Estratto da "Uomini senza donne" Haruki Murakami
L’uomo sedeva sempre allo stesso posto. L’ultimo sgabello in fondo al bancone, che di solito era libero, a meno che il bar fosse affollato. Ma tanto per cominciare, succedeva di rado che ci fosse molta gente in quel locale, e poi gli avventori non apprezzavano particolarmente quella posizione defilata. A causa della scala sul retro il soffitto in quel punto scendeva in diagonale, e alzandosi si rischiava di battere la testa. Ma l’uomo, pur essendo alto, sembrava prediligere quel posto scomodo.
Kino ricordava bene la prima volta che l’uomo era venuto. Prima di tutto aveva il cranio perfettamente rasato (dalla sfumatura azzurrognola, sembrava fresco di tonsura), inoltre, nonostante fosse magro, aveva le spalle larghe e una luce vigile negli occhi. Gli zigomi sporgenti e il mento forte. Età: fra i trenta e i trentacinque anni. Indossava un lungo impermeabile grigio, anche se non pioveva né minacciava di piovere. Motivo per cui Kino si era chiesto se non fosse uno yakuza. Si era subito sentito un po’ teso, già in allarme. Era una sera piuttosto fresca verso la metà di aprile, appena passate le sette e mezza, e non c’erano altri clienti.
L’uomo andò a sedersi sull’ultimo sgabello in fondo, si tolse l’impermeabile, l’appese a un attaccapanni sul muro, ordinò una birra con voce tranquilla, poi si mise a leggere in silenzio uno spesso volume. Dall’espressione del viso, sembrava totalmente assorto nella lettura. Circa una mezzora dopo, quando terminò la birra, alzò una mano per chiamare Kino e ordinò un whisky. Alla domanda se avesse delle preferenze riguardo alla marca, rispose di no.
– Possibilmente un normale scotch, doppio. Con la stessa quantità d’acqua, e poco ghiaccio, per favore.
Possibilmente uno scotch? Kino versò in un bicchiere del White Label, vi aggiunse altrettanta acqua, spezzò del ghiaccio con il punteruolo e scelse due pezzi piccoli ben riusciti. L’uomo bevve un sorso e disse che andava benissimo. Lesse per un’altra mezzora, poi si alzò, chiese il conto e pagò in contanti. Per non cambiare banconote, diede giusti anche gli spiccioli. Quando se ne andò, Kino tirò un sospiro di sollievo. L’ombra della presenza di quell’uomo, tuttavia, continuò ad aleggiare nel bar. Mentre preparava degli stuzzichini per accompagnare le bevande, Kino ogni tanto alzava la testa e gettava un’occhiata allo sgabello dov’era seduto fino a poco prima. Come se si aspettasse di vederlo lí, a sollevare una mano per chiedergli qualcosa.
L’uomo prese l’abitudine di frequentare il bar di Kino. Veniva una o anche due volte alla settimana. Ordinava prima una birra, poi un whisky (White Label, la stessa quantità d’acqua, poco ghiaccio). Succedeva che ne chiedesse un secondo, ma di solito si limitava a un bicchiere. Certe sere sceglieva di mangiare qualcosa di leggero fra le proposte del menu scritto sulla lavagna.
Era un uomo taciturno. Anche dopo essere diventato un avventore abituale, non apriva mai bocca, se non per ordinare. Quando incontrava lo sguardo di Kino faceva un breve cenno con la testa, quasi dicesse: «Mi ricordo bene di te, sai?» Arrivava relativamente presto con un libro sotto il braccio, lo posava sul bancone e si metteva a leggere. Uno spesso volume rilegato. Kino non l’aveva mai visto con un libro in edizione tascabile. Quando si stancava di leggere (c’era da supporre che si stancasse), alzava gli occhi dalla pagina e guardava le bottiglie sullo scaffale di fronte a lui, una per una. Come se esaminasse animali rari impagliati, provenienti da paesi lontani.
Una volta abituatosi alla sua presenza, però, Kino smise di sentirsi a disagio trovandosi solo con quel cliente. Kino stesso era taciturno, e stare in compagnia di qualcuno senza parlare non gli dava alcun fastidio. Mentre l’uomo era assorto nella lettura, lui lavava i bicchieri, preparava una salsa, sceglieva i dischi da mettere sullo stereo, oppure si sedeva a leggere il giornale, come se fosse solo.
Non conosceva il nome di quell’uomo. Mentre l’uomo, invece, sapeva che lui si chiamava Kino. Come il suo bar. L’uomo non si presentò mai, e Kino non gli chiese mai nulla. Era soltanto un cliente abituale che veniva, beveva una birra e poi un whisky, leggeva in silenzio, pagava in contanti e se ne andava. Non disturbava nessuno. Cos’altro c’era da sapere?
Kino aveva lavorato per diciassette anni in una ditta di articoli sportivi. Quando frequentava la facoltà di Educazione fisica eccelleva nella corsa su media lunghezza. Ma al terzo anno, a causa di un’infiammazione del tendine di Achille, aveva dovuto rinunciare alla carriera professionistica, e dopo la laurea, su raccomandazione del suo allenatore, era stato assunto in quella ditta, dove si occupava soprattutto del settore delle scarpe da corsa. Il suo lavoro consisteva nel cercare di aumentarne la distribuzione nei negozi di articoli sportivi in tutto il paese, e di far crescere, almeno di uno, il numero degli atleti importanti che sponsorizzavano le scarpe di quella marca. Quell’impresa di media grandezza con sede a Okayama non aveva il prestigio della Mizuno o dell’Asics. Né poteva investire grosse somme di denaro per assicurarsi contratti esclusivi con campioni mondiali, come facevano la Nike o l’Adidas. Non dava a Kino nemmeno i soldi necessari per invitare qualche atleta famoso. Se voleva offrire una cena a uno di loro, doveva tagliare sulle spese di viaggio, o pagare di tasca propria.
