mercoledì 5 agosto 2020

OBLOMOV Ivan Gončarov

OBLOMOV
Ivan Gončarov

                                                        Parte prima

I

Una mattina Il’ja Il’ič Oblomov se ne stava a letto nell’appartamento che occupava in uno di quei casermoni di via Gorochovaja i cui inquilini sarebbero bastati a popolare un intero capoluogo di distretto.

Il’ja Il’ič era un uomo di circa trentadue-trentatré anni, di statura media, gradevole d’aspetto, con occhi grigio scuro; ma i tratti del volto rivelavano un’assoluta incapacità di determinazione e di concentrazione. Il pensiero volubile trascorreva senza guida sul suo viso, gli svolazzava negli occhi, si arenava fra le labbra semiaperte, si nascondeva fra i solchi della fronte, poi si dileguava di botto, e allora il volto restava rischiarato solo del vago lucore dell’indolenza. Dalla faccia, l’indolenza si propagava a tutto l’atteggiamento del corpo, addirittura alle pieghe della vestaglia.

Di quando in quando, un’espressione che si sarebbe detta di stanchezza o di noia gli offuscava lo sguardo; ma la stanchezza o la noia non potevano scacciare nemmeno per un momento la mitezza, che era la caratteristica essenziale e dominante non solo del volto, ma di tutta l’anima; e l’anima risplendeva aperta e chiara negli occhi, nel sorriso, in ogni movimento della testa o della mano. Un osservatore distaccato e superficiale, dopo una rapida occhiata a Oblomov, avrebbe potuto dire: «Deve essere un tipo semplice e di buona pasta!». Ma un osservatore più acuto e partecipe, che lo avesse osservato a lungo, si sarebbe forse allontanato sorridendo, immerso in gradevoli meditazioni.

Il colorito di Il’ja Il’ič non era né roseo, né olivastro, né decisamente pallido, ma smorto; o forse così sembrava perché Oblomov era troppo floscio, per l’età che aveva, a causa della mancanza di moto o di aria, o probabilmente di entrambi. Nell’insieme il suo corpo, a giudicare dal colore scialbo e troppo bianco del collo, delle mani piccole e paffute, delle spalle cascanti, appariva eeccessivamente femmineo.

Anche i suoi movimenti, perfino quando era inquieto, venivano frenati dalla fiacchezza e dalla pigrizia, non priva, nel suo genere, di una certa grazia. Se la nube nera di una preoccupazione saliva dall’anima ad addensarsi sul viso, lo sguardo si offuscava, la fronte si corrugava, e dubbio, afflizione e timore iniziavano il loro girotondo; ma raramente questa inquietudine si coagulava in un’idea precisa, e ancor più raramente si trasformava in un proposito concreto. Tutta l’inquietudine si risolveva in un sospiro e si estingueva nell’apatia o nella sonnolenza.

Come armonizzava l’abito da casa con i tratti sereni del volto di Oblomov e con la mollezza del suo corpo! Indossava una vestaglia di stoffa persiana, una autentica gabbana all’orientale, senza nulla di europeo, senza nappe, senza velluto, senza vita, tanto ampia che Oblomov ci si poteva avvolgere dentro due volte. Le maniche, secondo l’immutabile moda asiatica, andavano allargandosi dalle dita alle spalle. Malgrado avesse perduto l’originale freschezza, e la prima, naturale lucentezza fosse stata soppiantata qua e là da un lustro d’altro genere, determinato dall’uso, la gabbana conservava pur sempre la vivacità dei colori orientali e la solidità del tessuto.

Agli occhi di Oblomov, quella gabbana aveva un mucchio di pregi inestimabili: era morbida, adattabile; non te la sentivi addosso; e si sottometteva al più piccolo movimento del corpo come un docile schiavo.

Oblomov girava sempre per casa senza cravatta e senza panciotto, perché gli piacevano la libertà e la comodità. Le sue pantofole erano lunghe, morbide e larghe: cosicché i piedi, quando egli scendeva dal letto senza nemmeno guardare dove li mettesse, andavano immediatamente a infilarvisi dentro.

Per Il’ja Il’ič la posizione orizzontale non era una necessità, come per un malato o per chi desideri dormire, né un fatto accidentale provocato dalla stanchezza, né un piacere da individuo pigro: era il suo stato normale. Quando era a casa - ed era quasi sempre a casa - se ne stava sempre coricato, e sempre nella stessa camera dove lo abbiamo trovato, che gli serviva da stanza da letto, da studio e da salotto. Aveva altre tre camere, ma ci entrava di rado, magari al mattino, e anche questo non tutti i giorni, ma solo quando gli rassettavano lo studio, il che non capitava spesso. In quelle stanze i mobili erano coperti con le fodere e le tende abbassate.

A prima vista, la camera in cui Il’ja Il’ič se ne stava sdraiato sembrava molto ben arredata. C’erano uno scrittoio di mogano, due divani ricoperti di seta, bei paraventi su cui erano ricamati uccelli e fiori mai visti in natura. E c’erano tendaggi di seta, tappeti, alcuni quadri, bronzi, porcellane e un’infinità di graziosi ninnoli.

Ma l’occhio esercitato di una persona di buon gusto avrebbe scorto in quell’insieme nulla più che il desiderio di mantenere alla meno peggio il decorum imposto dalle convenienze, pur di levarsi il pensiero. Senza dubbio, solo questa era stata la cura di Oblomov al momento di arredare lo studio. Un padrone di casa dal gusto raffinato non si sarebbe contentato di quelle sedie di mogano pesanti e sgraziate, di quegli scaffali traballanti. Lo schienale di un divano aveva ceduto, e il legno si era scollato in parecchi punti.

Quadri, vasi e ninnoli erano nelle identiche condizioni.

Lo stesso padrone, peraltro, guardava l’arredamento del suo studio con occhio freddo e indifferente, come a chiedersi: «Chi ha trascinato e ammucchiato qui tutta questa roba?». Forse perché Oblomov considerava i suoi beni con tanto distacco, e forse perché il suo servitore Zachar li considerava con un distacco ancor maggiore, l’aspetto dello studio, a guardarlo con più attenzione, colpiva per il disordine e la trascuratezza.

Ragnatele cariche di polvere pendevano a guisa di festoni dalle pareti, vicino ai quadri; gli specchi erano tanto polverosi che, invece di riflettere gli oggetti, avrebbero potuto servire come tavolette su cui annotare le cose da non dimenticare. I tappeti erano pieni di macchie. Sul divano era abbandonato un asciugamano; al mattino era un caso raro non trovare sul tavolo, non sparecchiato la sera prima, il piatto, la saliera, un osso rosicchiato e briciole di pane un po’ dovunque.

Se non fosse stato per questo piatto e per la pipa ancora calda posata sul letto, e per lo stesso padrone che stava dentro il letto, si sarebbe potuto pensare che in quella casa non vivesse nessuno, tanto le cose erano polverose, scolorite e non lasciavano intuire una sola traccia di presenza umana. E vero che sugli scaffali c’erano due o tre libri aperti e un giornale spiegazzato e che sullo scrittoio c’era il calamaio con le penne; ma le pagine a cui i libri erano aperti erano velate di polvere e ingiallite: prova evidente, che i volumi erano stati buttati lì da un pezzo; il giornale era dell’anno prima e, se si fosse intinta la penna nel calamaio, forse ne sarebbe uscita solo una mosca ronzante di paura.

Il’ja Il’ič si era svegliato molto presto, contro le sue abitudini: verso le otto. Una preoccupazione lo affliggeva. Sul suo viso si alternavano paura, malinconia e stizza. Era visibilmente in preda a una lotta interiore, e l’intelletto non lo soccorreva.

Il giorno prima, Oblomov aveva ricevuto dallo starosta del suo villaggio una lettera dal contenuto sgradevole. Sono note le cose sgradevoli che può scrivere uno starosta: cattivo raccolto, arretrati da pagare, introiti ridotti e via dicendo. È vero che l’anno precedente e quello prima ancora Oblomov aveva ricevuto dallo starosta lettere identiche, ma quest’ultima lo aveva colpito in maniera profonda, come accade sempre per una spiacevole sorpresa.

Era forse una faccenda da prendere alla leggera? Doveva pensare al più presto ai provvedimenti da adottare. Riguardo alla sollecitudine di Il’ja Il’ič per i propri affari bisogna poi rendergli il dovuto. Già alcuni anni avanti, quando aveva ricevuto la prima lettera spiacevole dello starosta, aveva cominciato a pensare a un piano di trasformazioni e miglioramenti vari per riordinare l’amministrazione della sua proprietà.

Il piano prevedeva l’introduzione di nuove misure economiche, di polizia e di altro genere. Ma il piano era ancora ben lungi dall’essere perfezionato, e le lettere spiacevoli dello starosta si ripetevano ogni anno, lo spronavano ad agire e, per conseguenza, gli turbavano la pace. Oblomov si rendeva conto che, prima ancora di aver messo a punto il piano, avrebbe dovuto intraprendere qualcosa di decisivo.

Appena sveglio, si era riproposto subito di alzarsi, di lavarsi e bevuto il tè, di mettersi a pensare con impegno, di scovare qualcosa, prendere appunti, in sostanza di occuparsi della faccenda come si conveniva.

Rimase a letto un’altra mezz’ora, macerato da questi propositi, ma poi rifletté che avrebbe avuto ancora tempo dopo il tè e che il tè avrebbe potuto prenderlo a letto, come al solito, tanto più che niente impedisce di pensare anche stando sdraiati.

Così fece. Dopo il tè si tirò su e poco mancò che non si alzasse: guardando le pantofole, cominciò perfino a far scivolare una gamba giù dal letto, ma subito la ritirò.

Suonarono le nove e mezza. Il’ja Il’ič trasalì.

«Ma, insomma, cosa sto facendo, davvero!?», disse stizzito ad alta voce. «Un po’ di coscienza: è ora di mettersi al lavoro! Basta volere, e...».

«Zachar!», gridò.

Nella stanza separata dallo studio di Il’ja Il’ič solo da un piccolo corridoio si udì dapprima come un ringhio di cane da guardia, poi il tonfo di piedi che atterravano dall’alto. Era Zachar, che era saltato giù dalla panchetta sporgente dalla stufa, sulla quale di solito passava il tempo sonnecchiando.

Nello studio entrò un vecchio che indossava una specie di finanziera grigia, con uno strappo sotto l’ascella, dal quale faceva capolino un pezzo di camicia; anche il panciotto era grigio, con bottoni di rame; l’uomo aveva il cranio nudo come un ginocchio e un paio di enormi scopettoni, folti, rossi e brizzolati, ognuno dei quali sarebbe bastato per tre barbe.

Zachar, come non faceva nulla per modificare l’aspetto esteriore datogli da Dio, così non si curava di mutare l’abito che usava in campagna: un vestito che si era fatto confezionare su un modello portato dal paese. La finanziera e il panciotto grigi gli piacevano anche perché quella specie di semiuniforme gli ricordava vagamente la livrea che indossava nel tempo lontano in cui accompagnava i defunti padroni in chiesa o per visite; e la livrea, nei suoi ricordi, era l’unica cosa che rappresentasse la dignità di casa Oblomov.

Ormai, niente altro gli ricordava la vita signorile, agiata e tranquilla trascorsa in quello sperduto villaggio. I vecchi padroni erano morti, i ritratti di famiglia erano rimasti nella casa e certo erano andati a finire in qualche angolo della soffitta: le storie riguardanti il tempo andato e l’importanza della famiglia morivano, o vivevano solo nel ricordo dei pochi vecchi del villaggio che ancora erano rimasti. Per questo la finanziera grigia era cara a Zachar, che in essa vedeva ancora i pallidi segni della passata grandezza: come li vedeva in qualche tratto conservatosi nel viso e nei modi del padrone, i quali ricordavano i genitori, e nei capricci contro i quali il vecchio brontolava dentro di sé ad alta voce, ma che al tempo stesso rispettava in cuor suo come manifestazione della volontà e del diritto del padrone.

Senza quei capricci, si sarebbe sentito come senza padrone; senza di essi, nulla gli avrebbe rammentato la sua giovinezza, il villaggio che avevano lasciato tanto tempo addietro, e le storie dell’antica dimora, le uniche cronache conosciute da vecchi servitori, balie e governanti che le tramandavano di generazione in generazione.

Un tempo la famiglia Oblomov era stata ricca e nota nella regione, ma poi, Dio sa perché, era diventata sempre più povera, era decaduta e da ultimo, a poco a poco, aveva finito per confondersi con le casate di nobiltà recente. Solo i servitori con i capelli ormai bianchi conservavano e si tramandavano l’un l’altro il ricordo fedele del passato, che avevano caro come una reliquia.

Ecco perché Zachar era tanto affezionato alla finanziera grigia. Forse teneva anche agli scopettoni perché nella sua infanzia aveva visto molti vecchi servitori con questo antico e aristocratico ornamento.

Il’ja Il’ič, sprofondato nei suoi pensieri, per un pezzo non si accorse di Zachar che, dopo essersene rimasto fermo davanti a lui in silenzio, alla fine tossicchiò.

«Che vuoi?», chiese Il’ja Il’ič.

«Ma se mi avete chiamato!».

«Chiamato? Perché ti ho chiamato... non ricordo!», fece Il’ja Il’ič, stiracchiandosi. «Vattene di là, finché non mi verrà in mente».

Zachar se ne andò, e Il’ja Il’ič rimase a letto a pensare a quella dannata lettera.

Passò circa un quarto d’ora.

«Su, basta stare a letto!», disse Il’ja Il’ič, «bisogna proprio alzarsi... Ma dopo tutto sarà meglio che rilegga ancora una volta con attenzione la lettera dello starosta, e poi mi alzerò davvero. Zachar!».

Di nuovo il tonfo e un ringhio più forte. Zachar entrò, ma Oblomov era di nuovo immerso nelle sue meditazioni. Zachar rimase lì fermo un paio di minuti, guardando il padrone di traverso con occhio malevolo, e alla fine si avviò verso la porta.

«Ma dove vai?», chiese all’improvviso Oblomov.

«Voi non parlate, e allora perché devo star qui per niente?», disse Zachar con voce arrochita, per via che l’altra voce, a suo dire, egli l’aveva perduta a una partita di caccia con i cani cui aveva preso parte col vecchio padrone, allorché un forte vento gli aveva soffiato in gola.

Si fermò semivoltolato in mezzo alla stanza e guardò in tralice Oblomov.

«Ti si sono forse paralizzate le gambe, che non ce la fai a stare un momento in piedi? Vedi bene che ho delle preoccupazioni... dunque, aspetta! Non sei stato sdraiato abbastanza? Trovami la lettera dello starosta che è arrivata ieri. Dove l’hai cacciata?».

«Che lettera? Io non ho visto nessuna lettera», disse Zachar.

«Ma se l’hai presa tu dal postino: quella tutta sporca».

«Chissà dove l’avete messa... e dovrei saperlo io?», disse Zachar, cercando a tastoni fra le carte e le altre cose che stavano sul tavolo.

«Tu non sai mai niente. Guarda là, nel cestino! E se fosse caduta dietro il divano? Ecco, intanto lo schienale del divano non è stato riparato: cosa aspetti a chiamare il falegname perché l’accomodi? E sì che l’hai rotto tu. Non pensi mai a niente!».

«Io non ho rotto niente», rispose Zachar, «si è rotto da sé; non può mica durare in eterno; deve pure rompersi prima o poi...».

Il’ja Il’ič ritenne superfluo dimostrargli il contrario.

«Allora, l’hai trovata?», si limitò a chiedere.

«Qua ci sono delle lettere».

«Non è fra quelle».

«Be’ qui non ce ne sono altre», disse Zachar.

«E va bene, vattene!», disse con impazienza Il’ja Il’ič. «Adesso mi alzo e me la trovo da solo».

Zachar tornò alla stufa, ma aveva appena appoggiato le mani alla panchetta per saltarci su, che di nuovo il grido pressante si fece sentire: «Zachar! Zachar!».

«Oh, Dio!», bofonchiò Zachar avviandosi per la terza volta verso lo studio. Che strazio! Arrivasse presto la morte!».

«Che volete?», chiese appoggiandosi con una mano alla porta e lanciando a Oblomov uno sguardo malevolo e così obliquo che gli permetteva di vedere il padrone solo con mezzo occhio, mentre il padrone scorgeva di lui solo un enorme scopettone, dal quale ci si poteva aspettare di veder volare via due o tre uccellini.

«Il fazzoletto, presto! Lo potresti capire da te: non vedi?», lo redarguì severo Il’ja Il’ič.

Zachar non mostrò né particolare malcontento né meraviglia per l’ordine e il rimprovero del padrone, perché probabilmente secondo lui l’uno e l’altro erano affatto naturali.

«E chi lo sa dov’è il fazzoletto?», borbottò, vagando per la stanza e palpando ogni sedia, anche se non ci voleva molto a vedere che sulle sedie non c’era niente.

«Vi perdete tutto!», commentò aprendo la porta del salotto per vedere se a volte fosse là.

«Dove vai? Cerca qui! è dall’altro ieri che non vado là dentro. E spicciati!», disse Il’ja Il’ič.

«Dov’è il fazzoletto? Non ci sono fazzoletti», disse Zachar allargando le braccia e facendo girare lo sguardo in tutti gli angoli. «Eccolo lì!», gracidò all’improvviso, irritato. «Ci state sopra voi! Ne vedo un pizzo che spunta. Ci sta sopra, e vuole il fazzoletto!».

E, senza aspettare risposta, Zachar fece per andarsene. Oblomov, un po’ imbarazzato per la gaffe commessa, trovò subito un altro appiglio per prendersela con Zachar.

«Guarda se questo è il modo di fare le pulizie! Polvere e sporcizia dappertutto, Dio mio! Ma guarda, guarda un po’ negli angoli... non fai mai niente!».

«Proprio, non faccio niente...», cominciò a dire Zachar con tono risentito, faccio del mio meglio, non mi risparmio! E levo la polvere, e spazzo quasi tutti i giorni...».

Indicò il centro della stanza e il tavolo su cui Oblomov aveva cenato.

«Ma guardate», disse, «è tutto spazzato, rassettato, come per un matrimonio... Che altro volete?».

«E questo cos’è?», lo interruppe Il’ja Il’ič, indicando le pareti e il soffitto. «E questo? e questo?», gli mostrò l’asciugamano buttato lì dal giorno prima, e il piatto dimenticato sulla tavola con un pezzo di pane.

«Be’, questo magari lo porto via», disse Zachar con degnazione prendendo il piatto.

«Fosse solo questo! E la polvere sulle pareti, e le ragnatele?...», disse Oblomov indicando le pareti.

«Quello è un lavoro che faccio per la Settimana Santa, quando pulisco le icone e tolgo le ragnatele...».

«E libri e quadri li spolveri?».

«Libri e quadri prima di Natale: allora con Anis’ja ripasseremo tutti gli armadi. Ma adesso quando posso fare ordine? Voi state sempre in casa».

«Qualche volta vado a teatro, e a far visite: ecco quando...»

«Sai che razza di pulizia farei di notte!».

Oblomov lo guardò con aria di rimprovero, scosse il capo e sospirò; Zachar gettò un’occhiata indifferente alla finestra e sospirò anche lui. Il padrone sembrava pensare: «Eh, fratello, tu forse sei ancora più Oblomov di me», e Zachar per poco non pensò: «Fesserie! Tu sei bravo solo a dire paroloni e a lamentarti, ma della polvere e delle ragnatele non te ne importa proprio niente».

«Ma non capisci», disse Il’ja Il’ič, «che la polvere porta le tarme? A volte mi capita di vedere perfino delle cimici sulle pareti!».

«Io ho anche le pulci!», rispose indifferente Zachar.

«E ti pare bello? è ripugnante!», rimarcò Oblomov.

Sul volto di Zachar comparve un sogghigno che raggiunse le sopracciglia e gli scopettoni; questi ultimi, per conseguenza, furono respinti ai lati, mentre per tutto il volto fino alla fronte andava allargandosi una macchia rossa.

«Ma che colpa ne ho io se al mondo ci sono le cimici?», chiese con stupito candore. «Le ho forse inventate io?».

«Dipende dalla sporcizia», lo interruppe Oblomov. «Quando la smetterai di dire stupidaggini!?».

«E neanche la sporcizia l’ho inventata io».

«In camera tua, di notte, passeggiano i topi: li sento».

«E neanche i topi ho inventato io. Di quelle creature, topi, gatti, cimici, ce n’è tante dappertutto».

«Come mai nelle case degli altri non ci sono né tarme né cimici? ».

La faccia di Zachar espresse l’incredulità o, per dir meglio, la tranquilla sicurezza che ciò non poteva essere.

«In camera mia c’è molto di tutto», disse testardo, «non si può correr dietro a ogni cimice, andarle a tirar fuori dalle fessure».

E forse in cuor suo pensava: «E come si farebbe a dormire senza cimici?».

«Tu spazza, leva il sudiciume dagli angoli, e non ci sarà più niente», lo ammonì Oblomov.

«Tu lo levi, e il giorno dopo si ammucchia di nuovo», disse Zachar.

«Non si ammucchia», lo interruppe il padrone, «non deve ammucchiarsi».

«Si ammucchia, lo so», replicò il testardo il servo.

«E se si ammucchia, tu spazzi di nuovo».

«Cosa? Ogni giorno scopare in tutti gli angoli?», esclamò Zachar. «Ma che razza di vita sarebbe? Meglio render l’anima a Dio!».

«Come mai dagli altri è pulito?», obiettò Oblomov. «Guarda la casa dell’accordatore dirimpetto: è un piacere vederla, e c’è solo una serva».

«Ma son dei tedeschi, e da dove la prenderebbero la sporcizia!?», ribatté pronto Zachar. «Guardata un po’ come vivono! Tutta la famiglia campa una intera settimana rosicchiando un osso. La finanziera passa dalle spalle del padre a quelle del figlio, e poi di nuovo dal figlio al padre. Moglie e figlie hanno dei vestitini corti e striminziti; tengono sempre le gambe piegate come le oche... Dove la prendono la sporcizia? Da loro non è come da noi, che si lasciano per anni negli armadi mucchi di abiti logori, e si accumulano montagne di croste di pane durante l’inverno... Da loro non va perduta nemmeno una crosta: le fanno biscottate per quando bevono la birra!».

Zachar sputava addirittura fra i denti, parlando di un modo di vivere così sordido.

«Con le chiacchiere non si risolve niente», lo redarguì Il’ja Il’ič. «Faresti meglio a pulire».

«Qualche volta pulirei, ma siete voi che me lo impedite», disse Zachar.

«Siamo alle solite! Sono sempre io che impiccio, vero?».

«Sicuro, proprio voi; state sempre in casa: come si fa a pulire davanti a voi? Uscite per una giornata, e io pulisco».

«Ma guarda che idea... uscire! È meglio che te ne torni di là».

«Dico davvero!», insisté Zachar. «Ecco, se voi oggi usciste, io e Anis’ja metteremmo a posto ogni cosa. Ma in due non ce la faremo nemmeno: bisognerà prendere anche delle donne, lavare tutto».

«Ma che ti sei messo in testa... delle donne! Vattene», disse Il’ja Il’ič.

Si era già pentito di aver tirato in ballo l’argomento con Zachar. Dimenticava sempre che gli bastava sfiorare quel tasto delicato per procurarsi un mucchio di noie.

A Oblomov sarebbe anche piaciuto che tutto fosse pulito, però avrebbe desiderato che ciò accadesse come per incanto, senza che lui se ne accorgesse; ma Zachar, non appena gli si chiedeva di togliere la polvere o di lavare il pavimento o cose del genere, si metteva sempre a discutere, e cercava di dimostrare la necessità di mettere a soqquadro la casa, sapendo benissimo che questo solo pensiero avrebbe sprofondato il padrone nell’angoscia.

Uscito Zachar, Oblomov si immerse di nuove nelle sue meditazioni. Dopo qualche minuto, rintoccò un’altra mezz’ora.

«Ma come?», disse Il’ja Il’ič quasi con terrore. «Fra poco saranno le undici e io ancora non mi sono alzato, non mi sono lavato? Zachar, Zachar!».

«Oh, Dio! Ancora!», si sentì dal corridoio, e poi il solito tonfo.

«È tutto pronto per lavarmi?», domandò Oblomov.

«È pronto da un pezzo», rispose Zachar. «Perché non vi alzate?».

«Perché non l’hai detto che era pronto? Mi sarei alzato prima. Va’, ti seguo subito. Ho da fare, devo scrivere».

Zachar se ne andò, ma dopo un momento tornò con un quadernetto scarabocchiato e bisunto e con dei pezzi di carta. «Ecco, giacché scrivete, controllate un po’ i conti: sono da pagare».

«Che conti? Pagare cosa?», chiese di malumore Il’ja Il’ič...

«Il macellaio, l’erbivendolo, la lavandaia, il panettiere: vogliono tutti i soldi».

«Pensano solo ai soldi!», borbottò Il’ja Il’ič. «E tu, perché non mi dai i conti un po’ alla volta, invece di presentarmeli tutti insieme?».

«Ma se voi non fate che cacciarmi via: domani, domani...».

«Be’, anche stavolta non si può rimandare a domani?».

«No! Mi stanno sempre addosso: non danno più niente a credito. Oggi è il primo del mese».

«Ah!», esclamò con tristezza Oblomov. «Un’altra preoccupazione! Be’, che ci fai lì impalato? Mettili sul tavolo. Adesso mi alzo, mi lavo e li guardo», disse Il’ja Il’ič. «è tutto pronto per lavarmi?».

«Pronto!», disse Zachar.

«Dunque, adesso...».

Cominciò a sollevarsi sul letto, stronfiando, per alzarsi.

«Ho dimenticato di dirvi», riprese Zachar, «che poco fa, mentre ancora dormivate, l’amministratore ha mandato il portinaio: dice che dobbiamo assolutamente sloggiare... gli serve l’appartamento».

«Be’, e con questo? Se gli serve, è certo che sloggeremo. Perché continui a seccarmi? È già la terza volta che me ne parli».

«Seccano anche me».

«Dì che sloggeremo».

«Dicono che già da un mese, l’avete promesso, dicono, ma continuate a non sloggiare; noi, dicono, informeremo la polizia».

«E che la informino!», disse reciso Oblomov. «Ce ne andremo da noi, appena farà un po’ più caldo, fra tre settimane».

«Ma quali tre settimane! L’amministratore dice che fra due settimane verranno gli operai: butteranno giù tutto... “Dovete sloggiare”, ha detto, “domani o dopodomani”».

«Ehi, ehi! quanta fretta! Ci manca anche questo! E perché non subito? E tu non osare più di venirmi a ricordare l’appartamento. Te l’ho già proibito una volta; ma tu insisti. Sta attento!».

«E che devo fare?», chiese Zachar di rimando.

«Che devi fare?... ecco come crede di cavarsela, lui!», fece Il’ja Il’ič. «Lo domanda a me! Che c’entro io? Non importunarmi, sistema le cose come ti pare, basta che non si debba sloggiare. Non ci si può sforzare di far qualche cosa per il proprio padrone!?».

«Ma come posso sistemare le cose, signore?», gracchiò debolmente Zachar. «La casa non è mia: come si fa a non sloggiare dalla casa di altri, se ti caccian fuori? Se fosse casa mia, con grandissimo piacere...».

«Ma non c’è un modo qualsiasi per mettersi d’accordo? “Noi, diciamo, abitiamo qui da tanto tempo, paghiamo regolarmente”».

«Gliel’ho detto», fece Zachar.

«Be’, e loro?».

«Macché! Badana a sistemare gli affari loro: “Sloggiate, dicono, dobbiamo fare delle modifiche”. Con il nostro e con quello del dottore, vogliono fare un solo grande appartamento per il figlio del padrone di casa che si sposa».

«Oh, Dio mio!», esclamò stizzito Oblomov. «Ci sono ancora degli asini che si sposano!».

Si girò sulla schiena.

«Potreste scrivere al padrone di casa», disse Zachar; «può darsi che non vi disturbi e dia ordine di demolire prima l’altro appartamento».

Nel dir questo, Zachar fece un vago cenno con la mano verso destra.

«Be’, d’accordo, appena mi alzo, gli scrivo... Tu vai di là, e io ci penso su. Non sai fare proprio niente», aggiunse, «anche di queste bazzecole devo occuparmi io».

Zachar se ne andò, e Oblomov si mise a pensare.

Ma aveva l’imbarazzo della scelta fra le cose su cui meditare: sulla lettera dello starosta, sul trasferimento in un nuovo alloggio, o sui conti che doveva controllare? Era travolto dalla piena delle preoccupazioni e continuava a stare coricato, rigirandosi ora su un fianco, ora sull’altro. Di quando in quando, se ne usciva con delle esclamazioni: «Oh, Dio mio! La vita ti assilla, non ti dà tregua!».

Non si sa per quanto tempo ancora sarebbe rimasto a meditare sul suo dilemma, quando dall’anticamera si sentì il campanello.

«È arrivato qualcuno!», disse Oblomov avvolgendosi nella vestaglia. «E io ancora non mi sono alzato. È proprio una vergogna! Chi può essere, così di buon mattino?».

E, sempre sdraiato, gettò uno guardo incuriosito verso la porta.

II

Entrò un giovanotto di circa venticinque anni, che sprizzava salute da tutti i pori e rideva con le guance, con le labbra e con gli occhi. Faceva invidia a guardarlo.

Pettinato e vestito in maniera irreprensibile, abbagliava per la freschezza del volto, della camicia, dei guanti e del frac. Dal panciotto pendeva una raffinata catena con molti minutissimi ciondoli. Il giovane tirò fuori un fazzoletto di fine batista, ne aspirò il profumo orientale, poi con noncuranza se lo passò sul viso, e poi sul cappello lucido e sulle scarpe di vernice.

«Ah, Volkov, salve!», disse Il’ja Il’ič.

«Salve, Oblomov», rispose il brillante giovanotto andando verso di lui.

«Non si avvicini, non si avvicini: mi porta il freddo di fuori!», disse Oblomov.

«Oh, viziato, sibarita!», esclamò Volkov cercando con gli occhi un posto dove posare il cappello, che tuttavia non posò, dato che c’era polvere dappertutto; sollevò le falde del frac per mettersi a sedere ma, dopo aver guarato bene la poltrona, rimase in piedi.

«Non si è ancora alzato! Che razza di palandrana ha indosso? È un pezzo che non se ne portano più di questo tipo, disse per mortificare Oblomov.

«Non è una palandrana, è una vestaglia», precisò Oblomov avvolgendosi con voluttà nell’ampio indumento.

«Sta bene?», domandò Volkov.

«Macché bene!», rispose sbadigliando Oblomov. «Male! Soffro di congestioni. E lei come sta?».

«Io? Non c’è male: in buona salute e allegro... molto allegro!», aggiunse compiaciuto il giovane.

«Da dove viene così presto?», chiese Oblomov.

«Dal sarto. Guardi, le piace il mio frac?», disse girandosi davanti a Oblomov.

«Eccellente! Confezionato con molto gusto», disse Il’ja Il’ič. «Solo, perché così largo dietro?».

«È un reitfrac: un abito da cavallerizzo».

«Ah, capisco! Ma lei va a cavallo?».

«Già! Questo frac l’ho ordinato proprio per oggi: è il primo maggio, e vado con Gorjunov a Ekaterinhof. Ah, non lo sa? Gorjunov Miša ha avuto la promozione, ecco perché facciamo qualcosa di speciale», aggiunse con entusiasmo Volkov.

«Ah, ecco!», disse Oblomov.

«Lui ha un sauro», proseguì Volkov. «Al reggimento hanno tutti sauri, ma il mio è un morello. Lei come verrà, a piedi o in carrozza?».

«Ma... in nessun modo», disse Oblomov.

«Non andare a Ekaterinhof il primo maggio!... Ma che dice, Il’ja Il’ič!», esclamò stupito Volkov. «Ci vanno tutti!».

«Via, tutti! No, non tutti!», osservò pigramente Oblomov.

«Venga, amico mio, Il’ja Il’ič! Sofja Nicolajevna e Lidija saranno sole in vettura, e di fronte al sedile c’è una panchetta: potrebbe...».

«No, non mi siederò sulla panchetta. E poi, cosa ci farei là!».

«Allora, vuole che Miša mi dia un cavallo?».

«Sa Iddio cosa gli salta in mente!», disse Oblomov quasi fra sé. «Perché ha tanto a cuore i Gorjunov?».

«Ah!», esclamò Volkov arrossendo, «... debbo dirglielo?».

«Dica pure!».

«Non ne parlerà con nessuno... parola d’onore?», proseguì Volkov sedendosi sul divano accanto a lui.

«Le pare?».

«Io... mi sono innamorato di Lidija», mormorò il giovane.

«Bravo! Da un pezzo? Mi pare sia molto graziosa».

«Sono già tre settimane!», disse Volkov con un profondo sospiro. «E Miša è innamorato di Dašen’ka».

«Quale Dašen’ka?».

«Ma dove vive, Oblomov? Non conosce Dašen’ka? Tutta la città impazzisce per le sue danze! Stasera lui ed io andremo al balletto; Miša le lancerà un mazzo di fiori. Bisogna spalleggiarlo: è timido, ancora un novellino... Ah, dovrò andare a prendere le camelie...».

«E dove altro deve andare? La smetta, venga a pranzo da me: chiacchiereremo un po’. Mi sono capitati due guai...».

«Non posso: sono a pranzo dal principe Tjumenev; ci saranno tutti i Gorjunov e lei, lei... la piccola Lidija», aggiunse in un sussurro. «Come mai non è più venuto dal principe? È una casa tanto allegra! Che vita vi si conduce! E la villa! Affondata tra i fiori! Hanno fatto costruire una galleria, gothique. Dicono che questa estate ci saranno balli e quadri viventi. Ci verrà?».

«No, credo di no».

«Ah, che casa! Quest’inverno, ogni mercoledì c’erano non meno di cinquanta persone, a volte arrivavano anche a cento...».

«Dio mio! Doveva essere una noia terribile, infernale!».

«Che dice mai? Noia! Quanti più si è, tanto più allegri si sta. Anche Lidija ci veniva; non l’avevo notata, ma improvvisamente...

Invano di obliarla cerco

e con il senno vincer la passione...».

Si mise a cantare e, trasognato, sedette sulla poltrona; ma d’un tratto balzò in piedi e cominciò a togliersi la polvere di dosso.

«Quanta polvere dappertutto, qui da lei», disse.

«Quello Zachar!» si lagnò Oblomov.

«Be’, è ora che vada!», disse Volkov. «Devo comperare le camelie per il bouquet di Miša. Au revoir».

«Venga stasera a prendere il tè, dopo il balletto: mi racconterà com’è andata», lo invitò Oblomov.

«Impossibile, ho promesso ai Mussinskij di andare da loro: oggi è il giorno in cui ricevono. Venga anche lei. Vuole? La presento io».

«No, che ci verrei a fare?».

«Dai Mussinskij? Scusi, ma in casa loro si riunisce mezza città. Cosa ci verrebbe a fare? Quella è una casa dove si parla di tutto...».

«Ecco, proprio questo è seccante: che si parli di tutto», disse Oblomov.

«Allora, vada a trovare i Mezdrov», lo interruppe Volkov. «Là si parla solo di una cosa: di arte; non si sente altro: scuola veneziana, Beethoven e Bach, Leonardo da Vinci...».

«Parlare sempre di una sola cosa... che noia! Devono essere dei gran pedanti!», disse sbadigliando Oblomov.

«Non le va bene niente. Come fossero poche le case dove si riceve! Ora tutti hanno il loro giorno: dai Savinov si pranza il giovedì, dai Maklašin il venerdì, dai Vjaznikov la domenica, dal principe Tjumenev il mercoledì. Io ho tutti i giorni occupati!», concluse Volkov raggiante.

«E non le viene a noia vagabondare qua e là ogni giorno?».

«Venirmi a noia! Ma come venirmi a noia? È divertentissimo!», esclamò spensierato il giovane. «La mattina leggo un po’ il giornale, bisogna essere au courant di tutto, sapere le novità. Grazie a Dio, ho un ufficio che non richiede la mia presenza continua. Ci faccio una capatina solo due volte alla settimana, poi pranzo dal generale, poi vado a far visita a persone che non vedo da tempo: be’, e poi... c’è qualche nuova artista, ora al teatro russo, ora al teatro francese. E quando ci sarà l’opera mi abbonerò. E adesso sono innamorato... Verrà l’estate; a Miša hanno promesso una licenza; andremo a casa sua in campagna per un mese, tanto per cambiare. Là si va a caccia. Hanno degli ottimi vicini, che danno dei bals champêtres. Andrò a passeggio con Lidija nei boschetti, a far gite in barca, a raccogliere fiori... Ah!...», sospirò pervaso dalla gioia. «Ma adesso devo andare... Addio!», disse, tentando invano di rimirarsi nello specchio coperto di polvere.

«Un momento», lo trattenne Oblomov, «vorrei parlarle di certe faccende».

«Pardon, non ho proprio tempo», disse Volkov affrettandosi, «un’altra volta!... Ma non vuole venire a mangiare le ostriche con me? Così potrebbe parlarmene. Andiamo, è Miša che offre».

«No, vada con Dio!», rispose Oblomov.

«Allora, addio!».

Volkov fece per andarsene, poi si voltò.

«Ha visto?», domandò, mostrando la mano che sembrava modellata nel guanto.

«Che roba è?», chiese Oblomov perplesso.

«Ma i nuovi lacets? Guardi come stringono alla perfezione: non c’è più bisogno di tribolare per due ore con i bottoncini; basta tirare il laccetto... e via. Sono appena arrivati da Parigi. Vuole che gliene porti un paio per prova?».

«Va bene, me li porti!», disse Oblomov.

«E guardi questo: è graziosissimo, nevvero?», disse, scegliendo dal mucchio un ciondolino: un biglietto da visita con l’angolo ripiegato.

«Non riesco a decifrare che cosa c’è scritto».

«Pr. prince M. Michel», spiegò Volkov, «il cognome Tjumenev non ci stava; me lo ha regalato il principe per Pasqua, invece dell’uovo. Ma adesso addio, au revoir. Devo andare ancora in dieci posti. Dio mio, come è allegro il mondo!».

E scomparve.

«Dieci posti in un giorno solo... sciagurato!», pensò Oblomov. «E questa sarebbe vita!», scrollò le spalle. «Dove è più l’uomo, qui? Cosa diventa, così frantumato e disperso? Certo, non è male frequentare i teatri, e innamorarsi di una qualche Lidija... è carina! Raccogliere i fiori e andare in barca con lei... va bene; ma andare in dieci posti in un giorno solo... sciagurato!», concluse, adagiandosi sulla schiena e rallegrandosi di non avere desideri e pensieri così futili, e di non dover vagabondare di qua e di là, ma di potersene stare tranquillo a letto, conservando la sua dignità di uomo e la sua pace.

Un’altra scampanellata interruppe le sue meditazioni.

Entrò un nuovo visitatore.

Era un signore che indossava il frac verde scuro con i bottoni stemmati dei funzionari dello stato; era rasato alla perfezione e avevea il viso completamente incorniciato da un paio di favoriti bruni, un’espressione di imbarazzo ma di calma consapevolezza negli occhi, l’aspetto di un individuo molto provato e un sorriso pensoso.

«Salve, Sud’binskij!», lo salutò allegramente Oblomov. «Era ora che facessi lo sforzo di venire a trovare il vecchio collega! Non ti avvicinare, non ti avvicinare! Mi porti il freddo di fuori!».

«Salve, Il’ja Il’ič. Da un pezzo volevo venire», disse il visitatore, «ma sai che lavoro diabolico è il nostro. Ecco, guarda qua: ho una valigia piena di carte da portare a rapporto; e se in ufficio hanno bisogno di qualche cosa, ho dato ordine all’usciere di venire a cercarmi qui. Non si può disporre nemmeno di un minuto per se stessi».

«Non sei ancora in ufficio? Come mai così tardi?», chiese Oblomov. «Un tempo, tu alle dieci...».

«Un tempo... sì; ma ora è tutt’altra cosa: ci vado alle dodici in vettura». Calcò l’accento sull’ultima parola.

«Ah, indovino!», esclamò Oblomov. «Sei entrato nel novero dei capufficio! Da molto tempo?».

Sud’binskij, tutto compreso, fece un cenno col capo.

«Dalla Settimana Santa», disse. «Ma quanto lavoro... spaventoso! Dalle otto alle dodici in casa, dalle dodici alle cinque alla cancelleria, perfino di sera lavoro. Mi sono ormai disabituato alla gente».

«Ehm! Capufficio... ma bene!», disse Oblomov. «Felicitazioni! Ma guarda un po’! E pensare che lavoravamo insieme alla Cancelleria. Credo che l’anno prossimo sarai consigliere di stato».

«Figurati! Dio ti ascoltasse! Quest’anno devo ancora ricevere la corona; pensavo di essere proposto per merito, ma adesso, con questa promozione... non è possibile due anni di seguito...».

«Vieni a pranzo da me, berremo alla promozione!», disse Oblomov.

«No, oggi pranzo dal vice-direttore. Per giovedì bisogna preparare la relazione... un lavoro infernale! Su quello che arriva dai governatorati non si può fare affidamento: bisogna controllare tutte le registrazioni. Foma Fomiè è tanto diffidente: vuol vedere tutto di persona. Oggi dopo pranzo le studieremo insieme».

«Ma no, anche dopo pranzo!», domandò Oblomov incredulo.

«E che credevi? Sarà già una fortuna se sul tardi riuscirò a sganciarmi per andare a fare un giro a Ekaterinhof... Sono venuto appunto per chiederti se non verresti con me. Potrei passare a prenderti...».

«Mi sento poco bene, non posso», disse Oblomov con una smorfia. «E poi ho molto da fare... no, non posso».

«Peccato!», disse Sud’binskij. «È una bella giornata. Almeno oggi spero di prendere una boccata d’aria».

«Be’, che c’è di nuovo da voi?», domandò Oblomov.

«Diverse cose: nelle lettere, invece di “umilissimo servitore”, si scrive “gradite l’espressione...”; gli stati di servizio non si devono più compilare in due copie. Nel nostro ufficio hanno messo altri tre tavoli e due impiegati con incarichi speciali. La nostra commissione è stata soppressa... Molte cose!».

«E che fanno i nostri vecchi colleghi?».

«Per ora niente; Svinkin ha perso una pratica».

«Davvero? Che ha detto il direttore?», domandò Oblomov con voce tremante. Ricordava con terrore i tempi passati.

«Ha ordinato di sospendergli il premio fino a che non l’avrà scovata. È una pratica importante: “sulle esazioni”. Il direttore pensa», aggiunse Sud’binskij quasi in un sussurro, «che l’abbia perduta... apposta».

«Non può essere!», disse Oblomov.

«No, certo, è eccessivo», confermò Sud’binskij con aria susseguiosa e protettiva. «Svinkin è uno sventato. A volte, sa il diavolo dove va a tirarle fuori certe cifre, fa una gran confusione di dati. Per me è un vero tormento; ma non si è mai notato che abbia fatto cose del genere... Non le farebbe, mai e poi mai! La pratica si sarà andata a cacciare chissà dove; poi salterà fuori».

«Sicché, il tuo lavoro è sempre pesante!», disse Oblomov.

«Spaventoso, spaventoso! Ma, certo, con una persona come Foma Fomiè è piacevole lavorare; non ti lascia senza ricompensa; e non dimentica nemmeno quelli che non fanno niente. Appena scade il termine per la promozione, lui ti propone subito; e a quelli per il quale il termine non è ancora scaduto, e che quindi non possono avere avanzamenti o croci, fa avere denaro...».

«Tu quanto prendi?».

«Ecco: milleduecento rubli di stipendio, oltre settecentocinquanta per indennità di vitto, seicento per indennità di alloggio, novecento di sussidio, cinquecento per trasferte, e fino a mille rubli di gratifiche».

«Diavolo!», disse Oblomov agitandosi nel letto. «Hai per caso una bella voce? Prendi quanto un tenore italiano!».

«C’è ben altro! Peresvetov riceve anche degli extra, lavora meno di me e non capisce niente. Be’, certo non gode di una gran reputazione. Io sono molto stimato», aggiunse con modestia abbassando gli occhi. «Poco tempo fa il ministro ha detto che sono un “ornamento del ministero”».

«Bravo!» disse Oblomov. «Solo che lavorare dalle otto alle dodici, dalle dodici alle cinque, e poi ancora a casa... ohi, ohi!».

Scrollò il capo.

«E che farei, se non dovessi lavorare?», chiese Sud’binskij.

«Che importanza ha? Potresti leggere, scrivere...», disse Oblomov.

«Ma anche adesso non faccio altro che leggere e scrivere».

«Non è questo: potresti pubblicare...».

«Non tutti possono essere scrittori. Tu, per esempio, non scrivi», ribatté Sud’binskij.

«Però ho sulle spalle una proprietà», disse con un sospiro Oblomov. «Sto meditando su un nuovo progetto; voglio introdurre diverse migliorie. Mi tormento, mi tormento... Tu, invece, lavori per gli altri, non per te».

