LA RUSSIA DI PUTIN
Anna Politkovskaja
“Certe volte, le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano. Infatti, una persona può perfino essere uccisa semplicemente per avermi dato un’informazione. Non sono la sola ad essere in pericolo e ho esempi che lo possono provare”
Anna Politkovskaja, dicembre 2005
7 ottobre 2006: nell’ascensore di un palazzo viene ritrovato il corpo di una donna con un proiettile conficcato in testa; di fianco al corpo, quattro bossoli e una pistola. La polizia pensa subito ad un killer professionista (non ancora individuato, così come il mandante). Brutale, certo, ma niente di straordinario: sembra un semplice regolamento di conti, comune in tutti gli stati occidentali e non. Qui però, di normale, c’è ben poco.Siamo in Russia. La donna uccisa è Anna Politkovskaja, giornalista della «Novaja Gazeta», da anni in lotta a favore dei diritti umani contro il suo presidente, Vladimir Putin, che critica pesantemente (dalle colonne del suo giornale e con libri diffusi prevalentemente in Occidente) per ogni aspetto della sua politica (sociale, economica, militare). La prima parte del libro è dedicata all’esercito: vero e proprio campo di concentramento per le giovani leve, sottoposte a vessazioni inimmaginabili da parte di superiori crudeli e sempre ubriachi; ecco poi l’Fsb, degno erede del Kgb, con processi farsa, creazione di falsi documenti e confessioni, sospetti che scompaiono temporaneamente nel nulla (giusto il tempo di una settimana di torture). Ampie parti del libro sono poi dedicate a singoli personaggi inquietanti come il colonnello Budanov (che violenta e uccide una giovane cecena) e il mafioso Fedulev: attraverso le storie dei singoli emerge il ritratto di una Russia ancora invischiata nello stalinismo, uno stato dittatoriale con parvenze democratiche in cui vige un’immensa corruzione generalizzata e la giustizia altro non è che un braccio del potere. Dopo un excursus nella terribile vita di provincia, la parte finale del libro è un vero pugno nello stomaco: la tragedia del teatro Dubrovka e conseguente incremento del razzismo e della repressione fisica nei confronti dei ceceni, nemico pubblico numero uno nella guerra al terrorismo lanciata da Putin.
[...] Perché ce l’ho tanto con Putin? Per tutto questo. Per una faciloneria che è peggio del ladrocinio. Per il cinismo. Per il razzismo. Per una guerra che non ha fine. Per le bugie. Per i gas nel teatro Dubrovka. Per i cadaveri dei morti innocenti che costellano il suo primo mandato. Cadaveri che potevano non esserci. Io la penso così. [....]
DI CHE COSA PARLA QUESTO LIBRO?
Questo libro parla di un argomento che non è molto in voga in Occidente: parla di Putin senza toni ammirati.
A scanso di equivoci, spiego subito perché tale ammirazione (di stampo prettamente occidentale e quanto mai relativa in Russia, dato che è sulla nostra pelle che si sta giocando la partita) faccia qui difetto. Il motivo è semplice: diventato presidente, Putin – figlio del più nefasto tra i servizi segreti del Paese – non ha saputo estirpare il tenente colonnello del KGB che vive in lui, e pertanto insiste nel voler raddrizzare i propri connazionali amanti della libertà. E la soffoca, ogni forma di libertà, come ha sempre fatto nel corso della sua precedente professione.
Questo libro spiega inoltre come noi, che in Russia ci viviamo, non vogliamo che ciò accada. Non vogliamo più essere schiavi, anche se è quanto più aggrada all’Europa e all’America di oggi. Né vogliamo essere granelli di sabbia, polvere sui calzari altolocati – ma pur sempre calzari di tenente colonnello – di Vladimir Putin. Vogliamo essere liberi. Lo pretendiamo. Perché amiamo la libertà tanto quanto voi.
Questo libro, però, non è un’analisi della politica di Putin dal 2000 al 2004. Le analisi politiche le fanno i politologi. Io sono un essere umano tra i tanti, un volto nella folla di Mosca, della Cecenia, di San Pietroburgo o di qualunque altra città della Russia. Ragion per cui il mio è un libro di appunti appassionati a margine della vita come la si vive oggi in Russia. Perché per il momento non riesco a fare un passo indietro e a sezionare quanto raccolto, come è bene che sia se si vuole analizzare un fenomeno.
Io vivo la vita, e scrivo di ciò che vedo.
LA RUSSIA DI PUTIN
L'ESERCITO DEL MIO PAESE E LE SUE MADRI
L’esercito da noi è un luogo chiuso. Chiuso come una prigione. Anzi no, è una prigione, solo che la chiamano diversamente. Nell’esercito, come in prigione, nessuno mette piede se le autorità (militari o carcerarie) non vogliono. Di conseguenza la vita nell’esercito è una vita da schiavi.
Vero è che non siamo i soli: qualunque esercito mira alla clausura, alla segretezza, ed è forse per questo che si è autorizzati a parlare dei generali come di un’unica casta internazionale con comportamenti analoghi in ogni angolo del pianeta a prescindere dal capo di Stato che ogni singolo generale serve.
Tuttavia, l’esercito russo ha delle peculiarità tutte sue, o meglio ad averle è il rapporto fra l’esercito e la popolazione civile. In Russia, cioè, manca il benché minimo controllo della società civile sull’operato dei militari. I soldati semplici – lo scalino più basso della gerarchia – non sono nessuno. Al di là dei muri di cemento di una caserma, un ufficiale può fare a un soldato quello che vuole, quello che gli passa per la testa in un determinato momento. Analogamente, quello stesso ufficiale può trattare come più gli piace un collega di grado inferiore.
«È davvero questa, la situazione?» immagino che vi starete chiedendo. E ancora: «Ma no, non può essere davvero così...».
Non è sempre così, no. Ma eventuali eccezioni si devono solo a singoli individui che danno prova di una pur vaga umanità e la dimostrano richiamando all’ordine i propri sottoposti. Solo in questo modo, in forma di singole eccezioni e non di una regola sociale, si può scorgere un barlume di luce in fondo al tunnel. Il sistema in sé è chiuso, ed è un sistema schiavista.
«Ma chi è al governo che fa?» mi chiederete. Il presidente non è anche, ex officio, il comandante supremo dell’esercito? È o non è responsabile in prima persona di quanto vi accade?
Per nostra sfortuna, quando si insediano al Cremlino i nostri leader (o presidenti che dir si vogliano) nulla fanno per mettere la parola fine a questo stato di cose, né per promulgare leggi che limitino l’anarchia dell’esercito. Sono più propensi al contrario, e cioè a concedere all’esercito poteri ancora maggiori sui sottoposti. Perché l’esercito osteggia o sostiene un capo di Stato a seconda della compiacenza che egli mostra nei suoi riguardi. Gli unici tentativi di dare un volto umano alle nostre Forze Armate furono fatti all’epoca di El’cin, nell’ambito di un programma che mirava a promuovere le libertà democratiche. Ma non durò: in Russia il potere in sé è cosa assai più preziosa delle vite dei soldati. Dunque anche El’cin dovette alzare bandiera bianca, cedendo alle pressioni di un indignato Stato Maggiore.
Putin non ci ha mai provato. Dirò di più: per definizione un presidente che sia un ex ufficiale è destinato a non provarci mai. Quando si delineò all’orizzonte politico russo in veste di probabile capo di Stato più che di impopolare direttore dell’universalmente inviso ex KGB (ora FSB), Putin esordì affermando che l’esercito screditato da El’cin (e intendeva con ciò gli esangui tentativi di porre un freno all’anarchia interna) sarebbe rinato a nuova vita. Quel che ci voleva per una rinascita completa e definitiva era una guerra, la seconda guerra cecena... La cronaca successiva degli eventi nel Caucaso Settentrionale è la conseguenza di questa premessa. Da quando è scoppiata la seconda guerra cecena, l’esercito ha avuto carta bianca, e il risultato più evidente è che alle elezioni presidenziali del 2000 ha votato all’unanimità per Putin.
Né c’è alcun dubbio che così abbia fatto anche nel 2004.
La guerra in atto è assai utile e redditizia per l’esercito, fonte di promozioni lampo e di un gran numero di medaglie, fucina di carriere fulminee per i giovani generali ‘combattenti’ che gettano le basi per future scalate politiche e finiscono catapultati nell’élite di Stato. Putin, intanto, martella il Paese con i suoi slogan: la rinascita dell’esercito è un dato di fatto e lui solo, Putin, ne è l’artefice perché ha rimesso in piedi un esercito umiliato (da El’cin) e offeso (nella prima guerra cecena).
Le storie che seguono mostreranno di quale ‘sostegno’ si sia trattato. A voi trarre le conclusioni, magari cercando di mettervi nei nostri panni. Vorreste vivere in un Paese in cui le tasse che pagate vanno a foraggiare una simile istituzione? Come vi sentireste con un figlio diciottenne precettato quale «materiale umano», come lo si definisce qui da noi? Che ne dite di un esercito da cui i soldati disertano in massa ogni settimana (e solo per avere salva la vita), talvolta in intere squadre o compagnie? Che cosa pensereste di Forze Armate che in un solo anno, il 2002, hanno perso più di cinquecento uomini – un intero battaglione – non in guerra, ma per le percosse subite? Un esercito in cui gli ufficiali rubano di tutto: ai soldati i dieci rubli mandati dai genitori, e allo Stato intere colonne di carri armati? In cui gli ufficiali odiano e picchiano a loro discrezione i sottufficiali? In cui questi ultimi sfogano sui soldati semplici l’odio che provano per i superiori? In cui ufficiali e sottufficiali sono accomunati dall’odio per le madri dei soldati, colpevoli di protestare occasionalmente – vivono nel terrore e lo fanno solo quando le circostanze di una morte sono troppo scandalose – e di chiedere giustizia?...
STORIA PRIMAIL SETTIMO OVVERO U-729343.DIMENTICATO SUL CAMPO DI BATTAGLIA
18 novembre 2002. Nina Ivanovna Levurda, insegnante di lingua e letteratura russa in pensione dopo venticinque anni di servizio nella scuola, è una donna pesante, stanca e non più giovane, con tutta una serie di malanni. Aspetta da ore, come ha già fatto diverse volte nell’ultimo anno, nella sgradevole, sgradevolissima sala d’attesa del tribunale intermunicipale della Krasnaja Presnja, a Mosca.
Non sa più che fare. È una madre senza un figlio. Peggio: è una madre che non sa la verità su suo figlio. Il tenente Pavel Levurda – anno di nascita 1975, o meglio numero di matricola U-729343 – è morto in Cecenia quasi due anni fa, all’inizio della seconda guerra. Di quella guerra che, a detta di Putin, ha segnato la rinascita dell’esercito. Quale sia stata questa rinascita lo constateremo dal racconto degli ultimi mesi di vita della matricola U-729343. Dove non è tanto la morte – le madri russe hanno fatto il callo a molte cose, persino alla morte dei figli –, ma le circostanze della stessa e quanto ne è seguito a indurre Nina a fare il giro dei tribunali negli ultimi undici mesi. Il suo scopo è uno solo: strappare allo Stato una risposta giuridica precisa sul perché suo figlio sia stato abbandonato sul campo di battaglia. E chiedere ragione del modo ignominioso in cui lei – madre di un soldato caduto – è stata trattata da un ministero della Difesa che non ha rispetto per le persone.
... Pavel Levurda voleva fare il soldato. Sognava sin da piccolo di fare carriera nell’esercito. E non si può dire che sia un fenomeno consueto, oggigiorno. Piuttosto il contrario: sono i ragazzi più poveri e senza una famiglia in grado di garantire loro un’istruzione superiore che aspirano a entrare nelle Accademie militari, ma solo per prendersi un titolo di studio e congedarsi con un mestiere in tasca. Più che il rinnovato prestigio dell’Arma è l’indigenza estrema di chi vuole comunque istruirsi a spiegare l’inesauribile teoria di resoconti autocompiaciuti che esce dall’ufficio del presidente e ha per oggetto l’aumento delle domande di ammissione agli istituti militari (pura verità, del resto). D’altro canto, però, così si spiega un dato che il potere tiene invece gelosamente nascosto, e cioè la disastrosa carenza di sottufficiali nel nostro esercito. Una volta diplomati, i sottufficiali non si presentano al presidio di competenza per ricevere la destinazione assegnata: strada facendo accusano una qualche «grave malattia» o un’improvvisa invalidità comprovata da fior di certificati. Non son cose difficili a farsi, in un Paese corrotto come la Russia.
Pavel era diverso. Lui voleva diventare ufficiale. Sapendo a che tipo di vita – durissima – sarebbe andato incontro, i genitori avevano cercato di dissuaderlo. Pëtr Levurda, il padre di Pavel, era stato ufficiale anche lui, e la famiglia aveva passato la vita tra sperdute caserme e poligoni di campagna.
Come se non bastasse, erano i primi anni Novanta e, crollato l’impero, nel Paese stava crollando anche tutto il resto. Finita la scuola, solo un pazzo avrebbe scelto di frequentare un’Accademia militare che non aveva nemmeno di che sfamare i propri allievi.
Pavel restò fermo nella sua decisione. E partì per la Scuola ufficiali dell’Estremo Oriente. Si diplomò nel 1996 e fu destinato vicino a Pietroburgo. Poi, nel 1998, dalla padella finì nella brace: lo assegnarono al cinquantottesimo corpo d’armata.
Il 58 ha una pessima fama. Per molti aspetti è il simbolo dello sfacelo delle Forze Armate russe. Va da sé che tutto era cominciato prima di Putin, ma il presidente ha enormi responsabilità, in primo luogo per aver tollerato la più completa anarchia degli ufficiali, e in secondo per avere – di fatto – concesso loro lo status di ‘intoccabili’: quale che sia il crimine commesso, gli alti gradi dell’esercito restano impuniti.
Il 58 di Levurda, per di più, era il battaglione del generale Vladimir Šamanov, Eroe della Russia che aveva combattuto in entrambe le guerre cecene distinguendosi per l’estrema ferocia ai danni della popolazione civile. Oggi il generale Šamanov è in pensione, si è congedato ed è stato eletto governatore della regione di Ul’janovsk proprio grazie alla seconda guerra cecena, durante la quale compariva continuamente in televisione per spiegare al Paese che i ceceni erano «tutti criminali» e che come tali andavano annientati; godendo, in ciò, del pieno appoggio di Putin.
I distaccamenti del 58 – che ha il suo Quartier Generale a Vladikavkaz, capitale dell’Ossezia-Alanija Settentrionale, al confine con Cecenia e Inguscezia – hanno combattuto nella prima guerra cecena e stanno combattendo attualmente anche nella seconda. Degni eredi del loro generale, gli ufficiali del 58 godono fama di violenti nei confronti sia della popolazione cecena sia dei propri soldati e sottufficiali. L’archivio del Comitato delle madri dei soldati di Rostov sul Don (città in cui ha sede il Quartier Generale del distretto del Caucaso Settentrionale, di cui il 58 fa parte) contiene per buona parte pratiche relative a soldati semplici del 58 che hanno disertato per le percosse subite dai superiori. Come se non bastasse, il battaglione è famoso anche per ‘furti’ clamorosi (di munizioni dai suoi stessi depositi) e per tradimento su larga scala (si legga: vendita ai comandanti della resistenza cecena di armi rubate all’esercito).
Conosco personalmente molti giovani ufficiali che hanno fatto carte false per non finire nel 58. Levurda, invece, decise diversamente. Rimase dov’era, scrivendo a casa lettere durissime. A ogni licenza, poi, i genitori lo vedevano più cupo... Ma se lo supplicavano di congedarsi, lui si limitava a rispondere che qualcuno doveva pur farle, quelle cose. Oggi possiamo sostenere a ragion veduta che Pavel Levurda era un giovane russo con un forte senso del dovere di fronte alla Patria e con una propria idea di patriottismo. Era lui la nostra speranza per una rinascita vera – e non à la Putin – delle migliori tradizioni militari, dell’onore e della dignità degli ufficiali.
Nel 2000 Pavel Levurda ebbe un’altra opportunità per rifiutarsi di andare a combattere in Caucaso. Pochi l’avrebbero giudicato male se l’avesse colta. Nonostante la propaganda di Stato, infatti, nel 2000 molti giovani ufficiali cercarono di scampare alla guerra. Di nuovo si procurarono ogni sorta di certificati e ‘scovarono’ nel proprio organismo i segni di un’insospettata invalidità. Oppure sposarono donne con già due figli a carico, un’ottima garanzia per evitare una destinazione fatale.
Pavel, invece... Come spiegò ai genitori, Pavel Levurda non se la sentì di abbandonare i propri soldati, non se la sentì di brigare, ingannare e fare il furbo per salvarsi la pelle, e restò dov’era.
Pavel, dunque, non giocò la sua carta per la sopravvivenza, e il 13 gennaio del 2000 partì per la guerra. Da Brjansk (dove, in licenza, era andato a trovare i suoi genitori) finì dapprima nei dintorni di Mosca, al 15° reggimento di fanteria motorizzata della seconda divisione Taman (unità n. 73881). Poi proseguì oltre. Nina Levurda sentì per l’ultima volta la voce del figlio il 15 gennaio, al telefono; l’aveva chiamata per dirle che aveva firmato l’ingaggio in Cecenia e...
Non c’era bisogno di specificare che cosa significasse quel sinistro «e»...
«Piansi, cercai in ogni modo di convincerlo a restare...» racconta Nina Levurda. «Ma Pavel mi disse che aveva deciso e che non sarebbe tornato sui suoi passi. Chiesi a mia nipote, che vive a Mosca, di andare subito da lui alla divisione Taman, per cercare di dissuaderlo... Ma ci arrivò che Pavel era partito da qualche ora: era già sull’aereo per Mozdok». Mozdok è una piccola città dell’Ossezia del Nord, al confine con la Cecenia. All’inizio della guerra vi era di stanza la principale base militare del Comando interforze unificato per le «operazioni antiterrorismo».
E così, il 18 gennaio del 2000 il numero di matricola U-729343 viene caricato su un aereo insieme ad altri numeri consimili e si ritrova in Cecenia.
«Sono alla periferia sud-ovest di Groznyj» scrive Pavel in una lettera ai genitori. L’unica sua lettera dal fronte di guerra, datata 24 gennaio 2000. «La città è stretta d’assedio su ogni lato, e dentro si combatte strenuamente [...]. Gli spari non si fermano neanche per un attimo. La città è costantemente in fiamme, il cielo sempre nero, ci sono mine che ti cadono a due passi e missili che ti sibilano accanto all’orecchio. L’artiglieria, poi, non tace mai [...]. Abbiamo subìto perdite gravissime. Gli ufficiali della mia compagnia sono stati falciati tutti quanti [...]. L’ufficiale che comandava il plotone prima di me è saltato su una nostra granata. E quando mi sono presentato, il comandante della mia compagnia ha preso male il mitra e gli è partita una raffica. I colpi si sono conficcati a terra a pochi centimetri da me. È un miracolo che non mi abbia preso. Gli altri ci hanno riso su: “Abbiamo avuto cinque comandanti prima di te, ma tu potevi durare cinque minuti in tutto!”. C’è brava gente, ma sono fragili psicologicamente. Gli ufficiali sono a contratto, e i soldati – tranne qualcuno – sono giovani e tengono duro. Dormiamo tutti insieme, in tenda, per terra. In un mare di pulci. Mangiamo merda. Non c’è altro. Non so che cosa ci aspetta. Se ci sposteremo per attaccare chissà che cosa, o se resteremo dove siamo adesso fino a impazzire tutti quanti. O se invece ci metteranno su un aereo per Mosca... O chissà che altro ancora... Non sto male, ma ho il morale sotto i tacchi... È tutto per oggi. Baci. Pavel».
Difficile credere che una lettera simile potesse rassicurare dei genitori. In guerra, però, si perdono i punti di riferimento consueti, il cervello li rigetta per non impazzire. Per questo non si è più in grado di confortare chi dalla guerra è lontano: si è spaventati cento volte più di loro e non ci si rende conto di angosciarli.
Come si seppe in seguito, con quella lettera Pavel era davvero convinto di rinfrancare i suoi genitori: sotto una tenda ad aspettare non rischiava nulla. Invece già dal 21 gennaio era andato a «combattere strenuamente» anche lui, da principio a capo di un plotone di fanteria lanciabombe e poi, di lì a poco, di tutta una compagnia (come aveva scritto, gli ufficiali erano stati «falciati tutti», e lui era l’unico a poter assumere il comando).
Pavel non si era fermato alla «periferia» di Groznyj, quella che, a sentire la sua lettera, era «in fiamme». Non si era tenuto ai margini della guerra...
Il seguito è puro burocratese: il 19 febbraio, per liberare le unità di ricognizione assediate e «coprire la ritirata dei compagni» dal villaggio di Uškaloj, distretto di Itum-Kalin – e cito dalla motivazione per la richiesta della medaglia al valore –, il tenente Levurda viene ferito gravemente e perisce per una «grave emorragia dovuta alle numerose ferite d’arma da fuoco»...
A Uškaloj, dunque. Nell’inverno del 2000 vi infuria la guerra più dura, quella disperata e partigiana nei boschi, sulle montagne, per sentieri angusti. Una precisazione che, tuttavia, serve solo a comprendere quale fosso lo sfondo. Nina Levurda, la madre, ha un’altra domanda da porre: se Pavel è «perito», dov’è il suo corpo? Cosa seppellisco, io? Perché un corpo ci dev’essere, no?
A casa Levurda, invece, la bara con i miseri resti di Pavel non giunse mai. Segnando l’inizio di una nuova fase dello strazio di Nina Levurda: la sua personale ricerca dei resti dell’amato figlio, perduti da uno Stato che il figlio aveva cercato con tanto zelo di servire...
Questo è quanto Nina è riuscita a scoprire trasformandosi in procuratore militare e in detective. Il 19 febbraio, data ufficiale della morte del figlio, i «compagni» di cui aveva coperto la ritirata a costo della vita erano in effetti riusciti a sfuggire all’assedio. Ma avevano lasciato lì il suo Pavel, a combattere strenuamente con altri sei soldati. Tutti feriti gravemente, ma tutti ancora vivi. Quei ragazzi li avevano implorati, avevano gridato, li avevano supplicati di non abbandonarli, come testimoniarono in seguito alcuni abitanti del remoto paesino montano di Uškaloj. Il fatto era accaduto sotto i loro occhi. Qualche ferito l’avevano bendato direttamente loro, ma non avevano potuto fare di più. A Uškaloj non c’è un ospedale, non c’è un medico e nemmeno un’infermiera...
Com’è noto, la guerra non è sempre teatro di gesta eroiche o di nobili comportamenti. Pavel Levurda venne abbandonato sul campo. Dopo di che si dimenticarono di lui, della sua salma e del fatto che ci fosse una famiglia che attendeva di riaverla.
I sopravvissuti si dimenticarono di chi era morto affinché loro potessero vivere.
Urge una precisazione: quel che è accaduto post mortem a Pavel Levurda è tutt’altro che un’eccezione nel nostro esercito. Un episodio tanto infame è la summa di un modo di procedere abituale. Nell’esercito l’essere umano non conta. E, ancora, nell’esercito manca un sistema preciso di controllo e di responsabilità nei confronti delle famiglie. Il caos regna sovrano. Lo ripeto: gli unici fortunati sono quelli che possono contare su un comandante che sia – di suo – una brava persona e che perciò non tolleri che si dimentichino dei soldati sul campo.
Di Levurda si ricordarono a una settimana o quasi dalla morte. Era il 24 febbraio quando, come da comunicazione ufficiale dello Stato Maggiore Generale in Cecenia, Uškaloj venne liberata dai «guerriglieri» ceceni e la popolazione «passò sotto il controllo» delle forze federali (ma si trattava dell’ennesima bugia, intesa solo a provare al tribunale – cui la madre di Pavel si era rivolta per chiedere che il ministero della Difesa le risarcisse i danni morali – «l’impossibilità effettiva» di recuperare il corpo)...
E sia... Il 24 febbraio, però, a Uškaloj, i militari raccolsero i corpi di sei soldati. Il settimo non c’era. E il settimo era Levurda. Non lo trovarono, e se ne dimenticarono di nuovo...
A casa la madre era disperata. Aveva ricevuto un’unica lettera, quella arrivata il 7 febbraio; poi più niente: niente notizie, niente figlio, niente risposte alle sue domande. La hot line del ministero della Difesa non serviva a granché. Parlare del proprio strazio con gli ufficiali preposti era come parlare con un computer: «Il tenente Levurda Pavel Petrovič non figura negli elenchi dei caduti e degli scomparsi». Questa la risposta che si sentiva dare Nina. Non una parola di più.
Nina Levurda ascoltò le informazioni «esaurienti» della hot line per diversi mesi. Ma il peggio doveva ancora venire. L’ultima volta che Nina chiamò il ministero della Difesa, il 25 agosto, a sei mesi dalla prima notifica ufficiale della morte del figlio e dopo che – da sola – aveva ritrovato e riconosciuto il ‘settimo’ corpo, il corpo di Pavel, senza alcun sostegno da parte dell’esercito, la hot line non era stata ancora aggiornata. Al comando, dunque, perseveravano nella loro «dimenticanza».
Ma procediamo con ordine. Il 20 maggio, a tre mesi dagli scontri, gli uomini della sezione ad interim del ministero degli Interni del distretto di Itum-Kalin (in breve, la polizia locale) rinvennero a Uškaloj una «sepoltura, contenente il corpo di un uomo con segni di morte violenta». Così è scritto nel verbale. Sia come sia – e la colpa ancora una volta è della nostra eterna, colpevole indifferenza per i destini altrui –, solo il 6 luglio, dopo un altro mese e mezzo di telefonate quotidiane alla hot line e al commissariato militare di zona, i poliziotti di Itum-Kalin compilarono il modulo n. 464, notificando di aver trovato il corpo suddetto.
Il 19 luglio il modulo giunse finalmente alla polizia investigativa di Brjansk, perché da Brjansk Pavel Levurda era partito per la guerra e perché alla polizia di Brjansk la madre aveva denunciato la scomparsa del figlio. Il 2 agosto (a due mesi e mezzo dal ritrovamento del corpo a Uškaloj) a casa dei genitori di Pavel si presentò un agente della polizia locale, l’agente Abramočkin.
In casa c’era solo una ragazzina di quattordici anni, nipote di Pavel e figlia della sorella maggiore Lena. L’agente Abramočkin le chiese qualche informazione su Pavel, appurò quali fossero stati i suoi effetti personali e fu oltremodo stupito di scoprire che era un militare... Pensava che si trattasse di un ragazzo che per un qualche motivo era finito in Cecenia e vi aveva trovato la morte...
La ragazzina gli spiegò che Pavel era un ufficiale, che si trovava in servizio regolare nella zona delle «operazioni antiterrorismo», che avevano avuto notizia della sua morte ma il suo corpo non era mai stato restituito, che da diversi mesi non avevano altre notizie e non sapevano più che fare...
Fu proprio l’agente semplice Abramočkin (al quale era stata «delegata» l’altrettanto semplice inchiesta su quella «salma non identificata») e non il ministero della Difesa in qualunque sua ipostasi, a comunicare alla madre di un ufficiale caduto eroicamente in battaglia che Pavel Petrovič Levurda figurava disperso dal 19 febbraio e che dal 20 febbraio era stato espunto da ogni sorta di emolumento o provvigione... E che se lui, Abramočkin, se ne stava occupando era solo perché alcuni colleghi di Uškaloj avevano rinvenuto il corpo di un militare con tratti somatici simili a quelli del tenente disperso (come risultava dalla denuncia di Nina Ivanovna), e non su espressa richiesta del ministero della Difesa. I poliziotti di Itum-Kalin gli avevano chiesto di passare dai genitori del ragazzo, a Brjansk, e di scoprire (!) «dove era di stanza l’unità militare 73881 presso la quale Levurda P.P. prestava servizio», così da poter contattare il comandante e chiarire le circostanze della morte di quell’uomo che, dalla descrizione della madre, somigliava tanto al loro ufficiale...
La citazione tra virgolette è tratta dalla corrispondenza ufficiale. E aiuta a farsi un quadro dell’esercito di Putin e della guerra che sta combattendo in Cecenia. Un esercito dove la mano destra non sa quel che fa la sinistra, e dove per rintracciare il comandante della divisione Taman si rivolge la domanda per iscritto a genitori che abitano in capo al mondo piuttosto che telefonare poco distante, al Quartier Generale di Chankala (base militare nei pressi di Groznyj)...
Visto lo stato in cui versava la famiglia, l’agente Abramočkin consigliò caldamente a Nina Levurda di non perder tempo invano e di partire per Rostov sul Don. Gli era già stato comunicato che i resti dell’«ignoto milite» di Uškaloj erano stati trasferiti, in quanto non identificati, all’obitorio centrale di Rostov. Vi lavorava il celebre colonnello Vladimir Ščerbakov, capo del reparto di medicina legale n. 124 incaricato del riconoscimento delle salme. Attenzione, però: il colonnello Ščerbakov se ne occupava non per disposizione di comandanti, colonnelli o quartier generali di sorta, ma per sua personale bontà d’animo e per sua personale convinzione, avendo visto gli sguardi delle sventurate madri che da tutto il Paese convergevano a Rostov in cerca dei figli caduti.
Abramočkin consigliò a Nina di mantenere i nervi saldi, perché «in Russia succede di tutto» e perché disguidi simili erano all’ordine del giorno. Nel frattempo nella storia della famiglia Levurda entra un nuovo personaggio: il Comitato delle madri dei soldati di Brjansk. Fu solo per loro tramite e per tramite dell’agente Abramočkin che l’elitario 15° reggimento e l’ancor più elitaria divisione Taman seppero che il settimo corpo dimenticato dai «compagni» poteva essere quello di Pavel Levurda...
«Arrivammo a Rostov il 20 agosto» ricorda Nina Levurda. «Andai subito al laboratorio. L’ingresso non era sorvegliato. Entrai. Mi infilai nella prima stanza che mi capitò e vidi che sul tavolo settorio c’era una testa mozzata. Anzi no, era un teschio. Accanto ce n’erano degli altri, ma capii subito che era Pavel...».
Si può stimare o compensare il danno morale subìto da Nina?
Certo che no. Del resto è anche vero che il lavoro dei medici legali contempla la presenza di teschi sul loro tavolo, e che se qualcuno entra e li vede...
Resta il fatto che stiamo diventando giorno dopo giorno una nazione di uomini rozzi, primitivi, incapaci di cogliere le sfumature e dunque privi di morale.
Infatti, a una madre sotto sedativi dopo aver visto il teschio del figlio (perché era davvero il teschio di Pavel), si avvicinò prontamente il cosiddetto ‘portavoce’ del reggimento di Pavel, giunto anch’egli a Rostov. Abramočkin si era fatto dare l’indirizzo dalla famiglia, aveva telegrafato e il comandante aveva spedito a Rostov un suo uomo per sbrigare le formalità.
Il portavoce aveva in mano una «notifica». Nina Levurda scorse il foglio e svenne. Il colonnello A. Dragunov, comandante dell’unità 73881, e il colonnello A. Počatenko, capo di Stato Maggiore di quella stessa unità, chiedevano (non si sa a chi) di notificare ufficialmente ai «sigg. Levurda» che «il figlio era caduto in battaglia nell’adempimento di una missione, fedele al giuramento militare, dando prova di coraggio e fermezza». Stavano cercando di coprire le tracce della loro colpevole «dimenticanza».
Ripresi i sensi, Nina Levurda rilesse attentamente la notifica e quel «caduto in battaglia». E vide che il documento non riportava alcuna data.
«Dov’è la data?» chiese Nina al portavoce.
«Scriva lei quella che preferisce» fu la risposta.
«Come sarebbe?» esplose Nina Levurda. «Io so quando ho partorito Pavel, e quello è il giorno in cui è nato. Ho il diritto di sapere in che giorno è morto! Lo voglio sapere!».
Il portavoce allargò le braccia, come a dire che lui non ne sapeva nulla e che gli era stato ordinato di portarle quei fogli e niente più... E le mise in mano un estratto dall’ordine di esclusione del «tenente Levurda dagli elenchi del reggimento», anch’esso senza data e senza spiegazioni di sorta, ma ben fornito di timbri e firme in calce. Con lo stesso candore chiese a Nina Levurda di compilare di suo pugno le parti in bianco e di trasmettere il modulo al commissariato militare di zona, così che Pavel potesse essere cancellato dal registro militare.
Nina Ivanovna non fiatò. Perché perdere tempo a parlare con una persona senza cuore, senza anima e senza cervello?
«È più semplice così, no? Per me è lunga arrivare fino a Brjansk...» continuò, titubante, il portavoce.
Certo che era più semplice. Non fa una piega: essere semplici, senza troppi pensieri, è davvero più semplice. Sergej Ivanov – attuale ministro della Difesa e amico carissimo del presidente Putin sin dai tempi in cui questi lavorava per il KGB/FSB di Pietroburgo – docet. Ogni settimana Ivanov compare in televisione e trasmette i bollettini di guerra del presidente con un tono che ricorda quello di Goebbels nei cinegiornali della seconda guerra mondiale. Ivanov afferma che nessuno ci «metterà in ginocchio davanti ai terroristi» e che la guerra in Cecenia andrà avanti sino alla «vittoria finale»... Mai una parola, però, sulle sorti di coloro – soldati e ufficiali – che garantiscono a lui e al presidente la possibilità di non «inginocchiarsi davanti ai terroristi». La linea politica attuale è prettamente neosovietica: non uomini, ma ingranaggi costretti a realizzare incondizionatamente gli azzardi politici di chi ha preso il potere. Ingranaggi senza alcun diritto, nemmeno quello a una morte dignitosa.
Il difficile è non essere semplici. Intendendo con ciò vedere non solo la «linea generale del partito e del governo», ma anche i particolari della sua messa in atto. Che sono poi questi: il 31 agosto del 2000 la matricola U-729343 ha finalmente avuto degna sepoltura nella città di Ivanovo (dove si erano trasferiti i genitori, accanto alla figlia maggiore e lontano da Brjansk, troppo carica di ricordi). La scientifica ha fatto avere a Nina Levurda la testa di Pavel. Tutto quel che resta di lui.
Oggi Nina Levurda è un volto noto, in Russia. Perché dopo aver consegnato alla terra quei resti che con tanta fatica aveva strappato allo Stato, a nove giorni dai funerali si è messa in viaggio per raggiungere il Quartier Generale del 15° reggimento della divisione Taman, nei pressi di Mosca. Lasciando Ivanovo aveva una sola cosa in mente: guardare negli occhi i comandanti di Pavel e scorgervi almeno un barlume di pentimento per quanto avevano «dimenticato» di fare.
«Non mi aspettavo certo delle scuse...» dice Nina Levurda. «Ma almeno un minimo di compassione e di pentimento...».
Alla divisione Taman, invece, nessuno volle riceverla. Il comandante non era mai disponibile: né il mattino, né durante il giorno, né a sera tarda. Nina Levurda attese di incontrarlo per tre giorni. Senza mangiare, senza bere, senza dormire, senza un minimo di attenzione. Con gli ufficiali che le passavano accanto come scarafaggi, facendo finta di non vederla... Fu lì, in quell’anticamera, che Nina Levurda decise di far causa allo Stato, al ministero della Difesa e al ministro Ivanov per le sofferenze morali che le avevano procurato. La morte del figlio non c’entrava: lui era caduto nell’adempimento del proprio dovere. C’entrava quello che era successo dopo la sua morte.
Tradotto dall’astruso gergo processuale nella lingua di tutti i giorni, il nocciolo delle sue richieste era il seguente: voleva delle risposte. Perché il reggimento aveva abbandonato sul campo di battaglia il corpo del figlio? Perché non era tornato a cercarlo? Perché non le volevano dire com’era morto Pavel? Perché aveva dovuto cercarlo da sola? Chi era il responsabile?...
Questo è quello che accadde. Per prima cosa arrivò la medaglia al valore, consegnatale al commissariato militare di Ivanovo. Per seconda la vendetta. Il ministero della Difesa e la divisione Taman dichiararono guerra a quella madre che aveva osato indignarsi pubblicamente per la loro condotta. Volevano «rimettere in riga» Nina Levurda, incrinare la sua volontà, così da scoraggiare iniziative analoghe.
In poco meno di un anno ci furono otto udienze (la prima il 26 dicembre del 2001, l’ultima il 18 novembre del 2002), tutte inconcludenti. La corte non arrivò nemmeno a discutere la sostanza della causa intentata da Nina Levurda, in quanto – consapevoli della propria impunità – i rappresentanti del ministero della Difesa ignorarono le convocazioni. Avevano ragione: il caso «Nina Levurda contro lo Stato» capitò in mano al giudice Tjulenev (al tribunale intermunicipale della Krasnaja Presnja di Mosca, dato l’indirizzo giuridico del ministero della Difesa), il quale stabilì che la madre «non aveva diritto ad alcuna informazione» riguardo al corpo del figlio, e che dunque il ministero della Difesa non era tenuto a fornirgliene. Nina Levurda si rivolse allora al tribunale municipale di Mosca, da dove – vista l’assurdità della sentenza precedente – la rimandarono alla Krasnaja Presnja per una nuova udienza. Fu l’ennesima tortura della macchina dello Stato ai danni di una madre rimasta senza figlio. I rappresentanti del ministro Ivanov, del comando di fanteria a cui faceva capo la divisione Taman e del 15° reggimento continuarono a boicottare le udienze. Non si presentavano, sistematicamente e sfrontatamente. Volevano prendere Nina per stanchezza. O per assedio. Lei, invece, continuava a fare la spola e ad aspettare... Ogni volta. Avanti e indietro fra Mosca e Ivanovo per ritrovarsi a fissare un banco vuoto. E ripartire a mani altrettanto vuote. Una vecchia pensionata (la pensione minima dei nostri servizi sociali basta giusto a morire di fame) con un marito che dopo i funerali di Pavel si era attaccato alla bottiglia per sfuggire a quel dolore immenso...
Alla fine il giudice Bolonina del tribunale di zona della Krasnaja Presnja, a cui il tribunale di Mosca aveva girato la causa, era esasperata. All’ottava udienza andata deserta, condannò il ministero della Difesa a una multa di ottomila rubli. Soldi che passavano da una cassa all’altra dello Stato. E non dalle tasche del ministro Ivanov a quelle di Nina Levurda. La legge non contempla casi simili, purtroppo. La giurisprudenza in Russia non sta dalla parte del debole, ma di un potere che è già forte di suo. Il 18 novembre del 2002, dopo la multa, i rappresentanti del ministero si presentarono in tribunale. Erano, però, degli strani portavoce: non sapevano nulla del caso, non ne capivano la sostanza e si rifiutavano di fornire le proprie generalità, chiamando in causa la disorganizzazione del ministero, vera responsabile dell’accaduto...
Risultato: l’udienza fu aggiornata al 2 dicembre.
Nina Levurda scoppiò a piangere in un corridoio del tribunale.
«Perché?» chiedeva. «Non se lo sono preso loro, mio figlio?... Non mi hanno trattato come han fatto?...».
Come invidio Sergej Ivanov, ministro di una Difesa spietata con i propri concittadini... Lui e la sua bella vita semplice semplice. Senza ‘dettagli’. Dettagli come gli occhi delle madri che hanno perso i figli in quella «guerra al terrorismo internazionale» di cui, fedele al suo presidente, ama tanto parlare. Non le sente, le voci delle madri, Ivanov. Sono troppo lontane. Non sente il loro dolore. Non sa nulla delle vite che ha spezzato. Delle migliaia di padri e di madri che il sistema ha abbandonato dopo che i loro figli gli avevano sacrificato la vita.
«Putin non può fare tutto» urleranno i fan del presidente.
Certo che no. In quanto presidente, lui risponde del metodo. Dell’approccio. È lui a plasmare i suoi uomini. Si imita chi sta in alto, è così da sempre.
Quanto abbiamo appena descritto è il metodo Putin applicato all’esercito. L’unico e il solo. Putin ha sottoscritto più volte storie simili. Storie che sono la consuetudine nel nostro esercito. E se le ha sottoscritte è anche responsabile della crudeltà e dell’intransigenza introdotte nell’esercito e nello Stato. Perché la crudeltà è un’infezione seria che tende a diventare epidemica. Le prime vittime sono state cecene, e sebbene a molti possa sembrare che il focolaio si sia spento in quei luoghi, così non è. Si è propagato anche contro «i nostri», come si usa patriotticamente dire oggi. Comprendendo fra i «nostri» anche chi ha «patriotticamente» combattuto contro i primi infetti. Ed è ingenuo chi la pensa diversamente.
«È successo, sì... Sì, è morto... Ha fatto la sua scelta ed è andato per la sua strada» dice Nina Levurda asciugandosi le lacrime. Le passa accanto il giudice Bolonina, con la toga e un’espressione imperscrutabile. «Ma siete o non siete esseri umani?...».
Lo sono? Mi chiedo spesso se Putin lo sia. O se è solo una gelida statua di ferro.
Se è un essere umano, non lo dà certo a vedere.
STORIA SECONDAI CINQUANTAQUATTRO SOLDATIOVVERO SI EMIGRA VERSO CASA
Emigrare significa trasferirsi altrove quando l’ulteriore permanenza in Patria costituisce una minaccia per la vita o è causa di massicci attacchi dello Stato all’onore e alla dignità del singolo. È esattamente quello che accadde nell’esercito russo l’8 settembre del 2002. Cinquantaquattro soldati disertarono e cercarono di emigrare.
Andò così. Alla periferia del villaggio di Prudboj, nella regione di Volgograd, si trova il poligono d’addestramento della 20a divisione di fanteria motorizzata. Dalla base di Kamyšin dell’unità 20004, anch’essa nella zona di Volgograd, erano stati mandati al poligono di Prudboj anche gli uomini della 2a divisione.
Lo scopo era nobile: addestrarli. La parte dell’insegnante spettava, com’è ovvio, agli ufficiali, figure paterne o quasi. L’8 settembre, tuttavia, quegli stessi ‘padri’ – il tenente colonnello Kolenikov, il maggiore Širjaev, il maggiore Artem’ev, il tenente Kadiev, il tenente Korostylev, il tenente Kobets e il sottotenente Pekov – si fecero carico di un’inchiesta che a loro non competeva. Al momento dell’adunata annunciarono che avrebbero scoperto gli artefici del furto di un veicolo militare anfibio da ricognizione.
In seguito i soldati avrebbero sostenuto che non era scomparso alcun veicolo. Che era sempre stato dove doveva essere: nel parco macchine della divisione. Ma gli ufficiali erano annoiati, bevevano da giorni, i postumi si facevano probabilmente sentire e avevano deciso di crearsi un diversivo. Non era una novità per il poligono di Kamyšin, che godeva di una pessima fama.
Dopo l’adunata e l’annuncio, nella tenda degli ufficiali venne portato un primo gruppo di soldati: i sergenti Kutuzov e Krutov e i soldati semplici Generalov, Gurskij e Gricenko. Agli altri venne dato ordine di attendere fuori il proprio turno. Di lì a poco udirono le grida e i lamenti dei loro compagni. Gli ufficiali li stavano torturando. Dopo un po’ il primo gruppo venne sbattuto fuori. I soldati raccontarono ai compagni che i ‘paterni’ ufficiali li avevano bastonati sui testicoli e sulla schiena con dei manici di badile e li avevano presi a calci nello stomaco e alle costole.
Ma le parole non servivano. I segni delle percosse erano più efficaci di mille racconti.
Gli ufficiali annunciarono che avrebbero fatto una pausa. Il tenente colonnello, i due maggiori, i tre tenenti e il sottotenente andarono a pranzo, non prima di aver comunicato agli altri soldati che, dopo il pasto, chi non avesse confessato spontaneamente il furto del veicolo sarebbe stato picchiato come chi era riverso sull’erba accanto alla tenda.
Che cosa fecero i soldati? Scapparono... Si ammutinarono, non vollero fare gli agnelli destinati al macello. Al poligono rimase chi era di guardia (in quanto l’allontanamento avrebbe implicato un provvedimento penale, la corte marziale e il battaglione punitivo) e i feriti: Kutuzov, Krutov, Generalov e Gricenko, che non riuscivano a camminare.
I soldati si incolonnarono, uscirono dal poligono e si diressero verso Volgograd. In cerca di aiuto.
La città, però, non era vicina: da Prudboj a Volgograd ci sono quasi centottanta chilometri. Ciò nonostante, i cinquantaquattro soldati percorsero quella distanza in colonna, impeccabili, senza nascondersi, marciando sul ciglio di una strada molto battuta anche dagli ufficiali della 20a divisione. Non si fermò neanche una macchina... Nessuno pensò di informarsi: cos’era successo, dov’erano diretti? Senza un ufficiale, fra l’altro, in palese violazione del regolamento. Nessuno.
I soldati marciarono fino a che fece buio. Per la notte si sistemarono in una radura accanto alla strada, senza nascondersi. Stessa storia: nessuno che li andasse a cercare, benché i vari ufficiali dovessero ormai aver cenato e di conseguenza scoperto che le file della 2a divisione si erano fatte quanto mai rade.
Gli ufficiali, invece, se ne erano andati tranquillamente a dormire. Ignorando dove fossero quei soldati di cui, come vuole la legge, erano personalmente responsabili. Ma sapendo perfettamente che nel nostro Paese nessun ufficiale è mai stato condannato per quanto accaduto a un soldato semplice...
La mattina del 9 settembre, di buon’ora, i cinquantaquattro soldati si rimisero in marcia. A piedi. Lungo la strada. Senza mai nascondersi. Con le solite macchine che passavano loro accanto, eccetera eccetera.
Quel distaccamento di soldati che non avevano perso la propria dignità marciò per un giorno e mezzo e nella 20a divisione nessuno si accorse della loro mancanza. La sera del 9 settembre entrarono a Volgograd. Apertamente. La polizia li vide, ma non mostrò alcun interesse. Nessun ufficiale chiese loro dove fossero diretti... A quell’ora, per di più...
Così incolonnati i soldati marciarono fino al centro della città.
«Erano quasi le sei e stavamo per andarcene, quando è squillato il telefono: “Ci siete ancora? Possiamo passare?”» racconta Tat’jana Zozulenko, responsabile di Diritto di Madre, un’organizzazione di Volgograd che difende i diritti dei genitori dei militari. «“Passate pure” ho risposto. Di certo non mi aspettavo niente del genere. Qualche minuto più tardi nella stanzetta della nostra organizzazione sono entrati quattro soldati. Ci dissero di essere in cinquantaquattro. “Gli altri dove sono?” chiesi. Mi portarono nella cantina del palazzo: erano lì. Sono undici anni che lavoro per l’organizzazione, ma non avevo mai visto niente di simile. La prima cosa che mi passò per la testa fu di chiedere se avessero mangiato. “Niente, da ieri” mi risposero. Le mie colleghe corsero a prendere del pane e del latte e ne portarono quanto più poterono. I ragazzi si avventarono sul cibo come cani affamati. Ma ci eravamo abituate: nell’esercito mangiano malissimo, sono sempre malnutriti. Quando ebbero finito chiesi loro che cosa pensassero di ottenere con quel gesto. “Che gli ufficiali che picchiano i soldati vengano puniti” fu la risposta. Decidemmo che avrebbero passato la notte in ufficio, sul pavimento, e che la mattina ci avrebbe portato consiglio. L’indomani saremmo andati alla procura militare. Chiusi a chiave la porta e me ne andai a casa; abito poco distante, in caso di necessità sarei arrivata in un attimo, pensavo. Alle undici della sera telefonai, ma nessuno mi rispose. Pensai che stessero dormendo, stanchi com’erano. O che magari avessero paura di rispondere. Alle due di notte mi svegliò il nostro legale, Sergej Semušin. Mi disse che degli sconosciuti lo avevano chiamato perché andasse a “prendere in consegna i locali”. Qualche minuto più tardi ero sul posto. C’erano camionette militari ovunque, con a bordo degli ufficiali. Che non si presentarono. I soldati erano scomparsi. Chiesi agli ufficiali dove li avessero portati, ma non ebbi risposta».
I collaboratori di Diritto di Madre scoprirono che i computer contenenti le informazioni relative ai crimini perpetrati all’interno della 20a divisione erano stati manomessi. Sotto il tappeto, però, trovarono il messaggio di un soldato. Diceva che li stavano portando via, che li picchiavano, e chiedeva aiuto...
C’è poco altro da aggiungere. Al poligono si erano accorti di aver ‘perso’ i soldati solo dopo una telefonata dall’alto. Tat’jana Zozulenko aveva chiamato i giornalisti di Volgograd il 9 settembre sera, e la notizia dei soldati in fuga si era diffusa nell’etere. Il Quartier Generale di zona doveva aver chiesto spiegazioni agli ufficiali, che solo allora avevano scoperto il ‘buco’...
Quella notte sotto la sede dell’organizzazione umanitaria arrivarono diverse macchine, e i cinquantaquattro soldati vennero portati prima in guardiola al comando militare e poi di nuovo in caserma. Consegnati a quegli stessi ufficiali dalle cui percosse erano fuggiti. Tat’jana Zozulenko chiese ragione di quel comportamento al procuratore militare di Volgograd Černov (la cui mansione è di far rispettare la legge nei distaccamenti militari). La risposta fu lapidaria: «Quei soldati sono nostri».
«Sono nostri»: queste le parole chiave della storia dei ‘cinquantaquattro’. Un «sono nostri» che significa «sono nostri schiavi». Non c’è altra interpretazione possibile.
Nulla è cambiato, nell’esercito, compreso il concetto perverso dell’«onore d’ufficiale» da difendere sempre e comunque, e che conta più della vita e della dignità dei soldati. La marcia di sfida dal poligono di Kamyšin è in primo luogo la riprova di una tradizione ripugnante e inveterata nell’esercito: i soldati sono schiavi degli ufficiali, gli ufficiali hanno sempre ragione e possono fare quello che vogliono dei propri sottoposti. E in secondo luogo è una conferma che il controllo della società civile sulle strutture militari – tanto auspicato e discusso con El’cin al potere, e sfociato in un progetto di legge – è ormai lettera morta: da sovietico e da militare (che dunque condivide la prima regola dell’esercito), il presidente Putin lo ritiene inutile per le Forze Armate russe.
Un particolare importante: il nocciolo della questione è che la 20a divisione in generale (la cosiddetta divisione Rochlin, dal nome del comandante ed eroe della prima guerra cecena, poi deputato della Duma di Stato) e la compagnia 20004 in particolare, godono ormai di una pessima fama a Volgograd, nel distretto militare del Caucaso Settentrionale e in tutta la Russia.
«Per un intero anno abbiamo mandato alla procura militare – in primo luogo al signor Černov, il procuratore di Volgograd, e poi seguendo la scala gerarchica fino alla procura militare di Mosca – le informazioni sui crimini commessi dagli ufficiali dell’unità 20004» dice Tat’jana Zozulenko. «In termini di lamentele ricevute dai soldati, la 20004 è in cima alla lista. Gli ufficiali picchiano i sottoposti ed estorcono ai soldati di ritorno dalla Cecenia la paga del ‘servizio attivo’ (la 20a divisione ha combattuto entrambe le guerre e sta ancora combattendo in Cecenia)... Non l’abbiamo solo fatto presente, l’abbiamo gridato! Niente da fare... La procura ha scelto la via dell’omertà. Noi pensiamo che quanto è accaduto al poligono di Kamyšin sia la conseguenza logica dell’impunità degli ufficiali».1
Il nostro Paese, è ovvio, ha un budget per le spese militari che genera molte discussioni. La lobby dei militari lotta per nuovi investimenti e nuove commesse a carico dello Stato. Come ovunque nel mondo. Niente di cui scrivere. Sono problemi comuni a tutti i Paesi, problemi globalizzati... C’è, però, una differenza sostanziale fra noi e gli altri: il nostro Paese produce e vende armi in tutto il mondo e al mondo ha dato anche i ‘kalashnikov’. Un fiore all’occhiello, per molti russi.
Non voglio, tuttavia, riempirvi la testa con le cifre dei nostri successi nel campo dell’economia militare. Il mio punto di vista è un altro: la gente è felice nell’ordine che il presidente Putin ha instaurato? È questo il criterio principale per giudicare l’operato di un capo di Stato. È per rispondere a questa domanda che sono andata al Comitato delle madri dei soldati e ho chiesto alle donne che ho incontrato se i loro figli erano felici di far parte dell’esercito, se l’esercito li aveva resi degli uomini veri.
È così che ho conosciuto un altro esercito.
QUALCHE ALTRA STORIA
I particolari contano più del quadro in sé. Le parti valgono più dell’intero. Così la penso io, per lo meno.
... Miša (Michail) Nikolaev viveva in provincia di Mosca. Partì per il servizio militare nel 2001 e si ritrovò nelle truppe di frontiera in un lontanissimo posto di confine (dieci ore di volo dalla capitale) presso il villaggio di Gorjačij Pljaž, sull’isola Anučina dell’arcipelago delle Piccole Kurili, le stesse per le quali i politici russi e giapponesi si accapigliano fin dalla seconda guerra mondiale.
Mentre loro litigano, però, qualcuno deve proteggere i confini. Miša era uno degli addetti a quella mansione. Rimase al suo posto di frontiera per sei mesi. Morì il 22 dicembre 2001.
Già in autunno, però, i genitori avevano ricevuto le prime lettere preoccupate: Miša aveva trovato sul suo corpo delle strane piaghe purulente. «Mandatemi delle medicine» chiedeva. «Un unguento, dei sulfamidici e qualunque cosa contro le suppurazioni, metapirina, antisettici, fasce e cerotti... Qua non c’è niente». I genitori spedivano pacchi su pacchi senza fare una piega, consapevoli che il nostro esercito non ha soldi e pensando, nel contempo, che la situazione non fosse tanto tragica, dato che Miša continuava a prestare servizio come cuoco alla mensa. Se fosse stato grave, pensavano i genitori, non l’avrebbero certo fatto avvicinare ai pentoloni del rancio...
E difatti, pur con le sue suppurazioni Miša continuava a preparare da mangiare per tutti. Nel corso dell’autopsia sul cadavere di Miša, il patologo constatò che i tessuti dello sventurato si sfaldavano letteralmente sotto il bisturi: all’inizio del XXI secolo un soldato si era putrefatto vivo sotto gli occhi degli ufficiali senza ricevere la minima assistenza medica. Nulla poté salvare Miša dall’indifferenza di ufficiali che avevano altro a cui pensare.
... Dmitrij Kiselev era stato destinato al paesino di Istra, nei pressi di Mosca. Un vero colpo di fortuna. Era vicino a Mosca, e i genitori – che a Mosca vivevano – potevano andarlo a trovare e bussare alla porta del comandante in caso di bisogno. Non erano le Kurili, insomma. Non per questo Dmitrij ebbe salva la vita. La responsabilità, in questo caso, è da attribuire alla depravazione degli ufficiali.
Il tenente colonnello Aleksandr Boronenkov, comandante dell’unità in cui era finito il soldato Kiselev, arrotondava le sue entrate da ufficiale con qualche extra. Niente di strano nell’esercito di oggi, dove tutti cercano di incrementare la misera paga che ricevono. Quel particolare tenente colonnello, tuttavia, era uno schiavista: vendeva i suoi soldati ai proprietari delle tenute adiacenti (Istra è un villaggio di seconde case) come manodopera a basso costo. I soldati ricevevano di che sfamarsi e i soldi li intascava il comandante Boronenkov. Uno schema tutt’altro che unico nel suo genere e che non è stato Boronenkov a inventare. Si tratta, anzi, di una pratica diffusa nell’esercito: durante la ferma i soldati vengono ceduti a ricchi signori come operai non retribuiti. Dunque come schiavi. Sono merce di scambio per i ‘bisogni’ dei propri superiori. Se, per esempio, un ufficiale deve farsi riparare la macchina ma non ha i soldi, manda in officina qualche soldato, che ci lavorerà gratis per tutto il tempo che il meccanico riterrà necessario.
Alla fine di giugno del 2002 anche la recluta Dmitrij Kiselev fu mandata a fare lo schiavo e a costruire la casa di un tal Karabutov, membro dell’Associazione orticola Mir con sede nella zona di Istra. Da principio Dmitrij fu assegnato ai lavori edili. Poi, insieme ad altri sette schiavi-soldati, dovette scavare una profonda trincea tutto attorno alla tenuta. Il 2 luglio, alle sette di sera, il terreno cedette e seppellì tre ragazzi, tra cui Dmitrij, che morirono soffocati. I genitori citarono in giudizio il tenente colonnello Boronenkov, che riuscì a cavarsela grazie ai suoi ‘agganci’. Dmitrij era figlio unico...2
... Il 28 agosto del 2002 nell’unità militare 42839, di stanza in Cecenia non lontano dal villaggio di Kalinovskaja – dove non si combatteva da tempo –, i ‘nonni’ non facevano che ubriacarsi. I ‘nonni’ sono soldati semplici ormai prossimi al congedo e sono la componente più crudele e assassina dell’esercito. Una sera i ‘nonni’ videro che la vodka cominciava a scarseggiare e decisero di mandare in paese il primo soldato che capitò loro a tiro, Jurij D’jačenko. «Vanne a prendere ancora» gli dissero. Il soldato si rifiutò. Primo perché in quel momento era di guardia, a difendere il perimetro dell’unità, e non aveva diritto di lasciare il suo posto. Secondo perché non aveva soldi. Lo fece presente ai ‘nonni’, che gli dissero di rubare in paese pur di procurar loro da bere.
Jurij fu irremovibile: «No. Non ci vado». Lo picchiarono a lungo, selvaggiamente. Fino alle cinque di mattina. Negli intervalli i ‘nonni’ lo sottoposero a umiliazioni crudeli e triviali. Infilavano uno straccio da pavimenti nella latrina e glielo sbattevano in faccia... Lo costringevano a pulire il pavimento e quando si chinava, a turno, gli piantavano il manico dello scopone nell’ano... Per concludere la «lezione» (come l’avevano chiamata), i ‘nonni’ trascinarono Jurij in mensa e gli fecero mandar giù tre litri di kaša, la minestra di cereali, picchiandolo quando li implorava di smettere.
Dov’erano gli ufficiali? Erano ubriachi anche loro, quella notte, e non si resero conto di nulla. Il 29 agosto, verso le sei del mattino, Jurij D’jačenko venne trovato in un angolo del deposito vettovagliamenti. Si era impiccato...
... La Siberia non è la Cecenia, è molto lontana da lì e dalla guerra. Ma non basta a cambiare le cose. Valerij Putincev, un ragazzo nato nella regione di Tjumen, era stato destinato a Užur, capoluogo di provincia non lontano da Krasnojarsk, nei reparti d’élite delle Unità missilistiche strategiche. La madre, Svetlana Putinceva, ne era stata molto felice, dato che si è soliti credere che quelle unità abbiano gli ufficiali più qualificati, gente che – dovendo maneggiare le armi più moderne e più pericolose che ci siano – non beve, non picchia i soldati e mantiene la disciplina. Di lì a poco, però, Svetlana cominciò a ricevere delle lettere in cui il figlio definiva «sciacalli» i suoi superiori.
Cara mamma! Fa’ in modo che questa lettera non finisca mai in mani altrui. Soprattutto in quelle della nonna. Penso che tu capisca cosa voglio dire, e so che non permetterai che quel poco di salute che le rimane venga compromesso: sto molto in pena per lei. Non riesco a rassegnarmi a fare lo schiavo per gente che odio. Se c’è una cosa che voglio è lavorare per il bene degli altri e della mia famiglia, di cui solo qui ho capito l’importanza...
Valerij non sarebbe riuscito a «lavorare per il bene degli altri». Nella caserma di Užur gli ufficiali non avevano freni. I sottotenenti rubavano ai soldati fino all’ultimo copeco, maltrattando chi cercava di salvaguardare la propria dignità come Valerij. Nei sei mesi che vi passò, dalla caserma uscirono quattro bare, tutte di soldati semplici. Tutti picchiati a morte.
Per prima cosa gli ufficiali gli portarono via l’uniforme (e un soldato russo non ha altri abiti che la sua divisa) e gli dissero che per riaverla doveva pagare un «riscatto». Va da sé che Valerij avrebbe dovuto scrivere a casa chiedendo che gli mandassero «urgentemente» dei soldi. Non lo fece, consapevole che la madre non era in grado di spedirgli del denaro: lei, la nonna pensionata, sua sorella e la nipotina già facevano una vita molto modesta. Quel rifiuto costò a Valerij percosse brutali e ripetute. A un certo punto non resse e reagì: fu subito spedito in guardiola per insubordinazione. Dopo di che venne simulato un tentativo di evasione in cui Valerij fu ferito gravemente... Allarmata, la madre telefonò al comandante, il tenente colonnello Butov, che la ‘tranquillizzò’ dicendole di non preoccuparsi, che lì sapevano come picchiare la gente senza lasciare segni. Svetlana mollò tutto e prese un aereo per Užur. E trovò il figlio in fin di vita. Aveva delle ferite d’arma da fuoco al pube, alla vescica, all’uretere e all’arteria femorale. All’ospedale le dissero di trovare lei il sangue per le trasfusioni: «E alla svelta. Noi non ne abbiamo!». Servivano dei donatori... Ma Svetlana era sola, in una città che non era la sua... Corse in caserma a chiedere aiuto, e il comandante glielo rifiutò. Vagò per la città tentando di fare qualche cosa per il figlio. Non ci riuscì. Il suo ragazzo morì il 27 febbraio del 2002, senza trasfusione.
In una delle sue ultime lettere così aveva scritto a Svetlana, profetico: «Non faccio conto sul loro aiuto. Sono capaci solo di umiliarci senza motivo...».
... Ancora una volta in provincia di Mosca. Villaggio di Balašicha. Unità militare 13815. 4 maggio 2002, mattina. Due addette alla caldaia che riscalda la caserma sentono delle grida d’aiuto poco distante. Si precipitano in cortile e vedono che nel mezzo c’è una trincea con un soldato interrato fino al collo. È lui che chiede aiuto. Le donne scavano, tagliano la corda che lo lega mani e piedi e lo aiutano a uscire.
Compare, infuriato, il maggiore Aleksandr Simakin. Urla alle donne di non toccare niente, che quello è il suo modo di educare il soldato Česnokov, e che se non ritornano subito alla loro caldaia «le farà licenziare».
Una volta fuori della fossa, il soldato Česnokov disertò.
POST SCRIPTUM. In Russia l’esercito – uno dei pilastri istituzionali dello Stato – continua a essere un campo di concentramento per i giovani che finiscono dietro il suo filo spinato. Un campo con relative norme di convivenza paracarcerarie imposte dagli ufficiali. Un luogo in cui il primo metodo educativo è quello di «stanarli e ammazzarli fin nel cesso» (il primo slogan che il neoletto Putin ha usato per scandire la sua lotta con i nemici all’interno della Russia).
È probabile che ciò aggradi al nostro attuale presidente, con le sue mostrine da tenente colonnello e con due figlie che non dovranno fare il servizio militare. A noialtri, invece (eccezion fatta per la casta degli ufficiali, perfettamente a loro agio nel ruolo dei fuorilegge impuniti), certe cose fanno soffrire. Soprattutto a chi ha dei figli maschi. E tanto più a chi li ha in età di leva, e dunque non ha tempo di aspettare quelle riforme dell’esercito promesse da tempo, ma che finiranno immancabilmente insabbiate. Ragazzi che rischiano di finire direttamente al poligono di Kamyšin, in Cecenia, o in qualunque altro luogo da cui non si torna.
IL NOSTRO NUOVO MEDIOEVO
OVVERO
CRIMINALI DI GUERRA DI TUTTE LE RUSSIE
Al momento in Russia ci sono due tipi di criminali di guerra. I loro misfatti hanno a che vedere con la seconda guerra cecena, iniziata nell’agosto del 1999 (con la nomina di Vladimir Putin a primo ministro da parte del presidente El’cin), durata per tutto il tempo del primo mandato presidenziale di Putin e tuttora in corso.
I crimini di guerra hanno una caratteristica comune: l’ideologia più che la giustizia. Inter armas silent leges, come si suol dire: in tempo di guerra la legge tace. I colpevoli non sono stati condannati secondo la procedura giuridica determinata dalle leggi, ma in base alle folate dei venti ideologici che spiravano dal Cremlino in quel dato momento.
Il primo tipo di criminali comprende coloro che in guerra ci sono effettivamente stati e hanno combattuto. Essi sono, da un lato, i militari russi che hanno partecipato alle cosiddette «operazioni antiterrorismo» in Cecenia, e dall’altro i guerriglieri ceceni sul fronte opposto. I primi hanno visto cancellati i propri misfatti. I secondi si vedono affibbiare ogni sorta di crimini. I primi vengono assolti dal sistema giudiziario anche in presenza di prove certe (e pure questo è un fatto raro, in quanto la procura si preoccupa raramente di raccogliere le prove della loro colpevolezza). I secondi ricevono condanne severissime.
Il caso ‘russo’ più noto è quello del colonnello Budanov, comandante del 160° reggimento carristi del ministero della Difesa russo, che il 26 marzo del 2000 (giorno in cui il presidente Putin fu eletto) rapì, stuprò e uccise El’za Kungaeva, diciottenne cecena che viveva con i genitori nel villaggio di Tangi-Ču, alla cui periferia era temporaneamente di stanza il reggimento del colonnello Budanov.
Il caso ‘ceceno’ più noto è quello di Salman Raduev. Celeberrimo comandante e generale di brigata responsabile di attacchi terroristici sin dalla prima guerra cecena, nonché a capo del cosiddetto «Esercito del generale Dudaev», Raduev venne catturato nel 2001 e condannato all’ergastolo; morì in circostanze mai chiarite nella prigione di massima sicurezza di Solikamsk (nota città ‘penitenziaria’ degli Urali, nella regione di Perm’, dove si trovano delle miniere di salgemma; sin dai tempi degli zar è stata luogo di deportazione ed esilio per molte generazioni di russi). Raduev era il simbolo del guerriero indomito che combatte per l’indipendenza della Cecenia. Processi come il suo sono eccezioni, e di norma si svolgono a porte chiuse, così da non lasciar trapelare informazioni all’esterno (anche se il motivo di una tale scelta resta oscuro). È capitato – anche se raramente, in segreto e con grande fatica – di poter visionare i materiali processuali contro i guerriglieri, ed è risultato che si trattava di processi ideologici ‘al contrario’: i crimini venivano ascritti senza curarsi di trovare le prove. «Condannare sempre e comunque», questo il principio da seguire.
La prima categoria di criminali di guerra, dunque, russi o ceceni che fossero, non ha mai avuto un processo degno di questo nome. E la conseguenza principale è che, emesso il verdetto, i combattenti ceceni non sopravvissero a lungo in colonie o prigioni lontane. Morirono tutti in circostanze poco chiare, «tolti di mezzo» per espresso desiderio del potere. Alcuni sondaggi sull’argomento hanno rivelato che il governo e il presidente sono ritenuti responsabili di tali morti anche da quella parte della popolazione che è loro favorevole: in Russia nessuno – o quasi – crede che la giustizia sia imparziale, e anzi la considera politicamente schierata.
La seconda categoria di criminali di guerra è costituita da coloro che erano nel posto sbagliato al momento sbagliato. Persone finite tra gli ingranaggi della storia. Uomini e donne che non hanno mai combattuto, ma che sono nati ceceni e che perciò vanno condannati. Un caso tipico è quello di Islam Chasuchanov. Un caso che ci riporta al 1937, l’annus horribilis delle purghe staliniane. È come se Stalin fosse ancora vivo e la Čeka ancora in forze: confessioni strappate a furia di botte, torture, uso di droghe psicotrope allo scopo di spezzare la volontà dell’imputato... Questo il calvario di buona parte dei ceceni finiti nelle celle dell’ex KGB o di altre istituzioni analoghe che in Cecenia hanno carta bianca, come i ‘kadyroviani’, un gruppo di sostenitori di Ahmat-Haci Kadyrov, capo del governo fantoccio filomoscovita, che torturano nei comandi militari, nelle fosse scavate nelle caserme, nelle celle di isolamento dei commissariati di polizia...
A capo di tutto c’è l’ex KGB. Gli uomini di Putin. Che godono del suo sostegno. Che esaudiscono ogni suo desiderio.
PARTE PRIMA
STALIN SARÀ SEMPRE CON NOI
ovvero: Islam Chasuchanov: «... con quattordici fratture alle costole, una scheggia conficcata in un rene, il cranio fracassato, le braccia spezzate... non penso che sopravviverò».
Dossier
Chasuchanov Islam Šeich-Achmedovič, nato nel 1954 in Kirghizia. Nell’esercito dal 1973. Diplomato all’Istituto politico superiore della Marina militare di Kiev. Nella Flotta del Baltico dal 1978. Dal 1989 nella Flotta del Pacifico. Nel 1991 si laurea all’Accademia politico-militare Lenin di Mosca. Quale ufficiale sommergibilista formatosi all’Accademia militare, entra di diritto nell’élite della Flotta. Nel 1998 si congeda con il grado di capitano di primo rango e mansioni di comandante in seconda del sottomarino atomico B 251. Nel 1998 si stabilisce a Groznyj. Nel governo di Aslan Maschadov, dirige l’Ispettorato militare e diventa capo di Gabinetto del presidente. Sposato, due figli. Si risposa in seconde nozze con la nipote (figlia del fratello maggiore) di Aslan Maschadov. Non ha combattuto in nessuna delle due guerre cecene. Non si è mai dato alla macchia. Ha sempre usato documenti autentici. Arrestato il 20 aprile del 2002 nella cittadina di Šali dai reparti speciali dell’FSB in quanto «terrorista internazionale» e «organizzatore di formazioni armate illegali». Condannato dalla Corte Suprema della Repubblica dell’Ossezia-Alanija Settentrionale a dodici anni di reclusione da scontarsi in un carcere a regime duro.
La preistoria del processo
Che cosa succede a chi finisce nelle mani dell’FSB? Non della Čeka del ’37, quella di Solženicyn, del Gulag e di tanti libri tremendi, ma quella attuale, foraggiata dai contribuenti?
Ultimamente in Russia se ne parla molto e i timori crescono. Nessuno ne sa niente, ma tutti la temono come un tempo. E come un tempo solo di rado qualcosa trapela. Come con Chasuchanov. Solo dopo aver appreso i tremendi particolari del suo caso si può comprendere il significato – scioccante – di quel che l’imputato Islam Chasuchanov disse prima che fosse emessa la sentenza: «Nel settembre del 2000 c’erano molte scelte di Maschadov che non condividevo, non gliene facevo mistero, vedevo altre strade possibili... Ora, dopo quello che ho passato, riconosco che aveva ragione lui».
Stando alla documentazione del procedimento penale n. 56/17, Islam Chasuchanov era stato arrestato il 27 aprile del 2002 in via Majakovskij, a Šali, per «possesso di armi da fuoco». Ex articolo 222 del Codice penale della Federazione Russa. Ciò significa che le armi in oggetto erano state rinvenute, giusto?
Sbagliato. Gli uomini armati e mascherati – come spesso accade in Cecenia – che irruppero all’alba nella casa di certi parenti di Chasuchanov dove egli viveva con la famiglia, e lo portarono via, non gli puntarono addosso nemmeno le proprie, di armi: Chasuchanov era disarmato. Ma i reparti speciali russi che operano in Cecenia per stanare i «terroristi internazionali» fanno conto da tempo sulla propria impunità. In quel caso, poi, avevano agito in seguito a una soffiata, e a colpo sicuro erano andati a prelevare un «comandante delle formazioni armate illegali» la cui sorte era già stata decisa: morire... Con queste premesse è chiaro perché le carte processuali non abbiano riportato notizia di pistole o mitra quali prove a carico.
L’articolo rimase comunque il 222. Falso, come falsa era la data in cui Chasuchanov risultava prelevato, il 27 aprile. In realtà l’arresto era avvenuto il 20, ma i vuoti temporali sono una peculiarità delle nostre «operazioni antiterrorismo». La prima settimana è la più tremenda. Chi è stato catturato pare non esistere più: non figura trattenuto in nessun comando, i parenti lo cercano ovunque, ma lui non c’è, sparito. Sono i giorni in cui i reparti speciali gli cavano di bocca quel che devono.
Chasuchanov non ha ricordi distinti della settimana dal 20 al 27 aprile. Giusto qualche barlume sfocato, come durante un’agonia: botte, iniezioni, altre botte, altre iniezioni... Nient’altro.
Dal verbale dell’udienza, a dieci mesi da quella settimana tremenda, apprendiamo quanto segue: «Durante i primi sette giorni fui rinchiuso nella sede dell’FSB di Šali, dove venni picchiato. Da allora ho quattordici fratture alle costole, una scheggia conficcata in un rene...».
Che cosa volevano fargli confessare prima che morisse per le percosse?
Volevano che li portasse da Maschadov, dopo di che poteva anche crepare. Il problema era che Chasuchanov non parlava. E, data la salute di ferro di chi ha servito sui sottomarini, nemmeno si decideva a morire...
Il 30 aprile, dunque, le accuse contro di lui vennero formalizzate. Per far questo, e con il nullaosta dell’allora procuratore della Cecenia Aleksandr Nikitin, Chasuchanov venne trasferito nel carcere di isolamento temporaneo di un’altra cittadina cecena: Znamenskaja. Lo stesso carcere che il 12 maggio del 2003 sarebbe stato raso al suolo da una kamikaze. Giustizia è fatta, avrebbero detto tutti in Cecenia dopo quell’esplosione. Troppa gente era stata torturata e poi sepolta in segreto, lì attorno...
Chasuchanov arrivò a Znamenskaja più morto che vivo. Un pezzo di carne che respirava ancora. Le torture ripresero, agli ordini del tenente colonnello Anatolij Čerepnev, sostituto del giudice titolare della sezione inquirente facente capo alla direzione dell’FSB in Cecenia. Čerepnev assunse la direzione investigativa dell’ affaire Chasuchanov: era lui a decidere il livello delle torture inflitte allo scopo di carpire delle deposizioni. Che cosa voleva Čerepnev?
Dal verbale del processo:
«Perché le è stata usata violenza?».
«Gli interrogatori avevano un solo scopo: scoprire dove si trovava Maschadov e dov’era il sottomarino che a sentir loro avrei voluto rubare. La violenza aveva sempre a che fare con queste due domande...».
Quanto al punto uno le cose erano più o meno chiare: Chasuchanov non li portò da Maschadov, né avrebbe potuto farlo, dato che l’ultima volta che l’aveva visto era stato nel 2000, quando ancora non aveva alcun ruolo direttivo, e dato che se doveva parlare con lui lo faceva solo virtualmente, tramite audiocassette: quando aveva bisogno di Chasuchanov, Maschadov incideva il suo messaggio e glielo faceva pervenire tramite un messo (ed era stato proprio un messo a tradirlo). Chasuchanov rispondeva di rado. L’ultima volta che Maschadov gli aveva fatto arrivare una cassetta era stato nel gennaio del 2002. Chasuchanov aveva deciso di rispondergli due giorni prima dell’arresto, in aprile... Che cosa c’era in quelle cassette? Di solito Maschadov gli chiedeva di annotare (per la storia, probabilmente) quanti soldi aveva consegnato al tal comandante. Del perché avesse scelto di affidare quel compito a Chasuchanov daremo conto in seguito.
Ma torniamo al sottomarino, perché è una storia degna di essere raccontata nel dettaglio. Vi ricordo che Chasuchanov era un ufficiale sommergibilista, l’unico ceceno che sia mai stato ufficiale di un sommergibile atomico in era sovietica e postsovietica. Čerepnev, dunque, prova a incriminarlo per aver «pianificato il furto di un sottomarino nucleare allo scopo di impadronirsi di una testata atomica con la quale prendere in ostaggio dei deputati della Duma e chiedere di modificare la costituzione della Federazione Russa minacciando di far esplodere la carica atomica e di uccidere gli ostaggi» (cito dalla lettera che Čerepnev mandò alla procura cecena chiedendo che l’ordine di carcerazione fosse prolungato. Così fu).
Ci prova, ma non ci riesce. Chasuchanov non cede. Perché anche in questo caso non può farlo. Nel 1992, infatti, aveva «costruito» personalmente (come si dice in Marina per indicare chi, in rappresentanza del futuro equipaggio e già sapendo che vi presterà servizio, segue la costruzione del sommergibile in cantiere) il sottomarino che Čerepnev voleva fargli rubare. Un sottomarino che gli era caro più di qualunque altro, tanto da non poter desiderare di rubarlo...
Čerepnev prepara con grande cura la storia del «ratto del sommergibile». L’FSB si inventa e falsifica documenti che i guerriglieri ceceni avrebbero scritto sulla base dei dati forniti loro da Chasuchanov: un «Piano di lavoro per un atto di sabotaggio sul territorio della Federazione Russa con mappe autoredatte della base della IV Flottiglia sottomarina atomica della Flotta del Pacifico...» e un «Piano per un’azione diversiva sul territorio russo». Con la postilla: «Il piano delle operazioni è stato stilato sulla base di ispezioni visive e personali nella regione di nostro interesse nel dicembre del 1995». Chasuchanov avrebbe dovuto firmare in calce.
Ma non lo fa. Continuano, dunque, a picchiarlo con metodi sempre nuovi, anche se – a onor del vero – c’è poco che non abbiano ancora sperimentato. Se ora lo picchiano, però, è perché sta mandando a monte i loro progetti...
L’unica cosa che Čerepnev riesce a strappare a un Chasuchanov stordito dal dolore e dalle droghe è di firmare («vistare», come si sarebbe detto poi nella condanna) i fogli bianchi «degli ordini e delle disposizioni di battaglia di Maschadov». Čerepnev li avrebbe poi riempiti con quel che riteneva più opportuno. Un esempio:
Il 2 settembre del 2000 Chasuchanov dà disposizione ai comandanti in campo di gettare chiodi, bulloni, dadi e puntine su strade, autostrade e vie di circolazione delle forze federali così da poter nascondere mine e cariche esplosive [...]. Avvalendosi del proprio ruolo guida all’interno delle formazioni armate illegali, Chasuchanov induce altri membri delle medesime a compiere atti terroristici intesi a contrastare l’introduzione di un ordine costituito sul territorio della Repubblica Cecena...
Čerepnev, inoltre, costringe Chasuchanov a firmare i verbali d’interrogatorio senza rileggerli. E questo è quel che ne deriva:
Domanda [che si suppone posta da Čerepnev]: «Le è stata mostrata la fotocopia di un appello agli ufficiali russi, il n. 215 del 25 novembre 2000. Che cosa può testimoniare al riguardo?».
Risposta [che si suppone data da Chasuchanov]: «Quella di redigere e diffondere documenti analoghi era una parte rilevante della propaganda svolta dalla centrale operativa delle Forze Armate della Repubblica Cecena di Ičkerija alle mie immediate dipendenze. I messaggi succitati erano intesi a contrastare le informazioni fornite dai mass media russi riguardo allo svolgersi delle operazioni antiterrorismo. Ero consapevole che la diffusione di materiali simili poteva destabilizzare la situazione in territorio ceceno, ma ho continuato a farlo...».
Tipico gergo militare. È nel mese in cui preparano materiale simile che Chasuchanov viene torturato, a Znamenskaja.
