SAN GIORGIO IN CASA BROCCHI
Estratto da "Accoppiamenti giudiziosi" Carlo Emilio Gadda
I
Che Jole, la cameriera del conte, uscisse ogni sera per far fare la passeggiatina a Fuffi: e che Fuffi, di tanto in tanto, dopo aver meticolosamente inseguito a guinzaglio teso e col muso contro terra non si sa che odore, levasse tutt’a un tratto, contro il più nobile degli Ippocastani, la quarta zampetta, come a dire: «Questo qui, proprio, mi merita la spesa!»; che, intanto, frotte di bersaglieri ritardatari trasvolassero in corsa con piume nel vento di primavera e dicessero a Jole dei madrigali a tutto vapore, già sui vaganti sogni della notte cadendo la brutale saracinesca della ritirata: che i tram vuoti galoppassero verso le tettoie suburbane o semivuoti verso le formicolanti stazioni: e qualche monaca in partenza chinasse il viso sopra le mani congiunte nel grembo, travisti dal finestrino li amanti disparire baciandosi nell’ombre de’ cupi giardini; e che Jole, travista la monaca in tram, quella povera monaca le mettesse in tutte le vene un certo desolato sgomento: che tuttociò accadesse, era, si potrebbe quasi arrischiare, nell’ordine quasi naturale delle cose, o almeno delle cose del 1928 p. C. n.
Che Jole, poi, durante la passeggiatina, le stratte, e i repentini zampilli di Fuffi, le arrivasse quasi ogni sera
all’abbordaggio, ohimè! un «giovinotto», ma proprio un «giovinotto», di quelli proprio che non hanno altro da fare che fare lo stupido alle ragazze: che nelle cose del 1928 fosse insorta questa complicazione, i lungimiranti occhi dei portinai della cognata del conte lo avevano a poco a poco, se non proprio constatato (dati gli ippocastani, i tram, i taxi, date le innumerevoli ombre vagolanti abbinate sotto le fronde degli uni e dietro le spole infaticate degli altri), ma però quasi oramai divinato. Dappoiché, nelle notti di primavera, i portinai prendono il fresco sul portone di casa: e lui fuma la pipa.
Ma quello che colmò la misura della costernazione pubblica, fu quando si venne a sapere chi era nientedimeno quel giovinotto: era un lontano, oh! mica tanto lontano poi!, parente del conte e quindi anche, per riverbero, della contessa, che era cognata del conte, perché era vedova di quell’altro conte, «che era morto», ma era fratello di questo qui, «che era vivo».
«Un parente?... E perdersi con una cameriera !...»
«Ma tutte le ragazze, non si sa perché, gli muoiono dietro...: e poi, si sa, quando c’è l’automobile...»
Il «non si sa perché» è la chiave di volta dei più complessi sistemi giustificanti il Mondo: ed è perciò adoperatissimo dai metafisici della morale, quando si tratti di stabilire il perché della fisica del genere umano. L’idea dell’auto, poi, è accessibile di primo acchito anche ai più profondi speculatori, oltre che ai portinai della contessa e alle loro duecento interlocutrici: auto significa, all’incontro torrido delle sere d’estate, carezza di dolce frescura: significa e corsa e volo oltre ogni pioppo della verde pianura, ebbrezza del lontanare verso nuvoloni dorati: visione fantasmagorica di panorami brianzuoli, con Tramaglini in bicicletta e Mondelle e fontane inesauribili di coccodè dentro un polverone accecante, scansati i più zelanti paracarri, i più perniciosi chiodi.
Il fatto è che ogni domenica di quel maggio e poi di quel giugno, alle due precise, quel giovinotto si imbarcava
la Jole sulla sua pazza 521 e qualche volta erano perfino in quattro, due ragazze e due «giovinotti»!
Non si sa perché, non si sa perché!
La Jole aveva poi questo di buono, che poteva rincasare alle dieci di sera, perché il conte non voleva privarla dell’amplesso, povera ragazza! almeno una volta la settimana!, de’ suoi vecchi genitori, gente ancora all’antica!, che deglutivano quotidianamente la loro polenta in una specie di stalla, poco più lontano di Busto Garolfo.
Ma i portinai! Nelle ruote di Cupìdo non c’è peggio bastoni.
Alla contessa la cosa fu raccontata con infiniti riguardi, cioè che la Jole marinava la polenta paterna con tanta naturalezza, e a quelle doloranti circonlocuzioni la contessa interrompeva il ricamo di una meravigliosa tovaglia d’altare: e guardava con disdegno muto la bocca dell’informatrice, tutta rugiadosa dallo sciroppo delle perifrasi. Nella penombra della gran sala, il racconto pareva un cavallo in un pantano.
E le dabben perifrasi, come sospirose comari, si presentavano compunte agli orecchi della contessa, chiedendo perdono anticipato per le cattive notizie che contro lor volontà si vedevano costrette a recarle, a solo fin di bene: perché sapesse, perché fosse informata.
Ma il conte Agamènnone, quando finalmente la cognata si decise a parlargli di quello «scandalo», le rispose secco di aver già provveduto, di aver già parlato «seriamente» al ragazzo: e che tutto era a posto. Difatti il veloce rapitore di belle indomenicate aveva già cambiato la macchina e di conseguenza, per intonar le tinte, anche la bella. Il conte Agamènnone rimase nella certezza di averlo ricondotto sul retto sentiero.
E poi andavano oramai in campagna tutti quanti, chi da una parte e chi dall’altra. E poi, «a suo giudizio, non vi era stato nulla di grave», dacché «il fondo del ragazzo, come fondo, non poteva non esser sano, e diritto, trattandosi di un ragazzo di famiglia distintissima». E siccome la Jole, interrogata e redarguita più di una volta,
s’era profusa ogni volta in lacrime di «sincero pentimento», così il conte, «dopo matura riflessione», aveva deliberato «di voler dimenticare quel fallo, dovuto più che altro, alla avventatezza e all’inesperienza... di quella età...».
«Ma è una ragazza troppo... troppo... appariscente...» insisté la contessa; «credilo, Agamènnone, finirà col darti... col darci a tutti... dei nuovi dispiaceri...» La contessa ricordava esasperata le occhiate avide e ardenti del panettiere galoppar dietro le proterve emimorfìe della Jole, quasi per azzannarle: la vedeva, orrore! così «impettita» e così «sconsiderata», cioè così salda nell’essere e a un tempo così molle nel procedere, da costituire un vero scandalo vivente ai ragazzi di tante famiglie per bene! – poveri ragazzi! a quell’età si è dei perfetti incoscienti! – che ritornavano già tanto affaticati dal liceo e l’avevano battezzata l’«andalusa libidinosa»; nel mentre tutti i garzoni si voltavano e rivoltavano, sbilanciati dalla cesta sull’anca, «Vacca miseria!» dicendo, presi così alla sprovvista. E finivano contro un palo.
Alcuni giovanotti del Politecnico poi, veri giovinastri! da non aver nulla da invidiare ai più autentici teppisti! le avevano indirizzato in pieno marciapiede dei sirventesi elettromeccanici, fra sconce risate: (al sopravvenire della contessa però, si eran taciuti di colpo, dandosi di gomito). La contessa non aveva capito e non voleva «neppur ricordare» simili ignominie: ma le parole «oscillazioni sincrone», «vibrazioni smorzate», «respingenti», ed altre anche peggio erano già venute fuori, da quelle sgangherate gole, fra tali risa e baccano, che in tutto il marciapiedi tutti si erano voltati, e due carabinieri immobili all’angolo della piazza avevano aguzzato lo sguardo e crollata la testa, e la lanterna, mormorando «studenti! studenti!», in tono di pietosa diagnosi.
Quelle brutture le avevano ferito gli orecchi d’una nota così atroce, che soltanto la preghiera e la Confessione avevan potuto cancellarne l’angoscia.
«Ascoltami, Agamènnone, perché... credilo!... noi
donne... abbiamo... l’istinto» (non pensò di dire un’eresia) «... ascoltami: mi par proprio superfluo di farti presente che siamo una famiglia... che abbiamo un nome... Ed anche per un riguardo al mio Gigi, che è la nostra speranza... Tutte queste chiacchiere, lo sai, mi disgustano... mi fanno male... Quella ragazza, credilo, ci darà dei dispiaceri... Il mondo non fa che parlar di lei... e di noi...»
«Non lo credo, non lo credo, Giuseppina mia!; io... mi vanto d’essere psicologo... e non lo credo... E poi, appunto, si tratta di non dar esca alle chiacchiere, di mostrare... a certa gente... qual conto facciano, i Brocchi!, della... maldicenza... dei vili...»
«Ascoltami, Agamènnone, io sarei molto più contenta se tu la licenziassi!...»
Ma il conte ribatté che ormai era pratica della casa, trovò che conosceva ormai «a menadito» tutte le sue abitudini, i suoi più minuti bisogni: che gli serviva con tanta grazia il caffelatte, che gli metteva con tanta sollecitudine il prete in letto, o la «boule», che diceva «Buonasera, signor conte!» con così devoto garbo, che andava così d’accordo sia con Domenico (quel caro burberaccio!) sia con la cuoca (quella cara Caterina... di Russia), che sarebbe stato un vero peccato «... credilo, cara Giuseppina!, mi par proprio di vedere...» abbandonarla così «a se stessa, al suo fragile destino...».
E sostituiva la Caterina alla spesa, eccelleva negli acquisti, zucchine ova prezzemolo banane, come nel distinguere a una semplice guardata i cavolfiori veri e propri dai broccoli, organismi, gli uni e gli altri, tanto difficili da penetrare nella loro essenza!: colonne, gli uni e gli altri, della salutifera chiesa vegetariana, di cui s’era fatto, da un paio d’anni, zelante e scrupoloso catecumeno: salvo la eccezione ricorrente di una qualche bistecca alla Bismarck, o di un cappone lesso di Brugnasco o Molnate ingrassatogli dai so paisàn con quella devozione e quel buonumore che può di leggieri immaginare chi n’abbia voglia, e reso meno pernicioso, e comunque
appressato al regno vegetale, dal variopinto contorno di un due o tre pezzi di «mostarda» di Cremona.
Oltre alla fragilità (del destino della ragazza) il conte vedeva, forse senza volerlo, quei respingenti e quei controrespingenti, turgido e atroce fiore della vita fra i suoi vecchi mobili «d’un vero ed autentico buon gusto». Nel cassettino della credenza, quello in alto a sinistra, c’era il cavatappi di riserva: in quello a destra, invece, alcune sagomature scollate della credenza medesima.
Insomma la Jole era troppo giovine, troppo «inesperta», nel mentre il fondo, come fondo, era buono...; metter sul lastrico una ragazza così, voleva dire «farne una vittima della società...». In giovinezza il conte aveva letto i «Miserabili» e bazzicato la letteratura delle «responsabilità sociali...», sebbene più tardi gli si fosse completamente snebbiato il cervello, in seguito vuoi a una più matura riflessione, vuoi alla lettura quotidiana della «Perseveranza».
«Stranezze! Utopie! per sfuggire, artatamente, cavillosamente, al vero nocciolo delle questioni: che è la responsabilità dell’individuo, e nient’altro che questo, proclamiamolo pure a voce alta! Il movente vero dell’azione è nel centro dell’individuo, dice benissimo il Panigatti: ecco il nocciolo, signori miei! Il nocciolo dei noccioli!»
Andarono tutti in montagna. Gigi, nelle ore di solitudine e di sogno, tornò a graffiarsi le ginocchia sulla dolòmia: e nelle ore della compunzione lesse invece il Giulio Cesare voltato in versi italiani da Giulio Carcano; nelle ore della socialità e della compitezza sudò ruscelli di fresche albumine adoprandosi cavallerescamente d’attorno i mantelli e le termos e le macchine fotografiche di tre signorine dell’Ottocento: appartenenti alla migliore società milanese: alpiniste, pianiste e acquarelliste; che parlavano perfettamente l’inglese, con il mento illeggiadrito, qua e là, d’alcuni deliziosi peli barbatelli, una specie di pubertà da persone ammodo. La contessa le trovava simpaticissime, così sane, vigorose, piene
di spirito! e senza tante smorfie; come deve esser veramente la donna. Gigi ne era forse un po’ meno entusiasta: e portava i mantelli, seminando i treppiedi.
Passarono i mesi, passò l’inverno. La contessa insinuava periodicamente le sue suppliche fra una siesta e una matura riflessione dello zio Agamènnone, e sempre con lo stesso esito. Una volta pianse, ruppe in singhiozzi, e lo zio allora la confortò, la carezzò, le dimostrò ancora una volta che era... un’idea fissa... la sua. Un’ultima volta ella sillogizzò, ma invano.
Il conte Agamènnone, da quello psicologo che era, giudicava si trattasse, «in fondo», d’una question di principio: non poteva, in coscienza, arrendersi al capriccio morboso di una donna.
«E il libro, almeno, quando sarà pronto, quello? Quando ce lo darai?» gli domandò allora la contessa, con voce arrocata dal dolore e flautata nell’ammirazione. «Sai che lo aspetto impazientemente... per Gigi... per la sua salute... per la sua formazione morale... per la sua vita!...» Gli occhi, al pensiero del figliolo, le si velarono di dolcezza. Gigi in realtà stava benissimo; mangiava con un appetito feroce; studiava con «serietà», facendo sì degli errori di latino, ma che erano, in fondo, gli errori d’un ragazzo intelligente, come attestava lo stesso professor Frugoni; e, dopo ciò, cresceva un palmo ogni anno e, quel che più consola in un giovine ammodo, dimostrava a tutti i suoi educatori una deferenza profonda, un’ammirazione, una gratitudine... toccanti, proprio toccanti! (La contessa si soffiò il nasino.)
Ma i medici le avevano messo una spina nel cuore (il buon gusto della contessa aborriva dalla pulce nell’orecchio): ed era questa la seconda spina della stagione, dopo quella cronica della Jole. Essi avevano trovato che, in certe condizioni, lo studio dell’algebra procura lo strabismo anche ai giovinetti delle più distinte famiglie. Che medici stravaganti quelli del 1929!
Ma erano i tempi, i calamitosi tempi!
E anche i medici non potevano che subire l’influsso
dei tempi. Per confortare le menti e sovvenire alle anime contro alla tempesta dei quali, lo zio Agamènnone, invece, pubblicava, finalmente, il suo «libro», anzi il suo «trattato», che, secondo il disegno, aveva da servire di guida, all’entrar della vita, per i giovani delle più cospicue famiglie: perché il giovinetto di famiglia ha, «diremo così, dei bisogni, delle esigenze speciali: che, certo, gli altri non hanno, non possono nemmeno avere: è ovvio che il cane di razza, il quale non è se non il prodotto tipico di una lunga e laboriosa selezione» (il conte si guardava intorno) «non si può gonfiarlo di zuppa e pan bagnato, come un cagnaccio qualunque da guardar i pagliai».
Di un siffatto libro, bisogna poi dire anche questo, la generazione che vien su in questi anni, così balda e franca verso la luce, sentiva proprio la mancanza: ed era «per l’appunto» a una così deplorevole mancanza che il conte Agamènnone s’era proposto di rimediare.
