mercoledì 25 maggio 2022

UN COLPEVOLE QUASI PERFETTO 2021 Pascal Bruckner


 UN COLPEVOLE QUASI PERFETTO

2021

Pascal Bruckner 

Presentazione

La caduta del Muro di Berlino ha travolto le sinistre europee e una nuova ideologia ha soppiantato la lotta di classe con il conflitto dell’identità. Negli anni Sessanta e Settanta ci si batteva per il proletariato, il Terzo Mondo e i dannati della terra, in nome di un’umanità riunificata: il femminismo mirava a restaurare l’uguaglianza tra donne e uomini, l’anticolonialismo a liberare colonizzati e colonizzatori da un reciproco rapporto di dominazione, l’antirazzismo chiedeva il rispetto per tutti i popoli. Oggi queste battaglie tornano in Europa dagli Stati Uniti in una forma deviata che sposta i termini dello scontro sul campo del genere, dell’identità e della razza, e riporta il colore della pelle al centro del dibattito. Tre nuove correnti di pensiero – neofemminista, antirazzista, anticolonialista – individuano un nemico comune nell’uomo bianco eterosessuale. Capro espiatorio per eccellenza, il colore della pelle lo designa come un razzista, il potere come lo sfruttatore di tutti gli oppressi, la sua stessa anatomia come predatore per natura. Inserendosi con grande forza e spirito polemico nel dibattito contemporaneo, Pascal Bruckner analizza gli effetti di questi nuovi discorsi che celano il disprezzo per l’illuminismo e l’umanità in generale, e portano al riaffacciarsi sul mondo di società ripiegate sulla propria identità, e alla sostituzione di fatto di un razzismo con un altro. Stiamo assistendo, denuncia l’autore, al capovolgersi del progressismo in un nuovo oscurantismo.

Pascal Bruckner è filosofo, romanziere e polemista. Fra i suoi libri ricordiamo La tentazione dell’innocenza, (Ipermedium libri, 2001; Prix Médicis per la saggistica 1995), L’euforia perpetua (Garzanti, 2001) e, usciti presso Guanda, La tirannia della penitenza (2007), Il singhiozzo dell’uomo bianco (2008), Il matrimonio d’amore ha fallito? (2011), Il paradosso amoroso (2012), Il fanatismo dell’Apocalisse (2014) e Una breve eternità (2020).

PREAMBOLO

Nel settembre 1909 Sigmund Freud venne invitato negli Stati Uniti per tenere una serie di conferenze alla Clark University. In quell’occasione, rivolgendosi ai suoi allievi, Carl Jung e Sándor Ferenczi, fece una confidenza che divenne celebre: «Non sanno che gli portiamo la peste». Un secolo dopo, sono gli Stati Uniti a rispedire a noi un’altra peste: la tribalizzazione del mondo, l’ossessione razziale, l’incubo identitario. Ma è una peste che noi francesi abbiamo ampiamente contribuito a diffondere negli anni Settanta, esportando nel nuovo continente i nostri filosofi più all’avanguardia nella demolizione dell’umanesimo e dei Lumi. Noi abbiamo fornito il virus, loro ci rimandano la malattia. Se il boomerang è anglosassone, la mano che l’ha lanciato è francese. L’America ha sempre unito il più grande potere di attrazione al più grande potere di repulsione. Se gli Stati Uniti prefigurano l’avvenire del mondo occidentale, il nostro futuro è fosco. Ma il loro ancora di più.

INTRODUZIONE

Un brutto remake

In un saggio sottoposto alla rivista Sociology of Race and Ethnicity nel 2018, tre accademici americani, turbati dalla crisi del dibattito intellettuale negli Stati Uniti, propongono alla redazione alcuni passi scelti dal Mein Kampf sostituendo «ebrei» con «bianchi». Alla fine l’articolo viene rifiutato ma non prima di aver ricevuto il plauso di numerosi accademici che interpretano lo studio alla lettera: «Questo articolo ha le potenzialità per fornire un contributo forte e originale all’analisi dei meccanismi che rafforzano l’adesione a prospettive suprematiste bianche». I tre autori, Peter Boghossian, James Lindsay e Helen Pluckrose, si erano già fatti notare per altre bufale, molte delle quali erano state accettate da riviste di alto livello: una riguardava «la cultura dello stupro fra i cani che frequentano i parchi canini di Portland (Oregon)»; un’altra del 2017 sosteneva che il pene è una costruzione sociale e che è responsabile, fra le altre cose, del surriscaldamento globale. Questi ricercatori sono stati minacciati di licenziamento dalle loro università e sono stati accusati di fare il gioco della destra.

Una contaminazione fulminea

Cosa ci dicono questi studi stravaganti? Dicono molto sul deterioramento delle usanze accademiche nordamericane e ancor più su una mentalità che sta conquistando l’Europa. Un esempio fra gli altri verificatosi in Francia: un documentario pubblicato sul sito di France Culture nel novembre 2019 spiega che il bianco immacolato delle sculture greche è «il risultato di duemila anni di storia reazionaria». Ci hanno mentito: «Ebbene sì, le statue greche non erano bianche ma di tutti i colori. La Storia ce lo ha nascosto per promuovere il bianco a ideale di un Occidente che è stato mitizzato in contrapposizione ai colori, simboli di alterità e di meticciato». Anche se questa pillola è stata in seguito ritirata, resta il fatto, secondo l’archeologo Philippe Jockey, curatore del documentario, che questa policromia è stata nascosta al pubblico per ragioni politiche: «Diciamola tutta: quello che vediamo svilupparsi dai primi testi di Plinio il Vecchio fino ai peggiori eccessi della Seconda guerra mondiale è, di fatto, un rifiuto nei confronti dell’Altro». Perbacco: Plinio il Vecchio come antenato del cancelliere Adolf Hitler. Sarà pure un archeologo competente, Philippe Jockey, ma come storico è piuttosto scadente. Certo, la statuaria greca è policroma: ma le nozioni che Jockey agita come sonagli per neonati sono costruzioni retrospettive apparse in epoca recente, che lui applica all’antica Grecia. Parole come «Occidente», «Altro» e soprattutto «meticciato» non avevano la minima rilevanza concettuale all’epoca della statuaria greca ed è un controsenso utilizzarle così. Ricordiamoci che per gli antichi greci il concetto di «razza» non esisteva proprio (è un’invenzione risalente al XIX secolo, quando alcuni autori tedeschi si impadronirono della civiltà ellenistica per farne il precursore del pangermanesimo): i greci e i romani «non vedono alcuno scandalo nel colore della pelle». «Gli antichi ignoravano del tutto la discriminazione razziale», la società greca non tracciava alcuna distinzione sulla base del colore,1 e per Aristotele la differenza fra bianchi e neri è puramente accidentale, non essenziale.2 La maggior parte degli schiavi dei greci (che fra l’altro avevano la pelle scura) erano bianchi.3

Eppure l’uso dell’epiteto «bianco» si diffonde con la rapidità di un fulmine. Avete espresso qualche dubbio sulle teorie della bambina prodigio Greta Thunberg? Sarete bollati come «giovanofobi» o come «vecchi maschi occidentali bianchi», secondo una scala crescente di spregiativi. Cosa c’entrano queste etichette con la militante ecologista? Niente! Se un intellettuale africano criticasse la giovane svedese, qualcuno lo definirebbe forse un vecchio maschio nero? Sentite allora cosa scrive il teorico del collasso del mondo industrializzato Aurélien Barrau a proposito della causa animale: «Ciò che oggi mi sembra vitale è la decostruzione, per dirla con Jacques Derrida, del ‘carno-fallo-logocentrismo’, vale a dire l’esigenza di rimettere in discussione la terribile egemonia dell’uomo (bianco, bisognerebbe aggiungere), in erezione (in quanto sottomette l’altro al proprio desiderio) e mangiatore di carne (immagine archetipica dello sfruttamento dei viventi non umani)».4 Quanto al «privilegio bianco», tipico di una problematica nordamericana, il concetto è entrato nel linguaggio comune nel giugno 2020 dopo l’enorme risonanza che ha avuto, in Francia come altrove, la vicenda di George Floyd, anche se nell’Esagono quella nozione è poco pertinente.5

Il criminale per eccellenza

L’Occidente ha tutte le carte in regola per incarnare il colpevole ideale. Al di là dell’Atlantico ha fondato una nuova nazione basata sullo sterminio degli indiani, sulla riduzione in schiavitù degli africani e sulla segregazione dei neri. Quanto all’Europa, deve portare il peso di quattro secoli di colonialismo, imperialismo e schiavismo, anche se alcune nazioni europee sono state le prime a perorare la causa della loro abolizione. A fare del mondo occidentale il capro espiatorio per eccellenza è anzitutto il fatto che esso ammette i propri crimini, attraverso la voce delle sue coscienze più lucide, da Bartolomé de Las Casas ad André Gide e Aimé Césaire, passando per Montaigne, Voltaire e Clemenceau. Ha inventato la coscienza infelice, pratica quotidianamente il pentimento con una plasticità quasi meccanica, al contrario di altri imperi, che invece faticano a riconoscere i loro misfatti, come l’impero russo, l’impero ottomano, le dinastie cinesi e gli eredi dei vari regni arabi che hanno occupato la Spagna per quasi settecento anni. Solo noi occidentali siamo pronti a batterci il petto mentre molte altre culture si atteggiano a vittime o ad anime candide. La Colpa ci è talmente consustanziale che tendiamo ad assumerci anche quella degli altri. Inoltre, da quando gli Stati Uniti hanno cominciato a ritirarsi dagli affari mondiali, l’Occidente è debole come non mai, privo di leadership e senza una direzione. Significativamente, viene additato al pubblico obbrobrio proprio nel momento in cui il suo ruolo viene meno. È quella che i diplomatici riunitisi a Monaco nel febbraio 2020 hanno definito Westlessness, la scomparsa del blocco occidentale. È giunto il momento di presentargli il conto. Niente scatena la rabbia quanto la vista di un uomo a terra. Già odiato per il suo passato dominio, l’Occidente viene ormai disprezzato per il suo declino.

Contrariamente alle speranze suscitate dal 1989, non è stata la ragione, tanto meno la moderazione, a prevalere dopo la caduta del Muro. Un’altra ideologia ha sostituito le promesse di salvezza sbandierate dal socialismo reale per riprendere la battaglia su nuove basi: la razza, il genere, l’identità. Per i fautori di tre diversi discorsi, quello neofemminista, quello antirazzista e quello anticolonialista, il colpevole è ormai l’uomo bianco, ridotto al colore della sua pelle. È lui il miserabile rognoso, responsabile di tutti i mali. A tutta prima niente accomuna quelle tre retoriche tranne la figura del Maledetto, il maschio bianco eterosessuale su cui convergono avversioni identiche. Ma le donne bianche non si illudano di farla franca: esiste infatti, come vedremo, un certo suprematismo «indigeno»6 che addita anche loro alla pubblica riprovazione. La Santa Trinità della condanna non dimentica nessuno. In tutti e tre i casi, si tratta degli stessi ragionamenti, degli stessi meccanismi e talvolta delle stesse persone che intervengono con un mimetismo stupefacente, dando luogo a una famiglia spirituale coerente.

Genesi della mancanza di ragione

Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso i dipartimenti di filosofia, letteratura e sociologia delle università americane furono inondati, nel bene e nel male, dalle teorie decostruzioniste provenienti dalla Francia, che fustigavano la metafisica occidentale e che presero il nome di French Theory.7 Evitiamo qui di chiederci se queste dottrine siano state un enorme bluff, per riprendere l’espressione di George Steiner, un tracollo dello spirito con poche eccezioni. Sta di fatto che adesso gli Stati Uniti ci rispediscono queste filosofie nate a suo tempo in Europa, che oggi siamo pronti ad abbracciare alla cieca perché recano il marchio MADE IN USA. Dalla fine della storia alla teoria del gender, passando per lo scontro di civiltà, la Francia ridiventa il laboratorio infelice di una serie di chimere nordamericane. L’egemonia culturale anglosassone non è più esotica, è domestica in un modo del tutto particolare: è se stessa sotto altre vesti, un ibrido transatlantico che parla un idioma straniero, molto più chic del francese. Il post-strutturalismo ci viene rispedito in patria armi e bagagli, con il certificato di garanzia del globalese, il nuovo pidgin mondiale. In quest’epoca di smarrimento delle sinistre europee, sballottate fra un comunismo moribondo e una socialdemocrazia ormai alla frutta, l’ideologia identitaria di provenienza Nuovo Mondo funge da salvagente. Il prestito è spesso automatico, anche sul piano linguistico, dove si assiste al fiorire, in questo campo, di un patois anglofono con accento panamense. Si può persino dire che l’uso del franglese nei media e nel mondo aziendale è inversamente proporzionale alla reale conoscenza che hanno i francesi della lingua di Shakespeare. Meno la padroneggiano, più ne inseriscono interi pezzi nel parlato quotidiano. La velocità di diffusione semantica è pressoché istantanea, garantita da innumerevoli emissari.

L’America ha questo di unico, che incoraggia coloro che la amano a imitarla. Negli ultimi cento anni è stata in grado di esportare se stessa meglio di ogni altra cultura. Si adatta a tutti i climi, a tutte le credenze, è dotata di una forza di emissione e di contagio senza pari. È per eccellenza la civiltà del mimetismo. Anche coloro che la odiano vogliono assomigliarle. Chiunque può diventare americano purché lo voglia, anche se non sa l’inglese. Da ventriloqui esperti, la copiamo in tutti i campi. Ci attribuiamo persino i suoi crimini, incuranti del fatto che la Francia non ha mai praticato, sul proprio territorio, né lo schiavismo né la segregazione razziale. Ma lo scambio di ruoli è reciproco: noi adottiamo la visione americana della società nel momento in cui gli Stati Uniti, perlomeno alla sinistra del partito democratico, cercano di estendere lo Stato assistenziale ed entrano a loro volta nella lunga odissea del mea culpa. Noi ci etnicizziamo mentre loro si addolciscono e sognano di riscrivere il romanzo nazionale a partire dallo sterminio degli indiani e dalla segregazione dei neri.8

Sarà difficile, comunque, riuscire a convincere cinquecento milioni di europei, soprattutto a est, che la loro innata nocività è legata al colore della pelle. Anche se si sta colorando sempre più, soprattutto a ovest, la popolazione europea rimane in gran parte di carnagione chiara con importanti differenze di tonalità fra svedesi, andalusi, bulgari e gitani, secondo un’ampia gradazione cromatica: far sentire in colpa tutti questi popoli richiederà una fatica immane, ma non sembra impossibile. Il tentativo è in parte già riuscito nell’Europa occidentale, dove si cerca di inculcare negli individui il disonore di essere ciò che sono. È in corso una vasta opera di rieducazione, nelle università come nei media, che chiede a coloro che vengono definiti «bianchi» di rinnegare se stessi. Trent’anni fa c’era ancora abbastanza buonsenso, tanto a destra come a sinistra, per ridere di queste sciocchezze. L’ultima volta che si era imposta la propaganda razziale era stato negli anni Trenta con il fascismo, che squalificava a priori una parte della popolazione. Eravamo vaccinati, grazie. Ma oggi tutto questo fa ritorno dal Nuovo Mondo vestendo i panni del suo contrario, l’antirazzismo, con nuovi protagonisti, e ottiene una certa risonanza persino nel Parlamento europeo. I professori di vergogna (neofemministe, anticolonialisti, indigenisti) vorrebbero assolutamente convincerci che il nostro stile di vita è fondato su uno spaventoso sfruttamento dei popoli, e che dobbiamo pentirci. D’un tratto un’intera fetta del mondo occidentale si scopre abominevole, sotto lo sguardo di alcune minoranze: se Monsieur Jourdain, nel Borghese gentiluomo di Molière, era un prosatore suo malgrado, noi ci scopriamo criminali a nostra insaputa, per il semplice fatto di essere venuti al mondo. Per noi esistere significa innanzitutto espiare.

C’è un’altra accusa che grava sull’uomo bianco: ha distrutto il pianeta. Non si accontenta di opprimere le donne, o di mostrarsi razzista e autoritario, ma devasta il suo stesso ambiente e accumula nelle proprie mani la maggior parte delle ricchezze economiche e tecnologiche. La sua colpevolezza ricorda un millefoglie, in cui ogni strato rafforza la struttura complessiva. Ma l’ingresso, negli ultimi trent’anni, della Cina, dell’India, del Brasile e del Sudafrica nel capitalismo mondiale in qualità di grandi produttori e grandi inquinatori impedisce al discorso ecologista di limitarsi a detestare esclusivamente l’uomo occidentale e la sua pelle. Animato da un’ambizione cosmica, insiste piuttosto sulla condanna del produttivismo in quanto tale e della hybris che pervade il progetto stesso della modernità. Noi non ce ne occuperemo in questa sede.

La nuova glaciazione

L’America che nel 1944 venne a salvare l’Europa, e che all’epoca incarnava una sintesi di modernità, libertà e prosperità, quell’America è morta, consumata dall’isolazionismo e dal nazionalismo. Oggi si pone di fronte al Vecchio Mondo non come una soluzione da adottare, ma come un errore da non ripetere. È stato un fallimento in tre tempi: il movimento dei diritti civili negli anni Sessanta e Settanta, che ha permesso al paese di non sprofondare nell’apartheid, la liberazione dei costumi e delle minoranze ha suscitato come contraccolpo la reazione violenta dei conservatori, i quali hanno cercato con ogni mezzo di cancellare quelle conquiste. Questa controrivoluzione, a tratti brutale, ha generato a sua volta una ripresa della lotta a sinistra, nel movimento delle donne e delle minoranze, che si esprime ormai attraverso un estremismo di genere, un’ipersensibilità verso ogni discriminazione, una retorica oltranzista. L’America sfida il razzismo usando gli stessi termini del razzismo, riducendo ciascuno al colore della propria pelle, nel disprezzo di qualunque analisi sociale. Combatte il male esacerbandolo. Il risultato è una frammentazione senza fine. È un paese sull’orlo della follia, stretto nella morsa fra il martello dei sostenitori di Trump e l’incudine dei fanatici della razza. A tutto ciò si aggiunge, sul piano militare, l’impotenza della superpotenza americana, che perde tutte le guerre, fallisce in Iraq e sloggia dall’Afghanistan dopo vent’anni di occupazione. Benché ostenti una diplomazia da gradassi, capitola sia con la Corea del Nord sia con i mullah di Teheran, cede alla Cina la leadership mondiale, non riesce mai a imporre la pace nei teatri in cui interviene. Da ogni punto di vista, in attesa di tempi migliori, è un alleato imprescindibile da cui bisognerà assolutamente prescindere, che disprezza gli amici e corteggia i nemici!

Dinanzi a questa deriva ideologica, si ha l’impressione di assistere a un pessimo remake degli anni Sessanta, ma a parti invertite. L’aspetto che più colpisce è il pessimismo antropologico che regna negli USA. La storia recente è punteggiata di grandi periodi di disgelo, come il 1936, il Maggio ’68 e la perestrojka; oggi assistiamo al ricongelamento, si chiudono le frontiere, si imprigionano le persone. Il progetto di emancipazione del genere umano è venuto meno perché il genere umano non esiste più, ci sono soltanto le etnie, le razze, le comunità. Le grandi battaglie degli anni Sessanta e Settanta si svolgevano all’insegna di un’umanità riunificata: l’anticolonialismo mirava a liberare al tempo stesso coloni e colonizzati per sottrarre entrambi a un rapporto di dominazione reciproca; il femminismo voleva instaurare un’uguaglianza economica e insieme simbolica fra uomini e donne. Quanto all’antirazzismo, chiedeva il rispetto dei popoli di origini diverse in un contesto di forte immigrazione, all’interno di un’Europa traumatizzata dal ricordo del nazismo. Cosa c’è di più nobile di questi ideali? Cosa ne rimane oggi? Un ghigno astioso che scaturisce più dalla vendetta che dalla generosità. Tre grandi battaglie sono state dirottate proprio da coloro che se ne fanno interpreti: i reazionari non avrebbero nemmeno potuto sognare un tale colpo di fortuna. È questo capovolgersi del progressismo in oscurantismo che vogliamo studiare in questo libro. Il panorama è cupo: il razzismo in Occidente è più vivo che mai; uomini e donne sono in guerra da qui alla fine dei tempi; quanto al colonialismo, è ancor più virulento da quando è scomparso. Scopriamo ogni giorno un nuovo misfatto per cui indignarci: l’intero universo è infestato di onde negative. Siamo tornati alla condizione di Sisifo, costretto a issare in eterno la sua pietra. La marcia verso la liberazione non giunge mai al traguardo.