Dai verbali del processo:
«Quando ormai le percosse mi avevano ridotto a non capire niente e a non opporre la minima resistenza, mi vennero fatte delle iniezioni e venni trasferito all’FSB dell’Ossezia del Nord. Il carcere di isolamento non volle prendermi in consegna in quanto il loro medico sosteneva che sarei morto nel giro di un paio di giorni per le percosse subite in precedenza; ragion per cui mi portarono in una segheria, la fabbrica JaN 68-1».
«Ha ricevuto cure mediche?».
«Mi hanno lasciato lì per tre mesi».
Una «segheria»? È un luogo che compare di rado nelle storie dei dispersi in Cecenia dopo le purghe. Chi ci è stato ed è sopravvissuto usa un termine d’epoca staliniana – «ammasso del legname» – o la chiama, appunto, «segheria». La denominazione ufficiale è fabbrica JaN 68-1, di competenza del ministero della Giustizia della Repubblica dell’Ossezia del Nord.
Di sicuro si sa che accoglie chi è stato picchiato a sangue dai funzionari delle varie polizie segrete (in primo luogo l’FSB) e che chiude un occhio sul fatto che non abbiano documenti. I suoi ospiti sono le non-persone scomparse senza lasciare traccia dopo l’incontro con i federali.
Abbiamo un grosso debito di gratitudine verso chi lavora nelle «segherie», in quanto accolgono contro ogni legge persone fuori della legge, salvando da morte certa molti di coloro che dovevano essere passati per le armi strada facendo, e con i quali i federali non avevano voluto sporcarsi le mani. Nessuno sa in quanti vi siano morti durante la seconda guerra cecena senza lasciare nemmeno un tumulo di terra dietro di sé. Si sa, invece, quanti sono sopravvissuti. Chasuchanov è uno dei miracolati. Ne ha avuto pietà una guardia. Una pietà che significava latte fresco portato da casa ogni giorno.
Dunque Chasuchanov risorge per l’ennesima volta e per l’ennesima volta si trova di fronte Čerepnev. Alla direzione dell’FSB ceceno vige la regola che chiunque sopravviva agli interrogatori abbia diritto a un processo. Sopravvivono in pochi, ragion per cui pochi sono anche i processi a carico dei «terroristi internazionali». Qualcuno, però, bisogna celebrarlo, qualche «terrorista» va processato, perché può sempre capitare che i leader occidentali ne chiedano conto a Putin, che girerà la questione all’FSB e alla Procura Generale. Che si daranno da fare. Sempre che qualcuno sopravviva...
Vladikavkaz
Vladikavkaz è la capitale della Repubblica dell’Ossezia-Alanija del Nord, ai confini con la Cecenia e l’Inguscezia. L’Ossezia partecipa a pieno diritto alle «operazioni antiterrorismo». In Ossezia si trova Mozdok, la più importante base militare federale, in cui si addestrano le truppe prima di mandarle in Cecenia (per questo nel 2003 Mozdok è stata teatro di due grossi attentati kamikaze: il 5 giugno, quando una donna si è fatta saltare in aria dopo esser salita su un autobus che trasportava dei piloti, e il 1° agosto, quando un kamikaze alla guida di un camion con una tonnellata di esplosivo è andato a schiantarsi contro l’ospedale locale).
Vladikavkaz è dunque, per tradizione, la sede di molti processi farsa contro «terroristi internazionali», con gli avvocati locali che collaborano con la corte e la procura e sostengono l’FSB nel suo sforzo di stanare i suddetti «terroristi».
Vladikavkaz è anche la sede prediletta dagli uomini dell’FSB in Cecenia, che lì portano le loro vittime per interrogarle. Perché è sempre meglio starsene alla larga dalla guerra vera.
Così accade anche a Chasuchanov. Čerepnev arriva a Vladikavkaz con il suo prigioniero e per prima cosa gli trova un avvocato, in quanto – si badi bene – dal 1° luglio del 2003 la Russia ha un nuovo, avveniristico Codice di Procedura penale a livello europeo, che – fra le altre cose – vieta di interrogare un sospettato in assenza del suo legale. Ciò non di meno, «se necessario», le cose continuano ad andare come un tempo, e dal 20 aprile al 9 ottobre del 2002 Chasuchanov non ha nessuno che lo difenda. Nessuno. Per sei mesi. Fino a che le ossa del cranio e delle braccia, oltre che le costole, non gli si sono saldate rendendolo nuovamente presentabile.
Ancora una volta, i particolari del caso sono degni di interesse. L’8 ottobre Čerepnev convoca Chasuchanov per un interrogatorio e gli impone di firmare una richiesta a lui rivolta. Gli detta quanto segue: «Chiedo che mi sia procurato un avvocato per l’inchiesta preliminare [...]. Fino a oggi non ho avuto bisogno dei servigi di un legale, ragion per cui non ho lamentele da muovere agli organi inquirenti [...]. Chiedo che l’avvocato venga scelto a discrezione del giudice per l’indagine preliminare...».
Dunque il 9 ottobre Chasuchanov viene interrogato in presenza di Aleksandr Dzilichov, il suo avvocato. Va da sé che Chasuchanov non lo ritiene tale. Crede si tratti di un agente dell’FSB3 e Dzilichov non fa nulla per convincerlo del contrario: non gli fornisce assistenza legale e si limita a presenziare senza mai aprire bocca.
Dai verbali del processo:
«Può dire se c’è una qualche differenza tra le deposizioni da lei rese prima e quelle rese dopo che le è stato assegnato un avvocato?».
«Una differenza c’è. Prima, alla fine di un interrogatorio non mi facevano leggere i verbali; da che c’è l’avvocato, invece, sì...».
Chasuchanov viene interrogato tre volte in presenza del suo difensore: il 9, il 23 e il 24 ottobre. Più precisamente, in quelle tre occasioni Čerepnev copia le testimonianze estorte a Znamenskaja su nuovi moduli, trasformandole in deposizioni «in ottemperanza al Codice di Procedura penale».
Il 25 ottobre Čerepnev decide che l’inchiesta è terminata. E annuncia a Chasuchanov che di lì a poco riceverà il testo dell’incriminazione. Quel che gli chiede è di firmarlo prima possibile. Tanto perché non si faccia illusioni, il 29 e il 30 ottobre Chasuchanov viene messo in isolamento. Senza avvocato, ovviamente... Dove di preciso, non lo saprà mai, visto che gli infilano un sacco in testa. Il perché, invece, lo scopre presto, dato che i secondini armano i fucili e gli dicono: «Sei spacciato».
Va da sé che è tutta una messinscena per spaventarlo, perché non faccia storie e firmi la condanna con quel che c’è scritto.
E lui firma, è ovvio... Chi ha avuto puntato contro un fucile sa che è difficile opporre resistenza. Chi non lo sa, si legga Dostoevskij.
Chasuchanov, dunque, non cede. In seguito, durante il processo, ritratterà anche i fatti su cui si basa la condanna (che verrà, però, confermata dal nuovo procuratore della Cecenia, Vladimir Kravčenko, e il cui testo migrerà quasi per intero nel verdetto del giudice Valerij Džioev).
Affinché sia chiaro come certi casi siano inventati a tavolino e come nessuno tra coloro che li inventano tema alcunché avendo dalla propria le alte sfere (non temono nemmeno che le carte restino a futura memoria, per quella storia che in Russia, come sempre accade, sarà riscritta negli anni a venire), riporto ora alcuni brani che non necessitano di ulteriori commenti.
Nell’aprile del 1999 il sig. Chasuchanov [...] entra volontariamente in una formazione armata, la cui esistenza non era contemplata dalle leggi federali [...]. Chasuchanov prende contatto con un uomo di Maschadov, Chambiev Magomedov, che gli propone di usare la sua esperienza per aiutare Maschadov a organizzare il neonato «Ispettorato militare»...
È chiaro fin qui? Si sta dicendo che, dopo essersi congedato dall’esercito, Chasuchanov torna a casa, a Groznyj, e in quanto ufficiale con una formazione accademica alle spalle – caso unico in Cecenia – viene invitato da Maschadov a lavorare per il governo, che nel 1999 era un governo repubblicano regolare finanziato da Mosca, con Maschadov come presidente legalmente eletto e riconosciuto da Mosca... A Maschadov quell’«Ispettorato militare» serviva come il pane. I burocrati ceceni erano corrotti fino al midollo – come i loro colleghi moscoviti, del resto – e gli urgeva una persona competente in grado di controllare le entrate dell’esercito, provenienti in primo luogo dal Tesoro federale. Dov’era, dunque, la formazione armata?
Cito dal verbale dell’udienza:
«Riteneva che il presidente Maschadov agisse nella legalità [gli chiede il procuratore]?».
«Sì. Non potevo sapere che Maschadov, il governo e i dicasteri preposti alla sicurezza sarebbero stati poi considerati fuori legge. Sapevo che Maschadov era il presidente e che era stato riconosciuto dal governo federale, che i suoi ministri incontravano i loro omologhi, che ci venivano stanziati dei fondi. Certo non sapevo di entrare a far parte di una formazione armata illegale...».
«Era di sua competenza controllare le finanze e l’amministrazione del ministero degli Interni della Repubblica Cecena di Ičkerija?».
«Sì. Nel giugno del 1999 riferii a Maschadov il risultato della mia verifica. Avevo stilato un elenco di tutte le spese sostenute. I dati mi erano stati forniti dal ministero degli Interni della Federazione Russa ed erano stati ottenuti per vie ufficiali. Non avevo ragione di supporre che ci fosse qualcosa di illegale».
Nelle mansioni di Chasuchanov prima della guerra rientrano la verifica della gestione finanziaria e l’organizzazione di un sistema di controllo e monitoraggio delle risorse stanziate per il mantenimento delle forze di sicurezza della Cecenia: il ministero degli Interni, la Guardia nazionale, quella del presidente e lo Stato Maggiore. Nell’estate del 1999 Chasuchanov scopre che proprio attraverso lo Stato Maggiore dell’esercito passano somme ingenti per armi e uniformi, ma che, per esempio, i lanciarazzi che il ministero della Difesa commissiona alla fabbrica Martello rosso di Groznyj sono inutilizzabili, e che dunque si tratta di un marchiano furto ai danni dello Stato. Lo stesso dicasi per le uniformi, confezionate nella città cecena di Gudremes a sessanta rubli l’una, ma con l’etichetta «fatto negli Stati del Baltico» per gonfiare il prezzo...
Chasuchanov fa rapporto a Maschadov, e subito cominciano i problemi con le Forze Armate del presidente, coinvolte in quello sperpero di denaro. A una sola settimana dall’inizio della verifica, Maschadov – che ha bisogno di gente onesta – nomina Chasuchanov capo di Gabinetto.
Il calendario segna la fine di luglio del 1999. Il capo di Gabinetto Chasuchanov si mette all’opera in agosto, qualche giorno prima dello scoppio della seconda guerra cecena. Alla quale si rifiuta di partecipare.
Leggendo i verbali del processo (un processo a porte chiuse, lo ricordo), non si può evitare di pensare che sia stato una farsa. Qualcuno aveva deciso che Chasuchanov si prendesse una lunga condanna con imputazioni serissime. Per che cosa, però, non è specificato. Non ci resta che provare a indovinarlo per vie traverse. E se Chasuchanov, nel 1999, avesse scoperto qualcosa che gli si ritorse contro nel 2002-2003? E se c’entrasse il mistero dei fondi sottratti agli stanziamenti federali, quei fondi erogati per le strutture di sicurezza della Cecenia attraverso le strutture di sicurezza della Federazione Russa? Che poi è la frode che si sospetta abbia portato alla seconda guerra cecena, una guerra intesa a insabbiare per sempre le tracce di quei misfatti... Sarà per questo che i vertici militari della Russia sono tanto contrari ai trattati di pace?
Torno a citare dall’imputazione (e dal verdetto):
Coinvolto attivamente nelle attività delle formazioni armate illegali, nel 1999 Chasuchanov svolge incarichi relativi al finanziamento della formazione stessa... Egli elabora e mette in atto un sistema di monitoraggio dei fondi stanziati per formazioni armate illegali denominate «Guardia nazionale» e «Stato Maggiore Generale», oltre che per il ministero degli Interni dell’autoproclamata «Repubblica di Ičkerija». Avendo dato prova di doti eccelse di organizzatore, nonché di grande efficienza, alla fine di luglio del 1999 Maschadov lo nomina capo di Gabinetto. Coinvolto attivamente nelle attività delle formazioni armate suddette, Chasuchanov collabora alla messa a punto di una strategia di fondo per la resistenza – compresa quella armata – alle forze del governo federale che mirano a restaurare l’ordine costituito sul territorio della Repubblica Cecena.
Se non sapessimo qual è stato il prezzo che Chasuchanov ha pagato per una tale spudorata falsificazione della storia a opera dell’FSB verrebbe quasi da ridere.
Cito dal verbale dell’udienza:
«Dica alla corte quale necessità aveva di trovarsi in Cecenia dall’inizio dei combattimenti al giorno dell’arresto».
«Non potevo voltare le spalle a Maschadov, in quanto lo ritenevo un presidente legalmente eletto. Non ero in grado di fermare la guerra ma ho fatto tutto il possibile [...]. Ogni tanto facevo quel che Maschadov mi chiedeva. Non ero in condizione di marciare per i boschi, ma ho fatto quello che potevo. Vedevo la gente morire e ho visto come si restaura l’ordine costituito. Non posso non ritenere questa guerra un genocidio. Ma non ho mai istigato nessuno a compiere atti di terrorismo».
«Ha mai istigato qualcuno a uccidere i soldati della Federazione Russa?».
«Per farlo avrei dovuto avere degli uomini ai miei ordini. E non ne avevo».
«Aveva alle sue dirette dipendenze qualche comandante in campo?».
«No».
Ho di fronte dei documenti «per uso interno». Mentre preparava la causa, Čerepnev spedì in tutte le sedi locali del l’FSB ceceno richieste di informazioni relative agli «atti terroristici» compiuti sul territorio per «disposizione del capo del Gabinetto operativo delle Forze Armate della Repubblica Cecena di Ičkerija, Chasuchanov». Ricordo che si trattava di «disposizioni» inserite sui moduli in bianco firmati da Chasuchanov durante l’inchiesta e che Čerepnev aveva poi compilato (si legga: inventato) con quel che più gli faceva comodo.
Tutti i responsabili delle sedi locali dell’FSB risposero che Chasuchanov non era coinvolto in nessun atto terroristico. E si badi bene che a scrivere non erano dei combattenti ceceni, ma i ‘colleghi’ di Čerepnev.
La macchina dell’inevitabile, necessaria condanna di Chasuchanov – «leader di una formazione armata illegale», com’era ormai definito – si era messa in moto. Incurante dei fatti e delle prove. Senza che né il tribunale, né la procura mostrassero il minimo interesse per la pila di scartoffie «per uso interno».
Il processo
Il caso Chasuchanov viene esaminato a porte chiuse e a gran velocità: il processo si celebra tra il 14 gennaio e il 25 febbraio del 2003 presso la Corte Suprema della Repubblica dell’Ossezia-Alanija del Nord presieduta da Valerij Džioev. La corte non ha nulla da eccepire. Né sul fatto che per sei mesi l’imputato non abbia avuto un legale. Né sulla scelta del legale medesimo da parte di coloro che avevano picchiato a sangue Chasuchanov. Né sulla settimana di buco dal 20 al 27 aprile. Né sulle torture. La corte riconosce che ci sono state, ma non vi trova nulla di esecrabile.
Cito dal verdetto:
Nel corso dell’inchiesta Chasuchanov non ha rilasciato dichiarazioni di colpevolezza, ma in seguito a pressioni psicologiche e fisiche da parte dei funzionari dell’FSB è stato indotto a firmare i verbali di interrogatori stilati in precedenza.
«Lei ha sostenuto di aver subìto delle violenze» chiede il giudice a Chasuchanov. «Può indicarmi i nomi di coloro che le hanno usato violenza?».
«No. Non li conosco».
I carnefici non hanno favorito alla vittima i documenti, quindi la corte passa oltre. E rifiuta di sottoporre a perizia medica quell’imputato con un’ammaccatura nel cranio. L’unica cosa che fa è chiedere al direttore della «segheria», Tebloev, se Chasuchanov sia stato suo ospite. Quando questi risponde che sì, era stato in infermeria dal 3 maggio al settembre del 2002 con fratture diagnosticate alla cassa toracica, la corte non ‘afferra’ né pare stupirsi che un uomo con simili fratture passi quattro mesi in un’infermeria...
Cito dal verdetto:
Nel corso dell’udienza l’imputato Chasuchanov non ha riconosciuto la propria colpevolezza quanto ai crimini contestatigli... Ha affermato che riteneva suo dovere dare corso a singole richieste ed eseguire le disposizioni di Maschadov, presidente legalmente eletto. Nega di aver ideato atti terroristici o di aver fornito denaro ai comandanti in campo. Ammette solo di aver autenticato personalmente con la sigla «copia autentica» alcuni ordini e disposizioni di Maschadov...
Tutto qui?
Tutto qui. La conseguenza sono dodici anni di carcere duro.4 Senza diritto all’amnistia. Il commento finale dell’imputato è: «Non intendo ripudiare le mie idee. Quel che sta accadendo in Cecenia è una violazione gravissima dei diritti umani. Nessuno si cura di arrestare i veri criminali. E finché tutto questo continuerà, molti altri come me finiranno a questa sbarra».
Siamo ripiombati nelle tenebre da cui già una volta abbiamo cercato di venire fuori nei lunghi decenni dell’era sovietica. Abbiamo notizia di un numero sempre maggiore di casi in cui l’FSB si inventa dei procedimenti penali ricorrendo alla chiave ideologica che gli è più necessaria, con la corte e la procura a fare da tirapiedi. Sono talmente tanti, ormai, da essere la regola, e non l’eccezione.
Malgrado il garante preposto a salvaguardarla, la nostra Costituzione è in punto di morte. E del funerale è stato incaricato l’FSB.
Attorno a me accadono strane cose. Gli «occidentali» – così in Russia chiamiamo europei e americani – hanno una tale passione per Putin, lo amano a tal punto, da temere di pronunciarsi contro di lui.
Quando seppi che Chasuchanov era stato portato alla Krasnaja Presnja, celebre prigione di transito moscovita (una sorta di centro di smistamento da cui i condannati vengono poi tradotti in altri punti del Paese), chiamai la sede moscovita della Croce Rossa internazionale.5 I collaboratori della Croce Rossa sono gli unici, o quasi, che possano far visita ai detenuti in cella. Li chiamai perché sapevo che dopo le torture subite Chasuchanov aveva un piede nella fossa.
Dissi loro di andare alla Krasnaja Presnja, di portargli dei medicinali, di chiedere alle autorità penitenziarie di curarlo, di accordarsi per visite regolari...
Passò una settimana. L’ufficio di Mosca stava vagliando la mia richiesta, mi dicevano. Dopo di che mi diedero un responso negativo, farfugliando che la situazione era «molto complessa».
So cosa significa: hanno paura. Paura dell’FSB. E non vogliono osteggiare la politica di Putin.
Vergogna.
PARTE SECONDA
IL PRECEDENTE DEL COLONNELLO BUDANOV
Il 25 luglio del 2003, il tribunale militare del distretto del Caucaso Settentrionale emette finalmente la sentenza relativa al caso dell’ormai ex colonnello dell’esercito russo Jurij Budanov, che ha combattuto in entrambe le guerre cecene ed è stato insignito di due medaglie al valore. È una condanna a dieci anni da scontare in un carcere duro per crimini compiuti in Cecenia nel corso delle «operazioni antiterrorismo» (quindi durante la seconda guerra) e relativi al rapimento e al brutale assassinio della giovane cecena El’za Kungaeva.
La corte lo privava, inoltre, del suo grado e di tutte le onorificenze ricevute.
Il caso Budanov era iniziato il 26 marzo del 2000, giorno dell’elezione del presidente Putin, era durato più di tre anni (con la guerra in corso) ed era assurto a banco di prova della nostra società, dal Cremlino fino all’ultimo villaggio. Tutti cercavamo di rispondere a una domanda: i soldati e gli ufficiali che ogni giorno, in Cecenia, uccidono, saccheggiano, torturano e stuprano, sono dei criminali comuni o dei criminali di guerra? O sono, piuttosto, paladini inflessibili autorizzati all’uso di qualunque mezzo in una guerra globale al terrorismo, dove il fine della salvezza del genere umano giustifica i mezzi a cui si ricorre? La conseguenza fu che il caso Budanov divenne un caso politico su scala nazionale, un’icona della nostra epoca. Un caso lampante, tragico e drammatico che ha fagocitato ogni altro evento accaduto nel frattempo in Russia e nel mondo: l’11 settembre, la guerra in Afghanistan e in Iraq, la nascita di una coalizione internazionale contro il terrorismo, gli attentati in Russia, gli ostaggi di Mosca nell’ottobre del 2002, le donne cecene che si fanno esplodere una dopo l’altra, la palestinizzazione della seconda guerra cecena in risposta alle gesta di Budanov e agli esiti di un processo a suo carico che i ceceni hanno ritenuto offensivo per tutta la nazione... È un caso che ha portato allo scoperto tutti i nostri problemi, la nostra vita ai margini della seconda guerra cecena, la nostra condotta irrazionale riguardo alla guerra e al governo Putin, il nostro modo di distinguere tra colpevoli e innocenti nel Caucaso Settentrionale e, soprattutto, le alterazioni morbose subite dal nostro sistema giudiziario con Putin al governo e la guerra sullo sfondo. Sotto il peso dell’ affaire Budanov è crollata la riforma della giustizia che le forze democratiche avevano cercato di propugnare e che El’cin aveva fatto di tutto per promuovere. Perché per tre anni e più ci è stato dimostrato che, nonostante le riforme, il nostro non è un sistema giudiziario indipendente. Quel che abbiamo sono processi su commissione politica a seconda della congiuntura del momento, una commissione che – per di più – è ritenuta ovvia da buona parte dei nostri compatrioti. L’uomo russo di oggi, l’uomo dell’era Putin, ha il cervello offuscato dalla propaganda e per buona parte è tornato a pensare da bolscevico. Ma non ha disimparato del tutto a pensare con la propria testa, come era autorizzato a fare con il presidente El’cin. Oggi un russo non avrà fretta di rispondere alla domanda se un processo debba per forza essere politico o se debba, invece, fare i conti solo con la legge. Anzi, è molto probabile che chieda del tempo per rifletterci...
Il 25 luglio del 2003 i genitori di El’za Kungaeva, barbaramente uccisa dal colonnello Budanov, avevano chiaro meglio di chiunque altro che cosa stava per succedere e non si presentarono in aula. Erano sicuri che colui che aveva massacrato El’za sarebbe stato assolto.
Invece accadde il miracolo che nessuno si sarebbe mai aspettato. Un miracolo che allo stesso tempo è un gesto di grande coraggio ed eroismo da parte del giudice Vladimir Bukreev. Perché Bukreev ha osato emettere un verdetto di condanna, comminando, per di più, una pena detentiva tutt’altro che simbolica. Con ciò si è schierato contro l’establishment militare russo, che sosteneva attivamente Budanov e giustificava le sue gesta. Nonostante le enormi, evidenti pressioni subite dal Cremlino e dal ministero della Difesa (e la giustizia militare in Russia è parte di quelle Forze Armate di cui il presidente è Comandante Supremo), il giudice Bukreev ha deciso che Budanov doveva avere quel che si meritava. E ha dimostrato con ciò, per l’ennesima volta, che ora come un tempo in Russia non esiste un sistema giudiziario. Quel che abbiamo è un sistema che ottempera alle esigenze della politica, al quale si oppongono solo singoli eroi.
Ma veniamo al caso Budanov.
Il caso
Per dissipare le leggende che attorno al caso Budanov sono sorte in Russia e tra gli estimatori europei di Putin, lasciamo che a parlare siano gli atti.
Che cos’è, nella Russia di oggi, un crimine di guerra? Per rispondere alla domanda mi sia consentito citare la sentenza del caso n. 14/00/0012-00 (caso Budanov).
Pur se scritti con la lingua asciutta della procura, i passaggi qui riportati testimoniano meglio di qualunque pagina giornalistica quale sia il clima della seconda guerra cecena e quale la situazione fra le truppe dislocate nella zone delle «operazioni antiterrorismo», in cui regna un’anarchia pressoché assoluta. Ed è questa anarchia, in ultima analisi, la causa e l’humus di quanto commesso da Jurij Budanov, ormai ex colonnello dei carristi, comandante di un’unità d’élite delle Forze Armate russe, nonché esponente lui stesso di quell’élite, in quanto uscito dall’Accademia militare e decorato con le massime onorificenze del Paese per i suoi meriti in battaglia.
E dunque:
Verdetto di condanna a carico del colonnello dell’unità n. 13206 (160° reggimento carristi) Budanov Jurij Dmi trievič, accusato di aver commesso i crimini previsti al punto ‘c’ comma 2 articolo 105; al comma 3 articolo 126; e ai punti ‘a’ e ‘c’ comma 3 articolo 286 del Codice penale della Federazione Russa; e del tenente colonnello Fedorov Ivan Ivanovič, accusato di aver commesso i crimini previsti ai punti ‘a’, ‘b’, ‘c’ comma 3 articolo 286 del Codice penale della Federazione Russa.
Una precisazione. Il caso Budanov era, in partenza, il caso Budanov-Fedorov. Quest’ultimo era comandante di reggimento e vice di Budanov. Il 26 marzo i due avevano commesso crimini sia insieme sia separatamente. Fedorov venne assolto in quanto la sua vittima si salvò e lo perdonò pubblicamente durante le udienze.
L’inchiesta ha appurato che Budanov Jurij Dmitrievič è stato nominato comandante dell’unità n. 13206 (160° reggimento carristi) il 31 agosto del 1998. Il 31 gennaio 2000 Budanov viene promosso al grado di colonnello. Il 12 agosto del 1997 Fedorov Ivan Ivanovič viene promosso al grado di tenente colonnello. Il 16 settembre del 1999, come da direttiva n. 312/00264 dello Stato Maggiore delle Forze Armate della Federazione Russa, Budanov e Fedorov partono per il distretto militare del Caucaso Settentrionale, e quali membri dell’unità n. 13206 vengono dispiegati nella Repubblica Cecena per svolgere operazioni antiterrorismo.
Il 26 marzo del 2000 l’unità 13206 è temporaneamente di stanza alla periferia del villaggio di Tangi, nella provincia cecena di Urus-Martan. Durante il pasto alla mensa degli ufficiali, Budanov e Fedorov consumano alcolici per festeggiare il compleanno della figlia di Budanov. Alle 19 dello stesso giorno – in stato di palese ubriachezza e su proposta di Fedorov – Budanov, Fedorov e un gruppo di ufficiali del reggimento si recano agli accantonamenti della compagnia di ricognizione posta agli ordini del tenente Bagreev R.V.
Una precisazione. In seguito, in aula, Roman Bagreev avrebbe perdonato entrambi per quello che gli avevano fatto.
Dopo aver ispezionato le tende dell’unità, per dimostrare a Budanov che la compagnia di ricognizione, agli ordini di quel Bagreev da lui stesso raccomandato, è in grado di agire al meglio in combattimento, Fedorov propone a Budanov di testarne le capacità operative. In un primo momento Budanov declina l’offerta. Fedorov, tuttavia, insiste. All’ennesima insistenza Budanov acconsente e con un gruppo di ufficiali si dirige al centro comunicazioni. All’insaputa di Budanov, Fedorov decide di autorizzare l’uso delle armi contro il villaggio di Tangi. Lo fa senza un’effettiva necessità al riguardo, in quanto a Tangi non erano in corso scontri a fuoco.
Agendo in flagrante violazione della direttiva n. 312/ 2/0091 (21.01.2002) dello Stato Maggiore delle Forze Armate della Federazione Russa (che vieta l’impiego delle unità di ricognizione senza debita preparazione e verifica della loro capacità a eseguire missioni operative), Fedorov dà ordine di prendere posizione e di aprire il fuoco alla periferia di Tangi.
Obbedendo all’ordine ricevuto, il tenente Bagreev ordina ai suoi effettivi di prendere posizione e di aprire il fuoco su una casa isolata alla periferia di Tangi. Tre veicoli da combattimento prendono posizione. Individuato l’obiettivo, però, parte della compagnia non obbedisce all’ordine di Fedorov di aprire il fuoco. Fedorov insiste continuando ad abusare dei suoi poteri. Infuriato per il rifiuto dei sottoposti, Fedorov se la prende con Bagreev, imprecando affinché faccia aprire il fuoco dai suoi uomini. Insoddisfatto di come agisce Bagreev, Fedorov assume personalmente il comando della compagnia e ordina di sparare sulla periferia di Tangi. Salta a bordo di una postazione missilistica e pretende che il responsabile, l’aspirante Larin, faccia fuoco sul bersaglio. Gli effettivi obbediscono all’ordine di Fedorov; di conseguenza viene colpita e distrutta la casa sita al n. 4 di via Zarečnaja nel villaggio di Tangi – di proprietà di Džavatchanov A.A., ivi residente –, il cui valore ammonta a centocinquantamila rubli.
Fatto eseguire l’ordine iniquo, Fedorov afferra Bagreev per il bavero e comincia a insultarlo. Bagreev non oppone resistenza e si ritira nella tenda della sua unità.
Trovandosi presso il centro trasmissioni e uditi gli spari nella zona dove era di stanza l’unità di ricognizione, Budanov dà ordine a Fedorov di cessare il fuoco e lo convoca. Questi riferisce a Budanov che Bagreev ha intenzionalmente disubbidito all’ordine di aprire il fuoco. A questo punto viene convocato anche Bagreev. Budanov lo insulta per non aver obbedito all’ordine di Fedorov e lo colpisce con almeno due pugni al volto.
Nel contempo Budanov e Fedorov ordinano agli uomini di legare Bagreev e di collocarlo nella fossa scavata all’interno della base affinché vi sconti la sua pena. Budanov afferra Bagreev per il bavero e lo sbatte a terra. Fedorov colpisce Bagreev al volto con lo stivale. Sopraggiungono gli effettivi del comando che legano Bagreev, sempre riverso a terra. Intanto Budanov e Fedorov, che indossano gli stivali d’ordinanza, continuano a picchiarlo. Fedorov lo colpisce non meno di 5-6 volte al corpo, viso compreso; Budanov gli infligge 3-4 calci al torso.
Dopo le percosse Bagreev viene calato nella fossa, seduto, con mani e piedi legati. Trenta minuti dopo il pestaggio, Fedorov va alla fossa, ci salta dentro e colpisce Bagreev al viso con almeno due pugni, facendogli sanguinare il naso; viene bloccato dagli ufficiali sopraggiunti di corsa sul posto. Qualche minuto dopo giunge alla fossa Budanov e dà ordine di estrarre Bagreev. Accortosi che Bagreev è riuscito a slegarsi, Budanov dà disposizione di legarlo nuovamente. Eseguito l’ordine, Budanov e Fedorov ricominciano a pestare Bagreev, dopo di che ordinano che venga ricollocato nella fossa con mani e piedi legati. A questo punto, Fedorov salta nella fossa e morde Bagreev al sopracciglio destro. Bagreev resta nella fossa suddetta fino alle 8 del mattino del 27.03.2000, quando viene liberato su ordine di Budanov.
Alle 24 del 26 marzo, senza avere ricevuto istruzioni in merito dal comando superiore delle operazioni antiterrorismo, Budanov decide di recarsi al villaggio di Tangi per verificare personalmente le notizie sulla presenza di formazioni armate illegali al n. 7 di via Zarečnaja. Per recarsi a Tangi Budanov ordina ai suoi sottoposti di preparare un veicolo da fanteria BMP 391. Budanov e i suoi uomini – i sergenti Grigor’ev, Egorov e Li-en-Shou – prendono con sé armi automatiche AK-74 [kalashnikov]. Budanov li informa che la missione è intesa a bloccare una donna-tiratore scelto. Per questa ragione i soldati avrebbero poi eseguito ciecamente i suoi ordini.
Budanov giunge a Tangi tra la mezzanotte e l’una del 27 marzo. Su sua precisa disposizione il veicolo viene fatto fermare al n. 7 di via Zarečnaja, domicilio della famiglia Kungaev. Budanov, Grigor’ev e Li-en-Shou entrano. In casa c’è Kungaeva El’za Visaevna, nata il 22 marzo 1982, con quattro tra fratelli e sorelle, tutti minorenni. I genitori non sono presenti. Budanov le chiede dove si trovino. Non avendo ottenuto risposta, prevaricando le sue mansioni e i suoi poteri e in violazione dell’articolo 13 della legge federale «Sulla lotta al terrorismo», Budanov ordina a Grigor’ev e Li-en-Shou di prelevare El’za Kungaeva.
Credendo di agire legittimamente, Grigor’ev e Li-en-Shou prendono la Kungaeva, la avvolgono in una coperta trovata sul posto e la caricano sul veicolo BMP 391. A rapimento avvenuto, Budanov porta la Kungaeva all’accampamento dell’unità 13206 del reggimento carristi. Su ordine di Budanov, i sergenti Grigor’ev, Egorov e Li-en-Shou trasferiscono la Kungaeva, ancora avvolta nella coperta, nei prefabbricati dove alloggiano gli ufficiali e dove risiede anche Budanov, e la depongono a terra. Budanov dà loro disposizione di restare nei paraggi e di non far entrare nessuno nel suo alloggio.
Rimasto solo con la Kungaeva, Budanov la interroga: vuole sapere dove sono i suoi genitori e come si spostino i guerriglieri ceceni a Tangi. Non avendo ottenuto risposta, Budanov – che non ha alcun diritto di interrogare la Kungaeva – insiste nell’estorcerle le informazioni desiderate. Poiché la Kungaeva si rifiuta di rispondere alle sue domande, Budanov comincia a picchiarla con pugni e calci al volto e in diverse parti del corpo. La Kungaeva oppone resistenza, lo spintona e cerca di scappare dall’alloggiamento.
Convinto che la Kungaeva sia membro di una formazione armata coinvolta nell’assassinio di alcuni suoi sottoposti nel gennaio del 2000, Budanov decide di ucciderla. A questo scopo la afferra per la veste, la getta sulla sua branda, le stringe le mani al collo e comincia a premere. Consapevole che stringendole a quel modo il collo l’avrebbe uccisa, e intenzionato a farlo, Budanov non demorde fino a che la ragazza non dà più segni di vita. Solo allora allenta la presa.
La stretta premeditata di Budanov provoca alla Kungaeva una frattura del corno destro dell’osso sublinguale, causa dell’asfissia e del successivo decesso. Resosi conto di aver ucciso la Kungaeva, Budanov chiama nei suoi alloggi Grigor’ev, Egorov e Li-en-Shou, ordina loro di portare via il corpo e di seppellirlo segretamente oltre i confini dell’accampamento. L’ordine viene eseguito. Il corpo della Kungaeva viene prelevato e seppellito in un bosco, come riferito da Grigor’ev a Budanov la mattina del 27 marzo 2000.
Interrogati sul crimine loro contestato, gli imputati Budanov e Fedorov hanno parzialmente ammesso la propria colpevolezza, modificando le deposizioni rese nella fase iniziale dell’istruttoria.
Imputato Budanov Jurij Dmitrievič
Fase 1. Budanov testimone
Interrogato in qualità di testimone il 27.03.2000, Budanov ammette di essersi recato il 25 marzo a Tangi, di aver rinvenuto alcune mine in una abitazione e di aver arrestato due ceceni. Spiegando le ragioni e le circostanze del suo scontro con il tenente Bagreev, Budanov sostiene di non averlo mai percosso. Durante una verifica operativa dell’unità di ricognizione svolta assieme a Fedorov intorno alle 19.00 del 26 marzo 2000, gli uomini avevano mal risposto a un ordine d’attacco. Era scoppiato un diverbio e Bagreev aveva insultato Fedorov. Dunque Budanov aveva dato ordine di arrestare Bagreev. Budanov nega di aver ordinato a Fedorov di aprire il fuoco su Tangi e nega anche che tale sparatoria sia avvenuta. Alla fine dell’interrogatorio Budanov chiede di presentare un’ammissione di colpa relativa all’uccisione della parente di alcuni cittadini membri di bande armate che operano sul territorio ceceno.
Il 27.03.2000, nella sua ammissione di colpa indirizzata al procuratore del distretto militare del Caucaso Settentrionale, Budanov scrive di suo pugno quanto segue. Il 26 marzo 2000 si era recato alla periferia est di Tangi allo scopo di catturare o uccidere una donna-cecchino. Era giunto a Tangi alle 0.20 ed era entrato in una casa di periferia dove si trovavano due ragazze e due ragazzi. Alla domanda su dove fossero i loro genitori, la maggiore aveva risposto di non saperlo. Budanov aveva ordinato ai suoi sottoposti di avvolgere la ragazza in una coperta e di caricarla sulla macchina. Giunti alla base, la ragazza era stata portata nel suo alloggiamento. Rimasto solo con lei, le aveva chiesto dove fosse la madre. Fonti militari lo avevano informato che la madre della ragazza era un cecchino. La ragazza aveva risposto di conoscere poco il russo e di non sapere dove fossero i suoi genitori. Budanov le aveva ribattuto che doveva sapere dov’era la madre e quanti russi aveva ammazzato. La ragazza si era messa a strillare, mordere e divincolarsi. Budanov aveva dovuto ricorrere alla forza. Era sopravvenuta una colluttazione, durante la quale Budanov aveva strappato alla ragazza camicia e reggiseno. La ragazza aveva continuato a divincolarsi e Budanov aveva dovuto sbatterla sulla branda e soffocarla. Lo aveva fatto stringendole la gola con la mano destra. L’aveva denudata solo fino alla vita. Dopo una decina di minuti la ragazza aveva smesso di lamentarsi e Budanov aveva verificato il battito all’altezza del collo. Era morta. Budanov aveva chiamato i suoi uomini, aveva ordinato loro di avvolgere il corpo in una coperta, di portarlo nel bosco, nella zona di stanza del battaglione carristi, e di seppellirlo.
Fase 2. Budanov sospettato
Interrogato il 28.03.2000 in qualità di sospettato, Budanov dichiara di aver saputo da fonti operative in data 3 marzo 2000 che a Tangi viveva una donna-cecchino della guerriglia cecena. Gliene era stata mostrata una fotografia. A riferirglielo era stato un abitante di Tangi che aveva dei conti in sospeso con i guerriglieri. Il 13-14 marzo 2000 quella stessa persona gli aveva indicato la casa alla periferia est del villaggio in cui viveva la donna.
Il 24 marzo 2000 Budanov passa accanto alla casa, ma non vi entra.
Vi torna il 26 marzo. È stato informato che quella notte la donna sarà in casa. Budanov entra. Trova tutti in piedi, tutti vestiti. Budanov chiede dove sia il padrone di casa, la ragazza più grande risponde di non saperlo. Il colonnello ordina allora ai sottoposti di prelevarla. Tornano all’accampamento e Budanov rimane solo con la ragazza nei suoi alloggi.
La ragazza si mette a strillare e a insultarlo e cerca di fuggire. Lui la afferra e la getta sulla branda. Ciò facendo le strappa la camicetta. Spinta la ragazza in un angolo, Budanov la scaraventa sulla branda e comincia a soffocarla premendole la mano destra sulla gola. Lei oppone resistenza. Il risultato della colluttazione è uno strappo nella parte superiore della veste di lei. Dopo una decina di minuti la ragazza smette di divincolarsi. Budanov verifica il battito, assente. Chiama i suoi uomini. Entrano l’ufficiale comandante e il marconista. La ragazza è riversa nell’alloggio di Budanov, in un angolo, svestita, con solo le mutande addosso. Budanov dà ordine di avvolgerla nella coperta in cui l’avevano portata e di seppellirla. Spiega di essersi infuriato perché la ragazza non aveva voluto confessare dov’era la madre, che da informazioni in suo possesso era un tiratore scelto responsabile dell’uccisione, tra il 15 e il 20 gennaio del 2000, di dodici tra soldati e ufficiali nella Gola di Argun.
Fase 3. Budanov imputato
Interrogato il 30.03.2000 in qualità di imputato, Budanov si riconosce parzialmente colpevole e dichiara quanto segue. Il 23 marzo del 2000 arresta due ceceni e sequestra 60 mine da 80 mm nella casa in cui si trovano. Uno dei due, Šamil’, dice a Budanov che gli indicherà la casa di alcuni guerriglieri in cambio della libertà. Fatto indossare a Šamil’ un cappello da soldato, Budanov lo carica su un BMP e si dirige con lui al villaggio. Šamil’ gli indica la casa alla periferia est di Tangi in cui vive la cecchina e gli mostra altre cinque o sei case abitate da guerriglieri. Da Šamil’ Budanov apprende che la donna torna spesso a casa, la notte, e che ha una figlia che la tiene informata sulle mosse dei militari russi.
Budanov ritocca in parte quanto deposto in relazione alla condotta della Kungaeva, sostenendo ora che la ragazza gli avrebbe detto che lui e i suoi uomini non sarebbero mai usciti vivi dalla Cecenia; quindi avrebbe insultato volgarmente la madre di Budanov, e infine avrebbe tentato di scappare.
Budanov si infuria. Riesce ad afferrare la ragazza per la camicia e a gettarla sulla branda. Accanto alla branda, su un tavolo, c’è la sua pistola. La ragazza cerca di afferrarla. Budanov tiene ferma la ragazza sulla branda stringendole la gola con la mano destra mentre con la sinistra le blocca il braccio così che non possa afferrare la pistola. Lei si divincola, e la parte superiore della veste si strappa. Budanov non toglie la mano dalla gola della ragazza, che dopo una decina di minuti si quieta.
[Una precisazione. I graduali mutamenti nelle deposizioni di Budanov sono dovuti al fatto che il Cremlino e le alte sfere militari si erano ripresi dallo choc causato dall’inattesa audacia della procura – che aveva osato arrestare un colonnello pluridecorato – e avevano cominciato a esercitare pressioni sugli inquirenti incaricati degli interrogatori. Di qui le imbeccate a Budanov su cosa dire per ridurre al minimo le conseguenze penali dei crimini commessi, se non per evitarle del tutto].
Nel corso dell’interrogatorio del 26 settembre 2002, l’imputato Budanov fornisce ulteriori dettagli sulle fonti che gli avrebbero riferito di come la Kungaeva fosse membro di formazioni armate illegali. Le notizie provenivano da un ceceno incontrato tra gennaio e febbraio del 2000, dopo gli scontri alla Gola di Argun. Il ceceno suddetto gli aveva consegnato una fotografia che ritraeva la Kungaeva con in mano un fucile SVD [l’arma dei cecchini].
Interrogato in data 4.01.2001, Budanov dichiara di non ritenersi colpevole del rapimento della Kungaeva e di aver agito correttamente, date le informazioni in suo possesso. Aveva riconosciuto El’za Kungaeva come la donna della fotografia. Se aveva dato ordine a Grigor’ev e Li-en-Shou di prelevare la Kungaeva era stato perché voleva consegnarla agli organi di sicurezza. Se poi non l’aveva fatto era perché sperava di scoprire dove si trovavano i guerriglieri e di provvedere ad arrestarli lui stesso.
Era consapevole che, se i guerriglieri avessero saputo che la Kungaeva era stata catturata, avrebbero fatto di tutto per liberarla. Per questo motivo aveva deciso di tornare subito al reggimento. Di notte, inoltre, è vietato ogni spostamento su lunga distanza. Budanov si era mosso nella zona di competenza del suo reggimento, dove era autorizzato a spostarsi. Non si riconosceva colpevole di omicidio premeditato, in quanto non era sua intenzione uccidere la ragazza, si trovava in uno stato di forte turbamento e non sapeva spiegarsi come avesse potuto strangolarla.
Imputato Fedorov Ivan Ivanovič
Interrogato in data 3 aprile 2000 in qualità di testimone, Fedorov dichiara che il 26 marzo 2000 lui, Arzumanjan [compagno d’armi, capitano, amico e vice di Budanov] e Budanov si erano recati a ispezionare la compagnia di ricognizione. Completata l’ispezione, Fedorov aveva dato a Bagreev un ordine provvisorio: «Attacco alla postazione di comando. Occupare posizioni di fuoco» e gli aveva indicato il bersaglio. Poi aveva fatto venire Bagreev e gli aveva chiesto perché i veicoli da combattimento non fossero orientati verso l’obiettivo.
Non ricorda che cosa gli avesse risposto Bagreev, ma alle spiegazioni di quest’ultimo potrebbe aver reagito insultandolo. Dopo di che l’aveva afferrato per il bavero.
Budanov e Arzumanjan erano poi andati al comando del reggimento. Fedorov non ricorda chi avesse dato ordine di legare Bagreev mani e piedi. Quindi si era avvicinato a Bagreev e lo aveva colpito più volte. Non ricorda come. Su suo ordine, Bagreev era poi stato calato in una fossa. Fedorov ci era saltato dentro per dire a Bagreev quel che pensava di lui.
Arzumanjan lo aveva tirato fuori dalla fossa. Che quella notte Budanov era stato a Tangi, Fedorov lo scopre quando all’accampamento si presenta una commissione inviata dallo Stato Maggiore del raggruppamento militare «Occidente».
Intorno al 20 marzo Fedorov vede da Budanov la fotocopia della fotografia di una donna: una cecchina, gli spiega Budanov. Sempre a detta di Budanov, la donna vive a Tangi e lui deve trovarla. La donna non dimostra più di 30 anni. Intorno al 25 marzo del 2000 Budanov si reca a Tangi e un ceceno gli mostra le case dei guerriglieri.
L’esame del taccuino di lavoro di Fedorov – prodotto come prova – ha rilevato un appunto sul retro di pagina otto: Sambiev Šamil’, via Zarečnaja, 7, Chungaev Idolbek. Seguono due indirizzi, in quanto il ceceno non aveva saputo dire quali fossero le altre vie e si era limitato a indicare le case, dieci in tutto.
Interrogato il 24.11.2000, Fedorov dichiara di aver dato ordine a Bagreev di attaccare il nemico a Tangi il 26.03.2000 e di aver poi osservato le reazioni dell’unità di ricognizione. Bagreev aveva ripetuto l’ordine. Fedorov, però, aveva notato che Bagreev stava agendo impropriamente e si era infuriato. Aveva poi ottenuto da Bagreev che facesse eseguire correttamente dai suoi uomini quanto richiesto.
Dopo di che, riscontrando una scarsa operatività del comandante, Fedorov aveva deciso di verificare fino in fondo come la compagnia si sarebbe comportata in un’azione di fuoco. All’uopo aveva dato ordine a Bagreev di puntare un pezzo d’artiglieria contro una casa isolata alla periferia di Tangi. Sulla sua decisione di aprire il fuoco su quella determinata casa aveva influito il fatto che il reggimento carristi l’aveva più volte tenuta d’occhio. Quanto allo scontro con Bagreev, Fedorov ammetteva di essersi risentito per aver sbagliato tanto marchianamente a giudicare un uomo, la qual cosa spiegava il comportamento da lui tenuto in seguito.
Interrogato il 26.12.2000, Fedorov dice di non convenire sul fatto che la casa abbattuta valesse centocinquantamila rubli. Quando aveva fatto aprire il fuoco, la casa era già per buona parte distrutta dai massicci scontri avvenuti nel dicembre del 1999 fra le truppe federali e le formazioni di banditi locali. Già prima della sparatoria Fedorov era a conoscenza del fatto che dal quartiere in cui era situata la casa in oggetto erano partiti alcuni colpi diretti contro il loro accampamento.
Oltre che dalla loro parziale confessione, la colpevolezza di Budanov e Fedorov quanto ai crimini loro contestati è confermata anche dall’insieme delle prove raccolte.
Parte lesa Kungaev Visa Umarovič
Nato il 19.04.1954, coniugato, di nazionalità cecena, agronomo presso il sovchoz Urus-Martan, padre di Kungaeva El’za Visaevna, ha dichiarato quanto segue: El’za era la sua figlia maggiore. Oltre a lei ha altri quattro figli. El’za era una ragazza molto riservata, tranquilla, laboriosa, onesta, brava. Si occupava lei delle faccende domestiche, in quanto la madre è malata e non può lavorare. Per questa stessa ragione El’za si occupava anche dei fratelli più piccoli. Passava il tempo libero in casa, non usciva mai, non aveva un ragazzo. Si vergognava di intrattenere rapporti con persone di sesso maschile. Non aveva relazioni intime con nessuno. Non era un cecchino e non faceva parte di formazioni armate illegali, la qual cosa è assolutamente assurda.
Il 26.03.2000 lui, la moglie e i figli erano andati a votare [ironia del destino, era il giorno dell’elezione di Putin], poi si erano occupati delle faccende di casa. La moglie era uscita intorno alle 15 per andare da suo fratello a Urus-Martan. Con i figli era rimasto solo lui.
Non avendo la luce elettrica, si erano coricati verso le 21. Lui sul divano della cucina. Verso le 0.30 del 27 marzo era stato svegliato dal rumore di un veicolo da combattimento fermatosi davanti alla porta di casa. Si era affacciato alla finestra e aveva visto alcune persone dirigersi verso casa sua. Aveva chiamato la figlia maggiore, El’za, e le aveva detto di svegliare i piccoli, di vestirli e di portarli via, avvisandola che i soldati stavano circondando la casa. Lui si era precipitato dal fratello Aldan, che abita a 20 metri di distanza e che stava già correndogli incontro. Entrando in casa dalla porta principale, Aldan aveva visto il colonnello Budanov e l’aveva riconosciuto da una fotografia apparsa sul giornale «Krasnaja zvezda» (Stella rossa).
«Tu chi sei?» gli aveva chiesto Budanov. Aldan gli aveva risposto che era il fratello del padrone di casa. Budanov gli aveva detto brutalmente di andarsene. Aldan era corso fuori e si era messo a urlare. Visa Kungaev aveva poi saputo dai figli che Budanov aveva dato ordine ai soldati di prelevare El’za. E che lei aveva urlato. I soldati l’avevano avvolta in una coperta e l’avevano portata via. Poi erano sopraggiunti i parenti, che avevano svegliato l’intero villaggio per trovare la ragazza.
Kungaev si era rivolto al capo dell’amministrazione locale, al comandante militare del villaggio e del distretto di Urus-Martan. Alle 6.00 di mattina si erano recati a Urus-Martan per cercare la figlia. La sera del 27 marzo del 2000 avevano saputo che El’za era stata uccisa. Kungaev ritiene che Budanov abbia rapito la figlia e l’abbia stuprata solo perché era una bella ragazza.
Altri testimoni
Il testimone Magamaev A.S. ha dichiarato di essere un vicino di casa dei Kungaev. La famiglia Kungaev è povera. Lavorano essenzialmente nei campi. Conosceva El’za da che era nata. Era timida, non aveva contatti con i coetanei dell’altro sesso. Può affermare con certezza che El’za non avesse mai preso parte a formazioni banditesche armate.
L’inchiesta non ha trovato prove del fatto che Kungaeva E.V. fosse riconducibile a formazioni armate illegali o ne fosse membro.
Il testimone Makaršanov Ivan Aleksandrovič, ex militare [soldato semplice] dell’unità 13206 ha dichiarato quanto segue. La sera del 26.03.2000 i soldati del corpo di guardia furono messi in stato di allarme. Su ordine del comandante di reggimento, gli uomini avevano legato il comandante dell’unità di ricognizione, Bagreev, che era riverso a terra. Budanov e Fedorov lo avevano colpito con almeno tre calci ciascuno. Tutto si era svolto assai velocemente. Dopo di che Bagreev era stato calato nella fossa, il cosiddetto «zindan».
Tempo dopo, ormai a notte fonda, aveva sentito urla e gemiti e aveva visto che nella fossa in cui era stato messo Bagreev (la tenda era a 15-20 metri dallo zindan) c’erano Budanov e Fedorov. Fedorov stava picchiando Bagreev al volto. Budanov era accanto a lui. Qualcuno puntava una torcia elettrica a terra, per questo la scena era ben visibile. Fedorov, poi, era stato tirato fuori dalla fossa.
Makaršanov era rimasto nella tenda di Fedorov fino alle 2 di notte del 27 marzo, per tenere accesa la stufa. Verso l’una aveva sentito un veicolo BMP che si avvicinava all’alloggio di Budanov, e dalla tenda aveva visto quanto stava accadendo. Quattro persone entravano nell’alloggio (una di esse era Budanov). Una portava a spalla una specie di involto delle dimensioni di un corpo umano. Makaršanov aveva visto dei lunghi capelli che spuntavano da un’estremità dell’involto, capelli di donna o di ragazza.
Colui che teneva l’involto aveva aperto la porta, aveva portato il suo carico nell’alloggio e lo aveva deposto a terra. La luce era accesa, per questo Makaršanov aveva potuto vedere quel che accadeva. Budanov era entrato nel suo alloggio. La distanza fra la tenda dove si trovava Makaršanov e l’alloggio di Budanov era di 8-10 metri, non di più. Le tre persone del BMP erano rimaste accanto all’alloggio di Budanov.
Il testimone Mišurov E.G., ex militare dell’unità 13206 [soldato semplice], ha dichiarato di aver montato la guardia alla tenda del colonnello dalle 2 di notte del 27 marzo e di aver notato che accanto all’alloggio di Budanov c’erano due uomini del suo BMP. Il veicolo si era allontanato verso le 3.30. Era tornato verso le 5.50, fermandosi accanto all’alloggio del colonnello.
Il testimone Kol’cov Viktor Alekseevič ha dichiarato di aver prestato servizio a contratto presso l’unità 13206 dall’1. 02.2000. La notte del 26.03.2000, dalle 23 circa, era stato messo di guardia alla fossa in cui si trovava il comandante della compagnia. Quella notte Budanov aveva lasciato l’accampamento a bordo di un veicolo BMP. Dopo circa 30 minuti il veicolo era tornato. A un centinaio di metri dal punto di sosta del BMP Budanov aveva gridato all’autista di spegnere i fari. Il BMP si era avvicinato all’alloggio del colonnello a fari spenti. Dopo di che Kol’cov aveva sentito sbattere il portellone posteriore del veicolo e aprirsi la porta dell’alloggio. Finito il turno di guardia e tornato alla tenda, aveva incontrato Makaršanov, l’addetto alla caldaia del colonnello. Che gli aveva detto che «il comandante ne aveva presa un’altra».
Il testimone Sajfullin Aleksandr Michajlovič ha dichiarato di aver prestato servizio presso l’unità 13206 dall’agosto del 1999 [anche lui come soldato semplice]. Alla fine di gennaio del 2000 svolgeva mansioni di addetto alla caldaia presso l’alloggio di Budanov. Verso le 5-5.15 del 27 marzo era entrato nell’alloggio del comandante per attizzare il fuoco nella stufa. Budanov era coricato sulla branda di destra e non su quella più lontana, come era suo solito. Il tappeto era fuori posto. L’orologio da parete sopra il letto di Budanov stava accanto al letto di destra, sul pavimento, vicino all’uscita. La tenda che nascondeva la zona notte era scostata e Sajfullin aveva notato che il letto di Budanov non era stato rifatto. Budanov dormiva. Verso le 7 del mattino era rientrato nell’alloggio per portare al comandante l’acqua per lavarsi. Budanov gli aveva detto di tornare alle 7.15. Gli aveva poi ordinato di rimettere ordine nell’alloggio e – mostratogli il letto con un cenno del capo – gli aveva detto di cambiare coperta e lenzuola. Sajfullin si era messo all’opera e aveva notato che la coperta era bagnata. La macchia era situata a circa 20 centimetri dalla pediera sul lato accanto alla parete. Sollevata la coperta, aveva rinvenuto sul lenzuolo una macchia gialla di cm 15 × 15. Aveva cambiato le lenzuola. Budanov gli aveva dato un’ora di tempo per sistemare l’intero alloggio. Mentre disfaceva la branda più lontana, Sajfullin aveva notato che l’angolo sinistro di un lenzuolo era bagnato.
Durante l’ispezione dell’alloggio di Budanov in data 27.03.2000 è stato riscontrato che il materasso del giaciglio più lontano dall’ingresso era bagnato al centro ed emanava odore di urina.
Durante l’inchiesta lenzuola e coperte del letto di Budanov sono state sequestrate e accluse ai materiali in qualità di reperti. L’esame svolto ha riscontrato delle macchie di colore giallo.
Il testimone Gerasimov Valerij Vasil’evič ha dichiarato di aver svolto mansioni di comandante del raggruppamento militare «Occidente» dal 5 marzo al 20 aprile del 2000. La mattina del 27.03 aveva saputo dal comandante di Urus-Martan che quella notte a Tangi era stata rapita una ragazza e che del fatto erano sospettati i soldati. Si era messo in contatto con i comandanti dei tre reggimenti, compreso quello del 160° carristi, Budanov, e aveva ordinato loro di liberare la ragazza entro 30 minuti. Dopo di che lui e il generale Verbickij Aleksandr Ivanovič si erano recati personalmente dapprima al 245° reggimento e poi al 160°.
Al 160° Gerasimov era stato accolto da Budanov, che gli aveva riferito di non aver scoperto nulla riguardo alla ragazza. Con Verbickij si era allora recato a Tangi, dove la popolazione era già riunita. Da quanto esposto dal padre della ragazza, Gerasimov aveva capito che quella notte il colonnello Budanov e i suoi soldati erano arrivati a bordo di un BMP, avevano avvolto la ragazza in una coperta e l’avevano portata via. Dal villaggio Gerasimov era tornato al reggimento, ma Budanov non c’era più. Gerasimov aveva dato ordine di arrestarlo.
[Una precisazione. Nelle Forze Armate russe un militare può essere arrestato solo su ordine e indicazione del proprio superiore. Nel caso di Budanov, l’unico suo superiore era Gerasimov. Dobbiamo dunque a Gerasimov se Budanov è stato inquisito. Senza quell’ordine del 27 marzo – e sia detto che in Cecenia buona parte dei comandanti non autorizzano la procura ad arrestare i propri sottoposti e cercano in ogni modo di coprirli – l’affaire Budanov non sarebbe mai scoppiato. In una «zona di operazioni antiterrorismo» il gesto di Gerasimov è stato un gesto di estremo coraggio che avrebbe potuto costargli la carriera. La vasta eco del caso ha fatto sì che ciò non accadesse e, anzi, il generale Gerasimov è stato persino promosso a comandante della 58a armata].
Dopo l’arresto Budanov venne trasferito a Chankala [la più importante base militare russa in Cecenia]. Quella stessa sera l’autista del BMP (l’individuo che era stato al villaggio) confessò di aver portato al campo una ragazza, la notte del 27 marzo, e di averla trascinata nell’alloggio di Budanov. Il comandante li aveva fatti chiamare un paio d’ore dopo: la ragazza era già morta. Budanov aveva dato ordine di rimuovere il corpo e seppellirlo.
La mattina del 28.03 il cadavere fu riesumato e portato al battaglione sanitario, dove venne eseguita l’autopsia. Il corpo venne poi lavato e reso ai genitori.
Il testimone Grigor’ev Igor’ Vladimirovič ha dichiarato che, una volta giunto al campo, il 27.03.2000 Budanov gli aveva ordinato di portare la ragazza avvolta nella coperta nel suo alloggio e di restare fuori a montare la guardia affinché nessuno entrasse. Budanov era rimasto all’interno. Dopo una decina di minuti da che avevano lasciato l’alloggio, avevano udito delle grida di donna e la voce di Budanov, quindi anche della musica. Le grida di donna erano continuate per qualche tempo ancora.
Budanov era rimasto con la ragazza un paio d’ore. Poi aveva chiamato i tre uomini nel suo alloggio; sul letto c’era la ragazza che avevano prelevato, nuda e con il viso bluastro. La coperta in cui la ragazza era stata avvolta giaceva per terra, con sopra il mucchio dei suoi abiti. Budanov aveva dato ordine di portar via la donna e di sotterrarla di modo che nessuno scoprisse nulla. Così avevano fatto. L’avevano avvolta in una coperta, erano saliti sul BMP 391, avevano portato via e seppellito il corpo, come riferito a Budanov la mattina del 27 marzo.
Interrogato il 17.10.2000, Grigor’ev ha spiegato che Budanov si era messo a urlare un 10-20 minuti dopo che avevano lasciato l’alloggio, ma nessuno aveva capito cosa stesse dicendo. C’erano state anche delle grida di donna, tipiche grida di spavento. Quando Budanov li aveva chiamati, avevano visto sulla sua branda una ragazza nuda che non dava segni di vita. Non aveva nulla addosso. Era supina. Sul pavimento c’era una coperta e sulla coperta i suoi abiti: mutande, camicia e qualcos’altro ancora. La ragazza presentava dei lividi sul collo, come se l’avessero strangolata. Budanov gliel’aveva indicata e aveva detto con un’espressione tremenda sul volto: «Per te, puttana, da parte di Razamachnin e dei ragazzi caduti sulle montagne».
L’esame del corpo della Kungaeva ha rilevato le seguenti ferite: escoriazioni ed ecchimosi sulla superficie del terzo anteriore del collo, ecchimosi sui tessuti molli del collo, lividi, gonfiore al volto, ecchimosi puntiformi sulla pelle del volto, alla congiuntiva, alla mucosa ai lati della bocca, sotto la pleura e l’epicardio; ematomi nella zona suborbitale destra e sulla superficie interna del fianco destro, ferita alla congiuntiva dell’occhio destro, ecchimosi alla mucosa della bocca, alla gengiva e alla mascella sul lato sinistro. Il cadavere era svestito. Accanto al cadavere sono stati rinvenuti gli abiti: maglia di lana strappata sulla schiena, gonna di cotone con cucitura laterale scucita, maglietta gialla e bianca lacerata sulla schiena per tutta la lunghezza, reggiseno beige con bretella strappata sul dietro, mutande di cotone beige.
L’esame medico n. 22 in data 30.04.2000 della salma di Kungaeva E.V. ha accertato che le ferite riscontrate sul cadavere sono da ritenersi causate ante mortem. Le suddette ferite corporali sono il risultato della pressione sul collo di uno o più oggetti solidi di superficie limitata. Tali ferite possono essersi formate all’ora e nelle circostanze indicate nella parte descrittiva del presente certificato. La morte della Kungaeva è stata provocata da una pressione sul collo di un oggetto solido, causa dell’asfissia. Gli ematomi riscontrati sul cadavere della Kungaeva (sul viso e sull’anca sinistra), le ecchimosi alla mucosa della bocca e la ferita all’occhio destro sono stati causati da uno o più oggetti solidi di superficie limitata. Trattasi probabilmente di percosse. Le ferite indicate sono occorse ante mortem e possono essersi formate all’ora e nelle circostanze indicate nella parte descrittiva del presente certificato.
Interrogato quale testimone, il capitano Simuchin Aleksej Viktorovič, investigatore della procura militare, ha dichiarato di aver ricevuto disposizione di scortare Budanov alla pista di decollo dell’unità 13206 in data 27.03.2000, affinché fosse tradotto a Chankala.
Durante l’inchiesta Budanov è apparso molto nervoso, chiedeva continuamente come comportarsi, che cosa dire e che cosa fare. La mattina del 28.03.2000, quale membro della commissione inquirente e in compagnia del testimone Egorov, Simuchin ha svolto delle indagini intese al recupero del cadavere della Kungaeva. Egorov ha indicato il luogo in cui la Kungaeva era stata sepolta. La sepoltura era molto ben camuffata e coperta di sterco, e se Egorov non avesse indicato dov’era sepolta la vittima, non sarebbe stato possibile inividuare il luogo. Il corpo era in posizione semiseduta, ‘fetale’, completamente nudo.
Parte lesa Bagreev Roman Vital’evič
Nato a Nikopol’, regione di Dnepropetrovsk, Repubblica Socialista Sovietica di Ucraina, il 12.02.1975, vicecomandante dell’unità 13206 del battaglione carristi, tenente, ha dichiarato quanto segue.
Quale membro del 160° battaglione, ha preso parte a operazioni antiterrorismo dall’1.10.1999. Sostiene di non avere conti in sospeso con Budanov o Fedorov.
Il 20.03.2000 la sua compagnia di ricognizione giunge al villaggio di Tangi da quello di Komsomolskoe. Tra le unità del reggimento viene indetta una gara per stabilire quale sia la meglio organizzata. La vincitrice risulta la divisione contraerea. Fedorov non condivide il risultato e vuole convincere tutti quanti che i migliori sono i ricognitori. Per convincere anche Budanov, il 26 marzo Fedorov insiste per fargli ispezionare l’accampamento della compagnia.
Dopo le ore 18 al campo giungono Budanov, Fedorov, Silivanec e Arzumanjan [tutti ufficiali del reggimento carristi]. Budanov è in stato di ubriachezza, ma riesce, tuttavia, a controllarsi. Fedorov ha bevuto molto, parla in modo sconnesso, incespica. Cerca di convincere Budanov a verificare l’operatività della compagnia. Budanov rifiuta tre volte o forse più, ma Fedorov non demorde. Budanov cede e autorizza Fedorov a ordinare l’attacco.
Bagreev corre subito alle trincee della compagnia. Fedorov lo segue. I veicoli prendono posizione. Budanov resta al centro trasmissioni. Sa che i veicoli sono dotati di proiettili dirompenti. Oltre all’ordine di Fedorov non ci sono ragioni palesi per aprire il fuoco sul villaggio.
Gli uomini prendono posizione sui veicoli e Bagreev dà ordine di togliere la granata dirompente, inserirne una a carica cava e sparare un colpo sopra le case. Se sparata in aria e se non incontra ostacoli, la carica si autodistrugge. La granata dirompente, invece, non può autodistruggersi. Al momento della ricarica si verifica un intoppo.
Il veicolo n. 380 spara in aria, sopra le case. Fedorov se ne accorge, salta su un altro veicolo e dà ordine all’addetto di sparare su Tangi. Scontento dell’operato di Bagreev, Fedorov afferra quest’ultimo per l’uniforme e lo insulta. Budanov convoca Bagreev, che si presenta al centro comunicazioni e vi trova Budanov e Fedorov. Che lo picchiano a sangue.
A un controllo effettuato risulta che a sud-ovest dell’unità 13206, a una distanza di 25 metri dal comando del reggimento, il 27.03.2000 c’era una fossa coperta da tre assi squadrate. Trattavasi di un affossamento del terreno lungo 2,4 metri, largo 1,6 e profondo 1,3 con pareti ricoperte di mattoni e fondo in terriccio.
[Un chiarimento. Quanto avete letto è la prima descrizione in un documento legale del già citato zindan, pozzo di tortura molto diffuso nella seconda guerra cecena. Di norma gli zindan vengono utilizzati per i prigionieri ceceni, ma anche per soldati russi – più di rado per i sottufficiali – colpevoli di qualche misfatto].
Il testimone Pachomov Dmitrij Igorevič, soldato semplice, dichiara che il 26.03.2000 verso le ore 20 Fedorov aveva gridato a Bagreev: «Ti insegno io come si obbedisce agli ordini, moccioso!» riversando su di lui una pioggia di insulti e offese. Gli uomini di Fedorov avevano legato Bagreev e lo avevano calato nella fossa. Nel reggimento si erano già verificati casi del genere – soldati a contratto ubriachi erano stati legati e messi nella fossa –, ma l’incredibile era che quel giorno toccasse al comandante dell’unità di ricognizione.
Dopo circa un’ora Budanov aveva nuovamente messo in allerta gli uomini del plotone che al loro arrivo avevano trovato Bagreev già riverso a terra. Budanov e Fedorov avevano ricominciato a picchiarlo. Dopo di che, su ordine di Budanov, Bagreev era stato legato e rimesso nella fossa. Poi Fedorov era saltato dentro e aveva cominciato a picchiare Bagreev, che intanto urlava e gemeva. Silivanec era saltato nella fossa per tirar fuori Fedorov. Verso le due, dalla sua tenda, Pachomov aveva sentito delle raffiche di mitra. Aveva poi saputo che a sparare era stato Suslov: voleva far tornare in sé Fedorov e fermarlo mentre cercava di raggiungere Bagreev.
[La causa penale a carico di Grigor’ev, Li-en-Shou e Egorov, accusati di favoreggiamento preterintenzionale nell’omicidio della Kungaeva – crimine commesso da Budanov ex articolo 316 del Codice penale della Federazione Russa – è stata chiusa in seguito a un’amnistia].
Conformemente a quanto stabilito dalla perizia legale psicologico-psichiatrica, al momento in cui compiva gli atti di cui era incriminato ai danni di Bagreev, Budanov non si trovava in uno stato di temporanea infermità mentale, né presentava scompensi patologici o fisici. Al momento dell’omicidio della Kungaeva Budanov si trovava in uno stato psico-emotivo transitorio indotto dalla situazione e non si rendeva pienamente conto della natura e del significato delle sue azioni né era in grado di usare la propria volontà per controllarle.
Sulla base di quanto premesso, si autorizzano le accuse a carico di Budanov Jurij Dmitrievič e Fedorov Ivan Ivanovič.
Il viceprocuratore del distretto militare
del Caucaso Settentrionale
colonnello Achmedov Š.M.
Il processo
Il caso Budanov, dunque, passa al tribunale. È l’estate del 2001. Il primo giudice a vagliare i crimini di Budanov è il colonnello Viktor Kostin, in forza al tribunale militare del distretto del Caucaso Settentrionale situato a Rostov sul Don (città in cui ha sede anche lo Stato Maggiore del distretto militare succitato). A Rostov sul Don l’influenza dei militari è fortissima. A Rostov si trova il più importante ospedale militare, dove sono passati migliaia di feriti e mutilati. E a Rostov vivono le famiglie di molti ufficiali di stanza in Cecenia. In un certo senso si può dire che sia una città di frontiera. Una circostanza estremamente importante nell’iter giudiziario del caso Budanov. Picchetti e raduni fuori del tribunale in difesa di Budanov e al grido di «La Russia alla sbarra!», «Liberate il nostro eroe!» sono stati l’immancabile corollario al processo.
La prima fase delle udienze durò più di un anno, dall’estate del 2001 all’ottobre del 2002. Non fu intesa alla ricerca dei colpevoli e degli innocenti, ma del modo per assolvere Budanov da ogni sua colpa. Nel corso del procedimento il giudice Kostin non nascose d’essere apertamente filobudanoviano, respinse ogni richiesta proveniente dai Kungaev e qualunque testimonianza che potesse ritorcersi contro Budanov. Rifiutò persino di interrogare i generali Gerasimov e Verbickij, in quanto responsabili dell’arresto del colonnello omicida.
In quei mesi persino il pubblico ministero si espresse a favore dell’imputato, assurgendo a suo secondo difensore (laddove dovrebbe essergli stato chiaro che erano le vittime i suoi clienti).
Quel che accadeva in aula era anche quel che accadeva fuori. L’opinione pubblica era tutta ‘pro’ Budanov (con raduni di bandiere rosse presso il tribunale e fiori per l’imputato quando veniva accompagnato all’interno dell’edificio). Altrettanto dicasi per le alte sfere del ministero della Difesa (con il ministro Ivanov che sosteneva pubblicamente la «palese innocenza» di Budanov).
La base ideologica per l’‘assoluzione’ di Budanov fu la seguente: aveva ucciso, certo, ma aveva il diritto di farlo, di comportarsi con El’za Kungaeva come aveva fatto in quanto – ritenendola un cecchino responsabile della morte di alcuni ufficiali del reggimento nel febbraio del 2000, durante i violenti scontri nella Gola di Argun – si stava vendicando di un nemico. Come fu spiegato al processo, vendicarsi dei «nemici» – e i ceceni lo sono – è cosa buona e giusta...
La famiglia Kungaev ebbe problemi con gli avvocati sin dai primi giorni del processo. I Kungaev sono poverissimi, hanno molti figli ma non un lavoro, e dopo la tragica morte della figlia maggiore per mano del colonnello e la denuncia sporta a suo carico furono costretti a trasferirsi nella tenda di un campo profughi in Inguscezia per paura di ritorsioni da parte dei militari (e minacce ne avevano avute). Si ritrovarono, dunque, senza avvocati difensori. Fu allora che l’associazione Memorial (con base a Mosca, ma con una filiale a Rostov sul Don) trovò loro un avvocato e si assunse l’onere di fornirgli un seppur minimo stipendio.
Il primo legale coinvolto fu Abdula Chamzaev, avvocato ceceno di lunga esperienza residente a Mosca da tempo, oltre che lontano parente dei Kungaev.6 Va detto che la sua difesa fu per molto tempo inefficace, per non dire controproducente. Ma Abdula Chamzaev non ne ha colpa. È la nostra società che sta diventando via via più razzista e che non si fida di chi viene dal Caucaso e tanto più dalla Cecenia. Le conferenze stampa che Chamzaev convocò a Mosca per esporre le difficoltà del processo in atto a Rostov non ebbero alcun esito: i giornalisti non gli credevano, ragion per cui non ci fu alcuna campagna stampa in difesa della Kungaeva. Una campagna che, purtroppo, era l’unica ancora di salvezza in un caso politico arenatosi già sul nascere.
A quel punto Memorial chiamò in aiuto di Chamzaev un giovane avvocato moscovita, Stanislav Markelov, membro dell’Ordine interrepubblicano degli avvocati a cui, fra l’altro, apparteneva anche il collegio di difesa di Budanov. I casi più importanti di cui si era occupato Markelov – e che gli erano valsi l’attenzione di Memorial – erano stati i primi, in Russia, con accuse di terrorismo ed estremismo politico: gli attentati dinamitardi ai monumenti dell’imperatore Nicola II nei dintorni di Mosca, l’analogo tentativo di far saltare quello di Pietro I, e l’assassinio da parte di skinhead di cittadini russi di origine afghana.
Markelov è russo, un dettaglio fondamentale. Memorial fece la scelta giusta. Sarebbero state proprio l’energia di Markelov, una tattica ben scelta e la sua capacità di trattare con la stampa ad attirare sul processo l’attenzione del Paese e dei giornalisti di Mosca, russi e stranieri: fu una svolta cruciale per l’iter del processo.
Un esempio: una dichiarazione di Markelov riguardo a quanto visto in aula appena assunto l’incarico (ricordiamo che, di fatto, si trattava di un processo a porte chiuse, dove i giornalisti non erano ammessi):
«La corte pareva avere molta fretta, non approfondiva nessuna delle nostre richieste, ricusava qualunque mossa contraria agli interessi di Budanov. Era ammesso solo ciò che andava a suo favore o in sua difesa. Tutti i nostri ricorsi – la richiesta di convocare i ‘nostri’ testimoni, per esempio, di nominare degli esperti o di svolgere delle perizie super partes –, non venivano neppure presi in considerazione. Avevo l’impressione che il giudice Kostin non li leggesse nemmeno... Perché per quanti ne potessimo produrre, e arrivarono a essere più di una decina al giorno, ci venivano rifiutati tutti quanti».
«Perché tanti ricorsi?» gli ho chiesto. «Quel profluvio di carte era una provocazione, ne convenga. Era davvero la linea di difesa più adatta?».
«Il motivo era semplice: la corte consentiva continue violazioni della legge, e in quanto avvocati eravamo tenuti a reagire. Perché tante richieste e perché tanti testimoni a favore della parte lesa, mi chiede? Perché su due di loro, per esempio, si è accesa una battaglia conclusasi solo quando la corte è riuscita a non farli testimoniare. Le ricordo le circostanze del caso: il giorno prima che il crimine fosse commesso, il 26 marzo del 2000, Budanov e gli altri ufficiali – come da loro stessi dichiarato nel corso dell’istruttoria – avevano fermato due ceceni, uno dei quali, a loro dire, avrebbe indicato una casa in cui, sempre a detta di Budanov, viveva una famiglia che aiutava i terroristi o che di terroristi era composta. Gli atti del processo riportano i nomi degli informatori, che non sono mai stati tenuti nascosti. Noi, come difesa, abbiamo cercato di capire chi fossero le persone che avevano indotto in errore Budanov indicandogli la casa dei Kungaev. Sempre ammesso che quanto dichiarato fosse vero e che davvero lo avessero indotto in errore. La nostra posizione era comprensibile: volevamo che quelle persone si presentassero in aula e ci dicessero perché l’avevano fatto. E lì sono cominciate le stranezze... Abbiamo scoperto che un informatore era sordomuto. Che cioè non poteva fisicamente sentire la domanda di Budanov. E che fisicamente non poteva dargli una riposta. E si badi che nei materiali prodotti si sostiene che fosse stato quell’informatore a “riferire” tutto quanto a Budanov!...».
«E l’altro?».
«Trovarlo è stato ancora più facile. Il 26 marzo, dopo aver incontrato Budanov, il secondo informatore e il colonnello, per pura fatalità, è ovvio, furono fotografati insieme dai corrispondenti del giornale militare del ministero della Difesa “Krasnaja zvezda”, che proprio quel giorno stavano lavorando al villaggio di Tangi-Ču. Undici loro fotografie sono state accluse agli atti. Così ha deciso la procura militare che ha condotto l’istruttoria. Ciò significa che quell’uomo poteva essere rintracciato in qualunque momento e poteva presentarsi al processo per confermare che quella fatidica sera Budanov era andato a Tangi-Ču ad arrestare dei terroristi. Così pensavamo noi, e pensavamo anche che fosse una cosa importante e fondamentale. Invece sono cominciati malintesi e fraintendimenti. Abbiamo studiato attentamente le fotografie fornite dai corrispondenti di “Krasnaja zvezda” e abbiamo scoperto che la data che vi è impressa è il 25 marzo, e non il 26, come insisteva Budanov a conferma della sua versione (e come da materiali dell’istruttoria). Tengo a ricordare che a suo dire Budanov avrebbe ricevuto le informazioni sulla ‘cecchina’ il 26 marzo e che, smanioso di vendicare i compagni uccisi, si sarebbe subito recato a ‘catturarla’. Avrebbe faticato ad attendere fino a sera, sopraffatto com’era da quelle stesse emozioni che, in seguito e come comprovato dalla perizia medica legale, lo avrebbero indotto a sbarazzarsi della ‘cecchina’ per vendicare secondo le leggi di guerra i compagni caduti... Se invece dovesse risultare che la notizia gli era giunta il 25 marzo, come potremmo parlare di reazioni spontanee e impulsive a giustificazione della sua condotta? Abbiamo dei testimoni che dichiarano che per tutto il 25 marzo e per metà del 26, quando poi aveva cominciato a bere con gli ufficiali per festeggiare il compleanno della figlia, il colonnello era tranquillo e non manifestava alcuna intenzione di vendetta su fantomatici cecchini...».
«D’accordo, ma cerchiamo di essere obiettivi. Le date sono sbagliate... Va bene. Può capitare. C’è la guerra, laggiù... Passi...».
«No, non “passi” un bel niente. Nel caso Budanov ci sono dettagli che non coincidono a ogni piè sospinto. Ci sono sviste di ogni tipo. Nei materiali dell’istruttoria, per esempio, si dice che l’informatore avrebbe indicato come “casa della cecchina” un edificio color “bianco sporco”. Ma quello da cui Budanov ha prelevato El’za è di mattoni ed è rosso, come si vede dalle foto che abbiamo prodotto in aula».
«Come ha reagito il giudice Kostin?».
