Recensione
Silvano Calzini
Comunicazione di massa e uso strumentale del dolore? Leggete Nathanael West, ha detto tutto.
Nella società dei mezzi di comunicazione di massa nella quale siamo immersi dalla mattina alla sera impazzano dotte analisi sull’uso strumentale del dolore, approfondite ricerche sulla spettacolarizzazione dei sentimenti, seriose analisi sul ruolo di cinici commentatori travestiti da sedicenti maître à penser e chi più ne ha più ne metta, ma a guardare bene mi sembra che non ci sia niente di veramente nuovo. Personalmente resto dell’idea che sia già stato detto tutto in un piccolo romanzo uscito negli Stati Uniti nel 1933, "Miss Lonelyhearts" tradotto in italiano come "Signorina Cuorinfranti". Un libro feroce, aspro, duro, che non fa sconti a nessuno, un autentico pugno nello stomaco.
Lo ha scritto Nathanael West (1903-1940). Ebreo di origine lituana, il suo vero nome era Nathan Wallenstein Weinstein. Dopo l’università, si stabilì per qualche mese a Parigi per poi tornare in America e fare vari mestieri, tra cui il giornalista e il direttore notturno di un albergo. Poi il trasferimento a Hollywood in qualità di sceneggiatore di film di bassa qualità, i cosiddetti B-movies. Morì semisconosciuto insieme alla moglie in un incidente d’auto a soli 37 anni.
Come nelle migliori tradizioni, la fama è arrivata postuma, grazie a Il giorno della locusta, un ritratto al fulmicotone dell’industria di Hollywood, che descrive le miserie e i fallimenti che si nascondono dietro la corsa al successo nel dorato mondo del cinema. E poi appunto con Signorina Cuorinfranti, una specie di commedia all’umor nero che gronda ironia e sarcasmo da tutti pori sulla solitudine, l’alienazione umana e sul cinismo della stampa.
La storia è presto detta e la cosa migliore è affidarsi alle parole dello stesso West:
West non ha pietà e comincia con lo sbatterci in faccia la disperata solitudine delle lettrici che scrivono le loro lettere al giornale in un estremo inconsapevole grido d’aiuto. Sono donne che hanno una sola via di sfogo nella vita, una sola persona con cui parlare: la “Signorina Cuorinfranti” titolare della rubrica di posta del cuore. Già i nomi con cui si firmano, “Disperata”, “Stanca di tutto”, “Cuore spezzato”, stanno a testimoniare un paradossale senso dell’umorismo ma anche un genuino senso di pietà. Ma poi balza in primo piano il tormento del protagonista, la finta “Signorina Cuorinfranti”, vittima e carnefice allo stesso tempo di tanta miseria umana. Lui stesso ha un sacco di problemi personali e come fa a dare consigli agli altri quando non sa come risolvere i propri di guai. E intanto quelle lettere continuano ad arrivare. Avvolto come in una ragnatela, non sa come venirne fuori. Si agita disperatamente, mosso a compassione dalla condizione delle sue lettrici e ancora di più da un desiderio di riscatto per sé, ma l’unico risultato è quello di affondare sempre di più come fosse nelle sabbie mobili.
Alla fine del romanzo resta in bocca il sapore dell’impotenza, pratica ed emotiva, del protagonista. Una resa e al tempo stesso una presa d’atto che fa venire alla mente il Pasolini migliore, non quello dei romanzi così così o dei film così così, ma quello dei lampi di pura genialità che gli facevano dire: «La parola speranza andrebbe abolita».
Signorina Cuorinfranti è un libro modernissimo e più che mai attuale. Certo, oggi tutto è stato dilatato a dismisura dallo sviluppo impetuoso dei mass media, televisione in testa, ma il nocciolo duro della questione era già presente lì, in quelle pagine scritte da West quasi novanta anni fa.
Silvano Calzini
SIGNORINA CUORI INFRANTI
Miss Lonelyhearts, aiutami, aiutami
Miss Lonelyhearts, la Signorina Cuorinfranti 2 del New York Post-Dispatch (Avete-qualche-problema? Avete-bisogno-di-consigli? Scrivete-a-Miss-Lonelyhearts-e-lei-vi-aiuterà), era seduto alla sua scrivania e fissava un cartoncino bianco su cui Shrike, il caposervizio, aveva scritto in stampatello una preghiera:
Anima di Miss L, benedicimi.
Corpo di Miss L, nutriscimi.
Sangue di Miss L, inebriami.
Lacrime di Miss L, lavatemi.
O dolce Miss L, perdona la mia supplica,
Nascondimi nel tuo cuore
E difendimi dai miei nemici.
Aiutami, Miss L, aiutami, aiutami.
In saecula saeculorum. Amen.
Sebbene mancasse meno d’un quarto d’ora alla consegna del pezzo, stava ancora lavorando all’introduzione. Era arrivato solo fino a: «Vale veramente la pena di vivere perché la vita è così piena di sogni e di pace, di dolcezza e di estasi, e d’una fede che arde come una limpida fiamma bianca su un altare sinistramente cupo». Ma non riusciva ad andare avanti. Le lettere non erano più tanto divertenti. Non poteva continuare a trovare divertente la stessa storiella trenta volte al giorno, mese dopo mese. Anzi, la maggior parte dei giorni riceveva più di trenta lettere, tutte uguali, ritagliate dalla sfoglia della sofferenza con lo stesso affilato stampino a forma di cuore.
Davanti a lui, sulla scrivania, erano ammucchiate quelle arrivate la mattina. Cominciò a rileggerle per l’ennesima volta, cercando uno spunto per una risposta sincera.
Cara Miss Lonelyhearts,
soffro talmente tanto che non so più che fare certe volte penso di ammazzarmi tanto mi fanno male i reni. Mio marito crede che una donna non può mica essere una brava cattolica se non fa figli senza curarsene del dolore. Mi sono sposata con onore nella nostra chiesa ma non sapevo che voleva dire sposarsi perché nessuno m’ha mai spiegato niente su quello che fanno moglie e marito. Mia nonna non m’ha mai detto niente e lei è l’unica mamma che ho avuto ma secondo me ha fatto male a non dirmelo perché essere inocenti non conviene è solo una grande dilusione. Ho avuto sette figli in dodici anni e dopo gli ultimi due mi sento tanto male. Due volte m’hanno operato e mio marito aveva pure promesso niente più figli dietro consiglio dei medici perché diceva potevo anche morire ma quando sono uscita dall’ospedale mica l’ha mantenuta la promessa e ora aspetto un altro bebè ma non credo di farcela tanto mi fanno male i reni. Sono tanto stanca e ho paura perché manco posso abortire siccome sono cattolica e mio marito lui è tanto devoto. Sto sempre a piangere tanto fa male e non so più che fare.
Con ossequi sua
Stanca-di-tutto
Miss Lonelyhearts buttò la lettera in un cassetto aperto e si accese una sigaretta.
Cara Miss Lonelyhearts,
ho ormai sedici anni e non so che fare perciò le sarei molto grata se me lo potesse dire lei. Quando ero piccola non era tanto dura perché mi ero abituata a che i ragazzi del vicinato mi prendevano in giro, invece adesso mi piacerebbe farmi portar fuori dai ragazzi come tutte le altre ragazze e uscire i sabati sera, ma invece nessuno esce con me perché sono nata senza naso – anche se ballo bene e ho anche un bel personale e mio padre mi compra un sacco di vestiti carini.
Sto tutto il giorno seduta davanti allo specchio a piangere. In mezzo alla faccia ci ho come un grosso buco che mette paura alla gente e perfino a me perciò capisco perché i ragazzi non vogliono uscire con me. Mia madre mi vuole tanto bene, ma si mette sempre a piangere quando mi guarda in faccia.
Cosa ho fatto per meritarmi un destino tanto orribile? Anche se ho fatto qualcosa di male mica l’ho fatto prima di compiere un anno e comunque così ci sono nata. L’ho chiesto pure al mio papà e lui dice che non lo sa, ma che forse ho fatto qualcosa nell’altro mondo prima di nascere oppure può darsi che sono stata punita per i suoi peccati. A questo non ci credo mica perché lui è tanto un brav’uomo. Pensa che dovrei suicidarmi?
Distinti saluti,
Disperata
La sigaretta era difettosa e non tirava bene. Miss Lonelyhearts se la tolse di bocca e la fissò con rabbia. Combatté con se stesso per calmarsi, poi ne accese un’altra.
Cara Miss Lonelyhearts,
le scrivo per conto di mia sorella più piccola Gracie perché a lei ci è sucessa una cosa terribile e io ho paura di dirlo alla mamma. Io ho quindici anni e Gracie tredici e abitiamo a Brooklyn. Gracie è sordomuta e più alta di me ma non è molto svelta per via che è sordomuta. Gioca sempre sulla terrazza del nostro palazzo e non va a scuola solo alla scuola dei sordomuti due volte alla settimana il martedì e il giovedì. La mamma la fa giocare su in terrazza perché non vogliamo che la mettono sotto datosi che non è tanto svelta. La settimana scorsa un uomo è venuto su in terrazza e ha fatto una cosa sporca con lei. Lei a me me l’ha detto ma io non so che fare perché ho paura a dirlo alla mamma per via che mi sa che riempirebbeGracie di botte. Adesso ho paura che Gracie avrà un bambino e ieri sera per un pezzo mi sono messo con l’orecchio sulla sua pancia caso mai si sentiva il bambino ma non ho sentito niente. Se lo dico alla mamma darà un sacco di botte a Gracie perché io sono l’unico che ci vuole bene e l’ultima volta che s’è strappata il vestito l’anno inchiavata due giorni dentro lo sgabuzzino e se i ragazzi del quartere lo vengono a sapere chissà le porcherie che diranno come hanno fatto con la sorella di Peewee Conor quella volta che la beccarono nei prati. Perciò per piacere cosa farebbe lei se una cosa simile succedeva nella sua famiglia?
Sinceramente suo,
Harold S.
Smise di leggere. Cristo era la risposta, ma se voleva evitare di farsi prendere dalla nausea, doveva star lontano da qualsiasi commercio con Cristo. E poi Cristo era lo scherzo preferito di Shrike. «Anima di Miss L, benedicimi. Corpo di Miss L, nutriscimi. Sangue di…» Si girò ancora una volta verso la macchina da scrivere.
Quantunque i suoi abiti a buon mercato fossero troppo eleganti, aveva ancora l’aspetto del figlio di un pastore battista. Gli sarebbe stata bene la barba, avrebbe accentuato la sua aria da Antico Testamento. Ma anche senza barba, nessuno poteva fare a meno di riconoscere in lui un puritano del New England. Aveva la fronte alta e stretta. Il naso lungo e affilato. Il mento ossuto aveva la forma di uno zoccolo spaccato a metà da una profonda fossetta. Quando lo aveva visto per la prima volta, Shrike aveva sorriso e aveva detto: «Le Susan Chester, le Beatrice Fair-fax e le Miss Lonelyhearts sono le sacerdotesse dell’America del ventesimo secolo».
Arrivò un fattorino per dirgli che Shrike voleva sapere se il pezzo era pronto. Si chinò sulla macchina da scrivere e cominciò a pestare sui tasti.
Non aveva scritto neanche una dozzina di parole che sentì Shrike appoggiarglisi alla spalla. «Sempre la stessa roba», sbuffò. «Perché non gli dai qualcosa di nuovo, qualcosa che li riempia di speranza? Per esempio, consiglia loro di darsi all’arte. Qua, te lo detto io:
“ L’Arte è una via di scampo .
Non fatevi travolgere dalla vita. Quando le vecchie strade sono sepolte sotto le macerie del fallimento, cercatene di nuove e di più fresche. Una di queste strade è proprio l’Arte. L’Arte viene distillata dalla sofferenza. Come ebbe a esclamare il signor Polnikoff, attraverso la sua bella barba russa, il giorno in cui, a ottantasei anni, abbandonò il commercio per imparare il cinese: ‘E non siamo che all’inizio…’
L’Arte è uno dei più ricchi doni della vita .
E per chi non abbia talento creativo, c’è sempre il godimento dell’Arte altrui. Per quelli che…”
E così via. Continua tu».
Miss Lonelyhearts e la faccia di bronzo
Quando Miss Lonelyhearts staccò dal lavoro, si accorse che l’aria era leggermente intiepidita e odorava come se fosse stata riscaldata artificialmente. Decise allora di andarsene allo speakeasy 3 di Delehanty a bersi un bicchierino. Per arrivarci, doveva attraversare un piccolo parco.
Vi entrò dall’ingresso nord e inghiottì boccate intere della pesante cortina di tenebre in cui era avvolto l’arco del cancello. Calpestò l’ombra di un lampione che si stendeva sul suo cammino come una lancia. E come una lancia l’ombra lo trafisse.
Da quanto poteva vedere, nel parco non c’era alcun segno di primavera. Il marciume che ricopriva la superficie chiazzata del terreno non era del tipo che genera la vita. L’anno precedente, lo ricordava benissimo, neanche maggio era riuscito a vivificare questi prati sudici. C’era voluta tutta la brutalità di luglio per far uscire a forza qualche spuntone verde dalle zolle esauste.
Quello che ci voleva al piccolo parco, ancor più che a lui, era una bella bevuta. Ma né l’alcol né la pioggia sarebbero bastati. L’indomani, nella sua rubrica, avrebbe chiesto a Cuore-spezzato, Stanca-di-tutto, Disperata, Delusa-dal-marito-tubercolotico e al resto dei suoi corrispondenti di venir qui ad annaffiare il terreno con le loro lacrime. Allora sarebbero sbocciati dei fiori, fiori dal forte odore di piedi.
«Ah, umanità…» Ma le tenebre lo opprimevano e la battuta gli morì dentro con un tonfo. Cerco di attutire il colpo ridendo di se stesso.
Ma perché ridere di sé quando giù allo speakeasy c’era Shrike che sapeva farlo molto meglio? «Miss Lonely-
hearts, amico mio, ti consiglio di dare sassi ai tuoi lettori. Quando ti chiedono pane non dargli gallette come fa la Chiesa, né il consiglio di mangiare brioche come fa lo Stato. Spiegagli che non di solo pane vive l’uomo e dagli sassi. Insegnagli a pregare tutte le mattine: “Dacci oggi il nostro sasso quotidiano”».
Ne aveva già dati tanti di sassi ai suoi lettori; talmente tanti che, difatti, gliene era rimasto solo uno: il sasso che gli pesava ora nelle viscere.
Improvvisamente stanco, si sedette su una panchina. Se solo fosse riuscito a buttare quel sasso. Scrutò il cielo in cerca di un bersaglio. Ma il cielo grigio sembrava fosse stato cancellato con una gomma sporca. Non c’erano angeli, né croci fiammeggianti, né colombe con ramoscelli d’olivo, né ruote dentro ruote. Solo un giornale si dibatteva in aria come un aquilone dalla schiena spezzata. Si rialzò e si mise di nuovo in cammino alla volta dello speakeasy.
Il locale di Delehanty era nello scantinato di un edificio di arenaria scura che si distingueva dai suoi più rispettabili vicini per il fatto di avere una porta blindata. Miss Lonely-
hearts premette un pulsante nascosto e un piccolo oblò si aprì al centro del portone. Vi apparve un occhio iniettato di sangue, scintillante come un rubino incastonato in un antico anello di ferro.
Il bar era pieno solo a metà. Miss Lonelyhearts si guardò attorno preoccupato in cerca di Shrike e, non vedendolo, provò un leggero sollievo. Ma dopo il terzo bicchiere, proprio mentre si stava accomodando nella tiepida fanghiglia della melanconia alcolica, Shrike gli agguantò un braccio.
«A-ha, mio giovane amico!», esclamò. «Ma come? Ti fai di nuovo sorprendere a rimuginare!»
«La pianti, Cristo santo!»
Shrike ignorò l’interruzione. «Sei un po’ morboso, amico mio, un po’ troppo morboso. Dimentica la crocefissione, pensa al Rinascimento. Non c’erano mica tipi pensosi, all’epoca». Levò il bicchiere e in quel gesto rievocò l’intera famiglia Borgia. «Ecco a te il Rinascimento! Che epoca quella! Che spettacolo! Papi ubriachi… splendide cortigiane… figli illegittimi…»
Nonostante l’elaborato gesticolare, il suo viso era vuoto d’ogni emozione. Usava un trucco molto in voga tra i comici cinematografici: la faccia di bronzo. Per quanto bizzarre e concitate potessero essere le sue parole, la sua espressione non mutava mai. Sotto lo scintillante globo pallido della fronte, i lineamenti si addensavano in uno smorto triangolo grigio.
«Al Rinascimento!», continuò a gridare. «Al Rinascimento! Alle ingiallite pergamene greche e alle amanti dalle opulente e marmoree carni… A proposito, sono in attesa di una delle mie ammiratrici: una ragazza dagli occhi bovini dotata d’una intelligenza veramente notevole». Illustrò la parolaintelligenza scolpendo in aria con le mani due enormi seni. «Lavora in una libreria, ma aspetta di vedere il suo didietro».
Miss Lonelyhearts commise l’errore di lasciar affiorare il fastidio che provava.
«A-ha, e così non te ne frega niente delle donne, eh? Il tuo unico amore è Gesù, vero? Gesù Cristo, il Re dei Re, il Miss Lonelyhearts delle Miss Lonelyhearts…»
In quel momento, per fortuna di Miss Lonelyhearts, la ragazza attesa da Shrike si avvicinò al bancone. Aveva gambe lunghe, caviglie robuste, mani grandi, un corpo poderoso, un collo sottile e un volto infantile reso ancor più minuscolo da un taglio di capelli alla maschietta.