Scrivendo quel libro, componendo quel libro, (non gli venne il terzo verbo, da far compiuto il suono della frase, tirata in finto «crescendo») il conte Agamènnone Brocchi non aveva pensato ad altro che al suo Gigi, a quel suo nipote «così promettente, così bello, così sano, che, qual giglio in fiore sul vecchio tronco dei Brocchi», doveva perpetuare nel mondo scompaginato da tanta demenza! da tanto delirio! da così insano furore! il nome e le virtù, l’intelligenza e le «humanae litterae» dei Brocchi medesimi.
«Il mio libro è un’Etica e una Stilistica... perché, nei prodotti-tipo, la virtù deve avere anche uno stile!» e scrutava rapido nel viso degli interlocutori ammirati gli effetti di quella vigorosa affermazione, degna proprio, lo sentiva, di un signore: «di un signore nel vero senso della parola».
E per la contessa – così angustiata da tanti aspetti del Male, che negli Incontri nuovi e nelle nuove Occasioni pareva assoldare nuovi divoti famigli a ogni ora, a ogni angolo – per la contessa quel libro veniva tanto più a
proposito dopo i discorsi un po’ perifrastici, un po’ strani, un po’ scuciti che, con il nuovo allungarsi de’ giorni, il dottor Martuada e dopo di lui un altro avevano finito per farle, interpellati su qualche passeggero mal di testa di Gigi e su alcuni quattro in meno che s’erano inframmessi fra l’algebra e il giovin signore: «Che per il suo... ragazzo... per il suo... giovanotto... per il suo Luigi... Gigi?... ah! Gigi! bravissimo... ci sarebbe voluta oramai... (quel femminile atterrì la contessa)... qualche... lettura... adatta, ma non troppo; qualche libro che chiarisse... ma non troppo... certi... certe... certi aspetti, certi concetti, insomma! (la contessa cadeva da tutte le nuvole della soavità). Sono dei concetti... assai utili per la gioventù... specialmente coi tempi che corrono... Sebbene non tutti i concetti... possano far veramente bene ai giovani... Bisogna distinguere... Maxima debetur puero reverentia...»
«Ma nella nostra famiglia...» protestò la contessa quasi indignata: senonché la opportunità e la rarità, insieme, della citazione l’avevan distratta: riacquistò la certezza che stava parlando con degli uomini di scienza. Attenuò il tono della protesta: «Nella nostra famiglia, non credo...»
«Capisco... capisco... naturalmente!» retrogradò impensierito il dottore di famiglia.
La contessa si consigliò allora con il suo confessore, poi con Don Saverio, poi con i padri del Collegio San Carlo; con il professor Frugoni si tenne alquanto sulle generali. Per tal modo, nel formulare suggerimenti d’ogni qualità circa le «letture» di Gigi, i suoi consiglieri erano oggimai impegnatissimi: che mestiere difficile quello del consigliere! Dire e non dire! Tastare senza toccare! Insinuare senza ferire! Avanzare retrocedendo!
Cominciare col sì, rincalzare col già, continuare col però, soprassedere col ma, finire col no. Concludere col non si sa.
Disperato, fra le tenere implorazioni e le reluttanze acerbe della contessa, e sotto l’ossessione dei «passeggeri» mali di testa di Gigi e dei conseguenti quattro in
meno, il medico di famiglia aveva finito per buttar là, così, crudamente, il bruttissimo titolo di alcuno di que’ libri, a mo’ d’esempio e senza impegno, beninteso: Treves li aveva, forse anche Hoepli, «Paravia non crederei». Ma ce n’erano, a voler cercare, delle intere biblioteche: tutti più o meno «adatti»; il più difficile era appunto lo scegliere, per trovarne uno che fosse veramente «adatto». Erano il «Conosci te stesso» e il «Sorgi e cammina», tradotti dal tedesco; erano, non tradotti dal francese, «L’éducation sexuelle de la jeunesse», l’«Équilibre psychique et sexualité», «La question sexuelle chez les jeunes gens», e l’«Introduction à la vie des sexes»: per non dire d’un «trattatello» simpaticissimo, se pur più modesto, «L’età dello sviluppo negli adolescenti di ambo i sessi», che già il titolo rivelava come un buon frutto lombardo, anzi deliziosamente meneghino.
Ed erano cento altre bibbie, fra il Mantegazza e la psicanalisi, con uno spruzzo di Nietzsche in ritardo, i di cui titoli, con le loro X sexuali, destavano orripilanti repugnanze nella soavità ferma e un po’ sonnambulesca della contessa.
«Il meglio di tutto sarà il libro dello zio Agamènnone: di lui mi posso fidare...»
«Ma certo, ma certo...» diceva il dottor Martuada, confermava Don Saverio.
«Ma sicuro, ma sicuro...» rincalzava il professor Frugoni.
E così, ogni sabato sera, lo zio Agamènnone venne interpellato sul «libro»: e sulla Jole. La vita nova della ragazza pareva ormai perfettamente intonata con il mobilio di casa Brocchi: e il libro, se ne avevano, dall’eccellente stampatore, notizie eccellenti.
«Guarda che me l’hai promesso per San Giorgio! per il “compleanno” del nostro Gigi... E ogni promessa è debito!...»; la voce acuta e un po’ nasale strillava dentro il microfono e per tutti i corridoi della casa.
«Non dubitare, Giuseppina... Alle sette precise del 24 aprile sentirete il campanello... e sarò io in persona, con
le due prime copie del libro! Una per te, una per il nostro dilettissimo Gigi! Sei contenta?...»
«Lo sai, però, che il 24 è domenica? e che fino a sera io sono a Brugnasco per la consacrazione dell’altare?... Non ho potuto dir di no... Era troppo giusto...»
«Ah! già... me lo avevi detto, che sei la madrina...: ma la sera ci sarai...»
«Per pranzo saremo tutti riuniti! Diciannove anni! Diciannove anni! Mi pare un sogno!...»
Il giorno 24 di aprile vien celebrato anche nel milanese, e per diverse ragioni, una più buona dell’altra: ma, più che tutto, è una sognante speranza! perché fuori dalle rotolanti tempeste di primavera, lacerate al fulgore della sua lancia e del nimbo d’oro, trasvola nei cieli, pubertà donatelliana, a cavallo tuttavia come per il Carpaccio, il cavaliere dei santi, il santo dei cavalieri! Sicché appunto, proprio quel giorno (cadeva di domenica) la contessa avrebbe dovuto assistere alla consacrazione del nuovo altare, a Lui dedicato, nella chiesa di Brugnasco. Brugnasco è dove i Brocchi avevano terre, villa, e cascine.
«... Ma non importa!... Per sabato sera inviteremo a pranzo gli amici...: domenica sera, invece, ci raccoglieremo noi soli, con la zia Lena, la zia Maddalena, e la zia Filomena... a festeggiare i tuoi diciannove anni... e il libro dello zio Agamènnone...»
«... Lo leggerò con molto piacere, mamma...»
Per l’altare di San Giorgio la contessa aveva in pronto una favolosa tovaglia, con un favoloso pizzo: il più dolce ricamo che fosse mai uscito dalle sue «mani di fata». Da principio, e poi durante quasi tutto il lavoro, ch’era durato un anno e mezzo due, quella tovaglia aveva divisato di ricamarla per San Luigi Gonzaga, perché sempre! sempre! le proteggesse il suo Gigi! da ogni «cattiva tentazione, da ogni suggerimento cattivo!» perché gli tenesse lontano i cattivi libri, i cattivi compagni, subsannanti, come dèmoni biscornuti, nell’ombra torpida della tentazione! Oh! il sorrisetto perverso di certi ragazzi!
Ma il curato di Brugnasco era venuto «giù» apposta,
a invitarla, con un consultore e un fabbriciere, perché fosse lei, come dire?... la madrina... «Vogliamo proprio che sia lei, signora contessa...»
Che cosa ci sarebbe voluto?... Se proprio voleva disturbarsi, ci sarebbe voluta magari una tovaglia, sotto il bellissimo quadro di Antonio Pasta (un professore di Brera!): «che c’era voluto più di sei mesi a pitturarlo, tra cavallo, serpente, gambe del serpente, unghie...»
«Ma è un drago, non un serpente...» ammonì la contessa.
«Cosa sia, non lo so... ma ha certi occhi... da sognarseli di notte...»
«Vorrà scusare, signora contessa: noi siamo dei poveri ignoranti... più che quel po’ di terra che vanghiamo dalla mattina alla sera... altro non abbiamo veduto...»
E anche il Carso era stato terra, con un po’ di sassi, magari.
Trattandosi di Brugnasco (esser Brocchi a Brugnasco era come esser Julii o Claudii a Roma) la contessa non seppe rifiutare a se medesima la legittima gioia di poter offrire quella tovaglia (il suo capolavoro!), che stava ultimando. E gli occhi stupefatti del consultore e del fabbriciere e quelli contriti ed avidi del curato ipotecarono seduta stante il dono: «... Roba da diventar matti, a ricamare una roba compagna...» «... da cavarsi tutti e due gli occhi...»
Gli occhi della contessa, invece, risplendettero di una breve luce d’orgoglio.
Ma, appena i tre furon via, si pentì. Si pentì di colpo... come un colpo improvviso, nel cuore. Le parve che San Luigi dovesse rimaner male, che la prelazione non fosse giustificata... Ogni promessa è debito!... E la sua lunga promessa era un tenero voto!...
«Ma come contessa Brocchi,» implorò rivolta al principe Gonzaga, «... anche con quei di Brugnasco... dopo tutto... non potevo esimermi... Per il tuo altare ne ricamerò un’altra, più bella.» Eppure, nel malessere di certi dormiveglia agitati, quel dubbio le ritornava, come in
un soprassalto dell’anima: «... Eppure San Luigi... si sarà offeso; e il mio Gigi, il mio Gigi adorato!... non me lo proteggerà più il mio Gigi! Oh! Aiutatemi voi, Dio mio!»
Lavorare, lavorare sempre! dalla mattina alla sera. Cercare ne’ suoi doveri di madre, nelle pratiche della pietà, nell’esercizio della carità, un sollievo de’ vecchi dolori, una ragione per la speranza! Da molti anni, la bontà fattiva della gentildonna lombarda sudava le sette camicie della beneficenza milanese. I poveri, gli orfanelli, i rachitici, gli abbandonati, le ragazze con un piè di cavallo e fin quelle altre che a insaputa del sindaco1 eran lì lì per dare alla luce dei futuri beneficandi, tutti i derelitti della compagnia umana venivano puntualmente irrorati di riso e fagioli in ospizi ariosi e puliti, con il ritratto di Sua Maestà e quello di Sua Santità.
I ricchi, i benestanti, i supposti ricchi per quanto non benestanti, e gli ingegneri che onorano la patria col culto delle belle lettere, venivano bersagliati e raggiunti da biglietti di lotterie da fargli accapponare la pelle sotto la imperturbabilità dello smoking: ci volevano materassi, coperte, poi federe, poi patate, poi fagioli: poi ancora fagioli e poi nuovamente patate: e quei poveri occhi imploravano, imploravano, dal fondo della solitudine loro. Allineate di grembiuli quadrettati con un colletto bianco: e, in fondo allo stanzone, il ritratto benedicente del Papa.
Gli ex-traviati venivano messi in condizione di ritentare il colpo con un po’ più di brio. Gli inviti ai tè benèfici arrivavano l’un dopo l’altro, come da Fiesole, da Arezzo, da Cortona, dal Trasimeno le lettere catastrofiche e i messi alla Curia.
Nei suoi accessi di filantropia, la contessa pareva trasfigurarsi: «elle s’oubliait tellement», da permettere financo alle figlie delle sue amiche di vendere dei biglietti
di lotteria a dei «giovanotti» (non a Gigi però) o di servir loro una tazza di tè, con limone o con latte, con poco zucchero o con molto zucchero, con piattino, cucchiarino, tovagliolino, biscottino. I giovani benèfici dicevano «grazie signorina!» e si finiva per fare «quattro salti», sebbene l’espressione sia alquanto borghese – cioè a dire inimitabilmente pedestre.
Ma, a furia di voler fare del bene ai poveri, si finisce per farlo anche a una specialissima categoria di poveri, o, come si dice in riva del Lambro e del Séveso, di strapelati: si finisce cioè per proteggere le Arti e le Lettere. Così fu che anche in Lombardia continuò a fiorire, molt’anni dopo il Moro, quella nobile disposizione dello spirito (utilizzatore d’ogni spazzatura) che chiamasi mecenatismo: e le «vite» e le opere di due grandi lombardi, l’autore della «Caduta» e quello della «Nomina del Cappellan», lo testimoniano in modo irrefragabile. Il primo dei due, per fare un esempio, si trovò un bel giorno, a furia di endecasillabi e di nobiltà d’animo, nelle peggiori strettezze: dintorno a lui tuttavia la generosa città, che già si avviava a diventar metropoli: dove non durò fatica a trovar subito chi gli rilevasse il suo rame di cucina, da comprar medicine alla sua vecchia mamma. Non aveva ancor finito di dire: «Cittadini! Mia madre ha bisogno d’un brodo!» che già la pentola della minestra, affidata al civismo d’un rigattiere, gli procurava uno scudo.
Ma la contessa Brocchi, sul limitare delle Belle Arti, le parve come che l’amorevole e compunto sguardo del Gonzaga dovesse ammonirla: «Prudenza!», se pure il cavaliere dei santi, trionfante luce di giovinezza, avanzasse come Fortebraccio sopra le tenebre di ogni chiuso tormento, in un ammiratissimo bozzetto della Triennale Milanese.
Nelle sale della celebre galleria, che da diversi decenni a questa parte ne ha visto... di tutti i colori, quel meraviglioso San Giorgio occupava il posto serbato, pochi dì prima, durante l’esposizione de’ Futuristi, al «Ritratto
della Marchesa Cavalli»; la cosa si spiega (cioè che una scultura, in centro sala, abbia potuto occupare il posto d’un ritratto) col notare che il «Ritratto della Marchesa Cavalli» era un ritratto a tre dimensioni; dove le diverse falde cromatiche, bianco del viso, rosso delle gote, nero dei sopraccigli, eccetera, erano costituite da pezzi di legno, di cuoio e di panno colorato, armati alcuni con fil di ferro, i quali ruotavano a cerniera su dei pernetti infissi al posto delle ghiandole lacrimali e anche sotto, lungo tutto il naso, che era di zinco, nel mentre le occhiaie amorose e profonde della stupenda marchesa potevano sventagliare alla lor volta in un numero infinito di direzioni, a piacere dei visitatori, ed erano due ritagli di latta. Anche le pupille, dal di dietro del ritratto, si potevano manovrare abbastanza facilmente per modo da far roteare a volontà lo sguardo della marchesa, portandolo a trafiggere d’un dardo concupiscente il primo salumiere che entrasse: sebbene... qualche manovratore inesperto finiva per cavarne dei dolorosi effetti di strabismo.
In quella sala, dove una nuova epoca s’era dunque iniziata per la storia del ritratto, l’audace distruttore-ricostruttore era stato incoronato d’alluminio; ma subito dopo un’altra «tendenza», un’altra «revisione di valori» aveva occupato la sala, con un’altra esposizione: perché lo slancio mistico della ricerca ha questo di buono che, come misticismo, è un misticismo a cui si aprono quarantaquattro possibilità.
