giovedì 30 luglio 2020

IL VIRUS CHE RENDE FOLLI Bernard Henry Levy

IL VIRUS CHE RENDE FOLLI
Bernard Henry Levy
Prologo
 Anch’io sono rimasto raggelato. Ma ciò che mi ha raggelato di più non è stata la pandemia. Perché questo tipo di disgrazie esistono da sempre. L’influenza spagnola, con i suoi cinquanta milioni di morti, un secolo fa ha fatto più vittime di quanto sicuramente non farà il Covid. Per limitarmi ai nostri tempi, quelli che sono abbastanza vecchio da ricordare, dopo il maggio 1968 abbiamo vissuto la famosa influenza di Hong Kong in cui un milione di uomini è morto con labbra cianotiche, per emorragia polmonare o soffocamento (in realtà, non è stata poi così “famosa”, come ho potuto verificare quando all’inizio della crisi le ho dedicato un articolo e ho scoperto che era stata quasi completamente dimenticata!). Dieci anni prima, anch’essa scomparsa dalla memoria collettiva, c’era stata l’influenza asiatica che, sempre dalla Cina, era passata attraverso l’Iran, l’Italia, l’est della Francia, l’America e aveva causato due milioni di morti (di cui 100.000 negli Stati Uniti e probabilmente altrettanti in Francia, in ospedali poco attrezzati dove i cadaveri, secondo i testimoni, si ammassavano nei reparti di terapia intensiva senza che si potesse trasferirli altrove). No, la cosa più sorprendente è il modo molto strano in cui abbiamo reagito questa volta. Ed è l’epidemia, non solo di Covid, ma di paura che ha attanagliato il mondo. Abbiamo visto temperamenti audaci improvvisamente paralizzati. Abbiamo sentito intellettuali, che avevano visto altre guerre, riprendere la retorica del nemico invisibile, dei combattenti di prima e seconda linea, della guerra sanitaria totale. Abbiamo visto Parigi svuotarsi, come nel diario dell’Occupazione di Ernst Jünger. Abbiamo visto le città di tutto il mondo diventare città fantasma con i loro viali muti come sentieri di campagna, dove i giorni, come diceva Victor Hugo, erano come le notti. Nei video che mi sono stati inviati da Kiev e Milano, da New York e Madrid, ma anche da Lagos, Erbil o Qamishli, ho visto rari passanti frettolosi, che sembravano essere lì solo per ricordarci l’esistenza della specie umana, ma che cambiavano marciapiede, con gli occhi bassi, quando compariva un altro essere umano. Abbiamo visto tutti, da un capo all’altro del pianeta, nei paesi più poveri così come nelle grandi metropoli, popoli interi tremare e farsi trascinare nelle proprie abitazioni, a volte a colpi di manganello, come animali selvatici nelle loro tane. I manifestanti di Hong Kong sono scomparsi, come per magia. I Peshmerga, quei guerrieri curdi il cui nome significa che sanno sfidare la morte, si sono rifugiati nelle loro trincee. I sauditi e gli huthi, che stavano conducendo una guerra interminabile nello Yemen, all’annuncio dei primi casi hanno raggiunto un cessate il fuoco. Hezbollah si è autoisolato. Hamas, che al tempo denunciava otto casi, ha dichiarato di avere un solo obiettivo di guerra, ottenere ventilatori da Israele: “Ventilatori! ventilatori! il nostro regno per dei ventilatori! se è necessario verremo (a prenderceli con la forza) e toglieremo l’aria a sei milioni di israeliani.” L’ISIS ha dichiarato l’Europa zona a rischio per i suoi combattenti, che sono andati a soffiarsi il naso in kleenex all’eucalipto in fondo a qualche grotta siriana o irachena. Panama, alla scoperta di un caso sospetto, ha confinato nella giungla millesettecento disperati in cammino verso il confine con gli Stati Uniti. La Nigeria, dove qualche settimana prima avevo fatto un reportage sui massacri di villaggi cristiani da parte dei jihadisti fulani, contava, a metà aprile 2020, secondo l’AFP, dodici morti per il virus, ma diciotto persone uccise dalle forze di sicurezza per non aver rispettato le misure di lockdown. Il Bangladesh, dove mi trovavo per un reportage poche ore prima che la Francia chiudesse le frontiere, presentava tutta una serie di calamità: la gente moriva di dengue, colera, peste, rabbia, febbre gialla e virus sconosciuti; ma non appena sono stati rilevati alcuni casi di Covid, anch’esso, come un sol uomo, si è rinchiuso nell’isolamento. È in realtà l’intero pianeta, paesi ricchi e poveri in egual misura, quelli che potevano resistere e quelli che potevano crollare, a precipitare in questa idea di una pandemia senza precedenti, sul punto di sterminare il genere umano. E allora? Cosa può essere successo? Viralità, non solo del virus, ma dei discorsi sul virus? Cecità collettiva come nel romanzo di José Saramago, dove una misteriosa epidemia di cecità colpisce un’intera città? Vittoria dei collassologi che da sempre predicano la fine del mondo, la sentono adesso avvicinarsi e ci danno un’ultima chance di quaresima e di reset? Vittoria dei saggi del mondo che vedono in questo grande confinement – termine con cui è stato reso nella traduzione inglese il “grande