«Miss Farkis», disse Shrike, obbligandola a fare un inchino come un ventriloquo fa con il suo pupazzo. «Miss Farkis, le presento Miss Lonelyhearts. Gli dimostri lo stesso rispetto che deve a me. Anche lui è un consolatore di poveri di spirito e un amante di Dio». La ragazza rispose alla presentazione con una virile stretta di mano.
«Miss Farkis», riprese Shrike, «lavora in una libreria e nel tempo libero scrive». Le diede un’affettuosa pacca sul sedere.
«Di cosa stavate discutendo così animatamente?», chiese la ragazza.
«Di religione».
«Offritemi da bere e continuate pure, prego. Personalmente sono molto interessata alla nuova sintesi tomi-
stica».
Era esattamente il tipo di osservazione che Shrike stava aspettando. «San Tommaso!», esclamò. «Ma per chi ci ha preso: per degli schifosi intellettuali? Non siamo mica degli pseudoeuropei. Stavamo discutendo di Cristo, il Miss Lonelyhearts delle Miss Lonelyhearts. L’America ha delle religioni tutte sue. Se ha bisogno di una sintesi, ecco il tipo di materiale da usare». Tirò fuori un ritaglio di giornale dal portafoglio e lo sbatté sul bancone.
SETTA OCCIDENTALE USA UNA CALCOLATRICE PER I SUOI RITI…
Cifre usate come preghiera per il condannato a morte che assassinò un vecchio barbone …
DENVER, COLORADO, 2 febbraio (A.P.) – Frank H. Rice, Sommo Pontefice della Chiesa Liberale Americana, ha annunciato la sua intenzione di portare avanti il programma di un rito «con capra e calcolatrice» a favore di William Moya, assassino condannato alla pena capitale, nonostante il dissenso espresso da un cardinale della sua setta. Rice ha dichiarato che la capra sarà usata in una funzione con «saio e cenere penitenziale» subito prima e dopo l’esecuzione di Moya, fissata per la settimana del 20 giugno. Le preghiere in suffragio dell’anima del condannato saranno recitate con una calcolatrice. I numeri, ha spiegato Rice, costituiscono l’unico linguaggio universale. Moya è stato condannato per aver ucciso Joseph Zemp, un vecchio barbone, nel corso di una lite riguardante una modesta somma di denaro.
Miss Farkis rise e Shrike alzò il pugno come per colpirla. Il suo gesto sconcertò il barista, che li invitò subito a ritirarsi nella saletta interna. Miss Lonelyhearts non aveva alcuna intenzione di andare con loro, ma Shrike si impuntò e lui era troppo stanco per mettersi a discutere.
Si sedettero a un tavolo, in uno dei separé. Di nuovo Shrike alzò il pugno, ma quando Miss Farkis fece per ripararsi, il gesto si mutò in una carezza. Il trucco funzionò. La ragazza cedette alla sua mano finché il caposervizio non si fece troppo audace, e allora lo respinse.
Shrike ricominciò ad alzare la voce e stavolta Miss Lone-
lyhearts comprese che stava facendo un discorso di seduzione.
«Io sono un grande santo», esclamò Shrike, «posso fare tanta di quell’acqua da camminarci sopra. Non avete mai sentito parlare della Passione di Shrike alla Tavola Calda, ovvero dell’Agonia nel Chiosco delle Bibite? Allora ho paragonato le piaghe del corpo di Cristo ad altrettante imboccature di una borsa miracolosa in cui depositare le monetine dei nostri peccati. Un concetto davvero ingegnoso. Ma consideriamo dunque i buchi del corpo e dove conducono queste nostre congenite ferite: sotto la pelle dell’uomo si apre una mirabile giungla dove le vene, come rigogliose liane tropicali, pendono tutt’intorno a organi più che maturi e le interiora, come erba infestante, si attorcigliano palpitanti in confusi grovigli rossi e gialli. In questa giungla, svolazzando dai polmoni grigio-sasso agli intestini dorati, dal fegato alle frattaglie e poi di nuovo al fegato, vive un uccellino che si chiama anima. I cattolici gli danno la caccia con pane e vino, gli ebrei con un regolo d’oro, i protestanti con i piedi di piombo e altrettanto plumbee parole, i buddisti con i gesti e i negri col sangue. Io sputo sopra a tutti. Puah! E invito anche voi a sputar in faccia a costoro. Puah! Volete imbalsamare gli uccelli? Eh no, cari miei, la tassidermia non è mica una religione. No! Mille volte no! In verità, in verità vi dico: meglio un uccellino vivo nella giungla del corpo che due imbalsamati sul tavolo della biblioteca».
Le sue carezze avevano accompagnato tutto il sermone. Quando arrivò alla fine, la sua faccia triangolare affondò nel collo della ragazza come la lama di un’ascia.
Miss Lonelyhearts e l’agnello
Miss Lonelyhearts tornò a casa in taxi. Viveva da solo in una stanza fitta d’ombre come una vecchia incisione. C’erano un letto, un tavolo e due sedie. Le pareti erano spoglie, eccezion fatta per un Cristo d’avorio appeso di fronte al letto. Aveva tolto la figura dalla croce e l’aveva fissata direttamente alla parete con dei grossi chiodi. Ma l’effetto desiderato non era stato comunque ottenuto. Invece di assumere un’espressione tormentata, il Cristo rimaneva tranquillamente decorativo.
Appena arrivato, si spogliò e si portò a letto una sigaretta e una copia dei Fratelli Karamazov . Il segnalibro era in un capitolo dedicato a Padre Zosima.
«Amate l’uomo anche col suo peccato, perché questo riflesso dell’amore divino è appunto il culmine dell’amore sulla terra. Amate tutta la creazione divina, nel suo insieme e in ogni granello di sabbia. Amate gli animali, amate le piante, amate tutte le cose. Se amerai tutte le cose, scoprirai in esse il mistero divino. Una volta che l’avrai scoperto, comincerai a conoscerlo sempre meglio, ogni giorno più a fondo. E alla fine amerai tutto l’universo d’un amore totale, completo». 4
Era un ottimo consiglio. Se l’avesse seguito, avrebbe ottenuto un enorme successo. La sua rubrica sarebbe stata acquistata da altri giornali e il mondo intero avrebbe imparato ad amare. Il Regno dei Cieli si sarebbe avverato e lui si sarebbe seduto alla destra dell’Agnello.
Ma, scherzi a parte, si rese conto che anche se Shrike non avesse ormai reso impossibile un approccio equilibrato a qualsiasi rapporto con Cristo, non aveva molto senso continuare a prendersi in giro da solo. La sua vocazione era tutt’altra. Da ragazzo, nella chiesa di suo padre, aveva scoperto che quando gridava il nome di Cristo qualcosa sembrava agitarsi dentro di lui, qualcosa di segreto e immensamente potente. Si era gingillato con questa cosa, ma non le aveva mai permesso di manifestarsi in pieno.
Ora però sapeva di cosa si trattava: di isteria, un serpente dalle scaglie simili a tanti minuscoli specchi in cui il mondo morto assume una sembianza di vita. E il mondo è tanto morto… è un mondo di pomi d’ottone. Miss Lonelyhearts si chiedeva ora se l’isteria fosse veramente un prezzo troppo alto da pagare per riportare in vita il mondo.
Per lui Cristo era l’eccitante più naturale. Fissò lo sguardo sull’immagine inchiodata alla parete e cominciò a salmodiare: «Cristo, Cristo, Gesù Cristo. Cristo, Cristo, Gesù Cristo». Ma appena il serpente cominciò a srotolarglisi nel cervello, ebbe paura e chiuse gli occhi.
Insieme al sonno, arrivò un sogno in cui lui si trovava sul palcoscenico di un teatro affollato. Gli pareva di essere un mago che faceva trucchi con dei pomi d’ottone. Ai suoi ordini essi sanguinavano, sbocciavano, parlavano. Finito lo spettacolo, tentava di indurre il pubblico a pregare. Ma per quanti sforzi facesse, l’unica preghiera che gli veniva era la litania che gli aveva insegnato Shrike e la sua voce sembrava quella di un capotreno che annuncia le stazioni.
«O Signore, noi non siamo di quelli che si lavano col vino, con l’acqua, con l’orina, con l’aceto, col fuoco, con l’olio, col dopobarba, col latte, col brandy o con l’acido borico. O Signore, noi siamo quelli che si lavano solo col Sangue dell’Agnello».
D’un tratto la scena del sogno cambiò: si trovava ora nel dormitorio dell’università. Con lui c’erano Steve Garvey e Jud Hume. Erano stati a discutere sull’esistenza di Dio da mezzanotte all’alba, e ora, esaurite le scorte di whisky, decidevano di andare al mercato a comprare dell’acquavite di mela.
S’incamminavano per le strade della città ancora addormentata e s’inoltravano nei campi aperti. Era primavera. Il sole e l’odore della vegetazione nascente rinvigorivano la loro sbornia e i ragazzi procedevano barcollando tra i carretti ricolmi. I contadini guardavano con occhio benevolo i loro scherzi sguaiati: studenti che si davano alla pazza gioia.
Trovavano quello che vendeva il liquore di contrabbando e compravano un gallone di acquavite di mela; poi si mettevano a gironzolare dalle parti in cui erano in vendita gli animali. Si fermavano a fare gli scemi con degli agnelli. Jud suggeriva di comprarne uno per farselo arrosto nel bosco. Miss Lonelyhearts era d’accordo, a condizione che, prima di rosolarlo, lo offrissero in sacrificio a Dio.
Steve veniva spedito al banco dell’arrotino per comprare un coltello da macellaio, mentre gli altri due rimanevano a trattare l’acquisto dell’agnello. Dopo un gran mercanteggiare levantino, in cui Jud faceva sfoggio delle sue origini contadine, sceglievano il più giovane, un cosino tutto testa, malfermo sulle zampe.
Quindi portavano l’agnello in processione attraverso il mercato. Per primo veniva Miss Lonelyhearts, con il coltello in mano, poi gli altri: Steve portava il bottiglione e Jud l’animale. Marciando, cantavano una versione oscena di Mary aveva un agnellino .
Tra il mercato e la collina dove avevano intenzione di celebrare il sacrificio c’era un prato. Mentre lo attraversavano, raccoglievano margherite e ranuncoli. A metà costa s’imbattevano in una roccia e la ricoprivano di fiori, poi vi deponevano sopra l’agnello. Miss Lonelyhearts veniva eletto sacerdote e Steve e Jud suoi accoliti. Mentre questi ultimi lo tenevano fermo, l’officiante si chinava sull’agnello e cominciava a salmodiare:
«Cristo, Cristo, Gesù Cristo. Cristo, Cristo, Gesù Cristo».
Appena la frenesia indotta dal canto era arrivata al culmine, Miss Lonelyhearts abbassava con forza il coltello. Ma il colpo era impreciso e provocava solo una ferita nella carne. Allora sollevava ancora il coltello, ma stavolta i violenti strattoni dell’agnello gli facevano mancare del tutto il colpo. Il coltello si spezzava sull’altare. Steve e Jud tenevano indietro la testa dell’animale in modo che potesse tagliargli la gola, ma c’era rimasto solo un pezzetto di lama attaccato al manico e lui non era in grado di penetrare neanche il vello arruffato e impiastricciato.
Le loro mani erano ormai viscide di sangue e l’agnello riusciva a divincolarsi e a trascinarsi nel sottobosco.
Mentre il sole circondava di fitte ombre l’altare di roccia, la scena sembrava contrarsi per un rinnovato scoppio di violenza. Tutti e tre saltavano su di scatto e fuggivano di corsa giù per la collina fino a che non arrivavano al prato, dove cadevano esausti nell’erba alta.
Passato qualche minuto, Miss Lonelyhearts implorava gli altri di tornare indietro e di por fine alle sofferenze dell’agnello, ma essi rifiutavano. Allora andava da solo finché non lo trovava nascosto sotto un cespuglio. Con un sasso gli fracassava il cranio e lasciava la carcassa alle mosche che già s’addensavano attorno agli insanguinati fiori dell’altare.
Miss Lonelyhearts e il pollice grasso
Miss Lonelyhearts scoprì che stava sviluppando una sensibilità poco meno che maniacale per l’ordine. Ogni cosa doveva esser disposta secondo uno schema ben preciso: le scarpe sotto il letto, le cravatte nell’armadio, le matite sulla scrivania. Quando guardava dalla finestra, aggiustava i contorni del cielo equilibrando ogni edificio con quello a fianco. Se per caso un uccello attraversava la sua composizione, chiudeva gli occhi irritato finché l’intruso non scompariva.
Per qualche tempo riuscì a resistere, ma un bel giorno si ritrovò con le spalle al muro. Quel giorno tutti gli oggetti inanimati su cui aveva cercato di esercitare il controllo scesero in campo contro di lui. Qualsiasi cosa toccasse, si rovesciava o rotolava via sul pavimento. I bottoni del colletto sparivano sotto il letto, la matita si spuntava, il manico del rasoio si rompeva, la tapparella rifiutava di restare chiusa. Cercò di reagire, ma con foga eccessiva, e fu definitivamente sconfitto dalla molla della sveglia.
Fuggì in strada, ma qui il caos si moltiplicava. Gruppi irregolari di persone gli passavano accanto di corsa senza formare né stelle né quadrati. I lampioni erano disposti a intervalli irregolari e le lastre del marciapiede erano di misure diverse. Né tantomeno poteva fare nulla contro l’acuto sferragliare dei tram o contro le rozze grida degli ambulanti. Non c’era gruppo di parole che, ripetute, si adattassero a quel ritmo, né una scala che potesse dare significato a quei suoni.
Si appoggiò a un muro in silenzio, cercando di non vedere e di non sentire. Poi si ricordò di Betty. Spesso aveva avuto l’impressione che quando lei gli raddrizzava la cravatta, gli raddrizzasse molto di più. E una volta aveva pensato che se il mondo di Betty fosse stato più grande, fosse stato ilmondo, lei sarebbe stata capace di metterlo in ordine in modo definitivo, così come metteva in ordine gli oggetti sulla sua toilette.
Diede l’indirizzo della ragazza a un tassista, pregandolo di affrettarsi. Ma Betty viveva dall’altra parte della città e quando vi arrivò, il panico che l’aveva assalito s’era ormai mutato in irritazione.
Venne ad aprirgli la porta dell’appartamento avvolta in una fresca vestaglia di lino bianco con i bordi sfumati di giallo fino a diventare marrone. Gli porse tutte e due le mani, e le braccia apparvero lisce e tonde come legno tornito dalle onde del mare.
Quando la timidezza s’impadronì di nuovo di lui, si rese conto che solo la violenza l’avrebbe reso più sciolto. Comunque fu con Betty che se la prese. Dopotutto il mondo di Betty non era il mondo e non sarebbe mai riuscito a includere i lettori della sua rubrica. La sicurezza della ragazza era basata sulla capacità di limitare l’esperienza a suo arbitrio. Inoltre, mentre la confusione di lui aveva un senso, l’ordine di Betty ne era assolutamente privo.
Provò a rispondere a quel benvenuto ma si accorse d’un tratto che la lingua gli si era trasformata in un pollice grasso. Per evitare di parlare, tentò goffamente di baciarla, ma poi si sentì costretto a scusarsi.
«Troppe smancerie da ritorno dell’innamorato, lo so, ma io…» S’incagliò di proposito, per fare in modo che la ragazza scambiasse la sua confusione per sentimento genuino. Ma il trucco non gli riuscì e lei rimase in attesa del resto della frase:
«Ti prego, cena con me stasera».
«Temo proprio che non sia possibile».
Il sorriso di Betty si allargò in una risata.
Stava ridendo di lui. Sulla difensiva, cominciò a scrutare quella risata a caccia d’un sottofondo di «amarezza», «acidità», «cuore-ferito», «al-diavolo-tutto-quanto». Ma con suo grande sconcerto, non trovò alcun motivo di ridere a sua volta. Il sorriso di Betty si era aperto naturalmente, non come un ombrello, e mentre la osservava quella risata sembrò richiudersi un poco e divenne di nuovo un sorriso, un sorriso che non era né «sarcastico», né «ironico», né «misterioso».
Quando si trasferirono in salotto, sentì crescere l’irritazione. Betty si accomodò sul divano, raccogliendo sotto di sé le gambe nude e tenendo la schiena ben dritta. Alle sue spalle, sulla carta da parati giallo limone, fioriva un albero d’argento. Lui rimase in piedi.
«Mi sembri Betty Buddha», osservò. «Betty Buddha: il sorrisetto compiaciuto ce l’hai, ti manca solo il pancione».
Tanto era l’astio che traboccava dalla sua voce che perfino lui ne fu sorpreso. Per un po’ rimase lì in piedi, incerto e irrequieto, poi finalmente si sedette accanto a lei sul divano per prenderle la mano.
Erano passati oltre due mesi da quando s’era seduto con lei su quello stesso divano e le aveva chiesto di sposarlo. Betty gli aveva detto di sì e si erano messi a fare piani per la loro vita dopo le nozze, lui col suo lavoro e lei col suo grembiule di cotonina, lui con le pantofole accanto al focolare e lei tanto brava ai fornelli. Da allora l’aveva evitata. Non che si fosse pentito: semplicemente gli dava noia l’essersi illuso che quella soluzione fosse possibile.
Ben presto si stancò di tenerle la mano e ricominciò ad agitarsi. Rammentò che verso la fine della sua ultima visita era riuscito a infilarle una mano nella scollatura. Siccome non gli veniva in mente nient’altro da fare, ripeté quel gesto. Sotto la vestaglia la ragazza era nuda e lui trovò subito il seno.
Betty non diede alcun segno d’essersi accorta della mano. Lui avrebbe accettato volentieri uno schiaffo, invece, anche quando le afferrò un capezzolo, lei rimase in silenzio.