«Che fare! Bisogna lavorare, per guadagnare. Mi riposerò quest’estate: Foma Fomiè ha promesso di studiare una missione apposta per me... così riceverò una indennità di viaggio per cinque cavalli, tre rubli al giorno di trasferta, e poi la gratifica...».

«Eh, vai forte tu!», disse con invidia Oblomov; poi sospirò e si immerse nei suoi pensieri.

«Il denaro mi serve: in autunno mi sposo», proseguì Sud’binskij.

«Cosa? Davvero? E chi sposi?», chiese interessato Oblomov.

«Non scherzo, sai, sposo la Murašina. Ricordi i miei vicini, in campagna? Venivi a prendere il tè da me e devi averla vista».

«No, non ricordo. Carina?», chiese Oblomov.

«Sì, graziosa. Se vuoi, andiamo a pranzo da loro...».

Oblomov si sentì imbarazzato.

«Sì... va bene, solo che...».

«La settimana prossima», disse Sud’binskij.

«Sì, sì, la settimana prossima», si rallegrò Oblomov. «Il mio vestito non è ancora pronto. Ma è un buon partito?».

«Sì, il padre è consigliere di stato effettivo; dà diecimila rubli e l’alloggio demaniale. Ce ne ha riservato una metà, dodici stanze; anche i mobili, il riscaldamento e l’illuminazione li passa lo stato: si può vivere...».

«Sì, si può. Altroché! Che tipo sei, Sud’binskij!», aggiunse, non senza invidia, Oblomov.

«Ti invito alle mie nozze come compare, Il’ja Il’ič: ma bada...».

«Come no, contaci!», disse Oblomov. «E dimmi: che ne è stato di Kuznecov, di Vasil’ev, di Machov?».

«Kuznecov si è sposato, Machov ha preso il mio posto e Vasil’ev è stato trasferito in Polonia. A Ivan Petrovič hanno conferito l’ordine di Vladimir, e Oleškin è diventato eccellenza».

«È un bravo ragazzo», disse Oblomov.

«Bravo, bravo: lo merita».

«Bravissimo, con carattere mite, equilibrato», disse Oblomov.

«Sempre disponibile», aggiunse Sud’binskij. «E poi, sai, non è di quelli che cercano di ingraziarsi i superiori, di nuocere, di fare lo sgambetto, di scavalcare... fa tutto quello che può».

«È un uomo ecellente! Se per caso fai confusione nelle carte, sei sbadato, o commetti un errore nell’interpretare o nell’indicare una legge in un appunto, non importa: si limita a ordinare a un altro di rifare il lavoro. È un uomo eccezionale!», concluse Oblomov.

«Invece, il nostro Semën Semënyc è incorreggibile», disse Sud’binskij, «bravo solo a gettar polvere negli occhi. Senti che ha combinato tempo fa: i governatori hanno fatto presente l’opportunità di costruire dei canili negli edifici che dipendono dal nostro ministero, per proteggere dai furti le proprietà dello stato; il nostro architetto, un uomo capace, competente e onesto, ha preparato un preventivo molto contenuto; ma a Semën Semënyc è saltato in testa di trovarlo troppo caro, e giù a prendere informazioni su quanto potesse costare la costruzione di un canile. Ha trovato chissà dove qualcuno che glielo faceva per trenta copeche di meno... e adesso ho fatto un rapporto scritto...».

Si sentì un’altra scampanellata.

«Addio», disse il funzionario, «sto qui a ciondolare, e là forse c’è bisogno di me...».

«Rimani ancora», cercò di trattenerlo Oblomov. «Giacché sei qui, avrei bisogno di consigliarmi con te: mi sono capitati due guai...».

«No, no, è molto meglio che torni fra qualche giorno», disse Sud’binskij andandosene.

«Ci sei dentro, amico caro, ci sei dentro fino al collo», pensò Oblomov accompagnandolo con lo sguardo. «E sei cieco, sordo e muto per tutto il resto che c’è al mondo. Ma andrai avanti, col tempo combinerai grossi affari e raggiungerai alti gradi... Da noi anche questa si chiama carriera! E a un uomo occorre ben poco per farla. Intelligenza, volontà, sentimenti: a che servono? Sono un lusso! E consumerà la sua vita, e molte, molte cose rimarranno inerti e silenziose dentro di lui... E intanto lavora dalle dodici alle cinque alla Cancelleria, dalle otto alle dodici in casa... infelice!».

Pensò con un senso di pacata gioia che dalle nove alle tre, dalle otto alle nove, poteva restarsene a casa sul divano, e si sentì fiero di non dover compilare rapporti, di non dover scrivere scartoffie, cioè di essere libero e padrone dei propri sentimenti e della propria immaginazione.

Tutto intento a filosofeggiare, Oblomov non si accorse che accanto al suo letto c’era un tipo magrissimo, scuro di pelle e di capelli e col viso tutto coperto dai favoriti, dai baffi e dal pizzetto alla spagnola. I suoi abiti erano volutamente trascurati.

«Salve, Il’ja Il’ič».

«Salve, Penkin; non si avvicini, non si avvicini; mi porta il freddo di fuori!», disse Oblomov.

«Ah, che stravagante!», disse il visitatore. «Sempre il solito incorreggibile spensierato pigrone!».

«Sì, spensierato!», disse Oblomov. «Adesso le mostro una lettera dello starosta: non faccio che lambiccarmi il cervello, e lei mi chiama spensierato! Di dove viene?».

«Dalla libreria: sono andato a sentire se erano uscite le riviste. Ha letto il mio articolo?».

«No».

«Glielo manderò, lo legga».

«Di che parla?», chiese Oblomov con un robusto sbadiglio.

«Del commercio, dell’emancipazione femminile, delle stupende giornate d’aprile che ci sono toccate in sorte e della nuova invenzione contro gli incendi. Come mai non legge queste cose? Sono la nostra vita quotidiana. Ma soprattutto io lotto per l’indirizzo realistico in letteratura».

«Ha molto da fare?», chiese Oblomov.

«Sì, abbastanza. Due articoli alla settimana per il giornale, poi scrivo critiche letterarie, e ho appena finito un racconto...».

«Di che si tratta?».

«Di un sindaco che le suona a certi borghesucci della sua città».

«Già, questo è un indirizzo realistico», disse Oblomov.

«Vero?», convenne soddisfatto il letterato. «Nel mio racconto svolgo questa idea e so che essa è nuova e audace. Un viaggiatore, testimone della scena, fa le sue rimostranze in un colloquio con il governatore. Questi ordina a un funzionario di recarsi sul posto e di svolgervi un’inchiesta raccogliendo notizie sul fatto, nonché, in generale, sulla personalità e la condotta del sindaco. Il funzionario convoca i borghesucci, come se volesse informarsi dei loro commerci, ma al tempo stesso indaga. E cosa fanno quei borghesucci? Si inchinano, sorridono e lodano sperticatamente il sindaco. Il funzionario comincia ad attingere notizie da altre fonti e così viene a sapere che quei borghesucci sono dei furfanti matricolati che vendono merci avariate, imbrogliano sul peso e frodano l’erario: tutta gente immorale per la quale le botte sono state il giusto castigo».

«Sarebbe come dire che le bastonate del sindaco sono nel racconto quello che era il fatum delle tragedie antiche?», chiese Oblomov.

«Appunto», confermò Penkin. «Lei ha molta sensibilità, Il’ja Il’ič, dovrebbe scrivere! Sono riuscito così a dimostrare al tempo stesso l’arbitrio del sindaco e i costumi corrotti del popolino; la cattiva organizzazione della burocrazia subalterna e la necessità di misure severe ma legali... Non è vero che la mia idea... è abbastanza nuova?».

«Sì, soprattutto per me, che leggo così poco», disse Oblomov.

«Infatti, non si vedon libri qui da lei», disse Penkin. «Ma la supplico di leggere almeno una cosa; è in preparazione un poema che si può definire magnifico: L’amore di un uomo venale per una donna perduta. Non so dirle l’autore: è un segreto».

«Di che si tratta?».

«Rivela in termini poetici tutto il meccanismo che muove la nostra società. Tocca tutte le molle; passa in rassegna tutti i gradini della scala sociale. L’autore vi fa comparire, come davanti a un tribunale, il gran signore meschino e vizioso, e il folto sciame dei corrotti che lo ingannano; e studia tutte le categorie di peccatrici... francesi, tedesche, finlandesi, e tutto, tutto... con straordinaria, palpitante veridicità... Ne ho sentiti leggere alcuni brani: è un grande scrittore! Ci si sente ora Dante, ora Shakespeare...».

«Come corre!», disse meravigliato Oblomov, sollevandosi.

Penkin tacque all’improvviso, rendendosi conto che in realtà aveva corso troppo.

«Lo legga, e vedrà lei stesso», aggiunse smorzando il suo ardore.

«No, Penkin, non lo leggerò».

«Ma perché? È un’opera che fa scalpore, tutti ne parlano...».

«E lasci che ne parlino! Certa gente non ha altro da fare che parlare. È una specie di vocazione».

«Lo legga almeno per curiosità».

«Ma che può raccontarmi di nuovo?», chiese Oblomov. «Perché scrivono di queste cose? Solo per divertirsi...».

«Come per divertirsi? E la verità, la somiglianza con la realtà dove la mette? Da morir dal ridere... Veri e propri ritratti viventi. Ogni personaggio - sia esso mercante, funzionario, ufficiale o sbirro - salta fuori vivo dalla pagina».

«E a che pro tanta fatica? Per il piacere che il personaggio risulti somigliante? Ma di vita, in tutto questo, non ce n’è lo stesso: perché non c’è né comprensione né interesse per la vita, né quella che lei chiama umanità. C’è solo amor proprio. Codesto modo di rappresentare ladri e peccatrici non è diverso dall’agguantarli per strada e cacciarli in prigione. In queste storie non ci sono le “lacrime invisibili”, c’è solo un riso esagerato e grossolano, c’è solo cattiveria...».

«E che serve di più? Lei stesso ha reso benissimo l’idea: questa accanita cattiveria è una guerra senza quartiere al vizio, è il riso sprezzante per coloro che cadono... è tutto!».

«No, non tutto!», disse Oblomov infervorandosi all’improvviso. «Descrivi il ladro, la peccatrice, lo sciocco presuntuoso, ma non dimenticare l’uomo. Dov’è dunque l’umanità? Voi volete scrivere solo con la testa!», disse Oblomov quasi in un sibilo. «Credete forse che il pensiero escluda il cuore? No, esso è fecondato dall’amore. Tendete una mano soccorrevole all’uomo caduto, o piangete amare lacrime su di lui se è definitivamente rovinato, ma non lo schernite. Amatelo, cercatevi in lui, trattatelo come trattereste voi stessi... allora vi leggerò, e chinerò il capo davanti a voi...», disse, tornando a stendersi tranquillo sul divano. «Costoro scrivono di ladri e di peccatrici», continuò, «ma dimenticano l’uomo o non sanno descriverlo. Che specie di arte, quali tinte poetiche ci trova? Smascherate la depravazione, il fango ma, vi prego, senza pretese poetiche».

«E lei vorrebbe che si parlasse della natura - le rose, un usignolo o una mattinata gelida - mentre intorno a noi tutto ribolle e si agita? A noi serve solo la cruda fisiologia della società; non siamo in vena di lirismo adesso...».

«L’uomo, datemi l’uomo!», esclamò Oblomov. «Amatelo...».

«Amare l’usuraio, il bigotto, il funzionario ladro o ottuso... è questo che intende? Ma che le salta in testa? Si vede proprio che non si occupa di letteratura!», si infiammò Penkin. «No, bisogna punirli, estirparli dalla vita civile, dalla società...».

«Estirparli dalla vita civile!», disse Oblomov rianimandosi all’improvviso e sporgendosi verso Penkin. «Ciò significa dimenticare che sotto questo involucro imperfetto c’è una origine superiore; che se un uomo è corrotto è pur sempre un uomo, come lei. Sradicare. E in che modo vuole sradicarli dal consorzio umano, dal grembo della natura, dalla misericordia divina?», quasi gridò, con gli occhi fiammeggianti.

«Come corre!», disse Penkin, sorpreso a sua volta.

Anche Oblomov si rese conto di aver corso troppo. Tacque di colpo, rimase immobile un momento, sbadigliò e si sdraiò lentamente sul divano.

Entrambi piombarono in un profondo silenzio.

«Che cosa legge, lei?», chiese Penkin.

«Io... per lo più libri di viaggi».

Di nuovo silenzio.

«Leggerà il poema quando uscirà? Glielo porterò...», disse Penkin.

Oblomov fece segno di no col capo.

«Allora, le mando il mio racconto?».

Oblomov chinò la testa in cenno affermativo.

«Bisogna che vada in tipografia!», disse Penkin. «Sa perché sono venuto? Volevo proporle di venire con me a Ekaterinhof: ho una carrozza. Domani devo scrivere un articolo sulla festa; potremmo osservare l’ambiente insieme, e lei potrebbe farmi notare qualcosa che a me fosse sfuggita; sarebbe divertente. Andiamo...».

«No, non mi sento bene», disse Oblomov corrugando la fronte e tirandosi addosso la coperta. «Temo l’umidità, e il terreno non è ancora ben asciutto. Perché non viene lei a pranzo oggi? Potremmo chiacchierare un po’... Mi son capitati due guai...».

«No, ci ritroviamo - la redazione al completo - al Saint-Georges, e di là andremo alla festa. Stanotte dovrò scrivere per mandare il pezzo in tipografia non appena farà giorno. Arrivederci».

«Arrivederci, Penkin».

«Scrivere di notte», pensò Oblomov, «ma dormire, quando? Certo, con questo lavoro metterà insieme almeno cinquemila rubli l’anno. È un bel guadagnare. Ma scrivere sempre, consumare il cervello e lo spirito per delle piccolezze, cambiare opinione, far commercio della propria intelligenza e immaginazione, forzare la propria natura, agitarsi, infervorarsi, infiammarsi, non conoscere pace e muoversi di continuo... E sempre scrivere, sempre scrivere, come una ruota, come una macchina: scrivi domani, e dopodomani; viene la festa, arriva l’estate... e lui scrive sempre! ma quando si fermerà e riposerà? Sciagurato!».

Volse il capo verso il tavolo completamente sgombro, dove l’inchiostro era secco e non si vedevano penne, e si rallegrò di potersene stare sdraiato, come un fantolino, senza preoccupazioni, di non doversi disperdere, di non dover vendere nulla...

«E la lettera dello starosta, e l’appartamento?», gli venne in mente d’un tratto, e diventò pensieroso.

Ma ecco un’altra scampanellata.

«Che c’è ancora, neanche dessi un ricevimento in casa mia, oggi!», pensò Oblomov in attesa di vedere chi fosse il nuovo visitatore.

Entrò un uomo dall’età indefinibile, dalla fisionomia indefinibile, in quel periodo della vita in cui è difficile intuire l’età di un individuo; né bello, né brutto, né alto né basso, né biondo né bruno. La natura non gli aveva dato alcun tratto deciso, caratteristico, né in bene, né in male. Per molti si chiamava Ivan Ivanyč, per altri Ivan VasIl’ič, per altri ancora Ivan Michajlyè.

Anche il cognome subiva delle varianti: alcuni dicevano che era Ivanov, altri lo chiamavano Vasil’ev o Andreev, altri infine Alekseev. L’estraneo che lo vedeva e ne sentiva il cognome per la prima volta lo dimenticava subito, e dimenticava anche il viso; né faceva caso a ciò che diceva. La sua presenza non arricchiva la società, così come la sua assenza non la privava di nulla. E se il suo corpo non aveva segni caratteristici, la sua mente era affatto priva di arguzia e di originalità.

Forse avrebbe saputo per lo meno raccontare ciò che vedeva e udiva, per destare negli altri un certo interesse, ma non andava in nessun posto; nato a Pietroburgo, non se ne era mai allontanato; per conseguenza vedeva e udiva ciò che anche gli altri sapevano.

È simpatico un tipo del genere? Ama, odia, soffre? Sembrerebbe che debba amare, e non amare, e soffrire, perché nessuno ne è esente. Ma lui riesce in certo qual modo ad amare tutti. Vi sono persone nelle quali non arriverai mai, per quanto tu faccia, a risvegliare un sentimento di ostilità, di vendetta, e così via. Comunque le tratti, loro continueranno a volerti bene. D’altra parte, per essere giusti, bisogna dire che anche il loro amore, se lo si misurasse col termometro, non raggiungerebbe mai il calore. Sebbene di queste persone si dica che amano tutti e perciò sono buone, in sostanza esse non amano nessuno e sono buone solo perché non sono cattive.

Se, davanti a un tipo del genere, si fa l’elemosina a un mendicante, anche lui gli butta la sua monetina; ma se quel mendicante lo si insulta, lo si scaccia e lo si deride, lui si unirà agli altri per insultarlo e per deriderlo. Non lo si può definire ricco, perché non è ricco, anzi è piuttosto povero. Tuttavia, non lo si può nemmeno definire decisamente povero, perché ci sono tanti più poveri di lui.

Dispone di un certo reddito, circa trecento rubli l’anno, e ricopre in un ufficio mediocre una carica mediocre, e riceve uno stipendio mediocre; non è assillato dal bisogno e non prende soldi a prestito da nessuno, ma a nessuno verrebbe in mente di prendere soldi a prestito da lui. In ufficio non ha precise mansioni, perché né i colleghi né i superiori sono mai riusciti a capire cosa egli faccia peggio o meglio, sì da poter stabilire quali siano le sue vere capacità. Se gli danno da fare una cosa o l’altra, egli la fa in modo che il suo superiore è sempre imbarazzato nel valutare il suo lavoro; lo guarda, lo riguarda, lo legge, lo rilegge, e poi finisce per dire: «Lasciate qua, lo guarderò poi... sì, è quasi come dovrebbe essere».

Sul suo viso non scorgi mai la traccia di preoccupazioni, di fantasticherie, insomma di una vita interiore, e nemmeno lo vedrai mai posare uno sguardo curioso su qualsiasi oggetto che possa destare il suo interesse.

Un conoscente lo incontra per strada. «Dove va?», gli chiede. «Vado in ufficio, o in un negozio, o a trovare qualcuno». «Venga con me, invece», gli fa quello: «alla posta, o dal sarto o a passeggio...», e lui ci va: va dal sarto, e alla posta, e a passeggio: nella direzione opposta a quella verso cui andava.

A malapena qualcuno, oltre la madre, ha notato la sua venuta al mondo, pochissimi lo notano durante la sua vita, e sicuramente nessuno noterà la sua scomparsa dal mondo; nessuno chiederà di lui, nessuno si rammaricherà o si rallegrerà della sua morte. Non ha né nemici né amici, ma solo un gran numero di conoscenti. Forse, soltanto il corteo funebre attirerà l’attenzione del passante, il quale, con un profondo inchino, renderà a quell’essere indefinito il primo omaggio che abbia mai ricevuto; e forse ci sarà anche un curioso che correrà in testa al corteo per sapere il nome del defunto, che subito dimenticherà.

Questo Alekseev, Vasil’ev, Andreev, o come volete chiamarlo, è una specie di esemplare incompleto, impersonale della massa dell’umanità, la sua eco sorda, il suo barlume.

Perfino Zachar, che, quando chiacchierava senza peli sulla lingua in qualche crocchio sotto il portone o in una bottega, illustrava le caratteristiche di tutti coloro che andavano a trovare il suo padrone, era sempre in difficoltà quando arrivava il turno di questo... mettiamo Alekseev. Pensava a lungo, annaspava a lungo alla ricerca di un qualsiasi tratto saliente cui potersi aggrappare, nell’aspetto, nei modi, nel carattere di quell’individuo, e alla fine, agitando la mano, si esprimeva così: «Né carne né pesce».

«Ah!», fu l’accoglienza di Oblomov. «È lei, Alekseev? Salve. Da dove viene? Non si avvicini, non si avvicini; non le dò la mano; mi porta il freddo di fuori!».

«Ma quale freddo! Non pensavo di venire da lei, oggi», disse Alekseev, «ma ho incontrato Ovèinin che mi ha portato a casa sua. Sono venuto a prenderla, Il’ja Il’ič».

«Per andare dove?».

«Ma da Ovèinin, andiamo. Ci sono anche Matvej Andreič Al’janov, Kazimir Al’bertyè Pchajlo, Vasilij Sevast’janyč Kolymjagin».

«Perché si sono riuniti là e cosa vogliono da me?».

«Ovèinin la invita a pranzo».

«Ehm! A pranzo...», ripeté Oblomov con voce piatta.

«E poi andiamo tutti a Ekaterinhof: mi hanno incaricato di dirle che deve noleggiare una carrozza».

«E cosa si andrebbe a fare?».

«Ma come? Oggi c’è la festa. Non sa che oggi è il primo maggio?».

«Si sieda. Pensiamoci un po’...», disse Oblomov.

«Si alzi lei, invece! È ora che si vesta».

«Aspetti un poco: è ancora presto».

«Macché presto! Ci pregano di andare alle dodici; pranzeremo un po’ in anticipo, verso le due, e poi via alla festa. Suvvia, si sbrighi. Devo ordinare che le portino i vestiti?».

«Che vestiti? Ancora non mi sono lavato».

«Allora si lavi».

Alekseev si mise a passeggiare su e giù per la camera, poi si fermò davanti a un quadro che aveva già visto un migliaio di volte, diede un’occhiata fuori dalla finestra, prese un oggetto dallo scaffale, lo rigirò fra le mani, lo guardò da tutte le parti e tornò a posarlo, poi riprese a camminare fischiettando: tutto per non disturbare Oblomov che doveva alzarsi e lavarsi. Passarono così una decina di minuti.

«Ma che fa?», chiese d’un tratto Alekseev a Il’ja Il’ič.

«Come?».

«È ancora coricato?».

«Dovrei alzarmi?».

«Come no! Ci aspettano. Non voleva uscire?».

«Per andare dove? Io non volevo affatto uscire».

«Insomma, Il’ja Il’ič, ha appena detto che saremmo andati a pranzo da Ovèinin, e poi a Ekaterinhof...».

«Io, andare con questa umidità? E cosa c’è che non ho visto laggiù? E poi minaccia di piovere, guardi come s’è fatto buio», disse pigramente Oblomov.

«Non c’è neanche una nuvoletta, e la pioggia è solo nella sua mente. Le sembra che fuori faccia buio perché i vetri delle sue finestre non sono stati lavati da chissà quanto tempo. Sono sporchi, c’è uno strato di sudiciume! È buio pesto, e una tenda è quasi completamente abbassata».

«Sì, tocchi questo tasto con Zachar, e lui proporrà subito di far venire delle donne per le pulizie, e mi caccerà fuori di casa per tutta una giornata!».

Oblomov si abbandonò alle sue meditazioni, e Alekseev si mise a tamburellare con le dita sul tavolo presso il quale sedeva, lasciando vagare lo sguardo distratto sulle pareti e sul soffitto.

«Allora, ci decidiamo? Che facciamo? Intende vestirsi o rimanere così?», chiese dopo alcuni minuti.

«Vestirmi per far che?».

«Ma per andare a Ekaterinhof!».

«E dagli con questa Ekaterinhof!», esclamò stizzito Oblomov. «Non le piace stare qui? Cos’è, la stanza è fredda o puzzolente, che continua a guardare fuori?».

«No, da lei sto sempre bene; mi piace», disse Alekseev.

«E se qui sta bene, a che scopo vuole andare altrove? È meglio che rimanga qui tutto il giorno; pranzerà con me, e questa sera se ne andrà alla festa... con la benedizione di Dio!... Ma già, l’avevo dimenticato; come potrei uscire? Oggi viene a pranzo Tarant’jev, è sabato».

«Quando è così... va bene... come lei...», disse Alekseev.

«E delle mie faccende non le ho parlato?», chiese Oblomov con tono animato.

«Di quali faccende? Non ne so nulla», disse Alekseev, fissandolo con attenzione.

«Perché crede che mi trattenga così a lungo a letto? Ci sono rimasto perché non ho fatto altro che pensare al modo migliore per cavarmi dagli impicci».

«Che impicci?», chiese Alekseev, sforzandosi di fare la faccia allarmata.

«Due guai! Non so proprio come fare!».

«Che genere di guai?».

«Mi cacciano di casa. Figurarsi.. traslocare: danni, scompiglio... vien paura solo a pensarci! Abito in questo appartamento ormai da otto anni. Il padrone di casa mi ha giocato un brutto tiro: “Se ne vada”, dice, “al più presto”».

«E anche al più presto! Dovrà dunque affrettarsi. È una cosa intollerabile, un trasloco: quando si sgombera, c’è sempre un mucchio di noie, disse Alekseev, «ti perdono le cose, te le rompono... è molto seccante! E il suo appartamento è magnifico. Quanto paga?».

«Dove lo trovo un altro come questo?» disse Oblomov, «e per di più su due piedi. Questo è asciutto, caldo, in una casa tranquilla: i ladri ci sono venuti solo una volta! Il soffitto sembra pericolante e l’intonaco si è completamente staccato... eppure non crolla!».

«È bella davvero!», disse Alekseev scuotendo la testa.

«Che cosa si potrebbe architettare per... non andarsene?», si chiese meditabondo Oblomov.

«Ha un regolare contratto d’affitto per l’appartamento?», domandò Alekseev, scrutando la stanza dal soffitto al pavimento.

«Sì, solo che il contratto è scaduto; è un pezzo che pago mese per mese... non ricordo da quando».

«Che cosa intende fare?», chiese Alekseev rompendo una pausa di silenzio, «andarsene o rimanere?»».

«Io non intendo proprio niente», disse Oblomov, «non voglio nemmeno pensarci. Spero che Zachar escogiti qualcosa».

«Eppure c’è gente a cui piace traslocare», disse Alekseev, «anzi a cui piace solo quello...».

«Be’, traslochi pure questa “gente”... Io non posso soffrire i cambiamenti. E l’appartamento è ancora il meno», aggiunse Oblomov. «Guardi un po’ che cosa mi scrive lo starosta. Ora le mostro la lettera... dove si è cacciata? Zachar, Zachar!».

«Ah, Vergine santa!», gracidò Zachar, saltando dalla stufa, «quand’è che il buon Dio mi chiamerà a sé?»

Entrò e guardò il padrone con occhio torvo.

«Allora, hai trovato la lettera?».

«E dove la trovo? Come faccio a sapere che lettera vi serve? Non so leggere».

«Cerca lo stesso», ordinò Oblomov.

«Voi ieri sera stavate leggendo una lettera», disse Zachar, «poi non l’ho più vista».

«Ma dov’è?», ribatté stizzito Il’ja Il’ič. «Non me la sono mangiata. Ricordo benissimo che me l’hai presa di mano e l’hai messa chissà dove. E invece, ecco dov’è, guarda!»

Smosse la coperta, dalle cui pieghe cadde a terra la lettera.

«Ve la prendete sempre con me!...», esclamò Zachar.

«Via, via vattene, vattene!», gli gridò Oblomov. Zachar se ne andò, e Oblomov cominciò a leggere la lettera, che sembrava scritta col kvas su carta grigia, con sigillo di ceralacca scura. Gli enormi caratteri sbiaditi si stendevano in processione solenne, senza sfiorarsi, in una linea inclinata, dall’angolo superiore a quello inferiore. Qua e là il corteo era disturbato da una grossa macchia d’inchiostro sbiadito.

«Grazioso Signore», iniziò Oblomov, «Vostra nobiltà, padre e benefattore nostro, Il’ja Il’ič...».

Qui Oblomov tralasciò le espressioni di deferenza e gli auguri di buona salute e riprese verso la metà:

«Faccio sapere alla tua benignità padronale che nella tua proprietà, o nostro benefattore, tutto va bene. Sono cinque settimane che non piove: vuol dire che il Signore Iddio è andato in collera, se non manda la pioggia. I vecchi non ricordano una siccità come questa; il grano primaverile s’è tutto bruciato, quello vernino l’han guastato in parte i vermi, e il resto l’han distrutto le gelate precoci; abbiamo riseminato il grano di primavera, ma non sappiamo se ce la farà. Purché il Signore misericordioso conceda la sua grazia al nostro benigno padrone, non ci preoccupiamo per noi: possiamo pure crepare. Il giorno di San Giovanni se ne sono andati altre tre contadini: Laptev e Baloèov insieme, e poi per conto suo Vas’ka, il figlio del fabbro. Ho ordinato alle loro mogli di andare a riprenderli; le donne non sono tornate e, si dice, vivono a Èelki; a Èelki è andato il mio compare da Verchlëvo; ce lo ha mandato l’amministratore; a Èelki, si dice, hanno portato dall’estero un aratro e l’amministratore ci ha mandato il compare a dare un’occhiata. Io ho ordinato al compare di occuparsi dei contadini scappati; ho presentato i miei rispetti al capo della polizia, che mi ha detto: “Fai una denuncia, e sarà usato ogni mezzo per riportare i contadini al loro domicilio”, e oltre a questo non ha detto altro, e io mi sono buttato ai suoi piedi in lacrime, l’ho supplicato, ma lui si è messo a urlare a squarciagola: “Fuori, fuori! Ti ho detto che si provvederà... presenta la denuncia!”. Ma io non ho presentato la denuncia. E qui non c’è nessuno da prendere a giornata: sono andati tutti sul Volga, a lavorare sui barconi... qui da noi la gente è diventata così stupida, o nostro benefattore, o padre nostro Il’ja Il’ič! Quest’anno non porteremo alla fiera la nostra tela: ho chiuso a chiave l’essiccatoio e l’imbiancatoio e ci ho messo a guardia giorno e notte Syèug: è un contadino che non beve, ma per essere sicuro che non tocchi la roba del padrone, lo tengo d’occhio giorno e notte. Gli altri bevono come spugne e chiedono di passare a tributo. Di arretrati neanche a parlarne: quest’anno il reddito che ti manderemo, padre nostro, nostro benefattore, sarà circa duemila rubli di meno rispetto a quello dell’anno passato; purché beninteso, la siccità non distrugga tutto, manderemo alla tua grazia quello che qui abbiamo testé detto».

Seguivano espressioni di devozione e la firma: «il tuo starosta umilissimo schiavo Prokofij Vytiaguškin, che firma di sua propria mano». Poiché egli era analfabeta, la firma era costituita da una croce. «Scritta con le parole dello starosta da suo cognato Dëmka lo storpio».

Oblomov guardò in fondo alla lettera.

«Non c’è né mese né anno», disse. «La lettera deve essere rimasta in casa dello starosta fin dall’anno scorso: parla di San Giovanni, della siccità! Era ora che se ne ricordasse!».

Ci pensò su un momento.

«Eh», continuò, «che gliene sembra? offre “circa duemila rubli di meno”! Allora, quanto mi rimane? Quanto ho ricevuto l’anno scorso?», chiese guardando Alekseev. «Non glielo dissi allora?».

Alekseev alzò gli occhi al soffitto per riflettere.

«Bisogna domandarlo a Stolz, quando verrà», proseguì Oblomov. «Mi pare sette, ottomila... il guaio di non segnarsi nulla! Così lui adesso mi sistema con sei. Morirò di fame. Come farò a vivere con così poco?».

«Perché si agita tanto, Il’ja Il’ič?», disse Alekseev. «Non bisogna mai abbandonarsi alla disperazione: macina e avrai la farina».

«Ma non ha sentito quello che scrive? Invece di mandare i soldi, di consolarmi in qualche modo, lui, come per deridermi, mi dice solo cose spiacevoli! E ogni anno è così! Adesso sono proprio fuori di me! “Circa duemila rubli di meno”!».

«Sì, è una grave perdita», disse Alekseev. «Duemila... non è uno scherzo! Dicono che anche Aleksej Loginyč quest’anno riceva solo dodicimila rubli invece di diciassette».

«Ma dodici non sono sei», ribatté Oblomov. «Lo starosta mi ha completamente sconvolto. Se anche le cose stanno proprio così, e c’è un cattivo raccolto e la siccità, perché farmi angustiare in anticipo?».

«Sì... anche se le cose stanno così...», cominciò Alekseev, «è stato sconveniente; ma quale delicatezza ci si può aspettare da un contadino? È gente che non capisce nulla».

«Be’, lei che farebbe al posto mio?», chiese Oblomov rivolgendo ad Alekeev uno sguardo interrogativo, con la vaga speranza che il suo interlocutore escogitasse qualcosa per tranquillizzarlo.

«Bisogna pensarci, Il’ja Il’ič, non si possono prendere decisioni affrettate», disse Alekseev.

«Magari potrei scrivere al governatore», disse Il’ja Il’ič pensieroso.

«Chi è il suo governatore?», chiese Alekseev.

Il’ja Il’ič non rispose e continuò a pensare. Alekseev tacque e si mise a meditare anche lui.

Oblomov appoggiò la testa sulle mani che stringevano la lettera spiegazzata, puntò i gomiti sulle ginocchia, e così rimase per un certo tempo, tormentato da una folla di pensieri molesti.

«Almeno arrivasse presto Stolz!», disse. «Ha scritto che verrà presto, ma Dio sa dove sta bighellonando. Lui sistemerebbe tutto».

Ripiombò nelle sue tristi meditazioni. Tacquero a lungo entrambi. Alla fine Oblomov si riscosse per primo.

«Ecco quello che bisogna fare!», disse deciso, e mancò poco che non si alzasse dal letto, «e farlo il più presto possibile, senza indugi... Per prima cosa...».

A questo punto, risuonò una energica scampanellata, che fece sobbalzare Oblomov e Alekseev e buttò giù all’istante Zachar dal suo giaciglio.

III

«È in casa?», chiese una voce sonora e sgarbata in anticamera.

«Dove può essere a quest’ora?», rispose ancor più sgarbatamente Zachar.

Entrò un uomo di circa quarant’anni, del tipo robusto: alto di statura, aveva spalle e torso possenti, lineamenti marcati, una grossa testa sul collo corto e taurino, grandi occhi sporgenti, labbra carnose. Bastava dare una rapida occhiata a quell’individuo per avere subito la sensazione di grossolanità e sciatteria. Era evidente che non si curava affatto di essere elegante. Non sempre si aveva la fortuna di vederlo ben rasato. Ma era chiaro che a lui non importava niente; non si sentiva imbarazzato dal suo vestito, che indossava con una specie di cinica dignità.

Costui si chiamava Michej AndreevičTarant’ev, ed era compaesano di Oblomov.

Tarant’ev guardava tutto con occhio cupo, con aria quasi sprezzante, con palese malevolenza per ciò che lo circondava, pronto a prendersela con tutto e tutti sulla faccia della terra, come fosse offeso da chissà quale ingiustizia o non apprezzato per chissà quale suo merito; insomma, si comportava come un uomo forte perseguitato dal destino, che vi si sottometta di contraggenio ma senza recriminazioni.

Aveva gesti ampi e decisi; parlava forte, animatamente e quasi sempre in tono adirato; a sentirlo da una certa distanza, sembrava che tre carri vuoti passassero su un ponte. Non si lasciava intimidire dalla presenza di chicchessia, aveva sempre la risposta pronta e in generale usava modi rozzi con tutti, non esclusi gli amici, come volesse fare intendere che, se parlava con una persona, perfino se pranzava o cenava a casa sua, era un grande onore che le faceva.

Tarant’ev era un tipo sveglio e furbo; nessuno meglio di lui sapeva valutare un qualsiasi problema della vita quotidiana o una intricata vicenda giuridica: egli costruiva subito una teoria sul come agire in questo o quel caso e con molta perspicacia ne dava la dimostrazione, ma quasi sempre concludeva insolentendo la persona che si era rivolta a lui per consiglio.

Intanto però era sempre scrivano di cancelleria, un’attività che svolgeva da venticinque anni e nella quale aveva fatto i capelli bianchi. Né a lui né a nessun altro era mai venuto in mente che potesse far carriera.

Il fatto è che Tarant’ev era maestro solo nel parlare; a parole, risolevva tutto in maniera semplice e chiara, soprattutto per quanto riguardava gli altri; ma non appena bisognava alzare un dito, muoversi dal proprio posto, insomma, mettere in atto la teoria enunciata e darle pratica attuazione, dimostrare abilità, rapidità... egli diventava tutt’altro uomo: allora non ce la faceva, d’improvviso tutto gli appariva troppo pesante, lo faceva star male; quando poi c’era un caso imbarazzante di cui non voleva occuparsi, se invece se ne occupava, apriti cielo. Un vero bambino: là non riesce a vedere una cosa, qui ignora qualche inezia, là arriva in ritardo e finisce che ti pianta l’affare a mezzo, oppure lo affronta dalla fine e così lo manda in malora senza possibilità di rabberciarlo, e per giunta poi comincia a inveire.

Suo padre, che era stato impiegato di cancelleria in uno dei vecchi tribunali provinciali, avrebbe voluto lasciare in eredità al figlio la sua arte ed esperienza nel seguire gli affari altrui nonché la posizione raggiunta nel pubblico ufficio con molta abilità; ma il destino dispose diversamente. Il padre, che aveva studiato all’uso russo con pochi soldi, non volendo che il figlio rimanesse indietro rispetto ai tempi, aveva desiderato che imparasse qualche altra cosa, oltre la difficile scienza di occuparsi di affari. Per circa tre anni lo aveva mandato da un prete a studiare il latino.

Dotato per natura, in quei tre anni il ragazzo aveva assimilato la grammatica e la sintassi latine e aveva cominciato a studiare Cornelio Nepote; ma il padre decise che ne sapeva già abbastanza, che queste cognizioni gli davano già un enorme vantaggio rispetto alla vecchia generazione e che, infine, degli studi più prolungati avrebbero forse arrecato danno in un ufficio pubblico.

Il sedicenne Michej, non sapendo che fare del suo latino, cominciò a dimenticarlo in casa dei genitori, ma per contro, in attesa dell’onore di presiedere un giorno il tribunale della provincia o del distretto, assisté a tutti i banchetti del padre, e a questa scuola, dove si parlava con molta franchezza, si affinò l’intelligenza del ragazzo. Con la ricettività propria dei giovani, egli ascoltava i racconti del padre e dei suoi amici su diverse cause civili e penali, sui casi curiosi che erano passati per le mani di quei vecchi impiegati di cancelleria.

Ma tutto questo non portò a nulla. Michej non diventò né un traffichino né un azzeccagarbugli, nonostante che il padre si sforzasse in tutti i modi di incoraggiarlo; e i suoi sforzi sarebbero stati senz’altro coronati dal successo, se il destino non avesse mandato all’aria i suoi progetti. In effetti Michej si impadronì di tutta la teoria contenuta nei discorsi paterni e non gli restava che metterla in pratica; ma, alla morte del padre, non gli riuscì di intraprendere la carriera giudiziaria e fu condotto a Pietroburgo da un benefattore, il quale lo sistemò come scrivano in un dipartimento ministeriale e poi si dimenticò di lui.

Così Tarant’ev rimase un teorico per tutta la vita. Nel posto che occupava a Pietroburgo a nulla gli servivano il latino e la capacità di costruire sottili teorie per manipolare a proprio arbitrio le cause giuste e ingiuste; e intanto portava dentro di sé, di ciò consapevole, una forza sonnecchiante, che circostanze avverse avevano chiuso in lui senza speranza di estrinsecazione, come nelle favole venivano rinchiusi fra anguste mura, per opera di incantesimo, gli spiriti del male, privati della forza di nuocere. Forse proprio perché cosciente di questa sua inutile forza, Tarant’ev aveva modi sgarbati, era malevolo, sempre adirato e litigioso.

Egli considerava con amarezza e disprezzo la sua attività, che consisteva nel ricopiare documenti, nel metterli agli atti e via dicendo. Gli sorrideva solo un’ultima, lontana speranza: passare all’appalto Alcolici. In ciò egli vedeva l’unica alternativa vantaggiosa all’attività cui il padre lo aveva destinato e nella quale non era riuscito. E in tale attesa applicava a tutte le inezie della sua insignificante esistenza a Pietroburgo la teoria sul modo di agire e di vivere creata e tramandatagli dal padre, la teoria dell’intrallazzo e dell’astuzia, che non aveva saputo degnamente applicare in provincia; e, non avendo relazioni ufficiali, se ne serviva nei rapporti con le persone amiche.

Corrotto nell’anima per principio, non avendo né cause né postulanti, si ingegnava a cavare qualcosa da colleghi e amici, Dio sa come a quale titolo: dovunque e con chiunque gli riuscisse, vuoi con la furberia vuoi a furia di insistere, si imponeva come ospite, pretendendo da tutti, con permalosa cavillosità, un rispetto immeritato. Non si vergognava mai dei suoi abiti consunti, ma era sempre pronto ad allarmarsi se nella prospettiva della giornata non c’era un pranzo pantagruelico convenientemente annaffiato da vino e vodka.

Così nella cerchia delle sue conoscenze egli sosteneva il ruolo del grosso cane da guardia, che abbaia a tutti, non permette a nessuno di muoversi, ma nello stesso tempo acchiappa al volo immancabilmente un pezzo di carne, qualunque ne sia la provenienza e dovunque cada.

Tali erano i due più assidui visitatori di Oblomov.

Come mai questi due proletari russi andavano da lui? Loro lo sapevano molto bene: per bere, mangiare, fumare buoni sigari. Trovavano un rifugio caldo e tranquillo e sempre la stessa accoglienza, se non cordiale, almeno indifferente.

Ma perché Oblomov li ricevesse... quasi non se ne rendeva conto nemmeno lui. Forse per lo stesso motivo per cui ancora al giorno d’oggi nelle nostre lontane Oblomovki, in ogni casa agiata, si affollano sciami di simili persone di ambo i sessi, senza sostanza né mestiere, senza mani per produrre, solo provviste di uno stomaco per consumare, ma quasi sempre con un grado e un titolo altisonante.

Vi sono ancora taluni sibariti per la cui esistenza complementi del genere sono indispensabili: se non hanno il superfluo, si annoiano. Chi gli darà la tabacchiera perduta chissà dove, o gli raccoglierà da terra il fazzoletto caduto? A chi potranno raccontare i tormenti del loro mal di testa, col diritto di essere compatiti, o un brutto sogno, esigendone l’interpretazione? E prima di coricarsi, chi gli leggerà un libro che li aiuti a prendere sonno? Talvolta proletari del genere possono essere spediti nella città vicina a fare compere, e possono aiutarvi nell’amministrazione della casa: perché rompersi la testa da soli?

Tarant’ev, con il chiasso che faceva, strappava Oblomov dall’immobilità e dalla noia. Berciava, discuteva e offriva all’ozioso padrone di casa una specie di spettacolo, dispensandolo così dalla necessità di parlare e di agire. Nella stanza dove il sonno e la calma erano sovrani, Tarant’ev portava la vita, il movimento e, a volte, notizie dall’esterno: Oblomov poteva ascoltare, guardare, senza spostare un dito, qualcosa di animato che si muoveva e parlava davanti a lui. Inoltre, era ancora tanto ingenuo da credere che Tarant’ev potesse davvero dargli qualche consiglio sensato.

Quanto ad Alekseev, Oblomov sopportava le sue visite per un altro motivo non meno importante. Se egli voleva vivere a modo suo, cioè starsene coricato in silenzio, sonnecchiare o passeggiare per la stanza, Alekseev era come non esistesse: anche lui taceva, sonnecchiava o sfogliava un libro, o guardava i quadri e i ninnoli sbadigliando fino alle lacrime. Era capace di vivere così anche tre giorni di seguito. Se invece Oblomov, annoiato di star solo, sentiva la necessità di esprimersi, di parlare, di leggere, di ragionare, di manifestare un’emozione... ecco lì sempre pronto l’ascoltatore docile e partecipe, disposto a condividere il suo silenzio e la sua conversazione, le sue emozioni e opinioni, quali che fossero.

Gli altri ospiti passavano di rado e si trattenevano qualche minuto, come i primi tre visitatori, con i quali i legami si andavano allentando sempre più. Oblomov si interessava a volte a qualche novità, in una conversazione di cinque minuti; poi, ritenendosi pago, taceva. Avrebbe dovuto ripagare costoro con la stessa moneta, partecipare a ciò che li interessava. Essi vivevano in mezzo alla gente; ognuno di loro capiva la vita a modo suo, come non poteva capirla Oblomov, e volevano invischiarvi anche lui; tutto ciò non gli piaceva, gli ripugnava, non gli andava a genio.

Uno solo era il suo prediletto, e anche lui non gli dava pace; amava le novità, il mondo, la scienza a tutta la vita, ma in modo più profondo e genuino. E Oblomov, pur essendo gentile con tutti, provava un affetto sincero solo per lui, credeva solo a lui, forse perché erano cresciuti e avevano studiato e vissuto insieme. Quest’uomo era Andrej Ivanovič Stolz.

Per il momento era assente, ma Oblomov lo aspettava di ora in ora.

IV

«Salve, paesano», disse Tarant’ev staccando le parole e porgendo a Oblomov la mano villosa. «Perché a quest’ora te ne stai ancora a letto, come un ciocco?».

«Non avvicinarti, non avvicinarti: mi porti il freddo di fuori!», disse Oblomov avvolgendosi nella coperta.

«Eccone un’altra nuova: porto il freddo!», protestò Tarant’ev. «Dài, su, stringi la mano quando te la porgono! È quasi mezzogiorno, e lui poltrisce ancora!».

