venerdì 6 maggio 2022

TUTTO IL FERRO DELLA TORRE EIFFEL Michele Mari

 


TUTTO IL FERRO DELLA TORRE EIFFEL 

Michele Mari

Commento

«Benjamin si ricordò che un mese prima il suo amico Scholem gli aveva detto di aver letto un romanzo appena pubblicato a Vienna intitolato Auto da fé. Ora, stando a Scholem, uno dei personaggi più straordinari di quel libro era un nano megalomane e millantatore di nome Fischerle: un nano che proprio al culmine della sua ascesa veniva strozzato e mutilato della gobba con un coltellaccio.

– Questi insetti bisognerebbe dargli una lezione!

– Vi dice niente il nome Fischerle?

– Mai sentito. Sarebbe?

– Il personaggio di un libro.

– Vi sembro uno che ha tempo per leggere libri, io?

– Eppure mi state vendendo segni d’interpunzione e pezzi di titolo, e quello scarafaggio l’avete chiamato Gregor…

– Che c’entra? Gli affari sono affari, bisogna pure arrangiarsi, no?»


Un gioco di specchi dove si mischia realtà e finzione in un romanzo che parla d’arte e letteratura... sono attratto, invidioso di tanta erudizione...mi sento un poveretto, che pure letto molto degli autori qui "raccontati" ,ma  che non si sente capace di fare questo gioco tra il surreale e l'esoterico in un percorso labirintico che vorrei non finisse mai.

TUTTO IL FERRO DELLA TORRE EIFFEL 

Combray non si chiama Combray ma Illiers: oggi però i cartelli stradali e le guide lo designano per Illiers-Combray. Quivi, un museo intitolato a Marcel Proust: otto sale di prime edizioni, fotografie, calamai, flaconi di pastiglie per l’asma, giacche da camera, fazzoletti cifrati, canne da passeggio, ricco materiale tuttavia svalutato dalla sua stessa collocazione, che distendendosi dalla seconda all’ultima sala lo fa successivo all’unico oggetto presente nella prima sala, in una teca di plexiglas cm 35 x 20 x 25: la madeleine.

Nei primi anni del museo la madeleine era di autentica frolla: ad essa provvedeva il custode, che ogni lunedí mattina apriva la teca, rimuoveva il biscotto e lo sostituiva con uno fresco. Cosa poi il custode facesse del vecchio non è dato sapere: è verosimile lo mangiasse, non per questo deducendone alla crassità dei suoi lobi illuminazioni mnemoniche. La sostituzione settimanale della madeleine era dovuta alla sua impossibilità di indurirsi seccando: anzi come porosa e burrosa l’instabile pasta tendeva a disgregarsi perdendo dopo una dozzina di giorni uno spolviglio di forfora rancia, cui si aggiungevano piú cospicui frammenti se qualcuno urtasse la teca. Il direttore del museo aveva chiesto al pasticcere di mettere piú burro nell’impasto, ma l’esito non era stato buono: concotto dal calore degli interni faretti, quel sovrappiú di manteca allargava ben presto nella superficie spugnosa della madeleine fiori brunastri che le davano un incongruo aspetto leopardato: quando non evocassero la sofferenza della foglia di vite arrugginita dalla peronòspora. A non dir delle camole e dei piccoli vermi che, a dispetto di ogni ermetismo, nascevano sponte nella pasta rafferma: uscendone poi per darsi all’avventurosa esplorazione del loro tabernacolomondo, come a irridere ancora, i putrigeniti, alle positive dimostrazioni di Spallanzani e Pasteur.

Cosí il custode sostituiva, e continuò a sostituire fino al giorno in cui andò in pensione. Quello stesso giorno il direttore si trovò ad affrontare un problema sindacale. Il nuovo custode fece notare che il proprio mansionario non prevedeva quella speciale corvée, e che se proprio si doveva, gli fosse pagata a parte. Uomo puntiglioso, il direttore non volle sottostare: onde, dopo aver lasciato invecchiare quell’ultima madeleine ben oltre i limiti tollerabili, elaborò la soluzione che vige tuttora. Fu cosí che, commissionata a un laboratorio di giocattoli di Rouen, venne acquisita al museo una madeleine di plastica: un’imitazione perfetta, non fosse per il segno della saldatura fra le due valve della conchiglia-biscotto: secondo infallibile legge del pvc.

Tu la vedi, questa cosa, e ridi: ma è un pianto; e dici: se la letteratura genera questo, è questo, la letteratura. Ed è la vendetta del mondo, perché la letteratura che non si difenda dal mondo cos’è, se non mondo? E il mondo è qui polimero fuso: ma fuso a forma di letteratura, cosí, volessimo uscire, sappiamo che non si può, nemmeno ogni tanto.

… e però, invece, ha virtú letteraria, la cosa: perché guardandola io ricordo, sí, ricordo una vita e non mia; vedo la faccia drammatica di un uomo che cammina nei passages di Parigi; un uomo che si chiama Walter Benjamin.

Walter Benjamin alza lo sguardo alla volta di ferro e di vetro del passage des Princes, e ancora una volta s’incanta. Quella strada coperta che per il suo lucore larvale gli ha sempre ricordato un acquario è insieme un esterno e un interno, un limbo fra la strada e la casa: e un mentito scintillio di vetrine in assenza di luce; una mostra di merci nella mostra dell’onta (abitano lí sopra, i negozianti, i cui bambini e i cui vecchi occhieggiano dalle lunule che sormontano le vetrine); un riparo dalla violenza della città, e l’intuizione piú intima di cosa sia, la città, come vederla in sezione, come vederla sognare… E in quel sognante corridoio dove si vorrebbe sedere come in una camera, e in quella camera in cui vorrebbe andare avanti e indietro come in un corridoio, Walter Benjamin, il sognatore, si sente invadere da una pregnanza che lo giustifica com’è giustificato il pesce dall’acqua. Su tutto l’incanta la volta, quel ferro sospeso in funzionale economia di tensioni, moderno! molto moderno, la stessa architettura delle gares… troppo moderno forse, e però temperato d’antico dal liberty vegetante, dalle scanalature Impero dei colonnini… antico e moderno allora, un ircocervo datato Ottocento in proiezione màntica e speculato dal Nove, ch’è il fascino speciale di Verne…

Esce dal passage des Princes, e rimanendo a Montmartre visita uno dopo l’altro il passage Verdeau, il passage Jouffroy, il passage Panoramas, poi si sposta verso i passages piú proletarî del boulevard Sébastopol e di rue Saint-Denis: qui s’infila per l’ennesima volta nel Trinité, nel Basfour, nel Ponceau, nel Caire, nell’Aboukir, dove sosta a lungo per assorbire compiutamente la fourieriana sordidezza di quegli intestini. E proprio a metà del passage d’Aboukir s’immobilizza estatico, fermo come un cristallo di purissima intelligenza: posa in cui si offre allo sguardo di un venditore di crostacei.

– Vedi quella statua? – dice il venditore a suo figlio sminestrando in un catino di crevettes. – Ha appena scritto un libro sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Tu riproducila un po’, l’opera, e ciao aura!