«Fammi cogliere questa rosa», disse, dandole una tiratina. «Vorrei mettermela all’occhiello».
La mano di Betty gli si posò sulla fronte. «Cosa c’è, caro?», gli chiese. «Non ti senti bene?»
Cominciò a inveire contro di lei, accompagnando le urla con gesti che erano troppo studiati, come quelli d’un vecchio attore.
«Che gran troia gentile che sei: appena uno comincia a comportarsi con crudeltà, dici che non sta bene. Quelli che seviziano le mogli, quelli che violentano i bambini, per te non sono altro che malati. Che bisogno c’è della morale, basta la medicina! Be’, guarda che io non sto male. Non ho bisogno delle tue stramaledette aspirine. Ho il complesso di Cristo, io. L’umanità…, ho una fissa per l’umanità, io. Tutti quei poveri bastardi…» Finì con una breve risata che somigliava più a un latrato.
Betty s’era alzata dal divano per rifugiarsi su una poltrona rossa tutta rigonfia d’imbottitura e tesa da potenti molle. In grembo a questo mostro di pelle, ogni traccia del sereno Buddha era svanita.
Ma l’ira di lui era tutt’altro che spenta. «Cosa c’è, tesoro?», le chiese, carezzandole minacciosamente la spalla. «Non t’è piaciuta la mia interpretazione?»
Per tutta risposta, Betty alzò un braccio come per ripararsi da un colpo. Sembrava un gattino la cui inerme morbidezza ti fa morire dalla voglia di fargli del male.
«Cosa c’è, eh?», cominciò a chiederle ripetutamente. «Cosa c’è? Cosa c’è?»
Sul volto della ragazza si fece strada l’espressione di un giocatore inesperto che sta per puntare tutto sull’ultimo lancio dei dadi. Miss Lonelyhearts si stava già voltando per prendere il cappello, quando lei parlò.
«Ti amo».
«Cosa?»
La necessità di ripetere la frase la turbava profondamente, eppure riuscì a evitare qualsiasi tono melodrammatico.
«Ti amo».
«Anch’io ti amo», rispose lui. «Amo te e il tuo maledetto sorriso tra le lacrime».
«Perché non mi lasci in pace?» Ora si era messa a piangere. «Stavo tanto bene prima che arrivassi tu, e invece adesso mi sento uno straccio. Vattene! Vattene, per favore!»
Miss Lonelyhearts e il vecchio distinto
Quando fu di nuovo in strada, Miss Lonelyhearts si interrogò sul da farsi. Era troppo turbato per mangiare e aveva paura di tornare a casa. Aveva la sensazione che il suo cuore fosse una bomba, una bomba complicata che avrebbe finito per scoppiare in maniera molto semplice, devastando il mondo senza neanche farlo tremare.
Decise di andare da Delehanty per un bicchierino. Quando entrò nello speakeasy, trovò un gruppo di suoi amici al bancone. Lo salutarono senza neanche interrompere la conversazione. Uno di loro si lamentava del gran numero di scrittrici in circolazione.
«E tutte con almeno tre nomi», stava dicendo. «Mary Roberts Wilcox, Ella Wheeler Catheter, Ford Mary Rinehart…»
Poi un altro diede il via a una serie di storie suggerendo che quello di cui tutte avevano bisogno era un bello stupro.
«Conoscevo una tizia che era una persona a posto finché non cominciò a frequentare un gruppetto e si mise a fare la letterata. Prese a scrivere sulle rivistine di quanto soffriva per la Bellezza e piantò il suo ragazzo che rimetteva in piedi i birilli in una pista di bowling. Allora i ragazzi del vicinato ci rimasero male e una sera la portarono nei prati. Saranno stati in otto. Le diedero una bella ripassata…»
«Mi fa venire in mente quello che si racconta di un’altra di queste femmine che si mettono a scrivere. Quando hanno cominciato a venir fuori i romanzi della scuola realistica dura, ecco che lei di botto la pianta di parlar forbito e mi diventa a un tratto “dura e pura”. Comincia allora a frequentare certi ceffi in uno speakeasy con l’intenzione di raccogliere materiale per un romanzo. Be’, questi tizi non sapevano di essere tanto pittoreschi e credevano che fosse una ragazza a posto, finché il barista non gli aprì gli occhi. Allora la portarono nella saletta interna per insegnarle qualche parolina nuova e le diedero una bella lezione: non la fecero uscire per tre giorni di fila. Figuratevi che l’ultimo giorno cominciarono a vendere i biglietti ai negri…»
Miss Lonelyhearts smise di starli a sentire. I suoi amici erano capaci di andare avanti a raccontare storie del genere fino a quando erano troppo sbronzi per parlare. Si rendevano conto di essere infantili, ma non sapevano cos’altro fare per vendicarsi. Finché erano stati all’università, e forse per un anno ancora, avevano tutti creduto nella letteratura, avevano creduto nella Bellezza e nell’espressione della propria personalità come fine assoluto. Una volta persa questa fede, avevano perso tutto. Il denaro e il successo non contavano un bel niente per loro. Non erano uomini di mondo.
Miss Lonelyhearts continuò a bere con impegno e costanza. S’era stampato in faccia un sorriso innocente e divertito, il sorriso di un anarchico che siede in un cinema con una bomba in tasca. Se solo la gente seduta attorno a lui sapesse cos’è che porta in tasca! Ecco, tra poco si alzerà e andrà ad ammazzare il Presidente.
Quel sorriso gli rimase sulle labbra finché non udì qualcuno menzionare il suo nome e allora si rimise in ascolto.
«È un bacia-lebbrosi. Shrike dice che cerca sempre un lebbroso da baciare. Barista, un lebbroso per il signore!»
«E se non ne hai, dagli un ungherese».
«Sapete cos’è che non va nel suo modo di rapportarsi a Dio? È troppo letterario, accidenti – canto fermo, poesie in latino, pittura medievale, Huysmans, vetrate variopinte e altre stronzate del genere».
«Ammettiamo pure che la sua esperienza religiosa sia genuina, sarebbe comunque un’esperienza personale e insignificante per chiunque, a parte uno psicologo».
«Il guaio suo, anzi, il guaio di tutti noi, è che non abbiamo una vita esteriore, ma solo interiore, e anche questa perché non possiamo proprio farne a meno».
«È uno sempre in cerca di evasioni. Vuole coltivare il suo orticello interiore, lui. Ma vie di scampo non ce ne sono, e poi, dove troverà mai un mercato per i frutti della sua personalità? L’ufficio per il commercio agricolo non funziona per niente».
«Io dico che, dopo tutto, uno si deve pur guadagnare da vivere, no? Non possiamo mica credere tutti in Cristo, e che gliene frega dell’arte al contadino? Quello si toglie le scarpe per godersi la calda sensazione della terra tra le dita dei piedi. Ma in chiesa uno mica se le può togliere le scarpe».
Nel frattempo Miss Lonelyhearts aveva ricominciato a sorridere. Come Shrike, l’uomo che volevano imitare, non erano altro che macchine per fare battute. Una macchina per fare bottoni produce bottoni, non importa quale energia la muova, pedale, vapore o elettricità. Questi qui, non importa se motivati dalla morte, dall’amore o da Dio, producevano battute.
«Possibile che l’unica barriera sia questa loro scempiaggine?», si domandò. «Che mi sia fatto intimorire da un ostacolo così basso?»
Il whisky era buono e gli infondeva calore e sicurezza. Attraverso il fumo cilestrino, il bancone di mogano brillava come oro bagnato. Bicchieri e bottiglie, dai riflessi scoppiettanti, tintinnavano come tanti campanelli appena il barista li faceva toccare. Miss Lonelyhearts dimenticò di avere una bomba al posto del cuore per rammentare un episodio della propria infanzia. Una sera d’inverno aspettava insieme alla sorellina che il padre tornasse dalla chiesa. La sorella aveva allora otto anni, e lui dodici. Immalinconito dall’intervallo tra il gioco e la cena, si era messo al piano e aveva cominciato a suonare un pezzo di Mozart. Era la prima volta che suonava il piano di sua spontanea volontà. La sorella lasciò il libro illustrato che stava sfogliando e si mise a ballare al ritmo di quella musica. Non aveva mai ballato prima di allora. Ballò con movimenti solenni e precisi, una danza semplice e cerimoniosa al tempo stesso… Appoggiato al bancone, Miss Lonelyhearts oscillava leggermente al suono della musica del ricordo e cominciò a pensare a una danza di bimbi. Un ovale sostituito da un quadrato e il quadrato da un cerchio. Tutti i bambini, d’ogni paese: nel mondo intero non c’era un bimbo che non danzasse dolcemente, solennemente.
Fece per scostarsi dal bancone ma urtò per sbaglio un uomo con in mano un boccale di birra. Quando si voltò per chiedergli scusa, ricevette un pugno sulla bocca. Più tardi si ritrovò a giocherellare con un dente allentato, seduto a un tavolo della saletta interna. Si chiese come mai il cappello gli stesse stretto e scoprì un bernoccolo sulla nuca. Doveva esser caduto. A quanto pare l’ostacolo era più alto di quanto pensasse.
La sua rabbia cominciò a ondeggiare in ampi cerchi, come un ubriaco. Cosa Cristo c’entrava Cristo in questa storia? E i bambini che danzavano solennemente? Decise di chiedere a Shrike il trasferimento alla pagina sportiva.
Ned Gates venne a vedere come se la cavava e gli suggerì di prendere una boccata d’aria fresca. Anche Gates era bello sbronzo. Quando lasciarono insieme lo speakeasy, scoprirono che s’era messo a nevicare.
La rabbia di Miss Lonelyhearts divenne fredda e sorda come la neve. I due s’incamminarono barcollando a testa bassa, voltando gli angoli a casaccio finché non si trovarono davanti al piccolo parco. Nel bagno pubblico la luce era accesa ed essi vi entrarono per riscaldarsi un po’.
Un vecchio se ne stava seduto su una delle tazze. La porta della cabina era spalancata e il vecchio era seduto sul coperchio abbassato della tazza.
Gates lo apostrofò: «E bravo! Seduto lì sopra come un re sul trono, eh?»
Il vecchio sussultò per la paura, ma alla fine riuscì a parlare: «Che volete? Lasciatemi in pace, per favore». Aveva una voce flautata, senza vibrazioni.
«Se le donne mi dicono no, con un vecchio distinto mi rifarò», intonò Gates.
Il vecchio parve sul punto di piangere, invece scoppiò in una grande risata. Ma sotto quella risata insorse una terribile tosse che, partendo dal fondo dei polmoni, lo lacerò fino alla gola. Si voltò per asciugarsi la bocca.
Miss Lonelyhearts cercò di convincere Gates ad andar via, ma lui rifiutò di partire senza il vecchio. Lo afferrarono uno da una parte e uno dall’altra finché riuscirono a tirarlo fuori dalla cabina e a trascinarlo all’aperto. Il vecchio si afflosciò tra le loro braccia e si mise a ridacchiare. Miss Lonelyhearts scacciò il desiderio di colpirlo.
La neve aveva smesso di cadere e l’aria si era fatta molto fredda. Il vecchio non portava il cappotto perché, disse, trovava il freddo inebriante. Aveva un bastone da passeggio e indossava i guanti perché, spiegò, detestava le mani arrossate.
Invece di tornare da Delehanty, entrarono in una cantina italiana non lontana dal parco. Il vecchio cercò di convincerli a bere del caffè, ma gli dissero di farsi gli affari suoi e ordinarono del whisky liscio. L’alcol bruciava sul labbro spaccato di Miss Lonelyhearts.
Ben presto Gates fu infastidito dalle maniere un po’ affettate del vecchio. «Senti un po’», gli disse, «piantala con queste arie da gentiluomo e raccontaci la storia della tua vita».
Il vecchio si tirò su con l’aria di una bambina che fa vedere i muscoli.
«E piantala, dai», disse Gates. «Guarda che noi siamo scienziati. Lui è Havelock Ellis e io sono Krafft-Ebing. Quand’è che ti sei accorto per la prima volta di avere tendenze omosessuali?»
«Ma come sarebbe a dire, signore? Io…»
«Sì, lo so, ma perché ti senti diverso dagli altri uomini?»
«Come osa…», esclamò, con uno strilletto indignato.
«Su, su», intervenne Miss Lonelyhearts, «non aveva alcuna intenzione di insultarla. Sa, gli scienziati a volte sono così maleducati… Comunque lei è un pervertito, non è vero?»
Il vecchio alzò il bastone da passeggio per colpirlo. Gates lo afferrò da dietro e glielo strappò di mano. L’uomo riprese a tossire violentemente, coprendosi la bocca con la cravatta di seta nera. Sempre tossendo, si trascinò su una sedia in fondo alla stanza.
Miss Lonelyhearts provò la stessa sensazione che aveva provato anni prima, quando aveva inavvertitamente schiacciato una ranocchia. La vista dell’animaletto con le budella di fuori l’aveva riempito di pietà, ma quando i suoi sensi avevano colto la realtà di quella sofferenza, la pietà si era tramutata in rabbia e quindi si era messo a colpire furiosamente la bestiola, fino a ucciderla.
«Vedrai se non gli strapperò la storia della sua vita a quel bastardo», esclamò, inseguendo il vecchio. Gates gli andò dietro ridendo.
Quando gli si avvicinarono, il vecchio saltò in piedi. Miss Lonelyhearts lo afferrò e lo costrinse a rimettersi seduto.
«Noi due siamo degli psicologi», disse. «Siamo qui per aiutarla. Come si chiama?»
«George B. Simpson».
«Cosa significa quella B?»
«Bramhall».
«Per favore, ci dica quanti anni ha e cosa cerca nella vita».
«Chi vi dà il diritto di farmi tutte queste domande?»
«La scienza».
«Lasciamo perdere», intervenne Gates. «Sennò questa vecchia checca si mette a piangere».
«No, mio caro Krafft-Ebing, non bisogna mai lasciare che i sentimenti interferiscano nelle indagini della scienza».
Miss Lonelyhearts mise un braccio attorno alle spalle del vecchio. «Ci racconti la storia della sua vita», gli disse, accentuando il tono di simpatia nella voce.
«Non ho nessuna storia da raccontare».
«Ma deve averla. Tutti hanno una storia da raccontare».
Il vecchio prese a singhiozzare.
«Sì, lo so: la sua è una storia triste. Ce la racconti, accidenti a lei, ce la racconti!»
Visto che il vecchio rimaneva in silenzio, gli prese un braccio e cominciò a torcerglielo. Gates tentò di trascinarlo via, ma lui non mollò la presa. Stava torcendo il braccio a tutti gli infermi e i sofferenti, ai vinti e ai traditi, ai timidi e agli impotenti. Stava torcendo il braccio a Disperata, Cuore-spezzato, Stanca-di-tutto, Delusa-dal-marito-
tubercolotico.
Il vecchio cominciò a strillare. Da dietro, qualcuno ruppe una sedia in testa a Miss Lonelyhearts.
Miss Lonelyhearts e la signora Shrike
Miss Lonelyhearts se ne stava sdraiato sul letto tutto vestito, proprio come ce lo avevano buttato la sera prima. La testa gli doleva e i pensieri giravano dentro il dolore come una ruota dentro un’altra. Quando aprì gli occhi, la stanza, la terza ruota, si mise a girare attorno al mal di testa.
Dal letto vedeva il quadrante della sveglia. Erano le tre e mezza. Quando squillò il telefono, si liberò strisciando dall’acre groviglio formato dalle lenzuola e dalle coperte. Shrike voleva sapere se aveva intenzione di farsi vedere in redazione. Rispose che era ubriaco ma avrebbe tentato di presentarsi.
Lentamente si spogliò e fece il bagno. Immerso nell’acqua calda, il corpo si sentì meglio, ma il cuore rimaneva un gelido groppo di grasso rappreso. Dopo essersi asciugato, scovò un po’ di whisky nell’armadietto delle medicine e lo bevve. L’alcol gli riscaldò solo le pareti dello stomaco.
Si fece la barba, indossò una camicia pulita e un vestito stirato, poi uscì a mangiare un boccone. Dopo la seconda tazza di caffè bollente, si era fatto ormai troppo tardi per andare al lavoro. Comunque si sentiva tranquillo, Shrike non l’avrebbe mai licenziato: era un bersaglio troppo perfetto per le battute del caposervizio. Una volta aveva cercato di farsi licenziare raccomandando il suicidio dalle colonne della sua rubrica. Tutto quello che Shrike ebbe da dirgli fu: «Per favore, cerca di ricordare che il tuo compito è quello di aumentare la diffusione del giornale. Si può ragionevolmente arguire che il suicidio contrasti e annulli il perseguimento di questo scopo».
Pagò la colazione e uscì dal locale. Forse un po’ di moto lo avrebbe riscaldato. Decise di farsi una camminata a passo svelto, ma ben presto si stancò e quando raggiunse il piccolo parco si accasciò esausto su una panchina di fronte all’obelisco della Guerra Messicana.
La stele di pietra gettava un’ombra lunga e rigida sul vialetto dinanzi a lui. Rimase lì a fissarla senza saper bene perché, fino a quando si accorse che l’ombra si allungava a scatti e non gradualmente come al solito. Si spaventò e alzò gli occhi di scatto verso il monumento. Nel sole morente sembrava rosso e gonfio, come se stesse sul punto di schizzar fuori un groppo di seme di granito.
Miss Lonelyhearts scappò via di corsa. Una volta riguadagnata la strada, scoppiò a ridere. Aveva provato l’acqua calda, il whisky, il caffè e la ginnastica, ma si era completamente dimenticato del sesso. Quello di cui aveva veramente bisogno era una donna. Rise di nuovo, ricordando come all’università tutti i suoi amici fossero convinti che il coito avesse la proprietà di calmare i nervi, rilassare i muscoli e purificare il sangue.
