». Indicò quello sul tavolo.
«Ma ne ha nei riguardi dell’orologio».
«Non direi. A meno che non si voglia chiamare sentimento la stizza di quando
voglio sapere l’ora e mi accorgo che è fermo».
«Giusto il contrario di quel che le accadrebbe con Scalambri se, guardandolo per
constatare che è fermo, si accorgesse che invece si muove. Che si muove, voglio dire,
verso il colpevole di questi due omicidi».
«Lei sta per ripetere quello che mi ha detto ieri: che dovrei aiutare Scalambri a
risolvere il problema. Ma il problema è di Scalambri non mio».
«Professionalmente è di Scalambri, solo professionalmente. Se qui fossimo
nell’isolamento più assoluto, al di fuori di ogni giurisdizione, non erede che saremmo
costretti a inventare tra noi la legge che Scalambri rappresenta e a perseguire il
colpevole?».
«È possibile anche il contrario: che tutti si diventasse, uno contro l’altro, colpevoli.
E in verità quella che lei chiama l’invenzione della legge altro non è che questo: il
diventare tutti colpevoli. Ma lasciamo andare questo discorso, ché ci porterebbe
lontano... Non siamo isolati, non siamo al di fuori di ogni giurisdizione: il suo amico
Scalambri c’è, ha tutta l’autorità e tutti i mezzi per risolvere il problema... E stavolta
non le chiedo scusa per aver detto il suo amico: che lei lo disprezzi o meno, sta dalla
sua parte, non può che stare dalla sua parte».
«Sì, non posso che stare dalla sua parte. Lei invece…».
«Non ho una parte da cui stare. Aspetto che tutto si compia».
«Cioè che tutto non si compia».
«Dal suo punto di vista, sì: che tutto non si compia. Ma dal mio... Ricorda il
Vangelo di Luca? L’ha mai letto?... “Io sono venuto a portare fuoco sulla terra; e che
voglio, se già divampa? Ora devo essere battezzato di un battesimo, e come sono
angustiato fin tanto che ciò non si compia”».
«Quale battesimo aspetta?».
«Il dolore, la morte: non ce n’è altro».
«Ma per aspettare questo battesimo, che bisogno c’è di tutto questo? Che bisogno
ha lei di fare un albergo, di amministrarlo, di fare e amministrare tante altre cose?
Che bisogno hanno i suoi amici di governare, di comandare: con la sua benedizione
se non addirittura per suo mandato?».
«Questa volta tocca a me protestare: non sono miei amici. Ma sono anche loro il
fuoco che divampa. E per quanto li disprezzi, al tempo stesso che li amo: “che voglio,
se già divampa?”».
«Bisogna dunque distruggere».
«Non c’è altra via, non c’è altro scampo. Distruggere, distruggere... Il nostro più
grande errore, il più grande errore che sia stato commesso da coloro che hanno
governato, o che hanno creduto di governare, la Chiesa di Cristo, è stato quello di
identificarsi, ad un certo momento, con un tipo di società, con un tipo di ordine. È un
errore che perdura, anche se molti ormai cominciano ad avere coscienza che è un
errore. Approssimativamente, con una battuta, le posso dire: il secolo diciottesimo ci
ha fatto perdere il senno, il ventesimo ce lo farà riguadagnare. Ma che dico, ce lo farà
riguadagnare? Sarà finalmente la vittoria, il trionfo».
«La fine».
«Dal suo punto di vista, sì: la fine... Ma sarà l’epoca, o almeno il principio
dell’epoca più cristiana che il mondo può conoscere... Tutto concorre, tutto ci aiuta;
anche tutto ciò che quelli di noi che avevano perduto il senno o che ancora non
l’hanno riacquistato credevano e credono nemico... Ci aiuta la scienza, ci aiuta la
sazietà; così come ancora, si capisce, ci aiutano l’ignoranza e la fame... Pensi: la
scienza... L’abbiamo combattuta tanto! E infine, che scruti la cellula, l’atomo, il cielo
stellato; che ne carpisca qualche segreto; che divida, che faccia esplodere, che mandi
l’uomo a passeggiare sulla luna: che fa se non moltiplicare lo spavento che Pascal
sentiva di fronte all’universo?».
«Non mi pare che sia preso da questo spavento cosmico, l’uomo di oggi. Al
contrario».
«È tanto indaffarato a spostare i confini, come dopo una guerra vinta, che ancora
non lo avverte; ma le incrinature già ci sono, da cui si insinuerà lo spavento. E lo
spavento cosmico sarà nulla di fronte allo spavento che l’uomo avrà di se stesso e
degli altri... Ricorda? “E sempre lo contraddico, finché non comprenda che è un
mostro incomprensibile”; e poiché come non mai oggi Dio ci contraddice...».
«Noi fuggiamo da Dio».