Eppure la sua ditta produceva onestamente scarpe da corsa di prima qualità fatte a mano, e non erano pochi gli sportivi che apprezzavano quel modo di lavorare preciso e coscienzioso. «Quando si lavora bene, i risultati si vedono», era l’opinione del presidente, che era anche il fondatore. Probabilmente quella politica imprenditoriale sobria, controcorrente rispetto ai tempi, era nelle corde di Kino. Pur essendo un uomo schivo e di poche parole, riusciva infatti a svolgere decorosamente il suo ruolo di rappresentante. Proprio perché non era un imbonitore, sapeva conquistare la fiducia di molti allenatori e la simpatia di alcuni atleti. Si faceva spiegare da ognuna di queste persone quale tipo di scarpa gli servisse, e una volta tornato in sede trasmetteva le richieste agli incaricati della fabbricazione. Era un lavoro tutto sommato interessante, e Kino lo faceva volentieri. Lo stipendio non si poteva dire buono, ma c’era la soddisfazione di occuparsi di qualcosa che sembrava fatto su misura per lui. Ormai non poteva piú correre, ma guardare gli atleti in piena crescita che si allenavano in pista con stile ed energia era un vero piacere.
Se Kino aveva lasciato la ditta, quindi, non era certo perché ne fosse scontento. Vi era stato spinto da un problema scoppiato come un fulmine a ciel sereno, un problema di coppia: aveva scoperto che un suo collega, quello con cui era piú in confidenza, aveva una relazione con sua moglie. Kino passava piú tempo in viaggi di lavoro che a Tōkyō. Girava per tutto il paese con una sacca piena zeppa di scarpe da corsa, andava da un negozio di articoli sportivi all’altro, si presentava nelle università e nelle ditte che avessero una squadra di atletica. E in sua assenza quei due si vedevano. Lui non era il tipo da fare attenzione a certi indizi. Era convinto di andare d’amore e d’accordo con la moglie e non aveva mai dubitato di lei. Se una volta, per puro caso, non fosse rientrato con un giorno di anticipo, forse non si sarebbe mai accorto di niente.
Dalla città dov’era stato per lavoro, era tornato direttamente al suo appartamento nel quartiere di Kasai, e aveva trovato la moglie e quell’uomo nudi, una sopra l’altro, nella camera di casa sua; nel letto matrimoniale dove aveva sempre dormito con lei. La situazione non lasciava spazio a fraintendimenti: sua moglie era accovacciata su quell’uomo, in una posizione tale che, quando Kino aprí la porta, se la trovò davanti, di faccia. Vide i suoi bei seni andare avanti e indietro. All’epoca lui aveva trentanove anni, lei trentacinque. Non avevano figli. Kino si voltò, si chiuse alle spalle la porta della stanza, riprese la sacca con la roba sporca di una settimana, uscí di casa e non fece piú ritorno. Il giorno dopo diede le dimissioni.
Kino aveva una zia nubile, la sorella maggiore di sua madre. Era una donna con un bel viso che aveva sempre voluto molto bene a quel nipote. Da diversi anni aveva un fidanzato piú vecchio di lei (forse sarebbe meglio dire un amante) che con grande generosità le aveva offerto una villetta nel quartiere di Aoyama. Una storia degna dei bei tempi antichi. Lei viveva al primo piano, e al pianterreno aveva aperto un caffè. C’era anche un piccolo giardino, con un magnifico salice dalla fronda rigogliosa. Si trovava in una stradina dietro il museo Nezu, una posizione poco favorevole a un’attività commerciale di quel genere, ma sua zia aveva il talento di calamitare la gente, e gli affari le andavano piuttosto bene.
Purtroppo però la zia, che aveva piú di sessant’anni, soffriva di dolori alla schiena e a poco a poco trovava sempre piú faticoso gestire il locale. Cosí aveva deciso di chiudere e trasferirsi in un residence con terme annesse a Izukōgen, nella penisola di Izu. Il posto era anche equipaggiato per la fisioterapia. Di conseguenza, tre mesi prima che Kino scoprisse che la moglie lo tradiva, gli aveva proposto di prendere il suo posto quando lei si fosse ritirata. Lui le aveva risposto che apprezzava molto quell’offerta, ma per il momento non era sua intenzione accettare.
Subito dopo essersi licenziato in ufficio, Kino telefonò alla zia per chiederle se avesse già ceduto il locale. No, la vendita era stata affidata a un’agenzia immobiliare, ma non si era ancora presentato un acquirente affidabile, gli rispose lei.
– Mi piacerebbe mettere su un bar, lí. Prenderlo in affitto, se possibile, pagandoti un tanto al mese… – propose Kino.
– E come fai col lavoro in ditta?
– Mi sono appena licenziato.
– Tua moglie è d’accordo?
– Da mia moglie divorzierò molto presto, credo.
Kino non disse il motivo, la zia non fece domande. Dall’altra parte del filo ci fu un breve silenzio. Poi la zia gli disse quanto gli avrebbe chiesto al mese per affittargli eventualmente il locale, una somma molto inferiore a quella che lui aveva immaginato. Se le cose stanno cosí, pensò Kino, forse ce la farò.
– Riceverò anche una piccola liquidazione, quindi non ho intenzione di crearti problemi, zia, – disse.
– Di questo non mi preoccupo affatto, – tagliò corto lei.
Non è che Kino e sua zia si fossero parlati molto negli anni (sua madre non vedeva di buon occhio troppa confidenza fra loro), eppure stranamente si erano sempre capiti. La zia sapeva bene che tipo d’uomo fosse il nipote: se faceva una promessa, la manteneva.
Usando la metà dei suoi risparmi, Kino ristrutturò l’interno del locale trasformandolo in un bar. Lo ammobiliò nel modo piú semplice possibile, con un’asse di legno lunga e spessa si fece costruire un bancone, comprò delle sedie nuove. Tinteggiò le pareti in colori tranquilli, cambiò le luci con altre piú adatte a un luogo dove si beveva alcol. Portò da casa i dischi della sua modesta collezione e li dispose su uno scaffale. Installò un buon sistema stereo – della Thorens, gli amplificatori invece erano della Luxman, e le casse Jbl 2ways – che aveva comprato, con molto sforzo, prima di sposarsi. Gli era sempre piaciuto ascoltare vecchio jazz registrato in analogico. Era il suo solo hobby, un hobby che non condivideva con nessuno dei suoi amici. Inoltre da studente aveva lavorato part-time in un pub di Roppongi, e con i cocktail se la cavava.