La confusione dei fronti

Altro paradosso: è nelle democrazie occidentali, dove i diritti delle minoranze e delle donne sono maggiormente rispettati, che si protesta con più veemenza contro la violazione delle libertà fondamentali. La coscienza delle ingiustizie si acuisce proprio dove queste ingiustizie vengono meno. Quelle che ancora rimangono vengono percepite come intollerabili. Chi è il nostro nemico? Non le dittature o le autocrazie, ma il regime che ci garantisce la massima autonomia. Ci troviamo a fare i conti, probabilmente, con un corollario della famosa legge di Tocqueville:9 un popolo insorge quando la sua situazione migliora, non quando peggiora. «Il desiderio di uguaglianza diventa sempre più insaziabile a mano a mano che l’uguaglianza si fa più grande.»10 Sono le riforme e i passi avanti a innescare le rivoluzioni, non la miseria. Il venir meno di una forma di oppressione non equivale a un beneficio guadagnato. È solo una tappa lungo un percorso senza fine, che spesso assomiglia a una via crucis.

Tradizionalmente, la designazione di una vittima espiatoria, in caso di crisi, è accompagnata da rappresaglie: deportazioni, roghi, eccidi, affogamenti.11 Additare un capro espiatorio significa sempre invocare un omicidio purificatore. Attraverso questo meccanismo arcaico riesumato sotto forma di razzialismo, abbiamo lasciato lo spazio universalista della sinistra e, pensando di contrastare l’estrema destra, ci siamo addentrati nei suoi territori perché condividiamo il suo stesso odio verso i Lumi e verso l’idea di unità del genere umano. La grande sfida di ogni battaglia politica è non assomigliare al proprio nemico. Karl Jaspers aveva già osservato questa confusione dei fronti, nella Germania del 1936, all’interno dell’area rosso-bruna, quando comunisti, conservatori e nazisti si influenzavano a vicenda e abbracciavano spesso gli stessi pregiudizi mentre credevano di combattersi. Oggi bisogna riesumare la tesi, un tempo diffusa e risalente all’Italia mussoliniana, dei due fascismi:12 quello ben noto dell’estrema destra e quello dell’ultrasinistra identitaria, più sottile in quanto celato sotto il vessillo dell’antifascismo, dell’antimperialismo, dell’antirazzismo. Lo si potrebbe definire, con riferimento a Jacques Doriot, militante comunista degli anni Trenta passato al nazionalsocialismo dopo il 1940 e morto con l’uniforme delle Waffen SS, la «doriotizzazione» di un certo numero di movimenti considerati popolari. Questo avvicinamento tra opposti estremismi che si confondono credendo di odiarsi è forse il tratto più sconcertante del secolo appena cominciato.

I nuovi paria

Si fa avanti, perlomeno nei discorsi dei nostri crociati, una nuova umanità che pone in essere un’altra gerarchia: in basso il paria, feccia della terra, il maschio bianco eterosessuale occidentale, in cima la donna nera o araba o indiana, lesbica o queer, la nuova regina dell’universo. Fra lei sul piedistallo e lui nella polvere si stende un’intera gamma di sfumature, dal bianco al beige, dal beige al bruno, dal bruno al grigio scuro. Secondo questi nuovi pregiudizi, è meglio essere scuri che pallidi, meglio omosessuali o transgender che etero, meglio donne che uomini, meglio musulmani che ebrei o cristiani, meglio africani, asiatici o indigeni che occidentali. Ci sarebbe insomma, come mostrano le pubblicità e i social media, l’antico popolo, monocromatico, servile, stupidamente eterosessuale; e il nuovo popolo, multicolore, composto da minoranze dinamiche, talentuose, caratterizzato dalle più diverse tendenze sessuali. Come non passare dall’uno all’altro se si è giovani? Se la riconciliazione è impossibile, se neri e bianchi, uomini e donne non possono più vivere assieme, cosa resta? La separazione definitiva o il regime della denuncia permanente sotto l’egida di un esercito di giuristi, incaricati di arbitrare i conflitti.

Già nel 1983 lanciai l’allarme sulla possibile comparsa di un razzismo contro i bianchi, di una crociata contro i visi pallidi.13 Nel corso della decolonizzazione aveva preso forma, soprattutto in Africa, un contro-razzismo dei popoli che lottavano per la libertà, in particolare nel Congo di Patrice Lumumba nell’estate 1960.14 Albert Memmi, grande fautore dell’anticolonialismo, interpretava quei fenomeni, sulla scia di Sartre, come un passaggio necessario nella battaglia sorta in risposta alla violenza della colonizzazione, un’inversione del rapporto fra dominatori e dominati. Lasciamo decidere agli storici. Quel che è assolutamente inedito è che siano dei «bianchi» residenti in Europa o negli Stati Uniti, di solito appartenenti alle classi benestanti, a maledire se stessi, a denunciare «l’insopportabile bianchità della nostra cultura»,15 deducendo la propria infamia dal colore della propria pelle. L’odio nei confronti dell’uomo bianco è anzitutto disprezzo di sé da parte del bianco che ha avuto fortuna. La sua plateale autoflagellazione è per certi versi uno spettacolo nel quale compete con altri suoi pari nella manifestazione del proprio disgusto di sé: una gara a chi si frusta più a lungo e con più veemenza.

Essendo anch’io ciò che la neolingua attuale definisce un uomo bianco, eterosessuale e non più così giovane, sono consapevole di non avere i titoli per parlare. Rappresento il mondo di ieri: affrontando questi temi mi gioco la testa, perché incarno molti di quei difetti. Tuttavia, non rinuncio a denunciare questa dottrina regressiva, travestita da discorso di sinistra, che alimenta e giustifica una follia suprematista di ritorno.16 Quando l’emancipazione non si distingue più dalla persecuzione significa che nel partito che si definisce «progressista» c’è qualcosa che non va.

PRIMA PARTE

La demonizzazione del maschio

1

Ha senso parlare di «cultura» dello stupro?

Per la generazione dei baby-boomer due eventi sono stati determinanti: la liberazione dei costumi e il femminismo. L’uno non poteva esistere senza l’altro. Va detto che in Francia c’era molta strada da fare: le donne hanno ottenuto il diritto di voto solo nel 1945 e si sono emancipate dalla tutela coniugale solo nel 1965, ottenendo il diritto di lavorare e aprire un conto in banca senza l’autorizzazione del marito. La legge del 1970 priva il padre della potestà esclusiva che da quel momento sarà condivisa con la madre. Il controllo della fertilità grazie ai contraccettivi, la depenalizzazione dell’aborto con la legge Veil del 17 gennaio 1975 aprono la porta, per le donne, a un maggiore controllo del proprio corpo. Inoltre, varie leggi facilitano il divorzio: il matrimonio cessa per le mogli di essere una prigione, diventa una libera scelta da cui possono uscire quando lo decidono.

Abbiamo amato il femminismo di allora, perché liberava al tempo stesso gli uomini e le donne e univa rabbia e generosità. Permetteva agli uni e alle altre di reinventarsi e di superare gli stereotipi. Che conforto per le donne affrancarsi dal ruolo di madre e di moglie e poter finalmente conquistare la propria indipendenza lavorando! Che sollievo per gli uomini non dover più rappresentare una virilità tossica e abbandonare l’aggressività tipica del machismo, che costituisce anche una forma di oppressione degli uomini nei confronti di altri uomini! Cosa è successo, poi, cosa ha fatto sì che lo stendardo della liberazione, nelle mani di alcune donne, servisse soltanto ad armare la guerra tra i sessi? Attraverso quali vie il femminismo di progresso è diventato un femminismo di processo?

Tutti stupratori?

Bisogna fare una premessa. Conosciamo tutti, nella cerchia dei nostri conoscenti, una moglie, un’amica, una compagna che è stata vittima di stupro o di aggressione. Tutti abbiamo visto per strada, in autobus, in metropolitana uomini di ogni età infastidire o insultare le donne di passaggio. Il rischio aumenta via via che scende la notte ed entrano in scena l’alcol e il senso di impunità. Ogni padre, ogni madre va in apprensione quando una figlia, giovane, esce la sera rischiando di fare brutti incontri. La violenza sessuale è un crimine, gli stupri di gruppo in tempo di guerra sono un’arma di distruzione di massa che colpisce i corpi e le anime, ed è osceno minimizzarne l’orrore o la frequenza. Ma non è altrettanto discutibile fare di questo crimine il simbolo dei rapporti tra i sessi, come se le relazioni tra uomini e donne si riducessero interamente alla violenza sessuale?

Se diamo retta alla doxa oggi dominante, ogni aspetto della vita quotidiana sarebbe uno stupro: lo sguardo dei passanti, i loro modi viscidi, la loro mentalità e perfino l’aria che respiriamo. Il più velato sorriso rivolto da un ragazzo a una coetanea racchiuderebbe un’intenzione omicida: nascere donna vorrebbe dire nascere preda; nascere maschio significherebbe nascere assassino. La stragrande maggioranza degli uomini, per non dire la loro totalità, in Francia come altrove, non sognerebbe altro che abusare di un corpo femminile: «Il marito che violenta con regolarità la propria moglie si premura di terrorizzarla e di isolarla quanto basta per evitare che parli e si confidi con qualcuno. Il caporeparto che molesta sessualmente le sue sottoposte creerà un’atmosfera così pesante da indurre chi sa a tacere, per paura di perdere il posto».17 Conclusione: «La cultura dello stupro è ovunque, a casa tua come a casa mia, caro lettore, nelle trasmissioni che guardiamo, nei libri che leggiamo, nelle conversazioni coi parenti, nelle istituzioni. Benché sia difficile da ammettere, partecipiamo tutti alla cultura dello stupro».18 È questo il messaggio di un certo femminismo, che ripete all’infinito alcune tesi nordamericane, diffuse senza tregua da diversi anni: come ha spiegato la ex presidente dell’UNEF, Caroline De Haas, durante una conversazione con il settimanale L’Obs del 14 febbraio 2018, «un uomo ogni due o tre è un aggressore».19 Per citare il sociologo Éric Fassin: «Occorre pensare la violenza sessuale in termini culturali, non individuali: non come un’eccezione patologica, ma come una pratica inscritta nella norma che la rende possibile tollerandola, se non incoraggiandola».20 In altri termini, lo stupro non è una deviazione, ma una conferma della norma che lo porta dentro di sé, come la nuvola porta il temporale. Lo stesso Éric Fassin, dopo le aggressioni subite nella notte di San Silvestro 2015-2016 da alcune donne tedesche alla stazione di Colonia e in molte altre città tedesche da parte di migranti nordafricani, spiegava in televisione: «Non è perché sono musulmani che hanno compiuto questi atti. C’è una finalità politica. Con chi se la sono presa? Con le donne tedesche, bianche. Non sono andati a violentare delle prostitute. Ecco il significato della loro violenza».21 Questo non può che rassicurarci. Aggredire donne bianche, quindi dominanti e per giunta tedesche, non è poi così grave: costituisce quasi un atto di ribellione antimperialista. Lo stesso Éric Fassin ha firmato nel 2017 una petizione contro la penalizzazione delle molestie di strada, temendo che il testo potesse stigmatizzare i «razzizzati», vale a dire i migranti.22 Tutto ciò che è maschile è cattivo, ma non tutti gli uomini sono villani allo stesso modo: quelli che vengono dai paesi poveri e dominati godono di circostanze attenuanti. Ne riparleremo.

Il pene, arma di distruzione di massa

Alcune femministe francesi di questo inizio di secolo ripetono a pappagallo ciò che dicevano le femministe americane negli anni Settanta, Ottanta, Novanta del secolo scorso. A esergo del suo libro sulla cultura dello stupro alla francese, Valérie Rey-Robert cita Andrea Dworkin: «Noi donne. Noi non abbiamo davanti un tempo infinito [...]. Siamo tutte a un passo dalla morte. Tutte le donne lo sono. E siamo a un passo dallo stupro e a un passo dalle botte».23 (Pro memoria: in Francia la speranza di vita delle donne è di cinque anni superiore a quella degli uomini. Perciò le cittadine francesi sono meno prossime alla morte dei loro coetanei maschi, disuguaglianza di cui nessuno si indigna.24) Affascinato dal modello americano, un certo neofemminismo alla francese si riduce a ricalcarne pedissequamente le movenze. Noi francesi abbiamo la tendenza a riprodurre, in modo servile, i peggiori difetti dei nostri amici americani, trascurando per contro le loro immense qualità.

Dunque il nemico, negli Stati Uniti, è il maschio bianco ultracinquantenne, che detiene il potere economico, occupa tre quarti dei seggi nei consigli di amministrazione e costituisce più della metà degli eletti. Se non ci fosse lui a concepire e dirigere il mondo, andrebbe tutto molto meglio: l’uomo bianco è la macchia che insozza l’originaria purezza del mondo. Secondo la «afrofemminista» Françoise Vergès, ci sono solo due tipi di uomini: i predatori, sempre e in maggioranza bianchi, assistiti dalle loro donne; e i «razzizzati» (categoria in cui rientrano i neri e gli arabi, ma non gli asiatici secondo la retorica attualmente in voga).25 Il nuovo puritanesimo non demonizza più la donna come avviene nell’islam di oggi o nel cristianesimo di ieri, ma l’uomo. È cambiato il bersaglio della maledizione, non la mentalità. Tutto è nocivo nell’uomo, a cominciare dal cosiddetto mansplaining, la fastidiosa abitudine di rivolgersi alle donne spiegando ogni cosa con un tono di degnazione (come se le donne non avessero la stessa tendenza quando parlano tra loro). Ma anche la mansterruption, la propensione degli uomini a interrompere nel corso di una conversazione, o ancora il manspreading, l’abitudine che hanno alcuni di stravaccarsi a gambe larghe in metropolitana o in treno. Non va dimenticato che le femministe tedesche, negli anni Settanta, volevano vietare agli uomini di urinare in piedi, un chiaro segno di arroganza maschilista.

Il secondo sesso è per sua natura innocente anche quando una donna viene accusata di molestie: così, quando nel 2017 la professoressa Avital Ronell, che insegna teoria della letteratura femminista alla New York University, viene accusata di molestie da uno dei suoi studenti, tutti i suoi colleghi, fra cui Judith Butler e il filosofo Slavoj Žižek, firmano una petizione per difenderla e si richiamano alla sua reputazione e al suo rango per screditare il suo meschino accusatore.26 La professoressa viene sospesa per un anno. Gli uomini, in virtù della loro forza fisica, sono naturalmente colpevoli, al punto che non è possibile (come accadeva agli ebrei medievali descritti da René Girard) separarli dalla loro colpa.27 Lottare contro di loro è giusto, e se qualche innocente, per sbaglio, viene accusato a torto di stupro o di molestie, è il prezzo da pagare per una crociata necessaria. In ogni modo, le donne hanno accumulato così tante sofferenze pregresse nel corso dei millenni che nessuna ingiustizia odierna potrebbe estinguere il debito: l’umanità tutta è debitrice nei loro confronti e, anche se condannassimo tutti gli uomini viventi, questo non basterebbe ancora a risarcire il genere femminile. Essere vittima, per una donna, è uno status sociale, quasi ontologico.

Il fatto è che l’uomo è dotato di un’arma temibile che lo condanna ad agire in modo aggressivo: il pene. «La violenza» diceva la femminista Andrea Dworkin «è il pene o lo sperma che ne esce. Quello che il pene può fare, deve farlo con forza affinché un uomo sia uomo.»28 Dotato di questa maledizione che gli penzola tra le gambe, l’uomo fin dall’infanzia ha una sola ossessione: uccidere, annichilire. «La sessualità maschile, che è ebbra del suo intrinseco disprezzo per la vita in genere, e in particolare per la vita delle donne, può scatenarsi, mietere delle vittime a caso, avvolgersi nelle tenebre e quivi trovare il suo conforto, il suo santuario.»29 Il letto coniugale è zona di guerra, Kobanê o Stalingrado in posizione orizzontale. Fare l’amore, per un ragazzo, è quasi sempre sinonimo di brutalità; per una donna, di sofferenza. L’epoca dell’innocenza amorosa non è mai esistita: dietro la tenzone erotica, si consuma ogni giorno una guerra silenziosa. Come conclude Laure Murat, che insegna alla UCLA: «Noi viviamo in una società globalizzata che, rigorista o liberale, religiosa o meno, musulmana, ebraica, cristiana, mette a repentaglio la vita delle donne».30 Tutte le donne sono quindi in pericolo, a Raqqa come a Beverly Hills, a Goma come nel centro di Parigi; la donna dell’alta borghesia come la proletaria. Davvero?

Non tutti gli stupratori sono uguali

Ma il problema dell’integrità femminile è controbilanciato dall’antirazzismo. Gli uomini non sono tutti uguali nell’obbrobrio: solo i bianchi meritano veramente di essere biasimati. Se a Parigi alcuni migranti africani o mediorientali molestano le passanti, non bisogna punire i responsabili, ma allargare i marciapiedi, osserva Caroline De Haas il 22 maggio 2017, e migliorare l’illuminazione. La battaglia contro lo stupro e l’aggressione si ferma di fronte al colore della pelle. 31 Uno stupratore proveniente dal Sud del mondo non è veramente uno stupratore perché gode di circostanze attenuanti. Ecco come il saggista Thierry Pech spiega le aggressioni di Colonia come quelle del quartiere La Chapelle-Pajol di Parigi, chiamando in causa una sorta di usanza culturale orientale: «Gli aggressori di Colonia hanno sempre vissuto nella disoccupazione e nella miseria sessuale; è per questo che non bisogna giudicarli in modo affrettato. È l’emancipazione delle donne del mondo musulmano che spiega la frustrazione degli uomini musulmani. L’irrigidimento patriarcale e maschilista in corso nei paesi arabi è la conseguenza dell’emancipazione delle donne». Relativizziamo la gravità degli atti compiuti quando a compierli sono uomini non-bianchi, vale a dire dominati.32 Si noti il paternalismo di un simile ragionamento, che applica la cultura delle scusanti a una categoria umana considerata irresponsabile per natura. «Noi non siamo corpi disponibili a essere consumati dal maschio bianco» dice esplicitamente l’islamista Houria Bouteldja, come se quei corpi fossero a disposizione dei maschi di altri colori. «Se una donna nera viene violentata da un nero, è comprensibile che non sporga denuncia per proteggere la comunità nera»33 aggiunge. Insomma, ogni stupro è insopportabile, ma non tutti gli stupri sono uguali e non si può mettere sullo stesso piano l’aggressione di un «bianco» dominante con quella compiuta da una persona «in posizione subalterna».34 La filosofa americana Judith Butler, d’altra parte, esorta le donne afgane a non rinunciare in alcun modo al burqa per non sottomettersi ai diktat falsamente liberatori dell’imperialismo americano. Molto meglio obbedire al patriarcato orientale che accostarsi di un solo centimetro allo Zio Sam.35

Concentrarsi sulle aggressioni di Colonia o sulla persona di Tariq Ramadan significa dare prova di razzismo e stigmatizzare una categoria particolare di persone, i musulmani e i richiedenti asilo, tanto per non far nomi, mentre «le orde mattutine di maschi sui mezzi pubblici francesi costituiscono già di per sé un pericolo per le donne, soprattutto le truppe di avvinazzati»,36 come spiega Valérie Rey-Robert, ansiosa di incolpare in toto il genere maschile per meglio discolpare una ben precisa categoria. Tutte le occasioni in cui si riuniscono orde di maschi, che si tratti dell’Oktoberfest di Monaco o delle feste di Bayonne, rappresentano per le donne situazioni ad alto rischio dove si moltiplicano le aggressioni. Quanto a Tariq Ramadan, perché ricondurre all’islam le accuse che lo vedono protagonista, quando «nel mondo si verificano ogni giorno milioni di stupri»?37 Denunciando «la costruzione razzista degli stupratori», l’autrice sembra dimenticare che il predicatore Tariq Ramadan faceva appello al Corano per propugnare una moralità musulmana superiore a quella di tutte le altre confessioni religiose. Poco importa: basti sapere che per le più ardenti accusatrici della specie maschile ci sono stupri più accettabili di altri, purché siano commessi da musulmani o da migranti. Le considerazioni di genere si attenuano davanti a quelle di razza. Tutti gli uomini sono colpevoli, ma alcuni più di altri.