«Non c’è fuga, da Dio; non è possibile. L’esodo da Dio è una marcia verso Dio». E
lo disse con un che di disperato, o mi parve: chè togliendosi in quel momento gli
occhiali e come per stanchezza chiudendo gli occhi, il volto gli prese un’espressione
di fragilità e lontananza da farmi pensare ad uno che fosse invecchiato in prigione e
ricordasse che una volta aveva tentato di evadere.
Ancora ad occhi chiusi (o che leggesse quello che pensavo o che fossi io a leggere
quel che lui pensava), disse «L’evasione...». Riaprì gli occhi, s’inclinò verso di me
sulla scrivania. «È stato detto che il razionalismo di Voltaire ha uno sfondo teologico
incommensurabile all’uomo quanto quello di Pascal. Io direi anche che il candore di
Candide vale esattamente quanto lo spavento di Pascal, se non è addirittura la stessa
cosa. Solo che Candide trovava finalmente un proprio giardino da coltivare... “Il faut
cultiver notre jardin”... Impossibile: c’è stato un grande e definitivo esproprio. E forse
si possono oggi riscrivere tutti i libri che sono stati scritti; e altro anzi non si fa,
riaprendoli con chiavi false, grimaldelli e, mi consenta un doppio senso banale ma
pertinente, piedi di porco. Tutti, Tranne Candide”».
«Ma si può leggere».
Fece un gesto di noncuranza. «Lo legga». E vivacemente «Deve leggerlo, anzi: per
rendersi conto che è solo e che non ha scampo». E dolcemente «Ma perché vuole
reprimere in sé tutto ciò che la porta verso di noi? Perché vuol cuntraddirsi?».
«Perché lei mi contraddice, perché mi contraddice il suo Dio. Non sono un mostro
incomprensibile».
Mi alzai. Per una volta, volevo essere io a lasciarlo. «Buonanotte» dissi. Non mi
rispose.
Non persi tempo a salire nella mia camera, uscendo dallo studio di don Gaetano: il
tempo di attraversare il corridoio e l’atrio, di chiamare l’ascensore, salire, attraversare
quasi due lati del quadrato che i corridoi facevano ad ogni piano, aprire, accendere la
luce, entrare. Ripeto i miei movimenti per come li ricordo, e credo di ricordarli
esattamente. Ma forse, soprappensiero, avrò passato aspettando l’ascensore più tempo
di quanto riesca a valutarne nel ricordo: ché non si spiega altrimenti il fatto che sul
tavolinetto, spiccando sui fogli da disegno, stava un libro rilegato in nero, in quella
rilegatura che i francesi chiamano giansenista. Non aveva diciture nè sul piatto né sul
dorso, ma sapevo, prima di aprirlo, che erano i Pensieri di Pascal. Come avesse fatto
don Gaetano a farmelo arrivare in camera prima che io vi arrivassi, era da spiegare
con una perdita di tempo, ripeto, da parte mia inavvertita. O l’aveva fatto portare
prima: ed era spiegazione anche più inquietante.
L’aprii al frontespizio e poi dove era il nastrino nero a segnale. L’occhio mi cadde,
naturalmente, sulla pagina destra, che cominciava col numero 460, numero del
pensiero e non della pagina (e per un momento divagai nel pensiero dei pensieri
numerati, e se tutti i pensieri, di ciascuno e di tutti, scritti, detti o soltanto pensati, non
fossero enumerazioni e numeri ingoiati, assimilati e calcolati da una immensa e
invisibile macchina). Lo lessi, il 460: «Poiché la sua vera natura è andata perduta,
tutto diventa la sua natura; come, essendo perduto il vero bene, tutto diventa il suo
vero bene». E poi gli altri, fino al 477.
Il segnalibro era per caso a quel punto, o don Gaetano ve lo aveva messo per me?
Non volli pensarci, nè andare avanti a leggere. Chiusi il libro e lo misi da parte. E
cominciai a disegnare. Poiché era il disegoo da regalare a Scalambri, facevo un nudo
femminile quanto più osceno e sgradevole mi era possibile: perché Scalambri,
conoscendolo come mi pareva di conoscerlo, se ne disfacesse vendendolo; e dalla
somma che ne avrebbe ricavato, sarebbero indubbiamente cresciuti il suo
apprezzamento e la sua invidia nei miei riguardi.
Ora il disegnare, una volta stabilito il tema o l’oggetto, è per me un fatto talmente
automatico che la mano e gli occhi è come se mi si allontanassero e appartassero,
andando per loro conto e alleggerendomi la mente come da un peso, da una scoria.