«Non ha reagito. Come sempre... Un altro esempio: a prestar fede a Budanov, l’informatore gli avrebbe detto che la ‘cecchina’ viveva in via Zarečnaja, mentre Budanov ha preso la ragazza in vicolo Zarečnyj, che si trova a un chilometro dalla via omonima, e cioè all’estremo opposto del villaggio!... Difficile immaginare che l’informatore non abbia indicato a Budanov almeno la direzione da prendere per catturare la sua ‘cecchina’... Anche a una persona qualunque, e non necessariamente a un giurista, tutte queste incongruenze dicono una cosa sola, e cioè che la corte avrebbe dovuto ascoltare l’informatore e avrebbe dovuto convocarlo. Così da poter stabilire la verità. Che cos’era accaduto a Tangi-Ču il giorno del decisivo incontro fra gli informatori e Budanov? Budanov era davvero andato a cercare una ‘cecchina’? O era solo una bella ragazza, che voleva? Una bella ragazza dopo una bella bevuta? Allora sì che il castello dell’“operazione antiterrorismo”, di cui Budanov sarebbe l’eroe e la vittima, cadrebbe, e tutta la componente ideologica verrebbe a mancare. Inoltre, nel trarre le sue conclusioni, la perizia psichiatrica non potrebbe tenere conto dell’“eroismo” di Budanov e della sua “volontà di vendetta”. Tanto più che i materiali riportano notizia di diverse “donne del colonnello” (“Il comandante ne ha presa un’altra”: cito da una deposizione), e che diversi militari hanno eloquentemente testimoniato sull’atmosfera che regnava nel 160° reggimento, riferendo i particolari della quotidianità dei carristi nell’accampamento presso Tangi-Ču...».
«Cos’è successo, poi?».
«La corte ha dichiarato di non voler dar seguito alla cosa, di non essere un’agenzia investigativa e di non essere tenuta a cercare la persona in oggetto... Va da sé che i nostri avvocati si sono messi in moto e lo hanno trovato. È risultato essere un certo Ramzan Sembiev, detenuto che stava scontando una condanna per rapimento in una colonia penale a regime duro del Dagestan. Quello che conta, però, non è la sua personalità né il fatto che avesse commesso crimini ignobili: aver trovato Sembiev in una colonia penale significava solo che portarlo in aula non avrebbe comportato alcuna difficoltà. Perché le norme di Procedura penale russe prevedono che chiunque sia detenuto venga inserito in una banca dati a cui tutti i tribunali hanno accesso. Per comodità del giudice, fra l’altro, abbiamo anche indicato il luogo esatto in cui Sembiev era recluso, non lontano da Rostov sul Don... Anche in questo caso, però, la risposta è stata: “No. Non è necessario. Il teste non può riferire alla corte nulla di sostanziale”. La parola è poi passata al procuratore Nazarov (che all’epoca, il maggio del 2002, rappresentava la pubblica accusa) che ha pronunciato un’arringa più che strana per un giurista, sostenendo che se il testimone era un criminale, non avrebbe certo detto la verità e, dunque, non aveva senso “convocarlo”... Ne fui sbalordito: nel nostro caso Sembiev era un testimone, non un criminale, ma il procuratore pareva non cogliere la differenza...».
«E come mai?».
«Il problema è che al caso Budanov si guardava in chiave ideologica. Il Cremlino faceva pressioni affinché Budanov fosse assolto da ogni peccato. Dunque nulla contava o nulla era rilevante se non andava a vantaggio di Budanov... In ottemperanza alle direttive dall’alto, la procura ha finito per modificare il ruolo che la Costituzione le assegna. Il pubblico ministero rappresenta la pubblica accusa, tenuta in primo luogo a salvaguardare gli interessi della parte lesa. A nome dello Stato. Mentre in questo caso pareva aver assunto la difesa dell’imputato. Oltre all’arringa di Nazarov ci sono stati anche altri casi inspiegabili. Pare che in Dagestan, nella colonia penale che ospita Sembiev, un procuratore locale lo abbia avvicinato e gli abbia chiesto se conosceva Budanov; questi avrebbe risposto di no, che l’aveva visto per la prima volta in televisione...».
«E questo colloquio è stato riportato nel verbale di interrogatorio durante il dibattimento?».
«Certo che no. È stato riferito, ma non formalizzato. La cosa assurda è che la corte ha accettato la spiegazione! Che non l’ha confutata né ha cercato di verificarla! E non ha preteso che venisse messa a verbale!».
«Che cosa cambiano le parole di Sembiev, se mai sono state pronunciate?».
«Si tratta sempre e comunque di stabilire la verità. Quel che ne deriva è che, non conoscendo Budanov, Sembiev non può averlo mandato a casa della ‘cecchina’ El’za, dunque il corrispondente di “Krasnaja zvezda” l’ha fotografato con Budanov per qualche altro motivo...».
«Si può dunque affermare che il tribunale militare ha fatto il possibile perché la causa n. 14/00/0012-00 a carico di Budanov non offrisse un quadro verosimile dei crimini perpetrati? Operando, dunque, in modo opposto a quanto è chiamato a fare dalla Costituzione e dalla legislazione vigente?».
«Assolutamente sì. Lasci che le racconti un’altra vicenda per la quale la corte non ha richiesto conferma alcuna. Una delle prove citate era la fotografia che Budanov diceva di avere da tempo e in cui era ritratta El’za Kungaeva con la madre, entrambe armi in pugno. Budanov ha dichiarato che a dargli la foto delle due donne che avevano sparato agli ufficiali del suo reggimento durante gli scontri della Gola di Argun era stato Jach’jaev, capo del villaggio di Duba-Jurt. Situato all’imbocco della Gola di Argun, quel villaggio era stato l’epicentro dei pesanti scontri avvenuti nel febbraio 2000 con il reggimento di Budanov. La fotografia, sulla base della quale i periti avevano tratto le loro conclusioni come se l’avessero avuta sotto gli occhi, non figurava agli atti. Non c’era. Dunque la perizia era falsa, un buon motivo per non credervi e per pretenderne una seconda. Veniva, inoltre, a mancare il motore da cui, sin dal primo momento, aveva preso il via l’assoluzione di Budanov. La fotografia era il centro di tutto: in preda alla passione e al ricordo dei compagni d’arme caduti sotto il fuoco della cecchina, Budanov conservava stretta al cuore quella foto come un giuramento: l’avrebbe trovata e l’avrebbe uccisa, quella donna, per sé e per loro. E dunque, quando l’informatore gli dà l’indirizzo, i nervi gli cedono e, invece di chiamare in causa le forze di sicurezza, Budanov decide di farsi giustizia da solo...».
«Va bene, la fotografia non c’è, ma esiste la testimonianza di Jach’jaev. Che poteva essere interrogato in aula, no?».
«Secondo la normale logica giudiziaria, che prevede di scavare fino a che la verità e le responsabilità di ognuno non saltano fuori, certo che sì. Ma il nostro era un processo ideologico in difesa degli interessi di criminali di guerra. Che poi sono gli interessi dello Stato. Anche in questo caso, dunque, il giudice Kostin disse che Jach’jaev non serviva e che non avrebbe avuto nulla di importante da riferire alla corte. Mentre invece poteva dare una svolta decisiva al processo. Lo rintracciammo noi, e lui si disse disposto a presentarsi in aula. Vero è che non poteva farlo di sua spontanea volontà: serviva un mandato di comparizione del tribunale per passare i posti di blocco e di confine in Cecenia... Mandato che non venne emesso».
«Come ha giustificato il giudice Kostin il suo rifiuto di interrogare il generale Gerasimov, che la mattina del 27 marzo si era recato al 160° reggimento e aveva dato ordine di arrestare Budanov?».
«La stessa usata per Jach’jaev: “Gerasimov non può aggiungere nulla di nuovo agli atti”. Una frase impenetrabile. Il giudice non ha voluto ascoltare le deposizioni del generale, mentre invece Gerasimov avrebbe potuto dirci in che stato era il colonnello la mattina dopo il crimine, dato che sull’argomento c’era grande discordanza. Lui l’aveva visto e gli aveva parlato. Budanov mostrava le conseguenze della sbronza del giorno prima, per esempio? La perizia aveva già messo in dubbio che la notte in cui il crimine era stato commesso Budanov fosse ubriaco, e ora il colonnello era di colpo diventato “sobrio”, benché durante l’istruttoria diversi testimoni avessero dichiarato che prima di uccidere El’za Kungaeva Budanov era sbronzo... E com’era Budanov la mattina del 27? Era, il suo, come dichiarato dalla prima perizia [ne furono fatte sei in tutto], uno stato perturbato dovuto all’uso eccessivo di alcol o alla sua incapacità di intendere e di volere? Ma dato che l’incapacità di intendere e di volere non è cosa che passi nel giro di qualche ora, come sostengono gli psichiatri indipendenti dei nostri giorni, Budanov capiva o no ciò che stava facendo? E allora perché la perizia afferma che non si rendeva conto delle sue azioni e quindi non poteva essere condannato per quanto commesso? Non sarà perché così Budanov sarebbe stato ‘lavato’ dei suoi peccati?».
«L’interrogatorio in aula di Gerasimov, inoltre, avrebbe aiutato a stabilire se Budanov si era opposto o meno all’arresto. È risaputo che quando il generale e gli uomini dei reparti speciali si erano presentati al 160° reggimento per arrestarlo, per tutta risposta Budanov aveva chiamato i suoi e aveva ordinato loro di rispondere con le armi ai militari di Gerasimov. Per poco non ci era scappata una sparatoria...».
«Esattamente. Budanov aveva estratto la pistola e Gerasimov aveva temuto che gli sparasse... Poi, però, Budanov aveva messo giudizio e si era sparato a un piede... È tutto riportato agli atti, e la corte era obbligata a esaminarli. Ma non lo ha fatto. Tirando le somme, vorrei far notare che il processo si è svolto senza tenere in alcun conto qualsiasi circostanza potesse nuocere al colonnello».
«Bene. Ma se Budanov si fosse opposto all’arresto, che cosa sarebbe cambiato?».
«Molto. In primo luogo sarebbe stata un’ulteriore accusa a suo carico. E in secondo, avrebbe messo in luce una caratteristica significativa della personalità di Budanov. Ricusando tutte le nostre richieste e tutti i nostri testimoni, la corte ha accluso agli atti solo la lettera ricevuta dal generale Vladimir Šamanov, ora governatore della regione di Ul’janovsk [Šamanov è un vecchio amico di Budanov e il 160° reggimento ha combattuto a lungo in Cecenia ai suoi ordini]. La lettera non ci porta nulla di nuovo. Infatti quando Budanov commise il crimine Šamanov non era in Cecenia, ma a Mosca, in licenza. Trasuda, invece, ideologia: sostiene che Budanov è “innocente” e che aveva tutti i diritti di arrestare la Kungaeva in quanto cecchina, nonché tutti i diritti di ucciderla quando lei aveva opposto resistenza... Šamanov ha scritto alla corte in veste di combattente della seconda guerra cecena e di superiore diretto di Budanov, e la corte è stata solerte ad accludere la lettera agli atti».
«A giudicare dal contenuto, la lettera di Šamanov è una perorazione ideologica. Possiamo sostenere che l’intero processo sia un processo ideologico, in quanto la corte si è rifiutata di ascoltare informazioni concrete da testimoni diretti quali il generale Gerasimov, Sembiev e Jach’jaev, mentre ha accettato di allegare il testo “patriottico” del generale Šamanov, che non è un testimone ma è, invece, l’ideologo della brutalità dei militari applicata alla popolazione civile della Cecenia, convinto com’è che il popolo ceceno sia collettivamente responsabile delle azioni di singoli criminali?».
«Esattamente. In aula regnavano il caos, l’assurdo, la confusione più totale. Una confusione voluta, a mio parere. Lo scopo era palese: evitare una disamina concreta del caso e dei crimini di Budanov e ridurre tutto a una “rappresaglia ai danni di un ufficiale russo”. Come ho già detto, inoltre, la corte ha commesso palesi violazioni procedurali. La lettura degli atti, per esempio, ha richiesto in tutto un’ora e mezza, per dieci grossi faldoni!».
«Come li ha letti, il giudice?».
«Non li ha letti, li ha sfogliati. Dopo di che ha dichiarato che l’istruttoria era chiusa. Il giorno seguente, però, è stata riaperta senza alcuna ordinanza in merito. Ci sono violazioni a ogni piè sospinto. Tutte cose che ci consentiranno di ricorrere in appello una volta emessa la sentenza».
«Per lei, russo, non è un problema difendere gli interessi di una famiglia cecena? È ormai pratica consueta che i ceceni vengano difesi da ceceni e i russi da russi...».
«Ad assumermi è stata Memorial, che si è fatta carico della difesa dei Kungaev. È noto che si tratta di una famiglia povera, che non può permettersi un legale... In un primo momento a difenderli c’era l’avvocato Chamzaev, che poi si è ammalato gravemente. I Kungaev si sono ritrovati senza un legale e la corte ha colto la palla al balzo cercando di accelerare i tempi e di emettere la sentenza. Questo nel maggio del 2002. È stato allora che Memorial mi ha contattato. Quando sono arrivato a Rostov, nei corridoi del tribunale me l’hanno chiesto apertamente: “Che cosa c’entri, tu, con la diaspora cecena?”. E io ho risposto: “La vedete la mia faccia? Niente di niente”. La seconda domanda è stata: “Di che nazionalità è, lei?”. E a chiedermelo non erano solo quelli del “gruppo di appoggio a Budanov”. Me lo ha chiesto Budanov stesso, in aula. Che, fra l’altro, in udienza, non faceva che urlarmi contro cose del tipo: “Come mai te la prendi tanto a cuore, tu? Eh?”».
«Le dava del “tu”?».
«Ovvio. È un militare e crede che tutto gli sia permesso. Già che ci siamo, il giudice non l’ha mai richiamato all’ordine. Gli era tutto permesso. Ho quasi l’impressione che il giudice lo temesse».
«Budanov inveiva anche contro i suoi tre avvocati?».
«Certo che no. Quando non ne potei più di sentirmi chiedere di che nazionalità fossi, dissi ai giornalisti di Rostov che ero russo e che era proprio per quello che avevo accettato la causa. Perché difendevo le leggi del diritto russo. La corte, invece, difendeva il diritto consuetudinario. E Budanov si atteneva alle norme deviate del diritto consuetudinario medioevale dei ceceni: l’uccisione come forma di vendetta. Una vendetta sostenuta anche dal tribunale e dalla società. Il colonnello Budanov non si comportava nel rispetto di quel diritto russo a cui era tenuto a obbedire. Quanto accaduto in aula dimostra che le alte sfere del Paese, il governo in genere, sembrano sottoscrivere il fatto che in territorio ceceno il diritto nazionale non vale. Quel che vale è il diritto alla vendetta, con la benedizione dello Stato».
Giocando con le perizie psichiatriche
Uno dei passatempi preferiti del caso Budanov sono state le perizie psichiatriche.
Passatempi, sì. Nei tre anni del processo il colonnello si è meritato prima quattro e poi, dopo la revoca della prima sentenza, altre due perizie psichiatriche. I risultati di quasi tutte sono stati politici anch’essi, sempre allineati con la condotta che il Cremlino teneva nei confronti di Budanov in un determinato momento. Una linea che mutava a seconda della congiuntura politica e dell’immagine pubblica che serviva al presidente.
Due perizie (le prime due) ebbero luogo a ridosso – o quasi – dei crimini commessi, durante l’istruttoria preliminare, tra maggio e agosto del 2000. La prima fu effettuata in ambulatorio dagli psichiatri dell’ospedale militare distrettuale del Caucaso Settentrionale e del laboratorio centrale di medicina forense del ministero della Giustizia russo. La seconda dai medici dell’ospedale psiconeurologico civile della regione di Novočerkassk.
Le prime due perizie stabilirono che Budanov era capace di intendere e di volere, che aveva una cognizione chiara del tempo, dello spazio e delle persone. Era dunque tenuto a rispondere delle sue azioni. Si era, allora, all’epoca in cui Putin proclamava ai quattro venti che alla Russia serviva una «dittatura della legge». I militari che commettevano crimini in Cecenia, dunque, andavano puniti, e con loro i guerriglieri ceceni membri di formazioni armate...
Era inoltre un’epoca di ammiccamenti ai ceceni dopo i feroci scontri del 1999-2000, con l’elezione a capo della Repubblica di Achmat-Haci Kadyrov, mufti di Dudaev, che in un primo momento aveva inneggiato alla jihad contro la Russia e che poi – «resosi conto della situazione» – era diventato amico del Cremlino.
Le due prime perizie, inoltre, rilevarono la seguente circostanza: mentre soffocava El’za Kungaeva era probabile che Budanov fosse mentalmente disturbato, oltre a presentare sintomi di una disfunzione cerebrale sfociata in «disturbi della personalità e del comportamento».
Va da sé che simili conclusioni risultarono quanto mai sgradite al ministero della Difesa, poiché presentavano due implicazioni. La prima era che, essendo capace di intendere e di volere, Budanov avrebbe dovuto rispondere di fronte alla legge delle sue azioni. La seconda, che l’esercito russo utilizzava in battaglia gente con disturbi mentali che nessuno si premurava di rilevare. E che, dunque, la responsabilità di centinaia di uomini e di armamenti modernissimi era delegata a soggetti mentalmente disturbati...
Quando il processo iniziò, fu subito chiaro che le conclusioni degli psichiatri non andavano a genio a Kostin. E le ragioni erano almeno due.
La prima che, in quanto giudice militare, Kostin era lui stesso un dipendente del ministero della Difesa. La Russia ha appositi tribunali militari con relativi giudici per dirimere cause riguardanti crimini commessi da chi serve nell’esercito. Si tratta, dunque, di persone sottomesse in tutto e per tutto al sistema militare, carne della sua stessa carne, e che – dai comandanti di guarnigione al ministro della Difesa – dipendono dall’esercito quanto ad alloggio, stipendio, promozioni, eccetera. È un sistema assurdo che, però, fa sì che il giudice Kostin possa ottenere una promozione (la casa o una gratifica) solo dal Quartier Generale del distretto militare del Caucaso Settentrionale, quello stesso distretto ai cui ordini si trovava l’imputato Budanov e che più volte aveva dichiarato di ritenerlo innocente, anzi vittima dei servigi resi alla Patria...
La seconda ragione consisteva nel fatto che quando il processo ebbe inizio, in Russia la congiuntura politica stava cambiando radicalmente. Il Cremlino si stava disamorando dei giochi alla democrazia e alla «dittatura della legge». Di conseguenza, tutti coloro che combattevano in Cecenia erano «eroi» indipendentemente da quello che facevano, e il presidente cominciò a distribuire gradi e onorificenze a piene mani, rassicurando tutti quanti che lo Stato non li avrebbe mai «traditi». Una parola che nel lessico del potere significa molto: il potere, cioè, aveva tutte le intenzioni di essere indulgente fino all’assoluzione nei confronti dei criminali della guerra cecena, e le procure che avevano intentato delle cause penali contro i militari della Federazione accusati di crimini ai danni della popolazione civile andavano messe a tacere...
Controllati anch’essi dallo Stato, i mass media si diedero a diffondere il nuovo verbo. La televisione non faceva che ripetere con quanta onestà Budanov avesse compiuto il proprio dovere, e il generale Šamanov (lo stesso che aveva scritto la lettera) appariva continuamente in video con i suoi bei discorsi patriottici in onore dell’intrepido compagno d’armi. Nessuno metteva ormai in dubbio, almeno in televisione, che la diciottenne cecena di Tangi-Ču fosse una cecchina e una guerrigliera, e nessuno ricordava che né l’istruttoria né i difensori di Budanov erano riusciti a trovare una prova – per quanto indiretta – del coinvolgimento della ragazza con la guerriglia.
La politica aveva ordinato di lavare il cervello alla popolazione, e questo era quel che si stava facendo a spron battuto in attesa di una sentenza assolutoria.
Fu proprio in quel mentre che a Rostov sul Don la corte «mise in dubbio» le competenze dei periti incaricati dei due esami psichiatrici e richiese una terza perizia. Si sarebbe trattato di un esame misto, militare e civile, da svolgersi a Mosca presso il Laboratorio centrale di medicina legale del ministero della Difesa e del Centro scientifico statale di psichiatria sociale e forense V.P. Serbskij.
La pessima fama del Serbskij risale agli anni sovietici, quando tra le sue mura venivano dichiarati pazzi i dissidenti che si opponevano al comunismo, alla menzogna totalitaria e alla repressione politica. I dottori del Serbskij non mancavano mai di ottemperare agli ordini dell’onnipotente KGB.
Al Serbskij finì anche Budanov. Quando lo si seppe, pochi dubitarono del perché vi fosse stato mandato. Si stava facendo il possibile per scagionarlo. «Adesso lo liberano» sostenevano i fan di Budanov. Lo stesso dicevano i suoi detrattori.
Ufficialmente la necessità di una terza perizia era stata imputata ai «dati poco precisi, contraddittori e non esaurienti» delle due che l’avevano preceduta, oltre che alla comparsa di «nuovi e più precisi elementi», essenziali per «determinare il reale stato psichico di Budanov».
«Non esauriente» era, per il giudice Kostin, «l’indesiderabile sanità mentale» (e cito dall’ordinanza del tribunale), mentre i «nuovi elementi» consistevano nel fatto che, grazie agli inquirenti della procura che avevano condotto l’istruttoria preliminare, il caso rimandava ad altri episodi dell’epopea criminale di Budanov (che vennero poi stralciati), prova del fatto che il colonnello aveva commesso gravi delitti.
Poco importa che alcuni dei casi sottoposti a perizia non fossero mai accaduti. Se favorivano il colonnello, i medici li prendevano in considerazione e li ritenevano incontrovertibili.
Si trattava, dunque, di un falso conclamato. Sia da parte del tribunale sia da parte del Serbskij. Queste le domande che il giudice Kostin pose agli psichiatri della terza commissione:
1. Budanov ha sofferto o soffre al momento di un qualche disturbo mentale cronico?
2. All’epoca dei fatti che gli vengono contestati, Budanov si trovava in uno stato di temporanea instabilità mentale? Era in grado di capire la natura dei propri gesti e il pericolo che potevano generare? Era in grado di controllarli?
3. Quali tratti psicologici della personalità di Budanov possono aver contribuito o influito sul suo comportamento nelle situazioni in esame?
4. Al momento in cui compì gli atti di cui è accusato, Budanov si trovava in uno stato emotivo particolare (stress, frustrazione, instabilità mentale)?
5. Il comportamento della Kungaeva può aver influito sull’insorgere in Budanov di una temporanea instabilità mentale? Il comportamento della Kungaeva può aver istigato Budanov?
6. Quale ruolo può aver avuto la vodka nel comportamento di Budanov?
7. Come può essere definito lo stato di Budanov in relazione agli atti commessi ai danni della Kungaeva nell’abitacolo del mezzo di servizio nella notte tra il 26 e il 27 marzo 2000, nel caso in cui a) egli la ritenesse la figlia di una cecchina che si rifiutava di rivelargli dove si trovasse la madre, che lo offendeva [non lo fece mai, è pura invenzione, come confermato da innumerevoli testimonianze messe agli atti: El’za non parlava russo], cercava di scappare [non ci provò mai, si tratta anche in questo caso di invenzioni a favore dell’imputato] e gli opponeva resistenza? b) la ragazza avesse cercato di afferrare un’arma carica? c) egli la ritenesse una cecchina e le mostrasse la foto che la smascherava? [il giudice rimanda al verbale dell’udienza del 27 e 28 giugno 2001, e la circostanza pare assodata; in realtà la fotografia non è mai stata rinvenuta e nessuno l’ha mai presentata in aula, nemmeno Budanov; anche il rimando al verbale si riferisce a un’affermazione mai comprovata che Budanov aveva rilasciato nel corso dell’istruttoria].
8. Budanov necessita di cure mediche obbligatorie?
9. All’epoca dei fatti che gli vengono imputati, lo stato mentale di Budanov lo rendeva atto a prestare servizio nell’esercito? E lo rende tale oggi?
10. Le conclusioni dei periti dell’istruttoria sono clinicamente fondate e scientificamente solide?
Quanto segue è la conclusione del Serbskij, la perizia n. 1111 a carico del colonnello Budanov. Si faccia caso che ogni singolo particolare, dalla nascita alla seconda guerra cecena, contribuisce a costruire l’immagine dell’‘eroe’.
A detta di Budanov, il suo era stato un parto difficile, con rischio di asfissia e conseguente rianimazione. A detta della madre e della sorella, Budanov era un ragazzo vulnerabile, se offeso reagiva prontamente, con male parole o azzuffandosi; era molto sensibile ai rimproveri ingiusti, nel qual caso si metteva sempre dalla parte dei ‘deboli’, dei poveri e dei più giovani.
Nell’aprile del 1982 la commissione medica del distretto militare di Charcyzsk, regione del Doneck, lo riconosce abile alla leva. Nel 1983 viene ammesso all’Istituto superiore carristi di Char’kov. Nel 1985 si sposa; ha due figli, un maschio e una femmina. Dal 1995 al 1999 frequenta per corrispondenza l’Accademia militare per truppe corazzate.
Secondo il suo stato di servizio, Budanov si è sempre distinto in senso positivo, mostrandosi disciplinato, tenace e pronto agli ordini. Nel gennaio del 1995, durante la «prima campagna militare cecena», Budanov prende parte agli scontri e riporta un trauma cranico con breve perdita di conoscenza. Non chiede assistenza medica. A detta della madre e della sorella, di ritorno dalla prima guerra cecena Budanov è «cambiato e anche il suo carattere è diverso», più nervoso, più irritabile. Nell’agosto del 1998 diventa comandante di reggimento, nel gennaio del 2000 viene nominato colonnello con largo anticipo sul previsto. Nelle unità ai suoi ordini Budanov instaura un clima di intolleranza verso casi di lassismo e indolenza. Dà prova di un fortissimo senso di responsabilità. Riceve onorificenze governative e due medaglie al valore.
Tra i compagni di Budanov, nessuno ha mai notato in lui «alterazioni mentali». Budanov non è mai stato visitato da uno psichiatra o da un neurologo.
Budanov dichiara che il suo reggimento da che è giunto in Cecenia dal distretto militare della Transbajkalia, il 10 ottobre del 1999, non ha praticamente mai smesso di combattere fino al 20 marzo del 2000. Nell’ottobre prima, e nel novembre del 2000 poi, Budanov subisce due traumi cranici con conseguente perdita di conoscenza.
Successivamente comincia a soffrire di emicranie, capogiri e annebbiamenti della vista, non è in grado di sopportare suoni improvvisi e acuti, diventa irritabile, impulsivo, con bruschi cambi di umore e accessi d’ira. È facile che faccia cose di cui poi si pente.
A detta di Budanov, gli scontri peggiori sono stati quelli alla Gola di Argun, dal 24.12.1999 al 14.02.2000. Dal 12 al 21 gennaio il reggimento perde nove ufficiali e tre soldati semplici. Molti dei caduti, come dichiarato da Budanov, vengono uccisi con un colpo in testa da un cecchino. Il 17.01.2000 per mano di un cecchino muore anche un amico di Budanov, il capitano Razamachnin. A due settimane dagli scontri viene recuperato il corpo mutilato del maggiore Sorokotjagi; presenta evidenti segni di tortura.
L’8.02.2000 Budanov si reca in licenza nella Repubblica Burjata. A detta della moglie, è irritabile e nervoso. Le racconta che nella Gola di Argun il suo reggimento si è scontrato con le truppe di Hattab, uccidendone quindici comandanti. Da quel momento i guerriglieri avevano bollato i suoi uomini come «bestie feroci» e sulla testa di Budanov, loro nemico personale, era stata messa un’ingente taglia.
Budanov pare molto turbato dal fatto che buona parte dei suoi ufficiali non sia morta in battaglia ma per i colpi di un cecchino. Aggiunge che tornerà a casa solo dopo «aver stanato l’ultimo guerrigliero».
Il 15.02, prima dello scadere della licenza, Budanov riparte per la Cecenia. Passa a trovare la madre e la sorella per un giorno, come riportato dalle stesse, che stentano a riconoscerlo: Budanov non fa altro che fumare, quasi non parla, «basta un niente per farlo uscire dai gangheri», non riesce a stare seduto. Non fa che mostrar loro le fotografie dei caduti e le loro tombe, piange, non l’hanno mai visto in quello stato...
Una breve parentesi. Come si evince dalla deposizione del responsabile dell’infermeria del 160° reggimento – il capitano Kupcov, che lo vedeva quotidianamente – c’erano giorni in cui l’umore di Budanov cambiava anche diverse volte nel giro di dieci-quindici minuti, passando dalla normalità e dalla cortesia a una furia spropositata per una qualunque sciocchezza. In battaglia tali inclinazioni erano ancora più evidenti. Nei suoi accessi d’ira Budanov poteva gettare a terra o scagliare addosso a qualcuno orologi a muro, telefoni o quant’altro avesse a portata di mano. A detta di Kupcov, lo stato psicologico e psichico di Budanov nell’ottobre del 1999 (dunque prima della morte dei suoi compagni nella Gola di Argun) «era già incline alla perversione».
Ma continuiamo a citare la perizia.
Budanov si lancia personalmente all’attacco, arma in pugno, e prende parte agli scontri corpo a corpo. Dopo la battaglia nella Gola di Argun cerca di recuperare lui stesso i corpi dei caduti. Si ritiene responsabile della morte di soldati e ufficiali del reggimento sulla collina 950.8, e la cosa lo riduce in uno stato di grave prostrazione. Arriva a colpire i suoi sottoposti con dei posacenere. Alla metà di marzo del 2000, esigendo che la sua tenda sia messa in ordine, getta una granata nella stufa. Nessuno resta ferito e ottiene che gli ufficiali si mettano finalmente all’opera.
Dalla metà di febbraio del 2000 il reggimento viene posto in riserva e dislocato nei pressi del centro abitato di Tangi. Il compito di Budanov è di svolgere attività di ricognizione, di tendere imboscate, di controllare i documenti della popolazione locale [un incarico che non compete all’esercito] e di arrestare eventuali sospetti.
Budanov e i suoi uomini hanno sottolineato che la situazione era assai complessa: non era chiaro chi fossero i nemici e chi gli amici e dove si trovasse la linea del fronte. Dal 22 al 24 marzo del 2000, nello svolgimento della loro attività di ricognizione, gli uomini del reggimento controllano alcune case di Tangi e vi rinvengono due ‘schiavi’ prelevati a forza dalla Russia Centrale circa dieci-quindici anni prima.
Ottenute delle informazioni in merito, il 26.03.2000 Budanov decide di verificare di persona lo stato delle cose a Tangi [l’informazione gli era giunta il 24 e aveva deciso di controllare solo il 26? Chi svolge la perizia, però, non se l’è posta, questa domanda]. Arrestati due ceceni, Budanov ordina che siano legati e caricati sul suo BMP. Una volta al reggimento, uno dei due gli mostra dei documenti a nome Sambiev Šamil’ e chiede di potergli parlare da solo. Dopo circa un quarto d’ora Budanov dà ordine di ritornare a Tangi, spiegando che Šamil’ gli mostrerà le case di coloro che hanno contatti con i guerriglieri o che li aiutano. Mentre attraversano il villaggio, il ceceno gli indica le case in questione, compresa quella bianca alla periferia sudest dove vive una cecchina. Budanov, inoltre, ha una fotografia in cui si vedono due-tre uomini e tre-quattro donne con le armi in pugno.
A suo stesso dire, Budanov decide di non por tempo in mezzo e di arrestare la cecchina. Il 26.03 verso le ore 15, mentre pranza alla mensa degli ufficiali, Budanov consuma bevande alcoliche. Alle 24 del 26.03 decide di recarsi personalmente a Tangi, in via Zarečnaja n. 7. Il BMP viene fatto fermare accanto al domicilio della famiglia Kungaev. Budanov entra. All’interno trova Kungaeva El’za Visaevna, nata nel 1982, e altri quattro tra fratelli e sorelle, tutti minorenni. Budanov dà ordine di prelevare la Kungaeva, che viene avvolta in una coperta, caricata sul BMP e portata prima all’accampamento e poi nell’alloggio di Budanov, dove viene depositata a terra. Budanov dà disposizione ai suoi uomini di fermarsi e di non far entrare nessuno. Rimasto solo con la Kungaeva, le chiede informazioni sugli spostamenti dei guerriglieri. La Kungaeva rifiuta di fornirgliene [torno a ripetere che El’za Kungaeva non parlava una parola di russo], Budanov non smette di interrogarla.
Comincia a picchiarla con pugni e calci al volto e in svariate parti del corpo, causandole ematomi sulla superficie interna della coscia destra, ecchimosi alla mucosa della bocca e alle gengive. La Kungaeva continua a opporre resistenza, lo spintona, cerca di scappare dall’alloggio. Credendola membro di una formazione armata oltre che parte in causa nella morte dei suoi sottoposti, Budanov decide di ucciderla. La afferra per gli abiti, la getta sulla sua branda, le prende il collo e comincia a stringere fino a che la Kungaeva non dà più segni di vita. Poi chiama gli uomini del BMP e ordina loro di portar via il corpo e di seppellirlo fuori dell’accampamento; l’ordine viene eseguito, come riferitogli dal sergente Grigor’ev la mattina del 27.03.
A detta dello stesso Budanov, da principio egli non intendeva uccidere la Kungaeva, né tanto meno abusare sessualmente di lei. La Kungaeva, però, «esplode» in insulti [ripetiamolo per l’ennesima volta: la Kungaeva non parlava russo! ] contro le Forze Armate russe, i russi in generale e Budanov in particolare. La situazione si scalda, lo scambio di battute degenera, la Kungaeva gli dice che i ceceni «l’avrebbero fatta pagare a lui e alla sua famiglia». La ragazza si lancia in una filippica di insulti contro di lui e contro i soldati russi. Alla fine cerca di scappare dall’alloggio. Budanov viene colto di sorpresa e deve usare la forza per tirarla via dalla porta; nel corso della colluttazione gli abiti della Kungaeva si lacerano in qualche punto [i soldati l’avrebbero trovata completamente nuda].
A detta di Budanov, la Kungaeva era fisicamente molto forte. Lei gli lacera la maglietta e gli strappa dal collo la catenina della figlia, con la croce; lui le strappa gli indumenti che le coprono la parte superiore del corpo. La Kungaeva grida che «ne aveva ammazzata troppo poca, di gente come lui». Quando la Kungaeva si trova sul secondo pancaccio dell’alloggio di Budanov, il più lontano, cerca di afferrare la pistola del colonnello, appoggiata sul comodino. Budanov le prende il braccio, e con la mano libera comincia a schiacciare il corpo di lei contro il letto, tenendo sempre la mano sulla gola della Kungaeva. Mentre la Kungaeva continua a lanciare minacce, Budanov si vede passare davanti agli occhi «i volti dei soldati e degli ufficiali morti nella Gola di Argun».
Budanov non ricorda che altro sia accaduto. Quando torna in sé, vede che la Kungaeva è riversa sulla branda e non si muove. Chiama gli uomini del BMP. A detta di Budanov, la ragazza indossava la gonna, mentre camicia e reggiseno erano ammucchiati lì vicino; lui aveva solo i pantaloni. Li-en-Shou consiglia di seppellirla nel bosco. Gli abiti della Kungaeva vengono messi nella coperta. Budanov avverte i suoi uomini di non sognarsi di spararle un colpo alla testa, per non comportarsi alla stregua dei guerriglieri. Quando il corpo della Kungaeva viene avvolto nella coperta, non si rinvengono tracce di sangue. Usciti i suoi uomini, Budanov si mette a letto e si addormenta.
Una parentesi necessaria. Come ripetuto più volte durante l’istruttoria, quando i soldati che quella notte avevano montato la guardia all’alloggio del colonnello entrarono chiamati da Budanov, il colonnello indossava solo gli slip. Mentre la ragazza era completamente nuda sulla branda più lontana, supina. Sulla coperta, gettata per terra, c’erano gli abiti della ragazza, le sue mutande, la camicetta. «Qualcuno ha paura dei morti?» chiese Budanov ai soldati. Dopo di che si accese una sigaretta, ordinando di avvolgere il corpo nella coperta e di seppellirlo nel bosco. Li minacciò: se qualcuno avesse parlato gli avrebbe sparato; di pallottole ne aveva a sufficienza per tutti, anche per il colpo di grazia alla testa...
Budanov ha dichiarato di aver incontrato il general maggiore Gerasimov, comandante ad interim del raggruppamento militare «Occidente», verso le 13.30 del 27.03 [il vero comandante era Vladimir Šamanov, dei cui favori Budanov godeva; all’epoca, però, Šamanov era in licenza e pertanto gli inquirenti della procura militare ebbero libero accesso al territorio del reggimento carristi, cosa che Šamanov non avrebbe mai autorizzato, come ebbe poi a ripetere in diverse interviste].
Quel giorno il generale Gerasimov lo accusa di aver dato fuoco a mezzo villaggio e stuprato una ragazzina quindicenne. Gerasimov non lesina insulti e improperi. Budanov estrae la pistola, la punta a terra, spara e si ferisce a un piede. Sebbene, dopo aver sparato, Budanov abbia consegnato la sua pistola a Gerasimov, gli uomini del generale lo tengono sotto tiro.
Budanov ode un rumore e vede che stanno sopraggiungendo gli uomini del suo reggimento. Venti uomini e due ufficiali si schierano di fronte agli uomini del generale Gerasimov. I due gruppi si fronteggiano. Budanov ordina di abbassare le armi. Dopo di che, sempre a detta di Budanov, lui e i generali Gerasimov e Verbickij si recano nella stanza del comando, dove Budanov rilascia per iscritto un’ammissione di colpa.
Nel corso dell’istruttoria, in data 5.10.2000, Budanov spiega i dati contraddittori delle sue deposizioni con lo stato di profonda tensione in cui versava durante gli interrogatori del 27.03.2000.
Sulla base di quanto esposto, la commissione è giunta alla conclusione che, in merito ai casi che gli vengono imputati, Budanov è da ritenersi incapace di intendere e di volere. Le reazioni della Kungaeva (insulti, tentativo di afferrare la pistola, minacce) hanno provocato in lui una temporanea instabilità mentale.
Risposta al punto 5: le azioni della Kungaeva sono state uno dei fattori che hanno causato la temporanea instabilità mentale di Budanov.
Risposta al punto 6: le testimonianze relative allo stato di ebbrezza di Budanov sono contraddittorie e si escludono a vicenda. Non ci sono prove convincenti che Budanov si trovasse in stato di ebbrezza [?!].
Risposta al punto 7: al momento Budanov è consapevole delle proprie azioni. È bene sottoporlo a osservazione ambulatoriale e a cure psichiatriche. Rientra nella categoria ‘c’: parzialmente idoneo al servizio militare.
Questa la genesi della terza perizia, quella «esatta». In cui l’essenziale risultò essere quanto segue: è colpa tua se ti hanno ammazzata, non dovevi opporre resistenza e non dovevi fare la cecchina. E ancora: mentre ti ammazzava, Budanov era incapace di intendere e di volere, dopo averti ammazzato è ritornato normale.
Furono proprio le conclusioni della perizia, secondo la legge russa, a concedere al giudice gli argomenti necessari per esaudire i desideri dei vertici politici e rimettere al colonnello i suoi peccati di guerra.
Primo: il giudice poteva finalmente liberare Budanov dal fardello della responsabilità penale.
Secondo: doveva obbligarlo a seguire delle cure psichiatriche, sì, ma in ambulatorio (cioè senza ricovero in apposite strutture) e per un lasso di tempo la cui durata non sarebbe stata decisa da lui, ma dallo psichiatra che l’avrebbe preso in cura. I guai del colonnello, dunque, potevano essere finiti già a qualche settimana dal verdetto: bastava che il medico decidesse che era guarito, e Budanov non avrebbe dovuto nemmeno mettere piede in un ospedale.
Terzo: il giudice poteva salvaguardare il diritto di Budanov a servire nell’esercito (in quanto la sua «incapacità di intendere e di volere» era stata «estemporanea» e «situazionale», una mera risposta alle reazioni della Kungaeva), una variante del verdetto sulla quale le alte sfere dell’esercito – lo Stato Maggiore del distretto militare del Caucaso Settentrionale e i massimi dirigenti del ministero della Difesa – avevano molto insistito, in quanto altrimenti sarebbe risultato che le truppe in Cecenia erano affidate a folli patentati che non venivano né scoperti né curati, e facevano quel che volevano...
Così vanno le cose in Russia: per stilare perizie legali non sono i fatti che contano, ma chi li manipola. Il risultato di una perizia dipende da chi la effettua. Nel nostro caso i protagonisti dell’assoluzione psicologica e psichiatrica di Budanov furono i seguenti:
– professoressa T. Pečernikova (presidente della commissione), responsabile del centro perizie dell’Istituto Serbskij, medico di fama mondiale, dottore in scienze mediche, consulente psichiatrico di primissima categoria con esperienza cinquantennale nel ramo;
– professor F. Kondrat’ev, responsabile del primo reparto clinico, dottore in scienze mediche con onorificenza al merito della Federazione Russa, quarantadue anni di esperienza nel ramo;
– F. Safuanov, candidato in scienze psicologiche, vent’anni di esperienza nel ramo;
– colonnello A. Gorbatko, medicina militare, primo perito di psichiatria forense del ministero della Difesa;
– colonnello G. Fastovcev, medicina militare;
– G. Burnjaševa, consulente in psichiatria.
Furono loro a svolgere il grosso del lavoro, a riconoscere Budanov incapace di intendere e di volere al momento del crimine – e di conseguenza a esentarlo da ogni possibile colpa, facendogli recuperare ogni facoltà a un’ora dal crimine stesso, rendendolo quindi abile al servizio militare, e obbligandolo a vedere il medico sotto casa giusto una volta al mese.
Mi sembra, dunque, essenziale capire chi è la squadra capitanata dalla professoressa Pečernikova. E, ovviamente, chi è la Pečernikova stessa.
È stato un caso che si siano rivolti a lei per una perizia politica importantissima e dall’esito ‘necessario’?
È mia opinione che in questa storia non ci sia nulla di casuale. Perché in Russia non può essere altrimenti. E perché così è stato sin dai tempi dell’Unione Sovietica. Speravamo tutti che certe cose fossero ormai svanite nel Lete, speravamo di essercene liberati, che i fantasmi di un orrendo passato non si ripresentassero più...
Invece no. Quando ce n’è bisogno, quando e dove più aggrada ai vertici del Paese, gli spettri del comunismo tornano al nostro fianco. E sono sempre gli spettri peggiori.
Tamara Pečernikova, professoressa e psichiatra con mezzo secolo di esperienza alle spalle, è un nome noto nella storia della Russia, e quelle che riporterò sono giusto alcune tappe del suo lungo percorso. È, il mio, un excursus storico quanto mai necessario, in quanto negli anni di presidenza di Putin le pagine peggiori della nostra storia – quelle della psichiatria politica prezzolata – sono tornate a far parte del quotidiano là dove meno ce lo saremmo aspettati...
Il 25 agosto del 1968, a Mosca, sulla Piazza Rossa, si era svolta l’ormai celebre «dimostrazione silenziosa dei sette». Sette persone – tra le quali Natal’ja Gorbanevskaja, poetessa, giornalista, dissidente, che quel giorno spingeva anche la carrozzina con il suo bebè – arrivarono sulla Piazza Rossa ed esposero alcuni striscioni su cui era scritto «Per la nostra e la vostra libertà!», «Vergogna agli occupanti!»... In un Paese in cui nessuno apriva bocca e tutti si rassegnavano alla linea del PCUS, c’erano delle persone capaci di protestare contro le truppe sovietiche che avevano invaso la Cecoslovacchia.
La dimostrazione dei ‘sette’ durò soltanto qualche minuto, dopo di che vennero tutti catturati dagli agenti in borghese del KGB che pattugliavano continuamente la Piazza Rossa. Due finirono in lager, uno in ospedale psichiatrico e tre al confino, mentre, avendo un neonato da accudire, in un primo momento la Gorbanevskaja venne liberata.
La arrestarono qualche tempo dopo, il 24 dicembre del 1969. Non aveva interrotto le sue attività in difesa dei diritti umani.
È dunque nel ’69, trenta e passa anni fa, e in relazione al caso di Natal’ja Gorbanevskaja, che si rinvengono le prime, chiare tracce della dottoressa Pečernikova. Fu proprio lei il medico che, all’Istituto Serbskij, interrogò la Gorbanevskaja su espressa richiesta del KGB.
La Pečernikova del ’69 emise il verdetto richiesto dal KGB: schizofrenia. Una persona psichicamente stabile, infatti, non avrebbe potuto prendere uno striscione, andare sulla Piazza Rossa e manifestare contro l’ingresso dei carri armati a Praga.
Un’altra diagnosi del KGB avallata dal timbro della Pečernikova fu che la Gorbanevskaja fosse un individuo socialmente pericoloso da internare immediatamente e compulsivamente in un’apposita struttura psichiatrica...
E per la Gorbanevskaja – che aveva fondato e diretto la Cronaca dei fatti correnti, il primo bollettino in samizdat (le pubblicazioni dattiloscritte a circolazione clandestina) degli attivisti sovietici per i diritti umani – vennero gli anni durissimi dell’Ospedale psichiatrico di Kazan’. Ci restò dal 1969 al 1972. Emigrò nel 1975 con un visto israeliano, ora vive in Francia.
«Le dice niente il nome Pečernikova?» le ho chiesto.
«Certo che sì».
«Come si è svolta la perizia su di lei?».
«Fu faziosa a dir poco. La diagnosi di “schizofrenia” era già stata decisa dall’alto. Questo è quel che fece la Pečernikova. Il KGB aveva dato disposizioni affinché venissi internata in un ospedale psichiatrico e tutti, compresa lei, si adoperarono in tal senso. Consapevoli che il tribunale non avrebbe avuto bisogno di una diagnosi convincente, non persero tempo a elaborarne una. Un esempio tratto dalla perizia: “Manifesta a intermittenza pensieri incoerenti”. In che modo? Nessuna spiegazione. “La Gorbanevskaja presenta le alterazioni psichiche, emotive e delle facoltà di giudizio che sono tipiche della schizofrenia”. Quali in dettaglio? Nessuna spiegazione. Quella frase fu cruciale, fra l’altro, in quanto comportava come necessaria conclusione una cura forzata. Nei trenta giorni della perizia, invece, non mi fecero mai domande sulle mie poesie, e io sono un poeta. Non esistevano e basta. Dal canto mio, temevo che se l’avessi fatto presente mi avrebbero aggiunto anche la megalomania, tipo “Ah sì, e lei si crede un poeta, eh?!”. Il perché è chiaro: la “frigidità emotiva” imputabile alla schizofrenia rendeva impossibile scrivere versi. “La paziente conversa volentieri. È tranquilla. Sorride”. Giusto, ma sapesse quanto mi costava tanta tranquillità! Capivo che dovevo stare tranquilla per non dare il destro a nuovi sintomi, ma alla fine fu la tranquillità a diventare sintomo e a dar loro il diritto di scrivere: “... non mostra particolari ansietà riguardo al futuro e alla sorte dei suoi figli”. Eccome se ero ansiosa per i miei figli, ma non andavo certo a dirlo a degli psichiatri del KGB! O ancora: “Non rinnega il gesto compiuto. È convinta oltre ogni possibile dubbio di aver fatto la cosa giusta. Dichiara, in particolare, di essersi comportata a quel modo per non sentirsi in colpa di fronte ai figli negli anni a venire”. Non lo rinnego a tutt’oggi, quello che ho fatto, sono tuttora convinta di aver fatto la cosa giusta e i miei figli sono fieri della sorte che mi è capitata... “Manca una consapevolezza critica dell’accaduto”. Gli psichiatri, e la Pečernikova con loro, mi ritenevano pazza perché usavo la mia testa. Fra l’altro, nel mese della perizia gli unici con cui ebbi a che fare furono la Pečernikova e il dottor Martynenko. Le “osservazioni” in base alle quali fu stilato il referto sono tutte farina del loro sacco, dunque. Penso che fossero pienamente consapevoli delle distorsioni che stavano compiendo, ma ciò non impediva loro di portare a termine il lavoro criminoso di cui erano stati incaricati. La Pečernikova, dunque, ha alle spalle lunghi anni di obbedienza. Penso che l’Istituto Serbskij abbia inesorabilmente minato l’onestà umana e la professionalità degli psichiatri che vi lavoravano. Se non erano cinici puri, quel lavoro deve aver portato loro, e non me, alla schizofrenia, a uno sdoppiamento della personalità».
«Com’è finita? Quali sono state le conseguenze della perizia della Pečernikova? Quanto tempo ha dovuto passare in un ospedale psichiatrico?».
«Due anni e due mesi. Ma io lo chiamavo carcere psichiatrico. Nel peggiore, a Kazan’, ci sono stata nove mesi e mezzo. Mi ci portarono dalla prigione Butyrki di Mosca nel gennaio del 1971. Nel 1972 tornai al Serbskij, previa sosta a Butyrki. Ci restai tre mesi per una nuova perizia. Ma non è il tempo che conta, bensì le cure forzate con neurolettici fortissimi. Come l’aloperidolo, ormai considerato un mezzo di tortura, allora usato per curare delirio e allucinazioni. Che io non avevo. A meno di non voler considerare deliranti le mie idee, certo... ma son quelle che professo a tutt’oggi. Solitamente lo somministrano per un mese, l’aloperidolo, poi segue una pausa e un trattamento con altri medicinali che prevengono gli effetti collaterali, ossia il morbo di Parkinson. A me, invece, lo iniettarono per nove mesi e mezzo di fila, senza pause né altri medicinali. Quando tornai al Serbskij da Kazan’ e ricominciarono con l’aloperidolo, la Pečernikova mi disse: “Si rende conto che dovrà continuare a prenderlo anche dopo, vero?”. Ipocrita!».
«E poi?».
«Poi sono emigrata. A Parigi con tappa a Vienna. Tra le risate degli psichiatri francesi che leggevano l’anamnesi del Serbskij. Uno è arrivato a dirmi: “Dobbiamo andare tutti a scuola dagli psichiatri sovietici: a prestar fede alla loro diagnosi, abbiamo di fronte un caso miracoloso di guarigione dalla schizofrenia!”».
Il caso Gorbanevskaja segnò l’inizio delle cosiddette «repressioni psichiatriche» contro i dissidenti, repressioni che videro l’attivissima partecipazione della dottoressa Pečernikova. La futura salvatrice del colonnello Budanov fu sulla cresta dell’onda soprattutto negli anni Settanta, anni durissimi per il nostro Paese, anni di scontri prolungati del regime comunista con i dissidenti. All’epoca avevamo già una Costituzione di tutto rispetto, e per non turbare troppo l’Occidente il KGB preferiva condurre la sua guerra al libero pensiero con metodi psichiatrici, dichiarando mentalmente disturbata quanta più gente poteva e internandola forzatamente in apposite cliniche.
Solo nel 1971, come scrive Ljudmila Alekseeva (nota attivista e dissidente dell’epoca sovietica, costretta a emigrare negli Stati Uniti da una vera e propria persecuzione politica, e ora a capo dell’Associazione internazionale di Helsinki) nella sua Storia del dissenso in URSS, «su ottantacinque colpevoli di crimini politici, ventiquattro – quasi un terzo, dunque – furono ritenuti incapaci di intendere e di volere». Quelli che non si riusciva a far passare per pazzi, venivano condannati per calunnia ai danni del regime sovietico, ma sempre e solo con lo zampino della Pečernikova.
Nell’estate del 1978, per esempio, si celebrò un processo per calunnia a carico di Aleksandr Ginzburg in cui la Pečernikova depose come testimone dell’accusa.
Aleksandr Ginzburg, dissidente molto noto, giornalista, membro della filiale moscovita del Gruppo di Helsinki, è stato l’editore di Sintaksis, raccolta poetica in samizdat, e il primo amministratore (dal 1974 al 1977) del Fondo sociale di aiuto ai prigionieri politici in URSS e alle loro famiglie che Aleksandr Solženicyn ha creato con i diritti d’autore di Arcipelago Gulag. Dal 1961 al 1969 Ginzburg ebbe tre condanne al lager per la sua attività, e nel 1978 venne condannato ad altri otto anni di reclusione. Nel 1979 fu espulso dall’URSS che, cedendo alle pressioni dell’Occidente, lo scambiò con alcune spie sovietiche arrestate negli Stati Uniti. È vissuto poi in Francia ed è morto a Parigi nel 2002 per i postumi delle malattie contratte nei lager politici sovietici.
Questo è quanto ha ricordato, su mia richiesta, Arina Ginzburg – moglie e compagna di battaglia di Aleksandr – del clima del processo che, con la partecipazione straordinaria della Pečernikova, venne celebrato a Kaluga, nella Russia Centrale:
Al processo, i problemi più grossi Aleksandr li ebbe con gli psichiatri. Lo imbottivano di neurolettici. Alle udienze era completamente assente. Gli facevano continue iniezioni. Aleksandr aveva un aspetto tremendo: camminava a stento, vacillava, reggeva in mano una federa con dentro dei libri (aveva ricusato gli avvocati e si difendeva da solo) e aveva la barba lunga e grigia. Parlava in modo incoerente, era scoordinato; una volta chiese di potersi sedere, glielo vietarono e lui svenne [...]. Dopo il verdetto lo lasciarono in pace, sospesero le iniezioni...
Cito dai verbali delle udienze: «In risposta al documento n. 8 [un articolo tratto dalla «Cronaca dei fatti correnti» del 12 ottobre 1976], sono stati ascoltati la responsabile della sezione di perizia medica dell’Istituto Serbskij, Pečernikova, e il medico della clinica psichiatrica n. 14 di Mosca, Kuz’mičeva. Esse hanno affermato che in URSS non esistono casi di abuso psichiatrico».
Com’è evidente, Ginzburg insisteva nel sostenere il contrario. Come aveva scritto anche nei testi in samizdat, occupandosi del forte incremento delle repressioni psichiatriche nel Paese e dell’attività di medici come la Pečernikova.
Altri estratti dal «documento n. 8» confutati dalla Pečernikova:
Di recente il gruppo di appoggio [di appoggio all’applicazione degli accordi di Helsinki] si è rivolto al Soviet Supremo dell’URSS e al Congresso Americano proponendo loro di creare una commissione mista atta a rilevare casi di abuso psichiatrico. Nel documento in questione il gruppo dà conto delle repressioni psichiatriche di cui è a conoscenza [...]. Pëtr Starčik, cantautore, è stato internato, previo intervento della milizia, il 15 settembre 1976 nell’ospedale psichiatrico sito presso la stazione del metrò Stolbovaja [le celebri Belye stolby, Colonne bianche, un duplicato del Serbskij]. Starčik è già stato sottoposto a forti dosi di aloperidolo. [...] Così è scritto sulla sua cartella: «S.P. [socialmente pericoloso]. In cura presso l’Ospedale psichiatrico di Kazan’ per assistenza medica obbligatoria ex articolo 70 [propaganda e agitazione antisovietica]. Dimesso nel 1975. Di recente ha composto canzoni di contenuto antisovietico e raccolto in casa propria fino a quaranta-cinquanta persone. La visita lo ha trovato lucido di mente. Non nega di aver scritto le canzoni, sostiene di avere una propria “visione del mondo”». [...] Eduard Fedotov era sacerdote a Pskov. Venne a Mosca quando seppe delle repressioni ai danni degli ortodossi (come A. Argentov, internato anche lui nell’ospedale psichiatrico n. 14). Qui è stato prelevato dalla milizia e spedito all’ospedale psichiatrico n. 14, dove si trova al momento. [...] Il 7 maggio 1976 Na dežda Ivanovna Gajdar ha presentato un esposto alla Procura dell’URSS [dove era stata rinviata dal Comitato Centrale del PCUS]; è stata prelevata dai poliziotti e portata all’ospedale psichiatrico n. 13, dove le hanno subito iniettato dell’aminazina [...] La responsabile del secondo reparto, L.I. Fëdorova, l’ha così informata: «La teniamo un po’ qui, così la smette di presentare esposti, poi la mandiamo a Kiev tramite un centro specializzato. Starà un po’ anche con loro... Così la prossima volta ci pensa due volte, prima di andare a lamentarsi...».
Questi gli argomenti su cui venne chiamata a deporre la Pečernikova, la quale testimoniò che la psichiatria sovietica non conosceva casi analoghi e che Ginzburg stava mentendo. La sua testimonianza fu talmente efficace, che Ginzburg venne condannato per calunnia e propaganda ai danni del regime sovietico.
Il risultato furono otto anni di reclusione, prigioni, lager, tubercolosi, la perdita di un quarto di polmone, l’asportazione dell’altro e sedici anni – gli ultimi – della sua vita attaccato sedici ore al giorno alla macchina dell’ossigeno per poter sopravvivere... Una salute compromessa che solo la medicina francese riuscì a malapena a recuperare.
Per capire che cosa sta accadendo in Russia oggi è importante sapere non solo che la psichiatria politica prezzolata è risorta a nuova vita, ma anche come funziona attualmente.
Tanto per fare un esempio, negli atti di quasi tutti i ‘casi’ della Pečernikova, dalla Gorbanevskaja a Budanov, c’è un filo conduttore: la «ricerca della giustizia sociale». Un’espressione che oggi, tuttavia, viene usata in un contesto completamente diverso: i «più» sono cinicamente diventati «meno». Se, cioè, in era sovietica la ricerca di una «giustizia sociale» era per la Pečernikova il sintomo di un disturbo mentale che rendeva impossibile la permanenza nel socium di un dato individuo e la induceva a emettere «verdetti» di schizofrenia, ora quella stessa Pečernikova arrivava a giustificare un omicidio brutale tramite un’interpretazione «in positivo» di quella stessa formula: il colonnello aveva ucciso una ragazza che riteneva essere una cecchina cecena perché sopraffatto dal senso di colpa per la morte dei suoi compagni, avvenuta per mano della donna in questione.
La domanda più importante in tutta questa storia è la seguente: è un caso che la Pečernikova compaia nei casi Gorbanevskaja e Ginzburg?
Certo che no. Era o non era una sodale del KGB? Era o non era una fedele compagna di lotta, un medico con ben chiara la propria funzione?
La domanda successiva sarà, allora: è un caso che la Pečernikova sia stata chiamata per il processo Budanov a venticinque anni di distanza dalle sue «testimonianze» contro Ginzburg?
No. Certo che no. In quanto la Pečernikova è rimasta ligia alle sue funzioni di un tempo. In questi ultimi trent’anni negli uffici del KGB (o FSB che dir si voglia) di lei si è sempre parlato come di una persona fidata. Dopo El’cin e con l’arrivo di Putin l’FSB è rinato a nuova vita, e la cara dottoressa con lui. Negli anni ‘tardo-democratici’ di Gorbačëv e con El’cin, quando i suoi servigi non erano richiesti, la Pečernikova ha saputo restare nell’ombra, in silenzio. Ma quando all’orizzonte della Russia è comparso Putin, uomo del KGB con vent’anni di servizio alle spalle, che ha colmato tutti i vuoti di potere con i suoi colleghi, anche la Pečernikova è tornata a essere necessaria. Come un tempo.
Un chiarimento importante. Secondo fonti indipendenti (e non ne esistono altre), sono ormai più di seimila gli ex uomini del KGB/FSB con incarichi di potere ai piani alti dello Stato, ivi compresi i posti chiave nei ministeri: nell’ufficio del presidente (due vicedirettori, il capo del personale e dell’ufficio stampa), nel Consiglio di sicurezza (il vicecapo), nell’apparato del governo, nei ministeri della Difesa, degli Esteri, della Giustizia, dell’Industria atomica, al Tesoro, agli Interni, alla Stampa, in televisione e in radio, alle Dogane, all’Agenzia russa per le riserve di Stato, al Comitato di risanamento finanziario, e via discorrendo.
Come il cancro, la storia tende a essere recidivante. E la cura è una sola: una chemioterapia tempestiva contro le cellule portatrici di morte. Così non è stato, e nel passaggio dall’URSS alla nuova Russia ci siamo trascinati dietro tutti i nostri pidocchi sovietici: il KGB continua a essere ovunque, e la Pečernikova con lui.
Ma torniamo alla questione centrale di questa nostra tragedia moderna: la resurrezione della professoressa Pečernikova nel caso Budanov è o non è una coincidenza? La domanda può essere riformulata altrimenti senza perdere in sostanza: la resurrezione della polizia segreta nel nostro Paese, il passaggio dal XX al XXI secolo di un’infrastruttura che serviva a mantenere intatto il sistema sovietico di pressioni e costrizioni, è o non è un caso?
Ovviamente non lo è. Torniamo con la memoria al 2000, a prima che Putin fosse eletto. «Il diavolo non è così brutto come lo si dipinge» dicevano in molti. «Che cosa volete che sia se viene dal KGB sovietico? Si sgrezzerà, vedrete...».
È stata una valanga. Dietro di lui è venuta la sua squadra: prima qualche decina di uomini, i fedelissimi, quelli con cui aveva lavorato personalmente e di cui si fidava. Poi sono diventati qualche centinaio con gli amici degli amici, quelli di cui loro – e non Putin – si fidavano, e con i quali loro avevano lavorato. Ora sono migliaia e sono ovunque, a ogni livello, in tutti gli interstizi del potere.
Siamo, dunque, circondati da gente di cui Putin e i suoi si fidano. Da un lato è normale. Dall’altro si è scoperto che questa gente si fida (e si fidava) solo dei propri ‘simili’, e che i loro ‘simili’ hanno tutti un passato nel KGB. Quindi le strutture di potere e di semipotere della ‘nuova Russia’ sono state inondate da cittadini con determinate tradizioni alle spalle, con una mentalità educata alla repressione, con un certo modo di risolvere le questioni di Stato...
Una di queste tradizioni è, appunto, la Pečernikova. Che è, sì, una tradizione, ma anche un modo di applicarla. Nel senso che in vent’anni di pratica in «difesa del regime sociale e statale sovietico» la Pečernikova ha calibrato al meglio il meccanismo sulle sue competenze scientifiche, adeguando la psichiatria a quanto richiesto dagli organi di sicurezza. E a un decennio dal crollo del sistema sovietico le sue competenze tornano a essere molto richieste.
Non sono astrazioni di teoria politica. E non sono prove della lungimiranza di alcune prognosi. No. Le conseguenze dei contributi della Pečernikova al caso Budanov sono tremende e tangibili: è questione di vita e di morte, come negli anni Settanta e Ottanta.
Che Budanov tornasse o meno libero era infatti una questione di fondamentale importanza per la nostra epoca. Per l’esercito innanzitutto, che in Cecenia è diventato una forza di repressione politica. L’esercito aspettava di vedere se il processo di Rostov sarebbe diventato un precedente. Budanov sarebbe risultato colpevole o innocente? Potevano o non potevano continuare a comportarsi come lui?
Sì che potevano, secondo la Pečernikova, che fece il possibile affinché il giudice Kostin fosse in grado di confermare la sua asserzione.
Un segnale che in Cecenia venne interpretato come doveva: gli ufficiali di stanza continuarono l’opera di Budanov. E avremmo esempi a sufficienza per un altro volume.
Un unico caso.
La fine di maggio del 2002. Un’altra serie di rapimenti di giovani donne e di conseguenti assassini. Il 22 maggio, nella città di Argun, dei militari prelevano dalla sua casa al 125 di via Šalinskaja una maestra ventiseienne delle elementari di Argun, Svetlana Mudarova. Anche lei, come El’za Kungaeva, viene caricata su una macchina così com’è, la notte, in pantofole e vestaglia. Per due giorni i militari fanno di tutto per nascondere il luogo dove la trattengono. Il 31 maggio il suo corpo mutilato viene gettato tra le rovine di una casa di Argun.
Ognuno pensi ciò che vuole, ma si è trattato di una conseguenza del «sì» della Pečernikova: fate pure quel che volete, tanto poi abbiamo un colpo prodigioso in canna. Diremo che mentre stavate compiendo il crimine eravate incapaci di intendere e di volere, così scampate al processo, mentre prima e dopo il misfatto restate e tornate capacissimi di qualsiasi cosa, e dunque potete continuare a vivere come un tempo, a prestare servizio nell’esercito e via dicendo...
Per questo ritengo che anche la Pečernikova abbia sulla coscienza la morte di Svetlana Mudarova.
Passa più di un anno, e il caso Budanov si completa con altre tre perizie. Le conclusioni della Pečernikova vengono confutate, la Corte Suprema sottopone il caso a un ulteriore esame, la nuova corte militare di Rostov sul Don richiede una nuova perizia, il procuratore Nazarov, che difende l’imputato, viene di fatto estromesso dal caso, la giustizia sociale comincia a tirar fuori la testa dalla sabbia...
E la Pečernikova? Sarà punita per aver detto il falso? O magari le sarà chiesto di lasciare il Serbskij, dato lo scandalo?
Certo che no. La Pečernikova è eterna. È rimasta dov’è. Può sempre servire.
Dedichiamoci, ora, a ciò che la Pečernikova aveva ignorato: gli scogli del caso Budanov.
È la pagina più rivoltante, più vile e più sporca di tutta questa storia. Scavarvi è disgustoso, ma necessario. Per amor di verità, in primo luogo. E in secondo per capire che cosa accade davvero in Cecenia oltre le fanfare della menzogna e della propaganda ufficiale.
L’ultima notte della sua vita la povera El’za Kungaeva non fu solo strangolata brutalmente, ma anche stuprata.
Questi alcuni frammenti tratti dal verbale della scientifica del 28.03.2000:
Il luogo della sepoltura è situato nell’appezzamento boschivo a 950 m dal comando del reggimento carristi. Vi è stato rinvenuto il corpo di una donna completamente nuda e avvolta in una coperta (plaid).
Il cadavere era riverso sul fianco sinistro, le gambe strette contro il ventre, le braccia piegate al gomito e strette al torso. Il perineo nell’area esterna degli organi genitali è sporco di sangue, come anche il plaid nella zona corrispondente.
L’esame medico del corpo della Kungaeva è stato svolto in data 28.03.2000, dalle ore 12 alle 14, alla periferia del villaggio di Tangi-Ču, con luce naturale sufficiente, dal responsabile del reparto di medicina del laboratorio n. 124, capitano V. Ljanenko. Trattasi di cadavere di donna alta 164 cm. Sugli organi genitali esterni, sull’epidermide del perineo, sulla superficie posteriore del terzo superiore dei fianchi sono state rinvenute chiazze umide di color rosso scuro simili a sangue e muco. Il foro di ingresso dell’imene misura circa 0,6 cm di diametro. L’imene presenta lacerazioni radiali lineari. Nella piega tra le natiche sono presenti tracce asciutte di color rosso-bruno-marrone. A 2 cm dall’ano c’è una lacerazione di 3 cm della mucosa. Lo strappo è pieno di sangue rappreso, prova che trattasi di lacerazioni ante mortem. Sul plaid, dal lato rivolto verso il cadavere, è presente una macchia umida di color bruno scuro simile a sangue di cm 18 × 20 × 21. La macchia è situata in un angolo del plaid all’altezza dell’imene. Oltre al corpo sono stati rinvenuti: 1. blusa di lana con il dietro lacerato (strappato) in verticale per tutta la lunghezza. [...] 3. maglietta usata e lacerata (strappata) sul dietro per tutta la lunghezza; 4. reggiseno usato e lacerato (strappato) sulla sinistra, dietro, per tutta la larghezza; 5. slip usati. Al rovescio, nella zona dell’imene, gli slip presentano macchie marrone scuro e gialle, simili a tracce di feci e urina. Mancando le condizioni atte alla loro conservazione, non sono stati prelevati campioni per l’analisi istologica. Sono stati fatti, invece, un tampone vaginale e uno del retto; è stato, inoltre, prelevato un campione di sangue. Gli oggetti succitati, così come quanto trovato insieme al cadavere, sono stati consegnati agli inquirenti.
Le lacerazioni all’imene e alla mucosa del retto rinvenute sul corpo della Kungaeva sono state provocate dall’introduzione di uno o più oggetti contundenti nel retto e nella vagina. Non è da escludersi che si sia trattato di un membro maschile in stato di erezione. Potrebbe trattarsi, tuttavia, anche del manico di una pala. Gli esperti son giunti alla conclusione che le lacerazioni dell’imene e del retto rinvenute durante l’esame siano da ritenersi causate ante mortem.
Budanov aveva negato categoricamente lo stupro sin dalle prime fasi dell’inchiesta. Chi era stato, dunque, a infierire su El’za? Prima che morisse, fra l’altro... Ricordo che El’za aveva trascorso le ultime ore della sua vita con Budanov, sola, nel suo alloggio, e che il colonnello vi aveva fatto tornare i soldati quando la ragazza era già morta. Dunque...
Durante l’inchiesta preliminare, sul cadavere della Kungaeva furono svolte due perizie. Entrambe a opera del Laboratorio centrale n. 124 di Rostov, ed entrambe con il medesimo risultato: la ragazza era stata stuprata.
Quando il tribunale mirava a scagionare Budanov ne venne richiesta una terza. Lo scopo era lo stesso della perizia del Serbskij: che traesse le debite conclusioni, quelle più gradite alle alte sfere del Cremlino e della Russia, cioè che il colonnello pluridecorato non fosse uno stupratore.
Citerò, dunque, alcuni passaggi dalla perizia ad hoc, per la quale le cose stanno diversamente da come le aveva viste Ljanenko:
«Le lacerazioni dell’imene e della mucosa del retto sono da ritenersi postume, quando la capacità retrattile dei tessuti è da considerarsi nulla».
Ne deriva, sì, che qualcuno aveva infierito sulla ragazza, ma che quel qualcuno non poteva essere Budanov, che aveva un alibi: dopo averla uccisa si era addormentato come un bambino...
Per rendere il tutto più plausibile, le diffuse ecchimosi riscontrate da Ljanenko diventano «presenza di macchie di sangue nella zona degli organi genitali esterni, che non contraddicono il fatto che si tratti di ferite post mortem...». Da bravi scolari, gli esperti trovano anche delle spiegazioni «oggettive» al «non stupro»: «Il rifiuto immotivato da parte dei consulenti di prelevare dei materiali da sottoporre ad analisi istologica non consente al momento di argomentare più dettagliatamente le nostre deduzioni»...
C’era poco da obiettare. La guerra – luogo in cui non si sa dove conservare dei reperti istologici (il «rifiuto immotivato»...) – diventò un alibi per chi la guerra la stava facendo. Senza l’esame istologico, come dissero in coro i patologi, ogni tentativo di provare lo stupro e di sostenere che a perpetrarlo fosse stato Budanov era vano.
La «giusta» conclusione poteva, dunque essere tratta: «Non ci sono dati a conferma dell’ipotesi che le ferite postume siano state provocate da un organo genitale maschile eretto. I risultati dell’esame della salma e dei reperti non consentono di affermare che El’za Kungaeva sia stata costretta a un rapporto sessuale».
In altre parole, non era stata stuprata. E rassegnatevi voi che la pensate altrimenti.
A firmare l’atto di ‘assoluzione’ di Budanov furono:
1. I. Gedygušev, vicedirettore del Centro russo di medicina legale del ministero della Salute pubblica russo, dottore in scienze mediche, insignito di onorificenze statali;
2. A. Isaev, responsabile del Reparto perizie complesse dello stesso centro, massimo esperto del settore, candidato in scienze mediche;
3. O. Budjakov, consulente di medicina legale del Reparto perizie complesse dello stesso centro, candidato in scienze mediche, insignito di onorificenze statali.
I loro sforzi erano valsi a rimuovere una macchia lurida dall’uniforme dell’esercito russo. Dalla giacca, forse, ma non dai pantaloni, non dalla patta, dove resta a tutt’oggi. Perché la storia non è un referto su commissione. E nel nostro Paese, lo ripeto, siamo abituati a riscriverla, la storia. Col tempo, è ovvio. Ma non ho dubbi che prima o poi accadrà anche per la seconda guerra cecena e per il processo Budanov quale parte della storia della Russia di Putin. E allora, quando la cronaca della morte di El’za Kungaeva, ragazza cecena di Tangi-Ču, si sbarazzerà dei «fregi» aggiunti dal Cremlino, verrà a galla anche la macchia sui pantaloni del colonnello, e la magistrale fuga dalle sue responsabilità dell’anno 2002 non servirà a cancellarla.
UNA BREVE PARENTESI
Nei tre anni del caso Budanov il comportamento delle donne russe mi ha lasciato, francamente, senza parole... Le donne sono più della metà dell’intera nostra popolazione, e almeno quella metà era tenuta a disprezzare gli stupratori.
Invece no.
Decine di milioni di uomini russi, inoltre, hanno figlie femmine. Una ragione sufficiente, a mio modo di vedere, per capire e comprendere, da genitori, il dolore della famiglia Kungaev.
E invece no.
La televisione ha trasmesso le interviste alla moglie di Budanov, che ha farfugliato qualcosa sul suo povero marito che doveva sopportare perizie e processi, e sulla loro povera figlioletta stanca di aspettare che il papà tornasse a casa. E il Paese si è schierato con lei, l’ha compatita. Mentre non ha compatito i Kungaev, che non l’avrebbero più vista tornare a casa, la loro El’za...
E chi più ne ha più ne metta. L’assoluzione medico-scientifica di Budanov (il fatto che fosse incapace di intendere e di volere nel brevissimo lasso di tempo in cui aveva commesso il crimine) e la circostanza che il reato di stupro fosse stato stralciato, non ha generato alcun moto di indignazione. Non c’è stata una sola dimostrazione di protesta organizzata dalle associazioni femminili e femministe. Non sono scesi in strada nemmeno gli attivisti per i diritti umani. La Russia ha pensato che quanto successo fosse giusto: Budanov aveva strangolato la ragazza vendicandosi su di lei, magari ingiustamente, dei guerriglieri ceceni... I rapimenti erano ammessi... Era ammesso infierire su un cadavere... E la conseguenza era che il criminale restava libero.
Viviamo in un Paese tremendo. Le gesta del colonnello Budanov sono la norma per la maggioranza schiacciante dei russi.
È un’aberrazione che si riscontra in un Paese in cui l’impunità è divenuta legge. In cui sono tutti impazziti. Dal primo all’ultimo, dalle alte sfere ai bassi ranghi.
L’‘assoluzione’ cartacea del colonnello, nel 2002, diede il via libera a tutti coloro che avevano compiuto crimini di guerra in Cecenia barricandosi dietro il paravento della guerra e delle crudeltà perpetrate su entrambi i fronti. Per tutto il 2002 le epurazioni in Cecenia sono continuate su una scala e con una brutalità mai viste, accompagnate dalla voce monotona del giudice Kostin e dei suoi verdetti ‘assolutori’. Interi villaggi sono stati circondati: le donne stuprate, gli uomini portati via. Molti vengono uccisi, molti altri spariscono senza lasciare traccia. La vendetta è assurta a giustificazione dell’omicidio commesso per una «giusta causa»; i pubblici ministeri, di fatto, sono riusciti a legalizzare il primato della vendetta sul diritto. La giustizia sommaria – occhio per occhio, dente per dente – è stata incoraggiata dal Cremlino stesso. Ci siamo dunque ritrovati nel Medioevo o in un bolscevismo a noi ideologicamente più vicino. Non eravamo dove credevamo di essere arrivati plaudendo a Gorbačëv e scendendo in piazza con El’cin, ma a metà strada tra Stalin e Brežnev. Il nostro cammino va a ritroso: dalla stagnazione di Brežnev verso il «tutto è permesso» di Stalin. Terribile... Terribile perché questa è la gente che ci governa e terribile perché siamo come siamo. O forse è questo il governo che ci meritiamo.
L’ultima deposizione di Budanov era prevista per il primo giugno del 2002, il che significava che il processo era finito e che lo spettacolo noto come «caso Budanov», parte della storia russa recente, si avvicinava al gran finale. I genitori di El’za Kungaeva e i loro avvocati lasciarono l’aula, incapaci di reggere alla menzogna, a un’etica perversa e a una violazione così spudorata della legge... Fuori del tribunale i fan del colonnello e i suoi compagni d’armi esultavano chiassosamente, in attesa di festeggiare la vittoria con fiumi di vodka...
Invece qualcosa si incrinò, in alto loco. La deposizione di Budanov venne annullata. Il verdetto, atteso per il 3 luglio, non veniva emesso. Le udienze furono inaspettatamente rimandate all’autunno, ai primi di ottobre. E Budanov venne spedito a Mosca per l’ennesima perizia, la quarta, presso il solito Istituto Serbskij... Ma perché? Per confermare che aveva ragione la Pečernikova e per togliere ogni speranza a un eventuale appello?
Poco si sa dei venti che all’epoca spiravano dal Cremlino. Possiamo solo provare a intuirlo da segni indiretti. Si sa, per esempio, che il Bundestag tedesco aveva esercitato forti pressioni su Putin con lettere e appelli diretti al presidente (e per tradizione Putin reagisce con prontezza maggiore a quel che viene dalla Germania piuttosto che agli appelli dei parlamentari e delle organizzazioni russe, per non parlare dei suoi singoli compatrioti). Ai summit il cancelliere Schroeder non mancava di interessarsi alle ragioni che stavano portando il processo contro il criminale di guerra Budanov verso l’assoluzione. Fonti interne all’ufficio del presidente sostengono che Putin non sapesse che cosa rispondere.
Non meravigliatevene. In un Paese con tradizioni bizantine di asservimento, quisquilie simili sono più che sufficienti a mutare il corso della storia e a indurre un tribunale a prendere decisioni che non creino disagio al presidente in occasione di incontri in cui egli gradisce sentirsi a proprio agio.7
Quali che siano state le cause, il verdetto non venne emesso e le udienze furono interrotte sul più bello. Ripresero solo il 3 ottobre. Fondamentale doveva essere il risultato della nuova perizia psichiatrica. Tutti tiravano a indovinare: Budanov sarebbe stato «capace» o «incapace» di intendere e di volere? O magari solo parzialmente capace? Quale variante avrebbero scelto gli esperti del solito, asservito Serbskij in questo giro di valzer?
Molti si aspettavano un colpo di scena, è ovvio. Invece tutto si ripeté. Budanov tornò a essere «temporaneamente incapace di intendere» e il verdetto fu quello della vigilia: Budanov non poteva essere ritenuto responsabile degli atti compiuti e il tribunale insisteva affinché fosse curato per un lasso di tempo stabilito dal suo medico. L’importante era salvaguardare il principio: Budanov non doveva rispondere di crimini di guerra.
La sentenza venne emessa il 31 dicembre del 2002. Che è un giorno speciale, specialissimo per noi. In Russia il 31 dicembre non lavora quasi nessuno. E pochi hanno in mente qualcosa di diverso dalle feste. Il 31 dicembre è quasi un giorno sacro, dove non c’è nulla che possa creare sgomento o far pronunciare alcunché né ai parlamentari democratici (e dunque anti-Budanov), né a quel che resta della società civile... Tutti aspettano l’Anno Nuovo.
E difatti così fu. La scelta del giorno fu azzeccata: la sentenza non suscitò alcuna reazione. Zero. E non ne suscitò per diverso tempo. Dopo il Capodanno in Russia vengono due settimane completamente sgombre da pensieri e preoccupazioni: la televisione trasmette solo concerti, i giornali non escono...