internamento” teorizzato da Michel Foucault nei testi in cui descriveva i sistemi di potere del futuro – la prova generale di un nuovo tipo di fermo e di arresto domiciliare dei corpi? Una Grande Paura, come quella del 1789, con la sua quota di fake news, complotti, fughe disperate e poi, un giorno, rivolte radicali? O il contrario? Il segno, rassicurante, che il mondo è cambiato, che finalmente sacralizza la vita e che tra questa e l’economia, sceglie la vita? O, ancora il contrario: una follia collettiva, aggravata dai media e dai social network che ci martellano, giorno dopo giorno, coi numeri dei pazienti in rianimazione, dei moribondi e dei morti, portandoci in un universo parallelo dove non esistono più altre informazioni, rendendoci letteralmente folli: non è così, in fondo, che funziona una tortura cinese? Non è forse vero che il suono della goccia d’acqua, ripetuto più e più volte, diventa un drago minaccioso? Come reagiremmo se i responsabili della sicurezza stradale mettessero degli altoparlanti giganti a ogni chilometro, che trasmettono continuamente gli incidenti mortali del giorno? Avevo a disposizione, sempre prezioso, il mio Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de la Boétie. Avevo a disposizione, per cercare di ragionare su questa straordinaria sottomissione mondiale a un evento che, ripeto, è tragico ma non senza precedenti, i miei ricordi di René Girard e la sua ipotesi di un desiderio mimetico che è anche un virus e che, come ogni virus, scatena pandemie. C’era anche Jacques Lacan, che sosteneva che di fronte all’emergere di un “punto di realtà”, di qualcosa di reale che colpisce e da cui si viene colpiti, che genera un buco nella conoscenza e di cui non si ha a disposizione nemmeno un’immagine (e non è forse il caso di qualsiasi nuovo virus?), l’umanità ha la scelta tra negazione e delirio, nevrosi e psicosi: Trump che pesta i piedi perché bisogna “liberare il Michigan” o i governanti, spaventati dalla minaccia, brandita da collettivi di avvocati, di una “Norimberga del Coronavirus”, che giudicano più prudente mettere il mondo in stato di fermo. Era troppo presto per pronunciarsi. Anche ora, mentre scrivo queste pagine e mentre si comincia a “uscire dall’isolamento”, è troppo presto per decifrare non solo il codice del virus, ma anche il codice della paura che ha causato. E avendo anche io i miei morti, che non ho finito di piangere, non ho il coraggio della buona risata brechtiana che forse, un giorno, ci ispirerà l’enorme messa in scena a distanza che il richiamo al distanziamento sociale avrà offerto ai nostri occhi attoniti. È tempo, però, di raccontare gli effetti di tutto questo sulle nostre società e sulle nostre menti. È il momento di dire quel che ha cominciato ad accadere, in ciò che ci unisce nella parte più oscura e profonda di noi stessi. E se è vero che, come amava dire, non senza ironia, il grande medico tedesco di fine Ottocento, padre dell’anatomia patologica, Rudolf Virchow, “un’epidemia è un fenomeno sociale che ha alcuni aspetti medici”, questo è il momento di fare i conti con essa e cercare di descrivere alcuni aspetti non medici di questa storia. Alcuni sono felici. Abbiamo vissuto veri momenti di civismo e di aiuto reciproco. L’immagine di Andrea Bocelli che canta da solo per Pasqua nel duomo di Milano o quella di Fedez e Chiara Ferragni che organizzano una raccolta di fondi on line per gli ospedali rimarrà indelebile. E non saremo mai abbastanza felici del fatto che finalmente ci si sia accorti non solo dell’esistenza, ma dell’estrema dignità di un intero popolo di umiliati (personale sanitario, cassieri, contadini, trasportatori, spazzini, fattorini...) che sono venute alla luce. Ma altri aspetti sono spiacevoli. Sono state dette parole, si sono prese delle abitudini, sono riemersi riflessi che mi hanno spaventato. Dei principi che mi erano cari, e che erano i migliori delle nostre società occidentali, sono stati attaccati dal virus, e dal virus del virus, nello stesso momento in cui la gente moriva. E dal momento che anche le idee muoiono, poiché sono fatte della stessa materia degli uomini, ed è possibile che, con il regredire dell’epidemia, rimangano sulla riva, come meduse morte, scomparse senza lasciare traccia perché erano, come noi, quasi interamente fatte d’acqua, è di queste idee che voglio qui prendere le difese. Prima paura mondiale (nel senso in cui si parla di prima guerra mondiale): bilancio provvisorio. E siccome abbiamo il tempo contato, ecco un bilancio non statistico, e per questo meno facile (non è così che funziona la legge dello stupore? che più lo shock è forte, più è alterata la capacità di pensarci?), dei colpi inferti durante questa strana crisi alle nostre metafisiche intime: non è troppo tardi per combattere questa battaglia, ma questa volta la responsabilità e il rischio non spettano ai medici e ai politici.