Così, dopo il «pugno nello stomaco» de’ Futuristi, vennero il San Giorgio e la Triennale Milanese: dove, contro gli ultimi ruderi d’un ritardatario Ottocento, caparbio e duro da morire, si levava, con grido possente di vita, un caleidoscopico Novecento. In quel Novecento il conte Agamènnone Brocchi si trovò coinvolto, se pur suo malgrado, quale Membro del vasto comitato organizzatore: dove, figurandovi i più bei nomi della città, non poteva mancare proprio il suo.
«... Per quanto, in camera charitatis... diciamolo pure qui fra di noi... hanno messo fuori delle cose... vergognose
», e intendeva vergognose, non nel senso dell’arte, ma nel senso di casa Brocchi. Difatti la prima cosa che colpiva l’«intenditore», al primo metter piede nella diabolica Esposizione, era una deplorevole mancanza di tutti que’ panni, pannicelli, e lenzuoli, che svolazzano con tanta intelligenza presso i classici della nostra pittura: e rendono, anche ai romantici, così delicati servigi. Trascinato alla presenza di quelle tele, il conte si accorse che le sue mascelle di pedagogista non riuscivano più a chiudersi. L’incubo di quelle tele finì per aggravare i suoi disturbi uricemici: talché un rincalzo di broccoli, di mandarini, di banane, fu la prima ingiunzione di Martuada estratta angosciosamente dal telefono: lo choc vitaminico a base B non era ancora di moda, né lo sgancio di titillazioni ultrasoniche nella regione lombosacrale: (a dirompere i più fetenti ciottolacci). «... Un vero obbrobrio! un oltraggio al buon nome della nostra vecchia Milano!...» Per tutte le trentatré sale, orde selvagge di cavalle dalle ginocchia tubolari galoppavano disfrenate verso nubifragi biblici, o ne rifuggivano pancia a terra, terrorizzate dai colori dell’arcobaleno, che erano diventati otto: in un angolo della sala numero 15 un centauro era però riuscito ad arraffarne una e, tra lui e la cavalla, avevano trasformato quella sala in una stazione di monta, due volte il vero, davanti gli occhi esterrefatti delle signorine del Lyceum. Altrove, alcune amazzoni dai piedi piatti si facevano delle spugnature in sul margine d’un fossatello: tutte all’impiedi e tutte inclinate di una decina di gradi rispetto alla verticale. Il loro nudismo, per vero dire, non arrivava a offender nessuno, dacché la potente sintesi aveva rifiutato l’ingombro dei dettagli, tirandole giù bianche e piatte come sagome di tiro a segno, a latte di calce. Invece i grandi cerchi di oro, che appesantivano gli orecchi d’una creola, non eran bastati a far dimenticare al pittore le lunghe mamme di capra: e tutti quei ciondoli si riflettevano in una fuga di millanta specchi, moltiplicati per mille volte millanta.
Sicché la creola si poteva ammirarla cinquecento volte davanti e cinquecento volte di dietro.
Le madornali natiche d’una meretrice boema, china a lisciarsi le caviglie cilindriche, erano state messe a dimora in un magazzino di prismi esagonali e di parallelepipedi color cenere, valorizzati, questi ultimi, in una prospettiva speciale, audacemente simbolica e novecentesca, e cioè piccoli da vicino e grandi da lontano. Alla base dei prismi, qualcuno aveva dimenticato per terra alcuni cucchiaini da gelato, delle trombette coniche di cartone rosso, due giarrettiere, un cavalluccio a dondolo e una baùtta.
Sopra un icosaedro di cristallo a luminiscenze verdastre una femmina ancor più membruta della cecoslovacca esibiva l’orgia immota delle sue poppe e un ventre vulvaceo a quadruplice piega, magnificato da un vello di grande effetto, color carota.
«... Insomma degli orrori! dei veri e propri orrori! Si può dire una cosa sola... che hanno perduto la testa!» (Il conte pensava a un intervento delle autorità di polizia, all’Associazione dei Padri di famiglia.)
«... Ma coi tempi che corrono... non c’è più speranza...»
Ciononostante, come conte, come Brocchi, come Membro, non aveva potuto esimersi dal contribuire alla protezione delle Arti con l’acquisto d’un quadretto di novecento lire... una natura morta (così gli avevano detto i bidelli), certi cavolfiori, per vero dire alquanto nebulosi, d’un pittore romano; il quale, sebbene avesse dipinto anche lui la sua buona dose di sconcezze, tuttavia... poer diàol!... era un tipo abbastanza allegro... e..., «in fondo», abbastanza simpatico...
«Sicché, caro il nostro conte, s’è convertito anche lei, eh?... all’aura del Novecento, eh?...» chiedevano, scrutandolo perplessi, altri mecenati lombardi. Essi manovravano con disinvoltura questa etichetta, avevano dovuto invitare a pranzo la Promotrice, per non dire Eccitatrice, del vasto bailamme.
«Novecento! proprio Novecento!», concedeva il conte con un sorrisetto furbesco, dopo averli lasciati trepidare alcuni minuti. «Ma come avete fatto a indovinarlo? Sarà quel sacripante, m’immagino: dopo tante promesse che non avrebbe fiatato sul prezzo!»
«Cosa volete, amici miei...» concluse, affettando una certa mortificazione per la modestia di quella cifra, ma la vanità soddisfatta dell’uomo «pratico» gli trionfava dal collo paonazzo: «... Cosa volete!... l’Arte va bene... l’Arte l’è una bellissima parola... ma anca i danée i e cati poeu minga sü per la strada... dopo tütt...»
Intanto il cartellino di rito: «Acquistato dal conte Brocchi», mecenatizzava il vecchio ed illustre casato, «per un bigliett de mila... e poeu nanca».
Tutti, in fin de’ conti, ammirarono la scelta quanto mai giudiziosa del conte, il suo temperato talento, il suo gusto raffinato, il suo «equilibrio»; quell’audacia, insomma, che non disgiunta da un signoril senso della misura gli permetteva una così acuta valutazione dei nuovi indirizzi dell’arte italiana. «Ch’el disa la veritàa... l’oo consigliàa ben sì o no?» gli domandò il bidello, speranzoso. L’allegro romanaccio per parte sua, dopo quel provvidenziale cartellino, cominciò a vendere tela pitturata con un tal successo ai più noti dentisti di Milano, che ancor oggi, davanti a’ suoi quadri, tutta la borghesia intellettuale della metropoli dice «aah!».
Circondato, nelle sale della mostra, di commendatori, di droghieri e di curatori di fallimento in foja novecentistica, già la carezza della celebrità lo sfiorava dalle colonne dell’Ambrosiano... Sebbene, certa roba nuda, si sa, si resta poi imbarazzati «se attaccarla su in sala da pranzo», o nello studio «stile cinquecento».
Alla gloria si accompagnarono i banchetti: il romano fu disputatissimo fra i suoi mecenati: anche il conte «dovette» invitarlo, per non esser da meno dei rimanenti Membri, un paio di volte. Ma gli tremavano le ginocchia: e combinò i due pranzi così alla chetichella, senza dir nulla alla cognata che, inconsapevole, esauriva
in quei giorni gli ultimi ghirigori del laberinto, nel dedalo della tovaglia.
Il primo, la gli andò liscia. Ma in sul disservire del secondo capitò Gigi, più giglio che mai. A tratti, l’ombra d’un’accorata inquietezza dava al viso bellissimo dell’adolescente il risalto di più profonde motivazioni della vita, che non fossero l’elegante cravatta e il «molto lieto di conoscerla!»: si capiva che quel disegno, secondo le intenzioni dell’Artefice, non avrebbe dovuto essere un semplice ornamento, nel caleidoscopio del secolo. Ma la compitezza raffinata del «dressage» ne dissolveva il palese tormento in una sorta di fatuità fantastica, tra il pastorale e l’imbecille.
Il romano, come pittore, ne rimase colpito: gli altri invitati si congratularono col conte.
Parlarono di Courmayeur. Poi parlarono di Cortina d’Ampezzo, e allora di Pieve, delle Marmarole, del Vecellio: le Veneri però non vennero a galla. Quando il discorso minacciò di discendere verso via Margutta, lo zio Agamènnone lo riportò a Gressoney: «nella luce ossigenata delle nostre Alpi!»; «a piè del monte la cui neve è rosa»; «proprio».
Esaurite le luci, i colori, i tramonti della montagna, il Lys e il latte appena munto, seppure, purtroppo, non ancora pastorizzato, esaurito l’ossigeno e la salubrità dell’aria, lo zio volle attaccare la radio. Ma Fuffi irruppe abbaiando, scodinzolando e saltando, finché, fattogli un monte di carezze, tutti lo guardarono disparire, che si dimenava forsennatamente, stretto fra le braccia della Jole (contro quel po’ po’ di roba): la quale era venuta a riprenderlo e lo colmava di baciozzi, tanto che, povera bestia, finì per farlo sternutire una decina di volte, come se gli avesse dato a fiutare qualche cosa di forte. Via Fuffi, si misero tutti religiosamente in ascolto: ma il romano dopo un po’ «ammàppela!» mormorava sfiduciato, passandosi una mano ne’ capelli: il programma era una «Novelletta» dello Schumann per pianoforte e violino: che, da quanto si venne a sapere il dì dopo grazie alle
più intelligenti amiche della musica, finì poco dopo mezzanotte.
Allora staccarono la radio: e bevvero (ma non Gigi) un liquore oleoso verde-ramarro, servito in certi bicchierini vieux Milan con cui i conservatori provvedono all’economia domestica, non meno che alla salute dei loro ospiti: ma il romano se ne fregò, bissò senza complimenti e poi elevò il bis alla quarta potenza. Poi ne disse di cotte e di crude: e il conte, come Membro, dovette lasciargliele dire: tutti ci si divertirono un mondo, scampati dallo Schumann.
Gigi, a certe battute, fu lì lì per arrossire: ma, grazie alla selezione e al pedigree, sapeva tirar le orecchie, quand’era il caso, anche alla «casta porpora». E il romano finì per piacergli, sebbene l’educazione ricevuta ne’ fausti penetrali dei Brocchi gli permettesse di dissimulare perfettamente simpatie ed antipatie in uno «stile» di perfetta signorilità.
«Mah,» sospirò lo zio a cose fatte, con l’aria di racimolare le conclusioni d’una lunga e documentata esperienza: «... gli artisti, ragazzo mio, è meglio perderli che trovarli...»
Il peggio di tutto si fu che in un elegante «a parte» della conversazione, mentre lo zio Agamènnone era impegnato con le lampade termoioniche e in un garbuglio imprevisto de’ melodiosi fili, Gigi e il pittore combinarono, per la dimane, un appuntamento discreto: una visita alla Triennale.
Beninteso, Gigi non gli venne fatto di dirne nulla a sua madre: «non ci pensò». Ma la contessa, quando seppe dei due pranzi, rabbrividì, all’idea del contagio: Pittore! Romano! Novecento!... Forse il gastigo di San Luigi era già in cammino. «... Spero che non avrà parlato di modelle e di roba così...» dimandò ansiosa, e l’ansia si tramutò in corruccio: «... Dopo tutto... avresti ben potuto avvisarmi che avevi a pranzo dei... forestieri...»
«Ma se Roma l’è la capitale d’Italia!» si stizzì lo zio: «... Mi pare, Giuseppina cara, che esageri...» In realtà,
però, vedeva ancora quei bicchierini verdi sparsi per tutta la sala, dopo il fallimento dello Schumann, e il viso godente degli ascoltatori ammaliati, i lombardi tesi nello spasimo del capir l’italiano, e Gigi assorto e serio, ma talora, ahimè!, sorridente, in un angolo... e quel romano, quel romano!... che non la finiva più, più, più!... Una dopo l’altra, una più sporca dell’altra!... Pittori! Peste del mondo!... «E intanto gli aveva vuotato mezza bottiglia...»
La contessa capì d’esser andata tropp’oltre, si scusò: «Già... certo, certo: con lo zio non c’era da temere...»; si scusò di nuovo. «Ma quel pittore, sentiva d’istinto che non era un tipo “adatto”, per loro...» (rinnovò le scuse) «... e quello che la faceva così trepidare era il suo istinto di mamma, l’amor materno, il troppo amore, lo credesse, caro Agamènnone...»
Una domestica le riferì che non soltanto quel pittore «andava in giro a parlar male delle anatre di Milano» (si trattava d’una gran tela che un ricco setaiolo aveva disdetto, perdendoci la caparra, causa l’intervento della moglie, la quale preferì una pelliccia): ma soggiungeva anche che queste anatre se ne intendono di pittura come i tacchi delle sue scarpe: e, come ciò non bastasse, quando la Jole lo aveva aiutato a infilar il cappotto di mezza stagione, lui le aveva bisbigliato non si sa che cosa, tutto in un giulebbe.
La contessa palpitò. Temperò lo sdegno con la preghiera. Volle chiudere sulla Jole e su quel «forestiero» tutti e due gli occhi inorriditi dell’anima.
Dio, Dio! Se non ci fosse stata lei in quella casa! Ma erano i tempi, i tempi «troppo perversi!».
Difatti il malo andazzo dei tempi, con cavalloni dirompenti contro le muraglie delle virtù patrie, aveva sbatacchiato sprazzi inqualificabili fin dentro dai penetrali sacri delle migliori famiglie. E ciò in piena Milano! Una Jole! In automobile! Senza un riguardo al mondo! Ed era, chi l’aveva condotta, un amico di Gigi! Non più amico per fortuna, ché dall’estate scorsa, dopo quelle prodezze del giovinastro, con Gigi non si vedevano più.
Si racconsolò pensando che casa Brocchi aveva sempre fermissimamente opposto tanto di porte sprangate al «dilagare della depravazione». Se non fossero stati (tornò a stizzirsi per la quindicesima volta anche con loro) se non fossero stati quei medici! E quegli studenti del Politecnico! E quella svergognata! E quel giovinastro! E quel Novecento! E quel pittore! che fosse poi di Roma, o di Napoli, o di Palermo!
Le parve che da ogni ettaro della terra perversa le occasioni e gli incontri convergessero, strisciando, in un callido attacco dell’animo e delle virtù antiche dei Brocchi. Se non fossero state tutte quelle «strane» combinazioni! Casa Brocchi non avrebbe avuto neppure il sentore del male di fuori, del fango, del fango... E così invece, con lampi lividi, nere nubi ci rotolavano sopra! E la contessa, «che era l’anima della sua casa», aveva fondati motivi per intensificare le sue vigilie, le sue ardenti preghiere.
II
Le buone e le cattive notizie si erano alternate in una vicenda crudele. Ma anche le buone!... Era la bontà del controveleno. Nulla più, che non fosse contaminato. Di tutti gli aspetti del mondo, strascinatili davanti al tribunale del moralista, uno solo ce n’era, che poteva salvarsi: il lunario! Tutto il resto, cioè venti e piogge, politica e boxe, letteratura e sottane delle donne, una babele compagna non s’era mai più vista nel mondo, dopo il caos, che in principio fu.
Il dabben lunario aveva addomesticato le stelle copernicane, metodico lampionaro della celeste routine: così non fallirebbero a casa Brocchi né il 23 né il 24 di aprile, né il sabato, né la domenica, né, a Gigi, il suo diciannovesimo genetliaco: se pure il programma de’ festeggiamenti fosse per dover patire qualche ritocco.