Devoto della democrazia e della dialettica, Walter Benjamin si era imposto di giudicare magnanimamente la dissacrazione subita dall’opera d’arte a partire dalla fine del secolo xix. In realtà la sua malinconia non aveva mai accettato la perdita d’aura inflitta dalla riproduzione industriale, ed era proprio questo che egli andava cercando in giro per Parigi: l’aura. Inseguita come un feticcio, l’aura gli si palesava nel quadro intravisto in un’anticamera, in una vecchia pompa idraulica, nel fermacapelli di una passante, nella baguette dipinta a mano sulla fiancata di un furgoncino:

: gli si palesava con uno scintillio, e scompariva. L’aura! L’aura dell’aura! Il brivido del sentore dell’alone dell’aura!

Questo pettirosso smaltato a mano su un bottone è un pettirosso irripetibile, pur essendo del 1908 è piú antico di una stampa di Épinal del 1775, pettirosso aurato, segnato… Cosí Benjamin deve acquistare il bottone, e mentre lo accarezza, nella sua tasca, ha una visione. Immagina perversamente di aggredire quello smalto con un coltellino di Solingen ricavandone un mucchietto di scaglie, che macinate con un sasso si trasformano poi in una polverina sottile: sulla quale, nella stanza della sua pensione di rue Caumartin, egli si vede versare alcune lacrime, amalgamando: «Pasta di commozione estetica Benjamin, – dice. – L’arte per tutti in pratici boli! Solo sei franchi la confezione!», oh se l’orrenda bestemmia lo diverte! A dispetto di Gutenberg e delle progressive sorti del mondo alienato, tipografia e nazismo il passo era breve, le punte dell’ancora di Manuzio come uncini di svastica, fotografia e nazismo il passo ancora piú breve, la responsabilità di Daguerre, di quei loschi Lumière… Su quella pasta, finalmente, avrebbe diffuso una presa di granelli amaranto, come un pizzico di zafferano: e sono, questi granelli, la tritatura degli stami e dei pistilli di alcuni fiori che crescono in un vaso sul davanzale della sua finestra, fiori che una settimana prima qualcuno gli ha effettivamente venduto come i discendenti di certi fiori famosi.

– Rue des Saints-Pères 8: vedete? È qui che viveva il signor Baudelaire quando ha scritto quel libro, che anno sarà stato? Boh! Sta di fatto che quando fu ricoverato la sua roba rimase qua, finché, dopo la sua morte, vennero dei signori a portar via tutto: tutto, tranne questo vaso, cosa doveva fare la portinaia, lasciarlo lí? Cosí lo prese, e dopo di lei lo prese sua figlia, che sarebbe poi mia madre, tutte portinaie noi, portinaie fin dalla notte dei tempi… Oh basta: è lo stesso vaso, capite cosa vuol dire? Sono gli stessi fiori! Oddio, i fiori no, quelli cambiano, neh, ma la piantina è la stessa, la radice dico, butta e ributta siam sempre daccapo… Cosí, se a voi interessano, ’sti fiori, vi posso fare un prezzo speciale…

Sembravano stelle alpine un po’ mosce, azzurrine e venate di ruggine, esattamente come egli si era sempre immaginato gli asfodeli: cosí li comprò. Uscendo in strada con il vaso in mano si imbatté in un lustrascarpe.

– Non ditemi che è riuscita a venderveli!

– Me li ha venduti, perché?

– La megera! Sentite a me piuttosto, visto che vi interessa il genere: questo è un affare –. Cosí dicendo il lustrascarpe aveva estratto dalla sua cassettina un flacone trasparente pieno di un liquido grigiastro. – Non lo agiti troppo, – aggiunse porgendoglielo.

Benjamin lo esaminò controluce: il liquido, in cui rimanevano sospese alcune particole come di fuliggine, impose alla sua mente la sensazione di un pomeriggio piovoso di marzo.

– Sarebbe? – chiese.

– Roba di qualità: controllate.

Il lustrascarpe gli stava allungando un cartiglio arrotolato in cui verosimilmente il flacone doveva essere stato avvolto. Sul lato esterno, a guisa di etichetta, era scritto a mano: «Spleen di Parigi». 100 franchi tuttavia erano troppi. Cosí, dopo lungo mercanteggiamento, Benjamin ottenne per 20 franchi che il lustrascarpe gli spruzzasse un po’ di spleen sui suoi fiori del male.

– Un po’ anche sulla terra, per favore.

– Eh, eh, qui si esagera, signore.

– Solo poche gocce, vi prego.

Alla fine anche la terra fu leggermente inumidita, e Benjamin, felice come un bambino, tornò alla sua pensioncina carico di scaturigine poetica. Nondimeno, non sarebbe mai stato Baudelaire, e questo era triste. Camminando nell’immensità di uno dei tanti boulevards di Haussmann, un altro nazista, vide una piuma nera cadere lenta dal cielo, e gli piacque pensare che fosse di un corvo. Vide una donna, e la pensò come una Gorgone; ne vide un’altra, e la seppe vampiro. E vide gatti, e gatti, e gatti, e sentendosi un visitato recitò a bassa voce:

Leurs reins féconds sont pleins d’étincelles magiques,

et des parcelles d’or, ainsi qu’un sable fin,

étoilent vaguement leurs prunelles mystiques.

In quelle pupille, diceva un’altra e piú famosa poesia, l’agata si mescolava al metallo. Il metallo! L’ancora di Manuzio, i cannoni nazisti, i proiettili delle pistole, ma lí a Parigi il metallo era il ferro putrellato-bullonato della Gare du Nord e della torre Eiffel, quello della volta delle Halles lo era e quello della Gare d’Orsay, era quella la sua forma struggente, la stessa che gli assegnavano le illustrazioni del Nautilus nelle edizioni Hetzel, struttura di ferro bruno, tubi di rame inverdito, arredi di lucido ottone, aggiungendoci la luce del cielo dall’alto invetriato si avrà il passage, ma perché tutto quel ferro sprigionava un’aura non inferiore a quella di una pala d’altare del xiv secolo? Cosa c’era di magico, in quella sintassi industriale? Non capiva come, ma era evidente che anche l’opera prodotta in serie, soprattutto quando le sue ragioni tecniche prevalevano sull’ambizione estetica, era generatrice di aura, un’aura ritardata forse, un’aura indotta, ma proprio per questo ancora piú inquietante… Anzi, non molto tempo prima aveva letto il romanzo d’esordio di un medico francese, che con il piglio di un indemoniato raccontava di una visita alle officine Ford di Detroit: uomini-merce, sí, l’orrore dell’alienazione ma anche qualcosa di arcaico, una specie di danza, qualcosa di magico doveva averci trovato per parlarne cosí, come solo può chi sa guardare al presente come fosse già passato… Ora, passando davanti alla libreria Malassis, Benjamin vide esposto in vetrina un altro libro dello stesso autore. Si intitolava Morte a credito, e costava 25 franchi. «Troppi» pensò, poi vide che uno dei due editori si chiamava Steele, quasi come dire acciaio. Non sapeva che l’americano Bernard Steele era poco piú che una ragione sociale e che l’editore vero era l’altro, il belga Robert Denoël: cosí entrò nella libreria.