Va da sé che gli avvocati dei Kungaev ricorsero in appello al Collegio militare della Corte Suprema. Contavano di poter cambiare l’esito del processo, ma non nutrivano eccessive speranze. Come ebbe a sostenere Abdula Chamzaev, uno dei difensori dei Kungaev, subito dopo il verdetto, le loro speranze erano riposte nel Tribunale europeo per i diritti dell’uomo, e non nel sistema giudiziario russo, ragion per cui il ricorso alla Corte Suprema era solo una fase procedurale per presentare appello a Strasburgo.
Ma poi, di colpo, la sorpresa. Ai primi di marzo il Collegio militare della Corte Suprema russa annulla inaspettatamente la sentenza, riconosce le violazioni procedurali e ordina di celebrare un nuovo processo che riparta dall’istruttoria e si tenga a Rostov sul Don, presso lo stesso tribunale distrettuale, ma con un nuovo giudice.
Nella mappa del potere russo (la Corte Suprema ha fama di essere una sezione dell’ufficio del presidente e non il massimo organo di potere giudiziario autonomo del Paese) l’interpretazione era univoca: al Cremlino il vento era cambiato e soffiava in senso opposto. Lo slogan «un ufficiale russo che combatte in Cecenia ha sempre ragione» non era più gradito al presidente che, come nella primavera del 2000, tornava a farsi paladino della «dittatura della legge»: la campagna elettorale per il 2004 era ufficialmente iniziata...
La ragione principale era evidente: mancava un anno alle presidenziali. Alle elezioni politiche del dicembre 2003 Edinaja Rossija (Una Russia unica), il partito di Putin, il cui segretario generale – in aperta violazione delle leggi vigenti – è il ministro degli Interni Boris Gryzlov, era obbligata a vincere. E andavano prendendo forma gli slogan delle due campagne – quella di partito e quella di Putin: «La legge prima di tutto».
Il 9 aprile, a Rostov sul Don, il processo ricominciò. E il colonnello era un’altra persona. Dell’uomo insolente che poco mancava sputasse in faccia al giudice mentre insultava senza tregua i genitori della ragazza assassinata era rimasto ben poco. Budanov non faceva che ripetere di essere stato tradito. Era chiaramente nervoso. Chiese di avere un processo con una giuria popolare, ma gli venne rifiutato. Allora decise di non rispondere alle domande. Si tappò ostentatamente le orecchie con dell’ovatta e, seduto nella gabbia degli imputati, non fece altro che leggere.
Sullo scranno del giudice sedeva il colonnello Vladimir Bukreev, vicepresidente del tribunale militare distrettuale. Che per la prima volta in due anni ammise a deporre i testimoni della parte lesa. Fu una vera rivoluzione.
Inizialmente fu interrogato il generale Gerasimov, che nel marzo del 2000 era a capo del raggruppamento militare «Occidente» in Cecenia. Egli riferì che, in quanto comandante del reggimento carristi e in quanto alle dipendenze del ministero della Difesa, e non di quello degli Interni, Budanov non aveva alcun diritto di ispezionare il villaggio di Tangi-Ču, di irrompervi e di cercare la cecchina. La ricerca e l’arresto di membri sospetti di formazioni armate è di competenza della procura, degli uomini dell’FSB e della milizia, e non di un colonnello dei carristi.
Inoltre, sostenne il generale Gerasimov, tra febbraio e marzo del 2000 il reggimento non aveva avuto alcuna disposizione di «svolgere ricerche in tal senso [...] Budanov non era autorizzato a verificare i documenti e a perquisire le case, né poteva raccogliervi informazioni».
Il secondo testimone fu Jach’jaev, capo dell’amministrazione municipale di Duba-Jurt. Budanov aveva sempre sostenuto che fosse stato Jach’jaev a dargli la fotografia che l’aveva spinto a cercare una delle cecchine a Tangi-Ču. Jach’jaev dichiarò di non aver mai dato fotografie a Budanov. Una circostanza confermata da Pankov, agente dell’FSB in servizio in Cecenia tra la fine di dicembre del 1999 e l’inizio di gennaio del 2000 (il periodo del presunto incontro tra Jach’jaev e Budanov). Pankov confermò che all’epoca Budanov si era effettivamente incontrato con Jach’jaev in sua presenza, ma che Jach’jaev non gli aveva consegnato fotografie, né gli aveva mai parlato di guerrigliere cecchine. E che Budanov non aveva mai fatto parola con lui, Pankov, né della fotografia né della cecchina.
Di conseguenza tutte le testimonianze in difesa di Budanov furono ricusate. Il 25 luglio del 2003 venne emessa la sentenza di condanna: dieci anni di carcere duro. Budanov uscirà il 27 marzo del 2010...
Ha avuto quel che si meritava, non c’è dubbio. E se anche si trattasse di una manovra preelettorale e di un’estemporanea macchinazione politica, non possiamo fare a meno di salutare un verdetto giusto, cosa rara in Russia. Il tribunale del distretto militare del Caucaso Settentrionale e il suo vicepresidente – il colonnello Vladimir Bukreev – hanno dato prova di grande coraggio. Perché il Cremlino è lontano da Rostov, e il colonnello ha saputo andare contro corrente anche rispetto al suo stesso entourage. Buona parte degli alti gradi dell’esercito e l’intero corpo ufficiali, soprattutto in Caucaso, hanno rifiutato infastiditi la condanna di Budanov, convinti che le pene del colonnello derivino dalla sua onesta dedizione alla Patria. I dieci anni di carcere duro e la perdita dei gradi e delle onorificenze sono stati visti come un insulto personale.
Permettetemi di ricordare ancora una volta che in Russia i tribunali militari sono parte dell’esercito, e non della giustizia: gradi, alloggio e promozioni di Bukreev dipendono dal ministero della Difesa e dallo Stato Maggiore del distretto militare del Caucaso Settentrionale. Condannando Budanov, dunque, Bukreev ha condannato anche se stesso. Per questo il suo è da ritenersi un gesto eroico.
E GLI ALTRI?
Per quanto drammatici siano stati i conflitti a margine del caso Budanov, la condanna del colonnello rappresenta un’eccezione nel panorama della legge russa. È stata la politica a dare visibilità al suo crimine e a metterlo sotto i riflettori, determinando importanti conseguenze politiche che a loro volta hanno indotto il potere a consentire un verdetto di condanna. Tutto è accaduto per caso. Qualsiasi altro processo per crimini di guerra che veda imputati dei russi è di norma insabbiato e gli organi di sicurezza si preoccupano solo di scagionare i colpevoli. Anche quando hanno compiuto crimini efferati.
Il 12 gennaio del 2002, per esempio, nella zona di Daj, paesino sulle montagne della Cecenia, vennero scaricati sei gruppi di militari russi elitrasportati in cerca di guerriglieri e del comandante Hattab, che da informazioni ricevute era stato ferito e si trovava nei dintorni di Daj.
Quanto sarebbe accaduto di lì a poco è stato ribattezzato «caso Budanov bis». Appena scesi dall’elicottero, gli uomini di uno dei gruppi – dieci soldati appartenenti ai corpi speciali della Direzione Centrale di Intelligence (GRU) dello Stato Maggiore russo – videro passare un pulmino, lo fermarono, fecero scendere tutti gli occupanti, li torturarono per sapere dove fossero i guerriglieri, dopo di che uccisero i sei passeggeri, e per concludere l’opera diedero fuoco ai cadaveri.
Le agenzie di stampa ufficiali definirono immediatamente quel linciaggio uno «scontro con formazioni armate illegali». Poi, però, spuntarono dei testimoni che fugarono quella menzogna. Le vittime risultarono essere dei civili che rincasavano in pullman da Šatoj. Tra di loro c’era la quarantenne Zajnap Džavatchanova, madre di sette figli dai diciassette ai due anni, e incinta dell’ottavo: tutto quel che restava di lei era un piede in una scarpa, identificata dal marito e dai figli maggiori. Era andata a Groznyj per una visita ginecologica.
C’erano anche il preside della scuola di Nochči-Keloj, Sajd-Magomed Alaschanov, sessantanove anni, e un insegnante di storia di quella stessa scuola, Abdul-Vachab Satabaev, che tornavano a casa da una riunione con i colleghi a Šatoj.
Il quarto corpo era quello di una guardia forestale di Nochči-Keloj, Šachban Bachaev. Il quinto era del nipotino di Zajnap che, com’è uso in Cecenia, l’aveva accompagnata: si chiamava Džamlajli Musaev. Il sesto era quello del conducente del pullman, Chamzat Tuburov, padre di cinque figli. Lo conoscevano tutti: portava ogni giorno chiunque glielo chiedesse da Šatoj ai villaggi sulle montagne.
La sera del 12 gennaio gli assassini furono arrestati. I funzionari della procura di Šatoj riuscirono a ottenere l’ordine di arresto grazie alla deposizione di un testimone fortuito, il maggiore Vitalij Nevmeržickij, che si trovava sul luogo della tragedia. Un caso senza precedenti in Cecenia. Di lì a poco i responsabili vennero affidati alla procura militare e venne aperto il fascicolo n. 76002.
Tutto regolare, o così pareva. Ho incontrato personalmente il colonnello Andrej Veršinin, procuratore militare di Šatoj, che si è occupato di questo caso clamoroso e che all’epoca del nostro incontro, nella primavera del 2002, si diceva ancora ottimista. Mi disse di avere prove più che sufficienti e che il caso sarebbe sicuramente arrivato in aula, che sarebbe stato impossibile insabbiarlo come sempre accade. Centinaia di casi analoghi non arrivano mai ‘in porto’, in tribunale, e restano nelle procure di qualunque livello per una sola ragione: i comandanti allontanano subito dalla Cecenia i soldati accusati dei crimini, le pratiche vengono insabbiate, la procura non può procedere, subisce minacce, viene messa a tacere...
Il procuratore Veršinin, invece, era riuscito a fare quanto allora si credeva impossibile: mentre l’istruttoria era in corso, aveva ottenuto che degli uomini del GRU se ne stessero agli arresti nella guardiola del 291° reggimento, di stanza a Šatoj e dunque di competenza della procura cittadina e sotto il diretto, quotidiano, controllo del colonnello Veršinin.
Il procuratore non ha colpa di quanto è accaduto in seguito, quando gli imputati vennero prelevati da Šatoj e trasferiti in una prigione oltre i confini della Cecenia e fuori dalle competenze del colonnello. Coloro che avevano commesso l’eccidio di Daj – il sottotenente Aleksandr Kalaganskij e il caporale Vladimir Voevodin – si fecero nove mesi di prigione a Pjatigorsk e vennero poi scarcerati, in quanto la Procura Generale militare non si prese nemmeno la briga di chiedere il prolungamento della detenzione preventiva. Dovettero liberarli, dunque, previa accettazione della clausola che impediva loro di lasciare Ščëlkov e dintorni, provincia di Mosca.
È importante capire che si trattava di una promozione. Prima della Cecenia e dell’eccidio, i due soldati avevano prestato servizio in capo al mondo, nella Repubblica Buriata. Ora, invece, si ritrovavano poco distante da Mosca... Poteva significare una cosa sola: la Direzione Centrale dello spionaggio militare e lo Stato Maggiore avevano deciso di incoraggiare Voevodin e Kalaganskij ritenendo che avessero servito fedelmente la Patria come Budanov, e che la Patria non li avesse apprezzati come avrebbe dovuto...
L’unico a rimanere agli arresti fu il capitano delle squadre speciali Eduard Ul’man, che il 12 gennaio 2002 aveva dato ordine di compiere il massacro. Libero come l’aria era, invece, l’ideatore e l’istigatore dell’eccidio, il maggiore Aleksej Perelevskij, che al momento era vice comandante del reparto 641 del GRU (dirigeva le operazioni speciali) e aveva ordinato a Ul’man: «Riducili tutti a carico 200» (lo slang militare per cadavere). Era stato allora che gli altri avevano cominciato a sparare...
Posso solo immaginare che cosa sarebbe accaduto se un qualche guerrigliero ceceno avesse sparato a sei militari russi e avesse poi bruciato i loro cadaveri. Certo non sarebbe rimasto in libertà. Come ha detto l’avvocato Abdula Chamzaev, «in quarantun anni di professione, fra tribunali, procura e avvocatura, non mi è mai capitato un caso in cui una persona accusata di omicidio premeditato e aggravato restasse libera in cambio di una firma su un foglio che la obbliga a non mutare il proprio domicilio».
«Se davvero il progetto di un Tribunale penale internazionale per la Cecenia diventasse realtà,» gli ho allora chiesto «lei potrebbe procurare alla corte i materiali relativi ai casi per i quali gli organi di sicurezza russi non hanno voluto condurre un’inchiesta, cercando in ogni modo di coprire e di scagionare i criminali di guerra?».
«Quanti ne vuole. Sono centinaia».
Come già accaduto agli Stati Uniti del dopo-Vietnam, anche la Russia deve rispondere a una domanda: chi sono i soldati e gli ufficiali che ogni giorno, in Cecenia, uccidono, saccheggiano, torturano e stuprano? Sono criminali di guerra? O sono combattenti inflessibili e crudeli di una guerra globale al terrorismo internazionale in cui ogni mezzo è lecito e la salvezza del genere umano è il fine che giustifica i mezzi a cui si ricorre? E la posta ideologica in gioco in questa guerra moderna è talmente alta da indurre a ignorare ogni altra cosa?
Al momento la Russia non ha una risposta da dare.
Un occidentale risponderà, spero, che spetta al tribunale trovare le prove e mettere ogni cosa al suo posto.
L’uomo russo di oggi, l’uomo dell’era Putin, ha il cervello offuscato dalla propaganda, ma non ha ancora disimparato del tutto a pensare con la propria testa.
Oggi, con alle spalle i cinque anni dell’efferata seconda guerra cecena, il milione e più di soldati e ufficiali che l’hanno combattuta e la stanno ancora combattendo, è avvelenato da quell’esperienza; e continua a esserlo anche dopo, a casa propria. Quei soldati e ufficiali sono diventati un serio problema per la vita di una società civile, un problema che non si può più eludere, a cominciare dalla domanda: ma per che cosa hanno combattuto?
Budanov e il massacro di Daj sono casi evidenti, tragici e drammatici, e hanno portato allo scoperto tutti i nostri problemi: la nostra vita ai margini della seconda guerra cecena, la nostra condotta irrazionale riguardo alla guerra e al governo Putin, il nostro modo di distinguere tra colpevoli e innocenti nel Caucaso Settentrionale e, soprattutto, i dolorosi cambiamenti che il nostro sistema giudiziario ha subìto con Putin al governo e la guerra sullo fondo. La riforma della giustizia che le forze democratiche hanno cercato di propugnare e che El’cin aveva fatto di tutto per promuovere è crollata sotto il peso del caso Budanov.
Ma è anche risorta... L’esempio del giudice Bakreev ne sia la dimostrazione più lampante. Come anche quello del procuratore Veršinin.
Tuttavia, prescindendo da singoli individui in grado di compiere nobili gesti, la Russia ha capito chiaramente di non avere un sistema giudiziario indipendente. Quel che abbiamo sono verdetti pilotati dalla politica e decisi dalla congiuntura del momento.
TANJA, MIŠA, LENA, RINAT...
CHE COSA CI È SUCCESSO?
Ma cosa siamo diventati, tutti quanti? Noi ex cittadini dell’URSS? Noi che avevamo tutti, più o meno, un lavoro fisso e uno stipendio regolare, a scadenze definite, noi con la nostra fiducia sterminata e inflessibile nel presente e nel futuro? Noi che credevamo che i medici dovessero per forza curare e gli insegnanti insegnare? E senza che si sborsasse un soldo? Che vita è cominciata, per noi, quando tutto questo è scomparso? O ancora: quale destino incombe su di noi? Come ci siamo ridistribuiti nello spazio postsovietico dopo un triplo salto mortale?
Triplo, sì. E tengo a sottolinearlo. Il primo è stato quello della metamorfosi del singolo (parallela, è ovvio, a quella della società) con la caduta dell’URSS e con l’era El’cin, quando di colpo non avevamo più nulla, dall’ideologia al salame più scadente, dai soldi alla convinzione che al Cremlino ci fosse un «Grande Padre» che poteva anche essere un despota cattivo, ma che comunque si curava di noi.
Il secondo è stato quello della crisi del 1998. A partire dal 1991 – anno dell’inizio effettivo dell’economia di mercato in Russia – molti di noi erano riusciti a mettere da parte qualche soldo, e si era andata formando una classe media che poco aveva a che spartire con quella occidentale ma che tale restava, puntello della democrazia e del mercato. Da un giorno all’altro ci ritrovammo con un pugno di mosche a ricominciare tutto da capo. Molti, però, erano stanchi di combattere, e invece di risollevarsi finirono giù, sul fondo, per sempre.
Il terzo salto mortale, infine, è stato quello di, e con, Putin. Sullo sfondo la nuova tappa di un capitalismo dal volto neosovietico – un modello economico sui generis dell’era del secondo presidente russo, un ibrido bizzarro fra leggi di mercato, dogma ideologico e molto altro ancora. Gli ingredienti sono forti capitali, un’ideologia di taglio marcatamente sovietico posta al loro servizio, e un numero crescente di poveri. Fu subito chiaro, inoltre, che un vecchio ceto stava rinascendo a nuova vita: la nomenklatura, l’élite di governo, un anello fortissimo della catena di potere dell’era sovietica che stava marciando sui binari di un’economia a cui aveva saputo adattarsi in un batter d’occhio. I rappresentanti di questa nomenklatura hanno tutte le intenzioni di vivere nell’agio quanto i «nuovi russi», ma ufficialmente ricevono stipendi ridicoli. Non ritornerebbero mai indietro ai vecchi tempi sovietici, ma nemmeno i nuovi soddisfano del tutto il loro desiderio di ordine e legalità (che la società chiede con sempre maggior insistenza). Perciò perdono molto del proprio tempo ad aggirare la legalità e l’ordine costituito in favore del proprio arricchimento personale. La conseguenza è una rinascita assai rigogliosa della corruzione, che con la nuova-vecchia nomenklatura putiniana ha raggiunto vette inattingibili per i comunisti o per El’cin e compagni, una corruzione che stritola le piccole e medie imprese (e la classe media con loro) e sostiene («fa fiorire», cioè predilige quali erogatori di tangenti) i grandi e i grandissimi gruppi e i monopoli paragovernativi, che sono quelli che portano alla Russia le entrate maggiori, le più stabili, e non solo ai manager e ai padroni del vapore, ma anche a chi, nello Stato, offre loro protezione (e in Russia non si fanno grossi affari senza sponsor nel governo). Sullo sfondo di tale e tanto sfacelo – che nulla ha a che spartire con il mercato – la nostra nuova «nomenklatura di partito» (hanno ricominciato a chiamarla così, come in epoca sovietica) è rosa da una forte nostalgia per l’URSS, per i suoi miti e i suoi fantasmi. Tenuto conto che Putin cerca di raccogliere attorno a sé e alla sua bandiera una pletora di ‘ex’ – dunque di gente con esperienza di governo in era sovietica –, il rimpianto è tale che l’ideologia al servizio del capitalismo putiniano rimanda sempre più marcatamente a quella dei peggiori anni della stagnazione brežneviana, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del Novecento.
Tanja, Miša, Lena, Maša, Saša, Tolja sono persone reali, non personaggi di fantasia. È gente comune, gente che ha lottato per sopravvivere insieme al proprio Paese e che non sempre ce l’ha fatta. Niente cognomi. Erano (e sono) miei amici, persone che conoscevo (e che conosco), dunque se usassi nomi e cognomi non mi sentirei libera di dire fino in fondo ciò che penso. Mentre è quello che devo fare per capire che cosa è successo.
TANJA
Primi giorni dell’inverno 2002. La storia di Nord-Ost e del teatro Dubrovka è appena finita; l’opinione pubblica russa, soprattutto a Mosca, è sotto choc. Sono stata spesso in televisione, ho avuto una parte – pur minima – in quanto è accaduto, e le conseguenze più dirette sono state le telefonate di alcuni vecchi amici: sono ricomparsi, raccontando di sé.
Il telefono che squilla a tarda sera, per esempio. Chiamava sempre di notte, Tanja, oppure a un’ora in cui comunque dormivamo già tutti.
«Quanto tempo...».
«Come hai fatto a trovarmi?».
«Ti va di incontrarci?».
«Certo...».
Era almeno una decina d’anni che non vedevo Tanja, vecchia amica e vicina di casa. All’epoca era sempre giù di corda, mentre quel giorno mi trovai davanti una regina. Vincente ed elegantissima. E non perché indossasse vestiti costosi (che, di fatto, indossava), ma perché era sicura di sé e serena come mai era stata dieci, quindici e anche venti anni prima.
In epoca sovietica Tanja faceva una vita grama e non passava sera che non venisse da me (io abitavo al piano terra di un vecchio casamento, lei all’ultimo) a piangere su una vita rovinata alla quale nessuna delle due vedeva rimedio.
Erano gli anni in cui Tanja, ingegnere, lavorava in un centro di ricerca ed era dunque considerata membro effettivo di quella «intelligencija tecnico-scientifica» che veniva tenuta in grande considerazione e che ora non esiste più, scomparsa anch’essa insieme all’URSS.
Come se ne diventava parte? All’epoca una ragazza di buona famiglia (e Tanja era l’unica figlia di genitori rispettabilissimi) non poteva esimersi dal frequentare l’università, e se non mostrava particolari interessi o inclinazioni, finiva in una facoltà tecnica come ce n’erano tante e diventava ingegnere. Tenuto conto che i neolaureati erano costretti a lavorare tre anni gratuitamente per lo Stato, va da sé che ci fosse un esercito di giovani professionisti insoddisfatti che non avevano mai pensato di fare gli ingegneri e che passavano le loro giornate nei centri di ricerca senza combinare nulla di concreto.
Di quell’esercito Tanja – ingegnere civile nelle centrali nucleari – faceva parte a pieno diritto. Se ne stava giorni e giorni nel suo centro di ricerca a disegnare senza il minimo entusiasmo progetti per impianti di drenaggio e canalizzazione che nessuno avrebbe mai costruito, ottenendo in cambio uno stipendio irrisorio, facendosi il sangue cattivo per la sua indigenza cronica e sforzandosi di sfamare e vestire comunque la sua famiglia, con due figli piccoli perennemente malati e un marito – uno strano tipo di nome Andrej – che all’epoca insegnava in una prestigiosa università di Mosca e ne ricavava uno stipendio ridicolo quanto quello della moglie.
Su questo sfondo Tanja era un tipico esempio di nevrastenica che non faceva che tormentare se stessa, Andrej e i figli con il suo pessimo umore, le scenate isteriche, le depressioni e una costante insoddisfazione...
Per di più Tanja era una donna del Sud, nativa di Rostov sul Don. A metà degli anni Settanta, quando ancora i permessi di soggiorno per lavoro nella capitale erano centellinati, era riuscita a trasferirsi a Mosca sposando Andrej, che aveva conosciuto su una spiaggia del Mar Nero. All’epoca le «ingegnere» di provincia che sposavano dei moscoviti erano un’infinità. Le «ragazze di buona famiglia» volevano tutte venire a Mosca.
Tanja non lo sapeva, cosa voleva. Sapeva perfettamente, invece, che cosa non voleva: non voleva fare l’ingegnere e non voleva essere povera insieme ad Andrej. Ne parlavamo spesso. Tanja era furiosa perché non vedeva soluzioni possibili.
Quando, poi, giunsero tempi diversi, sarebbero state proprio le donne a fare la differenza, a darsi al commercio e a lasciare mariti che non avevano saputo reagire e che sarebbero finiti arruolati dalla malavita, ammazzati nei frequenti scontri a fuoco dell’era El’cin... Perché proprio le donne? Perché prima della perestrojka molte di loro pensavano come Tanja di non avere alcuna possibilità di cambiar vita, e invece...
Ma torniamo alla metà degli anni Ottanta. A casa di Tanja le sfuriate erano all’ordine del giorno. Come vuole la tradizione sovietica, Tanja – che non aveva un proprio alloggio a Mosca – era andata a vivere con Andrej, anche lui senza una casa propria. Vivevano con i genitori di lui e i suoi due fratelli maggiori, entrambi sposati e con due figli a carico.
Un tipico alveare sovietico, insomma, senza speranze di una vita autonoma. Come se non bastasse, Andrej non era una persona facile e discendeva da un’antica famiglia della nobiltà moscovita che annoverava tra i propri avi diverse persone straordinarie. Una delle quali, per esempio (il secondo marito della nonna di Andrej, che a sua volta aveva insegnato violino), era stato un noto insegnante del Conservatorio di Mosca. La nonna era morta da un pezzo, ma il marito – che come Tanja non avrebbe saputo dove andare – era rimasto «nell’alveare».
I genitori di Andrej insegnavano fisica e matematica all’università. Il fratello maggiore era professore di chimica e inanellava scoperte che, però, poco incidevano sulla sua vita da un punto di vista prettamente materiale.
Tutte cose che esasperavano Tanja. Nonostante il florilegio di titoli accademici, riteneva quei suoi parenti dei falliti e degli incapaci; da parte sua la famiglia di Andrej la ricambiava con analoga disistima e non perdeva occasione per dimostrargliela.
Non dimenticatevi che Tanja veniva da Rostov sul Don, dal Sud della Russia, dove anche in era sovietica tutti vendevano e comperavano di tutto, dove prosperavano fabbriche e laboratori clandestini, e dove molte persone facoltose facevano la spola tra la prigione e la libertà senza che nessuno avesse niente da eccepire. I giornali li bollavano come «speculatori» e «intrallazzatori», ma le fanciulle di Rostov non disdegnavano certo di sposarseli.
Quando ci conoscemmo, all’inizio degli anni Ottanta, Tanja era già convinta di aver fatto un grosso errore sposando Andrej. L’amore c’entrava poco. Lo scopo era Mosca, e lo riconobbe. Il matrimonio con un moscovita era segno di prestigio, in provincia, ed era anche l’unico modo per trasferirsi nella capitale. Raggiunto il suo scopo, però, Tanja si era trovata a vivere di stenti, soffrendone. La vedevo rifiorire solo quando mi proponeva di comperare cose bellissime che non so davvero dove si procurasse. Possedeva doti indubbie di venditrice: era capace di piazzare una camicetta di infima qualità a tre volte il suo prezzo, assicurandoti che «in Europa le portano tutti così». Quando, poi, la truffa veniva smascherata, Tanja non faceva una piega. Va da sé che in una famiglia ricca di tradizioni e di interessi intellettuali come quella di Andrej, la passione per il commercio e la speculazione faceva di lei un corpo estraneo da disprezzare...
Ma veniamo al 2002. Tanja mi telefona e mi invita ad andarla a trovare: abita nello stesso, spazioso appartamento di una volta, nel cuore di Mosca, ai piedi del Cremlino.
L’appartamento è completamente diverso. L’ha ristrutturato in modo splendido, sistemando ogni cosa e riempiendolo con gli ultimi prodigi della tecnologia, splendide riproduzioni di quadri celebri e mobili in stile. Tanja è sulla cinquantina, ha una bella pelle giovane e sana, porta vestiti sgargianti, parla a voce alta, è sicura di sé, ride molto e di gusto, ma senza che le si formino delle rughe, dal che deduco che si è fatta il lifting. E dunque – continuo a dedurre tra me e me – dato che i poveri non se lo fanno, il lifting, e che dimostrano tutti i loro anni, vuol dire che è diventata ricca.
«Andrej avrà fatto fortuna...» continuo a pensare. Tanja si muove tranquilla fra le stanze. Dieci anni fa preferiva bisbigliare e starsene in un angolo per evitare di incrociare gli altri.
«Dove sono, tutti quanti?».
«Adesso ci arrivo, ma tieniti forte. È tutta roba mia».
«Tua? Brava! E gli altri dove abitano?».
«Adesso, adesso... Una cosa per volta».
Nella stanza entra, silenzioso, un bel ragazzo dell’età dei suoi figli. L’ultima volta che li ho visti erano ancora dei ragazzini, ragion per cui mi scappa di bocca un:
«Non sarai Igor’, tu?».
Igor’ è il figlio maggiore di Tanja e Andrej. Dovrebbe avere ventiquattro o venticinque anni, oggi...
Tanja scoppia a ridere. È una risata sonora, gustosa, sguaiata. Non da Tanja, insomma.
«Mi chiamo David» mormora il giovane con i capelli neri e gli occhi da pesce lesso. Poi bacia la bella mano curata di Tanja (me le ricordavo diverse, le sue mani, rovinate da ore e ore di bucato senza lavatrice, mani con le quali si asciugava le lacrime nella mia cucina) e si allontana a passo felpato: «Vi lascio sole, ragazze...».
Tutto possiamo essere, tranne che «ragazze».
«Racconta, accidenti! Svelami il segreto dell’eterna giovinezza e di tanta fortuna» chiedo alla mia amica di un tempo. «Dove sono i tuoi?».
«Non sono più “miei”».
«E Andrej?».
«Ho divorziato. Addio lavori forzati».
«E ti sei risposata? Con quello lì? Con David?».
«David è il mio amante. Non per molto, giusto per tenermi in forma. Lo mantengo. Starà qui finché ne avrò voglia».
«Ossignore... Ma per chi lavori?».
«Per nessuno. Lavoro per me stessa» risponde Tanja con una voce dura e metallica che non ha niente a che spartire con l’immagine della donna che ho di fronte: oziosa, curata e con un giovane amante al seguito.
Tanja è un prodotto felice della nuova era. Nell’estate del 1992, quando su buona parte delle tavole di Mosca non c’era niente da mangiare (la chiamavano «terapia d’urto», le riforme verso l’economia di mercato dell’allora primo ministro Egor Gajdar), Tanja, i suoi figli e il resto del parentado accademico vivevano fuori città, nella vecchia dacia di famiglia.
In quell’estate tremenda di fame, tutti i moscoviti che avevano una dacia se ne andarono a vivere nelle loro casette di legno, in campagna, a coltivare ortaggi da mettere nel piatto durante l’inverno. Nei mesi estivi il centro di ricerca dove lavorava Tanja chiuse (del resto era già un po’ che non pagavano gli stipendi) e gli impiegati – tutta gente di città – andarono a zappare l’orto o a vendere nei mercati che spuntavano a ogni angolo di una Mosca ridotta alla fame. Anche Tanja zappava l’orto e si occupava dei figli. Andrej rimaneva spesso a dormire in città. Al contrario di molti centri di ricerca, la sua università restava aperta, gli studenti continuavano a frequentare e a dare esami, gli insegnanti a insegnare per puro entusiasmo e senso del dovere, considerando che nemmeno loro ricevevano da tempo lo stipendio.
Una mattina Tanja piombò a Mosca per un qualche motivo, aprì la porta di casa e trovò Andrej nel talamo nuziale con una ragazza. In pieno giorno, quando avrebbe dovuto essere in università. Tanja, donna del Sud e dunque facile alle scenate, si mise a gridare per tutto il palazzo che «era così che il marito faceva lezione», eccetera eccetera.
Andrej non si scusò nemmeno, anzi le disse di essere innamorato della ragazza. Che, guardandosi bene dall’aprir bocca, si rivestì e andò zitta zitta in cucina a prepararsi un tè. Il silenzio della sua rivale e la sua perfetta conoscenza della casa furono il colpo finale, per Tanja. Non aveva mandato giù ogni sorta di angherie dalla patetica famiglia del marito per farsi soffiare il posto da una ragazzetta. Lo fece presente ad Andrej. Che raccolse le sue cose e se ne andò con la giovane amante.
La nuova vita di Tanja – indipendente e diversissima – cominciò quel giorno. Andrej si comportò come peggio non avrebbe potuto, e non le diede mai un soldo, né per i figli né per lei. Mai. Anzi, in seguito, tre anni dopo, non avrebbe nemmeno disdegnato di farsi mantenere da Tanja, che si era arricchita e ogni tanto gli allungava qualcosa per mangiare o per comprarsi dei vestiti. Non per bontà d’animo nei confronti di quel professore rimasto povero che aveva scelto di non venir meno alla sua deontologia professionale e di non darsi al business come molti suoi colleghi. No. Tanja lo faceva perché la vendetta è un piatto che si consuma freddo: «Pensavi di umiliarmi?» gli diceva apertamente. «E invece no, sono io che umilio te!». Gli portava del caviale rosso, simbolo di quel lusso sovietico che ora si poteva permettere, e Andrej se lo mangiava a quattro palmenti, senza dar segni di umiliazione. Perché la fame è brutta e lui lo sapeva bene, visto che frequentava le mense delle chiese fingendosi credente (allo scopo aveva persino imparato a farsi il segno della croce).
Va da sé che la sua giovane amica era ormai scomparsa da un pezzo e che Andrej viveva dove capitava e come capitava. Era vestito di stracci, sporco, pareva un barbone.
Ma torniamo all’estate del 1992, l’estate della svolta verso l’economia di mercato. La settimana dopo il misfatto, senza più nulla con cui sfamare i figli e con la suocera che insisteva affinché Andrej fosse perdonato e riammesso in casa, Tanja andò a vendere nel mercato vicino.
«Vergogna!» urlava la suocera, che finì per ammalarsi. Guarì presto, però. E grazie a Tanja che usò i soldi della «vergogna» per comprarle le medicine necessarie. Non avendo il becco di un quattrino, figli e nuore non avevano mai fatto niente del genere per lei. La situazione divenne quasi tragicomica. Il consiglio di famiglia decise all’unanimità – e il primo voto fu quello della suocera, pronta a morire pur di evitare l’infamia – che le reliquie di famiglia (i mobili dei loro avi, gli spartiti d’antiquariato, i quadri dei maestri russi dell’Ottocento) non sarebbero mai state vendute. Non avrebbero fatto come altre famiglie nella loro situazione, che avevano venduto e vendevano per due soldi, quando non «per un tozzo di pane», reliquie e tradizioni conservate negli anni dello stalinismo.
Tanja, intanto, continuava a lavorare al mercato. Dalle sei del mattino alle undici di sera. Non era nemmeno lavoro, era schiavitù allo stato puro. Senza giustificazioni a parte una: quella schiavitù aveva un prezzo. Tanja lavorava per rubli veri, che le frusciavano in tasca. E che le venivano pagati giornalmente. Sei stata qui tutta la giornata? Bene: questi sono per te. Adesso, non domani: era quello che contava. Tanja tornava sempre a casa con dei soldi in tasca. Magari con le gambe gonfie, magari trascinandole a stento e con le mani grosse come chele, tanto da non riuscire a lavarsi e a riprendere un aspetto umano. Però era quasi felice!...
«Non ci crederai, ma ero felice di non dipendere più da nessuno. Niente più direttore di un centro che non mi pagava, niente Andrej che non mi dava un soldo, niente suocera con mobilia e tradizioni annesse. Dipendevo solo da me stessa» così mi descrive Tanja, ormai bella e ricca, la ragazza che era dieci anni fa. «Mia suocera? Un bel giorno gliel’ho detto chiaro e tondo: ma va’ un po’ a farti f...! E sai una cosa? È stata la prima volta che non mi ha fatto la predica. Una rivelazione, per me. Era un cambiamento epocale: nella vecchia, incorruttibile intelligencija moscovita si era aperta una breccia. E ad aprirla erano stati i soldi che davo a mia suocera. Aveva smesso di farmi la paternale perché le mettevo qualcosa nel piatto. Io che non facevo mai una cosa giusta... Pian piano tutti quanti, tutta quella patetica famiglia che per anni mi aveva disprezzato perché non ero di un casato antico quanto il loro e perché avevo sposato Andrej per venire a Mosca, tutto il mio bel parentado imparò a sorridermi e a prestare ascolto a quel che avevo da dire. Solo perché ero io a dar loro da mangiare e perché lo facevo al mercato. Avevo vinto. E se lavoravo come una pazza era solo per guadagnare di più... E sbatterglieli in faccia, quei soldi».
Tanja tornava a casa verso mezzanotte e crollava sul letto. Non aveva più tempo per i figli. Né per verificare che facessero i compiti. Crollava. E la mattina seguente, all’alba, schizzava di nuovo fuori.
Per la prima volta da che vivevano sotto lo stesso tetto, fu la suocera a farsi carico dei nipoti. Tanja rimase un’altra volta senza parole.
Verso la metà degli anni Novanta la Russia ha assistito a un boom di tossicodipendenti tra i ragazzi dai quindici ai diciotto anni. La mattina, uscendo di casa, ci trovavamo spesso a camminare su un tappeto di siringhe. Erano i figli delle donne che correvano al mercato per guadagnare qualcosa, figli che non avevano più nessuno che li tenesse d’occhio, senza più scuole (che di fatto non funzionavano), abbandonati a se stessi da genitori in cerca di soldi facili... Il numero delle donne tra i quaranta e i cinquant’anni che hanno perso uno o più figli, oggi, è altissimo. È stato calcolato che quasi il cinquanta per cento dei ragazzi e delle ragazze nati tra il 1978 e il 1982 siano morti di overdose a metà degli anni Novanta.
Ma torniamo a noi. Al mercato Tanja finì a lavorare per Nikita, un tipo sveglio che faceva la «navetta», come si diceva allora. Il suo lavoro consisteva nel procurarsi merce a poco prezzo: vestiti in Turchia, angurie in Uzbekistan, mandarini in Georgia... Come molte altre donne, Tanja lavorava per Nikita e vendeva la sua merce. Niente dazi, niente tasse. Nei mercati vigevano le leggi della prigione: le liti si risolvevano col coltello, estorsioni e pestaggi erano all’ordine del giorno. E le venditrici, le compagne di Tanja, che come lei erano sole e con figli a carico, rappresentanti come lei di un’intelligencija tecnico-scientifica messa sulla strada dalla chiusura di centri di ricerca, giornali e case editrici, si ritrovavano a fare da schiave – quando non da prostitute – per i loro padroni.
Anche Tanja finì nel letto di Nikita, che l’aveva notata fra le altre nonostante la differenza d’età e che se la portò in Turchia a fare provviste. Ce la portò una prima volta, poi un’altra, poi un’altra ancora... In capo a un paio di mesi Tanja, che aveva il bernoccolo degli affari e aveva capito che quel mestiere non richiedeva una gran scienza, divenne anche lei una «navetta».
Nel frattempo Nikita era finito ammazzato: una mattina lo trovarono al mercato con una pallottola in testa. Le venditrici di Nikita andarono tutte a lavorare per Tanja, e furono felici del cambio. Era molto più efficiente di Nikita, molto meno figlia di buona donna di lui e gli affari prosperavano.
Passarono altri sei mesi, e Tanja smise di andare in Turchia. Non perché fosse stanca (anche se il pane delle «navette» sa certamente di sale: la merce va portata personalmente, in enormi balle, per aeroporti e stazioni ferroviarie, risparmiando su tutto, finanche sui carrelli a pagamento). Smise di viaggiare perché aveva scoperto di avere un fiuto sensazionale per gli affari: quel che comperava lei andava venduto in un attimo.
La fortuna di Tanja aumentava. Cominciò assumendo cinque «navette», poi altre cinque, fino a poter disporre di quella che – per il mercato – era una grossa impresa. Le «navette» facevano la spola, le venditrici vendevano, Tanja dirigeva il tutto. Ormai gli abiti che indossava non erano più made in Turkey, ma in Europe. Era cliente fissa di molti ristoranti, dove andava a mangiare, gozzovigliare, spender soldi e riprendere fiato dopo il lavoro. Aveva comunque denaro a sufficienza per sé, per la famiglia e per i suoi dipendenti. In quegli anni si guadagnavano cifre astronomiche. Anche i suoi amanti erano adeguati alle sue entrate e alla sua età. Li cambiava come e quando voleva. Per onor di cronaca, Tanja si era lamentata più volte anche con me del fatto che Andrej non fosse un grande amatore...
Di lì a un altro anno Tanja decise di sistemare l’appartamento, ma prima se lo comprò. Comprò anche dei monolocali per i «parenti» – uno per Andrej, uno per il suocero, uno a testa per i cognati – e nessuno ebbe nulla da obiettare. La suocera, invece, la tenne con sé: qualcosa si mosse nel suo cuore e Tanja ebbe pietà di quella povera vecchia ormai sola. Eppoi qualcuno doveva pur badare ai suoi figli! Il maggiore, Igor’, era in un’età critica, la pubertà, e le stava dando qualche problema; il piccolo era spesso malato.
Anche la ristrutturazione fu una rivalsa, per lei.
«Volevo che avessero ben chiaro chi fosse la padrona!».
Buttò via tutto quanto. Tutto. Vendette tutta la mobilia di famiglia e cancellò ogni granello di polvere del loro passato gentilizio.
Senza incontrare ostacoli. La suocera se ne andò a stare nella dacia e si tenne alla larga.
Il risultato fu un appartamento europeo dotato delle ultime novità high-tech. A cose fatte Tanja si decise a un ulteriore passo: dal commercio con le «navette» passò a quello vero e proprio, e si comperò diversi negozi.
«Come come? Sono tuoi?». Non credo alle mie orecchie: Tanja possiede i due supermercati dove vado a fare la spesa quando esco dall’ufficio. «Complimenti! Ma hai certi prezzi...».
«Il nostro è un Paese ricco» mi rintuzza Tanja brusca, ma sorridente.
«Neanche tanto. Sei tu che sei diventata uno squalo imperialista...».
«Certo che sì. El’cin è acqua passata, e con lui se ne sono andati anche i soldi facili e l’alone di romanticismo. Ora il potere è nelle mani di pragmatici insaziabili, li chiamo così, io. E io sono come loro. Tu sei contro Putin, io a favore. Io lo sento come un fratello: è un pragmatico insaziabile come me, un umiliato e offeso dalla vita precedente che ora si vendica del passato».
«In che senso sarebbero “insaziabili”?».
«Nel senso delle bustarelle. Dei soldi che tutti ti chiedono. Pago perché non mi portino via i negozi. E pago un sacco di gente. La prefettura, i pompieri, l’ufficio d’igiene, la giunta municipale... I criminali che controllano il quartiere dove sorgono i negozi... È da loro che li ho comperati, fra l’altro...».
«Non hai paura di trattare con certa gente?».
«No. Voglio diventare ricca, è questo il mio scopo. E al giorno d’oggi significa pagare. Senza questa ‘tassa’ mi sparerebbero all’istante e mi rimpiazzerebbero con qualcun altro».
«Non starai esagerando?».
«Esagerando? Al contrario!».
«E la burocrazia?».
«Qualche burocrate lo pago di persona, gli altri li paga la malavita. Io do i soldi a loro e quelli se li spartiscono con i compari. I burocrati, intendo. Mi conviene quasi».
«E Andrej dov’è?».
«È morto. Alla fine non ha retto a che io ce l’avessi fatta e lo rimpinzassi a caviale. Mi ha persino chiesto di tornare insieme, ma non ne ho voluto sapere. Gli ho detto di andarsi a trovare un’altra ragazzetta. Non volevo certo vivere con un uomo brutto. Ho imparato ad apprezzarla, la bellezza: vado agli spettacoli per sole donne e me li scelgo lì, i miei amanti. E molti ci stanno».
«Non ci credo! E non ti manca la famiglia? Una casa?».
«No. Neanche un po’. Ho appena iniziato a vivere. C’è un prezzo da pagare, certo. A te sembrerà una vita sordida... Ma forse che la mia vita di un tempo era pulita?».
«I bambini come stanno?».
«Purtroppo Igor’ ha preso da Andrej, è un debole. Si buca. Adesso è in clinica, è già la quinta volta. Ma ci spero ancora... Stasik studia a Londra. Sono molto fiera di lui. Molto. È il primo della classe in ogni materia. Sta con mia suocera, le ho preso un appartamento. Lui sta tutta la settimana al college, e il week-end lo passa con la nonna. Lei l’ho fatta operare all’anca in Svizzera. Ho pagato tutto io. È tornata a vivere, corre come una ragazzina e mi adora. Penso che mi voglia bene davvero, sai... Gran cosa, i soldi...».
David frulla nella stanza con un vassoio in mano.
«Tea time, ragazze! Posso berlo con voi?».
Tanja annuisce e si allontana per un momento: vuole cambiarsi per il tè. David sprizza oziosa depravazione. Una situazione decisamente sgradevole. Tanja ricompare di lì a poco. È ricoperta di brillanti: le orecchie scintillano, il décolleté è un tripudio di luce e persino tra i capelli si intravedono dei baluginii...
Tutto per me. E io apprezzo. Perché non dovrei farla felice? E Tanja è davvero molto felice, raggiante come i suoi brillanti per la gioia di mostrare quella nuova se stessa a una vecchia amica.
Beviamo il tè senza indugiare – abbiamo fretta entrambe – e ci salutiamo.
«Non facciamo passare altri dieci anni, va bene?» mi dice mentre ognuna va per la sua strada.
«Proviamoci!» le rispondo. Mentre scendo le scale penso che con Putin le occasioni di vedersi, di vedere i «vecchi amici», si sono moltiplicate. C’è stato un momento, in Russia, gli ultimi anni di El’cin, in cui avevamo tutti un gran da fare a procurarci di che vivere, tempi in cui non ci si telefonava per anni, vergognandosi chi della propria povertà, chi della propria ricchezza, tempi in cui molti sono partiti per sempre e altri si sono sparati una pallottola in fronte perché nessuno si curava più di loro; in cui si tirava cocaina perché schifati dalle proprie azioni... Ora, invece, chi è sopravvissuto ha ripreso a incontrarsi. Persino più di prima. La società si è data un certo ordinamento interno, e ha fatto la sua comparsa anche il tempo libero.
La settimana seguente dovevo andare a una conferenza stampa per una qualche elezione. Alla Duma, forse, dov’era rimasto un seggio vacante. Con mia grande sorpresa ci trovai anche Tanja. In una società strutturata e ben ripartita come la nostra, le proprietarie di supermercati non frequentano le conferenze stampa politiche.
Tanja si presentò alla stampa con grandissimo stile: abito nero di taglio classico e neppure l’ombra di un brillante. C’era anche David. Anche lui perfetto nei panni dell’impeccabile segretario di Tanja, defilato e mai petulante. Niente «Ciao ragazze!» in quell’occasione.
Mi sedetti fra i giornalisti. Tanja era dall’altra parte della barricata. Le porsero il microfono: fu l’ultima a intervenire. Era lei la candidata al seggio. Espose ai giornalisti – e a me con loro – la sua opinione sui senza tetto di Mosca e promise di lottare per i loro diritti se gli elettori le avessero fatto l’onore di votarla all’assemblea legislativa.
«A che diavolo ti serve tutto questo? Non sei già abbastanza ricca?» le chiesi dopo la conferenza stampa.
«Te l’ho già spiegato: voglio esserlo ancora di più. E in questo caso la riposta è semplice: non voglio più pagare tangenti a un qualche deputato».
«Tutto qui?».
«Non mi pare poco. Sono i rudimenti della gestione aziendale. Non hai idea del livello di corruzione che esiste oggi. Ai tempi di El’cin non se lo sognavano nemmeno. Se divento deputato, almeno una ‘tassa’ me la tolgo. E non è cosa da poco, credimi».
«Perché hai scelto di difendere i senza tetto?» le chiesi al tavolo di un costoso café francese che aveva scelto lei; io non li frequento, certi posti, non sono per le mie tasche.
«Secondo me su quello sfondo risalto meglio. E in realtà posso aiutarli davvero: io ce l’ho fatta».
«Perché alla fine della conferenza stampa hai parlato di Putin? Di quanto lo apprezzi e lo rispetti e della fiducia che hai in lui? Questa te l’hanno suggerita i curatori d’immagine... Pessimo gusto».
«Tutt’altro. È così che si fa, oggi. E lo so senza che me lo dica uno dei tuoi image maker». Tanja incespica in quell’espressione inglese che la nostra lingua ha mutuato insieme a tante altre cose. «Se non avessi menzionato Putin, domani mi si sarebbe presentato in negozio qualcuno dell’FSB di quartiere a dirmi che non è così che si fa... Chi fa affari vive in questo modo, mia cara».
«E se anche si fosse presentato?».
«Se anche si fosse presentato mi avrebbe chiesto una mazzetta».
«Per che cosa?».
«Per ‘dimenticare’ quello che non avevo detto».
«Ma non ti sei ancora stancata di questa vita?».
«No. Se dovessi baciare il culo a Putin per procurarmi un altro paio di negozi, glielo bacerei».
«Perché dici “procurarmi”? Non li comperi, i negozi? Non ti basta pagare per comperarli?».
«No, adesso non più. “Procurarseli” significa strappare ai burocrati il diritto di comperarseli. Si chiama “capitalismo russo”. A me piace. E quando non mi piacerà più, mi comprerò la cittadinanza in qualche altro Paese e arrivederci!».
Ci salutammo. Tanja fu eletta, è ovvio. Pare che non sia male, come deputato, che si dia davvero da fare per i poveri di Mosca, che abbia creato un’altra mensa per senza tetto e profughi. Nel frattempo si è comperata altri tre supermercati. E va spesso in televisione a inneggiare alla nostra vita di oggi. Mi ha chiamato di recente, mi ha chiesto di scrivere un articolo su di lei. L’ho scritto. Eccolo. È quello che state leggendo. Tanja mi ha chiesto di dargli un’occhiata prima che venisse pubblicato. Si è spaventata: «È tutto vero» ha detto. Ma mi ha proibito di pubblicarlo in Russia finché sarà in vita. Le ho dato la mia parola.
«E all’estero?».
«Fa’ pure. Che sappiano di che cosa odora la nostra pecunia».
Ora lo sapete.
MIŠA E LENA
Miša era il marito di Lena, mia amica d’infanzia e compagna di scuola di quando avevamo sette anni. Si erano sposati durante l’università, alla fine degli anni Settanta. All’epoca Miša era un ragazzo intelligentissimo e di grande talento, un interprete dal tedesco che faceva le simultanee ancora da studente universitario e a cui si prospettava un futuro radioso: dopo la laurea se lo contesero a suon di splendide offerte di lavoro, cosa più unica che rara all’epoca.
Miša finisce al ministero degli Esteri, un impiego prestigioso in era sovietica, soprattutto nell’ultimo periodo, quando era raro che un ragazzo senza agganci finisse in un’istituzione chiusa come gli Esteri. A Miša mancavano, quegli agganci: lo aveva tirato su la nonna, che per campare faceva le pulizie. La madre era morta prematuramente per un cancro al cervello quando lui era appena quattordicenne, e il padre l’aveva subito abbandonato per andare a stare con un’altra donna.
Miša, dunque, finisce agli Esteri. Con Lena siamo molto legate, ma anche Miša si sforza di unirsi al gruppo. Facciamo i picnic insieme, cuociamo gli spiedini sulla brace, nel bosco. Siamo felici.
La base dell’amicizia con Miša è strana. Io ho due figli piccoli, e quando viene da noi Miša sta a guardare per ore, estasiato, le loro sciocchezze. E per ore parla e gioca con loro.
Noi amici sappiamo che Miša vorrebbe dei figli, che è un’ossessione per lui. Ma la mia amica Lena è una linguista di talento, sta scrivendo la tesi di dottorato e continua a rimandare la gravidanza a quando l’avrà finita.
Miša è molto irritato, e il fatto di non avere figli diventa pian piano un complesso, per lui. Miša soffre e fa soffrire chi gli sta accanto, Lena per prima. Ma Lena è una donna di carattere: se ha preso una decisione, quella dev’essere. Se ha deciso di discutere la tesi e di pensare poi a un figlio, così sarà.
Lena si dà alla ricerca, Miša all’alcol... Per un po’ si controlla, poi esplode. Inizia bevendo poco, gli altri lo prendono in giro, ma poi le sue libagioni si prolungano per diversi giorni, con annesse sparizioni e notti passate chissà dove. I giorni diventano settimane. Lena sta per cedere, è a un passo dal mettere da parte la tesi, ma come si fa a fare un figlio con uno che è sempre ubriaco?...
Poi arrivano Gorbačëv e El’cin, e l’unica ragione per cui Miša non viene cacciato dal lavoro (con i comunisti sarebbe avvenuto all’istante) è perché non hanno con chi rimpiazzarlo. Chi lavora all’ormai disastrato ministero degli Esteri ha un’ottima conoscenza della lingua e una certa esperienza dell’altra parte della cortina di ferro, e viene pagato a peso d’oro dalle compagnie straniere. Per quanto i tedeschi siano stati i primi ad avventarsi sul mercato russo e gli interpreti dal tedesco siano i più ricercati in assoluto, Miša non lo vuole nessuno.
Anche al ministero, però, Miša ha i giorni contati: alla fine lo licenziano.
Una sera di dicembre del ’96, una sera di freddo pungente e di trenta gradi sotto zero. Suonano alla porta. È molto tardi. Sulla soglia c’è Lena in camicia da notte. Che non è l’abbigliamento più adatto con certe temperature, ve lo garantisco... Tanto più che Lena è una donna equilibrata, elegante, educata, colta. Le manca una scarpa, come all’ultimo dei barboni, e all’altro piede ha uno stivale mezzo slacciato, col gambale che garrisce come una bandiera. Trema come se fosse caduta tra i ghiacci e l’avessero appena tirata fuori dall’acqua gelida. È spaventata a morte, talmente scioccata da non riuscire a parlare:
«Miša... Miša...» ripete come un automa che sa pronunciare una sola parola, e intanto continua a singhiozzare: non sembra nemmeno lei, non riesce a smettere e non capisce dove si trova e chi ha davanti.
Quel baccano sveglia anche i miei figli, che si alzano e vengono a vedere che cosa sta succedendo. Circondano Lena, stregati da quel dolore che non capiscono. Alla fine Lena torna in sé: i bambini la riportano su questa terra. Prende un tranquillante e mi racconta tutto.
Erano tre notti che Miša non tornava a casa. Non che se ne fosse data pensiero; aveva fatto il callo alle sbronze e alle gozzoviglie e se n’era andata tranquillamente a dormire, dato che la mattina dopo la aspettavano presto in università. Miša era ricomparso poco dopo la mezzanotte: una stranezza, perché quando beveva rincasava sempre la mattina seguente.
Quella volta, invece, si era piazzato così com’era – in cappotto e scarponi luridi, fetido e lurido anche lui – sulla porta della stanza da letto, davanti a Lena, zitto, a fissarla nella penombra senza accendere nemmeno la luce. Pareva ubriaco fradicio e fuori di sé. Gli occhi neri brillavano in modo innaturale, accendendogli riverberi d’argento sulle guance. Quello che fino a poco prima era stato un bel viso, appariva solcato da una smorfia minacciosa e tesa. Lena si era infilata sotto le coperte, in silenzio. Sapeva per amara esperienza che era inutile parlare. Doveva aspettare che lui si addormentasse, era quella la ricetta migliore.
Miša, invece, si avvicinò al letto.
«Basta...» le disse. «È tutta colpa tua, se bevo... Quindi adesso t’ammazzo...».
Lena colse nella sua voce una calma determinazione che non lasciava adito a dubbi. Saltò giù dal letto e corse per la stanza. Miša la raggiunse una prima volta sul balcone; Lena credette di non avere speranze. Gli ubriachi, però, sono goffi, Lena riuscì a sfuggirgli, raggiunse la porta, afferrò la prima giacca che le capitò sotto mano e corse via sulla neve. Fino a casa mia.
Divorziarono. Nessuno dei due aveva la lacrima facile, ma entrambi vennero nella mia cucina a piangere e a dirmi quanto si amassero, ma come non potessero più vivere insieme.
Vidi Miša diverse volte ancora, anche se sempre più di rado. Veniva a trovarmi per chiedermi soldi in prestito: non aveva smesso di bere, l’avevano licenziato e tirava avanti con qualche traduzione ogni tanto.
Quand’era sobrio – raramente – mi diceva che voleva smettere di bere e rifarsi una vita. Si era avvicinato alla Chiesa ortodossa, leggeva libri religiosi, era stato battezzato, si era trovato un padre spirituale, si confessava e si comunicava e trovava conforto nella fede. Insomma sembrava convinto di potersi redimere. Esteriormente non pareva certo qualcuno sulla via della salvezza: aveva una zazzera di capelli sporchi e arruffati, era trasandato, sciatto come chi non ha una donna in casa, come si dice dalle nostri parti. Portava un cappotto nero usato e troppo corto, e quando gli chiedevo dove vivesse mi rispondeva in modo sconclusionato che nessuno lo capiva e che la vita è dura quando nessuno ti capisce...
Con El’cin al governo il caso di Miša non era né strano né eccezionale: le strade pullulavano di poveracci rimasti senza lavoro, cittadini colti e rispettabili che si erano dati all’alcol perché incapaci di riciclarsi nella nuova realtà. Fu sul terreno dell’insoddisfazione, della disoccupazione e dell’abbandono che la Chiesa ortodossa raccolse proseliti tra molti ex professionisti dell’era sovietica: spesso senza una vera fede alle spalle, gli sfortunati che avevano perso lavoro, famiglia e ragioni di vita si rifugiavano in chiesa.
Miša era uno di loro. Un giorno venne a trovarmi, sobrio e persino felice, e mi chiese di fargli gli auguri: il giorno prima era diventato padre. Il suo sogno si era finalmente realizzato e ne fummo tutti molto felici. Miša, però, non pareva al settimo cielo.
Il bambino si chiamava Nikita. Anche quando era sposato con Lena Miša aveva sempre detto che, se avessero avuto un figlio, l’avrebbero chiamato Nikita.
«Chi è la madre?» gli chiesi cauta.
«Una ragazza».
«Vivi con lei? Siete sposati? Vi sposerete presto?».
«No. Non piaccio ai suoi genitori».
«Allora prendetevi un appartamento e andateci ad abitare voi. È importante».
«Non abbiamo soldi».
«Trovati un lavoro».
«Non voglio e non posso. Tanto non lo troverei comunque: ho perso il treno, ormai».
E troncò ogni possibile conversazione al riguardo.
Passò un anno, o forse più. El’cin aveva abdicato a favore del suo delfino, Putin, la seconda guerra cecena era iniziata e il nuovo leader era continuamente in televisione a guidare aerei o a dare disposizioni sul campo. Si avvicinavano le elezioni presidenziali. Una sera mi telefonò Lena.
«Mi hanno appena chiamato per dirmi che Miša ha ucciso la donna con cui viveva» mi disse con una voce che non pareva nemmeno la sua, la voce roca delle cantanti dopo un concerto. «Lei lascia il figlio quattordicenne avuto dal primo marito. Il ragazzo era in casa, quando è successo. Miša aveva bevuto. Pare che quella donna fosse più vecchia di lui e che con lui bevesse per non farlo sentire solo. Avevano bevuto anche ieri sera. Miša ha preso un coltello e le ha detto quel che anch’io mi son sentita dire: “Adesso t’ammazzo”».
Lena scoppiò a piangere.
«Potevo finirci io, così» disse. «Te lo ricordi? E voi che cercavate di convincermi a non divorziare, che mi dicevate che ce l’avrebbe fatta, che bastava curarlo... Mi avrebbe ammazzato...».
Il tribunale ebbe pietà di lui. Soprattutto dopo aver appreso la sua storia, iniziata con la morte prematura della madre che tanto amava. Gli diedero quattro anni e mezzo, una condanna ridicola per un omicidio, considerando che l’avevano riconosciuto capace di intendere e di volere nonostante i suoi problemi con l’alcol.
Lo mandarono in un campo di lavoro in Mordovia, in mezzo alle foreste. Sei mesi dopo a casa di Lena – che intanto si era risposata e aveva avuto un figlio – si presentò il comandante della colonia di lavoro dove Miša stava scontando la sua pena. Il comandante non era certo una cima, ma aveva buon cuore. Non era stato Miša a chiedergli di andare da Lena, si era deciso da solo. Di passaggio a Mosca per lavoro, il comandante aveva pensato che fosse suo dovere riferire a Lena – per quanto ormai ‘ex’ moglie – che il «suo Michail» (disse proprio così, facendo inorridire il secondo marito) era il miglior detenuto con il quale avesse mai avuto a che fare. Era il più colto del campo e un gran lavoratore. Quel comandante con l’animo del pedagogo gli aveva affidato la biblioteca, e Miša l’aveva risistemata completamente. Leggeva molto e lavorava con gli altri detenuti come un autentico psicologo. Inoltre aveva costruito con le sue mani una chiesetta di legno, all’interno del campo, e voleva prendere i voti. Era in corrispondenza epistolare con un monastero, a cui chiedeva sostegno sulla via intrapresa. Il comandante disse a Lena di aver sostenuto in prima persona le inclinazioni monastiche di Miša, in quanto potevano fare solo del bene al suo contingente di assassini, stupratori e criminali incalliti. Fra l’altro, Miša gli aveva chiesto di passare al negozio del Patriarcato di Mosca e di portare in Mordovia degli arredi sacri.
«Non è contenta, Lena?» chiese alla ex moglie, che, invece, aveva gli occhi lucidi.
«Ho paura» rispose lei.
«Non ne ha motivo» replicò il comandante. «È cambiato, non è più un pericolo. Non beve più. E non ucciderà più. Almeno credo».
Il comandante si passò una mano tra i capelli, bevve il suo tè e – partecipe com’era della riabilitazione dei suoi detenuti – aggiunse sfregandosi le mani con foga, neanche volesse accendere un fuoco:
«Se devo dire la verità, mi dispiace che esca... È il migliore che ho...».
Da quel giorno cominciammo a prepararci alla ricomparsa di Miša. Che però diede notizia di sé solo nel 2001, quando lo rilasciarono. Per qualche settimana vagò per la capitale senza una casa, senza nessuno, senza nemmeno il tedesco ad aiutarlo – l’aveva ormai dimenticato –, incapace di inserirsi nella nuova realtà.
Sapevo che era a Mosca. Ci incontrammo per puro caso in viale Tverskoj, e riconoscemmo a stento quello che per entrambi era stato un volto familiare. Ci sedemmo su una panchina e restammo a parlare per tre ore filate. Non mi chiese dei miei figli e io non gli chiesi di Nikita. Aveva solo bisogno di qualcuno con cui parlare, di qualcuno che lo ascoltasse.
L’argomento era il monastero e la giusta scelta che aveva fatto. Intanto io osservavo l’uomo che avevo di fronte. Non c’era più traccia del Miša di un tempo. Era canuto, vecchio, flaccido. E anche l’arguzia e i talenti di un tempo erano scomparsi. C’era solo la rabbia contro il destino. E il gergo carcerario. Mi propinò una sfilza di banalità sul senso della vita, sul genere di quelle degli opuscoli per analfabeti o quasi. E capii che tipo di biblioteca avesse il lager della Mordovia.
«Ce l’hai, un lavoro?».
«E quale? Pagano poco e pretendono molto».
«Siamo tutti sulla stessa barca... Devi avere pazienza...» cominciai, ma Miša mi interruppe subito:
«Io non voglio essere come tutti».
Ecco di cosa aveva piena la bocca.
«E il monastero? Come va?».
«Al momento non mi vogliono. C’è la coda anche lì, entri solo se conosci qualcuno. E poi essere stato in prigione non mi aiuta».
«Be’, c’è da capirli... Sei uscito da poco...».
«Io non li capisco, invece...». Miša stava diventando aggressivo.
«Che cosa pensi di fare?».
«Andrò in quella chiesetta» e indicò un edificio alle sue spalle, una delle chiese più antiche di Mosca. «A fare il custode. Per entrare in monastero devo aggiungere voci al mio curriculum».
Scoppiammo a ridere entrambi. Solo chi è nato in URSS e vi abbia vissuto una buona parte della sua vita cosciente sa che le «voci sul curriculum» sono un espediente sovietico per essere assunti o per essere ammessi in una buona università se non si hanno degli agganci. Noi, invece, stavamo parlando di un monastero, di fede, di religione, di norme conventuali... E non c’era nulla di più distante dalla quotidianità sovietica. Non riuscivamo a smettere di ridere.
«Buffo» disse Miša. «Al giorno d’oggi le strade dell’ortodossia e della realtà sovietica si sono ricongiunte...».
Quello che spuntava da sotto le palpebre appesantite di un cirrotico o di un cardiopatico era il Miša di un tempo: allegro, ingegnoso, burlone, spavaldo.
«Certo che si sono ricongiunte. Manchi da un po’, tu. Non hai paura che quella Chiesa in cui hai tanta voglia di entrare sia diventata l’analogo del comitato rionale della Gioventù comunista, di quel komsomol da cui a suo tempo eri fuggito a gambe levate? Non temi che abbiano solo passato una mano di vernice su vecchie strutture? Non hai paura di restare deluso, una volta in monastero? E di ricasc...».
Non riuscivo a trovare la parola adatta, e mi bloccai.
«E di ammazzare qualcun altro, volevi dire? Scaricando su di lui i miei problemi?».
«Non era quel che intendevo...» anche se, invece, era proprio quel che avevo in mente: io e Miša sembravamo capirci al volo come un tempo.
«Sì che lo intendevi, invece. Lascia perdere gli eufemismi... Ti rispondo così: certo che ho paura. ma non ho altra scelta. Se resto qui, torno dentro di sicuro. Stavo meglio in prigione, in uno spazio recintato. E il monastero lo è. Cambiano solo le guardie. E io ho bisogno di avere delle guardie. Non riesco a controllarmi in questo tipo di vita».
«Che tipo?».
«Cinica. Non lo sopporto, il cinismo. Ho iniziato a bere per questo».
«E perché l’hai ammazzata, la tua donna? Era cinica anche lei?».
«No, lei era buona. Non ricordo perché l’ho uccisa. Ero ubriaco».
«Dunque non c’è modo che resti tra noi?».
«No. Non resisterei».
Non lo incontrai più. Ma so che non entrò mai in monastero. La procedura era lunga. La burocrazia religiosa somiglia a quella di Stato: reagisce solo a quanto la tocca direttamente. Miša andava al Patriarcato a presentare i suoi certificati, e intanto faceva il custode e viveva in chiesa. Ricominciò a bere. Pian piano. Un paio di volte andò anche da Lena a chiederle soldi... La prima volta lei gli diede cento rubli. La seconda niente, e fece bene: lei e il marito non lavoravano perché Miša potesse andare a sbronzarsi. Aveva ragione.
Miša si è buttato sotto un treno della metropolitana. Lo scoprimmo per caso, molto tempo dopo. Miša, una delle persone più intelligenti che abbia mai conosciuto, è stato sepolto tra i barboni e i cadaveri «non reclamati». O meglio, hanno sepolto le sue ceneri, perché in casi come il suo i corpi vengono cremati. Nessuno sa dove sia la sua tomba.
RINAT
Le cose o si affrontano o si evitano.
La sede di un reggimento speciale dei servizi segreti del ministero della Difesa russo – un reparto d’élite al massimo livello – non è posto per dei civili come me. Talvolta, però, certe visite diventano necessarie. A portarmici è Rinat, un maggiore di quello stesso reggimento. Rinat non ha parenti, è orfano ed è cresciuto in un orfanotrofio. Il suo viso tradisce origini orientali, gli occhi sono a mandorla; parla diverse lingue dell’Asia Centrale. Rinat è una spia, e i servigi che ha reso al Paese gli sono valsi svariate medaglie e onorificenze. Ha combattuto in Afghanistan, poi è stato infiltrato per anni nelle bande di tadžiki sui monti, o al confine afghano-tadžiko a cogliere in flagrante i narcotrafficanti; sempre da infiltrato, poi, ha aiutato a salire al potere – a nome del governo russo – alcuni degli attuali presidenti delle ex repubbliche sovietiche. È stato anche in Cecenia, è ovvio. Ha combattuto in entrambe le guerre. Il suo petto è un tappeto di onorificenze.
Insieme cerchiamo un buco nella recinzione. Vuole farmi vedere la caserma dove vive, con tutte le sue onorificenze, e la casa nel villaggio militare dove avrebbe voluto andare ad abitare. La fortuna, però, gli ha voltato le spalle. Il suo è un reggimento noto, ben addestrato e d’élite, ma lo troviamo, un varco. Ci passerebbe un carrarmato, altro che noi due.
Cinque minuti a piedi ed eccolo, il villaggio delle spie. È mattina. Intorno a me solo i visi lunghi degli ufficiali fuori servizio. Anche il tempo è grigio. Sotto i piedi abbiamo solo fango: non camminiamo, pattiniamo quasi, dobbiamo stare attenti a non cadere.
Alzo gli occhi. Miracolo! Di fronte a me, tra miseri edifici bassi, si erge come un miraggio un palazzo nuovo, alto, di un bel colore grigio-verde.
«È da quella casa che è cominciato tutto quanto» dice Rinat. «Anch’io avrei voluto andare ad abitarci. Ero stanco di girare. Mio figlio sta crescendo e io, invece, sono sempre a combattere qualche guerra...».
Il maggiore si blocca e si mette a fare cose che non comprendo. Si copre il viso, si china come se ci stessero sparando e dovessimo trovare un riparo. Mi sussurra che sarebbe meglio far finta di non conoscerci, di esserci appena incontrati, e mi chiede di non guardare avanti, di non gesticolare e di fare il possibile per non attirare l’attenzione...
«Che cosa sta succedendo?» gli domando. «Ci attaccano?».
Sto scherzando, è ovvio. Come possono attaccare uno stanziamento militare fisso e sotto costante sorveglianza?
«Non dobbiamo farlo arrabbiare...» mi dice piano, continuando le sue manovre diversive. Cambiamo strada, lesti ma senza fretta, come vere spie, per non attirare l’attenzione altrui con qualche movimento troppo brusco.
«Chi è che non dobbiamo far arrabbiare?» lo interrogo quando solleva la testa e tira un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo.
«Il vicecomandante del reggimento. Petrov».
Tutte quelle manovre si dovevano al fatto che Petrov stava sopraggiungendo a bordo di un’auto. Parcheggiò di fronte a quel palazzo nuovo. Era lì che viveva, Petrov. Rinat si calmò solo una volta che il suo superiore ebbe varcato la porta dell’androne. E il nostro giro poté continuare. Per quanto girassimo, però, ci ritrovavamo sempre di fronte al palazzone grigio-verde... Con Rinat che se lo guardava con occhi pieni di desiderio e di invidia.
Ero perplessa, lo confesso. Sapevo qualcosa del curriculum di Rinat, sapevo quanto fosse impavido e coraggioso, e il suo comportamento mi lasciava interdetta. Di che cosa aveva paura? Era una spia espertissima, aveva combattuto fior di battaglie. Aveva forse paura di morire?
«No, alla morte ho fatto il callo. E non lo dico per dire».
«Ha paura che la catturino, allora?».
«Be’, certo, so che mi torturerebbero. L’ho visto fare, nelle bande. Ma non è nemmeno la prigionia, che temo».
«E allora che cosa?».
«Forse la pace, la vita da civile. Non mi ci raccapezzo. Non sono pronto ad affrontarla».
Rinat ha trentasette anni. In vita sua ha sempre e solo combattuto. Il suo corpo è pieno di cicatrici. Ha l’ulcera peptica e duodenale, i nervi a pezzi e i postumi delle ferite alla testa gli danno dolori lancinanti alle giunture, nonché spasmi cerebrali.
Un po’ di tempo fa il maggiore aveva deciso di mettere radici da qualche parte, di lasciare le guerre per una vita normale, e aveva scoperto di non sapere che fare. A chi doveva chiedere una casa, per esempio? Perché gli spettava, una casa, dopo tutto quello che aveva fatto e passato per difendere gli interessi del Paese. E i soldi? A chi doveva chiederli, i soldi?
Le aveva fatte a Petrov, quelle domande, e aveva subito capito di non avere alcun diritto. E subito aveva tirato le sue conclusioni: fino a che lo Stato aveva avuto bisogno di lui per missioni tra montagne, Paesi e continenti, era stato pronto a dargli medaglie e onorificenze. Ma da quando la sua salute non era più quella di un tempo, da quando aveva deciso di lasciare tutto e mettere radici da qualche parte, aveva scoperto che per lui non c’era posto e che le alte sfere dell’esercito erano pronte a sbatterlo per strada. E a cacciarlo persino dalla misera stanzetta in cui dormiva con suo figlio, in caserma.
Rinat ha un figlio, Edik, che sta tirando su da solo. La moglie è morta qualche anno fa, Edik è vissuto a lungo da solo, in caserma, ad aspettare che il padre tornasse dalle sue guerre e dalle sue missioni...
«Io so come uccidere un nemico senza che abbia il tempo di fiatare» mi spiega Rinat. «So risalire una montagna rapido e silenzioso per catturare chi ci si è arroccato. Sono un eccellente scalatore e alpinista. Le so leggere, le montagne, io: rami e cespugli mi dicono se qualcuno ci si è nascosto di recente e dove... Le sento, le montagne. Dicono che sia un dono di natura. Invece non sono in grado di procurarmi un posto dove stare. Non sono in grado di far nulla, nella vita di tutti i giorni...».
Ho di fronte un killer professionista addestrato dallo Stato e incapace di cavarsela da solo. E ce ne sono tanti, nella sua situazione, oggigiorno. Lo Stato continua a mandare gente in guerra, gente che vive per anni in quelle condizioni e che quando torna a casa non è in grado di capire la vita normale, di comprendere le leggi e le norme che la regolano. Molti allora si attaccano alla bottiglia o vanno a fare i sicari per la malavita. I nuovi datori di lavoro li pagano più che bene e riescono persino a convincerli che stanno facendo fuori gente che nuoce agli interessi dello Stato...
E lo Stato che cosa fa, intanto? Se ne frega. Putin e i suoi hanno praticamente smesso di occuparsi degli ufficiali che hanno combattutto in guerre ormai lontane. E paiono quasi interessati a che la malavita possa disporre di killer competenti.
«Non starà pensando di fare la stessa cosa, Rinat?».
«No, certo che no. Ma se io e Edik dovessimo finire per strada... Non posso escluderlo. È l’unica cosa che so fare».
Alla fine Rinat e io riusciamo a infilarci tra il fango in una stamberga fatiscente. La chiamano «la tre piani». È la caserma degli ufficiali. Saliamo all’ultimo piano, e dietro una porta scrostata trovo una stanza squallida, spartana.
Il maggiore non ha mai avuto una casa propria in vita sua. Mai. Prima c’era stato l’orfanotrofio a Nižnij Tagil, sugli Urali. Poi le caserme dell’Accademia militare. Poi quelle della destinazione assegnatagli o le tende da campo degli ufficiali. Sedici anni di servizio nell’esercito, ovunque ce ne fosse bisogno. Negli ultimi undici, poi, Rinat non aveva fatto che passare da una missione all’altra. Una vita che non ti consente di mettere da parte nulla.
«Però ero felice» sostiene il maggiore «e non volevo smettere di combattere... Pensavo che non sarebbe mai successo...».
Tutti gli averi di Rinat sono riposti in una sacca da paracadute. Il maggiore apre il suo armadietto malridotto con il numero di matricola su un lato e me la mostra.
«Borsa in spalla, e si parte»: questa, in due parole, la sua filosofia di vita e i suoi valori.
Sul divano c’è un ragazzino che ci guarda con occhi tristi. È Edik.
«Lei è stato sposato, no?» lo interrompo. «Quindi ce l’avrà avuta, una casa...».
«No. Non ne abbiamo avuto il tempo».
Mentre combatteva in Tadžikistan per aiutare l’attuale presidente Rachmonov a salire al potere, Rinat aveva sposato una kirghiza. Si erano incontrati durante la sua missione precedente, a Oš, dove lei viveva e dove Rinat era stato destinato per sedare un conflitto interetnico.
Si erano sposati su quello sfondo, per un amore appassionato e ardente scoppiato tra il dolore e il sangue. Dopo di che Rinat portò la sua sposa dal comandante, che si rassegnò alle nozze ma gli chiese di lasciare la moglie – il suo tallone d’Achille – a Oš. Rinat obbedì e ripartì per il Tadžikistan, per la banda dov’era infiltrato.
Un giorno il comandante gli fece sapere che la moglie aveva avuto un figlio maschio e l’aveva chiamato Edik. Qualche tempo dopo, nel giugno del 1995, la sua giovane moglie – che studiava al conservatorio locale – venne uccisa da qualcuno che non gradiva quel che Rinat faceva in Tadžikistan... Aveva appena compiuto ventun anni e quel giorno stava andando al conservatorio a dare gli esami del terzo anno...
In un primo momento Edik visse con la nonna, in Kirghizistan: era troppo piccolo per reggere la vita di caserma e, del resto, era raro che Rinat dormisse nelle stanze cupe e poco pulite che gli riservava lo Stato. C’erano le missioni sulle montagne, qualche ferita grave, le lunghe degenze in ospedale...
«Era quella, la vita che volevo fare, del resto» mi dice. «Ma intanto Edik cresceva».
Venne il giorno in cui Rinat decise di prendere il figlio con sé. Da allora Edik torna dalla nonna solo quando il padre parte per missioni di sei mesi, troppi per affidare un bambino ai vicini della porta accanto.
Siamo nella loro stanza. Fa freddo. È tutt’altro che confortevole. Edik è un ragazzino taciturno con luminosi occhi da adulto che vedono e capiscono ogni cosa. Parla solo quando Rinat esce dalla stanza e quando gli fanno una domanda: degno figlio di suo padre. Capisce perfettamente che il padre è in un brutto momento e che è per questo che vorrebbe mandarlo a studiare in un collegio militare. Ma a lui l’idea non piace.
«Voglio stare a casa mia» dice calmo, da bravo ometto, senza cedere alle lacrime. Ma lo ripete più volte: «Voglio stare a casa mia. A casa mia...».
«È questa, casa tua? È qui che ti senti a casa?».
Edik è un bambino schietto. Sa che quando non si può dire la verità è meglio tacere. Ed è quel che fa.
Difatti, chi chiamerebbe casa quella stalla per ufficiali, con i gemiti ebbri dei militari a contratto dall’altro lato del tramezzo, con la mobilia fornita dallo Stato? Ma Edik sa che li cacceranno anche da lì, e dunque gli va bene pure quella, come casa.
I rapporti fra il comando del reggimento e il maggiore avevano cominciato a incrinarsi quando Rinat era andato a chiedere un alloggio nell’edificio appena costruito, quello stesso che mi aveva portato a vedere e accanto al quale ci eravamo nascosti per non farci notare da Petrov. Il maggiore pensava di averne tutti i diritti, in quanto da anni era in cima alla lista d’attesa.
«Quando glielo chiesi, Petrov andò su tutte le furie. “E che cosa avresti mai fatto, tu, per il reggimento?”. Se lo immagina? Disse proprio così. Rimasi di sale e gli risposi che avevo combattuto. Sempre. Che avevo salvato dei piloti su una montagna dove nessun altro sarebbe andato a riprenderli... Che lo Stato aveva bisogno di me».
In effetti il maggiore era stato proposto per la massima onorificenza del Paese, quella di Eroe della Russia. Nel giugno del 2001 un caccia militare si era schiantato sulle montagne della Cecenia, nella zona di Itum-Kale. Diverse squadre di recupero erano partite in cerca dell’equipaggio, ma invano. I capi si ricordarono di Rinat, della sua esperienza – unica nel suo campo –, del fatto che ‘sentisse’ le montagne e che sapesse ‘leggere’ rami, foglie e arbusti.
Il maggiore ritrovò i cadaveri nel giro di ventiquattr’ore. Uno dei corpi era già stato minato dai guerriglieri, ma Rinat riuscì a disinnescare l’esplosivo. Ora le famiglie di quei ragazzi hanno una tomba su cui piangere.
