venerdì 20 maggio 2022

ISADORA DUNCAN Estratto da: Alberto Savinio "Narrate, uomini, la vostra storia"

 




ISADORA DUNCAN

Estratto da: Alberto Savinio "Narrate, uomini, la vostra storia"

Recensione
In "Narrate, uomını, la vostra storia" l'universo narrativo di Savinio ci presenta rifrazioni  mescolate, senza perdere autenticità, alle comparsate di Nivasio Dolcemare, sosia dell'autore, e alle sue fantasie. Con Sciascia, possiamo dire che davvero Savinio «apre alla memoria un varco verso la metamorfosi, verso il mito», nel senso
che la reinvenzione allucinata e clownesca del passato prossimo
di questi «uomini» ne proietta le vite in una dimensione astorica, nella quale lo scultore Gemito può imbattersi in Castore e Polluce e la danzatrice Isadora Duncan in Apollo Musagete, Giuseppe Verdi assumere le sembianze di una deità dendritica e Jules Verne
prendere parte alla propria camera ardente.

ISADORA DUNCAN 

I

Grande privilegio essere nati all’ombra del Partenone: questo scheletro di marmo che non butta ombra. Si riceve in eredità una generatrice di luce interna e un paio di occhi trasformatori. Questo il privilegio toccato a Nivasio Dolcemare. Anche al milione di creature che popolano l’Atene d’oggi? No. L’indigeno non ha diritto a questi doni, il suo naso è refrattario al profumo degli dèi; ma il singolo soltanto, l’isolato, colui che, nato in Grecia, greco non è. Come Nivasio Dolcemare, venuto al mondo in Atene, dall’unione di una tritonessa ligure con un centauro toscano. In ciò si riconosce la mano del Destino, la sua volontà di scelta. Dice il Destino al privilegiato: « Prendi questa luce che trapassa i metalli più duri e serbala nella sede più riposta del tuo retrosguardo; aspira questo profumo misto di muschio e di sudore che è l’autentico odor dei e nascondilo nel cavo della narice. Chi dispone di questi infallibili mezzi di comparazione è condannato a una preziosa infelicità. Va’ e sopporta la tua pena. Addio! ».

Quando nell’anno decimosesto del regno di Antonino filosofo Pausania visitò la Grecia, gli dèi erano morti da lunga fiata. Voce non rimaneva se non di mare e di vento. I templi offrivano al cielo le loro carie illustri. I tamburi delle colonne erano grani per terra di colossali collane rotte. Cavalli bradi erravano sui lidi deserti, si fermavano ad ascoltare, giravano intorno l’occhio pazzo e rosso di sangue, poi fuggivano al galoppo, spaventati dall’immenso nulla.

Vennero più tardi i pascià col figaretto d’oro e la scimitarra d’argento. Tutta la serie dei metalli nobili e delle pietre preziose era rappresentata su quelle morbide sfere umane, che beccheggiavano sulle babbucce a gondola come pesanti misirizzi. Minareti smilzi avevano preso il posto delle colonne doriche, per ospitare le cicogne e i loro cicognini. Il tempo passava allegramente, tra mozzar teste scambiandole per cocomeri, e sorbire il caffè molto denso dentro chicchere minuscole come ditali.

Fiori più tardi il tempo in cui l’Europa era una mamma per tutti. Essa scelse tra i Wittelsbach un bel principone di puro sangue bavaro, e lo diede all’Eliade risorta perché se ne facesse un re. Ma Ottone e Amalia non furono amati dai loro sudditi, benché andassero anche a letto col costume nazionale, lei con le collane di monete d’oro sulla fronte, lui con la fustanella e gli zaruk fioriti sulla punta dalla nappina rossa. A ostro di Atene, in località Ano Patissia, giacciono tra l’erba alta e le ortiche le ogive dirute e le torricelle decapitate di ciò che avrebbe dovuto essere la residenza estiva di re Ottone e della regina Amalia. Prima che portato a termine, quel palazzotto gotico passò allo stato di rudere senza storia né nobiltà.

Si arriva al 1900, trionfo del liberty, ultimo canto della civiltà arabogotica. Atene è un grande sobborgo: il sobborgo di una città che non esiste. Per molte ore del giorno gli abitanti si stanno rintanati nelle case bianche, supini sull’ammattonato, nudi e col giornale sulla faccia. I topi li vengono a fiutare con diffidenza. Uno scarafaggio sale lentamente il muro di calce. Atene somiglia quei fantasmi di città, che i Turchi hanno raso al suolo prima di abbandonare l’Albania. Il frinire delle cicale è così feroce, che sembra lì lì per sradicare la città bianca come una forma di pecorino, e sollevarla nel cielo incandescente. Al declinare del pomeriggio, quando il sole non ha più forza di mordere e l'Acropoli spande sulla città la sua ombra più lunga, passa per il viale Kefissia una vittoria al galoppo, seguita da una nube di polvere come la nave dalla sua scia. Sta in serpa un euzono che fa la ruota col gonnellino. Nella conca della vettura siede la coppia regale. Olga porta gli occhiali neri ed è talmente scura di abiti, da sembrare un fratello della Misericordia. Giorgio I ammicca a destra e a sinistra con gli occhi miopi, e d’accanto alla funebre consorte sembra rivolgere inviti galanti a tutte le mogli dei suoi sudditi.

La pace regnava assieme con la mediocrità. Scarsa la circolazione monetaria, più scarsa quella delle idee. Per pagare cinque dracme, si tagliava a mezzo un biglietto da dieci e se ne dava la metà. Per le idee, nemmeno questa operazione era consentita. I ricchi sedevano al caffè, neri di peli e vestiti di bianco, e ordinavano un bicchier d’acqua. Il socialismo travagliava i paesi industriali e lontani, ma tra gli ulivi dell'Attica non aveva vocabolo che ne esprimesse il concetto. L’agitazione dei comizi non era ignota agli ateniesi, le strade sbarrate dai soldati col fucile a crociatèt, i tre squilli che fanno voltare i tacchi e mettono il fuoco alle gambe; ma erano comizi di studenti e di seminaristi, contro l’archimandrita cui era venuto lo sfizio di tradurre i Vangeli in lingua moderna, che si chiama maliarà o come dire « la pelosa ». È in mezzo a quest’atarassia generale che accade l’avvenimento inaudito, che scardinò la vita degli ateniesi e scatenò sulla città della civetta un vento di follia.

Saranno state circa le quattro. La città era rappresa ancora nella stasi infocata che la coglieva allo scoccare del terribile meriggio, e non l’abbandonava se non al tramontare del sole. I locali dell’Astinomia1 erano immersi in un silenzio di tomba. Nel corpo di guardia l’agente Pelopida giaceva come morto sul tavolaccio. Per terra le calzature del custode dell’ordine, svasate come maone, esalavano un residuo di fumo. Le mosche volitavano a spirale intorno al dormiente, gli si posavano a turno sul labbro arricciato e sormontato dal baffo a baionetta, sulla palpebra pesante che attraverso una sottile fessura lasciava brillare come nei morti il bianco della sclerotica, sul petto tatuato con l’immagine del dio d’amore, sui piedi nudi del colore delle melanzane.

« Alt o sparo! » gridò l’agente Pelopida balzando fuori dal sonno con l’impeto di uno che sfonda una porta, e puntando sul nemico una bottiglia di gazosa che aveva trovato accanto a sé sul tavolaccio. Ma invece dell’impossibile detonazione di quell’arma vitrea, si udì il molle « plaf » dei piedi dell’agente a contatto con l’impiantito. Le mosche si tuffarono a vortice, poi balzarono tutte assieme al soffitto. Quanto al « nemico » tenuto a bada dal pallino della gazosa, e che era entrato di volata nel corpo di guardia in compagnia di un puzzo orrendo di sudore antico e recente, egli tremava sotto gli stracci che lo velavano appena e non riusciva a spiccicar parola.

Il « nemico » si chiamava Gargara e partecipava delle creature silvestri. Atene non era di quelle città tentacolari che chiudono le porte alla campagna e spargono intorno il morbo del loro dinamismo centrifugo, bruciando l’erba, falciando gli alberi, infettando l’aria. La vita « cittadina » di Atene era « irrigata » ancora dalle grazie campestri. L’erba faceva marciapiede ai margini delle strade, le gazze venivano a sfamarsi alla porta delle macellerie, le capre pascolavano sotto il peristilio della Corte d’Assise, e i fogli erranti degli atti processuali consentivano un po’ di varietà al cibo di quelle poverine. Anche Gargara faceva parte dei

« contributi della campagna ». Passava per innocente, ma nessuno aveva accertato ancora se l’innocenza di Gargara fosse uno stato naturale o una professione. Del resto, fra le genti mediterranee, la pura innocenza non alligna. Gargara abitava alle falde dell’Egaleo, tra i pallidi ulivi contemporanei del divino Platone. Capitava in città nelle ore più deserte, si sedeva per terra all’angolo di due strade e sonava interminabilmente sopra una floghèra2 metallica una nenia decrepita di lontananza, fragile come ragnatela. E poiché l’essenza del meriggio è una insondabile tristezza, si giustifica l’opinione di alcuni ateniesi molto vecchi e ricchi d’esperienza, che la nenia di Gargara fosse la successione meccanica del canto meridiano di Pan.

« Che vuoi? » ripetè per la terza volta l’agente Pelopida, e accorgendosi che la pistola che stringeva in pugno somigliava stranamente a una bottiglia di gazosa, la buttò via con gesto di profondo disgusto.

« As-ti-nò-mos »3 riuscì finalmente a sillabare Gargara, con una voce di cane parlante.

« Che vuoi dall’astinòmos? ».

« Miracolo hanno visto i miei occhi! Pericolo grande per la città! ».

« L'astinòmos non riceve, di’ a me quello che hai da dire ».

« No... no » ripetè Gargara, sgrullandosi dalla pidocchiera ai piedi di fango, per accentuare i suoi dinieghi. « Astinòmos ascolterà Gargara, e quando astinòmos ascolterà Gargara, astinòmos benedirà Gargara ».

Spinto dalla propria fede come il pallone dal vento, Gargara uscì dal corpo di guardia e s’avviò verso l’uscio che chiudeva il fondo del corridoio, e sul quale la parola « astinòmos » spiccava con lettere nere su fondo bianco. Ma l’esercizio dell’autorità rende l’uomo borioso e violento, specie colui al quale difetta il dono divino del meditare.

« Indietro! » ruggì l’agente Pelopida, le cui letture erano copiose, ma non comprendevano anche il manuale di Epitteto. E aggiunse con tono inappellabile, dopo aver sbattuto con mano brutale la creatura silvestre nel fondo del corridoio: « A quest’ora il signor astinòmos è occupato ».

I due uomini, l’autoritario e il remissivo, stettero immobili e muti. Allora, attraverso l’uscio, un lungo ronfo, profondo, pastoso, grasso, passò nel corridoio, seguito da un piccolo raglio discendente.

« Capitano mio! » supplicò l’innocente, rigando di lacrime l’untume della faccia. « Tremenda creatura è nella città; se non parliamo subito all’astinòmos, morremo tutti di morte spaventosa! ».

L’agente Pelopida si toccò il baffo in segno di perplessità e Fobos, la Paura, increspò la sua fronte ottusa. Per la prima volta da quando accudiva alle mansioni di custode dell’ordine presso la direzione dei servizi di legislazione urbana, il dubbio, il terribile dubbio scosse quell’animo di granito.

L’agente origliò, socchiuse l’uscio, entrò in punta di piedi nel piccolo paradiso privato del suo superiore. La penombra era fresca e sparsa di miraggi. Una brocca di coccio poggiava la pancia sudata alle persiane socchiuse, il collo coperchiato da uno di quei limoni bambini che laggiù chiamano neranzaki. Scendeva a metà della finestra una tenda dipinta, sulla quale brillavano in trasparenza gli ombrosi boschetti, i torrentelli scroscianti dell’Attica qual è descritta nel Crizia, ossia prima che il cataclisma la denudasse e riducesse all’attuale patetico squallore. L'astinòmos dormiva a simiglianza di Oloferne su un canapè di tela cerata, che per un’orrenda ferita aperta sulla spalliera, esalava l’anima di crine vegetale. I piedi del poliziotto posavano su una catasta di mandati di cattura in bianco. La sua mano pendeva a terra, e accanto, come la rivoltella accanto alla mano del suicida, giaceva un ventaglietto a elica. Il piegabaffi dava alla faccia dell'astinòmos la ferocia di un gatto che soffia di rabbia. Rimossi dalla loro posizione obbligata, i « richiamati » pendevano sul collo, come alghe dalla testa di un dio marino.

 

 

Ci volle del bello e del buono per restituire l'astinòmos ai sensi della realtà. Infine:

« Che ha visto quest’uomo? » egli domandò col cipiglio dell’autorità, e usando l’interrogazione indiretta per rafforzare il proprio prestigio.

« Dice che ha visto un dio, signor astinòmos » rispose l’agente Pelopida, riunendo i calcagni nudi nella posizione di attenti.

« Un dio? » ripetè dubitosamente l'astinòmos, e rise due volte: « Ah! ah! ».

Andò a staccare dalla parete uno scudiscio, e frustandosi i gambali di cuoio porcino, venne a piantarsi davanti all’accattone.

« Ti sei guardato allo specchio? ».

« No, signor astinòmos ».

« Guardati: gli dèi non si fanno vedere a grugni come il tuo ».

« Era un dio, » insistè con dolcezza Gargara « un fantasma ».

« Dio o fantasma? » urlò l' astinòmos, accelerando la fustigazione dei gambali, come se si allenasse prima di passare sulla faccia di colui che « aveva visto un dio ».

« Dio e fantasma, signor astinòmos: uno dei nostri padri ».

La faccia dell’astinòmos si arroventò come quella del gallo in combattimento. E poiché era impossibile che la colpa di non capire fosse imputabile alla sua intelligenza poco sviluppata, se la prese con Gargara e lo chiamò « bestia ».

« Non bestia, » replicò con maggior dolcezza l’innocente, travisando l’indirizzo della qualifica « ma un antico ».

« Un antico? » ripetè l'astinòmos sgranando gli occhi. E per facilitare l’ingestione di una notizia così strabiliante, andò alla finestra, tolse il neranzaki dal collo della brocca sudata di frescura, e bevve lungamente a garganella.

Finalmente, e dopo uno « stringente interrogatorio », l'astinòmos riuscì a sapere quello che Gargara aveva visto, e sarebbe riuscito a saperlo molto prima, se non avesse opposto l’ostacolo della sua autorità a ciò che non voleva essere se non la più spontanea delle confessioni.

Gargara aveva visto un antico greco. Spiegò che mentre costeggiava il cancello di piazza del Parlamento, l’impensato ritornante aveva traversato la piazza deserta in quell’ora, ed era scomparso dietro la Camera dei Deputati.

« Nient’altro? ».

L’innocente corrugò la fronte in uno sforzo di cavallo calcolatore.

« Sì: quando arrivò davanti alla scalinata della Camera, si fermò, piegò il ginocchio, alzò il braccio ».

« Lo avevo detto io! » esclamò l'astinòmos, tirandosi una tremenda frustata ai gambali. « Non c’è più dubbio. È un antico greco. Ha scambiato la Camera dei Deputati per un tempio d’Apollo. Ecco gl’inconvenienti dell’architettura neoclassica ».

L' astinòmos volle altri particolari, al che Gargara rispose che l’antico greco camminava presto e « di profilo ».

« Di profilo? ».

Passando dalla parola all’atto, Gargara divaricò le gambe, levò le braccia a candeliere e si atteggiò a simiglianza del vento Borea nelle pitture dei vasi fittili.

« Pelopida! » gridò l'astinòmos, ritrovando dopo un breve smarrimento la forza e la lucidità del libero pensatore. « Prendi dieci uomini, perlustra la città e portami questo antico greco vivo o morto. Hai le manette? ».

« Signorsì » rispose l’agente Pelopida, e in così dire trasse dalla tasca dei calzoni due cordicelle unte e nodose, perché le belle manette lucide, gloria del cinematografo americano, in quel tempo nessuno le conosceva ancora nella Grecia di Giorgio I.

Lo sgomento paralizzò la città, poi la rimestò come un’insalata. In principio la rivelazione di Gargara fu qualificata « visione ». Si diffidava oltre a tutto delle parole di un paranoico. Ma alla testimonianza dell’uomo silvestre si aggiunsero quelle di cittadini seri, di persone altolocate, di autorità, quali il generale Burnaso, il giudice Sclep, il signor Jean Bidet, secondo segretario della Legazione di Francia, il signor Wassen-hoven, professore di flauto al Conservatorio. Chi era questo greco antico? Ed era un vero, oppure un falso greco antico?

A onor del vero, questa seconda ipotesi non isfiorò neppure la mente degli ateniesi. Falsi antichi greci circolavano liberamente a Montmartre, a Hyde Park, allo Schwabing di Monaco; facevano parte di quelle popolazioni orribilmente miste, assieme con i falsi Cristi calzati di sandali, capelli alla nazzarena e occhiali; ma Atene era nonché immune, ma lontanissima da simili contaminazioni. La Grecia moderna era il solo paese, allora, nel quale la Grecia antica non fosse rievocata né parafrasata in maniera intellettualistica. (Di poi, essa pure si è lasciata contaminare). Si rievoca forse il proprio padre in forma di travestimento, di mascherata, di trucco? Epperò l’apparizione nell’Atene odierna di quel greco antico non suscitò commozione mentale né intellettuale curiosità, ma sacro orrore soltanto e portentoso spavento, quali a un figlio la terribile riapparizione del proprio padre morto trentaquattro anni prima. Quanto al dubbio che colui fosse un dio - questa idea degna di un Arrigo Heine, di un intellettuale, di un pasticheur - neppur essa sfiorò quelle menti senza svolte né passaggi segreti; oltre che a impedire questa ipotesi concorsero altre ragioni: l’essere il cristianesimo greco così ostico ancora e sospettoso da escludere più che qualunque paese o cattolico o riformista ogni più lieve e innocente sopravvivenza pagana; e anche perché gli dèi, pensabili finché se ne stanno nascosti, diventano impensabili e assurdi non appena si lasciano vedere.