Il bar lo chiamò «Kino». Non gli venne in mente un nome migliore. La prima settimana non vide nemmeno un cliente. Ma era una cosa che si aspettava, quindi non si lasciò scoraggiare. Non aveva detto a nessuno dei suoi conoscenti che avrebbe aperto un locale. Non aveva fatto pubblicità né appeso all’esterno un’insegna appariscente. Semplicemente attendeva che qualcuno scoprisse quel bar aperto da poco in fondo a una stradina laterale, e lo trovasse di suo gusto. Gli restavano ancora un po’ dei soldi della liquidazione, e la moglie, dalla quale si stava separando legalmente, non pretendeva gli alimenti. Lei ormai conviveva con l’ex collega di Kino, quindi l’appartamento di Kasai dove avevano abitato insieme non serviva piú. L’avevano venduto, avevano estinto il mutuo, e diviso a metà fra loro la somma restante. Kino decise di sistemarsi nell’alloggio sopra il bar. Per qualche tempo poteva tirare avanti.
Nel locale deserto, Kino si gustava finalmente il piacere di ascoltare la musica o di leggere quanto voleva. Accolse la solitudine e il silenzio con molta naturalezza, come il terreno arido assorbe la pioggia. Metteva spesso sul giradischi un assolo al piano di Art Tatum. Si addiceva perfettamente alle sue condizioni di spirito in quel momento.
Per qualche ragione, non provava né collera né rancore verso la moglie e il suo ex collega che se l’era portata a letto. Naturalmente all’inizio lo shock era stato forte, ma bene o male era riuscito a rimuovere quel pensiero, e dopo un po’ di tempo era arrivato alla conclusione che «tanto non ci poteva fare niente». Era una fine annunciata. In vita sua non aveva mai ottenuto nulla, prodotto nulla. Non era capace di rendere felice nessuno, e ovviamente neppure se stesso. E poi cos’era la felicità? A quel punto Kino non lo sapeva piú. Dolore e collera, delusione e rassegnazione… erano emozioni che non riusciva piú a provare veramente. Quello che riusciva a malapena a fare era crearsi un luogo a cui ancorarsi, per impedire al suo cuore, che delle emozioni aveva perso la profondità e il peso, di andare alla deriva. «Kino», quel piccolo locale nascosto in fondo a una stradina, era la manifestazione concreta di quel luogo. Col risultato che era diventato un posto dove ci si sentiva stranamente a proprio agio.
Prima ancora degli esseri umani, a scoprire quanto si stava bene da «Kino» era stato un gatto randagio dal pelo grigio. Era un giovane maschio con una bella coda lunghissima. Sembrava che gli piacesse particolarmente uno scaffale incavato in un angolo del locale, perché si metteva sempre a dormire raggomitolato lí. Kino cercava di non occuparsene troppo. Probabilmente voleva solo essere lasciato in pace. Una volta al giorno gli dava da mangiare e gli cambiava l’acqua. Altre cose per lui non ne faceva. Gli aveva soltanto aperto una gattaiola in modo che potesse entrare e uscire liberamente. Ma il gatto, chissà perché, preferiva passare dalla porta come le persone.
Poteva anche darsi che quel gatto avesse portato con sé un flusso positivo. Perché gli avventori, seppur gradualmente, cominciarono ad arrivare. Ad attirarli era l’atmosfera di quella villetta in fondo alla strada – l’insegna poco appariscente e il magnifico salice vecchio di anni, il giovane titolare taciturno… e gli lp che giravano sul piatto dello stereo, il menu che contava pochi piatti leggeri ma sempre diversi, il gatto grigio acciambellato in un angolo… Alcuni clienti venivano con regolarità e a volte portavano con sé altra gente. Kino era ancora lontano dal guadagnare bene, ma riusciva almeno a rientrare del costo dell’affitto. Per lui era piú che sufficiente.
L’uomo dalla testa rasata era entrato per la prima volta nel locale circa due mesi dopo l’apertura. E ne passarono altri due prima che Kino venisse a sapere il suo nome. Si chiamava Kamita. «Si scrive con gli ideogrammi che significano “divinità” e “risaia”1, ma non si legge Kanda, si legge Kamita», aveva detto. Non stava parlando con Kino, però.
Quella sera pioveva. Non tanto, quel che bastava per chiedersi se convenisse prendere l’ombrello o no. Nel locale, oltre a Kamita, c’erano due uomini vestiti di scuro che erano venuti insieme. Erano circa la sette e mezza. Kamita, come sempre, aveva occupato lo sgabello tutt’in fondo al bancone e leggeva bevendo White Label. I due uomini invece erano seduti a un tavolo e bevevano vino. Quando erano entrati avevano tirato fuori una bottiglia di Médoc da un sacchetto di carta e avevano chiesto se potevano berla lí, pagando cinquemila yen per il disturbo. Dato che non c’era la fila, Kino, non avendo motivo di rifiutare, disse di sí. Aveva stappato la bottiglia e portato loro due bicchieri da vino. Insieme a un piattino di snack. Non era un gran disturbo. Il problema era che i due fumavano in continuazione, e Kino, cui il fumo dava fastidio, non era molto contento della loro presenza. Visto che non c’erano altri clienti, si sedette su uno sgabello ad ascoltare un lp di Coleman Hawkins in cui era inclusa Joshua Fit the Battle of Jericho. L’assolo del contrabbassista Major Holley era straordinario.
I due uomini all’inizio bevevano chiacchierando amichevolmente, ma a un certo punto qualcosa scatenò una discussione. Di cosa parlassero, Kino non riusciva a capirlo, ma sembravano avere opinioni opposte su un determinato argomento perché a poco a poco, fallito ogni tentativo di trovare un compromesso, si infiammarono a un punto tale che trasformarono quella che era stata una discussione educata in un vero e proprio litigio. A un certo punto uno dei due si alzò, e nella foga sollevò da un lato il tavolino facendo cadere a terra il posacenere pieno di sigarette e uno dei bicchieri, che si ruppe in mille pezzi. Kino andò a prendere la scopa, pulí il pavimento, portò un altro posacenere e un altro bicchiere.
Kamita – in quel momento Kino non sapeva ancora che si chiamasse cosí – non faceva niente per nascondere quanto trovasse riprovevole il comportamento arrogante dei due uomini. Benché non avesse cambiato espressione, con le dita della mano sinistra continuava a tamburellare sul bancone, come un pianista che provi una chiave interessante. È necessario metter fine a questa lite, pensò Kino. Era uno di quei casi in qui doveva assumersi lui la responsabilità della situazione. Tornò al tavolino dei due uomini, si scusò, e chiese loro gentilmente di abbassare il tono di voce.