Walter Benjamin doveva continuare il suo saggio su Baudelaire; e quello su Kafka; e quello su Brecht; e soprattutto quello sui passages: invece da tre giorni non faceva altro che leggere Morte a credito sdraiato sulla sua branda. Rapito, sconvolto, riga dopo riga aveva la certezza di leggere il libro piú bello che fosse mai stato scritto. Sembrava che quello scrittore conoscesse un solo segno d’interpunzione: i tre puntini, ma quale ricchezza e varietà di effetti sapeva ritrarne! Giunto a pagina 68 trasalí: l’autore descriveva con orrore ed amore il luogo in cui era cresciuto, un luogo che si chiamava passage des Bérésinas: com’era potuto sfuggirgli? Un passage cosí lungo, stando al racconto, con non meno di cinquanta botteghe, lungo e alto, con una volta vetrata da cui anche nelle giornate piú belle pioveva una luce grigia malata, e dove tutto l’anno ristagnava un odore di cavoli stufati, passage des Bérésinas! dove la madre dello scrittore aveva un bugigattolo pieno fino all’inverosimile di biancheria da rammendare e di pizzi da restaurare, passage des Bérésinas l’acquario-oloturia, una specie di rutto sospeso nel corpo del palazzo, decorata ferita che lo trapassava da parte a parte, lí il piccolo Louis-Ferdinand aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza, forse i suoi puntini erano i bulloni di quella struttura di ferro, doveva andarci, subito! Guardò in una cartina di Parigi ma quel nome non era indicato; allora riaprí il romanzo, e trovò che quel passage partiva da rue Choiseul, una traversa di rue du Quatre Septembre a metà strada fra la Borsa e l’Opéra: e lí immediatamente si avviò.

Parigi gli sembrò orrenda quel giorno, e ancora una volta dal suo cervello partirono efferate maledizioni alla memoria di Georges-Eugène Haussmann, barone e prefetto. Accelerò il passo verso la sua meta con l’idea assurda che una volta là dentro avrebbe dormito, spogliandosi di tutte le proprie angosce.

Arrivato in rue Choiseul impiegò molto tempo a trovare quel che cercava, un po’ perché il passage des Bérésinas si chiamava in realtà, piú semplicemente, passage Choiseul, e un po’ perché per entrarci bisognava varcare un portone semichiuso che non si distingueva in nulla da tutti gli altri portoni. Entrato, ebbe l’impressione di essere nel passage piú serio di tutta la città: serio perché geloso del proprio essere passage, orgoglioso di esserlo e insieme affranto da quel peso. Lo percorse tutto, poi tornò indietro, due volte, tre volte. La quarta volta si fermò a metà lunghezza e interrogò un cinese che friggeva blocchi di merluzzo in un olio marrone.

– Scusatemi, sapreste dirmi in quale casa viveva un signore di nome Céline… cioè no, Destouches, Louis-Ferdinand Destouches, lo conoscete? Abitava qui, un tempo…

– Se io conosco? Tutti conoscono lui! Diceva… – qui il suo sorriso scintillò, – … diceva che in pochi anni musi gialli lubale Flancia ai flancesi, che plesto Paligi identica a Shanghai, ih ih… Numelo 67, andate, andate…

Benjamin si congedò e cercò il numero 67. Quando vi fu davanti, vide che la bottega era adesso occupata da una rivendita delle merci piú disparate: soia, canfora, stringhe, riso, lenticchie, candele. Tra due draghi rossi, l’insegna diceva: «Emporio Li-Pon». Si voltò verso il friggitore.

– Mio cugino, Li-Pon. Blav’uomo, Li-Pon. Semple buoni, cugini, ih ih.

– Zitto tu, mangiaverza! – la voce era giunta dall’alto. – Signore, ehi signore, sono quassú.

Alzò lo sguardo alla volta senza vedere nessuno.

– Qua, sono qua!

Un uomo si sporgeva da una lunula del secondo ordine, tanto poco piú alto del primo che a fatica si poteva credere vi corrispondessero due livelli di appartamenti.

– Salite, ho qualcosa da farvi vedere. Prendete dal 69, secondo uscio a sinistra.

Raggiunto l’uomo nel suo angusto e oscuro abitacolo, Benjamin si accorse che si trattava di un nano.

– Un nano, sí! e allora? – disse quello senza che il filosofo avesse parlato. – Un nano che può farvi felice. Guardate.

Gli stava porgendo un piccolo scatolino di latta, di quelli che gli entomologi adoperano per trasportare gli insetti.

– Guardate, sú. Non abbiate paura del prezzo, ci metteremo d’accordo.

Aprí lo scatolino. Dentro, adagiate sopra un letto di bambagia, c’erano tre minuscole sfere nere, ognuna non piú grande di un pallino da caccia. Interrogò il nano con lo sguardo.

– Non li riconoscete? «Faceva pena come una vecchia sottana stesa ad asciugare… Se n’accorgevan perfino i piú luridi topi campagnoli… Tutti si sbellicavano vedendolo oscillare fra i tetti… Io ridevo un po’ di meno!… Presagivo l’orrendo squarcio, quello

decisivo! Funesto! La fregatura finale…»

– Non ditemi che…

– Ma certo che sono loro! I tre puntini! La piú grande invenzione del secolo! Per quel che riguarda la letteratura s’intende, ci si vuol mica allargare! Allora, che mi dite? Eh? Se l’affare interessa, siam qui per chiuderlo! Alla faccia dei cinesi! Oh, dico: mica tre puntini di uno qualsiasi, i suoi! e gli originali, mica una copia!

– Io non so se…

– Esitate? Vi vedo esitante! Che io abbia sbagliato persona? Siete o non siete l’ebreo? Mi sono informato su di voi, credete di avere ancora molto tempo per i vostri affari? Casomai ve lo foste dimenticato vi ricordo che siamo nel 1936, fate un po’ i conti da voi…

Impietrito, con la scatola in mano, Benjamin fissava i tre puntini.

– È il prezzo che vi spaventa? Ma se non ne abbiamo ancora parlato! 90 franchi, che ne dite? 30 franchi a puntino mi sembra equo… Oh sentite, sto perdendo la pazienza! Vi farò… vi farò un’altra offerta, ecco!

Dicendo queste parole porse al suo ospite un’altra scatolina simile alla prima. Aperta, rivelò tre pfennig incollati su un cartoncino.

– State scrivendo un saggio su quel Bertolt Brecht, no? caro il mio berlinese! Ecco allora, meglio del cacio sui maccaroni! Direttamente da Mahagonny, per voi, quei famosi tre soldi! Farebbero 30 franchi, ma se prendete le due serie insieme datemi… cià, datemene 100 e son contento!

Uno scarafaggio attraversò velocemente la stanza.