L’apoteosi del giovane conte doveva pronunziarsi la sera della domenica, al convergere in una simultaneità ortopedica delle tre zie, la zia Lena, la zia Maddalena e la zia Filomena: che, non anco uscite dai tristi geloni dell’inverno, potevano ormai liberamente disporre de’ loro rinnovellati piedi. Elleno avrebbero fatto gentil corona ai 19 anni di Gigi, esercitando le loro affettuose dentiere nelle meraviglie, nelle congratulazioni e nei presagi: e nei ricordi manzoniani della loro infanzia: oltreché in alcune polpette mollicce cucinate a parte, proprio per loro, dalla solerte Luigia. Quanto all’acido urico del conte, poteva giusto cadere opportuna, in quella ricorrenza, la deroga al regime broccolesco tanto caldeggiata dal dottore, dall’avveduto Martuada, simile in ciò al buon maestro che, nell’atto del dettare il compito, raccomanda l’interpunzione allo scolare. Il paventato e reverito nome di Bismarck sarebbe venuto a galla, quel giorno, con un uovo in coppa, dopo nomenclature vegetali ch’erano durate un mese. Ogni dietetica deve rispettare le proprie cesure: e le cesure della dietetica dei broccoli si chiamano bistecche alla Bismarck.
La contessa Giuseppina pregustava già tutti i «Com’è alto! Com’è bello! Com’è lungo! Com’è grosso!», che segnano con bianco lapillo, nei fasti della tenerezza famigliare, le tappe di un’adolescenza eroica, confortata dal «De Officiis» e pronta a farne tesoro. E, sì, ci sarebbe stato lo zio Agamènnone, il titolare, «idealmente parlando», della corona: con il suo nuovo libro, così atteso da tutti!: che era un’Etica, ma era anche, nello stesso tempo, una superba Stilistica: ed era il libro scritto da un Brocchi, per un altro Brocchi!
Purtroppo il povero conte Aberardo non c’era più: ma se ci fosse stato!... Quale gioia, quale orgoglio, Dio mio!... al vedere il suo Gigi così alto, così bello! Così lungo, così grosso! Purtroppo poi la zia Maddalena aveva da anni il femore sinistro anchilosato in seguito a un «investimento stradale» e la zia Filomena, dalla nascita, il ginocchio destro vagamente disarticolato: era un ginocchio
tutto speciale, che poteva piegarsi tanto verso l’avanti, come i ginocchi in genere, quanto in senso opposto, se non ci stava più che attenta. Le gambe della zia Lena, invece, non le aveva mai viste nessuno dentro il complicato carciofo delle sottane: ma si presumeva che qualche cosa di diverso dal solito dovesse esserci anche per lei, dato il rullìo a tre tempi con cui, spaventatissima, la si vedeva attraversare via Dante.
La riesumazione dell’investimento della zia Maddalena, peraltro, costituiva un prezioso ausilio tematico nelle more della conversazione: allora la contessa, affettuosissima, le chiedeva notizie dei suoi «dolori alla gamba» : e la zia, dopo aver ringraziato commossa, forniva esaurienti delucidazioni: a) sui malvagi divisamenti dello chauffeur Attilio Cavallazzi nei riguardi del di lei femore; b) sull’investimento propriamente detto, verificatosi alli 22 di giugno del 1914 (che brutto anno!), a ore nove di mattina, in piena via Manzoni! proprio davanti la chiesa del miracoloso San Francesco di Paola, che era prontamente intervenuto a salvarle la vita; c) sulla conseguìtane lunga degenza, sui tre interventi chirurgici principali e quattro secondari; d) sulla malizia satanica degli avvocati e dei framassoni; e) sulla liquidazione svanita e sul novello e definitivo malcostume degli chauffeurs, degli avvocati, dei legislatori, dei vigili urbani e dei nuovi tram, nemici dichiarati d’ogni femore che si rispetti.
Le buone e le cattive notizie si alternarono anche durante il tè della contessa, per un’ora o due di quel pomeriggio del 23: sicché le linee solenni di questo «largo» anglosassone, con prefazio dell’acqua calda, cànone ed offertorio del limone, e credo nel poco zucchero (o nel molto zucchero), finirono col frantumarsi in piccoli e pittoreschi incidenti romanici e neolatini o anzi latino-ambrosiani.
Gigi studiava, di là; nel salone, dopo i primi gorgheggi delle signore e i primi tovagliolini, tirava una arietta piuttosto fredda.
«... Nella nostra famiglia, grazie al Cielo, simili cose... non si sa neppure che cosa siano...» esclamò la contessa con la sua voce pacata. «In una casa come la nostra! Con tutte le cure che abbiamo per il nostro Gigi!... Ma non è possibile neanche pensare che certe... notizie... possano entrarci! Poveri genitori!...» Il sospiro caritatevole venne dedicato ai genitori, perché il figlio dei genitori, il colpevole, non poteva essere sfiorato dalla di lei pietà, senza un riverbero di disdoro per lei. Si trattava del giovane e promettentissimo Gian Carlo Vanzaghi, a cui, tutt’a un tratto, s’era dischiusa la porta del Cellulare. Oh! un giovane di distintissima famiglia; come potevano testimoniare non soltanto il cognome, ma anche il nome e il prenome: «Un ragazzo... certo... un po’ esuberante...» trovarono alcuni. «Guidatore disperato!...» Terrore delle galline di Brianza, delle anatre di Vimodrone; ma il fondo, come fondo, il conte, che era uno psicologo, lo aveva trovato così sano, così diritto!
«Tutto viene da quella... da quello scandalo vivente!» pensò la contessa, nel mentre la signora Ballabio le diceva «grazie... basta così!» dopo il secondo pezzo di zucchero. Offrì una seconda tazza anche alla signora Zanfrognini, sforzandosi di discacciare l’orrida immagine delle «sfrontatezze» della Jole, e il ricordo atroce dei «Vacca miseria!» venuti fuori in pieno marciapiede dal sangue rimescolato de’ garzoni. «Scommetto che è stata lei... lei... a trascinarlo sulla china del male... la prima volta!... Il male è cominciato da lei!...» seguitava tristemente a pensare. «... Eppure lo zio era così sicuro di averlo ricondotto sul retto sentiero!...»
Ma il ravveduto, invece, aveva ricevuto la visita dei carabinieri.
La signorina Tavanati, con mezzo biscottino in mano, arrischiò, nel silenzio, qualche battuta non disdicevole al proprio pulzellaggio, piena, in ogni modo, d’una «comprensiva» e accorata sollecitudine. Come al solito, la imbroccò al primo colpo. «... Ma no, ma neanche per sogno!» protestò la contessa, aspra. «Ma non sono affatto
nostri parenti! Ma che dice, signorina Tavanati?» La voce armoniosa, un po’ nasale, s’era fatta durissima, ferma. «Soltanto la sorella del cognato di una terza cugina del mio povero... del povero conte... Lei crede proprio, scusi tanto, che i Brocchi debbano esser per forza parenti del primo venuto?...»
L’interlocutrice ammutolì sbigottita, e la contessa ammutolì a sua volta, fremente. Le spiaceva proprio che il dovere di salvaguardare il nome bicentenario dei Brocchi l’avesse indotta a riuscire così categorica. La signora Zanfrognini palpitò, il professor Frugoni sospirò, la domestica rientrò, silente, elegante: nerovestita in seta guanti bianchi di filo, e grembiulino e bretelline bianchi teneramente guarniti di lattuga: era orrenda.
Vi fu una pausa piena di costernazione, durante la quale sparirono dal tavolino, ad opera della scrupolosa spigolatrice, oltre al vassoio alla cùccuma e al bricco, e alla zuccheriera con le sue molle, anche le fette di limone e relative forchettine: e subito dopo le tazzine, i piattini, i cucchiarini, i tovagliolini, i biscottini; di cui uno cadde però per terra e il professor Frugoni, lisciandosi i grossi baffi con fare autorevole, ci mise subito su il tacco senz’avvedersene, sicché lo spiaccicò in malo modo sotto gli occhi desolati dei presenti.
La contessa entrò nello studiolo di Gigi, per scusarsi col professor Frugoni della... macchina da cucire, che vi aveva fatto collocare provvisoriamente: il professore si alzò. «Ma le pare, signora contessa?... ma ci fa anzi compagnia!... ci invita “vieppiù” allo studio... La macchina da cucire ha ispirato uno dei più geniali poeti della terza Italia!... Un vero poeta!... Discepolo prediletto del Carducci...»
La contessa, lusingata, si compiacque della buona notizia, cioè che la terza Italia tenesse in così alto conto le macchine da cucire: e ammirò la «brillante versatilità» del professor Frugoni, il quale, benché latinista, era perfettamente
à la page anche in fatto di «letteratura moderna»; e si decise a chiedergli... ulteriori notizie... del... latino, della... voglia di studiare, delle... letture, dei... progressi...
«... Oh! I progressi... ci sono, ci sono... senza alcun dubbio; direi anzi che si possono vedere... a vista d’occhio...»
«Ma si sieda, professore... la prego...»
«D’altra parte, come testo... come lettura... il suo Gigi non poteva essere più fortunato!...» Si deterse con un fazzolettone i grossi baffi stillanti, dopo aver vuotato il calice di marsala che gli era stato servito nello studiolo, in omaggio particolare, nonostante lo spiaccicamento del biscottino. Gigi stava a udire seduto di traverso, a capo stracco, con tre dita impigliate nella catenina dell’orologio. La contessa si confortò delle buone notizie: e della primavera di fuori: che dapprima sparge, nello smeraldo de’ prati, le mammole e le pervinche; e di poi gitta le spole delle rondini nello zaffìro de’ cieli. E ai ragazzi delle migliori famiglie, dentro dalle ferriate irremovibili del liceo, gli porta invece una calata primaverile di imperatore tedesco o di re di Francia, per lo più malaticcio, che ha però qualche volta il buonsenso di andare a Buonconvento a ricevere l’Estrema Unzione: le spese di trasferta, a lui e alla masnada, normalmente gliele pagano i «melanesi». E gli porta, anche, ai ragazzi, un nuovo classico da sbranare: il classico di primavera.
«... Non poteva capitarci di meglio...» insisté il professore, accomunandosi, con quel «ci» a un tacito «laboravi fidenter» che finse di attribuire al pupillo; «il “De Officiis” è piovuto proprio come il cacio sui maccheroni... Il dovere!... Il dovere!... Il dovere sopra tutto e prima di tutto!...»
La contessa aborrì mentalmente da quei comestibili assunti a termine di confronto: ma ringraziò mentalmente il Cielo del nuovo e visibile segno di favore accordato alla famiglia: era chiaro che Dio si occupava personalmente dell’incolumità morale di Gigi.
«Il trattato dei doveri,» seguitò Frugoni, «il celeberrimo trattato dei doveri, il “De Officiis” in una parola!... Ma non sa lei che cosa è il “De Officiis”?» chiese improvvisamente a Gigi, e come in un tono di rimprovero. Gigi, ora, tagliuzzava una gomma con la punta del temperino: levò il viso, atteggiandolo a profondo interesse.
«Ma è la grande Etica della latinità!» proclamò Frugoni entusiasta, con voce piena, potente. La contessa, contegnosa, giubilò. Gigi gli fece un breve sorriso di cortesia, da tirar gli schiaffi: il suo naso intanto subiva, a sinistra, delle leggere contrazioni, come s’egli avesse qualche prurito, o necessità di soffiarselo, e fosse incerto tra l’adoperare il fazzoletto o l’aiutarsi invece con un ditino, di soppiatto.
«E l’etica, è il credo sublime dei dominatori del mondo!, che il genio di Cicerone ha immortalato per tutti i secoli, e che io giudico debba ancor oggi costituire la miglior guida del giovanetto...»
«Sono molto, molto lieta di questa buona inspirazione dell’insegnante...» disse, con soave trasporto, la contessa Brocchi. E si avviarono, sguazzando nelle felicitazioni e nelle congratulazioni, oltre che nei pronostici, verso la gran sala dorata. La lezione di latino s’era protratta fin quasi al pranzo.
Il professore, trascinato dalla foga de’ suoi epifonemi e dall’ammirazione per la propria voce, aveva camminato assai nella vita: ed era arrivato ai cinquanta con tanta salute in corpo e con dei polmoni così temibili, da lasciar facilmente intuire come la nevrastenia de’ cerebrali, al solo suono di quei polmoni, avesse battuto ogni qual volta in precipitosa ritirata. I padri di famiglia, esterrefatti, trovavano concordemente che «era l’uomo che ci voleva»: risoluto! energico! senza tanti sofismi! senza tante complicazioni! La sua salute dogmatica aveva strangolato il dubbio: il dubbio che anche un professore, di quando in quando, possa dire delle scemenze.
Così, «fama volat», egli aveva potuto, anche in casa
Brocchi, soppiantarsi ai padri del collegio San Carlo nella sovrintendenza de’ classici.
Con questi benedetti classici, a dire il vero, la contessa si era sempre tenuta un po’ sulle sue: non era nemmeno mancata qualche ora di trepidazione e qualche dolorosa incertezza: dacché i padri le avevano messo nel cuore una quarta spina, fattole presente che «non sempre... purtroppo... gli autori latini..., specie nelle scuole pubbliche..., ma... però..., tuttavia..., una volta purgati... Eh! già... l’antica Roma!... Roma è sempre Roma!». Alla contessa, (le batté il cuore), parve che l’idea della purga fosse un palliativo mediocre. «Del resto, al postutto, anche Cesare..., come Cesare» (guardavano a terra) «... per vero dire, non si poteva dir nulla... come scrittore...»
«Come uomo, è stato un gran generale!» proclamò soavemente la contessa Giuseppina, sicura del fatto suo.
«Grande! Grande!... Ah! grande! Su questo non c’è dubbio... Forse... un po’... ambiziosetto... Mah... Date a Cesare quel che è di Cesare!...» e avevano sorriso, felici di cavarsela con una citazione così ricca di significato e che veniva tanto a proposito.
L’autore «adatto», per eccellenza, rimase Cicerone. Di Cicerone la contessa, dopo un primo palpito di simpatia e dopo un crescendo di gratitudine, s’era addirittura innamorata. Doveva giusto essere un uomo sulla cinquantina, come Frugoni, un uomo serio, ammodo, di cui ci si poteva pienamente fidare: degno in tutto di casa Brocchi. Senza contare che conosceva il latino come nessun altro, da riuscire di modello a tutti. Sicché probabilmente, chi sa!, Cicerone non aveva neanche bisogno di purga.
Tanto più se anche a lui (dove si vedono le persone di buoni principii!) gli era venuta in mente la stessa idea, di «comporre» un’Etica, come allo zio Agamènnone. E un’Etica... che era, sosteneva il professor Frugoni, come chi dicesse il Vangelo di quei tempi. Il Vangelo degli antichi Romani! di quei Romani che sapevano immerger la destra ne’ rossi bracieri e rompevano a nuoto, come
gnente fosse, i gelidi gorghi del Tevere! E «avevano» davvero, quelli, il culto della famiglia, la religione della patria! E non abbadavano tutti i momenti dietro alle donne, come oggi, dietro alla prima svergognata che passa!