 

 

Pochi giorni dopo, l’antico greco prolificò. Altri antichi greci traversarono rapidamente Atene: forme fuggitive e colorate, pappagalli fra una tribù di cornacchie. Alcune donne pure, persino un bambino: un pais. Esumazioni? Resurrezioni? Fiori di un’archeologia viva? Nessuno dei centomila ateniesi d’allora, tutta gente che o pensava da una parte sola o non pensava affatto, fu capace di chiarire il mistero; e nemmeno i cosiddetti « europei » che vivevano in Atene, ossia i membri del corpo diplomatico e di quello consolare, qualche professionista, alcuni commercianti di droghe coloniali, i quali della cultura occidentale non rappresentavano se non il lato più scadente e pompiere, e il cui europeismo si limitava a giocare a maus, e per quelli di origine anglosassone a tennis. Il solo Schlie-mann sarebbe stato da tanto. E quale gioia per lui, quale consolazione ritrovare vivi coloro ai quali aveva pensato tutta la vita! Ma Enrico Schliemann era morto pochi anni avanti, a Napoli, presso la misteriosa città di Ercole che notte e giorno, con la sua voce di pietra, i suoi accenti soffocati, lo chiamava di sotto la sua copertura di fango solidificato. Aveva lasciato un figlio nella sua casa di Atene nomata Iliou Melathron, ma costui somigliava quanto a intelligenza a Gargara, meno i repentini bagliori, i riflessi arcani che di quando in quando illuminavano la notte mentale dell’innocente.

Come in innumerevoli circostanze precedenti, lo zelo dell’astinòmos, i suoi furori, le sue minacce si rivelarono inefficaci e vani. Le cordicelle unte e nodose dell’agente Pelopida non toccarono i polsi di colui che forse era un parente di Nettuno. Superato il periodo dello spavento, poi quello dello stupore, la popolazione prese confidenza a poco a poco con quei rappresen-lauti di una età remota e illustre, tanto più che costoro si mostravano non solo miti, ma indifferenti, assenti e come lontanissimi da qualunque sguardo umano. A comunicare con essi nessuno s'arrischiava ancora, oltre che un greco antico parla evidentemente il greco antico, e nessuno di quegli ateniesi era capace di formulare la più tenue idea in questa lingua. Ma erano seguiti sempre più da vicino da gruppi sempre più folli, esaminati con crescente curiosità, studiati, commentati, persino derisi. Si avvicinava il momento, pericolosissimo per le creature sovrumane, in cui il diavolo si riduce a vecchio caprone.

Un giorno fu visto il primo « antico » incontrato da Gargara, traversare piazza della Concordia con una capra al guinzaglio. Le mammelle della bestia paziente e genitrice del pecorino erano chiuse dentro una sacca di tela. Un corteo si formò dietro il misterioso personaggio e la sua barbuta compagna, che raccogliendo via via nuova gente percorse la via dello Stadio, traversò piazza della Costituzione poi il viale Regina Amalia chiuso sotto un ponte di pepi foltissimi che danno lo starnuto, scese la scalinata dello Zappeion, passò davanti al Byron di marmo che spira tra le braccia di un’Ellade in vestaglia, traversò l’Ilisso, s’inerpicò sulla collina del Cemeterio ove giacciono sotto i cipressi gli ateniesi morti, e quando arrivò in località Kòpamos, brulla e sassosa come una terra decorticata da un furente iddio, migliaia di uomini, donne, bambini circondavano l’accampamento della strana tribù, la quale, come in mezzo a un deserto, continuò a occuparsi delle sue faccende, a battere il burro, ad attizzare il fuoco sotto la pentola, a rammendare i buchi delle clamidi e dei pepli.

Sembrava la fondazione di una città di pionieri, e sarebbe sembrata una festa campestre se il sito fosse stato più floreale e ameno, e se gli ateniesi, come tutti i meridionali del resto, non avessero la funebre abitudine di vestire il nero; il che, aggiunto al colore dei capelli e delle barbe, al rigoglio di pelo che s’infoltiva sulle sopracciglia, e usciva a ciuffi dalle narici e dalle orecchie, e s’attorceva a boccoli sui nèi, trasformava quell’umano comizio in un comizio di scarafaggi.

Mentre più folto era lo schiamazzo, un augusto silenzio calò d’un tratto sulla folla e la raggelò. Le teste maschili si scoprirono, si chinarono quelle femminili e un rispettoso varco si aprì dinanzi all’incedere di un cavaliere. Avvertito di quegli avvenimenti singolari, il re in persona, S.M. Giorgio I veniva a vedere « gli Achei ». Montava una mite cavalla bianca, che avanzava al passo nel canale umano, girando un po’ a destra un po’ a sinistra, come a chiedere scusa, gli occhi malinconici e dolci. Sua Maestà portava al solito la piccola uniforme di ammiraglio, e con la destra guantata di bianco un po’ si arricciava le punte dei lunghi baffi da mandarino, un po’ si toccava la visiera del berretto piatto e calato sull’orecchio. Qualche zito4 si levò tra la folla, spontaneo ma inopportuno, perché il grande atteso in quella giornata in cui stava per essere risolto il più misterioso caso di palingenesi o di metempsicosi, non era il re, ma il professore Mistrioti.

Questi era il titolare della cattedra di filologia all’Università, il solo uomo in tutta Atene che conoscesse il greco antico nonché de jure ma de facto. Questo almeno proclamava la fama, perché una certezza derivata dall’esperienza nessuno la poteva dare.

Mistrioti era classicista e carpofago. Aveva sollevato l’Università contro l’irriverente tentativo di recitare Sofocle in moderno, e ogni giorno, finito il suo corso sui dialetti comparati dei Dorii, degli Ionii e degli Attici, si fermava alle mostre dei fruttivendoli di via Patissia, e si sceglieva da sé, lentamente e impudicamente, le frutta destinate al suo pasto da scimmia. Cacciava il dito nelle piaghe delle pesche, strizzava la goccia di latte dal collo dei fichi, ascoltava all’orecchio i poponi, poi, carico del proprio pasto, s’avviava a consumarlo, strascicando i piedi per terra e sollevando una nube di polvere; perché Mistrioti, simile in questo a Michelangelo, soffriva di uno strano sfaldamento degli arti inferiori, e camminava senza sollevare i piedi da terra, al modo dei ragazzini che movendo le braccine a stantuffo e facendo « puf puf » con la bocca, imitano la marcia della locomotiva. « Arrivederla, kirie kathegheté! » gli gridava dietro il fruttivendolo, al che il filologo offeso, voltando di scatto una faccia da scimmione punto al sedere da un ferro arroventato, ribatteva: « Katheghetà, somaro! ». Mistrioti somigliava al suo lontano antenato Socrate, ma diversamente dal figlio di Sofronisio, portava il tubino e la velada, occhiali da falegname e scarpe da bagonghi.

Mentre il corteo saliva al Kòpamos, alcuni previdenti erano andati a cercare il filologo nella sua casa di scapolo, come il solo uomo capace di entrare in comunicazione con « gli Achei ». E ora il « signor katheghetés » saliva la collina in gran pompa, il tubino a sghimbescio e il corpo stravaccato tra le anfore come un sileno ubriaco. Perché considerando che con il suo passettino da vaporiera puerile il professore avrebbe messo sei mesi a far la strada a piedi, lo avevano issato sopra una susta coperta di festoni e sonagliere, ossia una di quelle carióle a due ruote con le pareti dipinte che laggiù sono adibite al trasporto dell’acqua di Ama-russi, la quale è per gli Ateniesi ciò che per i Romani è l’acqua Acetosa: un dissetante e un leggero lassativo.

Al suono dei bubboli, la folla ondeggiò e spumeggiò di voci. Il filologo fu sollevato di fra le anfore, deposto a terra come una massa informe di stracci e peli, sospinto sui molli piedi di gomma fino al margine della folla, oltre il quale cominciava la zona della misteriosa colonia.

Gli Achei continuavano a vivere tra loro, senza dare uno sguardo attorno. Avevano finito di cenare, parlavano sottovoce, riassettavano le posate di lucido metallo, i bicchieri a telescopio. Il bimbo si era addormentato sopra un lettuccio pieghevole e fornito di ogni perfezionamento.

Mistrioti si tolse il tubino, si raddrizzò gli occhiali di ferro, e con una voce tirata dal fondo dei visceri, pronunciò:

« O andres... ».

Ma si fermò a bocca aperta, e voltandosi con gli occhi stralunati disse:

« Ma questi greci antichi parlano l’inglese! ».

E aggiunse in un soffio:

« Con l'accento americano ».

 

II

In questa età del ferro nella quale noi consumiamo la vita, qualche barlume rimane in noi delle quattro che l’hanno preceduta. Secondo le attitudini di ciascuno, i suoi gusti e soprattutto il suo grado di nobiltà, c’è chi ricorda meglio l’età dell’oro, altri quella dell’argento, altri ancora quella del bronzo. Ma la ragione profonda di queste eponimie metalliche chi la ricorda più?

Gli uomini una volta erano aurati come i denti guasti. Nasce l’orribile sospetto che all’origine del mondo ci fosse una carie colossale. Le città lampeggiavano di queste nobili creature, che battendosi confidenzialmente sulla spalla per rallegrarsi a vicenda della comune incorruttibilità, mandavano un suono dolcissimo e disteso, come crotali sospesi a un filo e agitati dal vento.

Anche il diluvio eseguito con più cura, lascia dietro a sé qualche scampato. Non è raro incontrare uomini molto rigidi, duri d’espressione e taluni con la faccia addirittura di bronzo, i quali, urtati, rispondono di sotto i panni con un « dan » sommesso e misterioso. Sono uomini di metallo, sopravvissuti all’età dell’oro, dell’argento o del bronzo. Poi ci sono gli scampati dell’età degli eroi, e davanti a costoro bisogna levarsi in piedi e salutare. Poi ci sono quelli dell’età della pietra, gente durissima e pesante, che se per caso ti pesta un piede te Io ricordi per il resto dei tuoi giorni. Ci sono infine i sopravvissuti dell’età ornitica, gli uomini uccelli, gente leggerissima e volante, che troppo scarsa da riempire dì sé un’età, costituì in seno alle speci alimi una tribù particolare e nascosta, la quale frusciando e cinguettando viveva là ove la lontananza dagli altri uomini era più grande, e minore il pericolo d’incontrarli. Aristofane parlò degli uomini uccelli con eleganza attica, e Cyrano di Bergerac con esperienza e dottrina. Quando un uomo uccello traversa il cielo tra lusco e brusco, il corpo di sghembo e le braccia ciondoloni, oppure passa a piedi per una città, così leggero che quasi non tocca terra e le ali ripiegate sulle spalle come un paio di sci, gli altri uomini dicono che è un angelo e aspettano a bocca aperta qualche notizia strabiliante, perché angelo significa « colui che annuncia », e gli uomini si tengono stretti tuttora al significato delle parole, senza pensare che le parole sono stati loro stessi a inventarle.

Occorre aggiungere che queste creature straordinariamente leggere, ma sottomesse esse pure come tutto ciò che vive all’implacabile Necessità, cercano nei corpi di ballo una condizione adeguata alla loro natura, e quelle di maggiore virtù si chiamano Zambelli o Aida Boni se uccelle, Nijinski o Sergio Lifar se uccelli? Non si loderà mai abbastanza come allevatore di uomini uccelli l’indimenticabile Diaghilev, il quale aveva trasformato la sua compagnia di Balletti Russi in una enorme voliera musicale.

 

 

Il signor Duncan, oriundo scozzese e cittadino di San Francisco, mise la propria moglie in condizione di dare vita al frutto del loro amore, dopo di che se ne andò a Los Angeles a fondare una nuova famiglia. Il pionierismo degli Americani non si limitava in quel tempo a esplorare deserti e a fondare città. La gravidanza della derelitta maturò in una cupa tristezza, nello splendore di quel passaggio marino che con parole inglesi si chiama Golden Gate, e in italiano Porta d’Oro. Strani fenomeni avvenivano in lei, quali al tempo dei miti nelle donne fecondate dagl’iddii. Non i movimenti soliti, i « calci » della creatura che oscuramente « assaggia » la vita, ma una danza. Ligio a una tradizione antichissima e gloriosa, il medico non capì nulla, ma ordinò alla signora Duncan ostriche in ghiaccio e sciampagna, ossia scelse senza volerlo il cibo che più conveniva alla nascitura, perché le ostriche e lo    sciampagna sono, come tutti sanno, il pranzo di Afrodite.

La creatura danzante venne alla luce il 27 maggio 1878. Maggio deriva da « maggiore », due e sette danno nove. Perché tanta jattura dunque sulla testa della danzatrice?

Sparsi elementi di divinità vagano per l’aria, che taluni uomini afferrano al volo e di cui si compongono un ineffabile abbigliamento. Anche Isadora Duncan si era composto un abito di « elementi divini », e ciò spiega la sua straordinaria facilità di mostrarsi nuda, così deplorata dalle anime pusille.5 Dei quattro elementi che secondo Empedocle compongono la natura, Isadora Duncan era in grande dimestichezza col fuoco, con l’acqua e con l’aria. Col quarto eleménto, la terra, manteneva relazioni buone ma non ottime. Cercava in ogni modo di toccar terra il meno possibile, il che in una danzatrice può essere un fatto puramente tecnico.

Il    fuoco la dominava in tutti i sensi, e il primo ricordo che brilla nel buio della sua infanzia, è quello di un incendio. Dall’alto di una finestra Isadora a tre anni volò tra le braccia di un policeman gigantesco.

In questo ricordo il fuoco a onor del vero non è monagonista. La bimba treenne si sentì così sicura e felice sul petto del colossale guardiano dell’ordine, che questo ricordo infantile è da considerare oltre a tutto come una anticipazione della vita straordinariamente amorosa di Isadora, del suo slancio a volare fra le braccia robuste dei maschi.

Più imperiosa del fuoco, l’acqua ha dominato il destino di Isadora. « Sono nata in riva al mare » essa ha scritto in My Life. « In riva al mare sono avvenuti i fatti più importanti della mia vita ». Anche l’arte le è stata ispirata dal mare. « La prima idea della danza mi è venuta dal ritmo delle onde.6 Diversa la vita del bimbo, secondo che è nato vicino al mare o in montagna. Il mare mi attira. Le montagne mi rammentano che sono prigioniera della terra, e quando levo gli occhi alle loro cime, non ho desiderio se non di spiccare il volo e liberarmi ». L'acqua la vide nascere, l’acqua uccise i suoi figli. Acqua di fiume, perfida e sinuosa. Aggiunge: « Sono nata sotto il segno di Venere. Quando la sua stella sale nel cielo, il fato mi è favorevole ». Isadora fidava nei segni celesti. Condivideva l’errore comune a molti, che gli dèi ci sono amici. Ignorava che fra dèi e mortali la lotta di classe non è estinta. Amici dell’uomo finché l’uomo è umile e sottomesso, gli dèi diventano vendicativi e spietati non appena scoprono in lui un eventuale concorrente. Per parte sua, Isadora non perdeva occasione di irritarli. A Budapest, aspirando a essere amata da Hermann Bahr,

Isadora gli confidò che era fatta come la Venere di Milo. Nell’intenzione di Isadora, questa confidenza doveva rompere gl’indugi del troppo timido critico musicale della « Neue Presse ». Nell’istante medesimo, a Parigi, in fondo alle sale terrene del Louvre, la Venere di Milo ebbe un tremito di rabbia seguito da una tosse furiosa, e senza por tempo in mezzo scese dallo zoccolo che la ospita da tanti anni, per andar a tirare quattro sganassoni a quell’insolente. Ma ricordatasi mentre stava per varcare la soglia che le mancano le braccia, se ne tornò mogia mogia al suo posto e si rimise in posa.

 

 

Suo padre, Isadora lo vide una volta sola, tra i gelati e le paste. Aveva otto anni. Il campanello di casa squillò. Isadora andò ad aprire e si trovò faccia a faccia con un signore bello come un Apollo in borghese. Nell’alloggio di due camere che in quel tempo costituiva la casa materna dì Isadora, quell’uomo piombò come lo sparviere nel pollaio. « Non lo voglio vedere! Non lo voglio vedere! » gridava l’abbandonata dal fondo di quella dimora senza fondo; e le vocette di Raimondo, di Agostino e di Elisabetta, fratelli e sorella d’Isadora, circondavano la voce della loro madre come le patatine circondano l’arrosto. Allora l’Apollo in redingote e tubino prese la bambina per mano e la condusse nella migliore gelateria di San Francisco. La rimpinzò di gelati e dolci, e guardandola mangiare la chiamava «mia piccola principessa Pug». Isadora non rivide suo padre. Seppe di poi ch’era poeta. Trovò fra le sue poesie la tragica profezia della sua vita. Circolavano in quella famiglia correnti tali da ingelosire gli dèi decaduti dell’Olimpo, ma non spenti. Quando la « piccola principessa Pug » tornò a casa, il silenzio era umido di pianto.

L’idea della danza prese corpo molto presto. Isadora apri la sua prima scuola a San Francisco. Indi a poco San Francisco non bastò alla sua ambizione. I Duncan si trasferirono a Nova York. Isadora trovò a Nova York più arte e maggior bellezza. Che importa? È questo appunto il segno che est deus in nobis. Basta un accenno sottilissimo a destare il dio interno, e orizzonti sconfinati si aprono all’ospite della divinità. Per dipingere i suoi draghi, Böcklin faceva posare quei pesciolini minuscoli, che gli amatori di fritture mangiano con tutta la testa e la coda. Bastò il falso gotico di Nova York a far capire a Isadora Duncan che l’architettura può essere anche arte e poesia. Più tardi, guardando la Porta di Brandeburgo e la facciata della Neue Wache, scoprirà che Berlino è una città greca. Felice natura! Come l’uomo di stomaco robusto, che mangia qualunque cosa. Come la ragazza fornita di sicure grazie, di cui il francese dice « qu’un rien l’habille ».