– Oh Gregor! – esclamò il nano, che si curvò per prenderlo: ma già quello si era infilato in una fessura fra le piastrelle del muro. Chinandosi, il nano rivelò una schiena gibbosa, che sulla camicia a scacchi stampava un reticolato di rilievi che avevano l’aria di essere croste o cicatrici. – Sú Gregor, fatti prendere!

Benjamin si ricordò che un mese prima il suo amico Scholem gli aveva detto di aver letto un romanzo appena pubblicato a Vienna intitolato Auto da fé. Ora, stando a Scholem, uno dei personaggi piú straordinarî di quel libro era un nano megalomane e millantatore di nome Fischerle: un nano che proprio al culmine della sua ascesa veniva strozzato e mutilato della gobba con un coltellaccio.

– Questi insetti bisognerebbe dargli una lezione!

– Vi dice niente il nome Fischerle?

– Mai sentito. Sarebbe?

– Il personaggio di un libro.

– Vi sembro uno che ha tempo per leggere i libri, io?

– Eppure mi state vendendo segni d’interpunzione e pezzi di titolo, e quello scarafaggio l’avete chiamato Gregor…

– Che c’entra? Gli affari sono affari, bisogna pure arrangiarsi, no?

– Conoscete la canzone dell’omino gobbo?

Voglio andare giú in cantina

per spillare il mio vinello,

ma c’è lí l’omino gobbo

che mi porta via il bricchetto.

Voglio andar di là in cucina

a scaldar la minestrina,

ma c’è lí l’omino gobbo

che mi rompe il pentolino…

È tutta la vita che mi accompagna, tutta la vita. «Prega anche per l’omino» mi diceva mia madre, ma perché avrei dovuto, se l’omino mi faceva solo dispetti? Sapete, quando uno è guardato dall’omino non riesce piú a concentrarsi, rovina tutto quello che fa, e se deve decidere fra due cose, sceglie immancabilmente quella sbagliata.

– Allora mentre decidete io non vi gua… Oh rieccolo! Gregor! Greeegooor! Fermati! Il signore vorrebbe darti un’occhiata.

– Non credo che lo scarafaggio mi interessi.

– No? Eppure i libri di Franceschino vi piacciono, almeno cosí mi han detto. Del resto, ebreo con ebreo, va da sé… Sentite, non è che ramo Kafka ci sia molto da scialare eh? Anche perché c’è un vostro connazionale che sta rastrellando tutto il rastrellabile, un berlinese come voi che adesso abita a Marburg, un certo Auerbach… Questo spiega perché al momento non posso farvi vedere nulla, ma se mi date qualche giorno e la sua giusta caparra vi posso procurare un pezzo di quelli, ma un pezzo… beh, faccio prima a recitarvi la pagina, ascoltate: «Sulle prime ha l’aspetto d’un rocchetto di spago piatto a forma di stella, e infatti sembra anche che sia rivestito di spago; certo devono essere soltanto pezzi di spago strappati, vecchi, annodati insieme, o anche pezzi di spago di colore e specie diversissimi messi insieme. Non è poi soltanto un rocchetto, ma dal centro della stella sporge un bastoncino di traverso e a questo bastoncino se ne unisce ad angolo retto un altro. Con l’aiuto di questo ultimo bastoncino da una parte e di una delle irradiazioni della stella dall’altra l’insieme può camminare diritto come sopra due gambe…»

– Odradek!

– Sapevo di parlare all’uomo giusto. Tuttavia ho l’obbligo di avvertirvi di essere già in trattative con il signor Auerbach, un pagatore inappuntabile: e però è anche vero che se noi ora concludessimo per quei 100 franchi la vostra caparra potrebbe diventare, come dire, potrebbe diventare decisiva…

– Io… 100, sí… piú altri 20, è tutto quello che ho… anche se non so se dovrei… Sapete che l’omino mi ruba tutto? Deve venire la notte perché al mattino mi manca sempre qualcosa… come il folletto di Torquato Tasso…

Vergognandosi della propria debolezza pagò, e senza piú guardare il nano negli occhi ricevette dalle sue mani le due scatole. Una volta sceso nel passage si avviò rapidamente verso l’uscita settentrionale.

– Colli colli signole, semple Elich Auelbach alliva plima di te.

Si girò verso la friggitoria ma non vide nessuno. L’intero passage, anzi, era deserto.

Nel suo vasto e luminoso studio al quarto piano di un elegante palazzo della Bismarckstrasse di Marburg, l’illustre filologo romanzo Erich Auerbach ordinava i materiali per la sua poderosa summa della grande tradizione del realismo occidentale. Ancora non aveva stabilito le linee e gli snodi del disegno, anzi aveva le idee piuttosto confuse su quasi tutto: nondimeno due punti importanti erano ben fermi nella sua mente operosa, e cioè che sarebbe partito da una cicatrice e avrebbe terminato con un calzerotto. Tutto era incominciato a Berlino nel 1929, pochi mesi prima di subentrare a Leo Spitzer sulla cattedra di Marburg. Bibliotecario della Staatsbibliothek, quel giorno Auerbach ricevette il libro che avrebbe cambiato la sua vita. Si trattava di un volume, del formato di un atlante, intitolato Storia illustrata della pasta. Affascinato dalla bellezza delle riproduzioni, Auerbach incominciò a guardarle una per una con sistematicità teutonica: da anolino a zita quante forme, e quante destinazioni specifiche, e soprattutto quanti nomi! Tantopiú che uno stesso tipo di pasta era chiamato in un modo diverso in ogni regione: trenetta in Liguria, linguina in Campania, bavetta nel Molise e nelle Puglie… A poco a poco gli si insinuò cosí nella mente l’idea che la parola «pasta» corrispondesse a una menzogna platonica, e che la realtà fosse solo lí, nelle particolarità e negli individui, e nel necessitato, espressivo rapporto fra le cose ed i nomi. Su tutte lo attirò la figura 233. Già alcuni fusilli e la cosiddetta cresta di gallo gli avevano ricordato la forma di una cicatrice, ma ora quello strano gnocco allungato e rugoso denominato tròffolo era una cicatrice: anche un lombrico, in verità, ma soprattutto una cicatrice. Come quella, pensò, che aveva Odisseo su una coscia, e che permise all’eroe di essere riconosciuto dalla sua vecchia nutrice… il segno particolare, quello per cui Nessuno è qualcuno, il dettaglio romanzesco cui tutto s’apprende… Aveva incominciato a lavare lo straniero dai piedi la vecchia, ed Auerbach guardò i proprî, di piedi, chiusi nelle scarpe nere e nelle calze marroni… quelle calze gli ricordavano qualcosa, qualcosa che aveva a che fare con un altro libro, con un altro mare… con un altro viaggio… ma certo! quello stupido calzerotto marrone che la signora Ramsay fa provare al piccolo James, all’inizio di Gita al faro… Omero e Virginia Woolf, la via del dettaglio, una biblioteca di cose concrete… eccolo lí il suo canone occidentale, quello su cui in modo velleitario e confuso la sua mente si andava arrovellando da tempo, fra tutti quei libri scritti in tante lingue diverse, in quella selva di titoli e di personaggi… Cosí ora, a Marburg, Auerbach teneva sulla sua scrivania i due oggetti-memento in cui la sua intuizione si era plasticizzata, un tròffolo e un calzerotto marrone. Da quei due feticci era continuamente ispirato, ma anche, purtroppo per il suo equilibrio, avvelenato: guardarli, anzi soltanto essere consapevole della loro presenza, significava infatti per lui essere divorato da una spasmodica febbre di possesso di tutte le cose che rendevano memorabile un’opera d’arte. Ogni oggetto idealmente compreso fra la cicatrice e il calzerotto doveva essere suo: il corno suonato da Rolando a Roncisvalle, il basilico di Lisabetta, il fazzoletto di Desdemona, la pelle di zigrino (prima che si fosse ristretta del tutto!), il «capolavoro sconosciuto» di Frenhofer, quella curiosa frolla a forma di conchiglia inzuppata da Marcel nel suo the, il barattolo azzurro con il veleno per topi di Emma Bovary, il carapace dorato di Des Esseintes, ah poterli avere, toccare, allineare su uno scaffale al posto dei libri!