Peccato quella terribile manìa della guerra! dove anche i giovanetti delle migliori famiglie finivano, prima o poi..., che a casa loro... nessuno li rivedeva più. Ma Cicerone non doveva essere un guerrafondaio, come non lo fu il compianto marchese Ponti. La contessa ricordò vagamente che doveva avere un animo forte e mite, incline alla filosofia, alla legalità, e al giusto equilibrio. A dar ordine di strozzare Lentulo e Cetego lo avevano «costretto gli avvenimenti», la necessità di salvare la patria: perché gli avvenimenti, certe volte, sono così bizzarri, da costringere un conservatore legalitario a far strozzare alla chetichella due manigoldi falliti.
Ma egli aveva sempre usato dell’autorità, della energia, dell’ingegno non ad «opprimere i diversi popoli della terra», sibbene a «comporre» delle operette morali, ad amministrare i suoi fondi, a tranquillare, con umanità e sussiego degni di lui, i suoi clienti di provincia, che si rivolgevano tremebondi «al scior avocatt». Aveva sempre «energicamente protestato» contro gli abusi, i cattivi usi e i soprusi: aveva sempre difeso la costituzione contro l’insurrezione, la legge contro l’eslège, il padron di casa contro l’inquilino moroso; il vecchio Campidoglio e la curia canora contro la teppa scatenata dei Gracchi, di Saturnino, di Catilina, di Clodio; e dell’ultimo, che fu il peggio di tutti. Con la penna e con la parola.
Quando – erano le Idi di marzo del 710/44, quella mattina che i tragici nodi della contraddizione romana erano venuti così tragicamente al pettine – quando, mezz’ora dopo, la notizia gli arrivò a casa, recata da due trafelati liberti, fu come una scarica elettrica traverso tutti i suoi nervi legalitari. Il mortificato non si tenne più nella pelle: telegrafò a Basilo un «Tibi gratulor! Mihi gaudeo...» tutto fremente di contentezza, saltò quasi la
colazione, la lettiga galoppò in Campidoglio. Dove gli eroi del giorno si erano asserragliati con le ginocchia tremanti.
In Campidoglio cinguettò nuove e più fervorose congratulazioni: abbracciò tirannicidi a destra e a sinistra, cupi nell’ombra dello sgomento. La capinera delle belle lettere li distrasse, un attimo, dalla angoscia, con le sue gorgheggianti effusioni.
La vecchia Roma era lì, dentro la vecchia fortezza! Da basso, nella «valle» e nella curia subitamente deserta, il cadavere dell’assassinato giaceva solo: abbandonato dai vivi, a cui faceva troppa paura: atroce delle profonde ferite: con segni orridi, sopra il volto, del suo sangue cagliato e per tutta la tunica lacera, macera di scarlatto. Intorno a quel cadavere l’Eternità irreversibile elucubrava il computo delle sue ore: ma sul Tirreno si sarebbero accese le stelle, con la puntualità regolamentare ch’egli aveva loro prescritto.
Germani e Persi potevano tirare il fiato!
Le Idi di marzo recavano a tutti una buona primavera, turgida di tutta l’antica virtù. Trafitto il tiranno, la repubblica stava per ridiventare... una repubblica.
Difatti si ebbe la soddisfazione di sapere che il dì di Calendigiugno la curia avrebbe riaperto i battenti ad alcuni de’ più importanti senatoconsulti della storia della repubblica. Peccato che quella gioia fosse mezzo intossicata da un certo odor di minaccia, come un presagio di poca pace, come se Antonio dicesse: «Amici, a quella seduta sarà forse più igienico, per voi..., girare alla larga.»
Così, dopo che Aprile risfolgorava, tra le None e le Idi fu una débandade generale: partenza anticipata per i bagni. Fu press’a poco in que’ mesi, dalla sua villa di Pozzuoli e poi da quella di Tuscolo, che l’infaticabile araldo del legittimismo oligarchico si protese ulteriormente verso l’immortalità, con il «De Divinatione» e il «De Gloria»: e, insieme, vennero fuori il «De Fato», il «De Senectute», il «De Amicitia». Sulle eleganze della anticipata saison il riverbero malinconioso, la dolcezza
stanca del Golfo, luce meravigliosamente cadente verso un magico oblìo d’ogni sanguinosa necessità, e d’ogni fragore, d’ogni tumulto del mondo. La stanchezza e il disgusto divengono pace euforica e raccolta rinuncia: ma gli anni e i ricordi comandano all’anima che affretti, che affretti il lavoro, se pur voglia consegnare all’Eternità il suo testamento esemplare, pieno di civile moderazione.
Così, d’attorno il «De Officiis» ferveva, in que’ mesi, e trepestava tutto il formicolante cantiere dell’anima. Ma la vita ribolle ancora, inesausta, dentro le pentole dell’indescrivibile arsenale. Così, fra le dialettizzazioni stoicizzanti circa il cathécon téleion e il cathécon méson, cioè, circa l’officio perfetto e l’officio medio (è il tradurre di un cruschevole), fra Poseidonio e Panezio, fra Peripatetici ed Accademici, e nel bel mezzo dell’onesto e dell’utile, della Giustizia e della Temperanza, della Prudenza e della Fortezza, salta fuori tutt’a un tratto una rabbia pazza, da padron di casa con la museruola, contro i decreti-legge del 707, che rimettevano agli inquilini... non i loro peccati, ma i fitti arretrati. Con repentini morsi di vipera il risentimento del moralista-padron di casa azzanna da morto colui, «qui omnia jura divina et humana pervertit».
La stizza dell’aver dovuto condonare quei fitti mescolata con quella del prestito forzoso imposto dal dittatore a tutta la gente per bene, gli fa esclamare che quegli non fu un uomo, ma un mostro, un sadico folle, assetato di voluttà malvagia: «Tanta in eo peccandi libido fuit, ut hoc ipsum eum delectaret, peccare, etiamsi causa non esset».
La cotenna del vecchio provinciale bolle e ribolle, indomabile, dentro il calderone filosofico: e a opera finita ne vien fuori, con quella cótica, oltre che l’infamia de’ macellai e pescivendoli,2 ma un tal minestrone di fagioli stoici, di verze accademiche e di carote peripatetiche,
da leccarsi i baffi tutta la posterità infinita, per tutta la serie innumerabile degli anni, e la vana fuga dei tempi.
Lui, onesta vedova del moralismo fondiario e dell’oligarchia repubblicana, seguita a sculettare ancora ne’ gaudiosi mattini di Pozzuoli, per quanto è tutta lunga la promenade des Anglais: inseguito dalla finta ammirazione di Irzio, di Pansa, di Balbo, e di tutti i grandi uomini della repubblica, che, dalle darsene delle loro ville, nell’anticipata saison del 710, non sanno più che pesci pigliare.
Infaticato, seguita a scrivere, a leggere, a dar consigli: poi si stizzisce: poi fa e poi rifà i conti: poi spera, poi si dispera. Dai clienti di provincia cataste di lettere gratulatorie, a beare la sua scodinzolante vanità. Come tutte le chiacchiere di quei di campagna, avvezzi a non pregiudicar con pronostici il prezzo delle patate e scrutare invece le intenzioni dell’avversario sulla sua faccia piena di bugie, quelle lettere erano perfettamente inconcludenti, fra il sì e il no, il forse e il magari.
Ma l’avvocato-filosofo non badava tanto per il sottile.
E ai suoi librai seguitava a ordinar libri: libri di filosofia. Tempestava di lettere i librai ateniesi, per avere quel Poseidonio, quel Poseidonio! che non arrivava mai! Kant non attese con tanta febbre l’Emile.
In così tempestosi frangenti, Dolabella, il matto scapestrato del suo ex-genero, aveva avuto, meno male!, una ispirazione felice, proprio da uomo ammodo: e faceva rifare il lastrico nel Foro, là dove una turba inferocita di strilloni a digiuno, di facchini disoccupati e di legionari zoppi aveva levato la catasta del dolore e della pietà, e fàttone rogo, da ardere il corpo dell’assassinato come nel cuore stesso della sua gente.
Quel corpo vollero forse averlo sottratto al funerale pomposo che gli era stato decretato dagli uni: e conceduto dagli altri. A rigor di legge, il corpo d’un tiranno doveva finire a fiume: ma allora anche i benefici d’un tiranno avrebbero dovuto revocarsi. Idea, quest’ultima, che non entrò in testa a nessuno. Ché i beneficati non
volevano saperne di mollare un asse: e i nobili spirti avevano una paura folle della paura dei beneficati.
Poco avanti Calendigiugno il discettatore dell’onesto e dell’utile si trasferì a Tuscolo: vale a dire si avvicinò all’Urbe, ai senatoconsulti. Ma i dispiaceri venivan fuori un po’ dappertutto, a piè degli ideali, come funghi velenosi a piè dei larici, dopo un temporalone pazzo coronato di folgori.
Per il passato, gli interminabili battibecchi con Terenzia, rotti soltanto dalle unghiate matronali di lei. Poi i battibecchi s’eran tramutati in scene clamorose, che di tanto in tanto, per di lei mano, gli volavano dalla finestra Panezio e tutti gli stoici, subito seguiti dai peripatetici in plotoni affiancati. Poi le carni della vecchia eran doventate così tigliose e i suoi rimbrotti così perfidamente acidi, e l’ultima rata di quella sua dote stentava talmente ad arrivare!; e il malumore della casa era così generale, fra la fulgidezza degli ideali politici e gli uragani della menopausa, che un po’ gli umori, un po’ le ossa, un po’ i tempi, un po’ tutto avevan finito per sospingere il futuro autore del «De Senectute», così bel bello, verso l’idea ristoratrice del divorzio. Talché la dote di Terenzia era lui, adesso, a doverla pagare a Sallustio, che gli aveva prelevato la megera. E Dolabella, quella perla d’un ex-genero, strepitava ancora per la dote di Tullia, che, dolce e negletta, aveva pianto nel suo silenzio e si era così dolorosamente allontanata! E il «figlio Marco», da Atene, per non esser da meno del cognataccio, bussava a denari pure lui.
Nello studio della filosofia, sotto la guida impareggiabile di Gorgia, il ragazzo aveva fatto progressi mirabili, sbalorditivi: ogni notte regolarmente, alle tre di mattina, li portavano a casa tutt’e due, lui e Gorgia, ubriachi fradici.
Ma i denari! Era un affar serio anche quello! L’avvocato de’ provinciali si grattò la pera sessantaduenne, o per dir meglio il cece: chiamò Eròte, il suo servo-amministratore, specializzatosi nel tenergli in ordine la contabilità:
che venisse subito, che piantasse lì ogni altro mestiere. Ma Eròte, brutalizzato alla sprovveduta, così, da un momento all’altro, in quel groviglio di partite a conto corrente, col riflusso de’ crediti non riscuotibili e l’ingorgo de’ debiti non pagabili, tra il guazzabuglio di Tuscolo e di Pozzuoli, di Formia e di Arpino e di mezza l’Italia, dopo il pasticcio ipotecario, mutuario e fondiario delle doti e delle controdoti delle donne di casa, nel laberinto delle rate scadute e delle altre mezzo maturate, finì proprio che non ci raccapezzò più nulla. E intanto quel qualche migliaietto di sesterzi che la diletta Arpino aveva commesso in prestito al suo illustre figlio e adesso, tutt’a un tratto, gli Arpinati li rivolevano a casa, be’ adesso, neanche quelli non avevano più la forza di tornare indietro, né loro né gli interessi.
D’altronde erano ormai scaduti i bei giorni, quando i mille Renzi d’Italia recavano all’Azzeccagarbugli urbano (più autorevole forse e più coraggioso dell’autentico) il vistoso imbonimento de’ lor grassi capponi.
L’Italia, non più il Ponto, né la Numidia, né le Gallie, né la Britannia ultima, l’Italia! era adesso la mèta delle sitibonde legioni. Tumultuavano in ogni strada dell’impero, già verso Arìmino e già da Brundisio, sulla Flaminia e sull’Appia; la quarta, la settima, la Marzia, l’Alauda.
Il sangue orrido dell’impero rifluiva verso l’orrido cuore.
L’Italia era la mèta delle legioni: che non il cenno più del dittatore le moveva, con l’aperitivo delle promesse o la liberalità delle prede: ma le bazzicavano, migragnose bagasce, gli imbonitori dell’una e dell’altra parte, raddoppiando la posta di qualche centinaio di sesterzi perché i veterani delle Gallie e del Ponto avessero a sostenere la migragnosa legalità dell’uno o dell’altro: dacché l’Italia era la sede della virtù repubblicana di Antonio e di Decimo Bruto, di Ottaviano e di Irzio, di Dolabella e di Pansa.
In simili frangenti, tutti i capponi d’Italia stavano per passare un pessimo quarto d’ora.
La solida e sana rusticità del paese voleva la vecchia repubblica, la tutela delle vecchie leggi, però cum grano salis. Depredata, voleva, come al solito, la giustizia: e piovevano novelle stangate; non voleva la guerra e forniva le reclute, voleva che i veterani fossero contenti, non voleva che Antonio fosse malcontento, e nemmeno Ottaviano; le terre le voleva tenere, il Senato non lo voleva disgustare, i premi ai veterani li voleva pagare, perché se no si mettono a saccheggiare i pollai; e siccome i premi e le pensioni eran terra, così gli umori della Gran Madre eran come le nuvole a marzo.
Un futuro spossessato di Mantova era per piangere i suoi mugolanti vitelli e, fra il canneto tenero e ’l braco, le sinuosità vagabonde del Mincio.
Sed fugit interea, fugit inreparabile tempus.
Nell’impossibilità di sistemare la vita, sia quella privata che quella pubblica, il Padre della Patria pensò che, per tirar le orecchie al figliolo, la miglior cosa sarebbe arrivargli di sorpresa ad Atene. Ma il «figlio Marco» aveva il diavolo dalla sua: e i venti, le furie da libeccio, costrinsero lo Jonio a restituire il Padre della Patria alla patria medesima. Rivomitato sulle spiagge della Calabria, si accorse, per l’undicesima volta, che i tempi volgevano al peggio.
Tornò a Roma: e constatò subito che gli umori di Antonio erano più repubblicani che mai. Le carte del dittatore, di cui Antonio e Dolabella s’erano riservati l’esclusiva proprietà letteraria, non finivano più di venire a galla: finché sul fondamento di quelle carte, di quelle disposizioni e di quel testamento, l’erario fu vuoto. La «lex de permutatione provinciarum» aveva provocato, in Borsa, un panico senza ripresa: i prestatori trovavano che l’assassinato... non avrebbe dovuto essere così barbaramente assassinato.
Le prime filippiche occupano oramai il vecchio procedurista, la di cui inimitabile parlantina risuona ancora nell’emiciclo, a difesa della più santa e della più perduta di tutte le cause.
E il «De Officiis», il compiuto Trattato dei Doveri, si avvia a prendere la sua consistenza definitiva. Il libro di Poseidonio è finalmente arrivato! Panezio era già digerito.
A Pozzuoli, nel novembre, le ultime pennellate, i tocchi della perfezione ultima.
Così nacque la «grande Etica della Latinità». Il figlio Marco, a cui fu amorosamente dedicata, aveva finalmente il suo catechismo: e, certo, ne avrebbe fatto tesoro, non sarebbe più rotolato sotto la tavola.
