domenica 22 maggio 2022

L'OCCIDENTE PRIGIONIERO o la tragedia dell’Europa centrale Milan Kundera


 L'OCCIDENTE PRIGIONIERO

o la tragedia dell’Europa centrale

Premesse di Jacques Rupnik e Pierre

Milan Kundera 

Kundera, nel 1983, accusa l’Occidente di ave­re assistito inerte alla sparizione del suo estremo lem­bo, essenziale crogiolo culturale. Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia, che all’Europa appartengono a tut­ti gli effetti: [....] Perché dovremmo stupircene? In relazione al suo sistema politico, l’Europa centrale è l’Est; in relazione alla sua storia culturale, è l’Occidente. Ma l’Europa sta smarrendo il senso della sua identità culturale, sicché non vede nell’Europa centrale che il suo regime politico; in altre parole: non vede nell’Europa centrale che l’Europa dell’Est. L’Europa centrale deve dunque opporsi alla forza schiacciante del suo grande vicino, e insieme anche alla forza immateriale del tempo, che lascia irrimediabilmente dietro di sé l’Europa della cultura. Per questo le rivolte centroeuropee hanno un che di conservatore, direi quasi di anacronistico: tentano disperatamente di restaurare il passato, il passato della cultura, il passato dei Tempi moderni, perché solo in quel periodo, solo nel mondo che conserva una dimensione culturale, l’Europa centrale può ancora difendere la propria identità, può ancora essere percepita per quello che è. La sua vera tragedia non è dunque la Russia, ma l’Europa. L’Europa, quell’Europa per la quale il direttore dell’agenzia di stampa ungherese era pronto a morire, ed è morto, tanto rappresentava per lui un valore essenziale. Al di là della cortina di ferro non sospettava neppure che i tempi erano cambiati e che in Europa l’Europa non è più sentita come un valore. Non sospettava che la frase inviata per telex oltre i confini del suo paese privo di rilievi aveva un’aria desueta e che non sarebbe mai stata capita.[...]


Nel giugno del 1967, poco dopo la lettera aperta di Solženicyn sulla censura nell’Urss, si tiene in Ceco­slovacchia il IV Congresso dell’Unione degli scritto­ri. Un congresso diverso da tutti i precedenti – me­morabile. Ad aprire i lavori, con un discorso di un’audacia limpida e pacata, è Milan Kundera, allo­ra già autore di successo. Se si guarda al destino della giovane nazione ceca, e più in generale delle «piccole nazioni», appare evidente – dichiara Kundera – che la sopravvivenza di un popolo dipende dalla forza dei suoi valori culturali. Il che esige il rifiuto di qualsiasi interferenza da parte dei «vandali», gli ideologi del regime. La rottura fra scrittori e potere è consumata, e la Primavera di Praga confermerà sino a che punto la rinascita delle arti, della letteratura, del cinema a­vesse accelerato il disfacimento della struttura poli­tica. A questo discorso, che segna un’epoca, si ricol­lega un intervento del 1983, destinato a «rimodella­re la mappa mentale dell’Europa» prima del 1989. Con una veemenza che il nitore argomentativo non riesce a occultare, Kundera accusa l’Occidente di ave­re assistito inerte alla sparizione del suo estremo lem­bo, essenziale crogiolo culturale. Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia, che all’Europa appartengono a tut­ti gli effetti, e che fra il 1956 e il 1970 hanno dato vita a grandiose rivolte, sorrette dal «connubio di cultura e vita, creazione e popolo», non sono infatti agli oc­chi dell’Occidente che una parte del blocco sovieti­co. Una «visione centroeuropea del mondo», quella qui proposta, che oggi appare ancora più preziosa e illuminante

UN OCCIDENTE PRIGIONIERO
 

PREMESSA
DI JACQUES RUPNIK

Ci sono congressi di scrittori più importanti, o comunque più memorabili, dei congressi del Partito. Questi ultimi, nella Cecoslovacchia comunista, si susseguivano tutti uguali, mentre i congressi di scrittori potevano essere imprevedibili e talvolta forieri di radicali cambiamenti nei rapporti fra il potere e la società.

Ci sono poi discorsi congressuali che segnano un’epoca e che, riletti oggi, mantengono intatto tutto il loro significato. Subito pensiamo a quello contro la censura pronunciato a Mosca, nel maggio 1967, da Solženicyn, e alla bella canzone di Guy Béart che ha ispirato: «Il poeta ha detto la verità, deve essere giustiziato»... Meno noti sono i sorprendenti discorsi tenuti a Praga, un mese dopo, al Congresso degli scrittori, a cominciare da quello di Milan Kundera.

All’epoca Milan Kundera è uno scrittore di successo, grazie alla pièce Majitelé klíčů (I proprietari delle chiavi, 1962), ai racconti Amori ridicoli (1963 e 1965) e soprattutto al romanzo Lo scherzo, del 1967 (e dunque coevo al Congresso degli scrittori), che raffigura e chiude un’epoca – e resta associato, per i lettori cechi ma non solo, alla primavera del 1968.1 Docente alla Scuola di cinema (FAMU), Kundera si afferma come una delle figure di spicco di quel possente slancio creativo – di eccezionale originalità e varietà – che attraversa la letteratura (Hrabal, Škvorecký, Vaculík...), il teatro (Havel, Topol) e soprattutto il cinema (Forman, Passer, Menzel, Němec, Chytilová...). Non a torto Kundera considera gli anni Sessanta un’età dell’oro della cultura ceca, che si libera progressivamente dalle costrizioni ideologiche del regime pur senza subire quelle del mercato. Sotto questo profilo la Primavera di Praga del 1968 va al di là della dimensione politica e può essere compresa solo come esito finale di un decennio in cui il settimanale «Literární noviny» si tira in duecentocinquantamila copie, tutte vendute nell’arco di una giornata; un decennio in cui l’emancipazione della cultura accelera il disfacimento della struttura politica.

Rendendosi conto del pericolo, il potere locale tentò allora di riprendere il controllo, e il Congresso degli scrittori del giugno 1967 divenne teatro di un braccio di ferro le cui premesse vanno rintracciate nella Conferenza di Liblice del 1963, dedicata a Kafka, dove si era celebrato il funerale simbolico del realismo socialista. A quarant’anni di distanza, e a partire dal Processo, l’opera dello scrittore, ebreo praghese di lingua tedesca, rientrava infatti agli occhi dei lettori cechi nella sfera di un diverso realismo, decisamente inquietante per chi occupava il castello, il capo del Partito e dello Stato Antonín Novotný.

Il Congresso degli scrittori del 1967 fu segnato da non pochi momenti decisivi. Anzitutto il discorso dello scrittore Pavel Kohout, che, dopo aver attaccato la politica anti-israeliana del blocco sovietico durante la guerra dei Sei giorni, lesse la celebre lettera di Solženicyn all’Unione degli scrittori sovietici. Per Jiří Hendrych, custode dell’ortodossia ideologica nella direzione del Partito, la misura era colma: abbandonò la sala e, passando dietro la tribuna in cui si trovavano Kundera, Procházka e Lustig, proruppe in questa frase memorabile: «Avete perso tutto, assolutamente tutto!». Il giorno seguente toccò a Ludvík Vaculík, autore di Sekyra (La scure) e membro della redazione di «Literární noviny», superare tutti i limiti di ciò che veniva ritenuto tollerabile: esacerbato dalle dichiarazioni di Hendrych, affrontò senza mezzi termini il problema di fondo, la confisca del potere da parte di «un manipolo di persone che vogliono decidere su tutto», senza risparmiare colpi alla censura e persino alla Costituzione. La rottura era ormai consumata.

Ovviamente la storia politica conserverà memoria dell’aperto conflitto fra scrittori e potere; della provvisoria sconfitta dei primi nell’estate del 1967, poi della loro vittoria (non meno provvisoria) nella primavera del 1968. E la storia delle idee conserverà memoria, in particolare, del discorso di apertura di Milan Kundera. Come i suoi colleghi, Kundera non risparmia colpi alla censura, ma affronta il tema della libertà di creazione da un diverso punto di vista. Adottando una prospettiva storica, si interroga sul destino della nazione ceca, la cui esistenza – se si tiene conto delle élite decimate dopo la battaglia della Montagna Bianca e di due secoli di germanizzazione – «era tutt’altro che scontata», per poi tornare alla provocatoria domanda posta alla fine del XIX secolo dallo scrittore Hubert Gordon Schauer: aveva davvero senso adoperarsi tanto per ridare ai cechi una lingua in grado di trasmettere un’alta cultura? Non era preferibile fondersi con la cultura tedesca, allora più sviluppata e prestigiosa? Quasi un secolo dopo Kundera riprende in maniera retorica la domanda e fornisce la sua risposta: aveva senso, sì, ma a patto di offrire un contributo originale alla cultura e ai valori europei; in altre parole, l’universale attraverso il particolare. Un’ambizione, o scommessa, che la vitalità della cultura ceca negli anni Sessanta sembra giustificare. Ma il progresso della cultura, da cui dipende l’esistenza della nazione, ha come condizione la libertà. Agli occhi degli ideologi censori che Kundera definisce i «vandali», l’arringa in favore della libertà intellettuale suona come una sfida. Affrancare la cultura dall’influenza del potere acquisisce, è evidente, una dimensione politica.

Ma la domanda riaffrontata nel 1967 assume anche un significato singolarmente contemporaneo allorché Kundera ne anticipa un’altra dimensione: il destino delle piccole nazioni nel quadro delle «ampie prospettive integrazioniste» che si sono dischiuse nella seconda metà del XX secolo.

«Il processo di integrazione rischia di inglobare tutte le piccole nazioni, sprovviste di qualsiasi difesa che non sia la forza della loro cultura, la peculiarità e l’inimitabile fisionomia del loro apporto».2 Arginare, nei secoli XX e XXI, la «pressione non violenta di questo processo di integrazione» potrebbe rivelarsi più arduo di quanto non lo sia stato un tempo resistere alla germanizzazione.

Il quesito relativo allo specifico ruolo della cultura ceca si prolunga così nella riflessione di Kundera sul destino delle piccole nazioni dell’Europa centrale e anticipa per certi versi i dilemmi che suscita un’Europa in via di globalizzazione. È anche ciò che collega il discorso tenuto da Kundera in occasione del Congresso degli scrittori del 1967 al saggio che uscirà nel 1983 su «Le Débat», dedicato a Un Occidente prigioniero o la tragedia dell’Europa centrale.