Di solito dopo avere indugiato a lungo in queste fantasticherie si riscoteva improvvisamente e si diceva: «Sono un demente»; poi quella stessa vergogna lo disponeva favorevolmente verso se stesso, sicché, ridacchiando, finiva con il trovare sublime la sua demenza, e una piú esosa bramosia di possesso lo investiva. Perché l’arte era forma, era ritmo, era segno, ma ciò a cui s’aggrappava erano le cose, ed erano le cose ad essere ricordate dai lettori e dagli spettatori, le orride cose che ci sopravviveranno, le cose cui lui, morbido bibliotecario e filologo solo, anelava come alla ruvida vita delle genti.

Cosí, da Marburg, dirigeva i suoi acquisti servendosi di una rete di intermediarî che gli segnalavano la presenza di oggetti interessanti. Habib gli scriveva da Bengasi che nel deserto libico si trovavano i resti del velivolo con cui pochi mesi prima, il 30 dicembre del 1935, era precipitato lo scrittore francese Antoine de Saint-Exupéry: interessava il recupero? No, non interessava, perché si trattava di materiali relativi alla vita del pilota e non alla sua opera letteraria. Ma quell’aeroplano, mentiva Habib in una seconda lettera, era lo stesso postale della Patagonia descritto nel romanzo Volo di notte, vincitore del prestigioso Prix Fémina nel 1931. Allora interessava! L’ideale sarebbe stata la cloche! Carpenter scriveva da New York di essere venuto in possesso

della gruccia con cui, nel romanzo Chiamalo sonno pubblicato da Henry Roth due anni prima, il piccolo David venne picchiato da suo padre: interessava? Come no! A qualsiasi prezzo, anche se a dire il vero a lui faceva piú gola il ramaiolo con cui il piccolo si era quasi suicidato infilandolo nello scambio di una rotaia elettrica… Morris scriveva dal Tanganika che in una radura a venti miglia dal Kilimangiaro era stato rinvenuto il cannocchiale con cui il protagonista di un famoso racconto di Ernest Hemingway guardava le nevi di quella montagna: doveva concludere, per 180 dollari? Qui Auerbach, che era un filologo, si insospettí, e con una breve ricerca appurò che il protagonista del racconto non guarda mai quelle nevi, e solo le vede in sogno al momento di morire: sicché no, quella volgare reificazione di una struggente metafora non poteva interessare! E nemmeno i servigi di Morris, mai piú! E quando, per farsi perdonare, Morris spedí dalla California un topolino imbalsamato scrivendo che proveniva direttamente dalle tasche di un vagabondo cui si stava interessando John Steinbeck per un nuovo romanzo, Auerbach non ci credette: ma a buon conto conservò il cadaverino, collegandolo mentalmente, nel cristallo-costellazione della sua Ansicht, al topicida di Emma Bovary e al primo album in tedesco di Mickey Mouse.

Il suo pensiero indispettito tornava però sempre a quell’ebreo tristanzuolo ed astratto che si muoveva come un segugio per le vie di Parigi, quello che gli aveva soffiato i fiori del male e i tre soldi dell’Opera, quello che all’ultimo momento era riuscito a mettere le mani su Odradek: colpa sua, se nel suo saggio non era previsto un capitolo su Kafka, solo colpa sua! Anche per l’assenza di un capitolo su Céline, rivolgersi al signor Benjamin! Certo, non è che quel Céline rientrasse molto nel suo canone, pure bisognava riconoscere che la catena di montaggio era entrata nella letteratura con lui… ma senza puntini, e senza un solo pezzetto di quelle Ford del ’32, no, senza uno di quegli elementi si rifiutava di accoglierlo, del resto meglio cosí, un figlio del ghetto praghese e l’autore delle annunciate Bagatelle, la perfetta imparzialità della filologia!

Ora, dunque, Auerbachaveva sulla sua scrivania una serie di dispacci provenienti da tutto il mondo che attendevano di essere vagliati.

Il primo, da Granada, diceva: «Ieri, 19 agosto 1936, è stato fucilato dalla Guardia Civile il poeta Federico García Lorca».

Il secondo, da Santiago de Compostela, diceva: «Oggi 14 settembre 1936 ignoti hanno violato la tomba dello scrittore Ramón del Valle-Inclán, deceduto il 5 gennaio di quest’anno. Alla salma, già priva del braccio sinistro perso in gioventú, è stato asportato il braccio destro».

Il terzo, da Buenos Aires, diceva: «Dopo la fortunata Storia universale dell’infamia, lo scrittore Jorge Luis Borges ha dato alle stampe in questi giorni una Storia dell’eternità che promette di far parlare molto di sé».

Il quarto, da Parigi, diceva: «Lo scrittore André Gide è rientrato dal suo viaggio conoscitivo nell’Unione Sovietica».

Il quinto, sempre da Parigi, diceva: «Appena ritornato dal suo viaggio nella terra dei Soviet, lo scrittore Louis-Ferdinand Céline ha consegnato al suo editore un rovente libello intitolato Mea culpa».

Il sesto, da Milano, diceva: «Ieri, 2 aprile 1936, si è spenta la signora Adele Lehr in Gadda».

Auerbach lesse attentamente tutti i dispacci, poi bofonchiò: «Chi diavolo è Adele Lehr in Gadda?»

«Milano, 2 via San Simpliciano 2, 4 aprile 1936, ore 9.15. Da ieri 3 aprile 1936 la mamma riposa nel cimitero di Longone. Mancò all’affetto del figlio e alla chiarità dei cieli il giorno 2 aprile 1936 alle ore 11.30 della mattina. Ora che Ella non è piú io CEG intraprendo la narrazione del dolore (orribile vita) su questo stesso quaderno, penultimo di quelli acquistati in Edolo al bazar Edolo il 24 agosto 1915, quando i nostri cuori erano aperti al futuro e le montagne erano il volto obbligante della cara Patria (rombi di tuono, lontano, sfrangiavano nello smemorare della cengia: e la luce ne diceva le genti e l’operoso fervore). Il quaderno si compone di 98 (novantotto) fogli rigati con righe 24 per facciata: inoltre di due fogli bianchi, ossia non rigati: inoltre di due cartoncini per legatura d’antiguardia, co-implicati alla coperta propriamente detta, qual è di cartone duro telato di colore nero o – svariando l’incidente luce – nerastroantracitico: bruno. Io CEG numerai le pagine (in alto a destra: e in cifre romane) da 1 a 200, constando ogni foglio di pagina e contropagina, e calcolando per foglio anche i due non rigati. Milano, 2 via San Simpliciano 2, ore 19.25. CEG – Carlo Emilio Gadda. 4 aprile 1936: in Milano (2 via San Simpliciano 2). CEG».