Gigi, seguendo la madre e l’infervorato professor Frugoni verso la grande sala, considerava noiato che i pantaloni del professore erano senza la piega, stralucidi nelle posizioni... di combattimento, là dove la solerzia della di lui signora avrebbe già potuto preventivare, ad esser solerte fino in fondo, un buon «fondello».
«Sono molto, molto lieta...» concluse la contessa. «Ho sempre pensato anch’io che Cicerone sia il meglio...»
«Per i nostri giovanetti, contessa, è senz’altro il meglio... non si potrebbe immaginare cosa più... adatta..., autore più elevato e, nello stesso tempo, più... divertente...»
«Ne sono felice, professore! Perché creda, professore!» implorò dolcemente, «noi ci teniamo sopra ogni cosa a che il nostro Gigi non abbia... cattivi compagni... e non abbia a leggere... cose cattive! Come tutti questi libri, che oggi sono tanto in voga, e magari anche fra persone come si deve: o come i romanzacci dello Zola e di Nat Pinkerton, vere depravazioni, da quanto mi dicono, perché può ben pensare, professore, se una contessa Brocchi li abbia mai letti...
«Le cattive letture! I cattivi compagni!» (sospirò all’idea del Cellulare), «noi siamo del parere che tutto il male venga di lì, soltanto di lì! Soltanto i cattivi compagni e le cattive conoscenze potrebbero guastare il mio Gigi» (sospirò pensando al pittore, dando per giubilato il guidatore
d’automobili) «soltanto i libri cattivi...; perché in casa, creda professore, in casa nostra... Gigi non può trovare che il bene...»
Difatti le due domestiche della contessa Brocchi erano una più brutta dell’altra: due nasi, due bocche! ma da non averne un’idea. Lo stralùcere demoniaco dei loro occhi, le loro zanne e le loro mascelle permettevano di identificarle, per via, a una distanza da balipedio.
«È così, è così, signora contessa!» tuonò il professore, coi baffi inumiditi dall’entusiasmo. «È proprio così! La pera marcia...» (la gentildonna contrasse le labbra, in un gelo improvviso: quei comestibili! anche le frutta adesso!) «... la pera marcia, che fa diventar marce tutte le altre!»
I bulbi oculari del professore, gonfi di sdegno, scagliarono via, roteando come fionda, la palla di quella rampogna. Le grosse e corte braccia agitaron le mani, che svolazzarono paffute: un frullo di tordi.
La Marietta, passando con un gran vassoio, lo commiserò d’una guardata in tralice, infastidita dal baccano: in concomitanza di proposizioni troppo nobili e troppo virilmente estrinsecate anche degli occhi da gobba e dei denti da cavallo possono raggiungere l’ironia d’uno stile.
«E quelle che diventano marce dopo sono più marce della prima!...»
«Ma la prima, allora, è diventata marcia da sé...» disse Gigi, accorato.
«No!» tuonò il professore. «Non c’è niente che diventi marcio da sé! Il bene rimane bene, in eterno! È il male che fa diventar cattivo anche il bene!... Sì... cioè... appunto!... è il bacillo del marciume... che si propaga... con una rapidità fulminea!»
Il consumato latinista era forse ancor più profondo in batteriologia che nell’esegesi dell’etica ciceroniana.
«... E lei, ragazzo mio!, impàri una buona volta a non lasciarsi abbacinare da tutti questi barbagianni multicolori... quando sventolano la loro vanagloria... e... inalberano... i loro... paroloni moderni... che si risolvono poi
in vento... nient’altro che vento!... Mah!... la gioventù!» finì sospirando.
La contessa allibì. Gigi durò una certa fatica a seguire i barbagianni in quel complicato inalberamento, seguito dal proprio abbacinamento. A buon conto, pensò di scusarsi.
«Ma io...»
«Lo so, lo so! Lei non ha colpa... o, per dir meglio, ne ha solo una parte... Ma quel Penella! quel Penella!» (era il pittore novecentista). E il professor Frugoni si mise una mano nei capelli.
«... Quel Penella? Che è stato?...» chiese la contessa trasalendo, allarmatissima. E le entrarono in folla, nell’anima, il pittore con le sue ciociare, il Vanzaghi e i carabinieri, la Jole e Paolo Mantegazza.
«Quel Penella!... Ma si immagini, signora contessa... Alla presenza di un ragazzo, e di un ragazzo come il suo Gigi!... certe ignominie!... certe volgarità!... ha avuto fra l’altro il coraggio, in mia presenza!» (Frugoni rantolava) «dico in mia presenza, di sostenere che Cicerone, aspetti, come ha detto? ah! che Cicerone è... una gallina piena di idee morali...» Si deterse la fronte, col fazzolettone. Il pranzo si avvicinava, erano arrivati: la voce risuonò stupenda nella cassa armonica della sala, con toni velati di violoncello...
«Un Cicerone!... e davanti a chi lo “insegna” da trent’anni!... e giù citazioni a sproposito... con la faciloneria di questi... novecentisti! Ma, grazie al cielo, io sono nato nel 1880...»
«Bisognerà che il mio Gigi, assolutamente, non si incontri più con questo signor Penella...» disse, inviperita, la contessa, ricordando le anatre di Milano: e indignatissima, poi, della partaccia fatta a un uomo come il Marco Tullio.
«Lo abbiamo incontrato in strada!...» agonizzò Frugoni.
E la povera madre si abbatté nell’angoscia ultima, constatando che per tal modo, tutt’a un tratto, «sulla pubblica
via», poteva «crollare il frutto» di tante fatiche! di tante cure! di quanta amorosa sollecitudine una nobile famiglia ha dedicato, «incessantemente», all’educazione d’un giovanetto. Anno per anno, ora per ora!
Quante volte e con quanta ragione i padri del collegio l’avevano fatta accorta... che la strada... è la scuola della vergogna! che i muri... sono il libro della canaglia!
I muri, veramente, nelle «migliori» città, come sarebbe Milano (patria dei conti Brocchi), i muri, in quanto muri, altro non sono, al postutto, che il concetto dell’architetto tradotto in atto: ora, in una città come Milano, sarebbe proprio da matti il pretendere che gli architetti possano avere dei cervelli cosiffatti, da esser totalmente vuoti di concetti. Ma il guaio è che anche sui muri di Milano si vedon graffite certe parole... certe immagini... che non si vedono, diciamolo pure, neanche a Timbuctù... cioè in pieno Sahara...
«... Nel Sahara, forse, ci sono dei muricciuoli a secco...» osservò acutamente Gigi.
E per le strade di Milano, benché sia Milano, si posson sentire, quando uno meno se lo aspetta..., certe voci... certi modi di dire... che né Pietro Fanfani né Giuseppe Rigutini hanno mai registrato nei loro lessici così scrupolosamente mondi da ogni scoria prava del dire, così santamente purgati au préalable da ogni «peccato d’immaginazione», così «adatti» al focolare domestico.
Fu all’angolo di via Brera con via dei Fiori Chiari che il Penella aveva dato del naso in Gigi, ch’era accompagnato dal Frugoni (loro provenivano però dalla Braidense): e prima di tutto gli aveva sventolato sotto il naso una terza pagina dell’Ambrosiano con un gran titolo: «Volcazio Penella - Secondo premio alla Triennale Milanese». Poi aveva tentato di trascinarli in una tabaccheria, per deglutire un vermouth in onor suo, cioè lo pagava lui, benché fosse nato «a» via della Fojetta, in fronte proprio a Santa Maria dello Sbafo.
Ma la virtù loricata dei due aveva resistito all’assalto della depravazione, sdegnoso e baffuto il Frugoni, nonostante
l’acquolina in bocca. Allora, a quella ripulsa, il romanaccio, dentro di sé, li mandò subito a morì ammazzati tutt’e due: per prima cosa; ma, il professore, ritenne opportuno di insignirlo, mentalmente, anche del titolo di accalappiacani e di stronzo. Poi, come per una rivalsa contro quell’austerità così rinunciataria, e con la elettricità in corpo del secondo premio e con quell’altra che lo aveva sospinto in esplorazione per via dei Fiori Chiari, strappò a Gigi i libri di sotto il braccio e visti il «De Officiis» e un «Amleto», non n’ebbe letti tre versi che principiò a farsi beffe della carta stampata, all’indirizzo prima di Giulio Carcano, poi di Marco Tullio. Come s’è detto. Poi si disfrenò nella gioia, nell’allegrezza e in mille porcherie d’ogni genere; tanto che Gigi, il quale aveva cominciato a sorridere e poi a ridere, a un certo punto Frugoni se lo trascinò invece via per un braccio, sul più bello, fremendo in una sorta di sdegno neoclassico, e di rabbia autentica.
Gigi non poteva dimenticare il brioso chaperonnage lungo le pareti della Triennale, dove quella folla di femmine d’ogni risma s’erano così gratuitamente spalancate davanti la sua acerba curiosità. Il Penella aveva avuto, per ognuna, una pennellata d’allegrezza aperta e virile: come pure per la cavalla vituperata dall’immodestia del centauro. E il tocco rapido e forte di quei commenti aveva funzionato da «pronta medicazione» per la giovane recluta: aveva giocondamente sopito il tumulto repentino delle sensazioni nella pozza dolorosa dell’anima, protetta da San Luigi e circondata da tutto il Bene di casa. Gigi ricordava con gratitudine quel trionfante buon umore.
Quanto al nome, perbacco! Volcazio!?... Nelle presentazioni gli era parso che fosse Ignazio e non Volcazio. Però dove diavolo aveva sentito un nome simile? Al collegio, dai padri? Mai più! E allora? Forse per via, da qualche soldato romano che chiamava un commilitone con quel nome di antico romano. Doveva essere il nome d’un tribuno della plebe, o d’un arùspice, o d’un pontefice:
o anzi no... d’un qualche cosa di etrusco, d’un àugure, d’un lucumone.
Comunque, il premio era vinto. La gran corvatta nerastra svolazzava d’in sul canto dei Fiori Chiari sotto il cappellaccio nero, sotto il faccione rotondo e un poco floscio, dove due occhi di basilisco ironizzavano la severa austerità del corruccio e le pieghe della pappagorgia, come di proconsole disoccupato. Il premio era vinto: ed era un premio meritatissimo.
Dacché le palme il Penella le aveva raggiunte con una lenta ed assidua fatica, con un «provando e riprovando», cioè col cambiar tattica ad ogni primavera, sol vigilato dal silenzio lungo dei giorni, dei lunghissimi anni.
E questa così fidente fatica s’era espressa nel frutto superbo dell’opera; delle «opera omnia», che la Triennale aveva accolto al completo; un’imponente radunata di gambe a tubo di stufa, di che s’eran tutte tappezzate due pareti della sala numero 5.
Ma il lavoro che più «s’era imposto», non tanto al pubblico degli idioti e dei visitatori a vuoto, come a quello degli intenditori, degli acquirenti, dei dentisti, dei critici, era una spettacolosa catastrofe di inspirazione apocalittica, intitolata «L’Uomo e l’Angelo»; dove, dentro una cornice tre e venti per quattro, s’erano accumulati a poco a poco dei nuvoloni tempestosi, saturi di elettricità: tanto che ne sprizzavano già lampi e folgori e una poi, più terribile di tutte, zigzagava gialla giù fino in terra ad incendiare un pagliaio.
Sotto quel po’ po’ di nuvole alcune montagnole cilindriche e tronco-coniche proponevano al pubblico facili problemi di stereometria. Un can barbone bluastro fuggiva a bocca aperta dal pagliaio incendiato. Alcuni cavallucci, caprette e vaccherelle attendevano invece, rassegnati alla grandine, di venir appesi all’albero di natale dei poveri. In secondo piano, fra il cielo e la terra, un arcobaleno semplificato, d’una consistenza come di majonese: ma poi di nuovo, dietro tutti i monti e le terre, lontan lontano, cielo a pecorelle, acqua a catinelle.
Il rumore del tuono non lo si sentiva ancora, parlo del 1929: ma era chiaro che una volta sonorizzato quel quadro avrebbe raggiunto effetti decisamente temporaleschi.
L’Uomo, immalinconito da tanta ira degli avversi elementi, s’era rattrappito in un angolo: non si capiva bene se era seduto o cosa diavolo stava facendo: più che altro aveva l’aria di esaminarsi i piedi; ma allora l’Angelo gli si avventava contro orizzontalmente; senz’ali; ed era questa la novità, sebbene veniva un po’ alla memoria il Padre che conferisce all’Adamo l’afflato della creazione, nel «Giudizio» michelangiolesco.
Pieno di audacia, di vigore e di movimento, quell’angelo finì per accendere i prorompenti lirismi d’alcuni ippopotamici commendatori di Garbagnate, di Tradate, che, dopo colassione, ci videro appunto del movimento, soprattutto del movimento. Ma il guaio era che, nonostante l’educazione ricevuta in un ambiente così distinto com’è, si può ben pensare, il collegio-convitto degli angeli, quell’angelo aveva invece un ciuffo, un naso e un ceffo degni al tutto della più sfrontata e madonnaiola teppa di porta San Frediano: e avendo poi, cosa incredibile, dimenticato il pigiama all’albergo, e siccome non c’erano lì per lì lenzuola in promptu un po’ intelligenti, come accade nell’esilarante Ottocento, lo si riscontrava provvisto, benché angelo, di così umani titoli, che le signorine del Lyceum eran costrette a... divagare: e noi uomini non si poteva a meno di riflettere che già, certo, anche agli angeli, qualche onesto svago, dopo tutto... specie alla loro età... e poi... e poi... le necessità di propagazione della specie angelica... E poi, insomma, il Novecento ha o non ha i suoi diritti? Ceda l’Ottocento al Novecento! «Non vorrete mica alle volte, vorarii minga di volt...» tuonava un tarchiato commendatore mecenatoide sogguardando la gran tela di traverso, allontanandosi, socchiudendo gli occhi, facendosi canocchiale della mano, poi riaccostandosi: «Vorarii minga di volt... che un Penella vi faccia un angelo con le ali
di pollo, come ce n’è sulla tomba dei conti Brocchi al Monumentale... ch’el ve sbrotta giò on angel cont i aal de polaster... Ma femm el piesè!... Ma fatemi un po’ il piacere!»: e faceva, indignato, una gran giravolta su d’un tallone solo, frugandosi con le mani dentro le tasche quel meglio che ci teneva; eppur generoso nell’impeto della polemica, largo di vedute, apoplettico. Il battagliero industriale sentiva oramai il Novecento angelico in pelle in pelle, come un ritorno di primavera.
III
Partita la mamma, Gigi deliberò di liquidare i suoi classici, per aver libero il pomeriggio, da dedicarlo al match. Con Cicerone era già arrivato al capo trentacinquesimo: poi, meno male, l’«Amleto».
Cominciò straccamente a rovistare nella catasta de’ malandati libri, per estrarne il bigino del «De Officiis», chissà dove diavolo s’era ficcato! in fondo, evidentemente, perché guai se glielo avesse pescato fuori Frugoni: ah! eccolo. Dei Doveri – Libri Tre – Traduzione di Giuseppe Rigutini – Milano – Trevisini, 1885. Aprì, lì vicino, anche il testo: e cominciò ad abbeverarsi. Voltata in lingua toscana, l’Etica, al capo trentacinquesimo, libro primo, diceva così: «La verecondia poi dell’uomo imitò questo così diligente artificio della natura, poiché quelle parti ch’ella celò, tutti coloro che non han perduto il senno le tolgono all’altrui sguardo e cercano di soddisfare il più occultamente che possono ad alcuni bisogni: né chiamano mai col loro proprio nome quelle parti che servono ad essi, né le loro funzioni...»