Uno dei due sollevò lo sguardo su di lui. Nei suoi occhi c’era irritazione. Si alzò in piedi. Fino a quel momento Kino non ci aveva fatto caso, ma era grande e grosso. Non eccessivamente alto, ma con un torace ampio e braccia spesse. Avrebbe potuto facilmente essere un lottatore sumo. Probabilmente non aveva mai perso una zuffa fin da quando era bambino. E non era abituato a sentirsi dire quel che doveva fare. Kino, quando frequentava la facoltà di Educazione fisica, ne aveva visti parecchi, di tipi cosí. Non erano il genere di persona con cui si può discutere tranquillamente.
L’uomo che lo accompagnava era molto meno grosso. Mingherlino, il colorito livido, aveva un viso astuto. Dava l’impressione di essere bravissimo a manipolare gli altri. Anche lui si alzò. Ora Kino era in piedi di fronte ai due. Sembrava avessero deciso di sospendere momentaneamente la discussione e occuparsi di lui. Come per incanto sembrò che il loro respiro si fosse sincronizzato. Quasi che entrambi sapessero quale piega avrebbero preso gli avvenimenti.
– Come ti permetti di interrompere la gente quando parla, tu? – chiese quello grosso.
Entrambi indossavano vestiti in apparenza costosi, che a un esame piú attento si sarebbero probabilmente rivelati di qualità mediocre. Forse non erano dei veri e propri yakuza, ma ci andavano vicino. In ogni caso, né l’uno né l’altro sembravano il genere di persona che svolge un mestiere onesto. Il piú grosso aveva i capelli a spazzola, il piú basso – che li aveva tinti castani – li portava legati in una specie di coda di cavallo che ricordava la pettinatura dei samurai. Kino sapeva che si stava mettendo nei guai. Il sudore gli colava a rivoli sotto le ascelle.
– Scusate, – fece una voce alle sue spalle.
Voltandosi, vide che Kamita era sceso dal suo sgabello e si era avvicinato.
– Fatemi il favore di non prendervela con il gestore, – disse Kamita indicando Kino. – Sono io che l’ho pregato di chiedervi di abbassare il tono di voce, eravate molto rumorosi. Sto leggendo e non riesco a concentrarmi.
Kamita aveva parlato a voce meno alta di quanto faccia di solito la gente, e prolungando le pause. Eppure si aveva l’impressione che qualcosa, da qualche parte, avesse lentamente iniziato a muoversi.
– Sta leggendo e non riesce a concentrarsi nella lettura, – ripeté parola per parola il mingherlino. Come se verificasse che non ci fosse qualche errore di sintassi nella frase.
– Non ce l’ha una casa, lei? – chiese il grosso.
– Sí che ce l’ho, – rispose Kamita. – Abito qui vicino.
– Allora perché non se ne torna a leggere a casa sua?
– Perché mi piace leggere qui, – disse Kamita.
I due compari si scambiarono un’occhiata.
– Me lo presti, il suo libro, – fece il mingherlino. – Glielo leggo io.
– A me piace leggere in pace da solo, – disse Kamita. – Perché non sopporto quando la gente confonde gli ideogrammi.
– Divertente, questo qui, – disse il grosso. – Che ridere…
– Come si chiama, lei? – chiese l’altro.
– Kamita. Si scrive con gli ideogrammi che significano «divinità» e «risaia», ma non si legge Kanda, si legge Kamita –. Fu cosí che Kino venne a sapere il nome di quell’uomo.
– Lo terrò a mente, – disse il grosso.
– Buona idea. I ricordi in qualche modo danno forza, – fu il commento di Kamita.
– Senta, perché non andiamo a parlare fuori? Credo che ci potremo spiegare meglio, – propose il mingherlino.
– D’accordo. Andiamo pure dove vuole. Prima però dobbiamo pagare il conto, altrimenti è il gestore che ci perde.
– Certamente, – disse il mingherlino.
Kamita chiese il conto a Kino e lasciò la somma precisa che doveva, inclusi gli spiccioli, sul bancone. Coda-dicavallo tirò fuori dal portafoglio una banconota da diecimila yen e la gettò sul tavolino.
– Con questo siamo a posto anche per il bicchiere rotto, no?
– È piú che sufficiente, – rispose Kino.
– Un bar da poveracci, – fece il grosso.
– Il resto non lo vogliamo, usalo per comprare dei bicchieri da vino decenti, – disse a Kino Coda-di-cavallo. – In quelli che ci hai dato, anche il vino di qualità fa schifo.
– Sí, proprio un bar da poveracci, – ripeté il grosso.
– Infatti, questo è un bar da poveracci dove vengono dei poveracci, – gli disse Kamita. – Non è adatto a voi. Ce ne sono altri, di bar adatti a voi. Non chiedetemi dove, però…
– Ma dice cose divertenti, questo qui, – fece il tipo grosso. – Che ridere…
– Rida piú tardi, per favore, quando ci ripenserà con calma, – gli rispose Kamita.
– In ogni caso, non tocca a lei dirci dove dobbiamo andare e dove no, – fece Coda-di-cavallo. Poi tirò fuori la lingua per leccarsi lentamente le labbra. Sembrava un serpente davanti a una preda.
L’uomo grosso aprí la porta e uscí, seguito da Coda-dicavallo. Il gatto dovette percepire l’atmosfera minacciosa, perché scappò fuori malgrado la pioggia.
– Tutto a posto? – chiese Kino a Kamita.
– Non c’è motivo di preoccuparsi, – rispose lui con un accenno di sorriso sulle labbra. – Lei resti qui, signor Kino, non faccia niente e attenda che io ritorni. Non ci metterò molto –. Poi uscí e chiuse la porta.
Pioveva ancora, piú forte di prima. Kino andò a sedersi su uno sgabello e aspettò che il tempo passasse, come gli era stato detto di fare. Non c’era pericolo che entrassero altri clienti. Fuori c’era un silenzio sinistro, non si sentiva il minimo rumore. Il libro che Kamita stava leggendo, come un cane ben addestrato, era rimasto aperto sul bancone in attesa del suo padrone. Trascorsi dieci minuti, la porta si aprí e Kamita entrò, solo.
– Potrebbe prestarmi un asciugamano, per favore? – chiese.