Risalire alla sorgente del male

Per decifrare gli arcani di questa nuova casistica, bisogna ripartire da un concetto recente, quello di «intersezionalità», teorizzato nel 1991 da una studiosa di diritto, l’americana Kimberlé Crenshaw, a partire da un’idea embrionale di Peggy McIntosh e Gloria Jean Watkins. Con questo termine sgraziato si indica la condizione di chi vede simultaneamente accumularsi su di sé diverse forme di discriminazione presenti nella società odierna, come il sessismo, il razzismo, l’omofobia o la transfobia. È un sovrapporsi di pregiudizi che consente di comprendere la situazione delle persone maggiormente vulnerabili. Questa metafora stradale (che deriva dall’inglese intersection, incrocio) non poteva che nascere in un paese in cui l’automobile regna sovrana, perché fa pensare a uno svincolo autostradale: ognuno di noi, a seconda della propria classe sociale, della propria razza, del proprio genere, della propria identità, è attraversato da diverse menomazioni che lo assediano. Queste forme di oppressione possono convergere come la limatura di ferro verso un magnete, sono altrettanti «dolori» che si intersecano e fungono da sintomi rivelatori. Ciascuno di noi è la somma delle sue ferite. Per esempio, una donna nera lesbica può vantare tre forme di oppressione che conteranno come altrettante voci nel suo curriculum, soprattutto se è portatrice di handicap. Secondo questa ipotesi, un eterosessuale bianco, per quanto svantaggiato o malato, ha meno diritto di esprimersi rispetto a un nero o a un omosessuale. La buona vittima è quella che totalizza il maggior numero di punti nel martirologio che ognuno compila per essere riconosciuto. E guai a chi, maschio o femmina, non rientra nello schema: come quella ragazza bianca che nel 2017 voleva partecipare alla Marcia delle donne contro Donald Trump, ma si è vista respingere dalla folla. Prima doveva ammettere di essere parte integrante di un sistema di sfruttamento razzista. Povera e a suo tempo vittima di violenza sessuale, è rimasta scandalizzata nel vedersi obbligata a scusarsi dei suoi presunti «privilegi».38 Ognuno diventa una minoranza sofferente su misura: la personalizzazione consumistica e quella vittimale vanno a braccetto. Indossiamo i nostri pregiudizi come altri indossano i loro accessori: puoi essere donna, vegana, omosessuale, indiana e disabile; e tutte queste caratteristiche rafforzeranno la tua immunità simbolica.

Da quando il conflitto delle identità ha soppiantato la lotta di classe, tutte le categorie oppresse hanno in comune il fatto di languire sotto il giogo di uno stesso nemico, l’uomo bianco eterosessuale, il colpevole intersezionale per eccellenza. Ma credendo di affinare l’analisi dei micropoteri, si finisce per abbracciare un’antichissima ideologia, la maledizione pigmentaria: a prevalere nei dibattiti è ancora una volta il colore della pelle, vittoria postuma di Gobineau, Chamberlain, Rosenberg. Ci si illude di innovare, ma non si fa che riscrivere sotto altra forma le leggi di Norimberga.39 Il mondo si divide di nuovo, come nel XX secolo, in razze e in etnie.

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Il consenso impossibile

Jean-Jacques Rousseau lo aveva enunciato molto tempo fa: «Una donna cede resistendo» e resiste per difendere il proprio onore, per rendere un ultimo omaggio alla virtù. Oggi ridiamo di questa teoria desueta e ci crediamo privi di certi pregiudizi. Sono davvero cambiate le cose? Se diamo ascolto alle neofemministe, nessuna donna dà mai il proprio assenso, ma capitola per farla finita. Perché? Perché, come ci spiega in dettaglio Valérie Rey-Robert, è abbrutita da una giornata di lavoro, malnutrita, mentalmente e fisicamente esaurita dalla cura dei bambini e disarmata sul piano fisico e al tempo stesso spirituale.40 «Cedere non è quindi acconsentire. Cedere significa non avere a portata di mano un ventaglio di opzioni possibili e scegliere la cosa che sarà meno svantaggiosa.» Di chi parliamo esattamente? Parliamo di una francese, di un’inglese, di una svedese della classe media che ha liberamente scelto suo marito o il suo partner, che lavora, si guadagna da vivere, e la cui speranza di vita continua a crescere, o di una persona che vive in un paese in guerra? Parliamo della Francia o del Congo orientale, devastato dalle milizie, o della Siria di Assad, o del Messico dei narcotrafficanti, o del califfato dell’ISIS ai tempi in cui regnava in Siria e in Iraq, quando riduceva in schiavitù le donne yazide e cristiane (cosa di cui le nostre femministe parlano raramente)? Le militanti che teorizzano la «cultura dello stupro» come sistema sono le più acerrime nemiche della loro stessa tesi: l’oltranzismo priva di valore le loro argomentazioni, non appena vengono enunciate. Così come è abietto negare la tragedia della violenza sessuale, altrettanto discutibile è estenderla a tutti i comportamenti amorosi, perché è un altro modo per minimizzarla. Anche la filosofa Geneviève Fraisse nega al consenso il benché minimo significato: è solo il sintomo di un servilismo che tendiamo a ignorare. Perché? Perché maschera sempre un rapporto di forza che induce al compromesso la parte più debole.41 «Nella nostra cultura gli stupri e i rapporti sessuali consensuali si confondono» rincara Valérie Rey-Robert. Non è dunque possibile un rapporto erotico complementare e felice. Gli uomini comandano, le donne si piegano.

Il patriarcato della bistecca

Soffermiamoci un istante sull’argomento sopra evocato della malnutrizione: può essere vero nei paesi molto poveri o colpiti da carestie. Ma vale anche per l’Europa, per la Francia? Questo ricorda molto da vicino la fake news smontata da Peggy Sastre sul patriarcato della bistecca:42 le donne sarebbero più minute degli uomini perché private, da tempo immemorabile, delle proteine indispensabili alla crescita, contenute in particolare nella carne. Nel 2005 l’antropologa Priscille Touraille, sotto la guida di Françoise Héritier, ha discusso una tesi in cui dimostrava che la differenza di statura fra uomini e donne non sarebbe dovuta a fattori biologici, ma a una costruzione sociale risalente al paleolitico. La stessa Françoise Héritier lo ha ribadito in un’intervista concessa ad Annick Cojean per il giornale Le Monde: «A partire dalla preistoria, gli uomini si sono riservati le proteine, la carne, i grassi, tutto ciò che era necessario per costruire le ossa. Invece alle donne venivano dati i farinacei e le poltiglie che conferivano rotondità. Questa disparità sul piano alimentare, ancora osservabile nella maggior parte delle culture umane, ha portato, nel corso dei millenni, a una diminuzione della taglia delle donne mentre quella degli uomini aumentava. Ennesima differenza spacciata per naturale mentre in realtà è culturalmente acquisita».43 La selezione sessuale scaturirebbe quindi dal sessismo e non dalle leggi della biologia evoluzionistica. Le «diete di genere», rincara Priscille Touraille, incoraggiano la «limitazione nutrizionale» delle donne alte e la loro esclusione. La notizia è stata accolta dalla giornalista Aude Lancelin come uno «scoop antropologico». L’ipotesi della segregazione alimentare è stata chiaramente confutata da tutti gli specialisti in quanto, secondo il biologo Robert Trivers, il dimorfismo sessuale non ha avuto origine nel paleolitico, ma è presente da milioni di anni in tutti i nostri cugini primati, scimpanzé, gorilla, orangutan, ed è un effetto della selezione. Una semplice considerazione di buonsenso avrebbe dimostrato che gli uomini, in ogni epoca, hanno avuto interesse a nutrire le loro donne per la salute dei piccoli che portavano in grembo, fossero maschi o femmine. Ma non c’è limite alle sciocchezze che si possono escogitare per puntellare le tesi più estreme.

Il punto essenziale è dimostrare che non esiste praticamente mai un consenso libero e consapevole tra due persone, a qualunque età. Conclusione: tutte le donne, dalla culla alla tomba, si sforzano quando si concedono a un uomo: «La sessualità eterosessuale francese è fondata su una sorta di imbroglio per cui le donne si illudono di avere il potere mentre in realtà non è affatto così. Hanno l’impressione di poter dire no quando lo decidono, l’impressione di essere padrone del gioco».44 Cosa ne sa l’autrice? Su quali basi si permette di parlare a nome di tutte le donne eterosessuali? (Il che lascia supporre, fra l’altro, che le donne omosessuali siano, invece, sempre consenzienti, forse perché i loro rapporti non implicano la presenza maschile.)

La Francia, una rosa che profuma di letame

La Francia, dicevamo. Non sarebbe altro che un’impostura culturale: il nostro paese finge di contrapporre la seduzione al puritanesimo, ma si tratta solo di un inganno grossolano. All’inizio del XX secolo, la grande scrittrice americana Edith Wharton sosteneva che in Francia gli uomini e le donne hanno relazioni adulte in virtù dell’influenza capillare esercitata da queste ultime: le si vede ovunque, sono onnipresenti e indispensabili in tutti i livelli della società mentre le americane restano tra di loro e vivono confinate in casa.45 Le francesi hanno il duplice vantaggio della promiscuità e della visibilità. Edith Wharton basava le sue considerazioni sul coraggio delle donne francesi e sul ruolo centrale che avevano svolto nel 1870 e nel periodo 1914-1918 durante la doppia occupazione tedesca. Nell’Esagono, secondo lei, uomini e donne dispongono di una risorsa infinitamente più preziosa del denaro, il Tempo, necessario per fiorire, per andare a passeggio, per coltivare se stessi. La Francia pratica l’arte di vivere, l’America si dedica agli affari. Ai suoi occhi di straniera, le quattro parole che dominano la lingua e la letteratura francese sono: gloria, amore, voluttà, piacere. Roba da far arrossire i nostri puritani francesi! Oggi, la storica e insegnante americana Joan Wallach Scott, preoccupata di mettere in luce la violenza sessuale in Francia, spiega che nel nostro paese bisogna «mobilitare cinquecento anni di letteratura, quattrocento autori classici e mille anni di civiltà»46 per costringere una donna a fare sesso. A sentir lei, in Francia la raffinatezza è l’altro nome della violenza maschilista: ti aggrediscono comunque, ma lo fanno con un fiore, e citando i migliori poeti e drammaturghi. Laure Murat, con un’allusione alla vicenda che ha coinvolto Dominique Strauss-Kahn, riassume l’immaginario francese in una formula: «Dominique in salamoia nel salotto di Madame du Deffand».47 Praticando il culto della segretezza e dell’ambiguità, la Francia giustifica lo stupro mediante la retorica e la letteratura. Conclusione: «La difesa delle violenze sessuali fa parte del Dna della Francia».48

A questo si riducono i francesi: stupratori chic che usano le armi della galanteria per meglio mascherare il loro gioco. Raggirano e ingannano le loro prede per poterne abusare meglio. La seduzione e la raffinatezza sono astuzie che incastrano una persona con il pretesto di incensarla. Avviso agli estimatori della gentilezza: tenere la porta a una signora o offrirsi di portarle la valigia potrebbe farvi incorrere in feroci rimproveri. Come non citare a questo proposito la grande storica Mona Ozouf, che dell’Esagono ha una visione completamente diversa: «La Francia è una civiltà della voluttà. È una lingua, una letteratura, è il paese in cui tutto, come dice Mallarmé, deve finire in un libro; ed è un sesso [...]. La Francia è una donna, una terra forgiata e levigata dal prolungato commercio fra i sessi».49 Se un giorno prendessero il potere le nostre attiviste post #MeToo, non c’è dubbio che Mona Ozouf finirebbe in un campo di rieducazione per avere pronunciato parole indecenti...

I due consensi

Nel dibattito generale si tende a fare confusione fra due significati della parola consenso, inteso come accettare o come desiderare. Dire «Mi va» e dire «Ne ho molta voglia» non sono la stessa cosa. Proposta accettabile nel primo caso, desiderio intenso nel secondo. In un caso ci si chiede: perché no? Nell’altro si dà voce a un desiderio irrefrenabile. Quello che un certo femminismo sottintende è che una donna non può mai desiderare un uomo, se non perché costretta. Tutte le donne sarebbero delle «tartassate del sì» (Nancy Huston), sottoposte a intollerabili pressioni.50 Fanno l’amore come si entra in galera. Se tutte le persone di sesso femminile subiscono l’influenza esterna, come hanno fatto le poche chiaroveggenti in circolazione a sottrarsi al condizionamento? Questa «lucidità» non rappresenta in fondo la negazione di una sessualità femminile autonoma nel caso in cui essa sia rivolta verso il cosiddetto sesso forte? Si tratta di sollevare dubbi sui rapporti intimi per suggerire che l’amore fisico sia uno stupro mascherato. Così il collettivo Nous toutes, fondato da Caroline De Haas, stima che il 70-80% delle donne ha rapporti sessuali senza averne voglia e in modo ricorrente. Ci siamo dimenticati che anche un uomo deve acconsentire e talvolta sforzarsi di avere dei rapporti che non lo attraggono? Che le donne forse simulano il piacere per non ferire i loro partner, ma che gli uomini usano gli stessi stratagemmi e possono fingere un piacere che non provano, anche se questo è tecnicamente più difficile? I doveri coniugali non sono a senso unico.

Cosa vuole esattamente un certo femminismo contemporaneo: fondare i rapporti fra le due parti dell’umanità sul rispetto e il consenso reciproco, o denunciare l’attrazione fra i sessi come un’anomalia da estirpare senza indugio? Una cosa è esaltare le donne e liberarle dal discredito in cui le aveva confinate la storia, altra cosa è disprezzare gli uomini come razza maledetta. Sostituire la caccia alle streghe con una caccia agli stregoni. La battaglia contro lo stupro, l’incesto, la pedofilia è fondamentale, ma il carattere delirante di certe accuse fa pensare che il vero bersaglio non siano le molestie sessuali o il sesso imposto con la forza, ma i rapporti amorosi tout court, vale a dire l’eterosessualità. Con il rischio che, rifiutando di riconoscere una diversa gravità delle infrazioni, si finisca per banalizzare la violenza sessuale vedendola e denunciandola ovunque come un continuum, un costume culturale che comincia con il corteggiamento insistente e con le barzellette sessiste51 e sfocia nell’atto violento. L’espressione stessa è diventata un passepartout, un baule semantico: si estende come un’ombra maligna su tutti i gesti amorosi, dallo sguardo all’aggressione. Può folgorare chiunque tenti un gesto maldestro nei confronti di una donna o si trovi coinvolto, senza volere, in una situazione compromettente. Fino al semplice fatto, negli Stati Uniti, di prendere un ascensore con una donna sola! Se fra un piano e l’altro lei si sente a disagio in vostra compagnia, può chiamare la polizia. La vostra presenza costituisce in sé una minaccia potenziale. Se la violenza sessuale è dappertutto, non è più da nessuna parte.

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No vuol dire no; sì vuol dire forse

Qual è l’obiettivo di un certo femminismo? Emancipare le donne? O soggiogarle con la paura per poi averne il controllo? Cinquant’anni dopo la cosiddetta «rivoluzione sessuale» l’amore è diventato strumento di potere, la felicità una preoccupazione tormentosa, il piacere un problema. La freccia della libertà si è ritorta contro coloro che l’avevano scoccata e li trafigge. Un tempo nell’Occidente cristiano o borghese l’atto sessuale era posto sotto sorveglianza e tollerato nella sfera coniugale, a fini procreativi. Erano ammesse alcune eccezioni, solo per gli uomini, vale a dire le case chiuse, al massimo un’amante, mondana d’alto bordo, sposa frustrata, sartina o nubile, allo scopo di incanalare gli slanci di una libido straripante. Le mogli, relegate in casa nel ruolo di madri, educatrici e cuoche, si trovavano talvolta un amante, correndo il rischio di essere biasimate e duramente censurate dalla società; Madame Bovary ne è l’esempio letterario più eclatante. Le cose da allora sono cambiate e oggi le donne hanno finalmente acquisito, grazie agli strumenti contraccettivi e al diritto di abortire, il controllo del proprio corpo, un progresso enorme. Ma dopo il breve periodo di euforia e di spensieratezza degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, i rapporti amorosi hanno ricominciato a rappresentare un rompicapo, una difficoltà giuridica oltre che politica, soprattutto nei paesi anglosassoni. Finita l’incandescenza del desiderio che si celebrava in quegli anni, è tornato il tempo dei piccoli segreti inconfessabili.

L’erotismo all’università

È questa l’esperienza che si vive da diversi anni nei campus americani. Queste oasi di tranquillità e benessere, riservate ai più ricchi, sono anche, a modo loro, i laboratori dell’America di domani. Qui, fin dagli anni Novanta, si consiglia ai docenti di non ricevere mai una studentessa all’interno di un ufficio con la porta chiusa (a meno di registrare la conversazione a scanso di equivoci), di astenersi dai commenti sull’aspetto fisico o sul modo di vestire, di evitare gli sguardi troppo insistenti e ovviamente di rinunciare a qualsiasi rapporto personale con studentesse, anche dopo che hanno lasciato il college. In questo campo, nessun consenso potrebbe bastare di fronte ai conflitti di interessi e agli abusi di potere. La sanzione è il licenziamento immediato. I rapporti fra professori non sono meno stigmatizzati, a meno che conducano a un matrimonio con tutti i crismi. Nei paesi di cultura anglosassone, le relazioni amorose fra docenti e studenti sono oggi l’equivalente di Romeo e Giulietta, oggetto di una proibizione assoluta. Negli Stati Uniti una persona come Brigitte Macron, che seduce o si lascia sedurre dal suo giovane alunno di quindici anni al liceo di Amiens dove era professoressa di francese, sarebbe stata sanzionata senza alcuna pietà. Sui depositari della conoscenza e della trasmissione del sapere grava un sospetto a priori. Regna un clima da inquisizione, come testimoniano i romanzi di Philip Roth e il libro Vergogna del premio Nobel sudafricano J.M. Coetzee:52 le autorità esercitano un diritto di intrusione nella vita privata dei docenti e pretendono confessioni e pentimenti da parte di chi non si sottomette.

Per comprendere questa evoluzione bisogna tornare al disincanto seguito alla liberazione dei costumi: molte donne hanno avuto la sensazione di essere state «liberate» solo per diventare il bottino dei maschi, finalmente liberi dai ceppi delle proibizioni. Non andarci a letto era come ammettere di essere represse, vecchie. Ridicolizzando l’espressione classica del sentimento, ponendo la sessualità sotto la tutela di una pornografia meccanica, l’emancipazione ha paradossalmente reso l’amore più complicato. La permissività degli anni Settanta aveva screditato i costumi obsoleti, le convenzioni desuete, i pudori mal riposti. Bisognava uccidere il Vecchio Mondo, a qualunque costo. Ma ecco quella libertà finire a sua volta sotto accusa, al banco degli imputati.