Ma conosceva solo due donne che lo sopportavano: con Betty s’era ormai messo fuori gioco, quindi gli rimaneva solo Mary Shrike.
Quando baciava la moglie di Shrike riusciva a sentirsi un po’ meno ridicolo. Lei rispondeva ai suoi baci perché odiava Shrike. Ma anche in quel campo Shrike aveva la meglio su di lui. Per quanti sforzi facesse per convincerla a mettere le corna al marito, Mary si rifiutava di andare a letto con lui.
Quantunque grugnisse e rovesciasse gli occhi quando la baciava, Mary rifiutava di associare le sue sensazioni all’atto sessuale. Se Miss Lonelyhearts cercava di forzare questa associazione, la signora Shrike si infuriava. Ad averlo convinto della genuinità di quei piccoli grugniti era il cambiamento che aveva luogo in lei mentre la baciava appassionatamente. In quei momenti il suo corpo emanava un odore che accentuava l’essenza sintetica di fiore che era solita mettersi dietro gli orecchi e sulla gola. Nessun mutamento del genere, invece, si verificava in lui. Come un corpo morto, poteva essere riscaldato solo per sfregamento e messo in moto soltanto da una violenta sollecitazione.
Decise di bere qualche bicchierino e poi chiamare Mary da Delehanty. Era ancora presto e il locale era vuoto. Il barista lo servì e tornò a leggere il giornale.
Sullo specchio dietro al bancone c’era la pubblicità di un’acqua minerale. Mostrava una ragazza nuda, pudicamente velata dai vapori che si levavano dalla sorgente ai suoi piedi. L’artista aveva messo parecchia cura nel disegnare il seno, e i capezzoli risaltavano come due minuscoli cappellini rossi.
Miss Lonelyhearts cercò di stimolare il suo ardore pensando al giochetto che Mary era solita fare col proprio seno, usandolo come le dame civettuole d’una volta usavano il ventaglio. Uno dei suoi trucchi preferiti era quello di portare una medaglietta nella scollatura. Ogni volta che le chiedeva di vederla, invece di tirarla fuori, si chinava verso di lui per mostrargliela. Quantunque le avesse chiesto spesso di fargli vedere la medaglietta, non aveva ancora scoperto cosa vi fosse raffigurato.
Ma l’eccitazione sperata non venne, anzi, gli pareva di sentirsi ancor più freddo da quando si era messo a pensare alle donne. Non era proprio il suo genere. Ad ogni modo, in mancanza d’altro, persistette nel suo proposito e andò al telefono per chiamare Mary.
«Sei tu?», gli chiese lei, e prima che lui potesse risponderle aggiunse: «Devo vederti immediatamente. Ci ho litigato. Questa volta è finita».
Parlava sempre così, con frasi che sembravano titoli di giornale, e l’agitazione che traspariva dalla sua voce lo costrinse a rispondere in tono distaccato: «Va bene. Dove? Quando?»
«Dove ti pare. Con quel fetente ho chiuso, ti giuro, stavolta è finita».
Non era la prima volta che litigava con Shrike e lui sapeva benissimo che, in cambio di un’ordinaria razione di baci, gli sarebbe toccato ascoltare una straordinaria quantità di lamentele.
«Vuoi raggiungermi qui da Delehanty?», le chiese.
«No, vieni tu da me. Saremo soli e comunque devo fare il bagno e vestirmi».
Arrivato a casa sua, l’avrebbe probabilmente trovata sulle ginocchia di Shrike. Entrambi si sarebbero mostrati felicissimi di vederlo e sarebbero andati tutti e tre al cinema, dove Mary gli avrebbe tenuto la mano di nascosto.
Tornò al bancone a bere un altro bicchiere, poi comprò un litro di scotch e prese un taxi. Fu Shrike ad aprirgli la porta. Anche se si aspettava di vederlo lì, la cosa lo mise molto in imbarazzo. Cercò quindi di nascondere il suo disagio fingendosi del tutto sbronzo.
«Avanti, avanti, rovinafamiglie», disse Shrike, ridendo. «La signora sarà pronta tra un attimo. È ancora nella vasca».
Shrike gli tolse di mano la bottiglia e la stappò. Poi prese del seltz e preparò due bibitoni.
«Bene, bene», esclamò Shrike alzando il bicchiere, «è così che te la spassi, eh? Whisky e la moglie del capo».
Miss Lonelyhearts non riusciva mai a trovare una risposta adatta per Shrike. Tutte quelle che gli venivano in mente erano troppo generiche e risalivano troppo indietro nella storia del loro rapporto.
«Suppongo tu stia facendo una ricerca sul campo», riprese Shrike. «Ottimo, ma bada bene di non mettere questo whisky sul tuo conto spese. Ad ogni modo mi fa molto piacere vedere un giovanotto che nel suo lavoro ci mette il cuore. È da un po’ che te lo porti a spasso, il cuore».
Miss Lonelyhearts cercò disperatamente di rilanciare una battuta: «E lei è un vecchio cattivaccio che picchia la moglie».
Shrike scoppiò in una risata, ma troppo lunga e troppo forte, interrotta poi di colpo da un elaborato sospiro. «Ah, ragazzo mio, qui ti sbagli. È Mary quella che picchia».
Ingollò un lungo sorso dal suo bicchiere, poi sospirò di nuovo, in modo ancor più elaborato. «Mio buon amico, vorrei farmi una chiacchierata cuore a cuore con te. Io le adoro, le chiacchierate cuore a cuore, ma al giorno d’oggi ce ne sono rimaste veramente poche di persone con cui si possa chiacchierare così. Sono tutti occupati a fare i duri. Voglio proprio aprirti il mio cuore e alleviarmi con te la coscienza. È meglio alleviarla così, la coscienza, aprendosi il cuore, che lasciare che le cose marciscano nei recessi dell’anima».
Mentre parlava, il suo volto era animato da piccoli tic e ammiccamenti il cui scopo evidente era quello di ispirare fiducia e di far vedere che, in fondo, lui era un tipo schietto.
«Amico mio, la tua accusa mi punge nel vivo. Voi amanti spirituali credete di essere i soli a soffrire. Ma vi sbagliate. Quantunque il mio amore tenda più alla carne carnosa, anch’io soffro. Ed è la sofferenza che mi spinge tra le braccia delle varie Miss Farkis del mondo. Ebbene sì, anch’io soffro».
A questo punto la sua faccia di bronzo s’incrinò e nella voce s’insinuò una nota di dolore. «È un’egoista. È una cagna maligna ed egoista. Era vergine quando l’ho sposata e da allora non ha fatto che lottare per rimanere tale. Dormire con lei è come dormire con un coltello infilato nell’inguine».
Questa volta fu Miss Lonelyhearts che scoppiò a ridere. Accostò il volto a quello di Shrike e si sforzò di ridere il più possibile.
Shrike tentò di ignorarlo cercando di concludere la storia come se non fosse altro che una delle sue battute.
«Dice che l’ho praticamente violentata. Te l’immagini tu Willie Shrike, il piccolo Willie Shrike, che violenta una donna? Io sono come te, uno di quegli amanti riconoscenti».
Avvolta nell’accappatoio, Mary entrò nella stanza. Si chinò su Miss Lonelyhearts e gli disse: «Non dar retta a quel porco. Vieni con me e portati dietro il whisky».
Mentre la seguiva nella stanza da letto, sentì Shrike che sbatteva la porta d’ingresso. La donna entrò nello spogliatoio per vestirsi. Miss Lonelyhearts si sedette sul letto.
«Che ti ha detto quel porco?»
«Ha detto che sei egoista, Mary – egoista sessualmente».
«Ma guarda che faccia tosta! Tu lo sai perché mi permette di uscire con altri uomini? Per risparmiare soldi. Sa benissimo che mi lascio sbaciucchiare, e quando torno a casa turbata e in calore arriva lui che mi salta nel letto e comincia a supplicare. Brutto bastardo, morto di fame!»
Uscì dallo spogliatoio con indosso una sottoveste di pizzo nero e cominciò a pettinarsi di fronte alla toilette. Miss Lonelyhearts si chinò per baciarle la nuca.
«Su, su!», disse lei, facendo la gattina, «che mi scompigli tutta!»
Miss Lonelyhearts si attaccò alla bottiglia, poi preparò un bicchiere per lei. Quando glielo porse, lei gli diede un bacetto, una rapida beccata di ricompensa.
«Dove andiamo a mangiare?», chiese poi. «Andiamo in un posto dove si può anche ballare. Ho voglia di essere gaia, stasera».
Presero un taxi e andarono in un posto chiamato El Gaucho. Quando fecero il loro ingresso nel locale, l’orchestrina stava suonando una rumba cubana. Un cameriere vestito da vaccaro sudamericano li accompagnò al tavolo. Immediatamente Mary assunse un atteggiamento spagnoleggiante: i suoi movimenti si fecero languorosi e pieni di abbandono.
Ma tutta quell’atmosfera romantica non fece altro che acutizzare in lui la sensazione di avere in petto un groppo di grasso gelato. Cercò di combatterla dicendo a se stesso che si stava comportando in modo infantile. Che fine aveva fatto il suo grande cuore comprensivo? Chitarre, scialli colorati, cibo esotico, costumi di terre lontane – erano tutte cose che facevano parte dell’industria dei sogni. Aveva imparato a non ridere degli annunci che offrivano di insegnare a scrivere, disegnare fumetti, diventare ingegneri, aggiungere centimetri ai bicipiti e sviluppare il seno. Era quindi in grado di capire che quelli che venivano a El Gaucho erano gli stessi che volevano scrivere e fare la vita dell’artista, che volevano diventare ingegneri e indossare ghette di cuoio, che volevano sviluppare una stretta di mano potente per far colpo sul capo, che volevano cullare la testa di Raoul sul proprio morbido seno. Era la stessa gente che invocava aiuto scrivendo a Miss Lonelyhearts.
Ma la sua irritazione era troppo profonda per essere confortata da simili considerazioni. Ora come ora tutti quei sogni, per quanto umili, lo lasciavano freddo.
«Questo posto mi piace», disse Mary. «Lo so che è un po’ falso ma almeno è gaio, e io ho tanta voglia di essere gaia».
Gli dimostrava la sua gratitudine offrendosi a lui in una serie di gesti formali e impersonali. Indossava uno scintillante vestito attillato che pareva di acciaio tirato a lucido e nella sua pantomima c’era qualcosa di nettamente meccanico.
«Come mai hai tanta voglia di essere gaia?»
«Chi è che non ha voglia di essere gaio? Tutti, tranne i malati».
Era dunque malato? Come una grande ondata fredda i lettori della sua rubrica s’abbatterono sulla musica, sugli scialli variopinti e i camerieri pittoreschi, sullo scintillante corpo di Mary. Per salvarsi, le chiese di fargli vedere la medaglietta. Con l’atteggiamento d’una ragazzina che aiuti un vecchietto ad attraversare la strada, lei si piegò in avanti per mostrargli la scollatura. Ma prima ancora che potesse scorgere qualcosa, un cameriere s’accostò al tavolo.
«Il miglior modo per essere gai è rendere gaio il prossimo», sentenziò Miss Lonelyhearts. «Vieni a letto con me e sarò gaio come un cagnolino».
Il tono di sconfitta che traspariva dalla sua voce le rese più facile ignorare quella richiesta, ma il suo timore sprofondò con quello di lui. «Ho avuto una vita dura», disse Mary. «Sin dall’inizio, ho avuto una vita molto dura. Da piccola, ho visto morire mia madre. Aveva un tumore al seno e soffriva in modo terribile. È morta curva su un tavolo».
«Vieni a letto con me», ripeté lui.
«No, fammi ballare, piuttosto».
«Non mi va. Raccontami di tua madre».
«È morta curva su un tavolo. Soffriva così tanto che si trascinò fuori dal letto, per morire».
Mary si chinò sul tavolo per fargli vedere com’era morta la madre e lui fece un altro tentativo per sbirciare la medaglietta. Vide che c’era come una figura di corridore sopra, ma non riuscì a leggere cosa vi fosse scritto.
«Mio padre era molto crudele con lei», continuò. «Faceva il ritrattista, era un uomo geniale, però…»
Lui smise di ascoltarla, sforzandosi di rimettere all’opera il suo grande cuore comprensivo. Anche i genitori fanno parte della grande industria dei sogni. Mio padre era un principe russo, il mio era un capotribù degli indiani Paiute, il mio un ricco allevatore di pecore australiano, il mio ha perso tutto a Wall Street, il mio era un grande ritrattista. Le persone come Mary non sapevano fare a meno di storie come quelle. Le raccontavano perché volevano poter parlare di qualcos’altro oltre che di moda, di affari o di cinema, perché volevano poter raccontare qualcosa di poetico.
Quando lei ebbe finito la sua storia, Miss Lonelyhearts sospirò: «Poverina!», e si chinò su di lei per dare un’altra sbirciata alla medaglietta. Mary si sporse e per aiutarlo scostò l’orlo della scollatura con le dita. Questa volta gli riuscì di leggere l’iscrizione: «Premio della Boston Latin School alla prima classificata nei 100 metri piani».
Fu una modesta vittoria, la sua, ma parve esaurirlo del tutto e fu quindi molto contento quando la sentì proporre di lasciare il locale. In taxi, la supplicò di nuovo di andare a letto con lui, ma lei gli rispose ancora una volta di no. Allora lui cominciò a palparle il corpo come fa uno scultore arrabbiato con la propria creta, ma c’era troppo metodo in quelle sue carezze ed entrambi rimasero freddi.
Davanti alla porta di casa, Mary si voltò per farsi baciare e si strinse a lui. Nell’inguine di Miss Lonelyhearts scoccò una scintilla. Si rifiutò di lasciar perdere e si avvinghiò a lei nel tentativo di far crescere una fiamma da quella scintilla. Dopo un bacio lungo e appassionato, Mary distolse la bocca dalla sua.
«Senti», sussurrò, «non dobbiamo smettere di parlare. Dobbiamo continuare a parlare. Probabilmente Willie ha sentito arrivare l’ascensore e ora se ne sta dietro la porta a origliare. Tu non lo conosci. Se non ci sente parlare, capirà che mi stai baciando e aprirà la porta. È uno dei suoi trucchi».
La strinse ancor più forte, tentando disperatamente di mantenere in vita la scintilla.
«Non mi baciare sulla bocca», lo supplicò, «devo continuare a parlare».
Le baciò la gola, poi le aprì il vestito e le baciò il seno. Mary aveva paura sia di resistergli che di smettere di parlare.
«Mia madre è morta di tumore al seno», disse con voce coraggiosa, come una ragazzina che reciti una poesia a una festa. «È morta curva su un tavolo. Mio padre faceva il ritrattista. Si era dato alla gaia vita. Maltrattava la mamma, che aveva un tumore al seno. Lei…» Le stava strappando gli indumenti di dosso e Mary cominciò a bofonchiare e a ripetersi. Il vestito le cadde ai piedi e lui si accanì contro la biancheria intima finché non la spogliò tutta sotto la pelliccia. Tentò di tirarla giù sul pavimento.
«Ti prego, ti prego», lo supplicava, «verrà fuori e ci troverà così».
Le tappò la bocca con un bacio lunghissimo.
«Tesoro, ti prego lasciami andare», lo scongiurò. «Magari è uscito. Se non c’è, ti faccio entrare».
A quelle parole lui mollò la presa. Mary aprì la porta ed entrò in punta di piedi, portando i vestiti arrotolati sotto la pelliccia. La sentì che faceva scattare l’interruttore nell’ingresso e si rese conto che Shrike non era stato a origliare dietro la porta. Poi udì dei passi e si appiattì dietro una sporgenza della tromba dell’ascensore. La porta si riaprì e Shrike diede uno sguardo sul pianerottolo. Indossava solo la parte superiore del pigiama.
Miss Lonelyhearts compie una ricerca sul campo
Il giorno dopo la stanza della redazione era fredda e umida e Miss Lonelyhearts se ne stava seduto alla sua scrivania con le mani in tasca e le gambe unite. Stava pensando a un deserto, una grande distesa non di sabbia, ma di ruggine e sporcizia corporale, circondata da una staccionata su cui erano affissi manifesti che descrivevano gli avvenimenti della giornata. A colpi d’ascia madre massacra cinque, massacra sette, massacra nove… Bimbo sbatte due, sbatte tre… All’interno della staccionata, Disperata, Cuore-spezzato, Delusa-dal-marito-tubercolotico e le altre erano solennemente impegnate a compitare il nome di MISS LONELYHEARTS con gusci di vongole imbiancati, come se stessero decorando l’aiuola di una stazioncina di campagna.
Non si accorse del passo ondeggiante di Goldsmith che si avvicinava fin quando non sentì un braccio che gli si abbatteva sul collo come una tagliola in agguato. Con un grugnito si districò dalla presa. Goldsmith parve divertito dalla sua irritazione e sorrise, gonfiando le guance grasse come due rotoli di carta igienica rosea e liscia.
«Be’ come va, ubriacone?», chiese Goldsmith, sforzandosi di imitare Shrike.
Miss Lonelyhearts sapeva che era stato Goldsmith a scrivere la sua rubrica il giorno prima, e per gratitudine cercò di nascondere il proprio fastidio.
«Non c’è di che», disse Goldsmith. «È stato un piacere leggere la tua corrispondenza». Tirò fuori un foglietto rosa dalla tasca e lo gettò sulla scrivania. «Una tua ammiratrice». Gli fece l’occhietto, lasciando che una pesante palpebra grigia calasse lentamente e voluttuosamente sull’occhio tumido e ammiccante.
Miss Lonelyhearts prese la lettera.