Lo storico Marc Bloch si tolse gli occhiali sospirando penosamente. Da qualche giorno il suo spirito era tormentato da un orrendo sospetto. Non poteva essere, eppure… Riconsiderò il documento illuminato dalla lampada a braccio al centro della sua scrivania. Risultava da quel documento che il rovinoso processo intentato nell’agosto 1914 dalla Cancelleria di Praga ai danni del privato cittadino Joseph K. era stato provocato dalla denuncia, allora rimasta anonima, di un certo Karol Fišerka, nano alle dipendenze del Circo itinerante di Brno. Disgustato, voltò il fascicolo scoprendo un altro incartamento. Ne conosceva bene il contenuto, anzi si può dire che la sua ricerca avesse preso il via proprio da quell’informativa. In essa si dava ragguaglio dell’incidente stradale in cui il 13 maggio del 1935, nei pressi di Bovington, Dorsetshire, rimase mortalmente ferito l’aviere della RAF Thomas Edward Lawrence, meglio noto come Lawrence d’Arabia, i cui Sette pilastri della saggezza erano appena stati pubblicati in edizione integrale in quello stesso 1936. Si allegava la testimonianza di Oliver Bunyan, agricoltore, secondo il quale la motocicletta di Lawrence, una Brough Superior regalatagli da George Bernard Shaw, era uscita di strada per evitare un bambino che, spuntato da un cespuglio, aveva improvvisamente attraversato la strada. Aggiungeva Bunyan che, dopo lo schianto del mezzo contro un platano, il suddetto bambino si era avvicinato al corpo esanime del conducente, ed avendogli frugato nel taschino anteriore della giacca ne estraeva un sigaro che subito provvedeva ad accendere ricavandone con evidente soddisfazione ampî sbuffi di fumo; subito dopo, sbottonatosi i calzoni, orinava lungamente sopra gli stivali del caduto. Raggiunto da Bunyan, il bambino si era infine dato alla fuga, non prima di avere rivolto all’allibito agricoltore un gesto osceno e una frase irriferibile pronunciata, sembrò, con una voce baritonale. L’informatore di Bloch accludeva al referto il verbale del commissariato di Polizia di Bovington, dal quale risultava che fra i cinque individui sospetti fermati e poi rilasciati figurava il signor Charles Fisher di Londra, pittore di paesaggi. L’altezza del signor Fisher, si specificava, era di 4 piedi e 3 pollici, equivalenti a un metro e 29 centimetri.

Marc Bloch sentí il bisogno di alzarsi e di prepararsi un Pernod. Con il bicchiere pieno andò alla finestra e la spalancò, ma il purissimo cielo stellato non gli diede alcuna consolazione. Da qualche parte lontano, là verso sud-ovest, era scoppiata da poche settimane la guerra civile spagnola: si lasciava suggestionare, o in quella direzione le stelle tremolavano davvero piú delle altre? E dalla Spagna era appena giunta la notizia della fucilazione del grande poeta Federico García Lorca ad opera della Guardia Civile. C’era però un’altra voce, secondo la quale erano stati i falangisti a giustiziarlo. Ora si dava appunto il caso che il segretario della Falange di Granada fosse un poetastro di nome Carlos Pescador, le cui Odas católicas, pubblicate nel 1935 subito dopo i Seis poemas galegos di Lorca, erano state stroncate da Miguel de Unamuno in un articolo, tutto a favore di Lorca, significativamente intitolato (Bloch lo ricordò con un brivido) Il nano ed il gigante.

Tornato alla scrivania, Bloch estrasse da un cassetto una cartellina su cui era scritta a mano la parola «Voli». La aprí. Il primo foglio, l’ultimo ad essere stato inserito, riguardava l’incidente libico di Saint-Exupéry. Risultava da un’indagine del Comando aeronavale di Le Bourget che la notte prima di quel volo era stata vista aggirarsi nei pressi del mezzo di Saint-Exupéry una persona estranea all’aeroporto. Secondo Roger Calisson, addetto al carburante, l’uomo, che non doveva superare il metro e trenta di altezza, aveva sulla schiena qualcosa che da lontano non si capiva se fosse uno zaino o una gobba.

Meno circostanziati, gli altri documenti si limitavano a registrare i casi di quattordici piloti precipitati in circostanze sospette fra il 1918 e il 1935. In tutti gli episodî si era ipotizzato il sabotaggio da parte di un nano. Otto dei piloti erano francesi, cinque inglesi, uno italiano. Il caso piú antico era quello dell’italiano. Nelle mani di Bloch il foglio, tremolante come una stella di sud-ovest, recitava: «Ten. Enrico Gadda (83a squadriglia), caduto alle 11.45 del 23 aprile 1918 nelle campagne di San Pietro, vicino a Cittadella di Padova, di ritorno da un servizio di scorta».

Erich Auerbach era molto irritato. Troppe indagini ormai lo avevano disilluso in merito alla possibilità di fondare una nuova branca della filologia delle fonti sulla base del confronto fra luoghi reali e luoghi letterarî. I rapporti dei suoi emissarî convergevano in un bilancio sconsolante: «a una giornata di cavallo da Boston», in tutte le direzioni, non c’era nessuna rovina che potesse corrispondere alla casa di Roderick Usher; nella Mengstrasse di Lubecca non c’erano palazzi con le caratteristiche di quello dei Buddenbrook; né, a Londra, era stato possibile star dietro a quel dannato monello di Copperfield, perché né il Salem College né il magazzino di Murdstone & Grinby né la casa del signor Micawber né la scuola del signor Wickfield erano dove l’autorevole penna del signor Dickens li aveva ubicati; né a Parigi, in tutto Saint-Germain des Près, era stato possibile identificare la sontuosa residenza dei Guermantes: per non dire che nei dintorni di Parma non c’erano certose, di nessun tipo! A Pavia sí, ma a Parma no! E addirittura il numero 24 della Ehrlichstrasse di Vienna, dove si sarebbe dovuta trovare la casa-biblioteca del sinologo Peter Kien, non esisteva nemmeno! Come il 221b di Baker street a Londra! Perché se l’autore non si accontenta della vaghezza, se s’immischia nelle cose dei topografi, come resistere alla legittima curiosità di verificare, di poter dire a se stessi ecco io sono qua in quel celebre là, perché privarci di una simile emozione intellettuale? Dopo questa emozione, anzi sopra questa emozione lui poi come critico sarebbe intervenuto a misurare il grado della trasfigurazione fantastica, avessimo qui in carne ed ossa i coniugi Arnolfini oh quanto piú potente rifulgerebbe agli occhi dell’intenditore l’arte di Van Eyck! Si arrovellava cosí, Erich Auerbach, quando il suo cameriere bussò alla porta dello studio.