LA LETTERATURA
E LE PICCOLE NAZIONI

Discorso al Congresso degli scrittori cecoslovacchi
(1967)

Cari amici, nessuna nazione sul pianeta Terra risale alla notte dei tempi e la nozione stessa di nazione è relativamente moderna, eppure la maggior parte di queste percepisce la propria esistenza come una certezza, un dono di Dio o della Natura presente da sempre. I popoli sono in grado di riconoscere nella loro cultura, nel sistema politico e persino nelle frontiere il frutto di una creazione, e dunque fonte di interrogativi o di problemi, mentre ritengono la propria esistenza in quanto popolo un dato inoppugnabile. La storia assai poco felice e frammentata della nazione ceca, che ha conosciuto l’anticamera della morte, le ha consentito di sfuggire a tale ingannevole illusione. L’esistenza della nazione ceca non è mai stata percepita come una certezza, e proprio in questa non-certezza risiede uno dei suoi principali attributi.

Fenomeno, questo, flagrante soprattutto all’inizio del XIX secolo, allorché un manipolo di intellettuali ha tentato dapprima di resuscitare il ceco, lingua pressoché dimenticata, poi, con la generazione successiva, il popolo ceco ormai semi-estinto. Questa rinascita è stata un atto deliberato e, come ogni atto, fondato su una scelta fra pro e contro. Anche se si sono risolti per il «pro», gli intellettuali provenienti dal movimento per la rifioritura della nazione ceca ben conoscevano gli argomenti che pesavano in direzione opposta. Sapevano – è il caso, per esempio, di Matouš Klácel, che ne ha parlato – che una germanizzazione avrebbe semplificato la vita dei cechi, offrendo ai loro figli maggiori opportunità. Sapevano anche che appartenere a una nazione più grande conferisce maggior peso a ogni lavoro intellettuale e ne amplia la portata, mentre la scienza divulgata in ceco – cito Klácel – «limita il riconoscimento del mio assiduo lavoro». Erano consapevoli dei fastidi che debbono affrontare i piccoli popoli che – come diceva Ján Kollár – «pensano e sentono solo a metà» e il cui livello di istruzione – cito ancora Kollár – «è spesso mediocre ed esiguo; non vivendo, non fanno che sopravvivere, non sbocciano né germogliano, non fanno che vegetare, non fanno crescere alberi ma solo rovi».

Una piena consapevolezza di tali argomenti così come degli argomenti contrari pone l’interrogativo «essere o non essere e perché?» alla base stessa dell’esistenza della nazione ceca in epoca moderna. Esistenza che i protagonisti del risveglio nazionale hanno favorito, lanciando una grande sfida per il futuro. Hanno così messo il popolo di fronte al dovere di giustificare in avvenire la correttezza della loro scelta.

Si capisce dunque come mai, sul filo di questa logica – l’esistenza della nazione ceca come non-certezza –, nel 1886 Hubert Gordon Schauer abbia gettato in faccia alla giovane società ceca che già cominciava a crogiolarsi nella sua piccolezza questa scandalosa domanda: Non avremmo dato di più all’umanità se avessimo unito la nostra energia creativa a quella di una nazione più grande e con una cultura nettamente più sviluppata di quella ceca, ancora in embrione? Tutti gli sforzi che abbiamo dispiegato per resuscitare il nostro popolo avevano un senso? Il valore culturale del nostro popolo è tale da giustificarne l’esistenza? E a questa domanda se ne aggiunge una seconda: Questo valore basterà di per sé, in futuro, a proteggerlo dal rischio di perdere la propria sovranità?

Il provincialismo ceco, che si accontentava di vegetare anziché vivere, ha visto in questo interrogarsi che rimpiazzava false certezze un attacco contro la nazione e ha dunque deciso di escluderne Schauer. Cinque anni più tardi, tuttavia, il giovane critico Salda ha definito Schauer la più insigne personalità del suo tempo e il suo intervento un atto patriottico per eccellenza. Non aveva torto. Schauer si era limitato a esasperare un dilemma di cui erano consapevoli tutti i leader del risveglio nazionale ceco. František Palacký ha scritto: «Se non indirizziamo lo spirito della nazione verso attività più elevate e nobili di quelle esercitate dai nostri vicini, non potremo neppure garantire la nostra esistenza». E Jan Neruda, rincarando la dose: «Dobbiamo elevare la nazione al livello di consapevolezza e istruzione del mondo in modo da garantirne non solo il prestigio, ma anche la sopravvivenza».

I leader della rifioritura ceca hanno legato la sopravvivenza della nazione ai valori culturali che quest’ultima avrebbe dovuto produrre. Volevano giudicarli in funzione non già dell’utilità per la nazione bensì di criteri – come si diceva allora – che si riferivano all’intera umanità. Aspiravano a far parte del mondo e dell’Europa. C’è, in questo contesto, una specificità della letteratura ceca che ha costituito un modello piuttosto raro nel resto del mondo e che mi preme sottolineare: il traduttore in quanto attore letterario di spicco se non principale. Le maggiori personalità letterarie del secolo che precede la battaglia della Montagna Bianca erano del resto traduttori: Řehoř Hrubý z Jelení, Daniel Adam z Veleslavína, Jan Blahoslav. La celebre traduzione di Milton firmata da Josef Jungmann ha gettato le basi del ceco del periodo della rifioritura nazionale; la traduzione letteraria ceca figura ancor oggi fra le migliori al mondo e il traduttore gode della medesima considerazione di qualsiasi altra personalità letteraria. La traduzione letteraria ha svolto una funzione primaria, e la ragione è evidente: si deve alle traduzioni se il ceco si è costituito e perfezionato in quanto lingua europea a pieno titolo, terminologia europea inclusa. Ed è mediante la traduzione letteraria, in definitiva, che i cechi hanno fondato una letteratura europea in lingua ceca e che la letteratura ha formato i lettori europei in grado di leggere il ceco.

Nel caso delle grandi nazioni europee con una storia che si definisce classica, il quadro europeo nel quale si evolvono è scontato. I cechi, che hanno conosciuto in modo alterno periodi di sonno e di veglia, si sono invece lasciati sfuggire molte importanti fasi dello sviluppo di uno spirito europeo e sono stati così costretti ad adeguarsi di volta in volta al quadro culturale, a farlo proprio e a ricostruirlo. Per i cechi nessuna conquista è mai stata incontrovertibile, né la lingua, né l’appartenenza all’Europa, che d’altra parte si riduce alla perenne scelta fra due opzioni: lasciare che il ceco si indebolisca fino a ridursi a un semplice dialetto europeo – e la cultura ceca a semplice folklore –, oppure diventare una nazione europea con tutte le conseguenze che ciò comporta.

Solo questa seconda opzione può garantire una vera esistenza, esistenza, nondimeno, spesso assai ardua per un popolo che, durante tutto il XIX secolo, ha speso pressoché ogni energia nella costruzione dei propri fondamenti, dall’insegnamento secondario alla compilazione di un’enciclopedia. Comunque sia, dall’inizio del XX secolo, e in particolare fra le due guerre, abbiamo assistito a uno slancio culturale a tutt’oggi senza eguali nella storia ceca. Nel corso di due decenni, una pleiade di uomini di genio si è votata alla creazione, e in questo breve lasso di tempo è riuscita per la prima volta dopo Comenius a innalzare la cultura ceca al livello europeo, senza rinunciare alle sue specificità.

Questo decisivo periodo, così breve e intenso che ne proviamo ancora nostalgia, era tuttavia più simile all’adolescenza che all’età adulta: la letteratura ceca, che era solo agli esordi, aveva un carattere essenzialmente lirico, e tutto quel che le serviva per svilupparsi era una lunga e ininterrotta fase di pace. Troncare a quel punto la crescita di una cultura tanto fragile, dapprima con l’occupazione, poi con lo stalinismo per quasi un quarto di secolo, isolarla dal resto del mondo, svilirne le molteplici tradizioni interne, sminuirla al rango di semplice propaganda è stata una tragedia che ha rischiato di respingere di nuovo – e questa volta definitivamente – la nazione ceca alla periferia culturale dell’Europa. Se da qualche anno la cultura ceca ha ripreso fiato, se è ora diventata senza alcun dubbio il principale campo di attività del nostro successo, se molte eccellenti opere hanno visto la luce e talune arti, come il cinema ceco, per esempio, vivono un’età dell’oro, è chiaro che siamo di fronte al fenomeno più significativo della realtà ceca di questi ultimi anni.

Ma la nostra comunità nazionale è consapevole di tutto questo? Si rende conto che potrebbe riprendere le mosse da quella memorabile adolescenza che la letteratura ha conosciuto fra le due guerre, il che rappresenterebbe per lei una straordinaria opportunità? Sa che dal destino della cultura dipende il suo? O abbiamo invece finito per sconfessare l’opinione dei leader della rifioritura ceca secondo la quale, in assenza di valori culturali forti, la sopravvivenza di un popolo in quanto tale è lungi dall’essere assicurata?

Certo, a partire dalla resurrezione nazionale ceca il ruolo che la cultura svolge nella società è cambiato, e oggi non rischiamo più di essere esposti a un’oppressione di natura etnica. Sono tuttavia convinto che la cultura serva più di un tempo a giustificare e preservare l’identità nazionale. Nella seconda metà del XX secolo si sono dischiuse ampie prospettive integrazioniste. Per la prima volta l’umanità ha unito gli sforzi per far nascere una storia comune. Piccole entità si associano per formarne di più grandi. La collaborazione culturale internazionale si intensifica in virtù di questa fusione. Il turismo diventa un fenomeno di massa. Di conseguenza, il peso di molte delle principali lingue mondiali si accresce e, poiché la vita si internazionalizza, quello delle lingue minori si riduce sempre di più. Non molto tempo fa ho parlato con un uomo di teatro, un fiammingo. Lamentava il fatto che la sua lingua fosse minacciata, che l’intelligencija fiamminga si avviasse verso il bilinguismo e alla lingua materna cominciasse a preferire l’inglese, che le facilita i contatti con la scienza internazionale. In situazioni del genere, i piccoli popoli non hanno altro strumento per difendere la propria lingua e la propria sovranità se non il peso culturale della lingua stessa e l’unicità dei valori che ne scaturiscono. Con ogni evidenza, anche la birra di Plzeň è un valore. E tuttavia la si beve ovunque in quanto Pilsner Urquell. No, la birra di Pilsen non può in alcun modo sostenere le rivendicazioni dei cechi che vogliono conservare la propria lingua. In futuro, questo mondo che non cessa di integrarsi ci chiederà senza tanti riguardi e legittimamente di giustificare l’esistenza che abbiamo scelto centocinquant’anni fa e ci interrogherà sul perché di questa scelta.