Fece per tirar su dal letto Oblomov, ma questi lo prevenne buttando giù in fretta i piedi che trovarono subito le pantofole.

«Stavo giusto per alzarmi», disse sbadigliando.

«Lo so come ti alzi: saresti rimasti a letto fino all’ora di pranzo. Ehi, Zachar! Dove sei, vecchio imbecille? Porta subito i vestiti del padrone!».

«Voi, procuratevi prima di tutto un vostro Zachar, e poi sbraitate», disse Zachar entrando nella stanza e dando un’occhiata cattiva a Tarant’ev. «Avete lasciato un mucchio di zampate di fango, come un venditore ambulante», aggiunse.

«Gli si è sciolta la lingua, a codesto brutto muso!», disse Tarant’ev, alzando un piede per dare un calcio nel di dietro a Zachar che gli passava accanto; ma Zachar si fermò e si voltò con aria minacciosa.

«Provate solo a toccarmi!», gracidò infuriato. «Roba da... Basta! Io me ne vado...», disse indietreggiando verso la porta.

«Adesso finiscila, Michej Andrejè, sei troppo turbolento! Perché ce l’hai con lui?», disse Oblomov. «Avanti, Zachar, portami l’occorrente!».

Zachar tornò e, guardando in tralice Tarant’ev, gli passò lesto davanti.

Oblomov, appoggiandosi a lui, si alzò dal letto di malavoglia, come fosse terribilmente stanco e, sempre di malavoglia, arrivò alla grande poltrona nella quale si lasciò cadere, rimanendo poi immobile.

Zachar prese da un tavolinetto la pomata, il pettine e le spazzole, gli impomatò la testa, fece la scriminatura e poi allisciò i capelli con la spazzola.

«Vi volete lavare, adesso?», chiese.

«Aspetto ancora un po’», rispose Oblomov. «Puoi tornare di là».

«Ah, è qui anche lei?», disse d’un tratto Tarant’ev rivolto ad Alekseev mentre Zachar pettinava Oblomov. «Non l’avevo vista. Come mai è qui? Ma che razza di porco è quel suo parente! Volevo sempre dirglielo...».

«Quale parente? Io non ho parenti», rispose timidamente Alekseev sgranando gli occhi stupito.

«Ma come? Quello che è funzionario... come si chiama?... Afanas’ev. E lei dice che non è suo parente?... Sì che lo è».

«Io non mi chiamo Afanas’ev, ma Alekseev», disse Alekseev, «e non ho parenti».

«Ma come non è suo parente! È un tipo squallido come lei, e anche lui si chiama Vasili Nicolaiè».

«Non siamo parenti, le assicuro; io mi chiamo Ivan Alekseiè».

«Be’, è lo stesso, le assomiglia. Solo che lui è un porco. Glielo dica, quando lo vedrà».

«Io non lo conosco, non l’ho mai visto», disse Alekseev aprendo la tabacchiera.

«Su, mi dia una presa!», disse Tarant’ev. «Ma è tabacco comune, non è francese! È proprio così», commentò dopo avere annusato. «Perché non ha tabacco francese?», chiese poi con tono severo.

«Eh, sì, un porco come il suo parente non l’ho mai visto», proseguì Tarant’ev. «Tempo fa, saranno già un paio d’anni, ho preso in prestito da lui cinquanta rubli. Be’, sono forse una gran somma, cinquanta rubli? Non le pare una cifra da dimenticare? No, lui se la ricorda; ogni mese, dovunque mi incontri: “E quel debituccio?”, dice. Che importuno! E non basta: ieri è venuto nel mio ufficio al ministero: “Ha appena preso lo stipendio, dice, adesso può darmi quello che mi spetta”. Gliel’ho dato io quello che gli spetta: l’ho tanto svergognato davanti a tutti che ha trovato a fatica la porta per andarsene. “Sono un poveraccio, mi servono!”. Come se a me non servissero. Non sono così ricco da regalargli cinquanta rubli! Su, paesano, dammi un sigaro».

«I sigari sono là nella scatola», disse Oblomov indicando lo scaffale.

Se ne stava pensieroso in poltrona nel consueto atteggiamento di piacevole indolenza, non si rendeva conto di ciò che accadeva intorno a lui, non ascoltava ciò che gli altri dicevano. Si guardava le piccole mani bianche lisciandosele amorevolmente.

«Ohè! Ma sono sempre gli stessi?», chiese con tono severo Tarant’ev, prendendo un sigaro e guardando Oblomov.

«Sì, sempre gli stessi», rispose macchinalmente Oblomov.

«Non ti avevo detto di comprarne degli altri, di quelli esteri? Ecco come ricordi quello che ti si dice! Bada di farmeli trovare senza fallo sabato prossimo, altrimenti non mi vedrai più per un pezzo. Guarda un po’ che schifezza!», proseguì dopo avere acceso il sigaro, che fumava gettando in aria una boccata e aspirando la successiva. «Sono infumabili».

«Oggi sei venuto presto, Michej Andreič», disse sbadigliando Oblomov.

«Che, ti scoccio forse?».

«No, l’ho solo notato: tu d’abitudine arrivi esattamente all’ora di pranzo, e adesso non è ancora la una».

«Sono venuto prima apposta, per vedere che c’è da pranzo. Mi dai sempre da mangiare certe porcherie, che voglio sapere cos’hai ordinato di preparare oggi».

«Vai a informarti in cucina», disse Oblomov.

Tarant’ev ci andò.

«Per carità!», disse tornando. «Bue e vitello! Eh, fratello Oblomov, non sai vivere tu, e dire che sei un possidente! Che razza di signore sei? Vivi come un piccolo borghese; non sai neanche accogliere come si deve un amico! Be’, il madera l’hai fatto comprare?».

«Non so, chiedi a Zachar», disse Oblomov quasi senza ascoltarlo. «Comunque, di vino ce n’è di certo».

«Il solito vino tedesco? No, davvero, sii tanto gentile da farne comprare al negozio inglese».

«Ma va bene anche questo», disse Oblomov, «e poi dover mandare di nuovo...».

«No, aspetta, dai a me i soldi e te lo porterò io: devo fare ancora qualche commissione e ci passo vicino».

Oblomov rovistò nel cassetto e tirò fuori una di quelle banconote rosse da dieci rubli allora in circolazione.

«Il madera costa sette rubli», disse, «e questi sono dieci».

«D’accordo: mi farò dare il resto, non aver paura!».

Strappò la banconota dalle mani di Oblomov e se la fece sparire rapidamente in tasca.

«Allora, vado», disse Tarant’ev mettendosi il cappello. «Torno verso le cinque; devo fare diversi giri: mi hanno promesso un posto all’Ufficio dell’appalto Alcolici e hanno detto di farmi vedere... Ah, già, Il’ja Il’ič: non noleggeresti una carrozza oggi per andare a Ekaterinhof? Potresti portarmi con te».

Oblomov agitò la testa in segno di diniego.

«Cos’è, pigrizia o tirchieria? Se un bell’elemento», disse. «Be’, addio...».

«Aspetta, Michej Andreič», lo fermò Oblomov. «Ho bisogno di consigliarmi con te su certe cose».

«Che altro c’è? Dimmelo in fretta: non ho tempo».

«Ecco, mi sono capitati due guai. Devo lasciare l’appartamento...».

«Ho capito, non paghi: te lo meriti», disse Tarant’ev, e fece per andarsene.

«Ma no! Io pago sempre anticipato. È che vogliono ingrandire l’altro appartamento... Aspetta! Dove vai? Dimmi cosa devo fare: mi sollecitano perché sloggi entro una settimana...».

«E che, dovrei farti da consigliere?... Ti sbagli, se immagini...».

«Io non immagino proprio niente», disse Oblomov, «non c’è bisogno che tu faccia tanto chiasso: pensa piuttosto a quello che si può fare. Tu sei un uomo pratico...».

Tarant’ev non lo ascoltava già più e rimuginava qualche cosa.

«E va bene, me ne occuperò, ringraziami», disse togliendosi il cappello e mettendosi a sedere; «e da’ ordine che a pranzo ci sia lo champagne: la tua faccenda è sistemata».

«Come?», chiese Oblomov.

«Ci sarà lo champagne?».

«Può darsi, se il consiglio lo merita».

«No, sei tu che non meriti consigli. Perché dovrei consigliarti gratis? Su, chiedilo a lui», aggiunse indicando Alekseev, «o al suo parente».

«Via, via, basta, parla!», lo pregò Oblomov.

«Ecco, domani stesso lascerai l’appartamento...».

«Che idea geniale! A questo ci arrivavo da me...».

«Aspetta, non m’interrompere!», gridò Tarant’ev. «Domani lascerai l’appartamento per trasferirti in quello della mia comare, nel quartiere di Vyborg...».

«Ma che novità è questa? Nel quartiere di Vyborg! Dicono che da quelle parti d’inverno ci scorrazzino ancora i lupi».

«Capita che a volte ci facciano una puntatina dalle isole, ma a te che cosa importa?».

«Là ci si annoia, è un deserto, non c’è nessuno».

«Balle! Ci abita la mia comare, che ha una casa con orti e giardini. È una donna gentile, vedova con due figli; con lei vive un fratello celibe: un tipo con il sale nella zucca, non come quello che se ne sta seduto in quell’angolo», disse indicando Alekseev. «Quello ci dà dei punti a tutti e due!».

«Ma cosa importa a me di tutto questo?», disse impaziente Oblomov. «Io là non ci vado».

«Voglio proprio vedere come farai a non andarci. Eh no, quando uno chiede un consiglio, poi deve ascoltare quello che gli si dice».

«Non ci andrò», disse deciso Oblomov.

«E allora va’ al diavolo!», rispose Tarant’ev, ricalcandosi il cappello in testa e avviandosi verso la porta.

«Che razza di strampalato!», disse poi voltandosi. «Cosa ci trovi qui di tanto bello?».

«E me lo domandi? Qui ho tutto vicino», disse Oblomov, «i negozi, il teatro, i conoscenti... il centro della città, tutto...».

«Co-o-sa?», lo interruppe Tarant’ev. «Di’ un po’: da quanto tempo non metti piede fuori di casa? Da quanto tempo non vai a teatro? Quali conoscenti vai a trovare? A cosa diavolo ti serve il centro, mi faresti il piacere di spiegarmelo?».

«Come, a cosa? I motivi possono essere tanti».

«Lo vedi, non lo sai neanche tu. Là, invece, pensa un po’: vivrai dalla mia comare, una donna gentile, nella pace e nel silenzio; nessuno che ti disturbi; niente rumori, niente baccano, tutto pulito, ordinato. Guarda come vivi adesso: proprio come in una locanda, eppure sei un signore, un possidente! Là, invece, pulizia, silenzio; e hai la possibilità di scambiare una parola con qualcuno, se ti annoi. Tranne me, non verrà nessun altro a trovarti. Ci sono due ragazzini: potrai giocare con loro quanto ti pare! Che altro vuoi? E poi il vantaggio, il vantaggio che ne ricavi. Quanto paghi qui?».

«Millecinquecento».

«E là mille rubli per quasi tutta la casa! E che stanze luminose e belle! La mia comare voleva da un pezzo un inquilino tranquillo, puntuale: e io le do te...».

Oblomov scosse distrattamente la testa in segno di diniego.

«Sciocchezze, traslocherai!», disse Tarant’ev. «Rifletti, ti verrà a costare due volte meno: sul solo appartamento ci guadagni cinquecento rubli. La tua tavola sarà due volte meglio e più pulita; né la cuoca né Zachar ti deruberanno...».

In corridoio si udì un borbottìo.

«E ci sarà molto più ordine», proseguì Tarant’ev; «adesso c’è da sentirsi male a sedere alla tua tavola! Vuoi il pepe... non c’è, l’aceto non è stato comperato, i coltelli non sono lucidati; la biancheria, lo dici tu stesso, scompare, c’è polvere dappertutto: uno schifo! E là ci sarà una donna che sbrigherà le faccende di casa: né tu, né quell’imbecille del tuo Zachar...».

Il borbottìo in anticamera si fece più forte.

«Quel vecchio cane», proseguì Tarant’ev, «non dovrà più pensare a niente: avrai tutto pronto. Perché ci pensi su tanto? Trasloca e facciamola finita...».

«Ma come posso, così all’improvviso, senza dire né ai né bai, andare a finire nel quartiere di Vyborg?».

«Ma piantala!», esclamò Tarant’ev asciugandosi il sudore dal viso. «Adesso è estate: là è né più né meno che se andassi in villa. Là c’è il giardino Bezborodkin, l’Ochta è a portata di mano, la Neva è a due passi, puoi disporre di un orto... senza polvere né afa! Non c’è da pensarci su; faccio un salto subito, prima di pranzo, dalla comare... tu mi dai i soldi per la carrozza e già domani puoi traslocare...».

«Ma che accidenti!», esclamò Oblomov. «Di botto si fa venire in testa sa il diavolo che; nel quartiere di Vyborg... La fai facile tu... Una bella pensata davvero! Aguzza piuttosto l’ingegno per trovare il modo di farmi rimanere qui. Ci abito da otto anni e non mi va di cambiare...».

«Questo è un argomento chiuso: tu traslocherai. Adesso vado dalla comare, del mio posto mi occuperò un’altra volta...».

E fece per andarsene.

«Aspetta, aspetta! Dove vai?», lo fermò Oblomov. «Ho un’altra questione, ancora più importante. Guarda la lettera che ho ricevuto dallostarosta e dimmi cosa devo fare».

«Lo vedi come sei!», protestò Tarant’ev. «Non sai mai sbrogliartela da solo. Tutto io, sempre io! Ma di che sostanza sei fatto? Di paglia, o che?».

«Dov’è andata a finire la lettera? Zachar, Zachar! Chissà dove l’ha cacciata di nuovo!», disse Oblomov.

«Ecco la lettera dello starosta», disse Alekseev raccogliendo la lettera spiegazzata.

«Ah, eccola», ripeté Oblomov, e cominciò a leggerla ad alta voce.

«Che ne dici? Che debbo fare?», domandò quando ebbe finito la lettura. «Siccità, raccolto scarso...».

«Finito, sei un uomo finito!», disse Tarant’ev.

«Perché finito?».

«E me lo chiedi?».

«Be’, se sono finito, dimmi cosa devo fare».

«E per questo cosa mi dai?».

«L’abbiamo detto: ci sarà lo champagne. Che altro vuoi?».

«Lo champagne è perché ti ho trovato l’appartamento: vedi, io ti ho beneficato, ma tu non lo capisci, chiedi ancora dell’altro; sei un ingrato! Vai, va’ a cercartelo da solo l’appartamento! E che appartamento! Soprattutto, ci troveresti la tranquillità: proprio come se vivessi con una sorella. Due ragazzini, un fratello celibe, io passerei da te tutti i giorni...».

«Sì, sì, va bene», lo interruppe Oblomov, «adesso dimmi cosa devo fare con lo starosta».

«No, prima ordina del Porter per il pranzo, poi te lo dico».

«Adesso anche il Porter! Non hai avuto abbastanza...».

«Allora, addio», disse Tarant’ev rimettendosi il cappello.

«Oh, Dio mio! Lo starosta mi scrive che «il reddito sarà circa duemila rubli di meno», e lui pretende anche il Porter! Be’, d’accordo, compra il Porter».

«Dammi degli altri soldi», disse Tarant’ev.

«Ti rimane il resto del biglietto di dieci rubli».

«E per la carrozza che mi deve portare a Vyborg?».

Oblomov tirò fuori un altro rublo e glielo diede con un moto di stizza.

«Il tuo starosta è un furfante, ecco cosa ti dico», cominciò Tarant’ev, facendo sparire il rublo in tasca, «e tu gli credi a occhi chiusi. Senti un po’ che specie di canzone ti canta! Siccità, cattivo raccolto, arretrati, e contadini scappati. Mente, non fa che mentire! Ho sentito che dalle nostre parti, a Šumilovo, col raccolto dell’anno scorso hanno pagato tutti i debiti, mentre da te all’improvviso c’è stata siccità e cattivo raccolto. Šumilovo è appena a cinquanta verste dalle tue terre: come mai là il grano non è bruciato? E poi tira fuori gli arretrati insoluti. E lui a che badava? Perché li ha trascurati? Perché ci sono arretrati non saldati? Forse che dalle nostre parti non c’è lavoro, non c’è commercio? Che bandito! Mi piacerebbe dargli una bella lezione! E i contadini si sono squagliati magari perché proprio lui, dopo averli spennati ben bene, ha lasciato che scappassero e non ha pensato nemmeno lontanamente di andare alla polizia».

«Non può essere», disse Oblomov. «Nella lettera riferisce perfino la risposta del capo della polizia, con tanta naturalezza...».

«Eh, tu non capisci niente! Tutti i furfanti scrivono con naturalezza, devi credermi! Ecco, per esempio», continuò indicando Alekseev, «quell’anima candida, quella pecorella innocente, scrive forse con naturalezza? Mai e poi mai. Invece il suo parente, benché sia un porco e una bestia, quello sì. E neanche tu scrivi con naturalezza! Ne consegue che proprio perché il tuostarosta è una bestia, scrive con abilità e naturalezza. Guarda come mette bene in ordine le parole: “riportare i contadini al loro domicilio”».

«Insomma, che devo fare con lui?», chiese Oblomov.

«Cambiarlo immediatamente».

«E chi ci metto al suo posto? Come vuoi che io conosca i contadini? Forse un altro sarebbe peggio di lui. Sono dodici anni che non vado laggiù».

«Devi andare di persona; se no, non combini niente: passi l’estate là, e in autunno ti trasferisci direttamente nel nuovo appartamento. Provvederò io a fartelo trovare pronto».

«Nel nuovo appartamento... in campagna... io! Ma queste che mi proponi son tutte soluzioni drastiche», disse scontento Oblomov. «Bisogna evitare gli estremi e mantenersi nel mezzo».

«Tu fratello Il’ja Il’ič, andrai completamente in malora. Io, nei tuoi panni, da un pezzo avrei ipotecato la proprietà e ne avrei comprata un’altra, oppure una casa qui, in un bel posto, che varrebbe quanto la tua campagna. E poi avrei ipotecato anche la casa per comprarne un’altra... Fossi io il padrone, mi sentirebbe quella gente là».

«Smettila di fare lo spaccone, e trovami piuttosto il sistema per non lasciare l’appartamento, non andare in campagna e sistemare tutto quanto...», lo apostrofò Oblomov.

«Ma uscirai una volta o l’altra dal tuo guscio?», disse Tarant’ev. «Guardati un po’: a che servi? Di quale utilità sei per il tuo paese? Non se la sente nemmeno di andare nel suo villaggio!».

«È ancora troppo presto per andarci», rispose Il’ja Il’ič. «Prima lasciami finire il piano per le riforme che ho in animo di attuare nella proprietà... Sai che penso, Michej Andreič?», disse all’improvviso Oblomov. «Vacci tu. Tu sai come stanno le cose, conosci anche i posti, e io non baderei a spese».

«E che, sono forse il tuo amministratore?», ribatté con arroganza Tarant’ev. «E poi non sono più abituato a trattare con i contadini».

«Che devo fare?», disse perplesso Oblomov. «Davvero non lo so».

«Avanti, scrivi al capo della polizia per chiedergli se lo starosta gli ha parlato dei contadini scappati», gli consigliò Tarant’ev. «Pregalo di andare nella tua proprietà; poi scrivi al governatore che ordini al capo della polizia di fargli una relazione sul comportamento dello starosta. “Prego l’Eccellenza Vostra”, devi dire, “di volgere la sua paterna attenzione e il suo occhio pietoso sulla imminente, terribile sciagura che mi minaccia, causata dalle malvagie azioni del miostarosta, e sulla estrema rovina alla quale sarò inevitabilmente esposto insieme con mia moglie e i miei figlioletti, che rimarranno senza tetto e senza un tozzo di pane, dodici creaturine in tenera età...”».

Oblomov si mise a ridere.

«E dove vado a prenderli tanti bambini, se mi chiedono di mostrarli?», disse.

«Sciocchezze! Scrivi dodici figlioletti: la cosa gli sfiorerà l’orecchio, senza indurli a fare indagini, e per contro sarà “naturale”... Il governatore passerà la lettera al segretario, e tu contemporaneamente scriverai anche a lui, beninteso accludendo un “presente”: e quello darà disposizioni. E rivolgiti anche ai tuoi vicini: chi c’è là?».

«Dobrynin abita vicino», disse Oblomov, «mi sono incontrato spesso qui con lui; adesso si trova là».

«Scrivi anche a lui, e pregalo con belle maniere: “Se mi farete questo favore vitale, devi dirgli, vi resterò obbligato come cristiano, come amico e come vicino”. E accompagna la lettera con un ricordo di Pietroburgo... sigari, o roba del genere. Ecco come devi agire, e se non lo fai, vuol dire che non capisci niente. Sei un uomo finito! Lo farei ballare io, lo starosta: quante gliene suonerei! Quando parte la posta per il villaggio?».

«Dopodomani», disse Oblomov.

«Allora mettiti a tavolino e scrivi subito».

«Dato che parte dopodomani, che bisogno c’è di scrivre subito?», gli fece rilevare Oblomov. «Posso farlo anche domani. Piuttosto, senti, Michej Andreič», proseguì, «porta a termine la tua “buona azione”, e in questo caso io aggiungerò al pranzo anche del pesce o della selvaggina».

«Che altro vuoi?», chiese Tarant’ev.

«Mettiti a sedere e scrivi. Ti ci vuol tanto a mettere insieme tre lettere? Tu racconti le cose con tanta “naturalezza”...», aggiunse sforzandosi di nascondere un sorriso, «e poi Ivan Alekseev potrebbe ricopiarle...».

«Ma che bella pensata!», rispose Tarant’ev. «Dovrei mettermi a scrivere! Sono tre giorni che non scrivo nemmeno in ufficio: appena mi ci metto, mi comincia a lacrimare l’occhio sinistro; devo aver preso un colpo d’aria, e il sangue mi va alla testa appena mi chino... Che pigrone sei, che pigrone! Andrai in malora, caro il mio Il’ja Il’ič, e per niente!».

«Ah, se almeno arrivasse presto Andrej», disse Oblomov. «Lui aggiusterebbe tutto...».

«Ecco, hai trovato il benefattore!», lo interruppe Tarant’ev. «Un maledetto tedesco, un astuto furfante».

Tarant’ev provava una specie di istintiva avversione per gli stranieri. Ai suoi occhi, francesi, tedeschi, inglesi erano sinonimi di furfanti, truffatori, furbi o briganti. Non faceva nemmeno distinzione tra una nazionalità e l’altra, erano tutte uguali.

«Ascolta, Michej Andreič», lo ammonì con tono severo Oblomov, «ti ho già pregato di tenere a freno la lingua, soprattutto quando parli di un mio intimo...».

«Intimo!», ribatté astioso Tarant’ev. «Che, è forse tuo parente? È tedesco... lo sanno tutti».

«Mi è più intimo di qualsiasi parente: sono cresciuto e ho studiato con lui e non tollero insolenze...».

Tarant’ev avvampò dalla rabbia.

«Ah! Se mi preferisci un tedesco», disse, «allora non metterò più piede in casa tua».

Si mise il cappello e si avviò verso la porta. Oblomov si rabbonì all’istante.

«Dovresti solo rispettare in lui il mio amico ed esprimerti con maggior cautela sul suo conto: ecco tutto quello che ti chiedo. Non mi pare di pretendere troppo», disse.

«Rispettare un tedesco?», disse Tarant’ev, con supremo disprezzo. «Perché dovrei farlo?».

«Te l’ho detto: non fosse altro, perché siamo cresciuti e abbiamo studiato insieme».

«Sai quanto è importante! Come fossero pochi gli ex compagni di studi!».

«Vedi, se lui fosse stato qui, già da un pezzo mi avrebbe liberato da ogni fastidio, senza chiedere né Porter né champagne...», disse Oblomov.

«Ah, mi rimproveri, pure! Allora, sai cosa ti dico?: va al diavolo, tu, il Porter e lo champagne! To’, riprenditi i tuoi soldi... Dove li ho cacciati? Ho completamente dimenticato dove li ho ficcati, quei maledetti!».

Tirò fuori un pezzetto di carta bisunto e spiegazzato.

«No, non è questo...», disse. «Dove li avrò...».

Continuò a frugarsi nelle tasche.

«Non ti affannare a trovarli!», disse Oblomov. «Non ti rimprovero, ma solo ti prego di esprimerti in maniera più conveniente quando parli di una persona che mi è cara e che ha fatto tanto per me...».

«Tanto!», ribatté con astio Tarant’ev. «Aspetta, e vedrai che farà ancora di più... tu dagli solo ascolto!».

«Perché mi dici questo?», chiese Oblomov.

«Perché quando il tuo tedesco ti avrà ben spennato, allora saprai cosa significa preferire a un compaesano, a un russo, un vagabondo qualsiasi...».

«Ascolta, Michei Andreič...», cominciò Oblomov.

«Non c’è niente da ascoltare, ho ascoltato fin troppo, ho sopportato i tuoi cocenti insulti! Iddio vede quante offese ho patito... Probabilmente, in Sassonia suo padre non aveva neanche un pezzo di pane, ed è venuto qui a darsi delle arie».

«Perché vai a tirar fuori i morti? Che colpe ha commesso il padre?».

«Sono colpevoli tutti e due, padre e figlio», disse cupo Tarant’ev agitando una mano. «Non per nulla mio padre mi consigliava di guardarmi da questi tedeschi, e lui di gente del genere ne aveva conosciuta tanta in vita sua!».

«Ma suo padre, per esempio, perché non ti piaceva?», chiese Il’ja Il’ič.

«Perché quando è arrivato nella nostra provincia, ed era già settembre, aveva solo una finanziera e solo un paio di scarpe leggere, e di colpo, quando è morto, ha lasciato un’eredità al figlio... Che significa questo?».

«Gli ha lasciato un’eredità di quarantamila rubli in tutto. La moglie gli aveva portato qualcosa in dote, e il resto se lo guadagnò dando lezioni ai bambini e amministrando una proprietà: aveva un buon stipendio. Vedi bene che il padre non era colpevole di niente. E adesso dimmi che colpe ha commesso il figlio».

«Proprio un bravo ragazzo! In quattro e quattr’otto, ha trasformato i quarantamila rubli lasciatigli dal padre in un capitale di trecentomila, in ufficio è arrivato al rango di consigliere aulico, è un sapientone... e adesso si è messo anche a viaggiare! Ficca il naso dappertutto! Forse che un autentico buon russo farebbe tante cose insieme? Un russo sceglie di fare una cosa qualsiasi, una sola, e anche quella senza fretta, lemme lemme, alla bell’e meglio; ma quello lì, figurati! Se almeno fosse entrato al monopolio... be’, si capirebbe come ha fatto ad arricchire; e invece niente, così, in un batter d’occhio! C’è qualcosa di poco pulito! Gente simile la farei processare! E adesso se ne sta a scorrazzare, sa il diavolo dove!», proseguì Tarant’ev. «A che scopo va a scorrazzare in terre straniere?».

«Vuole imparare, vedere tutto, sapere».

«Imparare! Non ha ancora imparato abbastanza? A che gli serve? Quello mente, non credergli; ti inganna spudoratamente, come se fossi un ragazzino! Forse che gli adulti devono ancora imparare qualche cosa? Senti un po’ cosa va cianciando: un consigliere aulico che studia! Tu, per esempio, hai studiato a scuola; forse che adesso studi ancora? E forse che lui (indicò Alekseev) studia? E il suo parente studia? Qual è la persona per bene che studia? Ti ha raccontato che è andato in una scuola tedesca per studiare? Mente! Io ho sentito che è andato a vedere una certa macchina per ordinarla: evidentemente, un torchio per fare moneta russa! In galera lo manderei... Azioni del genere... Oh, sono azioni che mi rivoltano!».

Oblomov scoppiò a ridere.

«Cosa hai da sghignazzare? Non è forse vero quello che dico?», chiese Tarant’ev.

«Be’, facciamola finita!», troncò Il’ja Il’ič. «Tu vai con Dio dove volevi andare, e io con Ivan Alekseevič scriverò tutte le lettere e cercherò di buttar giù in fretta il mio piano; è proprio quello che mi ci vuole, far tutto in una volta...».

Tarant’ev, fece per andare verso l’anticamera, ma d’improvviso tornò indietro.

«L’avevo completamente dimenticato! Ero venuto da te per una faccenda», cominciò, abbandonando del tutto i modi rozzi. «Domani sono invitato a un matrimonio: si sposa Rokotov. Prestami il tuo frac, paesano; il mio, lo sai, è piuttosto logoro...».

«Ma non è possibile!» disse Oblomov, accigliandosi a questa nuova richiesta. «Il mio frac a te non va bene...».

«Mi va bene, come no!», lo interruppe Tarant’ev. «Ricordati che ho misurato la tua finanziera: sembrava tagliata addosso a me! Zachar, Zachar, vieni qua, vecchia bestia!», gridò Tarant’ev.

Zachar mugghiò come un orso, ma non si mosse.

«Chiamalo, Il’ja Il’ič. Che razza di servo hai?», si lamentò Tarant’ev.

«Zachar!», gridò Oblomov.

«Oh, che vi pigli...», si sentì dall’anticamera insieme col solito tonfo.

«Allora, che volete?», chiese rivolto a Tarant’ev.

«Porta qui il mio frac nero», ordinò Il’ja Il’ič. «Michej Andreič lo vuole misurare, per vedere se gli va bene: domani deve andare a un matrimonio...».

«Il frac non glielo do», disse deciso Zachar.

«Come osi, quando il padrone te lo ordina?», berciò Tarant’ev. «Ma perché, Il’ja Il’ič, non lo mandi in un correzionale?».

«Ecco, non ci mancherebbe che questo: mandare un vecchio in un correzionale!», disse Oblomov. «Su, Zachar, porta il frac, non essere cocciuto!».

«Non glielo do!», rispose freddamente Zachar. «Prima deve riportarci il nostro panciotto e la nostra camicia: sono cinque mesi che se li tiene. Anche quelli li ha presi per un onomastico, e chi s’è visto s’è visto; il panciotto era di velluto, e la camicia di tela fine d’Olanda; venticinque rubli. Il frac non glielo do!».

«Allora, addio! Andate tutti al diavolo!», sbraitò Tarant’ev infuriato mentre se ne andava, minacciando Zachar con il pugno. «Bada, Il’ja Il’ič, che affitto a tuo nome l’appartamento... hai capito?», aggiunse.

«Va bene, va bene», disse Oblomov spazientito, tanto per levarselo dai piedi.

«E tu scrivi quello che devi scrivere», proseguì Tarant’ev, «e non dimenticare di dire al governatore che hai dodici figlioletti “uno più piccolo dell’altro”. E che alle cinque la minestra sia in tavola! Perché non hai fatto preparare il pasticcio?».

Ma Oblomov non gli rispose; da un pezzo non lo ascoltava più e, a occhi chiusi, pensava ad altro.

Con l’uscita di Tarant’ev, nella stanza regnò per una decina di minuti un silenzio assoluto. Oblomov era afflitto per la lettera dello starosta e per la prospettiva del trasloco imminente, e in parte era affaticato dallo strepito fatto da Tarant’ev. Alla fine sospirò.

«Perché non scrive?», chiese sottovoce Alekseev. «Potrei temperarle la penna».

«La temperi e poi vada con Dio, dove vuole!», disse Oblomov. «Ora mi metto senz’altro a scrivere, e lei, dopo pranzo, ricopierà».

«Benissimo», rispose Alekseev. «In effetti, potrei disturbarla con la mia presenza... Intanto vado a dire che non ci aspettino per andare a Ekaterinhof. Addio, Il’ja Il’ič».

Ma Il’ja Il’ič non lo ascoltava: aveva già tirato a sé le gambe, e, abbandonato nella poltrona, si crogiolava un po’ nel dormiveglia, un po’ nella meditazione.

V

Oblomov, di nobile nascita, segretario di collegio, risiedeva a Pietroburgo da dodici anni.

Dapprincipio, quando ancora erano vivi i genitori, aveva condotto un’esistenza più modesta, alloggiando in due camere e contentandosi dell’unico servitore che aveva portato con sé dalla campagna, Zachar; ma alla morte del padre e della madre era diventato unico padrone di trecentocinquanta anime, toccategli in eredità in una lontanissima provincia, quasi in Asia.

La sua rendita di cinquemila rubli crebbe allora fino a sette-diecimila, e anche la sua vita assunse slancio e una certa ampiezza. Prese un appartamento più grande, aggiunse alla servitù un cuoco e si comperò due cavalli.

A quel tempo era ancora giovane e benché non lo si potesse dire vivace, era comunque più vivace di adesso; era ancora pieno di aspirazioni, sperava sempre in qualche cosa, si aspettava molto dal destino e da se stesso; continuava a prepararsi ad entrare nell’arena, a sostenere una parte: innanzitutto, beninteso, nell’impiego governativo, che era stato lo scopo principale della sua venuta a Pietroburgo. Poi aveva pensato anche a una parte da sostenere nella società; infine, come remota prospettiva, al tempo della svolta fra giovinezza e età matura, le gioie della famiglia avevano sorriso alla sua fantasia.

Ma i giorni erano passati l’uno dopo l’altro, gli anni si erano susseguiti agli anni, la peluria si era trasformata in una irsuta barba, gli occhi avevano perso il loro splendore ed erano diventati due puntolini appannati, la figura gli si era appesantita, i capelli avevano cominciato implacabilmente a cadere, i trent’anni erano suonati, ed egli non aveva progredito di un passo, non aveva intrapreso nulla, e stava ancora sulla soglia di quella sua arena, nello stesso punto in cui era dieci anni prima.

Tuttavia, non cessava di fare progetti e propositi, continuava a disegnare nella mente l’arabesco del suo avvenire; ma ad ogni anno che gli sfuggiva via doveva apportare qualche modifica e cancellare qualche particolare di quell’arabesco.

La vita secondo lui si divideva in due metà: una fatta di lavoro e di noia, che per lui erano sinonimi; l’altra fatta di riposo e quieta allegria. Per questo, il principale campo di attività - l’impiego - fin dai primi tempi era stato per lui motivo di spiacevole perplessità.

Cresciuto in una sperduta provincia, fra gli usi e i costumi miti e cordiali della terra natia, passato per vent’anni da un abbraccio all’altro di parenti, amici e conoscenti, egli era così impregnato di quell’atmosfera familiare da immaginare che anche il futuro impiego dovesse essere una specie di occupazione familiare, sul tipo, ed esempio, delle negligenti annotazioni che faceva suo padre nel quadernetto delle entrate e delle uscite.

Si figurava che gli impiegati di uno stesso ufficio formassero una sola famiglia strettamente unita, sempre vigili e pronti ad aver cura della tranquillità e del piacere reciproci; che frequentare il luogo di lavoro non fosse affatto un’abitudine obbligatoria, alla quale bisognasse attenersi quotidianamente, e che il fango, l’afa, o semplicemente la luna di traverso fossero pretesti sufficienti e legittimi per non andare in ufficio.

Ma come c’era rimasto male quando aveva visto che ci voleva almeno un terremoto perché un impiegato in buona salute non andasse in ufficio, e a Pietroburgo, neanche a farlo apposta, di terremoti non ce ne sono mai; certo, una inondazione poteva costituire un ostacolo, ma anche queste si verificano di rado.

Ancor più si era impensierito Oblomov quando avevano cominciato a capitargli sotto gli occhi delle pratiche con la scrittura urgente ourgentissimo, quando si era visto costretto a fare certificati e estratti vari, a rovistare fra le scartoffie, a scrivere su quaderni spessi due dita i quali, per colmo d’ironia, si chiamavano taccuini; per di più, bisognava fare tutto di corsa, tutti avevano fretta e non si fermavano mai; non si erano ancora tolti di mano una pratica, che già ne arraffavano un’altra con furia, come se fosse di vitale importanze e, sbrigata quella, la dimenticavano per buttarsi su un’altra ancora... e così andavano avanti all’infinito.

Un paio di volte lo avevano fatto alzare di notte per scrivere delle «note», diverse volte lo avevano fatto scovare dall’usciere mentre era in visita a casa di qualcuno: e sempre per via di quelle «note». Tutto ciò aveva suscitato in lui una sensazione di paura e di grandissimo fastidio. «Ma quando si può vivere? Quando?», ripeteva.

Poiché dai suoi aveva sentito dire che un superiore è come un padre per i suoi subalterni, se lo era immaginato come un personaggio sorridente e quasi di famiglia: una specie di secondo padre, la cui unica ragione di vita fosse quella di ricompensare i subordinati, sempre e dappertutto, a proposito e a sproposito, e di provvedere non solo alle loro necessità ma anche ai loro piaceri.

Il’ja Il’ič pensava che un superiore si compenetrasse tanto della situazione di un suo dipendente da chiedergli con sollecitudine se aveva dormito bene, perché aveva lo sguardo appannato, e se non avesse mal di testa.

Ma fin dal primo giorno d’ufficio aveva provato una terribile delusione. All’arrivo del capo cominciava una grande confusione, tutti correvano qua e là intralciandosi a vicenda, alcuni si rassettavano l’abito nel timore di non essere abbastanza presentabili.

Questo, come Oblomov ebbe modo di osservare in seguito, dipendeva dal fatto che certi superiori vedevano nell’espressione inebetita dal terrore con cui un dipendente saltava in piedi al loro cospetto, non solo deferenza e zelo, ma talvolta perfino la maggiore o minore predisposizione al servizio.

Il’ja Il’ič non aveva motivo di temere il suo capo, una presona dai modi affabili e cortesi, che non trattava mai male nessuno: i suoi dipendenti ne erano più che soddisfatti e non avrebbe potuto desiderarne uno migliore. Nessuno lo aveva mai sentito dire una parola spiacevole, gridare o piantare grane; egli non pretendeva mai, pregava sempre. Pregava di sistemare una pratica, pregava di andare a fargli visita, pregava di considerarsi agli arresti. Non dava mai del tu a nessuno, ma sempre del voi, sia rivolgendosi a un singolo impiegato, sia a tutti insieme.

Malgrado ciò, gli impiegati erano intimiditi alla presenza del capo. Alle sue affabili domande rispondevano con una voce che non era la loro, ma un’altra, che usavano solo per lui.

Anche Il’ja Il’ič era stato assalito d’un tratto dalla timidezza, senza sapere lui stesso perché, quando il capoufficio era entrato nella stanza, e la voce di sempre lo aveva abbandonato per lasciare il posto, non appena il superiore gli aveva rivolto la parola, a un’altra voce, una vocetta fessa e sgradevole.

Pur con un capo così buono e condiscendente, Il’ja Il’ič si struggeva di paura e di angoscia. Dio sa che sarebbe stato di lui se fosse incappato in un tipo severo ed esigente!

Per due anni Oblomov era riuscito alla bell’e meglio a mantenere l’impiego, e forse ce l’avrebbe fatta a superare anche il terzo anno, fino alla promozione, se un evento eccezionale non lo avesse costretto ad abbandonare l’ufficio prima del tempo.

Un giorno aveva spedito un documento importante ad Arcangelo invece che ad Astrachan. Presto la cosa saltò fuori e si cominciò a cercare il colpevole.

Tutti gli altri dipendenti aspettavano con curiosità il momento in cui il capo avrebbe mandato a chiamare Oblomov e lo avrebbe pregato con voce fredda e pacata di dirgli «se era stato lui a inviare quella carta ad Arcangelo»; e tutti si domandavano con quale voce Il’ja Il’ič avrebbe risposto.

Alcuni pensavano che non avrebbe risposto affatto, che ne sarebbe stato incapace.

Solo a guardare i colleghi, Il’ja Il’ič era spaventato, anche se sapeva come loro che il capo si sarebbe limitato a fargli rilevare l’errore; ma la sua coscienza era assai più severa del rimprovero che lo aspettava.

Oblomov non attese il meritato castigo, tornò a casa e mandò un certificato medico.

Il certificato diceva: «Io sottoscritto certifico, con l’apposizione del mio sigillo, che il segretario di collegio Il’ja Il’ič Oblomov è affetto da ipertrofia cardiaca con dilatazione del ventricolo sinistro (hypertrophia cordis cum dilatatione ejus ventriculi sinistri), e del pari a mal di fegato cronico (hepatis), con minaccia di evoluzione pericolosa per la salute e la vita del malato, i cui attacchi è da presumere siano dovuti agli spostamenti quotidiani per recarsi in ufficio. Pertanto, onde prevenire il ripetersi e l’aggravarsi degli attacchi, ritengo necessario vietare temporaneamente al Sig. Oblomov di recarsi in ufficio, e in generale gli raccomando di astenersi da sforzi intellettuali e di qualsiasi altro genere».

Ma il certificato gli sarebbe stato utile solo per qualche tempo: doveva pur guarire un giorno o l’altro... e dopo questo c’era di nuovo la prospettiva di dover andare in ufficio tutti i giorni. Oblomov, non reggendo a quell’idea, aveva dato le dimissioni. Così si era conclusa - e per sempre - la sua attività al servizio dello stato.

Dapprincipio, il ruolo che aveva pensato di sostenere in società gli era riuscito meglio.

Nei primi anni trascorsi a Pietroburgo, al tempo della prima giovinezza, il suo viso dai lineamenti tranquilli si animava più spesso; negli occhi, che sprigionavano bagliori di luce, di speranza, di forza, brillava più a lungo il fuoco della vita. Egli si turbava, come tutti, sperava, si rallegrava e soffriva per un nonnulla.

Ma tutto questo si riferiva a molto tempo prima, all’epoca felice in cui ci si illude di trovare in ogni uomo un amico sincero, ci si innamora di quasi tutte le donne e si è disposti ad offrire a ciascuna il cuore e la mano: cosa che taluni arrivano persino a fare, rammaricandosene poi spesso per tutta la vita.

In quei giorni beati, anche Il’ja Il’ič aveva ricevuto dalla schiera delle belle non pochi sguardi dolci, vellutati, addirittura appassionati, un sacco di sorrisi carichi di promesse, due o tre baci sia pure non in esclusiva, e molte strette di mano amichevoli, tanto forti da far piangere per il dolore.

Peraltro, egli non si era mai lasciato irretire da quelle beltà, non era mai divenuto loro schiavo, e nemmeno loro assiduo ammiratore, perché il solo avvicinarsi alle donne comporta già troppe noie. Oblomov si limitava ad adorarle da lontano, a rispettosa distanza.

Di rado la sorte lo aveva spinto a frequentare una donna fino al punto di infiammarsene per più di un giorno e di ritenersene innamorato. Per questo i suoi intrighi amorosi non erano divampati in passioni: essi si fermavano all’inizio, e per innocenza, semplicità e purezza, non la cedevano in nulla alle storie d’amore di una qualsiasi collegiale.

Soprattutto egli fuggiva le fanciulle pallide e tristi, quasi sempre con gli occhi neri, nei quali brillavano «i giorni tormentati e le non caste notti», le fanciulle di cui nessuno sospetta gioie e dolori, che hanno sempre qualcosa da confidare, da raccontare, che quando devono parlare sussultano, scoppiano in un pianto improvviso, e poi di colpo gettano le braccia al collo dell’amico, lo fissano a lungo, alzano gli occhi al cielo, dicono che sulla loro vita pesa una terribile maledizione, e a volte cadono perfino in deliquio. Egli evitava con timore queste giovani. La sua anima, ancora pura e vergine, aveva forse atteso il suo amore, il suo tempo, la sua patetica passione; ma poi, col passare degli anni, doveva aver smesso di attendere e di sperare.

Con freddezza ancora maggiore, Il’ja Il’ič si era allontanato dalla folla dei suoi amici. Subito dopo la prima lettera dello starosta che gli annunciava un cattivo raccolto e il mancato pagamento degli arretrati, aveva sostituito il suo primo amico, il cuoco, con una cuoca; poi aveva venduto i cavalli e infine aveva congedato gli altri «amici».

Quasi niente lo attirava fuori di casa, ed egli si confinò ogni giorno di più nel suo appartamento.

Cominciò dapprima a sentire il disagio di dover rimanere vestito tutto il giorno, poi la pigrizia di andare a pranzo in casa d’altri, a meno che non si trattasse di conoscenti con cui era in confidenza, per lo più scapoli, dai quali poteva levarsi la cravatta, sbottonarsi il panciotto e magari «distendersi» e fare un pisolino di un’oretta. Presto anche i ricevimenti serali gli vennero a noia: bisognava mettersi il frac, radersi tutti i giorni.

Poiché aveva letto da qualche parte che solo i vapori del mattino sono salutari, mentre quelli della sera sono nocivi, cominciò a temere l’umidità.

Malgrado tutte queste fisime, il suo amico Stolz riusciva a trascinarlo fra la gente; ma Stolz lasciava spesso Pietroburgo per andare a Mosca, a Nižnij-Novgorod, in Crimea, e poi anche all’estero... e senza di lui Oblomov ripiombava fino agli occhi nella solitudine e nell’isolamento, dai quali poteva strapparlo solo qualcosa di eccezionale, che uscisse dall’ordine della vita quotidiana; ma niente di simile accadeva mai, né era prevedibile che accadesse.