Gli ufficiali in servizio attivo sono soliti dire che i comandanti che perdono la testa nei combattimenti sulle montagne sono perfetti per la vita civile. Fu quel che Rinat disse a Petrov: «Lo so io, che razza di eroe sei stato, tu, in Cecenia, sempre imboscato al comando». L’altro reagì colpendolo sul vivo: «E bravo il mio maggiore... Adesso sì che sei nella merda, con le tue chiacchiere. Un barbone, ti riduco. Ti sbatto per strada, maggiore... Te e tuo figlio...».
E si diede subito da fare per mettere in pratica la sua minaccia. Per prima cosa umiliò il maggiore – ufficiale con un curriculum di assoluto rispetto – incaricandolo di decorare lo spiazzo per le parate. Poi lo mise a capo del circolo ricreativo, a organizzare la proiezioni cinematografiche per i soldati.
Dopo di che gli ordinò di occuparsi dei manifesti per le parate (Rinat sa disegnare benissimo), una mansione che era sempre spettata alla moglie di Petrov, la quale smise di presentarsi in ufficio e restò a riposarsi nella sua bella casa mentre Rinat lavorava per lei. Lo sapevano tutti, al campo.
Nel frattempo Edik si era ammalato, l’avevano portato in ospedale e i dottori avevano ordinato a Rinat di restare accanto a lui. Rinat chiedeva dei permessi, ma Petrov ignorava i certificati medici e gli segnava un’assenza ingiustificata dietro l’altra. Alla fine convocò il consiglio degli ufficiali, contraffece i verbali e se ne servì per depennare il maggiore dalle liste d’attesa per gli alloggi. Al momento si sta adoperando affinché Rinat venga congedato dall’esercito senza i privilegi che gli spettano. Per farla breve, Rinat è in guai molto seri.
«Che cosa ho fatto di male?» china il capo il maggiore, consapevole di non essere in guerra e di avere poche speranze di uscire vincitore.
Le guerre che il nostro Paese combatte continuano anche dopo, ovunque vivano coloro che vi hanno preso parte. In primo luogo nelle unità di cui i soldati tornano a far parte quando la missione è ultimata, e dove gli ufficiali «stanziali» hanno il dente avvelenato con i «combattenti». Che finiscono sbattuti fuori dell’esercito per insubordinazione, umiliati e offesi nonostante i servigi resi al Paese. Rinat non è un’eccezione. Oggigiorno gli ufficiali si dividono in due categorie tutt’altro che paritarie. La prima è quella di coloro che hanno combattuto, che hanno rischiato la vita arrampicandosi sulle montagne e sprofondando nella neve e nel fango per giorni e giorni, che hanno il corpo segnato dalle ferite. Per loro si può provare solo una grande pena. Stentano a riciclarsi nella vita di tutti i giorni, una vita che per noi è normale e per loro assurda. Dove bisogna sapersi muovere e dove non basta prendere il mitra in mano. Parlano una lingua diversa da quella degli ufficiali dell’altro gruppo, che sono stati anche loro in Cecenia, ma dietro una scrivania. E allora si ribellano, si attaccano alla bottiglia, soffrono, e gli «stanziali» ne fanno quel che vogliono: se ne lamentano con i superiori, li denunciano, brigano... Basta poco, e i più caparbi finiscono espulsi dall’esercito. Per che cosa? Per essere stati se stessi. Ricordando con ciò agli ufficiali da scrivania l’effettivo stato delle cose. Giorno dopo giorno.
Intanto, però, gli altri schizzano su per la scala gerarchica come razzi. E si sistemano con tutti gli agi: appartamento, dacia e quant’altro.
Alla fine Rinat si è arreso. Ha lasciato l’esercito che tanto amava ed è sparito con Edik. Un ufficiale senza casa e senza un soldo.
Ho paura per lui, perché posso immaginare dove sia finito.
E ho paura per tutti noi.
STORIE DI PROVINCIA
OVVERO
APPROPRIAZIONE INDEBITA
CON LA CONNIVENZA DELLO STATO
Febbraio 2003. Mosca. Un fulmine a ciel sereno: il presidente Putin nomina un nuovo sottosegretario agli Interni e responsabile della Direzione centrale per la lotta alla malavita organizzata (GUBOP). È il signor Nikolaj Ovčinnikov, modesto e oscuro deputato della Duma che non prende mai la parola, non ha mai partecipato all’attività legislativa e pare politicamente inerte. E non è nemmeno di San Pietroburgo, la qual cosa nell’attuale politica delle nomine è già una credenziale di tutto rispetto. Subito dopo la nomina Ovčinnikov rilascia un’intervista: farà del suo meglio per meritarsi la fiducia del presidente e ritiene suo compito «ridurre al minimo la corruzione» e far sì che «la componente sana della società» non debba più dipendere «dalle gesta di una minoranza di criminali». Nobili intenti, non c’è che dire. Ma allora perché sugli Urali in tanti sono scoppiati a ridere?
In primo luogo va detto che la scelta del presidente non è stata fortuita. L’uomo e la poltrona si sono incontrati perché nella Russia di Putin era inevitabile che ciò avvenisse.
Ma partiamo dalla poltrona. A che livello è della gerarchia statale? E perché merita tanta attenzione?
Essere a capo della lotta alla malavita organizzata non è una carica come tante, in Russia. È un posto chiave nella struttura del potere. In primo luogo perché la malavita organizzata (la mafia) è il nostro quotidiano e affonda le radici in un sistema di corruzione senza precedenti. Senza i soldi non fai niente, con i soldi quel che vuoi, come si suol dire dalle nostre parti.
In secondo luogo è una carica che ha acquistato importanza ‘strada facendo’. Un inaffondabile, uno di coloro che è rimasto a galla sia con El’cin che con Putin, uno dei massimi burocrati-mediatori di potere in Russia è Vladimir Rušajlo, ex ministro degli Interni e attuale capo del Consiglio di sicurezza.8 Rušajlo ha mosso i primi passi quale responsabile della lotta alla malavita organizzata, e una volta ministro ha continuato a coltivare i suoi interessi di un tempo rafforzando più che ha potuto il settore che aveva diretto inizialmente. Ha moltiplicato il numero degli addetti rispetto agli altri dipartimenti, ha concesso loro pieni poteri (tra cui la possibilità di usare la forza senza autorizzazione preventiva), distinguendoli con ciò dalle altre forze di polizia e, com’è ovvio, ha promosso ai più alti gradi del governo i suoi uomini, i suoi colleghi nella lotta alla mafia. La conseguenza è che oggi come oggi i ‘rušajloviani’ sono presenti in gran numero nei ministeri più importanti, un numero paragonabile solo ai ‘pietroburghesi’ (coloro che hanno prestato servizio con Putin a San Pietroburgo e che l’hanno seguito a Mosca) e ai ‘čekisti’, figli di quel KGB (oggi FSB) in cui anche Putin ha lavorato.
Ma veniamo a Ovčinnikov. La sua nomina pareva degna di rispetto e burocraticamente ineccepibile. Ovčinnikov sembrava essersi meritato la sua poltrona. A prestar fede al curriculum, prima di entrare alla Duma Ovčinnikov era stato ufficiale di polizia, aveva prestato servizio per trent’anni in provincia ed era infine diventato capo della polizia di Ekaterinburg. Che non è una città qualunque, ma la «capitale degli Urali», il fulcro della regione omonima, la sua zona più industrializzata. Quando, a suo tempo, El’cin aveva invitato le diverse regioni della Russia «a prendersi tutta la sovranità che volevano», erano stati avanzati piani serissimi per la creazione di una Repubblica degli Urali con Ekaterinburg capitale. Dirigere la polizia di Ekaterinburg, dunque, significava essere famoso in tutto il Paese, in quanto gli Urali sono sinonimo di giacimenti minerari, industria siderurgica, di un patrimonio naturale e industriale capace di sostentare qualunque nazione... Per di più Ekaterinburg è la sede storica di una delle cupole mafiose più importanti – prima dell’Unione Sovietica e ora della Russia –, la cosiddetta cupola di Uralmaš. Volente o nolente, il primo poliziotto della città si trovava a fronteggiarla.
Vero è, tuttavia, che al curriculum ufficiale di Ovčinnikov mancano molte informazioni. Alcune delle quali importantissime. Ossia: che capo della polizia è stato, Ovčinnikov? Di che cosa si è occupato? A quali mafiosi ha dato la caccia? Con quali è entrato in contatto? Quali sono state le sue vittorie? Quali personaggi pubblici locali hanno goduto del suo appoggio? E, di conseguenza, che città era la Ekaterinburg di Ovčinnikov? E che cosa è diventata oggi?
Va da sé che non è mia intenzione raccontare come il poliziotto di provincia Ovčinnikov sia stato assunto nell’empireo della capitale. Quel che mi interessa è un fenomeno della quotidianità russa che si chiama corruzione. Che cos’è? Su quali meccanismi si fonda a livello nazionale? Com’è la nuova mafia dell’era Putin? Come riesce a mettere le mani sulle poltrone più importanti? Per farla breve, partendo dalla nomina di Ovčinnikov a campione della lotta alla mafia, possiamo avere un’idea della politica delle nomine di Putin e della sua amministrazione?
Non sarà una storia breve. Dovremo cominciare da molto, molto lontano...
FEDULEV
Il 13 settembre del 2000 in Russia si parla di una cosa sola. Mentre in Cecenia si combatte e Putin è stato nominato primo ministro solo perché, a differenza di altri pretendenti, ha accondisceso a portare avanti la seconda guerra cecena, a Ekaterinburg viene occupato uno dei maggiori complessi industriali della Russia, l’impianto chimico Uralchimmaš.
Armato di mazze da baseball e sostenuto dalle Unità speciali della polizia locale (OMON), un gruppo di cittadini fa irruzione negli uffici – causando non poco scompiglio – e cerca di rimpiazzare il direttore, Sergej Glotov, con un proprio uomo.
Le televisioni degli Urali mostrano quei comunisti esultanti al grido di «Urrà! Potere al popolo! Abbasso i capitalisti!». Gli stessi slogan usati dai leader sindacali del luogo, che definiscono l’occupazione una «rivoluzione operaia», le manifestano pieno appoggio e promettono di estendere quelle «rivo-nazionalizzazioni» a tutto il Paese.
Il presidente El’cin non fa commenti, ma nessuno se ne stupisce: si sa che è malato. Solo che neppure il primo ministro Putin fiata. Mosca, insomma, tace. Nemmeno il ministro degli Interni Rušajlo ha niente da eccepire sulla condotta dei suoi uomini, i poliziotti che hanno spalleggiato l’irruzione.
Va da sé che il silenzio della capitale significa molto: certe cose non accadono dall’oggi al domani, e i reparti speciali mai si sognerebbero di fiancheggiare in armi operai che lottano per i propri diritti.
La sera del 13 settembre, quando la «rivoluzione operaia» pare essersi quietata e gli ex dirigenti, pur di non consegnarsi, si sono barricati nell’ufficio del direttore, all’Uralchimmaš entra una vera e propria colonna di mezzi corazzati, un’infilata di jeep nere nuove di zecca. I corpi speciali della polizia locale si aprono a ventaglio per lasciarle passare.
Da una di esse scende un uomo non troppo alto e piuttosto scialbo, con un abito impeccabile, occhiali costosi, catene e bracciali d’oro. L’archetipo del «nuovo russo» con tracce di recenti sbronze sul viso. Percorre il tragitto fino all’ufficio del direttore circondato da una fitta schiera di guardie del corpo fornite dalla polizia locale. Gli OMON gli aprono la strada con la forza, gli operai si fanno da parte non senza qualche mugugno.
«Paška cerca rogne. È un regolamento di conti, questo...» dicono tra i denti gli impiegati della fabbrica.
«Industriale di spicco della nostra regione e deputato all’Assemblea legislativa regionale, Pavel Fedulev sta cercando di ristabilire l’ordine, forte delle decisioni del giudice» trasmettono, invece, le televisioni di Ekaterinburg, alternando le inquadrature dell’«industriale di spicco» dall’espressione ostentatamente concentrata a quelle dei visi insanguinati di chi ha difeso la fabbrica. Tra le mazze da baseball si intravede qualche verga di ferro...
Il signore con gli occhiali entra nell’edificio e porge una pila di documenti ai rappresentanti destituiti dell’Uralchimmaš. Si tratta di ordinanze giudiziarie in base alle quali il latore risulta comproprietario del complesso industriale in questione, e che in quella veste – oltre che come membro del consiglio direttivo – manifesta l’intenzione di far sedere un suo uomo nella poltrona più importante. Gli altri sono dunque pregati di alzare i tacchi.
Dopo di che Fedulev si accomoda nella poltrona del direttore affinché sia chiaro a tutti chi è il padrone, lì dentro. Di lì a poco, tuttavia, i dirigenti – usciti per prendere visione degli atti loro presentati – tornano e gli rispondono prima con una valanga di improperi che lo lasciano del tutto indifferente, poi con un’analoga risma di carte e ordinanze asserenti che l’unico possibile direttore della fabbrica è l’attuale. La sfilza di firme in calce ai loro documenti, però – e va detto –, non combacia affatto con quella in calce ai documenti di Fedulev.
Per poter comprendere l’accaduto è necessario un ulteriore excursus nella storia attuale di Ekaterinburg, utile per capire quali siano state le norme a cui ci si è attenuti nei dieci anni successivi al crollo dell’URSS. O come si sia evoluta una società nella quale è stato possibile occupare un complesso industriale di tale portata. O la ragione per la quale in questa storia figurano due diverse serie di disposizioni giudiziarie. E chi è Pavel – detto Paška – Fedulev. E perché, quando in quei giorni mi trovavo a chiedere che cosa stesse succedendo alle persone più disparate – passanti, personale di turno alla stazione ferroviaria, impiegati statali, prostitute dell’albergo, giudici, poliziotti, insegnanti –, la risposta era sempre la stessa: «Fedulev». L’unica differenza era che alcuni lo chiamavano «Paška», mentre per altri era «il signor Pavel Fedulev»...
COME È COMINCIATA
Dieci anni prima, agli albori della nostra società odierna, con El’cin al potere e la democrazia che – come si diceva allora – ribolliva ovunque, Paška era solo un teppistello, un estorsore e un delinquente. All’epoca Ekaterinburg si chiamava ancora con il suo nome sovietico, Sverdlovsk, e a Sverdlovsk, dunque, la facevano da padrone grosse bande criminali che si spartivano il territorio. Paška, invece, era un cane sciolto con la sua piccola impresa. E se anche aveva qualche pendenza giudiziaria a seguirlo come il velo di una sposa, la polizia non si occupava troppo di lui: era un pesce piccolo, di quelli che, all’epoca, finivano dentro non per i crimini commessi, ma perché ogni tanto «ci dovevano finire» per aver alzato la cresta. A Paška Fedulev non capitava mai, allora.
Nei primi anni Novanta Paška si dà al commercio, mossa tipica di buona parte dei suoi colleghi di Sverdlovsk e della Russia in generale. Paška, però, è povero, è una mezza tacca, e non ha accesso alla «Cassa», la banca centrale del sottobosco criminale (e quella di Ekaterinburg, con tutta la sua malavita, è tra le più grandi del paese). Ragion per cui deve racimolare da solo il capitale iniziale. E lo fa.
I primi soldi li mette insieme con un tipo di vodka artigianale prodotta illegalmente, la palenka. Il procedimento è semplice. Fin dal tempo dei Soviet, i remoti villaggi della zona di Sverdlovsk pullulavano di distillerie, che con El’cin al potere erano andate fallendo come molte altre fabbriche di Stato. Ci fu un momento in cui chiunque si presentasse dal direttore con dei soldi – neanche tanti – in mano, poteva portarsi via tutto l’alcol che riusciva a trasportare. Era un furto conclamato alle casse dello Stato, ma era anche la norma della quotidianità postsovietica, in cui – per sfamarsi – una metà del Paese derubava l’altra senza che ciò suscitasse il minimo stupore. Ognuno cercava di sopravvivere come meglio poteva: era quello il business che tanto avevamo sognato.
Chi comperava l’alcol lo allungava poi con dell’acqua, lo imbottigliava in qualche scantinato, dopo di che lo vendeva – in un lampo – come vodka a poco prezzo. All’epoca non erano state ancora introdotte le tasse sugli alcolici, non esisteva una legislazione al riguardo, e se anche avesse voluto intervenire in quella ‘guerra della vodka’ (e non voleva, perché preferiva reggere il moccolo ai criminali, che le pagavano un pizzo per essere protetti dai concorrenti e dagli estorsori) la polizia era disarmata.
È allora che il distillatore Paška Fedulev conosce il poliziotto Nikolaj Ovčinnikov. È la produzione e la vendita della vodka a farli incontrare. Come tutti, anche Ovčinnikov vuole far soldi. Lo stipendio dei poliziotti è ridicolo, sempre che lo ricevano. Lui e Fedulev, dunque, trovano un accordo. Ovčinnikov non ‘vede’ i misfatti di Paška, che sa essergliene riconoscente: il poliziotto non ha più problemi a procurarsi pane e companatico.
Alla fine il capitale accumulato da Fedulev arriva alla cifra necessaria per affari più consistenti. Affari legali, quel che più conta. È una peculiarità del nostro Paese: se il sogno di ogni soldato è di diventare generale, quello di ogni criminale russo è di fare soldi legalmente.
Tuttavia chi vuol farsi strada nelle alte sfere dell’economia – con El’cin prima e con Putin oggi – sa che ci sono tre condizioni da rispettare.
La prima è che ha successo chi riesce a ottenere una fetta dalla torta dello Stato, ossia chi riesce a trasformare in proprietà privata quanto era proprietà statale. Questo il motivo per cui la stragrande maggioranza degli oligarchi viene dalla nomenklatura di partito: erano i più vicini alla ‘torta’.
La seconda è che, una volta in alto, una volta messe le mani sulle proprietà dello Stato, bisogna sempre e comunque restare vicini al potere, bisogna sempre e comunque pagare, ‘ungere’, i burocrati: è la migliore garanzia che la tua impresa potrà prosperare.
La terza condizione è farsi amici (si legga: pagare) i tutori dell’ordine.
Non essendo in grado di soddisfare la prima condizione, Fedulev si concentrò sulle altre due.
I TUTORI DELL’ORDINE
All’epoca a Ekaterinburg vive un certo Vasilij Rudenko. Vicedirettore della polizia investigativa locale e amico di Ovčinnikov, è una persona viscida, un corrotto, ma la sua posizione impone a tutti coloro che vogliono riuscire ad arricchirsi in modo legale di fare i conti anche con lui. È Rudenko, infatti, che ripulisce le fedine penali dei nuovi businessman (e dei recenti criminali) custodite negli archivi della polizia di Ekaterinburg.
Anche Fedulev si rivolge a lui. È un momento delicato, per Paška, che a Ekaterinburg ha fama di «re della vodka» e che ha già avuto diverse richieste per sponsorizzare case di accoglienza e orfanotrofi. Paška vola spesso a Mosca per il fine settimana, a spassarsela nei locali notturni, e porta sempre con sé (privilegio che attesta i suoi legami con il potere costituito) qualche pezzo grosso dell’amministrazione locale. È giunto il momento, dunque, di ripulire la sua immagine. Di cancellare dagli archivi della polizia ogni traccia del suo passato criminale.
Detto, fatto.
Tra parentesi: Fedulev è un uomo fortunato, è sempre riuscito a fare quel che aveva in mente.
A presentare Fedulev a Rudenko è un uomo di nome Jurij Al’tšul’. Tutti quelli che lo hanno conosciuto ne parlano con affetto, se non con ammirazione. Non è del posto, Al’tšul’, è finito a Ekaterinburg per caso, per servire il suo Paese. Era nell’esercito, un agente dei servizi segreti militari (GRU) rimpatriato dall’Ungheria dopo la caduta del muro di Berlino e la smobilitazione delle forze d’Occidente; negli Urali comandava una compagnia delle truppe speciali del GRU.
Una volta a Ekaterinburg, Al’tšul’ chiede il congedo dalle Forze Armate e rimane in città. Sono gli anni in cui la Russia non paga gli stipendi ai militari. Tornato civile, Al’tšul’ si dà agli affari. Come molti suoi colleghi, crea una propria agenzia di sorveglianza e di investigazione, e un’associazione benefica per i «Veterani delle unità speciali».
Organizzazioni simili, nate dallo sfacelo dell’esercito, non sono un’eccezione, in Russia. Ogni grande città ha dei reduci che si occupano di proteggere i commercianti. Fedulev, dunque, si ritrova cliente di Al’tšul’, che per tramite di Rudenko lo aiuta a emendare dai suoi peccati il dossier della polizia di Ekaterinburg. Il sogno è diventato realtà.
Non ci vuole molto perché Al’tšul’ cessi di essere una semplice guardia del corpo e diventi la persona di fiducia di Fedulev. Intelligente, deciso e istruito, è lui a introdurre Fedulev – uomo senza preparazione professionale di sorta – nel mercato finanziario degli Urali. Va detto, tuttavia, che Paška vi si trova subito a proprio agio e diventa presto un abile giocatore. Soldi ne ha pochi, e dunque si allea con Andrej Jakuščev, famoso alla metà degli anni Novanta per essere a capo di Zolotoj telec (Il vitello d’oro), una nota fabbrica degli Urali.
Con lui Fedulev fa incetta delle azioni di diverse imprese, tra le quali, per esempio, quelle di un complesso per la lavorazione della carne, il più grosso della zona. Il giro d’affari è tale, che in un batter d’occhio Paška diventa uno degli oligarchi della città, ammesso a frequentare persino il governatore Eduard Rossel’.
A questo punto appare chiaro che Fedulev non ama dividere i propri successi con nessuno. Sa e può stringere alleanze nel momento del bisogno, ma quando poi si tratta di dividere il successo economico – e dunque sociale – le cose cambiano. È allora che Paška assume per la prima volta un sicario.
O per lo meno è la prima volta di cui si ha notizia. Il suo scopo lo raggiunge senz’altro, in quanto da allora tutti cominciano a temerlo, consapevoli che ormai si è lasciato alle spalle quelli che erano i suoi limiti di un tempo, il suo status di teppistello ed estorsore. Così vanno le cose in Russia: se ammazzi qualcuno sei degno di rispetto.
È più o meno in quel periodo che, per condurre in porto un altro affare, Fedulev chiede una grossa somma in prestito a Jakuščev. L’affare è concluso e la somma viene moltiplicata. Ma Fedulev si rifiuta di restituire il dovuto... Dal canto suo Jakuščev non gli mette fretta. Né ha il tempo di farlo, in quanto il 9 maggio del 1995 viene ucciso sulla porta di casa, sotto gli occhi della moglie e del figlio.
Ci fu un’inchiesta? Certo che sì, la causa penale n. 772801 con Fedulev, amico e debitore della vittima, a farla da protagonista...
Dunque? Dunque nulla. La pratica 772801 è ancora aperta, ma nessuno pare essersene occupato, né allora né mai. E quante pratiche analoghe si sarebbero accumulate, negli anni a venire, a nome di Fedulev... L’esito, tuttavia, sarebbe stato sempre lo stesso: niente. A Ekaterinburg chiunque abbia a che fare con Fedulev sa che Paška ha fatto l’investimento migliore: si è comperato la polizia, che lo preserva fedelmente da qualunque dispiacere.
Paška è stato furbo. Conosce perfettamente le regole del nuovo corso, la principale delle quali recita che non sei nessuno se non hai agganci di due tipi: l’‘amicizia’ degli alti burocrati – che se adeguatamente corrotti ti garantiscono la sopravvivenza –, e quella della polizia, che dipende dai tuoi dollari come dall’eroina.
Da quel momento Rudenko e Ovčinnikov diventano l’alter ego di Fedulev. Lo aiutano a diventare un «ricco industriale degli Urali» e fanno lievitare il suo patrimonio. Va da sé che la tecnica sia quella usata ai danni di Jakuščev, l’unica che conoscano.
Un giorno Fedulev offre la propria collaborazione a un altro oligarca del luogo, Andrej Sosnin. I due uniscono le rispettive risorse economiche e sferrano una campagna di speculazione azionaria mai vista negli Urali. Sosnin finisce per possedere i pacchetti di maggioranza delle più ghiotte imprese della regione, ha in mano tutto – o quasi – il potenziale industriale creato da alcune generazioni di funzionari sovietici dopo la seconda guerra mondiale, quando nella zona erano state trasferite le maggiori (e le migliori) imprese della parte europea dell’Unione Sovietica. Tra le industrie che passano sotto il controllo di Sosnin e Fedulev figurano il complesso siderurgico di Nižnij Tagil e quello minerario di Kačkanar, entrambi di fama mondiale, il già citato Uralchimmaš, la Uraltelekom, la direzione mineraria di Bogoslovsk e tre centri di idrolisi a Tavda, Ivdel’ e Lobva.
È un grosso successo. Per loro senz’altro, ma per lo Stato? Né Sosnin né Fedulev hanno in mente una qualunque politica industriale. Ciò non di meno le autorità locali li portano in palmo di mano, senza chiedere loro che intenzioni abbiano, ma aspettando fiduciosi la propria fetta. Anche il livello di corruzione lievita. Nessuno ha da ridire su quanto ricevuto: il bottino viene spartito con generosità, poiché si tratta di gente che non ci si può permettere di far arrabbiare.
Arriva il momento di dividere le quote tra Fedulev e Sosnin. E il ritornello è lo stesso: Fedulev è ben lieto di dare il dovuto a funzionari e poliziotti, ritenendolo un investimento lucroso, ma non vuole saperne di fare altrettanto con Sosnin. Andrej Sosnin viene ucciso da un colpo d’arma da fuoco. Il 22 novembre 1996 viene aperta la pratica n. 474802, con Fedulev come principale sospettato, e... E niente.
È a questo che servono gli ‘agganci’, no? Quando Sosnin viene ammazzato, i poliziotti amici di Fedulev – Rudenko e Ovčinnikov – sono già persone facoltose, ed è evidente che più prospera il loro datore di lavoro, Fedulev appunto, più prosperano anche loro. Va da sé che la pratica 474802 (così come la 772801) viene chiusa. Dimenticata per sempre.
LE GUERRE DELLA VODKA
Stilare un elenco delle fabbriche degli Urali che alla fine degli anni Novanta erano passate nelle mani di Fedulev è importante, ma non essenziale. Ekaterinburg è prima di tutto sinonimo di Uralmaš. E non è la fabbrica omonima che ho in mente, bensì l’omonima cupola mafiosa, la più grande del Paese, con diverse migliaia di adepti in rigidissima gerarchia, e uomini in ogni branca del potere. Per cui una cosa è corrompere i funzionari dello Stato e ammazzare i propri sodali, un’altra è stringere accordi con i mafiosi. Nel 1997 Fedulev ci riesce: unisce le sue forze alle loro per acquisire le azioni del centro di idrolisi di Tavda. Un’alleanza che ha un grande significato in quel momento: Fedulev, che aveva un tenore di vita altissimo, si trovava di nuovo a corto di denaro per giocare sul mercato azionario, e quel denaro ce l’aveva la mafia di Uralmaš. La vera sorpresa fu che, pur sapendo con chi avevano a che fare, i mafiosi decisero di mettersi in affari con lui.
Urge una spiegazione. Perché Fedulev e i mafiosi mostravano tanto interesse per l’idrolisi? Un interesse in grado di unire criminali di stampo diverso con alle spalle i più diversi tutori dell’ordine?
I centri di idrolisi producono l’alcol con cui si fa la vodka a poco prezzo, merce richiestissima e dai ridicoli costi di produzione, dunque un ottimo metodo per ottenere guadagni strabilianti con investimenti miserrimi. Tanto più che si tratta di guadagni cash, in contanti veri e non in titoli di credito, contanti che non passano per le banche e che per il fisco non esistono. Il piatto migliore per il business russo.
Fedulev e la mafia di Uralmaš acquisiscono, dunque, il novantasette per cento della centrale di idrolisi di Tavda. Lo fanno secondo uno schema ben rodato: le due parti in causa creano ognuna una società in cui convergono i fondi della società principale, si spartiscono le azioni, dopo di che le neonate società o vengono liquidate oppure si conferiscono il totale dei processi produttivi. A un certo punto, poi, si scopre che il centro di idrolisi in quanto tale non esiste più e che le sue risorse sono di proprietà delle ditte di cui sopra... Va da sé che si tratta di un processo distruttivo per mano di gente – Fedulev e i mafiosi – che vuole tutto e subito senza curarsi del futuro.
Una volta concluso l’affare, Fedulev si comporta come suo solito. Quando è ora di dividersi le azioni, viola gli accordi originari ed estromette i colleghi mafiosi dal nuovo consiglio di amministrazione, in cui piazza solo i suoi fedelissimi.
Perché? Fedulev vuole essere il primus inter pares, libero, dunque, da accordi e alleanze di ogni tipo, persino le più influenti. E – per quanto strano – ci riesce: la mafia non lo fa fuori, com’era lecito aspettarsi, ma anzi si fa da parte.
La ragione di tanta quiescenza è semplice: quando Fedulev acquisisce la fabbrica di Tavda ha al suo attivo non solo e non tanto dei buoni agganci con la polizia (ai cui capi lo lega una sorta di joint venture). In qualità di amico intimo del governatore Rossel’, Fedulev è di fatto il capo della polizia locale, è lui a decidere le nomine e a eleggere come primo responsabile della lotta alla malavita organizzata (e dunque a se stesso) quel Rudenko che era stato un suo sodale. A capo della polizia di Ekaterinburg mette, invece, Nikolaj Ovčinnikov.
I capimafia, però, sono fatti della sua stessa pasta, e anche loro hanno da opporgli dei buoni agganci. Giunge, dunque, il giorno dello scontro diretto, il giorno in cui una squadra di mafiosi si presenta a Tavda e si riprende con le armi quanto le era stato negato. Fedulev risponde a tono: a un suo segno la fabbrica viene presa d’assalto da un’unità speciale di rapido intervento della polizia, che si trova davanti... dei colleghi! A fronteggiarsi in quella guerra della vodka, infatti, non sono due bande di criminali locali, ma chi sta alle loro spalle: da un lato Rudenko, Ovčinnikov e i loro uomini con Fedulev, e dall’altro il generale Kraev – capo della polizia dell’intera regione – con i mafiosi di Uralmaš. Ne viene uno scontro armato finalizzato alla spartizione illegale di una proprietà del demanio per mano di coloro che, invece, erano chiamati a difendere la legalità (e che, di fatto, avevano aiutato le due parti in causa ad acquisire per il proprio impero proprietà sempre maggiori).
Degna di nota è anche la reazione del ministero degli Interni, a Mosca. I funzionari del ministero spiegano quello che sta accadendo a Ekaterinburg con un conflitto intestino in seno alla polizia locale dovuto all’incompatibilità tra Kraev, Rudenko e Ovčinnikov. Rudenko e Kraev vengono rimossi. Kraev è accusato di connivenza con la mafia locale, Rudenko – invece – è definito «vittima della strenua lotta condotta contro la maggiore organizzazione criminale degli Urali» e viene trasferito a Mosca, dove, per mano dell’allora ministro degli Interni Rušajlo, viene nominato niente meno che capo dell’antimafia della regione di Mosca, alle dirette dipendenze del ministro degli Interni.
Da quel giorno Rudenko e i suoi sono sulla bocca di tutti, nella capitale. Nessuno è più corrotto di loro, nessuno più di loro spalleggia i criminali della capitale, nessuno ha sicari più spregiudicati nell’eseguire gli ordini delle bande di malavitosi che si fronteggiano.
A Ekaterinburg, nel frattempo, ci sono delle poltrone vuote. Fedulev si occupa personalmente di trovare un sostituto di Rudenko che risponda alle sue esigenze e sia pronto a intervenire quando necessario con le milizie armate ai suoi comandi. A sostituire Rudenko arriva, dunque, Jurij Skvorcov, che di Rudenko non solo era il braccio destro, ma anche colui al quale, nel corso degli anni, erano state delegate le questioni relative a Fedulev. A vice di Skvorcov viene eletto un certo Andrej Taranov, noto negli Urali per essere colui che nella polizia protegge Oleg Fleganov, il maggior fornitore di alcolici della zona. Quel Fleganov che è un personaggio chiave per la contraffazione della vodka, venduta in massima parte tramite la sua rete di distribuzione.
L’altro vice che Fedulev sceglie per Skvorcov è Vladimir Putjajkin, incaricato di ripulire le fila della polizia locale. Cosa che fa, cominciando con l’espellere coloro che ancora provano a sollevare la testa contro la mafia o che si rifiutano di lavorare per Fedulev. Lo zelante signor Putjajkin vi si dedica con grande zelo. Lasciate che faccia un esempio di come era solito procedere. Un giorno Skvorcov chiede informazioni dettagliate a Putjajkin su chi, all’interno della polizia, è contro Fedulev e i suoi uomini. Putjajkin annaspa, non dispone della documentazione richiesta. Allora che fa? Si porta a casa un giovane sottoposto, lo fa bere e cerca di convincerlo a fare i nomi dei compagni contrari a Fedulev, e dei loro accoliti in polizia. Il giovane si rifiuta. Putjajkin, allora, lo induce a spararsi con la pistola di ordinanza: non ha comunque altra scelta, gli dice, tanto gli uomini di Fedulev lo faranno fuori...
«Impossibile!» mi pare di sentire inalberarsi il mio lettore.
Calma. È possibile. Possibilissimo, anzi. Così sono nate e hanno prosperato, con El’cin, le organizzazioni criminali che ora, con Putin, scandiscono la vita del Paese. È proprio a quelle – potenti, influenti, ricchissime – che si rivolge l’attuale presidente quando nega un’eventuale ridistribuzione della proprietà affermando che tutto deve restare com’è... Putin può farla da padrone in Cecenia, scegliendo chi punire e chi salvare, ma ha una paura tremenda di quei mafiosi. Perché ci sono tanti di quei soldi, in ballo, che buona parte di noi non riesce nemmeno a immaginare. E se la posta arriva a milioni di dollari, la vita, l’onore o la parola di un uomo contano meno di niente.
SENZA VERGOGNA
Con l’ascesa di Fedulev e dei suoi gli Urali smisero di avere un qualunque ‘codice d’onore’, per usare quel gergo della mala che ha messo radici tanto forti da finire persino in bocca al presidente nei suoi interventi pubblici. A Ekaterinburg e provincia la legge non esiste più.
Quando ho chiesto alla gente comune chi stimassero di più – il governatore Rossel’, Fedulev o Černeckij, il sindaco – la risposta è stata «l’Uralmaš», dunque la mafia di vecchio stampo. «Come si possono stimare dei mafiosi?» ribattevo io, sbigottita. La risposta era semplice: «Quelli avevano un loro codice d’onore. I ‘nuovi’ no».
A questo siamo arrivati.
Ma facciamo un passo indietro, al 1997. Con in pugno la polizia e il commercio della vodka, Fedulev continua a giocare in borsa e finisce per frodare una società moscovita. Non si tratta, però, di una società qualunque. Insieme ad altre, fa parte di un consorzio con a capo un noto oligarca della capitale che sponsorizza El’cin e la sua famiglia. Frodarla equivale a un suicidio. All’ufficio di Ekaterinburg preposto alla lotta al crimine organizzato arrivano due denunce di frode, ma il valoroso Ovčinnikov blocca qualunque informazione possa nuocere a Fedulev e la polizia si rifiuta di aprire un’inchiesta. Solo l’intervento della Procura di Stato fa sì che la pratica n. 142114 venga aperta. A Mosca, però, e non a Ekaterinburg. Fedulev si dà alla macchia, con un mandato di arresto che lo insegue ovunque. E siamo nel 1998.
Ricordate Al’tšul’, l’ex spia diventata guardia del corpo di Fedulev? Ricordate che tutti quelli che lo avevano conosciuto ne parlavano come di una persona a modo, di parola, che non aveva paura di niente e di nessuno?
Con la sua agenzia di investigazioni e i suoi servizi di protezione, Al’tšul’ continua ad aiutare le forze dell’ordine fornendo loro informazioni. Grazie a lui finiscono sotto chiave alcuni grossi malavitosi degli Urali. Al’tšul’, però, ha un chiodo fisso: lo scopo della sua vita postmilitare è la lotta alla cupola di Uralmaš. Potrà sembrare strano, ma è proprio ciò che lo fa avvicinare a Fedulev.
Con un mandato di arresto sulle spalle e consapevole del ‘tarlo’ di Al’tšul’, Fedulev lo manda a chiamare. Ha paura che la mafia di Uralmaš possa approfittare della sua assenza per mettere le mani su altre due centrali di idrolisi che ha adocchiato (quella di Tavda la considera già persa). Fedulev chiede, dunque, ad Al’tšul’ di proteggere i suoi interessi e gli promette il cinquanta per cento dei ricavi della centrale di Lobva. Al’tšul’ accetta e parte subito per la città di Lobva, che vive attorno alla sua centrale. Vi trova un quadro tristissimo di sfacelo completo e intenzionale della produzione. Gli viene spontanea una domanda: perché Fedulev sta facendo incetta di azioni? A che gli servono quelle società?
Prima dell’avvento di Fedulev la fabbrica di Lobva era un’impresa piuttosto solida. Come d’abitudine, Fedulev l’aveva stretta nella morsa di una serie di minuscole società che cominciarono a farsi carico della produzione e della vendita dell’alcol, quando non della sua lavorazione clandestina. I soldi delle vendite ritornavano alla fabbrica tramite quelle compagnie minori, ma non in toto. E così, mese dopo mese, Fedulev aveva succhiato ogni linfa all’azienda originaria.
Quando Al’tšul’ arriva a Lobva, gli operai non ricevono lo stipendio da sette mesi, le casse sono vuote (le entrate restavano nelle fabbriche satellite), non ci sono soldi nemmeno per pagare le tasse, la luce e il gas. Insomma, la centrale è a un passo dalla bancarotta. La città, inoltre, è cresciuta attorno alla fabbrica, tutti gli abitanti ci hanno più o meno a che fare, e se la centrale fallisse la città morirebbe con lei.
È allora che Al’tšul’ decide di fare di testa propria, impegnandosi con gli operai a riportare l’ordine. La sua prima mossa è di vietare l’accesso alla fabbrica a due persone: Sergej Čupachin e Sergej Lešukov, uomini di Fedulev e suoi ‘carnefici’, vale a dire esperti nel ridurre sul lastrico le aziende.
In un recente passato Čupachin e Lešukov erano stati poliziotti nonché ex ufficiali e collaboratori della sezione locale del ministero degli Interni incaricata della lotta ai crimini economici. Ed erano amici cari di Vasilij Rudenko e Nikolaj Ovčinnikov. Gente che aveva lasciato la polizia per curare gli interessi che la polizia stessa aveva negli affari di Fedulev.
Il tempo passa, e Fedulev viene arrestato. A Mosca, è ovvio. Pur se in isolamento, riesce comunque a influenzare il corso degli eventi a Ekaterinburg. I funzionari di polizia che ha a libro paga (Rudenko era già a Mosca) riescono a combinargli un incontro in carcere con Al’tšul’, durante il quale Fedulev cerca di convincerlo a restituire le redini dell’amministrazione a Čupachin e Lešukov e ad andarsene seduta stante.
Al’tšul’ rifiuta e torna a Ekaterinburg. Rudenko lo segue: dopo tutto ci sono anche i suoi soldi, in ballo. Al’tšul’ viene convocato ufficialmente e anche Rudenko cerca di convincerlo a rinunciare.
Al’tšul’ non demorde e ripete il suo «no». Un paio di giorni dopo, il 30 marzo del 1999, l’ex spia viene uccisa a colpi d’arma da fuoco nella sua macchina. E lo spartito si ripete. Si apre un’inchiesta, la n. 528006. Il sospettato numero uno è ancora una volta Fedulev. Ed è ormai la terza inchiesta a suo carico per omicidio su commissione.
Ebbene? Ebbene niente. Anche la pratica n. 528006 viene insabbiata come le altre.
Fedulev ha fatto i suoi conti: sparito Al’tšul’, la fabbrica torna in mano sua. Non ha considerato, però, che a Lobva è rimasto un amico di Al’tšul’, Vasilij Leon, anche lui ex spia e veterano delle truppe speciali. Agli inviti a sgombrare il campo Leon risponde con un no altrettanto categorico. Sarebbe diventato l’ennesima vittima?
A Leon il trio Rudenko-Čupachin-Lešukov offre un compromesso, o meglio una fetta di torta. Può continuare a dirigere la fabbrica, ma a occuparsi della vendita dell’alcol (dunque di quel che più conta) torneranno Čupachin e Lešukov. Va da sé che non si tratta di una proposta, ma di un’intimidazione. Fedulev e i suoi rischiano il tutto per tutto: Skvorcov in persona (l’allora responsabile dell’antimafia nominato da Fedulev) convoca Leon e cerca di convincerlo. Rudenko chiama in continuazione da Mosca, dove lo hanno ulteriormente promosso: ora è al ministero degli Interni, a capo della polizia investigativa.
La terza persona che fa pressione su Leon è Leonid Fes’ko. È amico di Rudenko e come lui è un pezzo grosso della polizia locale, a capo della sezione investigativo-operativa. Di lì a poco lo avrebbe seguito a Mosca, dove si sarebbe congedato dalla polizia per andare a dirigere la cosiddetta «Fondazione per la difesa e il soccorso ai membri delle unità per la lotta al crimine organizzato della provincia di Ekaterinburg». Di fatto Fes’ko era il ragioniere della mafia, e la Fondazione una struttura creata per riciclare in modo legale soldi sporchi, mazzette e gratifiche. Ufficialmente era un’istituzione di tutto rispetto che rispondeva alle esigenze della polizia. In pratica forniva un secondo stipendio ai poliziotti a libro paga di Fedulev.
Per onor di cronaca va detto che simili fondazioni non erano farina del sacco di Fedulev, ma di gente sua pari. Si tratta di strutture nate alla metà degli anni Novanta e che esistono a tutt’oggi, e in gran numero: ce ne sono diverse in ogni regione e vengono utilizzate per distribuire ai tutori dell’ordine le inevitabili mazzette.
In anni a venire, inoltre, la sicurezza e l’ordine delle aziende controllate da Fedulev e dai suoi sarebbero state appannaggio di Fes’ko. In caso di concorrenti troppo focosi, sarebbe stato Fes’ko a disporre l’invio delle squadre speciali di polizia preposte a soffocare le rivolte. Nel settembre del 2000 fu Fes’ko a orchestrare la presa dell’Uralchimmaš.
Nel 1999, invece, Vasilij Leon lancia la sua sfida alla mafia. Nel dicembre dello stesso anno uno dei più stretti collaboratori di Skvorcov – Evgenij Antonov – uccide il primo assistente di Leon, quell’addetto alle vendite che Fedulev avrebbero voluto sostituire con Čupachin e Lešukov.
Leon rilascia delle deposizioni scritte, conservate presso gli uffici locali dell’FSB, su quanto accaduto prima della sparatoria. Sono parole che non possono lasciare indifferenti.
A metà gennaio [del 2000] ebbi una conversazione con Sergej Vasil’ev, capo della sezione per la lotta al crimine organizzato. Il quale mi fece notare in modo assai brusco che la mia presenza alla fabbrica di Lobva gli aveva causato grosse perdite. Aggiunse anche che avevo derubato la «Cassa» dell’FSB, dell’antimafia e di altri potentati della zona. Mi ingiunse senza possibilità di appello di lavorare per lui. Gli chiesi in che cosa consistesse il lavoro. «Devi portarmi i soldi!» mi rispose.
Ogni riga della deposizione di Leon è un grido affinché venga aperta un’inchiesta. Ma l’inchiesta, ancora una volta, è quanto mai sgradita ai tutori dell’ordine, che non desiderano rendere conto di quanto accade a Ekaterinburg. Restano inevase anche le richieste indirizzate da Leon alla Procura di Stato, al ministero degli Interni e allo stesso Putin. Nessuna reazione. Nessuno si interessa a quanto accade a Ekaterinburg. L’interesse, piuttosto, si concentra sulle sorti di Fedulev.
A gennaio del 2000, su precisa, personale disposizione del viceprocuratore generale della Russia Vasilij Kolmogorov, Fedulev viene rilasciato. Così. Semplicemente. Non è stato scagionato. Non è stato graziato. Ha passato un po’ di tempo in prigione e poi è uscito.
Quando torna a Ekaterinburg, le autorità locali lo accolgono da trionfatore. Il governatore Rossel’ lo riempie di attenzioni e lo nomina «imprenditore dell’anno» degli Urali. Di fatto, dopo la prigione e l’assassinio di Al’tšul’, le intimidazioni a Leon e l’uccisione di chi lo sosteneva, Fedulev è diventato senza tema di smentite l’imprenditore numero uno di Ekaterinburg, e come tale lo trattano i mass media locali. Di lì a poco verrà eletto deputato alla regione, otterrà l’immunità parlamentare e arrestarlo diventerà un’impresa ancora più ardua.
Ma facciamo un passo indietro e guardiamo al quadro d’insieme, e non ai particolari. Fedulev è un oligarca. È deputato. Possiede enormi proprietà. Ma soprattutto ha una sua cupola mafiosa, quella che il Codice penale russo definisce un’associazione dedita al crimine organizzato. Nell’autunno del 2000, con la conquista di quell’Uralchimmaš da cui il mio racconto ha avuto origine, la cupola di Fedulev ha ormai tutti i tratti di un’entità mafiosa regolare. Con a libro paga da anni i tutori dell’ordine da una parte e i responsabili della ‘giustizia’ dall’altra. E nel mezzo una schiera di burocrati fedeli di ogni rango, fino al sommo.
C’è un solo problema. Con il padrino in prigione, fabbriche e complessi industriali sono sfuggiti al suo controllo e la ‘cupola’ è nel panico: che fine hanno fatto i soldi? Fedulev viene scarcerato per questo.
LA RIDISTRIBUZIONE
Va da sé che le decorazioni e i titoli di Fedulev erano solo la parte emersa di quell’iceberg mafioso. La sua scarcerazione, tuttavia, segna una svolta cruciale nella storia contemporanea degli Urali. Ancor prima che faccia ritorno a Ekaterinburg e che il governatore Rossel’ lo stringa fra le braccia, alla sola notizia della sua liberazione è chiaro a tutti che quella storia non è un caso, che ci sarà una ridistribuzione della proprietà e che Fedulev sarà la testa d’ariete. L’hanno rilasciato per un motivo preciso: perché si riprenda quel che è suo e perché chi sta dalla sua parte (oltre a coloro ai quali lo stesso Fedulev risponde) possa riavere i soldi che gli spettano, la fetta di una torta che ha contribuito a mettere insieme a costo di rischi, spargimenti di sangue e tradimenti.
Fedulev non li delude. La prima cosa di cui si occupa una volta libero è di rimettere le mani sul centro di idrolisi di Lobva. Perché – e lo ripeto – è sinonimo di vodka. Di soldi facili, veloci e veri.
Le cose andarono in questo modo. E torno a citare la deposizione all’FSB di Vasilij Leon, direttore esecutivo della fabbrica di Lobva:
Fedulev mi spiegò che un tempo tali questioni si regolavano per via legale: privatizzazioni, compravendita di azioni e via dicendo... Ora, invece, a dirimerle c’era solo la forza...
La deposizione porta la data del febbraio 2000. Leon ha presentato richiesta scritta di aiuto contro la mafia. Ha chiesto alla legge di difenderlo dal ricatto della malavita organizzata. Da quello degli uomini dell’antimafia in primo luogo, che gli fanno pressioni affinché lasci la fabbrica a Fedulev, e in secondo da Fedulev stesso, che una volta uscito di prigione gli chiede di andarsene e di versargli trecentomila dollari per il disturbo.
Le richieste di Leon rimangono lettera morta: lo Stato rinuncia a imporre la legge e lascia che la mafia faccia a pezzi la fabbrica. E la «forza» a cui aveva alluso Fedulev non tarda a farsi sentire.
Il 14 febbraio del 2000 Fedulev raduna un comitato di creditori della fabbrica di Lobva. Lo fa di sua iniziativa, senza averne alcun diritto giuridico. Lo scopo che si prefigge è di sbattere fuori i dirigenti attuali e di rimpiazzarli con i suoi uomini.
Si muove in modo curioso. Essendo riuscito a portare dalla sua parte solo due dei cinque principali creditori, Fedulev si inventa una delega falsa da parte di un terzo, necessaria a ottenere il quorum. E dunque il «comitato» accoglie la richiesta di Fedulev di tenere l’assemblea dei creditori a Ekaterinburg, nel suo ufficio di via Malyšev 3. Il perché è chiaro a tutti. Se mai fosse spuntato uno dei veri creditori sarebbe stato molto più semplice fermarlo in un ufficio che era una fortezza. A Lobva era tutto più complicato, dunque perché crearsi ulteriori difficoltà? C’erano troppi soldi in ballo per rischiare un fiasco.
A qualche giorno dall’incontro, da Mosca arriva anche Rudenko. Lui e Fedulev devono prendere una decisione di primaria importanza: che cosa fare di Leon, il direttore ribelle. E la prendono...
Il 17 febbraio, il giorno prima dell’incontro, Fedulev spedisce due dei suoi uomini – Pil’ščikov e Najmušin – nella sede dell’antimafia. Si tratta di personaggi noti: sono anni che vi fanno capolino quali possibili sicari nelle pigre indagini relative all’assassinio di uno degli ex partner di Fedulev. Quel giorno, però, Pil’ščikov e Najmušin si presentano per una denuncia: Leon avrebbe chiesto loro una tangente di diecimila dollari. E nel giro di un’ora (una velocità inaudita per la giustizia russa) a carico di Leon viene aperta un’inchiesta. Senza indagini preliminari, senza interrogatori o verifiche. Solo sulla base di una denuncia. Contemporaneamente una macchina della polizia batte le strade di Lobva e distribuisce volantini: Leon si è sottratto all’arresto e non è più da considerarsi a capo della fabbrica.
Il 18 febbraio nell’ufficio di Fedulev si svolge l’assemblea dei creditori. Com’è ovvio, i controlli sono la prima cosa. L’ingresso, i corridoi e le stanze sono presidiate da poliziotti dell’antimafia in divisa e mitra in pugno. Nulla sembra poter disturbare la messinscena di Fedulev.
Invece l’imprevisto che aveva indotto Fedulev a spostare l’incontro a Ekaterinburg accade. Galina Ivanova, presidente del comitato sindacale di fabbrica, con diritto di presenza all’incontro quale rappresentante degli operai (una donna che, com’è ovvio, nessuno aveva degnato della minima attenzione), sfila dalla sua borsa una delega. È la delega più preziosa, quella del primo creditore della fabbrica. Pur se alla macchia, Leon è riuscito a procurarsela. È una delega che vale il trentaquattro per cento dei voti. Dunque la Ivanova è l’ago della bilancia...
A un cenno di Fedulev la Ivanova viene fatta allontanare. La arrestano prima ancora della votazione. Chi? I funzionari dell’antimafia in borghese presenti in sala, mescolati agli astanti. La trattengono tre ore e venti minuti, fino a che Fedulev non avvisa con una telefonata che la votazione si è conclusa.
Poi cala la sera. Così la descrive Aleksandr Nuadžjus, vice di Vasilij Leon (come da deposizione ufficiale all’FSB di zona):
Arrivai in fabbrica verso le 22.30. Andai a coricarmi all’ 1.30 circa. Alle 4.30 venni svegliato... La porta della direzione era già stata divelta, come anche le grate alle finestre. L’edificio era circondato da uomini armati, da una trentina di camionette e da un autobus. Ci portarono negli uffici della direzione, dove trovammo le guardie della sicurezza con le mani alzate. A sorvegliarli c’erano degli uomini in divisa da poliziotto e con dei mitra in pugno. Seduto alla scrivania c’era un tenente dell’antimafia, Oleškevič. Nell’ufficio del direttore commerciale, invece, c’era Fedulev. «Su che basi avete occupato la fabbrica?» chiesi. Mi mostrarono il verbale dell’assemblea dei creditori e il contratto del nuovo direttore. Era falso.
Gli sforzi congiunti di Fedulev e dell’antimafia locale, dunque, portano a un lieto fine l’occupazione illegale della centrale di idrolisi di Lobva. Violazioni della legge e abusi di potere sono lampanti. In altre parole, i responsabili della lotta al crimine organizzato si comportano esattamente come chi dovrebbero combattere.
Chi ne ha pagato le conseguenze, visto che ne sto scrivendo nel 2004, nel quarto anno di quella che Putin si ostina a chiamare «dittatura della legge»? Nessuno. Ancora nessuno.
«Chiedo di essere difeso da ulteriori provocazioni da parte dei funzionari dell’antimafia» scrisse all’epoca Vasilij Leon nella sua deposizione all’FSB. Cinque fogli di carta sprecati. Dal 18 febbraio Leon è un direttore senza fabbrica. Dal 18 febbraio ogni giorno che passa porta a Fedulev e ai suoi uomini migliaia di dollari in contanti. Lobva significa alcol, alcol significa vodka, vodka significa Fedulev e compagnia bella... Il nuovo corso che ci si aspettava con l’uscita dal carcere di Fedulev è cominciato. E questo è quel che tutti volevano...
Oggi la fabbrica di Lobva è ridotta allo stremo: Fedulev l’ha spremuta più che ha potuto ed è passato ad altro. Com’era da aspettarsi... Già allora, però, nel 2000, sette mesi dopo aver occupato Lobva e dopo aver messo assieme montagne di denaro, l’inarrestabile e inarrestato Fedulev si diede alla metallurgia.
Il primo boccone era già stato molto ghiotto: Kačkanar.
KAČKANAR
Il complesso di arricchimento minerario di Kačkanar gode di fama mondiale ed è patrimonio nazionale russo. È l’unico al mondo che estragga il ferrovanadio. Senza Kačkanar non potrebbero esserci fusioni in altoforno. Il nostro Paese, quanto meno, non potrebbe produrre un solo binario ferroviario.
Come molte altre aziende russe di rilevanza nazionale, a metà degli anni Novanta anche il complesso industriale di Kačkanar viene sottoposto a una serie di devastanti privatizzazioni. Nel 1997-1998 la situazione appare più che mai grave. È allora che Fedulev prende in mano le redini del consiglio di amministrazione, agendo come sempre ha fatto: strozza l’azienda-madre in una rete di piccole società che fanno da tramite alla produzione senza che il denaro rientri nelle casse della principale. Alla fine del 1998 Fedulev ha ridotto Kačkanar sul lastrico. Solo l’arresto del «miglior imprenditore degli Urali» segna la rinascita del complesso industriale. Intervengono gli altri azionisti, che assumono una squadra di manager competenti con a capo Džalol Chajdarov. Con loro arrivano anche i grossi investitori.
Nel 1999 il complesso ha cambiato faccia. La produzione è al massimo, i ricavi hanno avuto un’impennata, gli operai tornano a ricevere lo stipendio (è una situazione analoga a quella di Lobva: nel complesso di Kačkanar lavorano diecimila persone, in pratica l’intera popolazione attiva della città).
I risultati del risanamento post-Fedulev sono evidenti e le azioni tornano a godere di un certo interesse in borsa.
Una parentesi politica. Ogni governatore regionale russo ha nel suo entourage una figura analoga a quel che Putin è stato per El’cin: un delfino fedelissimo e astuto che si è meritato tale onore per quel concorso di circostanze che impone la presenza di un delfino fedelissimo e astuto in grado di garantire la stabilità finanziaria e l’indennità fisica del premier allorché questi decida di lasciare l’arena.
Per la regione di Ekaterinburg e per il governatore Rossel’ l’uomo in questione è Andrej Kozicyn, il ‘re del rame’ degli Urali, il padrone delle fonderie della zona. In attesa delle elezioni, dunque, Ekaterinburg è testimone dell’ascesa del ‘cupreo’ Kozicyn – ovviamente sponsorizzato da Rossel’ – anche nel settore metallurgico.
Ma che c’entra il paragone con El’cin e Putin? C’entra perché nemmeno Rossel’ sarebbe stato governatore in eterno. E con l’approssimarsi delle elezioni fece in modo di concentrare i bocconi più ghiotti dell’industria locale nelle stesse mani, vale a dire quelle di Kozicyn (che poi erano le sue).
Vi ricorderete che una delle prime persone da cui si recò Fedulev una volta uscito di prigione era stato il governatore Rossel’. Non si sa di preciso di cosa abbiano parlato, ma dopo quell’udienza Fedulev girò a Kozicyn le azioni in suo possesso di due complessi industriali: quello di Kačkanar e quello metallurgico di Nižnij Tagil. Era più che evidente che si trattava di un accordo tra Fedulev e il governatore. Fedulev si era comperato il diritto di fare quel che voleva nei dintorni, e Kozicyn aveva messo le mani su Kačkanar.
Va detto che in quel momento Fedulev possedeva solo il diciannove per cento delle azioni del complesso di Kačkanar, un pacchetto che, inoltre, suscitava qualche dubbio, come vedremo in seguito. Quanto trasferito a Kozicyn, dunque, non era un pacchetto tale da consentirgli di mettere un proprio uomo a capo di tutto. Anche perché i manager, con Chajdarov in testa, si opponevano all’espansione del duo Fedulev-Kozicyn, spalleggiati in ciò da chi deteneva il settanta per cento delle azioni...
Che fare? Chiamasi usurpatore chi usa la forza per ottenere ciò che vuole. Il 28 gennaio del 2000 il complesso industriale di Kačkanar viene occupato. A forza di mitra, documenti contraffatti e rappresentanti delle forze dell’ordine, come da copione utilizzato anche a Lobva. E con un’analoga – esteriore – politica di non-intervento da parte del governatore Rossel’.
All’alba del 29 gennaio il complesso ha un nuovo direttore: Kozicyn. E per gli uffici ormai vacanti si muove da padrone un altro uomo: Fedulev. Plus ça change...
Un potere di questo tipo, però, non poteva durare a lungo. Al massimo fino alla prima assemblea degli azionisti. Fedulev e Kozicyn lo sanno e sanno anche che gli azionisti li sbatteranno fuori.
La conclusione che traggono è la seguente. Uno: l’assemblea non deve tenersi. Due: Kačkanar va nuovamente messa in ginocchio, in quanto è l’unico modo di togliere i pieni poteri agli azionisti. Per la nostra legislazione, infatti, se un’azienda viene dichiarata insolvente, gli azionisti restano proprietari ma perdono il diritto di voto.
Per evitare che si tenga l’assemblea, Fedulev e Kozicyn usano il metodo che il nostro governo applica in Cecenia: chiudono ogni possibile accesso alle città, in entrata e in uscita. Tutto qui... Gli azionisti che volessero recarsi a Kačkanar con i manager di un tempo verranno fermati ai posti di blocco disseminati lungo il perimetro cittadino. Com’è possibile? Semplice. Su precisa disposizione di Fedulev e Kozicyn, il sindaco di Kačkanar – il signor Suchomlin – emana il decreto n. 14 sul «divieto di ingresso in città da parte di forestieri», quali sono – fra gli altri – gli azionisti e i manager del complesso industriale. Con la stessa ordinanza il sindaco Suchomlin vieta anche l’«assembramento di forestieri», nel caso in cui i nemici di Fedulev e Kozicyn dovessero riuscire comunque a entrare in città: se avessero tentato di organizzare un’assemblea – e dunque un «assembramento di forestieri» – la polizia avrebbe potuto arrestarli.
Un’assurdità, è ovvio. Una farsa. Ma quella era la realtà. L’assemblea non poté essere tenuta e i due criminali poterono dedicarsi al punto due del loro piano: la bancarotta forzata di Kačkanar.
Come possono riuscirci, dato che l’azienda è florida?
Il meccanismo è il seguente. Kozicyn chiede un prestito di quindici milioni di dollari alla banca Moskovskij delovoj mir garantendolo con un’ipoteca su Kačkanar. Glielo concedono (è ovvio: chi non vorrebbe mettere le mani su quel complesso industriale?). Con quel denaro alle spalle, Kozicyn emette delle obbligazioni a nome del complesso. I soldi, però, non li investe a Kačkanar, ma in un’altra azienda di sua proprietà, la Svjatogor, situata anch’essa nella zona e destinata – così pareva – a formare una joint venture con il complesso minerario. Il passo successivo è – apparentemente – di trasferire le obbligazioni di Kačkanar alla Svjatogor...
Perché «così pareva» e perché «apparentemente»? Perché si scoprirà poi che nulla di tutto questo era mai accaduto, che ogni mossa era stata virtuale e che le obbligazioni di Kačkanar erano finite tutte quante in mano a una minuscola azienda prestanome registrata all’indirizzo di un modesto appartamento di Ekaterinburg di proprietà – apparente – di una donna che, nonostante ripetuti tentativi al riguardo, non fu mai rintracciata. Di colpo quella donna virtuale si ritrovò a essere la principale creditrice del più importante produttore monopolista di ferrovanadio del mondo. Com’era stato possibile? Semplice. La sua società effimera aveva rilevato le obbligazioni di Kačkanar al quaranta per cento del loro valore nominale e ne aveva poi preteso il pagamento al cento per cento. Dopo di che aveva fatto dichiarare bancarotta al complesso, impossibilitato a riacquistare le sue stesse obbligazioni al loro valore di emissione. In questo modo la prestanome finì per possedere il novanta per cento dei voti all’assemblea dei creditori. Una frode plateale, sotto gli occhi del governo e del governatore locale.
Perché plateale era stata l’apparizione della creditrice prestanome.
Plateale l’emissione di obbligazioni scoperte.
Plateale che le obbligazioni fossero state vendute al quaranta per cento del valore.
Plateale che la mattina dopo l’acquisto ne fosse stato richiesto il pagamento per il totale del valore.
Plateale che fosse stato creato un indebitamento artificiale.
Plateale che in un paio di giorni il complesso industriale fosse finito sul lastrico.
Plateale che il latrocinio si fosse svolto con la benedizione delle autorità e dei tutori dell’ordine, mentre i veri proprietari di Kačkanar – che ci avevano investito milioni di dollari – si ritrovavano senza diritto alla proprietà o alla resa dei propri investimenti...
E per tutto il tempo che servì, a vegliare ventiquattr’ore su ventiquattro su Kačkanar a scanso di apparizioni di altre «Galine Ivanovne, rappresentanti dei sindacati» ci fu l’antimafia locale. Proprio come a Lobva.
Se un ladro non incontra ostacoli, si fa più spudorato. Se dopo Lobva era venuta Kačkanar, dopo Kačkanar toccò all’Uralchimmaš, occupato nel settembre del 2000 secondo lo stesso copione. Nei mesi seguenti e per tutto il 2001, anche gli azionisti di quest’ultimo complesso industriale vennero lentamente soffocati tramite un’apposita bancarotta con l’avallo (si legga: «con la connivenza») delle autorità. La cosiddetta «democrazia guidata» di Putin in azione.
O forse è solo un capitalismo sfrenato gestito da cupole mafiose a cui rispondono forze dell’ordine, burocrati corrotti e... giudici.
IL SISTEMA GIUDIZIARIO DEGLI URALI
È IL PIÙ CORROTTO DEL MONDO
Ricordate che la notte in cui venne occupato l’Uralchim maš sia Fedulev che il direttore destituito si sventolavano reciprocamente sotto il naso una sfilza di ordinanze giudiziarie?
Non si trattava di falsi. Quando si scava nei documenti relativi all’Uralchimmaš, a Kačkanar e a Lobva, una circostanza salta all’occhio: le irruzioni armate erano state autorizzate dai tribunali locali. Con certi giudici su un fronte e certi altri sull’altro... Come se le leggi e la Costituzione non esistessero. In sostanza, la lotta tra le cupole mafiose degli Urali andava di pari passo con quella, intestina, tra i giudici. Con il tribunale usato – allora e oggi – quale fabbrica di timbri su ordinanze utili all’una o all’altra fazione.
Così si legge in una lettera che I. Kadnikov (avvocato emerito della Federazione Russa ed ex presidente del tribunale del distretto Oktjabr’skj di Ekaterinburg) e V. Nikitin (ex presidente del tribunale del distretto Lenin) hanno inviato al presidente della Corte Suprema russa Vjačeslav Lebedev:
Sono anni ormai che Ovčaruk [Ivan Ovčaruk, presidente del tribunale regionale di Ekaterinburg dai tempi dell’URSS ai giorni nostri] prende parte attiva e diretta alla formazione e all’aggiornamento della magistratura degli Urali, scegliendo e controllando personalmente i giudici per ogni nomina. Non c’è candidato che possa aspirare a un posto senza il suo avallo, né si può sperare che il nostro incarico venga esteso senza il suo benestare. I giudici che non gli aggradano vengono man mano accantonati, perseguitati, costretti a lasciare il posto di lavoro a favore di personale che spesso non ha né le qualifiche né l’esperienza necessarie alla nomina, ma che per un qualche motivo è vulnerabile e – dunque – manovrabile. Al momento un numero enorme di giudici altamente qualificati, con anni di lavoro e di esperienza alle spalle e in possesso di doti importantissime quali princìpi morali saldi, autonomia, fermezza, incorruttibilità e coraggio sono stati costretti a lasciare il lavoro. E la ragione è una sola: se non ti fai corrompere non puoi lavorare con Ovčaruk.
Analizziamo, allora, le due posizioni principali.
Per Ovčaruk, chi e com’è ‘il bravo giudice’ e chi e com’è, invece, il ‘giudice cattivo’?
IL MIGLIORE
Il migliore – e dunque non un ‘bravo giudice’ qualsiasi – è Anatolij Krizskij, presidente del tribunale del distretto di Verch-Isetsk, a Ekaterinburg. Per lungo tempo Krizskij è stato il fedele guardiano degli interessi di Ovčaruk. In che senso?
Il tribunale di Verch-Isetsk è il più attivo della città, in quanto comprende il quartiere dove si trova la prigione. Ciò comporta che, come vuole la legge, presso quel tribunale si esaminino le richieste di aggiornamento delle misure detentive degli ospiti della prigione. E a Ekaterinburg tutti sanno che, per certe questioni, il punto non è il tipo di crimine commesso e neppure se il detenuto rappresenti o meno un pericolo per la società. Il punto è il denaro. Un criminale di una potente associazione a delinquere resta ben poco in carcere: basta che i suoi colleghi paghino.
Di qui la prosperità economica di singoli tribunali. Com’è noto, i tribunali distrettuali russi sono poveri in canna, sempre a corto di mezzi foss’anche per comperare la carta, tanto che i querelanti devono spesso portarsela da casa. Gli stipendi dei giudici, inoltre, bastano appena ad arrivare a fine mese. Il quadro offerto da Verch-Isetsk, invece, è ben diverso. L’edificio è circondato da fuoristrada, Mercedes e Ford da diverse decine di migliaia di dollari. A scendere da quelle auto, la mattina, sono modesti giudici con stipendi da qualche migliaio di russissimi rubli al mese. E la macchina più bella è sempre quella di Krizskij.
Krizskij e Fedulev diventarono subito ottimi amici. Nel corso degli anni Krizskij si fece carico delle cause che vedevano coinvolto Fedulev, e divenne il suo ‘giudice personale’. Quello a libro paga, insomma. Senza mai una lungaggine e senza troppe pastoie: sempre e solo con rito abbreviato e sempre senza curarsi di ascoltare eventuali testimoni o di verificare che le sentenze siano in sintonia con le leggi vigenti. Se Fedulev gli chiede di confermare che determinate azioni sono di sua proprietà, Krizskij non si preoccupa di pretendere prove in merito né prende in considerazione l’eventualità che le azioni possano appartenere alla controparte... Si limita a mettere il suo bel timbro: «Si certifica che le azioni summenzionate sono di proprietà del signor Fedulev»... Che è ciò che Fedulev vuole da lui.
Era stato con quel documento in mano che Fedulev si era presentato all’Uralchimmaš dopo l’irruzione armata.
Degno di nota è che, talvolta, quel tribunale su commissione si riuniva direttamente a casa del cliente... Krizskij vergava le sue disposizioni nell’ufficio di Fedulev e non in un’aula di tribunale, come espressamente richiesto dalla legge. E capitava persino che a compilare i testi non fosse Krizskij, ma l’avvocato di Fedulev, con il giudice che si limitava a firmare.
Quando, nell’estate del 1998, Fedulev ha i primi problemi con la Procura di Stato per aver frodato un’azienda di Mosca, è Krizskij – con al seguito l’avvocato di Fedulev – a volare a Mosca dall’allora procuratore generale Jurij Skuratov per chiedere che l’azione legale sia respinta. Skuratov e Krizskij si conoscono da che erano giovani, il procuratore generale lo riceve e – quali che siano stati i termini della questione – il caso è chiuso. Quando Krizskij torna a Ekaterinburg, la moglie di Fedulev gli consegna un bel sacchetto di plastica colorata con dentro l’equivalente in rubli di ventimila dollari americani.9 La donna non gli fa mistero che si tratta di una ricompensa per il disturbo preso, né Krizskij fa mistero a lei della sua soddisfazione. Qualche giorno dopo si sarebbe comperato una Ford Explorer.
A un lettore occidentale potrà anche non sembrare gran cosa: il presidente di un tribunale non può essere un mentecatto e non è strano che possieda una macchina del genere. In Russia un tale acquisto da parte di un giudice distrettuale può significare solo due cose: o che ha ricevuto una grossa eredità (grossa per i nostri standard) o che è corrotto. Tertium non datur. Perché in Russia solo gli uomini d’affari possono permettersi una Ford Explorer, e di tali affari un giudice non può occuparsi per legge. Un’automobile simile, infatti, equivale a vent’anni di stipendio di un giudice.
La prodigiosa fortuna di Krizskij, tuttavia, non si limita a questo. Passa un mese dalla Ford Explorer, e Fedulev si ritrova a fronteggiare nuovi problemi con la giustizia. Il meccanismo si rimette in moto e Krizskij si ripresenta da Skuratov. Non a Mosca, questa volta, ma a Soči, sul Mar Nero, dove il procuratore generale sta trascorrendo le ferie. Le nubi che si addensano sulla testa di Fedulev si disperdono nuovamente, e Krizskij può cambiare quella Ford che aveva lasciato di stucco Ekaterinburg con una Mercedes 600, uno status symbol dei nuovi ricchi che non c’è modo di far corrispondere agli standard di vita di un giudice.
E che dire delle sue feste di compleanno? Ne parlava tutta Ekaterinburg! Trasudavano opulenza e reggevano il confronto con i baccanali dei crapuloni prerivoluzionari. Per l’occasione il tribunale sospendeva le udienze e, su precisa disposizione del presidente, le porte venivano chiuse a doppia mandata. Krizskij affittava un ristorante del centro, i soldi volavano a destra e a manca, la vodka scorreva a fiumi e tutti i burocrati di Ekaterinburg si davano alla pazza gioia sotto gli occhi stupiti dell’altra Ekaterinburg, ridotta quasi alla miseria. E a chi importava, tra gli invitati ubriachi e danzanti, che un giudice non avesse alcun diritto di comportarsi a quel modo non solo secondo un codice deontologico non scritto, ma secondo leggi che scritte lo erano, eccome? La legge federale «Sullo status dei giudici della Federazione Russa», per esempio, esige categoricamente che osservino uno stile di vita morigerato, che fuori servizio (e figurarsi in servizio, dunque) rifuggano da qualunque contatto personale che possa recar danno alla loro reputazione e mostrino la massima cautela e circospezione nelle loro azioni, così da meritarsi il rispetto dovuto all’autorità giudiziaria loro conferita.
Come la mettiamo, allora, col fatto che proprio Krizskij, con il suo bagaglio di amicizie con Fedulev e gli altri mafiosi, fosse il prediletto del presidente del tribunale regionale Ivan Ovčaruk, che non perdeva occasione per definire Krizskij uno dei migliori giudici degli Urali?
È una domanda legittima, non c’è dubbio. Che anche Ovčaruk fosse al soldo della mafia? O forse non distingueva più il bianco dal nero?
Né l’una né l’altra cosa. Il fatto è che noi che viviamo in Russia siamo tutti – o quasi – un prodotto dell’Unione Sovietica e, chi più chi meno, ci atteniamo a un codice di vita sovietico. Ovčaruk ha una forma mentis sovietica e si comporta di conseguenza. La diagnosi è che si tratta di un tipico alto papavero della giurisprudenza di era sovietica, addestrato a non contraddire mai i superiori e a eseguire gli ordini. Il suo mestiere era sempre stato quello di ubbidire, quando non di intuire gli umori dei capi da un fremito di auguste sopracciglia. Non è un’esagerazione e non è un divertissement giornalistico. È un esempio dell’asservimento sovietico di un tempo. Ovčaruk è un retaggio del nostro passato, un uomo che deve la sua carriera al fatto di non aver mai confutato le decisioni dei superiori, per quanto sciocche o illegali potessero essere.
Con la nuova era, all’insegna della democrazia e del capitalismo, pare che Ovčaruk abbia avuto qualche momento di panico: a chi avrebbe dovuto obbedire, lui che per mestiere sapeva fare solo quello, ora che la gerarchia precedente era saltata?
Le sue perplessità non durano a lungo. A fargli prendere la decisione migliore è quel particolare fiuto tutto sovietico che permette sempre di capire chi detiene il potere e a chi convenga inchinarsi. Ovčaruk si sceglie due nuovi ‘zar’. Il primo è il denaro (il mondo di un business in fasce, la cerchia di chi sta accumulando capitali), il secondo la burocrazia di Stato, che per quanto osteggiata, resta sempre monolitica e forte come una roccia (e che per Ovčaruk si incarna nel governatore Rossel’). E dato che a Ekaterinburg i due poli sono uniti da affettuosa amicizia e hanno dato vita a una nuova mafia (a fianco della vecchia cupola di Uralmaš), Ovčaruk rompe gli indugi e si dà a esaudire ogni desiderio di Rossel’ e Fedulev. È evidente che i due sono grandi amici, dunque ogni capriccio di Fedulev va assecondato. Ed essendo Krizskij un uomo di Fedulev, va sostenuto anche lui, sorvolando sulle sue ‘debolezze’.
Ekaterinburg si libera di Krizskij-giudice solo alla fine del 2001. Ma il come e il dopo lasciarono a tutti l’amaro in bocca.
La sezione locale dell’FSB sapeva da anni che Krizskij copriva le attività criminali di Fedulev negli Urali, ma gli agenti non erano mai riusciti a coglierlo con le mani nel sacco. Alla fine lo fecero pedinare ventiquattr’ore su ventiquattro (illegalmente, fra l’altro) e riuscirono ad arrestarlo con un’accusa di pedofilia di cui l’FSB fornì le prove a Krizskij, al suo protettore Ovčaruk e a Rossel’.
Quali furono le conseguenze? Krizskij venne mandato in pensione. Senza scandali. Senza umiliazioni. Senza interdizione dai pubblici uffici «per aver compiuto azioni disdicevoli al suo status». Venne trasferito ad altre mansioni e diventò consulente legale del sindaco di Ekaterinburg. Tutto qui. Se anche si era trovato qualcuno disposto a punirlo, il risultato fu un suo mero riciclaggio nei panni di un rispettabilissimo vecchio legale.
I CATTIVI
Veniamo ora agli ‘immeritevoli’. Vale a dire coloro che non hanno voluto lavorare al fianco di Ovčaruk e Krizskij. Coloro che si sono opposti a che un tribunale indipendente passasse al soldo di un criminale. I giudici che hanno cercato di rimanere tali in un territorio in mano alla mafia. Giudici rimossi dalla loro funzione con la formula che, invece, non era stata applicata a Krizskij: «per aver compiuto azioni disdicevoli al loro status».
Negli ultimi anni i ‘giudici cattivi’ sono stati la maggioranza, a Ekaterinburg. Il foro ne ha cacciati a decine, infangandone la reputazione.
Ol’ga Vasil’eva aveva undici anni di carriera alle spalle. Un periodo di tutto rispetto per una persona che pare tranquilla, equilibrata e quieta. Il giudice Vasil’eva è tra coloro che si sono rifiutati categoricamente, per principio, di sottoscrivere le ordinanze giudiziarie necessarie ai giochetti di Fedulev. Ol’ga Vasil’eva ha detto «no». Prestava servizio a Verch-Isetsk, alle immediate dipendenze di Krizskij, e subiva pressioni inaudite che sfociarono in minacce alla sua vita e a quella dei suoi familiari. Ma rimase inflessibile, senza mai un cedimento. Né riguardo a Fedulev, né riguardo a disposizioni più ‘semplici’, come quando Krizskij pretendeva che scarcerasse qualche criminale modificando i termini della detenzione.
La goccia che fa traboccare il suo vaso è l’accoglimento di una denuncia ai danni del presidente del tribunale regionale Ivan Ovčaruk. Krizskij pretende che la Vasil’eva la respinga per non creare un precedente. I querelanti sono dei cittadini di Ekaterinburg che Ovčaruk ha costretto a interminabili pastoie giudiziarie rifiutandosi scientemente di prendere in esame i loro esposti, in quanto diretti contro gli interessi di alcuni pezzi grossi dell’ufficio del governatore Rossel’.
Per Ekaterinburg, città schiacciata dalle mafie e in cui tutti sanno che varcare certi limiti non significa andare incontro a rogne ma a una pallottola in fronte, un gesto simile equivale a una rivoluzione. A scanso di guai, altri tribunali non prendevano nemmeno in considerazione simili denunce, non le registravano nemmeno, pur essendo tenuti a farlo per legge.
Il sistema si vendica brutalmente della temeraria Vasil’eva che ha osato agire secondo la legge. Non la licenzia, ma la umilia e la infanga. Per espellerla dall’Ordine, la fanno denunciare da quei protetti di Krizskij che si era rifiutata di scarcerare. La tracotanza dei suoi nemici è tale e tanta, che i detenuti scrivono le denunce direttamente sui moduli delle udienze (e non avevano altro modo di procurarsele se non tramite Krizskij).
Per la Vasil’eva inizia un lungo peregrinare di porta in porta per dimostrare che si tratta di falsi, che lei è innocente. La Corte Suprema russa ci mette un anno a reintegrarla nel suo ruolo, ma i suoi tormenti non sono ancora finiti. La Corte Suprema ha sede a Mosca, ma la Vasil’eva deve tornare a esercitare a Ekaterinburg, dov’è abbandonata a se stessa. Quando Ol’ga rientra in città e presenta la disposizione della Corte Suprema a Krizskij, questi si rifiuta di reintegrarla e scrive seduta stante una mozione ufficiale contro la Vasil’eva al Collegio di qualifica dei giudici (un organo della magistratura), in cui afferma che, nonostante la reintegrazione, la Vasil’eva «non pare essersi ravveduta» (una formula che di norma si applica ai detenuti e che diventa l’ennesima umiliazione se riferita a un giudice).
In Russia i giudici sono tenuti a essere riconfermati – rinominati, in pratica – periodicamente, e allo scopo devono ottenere una sorta di ‘referenza’ dal Collegio di qualifica locale, che apre la strada a una rinomina da parte del presidente. Nel caso della Vasil’eva, Ovčaruk si unisce alle rimostranze di Krizskij e il Collegio può emettere il verdetto, negandole le ‘referenze’ per la riconferma.