Negli Stati Uniti il Titolo IX (dal nome di una legge federale varata nel 1972) obbliga gli istituti scolastici pubblici a prendere molto sul serio la benché minima accusa di carattere sessuale e a mettere in moto seduta stante un’indagine amministrativa. Fin dall’inizio degli anni Novanta, lo Antioch College in Ohio promulgò una carta per regolamentare gli atti sessuali fra studenti, che dovevano essere oggetto, ove possibile, di accordi scritti.53 Il consiglio rivolto ai seduttori era chiaro: «Dovete ottenere il consenso in ogni fase del processo. Se volete levarle la camicetta, glielo dovete chiedere, se volete toccarle il seno, glielo dovete chiedere». Quello che si viene a configurare è una sorta di approccio in codice Morse, che lascia ben poco spazio al turbamento: non un accerchiamento di ampio respiro, ma una serie di progressioni a singhiozzo con la possibilità, dopo ogni mossa, di tornare al punto di partenza. Come un ispettore di polizia che visioni un filmato in cerca di un sospettato. All’epoca il NOW (National Organization for Women), principale organizzazione femminista americana, cercò di trasformare il regolamento emanato dallo Antioch College nel modello dei rapporti sessuali nei campus e, per estensione, in tutto il paese. La maggior parte degli americani rispose negativamente. Le cose nel frattempo sono cambiate, a riprova che la storia viene sempre modificata da avanguardie determinate che indirizzano la condotta della gente comune. I numerosi casi di stupro registrati a conclusione di serate troppo alcoliche hanno indotto le autorità universitarie a promuovere il cosiddetto affirmative consent, il consenso chiaramente espresso, per timore di perdere finanziamenti o di finire coinvolte in procedimenti giudiziari: vuoi da parte di una studentessa violentata il cui aggressore non è stato assicurato alla giustizia, vuoi da parte di uno studente ingiustamente accusato che si è visto privato dei diritti costituzionali. Il consenso deve essere esplicito, volontario e reciproco. Il silenzio o l’assenza di resistenza non hanno alcun valore legale. L’approvazione è priva di valore se ottenuta con la forza, sotto l’effetto dell’alcol o della droga. È relativa a ogni singola occasione e può essere modificata se la persona si ricrede durante l’atto. E questa persona può essere soltanto la donna. Lo scambio è fondato sul principio: «No means no», no vuol dire no, concetto incontestabile. In compenso, sì non vuol dire sempre sì, perché può anche voler dire «forse», per esempio se la donna cambia idea o rimane delusa dalla prestazione del partner. Non si lascia alcuno spazio all’indulgenza, al procedere per tentativi. Basta un cambiamento di umore e l’autorizzazione si trasforma in un rifiuto. Ci si può immaginare lo stato di ansia che un tale potere di arbitrio può indurre nell’amante revocabile. Il permesso concesso una volta non implica in alcun modo il permesso di rifarlo un’altra volta. Si tratta di contratti a breve scadenza, abrogabili in ogni momento.

Il rimpianto del giorno dopo

Sono molte le eccezioni alla regola: se la parte femminile era alticcia, il ragazzo è colpevole. Se il rapporto l’ha lasciata indifferente e non ha goduto, se vuole vendicarsi di un seduttore che l’ha piantata dopo una sola notte, può querelarlo. È il «rimpianto del giorno dopo»: una donna può sentirsi delusa da un breve interludio o rendersi conto col senno di poi di non aver mai desiderato veramente quella persona. Questo giustifica la decisione di sporgere denuncia, di nominare un avvocato? L’intimità sessuale e la relazione amorosa hanno questa caratteristica: si costruiscono nella fiducia e nel tempo. Sottometterle ai voltafaccia, alla minaccia di un processo, significa distruggerne la magia prima ancora che possano attecchire.

Come ratificare il consenso? Dato che presentarsi davanti a un giudice sembra complicato, si preferisce fare ricorso a un’applicazione, «YES to SEX», in cui si pronuncia ad alta voce e in modo chiaro il proprio assenso, che viene registrato su un server sicuro. Il contratto può quindi essere formulato a voce, menzionando le fantasie autorizzate. In ogni caso, la colpa ricade solo sul maschio. Quella vagheggiata è una società interamente reinventata e rimodellata dalla legge fin nei minimi dettagli. Un «coordinatore di intimità», a metà fra buttafuori e professore di buone maniere, disposto a fare da terzo incomodo, sarà presente agli appuntamenti a due, nei bar, per facilitare gli scambi, cacciare i ragazzi molesti, verificare la conformità dei comportamenti. In altri campus americani negli anni Novanta si erigevano i muri della vergogna, elenchi di maschilisti o stupratori o presunti tali senza che questi avessero la possibilità di difendersi.54 Pratiche che non possono non ricordare i riti di umiliazione della rivoluzione culturale cinese.

Diverse facoltà hanno sviluppato programmi di prevenzione per evitare denunce: educatori appositamente formati propongono «scenari realistici» fra persone per distinguere ciò che è consentito da ciò che non lo è.55 Ci si immagina gli insegnanti, assistiti da sessuologi e psicologi, illustrare le varie posizioni possibili e proporle agli studenti in piena turbolenza sensoriale. Sembra di tornare, facendo le dovute proporzioni, ai manuali dei confessori nell’Europa cattolica del XVII secolo, che interrogavano le peccatrici fin nei dettagli più licenziosi, per poi perdonare le loro trasgressioni. Due obiettivi guidano le autorità accademiche: il mantenimento della disciplina e la questione della crescita degli studenti. Bisogna evitare gli incidenti, incanalando le eruzioni ormonali dei giovani. Il campus, per la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze fra i diciotto e i ventiquattro anni, sarà il luogo in cui perderanno la verginità e conosceranno i loro primi turbamenti. Sta agli adulti inquadrare i giovani per prevenire ogni sbandata. Se, secondo uno studio della Casa Bianca, quasi il 10% delle studentesse è vittima di aggressioni sessuali nei campus, la pratica dello stupro è diffusa in particolare negli ambienti sportivi. Gli individui che con più frequenza sbagliano e pretendono poi l’impunità col pretesto del loro status sono i semidei adulati dai loro coetanei: giocatori di basket, di football americano o nuotatori.

Il grande nemico, negli USA come in Europa, è l’abuso di sostanze alcoliche. I giovani bevono per andare fuori di testa, per superare le inibizioni prima di uscire. Bisogna ubriacarsi fino a vomitare, quindi ricominciare a bere, e proseguire fino al black-out. Quel che succede poi rimane un mistero che dà luogo a svariate interpretazioni.56 Sono lontani gli appuntamenti degli anni Quaranta, quando un ragazzo ben educato chiedeva a un padre di famiglia il permesso di uscire con sua figlia promettendo di riaccompagnarla prima di mezzanotte. Sotto gli effluvi dell’alcol, capita di andare a letto con qualcuno, senza poi ricordarsi chi sia. A quel punto è difficile entrare nella delicatezza di un rapporto d’amore condiviso. Risultato: le ragazze preferiscono sempre più spesso restare tra loro, in un ambiente sicuro (safe space), piuttosto che subire gli assalti dei loro compagni ubriachi. Certi fine settimana, certi periodi di vacanza, come la Pasqua o le vacanze di primavera (spring break), trascorsi per esempio in Florida o in Messico, oscillano fra l’orgia romana e le bevute in caserma e sono momenti ad alto rischio da ogni punto di vista. Sono i saturnali di una società puritana che allenta la briglia ai giovani in giorni prestabiliti.

I rischi del contrattualismo

Alle vittime dimenticate rispondono gli innocenti ingiustamente calunniati. In certi istituti scolastici, dove ancora brucia il rimpianto per aver lasciato correre episodi di stupro, ora si punisce in modo sistematico, con il rischio di incorrere in errori giudiziari. Centinaia di studentesse sporgono denuncia per violazione dei loro diritti. Fra i due estremi del permissivismo e dell’arbitrio la scelta assume i contorni di un dilemma morale. Se basta una semplice denuncia per spedire un ragazzo di fronte a una commissione disciplinare, per una ragazza delusa sarà forte la tentazione di diffamare, cioè di produrre una falsa testimonianza per lenire una ferita narcisistica. Mentire al proprio partner per attirarlo nel proprio letto è qualcosa che attiene alla competenza dei tribunali o ai rischi dell’amore? Stiamo per creare un ministero delle pene d’amore? È possibile confondere una delusione sentimentale, spesso inevitabile, con un’infrazione del codice civile? La delusione fa parte del vecchio teatro delle passioni, quello che molte attiviste radicali vorrebbero distruggere. Eros e Cupido rimarranno due eterni guastafeste. Cominceranno a sporgere querela anche gli uomini piantati in asso da donne indifferenti? Non esistono (ancora) le polizze assicurative contro i dispiaceri d’amore. In un paese che del sentimento riesce a farsi soltanto una visione pornografica o sdolcinata, le intermittenze del cuore, i capricci della passione sono visti come crimini meritevoli di pene severe, soprattutto se a commetterli sono gli uomini. Un tempo la «lettera scarlatta», la A di adultera, era riservata alle donne infedeli, come ha meravigliosamente spiegato Nathaniel Hawthorne. Il puritanesimo ha cambiato sesso, ma i modi sono gli stessi.

Il contrattualismo è sempre problematico quando deve disciplinare il regno evanescente degli affetti. La sfera amorosa richiede una simpatia reciproca che autorizza l’abbandono di sé, la scoperta e infine la creazione di un protocollo proprio degli amanti. Non si fa l’amore per conservare la propria dignità, casomai per perderla. Ma nell’universo spietato del neofemminismo, non c’è alcuna possibilità di clemenza, ci sono solo combattenti pronte a restituire colpo su colpo. Il sesso, invece di essere una gioia condivisa, ridiventa quel che era in epoca vittoriana, un oggetto di cui diffidare, o di cui avere orrore, una lotta fra due avversari. E il presupposto di questa tendenza è l’idea che la sessualità sia solo maschile, perché la donna si limiterebbe a subire gli assalti di un mostro bestiale nei confronti del quale non potrà mai provare alcun desiderio.

L’amore a circuito chiuso

Come proteggersi dalla tendenza naturale dei ragazzi agli abusi sessuali? I giuristi propongono varie soluzioni. Per alcuni, come Lauren Campbell, bisognerebbe filmare la prestazione nella sua interezza, come nei grandi magazzini, e distruggere il video dopo qualche mese.57 Ma questo non rischia di inibire gli amanti? Per non parlare dei pericoli di vedersi pubblicati su Internet o di essere ricattati. Non sarebbe sufficiente neppure firmare un contratto in presenza di un testimone, perché uno dei due contraenti potrebbe cambiare idea subito dopo. L’unica soluzione veramente trasparente sarebbe far l’amore davanti a un terzo. La proposta ha diversi punti deboli. Non è detto che il testimone sarà imparziale. Potrebbe perfino pretendere di partecipare, abusando del proprio ruolo. Inoltre, come lasciarsi andare di fronte a un estraneo, come spogliarsi di ogni pudore mentre uno sguardo inquisitore ci esamina in dettaglio? Non sarà il caso di arruolare un testimone del testimone per corroborare le sue testimonianze? Non stiamo semplicemente reinventando il convegno galante su basi legali in nome della trasparenza? Alla fine, quale che sia il metodo adottato, non sapremo mai se il rapporto sessuale è stato davvero consensuale. Se un corpo si pone in modalità di vigilanza, non riesce più ad abbandonarsi: il ragazzo perderà l’erezione alla prima difficoltà, la ragazza si richiuderà. Non esistono soluzioni miracolose, solo alternative più o meno imperfette.

Cosa importa, ci risponde Laura Kipnis, docente di cinema, in un libro che punta il dito contro il sistema universitario, le «aggressioni sessuali» negli Stati Uniti sono diventate un affare succulento che prevede la vendita di applicazioni per smartphone, corsi di formazione online che generano enormi profitti capaci di fare invidia agli stipendi degli insegnanti. È un nuovo settore industriale che fiorisce a scapito dell’insegnamento propriamente detto.58 L’America dei campus sembra piombata in uno stato di delirio sessuale che non ha niente da invidiare ai dogmi puritani dei padri fondatori.

3

No vuol dire no; sì vuol dire forse

Qual è l’obiettivo di un certo femminismo? Emancipare le donne? O soggiogarle con la paura per poi averne il controllo? Cinquant’anni dopo la cosiddetta «rivoluzione sessuale» l’amore è diventato strumento di potere, la felicità una preoccupazione tormentosa, il piacere un problema. La freccia della libertà si è ritorta contro coloro che l’avevano scoccata e li trafigge. Un tempo nell’Occidente cristiano o borghese l’atto sessuale era posto sotto sorveglianza e tollerato nella sfera coniugale, a fini procreativi. Erano ammesse alcune eccezioni, solo per gli uomini, vale a dire le case chiuse, al massimo un’amante, mondana d’alto bordo, sposa frustrata, sartina o nubile, allo scopo di incanalare gli slanci di una libido straripante. Le mogli, relegate in casa nel ruolo di madri, educatrici e cuoche, si trovavano talvolta un amante, correndo il rischio di essere biasimate e duramente censurate dalla società; Madame Bovary ne è l’esempio letterario più eclatante. Le cose da allora sono cambiate e oggi le donne hanno finalmente acquisito, grazie agli strumenti contraccettivi e al diritto di abortire, il controllo del proprio corpo, un progresso enorme. Ma dopo il breve periodo di euforia e di spensieratezza degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, i rapporti amorosi hanno ricominciato a rappresentare un rompicapo, una difficoltà giuridica oltre che politica, soprattutto nei paesi anglosassoni. Finita l’incandescenza del desiderio che si celebrava in quegli anni, è tornato il tempo dei piccoli segreti inconfessabili.

L’erotismo all’università

È questa l’esperienza che si vive da diversi anni nei campus americani. Queste oasi di tranquillità e benessere, riservate ai più ricchi, sono anche, a modo loro, i laboratori dell’America di domani. Qui, fin dagli anni Novanta, si consiglia ai docenti di non ricevere mai una studentessa all’interno di un ufficio con la porta chiusa (a meno di registrare la conversazione a scanso di equivoci), di astenersi dai commenti sull’aspetto fisico o sul modo di vestire, di evitare gli sguardi troppo insistenti e ovviamente di rinunciare a qualsiasi rapporto personale con studentesse, anche dopo che hanno lasciato il college. In questo campo, nessun consenso potrebbe bastare di fronte ai conflitti di interessi e agli abusi di potere. La sanzione è il licenziamento immediato. I rapporti fra professori non sono meno stigmatizzati, a meno che conducano a un matrimonio con tutti i crismi. Nei paesi di cultura anglosassone, le relazioni amorose fra docenti e studenti sono oggi l’equivalente di Romeo e Giulietta, oggetto di una proibizione assoluta. Negli Stati Uniti una persona come Brigitte Macron, che seduce o si lascia sedurre dal suo giovane alunno di quindici anni al liceo di Amiens dove era professoressa di francese, sarebbe stata sanzionata senza alcuna pietà. Sui depositari della conoscenza e della trasmissione del sapere grava un sospetto a priori. Regna un clima da inquisizione, come testimoniano i romanzi di Philip Roth e il libro Vergogna del premio Nobel sudafricano J.M. Coetzee:52 le autorità esercitano un diritto di intrusione nella vita privata dei docenti e pretendono confessioni e pentimenti da parte di chi non si sottomette.

Per comprendere questa evoluzione bisogna tornare al disincanto seguito alla liberazione dei costumi: molte donne hanno avuto la sensazione di essere state «liberate» solo per diventare il bottino dei maschi, finalmente liberi dai ceppi delle proibizioni. Non andarci a letto era come ammettere di essere represse, vecchie. Ridicolizzando l’espressione classica del sentimento, ponendo la sessualità sotto la tutela di una pornografia meccanica, l’emancipazione ha paradossalmente reso l’amore più complicato. La permissività degli anni Settanta aveva screditato i costumi obsoleti, le convenzioni desuete, i pudori mal riposti. Bisognava uccidere il Vecchio Mondo, a qualunque costo. Ma ecco quella libertà finire a sua volta sotto accusa, al banco degli imputati.

Negli Stati Uniti il Titolo IX (dal nome di una legge federale varata nel 1972) obbliga gli istituti scolastici pubblici a prendere molto sul serio la benché minima accusa di carattere sessuale e a mettere in moto seduta stante un’indagine amministrativa. Fin dall’inizio degli anni Novanta, lo Antioch College in Ohio promulgò una carta per regolamentare gli atti sessuali fra studenti, che dovevano essere oggetto, ove possibile, di accordi scritti.53 Il consiglio rivolto ai seduttori era chiaro: «Dovete ottenere il consenso in ogni fase del processo. Se volete levarle la camicetta, glielo dovete chiedere, se volete toccarle il seno, glielo dovete chiedere». Quello che si viene a configurare è una sorta di approccio in codice Morse, che lascia ben poco spazio al turbamento: non un accerchiamento di ampio respiro, ma una serie di progressioni a singhiozzo con la possibilità, dopo ogni mossa, di tornare al punto di partenza. Come un ispettore di polizia che visioni un filmato in cerca di un sospettato. All’epoca il NOW (National Organization for Women), principale organizzazione femminista americana, cercò di trasformare il regolamento emanato dallo Antioch College nel modello dei rapporti sessuali nei campus e, per estensione, in tutto il paese. La maggior parte degli americani rispose negativamente. Le cose nel frattempo sono cambiate, a riprova che la storia viene sempre modificata da avanguardie determinate che indirizzano la condotta della gente comune. I numerosi casi di stupro registrati a conclusione di serate troppo alcoliche hanno indotto le autorità universitarie a promuovere il cosiddetto affirmative consent, il consenso chiaramente espresso, per timore di perdere finanziamenti o di finire coinvolte in procedimenti giudiziari: vuoi da parte di una studentessa violentata il cui aggressore non è stato assicurato alla giustizia, vuoi da parte di uno studente ingiustamente accusato che si è visto privato dei diritti costituzionali. Il consenso deve essere esplicito, volontario e reciproco. Il silenzio o l’assenza di resistenza non hanno alcun valore legale. L’approvazione è priva di valore se ottenuta con la forza, sotto l’effetto dell’alcol o della droga. È relativa a ogni singola occasione e può essere modificata se la persona si ricrede durante l’atto. E questa persona può essere soltanto la donna. Lo scambio è fondato sul principio: «No means no», no vuol dire no, concetto incontestabile. In compenso, sì non vuol dire sempre sì, perché può anche voler dire «forse», per esempio se la donna cambia idea o rimane delusa dalla prestazione del partner. Non si lascia alcuno spazio all’indulgenza, al procedere per tentativi. Basta un cambiamento di umore e l’autorizzazione si trasforma in un rifiuto. Ci si può immaginare lo stato di ansia che un tale potere di arbitrio può indurre nell’amante revocabile. Il permesso concesso una volta non implica in alcun modo il permesso di rifarlo un’altra volta. Si tratta di contratti a breve scadenza, abrogabili in ogni momento.

Il rimpianto del giorno dopo

Sono molte le eccezioni alla regola: se la parte femminile era alticcia, il ragazzo è colpevole. Se il rapporto l’ha lasciata indifferente e non ha goduto, se vuole vendicarsi di un seduttore che l’ha piantata dopo una sola notte, può querelarlo. È il «rimpianto del giorno dopo»: una donna può sentirsi delusa da un breve interludio o rendersi conto col senno di poi di non aver mai desiderato veramente quella persona. Questo giustifica la decisione di sporgere denuncia, di nominare un avvocato? L’intimità sessuale e la relazione amorosa hanno questa caratteristica: si costruiscono nella fiducia e nel tempo. Sottometterle ai voltafaccia, alla minaccia di un processo, significa distruggerne la magia prima ancora che possano attecchire.

Come ratificare il consenso? Dato che presentarsi davanti a un giudice sembra complicato, si preferisce fare ricorso a un’applicazione, «YES to SEX», in cui si pronuncia ad alta voce e in modo chiaro il proprio assenso, che viene registrato su un server sicuro. Il contratto può quindi essere formulato a voce, menzionando le fantasie autorizzate. In ogni caso, la colpa ricade solo sul maschio. Quella vagheggiata è una società interamente reinventata e rimodellata dalla legge fin nei minimi dettagli. Un «coordinatore di intimità», a metà fra buttafuori e professore di buone maniere, disposto a fare da terzo incomodo, sarà presente agli appuntamenti a due, nei bar, per facilitare gli scambi, cacciare i ragazzi molesti, verificare la conformità dei comportamenti. In altri campus americani negli anni Novanta si erigevano i muri della vergogna, elenchi di maschilisti o stupratori o presunti tali senza che questi avessero la possibilità di difendersi.54 Pratiche che non possono non ricordare i riti di umiliazione della rivoluzione culturale cinese.

Diverse facoltà hanno sviluppato programmi di prevenzione per evitare denunce: educatori appositamente formati propongono «scenari realistici» fra persone per distinguere ciò che è consentito da ciò che non lo è.55 Ci si immagina gli insegnanti, assistiti da sessuologi e psicologi, illustrare le varie posizioni possibili e proporle agli studenti in piena turbolenza sensoriale. Sembra di tornare, facendo le dovute proporzioni, ai manuali dei confessori nell’Europa cattolica del XVII secolo, che interrogavano le peccatrici fin nei dettagli più licenziosi, per poi perdonare le loro trasgressioni. Due obiettivi guidano le autorità accademiche: il mantenimento della disciplina e la questione della crescita degli studenti. Bisogna evitare gli incidenti, incanalando le eruzioni ormonali dei giovani. Il campus, per la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze fra i diciotto e i ventiquattro anni, sarà il luogo in cui perderanno la verginità e conosceranno i loro primi turbamenti. Sta agli adulti inquadrare i giovani per prevenire ogni sbandata. Se, secondo uno studio della Casa Bianca, quasi il 10% delle studentesse è vittima di aggressioni sessuali nei campus, la pratica dello stupro è diffusa in particolare negli ambienti sportivi. Gli individui che con più frequenza sbagliano e pretendono poi l’impunità col pretesto del loro status sono i semidei adulati dai loro coetanei: giocatori di basket, di football americano o nuotatori.