– Cosa c’è?

– Un dispaccio da Parigi, signore.

Lacerò la busta nervosamente, strappando anche parte della lettera. Lo si informava che il signor Walter Benjamin aveva individuata l’abitazione di Georges Duroy in rue Boursault e, audacia, vi era penetrato.

«Georges Duroy, chi era costui?» si chiese Auerbach, cui il nome diceva sí qualcosa, ma qualcosa che in quel momento era identica a niente. Per tutto il pomeriggio e tutta la sera quel nome continuò a ronzargli in testa come un indovinello beffardo, e ancora a letto, nella tenebra, la sua mente vi si aggirava intorno come acqua mulinata da un gorgo.

«Georges Duroy, Georges Duroy, chi diavolo sei, Georges Duroy?»

Un attimo gli sembrava di essere sul punto di saperlo, subito dopo ripiombava nel sentimento di un’ignoranza senza uscita. Poi, nel momento stesso in cui stava per addormentarsi, ebbe la folgorazione.

«Bel-Ami! Ecco chi è Georges Duroy, Bel-Ami!», e immediatamente l’esultanza per la scoperta gli si convertí in dolore. «Quel maledetto ha trovato la casa di Bel-Ami!»

Non sapeva ancora che pochi giorni dopo aver scovato quella casa, sita al numero 15 di rue Boursault, Benjamin era stato capace di identificare fra rue Richelieu e rue Saint-Roch il tratto di strada anticamente chiamato rue Morgue, nella cui terza casa a sinistra, per chi venisse da rue Richelieu, madame e mademoiselle L’Espanaye erano state massacrate da un orang-utan.

Animato da un odio mostruoso, Auerbach prese la penna e scrisse una lettera a Gröningen. La lettera era indirizzata al grande storico olandese Johan Huizinga, che, come Auerbach sapeva, in vista di uno studio sulla componente ludica dell’uomo stava raccogliendo materiali in tutto il mondo, fra i quali spiccava la collezione di giocattoli messa insieme da Benjamin. Cosí, fingendo un interesse scientifico, Auerbach scrisse a Huizinga, che confermò, sí, quella collezione esisteva: abbandonando la Germania il 17 marzo 1933 Benjamin l’aveva affidata al signor Theodor Wiesengrund Adorno, il quale, fuggendo a sua volta verso l’Inghilterra l’anno successivo, la consegnò al pittore Otto Dix, nel cui studio di Dresda lui Huizinga aveva potuto esaminarne einventariarne una parte. E questo era quanto ad Auerbach interessava sapere.

Ormai ubriaco di Pernod, Marc Bloch si ostinava a compulsare filze di documenti. Documenti su documenti, notizie apparentemente irrelate, che pure, nella sua capace mente di storico… questa per esempio, rubricata al nome di Charles Lindbergh, il celebre trasvolatore dell’Atlantico… fra il 20 e il 21 maggio 1927, New York - Parigi in trentatre ore… negli ultimi tempi Lindbergh si era legato politicamente a Henry Ford… Henry Ford che per un verso combatteva il razzismo pretendendo nelle proprie officine l’equiparazione dei neri ai bianchi, per un altro verso lo avallava denunciando la plutocrazia ebraica di New York… Henry Ford che stava progettando di impiantare a pochi chilometri da Berlino uno stabilimento per la produzione di mezzi pesanti… Dunque, lo Spirit of St. Louis, il monomotore Ryan da 200 hp di Lindbergh, era un aereo francoamericano, metà Ford… e metà Citroën… Sfogliando fra i suoi documenti Bloch prese un cartoncino intitolato ad André Citroën: «André-Gustave Citroën, ebreo parigino; esordisce come piccolo produttore di ruote dentate, poi, dopo una visita alle officine Ford di Detroit (1912), introduce in Francia la catena di montaggio allargando la produzione ai veicoli e alle armi pesanti; allo scoppio della guerra si specializza nella produzione di obici, fra cui il famoso 75 mm (24 milioni di pezzi); dopo la guerra è alla guida di un impero automobilistico; reagisce con spregiudicatezza alla grande crisi del 1929, finché la sua coraggiosa politica di investimenti lo conduce alla bancarotta nel 1935, quando il suo maggior creditore, Pierre Michelin, gli subentra nel controllo del gruppo. Il 3 luglio dello stesso anno muore di cancro allo stomaco. Ai suoi funerali, insieme alle massime autorità dello stato, ci sono in prima fila Charlie Chaplin e Joséphine Baker».

Scolò senza diluirlo l’ultimo goccio di Pernod rimasto nella bottiglia, poi cercò il talloncino che riguardava Chaplin. «Contrariamente a quanto si va dicendo, – c’era scritto, – l’ultimo film del signor Chaplin, Tempi moderni, non è stato ispirato dagli stabilimenti Ford di Detroit, ma dalle officine Citroën di Javel (Parigi): questo per esplicita ammissione dell’autore, che ebbe modo di conoscere André Citroën durante una vacanza a St. Moritz (Grigioni)».

Barcollando si alzò dalla scrivania e andò verso il divano, sotto il quale si ricordava che qualche sera prima era rotolata una bottiglia di Marie Brizard. Sdraiatosi per terra allungò un braccio muovendolo a tentoni fra le ragnatele e la polvere: recuperata la bottiglia ne trangugiò avidamente, sdraiato com’era, il poco liquore residuo: poco ma sufficiente a regalargli l’ultima intuizione di quella giornata. Tornò alla scrivania, frugò, esaminò, e finalmente trascrisse sul verso del cartoncino dedicato a Citroën: «Nel 1912, a poche settimane di distanza da André Citroën, anche Louis Renault visita le officine Ford. Fra il 1914 e il 1918 escono dallo stabilimento Renault di Billancourt, automobili e camion a parte: 1500 aeroplani; 1700 carri armati leggeri; 9 milioni di obici di vario calibro. Nel settembre 1914 (battaglia della Marna) i taxi di Louis Renault portano al fronte 8000 soldati in due giorni, consentendo alla Francia di respingere l’offensiva tedesca».

Uscendo dalla sua casa editrice, rue Amélie 19, dove aveva lavorato tutto il giorno alle bozze del resoconto del viaggio in Russia di Louis-Ferdinand Céline, Robert Denoël s’imbatté in un uomo alto e corpulento, con il busto un po’ inclinato in avanti. Gli sembrò di averlo già visto da qualche parte, forse in una fotografia su un giornale. Rimasero un attimo immobili a scrutarsi, poi l’uomo sorrise e porse la mano.

– Ci conosciamo? – chiese Denoël.

– No, ma siamo colleghi.

– Fate libri anche voi?

– Oh no, io faccio queste, – e cosí dicendo indicò una Renault 6cv posteggiata di fianco a loro.