Inoltre, col passare degli anni si erano riaffacciati una specie di infantile timidezza, il timore del pericolo e del male che poteva venirgli da tutto ciò che non rientrava nella sfera della sua esistenza quotidiana: e ciò perché si era disabituato alle molteplici parvenze del mondo esterno.

Non lo spaventava, ad esempio, la crepa nel soffitto in camera da letto: ci era abituato; né gli passava per la testa che l’aria eternamente viziata della stanza e la vita sedentaria in un luogo chiuso erano senza dubbio più perniciose per la sua salute che non l’umidità della sera; che riempirsi oltre misura lo stomaco tutti i giorni era una specie di lento suicidio: a queste cose lui era abituato e non ne aveva paura.

Non era abituato al movimento, alla vita, alla gente, al trambusto.

In mezzo alla folla si sentiva soffocare; se saliva su una barca, lo faceva senza molta speranza di arrivare incolume all’altra sponda; quando andava in carrozza, si aspettava che i cavalli si imbizzarrissero e mandassero in pezzi la vettura.

A volte era assalito da una vera fobia: aveva paura del silenzio che lo circondava, o anche solo di qualcosa che nemmeno lui sapeva definire, e si sentiva un formicolio per tutto il corpo. Talora sbirciava impaurito un angolo buio, temendo che l’immaginazione gli giocasse un tiro mancino facendogli apparire qualche fenomeno soprannaturale.

Così si concluse anche il suo ruolo nella società. Aveva pigramente abbandonato tutte le speranze giovanili che lo avevano deluso o che lui aveva deluso, tutti i cari ricordi tristi e lieti, che ad altri fanno battere il cuore anche alla soglia della vecchiaia.

VI

Ma che cosa faceva in casa? Leggeva? Scriveva? Studiava?

Sì: se gli capitava fra le mani un libro o un giornale, lo leggeva.

Se sentiva parlare di una qualche opera degna di nota, gli veniva voglia di conoscerla; cercava, chiedeva il libro e, se glielo portavano presto, ci si buttava a capofitto, cominciava a farsi un’idea del soggetto... ma quando gli bastava ancora un passo per impadronirsene completamente, lo vedevi già sdraiato, con lo sguardo apatico fisso al soffitto e con il libro abbandonato, lasciato a mezzo, incompreso.

Il disinteresse si impadroniva di Il’ja Il’ič ancor più in fretta dell’entusiasmo, ed egli non tornava mai più al libro interrotto.

A suo tempo aveva studiato, come gli altri, come tutti, cioè fino a quindici anni in collegio; poi i genitori, dopo lunga lotta, avevano deciso di mandare Iljuša a Mosca, dove il giovane, volente o nolente, aveva seguito i corsi sino alla fine.

Il carattere timido e apatico gli aveva impedito di manifestare appieno la sua ignavia e la sua incostanza nella scuola, dove non si facevano eccezioni per i figli viziati. Dacché era obbligato, in classe restava composto, ascoltava ciò che dicevano gli insegnanti perché non era possibile fare altrimenti, e con fatica, sudando e sospirando, imparava le lezioni.

Egli considerava tutto ciò come un castigo del cielo per i nostri peccati.

Non guardava al di là della riga sotto la quale l’insegnante, nell’assegnare il compito, aveva lasciato un segno con l’unghia; non faceva domande, non chiedeva spiegazioni. Gli bastava ciò che era scritto nel quaderno, e non manifestava curiosità importune nemmeno quando non comprendeva quello che ascoltava e imparava.

Se in qualche modo riusciva ad arrivare in fondo a un testo di statistica, di storia, di economia politica, era più che soddisfatto.

Ma quando Stolz gli portava dei libri che riteneva bisognasse leggere, oltre quelli di scuola, Oblomov lo guardava a lungo, in silenzio.

«Anche tu, Bruto, sei contro di me?», concludeva con un sospiro prendendo i libri.

Queste eccessive letture gli sembravano gravose e contro natura.

A che servivano tutti quei quaderni, buoni solo a far sprecare carta, tempo e inchiostro? A che servivano i libri di scuola? A che servivano, infine, sei-sette anni di clausura, la severità, le punizioni, il tormento di assistere alle lezioni, il divieto di correre, di scatenarsi, di divertirsi prima di aver finito i compiti?

«Ma quando potrò vivere?», ripeteva a se stesso. «Quando farò finalmente fruttare questo capitale di conoscenze, la maggior parte delle quali, ci scommetto, non mi serviranno a niente nella vita? L’economia politica, per esempio, l’algebra, la geometria... a che mi serviranno nelle mie terre?».

Anche la storia non fa che rattristarti: impari, leggi che, sopraggiunti tempi calamitosi, l’uomo infelice ha fatto appello a tutte le sue forze, ha lavorato, si è affannato, ha sopportato pene e fatiche terribili, per preparare giorni sereni. Ed essi arrivano... e la storia potrebbe prendersi anche un po’ di riposo: ma no, altre nubi appaiono all’orizzonte, l’edificio crolla di nuovo, bisogna ricominciare a lavorare, ad affannarsi... I giorni sereni non durano, fuggono via: e la vita scorre e continua a scorrere, e tutto continua a crollare.

Le letture serie lo affaticavano. I pensatori non riuscivano a stimolare in lui la sete di verità contemplative.

Per contro, i poeti lo avevano colpito nel vivo e la poesia aveva segnato anche la sua adolescenza. Anche per lui era arrivato il momento felice della vita, che non tradisce nessuno, che sorride a tutti; il momento in cui sbocciano le forze, le speranze, il desiderio di bene, di grandi imprese, di attività; l’epoca in cui il cuore batte forte, palpita, freme, l’epoca dei discorsi esaltati e delle dolci lacrime. Il suo spirito e il suo cuore si erano illuminati: si era scrollato di dosso la sonnolenza, e la sua anima aveva desiderato l’azione.

Stolz lo aveva aiutato a prolungare questo momento, fin dove glielo aveva consentito l’indole dell’amico. Aveva avvinto Oblomov con i poeti e per circa un anno e mezzo lo aveva tenuto sotto la ferula del pensiero e del sapere.

Trascinato dall’entusiasmo dei sogni giovanili, Stolz aveva sfruttato la lettura dei poeti per fini diversi dal semplice diletto, e aveva indicato all’amico con rinnovato vigore il cammino che si apriva davanti alle loro vite. Entrambi commossi, avevano pianto e si erano scambiati la promessa solenne di seguire la via della ragione e della luce.

L’ardore giovanile di Stolz aveva infiammato anche Oblomov, che si sentiva bruciato dalla sete di agire, di raggiungere una meta affascinante, anche se lontana.

Ma il fiore della vita era sbocciato senza dare frutti. Oblomov s’era rimesso dall’ubriacatura e solo di quando in quando, sollecitato da Stolz, leggeva ancora questo o quel libro, ma senza fretta, senza avidità, scorrendo le righe con occhio indolente.

Per quanto interessante fosse il punto in cui era arrivato, se questo punto capitava all’ora di pranzo o all’ora di dormire, posava il libro aperto, voltato all’ingiù, e andava a tavola, oppure spegneva la candela e si coricava. Se gli davano il primo volume di un’opera, non chiedeva il secondo per finirla; se tuttavia glielo portavano, arrivava fino in fondo, con molta lentezza.

In seguito non ce la fece più nemmeno a leggere il primo volume di un’opera: passava la maggior parte del tempo libero con un gomito appoggiato sulla tavola per puntellare la testa; ma a volte in luogo del gomito utilizzava il libro che Stolz gli aveva dato da leggere.

Così Oblomov concluse la sua preparazione culturale. L’ultima lezione cui assisté costituì le colonne d’Ercole della sua erudizione. La firma apposta dal direttore della scuola sul suo diploma, al pari del segno che un giorno l’insegnante tracciò con l’unghia sul libro, rappresentò la linea oltre la quale il nostro eroe non ritenne più necessario continuare i propri sforzi per acquisire una cultura più vasta.

La sua testa sembrava un archivio composito di cose morte, di persone, di epoche, di cifre, di religioni, di verità, tesi, problemi politico-economici, matematici e d’altro genere, senza alcun legame fra loro.

Era una specie di biblioteca formata da volumi scompagnati riguardanti i più svariati campi del sapere.

Lo studio aveva avuto uno strano effetto su Il’ja Il’ič: per lui fra la scienza e la vita c’era un profondo baratro che egli non si era sforzato di superare. Per lui la vita era una cosa, la scienza un’altra.

Aveva studiato le legislazioni del presente e quelle del passato, aveva anche seguito un corso pratico di procedura giudiziaria, ma quando, a causa di un furto commesso in casa sua, fu necessario redigere una denuncia per la polizia, prese un foglio di carta, la penna, pensò e ripensò, e infine mandò a chiamare uno scrivano.

I conti del villaggio li teneva lo starosta. «Che c’entrerebbe la scienza qui?», si era domandato Oblomov perplesso.

Ed era tornato al suo isolamento senza il peso di quelle conoscenze che avrebbero potuto dare un orientamento ai pensieri che vagavano liberi o oziavano sonnecchianti nella sua testa.

Ma che cosa faceva? Be’, continuava a disegnare l’arabesco della sua vita, nella quale, non a torto, trovava, senza bisogno di ricorrere ai libri e alla scienza, tanta saggezza e tanta poesia che non sarebbe mai stato possibile esaurirle.

Abbandonati l’ufficio e la società, si era messo a pensare al modo di risolvere altrimenti il problema dell’esistenza: riflettendo sulle sue finalità, aveva infine scoperto che l’orizzonte della sua attività e della sua esistenza era racchiuso dentro di lui.

Aveva capito che gli erano toccate in sorte la felicità familiare e le cure della proprietà. Fino a quel momento si era interessato ben poco dei suoi beni: se ne occupava Stolz di quando in quando. Lui non conosceva con precisione né le sue entrate né le sue uscite, non aveva mai compilato un bilancio... niente.

Il vecchio Oblomov aveva lasciato al figlio i possedimenti nelle identiche condizioni in cui li aveva ereditati dal padre. Malgrado avesse passato tutta la vita in campagna, non si era dato molta pena, non si era lambiccato il cervello per escogitare delle innovazioni, come fanno altri: ad esempio, per scoprire nuovi metodi per un migliore rendimento della terra, estendere e incrementare quello già realizzato ecc. Aveva mantenuto le stesse colture e gli stessi criteri di semina e di smercio dei prodotti che risalivano ai tempi del nonno.

D’altra parte, il vecchio era molto soddisfatto se un buon raccolto o l’aumento dei prezzi davano un reddito superiore a quello dell’anno precedente: lo definiva una benedizione del cielo. Solo, non gli piacevano le nuove invenzioni e le trovate per far quattrini.

«I nostri padri e i nostri nonni non erano più stupidi di noi», soleva dire a chiunque gli dava consigli a suo parere nocivi, «eppure hanno vissuto una vita felice; seguiamo loro e, a Dio piacendo, avremo l’abbondanza».

Poiché, senza astuti arzigogoli, ricavava dalla proprietà un reddito che gli permetteva di pranzare e cenare a volontà ogni giorno con la famiglia e diversi ospiti, ringraziava Iddio e considerava peccato arrabattarsi per guadagnare di più.

Se l’amministratore gli portava duemila rubli, dopo essersene messi in tasca mille, e con le lacrime agli occhi adduceva a pretesto la grandine, la siccità, il cattivo raccolto, il vecchio Oblomov si faceva il segno della croce e, anch’egli con le lacrime agli occhi, diceva: «È il volere di Dio; con Dio non si discute! Bisogna ringraziarlo per quello che ci manda».

Dopo la morte dei vecchi, l’economia del villaggio non solo non migliorò, ma, come è dato vedere dalla lettera dello starosta, andò peggiorando. Era chiaro che Il’ja Il’ič doveva andare di persona sul posto per ricercare le cause del calo progressivo del suo reddito.

Egli si proponeva di farlo, ma poi rimandava sempre, in parte perché un viaggio era per lui un’impresa quasi nuova e sconosciuta.

In tutta la sua vita aveva fatto un solo viaggio, lentissimo, senza cambiar cavalli, in mezzo a piumini, cofani, valigie, prosciutti, panini, arrosti e bolliti di ogni genere, in compagnia di alcuni servitori.

Così aveva fatto il suo unico viaggio dal paese natio a Mosca, viaggio che considerava come il modello di tutti i viaggi. E adesso aveva sentito dire che non si viaggiava più così: si galoppava a rotta di collo!

Il’ja Il’ič aveva rimandato il viaggio anche perché non era preparato ad occuparsi dei suoi affari.

Non era davvero come il padre e come il nonno, lui. Aveva studiato, conosceva il mondo: tutto ciò lo aveva portato a diverse considerazioni che a loro erano estranee. Comprendeva che non solo il profitto non era un peccato, ma che era dovere di ogni cittadino contribuire con un lavoro onesto al benessere generale.

Per questo la maggior parte del disegno di vita che egli tracciava nella sua solitudine era dedicata a un progetto nuovo di zecca, aderente alle esigenze dei tempi, riguardante la riorganizzazione della proprietà e il governo dei suoi contadini.

Egli aveva ben chiara in testa l’idea fondamentale del progetto, le sue suddivisioni e parti principali: rimanevano solo i particolari, i preventivi e le cifre.

Già da alcuni anni lavora infaticabilmente al suo progetto, ci pensa, ci riflette quando è in piedi, quando è coricato, quando è fra la gente; ora completa, ora modifica diversi paragrafi, ora cerca di farsi tornare in mente ciò che aveva pensato il giorno prima e dimenticato durante la notte; ma a volte, improvvisamente, come una folgore, gli balena in testa un’idea nuova e inaspettata... e il lavoro ricomincia.

Egli non è un qualsiasi piccolo esecutore di un’idea altrui, già pronta: è il creatore e l’esecutore delle sue proprie idee.

Non appena si alza dal letto la mattina, dopo aver preso il tè, si stende subito sul divano, appoggia il capo sulle mani, e medita, senza risparmio di forze, fino al momento in cui si sente il cervello pesante per l’eccessiva fatica e la coscienza gli dice: hai lavorato abbastanza, oggi per il bene comune.

Solo allora egli decide di riposarsi e abbandona l’atteggiamento solerte per assumerne un altro sollecito e severo, e più consono alle fantasticherie e al piacere.

Liberatosi dalle preoccupazioni degli affari, Oblomov amava ripiegarsi in se stesso e vivere nel mondo che si era creato.

Era in grado di apprezzare il godimento che procurano i pensieri elevati; non era estraneo alle afflizioni del genere umano. A volte piangeva amaramente, nel fondo del cuore, per le sventure dell’umanità, provava sofferenze sconosciute, pene indicibili, e anche lo struggimento e il desiderio di luoghi lontani, forse in quel mondo nel quale avrebbe voluto trascinarlo Stolz...

Dolci lacrime gli scorrevano sulle gote.

Gli capita anche di provare disprezzo per i vizi umani, per la calunnia, per il male di cui è pieno il mondo, e si infiamma del desiderio di spronare l’uomo a guardare le sue piaghe, e d’improvviso si accendono in lui vividi pensieri che si muovono e si accavallano come le onde del mare, poi si sviluppano in propositi, gli bruciano il sangue; i muscoli cominciano a guizzare, le vene si tendono, i propositi si trasformano in aspirazioni: mosso da una forza morale, cambia posizione due o tre volte in un minuto, con gli occhi scintillanti si alza a metà sul letto, tende una mano, gira attorno uno sguardo ispirato... Ecco, ecco che la sua aspirazione si realizza, diventa azione... e allora, Signore! Quali miracoli, quali felici conseguenze ci si potrebbero attendere da uno sforzo così grande!

Ma, attenzione, il mattino è passato in un baleno, il giorno già declina, e con esso declinano e tendono al riposo le forze esauste di Oblomov: tempeste ed emozioni si placano nell’anima, la testa si svuota dei pensieri, il sangue scorre più lento nelle vene. Assorto, Oblomov si gira adagio sulla schiena e, fissando afflitto la finestra e il cielo, segue tristemente con gli occhi il sole che si corica maestoso dietro un palazzo di quattro piani.

E quante, quante volte aveva accompagnato così il calar del sole!

La mattina dopo, di nuovo la vita, di nuovo le agitazioni, i sogni! Egli ama immaginarsi talvolta come un invincibile condottiero, contro il quale non solo Napoleone, ma nemmeno Eruslan Lazarevič nulla potrebbero; inventa una guerra e la sua causa: per esempio, popoli dell’Africa che invadono l’Europa; oppure organizza nuove crociate e combatte, decide il destino dei popoli, rade al suolo città, grazia, punisce, compie atti di bontà e di magnanimità.

Oppure si sceglie l’arena del pensatore, del grande artista: tutti si inchinano davanti a lui; egli miete allori; la folla che lo invoca grida: «Guardate, guardate, passa Oblomov, il nostro famoso Il’ja Il’ič!».

Ha momenti di amarezza in cui le preoccupazioni lo fanno soffrire, si rivolta ora su un fianco ora sull’altro, affonda il viso nei cuscini, giungendo talvolta a smarrirsi completamente; allora si solleva in ginocchio sul letto e prega con fervore, con zelo, supplicando il cielo perché allontani dal suo capo la tempesta che lo minaccia.

Poi, rimesso in tal modo al cielo il proprio destino, torna calmo e indifferente per tutto ciò che lo circonda e lascia che la tempesta faccia quel che le pare.

Così egli impegnava le sue forze morali, così si agitava spesso per giorni interi; e, solo quando il giorno declinava e la grande sfera del sole cominciava a nascondersi maestosa dietro a un palazzo di quattro piani, egli si riscuoteva con un profondo sospiro dai suoi incantevoli sogni o dalle sue tormentose cure.

Allora tornava a seguire il tramonto con lo sguardo pensoso e un sorriso triste e si rilassava quietamente dopo tante emozioni.

Nessuno conosceva e vedeva questa vita interiore di Oblomov; tutti credevano fosse un disutilaccio, buono solo a dormire e a imbottirsi di cibo, e che da lui non ci si potesse aspettare altro, e che la sua testa fosse incapace di coordinare dei pensieri. Così dicevano di lui là dove lo conoscevano.

Delle sue capacità, di quel vulcanico lavoro interiore del suo cervello ribollente, del suo cuore generoso, Stolz era a perfetta conoscenza e avrebbe potuto testimoniarne, ma Stolz non era quasi mai a Pietroburgo.

Solo Zachar, che per tutta la vita aveva ruotato intorno al suo padrone, conosceva ancor più intimamente la sua vita interiore, ma era convinto che lui e il padrone si comportassero e vivessero in maniera normale, come si conveniva, e che quindi non si dovesse vivere altrimenti.

VII

Zachar aveva superato la cinquantina. Non era già più un discendente di quei Caleb russi, di quei lacchè, cavalieri senza macchia e senza paura, la cui devozione per i padroni arrivava fino all’abnegazione, che si distinguevano per avere tutte le virtù e nessun vizio.

Il nostro cavaliere non era esente da macchie e da paure. Apparteneva a due epoche: e entrambe avevano lasciato il segno su di lui. Da una aveva ereditato una sconfinata devozione per gli Oblomov, e dall’altra, più recente, la raffinatezza e la corruzione dei costumi.

Malgrado l’appassionato attaccamento al suo signore, erano rari i giorni in cui non gli mentiva. Il servo dei tempi andati soleva frenare la prodigalità e le intemperanze del padrone; ma anche a Zachar piaceva bere con gli amici, e a spese di Oblomov; il servo d’una volta era casto come un eunuco, questo invece correva sempre da una comare dalla virtù sospetta. Quello era più solido di un forziere nel proteggere il denaro del padrone, mentre Zachar si industriava per sottrarre da ogni spesa qualche copeco, e non mancava mai di impadronirsi dei pezzi di rame da cinque e da dieci che rimanessero sulla tavola. Allo stesso modo, se Il’ja Il’ič dimenticava di chiedere un resto a Zachar, poteva star certo che non lo avrebbe più rivisto.

Non rubava somme più grosse, forse perché misurava le sue necessità in monete di rame o perché aveva paura di essere scoperto; in ogni modo, non per eccesso di onestà.

Come un cane da caccia bene addestrato, il Caleb del tempo antico sarebbe morto vicino alle provviste affidate alla sua custodia, piuttosto che toccarle; questo qui, invece, era sempre all’erta per mangiare e bere anche ciò che non gli veniva affidato; quello si preoccupava solo che il padrone mangiasse di più e si rattristava se non aveva appetito; questo si rattristava quando il padrone non lasciava niente nel piatto.

Per di più Zachar era anche pettegolo. In cucina, nelle botteghe, quando si incontrava con qualcuno sotto il portone, ogni giorno si lamentava che quella non era vita, che non esisteva un padrone peggiore del suo: che era lunatico, avaro, irascibile, incontentabile; insomma, meglio morire che vivere con lui.

Zachar non si comportava così per cattiveria o per desiderio di nuocere al padrone, ma solo per una abitudine tramandatogli dal nonno e dal padre: criticare il padrone ad ogni occasione.

A volte, per tedio, per mancanza di argomenti di conversazione o per suscitare maggiore interesse nei suoi ascoltatori, tirava fuori una frottola sul conto del padrone.

«Adesso il mio ha preso l’abitudine di andare sempre da quella vedova», gracidava sottovoce in tono confidenziale. «Ieri, le ha scritto un biglietto».

Oppure dichiarava che il suo padrone era un accanito giocatore di carte e un bevitore come non se ne erano mai visti; che tutte le notti faceva mattina a giocare e a bere come una spugna.

E non era vero niente: Il’ja Il’ič non andava dalla vedova, la notte dormiva pacifico, non prendeva mai le carte in mano.

Zachar poi era sudicio e trascurato. Si faceva la barba di rado e, sebbene si lavasse le mani e la faccia, si trattava più di apparenza che altro; del resto, nessun sapone sarebbe riuscito a levargli il sudiciume. Quando andava ai bagni, per un paio d’ore le mani da nere gli diventavano rosse, ma poi tornavano nere.

Era molto goffo: se deve aprire il portone o la porta, spinge un battente, e intanto l’altro si chiude; allora corre ad aprirlo, e si richiude il primo.

Non raccoglie mai da terra d’un sol colpo un fazzoletto o un oggetto qualsiasi; deve sempre chinarsi tre volte, come se gli desse la caccia, e può darsi che alla quarta riesca a prenderlo, come può anche darsi che faccia di nuovo cilecca.

Se attraversa la stanza con una pila di vasellame o di stoviglie su un vassoio, già dal primo passo le cose che stanno in cima cominciano a partire, attratte dal pavimento. Prima ne vola una; lui fa un brusco movimento, tardivo e inutile, per impedirle di cadere, e ne butta giù altre due. Con la bocca spalancata dallo stupore, guarda ciò che cade, ma non ciò che ha ancora in mano, e poiché tiene inclinato il vassoio, il crollo continua... e così certe volte, arriva dall’altra parte della stanza con un solo bicchierino o un solo piatto, ma certe altre, fra invettive e imprecazioni, è lui stesso a scagliare a terra le ultime cose rimaste.

Quando passa per una stanza urta, ora con un piede ora con un fianco, un tavolo o una sedia, non sempre gli riesce d’imboccare il battente aperto di una porta e va a sbattere con una spalla sull’altro, e allora inveisce contro tutti e due i battenti, o contro il padrone di casa o contro il falegname che ha fatto la porta.

Nello studio di Oblomov quasi tutto è fracassato o danneggiato, in particolare i delicati soprammobili che richiederebbero un certo riguardo... e questo grazie a Zachar. Egli agguanta ogni cosa allo stesso modo, senza fare distinzioni fra l’una e l’altra.

Se, per esempio, gli si ordina di smoccolare una candela o di versare dell’acqua in un bicchiere, impegna in queste operazioni tanta forza quanta ce ne vorrebbe per aprire un portone.

E Dio non voglia che Zachar, infiammato dal desiderio di far piacere al padrone, si faccia venire in mente di spazzare, pulire, riordinare in quattro e quattr’otto, di sistemare tutto in una volta! Ne deriveranno guai e disastri senza fine; l’irruzione in casa di un soldato nemico non provocherebbe tanto sfacelo. Per cominciare, rompe e lascia cadere varie cose, fracassa stoviglie, rovescia sedie. In definitiva, bisogna cacciarlo dalla stanza, se non se ne andava prima lui, fra imprecazioni e parolacce.

Per fortuna, capitava molto di rado che fosse preso da tanto zelo.

Naturalmente, tutto ciò dipendeva dal fatto che egli era stato educato e aveva acquisito il suo modo di comportarsi non nella penombra di minuscoli salotti e boudoirs lussuosi, arredati in maniera bizzarra, nei quali sa il diavolo, che cosa ci si può trovare, ma in un tranquillo villaggio, negli spazi vasti e liberi della campagna.

Là era abituato a servire senza alcuna limitazione di movimenti, in mezzo a cose massicce; per lo più doveva maneggiare oggetti solidi e robusti, come pale, pali, staffe di ferro per le porte, e certe sedie che non riuscivi neanche a spostarle.

Qui invece il candeliere, il lume, la falsariga, il fermacarte, rimangono al loro posto per tre o quattro anni e non succede niente; ma appena li prendi, ecco che si rompono.

«Ah!», diceva talvolta sorpreso a Oblomov. «Guardate un po’, signore, che cosa curiosa: l’ho appena presa in mano... e si è rotta!».

Oppure non diceva niente, e alla chetichella si affrettava a rimettere l’oggetto al suo posto per poi cercar di convincere il padrone che era stato lui stesso a romperlo; qualche volta invece si giustificava, come abbiamo visto all’inizio del racconto, dicendo che ogni cosa deve pure avere una fine, anche se è di ferro, e che non può durare in eterno.

Nei primi due casi si poteva ancora discutere con lui, ma quando, spinto agli estremi, ricorreva all’ultimo argomento, era inutile contraddirlo, e aveva partita vinta.

Zachar si era tracciata una volta per tutte una determinata sfera di attività, che non oltrepassava mai volontariamente.

La mattina preparava il samovar, puliva le scarpe e il vestito che il padrone chiedeva, ma non quello che non chiedeva, anche se stava appeso nell’armadio da dieci anni.

Poi spazzava - comunque non tutti i giorni - il centro della stanza, senza arrivare agli angoli, e toglieva la polvere dal tavolo solo se era completamente sgombro, per non dover spostare qualche cosa.

A questo punto si riteneva già in diritto di andarsene a sonnecchiare sulla stufa o a chiacchierare con Anis’ja in cucina o con gli altri domestici sul portone, senza preoccuparsi di niente.

Se gli si ordinava di fare qualcosa al di fuori di questo, eseguiva l’ordine di malavoglia e dopo una lunga discussione, convinto dell’inutilità di esso o dell’impossibilità di eseguirlo.

Non c’era verso di fargli inserire una nuova voce fissa nell’elenco di occupazioni che si era assegnate.

Se gli si ordinava di pulire, di lavare una cosa qualsiasi, di portar via questo o di portare quello, eseguiva l’ordine borbottando; ma se si pretendeva che in seguito facesse regolarmente quella data cosa, non si riusciva ad ottenerlo.

Il secondo, il terzo giorno e via dicendo bisognava tornare a ripetere l’ordine, e riprendere con lui le stesse sgradevoli spiegazioni.

Malgrado tutto questo, malgrado gli piacesse bere, spettegolare, rubacchiare a Oblomov le monete di rame, malgrado rompesse e spaccasse tante cose e fosse pigro, si poteva comunque dire che Zachar era un servo profondamente devoto al suo padrone.

Non avrebbe esitato a buttarsi nel fuoco o nell’acqua per lui, ciò senza considerare questo gesto degno di ammirazione o di una qualsiasi ricompensa. Lo giudicava qualcosa di naturale, che non poteva essere altrimenti, o per meglio dire, non lo giudicava affatto e si comportava così senza alcuna idea preconcetta.

In proposito, non aveva teorie. Non gli era mai passato per il capo di analizzare i suoi sentimenti e i suoi rapporti con Il’ja Il’ič; non li aveva inventati lui; glieli avevano tramandati il padre, il nonno, i fratelli, i servi, in mezzo ai quali era nato e cresciuto, e li aveva nel sangue e nella carne.

Zachar sarebbe morto al posto del padrone, ritenendo che questo fosse il suo dovere ineluttabile e naturale, e anche non ritenendo niente: si sarebbe semplicemente gettato incontro alla morte, proprio come un cane che, incappando in una belva nel bosco, le si butta addosso senza domandarsi perché debba farlo lui e non il suo signore.

Però, se fosse stato necessario, per esempio, passare una intera nottata seduto al capezzale del padrone senza chiudere occhio, anche se da ciò fosse dipesa la salute e perfino la vita di quello, Zachar si sarebbe senz’altro addormentato.

Quanto al comportamento esteriore, non solo non si mostrava servile con il padrone, ma anzi era addirittura villano, lo trattava con troppa confidenza, si arrabbiava con lui, e sul serio, per un nonnulla e, come abbiamo visto, spettegolava sul suo conto sotto il portone; tuttavia questo offuscava solo momentaneamente, ma non diminuiva la sua devozione innata e profonda non per Il’ja Il’ič in particolare, ma per tutto ciò che portava il nome di Oblomov, al quale era attaccato e affezionato.

Forse, però, questo sentimento era in contrasto con l’opinione personale che Zachar aveva sul conto di Oblomov, forse l’osservare il carattere del padrone aveva fatto nascere in lui altri convincimenti. È probabile che se qualcuno gli avesse spiegato quanto grande fosse il suo attaccamento per Il’ja Il’ič, egli lo avrebbe contraddetto.

Zachar amava Oblomovka come il gatto ama la sua soffitta, il cavallo la mangiatoia, il cane il canile nel quale è nato e cresciuto. Nell’ambito di questo attaccamento si erano formate le sue particolari preferenze.

Per esempio, amava il cocchiere più del cuoco, la vaccara Varvara più di tutti e due, ma Il’ja Il’ič meno di tutti e tre; comunque sia, il cuoco di Oblomovka era per lui il migliore e superava di molto tutti i cuochi del mondo, mentre Il’ja Il’ič era al di sopra di tutti i proprietari.

Non poteva soffrire Taraska, il dispensiere; ma non avrebbe scambiato questo Taraska con l’uomo migliore del mondo, per il solo fatto che Taraska faceva parte di Oblomovka.

Trattava Oblomov con eccessiva familiarità e con insolenza, esattamente come lo sciamano tratta con insolenza e familiarità il suo idolo: lo spolvera, lo lascia cadere, a volte può anche percuoterlo con rabbia, ma nonostante tutto nel suo animo è radicato il convincimento che la natura dell’idolo sia superiore alla sua.

Il minimo pretesto era sufficiente per far sgorgare questo sentimento dai recessi dell’anima di Zachar e costringerlo a venerare il suo padrone e talvolta a intenerirsi fino alle lacrime. Dio guardi dal mettere un qualsiasi altro padrone non solo più in alto, ma allo stesso livello del suo! E non sia mai detto che a un tizio qualsiasi venga in mente un pensiero del genere!

Zachar guardava un po’ dall’alto in basso tutti i signori e gli ospiti che venivano in visita da Oblomov: li accoglieva, serviva loro il tè, eccetera, ma con molta degnazione, come a voler fare intendere quale onore fosse l’essere ricevuti dal suo padrone. Li rispediva senza tanti complimenti: «Il padrone riposa», diceva, squadrando il visitatore dalla testa ai piedi con fare altezzoso.

Talvolta, invece di fare pettegolezzi e maldicenze sul conto del padrone, si metteva d’un tratto a farne le lodi più sperticate nelle botteghe e nei crocchi sul portone, e allora il suo entusiasmo non aveva limiti. Si metteva a enumerarne le doti, l’intelligenza, l’affabilità, la generosità, la bontà; e se non trovava in Il’ja Il’ič qualità sufficienti per il panegirico, le prendeva in prestito dagli altri, e gli attribuiva anche notorietà, ricchezza e uno straordinario potere.

Se voleva metter paura al portiere, all’amministratore, e perfino al proprietario della casa, li minacciava sempre tirando in ballo il padrone: «Aspetta che lo dica al padrone», diceva, «vedrai che ti succede!». Non sospettava che sulla faccia della terra esistesse un’autorità superiore.

Ma i rapporti esteriori fra Oblomov e Zachar erano sempre piuttosto ostili. A furia di vivere insieme, i due si erano venuti reciprocamente a noia. L’intimo contatto quotidiano fra due individui è irto di difficoltà e per l’uno e per l’altro: entrambi devono essere dotati di molta esperienza della vita, di molta logica e di molta comprensione per godere delle reciproche virtù senza ferire o farsi ferire dai reciproci difetti.

Il’ja Il’ič conosceva già una qualità inestimabile di Zachar, la sua devozione, e vi si era assuefatto al punto di ritenere perfino che non potesse e non dovesse essere altrimenti; abituatosi quindi alla devozione una volta per sempre, non ne godeva più; ma intanto, malgrado la sua indifferenza per tutto, non poteva sopportare pazientemente gli innumerevoli piccoli difetti di Zachar.

Se questi, nutrendo nel profondo del cuore una devozione per il suo signore caratteristica dei servi d’altri tempi, si distingueva da essi a causa dei difetti dell’epoca moderna, Il’ja Il’ič, dal canto suo, pur apprezzando dentro di sé questa qualità, non aveva per lui quel tratto amichevole e quasi cordiale che i padroni di un tempo usavano con i loro servi. Talvolta si lasciava andare a violenti litigi con Zachar.

A sua volta, anche Zachar non ne poteva più di lui. In gioventù, dopo aver servito come cameriere nella casa padronale, era stato assegnato alla persona del giovane Il’ja Il’ič; da quel momento aveva cominciato a considerarsi soltanto un oggetto di lusso, un accessorio aristocratico della casa, incaricato di tenere alti l’importanza e il lustro dell’antica casata, e non un oggetto necessario. Per questo, oltre a vestire il signorino la mattina e spogliarlo la sera, non faceva assolutamente altro.

La qualifica di cameriere aveva accentuato la sua naturale pigrizia. si dava delle arie e non si prendeva nemmeno la briga di preparare il samovar o di spazzare i pavimenti. Sonnecchiava in anticamera o se ne andava a chiacchierare nelle stanze della servitù o in cucina; oppure se ne stava meditabondo sul portone a braccia conserte a guardarsi in giro con occhi sonnacchiosi.

E dopo una simile esistenza gli era d’un tratto caduto fra capo e collo il pesante fardello di tutta una casa! Servire il padrone, spazzare, pulire, e fare anche il galoppino! Tutto questo aveva steso sulla sua anima un velo di uggia e aveva fatto affiorare gli aspetti grossolani e ruvidi della sua indole; per questo borbottava ogni volta che la voce del padrone lo costringeva a lasciare il suo cantuccio.

Però, malgrado questo aspetto esteriore rude e selvatico, Zachar aveva un cuore abbastanza tenero e buono. Gli piaceva perfino passare il tempo con i bambini. Non di rado lo si vedeva in cortile, sul portone, con un gruppetto di ragazzini. Metteva pace tra loro, li stuzzicava, organizzava giochi, o se ne stava semplicemente seduto tenendone uno su un ginocchio, e uno sull’altro, mentre da dietro un terzo monello gli circondava il collo con le braccia o gli tirava gli scopettoni.

E così Oblomov con le sue continue chiamate impediva al suo servo di vivere, mentre il cuore, l’indole socievole, l’amore per l’ozio, e un bisogno eterno, insaziabile di masticare spingevano Zachar ora dalla comare, ora in cucina, ora nelle botteghe, ora sul portone.

Si conoscevano bene da un pezzo e da un pezzo vivevano insieme. Zachar aveva cullato fra le braccia il piccolo Oblomov, e Oblomov ricordava il giovane Zachar, agile, ingordo e astuto.

Il vecchio legame che li univa era indissolubile. Come Il’ja Il’ič era incapace di alzarsi, di coricarsi, di pettinarsi, di mettersi le scarpe e di finire il pranzo senza l’aiuto di Zachar, così Zachar non poteva concepire altri padroni all’infuori di Il’ja Il’ič, altra esistenza che quella consistente nel vestirlo, nutrirlo, insolentirlo, turlupinarlo, infinocchiarlo, e nello stesso tempo venerarlo in cuor suo.

VIII

Dopo aver chiuso la porta alle spalle di Tarant’ev e di Alekseev, Zachar non tornò nel suo cantuccio: aspettava la chiamata del padrone che, a quanto gli aveva sentito dire, intendeva mettersi subito a scrivere. Ma nello studio di Oblomov c’era un silenzio di tomba.

Zachar sbirciò attraverso la fessura... come mai? Il’ja Il’ič se ne stava sdraiato sul divano, con la testa appoggiata sul palmo della mano e con un libro davanti a sé. Zachar aprì la porta.

«Sicché, vi siete coricato di nuovo?», disse.

«Non disturbarmi. Non vedi che sto leggendo?», rispose asciutto Oblomov.

«È ora che vi laviate, e poi dovete scrivere», insisté molesto Zachar.

«Già, è proprio ora», riconobbe Il’ja Il’ič scuotendosi. «Subito. Ma tu va’ via. Devo riflettere».

«Chissà come ha già avuto tempo di rimettersi giù?», brontolò Zachar saltando sul giaciglio. «è svelto, però!»

Oblomov riuscì comunque a finire di leggere la pagina ingiallita dal tempo, la cui lettura era stata interrotta un mese prima. Rimise il libro a posto e sbadigliò, poi tornò a sprofondarsi nei pensieri molesti riguardanti i suoi «due guai».

«Che noia!», mormorava, ora stendendo, ora piegando le gambe.

Lo prendeva il desiderio di abbandonarsi al piacere della fantasticheria; volse gli occhi al cielo, cercò il suo astro prediletto, ma esso era proprio allo zenit e riversava il suo bagliore accecante sul muro bianco di calce della casa dietro la quale la sera scompariva dalla vista di Oblomov. «No, prima gli affari», si disse con severità, «e poi...».

La mattina, che in campagna era passata da un pezzo, anche a Pietroburgo volgeva alla fine. Da fuori, giungeva a Il’ja Il’ič un rumore confuso di voci umane e non umane: artisti girovaghi che cantavano, accompagnati per lo più dall’abbaiare dei cani. Passavano anche delle pescivendole e si sentivano le voci dei venditori che offrivano merci di ogni specie.

Disteso sulla schiena con le mani dietro la testa, Il’ja Il’ič riprese a meditare sul progetto di riorganizzazione della sua proprietà. Fece un rapido riesame di alcuni paragrafi fondamentali riguardanti il tributo e l’aratura, escogitò nuove e più energiche misure contro la pigrizia e il vagabondaggio dei contadini, e passò infine ad organizzare la sua futura esistenza nel villaggio.

Si occupò innanzi tutto della costruzione della casa di campagna. Indugiò con piacere alcuni minuti sulla distribuzione delle stanze, stabilì la lunghezza e la larghezza della sala da pranzo, di quella da biliardo, pensò anche a come dovevano essere orientate le finestre del suo studio e non trascurò nemmeno i mobili e i tappeti.

Passò poi a considerare le dipendenze, tenendo conto del numero di ospiti che contava di invitare; stabilì dove sarebbero state le scuderie, le rimesse, gli alloggi per la servitù e altri annessi e connessi.

Giunse infine al giardino: decise di lasciare così come erano i vecchi tigli e le querce, ma di abbattere i peri e i meli per sostituirli con delle acacie; avrebbe desiderato anche un parco, ma, dopo un approssimativo calcolo mentale della spesa, scoprì che era troppo caro e lo rimandò ad altra occasione per dedicarsi alle aiuole e alle serre.

A questo punto, il pensiero dei frutti che gliene sarebbero venuti in futuro fu così seducente che, con un balzo immaginario di alcuni anni, egli si vide stabilmente insediato nella proprietà riorganizzata secondo il suo progetto.

Si vede seduto una sera d’estate sulla terrazza, presso il tavolino da tè, sotto gli alberi fronzuti che non lasciano filtrare i raggi del sole; aspira con indolenza il fumo da una lunga pipa e si gode pensoso la vista che si apre al di là degli alberi, della frescura, del silenzio: i campi lontani sono dorati, il sole tramonta dietro il familiare bosco di betulle e tinge di rosso lo stagno liscio come uno specchio; dai campi sale un leggero vapore, l’aria si rinfresca, scende il crepuscolo, i contadini rientrano a frotte.

I servitori oziano seduti davanti al portone; si sentono voci allegre, risate, la balalaika, le ragazze giocano a rincorrersi; intorno a lui ruzzano i suoi figlioletti, gli si arrampicano sulle ginocchia, gli si attaccano al collo; vicino al samovar è seduta... la sovrana di tutto ciò che lo circonda, la sua dea... una donna! sua moglie! Frattanto, nella sala da pranzo, arredata con elegante sobrietà, si accendono piccole luci accoglienti, si apparecchia la grande tavola rotonda; Zachar, promosso al rango di maggiordomo, con gli scopettoni completamente bianchi, dispone sulla tavola, con un piacevole tintinnio, i cristalli e l’argenteria, lasciando cadere ad ogni minuto ora un bicchiere, ora una forchetta; ci si mette a tavola per consumare una lauta cena. C’è anche il suo compagno d’infanzia, il suo fedele amico Stolz, e ci sono altri visi noti. Poi si va a dormire...

D’un tratto il volto di Oblomov avvampò per la felicità; il sogno era così luminoso, vivo, poetico, che egli affondò la faccia nel cuscino. Sentiva un improvviso e vago desiderio d’amore, di una serena felicità, il bisogno dei campi e delle colline del suo paese, della sua casa, di una moglie, di figli...

Dopo essere rimasto bocconi per cinque minuti circa, si rigirò adagio sulla schiena. Il suo viso era illuminato da una espressione tenera e commossa: era felice.

Deliziato, stirò piano piano le gambe, la qual cosa fece risalire un po’ i pantaloni, ma egli non si accorse nemmeno di questo piccolo disordine. Il sogno compiacente lo trasportava lontano, leggero e libero, nel futuro.

Adesso, era tutto assorbito dall’idea prediletta: pensava alla piccola colonia di amici che si sarebbero stabiliti in villaggi e fattorie a quindici-venti verste dalla sua proprietà, e ogni giorno a turno si sarebbero riuniti a casa ora dell’uno ora dell’altro per pranzare, cenare, ballare; vedeva giorni sempre radiosi, volti sereni, senza preoccupazioni e senza rughe, sorridenti, paffuti, coloriti, con doppiomento e un gagliardo appetito... Eterna estate, eterna allegria, dolci convivi, dolce far niente...

«Dio, Dio mio!», esclamò al colmo della felicità, e tornò in sé.

E dalla corte gli giunsero tutte insieme cinque voci: «Patate! Sabbia, a chi serve la sabbia? Carbone! Carbone!... Fate una offerta, anime caritatevoli, per l’erigendo tempio del Signore!». E dalla casa vicina che stavano ricostruendo venivano tonfi d’ascia e grida di operai.

«Ah!», esclamò con un amaro sospiro Il’ja Il’ič. «Che vita è questa? Che indecenza questo baccano della capitale! Quando mi sarà concessa l’esistenza paradisiaca cui anelo? Quando tornerò ai miei campi, ai miei boschetti?», pensò. «Potessi starmene sdraiato sull’erba, sotto un albero, e guardare il sole attraverso le fronde e contare quanti uccellini svolazzano fra i rami! E intanto una serva belloccia, con le braccia nude rotonde e morbide e il collo abbronzato dal sole, ti porta qui sull’erba ora il pranzo ora la colazione; abbassa gli occhi, la birichina, e sorride... Ma quando arriverà questo momento?».

«E il progetto? Lo starosta, l’appartamento?», gli venne in mente d’improvviso.

«Sì, sì!», proseguì in fretta Il’ja Il’ič, «adesso, mi ci metto subito!».

Oblomov si sollevò di scatto a sedere, poi buttò giù i piedi, che infilarono al primo colpo le due pantofole, e si fermò; quindi si alzò del tutto e rimase lì in piedi pensieroso per un paio di minuti.

«Zachar, Zachar!» gridò a gran voce guardando il tavolo e il calamaio.

«Che altro c’è?», le parole furono accompagnate dal tonfo. «Come facciano le gambe a reggermi ancora...», borbottò Zachar con voce rauca.

«Zachar!», ripeté Il’ja Il’ič, assorto, senza togliere gli occhi dal tavolo. «C’è che...», cominciò, indicando il calamaio; ma, senza finire la frase, ripiombò nelle sue meditazioni.

Ed ecco che le sue braccia si tesero verso l’alto, le ginocchia si piegarono, ed egli cominciò a stirarsi e a sbadigliare...

«È avanzato del formaggio», riprese adagio, continuando a stirarsi. «sì... portami il madera; manca ancora molto al pranzo; voglio mangiare qualcosa...».

«Ma chi ve lo ha detto che è avanzato?», chiese Zachar. «Non è avanzato niente».

«Come non è avanzato?», lo interruppe Il’ja Il’ič. «Ricordo benissimo che era un pezzo così...».

«No, e poi no! Non c’era nessun pezzo!», ripeté ostinato Zachar.