È cruciale che l’intera società ceca sia pienamente consapevole del ruolo essenziale che svolgono cultura e letteratura. La letteratura ceca – è un’altra delle sue specificità – è assai poco aristocratica; è una letteratura plebea strettamente legata al suo vasto pubblico nazionale. Il che è una forza e una debolezza insieme. La forza risiede in un solido retroterra dove la parola risuona con vigore, la debolezza nell’insufficiente emancipazione, nel livello di istruzione, nell’orizzonte mentale come nelle eventuali manifestazioni di incultura della società ceca da cui dipende così strettamente. Temo a volte che l’istruzione possa oggi smarrire quel carattere europeo che stava tanto a cuore agli umanisti e ai leader della resurrezione nazionale ceca. L’antichità greco-romana e la cristianità, fonti decisive dello spirito europeo giacché da esse scaturisce la tensione di ogni sua conquista, si sono pressoché dileguate dalla coscienza di un giovane intellettuale ceco, e si tratta di una perdita irrimediabile. Sopravvissuto a tutte le rivoluzioni dello spirito, il pensiero europeo dà prova di una robusta continuità: si è infatti dotato di un vocabolario, di una terminologia, di allegorie, di miti come di cause da difendere e, a meno di non padroneggiarli, gli intellettuali europei non possono capirsi fra di loro. Ho letto da poco un rapporto sconfortante sulle conoscenze in materia di letteratura europea che hanno i futuri insegnanti di ceco, e preferisco ignorare quanto padroneggiano la storia mondiale. Il provincialismo è non solo prerogativa del nostro orientamento letterario, ma soprattutto un problema che riguarda la vita dell’intera società, l’istruzione, il giornalismo, ecc.

Ho visto di recente il film Le margheritine, che racconta la storia di due signorine meravigliosamente ignobili, assai fiere della loro meschina ristrettezza di vedute e pronte a distruggere con gioia e allegria tutto ciò che supera i loro orizzonti. Mi è sembrato di scorgervi un’allegoria, di ampia portata e di scottante attualità, del vandalismo. Chi è il vandalo? No, non è affatto il contadino analfabeta che in un accesso di rabbia dà fuoco alla casa del ricco proprietario terriero. I vandali che incontro io sono tutti letterati, soddisfatti di sé, con una discreta posizione sociale e senza particolari risentimenti nei confronti di chicchessia. Il vandalo è la superba ristrettezza di vedute che basta a sé stessa ed è sempre pronta a rivendicare i suoi diritti. Questa superba ristrettezza di vedute crede che il potere di adeguare il mondo alla propria immagine sia un diritto inalienabile, e poiché il mondo è per lo più composto di situazioni che la spiazzano lo adegua alla propria immagine distruggendolo. Così un adolescente decapita in un parco una statua colpevole di superare oltraggiosamente la sua essenza umana e, dal momento che ogni atto di autoaffermazione è appagante per l’uomo, esulta nel farlo. Gli uomini che vivono solo un presente decontestualizzato, che ignorano la continuità della storia e mancano di cultura possono trasformare la patria in un deserto privo di storia, di memoria, di echi e di ogni bellezza. Il vandalismo contemporaneo non si manifesta unicamente in forme condannabili agli occhi della legge. Se un comitato di cittadini oppure di burocrati incaricati di un’indagine stabilisce che una statua (un castello, una chiesa, un tiglio centenario) è inutile e decide di eliminarla, non fa che mettere in atto una diversa forma di vandalismo. Fra una distruzione legale e una illegale non c’è grande differenza, così come fra una distruzione e una proibizione. Di recente un membro del parlamento ha chiesto a nome di ventuno deputati che venissero proibiti due importanti e ardui film cechi, inclusa – ironia della sorte! – l’allegoria del vandalismo rappresentata da Le margheritine. Si è scagliato senza pudore contro i due film e ha subito ammesso, sono le esatte parole, di non averli capiti. L’incoerenza di tale posizione è solo apparente. Il peggior crimine di cui si accusano le due opere cinematografiche è proprio il fatto che superando gli orizzonti di coloro che le giudicavano hanno recato loro offesa.

In una lettera a Helvétius, Voltaire ha scritto questa frase magnifica: «Non sono d’accordo con quanto dite, ma mi batterò sino alla morte perché abbiate il diritto di dirlo». Trova qui una formulazione il principio etico su cui si basa la cultura moderna. Chi regredisce nella storia alla fase anteriore a tale principio abbandona i Lumi per far ritorno al Medioevo. La repressione di qualsiasi opinione, inclusa la brutale repressione di false opinioni, va, in fondo, contro la verità, quella verità che si raggiunge solo attraverso il confronto di idee libere ed eguali. Qualsiasi forma di interferenza nella libertà di pensiero e di espressione – indipendentemente dal metodo e dalla qualifica di tale censura – è nel XX secolo uno scandalo, nonché un pesante fardello per la nostra letteratura in pieno fermento.

È incontestabile: se oggi da noi le arti prosperano, è solo grazie ai progressi della libertà di pensiero. E dall’ampiezza di questa libertà dipende strettamente il destino della letteratura ceca. Non appena si dice libertà c’è chi si irrita, lo so, e comincia a protestare sostenendo che la libertà di una letteratura socialista deve avere dei limiti. Ogni libertà, è evidente, ha dei limiti, determinati dalle condizioni del sapere, dal peso dei pregiudizi, dal livello di istruzione, ecc. Eppure non una sola nuova èra progressista è stata definita dai suoi limiti! Il Rinascimento si è così definito non già per la meschina semplicità del suo razionalismo – risultata manifesta solo a posteriori –, bensì per l’emancipazione razionalista dalle frontiere del passato. Il Romanticismo si è così definito per il superamento dei canoni classicisti e per la nuova materia che ha saputo concepire dopo aver varcato le vecchie frontiere. Analogamente, il termine letteratura socialista non acquisterà un significato positivo finché non avrà portato a termine la medesima emancipazione liberatrice.

E tuttavia, da noi, c’è chi si ostina a considerare una virtù più la difesa delle frontiere che non il loro superamento. Varie congiunture politiche e di ordine sociale ci offrono il destro per giustificare molteplici restrizioni in materia di libertà di pensiero. Ma una politica degna di questo nome sa anteporre gli interessi sostanziali a quelli immediati. E per il popolo ceco la grandezza della sua cultura rappresenta precisamente un interesse sostanziale.

Tanto più che la cultura ceca ha oggi davanti a sé eccellenti prospettive. Nel XIX secolo il popolo ceco ha vissuto ai margini della storia mondiale; nel corso del secolo presente, ci collochiamo al suo centro. Una vita al centro della storia – lo sappiamo bene – non è una scampagnata. Nondimeno, nel magico campo delle arti i tormenti si trasformano in ricchezza creativa. In questo ambito, persino l’amara esperienza dello stalinismo diventa un atout, non meno grande che paradossale. Non approvo che il fascismo e il comunismo vengano messi sullo stesso piano. Il fascismo fondato su un antiumanesimo disinibito ha creato una situazione relativamente semplice sotto il profilo morale: dopo essersi proposto come l’antitesi dei princìpi e delle virtù umanisti, li ha lasciati intatti. Di contro, lo stalinismo è stato l’erede di un grande movimento umanista che, nonostante la furia stalinista, ha saputo conservare non poche posizioni, idee, slogan, parole e sogni originari. Vedere questo movimento umanista rovesciarsi nel suo opposto, trascinando con sé la virtù umana e trasformando l’amore per l’umanità in crudeltà nei confronti degli uomini, l’amore per la verità in delazione, ecc., non può che generare un’imprevista concezione del fondamento stesso dei valori e delle virtù umani. Che cosa è la storia, quale posto occupa l’uomo nella storia e che cosa è, semplicemente, l’uomo? Domande alle quali è impossibile rispondere dopo questa esperienza come si sarebbe fatto prima. Nessuno ne è uscito identico a com’era. Naturalmente non è in discussione solo lo stalinismo. Le peregrinazioni di questo popolo, dalla democrazia al giogo fascista allo stalinismo e al socialismo (la storia inasprita da un contesto etnico assai complicato), rispecchiano tutti i principali elementi della storia del XX secolo. Il che ci permette forse, rispetto a coloro che non hanno sperimentato il medesimo periplo, di porre domande più pertinenti e di creare miti più densi di significato.

Nel corso di questo secolo il nostro popolo ha certo affrontato molte più prove di altri, e se il suo genio è rimasto vigile ha forse acquisito una maggiore consapevolezza. Questa accresciuta esperienza potrebbe trasformarsi in emancipazione liberatrice dalle vecchie frontiere, in superamento dei limiti attuali delle conoscenze dell’uomo e del suo destino – e conferire alla cultura ceca senso, grandezza e maturità. Non si tratta per ora che di una semplice opportunità, di potenzialità, ma non poche delle opere di questi ultimi anni depongono a favore di una sorte che si profila propizia.

Devo tuttavia chiedermi una volta di più: La nostra comunità nazionale ha coscienza di questa opportunità? Sa che dipende da lei? Sa che una simile opportunità non si presenta due volte nella storia? Sa che non coglierla significherebbe per il popolo sprecare il XX secolo?

«È convinzione diffusa» ha scritto Palacký «che gli scrittori cechi permisero alla nostra nazione di non soccombere, che la ridestarono e fissarono per i loro sforzi nobili obiettivi». La sopravvivenza del nostro popolo è responsabilità che ricade soprattutto sugli scrittori cechi, e ancor oggi, giacché dalla qualità della letteratura ceca, dalla sua grandezza o angustia, dal suo coraggio o dalla sua viltà, dal suo provincialismo o dalla sua portata universale tale sopravvivenza dipende in larga misura.

Ma vale la pena che sopravviva? Vale la pena che anche la nostra lingua sopravviva? Domande essenziali, da sempre alla base dell’esistenza moderna di questa nazione e che tuttora attendono risposte definitive. Chiunque, per bigotteria, vandalismo o ristrettezza di vedute, ostacolasse l’attuale prestigio culturale ostacolerebbe l’esistenza stessa di questo popolo.

PREMESSA
DI PIERRE NORA

Uscito su «Le Débat», XXVII, nel novembre del 1983, questo articolo, subito tradotto nella maggior parte delle lingue europee, ha avuto un impatto inversamente proporzionale alla sua brevità: nell’Europa dell’Est, soprattutto in Germania e Russia, ha infatti scatenato un’ondata di reazioni, discussioni, polemiche. E a Ovest ha contribuito, per riprendere le parole di Jacques Rupnik, «a rimodellare la mappa mentale dell’Europa» prima del 1989. Che cosa avevano dunque, quelle pagine, di tanto esplosivo?

Nel periodo in cui l’Occidente vedeva nell’Europa centrale solo una parte del blocco orientale, Kundera gli ricordava con veemenza che sotto il profilo culturale essa apparteneva interamente all’Occidente, e che, nel caso delle «piccole nazioni» dalla malcerta esistenza storica e politica (Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia), la cultura era stata e rimaneva il santuario della loro identità.