– Non ditemi! Voi sareste…

– Sí, sono Louis Renault, il salvatore della patria! – accompagnò queste ultime parole con una smorfia di scherno. – L’eroe della Marna! L’uomo dei taxi! 8000 soldati in due giorni, un’idea d’altri tempi! Un esercito in taxi! I veri vincitori della battaglia della Marna, i miei due cilindri! Eppure… eppure! Sapete perché vi ho chiamato collega? Perché moriremo entrambi ingiustamente, noi due, a poca distanza l’uno dall’altro… Voi pagherete per la pubblicazione del vostro Céline, io perché durante l’occupazione tedesca continuerò a produrre macchine con il mio nome, cosí nel settembre ’44, detto fatto! Ci metterà poco il nasone a sbattermi al gabbio… e nel gabbio… mistero! Un bel giorno d’ottobre un secondino scopre che è morto, il povero Renault, si sa mica come, figuriamoci, solo che è morto, un corpo freddo nella prigione di Fresne…

– Occupazione? Nasone?

– Eh sí, mica piú Marne nel ’40, siamo stati invasi dai crucchi, e badate, crucchi molto piú cattivi di quelli dell’altra guerra… Quanto al nasone farete in tempo a sentirne parlare… E verrà il giorno in cui ci girerà in pompa magna per Parigi, su una Renault, gli farà mica schifo allora, il mio nome, questo mio bel rombettino, no…

– Ma… come fate a sapere tutte queste cose?

– Me le ha dette André, il mio amico-nemico, quello che mi chiamava scimmione.

– Chi è André?

Passò una Citroën, lentamente.

– Quello che ha fatto quella.

– Ma è morto l’anno scorso, il signor Citroën.

– Per questo è informato.

Erich Auerbach impugnò la sua poderosa stilografica Omas caricata a inchiostro viola e scrisse la seguente lettera:

Al signor Otto Dix

Ebelmarktstrasse 38, Dresda

Egregio signor pittore,

essendo io al corrente del carattere antigermanico e degenerato della vostra pittura, e non avendo voi avuto il buon senso di lasciare il nostro paese per tempo come il vostro degno compare il signor Georg Grosz, permettetemi di darvi un avvertimento: state molto attento! Molto! Siete sotto osservazione! E aggiungo che c’è un modo per evitare l’accanimento di chi è preposto alla vigilanza, ed è molto semplice: quando il latore di questa lettera si presenterà a voi gli lascerete esaminare a suo piacimento la collezione Benjamin, che sappiamo esservi stata affidata dal signor Adorno, e gli consegnerete senza resistenza tutti gli oggetti di cui egli vi farà richiesta. Confido nella vostra completa disponibilità.

Firmato:

Rudolph Adolph Erich Auerbach

Presidente dell’Accademia Pangermanica

di Filologia Nazista

Walter Benjamin non aveva piú un soldo. Quel giorno aveva speso gli ultimi franchi per acquistare tre pezzi pregiati, cosí ora doveva trovare il modo di ottenere un prestito. Certo, c’erano sempre Adorno e Horkheimer che appena potevano gli spedivano qualcosa, e anche fra i suoi conoscenti parigini non mancavano le persone generose come Cocteau, come Éluard, come Braque, ma da qualche tempo anche loro, sull’esempio di Picasso, avevano incominciato a farsi diffidenti.

– Se è per le baguettes e il camembert, – gli aveva detto Picasso sventolandogli alcune banconote sotto il naso, – sono vostre, ma se è per farvi rifilare la solita paccottiglia dal primo imbroglione che passa, non ve le dò –: e onestamente Walter Benjamin, filosofo saturnino e collezionista, le aveva rifiutate.

Dunque adesso era veramente sul lastrico. Eppure il suo animo infantile non riusciva a non essere contento. Rimirò i tre colpi della giornata. Il primo era una A di ferro smaltata di nero, alta circa 8 centimetri; tre fori alle estremità dicevano che doveva essere stata avvitata con altre lettere a formare la parola di un’insegna, ma per lui non c’erano dubbî che provenisse direttamente dalle Vocali di Arthur Rimbaud. Il secondo oggetto era una pipa, cui era legato a uno spago un cartellino con sú scritto «Questa non è una pipa»: prova evidente che si trattava di un autentico Magritte. Il terzo oggetto era un orologio da tavolo a suoneria, di produzione irlandese: nientemeno che la sveglia diFinnegan! In anticipo sul libro, cui si sapeva che l’autore stava lavorando da un bel po’… Ed ora che il magico oggetto era finito da Dublino a Parigi, come avrebbe fatto il signor Joyce a continuare il romanzo? Era verosimile che dovesse lasciarlo incompiuto, un’eventualità cui Benjamin non poteva pensare senza provare un delizioso brivido di colpevolezza…

Ma i suoi piaceri non erano legati solo al prestigio artistico delle sue prede: c’erano tanti oggetti umili e anonimi presso di lui, tanti frammenti edilizî e industriali, vestigia di un’operosità e di un ingegno che ormai erano come un sogno, forme perfette nella loro economia funzionale e tuttavia superate, sconfitte, forme rivoluzionarie, forme di ferro! pezzi di ferro, di ogni tipo, barre, ghiere, rondelle, bulloni, sezioni di flangia, dadi, mandrini, il ferro! Bastava affondare le mani in uno qualsiasi dei grossi sacchi di juta, questo per esempio, e prendere un oggetto a caso, cosa abbiamo trovato questa volta, toh, una biglia d’acciaio e una bellissima rotella dentata uscita dalle officine Citroën verso il 1908, veramente qualcosa di bello… mettendo la rotella attorno alla biglia si aveva Saturno, il pianeta malioso… Benjamin sorrise ricordandosi del suo ultimo scambio epistolare con Horkheimer, che inviandogli una somma di denaro lo spronava a portare a termine i suoi saggi senza disperdersi in quei suoi vagabondaggi cosí inconcludenti, e soprattutto senza rovinarsi nel collezionismo. «Ricordati che nel drammatico frangente storico in cui il destino ci ha fatto vivere, – era stata la sua risposta all’amico, – il collezionista ha una grande superiorità morale sullo storico e sul filosofo, perché accogliendo con affetto indistinto tutti i relitti del passato si propone come il piú radicale critico del presente, quell’intollerante presente in cui gli oggetti contano in base alla loro forza ed utilità, e tu sai che queste parole, forza ed utilità, non altro nascondono se non cimiteri di morti, di cose morte, massacrate, dimenticate, dissolte. Credimi Max, oggi il nostro compito è ricordare e ritrovare, e lo sarà ancora di piú domani per i nostri nipoti: perché ci sono momenti in cui essere con il futuro significa essere con il passato contro il presente; e perché contro l’infernale accelerazione della modernità le rovine e i relitti si ergono, si devono ergere, come barricate rivoluzionarie. Quanto a me, tornando a quello che mi scrivi, dovrebbe bastarti il fatto davvero decisivo che io sia venuto al mondo sotto Saturno: l’astro dalla rivoluzione lentissima, il pianeta delle diversioni e dei ritardi»