Pensando a tutt’altro che al disegno, disegnando i miei pensieri si fanno più esatti e
lucidi, insomma, meglio concacenati; e più nitida e alacre la memoria. E così,
disegnando il nudo per Scalambri, sviluppai una ipotesi che mi era avvenuto di fare
dopo il primo delitto; la sviluppai, voglio dire, come il cavaliere Carlo Augusto
Dupin sviluppa le sue nei racconti di Poe. Mentre la mano e gli occhi vagavano sul
foglio, la mia mente vagava sul terreno davanti all’albergo, un semicerchio di un
centinaio di metri profondo verso il bosco. Ne vedevo ogni pietra, ogni anfratto, ogni
albero: come fossi affacciato alla finestra della mia camera, e di pieno giorno. Ma
non voglio dire di più. Finii di disegnare quando mi parve di aver risolto il problema.
Molto lavorato, carico e con qualche cincischiatura, il disegno; ma la soluzione del
problema netta e quasi ovvia: molto simile a quella della Lettera rubata di Poe. E
rimandando all’indomani la verifica, mi misi a letto e quasi subito mi addormentai.
L’indomani, la prima persona che incontrai fu il commissario. Stava nell’atrio, in
poltrona, a sfogliare i giornali. Con allusiva ironia subito mi comunicò «Abbiamo il
filo».
Mi invitò con un gesto a sedergli accanto.
«E qual è, questo filo?».
«Quello che il procuratore cercava. Ma che dico, il filo? Migliaia di fili, e tutti
ammatassati... Un mazzo così» ne segnò il volume da terra al suo ginocchio «di
fotocopie di assegni. Tutti firmati da Michelozzi, sui fondi speciali o segreti di cui
disponeva... Il procuratore ci impazzirà». E soavemente degustò l’idea che Scalambri
ci impazzisse.
«Ma ci sono assegni a favore di qualcuno che si trova qui?».
«Di qualcuno? Di tutti. Non ce n’è uno che non abbia avuto la sua parte».
«E dunque?».
«E dunque da tutti questi assegni possono uscire centinaia di piccoli processi per
malversazione, concussione, peculato; o un solo processone. Ma un processo per
omicidio, mai».
«Lo credo anch’io».
«Il procuratore, invece, è convinto che la chiave del primo delitto, e quindi anche
quella del secondo, la troverà tra quegli assegni... Non che il suo ragionamento sia del
tutto campato in aria: solo che la difficoltà di farne verifica è tale, che è come se lo
fosse... Lui ragiona così: Michelozzi dava a costoro del denaro non perché se ne
andassero a donne o corressero a depositarlo in Svizzera; glielo dava per il Partito,
per le correnti nel Partito, per le sezioni, le clientele, i singoli clienti; qualcuno invece
se lo sarà tenuto: tutto, e non una quota più o meno larga, com’è d’uso; Michelozzi,
suspenando o sapendo, l’avrà minacciato…».
«Minacciato di che? Denunciarlo non potcva».
«Minacciato di non dargliene più».
«Ne avrcbbe trovato altrove».
«È quello che dico anch’io... Tuttavia, qualcosa di attendibile nell’ipotesi dcl
procuratore c’è; ma se la deviamo su un terresso diverso... Io dico: e se Michelozzi si
fosse accorto che il denaro che passava ad uno di costoro serviva a finanziare il
disordine, l’assassinio? Oppurc: e sc lo avessc finanziato consapevolmente e ora
avesse voluto ritrarsene, abbandonare la partita diventata troppo pericolosa?».
«L’ipotesi si fa più sensata, così; ma fermandoci alla prima domanda, ché dicono
Michelozzi amasse il prossimo suo come se stesso».
«Lei, mi scusi, non sa di che cosa è capacc la gente casa e chiesa, la gente col libro
da messa in mano, la gente che dice di amarc il prossimo suo come se stessa... Tra
due mesi, e non mi pare l’ora, avrò compiuto trent’anni di servizio nella polizia:
ebbene, i delitti più efferati in cui mi sono imbattuto, i più razionali, i più difficili da
scoprire, come anche i più folli e i più facili, sono stati quelli commessi da uomini e
donne che avevano i ginocchi così» modellò come una grossa pagnotta «per lo stare
dietro le balaustrate del coro e la grata del confessionale... E alcuni, si capisce, per
sesso; ma la maggior parte, mi creda, per denaro; e quasi sempre per denaro da
ereditare dal prossimo più prossimo». Si alzò «Vado a vedere che filo è riuscito a
tirare dalla matassa, il procuratore... Vuole che le lasci i giornali?».
«No, grazie: vado a passeggiare un po’ nel bosco».
E ci andai, ma per fare la ricerca che mi ero, è il caso di dire, disegnata la scra
avanti.