Kundera, la cui formazione era stata profondamente segnata dalla rinascita delle arti, della letteratura, del cinema nella Cecoslovacchia degli anni Sessanta, vedeva in quella vitalità della cultura i prodromi della Primavera di Praga. Una cultura che non era prerogativa delle élite, ma il valore vivente intorno al quale si stringeva il popolo. Ed estendeva la sua riflessione all’eredità culturale dell’Europa centrale nel suo complesso, con la «maestosa» rivolta ungherese del 1956 e le rivolte polacche del 1956, 1968, 1970. L’Europa centrale, «il massimo di diversità nel minimo spazio».

Al dramma dell’Europa centrale si aggiunge quello dell’Occidente, che non vuole vedere e neppure si è accorto della sua scomparsa; che non coglie la portata dell’evento perché non sa più pensarsi in una dimensione culturale. Nel Medioevo l’unità europea si fondava sulla cristianità, e nei Tempi moderni sui Lumi. Ma oggi? La rimpiazza una cultura dello svago, legata ai mercati e alle tecnologie dell’informazione. Che senso può avere, allora, il progetto europeo?

Il valore del testo scaturisce non solo dalla sua forza dimostrativa, ma dalla voce così personale e angosciata di Kundera, che si impone in quel periodo come uno dei più grandi scrittori europei.

Un Occidente prigioniero ha svolto un ruolo decisivo nella formazione di intellettuali francesi come Alain Finkielkraut: basti pensare alla sua difesa delle «piccole nazioni» in occasione della guerra in Jugoslavia, a La sconfitta del pensiero, il libro uscito nel 1987, e alla rivista «Le Messager européen», fondata quello stesso anno. In maniera più occulta ha preparato le menti all’ampliamento dell’Europa ai paesi dell’Est. E non si può escludere che il suo ampio influsso continui ad agire sulla determinazione dei paesi dell’Europa centrale a restare fedeli alla loro eredità storica e identità culturale.

UN OCCIDENTE PRIGIONIERO
O LA TRAGEDIA DELL’EUROPA CENTRALE
(1983)

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Nel settembre del 1956, il direttore dell’agenzia di stampa ungherese, pochi minuti prima che il suo ufficio venisse distrutto dall’artiglieria, trasmise al mondo intero per telex un disperato messaggio sull’offensiva che quel mattino i russi avevano scatenato contro Budapest. Il dispaccio finisce con queste parole: «Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa».

Che cosa intendeva dire? Di certo che i carri russi mettevano in pericolo l’Ungheria e, insieme, l’Europa. Ma in che senso anche l’Europa era in pericolo? I carri russi erano forse pronti a varcare le frontiere ungheresi e a dirigersi a Ovest? No. Il direttore dell’agenzia di stampa ungherese intendeva dire che in Ungheria era l’Europa a essere presa di mira. Perché l’Ungheria restasse Ungheria e restasse Europa, era pronto a morire.

La frase ha un senso evidente, eppure continua a incuriosirci. Qui, in Francia, in America, siamo infatti abituati a pensare che fosse allora in gioco un regime politico, non l’Ungheria o l’Europa. Non ci sfiora neppure l’idea che a essere minacciata fosse l’Ungheria in quanto tale né, tanto meno, comprendiamo come mai un ungherese che rischia di morire chiami in causa l’Europa. Solženicyn, nel denunciare l’oppressione comunista, non fa certo appello all’Europa come a un valore fondamentale per il quale valga la pena morire... No, la frase «morire per la patria e per l’Europa» non potrebbe essere concepita né a Mosca né a Leningrado, ma appunto a Budapest o Varsavia.

2

Che cosa rappresenta in realtà l’Europa per un ungherese, un ceco, un polacco? Sin dalle origini, queste nazioni appartenevano alla parte d’Europa radicata nella cristianità romana. Partecipavano a tutte le fasi della sua storia. Per loro la parola «Europa» non è un fenomeno geografico, ma una nozione spirituale, sinonimo di «Occidente». Nel momento in cui l’Ungheria non è più Europa, vale a dire Occidente, viene proiettata al di là del suo destino, della sua storia; smarrisce l’essenza stessa della sua identità.

L’Europa geografica (quella che va dall’Atlantico agli Urali) è sempre stata divisa in due metà che si evolvevano separatamente: l’una legata all’antica Roma e alla Chiesa cattolica (segno particolare: l’alfabeto latino), l’altra connessa a Bisanzio e alla Chiesa ortodossa (segno particolare: l’alfabeto cirillico). Dopo il 1945, il confine tra queste due Europe si spostò a Ovest di qualche centinaio di chilometri, e nazioni che si erano sempre considerate occidentali si risvegliarono un bel giorno constatando che si trovavano a Est.

Nel dopoguerra si sono quindi delineate in Europa tre situazioni fondamentali: quella dell’Europa occidentale, quella dell’Europa orientale e quella, la più complessa, della parte d’Europa situata geograficamente al centro, culturalmente a Ovest e politicamente a Est.

La contraddittoria situazione dell’Europa che chiamo centrale ci fa comprendere come mai, da trentacinque anni, il dramma dell’Europa si concentri proprio lì: la maestosa rivolta ungherese del 1956 con il sanguinoso massacro che ne è derivato; la Primavera di Praga e l’occupazione della Cecoslovacchia nel 1968; le rivolte in Polonia del 1956, 1968, 1970 e quella degli ultimi anni. Nulla di ciò che accade nell’Europa geografica, a Ovest come a Est, può essere paragonato, per il suo drammatico contenuto e la sua portata storica, a questa catena di rivolte centroeuropee.1 Ciascuna di queste rivolte era sostenuta pressoché dall’intero popolo. Se la Russia non li avesse spalleggiati, quei regimi non avrebbero potuto resistere più di tre ore. Ad ogni modo, ciò che accadeva a Praga o a Varsavia deve essere considerato nella sua essenza come il dramma non già dell’Europa dell’Est, del blocco sovietico, del comunismo, ma piuttosto dell’Europa centrale.

Rivolte del genere, sostenute dalla totalità della popolazione, sono infatti impensabili in Russia. Ma sono impensabili anche in Bulgaria, paese che, come tutti sanno, rappresenta la parte più stabile del blocco comunista. Perché? Perché sin dalle origini la Bulgaria, in virtù della religione ortodossa, i cui primi missionari erano non a caso bulgari, fa parte della civiltà dell’Est. Per i bulgari, dunque, le conseguenze dell’ultima guerra segnano sì un cambiamento politico, considerevole e increscioso (lì i diritti dell’uomo non sono meno scherniti che a Budapest), ma non lo scontro di civiltà che rappresentano per i cechi, per i polacchi, per gli ungheresi.

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L’identità di un popolo o di una civiltà si riflette e si riassume nell’insieme delle creazioni spirituali che solitamente definiamo «cultura». Allorché tale identità è mortalmente minacciata, la vita culturale si intensifica, si acuisce, e la cultura diventa il valore vivo intorno al quale tutto il popolo si stringe. È per questo che, in tutte le rivolte centroeuropee, tanto la memoria culturale quanto la produzione contemporanea hanno svolto un ruolo così ampio e decisivo, come mai era accaduto prima in nessun’altra rivolta popolare europea.2

Furono degli scrittori, radunati in un circolo che portava il nome del poeta romantico Petoőfi, a dare avvio in Ungheria a una vasta riflessione critica e a preparare così l’esplosione del 1956. Furono il teatro, il cinema, la letteratura, la filosofia a lavorare per anni all’emancipazione libertaria della Primavera di Praga. Fu la messa al bando di uno spettacolo di Mickiewicz, il più grande poeta romantico polacco, a dare avvio alla famosa rivolta degli studenti polacchi nel 1968. Il felice connubio di cultura e vita, creazione e popolo impresse nelle rivolte centroeuropee il sigillo di un’inimitabile bellezza: e noi, che le abbiamo vissute, ne resteremo per sempre ammaliati.

Ciò che a me appare bello, nel senso più profondo del termine, appare invece sospetto a un intellettuale tedesco o francese. Ha l’impressione che queste rivolte, se l’influsso della cultura è troppo schiacciante, non possano essere autentiche e davvero popolari. È strano, ma per alcuni cultura e popolo sono nozioni incompatibili. L’idea di cultura si confonde ai loro occhi con l’immagine di un’élite di privilegiati. Per questo hanno accolto il movimento di Solidarność con più simpatia delle rivolte precedenti. Ma, checché se ne dica, il movimento di Solidarność non si distingue nella sua essenza da queste, ne è semmai l’apice: la più compiuta unione (la più compiutamente organizzata) del popolo e della tradizione culturale perseguitata, negletta o schernita, del paese.

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Mi si potrà obiettare: se pure i paesi centroeuropei difendono la loro identità minacciata, non per questo la loro situazione è così specifica. La Russia si trova in una situazione simile. Sta smarrendo anch’essa la sua identità. È infatti il comunismo, non la Russia, a privare le nazioni della loro essenza, e il popolo russo è stato del resto il primo a farne le spese. Certo, la lingua russa soffoca quelle delle altre nazioni dell’impero; ma non si può dire che i russi intendano russificare gli altri: è semmai la burocrazia sovietica, profondamente anazionale, contronazionale, sovranazionale, ad aver bisogno di uno strumento tecnico per unificare lo Stato.

Capisco questa logica, e capisco anche la vulnerabilità dei russi che soffrono all’idea che l’odiato comunismo possa essere confuso con l’amata patria.

Ma bisogna capire anche un polacco: tranne un breve periodo fra le due guerre, la sua patria è da due secoli asservita alla Russia e ha subìto in questo arco di tempo una russificazione non meno paziente che implacabile.

Ai confini orientali di quell’Occidente che è l’Europa centrale, siamo sempre stati più sensibili al pericolo della potenza russa. E non solo i polacchi. Nel 1848 il grande storico František Palacký, la figura più rappresentativa della politica ceca del XIX secolo, indirizzò al parlamento rivoluzionario di Francoforte la famosa lettera con la quale giustificava l’esistenza dell’Impero absburgico, unico possibile baluardo contro la Russia, «una potenza che, avendo oggi una sconfinata ampiezza, accresce la sua forza più di qualsiasi altro paese occidentale». Palacký mette in guardia contro le ambizioni imperiali della Russia, che cerca di diventare «monarchia universale», che aspira cioè al dominio del mondo. La «monarchia universale della Russia» dice Palacký «sarebbe una sventura immensa e indicibile, una sciagura smisurata e senza limiti».

Secondo Palacký, l’Europa centrale avrebbe dovuto costituire un nucleo di nazioni uguali che, nel reciproco rispetto e sotto l’egida di uno Stato comune e forte, avrebbero coltivato le loro diverse specificità. Benché non si sia mai pienamente realizzato, questo sogno, condiviso da tutti i grandi intelletti centroeuropei, ha comunque conservato il suo vigore e la sua forza di attrazione. L’Europa centrale voleva essere l’immagine condensata dell’Europa e della sua multiforme ricchezza, una piccola Europa ultraeuropea, modello in miniatura dell’Europa delle nazioni concepita sulla base di questa regola: il massimo di diversità nel minimo spazio. Come avrebbe potuto non inorridire di fronte alla Russia, che si fondava sulla regola opposta: il minimo di diversità nel massimo spazio?