Kino gliene porse uno pulito. Kamita lo usò per strofinarsi la testa bagnata, poi la nuca, la faccia, e infine le mani.
– La ringrazio. Ora è tutto a posto. Quei due non si faranno rivedere. E non le daranno piú alcun fastidio.
– Ma… che cosa è successo?
Kamita scosse piano la testa. Come per dire: «Meglio che non lo sappia». Poi tornò a sedersi al suo posto, bevve quel che restava del suo whisky e riprese a leggere come se nulla fosse. Prima di andare via chiese il conto, ma Kino gli ricordò che aveva già pagato.
– Ah, è vero, – fece lui quasi con l’aria di scusarsi; si tirò su il colletto dell’impermeabile, mise in testa il cappello a larga tesa, e uscí.
Quando se ne fu andato, Kino uscí a sua volta e fece un giro nei dintorni. Tutto era tranquillo. Non passava anima viva. Non c’erano tracce di rissa, non si vedeva sangue. Cosa poteva mai essere successo? Tornò nel bar e rimase in attesa di clienti. Ma non venne nessuno fino all’ora di chiusura. Non tornò neppure il gatto. Kino si versò in un bicchiere un doppio White Label, ci mise la stessa quantità d’acqua, due piccoli pezzi di ghiaccio e lo assaggiò. Non aveva un gusto speciale. Era quello che era. Ma quella sera Kino aveva bisogno di bere.
Da studente, una volta, in una via laterale di Shinjuku aveva assistito a un litigio fra un tipo che doveva essere uno yakuza e due giovani impiegati. Lo yakuza era un uomo di mezza età dall’aspetto malandato, mentre i due giovani sembravano molto piú in forma. Erano un po’ brilli, motivo per cui avevano sottovalutato l’avversario. Probabilmente conoscevano qualche rudimento di boxe. Ma a un certo punto lo yakuza aveva stretto una mano a pugno e senza dire una parola, con uno scatto repentino, li aveva colpiti senza che quelli nemmeno lo vedessero arrivare. E quando erano a terra li aveva presi furiosamente a calci con la suola delle scarpe di cuoio. Dal rumore, c’era da supporre che avesse spezzato loro diverse ossa. Poi l’uomo si era allontanato a piedi come se nulla fosse. Questo è un professionista, aveva pensato Kino quella volta. Uno che non diceva una parola di troppo, decideva in anticipo le mosse, e colpiva velocissimo, prima che l’avversario avesse il tempo di prepararsi. Lo stendeva, poi infieriva su di lui senza pietà. E se ne andava. Un dilettante non aveva nessuna chance di batterlo.
Kino immaginò la scena in cui Kamita in pochi secondi metteva fuori combattimento quei due uomini. A pensarci bene, dal suo aspetto fisico si poteva immaginare che fosse un pugile. In ogni caso, Kino non aveva modo di sapere cosa fosse successo in quella sera di pioggia. Né di chiedere spiegazioni a lui. Piú si lambiccava il cervello, piú il mistero si infittiva.
Una settimana dopo quell’episodio, Kino andò a letto con una cliente. Era la prima donna con la quale aveva un rapporto da quando si era separato dalla moglie. Doveva avere una trentina d’anni o poco piú. Non la si poteva definire veramente bella, ma aveva lunghi capelli lisci, il naso corto, e qualcosa che attirava gli sguardi. Nel modo di parlare e di muoversi aveva un ineffabile languore e sul viso un’espressione indecifrabile.
Era già venuta diverse volte nel bar di Kino. Sempre insieme a un uomo piú o meno della sua età. L’uomo aveva degli occhiali dalla montatura di tartaruga e il mento ornato da una barbetta in stile beatnik. Capelli lunghi, niente cravatta… dall’aspetto non sembrava un normale impiegato. Lei indossava sempre tubini attillati che mettevano in risalto il suo bel corpo snello. Sedevano ogni volta al bancone e scambiavano qualche parola di tanto in tanto mentre bevevano un cocktail. Non restavano mai a lungo. Kino aveva immaginato che venissero a bere qualcosa prima di andare a letto. Oppure il contrario, dopo aver fatto l’amore. Difficile dirlo. Comunque fosse, nel loro modo di bere c’era qualcosa che per associazione di idee faceva venire in mente un rapporto sessuale. Un rapporto lungo e intenso. Entrambi erano stranamente inespressivi, soprattutto lei, che Kino non aveva mai visto ridere.
La donna ogni tanto gli parlava. Sempre a proposito della musica che in quel momento usciva dalle casse. Il nome dei musicisti, la selezione dei pezzi, cose del genere… Amava il jazz, e possedeva anche lei una piccola collezione di dischi in vinile, disse.
– Mio padre a casa ascoltava spesso questo tipo di musica. Io preferisco cose piú moderne, ma anche questa non mi dispiace, mi mette nostalgia.
Dalle sue parole era difficile capire se a darle nostalgia fosse la musica o il ricordo del padre. Ma Kino non chiese spiegazioni.
A dire la verità, cercava di limitare le chiacchiere con quella donna. Perché l’uomo che l’accompagnava non sembrava gradire troppa confidenza. L’unica volta in cui aveva avuto con lei una vera conversazione sulla musica (avevano scambiato informazioni sui negozi di lp di seconda mano e parlato del modo di maneggiare i dischi), l’uomo gli aveva lanciato occhiate fredde e sospettose. E Kino desiderava tenersi possibilmente lontano da quel genere di grane. Tra tutte le emozioni umane, non ce ne sono di peggiori della gelosia e dell’orgoglio. Kino aveva sofferto a causa di tutte e due. Ogni tanto si chiedeva se non avesse in lui qualcosa che faceva emergere di continuo quel lato oscuro delle persone.
Tuttavia, quella volta lei venne sola. Non c’erano altri avventori. Era una sera in cui pioveva senza sosta. Quando aprí la porta, l’aria della notte si ingolfò nel locale portando l’odore della pioggia. La donna si sedette al bancone, ordinò un brandy e chiese di metterle un disco di Billie Holiday. – Uno dei primi, se possibile, – disse. Kino posò sul piatto dello stereo un vecchio lp della Columbia che comprendeva Georgia on My Mind. Lo ascoltarono insieme, in silenzio. Poi lei chiese di girarlo sul lato B, e Kino eseguí.