Ci ritrovammo tutti nel refettorio, per la colazione. Don Gaetano non che fosse
allegro, ché forse non lo era mai stato in vita sua, ma aveva un che dì divertito, come
avesse preparato uno scherzo per qualcuno di noi, o per tutti noi, e aspettava che
scattasse. Scalambri era stanchissimo, gli occhi arrossati; e tanta voglia di parlare non
aveva. Al mattino, gli avevo mandato in camera il disegno. Me ne ringraziò
seccamente: certo non gli era piaciuto. Il commissario se lo covava con uno sguardo
tra beffardo e compassionevole, e frequentemente rivolgeva poi a me lo sguardo
come a dire: lo guardi com’è sfinito, a sgomitolare quella matassa senza capo e senza
fine. Il ministro era piuttosto nero: tra gli assegni di Michelozzi, seppi poi, Scalambri
ne aveva trovato uno a lui intestato; e gli aveva chiesto spiegazione. Ancora più nero
l’altro commensale, presidente della banca sulla quale Michelozzi spiccava gli
assegni: e Scalambri se lo era tenuto a colloquio per un paio d’ore, non ottenendo
altro che l’odio di cui il presidente lo fulminava.
Dal ringraziamento che mi fece Scalambri per il disegno, don Gaetano prese avvio.
«Che cosa rappresenta» domandò a Scalambri «il disegno che le ha regalato?».
«Un nudo, un nudo di donna».
«Ah» fece don Gaetano. Come a dire: e che altro?
«Un brutto nudo» dissi, come a giustificarmi.
«Ah». E stavolta conte a dire: va un po’ meglio.
«Ma molto ben disegnato» disse, per pura cortesia, Scalambri.
«Ma certamente: vuole che alla sua età, con la sua esperienza, col suo valore, il
professore non disegni bene? Benissimo, deve disegnare: sempre, e qualunque cosa
faccia» disse don Gaetano. E a me «Io, e mi pare di essermene già scusato, ho visto
poche cose sue; e quasi sempre in riproduzioni. Ma dal poco che ho visto... E mi
viene una curiosità: ha mai dipinto o disegnato qualcosa che avesse a che fare con la
nostra religione? Un Cristo, una Madonna, un Santo; o, che so, una festa, una
chiesa...?».
«Una Maddalena, parecchi anni fa».
«Si capisce, una Maddalena... E come l’ha fatta?».
«L’ho fatta…».
«No, aspetti; mi lasci indovinare... L’ha fatta come una prostituta in ritiro: vecchia,
sformata, pietosamente e grottestamente imbellettata».
«Ha indovinato». Scontrosamente.
«Ne ho piacere, vuol dire che qualcosa di lei ho capito». E come se, avendo io
risposto esattamente alla prima domanda, potesse andar oltre nell’esame «E non la
tenterebbe l’idea di dipingere qui, per noi, per la nostra cappella, un Cristo? E noti
che sto usando il verbo tentare».
«Non mi tenta» dissi, duramente. Ma poiché vidi che don Gaetano della mia
durezza era soddisfatto, come di una reazione positiva, andai su altro registro. «Dopo
Redon, dopo Rouault... No, non mi tenta».
«Ha ragione» disse don Gaetano. Ma sapendo, credo, che il suo darmi ragione mi
avrebbe irritato. «Dopo Redon, dopo Rouault... Per non andare più indietro nel
tempo: a Grünewald, a Giovanni Bellini, ad Antonello... Per me, una delle più
inquietanti immagini di Cristo, è quella di Antonello, che si trova oggi, mi pare, al
museo di Piacenza: quella maschera di ottusa sofferenza... Terribile... Ma nei tempi
nostri, sì, senz’altro: Redon e Rouault... Altissimo, il Miserere di Rouault, di una
passione che non chiude ma annuncia... Voglio dire: qualcuno potrebbe anche credere
che con Rouault si chiuda la storia della passione diciamo cristologica dell’umanità,
che ne sia l’ultima voce, l’ultimo anelito; e invece nuovamente si apre e si invera...
Ma Redon... Ecco, Redon non è meno inquietante di Antonello, ma in altro senso... E
parlo, si capisce, del Cristo che è nella terza serie della sua Tentation... Si ha
l’impressione, fortissima, sconvolgente, che solo attraverso una rivelazione,
un’apparizione, Redon abbia potuto disegnare il volto di Cristo come lo ha disegnato;
che Cristo, cioè, abbia veramente avuto quel volto e che solo per una volta, a distanza
di secoli, l’abbia svelato a Redon... Non agli apostoli, non agli evangelisti: ché
evidentemente volle che del suo volto si smemorassero. A Redon... Le mani, a santa
Teresa di Ávila; il volto, a Redon. Perché?... Lo domando a lei perché certo sa di
Redon più di quello che so io».
«Non so... Forse perché Redon aveva sempre rifiutato di guardare quel che era
nudo».
«Quel che era nudo?».
«Diceva: “Je ne regarde jamais ce qui est nu”».
«Perché andava sempre al di là del nudo, come i raggi x».