All’Europa centrale e alla sua passione per la diversità, infatti, nulla poteva risultare più estraneo della Russia, uniforme, uniformante, centralizzatrice, tesa a trasformare con temibile determinazione tutte le nazioni del suo impero (ucraini, bielorussi, armeni, lettoni, lituani, ecc.) in un unico popolo russo (o, come si preferisce dire oggi, in virtù della generalizzata mistificazione del lessico, in un unico popolo sovietico).

Ma il comunismo è la negazione della storia russa o piuttosto il suo coronamento? Senza dubbio è insieme la sua negazione (negazione della sua religiosità, per esempio) e il suo coronamento (coronamento delle sue tendenze centralizzatrici e dei suoi sogni imperiali).

Visto dall’interno della Russia, il primo aspetto, quello della discontinuità, è più sorprendente. Dal punto di vista dei paesi assoggettati, il secondo aspetto, quello della continuità, è il più intensamente sentito.3

5

Sto forse contrapponendo la Russia alla civiltà occidentale in modo troppo assoluto? Benché divisa in una parte occidentale e in una orientale, l’Europa non è forse tutto sommato un’unica entità, radicata nell’antica Grecia e nel pensiero detto giudaico-cristiano? Naturalmente. Remote e antiche radici ci uniscono alla Russia. Lungo tutto il XIX secolo, del resto, la Russia si è avvicinata all’Europa. La fascinazione era reciproca. Rilke proclamò la Russia sua patria spirituale e nessuno sfuggì alla forza del grande romanzo russo, che resta inseparabile dalla comune cultura europea.

Sì, tutto questo è vero e l’alleanza culturale delle due Europe rimarrà un grande ricordo.4 Ma è altrettanto vero che il comunismo rinfocolò vigorosamente le vecchie ossessioni antioccidentali della Russia, strappandola brutalmente alla storia occidentale.

Voglio tornare a sottolinearlo: è ai confini orientali dell’Occidente che percepiamo, meglio che altrove, la Russia come un Antioccidente; lì appare infatti non solo come una potenza europea fra altre, ma come una specifica civiltà, una civiltà altra.

Ne parla Czesław Miłosz nel suo libro La mia Europa: nei secoli XVI e XVII, i moscoviti apparivano ai polacchi come «barbari contro i quali si guerreggiava lungo lontane frontiere. Non ci si interessava di loro in modo particolare... Da quel periodo in cui a Est non c’era che il vuoto deriva ai polacchi la concezione di una Russia situata “all’esterno”, fuori dal mondo».5

Appaiono come «barbari» coloro che rappresentano un altro universo. I russi lo sono per i polacchi, sempre. Kazimierz Brandys racconta questa bella storia: uno scrittore polacco incontra Anna Achmatova, la grande poetessa russa. Il polacco si lagnava della situazione: tutte le sue opere erano proibite. Lei lo interruppe: «È stato imprigionato?». Il polacco rispose di no. «È stato almeno espulso dall’Unione degli scrittori?». «No». «E allora di che si lagna?». Achmatova era sinceramente incuriosita.

E Brandys commenta: «Ecco il conforto che ci offrono i russi. Nulla sembra loro abbastanza orribile se paragonato al destino della Russia. Ma è un conforto privo di senso. Il destino russo non tocca la nostra coscienza; ci è estraneo; non ne siamo responsabili. Grava su di noi, ma non è la nostra eredità. Né era diverso il mio rapporto con la letteratura russa. Mi ha atterrito. Ancor oggi inorridisco di fronte a certi racconti di Gogol’, così come di fronte a quel che scrive Saltykov-Ščedrin. Preferirei non conoscere il loro mondo, non sapere che esiste».6

Queste parole non implicano, ovviamente, il rifiuto dell’arte di Gogol’, ma esprimono piuttosto l’orrore che suscita il mondo evocato dalla sua arte: un mondo che ci strega e ci attira quando è lontano, e rivela tutta la sua terribile estraneità non appena ci serra da vicino; ha una diversa dimensione (più vasta) della sofferenza, una diversa immagine dello spazio (spazio così immenso che intere nazioni vi si perdono), un diverso ritmo temporale (lento e paziente), un diverso modo di ridere, di vivere, di morire.7

Per questo l’Europa che chiamo centrale avverte che il mutamento del suo destino dopo il 1945 non solo è una catastrofe politica: è come se venisse messa in discussione la sua stessa civiltà. Il senso profondo della loro resistenza è la difesa di un’identità; o, in altre parole, la difesa della loro occidentalità.

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Nessuno si fa più illusioni sui regimi dei paesi satelliti. Ma dimentichiamo l’essenza della loro tragedia: sono scomparsi dalla carta dell’Occidente.

Come si spiega che questo aspetto del dramma non sia stato quasi percepito?

Per farlo occorre chiamare in causa anzitutto la stessa Europa centrale.

I polacchi, i cechi, gli ungheresi avevano avuto una storia movimentata, frammentata, e una tradizione statale meno forte e meno continua di quella dei grandi popoli europei. Bloccate da un lato dai tedeschi, dall’altro dai russi, queste nazioni hanno esaurito tutte le loro forze lottando per la sopravvivenza e per la loro lingua. Incapaci di imporsi alla coscienza europea, sono rimaste la parte meno nota e più fragile dell’Occidente, e per di più nascoste dietro la cortina di lingue bizzarre e poco accessibili.

L’Impero austriaco aveva la grande opportunità di creare nell’Europa centrale uno Stato forte. Ma gli austriaci, ahimè, erano divisi fra l’arrogante nazionalismo della grande Germania e la loro missione centroeuropea. Non riuscirono a costruire uno Stato federale di nazioni uguali, e il loro fallimento fu una sciagura per l’intera Europa. Insoddisfatte, le altre nazioni centroeuropee nel 1918 fecero esplodere l’Impero, senza rendersi conto che, malgrado i suoi limiti, era insostituibile. Così, dopo la prima guerra mondiale, l’Europa centrale si trasformò in una zona di piccoli Stati vulnerabili, che con la loro fragilità propiziarono le prime conquiste di Hitler e il trionfo finale di Stalin. E non è escluso che nell’inconscio collettivo europeo questi paesi rappresentino ancora dei pericolosi fautori di disordine.

Penso anche che la colpa dell’Europa centrale risieda in quella che definirei l’«ideologia slava». Uso il termine «ideologia» perché si tratta solo di una mistificazione politica inventata nel XIX secolo. Ai cechi (benché le personalità più rappresentative del paese li avessero severamente ammoniti) piaceva brandirla quando si difendevano ingenuamente dall’aggressività tedesca; quanto ai russi, se ne servirono volentieri per giustificare le loro mire imperiali. «Ai russi piace definire slavo tutto ciò che è russo, in modo da poter poi definire russo tutto ciò che è slavo» dichiarava già nel 1844 il grande scrittore ceco Karel Havlíček,8 che metteva in guardia i suoi compatrioti contro la loro russofilia idiota e sprovvista di realismo. Nel corso della loro storia millenaria, infatti, i cechi non ebbero mai alcun contatto diretto con la Russia. A dispetto della parentela linguistica, non partecipavano di un mondo comune, né di una storia comune, né di una cultura comune, mentre i rapporti fra polacchi e russi non erano che una lotta senza fine.

Circa sessant’anni fa, Józef Konrad Korzeniowski, noto come Joseph Conrad, irritato dall’etichetta di «anima slava» che troppi si compiacevano di applicare a lui e ai suoi libri solo perché era di origini polacche, scrisse: «Non vi è nulla di più estraneo al temperamento polacco, animato da un cavalleresco sentimento degli obblighi morali e da un estremo rispetto dei diritti individuali, di ciò che nel mondo letterario si definisce “spirito slavo”». (Come lo capisco! Anche per me non c’è niente di più ridicolo di questo culto delle profondità oscure, di questo sentimentalismo non meno vuoto che fragoroso che si definisce «anima slava» e che ogni tanto mi viene affibbiato!).9

Sta di fatto che l’idea del mondo slavo divenne il luogo comune della storiografia mondiale.10 Unificando questo supposto «mondo» (inclusi i poveri ungheresi e romeni, la cui lingua, come si sa, non è affatto slava; ma a chi potrebbe interessare un simile dettaglio?), la suddivisione dell’Europa dopo il 1945 poté così apparire una soluzione quasi naturale.

7

È dunque colpa dell’Europa centrale se l’Occidente non si è neppure accorto della sua scomparsa?

Non del tutto. Agli esordi del nostro secolo, l’Europa centrale divenne, a dispetto della sua fragilità politica, un grande centro culturale, forse il più grande. L’importanza di Vienna è oggi pienamente riconosciuta, certo, ma non mi stancherò di ribadire che l’originalità della capitale austriaca è impensabile senza il contesto degli altri paesi e città, che del resto con la loro creatività prendevano parte attiva all’insieme della cultura centroeuropea. Se la scuola di Schönberg fondò il sistema dodecafonico, l’ungherese Béla Bartók – a mio avviso uno dei due o tre più grandi musicisti del XX secolo – seppe individuare l’ultima, originale possibilità della musica basata sul principio tonale. Grazie all’opera di Kafka e di Hašek, Praga diede vita a un grande corrispettivo romanzesco dei viennesi Musil e Broch. Il dinamismo culturale dei paesi non germanofoni si è ulteriormente accresciuto dopo il 1918, allorché Praga offrì al mondo l’iniziativa del Circolo linguistico di Praga e del pensiero strutturalista.11 La grande trinità Gombrowicz, Schulz, Witkiewicz prefigurò in Polonia il modernismo europeo degli anni Cinquanta, e in particolare il teatro detto dell’assurdo.

È legittimo chiedersi: tutta questa grande esplosione creativa era solo una coincidenza geografica? O affondava le sue radici in una lunga tradizione, in un passato? In altre parole: si può parlare dell’Europa centrale come di una vera e propria aggregazione culturale dotata di una sua storia? E se questa aggregazione esiste, è possibile definirla geograficamente? Quali sono i suoi confini?

Sarebbe vano pretendere di definirli con precisione: l’Europa centrale non è uno Stato, ma una cultura o un destino. I suoi confini sono immaginari e a ogni nuova situazione storica debbono essere tracciati daccapo.

Alla metà del XIV secolo, per esempio, l’Università Carolina radunò a Praga intellettuali (professori e studenti) cechi, austriaci, bavaresi, sassoni, polacchi, lituani, ungheresi e romeni: era già, in nuce, l’idea di una comunità multinazionale in cui ciascuno ha diritto alla propria lingua, e non a caso le prime traduzioni della Bibbia in ungherese e romeno sono nate proprio grazie all’influsso indiretto di questa Università (il suo rettore era il riformatore Jan Hus).