Cara Miss Lonelyhearts,
non sono molto brava con la penna e perciò mi chiedo se non sia possibile farmi una chiacchierata con voi. Ho solo trentadue anni ma in vita mia ho già passato tanti guai e sono infelicemente sposata con uno storpio. Ho un terribile bisogno di buoni consigli ma non è che posso illustrare il mio caso per lettera perché non è che sono molto brava per lettera e comunque ci vorrebbe uno pratico per illustrare il mio caso. So che voi siete un uomo e meno male perché delle donne non mi fido. Mi siete stato indicato da Delehanty come l’uomo che scrive i consigli sul giornale e non appena vi ho visto mi sono detta ecco chi mi può aiutare. Avevate un vestito blu e il cappello grigio quando sono entrata con mio marito che è storpio. Non mi sento tanto imbarazzata a chiedervi di vedervi in persona perché in un certo senso è un po’ come se vi conoscessi. Così vi prego di chiamarmi al numero Burgess 7-7323 che è il mio numero perché ho un terribile bisogno del vostro consiglio riguardo alla mia vita matrimoniale.
Una vostra ammiratrice,
Fay Doyle
Miss Lonelyhearts gettò la lettera nel cestino con una grande aria di disgusto.
Goldsmith gli scoppiò a ridere in faccia. «Be’, che ti piglia, Dostoevskij? Non si fa mica così. Invece di metterti a fare il russo e raccomandare il suicidio, dovresti cercare di mettere incinta la signora e aumentare così la diffusione potenziale del giornale».
Per toglierselo dai piedi, Miss Lonelyhearts fece finta di aver da fare. Si avvicinò alla macchina da scrivere e cominciò a battere la sua rubrica.
«A gran parte di noi, la vita appare come una tremenda lotta col dolore e il crepacuore, senza gioia né speranza. Ma, miei cari lettori, questa è solo un’apparenza! Ogni uomo, per quanto povero e modesto, può imparare da solo a mettere a frutto i propri sensi. Guardate il cielo bioccolato di nuvole, il mare ornato di spume… Odorate quanto è dolce il pino e inebriante il ligustro… Toccate la morbidezza del velluto e della seta… E come dice la famosa canzonetta: “Le cose più belle della vita non costano niente”. La vita è…»
Non riusciva ad andare avanti e così si rifugiò di nuovo nel deserto in cui Disperata, Cuore-spezzato e le altre erano ancora intente a costruire il suo nome. Ormai avevano finito le conchiglie e usavano foto sbiadite, sudici ventagli, orari, carte da gioco, giocattoli rotti e gioielli finti – tutta la paccottiglia che la memoria aveva reso preziosa, molto più preziosa di qualsiasi cosa sottratta al mare.
Con una risata uccise il suo grande cuore comprensivo, poi ripescò dal cestino la lettera della signora Doyle. Come una tenda rosa l’eresse nel deserto. Sullo sfondo scuro del tavolo di mogano quella carta a buon mercato s’arricchiva di toni carnosi. Immaginò che la signora Doyle fosse una tenda, venata e coperta di peli, e lui uno scheletro in una latrina, il teschio con le tibie incrociate sull’ex libris di uno studioso. Quando introdusse lo scheletro nella tenda di carne, un fiore sbocciò in ogni sua giuntura.
Ma nonostante questi pensieri, si sentiva sempre freddo e asciutto come un osso tirato a lucido e rimase seduto lì, cercando uno scrupolo morale che gli impedisse di chiamare la signora Doyle. Se solo avesse potuto credere in Cristo, allora l’adulterio sarebbe stato un peccato, allora tutto sarebbe stato più semplice e non avrebbe più avuto difficoltà a rispondere alle lettere.
La completezza del suo fallimento lo spinse verso il telefono. Uscì dalla redazione e si diresse nel corridoio per usare il telefono a pagamento da cui si dovevano effettuare tutte le chiamate private. Le pareti della cabina erano ricoperte di scarabocchi osceni. Fissò lo sguardo su un paio di genitali privi di corpo e chiese al centralino di chiamargli Burgess 7-7323.
«C’è la signora Doyle, prego?»
«Pronto, chi parla?»
«Vorrei parlare con la signora Doyle. È lei la signora Doyle?»
«Sì, sono io». La voce della donna era indurita dalla paura.
«Sono Miss Lonelyhearts».
«Miss chi?»
«Miss Lonelyhearts… Miss Lonelyhearts, ha presente? Quello della rubrica sul giornale».
Era già sul punto di riagganciare, quando sentì tubare dall’altro capo del filo: «Oh, sì, pronto…»
«Mi ha chiesto lei di chiamarla».
«Oh, certo… Come?»
Capì che lei non poteva parlare. «Quando può incontrarmi?»
«Anche subito». Continuava a tubare e gli pareva quasi di sentire il suo respiro caldo-umido attraverso l’auricolare.
«Dove?»
«Dica lei…»
«Senta, facciamo così: vediamoci nel parco, vicino all’obelisco, tra un’ora circa».
Tornò alla scrivania e finì di scrivere il suo pezzo, poi uscì per recarsi al parco. Si sedette su una panchina vicino all’obelisco ad aspettare la signora Doyle. Pensando ancora alla tenda, si mise a scrutare il cielo e vide che sembrava fatto di tela mal tirata. Continuò a scrutarlo come uno stupido investigatore a caccia d’un indizio che spieghi il proprio spossamento. Non avendolo trovato, rivolse il suo occhio allenato ai grattacieli che minacciavano il piccolo parco da ogni lato. In quelle tonnellate di pietre incatenate e di acciaio torturato, gli parve di scorgere un indizio.
Gli americani avevano dissipato la loro energia razziale in un’orgia di pietre spaccate. Nella loro breve esistenza avevano spaccato più pietre loro di quante ne avessero spaccate gli egiziani in tanti secoli. Per di più avevano compiuto questo lavoro con isterica disperazione, quasi si rendessero conto che quelle pietre un giorno li avrebbero spaccati a loro volta.
L’investigatore vide un donnone entrare nel parco e dirigersi verso di lui. Fece un rapido inventario: gambe come clave indiane, seni come palloncini e una faccia da piccione. Nonostante la corta gonna scozzese, il maglione rosso, la giacca di pelle di coniglio e il berrettino col pon-pon, sembrava un capitano di polizia.
Attese che fosse lei a prendere la parola.
«Miss Lonelyhearts? Salve…»
La signora Doyle. Si alzò e le prese un braccio. Gli pareva di stringere una coscia.
«Dove si va?», chiese la donna, mentre lui la trascinava via.
«A bere un goccio».
«Da Delehanty non ci posso venire. Lì mi conoscono».
«Allora andiamo da me».
«Crede che dovrei?»
Non ebbe neanche bisogno di risponderle, perché si era già messa in cammino. Mentre la seguiva su per le scale del palazzo, osservò il movimento dei suoi massicci prosciutti; sembravano due enormi macine.
Preparò un paio di bicchieri e si sedette accanto a lei sul letto.
«Lei deve sapere un sacco di cose sulle donne per via del lavoro che fa», sospirò lei, mettendogli una mano sul ginocchio.
Aveva sempre fatto lui la parte del cacciatore, ma ora provava uno strano piacere nel rovesciamento dei ruoli. Si tirò indietro quando la donna cercò di baciarlo. Allora lei gli afferrò la testa e gli schioccò un bacio in bocca. All’inizio gli parve di ticchettare come un orologio, ma poi il ticchettio s’attutì e s’addensò in batticuore. Il battito si faceva più forte e rapido ogni secondo finché gli sembrò di stare sul punto di esplodere e si sottrasse al bacio con un brusco strattone.
«Oh, non fare così», lo supplicò.
«Così come?»
«Oh, caro, spegni la luce».
Accese una sigaretta mentre, in piedi nel buio, la sentiva spogliarsi. Emetteva suoni marini; qualcosa sbatteva come una vela; sentì come un cigolio di cordame; poi udì lo schiocco sordo dell’elastico contro la carne e gli parve un’onda che si infrangesse contro il molo. Con un gemito marino la donna lo chiamò, pregandolo di far presto, e quando lui le si sdraiò accanto la sentì sollevarsi come una marea sotto l’influsso della luna.
Una quindicina di minuti dopo uscì strisciando dal letto come un nuotatore esausto dalle onde e si lasciò cadere su una grande poltrona vicino alla finestra. La donna andò in bagno, poi tornò e gli si sedette in grembo.
«Mi vergogno di me stessa», disse lei. «Penserai che sono una poco di buono».
Le fece cenno di no con la testa.
«Mio marito non vale granché. È storpio, come ti ho scritto, e molto più vecchio di me». Scoppiò in un’improvvisa risata. «Ormai è bello che secco. Sono anni che non mi fa più da marito. Sai, Lucy, la mia bambina, non è mica sua».
Si accorse che lei si aspettava di vederlo sbigottito e fece del suo meglio per sollevare le sopracciglia.
«È una storia lunga», continuò lei. «È stato per via di Lucy che l’ho dovuto sposare. Scommetto che ti sarai chiesto come mai ho finito per sposare uno storpio. È una storia lunga».
La sua voce ipnotizzava come un tamtam ed era altrettanto monotona. La mente e il corpo di Miss Lonelyhearts s’erano già mezzo addormentati.
«È una storia lunga, tanto lunga, ecco perché non ho potuto scrivertela nella lettera. Mi sono messa nei guai quando i Doyle abitavano sopra di noi a Center Street. Cercavo di essere gentile con lui e lo accompagnavo al cinema qualche volta, per via che era storpio, anche se ero una delle ragazze più corteggiate nel quartiere. Così, quando mi sono ritrovata nei guai, non sapevo che fare e gli ho chiesto i soldi per abortire. Ma lui non aveva soldi, e così invece ci siamo sposati. Tutto perché mi sono andata a fidare di quel porco d’un italiano. Credevo fosse un gentiluomo, ma quando gli ho chiesto di sposarmi – ci crederesti? – mi ha sbattuto la porta in faccia e non ha voluto manco darmi i quattrini per abortire. Ha detto che se mi dava i soldi era come dire che era colpa sua e io lo potevo sempre ricattare. Hai mai sentito d’un fetente come lui?»
«No», rispose Miss Lonelyhearts. La vita che stava raccontando era ancor più pesante del suo corpo. Era come se una gigantesca lettera a Miss Lonelyhearts in carne e ossa gli fosse stata piazzata, a mo’ di fermacarte, sul cervello.
«Dopo che è nata la bambina ho scritto a quel fetentone, ma non mi ha mai risposto, allora un paio d’anni fa mi sono messa a pensare che mica era giusto che Lucy dovesse dipendere da uno storpio e non avere quello a cui aveva diritto. Così ho cercato il suo nome sull’elenco e ho portato Lucy a conoscerlo. Come gli dissi quella volta, non è che volessi qualcosa per me, solo che desideravo che Lucy avesse quel che le spettava. Be’, dopo averci tenuto in anticamera più di un’ora – guarda, stavo per scoppiare dalla rabbia, pensavo sempre al torto che aveva fatto a me e alla mia bambina – il maggiordomo ci ha fatto entrare in salotto. In modo tranquillo e signorile, perché il denaro non è mica tutto nella vita e quel guappo pidocchioso non è più gentiluomo di quanto io sia una signora – gli ho detto che doveva fare qualcosa per la povera Lucy visto che è suo padre. Be’, sai che ha risposto quella faccia tosta? Che a me non m’aveva neanche mai vista prima, e che se non la smettevo di dargli fastidio m’avrebbe fatto mettere dentro. Allora non ci ho visto più e gli sono saltata addosso a quel bastardo, per fargli vedere come la pensavo. Mentre stavamo litigando è entrata una donna, io ho subito pensato che era la moglie e allora mi sono messa a gridare: “È lui il padre della mia bambina, è lui il padre di mia figlia!” Quando si sono attaccati al telefono per chiamare la polizia, ho preso su la ragazzina e me la sono battuta.
«E ora viene la parte più buffa di tutta la storia. Vedi, mio marito è un tipo strano e finge sempre di essere il vero padre della bambina e perfino quando parla con me dice sempre nostra figlia. Be’, quando torniamo a casa Lucy continua a chiedermi perché avevo detto che quello strano signore era il suo papà. Insomma voleva sapere se Doyle non era il suo vero papi. Mi sa che doveva avermi dato di volta il cervello perché mi misi a dirle che doveva ricordarsi che il suo vero papi era uno che si chiamava Tony Benelli e che era stato lui che mi aveva fatto un torto. Le ho raccontato un sacco di altre stronzate del genere – vado troppo al cinema, mi sa. Be’, quando Doyle è tornato a casa, la primissima cosa che Lucy gli va a dire è che lui non è mica il suo vero papi. Allora lui se l’è presa a male e ha voluto sapere che cosa le avevo raccontato. A me non sono mica piaciuti i suoi piagnistei, e così gli ho risposto “la verità”. Mi sa che pure io m’ero un po’ stufata di vedere come sbavava sulla bambina. E allora m’è venuto addosso e m’ha dato una sberla sulla guancia. Io non permetto mica a nessuno di passarsela liscia per una cosa come quella e così gli ho allentato un pugno e allora lui ha cercato di colpirmi col bastone, ma mi ha mancato, è cascato per terra e si è messo a piangere. Anche la bambina piangeva per terra e quello deve avermi sciolto qualcosa dentro, perché un attimo dopo ero anch’io per terra che mi piangevo l’anima».
La donna attese un suo commento, ma Miss Lonely-
hearts rimase in silenzio, finché lei non gli fece tornare la parola a forza di gomitate. «Probabilmente, tuo marito vuole molto bene sia a te che alla bambina», disse infine.
«Può anche darsi, ma io ero una bella ragazza e avrei potuto scegliermi chi mi pareva. Quale ragazza vuole passare la vita con uno storpio rinsecchito come lui?»
«Ma tu sei ancora carina», disse, senza sapere bene perché, tranne che aveva una gran paura.
Lei lo ricompensò con un bacio e poi lo trascinò di nuovo verso il letto.
Miss Lonelyhearts nella fosca palude
Subito dopo che la signora Doyle se ne fu andata, Miss Lonelyhearts si sentì veramente male e fu costretto a rimanere confinato nella sua stanza. Il sonno cancellò i primi due giorni di malattia, ma a partire dal terzo la sua fantasia ricominciò a lavorare.
Si ritrovò nella vetrina di un banco dei pegni tra pellicce, anelli con brillante, orologi, doppiette, canne da pesca e mandolini. Tutti questi oggetti rappresentavano il corredo della sofferenza. Un tormentato riflesso si agitava sulla lama di un coltello dorato, un corno ammaccato borbottava dal dolore.
Sedeva nella vetrina e pensava. L’uomo ha un’innata predisposizione all’ordine. Le chiavi in una tasca, gli spiccioli nell’altra. I mandolini sono accordati Sol Re La Mi. Il mondo fisico ha un’innata predisposizione al disordine, all’entropia. L’uomo contro la natura… la lotta secolare. Le chiavi anelano a mischiarsi con gli spiccioli. I mandolini non vedono l’ora di scordarsi. Qualsiasi tipo di ordine contiene in sé il germe della propria distruzione. Qualsiasi tipo di ordine è fatalmente destinato a soccombere, eppure vale la pena di impegnarsi in questa lotta.
Una tromba, prezzata 2 dollari e 49 centesimi, suonò la carica e Miss Lonelyhearts si gettò nella mischia. Prima di tutto si mise a costruire un fallo con vecchi orologi e stivali di gomma, poi un cuore con ombrelli e mosche da esca, quindi una losanga con strumenti musicali e bombette, e poi un cerchio, un triangolo, un quadrato, una svastica. Ma nessuna di queste forme gli pareva definitiva e cominciò allora a costruire una croce gigantesca. Quando la croce divenne troppo grande per il banco dei pegni, la trasferì sulla riva del mare. Lì ogni onda aggiungeva materiale a quello che aveva a sua disposizione più rapidamente di quanto lui riuscisse ad allungare i bracci della croce. Immane era il suo travaglio. Barcollando faceva la spola tra l’ultima onda e la sua opera, carico dei rifiuti del mare: bottiglie, conchiglie, pezzi di sughero, teste di pesce, brandelli di rete.
Ubriaco di stanchezza, finalmente si addormentò. Al risveglio si sentiva molto debole eppure tranquillo.
Sentì qualcuno bussare timidamente alla porta. Era aperta e Betty entrò nella stanza in punta di piedi, carica di pacchetti. Lui finse di dormire.
«Salve», esclamò poi all’improvviso.
Sorpresa, la ragazza si girò verso di lui e gli spiegò: «Ho saputo che stavi male, e così ti ho portato del brodo caldo e altre cose».
Miss Lonelyhearts era troppo esausto perché quella stolida dimostrazione di amore materno riuscisse a dargli fastidio, e si lasciò perfino imboccare da lei col cucchiaino. Appena ebbe finito di mangiare, Betty aprì la finestra e rifece il letto. Subito dopo aver rimesso in ordine la stanza fece per andarsene, ma lui la trattenne.
«Betty, non te ne andare».
La ragazza accostò una sedia al suo capezzale e si sedette senza dir niente.
«Mi dispiace per quello che è successo l’altro giorno», le disse. «Stavo già male, credo».
Betty dimostrò di accettare le sue scuse aiutandolo a giustificarsi: «È tutta colpa di quella rubrica di Miss Lonelyhearts. Perché non la lasci perdere?»
«E che altro posso fare?»
«Puoi sempre lavorare per un’agenzia di pubblicità, o qualcosa del genere».
«Ma non capisci, Betty, che non posso smettere? E anche se smettessi, non cambierebbe niente: qualsiasi cosa faccia, non riesco a dimenticare quelle lettere».
«Può darsi che sia io a non capire, ma secondo me ti stai rendendo ridicolo».