Stranamente, avevo sempre avuto una sensazione simile a quella che don Gaetano
aveva precisato, di fronte al Cristo di Redon. Ma dissi «Quello che lei dice non ha
fondamento che in un fatto abbastanza insignificante, che forse s’appartiene più alla
vanità che alla mistica ispirazione: Redon ha voluto, semplicemente, fare un Cristo
diverso».
«Ma tanto diverso, e di una tale intensità... Comunque: lei non vuole o non sente di
provarsi a darci una sua immagine di Cristo?».
«Non sento ma voglio».
«Ah, vuole... Benissimo. Vedremo». E come solo allora accorgendosi che gli altri si
annoiavano, cambiò discorso. «La vedo affaticata, signor procuratore».
«Eh sì» sospirò Scalambri.
«E lei riposato, signor commissario». Malignamente.
«Già» commentò acre Scalambri.
«Non posso trarne il giudizio che lei» a Scalambri «fa con pena quello che il
commissario fa con gioia: ma il commissario…».
«Il commissario» disse il commissario «tra due mesi se ne va: ed ecco spiegata la
sua gioia».
«Se ne va?».
«Dalla polizia. In pensinne. In campagna».
«Beato lei» si complimentò il ministro.
«Perché va via dalla polizia?» domandò al ministro, sorridendo ironicamente, don
Gaetano.
«Ma no, non mi permetterei: io ho tanto rispetto, tanta ammirazione, per la nostra
polizia... Perché se ne va in campagna».
«È una beatitudine facilmente guadagnabile: e specialmente per lei, per il signor
presidente…». Il presidente ebbe un piccolo sussulto. «Il commissario è costretto ad
aspettare altri due mesi, voi invece potete farlo subito».
Il ministro e il presidente si fecero più cupi di quanto già non fossero. Credo
pensassero che don Gaetano volesse alludere agli assegni che Scalambri aveva in
mano e che li avrebbero, forse, costretti alle dimissioni. E forse don Gaetano voleva
proprio alludere. Ad una voce dissero «Magari!».
«È difficile uscirne? Vi trattengono a forza?» domandò, fingendo candore e stupore,
don Gaetano.
«Oh Dio, proprio a forza no» rispose il ministro. «Certo, però, uscirne non è facile».
Il presidente ripetutamente annuì.
«Specialmente ora» disse ambiguamente don Gaetano. Voleva dire vi cacceranno
via subito oppure non ve ne andrete prima di aver reso conto di quel che facevate con
Michelozzi? Fatto sta che alludeva. E si divertiva.
Il ministro trovò la forza di dare altro senso alle parole di don Gaetano. «Certo,
specialmente ora: mentre le cose vanno male, andarsene sarebbe una fuga, una
defezione».
«Un tradimento» precisò ironicamente don Gaetano.
«E per audar male, non c’è che dire, vanno proprio male» intervenne il
commissario.
«Non esageriamo» disse il ministro.
«Non esageriamo» gli fece eco il presidente.
«Non esageriamo» suggellò Scalambri.
«Insomma: vanno o non vanno male?» domandò don Gaetano a tutti e tre.
«Secondo i punti di vista» rispose il ministro.
«Dal punto di vista» disse il commissario «di chi tiene le mani nelle proprie tasche,
vanno malissimo».
Si fece silenzio: come tra gente educata che scopre nella compagnia un maleducato.
Poi il presidente disse «Il problema non è quello di tenere le mani nelle proprie tasche
o nelle altrui; il problema è...».
«... Che si possa continuare a fare l’esercizio di destrezza di cavare ancora qualcosa
dalle tasche altrui» completai. «E cioè, di trovarci ancora qualcosa».
«Lo Stato non è un borsaiuolo» disse con indignazione il ministro.
«Certo, non è un borsaiuolo» confermò, con più moderata indignazione, il
presidente.
«Ma signori» disse don Gaetano al ministro e al presidente «spero non mi darete il
dolore di dirmi che lo Stato c’è ancora... Alla mia età, e con tutta la fiducia che ho
avuto in voi, sarebbe una rivelazione insopportabile. Stavo così tranquillo che non ci
fosse più…».
Il ministro e il presidente istantaneamente, d’un rapido sguardo che si scambiarono,
decisero di prenderla come una facezia. Risero. Ridevano ancora quando ci alzammo
da tavola.
Rientrai in albergo a pomeriggio inoltrato; e andai direttamente nella mia camera,
ché mi era venuta un’idea per il Cristo che avevo promesso a don Gaetano. Non
promesso, precisamente; ma ormai la potevo considerare una promessa da mantenere.