Seguirono poi le altre situazioni: la rivoluzione hussita; il prestigio internazionale del Rinascimento ungherese all’epoca di Mattia Corvino; la formazione dell’impero absburgico come unione personale di tre Stati indipendenti: la Boemia, l’Ungheria e l’Austria; le guerre contro i turchi; la Controriforma nel XVI secolo. In questo periodo la specificità culturale centroeuropea torna a manifestarsi e risplendere grazie alla straordinaria fioritura dell’arte barocca, che unifica questa vasta regione, da Salisburgo sino a Vilnius. Sulla carta europea, l’Europa centrale barocca (caratterizzata dal predominio dell’irrazionalità e dal ruolo dominante delle arti plastiche e soprattutto della musica) divenne allora il polo opposto della Francia classica (caratterizzata dal predominio della razionalità e dal ruolo dominante della letteratura e della filosofia). Vanno individuate in quest’epoca barocca le radici dello straordinario slancio della musica centroeuropea che, da Haydn a Schönberg, da Liszt a Bartók, sussume l’evoluzione di tutta la musica europea.

Nel XIX secolo, le lotte nazionali (di polacchi, ungheresi, cechi, croati, sloveni, romeni, ebrei) hanno opposto le une alle altre nazioni che, pur se assai poco solidali, isolate e chiuse ciascuna in sé stessa, partecipavano comunque della medesima, grande esperienza esistenziale: quella di una nazione che sceglie fra esistenza e non-esistenza; in altre parole, fra autentica vita nazionale e assimilazione a una nazione più grande.

Persino gli austriaci, la nazione dominante dell’Impero, non sono sfuggiti alla necessità di questa scelta; hanno dovuto scegliere fra l’identità austriaca e la fusione con la più vasta entità tedesca. Neppure gli ebrei hanno potuto evitare il problema. Rifiutando l’assimilazione, il sionismo, nato anch’esso, del resto, nell’Europa centrale, ha scelto in fondo la via di tutte le nazioni centroeuropee.

Il XX secolo ha conosciuto altre situazioni: il crollo dell’Impero, l’annessione russa e il lungo periodo delle rivolte centroeuropee, che altro non sono se non un’immensa scommessa sulla soluzione ignota.

Non sono dunque i confini politici (inautentici, sempre imposti da invasioni, conquiste e occupazioni) a delineare e determinare l’aggregazione centroeuropea, ma le grandi situazioni comuni che riuniscono i popoli, e li raggruppano in maniera sempre diversa, entro confini immaginari e sempre mutevoli, dove permangono la medesima memoria, la medesima esperienza, le medesime tradizioni comuni.

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I genitori di Sigmund Freud venivano dalla Polonia, ma è in Moravia, il paese in cui sono nato, che il piccolo Sigmund ha passato la sua infanzia, non diversamente da Edmund Husserl e Gustav Mahler; radici in Polonia aveva anche il romanziere viennese Joseph Roth; il grande poeta ceco Julius Zeyer nacque a Praga da una famiglia germanofona e il ceco era la sua lingua di elezione. In compenso la lingua materna di Hermann Kafka era il ceco, mentre suo figlio Franz adottò integralmente la lingua tedesca. Lo scrittore Tibor Déry, figura chiave della rivolta ungherese del 1956, proveniva da una famiglia germanico-ungarica, e il mio amato Danilo Kiš, eccellente romanziere, è ungarico-jugoslavo. Quale intreccio di destini nazionali celano le figure più rappresentative!

E tutti quelli che ho appena menzionato sono ebrei. In nessun’altra parte del mondo, infatti, il genio ebraico ha lasciato un’impronta tanto marcata. Ovunque estranei e ovunque a casa propria, cresciuti al di sopra delle liti nazionali, nel XX secolo gli ebrei erano il principale elemento cosmopolita e integratore dell’Europa centrale, il suo cemento intellettuale, il compendio del suo spirito, i fautori della sua unità spirituale. Per questo nutro affetto nei loro confronti e tengo alla loro eredità, con passione e nostalgia, come se fosse la mia propria.

La nazione ebraica mi è cara anche per un’altra ragione; nel suo destino sembra condensarsi, riverberarsi, trovare un’immagine simbolica quello centroeuropeo. Che cos’è l’Europa centrale? L’incerta zona di piccole nazioni strette fra Germania e Russia. Insisto su questi termini: piccola nazione. Che altro sono gli ebrei, del resto, se non una piccola nazione, la piccola nazione per eccellenza? L’unica di tutte le piccole nazioni di ogni epoca che sia sopravvissuta agli imperi e alla marcia devastatrice della Storia.

Ma che cos’è una piccola nazione? Vi propongo la mia definizione: è una piccola nazione quella che in qualsiasi momento può vedere messa in questione la propria esistenza, che può sparire, e ne è consapevole. Un francese, un russo, un inglese non hanno l’abitudine di interrogarsi sulla sopravvivenza della loro nazione. I loro inni parlano solo di grandezza e di eternità. Ebbene, l’inno polacco inizia col verso «La Polonia non è ancora morta...».

L’Europa centrale in quanto nucleo di piccole nazioni ha una specifica visione del mondo, basata sulla diffidenza nei confronti della Storia. Dea di Hegel e di Marx, incarnazione della Ragione che ci giudica e decide di noi, la Storia è quella dei vincitori. E i popoli centroeuropei non sono certo dei vincitori. Sono inseparabili dalla Storia europea, senza di lei non potrebbero esistere, ma di questa Storia sono solo il rovescio, le vittime e gli outsider. Risiede in questa disillusa esperienza storica la scaturigine della loro originalità culturale, della loro saggezza, di quello «spirito di non serietà» che si fa beffe della grandezza e della gloria. «Non scordiamo che solo opponendoci alla Storia in quanto tale possiamo opporci a quella di oggi». Vorrei incidere questa frase di Witold Gombrowicz sulla porta d’ingresso dell’Europa centrale.12

Ecco perché in questa regione di piccole nazioni che «non sono ancora morte» la vulnerabilità dell’Europa, di tutta l’Europa, si manifestò con più chiarezza e prima che altrove. Nel mondo moderno, dove il potere tende a concentrarsi sempre di più nelle mani di pochi grandi, tutte le nazioni europee rischiano infatti di diventare ben presto piccole nazioni e di subirne la sorte. In questo senso, il destino dell’Europa centrale appare come un’anticipazione del destino europeo in generale, e la sua cultura acquista di colpo un’estrema attualità.

Basta leggere i più grandi romanzi centroeuropei:13 nei Sonnambuli di Broch la Storia appare come un processo di degradazione dei valori; L’uomo senza qualità di Musil tratteggia una società euforica, ignara del fatto che sparirà all’indomani; nel Bravo soldato Švejk di Hašek la simulazione dell’idiozia è l’ultima possibilità di salvaguardare la propria libertà; le visioni romanzesche di Kafka ci parlano del mondo senza memoria, del mondo dopo il tempo storico. Tutta la grande produzione centroeuropea del nostro secolo, sino a oggi, potrebbe essere interpretata come una lunga meditazione sulla possibile fine dell’umanità europea.

9

Oggi l’Europa centrale è asservita alla Russia, a eccezione della piccola Austria che, più per fortuna che per necessità, ha conservato la sua indipendenza ma che, strappata al contesto centroeuropeo, va perdendo gran parte della sua specificità e tutta la sua importanza. La scomparsa del crogiolo letterario centroeuropeo fu senz’altro, per tutta la civiltà occidentale, uno degli eventi decisivi del secolo. Ripeto dunque la mia domanda: com’è possibile che sia rimasto inavvertito e oscuro?

La mia risposta è semplice: l’Europa non ha notato la scomparsa di questo grande crogiolo culturale perché non sente più la propria unità come unità culturale.

Su che cosa si fonda, infatti, l’unità dell’Europa?

Nel Medioevo si fondò sulla comune religione.

Nei Tempi moderni, quando il Dio medioevale si trasformò in Deus absconditus, la religione cedette il posto alla cultura, che divenne la realizzazione dei valori supremi attraverso i quali l’Europa si concepiva, si definiva, trovava un’identità.

Mi sembra che nel nostro secolo si delinei un altro mutamento, non meno importante di quello che separa l’età medioevale dai Tempi moderni. Così come Dio cedette un tempo il posto alla cultura, tocca oggi alla cultura cedere il suo.

Ma a che cosa e a chi? In quale ambito si realizzeranno valori supremi capaci di unire l’Europa? Le conquiste della tecnica? Il mercato? I media? (Il grande poeta sarà sostituito dal grande giornalista?). O la politica? Ma quale? Quella di destra o quella di sinistra? Esiste ancora, al di sopra di questo manicheismo tanto idiota quanto invalicabile, un ideale comune percepibile? È forse il principio della tolleranza, il rispetto del credo e del pensiero altrui? Ma questa tolleranza non diventa vuota e inutile se non protegge più una produzione ricca e un pensiero forte? O dobbiamo vedere nell’abdicazione da parte della cultura una sorta di liberazione cui occorre abbandonarsi con euforia? Oppure il Deus absconditus tornerà per occupare il posto lasciato libero e rendersi visibile? Non so, non lo so proprio. Credo però di sapere che la cultura ha ceduto il suo posto.

Hermann Broch fu ossessionato da questa idea sin dagli anni Trenta. Dice per esempio: «La pittura è diventata una questione del tutto esoterica e che riguarda solo il mondo dei musei; non suscita più interesse, e neppure i suoi problemi, è quasi il relitto di un’epoca passata».

Ai suoi tempi erano parole sorprendenti; oggi non lo sono più. Ho fatto negli scorsi anni, solo per me stesso, un piccolo sondaggio, chiedendo senza malizia alle persone che incontravo quale fosse il loro pittore contemporaneo preferito. Ho constatato che nessuno aveva un pittore contemporaneo preferito e che la maggior parte di loro non ne conosceva neppure uno.

Solo trent’anni fa, quando la generazione di Matisse e di Picasso era ancora viva, una situazione del genere sarebbe stata impensabile. Nel frattempo la pittura ha perso la sua importanza, è diventata un’attività marginale. Forse perché non era più di qualità? O perché sono venute meno la passione che ci ispirava e la capacità di comprenderla? Comunque sia l’arte che determinò lo stile delle varie epoche, che per secoli accompagnò l’Europa, ci sta abbandonando, o meglio: siamo noi che la stiamo abbandonando.

E la poesia, la musica, l’architettura, la filosofia? Anch’esse hanno perso la capacità di forgiare l’unità europea, di costituirne il fondamento. Per l’umanità europea è un mutamento non meno importante della decolonizzazione dell’Africa.