 

 

A Nova York Isadora ebbe i primi scontri con gl’impresari, i teatranti, i delegati di quella immortale forma di schiavismo che vuol sommettere l’artista agl’istinti più vili della folla, e contro la quale nessun Lincoln ha mai levato un appello liberatore. Ebbe una scrittura al Daly Theatre. La vestirono da Colombina, le fecero fare dei movimenti giratori. « La danza deve esprimere la libertà, » andava ripetendo Isadora con una grinta che non ammetteva discussione « deve esprimere le commozioni dell’umanità e i suoi vasti sentimenti ». Augustin Daly guardava la predicante fanciulla con occhi da coniglio cerchiati di rosa, poscia batteva una con l’altra le sue pallide manine da flautista, e faceva ricominciare le pirolette. Tra prova e prova Isadora si rifugiava in camerino, e, le mani nei capelli, leggeva Platone, Eschilo, Marco Aurelio. Una zona di sospetto si formò intorno alla lettrice. Per mutarle le idee, le diedero nella Geisha una particina da ballare e cantare. « A quel tempo » nota Isadora « gli attori erano considerati creature inferiori, di poco superiori ai domestici ». E aggiunge, come si addenta la buccia di limone dopo la purga: « Questa considerazione è di molto mutata da quando Paderewski è stato nominato presidente della repubblica ». La mente ricorre a talune osservazioni acutissime dietro la loro superficie sciatta, che da Stendhal passano a Nietzsche, e da Nietzsche a Isadora Duncan.

Questo offrir pernici a chi le chiedeva rape, accompagnò Isadora per tutto il cammino della vita. Sognava di « mettere » in danza la Nona sinfonia, e la gente voleva che ballasse il saltarello. Al Karlstheater di Vienna, il pubblico accolse gelidamente il coro delle Supplici, ma andò in visibilio al Bel Danubio blu. La danzatrice venne alla ribalta, placò con le mani la tempesta dell’entusiasmo, disse che bisognava risuscitare la bellezza del coro antico. « Nein! Nein! » gridavano i viennesi dall’oscuro vivaio della sala, come bimbi cui sono stati promessi sgonfiotti di cioccolata e si vedono offrire patate lesse: «Noch nicht! Tanze! Tanze die schöne blaue Donau! Tanze noch einmal! ».

A Nova York una volta ancora il mare intervenne nel destino di Isadora. Il Pacifico, che la fanciulla vedeva dalla sua finestra di San Francisco, rifletteva, capovolti, i miraggi torbidi dell’Asia, le ragnatele della Cina, le vele dei sampani simili ad ali di pipistrelli gialli. Ma nell’Atlantico Isadora vide riflessa a scale tutta la storia dell’Europa, e l’immagine più vicina richiamava all’età degli eroi. Nelle Colonne d’Èrcole, la giovane predestinata scoprì il volto bellissimo e velato di tristezza della Grecia. Anche una volta il mare rivelò il suo fine di unire, più che di separare i continenti.

Bisogna invertire la nostra posizione di paleocosmi, per capire come la marcia verso l’Europa può diventare per quelli dell’altra sponda l’esplorazione di un mondo nuovo. I Duncan non viaggiarono come sogliono viaggiare gli Americani, in classe di lusso e al suono degli shakers sbattuti, ma sopra un cargobotto nero come uno scarafaggio acquatico, che trasportava a Hull un carico di buoi. Uno di questi era Giove, incanutito e in malo arnese. La tribù era al completo, con Raimondo, Isadora, Elisabetta, Agostino e la loro madre: colei che, senza accorgersene, aveva messo al inondo quattro angeli mutili di ali, ma nei quali il desiderio di volare era irresistibilmente vivo, come l’ondeggiare per il mare, lo stormire del fogliame per la selva.

La navigazione fu tempestosa. Cuore d’oro, il capitano cercava di tener su il morale dei suoi cinque passeggeri a furia di grog e whisky. Tra l’urlo del mare e il sibilo del vento nel sartiame, mugghii strazianti salivano dalla stiva. Sbattuto dal beccheggio, arrotolato dal rullio, accatastato in un puzzo spaventoso, quel tragico popolo di cornuti, strappato ai verdi pascoli del Middle West e destinato agli stomachi dei londinesi, soffriva il mal di mare. Isadora s’affacciava al boccaporto, s’immalinconiva alle sofferenze di quel bue nel quale aveva ravvisato il padre degli dèi e degli uomini, capace tuttavia di trasformazioni, ma incapace ormai di rapire ninfe, trasportarle a nuoto sul mare azzurro, deporle su un lido armonioso, e ivi fecondarle per dare nascimento al continente più gentile, più colto, più umano della terra, e il solo nel quale la vita dell’uomo è divisa come l’ultimo atto dell’Aida in due piani: spirito e materia. Quando la bonaccia tornava e la luna usciva dalle nubi, Isadora e il capitano in seconda salivano nella coffa. Questi era irlandese come la madre della fanciulla, ma le affinità di razza giustificano meno delle affinità elettive quegli incontri lunari. E lassù, interminabilmente, tra cielo e mare, la danzatrice e il marinaio confabulavano come quattro secoli prima Cristoforo Colombo e Pietro Gutierrez, ma intorno ad argomenti di altro genere, mentre il cargo-botto scortato dai delfini trascinava il sedere sull’oceano fosforescente, e giù, nell’inferno placato della stiva, Giove, la schiuma alle froge e il fianco palpitante, riposava nel proprio vomito. Agli uomini anche più opachi, Isadora ispirava sentimenti sublimi e purissimi.

Alcuni mesi dopo, Isadora ritrovò Giove a Parigi. Quello stesso che in ispecie di bue nauseato giaceva nella stiva della nave bestiame? Non si sa. Straordinariamente rigenerato in ogni modo e ritornato alla sua più smagliante condizione taurina. Praticava la scultura come Sofronisio padre di Socrate, e si faceva chiamare Augusto Rodin. Quelle gambe di gesso che se ne andavano per conto proprio, liberate finalmente dell’inutile peso di un busto e di una testa; quei pugni che stringevano l’aria fino allo spasimo; quei tronchi umani che sebbene privati di arti e di capo vivevano splendidamente e respiravano dal profondo del cuore, rivelarono a Isadora l’arte vera, e come l’artefice grande disprezza il superfluo e si attiene all’essenziale. Se gli entomologhi non c’ingannano, l’unghia ingigantita e la parte per il tutto sono il modo di vedere della formica, questa bestiola per la quale il nostro mondo è una sineddoche. Che importa? In quel tempo Rodin aveva portato alla perfezione la sua natura di Cheru-bo, e il titolo di « nuovo Michelangelo » sonava gradevolmente al suo orecchio enorme e peloso. Isadora, che aveva già incontrato quel toro alato in società, un giorno lo andò a trovare nel suo studio dell’Hótel Biron. All’ingresso della danzatrice, Rodin congedò con un cenno Rainer Maria Rilke, che in atteggiamento di Narciso trascriveva in un taccuino i pensieri sull’arte che gli dettava il Maestro. Isadora si sfilò dall’abito cittadino come una banana dalla buccia, e angelicamente nuda danzò fra le statue. Le donne s’immaginano che l’arte giustifica tutto. E quale arte? La danza: questo Ersatz dell’arte. Rodin seguiva quelle circonvoluzioni di carne con l’occhio bovino, e la fronte gli si corrugava tragicamente. Non parlava, ma la sua respirazione ansiosa riempiva il silenzio. Quando i cerchi si restrinsero, si ridussero a un punto e la fanciulla si fermò, il cherubo si spiccò dal caminetto che lo aveva sorretto al cubito durante la casta e terribile danza, e mosse lentamente avanti a sé. Continuava a non parlare, ma respirava sempre più forte. Si avvicinò alla danzatrice ansante e odorosa, le toccò i capelli con la manona abituata a plasmare la creta, il collo, le braccia, le gambe. Dilatò il petto, cominciò a mandare fumo dalle narici. Allora Isadora si scrollò come uno che si sveglia, si schermì con le mani come Dafne davanti ad Apollo, fuggì con grandi salti arcuati. « Che peccato! » nota molti anni dopo Isadora Duncan nel libro della sua vita. « Quante volte ho rimpianto quella puerile incomprensione che mi ha tolto la gioia divina di offrire la mia verginità al grande Pan in persona, al potente Rodin! ». E Nivasio Dolcemare, dalla viva voce del quale abbiamo colto questa riesumazione delle gesta di Isadora Duncan, a questo punto commenta: « Del senno del poi son piene le strade ».

Torniamo alla nave-bestiame. Nell’orrore di quella stiva, Isadora riconobbe Giove trasformato in toro, e da toro ridotto a bue. Segno di quanto vivo e attuale era per la danzante fanciulla quel mondo di umana sovrumanità che per i più è spento e dimenticato. Quanto a Raimondo Duncan, lo spettacolo di quei ruminanti torturati dal mare determinò in lui l’abiura dell’alimentazione carnea, e la conversione al vegetarismo. Questo, nonché nutrizione, è religione.7 Della verde fede Raimondo divenne uno degli apostoli più ferventi. Quale assurdo del resto la sarcofagia in un Raimondo Duncan! I Duncan, come abbiamo detto, sono uomini-uccelli. Raimondo a dir vero non è mai stato un uccello da volo, ma un uccello senza volo, come i polli e i tacchini. Del tacchino ha il becco uncinato, i bargigli alla Dante, il movimento a biella del collo quando cammina. Nemmeno l’erba dunque a una siffatta creatura, ma il granturco; e non mangiare, ma beccare. Dei quattro fratelli, Raimondo per importanza e dottrina coreutica viene subito dopo Isadora: quell’Isadora che lui, vivo tuttora, piange lassù a Parigi, con i suoi occhi rotondi di vecchio gallinaccio.

 

III

Che pensa della danza Nivasio Dolcemare? « La danza » egli ci ha detto « è il linguaggio dei sordomuti propagato dalle mani a tutto il corpo. Sordomuti e danzatrici ispirano una pena eguale. Gli uni e gli altri ci vogliono dire qualcosa, ma che cosa? E la ispirerebbe anche il cane, se non sapessimo che il cane non parlerà mai. Perciò non dite mai di un cane: “ Non gli manca che la parola ”. L’attesa di ciò che non può avvenire, è la forma più penosa dell’infelicità. Che cosa vogliono esprimere i gesti della danzatrice? Idee no, tolte quelle rudimentali che esprime un semaforo, due marinai che si parlano à sbracciate da una nave all’altra. Di là da queste, si passa immediatamente al campo assurdo, equivoco, opaco degli stati d’animo. Capisci ora perché noi, scopritori di una nuova realtà poetica, abbiamo sempre diffidato della danza, anche nel periodo della sua acme? Nella parola noi amiamo il significato e l’oggetto: coloro amano il movimento. Il sordomutismo sale agli occhi, al cervello. La danza è una pazzia bianca, una malattia silenziosa e ondeggiante. Ma gli anni passano e l’animo si placa. Confortate da una prospettiva sempre più vasta, anche le cose più vane acquistano una desiderabile realtà. Ripensiamo con nostalgia ai discorsi dei nostri genitori, all’arte dimenticata ormai, e da loro così sapientemente praticata, di parlare per non dir niente. L’antipatia scema via via di vigore, e non più con ostilità né con indifferenza, ma con simpatia ripensiamo a colei che col dramma della propria vita saziò per un attimo la voracità del fato, come i sette giovinetti e le sette giovinette di Atene sfamavano di anno in anno il Minotauro. Povera Isadora! Troppo semplice per concepire l’utilità dell’inutile, i suoi gesti assurdi essa li offriva a qualcuno, la sua danza celava un fine religioso. Anche Isadora fu archeologa, un Petrarca in gonnella, un Winckelmann con le mammelle. Trovò il balletto e gli uomini ridotti a bambole giranti: risuscitò la danza greca, la gravità dei suoi ritmi, l'austerità dei suoi movimenti. Diversamente da chi la volle imitare, la sua danza non fu mai né frenetica né istericante, ma sempre contenuta in una grande misura, in una grande dignità ». Così parlò Nivasio Dolcemare. Intesero gl’inglesi la rivoluzione operata da Isadora Duncan nella danza? Non lo sapremo mai. La buona educazione vieta ai britannici di esprimere giudizi.

L’esordio dei Duncan nella società londinese avvenne in casa di Lady X..., in Grosvenor Square. La signora Duncan si mise al piano e Isadora danzò il Narciso di Nevin e la Canzone della primavera di Mendelssohn. Elisabetta per parte sua recitò alcuni idillii di Teocrito nella traduzione inglese, e Raimondo tenne una breve conferenza sull’influenza della danza nella psiche dell’umanità futura. Un programma da mandare in solluchero gli strapaesani di Colle Val d’Elsa. Isadora danzò nuda i piedi e le adolescenti forme avvolte in pochi metri di velo. Una giovine divinità, risvegliata dopo duemila anni di letargo, era piombata dal soffitto in mezzo a quel salotto della City. Ladies e gentlemen seguivano con l’occhialino lo spettacolo inusitato, né appariva sulle loro facce, traversate da un comun sorriso, scatto di sorpresa. Susurravano: « Charming! Fine ». Ma chi si avvide che quel leggero velame era più shocking di una franca nudità? Le buone maniere vincevano lo stesso puritanismo. In altri salotti intanto, e rispettate le proporzioni, Francesco Paolo Tosti raccoglieva lodi eguali, dopo che la barbetta in aria e gli occhi revulsi aveva cantato Vorrei morir tra l’indifferenza generale. Era presente anche il principe di Galles, il futuro Edoardo VII, ma questi neppure, per quanto fornito di quell’acume politico destinato a splendidamente brillare nell’Entente cordiale, penetrò il mistero, sondò gli abissi dell’arte isadoriana; apprezzò in compenso i pregi fisici della danzatrice. « Questa giovane americana ha una bellezza alla Gainsborough! » esclamò il futuro re con la sicurezza dell’intenditore, e questa lode, formulata da così autorevole bocca, portò Isadora agli onori di « donna del giorno ». Effimera gloria! I successi nei salotti di Londra erano puramente onorifici, e mentre la signora Duncan, consumati i pochi dollari portati da Nova York, nutriva i suoi volanti figlioli con tè nel quale immollava i durissimi residui delle brioches avanzate dall’abbondanza, Isadora, debilitate le membra, danzava per ipotetici fini di beneficenza, che alle dame patronesse fruttavano fior di sterline. Pietà e ferocia in Inghilterra hanno il medesimo volto. Quando Jack London si mise a fare il povero per esperimento, e assieme con altri pezzenti entrò in un refettorio dell’Esercito della Salvezza, nel quartiere di Whitechapel, a Londra, i luogotenenti del generale Booth, prima di consegnare la scodella di fetida brodaglia e il tozzo di pane bigio che erano la meta di quel triste pellegrinaggio, costringevano gli affamati a cantare per un’ora dei salmi in lode dell’Altissimo, quando i salami sarebbero stati tanto più indicati. Dal suo soggiorno a Londra, Isadora riportò alcune notazioni sulla vita e sul carattere degl’inglesi, che si lasciano dietro di parecchie lunghezze tutto ciò che in questa materia ebbe a scrivere o a dire Giorgio Bernardo Shaw. Udite: « In casa della signora Wyndham assistei per la prima volta a un tè inglese. Inimitabile è il fascino di queste riunioni intorno al caminetto, col tè scuro nelle tazze, i panini imburrati, la nebbia giallastra di là dalle finestre e la civile lentezza delle voci inglesi. C’è nella casa inglese un’atmosfera magica di sicurezza, di cultura, di benessere. È pure in casa Wyndham che notai per la prima volta il singolare comportamento dei domestici inglesi, i quali si muovono con una specie di aristocratica sicurezza, non disprezzano la loro condizione né cercano come in America di elevarsi sulla scala sociale, ma sono orgogliosi di servire le “ grandi famiglie ”, come hanno fatto i loro padri e come faranno i loro figli. Questo è uno degli elementi che danno calma e sicurezza alla vita ». E Nivasio Dolcemare aggiunge: « Il male è insopprimibile nel mondo. Perché non nasconderlo dunque sotto una faccia uniformemente angelica? Inutile cercare altro significato alla parola ipocrisia, di quello contenuto nella parola civiltà ».

A Parigi, la natura avioidea dei Duncan si sviluppò splendidamente. L’atavismo di Ornix, il lontano antenato dell’età degli uccelli, si manifestò con rinnovata vigoria. Si alzavano prima del sole, e poiché a testimonianza di Amelio filosofo gli uccelli sono le creature più liete del mondo, andavano a danzare nei rugiadosi giardini del Lussemburgo, fra le marmoree regine di Francia. Isadora debuttò nel salotto della signora di Saint-Marceau, davanti al Tout-Paris dell’arte e della finanza. André Messager era al piano. Alla fine della danza un signore con faccia di mummia e corpo di ettoplasma si levò dal fondo della poltrona nella quale fino allora era stato raggomitolato come un anaconda in istato di digestione; cominciò a svilupparsi a poco a poco, non si fermò quando ragionevolmente avrebbe dovuto fermarsi, ma continuò a salire. Era altissimo. Luceva intorno al suo corpo un alone opalino, manifesta presenza di ciò che i metapsichisti chiamano « irradiamento vitale ». L’inverosimile signore lanciò in avanti due tentacoli di piovra e afferrò la danzatrice come per cibarsene.

« Come ti chiami, bambina? ».

« Isadora ».

« Avrai un nomignolo? ».

« Da piccina mi chiamavano Dorita ».

« Dorita! Dorita! » esclamò l’infinito signore con una vocina filiforme e adatta al suo corpo tubolare. Poscia, approfittando dei privilegi consentiti a un personaggio così diverso dalle altre creature umane, baciò la giovinetta sugli occhi, sulle gote, sulla bocca. Quando Isadora domandò alla padrona di casa chi fosse quel singolare baciatole, la signora di Saint-Marceau rispose che era il « grande » Sardou.8 Era destino che Isadora si facesse baciare da tutti i granduomini di Francia.9

 

Oltre all’incontro col famoso e ormai dimenticato burattinaio, due fatti incidono questo periodo della vita d’Isadora, entrambi di grande momento per lei: la tragica operazione dell’« antoptòsi », e la scoperta che il centro dei movimenti coreutici non è alla base della spina dorsale, come erroneamente credono i maestri di ballo, ma all’altezza del plesso solare.