Disegnai per un paio d’ore. La mia mano era appena un po’ più nervosa del solito;
ma non un solo tratto che sul foglio mi si spezzasse o impennasse, anche
impercettibilmente. Soltanto una inusitata celerità e quasi ritmica, come dettata da un
lontano e segreto tempo musicale. Un tempo che non voleva diventare tema, frase;
ma si intrideva e appagava nei segni che scorrevano sul foglio, nei pensieri e nelle
immagini che anche più febbrilmente scorrevano nella mente. E i pensieri e le
immagini non erano, come solitamente mi accadeva nel disegnare, di cose che non
avevano niente ache fare con quel che venivo tracciando e crudamente ombreggiando
sul foglio (da non intendere, l’ombreggiare, come nelle scuole di disegno, se ancora
ci sono, si intende).
Sentii ad un certo punto, nell’albergo fino allora silenzioso, sorgere e levarsi, come
una spirale che dall’atrio salisse da un piano all’altro girando nei corridoi, un brusio
concitato, uno sbattere di porte, uno scalpiccio. Ma non mi mossi se non quando il
rumore cominciò a defluire verso l’atrio e a coagularsi laggiù: un rombo ininterrotto e
crescente.
L’atrio era fitto come all’indomani del primo delitto. Vociando istericamente tutti,
l’un l’altro, si chiedevano «Quando? Dove? Come?».
Qualcuno aveva trovato morto don Gaetano: ma non si sapeva se nella camera o nel
suo studio o nella cappella o nel bosco. Finalmente da fuori uno gridò «Nel bosco, al
vecchio mulino» e la mandria uscì nello spiazzale, si sparpagliò, di nuovo si serrò, ad
imbuto, verso il sentiero che portava al vecchio mulino.
Andai anch’io: ultimo, a chiudere quella fila piuttosto grottesca di uomini di mezza
età che quasi correvano, ansando e incespicando, per il sentiero. E sentivo quelli
davanti a me chiedersi a respiro mozzo se don Gaetano era stato ucciso o era morto di
morte naturale. Come se la morte, e don Gaetano avrebbe dovuto insegnarglielo, non
fosse sempre e comunque naturale.
Era stato ucciso. Al vecchio mulino, che era poi quello di cui restava la mola di
pietra. E la mola, da cui era scivolato, gli faceva ora da spalliera.
Non mi fece forte impressione, rivederlo morto. La morte, che anche agli imbecilli
conferisce solennità, a don Gaetano un po’ ne aveva sottratta. Era scomposto e come
disarticolato. Le gambe, aperte quasi a squadra, tendevano l’abito talare; che nello
scivolare era andato su, scoprendo le calze bianche, di lana grossa. E quelle calze
calamitavano gli sguardi, e perché facevano spicco tra il nero delle scarpe e il nero
della veste, e perché erano da pieno inverno e si era in piena estate. Distogliendosi
dalle calze, l’occhio, almeno il mio, si fermava poi agli occhiali che, dal cordoncino
attaccato al petto, erano scivolati su una radice e vi stavano in curiosa angolazione
rispetto a un raggio che, di tra le foglie, vi cadeva. Sembrava il particolare di un
quadro di caravaggesco minore. E dico minore perché tutto, in don Gaetano morto e
intorno a lui, era minore; voglio dire sminuito, ridotto, sommesso: rispetto a come era
da vivo.
A poca distanza dalla sua mano sinistra, c’era una pistola: corta, a tamburo. Tanto
vicina alla mano che qualcuno, vicino a me, domandò se si era suicidato.
Risposi «Ma le pare possibile?».
«I nervi li abbiamo tutti» disse l’altro, piccato. E il metterlo alla pari di tutti, da
parte di un suo devoto, mi parve confermasse la mia impressione che la morte,
almeno in quel momento, in quella scena, aveva degradato don Gaetano.
Ci eravamo tutti fermati, in semicerchio, a una diecina di passi dal corpo di don
Gaetano e da Scalambri e il commissario che gli stavano ai lati e lo scrutavano come
se ne aspettassero un segno di vita, un risveglio.
Attraversai quello spazio e andai vicino a Scalambri. Con un ghigno di soddisfatta
sconfitta, come se una sua previsione si fosse realizzata, ma a suo danno, ad
accrescergli responsabilità e fatica, mi disse «Omnia bona trina». Il suo latino. E
subito lo assalì la preoccupazione che la frase potesse suonare di vera e propria
soddisfazione, senza quel compianto di sé da cui era venuta fuori. «Voglio dire:
siamo in un bel guaio». Ma aveva ancora fatto una zeppa, con quel bel. «Un guaio
grosso, un guaio tremendo». E riprese a scrutare il morto.
«Quello che mi intriga...» disse il commissario, come parlando tra sé e fissamente
assorto sulla pistola. E lasciò sospesa la frase.