Il grande nemico, negli USA come in Europa, è l’abuso di sostanze alcoliche. I giovani bevono per andare fuori di testa, per superare le inibizioni prima di uscire. Bisogna ubriacarsi fino a vomitare, quindi ricominciare a bere, e proseguire fino al black-out. Quel che succede poi rimane un mistero che dà luogo a svariate interpretazioni.56 Sono lontani gli appuntamenti degli anni Quaranta, quando un ragazzo ben educato chiedeva a un padre di famiglia il permesso di uscire con sua figlia promettendo di riaccompagnarla prima di mezzanotte. Sotto gli effluvi dell’alcol, capita di andare a letto con qualcuno, senza poi ricordarsi chi sia. A quel punto è difficile entrare nella delicatezza di un rapporto d’amore condiviso. Risultato: le ragazze preferiscono sempre più spesso restare tra loro, in un ambiente sicuro (safe space), piuttosto che subire gli assalti dei loro compagni ubriachi. Certi fine settimana, certi periodi di vacanza, come la Pasqua o le vacanze di primavera (spring break), trascorsi per esempio in Florida o in Messico, oscillano fra l’orgia romana e le bevute in caserma e sono momenti ad alto rischio da ogni punto di vista. Sono i saturnali di una società puritana che allenta la briglia ai giovani in giorni prestabiliti.

I rischi del contrattualismo

Alle vittime dimenticate rispondono gli innocenti ingiustamente calunniati. In certi istituti scolastici, dove ancora brucia il rimpianto per aver lasciato correre episodi di stupro, ora si punisce in modo sistematico, con il rischio di incorrere in errori giudiziari. Centinaia di studentesse sporgono denuncia per violazione dei loro diritti. Fra i due estremi del permissivismo e dell’arbitrio la scelta assume i contorni di un dilemma morale. Se basta una semplice denuncia per spedire un ragazzo di fronte a una commissione disciplinare, per una ragazza delusa sarà forte la tentazione di diffamare, cioè di produrre una falsa testimonianza per lenire una ferita narcisistica. Mentire al proprio partner per attirarlo nel proprio letto è qualcosa che attiene alla competenza dei tribunali o ai rischi dell’amore? Stiamo per creare un ministero delle pene d’amore? È possibile confondere una delusione sentimentale, spesso inevitabile, con un’infrazione del codice civile? La delusione fa parte del vecchio teatro delle passioni, quello che molte attiviste radicali vorrebbero distruggere. Eros e Cupido rimarranno due eterni guastafeste. Cominceranno a sporgere querela anche gli uomini piantati in asso da donne indifferenti? Non esistono (ancora) le polizze assicurative contro i dispiaceri d’amore. In un paese che del sentimento riesce a farsi soltanto una visione pornografica o sdolcinata, le intermittenze del cuore, i capricci della passione sono visti come crimini meritevoli di pene severe, soprattutto se a commetterli sono gli uomini. Un tempo la «lettera scarlatta», la A di adultera, era riservata alle donne infedeli, come ha meravigliosamente spiegato Nathaniel Hawthorne. Il puritanesimo ha cambiato sesso, ma i modi sono gli stessi.

Il contrattualismo è sempre problematico quando deve disciplinare il regno evanescente degli affetti. La sfera amorosa richiede una simpatia reciproca che autorizza l’abbandono di sé, la scoperta e infine la creazione di un protocollo proprio degli amanti. Non si fa l’amore per conservare la propria dignità, casomai per perderla. Ma nell’universo spietato del neofemminismo, non c’è alcuna possibilità di clemenza, ci sono solo combattenti pronte a restituire colpo su colpo. Il sesso, invece di essere una gioia condivisa, ridiventa quel che era in epoca vittoriana, un oggetto di cui diffidare, o di cui avere orrore, una lotta fra due avversari. E il presupposto di questa tendenza è l’idea che la sessualità sia solo maschile, perché la donna si limiterebbe a subire gli assalti di un mostro bestiale nei confronti del quale non potrà mai provare alcun desiderio.

L’amore a circuito chiuso

Come proteggersi dalla tendenza naturale dei ragazzi agli abusi sessuali? I giuristi propongono varie soluzioni. Per alcuni, come Lauren Campbell, bisognerebbe filmare la prestazione nella sua interezza, come nei grandi magazzini, e distruggere il video dopo qualche mese.57 Ma questo non rischia di inibire gli amanti? Per non parlare dei pericoli di vedersi pubblicati su Internet o di essere ricattati. Non sarebbe sufficiente neppure firmare un contratto in presenza di un testimone, perché uno dei due contraenti potrebbe cambiare idea subito dopo. L’unica soluzione veramente trasparente sarebbe far l’amore davanti a un terzo. La proposta ha diversi punti deboli. Non è detto che il testimone sarà imparziale. Potrebbe perfino pretendere di partecipare, abusando del proprio ruolo. Inoltre, come lasciarsi andare di fronte a un estraneo, come spogliarsi di ogni pudore mentre uno sguardo inquisitore ci esamina in dettaglio? Non sarà il caso di arruolare un testimone del testimone per corroborare le sue testimonianze? Non stiamo semplicemente reinventando il convegno galante su basi legali in nome della trasparenza? Alla fine, quale che sia il metodo adottato, non sapremo mai se il rapporto sessuale è stato davvero consensuale. Se un corpo si pone in modalità di vigilanza, non riesce più ad abbandonarsi: il ragazzo perderà l’erezione alla prima difficoltà, la ragazza si richiuderà. Non esistono soluzioni miracolose, solo alternative più o meno imperfette.

Cosa importa, ci risponde Laura Kipnis, docente di cinema, in un libro che punta il dito contro il sistema universitario, le «aggressioni sessuali» negli Stati Uniti sono diventate un affare succulento che prevede la vendita di applicazioni per smartphone, corsi di formazione online che generano enormi profitti capaci di fare invidia agli stipendi degli insegnanti. È un nuovo settore industriale che fiorisce a scapito dell’insegnamento propriamente detto.58 L’America dei campus sembra piombata in uno stato di delirio sessuale che non ha niente da invidiare ai dogmi puritani dei padri fondatori.

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La rozzezza del maschio frustrato

Sta di fatto che le violenze nei confronti delle donne sono sempre all’ordine del giorno, con sfumature importanti a seconda dei paesi e dei regimi. Nelle società tradizionali la situazione della donna è quella classica di un patriarcato messo in questione, ma che gode ancora dell’appoggio della maggioranza della popolazione, donne incluse, e vede nelle idee di emancipazione il frutto dell’influenza perniciosa dell’Occidente. Ogni tentativo di cambiare le cose è considerato uno scandalo, anche se si tratta di scegliere l’uomo che una donna ama e non quello che le viene imposto dalla famiglia, o di affermare la propria omosessualità.68 C’è una distanza siderale fra la libertà di cui godiamo nei paesi democratici del mondo occidentale e la semi-servitù che caratterizza la maggior parte delle altre società. Non riconoscere questo abisso giuridico fra le nostre democrazie e le varie autocrazie del mondo significa fare torto all’intelligenza.

Violenze contro le donne

Ma il danno inferto è ancor più doloroso quando si verifica nei nostri Stati di diritto, in quanto suscita la sensazione lacerante che il mondo arcaico non sia mai veramente scomparso dalle nostre società, che la barbarie affiori sotto la tenue verniciatura delle norme civili e che questa barbarie sia maschile. Dietro il dettato di leggi generose regnano ancora gli insulti, le botte e gli omicidi, dato che nella sola Francia ogni tre giorni una donna muore per le percosse del marito o del compagno (e la stessa violenza si consuma anche nelle coppie di gay e di lesbiche). I presidenti delle corti di giustizia lo ripetono fino alla nausea: i reati coniugali hanno luogo il più delle volte di domenica, nell’insofferenza dell’intimità. La coppia incarna al tempo stesso un ideale di fioritura e una galera. Ma questi «femminicidi», come i media hanno deciso di chiamarli,69 sono la prova di un patriarcato onnipresente o, al contrario, un segno paradossale del suo indebolimento? Questa nuova definizione introdotta al posto del concetto di «crimine passionale» costituisce un passo avanti nella comprensione del fenomeno? Ai giuristi l’ardua sentenza. Ma non sarà piuttosto la nostra intolleranza verso certe brutalità a essere aumentata fino a suscitare questi moti di indignazione, con il rischio di alimentare una guerra di cifre?70 Un marito brutale esiterà forse a colpire se sa che la moglie può denunciarlo con un solo clic sul cellulare (in Francia questi numeri di emergenza prendono il nome di «grave pericolo»)? O se è già sottoposto a un controllo giudiziario e magari è stato allontanato dai figli da una diffida formale? I nuovi diritti che le donne hanno acquisito, il diritto di amare la persona che vogliono, di divorziare, di seguire la carriera lavorativa che vogliono, di godere di una certa autonomia economica, possono suscitare in certi uomini un sussulto di aggressività selvaggia. Come se volessero recuperare con la forza quello che hanno perso sul piano legale. In altre parole, gli attacchi nei confronti delle donne rischiano di aumentare al crescere della loro indipendenza. La furia dei maschi nasce più da un progresso che da un arretramento: è una forma di revanchismo dei vinti. Ma credere che questi omicidi non abbiano niente a che vedere con l’amore o con i delitti passionali in quanto «l’amore è un accordo consensuale fra due persone libere che può essere rescisso nel momento in cui una persona lo desidera»71 significa confondere, in base a una logica molto mercantilista, la passione con un contratto commerciale e sottovalutare l’elemento arcaico e violento presente nel desiderio, anche in quello delle donne.

I progressi della libertà femminile saranno sempre accompagnati, nel caso di certi uomini, dall’odio nei confronti delle donne libere. Molti uomini rispondono a questa insolente emancipazione con la furia di un padrone che reagisce all’abolizione della schiavitù. La nostra vigilanza è più capillare di un tempo e il minimo attacco nei confronti delle persone (siano donne o bambini) viene percepito, per fortuna, come un abominio. È una lotta che bisogna portare avanti senza tregua.

Vietato rimorchiare?

Per il fatto che le donne continuano a essere uccise dai loro mariti, bisogna forse criminalizzare la seduzione, sottoporla a regole così draconiane da privarla di ogni spontaneità? È quello che auspicano da circa cinquant’anni alcune correnti femministe nordamericane ed è ciò che cercano di imporre, in una corsa angosciosa a imitarle, le loro colleghe francesi. Per alcune, si tratta di un puro e semplice copia-incolla, come nel caso della giornalista e critica cinematografica Iris Brey, che applica a tutto campo l’espressione male gaze (in franglese nel testo) per alludere allo sguardo maschile che snatura il corpo delle donne.72 Ansiosa di promuovere un cinema fatto dalle donne per le donne, privo di voyeurismo e di volgarità, ripete fino alla nausea che non c’è alcuna differenza fra il discorso amoroso classico e le molestie subite in strada, dato che il primo è il prolungamento delle seconde.

Analizziamo questa tesi. Un conto è ritenere che lo stupro, l’istinto predatorio, la collera di certi individui esacerbati dal fatto che le donne non si gettino tra le loro braccia73 siano la regola in ogni città e in ogni borgo del nostro meraviglioso paese, e ritenere che si tratti di una «violenza sistemica», e allora bisognerebbe mettere al bando seduta stante gli antichi protocolli amorosi e instaurare una polizia del desiderio. Un altro conto è pensare, al contrario, che questi omicidi rappresentino una mostruosa eccezione e che questo non dovrebbe in alcun modo compromettere le libertà acquisite.74 Proprio come gli attentati non hanno alterato la nostra gioia di vivere e i nostri stili di vita. La barbarie uccide ma non vince. Una cosa è propugnare una certa buona creanza sessuale, un codice di buone maniere; altra cosa è prescrivere a ognuno una ben precisa condotta. L’amore, finché possibile, deve rimanere una festa. Se gli amanti si trasformano in doganieri dei fremiti che fanno il verbale ai trasgressori, si perdono la bellezza e la follia dell’atto amoroso. Depurare il cuore da se stesso significa bandire tutto ciò che nei nostri rapporti comporta una certa ambivalenza.

Fortunatamente, la seduzione sopravvive, e anche per volontà delle donne. Almeno in Francia, che rimane la patria della galanteria, con buona pace dei beffardi avversari dell’eccezione francese. Fare la corte a qualcuno denota anzitutto un grande principio egualitario perché bisogna usare la persuasione in luogo dell’autorità e ottenere il consenso dell’altro anziché costringerlo. Significa quindi, per entrambi i sessi, riconoscere il sacramento della conversazione: tono scherzoso o febbrile, cuore in gola, parola che sfugge o si inebria di sé. Bisogna suscitare interesse a qualunque costo e non solo sul piano dell’aspetto fisico. La situazione non è paritaria fra la persona che vuole piacere e quella che è sollecitata e può, per civetteria, fingere indifferenza, far pazientare il pretendente per metterlo ancor più alla prova. Tutta la ricchezza dello scambio amoroso sta nella sua indecisione. La seduzione risulta affascinante perché è evanescente: un sorriso invitante può essere dettato da semplice cortesia, ma suscitare aspettative ingannevoli. Al contrario, una certa freddezza può preludere a futuri abbracci. Chi è innamorato è un ermeneuta che procede a tentoni in un mondo di segni confusi.

Bisogna ora distinguere il desiderio come debito dal desiderio come dichiarazione: nel primo caso l’altro mi deve il suo corpo perché ha suscitato in me una certa emozione, e mi deve quindi risarcire di quella emozione. È Sade ad aver illustrato al meglio questa concezione: tutti i suoi libertini di entrambi i sessi fanno man bassa degli uomini, delle donne e dei bambini che li eccitano anzitutto per violentarli, eventualmente per ucciderli (negli Stati Uniti, il defunto Jeffrey Epstein, grande pedofilo criminale, sarebbe l’esempio più calzante di questa posizione). Nel secondo caso il desiderio suscitato dalla persona desiderata non diventa un ordine che le diamo, ma una proposta che le rivolgiamo. La persona è libera di accoglierla o declinare. Questa esposizione di sé nell’incertezza è una prova terribile. «Fare il filo», come si diceva un tempo (in francese conter fleurette, da cui l’inglese to flirt), significa anche spogliarsi moralmente a costo di essere presi in giro. Proprio perché ormai sono libere, le donne corrono il rischio, non meno degli uomini, di ricevere un due di picche, e di venire eclissate da rivali più fortunate. La scrittrice americana Alison Lurie racconta che le racchie scopano più di quanto si creda, ma che devono subire le confidenze dei loro amanti sulle delusioni che subiscono dalle ragazze attraenti. È la terribile ironia dell’emancipazione: uomini e donne, al tempo stesso vittime e complici, si perseguitano a vicenda in nome della giovinezza, della forma, della bellezza. Tutto ciò che un tempo ha rappresentato uno strumento di liberazione può anche diventare un mezzo di asservimento.

Basta essere stati molestati una sola volta per capire, empaticamente, cosa provano le donne che vengono importunate tutti i giorni. Bersagliate da oscenità, da commenti salaci, reagiscono per lo più tenendo gli occhi bassi e accelerando il passo, con gli auricolari nelle orecchie. Quelle che hanno la lingua sciolta mettono a tacere il villano di turno o lo umiliano. Sta di fatto che al dispiacere di essere fischiati e tormentati corrisponde poi il dispiacere altrettanto grande di non essere più importunati, perché ormai invisibili, perché invecchiati (vale anche per gli uomini). Esiste qualcosa di più deprimente della sensazione crepuscolare di essere diventati trasparenti, «meri soprammobili» agli occhi degli altri? Uscire dal mondo del desiderio, essere messi da parte è un’altra tragedia, quella della grande maturità, di cui Simone de Beauvoir aveva misurato l’ampiezza: «Sì, è arrivato il momento di dire: mai più! Non sono io che mi stacco dalle mie antiche gioie, sono loro a staccarsi da me: i sentieri di montagna si rifiutano ai miei passi. Mai più mi butterò a terra stanca morta nel fieno odoroso; mai più scivolerò sola sulla neve del mattino. Mai più un uomo».75

6

Una giustizia troppo imperfetta?

Era strano pensare [...] che persone così ben educate e professionalmente civili si fossero lasciate abbindolare con tanta facilità dal sogno venerando di una situazione in cui un uomo può rappresentare l’incarnazione del male.76

PHILIP ROTH

Si sente dire che il neofemminismo è una questione generazionale e che divide le persone in base alla data di nascita. La tesi è corretta solo fino a un certo punto. Voi fate parte di un mondo che non esiste più, dicono le militanti ai loro avversari. Questa affermazione è a sua volta datata: era già comparsa nel XIX secolo quando il movimento comunista invitava a fare tabula rasa del passato. È lo stesso problema che affligge il movimento #MeToo: alcune attiviste si credono estremamente moderne, ma spesso sono tremendamente arcaiche nel confondere la giustizia con il linciaggio. Si fanno beffe della verità, vogliono soltanto la semplicità di un mondo diviso in due: l’uomo, preferibilmente bianco, è sempre colpevole, la donna sempre afflitta.77 Sono animate da un’autentica furia purificatrice nei confronti delle loro sorelle maggiori, femministe incluse, come per esempio Simone de Beauvoir, che viene spesso accusata di aver pensato sotto la tutela di Jean-Paul Sartre. Rileggono il passato prossimo alla luce del contrasto fra Bene e Male, non ammettono alcuna deviazione, conoscono solo l’anatema e la scomunica.

Corri compagno, il Vecchio Mondo è alle tue spalle

Il movimento #MeToo ha messo fine, si sente dire, a decenni di impunità. È un progresso, senza dubbio. Ma nulla vieta di vederne i limiti e i pericoli. In Francia, per esempio, 114 avvocatesse penaliste e femministe hanno dovuto pubblicare un lungo articolo sulle pagine di Le Monde (7-8 marzo 2020) per ricordare che «in materia di reati sessuali si assume troppo spesso un’inquietante presunzione di colpevolezza». Bisogna credere alle vittime sulla parola? A questa ipotesi le firmatarie dell’articolo ribattono: «Dare per scontata la buona fede di tutte le donne che dichiarano di aver subito una violenza sessuale equivarrebbe a sacralizzare in modo arbitrario la loro parola, non certo a ‘liberarle’ [...]. Spiace doverlo ricordare, ma nessuna accusa può mai costituire la prova di alcunché: altrimenti basterebbe enunciare la propria verità per dimostrare e condannare. [...] Con un clic e attraverso un meccanismo piuttosto malsano di continuo rilancio mediatico, alcune donne non esitano più ad autoproclamarsi vittime per accedere a uno status che implica l’esistenza di carnefici ben precisi. Da quel momento, è sufficiente che la giustizia sia convocata e che li assolva, per far sì che i carnefici di cui sopra appaiano doppiamente colpevoli, per essere anche riusciti a evitare una condanna».78

Così si spiegano le campagne mediatiche cui assistiamo con regolarità da diversi anni. Vediamo personalità più o meno note affacciarsi all’arena pubblica e mettere alla gogna i nomi che intendono calpestare. Si chiede all’opinione pubblica di pronunciarsi seduta stante su questioni di cui non conosce alcun dettaglio, talvolta nemmeno i nomi dei protagonisti. Ognuno è chiamato a prendere parte al linciaggio se non vuole essere accusato di complicità con individui abietti. Se la giustizia ufficiale è fallibile e spesso non riesce a essere imparziale, questa nuova giustizia popolare è sbrigativa e priva di scrupoli. Il pubblico si divide in fazioni contrapposte, ma sulla base di una comune ignoranza dei fatti. Costruire un dossier, accumulare prove, ascoltare i testimoni, raccogliere gli argomenti a carico e a discolpa richiede tempo.