«C’era», disse Il’ja Il’ič.

«Non c’era!», rispose Zachar.

«Allora va’ a comprarlo».

«Datemi i soldi».

«Gli spicci sono là, prendili».

«Ma là c’è solo un rublo e quaranta, e ci vuole un rublo e sessanta».

«C’erano anche delle monete di rame».

«Io non le ho viste!», disse Zachar, poggiandosi ora sull’uno ora sull’altro piede. «C’erano i pezzi d’argento, e ci sono ancora, ma quelli di rame non c’erano!».

«C’erano: me li ha dati di resto, ieri, il venditore ambulante».

«C’ero anch’io quando vi ha dato gli spiccioli», disse Zachar, «ma non ho visto pezzi di rame...».

«Che li abbia presi Tarant’ev?», pensò dubbioso Il’ja Il’ič. «Macché, lui si sarebbe preso tutto».

«Allora, cosa c’è rimasto di là?», chiese.

«Niente è rimasto. Se c’è ancora del prosciutto di ieri, bisogna chiederlo a Anis’ja. Che faccio, devo portarvelo?».

«Porta quello che c’è. Ma come mai non c’è il formaggio?».

«Be’, non c’è», disse Zachar, e se ne andò.

Il’ja Il’ič si mise a camminare a passi lenti per lo studio, immerso nei suoi pensieri.

«Quante preoccupazioni!», mormorò. «C’è il progetto... ancora un mucchio di lavoro... Ma il formaggio era avanzato», proseguì pensieroso, «Zachar se l’è mangiato, e sostiene che non c’era! E dove sono andate a finire le monete di rame?», disse, cercando sulla tavola.

Un quarto d’ora dopo, Zachar aprì la porta, spingendola con il vassoio che reggeva con tutt’e due le mani e, quando volle richiuderla con un piede, fallì il colpo e diede un calcio nel vuoto: così rovinarono a terra il bicchiere, il tappo della caraffa e un panino.

«Non muovi un passo senza far danni!», disse Il’ja Il’ič. «Be’, raccogli almeno quello che hai fatto cadere, invece di startene lì ad ammirare la tua prodezza!».

Zachar, senza mollare il vassoio, si chinò per raccogliere il panino ma, quando era già accovacciato, si accorse a un tratto che, con tutt’e due le mani occupate, non poteva raccogliere nulla.

«Forza, raccogli!», disse Il’ja Il’ič con tono canzonatorio. «Cosa c’è che non va?».

«Vi pigliasse un accidente, maledizione a voi!», sbottò Zachar prendendosela con le cose cadute. «Quando mai uno fa colazione poco prima di pranzo?».

E, posato il vassoio, raccolse da terra ciò che aveva lasciato cadere; quando fu la volta del panino, ci soffiò sopra e lo posò sulla tavola.

Il’ja Il’ič si mise a mangiare, e Zachar rimase fermo a una certa distanza guardandolo in tralice, con l’evidente intenzione di dirgli qualcosa.

Ma Oblomov faceva il suo spuntino senza prestargli la minima attenzione.

Zachar tossicchiò un paio di volte.

Oblomov continuò a far finta di nulla.

«Poco fa», attaccò infine timidamente Zachar, «l’amministratore ha mandato di nuovo a dire che è stato da lui l’appaltatore per chiedergli se potrebbe dare un’occhiata al nostro appartamento. È per via delle modifiche...».

Il’ja Il’ič mangiava senza dire una parola.

«Il’ja Il’ič», disse ancora più sottovoce Zachar dopo una pausa.

Il’ja Il’ič fece finta di non aver sentito.

«La settimana prossima bisogna sloggiare», disse in un soffio Zachar.

Oblomov bevve un bicchiere di vino e tacque.

«Come faremo, Il’ja Il’ič?», domandò, quasi sussurrando, Zachar.

«Ti avevo proibito di parlarmi di questo», disse con tono severo Il’ja Il’ič che, alzatosi, andò verso Zachar.

Il servo indietreggiò.

«Che essere velenoso sei, Zachar!», proseguì Oblomov con foga.

Zachar si offese.

«Velenoso?», disse. «Perché velenoso? Io non ho mai ammazzato nessuno».

«E come no?», ripeté Il’ja Il’ič. «Tu mi intossichi l’esistenza».

«Io non sono velenoso», tenne duro Zachar.

«Perché vieni a seccarmi con l’appartamento?».

«E cosa devo fare?».

«E io cosa devo fare?».

«Non volevate scrivere al padrone di casa?».

«Adesso gli scrivo, aspetta; non c’è bisogno di precipitarsi!».

«Dovete scrivergli subito».

«Subito! Subito! Devo sistemare una faccenda che per me è più importante. Credi forse che sia una cosa da fare in quattro e quattr’otto, come spaccare la legna? Ecco qua», disse Oblomov rigirando la penna nel calamaio asciutto, «non c’è neanche l’inchiostro! Come posso mettermi a scrivere?».

«Lo sciolgo subito con un po’ di kvas», disse Zachar, che prese il calamaio e andò spedito in anticamera, mentre Oblomov si metteva a cercare la carta.

«Macché, non c’è nemmeno la carta!», disse tra sé passando una mano nel cassetto e sul tavolo. «Non ce n’è proprio! Ah, questo Zachar, mi rende la vita impossibile!».

«E poi dici che non sei velenoso?», fece Il’ja Il’ič a Zachar che tornava. «Non badi proprio a niente, tu! Come è possibile che in casa non ci sia carta?».

«Ma questo è un vero castigo, Il’ja Il’ič! Io sono un cristiano; perché mi chiamate velenoso? Niente di meno velenoso! Io sono nato e cresciuto con il vecchio padrone, e lui per sgridarmi mi chiamava magari anche piccolo figlio d’un cane e mi tirava le orecchie, ma insulti del genere non ne ho mai sentiti, mai davvero! Dove andremo a finire?! Eccovi la carta».

Prese dallo scaffale mezzo foglio di carta grigia e lo porse a Oblomov.

«Ti pare che sia possibile scrivere su questa roba?», chiese Oblomov gettandolo via. «L’ho usata per coprire il bicchiere di notte, perché non ci finisse dentro qualcosa di... velenoso».

Zachar si voltò a guardare il muro.

«Be’, non importa: da’ qua, farò la minuta, e poi Alekseev la metterà in bella».

Il’ja Il’ič si sedette a tavolino e buttò giù in fretta: «Egregio signore...».

«Che razza d’inchiostro!» disse Oblomov. «La prossima volta, Zachar, bada a fare le cose per bene!».

Rifletté un momento e cominciò a scrivere.

«L’appartamento nel quale abito al secondo piano, e nel quale lei si propone di apportare alcune modifiche, risponde perfettamente al mio sistema di vita e alle abitudini che ho contratto durante la lunga permanenza nella casa. Informato dal mio servitore Zachar Trofimov che lei ha ordinato di comunicarmi che l’appartamento da me abitato...».

Oblomov si fermò e lesse quanto aveva scritto.

«è brutto», disse. «Qua ci sono due nel qualeuno dietro l’altro, e qua due che».

Rilesse a mezza voce e spostò alcune parole: ne venne fuori che nel quale si riferiva al piano... un’altra papera. La rimediò alla meglio e si mise a pensare al modo di evitare la ripetizione del che. Ora cancellava una parola, ora la riscriveva. Per tre volte cambiò posto al che, ma ne vennero fuori o frasi senza senso o due che vicini.

«Non c’è verso di liberarsi di questo secondoche!», disse con impazienza. «Al diavolo lui e la lettera! Rompersi la testa per simili bazzecole! Ho perso l’abitudine di scrivere lettere d’affari. E sono quasi le tre!».

«Ecco, Zachar, questo è per te». Strappò la lettera in quattro e la buttò a terra.

«Hai visto?», gli chiese.

«Ho visto», disse Zachar raccogliendo i pezzi di carta.

«Perciò, non seccarmi più con l’appartamento. E quella che roba è?».

«I conti».

«Ah, Signore! Mi vuoi proprio veder morto! Avanti, quanto fa? Spicciati!».

«Dunque... Al macellaio ottantasei rubli e cinquantaquattro copechi».

Il’ja Il’ič fece un gesto di sorpresa.

«Sei impazzito? Solo per il macellaio tanti quattrini?».

«Sono circa tre mesi che non paghiamo, ecco perché sono tanti. È tutto scritto qua, non c’è niente di rubato».

«E non vuoi sentirti dire che sei velenoso?», disse Oblomov. «Hai comprato quintali di carne. Dove te la sei messa? Almeno ti avesse fatto pro!».

«E che l’ho mangiata io?», rimbeccò Zachar.

«Ah, no? Non l’hai mangiata?».

«Sicché, mi rinfacciate anche il pane? Ecco qua, guardate».

E gli ficcò in mano i conti.

«Be’, chi altro c’è?», disse Il’ja Il’ič respingendo infastidito il quadernetto bisunto.

«Altri centoventun rubli e diciotto copechi al fornaio e all’erbivendolo».

«Ma questo è un saccheggio! Mai visto niente di simile!», esclamò Oblomov fuori di sé. «Che sei, una vacca, per ingurgitare tanta verdura?».

«No! Io sono un tipo velenoso!», replicò Zachar con tono amaro, voltandogli le spalle. «Se voi non riceveste più Michej Andreič, uscirebbero meno soldi», aggiunse.

«Bè, quant’è in tutto? Fai la somma», disse Il’ja Il’ič, mettendosi anche lui a fare il conto.

Zachar calcolava sulle dita.

«Sa il diavolo le assurdità che vengono fuori: sempre una cifra diversa», disse Oblomov. «A te quanto viene? Forse duecento?».

«Un momento, datemi tempo!», mormorò Zachar con gli occhi socchiusi. «Otto decine più dieci decine... diciotto, più due decine...».

«Così non la finirai mai», disse Il’ja Il’ič. «Tornatene di là, e i conti me li darai domani; e procurami la carta e l’inchiostro... Una montagna di soldi! Te lo dicevo, io, di pagare un po’ per volta... e invece, nossignore, tutto in una volta... che gente!».

«Duecentocinque rubli e settantadue copechi», disse Zachar che aveva finito di contare. «Datemi i soldi».

«Che, adesso? Aspetta un momento: domani controllerò...».

«Come volete, Il’ja Il’ič, ma loro chiedono...».

«Be’, be’, piantala! Ho detto domani... e domani li avrai! Vattene di là, ché ho da fare: ho preoccupazioni ben più gravi».

Il’ja Il’ič si sedette su una sedia, tirò a sé le gambe, ma non aveva neanche cominciato a pensare che suonò il campanello.

Entrò un uomo bassino, con una discreta pancetta, il colorito pallido, le guance rosse, e una calvizie incorniciata da una frangia di folti capelli neri. La pelata era tonda, netta e lucida come fosse stata d’avorio. Il visitatore si faceva notare per l’espressione assorta e preoccupata, non disgiunta da un certo ritegno, con la quale guardava tutto e tutti, il sorriso discreto e infine per il suo atteggiamento ufficiale sebbene modesto.

Indossava un amipo frac che si spalancava senza difficoltà, come un portone, al più piccolo tocco. La camicia era di un bianco splendente, come a voler fare degno riscontro alla pelata. All’indice della mano destra, aveva un grosso anello massiccio con una pietra scura.

«Dottore! Qual buon vento la porta?», esclamò Oblomov, tendendo una mano al nuovo venuto e porgendogli con l’altra una sedia.

«Ero stufo di saperla in buona salute e di aspettare che mi chiamasse; così sono venuto di mia iniziativa», celiò il medico. «No», riprese poi facendosi serio, «sono stato di sopra, dal suo vicino, e così ho fatto una capatina anche da lei».

«Grazie. Come sta il vicino?».

«Bah; potrà tirare avanti tre o quattro settimane, forse anche fino all’autunno, e poi... una brutta pleurite: si sa come va a finire. E lei come sta?».

Oblomov scosse afflitto la testa.

«Male, dottore. Stavo giusto pensando di consultarla. Non so che fare. Ho la digestione difficile, lo stomaco pesante, bruciori terribili, e respiro male...», disse Oblomov col viso triste.

«Mi dia la mano», disse il dottore, gli prese il polso e chiuse per un momento gli occhi, «Ha tosse?», chiese.

«Di notte, soprattutto se ceno».

«Ehm! Palpitazioni di cuore? Mal di testa?».

Il dottore fece qualche altra domanda del genere, poi chinò la pelata e si mise a riflettere. Dopo due minuti, alzò di scatto la testa e disse con tono deciso:

«Se vivrà ancora per due o tre anni in questo clima e continuerà a starsene sdraiato, a mangiare cibi grassi e pesanti... morrà di un colpo».

Oblomov trasalì.

«Che devo fare, allora? Me lo dica, per carità!», lo esortò Oblomov.

«Quello che fanno gli altri: andare all’estero».

«All’estero!», ripeté sbalordito Oblomov.

«Sì, che c’è di strano?».

«Ma andiamo, dottore, all’estero? Come è possibile?».

«E perché no?».

Oblomov, in silenzio, fece scorrere lo sguardo prima su se stesso, poi sullo studio, e ripeté macchinalmente:

«All’estero!».

«Che cosa glielo impedisce?».

«Che cosa? Tutto...».

«Come tutto? Forse non ha denaro?».

«Sì, sì, ecco, proprio così, non ho denaro», esclamò con tono vivace Oblomov, rallegrandosi di questo impedimento naturalissimo che gli offriva un’ottima difesa. «Guardi qua cosa mi ha scritto lostarosta... Dov’è la lettera, dove l’ho cacciata? Zachar!».

«D’accordo, d’accordo», disse il dottore, «questo non mi riguarda; era mio dovere dirle che deve cambiare genere di vita, luogo di residenza, aria, occupazioni... insomma, tutto».

«Bene, ci penserò», disse Oblomov. «Ma dove dovrei andare, e a fare che?», chiese.

«Vada a Kissingen o a Ems», prese a dire il medico, «dove passerà le acque durante i mesi di giugno e luglio; poi si rechi in Svizzera o nel Tirolo, per la cura dell’uva, e ci resti in settembre e ottobre...».

«Cose da pazzi, nel Tirolo!», mormorò Il’ja Il’ič con voce appena udibile.

«Poi, in un qualsiasi luogo asciutto, magari in Egitto...».

«E poi?», pensò Oblomov.

«Eviti le preoccupazioni e i dispiaceri...».

«Fa presto a parlare, lei», osservò Oblomov. «Lei non riceve certe lettere dallo starosta....».

«Deve tener lontani anche i pensieri», proseguì il medico.

«I pensieri?».

«Sì, le tensioni intellettuali».

«E il progetto di riorganizzazione delle mie proprietà? Non se ne parla nemmeno!».

«Faccia come vuole. Il mio dovere è solo quello di metterla sull’avviso. Bisogna tenersi lontano anche dalle passioni, che pregiudicano la cura. Deve cercare di distrarsi con l’equitazione, con la danza, con un’esercizio fisico moderato all’aria aperta, prendendo parte a piacevoli conversazioni, specie con le signore, perché il suo cuore rallenti i battiti e riceva solo sensazioni gradevoli».

Oblomov lo ascoltava a testa bassa.

«Poi?», chiese.

«Poi, Dio la guardi dal leggere e scrivere! Affitti una villa con le finestre a mezzogiorno e molti fiori, e si circondi di musica e di donne...».

«E il vitto?».

«Eviti le carne di qualsiasi genere, come pure i farinacei e le gelatine. Può prendere brodi leggeri, verdure... Solo, mi raccomando: adesso il colera è quasi ovunque, perciò bisogna far ancora più attenzione... Può camminare circa otto ore al giorno. Si comperi un fucile...».

«Oh, Signore!...», gemette Oblomov.

«Infine», concluse il medico, «quando arriva l’inverno, vada a Parigi, e là, nel vortice della vita, si diverta senza pensieri: vada a teatro, ai balli, ai veglioni mascherati, a far gite fuori città, visite; faccia in modo che intorno a lei ci siano sempre amici, rumore, risa...».

«Nient’altro?» chiese Oblomov con stizza malcelata.

Il dottore rifletté.

«Forse le gioverebbe l’aria di mare: prenda il piroscafo in Inghilterra e faccia un viaggio in America...».

Si alzò per accomiatarsi.

«Se seguirà i miei consigli alla lettera...».

«Certo, certo, li seguirò senz’altro», lo rassicurò caustico Oblomov, accompagnandolo.

Il dottore se ne andò lasciando Oblomov nello stato più miserando. Chiuse gli occhi, si mise le mani sulla testa, si rannicchiò sulla sedia e rimase lì senza guardare da nessuna parte, insensibile a tutto.

Alle sue spalle, una timida voce lo chiamò.

«Il’ja Il’ič!».

«Che c’è?», rispose lui.

«Che devo dire all’amministratore?».

«Di che?».

«Del trasloco».

«Siamo daccapo?», si stupì Oblomov.

«Ma come devo fare, piccolo padre, Il’ja Il’ič? Giudicate voi stesso: la mia vita è tanto amara, ho già un piede nella fossa...».

«No, mi pare che sia tu a volermici spingere con il tuo trasloco», disse Oblomov. «Hai sentito cosa ha detto il dottore?».

Zachar non trovò nulla da dire, ma sospirò tanto forte che i lembi del fazzoletto da collo gli tremarono sul petto.

«Hai deciso di farmi morire a poco a poco, vero?», chiese di nuovo Oblomov. «Sei stufo di me... eh? Avanti, parla!».

«Che Cristo vi protegga! Vivete in buona salute! Chi è che vuole il vostro male?», bofonchiò Zachar, profondamente turbato dalla tragica piega che prendeva il discorso.

«Tu!», disse Il’ja Il’ič. «Ti ho proibito di far parola del trasloco, e non passa giorno senza che tu me lo abbia a ricordare almeno cinque volte: questo mi snerva, lo capisci? Già son malandato di salute».

«Pensavo, signore, che... perché, pensavo, non traslocare?», disse Zachar con voce tremante d’inquietudine.

«Perché non traslocare! Fai presto tu, a parlare!», disse Oblomov, voltandosi con la poltrona verso Zachar. «Ma hai lontanamente pensato a cosa significa un trasloco... eh? Non ci hai pensato, vero?».

«Non ci ho pensato», disse umile Zachar, pronto a convenire su tutto ciò che diceva il padrone pur di non spingere le discussioni fino alle scene patetiche delle quali aveva le tasche piene.

«Se non ci hai pensato, allora ascoltami e cerca di capire, se è possibile. Cosa significa traslocare? Significa questo: il padrone deve uscire di casa e starsene in giro tutto il giorno, vestito di tutto punto...».

«E be’, anche se doveste uscire?», osservò Zachar. «Perché non dovreste star fuori tutta la giornata? Non fa bene rimanere tutto il giorno in casa. Adesso non avete proprio un bell’aspetto. Prima eravate bianco e rosa come una mela; e adesso, che ve ne state sempre tappato in casa, sa Iddio cosa sembrate! Potreste girare per le strade, guardare la gente o altre cose...».

«Piantala con le sciocchezze, e ascoltami», disse Oblomov. «Girare per le strade!».

«Sicuro», proseguì Zachar infervorato. «Per esempio, dicono che è arrivato in città un mostro eccezionale: potreste andare a vederlo. Potreste anche andare a teatro o al ballo mascherato, e intanto qui si farebbe il trasloco senza di voi».

«Non dire stupidaggini! Bel modo davvero di preoccuparsi della tranquillità del padrone! Secondo te, dovrei andarmene a zonzo tutto il giorno; non ti importa che mangi chissà dove e che non possa distendermi dopo pranzo?... Fare il trasloco senza di me! Se non sorvegli bene quando sgomberi, va tutto in cocci. Lo so io», disse con tono sempre più convinto Oblomov, «cosa significa un trasloco! Significa cose che si rompono, rumori; tutto ammucchiato per terra: una valigia, la spalliera del divano, i quadri, le pipe, i libri, e certe boccette che in passato non eri riuscito a trovare e che adesso sa il diavolo da dove saltano fuori. Devi stare attento che non ti rompano e non ti perdano niente... una metà della roba qui, l’altra sul carro o nel nuovo appartamento; vuoi fumare, prendi la pipa, ma il tabacco è già partito... Vuoi sederti, non trovi dove; qualsiasi cosa tocchi, ti insudici, c’è polvere dappertutto; non hai di che lavarti, e così sei costretto ad andare in giro con le mani... come le tue...».

«Le mie mani sono pulite», fece osservare Zachar mostrando quelle specie di suole di scarpe che aveva al posto delle mani.

«Be’, fammi il piacere di non mostrarmele», disse Il’ja Il’ič voltandosi. «E se vuoi bere», proseguì, «prendi la caraffa, ma non c’è il bicchiere...».

«Si può bere anche dalla caraffa!», lo interruppe Zachar in tono conciliante.

«Ecco, con voi è sempre la stessa storia: si può non spazzare, non togliere la polvere, non battere i tappeti... E nel nuovo appartamento», continuò Il’ja Il’ič, trascinato dalla scena del trasloco che si presentava tanto vivida ai suoi occhi, «per tre giorni non sai dove metter le mani, niente è al suo posto: i quadri appoggiati al muro, per terra, le galosce sul letto, gli stivali imballati con il tè e la pomata. E vedi qui una zampa di poltrona rotta, là il vetro di un quadro in frantumi, o il divano tutto macchiato. Qualunque cosa chiedi... niente, nessuno sa dove sia... perduta o dimenticata nel vecchio appartamento: devi correre là...».

«Certe volte, bisogna fare la spola avanti e indietro una decina di volte», lo interruppe Zachar.

«Lo vedi!», proseguì Oblomov. «E quando ti alzi al mattino nel nuovo appartamento, quanti fastidi! Non c’è acqua, non c’è carbone, e d’inverno ti intirizzisci a startene fermo nelle camere gelate, e non c’è legna: ti tocca correre a cercarla, darti da fare...».

«E può capitare che Dio ti mandi dei vicini», osservò di nuovo Zachar, «che non solo non ti prestano una fascina di legna, ma non ti danno neanche un mestolo d’acqua».

«Ecco, appunto!», disse Il’ja Il’ič. «Quando arriva la sera, pare che il trambusto sia finito: ma no, continua per un paio di settimane. Quando ti sembra che tutto sia a posto... ti accorgi che c’è ancora qualcosa: montare le tende, attaccare i quadri... non ne puoi più, non hai più voglia di vivere... E le spese... le spese...».

«L’altra volta, otto anni fa, è costato duecento rubli... lo ricordo come adesso», confermò Zachar.

«Capirai, uno scherzetto!», disse Il’ja Il’ič. «E che vita i primi tempi nel nuovo appartamento! Ti pare che ci si abitui presto? Non dormirò almeno per cinque notti nella nuova casa; mi prenderà la malinconia quando, alzandomi, vedrò un’altra cosa al posto di quella insegna del tornitore di fronte, e che tristezza proverò a non vedere più quella vecchietta dai capelli corti che si affaccia alla finestra prima di pranzo... Lo capisci, adesso, dove volevi trascinare il tuo padrone... eh?», chiese Il’ja Il’ič con voce carica di rimprovero.

«Lo capisco», sussurrò umilmente Zachar.

«Perché, allora, volevi farmi traslocare? Ti pare che una creatura umana possa sopportare tutto questo?».

«Pensavo che gli altri, dico, non sono peggiori di noi e traslocano, e che quindi anche noi potremmo...», disse Zachar.

«Cosa, cosa?», scattò sbalordito Il’ja Il’ič, sollevandosi dalla poltrona. «Cosa hai detto?».

Zachar si confuse, non sapendo che cosa avesse provocato l’esclamazione e il gesto patetico del padrone. Ammutolì.

«Gli altri non sono peggiori!», ripeté inorridito Il’ja Il’ič. «Ecco che cosa sei arrivato a dire! Così, adesso scopro che per te io sono uguale aglialtri!».

Oblomov fece un inchino ironico davanti a Zachar assumendo un’aria oltremodo risentita.

«Scusate, Il’ja Il’ič, vi ho forse paragonato a qualcun’altro?».

«Allontanati dal mio sguardo!», ordinò imperioso Oblomov additando la porta. «Non voglio vederti. Gli altri, eh? Benissimo!».

Zachar si ritirò nel suo cantuccio con un profondo sospiro.

«Che razza di vita!», borbottò sedendosi sul giaciglio.

«Dio mio!», si lamentò a sua volta Oblomov. «Ecco qua: volevo occupare la mattinata con un lavoro serio, e invece mi rovinano tutta la gioranta. E chi, poi? proprio il mio servo fedele e devoto mi dice cose simili! Ma come ha potuto!».

Per un pezzo Oblomov non riuscì a calmarsi: si sdraiava, si alzava, camminava per la stanza e si sdraiava di nuovo. In quella affermazione di Zachar che lo abbassava al livello degli altri, vedeva una violazione dei suoi diritti all’esclusiva preferenza che Zachar doveva riservare, rispetto a chiunque altro, alla persona del padrone.

Egli si immerse nel pensiero di quel paragone e analizzò che cosa fossero gli altri e che cosa fosse lui, fino a che punto fosse possibile e giusto tale parallelo e quanto profonda fosse l’offesa arrecatagli da Zachar: infine, se Zachar lo avesse oltraggiato con intenzione, cioè se fosse convinto che Il’ja Il’ič era uguale agli altri o se la frase gli fosse sfuggita di bocca senza il concorso del cervello. Tutto ciò aveva leso l’amor proprio di Oblomov, ed egli decise di mostrare a Zachar la differenza che correva fra lui e quelli che il servo accomunava sotto la definizione di altri e di fargli capire tutta l’iniquità della sua affermazione.

«Zachar!», gridò con voce lenta e solenne.

A questa chiamata, Zachar non saltò dal giaciglio battendo i piedi a terra come era solito fare, non borbottò; scivolò giù adagio dalla stufa e si avviò, urtando dappertutto con le braccia e coi fianchi, in silenzio, di contraggenio, come un cane che capisca già dalla voce che il padrone ha scoperto la sua marachella e lo chiama per infliggergli il castigo.

Zachar socchiuse la porta senza decidersi ad entrare.

«Avanti!», disse Il’ja Il’ič.

Benché la porta si aprisse senza difficoltà, Zachar la spinge come se non riuscisse a varcarne la soglia, e vi rimase abbarbicato senza entrare.

Oblomov era seduto sul bordo del letto.

«Vieni avanti!», insisté.

Zachar si staccò a fatica dalla porta, ma subito la richiuse e vi si appiccicò con le spalle.

«Qua!», ripeté Il’ja Il’ič indicando con il dito un punto vicino a lui. Zachar fece mezzo passo e si fermò a due sažen dal punto indicato.

«Ancora!», disse Oblomov.

Zachar finse di avanzare, ma si dondolò soltanto, batté un piede e non si mosse.

Il’ja Il’ič, vedendo che per questa volta non sarebbe riuscito in alcun modo a far avvicinare Zachar, lo lasciò stare dov’era e lo guardò per un poco in silenzio, con aria di rimprovero.

Imbarazzato dalla muta contemplazione della sua persona, Zachar faceva finta di non badare al padrone e stava più che mai di fianco senza neppure rivolgere a Il’ja Il’ič uno dei suoi soliti sguardi in tralice.

Fissò con ostinazione la parete alla sua sinistra, sulla quale vide qualcosa con cui aveva una lunga dimestichezza: le frange di ragnatele intorno ai quadri e un ragno, rimprovero vivente della sua negligenza.

«Zachar», disse Il’ja Il’ič con voce contenuta e dignitosa.

Zachar non rispondeva; di certo pensava: «Be’, che vuoi? Un altro Zachar, per caso? Non lo vedi che sono qua?». E il suo sguardo, sfiorando Il’ja Il’ič, si spostò da sinistra a destra; ma anche qui ci fu qualcosa a ricordargli il padrone: lo specchio, ricoperto da uno strato di polvere fitto come un velo di mussolina, dal quale lo fissava di traverso, come da una nebbia, il proprio viso brutto e immusonito.

Scontento, distolse gli occhi da quel triste soggetto a lui anche troppo noto e decise di posarli per un momento su Il’ja Il’ič. I loro sguardi si incontrarono.

Zachar non sopportò il rimprovero scritto negli occhi del padrone e abbassò i suoi: ma anche sul tappeto, impregnato di polvere e pieno di macchie, lesse il deprecabile attestato della sua diligenza nel servire il padrone.

«Zachar!», disse Il’ja Il’ič con sentimento.

«Comandate?», mormorò Zachar con voce appena percettibile e con un piccolo brivido al pensiero del discorso patetico che lo aspettava.

«Dammi del kvas!», disse Il’ja Il’ič. Zachar si sentì allargare il cuore: felice come un ragazzino, si precipitò alla credenza e portò il kvas.

«Be’, come ti senti?», chiese asciutto Il’ja Il’ič dopo una sorsata, continuando a tenere in mano il bicchiere. «Non bene, eh?».

L’espressione selvatica si addolcì per un momento, facendo trapelare sul viso di Zachar un raggio di pentimento. Egli sentì risvegliarsi in cuore i primi sintomi di reverenza verso il padrone, e cominciò a guardarlo diritto negli occhi.

«Riconosci il tuo fallo?», chiese Il’ja Il’ič.

«Che roba sarà questo “fallo”?», pensò Zachar amareggiato, «di sicuro qualcosa da far piangere i sassi, e anche a non volere, quando attaccherà la sviolinata, sarà da piangere».

«Be’, Il’ja Il’ič», cominciò Zachar sulla nota più bassa del suo diapason, «io non ho detto niente, tranne che, come si dice...».

«No, aspetta!», lo interruppe Oblomov. «Lo capisci quello che hai fatto? Tieni, metti il bicchiere sulla tavola e rispondi!».

Zachar non rispose: non capiva proprio che cosa avesse fatto, ma questo non gli impediva di guardare il padrone con profondo rispetto: arrivò perfino ad abbassare un po’ la testa, conscio della sua colpa.

«E tu non saresti un essere velenoso?», disse Oblomov.

Zachar continuò a tacere e ammiccò più volte con energia.

«Hai contristato il tuo padrone!», affermò in tono pacato Il’ja Il’ič e fissò Zachar compiacendosi del suo turbamento.

Zachar era tanto angosciato che avrebbe voluto nascondersi chissà dove.

«È vero o no che mi hai contristato?».

«Vi ho contristato!», mormorò Zachar, completamente annientato da questa nuova parola da far piangere i sassi. Gettava occhiate disperate a destra, a sinistra, davanti a sé, alla ricerca di una qualche ancora di salvezza, ma ancora una volta non vide altro che le ragnatele, la polvere, la sua immagine riflessa e il viso del padrone.

«Potessi sprofondare sottoterra! Oh, perché la morte non mi piglia?», pensò, rendendosi conto che, comunque la mettesse, non sarebbe riuscito a sfuggire alla scena patetica. E sentiva che le palpebre gli sbattevano sempre più spesso e che stavano per sgorgargli le lacrime dagli occhi.

Alla fine rispose al padrone con la solita canzone, in prosa.

«Perché vi ho contristato, Il’ja Il’ič?», domandò quasi piangendo.

«Perché?», ripeté Oblomov. «Ma hai pensato a che cosa è un altro?».

Si fermò e continuò a fissare Zachar.

«Devo dirti che cosa è?».

Zachar si voltò come l’orso nella tana e tirò un sospirone.

«Un altro - come tu lo intendi - è un maledetto pezzente, un individuo grossolano e incolto, che vive in una soffitta, nel sudiciume e nella miseria; ma può dormire benissimo anche in cortile su un mucchio di stracci. Che gli può succedere? Niente. Si abboffa di patate e di aringhe. Il bisogno lo spinge a correre tutto il giorno da una parte all’altra. Lui certo non ha problemi per traslocare. Ljagaev, per esempio, si mette il righello sotto il braccio, due camicie e un fazzoletto, e via... “Dove vai?”, “Trasloco”, dice. Ecco cos’è un altro! E io, secondo te, sarei un altro... eh?».

Zachar diede un rapido sguardo al padrone, spostò il peso del corpo da un piede all’altro e tacque.

«Che cosa è un altro?», proseguì Oblomov. «Unaltro è un individuo che si pulisce le scarpe da sé, che si veste da sé, e può anche darsi che abbia l’aspetto di un signore; ma è una finzione, e lui non sa nemmeno che cosa sia un servitore; non ha nessuno da mandare per commissioni... e quando gli serve qualcosa deve correre lui; e si attizza da solo la legna della stufa, e a volte gli tocca anche di spolverare...».

«Molti tedeschi sono così», disse cupo Zachar.

«Esatto! Ma io! Tu che cosa pensi che sia unaltro?».

«Voi siete diverso!», disse con voce lamentosa Zachar, continuando a non capire dove volesse arrivare il padrone. «Dio sa che cosa vi ha preso...».

«Io sono diverso, eh? Aspetta, e bada a quello che dici! Ti rendi conto di come vive un altro? Unaltro lavora senza tergua, corre, si arrabatta», continuò Oblomov, «se non lavora, non mangia. Unaltro si inchina, chiede, si umilia... E io? Dunque, deciditi... cosa pensi, che io sia un altro?...».

«Basta, padrone mio, non mi tormentate più con le parole tanto dolorose!», supplicò Zachar. «Ah, Signore!».

«Io, un altro? Forse che mi do da fare? Forse che lavoro? Oppure mangio poco? Ho l’aspetto macilento o pietoso? Mi manca forse qualche cosa? Mi pare di avere qualcuno che mi serve e che provvede per me. E dacché sono al mondo, grazie a Dio, non mi sono mai infilato le calze da solo. Devo forse agitarmi? E perché? Ma a chi dico tutto questo? Non sei stato tu a occuparti di me sin dall’infanzia? Tu lo sai bene con quante tenere cure sono stato allevato, sai che non ho mai sofferto né il freddo né la fame, che non ho conosciuto ristrettezze, che non ho mai dovuto guadagnarmi il pane e che in genere non ho mai fatto lavori pesanti. E allora, come ti è bastato l’animo di paragonarmi agli altri? Ti pare che io abbia la salute degli altri? che possa fare e sopportare tutto questo?».

Ormai Zachar non riusciva più a capire il discorso di Oblomov; ma per l’agitazione le labbra gli si erano gonfiate; la scena patetica gli rumoreggiava sulla testa come una nuvola temporalesca. Non parlò.

«Zachar!», ripeté Il’ja Il’ič.

«Comandate?», bisbligliò Zachar con voce appena udibile.

«Dammi un altro po’ di kvas».

Zachar gli portò il kvas e quando Il’ja Il’ič, dopo aver bevuto, gli restituì il bicchiere, fece l’atto di ritirarsi in tutta fretta.

«No, no, aspetta!», ricominciò Oblomov. «Io ti domando: come hai potuto insultare in tal modo il tuo padrone, il padrone che hai tenuto in braccio da piccolo, che servi da sempre e che ti colma di benefici?».

Zachar non resse più: la parola benefici gli diede il colpo di grazia! Cominciò a sbattere le palpebre sempre più spesso. Quanto meno capiva ciò che gli diceva Il’ja Il’ič con il suo patetico discorso, tanto più la tristezza si impadroniva di lui.

«Sono colpevole, Il’ja Il’ič», si mise a gracchiare con tono pentito, «sono stato una bestia, è vero, una bestia a...».

Ma Zachar, non avendo capito quello che aveva fatto, non sapeva con quale verbo concludere la frase.

«E io», continuò Oblomov con la voce della persona offesa perché i suoi meriti non sono apprezzati, «mi arrovello giorno e notte, mi do pena, a volte la testa mi brucia, il cuore mi si ferma; la notte non dormo, mi giro e rigiro, non faccio che pensare alla maniera migliore di... e perché? Per chi? Tutto per voi, per i contadini; cioè anche per te. Tu, forse, quando mi tiro la coperta fin sulla testa , pensi che io me ne stia lì sotto come un ciocco, a dormire? No, io non dormo, io penso, penso con tutte le mie forze a cosa posso fare perché i contadini non debbano conoscere il bisogno, perché non debbano invidiare i contadini degli altri, perché il giorno del Giudizio non si lagnino di me davanti a Dio, e perché invece preghino e mi ricordino per le mie buone azioni. Ingrati!», concluse Oblomov con voce carica di rimprovero.

Quelle ultime parole da far piangere i sassiturbarono definitivamente Zachar, che cominciò a singhiozzare; sibili e rantoli si fusero questa volta in una nota che nessuno strumento, tranne forse un gong cinese o un tam-tam indiano, avrebbe potuto riprodurre.

«Piccolo padre, Il’ja Il’ič!», supplicò, «Vi prego, non continuate. Ma che cosa vi ha preso, che Dio vi benedica! Oh, Vergine santissima! Che tegola ci è capitata fra capo e collo!».

«E tu», continuò Oblomov senza dargli ascolto, «tu dovresti vergognarti di aprire bocca. Ecco che serpe mi sono scaldato in seno!».

«Serpe!», articolò Zachar battendo le mani, e si mise a frignare producendo un ronzio simile a quello di una ventina di scarabei che avessero invaso la stanza. «Quando mai ho parlato di serpi?», disse fra i singhiozzi. «Non ne ho mai viste neanche in sogno di quelle bestiacce!».

Entrambi avevano smesso di capirsi l’un l’altro, e infine addirittura di capire se stessi.

«Ma come hai potuto dire una cosa del genere?», proseguì Il’ja Il’ič. «E io che nel mio progetto gli avevo assegnato una casa tutta per lui, con l’orto, e una scorta di granaglie, e uno stipendio! Tu dovevi farmi da fattore, da maggiordomo, da uomo di fiducia! I contadini dovevano inchinarsi davanti a te e chiamarti: Zachar Trofimyč, sì, Zachar Trofimyč! Ma lui ancora non si contenta, per lui io sono uno deglialtri! Ecco la ricompensa, il bel modo di onorare il padrone!».

Zachar continuava a singhiozzare, e anche Il’ja Il’ič era commosso. Nel fare la ramanzina al servitore, egli era profondamente convinto dei benefici che elargiva ai contadini, e pronunciò le ultime parole di rimprovero con voce tremante e con le lacrime agli occhi.

«Be’, adesso va’ con Dio!», disse con tono conciliante. «No, aspetta, dammi ancora del kvas. Ho la gola secca: avresti dovuto capirlo da te... non senti che il padrone è rauco? A che punto mi hai portato!».

«Spero che tu abbia capito il tuo errore», disse Il’ja Il’ič quando Zachar gli portò il kvas, «e che in futuro non ti azzarderai più a confondere il padrone con gli altri. Per riscattare la tua colpa, veditela tu con il padrone di casa, in modo che non si debba traslocare. Ecco come vegli sulla mia tranquillità: mi hai tutto scombussolato e mi hai fatto uscire di mente qualche idea nuova e utile. E chi ci va di mezzo? Proprio tu. è a voi che ho consacrato tutto me stesso, per voi ho lasciato l’ufficio, mi sono rintanato qui dentro... Be’, vai con Dio! Guarda, sono già le tre! Mancano solo due ore al pranzo, che si riesce a fare in due ore? Niente. E ci sono montagne di cose in sospeso. Va bene, la lettera la manderò con la posta seguente, e il progetto lo butterò giù domani. Adesso mi stendo un poco: sono estenuato. Abbassa le tende e chiudi bene la porta, perché non mi disturbino; può darsi che dorma un’oretta. Svegliami alle quattro e mezza».

Zachar cominciò a tappare ben bene il padrone nello studio; prima gli mise addosso la coperta e gliela rimboccò sotto le gambe, poi abbassò le tende, chiuse ermeticamente le porte e se ne andò nel suo cantuccio.

«Ti pigliasse un accidente, razza di diavolo!», bofonchiò asciugandosi le lacrime, mentre si arrampicava sulla stufa. «Sicuro, diavolo! Una casa mia, l’orto, la paga!», disse Zachar, che aveva capito solo queste ultime parole. «È capace solo di dire parole da far piangere i sassi, parole che ti fanno il cuore a pezzetti, come fossero coltelli... È questa la mia casa e il mio orto, è qui che stenderò le cuoia!». Picchiò i pugni con rabbia sul giaciglio. «La paga! Se non mettessi da parte gli spiccioli, non potrei neanche comperarmi il tabacco e fare qualche regaluccio alla comare! Che il diavolo ti porti!... Ma perché non viene la morte?».

Il’ja Il’ič, sdraiato sulla schiena, non si addormentò subito. Pensava, pensava, in preda all’agitazione...

«Due guai insieme!», diceva, tirandosi la coperta fin sulla testa. «Devo tener duro!».

Ma in realtà questi due guai - la malaugurata lettera dello starosta e il trasloco - non turbavano più Oblomov ed erano già entrati nel novero dei ricordi spiacevoli.

«Le sciagure preconizzate dallo starosta sono ancora di là da venire», pensava, «e nel frattempo possono cambiare molte cose: può darsi che le piogge soccorrano il raccolto; e che lo starostarecuperi gli arretrati; e che i contadini scappati «siano riportati al loro domicilio», come dice la lettera».

«Ma dove saranno scappati questi contadini?». L’interrogativo lo fece sprofondare in una meditazione sull’avvenimento. «Senza dubbio, se ne sono andati di notte, con l’umidità, senza cibo. E dove dormiranno? Forse nel bosco? Ma lì non ci si può stare! Nell’isba c’è puzzo, è vero, ma almeno ci fa caldo...».

«E poi, di che devo preoccuparmi?», pensò. «Presto avrò completato il mio progetto... perché spaventarmi in anticipo? Eh, io...».

Il pensiero del trasloco lo inquietava un po’ di più. Era il guaio più fresco, più recente; ma nello spirito di Oblomov, desideroso di serenità, anche questo fatto stava entrando a far parte della storia. Pure se aveva l’oscuro presagio di uno sgombero inevitabile, tanto più che ci si era messo di mezzo Tarant’ev, egli pensava di rimandare questo angoscioso evento della sua vita, magari di una settimana: era già una settimana di tranquillità guadagnata!

«Ma forse Zachar brigherà per aggiustare le cose in modo che non si debba sloggiare; può darsi che vengano a un accomodamento: il padrone di casa rimanderà i lavori all’estate prossima, oppure ci rinuncerà del tutto... in un modo o nell’altro, la cosa si sistemerà. Proprio non si può... traslocare!...».

Così egli ora si agitava, ora si rassicurava e infine, in parole quali ma forse, può darsi, in un modo o nell’altro, trovò anche questa volta, come trovava sempre, un’arca di speranze e di consolazioni, come l’arca biblica dei nostri padri, che per il momento lo metteva al riparo dai due guai.

Un lieve piacevole torpore già gli correva per le membra, a poco a poco il sonno cominciava a velargli i sensi come il primo, timido gelo vela la superficie delle acque; ancora un minuto... e la sua coscienza sarebbe volta Dio sa dove, ma d’improvviso Il’ja Il’ič tornò in sé e aprì gli occhi.

«Ma non mi sono ancora lavato! Come mai? E non ho fatto niente», mormorò. «Volevo scrivere il progetto, e non l’ho fatto, non ho scritto al capo della polizia, non ho scritto al governatore, ho cominciato una lettera per il padrone di casa e non l’ho finita, non ho controllato i conti e non li ho pagati... e la mattinata è volata via così!».

Rifletté...

«Che mi succede? Forse un altro avrebbe fatto tutto questo?», gli balenò nella mente. «Un altro, un altro... Ma che cosa è un altro?».

Rifletté sul paragone fra se stesso e gli altri. Pensò e ripensò, e alla fine si formò dell’altro un concetto diametralmente opposto a quello che aveva illustrato a Zachar.

Dovette riconoscere che un altro sarebbe riuscito a scrivere tutte le lettere senza che i varinel quale e che, si urtassero nemmeno una volta,un altro si sarebbe trasferito in un nuovo appartamento, avrebbe buttato giù il progetto e sarebbe partito per il villaggio...

«Eppure, anch’io potrei farlo», rifletté, «anch’io, mi pare, so scrivere; un tempo scriverò non solo lettere ma anche cose ben più difficili! Che fine ha fatto tutto questo? E traslocare, sai che roba! Basta volere! Un altro non se ne sta in vestaglia», aggiunse ai tratti salienti dell’altro; «un altro», e qui sbadigliò, «quasi non dorme... un altro si gode la vita, va dappertutto, vede tutto, s’interessa di tutto... Ma io! Io... non sono un altro!», concluse ormai rattristato, e si sprofondò ancora di più nei suoi pensieri. Arrivò perfino a tirar fuori la testa dalla coperta.

Oblomov attraversò allora uno dei momenti lucidi e consapevoli della sua vita.

Fu una sensazione spaventosa quando sentì formarsi nell’anima l’idea chiara e netta del destino dell’uomo e dei suoi compiti, e quando lo folgorò il parallelo fra questi compiti e la propria vita, e quando i più svariati problemi dell’esistenza cominciarono ad agitarglisi nella mente uno dopo l’altro, in disordine, come uccellini impauriti che un improvviso raggio di sole ha svegliato fra ruderi sonnacchiosi.

Si sentì triste e addolorato pensando che lo sviluppo della sua forza morale si era arrestato, che un senso di pesantezza lo impacciava di continuo; e lo rose l’invidia per gli altri, la cui vita era piena e ampia, mentre il sentiero angusto e misero della sua esistenza sembrava ostruito da un macigno.