Gigi pensò subito all’angelo del Penella: e alla studentessa di belle arti che, due dì prima, in piazza della Scala, s’era denudata davanti il Vinci, inveendo contro di lui e contro il suo quartetto per questioni di pennello.
Finché, trafelata di scrupoli ciceroniani, era arrivata al galoppo l’autolettiga della Croce Verde.
«... Per contrario,» sosteneva più avanti il rigutinizzato moralista, «la copula coniugale, che è cosa in sé onesta, la diciamo disonesta nel vocabolo proprio...» E più avanti:
«I comici poi, per antica disciplina del teatro, rispettano così la verecondia che nessuno viene sulla scena senza le mutandine (ut in scaenam sine subligàculo prodeat nemo), per timore che, se certe parti della persona per qualche caso si mostrino al guardo degli spettatori...»
Gigi trasalì, turbato dalle perfide insinuazioni dell’analogia.
Gian Carlo, una volta, magnificandogli il suo viaggio a Parigi e le luci notturne del Montparnasse, gli aveva lasciato travedere certi battaglioni di girls che quando arrivano sul palcoscenico, al Casino de Paris, il subligàculum, se appena possono, se lo dimenticano volentieri nel camerino... E gli spettatori, invece di protestare, è proprio allora invece che aguzzano il «guardo» e inghiottono più di saliva: (ammesso che siano dei provinciali).
E sono spettatori di tutte le età! Anche di quindici anni, come anche di settantaquattro. Ed egli ne aveva diciannove. Diciannove, diciannove!... Gli pareva che avrebbe pianto, se gli influssi della tecnica novecentista non avessero inaridito sospiri e singhiozzi, disseccando le ghiandole dello spleen.
«Signorino! La zia Maddalena lo desidera al telefono,» avvertì la Luigia.
Era il discorsetto del genetliaco: un’omelìa sibilante dove le dentali, rimesse a nuovo, parevano preannunciare dei morsi, affettuosissimi. Ma subito dopo cominciò a piagnucolare qualche cosa di tragico...
«Una buccia di limone?...» chiese Gigi, contenendosi.
«No, d’arancio, d’arancio... Buttarla così per le scale!... Una infamia!... Sono scivolata per sette gradini, fino in fondo... È stato un momento terribile, Gigi mio! Per poco la tua povera zia Maddalena non finiva un’altra
volta al padiglione Zonda!... Capirai!... Con la mia disgrazia...» E così a pranzo non ci poteva venire: per tutta la settimana non poteva muoversi, neanche pensarlo! Il dottore stesso glielo aveva proibito... No, niente di grave per fortuna, così almeno speravano... Ma ce n’era un’altra, sicuro... Purtroppo le disgrazie non vengono mai sole, a questo mondo... Anche lo zio Agamènnone.
«Lo zio Agamènnone?» insisté Gigi.
Già, anche lo zio... Mah! Appena levatosi, ecco che s’era dovuto rimettere a letto: aveva già telefonato al dottore... Però non dovevano allarmarsi. Colpa di quei benedetti zoccoli.
«Che cosa hai detto? di quei benedetti?...» chiese Gigi.
«... Dei broccoli, dicevo. Broccoli! broccoli... Sì, broccoli..., come Brescia; pare che ieri sera abbia voluto, a tutti i costi, mangiare dei broccoli, roba così pesante, Dio mio, specialmente di sera!» Insomma lo zio Agamènnone non poteva muoversi neanche lui: era disperato del contrattempo. L’aveva fatta pregare di avvisarli subito, non si sentiva di scrivere e non voleva mandare persone di servizio, da allarmarli inutilmente.
La incaricava di salutar Gigi, di fargli tanti, tanti auguri... No... aveva bisogno di riposo... un po’ di riposo e tutto sarebbe passato... Il libro era pronto. Lo mandava più tardi, dopo colazione, verso le due, con le notizie del medico. Se Gigi poteva aspettarle... così poi avrebbe tranquillato la mamma...
«Sicché tanti, tanti auguri, Gigi mio! Salutami la tua mammina e dàlle un bacio per me! E sii sempre quel bravo ragazzo che sei stato finora...»
Gigi riappese il microfono.
«Sicché signorino,» gli fece la cuoca riaffacciatasi alla porta dell’andito, «... se non vengono né il signor conte, né la signora Maddalena, è inutile che prepari per sei. Le polpette per le zie le ho già pronte.» (Era già informata di tutto.)
«Faccia come crede,» disse Gigi.
«Perché allora potrei uscire anch’io un paio d’ore,
quest’oggi, che ho qui mia sorella e mio cognato, che sono qui di passaggio, che la signora contessa anzi me lo ha quasi consigliato anche lei...»
«Faccia come crede.»
«Perché così, poi, passerò anche dal signor conte, a vedere, alle volte, se avesse bisogno di qualche cosa... Siccome Domenico sarà fuori, m’immagino... tanto più, adesso mi ricordo, che deve portar qui... quei libri... non è vero?... e la Caterina l’ho incontrata stamane, avesse visto signorino!, con una faccia gonfia così... scherzi della primavera!
«La Jole, poi, mi scusi sa, signorino, se una volta tanto gli parlo chiaro, ma oggi, che è domenica, non c’è più nessuno che la tiene!» levò le spalle; «... San Giorgio! Con questo sole! Con quest’aria!...»
«Faccia come crede,» ripeté Gigi seccato.
«La colazione, allora, glie la preparo un po’ più presto, m’ha detto?»
«Sì!» troncò Gigi, tornandosene allo studiolo.
Sul tavolino, fuori dalla tremenda catasta degli altri, il libro di Cicerone, quello del Rigutini, quello del Carcano. Giulio Carcano, milanese, è il nobilissimo autore delle «Novelle Campagnole», un’amena raccolta preceduta dal discorso «Della letteratura rusticana in Italia»; ma aveva tentato con successo anche il romanzo, e l’«Angiola Maria» era anzi uno dei più bei libri che la contessa Giuseppina avesse mai letto; si era poi reso benemerito degli scambi culturali italo-inglesi con la traduzione integrale del teatro shakespeariano, che gli riuscì, con indefessa tenacia di lombardo, a voltarlo tutto nella lingua del Rigutini, in endecasillabi.
E Gigi, dopo il «Giulio Cesare», leggeva l’«Amleto, principe di Danimarca».
Ma su quel Carcano le girls di Gian Carlo vi si torcevano sopra, in una figurazione ossessiva della voluttà. Gigi si abbatté, torturato. Il ragazzo demonio gli aveva disegnato nell’anima quelle sapienti cosce: e le cosce, manovrando l’Impercettibile su d’un ritmo di jazz, esaltavano
l’ossessione fino allo spasimo. L’implacabile analisi di Gian Carlo aveva crudelmente violato ogni più ciceroniano elemento del dessous: gli elastici, le diafane sete: aveva indugiato sui merletti, si era esercitata con i bottoncini più ascosi, «i favoriti del destino!».
Le immagini, ossessione, delirio, si accumulavano sulla lastra dell’anima e si dissolvevano l’una nell’altra, come fotografie prese l’una sull’altra, quando ci si dimentica di girare il film.
Gigi levò dallo Shakespeare un pezzo di giornale, febbrilmente, come a trangugiare una sorsata di aceto che attenuasse, medicandola, quella sete crudele: lo dispiegò, rilesse quello che aveva già letto una diecina di volte:
«Come abbiamo narrato nell’edizione pomeridiana di ieri, le pronte indagini esperite dalla polizia investigativa in seguito a circostanziata denuncia degli interessati, hanno permesso al commissario-capo cavalier Lo Chieffo di riconoscere esatta l’identità dell’elegante zerbinotto che, domenica scorsa 17 corrente, aveva invitato a una gita in auto la signorina Dolores Ceccheroni, dimorante col padre e con cinque fratelli in via Lazzaro Spallanzani numero 22. Dalle disposte investigazioni risultò che, giunto in aperta campagna e in località completamente deserta, il giovane, accampando un momentaneo guasto al magnete e usando di altre abili lusinghe, aveva indotto la signorina a seguirlo in una anfrattuosità del terreno, dove finalmente pervenne a raggiungere la mèta che si era prefisso. Senonché un salutare ravvedimento, tosto succeduto allo stordimento di quel momento fatale, non tardò a ricondurre la Ceccheroni alle realtà della vita quotidiana. Per cui, una volta rientrata in seno alla famiglia, dopo lunghe ore di angosciosa alternativa, confessò piangendo al padre e ai fratelli come, abilmente circuita dallo zerbinotto, e ridotta in uno stato di vera e propria incoscienza, fosse stata poi indotta alla colpa, senza più capire quello che si facesse.
«Chieste invano al giovane e ai di lui genitori le riparazioni
del caso, i Ceccheroni non esitarono a sporger denunzia, come detto. Il cavalier Lo Chieffo, riscontrati nel fatto gli estremi di corruzione di minore e di oltraggio al pudore pubblico, decise di procedere al fermo del denunciato, fermo che ieri stesso è stato tramutato in arresto. Il giovane è stato inviato al Cellulare.»
Quel che Gigi non si spiegava erano i commenti della basse cour. «Cose che accadono ai figli delle migliori famiglie! Quando i padri non vogliono mollare qualche biglietto da mille! A favore di certe ragazze minorenni! Inesperte! Che son use cadere in istato d’incoscienza! in aperta campagna! E sono, per giunta, sorelle di cinque fratelli!» Quanto all’abate Spallanzani, gli pareva, se ben ricordava, che fosse lui, proprio lui!... quel bel porco che aveva scoperto che la voluttà delle rane dura una quindicina di minuti (primi)...
Così almeno gli aveva assicurato Gian Carlo, sfogliando il libro di storia naturale.
Quanto alle lusinghe, di cui parlava la notizia, che lusinghe erano? Gigi ardeva dalla curiosità. Ed è proprio necessario, per ottenere i baci dell’amata, di simulare un guasto al magnete? Forse era stata quella l’unica lusinga di Gian Carlo. Gian Carlo era un ragazzo alto, asciutto, senza parole, incapace quasi di sorridere. La verità era che le ragazze erano loro che gli correvano dietro: lo andavano a cercare fino a casa, che stavano lì delle ore a passeggiare su e giù davanti il portone: lo bersagliavano di telefonate, di biglietti color viola, color majonese. Con una scrittura a grandi aste acute, quasi a figurare la disperata risolutezza con cui avrebbero sciolto le vele, con l’amor loro a bordo, l’indomani all’alba, oggi stesso, fra due ore, quale che fosse la minaccia del mare: altre, invece, con una zampa di gallina e delle pozzanghere ortografiche dove conducevano a naufragare le stelle che, com’è noto, lucéan. «Ma a me che m’importa della scrittura?» gli aveva detto Gian Carlo. «Non è la scrittura quella che conta...» Eppure tutte le vere signorine si preoccupano di scriver bene l’italiano
e quelle di Gressoney sapevano anche acquarellare dei pascoli, con delle mucche riprodotte alla perfezione. Il lieto riso della vita lo distrasse, un attimo.
Ma a lui nessuna gli aveva mai scritto: eppure quante lo avevano guardato, anche lui!: con uno sguardo come di meraviglia e di gioia, o di ardente curiosità. Ma tutte le volte che lo guardavano loro, lo guardava anche la mamma, severa: e quegli occhi materni, che valicavano le spalliere delle seggiole, poi le spalle armoniose delle benefattrici, e, implacabili, lo raggiungevano ne’ più remoti «a parte» degli arzigogolati salotti, quegli occhi, allora, gli divenivano insopportabili.
Sentiva allora, davanti a sé, come un ostacolo magico: l’impeto della volontà gli pareva infrangersi contro l’impossibile e rifluirne in un tormento cupo, così come s’abbattono i marosi contro la vecchia muraglia del molo e ricadono, informi, nel mare, dopo aver vanamente tentato di essere forma. E la vita sarebbe sempre stata così? Con il «De Officiis» sul tavolino e, ne’ salotti benefici, le occhiate della mamma? Fin che un musico con tre denti avrebbe eseguito, anche per lui, la marcia di Mendelssohn sull’organo di San Fedele: ed egli, nel buio puntuato di lumini, sarebbe proceduto lentamente, in frak, un po’ pallido, con al braccio una delle tre signorine di Gressoney? Quel qualche pelo barbatello si sarebbe però potuto, la sera prima, farlo sparire.
«Signorino, la colazione è servita!»
La voce della Luigia gli richiamò alla coscienza la faccia della Luigia: eppure non tutte le serve e le cuoche erano come la Luigia, o come la Marietta. Ricordò d’aver attraversato i Giardini, una volta, e che a godere il povero sole di Milano c’era una famigliola modesta, di meridionali: avevano la loro servetta, meridionale anche lei; il loro pupo bello, con riccioli d’oro, minacciava in quel momento un terrificante Mississipì: e, con gli strilli, aveva intimidito due pellicani, che si erano prudentemente ritirati, volgendosi di tanto in tanto a guardare, nella tema d’un inseguimento. Così la servetta era
rimasta sola alle prese con il tiranno, nel momento più critico: e il tiranno (che lei, furibondo, lo aveva preso in braccio) non ebbe pietà. La povera mussolina della camicetta pareva una maglia da bagno: a Gigi gli si rimescolò il sangue, perché, sotto quel bagno della camicetta, la natura aveva lavorato, più potente di un novecentista. La «finalità naturale» aveva predisposto i suoi «mezzi»: e quei mezzi, sotto la povertà celeste della roba, si vedeva che erano degni del fine. Gli occhi nerissimi di lei, un attimo! si erano fissati nel suo cuore.
E quello che avevano tutti, tutti!, ogni più modesto figlio dell’umanità, ogni più povera serva, e, fra il canneto tenero e ’l braco, tutte le ranocchie dello Spallanzani... lui, col pretesto che i suoi antenati erano dei Brocchi e che lo zio aveva sempre letto la Perseveranza..., lui forse doveva allontanarsi così, verso la marcia di Mendelssohn, con qualche brava ragazza, di quelle che piacevan tanto a sua madre...
«Ma, signorino! guardi che si fredda!» gridò ancora la Luigia, disperata.
Per cui dopo ingollata, come descritto, la sua razione ciceroniana dei doveri: cioè circa i doveri: ovverosia intorno ai doveri; Gigi andò a deglutire quell’altra, che la Luigia gli aveva cotto per mezzodì. E si predispose, anche, a ricevere il soccorso terzo ed ultimo che la società degli umani (così gli parve) avrebbe recato alla sua solitudine: cioè l’Etica dello zio Agamènnone.
Il risotto era eccellente.
La humana societas gli sembrò tutta una grossa e grassa bestia, la qual mugliasse epifonemi frugonici ai pupi, con tono solenne d’autorità, nel momento, proprio, che maggio metteva cinque gambe ai somari. Una bestia infinitamente più scema della Luigia, perché la Luigia, alla sua fame, gli recava risotto e bistecche, e gli uomini invece, per quell’altra disperazione, gli servivano un piatto di Cicerone rigutinizzato.