Va da sé che nel prezzolato Collegio di qualifica, in cui è il presidente del tribunale regionale (Ovčaruk, appunto) a fare il bello e il cattivo tempo, nessuno si prende la briga di verificare i documenti che Krizskij allega alla sua dichiarazione. Quegli stessi documenti – le denunce dei detenuti su carta intestata – che la Corte Suprema ha appena ricusato.
Ol’ga Vasil’eva è una donna coraggiosa e di forti princìpi. Si ripresenta alla Corte Suprema per pretendere che giustizia sia fatta. Ma sono procedure sfiancanti, che richiedono anni e anni di vita durante i quali le sarà negata l’autorizzazione a esercitare le sue mansioni nell’interesse dello Stato.
Possiamo forse pretendere che la maggioranza dei giudici scelga questa via? Certo che no. Dopo avermi scongiurato di non fare i loro nomi, molti giudici di Ekaterinburg mi hanno detto che preferiscono avallare le disposizioni di Ovčaruk piuttosto che finire come la Vasil’eva. E a riprova della loro affermazione mi hanno raccontato quanto accaduto a certi colleghi che avevano cercato di contrastare la mafia. Un esempio ne sia la storia del giudice Aleksandr Dovgij.
Dovgij aveva commesso lo stesso crimine della Vasil’eva. Aveva ignorato una richiesta di rilascio per l’ennesimo pupillo di Krizskij. Qualche giorno dopo venne malmenato per strada con una sbarra di ferro. Nonostante in casi simili la polizia sia pronta a dare la caccia agli aggressori, per Dovgij si rifiutò di svolgere un’inchiesta. Il giudice restò a lungo in ospedale, ne uscì storpio, e una volta tornato al lavoro chiese – e ottenne – di occuparsi solo di cause di divorzio.
Allo stato dei fatti, la professionalità di un giudice è ridotta alla capacità di non avere un’opinione propria. Ad amministrare la giustizia lo Stato chiama individui che non riescono a prescindere da metodi bolscevichi, che levano alto il pugno in segno di monito e non vedono nulla di esecrabile nel richiedere a un giudice una determinata sentenza, nel pretendere che rendano conto al Collegio di qualifica – l’equivalente della cellula del PCUS di altri tempi – o nell’esigere che si condanni o si grazi come loro vogliono, ma a nostro nome, per mano nostra...
A scrivere quanto sopra dopo aver subìto pressioni analoghe a quelle della Vasil’eva è stato un giovane giudice di belle speranze che mi ha chiesto di dimenticare per sempre il suo nome. A differenza della Vasil’eva, però, lui non ha avuto la forza di lottare, di resistere, e ha deciso di lasciare. Le righe succitate sono tratte dalla lettera di dimissioni che ha spedito a Krizskij. Specificando: «Chiedo che la questione venga vagliata in mia assenza». Dopo di che ha lasciato per sempre Ekaterinburg.
Va detto che il giovane giudice non aveva alcuna intenzione di licenziarsi. Solo che ‘un bel giorno’ era accaduto quel che doveva accadere: si era trovato sulla scrivania una causa relativa ai misfatti dell’ennesimo gruppo mafioso, con Krizskij che pretendeva l’immediata archiviazione. Il giovane giudice chiese tempo per pensarci. Degli ‘ignoti’ cominciarono a minacciarlo con telefonate anonime e biglietti, e ‘casualmente’ altri ignoti lo picchiarono sotto casa. Non troppo, però, il loro doveva essere un avvertimento...
Il giovane giudice si dimise seduta stante. E l’incartamento venne trasmesso a un collega. Che il giorno prima dell’udienza ricevette un telegramma da Ovčaruk in persona affinché interrompesse le udienze. Il giorno seguente il caso venne chiuso.
Sergej Kazancev, giudice del tribunale del distretto Kirov, a Ekaterinburg, aveva stabilito che in attesa del processo un tal Uporov – accusato di rapina e percosse – fosse imprigionato quale individuo socialmente pericoloso. Dopo di che era passato al caso successivo. Stava scrivendo una sentenza nel suo ufficio – nessuno, secondo le leggi russe, ha diritto di disturbare un giudice in simili circostanze, altrimenti il verdetto potrebbe essere inficiato – quando Ovčaruk gli telefonò pretendendo imperiosamente che annullasse le misure detentive a carico di Uporov e lo rimettesse in libertà. Kazancev si rifiutò. Ovčaruk reagì comunicandogli che sarebbe stato licenziato.
E così fu.
Ekaterinburg è piena di storie analoghe. Storie che si somigliano tutte come gocce d’acqua. La conseguenza è che anche i giudici che continuano a lavorare si somigliano come gocce d’acqua. Sono tutti manovrabili, pronti a ratificare qualunque ordinanza pur di evitare grattacapi con i superiori. La resistenza è ridotta a zero e ovunque impera una moralità doppia e ambigua spacciata per «dittatura della legge». E non sono questi i giudici di cui abbiamo bisogno.
Quanto riportato spiega perché al momento dell’occupazione dell’Uralchimmaš entrambe le parti sventolassero ordinanze giudiziarie che si escludevano a vicenda. Quando l’autonomia dei giudici è stata brutalmente soffocata per anni a vantaggio del loro più completo asservimento (che i più anziani già dovevano alle corti sovietiche), come si può sperare in giudizi equi e coraggiosi?
Chi ha voluto opporsi e dire «no» non è più al suo posto da un pezzo. Mentre coloro che alla richiesta di servire l’illegalità sono scattati sull’attenti lavorano tranquilli e avanzano sereni lungo la scala gerarchica.
I SUPERBUONI
Dietro ogni colpo gobbo di Fedulev c’è un suo legame particolare con la magistratura degli Urali. Fedulev è amico dei giudici e i giudici sono amici suoi. Uno scambio reciproco. I nomi più noti in questa accezione sono quelli di Rjazancev e Balašov. Rjazancev è un modesto giudice del tribunale distrettuale di Kačkanar, che risponde direttamente a Ovčaruk; è stato lui a ratificare le ordinanze necessarie a Fedulev per l’affare del complesso minerario, convalidando le transazioni della società temporanea quanto all’acquisto di azioni a prezzo ridotto e alla successiva vendita a prezzo pieno, e consentendo, con ciò, che le sorti di Kačkanar fossero segnate. Anche il secondo, Balašov, è un giudice di poco conto del distretto di Kirov. È stato lui a decidere a favore di Fedulev quanto all’Uralchimmaš e ad altre questioni di un certo rilievo. E gli automatismi sono sempre gli stessi.
Di fatto è stato il giudice Balašov a dar fuoco alle polveri nella vicenda dell’Uralchimmaš. Accolta il venerdì sera un’istanza a tutela degli interessi che Fedulev aveva nella fabbrica, il lunedì mattina – a una velocità che la storia della nostra giustizia non conosceva – Balašov emise l’ordinanza ‘necessaria’ a Fedulev senza darsi pena di convocare i testimoni, raccogliere informazioni aggiuntive o interrogare terzi... Si limitò a fare quel che gli veniva richiesto.
A onor del vero va detto che Balašov resta sempre nei limiti della legalità. È abilissimo, infatti, a usare le scappatoie della nostra giurisprudenza: il rito abbreviato a cui fa solitamente ricorso è del tutto legittimo. L’ingiunzione emessa «in accoglimento delle richieste dell’attore» è più che appropriata nei casi in cui la controparte abbia preso decisioni intese a depauperare la proprietà comune. Lo scopo ultimo dell’istanza è di congelare lo stato delle cose, e il tribunale ha tutti i diritti di interferire e di vietare qualunque scelta manageriale fino a che la contesa sull’appartenenza non venga chiarita.
Così facendo, con la sua ingiunzione-lampo sull’Uralchimmaš, Balašov non contribuì a che la questione fosse risolta a favore dell’uno o dell’altro, ma evitò che venissero prese decisioni definitive e che si potesse disporre della proprietà. Dal di fuori tutto pareva regolare... Il risultato, però, fu letale: l’illegalità mascherata da legalità.
Per la legge russa, se un verdetto è stato emesso non c’è tribunale che possa riaprire il caso. Ma quando il gioco si fa duro... Con la sua ‘ordinanza necessaria’ Balašov finse di ignorare un dettaglio fondamentale della disputa relativa all’Uralchimmaš, ossia che si era già tenuto un arbitrato. Del resto, aveva già pronta una giustificazione plausibile: la regione non disponeva di un sistema di informazione unificato (il che era vero) e nei tribunali distrettuali non si veniva a sapere mai nulla...
Era una farsa bella e buona, in quanto Balašov sapeva perfettamente che cosa era accaduto e per questo aveva deciso di evitare approfondimenti: avrebbe potuto convocare dei testimoni, ma non lo fece; avrebbe potuto chiedere informazioni suppletive, ma non lo fece; avrebbe potuto rimandare il tutto di qualche giorno, fino a che le circostanze non si fossero chiarite, ma non lo fece. Fedulev non voleva. E dunque Balašov emise l’ordinanza che un paio d’ore dopo, con l’inchiostro della sua firma ancora fresco, Fedulev brandiva in un Uralchimmaš occupato da uomini armati.
E l’Uralchimmaš si arrese.
UN PARTICOLARE IMPORTANTE
DELLA PROCEDURA PENALE RUSSA ODIERNA
Se nella Russia di oggi i tribunali sono schierati e favoriscono apertamente una delle parti in causa è perché hanno comunque la legge dalla loro. Perché in Russia i tribunali devono – o dovrebbero – essere indipendenti. La questione si riduce a una sola cosa, ossia se un giudice può o non può contare su appoggi in alto loco. Se le ‘alte sfere’ giudiziarie spalleggiano le ‘basse’, queste ultime possono fare quel che vogliono. Un esempio. Dopo l’irruzione all’Uralchimmaš, Balašov viene convocato dal presidente del tribunale distrettuale Valerij Bajdukov, suo diretto superiore, che pretende delle spiegazioni e che le riceve: Balašov gli riferisce che la delibera era stata sollecitata a livello regionale e concordata con Ovčaruk... E la questione relativa alla condotta di Balašov viene subito espunta dall’ordine del giorno.
Che cosa fa, intanto, l’opinione pubblica perplessa? L’impudente occupazione dell’Uralchimmaš suscita, questa volta, le reazioni e le domande della città, in quanto le molte migliaia di operai del complesso industriale hanno tutti famiglia. Bajdukov fornisce loro una spiegazione molto semplice, riuscendo persino a spacciarsi per filantropo: «Il tribunale» dice «sa bene che ogni minuto è prezioso quando una proprietà può finire in mani ignote, ed è nell’interesse dei cittadini e dei legittimi proprietari che è stata presa una rapida decisione»...
Tra parentesi, Bajdukov è anche presidente del Consiglio regionale dei giudici. Che è una specie di coscienza corporativa (e va da sé che Bajdukov abbia avuto per le mani il caso Vasil’eva e l’abbia trattato come richiestogli da Ovčaruk). Il Consiglio dei giudici è un altro organo della magistratura come il Collegio di qualifica. A Ekaterinburg sono entrambi controllati da Ivan Ovčaruk e ne diventano membri solo coloro che più aggradano al presidente. Ragion per cui ogni azione produce la reazione desiderata. Valerij Bajdukov è un uomo terrorizzato che ha paura della sua stessa ombra. La sensazione è che non sia minimamente in grado di difendere alcunché. Se anche ha un’opinione propria, questa resta sempre e comunque virtuale. Bajdukov può pontificare – in via teorica – sui tribunali distrettuali quali «anelli fondanti del sistema giudiziario russo», ma tacerà ogni qual volta dovrà passare dalle parole ai fatti esaminando l’operato di Ovčaruk.
Permettetemi una parentesi breve, ma necessaria. I tribunali distrettuali russi vagliano il novantacinque per cento di tutte le cause penali e civili del Paese, e da questo punto di vista non c’è dubbio che siano l’anello fondante del nostro sistema giudiziario. La realtà dei fatti, tuttavia, dimostra che si tratta di una farsa. I tribunali distrettuali sono manipolabili e sottomessi. La ragione principale di un tale stato di cose è che le alte sfere – i giudici dei tribunali regionali e delle varie repubbliche – non intendono promuovere una riforma della giustizia che li costringerebbe a mollare le redini con cui manovrano i loro sottoposti, i giudici distrettuali. Sulla carta – una carta che si chiama Costituzione e ha preminenza legale – questi ultimi godono di un’autonomia che però non ha alcun riscontro nella procedura.
La legge vuole che i tribunali superiori (regionali) esercitino un controllo sulla pratica giudiziaria dei tribunali loro sottoposti (municipali e distrettuali). In pratica, i tribunali distrettuali (o municipali) emettono delle sentenze e quelli regionali ne valutano l’equità. In questo modo la dipendenza procedurale trapassa in una dipendenza di organizzazione e di carriere. Un giudice scomodo è indifeso come un bambino. E come un bambino dipende dai ‘più grandi’. Che hanno il diritto di criticare e annientare i ‘più piccoli’ come meglio credono, senza doverne rendere conto alla legge. Quando un giudice regionale annulla la sentenza di un sottoposto non è tenuto a spiegare il perché e il per come. La annulla e basta.
Così facendo il tribunale regionale non si assume responsabilità quanto al verdetto finale, mentre è obbligato a compilare una statistica delle sentenze cassate ai singoli giudici dei singoli distretti. Una statistica che è la base per determinare i bonus dei giudici, eventuali privilegi da concedere o negare, vacanze estive o invernali, avanzamenti nelle liste d’attesa per gli alloggi (stilate dal tribunale regionale e di grande importanza, in quanto gli stipendi reali dei giudici sono tali da non consentire loro l’acquisto di una casa), possibili riconferme e via dicendo.
Con un simile meccanismo i giudici distrettuali – gli «anelli fondanti» a detta della Costituzione – si trovano a dipendere dai propri superiori in misura ancora maggiore rispetto al sistema sovietico. Una tale gerarchia non dovrebbe, però, essere vietata dalla Costituzione? In quanto nominati dal presidente russo, i giudici non dovrebbero essere tutti uguali e tutti indipendenti? La realtà è ben diversa. Al momento della nomina sono tutti uguali, certo. Ma quando vengono licenziati l’uguaglianza va a farsi benedire. Se il capo di un qualche tribunale regionale desidera sbarazzarsi dei suoi giudici distrettuali, può farlo a sua discrezione. Mentre se è lui a non essere gradito ai sottoposti, è un problema tutto loro. Non c’è modo che possano ottenerne l’allontanamento.
Sono state le leggi e le norme della convivenza giudiziaria sviluppatesi dopo la caduta dell’URSS a consentire a Ovčaruk di diventare quello che è: lo ‘spazzino’ chiamato a liberare la giustizia degli Urali da giudici che potrebbero emettere un verdetto non controllabile. Il sistema giudiziario non ha difese adeguate contro l’arbitrio di vertici senza più freni. Le inibizioni possono essere solo morali. Il sistema funzionerebbe nel giusto verso solo in un caso: se al posto di Ovčaruk ci fosse un uomo di altri – e alti – princìpi etico-morali. Ma, ne converrete, che razza di sistema è mai questo?
Torniamo, però, al nostro Balašov. Avrebbe potuto comportarsi diversamente con Fedulev? E se sì, cosa avrebbe dovuto fare? Avrebbe davvero potuto decidere di essere obiettivo e imparziale? Certo. Gli sarebbe bastato rimandare l’esame dell’ingiunzione. E ne avrebbe avuto tutti i diritti.
Va detto che nel preparare la presa dell’Uralchimmaš Fedulev e i suoi collaboratori avevano fatto il giro dei tribunali distrettuali di Ekaterinburg per testare la ‘reattività al soldo’ dei giudici. Tutti avrebbero fatto come Balašov. Tutti tranne uno, quello del tribunale distrettuale di Čkalov (la ex Orenburg), Sergej Kijajkin. Per quel rifiuto Ovčaruk gli propose un trasferimento a Magadan, nell’estremo Nord-Est del Paese. Da sempre «finire a Magadan» è sinonimo di esilio. E quel giudice dissenziente nato e cresciuto a Ekaterinburg, che aveva difeso la città e gli Urali, che aveva frequentato l’istituto tecnico annesso all’Uralchimmaš e aveva anche lavorato per quel complesso industriale fiore all’occhiello di tutto il Paese, ebbene, il giudice Kijajkin fu ben felice di fare le valigie e di andarsene il più lontano possibile da dove era nato...
Per salvare la pelle. E per salvarla ai suoi familiari.
Ma torniamo a Balašov, giudice a comando, ormai vecchio «compagno di lotta» di Fedulev e guardiano leale dei suoi interessi, colui che ha reso un’arte l’emissione di verdetti compiacenti. Un esempio per tutti: una sua sentenza del 28 febbraio 2000. La sostanza delle cose è la seguente. Fedulev decide di vendere l’Uralelektromaš, la sua principale società per azioni. A dispetto del nome (Uralelektromaš – Macchinari elettrici degli Urali), non si tratta di una fabbrica, ma di una società che gestisce le operazioni in titoli di Fedulev. Titoli tra i quali figurano le azioni del complesso di Kačkanar e dell’Uralchimmaš.
Un bel giorno, dunque, Fedulev cede l’Uralelektromaš e ne ricava una determinata somma. Fin qui, tutto legale. Ma il lupo perde il pelo... Qualche tempo dopo, gli acquirenti scoprono che, pur avendo sborsato i denari per l’acquisto, non hanno accesso alle azioni. Come mai? In pratica Fedulev ha venduto loro l’Uralelektromaš ma si è tenuto le azioni. Gli acquirenti si rendono conto d’essere stati truffati e, va da sé, mettono Fedulev con le spalle al muro. «Ci ho ripensato, » ribatte lui «rivoglio indietro tutto quanto». E come sarebbe? Te li sei presi, i soldi, o no? Tu ci ridai i soldi e noi ti ridiamo il resto... «Io i soldi non ve li do e voi le azioni non le avete. Dunque non siete nessuno. Levatevi di torno. Grazie e arrivederci». Lo stesso quanto al pacchetto azionario dell’Uralchimmaš. Uscito dalla prigione di Mosca e ansioso di riprendersi quanto aveva venduto per diversi milioni di dollari, Fedulev sostiene di non sapere niente della transazione, che non è stata debitamente registrata e che dunque è da ritenersi nulla. Dopo di che va dal giudice Balašov, che gli firma una bella ordinanza: Fedulev ha ragione, i pacchetti azionari che ha venduto sono in realtà ancora suoi e l’acquirente è tenuto a renderglieli senza che Fedulev restituisca la somma versata...
Nero su bianco, non sto inventando nulla.
Per capire le mosse di Fedulev bisogna anche sapere che la legislazione russa è tutt’altro che perfetta. E che Fedulev sa sempre servirsene a proprio vantaggio. Il nocciolo della questione è che qualunque società che emetta azioni deve registrarne l’emissione. Da principio nessuno sapeva come fare, in quanto l’URSS non aveva né azioni né mercato azionario. Dissolta l’URSS, le istituzioni governative preposte persero molto tempo a individuare un metodo con cui effettuare le registrazioni suddette, e la conseguenza fu che molte azioni e molte società per azioni non sono mai state registrate. Ciò non toglie, però che i loro titoli vengano trattati tranquillamente. Lo spettacolo del mercato azionario deve continuare.
Dunque? Dunque si supponeva – per accordo tacito ma lampante – che a far andare avanti le cose bastasse l’onestà. Che non è una dote di Fedulev, estorsore e truffatore. Il quale adocchia l’affare e per prima cosa firma il contratto di vendita delle azioni dell’Uralelektromaš, e solo in un secondo tempo chiede di registrarle dove occorre, e cioè alla Commissione Federale Titoli (così si chiamava). Solo a registrazione avvenuta – dopo un discreto lasso di tempo, dati i pantani burocratici e la mancanza di coordinamento – Fedulev comunica agli acquirenti che l’accordo era stato concluso prima dell’effettiva registrazione delle azioni. «Quindi è tutta roba mia!» dice loro spudoratamente. «E la rivoglio». E i soldi? «I soldi me li tengo. L’errore è stato vostro. E gli errori si pagano». Intanto il tribunale piazza timbri su timbri sulle apposite ordinanze.
È solo un caso, l’ennesimo, fra le tante truffe di Fedulev che affondano le radici nella malagiustizia russa. Perché la vera giustizia è quella in cui le leggi sono uguali per tutti. E da noi non è così. Quel che accade da noi è un’altra cosa. Lobby differenti scrivono leggi differenti. Ogni lobby ha un suo scopo. Ognuna sostiene la legge che in quel determinato lasso di tempo le è necessaria. Significa, forse, che Fedulev è tanto più intelligente degli altri da conoscere questi particolari e da avvalersene? Certo che no. Fedulev è semplicemente tanto ricco da potersi comperare i servigi dei migliori legali, che conoscono a menadito le scappatoie della giurisprudenza e sono sempre in grado di suggerirgli la tattica migliore. Per di più, e lo ripeto, Fedulev ha saputo creare una piramide oligarchica (una cupola, per dirla più semplicemente) tale da garantirgli che qualunque sua azione influirà su tutti gli anelli della catena, i quali perciò risultano strettamente legati gli uni agli altri. Fedulev, Rossel’, Kozicyn (che è il delfino di Rossel’): nessuno può fare a meno dell’altro. Rossel’ non può nulla senza Kozicyn, in quanto Kozicyn è l’equivalente di Putin per El’cin, il mezzo per mantenere la stabilità economica anche dopo aver abdicato...
Quel che più ci interessa, tuttavia, è come si mosse il tribunale. Con chi si schierò, indipendente ed equo com’era tenuto a essere? La risposta dovrebbe essere univoca, dato che un tribunale non può stare dalla parte di chi truffa il prossimo...
Vediamo, allora, come si cavò dall’impasse il giudice Balašov, pienamente consapevole delle lacune della nostra giurisprudenza. Balašov si pronunciò a favore di Fedulev e della requisizione ai sacrosanti acquirenti del loro sacrosanto acquisto. Un particolare curioso: anche in questo caso l’iter fu quello seguito per l’Uralchimmaš. L’istanza venne presentata la sera e l’ordinanza venne emessa la mattina seguente. Un caso complicatissimo, che avrebbe dovuto richiedere faldoni su faldoni di documenti e la consulenza di esperti del mercato azionario, venne esaminato in quattro e quattr’otto. E non perché Balašov fosse un genio.
Dopo di che la ruota cominciò a girare. E l’episodio del giudice spedito a Magadan è il male minore. L’ordinanza relativa alla disputa dell’Uralelektromaš divenne il prologo ai fatti di sangue dell’Uralchimmaš, per i quali fu ancora una volta Balašov a dare il ‘la’ giudiziario.
Un sodale di Balašov, l’ennesimo giudice accomodante, risponde al nome di Rjazancev e lavora presso il tribunale distrettuale di Kačkanar. E come Balašov salvaguarda gli interessi di Fedulev per quanto concerne il complesso industriale.
Il 28 gennaio del 2000, come ricorderete, gli Urali vennero scossi dalla notizia che gli uomini – armati – di Fedulev avevano preso possesso del complesso industriale suddetto. E, lo ricordo, su cinquantamila abitanti di Kačkanar, diecimila lavorano per quel complesso industriale dalla cui salute dipendono le sorti di un’intera città.
Come reagì il tribunale a quel dramma? Il primo febbraio del 2000 il giudice Rjazancev, del tribunale distrettuale di Kačkanar, esaminò l’istanza relativa a quanto accaduto qualche giorno prima. Che la riunione del consiglio direttivo si fosse tenuta a mitra spianati non venne giudicata una violazione della legge.
L’udienza fu un’udienza à la Balašov: fulminea, senza convocazione di coloro che avevano visto calpestati i propri diritti, senza preparazione alcuna. Va da sé che il verdetto venne emesso il giorno seguente.
Il 15 febbraio, a sole due settimane dall’ordinanza (e anche in questo caso si tratta di una velocità inaudita nell’iter giudiziario russo, dove di norma gli appelli richiedono almeno sei mesi), il Collegio giudiziario per i Casi civili del tribunale regionale di Sverdlovsk-Ekaterinburg (la parrocchietta di Ivan Ovčaruk) ratificò quanto deciso dal signor Rjazancev. Anche in questo caso senza perdere tempo a studiare i materiali e senza riscontrare «violazioni» di sorta.
Ma le vessazioni alla dea Themis non si limitano a questo. Onde evitare contrattempi, quello stesso 15 febbraio il tribunale distrettuale di Kačkanar nella persona del giudice Rjazancev emette un’ordinanza che vieta la convocazione degli azionisti del complesso industriale. Un’ordinanza atta a consolidare il successo degli occupanti.
La legge non consente nulla di simile. Il Codice di Procedura civile non contempla che si possa vietare alcunché a individui diversi dalle parti in causa.
Pensate, però, che i guardiani della legge di Sverdlovsk e provincia se ne siano dati pensiero? Certo che no. Il signor Rjazancev è stato forse sanzionato per il suo sprezzo della legge? È stato forse rimosso? Nossignori. Comandano i forti. E i tribunali dispongono a favore dei forti senza perdere tempo in verifiche, che in questo caso sarebbero consistite nel controllare se Fedulev fosse l’effettivo proprietario del complesso. Perché di fatto il diciannove per cento delle azioni del complesso di Kačkanar che Fedulev sbandierava come proprio in realtà non esisteva, era una truffa. Quel pacchetto azionario gli era stato confiscato da tempo in relazione all’inchiesta che contro di lui era stata aperta a Mosca. Ricordate che Fedulev era finito in prigione per frode ai danni di una società della capitale? La frode consisteva, giust’appunto, nell’aver venduto due volte a diverse società e persone il famigerato diciannove per cento delle azioni di Kačkanar, a garanzia del quale il giudice Rjazancev e il presidente Ovčaruk si erano affrettati a perdere quel poco di faccia che era loro rimasto.
Dal febbraio del 2000 molta acqua è passata sotto i ponti. La Corte Suprema ha cercato di impugnare le ordinanze farsa del tribunale di Sverdlovsk. E più di una volta. Ma nulla è cambiato nella vita reale. Fedulev si è tenuto Kačkanar. Quelli che ha abbindolato sono ormai all’estero, ben nascosti. E la pratica giudiziaria dei tribunali di Kačkanar e di Ekaterinburg si è arricchita di una sfilza di cause indotte dalla bancarotta del complesso industriale di Kačkanar. Come da copione.
Così facendo, e in quanto al soldo della criminalità locale, la magistratura della regione di Ekaterinburg ha reso possibile una serie di transazioni che, tutte assieme, hanno portato alla deliberata insolvenza del complesso. Un atto criminale, detto tra parentesi. Ma chi se ne cura?
Come abbiamo visto, dichiarando che non avrebbe tollerato alcuna ridistribuzione delle proprietà acquisite, una volta al potere Putin si è schierato proprio con gente come Fedulev e Rossel’. Vi siete accaparrati delle proprietà? Complimenti, la legge è dalla vostra e nessuno ve le porterà via. Il 14 luglio del 2000, a pochi giorni dalla sua prima nomina, Putin vola a Ekaterinburg e prende parte alla cerimonia solenne della posa della prima pietra dello Stabilimento 5000, presso il complesso metallurgico di Nižnij Tagil, il più grande del mondo. Personaggi e interpreti sono gli stessi di Kačkanar, con Fedulev al posto d’onore. E il 5000 è il maggiore investimento di Eduard Rossel’.
Lo spettacolo del «presidente che posa la prima pietra» fu un eccezionale semaforo verde per l’espansione criminale di Fedulev. Sull’onda di Putin arrivarono nuovi denari... Per ricambiare tanta munificenza, Fedulev e Rossel’ sostengono attivamente il loro presidente, garantiscono finanziamenti alla sezione locale del suo partito, Edinaja Rossija, e stanno dalla sua parte alle elezioni presidenziali della primavera del 2004.
Resta da aggiungere che, visto da fuori, il nostro Paese pare immerso in un regime di ineccepibile democrazia. Ha proclamato l’assoluta indipendenza della magistratura e la punibilità di qualunque ingerenza nel suo operato. La legge sullo «status dei giudici» è all’avanguardia e parrebbe garantirne l’autonomia...
La realtà, invece, è che i princìpi costituzionali e democratici vengono cinicamente violati senza conseguenze. L’illegalità è più forte della legge. Il tipo di giustizia che avrai dipende dalla classe a cui appartieni. Al vertice ci sono i VIP: la mafia e gli oligarchi. E gli altri? Gli altri niente.
Dal momento che stiamo costruendo il capitalismo, la proprietà privata ha diritto di esistere. E se c’è la proprietà privata ci sarà sempre qualcuno che vorrà metterci le mani e qualcun altro che non vorrà spartirla. È solo un problema di metodi. Di regole del gioco. Quello del nostro governo è un gioco sporco, corrotto, che segue le regole di Paška Fedulev, un tempo piccolo truffatore di Ekaterinburg, oggi oligarca degli Urali.
Un’altra breve scena prima che cali il sipario. Il 2003. Marzo. Ekaterinburg. In provincia la vita scorre lenta, tutto pare congelato. Ma sono diversi giorni, ormai, dal 25 al 28, che sulla piazza principale si tiene una dimostrazione di protesta. Sono gli attivisti del Centro Internazionale per i Diritti dell’uomo della regione di Sverdlovsk, del Comitato in Difesa dei diritti dei detenuti e di un’associazione chiamata Unione e Territorio di potere popolare. Raccolgono firme per richiedere l’immediata destituzione di Ivan Ovčaruk. Salmodiano che, con i suoi legami di vecchia data con la criminalità degli Urali, Ovčaruk è l’artefice degli arbìtri giudiziari e il principale oppositore della riforma della giustizia. Ovčaruk – e lo dicono a chiunque abbia orecchie per intendere – soffoca la democrazia e si opporrà strenuamente all’introduzione della giuria popolare nei processi, dichiarando che «non si confà agli interessi della popolazione di Ekaterinburg e provincia». Il suo scopo è uno solo: che non si pongano limiti al sistema giudiziario corrotto che ha messo in piedi per beneficare la criminalità degli Urali.
Ancora marzo 2003. Mosca, e non Ekaterinburg. Putin riconferma Ivan Ovčaruk alla carica di presidente del tribunale regionale di Sverdlovsk...
Qualcuno mette in dubbio che la mafia ha sette vite?
ALTRE STORIE DI PROVINCIA
PARTE PRIMA
IL VECCHIO DI IRKUTSK
L’inverno del 2002-2003, terzo anno di regno di Putin, è stato freddissimo. Un inverno critico. Siamo un Paese nordico, certo, abbiamo la Siberia, gli orsi, le pellicce e via dicendo, e dunque dovremmo essere in grado di affrontarlo, il freddo...
E invece ogni cosa, per noi, è un fulmine a ciel sereno, freddo compreso, ragion per cui la storia tremenda che segue è potuta accadere.
Irkutsk, cuore della Siberia, gennaio 2003. Un vecchio sull’ottantina, un semplice pensionato di quelli che il Pronto soccorso si rifiuta di aiutare (sono troppo vecchi, dicono, e alle richieste di aiuto rispondono: «Certo che non sta bene! E cosa crede? È l’età...»). Questo vecchio signore che viveva solo viene trovato morto, assiderato, sul pavimento di casa sua. Ipotermia. Era caduto ed era morto congelato. Aveva fatto la seconda guerra mondiale con tanto di ferite e medaglie per aver liberato il mondo dai nazisti, e in forza di ciò riceveva una pensione dallo Stato; era uno di coloro ai quali il presidente Putin manda gli auguri il 9 maggio, il giorno della Vittoria, augurando felicità e salute (e i nostri vecchi, i nostri reduci di cui lo Stato tanto poco si cura, ci piangono, su quelle lettere tutte uguali con la firma prestampata). Si chiamava Ivanov, il nome più comune in Russia, dove gli Ivanov sono centinaia di migliaia.
Il reduce Ivanov è morto congelato perché la sua casa non era riscaldata. Affatto. Mentre avrebbe dovuto esserlo, come tutti gli altri alloggi del condominio in cui il vecchio viveva. Come tutti i condomini della città di Irkutsk nel terzo anno di Putin alla guida del Paese.
Che cosa era successo? La spiegazione è semplice: in tutta la Russia i tubi del riscaldamento si erano usurati, in servizio com’erano dai tempi di quell’URSS sparita più di un decennio fa, grazie a Dio. Avevano gocciolato a lungo, quei tubi, senza che il Servizio manutenzione immobili intervenisse. La manutenzione è centralizzata, è un monopolio statale senza alternative possibili al quale siamo tenuti a versare ogni mese una discreta somma di denaro per niente, o meglio per un’assistenza tecnica che non riceviamo, per un’attenzione di cui non veniamo quasi degnati. Gli addetti non fanno il loro lavoro ma pretendono continui aumenti, che il governo concede e che noi siamo obbligati a corrispondere.
Alla fine, dopo aver gocciolato per anni senza mai una riparazione, i tubi suddetti erano scoppiati, e l’avevano fatto in inverno, con un freddo tremendo e senza possibilità di sostituirli... I tubi erano marciti (e c’era da aspettarselo), ma non avevamo con che sostituirli (questo, invece, non se l’aspettava nessuno, in quanto la Russia produce migliaia di chilometri di tubature all’anno). «Non ci sono soldi» proclamarono gli uomini del governo Putin allargando le braccia come se la cosa non li riguardasse. «Come sarebbe?» ribatterono fiacchi i politici che solitamente si ergono a paladini dei diritti civili... Basta. Finita lì. Senza scandali, senza dimissioni del governo, senza che il ministro preposto venisse rimosso.
E che sarà mai se la gente deve starsene in casa con pelliccia e stivali, mangiando e dormendo vestita? Che stringano i denti, e in estate sistemeremo tutto quanto...
Il presidente tirò pubblicamente le orecchie al primo ministro. I membri dell’opposizione fecero qualche discorso infuocato che il giorno dopo nessuno ricordava più. Né chi li aveva tenuti, né chi li aveva ascoltati...
E tutto continuò come prima. Gli uomini del Servizio manutenzione staccarono a colpi di piccozza il vecchio dal pavimento ghiacciato e lo seppellirono nella terra ghiacciata della Siberia. Senza giornate di lutto nazionale. E neppure cittadino.
Il presidente sembrava volerci convincere che il misfatto non fosse accaduto in casa sua, nel suo Paese e a un suo elettore. In occasione dei funerali – come anche prima e dopo – non aprì bocca. E il suddetto Paese mandò giù il suo silenzio. Per non perdere posizioni, Putin cambiò bersaglio e se ne uscì con un discorso di fuoco in cui ascriveva i mali della Russia – tutti quanti – ai terroristi, e in cui proclamava che la guerra al «terrorismo internazionale» in Cecenia doveva essere una priorità dello Stato...
Quanto al resto, la vita continuava ‘tranquilla’ come in era sovietica, quando i cittadini non erano tenuti ad avere grosse preoccupazioni né dovevano perdere tempo a pensare alle imperfezioni della realtà che avevano sotto gli occhi.
Arrivò la primavera. Fece capolino un timido sole. E il malessere suscitato da quanto accaduto andò dissipandosi. Quella primavera Putin cominciò i preparativi per le presidenziali del 2004. Dove non poteva esserci spazio per il rimpianto delle sconfitte subite, ma solo gioia per le vittorie riportate. Dalla primavera in poi, dunque, il Paese fu tutto un brulicare di festeggiamenti. Finanche in Quaresima.
Più si avvicinava l’estate, meno si parlava del collasso che le infrastrutture di distribuzione termica avevano patito in inverno. I cittadini, invece, venivano chiamati a gioire per l’imminente tricentenario di San Pietroburgo, e ad andar fieri dei palazzi dello zar freschi di restauri, perfetti per gettare fumo negli occhi dell’élite politica mondiale.
Esattamente ciò che accadde.
Putin invitò i leader del mondo a San Pietroburgo, violando con una tinteggiatura sconsiderata le facciate della capitale del Nord. Nessuno ricordò il vecchio di Irkutsk o i vecchi di San Pietroburgo. Nemmeno Putin. Quasi non fosse il presidente di un Paese in cui i vecchi muoiono assiderati in casa propria e stentano a mettere insieme il pranzo con la cena.
«Se fosse morto a Mosca...» mormoravano i politologi della capitale. «Allora sì che si sarebbe gridato allo scandalo e che i potenti avrebbero provveduto a sostituire i tubi per l’inverno seguente...».
Schroeder, Bush, Chirac, Blair e molti altri sono accorsi a Pietroburgo e hanno – di fatto – incoronato Putin a proprio pari. Ricevendo in cambio un’accoglienza degna del nostro ultimo imperatore.
L’inverno del 2002-2003, l’inverno dei colpi di piccone nella casa del vecchio di Irkutsk, è stato l’apice del regno di Putin senza che nessuno se ne rendesse conto. Perché? Putin ha scelto di fondare il proprio potere su piedi d’argilla, gli oligarchi, cassando dal suo schema la gente comune. Putin lega con i miliardari che si sono spartiti le riserve di petrolio e di gas e dichiara guerra al resto della popolazione, che non conta nulla. Mosca e le province sono come il Sole e la Terra. Il Sole significa calore, luce, vita. La Terra gira attorno al Sole. Orbite diverse, diversi percorsi.
PARTE SECONDA
LA KAMČATKA E LA LOTTA PER LA SOPRAVVIVENZA
La Kamčatka è il punto più estremo della Russia. Da Mosca sono più di dieci ore di volo. Gli aerei che percorrono la tratta fino a Petropavlosk-Kamčatskij sono poco confortevoli e il lungo volo induce a riflettere sulle dimensioni della nostra Patria complicata e sul fatto che a Mosca viva solo uno sparuto gruppo di nostri connazionali che, però, portano avanti i loro giochi politici elevando e abbattendo idoli, convinti di controllare un Paese enorme...
La Kamčatka è un buon posto per capire quanto lontana sia la provincia dalla capitale. E non c’entrano le distanze. La provincia vive in modo diverso, respira in modo diverso. Ma la Russia vera è lì.
Il capitano Dikij
In Kamčatka ci sono tanti marinai quanti pescatori, o forse di più. Nonostante i massicci tagli alle Forze Armate, il principio resta lo stesso: a vincere le elezioni sarà colui per il quale voteranno gli uomini della Flotta del Pacifico di stanza in Kamčatka.
Come in tutte le città di mare, a farla da padrone sono il blu e il nero dei giacconi, delle maglie, dei berretti. Quel che manca, invece, è l’eleganza che ha sempre contraddistinto la Marina. I giacconi sono lisi, le maglie scolorite dai troppi lavaggi, i berretti sbiaditi.
Aleksej Dikij comanda un sottomarino atomico antisommergibile, il Viljučinsk. Fa parte dell’élite della Flotta del Pacifico. E il Viljučinsk con lui.
Dikij ha avuto un’istruzione eccellente a Leningrado, l’odierna San Pietroburgo. Dopo di che, da ufficiale ricco di talento, è salito a grandi passi lungo la scala gerarchica, arrivando a essere – a soli trentaquattro anni – un qualificatissimo ufficiale sommergibilista, di quelli che nel resto del mondo hanno stipendi da migliaia di dollari. Al momento il capitano di prima classe Aleksej Dikij fa la fame. Non c’è altro modo di dirlo. Pare piuttosto un barbone o un fallito.
La sua casa è uno squallido ostello degli ufficiali con le scale scrostate, semideserto e tremendo come la Harlem del tempo che fu, quella dei film americani con i gangster. Chi ha potuto se n’è andato «sul continente», gettando alle ortiche la carriera militare. Molte finestre sono buie: non ci abita più nessuno, lì dentro. Freddo, fame, disagio. È dalla miseria che è fuggita la gente. Il capitano Dikij ci racconta che spesso, quando il tempo è bello, lui e gli altri ufficiali vanno a pescare per mettere qualcosa di decente nel piatto.
Sul tavolo della cucina c’è quanto la Patria gli elargisce per anni di irreprensibile servizio. Dikij ha appena riportato a casa, avvolto in un lenzuolo del demanio, ciò che spetta mensilmente a un capitano. Due pacchetti di piselli secchi decorticati, due chili di grano saraceno e riso in sacchetti di carta, due lattine di piselli in scatola dei più economici, due lattine di aringhe del Pacifico e una bottiglia di olio di semi...
«Tutto qui?».
«Tutto qui». Dikij non si lamenta, prende atto senza fare commenti. È un uomo forte, un uomo vero. Un russo vero. È abituato alle privazioni. Serve la sua Patria, lui, e non chi è al potere in un determinato periodo. Se la pensasse diversamente se ne sarebbe andato da un pezzo. Invece accetta tutto, anche la fame. Perché una razione di quel tipo significa solo fame.
Quel cibo è per una famiglia di tre persone. La moglie Larisa è un radiochimico con laurea al prestigioso Istituto di Chimica e Ingegneria di Mosca (MIFI), i cui allievi pare vengano corteggiati dalle aziende della Silicon Valley sin dai banchi di scuola.
Larisa, però, che vive con il marito nella cittadella militare della flotta, non lavora, perché nessuno si cura di questi ‘dettagli’, né lo Stato Maggiore della Marina Militare, né il ministero della Difesa. La politica di arruolamento delle truppe è tale che chi vi è preposto non vede nemmeno l’oro che calpesta. Larisa non può neppure insegnare alle scuole elementari: non ci sono posti liberi e la lista d’attesa è lunghissima. La disoccupazione tra il personale non militare sfiora il novanta per cento.
Il terzo membro della famiglia del capitano Dikij è la figlia Alisa, che fa la seconda elementare. Anche la sua vita è tutt’altro che invidiabile. In una cittadella militare non c’è nulla che possa sviluppare le inclinazioni di una bambina e dei suoi coetanei. Niente palestre, niente posti dove ballare, niente computer... L’unica cosa su cui possono contare i figli dei militari è un cortile squallido e sporco e una casa con un videoregistratore e qualche cassetta di cartoni animati.
La Kamčatka è all’altro capo del mondo e dell’insensibilità dello Stato: da un lato le tecniche più perfezionate di distruzione umana, e dall’altra un livello di vita da cavernicoli per chi le gestisce. Tutto si fonda sull’entusiasmo dei singoli e sull’amore per la Patria. Niente soldi, niente gloria, niente futuro.
Il posto dove vive il capitano Dikij si chiama Rybač’e ed è a un’ora di macchina da Petropavlovsk-Kamčatskij, la capitale della penisola di Kamčatka. Con i suoi ventimila abitanti Rybač’e è forse la cittadella militare chiusa più famosa al mondo. È anche il simbolo e il vessillo della flotta nucleare russa: dotata degli armamenti più moderni, ospita lo scudo nucleare che protegge la Russia da est. E tutti coloro che lo mantengono in funzione.
Il sottomarino del capitano Dikij è una delle componenti essenziali dello scudo nucleare, e il capitano con lui. Il Viljučinsk, un’arma tecnicamente perfetta e senza eguali nel resto del mondo, è in grado di distruggere intere flotte di superficie e i migliori sottomarini esistenti, compresi quelli americani. Agli ordini di Dikij c’è un’arma nucleare eccezionale e un impressionante arsenale di siluri. Fino a che il sottomarino non ha problemi, la Russia è invulnerabile, per lo meno sul fronte dell’Oceano Pacifico.
Il capitano Dikij, invece, lo è. È vulnerabilissimo. E il primo ad approfittarne è lo Stato per cui presta servizio. Il capitano del Viljučinsk, però, non ci pensa. Come molti altri ufficiali, si arrabatta per sopravvivere senza l’ombra di un quattrino. Gli stipendi sono bassi e può capitare – capita spesso, in realtà – che vengano pagati con un ritardo che arriva a sei mesi (mentre sto scrivendo sono cinque mesi che non vedono un soldo, da quelle parti).
Come fa Dikij a sopravvivere? In questo modo. Quando non ha soldi, rinuncia a mangiare a bordo (cosa che gli ufficiali sarebbero tenuti a fare), porta a casa il pasto che gli spetta e lo divide con il resto della famiglia. Non c’è altra soluzione. La conseguenza è che Dikij è ridotto all’ombra di se stesso. Scheletrico ed emaciato, il suo viso ha un colorito grigiastro e il perché è evidente: il capitano della principale componente dello scudo nucleare russo ha la pancia vuota.
Va da sé che anche la presenza costante di radiazioni fa la sua parte. Ma se negli anni passati tutto questo comportava un ritorno in denaro e rendeva i sommergibilisti degli ottimi partiti, ora le cose sono cambiate e le ragazze da marito non li prendono nemmeno in considerazione.
«Ma non è la miseria la cosa peggiore» afferma Dikij. Un uomo ascetico, un romantico senza un soldo. Un ufficiale fino al midollo. Un santo, quasi, in un’epoca in cui la scala dei valori viene ricalcolata secondo il linguaggio cinico del dollaro. «La miseria si sopporta, se si hanno un fine e uno scopo militare evidenti. La vera disgrazia è un’altra: la precarietà della flotta nucleare del nostro Paese, la totale assenza di prospettive. Pare che a Mosca non si rendano conto che con certe armi non si scherza. Se i finanziamenti resteranno quelli attuali, tra dieci anni a Rybač’e o non ci sarà più nulla o alle nostre banchine farà rifornimento la NATO».
Per sfuggire alla desolazione di quanto accade sotto i suoi occhi, Dikij ha deciso di continuare a studiare, di iscriversi all’Accademia di Stato Maggiore. Vuole scrivere una tesi sullo stato della difesa nazionale russa tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. Lo scopo che si prefigge è di dare una risposta scientificamente fondata a una domanda che lo assilla: chi ha interesse a ridurre allo stremo la sicurezza nazionale russa?
Al momento le sue deduzioni non scagionano la capitale. Ma il capitano non nutre rancore o risentimento. La sua logica è più o meno la seguente: certo, è assurdo che Mosca si comporti in questo modo, ma noi non possiamo farci niente. Noi dobbiamo resistere, perché siamo più forti e più intelligenti di chi ci comanda.
Il lavoro del capitano Dikij fa sì che la sua vita non gli appartenga. Il capitano non può far nulla di quel che fanno gli altri. Essendo tenuto a presentarsi in cinque minuti sul sottomarino in caso di ordine, non può allontanarsi mai. Dev’essere sempre reperibile. E allora niente gite nel bosco per raccogliere bacche e funghi, niente battute di pesca e niente passeggiate con gli amici. La sua vita è quella che ha accettato di fare, e non può delegarla a nessuno. Deve restare con i suoi ufficiali, affinché non si perdano d’animo in tempi difficili come gli attuali. Deve farsi vedere in caserma per capire in tempo come se la passano i marinai. Deve fare tutto questo e anche di più.
Quel che ne consegue è che non ha tempo – invece – di fare quello che oggigiorno fanno altri ufficiali, ossia trovarsi un secondo impiego per sfamare la famiglia e comperare i vestiti o l’uniforme (non stupitevi: buona parte degli ufficiali devono comprarsela da soli, la divisa). Nelle poche ore libere che ha, il capitano Dikij è costretto (proprio così, è costretto) a riposarsi, a dormire, a calmare i nervi – che non possono non cedergli con una vita del genere – per non arrivare al sommergibile carico come una molla. È un divieto assoluto: alle conseguenze di un’eventuale nevrastenia potrebbe non esserci rimedio.
«Quando sono in servizio devo essere tranquillo ed equilibrato» mi spiega Dikij. «Come se fossi appena tornato dalle vacanze. Come se tutto fosse a posto. Come se non mi dovessi preoccupare di come sfamare mia moglie e mia figlia l’indomani...».
«Lei mi dice che “deve” essere tranquillo. Non è che sbaglia a impostare la questione? Lei serve lo Stato, e dunque è lo Stato che dovrebbe creare le condizioni necessarie affinché lei arrivi al lavoro tranquillo ed equilibrato. O sbaglio?».
Uomo di vecchio stampo, Dikij abbozza un sorriso condiscendente che non capisco a chi è rivolto, se a me che gli pongo certe domande o allo Stato che se ne frega di coloro che lo servono... No, è per me.
«Lo Stato non può farlo, al momento» dice infine il capitano. «Non può e basta. Come si può pretendere qualcosa che non esiste? Io sono realista e non mi arrabbio facilmente. Gli arrabbiati e i sentimentalisti se ne sono andati da un pezzo. L’hanno lasciata, la Marina».
«Però continuo a non capire perché non se n’è andato anche lei... Lei è un esperto del nucleare, è ingegnere. La troverebbe, un’occupazione degna».
«Non posso. Non posso lasciare la mia nave. Sono un comandante, non un marinaio. Non potrebbero sostituirmi. Mi sentirei un traditore, se me ne andassi».
«Ma è lo Stato che ha tradito lei!».
«Verrà il giorno in cui anche lo Stato metterà giudizio. Fino ad allora ci vuole pazienza. Bisogna aspettare. E difendere la flotta. Ed è quel che sto facendo. Anche se il ministero della Difesa fa una politica sleale. Ma io servo il mio Paese, io difendo la gente, non i burocrati».
Questo il ritratto di un sommergibilista russo di oggi, un uomo che se ne sta alla periferia del Paese, che resta fedele al suo giuramento e che ogni giorno tappa le falle con il suo stesso corpo. Perché non gli resta altro da usare allo scopo.
Per poter svolgere le sue mansioni nelle condizioni di profondo disagio finanziario delle Forze Armate, al comandante si richiede una dedizione totale. Il capitano Dikij esce di casa alle 7.20 in punto e torna alle 22.40. Ogni giorno. Quindici ore e anche di più a bordo del suo sottomarino. Non ha altra scelta: la Marina sta andando a pezzi sotto i suoi occhi, e quando la tecnologia non viene assistita adeguatamente tutto può succedere, compreso l’irreparabile. L’unico rito rimasto immutato è l’alzabandiera. Si celebra ogni mattina alle 8 in punto. Qualunque cosa accada: uragani, bufere di neve, incidenti, cambi al governo.
Il tragitto da casa sua al molo del Viljučinsk, Dikij lo percorre a piedi, in quaranta minuti esatti. E non perché voglia tenersi in esercizio, ma in primo luogo perché non ha l’automobile (non se la può permettere) e in secondo perché la Marina non gli fornisce altri mezzi di trasporto. O meglio, glieli fornirebbe anche, ma sono costretti in deposito. Come tutta la Kamčatka, anche la flotta a cui fa capo il sottomarino Viljučinsk è a corto di combustibile. Non c’è benzina. Un’assurdità per un Paese che vende petrolio a destra e a manca! E il pane? La guarnigione è perennemente in debito con il panificio locale, che tuttavia – per fortuna – non ha smesso di fornirgliene...
Riuscite a immaginarvelo? Gli addetti allo scudo spaziale di un Paese che pretende di essere definito una superpotenza vivono della carità altrui.
Personalmente, io me ne vergogno. E il presidente? Come si sente ai summit del G8?
Passi che gli ufficiali di Rybač’e vadano a piedi al lavoro ogni mattina. Strada facendo, però, le loro voci sono come un ronzio di api furiose. Il punto dolente è sempre lo stesso: quanto possono reggere ancora? In quale abisso stanno precipitando?
Le discussioni politiche si accendono di fronte a quello che vedono lungo il tragitto. Se, per esempio, prendono per il molo 5 dove è attraccato il Viljučinsk, hanno di fronte l’isola di Chlebalkin, dove si trova un cantiere navale ormai dismesso. Un paio d’anni fa, forse tre, lì stavano alla fonda per manutenzione anche quindici o sedici sottomarini contemporaneamente. Ora l’acqua è una tavola e il cantiere non ha neanche un ‘malato’. «Tutta colpa della crisi» è stato detto agli ufficiali, che due volte al giorno – all’andata e al ritorno – osservano lo spettacolo di quelle banchine in agonia.
«Uno spettacolo tremendo» dice Dikij. «Sappiamo bene che cosa significa... Tutto si paga. Le nostre macchine devono essere riparate. Non possiamo aspettare la manna dal cielo. I sottomarini sono come gli anziani: hanno bisogno del medico. Devono capirlo, a Mosca. O gli incidenti saranno inevitabili».
Lo sfacelo della flotta ha totalmente demotivato alcuni ufficiali di Rybač’e. Altri sono finiti allo sbando. Alla guarnigione si è visto di tutto negli ultimi tempi. Persino qualche suicidio e dei comportamenti sconsiderati.
«Secondo me questa situazione sta inasprendo gli ufficiali» racconta Dikij. «Per questo insisto affinché siano tutti presenti all’alzabandiera delle 8. L’equipaggio deve guardare negli occhi il proprio comandante e leggervi che è tutto in ordine, che il lavoro va avanti. Nonostante tutto. A dispetto di tutto».
«Stronzate da ufficiali! Belle parole per testoline romantiche!» obietterà qualcuno. A ragion veduta, ma non del tutto. Sono davvero belle parole, ma gli ufficiali che non hanno ancora girato le spalle a una flotta allo sbando e continuano a svolgere le proprie complicatissime mansioni, lo fanno solo perché quelle belle parole sono la loro ancora di salvezza. È gente con ideali e princìpi saldi, e dunque restano. Non c’è altro su cui possano contare. La loro è una vita durissima, molti sono al limite, anche solo perché hanno conosciuto una vita diversa che speravano di poter continuare: se avevano scelto i sottomarini era stato per una questione di prestigio, nella speranza di una carriera fulgida e di stipendi consistenti.
La vita reale è diversa da quella dei film e dei libri, e a Rybač’e sublime e ridicolo si danno il braccio.
«Senta, ma come si fa a vivere come suo marito? Una persona deve potersi riprendere la propria vita!».
Larisa, la moglie di Dikij, è una bella donna sorridente nata a Žitomir, in Ucraina, una donna che ha sacrificato la propria vita e che vive in miseria affinché il marito possa compiere il proprio dovere. Mi risponde allegra e provocatoria:
«A me, invece, questa vita piace. Almeno so sempre dov’è mio marito! Lui non può filarsela, e dunque addio gelosia!».
Dikij sorride imbarazzato, pare uno scolaretto a cui la più bella della scuola ha appena fatto la dichiarazione. Il capitano è timido, dunque. Arrossisce. A me, invece, viene da piangere. Ho chiaro in testa che il gravoso onere di responsabilità di cui si fa carico non è compatibile non solo con il suo stile e il suo modo di vivere, ma anche con l’età e l’aspetto.
A casa, tolta l’uniforme, il capitano Aleksej Dikij è smunto e triste come i primi della classe... E ha solo trentaquattro anni.
«Però lei ha già maturato trentadue anni di servizio! Potrebbe andarsene tranquillamente in pensione».
«Potrei, certo...» mi risponde il capitano, e l’imbarazzo riaffiora.
«Mi spieghi, per cortesia. Non è mica entrato in Marina a due anni, come i figli dell’aristocrazia di un tempo, arruolati alla nascita e con un discreto curriculum e i gradi appena maggiorenni?» insisto.
Il capitano sorride. È felice di dirmi quello che sta per dire, si vede. Il padre era stato anche lui ufficiale di Marina. Ora è in pensione, è ovvio. Dikij è cresciuto a Sebastopoli, nella base navale del Mar Nero.
«Quanto ai miei trentadue anni di servizio su trentaquattro di vita...» esordisce, subito interrotto dalla spigliatissima moglie:
«La spiegazione è semplice: ha sempre prestato servizio nel settore più difficile, i sottomarini, a stretto contatto con i reattori e gli armamenti nucleari. Dove un anno vale per tre».
«E non crede che anche solo per questo lo Stato avrebbe dovuto coprirla d’oro da un pezzo?» non demordo. «Non si sente insultato quando è costretto a dividere il suo rancio per tre? Come un qualunque studente?».
«No. Non mi sento insultato» mi risponde Dikij tranquillo, convinto. «Battere gli spadini contro il selciato [simbolo di sciopero] come si faceva un tempo non ha senso, per noi sommergibilisti. Siamo tutti sulla stessa barca, in questa città chiusa. Se sopravviviamo è perché ci aiutiamo a vicenda. Prestandoci e riprestandoci denaro e cibo gli uni con gli altri».
«Se qualcuno riceve un pacco di cibarie dai parenti, organizza subito una festicciola» mi dice Larisa. «Facciamo il giro delle case. E così riusciamo a mettere qualcosa sotto i denti. E a tirare avanti».
«Anche i suoi le mandano qualcosa dall’Ucraina?».
«Certamente. E allora siamo noi a sfamare gli amici».
E ride...
Ha ragione il detto: di certa gente hanno buttato via lo stampo...
È curioso. Passano gli anni, il Partito comunista non c’è più da un pezzo, ma alcune peculiarità del passato restano immutate. Come la patologica mancanza di rispetto per le persone in generale e, in particolare, per chi, nonostante tutto, lavora con dedizione e sacrificio. Per chi ama la causa che serve. Il potere non ha ancora imparato a ringraziare chi gli dimostra fedeltà. Lavori duro? Bravo, continua fino a che non crepi o fino a che non ne puoi più di sopportare. Il potere si fa di giorno in giorno più spudorato nel voler annientare i nostri migliori concittadini e nel puntare sui peggiori con la pervicacia di un maniaco.
Non c’è dubbio che il comunismo sia stato un danno tremendo per il nostro Paese. Ma quel che sta accadendo oggi è ancora peggio.
Con il capitano Dikij continuiamo a parlare dei massimi sistemi sul ponte di comando del sottomarino Viljučinsk. A Rybač’e l’accesso è severamente vietato agli estranei e ai curiosi. Nemmeno le mogli degli ufficiali possono mettere piede sui moli. Stranamente, per me fanno un’eccezione.
Il profilo rapace e combattivo del Viljučinsk è evidente già dalla riva. A prua, bianco su nero, c’è un disegno di forte impatto: le fauci spalancate di un’orca con tanti denti quanti un’orca vera non si è mai sognata di avere (l’artista deve averla voluta rendere ancora più minacciosa). L’orca non è un caso: in origine il sommergibile si chiamava kasatka, orca assassina, ed è stato ribattezzato solo di recente. Nessuno degli ufficiali ricorda perché, ma non se ne curano più di tanto.
Il giro sul Viljučinsk mi conferma perché mi abbiano ammessa a bordo. Sto camminando lungo il cratere di un tremendo vulcano che, Dio non voglia, potrebbe essere alimentato in modo improprio... Un reattore atomico e dei missili nucleari sono una miscela esplosiva. Cosa ci può essere di più spaventoso di un sottomarino carico di armamenti atomici in condizioni di profondissima crisi economica e di sbando delle Forze Armate?
Mentre continuiamo il giro, Dikij non recede dalle sue posizioni, fino a risultare quasi pedante in materia ideologica. Quali che siano i rivolgimenti nella società civile, le Forze Armate non tollerano compromessi. Dikij rifiuta categoricamente la possibilità di non obbedire a un «ordine criminale», una tendenza che, invece, ha preso piede nell’esercito dal 1991. Basta un cedimento, basta non eseguire una sola disposizione o un solo ordine – per quanto lo si possa ritenere sciocco o intempestivo – perché tutto crolli come un domino. L’esercito infatti è una piramide, e l’effetto domino sarebbe inevitabile.
Una curiosità. Sia Dikij sia coloro che intervengono nella conversazione – tutti ufficiali in servizio attivo con le uniformi cariche di onorificenze per le lunghe missioni sui sottomarini – distinguono fra due concetti. Da una parte c’è la Patria, che loro servono, e dall’altra Mosca, con la quale sono ai ferri corti. La Russia e la sua capitale, mi dicono, sono due Paesi differenti.
Gli ufficiali parlano senza remore. A vederlo dalla Kamčatka, quello che accade nelle alte sfere delle Forze Armate è assurdo. Perché il ministero della Difesa insiste a non stanziare fondi per la manutenzione della flotta sottomarina, pur sapendo che effettuarla sul posto con le risorse disponibili non è possibile ed è, anzi, rigorosamente vietato? Perché depenna senza alcuna pietà sommergibili di dieci-quattordici anni che possono ancora navigare a lungo? Perché, infine, trasforma intenzionalmente in un colabrodo quello scudo atomico messo insieme con gli sforzi di un’intera nazione? In un momento, fra l’altro, in cui la minaccia dal mare esiste, data la presenza di un gran numero di sottomarini cinesi in acque territoriali russe...
Ad accompagnarmi nella mia perlustrazione del Viljučinsk non è solo il capitano Dikij, ma anche la persona più importante del luogo, il viceammiraglio e comandante delle Forze Armate del Nord-Est del Paese Valerij Dorogin (che di recente ha lasciato la Marina ed è stato eletto alla Duma).
Gli ufficiali parlano apertamente, senza inibizioni dovute alla presenza di un superiore. Non colgo pressioni imputabili alla gerarchia o a questioni di rango, consuete tra i militari.
Ciò si deve, in larga misura, al fatto che Dorogin è anche lui un figlio di Rybač’e. Ufficiali e comandante non hanno nulla da nascondersi. Dorogin ha prestato servizio in questa cittadella chiusa per quasi vent’anni. E per lungo tempo ha comandato un sottomarino, proprio come Dikij. Ora a Rybač’e c’è il figlio Denis, che come tutti gli altri ogni mattina deve raggiungere il molo a piedi. Che come tutti gli altri ha sotto gli occhi lo sfacelo. Che come tutti gli altri non ha mezzi di sussistenza. E aspetta paziente che qualcuno lo inviti e lo ‘sfami’.
Il raggruppamento militare del Nord-Est comprende la Kamčatka, la Čukotka e la regione di Magadan, ed è nato in seguito ai massicci tagli alle Forze Armate. Simili agglomerazioni erano già esistite prima del 1917 e negli anni Trenta, con i bolscevichi.
Ogni raggruppamento ha un elemento dominante, è inevitabile. In Kamčatka, sede dello scudo nucleare, sono i sommergibilisti, ed è per questo che a capo dell’intera formazione c’è un viceammiraglio, ai cui ordini rispondono anche la fanteria e le truppe dislocate sulla costa, l’aviazione e la contraerea. Da principio c’era stato qualche malumore e qualche mugugno, che poi, però, si erano sopiti. Il merito va soprattutto a Dorogin, che da queste parti è una leggenda.
Il viceammiraglio ha dato alla Marina trentatré anni di vita. Ma ha un’anzianità di servizio di quarantotto, che deve ai ventun anni trascorsi sui sommergibili.
Fra l’altro, la leggenda di Dorogin non si basa sul suo passato militare, ma sul suo presente. Dorogin vive a Petropavlovsk-Kamčatskij e fino a qualche tempo fa il suo stipendio era quello del responsabile di un’area militare enorme, della persona che più contava dopo i governatori delle tre regioni più vaste della Russia, vale a dire tremilaseicento rubli. Un centinaio di dollari... Oggi, oltre alla pensione, il viceammiraglio ha in tasca un cinquemila rubli al mese. Tanto per fare un paragone, chi guida gli autobus di Petropavlovsk-Kamčatskij ne guadagna seimila...
Dorogin vive nell’appartamento che gli fornisce l’esercito, in via Morskaja. E come tutti gli altri ufficiali, neanche lui ha l’acqua calda. La sua casa è fredda, piena di spifferi, poco confortevole.
«Perché non si compera un boiler?».
«Non ho i soldi. Quando arriveranno, ce ne compreremo uno».
Ciò che Dorogin ha di più caro è la reputazione. Fa una vita ascetica. Il suo alloggio non è vuoto, certo, ma non è neanche una casa degna di un ammiraglio. Le cose più preziose sono tutte nel suo studio. Sono le reliquie delle navi che hanno prestato servizio in Estremo Oriente e che ora sono in disarmo. La sua più grande passione è la storia della Marina Militare.
«E la casa in campagna? Ce l’ha la dacia? Gli ammiragli ce l’hanno tutti!».
«Certo che ce l’ho» risponde Dorogin. «E vedesse che dacia! Domani ce la porto, altrimenti non mi crede...».
L’indomani arriva, e mi trovo davanti un fazzoletto di terra alla periferia di Petropavlovsk-Kamčatskij con piante di patate e cetrioli: le verdure di cui la famiglia dell’ammiraglio si nutrirà l’inverno prossimo. In mezzo all’orto, su qualche pila di mattoni, c’è un vagone dismesso. Una vergogna, se paragonata agli standard di vita di un comandante come se li immagina la capitale.
Ma la Kamčatka non è Mosca. Qui tutto è più semplice, tutti sono più cordiali. Dei pescatori mi regalano il pesce che hanno appena pescato: salmoni. Non saprei dove cucinarli e li cedo a Galina, la moglie del viceammiraglio, ma non senza un po’ di imbarazzo, supponendo che gliene portino a tonnellate...
E invece succede l’inimmaginabile: Galina mi è talmente grata che scoppia in lacrime. Nella sua vita di stenti quei salmoni sono una grossa fortuna. Potrà prepararci la cena, potrà invitare gli amici e potrà anche mettere un po’ di pesce sotto sale. Tanto più che piove sul bagnato: alcuni salmoni nascondono un tesoro di caviale rosso!
Galina Dorogina mi racconta che, avendo vissuto sempre in Kamčatka, lei e le altre mogli di ufficiali hanno visto ben poco.
«La nostra vita è trascorsa tra addestramento, missioni, brevi incontri e lunghe separazioni» mi dice.
Ma non ha rimpianti, Galina, non rimpiange nemmeno di aver sacrificato i suoi anni migliori.
«Vede, in realtà per le mogli degli ufficiali è cambiato ben poco. Se vent’anni fa dovevo starmene tutto il giorno in fila, al freddo, affamata, con il numero scritto sul dorso della mano per non perdere il posto e riuscire a comperare una dozzina di uova, oggi è lo stesso, con la sola differenza che adesso le uova ci sono e i soldi no».
La forma mentis del marito, il viceammiraglio Dorogin, è un miscuglio di comunismo e capitalismo. E non potrebbe essere altrimenti, forse, per un uomo che ha passato i cinquanta e ha trascorso quasi tutta la sua vita in Unione Sovietica, che è stato nel komsomol e ha avuto la tessera di partito, e che ora deve vivere in una società di mercato. Da un certo punto di vista Dorogin è un uomo di idee ormai superate, appartiene alla vecchia ideologia scomparsa insieme all’URSS. Da un altro, invece, il viceammiraglio comprende perfettamente le pulsioni democratiche e perché siano tanto necessarie.
Ma qual è, tra i due, il polo ideologico della sua anima? In quale il viceammiraglio si sente a proprio agio? Difficile dirlo. Ma ci provo.
Le responsabilità di Dorogin in Kamčatka spaziano dai sommergibili alla creazione di un museo militare. Un solo esempio del suo modo di pensare.
Il raggruppamento militare del Nord-Est comprende anche la 22a divisione motorizzata Čapaev, cosiddetta in quanto fu proprio il leggendario eroe della Guerra Civile, Vasilij Čapaev, a metterla insieme nel 1918, nella regione del Volga. Ci combatteva anche la sua donna, la bolscevica Anka, poi protagonista di centinaia di barzellette di dubbio gusto.
Dopo la seconda guerra mondiale la divisione Čapaev venne trasferita in Estremo Oriente, e oggigiorno deve la sua fama in Kamčatka al fatto che la sua prima compagnia conserva la «branda di Lenin», leader del proletariato mondiale. Nel 1922, infatti, Lenin era stato nominato soldato onorario della divisione Čapaev, e come tale gli spettava una branda. Dal 1922, dovunque venisse dislocata la divisione, la branda di Lenin viaggiava insieme al resto dell’equipaggiamento. Ancora oggi ha il suo posto d’onore in caserma. Il letto è sempre fatto e ha accanto un angolo dedicato a Lenin con disegni sul tema «Volodja [diminutivo di Vladimir ] era un bravo studente». Gli oggetti sono tutti schedati e registrati in un modulo conservato in un luogo segreto.
Il comandante della prima compagnia – Igor’ Šapoval, ventisei anni – è convinto che la branda tenga in riga i soldati.
«Scherza?».
«No no. Vedono il letto rifatto alla perfezione e non vogliono essere da meno».
Mi verrebbe da ridere, ma poi mi rendo conto che il viceammiraglio Dorogin la pensa come il capitano Šapoval.
«La meraviglia delle reclute diventa presto rispetto» mi dice Dorogin. «Quando a Mosca ha vinto la democrazia, hanno tentato di sbarazzarsi anche della branda. Ma alla fine l’abbiamo spuntata noi. Non come il monumento a Dzeržinskij, sulla Lubjanka».
Dorogin è convinto che nulla debba essere modificato dal di fuori. La storia è quella che è, e buttar giù il monumento a chi ha creato la polizia segreta non è stata una scelta intelligente, secondo lui. È anche persuaso che, in quanto destinata alla divisione Čapaev da un’ordinanza speciale del Consiglio dei commissari del Popolo, la branda di Lenin potrebbe finire in una discarica solo a seguito di una delibera del governo sottoscritta dal primo ministro.
Chiedo a tutti quale esempio dovrebbero essere chiamati a seguire i soldati in Kamčatka. Mi risponde il tenente colonnello Valerij Olejnikov, attuale comandante della divisione Čapaev.
«L’esempio di chi ha combattuto in Cecenia e in Afghanistan».
In precedenza al comando della prima compagnia, la ‘leninista’, c’era proprio un ‘ceceno’, l’allora tenente Jurij Bubnev che per aver combattuto a Groznyj ha ricevuto la medaglia di Eroe della Russia.
Continuiamo a parlare di esempi da seguire. Mi permetto di dubitare che la Cecenia sia un esempio valido per educare i soldati... Dorogin si taglia fuori dalla discussione come è bene che faccia in quanto alto ufficiale: lui è chiamato a servire il Paese e, per principio, le sue opinioni politiche non dovrebbero interessare a nessuno. Quindi non si pronuncia. Parla volentieri del futuro, invece: l’ideologia è una cosa, i tagli all’esercito un’altra. Agli ufficiali sembra di stare seduti su una polveriera.
«Siamo consapevoli che in qualunque momento lo Stato potrebbe sbarazzarsi di chi lo ha sempre servito fedelmente» ritiene Aleksandr Ševčenko, capo di Stato Maggiore della divisione. Gli altri ufficiali la pensano come lui, e anche Dorogin. Nessuno dei probabili smobilitati ha qualifiche civili corrispondenti al rango attuale, né – ovviamente – avrebbe dove vivere. Lasciare l’esercito significherebbe lasciare l’alloggio fornito dallo Stato. Igor’ Šapoval è un ingegnere esperto in manutenzione di cingolati. Ševčenko è un esperto di lavorazione a freddo dei metalli. Se lasceranno l’esercito finiranno ad aggiustare trattori e a fare duplicati di chiavi. Ševčenko ha già dei trascorsi nell’imprenditoria privata: per due dei tre anni passati all’Accademia, a Mosca, ha arrotondato le entrate come guardiano al deposito di un fiorista, alternandosi ogni quattro giorni con i suoi compagni di corso.
A Mosca – dicono in Kamčatka –, al ministero della Difesa, non capiscono che un ufficiale dovrebbe dedicarsi esclusivamente alle sue mansioni di militare e non perdere tempo in secondi e terzi lavori.
«In queste condizioni cedere all’illegalità è fin troppo facile» dice il viceammiraglio. «Anche a me hanno offerto una busta con duemila dollari dentro. Era un tipo mandato da un amico. “So che ti servono soldi per curare tua moglie” mi disse, cercando di ammantare il tutto di un alone di rispettabilità. Era vero, fra l’altro. Voleva che firmassi un contratto per vendergli ottone di scarto a quattrocentocinquanta dollari a tonnellata invece che settecento. La mia firma sarebbe stata l’ultima di una lunga serie apposta dagli alti gradi dell’esercito. Avrei potuto limitarmi a cacciarlo, quel tale, e invece ho fatto intervenire il procuratore. Pensando di poter essere d’esempio a qualcun altro, che avrebbe smesso di accettare mazzette».
Per molti versi Dorogin è la bontà fatta persona. Come molti altri ufficiali, non serve il proprio Paese per soldi, ma per senso del dovere. Sono rimasti solo quelli come lui, quaggiù, alla fine del mondo, solo quelli di sani princìpi. Tutti gli altri, il nostro Paese li ha persi per strada, la strana strada che sta percorrendo.
Nessuno può sapere quanto durerà la pazienza di gente come Dikij e Dorogin. Non lo sanno nemmeno loro. Oggi la flotta si regge su due generazioni di ufficiali: la vecchia e quella di mezzo. Mancano i giovani. Non ci arrivano, quaggiù, e se ci arrivano non si rassegnano all’idea di doversi sacrificare per un lavoro che non dà nulla in cambio. Dunque quali ufficiali avrà la flotta tra qualche anno?
«Il patriottismo?» sorride cinico un giovane capitano di seconda classe di Rybač’e, ufficiale sul sottomarino Omsk. «Anche il patriottismo va pagato. È ora di smetterla di fare i poveracci. È ora di alzare la testa e di finirla di annaspare come fa Dikij. È un comandante, lui, e invece porta scarpe da ginnastica da poco prezzo e beve cognac da due soldi. Quel che sta succedendo nella flotta è illegale, e allora occhio per occhio!».
«Che cosa intende?».
Il giovane ufficiale intende uno stile di vita in cui il fine giustifica i mezzi. Dice che i suoi coetanei commerciano tutti sottobanco: vendono qualunque cosa, dipende solo dalle conoscenze.
«A me, per esempio,» mi dice con una punta di orgoglio «pesce e caviale me li portano direttamente a casa, ormai. Mentre un paio d’anni fa li barattavo con l’alcol che rubavo sulla nave, cosa per cui non godevo di grande stima...».
«Per i giovani ufficiali il tenore di vita sta diventando la ragione principale per cui sono in servizio» dice, affranto, il viceammiraglio Dorogin. Convinto che, per un militare, quell’«occhio per occhio» sia deleterio quanto discutere un ordine dall’alto.
PARTE TERZA
VECCHIE SIGNORE E «NUOVI RUSSI»
Due vecchie signore – Marija Vasil’evna Savina, ex mungitrice modello, e Zinaida Vasil’evna Fenošina, in passato altrettanto valida addetta ai vitelli – se ne stanno in mezzo al bosco brandendo rabbiose dei bastoni contro un bulldozer ringhioso, e gridano a squarciagola:
«Via di qui! Via! Quanto durerà ancora, questa storia?».
Da dietro gli alberi secolari spuntano delle guardie accigliate, che le circondano come a dire: «Vedete di andarvene con le buone, che se ci gira cominciamo a sparare»... Nikolaj Abramov, veterinario in pensione, ora a capo del villaggio e di quella protesta, allarga le braccia:
«Vogliono cacciarci dalla nostra terra... Ma noi la difenderemo fino alla morte, non ci resta altro...».
Il campo di battaglia è la periferia del villaggio di Pervomajskoe, distretto di Naro-Fominsk, provincia di Mosca. L’epicentro della vicenda è il comprensorio demaniale dell’ex tenuta Berg, la famiglia di proprietari fondiari che fin dal 1904 possedeva questi terreni, poi diventati parco culturale e riserva naturale protetta.
Calmatisi, i vecchi scuotono la testa:
«Alla nostra età siamo diventati tutti ‘verdi’. Che altro ci resta? Ci siamo solo noi a difendere il parco da questa lordura! Noi e basta».
La «lordura» sono i «nuovi russi» che hanno assoldato dei barbari senza cuore per tirar su trentaquattro villette nel bel mezzo del centenario parco Berg. Marija e Zinaida fanno parte di un gruppo di ecologisti nato dall’assemblea cittadina di Pervomajskoe per opporsi strenuamente a chi vorrebbe distruggere il loro ecosistema.
Camion e trattori continuano a ringhiare tra quel tesoro di alberi secolari, degnando di scarsa considerazione gli ecologisti. Un’ora dopo hanno già aperto un varco tra le piante. Lì passerà il «corso» del futuro centro residenziale. Ci sono tubi, attrezzi e lastre di cemento ovunque. Il lavoro ferve, e con il massimo sprezzo per la natura circostante. Centotrenta metri cubi di legno pregiato sono già stati falciati. Ovunque si volga lo sguardo ci sono cedri e abeti marcati per essere abbattuti. Le macchine deturpano l’ambiente senza ritegno, rivoltano il terreno e seppelliscono metri e metri sotto terra l’ecosistema di un sottobosco formatosi nel corso dei decenni.
«Ha mai sentito parlare del pino di Weymouth?» mi chiede Tat’jana Dudenus, a capo degli ecologisti e ricercatrice in un istituto medico locale. «Nel nostro parco ce n’erano cinque esemplari, gli unici nella zona di Mosca. La famiglia Berg aveva una passione per gli alberi rari. Tre ne hanno già abbattuti, e sa perché? Perché dovevano farci passare una strada. Anche altre specie pregiate sono in pericolo: l’abete rosso della Siberia (picea), il larice, il pioppo bianco (gattice), l’unico esemplare di thuja occidentalis della zona di Mosca... In tre giorni abbiamo già perso sessanta alberi. Se almeno distruggessero le piante malate, o le meno belle... Ma il principio che seguono è diverso: se hanno deciso che la strada deve passare per di lì, di lì passerà. E addio alberi. Là devono costruirci una villetta? Ecco pronto un bello spiazzo. Senza pensare a quanto siano rari gli alberi che buttano giù. Le piante che crescono nel parco sono tutte di categoria uno. La legge vieta di toccarle. Per poterle abbattere bisogna dimostrare che si tratta di una “circostanza eccezionale” e avere la convalida di una perizia dell’Ispettorato per l’ambiente. Serve un apposito permesso federale per ogni singolo ettaro».
Nulla di tutto questo è stato fatto mentre si decidevano le sorti del parco Berg. Per contrastare l’impudenza dei nuovi ricchi i Verdi locali hanno sporto denuncia al tribunale di Naro-Fominsk, tentando di ottenere da Elena Golubeva, il giudice assegnato al caso, un’ingiunzione che interrompesse immediatamente i lavori in attesa del processo. Una volta che gli alberi fossero stati abbattuti, che senso avrebbe avuto una sentenza a loro favorevole?
Come abbiamo già visto, però, questa è l’epoca degli oligarchi. L’unico fruscio che il potere intende non è quello delle fronde, ma delle mazzette di banconote. Il giudice Golubeva non ha interrotto i lavori a Pervomajskoe e, anzi, ha evitato deliberatamente di tenere le udienze...
E gli alberi sono stati abbattuti...
Tra le guardie sbuca Valerij Kulakovskij. È il vicedirettore dell’impresa edile Promžilstroj, che si definisce «cooperativa di costruttori edili». Kulakovskij mi consiglia di tenermi fuori da quella storia, in quanto tocca gli interessi di molta gente influente della capitale che andrà a vivere in quelle villette. Un’affermazione che spiega come la «cooperativa» sia riuscita ad acquistare il parco Berg, che secondo la legge è «patrimonio nazionale». Un’illegalità palese.
Alle parole infuocate degli ecologisti Kulakovskij risponde allargando le braccia, cercando di spiegare la propria posizione:
«Queste continue dimostrazioni ci hanno stancato. Che cosa dovrei fare? Ci ho già investito un sacco di soldi, qui; ho comperato il terreno, sto già costruendo... Chi me li ridà, i miei soldi?».
Neanche lui ha intenzione di cedere.