La donna bevve tre bicchieri di brandy, mettendoci parecchio tempo, e nel frattempo ascoltò diversi vecchi dischi. Erroll Garner in Moonglow, Buddy DeFranco in I Can’t Get Started. All’inizio Kino era convinto che avesse appuntamento con il solito tipo, ma l’ora di chiusura si avvicinava, e dell’uomo non si vedeva l’ombra. Quanto a lei, non dava veramente l’impressione di aspettarlo. La prova: non guardava mai l’orologio. Ascoltava la musica, seguiva i suoi pensieri, ogni tanto beveva un sorso di brandy. Sembrava che il silenzio non la mettesse a disagio. E il brandy è un genere d’alcol cui il silenzio si addice. Lo si fa oscillare leggermente, se ne osserva il colore, se ne annusa l’aroma… e intanto si fa passare il tempo. Lei indossava un leggero cardigan blu su un abito nero a mezze maniche. Alle orecchie aveva dei piccoli orecchini di perle.
– Oggi il suo amico non è venuto? – si decise a chiederle Kino poco prima della chiusura.
– No, oggi non viene. Perché sta in un posto molto lontano, – rispose lei; poi si alzò dal suo sgabello, si avvicinò al gatto addormentato e con la punta delle dita cominciò ad accarezzarlo con dolcezza sulla schiena. Il gatto seguitò a dormire senza badarle.
– D’ora in poi, non abbiamo intenzione di vederci piú, – proseguí lei come se volesse dare una spiegazione. O forse stava parlando al gatto.
In ogni caso, Kino non sapeva come rispondere. Al di là del bancone, continuò semplicemente a riordinare, senza dire una parola. Pulí il ripiano della cucina, lavò gli utensili e li ripose in un cassetto.
– Come dire… – riprese lei smettendo di accarezzare il gatto e tornando verso il bancone: i suoi tacchi alti risuonavano sul pavimento. – Sa, la nostra non è una relazione che si possa definire normale.
– Non si può definire normale… – ripeté pedestremente Kino.
La donna finí di bere il brandy che restava nel bicchiere.
– C’è una cosa che vorrei mostrarle, signor Kino, – disse.
Di qualsiasi cosa si trattasse, Kino non aveva alcuna voglia di vederla. Non era obbligato a farlo. Lo sapeva benissimo fin dall’inizio. Eppure in quel momento non riuscí a pronunciare le parole che avrebbe dovuto.
Lei si tolse il cardigan e lo posò su uno sgabello. Portò le mani dietro la nuca e tirò giú la cerniera del vestito. Poi voltò la schiena verso Kino. Poco al di sotto della stringa del reggiseno, si vedevano alcuni piccoli lividi. Erano di un grigio carbone sbiadito, e la loro disposizione irregolare faceva pensare a una costellazione invernale. Una serie di scure stelle spente. Potevano essere i segni lasciati da un’eruzione dovuta a una malattia contagiosa. O le cicatrici di una ferita.
Per lunghi minuti la donna mostrò a Kino la schiena nuda, senza parlare. Il grigiore dei lividi faceva uno strano contrasto col bianco splendente del reggiseno nuovo. Kino la guardava in silenzio, come qualcuno a cui sia stata fatta una domanda di cui non capisce il significato. Non riusciva a distogliere gli occhi dalla sua schiena. Finalmente la donna tirò su la cerniera e si voltò. Si rimise il cardigan e come per prendere tempo si rassettò i capelli.
– Mi hanno spento delle sigarette sulla pelle, – disse con naturalezza.
Kino rimase un attimo senza parole. Però doveva dire qualcosa.
– Chi le ha fatto una cosa del genere? – le chiese con la gola improvvisamente asciutta.
Lei non rispose. Né dava segno di volerlo fare. D’altronde Kino non aveva bisogno di aspettare la risposta.
– Chissà se posso prendere ancora un brandy… – disse la donna.
Kino le riempí di nuovo il bicchiere. Lei ne bevve un sorso e assaporò il calore dell’alcol che lentamente scendeva fino in fondo al petto.
– Sa, signor Kino, – disse poi.
Kino, che stava asciugando un bicchiere, si fermò e alzò il viso a guardarla.
– Ne ho altri, di questi segni, – concluse lei con indifferenza. – In posti un po’ imbarazzanti da mostrare.
Per quale moto del cuore quella sera aveva iniziato una relazione con lei, Kino non lo ricordava. Che quella donna avesse qualcosa di speciale, l’aveva sentito fin dall’inizio. Qualcosa che silenziosamente aveva messo in allarme il suo istinto: con questa qui, meglio non lasciarsi coinvolgere piú di tanto. Oltretutto c’erano quelle tracce di bruciature di sigaretta sulla schiena. Kino era un uomo prudente di natura. Quando provava il bisogno di un corpo femminile, poteva rivolgersi a una professionista. Pagava, e la cosa finiva lí. Inoltre lei non era il suo tipo.
Quella sera però, quella donna provava l’intenso desiderio di fare l’amore con un uomo – nella fattispecie con Kino. Il suo sguardo mancava di profondità, solo le sue iridi erano stranamente dilatate. C’era determinazione in esse, un luccichio che non consentiva tentennamenti. Kino non era riuscito a resistere a tanta energia. Non ne aveva la forza.
Chiuse il bar e salí con la donna la scala che portava al piano di sopra. Nella camera da letto illuminata lei si sfilò in fretta il vestito, si tolse la biancheria intima e gli aprí il suo corpo. Gli fece vedere quei posti «un po’ imbarazzanti da mostrare». D’istinto, Kino distolse gli occhi. Per un attimo, poi guardò. Non capiva quale sentimento potesse spingere un uomo ad azioni tanto crudeli, e una donna a sopportare tanto dolore, né aveva voglia di capirlo. Era qualcosa che distava anni luce dal suo mondo, il paesaggio desolato di un pianeta sterile.
La donna gli prese la mano e la portò sulle cicatrici delle bruciature. Gliele fece toccare tutte una per una. Ne aveva anche vicino ai capezzoli, vicino al sesso. Guidate dalla mano di lei, le dita di Kino seguirono quei segni scuri e induriti. Come quando con una matita si traccia una linea che unisce dei punti numerati, finché appare una figura. Il perimetro di quei segni gli ricordava qualcosa, ma alla fine non riuscí a collegarlo a nulla. Poi la donna gli tolse i vestiti e fece sesso con lui sui tatami della stanza. Senza conversazioni né preliminari, senza prendere il tempo di spegnere la luce o tirar fuori il futon. Gli spinse la lingua tra le labbra, gli conficcò le unghie nella schiena.