Nella sua anima schiva sorse l’angosciosa consapevolezza che molti lati del suo carattere non si erano svegliati del tutto, che altri erano appena abbozzati, e che nessuno era sviluppato sino in fondo.

Al tempo stesso, egli aveva la dolorosa sensazione che dentro di lui fosse racchiuso, come in una tomba, un principio bello e luminoso, che forse era già morto, oppure era imprigionato come l’oro nelle viscere di una montagna, mentre da un pezzo quell’oro avrebbe dovuto trasformarsi in moneta corrente.

Ma quel tesoro era sommerso da uno strato spesso e pesante di rifiuti e di detriti. Era come se qualcuno avesse rubato, e sepolto in fondo alla sua anima, tutti i tesori che il mondo e la vita gli avevano donato. Qualcosa gli impediva di lanciarsi nella lizza della vita e di percorrerla spiegando le ali dell’intelligenza e della volontà. Sin dall’inizio un nemico ignoto aveva calato su di lui una mano ferrea e lo aveva rigettato lontano dalla vera destinazione dell’uomo...

E gli sembra ormai di non potersi più districare dalla foresta selvaggia per ritornare sul giusto sentiero. La foresta intorno a lui e dentro l’anima sua diventa ogni giorno più fitta e oscura; il sentiero si ricopre sempre più di erbacce; i risvegli della coscienza si fanno sempre più rari e solo per un momento scuotono le forze sopite. L’intelletto e la volontà sono paralizzati da un pezzo e, sembra, definitivamente.

Gli eventi della sua vita si sono ridotti a dimensioni microscopiche, ma egli non riesce a venire a capo neppure di quelli: non passa dall’uno all’altro, ma sono essi che se lo palleggiano come le onde in un mare in tempesta; e non ha la forza di opporre ad uno la sua ferma volontà, o di assecondarne un altro, guidato dal ragionamento.

Questa intima confessione gli causava una profonda amarezza. Gli sterili rimpianti del passato, i cocenti rimproveri della coscienza, lo pungevano come spine, ed egli cercava con tutte le sue forze di liberarsi dal peso di questi rimproveri, di trovare un colpevole - al di fuori di lui - contro il quale rivolgere gli aculei di quei rimproveri. Ma quale colpevole?

«È tutta colpa di... Zachar!», mormorò.

Ricordò in tutti i particolari la scena con Zachar, e avvampò di vergogna.

«Se qualcuno mi avesse udito?...». A questo pensiero si sentì agghiacciare. «Grazie a Dio, Zachar non sarebbe capace di riferirlo a nessuno; e poi non gli crederebbero, grazie a Dio!».

Sospirava, imprecava contro se stesso, si rigirava ora su un fianco ora sull’altro, cercava un colpevole, e non lo trovava. I suoi lamenti e i suoi sospiri arrivarono perfino alle orecchie di Zachar.

«Si fa sentire il kvas», borbottò acido Zachar.

«Ma perché sono fatto così?», si chiese Oblomov quasi in lacrime, e ficcò di nuovo la testa sotto la coperta. «Perché?».

Dopo aver cercato invano la causa avversa che gli impediva di vivere come si conviene, come vivono gli altri, sospirò, chiuse gli occhi, e di lì a pochi minuti il torpore ricominciò a poco a poco a paralizzargli i sensi.

«Anch’io... avrei voluto...», disse sbattendo le palpebre a fatica, «qualcosa di simile... Forse la natura mi è stata matrigna. Ma no, grazie a Dio... non posso lamentarmi...».

Dopo un sospiro rassegnato, passò dall’agitazione al suo stato normale di tranquilla apatia.

«È evidente che questo è il mio destino... Cosa ci posso fare?», mormorò, sopraffatto dal sonno.

«“Duemila rubli in meno di entrate”...», disse all’improvviso ad alta voce. «Adesso, adesso, aspetta...», e si svegliò a metà.

«Eppure, sarei curioso di sapere... perché... sono così?», disse di nuovo in un sussurro. Le palpebre gli si chiusero del tutto. «Sì, perché? Deve essere... già... perché...», si sforzò di dirlo, ma non lo disse.

Così, il suo pensiero non poté risalire alla causa, la lingua si fermò a metà della parola e le labbra rimasero come si trovavano, semiaperte. Al posto delle parole, si udì un altro sospiro, subito seguito dal russare uniforme dell’uomo placidamente addormentato.

Il sonno, che aveva fermato lo scorrere lento e pigro dei suoi pensieri, lo trasportò subito in un’altra epoca, in un altro luogo, nel quale ci trasferiremo anche noi, seguendolo col lettore, nel capitolo successivo.

IX - IL SOGNO DI OBLOMOV

Dove ci troviamo? In quale angolo benedetto della terra ci ha portato il sogno di Oblomov? Che luogo stupendo!

Non c’è il mare, è vero, non ci sono alte montagne, rocce o precipizi, né foreste impenetrabili; niente di grandioso, di selvaggio e cupo.

Del resto, a che scopo il selvaggio e il grandioso? Il mare, per esempio, che ce ne facciamo? Ti dà solo tristezza, e a guardarlo ti viene voglia di piangere. Il cuore si sente smarrito avanti a quella massa sconfinata d’acqua, e l’occhio, stanco della monotonia del quadro, non sa dove volgersi per trovare riposo.

Il mugghiare e il rimbombo furioso delle onde non sono carezze per un udito sensibile: esse continuano a ripetere, da quando è nato il mondo, la stessa canzone lugubre e incomprensibile; e tu continui a udire in esse gemiti e lamenti che sembrano venire da un mostro alla tortura, e voci acute e sinistre. Intorno non ci sono uccellini che cinguettano, ma solo gabbiani silenziosi che, come dei condannati, volteggiano mesti sull’acqua in prossimità della riva.

Al cospetto di questi lamenti della natura, il ruggito della belva è impotente, la voce dell’uomo insignificante, e l’uomo stesso è tanto piccolo e debole che scompare inosservato nei minuscoli particolari dell’immenso quadro! Forse per questo gli è così penoso guardare il mare.

No, lasciamolo perdere il mare! Nemmeno il suo silenzio e la sua immobilità rallegrano l’anima: nel moto appena percettibile della sua massa d’acqua, l’uomo vede sempre la stessa forza, immensa e maligna, che ora dorme, è vero, ma che talvolta si è fatta beffe della sua fiera volontà, e ha sepolto profondamente i suoi audaci disegni, le sue fatiche e il suo lavoro.

Neanche le montagne e i precipizi sono fatti per rallegrare l’uomo. Lo minacciano, lo spaventano, come gli artigli e le fauci spalancate di una fiera ostile. Montagne e precipizi ci ricordano troppo la nostra fragilità e ci incutono angoscia e timore per la nostra vita. E il cielo, che sovrasta le rocce e i precipizi, appare lontano e inaccessibile, come avesse abbandonato gli uomini. Non era così l’angolino tranquillo in cui venne improvvisamente a ritrovarsi il nostro eroe.

Qui, al contrario, il cielo sembra farsi più vicino alla terra, e non per scagliare con maggior violenza i suoi dardi, ma solo per abbracciarla più forte, con amore: si stende basso sulle nostre teste come un sicuro tetto paterno, quasi a voler proteggere il luogo prediletto da qualsiasi avversità.

Il sole vi risplende limpido e caldo per circa metà dell’anno e quando se ne allontana non lo fa all’improvviso, ma come di malavoglia, e pare si volti indietro una volta o due per dare un altro sguardo a quel luogo amato e per regalargli, in mezzo alle intemperie dell’autunno, ancora un giorno caldo e radioso.

I monti sono solo miniature di quelle cime spaventose che altrove atterriscono la fantasia. Sono una fila di colline in dolce pendio, dove è piacevole sdraiarsi sulla schiena e lasciarsi scivolar giù o, seduti, meditare contemplando il tramonto.

Il fiume scorre allegro, scherzoso e giocherellone; ora si allarga in un grande stagno, ora si precipita in un rivo sottile, oppure si fa calmo, come pensoso, e sfiora appena le pietre e si ramifica in tanti piccoli ruscelletti al cui mormorio è dolce appisolarsi.

Questo angolino offre, per un raggio di quindici-venti verste all’intorno, tutta una serie di scorci pittoreschi, di paesaggi allegri e ridenti. Le rive sabbiose e in dolce declivio del limpido fiumicello, i piccoli cespugli che scendono dalla collina verso l’acqua, il burrone sinuoso con in fondo il ruscello e il boschetto di betulle: tutto sembra scelto con cura e disegnato dalla mano di un maestro.

Travagliato dalle pene, o affatto ignaro di esse, il cuore chiede solo di nascondersi in questo angolino dimenticato dagli uomini per vivervi una felicità agli altri sconosciuta. Lì tutto promette una vita lunga e tranquilla fino al crepuscolo e una morte placida, simile al sonno.

Lì le stagioni seguono il loro corso regolare e imperturbabile.

Obbedendo alle indicazoini del calendario, la primavera comincia in marzo, i ruscelli fangosi si precipitano giù dalle colline, la terra si disgela ed emana un tepido vapore; il contadino si toglie il giaccone di pecora, esce all’aperto in maniche di camicia, si fa solecchio e contempla a lungo il sole stirandosi voluttuosamente; poi raddrizza il carro rovesciato manovrando ora l’una ora l’altra stanga, oppure osserva e saggia con li piede l’aratro rimasto inoperoso sotto la tettoia, e si prepara ai lavori consueti.

A primavera, non tornano le improvvise tormente e la neve non ricopre i campi, e i rami non si spezzano sotto il su peso.

L’inverno, come una bella donna fredda e inaccessibile, rimane fedele al suo carattere fino al puntuale arrivo dei primi tepori; non ti esaspera con disgeli improvvisi, non ti schianta con freddi inauditi; tutto fila secondo l’ordine normale prescritto dalla natura.

In novembre arrivano la neve e il freddo, che verso l’Epifania è tanto intenso da respingere nella sua isba, con la barba coperta di ghiaccioli, il contadino che ne era uscito per un momento; tuttavia, a febbraio, un naso sensibile avverte già nell’aria il dolce alito della primavera imminente.

Ma l’estate, soprattutto l’estate è incantevole in questo luogo. Qui trovi l’aria fresca e asciutta, satura di profumi, non di limoni e di alloro, ma di assenzio, di pino e di ciliegio selvatico; qui trovi giorni radiosi, un sole che scalda con i suoi raggi ma senza bruciare, e un cielo limpido, senza una nube per quasi tre mesi.

Quando le belle giornate arrivano, durano tre-quattro settimane; le sere sono calde, le notti afose. Dal cielo le stelle ammiccano, cordiali, amichevoli.

E se piove... che benefico acquazzone estivo! L’acqua scroscia vivace, copiosa, rimbalza allegra, come i cocenti lagrimoni di chi prova una gioia improvvisa; e, non appena cessa, ecco che il sole già torna a posare il suo sorriso caldo e amorevole su campi e colline per asciugarli: e tutto, all’intorno, gli risponde con un sorriso di felicità.

Il contadino accoglie con gioia l’acquazzone: «Una bella pioggia bagna, un bel sole asciugna!», dice, esponendo deliziato al tepido rovescio la faccia, le spalle e la schiena.

Qui i temporali non sono terribili, ma solo benefici: arrivano sempre all’epoca stabilita, e non mancano quasi mai il giorno di Sant’Elia, come per tener desta nel popolo la memoria della nota leggenda. E anche il numero e il fragore dei tuoni sembrano gli stessi ogni anno, quasi che l’amministrazione dello stato abbia assegnato ogni anno a tutto il paese un contingente fisso annuo di elettricità.

Qui non ci sono né tempeste terribili né devastazioni.

Nessuno ha mai letto nei giornali che in questo angolino benedetto da Dio sia capitato qualcosa del genere. E mai nulla sarebbe stato scritto su questo paese, e nessuno ne avrebbe sentito parlare se una contadina, la vedova Marina Kul’kova di ventotto anni, non avesse dato alla luce quattro figli in una volta, un avvenimento che non poteva passare sotto silenzio.

Il Signore non ha mai punito questo paese né con le piaghe d’Egitto né con altri castighi. Nessun abitante ha visto o ricorda un segno terribile del cielo, sfere incandescenti o tenebre improvvise; non ci sono serpenti velenosi, né si ricordano invasioni di cavallette; non ci sono né leoni né tigri ruggenti, e nemmeno orsi e lupi, perché non ci sono foreste. Sui campi e nei villaggi si vedono aggirarsi solo vacche che ruminano, pecore che belano e galline che chiocciano.

Sa Iddio se la natura di questo pacifico luogo avrebbe appagato un poeta o un sognatore. Questi signori, come è noto, amano contemplare a lungo la luna e ascoltare il canto dell’usignolo. Amano la luna civettuola: quella che, agghindata di nubi color paglierino, guarda misteriosa fra i rami degli alberi o fa piovere fasci di argentei raggi negli occhi dei suoi ammiratori.

Ma in questo luogo nessuno sapeva nemmeno che cosa fosse questa luna: lì la chiamavano mese. Col suo faccione bonario, fissava prati e campagna e assomigliava molto a un catino di rame tirato a lucido.

Inutilmente un poeta l’avrebbe guardata con occhi estasiati: lei gli avrebbe risposto con uno sguardo ingenuo, come una bellezza campagnola dalla faccia tonda risponde alle occhiate eloquenti e appassionate di un cascamorto di città.

In questo luogo non si sentivano nemmeno gli usignoli, forse perché non c’erano né rifugi ombrosi né rose; ma, per contro, che abbondanza di quaglie! D’estate, all’epoca della mietitura, i bambini le acchiappavano con le mani.

Ma non si pensi che le quaglie fossero qui un lusso gastronomico; no, simile dissolutezza non si era ancora insinuata nei costumi degli abitanti: la quaglia non vi era considerata vivanda per la mensa, bensì creatura atta a rallegrare l’orecchio con il suo canto: per questo sotto il tetto di quasi tutte le case era appesa una gabbia di filo di ferro con una quaglia.

Nemmeno il paesaggio d’insieme di questo luogo modesto e senza pretese avrebbe soddisfatto il poeta e il sognatore. Essi non sarebbero riusciti a vedervi una di quelle serate alla maniera svizzera o scozzese, quando tutta la natura - il bosco, l’acqua, le pareti delle capanne, le colline argillose - tutto divampa in una sorta di incendio; quando su questo sfondo infuocato si staglia improvvisa, lungo la strada polverosa e serpeggiante, una cavalcata di uomini che accompagnano una lady nelle sue passeggiate fino a una tenebrosa rovina e che quindi si affrettano al castello, dove li attende un episodio della Guerra delle Due Rose narrato dal nonno, una capra selvatica per cena e una ballata che una giovane miss canta accompagnandosi col liuto: scene con le quali la penna di un Walter Scott ha doviziosamente popolato la nostra fantasia.

No, in questo nostro luogo non c’era nulla di simile.

Com’era, anzi, tutto tranquillo e sonnacchioso nei tre o quattro villaggi che lo formavano! Poco distanti l’uno dall’altro, sembrava che la mano di un gigante li avesse buttati lì per caso e che da allora in poi fossero rimasti sparpagliati a quel modo.

Una isba venuta a trovarsi sull’orlo di un burrone è rimasta, così sospesa a metà nel vuoto, da tempo immemorabile, sostenuta da tre pertiche. In essa hanno vissuto tranquille e felici tre o quattro generazioni.

Una gallina, magari, avrebbe paura di entrarci, e invece ci abita con la moglie Onisim Suslov, un pezzo d’uomo che quando ci sta dentro non può nemmeno drizzarsi in tutta la sua altezza.

Non ogni visitatore saprebbe entrare nell’isba di Onisim; a meno, forse, di ottenere ch’essa gli ruoti innanzi, volgendo le spalle alla selva e a lui la facciata. Il terrazzino d’ingresso, infatti, era sospeso sul precipizio, e per posare il piede sugli scalini, era necessario aggrapparsi con una mano all’erba, con l’altra al tetto dell’isba e poi fare un rapido balzo.

Un’altra isba era attaccata alla collina come un nido di rondini; accanto ne sono capitate, come per caso, altre tre, e due stanno proprio in fondo al burrone.

Tutto è sonnacchioso e tranquillo nel villaggio; le isbe silenziose hanno le porte spalancate; non si vede un’anima; solo le mosche volano a nugoli e ronzano nell’aria afosa.

Quando entri in un’isba, chiami invano a gran voce; ti risponderà un silenzio di tomba; solo di rado sentirai il gemito di un malato o la tosse sorda di una vecchia che finisce i suoi giorni sdraiata sulla stufa; oppure, da dietro un tramezzo, comparirà un bambino di tre anni, scalzo, con i capelli lunghi e in camiciola, che fisserà in silenzio l’intruso e poi tornerà a nascondersi intimidito.

La stessa quiete, lo stesso profondo silenzio regnano sui campi; solo qua e là, come una formica, un contadino arso dalla canicola e grondante sudore si affanna a spingere l’aratro sulla terra nera. Una tranquilla e imperturbabile calma regna anche nei costumi locali. Qui non si sono mai verificati omicidi, rapine, o altri eventi terribili; e nessuna passione violenta o impresa ardimentosa ha mai sconvolto la gente di qui.

D’altronde, quali passioni, quali imprese avrebbero potuto turbarli? Ognuno badava solo a se stesso. Gli abitanti di questa contrada vivevano lontani dagli altri esseri umani. I villaggi più vicini e il capoluogo del distretto erano a venticinque-trenta verste.

Ogni anno, all’epoca stabilita, i contadini portavano il grano al più vicino porto sul Volga, che era la loro Colchide, le loro colonne d’Ercole; c’era anche qualcuno che una volta l’anno andava alla fiera; ma all’infuori di questo non avevano altri rapporti con chicchessia.

Poiché ognuno viveva solo per se stesso, nessuno toccava mai o intralciava gli interessi altrui.

Sapevano che a ottanta verste c’era il «governatorato», ossia la città in cui risiedeva il governatore, ma pochi vi andavano; poi sapevano che un po’ più lontano, c’erano Saratov e Nižnij; avevano sentito dire che esistevano Mosca e Pietroburgo, e che al di là di Pietroburgo vivevano i francesi e i tedeschi; ma più in là cominciava per loro, come per gli antichi, un mondo oscuro, con paesi sconosciuti popolati di mostri, di uomini con due teste, di giganti... e ancora più in là c’erano le tenebre... e da ultimo c’era il pesce che regge sul dorso la terra.

E poiché quella contrada era quasi impraticabile, i suoi abitanti non avevano la possibilità di ricevere notizie recenti su ciò che accadeva nel vasto mondo: i carrettieri che portavano le stoviglie di legno vivevano ad appena venti verste e non ne sapevano più di loro. Non avevano neppure un termine di paragone con il loro modo di vivere per sapere se vivevano bene o male, se erano ricchi o poveri, se potevano desiderare ancora qualcosa che altri avevano.

Questi uomini felici vivevano pensando che non si dovesse né si potesse vivere altrimenti, convinti che tutti gli altri vivessero proprio come loro e che vivere altrimenti fosse peccato.

Se qualcuno gli avesse detto che altri aravano, seminavano, mietevano e vendevano in modo diverso dal loro, non gli avrebbero creduto.

Anch’essi, come tutti gli uomini avevano preoccupazioni e debolezze: il pagamento dei tributi al governo o ai padroni, la pigrizia e la sonnolenza; ma tiravano avanti alla buona, senza guastarsi il sangue.

Negli ultimi cinque anni, di alcune centinaia di anime che erano, non ne era morto nessuno, né di morte naturale, né, tantomeno, violenta.

E se qualcuno s’addormentava nel sonno eterno per vecchiaia o per una malattia cronica, la meraviglia suscitata da quell’evento straordinario poteva durare per lungo tempo.

Tuttavia, nessuno si stupì quando, per esempio, il fabbro Taras quasi si soffocò col vapore prendendo il bagno nella propria capanna, tanto che per rianimarlo dovettero buttargli addosso dei secchi d’acqua.

L’unico reato molto diffuso era il furto di piselli, di carote e di rape negli orti; una volta sparirono anche due porcellini e una gallina, fatto che suscitò sdegno in tutta la contrada e che fu per voce unanime attribuito a quelli dei carri carichi di stoviglie che erano passati il giorno prima diretti alla fiera. Ma in complesso gli incidenti di qulasiasi specie erano piuttosto rari.

Una volta, però, fu trovato un uomo addormentato fuori dal paese, nel fossato presso il ponte: evidentemente, era stato dimenticato dai compagni, un gruppo di artigiani che erano passati di lì diretti in città.

I primi a scoprirlo furono dei ragazzini, i quali corsero spaventati al villaggio con la notizia che nel fossato c’era un terribile serpente, o un lupo mannaro, e aggiunsero che li aveva inseguiti e per poco non si era mangiato Kuz’ka.

I contadini più coraggiosi si armarono di forconi e di asce e si avviarono in frotta verso il fossato.

«Dove diavolo andate?», cercavano di calmarli gli anziani. «Non ci tenete alla vostra pelle? Chi ve lo fa fare? Ma lasciate perdere...».

Ma i contadini andarono, e a una cinquantina disažen dal luogo indicato cominciarono a chiamare il mostro in tutti i toni, senza alcuna risposta; si fermarono, poi ripresero ad avanzare.

Nel fossato giaceva un contadino, con la testa appoggiata alla sponda: accanto a lui c’erano una sacca e un bastone, al quale erano appese due paia di lapti.

I contadini non si decidevano né ad avanzare né a toccarlo.

«Ehi, fratello!», gli gridavano a turno, grattandosi chi la nuca chi la schiena. «Come mai sei lì? Ehi, tu! Che ci fai?».

Il viandante cercò di alzare la testa, ma non vi riuscì: evidentemente era molto malato o molto stanco.

Uno si decise a toccarlo col forcone.

«Non lo toccare! Non lo toccare!», gridarono molti. «Chissà chi è; vedi, non dice neanche una parola; forse, è uno che... Non lo toccate, ragazzi!».

«Andiamo», dissero alcuni, «su, andiamocene! che, è forse nostro parente? Può portarci solo male!».

E tutti se ne andarono al villaggio e raccontarono ai vecchi che quello era un forestiero, che non diceva una parola, e Dio solo sapeva cosa facesse là...

«Un forestiero? Allora non lo toccate!», dissero gli anziani, seduti davanti alle case, con i gomiti sulle ginocchia. «Che si arrangi! Non dovevate nemmeno andarci».

Questo era l’angolino nel quale il sogno aveva trasportato Oblomov.

Dei tre o quattro villaggi colà disseminati, uno era Sosnovka, l’altro Vavilovka, e distavano fra loro una versta.

Sosnovka e Vavilovka erano proprietà ereditaria degli Oblomov, e per questo erano conosciuti con il nome generico di Oblomovka.

A Sosnovka c’erano il podere e la residenza padronale. La frazione di Verchlëvo, a circa cinque verste da Sosnovka, un tempo era stata anch’essa degli Oblomov, ma da un pezzo era passata in altre mani, insieme con alcune isbe sparpagliate all’intorno, che ne facevano parte.

Verchlëvo apparteneva a un ricco proprietario che non si vedeva mai ed era amministrato da un tedesco.

Ecco tutta la geografia del nostro angolino.

Il’ja Il’ič si sveglia al mattino nel suo lettuccio. Ha solo sette anni. La vita è facile, allegra.

Quanto è bellino, rubicondo, paffuto! Un monello che gonfiasse le guance a bella posta non riuscirebbe a farle così rotondette.

La tata è lì che aspetta il suo risveglio. Comincia a infilargli le calze, ma lui non se ne dà per inteso, fa il monello, agita le gambe; la tata lo agguanta e tutti e due scoppiano a ridere.

Alla fine lei riesce a farlo alzare: lo lava, lo pettina e lo conduce dalla mamma.

Anche in sogno, Oblomov, vedendo la madre morta da tanto tempo, trepida di gioia e d’amore; e dalle palpebre abbassate sgorgano lente due lacrime calde che si fermano sulle guance.

La mamma lo copre di baci appassionati, poi lo guarda ansiosa e preoccupata chiedendosi se gli occhi del suo piccino non siano un po’ torbidi; e gli domanda se abbia male da qualche parte; e interroga la bambinaia: ha dormito bene, non si è svegliato di notte, non si è agitato nel sonno, non ha per caso la febbre? Poi lo prende per mano e lo conduce davanti all’icona.

Lì, inginocchiata e cingendolo con un braccio, gli suggerisce le parole della preghiera.

Il bambino le ripete distratto, mentre guarda fuori dalla finestra, dalla quale entrano la frescura e il profumo dei lillà.

«Mammina, andremo a passeggio oggi?», chiede ad un tratto nel bel mezzo della preghiera.

«Ci andremo, tesoro», dice lei rapidamente senza staccare gli occhi dall’icona, e affrettandosi a dire le ultime parole della preghiera.

Il piccolo le ripete con indolenza, ma la madre ci mette tutta l’anima.

Poi vanno da papà, e poi a bere il tè.

Seduta al tavolino da tè, Oblomov vede la vecchia zia ottantenne che vive con loro: non fa che rimbrottare la propria cameriera, la quale, col capo tremolante per la vecchiaia, è in piedi alle sue spalle e la serve. Ci sono anche tre vecchie zitelle, lontane parenti del padre, e Èekmenev, cognato della madre, un tipo un po’ matto, proprietario di sette anime, che è ospite in casa loro, nonché altri vecchietti e vecchiette.

Tutta questa corte al seguito degli Oblomov si impadronisce di Il’ja Il’ič e lo colma di carezze e di lodi, e il bambino riesce a malapena ad asciugare le tracce dei baci non richiesti.

Dopo di che, cominciano a rimpinzarlo di panini, di biscotti, di panna.

Poi la mamma lo accarezza ancora e lo manda a passeggiare in giardino, in cortile, sul prato, dopo un severo ammonimento alla tata di non lasciar solo il piccolo, di non permettere che si avvicini ai cavalli, ai cani, al caprone o che si allontani da casa e soprattutto che si avventuri nel burrone, il posto più terribile dei dintorni, che gode di una pessima fama.

Un giorno vi avevano trovato un cane che era stato giudicato rabbioso solo perché era scappato quando aveva visto la gente inseguirlo con forconi e asce, ed era scomparso dietro la collina; nel burrone gettavano le carogne; nel burrone si supponeva ci fossero briganti, lupi e altre specie di creature che non esistevano né in quel luogo né in altre parti del mondo.

Senza aspettare la fine degli ammonimenti materni, il bambino da un pezzo è scappato in cortile.

Con gioioso stupore, come fosse la prima volta, gira intorno alla casa paterna e ne osserva il portone sbilenco, il tetto di legno incurvato nel mezzo, sul quale cresceva un tenero muschio verde, il terrazzino traballante, tutti gli annessi e connessi; e il giardino abbandonato.

Ha un desiderio folle di correre su nella galleria pensile che circonda tutta la casa per guardare di lassù il fiumicello; ma la galleria è malandata, si regge appena, solo alla «servitù», è consentito accedervi e i padroni non ci mettono piede.

Egli non si cura affatto dei divieti materni e già si dirige verso gli scalini tentatori; quando sul terrazzino compare la tata che lo afferra al volo.

Lui le scappa di mano e corre nel fienile con l’intenzione di arrampicarsi per la scala ripida, e la poveretta, che a stento è riuscita a seguirlo nel fienile, già deve affrettarsi a sventare il suo proposito di salire alla colombaia, di passare nella stalla e - Dio ne guardi! - di andare al burrone.

«Ah, Signore Iddio, che bambino! sembra una trottola! Vuoi startene un po’ buono, signorino? Vergogna!».

E tutto il giorno, e tutti i giorni e le notti della tata sono pieni di trambusto e di corse affannose, di tormenti e di gioie procurati dal bambino: ora la paura che cada e si rompa il naso, ora la tenerezza che le suscitano le sue spontanee carezze infantili, o le vaghe apprensioni circa il suo lontano futuro; solo per questo batte il cuore della vecchia, solo queste emozioni le riscaldano il sangue e sostengono la sua vita sonnolenta che senza di esse forse si sarebbe spenta da un pezzo.

Non sempre il bambino è così vivace: a volte si fa d’un tratto tranquillo, si siede accanto alla tata e guarda tutto con la massima attenzione. Con la sua intelligenza infantile osserva i fenomeni che lo circondano; essi gli si imprimono profondamente nell’anima, poi cresceranno e matureranno con lui.

La mattinata è stupenda, l’aria è fresca, il sole non è ancora alto. In giardino e nella corte ci sono freschi angolini che inducono alla meditazione e al sonno. Solo un lontano campo di segala risplende come fuoco, e il fiumicello luccica e scintilla da far male agli occhi.

«Tata, perché qui è scuro e là è chiaro, e quando farà chiaro anche qui?», chiede il bambino.

«Perché, tesoro, il sole va incontro alla luna, non la vede e così si incupisce; ma appena la vede di lontano si illumina tutto».

Il bambino si fa pensoso e guarda tutto ciò che lo circonda: vede Antip che va a prendere l’acqua col carro e per terra, vicino a lui, un altro Antip dieci volte più grande, e la botte sembra grande quanto la casa; e l’ombra del cavallo copre tutto il prato, e basta che faccia due passi e già è scomparsa dietro la collina, mentre Antip non è ancora uscito dalla corte.

Il bambino fa anche lui due passi; un altro passo... e sarà anche lui dietro la collina.

Vorrebbe andarci, per vedere dove è finito il cavallo. Si avvia verso il portone, ma dalla finestra si sente la voce della mamma:

«Tata! Non vedi che il piccolo sta al sole! Riportalo all’ombra; se no, prenderà un colpo di caldo, si ammalerà, gli verrà la nausea e non avrà più voglia di mangiare. Di questo passo, ti finirà nel burrone!».

«Eh, monello!», brontola a mezza voce la tata trascinandolo sul terrazzino.

Il piccolo guarda e spia con occhio acuto e avido che cosa fanno i grandi, e come lo fanno, e a che cosa dedicano la mattinata.

Non c’è inezia, non c’è particolare che sfugga alla sua curiosità: il quadro della vita domestica si imprime indelebile nella sua anima; la tenera mente si impregna di esempi viventi e traccia inconsciamente il programma della sua vita in base alla vita che la circonda.

Non si può dire che le mattinate passino nell’ozio in casa degli Oblomov.

Il rumore dei coltelli che in cucina tagliano carni e verdure arriva fino al villaggio.

Dai locali della servitù si sente il fruscio del fuso e la tenue voce sommessa di una contadina: difficile distinguere se la donna piange o improvvisa una nenia senza parole.

In cortile, appena Antip torna con la botte, donne e cocchieri sbucano da tutti gli angoli con secchie, bacili e brocche.

Ecco una vecchia che porta in cucina dalla dispensa una ciotola di farina e un mucchietto di uova; ed ecco il cuoco che butta all’improvviso dell’acqua da una finestrella e annaffia Arapka, che per tutta la mattina ha fatto gli occhi dolci alla finestra, dimenando la coda e leccandosi i baffi.

Anche il vecchio Oblomov non rimane inoperoso. Se ne sta per tutta la mattina seduto alla finestra a osservare con occhio vigile quel che si fa nella corte.

«Ehi, Ignaška! Cosa porti, bestione?», chiede a un uomo che passa in cortile.

«Porto i coltelli ad arrotare in magazzino», risponde quello senza guardare il padrone.

«Be’, portali, portali; ma bada di arrotolarli bene!».

Poi ferma una donna:

«Ehi, tu, brava donna! Dove andavi?».

«In cantina, padrone», dice lei fermandosi e facendosi schermo agli occhi con la mano per guardare la finestra, «a prendere il latte per la tavola».

«Be’, vai, vai!», risponde il padrone. «Ma sta’ attenta a non rovesciarlo. - E tu, Zacharka, lazzarone, dove corri di nuovo?», grida. «Ti faccio correre io! È già la terza volta che ti vedo correre. Torna subito in anticamera!».

E Zacharka se ne torna a sonnecchiare in anticamera.

Quando le vacche rientrano dal pascolo, il vecchio è il primo a preoccuparsi che siano abbeverate; appena vede dalla finestra che un cane insegue una gallina, prende subito misure severe contro questo disordine.

Anche sua moglie ha un mucchio di cose da fare: parlamenta per circa tre ore con Averka, il sarto, su come ricavare da una maglia del marito un giacchettino per Iljuša, ne traccia i segni lei stessa con il gesso e bada che Averka non faccia sparire i ritagli; poi va nella camera delle serve per stabilire quanto merletto deve fare ciascuna di loro nella giornata; poi chiama Nastas’ja Ivanovka, o Stepanida Agapovna, o un’altra del suo seguito, perché vada a passeggio con lei in giardino con un preciso scopo pratico: vedere se le mele maturano, e se quella che era già a punto ieri non sia caduta, fare un innesto qui, potare là, e così via.

Ma il pensiero dominante è la cucina e il pranzo. Sul pranzo si consulta tutta la casa: anche la vecchissima zia è invitata a presenziare al consiglio. Ognuno propone il suo piatto: chi la zuppa di frattaglie, chi i tagliolini, chi la trippa, chi la salsa bianca, chi l’intingolo rosso.

Ogni consiglio è preso in considerazione, discusso a fondo e poi accettato o respinto con verdetto definitivo della padrona di casa.

Nastas’ja Petrovna e Stepanida Agapovna vengono continuamente mandate in cucina, ora una ora l’altra, per ricordare questo, per aggiungere quello o togliere quell’altro, per portare zucchero, miele, vino per gli intingoli o per vedere se il cuoco utilizza tutto ciò che gli è stato assegnato.

Il cibo è a Oblomovka la prima e fondamentale preoccupazione. Che vitelli si ingrassano per le ricorrenze! Che pollame si alleva! Quante sottili considerazioni, quante cure gli si dedicano! I tacchini e i galletti destinati agli onomastici e ad altre festività vengono nutriti con le noci; le oche vengono immobilizzate e appese in un sacco diversi giorni prima della festa, perché si gonfino di grasso. Quante provviste ci sono di marmellate, di cibi salati, di biscotti! Che miele, che kvas, che torte si preparano a Oblomovka!

E così fino a mezzogiorno tutti si affaccendano e si agitano, e la vita è intensa e piena come in un formicaio.

Queste formiche operose non si fermano nemmeno la domenica e i giorni di festa: il rumore dei coltelli in cucina si fa più sonoro e frequente; la serva ripete diverse volte il viaggio dalla dispensa alla cucina con un quantitativo doppio di farina e di uova; nel pollaio aumentano i gemiti e gli spargimenti di sangue. Si inforna un pasticcio gigantesco, che gli stessi padroni di casa mangiano di nuovo il giorno dopo; il terzo e il quarto giorno gli avanzi vanno nelle stanze della servitù; il venerdì quello che resta, rinsecchito e senza ripieno, va, come concessione speciale, ad Antip: egli si fa il segno della croce e, impavido, demolisce rumorosamente quel curioso fossile, gustando non tanto il pasticcio quanto l’idea che quello è un pasticcio padronale, come l’archeologo che beve deliziato un vino cattivo dal coccio di un vaso millenario.

E il bambino guarda tutto, osserva tutto, con la sua mente infantile alla quale nulla sfugge. Vede che, dopo una mattinata impiegata laboriosamente in utili attività, arriva il mezzogiorno e l’ora del pranzo.

Il meriggio è torrido; in cielo non c’è neanche una nuvoletta. Il sole è immobile sopra la testa e brucia l’erba. L’aria è ferma e immota, non c’è un alito di vento. Non stormisce una foglia, l’acqua è ferma; sul villaggio e sulla campagna grava un silenzio imperturbabile; tutto è come morto. Nella quiete, la voce umana echeggia forte e lontana. Si sente il volo e il ronzio di uno scarabeo a una cinquantina di metri di distanza, e nell’erba folta c’è qualcosa che russa, forse qualcuno che si è sdraiato lì e dorme saporitamente.

Anche in casa regna un silenzio di tomba. È arrivata per tutti l’ora della siesta.

Il bambino vede il padre, la madre, la vecchia zia e il loro seguito che si ritirano ognuno nel suo angoletto; e chi non ha un angoletto va nel fienile, o in giardino, o a cercare refrigerio nell’andito, e ce n’è uno che, col viso coperto da un fazzoletto per proteggersi dalle mosche, si è addormentato là dove il caldo e il pranzo copioso hanno avuto ragione di lui. Il giardiniere si è sdraiato sotto a un cespuglio in giardino accanto al suo attrezzo e il cocchiere dorme nella scuderia.

Il’ja Il’ič dà un’occhiata nei locali della servitù: tutti dormono ammucchiati, sulle panche, in terra e negli anditi; i bambini più piccoli, abbandonati a se stessi, strisciano carponi in cortile e ruzzano nella sabbia. Anche i cani si sono rintanati nei canili, dal momento che non devono abbaiare a nessuno.

Si può girare in lungo e in largo tutta la casa senza incontrare un’anima; sarebbe facile fare man bassa di tutto e portare via la refurtiva con i carretti: nessuno se ne accorgerebbe, se ci fossero dei ladri nella zona.

È una specie di sonno invincibile e divoratore, vera immagine della morte. Tutto è morto, tranne che per il russare, nei toni e nei registri più svariati, che ti arriva da tutti gli angoli della casa.

Ogni tanto qualcuno si scuote dal sonno e alza la testa, si guarda intorno inebetito e sorpreso e si gira sull’altro fianco, oppure sputa nel dormiveglia senza aprire gli occhi e, dopo aver schioccato le labbra o brontolato qualcosa dentro di sé, si riaddormenta.

Un altro salta su di scatto dal suo giaciglio senza alcun preavviso, si mette in piedi, come temesse di perdere dei minuti preziosi, afferra il boccale del kvas e, dopo aver soffiato sulle mosche che vi galleggiano per spostarle dall’altra parte - col risultato che le mosche, fino a quel momento immobili, cominciano ad agitarsi frenetiche sperando di migliorare la loro posizione - si inumidisce la gola e ricade come fulminato sul giaciglio.

E il bambino osserva, osserva.

Dopo il pranzo, esce di nuovo all’aria aperta con la tata. Ma anche lei, nonostante gli ordini severi della padrona, nonostante tutta la sua buona volontà, non sa resistere al fascino del sonno. Anche lei è contagiata dall’epidemia che impera a Oblomovka.

Dapprima sorveglia con impegno il piccolo, non gli permette di allontanarsi, lo rimprovera con energia per la sua turbolenza, poi, avvertendo i sintomi dell’imminente contagio, comincia a pregarlo di non uscire dal portone, di non molestare il caprone, di non arrampicarsi sulla colombaia o sulla galleria.

Anche lei si cerca dei posticini al fresco: sul terrazzino, sulla soglia della cantina o semplicemente sull’erba, con la buona intenzione di fare la calza e di badare al piccolo. Ma i suoi ammonimenti si fanno sempre più fiacchi e la testa le ciondola.

«Si arrampicherà, ah, sta’ a vedere che si arrampicherà sulla galleria, quel briccone», pensa nel dormiveglia, «o forse anche... il burrone!...».

A questo punto la testa della vecchia si piega sulle ginocchia, il lavoro le sfugge di mano; lei perde di vista il bambino e, con la bocca semiaperta, comincia a russare quietamente.

Il piccolo aspettava con impazienza questo momento, in cui ha inizio la sua vita indipendente.

È come fosse solo sulla faccia della terra; in punta di piedi, si allontana correndo dalla bambinaia, osserva tutti quelli che dormono buttati qua e là; si ferma a guardare con attenzione uno che si sveglia per un momento, sputa e riprende a dormire borbottando; poi, col cuore in tumulto, va sulla galleria, ne fa il giro correndo sulle assi scricchiolanti, si arrampica sulla colombaia, si addentra nel giardino, ascolta il ronzio dello scarabeo e ne segue con gli occhi il volo lontano; tende l’orecchio a uno stridio che viene dall’erba, cerca e afferra il perturbatore della quiete; acchiappa una libellula, le strappa le ali e sta a guardare che fine fa, oppure la infilza con un filo di paglia e osserva l’insetto volare col peso di quel corpo estraneo; trattenendo il respiro, guarda deliziato un ragno che succhia il sangue di una mosca catturata, e la povera vittima che si dibatte e ronza fra le sue zampe. Poi la fa finita ammazzando vittima e carnefice.

Quindi si intrufola in un fossato, scava, e trova certe radici, le scortica e ne mangia a sazietà, perché gli piacciono molto più delle mele e delle marmellate che gli dà la mamma.

E corre anche fuori dal portone: gli piacerebbe andare nel boschetto di betulle; gli sembra tanto vicino da poterci arrivare in cinque minuti, non per la strada che fa un lungo giro, ma direttamente, passando per il fossato, le siepi e le buche; ma ha paura, perché dicono che là ci sono i folletti, briganti e bestie feroci.

Anche il burrone lo attira: è a una cinquantina disažen dal giardino: il bambino arriva di corsa fin sull’orlo, socchiude gli occhi per guardarci dentro come nel cratere di un vulcano... ma all’improvviso gli si parano davanti tutte le storie e le leggende che si raccontano intorno al burrone; in preda al terrore, più morto che vivo, torna indietro di corsa e si getta tremante di paura verso la bambinaia.

La vecchia, svegliata di soprassalto, si aggiusta il fazzoletto in testa, rimette a posto con le dita delle ciocche di capelli bianchi e, facendo finta di non aver dormito affatto, getta occhiate sospettose a Iljuša, poi alle finestre dei padroni, e riprende a lavorare con dita tremanti, un ferro dopo l’altro, alla maglia che aveva sulle ginocchia.

Nel frattempo il caldo si è attenuato: la natura riprende a vivere; il sole comincia a scendere verso il bosco.

Anche nella casa il silenzio si rompe a poco a poco; da qualche parte cigola una porta; nella corte risuonano dei passi; nel fienile qualcuno starnutisce.

Poco dopo esce in fretta dalla cucina un uomo curvo sotto il peso di un enorme samovar. Tutti si riuniscono per li tè: uno ha il viso pesto e gli occhi lagrimosi; un altro ha delle chiazze rosse sul collo e sulle tempie; un altro, ancora assonnato, parla con voce alterata. Chi stronfia, chi geme, chi sbadiglia, chi si gratta la testa e si stiracchia: tutti durano fatica a scrollarsi di dosso il sonno.

Il pranzo e il sonno hanno destato una sete insopportabile che arde la gola; puoi bere fino a dodici tazze di tè, ma non serve a niente; si odono gemiti e lamenti; si fa ricorso all’acqua di mirtilli e di pere, al kvas, qualcun prova perfino con una pozione medicinale, per calmare l’arsura.

Tutti cercano di liberarsi dalla sete come da un castigo di Dio: si agitano, spasimano, come una carovana di viaggiatori in un deserto arabico alla ricerca di una sorgente introvabile.

Il bambino è lì, accanto alla mamma: guarda gli strani personaggi che lo circondano, ascolta la loro conversazione, fiacca e sonnolenta. Si diverte a guardarli, e ogni balordaggine che dicono gli sembra interessante.

Dopo il tè, ognuno fa qualche cosa: chi va al fiume e passeggia lentamente lungo la riva gettando col piede dei sassolini in acqua; chi si siede alla finestra e osserva intento tutto ciò che accade: se un gatto attraversa di corsa il cortile o una cornacchia si leva in volo, l’osservatore segue quello e questa con lo sguardo e con la punta del naso girando il capo a destra e a sinistra. Così talvolta i cani amano starsene seduti intere giornate alla finestra a godersi il sole e a seguire attentamente con lo sguardo chiunque passi.

La mamma prende la testolina di Iljuša, gliela fa posare sulle ginocchia e lentamente gli pettina i capelli ammirandone la morbidezza e facendola ammirare a Nastas’ja Ivanovna e a Stepanida Agapovna; e parla con loro dell’avvenire di Iljuša, che sarà l’eroe di una splendida epopea da lei stessa immaginata. Le donne gli preconizzano ricchezze favolose.

Ma già comincia ad imbrunire. In cucina di nuovo scoppietta il fuoco, di nuovo risuona il rumore dei coltelli: si prepara la cena.

La servitù si è raccolta sul portone: chi suona la balalaika, chi ride, chi giuoca a rincorrersi.

Il sole è calato dietro agli alberi: ha mandato ancora alcuni raggi appena tiepidi che hanno perforato il bosco come lame di fuoco e indorato le cime dei pini. Poi i raggi si sono spenti l’uno dopo l’altro; l’ultimo ha indugiato a lungo, si è infilato come un ago sottile, nel folto dei rami, poi si è spento anch’esso.

Gli oggetti perdono la loro forma, tutto si fonde in una massa prima grigia, poi scura. Il canti degli uccelli cessa a poco a poco, e presto tutti tacciono; ad eccezione di un ostinato che nel silenzio generale, come per far dispetto agli altri, continua il suo cinguettio, monotono e solitario a intervalli che si fanno sempre più lunghi; infine l’uccello, dopo aver mandato un ultimo debole trillo, si scuote agitando lievemente le foglie che lo circondano... e si addormenta.