Condanne a morte simboliche

Mentre la giustizia democratica ondeggia fra due scogli, lasciare un crimine impunito o punire un innocente, la giustizia online si esercita in modo istantaneo. Vuole colpire il presunto colpevole, a costo di distruggere vite e carriere: tutto fa brodo, i discorsi da bar, le proposte indecenti, i comportamenti fuori luogo, le carezze illecite. Un semplice commento e finite incasellati per sempre nella grande cerchia degli sporcaccioni. Non serve passare alle vie di fatto: ormai siete marchiati fino alla fine dei giorni. Da questo punto di vista, Internet è come un cappio senza pietà che vi raggiunge ovunque voi siate, anche cinquant’anni dopo. L’oblio non è concesso e se il codice penale autorizza la prescrizione, i tribunali dell’opinione pubblica si rifiutano di applicarla. La minima mancanza viene annotata, segnalata e conservata per l’eternità, non importa se vecchia di cinquant’anni. I social network offrono due vantaggi: l’esposizione pubblica e l’emozione. Tutti i dispiaceri, tutti i dolori, tutte le opinioni vi possono trovare sfogo. Ma «uccidono anche senza sentenza esecutiva»:79 qualche pazzo furioso, restando anonimo, può fare a pezzi qualunque persona basandosi su mere affermazioni. Le argomentazioni sono polverizzate dall’indignazione.

Quante reputazioni sono state distrutte da accuse infondate (si pensi, in Francia, ai casi del comico Philippe Caubère o del trombettista Ibrahim Maalouf)?80 Se siete nell’elenco dei presunti colpevoli, e per giunta siete famosi, siete sistemati. Verrete triturati vita natural durante, e il diritto di difendervi sarà ignorato. Se un tribunale decide di archiviare la faccenda, il biasimo è doppio: agli occhi della gente continuerete a essere uno stupratore, protetto, per di più, da una giustizia asservita ai potenti. Un innocente non è altro che un colpevole con ottimi avvocati e le giuste complicità nelle alte sfere. Una semplice affermazione vi marchia a vita. La ghigliottina mediatica lavora a pieno ritmo e, come quella in ferro, ha sempre fame di nuove teste da tagliare. I giuristi specializzati nel commercio delle vittime non esitano a inventarne di sana pianta per garantire le proprie entrate.

Rimorsi retrospettivi

Si prenda la pedofilia: la società, volendo punire se stessa per aver tollerato troppo a lungo questo genere di comportamenti, decide di castigare a posteriori tutti coloro che non lo hanno fatto al momento opportuno. L’assalto è tanto più virulento in quanto la società ha taciuto per troppo tempo,81 così adesso si vuole procedere a un corso di recupero in discipline morali. Quanto più un bersaglio è famoso, tanto più forte bisogna colpire: nel caso di Roman Polanski, per esempio, si chiede che lo Stato francese lo consegni alla giustizia americana (e che Woody Allen, contestualmente, non sia più invitato in Francia);82 nel caso di Gabriel Matzneff, che era scomparso dalla memoria collettiva prima di essere riesumato dal bel libro di una delle sue vittime, Vanessa Springora,83 si tolgono dal mercato tutte le sue opere autobiografiche, lo si bandisce da tutte le librerie. Come se non fosse mai esistito. Come i bolscevichi caduti in disgrazia sotto il regime staliniano. E guai a coloro che lo hanno incensato, o invitato a qualche trasmissione letteraria, come Bernard Pivot, o che lo hanno frequentato. Tutti sporchi, tutti infangati. Per ben quarant’anni, durante i quali Matzneff ha continuato a proclamare forte e chiaro nei suoi libri il suo amore nei confronti dei bambini e la sua pederastia militante, la sinistra morale ha mantenuto il silenzio. Gli accusatori di oggi sono i complici di ieri. Si costruisce quindi la figura del Mostro che deve catalizzare tutto l’odio. Il branco non lo mollerà, fino al grido che dichiara conclusa la caccia. Si tratta ogni volta di condanne a morte a scoppio ritardato, in cui ci si compiace del declino di una personalità pubblica in attesa della prossima.

La donna è l’ebreo dell’uomo?

Era dunque inevitabile che il movimento femminista, presto o tardi, incontrasse la figura della vittima per antonomasia, quella dell’ebreo deportato. E che questo generasse quel che si è prodotto in ogni altro contesto simile: un antisemitismo da invidia. Gli strani ragionamenti uditi a Parigi il 28 febbraio 2020, durante la notte dei César, quando Roman Polanski, sospettato peraltro di aver abusato di molte donne dopo l’affaire Samantha Geimer,84 ha ricevuto il Premio al miglior regista, e gli slogan lanciati dalle manifestanti mettono i brividi. «Il cherosene non serve a far volare gli aerei, serve a bruciare stupratori e assassini.» In risposta ai gas lacrimogeni della polizia, un gruppuscolo di nome Les terriennes («Le campagnole») ha twittato: «È Polanski che bisognerebbe gasare». Ah, bello questo ritorno del rimosso! Qualunque cosa si voglia pensare del cineasta franco-polacco, ci sono espressioni che danneggiano coloro che le utilizzano. Perché una certa estrema sinistra di oggi assomiglia così tanto a una certa estrema destra di ieri?85

Ma più ancora di questi scivoloni sintomatici, vi è la volontà di fare dello stupro un crimine contro l’umanità, ancor più grave dell’omicidio e imprescrivibile. Le vittime di violenza sessuale, secondo un movimento ormai avviato da diversi anni, diventerebbero quindi i rappresentanti del genocidio moderno. Che cos’è la pornografia?, chiedeva Andrea Dworkin più di vent’anni fa. Uno «strumento di genocidio», «un campo di Dachau allestito e messo in funzione in camera da letto».86 È per questo che l’oppressione delle donne è paragonabile alla persecuzione degli ebrei sotto il nazismo. Un certo Frédérik Detue, accademico specializzato in testimonianze sui crimini di massa, è riuscito, in un testo stupefacente, a paragonare la testimonianza di Adèle Haenel (rilasciata a Mediapart il 4 novembre 2019) sull’aggressione subita dal regista Christophe Ruggia alle testimonianze di Primo Levi, sopravvissuto ad Auschwitz. Entrambi, secondo lui, avrebbero obbedito al principio di sobrietà per preparare il terreno ai giudici senza fare ricorso «al patetismo della vittima o alla veemenza di chi vuole vendicarsi».87 Anche i nomi di Robert Antelme e Walter Benjamin sono stati evocati per esaltare la «sopravvissuta» Adèle Haenel, il cui scrittore preferito è peraltro Louis-Ferdinand Céline. Il parallelo è sorprendente, per non dire indecente. Naturalmente, non esiste una scala Richter delle sofferenze patite, ma non è possibile immaginare una gerarchia che consenta di pensare la violenza come multiforme? Bisogna per forza riesumare il nazismo per pensare l’aggressione sessuale? Perché ricondurre tutto a quel momento storico e immaginare che una donna violentata sia l’equivalente delle vittime (uomini e donne) della Shoah? Questa «legge di Godwin» è inquietante e può spiegare perché certe femministe si considerino talvolta più «ebree» degli ebrei, correndo il rischio di lasciarsi andare a una sfrenata giudeofobia.88

Ambiguità del #MeToo

La modernità segna l’irruzione dei dominati sulla scena pubblica, progresso reale quanto paradossale. Fino a ieri si sopportava, oggi si protesta. La tolleranza nei confronti dell’oppressione è in costante diminuzione. Le avversità, che un tempo costituivano una prova necessaria, oggi ci forniscono una ragion d’essere, ci danno quasi un’identità. Con una conseguenza: le nuove generazioni, essendo generazioni coccolate, sono infinitamente più vulnerabili. Di qui la battaglia simbolica per aggiudicarsi lo status di paria. Si prenda Samantha Geimer, drogata e sodomizzata da Roman Polanski a tredici anni e mezzo. Una volta celebrato il processo su denuncia della madre per statutory rape (sesso con minore), una volta stabilita la conciliazione all’americana (una pena detentiva di 90 giorni, ridotta a 45, con esame psichiatrico seguito da un risarcimento pecuniario), lei lo ha non soltanto perdonato, ma si è successivamente congratulata con lui per i vari premi da lui ricevuti a partire da quel momento. A una giornalista che le ha chiesto di recente cosa ne pensasse della seguente dichiarazione rilasciata da Adèle Haenel al New York Times: «Premiare Polanski equivale a sputare in faccia a tutte le vittime, in quanto significa: violentare una donna non è poi così grave», Samantha Geimer ha risposto:

Non sono per niente d’accordo. Chiedere a tutte le donne di sopportare non solo il peso dell’aggressione subita, ma anche quello dell’indignazione di tutti per l’eternità equivale a sputare in faccia a tutte quelle che si sono ristabilite e che sono riuscite a dedicarsi ad altro. Mobilitare le vittime per colpire qualcuno che si è comportato male significa vittimizzarle ulteriormente. Nessuno ha il diritto di dire a una vittima cosa deve pensare e come deve sentirsi. Nel momento in cui non permettete che una vittima perdoni e volti pagina per soddisfare un [vostro] bisogno egoista di odio e punizione, non fate altro che ferirla ancor più profondamente. Una vittima ha tutto il diritto di lasciarsi alle spalle il proprio passato e anche un aggressore ha il diritto di riabilitarsi e di redimersi, soprattutto quando ha ammesso le sue colpe e si è scusato.89

Una replica insolita, che però impegna soltanto la sua autrice, Samantha Geimer. Non sta a noi prescrivere agli scampati e alle scampate la condotta da seguire: né sul piano dell’oblio, né su quello del trauma. Fa parte di un percorso personale, spesso lungo e doloroso. I fantasmi ritornano, rendendo più difficile il cicatrizzarsi delle ferite. L’atrocità di certi abusi si scontra talvolta col silenzio delle autorità, con l’incredulità di amici e parenti (si veda il bel film di François Ozon, Grazie a Dio, del 2018, sui reati di pedofilia all’interno della Chiesa). Basti sapere che la cicatrizzazione è possibile, una volta che la pena è stata riconosciuta e l’aggressore sanzionato. Si corre sempre un rischio quando si specula sul dolore delle donne, quando le si immerge nell’indigenza morale per trasformarle in eterne reiette.

La nuova mentalità consacrata dal #MeToo rappresenta un progresso o una «evoluzione disastrosa per il femminismo» (Laura Kipnis)? Non sorprende che questo fenomeno sia nato a Hollywood, patria del connubio fra narcisismo a oltranza e spietato arrivismo. Le femministe sudamericane hanno giustamente fatto notare che il #MeToo è stato formulato a partire dal me anglosassone, mentre in Sud America si erano costituiti, fin dal 2015, i collettivi Ni una mujer menos, ni una muerta más («Non una donna di meno, non una vittima in più») che muovevano da un noi collettivo.90 Lo show business ha una maniera tutta sua di drammatizzare tutto quello che tocca monopolizzando il dolore altrui. L’indignazione roboante fa seguito alla disattenzione e ai voltafaccia spettacolari. L’industria del divertimento si sposa male con le grandi cause politiche, che finisce spesso per rendere ridicole e vane. Il #MeToo è anche un movimento sindacale di promozione delle attrici e commedianti che nel 2019 hanno ottenuto in tal modo moltissime parti: dietro i clamori indignati, l’ambizione professionale, l’ampliamento delle quote di mercato per le nuove generazioni. E perché no? Probabilmente, nel complesso, il #MeToo non risulterà essere nient’altro che una ridistribuzione di potere in seno alle élite: manovra di palazzo, rivoluzione borghese, carrierismo forsennato, volontà di affermarsi sotto la maschera della virtù femminista. C’è un godimento iconoclasta nel demolire certe figure maschili famose, come Kevin Spacey, Plácido Domingo, Woody Allen, Luc Besson, Louis C.K. e altri, quale che sia, peraltro, la responsabilità di ciascuno (stabilire quest’ultima spetta, non va dimenticato, alla sola giustizia). Gettare in uno stesso calderone tutte queste persone di potere, farle precipitare, ha qualcosa di paragonabile a una Notte del 4 agosto della società dello spettacolo, a una messa alla gogna contemporanea. Tutto ciò che è stato innalzato, prima o poi dovrà essere umiliato. Dietro la furia del contrappasso, un passaggio di testimone. Ecco le nuove élite che uccidono le precedenti, prima di essere a loro volta uccise da altre élite di là da venire.

Le delizie del linciaggio

Quando i crimini sono acclarati, come nel caso di Harvey Weinstein o in quello di Epstein, non c’è niente da dire. Per gli altri, in attesa di giudizio, bisogna istruire un processo, cosa che richiede tempo. Le querelanti si spazientiscono: la semplice iscrizione nel libro nero equivale a un verdetto, come ai tempi del maccartismo. Questo modo di procedere può rivoltarsi contro gli autori del linciaggio, in base alla legge di reversibilità. È questo il caso di Sandra Muller, ideatrice dell’hashtag #BalanceTonPorc («Caccia via il maiale») dopo che un certo Éric Brion, ex direttore televisivo, le aveva detto, in occasione di una serata molto alcolica a Cannes nel 2012: «Hai un gran seno. Sei il mio tipo. Ti farò godere tutta la notte». La proposta, chiaramente villana e da spaccone, avrebbe a lungo «traumatizzato» la quarantenne, che ha quindi denunciato pubblicamente il suo autore nel 2018, causando la sua messa al bando dalla società, la perdita del lavoro e la caduta in depressione. Sandra Muller è stata a sua volta condannata nel settembre 2019 su querela di Éric Brion. La corte ha stabilito che il reato di «offesa sessista» introdotto dalla legge Schiappa nel 2018 non autorizza la querelante a svillaneggiare il molestatore, a trascinarlo pubblicamente nel fango fino a «distruggergli completamente la vita» e a condannarlo «a uno stato di isolamento sociale».91 Si tratta, secondo questa sentenza, di riportare all’interno delle aule di giustizia una serie di accuse o di lagnanze che circolano in rete e si riducono spesso a forme di calunnia.

Così Adèle Haenel che sporge denuncia contro un regista, Christophe Ruggia, accusato di comportamenti sconvenienti quando lei era impubere, ci esorta a cambiare il modo in cui «costruiamo la verità». L’espressione è piuttosto allarmante. In ambito giudiziario, la verità ha a che fare con la ricostruzione il più possibile accurata dei fatti, non con la costruzione. Se la verità è costruita, allora può essere anche manipolata, come già spiegava il Cratilo di Platone. Viene in mente quel che ha detto Margaret Atwood a proposito del #MeToo: «Certo che ci sono stati degli effetti positivi, ma non dobbiamo cadere nell’errore di credere che tutte le donne siano angeli senza alcuna colpa e dicano sempre la verità. Perché questo, guarda caso, non è vero».

Si può condividere la frustrazione di numerose militanti di fronte ai fallimenti della giustizia in fatto di repressione della violenza sessuale. In Francia, secondo alcune controverse statistiche, solo il 10% delle donne vittime di violenza sessuale sporgerebbe denuncia e soltanto il 3% dei casi di stupro porterebbe a un processo.92 (Come sappiamo che il rimanente 90% delle donne non ha sporto denuncia se queste non si dichiarano? Da dove vengono queste cifre?) Non c’è dubbio che gli intoppi della macchina giudiziaria, il suo complesso cerimoniale, il suo linguaggio tecnico tanto oscuro quanto il latino delle preghiere sono in grado di spaventare i profani e scoraggiare molte delle persone che vogliono sporgere querela. L’obbligo di segretezza che vincola i giudici, il dedalo delle procedure, il carattere doloroso degli interrogatori che costringono la querelante a scendere nei dettagli della propria vita sessuale di fronte a testimoni, soprattutto il dolore di dover affrontare il proprio aggressore, conferiscono a questa procedura istituzionale una dimensione disumana.

Ma è proprio questo distacco a rendere indispensabile la giustizia. Serve a placare i furori vendicativi. Se dà un’impressione di freddezza, è perché rappresenta un osservatore terzo non coinvolto, che introduce una distanza. Affermare, come ha fatto un ex ministro dell’Interno, che in certe occasioni «l’emozione supera la norma giuridica» significa semplicemente farsi beffe dello Stato di diritto. La norma esiste appunto per tenere a distanza l’emozione. Il giudice è l’incarnazione del diritto proprio in quanto è arbitro: per qualificare il reato, pesa i pro e i contro, esamina gli argomenti. L’accertamento dei fatti è un processo estremamente delicato. È sempre la mia parola contro quella di un altro. Per quanto si cerchi di rafforzare l’arsenale giuridico, non si può costringere la giustizia a diventare ciò che non è: un tribunale speciale, una procedura sbrigativa e sommaria. Persino i crimini degli assassini seriali, persino i processi per terrorismo richiedono anni. Non si potrebbe chiedere a questa istituzione ciò che auspicano alcuni: una valutazione a spanne, o istintiva.93 Sarebbe la peggiore regressione possibile.

La giustizia esaspera, a buon diritto, la nostra volontà di punire: la sua funzione è rieducare più che condannare. Nei casi di violenza sessuale, lo stupro va anzitutto definito: se non c’è stata penetrazione accertata, il reato viene declassato ad aggressione sessuale e giudicato dalla pretura penale e non dalle assise (soprattutto per non sovraccaricare questa giurisdizione). Ricordiamo che in Francia la magistratura è in gran parte composta da donne, che in generale sono scarsamente sospettabili di simpatie nei confronti degli aggressori di sesso maschile, inoltre nei commissariati l’accoglienza delle donne violentate è notevolmente migliorata (talvolta a scapito degli uomini, sistematicamente messi sotto accusa). La maggior parte degli stupri sono di prossimità, si producono di solito in famiglia, a casa della vittima o del violentatore, per mano di padri o madri sui loro figli, di mariti o compagni sulle loro partner.94

Viviamo strani tempi in cui la semplice difesa dello Stato di diritto fa di ciascuno di noi un complice agli occhi dei fautori della legge del più forte. La delazione non è più clandestina, come ai tempi dell’occupazione nazista, ma pubblica, sfavillante, il «populismo penale» (Marie Dosé) è all’apice del successo.

Le lande sconfinate dell’equivalenza

Tuttavia, non è possibile confrontare tutte le situazioni, tutti i paesi, paragonare il destino delle francesi a quello delle afgane, delle pachistane, delle siriane, delle messicane povere. Bisogna tener conto di un minimo di sfumature se non vogliamo scompigliare l’analisi, trasformare il tempo di pace in tempo di guerra permanente: una parigina della media borghesia non si trova affatto ad affrontare il medesimo destino di un’indiana intoccabile, di un’africana indigente. La prima ha a disposizione risorse giuridiche, morali, politiche senza eguali rispetto alle donne di questi paesi. Questo modo di imbrogliare le carte equivale a privare i più svantaggiati della specificità della loro sofferenza. È giunto il momento di dirlo chiaro: basta confusione! È giusto esercitare pressioni sulla giustizia per renderla più celere, ma non per screditarla. Si direbbe che l’unica finalità di un certo discorso militante sia drammatizzare il quadro, nonostante la situazione delle donne, checché se ne dica, sia migliorata rispetto agli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, in Europa come negli Stati Uniti. La monopolizzazione del movimento femminista, sulle due sponde dell’Atlantico, da parte di una fazione vendicativa è preoccupante. Il suo programma non è la fioritura delle donne, è l’eliminazione degli uomini e di tutto ciò che è maschile a questo mondo. Molte militanti non si riconoscono in questo estremismo, ma temendo di essere tacciate di «collaborazione con il patriarcato» non osano dire: «Non a nostro nome». È vero che l’odio riscalda e rinsalda i gruppi più di ogni altra cosa. Le purificatrici puntano il loro dito vendicativo sulle anziane. È probabile che anche le prime, fra venti o trent’anni, saranno trascinate sul banco delle imputate dalle loro stesse figlie che criticheranno il loro maccartismo. Noi viviamo solo nel nostro mondo e nel nostro tempo e saremo giudicati dal mondo che verrà, il quale sarà a sua volta chiamato alla sbarra dai suoi successori per rispondere dei suoi atti.

La reciprocità impone quindi di creare dossier anche sulle nuove Torquemada, sulle Inquisitrici pubbliche e di sottoporle a loro volta a un esame senza sconti.95 Queste «cagne da guardia puritane e neofasciste», come le ha definite Valérie Toranian,96 riducono i rapporti umani a relazioni poliziesche e così facendo si condannano a ricevere lo stesso trattamento. Robespierre, per chi l’avesse dimenticato, finì ghigliottinato.