E non ha ceduto. Il parco Berg non esiste più. Ha vinto chi ha avuto la legge dalla sua. Il pugno e la forza bruta sono il fondamento del sistema giudiziario russo odierno. Con gli oligarchi a fare da puntello. Gli altri sono solo polvere sotto i calzari... O sotto i cingoli dei bulldozer... Le nostre foreste migliori vengono abbattute per soddisfare gli interessi degli oligarchi e dei loro accoliti. Interessi per i quali si promulgano decreti, si viola la legge e si assoldano i migliori avvocati del Paese.
Poco prima che le vecchiette ‘verdi’ di Pervomajskoe tentassero una strenua difesa del loro parco, la Corte Suprema russa aveva esaminato la questione su scala nazionale. Il caso è assurto agli onori della cronaca come la «vertenza foreste».
«Bisogna tenere conto degli interessi dei proprietari. La terra è la loro, le case sono già state edificate, e voi vorreste che vi restituissero tutto quanto...» sostenne in aula l’avvocato, facendo eco alle parole di Kulakovskij.
Le posizioni degli avvocati ecologisti Ol’ga Alekseeva e Vera Miščenko, che difendevano gli interessi della società civile contro i capricci dei «nuovi ricchi», erano diametralmente opposte: «Ogni singolo cittadino del nostro Paese ha diritto alla vita e a godersi il patrimonio nazionale. E la proprietà privata del singolo non è commensurabile a questo principio! La Russia è di tutti i suoi cittadini, e dobbiamo fare in modo che le generazioni a venire abbiano almeno tanto quanto le attuali, in termini di patrimonio nazionale. Inoltre, come si possono avanzare diritti per una proprietà acquisita illegalmente?».
Il nocciolo della «vertenza foreste» è il seguente: gli ecologisti russi che con l’Istituto di Ecologia legale Eco-Juris di Mosca hanno promosso la causa, chiedevano che venissero revocate ventidue delibere del Consiglio dei ministri che tramutavano foreste di categoria uno in terreni deforestati, autorizzando l’abbattimento di trentaquattromila ettari di alberi di pregio.
Le foreste russe sono divise in tre categorie. Alla prima fanno capo boschi di grande rilevanza per il genere umano e per la natura: alberi pregiati, aree che costituiscono l’habitat di uccelli e animali rari, riserve, parchi e «spazi verdi» urbani e suburbani. Secondo il Codice forestale della Repubblica Russa, il primo gruppo (e dunque il parco Berg) rientra nel patrimonio nazionale.
Per quanto strano, il primo a richiedere il cambiamento di categoria (e il conseguente diritto di abbattimento) è stato il Rosleschoz, il Servizio forestale della Federazione Russa. Che è l’organismo preposto a sottoporre al primo ministro i documenti relativi al cambio di categoria delle foreste. Nelle ventidue delibere che gli ecologisti contestano manca la perizia ecologica richiesta per legge, di conseguenza il patrimonio nazionale è stato sacrificato a interessi estemporanei: dove c’erano le foreste sono sorte stazioni di servizio, garage, centri industriali e commerciali, discariche e, va da sé, residenze varie.
Queste ultime, fra l’altro, sono il male minore, a detta degli ecologisti. Basta che chi ci abita si prenda cura degli alberi che circondano le case e non li svella per poterci far passare le fogne.
Mentre la «vertenza foreste» veniva esaminata e i giudici si prendevano tutto il tempo per decidere, altri novecentocinquanta ettari di boschi pregiati vennero condannati a morte da disposizioni analoghe del capo del governo. Le perdite maggiori sono toccate alle regioni autonome di Chanti-Mansijskij e Jamalo-Neneckij, dove gli alberi sono stati sacrificati a esclusivo vantaggio delle compagnie petrolifere. Ma anche Mosca ha subìto delle perdite. Quanto accaduto al parco Berg è il frutto dei tempi lunghi – deliberatamente lunghi – della giustizia.
Mentre le mezzemaniche ‘scrivevano’ e nessuno si assumeva l’onere di mettere la parola fine alla questione, la battaglia delle foreste si faceva via via più accesa. A Pervomajskoe, per esempio, si arrivò allo scontro fisico. Quando, su precisa richiesta della procura, gli ecologisti andarono a filmare le conseguenze della barbarie di chi edificava, intervenne la polizia in forze. Le due parti si scontrarono, la videocamera venne distrutta, gli ecologisti malmenati. E si trattava di persone anziane, ricordatelo...
«Noi non vogliamo la guerra. Ma non abbiamo altra scelta» mi spiega Nikolaj Abramov. «Il parco era l’unico posto rimasto per andare a passeggiare. Era frequentato da persone anziane e mamme con le carrozzine. Al suo interno ci sono un asilo e una scuola con trecento bambini. Tutto il resto, ormai, è destinato a ville per i nuovi ricchi».
Quegli ecologisti d’età veneranda capiscono di avere come controparte gente piena di soldi, una quantità di soldi che loro nemmeno riescono a immaginarsi. Ne hanno sentito parlare da Aleksandr Zacharov, capo dell’amministrazione locale. Che lo ha detto apertamente, a un’assemblea: ci sono troppi soldi in ballo perché facciano marcia indietro. Così ha scritto Igor’ Kulikov, portavoce del Movimento ecologista della regione di Mosca, al procuratore Michail Avdjukov: «Il portavoce dell’amministrazione locale ha dichiarato pubblicamente ai membri del gruppo ecologista riuniti in assemblea di aver trasmesso i loro nomi e indirizzi alla mafia, che saprà cosa farne se le proteste non cesseranno».
Aleksandr Zacharov è senza dubbio un personaggio chiave in questa brutta storia. Se avesse voluto, nessuno avrebbe potuto tirare su villette nel parco Berg. Ma in calce ai documenti che autorizzano l’abbattimento degli alberi di Pervomajskoe – contro la legge e contro le decisioni dell’assemblea locale – c’è la sua firma.
Il meccanismo è arcinoto. Il primo passo è presentare a Mosca la richiesta di «passaggio di categoria» del bosco, affinché da foresta di categoria uno diventi zona non boschiva. Dopo qualche tempo l’ordinanza viene sottoposta al primo ministro che la firma. L’effettivo abbattimento degli alberi viene poi autorizzato – in adempimento all’ordinanza ministeriale – dai rappresentanti del Corpo forestale e dalle autorità locali. Da Zacharov, dunque.
Non sono le leggi russe che non vanno. Quel che non va è la gente: non vuole rispettarle.
Il parco Berg ha smesso di esistere dopo quasi un secolo di vita. Il piccolo gruppo di ecologisti locali non ha ottenuto nulla. L’unica cosa che resta loro sono i girotondi attorno ai ceppi recisi.
«NORD-OST». STORIA DI UN MASSACRO
8 febbraio 2003. Mosca. Via Dubrovskaja 1, quella che ormai tutto il mondo conosce come «la Dubrovka». Nel teatro che tre mesi fa è stato su tutti i giornali e le televisioni del mondo c’è aria di festa. Smoking, abiti da sera, il beau monde politico è stato chiamato a raccolta, e ministri, deputati, leader delle diverse fazioni e dei diversi partiti del Parlamento si scambiano baci, abbracci, gemiti e sospiri. C’è anche un sontuoso buffet...
Si festeggia la vittoria sul «terrorismo internazionale». Perché la rinascita del musical Nord-Ost dalle ceneri del terrorismo non è altro che questo, come ci garantiscono i politici pro-Putin. Quella dell’8 febbraio è la prima rappresentazione da che, il 23 ottobre del 2002, durante lo spettacolo, l’edificio, privo della pur minima sorveglianza, era stato occupato per cinquantasette ore, con attori e pubblico ostaggio di qualche decina di terroristi giunti dalla Cecenia per indurre il presidente Putin a fermare la guerra e a ritirare le truppe.
Non è servito. Niente ritiri. La guerra è continuata e continua a tutt’oggi, senza pause per riflettere sulla legittimità dei metodi prescelti. Una cosa sola è cambiata: il 26 ottobre, di buon’ora, venne sferrato un attacco con i gas contro tutti coloro che si trovavano all’interno dell’edificio, terroristi e ostaggi. Ottocento persone circa hanno respirato un gas segreto di produzione militare, scelto – è ormai cosa nota – dal presidente in persona. È poi seguita un’irruzione dei reparti speciali, durante la quale i terroristi sono stati tutti trucidati, insieme a quasi duecento ostaggi, molti dei quali morti senza assistenza medica, in quanto neppure ai medici è stato dato di conoscere il tipo di gas impiegato. Quella sera, impassibile, il presidente ha annunciato alla nazione che si era trattato di una vittoria sulle «forze del terrorismo internazionale»...
Al galà dell’8 febbraio, però, le innumerevoli vittime di quel ‘salvataggio’-massacro non vennero quasi ricordate, tipico indice del rilassamento dei costumi instaurato dall’attuale presidente. Era un party moscovita di VIP come ce ne sono tanti, di quelli in cui ci si dimentica perché si sta brindando. Dove le danze, i canti, lo champagne, i molti ubriachi e le molte sciocchezze dette parevano tanto più ciniche a voler considerare che tutto accadeva sul luogo di un massacro, pur se ristrutturato a tempo di record. I familiari degli ostaggi deceduti nella tragedia si erano rifiutati di partecipare, giudicando la festa un sacrilegio. Per cause di forza maggiore non intervenne neanche il presidente, che però mandò un messaggio di felicitazioni. Nessuno ci potrà mai spezzare, diceva. Parole che grondano retorica sovietica e logica stalinista: ci dispiace per chi è morto, ma gli interessi della società vengono prima di ogni altra cosa... I produttori ringraziarono di cuore il presidente per aver compreso le loro ragioni economiche e commerciali e aggiunsero che il pubblico non avrebbe avuto di che pentirsi di un’eventuale visita al teatro, in quanto lo spettacolo aveva guadagnato «in pathos artistico»...
Ma veniamo al rovescio della medaglia. Alle vite che il presidente ha usato per consolidare il proprio ruolo nella coalizione mondiale antiterrorismo. Proviamo a vedere come vivono coloro ai quali la tragedia di Nord-Ost non ha fatto guadagnare «in pathos», ma che, anzi, ne sono usciti a pezzi. Proviamo a guardare il loro prima e il loro dopo. Le esistenze, uniche e irripetibili, che sono state spezzate. Le vittime che la macchina dello Stato sta cercando di dimenticare, inducendo noialtri a fare lo stesso. Le pulizie etniche che sono seguite al massacro. La nuova ideologia di Stato, letale per l’individuo. Putin l’ha illustrata più volte. E suona all’incirca così: «Non aspettatevi che le perdite ci frenino. Non lo faranno. Nemmeno se dovessero essere altissime».
STORIA PRIMA
IL QUINTO
Jaroslav Fadeev, ragazzino moscovita, è il primo della lista che riporta i nomi delle vittime dell’irruzione. Com’è noto, la versione ufficiale dei fatti è la seguente: i quattro ostaggi morti per ferite d’arma da fuoco sono stati uccisi dai terroristi, in quanto le forze speciali dell’FSB – i colleghi di Putin – che hanno preso d’assalto il teatro non possono essersi sbagliate e non possono aver ucciso dei civili.
Ma i fatti sono fatti. Jaroslav ha una pallottola in testa però non rientra nei «quattro uccisi dai terroristi». Jaroslav è il quinto.
Al punto «Causa del decesso» del certificato ufficiale consegnato alla madre Irina c’è una riga vuota. Nulla, dunque.
Il 18 novembre del 2002 Jaroslav, allievo di un istituto superiore di Mosca, avrebbe compiuto sedici anni. Ci sarebbe stata una grande festa in famiglia, con molti regali, com’è ovvio che sia. E invece oggi, sulla tomba di quell’ormai eterno quindicenne, il nonno, un medico, mormora: «Alla fine non ce la siamo mai fatta la barba assieme, io e te...».
Erano andati in quattro, a vedere Nord-Ost: due sorelle – Irina Vladimirovna Fadeeva e Viktorija Vladimirovna Kruglikova – e i loro ragazzi: Jaroslav e Anastasija, figlia diciannovenne di Viktorija. Irina, Viktorija e Anastasija ce l’hanno fatta, Jaroslav invece – unico figlio di Irina, unico nipote di Viktorija e unico cugino di Anastasija – no. È morto in circostanze che la legge non ha mai chiarito.
Dopo l’irruzione delle forze speciali e l’uso dei gas, Irina, Viktorija e Anastasija vengono tirate fuori dal teatro prive di sensi e portate in ospedale. Jaroslav, invece, scompare. È come svanito. Non figura in nessuna delle liste. Niente notizie ufficiali, la tanto sbandierata hot line non funziona e i parenti degli ostaggi corrono da una parte all’altra di Mosca. Con loro ci sono anche gli amici della famiglia di Jaroslav, che passano al setaccio obitori e ospedali spartendosi i quartieri.
Alla fine lo trovano alla morgue di vicolo Chol’zunov, il corpo n. 5714. Risponde alla descrizione di Jaroslav, ma non possono riconoscerlo ufficialmente anche se ha in tasca i documenti della madre, Irina Vladimirovna Fadeeva. Alla pagina «Figli», però, si legge: maschio, Fadeev Jaroslav Olegovič, nato il 18.11.1988. Jaroslav, invece, era nato nel 1986...
«Quando eravamo là dentro,» mi ha poi spiegato Irina «ho infilato la mia carta d’identità nella tasca dei pantaloni di mio figlio. Lui non aveva documenti con sé. Era molto alto, pareva più grande dei suoi anni, e avevo paura che se i ceceni avessero deciso di far uscire bambini e ragazzi, Jaroslav sarebbe rimasto dentro... Allora, zitta zitta, mi sono nascosta sotto una poltrona, ho cambiato la data di nascita e gli ho tolto altri due anni...».
Il 27 ottobre Sergej, un amico di Irina, va a trovarla in ospedale e le dice che hanno trovato un cadavere, il n. 5714, che somiglia a Jaroslav. Le parla anche dei documenti che gli hanno trovato in tasca. Nonostante il freddo, Irina scappa dall’ospedale così com’è, facendo un buco nella recinzione. Scappa, sì, perché gli ostaggi sopravvissuti e trasportati nei diversi ospedali sono tornati a essere degli ostaggi. La polizia segreta, infatti, ha dato ordine di impedire loro di tornare a casa, di telefonare e di comunicare con i parenti. Sergej è riuscito a infilarsi nell’ospedale corrompendo tutti quanti: infermiere, guardie, portantini, poliziotti. Da noi i soldi aprono anche porte chiuse a più mandate.
Irina, dunque, fugge, e dall’ospedale va subito all’obitorio. Dove le mostrano una foto sul computer. È Jaroslav. Chiede di vedere il corpo, lo sfiora delicatamente e gli trova due fori d’arma da fuoco in testa. Uno d’entrata e uno d’uscita. Entrambi tappati con la cera. Ma una madre sa riconoscere la differenza tra la cera e la carne del proprio figlio. Sergej, che le sta accanto, è sorpreso di vederla tanto calma, senza un singhiozzo, senza isterismi, logica e razionale.
«Ero felice di averlo trovato, dico davvero» racconta Irina. «In ospedale avevo passato in rassegna tutto quello che era successo e avevo pensato a tutto. Anche a come mi sarei comportata se mio figlio fosse morto. All’obitorio, quando ho capito che era proprio il mio Jaroslav e che la mia vita era finita, ho fatto solo quello che avevo deciso di fare. Ho chiesto di essere lasciata sola nella stanza con il corpo che mi avevano portato. Ho detto a tutti che volevo restare sola con lui. Ci avevo pensato prima, alla motivazione. Perché gli avevo fatto una promessa, in teatro... Mentre eravamo là, l’ultima notte, qualche ora prima del gas, Jaroslav mi aveva detto: “Mamma, ho paura di non farcela... Se dovesse succedere qualcosa, come sarà, dall’altra parte?”. Gli avevo risposto di non temere. Eravamo stati sempre insieme di qua e saremmo stati insieme anche di là. “E come farò a riconoscerti?” mi aveva chiesto lui. “Se ti tengo sempre per mano, finiremo per mano anche di là. Non ci potremo perdere. Tu non mi lasciare mai, dammi sempre la mano...”. E invece cos’è successo? L’ho ingannato! Non ci eravamo mai separati, noi. Mai. Per questo ero serena: eravamo insieme da vivi e saremmo stati insieme da morti. Quando restammo soli, nell’obitorio, gli dissi di non preoccuparsi, che l’avevo trovato e che l’avrei raggiunto presto. Non ci era mai capitato di stare lontani, e io gli avevo mentito... Eravamo sempre insieme. Per questo ero così tranquilla... Per non incontrare gli amici chiesi agli inservienti di farmi uscire dal retro. Una volta per strada fermai una macchina, mi feci lasciare sul primo ponte sulla Moscova e mi buttai di sotto. Ma non sono affogata. C’erano delle lastre di ghiaccio, sul fiume, e sono finita lì in mezzo. Io non so nuotare, ma l’acqua mi ha riportata a galla. Poi ho sperato che mi venissero i crampi alle gambe. Nemmeno. Dopo di che, neanche a farlo apposta, delle persone mi hanno tirato fuori. “Da dove vieni? Che cosa ci facevi, in acqua?” mi hanno chiesto. “Vengo dall’obitorio. Ma non voglio che mi riportiate da nessuna parte”. Ho dato loro il telefono di Sergej, che è venuto a prendermi... Cerco di farmi forza, ma sono morta. Non so come possa farcela, Jaroslav, senza di me...».
Quando aveva ripreso i sensi in ospedale, il 26 ottobre, Irina si era resa conto di essere completamente nuda, sotto la coperta. Accanto a lei gli altri erano tutti vestiti. Lei no. Aveva solo un’immagine sacra stretta in mano. Quando riuscì a parlare, chiese alle infermiere che le rendessero i suoi abiti, ma quelle le spiegarono che i vestiti con cui era arrivata dal teatro erano stati distrutti per ordine della polizia in quanto zuppi di sangue.
Perché? Di chi era quel sangue? Da dove era venuto, se ufficialmente erano stati impiegati solo i gas? Aveva forse perso i sensi stretta al figlio? Allora quel sangue doveva essere di Jaroslav!...
«L’ultima notte al teatro era stata agitata» ricorda Irina. «I terroristi erano nervosi. Poi il capo, Movsar Baraev, che noi chiamavamo “Mozart”, aveva annunciato che potevamo star tranquilli fino alle 11 del giorno dopo, che c’era uno spiraglio. Ci avevano lanciato dei succhi di frutta. Non ci permettevano di alzarci. Se avevamo bisogno di qualcosa dovevamo alzare la mano. E allora qualcuno ti tirava un succo di frutta o dell’acqua. Quando è cominciata l’irruzione e abbiamo visto i terroristi correre sul palco, ho detto a mia sorella di coprire Anastasija con la sua giacca, e io mi sono stretta forte a Jaroslav. Non mi ero resa conto che stavano usando i gas. Avevo solo visto che i terroristi stavano diventando nervosi. Jaroslav era più alto di me, e dunque, alla fine, era lui che mi faceva da scudo, non viceversa... Poi sono svenuta... Già all’obitorio mi ero resa conto che il foro d’ingresso della pallottola era sul lato opposto a me. Jaroslav mi aveva protetto. La pallottola aveva trapassato lui, risparmiando me. Mi aveva salvato... Dopo che per cinquantasette ore io non avevo fatto altro che pensare a come salvare lui».
Chi l’aveva sparata, quella pallottola? I terroristi? O gli altri, i «nostri»? Era stata fatta una perizia balistica? E qual era stato l’esito? E il sangue sugli abiti era stato analizzato per capirne la provenienza?
Nessuno dei familiari conosce le risposte a queste domande. Tutte le informazioni al riguardo sono segretate. Nemmeno Irina è autorizzata a prenderne visione. Sul registro dell’obitorio la causa della morte – «ferita d’arma da fuoco» – è stata scritta a matita. Dopo di che anche il registro è stato segretato, e nessuno sa se quell’annotazione sia rimasta o meno. «L’avranno cancellata, figurarsi...» sostiene la famiglia di Jaroslav.
«In un primo momento ho pensato che fosse stata una cecena. Mentre eravamo là dentro» racconta Irina «ce n’era una che stava sempre accanto a noi. Si era accorta che al minimo rumore, al minimo urlo, alla minima sensazione di pericolo mi attaccavo a mio figlio e non lo lasciavo più. È colpa mia, ho attirato io la sua attenzione, e lei non ci staccava più gli occhi di dosso. Ci osservava sempre. Una volta mi venne vicino e con gli occhi fissi su Jaroslav mi disse: “Il mio è rimasto laggiù”. In Cecenia, voleva dire. Non ci ha mai fatto niente di male, ma ero convinta che ci tenesse sempre d’occhio. Magari è stata lei a sparare a Jaroslav... Ormai non dormo più: vedo gli occhi di quella donna, la striscia stretta del suo viso...».
Gli amici le hanno poi spiegato che non poteva essere lei, la responsabile. A giudicare dal foro d’ingresso, quello sul corpo di Jaroslav non è stato prodotto da una pistola. E le cecene avevano solo pistole.
Dunque la domanda resta: chi ha sparato quel colpo?
«Devono essere stati i “nostri”» dice Irina. «Certo, noi eravamo in una posizione a rischio... Proprio vicino alla porta. Siamo stati sfortunati. Chiunque entrava aveva davanti la fila 11. Quando sono arrivati i terroristi, hanno visto noi per primi. Ma anche quando sono arrivati i “nostri” è successa la stessa cosa».
Irina può fare tutte le congetture che vuole. Le sue teorie non preoccupano affatto le alte sfere. La versione ufficiale è che i morti per colpi d’arma da fuoco sono stati quattro, punto e basta. Jaroslav, il quinto, non ne fa parte. Dunque nel certificato di morte, là dove dovrebbe essere indicata la causa, c’è un vile spazio vuoto. Jaroslav non figura nemmeno tra le vittime dell’istruttoria 229133, il numero di matricola assegnato al «caso Nord-Ost», in merito alla quale indaga una squadra della procura di Mosca. Come se non fosse stato uno degli ostaggi...
«Il tormento maggiore è che Jaroslav esisteva, era vivo, mentre ora le autorità fanno finta che non sia mai stato su questa terra» dice Irina.
Ma c’è di più. Quando Irina ha confidato le sue intuizioni, i suoi dubbi e le sue perplessità ad alcuni giornalisti, è stata subito convocata in procura. Il giudice inquirente era molto risentito: «Perché vuol sollevare un polverone?» le ha detto senza mezzi termini. «Lo sa o non lo sa che non può avercela, una pallottola in corpo?». Dopo di che ha fatto del suo meglio per spaventare la povera Irina, già prostrata di suo: «O scrive subito una dichiarazione in cui smentisce di aver detto alcunché ai giornalisti, così che possiamo denunciarli per calunnie ai danni dei nostri reparti speciali, oppure riapriamo la tomba di suo figlio senza la sua autorizzazione e facciamo una bella perizia postuma!».10
Irina non cedette a quel ricatto abietto e non scrisse alcuna smentita. Dopo quattro ore di terzo grado in procura prese congedo e andò dritta dritta al cimitero. A fare la guardia. Era novembre inoltrato. Già pieno inverno, a Mosca. Irina restò sdraiata diverse ore sulla tomba del figlio per proteggerlo, convinta che gli scagnozzi della procura sarebbero arrivati a disturbare il riposo di Jaroslav... A salvarla dalla morte furono ancora una volta gli amici, che quando videro che non era rientrata la cercarono per tutta la città. E pensarono che potesse essere sulla tomba del figlio...
Irina è convinta che l’essenziale, ora, sia che Jaroslav senta e capisca quanto la sua famiglia lo ami. Se anche la sua vita è stata spezzata da una morte tremenda, deve capire che tutti sanno quanto sia stato coraggioso nelle sue ultime ore di vita, come si sia dimostrato adulto, nonostante i suoi sedici anni non ancora compiuti. Jaroslav era un ragazzo tranquillo e studioso, che invece di bere birra e dire parolacce si era diplomato a una scuola di musica. In un certo senso ne soffriva, perché anche lui voleva essere «un duro», deciso, coraggioso, forte...
Jaroslav aveva un quaderno speciale, un diario, come alla sua età l’abbiamo avuto tutti, e su quelle pagine rispondeva alle domande che riteneva più importanti. Irina lo ha letto dopo i fatti di Nord-Ost. Alla domanda su quali aspetti del suo carattere gli piacessero e quali no, Jaroslav risponde: «Odio essere un vigliacco, un pauroso e un indeciso». Ma la morte lo avrebbe cambiato. Che cosa vorresti migliorare, in te? La risposta era stata: «Vorrei essere un duro». A scuola aveva degli amici. Che però non erano dei «duri» nemmeno loro, non erano di quelli a cui le ragazzine fanno il filo. A casa riusciva a essere brillante, ironico, deciso, coraggioso. Ma fuori... Fuori cominciavano i problemi.
«E invece... Invece avete visto cosa ha fatto... È stato bravissimo» mi dice Irina.
Dentro di noi abbiamo tutto quello che serve. Spesso, però, non sappiamo come tirarlo fuori. Bisogna trovare il punto giusto, il momento giusto... Anche Jaroslav sapeva di avere dentro di sé quel che gli serviva... Adesso lo ha capito anche Irina, che però è tormentata dalle cose che non è riuscita a dire al figlio, dal fatto di non avergli fatto capire quanto lo ammirasse.
«La gente mi considera una persona forte» mi racconta Viktorija, zia di Jaroslav e anche lei tra gli ostaggi. «Invece là dentro ero completamente persa. Noi tre, noi donne, ci siamo strette attorno a lui, che era il più giovane, e che ci ha dato forza come un adulto. A mia figlia erano saltati i nervi, non faceva che ripetere “Non voglio morire, mamma... voglio vivere...”. Lui, invece, era calmo, coraggioso, si sforzava di tranquillizzare Anastasija, ci rincuorava, cercava di farsi carico di tutte le preoccupazioni come un uomo adulto... Vuole un esempio? Una delle donne cecene si era accorta che avevamo messo i ragazzi al centro e che cercavamo di far loro da scudo. In caso di irruzione, pensavamo io e Irina, li avremmo protetti con i nostri corpi. Allora quella cecena si era piazzata tra di noi con una granata in mano all’altezza di Anastasija. Io le avevo chiesto di spostarsi, ma lei aveva guardato Anastasija e aveva detto: “Non avere paura. Se sto vicino a voi, morirete subito, senza soffrire, mentre chi sta più distante soffrirà eccome...”. Quando poi se n’era andata Anastasija mi aveva detto: “Falla restare qua, mamma... Ha detto che non soffriremo, no?...”. Era a pezzi. Io mi rendevo conto che se quella donna restava accanto a noi non avremmo avuto alcuna possibilità di sopravvivere, mentre con lei lontana, potevamo ancora sperare. E lo rifarei, se mi ci ritrovassi di nuovo. Jaroslav ha sempre mantenuto lucidità e sangue freddo. Ne ero stupita, perché in famiglia lo credevamo ancora un bambino... Un altro esempio. Per spaventarci, i terroristi ci dicevano che se nessuno avesse accettato di trattare con loro, avrebbero iniziato a sparare, cominciando dai poliziotti e dai militari. Molti, allora, avevano buttato via i tesserini. I terroristi, però, li avevano raccolti e avevano cominciato a urlare i nomi dal palcoscenico. Compreso il mio: “Viktorija Vladimirovna, nata nel 1960...”. Il cognome, però, era diverso. Una situazione tremenda. Nessuno rispose. I terroristi si misero a cercare tra le file e trovarono me. “Andiamo su insieme” mi disse Irina. Eravamo tutti convinti che cercassero chi lavorava per i servizi di sicurezza con l’intenzione di ucciderli. Risposi a Irina che una delle due doveva restare, altrimenti i nostri genitori sarebbero rimasti completamente soli. Poi i terroristi trovarono la Viktorija Vladimirovna che stavano cercando, ma quando ancora la situazione era confusa, Jaroslav mi si sedette accanto e disse: “Zia Vika, non avere paura, ci vengo io con te. Basta che mi perdoni... Mi perdoni?...”. “Ma di che cosa?... Non preoccuparti, andrà tutto bene” gli risposi io. Lui mi fece scudo col suo corpo e disse: “Non avere paura, zia Vika, starò con te fino alla fine”. Si comportò da uomo. Davvero non so da dove avesse preso tutto quel coraggio. Noi lo credevamo un bambino...».
Per buona parte delle sue ore da ostaggio Jaroslav non disse una parola. Pareva tranquillo, però.
«Il cuore gli batteva forte forte» ricorda Irina. «Quando passò un medico... Perché c’erano dei medici, tra gli ostaggi, a cui era stato permesso di aiutarci... Quando passò gli chiesi qualcosa per la tachicardia. Gli diede una pillola, e tutto tornò a posto. Poco prima dell’irruzione gli misi sotto la lingua una pillola che avevo trovato nella borsa. C’è stato un momento in cui ho pensato che fosse stata quella a soffocarlo...».
«Gliel’hai data tre ore prima dell’irruzione, la pillola, Irina...» la riprende dolcemente Viktorija.
Mentre Sergej sospira:
«Non avevano il senso del tempo, là dentro...».
È Viktorija a parlare:
«Avevamo paura, tanta paura. Ci facevano sentire quel che dicevano alla radio... Così scoprimmo che il presidente non faceva dichiarazioni, e che secondo Žirinovskij la Duma non doveva perdere tempo in discussioni al riguardo, che era tutta una finta, e i terroristi non avevano esplosivo, ma zucchero... “Sentito?” dicevano i terroristi. “Glielo facciamo vedere noi, lo zucchero!”. Che paura! Dopo le prime ventiquattro ore pensammo che ci saremmo rimasti anche una settimana, lì dentro, e che le autorità stessero studiando una via d’uscita diversa dall’irruzione. Era difficile mantenere la calma. Ma Jaroslav ci riuscì, si comportò da uomo».
La vita di Irina è cambiata completamente. Ha lasciato il lavoro. Non può pensare di fare quel che faceva quando c’era Jaroslav. Perché anche al lavoro tutto le ricorda il figlio. Erano una squadra affiatata, con i colleghi; festeggiavano insieme ogni bel voto di Jaroslav, ogni esame superato.
«Lo sapevano tutti che Jaroslav era la mia vita. La riempiva a tal punto che se pensavano a me, era tramite lui». Irina piange. «E anch’io pensavo a me stessa solo tramite lui».
Non esce nemmeno di casa, Irina. Le ha percorse tutte col figlio, quelle strade, e ogni angolo nasconde un ricordo.
«Cammino per l’Arbat e vorrei morire... Ci andavo sempre con Jaroslav... Andavamo insieme al cinema, poi ci fermavamo al bar vicino... Ho paura di uscire di casa... Ho paura di ritrovarmi in qualche posto che frequentavamo assieme. Del resto, non c’è luogo di Mosca dove non siamo stati, io e lui. Ci piaceva girare in macchina. Lo caricavo in auto dopo il lavoro, accendevamo la musica e giravamo per la città. Ogni tanto ci fermavamo, entravamo in un negozio e ci comperavamo qualcosa di buono... Il giorno del suo sedicesimo compleanno, quando lui già non c’era più, ci sono entrata, in quel negozio: volevo che sapesse che continuo a comperargli le cose che gli piacciono... Li vede, questi biglietti? Sono per il treno della notte che va a Pietroburgo. La notte di venerdì 25 ottobre, la notte in cui è morto, dovevamo andare a Pietroburgo a un torneo di tennis. Io e lui. Era un po’ che volevo fare un viaggio in treno, avevo sempre la sensazione che parlassimo troppo poco. Mentre in treno, da soli, avremmo avuto tutto il tempo... E invece...».
«Perché pensa che non parlaste abbastanza?».
«Non lo so... È una strana sensazione. Parlavamo molto, ma non me lo toglievo dalla testa, quel pensiero. Non mi stancavo mai di parlare con lui. Le vacanze le passavamo sempre insieme... Negli ultimi tempi avevo l’impressione che il mio amore fosse un peso, per lui. Non me lo aveva mai detto apertamente, ma si era confidato con la nonna. Forse era troppo, per lui. Adesso, quando per strada vedo il cartellone di quella pubblicità, con su scritto “Mamma, ti voglio bene”... Se sto provando a tirare avanti è perché ho dei genitori che soffrono moltissimo. L’hanno cresciuto loro, Jaroslav. Non ce la faccio... Tengo duro, ma dentro sono morta».
Tutti cercano di aiutarla, di farle coraggio. Irina ha la fortuna di avere tanti amici, ma la fatica è tanta. Anche il sacerdote da cui era andata in cerca di conforto non è riuscito ad ascoltare tutta la sua storia: «Mi perdoni... È troppo doloroso».
«Ero andata a chiedergli che cosa fare. Ce l’avevo portato io, Jaroslav, a vedere Nord-Ost... Era stata una mia idea, lui non ne aveva tanta voglia» mi dice Irina, che sulle fotografie prima della tragedia è una giovane donna, bella, leggermente in carne, sicura di sé, che sprizza felicità. Ora è smagrita, smunta, ha la disperazione negli occhi incavati, è tutt’altro che giovane, confusa, sempre vestita di nero – cappotto, basco, scarpe e calze nere –, trema come una foglia e non si toglie mai il cappotto nemmeno in casa.
«Andavamo spessissimo a teatro, Jaroslav e io. Quella sera dovevamo vedere un altro spettacolo in un altro teatro» continua Irina. «Eravamo già pronti, ma quando Viktorija e Anastasija passarono a prenderci, ci rendemmo conto che i biglietti erano scaduti: erano per la sera prima. Jaroslav ne fu felice. Voleva restare a casa, quella sera, mentre io insistetti: “Andiamo a vedere Nord-Ost, è qua vicino!”. Non siamo lontani dalla Dubrovka. Ci ho trascinato tutti quanti. E poi non sono stata capace di proteggerlo... È lui che ha protetto me... Io che andavo alla sua scuola a difendere i ragazzini dai teppisti non ho saputo difendere mio figlio. È terribile quando non riesci a fare qualcosa per tuo figlio, qualcosa di tanto importante. Là dentro sapevo perfettamente che se anche mi fossi alzata e avessi detto: “Uccidete me al posto suo” mi avrebbero ucciso, sì, ma non sarebbe valso a salvargli la vita. Riesce a immaginare quanto sia tremendo? L’ultima cosa che mi ha detto è stata: “Mamma, se succede qualcosa, è così che voglio ricordarti...”. Mi ha guardato e mi ha detto addio».
«Parlavate sempre di queste cose, là dentro?».
«No. Ma è stata la nostra ultima conversazione. Quando c’era Jaroslav mi alzavo la mattina convinta di essere la persona più felice della terra. E mi addormentavo con la stessa idea in testa. Avevo quasi l’impressione che me lo invidiassero, quel figlio straordinario. Tutti avevano un sacco di problemi, e ne avevo anche io. Ma lui li faceva passare in secondo piano. Ora penso che non si abbia il diritto di essere tanto felici. Penso che i miei sentimenti fossero così intensi perché i quindici anni della sua vita mi dovevano bastare per sempre. Con Jaroslav la mia felicità durava dalla mattina alla sera. Arrivavo a invidiare me stessa. Tornavo a casa dal lavoro e scoppiavo di felicità. Lo prendevo per mano, o anche solo per un dito, e attraversavamo la strada di corsa. Lui, però, stava crescendo, e non voleva più... Cominciava a vergognarsi un po’ di me, era l’età... Ma non mi ha mai detto o fatto nulla di male. Capisco che ogni madre possa dire altrettanto, ma io non ce l’ho più, mio figlio... Penso che non ci sia niente di peggio... Chissà come se la starà cavando, senza di me. Prima pensavo di essere una donna fortunata: avevo avuto lui e finalmente ero una persona completa. Adesso, invece, lui è morto e io sono sola. Dovevano prenderci entrambi, oppure nessuno dei due. Senza di lui non ce la faccio... La mia vita con lui è stata talmente felice, e invece guardate che fine gli ho fatto fare. Per i suoi sedici anni gli ho regalato una tomba...».
Irina piange.
«Non è stata colpa sua...».
«È una guerra, questa... Una guerra» non fa che ripetere Irina. «Che ha coinvolto anche noi...».
La guerra continua. Putin non ha cambiato opinione.
STORIA SECONDA
N. 2551 – NON IDENTIFICATO
Ma prima di raccontarvela è necessaria una premessa. E cioè come viviamo in Russia dopo la tragedia di Nord-Ost e in che stato versa il sistema giudiziario dell’era Putin.
I nostri tribunali non sono mai stati un esempio di autonomia, come ci si potrebbe aspettare leggendo la Costituzione. Tuttavia, la giustizia odierna si sta sottomettendo allegramente al potere esecutivo, e raggiunge l’apogeo in ciò che definiamo pozvonočnost’, «giustizia da telefono», un fenomeno che vede un giudice emettere la propria sentenza a seconda della telefonata che riceve dai rappresentanti del governo e della pubblica amministrazione. Si tratta di un fenomeno consueto, in Russia, per cui quando un giudice dà prova di un’inattesa autonomia di giudizio, la nostra coscienza collettiva non può non considerarlo un gesto eroico.
Le «vittime di Nord-Ost», come le chiamano oggi – cioè le famiglie che hanno perso qualcuno durante l’assalto, e gli ostaggi che il 26 ottobre hanno riportato delle menomazioni –, hanno citato in giudizio per danni morali lo Stato, e il Comune di Mosca nella fattispecie. Le vittime sostengono che, per evitare dissapori con Putin e l’FSB, le autorità locali non avevano provveduto a organizzare un’assistenza medica adeguata e tempestiva. Le responsabilità si fanno ancora più gravi se si considera che il sindaco della capitale – nonché capo del potere esecutivo cittadino – Jurij Lužkov è stato tra i pochi a far pressione sul presidente affinché usasse le armi chimiche contro i suoi concittadini.
Le prime denunce vennero presentate nel novembre del 2002 al tribunale Tverskoj di Mosca (un tribunale di distretto, lo scalino più basso della gerarchia). Il 17 gennaio del 2003, quando il giudice federale Marina Gorbačëva esaminò i primi tre casi, il numero delle denunce era salito a sessantuno e l’ammontare dei danni richiesti era l’equivalente in rubli di sessanta milioni di dollari: il prezzo della «menzogna di Stato» dichiarava la parte lesa. Quel che chiedevano, infatti, era di «conoscere le vere ragioni per cui i loro cari erano morti», una verità che non riuscivano a strappare in quanto l’FSB aveva segretato ogni informazione sul caso. Avendo essi chiamato in causa quell’FSB in cui anche Putin aveva prestato servizio e che il presidente continuava a tutelare, la vigilia delle udienze si svolse in un clima incandescente di propaganda sfrenata dei mass media ai danni dei querelanti. Le autorità li accusarono pubblicamente di voler svuotare le casse dello Stato, di voler «mettere le mani sui soldi dei pensionati e degli orfani» e di voler lucrare sulla morte dei propri cari. Igor’ Trunov, l’avvocato che aveva accettato di difendere le «vittime» (i nomi più altisonanti avevano rifiutato, temendo le ire del Cremlino), venne fatto oggetto di nefandezze di ogni sorta e accusato dei crimini peggiori.
Insomma, le autorità fecero di tutto, usarono ogni potente mezzo a loro disposizione per intimidire i querelanti.
Volevano passare per vittime. E invece erano carnefici.
La conseguenza fu che il 23 gennaio il giudice Gorbačëva, zelante ‘giudice da telefonata’, si attaccò a un vizio di forma (la legge federale sulla «guerra al terrorismo» si presta a svariate interpretazioni e si contraddice nei diversi commi, uno dei quali può essere letto nel senso che lo Stato non è tenuto a risarcire i danni alle vittime degli attentati) e ricusò le prime tre denunce. Fece persino di più. Come le era stato sicuramente richiesto, accompagnò la sua sentenza con vergognose angherie ai danni della parte lesa, trasformando l’udienza in una sequela di insulti e vessazioni inqualificabili contro i querelanti.
Qualche appunto preso in aula il 23 gennaio, affinché il lettore comprenda che cosa è accaduto.
«Karpov, si sieda! Le ho detto di sedersi!».
«Ma ho qualcosa da d...».
Il giudice Gorbačëva non gli fa nemmeno finire la frase e interrompe urlando Sergej Karpov, padre di Aleksandr Karpov, noto poeta, cantautore e traduttore moscovita morto soffocato dai gas nella tragedia di Nord-Ost.
«Si sieda, Karpov! O la faccio allontanare dall’aula! Poteva presentare una deposizione scritta prima dell’udienza, e non l’ha fatto!».
«Se non l’ho fatto è perché nessuno me ne ha mai notificato la possibilità!».
«È lei che non ne ha approfittato! Si sieda! O la faccio allontanare dall’aula!».
«Voglio present...».
«Non intendo accogliere nessuna istanza!».
Il giudice ha modi isterici, occhi privi di espressione e toni da ambulante che trapassano in un gracchiare da cornacchia. Inveisce contro Sergej Karpov e intanto si toglie lo sporco da sotto le unghie. Uno spettacolo indecente. Ma le vessazioni non finiscono qui.
«La smetta di alzare la mano, Karpov!».
«Pretendo che mi vengano illustrati i miei diritti!».
«Nessuno le illustrerà un bel niente!».
L’aula del tribunale, che non vede una scopa da tempo immemorabile, è gremita di gente. Di giornalisti a cui è stato vietato di utilizzare i registratori (perché, poi? segreti di Stato?). Di vittime con il cuore straziato a cui non si ha nemmeno la forza di fare qualche domanda perché scoppiano subito a piangere. Di loro amici e parenti, venuti a sostenerli in caso di svenimenti o attacchi di cuore. Ma la Dama Togata porta l’atmosfera a un grado di incandescente volgarità.
«Chramcova Vu-I. Chramcova I-Effe. Chramcov Ti-I!». È così che li chiama, i querelanti, con le iniziali: «Vu-I, I-Effe, Ti-I»... Cos’è, analfabeta? «Qualcosa da dichiarare? Niente?».
«Io ho qualcosa da dichiarare» esclama un giovane alto e magro.
«A lei la parola, Chramcov!», ma lo dice come se gli stesse facendo l’elemosina: «Eccoti un soldino, buonuomo, ma poi chiudi quella ciabatta!».
Aleksandr Chramcov ha seppellito il padre, che suonava la tromba nell’orchestra del musical. Comincia a parlare e la sua voce si incrina subito, tra le lacrime:
«Mio padre ha girato il mondo con la sua orchestra. Ha rappresentato il nostro Paese e la nostra città. La sua morte è una perdita incolmabile. Come fate a non capirlo? Siete stati voi a far entrare i terroristi, a farli girare indisturbati... Voi, la città di Mosca! Non siete responsabili dell’irruzione, va bene, ma perché all’ospedale n. 13, dove sono state portati quattrocento ostaggi, c’erano solo cinquanta persone in servizio, tra medici e infermieri? Che non sono riuscite ad aiutare tutti quanti? C’è gente che è morta per non essere stata soccorsa... E mio padre con loro...».
Sul suo scranno la Dama Togata pare avere la mente altrove. Nulla lascia intendere che stia ascoltando. Nemmeno quanto sente sulla morte del musicista Fëdor Chramcov produce alcun effetto. Si limita a spostare pigramente le carte, ora qua, ora là, per far passare il tempo. È annoiata. Ogni tanto guarda fuori dalla finestra, si sistema il collarino, con la coda dell’occhio controlla sul vetro scuro che nulla sia fuori posto, si gratta un orecchio – sarà l’orecchino che le prude?...
Intanto Chramcov figlio continua. Si rivolge, è ovvio, ai tre avvocati difensori al tavolo accanto, i «rappresentanti di Mosca», membri degli uffici legali del Municipio. A chi altri dovrebbe rivolgersi, del resto? Certo non al giudice, che si sta facendo la manicure...
«Se i medici non bastavano, perché non avete fatto entrare nell’edificio gli studenti di medicina? O se non nell’edificio, almeno sugli autobus con cui avete trasportato gli ostaggi negli ospedali! Li avrebbero potuti visitare lungo il tragitto... C’era gente che soffocava perché l’avevano messa prona...».
«Chramcov!» lo interrompe nervosamente la Gorbačëva, vedendo a chi si rivolge il querelante. «Chi sta guardando? Lei deve guardare me!».
«Va bene...». Aleksandr volge lo sguardo verso lo scranno del giudice. «Sono morti soffocati mentre li portavano in ospedale...».
Piange. E chi non lo farebbe?
Alle sue spalle piange anche la madre, Valentina Chramcova, la vedova. È vestita di nero, in prima fila, dietro la tribuna dei testimoni dov’è seduto il figlio. Il giudice Gorbačëva non può non vederla. Accanto a Valentina c’è Ol’ga Milovidova, col viso nascosto in un fazzoletto, le spalle come due gobbe appuntite che si alzano e si abbassano. Ma si sforza di trattenere i singhiozzi, non vuole fare il minimo rumore: tutti sanno che non bisogna irritare il giudice, che altrimenti potrebbe far sgombrare l’aula e costringerli ad aspettare fuori per delle ore. Ol’ga è al settimo mese di gravidanza. Nella tragedia ha perso la primogenita quattordicenne, che era tra il pubblico. Gliel’aveva comperato lei, il biglietto, e il 23 ottobre la figlia era andata a vedere quel «maledetto spettacolo», come lo definisce oggi Ol’ga. «Perché volete umiliarci?» esplode Tat’jana Karpova, madre di Aleksandr Karpov e moglie di Sergej. «Perché?».
Zoja Černecova – madre di Danila Černecov, ventun anni, studente universitario morto soffocato dai gas mentre guadagnava qualche soldo facendo la maschera in teatro – si alza e se ne va, ma il suo pianto disperato al di là della porta torna in aula, mescolato alle parole: «Io volevo dei nipotini... [la giovane vedova del figlio era incinta, ma ha perso il bambino nove giorni dopo il funerale di Danila]. E invece ho avuto questo processo dove vengo insultata impunemente!».
Come il re nudo non aveva abiti addosso, il nostro Paese non ha mai avuto una tradizione giudiziaria. Né un autentico potere giudiziario. Il giudice Gorbačëva ne è un esempio. I suoi datori di lavoro non siamo noi, cittadini contribuenti, ma quelli che l’hanno messa dov’è, e allora, per paura che le tolgano i privilegi e i vantaggi del suo status (che non sono pochi e rendono la vita dei giudici assai più gradevole di quella di un normale cittadino a basso reddito), non può far altro che rigettare ogni istanza sgradita. D’accordo. Ma perché infierire? Perché offendere e deridere? Perché uccidere chi è già morto?
Ma chi è il giudice Gorbačëva, che con tanto accanimento difende i diritti dell’erario moscovita? La risposta parrebbe semplice: la Gorbačëva rappresenta una branca di quel potere che si mantiene con le tasse dei contribuenti. In pratica il giudice campa sui nostri soldi, siamo noi a retribuire i suoi servigi, e non viceversa. Dunque perché tanto disprezzo per chi le paga lo stipendio?
Pensate che gli organi di stampa, tutti filogovernativi e controllati dal governo, abbiamo fatto parola dell’accaduto? O che ne abbia parlato la televisione di Stato? Figurarsi. Stampa e televisione hanno informato i cittadini che il giudice Gorbačëva godeva dell’appoggio delle autorità in difesa degli interessi dello Stato, che vengono prima di quelli dei singoli.
Questa è la nuova ideologia russa. L’ideologia di Putin. Testata sul campo in Cecenia. È stato allora, con l’ascesa al trono del Cremlino di Vladimir Putin e il fragore delle bombe all’inizio della seconda guerra cecena, che la Russia ha commesso il suo primo errore, tragico e immorale, da imputare alla sua patologica incapacità di riflettere. La Russia ha ignorato che cosa stava davvero accadendo in Cecenia: bombardamenti su città e villaggi e non sugli accampamenti dei terroristi, centinaia di vittime innocenti. È stato allora che buona parte di coloro che in Cecenia ci vivevano ha sentito (e sente tutt’oggi) di non avere la benché minima speranza. «Basta piangere. Rassegnatevi: sono le ragioni della guerra al terrorismo» veniva (e viene) loro propinato dalle autorità militari e civili che gli portano via figli, padri e fratelli senza spiegazioni di sorta, e che si infuriano quando le madri disperate a cui hanno ucciso i figli pretendono di conoscere le ragioni di quelle morti.
Per tre anni l’opinione pubblica è rimasta in silenzio. O quasi. La stragrande maggioranza di noi ha assolto lo Stato per la sua condotta in Cecenia e ha ignorato cinicamente chi sosteneva che ci si sarebbe ritorta contro, in quanto un governo che già una volta si è comportato in un certo modo non si fermerà di fronte a nulla e metterà alla prova anche la pazienza di chi sta fuori dalla Cecenia...
Così è stato. Anche alle vittime di Nord-Ost ripetono la stessa solfa: «Basta piangere. Rassegnatevi. Così andava fatto. Gli interessi dello Stato vengono prima di quelli del singolo». Lo Stato si comporta con loro come da tre anni e mezzo a questa parte si comporta con la popolazione civile cecena. Anzi no, forse un po’ meglio. Un cinquanta-centomila rubli meglio, dato che nel caso di Nord-Ost si è fatto carico dei funerali delle vittime. E in Cecenia no.
Come ha reagito l’opinione pubblica, la gente? Nessuna compassione per le vittime. Per lo meno nessuna compassione organizzata in reazione sociale e pubblica che le autorità non potessero ignorare. Anzi. La nostra società traviata vuole quiete e agio anche a prezzo della vita altrui. E passa oltre la tragedia di Nord-Ost, fidandosi del (comodo) lavaggio del cervello messo in atto dallo Stato più che della realtà dei fatti o delle parole di un vicino coinvolto in prima persona.
Un’ora dopo l’intervento di Aleksandr Chramcov il giudice Gorbačëva snocciola la sua sentenza a favore dei governanti della capitale. Tutti lasciano l’aula. Rimangono solo i ‘vincitori’: Jurij Bulgakov, legale alle Finanze del Comune di Mosca, Andrej Rastorguev e Marat Gafurov, consiglieri dell’ufficio legale del Comune di Mosca.
«Festeggiate?» mi scappa di bocca.
«No» mi rispondono tutti e tre, rattristati. «Siamo esseri umani. Ci rendiamo conto anche noi... È una vergogna che lo Stato li tratti in questo modo».
«E allora perché lo fate? Perché avete accettato questo compito indegno?».
Silenzio. Mosca ci avvolge nell’abbraccio della notte. Accompagnando alcuni a un focolare colmo delle risa e dell’affetto dei propri cari. E altri in appartamenti sordi, vuoti per sempre dalla sera del 23 ottobre. L’ultimo a uscire, ingobbito, è un signore non più giovane e canuto con un’espressione vivace negli occhi. È rimasto lì, senza mai intervenire, per tutta l’udienza, in un angolo, dignitosamente.
«Come si chiama?» gli chiedo.
«Tukaj Valievič Chaziev».
«Era là dentro anche lei?».
«No. Ci ho perso un figlio...».
«Possiamo parlare?».
È riluttante, ma mi dà il suo numero di telefono...
«Non so come potrebbe prenderla mia moglie... Non è una cosa di cui riesce a parlare... Va bene, mi chiami tra una settimana, intanto io cercherò di spiegarle...».
La famiglia Chaziev ha passato l’inferno. E non sono parole. Non hanno solo seppellito Timur, orchestrale ventisettenne del musical Nord-Ost, figlio, nipote, padre, marito e fratello. Hanno anche subìto angherie tremende da quell’ideologia che, di fatto (e non sto esagerando), ha ucciso Timur.
«Davvero Putin non poteva trovare un compromesso con i ceceni? Con i terroristi?» non fa che ripetere Tukaj. «A chi serviva tanta pervicacia? A noi no... Siamo o non siamo cittadini anche noi?».
Nella casa sul Volgogradskij prospekt, a Mosca, Tukaj Chaziev è l’unico che riesce a parlare di certe cose senza piangere. La moglie Roza, Tanja, la vedova di Timur, e la nonna ottantasettenne non possono tenere a freno il dolore. A frullare come una trottola fra gli adulti c’è la bionda Sonja, la figlia di Timur, che si è perso la festa del suo terzo compleanno.
Apparecchiano. Sonja si arrampica su una sedia, altrimenti non riuscirebbe a prendere la tazza più grande. «Questa è per papà. È di papà, questa! Non usarla, tu!» scandisce senza possibilità di appello. La nonna Roza le ha spiegato che papà è andato in cielo e che non tornerà, ma Sonja è piccola e non capisce perché...
«Io credevo nello Stato» dice Tukaj Chaziev. «Ci ho creduto fin quasi alla fine dei tre giorni dell’occupazione. Pensavo che si sarebbero inventati qualcosa, che avrebbero trovato un accordo, che avrebbero fatto qualche promessa per alzare una cortina di fumo, e che tutto si sarebbe risolto... Non mi aspettavo certo che avrebbero seguito i consigli di Žirinovskij... Ricordo che disse che bisognava avvelenarli tutti col gas, così si sarebbero fatti una bella dormita di un paio d’ore, dopo di che si sarebbero svegliati e sarebbero usciti di lì... Non si sono svegliati. E non sono usciti».
La vita di Timur Chaziev era legata a doppio filo alla musica e alla Casa della Cultura di via Dubrovskaja 1, dove da bambino aveva frequentato il laboratorio musicale Lira e dove lo aspettava la morte quale membro dell’orchestra scritturata per il musical.
All’epoca Tukaj e Roza, i suoi genitori, avevano una stanza in un appartamento in coabitazione poco distante da lì, e due dei loro figli – El’dar (il maggiore) e Timur (il minore) – avevano studiato fisarmonica alla Casa della Cultura. A Timur gli insegnanti avevano consigliato di continuare gli studi. Terminata la scuola dell’obbligo, giunse il momento di fare una scelta, e nel giro di appena un anno, aiutato solo dal proprio maestro, Timur sostenne l’esame per gli strumenti a percussione. Scelse poi di dedicarsi agli strumenti a fiato, e completò il corso in tre anni invece che quattro. Quindi passò all’Accademia Gnesin, il sogno di una vita.
Il suo insegnante diceva che era raffinato, elegante e colto, che teneva le bacchette delle percussioni in un modo tutto suo, aristocratico quasi...
Oltre a frequentare l’Accademia, Timur lavorava per le orchestre del ministero della Difesa, quella sinfonica e quella di fiati. Con loro era andato in tournée in Norvegia e avrebbe dovuto suonare in Spagna, ma dopo quel 23 ottobre.
«Gli avevo preparato l’uniforme... E il frac per il concerto» dice Roza con voce ferma, per non cedere alle lacrime, mentre apre l’armadio. «Non vogliono riprenderseli, quelli del ministero...».
Sonja ci vola accanto e afferra il berretto con la coccarda, se lo calca in testa e saltella per la stanza: «È di papà! È di papà!». Tanja non resiste ed esce.
Finita l’Accademia, a Timur viene offerto di suonare per Nord-Ost. Era il terzo lavoro, ma lo accettò. Perché aveva una moglie e una bambina piccola. Tanja è diplomata all’Accademia di euritmia, è attrice e regista, ma fa l’educatrice in un asilo, con i pochi soldi di stipendio che ne vengono. Tutto per Sonja.
Si può non credere ai presentimenti e alle sensazioni, però...
«Timur aveva smesso di dormire un mese prima dell’attentato» mi racconta Tanja. «Mi svegliavo all’alba e lo trovavo lì, seduto. “Vieni a letto,” gli dicevo “cosa fai?”. “C’è qualcosa che mi preoccupa” rispondeva...».
In famiglia pensavano tutti che fosse solo molto stanco. Le sue giornate cominciavano presto. Accompagnava Sonja e Tanja all’asilo, in macchina, poi passava a casa dei genitori per esercitarsi; gli strumenti li teneva da loro. Ultimamente stava cercando di migliorare la mano sinistra, era felice dei risultati e diceva a Tanja che nel giro di un paio d’anni sarebbe diventato un ottimo percussionista. Dopo aver fatto un po’ di pratica, saltava nuovamente in macchina e andava alle prove dell’orchestra del ministero; da lì, in un intervallo, correva a riprendere moglie e figlia all’asilo e le riportava a casa, dopo di che andava a suonare per Nord-Ost. Rincasava verso mezzanotte, e la mattina dopo, di buon’ora, tutto ricominciava da capo. Dava l’impressione di avere una gran fretta di vivere la vita. Perché? Aveva solo ventisette anni. Nessuno ha una risposta a questa domanda. E nemmeno al perché il 23 ottobre Timur fosse in teatro...
«Era un mercoledì» racconta Tanja. «E avevamo deciso che il mercoledì doveva essere la serata per la famiglia. Di solito il mercoledì suonava un altro percussionista, ma quel giorno aveva chiesto a Timur di sostituirlo perché la sua ragazza voleva che stesse con lei... Ha salvato il suo uomo... E io ho perso il mio».
«Neanche lei vorrebbe che le cose di un suo caro restassero in giro, giusto?» mi chiede Roza. «Allora siamo andati là dentro... E non abbiamo trovato né il cellulare, che Timur si era appena comperato con i primi soldi, né i suoi vestiti nuovi».
«Là dentro», va da sé, Roza aveva avuto una crisi isterica. Ai genitori di Timur è stata restituita una vecchia giacca con un’impronta di stivale sulla schiena e una maglietta. Nient’altro.
Negli ultimi anni siamo diventati molto più rozzi. E molto più vili. È una tendenza evidente, e lo diventa sempre più man mano che la guerra nel Caucaso continua, trasformando vecchi tabù in abitudini consolidate. Omicidi? Roba di tutti i giorni... Furti? Che c’è di male! Sciacallaggio? È la norma. I crimini non trovano una condanna non solo in un’aula di tribunale, ma nemmeno nell’opinione pubblica. Quel che prima era vietato, ora è lecito...
In quei giorni tremendi di ottobre pareva che tutto il Paese stesse pensando a come aiutare gli ostaggi, che pregasse, sperasse e aspettasse una soluzione, unito come mai...
Ma in pratica non poté fare nulla. I servizi speciali non lasciavano passare nessuno. «È tutto sotto controllo» dicevano. Ma come possiamo sorvolare sul fatto che tra coloro che hanno avuto libero accesso all’interno ci sia stato qualcuno che ha fatto un po’ di shopping? Che si è portato via le cose più belle e più nuove? Perché, vista dal di fuori, è così che è andata. Le famiglie delle vittime non se lo toglieranno mai di dosso ciò che hanno provato in quei giorni. Nemmeno con un milione di dollari a testa per i danni morali. Ricorderanno tutto quanto.
A giudicare dalla sua maglietta, Timur era – sì – a terra, ma fuori, per strada. Roza non è riuscita a smacchiarla, quella mistura tutta moscovita di fango, benzina e grasso...
L’ultima volta che era uscito per andare al lavoro, Timur aveva in tasca una decina di tesserini completi di fotografia: quello di musicista dell’orchestra di Nord-Ost, quello dell’orchestra del ministero della Difesa, la carta d’identità, la patente... E anche una rubrica telefonica con i numeri di amici e parenti...
Ciò nonostante, il 28 ottobre, la famiglia si vide consegnare il suo corpo con attaccata a un braccio una targhetta di plastica su cui era scritto: «n. 2551. Chamiev. Non identificato».
«Com’è potuto succedere?» mi chiede Roza. «E perché “Chamiev” con la “m”? E perché “Non identificato”, se prima c’è scritto “Chamiev”? E perché abbiamo dovuto cercarlo per tanto tempo? Bastava aprire la sua rubrica telefonica, scegliere un numero a caso e chiedere: “Conosce Timur Chaziev?”. Gli avrebbero dato subito il nostro telefono...».
La madre di Timur sta parlando del giorno dopo l’irruzione, di quel lunghissimo 26 ottobre che la famiglia Chaziev non potrà più dimenticare.
«Fino alle quattro del pomeriggio il suo nome non figurava da nessuna parte, in nessun elenco ufficiale degli ostaggi» mi racconta Tukaj Chaziev. «È spuntato di colpo dopo che avevamo fatto il giro degli obitori e degli ospedali. In una breve lista di una ventina di persone, incluso Timur; si diceva che era vivo e si trovava nell’ospedale n. 7. Ho chiamato mia moglie e le ho detto che era tutto a posto. Abbiamo pianto di gioia, gli amici ci hanno fatto le congratulazioni. Tat’jana e io siamo andati subito in ospedale».
All’ingresso, però, trovano una guardia che non fa passare nessuno: divieto della procura, dice. Tanja scoppia a piangere. La guardia si muove a pietà e sussurra a Tukaj che se il loro caro è lì non è una bella notizia: «È morto». Tanja lo sente e lo supplica di lasciarla entrare. La guardia cede una seconda volta e apre la porta.
I corridoi sono deserti. Poi incontrano un poliziotto con un mitra ad armacollo.
«Un uomo senza cuore» mi dice Tanja. «Altro che “Fatevi coraggio” o “Siate forti”... “È morto, fuori di qui!” ci ha sputato dritto in faccia. Gli ho urlato di tutto per venti minuti. Sono accorsi i medici. “Chi vi ha fatto passare?” ci chiedevano...».
Quando Tanja torna in sé, chiede di poter vedere il corpo di Timur prima dell’autopsia. Le dicono di no. Lei insiste. «Lo chieda a Putin, il permesso» le dice il poliziotto. Arrivano tre personaggi della procura: «Quanta fretta! Come mai?» chiedono. «Avrete tutto il tempo per chiudergli la bara! Nome? Chaziev? È ceceno?».
Quello era stato il guaio di Timur Chaziev! Un cognome tataro che gli uomini della sicurezza avevano scambiato per ceceno. Il resto era solo una conseguenza.
Ora la famiglia è convinta che Timur sia morto perché era stato scambiato per ceceno e intenzionalmente privato delle cure. Quando gli uomini della famiglia Chaziev andarono a prendere il suo corpo all’obitorio, Timur aveva scritto sul petto «9.30», l’ora di un decesso sopraggiunto in ospedale, dunque. E nient’altro. Niente tracce di flebo, iniezioni, ventilazione forzata... Le alte sfere avevano dato ordine di eliminare i ceceni e, in quanto «ceceno», Timur non aveva diritto a essere rianimato. Era rimasto quattro ore e mezzo lì, agonizzante, a morire. Ad ucciderlo era stata l’ideologia di Stato.
«Non valiamo niente, in questo Paese... Siamo rifiuti umani. Questa è la storia del mio Timur» sono le ultime parole di Tanja.
Il 26 ottobre, mentre Tanja e Tukaj Chaziev stavano aspettando fuori dell’ospedale, una squadra di una ventina di persone – alcune in divisa, altre in borghese – aveva cercato di entrare in casa di Timur. La vicina era riuscita a stento a sventare l’irruzione. All’ospedale avevano ricevuto «una soffiata»: ci abitava un ceceno, lì, le avevano spiegato.
Che cosa devono fare, ora, i Chaziev? Smettere di piangere e rassegnarsi?
«Quando l’abbiamo detto in tribunale» ricorda Tukaj «il giudice Gorbačëva ha fatto orecchie da mercante. Sosteneva che tutti avevano ricevuto assistenza medica».
I Chaziev hanno ricevuto un certificato di morte, ma la «causa del decesso» è in bianco. Neanche un accenno all’attentato. Dunque, oltre all’ideologia assassina, contro Timur e i suoi agisce un sistema statale di cancellazione giuridica delle prove.
«Immagino che abbiate chiesto alla procura perché la causa del decesso è rimasta in bianco».
«Certamente. Il 28 ottobre. E ci hanno spiegato che era una semplice formalità affinché potessimo celebrare il funerale al più presto, e che avrebbero scritto la vera causa della morte non appena avessero ricevuto i risultati dell’autopsia...».
«E lo hanno fatto?».
«Certo che no».
Una risposta disarmante. Dal potere non ci si aspetta la verità. Nel migliore dei casi il potere è fonte di guai. Alla faccia dei sondaggi sulla popolarità del governo, che risulta sempre altissima. L’ufficio del presidente ha da poco istituito un apposito dipartimento preposto a curare l’immagine del Paese e del suo capo all’estero. L’intenzione è di limitare la fuoriuscita di informazioni negative e di fare sì che la Russia si presenti sotto una luce migliore agli occhi degli stranieri. Non sarebbe invece preferibile che si creasse un dipartimento analogo per migliorare l’immagine del Paese e del presidente agli occhi dei russi stessi?
«Davvero Putin non poteva fare marcia indietro? E dire basta alla guerra? I nostri cari sarebbero ancora vivi» non fa che ripetere Tukaj Chaziev. «Io voglio sapere chi è il responsabile della nostra tragedia. Tutto qui».
Di recente Tanja ha comperato Kirjuša e Frosja. Una tartaruga e un gatto. Per avere qualcuno da cui tornare. Per quanto non si renda conto di che cosa sia successo, dopo l’asilo la piccola Sonja non vuole rientrare in una casa dove non c’è il suo papà...
E ancora: qualche tempo fa i Chaziev hanno ricevuto una telefonata dal redivivo Nord-Ost e si sono sentiti offrire dei biglietti per il musical. Li hanno rifiutati, è ovvio, ma dall’altra parte hanno insistito: se un giorno volessero... Un’iniziativa di dubbio gusto: rappresentare la gioia sulla scena di un massacro... Come ci siamo ridotti...
STORIA TERZA
IRAŽDI, JACHA E I LORO AMICI
Solo un pazzo potrebbe invidiare i ceceni che vivono in Russia. La loro vita non è mai stata rose e fiori neanche in passato, ma dopo il caso Nord-Ost la macchina della vendetta etnica di Stato ha ingranato la velocità massima. Attacchi razzisti e purghe sotto l’egida della polizia sono diventati routine. Basta un attimo per perdere la vita, la casa, il lavoro, la terra sotto i piedi... E la ragione è una sola: sono ceceni. Per loro la vita a Mosca e in molte altre città non solo è impossibile, con gente che pur di sbatterti qualche anno in galera ti infila della droga in tasca e delle pallottole in mano; la realtà è diventata un incubo, un vicolo cieco, un muro di gomma senza uscita per chi viene considerato apertamente un paria. Un tipo di vita a cui non sfugge nessuno, bambini e vecchi inclusi.
«Quando hanno cominciato a parlare ceceno, interrompendo il primo atto, ho capito subito che era una cosa seria e che non sarebbe finita bene. L’ho capito subito...». Jacha Neserchaeva, quarantatré anni, economista di formazione e di professione, è nata a Groznyj, è cecena, ma vive a Mosca da tempo. Il 23 ottobre era andata a vedere Nord-Ost. Galja, una sua vecchia amica di Uchta, città del Nord della Russia, aveva comperato due biglietti di tredicesima fila, in platea, e l’aveva trascinata fuori di casa. Jacha non ha una gran passione per i musical, ma Galja aveva insistito perché le facesse compagnia.
«Gliel’ha detto, ai terroristi, che era cecena?».
«No. Ho avuto paura. Non sapevo che cos’era meglio fare. Magari mi avrebbero sparato: una cecena che assisteva a un musical!».
Jacha non l’ha visto, il gas, mentre molti altri ostaggi riferiscono di aver notato delle strane volute bianche. Dal suo posto Jacha ha solo sentito gridare: «Il gas! Stanno usando il gas!». Poi è svenuta.
Ha ripreso i sensi in ospedale, anche lei al policlinico n. 13 come Irina Fadeeva, protagonista della prima storia. Aveva forti conati di vomito e non era del tutto in sé, ma di lì a poco si trovò di fronte un giudice istruttore.
«Mi chiese nome, cognome, indirizzo e perché fossi a teatro... Dopo di che si presentarono due donne che mi presero le impronte digitali e i vestiti per una perizia. Il giudice tornò la sera: “Brutte notizie” mi disse. La prima cosa che mi passò per la testa fu che l’amica con cui ero andata al musical fosse morta. E invece no: “La dichiaro in arresto per complicità con i terroristi”. Fu uno choc. Ma mi alzai e lo seguii, in pantofole e vestaglia. Per due giorni mi tennero all’ospedale n. 20 [un ospedale di sicurezza], dove nessuno mi chiese niente e dove nessuno mi curò. Non ne ho mai ricevute, di cure, io... Alla fine del secondo giorno il giudice istruttore tornò, mi fece delle foto e registrò la mia voce. Qualche minuto dopo mi portarono un cappotto e degli scarponi da uomo, mi misero le manette e mi dissero: “Deve essere curata in un altro ospedale”. Mi caricarono su una macchina della polizia, mi tennero una decina di minuti in un ufficio della procura, dopo di che mi portarono in prigione, al carcere di isolamento femminile di Mar’ino, così com’ero. Non mi lavavo e non mi pettinavo da una settimana, ero senza calze, con degli scarponi di tre numeri più grandi e un cappotto lercio da uomo. “Lurido topo di fogna” mi ripeteva la secondina...».
«L’hanno interrogata spesso, quand’era in isolamento?».
«Mai. Me ne stavo lì, ferma, e dicevo alla guardia che volevo vedere il giudice istruttore...».
Jacha parla lentamente, sottovoce, senza tradire alcuna emozione. Pare quasi assente. Se non sapessi che è viva, penserei che non è più tra noi. Ha gli occhi sgranati, fissi su un punto. Il viso immobile. La fotografia sulla carta d’identità pare di un’altra persona: l’espressione è diversa, quella di una bella donna sicura di sé.
Ogni tanto prova a sorridere, Jacha, ma nelle due settimane che ha passato in prigione i suoi muscoli hanno dimenticato come si fa... In cella aveva deciso che era finita, che nessuno sarebbe venuto a salvarla. Peggio di così non poteva andare. Lungo il tragitto i poliziotti che l’avevano trasferita in prigione dall’ospedale, gli unici che le abbiano mai rivolto la parola, l’avevano informata che «l’avrebbe pagata per tutti gli altri»: loro erano stati sterminati, lei era ancora viva...
Ma come in tutti i musical, prima che il sipario cali arriva il lieto fine.
Gli amici di Jacha si chiamarono a raccolta e trovarono subito un avvocato che riuscì miracolosamente ad aprirsi un varco in un muro che pareva impenetrabile. Dopo dieci giorni di prigione, Jacha venne rilasciata. In un’epoca di razzismo conclamato come la nostra, gli uomini della procura che si occupavano del caso n. 229133 (il Nord-Ost) non trovarono nulla contro di lei e si comportarono civilmente, evitando di inventarsi chissà che al pari di altri loro colleghi quando si ritrovano per le mani dei ceceni: non le cucirono addosso un’accusa ad hoc, evitarono abusi e vessazioni al solo scopo di vendicarsi su una cecena. Caso raro, di questi tempi.
Nel rilasciarla, anzi, le presentarono persino delle scuse e la scortarono a casa in macchina. Siano, dunque, ufficialmente rese grazie al giudice istruttore V. Prichožich e agli uomini del ministero degli Interni, distretto Bogorodskoe, che consegnarono a Malika, la sorella maggiore di Jacha giunta in tutta fretta da Groznyj per aiutarla a rimettersi in sesto, un foglio che la autorizzava a risiedere a Mosca per prestare assistenza a un familiare in difficoltà. Senza un foglio simile, oggi, a Mosca, una cecena non può nemmeno uscire di casa, pena l’arresto immediato, e loro lo sapevano...
Aelita Šidaeva ha trentun anni. È cecena anche lei, e vive a Mosca, con i genitori e la figlia Chadižat, da che è iniziata la guerra. Aelita è stata arrestata sul posto di lavoro, in un bar vicino alla fermata del metrò Mar’ino. È calma e controllata mentre mi racconta la sua storia. Niente lacrime, niente scenate isteriche, piuttosto un sorriso cordiale. Può quasi sembrare che la sua non sia stata una brutta esperienza. Ma poi scopro che quando l’hanno rilasciata – dopo sette ore di terzo grado nel comando di polizia di Mar’inskij park – Aelita è svenuta per strada...
«È stato tutto molto strano... È cominciata con un poliziotto venuto a pranzare da noi al bar... Ma vengono in tanti, il comando è a un centinaio di metri. Non ho mai fatto segreto di essere cecena e di essere scappata da Groznyj e dalla guerra. Quel poliziotto, insomma, ha mangiato ed è uscito. Poi sono arrivati gli altri, tutti insieme, una quindicina con in testa Vasil’ev, il poliziotto di quartiere, che mi conosce benissimo. Hanno fatto mettere tutti contro il muro, ci hanno perquisito e poi mi hanno portato via».
«Che cosa le hanno chiesto?».
«In che rapporti ero con i terroristi. “Ma mi avete visto tutti!” gli ripetevo io. “Mi avete sotto gli occhi dodici ore al giorno, dalle undici della mattina alle undici di sera!”».
«E loro?».
«“Con quale dei terroristi sei stata al ristorante?”. Non ci vado mai, al ristorante, io! Faccio un’altra vita! Mi hanno detto che se non confessavo di avere dei legami con i terroristi mi avrebbero nascosto in casa della droga o delle armi. Mi interrogavano a turno. E intanto c’erano degli altri militari in divisa che passavano e osservavano la scena. A un certo punto mi hanno detto che se non confessavo, mi avrebbero fatto “lavorare” da quelli là, che aspettavano solo un cenno. E che con quelli “lo vuotavano tutti, il sacco”».
Alla polizia le dissero anche che era stata licenziata. Erano stati loro a indurre il proprietario del bar a farlo, altrimenti gli avrebbero chiuso il locale.
Se Aelita è stata rilasciata è solo perché la madre Makka, insegnante di russo, è un’attivista del movimento per i diritti civili e «ha fatto un gran casino» (testuali parole dei poliziotti). Makka chiamò la radio Eco di Mosca, mobilitò il celebre avvocato Abdula Chamzaev e altri con lui, e nonostante al comando di polizia insistessero ottusamente nel dire che sua figlia lì non c’era, alla fine riuscì a farla rilasciare.
Aelita non è più sotto choc. Comprende perfettamente la sua situazione e dice che vuole andarsene da Mosca.
«In Cecenia?».
«No. All’estero».
Makka è contraria. Non all’idea che Aelita porti con sé la figlia, che ha diritto a un’istruzione nonostante quanto perpetrato da Movsar Baraev al teatro Dubrovka e nonostante le attenzioni della polizia moscovita nei confronti delle ragazze cecene. Makka è contraria al fatto di partire con loro. Non riesce a immaginarsi di vivere altrove. Ma non riesce nemmeno a immaginare che cosa voglia la Russia da lei, da Aelita e da Chadižat, tre generazioni di donne cecene. La prima, la più anziana, ha vissuto buona parte della sua vita in URSS. La seconda, più giovane, non ha mai avuto una vita vera, sa solo fuggire da un posto all’altro, da una guerra all’altra. La terza, giovanissima, finora osserva e ascolta attentamente il mondo attorno a sé e non dice nulla. Finora.
La maestra di Chadižat ha appena chiamato Aelita. È molto imbarazzata nel chiederle di portare un foglio che attesti il suo status di ragazza madre. Ma chi li rilascia, certi attestati? In caso contrario, vede, anche se gli altri documenti sono a posto, «non ci sarà niente da fare»... Chadižat verrà espulsa. Lei che era stata portata a Mosca perché potesse studiare e che dopo il 26 ottobre non ha più un posto nella sua scuola, la n. 931.
«Non riesco a capire se il fatto di essere una ragazza madre sia un ‘pro’ o un ‘contro’» dice Aelita. «Di chi mi posso fidare?».11
Per diversi anni Abubakar Bakriev ha ricoperto modesti incarichi tecnici per una compagnia chiamata Prima Banca repubblicana. Ora, però, è libero. Liberissimo. È successo senza drammi, semplicemente. Un giorno è stato convocato dal viceresponsabile della sicurezza della compagnia, che gli ha detto: «Cerca di capirmi, ma quelli come te ci tireranno addosso dei guai. Firmami una lettera di dimissioni».
Abubakar non riusciva a credere alle sue orecchie. Poi, però, il suo capo ha aggiunto che «quelli» volevano dimissioni retrodatate, magari al 16 ottobre, di modo che non sorgesse il sospetto che lo stessero licenziando per una reazione anticecena al caso Nord-Ost. In breve: i carnefici lo ammazzavano (perché per un ceceno il licenziamento equivale alla morte: non ha speranza di trovare un altro lavoro) e volevano anche comprensione... È un approccio diffuso, ultimamente: «Cara la mia vittima, sto per farti fuori, ma non perché sono cattivo. Sono gli altri che mi costringono. Dunque non pensare che io sia un assassino...».
Quello stesso giorno la banca ‘fece dimettere’ allo stesso modo anche un daghestano, sempre con lettera retrodatata. Aveva un ruolo modesto, ma venne ‘epurato’ a scanso di domande indesiderate sul fatto che dessero lavoro a persone di origine caucasica.
«La Prima Banca repubblicana è stata ripulita» dice Abubakar. «I servizi di sicurezza possono dormire sonni tranquilli. Ho cinquantaquattro anni. Non so dove andare. La polizia è già venuta tre volte a casa mia a vedere come campo con tre figli a carico. Ci state trasformando in nemici. Dovete capire che non ci resta altro modo, ormai, per reclamare l’indipendenza... Perché da qualche parte ci deve pur essere una terra in cui poter vivere in pace. Dateci un pezzo di terra. Uno qualunque. E noi ci andremo a vivere...».
Isita Čirgizova e Nataša Umatgarieva sono due donne cecene che vivono nel campo profughi provvisorio del villaggio di Serebrjaniki, nella zona di Tver’. Ci siamo conosciute al commissariato 14 della polizia di Mosca. Isita si stava pulendo le dita dopo che le avevano preso le impronte. Nataša non riusciva a smettere di piangere. Le avevano appena rilasciate. Un miracolo, al giorno d’oggi. I poliziotti avevano avuto pietà.
La mattina del 13 novembre le due donne erano state le protagoniste di una tipica storia cecena moderna. Erano arrivate a Mosca in treno, di buon’ora, per ritirare degli aiuti da una organizzazione umanitaria. Le avevano arrestate nella stazione del metrò, a pochi metri dalla porta dell’organizzazione, perché Nataša zoppicava (ha un’ulcera da diabete a un piede) e i poliziotti pensavano che si trattasse di una guerrigliera ferita. Isita, invece, è al settimo mese di gravidanza e sotto la giacca ha un bel pancione. Peccato che proprio lì le kamikaze si allaccino la cintura con l’esplosivo... Non ridete. La spiegazione fornita dal maggiore Ljubeznov (che a dispetto del suo nome – ljubeznyj significa amabile – fu tutt’altro che gentile), di turno quel giorno e pronto a palpare personalmente il ventre di una donna incinta per la giusta causa della lotta al terrorismo, fu proprio quella. Doveva verificare che fosse ‘autentica’. Santo cielo.
La storia di Isita e Nataša ha avuto un lieto fine. I poliziotti si sono limitati a rovesciar loro addosso una valanga di accuse nefande del tipo «voi ammazzate noi e noi ammazziamo voi», ma il maggiore Ljubeznov non ha avuto modo di infierire oltre. L’essenziale è aver provato che è stato possibile fare due cose importantissime. La prima, intercettare le due donne prima che le portassero in isolamento. La seconda, convincere il capo del comando di polizia Vladimir Maškin (disposto a lasciarsi convincere) che se la gente va a chiedere gli aiuti umanitari lo fa perché è povera e perché non ha modo di trovare un lavoro e una casa...