« Ritta per ore e ore, immota, le mani conserte sul petto, passavo i giorni e le notti nello studio, cercando una danza che mediante i movimenti del corpo fosse l’espressione divina dello spirito umano. E finalmente scoprii il centro generatore del movimento, il fulcro della potenza motrice, lo specchio visionale onde la danza scaturisce, creata in ogni sua parte. Nacque così la teoria sulla quale fondai la mia scuola. La Scuola del Balletto insegna che il centro generatore è all’inizio della colonna vertebrale. Da questo asse, dicono i maestri di ballo, rameggiano i liberi movimenti delle braccia, delle gambe e del tronco, ma il moto meccanico e artificiale che ne risulta è indegno dell’anima.

Io invece cercavo la sorgente dell’espressione spirituale, onde attraverso i canali del corpo, inondato di luce vibrante, s’irradia la forza centrifuga che riflette la visione spirituale ».

A scanso di avventate attribuzioni, dichiariamo che le parole fra virgolette sono personali di Isadora Duncan.

 

 

« Dopo mesi di sforzi » continua Isadora « durante i quali mi ero abituata a concentrare la mia attenzione su questo unico centro, mi avvidi che quando ascoltavo la musica, i suoi raggi e le sue vibrazioni convergevano verso questa unica sorgente di luce che era in me, e in essa si riflettevano in visioni spirituali. Questa sorgente non è lo specchio dello spirito ma dell’anima, ed è dalla sua visione riflessa che io potevo tradurre in forma di danza le vibrazioni musicali. Non è facile esprimere queste cose con le parole, ma le mie alunne, anche le più piccole, le più povere, non stentavano a capirmi. Dicevo: “ Ascoltate la musica con la vostra anima. Sentirete destarsi in voi un essere interiore, ed è per la sua mercé che ergerete la testa, alzerete le braccia, moverete lentamente verso la luce ”. Questo risveglio è il passo della danza. A più riprese ho tentato spiegare agli artisti questa prima e fondamentale teoria della mia arte, ma il solo Stanislawski mi ha capita ». E Nivasio Dolcemare aggiunge: « Stanislawski fu uno degli amori più intensi ancorché “ bianchi ” di Isadora Duncan, il che dimostra anche una volta che il miglior tramite di comprensione fra l’uomo e la donna è quello dei sensi ». « Portato a termine questo lavoro colossale » confessa Isadora in altra parte dell’autobiografia « capii che i miei soli maestri di danza erano Gian Giacomo Rousseau, Walt Whitman e Federico Nietzsche ». E Nivasio Dolcemare: « Che faccia avranno fatto costoro, quando si sono visti investiti di così inaspettate mansioni! ». Quanto a ciò che abbiamo chiamato « antoptòsi », prelevando dal vocabolario botanico un termine che significa « caduta del fiore », e che figuratamente determina il passaggio di Dorita dallo stato di fanciulla a quello di donna, Isadora lo effettuò a Budapest, con la complicità di un attore ungherese. A più riprese Isadora ci avverte che è una cerebrale. « Gli amori di testa » essa dice « m’interessano più degli amori di cuore ». Di tre giovanotti che le fanno la corte a Parigi, elegge il più brutto e occhialuto. « Ma che intelligenza! » aggiunge come per una necessaria giustificazione. Dei quattro ufficiali della guardia, magnifici esemplari di maschilità in fiore, che nel suo camerino dell’Opera Maria di Pietroburgo le recano l’omaggio floreale dello Zar, Isadora dichiara che « fanno schifo ». Un’altra volta, e sempre per ragioni di testa, preferisce un cinquantenne cachettico a un giovanotto spalluto e muscoloso. Tuttavia, dell’ungherese dell’« antoptòsi » essa ci dice che aveva « un viso e un’andatura da giovine dio », e che « sarebbe stato degno di posare per il David di Michelangelo ». Segno che per certe iniziazioni, la sola intelligenza non basta.

Ma che contano Londra o Parigi, Budapest o Pietroburgo davanti alla grande, alla vera, alla sola meta che aveva determinato il trasferimento dei Duncan dall’America in Europa? Un giorno Raimondo dichiarò che l’ora era giunta di andare in Grecia. « Basta con le tergiversazioni » dichiarò il giovinetto, che portava i calzoni corti e la cravatta svolazzante, e sopra lo sviluppatissimo pomo d’Adamo aveva una faccia da ebete ispirato. E aggiunse perentorio: « Il Partenone ci aspetta! ». Le decisioni di Raimondo, unico maschio della tribù dei pennuti senza penne, erano inappellabili: i Duncan drizzarono le invisibili ali verso il sud.

Anche le cicogne rompono il volo di tanto in tanto e scendono a riposo sui campanili. I Duncan si posarono ad Abbazia, ma invano chiesero asilo agli albergatori. Quando la corte di Vienna si trasferiva ad Abbazia per i bagni di mare, Abbazia era mosaicata di brillanti personalità, come un’intatta scatola di eanditi. Mentre incerte sulla sorte della prossima notte Elisabetta e Isadora percorrevano la cittadina in carrozza, il granduca Ferdinando le vide, si toccò con due dita l’unghia del berretto a torre, e messo a parte delle loro preoccupazioni, con molta cortesia le invitò in un suo padiglione nei giardini dell’Albergo Stephanie. Corsa con la rapidità della fiamma su una striscia di polvere da sparo, la notizia dell’ospitalità granducale mise immediatamente in moto tutte le lingue, labbra e ganasce femminili raccolte nell’amena cittadina adriatica, intorno ai preziosi membri della famiglia imperiale. I giardini dello Stephanie furono circondati, invasi, perlustrati dalle dame di corte, irrigidite dentro i busti come guerrieri dentro la corazza, il collo intubato in alti colletti inamidati e le capellature coperte obliquamente da cappelli carichi di frutta come cestelli di primizie, irti di pennacchi tra i quali si ergevano uccelli con le ali spiegate e pronti al volo, e grondanti piume di struzzo. Scoperte le due fanciulle americane nelle loro leggere passeggiate fra le aiuole, nelle loro molli soste sui praticelli o sulle panche a S, innumeri occhi armati di occhialini le scrutarono con severità, con indignazione, con orrore, ma assieme con la fiamma che la forza fascinatrice accende nello sguardo, come occhi di visitatori di un giardino zoologico, chini sul vivaio dei coccodrilli. A denudare soltanto non faticarono quegli occhi: le due americane erano così poco vestite... Nella sala da pranzo dello Stephanie, le dame di corte si piegavano in profondi inchini davanti alla tavola del granduca, ma non quanto Isadora la quale, favorita dall’assenza di busto e dalla maggior scioltezza delle articolazioni, scavava certi inchini che erano addirittura onde di profondità. All’ora del bagno poi, mentre Isadora ed Elisabetta sireneggiavano tra le ondicelle, sommariamente coperte nelle parti pericolose da costumini celesti che costituivano un’ardita anticipazione del futuro e uno stupefacente contrasto con i contemporanei costumi neri, prolungati da calze e scarpe egualmente nere, il granduca Ferdinando, fermo sulla passarella e speculando con un piccolo binocolo di madreperla le insolite bagnanti, formulava con alta e intelligibile voce questi apprezzamenti: « Ach, wie schön ist diese Duncan! Ach, wunderschön! Diese Frühlingszeit ist nicht so schön wie sie! ». Il che in italiano suona così: « Quanto è bella questa Duncan! Che meraviglia! La stessa Primavera è meno bella di lei! ». Ma quanto ingannatrice l’apparenza! L’interessamento del granduca per la fanciulla « più bella della Primavera » era di carattere puramente estetico. Per il resto, l’illustre personaggio preferiva la compagnia dei giovani e brillanti ufficiali del suo stato maggiore. E allorché più tardi Isadora venne a sapere che per decreto della corte d’Austria, lo squisito granduca era stato incarcerato nel triste castello di Salisburgo, ma non per ascoltare da vicino i festival mozartiani, ella pianse lacrime sconsolate, come Eco a suo tempo pianse sull’impossibile amore di Narciso.

C’è modo e modo di andare in Grecia: il modo turistico, individuale o collettivo; il modo commerciale, rapido e sbrigativo per trattare una partita di ulive o di zibibbo; il modo ulissico, ch’è il più illustre di tutti. Pochi lo usano, ma fra questi pochi primeggia Vittorio Bérard, l’ultimo degli omeristi, colui che dedicò l’intera vita all’Odissea e, sposato, rifece in viaggio di nozze il periplo di Ulisse in compagnia della giovane moglie, quell’Alice cui dolcissimamente è dedicato il primo volume dell’opera immortale: Dilectae coniugi Alice Bérard gratiam persolvens pro armorum XXV vitae ac laboris societate concordi. Per comune deliberazione, i Duncan stabilirono di tenersi più stretti che fosse possibile, nel loro viaggio in Grecia, all’itinerario del Laerziade, e per cominciare s’imbarcarono a Brindisi, ossia in un porto nel quale il « variamente operante » non si sognò mai di approdare. Sbarcarono a Santa Maura, scoprirono il fantasma pietroso di Itaca e lo scoglio onde Saffo disperata d’amore si buttò ,in mare; si condussero nella piccola città di Karavassara ove, alla presenza dell’intera cittadinanza riunita e con gli occhi fuori della testa, si inginocchiarono e baciarono il sacro suolo della Grecia; fecero conoscenza la sera stessa con le cimici dell’Ellade, omeriche esse pure a loro modo, e che i Greci chiamano « Inglesi » per certe affinità di colore con le antiche uniformi rosse della fanteria di marina britannica; passarono per Agrinio; resero omaggio a Missolonghi alla memoria di lord Byron, morto colà di malaria nell’aprile del 1824; traversarono Patrasso ma non resero omaggio a Matilde Serao perché non la conoscevano, e la sera stessa furono in vista di Atene. Non subito entrarono nella città sacra a quanti hanno il culto della bellezza, dell’intelligenza e della ragione, ma come il maomettano si toglie le babbucce prima di porre il piede nella moschea, i Duncan si spogliarono dei tristi vestimenti che fino allora avevano coperto le loro agili membra desiderose di luce e aria, li sacrificarono in un falò alle divinità dell’Olimpo, libarono con vino pretto e odoroso di vernice,10 e finalmente, calzati di sandali e vestiti di pepli, stretta la mano al bordone e una zucca piena d’acqua sballonzolante sulla spalla, fecero l loro ingresso nella città di Pallade Atena. Ma è proprio ridotto a zero il potere di costei? All’altezza del Teseion, una fitta sassaiola salutò coloro che venivano a restaurare il culto della più savia tra le dee. Si suppone che anche il più tardo dei nostri lettori ormai abbia capito. L’« antico greco » che lo stupefatto Gargara vide traversare quel giorno nell’ora del deserto sole la piazza della Boulé, del Parlamento, era Raimondo Duncan; e Raimondo, assieme con Isadora, Elisabetta e la loro comune madre il popolo ateniese seguì per la città e fuori della città, fino all’altura del Kòpamos ove lo stesso re, S. M. Giorgio I, venne a cavallo a vedere quella strana gente. E fu allora che la farsa cominciò a mutarsi in tragedia. Invisibili occhi si aprirono e brillarono minacciosamente, misteriose orecchie si rizzarono e ascoltarono terribilmente; e un’arcana ostilità, i cui segni precorritori si erano manifestati nella burrasca che per poco non mandò a picco nel golfo di Ambracia la navicella con i quattro Duncan dentro, nella corrente dell’Aspropòtamos o « fiume bianco »11 che per poco non travolse Isadora e Raimondo avidi di abluzioni, nei cani selvatici che assalirono la piccola tribù sulla strada da Karavassara ad Agrinio, cominciò a chiudersi sempre più stretta, sempre più stretta, sempre più stretta intorno a quegli incauti che volevano sovvertire l’ordine del tempo, riportare tra le cose vive ciò che riposa per sempre tra le cose morte.

 

IV

L’arrivo dei Duncan sul sacro suolo della Grecia non destò la sola curiosità degli uomini, ma un’altra pure, ineffabile e molto più profonda. Mentre continuava il pellegrinaggio degli ateniesi all’accampamento del Kòpamos, un lieve moto ondulatorio corse la cute dell’Ellade, si sparse su per il suo corpo somigliante a una foglia di vigna posata sul mare. Un’ondicella appena in confronto agli spaventosi terremoti che squassavano Delfo allorché il furore del dio si scatenava, uccisore del serpente; pure è proprio a Delfo che quell’increspatura tellurica trovò il suo epicentro: a Delfo che nei tempi metafisici era l’ombelico del mondo. Quando l’aurora dalle dita di rosa cominciò a trarre l’ombra di su le vette delle Fedriadi, come la massaia spoglia in autunno le poltrone, il divano e il pianoforte dei camici che li hanno vestiti durante il sonno estivo, trasformando il salotto della signora Adele in un muto ricevimento di fantasmi mobiliari, un fruscio di terra rimossa si udì in mezzo alle residue fondamenta del tempio di Apollo. I grilli coricati sul dorso facevano il bagno dentro una goccia di rugiada, gli uccellini alzavano l’ala contro vento per rinfrescarsi l’ascella. Ma il sole tardava, e un oscuro nesso associava questo ritardo alla piccola tempesta di zolle nel mezzo del tempio.

D’un tratto il coro dei pennuti tacque, e tondi gli occhietti di stupore gli uccellini fissarono l’inaspettata creatura incerta fra uomo e bestia, che si divincolava faticosamente dalla terra.

« Chi sei, » domandò il decano degli uccellini con un coraggio da leone « tu che sorgi dalla terra come un asparago? ».

Colui era già fuori col tronco: afferrò una zolla e la scagliò all’insolente.

« Tiri sassi in piccionaia! » gridarono in coro gli uccellini, e levandosi simultaneamente a volo, si andarono, nube sonora, a tuffare nella foresta vicina. L’ignota creatura trasse fuori anche le gambe, stirò le membra, tirò uno sbadiglio da pantera affamata, poi col passo di un uomo di tufo coperto di mota, s’allontanò giù per la sacra piana di Delfo, tracciata nel mezzo dalle acque verdi e diacce del Pleisto. In mezzo alle fondamenta del tempio il segno rimase di quella dipartita, simile all’ombra profondamente incavata di un uomo che dorme. Allora, a un cenno del decano, gli uccellini riattaccarono tutti assieme a cantare, e il sole, per una liberazione improvvisa, balzò all’orizzonte.

Grande confidenza si stabilì fra i Duncan e il popolo di Atene: tanto più grande in quanto era una schietta reazione alla diffidenza che l’aveva preceduta. Una intimità buffonesca si strinse tra quegli americani biondi e paludati di clamidi colorate, e quei popolani neri di abiti e di pelle, e simili a grilli costretti a vivere da uomini. Non s’intendevano affatto: i popolani parlavano il romeo, ossia il greco imbastardito di oggi, i Duncan alcune parole di attico antico pescate nel vocabolario e pronunciate con accento transatlantico. L’impossibilità d’intendersi aumentava la cordialità dei rapporti. Gli evoluzionisti stimano la comprensione tra i popoli elemento di progresso, e fabbricano a questo fine lingue comuni che debbono far regnare la pace in terra. Illusi! È ignoranza che serba bellezza agli uomini, come il ghiaccio freschezza agli alimenti.

I Duncan avevano eletto il Kòpamos a loro sede, meno per abitare ai piedi dell’Imete nutricatore di api, che per stare al livello dell’Acropoli. Collina scoscesa e brulla, inetta a ogni cultura o abitazione, e sciolta apparentemente da vincoli di proprietà. Pure, non appena i Duncan manifestarono il proposito di edificare una casa sulla cima del Kòpamos, non uno ma cinque proprietari saltarono fuori, i quali prima stupirono, poi inorridirono, infine piansero all’idea di doversi separare da quel mucchio di sassi nel quale la natura, dicevano fra i singhiozzi, aveva raccolto ogni dovizia e ogni splendore. Ma i Duncan impugnavano argomenti irresistibili: dai suoi giri nei principali teatri d’Europa, Isadora aveva riportato pile di sterline e di luigi d’oro, e al suono di questo metallo i cuori dei cinque proprietari, ancorché ulcerati, cedettero. L’affare fu trattato sollecitamente e per mezzo di un avvocato di Atene, Panaghios Blakas, orrendamente peloso e sudante. Le cinque famiglie furono riunite a banchetto, e dopo abbondanti libazioni di raki12 e di resinato, i capi di ogni famiglia tracciarono sotto l’atto di cessione ciascuno la propria croce.

Raimondo si mise all’opera senza por tempo in mezzo. La casa doveva imitare il palazzo di Agamennone.

I muri di esso misuravano due piedi di spessore, e due piedi avrebbero misurato i muri di casa Duncan. Unico materiale consentito, quel marmo pentelio ond’erano state tratte le colonne del Partenone. Il giorno venne della posa della prima pietra. Tutti i contadini dei dintorni salirono al Kòpamos, dietro il papasso vestito di nero, il tubo egualmente nero posato sul torciglione dei capelli tenuti assieme con le forcine, e il velo di garza nera sventolante sulle spalle. Il sole era per tramontare. Sette volte i Duncan calcarono con passo di danza la traccia delle fondamenta. Il papasso serrava per le zampe un gallo nero, e mentre il sole calava all’orizzonte, lo sgozzò solennemente e annaffiò col sangue la pietra. Poi, reggendo con la sinistra la bestia ancor palpitante e con la destra il coltello insanguinato, tre volte girò intorno alla casa invisibile. Indi recitò le preghiere e gl’incantamenti rituali. Benedisse a una a una le pietre. Pronunciò una invocazione nella quale ripetutamente tornarono i nomi di Raimondo, di Elisabetta e della « giovane » Isadora; ma prima di formulare il nome della giovane Isadora, si pulì delicatamente il naso con due dita. Pregò per i discendenti, e al termine del rito i suonatori di floghèra e di dauli attaccarono un concerto dionisiaco. Enormi fuochi brillarono nella notte. L’uzo e il raki colarono a fiotti. Gli agnelli arrostiti alla palikàra furono sbranati coi denti sugli spiedi stessi e divorati in un fiat. Le donne ballarono il sirtòs, che si balla a catena, strascicando i piedi13 e tenendosi per i lembi del fazzoletto.