Come due belve affamate, sotto la luce accesa, senza parlarsi, i due si saziarono piú volte della carne bramata. Fecero l’amore in tanti modi e tante posizioni, senza quasi fermarsi. Smisero quando fuori dalla finestra cominciava ad albeggiare: si infilarono nel futon e si addormentarono come se venissero trascinati via dalle tenebre. Poco prima di mezzogiorno, quando Kino aprí gli occhi, la donna se n’era già andata. Aveva l’impressione di aver fatto un sogno tremendamente realistico. Ma non era stato un sogno. Sulla schiena aveva ancora i segni profondi delle unghie di lei, sul petto quelli dei suoi morsi, e il pene che lei gli aveva stretto forte era ancora dolorante. Sul cuscino bianco c’erano alcuni lunghi capelli neri che disegnavano dei mulinelli, e nelle lenzuola era rimasto un intenso, strano odore.
In seguito, lei era tornata ancora diverse volte al bar. Sempre insieme all’uomo con la barbetta. Si sedevano al bancone, bevevano un cocktail dopo l’altro parlando tranquillamente, e se ne andavano. La donna ogni tanto scambiava qualche parola con Kino, di solito riguardo alla musica. Dal suo tono noncurante, si sarebbe detto che non ricordasse nulla di quella notte. In fondo ai suoi occhi però c’era la luce di un intenso desiderio. Kino la poteva vedere. C’era e brillava come una lanterna in fondo a una galleria buia, senza possibilità di dubbio. A Kino quella luce intensa faceva tornare in mente il dolore provato quando lei gli aveva conficcato le unghie nella schiena o stretto forte il pene, il movimento rotatorio della sua lunga lingua, e l’insolito, intenso odore rimasto nel futon. Gli diceva che non avrebbe mai potuto dimenticare.
Mentre Kino e la donna parlavano, l’uomo che era con lei osservava attentamente, con l’occhio di un lettore esperto in grado di leggere fra le righe, l’atteggiamento di Kino, l’espressione del suo viso. Tra quell’uomo e quella donna si intuiva l’esistenza di una sorta di feeling vischioso, appiccicaticcio. Sembravano condividere, loro due soltanto, un pesante segreto. Kino, come sempre, non riusciva a capire se venissero al bar prima di fare sesso o dopo. Ma da una delle due alternative non si scappava, su questo non aveva dubbi. Inoltre, altro dettaglio che trovava strano, né l’uno né l’altra fumavano.
Prima o poi la donna, probabilmente in una notte di pioggia tranquilla, sarebbe venuta da sola. Sarebbe venuta quando l’uomo con la barbetta si fosse trovato «in un posto molto lontano». Kino lo sapeva. Glielo diceva quella luce intensa che le vedeva in fondo agli occhi. Si sarebbe seduta al bancone, avrebbe bevuto in silenzio diversi brandy, in attesa che arrivasse l’ora di chiusura. Poi sarebbe salita con lui al primo piano, si sarebbe svestita, avrebbe dischiuso il suo corpo sotto la lampada e mostrato i segni delle bruciature recenti. Insieme avrebbero di nuovo fatto sesso come due bestie. Senza pensare a nulla, finché non fosse arrivata l’alba. Prima o poi sarebbe successo, ma chissà quando… Il momento l’avrebbe deciso lei. A quel pensiero, Kino sentiva la gola seccarsi. E una sete che, per quanta acqua bevesse, non poteva placare.
Verso la fine dell’estate il divorzio divenne finalmente ufficiale, e in quell’occasione per la prima volta Kino incontrò l’ex moglie. Restavano diverse questioni da sistemare, e l’avvocato di lei aveva fatto sapere a Kino che la signora desiderava parlargli a quattr’occhi. Decisero di vedersi al bar di lui, prima dell’apertura.
Risolti in fretta tutti i problemi (Kino non si era opposto a nessuna delle richieste presentategli), gli ex marito e moglie firmarono i documenti. Lei indossava un abito azzurro e aveva i capelli molto piú corti di prima. Sembrava anche piú serena e in migliori condizioni fisiche. Aveva pure perso quel filo di grasso che all’epoca aveva iniziato ad accumulare sulle braccia. Insomma, aveva iniziato una vita nuova e probabilmente piú piena. Si guardò attorno e disse che quel bar era davvero un bel locale, che in qualche modo rifletteva la personalità di Kino: tranquillo e pulito, aveva un’atmosfera rilassante. Seguí un breve silenzio. «Ma privo di qualcosa che faccia veramente vibrare il cuore», Kino immaginò che volesse aggiungere.
– Bevi qualcosa? – le chiese.
– Un sorso di vino rosso, se ne hai.
Kino prese due bicchieri da vino e vi versò dello Zinfandel della Napa Valley. Bevvero in silenzio. Non era il caso di brindare alla conclusione della pratica di divorzio. Il gatto si avvicinò e saltò sulle ginocchia di Kino, cosa che faceva raramente. Lui lo accarezzò dietro le orecchie.
– Devo chiederti scusa, – disse lei.
– Di cosa? – chiese Kino.
– Di averti ferito. Perché sei rimasto ferito, no? Almeno un po’…
– Be’, sí… – fece Kino dopo una pausa. – Sono anch’io un essere umano, quindi sono vulnerabile. Se tu mi abbia ferito tanto o poco, però, non saprei dirlo.
– Se ho voluto vederti, è perché trovavo doveroso scusarmi.
Kino annuí.
– Tu ti sei scusata, e io ho accettato le tue scuse. Quindi possiamo anche archiviare l’argomento.
– Avrei voluto confessarti tutto prima che accadesse quello che è accaduto, ma non ne avevo il coraggio.
– Sí, ma comunque la si rigiri, l’esito sarebbe stato lo stesso, no?
– È vero, – ammise lei. – Però, se ti avessi parlato… invece ho aspettato, ho aspettato, ed è finita nel peggiore dei modi.
Kino portò in silenzio il bicchiere alle labbra. Se doveva essere sincero, cosa fosse successo quella volta non se lo ricordava quasi piú. La sua memoria non riusciva a mettere nel giusto ordine gli eventi. Come l’indice sottosopra di un libro.