Zara vendeva ortaggi alla stazione del metrò Rečnoj Vokzal. Un giorno il proprietario del mercato le si avvicinò e le disse: «Da domani fai a meno di venire. Sei cecena». Zara ha una famiglia sulle spalle: tre figli e un marito tubercolotico.
Aslan Kurbanov ha passato tutta la prima guerra cecena in un campo profughi in Inguscezia. In estate ha fatto domanda di iscrizione in un istituto universitario di Saratov, dopo di che è sbarcato a Mosca, dalla zia Zura Movsarova, dottoranda presso l’Istituto Tecnico Aeronautico, si è trovato un lavoro e ha ottenuto il permesso di soggiorno nella capitale.
Il 28 ottobre in casa sua si presentarono gli uomini della polizia investigativa del comando n. 172 (quartiere Brateevo). Il giorno prima il poliziotto di quartiere aveva chiesto a Zura di farsi prendere le impronte digitali, perciò quando gli agenti dissero ad Aslan di seguirli per lo stesso motivo, nessuno ebbe il minimo sospetto che si trattasse d’altro. Aslan si infilò il cappotto e salì sulla macchina della polizia.
Tre ore più tardi non era ancora tornato e Zura aveva cominciato a preoccuparsi. Era andata alla polizia, dove le avevano comunicato che il nipote era agli arresti per possesso di droga. Come sarebbe? S’era messo il cappotto, si era infilato in tasca qualche dose ed era andato a consegnarsi alla polizia? Dalla cella Aslan era riuscito a gridare alla zia d’esser stato portato in una stanza; lì avevano tirato fuori della marijuana da un cassetto e gli avevano spiegato che era roba sua: «Perché noi, ai ceceni, non gli diamo pace. Vi sbatteremo dentro tutti quanti così».
Aslan non fuma nemmeno le sigarette. Ha festeggiato il suo ventiduesimo compleanno in galera, nella prigione di Matrosskaja Tišina.
La mattina del 25 ottobre la polizia ha fatto irruzione nell’appartamento della famiglia ceceno-moscovita dei Gelagoev. Alichan, il padrone di casa, è stato ammanettato e portato via. Marem, la moglie, si è precipitata alla polizia – comando di Rostokino – per tentare di aiutarlo. Là si è sentita dire che i poliziotti non avevano mai lasciato la centrale. Marem ha telefonato subito a Radio Liberty, che ha dato notizia dell’accaduto. Quella sera stessa Alichan è stato rilasciato. Marem aveva trovato la via giusta...
Alichan mi ha riferito di essere stato incappucciato e percosso durante il tragitto verso la centrale. Al grido di: «Voi ci odiate, ma noi odiamo voi! Voi ci volete distruggere, e noi distruggeremo voi!».
Arrivati in sede, alla Petrovka, avevano smesso di picchiarlo, ma per ore avevano cercato di convincerlo a firmare una confessione: doveva ammettere di essere la mente dell’attentato al teatro Dubrovka (una tecnica mutuata dai colleghi d’epoca stalinista). La confessione, tra l’altro, era già pronta. Mancava solo una firma in calce.
Alichan si rifiutò. Ma per poter essere rilasciato fu comunque costretto a firmare un verbale in cui diceva di essersi «presentato volontariamente alla centrale di polizia» e di non avere «reclami da sporgere contro le forze dell’ordine».
È razzismo, questo? Sissignori. È l’inferno? Certamente. Ed è anche una parodia cinica della guerra al terrorismo. Per questo non credo alle cifre dell’operazione Turbine che la polizia sbandiera ai quattro venti. Dicono di aver arrestato non so quanti «complici dei terroristi». False le cifre. Falsi i poliziotti. Falsi i verbali. Falso il loro lavoro basato sulla menzogna.
E intanto dove sono i terroristi veri? Che cosa stanno facendo? Nessuno lo sa... La polizia non ha tempo di occuparsene. E il responsabile di questo ritorno a un’impostura tutta sovietica è Putin.
«“Non preoccuparti, ti fai tre, quattro anni dentro e poi esci...” mi dicevano alla polizia mentre mi interrogavano. Per rassicurarmi, secondo loro» racconta Zelimchan Nasaev, trentasei anni. «“E magari ti danno anche la condizionale. Firma, che ti conviene”...».
Zelimchan vive a Mosca da qualche anno. La sua famiglia è fuggita dalla seconda guerra cecena, come già aveva fatto in passato la sorella maggiore di Zelimchan, Inna, che vive anche lei nella capitale.
«L’hanno picchiata?».
«Ovvio. Mi svegliavano alle tre di notte e dicevano: “Torchiatelo”. Mi picchiavano sulle reni e sul fegato con una superficie dura a fare da cuscinetto [per non lasciare tracce visibili, evidentemente]. Volevano che firmassi una confessione. Ma io non cedevo... “Torchiatemi pure” gli dicevo. “Sparatemi, se volete, ma io non confesso niente che non ho fatto”. Non smettevano di ripetermi: “Perché sei venuto a Mosca, ceceno? La tua Patria è la Cecenia? E allora stacci e beccati anche la guerra”. “La mia Patria è la Russia” gli dicevo io. “E io abito nella sua capitale”. Si infuriavano. Per farmi perdere il controllo, poi, uno dei poliziotti mi diceva di essersi appena scopato mia madre...».
Se solo quel poliziotto avesse saputo chi stava minacciando e insultando a quel modo, chi stava picchiando e cercando di accusare di crimini non commessi solo per un avanzamento di carriera sull’onda della «guerra ai criminali ceceni nella capitale»... Ma forse è stato meglio che non lo sapesse.
Roza Magomedova Nasaeva, la madre di Zelimchan, è la nipote della leggendaria e bellissima Maria-Mar’jam, discendente dei Romanov e dunque parente dell’imperatore Nicola II, che si era perdutamente innamorata di un ufficiale dell’esercito zarista, il ceceno Vachu. Con lui era fuggita nel Caucaso contro la volontà della famiglia, per lui si era convertita all’Islam, aveva preso il nome di Mar’jam e gli aveva partorito cinque figli, con lui era stata deportata in Kazakistan, dove l’aveva seppellito. Poi era tornata in Cecenia, dov’era morta negli anni Sessanta celebrata come una santa... Una bella storia di amore e amicizia russo-cecena che in Caucaso tutti conoscono, ma che qui c’entra poco, perché nemmeno il sangue blu di una decina di imperatori avrebbe potuto aiutare Zelimchan a salvarsi dalla polizia dei nostri giorni. A Zelimchan e alle sue gocce di sangue Romanov è toccato lo stesso trattamento degli altri.
Ci sono zone di Mosca in cui non si ha nessuna voglia di andare. In realtà sono buchi: dietro le fabbriche, nelle zone industriali, sotto i fili dell’alta tensione. Bisogna cercarli lì, i ceceni che tentano di sopravvivere nella capitale. La camionabile Frezer è uno di quei posti: una striscia d’asfalto che da viale Rjazanskij porta fuori Mosca, verso la zona industriale, costeggiando vecchi edifici di mattoni che a fatica si possono definire case.
E case non sono nemmeno ufficialmente. Le mappe dicono «fabbrica Frezer», ma il complesso non esiste più da tempo, vittima della perestrojka. Gli operai se ne sono andati e i proprietari vivono affittando gli opifici e altri spazi della ex fabbrica. In uno di essi – sporco e cadente – si sono sistemati nel 1997 i primi rifugiati ceceni, quelli che scappavano dall’anarchia esplosa nell’intervallo tra le due guerre. Si trattava soprattutto dei familiari di chi si opponeva ai leader del tempo, Maschadov e Basaev. La direzione della Frezer li autorizzò a sistemare i locali, a convertirli in alloggi e a pagare un tributo per l’usufrutto.
Molti ceceni – ventisei famiglie – ci vivono ancora oggi. I Nasaev sono tra loro. La polizia locale li conosce perfettamente, nessuno tenta di nascondersi né desidera farlo, anche perché non avrebbe dove fuggire.
Dopo i fatti di Nord-Ost, la prima mossa della polizia del comando Nižegorodskaja è stata di presentarsi sul posto e di spiegare che avevano avuto «ordine dall’alto» di arrestare quindici ceceni «in ogni distretto». Gli uomini furono tutti caricati sugli autobus e portati via per essere schedati.
Zelimchan Nasaev-Romanov ebbe la sfortuna di non essere in casa, in quel momento. Era andato a consegnare una partita di penne (la famiglia le assembla in casa) e a ritirare altro materiale.
La polizia tornò a prelevare quel rampollo di stirpe imperiale in un secondo tempo. «Ci servono le tue impronte» gli dissero. E Roza non fece una piega. La famiglia cominciò a preoccuparsi qualche ora dopo, vedendo che il figlio non tornava. Allarmati, mamma e papà Nasaev andarono alla centrale, dove sentirono la solita solfa: «Vostro figlio aveva in tasca una miccia e una granata. Lo abbiamo arrestato».
«“Non ne avete il diritto!” mi sono messa a strillare. “L’avete portato via voi! È uscito di casa insieme a voi! E non aveva niente in tasca! Ho molti testimoni che possono confermarlo!”» mi racconta Roza. «Sa che cosa mi hanno risposto? “I ceceni non valgono come testimoni”. Mi sono sentita profondamente offesa... E chi siamo allora? Non siamo nemmeno cittadini, ormai?».
Quella notte la madre tornò a casa con un pugno di mosche. La mattina dopo le dissero che il figlio spacciava droga. E che non sarebbe mai riuscita a tirarlo fuori di lì.
«Mi prendono e mi portano in un ufficio» racconta Zelimchan. «“Spacci eroina, eh?” mi sento dire. Il più alto in grado ha in mano un pacchetto: “Questa è roba tua”, e me la infila in tasca. Io sono ammanettato. Protesto. “Ah sì? Allora ti ci metto anche una bella granata...”. E vedo che la pulisce con un fazzoletto per cancellare impronte altrui, che me la passa tra le dita e poi la mette a verbale. Io gli urlo che non ne ha il diritto e lui mi risponde: “Ce l’ho eccome. E se non accetti di aiutarci e di farti incolpare con le buone, dopo di te toccherà anche ai tuoi familiari. Adesso andiamo a casa tua e ci troviamo un altro pezzo di granata. Eh? Firma la confessione!”». Zelimchan si rifiuta. Lo picchiano, gli dicono che continueranno a farlo tanto da renderlo impresentabile a qualsivoglia avvocato.
L’hanno rilasciato su intercessione di alcuni giornalisti e del deputato della Duma Aslambek Aslachanov. Ora è a casa, nella sua baracca, in uno stato di profonda depressione: basta il minimo rumore alla porta per farlo sobbalzare. La depressione è un male comune per i ceceni che vivono accanto a noi. Non ci sono ottimisti, tra loro: né tra i giovani, né tra gli anziani. Nemmeno uno. Sono tutti apatici, si aspettano tutti il peggio. Sognano di fuggire all’estero per confondersi nella folla eterogenea e cosmopolita con il loro segreto, la loro nazionalità. Come ci siamo ridotti...
«In Russia la polizia sta celebrando l’ennesimo baccanale anticeceno» sostiene Svetlana Gannuškina, che dirige Assistenza Civile, un comitato di aiuto ai rifugiati e ai profughi. È a lei che si rivolgono i parenti di chi è stato arrestato, di coloro a cui sono state prese le impronte e a cui sono state infilate in tasca droga e armi, di chi è stato licenziato o minacciato di deportazione forzata (Signore onnipotente, ma dove si possono deportare dei cittadini russi dalla capitale della Russia?). Vanno da Svetlana perché non sanno dove altro andare.
«Questa nuova ondata di razzismo di Stato ufficialmente noto come operazione Turbine» continua Svetlana Alekseevna «è stata varata subito dopo l’irruzione al teatro Dubrovka. È una caccia al ceceno. Li stanno sbattendo fuori di casa e dal lavoro, soprattutto. Si rivalgono su un’intera popolazione per i crimini di singoli individui. Il metodo più in uso è di screditarli come popolo costruendo dei casi giudiziari fasulli, rifilando loro droga o armi. Si fanno persino beffe di loro: giocano al ‘poliziotto buono’ e lasciano scegliere il capo d’accusa alle vittime. Si salvano solo quelli che hanno una madre come Makka Šidaeva. E gli altri?».
E noi? Che razza di popolo siamo, noi russi, invece?
Qualche esempio.
Una famiglia cecena con tre figlie femmine. Una è riuscita a entrare alla scuola di musica, le altre due no, e i genitori hanno chiesto all’insegnante della prima di dare lezioni private di pianoforte alle altre due. Da qualche giorno l’insegnante ha smesso. Gliel’ha vietato il preside (a scuola tutti sanno tutto di tutti, è ovvio), sostenendo che così gli era stato imposto dalla Pubblica Istruzione. E che se l’insegnante avesse continuato, se ne sarebbe occupata la polizia.
Ecco. Questi siamo noi. I russi condividono per buona parte la xenofobia di Stato e non le rispondono con dimostrazioni antirazzismo. Perché? La propaganda ufficiale è molto efficace, e la maggioranza crede con Putin che i ceceni siano responsabili come popolo dei crimini commessi da singoli loro connazionali. Idee rozze e primitive che trovano terreno fertile.
Ma, nonostante una guerra che dura da anni, gli attentati terroristici, le tragedie e le fiumane di profughi, in Russia non si è ancora capito che cosa vogliano le autorità dai ceceni. Vogliono che restino nella Federazione Russa o no?
Per concludere, una storia semplice semplice, una storia di gente normale che vive in Russia ed è rimasta vittima dell’isteria di Stato.
«A scuola ti riprendono spesso?».
«Sì» sospira Siraždi.
«E per un buon motivo?».
«Sì...» sospira di nuovo.
«Quale sarebbe?».
«Corro per il corridoio, qualcuno mi spinge e allora io gliele do per farlo smettere. Quando poi mi chiedono se l’ho colpito, io dico sempre la verità, mentre gli altri stanno zitti. E allora mi danno una nota...».
«E se stessi zitto anche tu? Non sarebbe più semplice?».
«Non posso» e il sospiro si fa ancora più profondo. «Non sono una femminuccia. Se ho fatto qualcosa, io lo dico».
«Sa, quello cerca sempre di fare lo sgambetto ai nostri figli perché battano la testa... E muoiano...».
Dio del cielo! Sono degli adulti a parlare così di Siraždi. Che non è un agente speciale addestrato a uccidere terroristi, ma un bambino ceceno di sette anni. Le ha dette una donna adulta, quelle parole, un membro del comitato dei genitori della classe II B della scuola n. 155 di Mosca.
«Sa, mio figlio si lamenta sempre che Siraždi non ha nulla e gli chiede di prestargli le sue cose...» interviene un’altra mamma del comitato.
Si lamenta? E che c’è da lamentarsi? Se chi ti sta accanto non ha qualcosa, devi imparare a prestargliela eccome, accidenti!
«Dà fastidio a tutti. Cerchi di capirci! Un giorno mio figlio mi ha detto che non si era segnato i compiti perché Siraždi faceva tanto di quel rumore che lui non riusciva a sentire... È ingestibile, quel bambino. Come tutti i ceceni!» mi dice un’altra mamma.
Nell’aula vuota la conversazione si accende. Gli alunni sono tornati a casa, e il comitato dei genitori sta cercando un modo per ripulire la scuola da quel piccolo ceceno, «affinché i nostri figli non imparino brutte cose da un possibile futuro terrorista».
Pensate che stia facendo dell’ironia? Nossignori. Sto citando letteralmente...
«Non ci fraintenda. È ceceno, è vero, ma non è discriminazione, la nostra... No! Vogliamo solo proteggere i nostri figli!».
Ma da che cosa?
Un giorno di novembre il comitato dei genitori convoca una bella assemblea di classe per avvisare il padre e la madre di Siraždi che se non lo metteranno in riga entro fine dicembre e se il figlio non comincerà – «per quanto ceceno» (e cito di nuovo) – a comportarsi come il comitato vuole, si rivolgeranno al preside e chiederanno che venga espulso.
«Senta, ma perché vengono tutti a Mosca, quelli?». Eccola che affiora, la vera ragione. A chiedermelo, un paio di settimane dopo, è un’altra mamma del comitato. Vorrebbe spiegarmi la loro decisione.
E perché non dovrebbero venirci? Che cos’ha Mosca, di diverso? È forse abitata da esseri che potrebbero risentire in modo negativo del contatto con altri cittadini del loro stesso Paese?
«Perché sostiene che quelli se la passano male?» mi urla quasi un’altra mamma. «C’è nessuno che ci chiede come ce la passiamo noi? Che cosa le fa credere che i nostri figli stiano meglio?».
Che cosa? Siraždi è nato nel 1995 in Cecenia. La madre Zulaj, incinta, è scappata sotto le bombe e le raffiche di artiglieria di una guerra che non aveva chiesto... È scappata perché non aveva altra scelta. E ancora oggi Zulaj soffre a vedere il figlio, moscovita dal 1996, che quando sente i botti dei fuochi artificiali o i tuoni di un temporale si spaventa, corre a nascondersi, piange e non sa spiegarle perché...
«Hai capito!... Non si sentono ancora a casa loro, qui da noi...» è la voce irritata di un altro membro del comitato genitori. «Paese che vai, usanza che trovi, mio caro... O forse vorrebbero imporci le loro, di usanze? Nossignori!».
Questo perché il padre di Siraždi, Al’vi, ha assistito all’assemblea, ha ascoltato ogni parola e alla fine ha osato mettere a parte gli astanti del suo dolore, cercando di spiegare che la vita a Mosca non è facile per loro, che un poliziotto l’aveva insultato di fronte ai suoi figli, che era entrato in casa sua con gli stivali addosso e che lui non aveva potuto fare niente per impedirglielo... E che i bambini le vedono, certe cose...
Aveva anche aggiunto che il motivo principale per cui, nonostante le difficoltà, la sua famiglia si trovava a Mosca, e non in Cecenia, era perché volevano garantire ai figli un’istruzione lontano dalla guerra. E che era solo per i figli che la moglie Zulaj, insegnante di matematica, andava a vendere polpette di pollo al mercato pur non essendone capace, dopo che avevano entrambi passato la notte a prepararle. Vivevano a quel modo per i figli, perché potessero avere una buona istruzione nella capitale.
«Ma lo sentite? Vogliono stare in centro, loro! E magari vorrebbero un bell’appartamento da cinquecento dollari...» è stato il commento a quel grido di dolore.
«E noi? Che cosa abbiamo il diritto di volere, noi?» hanno esclamato gli altri genitori del comitato.
«Non voglio che mia figlia/mio figlio stia nella stessa classe di quello lì» è stata la sentenza che hanno udito i genitori di Siraždi. E si sono sentiti offesi, è ovvio.
«Non è forse un nostro diritto chiederlo?» esclamano i genitori del comitato.
Certamente. Ma non risentitevi se vi dicono che siete dei razzisti, degli skinhead in incognito...
Val la pena ricordare una vecchia storia del secolo scorso. Iniziata più o meno allo stesso modo, ma finita diversamente. Un Paese europeo viene occupato dai nazisti e agli ebrei viene ordinato di cucirsi una stella gialla affinché possano essere identificati. Tutti quanti, allora – ebrei e non – si cuciono sulla giacca una stella gialla. Per salvare gli ebrei. E per salvare se stessi dal diventare nazisti. Lo fa persino il re.12
A Mosca, oggi, accade l’inverso. Quando le alte sfere hanno ordinato l’attacco contro i ceceni che ci vivono accanto, non solo non ci siamo cuciti una stella gialla sulla giacca, ma abbiamo sparato dei razzi di segnalazione per farli trovare più facilmente. E vogliamo che Siraždi abbia ben chiaro di essere un paria.
Siraždi mi fa vedere il suo quaderno di russo. Gliel’ho chiesto io. I suoi voti spaziano da insufficiente ad appena sufficiente. È anche disordinato, Siraždi, scrive male, e la maestra Elena Dmitrievna glielo ricorda a ogni pagina, vergando la sua nota con una calligrafia perfetta, calibrata da trentacinque anni di insegnamento nelle scuole elementari.
Elena Dmitrievna non ha sostenuto la campagna del comitato-genitori per sbarazzarsi di quel ragazzino ceceno. Ma non si è neanche cucita una stella gialla. Il suo non è stato un «no» categorico. Avrebbe potuto pronunciarlo, quel «no», mettendo la parola fine ai tormenti inflitti alla famiglia Digaev dalla famigerata «opinione pubblica».
Siraždi tergiversa. Non ha troppa voglia di farmi vedere il quaderno di russo, e cerca in ogni modo di rifilarmi quello di matematica, dove se la cava decisamente meglio. Siraždi è un ragazzino normale, non sta mai fermo e ha una gran voglia di sembrare il migliore. Del resto, chi ha detto che dovrebbe essere diverso? Un ragazzino tranquillo, mogio mogio, che cammina a testa bassa, uno che andrebbe bene al comitato dei genitori anche se «ceceno»?
Si stanca presto anche del quaderno di matematica. Se ne va di corsa – fa tutto di corsa – dicendo che mi disegnerà «una spada e un uomo». Di lì a poco mi porta un album con la sagoma di un omone forzuto e muscoloso tipo Signore degli anelli. E con una spada «di luce». La «luce» è qualche tratto di matita gialla. Ma chi ha detto che va disegnata diversamente?
«Volevamo solo il suo bene» mi hanno detto i genitori della II B quando hanno capito che la loro campagna contro un piccolo ceceno sull’onda dell’isteria collettiva post-Dubrovka aveva attirato l’attenzione dei giornalisti. «Solo il suo bene...».
Ma Siraždi ci crederà? Perché è vero che picchia, durante l’intervallo. E che tira i colori contro il muro quando c’è disegno. E che fa lo sgambetto ai compagni. Ma più lo fa, più gli fanno capire che è un corpo estraneo, nella sua classe...
Questa è la vita in Russia dopo Nord-Ost. Sono passati dei mesi, ed è risultato che quella tragedia senza paragoni è stata utile. Utile, proprio così. E a molti. Per le ragioni più diverse.
A cominciare dal presidente e dal suo cinismo innato. Dalla tragedia Putin ha incassato succosi dividendi internazionali, non disdegnando di passare sul sangue altrui per un qualche ritorno d’immagine fuori e dentro il suo Paese.
Per finire con dei dissidi meschini all’interno di una scuola e con degli agenti di polizia fin troppo lieti, a fine anno, di presentare il rendiconto della loro «lotta al terrorismo», sicuramente ricompensata da una gratifica. Lo sciovinismo anticeceno e le rappresaglie razziste dei giorni successivi ai fatti di Nord-Ost sono maturati in un razzismo pragmatico e tenace.
«Dobbiamo forse imbracciare le armi?» mi chiede qualche capofamiglia ceceno. E colgo lo stridor di denti della loro impotenza.
«Non ce la faccio più, basta!» gemono altri affondando la testa fra le ginocchia. Un gesto di debolezza che mal si addice al loro popolo, soprattutto sotto gli occhi dei figli.
Ma che altro possono fare?13
AKAKIJ AKAKIEVIČ PUTIN II
Ho riflettuto a lungo sul perché ce l’ho tanto con Putin. Che cosa me lo fa detestare al punto da dedicargli un libro? Non sono un suo oppositore politico, sono solo una cittadina russa. Una moscovita quarantacinquenne che ha potuto osservare l’Unione Sovietica all’apice della sua putrefazione comunista, negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, e non vuole ricascarci.
Mi sono prefissa di concludere il libro oggi, 6 maggio 2004. Domani sarà tutto finito. Non ci sono stati miracoli quali la contestazione delle elezioni del 14 marzo; l’opposizione ha accolto i risultati a testa bassa. Ragion per cui domani verrà varato il Putin-bis, voluto dalla stragrande, folle maggioranza dei voti dei suoi concittadini (più del settanta per cento). Pur sfrondando la percentuale di un venti per cento di brogli, il risultato basterebbe comunque a garantirgli la presidenza.
Ancora poche ore, e il 7 maggio del 2004 Putin, tipico tenente colonnello del KGB sovietico con la forma mentis – angusta – e l’aspetto – scialbo – di chi non è riuscito a diventare colonnello, con i modi di un ufficiale dei servizi segreti sovietici a cui la professione ha insegnato a tenere sempre d’occhio i colleghi, quell’uomo vendicativo (alla cerimonia di insediamento non è stato invitato nessun rappresentante dell’opposizione o di qualunque partito che non sia in completa sintonia con il suo), quel piccoletto che ci ricorda così da vicino l’Akakij Akakievič gogoliano in cerca del suo cappotto, tornerà a insediarsi sul trono. Sul trono di tutte le Russie.
Brežnev è stato pessimo. Andropov sanguinario sotto una patina di democrazia. Černenko un idiota. Gorbačëv non piaceva. El’cin ogni tanto ci costringeva a farci il segno della croce per timore delle conseguenze delle sue decisioni...
Questo è il risultato. Domani, 7 maggio, colui che è stato una loro guardia del corpo, assegnato allo scaglione 25 con il compito di starsene impalato nel cordone di sicurezza quando il corteo VIP sfrecciava oltre, proprio lui, Akakij Akakievič Putin, incederà sul tappeto rosso della sala del trono del Cremlino. Da padrone. Tra lo scintillio degli ori degli zar appena tirati a lucido, mentre la servitù sorriderà sottomessa e i suoi sodali – tutti ex pesci piccoli del KGB assurti a ruoli di grande importanza – gonfieranno tronfi il petto.
Forse si sarà pavoneggiato a quel modo anche Lenin, quando nel 1918 mise piede nel Cremlino conquistato con la rivoluzione. La storia ufficiale (altre non ne abbiamo) ci dice che l’incedere era timido, ma potrei scommettere che la sua fosse pura insolenza: «Eccomi qui, modesto modesto. Pensavate che fossi una mezza tacca? E invece ho vinto, ho spezzato la Russia, l’ho costretta a inchinarsi a me...».
E anche il nostro segugio del KGB – una mezza tacca pure lui – incede allo stesso modo per il Cremlino. Intorno ai suoi passi aleggia un’aura di rivalsa.
Ma riavvolgiamo il nastro della storia.
Il 14 marzo del 2004 Putin è diventato presidente della Russia per la seconda volta stracciando gli altri pretendenti. In Russia come nel resto del mondo la sua rielezione era data per scontata, soprattutto dopo quanto accaduto il 7 dicembre del 2003, con la pesantissima sconfitta dell’opposizione democratica e liberale alle elezioni politiche. I risultati del 14 marzo non sono stati una sorpresa per nessuno. Abbiamo avuto anche degli osservatori internazionali, ma tutto si è svolto sottotono. Il giorno delle elezioni è stato l’ultimo remake in stile sovietico-burocratico-autoritario di quell’«espressione della volontà popolare» che molti di noi ricordano ancora. Funzionava così, all’epoca: arrivavi e infilavi la scheda nell’urna senza preoccuparti dei nomi che c’erano scritti, tanto l’esito era scontato.
Ma le analogie con i tempi che furono hanno scosso qualcuno dall’inerzia, il 14 marzo? Nossignori. Ci siamo presentati tutti quanti al seggio, tutti abbiamo infilato la nostra scheda nell’urna con un’alzata di spalle – «Tanto che cosa ci possiamo fare?» –, convinti di essere tornati in Unione Sovietica e che da noi non dipendesse più nulla...
Il 14 marzo sono rimasta a lungo sulla soglia del seggio di via Dolgorukij, la ex via Kaljaev così ribattezzata da El’cin (Kaljaev era un terrorista dei tempi dello zar poi assurto al grado di rivoluzionario, mentre ai tempi di Kaljaev e prima dei bolscevichi il principe Dolgorukij aveva una tenuta in quella zona di Mosca).
Ho parlato con la gente che andava a votare e che tornava dopo aver sbrigato la procedura. Erano apatici. Del tutto indifferenti al rito della rielezione di Putin. Vogliono che lo rieleggiamo? Amen, mi hanno detto in molti. Qualcuno ci ha persino scherzato su: «Chissà, magari via Dolgorukij tornerà a essere via Kaljaev...».
Del resto il revanscismo sovietico seguito all’ascesa e al consolidamento del potere di Putin è lampante.
A renderlo possibile, però – e va detto –, non sono state solo la nostra negligenza, l’apatia e la stanchezza seguite a tante – troppe – rivoluzioni. Il processo è stato accompagnato da un coro di osanna in Occidente. In primo luogo da Silvio Berlusconi, che di Putin si è invaghito e che è il suo paladino in Europa. Ma anche da Blair, Schroeder e Chirac, senza dimenticare Bush junior oltreoceano.
Il nostro ex KGBista non ha trovato inciampi sul suo cammino. Né in Occidente, né in un’opposizione seria all’interno del Paese. Per tutta la sua cosiddetta campagna elettorale – dal 7 dicembre del 2003 al 14 marzo 2004 – Putin si è fatto beffe del suo elettorato.
In primo luogo perché si è rifiutato di discutere alcunché con chiunque. Non ha mai ritenuto opportuno fornire spiegazioni riguardo a qualsiasi punto del suo programma per i quattro anni precedenti. Ha mostrato disprezzo non solo per i rappresentanti dell’opposizione, ma per l’opposizione in quanto tale. Non ha fatto promesse. Non ha fatto appelli. Come in era sovietica, la televisione lo mostrava quotidianamente in tutte le sue ipostasi politiche: per esempio mentre riceveva i più alti funzionari nel suo ufficio del Cremlino e forniva loro consigli preziosi su come gestire il ministero o l’ente di loro competenza.
A qualcuno scappava da ridere: pare Stalin, dicevano. Anche lui era «amico dei bambini», «miglior allevatore di suini», «minatore eccelso», «compagno dei ginnasti», «primo cineasta» e quant’altro.
Ma le risatine sono rimaste tali, e le emozioni si sono disperse come sabbia. Il fatto che non ci siano stati dibattiti non ha portato a rimostranze degne di questo nome.
Va da sé che, non incontrando resistenza, Putin si è fatto ancora più insolente. Non è vero che non guardi in faccia niente e nessuno, che nulla lo turbi e che si limiti a portare avanti la sua linea per restare in sella.
Le guarda, le facce, eccome. La osserva attentamente, la nazione che ha sotto di sé. E lo fa perché è un čekista, uno sbirro della polizia segreta. Il suo è il tipico comportamento di chi ha lavorato per il KGB. Per dare informazioni in pasto all’opinione pubblica sceglie una ristretta cerchia di persone. Persone che nel nostro caso sono il bel mondo politico della capitale. Lo scopo è tastare il terreno e sondare le reazioni. Se non ce ne sono, o se la reazione è amorfa, gelatinosa, tutto procede per il meglio e si può continuare, si può andare avanti a diffondere le proprie idee e agire come si ritiene opportuno senza troppe remore.
Una breve parentesi. Non su Putin, ma su noi russi. I putiniani – quelli che l’hanno messo dov’è, che volevano che salisse al trono una prima volta, quelli che ora siedono nell’ufficio del presidente e di fatto guidano il Paese (non il governo, che esegue le volontà del presidente, e non il Parlamento, che ratifica le leggi che il presidente vuole) – seguono con grande attenzione le reazioni dell’opinione pubblica. Non è vero che se ne infischiano. E ciò significa una cosa importantissima: i veri responsabili di quanto sta accadendo siamo noi. Noi, e non Putin. Il fatto che la nostra reazione a lui e alle sue ciniche manipolazioni si sia limitata a sparuti borbottii da cucina gli ha garantito l’impunità nei primi quattro anni di mandato. La nostra apatia è stata senza confini e ha concesso a Putin l’indulgenza plenaria per i quattro anni a venire. Le nostre reazioni a quel che ha detto e fatto non sono state solo fiacche, ma impaurite. Abbiamo mostrato di aver paura dei čekisti, inducendoli a perseverare nel trattarci da popolo bue. Il KGB rispetta solo i forti, i deboli li sbrana. E lo dovremmo sapere, ormai. Invece ci siamo scelti la parte dei deboli e siamo stati sbranati. La paura è pane per i denti di un čekista. Non c’è nulla di meglio, per lui, del sentire che la massa che vorrebbe sottomettere trema come una foglia.
Era ciò che volevano. Giornali e televisione traboccavano della nostra paura. L’opposizione non faceva che ripetere quanto grande fosse il pericolo – e dunque la sua paura – che Putin fosse rieletto... E anche lei è stata sbranata.
Ma torniamo agli ultimi giorni di febbraio del 2004. Ai giorni che hanno preceduto il 14 marzo. Dovrei dire «alla campagna elettorale», ma non riesco a spremermelo dalla penna... A un certo punto, grazie a un sondaggio di opinione, il Cremlino si rende conto che la gente si sta stancando dell’ostinazione di Putin nel rifiutare dibattiti e propaganda. E dell’assenza di una campagna elettorale degna di questo nome.
Dunque, per sferzare un elettorato che langue, il Cremlino annuncia delle «misure forti». Tale viene definita la scelta di Putin di sciogliere il Consiglio dei ministri a tre settimane dalle elezioni.
In un primo momento restammo tutti di stucco: era un’idiozia, un’assurdità, dato che la nostra Costituzione vuole che dopo le elezioni il Consiglio dei ministri si dimetta e il neoletto presidente annunci il nuovo premier che, a propria volta, gli sottoporrà una lista di ministri. Quindi che senso aveva nominarne di nuovi per poi ripetere l’operazione dopo l’insediamento? Perché quel valzer di poltrone che avrebbe paralizzato l’attività di un esecutivo già troppo impegnato a curare i propri, personali, interessi economici?
Invece quella mossa sortì l’effetto desiderato. Il bel mondo politico ebbe un fremito e cominciò a giocare a quell’«indovina la nomina» che inondò l’etere. I politologi ebbero di che parlare, la stampa di che riempire – finalmente – le colonne della «campagna elettorale».
La sferzata, però, durò una settimana in tutto. Una settimana in cui gli alchimisti politici di Putin ipnotizzarono l’audience televisiva ripetendo ossessivamente che il presidente aveva fatto quella scelta per essere «onesto in tutto e per tutto», perché non voleva «delle elezioni a scatola chiusa» (definendo a quel modo, dunque, la procedura costituzionale di rinnovo postelettorale del Consiglio dei ministri), perché intendeva mostrare a tutti quale sarebbe stato il nuovo corso dopo il 14 marzo.
E la gente ci ha creduto. La maggioranza, almeno. O almeno un buon cinquanta per cento. Quella metà della popolazione che ha prestato fede ad argomentazioni sciocche e menzognere osannandole persino, ha una peculiarità: ama Putin e si fida di lui senza riserve, irrazionalmente, alla follia. Dunque senza usare il cervello. Fine della storia.
A una settimana dalla nomina del nuovo premier abbiamo assistito all’ennesima dimostrazione di «affetto» per Putin: chi credeva che le sue intenzioni fossero serie non prestò seria attenzione agli evidenti qui pro quo ideologici di quel cambio della guardia. Perché solo se la fiducia è irrazionale, solo se sei innamorato come un ragazzino puoi sfuggire a una domanda elementare: che cosa impediva a Putin di «mostrare il nuovo corso» senza far fuori l’intero Consiglio dei ministri? Aveva mille altri modi. Per esempio partecipare a qualche dibattito pubblico, in cui avrebbe potuto difendere il proprio punto di vista in un faccia a faccia con l’opposizione. Perché, invece, aveva dovuto cambiare il governo?
Il perché c’è. Eccome se c’è.
I due mesi precedenti il fatidico 14 marzo erano trascorsi all’insegna di uno slogan che non lasciava adito a dubbi: avrebbe vinto Putin, punto e basta. Tuttavia, nella settimana che seguì all’annuncio dello scioglimento del Consiglio dei ministri il cinismo raggiunse l’apice. Chi guardava la televisione seppe che il 14 marzo non sarebbe cambiato nulla, che tutto era già deciso e che Putin – solo lui e nient’altro che lui –, il buono, caro e premuroso Putin, sarebbe stato eletto zar. E il popolo ama lo zar, giusto? Giustissimo.
Partiti da affermazioni del tipo: «Vuole mostrarvi da subito il nuovo corso, così che non siano elezioni a scatola chiusa», nel giro di una settimana gli alchimisti politici di Putin arrivarono a un «Se vuole mostrarvi da subito il nuovo corso è perché tanto al timone ci sarà lui». Ma se ci sarà lui, che senso ha cambiare?
Il giorno in cui doveva essere annunciato il nome del nuovo premier pareva di ascoltare l’aria che introduce il protagonista in un’opera lirica. «Il Presidente farà l’annuncio in mattinata»... «L’annuncio sarà fatto tra due ore»... «Tra un’ora»... «Ancora una decina di minuti»... Perché il prescelto – ci dicevano alla televisione – potrebbe essere colui che gli succederà al trono nel 2008...
In Russia è molto importante non cadere nel ridicolo. Si rischia di fare una figuraccia, di venire derisi, di finire in barzelletta come Brežnev. Quando Putin ha pronunciato il nome del nuovo primo ministro, hanno riso anche i suoi sostenitori più convinti. Era stata una farsa, e l’avevano finalmente capito tutti. In sostanza l’unico rimosso era il primo ministro Michail Kas’janov. Le «misure forti» non erano altro che un meschino regolamento di conti. Condito, questo sì, da manovre di alchimia politica e da ogni sorta di fandonie e di discorsi retorici sulla «grande Russia».
La montagna aveva partorito un topolino. Di fatto i ministri restavano al loro posto e ad andarsene fu solo Kas’janov, con il quale Putin aveva il dente avvelenato da diverso tempo. Kas’janov era un retaggio dell’epoca di El’cin: il primo presidente della Russia, lasciando il trono al suo delfino, gli aveva chiesto di non toccarlo.
Proprio in quanto uomo di El’cin, il primo ministro Kas’janov era stato l’unico e il solo tra i protagonisti della politica russa a schierarsi categoricamente contro l’arresto di Michail Chodorkovskij e contro la graduale distruzione della Iukos, la sua compagnia petrolifera, la più trasparente nel nostro Paese corrotto, la prima ad accettare il sistema internazionale di auditing e a lavorare secondo la pratica finanziaria internazionale, «in chiaro», come si dice da noi. E che inoltre versava più del cinque per cento del suo utile annuale lordo per finanziare una grossa università, degli orfanotrofi e imponenti opere di beneficenza.
Kas’janov, però, aveva preso le parti di un uomo che Putin aveva iscritto da qualche tempo nella lista dei suoi nemici personali in virtù degli ingenti contributi finanziari versati all’opposizione democratica in generale e a Jabloko e all’Unione delle Forze di destra in particolare.
Nella concezione che Putin ha della politica si tratta di una grave offesa personale. Putin ha dimostrato più volte di non comprendere il concetto stesso di dibattito. E tanto meno quello di «dibattito politico»: chi sta sopra non discute con chi sta sotto, e se chi sta sotto si permette di farlo diventa un nemico. Se Putin si comporta in questo modo non lo fa perché è un tiranno e un despota congenito, ma perché così gli è stato insegnato. Queste sono le categorie che gli ha inculcato il KGB e che lui stesso ritiene ideali, come ha più volte dichiarato. Perciò, non appena qualcuno dissente, Putin si limita a chiedergli di «piantarla con gli isterismi». Per questo rifiuta i dibattiti pre-elettorali: non sono il suo ambiente, non è capace di parteciparvi, non sa reggere un dialogo. La sua arte è quella del monologo, il suo schema quello militare: da basso rango ero costretto a non fiatare? Ora che sono in cima alla scala parlo, anzi monologo, e che gli altri fingano d’essere d’accordo con me. Un ‘nonnismo’ ideologico che talvolta – come nel caso di Chodorkovskij – si risolve nell’allontanamento e nell’eliminazione dell’avversario.
Ma torniamo al «cambio di governo». Kas’janov non c’è più, i ministri sono stati mescolati e ricollocati nei dicasteri di originaria pertinenza. Quale primo ministro Putin rifila trionfalmente al Paese Michail Efimovič Fradkov. L’organigramma della burocrazia impiegatizia comprendeva anche il suo nome tra coloro che di recente si erano goduti la carica di rappresentanti della Federazione Russa nelle istituzioni europee a Bruxelles. Un tipo anonimo, mite e insignificante, con le spalle strette e i fianchi larghi. Fra l’altro, la Russia seppe di avere un ministro federale di nome Fradkov solo il giorno in cui Putin lo nominò primo ministro, il che significa – come tradizione vuole – che il suddetto è un sommesso rappresentante di quella stessa istituzione a cui Putin ha consacrato buona parte della sua vita cosciente.
Il Paese ha riso, quando ha saputo di Fradkov. Ma Putin non ha fatto una piega e, anzi, ha così spiegato quel mutamento ‘radicale’: voglio essere onesto con voi e arrivare alle elezioni dichiarandovi con chi lavorerò e con chi combatterò i mali peggiori, la corruzione e la povertà...
La gente – la metà a favore di Putin e la metà contraria – non ha smesso di ridere: la farsa continuava. Se i russi non conoscevano Fradkov, il mondo degli affari ce l’aveva ben presente. È un tipico burocrate sovietico che ha passato la sua vita – dall’era dei Soviet in giù – a cambiare poltrona indipendentemente dalla sua formazione e dalle sue competenze. Uno di coloro per i quali l’importante è dirigere, di qualsiasi cosa si tratti. Con lui a capo, la polizia finanziaria federale aveva fama di essere il dicastero più corrotto nella gerarchia statale. I suoi uomini chiedevano mazzette per qualunque certificato o consulenza, ragion per cui l’ufficio venne poi chiuso e – conformemente alle immarcescibili tradizioni della nomenklatura sovietica – Fradkov venne trasferito a Bruxelles.
Fresco di nomina, la mattina seguente Fradkov atterra a Mosca in tutta fretta da Bruxelles, offrendo ai russi un altro motivo per ridersela. Con l’investitura di Putin ormai in cassa, nella sua prima intervista all’aeroporto Fradkov dichiara di non sapere come si faccia il primo ministro, di non avere un programma, di non essersi aspettato quell’onore e di attendere istruzioni al riguardo...
La Russia è il Paese del non detto e della memoria corta. E nonostante l’assenza di istruzioni dall’alto (un’ammissione mai udita prima), l’obbediente Duma conferma a stragrande maggioranza la nomina di Fradkov, «nel rispetto della volontà degli elettori, che hanno piena fiducia nell’operato del Presidente Putin». Convocata dopo le elezioni del 7 dicembre del 2003, la Duma attuale non annovera – o quasi – tra i suoi membri oppositori del presidente, conditio sine qua non per la sua formazione.
Gli «elettori» digeriscono anche il fatto che il loro primo ministro non abbia un programma e non sappia che cosa farà il giorno seguente.
Arriva il 14 marzo. Si vota. Tutto procede come pianificato al Cremlino. La vita torna a essere quella di sempre. I burocrati ricominciano a rubare a testa bassa. In Cecenia riprendono i massacri: la breve pausa durante le elezioni aveva acceso una speranza in chi aspettava la pace da cinque anni. Come vuole la tradizione asiatica, prima della seconda elezione presidenziale due alti comandanti ceceni avevano deposto le armi ai piedi del leader. I loro parenti erano stati prelevati e furono trattenuti come prigionieri fino a che i comandanti non ebbero dichiarato di stare con Putin e di aver rinunciato all’indipendenza. Dalla cella in cui si trovava, anche Chodorkovskij scrisse al presidente delle lettere contrite. Il tracollo della Iukos era lento e inesorabile. Venne Berlusconi in visita ufficiale, e la prima domanda che pose all’amico Vladimir fu come si facesse a incassare il settanta per cento dei voti. Putin non poté dargli una risposta precisa, tanto più che, se anche l’avesse fatto, il caro Silvio – europeo – non avrebbe capito. Insieme sono andati a Lipeck, in provincia, a inaugurare una fabbrica di lavatrici e a godersi uno spettacolo dell’Aeronautica militare.
In televisione Putin continua a tirare le orecchie ai suoi più alti funzionari. È così che ce lo fanno vedere, di solito: nel suo ufficio, al Cremlino, mentre ascolta le relazioni dei funzionari, oppure mentre dispensa uno dei suoi monologhiramanzina. Le riprese sono sempre ben studiate, estrema è la cura dell’immagine, nulla è lasciato alla discrezione del singolo o al caso.
Putin è stato presentato al popolo per Pasqua, a quasi un mese dalla sua rielezione. Durante la celebrazione del rito pasquale nella Chiesa del Redentore (l’antica cattedrale di Mosca ricostruita ex novo, in cemento, al posto di una piscina scoperta), al fianco del presidente, come in una parata militare, si segnavano in modo goffo e clownesco il primo ministro Fradkov e la nuova eminenza grigia del Cremlino Dmitrij Medvedev, l’ometto basso basso con la testa grossa a capo dell’ufficio del presidente. Medvedev si faceva il segno della croce portando la mano alla testa e ai genitali. Una scena ridicola. Come Putin, anche lui strinse la mano al «compagno» Patriarca, invece di baciargliela come prescrive il rituale. Il Patriarca sorvolò. Gli addetti alle pubbliche relazioni del Cremlino saranno anche solerti, ma sono ignoranti in materia religiosa e non avevano saputo istruirli adeguatamente. Accanto a Putin c’era anche il sindaco di Mosca Jurij Lužkov, che l’aveva «costruita», quella chiesa. Lužkov è l’unico che si sia segnato come si conviene. Il Patriarca si è rivolto a Putin chiamandolo «Sua Eccellenza» e scandalizzando tutti quanti. Pertanto la Pasqua, celebrata in presenza di così numerosi esponenti del KGB tra gli alti ranghi politici, è diventata la festa di precetto più importante in Russia, un analogo della parata del Primo maggio di altri tempi.
L’inizio della celebrazione fu ancora più comico della stretta di mano al Patriarca. La televisione di Stato trasmise a reti unificate, in diretta, la Via crucis intorno alla Chiesa del Redentore che precedeva la messa. Per quanto malato, il Patriarca volle prendervi parte. Lo speaker – credente e teologicamente edotto – spiegava ai telespettatori che fino a mezzanotte, come vuole la tradizione ortodossa, le porte della chiesa dovevano restare chiuse, a simboleggiare il masso posto davanti all’entrata della grotta in cui era stato deposto il corpo di Cristo. Dopo la mezzanotte i fedeli che avevano preso parte alla Via crucis avrebbero atteso che le porte si aprissero. Il primo a varcare la soglia della chiesa vuota dove Cristo era già risorto sarebbe stato il Patriarca...
Ebbene, il Patriarca recitò la prima preghiera di rito dopo la mezzanotte davanti alle porte della chiesa, i battenti si aprirono... E chi c’era dentro? Putin. Lui, sì. Putin, il modesto... Con Fradkov, Medvedev e Lužkov.
Non so se sia meglio ridere o piangere. Un siparietto comico nella notte di Pasqua.
Perché dovremmo amarlo, un individuo simile? Uno che profana qualunque cosa tocchi?
Più o meno in quei giorni, l’8 aprile, due gemelle cecene di nove mesi furono dichiarate shahid – martiri della fede. Morte prima ancora di imparare a camminare. La storia è la solita. Dopo il 14 marzo in Cecenia erano riprese le operazioni militari. L’esercito – lo «Stato Maggiore operativo per la direzione della Guerra al terrorismo», come lo chiamano adesso – aveva annunciato che stavano dando la caccia a Basaev e che era «in corso un’operazione su larga scala per annientare i membri delle bande armate». Basaev non venne catturato, ma l’8 aprile, verso le due del pomeriggio, nell’ambito di quella stessa operazione un missile cadde su una casa colonica di Rigach. Morirono tutti: una madre e i suoi cinque figli. La scena che si presentò agli occhi del padre – Imar-Ali Damaev – era di quelle che trasformerebbero qualunque persona dura di cuore in un pacifista o in un kamikaze. La moglie ventinovenne di Imar-Ali, Maidat, era già morta ma stringeva a sé la figlia Džanati (quattro anni), l’altra figlia Žaradat (tre anni), il maschio Umar Chaži (due anni) e la piccolissima Zara, di nove mesi. L’abbraccio della madre non era servito a salvare nessuno di loro, furono tutti uccisi dalle schegge. Poco distante giaceva il corpicino di Zura, la gemella di Zara. Maidat non aveva avuto braccia e tempo a sufficienza per raccogliere sotto di sé anche la quinta figlia, e a Zura non era riuscito di gattonare fino a lei. Imar-Ali raccolse le schegge del missile e risalì al numero di matricola: 350 F 5-90. Non fu difficile: il numero era rimasto intatto. Il mullah del villaggio vicino annunciò che le vittime sarebbero state tutte dichiarate martiri della fede, shahid. Come tali le seppellirono, quella sera stessa: senza lavare i corpi, senza sudari, con gli abiti con cui la morte se li era presi. E Imar-Ali Damaev di Rigach è diventato padre di cinque martiri.
Perché ce l’ho tanto con Putin? Perché il tempo passa. Quest’estate saranno sei anni che la seconda guerra cecena è iniziata affinché Putin potesse diventare presidente. E non se ne vede la fine. All’epoca i bimbi shahid non erano ancora nati, ma dal 1999 a oggi tutte le stragi di bambini – tra le bombe e le pulizie etniche – sono rimaste impunite: i carnefici non sono mai finiti sul banco degli imputati. Putin non l’ha mai preteso, sebbene abbia fama di «amico di tutti i bimbi». In Cecenia i militari continuano a comportarsi com’è stato loro permesso da che la guerra è iniziata: pensano di essere in un poligono di tiro senza nessuno intorno, bambini compresi.
Questa strage di innocenti non ha scosso il Paese. Nessuna televisione ha mostrato le immagini dei cinque piccoli ceceni uccisi. Il ministro della Difesa non si è dimesso seduta stante (perché è un amico di Putin e perché è uno dei papabili alle presidenziali del 2008). Non ha lasciato il suo posto nemmeno il comandante dell’Aeronautica militare. È rimasto tutto com’era. Il comandante in capo non ha indirizzato una sola parola di conforto o di condoglianze a quel padre rimasto solo. Il mondo continua a ribollire attorno a noi. In Iraq sono stati ammazzati degli ostaggi. Popoli e nazioni hanno chiesto a chi li governa e alle organizzazioni internazionali di ritirare le truppe per salvare la vita di quanti stanno facendo il loro dovere. Da noi niente. La morte di quei bambini assurti a martiri non solo non ci ha spinti a chiedere di ritirare le truppe, ma nemmeno a iniziare un dibattito su quanto sta accadendo in Cecenia con l’intento di aprire una strada al dialogo, alla pacificazione, alla smilitarizzazione e a tutto ciò che consegue alla fine di un conflitto.
Perché ce l’ho tanto con Putin? Per tutto questo. Per una faciloneria che è peggio del ladrocinio. Per il cinismo. Per il razzismo. Per una guerra che non ha fine. Per le bugie. Per i gas nel teatro Dubrovka. Per i cadaveri dei morti innocenti che costellano il suo primo mandato. Cadaveri che potevano non esserci. Io la penso così. Altri avranno punti di vista differenti. Nonostante la strage, la gente continua a sperare che il mandato presidenziale si prolunghi fino a dieci anni. Di solito è il Cremlino, nella persona di Vladislav Surkov, a creare l’ennesimo movimento giovanile pro-Putin. Surkov, vicecapo dell’ufficio del presidente, non è solo un gran tessitore di alleanze, ma anche il miglior PR del Paese – dove «pubbliche relazioni» diventa sinonimo di menzogna, inganno e parole invece che fatti. I movimenti politici nati da un decreto del Cremlino sono in gran voga a casa nostra, affinché l’Occidente non sospetti che il nostro sia un sistema monopartitico, autoritario e non-pluralistico. E così spuntano gruppi che prendono nomi del tipo Marciamo insieme, Cantiamo insieme, Per la stabilità14 e altre varianti della Gioventù comunista di un tempo. Il tratto distintivo di questi movimenti parapolitici pro-Putin è che il ministero della Giustizia – solitamente incline a creare difficoltà a chi tenta qualche passo in politica – li registra in quattro e quattr’otto, senza lungaggini burocratiche. E come primo atto pubblico il neonato movimento annuncia che si adopererà a favore dell’estensione del mandato per l’amato presidente. Putin ha ricevuto un regalo simile anche il 7 maggio, il giorno del suo insediamento. Alla fine di aprile il movimento Per la stabilità aveva, infatti, già avviato la procedura per estendere il mandato a colui che il popolo aveva eletto appena un mese prima (Putin quale garante della stabilità del Paese, dunque). I membri del minuscolo movimento pretendevano anche il riesame delle privatizzazioni (si legga: siamo contro Chodorkovskij e pro-Putin). La Commissione elettorale di Mosca è stata assai solerte nell’accogliere la richiesta di quei giovani ‘stabilizzatori’ e nel promuovere un referendum sull’estensione del mandato presidenziale.
Così abbiamo accolto il giorno dell’insediamento, il 7 maggio 2004. Putin, che – per puro caso – si è ritrovato ad avere un potere enorme, lo ha gestito con conseguenze catastrofiche per la Russia.
E se non mi piace è anche perché nemmeno noi piacciamo a lui. Non ci sopporta. Ci disprezza. Siamo solo un mezzo, per lui. Un mezzo per raggiungere il potere personale. Per questo dispone di noi come vuole. Può giocare con noi, se ne ha voglia. Può distruggerci, se lo desidera. Noi non siamo niente. Lui, finito dov’è per puro caso, è il dio e il re che dobbiamo temere e venerare.
La Russia ha già avuto governanti di questa risma. Ed è finita in tragedia. In un bagno di sangue. In guerre civili. Io non voglio che accada di nuovo. Per questo ce l’ho con un tipico čekista sovietico che ascende al trono di Russia incedendo tronfio sul tappeto rosso del Cremlino.
POST SCRIPTUM
Il 10 luglio è un altro brutto giorno nel calendario della Russia.
Ieri, in tarda serata, a Mosca è stato ucciso Pavel Chlebnikov, caporedattore dell’edizione russa di «Forbes magazine». Lo hanno falciato mentre usciva dall’ufficio. Chlebnikov doveva la sua fama a quanto scritto sugli oligarchi, sul «capitalismo da gangster» russo e sulle enormi somme di denaro facile su cui alcuni nostri compatrioti hanno messo le mani.
Sempre ieri sera, a Vladivostok, è stato fatto saltare in aria con una bomba Viktor Čerepkov, deputato della Duma e paladino dei poveri e dei deboli del nostro Paese. Čerepkov correva per la carica di sindaco della nativa Vladivostok, la città più importante dell’Est russo. Era arrivato al secondo turno e aveva ottime chance di essere eletto. Lo hanno fatto saltare su una mina antiuomo attivata a distanza, mentre lasciava il suo quartier generale.
La Russia è un Paese stabile, come no. Ma di una stabilità mostruosa, nella quale nessuno chiede giustizia a tribunali di un asservimento e di una faziosità lampanti. Chiunque abbia un po’ di cervello non cerca protezione presso le istituzioni intese a far rispettare la legge e a mantenere l’ordine, perché sa che sono corrotte fino al midollo. Il linciaggio è all’ordine del giorno, nelle azioni e nella coscienza della gente. Occhio per occhio, dente per dente. Putin stesso ha dato l’esempio smantellando la nostra maggiore società petrolifera, la Iukos, e mandando in galera il suo presidente, Michail Chodorkovskij. Risentito con Chodorkovskij per i finanziamenti a partiti diversi dal suo, Putin non si è rivalso solo contro di lui, ma ha anche voluto distruggere quella che era una gallina dalle uova d’oro per le casse dello Stato. Chodorkovskij e i suoi soci gli hanno offerto di girare il proprio pacchetto azionario al governo, supplicandolo di non distruggere la compagnia. Ma il governo ha risposto di no, che voleva tutto fino all’ultimo centesimo. Il 9 luglio Putin ha imposto il fedelissimo Muhammed Tsikanov quale vicepresidente di Iukos-Mosca. Nessuno dubita che l’ex viceministro per lo sviluppo economico sia stato messo dov’è unicamente per coordinare il passaggio della Iukos nelle mani di coloro che godono dei favori di Putin. Il mercato è in subbuglio, e tutti gli uomini d’affari di pur vago successo che conosco hanno passato maggio e giugno a cercare di trasferire in Occidente i propri capitali.
Sono stati molto saggi. L’8, il 9 e il 10 di luglio le code ai bancomat erano lunghe anche un chilometro. Le autorità avevano insinuato che alcune banche potessero chiudere, e subito le casse della banca Alpha, per esempio, una delle più stabili, sono state svuotate di duecento milioni di dollari in settantadue ore.
È bastata un’insinuazione. Perché tutti sanno che lo Stato gioca sporco. Duecento milioni in settantadue ore ci dicono tutto quel che abbiamo bisogno di sapere sulla «stabilità» della Russia.
A prestare fede ai sondaggi di opinione condotti da società che non hanno nessuna intenzione di perdere i loro contratti con l’ufficio del presidente, il tasso di popolarità di Putin non è mai stato così alto. Il presidente ha dalla sua la stragrande maggioranza dei suoi connazionali. Tutti si fidano di lui. Tutti approvano quel che fa.
DOPO BESLAN
Il 1° settembre del 2004 a Beslan è stato commesso un atto terroristico senza precedenti, e d’ora in poi il nome di questa cittadina dell’Ossezia del Nord sarà sinonimo di un incubo che nemmeno Hollywood è stata capace di immaginare.
La mattina del 1° settembre un commando internazionale di criminali ha preso in ostaggio la scuola n. 1 di Beslan, chiedendo di fermare immediatamente la seconda guerra cecena. L’occupazione è avvenuta durante la linejka, la tradizionale festa di inizio anno scolastico che si celebra in tutte le scuole. È una festa a cui partecipa tutta la famiglia, genitori, nonni e zii, e soprattutto coloro che accompagnano il proprio figlio a scuola per la prima volta.
Così era stato anche quel giorno. Per questo i sequestratori avevano potuto prendere in ostaggio quasi millecinquecento persone tra alunni, madri, padri, fratelli, sorelle, maestre, figli delle maestre...
Quanto è successo in Russia tra il 1° e il 3 settembre e anche dopo, fino a oggi, non ha nulla di casuale, anzi segue una logica ineccepibile. È la quintessenza, l’apoteosi del regime di Putin, che si incentra sul potere personale, mortifica il buon senso e soffoca qualsiasi iniziativa.
Il 1° settembre, dicevamo. L’intelligence prima e le autorità poi ci informano che nella scuola ci sono «poche persone»: 354 in tutto. «Bene, vuol dire che alla fine resterete in 354» comunicano i terroristi ai loro ostaggi. Fuori, i parenti radunati attorno alla scuola urlano di non credere a quella cifra: sono più di mille, là dentro.
Nessuno li sente. Nessuno li ascolta. Cercano di arrivare fino alle alte sfere tramite i giornalisti giunti a Beslan, ma quelli continuano a riferire le stime ufficiali. Alcuni rappresentanti della stampa finiscono malmenati dai parenti degli ostaggi.
Il 1° settembre e metà del giorno successivo trascorrono in uno stato di choc e confusione inammissibili: non sono in corso trattative da parte delle autorità, in quanto il Cremlino non le ha autorizzate. Chiunque cerchi di fare qualcosa in quella direzione finisce vittima di intimidazioni, mentre coloro che i terroristi chiedono come controparte svicolano o lasciano il Paese. Si comportano da vigliacchi quando non hanno alcun diritto di farlo. Sono i presidenti dell’Inguscezia e dell’Ossezia Settentrionale, rispettivamente Zjazikov e Dzasochov, il consigliere di Putin per la Cecenia Aslachanov e il dottor Rošal’. Più tardi tutti avrebbero trovato una scusa, ma resta il fatto che nessuno di loro è mai entrato in quell’edificio.
Su questo sfondo di viltà i parenti degli ostaggi temono soprattutto una seconda Dubrovka, un’irruzione nella scuola con la strage che ne può seguire.
Il 2 settembre nell’edificio entra Ruslan Aušev, ex presidente dell’Inguscezia e persona invisa al Cremlino per i suoi ripetuti inviti a stabilizzare la crisi in Cecenia e ad avviare trattative di pace, e perciò costretto a lasciare ‘volontariamente’ la sua carica per cederla all’eletto del Cremlino, il generale del KGB-FSB Murat Zjazikov.
Come racconterà poi, Aušev si trova di fronte uno scenario tremendo. Scopre che, a un giorno e mezzo dall’occupazione della scuola, nessuno nel quartier generale delle «operazioni per la liberazione degli ostaggi» ha il potere di decidere chi debba entrare a trattare: attendono istruzioni dal Cremlino e temono le ire di Putin. Perché le sue ire possono equivalere alla fine di una carriera politica, e una carriera finita fa molta più paura delle sofferenze di qualche centinaio di ostaggi. Meglio perdere qualche vita umana, che tanto si può dare la colpa ai terroristi. Perdere i favori di Putin non è solo l’anticamera dell’oblio, ma un vero e proprio suicidio.
Il nocciolo della questione è il seguente: in quei giorni, a Beslan, i rappresentanti del governo si preoccupano più di intuire che cosa voglia Putin che di contrastare quanto sta accadendo dentro la scuola. E quando Putin parla, nessuno osa contraddirlo. Aleksandr Dzasochov, per esempio, avrebbe poi riferito ad Aušev di aver ricevuto una telefonata da Putin che gli vietava categoricamente di entrare nell’edificio se non voleva finire in tribunale.
E Dzasochov era rimasto fuori. Il dottor Rošal’ aveva fatto altrettanto. Pur essendo un pediatra, decise anche lui di salvare se stesso e non quei bambini. Un funzionario (rimasto anonimo) dell’ intelligence – dirà poi Rošal’ – lo aveva convinto che i terroristi avevano fatto il suo nome solo per ucciderlo.
E anche Rošal’ restò fuori.
Le carriere erano salve, i bambini no. Il 3 settembre è ancora di là da venire, ma è ormai chiaro che la ‘verticale del potere’ fondata sul timor panico e una totale dipendenza da una sola persona (Putin, appunto) non è in grado di fare alcunché, non è in grado di salvare delle vite quando serve.
Con queste premesse, Aušev stampa da Internet una dichiarazione di Aslan Maschadov che, quale leader di quell’opposizione cecena nel cui nome i terroristi pretendono di agire, condanna senza appello il sequestro dei bambini. Con quel foglio in mano Aušev va a parlare con i terroristi. È l’unico, in quei giorni, a cercare di intavolare dei negoziati.
Per questo, in seguito, il Cremlino lo avrebbe coperto di fango e accusato di ogni possibile nefandezza, prima fra tutte la connivenza con i terroristi.
«Non hanno voluto che parlassimo in vainach» ha poi raccontato Aušev. «Anche se c’erano dei ceceni e degli ingusci. Hanno voluto che usassimo il russo. Per negoziare volevano un ministro, uno tipo Fursenko, il ministro della Pubblica Istruzione. Ma il Cremlino era contrario, e nessuno se l’è sentita di entrare».
Aušev è rimasto nella scuola per un’ora circa. Ha portato fuori, a braccia, tre neonati, e altri ventisei bambini sono usciti insieme a lui. La mattina del 3 settembre è iniziato l’attacco. Gli scontri sono proseguiti fino a notte fonda. Molti terroristi sono stati uccisi, ma molti altri sono riusciti a passare il blocco e a fuggire. Poi è cominciata la conta degli ostaggi caduti, che continua ancora oggi. Alla periferia di Beslan è stato arato un campo, che è diventato un enorme cimitero con centinaia di tombe. A tutt’oggi mancano all’appello un centinaio di ostaggi, classificati come dispersi. C’è chi dice che siano stati portati via dai terroristi in fuga. Altri pensano che siano stati inceneriti dalle cariche termobariche dei bazooka in dotazione alle squadre speciali.
Subito dopo i fatti di Beslan la Russia ha annunciato l’ennesimo giro di vite politico. Putin ha dichiarato che la tragedia era stata un atto di terrorismo internazionale, cancellando ogni traccia cecena e imputando l’accaduto ad al-Qaeda. Aušev è stato coperto di fango e i mass media, istruiti dal Cremlino, ne hanno fatto un complice dei terroristi, e non l’unico con un po’ di fegato, il solo eroe sullo sfondo di una marmaglia di vigliacchi. Al rango di eroe, invece – perché la gente ha bisogno di eroi – è stato innalzato il dottor Rošal’.
Ma questo è il côté morale della storia. Quello concreto, materiale, è stato che la tragedia di Beslan non è servita a indurre il Cremlino a riflettere sui propri errori. Anzi, ha dato la stura a un vero e proprio sciacallaggio politico.
Dopo Beslan lo slogan di Putin è stato à la guerre comme à la guerre, la verticale del potere va rafforzata. E lui l’ha resa completamente dipendente da un solo e unico uomo (se stesso), che sa meglio di chiunque altro come garantirci dagli attentati. È stata modificata anche la procedura per l’elezione dei governatori: Putin ha insistito affinché venisse abolita l’elezione diretta, causa prima – a suo dire – della loro condotta irresponsabile.
Non una parola, non un’allusione riguardo al fatto che a Beslan gli uomini del presidente – Zjazikov e Dzasochov – si erano comportati da codardi, che non avevano fatto altro che mentire dimostrando di essere degli emeriti buoni a nulla.
Sullo sfondo della riforma suddetta è stata inoltre portata avanti una massiccia campagna di lavaggio del cervello: si è continuato a ripetere che durante la tragedia di Beslan le autorità avevano tenuto una condotta ineccepibile e nulla di più efficace poteva essere fatto. Per creare una cortina fumogena è stata anche costituita un’apposita commissione parlamentare d’inchiesta, il cui presidente – il signor Toršin – è stato ricevuto al Cremlino per ascoltare da Putin i consigli del caso. La commissione, va da sé, non è mai uscita dal seminato.
A Beslan, intanto, si erano resi conto che nessuno si stava più occupando di loro. La televisione si concentrava solo sugli aspetti positivi: il sostegno agli ostaggi, i dolci e i giocattoli per i bambini... Ma i dispersi?
Passarono i quaranta giorni del lutto. Vennero celebrati i funerali ufficiali. La televisione non trasmise un solo fotogramma dei genitori straziati.
Poi arrivò il 26 ottobre. Il secondo anniversario di Nord-Ost.
Dopo la tragedia del teatro Dubrovka le autorità non hanno fatto altro che assolversi, lodarsi, coccolarsi. E invece la seconda guerra cecena non solo non è finita, ma ha stretto ancora di più la sua morsa. È degenerata nell’annientamento e nella neutralizzazione di chiunque lavori per la pace e cerchi di impedire che la crisi cecena sfoci in nuovi atti di terrorismo quale unica risposta lecita al terrorismo di Stato in Cecenia e Inguscezia. È una tautologia: il «terrorismo antiterrorismo» russo è diventato il tratto distintivo della nostra vita da Nord-Ost a Beslan. Terrorismo e antiterrorismo, macine di uno stesso mulino che ci riduce in farina. Il numero degli attentati è cresciuto in progressione geometrica. La strada che da Nord-Ost porta a Beslan è sotto i nostri occhi.
Il 26 ottobre del 2004, alle undici del mattino, sui gradini del teatro Dubrovka si sono radunati tutti coloro la cui vita e il cui destino sono stati segnati da quel terribile evento: ostaggi, parenti e amici delle vittime, che in precedenza, di buon’ora – come si usa in Russia –, erano andati a rendere omaggio alle tombe dei loro cari. La cerimonia di commemorazione era stata fissata alle undici proprio per consentire quella visita. L’associazione Nord-Ost, che riunisce le vittime, aveva dato notizia della celebrazione alle agenzie di stampa e alle radio, e aveva spedito degli inviti al Municipio e all’ufficio del presidente. «Ci saremo» era stata la risposta.
Le undici. Le undici e venti. Le undici e trenta. Le undici e cinquanta. Il prete è arrivato da un pezzo. È tempo di cominciare. «Ma come si fa... Non presentarsi nemmeno...» si sussurra tra la folla.
Arriva mezzogiorno. La folla è nervosa, molti hanno con sé dei bambini, gli orfani delle vittime. «Era con loro che volevamo parlare», «Siamo venuti per fare delle domande precise»... Qualche grido disperato: «Abbiamo bisogno d’aiuto, e adesso!», «Ci ignorano!», «Negli ospedali hanno smesso di prestare assistenza gratuita ai bambini!».
Ancora nessuno. Non ha senso aspettare oltre, è evidente. Forse non hanno avuto il coraggio di guardare in faccia le vittime. Perché l’inchiesta su Nord-Ost non ha portato a nulla: la verità sull’attentato e sui gas usati resterà un segreto di Stato. O forse la ragione è un’altra?
Attorno alla piazza del teatro c’è un cordone di polizia: i soliti ragazzotti mandati a sedare possibili scalmane. Hanno il volto scuro, sentono quel che dice la gente. E spiegano ai presenti che loro sono già venuti... «Loro», le autorità, avevano organizzato intenzionalmente una commemorazione a parte, quando i parenti delle vittime si stavano recando al cimitero. I rappresentanti del Comune di Mosca e dell’ufficio del presidente si erano materializzati in teatro alle dieci del mattino. Senza troppa gente intorno. Per non incontrare coloro che avevano trasformato in vittime. Per una commemorazione ufficiale di fronte alle telecamere e ai flash dei giornalisti, una commemorazione completa di corone di fiori, picchetti schierati, discorsi vergati e autorizzati in altissimo loco. Una cerimonia dignitosa, senza lacrime e senza troppo dolore. Uno spettacolino che tutte le televisioni hanno trasmesso e ritrasmesso più volte, la sera del 26 ottobre. Perché il Paese sapesse che le autorità mostravano grande rispetto per le tragedie della storia recente e stavano facendo tutto il possibile. I rituali della celebrazione ufficial-privata avevano richiesto pochi minuti in tutto. Certo, nessuno ha impedito a un migliaio di ex ostaggi, parenti e amici delle vittime, oltre che a un gran numero di giornalisti stranieri, di ricordare i caduti. Sui gradini dove erano stati trascinati i corpi agonizzanti di chi aveva respirato il gas e dove molti erano morti senza ricevere cure mediche sono state accese delle candele. I loro tenui riflessi rischiaravano centotrenta fotografie. Pioveva, come anche due anni prima. Il cielo piangeva con noi. Come con noi aveva pianto allora...
Ma la pioggia non è bastata a dissipare il retrogusto amaro che il cinismo di Stato lascia in bocca. Nella storia recente del Paese mai si era vista una simile manifestazione statale alternativa – di chiaro stampo ideologico – allo smisurato dolore di un popolo; mai si era visto un simile rituale celebrato sul sangue di vittime innocenti. Finalmente l’odio che il potere prova per il suo popolo è stato messo a nudo. Un odio che si fonda sulla paura che hanno di noi. Loro non lo tollerano, il dolore; l’abbiamo visto. Loro non hanno intenzione di vivere di ricordi e di cospargersi il capo con la cenere delle infinite vittime degli infiniti attentati che non sono stati in grado di gestire.
Questo sarà anche il futuro delle vittime di Beslan: la versione ufficiale della tragedia sarà diversa da quella ufficiosa. Poche lacrime. Niente verità. Nessuno che ascolti quel che ha da dire la gente. Nessuna iniziativa personale. Come ai vecchi tempi sovietici. Questa è l’ideologia del dopo Beslan: niente e nessuno deve dimostrare che le autorità sono incompetenti (e lo sono state); le lacrime sono ammesse, ma non a fiumi (non c’è ragione, tutto è sotto controllo); la tragedia va ricordata, ma senza un eccessivo dispendio di emozioni: insinuerebbe uno sconforto che non può esistere nel Paese dei Soviet, in quanto sulla Russia veglia Putin che si prende cura di noi e meglio di noi sa com’è bene comportarsi. E poi, c’è sempre una luce alla fine del tunnel, stiamo lottando contro il «terrorismo internazionale», «siamo uniti come non mai» e bla bla bla...
Poi c’è stato il 29 ottobre. La Duma ha approvato a stragrande maggioranza l’ennesima legge varata da Putin: sarà il presidente a indicare i candidati al posto di governatore e i parlamenti locali ratificheranno le nomine senza alcuna possibile alternativa. Se poi i parlamenti suddetti fossero tanto arditi da cassare per ben due volte le proposte del presidente, verranno sciolti per decreto presidenziale con una mozione di sfiducia.
Si tratta, è palese, di un oltraggio alla Costituzione e di una dimostrazione di disprezzo per la gente, che però non ha proferito verbo. L’opposizione ha organizzato qualche sporadico incontro, ma sottotono, senza meritarsi troppa attenzione. Putin ha tirato diritto per la sua strada. Questa è la Russia sovietica del dopo Beslan.
Qual è, dunque, la situazione dopo Beslan? Un tempo si diceva che popolo e partito erano la stessa cosa. Oggi come oggi popolo e partito non sono mai stati così distanti nella vita reale e così vicini in televisione. L’homo sovieticus si fa di giorno in giorno più forte e più sfrontato, e con lui incombe l’inverno della politica, una glaciazione che si annuncia perenne. Non ci sono segni di un rialzo termico. Ben ammaestrata dalle menzogne ufficiali sul teatro Dubrovka, la Russia non chiede giustizia nemmeno per Beslan. In questo senso la responsabilità di quanto accaduto è anche nostra. Dalla tragedia di Nord-Ost ai fatti di Beslan sono passati due anni, anni in cui abbiamo continuato a dormire pacificamente nelle nostre case o a ballare in discoteca, distraendoci da tali amene occupazioni solo per andare a votare Putin. La gente non si è data la pena di pretendere la verità su Nord-Ost o di curarsi del dolore delle vittime, ed è stato questo il momento cruciale: il potere ha capito di essere riuscito a piegare il proprio popolo. Su quest’onda è venuta Beslan.
Non possiamo tollerare altri decenni di glaciazione politica. Vorrei davvero essermeli lasciati alle spalle. Vorrei davvero che i nostri figli potessero essere liberi. E che i nostri nipoti ci nascessero, liberi. Per questo invoco il disgelo. Gli unici a poter cambiare il clima, però, siamo noi. E nessun altro. Aspettarcelo dal Cremlino, com’è accaduto con Gor bačëv, oggi è sciocco e irrealistico. Né ci potrà aiutare l’Occidente, che poco si cura della «politica antiterrorismo di Putin» e che invece mostra di gradire la vodka, il caviale, il gas, il petrolio, gli orsi e un certo tipo di persone... L’esotico mercato russo è attivo e reattivo, e l’Europa e il mondo non chiedono altro alla settima parte del globo terrestre, la nostra.
Tutto quel che sentiamo da voi è «al-Qaeda», «al-Qaeda»... Un maledetto mantra per scrollarsi di dosso la responsabilità di nuovi fatti di sangue, una rozza cantilena con cui cullare la coscienza di una società che altro non vuole se non essere cullata.
GLOSSARIO
A CURA DI CLAUDIA ZONGHETTI
BASAEV, ŠAMIL’ (1965-?), frequenta senza laurearsi la facoltà di Ingegneria a Mosca; torna in Cecenia e scala velocemente la gerarchia della Confederazione dei popoli del Caucaso (movimento politico-intellettuale che si radicalizza verso l’indipendentismo sotto la spinta della componente cecena) e mobilita un primo contingente di combattenti. Con Dudaev condivide la fede indipendentista, ma diverge quanto a metodi e strategie. È la mente del sequestro dell’ospedale di Budënnovsk, con un bilancio finale di centoquarantadue civili morti e duecento feriti. Nel 1998 diventa capo del governo con Maschadov presidente, ma poi lascia la politica e sceglie la guerriglia. Da allora si parla di lui come della mente di gran parte degli attentati terroristici degli ultimi anni. Periodicamente si diffonde la voce che sia morto, ma a tutt’oggi non ci sono prove certe al riguardo.
DUDAEV, DŽOCHAR (1944-1996), generale dell’aviazione sovietica. Nel 1991, in seguito al crollo dell’URSS, torna nel Caucaso e abbraccia la causa indipendentista e l’Islam, diventando in poco tempo leader dei ceceni. Nell’ottobre del ’91 un referendum decreta l’indipendenza della Repubblica Cecena, e Dudaev viene eletto presidente. Ucciso nel 1996, poco lontano dal suo quartier generale, da un missile russo orientato sul segnale emesso dal suo telefono satellitare.
HATTAB, nato, si dice, intorno al 1963. Habib Abd al-Rahman (per i ceceni solo Hattab, o Katab il giordano, per un fraintendimento sulle sue origini) è stato uno dei comandanti di maggior carisma della guerriglia cecena. Si dice che sia caduto in un’imboscata nell’aprile del 2002, ma i ribelli ceceni accusano i servizi segreti russi di averlo avvelenato.
IČKERIJA, in ceceno indica solo la zona montagnosa del Paese, ma nel 1992 Džochar Dudaev battezzò come tale l’intera Cecenia, attirandosi le ire di coloro che vivevano in pianura, generalmente ritenuti più «russificati» e quieti in opposizione ai montanari bellicosi e tradizionalisti.
JABLOKO (Mela), costituitosi nel 1993. Il Partito democratico russo deve il proprio nome a un acronimo dei cognomi dei tre fondatori: Grigorij Javlinskij (che ne è ancora il presidente), Jurij Boldyrev e Vladimir Lukin. È passato da un 7,9 per cento del 1993 (con ventisette seggi alla Duma), al 4,3 per cento del 2003, dunque sotto la soglia del 5 per cento. È comunque presente alla Duma con quattro deputati eletti direttamente.
KADYROV, ACHMAT (1951-2004), ex combattente indipendentista, eletto presidente della Cecenia nell’ottobre del 2003 con l’80 per cento dei voti e il plauso di Mosca. Dapprima sostenitore della guerra santa contro la Russia, si schiera poi con il governo federale. Se Mosca lo sostenne a scapito di Maschadov fu probabilmente perché, odiato dai comandanti della guerriglia, Kadyrov non poteva certo favorire delle trattative di pace. Ucciso da una bomba nel maggio del 2004 allo stadio di Groznyj.
MASCHADOV, ASLAN (1951-2005), nato in Kazakistan nel 1951 da genitori ceceni che rimpatriano nel 1957. Ufficiale dell’Armata Rossa e poi presidente liberamente eletto dal popolo ceceno nel 1997. Figura controversa, spesso incapace di far valere il proprio peso politico. Finisce alla macchia. Con l’elezione di Kadyrov, Maschadov viene definitivamente esautorato. Si dissocia dai fatti di Beslan, ma è accusato di esserne l’organizzatore e il finanziatore. Ucciso in un’azione dei servizi segreti russi il 7 marzo 2005. Secondo il viceprocuratore generale Nikolaj Šepel, che si è basato sui risultati di esami necroscopici, sarebbe morto sotto le raffiche dei suoi compagni per non cadere prigioniero dei russi.
MEMORIAL, prima organizzazione non governativa e non politica della storia russa recente, sorta alla fine degli anni Ottanta per salvaguardare la memoria delle vittime del Gulag. Il suo primo presidente fu Andrej Sacharov. Oggi conta ottantasette sedi tra Russia, Ucraina, Polonia, Lituania e Germania ed è coraggiosa custode dei diritti civili.
ZINDAN, termine ceceno che sta per «sacco di pietra»; è un pozzo di tortura utilizzato dai ribelli ceceni e mutuato poi dalle truppe della Federazione Russa.