E, sópravi, l’uovo fritto dello zio.
E, come contorno, la definizione del bene e del male.
Secondo la quale, tutto andava a posto: perché il bene doveva vincere il male: e avrebbe inaridito nel rigore delle vigilie i virgulti rossi della concupiscenza.
Cicerone era il classico, lo zio era il neoclassico. E tutt’e due, dopo «matura riflessione», finivano, in pieno accordo, per conchiudere: che quando dobbiam «soddisfare ad alcuni bisogni» è consigliabile che facciam questo «il più occultamente possibile», se no arrivano i pompieri o l’autolettiga della Croce Verde.
La crema era eccellente:
«Le è piaciuta, signorino?» disse la Luigia nello sparecchiare. «Allora, se lei crede, escirò anch’io... un momento. Antonio tornerà per pranzo.»
La Luigia e la Marietta s’incipriavano con commovente moderazione.
Così, dopo il tocco, la Virtù era uscita di casa al completo, con il decoro e il sussiego, e il parasole, richieduti dalla circostanza che era domenica. Aleggiando tutte le inesprimibili penne del Buon Esempio, della Forza di Volontà, della civile Modestia, e della Rinuncia al Mondo e alle sue Pompe. Alcuni innocenti peli barbatelli illeggiadrivano le mascelle della Virtù, che invece le risfolgoravano gli occhi d’una luce demonica, la qual gelava il sangue nelle vene de’ più inciprigniti velocipedastri, de’ più trasandati cavaturaccioli: allo stralùcere di quelli occhi tutti i taxi rallentavano.
Gigi, solo in casa, attendeva, in gloria de’ suoi diciannove anni, l’avvento della «Educazione razionale della gioventù secondo i concetti etici moderni», che lo zio gli aveva fatto promettere per le due: e che d’ogni male, quella, lo avrebbe guarito. Perché allora sarebbe subito volato a cercar Paolo e insieme sarebbero volati a San Siro: l’Ambrosiana, stavolta, era in forma.
Intanto custodiva l’austerità comitale della casa, ma sentiva, per quegli anditi e vicino a quella macchina da cucire, che l’aver nelle vene diciannove anni è un male senza speranza.
La primavera profondeva margherite e narcisi là dove
i poeti sogliono così opportunamente metterli a dimora: e scagliava marito e moglie le rondini dalle vecchie torri nelle fluenti gimcane dell’azzurro, ma gli aveva lasciato sul tavolino il libro del Carcano: nel mentre Momo, il gatto metafisico che la Luigia si era dimenticata di far castrare, era scappato dal balcone lungo il cornicione, acrobata della buona ventura, a lenire nell’ambiguità del probabile il suo male pieno di speranza.
Sul tavolino il «De Officiis», e l’«Amleto, principe di Danimarca»: Giulio Carcano lo aveva discretamente pettinato.
La primavera indomenicata aveva già tutti popolati i Giardini, di soldati veneti e di serve amorose. La servetta de’ meridionali, con un mazzolino di prìmule sulla sua camicetta povera e splendida, avrebbe avuto, rapido lampo!, un sorriso, per la gioia dello sgrammaticato artigliere. Poi avrebbe chinato il viso, ed egli, quasi tremando, le avrebbe regalato un anello d’oro falso.
E a quell’ora le femmine de’ novecentisti scendevano dai loro sgabelli icosaedrici, fuggivano ignude verso il fremito dell’Uragano, a saziarsi de’ loro maschi, degni di loro. Il Penella, si poteva star certi, metteva allegramente la sua tecnica al servizio delle mutandine d’una qualche sinforosa, che lo implorava di lasciarla: ma prima che l’implorazione avesse effetto, il subligàculum aveva avuto modo di rivelare la sua indole, squisitamente retorica.
Gigi riprese il Carcano. La sapienza di Polonio trionfava nei superbi endecasillabi del traduttore. La lunga barba del vegliardo dondolava fra il «toh!» e il «guà!» e i suoi occhi spurgavano, insieme con la meraviglia, una specie di ambra, come la gromma del susino. La meraviglia inseguiva lo scandalo, e lo scandalo galoppava dietro alla vita. Poiché, se il sole genera vermi in un cane morto, avrebbe anche potuto, quando il vecchio non ci stava attento, far concepire sua figlia.
«Let her not walk i’ the sun! – Non permettetele di passeggiare al sole!»
Questa così strana battuta del principe, Cicerone non
l’aveva prevista: ma il principe di Danimarca, secondo l’opinione de’ critici, era impazzito: e neanche Giulio Carcano era più riuscito a pettinarlo. «Let her not walk i’ the sun! Let her not walk i’ the sun!»
Il campanello squillò e il contino in persona, data l’assenza del «personale», si fece ad aprire. Uno stile perfetto era ne’ suoi passi e negli atti, una leggiera pelurie gli adombrava il labbro superiore: in latino aveva sei: in italiano cinque: in matematica tre, sebbene talora, per esser giusti, anche quattro. La grazia del volto era l’espressione più bella di quanto possa, la eloquenza de’ padri e de’ maestri, a plasmare una tenera anima di fanciullo. Quel fanciullo però, tutt’a un tratto, nonostante tutte le cure, aveva compiuto diciannove anni.
Pensò che arrivavano Domenico, e l’Etica: e, con l’Etica, la libertà: sicché la febbre, che aveva nel sangue, egli poteva chiamarla oramai con il nome onesto di «impazienza» (di vedere la partita della Ambrosiana). Era un modo di nominar le cose perfettamente coerente con l’educazione ricevuta.
Ma, quando aprì, non era Domenico. Una ragazza gli stava davanti, magnifica di letizia e di meraviglia, se anche verniciata d’un rispetto compunto, e agghindata d’imparaticci.
«Mi manda il signor conte a consegnare questi libri...» disse, salutando col capo: e continuando con gli occhi, a guardare: «... e a dirgli che stiano tranquilli...»
«Venga avanti!» disse Gigi, col tono di un vero nipote di quel conte.
«... perché il dottore non ha trovato niente di grave...» e raccolse un suo ricciolo, fissando sommessamente il nipotino del padrone.
L’odore della ragazza, combinato, teoricamente, con sola acqua di Colonia e un poco di cipria, aveva vinto di colpo quello così augusto de’ vecchi tappeti e della cera de’ pavimenti: e s’era diffuso come un atroce sberleffo
sotto il naso de’ quattro antenati gialli, venerabili nella penombra dell’andito: dove, appesi ai muri, due da sinistra e due da destra, li rodeva, ciascheduno, il suo tarlo.
Ella vestiva un bell’abitino domenicale, chiaro come i sogni della primavera: ma la dolce veste era adagiata sopra due seni così franchi nello spazio, che sembravano un cipperimerli vivente a tutte le Etiche dell’Uman Genere: a tutti i doveri, a tutti i regolamenti, alle ammonizioni, ai castighi: al Cellulare stesso, dove Gian Carlo, spasimando dai ricordi, si rodeva le unghie. Ma la Jole non era la sorella di cinque fratelli: e, quando la porta fu richiusa, si spiegò meglio:
«... Il signor conte è a letto, ma è un’indisposizione leggiera...» (non volle dire dei broccoli, né dell’olio di ricino) «... desidera riposare; come gli ha detto anche il medico, appena l’ha visitato; c’è però in casa la Caterina, per quanto, anche lei, non si senta molto bene... con tutte queste correnti e questi... cambiamenti... di caldo e di freddo...
«M’ha incaricato di portar qui questi libri e questo biglietto per la signora contessa... perché oggi Domenico è andato a casa sua...»
La parlantina s’era disciolta (il dovere di adempiere agli incarichi) sgattaiolando fra i paracarri del cerimoniale.
«Ah!» fece Gigi, come dicesse: «Ora capisco»; e prese, con gesto lento, i libri e il biglietto. Atroci speranze gli scompigliarono l’elenco atroce dei doveri.
«Saranno i libri dello zio...»: e volle aprire il pacco.
«Credo di sì, signorino... M’ha detto anche di farle tanti, tanti auguri...» disse la ragazza, sorridente, «... sebbene... io... avevo soggezione!...» e arrossì davvero. Quello che Gigi non si spiegava, deposti i due libri, era come la ragazza non avesse vergogna, a rimaner lì sola con lui: ma ella, certo, non poteva immaginare che tutti gli altri fossero via.
«Allora, signorino, se non ha altro...»
Vi fu una pausa; come un risucchio dell’evento, durante
il quale la spuma labile della speranza sembrò dissolversi dentro l’oscurità, e l’impeto de’ flutti risospinto verso l’oceano, ululante risacca.
Gigi aprì un cassettino, come cercasse qualcosa, una matita, nell’orgasmo d’un urgente obbligo; disse: «Aspetti un momento!»: andò di là, piantando lì la Jole stupefatta, tornò con un tagliacarte, le ripeté «aspetti un momento!», riprese uno de’ libri, «si sieda!... volevo vedere una cosa, qui nel libro...» Ma la Jole non sedette. Sorrideva, intuendo, ammirava, presa da meravigliosa trepidazione.
Gigi non poté vedere quel sorriso, tagliava la pagina in una sorta d’automatismo, mentre la sciocca enfasi della dedica gli era passata traverso la testa come il volo d’un pipistrello traverso l’ombra.
Una sola idea gli sembrò valida, nel filosofante mondo: trattenere la Jole! «... Educare,» tralesse, «significa elevare le giovani menti nell’esercizio della virtù, pur concedendo al corpo le ore necessarie per il riposo e per i ginnici esercizi...» Ardeva in ogni vena, tremava quasi. Vide quanto vani gli riuscivano, contro il rotolare del mondo, tutti i turaccioli de’ doveri. Oh!... Se la Jole se ne andava... «... Tant’è vero che anche nell’antica Roma, nella grande e virtuosissima Roma...» Disfrenate speranze gli martellavano dentro le tempie rosse e nel cuore... «... che dominò il mondo con l’eroismo delle sue gesta...», la Jole c’era ancora, ancora, «... valeva l’adagio, o proverbio che dir si voglia, mens sana in corpore sano».
La Jole aveva chinato il viso, dolcemente, perché l’attesa, certo, era un dovere; dato che il contino era il nipotino del conte. Nella fragranza, il suo seno pareva fremere di immobilità. Gigi pensava, cercava, tremando: «... Laonde, ripeto, noi prenderemo le mosse dalla gran madre Roma. E divideremo l’Educazione in intellettuale, morale, fisica...» L’educazione, così divisa e squartata dallo zio Agamènnone, non doveva più portargli via nulla... E la mamma? La mamma! Questo pensiero, improvvisamente,
lo sgomentò. Ma la mamma era a Brugnasco!
Ritornò di là, lasciò il tagliacarte, lasciò il libro, il biglietto l’aveva dimenticato in anticamera. Ritornò in anticamera, senza il coraggio di guardar la Jole, come quando li occhi della mamma, fermi e grigi, gli erano addosso. Ma, poi, quel che più lo atterriva fu il non saper bene, il dover temere, il non aver mai potuto, mai mai, neppur tentare; il conoscere soltanto per sentito dire, da un dovere all’altro, da qualche «cattivo compagno». E anche adesso il tentare era già una colpa, alla colpa sarebbe seguito il castigo... il Cellulare forse?... Ma la Jole non aveva cinque fratelli... Ma la legge tutela tutte le ragazze, anche quelle senza fratelli... E il Cellulare è uguale per tutti!...
Forse, egli era un degenerato... Un Brocchi affetto da «depravazione...».
Lo specchio, pieno di malinconiche ombre, gli rimandò la luce del suo viso: era, gli parve, il viso d’un bel ragazzo: se non fosse stata quella pelurie...
«Oh! misericordia della vita!» pensò, mentre la Jole, ridente, lo guardava camminare disperato, come se cercasse invano l’indicatore de’ telefoni: «Tanti mali e vergogne, in un mondo che fosse un mondo! forse, ad esprimerli, una formula sola sarebbe bastata: “Brocchi Luigi, di anni diciannove.”»
«Conte?» «Sì, conte: anzi contino.» E gli parve vedere se stesso, nel mondo delle luci giuste e de’ veri pensieri, implorare dalla misericordia di Dio un perdono preventivo, per poter essere, finalmente, un uomo.
La ragazza, indugiava, sorridente.
«... Ma la signora contessa?...» arrischiò, guardando verso la porta dell’andito, come se l’alta e nera figura di lei potesse apparirvi, immobile.
«... La mamma è in campagna, oggi...» disse Gigi, rinfrancato, fissandola...
«... In portineria non c’era nessuno...» soggiunse la Jole, quasi a giustificare la sua ignoranza. Ma soltanto
più tardi Gigi si rese conto della profondità di quella osservazione.
E la vita di lei ebbe un fremito, come di gioia e di devota potenza.
«... Io l’ho visto tante volte, signorino... in via Marco Polo...»
Gigi non disse nulla; solo, un attimo, i suoi labbri si atteggiarono alla parola, ma vi rinunciò: pareva tremare: arrossì: la ragazza lo trovò meraviglioso.
«... Quante volte l’ho visto!... anche in via Vettor Pisani!... L’ho visto... anzi l’ho guardato... E cerco sempre di venir io ad aprire, quando lei viene dallo zio... dal signor conte... ma Domenico ha l’ordine di aprire lui...
«Io, allora, è in istrada... che ho cercato di rivederlo... di incontrarlo, apposta... Faccio apposta tutto il giro, da via Flavio Gioia, via Amerigo Vespucci, via Cristoforo Colombo...
«... Ma lei...» conchiuse con un tono tragico, «non si cura di me, non può curarsi di me!... È giusto...»
«... Perché?...» disse Gigi arrossendo anche più: «Sono un uomo anch’io...» E la verità, finalmente! parlò con le parole della verità.
«Lei... Lei... è un ragazzo, signorino!» disse, lievemente beffarda, la bella, «... ma un ragazzo magnifico... Non ci crede?...»
«Non so... non me ne sono mai accorto... ma lei, certo, è molto più graziosa di me...»
La straordinaria novità novecentesca di queste parole non impedì ai due giovani di accostarsi, guardandosi, fino al contatto. I seni della Jole opposero come una violenta promessa al torace quadro di Gigi. Allora ogni materno veto fu vano. Il braccio di lui, passatole disperatamente dietro le reni, arcuò la potente figura: le olezzanti braccia della dolce donna si levarono, le mani si congiunsero dietro il collo del signorino.
Non esiste, purtroppo, nella trattatistica dei doveri, una nomenclatura sufficientemente analitica per il catalogo di siffatte irregolarità: ma i nuovi dispiaceri, che
la Jole doveva finir per dare ai Brocchi, non si limitarono a così poco. Il dispiacere definitivo viene ora.
Ardenti baci si impressero sulla bocca del giovane e le dita della ragazza, come due pettini demoniaci, gli si insinuarono nel folto de’ capelli, fugandone ogni più casto pensiero, stringendo, stringendo quel capo. I seni di lei si offrivano alla stretta virile come cose meravigliosamente reali, nel mondo di buoni consigli.
«... Signorino, no, no...» diceva, «... qui no, non possiamo...»
Gigi, tenendola con il braccio sinistro, chiuse ruvidamente la porta a chiave. Tenendola sempre, la trascinò, come una dolce preda, dove l’amore potesse essere più pieno e vero.
[1931-1952]