Imparare la civiltà

Cosa bisogna fare allora per stroncare i violenti e gli stupratori? Formare gli agenti a prestare maggiore attenzione alle denunce, consentire alla polizia di isolare i mariti e gli amanti pericolosi per proteggere mogli e figli. Senza dubbio. Ma soprattutto educare le persone fin dalla più tenera età: insegnare alle donne a non tollerare mai le botte, a riconoscere le situazioni nocive, ad andarsene quando la misura è colma. Ai ragazzi bisogna insegnare a comprendere l’esitazione della donna desiderata, a non insistere in caso di rifiuto. Non essere desiderati dalla persona che desideriamo è molto spesso l’esperienza fondante dell’amore, la sua prima infelicità: crogiolarsi ai piedi di qualcuno che per noi non prova altro che indifferenza. Bisogna riabilitare l’arte del corteggiamento, la capacità di celebrare la delicatezza e l’attesa al posto dell’avidità predatoria.

Misure di buonsenso che richiedono pedagogia e intelligenza. Bisognerebbe anche, attraverso la letteratura, la poesia, il cinema, illuminare il sentimento amoroso in tutta la sua bellezza e la sua magnificenza, cogliere la dimensione magica dell’erotismo al riparo dall’oscenità industriale della pornografia. È vero che la donna nel sesso è maestra di lentezza: si oppone alla fretta e alla semplicità. Insegna all’uomo il valore del tempo, l’alleanza fra pazienza e sensualità, l’esplorazione meticolosa dei territori del corpo. Gli insegna a differire il piacere, a frenare in sé la natura, in quanto può esigere dai suoi pretendenti una serie di riguardi e di buone maniere, a costo di farli languire. Bisogna tenere a distanza la brutalità del guerriero come la precipitazione dell’adolescente. Tutto ciò che contribuisce alla civiltà, vale a dire alla complessità, innalza Eros a un livello di effervescenza unico. Non si comprende come mai certe femministe rifiutino al tempo stesso la violenza e la galanteria, anziché sostenere la seconda contro la prima. Che sia perché queste icone vogliono rendere la vita impossibile a quelle donne che ancora amano gli uomini? La misandria è ghiotta di sotterfugi.

7

La biologia è un inganno?

Fin dalle origini il femminismo oscilla fra due visioni opposte: a volte celebra la femminilità come una fortezza inaccessibile; altre volte tratta la divisione dei generi come uno stereotipo da spezzare fin dall’infanzia: i bambini dovrebbero giocare con le bambole e vestirsi di rosa, le bambine giocare coi trenini elettrici e fare tutto ciò che è consentito ai maschi: dai mestieri riservati agli uomini, persino i più duri, fino agli sport violenti. Tutto ciò che un uomo può fare, una donna deve compierlo in barba alle pseudo-distinzioni di genere. È la natura il vero nemico. Del resto uomini e donne non esistono, ben presto sarà possibile trapiantare uteri nei primi e dotare di peni le seconde e chiunque volesse negare questa possibilità è affetto da transfobia. Ognuno di noi è ciò che desidera essere, grazie soltanto alla propria volontà, indipendentemente dalla propria costituzione fisica alla nascita. Si gioca insomma con le parole, si parla di ovulario anziché di seminario, di matrimonio anziché di patrimonio. Se questo genere di bagatelle semantiche basta a soddisfare il bisogno di uguaglianza, tanto meglio.

Nel primo caso i sessi vengono definiti come due patrie reciprocamente impermeabili. Nell’altro li si dichiara intercambiabili, si fa tabula rasa dell’antica demarcazione, si decide che la biologia è risibile, una semplice costruzione sociale che bisogna cancellare con un tratto di penna. Una ricercatrice inglese non è stata forse licenziata dal laboratorio in cui lavorava per aver detto che «un uomo non potrebbe mai diventare una donna»? E la scrittrice J.K. Rowling non è stata insultata e accusata di transfobia per aver difeso quella ricercatrice e aver scritto che la biologia del sesso è reale?97 Così i LGBTQIA+ esigono, per esempio, toilette neutre per coloro che non si riconoscono nelle categorie patriarcali di uomo e donna, un dibattito che infiamma gli Stati Uniti da diversi anni. (Per quanto mi riguarda, preferirei lottare perché i bagni siano puliti.) Tutti coloro che soffrono di «disforia di genere» e hanno la sensazione, come accadeva a certi gnostici, che la loro anima sia prigioniera di un corpo sbagliato, anima di donna in corpo di uomo o viceversa, si vedono proporre nuovi protocolli grammaticali: ognuno può presentarsi come un lui (he), una lei (she) o un loro (they) se non si identifica con nessuno dei primi due generi. La bandiera arcobaleno, rappresentativa delle nuove distinzioni, emblema degli apolidi di genere, esibisce dunque undici colori diversi ai quali potrebbero aggiungersene altri. Il suo ideatore, Daniel Quasar, si autodefinisce «queer, mezzo-uomo, non-binario» e i suoi pronomi sono «Xe/xem/xyr» (sic). Il grande movimento di emancipazione si è trasformato in «un brodo alfabetico auto-parodistico di identità inventate».98 Le categorie sono diventate incomprensibili, il guazzabuglio terminologico sconcertante. Si esce dalla logica binaria solo approdando a elencazioni senza fine. Si promuove il rifiuto del sesso biologico fin dalla culla in nome dell’idea che «il piccolo lui potrebbe essere una piccola lei»;99 si sperimenta la fluidità dei generi, delle pratiche, dei modi di vestire. Individui «percepiti come» ragazze o ragazzi, ma che non vogliono esserlo, si autodefiniscono «a-gender», privi di genere, e chiedono di essere riconosciuti come neutri, non vogliono essere chiamati né signora né signore. Sui velivoli della compagnia Air Canada non si dice più «signore» o «signora» ai passeggeri per non «sbagliare genere», grave forma di discriminazione per le persone che sfuggono alle classificazioni standard. In Francia abbiamo avuto un caso strampalato nel luglio 2018, sul palco della trasmissione «Arrêt sur images» («Fermo immagine»): un barbuto si è rifiutato di essere definito «signore» perché si sente non-binario e non voleva neppure essere descritto come bianco perché si definisce semi-libanese.100

Nel 2017 Facebook ha sviluppato un’applicazione che prevede non meno di cinquantotto opzioni di questo tipo: semi-ragazza, semi-ragazzo, a-romantico, poli-amoroso, feticista, casto, a-sessuale e via dicendo. La cosa che si vuole rifuggire a tutti i costi è la tirannia della definizione. Ma il rifiuto delle etichette non le annulla affatto: si limita a moltiplicarle. Si appartiene pur sempre alla categoria di coloro che rifiutano le categorie: così quando Paul B. Preciado, in precedenza Beatriz Preciado, scrive su Libération: «I nostri corpi trans sono un atto di dissidenza nei confronti del sistema sesso-genere»,101 si definisce ancora in rapporto a una norma che lui/lei ripudia: «La critica delle norme di genere, razziali, sessuali, patriottiche». Denominare l’altro significherebbe quindi «imprigionarlo con le parole» (Wendy Delorme).102 Persino se diciamo di un bebè che è bimbo o bimba. Ci si attesta qui sulla rivendicazione puerile delle mini-differenze: l’ipseità che si vuole proteggere nel proprio intimo è talmente preziosa che la minima allusione le fa violenza. Essere definiti (in qualunque modo) costituisce una violazione spaventosa. Ognuno dovrebbe scegliere ciò che vuole essere e proibire agli altri di qualificarlo. Tutto ciò che ci viene dallo stato civile, dai genitori, dalla famiglia, dallo stesso corpo va ripudiato a tutto vantaggio di una singolarità che non assomiglia a nessun’altra. Non c’è niente da ereditare, c’è solo da ricrearsi. Ecco lo scopo di una decostruzione che in fondo non è altro che il culmine del narcisismo contemporaneo: costruire se stessi a partire dal nulla, come il barone di Münchhausen che si salvò dalle sabbie mobili tirandosi per i capelli.103

Tutto questo rimanda a un volontarismo medico-prometeico rafforzato da un lessico puramente cosmetico. Moltiplicare le classificazioni e gli acronimi ricrea un ovile identitario che imprigiona proprio quelli che volevano aprire al massimo il ventaglio delle possibilità. Il fantasma rivoluzionario del foglio bianco sul quale l’umanità può scrivere una nuova storia poggia sempre sulla negazione del Vecchio Mondo. Definirsi «non-binari», per riprendere la retorica corrente, non significa granché: è l’antico né-né applicato al sesso biologico. Rifiutando questa divisione la si riporta in auge senza volerlo. La negazione rafforza la determinazione. Anziché essere ciò che si è, non si è ciò che sono gli altri. L’artificio è grossolano. Ma allora perché non definirsi anche non-ternari, non-quaternari e non-trans? Siamo molto lontani dai movimenti omosessuali classici o dal fascino che hanno sempre esercitato gli ermafroditi e i travestiti. Si prova una sorta di vertigine, di solito legata all’adolescenza, facendo la spola fra queste identità liquide, senza essere né questo né quello, né maschio né femmina, né omo né etero, né giovane né vecchio. Questa definizione per sottrazione è analoga alla teologia negativa di Maimonide e a un certo cristianesimo, per il quale Dio si definisce attraverso ciò che non è, in quanto, superando ogni attributo umano, non può essere niente di preciso.104 Bisogna dunque spazzare via le nomenclature anteriori, tutte le pseudo-distinzioni: dalle toilette fino alle carceri, per cui alcuni uomini trans che si dichiaravano femmine hanno potuto richiedere di essere assegnati ai blocchi femminili per ottenere i favori delle detenute.105 (Ormai nelle prigioni americane i transgender sono reclusi in settori separati.)

Nel giugno 2020 la stampa francese ha celebrato l’elezione della prima sindaco transgender nel comune di Tilloy-lez-Marchiennes, nel Nord del paese. Congratulazioni, anzi, chi se ne infischia, visto che la sessualità di un eletto è meno importante delle sue competenze. È questa la legge non scritta che vige nell’Esagono: ognuno può fare ciò che vuole della propria vita. Come ha detto la diretta interessata, Marie Cau, «avrebbe dovuto essere una non notizia». Senza entrare nella complessa questione del genere, osserviamo che Simone de Beauvoir aveva preconizzato questo scenario formulando una massima spesso criticata: «Donne non si nasce, lo si diventa». L’anatomia, insomma, non è più un destino anche se conserva le sue prerogative: un uomo non sarà mai in grado di procreare o di godere come una donna, né a una donna sarà mai concesso di conoscere le gioie dell’erezione. Non si dà né confusione né avvicinamento reciproco, al massimo oscillazione, ed è forse questo il significato delle questioni di «genere». L’individuo contemporaneo vaga spesso fra le definizioni e le sessualità, come un pellegrino che nel corso dell’esistenza indossa una varietà di costumi. All’interno del movimento per i diritti civili i rapporti sono ben lontani dall’essere sempre armoniosi. In Inghilterra, per esempio, nel 2019 alcuni militanti trans hanno minacciato di morte alcune femministe accusandole di essersi rinchiuse nella loro torre d’avorio.106 In Francia, alcune femministe, dichiaratamente lesbiche, sostengono la scrittrice J.K. Rowling contro il linciaggio delle attiviste trans e sottolineano che molte persone, intossicate dall’ideologia della «transizione», si pentono di aver cambiato sesso e vorrebbero procedere a una «detransizione», ovvero fare ritorno al sesso d’origine.107 I danni fisici subiti sono pesanti e irreversibili. A questo proposito, i pregiudizi più sessisti riaffiorano fra coloro che se ne dichiarano privi.108 Alcune donne sono state minacciate di stupro da rivali trans! Il pomo della discordia rimane legato alla biologia: essenziale per le femministe classiche, pura finzione per le attiviste trans che si aggrappano ai testi sacri di Judith Butler. A quanto pare, le battaglie minoritarie non convergono, e non basta nemmeno la presenza del cattivo di turno, il «maschio eterosessuale bianco», a placare gli animi. Ci troviamo di fronte a un vicolo cieco teorico che può solo alimentare un rabbioso tutti contro tutti.

Un’utopia post-sessuale incoraggiata dalla chirurgia e dall’ideologia vorrebbe offuscare le divisioni tramandate dalla natura. Dietro le formule incomprensibili del lessico politico-filosofico non è difficile riconoscere l’antica diffidenza religiosa nei confronti del corpo e della sessualità, con il sogno angelico che animava un certo cristianesimo delle origini: desessualizzare gli esseri umani. È un bene, tuttavia, che l’umanità si divida in due parti: questo bipolarismo genera una ricchezza umana imprevedibile, persino nei casi di indecisione fra l’una e l’altra sponda. Ed è ancor più straordinario che ogni persona possa confermare o rifiutare il sesso biologico con cui nasce e possa agire diversamente da come ci si aspetterebbe in base alla sua appartenenza. Ci sono solo due sessi, ma mille modi di vivere questa dualità. E coloro che contestano questa divisione la ribadiscono proprio mentre vi si oppongono. È commovente, per esempio, vedere Paul B. Preciado (un tempo «trans in-between non operato», «drag-king») descrivere la propria metamorfosi verso lo stato di uomo come un martirio: boicottare la biologia, sottrarsi a un ordine sociale vilipeso che lo ha fatto nascere femmina, subire dolorose iniezioni di testosterone, frequentare per diciassette anni il lettino di psicanalisti «bianchi, etero, patriarcali e colonialisti», tutto questo ha un prezzo. Ed è un prezzo esorbitante. Questo mutante ce lo confessa con una sincerità disarmante:109 al di là dei suoi stessi slogan, non sta affatto passando da uno stato all’altro, è semplicemente in transizione verso una regione irrespirabile in cui è rimasto solo, correndo il rischio di passare per uno spostato.

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Purificare l’arte, educare le masse

Che fine farà l’arte in questo mondo? [...] Avremo opere teatrali in cui si reciterà il catechismo, il male contro il bene [...]. Avremo quadri che rispettano la parità, uomo, donna, bianco, nero, vecchio, giovane, handicappato, tra campi di grano biologico e piante di pomodori in permacultura?

MAZARINE PINGEOTLe Monde, 28 luglio 2020

Nel campus della Stanford University, nel gennaio 1988, in presenza del reverendo Jesse Jackson, alcune minoranze sfilano intonando uno slogan: «Hey, hey, ho, ho, Western culture’s got to go».110 La cultura occidentale deve andarsene! Da allora questa volontà di fare tabula rasa non ha mai smesso di diffondersi. Negli anni Novanta a finire sotto accusa è la lettura di Herman Melville: «Non c’è neanche una donna nel suo libro, la trama sfiora la malevolenza verso gli animali e quando si arriva al capitolo 28 la maggior parte dei neri è morta annegata»111 scrive uno studente al New York Times a proposito di Moby Dick. Quanto alla lingua ordinaria, inglese o francese, essa infligge patimenti inconcepibili alle minoranze, bisogna quindi modificarla, ingessarla mediante sintagmi pieni di eufemismi, circonlocuzioni che non offendano nessuno: una persona con handicap sarà definita «diversamente abile», un sordo diventa un «non udente», un obeso una «persona in sovrappeso», un defunto un «congedato in via definitiva». In Francia non si dice più nero, ma black: il ricorso all’inglese permette di evitare l’accusa di razzismo. La lotta si trasferisce dal piano politico a quello linguistico, è una consolazione, un cerotto psicologico che non cambia di un soffio la condizione degli individui interessati, ma rassicura coloro che lo usano e sgrava la coscienza. Bisogna bandire ogni discorso o atteggiamento che possa recare offesa, se non si vuole rischiare di essere citati dalle lobby delle vittime, reali o immaginarie, che fanno «regnare una sorta di terrore giudiziario».112 Le parole offensive vanno proibite e chi le usa va punito proprio come durante l’Ancien Régime bisognava sanzionare chiunque bestemmiasse contro Dio, la Chiesa e la buona creanza. Gli si lavava la bocca col sapone e se la persona ricadeva nel vizio gli si tagliava la lingua o gli si cucivano le labbra.

I discorsi offensivi vanno messi al bando perché rischiano di urtare orecchie sensibili. Negli Stati Uniti, in Canada e nel Regno Unito sorgono movimenti che limitano molto rigidamente la libertà di parola, o addirittura la imbavagliano: il movimento No platform (vietato prendere la parola in pubblico) e la cancel culture (bisogna emarginare chiunque sostenga idee giudicate sessiste o razziste).113 La censura si giustifica in quanto ostacola la visione degli attivisti più estremi. Molti giornali la praticano in modo preventivo, come fa, per esempio, il New York Times, simbolo e martire del politicamente corretto, per timore di essere accusato di complicità con le opinioni dissenzienti. Il disaccordo non è più autorizzato.

La tentazione del repulisti

Non basta imporre il silenzio a coloro che pensano male; bisogna anche procedere a un repulisti retroattivo della Grande Cultura, che non è altro che un serbatoio dei peggiori abomini razzisti e maschilisti. Già trent’anni fa le femministe americane fustigavano Picasso, Balthus, Renoir, Degas, tutti artisti che trasudano odio nei confronti delle donne, da loro ritratte nei panni di giovincelle lascive oppure sezionate in parti, mutilate, degradate, insozzate come fa l’intera scultura astratta nel XX secolo.114 Bisogna censurare Gauguin, spiega una certa Miss Adele Gavi sul sito del quotidiano The Guardian, durante la mostra che la National Gallery ha dedicato all’artista francese tra l’ottobre 2019 e il gennaio 2020. Gavi invita gli organizzatori a interessarsi alle «migliaia di artisti formidabili» e spesso sconosciuti, anziché a questo «pedofilo perverso». E conclude: «Siamo nel 2020 e non dobbiamo più promuovere i maniaci sessuali». Gauguin ha il privilegio di incarnare tutte le forme di abominio: è al tempo stesso un malfattore sessuale, un pedofilo, un razzista e un colonialista.

Insomma, la grandezza o la bellezza di un’opera non sta più nella sua complessità e nella sua costruzione formale, ma nella sua conformità al credo morale del tempo. Alcune femministe francesi cominciano a loro volta a fare le pulizie nella cultura europea o nazionale. L’amore cortese, la galanteria, il libertinaggio? Ne abbiamo già parlato: pura e semplice violenza sessuale camuffata con parole fiorite. Il grande pittore Fragonard? Un abominevole propagandista dell’aggressione sotto le mentite spoglie della birichinata e delle scene salaci.115 Il suo famoso quadro Le Verrou (1777 circa), in cui un uomo porta a letto una donna e intanto spinge il chiavistello della porta, viene interpretato come un’apologia della forza. (Al contrario, la critica d’arte e scrittrice Sophie Chauveau descrive Fragonard come l’inventore della felicità in amore, il pittore del godimento, degli ultimi bagliori del libertinaggio.)116

Il processo di scomunica è inarrestabile: dopo Balthus e Gauguin, il pittore austriaco Egon Schiele è stato oggetto di severe censure ed è attualmente ripudiato per il modo in cui rappresenta le donne. Nel 2018, quando la città di Vienna decide di celebrare l’anniversario della sua morte, Londra, Colonia e Amburgo si rifiutano di partecipare alla campagna di comunicazione che promuove l’evento. Si reinventa l’inferno, il luogo maledetto delle grandi biblioteche in cui erano segregate le opere erotiche o oscene, in nome della lotta contro la cultura patriarcale.117 Nel 2017 vengono raccolte diecimila firme per chiedere al MET di New York di ritirare una tela di Balthus in cui è ritratta una ragazza a gambe aperte in mutandine bianche. La petizione accusa il quadro di «romanticizzare la sessualizzazione della bambina». Il che è vero, ma non giustifica la richiesta di proibirlo: un grande pittore ci disturba, è anche da questi segni che lo riconosciamo. Alcuni militanti cercano con tutti i mezzi di impedire la diffusione del film di Roman Polanski J’accuse (uscito nel novembre 2019) in nome della difesa delle donne e accusano gli spettatori di complicità con un «pedofilo criminale». Il fatto che il film sia una riflessione sull’affare Dreyfus e l’antisemitismo costituisce un’aggravante. Bisognerebbe allora mettere al bando l’intero corpus delle opere del regista. A quando i primi autodafé di stampo femminista?