Ma qualcuno spiava. Era ancora ansante per la salita. Anche se lo avessero scoperto e guardato in faccia, nessuno lo avrebbe riconosciuto, perché all’infuori di noi nessuno lo aveva veduto in questa vita. Del resto che discernere su quella faccia vuota di tratti umani quanto un popone? Era l’uomo di tufo e di mota uscito « come un asparago » dalle zolle del tempio d’Apollo, e che con l’andatura di un enorme compasso che si fosse messo a camminare, era sceso nella sacra piana del Pleisto. Stava nascosto nel buio, guardava con divorante curiosità ma senza occhi le facce degli uomini e delle donne violentemente rischiarate dalle fiamme dei bracieri. Il fumo mandava un fantasma nel cielo. Di colui nessuno si accorse, e i canti, i balli e le sbevazzate durarono finché il sole, che la sera avanti aveva veduto il sacrificio del gallo nero e nel frattempo aveva dato un giorno agli uomini dell’altro emisfero, ritornò di su la cima dell’Imete.

Nel tempo medesimo in cui avvenivano questi fatti, Nivasio Dolcemare si preparava agli esami di pianoforte. Il conservatorio di Atene si chiama Odeon14 ed è situato in via del Pireo. A che ripetere il tante volte detto sulla musica come stupefacente? Nivasio Dolcemare viveva un sogno musicale. Un’ora di scale tutte le mattine e un’ora di Pischna per « sciogliere » le dita, prima di passare allo studio insistente del programma da eseguire a fine giugno davanti alla commissione dei professori dell’Odeon, presieduta dal direttore che si chiamava Naso: il Concerto italiano di Bach, la Presenza di Dio nella solitudine di Liszt, Farfalle di Schumann e il Concerto in re bemol maggiore di Ciaicòvski. Ebbro di suoni, Nivasio Dolcemare si avviava ai due giorni di felicità settimanale che erano il martedì e il sabato. La sonora attività dell’Odeon si annunciava di lontano. Appena voltato da piazza della Concordia nella via del Pireo, il sangue gli dava un tuffo. In quei pomeriggi metafisici l’Odeon esalava da tutte le finestre torrenti di musiche diverse, che si fondevano in una musica tutta e nessuna, nulla e totale, la musica delle musiche, la sola che non tradisse e che i vecchi si fermavano in istrada ad ascoltare, felici di riudire le voci dell’infanzia.

Anche Isadora era immersa nella vita musicale. Nelle notti di luna il municipio di Atene non illuminava la città, stimando pleonastiche in tanto splendore selenico le fiammelle del gas. Per concessione speciale i Duncan potevano circolare nottetempo sull’Acropoli. Seduti sui gradini del teatro di Dioniso, udirono una voce di giovinetto levarsi nella notte, « piena di quella sonorità patetica e soprannaturale che hanno le voci dei fanciulli ». D’un tratto un’altra voce raggiunse la prima, poi un’altra e un’altra ancora. Quel coro notturno ispirò a Isadora l’idea di ricostituire i cori delle Supplici. Una decina di straccioncelli dalle limpide voci furono scelti tra la marmaglia del quartiere del Teseion, poi, lavati, spidocchiati e rivestiti di tuniche leggere, furono affidati per l’educazione musicale a un seminarista del collegio dei preti bizantini di Atene.

 

 

Nivasio Dolcemare studiava pianoforte sotto la guida di Hermann Lafont, sassone di origine ugonotta e allievo del grande Reisenhauer. Virtuoso formidabile e uno fra i maggiori velocisti della pianistica internazionale (serbava preziosamente ritagliata la recensione in cui Edmond Rurisch, della «Musikalische Zeitung», lo soprannominava Die Lokomotive des Klaviers, « la locomotiva del pianoforte »), Hermann Lafont era oltre a ciò uno dei più puri esemplari dell 'homo felis, l’uomo gatto. La signora Lafont era per parte sua violinista, graziosissima di volto e di forme e si chiamava Mariezybil che significa Maria Sibilla. Professoressa essa pure al Conservatorio di Atene, il direttore Naso non le affidava allievi che avessero superato i dieci anni, temendo che sopra questa età il rispetto che l’allievo deve al maestro degenerasse in sentimento riprovevole, o peggio in peccaminosa passione.

Il 17 maggio, quando apparvero sui muri di Atene i manifesti che annunciavano per la sera del 30 le danze di Isadora Duncan al Teatro Demòtiko15 il cuore della città cessò di battere, poi riprese ansiosamente e con la violenza di una campana che suona a stormo. Non tanto la novità della danza solitaria e « seria » turbò le menti - quantunque non si fosse veduto fino allora ballo diverso del balletto sulle punte o degli sgambettamenti nei « caffè concerti » - quanto l’avvertimento, sottolineato nel manifesto, che Isadora Duncan avrebbe ballato a piedi nudi. La parola « ginnopodia » entrò nelle case e turbò la pace delle famiglie. Sportivismo e idroterapia erano ancora in fieri.

I piedi! Dopo mille e novecento anni di cristianesimo, i piedi tornavano a far parlare di sé. Per quasi venti secoli, erano rimasti dimenticati nel buio dei pedalini. La società elegante di Atene non conosceva altri contatti con i propri piedi, del pediluvio domenicale precedente il cambio delle calze. Fuori di lì, i piedi anche dei giovanotti più eleganti, delle signore più vaporose se ne stavano silenziosi e schivi nel fondo delle loro guaine di vitello o di vacchetta, soli coi loro duroni, i loro occhi di pernice, le loro dita accavallate. Chi era questa « americana », sinonimo in quel tempo di « spregiudicata », che osava svelare il mistero dei piedi? San Paolo mette in guardia sulle seduzioni del piede femminile, e le mogli ateniesi, pur ignorando l’avvertimento dell’Apostolo, proibirono ai loro mariti di assistere allo spettacolo di « quella svergognata ». Mancherebbe altro! Una donna a piedi nudi!

Tra i membri del corpo diplomatico i piedi di Isadora suscitarono impressioni altrettanto forti, benché mitigate apparentemente dai velami del tono « europeo ». La baronessa Güldenkrone, figlia del conte di Gobineau e moglie del ministro plenipotenziario di Norvegia, disse che i piedi di Isadora Duncan dovevano essere più che dei pieds d’Anglaise poiché erano dei piedi d’Americana, e questa battuta fece il giro delle legazioni. Anche su Nivasio Dolcemare quei manifesti fecero un’impressione profonda, ma di altra specie: perché annunciavano che le danze di Isadora Duncan sarebbero accompagnate al piano dal professore Hermann Lafont. Nivasio dubitò di aver traveduto... Ma no: era proprio scritto Lafont. Il « suo » Lafont.

In Germania, come paese più avanzato sulla via del naturismo, i piedi di Isadora sortirono un effetto diverso. Un giorno Isadora ricevè a Parigi la visita di un signore grasso e cerimonioso, chiuso dentro una pelliccia sontuosa e le dita sfavillanti di anelli, il quale si presentò come il signor Binenbaum, impresario.

« Arrivo da Berlino, » disse il signor Binenbaum « e so che ballate a piedi nudi. Sono inviato dal più grande teatro di varietà della Germania per scritturarvi immediatamente ».

Isadora contrasse i muscoli del braccio, per impedire alla mano di afferrare sul caminetto il cane di bronzo che reggeva in bocca un orologio, e tirarlo sulla testa del signor Binenbaum. Affabile e incomprensivo, questi continuò:

« Ho il contratto in tasca. Non manca che la vostra firma ».

« La mia arte » rispose Isadora « non è di quelle che si presentano sulla scena di un varietà ».

« Verstehen Sie nicht! » esclamò l’impresario, colorando di subito rossore le guance di mozzarella. « Non avete capito. Gli artisti più grandi sono onorati di presentarsi sulla nostra scena. Guadagnerete molti denari. Vi offriamo subito cinquecento marchi per sera e in seguito raddoppieremo. Vi faremo una presentazione magnifica. Sarete la prima danzatrice a piedi nudi del mondo: die erste barfuss Tänzerin ».

« Impossibile! » ripetè l’inflessibile Isadora, mentre l’impresario trascinava l’occhio acquoso e stupito sul mobilio miserrimo di quella camera d’affitto. « Un giorno io andrò a Berlino e danzerò in un Tempio dell’Arte, accompagnata dalla vostra Orchestra Filarmonica, non in un varietà, tra un numero di acrobati e uno di animali ammaestrati. Che orrorel Signore, vi saluto ».

« Dummes Mädel! » brontolò l’impresario vibrando il mento di furore, ma tre anni dopo, quando la previsione di Isadora si avverò ad essa danzò all’Opera di Berlino accompagnata dall’Orchestra Filarmonica, Binenbaum si presentò più cerimonioso che mai nel camerino di Isadora, e offrendo con la mano ingemmata un magnifico mazzo di rose, disse:

« Sie hatten recht, gnädiges Fräulein, küss’ die Hand ».

Malgrado il veto delle mogli ateniesi, una valanga umana premeva la sera del 30 maggio alle porte del Teatro Demòtiko. A cagione di così eccezionale affluenza, il controllo era stato raddoppiato e le maschere intimavano clamorosamente l’ordine di « biglietti alla mano ». Emergeva dalla folla, come il campanile dalle case del villaggio, un uomo spalluto e straordinariamente « semplificato ». Che la sua faccia fosse d’uomo, era intuibile più che manifesto. Gli occhi, la bocca, il naso affioravano appena, come sulla pietra che lo scultore comincia a sbozzare. Un cappello ridicolmente piccolo in confronto alla testa enorme era posato in vetta ai capelli incolti e monticellosi, simile all’arca di Noè sulla cima dell’Ararat. Avanzava costui tra la gente come il bufalo tra i canneti della palude. La sua marcia era lenta ma inesorabile. Non faticava per farsi largo, ma solo ruotava lentamente il corpo. Pestava calli senza pietà e ogni contatto con lui doveva riuscire durissimo, perché un vuoto gli si era fatto intorno, quasi il suo corpo visibile fosse continuato da un altro, più grande ma invisibile.

Quando al traguardo del controllo la maschera gli chiese il biglietto, colui non si voltò neppure.

« Biglietto! » ripetè la maschera con voce perentoria, ma avendo levato in questo mentre gli occhi alla faccia di colui, la voce gli si strozzò in gola e il corpo gli si accartocciò come traversato da una corrente mortifera.

« Perché non ti sei fatto dare il biglietto? » domandò la seconda maschera. E la prima: « Non l’hai guardato? È il re dei portoghesi ».

Mentiva. Nessuno sapeva chi fosse quell’uomo informe, all’infuori di noi che lo abbiamo veduto uscire dalle zolle del tempio di Apollo, spiare le facce dei Duncan alla luce dei bracieri.

Un silenzio prodigioso calò sulla marmellata umana, fermò ogni movimento, e nel vuoto incantato si accesero a una a una le note del Notturno in mi bemol maggiore di Chopin.

 

 

Magro e triangolare come un fulmine seduto, Lafont porgeva il suono del pianoforte caudato e con l’ala aperta da una parte, alla danza di Isadora. Le sue braccia si movevano dentro le maniche del frac con movimenti di biella. Le dita come zampe di ragno calavano d’alto sui tasti, e subito tornavano in alto, quasi la tastiera scottasse. E la ginnopede intanto, libera nel corpo, come alga ondeggiata dal mare, riempiva di sé lo spazio azzurro davanti al velario. L’incanto dei movimenti curvi operava come una invisibile carezza sulle palpebre, sul cuore. Dopo tanto luccichio, tanta ressa di uomini e di cose, lo spettacolo tornava al gioco elementare della formazione. Gli spettatori, in prevalenza studenti, uomini ancor fuori dell’ordine, carichi di oscure speranze, guardavano rapiti come nascono i fiori, come nasce l’uomo, come nasce la vita; e alla fine di ciascuna danza il silenzio dava fuori un urlo di belva risvegliata, che piegava alla ribalta tante, tante volte Isadora ridiventata piccola come la trottola quando perde i gironi iridescenti e cade a terra inanimata, e la quale, mirando quel magma fremente, irto di nasi, punteggiato di occhi, bucato di bocche urlanti, pensava, a imitazione di Caligola, se tutti quegli uomini avessero un corpo solo per dar vita assieme con quello alla creatura di salute e di bellezza: al rinnovato Meleagro...

Qual gioia per Nivasio Dolcemare se avesse potuto vedere i movimenti a biella del suo idolo, udire i suoni graniti che nascevano dalle sue dita come le bollicine d’aria dalla bocca di un pesce! Ma nell’ora in cui Lafont sonava e Isadora toccava con le nude piante la scena del Demòtiko, i bambini dormono, vigilati ciascuno dal suo angelo custode. E infatti, l’angelo di Nivasio stava seduto al capezzale del fanciullo che dormiva, le ali ripiegate dietro la spalliera, e al chiarore del lumino notturno posato davanti alla riproduzione in tricornia della Madonna del cardellino, leggeva con manifesto diletto le Avventure di Pinocchio, che aveva trovato nella libreria del suo piccolo protetto, illustrate dai disegni di Chiostri. Ma il sonno di Nivasio non era tranquillo. Cupi sogni lo traversavano, nei quali l’adorato Lafont, più lungo e scheletrico che mai, era minacciato da pericoli spaventosi. Nivasio voleva proteggerlo, salvarlo. Ma che poteva lui così piccolo e inerme, e con quelle gambe molli per di più, che come luganighe gli si piegavano sotto?

Giorgio I, al quale fu comunicato l’esito dello spettacolo, espresse il desiderio che la ginnopede danza fosse ripetuta al Teatro Reale. La serata riuscì brillantissima, presente tutto che di meglio offriva Atene in fatto di scollature e di sparati inamidati, il re applaudiva con le mani guantate di bianco fuori del palco, ma la grande fiamma mancò della serata popolare. Nota Isadora nelle sue memorie: « La danza favorita dei re è il balletto ».

Era primavera: stagione d’impurità e di pericoli. L’uomo è illuso dalle possibilità che fanno ressa, e vuole più di quanto può. Nivasio sentì fra le promesse della stagione lodata e oscura un annuncio di morte. L’indomani della serata al Teatro Reale, era martedì: giorno nefasto. Nivasio svoltò nella via del Pireo, e nella trama sonora tessuta nell’aria intorno al Conservatorio, subito avvertì la mancanza di una maglia. Il tuffo al sangue non fu di gioia quella volta ma di spavento. Come se dal cuore di una foresta un albero fosse stato divelto. Per quanto infinitamente piccolo, il vuoto lasciato dalla mancante maglia si aprì davanti a Nivasio come un abisso nel quale la sua vita stesse per precipitare. Nivasio ormai sapeva, e se si ostinava a prolungare il dubbio, era per un disperato bisogno di conforto. Papadaro, il vecchio custode dell’Odeon, lo avvertì appena lo vide entrare: « Inutile tu salga, Lafont non è venuto ». Poi, sebbene Nivasio non avesse fiatato: « Non verrà ». Tutti quei suoni ormai erano il vacuo suono del Nulla.

Nivasio uscì dal Conservatorio, cominciò a camminare. Arrivò alla periferia della città. Abitazioni rade, scheletri di case incompiute sorgevano in mezzo ai campi incolti. L’istinto lo guidò, come il cane guida il cieco, nel punto in cui due strade s’incontravano, appena tracciate nell’erba tignosa e gialla. Posava nel punto dell’incontro una casetta a un solo piano. Era scesa la notte. Quante volte era stato in quella casa, per un consiglio tecnico, per l’interpretazione di un difficile passaggio! Il braccio di un fanale sporgeva dall’angolo della casa, la luce sparsa dalla fiammella tremolante del gas accresceva lo squallore delle quattro persiane chiuse, della facciata quattro volte cieca. Abbandonata dal marito, Mariezybil Lafont si era rifugiata in casa di Max Wassenhoven, professore egli pure all’Odeon, ma di flauto. Ed è ripensando alla tristezza di quella casa abbandonata, alla perdita del suo idolo, al suo sogno infranto, che Nivasio Dolcemare, molti anni dopo, scrisse quel poemetto musicale che pochi iniziati conoscono, sparsi nelle principali capitali d’Europa, in cui come un treno (è un canto di lamentazione, non un convoglio ferroviario) ritornano le parole:

In questa casa è morto

Il professore mio,

Lascia o mìo cuore il porto

Addio, addio, addio...

Quella sera stessa, Isadora Duncan ed Ermanno La-font s’imbarcavano a Patrasso sul Bulgaria della società di navigazione Florio e Rubattino. Erano stati preceduti a bordo dal coro dei dieci giovinetti greci, i quali, schierati sul ponte davanti al seminarista che batteva il tempo con l’indice mostruosamente lungo e terminato da un’unghia globosa e nera, attaccarono l’inno greco non appena il piroscafo cominciò a prendere l’abbrivo:

Dalle sacre ossa rinate

degli Elleni...

I lumi del porto tracciavano sul mare mobili diagrammi. Appoggiati al bastingaggio, lo sguardo fisso sulla città che si allontanava, Isadora disse:

« Abbiamo risuscitato la danza antica. Abbiamo sostituito l’incomodo e funebre abito moderno con tuniche leggere, abbiamo ridato libertà al corpo. Ma non basta: dobbiamo creare una razza nuova, dei figli sani e belli, degni della vita da noi restaurata ».