Tutto tace. Solo i grilli fanno a gara, a chi stride più forte. Dalla terra si alzano bianchi vapori che si stendono sui prati e sul fiume. Anche il fiume si è acchetato: a un certo punto l’acqua ha avuto un ultimo sciabordio, poi è tornata immobile.

Si sente l’odore dell’umidità. Il buio è diventato più fitto.

Gli alberi sembrano mostri; il bosco mette paura: d’improvviso ne esce un fruscio, come se uno dei mostri si fosse spostato calpestando un ramo secco che ha scricchiolato sotto i suoi piedi.

Nel cielo, come un occhio vivido, splende la prima stella, e le finestre della casa cominciano a illuminarsi.

Sono questi i momenti di quiete solenne e universale della natura, i momenti in cui più intenso è lo sforzo creativo dell’intelletto e i pensieri poetici ribollono con più fervore, in cui nel cuore si accende più viva la passione o la malinconia si fa più acuta, in cui nell’anima crudele matura più spietato e violento il germe di un proposito malvagio, in cui... a Oblomovka tutti dormono un sonno profondo e tranquillo.

«Mamma, andiamo un po’ a spasso», dice Iljuša.

«Ma cosa dici, che Dio ti benedica! Andare a spasso, ora!», risponde lei. «È umido, ti raffreddi i piedini; e poi a quest’ora nel bosco ci sono i folletti che si portano via i bambini».

«Dove li portano? Come sono fatti? Dove abitano?», chiede il piccolo.

E la madre dà libero sfogo alla sua sbrigliata fantasia.

Il bambino ascolta aprendo e chiudendo gli occhi fino a che il sonno lo vince. Arriva la tata, lo solleva dalle ginocchia della mamma e lo porta a letto mentre lui le posa sulla spalla la testa ciondolante.

«Se Dio vuole, un’altra giornata è passata!», dicono gli abitanti di Oblomovka intanto che si coricano, sbuffando e facendosi il segno della croce. «È trascorsa felicemente; voglia Iddio che sia così anche domani! Sia gloria a te, o Signore! Sia gloria a te, o Signore!».

Poi Oblomov rivide in sogno un altro momento: in una interminabile sera d’inverno, si stringe pauroso alla tata, che gli parla sommessa di un paese sconosciuto, dove non esistono né la notte né il freddo, dove avvengono continuamente miracoli, dove scorrono fiumi di miele e di latte, dove non si lavora per tutto l’anno, e dove per tutto il santo giorno vedi passeggiare bravi giovani come Il’ja Il’ič e ragazze tanto belle che nemmeno le favole o la penna di uno scrittore saprebbero descriverle.

C’è anche una fata buona, che a volte appare sotto forma di luccio: ella si sceglie come favorito un uomo tranquillo e mite, in altre parole un pigro che tutti insultano e, che è che non è, lo colma di ogni bene; e lui non fa altro che mangiare da mane a sera e agghindarsi con abiti bell’e pronti; poi a un certo punto si sposa con una bellezza incomparabile, Militrisa Kirbit’evna.

Con le orecchie tese e gli occhi spalancati, il piccolo si tuffa nella vicenda con passione.

La tata - o la leggenda - evita così abilmente qualsiasi riferimento alla che la fantasia e la mente, imbevendosi di quelle finzioni, ne rimarranno soggiogate per tutta la vita. La tata gli narra bonariamente anche la favola di Emelja lo sciocco, quella satira perfida e maligna dei nostri avi forse di noi stessi.

Anche se l’Il’ja Il’ič diventato adulto ha appreso che non esistono fiumi di miele e di latte, né fate buone, anche se sorride delle favole che gli raccontava la tata, il suo sorriso non è sincero, ed è accompagnato da un sospiro segreto: in lui la favola si è confusa con la vita, e talora, inconsciamente, egli si rammarica che la favola non sia la vita e la vita non sia la favola.

Suo malgrado sogna Militrisa Kirbit’evna; quel paese dove non si fa che passeggiare, dove non esistono né preoccupazioni né dispiaceri, continua ad attirarlo; gli è rimasta per sempre l’inclinazione a sdraiarsi sulla stufa, a trovarsi un vestito bell’e pronto senza averlo dovuto guadagnare, a mangiare a spese della fata buona.

Anche il padre e il nonno Oblomov avevano ascoltato nell’infanzia quelle favole, tramandate dai tempi antichi per secoli e generazioni da governanti e istitutori.

Frattanto la tata evoca un altro quadro che infervora la fantasia del ragazzino.

Gli racconta le imprese, paragonabili a quelle di Achille e di Ulisse, dei nostri eroi, degli audaci Il’ja Muromec, Dobrunja Nikitiè, Alëša Popovič, delbogatyr’ Polkan, di Kaleèišè il viaggiatore, e come essi girarono per la Russia, e come sconfissero innumerevoli orde di infedeli, e come facessero a gara nel bere tutta d’un fiato una coppa di vino nuovo. Poi gli parla di feroci briganti, di principesse addormentate, di città e di uomin pietrificati; infine, passa alla nostra demonologia, ai morti, ai mostri, ai lupi mannari.

Con la semplicità e la bonomia d’un Omero, con la stessa palpitante verosimiglianza di particolari, con la stessa incisività, ella imprime nella mente e nella fantasia del bambino l’Illiade della vita russa creata dai nostri Omeri nei giorni oscuri in cui l’uomo, ancora non avvezzo ai pericoli e ai segreti della natura e della vita, tremava davanti a un lupo mannaro e a uno spirito dei boschi, e cercava in Alëša Popovič un protettore contro le sciagure che lo circondavano: nei giorni in cui l’aria, l’acqua, i boschi e i campi pullulavano di mostri.

La vita dell’uomo di quei tempi era terribile e precaria; innumerevoli erano i pericoli che egli correva uscendo di casa: rischiava di essere sbranato da una fiera, scannato da un brigante, depredato di tutto da un tartaro spietato, o di scomparire senza lasciare tracce.

Oppure d’un tratto appaiono dei presagi celesti, colonne e globi di fuoco: su una tomba scavata di fresco si accende una fiammella, o sembra che qualcuno passeggi nel bosco, ma il suo riso è agghiacciante e i suoi occhi lampeggiano nell’oscurità.

All’uomo accadono cose incomprensibili: uno vive bene e per molto tempo, ma a un bel momento si mette a parlare a vanvera, o a gridare con una voce che non è la sua, o a girovagare di notte nel sonno; un altro, senza un motivo al mondo, si butta per terra in preda alle convulsioni e perde i sensi. E prima che ciò accadesse, una gallina aveva cantato col verso del gallo e un corvo aveva gracchiato sul tetto.

L’uomo, debole creatura, si sentiva perduto, guardava la vita con terrore e nella sua immaginazione cercava la chiave dei misteri che lo circondano e della sua stessa natura.

Ma forse l’eterna quiete di una vita indolente e sonnacchiosa, la mancanza di movimento e di terrori, di avventure e di pericoli reali spingevano l’uomo a creare dentro il mondo autentico un altro mondo chimerico, nel quale cercare spasso e diletto per la sua immaginazione oziosa, o la spiegazione di comuni concatenazioni di circostanze e le cause di un fenomeno al di fuori del fenomeno stesso.

I nostri poveri avi andavano avanti a tentoni: non spronavano né frenavano la loro volontà, ma poi si meravigliavano o si spaventavano ingenuamente delle avversità e dei mali, di cui cercavano i motivi nei muti e oscuri geroglifici della natura.

Quando qualcuno moriva, per loro la causa era da vedere nel fatto che in precedenza un defunto era stato portato fuori dal portone di casa con la testa, invece che coi piedi, in avanti; in caso di incendio, nel fatto che il cane aveva abbaiato per tre notti di seguito sotto la finestra; così, essi si preoccupavano che il defunto fosse portato fuori dal portone con i piedi in avanti, ma continuavano a mangiare le stesse cose, e nella stessa quantità, e a dormire sull’erba; picchiavano o cacciavano fuori dal cortile il cane che abbaiava, ma continuavano a gettare le scintille dei rami resinosi che servivano da torce nella fessura del pavimento di assi marce.

E anche oggi, in mezzo alla severa realtà priva di fantasia che lo circonda, il russo ama credere alle seducenti leggende dell’antichità, e forse non smetterà di credervi per molto tempo ancora.

Quando la tata gli parlava dell’Uccello di fuoco- il nostro vello d’oro -, delle mura e delle segrete del castello incantato, il ragazzino, ora si entusiasmava, immaginando di essere l’eroe dell’impresa gloriosa, e un brivido gli correva lungo la schiena, ora si rattristava per la sfortuna del prode.

I racconti non avevano fine, ed erano pittoreschi, pieni di calore e di passione, a tratti ispirati, perché la stessa tata vi credeva almeno per metà. Gli occhi della vecchia scintillavano, la testa le tremava per l’emozione, la voce si alzava a una tonalità inconsueta.

In preda a un oscuro terrore, il ragazzino si stringeva a lei con le lacrime agli occhi.

Se l’argomento erano i morti che a mezzanotte sorgevano dalle tombe, o le vittime prigioniere di un mostro, o l’orso dalla gamba di legno che gira per villaggi e campagne alla ricerca della gamba vera che gli è stata tagliata, al piccolo, per lo spavento, gli si rizzavano i capelli in testa. Si sentiva ora raggelare, ora ribollire; provava come una specie di dolce tormento e i nervi gli si tendevano come corde.

Quando la tata ripeteva con voce cupa le parole dell’orso: «Scricchiola, scricchiola, gamba di tiglio; ho camminato per villaggi e campagne, tutte le contadine dormono, una sola non dorme, è seduta sulla mia pelle, cuoce la mia carne, fila il mio pelo» e via dicendo; quando infine l’orso entrava nell’isba, pronto ad azzannare il ladro della sua gamba, il bambino non reggeva più; si gettava tremante fra le braccia della vecchia e, se piangeva di paura, al tempo stesso rideva per la gioia di non essere fra gli unghioni della bestia, ma nel letto, accanto alla tata.

La sua fantasia si è popolata di strani fantasmi; paure e angosce rimarranno socchiuse nel suo animo per molto tempo, forse per sempre. Egli si guarda intorno con tristezza e vede che la vita è cosparsa di mali e sciagure, e continua a sognare quel paese incantato dove non esistono cattiverie, preoccupazioni, dolori, dove vive Militrisa Kirbit’evna, dove si mangia e ci si veste bene e gratis.

Là a Oblomovka la favola conserva il suo potere non soltanto sui bambini, ma anche sugli adulti. Tutti, nella casa e nel villaggio, a partire dal padrone e da sua moglie fino al nerboruto fabbro Taras, tutti temono chissà che cosa nelle notti buie: ogni albero diventa allora un gigante, ogni cespuglio un covo di briganti.

Le imposte che sbattono e l’ululato del vento nel tubo della stufa fanno impallidire uomini, donne e bambini. Per l’Epifania, nessuno esce solo di casa dopo le dieci di sera; nella notte di Pasqua, nessuno osa andare nella scuderia, per paura di trovarvi lo spirito del focolare.

A Oblomovka credono a tutto: ai lupi mannari e ai morti. Se gli raccontano che una bica di fieno si è messa a passeggiare sul campo, loro ci credono senza pensarci due volte; se qualcuno fa circolare la voce che il montone non è un montone ma un’altra cosa, o che una tale Marfa o Stepanida è una strega, loro temeranno e il montone e Marfa; non gli passerà nemmeno per la testa di domandare perché il montone non è un montone e perché Marfa è diventata una strega, ma anzi si avventeranno contro colui che ha osato dubitarne... tanto è forte a Oblomovka la fede nel meraviglioso!

Il’ja Il’ič vedrà in seguito che il mondo è semplice, che i morti non sorgono dalla tomba, che i giganti, non appena individuati, vengono subito esibiti nei baracconi, e che il posto dei briganti è la prigione; ma se anche ha smesso di credere ai fantasmi, gli è rimasto dentro un fondo di paura e di inconscia malinconia.

Il’ja Il’ič ha appreso che non sono i mostri a procurare le disgrazie, ma ignora, più o meno, che cosa siano le disgrazie, e ad ogni passo si aspetta sempre qualcosa di terribile e ha paura. E ancora oggi, quando si trova in una stanza buia o in presenza di un morto, prova quell’angoscia sinistra che gli è stata inculcata nell’anima dall’infanzia; al mattino, quando si sveglia, ride dei suoi terrori, che la sera lo fanno impallidire di nuovo.

Il’ja Il’ič si vede poi ragazzetto di tredici o quattordici anni.

Studia già a Verchlëvo, il villaggio a circa cinque verste da Oblomovka, presso l’amministratore locale, il tedesco Stolz, che ha creato un piccolo pensionato per i figli dei nobili dei dintorni.

Con Stolz c’è suo figlio, Andrej, press’a poco dell’età di Oblomov; e c’è anche un altro ragazzo, che non studia quasi mai, e per di più soffre di scrofola, ha passato tutta l’infanzia con gli occhi o le orecchie fasciati, e piange sempre in segreto perché non sta con la nonna, ma in una casa estranea, con della gente malvagia, dove non c’è nessuno che lo vezzeggi e gli prepari il dolce preferito.

Oltre a questi, per il momento, non ci sono altri ragazzi nel pensionato.

Non c’era stato niente da fare: i genitori avevano messo il loro viziatissimo Iljuša dietro a un libro. Questo aveva comportato lacrime, urli e capricci. Alla fine, lo avevano portato dal tedesco.

Costui era un uomo avveduto e severo, come quasi tutti i tedeschi. Forse con lui Iljuša sarebbe anche riuscito ad apprendere qualcosa di buono, se Oblomovka non fosse stata ad appena cinque verste da Verchlëvo. Ma così, come poteva imparare? Il fascino dell’atmosfera oblomoviana, il modo di vivere e le abitudini di Oblomovka si propagano fino a Verchlëvo che, del resto, un tempo ne aveva fatto parte; e infatti, ad eccezione della casa di Stolz, anche lì spirava la stessa primordiale indolenza, la stessa semplicità di costumi, la stessa calma e immobilità.

La mente e il cuore del ragazzo si erano riempiti dei quadri, delle scene, delle abitudini di questa esistenza ben prima ch’egli vedesse un libro. E chissà quando comincia a svilupparsi nel cervello di un bambino il germe dell’intelligenza? Come si può seguire nell’anima infantile il sorgere delle prime idee, delle prime impressioni?

Forse quando a malapena balbetta le prime parole, o forse quando ancora non le balbetta affatto, o addirittura non cammina ancora, ma fissa tutto con quello sguardo muto e imbambolato che gli adulti giudicano ottuso... già allora vede e intuisce il significato e la connessione dei fenomeni che lo circondano, ma non può dirlo né a se stesso né agli altri.

Forse Iljuša già da un pezzo capisce quello che si fa e si dice davanti a lui: vede papà, in pantaloni di velluto di cotone e giacca di panno marrone trapunta, che va avanti e indietro da un angolo all’altro con le mani dietro la schiena, fiuta tabacco e si soffia il naso, mentre mammà passa dal caffè al tè, dal tè al pranzo; sa che il genitore non ha mai pensato nemmeno lontanamente di controllare quante biche sono state falciate o affastellate, o di punire una negligenza, mentre invece se non gli portano subito il fazzoletto dà in escandescenze perché tutto è in disordine e mette sottosopra la casa.

Forse la mente del fanciullo ha deciso da un pezzo che bisogna vivere come gli adulti che gli stanno intorno, e non in altro modo. E poi, come volete che possa decidere altrimenti? E come vivono gli adulti di Oblomovka?

Si chiedono forse perché è stata data loro la vita? Lo sa solo Iddio. E cosa rispondono a questa domanda? Nulla, probabilmente: per loro è tutto molto semplice e chiaro.

Non hanno mai sentito parlare di quella che si chiama una esistenza travagliata, di gente che racchiude in petto inquietudini tormentose, che per questo o quel motivo corre da un capo all’altro della terra o dedica la vita a un lavoro continuo, senza fine.

A Oblomovka quasi non si crede nemmeno ai tumulti dell’anima: non si considera la vita il turbine delle eterne aspirazioni a raggiungere chissà cosa, chissà dove; si teme come il fuoco l’entusiasmo delle passioni; e, come in altri luoghi il corpo degli uomini si consuma spesso a causa del vulcanico lavorio del fuoco interiore, così l’anima degli abitanti di Oblomovka affondava pacifica e indisturbata nei flaccidi corpi.

La vita non li segna, come fa per altri, con rughe precoci, né li bersaglia di colpi fisici o morali.

Questa brava gente concepisce la vita solo come un ideale di pace e di dolce far niente, turbato a volte da avvenimenti spiacevoli: malattie, perdite, dispute e, magari, anche il lavoro.

Il lavoro è sopportato come un castigo già inflitto ai nostri avi, ma che non si può certo amare e che si ritiene non solo possibile ma addirittura doveroso evitare non appena se ne ha l’occasione.

A Oblomovka non ci si lambicca mai il cervello con vaghi problemi intellettuali o morali, perciò tutti hanno una salute di ferro e sono allegri, perciò vivono a lungo; gli uomini di quarant’anni sembrano degli adolescenti; i vecchi non lottano contro una morte difficile e dolorosa ma, vissuti fino ai limiti del possibile, scompaiono come alla chetichella, si irrigidiscono a poco a poco ed esalano inosservati l’ultimo respiro. Perciò si dice che un tempo gli uomini erano più forti.

Sì, erano davvero più forti: in passato non si affrettavano a spiegare al bambino il significato della vita e a prepararlo ad essa come a qualcosa di difficile e grave; non lo facevano penare sui libri, che mettono in capo un mucchio di interrogativi; e gli interrogativi consumano il cervello e il cuore e abbreviano l’esistenza.

Le norme della vita erano già pronte e venivano date loro dai genitori, che le avevano apprese - già pronte - dai nonni; e i nonni dai bisnonni, con il precetto di custodirle integre ed inviolate come il fuoco di Vesta. Così era stato fatto al tempo dei nonni e dei padri, così si faceva al tempo del padre di Il’ja Il’ič, e così forse si continua a fare ancora oggi a Oblomovka.

Su che cosa dovrebbero meditare? Per quale motivo dovrebbero agitarsi? Che cosa dovrebbero apprendere? Quali scopi dovrebbero raggiungere?

Non hanno bisogno di nulla: la vita scorre sotto i loro occhi come un fiume tranquillo; devono solo sedersi sulla riva e osservare i fenomeni ineluttabili che, senza esser chiamati, si presentano a turno a ciascuno di loro.

Ed ecco che sotto gli occhi del dormiente Il’ja Il’ič cominciano a sfilare, come quadri viventi, i tre momenti principali della vita che si sono verificati nella sua famiglia come in quelle dei parenti più lontani e dei conoscenti: nascita, matrimoni, funerali.

Poi si snoda la variopinta processione di diversi avvenimenti secondari: battesimi, onomastici, feste di famiglia, il giorno che precede il digiuno e il giorno che segue il digiuno, chiassose tavolate, arrivi di parenti, saluti, felicitazioni, lacrime e sorrisi ufficiali.

Tutto si compie con la massima precisione, importanza e solennità.

Rivede perfino dei volti conosciuti e le loro espressioni sollecite o indaffarate durante le varie cerimonie. Affidategli una delicata proposta di matrimonio, un’importante festa di nozze o di onomastico, e loro assolvono il compito secondo le regole, senza la minima svista. La disposizione dei posti a tavola, che cosa e come si deve servire, e chi e con chi deve prendere posto in vettura per andare alla cerimonia, se si devono rispettare i presagi; su tutto questo a Oblomovka nessuno faceva mai il più piccolo errore.

Forse che lì non sanno allevare i bambini? Basta guardare i putti rosei e rubicondi che le madri tengono in braccio o per mano. Per loro è essenziale che i rampolli siano grassocci, sani e con un bell’incarnato.

Ignorerebbero la primavera, si rifiuterebbero di riconoscerla se all’inizio di essa non potessero cuocere il loro dolcetto in forma di allodola. Come possono ignorare e non rispettare la tradizione?

In questo consistono la loro vita e la loro scienza, i loro dolori e le loro gioie; per questo si tengono lontani da qualsiasi altra preoccupazione e pena e non conoscono altre gioie; la loro esistenza ribolle esclusivamente di questi fatti basilari e inevitabili, che sono un nutrimento inesauribile per il loro spirito e per il loro cuore.

Attendono con trepidazione un rito, un banchetto, una cerimonia e poi, dopo avere battezzato, sposato o sotterrato una persona, la dimenticano insieme con il suo destino e ripiombano nell’abituale apatia, dalla quale li risveglia un analogo avvenimento: un onomastico, un matrimonio, e così via.

Quando nasce un bambino, la prima preoccupazione dei genitori è quella di celebrare, con la maggior precisione possibile e senza omettere nulla, tutti i riti imposti dalle convenienze, ossia dare un banchetto dopo il battesimo; poi si dedicano alle attente cure che esige il neonato.

La madre assegna a se stessa e alla nutrice il compito di allevare un bambino sano, di proteggerlo dalle infreddature, dal malocchio e da qualsiasi altra circostanza avversa. Ci si adopera col massimo impegno perché il piccolo sia sempre allegro e ben pasciuto.

Non appena il ragazzo cammina con le sue gambe, cioè non ha più bisogno della tata, ecco che nel cuore della madre nasce il segreto desiderio di trovargli una compagna; anch’essa sana e rubiconda.

Ricomincia così un periodo di cerimonie, di banchetti, che culmina nel matrimonio: in questo si concentrano tutte le emozioni della vita.

Poi il ciclo riprende: nascita dei figli, cerimonie, banchetti, fino a che un funerale non modifica la scena; ma non per molto tempo; alcuni cedono il posto ad altri, i bambini diventano giovanotti e al tempo stesso fidanzati, si sposano, generano figli simili a loro... e così la vita, seguendo questo programma, si trascina in un ininterrotto e monotono intrecciarsi di eventi che si interrompe senza chiasso sull’orlo della fossa.

È vero che ci sono anche altre preoccupazioni, ma quelli di Oblomovka le affrontano per lo più con stoica immobilità, e le preoccupazioni, dopo avere volteggiato un poco sulle loro teste, volano via, come uccelli che, arrivati a un muro liscio nel quale non trovano un posticino dove rifugiarsi, sbattono invano le ali contro la dura pietra e poi volano più lontano.

Per esempio, una volta è crollata all’improvviso una parte della galleria su un lato della casa e ha seppellito sotto le macerie una chioccia con i pulcini; se la sarebbe vista brutta anche Aksin’ja, la moglie di Antip, che era seduta sotto la galleria a filare, se proprio in quel momento per sua fortuna non fosse andata a prendere dell’altro materiale.

In casa ci fu uno scompiglio generale: accorsero tutti quanti, grandi e piccoli, inorriditi al pensiero che lì sotto, al posto della chioccia con i pulcini, avrebbe potuto passeggiare la padrona con Il’ja Il’ič.

Tutti gridavano e si rimproveravano l’un l’altro di non averci pensato prima: chi a far presente il pericolo, chi a ordinare di riparar la galleria, chi a ripararla.

Tutti si meravigliavano che la galleria fosse crollata, mentre fino al giorno prima si meravigliavano che reggesse ancora!

Superate le perplessità e le chiacchiere circa il modo di riparare i guasti, le parole di rimpianto per la chioccia e i pulcini, tornarono a occuparsi delle loro faccende, non prima che fosse stato ingiunto a chiunque di non permettere che Il’ja Il’ič si avvicinasse alla galleria.

Poi, dopo circa tre settimane, fu ordinato ad Andrjuška, Petruška, e Vas’ka di trascinare vicino nella legnaia le assi e la balaustra caduti, perché ingombravano. E là rimasero fino alla primavera.

Il vecchio Oblomov, ogni volta che le vedeva dalla finestra, era assalito dal pensiero delle riparazioni: mandava a chiamare il falegname, si consigliava con lui se fosse meglio costruire una nuova galleria o demolire ciò che rimaneva della vecchia; poi lo congedava dicendo: «Va’ pure, ci penserò».

Andò avanti così fino al giorno in cui Vas’ka, o Mot’ka, riferì al padrone che, essendosi arrampicato quella mattina su ciò che restava della galleria, aveva notato che gli angoli erano completamente staccati dal muro e tutto poteva crollare da un momento all’altro.

Allora fu convocato il falegname per un consulto definitivo, in seguito al quale fu deciso di puntellare con i vecchi rottami la parte di galleria rimasta, il che fu fatto alla fine di quello stesso mese.

«Ah! La galleria è tornata come nuova!», disse il vecchio alla moglie. «Ma guarda come Fedot ha distribuito bene le travi, sembrano le colonne della casa del maresciallo della nobiltà! Ora va proprio bene, e durerà un pezzo!».

Qualcuno gli ricordò che con l’occasione si sarebbero potuti riparare anche il portone e il terrazzino d’ingresso perché, come si dice, attraverso gli scalini si intrufolavano in cantina non solo i gatti, ma anche i maiali.

«Eh sì, sì, bisogna farlo», rispose sollecito Il’ja Ilvanovič e andò subito a guardare il terrazzino.

«È proprio vero, guarda come traballa», disse facendo oscillare il terrazzino col piede, come una culla.

«Ma traballava già quando l’hanno fatto», osservò qualcuno.

«E che vuol dire, se traballava?», ribatté Oblomov. «Però non si è sfasciato, anche se in sedici anni non è mai stato riparato. Eh, Lukà ha fatto un gran bel lavoro!... Quello sì che era un falegname... ma è morto. Riposi nel regno dei cieli! Oggi la gente è abituata male, nessuno lavora più così».

Si vede che quel Lukà era proprio un gran bravo falegname.

D’altra parte, bisogna rendere giustizia ai padroni di casa: certe volte, quando capitava un guaio o un inconveniente, si inquietavano molto, arrivavano perfino a riscaldarsi e ad incollerirsi.

Come è possibile, dicevano trascurare o lasciar perdere questo o quello? Bisogna provvedere subito. Ed ecco che non si parla d’altro: della passerella sul fossato da riparare, o della recinzione da fare in un punto del giardino per evitare che il bestiame passando rovini gli alberi, dato che lì l’incannucciata è stata completamente demolita.

Un giorno che passeggiava in giardino, Il’ja Ivanovič spinse la sua solerzia al punto di sollevare l’incannucciata con le sue stesse mani, fra gemiti e sbuffi, poi ordinò al giardiniere di metterci due pali di sostegno; grazie all’accortezza di Oblomov, l’incannucciata resse per tutta l’estate, e solo d’inverno crollò di nuovo a causa della neve.

Infine si arrivò perfino a mettere tre assi nuove sulla passerella, subito dopo che Antip era caduto nel fossato col cavallo e la botte. Non era ancora guarito dalle ammaccature che la passerella era già rimessa a nuovo.

Vacche e capre non ricavarono gran che dal nuovo crollo dell’incannucciata nel giardino: erano riuscite appena a mangiare un po’ di ribes e a scortecciare il decimo tiglio, senza arrivare ai meli, quando venne impartito l’ordine di piantare l’incannucciata come si conveniva e addirittura di circondarla con un fosso.

Due vacche e una capra, colte in flagrante, si presero un sacco di legnate.

Nel sogno, Il’ja Il’ič vede anche il grande salotto scuro della casa paterna, con le vecchie poltrone in frassino eternamente coperte dalle fodere, e l’enorme divano sbilenco e duro rivestito di velluto azzurro scolorito e pieno di macchie, e l’unica grande poltrona di cuoio.

Incomincia una lunga sera d’inverno.

La madre, sul divano, sferruzza pigramente una calza da bambino; di tanto in tanto sbadiglia e si gratta la testa col ferro da calza.

Vicino a lei siedono Nastas’ja Ivanovna e Pelageja Ignat’evna che, col naso sul lavoro, sono intente a cucire qualcosa che Iljuša, o suo padre, o loro stesse, indosseranno per una festa.

Il padre, con le mani dietro la schiena, va su e giù per la stanza con aria molto soddisfatta, oppure si siede un momento nella poltrona e ricomincia a camminare prestando la massima attenzione al rumore dei suoi passi. Poi fiuta una presa di tabacco, soffia il naso e fiuta di nuovo.

La stanza è rischiarata dalla luce scialba di una unica candela di sego, consentita solo nelle sere d’inverno e d’autunno. Nei mesi estivi, tutti fanno in modo di andare a letto e di alzarsi senza candele, con la luce del giorno.

Si fa così vuoi per abitudine vuoi per economia. Per qualsiasi cosa non prodotta in casa che sono costretti a comperare, gli Oblomov sono di un’avarizia indicibile. Tanto ospitali da sgozzare un superbo tacchino o una dozzina di pollastri per l’arrivo di un ospite, non metterebbero un chicco di zibibbo in più in una pietanza e impallidiscono se al convitato viene in mente di versarsi, senza che sia stato invitato a farlo, un bicchiere di vino.

D’altra parte, simili scostumatezze non si verificano quasi mai: può farle solo un gaglioffo, screditato dalla voce pubblica; e ospiti del genere non si fanno entrare neppure in cortile.

No, lì si è abituati in maniera ben diversa: l’ospite non tocca nulla se prima non è stato sollecitato tre volte. Egli sa bene che un’offerta non ripetuta è spesso un esplicito invito a rifiutare, piuttosto che ad assaggiare, il piatto o il vino offerti.

Non per tutti si accendono due candele, perché le candele si comprano in città e costano soldi e, come tutte le cose comperate, sono tenute sotto chiave dalla stessa padrona di casa. Anche i moccoli vengono contati e riposti con cura.

In genere lì non si ama spendere denaro e, per quanto una cosa sia necessaria, i quattrini per comprarla si sborsano con estremo rammarico, e questo se il costo è insignificante. Una spesa importante è accompagnata da gemiti, lamenti e imprecazioni.

Gli Oblomov si adattano di buon grado a ogni genere di scomodità, si sono perfino abituati a non considerarle scomodità, piuttosto che allentare i cordoni della borsa.

Per questo il divano del salotto è tutto coperto di macchie da tempo immemorabile; per questo la poltrona di cuoio di Il’ja Ivanovič era di cuoio soltanto di nome: in realtà erano rimasti l’imbottitura e gli spaghi, e un angoletto di pelle sullo schienale, mentre il resto è andato in pezzi e scomparso già da cinque anni; per questo, forse, il portone è tutto storto e il terrazzino traballa. Ma pagare d’un colpo solo per una cosa, anche la più indispensabile, duecento, trecento, cinquecento rubli sarebbe per loro quasi un suicidio.

Allorché seppe che un giovane proprietario dei dintorni, recatosi a Mosca, aveva pagato trecento rubli una dozzina di camicie, venticinque rubli un paio di stivali, venticinque rubli un panciotto per il suo matrimonio, il vecchio Oblomov, inorridito si fece il segno della croce e si affrettò a dire che «un simile campione bisognerebbe mandarlo in galera».

In generale gli Oblomov erano sordi alle realtà politico-economiche che sollecitano una circolazione rapida e attiva dei capitali, una maggiore produttività e un intensificato scambio di merci. Le loro anime semplici capivano e attuavano un unico impiego dei capitali: tenerli sotto chiave.

Nelle poltrone del salotto, in posizioni diverse, seggono e stronfiano gli abitanti o gli ospiti abituali della casa.

Per lo più regna fra loro un profondo silenzio: si vedono tutti i giorni; hanno ormai esaurito il reciproco scambio dei loro tesori intellettuali, e le novità dall’esterno sono poche.

Tutto è pace: solo il rumore dei pesanti stivali di Il’ja Ivanovič, di fabbricazione domestica, il sordo rimbombo del pendolo nella sua cassa, e di tanto in tanto il piccolo crepitio del filo rotto con la mano o coi denti da Pelageja Ignat’evna o da Nastas’ja Ivanovna infrangono il silenzio profondo.

Così a volte può trascorrere anche una mezz’ora, a meno che qualcuno non sbadigli rumorosamente e facendosi il segno della croce sulle labbra dica: «Signore, pietà di noi!».

Dopo di lui sbadiglia il vicino, e quello appresso, come seguendo un comando, apre piano piano la bocca, e in tal modo il gioco contagioso dell’aria immessa nei polmoni fa il giro dei presenti, alcuni dei quali hanno perfino le lacrime agli occhi.

Oppure Il’ja Ivanovič va alla finestra, guarda fuori e dice alquanto sorpreso: «Sono appena le cinque, ed è già buio!».

«Sì» dice qualcuno, «in questa stagione è sempre buio: cominciano le serate lunghe».

E in primavera ci si stupisce e ci si rallegra che le giornate comincino ad allungarsi. Ma provate a domandare a che servano queste giornate lunghe, e nessuno saprà rispondervi.

E di nuovo silenzio.

E qualcuno si mette a smoccolare la candela, che a un tratto si spegne; tutti si scuotono: «Un ospite inatteso!», c’è chi dice immancabilmente.

Può capitare che da questo spunto si avvii una conversazione.

«Chi può essere questo ospite?», dice la padrona di casa. «Forse Nastas’ja Faddeevna? Oh, Dio volesse! Ma no, lei non viene prima della festa. Quanto mi farebbe piacere! Come ci si abbraccerebbe e quanto si piangerebbe insieme! E andremmo insieme al mattutino e alla messa... ma non ce la faccio più a competere con lei... anche se sono più giovane, non ho la sua resistenza!».

«Quando è andata via l’ultima volta?», chiede Il’ja Ivanovič. «Mi pare, dopo Sant’Elia».

«Ma che dici, Il’ja Ivanovič? Fai sempre confusione! Non ha aspettato nemmeno il giovedì di Pentecoste», lo corregge la moglie.

«Mi pare che per San Pietro fosse qui», replica Il’ja Ivanovič.

«Sei sempre lo stesso!», lo rimprovera la moglie. «Discuti, e fai sempre brutte figure!».

«Come non era qui per San Pietro? Ma se non facevamo altro che mangiare pasticci di funghi, perché a lei piacciono».

«Ma quella è Mar’ja Onisimovna: è a lei che piacciono i pasticci di funghi... come fai a non ricordarlo? E Mar’ja Onisimovna non è rimasta con noi fino a Sant’Elia, ma fino ai santi Prochor e Nikanor».

A Oblomovka calcolavano il tempo in base alle feste, alle stagioni, ai diversi eventi familiari e domestici, senza mai riferirsi a mesi e date. Forse ciò era dovuto in parte al fatto che, tranne Oblomov, gli altri avevano una gran confusione in testa quanto ai nomi dei mesi e al susseguirsi dei giorni.

Il’ja Ivanovič tace sconfitto, e tutta la compagnia ripiomba nella sonnolenza. Anche Iljuša, sdraiato dietro la schiena della madre, sonnecchia e a volte dorme addirittura.

«E pensare», dice poi un ospite con un profondo sospiro, «che il marito di Mar’ja Onisimovna, il fu Vasilij Fomiè, che Dio l’abbia in gloria, era pieno di salute, è morto! E non aveva ancora sessant’anni... mentre avrebbe potuto arrivare a cento!».

«Tutti moriamo, quando arriva la nostra ora: sia fatta la volontà di Dio!», obietta Pelageia Ignat’evna con un sospiro. C’è chi muore, ma dai Chlopov non fanno che battezzare: anche Anna Andreevna ha avuto un altro figlio... è già il sesto».

«Fosse solo Anna Andreevna!», dice la padrona di casa. «Quando si sposerà suo fratello e arriveranno i figli... allora sì che ci sarà trambusto! Anche i più giovani crescono e devono accasarsi; quanto alle figliole in età da marito, dove si trovano qui tanti pretedenti? Al giorno d’oggi tutti vogliono una dote, e in contanti per giunta...».

«Di che state parlando?», chiede Il’ja Ivanovič avvicinandosi a quelli che conversano.

«Ecco, dicevamo che...».

E gli ripetono tutto.

«Questa è la vita dell’uomo!», dice sentenzioso Il’ja Ivanovič. «Uno muore, uno nasce, un altro si sposa, e tutti invecchiamo. Nessun giorno è uguale all’altro, per non parlare degli anni! Perché? Sarebbe bello se ogni giorno fosse come quello prima, quello prima come quello dopo!... è triste pensarci...».

«Il vecchio invecchia, il giovane cresce!», dice da un angolo una voce assonnata.

«Bisogna pregare di più il Signore e non pensare ad altro!», ammonisce severa la padrona di casa.

«Giusto, giusto», si affretta ad ammettere il pavido Il’ja Ivanovič, che stava per mettersi a filosofare e invece riprende ad andare avanti e indietro per la camera.

Un’altra lunga pausa, rotta solo dal lieve crepitio dell’ago e del filo che vanno su e giù. A volte la padrona di casa rompe il silenzio.

«Sì, è buio fuori», dice. «Se Dio vuole, arriveranno le feste di Natale, avremo qui i nostri parenti, staremo più allegri e le serate passeranno senza che ce ne accorgiamo. Ecco, se arrivasse Malan’ja Petrovna, già staremmo allegri! Quante gliene vengono in mente! Fondere lo stagno, colare la cera, correre fuori dal portone, mi fa perdere la testa a tutte le ragazze. Combina giochi di ogni genere... è proprio straordinaria!».

«Sì, è una dama di mondo!», dice uno degli interlocutori. «Tre anni fa le venne l’idea di proporre una discesa in slittino dalla collina, e fu così che Lukà Savič si ferì al sopracciglio...

E allora tutti si rianimano all’improvviso, guardando Lukà Savič e scoppiano a ridere.

«Com’è andata, Lukà Savič? Su, racconta!», dice Il’ja Ivanovič che ride a più non posso.

E tutti continuano a ridere, anche Iljuša, che si è svegliato.

«Be’, che c’è da raccontare?», dice Lukà Savič imbarazzato. «è stata una invenzione di Aleksej Naumyè: non è successo niente».

«Eh!», lo interrompono in coro. «Ma come non è successo niente! Non siamo mica ciechi!... E la fronte, la fronte: si vede ancora la cicatrice...».

«Perché ridete tanto?», cerca di interloquire Lukà Savič fra una risata e l’altra. «Io non... non sarebbe successo... è stato Vas’ka, quel brigante... mi ha rifilato uno slittino vecchio... mi è schizzato via di sotto... e così io...».

Uno scoppio di risa copre la sua voce. Egli si sforza invano di finire il racconto della sua caduta: il riso si spande per tutta la casa, fino all’anticamera, fino alle stanze della servitù; tutti ricordano la buffa disavventura, e tutti scoppiano in una omerica risata, lunga, corale, ineffabile. Non appena cominciano a calmarsi, qualcuno sbotta di nuovo... e si ricomincia.

Alla fine, con una certa fatica, si calmano.

«Allora le prossime feste riprenderai lo slittino, Lukà Savič?», chiede dopo una pausa Il’ja Ivanovič.

Un altro coro di risate che si protrae per una decina di minuti.

«Potrei ordinare ad Antip di battere la neve sulla collina», dice d’un tratto Oblomov. «Corre voce che Lukà Savič sia un appassionato e non vede l’ora di...».

Lo scoppio di risa di tutta la compagnia gli impedisce di continuare.

«Ma quello slittino... è ancora tutto intero?» aggiunge qualcuno appena le acque si placano.

E giù altre risate.

Dopo essersi ben bene sfogati, a poco a poco cominciano ad acquetarsi; uno si asciuga le lacrime, uno si soffia il naso, un altro è colto da un furioso accesso di tosse e sputa dicendo a fatica:

«Oh, Dio santo! a momenti soffoco... Quanto ho riso quel giorno, Dio mio! Che cascatone! Lo rivedo ancora a ruzzolare con le falde del caffettano all’aria...».

A questa uscita fa seguito l’ultimo e definitivo scoppio di risa, il più prolungato, poi tutti tacciono. Uno sospira, uno sbadiglia di gusto dicendo ancora qualcosa, e tutti ripiombano nel silenzio. Come prima, si sentono solo il tic-tac del pendolo, i passi di Oblomov e il lieve crepitio del filo spezzato con i denti.

D’un tratto Il’ja Ivanovič si ferma in mezzo alla stanza con espressione allarmata, tenendosi la punta del naso.

«Guarda un po’ che disgrazia deve capitare!», dice. «Ci sarà un morto: mi prude la punta del naso...».

«Oh, Signore Iddio!», esclama la moglie sbattendo le mani. «Quando mai si è sentito che qualcuno muore quando prude la punta del naso? C’è un morto quando il naso prude alla radice. Dimentichi proprio tutto, Il’ja Ivanovič, che Dio ti benedica! Se dicessi una cosa del genere in società o davanti a degli ospiti, sai che vergogna!».

«E allora, quando prude la punta del naso che vuol dire?», domanda Il’ja Ivanovič interdetto.

«Una bevuta in vista... Non certo un morto...».

«Confondo sempre tutto!», disse Il’ja Ivanovič. «Ma come si fa a ricordare che significa il prurito su un lato del naso, o sulla punta, o alle sopracciglia...».

«Su un lato», interviene Pelageja Ivanovna, «vuol dire notizie; alle sopracciglia, lacrime; sulla fronte, visite: se il prurito è a destra, sarà un uomo, se è a sinistra, una donna; se prudono gli orecchi, è segno che pioverà; le labbra, baci; i baffi, che si mangeranno dolciumi regalati; il gomito, dormire fuori casa; la pianta del piede, un viaggio...».

«Bravissima, Pelageja Ivanovna!», esclama Il’ja Ivanovič. «E forse, quando il burro costerà poco, pruderà la nuca...».

Le signore cominciano a ridere e a bisbigliare; qualche uomo sorride: si prepara un altro scoppio di risa; ma in quel preciso istante si sente nella sala qualcosa di mezzo fra il ringhiare del cane e il soffiare del gatto quando stanno per azzuffarsi. È il pendolo che comincia a suonare.

«Ehi! Ma sono già le nove!», esclama Il’ja Ivanovič con gioiosa meraviglia. «Ma guarda un po’, il tempo passa senza che uno se ne accorga. Ohè, Vas’ka! Van’ka! Mot’ka!».

Appaiono tre facce assonnate.

«Perché non portate in tavola?», domanda meravigliato e stizzito Oblomov. «Che ne direste di pensare ai padroni? Be’, perché state lì impalati? Spicciatevi, la vodka!».

«Ecco perché vi prudeva la punta del naso!» dice animatamente Pelageja Ivanovna. «Berrete la vodka e guarderete nel bicchiere».

Finita la cena, dopo essersi baciati e scambiati segni di croce sul capo, se ne vanno tutti a letto, e il sonno si impadronisce di quelle loro teste senza pensieri.

Il’ja Il’ič rivede in sogno non una né due di queste serate, ma settimane, mesi ed anni interi di giorni e sere passati così.

Nulla turbava l’uniformità di questa vita, e gli abitanti di Oblomovka non ne sentivano il peso perché non potevano immaginare un altro modo di vivere; e, se anche avessero potuto immaginarlo, gli avrebbero voltato le spalle con orrore.

Non desideravano un’altra vita, non l’avrebbero amata. Se per qualche circostanza avessero dovuto modificare una qualsiasi delle loro abitudini, se ne sarebbero molto rammaricati. La malinconia li consuma se domani non è uguale a oggi e dopodomani non è uguale a domani.

A che gli servono la varietà, i cambiamenti, gli imprevisti cui gli altri aspirano? Gli altri se la sbroglino come meglio credono, ma non è cosa che interessi loro, gli Oblomov. Gli altri sono padroni di vivere come vogliono.

Infatti gli imprevisti, anche se vantaggiosi, ti scombussolano; portano seccature, preoccupazioni, trambusto, ti strappano dal tuo cantuccio costringendoti a trafficare, a scrivere... in breve, ad agitarti: e vi par poco?!

Essi trascorrevano interi decenni a ronfare, a sonnecchiare e a sbadigliare, o a ridere bonariamente per qualche facezia campagnola o, raccolti in circolo, a raccontarsi i loro sogni.

Se un sogno era spaventoso, tutti diventavano pensierosi, invasi da vera e propria paura; se era profetico, tutti si rallegravano e si rattristavano sinceramente a seconda del significato del sogno. Se esso richiedeva l’osservanza di qualche rituale, si prendevano subito efficaci misure in proposito.

Altrimenti, giocano all’uomo nero, a trionfo, e, quando ci sono ospiti per le feste, a boston, oppure fanno un solitario, oppure interrogano il re di cuori o la donna di fiori e pronosticano matrimoni.

A volte, viene per una settimana o due una qualche Natal’ja Faddeevna. Dapprincipio queste vecchie passavano in rasegna tutto il vicinato per sapere come vive questo, cosa fa quello; si intrufolano non solo nell’esistenza della famiglia, nei suoi retroscena, ma anche nei pensieri e nei propositi della famiglia, nei suoi retroscena, ma anche nei pensieri e nei propositi reconditi di ciascuno, si insinuano nelle anime, rampognano, condannano gli indegni e soprattutto i mariti infedeli; poi passano in rassegna i singoli fatti: onomastici, battesimi, nascite, che cosa è stato offerto ai ricevimenti, chi è stato e chi non è stato invitato.

Stanche di queste chiacchiere, cominciano a mostrare i nuovi acquisti, i vestiti, i mantelli, e perfino le sottane e le calze. La padrona di casa vanta i pregi delle tele, dei filati, dei pizzi fatti in casa.