A marzo 2020 Woody Allen ha visto le edizioni Grand Central Publishing annullare l’uscita della sua autobiografia già in programma negli Stati Uniti, perché alcuni dipendenti della casa editrice hanno protestato contro la pubblicazione (in Francia le edizioni Stock, controllate dal gruppo Hachette, la pubblicheranno a maggio 2020). Accusato dal figlio Ronan Farrow e dalla ex moglie Mia Farrow (che nutre per lui un’avversione patologica) di aver violentato la figlia adottiva Dylan Farrow quando questa aveva sette anni, Woody Allen ha sempre negato recisamente ed è stato scagionato da numerose inchieste giudiziarie. Ma il sospetto intacca la reputazione in modo permanente. Non bisogna dimenticare infine la testimonianza di Moses Farrow, figlio maggiore adottivo di Mia Farrow e Woody Allen, che ha sempre respinto le accuse contro suo padre richiamando l’attenzione sul carattere violento di Mia Farrow: a sentire lui, la madre picchiava i bambini e avrebbe inventato di sana pianta un processo mostruoso contro il regista. In questo campo un minimo di onestà prescrive di sentire tutte le parti coinvolte e di non pronunciarsi su una vicenda che non si conosce. Nel giugno 2020 il canale radio France International ha rifiutato di diffondere uno spot pubblicitario per il libro di Allen e il suo editore, Manuel Carcassonne, è stato accusato di promuovere le opere di un pedofilo. I calunniatori hanno vinto. Certi cognomi famosi non rimandano neanche più a qualche documentato dossier giuridico, sono già di per sé un sintomo di follia collettiva.

Come filmare un culo?

Ormai non siamo più in grado di goderci il cinema e la letteratura, siamo solo capaci di atteggiarci a giudici che considerano i libri, i film, le opere d’arte da un punto di vista esclusivamente etico.118 Quelli giunti fino a noi non sono più capolavori, sono soltanto le opere dei capi della propaganda occidentale, di squallidi precettori, colonialisti, maschilisti e razzisti, da Cervantes a Faulkner, oggi etichettati come DWEM ovvero Dead White European Males (maschi europei bianchi e defunti). La forza emancipatrice dei grandi testi su cui si è forgiato il pensiero critico dell’uomo moderno, fonte di una presa di distanza della cultura europea da se stessa, viene quindi negata.119 La letteratura non è più creazione, messinscena o interpretazione di un’epoca: è solo espressione della dominazione dei potenti o della ribellione delle minoranze. Ogni conflitto o proposta che spiazza deve essere abolito. Non si crea più, si attesta: e al diavolo la prosa, il talento, l’immaginazione. La sola cosa che conta è la correttezza della testimonianza, come quella (interamente ricostruita secondo i canoni della sinistra occidentale) della scrittrice guatemalteca Rigoberta Menchú, militante del popolo maya, premio Nobel per la pace nel 1992.120

Il processo di scomunica non finisce qui: bisogna anche emendare le grandi opere liriche. Così le eroine famose, Carmen o la Traviata, finiscono per cedere non per l’ostinazione dei loro amanti, ma perché sono state costrette. A proposito della Carmen di Georges Bizet, il regista Leo Muscato, nella sua messa in scena del 2018 all’opera di Firenze, non volendo far morire la giovane zingara, decide che questa volta sarà lei a sopprimere il suo aggressore: «Nel momento in cui la nostra società è piagata dal femminicidio, come possiamo pensare di applaudire l’uccisione di una donna?» In Inghilterra una madre di famiglia protesta contro la famosa fiaba per bambini La bella addormentata: la protagonista non ha dato il suo assenso, mentre dormiva, a ricevere il bacio liberatore, è stata quindi molestata. La correzione culturale avanza.

Durante la notte degli Oscar, il 9 febbraio 2020, a Los Angeles, l’attrice Natalie Portman, «femminista impegnata», indossava una sontuosa cappa Dior su cui erano ricamati i nomi delle registe che non erano state nominate. Il gesto ha un suo perché, anche se l’attrice è stata severamente criticata dalle sue colleghe per aver recitato esclusivamente con registi di sesso maschile. Ci sono valide ragioni, nel mondo del cinema, per voler lottare per la parità tra registi e registe. Ma uno sguardo non è meno «genderizzato» (per usare lo squallido gergo corrente) se il regista è una donna e non un uomo. Imporre quote etniche o rosa o di «genere» nell’arte equivale a snaturarla. Se un’opera deve essere rappresentativa solo di una parte della popolazione, non è più una creazione, ma un’elezione col sistema proporzionale. Nel qual caso ogni film, libro, opera lirica dovrebbero comprendere in modo automatico una percentuale fissa di membri delle minoranze. Si confondono inoltre due cose diverse, le buone intenzioni e il talento, che non ha niente a che fare con la giustizia. Rallegriamoci del fatto che in Francia il mondo della settima arte vada verso una crescente promiscuità di genere, e che l’Académie des César, per esempio, si sia dotata di nuovi statuti per allargare i criteri di reclutamento. Ma ristabilire un certo equilibrio nella creazione artistica ha senso se poi arrivano le opere. La sola cosa che conta è il risultato, e questo non ha sesso. Un pessimo film realizzato da femministe dure e pure rimarrà pur sempre un pessimo film.

Così la critica Iris Brey rimprovera al regista Abdellatif Kechiche, autore di Mektoub, my love. Canto uno (2017), di avere una deformazione maschile nel modo in cui riprende le donne e il loro «culo». Filmare un culo è in sé un atto politico!121 Sembra di tornare ai giorni più frenetici degli anni Settanta, quando la posizione del missionario era di destra, la sodomia di sinistra e la pecorina sovversiva. E in che modo le donne, che non sono soggette al male gaze, filmano i glutei di altre donne? E come filmano quelli degli uomini? Esiste un’angolazione o una carrellata che offra un punto di vista progressista su questa parte anatomica? Come qualificare la cultura del fondoschiena in Africa o in Brasile, dove questa parte del corpo è venerata, amata, adorata, come qualificare il culto della bellezza callipigia? Bisogna inquadrare le forme, la massa o il volume complessivo? Meglio privilegiare l’inerzia o il dinamismo? Come non tradire l’eloquenza della curva? Dobbiamo censurare i video di musica rap o hip-hop che fanno uso e abuso di sederi abbondanti? Che ne dite di appiattire Kim Kardashian? O forse a risultare intollerabile alle nostre regine del pudore è il semplice fatto di ricordarsi che le donne hanno glutei e seni, vale a dire un corpo come tutti gli altri? E che questo corpo può essere desiderabile, che il desiderio carnale è il nostro destino comune?

I film lesbici, e dichiaratamente tali, non differiscono minimamente dai film eterosessuali: sono belli o brutti, solo il talento che non ha sesso può fare la differenza fra gli uni e gli altri. Caroline Fourest racconta che prima di fare il suo coming out lesbico si identificava coi personaggi maschili, soprattutto se questi abbracciavano belle ragazze. Ha poi aggiunto che continua a farlo.122 Le relazioni amorose fra donne sono simili alle relazioni amorose fra i due sessi: stessa gelosia, stessa dolcezza, stessa bellezza e talvolta stessa crudeltà. Non c’è nessuna superiorità o inferiorità morale a priori. Marcel Proust, il più grande narratore dell’amore, era omosessuale e ha saputo parlare meravigliosamente per tutti.

Passione totalitaria

Bisogna rivisitare tutte le opere che sono diventate oggetto di culto, tra cui Blow-Up di Antonioni (1966). Laure Murat ha spiegato sulle pagine di Libération che il film va interpretato come un’istigazione allo stupro in quanto professa una misoginia intollerabile nella messa in scena e perfino nelle inquadrature. Bisognerebbe peraltro, spiega, rileggere tutta la storia dell’arte, del cinema e della letteratura dal punto di vista della violenza sessuale, se è vero, come spiega lo storico dell’arte ed ex conservatore Régis Michel, che «l’ossessione sessuale dell’arte occidentale è lo stupro» (sic).123 La mela è bacata. Il colpevole è stato identificato, le carte del dossier sono state raccolte, il processo può avere inizio. L’arte occidentale sarebbe quindi ossessionata dalla violenza sessuale? Davvero? La Nascita di Venere di Botticelli (1485), L’Odalisque brune di François Boucher (1745), Le Déjeuner sur l’herbe di Manet (1865), L’estasi di santa Teresa d’Avila di Bernini (1652), L’Embarquement pour Cythère di Watteau (1717), Il bacio di Gustav Klimt (1908), sono tutti inviti allo stupro? Siamo seri. A meno che non si voglia qualificare il desiderio eterosessuale, e più in generale l’amore tra un uomo e una donna, come uno stupro malcelato. Ma allora non siamo più nella storia dell’arte, siamo nell’ideologia.

Ogni epoca elegge i propri classici di riferimento, escludendone altri. Un conto è smascherare la misoginia di un certo corpus letterario, come ha fatto Kate Millett nel suo libro La politica del sesso,124 a proposito di Henry Miller, Norman Mailer o Jean Genet. Altra cosa è compilare interi elenchi di libri o registi da mettere al bando perché bianchi e di sesso maschile. Anche se Laure Murat rifiuta ogni forma di divieto, quello che prende piede è un nuovo clima di sospetto. Ormai è l’insieme del corpus letterario e artistico a essere sottoposto a una vigilanza puntigliosa. Non si tratta più di rileggere i grandi autori in modo nuovo, ma di valutarli sotto il profilo di un codice morale stabilito dai contemporanei. Gli sradicatori avanzano.

Fino a ieri i professori, uomini e donne, ci insegnavano ad amare le opere, la poesia, il teatro, la pittura e la letteratura, a sperimentarne la ricchezza. Oggi abbiamo un direttore spirituale che ci spiega perché dobbiamo diffidare dei classici, vale a dire metterli da parte. È questo il senso della disputa sul Canone che ha preso piede nelle università: dato che bisogna accogliere le esigenze delle minoranze, non è più accettabile lasciare acriticamente nel programma Shakespeare, Chaucer, Cervantes, Balzac, Molière o Goethe, testimoni e propugnatori di costumi oppressivi. All’inizio del 2020, la Yale University, per voce di Tim Barringer, direttore del dipartimento di storia dell’arte, decide che d’ora in poi si insegnerà quella storia solo a partire da «questioni di genere, di classe e di razza» per esaminare «i suoi legami con il capitalismo occidentale» e il suo rapporto «con il mutamento climatico». Barringer giustifica questa decisione parlando del disagio di molti studenti di fronte a un Canone idealizzato, «prodotto da artisti bianchi, europei, eterosessuali e di sesso maschile». Se lo scopo è offrire una prospettiva più ampia, prendere in considerazione la straordinaria ricchezza delle arti indiane, oceaniane, africane, amerinde, non si può che gioire di questa iniziativa. Ma si apprezza molto di più l’arte extraoccidentale quando si conosce la propria cultura e si dispone di un repertorio di riferimenti e di emozioni che ci rende capaci di apprezzare la cultura delle altre civiltà. Come faremo ad ammirare le metafisiche grandiose del sufismo, dell’induismo, del buddismo, come potremo comprendere le tradizioni straniere se per prima cosa calpestiamo le nostre in una sorta di ignoranza militante? Diffidiamo di chi attribuisce valore a tutto ciò che è straniero solo per disprezzo di sé: l’ostilità che riserva a se stesso finirà per ricadere su ciò che ammira. L’aspetto particolarmente temibile di questa tendenza è che punta a umiliare l’arte europea a partire dal Rinascimento in quanto non sarebbe conforme ai cliché attuali, queer, razzizzati, femministi. Ma questi cliché sono a loro volta talmente occidentali che si rimane prigionieri di ciò da cui si cerca di fuggire.

Questa misura, presa ancora una volta in nome dei buoni sentimenti, assomiglia terribilmente agli insegnamenti di Ždanov, compagno di strada di Stalin, che, tra gli anni Trenta e il 1948 (data della sua morte), sosteneva che l’arte socialista era quella che contribuiva all’educazione ideologica delle masse. Censore spietato, fustigava la decadenza dell’arte borghese e chiedeva agli intellettuali, «ingegneri dell’animo umano», di partecipare alla formazione del proletariato. Dmitrij Šostakovič e Sergej Prokof’ev, accusati di dissonanza e di atonalità, furono tra i suoi bersagli principali. Altro esempio: a New York, il Museo di Arte Moderna (MoMA), famoso per aver esposto l’avanguardia americana dopo il 1945, si apre ormai a tutte le culture del mondo nonché alle donne, ai neri e ad altre minoranze, con lo scopo di uscire dal «racconto occidentale». Non siamo ancora una volta di fronte a una forma di condiscendenza venata di estetismo, in cui si dà la precedenza non più alle opere in virtù della loro qualità, ma agli artisti in base alla loro origine? Rimaniamo disperatamente occidentali persino nel modo in cui rinneghiamo la centralità dell’Occidente.

Altro segno di opportunismo: a Baltimora il direttore del Museo di arte moderna ha venduto numerose tele fra cui un Rauschenberg e un Warhol per «comprare opere di artisti/e sottorappresentati/e, in questo caso, neri e donne».125 Cosa penserà di questi quadri, il visitatore? Che sono stati esposti non in grazia della loro originalità o della loro audacia, ma perché il loro autore è un nero o una donna. Esiste qualcosa di più svilente? L’atteggiamento umile trae in inganno solo gli ingenui. In realtà la definizione e la questione Canone sono soprattutto un modo per garantire la preminenza dell’America in campo letterario e pittorico, al cinema e a teatro, come ha ben compreso il professore del Collège de France William Marx, e tenere fuori l’Europa. Solo l’America incarna la diversità, bisogna quindi promuovere la superiorità delle sue produzioni e frequentare esclusivamente le opere pubblicate nell’idioma dell’impero. La commedia del divorzio è un teatro delle ombre destinato agli stranieri. Ecco come ottenere l’uniformità dalla pseudo-diversità...

Nel suo bel libro, Leggere Lolita a Teheran,126 l’autrice persiana Azar Nafisi, oggi esule negli Stati Uniti, racconta che un tempo, nella Repubblica islamica, gestiva un circolo di lettura clandestino dove le giovani donne deponevano il velo per dedicarsi al piacere di leggere insieme i classici vietati dal regime dei mullah. Prima ancora, quando insegnava Il grande Gatsby contro il parere dei superiori, immaginava che all’università si celebrasse un processo fittizio: la Repubblica iraniana contro il Grande Gatsby, interpretato da veri procuratori e da avvocati difensori dell’opera. Meravigliosa allegoria. Aspettiamo impazienti che le nostre femministe e le nostre «classi subalterne» istruiscano un processo contro Fitzgerald, Hemingway e tutti gli altri e che facciano condannare i libri impuri alla Sorbona, a Berkeley, alla Columbia. La passione minoritaria è una passione totalitaria. La democrazia trasuda istintivamente totalitarismo se non bilancia i suoi principi fondamentali (Libertà, Uguaglianza, Giustizia, Fraternità) mediante una serie di contropoteri che li mitigano e li contestualizzano. Dovremo riscrivere tutte le tragedie classiche, quelle dei greci, di Shakespeare e di Racine, in quanto istigano all’omicidio delle donne, o attribuiscono un ruolo negativo a una persona non bianca, per esempio a Otello, il Moro di Venezia della tragedia omonima, che mette in scena fra l’altro una spietata guerra fra i sessi? Dovremo mettere all’indice certe favole per bambini, come Cappuccetto rosso, perché perpetua uno schema sessista, la debolezza femminile, e al tempo stesso specista, la visione negativa del lupo? O I tre piccoli porcellini perché celebrano un animale che l’islam considera impuro? A quando l’esclusione di André Gide per atti di pedofilia in Egitto o nel Maghreb, o di Victor Hugo perché fino alla morte usava molestare le mendicanti e le domestiche, o di Arthur Rimbaud, che avrebbe preso parte al traffico d’armi e di schiavi nel mar Rosso? Al lavoro, amici e amiche amanti della censura, c’è ancora molto da fare! Numerosi editori anglosassoni assumono già ora dei sensitivity readers, controllori della sensibilità che decidono se un certo brano in un manoscritto rischia di offendere questa o quella minoranza. Le case editrici pagano quindi dei «rilettori» per non urtare gli eventuali lettori con stereotipi offensivi.127 Il fenomeno sbarca ora in Francia dove gli «sminatori editoriali» rileggono e consigliano gli autori sui termini e le espressioni sconvenienti.

Per una polizia del pensiero

Come non preoccuparci quando vediamo tornare la passione dei divieti, soprattutto alla sinistra della sinistra, quando vediamo rinascere un nuovo Sant’Uffizio in nome degli oppressi? Cosa aspettiamo a piazzare alle spalle di ogni attore o regista un gendarme che vigili sulla conformità dell’opera ai criteri di oggi? L’aderenza morale alle norme della correttezza politica viene anteposta al talento, come ai tempi del realismo socialista imperante in Unione Sovietica. Gli scrittori appartenenti a minoranze andrebbero invece giudicati per i loro meriti, non celebrati per la loro identità. Non è tutto: non è più possibile pubblicare i grandi romanzi così come sono, senza dotarli di avvisi, trigger warnings o avvertenze per quei lettori che potrebbero sentirsi turbati da certi brani o fatti narrati. Non possiamo affidare i classici nelle mani di chiunque, se vogliamo evitare di incendiare gli animi. È un ritorno all’Ottocento borghese nei suoi peggiori aspetti: il temuto procuratore Ernest Pinard che il 29 gennaio 1857 fustigò Madame Bovary di Flaubert per «oltraggio alla morale pubblica e religiosa e ai buoni costumi» e condannò nell’agosto dello stesso anno I fiori del male di Baudelaire per «espressioni oscene e immorali» trova oggi i suoi emuli (e in Francia si è dovuto aspettare il 1949 perché la Corte di cassazione riabilitasse I fiori del male). Così nelle scuole della Virginia si sconsiglia la lettura di due classici, Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain e Il buio oltre la siepe di Harper Lee, a causa del gran numero di ingiurie razziali che contengono. Si tratta di un evidente controsenso, come spiega molto bene la National Coalition Against Censorship (Coalizione nazionale contro la censura): questi due libri consentono infatti agli studenti di acquisire «una comprensione storica dei rapporti razziali negli Stati Uniti». Bisogna saper distinguere fra un libro razzista e un libro in cui alcuni personaggi fanno discorsi razzisti. Ma tutto ciò che riflette la complessità delle cose va cancellato. Bisogna smussare i classici e leggerli con gli occhi del presente, perché solo il presente è giudice supremo dei secoli passati. Il New York Times da parte sua chiede che il libro di Mark Twain sia presentato con un’avvertenza: «Libro che affronta il tema del razzismo in un modo che può provocare fastidio o turbare l’acquisizione del sapere». Quanto al già evocato Grande Gatsby di Fitzgerald (1925), il quotidiano suggerisce: «Libro che spesso mette in scena un’ingiuriosa e spaventosa misoginia». La morale è salva.

Negli Stati Uniti la vita intellettuale nel suo complesso è minacciata di morte per questioni di non conformità: editori, giornalisti, ricercatori e professori vengono licenziati per qualcosa che hanno detto o per le loro preferenze. Uno scrittore cessa di essere pubblicato se contravviene alla linea. Il minimo disaccordo con l’ideologia del giorno viene visto come un insulto alla «giustizia sociale», tanto che alcuni spiriti liberi si preoccupano e denunciano l’emergere di un nuovo maccartismo di sinistra.128 La nuova censura non vuole più impedire, come l’antica, che qualche discorso offensivo raggiunga orecchie innocenti, ma si vuole inclusiva e protettiva, anche a costo di infantilizzare coloro che sogna di accompagnare verso l’età adulta. Non bisogna che i testi e le immagini risveglino negli studenti una sofferenza latente:129 la scuola deve essere prima di tutto uno spazio sicuro. Gli studenti più fragili dovrebbero sedersi vicino alla porta per uscire più facilmente qualora dovessero imbattersi in un testo o in un’illustrazione che presentano qualcosa di problematico. In un paese in cui la violenza, soprattutto quella delle armi, è pressoché quotidiana e in cui le stragi di massa fanno regolarmente parlare di sé, questa forma di babysitteraggio nei confronti dei giovani adulti è stupefacente. La cultura non è più un’apertura esaltante, sorprendente, scomoda verso mondi sconosciuti, è il confinamento del sé all’interno di bastioni di protezione. L’infantilizzazione del mondo è dietro l’angolo. Anziché far crescere gli animi, li si rimpicciolisce.

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Onnipotenza del patriarcato?