10

Franz Werfel passò il primo terzo della sua vita a Praga, il secondo a Vienna, l’ultimo da emigrato, dapprima in Francia, poi in America; la sua è una biografia tipicamente centroeuropea. Nel 1937, insieme alla moglie – la famosa Alma, vedova di Mahler –, si trovava a Parigi, invitato dall’Organizzazione di cooperazione intellettuale della Società delle Nazioni a un convegno che doveva affrontare «il futuro della letteratura». Nella sua conferenza Werfel prese posizione non solo contro l’hitlerismo ma contro il pericolo totalitario in generale, l’istupidimento ideologico e giornalistico del nostro tempo, che stava per uccidere la cultura. Chiuse la sua conferenza con una proposta in grado a suo avviso di frenare l’infernale processo: fondare un’accademia mondiale dei poeti e dei pensatori (Weltakademie der Dichter und Denker). In nessun caso i suoi membri sarebbero stati delegati dagli Stati. Solo il valore della loro opera ne avrebbe determinato la scelta. Dal punto di vista numerico, i membri, i più grandi scrittori al mondo, sarebbero stati tra i ventiquattro e i quaranta. La missione dell’accademia, indipendente dalla politica e dalla propaganda, sarebbe stata quella di «fronteggiare la politicizzazione e l’imbarbarimento del mondo».

La proposta fu non solo respinta, ma apertamente derisa. Certo, era ingenua. Terribilmente ingenua. Come si poteva istituire, in un mondo totalmente politicizzato, dove artisti e pensatori erano già tutti irrimediabilmente «impegnati», un’accademia indipendente? Non poteva che avere l’aria comica di un’adunanza di anime belle.

Eppure, questa ingenua proposta è ai miei occhi commovente, perché tradisce il disperato bisogno di trovare ancora un’autorità morale in un mondo privo di valori. Non esprimeva che l’angosciato desiderio di far sentire la voce inudibile della cultura, la voce dei Dichter und Denker.14

Nella mia memoria questa storia si confonde con il ricordo del mattino in cui, dopo aver perquisito l’appartamento di un amico, un famoso filosofo ceco, la polizia confiscò mille pagine di un suo manoscritto filosofico. Quello stesso giorno passeggiavamo per le vie di Praga. Da Hradčany, il quartiere dove abitava, ci dirigemmo verso la penisola di Kampa; attraversammo il ponte Mánes. Cercava di scherzare: come sarebbero riusciti, i poliziotti, a decifrare il suo linguaggio filosofico, alquanto ermetico? Ma non c’era battuta che potesse calmare l’angoscia, rimediare alla perdita di dieci anni di lavoro rappresentata da quel manoscritto, di cui il filosofo non aveva copia.

Discutemmo della possibilità di inviare all’estero una lettera aperta per trasformare questa confisca in uno scandalo internazionale. Avevamo ben chiaro che dovevamo rivolgerci non a un’istituzione o a un capo di Stato, ma a una personalità al di sopra della politica, a qualcuno che incarnasse un valore indiscutibile, unanimemente riconosciuto in Europa. Dunque a una personalità della cultura. Ma dov’era?

Comprendemmo d’improvviso che questa personalità non esisteva. Sì, c’erano grandi pittori, drammaturghi e musicisti, ma non occupavano più nella società il posto privilegiato delle autorità morali che l’Europa avrebbe accettato come suoi rappresentanti spirituali. La cultura non esisteva più in quanto ambito dove si realizzano i valori supremi.

Camminammo verso la piazza della città vecchia nelle cui vicinanze abitavo allora, e provammo un’immensa solitudine, un vuoto, il vuoto dello spazio europeo che la cultura lentamente abbandonava.15

11

L’ultimo ricordo che i paesi centroeuropei conservano della loro esperienza con l’Occidente risale al periodo 1915-1938. Vi sono legati più che a qualsiasi altro della loro storia (lo provano i sondaggi condotti clandestinamente). L’immagine che hanno dell’Occidente è dunque quella dell’Occidente di ieri; l’Occidente dove la cultura non aveva ancora ceduto del tutto il suo posto.

Vorrei sottolineare sotto questo profilo una circostanza significativa: le rivolte centroeuropee non erano sostenute dai giornali, dalla radio o dalla televisione, vale a dire dai media. Venivano preparate, innescate, attuate da romanzi, dalla poesia, dal teatro, dal cinema, dalla storiografia, dalle riviste letterarie, da spettacoli comici popolari, da discussioni filosofiche, dalla cultura insomma. I mass media che per un francese o un americano si sovrappongono all’immagine stessa dell’Occidente contemporaneo non svolsero alcun ruolo in queste rivolte (erano del tutto asserviti allo Stato).16

Per questo la prima conseguenza dell’occupazione della Cecoslovacchia da parte dei russi fu la totale distruzione della cultura ceca in quanto tale. Una distruzione che ebbe un triplice significato: anzitutto venne distrutto il centro dell’opposizione; poi venne minata l’identità della nazione in modo che potesse essere più facilmente fagocitata dalla civiltà russa; infine venne bruscamente interrotta l’epoca dei Tempi moderni, cioè l’epoca in cui la cultura rappresentava ancora la realizzazione dei valori supremi.

Questa terza conseguenza è per me la più importante. La civiltà del totalitarismo russo è infatti la radicale negazione dell’Occidente quale era sorto agli albori dei Tempi moderni: fondato cioè sull’ego che pensa e dubita, e caratterizzato da una produzione culturale che di tale ego unico e inimitabile era l’espressione. L’invasione russa ha ricacciato la Cecoslovacchia nell’epoca «postculturale» e l’ha resa così inerme e nuda di fronte all’esercito russo e all’onnipresente televisione di Stato.

Ancora scosso da questo evento triplicemente tragico, l’invasione di Praga, sono arrivato in Francia e ho cercato di spiegare agli amici francesi il massacro della cultura che aveva avuto luogo dopo l’invasione: «Ci pensate? Hanno liquidato tutte le riviste letterarie e culturali! Tutte, nessuna esclusa! Niente del genere era mai accaduto nella storia ceca, neppure durante l’occupazione nazista!».

Ma i miei amici mi guardavano con un’indulgenza piena di imbarazzo di cui ho capito più tardi il senso. Quando in Cecoslovacchia liquidarono tutte le riviste, l’intera nazione ne era al corrente, e avvertiva con angoscia l’immensa portata dell’evento.17 Se in Francia o in Inghilterra sparissero tutte le riviste, non se ne accorgerebbe nessuno, nemmeno il loro editore. A Parigi, persino negli ambienti colti, a cena si discute di trasmissioni televisive e non di riviste. La cultura, infatti, ha già ceduto il suo posto. Quella scomparsa, che a Praga vivemmo come una catastrofe, uno choc, una tragedia, viene vissuta a Parigi come qualcosa di banale e insignificante, a stento visibile, come un non-evento.

12

Dopo la distruzione dell’Impero, l’Europa centrale ha perso i suoi baluardi. Dopo Auschwitz, che ha spazzato via dalla sua faccia la nazione ebraica, non ha forse perso la sua anima? E dopo essere stata strappata all’Europa nel 1945 esiste ancora?

Sì, la sua produzione e le sue rivolte indicano che «non è ancora morta». Ma se vivere significa esistere agli occhi di chi amiamo, l’Europa centrale non esiste più. Più esattamente: agli occhi dell’amata Europa, è solo una parte dell’impero sovietico, e nient’altro.

Perché dovremmo stupircene? In relazione al suo sistema politico, l’Europa centrale è l’Est; in relazione alla sua storia culturale, è l’Occidente. Ma l’Europa sta smarrendo il senso della sua identità culturale, sicché non vede nell’Europa centrale che il suo regime politico; in altre parole: non vede nell’Europa centrale che l’Europa dell’Est.

L’Europa centrale deve dunque opporsi alla forza schiacciante del suo grande vicino, e insieme anche alla forza immateriale del tempo, che lascia irrimediabilmente dietro di sé l’Europa della cultura. Per questo le rivolte centroeuropee hanno un che di conservatore, direi quasi di anacronistico: tentano disperatamente di restaurare il passato, il passato della cultura, il passato dei Tempi moderni, perché solo in quel periodo, solo nel mondo che conserva una dimensione culturale, l’Europa centrale può ancora difendere la propria identità, può ancora essere percepita per quello che è.

La sua vera tragedia non è dunque la Russia, ma l’Europa. L’Europa, quell’Europa per la quale il direttore dell’agenzia di stampa ungherese era pronto a morire, ed è morto, tanto rappresentava per lui un valore essenziale. Al di là della cortina di ferro non sospettava neppure che i tempi erano cambiati e che in Europa l’Europa non è più sentita come un valore. Non sospettava che la frase inviata per telex oltre i confini del suo paese privo di rilievi aveva un’aria desueta e che non sarebbe mai stata capita.


NOTE

NOTE ALLA PREMESSA DI JACQUES RUPNIK

1

La traduzione francese è apparsa presso Gallimard nell’ottobre 1968, all’indomani dell’invasione sovietica.

2

Si veda Trois générations. Entretiens sur le phénomène culturel tchécoslovaque, premessa di Jean-Paul Sartre, Gallimard, Paris, 1970, dove figura una conversazione di Milan Kundera con Antonín Liehm. Tale conversazione, che ha avuto luogo alla vigilia del Congresso degli scrittori, resta senza dubbio il miglior autoritratto intellettuale di Kundera.

NOTE A «UN OCCIDENTE PRIGIONIERO»

1

Si può includere fra queste rivolte quella degli operai berlinesi del 1953? Sì e no. Il destino della Germania dell’Est ha un carattere specifico. Non esistono due Polonie; al contrario la Germania dell’Est non è che un pezzo di Germania e la sua esistenza nazionale non è affatto minacciata. Ostaggio nelle mani dei russi, è fatta oggetto da parte della Germania dell’Ovest e dell’URSS di una politica molto particolare, che non si applica alle nazioni centroeuropee e che un giorno si ritorcerà, mi pare, contro di loro. Ed è forse per questa ragione che fra i tedeschi dell’Est e gli altri non corre certo una spontanea simpatia. Lo abbiamo visto quando i cinque eserciti del patto di Varsavia occuparono la Cecoslovacchia. I russi, i bulgari, i tedeschi dell’Est erano temibili e temuti. Potrei invece raccontare decine di storie sui polacchi e gli ungheresi che facevano l’impossibile per mostrare quanto disapprovassero l’occupazione e la sabotavano apertamente. Se alla complicità polacco-ungarico-ceca si aggiunge l’entusiastico aiuto che gli austriaci offrirono allora ai cechi e la furia antisovietica che si impadronì degli iugoslavi, si potrà constatare come l’occupazione della Cecoslovacchia abbia fatto emergere di colpo, e con stupefacente chiarezza, lo spazio tradizionale dell’Europa centrale.