Ma anche questo argomento si esaurisce, e allora si consolano con il caffè, il tè, le marmellate. Poi ripiombano nel silenzio.

Se ne stanno a lungo sedute a guardarsi, ogni tanto tirano un profondo sospiro. Qualcuna si mette perfino a piangere.

«Che hai?», le chiede con ansia una delle presenti.

«Oh, che tristezza, colomba mia!», risponde con un sospirone l’ospite. «Abbiamo fatto adirare il Signore, creature esecrabili che siamo! Non ce ne verrà niente di buono!».

«Non dir così, che mi fai paura!», lo interrompe la padrona di casa.

«Sì, sì», continua quella. «Sono arrivati gli ultimi giorni: i popoli insorgeranno contro altri popoli, i regni contro altri regni... arriva la fine del mondo!», sentenzia infine Natal’ja Faddeevna, e tutt’e due piangono amare lacrime.

Natal’ja Faddeevna non aveva alcun motivo su cui basarsi per arrivare a questa conclusione, nessuno era insorto contro nessuno, quell’anno non c’era stata nemmeno la cometa, ma a volte le vecchie hanno oscuri presentimenti.

Solo raramente questo modo di passare il tempo viene turbato da qualche evento imprevisto; ad esempio quando tutta una famiglia, piccoli e grandi, viene colta da sintomi di asfissia per la stufa.

Di altre malattie, sia in casa sia nel villaggio, non si sente quasi parlare; capita che qualcuno, al buio, vada a infilzarsi su un piolo, o che rotoli giù dal fienile, o che si prenda in testa una tavola caduta dal tetto.

Ma tutto questo succede di rado, e contro tali imprevisti si usano sperimentati rimedi domestici: si strofina la parte contusa con decotti d’erbe, e all’alba si fa bere un po’ d’acqua benedetta, o si mormorano certe parole... e tutto passa.

I casi di asfissia, invece, sono frequenti. Allora tutti quanti si mettono a letto, si sentono gemiti e lamenti: uno si applica sul capo fette di cetriolo e se l’avvolge in un asciugamano, un altro si mette negli orecchi bacche di mirtillo e fiuta rafano, un altro si espone al freddo con la sola camicia, un altro ancora giace semplicemente abbandonato sul pavimento, privo di sensi.

Era un avvenimento che si ripeteva una o due volte al mese perché, non volendo che il calore andasse sprecato su per i tubi, chiudevano il tiraggio delle stufe quando in essa ardevano ancora le fiamme come in Roberto il diavolo. Solo a toccare la stufa o gli annessi giacigli ci si riempiva le mani di bolle.

Solo una volta la monotonia della loro esistenza fu interrotta da un fatto davvero straordinario.

Finita la siesta dopo un pranzo pesante, tutti si erano riuniti per il tè, quando d’improvviso tornò dalla città un contadino di Oblomovka; dopo molti sforzi, riuscì a tirar fuori una lettera tutta spiegazzata, che aveva riposto in seno, diretta a Il’ja Ivanyč Oblomov.

Tutti rimasero di stucco; il viso della padrona di casa arrivò perfino ad alterarsi un poco; tutti gli occhi si appuntarono sulla lettera, tutti i nasi si allungarono in quella direzione.

«Che strano! Di chi sarà?», articolò infine la signora, riavendosi.

Oblomov prese la lettera e se la rigirò perplesso fra le mani, non sapendo che fare.

«Ma dove l’hai presa?», chiese al contadino. «Chi te l’ha data?».

«Alla locanda dove mi sono fermato in città», rispose il contadino. «Sono venuti due volte dalla posta per sapere se per caso c’era qualche contadino di Oblomovka; avevano una lettera per il padrone».

«E allora?...».

«Allora io per prima cosa mi sono nascosto, e il soldato se n’è andato con la lettera. Ma il sagrestano di Verchlëvo mi ha visto e l’ha detto. E allora sono tornati. E appena tornati me ne hanno dette di tutti i colori e mi hanno dato la lettera, e hanno voluto anche cinque copechi. Gli ho domandato, dico, cosa dovevo farne, dove dovevo metterla, e loro mi hanno detto di farla avere a Vostra Grazia».

«Non dovevi prenderla», osservò irritata la padrona.

«E infatti non volevo. Che ce ne facciamo, dico, di una lettera... niente. Nessuno ci ha ordinato, dico, di prendere le lettere... io non mi arrischio: andateci con la vostra lettera. Allora è venuto il soldato e ha cominciato a imprecare. Voleva andare dalle autorità. E io l’ho presa».

«Stupido!», disse la padrona.

«Di chi può essere?», disse pensoso Oblomov, contemplando l’indirizzo. «Ma sì, la scrittura mi sembra di conoscerla...».

E la lettera girò di mano in mano e si fecero ipotesi e congetture sulla persona che l’aveva scritta e sul contenuto. Alla fine, tutti si ritrovarono in un vicolo cieco.

Il’ja Ivanovič ordinò che gli cercassero gli occhiali: li trovarono dopo un’ora e mezza. Lui li inforcò e fece per aprire la lettera.

«Fermo! non la aprire, Il’ja Ivanovič», lo trattenne, spaventata, la moglie. «Chi può sapere cosa c’è scritto!? Può darsi che ci porti notizie terribili, una qualche disgrazia. Si sa com’è fatta la gente al giorno d’oggi! Puoi rimandare a domani o dopodomani... tanto, la lettera non scappa».

E lettera e occhiali furono messi sotto chiave. Tutti si dedicarono al tè. E la lettera sarebbe rimasta al sicuro per anni, se quell’avvenimento non fosse stato tanto straordinario da turbare la mente di tutti. Dopo il tè, e il giorno seguente non si parlò di altro che della lettera.

Alla fine non ce la fecero più e il quarto giorno si riunirono tutti e, con trepidazione, furono rotti i sigilli. Oblomov diede un’occhiata alla firma.

«Radiščev», lesse. «Eh, ma è di Filipp Matveevič!».

«Ah! Oh! Ecco di chi è?», fu la voce generale. «Ma come, è ancora vivo? Ma guarda, non è ancora morto! Be’, Dio sia ringraziato. Cosa scrive?».

Oblomov lesse ad alta voce: Filipp Matveevič chiedeva di mandargli la ricetta della birra, che a Oblomovka sapevano preparare particolarmente bene.

«Mandiamola, mandiamola», cominciarono a dire tutti. «Bisogna scrivere una lettera».

Così trascorsero un paio di settimane.

«Bisogna scrivere, bisogna!», ripeteva Il’ja Ivanovič alla moglie. «Dov’è la ricetta?».

«Già, dov’è?», rispondeva lei. «Bisogna ancora cercarla. Ma aspetta, che fretta hai? Facciamo passare la quaresima, e per le feste, a Dio piacendo, scriverai; non scappa mica...».

«In realtà, è meglio che gli scriva anche come sono andate le feste», disse Il’ja Ivanovič.

Per le feste si tornò a parlare della lettera. Il’ja Ivanovič decise di scrivere. Si ritirò nello studio, inforcò gli occhiali e sedette al tavolino.

Nella casa regnava un profondo silenzio; a nessuno era permesso di camminare e fare rumore. «Il padrone scrive!», dicevano tutti con voce piena di riverente timore, come quando in casa c’è un morto.

Aveva appena finito di scrivere, con mano lenta ed esitante e la cautela che si dedica di solito a un’impresa pericolosa, un «Egregio Signore» tutto storto, quando arrivò la moglie.

«Ho cercato, ho cercato... ma la ricetta non c’è», disse. «Devo ancora guardare nell’armadio in camera da letto. Ma come si manda la lettera?».

«Con la posta», rispose Il’ja Ivanovič.

«E quanto costa?».

Oblomov prese un vecchio calendario.

«Quaranta copechi», disse.

«Buttar via quaranta copechi per una simile stupidaggine!», osservò lei. «È meglio aspettare l’occasione di qualcuno che viene dalla città. Dì ai contadini che s’informino».

«A pensarci bene, è meglio aspettare un’occasione», rispose Il’ja Ivanovič, e, dopo aver posato la penna sul tavolo con un colpo secco, la ficcò nel calamaio e si tolse gli occhiali.

«Sicuro, è meglio», concluse. «Non scappa: c’è tempo a mandarla».

Si ignora se Filipp Matveevič abbia mai ricevuto la ricetta... Ogni tanto Il’ja Ivanovič prendeva anche in mano un libro, non importava quale. Egli non vedeva certo nella lettura un bisogno essenziale, ma la considerava come un lusso, come una di quelle cose di cui si può benissimo fare a meno; proprio come si può avere un quadro appeso a un muro ma si può anche non averlo, come si può andare a passeggio, ma si può anche non andare; per questo gli era del tutto indifferente quale fosse il libro, lo guardava come una cosa destinata a distrarre dalla noia e dall’ozio.

«È un pezzo che non leggo libri», dice, oppure qualche volta modifica la frase: «Be’, leggerò un libro», dice, o semplicemente gli cadono gli occhi sui pochi libri lasciatigli dal fratello e prende il primo che capita, senza scegliere. Sia esso Golikov, il Nuovissimo libro dei sogni, laRossjada di Cheraskov o le tragedie di Sumarokov o, infine, un annuario di tre anni prima, egli legge tutto con uguale soddisfazione commentando di quando in quando:

«Ma guarda cosa va a pensare! Che brigante! Che il diavolo ti porti!».

Queste esclamazioni si riferivano all’autore: qualifica che ai suoi occhi non meritava alcuna considerazione, dato che egli condivideva quel vago disprezzo che in passato si nutriva verso gli scrittori. Come molti altri del suo tempo, considerava l’autore un perdigiorno, uno sfaccendato, un ubriacone, un crapulone, qualcosa come un ballerino.

Qualche volta legge ad alta voce per tutti un giornale di tre anni prima, oppure comunica la notizia appena letta.

«Scrivono dall’Aja», dice, «che sua maestà il re è felicemente tornato da un breve soggiorno al castello», e nel dir questo guarda attraverso gli occhiali tutti i presenti.

Oppure:

«A Vienna un ambasciatore ha presentato le credenziali».

«E guarda qui cosa scrivono», prosegue. «Che sono state tradotte in russo le opere di Madame de Genlis».

«Certo, le traducono per cavar di tasca altri soldi a noi nobili», osserva un piccolo proprietario terriero.

E il povero Iljuša continua a studiare da Stolz. Non appena si sveglia il lunedì mattina, è preso dalla malinconia. Sente la voce brusca di Vas’ka che grida dal terrazzino:

«Antipka! Attacca il pezzato per accompagnare il padroncino dal tedesco».

Il cuore gli si stringe. Va triste triste dalla mamma, la quale comprende la sua malinconia e comincia a indorargli la pillola e sospira in cuor suo al pensiero di doversi separare da lui per una intera settimana.

La mattina del lunedì non sanno più che dargli per colazione; gli fanno panini e ciambelline, gli danno da portarsi via cibi in salamoia, dolcetti e marmellate, e leccornie di ogni genere, secche e fresche, e perfino vere e proprie provviste. Tutto questo perché si sa bene che dal tedesco non si mangia di grasso.

«Là c’è poco da rosicchiare», dicevano a Oblomovka. «A pranzo ti danno zuppa, arrosto e patate; per il tè ti danno il burro; ma quanto alla cena... morgen früh... rimani con un palmo di naso».

D’altra parte, Il’ja Il’ič sogna soprattutto quei lunedì in cui non sente la voce di Vas’ka che ordina di attaccare il pezzato, in cui la mamma lo accoglie al tè con un sorriso e una buona notizia:

«Oggi non parti; giovedì è una grande festa; vale la pena di andare e tornare solo per tre giorni?».

Oppure ci sono volte che gli comunica di punto in bianco: «Questa settimana ricorre la festa dei genitori... niente scuola: faremo le frittelle».

Oppure un lunedì mattina la madre lo scruta con attenzione e poi dice:

«Hai gli occhi appannati, stamattina. Ti senti bene?», e scuote la testa.

L’astuto ragazzino scoppia di salute, ma tace.

«Rimani a casa per questa settimana», dice la madre, «a scuola ci andrai... quando Dio vorrà».

E tutti in casa avevano la ferma convinzione che lo studio fosse inconciliabile con il sabato dedicato alla festa dei genitori, e che un giovedì festivo fosse un ostacolo insormontabile che precludeva lo studio per tutta una settimana.

Forse, solo un domestico o una serva addetti al signorino qualche volta borbottano:

«Che viziato! Ci vai o non ci vai dal tuo tedesco?».

Oppure succede che a metà o all’inizio della settimana Antipka si presenti d’improvviso da Stolz, con il famoso pezzato, per prendere Il’ja Il’ič.

«È arrivata», dice, «Mar’ja Savišna, o Natal’ja Faddeevna, oppure i Kuzovkov con i figlioli; quindi favorite tornare a casa».

E Iljuša se ne sta a casa circa tre settimane, e allora, vedi caso, non manca molto alla settimana santa, e poi c’è una festa, e poi non si sa perché qualcuno in casa decide che nella settimana di San Tommaso non si studia; all’estate mancano un paio di settimane... non vale la pena di andare a scuola, e d’estate anche il tedesco riposa, perciò è meglio rimandare all’autunno.

E così Il’ja Il’ič ha prolungato la vacanza di sei mesi, e come è cresciuto in questo periodo! Come è ingrassato! Come dorme bene! In casa non si stancano di ammirarlo, e rilevano per contro che quando il sabato torna alla scuola, il ragazzo è pallido e dimagrito.

«Un malanno fa presto ad arrivare», dicono il padre e la madre. «Avrà sempre tempo per imparare, ma la salute non si compra; la salute è la cosa più preziosa della vita. Guarda un po’, dopo una settimana di studio è come se tornasse dall’ospedale: perde tutto il grasso e diventa floscio floscio... e così irrequieto: ha sempre voglia di correre!».

«Sì», osserva il padre, «lo studio non fa per lui; inutile costringerlo!».

E i genitori dal cuore tenero continuano a cercare tutte le scuse per tenere il figlio a casa. E di scuse, a parte le feste, non ne mancano. L’inverno è freddo; d’estate, con la calura, non conviene muoversi; e certe volte ci si mette anche la pioggia; in autunno c’è l’ostacolo del fango. Ogni tanto, Antipka ha un aspetto che dà da pensare: non è proprio ubriaco, ma ha lo sguardo un po’ storto: Dio non voglia che vada ad impantanarsi o a fracassarsi da qualche parte.

D’altronde gli Oblomov si sforzavano di giustificare il più possibile queste scuse ai loro stessi occhi e soprattutto a quelli di Stolz, il quale non risparmiava i Donnerwetter, in faccia e dietro le spalle, per tanta debolezza.

I tempi di Prostakov e degli Skotinin erano passati da un pezzo. Il proverbio l’istruzione è luce, l’ignoranza è tenebre si stava già diffondendo nelle campagne insieme con i libri usati che i rivenditori portavano in giro.

I vecchi capivano i vantaggi dell’istruzione, ma i vantaggi esteriori. Vedevano che solo grazie allo studio si poteva raggiungere una posizione, cioè conquistare gradi, onorificenze e denaro; che le cose si mettevano male per i vecchi scrivani, per i traffichini incanutiti nelle antiche consuetudini.

Cominciavano a circolare voci inquietanti sulla necessità non solo di saper leggere e scrivere, ma anche di conoscere altre scienze delle quali fino ad allora non si era mai sentito parlare. Fra il consigliere titolare e l’assessore collegiale si era aperto un baratro sul quale solo un diploma poteva fare da ponte.

I vecchi impiegati zelanti, figli dell’abitudine e rampolli della corruzione, cominciavano a sparire. Molti che non avevano fatto in tempo a morire venivano cacciati via come elementi sospetti, altri furono trascinati in giudizio, i più fortunati erano quelli che, non volendo saperne del nuovo ordine di cose, se l’erano svignata nell’angolino prudentemente acquistato, in tempo per non averne le ossa rotte.

Gli Oblomov comprendevano tutto ciò, e capivano anche i vantaggi esteriori dell’istruzione. Ma della sua necessità intrinseca avevano ancora un’idea vaga e lontana, e per questo volevano intanto cogliere per il loro Iljuša qualche brillante vantaggio.

Lo sognavano in uniforme ricamata, se lo immaginavano consigliere aulico; e la madre addirittura governatore; ma avrebbero voluto raggiungere tutto questo in certo qual modo a buon mercato, ricorrendo ad astuzie varie, aggirando alla chetichella gli ostacoli disseminati sulla via dell’istruzione, senza affaticarsi a scavalcarli: ossia, per esempio, con un pochino di studio, ma senza logorarsi l’anima e il corpo, senza che Iljuša perdesse quel benedetto grasso che aveva messo su da piccolo; solo così, per salvare le forme prescritte e fargli ottenere, non importa come, l’attestato nel quale fosse detto che Iljuša aveva studiato tutte le scienze e tutte le arti.

Questo sistema educativo oblomoviano trovava la forte opposizione del sistema di Stolz. La lotta fu accanita da entrambe le parti. Stolz colpiva gli avversari con tenacia, in maniera diretta e aperta, e loro schivavano i colpi con le astuzie suddette ed altre ancora.

La vittoria non era mai decisiva; forse la perseveranza teutonica avrebbe avuto ragione della testardaggine e dell’arretratezza degli Oblomov, ma il tedesco incontrava difficoltà nel suo stesso campo, per modo che la vittoria non andò mai né all’una né all’altra parte. Il fatto è che il figlio di Stolz viziava Oblomov, e ora gli suggeriva le lezioni, ora faceva per lui le traduzioni.

Il’ja Il’ič rivede chiaramente in sogno gli anni trascorsi in famiglia e quelli passati da Stolz.

A casa, non appena si sveglia, c’è subito accanto al letto Zacharka, che diverrà in seguito il ben noto cameriere personale Zachar Trofimyč.

Come faceva in passato la tata, Zachar gli infila le calze e le scarpe; e Iljuša, già quattordicenne, deve solo tendergli prima un piede e poi l’altro, rimanendo coricato; e se qualche cosa non gli va, dà subito un calcio sul naso di Zachar. E se a Zachar, scontento viene in mente di lamentarsi, riceverà in soprammercato le busse degli altri.

Poi Zacharka lo pettina, gli infila la giacchettina facendogli passare con molta attenzione le braccia nelle maniche per non incomodarlo troppo, e ricorda a Il’ja Il’ič che deve fare questo e quello: lavarsi appena alzato, eccetera.

Se Il’ja Il’ič ha voglia di qualche cosa, in un batter d’occhio ecco tre o quattro servi che si precipitano a soddisfare il suo desiderio; se lascia cadere una cosa, se non arriva a prenderne un’altra che gli serve, subito c’è qualcuno che gli porta la prima, che corre a cercare la seconda; a volte, come a tutti i ragazzi vivaci, gli piacerebbe molto correre e fare da sé, ma ecco che subito papà e mammà e le tre zie si mettono a gridare a cinque voci:

«Ma perché? Dove vai? E Vas’ka, e Van’ka e Zacharka che ci stanno a fare? Ehi, Vas’ka! Zacharka! Cosa fate lì a bocca aperta? Io vi...».

E Il’ja Il’ič non riesce mai a far niente da sé.

Più tardi scoprì che questo sistema era di gran lunga più comodo e imparò a gridare anche lui: «Ehi, Vas’ka! Van’ka! dammi questo, fammi quello! Non voglio questo, voglio quello! Spicciati, portamelo!».

Talora, anche la tenera sollecitudine dei genitori lo infastidisce.

Se si mette a correre giù per le scale o in cortile, è subito seguito da un coro di dieci voci disperate: «Ah, ah! Tenetelo! Fermatelo! Ora cade, si fa male!... Ferma, ferma!».

Se d’inverno gli salta in testa di uscire in anticamera o di aprire un finestrino, di nuovo grida: «Ma, dove vai? Non si può! Non correre, non ti muovere, non aprire! ti farai male, prenderai un raffreddore...».

E Iljuša se ne restava tutto triste in casa, curato come un fiore esotico nella serra; e come questo sotto vetro, anche lui cresce fiaccamente e stentatamente. Le forze che cercavano di manifestarsi, si ripiegavano dentro di lui, si afflosciavano e appassivano.

Ma a volte egli si sveglia così vispo, fresco, allegro: si sente dentro qualcosa che si muove, che ribolle, come un diavoletto che lo inciti ora ad arrampicarsi sul tetto, ora a saltare in groppa al roano e ad andarsene a galoppare per i prati dove stanno falciando il fieno, ora a mettersi a cavalcioni sulla stecconata, ora a stuzzicare i cani del villaggio; oppure d’un tratto gli viene voglia di mettersi a correre per il villaggio, e poi nei campi, per i fossati, o nel boschetto di betulle, e in tre salti arrivare nel fondo del burrone, o di unirsi agli altri ragazzetti e giocare a palle di neve con loro per misurare le proprie forze.

Il diavoletto lo incita sotto sotto: lui si fa forza, resiste per un po’, ma alla fine non ce la fa più e senza berretto, in pieno inverno, salta giù dal terrazzino in cortile, esce dal portone, tira su la neve con tutt’e due le mani e la lancia verso un gruppetto di ragazzini.

Il vento gelido gli sferza il viso, il freddo gli punge le orecchie, gli penetra in bocca, nella gola, e il petto gli si gonfia di gioia... e lui corre, e non si sa dove le gambe trovino tanta forza, e strilla e ride.

Eccoli, i ragazzini; lancia una palla di neve, ma non fa centro, gli manca l’allenamento; si china per raccogliere un’altra manciata, ed ecco che affonda nella neve con tutto il viso: è caduto. E sente male anche perché non è abituato, ma è allegro, e ride, ha gli occhi pieni di lacrime...

E a casa c’è il finimondo: non si trova più Iljuša! Grida, strepito. Zachar si precipita in cortile, seguito da Vas’ka, Mit’ka, Van’ka... tutti corrono qua e là, hanno perduto la testa.

Dietro di loro si avventano due cani, che quasi li azzannano ai talloni, dato che, come è noto, i cani non possono guardare con indifferenza un uomo che corre.

Gli uomini urlando e strillando, e i cani abbaiando, si precipitano nel villaggio.

Alla fine raggiungono i ragazzini, e vi cominciano a far giustizia: li prendono per i capelli, gli tirano gli orecchi, vola qualche scappellotto; volano anche severe minacce dei rispettivi padri.

Poi si impossessano del signorino, lo imbacuccano in un cappotto foderato di pelo portato apposta, poi nella pelliccia del padre, poi in due coperte, e infine lo riportano a casa in solenne corteo.

I genitori avevano già perduto la speranza di rivederlo vivo; perciò, quando glielo riconsegnano sano e salvo, la loro gioia è indescrivibile. Ringraziano il Signore Iddio, poi fanno bere al ragazzo un infuso di menta, poi uno di sambuco, alla sera un altro di lampone, e lo tengono tre giorni a letto, mentre solo una cosa gli farebbe bene: tornare a giocare a palle di neve...

X

Non appena il russare di Il’ja Il’ič arrivò all’orecchio di Zachar, questi saltò giù, con precauzione e senza far rumore, dal suo giaciglio sulla stufa, uscì in punta di piedi in anticamera, chiuse il padrone a chiave e scese giù al portone.

«Oh, Zachar Trofimyč, benvenuto! È un pezzo che non vi si vede!», dissero a più voci i cocchieri, i camerieri, le donne e i ragazzi che erano presso il portone.

«E lui, che fa? È uscito, per caso?», domandò il portiere.

«Ronfa», rispose tetro Zachar.

«Come mai?», chiese un cocchiere. «Mi pare un po’ presto, a quest’ora... è malato per caso?».

«Macché malato! Ha bevuto!», disse Zachar in tono tale che pareva veramente convinto di quello che diceva. «Ci credete? Si è scolato da solo una bottiglia e mezza di madera, due di kvas, e adesso, per forza è crollato».

«Eh!», fece con invidia il cocchiere.

«Come mai oggi ha bevuto tanto?», chiese una donna.

«No, Tat’jana Ivanovna», rispose Zachar lanciandole uno dei suoi sguardi di traverso, «non solo oggi: è diventato un rottame... viene nausea solo a parlarne!».

«Allora, come la mia padrona!», osservò la donna con un sospiro.

«Tat’jana Ivanovna, sapete se oggi la vostra padrona vuole andare da qualche parte?», chiese un cocchiere. «Dovrei fare un giretto nei paraggi».

«Dove volete che vada?», rispose Tat’jana. «Se ne sta rinchiusa a guardarsi negli occhi con il suo innamorato».

«Viene abbastanza spesso da voi, quello lì», disse il portiere. «E la notte mi scoccia, accidenti a lui! Tutti sono già usciti o rientrati, e lui è sempre l’ultimo; e in più sbraita perché l’entrata principale è chiusa... Eh sì, adesso per lui dovrei fare la guardia anche alla scala!».

«Che minchione, cari miei», disse Tat’jana. «Dove lo trovi uno uguale? E che regali le fa! Lei si mette in ghingheri, pare un pavone e si dà un mucchio di arie; ma se vedeste che sottane e che calze porta, fanno vergogna a guardarle! Sta due settimane senza lavarsi il collo, ma il viso se lo impiastra, e come... A volte, parola mia, diventi cattiva e pensi “Poveri disgraziata! Ma mettiti uno scialle in testa e vai a un monastero in pellegrinaggio...”».

Tutti si misero a ridere, tranne Zachar.

«Brava, Tat’jana Ivanovna, fa sempre centro!», approvarono molte voci.

«È così!», continuò Tat’jana. «Come fanno i signori a ritrovarcisi con una simile...».

«Dove state andando?», le chiese qualcuno. «Cos’avete in quel fagotto?».

«Porto alla sarta un vestito della mia elegantona: dice che le sta largo! Ma quando io e Dunjaša le dobbiamo tirare i lacci del busto, per due o tre giorni non posso fare più niente: ho le mani a pezzi! Be’, devo andare. Arrivederci».

«Arrivederci, arrivederci!», dicono alcuni.

«Arrivederci, Tat’jana Ivanovna», dice il cocchiere. «Fatevi vedere stasera».

«Non so; può darsi che venga, ma... per ora, arrivederci».

«Arrivederci», dissero tutti.

«Arrivederci... buona fortuna!», disse lei, andandosene.

«Arrivederci, Tat’jana Ivanovna!», le gridò dietro di nuovo il cocchiere.

«Arrivederci!», rispose di lontano la sua voce squillante.

Non appena se ne fu andata, Zachar sembrò attendere il suo turno per prendere la parola. Si sedette sulla colonnina di ghisa accanto al portone e cominciò a far dondolare le gambe seguendo con occhio cupo e distratto coloro che passavano a piedi o in vettura.

«Allora, come va oggi il vostro padrone, Zachar Trofimyč?», chiese il portiere.

«Benone, come sempre», disse Zachar, «intanto però, grazie a te e all’appartamento, sono nei guai. Va su tutte le furie, non vuole traslocare...».

«Ma che, è colpa mia?», disse il portiere. «Per me, potete restarci tutta la vita; sono forse io il padrone di casa? Mi ordinano così... se fossi il padrone, ma non sono il padrone...».

«Cosa fa, ti prende a male parole?», chiese un cocchiere.

«Me ne dice tante che Dio mi dà appena la forza di sopportarle».

«Be’, e allora? è un buon padrone, se ti prende solo a male parole!», disse un cameriere, aprendo adagio adagio con uno scricchiolio una tabacchiera rotonda; le mani di tutti i presenti, tranne quella di Zachar, si tesero a pizzicare tabacco. E lì a fiutare, a starnutire, a scaracchiare.

«Finché ti strapazza a parole, va bene», proseguì il cameriere. «Più lo fa, meglio è: almeno non te le dà, se si sfoga a parole. Ho avuto un padrone io... non sapevi ancora perché e già ti aveva acchiappato per i capelli».

Zachar attese con aria di disprezzo che quello finisse la sua tirata, poi continuò rivolto al cocchiere:

«Offendere un uomo senza ragione», disse, «non gli costa proprio niente!».

«È capriccioso, eh!», disse il portiere.

«Ih!», gracidò Zachar ammiccando in modo significativo. «Così capriccioso che è un vero guaio. E questo non va, e quell’altro non va, e non sai camminare, e non sei capace di servire, e rompi tutto, e non pulisci niente, e rubi, e mangi troppo... Puah! Che ti pigli un...! Oggi m’ha fatto una scena... una vergogna starlo a sentire! E perché? Era avanzata una crosta di formaggio della settimana passata - roba da vergognarsi a buttarlo a un cane - ma tu no, non devi azzardarti a mangiarlo. Me lo chiede. “Non c’è”, dico io, e allora attacca: “Bisognerebbe impiccarti”, dice, “farti cuocere nella pece”, dice, “farti a pezzi con le tenaglie roventi, ficcarti un palo di tremula nello stomaco”, dice. E via di questo passo!... Che ne pensate, fratelli? L’altro giorno, chissà come, gli ho scottato un piede con l’acqua bollente. Le urla che ha tirato fuori! Se non lo schivavo, mi mollava un pugno in pieno petto... Ci ha provato, eccome. Certo che me lo mollava!».

Il cocchiere scosse la testa, e il portiere disse: «È un padrone in gamba, il tuo: non ne lascia passare una!».

«Oh be’, finché ti strapazza a parole, è un buon padrone!», disse con flemma lo stesso cameriere. «è peggio quello che non parla: ti guarda, ti guarda, e poi a un tratto ti acchiappa per i capelli, e tu ancora non sai perché!».

«Sì, per nulla», disse Zachar senza prestare la minima attenzione alle parole del cameriere che lo aveva interrotto. «Il piede non è ancora guarito: continua a spalmarci su la pomata; e ben gli sta!».

«È un padrone di carattere!», disse il portiere.

«E Dio ne guardi», proseguì Zachar, «un giorno o l’altro ti ammazza, ti ammazza quanto è vero Dio! E per la minima stupidaggine non ci pensa su ad insultarti e a chiamarti calvo... ma non mi va di raccontarvi tutto. E oggi ne ha inventata una nuova: “velenoso”, dice! Sa menar bene la lingua!».

«E che è?», ribatté lo stesso cameriere. «Se sbraita solo, ringrazia Iddio, e pregalo che gli dia salute... Ma quando non parla, e tu gli passi vicino, e lui ti guarda, ti guarda, e poi ti acchiappa, come quello che avevo io... Se strilla, che importa...».

«Te lo meritavi», osservò Zachar indispettito dall’intervento non richiesto, «io ti farei di peggio».

«Ma come vi insulta chiamandovi “calvo”, Zachar Trofimyč?» chiese un servitorello di una quindicina d’anni. «Diavolo calvo, forse?».

Zachar girò lentamente la testa e gli posò addosso il suo sguardo torvo.

«Attento a te!», gli disse poi in tono aspro. «Per essere così giovane, fratello, sei molto sveglio! A me non importa che stai da un generale: ti prendo per il ciuffo! Stai al tuo posto!».

Il ragazzetto indietreggiò un paio di passi, si fermò e guardò Zachar con un sorriso.

«Cos’hai da ghignare?», gracchiò rabbioso Zachar. «Aspetta di capitarmi a tiro, e te le arrangio io le orecchie: così impari a ghignare!».

In quel momento uscì di corsa dal portone un cameriere grande e grosso con la livrea sbottonata, le cordelline e gli stivaletti. Si avvicinò al ragazzetto, gli diede prima un ceffone e poi lo chiamò idiota.

«Ma perché, Matvej Moseič, che ho fatto?», chiese il servitorello mortificato e confuso, tenendosi la guancia e sbattendo le palpebre.

«E hai anche la faccia di parlare?», rispose il cameriere. «Io corro dappertutto per cercarti, e tu sei qui!».

Lo afferrò con una mano per i capelli, gli piegò giù la testa e per tre volte, con metodo, lentezza e precisione, gli calò un pugno sul collo.

«Il padrone ha suonato cinque volte», aggiunse a mo’ di paternale, «e io mi prendo le strapazzate per colpa di questo pivello! Fila!».

E gli indicò la scala con gesto imperativo. Il ragazzo rimase un momento interdetto, sbatté le palpebre un paio di volte, diede un’occhiata al cameriere, e, visto che da lui non c’era da aspettarsi se non una replica di quanto già avuto, si scosse i capelli e infilò di corsa le scale.

Che trionfo per Zachar!

«Bene, benissimo, Matvej Moseič! Ancora, ancora!», sentenziò con perfida gioia. «Eh, poche gliene hai date! Ah, caro Matvej Moseič! Grazie! Fa troppo il furbo... Eccoti il “diavolo calvo”! Ghignerai ancora, un’altra volta?».

La servitù rideva, solidale con il cameriere che aveva picchiato il ragazzo e con Zachar, che se ne rallegrava malignamente. Nessuno compiangeva il servitorello.

«Ecco, proprio così, né più né meno, faceva il mio ex padrone», ricominciò a dire il cameriere che interrompeva sempre Zachar. «Pensi di svagarti un pochettino e lui subito, come se ti leggesse nel pensiero, ti passa vicino e ti acchiappa, come ha fatto Matvej Moseič con Andrjuška. Cosa vuoi che sia se ti insulta soltanto! Che te ne importa se ti chiama “diavolo calvo”!».

«Te ti acchiapperebbe per i capelli anche il suo padrone», gli disse il cocchiere indicando Zachar, «con quel po’ di stoppa che hai sulla testa! Ma con Zachar Trofimyč cosa acchiappa? Ha la testa come una zucca... Forse quelle due specie di barbe che ha agli zigomi: lì sì che ci sarebbe da fare!».

Tutti scoppiarono a ridere, ma a questa uscita del cocchiere, con il quale fino a quel momento aveva chiacchierato amichevolmente, Zachar si risentì.

«E io lo dico al mio padrone», gracchiò irritato contro il cocchiere, «troverà ben lui cosa acchiapparti; te la liscerà lui quella tua barba arruffata!».

«Bel padrone deve essere il tuo, se si mette a allisciare le barbe dei cocchieri degli altri! Pigliatevi prima un cocchiere vostro e poi stirategli la barba. E sparale meno grosse!».

«Non si piglierebbe certo un birbante come te per cocchiere», gracchiò Zachar. «Non sei nemmeno degno di essere attaccato come cavallo alla carrozza del mio padrone!».

«Sì, bel padrone!», disse velenoso il cocchiere. «Dove l’hai pescato?».

Tutti si misero a ridere: il cocchiere, il portiere, il barbiere, il cameriere e il difensore del sistema delle male parole.

«Ridete, ridete, e io lo dirò al padrone!», fece Zachar con la sua voce stridula.

«E tu», disse rivolto al portiere, «dovresti far tacere questi briganti, e non ridere. Perché stai qui? Per mantenere l’ordine. E invece cosa fai? Aspetta che lo dica al padrone, e avrai il fatto tuo!».

«Su, basta, basta, Zachar Trofimyč», disse il portiere cercando di calmarlo, «che cosa ti ha fatto?».

«Come si permette di parlare così del mio padrone?», si accalorò Zachar indicando il cocchiere. «Ma lo sa lui chi è il mio padrone?», chiese in tono di rispetto. «E tu», aggiunse rivolgendosi al cocchiere, «neanche in sogno hai mai visto un padrone così: buono, intelligente, bello! Il tuo, invece, sembra una rozza mal nutrita! Fa pena guardarvi quando uscite dalla corte con la giumenta bigia. Proprio dei pezzenti sembrate! E mangiate rafani col kvas. Guarda che pastrano hai indosso: non si possono nemmeno contare i buchi».

Da notare che il pastrano del cocchiere non aveva neanche un buco.

«Sicuro che un altro così non lo trovi», lo interruppe il cocchiere, e lesto lesto tirò fuori un pezzo di camicia che spuntava sotto l’ascella di Zachar.

«Basta, basta!», ripeté il portinaio, stendendo le braccia fra i due.

«Ah, mi strappi il vestito!», si mise a strillare Zachar tirando fuori ancor più la camicia. «Aspetta che lo mostri al padrone! Guardate, guardate cosa mi ha fatto: mi ha strappato il vestito!».

«E già, io!», disse il cocchiere un po’ spaventato. «Te le avrà suonate il tuo padrone...».

«Suonarmele un padrone simile?», disse Zachar. «È un’anima così buona, un cuore d’oro, lui, mica un padrone, che Dio gli dia la salute! Io in casa sua ci sto come in paradiso: non mi manca niente, non m’ha mai chiamato stupido; vivo bene e tranquillo, mangio i cibi della sua tavola, vado dove voglio... ecco!... E in campagna ho una casa tutta mia, un orto tutto mio, un tanto di grano tutto mio; i contadini si piegano fino a terra per salutarmi! Io sono amministratore e maggiordomo! E voi, con il vostro...».

Stava per annientare definitivamente il suo avversario, ma tanta era la sua rabbia che gli venne meno la voce. Si fermò un momento per raccogliere le forze e trovare una parola velenosa, ma a causa dell’eccesso di fiele che gli si era accumulato dentro non ci riuscì.

«Aspetta, aspetta che la pagherai cara per il vestito: ti insegneranno a strappare vestiti!...», disse alla fine.

Le critiche al suo padrone avevano punto sul vivo anche Zachar. Avevano scosso il suo amor proprio e la sua vanità; la sua devozione si ridestò e si manifestò in tutta la sua forza. Egli era pronto a riversare il veleno del suo fiele non solo sull’avversario, ma sul padrone di lui e su tutto il suo parentado (che non sapeva nemmeno se esistesse o meno) e persino sui conoscenti. Così, con precisione sorprendente, ripeté tutte le calunnie e le maldicenze sul conto dei padroni del cocchiere che aveva appreso da quest’ultimo nel corso di conversazioni precedenti.

«Tu e il tuo padrone siete dei maledetti pezzenti, degli ebrei, peggio dei tedeschi!», disse. «Io lo so chi era suo nonno: il commesso di un robivecchi. Ieri sera, quando sono usciti degli ospiti da casa vostra, ho pensato che nel palazzo si fossero riuniti dei malviventi: faceva pena vederli! Anche la madre trafficava in roba usata: vestiti rubati e stracci».

«Finitela, finitela!...», s’intrometteva il portiere.

«No!», disse Zachar. «Io, grazie a Dio, ho un padrone di vecchia nobiltà; i suoi amici sono generali, conti, e anche principi. E non tutti i conti sono ammessi in casa sua; certi devono fare una lunga anticamera... E vengono anche degli scrittori».

«E che roba sono gli scrittori?», chiese il portiere, sperando di interrompere l’alterco. «Degli impiegati?».

«No, sono signori che inventano da soli quello che gli serve», spiegò Zachar.

«E da voi cosa fanno?», chiese il portiere.

«Cosa fanno? Uno chiede la pipa, un altro dello Xeres...», cominciò a dire Zachar, ma si fermò perché si accorse che quasi tutti lo ascoltavano con un sorriso ironico.

«E voi siete dei villanzoni, nessuno escluso!», disse in fretta, volgendo a tutti la sua occhiata di traverso. «E tu imparerai a strappare i vestiti degli altri! Vado a dirlo al padrone!», aggiunse, e si affrettò verso casa.

«Falla finita! Aspetta, aspetta!», gridò il portiere. «Zachar Trofimyč! Andiamo a farci una birra, su, andiamo...».

Zachar si fermò sulla soglia, fece rapidamente dietrofront e, senza guardare il gruppo di servi, attraversò ancor più rapidamente la strada. Senza voltarsi indietro, arrivò alla porta della birreria dirimpetto; qui si girò, gettò un’occhiataccia a tutta la compagnia e, con espressione più tetra che mai, fece cenno con la mano che lo seguissero, poi scomparve nell’interno.

La riunione si sciolse; chi andò in birreria, chi a casa; rimase solo il cameriere.

«Bah, che importa se lo dice al padrone?», disse fra sé con flemma, soprapprensiero, mentre apriva lentamente la tabacchiera. «Il suo padrone è buono, lo si capisce da tutto, è di quelli che ti prendono solo a male parole! Sai che ti fanno le parole! Ma altri ti guardano, ti guardano e poi, tac, ti acciuffano per i capelli...».


XI

Poco dopo le quattro, Zachar aprì la porta d’ingresso con circospezione, senza far rumore, e in punta di piedi s’infilò in camera sua; di là andò alla porta dello studio del padrone e per prima cosa vi incollò l’orecchio, poi si accovacciò e appiccicò l’occhio al buco della serratura.

Dallo studio veniva un ritmico russare.

«Dorme», mormorò. «Mi tocca svegliarlo, sono quasi le quattro e mezza».

Tossicchiò ed entrò nello studio.

«Il’ja Il’ič! O, Il’ja Il’ič!», cominciò sottovoce, in piedi vicino al capezzale.

Il’ja Il’ič continuava a russare.

«Macché!», disse Zachar. «Dorme come un ghiro. Il’ja Il’ič!».

Gli diede una toccatina sulla manica.

«Alzatevi. Sono le quattro e mezza».

Per tutta risposta, Il’ja Il’ič emise una specie di mugolio, ma non si svegliò.

«Alzatevi, insomma, Il’ja Il’ič! è una vergogna!», disse Zachar alzando la voce.

Nessuna risposta.

«Il’ja Il’ič!», insisté Zachar, dando una tiratina alla manica del padrone.

Oblomov girò appena la testa e a fatica aprì su Zachar un occhio, che pareva proprio quello di chi sia stato colpito da paralisi facciale.

«Chi è?», chiese con voce roca.

«Sono io. Alzatevi».

«Va’ via!», farfugliò Il’ja Il’ič e ripiombò in un sonno profondo. Ora invece di russare emetteva un fischio col naso. Zachar lo tirò per la falda.

«Che vuoi?», domandò minaccioso Oblomov, aprendo tutti e due gli occhi.

«Mi avete ordinato di svegliarvi».

«Sì, lo so. Hai fatto il tuo dovere e adesso va via! Il resto riguarda me...».

«Non me ne vado», disse Zachar, tirandogli di nuovo la manica.

«No, non mi toccare!», lo pregò mitemente Il’ja Il’ič e, affondata la testa nel guanciale, riprese a russare.

«Ma non si può, Il’ja Il’ič!», disse Zachar. «Per me andrebbe benissimo, ma non si può!».

E continuò a scuotere il padrone.

«Fammi il piacere di non disturbarmi», tentò di persuaderlo Oblomov aprendo gli occhi.

«Già, ma se vi faccio il piacere, poi ve la prendete con me perché non vi ho svegliato...».

«Ah, Dio mio! Che razza d’individuo!», disse Oblomov. «Dài, lasciami dormire ancora un minutino; cosa vuoi che sia un minuto? Lo so da me che...».

Il’ja Il’ič s’interruppe e piombò di botto nel sonno.

«Va’ là che sai ronfare bene!» disse Zachar, convinto che il padrone non lo udisse. «Ma guardalo, dorme come un ciocco! Che ci sei venuto a fare al mondo? Insomma, alzati quando ti si chiama!», urlò quasi Zachar.

«Cosa, cosa?», prese a dire minaccioso Oblomov sollevando la testa.

«Dico, perché, signore, non vi alzate?», rispose dolcemente Zachar.

«No, cos’hai detto poco fa... eh? Come osi... eh?».

«Cosa?».

«Parlare da villano».

«Dovete averlo sognato... Vi giuro, dovete averlo sognato...».

«Tu credi che io dorma? Io non dormo, io sento tutto...».

Ma si era già riaddormentato.

«Oh be’», attaccò disperato Zachar. «Povero me! Ma perché continui a dormire come un sasso? Fa pena guardarti! Guardatelo, brava gente!... Puah!».

«Alzatevi, alzatevi!» riprese a un tratto con voce spaventata. «Il’ja Il’ič! Guardate un po’ cosa succede intorno a voi...».

Oblomov alzò di scatto la testa, si guardò in giro e poi si ributtò giù con un profondo sospiro.

«Lasciami in pace!», disse, solenne. «Ti ho dato l’ordine di svegliarmi, e adesso lo ritiro... mi hai sentito o no? Mi sveglierò da solo, quando ne avrò voglia».

A volte Zachar lo lasciava perdere, dicendo: «E allora ronfa, e va’ all’inferno!», ma altre volte teneva duro, e questa volta tenne duro.

«Alzatevi, alzatevi!», si mise a urlare con quanto fiato aveva in corpo, afferrando con ambo le mani Oblomov per la falda e per la manica. D’improvviso Oblomov saltò in piedi e si scagliò su Zachar.

«Aspetta che t’insegno io a importunare il padrone quando vuol fare un sonnellino!» disse.

Zachar se la diede a gambe, ma Oblomov, fatti tre passi, si svegliò del tutto e cominciò a stiracchiarsi e a sbadigliare.

«Dammi... il kvas...», disse fra uno sbadiglio e l’altro.

In quel momento alle spalle di Zachar qualcuno scoppiò in una sonora risata. Tutti e due si voltarono.

«Stolz! Stolz!», gridò estasiato Oblomov, correndo incontro al nuovo venuto.

«Andrej Ivanyč!», esclamò con un gran sorriso Zachar.

Stolz continuava a sbellicarsi dalle risa: aveva assistito alla scena fin dall’inizio.