«Che cosa la intriga?» domandò Scalambri. Al limite della sopportazione; come
dicesse che di quel che pensava il commissario, delle sue ipotesi, delle sue deduzioni,
dei suoi dubbi, non aiuto ne aveva ma intralcio.
«La pistola» disse il commissario.
«Che cosa c’è, nella pistola?». Con lo stesso tono di insopportazione.
«Nella pistola, niente. Nel fatto che l’abbiamo trovata, che ce l’abbia fatta trovare,
qualcosa. Qualcosa che dà a pensare».
«E le pare il caso di dirlo coram populo?».
«Infatti, non lo avevo detto; ho risposto poi alla sua domanda».
Invece di ribattere, chè non poteva, Scalambri prese una decisione che sembrò
improvrisa, e forse non lo era. Rivolgendosi a quello che nel suo latino aveva
chiamato popolo, disse «Vi prego, signori, di tornare in albergo. E preparatevi a
lasciarlo entro stasera».
Sorse un brusio di protesta.
«È una misura che si impone: per la vostra sicurezza, per la mia responsabilità…».
«Giusto» disse il ministro. «Forse bisognava pensarci un po’ prima».
Scalambri non raccolse il rimprovero. Ma con più ferma e irata autorità ribadì
«Entro stasera, l’albergo deve essere sgombrato; non deve restarci nemmeno il
gatto».
«Il gatto» disse padre Cilestri, staccandosi dagli altri e venendo verso Scalambri
«non c’è, abbiamo usato sempre topicidi…». Non si capiva se volesse smontare
Scalambri o se era tanto dolorosamente confuso da prendere alla lettera l’espressione.
«Ma io, gli altri sacerdoti che stanno con me…».
«Tutti» disse Scalambri «tutti... Chiudo l’albergo, padre, chiudo e faccio mettere i
sigilli». E addolcendosi «Vi prego, signori: andate a preparare. le valige.. Dobbiamo
lavorare, qui».
Se ne andarono, il ministro in testa.
Di lavorare, lavorava soltanto il fotografo. Poi venne il medico. Poi vennero due
con una barella di tela, vi adagiarono sopra don Gaetano, lo portarono via. Gli
occhiali pendevano dalla barella, dondolavano al passo dei portatori.
Li seguii fino al furgoncino, che era davanti all’albergo. Poi salii in camera, a
prepararmi per la partenza.
Le valige, avevo solo da chiuderle. Ebbi per un momento l’indecisione se portar via
o lasciare il libro che don Gaetano mi aveva fatto arrivare la sera avanti. Lo lasciai,
accanto al Cristo che avevo disegnato.
Non era ancora buio, ma l’albergo tutto illuminato dava, nello spiazzale, il senso
che appunto tutta quella luce chiamasse la notte ad ammatassarsi intorno a noi.
Qualche automobile già partiva. Scalambri e il commissario assistevano all’esodo. Mi
avvicinai.
«Hai fatto presto» constatò Scalambri guardandomi le valige.
«Non vede l’ora, è naturale, di lasciare questa bolgia» disse il commissario.
«Se si continuava a star tutti qui» disse Scalambri «sarebbe finita come in quel
romanzo di Agatha Christie: tutti ammazzati, uno appresso all’altro. E avremmo
dovuto resuscitarne uno, per trovare il colpevole».
«Non si troverà, il colpevole; non si troverà mai» disse malinconicamente il
commissario.
«Ma la pistola?» domandai. «Lei mi pare avesse fatto, sulla pistola, una
riflessione... E credo coincida con la mia».
«Qual è, la tua riflessione?» domandò Scalambri con condiscendenza.
«Semplicemente questa: perché, scomparsa al primo delitto, ve la fanno ritrovare
accanto al cadavere di don Gaetano?».
«Esatto» disse il commissario. «Proprio quello che io ho pensato».
«E se» dissi «ad uccidere don Gaetano fosse stato un altro, uno che sapeva dove
stava nascosta la pistola o che per caso l’avesse trovata?».
«Oh Dio» disse Scalambri «ma perché dobbiamo complicare le cose, che sono già
abbastanza complicate?... La pistola era nascosta dove colui che ha sparato a
Michelozzi l’aveva nascosta, e ben nascosta; nessun altro poteva saperlo né, per caso
o per ragionamento, scoprirla. Se poi il commissario la pensa come te, e ammette la
possibilità che un altro potesse trovarla, dovrebbe riconoscere la propria incapacità e
senza perdere un minuto dimettersi: ché era compito suo quello di trovarla, e per due
giorni l’ha cercata con perquisizioni nelle camere, nei bagagli, guardando ogni
ripostiglio e scrutando palmo a palmo il terreno». E puntando l’indice sul
commissario «Lei crede che qualche altro abbia trovato la pistola, che ad uccidere
don Gaetano non sia stata la stessa persona che ha ucciso Michelozzi?».