Nel terzo personaggio che a poca distanza stava appoggiato egli pure al bastingaggio, noi abbiamo riconosciuto l’uomo di tufo uscito dalle zolle del tempio di Delfo. I tratti si sono accentuati: gli occhi larghi e vuoti di pupille, il naso a piombo, il labbro curvato ad arco. Il corpo è goffo tuttavia, e nel completo grigio a quadroni che ricopre senza grazia quelle membra di atleta, non stentiamo a riconoscere lo stile dei grandi magazzini Universal di via Ermete, diretti importatori delle manifatture di Magonza. Quanto alla paglietta acquistata al Piccolo Lord, egli appena salito a bordo l’ha riposta in una grande busta di carta velina fornitagli dal negozio stesso, e sul suo capo coronato di chioccioline d’oro l’ha sostituita con un berretto a visiera. Il suo volto è impassibile e crudele, ma alle parole di Isadora il suo orecchio comincia a vibrare, raddoppia di volume e per ascoltare meglio si contrae a forma di agarico lacunoso.

« Vuoi, Hermann? ».

Hermann non risponde, ma la pressione di quelle dita abituate a martellare sulla dentiera dei Kaps e dei Blüthner le polacche di Chopin e le rapsodie ungheresi di Liszt, è più eloquente di qualunque discorso.

« O mio amore " greco ”! ».

Sorreggendosi a vicenda come due inalati di paraplegia flaccida, Hermann e Isadora scendono sotto coperta.

Patrasso non è più se non un chiarore debolissimo laggiù, sul lucido e palpitante nero del mare. A bordo tutti dormono: dormono i dieci giovinetti canterini con le boccuzze aperte e i pugni serrati, dorme il seminarista e ragli sinistri gli escono dal naso, dormono i passeggeri di prima e seconda tra lenzuola, e quelli di terza sulle tavole del ponte di prua, e i topi vanno a suggerire all’orecchio di ciascuno l’argomento di un bel sogno. Una campanella suona il quarto. Allora l’uomo di tufo, rimesso a posto l’orecchio con la mano tuttora informe come una patata, scende anche lui a dormire.

Lascia o mio cuore il porto

Addio, addio, addio...

V

Le idee di Isadora erano profonde come i sogni delle statue non ancora dissepolte dalle vanghe degli archeologhi. Questa donna elementare non divagava: andava diritta alle origini e, come Faust, scendeva all’augusta presenza delle Madri. Abbiamo conosciuto la danza dei Russi, patetica ma insensata, violenta ma sterile, folgorante ma innaturale. Il turbine di Nijinski, quel corpo trasformato in segno mobile, in arabesco vivo non era se non vanità e disperazione. Oltre che la danza dei Russi abolisce l’antropomorfismo, riduce l’uomo a figura astratta. Presente, Nijinski era già ricordo. Non così Isadora, figlia prediletta della natura, la cui danza era speranza. Le sue mani, i suoi piedi obbedivano alla voce del destino. Idee semplici fiorivano in lei, idee prime e solo trasportate su un registro più alto, ripetute in un formato più grande. Nulla in lei offendeva la natura, ambiva a superarla, tentava deviare il suo corso. Voleva servirla invece, manifestarla, celebrarla. Era in Isadora l’ingenuo simbolismo che è nella statua della Giustizia, sul frontone di un tribunale. Se ne stava sulle cose della vita, come la Notte di Böcklin avvolta nei suoi veli sta sulle case della città che dorme. Era partita di laggiù, inconsapevole e fidente, dall’occidente estremo e dorato, come partono dalle loro sedi arcane, altrettanto inconsapevoli e fidenti, la Verità, la Bontà, la Bellezza, per venire in mezzo agli uomini. Tanto l’arte era per lei « cosa naturale », che sulla vetta dell’arte Isadora vedeva splendere la maternità. Nacque così, o per meglio dire si destò in lei, perché era sopita ma non assente, l’idea di diventare madre, di mettere al mondo figli « più belli degli dèi antichi ». E gli dèi udirono l’orgoglioso proposito, raccolsero la sfida. Invisibile ma presente, la Vendetta si mise sulle orme d’Isadora.

Per dare vita ai « divini esemplari », Isadora pensò di unirsi, lei così bella di forme, con uomini d’« eccezione ». Si considerava materia e chiedeva altrui lo spirito. Questo pensiero fu ironizzato, deriso; ma che opporgli di più semplice, di più naturale? Offende l’« uomo d’eccezione », e soprattutto irrita. Ma offende la gente bassa che, per non sfigurare, vorrebbe anche gli altri al suo proprio livello. Il disprezzo spesso non è se non la maschera dell’invidia.

 

 

L’eugenesi tentata quella notte sull’Egeo, nei fianchi neri del Bulgaria, con la collaborazione di Hermann Lafont, non sortì l’effetto desiderato. Si vede che su altre tastiere, la « locomotiva del pianoforte » era un semplice carretto. Di poi eguale proposta fece Isadora a Stanislawski, ma costui, sebbene amasse Isadora quanto la luce dei propri occhi, la guardò stralunato come se di colpo si fosse trasformata nell’immagine della Morte, ed esclamò: « E Pòlia Trofìmovna? Che dirà Pòlia Trofìmovna? ».16 Conforta pensare che c’è ancora nel mondo qualcuno per il quale il dovere coniugale non è una vana parola. Invitato a partecipare alla concezione di una creatura che alle gambe di lei unisse il cervello di lui, Giorgio Bernardo Shaw rispose, come si sa: « E se dovesse unire al cervello di lei le gambe di lui? ». Nel che il salace irlandese anche una volta sbagliò, perché Isadora non che nei pregi fisici, ma superava Giorgio Bernardo pure nel senno. Anche Strindberg ricevè l’invito di Isadora, e questo invito anzi, Isadora, per la quale un viaggio di più o di meno non costituiva una notevole differenza, lo andò a recapitare personalmente a Stoccolma, e ripeteva la formula usuale: « Venite a vedermi danzare ». Che disgrazia per le donne che anche l’invito più puro prenda un che di equivoco! Strindberg rispose che odiava l’umanità e non usciva mai di casa. « Vi darò un posto sulla scena, tra le quinte, per voi solo » promise Isadora, ma Strindberg fu irremovibile. E Isadora commenta: « Il pessimismo di Strindberg è da imputare alle donne da lui amate. Le donne si dividono in due speci: ispiratrici e vampiri. Strindberg non amò che donne vampiri ». Lo stesso invito toccò a Ernesto Haeckel, l’ultimo dei grandi darviniani, autore della monografia dei radiolari e dell’Anthropogenie oder Entwicklungsgeschichte des Menschen, ed Ernesto Haeckel accettò. L’incontro avvenne a Bayreuth.

La vita in quel tempo nella Villa Wahnfried era simposiaca. Non meno di quindici commensali sedevano giornalmente a pranzo e a cena alla mensa dei Wagner, e quando Isadora arrivò a Bayreuth e scese all’Albergo dell’Aquila nera, le giunse poco dopo l’invito alimentare di colei, sul cuore della quale l'autore del Tristano posava la testa per dormire. Vestita di una leggera tunica bianca, i grossi boccoli che ai movimenti del capo ballonzolavano come cannelloni d’oro, simile a un angiolone sceso quaggiù a mostrare quanto si sta bene in paradiso, Isadora si trovò mischiata ai più illustri rappresentanti della repubblica musicale, all’atletico Hans Richter, a Humperdinck, all’affascinante Motti. La sala da pranzo era disposta in maniera che dalla tavola ove stavano raccolti, i commensali vedevano il mausoleo del Maestro eretto nel parco. Cosima sedeva a capotavola, colei che Nietzsche nel suo furore chiamò Arianna.

Terminato il pasto Cosima dava il braccio a Isadora, scendevano nel parco dorato dall’autunno. Cosima invitò Isadora a comporre le danze del Venusberg, e nel piano coreografico tracciato da Isadora scrisse di suo pugno che « la musica del Tannhäuser racchiude tutta quanta l’insoddisfazione dei sensi, tutta l’attesa disperata, tutto il languore passionale, tutto il grido di desiderio del mondo ».

Haeckel arrivò a Bayreuth un giorno di pioggia. Scese dal vagone reggendo in mano una valigia di stoffa sulla quale era scritto in diagonale: « Gute Reise ». Era barbuto, gigantesco e infantile. Isadora lo condusse in carrozza nella sua villa di Phillipsruhe, gli fece trovare la camera piena di fiori. Monista17 di professione, Haeckel trovò che anche la danza di Isadora era un’espressione del monismo: « Perché nasceva da una sorgente unica e seguiva un’unica direzione ». Nelle disposizioni di spirito in cui si trovava il monista, qualunque lode, anche la più grande, gli sarebbe parsa al di sotto della verità. Nel pomeriggio fecero una passeggiata nei dintorni. Arrivati in cima a un poggio, Haeckel volse intorno uno sguardo da demiurgo e contemplò sotto a sé le opere della natura con occhio approvatore e soddisfatto. La sera Isadora condusse il suo amico al Teatro delle Feste. Davano il Parsifal. Mentre sulla scena cantavano della immedicabile ferita di Amfortas e i cavalieri del Gral invocavano il Signore, il monista se ne stette bono bono in poltrona, senza un gesto, senza un sospiro. Che diceva la signora Cosima che Haeckel era materialista e inetto a penetrare le cose spirituali? Quando l’atto finì e i lumi si riaccesero nella sala, Haeckel dormiva come un bimbo barbuto, e le sue labbra socchiuse baciavano l’aria ancora carica di armonie.

Era destino che a Bayreuth Isadora accumulasse gli errori. Fu annunciato una sera a Villa Wahnfried Ferdinando di Bulgaria. Tutti scattarono in piedi, meno Isadora che continuò a starsene mollemente sdraiata su un canapè, nell’atteggiamento della signora Récamier nel quadro di David. Alle occhiate della signora Cosima, Isadora rispose che era « ardentemente democratica ». Il re entrò, e per una inesplicabile attrazione ignorò i presenti piegati ad angolo retto e andò difilato alla donna coricata. Saputo di lei, parlò con trasporto della rinascita del mondo antico e offrì il suo palazzo sul Mar Nero per una scuola di danze classiche. Di rimando Isadora allestì nella sua villa di Phillipsruhe una magnifica festa in onore di Ferdinando, e poiché il maggiordomo di Isadora somigliava in maniera impressionante al re di Portogallo, gl’invitati ebbero l’illusione che i sovrani presenti fossero non uno ma due.

L’idea dei figli « più belli degli dèi antichi » aveva preso stabile dimora nella mente della danzatrice. Una sera, a Pietroburgo, in casa di Anna Pavlova, Leone Bakst scoprì nella mano di Isadora due crocelline. « Molta gloria vi aspetta, » disse il pittore chiromante « ma perderete le due creature che più vi sono care al mondo ». « Quali? » domandò Isadora, volgendo intorno l’occhio interrogatore. Come quelle di Cassandra, la profezia di Bakst fu derisa.

Ciò che Hermann Lafont non poté, per quella stessa ragione che determinò Teseo ad abbandonare Arianna;18 ciò che non poté Stanislawski, per una osservanza troppo rigida della fede coniugale; ciò che Strindberg non poté per le inibizioni prodotte nella sua psiche dal vampirismo delle donne, e Haeckel per ragioni che a noi non monisti sfuggono, poté Gordon Craig il mago della scena, colui che alla vecchia e bonaria scenografia sostituì le scalee in cima alle quali si curva la punta di un cipresso, e i cieli infiniti nei quali lo sguardo annega.

 

 

Isadora vide Gordon Craig per la prima volta nel 1905 a Berlino, ma poiché gl’incontri che il destino prepara sono sempre preannunciati da qualche cosa, Isadora « previde » Gordon in una donna che lei aveva conosciuto molti anni prima a Londra.

« Chi siete? » domandò Isadora a colui che le sembrava Endimione misto con Giacinto, e che le stava davanti come un ricordo vestito da uomo.

Quegli rispose:

« Sono il figlio di Ellen Terry ».

« Ellen Terry! » ripetè Isadora con la voce sbiancata dallo stupore. « La grande attrice? La mia donna ideale?... Datemi un figlio! ».

Gordon Craig abitava uno studio al sommo di una casa altissima. L’impiantito era verniciato di nero e sparso di falsi petali di rose. L’abitazione era del tutto spoglia di mobili, e altrettanto spoglie erano le tasche dell’ospite. Isadora ed Endimione dormivano per terra, e un trattore vicino mandava di quando in quando un po’ di cibo a credito. I patriarchi, le mogli dei patriarchi, tutti che hanno una qualche esperienza di procreazione e figliolanza, diranno che queste non sono le condizioni più favorevoli per fare dei figli. Ma per una volta i patriarchi e le loro mogli avranno sbagliato. Del resto, e per confessione della stessa Isadora, Gordon Craig era un misto di fuoco e di folgori. E allora che servono i mobili, i pasti regolari, i conti in banca?

Il suo Gordon, Isadora sognò di farne lo « scenotecnico » più celebrato del mondo, e a questo fine lo presentò a Eleonora Duse. Eleonora commise a Craig gli scenari di Rosmersholm, e alcuni giorni dopo la Duse, Isadora e Craig presero il treno e scesero a Firenze.

Gordon Craig ed Eleonora Duse non erano fatti per intendersi, ma poiché Craig non conosceva né l’italiano né il francese, e la Duse per parte sua non parlava una parola d’inglese, tra loro si stabilì un tacito accordo.

Nella didascalia del primo atto di Rosmersholm, Ibsen indica « un salotto borghese e antiquato e una finestra che dà sul cortile di una vecchia fattoria », ma del salotto borghese e antiquato Craig fece un tempio egizio con altissime colonne e vertiginose prospettive, e della modesta finestra una vetrata amplissima, aperta su un paesaggio infiammato di rossi e di gialli. Interprete fra Craig e la Duse era Isadora Duncan. « Io vedo una piccola finestra » diceva Eleonora giungendo come in preghiera le sue celebri mani e supplicando con gli occhi grevi di dolore. « Ditegli di darmi la mia piccola finestra! ». E Isadora traduceva: « Eleonora dice che siete il più gran genio del mondo e che i vostri scenari sono dei capolavori ». Poco appresso, e in seguito alle reiterate lamentazioni di Eleonora, Craig a sua volta diceva: « Dite a questa scocciatrice di levarmisi dai piedi, altrimenti le tiro un barattolo di vernice in testa ». E Isadora traduceva: « Gordon dice che vi considera la più grande tragica di tutti i tempi, e che farà di tutto per trasfondere nelle sue scene la dolorosa bellezza della vostra anima». Perché non si trasporta il sistema Duncan nelle conferenze diplomatiche?

Nulla come la sorte dei dieci giovani coristi portati in giro per l’Europa da Isadora Duncan, conferma la verità del mito di Anteo, ossia del deperimento di taluni organismi, se staccati dal loro luogo d’origine. Belli come angeli, puri come l’aria delle vette, quei dieci giovinetti Isadora li considerava come dieci suoi figlioli spirituali, ma è noto quanto i genitori, e gli onorari non meno degli effettivi, errano spesso sul conto dei propri figli. Presso i proprietari degli alberghi nei quali Isadora prendeva dimora con il suo seguito, e così pure presso i direttori e il personale di servizio degli alberghi stessi, quei dieci angiolini, quei fiori di castità e di gentilezza rivelarono indole violenta e spiccate inclinazioni alla delinquenza.

Tutte le mattine, vestiti di clamidi svolazzanti, calzati di sandali e cinti il capo di roselline, i dieci canori giovinetti passeggiavano processionalmente nel Tiergarten di Berlino, inquadrati, o per meglio dire « triangolati » da Isadora, da Elisabetta e dal seminarista bizantino.

Mentre una mattina il neoellenico corteo passava per i viali del parco, un cavallo nell’adiacente galoppatoio nitrì spasmodicamente, e con una sgroppata buttò a terra la cavalcatrice che gli sedeva in sella. Alcuni passeggiatori accorsero e rialzarono l’amazzone caduta, raccolsero il tubino rotolato fra i trucioli di cuoio: era l’imperatrice Augusta. A che imputare lo spavento del vecchio e mite cavallo delle reali scuderie, se non all’impressione avuta da quei giovinetti così diversamente vestiti dagli altri frequentatori del Tiergarten? Il coro di Isadora Duncan stava diventando un pericolo pubblico. Della imperatrice Augusta si diceva che era di indole così pudica, che prima di visitare lo studio «di uno scultore, mandava dei valletti di corte a coprire con veli le statue troppo nude.

Nonché l’animo, cominciava a deteriorarsi anche la voce dei dieci giovinetti. Purissime sotto il cielo della Grecia, cristalline come l’acqua della Castalia, nell’aria di Berlino le voci dei piccoli coristi erano diventate raspose come la carta vetrata. Mentre Isadora sul palcoscenico dell’Opernhaus impersonava le cinquanta figlie di Danao, e si moltiplicava in proporzione, e con cento mani implorava l’ara di Zeus, il coro dei giovinetti accompagnava quelle implorazioni con stonature che laceravano le orecchie. Invano tra scena e scena Isadora tentava spiegare agli spettatori il carattere della musica bizantina, e come ciò che a noi sembra stonato è invece un’armonia soavissima: benché costumatissimi e pazienti, i berlinesi si guardavano costernati e minacciose mormorazioni serpeggiavano nella sala.

 

 

Al problema artistico si aggiunse quello alimentare. Le Delikatessen, le minestre alla birra e crema di latte, le altre specialità della cucina tedesca non erano di gusto di quei piccoli greci, i quali con timida voce in principio, poi via via con voce più ferma e infine con voce di comando chiesero i cibi del loro paese: la scor-dalià, che è un pesto d’aglio simile all’aioli che fanno in Provenza; le bamies, che sono delle cucurbitacee in forma di chiodi da maniscalco; l’imàm baildì, che sono melanzane apparecchiate con pomodoro e cucinate all’olio, una pietanza passata dalla Turchia in Grecia, e la quale trae il proprio nome dal che l'imàm, cioè il vicario del profeta in terra, l’assaggiò e baildì: venne meno dal piacere.