«Forse riesco a spiegartelo. Cominciamo dall’inizio: un tizio viene assunto col compito di dare consigli ai lettori di un giornale. La rubrica altro non è che una manovra per aumentare la tiratura, e l’intera redazione la considera una specie di scherzo. Ma al tizio quell’incarico va benissimo, perché prima o poi potrebbe passare a una rubrica mondana, e in ogni caso è stufo di fare l’eterno galoppino. Si rende conto anche lui che quella rubrica è una cosa da ridere, ma dopo che ci lavora qualche mese comincia a non trovare più la cosa tanto buffa. Si accorge che la stragrande maggioranza delle lettere non sono altro che appelli profondamente umili per ottenere consigli di ordine morale e spirituale, che si tratta di espressioni inarticolate di una sofferenza autentica. Inoltre il tizio scopre che i suoi corrispondenti lo prendono sul serio. Per la prima volta è costretto a verificare i valori su cui è basata la sua vita. Questa verifica gli dimostra che è lui la vittima dello scherzo, non viceversa».
Quantunque avesse parlato seriamente, si accorse che Betty lo considerava ancora un po’ ridicolo. Chiuse gli occhi.
«Sei stanco», disse Betty. «Ora me ne vado».
«No, non sono stanco. Sono solo stanco di parlare, parla tu per un po’».
La ragazza cominciò a raccontargli della sua infanzia in campagna, del suo amore per gli animali, dei suoni della natura, degli odori della natura e di come in campagna ogni cosa sia fresca e pulita. Gli disse che avrebbe fatto bene anche a lui vivere un po’ in campagna, così si sarebbe reso conto che tutti i suoi problemi erano legati alla città.
Betty stava ancora parlando quando Shrike fece irruzione nella stanza. Era ubriaco e cominciò subito ad alzare la voce, come se credesse che Miss Lonelyhearts fosse troppo vicino alla morte per udire distintamente. Betty se ne andò senza neanche salutare.
Evidentemente Shrike aveva sentito una parte del suo discorso sulla campagna, perché disse: «Amico mio, sono completamente d’accordo con Betty, hai un gran bisogno di evadere. Ma non credo proprio che il ritorno alla terra sia la strada migliore per te».
Miss Lonelyhearts si girò verso la parete e si tirò le coperte sulla testa. Ma con Shrike non c’era scampo. Il caposervizio alzò ancor più la voce, puntandola, attraverso le coperte, direttamente sulla nuca di Miss Lonelyhearts.
«Ce ne sono tante altre di strade, e per tua maggior edificazione te le descriverò. Ma esaminiamo prima l’evasione verso la terra, così caldamente raccomandata da Betty:
«Dunque, ne hai abbastanza della città e delle sue brulicanti moltitudini. Gli usi e costumi degli uomini, tutto il loro acquisire, prestare e spendere, devastano il tuo mondo interiore, sono troppo per te. L’autobus è troppo lento, la metropolitana è troppo affollata. E allora cosa fai? Ti compri una bella fattoria in campagna, senza giacca né cravatta, cominci a seguire l’umido deretano del tuo cavallo per arare i tuoi vasti campi opimi. Mentre rivolti la fertile e scura zolla, il vento ti porta da lontano un odore di pini e di letame e nel tuo animo s’insinua il ritmo d’un antico, antichissimo lavoro. Accompagnato da questo ritmo interiore, semini e sudi e segui le tue bestie, bastarde e robuste, tra i solchi pregni di granturco e di patate. Il tuo passo diventa pesante come il passo sensuale d’un indiano ebbro di danze e fa penetrare il seme nel ventre materno della terra. Semini non già denti di drago, ma fagioli e fresca insalatina…
«E allora, che ne dici, amico mio, scegli dunque la terra?»
Miss Lonelyhearts non rispose. Stava riflettendo su quanto Shrike avesse accentuato il suo malessere, insegnandogli a maneggiare l’unica sua via di scampo, Cristo, con uno spesso guanto di parole.
«Interpreto il tuo silenzio come un rifiuto della soluzione agricola. Sono d’accordo: è una vita troppo dura e ottusa. Dunque prendiamo ora in considerazione i Mari del Sud:
«Vivi in una capanna di paglia con la figlia del re, un’agile donzella che ha negli occhi un’antica saggezza. I suoi seni sono pomi d’oro screziato, il suo ventre un melone, ella emana una fragranza che altro non ricorda se non l’essenza d’una felce che cresce nella giungla. A sera, sull’azzurra laguna, sotto l’argentea luna, le sussurri d’una canzon d’amor le dolci sillabeh e i sohavi accenti nella sua linguah languidah. Anche il tuo corpo è bruno e dorato come quello di lei, tanto che perfino i turisti hanno bisogno dell’indice indignato del missionario per individuarti. Ti invidiano il perizoma e la risata spensierata, la piccola sposa bruna e le dita che ti fanno da posate. Invece tu non invidi loro, e quando una notte una bellissima fanciulla dell’alta società viene a farti visita nella tua capanna per strapparti il segreto della tua felicità, la rispedisci sul suo panfilo che aspetta all’orizzonte come un nervoso purosangue. E così, come in un sogno, passi il tuo tempo a pescare, a cacciare, a danzare, a nuotare, a baciare, a raccogliere fiori da intrecciare nelle vostre chiome…
«E allora, che ne dici, amico mio, dei Mari del Sud?»
Miss Lonelyhearts cercò di farlo smettere fingendo di dormire. Ma Shrike non era tipo da cascarci.
«Ancora silenzio», riprese, «e ancora una volta hai perfettamente ragione. I Mari del Sud sono troppo inflazionati e c’è troppo poco gusto a imitare Gauguin. Ma non ti scoraggiare, siamo solo agli inizi. Prendiamo ora in considerazione la Soluzione Edonistica, ovvero prendi i soldi e lascia che il credito scorra…
«Consacri la tua vita alla rincorsa del piacere. Niente di eccessivo, bada bene, ma sai che il tuo corpo è una macchina per il piacere e quindi la tratti con cura in modo da sfruttarla al meglio. E allora giochi a golf e bevi, fai gli esercizi con i pesi consigliati da Philadelphia Jack O’Brien ma tieni conto anche dei ballerini spagnoli. E non dimentichi neanche i piaceri della mente: fornicare sotto quadri di Picasso e di Matisse, bere in cristalli rinascimentali, passare spesso una serata accanto al caminetto con la sola compagnia di Proust e di una mela. Però, ahimè, dopo essertela spassata tanto, arriva anche per te il giorno in cui ti rendi conto che presto ti toccherà morire. Fai buon viso a cattivo gioco e decidi di organizzare un’ultima festa. Inviti tutte le tue ex amanti, i tuoi allenatori, artisti e compagni di bisboccia. Tutti gli ospiti vestono di nero, i camerieri sono tutti di colore, il tavolo è una bara intagliata espressamente per te da Eric Gill. Servi caviale, more, liquirizie e caffè nerissimo. Appena le ballerine hanno finito, ti alzi, ordini silenzio e ti metti a spiegare la tua filosofia di vita. “La vita” dici, “è un club dove i piagnoni non sono ammessi, ti danno una sola mano di carte e non la puoi passare. Perciò, anche se le carte sono brutte e segnate dalla mano del destino, devi stare al gioco e giocare da gentiluomo e da sportivo. Sbronzatevi, abbuffatevi al buffet, e spassatevela di sopra con le ragazze, ma ricordate: quando arriva il vostro turno, congedatevi facendo un bell’inchino, da veri sportivi, senza tanti piagnistei…”
«Non ti chiederò neppure che ne pensi di questa soluzione. Non hai abbastanza soldi, né sei abbastanza stupido da sapertela cavare così. Passiamo dunque ora a quella che, secondo me, ti dovrebbe andate a pennello…
«L’Arte! Diventa un artista o uno scrittore. Quando senti freddo, riscaldati alle fiammeggianti tinte del Tiziano; quando hai fame, saziati di cibo spirituale ascoltando i nobili fraseggi di Bach, le armonie di Brahms e i tuoni di Beethoven. Credi significhi qualcosa il fatto che i loro nomi comincino tutti con la B ? Comunque, per star sul sicuro, fumati una bella pipa 3 B e ricorda questi versi immortali: Quando alla melodia repente l’eco d’addio s’appoggia in sul finir del giorno . Che ritmo! Che se le tengano pure strette le loro mondane d’alto bordo e l’anatra all’arancia! A te basta l’ art vivant, ovvero, l’arte viva. Diglielo che anche se hai le scarpe rotte e la faccia piena di brufoli, sì, i denti sporgenti e il piede deforme, non te ne importa niente, perché domani daranno gli ultimi quartetti di Beethoven alla Carnegie Hall e a casa hai tutta l’opera di Shakespeare in un unico volume».
Dopo l’arte, Shrike gli descrisse il suicidio e la droga. Quando ebbe esaurito anche questi argomenti, arrivò a quello che definì il fine ultimo della sua conferenza.
«Mio caro amico, naturalmente so bene che né la terra, né i Mari del Sud, né l’Edonismo, né l’arte, il suicidio o la droga significano alcunché per noi. Non siamo certo uomini che ingoiano cammelli per diventare stitici. Dio è la nostra unica via di scampo. La chiesa è la nostra unica speranza, la Prima Chiesa del Cristo Dentista, dove Egli è venerato come il Salvatore dalla Carie. La chiesa che ha per simbolo una nuova Trinità: il Padre, il Figlio e il Fox-terrier Arruffato… E allora, mio buon amico, lascia che ti detti una lettera da scrivere a Cristo da parte tua:
Cara Miss Lonelyhearts delle Miss Lonelyhearts,
ho ventisei anni e lavoro nel campo dell’informazione. La vita per me è un deserto privo di conforto. Né cibo, né bevande, né donne mi danno ormai piacere – neanche le arti mi offrono più gioia. Il Leopardo della Scontentezza percorre le strade della mia città; il Leone dello Scoramento è in agguato fuori dalle mura della mia rocca. Ovunque v’è desolazione e tormento spirituale. Soffro le pene dell’inferno. Come posso credere, come posso aver fede in un’epoca come questa? È vero che i più grandi scienziati stanno ricominciando a credere in Voi?
Leggo sempre la vostra rubrica e mi piace moltissimo. Una volta avete scritto: “Quando il sale perde sapore, chi lo salerà di nuovo?” Per caso, la risposta è: “Nessun altro fuorché il Salvatore?”
Confidando in una sollecita risposta, ringrazio e rimango sempre un vostro
Fedele Abbonato».
Miss Lonelyhearts va in campagna
Betty tornò a far visita a Miss Lonelyhearts l’indomani e anche nei giorni successivi. Ogni volta gli portava da mangiare del brodo e del pollo lesso.
La ragazza era convinta che non avesse alcuna intenzione di guarire e lui lo sapeva, ma seguiva a puntino tutte le istruzioni perché aveva capito che in realtà la sua attuale malattia non contava molto. Era soltanto uno stratagemma messo in atto dal corpo per dar sollievo a un malessere molto più profondo.
Ogni volta che affrontava l’argomento delle lettere o quello di Cristo, Betty cambiava discorso e cominciava a raccontare lunghe storie sulla vita in campagna. Sembrava convinta che se lui non avesse parlato di quelle cose il suo corpo sarebbe guarito, e se il corpo fosse guarito tutto sarebbe andato nel migliore dei modi. Miss Lonelyhearts cominciò a intuire che forse, dietro a tutte quelle storie sulla fattoria, c’era un piano preciso, ma non riusciva a capire quale fosse.
Quando arrivò il primo giorno di primavera, si sentì meglio. Aveva passato più di una settimana a letto e adesso non vedeva l’ora di uscire. Betty lo portò a fare una passeggiata allo zoo e lui fu molto divertito dalla fede che la ragazza evidentemente riponeva nelle capacità terapeutiche degli animali. Sembrava davvero convinta che osservare i bufali gli avrebbe ridato il suo equilibrio.
Miss Lonelyhearts avrebbe voluto tornare al lavoro, ma Betty lo convinse a farsi prolungare da Shrike il permesso per malattia. La gratitudine che provava per lei lo spingeva a darle retta. Quindi Betty gli illustrò il suo piano: una sua zia possedeva ancora la fattoria dove era nata in Connecticut; potevano andare là e accamparsi qualche giorno nella casa.
La ragazza prese in prestito da un amico una vecchia Ford da turismo; la caricarono di provviste e attrezzatura da campeggio e un bel mattino, di buon’ora, partirono. Appena raggiunsero la periferia della città, Betty cominciò a entusiasmarsi come una bambina in gita: deliziata, salutava gli alberi e l’erba.
Dopo esser passati per New Haven, arrivarono a Bram-
ford e lasciarono la statale per una sterrata che portava a Monkstown. Attraversarono un tratto di bosco dall’aspetto selvaggio e videro degli scoiattoli rossi e una pernice. Fu costretto ad ammettere anche con se stesso che le tenui foglioline appena spuntate, simili per forma e colore a fiammelle di candele, erano bellissime e che nell’aria c’era un profumo di vita e di pulito.
C’era uno stagno davanti alla fattoria e lo intravidero tra gli alberi appena prima di arrivare alla casa. Betty non aveva la chiave e dovettero quindi forzare la porta. Furono assaliti da un pesante odore di muffa e legno marcio proveniente dai vecchi mobili e si misero a tossire. Lui cominciò a lamentarsi. Betty gli rispose che a lei non dava poi tanto fastidio, perché almeno non era un odore umano. Pronunciò la parola umano caricandola di un tale significato che Miss Lonelyhearts non poté trattenersi dal ridere e dal baciarla.
Decisero di accamparsi in cucina perché era la stanza più grande e non era troppo ingombra di mobili. C’erano quattro finestre e una porta, e le spalancarono tutte per cambiar aria all’ambiente.
Mentre lui scaricava l’automobile, lei spazzò a fondo la cucina e accese il fuoco nella stufa usando una vecchia sedia rotta. La stufa sembrava una locomotiva ed era quasi altrettanto grande, ma per fortuna il camino tirava bene e in men che non si dica ebbero un bel fuoco scoppiettante. Miss Lonelyhearts tirò su dell’acqua dal pozzo e la mise a bollire sulla stufa. Quando l’acqua fu abbastanza calda, la usarono per pulire un vecchio materasso che avevano trovato in una delle camere da letto e che poi stesero al sole ad asciugare.
Solo poco prima del tramonto Betty gli permise di smettere di lavorare. Mentre lei preparava la cena, lui si sedette a fumare una sigaretta. Mangiarono uova, fagioli, pane, frutta e bevvero due tazze di caffè a testa.
Dopo cena, siccome c’era ancora un po’ di luce, andarono a esplorare lo stagno. Si sedettero fianco a fianco, appoggiati a una grande quercia, per osservare un airone che andava a caccia di rane. Proprio mentre stavano per alzarsi e tornare indietro, due cervi e un cerbiatto vennero ad abbeverarsi sulla sponda opposta dello stagno. Le mosche li infastidivano, così entrarono nell’acqua e si misero a mangiare delle ninfee. Involontariamente Betty fece del rumore, e subito i cervi sguazzarono fuori dallo stagno e si rifugiarono nel bosco.
Quando tornarono a casa, il buio era ormai fitto. Accesero la lampada a cherosene che si erano portati dietro, poi trascinarono il materasso al centro della cucina e si prepararono il letto sul pavimento, vicino alla stufa.
Prima di coricarsi, uscirono sulla veranda della cucina per fumare un’ultima sigaretta. Faceva freschetto e dovettero tornare a prendere una coperta. Sedettero l’uno accanto all’altra, avvolti nella coperta.
Il cielo era pieno di stelle. Da qualche parte nel bosco s’alzò lo strepito di una civetta; quando cessò, una strolaga cominciò a stridere dallo stagno. I grilli facevano quasi altrettanto baccano della strolaga.
Anche con la coperta addosso, sentivano freddo. Rientrarono e accesero un gran fuoco nella stufa usando pezzi di un tavolo di legno massiccio che sarebbe bruciato lentamente. Mangiarono una mela per uno, poi si infilarono i pigiami e si coricarono. Lui cominciò ad accarezzarla, ma quando lei gli confessò d’essere ancora vergine, la lasciò in pace e si mise a dormire.
Si svegliò col sole negli occhi. Betty era già in piedi e si dava un gran da fare davanti alla stufa. Lo mandò a lavarsi allo stagno, e quando ritornò la colazione era pronta: mangiarono uova, prosciutto, patate, mele fritte, pane e caffè.
Dopo colazione, lei si dedicò tutta a rendere il posto più accogliente mentre Miss Lonelyhearts andò in macchina fino a Monkstown per comprare frutta fresca e giornali. Si fermò a fare rifornimento al garage Aw-Kum-On e raccontò al benzinaio dell’avvistamento dei cervi, la sera prima. L’uomo rispose che c’erano ancora un sacco di cervi giù allo stagno perché da quelle parti non giravano mai giudei. Spiegò che non erano i cacciatori a spaventare i cervi, ma proprio i giudei.
Fu di ritorno alla fattoria in tempo per il pranzo, e dopo mangiato andarono a fare una passeggiata nel bosco. Sotto gli alberi c’era un’atmosfera molto triste. Quantunque la primavera fosse avanzata, nell’ombra profonda del sottobosco non c’era altro che morte – foglie marce, funghi bianchi e grigi, e una quiete funerea sopra ogni cosa.
Più tardi cominciò a far caldo e decisero di fare una nuotata. Entrarono nello stagno nudi. L’acqua era così fredda che riuscirono a resistere solo per poco. Tornarono di corsa in casa a bere un sorso di gin, poi si sedettero in un angolo assolato della veranda.