«Non credo niente, io... Soltanto, non mi spiego la ragione per cui la pistola sia stata
lasciata lì, accanto a don Gaetano».
«Perché non serviva più: può essere una spiegazione, no?».
«Può essere». disse il commissario. Ma per tagliar corto.
«E se può essere, perché dobbiamo cercarne altre più complicate e che
complicano?». E rivolgendosi a me «Pensa: nell’ora in cui don Gaetano è stato fatto
fuori, quasi tutti erano nelle loro camere; e il quasi esclude soltanto me, te, il
commissario, gli agenti, il cuoco, il personale di servizio; e don Gaetano. Comunque,
tutti i sospettabili erano dentro, ciascuno nella propria camera. Così almeno mi
assicurano e giurano... L’agente che era di guardia tra la scala e l’ascensore, dice che
nessuno è uscito; né ha visto rientrare qualcuno che non aveva visto uscire. La stessa
cosa dice quello che era di guardia alla scala di servizio. E il commissario, che se ne
stava qui, a fare la siesta su una sdraio, conferma: nessuno è uscito, nessuno è
rientrato... E allora?».
Non ebbe da noi risposta, e se la diede da sé: con soddisfazione. «E allora io trovo
una spiegazione abbastanza semplice, abbastanza sensata: uno dei tre, due dei tre,
tutti e tre, si sono allontanati per un momento o, più facilmente, si sono
addormentati».
«Non io» disse il commissario.
«Va bene: lei non si è né allontanato né addormentato. Va bene. E nemmeno
l’agente che stava tra l’ascensore e la scala. Ma quello che era di guardia alla scala di
servizio... Ecco, lei dov’era precisamente?».
«Lì» indicò il commissario.
«E da lì lei può giurare di aver costantemente sorvegliato la porta principale e quella
di servizio? E tanto più che lei non stava lì per sorvegliare, ma per fare la siesta, per
riposare...».
«Non posso giurarlo».
«Ecco, vede: l’agente deve essersi addormentato e lei poteva star guardando altrove,
quando l’assassino è sgattaiolato fuori. Non c’è altra spiegazione, se vogliamo restare
sul terreno della realtà, del buon senso. Se poi vogliamo uscirne, possiamo arrivare
dove vogliamo: anche a pensare che uno di noi tre... Ecco: lei dire di essere rimasto
qui, a fare la siesta; ma è lei che lo dire... E tu» a me «tu dici di essere andato... Dov’è
che te ne sei andato?».
«A uccidere don Gaetano» dissi.
«Lo vedi dove si arriva, quando si lascia la strada del buon senso?» disse
trionfalmente Scalambri. «Si arriva che tu, io, il commissario diventiamo sospettabili
quanto costoro, e anche più: e senza che ci si possa attribuire una ragione, un
movente... Io lo dico sempre, caro commissario, sempre: il movente, bisogna trovare,
il movente…».
Rimasero entrambi silenziosi per qualche lempo. Non pioveva più; un raggio
sbucava di tra le nubi. La vettura, sabbalzando lentamente, rientrava in Roma.
«In questo caso so quel che mi resta a fare» riprese Antimo con la sua voce più
decisa. «Li metto in piazza».
Giulio sussultò.
«Amico mio, lei mi spaventa. Lei si farà scomunicare certamente».
«Da chi? Se è un falso Papa, chi se ne frega?».
«Ed io che speravo di aiutarla a gustare in questo segreto qualche virtù
consolatrice» riprese Giulio costernato.
«Scherza!?... E chi può dirmi se Fleurissoire avvivando in Paradiso non scoprirà
che anche il suo buon Dio non è più quello vero?».
«Vediama un po’, Antimo caro, lei divaga. Come se ce ne potessero essere due!
come se ce ne potesse essere un altro».
«No... però lei può parlarne tranquillamente perché non ha abbandonato niente per
lui e perché tutto, vero o falso che sia, torna a suo profitto... Ah! basta!... Ho bisogno
di prendere un po’ d’aria».
Si chinò fuori del finestrino, toccò con la punta del bastone la spalla del vetturino e
fece fermare la carrozza. Giulio si preparava a scendere con lui.
«No, mi lasci andare. Ne so abbastanza per scegliere una linea di condotta. Tenga
il resto per un romanzo. Per quel che mi riguarda, questa sera stessa scrivo al Gran
Maestro, e domani ricomincio le mie cronache scientifiche sulla Dépêche. Riderà
bene chi riderà l’ultimo».
«Come? zoppica ?» disse Giulio sorpreso di vederlo nuovamente claudicante.
«Sì, da qualche giorno i miei dolori mi hanno ripreso».
«Ah! me la dica tutta!» disse Giulio che, senza guardarlo allontanarsi, si
rincantucciò nella carrozza.
(Gide, I sotterranei del Vaticano)
- FINE –