Negli alberghi, il passaggio dei dieci paides scatenava l’ira di Dio. Dietro i piedi di quegli innocenti, l’erba, come dietro i passi di Attila, non cresceva più. Citeremo appena gli scherzi innocui, come di scambiare le scarpe davanti le porte delle camere, cucire le lenzuola o nascondere dentro i letti spazzole e pezzi di carbone; ma uno dei giochi preferiti di quei giovinetti era di tirare palline di piombo con la cerbottana sugli specchi e le sospensioni di cristallo; e una sera, a Monaco, mettendo a profitto una breve interruzione della luce, sbudellarono coi temperini i divani e le poltrone dell’albergo Vier Jahreszeiten, e quando la luce tornò, lo spettacolo gelò i cuori di quei mobili che da orribili lacerazioni esalavano l’anima di bambagia. Nelle camere dei fanciulli, segni indubitabili furono scoperti di inaudite mostruosità.

Quanto al seminarista, pastore di quegli agnellini, era più il tempo che egli sprecava nelle Weinstuben e nei Französische Restaurants, che quello consumato a insegnare ai suoi discepoli i moduli della musica bizantina. Oltre all’insegnamento, incombeva al seminarista anche la sorveglianza dei dieci giovinetti. Ma una notte che gli urli di una tremenda rissa svegliarono tutto l’albergo e fecero accorrere Isadora più nuda del solito nelle camere dei piccoli coristi, il letto del seminarista fu trovato pieno ma non di lui, sibbene di tre cuscini disposti in modo da simulare un corpo coricato.

Mentre il simulacro del seminarista19 giaceva nel letto del Vier Jahreszeiten, la vera spoglia di lui era seduta a un tavolino del Simplicissimus, in compagnia di un uomo che per noi è una vecchia conoscenza. Tre bottiglie di Johannisberger, alte, sottili e simili a manubri da ginnastica, stavano vuote sul tavolino, e la quarta era già sotto la metà. Kate Kubos, padrona della Weinstube, cantava appoggiata al bancone con una voce di uomo che annega, e ogni tanto s’interrompeva sia per sputare, sia per lanciare insulti ai clienti.

In colui che siede di fronte a Panaghioti Perivolaraki (in italiano il nome del seminarista si traduce in Tuttosanto Giardinetto) noi abbiamo riconosciuto la misteriosa creatura sorta quella mattina dalle zolle del tempio d’Apollo, e giunta ormai a una compiutezza perfetta. Le membra agili e articolate scattano sotto l’abito attillato, a rischio di bucare la stoffa pelosa e fulva. I tratti sono incisi col bulino sul volto bellissimo, una mano espertissima ha colorato le pupille con lapislazzuli diluito. Sui riccioli d’oro sta posata una bombetta a sghimbescio, che un cinturino circonda, chiuso da un lato da una fibbia di metallo. Sul panciotto sangue di bue brillano due file di bottoncini a palla, punteggiati di rosso come il dorso dei maggiolini. La giacca è stretta alla vita e stretti alle caviglie sono i calzoni, onde spuntano, puntute come ferri da stiro, le scarpe di coppale, vestite a metà di panno grigio. Con movimento a falce del braccio, colui caccia fuori ogni tanto il polsino lustro, parla presto e sottovoce, vuota il bicchiere d’un fiato, rovesciando la testa. Ma come mai quell’aspetto equivoco, quell’aria di baro, di topo d’albergo, di canaglia internazionale in colui che - noi lo sappiamo ormai - altri non è se non, travestito da uomo, uno dei più illustri, se non il più illustre addirittura degli dèi greci?

L’Occidente guarda attraverso la lente del proprio idealismo il mondo greco e le sue creature, in cui nient’altro esiste se non una magnifica e spiritosa bestialità. Winckelmann, Goethe, Nietzsche che potevano sapere dei Greci? Cade a proposito ciò che or non è molto scrisse Nivasio Dolcemare intorno agli equivoci e alle falsità accumulate dagli esteti sulla vera qualità dello spirito greco, fatto meno di spiritualismo che di finezza animale, molto più riconoscibile nell’asino che nell’efebo, nella capra che nella canefora, nella scimmia che nella pantera.

E che dire della crudeltà di colui che ora sta seduto a un tavolino del Simplicissimus in compagnia del seminarista? che dire della magnifica, della luccicante crudeltà, che mentre ascolta le confidenze su Isadora che attraverso i fumi del Johannisberger gli va facendo Tuttosanto Giardinetto, egli affila come un coltello?

Sei mesi durò il triste esperimento dei dieci paides portati in giro per le capitali dell’Europa, con i loro bitorzoli e i loro vizi, e le loro anime di precoci delinquenti nascoste sotto una angelica apparenza.

Una sera, in capo ai sei mesi, nella sala del Künstlerhaus, Isadora danzò davanti a Karlsbach, a Lenbach, ritrattista di Bismarck e del maresciallo von Moltke, a Franz von Stuck che dipingeva donne verdi come zucchine lesse e avvolte nei serpenti, ma il suo animo era triste. E l’indomani, non più vestiti da antichi greci ma chiusi dentro scuri cappotti e con l’alito fumante, Isadora accompagnò i dieci giovinetti e il seminarista al Bahnhof di Monaco. Banchi di vapori e di nebbia stagnavano sotto la tettoia. Quando il convoglio si mosse, un coro d’insulti partì dai dieci giovinetti affacciati ai finestrini. Gli angelici volti si contorsero in orribili smorfie, le mani ancora tenerelle formarono dei simboli osceni. Ingiurie e sberleffi erano a indirizzo della « madre spirituale », le palme infine dei dieci coristi si levarono tutte assieme, le dita a ventaglio, nel segno della munza.20

Isadora a tutta prima non capì, e quando capì scoppiò in pianto. Ma in quel medesimo istante avvenne il miracolo: qualcosa di vivo si mosse in lei.

« Mio figlio! » gridò Isadora, e il suo grido fu soffocato dai fischi della locomotiva. Che importava ormai la partenza, l’ingratitudine dei figli « spirituali? ».

« Mio figlio! » ripetè più piano Isadora, e il suo sguardo s’incontrò con quello di un giovanotto alto,

vestito di una pelliccia di finto castoro e la bombetta rovesciata sulla nuca.

« Come dite? » domandò il giovanotto, sollevando la bombetta con due dita.

« Mio figlio » disse ancora Isadora, e una misteriosa paura la traversò come una corrente d’aria.

Dal convoglio lontanissimo una mano palpitava ancora: ultimo saluto diTuttosanto Giardinetto, al dio in pelliccia di finto castoro e bombetta rovesciata sulla nuca, che gli rispondeva dal marciapiede della stazione.

Chi è questo uomo, Isadora, e perché segue costui il tuo passo già pesante di madre?

 

VI

Fretta, promiscuità, vita meccanica hanno rotto la zona di rispetto intorno alle grandi operazioni della natura. Quando si muore, quando si nasce non sì vuol essere guardati, e l’animale si ritira in solitudine. La morte in mezzo a un caffè, la nascita in un tram si sono ridotte a piccole notizie di cronaca, le quali invece dovrebbero suscitare gridi d’orrore e di spavento. Gea danzante, Isadora sentì l’oscura grandezza del fatto che stava per compiersi. Era in lei la « coscienza dell’origine » quale in Pirra e anche più, perché Isadora non si portò appresso il suo Deucalione, nella solitudine preparata per l’arrivo del bimbo atteso e desiderato, ma lo lasciò laggiù, creatura inutile ormai, ai suoi barattoli di vernice, alle sue frenesie coloristiche, ai suoi isterismi di genialoide agitato e privo di fondo. Greve del suo prezioso fardello, Isadora s’incamminò prima verso l’Aja, quindi verso un villaggio chiamato Nordwyck, sulla riva del Mare del Nord, e ivi si fermò, al sommo delle dune, in una piccola casa bianca. La scuola da lei fondata a Grünewald, e che nonché scuola era asilo per i bimbi tolti ai tuguri berlinesi e destinati a una vita aerea e musicale, Isadora l’aveva affidata a sua sorella Elisabetta. E lassù, davanti al mare sconfinato e cupo, davanti al mare senza speranza, Isadora aspettò il bambino come Tristano aspettava Isotta. Aspettò fra i richiami sempre più stringenti di quella vita « interna ». Aspettò in quella casa solitaria cui si accedeva in capo a cento gradini scavati nella duna. Aspettò ripensando ogni tanto la sua vita passata, la danza così lontana ormai, quei movimenti leggeri e silenziosi ch’erano il suo orgoglio, il canto della sua anima. Aspettò seguendo in una psiche che le stava di fronte il deformarsi del suo corpo, bellissimo « allora » e agile come il vento. Aspettò in compagnia di Maria Kist, l’infermiera, e di una dolcissima amica chiamata Kathleen, venuta appositamente da Parigi per assisterla, e che di poi andò sposa al capitano Scott, l’esploratore. Il medico condotto olandese saliva tutti i giorni sbuffando i cento gradini di sabbia, per esaminare la posizione del nascituro. Aspettò mentre agosto, poi settembre sgranavano i loro giorni. Aspettò mentre il cielo e il mare s’incupivano e la luce si restringeva sempre più. Aspettò fino a quando qualcosa di tremendo la colpì in mezzo ai reni, cui altri dolori seguirono, strazianti e aggrovigliati; dai quali, come la luce dalla nube, escì un vagito, una faccina chiusa nella sua notte e nel suo mistero, una bimba minuscola, compiutissima, perfetta, cui per ingraziarla ai lontani avi e alla terra dei padri fu imposto il nome Deirdre, così bello da riuscire impronunciabile, e che significa Amata d’Irlanda. Aveva voluto Isadora che un calco dell’Amazzone ferita fosse collocato nella camera natale. E mentre la piccola Deirdre, spento il primo grido, giaceva sotto i veli della culla, chiusa ancora nel sonno originario e senza sguardo, essa volse alla statua l’occhio lento ancora ma sciolto ormai dalla fissità dello spasimo, e disse: « Neppure tu, sorella mia, potrai riprendere il tuo vero combattimento ». Ma i suoi futuri combattimenti, con quale gioia Isadora li donò alla felicità della bimba che dormiva!

Isadora tornò alla scuola di Grünewald con la sua creaturina in braccio, la presentò a Elisabetta e ai bambini che si alzavano in punta di piedi per vederla, la guardavano con le faccine sorridenti, e disse: « Ecco la nostra più piccola alunna ». La vita di prima ricominciò, più ricca, più bella e illuminata dal sorriso di Deirdre.

 

 

Dice Walt Whitman in un suo verso che « ha udito l’America cantare », e lo scultore Giorgio Gray Barnard senza per nulla parafrasare il fabulista La Fontaine, pensò, così di rado la stupidità è semplice ma le più volte ragionatrice, che se l’America canta, nulla le impedisce di danzare. Per la statua dell’America danzante posò Isadora Duncan più nuda del solito, e se l’opera non giunse a compimento fu per una inopinata malattia della signora Barnard, e forse per una sua inconfessata gelosia. Piccoli fatti deviano talvolta grandi destini, e alla Libertà di Bartholdi mancò una sorella.

Il primo tempo della tournée americana fu un disastro. Grande impresario ma inetto a capire la danza come arte, Charles Frohman considerò Isadora alla stregua di un numero di varietà, e la presentò in pieno agosto nei teatri di Broadway. I radi spettatori che con una temperatura di 90° Fahrenheit entravano in quei locali arroventati in cerca di facili distrazioni e di amori mercenari, s’imbestialivano all’Ifigenia di Gluck e alla Settima sinfonia di Beethoven interpretate da Isadora, e convinti di essere stati truffati chiedevano con alte grida il rimborso del biglietto. Ma il secondo tempo, durante il quale Isadora viaggiò gli Stati Uniti assieme con l’orchestra filarmonica di Filadelfia e danzò sotto la direzione di Walter Damrosch, fu una serie di trionfi. Il primo flauto aveva una faccia di vitello e interpretava con sentimento così penetrante l’assolo delle Anime beate dell’ Orfeo, che Isadora si fermava in mezzo al palcoscenico e scioglieva in pianto.

Siffatti spettacoli ammolliscono i cuori più duri, ma non anche quelli dei pastori evangelici di Washington, i quali anatemizzarono la danza di Isadora. La sera, a teatro, il pubblico composto unicamente di puritani e delle loro signore, si levò come un sol uomo e coprì la danzatrice d’improperii.

« Che male i nostri pastori scoprono nelle danze d’Isadora? » domandò una voce.

Tutti gli occhi si voltarono dalla parte della voce, e in un palco riconobbero la maschia figura di Teodoro Roosevelt, Presidente degli Stati Uniti.

« Viva Teddy! » gridarono gli spettatori in coro, con quella volubilità della folla che secondo i calcoli di Shakespeare può mutare tre volte opinione nello spazio di dieci minuti.

« Amici miei, » continuò il Presidente « Isadora è innocente come il bimbo che danza in giardino al sole, e coglie i fiori del suo sogno ».

«Viva Teddy! Viva Isadora! » gridarono più forte gli spettatori, e un coro di fischi, equivalente laggiù dei nostri applausi, salutò il Presidente e la danzatrice.

 

 

Lugné Poe presentò Isadora Duncan al pubblico di Parigi. Isadora danzò sul palcoscenico della Gaieté Lyrique, e alcuni uomini di lettere cantarono le sue lodi. Cade a proposito a questo punto un aforisma posto da Isadora al principio del capitolo ventesimosesto di My Life: « La ricchezza porta la maledizione nel proprio fianco come nube la folgore, e chi la possiede non sarà felice lo spazio di un giorno ». Quando bussarono alla porta del suo camerino della Gaieté Lyrique e Isadora vide entrare quell’uomo alto, dorato e timido come un fanciullo, essa pensò: « Ecco il mio Lohengrin ». Ma il biondo pensiero fu immediatamente soffocato da quest’altro pensiero: « Ecco la ricchezza e la maledizione sua compagna inseparabile ». Noi il vero nome di questo uomo non lo conosceremo mai, perché come quelle cose che secondo Platone non sono retà, cioè a dire nominabili, Isadora questo uomo non lo chiama mai per nome, ma usando ogni volta l'antonomasia wagneriana Lohengrin. Chi era costui? Che fosse Isacco Laquedem era smentito dal colore dei capelli e dalla dirittura dei tratti. L’Olandese volante forse. Un tale in ogni modo che in un continuo viaggiare cercava staccarsi da un opprimente pensiero d’infelicità. « Ovunque io sia, sempre l’immagine mi si ripresenta di mia madre sul suo letto di morte ». Questo il dramma costante di Lohengrin. Aggiungeva : « Che vale vivere, se tutto si conclude nella morte? ». E non c’era banca d’Europa o d’America che a quest’uomo perseguitato dall’idea della morte non fosse pronta ad aprire un credito immediato. Salparono sull’Isis, la nave bianca come il cigno del figlio di Parsifal, vogarono l’azzurro Mediterraneo scortati dai delfini e dai gabbiani. Vestita di una tunichetta bianca, Deirdre danzava sul ponte della nave. Sulla mensa apparecchiata brillava l’argenteria e la cristalleria, ma di là dall’argento e dai cristalli Isadora vedeva le facce nere dei macchinisti giù nella sentina della nave di piacere, vedeva l’equipaggio, quei cinquanta uomini che faticavano per la felicità di due soli. Il ricordo le tornò delle bare che aveva visto traversate Pietroburgo sulle slitte, nella luce gelida dell’alba, nelle quali erano chiusi degli operai che si erano rifiutati di faticare per la felicità altrui. Il pensiero la infiammò del popolo e delle sue sofferenze. Scattò in piedi:

          col cuore leggero

prendo la grande strada

in buona salute, sciolto,

il mondo davanti a me,

e avanti a me la lunga

polverosa strada

che conduce ov’io voglio.

E con quanto fiato aveva nei polmoni, declamò al mare e al vento il Canto della grande strada di Whitman.

« Che porcheria! » gridò Lohengrin, pallido di rabbia. « Quell’uomo era incapace di guadagnarsi la vita ».

« Può darsi, » ribattè Isadora « ma aveva la visione dell’America libera ».

«Alla malora la visione! ».

« Per voi America significa migliaia di officine che lavorano a darvi la ricchezza. Per me significa mistica e idealismo ».

Come si vede, sull’America e la sua democrazia Isadora Duncan nutriva alcune illusioni, che i complimenti di Teodoro Roosevelt avevano contribuito certamente a rafforzare.

In segno di riconciliazione, Isadora promise a Lohengrin di danzare per lui davanti al tempio di Poseidon, a Pesto. Lohengrin noleggiò un’orchestra di trenta sonatori, ma così abbondantemente li nutrì prima della danza e così generosamente li abbeverò, che al momento di sonare tutti e trenta i sonatori erano ubriachi fradici. Il tentativo fu ripetuto a bordo dell'Isis, ma un leggero libeccio essendosi levato nel frattempo, i trenta sonatori, verdi in faccia e curvi sui bastingaggi, restituirono a Poseidon ciò che davanti al suo tempio avevano ingurgitato.

Venne settembre, mese delle separazioni. Lohengrin tornò a Parigi, Isadora andò a Venezia. Sola nella basilica di San Marco, contemplando l’oro e il turchino della cupola, il volto di un bimbo si animò sul muro e le sorrise. Lohengrin accorse all’appello d’Isadora. Era più torturato che mai dall’idea della morte. Consultato, il medico disse: « Voi, artista unica, privarci ancora e forse per sempre della vostra arte? Sarebbe un delitto contro l’umanità ». Strane modulazioni subisce l’idea del delitto! E il cavaliere del Gral: « Che importa, se tutto deve sprofondare nella tomba? ». Ma il sorriso del bimbo apparso fra il turchino e l’oro di San Marco era irresistibile. Come rimanere sorda al suo richiamo? Quando il biondo bambino uscì alla vita, la piccola Deirdre lo guardò e disse: « Che bel bambino! Non ti preoccupare, mamma: me lo terrò sempre fra le braccia e avrò cura di lui ». E mantenne la promessa. Quando li trassero morti entrambi dal fiume, Deirdre serrava tra le sue braccine irrigidite il fratellino. Quale tremendo orgoglio scosse Lohengrin nel vedere così sollecitamente avverate le sue previsioni? Anche al bimbo fu imposto un nome atavico, e da quello dell’apostolo dell’Irlanda, vescovo della chiesa di Armagh e autore della lettera a Carotico, il fratellino di Deirdre fu chiamato Patrizio.