Ma Betty non riuscì a star seduta a lungo. In casa non c’era più niente da fare, e così cominciò a lavare la biancheria che aveva indossato per il viaggio. Quando ebbe finito, tese una fune tra due alberi.
Lui rimase sulla veranda a osservarla mentre lavorava. Si era raccolta i capelli in un fazzoletto a scacchi, ma per il resto era completamente nuda. Sembrava un po’ grassottella, ma ogni volta che appendeva qualcosa alla corda, tutti i cuscinetti di grasso scomparivano. Quando alzava le braccia, i seni le si sollevavano fino a somigliare a pollici dalla punta rosea.
Non c’era vento che disturbasse la forza di attrazione della terra: le foglie verdi appena nate pendevano brillanti nel sole caldo come una schiera di piccoli scudi metallici. In qualche parte del bosco un sassello prese a cantare a gola spiegata. Il suo richiamo somigliava al suono di un flauto pieno di saliva.
Betty si fermò con le braccia alzate per ascoltare il canto dell’uccello. Quando questo tacque, si voltò verso di lui con un sorriso complice. Lui le mandò un bacio sulla punta delle dita. Lei lo prese al volo, con un gesto infantilmente sensuale. Lui saltò la ringhiera della veranda e corse a baciarla. Mentre rotolavano a terra, sentì un profumo misto di sudore, sapone ed erba schiacciata.
Il ritorno di Miss Lonelyhearts
Diversi giorni dopo ripartirono in macchina per far ritorno in città. Appena raggiunsero la desolata periferia del Bronx, Miss Lonelyhearts si rese conto che Betty non era riuscita a guarirlo e che aveva ragione lui quando diceva che non avrebbe mai potuto dimenticare le lettere. Questa consapevolezza, comunque, lo fece sentire meglio, perché aveva già cominciato a considerarsi sciocco e ipocrita.
Una folla di persone si muoveva per strada con trasognata violenza. Osservando le loro mani piagate e le bocche lacerate, fu travolto dal desiderio di aiutarle e, poiché questo desiderio era sincero, si sentì felice nonostante il senso di colpa che vi si accompagnava.
Vide un uomo che pareva in bilico sull’orlo della morte entrare barcollando in un cinema dove si proiettava un film intitolato Bellezza bionda . Vide una donna vestita di stracci e con le gambe deformate dalla gotta raccogliere una rivista di racconti d’amore da un cestino dei rifiuti: sembrava molto contenta di quello che aveva trovato.
Aizzato dalla sua coscienza, cominciò a generalizzare: gli uomini hanno sempre combattuto contro la loro misera condizione ricorrendo ai sogni. Anche se un tempo i sogni erano stati molto potenti, oggigiorno il cinema, i giornali e la radio li rendevano puerili. Tra i tanti tradimenti, questo era senz’altro il peggiore.
Quel che rendeva particolarmente odiosa la sua complicità in questo tradimento era il fatto di essere capace di sognare il sogno di Cristo. Si rendeva conto che questo suo fallimento era dovuto non tanto agli scherzi di Shrike o ai propri dubbi, ma alla sua mancanza di umiltà.
Riuscì infine a mettersi a letto. Prima di addormentarsi, fece voto di compiere un sincero sforzo per essere umile. Il mattino dopo, andando in ufficio, rinnovò questo voto.
Per sua fortuna Shrike non era in redazione, e così alla sua umiltà fu risparmiata una prova immediata. Andò dritto alla sua scrivania e cominciò ad aprire le lettere. Dopo che ne ebbe aperte una dozzina, fu assalito dalla nausea e decise che quel giorno avrebbe scritto la sua rubrica senza leggerne altre. Non voleva mettersi alla prova con eccessiva severità.
La macchina da scrivere era scoperta: inserì subito un foglio nel rullo.
«Cristo è morto per voi.
«È morto per voi inchiodato a una croce. Vi ha lasciato come dono la sofferenza ed è solo attraverso la sofferenza che voi potrete conoscerLo. Abbiate caro questo dono, poiché…»
Strappò via il foglio dalla macchina. Gli pareva che perfino la parola Cristo fosse vana per lui. Dopo aver fissato a lungo le lettere accumulate sul suo tavolo, si mise a guardare fuori dalla finestra. Una pigra pioggia primaverile stava trasformando il catrame polveroso delle terrazze in lucide distese di pelle verniciata. L’acqua rendeva tutto scivoloso e lui non riuscì a trovare alcun appiglio né per gli occhi né per i pensieri.
Tornò a fissare la scrivania e tirò fuori una voluminosa lettera da una busta sudicia. Si mise a leggerla per lo stesso motivo per cui un animale si accanisce contro la propria zampa ferita: per far male al dolore.
Cara Miss Lonelyhearts,
siccome sono un’ammiratrice della sua rubrica perché lei dà un sacco di buoni consigli alla gente che è nei guai come me le sarei molto grata se mi consigliasse anche a me su che devo fare dopo che le spiego quali sono i miei di guai.
Durante la guerra mi dissero che se volevo fare il mio dovere dovevo sposare il mio fidanzato siccome stava partendo per andare a dare una mano allo Zio Sam e insomma per farla breve me lo sono sposato. Finita la guerra lui è dovuto restare nell’esercito per un altro anno perché aveva firmato e naturalmente io mi sono messa a lavorare perché mentre lui faceva tanto il patriota non aveva altro che diciotto dollari in tutto. Ho lavorato per tre anni di fila ma poi sono dovuta restare a casa per via che sono diventata mamma e nel frattempo di quegli anni mio marito trovava un lavoro ma poi si stancava e lo lasciava perché gli piaceva di andare a zonzo. Finché non arrivò la ragazzina le cose non andavano poi tanto male perché potevo lavorare regolarmente io e i conti li saldavo ma poi quando ho smesso tutto ha cominciato ad andare per storto. Passarono altri due anni e un maschietto è venuto a rallegrare la nostra unione. La femminuccia va per gli otto e il maschio ha sei anni.
Dopo che ho avuto il secondo figlio avevo deciso che nonostante la mia salute dato che quando ero incinta la prima volta ero stata investita da una macchina mi sarei messa a cercare un altro lavoro ma i debiti si erano accumulati tanto che ci voleva una grù per levarseli di dosso altro che una mezza invalida come me. Comunque la sera andavo a lavorare perché mio marito stava a casa e così almeno c’era qualcuno che guardava la creatura e siamo andati avanti così fino a che la creatura aveva tre anni e allora pensai di prendermi in casa un uomo che era stato a pigione dalla sorella ma poi lei si era dovuta trasferire a Rochester e lui stava cercando un altro posto. Be’ anche mio marito era d’accordo perché pensava che i quindici dollari d’affitto gli facevano comodo dato che quest’uomo era un vedovo con due figli grandi e con mio marito si conoscevano da dodici anni ed erano grandi amici perché uscivano assieme e così via. Dopo che questo inquilino viveva con noi da circa un anno mio marito non è tornato a casa una sera e poi due sere e così via. Lo feci mettere nell’elenco delle persone scomparse e dopo due mesi e mezzo mi dissero di andare a Grove Street e così ci sono andata e l’avevano arrestato perché non voleva mantenere me e i miei figli. Quando si era fatto tre mesi dei sei che gli avevano dato il giudice mi disse di dargli un’altra possibilità e io come una scema gli ho dato retta e quando è venuto a casa me le ha date di santa ragione e così dopo ho dovuto pure spendere trenta dollari dal dentista.
Lui ci aveva la pensione dell’esercito e naturalmente ero io che dovevo portare l’assegno a cambiare al negozio e siccome lui era tanto pigro dovevo sempre firmarlo io a suo nome e poi girarlo per me ma una volta per via che avevo fretta di pagare il padrone di casa che ci voleva buttare fuori ho firmato l’assegno come al solito ma mi sono scordata di girarlo a nome mio e per questa cosa siccome voleva vendicarsi di me perché lui s’era fatto tre mesi dentro e io no mandò a chiedere a Washington la copia dell’assegno per farmi arrestare per la firma falsa ma dato che il macellaio lo sapeva che li firmavo sempre io e così via non mi fecero niente.
Mi ha minacciato un sacco di volte dicendo che nessuno ancora aveva mai risolto l’omicidio della signora Mills e lo stesso succederà a te e parecchie volte quando rifacevo il letto sotto al suo cuscino ci trovavo quando un martello, quando un paio di forbici o un coltello o un piede di porco e così via e quando gli chiedevo che si era messo in testa faceva finta che lui non ne sapeva niente o diceva che erano stati i ragazzi a metterceli ma poi passato qualche mese un giorno stavo andando al lavoro come al solito mentre l’inquilino doveva starsene a casa quel giorno per via che il suo principale non aveva ricevuto certa stoffa che gli serviva e allora lui non poteva lavorare perché stava a cottimo. Be’ io ho sempre l’abitudine di preparare per colazione e di cucinare la sera prima di modo che la mattina dopo potevo dormire fino alle sette siccome a quell’epoca mio figlio stava all’ospedale della contea di Kings a causa di un male che mio marito mi aveva attaccato che l’aveva preso quando combatteva per lo Zio Sam e insomma dovevo andare alla clinica per farmi l’iniezione. E così mentre io me ne stavo a letto senza dirmi niente mio marito mandò l’inquilino a prendere il giornale e quando quello è ritornato mio marito non c’era più. E allora quando più tardi sono uscita da camera mia mi disse che mio marito era uscito. Preparai la colazione per la bambina e la feci anch’io poi andai alla vasca per fare il bucato della settimana e così mentre l’inquilino leggeva il giornale si fa mezzogiorno e arriva mia madre per badare alla bambina così io ne approfitto per uscire a fare le pulizie nelle case e guadagnare qualche soldo. La casa era un po’ sottosopra i letti non fatti e le cose in disordine e c’era bisogno di dare una spazzatina perché tutta la mattinata l’avevo passata a lavare e non avevo potuto spicciare e allora ho pensato che lo potevo fare adesso che c’era anche mia madre che magari mi dava una mano e avremmo fatto presto. E così mi sono messa a scopare a rotta di collo per finire presto le stanze in modo che tutto fosse lindo e pinto per quando mio marito sarebbe tornato a casa così non avrebbe avuto niente da brontolare. C’erano tre letti in casa e stavo rifacendo l’ultimo che era quello matrimoniale quando mi abbasso per scopare per bene sotto il letto e togliere tutta la polvere e le filacce e indovini un po’ che ti vedo là sotto una faccia che sembrava la maschera d’un demonio che si vedevano solo i bianchi degli occhi e delle manacce che sembravano pronte a strozzare chiunque e quando ho visto che si muoveva mi sono presa un tale spavento che fino quasi a notte sono rimasta come isterica e paralizzata dalla vita in giù. Credevo proprio che non sarei riuscita più a camminare in vita mia. Mia madre mandò a chiamare un dottore per me e lui disse che un uomo che faceva quelle cose doveva essere messo in manicomio. Era mio marito che se n’era stato sdraiato sotto il letto dalle sette di mattina fino quasi all’una e mezza sdraiato là sotto in mezzo con rispetto parlando alla sua merda che se l’era fatta addosso invece di andare al bagno per aspettarmi e farmi prendere un colpo.
E così siccome non mi fidavo più di lui non ho dormito più nel suo letto e ho anche dovuto dire all’inquilino di andarsi a cercare un altro posto perché pensavo magari era geloso o qualcosa del genere e mi sono messa a dormire nel letto dell’inquilino in un’altra stanza. Certe notti mi svegliavo e me lo trovavo accanto al letto che rideva come un pazzo o andava in giro nudo e così via.
Poi mi sono comprata una macchina da cuscire per mettermi a cuscire per la gente sempre per tirare avanti alla meglio e una sera che ero uscita per andare a consegnare del lavoro sono tornata e ho ritrovato tutta la casa ripulita che si era impegnato anche la mia macchina da cuscire e anche tutto l’impegnabile che c’era in casa. Da quella volta che mi fece prendere lo spavento sono sempre stata nervosa la notte quando mi alzo per i bambini che ho sempre paura che lui sta nascosto dietro a una tenda o che mi zompa addosso o che mi mette le mani addosso prima che io posso accendere la luce. Insomma visto che non riuscivo a farlo lavorare regolarmente e che dovevo fare la mamma la donna di casa e quella che portava a casa i soldi e così via e che non potevo farmi rovinare la vita dai nervi che ce li avevo già così rovinati che una volta ho perso pure un bel posto per via dei nervi ho preso e me ne sono andata di casa tanto non è che c’era rimasto tanto in casa. Ma lui si è messo a scongiurarmi di dargli un’altra possibilità e così ho pensato che dato che è il padre dei miei figli proviamo un po’ ma poi s’è messo a rifare un sacco di mattate che non le posso manco scrivere tutte e così l’ho piantato un’altra volta. Quattro volte l’ho piantato e quattro volte ci siamo rimessi insieme. Per favore mi creda Miss Lonelyhearts l’ho fatto solo per via dei figli questa è la fregatura e mi scusi perché non so lei com’è sistemata ma tutto quello che so è che in tre anni e passa tutto quello che ho ricevuto da lui sono duecento dollari.
Circa quattro mesi fa gli ho fatto consegnare una cittazione per abbandono del tetto famigliare e lui l’ha strappata e se n’è andato di casa e da allora non l’ho più visto e siccome io ho avuto la polmonite e la piccola l’influenza per non fare la figura che non potevo neanche pagare il dottore sono dovuta andare in corsia e quando siamo uscite dall’ospedale ho dovuto chiedere al vecchio inquilino di tornare a vivere con noi perché almeno i suoi quindici dollari la settimana erano sicuri e se a me mi succede qualcosa almeno c’è lì lui a badare ai bambini. Ma ora lui cerca di portarmi sulla cattiva strada perché quando torna a casa ubriaco il sabato sera non c’è nessuno in casa e io non so che fare ma finora non glielo ho mai fatto fare. Dove sta mio marito non ne ho idea ma ho ricevuto una letteraccia da lui dove addirittura accusava di certe brutte cose quelle povere creature nocenti dei figli e mi chiede sarcasticamente come sta l’inquilino del cuore.
Cara Miss Lonelyhearts per favore non s’arrabbi con me perché ho scritto una lettera tanto lunga e ho profittato tanto del suo tempo per leggerla ma se dovessi mai scrivere tutte le cose che mi sono successe con lui in vita mia riempirebbe un libro sano e la prego di scusarmi se ho dovuto scrivere delle brutte cose ma dovevo farlo per darti un’idea di quello che succede a casa mia. Ogni donna ci ha diritto ad avere una casa sua, no? Perciò Miss Lonely-hearts che gli dispiace se scrive qualche riga nella sua rubrica in riferimento a questa mia così io capisco che mi sta aiutando? Pensa che devo riprendere con me mio marito? Come faccio a mantenere i miei figli?
Intanto la ringrazio per tutto e per i consigli che mi darà e rimango sua affezionatissima, Spalle-larghe
P.S. Cara Miss Lonelyhearts non pensi che ci ho veramente le spalle larghe ma insomma è così che mi sento cioè in confronto alla vita e a me.
Miss Lonelyhearts e lo storpio
Miss Lonelyhearts evitava Betty perché davanti a lei si sentiva ridicolo. Stava ancora cercando di restare aggrappato alla sua umiltà e più si allontanava dall’autoderisione, più trovava facile il suo compito. Non rispondeva alle telefonate di Betty e dopo che per due volte non la richiamò, la ragazza lo lasciò in pace.
Un giorno, dopo una settimana circa dal suo ritorno dalla campagna, Goldsmith lo invitò a bere qualcosa. Nell’accettare quell’invito, si rese così umile che Goldsmith si spaventò e fu sul punto di consigliargli di andare dal medico.
Da Delehanty trovarono Shrike e si sedettero al bancone accanto a lui. Goldsmith cercò di sussurrargli qualcosa all’orecchio su come stava Miss Lonelyhearts, ma il caposervizio era ubriaco e non gli diede retta. Afferrò soltanto una parte di quello che Goldsmith tentava di dirgli.
«Devo dissentire da te, mio buon Goldsmith», disse Shrike. «Non bisogna chiamare malati coloro che hanno fede. Loro sono i sani. Sei tu che sei malato».
Goldsmith non rispose e Shrike si rivolse a Miss Lonelyhearts. «Coraggio, fratello, raccontaci come avvenne che hai trovato la fede. È stato per via della musica in chiesa, o della morte d’un familiare, o putacaso grazie a un vecchio e saggio sacerdote?»
Gli ormai triti scherzi non avevano più alcun effetto su Miss Lonelyhearts. Sorrise a Shrike con lo stesso sorriso che si pensa i santi rivolgano a coloro che stanno per condurli al martirio.
«Ah, ma che stupido sono!», continuò Shrike. «Sono state le lettere, è naturale. Non ho forse io stesso detto che le Miss Lonelyhearts sono le sacerdotesse dell’America del ventesimo secolo?»
Goldsmith scoppiò a ridere, allora Shrike per farlo continuare a ridere ricorse a un vecchio trucco: finse di offendersi. «Goldsmith, tu sei il perfido prodotto di quest’epoca miscredente. Non riesci a credere, riesci solo a ridere. Prendi tutto con un sacco di sale e dimentichi che il sale è il nemico del fuoco, non solo del ghiaccio. Ma bada bene, il sale che tu adoperi non è il sale attico, è grezzo sale da macellaio: non è il sale che salva, è sale che uccide».
Il barista che si trovava lì vicino intervenne rivolgendosi a Miss Lonelyhearts. «Mi scusi, signore, ma c’è qui un certo signor Doyle che vorrebbe conoscerla. Dice che lei già conosce sua moglie».