2

È un paradosso difficile da comprendere per un osservatore esterno: il periodo successivo al 1945 è per l’Europa centrale il più tragico, ma al tempo stesso anche il più rilevante della sua storia culturale. In esilio (Gombrowicz, Miłosz), nelle forme della produzione clandestina (Cecoslovacchia dopo il 1968), o, infine, come attività tollerata dalle autorità costrette a cedere alle pressioni dell’opinione pubblica, il cinema, la narrativa, il teatro, la filosofia nati laggiù durante questo periodo sono vertici della produzione europea.

3

Scrive Leszek Kołakowski («Zeszyty Literackie», II, 1983): «Benché sia convinto, come Solženicyn, che il sistema sovietico abbia superato lo zarismo quanto a carattere oppressivo ... non mi spingerò sino a idealizzare il sistema contro il quale i miei antenati hanno combattuto in condizioni terribili, sono morti, sono stati torturati e hanno subìto umiliazioni... Sono convinto che Solženicyn tenda a idealizzare lo zarismo, cosa che, come me, nessun altro polacco può in alcun modo accettare».

4

Il più bel connubio russo-occidentale è l’opera di Stravinskij, che riassume tutta la storia millenaria della musica occidentale e, in virtù dell’immaginativa musicale, rimane al tempo stesso profondamente russa. Un altro riuscito connubio fu realizzato in Europa centrale da due magnifiche opere di un grande russofilo, Leoš Janáček: l’una ispirata a Ostrovskij (Kát’a Kabanová, 1924), l’altra, per la quale ho una sconfinata ammirazione, a Dostoevskij (Da una casa di morti, 1928). Ma è assai sintomatico che queste due opere non siano mai state eseguite in Russia e che lì sia ignota la loro stessa esistenza. La Russia comunista rifiuta le mésalliance con l’Occidente.

5

Neppure il premio Nobel ha scosso l’ottusa indifferenza degli editori europei nei confronti di Miłosz. In fondo è uno scrittore troppo sottile, e un poeta troppo grande, per diventare una personalità del nostro secolo. Le sue due raccolte di saggi, La mente prigioniera (1953) e La mia Europa (1959), da cui proviene la citazione, sono le prime analisi acute, non manichee, del comunismo russo e del suo Drang nach Westen.

6

Ho letto d’un sol fiato il manoscritto della traduzione americana di Miesiące (I mesi) di Brandys, in inglese A Warsaw Diary. Se, anziché rimanere alla superficie dei commenti politici, volete penetrare l’essenza del dramma polacco, non perdetevi, per favore, questo grande libro.

7

Il testo più lucido e bello che abbia mai letto sulla Russia in quanto specifica civiltà è La Russia e il virus della libertà di Cioran, incluso in Storia e utopia (1960). Altre eccellenti riflessioni sulla Russia e sull’Europa sono contenute in La tentazione di esistere (1956). Cioran è uno dei rari pensatori – mi sembra – che ancora pongono il problema, passato ormai di moda, dell’Europa nella sua dimensione più piena. A porlo d’altra parte non è Cioran-scrittore francese, ma Cioran-centroeuropeo, giunto dalla Romania, paese «forgiato per scomparire, organizzato a meraviglia per essere inghiottito» (La tentazione di esistere). Solo in un’Europa inghiottita si pensa l’Europa.

8

Karel Havlíček Borovský aveva ventidue anni quando, nel 1843, partì per la Russia, dove rimase per un anno. Era uno slavofilo entusiasta quando vi giunse, ma si trasformò ben presto in uno dei critici più severi della Russia. Espresse le sue opinioni in lettere e articoli, raccolti in seguito in un volumetto. Si tratta dunque di «lettere dalla Russia» scritte all’incirca nello stesso anno di quelle di Custine. Corrispondono ai giudizi del viaggiatore francese (le affinità sono spesso divertenti. Custine: «Se vostro figlio è scontento della Francia, seguite il mio consiglio: ditegli di andare in Russia. Chi ha conosciuto a fondo questo paese sarà per sempre contento di vivere altrove». Havlíček: «Se davvero volete fare un favore ai cechi, pagate loro un viaggio a Mosca!»). Affinità ancor più rilevante se si pensa che Havlíček, plebeo, patriota ceco, non può essere sospettato di preconcetti o pregiudizi antirussi. La personalità di Havlíček è ampiamente rappresentativa della politica ceca del XIX secolo, tenuto conto dell’influsso che ha esercitato su Palacký e soprattutto su Masaryk.

9

Nel capitolo «Soul and Understatement» di un divertente libretto, How to be an Alien, l’autore parla dell’anima slava. «La grande anima slava è il peggior tipo di anima. Coloro che la possiedono sono in genere pensatori molto profondi. Dicono per esempio con compiacimento: “Ci sono momenti in cui sono così allegro e momenti in cui sono così triste. Saprebbe spiegarmelo?”. Oppure: “Sono così enigmatico. In certi momenti vorrei essere un altro, non quello che sono”. Oppure: “Quando sono solo in un bosco a mezzanotte e salto da un albero all’altro, penso spesso che la vita sia strana”».

Chi osa irridere la grande anima slava? Ovviamente l’autore, George Mikes, è di origine ungherese. Solo nell’Europa centrale l’anima slava appare ridicola.

10

Aprite per esempio l’Histoire universelle dell’Encyclopédie de la Pléiade. Scoprirete che il riformatore della Chiesa cattolica, Jan Hus, sta insieme non già a Lutero, ma a Ivan il Terribile, nello stesso capitolo! E invano cercherete un testo essenziale sull’Ungheria. Poiché non possono essere ascritti al «mondo slavo», gli ungheresi non figurano sulla carta dell’Europa.

11

Il pensiero strutturalista è infatti nato verso la fine degli anni Venti nell’ambito del Circolo linguistico di Praga, composto da studiosi cechi, russi, tedeschi e polacchi. È in questo ambiente cosmopolita che Mukařovský elaborò, nel corso degli anni Trenta, la sua estetica strutturale. Lo strutturalismo praghese era organicamente radicato nel formalismo ceco del XIX secolo. (Nell’Europa centrale le tendenze formaliste erano più forti che altrove, grazie, mi sembra, al ruolo dominante svolto dalla musica e, di conseguenza, dalla musicologia, «formalista» per sua natura). Rispondendo ai recenti stimoli che provenivano dal formalismo russo, Mukařovský ne ha superato radicalmente il carattere unilaterale. Gli strutturalisti sono stati gli alleati dei poeti e dei pittori dell’avanguardia praghese (anticipando così l’alleanza che si stringerà in Francia trent’anni più tardi). Con la loro influenza hanno protetto l’arte d’avanguardia dall’interpretazione angustamente ideologica che ovunque si accompagnava all’arte moderna. L’opera di Mukařovský, conosciuta nel mondo intero, non è mai stata pubblicata in Francia.

12

Ho letto, a proposito della «visione centroeuropea del mondo», due libri molto apprezzabili: il primo, più letterario, si intitola L’Europa centrale: l’aneddoto e la storia; anonimo (è firmato Josef K.), circola in versione dattiloscritta a Praga; il secondo, più filosofico, si intitola Il mondo della vita: un problema politico; ne è autore Václav Bělohradský, filosofo genovese. Uscito in Francia presso Verdier, questo libro merita una grande attenzione. La problematica centroeuropea è, da un anno, sviluppata da un assai importante periodico dell’Università del Michigan: «Cross Currents: A Yearbook of Central European Culture».

13

Lo scrittore francese che da sempre fa riferimento al romanzo centroeuropeo (che per lui non si limita ai romanzieri viennesi, ma include anche il romanzo ceco e polacco) è Pascal Lainé. Ne dice cose interessanti nella raccolta di interviste Si j’ose dire (Mercure de France, Paris, 1982).

14

In sé la conferenza di Werfel non era affatto ingenua e non è invecchiata. Mi ricorda un’altra conferenza, quella che Robert Musil ha tenuto nel 1935 al Congresso per la difesa della cultura a Parigi. Non diversamente da Werfel, Musil ravvisa il pericolo non solo nel fascismo ma anche nel comunismo. Difendere la cultura significa per lui che la cultura deve non già impegnarsi nella lotta politica (come tutti all’epoca credevano) bensì proteggere la cultura dall’istupidimento della politicizzazione. Entrambi si rendono conto che, nel mondo moderno della tecnologia e dei media, la cultura non ha grandi speranze. Le opinioni di Werfel e di Musil non ebbero favorevole accoglienza a Parigi. Eppure, in tutte le discussioni politico-culturali che sento intorno a me, non avrei quasi nulla da aggiungere a quello che hanno detto, e in quei momenti mi sento molto legato a loro, mi sento, in quei momenti, irrimediabilmente centroeuropeo.

15

Dopo molte esitazioni la lettera è stata comunque inviata – a Jean-Paul Sartre. Sì, era ancora l’ultima grande figura mondiale della cultura: eppure ai miei occhi era stato proprio lui, con la sua concezione dell’«impegno», a gettare le basi teoriche di una abdicazione della cultura come forza autonoma, specifica e irriducibile. Comunque sia, ha prontamente risposto alla lettera del mio amico con un testo apparso su «Le Monde». Senza il suo intervento non credo che la polizia avrebbe alla fine reso (quasi un anno dopo) il manoscritto al filosofo. Il giorno in cui Sartre è stato sepolto, ripensavo all’episodio del mio amico praghese: oggi, la sua lettera non avrebbe alcun possibile destinatario.

16

Non va tuttavia dimenticata una celebre eccezione: nei primi giorni dell’occupazione russa della Cecoslovacchia furono le trasmissioni clandestine della radio e della televisione a svolgere un ruolo determinante. Ma perfino allora era la voce dei rappresentanti della cultura a risuonare con più forza.

17

Il settimanale «Literární noviny», la cui tiratura raggiungeva le trecentomila copie (in un paese di dieci milioni di abitanti), era pubblicato dall’Unione degli scrittori cechi. Per anni preparò la Primavera di Praga e ne fu poi la tribuna. La sua struttura non somigliava a quella dei settimanali tutti uguali – «Time» per esempio – che si sono diffusi in America e in Europa. Era autenticamente letterario: ospitava lunghe cronache sull’arte, analisi di libri. Gli articoli dedicati alla storia, alla sociologia, alla politica erano opera non di giornalisti ma di scrittori, storici e filosofi. Che io sappia, nessun altro settimanale europeo del nostro secolo ha svolto un ruolo altrettanto importante nella storia e l’ha svolto altrettanto bene. Dei mensili letterari cechi venivano tirate fra le diecimila e le quarantamila copie e, malgrado la censura, il loro livello era notevole. In Polonia le riviste letterarie hanno un’importanza non dissimile: si contano oggi centinaia (!) di riviste clandestine.