La vita riprese più sontuosa, fra soggiorni principeschi in Riviera, a Parigi, nel castello che Lohengrin aveva fatto edificare nel Devonshire sul modello del Piccolo Trianon, e peripli di tutti i mari. Durante una festa nel parco di Versaglia, l’orchestra Colonne diretta da Pierné eseguì una selezione di opere di Wagner, e quando il sole tramontò dietro il Luigi XIV di Bernini, invaso dall’edera e confinato dalla gelosia degli architetti francesi dietro il bacino degli Svizzeri, gli accordi gravi echeggiarono della marcia funebre per la morte di Sigfrido. Anche i programmi musicali erano composti in modo da giustificare il pessimismo di Lohengrin.

Negli Stati Uniti, vedendo con quanto slancio lei e Lohengrin erano accolti da quella stessa società che aveva sbandito Gorki e la sua compagna « perché non sposati », Isadora consegnò nel suo diario: « Il pudore yankee è un bluff. La presenza di un milionario semplifica la morale ». E poiché siamo in tema di citazioni, non passeremo alla catarsi di questa vita fra le più tragiche che si conoscano, prima di aver trascritto la « giornata inglese » come la vide Isadora nel Devonshire:

« Durante l’estate inglese piove senza interruzione, ma gl’inglesi non mostrano di darsene pensiero. Si alzano la mattina e fanno una prima colazione con uova, lardo fritto, prosciutto, rognoni e porridge. Poi indossano l’impermeabile e passeggiano nella campagna fradicia, fino al lunch che comprende parecchie portate e finisce con una crema del Devonshire. Dal lunch alle cinque dicono che vanno a sbrigare la corrispondenza, ma in verità dormono. Scendono alle cinque per il tè, che riunisce dolci, pane, burro e confetture. Dopo il tè fingono di giocare a bridge, fino al momento più importante della giornata che è quello in cui si vestono per la cena. Le signore si mettono in abito scollato e i signori in camicia inamidata per attaccare un pasto di venti portate. Terminato il pasto, i signori iniziano una conversazione politica e superficiale, fino al momento di andare a letto ». E Nivasio Dolcemare: « Per garantire l’incolumità di una vita siffatta, uomini bianchi e uomini rossi, uomini neri e uomini gialli faticano notte e giorno al sole e alla neve, al vento e alla pioggia, sotto le stelle di questo e dell’altro polo. Quale somma d’infelicità, o Signore, per compensare la felicità di uno solo? ».

I presagi si addensavano. La fabbrica del sapone Cadum chiese a Isadora di ritrarre l’immagine di Patrizio in un cartello pubblicitario, e quando Isadora fece ritorno da un lungo giro di rappresentazioni in Russia, trovò piena Parigi degli occhi, delle guance, del sorriso, dello splendore del suo bimbo, che i parigini, smaniosi di soprannomi, avevano soprannominato « Bebé Cadum ».

In Russia Isadora era andata assieme col musico Hener Skene. Arrivati all’alba a Kieff e saliti sulla slitta dell’albergo, parve a Isadora di vedere ai margini della strada due file di bare infantili.

« Non c’è nulla » la rassicurò il musico.

« Come! Non vedete? Tutti bimbi morti... ».

« Neve, nient’altro che neve ».

A Parigi Isadora scese dalla carrozza per vedere da vicino la colossale immagine del suo Patrizio. Un tale le si fermò accanto, accennò la figura con l’indice pieno d’anelli:

« Bello eh? ».

Isadora riconobbe quel tale che aveva veduto alla stazione di Monaco, la mattina che i piccoli coristi erano partiti per la Grecia. Odorava di profumi economici ed era vestito tra il rastaquero e il prosseneta.

 

 

Nel 1908 Isadora acquistò lo studio del pittore Gervex, a Neuilly, e Paul Poiret, incaricato della decorazione, passò le pareti alla porporina e dipinse su ciascuna di esse una doppia croce nera. Perché non s’istituiscono corsi pratici contro la jettatura, e perché non si confinano gli esteti in un’isola deserta, a imitazione di quanto fu fatto ai poveri e innocenti cani d’Istanbul?

Nello studio non si lavorava solamente ma si giocava, e una sera, in una pantomima improvvisata fra Isadora, Cécile Sorel e Gabriele d’Annunzio, il poeta delle Laudi rivelò insospettate attitudini di attore.

Dal terrazzino, Isadora seguiva le danze di Deirdre in giardino. I poemetti, la bimba se li componeva da sé:

Ora sono un uccellino e salgo

su su fra le nubi d’oro...

Ora sono un fiore e guardo l’uccellino

che sale e mi dondolo sul ramicello... così:..

Anche Patrizio danzava su strane musiche di sua invenzione, ma ricusava i consigli. Diceva: « Patrizio danza solo le danze di Patrizio ».

Raul Pugno sonava musiche di Mozart. Immoti ai lati del pianoforte, Deirdre e Patrizio ascoltavano. Quando la musica cessò, i due bimbi passarono le testine sotto le braccia del pianista.

« Donde vengono questi angioletti di Mozart? » esclamò Pugno.

Patrizio era più turbolento del solito. Partito il vecchio pianista, la sua barba mosaica, i suoi occhi di can barbone, il bimbo cominciò a rovesciare tutte le sedie dello studio. Strani effetti della più gentile delle musiche! Sonarono al cancello: un ignoto, qualcuno di cui Isadora non riuscì né allora né di poi a conoscere il nome, inviava in dono due magnifici esemplari delle opere di Barbey d’Aurevilly. Isadora aprì il primo volume, il suo sguardo « inciampò » nella parola «Niobe». «Non fare tanto rumore, Patrizio» disse la governante. « Vedi che mammina legge ». E Isadora: « Vorrei rimanere sola. Portate i bambini a spasso». Domandarono i bambini: «Dove vuoi che andiamo a passeggiare oggi, mammina? ». Isadora non rispose. Non sapeva che rispondere. Non sapeva perché non sapesse rispondere. E quando i bambini se ne furono andati per l’ultima passeggiata, riprese il libro del misterioso donatore e cominciò a leggere la storia di Niobe.

 

 

Una profonda solidarietà unisce i bambini di tutto il mondo, tanto profonda quanto sa essere profonda l’anima stessa dei bambini, ma che via via si allenta, finché si converte nell’inimicizia, nell’ostilità, nella guerra dei grandi. Quando due bambini s’incontrano, si guardano senza incertezza, si riconoscono anche se non si sono visti mai, e se non si fiutano come fanno i cani, è perché gl’istinti cui rispondono i richiami degli odori, in loro sono ancora sopiti. Se un bambino è contento, tutti i bambini si rallegrano dall’uno all’altro polo. Se un bambino soffre, tutti i bambini soffrono un poco e quasi senz’avvedersene. Quando un bambino muore, nasce un sospiro lenissimo sulla bocca dei bambini che dormono, indugia come una bollicina luminosa sul labbro, poi si spegne.

In una casa di Sidney, in Australia, Maggy e Puck sono soli nella camera dei giochi. I loro fratellini, le loro sorelline sono andati alla partita in giardino della signora Egerton, ma Maggy e Puck hanno un po’ di faringite e son dovuti rimanere a casa. Hanno giocato un po’ e senza voglia, ma ora non più e i balocchi giacciono a terra, inanimati e tristi. D’un tratto un sipario nero chiude il cielo. Maggy e Puck si guardano, si prendono per mano, tremano di paura. Allora nel silenzio che copre il cielo e la terra, brillano le notine di una scatola sonora.

« Hai sentito, Maggy? » domanda Puck che è il più piccolo.

« Sì » risponde la sorellina più grande. « In qualche parte del mondo un bambino è morto ».

Colui stava appoggiato con la spalla al muro delle Tuileries. Gonfia e giallastra, la Senna scorreva tra gli argini di pietra, sotto gli archi bassissimi dei ponti. Di fronte, la doppia vetrata della stazione d’Orsay ripeteva la bocca del mostro marino nel cui ventre Pinocchio ritrovò il suo babbo Geppetto. Infinita è la pazienza degli assassini. Impossibile riconoscere in colui la misteriosa creatura sorta quella mattina dalle zolle del tempio di Delfo, se non l’avessimo seguito nelle sue varie trasformazioni, nel suo perfezionamento continuo. La paglietta calata sugli occhi poggia su una chioma straordinariamente folta e ricciuta. Il completo a scacchi, le ghette bianche, la cravatta a farfalla accentuano il carattere equivoco del «vendicatore». Quando spunta da piazza della Concordia l’automobile che porta Deirdre, Patrizio e la governante al Giardino delle Piante, il vendicatore si sbottona il polsino, si rimbocca la manica, segue con manifesto compiacimento la crescita della mano che presto raggiunge un diametro di due metri, e allorché l’automobile è vicina, cala su essa l’enorme mano, la ferma, la spinge nel fiume. Questo e nient’altro.

Gonfia e giallastra, la Senna scorre tra gli argini di pietra. Apollo, con un leggero massaggio della sinistra, riporta la destra alle dimensioni normali, si tira giù la manica, abbottona il polsino, si avvia fischiettando verso il Louvre.

Isadora continuava a leggere. Le tende che la circondano sono quelle medesime che essa si porta appresso nei suoi viaggi in Europa e in America, in Africa e in Asia, e costituiscono il suo « ambiente ». Non rumore di passi, ma come un vento che cammina. E la faccia non è più dell’ossessionato dalla Morte, ma della Morte stessa, allorché Lohengrin appare sulla soglia e grida:

« I bambini non sono più! ».

 

 

Quando Isadora uscì novamente di casa come dopo una lunga malattia, Parigi era costellata dell'immagine del suo Patrizio. Invano la novella Niobe supplicò che fossero tolti dai muri i « Bebé Cadum ». Invano offrì il suo denaro, tutto il suo denaro: la fabbrica di sapone non aveva orecchie per quel dolore. E da tutti i muri la tragica madre fu perseguitata dal faccione roseo, dal sorriso, dallo splendore del suo bimbo trasformato in vescica gonfia d’acqua.

Isadora ricominciò a girare il mondo. Si circondò di altri bambini. Comperò l’Albergo Beaulieu, a Meudon, e lo empì di bimbi. Venne la guerra. Al Beaulieu i bimbi furono sostituiti da uomini feriti, da frammenti di uomini che urlavano tutta la notte e invocavano essi pure una madre. Poi anche la guerra finì e Isadora fu chiamata in Grecia da Venizelos, per edificare nel palazzo dello Zeppeion il Tempio della Danza. Ma una scimmia morse il giovane re di Grecia. Alessandro morì e Venizelos dovette cedere il potere. Isadora ricominciò a girare. Il ricordo la perseguitava di Deirdre col fratellino in braccio. Andò in Russia. Sposò - lei che aveva giurato di non soggiacere mai al matrimonio - il poeta Sergio Jessenin, lo abbandonò prima che lui si suicidasse. Tornò a girare. Povera, stanca, approdò a Nizza.

Il furto della Gioconda lo ricordano tutti, ma della sparizione durata due giorni dell’Artemide del Louvre chi ha mai saputo? Le autorità serbarono su quella misteriosa assenza un prudente riserbo, e se la presenza di Diana fra la gente non dette nell’occhio, è perché intorno al 1927 tutte le donne andavano in gonnellino corto e camminavano col passo ratto e scattante della Diana cacciatrice.

A Nizza pioveva. Apollo e Diana stavano sul margine del marciapiede, coperti da impermeabili neri. Quando l’automobile passò, Diana afferrò con due dita la sciarpa che svolazzava dietro il collo di Isadora e tenne ferma la mano. Questo e nient’altro. In un attimo colei che con amabile freddura Anna di Noailles aveva soprannominato « Isadorabile », non era sull’asfalto bagnato se non un mucchio di stracci insanguinati.

La sera, sulla Promenade des Anglais, Apollo e Diana si salutarono prima di separarsi.

« Dove vai? » domandò Diana.

« M’imbarco a Marsiglia per Patrasso. E tu? ».

« Prendo il treno e torno al Louvre. Chàire! ».

« Chàire » rispose Apollo, a dispetto del commento che Giorgio Pasquali fa alla terza lettera di Platone, la quale del resto è apocrifa, in cui è detto che chàire non si addice agli dèi, perché chàire ha significato di « gioire », e la natura divina non è soggetta né alla gioia né al dolore.

Nella vecchia Rue de Seine, a Parigi, si apre dietro un portone un androne scuro, e in fondo a questo una porta sulla quale è scritto: « Scuola di danze classiche Raimondo Duncan ». Là, in compagnia della moglie Penelope e di una capra, vive ancora il vecchio pennuto senza volo. Ripensa di quando in quando Isadorabile morta e i bambini morti, ma il suo occhio cerchiato di rosso di gallinaccio luccica e si fissa, ma non butta lacrime. Troppo vecchio ormai e stanco.

 

 

 

1. Questura.

2.    Flauto pastorale di rame.

3.    Questore.

4. « Viva » in greco.

5. Anche Shelley portava l’abito di « elementi divini a. Nudo, si sentiva vestito. Aveva invitato a pranzo il console e la consolessa d’Inghilterra nella sua casa di Viareggio. Quando tornò a mezzogiorno dal bagno di mare, i suoi ospiti lo aspettavano in salotto. Nudo com’era il poeta salutò con molta grazia, si scusò del ritardo e, leggermente inchinandosi, chiese licenza di andarsi a vestire.

6. Sempre qualche moto naturale ispirava le sue danze. Scrive essa stessa: « Ad Abbazia, sorgeva un palmizio davanti alla mia finestra. Guardavo le sue foglie tremolare alla brezza del mattino, e questo movimento mi suggerì quella vibrazione delle braccia, delle mani e delle dita, che tante mie imitatrici hanno deformato ». Traeva insegnamento anche dalla pittura. « A Firenze, Botticelli conquistò la mia giovine fantasìa. Passavo intere giornate davanti alla Primavera. Un vecchio custode mi dava uno sgabello, contemplava con occhio intenerito la mia adorazione. E a poco a poco ì fiori cominciavano a sbocciare, gl’ignu-di piedi a danzare, i corpi a muoversi ».

7. Il vegetarismo a suo modo è una Riforma. Essa ha la sua Controriforma nel ritorno del vegetariano alla sarcofagia. Un esempio di Controriforma ce lo dà Nietzsche. In un passo di Ecce Homo, egli esprime la propria riconoscenza a Wagner, che gli dimostrò l'errore del vegetarismo e i suoi effetti « smoscianti ».

8.    L’« irradiamento vitale» e l’aspetto di ettoplasma sono giustificati. Più che come drammaturgo, Vittoriano Sardou era grande come cultore di scienze occulte, e da quando egli è ridotto allo stato di anima errante, molto compiacentemente e da vecchio collega risponde alle domande che gli rivolgono gli spiritisti, sia per mezzo della scrittura automatica, sia mediante la percussione del tavolino.

9.    Uno dei pochi francesi illustri del tempo che non cercò contatti labiali con la pelle di Isadora, è Eugenio Carrière. Nonché pittore dell’opacità e delle brume, Carrière era un’anima bella, un puro. Umilmente e santamente viveva in uno studio posato sui tetti, fra i suoi libri, la sua famiglia, i suoi amici. « La presenza di questo uomo spirituale » dice Isadora « mi dava la stessa commozione quale, immagino, mi avrebbe dato la presenza di Cristo ». Scarsi e di un’apostolica insipienza, i pasti in casa Carrière si consumavano in un silenzio rotto di tanto in tanto da qualche bel pensiero formulato a bassa voce dal Maestro, con movimenti ieratici, nel breve tondo di luce che come raggio divino scendeva dal paralume. In quella pia penombra, Isadora conobbe Mecnìcov, successore di Pasteur e scopritore delle virtù longevitali dello yogurt.

10. Il falerno era chiamato « fumoso » perché le otri contenenti questo illustre vino campano usava appenderle sotto la cappa del camino e affumicarle come prosciutti. I Greci per parte loro mischiano fin dal tempo di Omero al vino della resina per conservarlo meglio, il che dà al bevitore l’impressione di bere della vernice fresca.

11. L’antico Acheloo.

12. Il cognac dei greci.

13. Onde il suo nome: sirtòs, strascicato.

14. Cioè a dire Cantoria.

15. Comunale.

16. Nome della moglie di Stanislawski. Alcuni anni dopo, Pòlia Trofìmovna, alla quale Isadora narrò l’accaduto, rispose: « Non mi sorprende da parte di mio marito: prende tutto così sul serio! ».

17. Da una recente definizione del « Monismo » data da Adriano Tilgher: « Affermazione dell’unità del principio cosmico, concepito come una forza vagamente personale che trascina il mondo, sua espressione e manifestazione, su per le vie di un Progresso infinito, in cui quel principio attua e realizza se medesimo indefinitamente ».

18. Teseo abbandonò Arianna, perché fra Creta e Nasso Arianna aveva sofferto di mal di mare.

19. Antichissimo uso è presso i Greci farsi sostituire da un nume o simulacro. Dice Euripide che l’Elena rapita e amata da Paride non era se non il nume di lei, la quale intanto se ne stava presso il re dell’Egitto, ove Menelao, finita la guerra di Troia, passò a riprendersela. Teucri e Achei avrebbero dunque combattuto per niente? Tanto più facilmente lo crediamo ché non quella volta soltanto gli uomini si sono fatti uccidere per un’ombra.

20. Mostrare il palmo della mano con le dita aperte è per i Greci insulto gravissimo. Questo insulto ha un’origine « storica » : quando Maometto II entrò in Costantinopoli il 6 aprile 1453, posò in segno di possesso la mano aperta sul muro interno di Santa Sofia, e di poi la traccia non si è più cancellata della mano conquistatrice e miscredente, sul muro della chiesa convertita in moschea.