Prima che Miss Lonelyhearts potesse rispondere, il barista fece cenno a qualcuno all’altro capo del bancone. Il segnale fu raccolto da un ometto storpio che immediatamente si mosse verso di loro. Camminava appoggiato a un bastone, trascinandosi dietro un piede rinchiuso in una scarpa a forma di scatola con una suola spessa dieci centimetri. La sua andatura zoppicante era piena di movimenti inutili, come quelli di un insetto parzialmente menomato.
Il barista presentò lo storpio come il signor Peter Doyle. Doyle era visibilmente emozionato e strinse le mani a tutti due volte, poi con un ampio gesto che voleva essere espansivo, ordinò da bere per tutti.
Prima di alzare il suo bicchiere, Shrike esaminò attentamente lo storpio. Alla fine strizzò l’occhio verso Miss Lonelyhearts ed esclamò: «Bevo all’umanità!» Poi cominciò a dare a Doyle piccole pacche sulle spalle, sospirando: «Ah, umanità… umanità…», e scuotendo mestamente la testa. «Cos’è mai l’uomo?…»
Di nuovo il barista intervenne per trarre d’impaccio il suo amico, cercando di dirottare la conversazione su un terreno più familiare: «Il signor Doyle è un ispettore di contatori per la società del gas».
«Deve essere un gran bel mestiere», disse Shrike. «Lei dovrebbe dunque essere in grado di offrirci un punto di vista diverso. Noi giornalisti siamo per molti versi uomini limitati, ma a me piace sentire anche l’altra campana».
Nel frattempo Doyle non aveva staccato gli occhi di dosso a Miss Lonelyhearts, come se stesse cercando qualcosa, ma a quel punto si rivolse a Shrike sforzandosi di riuscire simpatico. «Lo sa cosa dice la gente, signor Shrike?»
«No, caro amico, cos’è che dice dunque la gente?»
«Oggi che tutti hanno il frigorifero, dice che noi ispettori del gas abbiamo preso il posto, nelle storielle, di quelli che portavano il ghiaccio a domicilio». Tentò un ammiccamento malizioso, ma lui stesso non ne sembrava molto convinto.
«Cosa!», ruggì Shrike. «Mi pare di capire, signore, che lei non è l’uomo che fa per noi. Lei non ne può sapere niente dell’umanità: lei fa parte dell’umanità! La lascio tutto a Miss Lonelyhearts». Fece un cenno a Goldsmith e si allontanò a grandi passi.
Lo storpio rimase confuso e irritato. «Il suo amico è tutto matto», disse. Miss Lonelyhearts continuava intanto a sorridere, ma ora l’intenzione del suo sorriso era diversa. Esprimeva piena partecipazione, appena velata da un po’ di tristezza.
Questo nuovo sorriso era per Doyle, e lo storpio se ne rese conto. Sorrise di rimando, pieno di gratitudine.
«Oh, dimenticavo», disse Doyle, «la mia signora mi ha chiesto, se la incontravo, di invitarla a mangiare a casa nostra. È per questo che ho chiesto a Jake di presentarci».
Miss Lonelyhearts era tutto concentrato a sorridere e accettò l’invito senza pensare alla serata che aveva passato con la signora Doyle. Lo storpio si sentì talmente onorato che gli strinse la mano per la terza volta. Evidentemente era il solo gesto di cortesia che conosceva.
Dopo qualche altro bicchierino, quando Doyle accennò di essere stanco, Miss Lonelyhearts suggerì di trasferirsi nella saletta interna. Trovarono un tavolo e si sedettero uno di fronte all’altro.
Lo storpio aveva un volto molto strano. Gli occhi non riuscivano a essere simmetrici; la bocca non stava sotto al naso; aveva la fronte squadrata e ossuta, mentre il mento rotondo sembrava una fronte in miniatura. Aveva l’aspetto di uno di quei fotomontaggi che le riviste di cinema usano nei loro concorsi.
Rimasero seduti a fissarsi l’un l’altro finché lo sforzo di quella comunicazione senza parole cominciò a turbare entrambi. Doyle prese ad assettarsi il vestito con gesti vaghi e inutili. Miss Lonelyhearts trovò sempre più difficile mantenere il suo sorriso.
Quando infine lo storpio riuscì faticosamente a parlare, Miss Lonelyhearts non capì una sola parola. Per qualche minuto cercò disperatamente di concentrarsi, ma poi si rese conto che Doyle non faceva alcuno sforzo per farsi capire. Stava partorendo grumi di parole che vivevano dentro di lui come oggetti, un coacervo confuso di risposte che avrebbe voluto ribattere a chi lo insultava e di maledizioni personali contro il destino che l’esperienza gli aveva insegnato a inghiottire.
Come un confessore Miss Lonelyhearts girò il viso leggermente di profilo. Osservava il gioco delle mani dello storpio: all’inizio, il gesticolare non esprimeva altro che agitazione, ma pian piano si fece sempre più vivido: le mani si attardavano a illustrare un argomento ormai esaurito, o s’affrettavano ad anticipare una cosa di cui non aveva ancora cominciato a parlare. Man mano che il discorso si faceva più articolato, le mani smisero il tentativo di aiutare le parole e cominciarono invece a sfrecciare dentro e fuori gli abiti di Doyle. Una di esse emerse improvvisamente da una tasca della giacca, trascinandosi dietro una manciata di fogli che ficcò in mano a Miss Lonelyhearts.
Cara Miss Lonelyhearts,
mi vergogno un po’ a scriverle perché un uomo come me non ci conta tanto su cose del genere ma mia moglie mi ha detto che in realtà lei è un uomo e non una scema qualsiasi e così ho pensato di scriverle dopo aver letto la sua risposta alla signora Delusa. Sono uno storpio di quarantun anni e lo sono stato tutta la vita ma non mi sono mai lasciato andare alla tristezza tranne che di recente che è un po’ che mi sento uno straccio per via che mi pare di non essere riuscito a combinare niente e mi chiedo che senso ha tutto questo. Lei è una persona istruita e perciò immagino che forse lei lo sa. Quel che vorrebbe sapere è perché me ne vado in giro trascinandomi dietro questa gamba matta su e giù per le scale dei palazzi per leggere i contatori della società del gas e tutto per 22 dollari e 50 fetentissimi centesimi mentre i padroni se ne vanno in giro con le loro belle macchine e campano alle spalle del paese. Non si pensi che io fossi uno di quei sporchi rossi. Ho letto che in Russia gli storpi li fucilano per via che non possono lavorare invece io lavoro meglio di qualsiasi barbone e mantengo pure una moglie e una figlia. Ma non è mica per questo che le scrivo. Quel che vorrebbe sapere è a che scopo continuo a tirarmi dietro ‘sta stramaledetta zampa per strada e per le scale puzzolenti degli scantinati che mi fa pure un male cane che mi pare di scoppiare e alla fine del lavoro il dolore mi fa impazzire e poi torno a casa e non mi chiedono altro che soldi sempre soldi e mica questa è la casa adatta a un tipo come me. Quel che vorrebbe sapere è perché cavolo mi sbatto tutti i giorni col piede che mi ritrovo quando tutto questo trascinarsi in giro non mi assicura che tre miseri pasti e perdipiù ci ho un maldidenti boia per via che sforzo tanto il piede. Il dottore mi ha detto che devo tenerlo a riposo almeno sei mesi ma chi cavolo mi paga mentre lo tengo a riposo? Ma però non è neanche questo che volevo dirle perché lei mi dirà perché non cambi lavoro ma dove lo trovo un altro lavoro che mi pare già d’essere fortunato ad avere questo. Non è del lavoro che mi lamento ma quel che vorrebbe proprio sapere per bene è che senso ha tutto questo fetentissimo affare.
La prego di rispondermi ma non sul giornale perché mia moglie legge sempre la sua roba e non voglio che lei viene a sapere che le ho scritto perché ci dico sempre che i giornali sono stronzate ma ho pensato che forse lei ne sa qualcosa perché ha letto un sacco di libri e io invece non ho neanche finite le medie.
Suo aff.mo, Peter Doyle
Mentre Miss Lonelyhearts cercava di decifrare quella calligrafia angolosa, la mano sudaticcia di Doyle per caso sfiorò la sua sotto il tavolo. Sorpreso, la ritrasse di scatto, ma poi la rimise dove stava e anzi la obbligò a stringere quella dello storpio. E dopo che ebbe finito di leggere, non lasciò la presa, ma cercò di imprimervi tutto l’amore di cui era capace. All’inizio lo storpio tentò di nascondere il suo imbarazzo, fingendo di considerare il gesto una semplice stretta di mano, ma vi rinunciò ben presto e rimasero entrambi seduti lì in silenzio, mano nella mano.
Miss Lonelyhearts fa una visita
Uscirono insieme dallo speakeasy, entrambi molto brilli e occupati: Doyle a rimuginare i torti subiti e Miss Lonely-
hearts a contemplare la trionfante trasformazione della sua umiltà.
Salirono su un taxi. Quando imboccarono la strada in cui abitava, Doyle cominciò a maledire la moglie e il piede deforme. Invocò Cristo perché li fulminasse entrambi.
Miss Lonelyhearts invece era molto contento e nella sua testa si era messo anche lui a invocare Cristo. Ma il suo grido non era una maledizione, bensì la forma che prendeva la sua gioia.
Quando il taxi si accostò al marciapiede, Miss Lonelyhearts aiutò il suo compagno a scendere e lo accompagnò fino all’ingresso. Fecero un bel po’ di rumore nell’aprire la porta e la signora Doyle venne loro incontro. Appena la vide, lo storpio ricominciò a imprecare.
La signora salutò Miss Lonelyhearts, poi afferrò il marito e lo scosse ben bene fino a farlo restare senza fiato. Quando si fu calmato, lo trascinò all’interno dell’appartamento. Miss Lonelyhearts li seguì; mentre passava accanto a lei nel corridoio buio, la donna gli allungò un pizzicotto e rise.
Dopo che si furono lavati le mani, si sedettero a tavola. La signora Doyle aveva già cenato e si limitò quindi a servirli. La prima cosa che mise sul tavolo fu una bottiglia di vinaccio rosso.
Arrivati al caffè, la donna si sedette accanto a Miss Lonelyhearts, che sentì subito il ginocchio di lei premere contro il suo sotto il tavolo; ma non le prestò la minima attenzione e interruppe il suo sorriso beato solo per bere. Il cibo pesante l’aveva un po’ intontito e ora cercava disperatamente di riprovare la stessa sensazione che aveva provato tenendo la mano allo storpio, giù allo speakeasy.
La donna insinuò una coscia sotto la sua gamba, ma visto che lui continuava a non reagire, d’improvviso si alzò e andò in soggiorno. La seguirono dopo qualche minuto e la trovarono intenta a mischiare ginger-ale e liquore.
Bevvero tutti in silenzio. Doyle sembrava sul punto di addormentarsi mentre la moglie stava appena cominciando a ubriacarsi. Miss Lonelyhearts non fece alcuno sforzo per essere di compagnia; era troppo occupato a cercare un messaggio. Quando avrebbe parlato, sarebbe stato sotto forma di messaggio.
Dopo il terzo bicchiere, la signora Doyle cominciò a fare l’occhietto a Miss Lonelyhearts senza neanche cercare di nascondersi, ma lui continuava a non prestarle alcuna attenzione. Invece lo storpio parve molto contrariato da quei segnali. Cominciò ad agitarsi e a borbottare sottovoce.
I suoi bofonchiamenti dettero sui nervi alla signora Doyle. «Si può sapere che cavolo ci hai da borbottare?», gli chiese.
Lo storpio emise un sospiro che finì in una sorta di rantolo e poi, come se si vergognasse, disse: «Che mi sono messo a fare il pappone, che porto un uomo a casa per mia moglie?» Lanciò una rapida occhiata a Miss Lonelyhearts e rise come per scusarsi.
La signora Doyle andò su tutte le furie. Arrotolò un giornale e con quella specie di mazza cominciò a colpire il marito sulla bocca. Lui la sorprese mettendosi a fare il buffone. Cominciò a guaire come un cagnolino e afferrò il giornale tra i denti. Quando lei mollò la presa, si mise carponi e continuò a imitare il cane sul pavimento.
Miss Lonelyhearts si chinò sullo storpio nel tentativo di farlo rialzare, ma mentre cercava di rimetterlo in piedi, Doyle gli strappò i bottoni della patta e continuò a rotolarsi sul pavimento, ridendo come un matto.
La moglie gli allungò un calcio e si girò da una parte sbuffando di disprezzo.
Ben presto lo storpio si stancò di ridere e si risedettero tutti ai loro posti. Doyle e la moglie si fissavano a vicenda, mentre Miss Lonelyhearts ricominciò a cercare il suo messaggio.
Tutto quel silenzio dava fastidio alla signora Doyle. Quando non ne poté proprio più, si alzò per andare al bar a preparare un altro giro di bicchieri. Ma la bottiglia era ormai vuota. Chiese al marito di andare al negozio all’angolo per procurarsi un po’ di gin. Lui rifiutò scuotendo deciso la testa.
Cercò di convincerlo ad andare, ma lui non le prestò alcuna attenzione e lei perse del tutto la pazienza. «Vai a prendere il gin!», gli urlò. «Vai a prendere il gin, brutto bastardo!»
Miss Lonelyhearts si alzò in piedi. Non aveva ancora trovato il suo messaggio, ma doveva tentare di dire qualcosa. «Vi prego, non mettetevi a litigare», li supplicò. «Signora Doyle, suo marito le vuole bene; ecco perché si comporta così. Sia gentile con lui».
Con un grugnito di fastidio, la donna lasciò la stanza. La sentirono sbattere delle stoviglie in cucina.
Miss Lonelyhearts si avvicinò allo storpio e gli sorrise nello stesso modo in cui gli aveva sorriso allo speakeasy. Lo storpio ricambiò il sorriso e gli porse la mano. Miss Lonelyhearts gliela afferrò e rimasero lì così, mano nella mano e sorridenti, finché la signora Doyle non rientrò nel soggiorno.
«Che bella coppia di checche siete voi due!», disse. Lo storpio ritirò la mano e fece l’atto di colpire la moglie. Miss Lonelyhearts si rese conto che era arrivato il momento di annunciare il suo messaggio. Ora o mai più.
«Signora Doyle, lei ha un corpo grande e forte. Se stringe tra le braccia suo marito, può riscaldarlo e infondergli vigore. Può togliergli dalle ossa il gelo che lo tormenta. Trascina i suoi giorni sui pianerottoli e negli scantinati, portandosi dietro un pesante fardello di stanchezza e di dolore. Lei può togliergli questo fardello dalle spalle, sostituendolo con un sogno, il sogno che lui ha di sua moglie. Un sogno che lo rinfranca e gli farà da dinamo. Lei può fare tutto questo lasciandosi conquistare da lui a letto. E suo marito la ricompenserà rifiorendo e diventando un amante appassionato…»
La donna era troppo stupefatta per mettersi a ridere, mentre lo storpio si voltò da una parte come se fosse imbarazzato.
Appena le prime parole gli uscirono dalla bocca, Miss Lonelyhearts capì subito che si sarebbe reso ridicolo. Evitando Dio, non era riuscito ad attingere alla sorgente di forza che si sentiva sgorgare nel cuore e non aveva fatto altro che scrivere una sua rubrica per il giornale.
Ci riprovò, lasciandosi andare all’isteria. «Cristo è amore!», strillò loro in faccia. Era uno strillo un po’ teatrale, tuttavia continuò. «Cristo è il frutto nero che pende dall’albero della croce. L’uomo si è perduto mangiando il frutto proibito. Ora si salverà mangiando il frutto comandato. Il nero frutto di Cristo, il frutto dell’amore…»
Stavolta aveva fallito ancor più miserevolmente. Aveva semplicemente sostituito la retorica di Shrike a quella di Miss Lonelyhearts. Si sentiva come una bottiglia svuotata, lucida e sterile.
Chiuse gli occhi. Quando sentì lo storpio dire: «Ti amo», li riaprì e lo vide baciare la moglie. Sapeva però che lo stava facendo non per le cose che aveva detto lui, ma per lealtà.
«E va bene, scemo», disse lei, dandosi arie da regina col marito. «Ti perdono, ma ora vai giù al negozio a prendere il gin».
Senza guardare Miss Lonelyhearts, lo storpio prese il cappello e uscì. Appena se ne fu andato, la signora Doyle sorrise. «Certo che facevi una gran bella figura, con la bottega spalancata! Credevo proprio di morire dal ridere».
Non le rispose.
«Mamma mia, quant’è geloso!», continuò lei. «Basta che io gli indichi qualche bell’uomo e dica: “Uh, come mi piacerebbe che quello lì mi desse una bella ripassata” e lui non capisce più niente».
Parlava a voce bassa e rauca ed era evidente che stava tentando in tutti i modi di eccitarlo. Quando si avvicinò alla radio per cercare di sintonizzarla su un programma jazz, gli sventolò in faccia il sedere come una bandiera.
Miss Lonelyhearts le disse che era troppo stanco per mettersi a ballare. Dopo aver eseguito un paio di passi di danza osceni, la donna venne a sederglisi sulle ginocchia. Cercò di respingerla, ma lei continuava a strusciargli la bocca aperta contro la sua e quando lui si girò, cominciò a strofinargli il naso sulla guancia. Ora si sentiva come una bottiglia vuota che venga pian piano riempita d’acqua tiepida e sporca.
Quando la donna si sbottonò il vestito e tentò di spingergli la testa tra i seni, lui aprì di scatto le gambe e la fece cadere a terra. Lei tentò di tirarlo giù sopra di sé. Miss Lonelyhearts cominciò a menar colpi alla cieca e la prese sul viso. La donna lanciò un urlo e lui la colpì ancora, e poi ancora, e poi ancora. Continuò a colpirla finché lei non mollò la presa, poi uscì di corsa dalla casa.
Miss Lonelyhearts va a una festa