– Non è colpa di nessuno, – disse. – Forse sarebbe stato meglio che io non fossi tornato a casa con un giorno d’anticipo. Oppure che ti avessi avvisata prima. Avremmo evitato quel finale.
La moglie non disse nulla.
– Da quanto tempo durava la relazione con lui?
– Preferirei non parlarne.
– Vuoi dire che è meglio che io non lo sappia?
Lei tacque.
– Già, forse hai ragione, – riconobbe Kino, riprendendo a carezzare il gatto. Il gatto si mise a fare le fusa, era la prima volta che succedeva.
– Forse non toccherebbe a me darti questo consiglio, – disse la donna che era stata sua moglie, – ma faresti meglio a dimenticare tutto al piú presto, iniziare una nuova storia con un’altra persona.
– Mah, chissà… – rispose Kino.
– Sicuramente da qualche parte c’è una donna adatta a te. Non penso che avrai difficoltà a trovarla. Io non sono stata capace di diventarlo, e ti ho fatto una cosa crudele. Ne sono veramente desolata. Ma tra noi due, fin dall’inizio, era come… come dei bottoni sfasati rispetto alle asole. Tu sei una persona che può trovare la felicità in modo piú semplice.
«Dei bottoni sfasati rispetto alle asole», pensò Kino.
Guardò il vestito azzurro che lei indossava. Dato che le sedeva di fronte, non poteva sapere come si chiudesse sulla schiena. Non riuscí a fare a meno di rivedere col pensiero il corpo che sarebbe apparso tirando giú la cerniera o slacciando i bottoni. Un corpo che ormai non gli apparteneva piú. Che non poteva piú né guardare né toccare. Poteva soltanto immaginarlo. Ma se chiudeva gli occhi, sulla schiena bianca e liscia di lei vedeva infiniti segni scuri lasciati da bruciature, segni che si contorcevano irrequieti come uno sciame di insetti vivi e si muovevano strisciando in tante direzioni. Per scacciare quella fantasia sinistra, Kino scosse leggermente il capo due o tre volte. Un movimento di cui sua moglie sembrò comprendere il significato.
Posò con dolcezza la mano su quella di Kino.
– Ti chiedo perdono, – disse. – Davvero.
Quando venne l’autunno, prima sparí il gatto, poi cominciarono a comparire i serpenti.
Prima che Kino si accorgesse che il gatto non c’era piú, passarono alcuni giorni. Perché quel randagio senza nome veniva nel locale soltanto quando ne aveva voglia, e succedeva spesso che per un po’ di tempo non si facesse vedere. I gatti sono creature che tengono molto alla loro libertà. Probabilmente trovava del cibo anche in altri posti. Quindi non c’era da preoccuparsi se per una settimana o una decina di giorni non compariva. Quando la sua assenza si prolungò oltre le due settimane, però, Kino cominciò a inquietarsi. Non era mica finito sotto una macchina, per caso? Passate tre settimane, capí che non sarebbe mai piú tornato.
Kino a quel gatto si era affezionato. Gli dava da mangiare, gli aveva preparato una cuccia, e cercava di disturbarlo il meno possibile. Anche il gatto sembrava legato a lui, e per essere gentile, o per non mostrarsi ostile, lo ricompensava con la sua presenza. Era come se svolgesse il ruolo di nume protettore del locale. Finché c’era lui, tranquillamente addormentato in un angolo, sembrava che non potesse accadere niente di brutto.
Piú o meno all’epoca in cui sparí il gatto, iniziarono a farsi vedere dei serpenti.
Il primo era marrone scuro. Piuttosto lungo. Avanzava contorcendosi sotto il salice che faceva ombra al giardino. Kino stava prendendo dalla tasca la chiave di casa, una busta piena di vettovaglie su un braccio, quando lo vide. Vedere un serpente in pieno centro di Tōkyō non è una cosa che capiti tutti i giorni. Ne fu un po’ sorpreso, ma non vi diede molta importanza.
Tuttavia due giorni dopo, verso mezzogiorno, quando dall’interno aprí la porta per prendere il giornale, scorse un altro serpente, di nuovo sotto il salice. Questo aveva un colore bluastro. Era piú piccolo del primo e d’aspetto viscido… Percependo la presenza di Kino, si bloccò, alzò leggermente la testa e lo guardò in faccia (perlomeno, questa era l’impressione che dava). Mentre Kino si chiedeva perplesso cosa fare, il serpente abbassò la testa e sparí nell’ombra con un guizzo. Kino non poté fare a meno di provare un senso di repulsione. Perché il serpente sembrava conoscerlo.
Fu tre giorni dopo che vide il terzo, quasi nello stesso posto dei primi due. Questo era molto piú corto, e di colore nerastro. Kino non sapeva nulla di serpenti. Però intuí che era estremamente pericoloso. Con ogni probabilità il suo morso era letale, ma come verificarlo? L’aveva visto soltanto per pochi secondi. Perché anche questo serpente, avvertita la sua presenza, si era dileguato nell’erba. Tre serpenti in una settimana erano davvero troppi. Stava succedendo qualcosa, da quelle parti.
Telefonò a sua zia a Izu. Dopo averle raccontato brevemente come andavano le cose, le chiese se avesse mai visto dei serpenti intorno a quella villetta di Aoyama.
– Dei serpenti? – ripeté la zia sbalordita. – Quelli… quelli che strisciano, vuoi dire?
Kino le spiegò che per ben tre volte aveva visto dei serpenti nel giardino di casa.
– Ci ho vissuto molti anni, lí, ma non ricordo di aver mai visto un serpente, – rispose la zia.
– Quindi non è normale, vero? Vederne tre di fila in una settimana…
– No che non lo è. Per niente. Può darsi che sia un segno premonitore, che stia per arrivare un forte terremoto. Gli animali sentono in anticipo quando sta per succedere qualcosa, e si comportano in modo anomalo.
– In tal caso, è meglio fare scorta di cibo, – disse Kino.
– Sí, meglio. Tanto, vivendo a Tōkyō, puoi star sicuro che prima o poi un terremoto arriva.
– Ma è normale che i serpenti si preoccupino tanto dei terremoti?
La zia gli disse che non sapeva assolutamente di cosa si preoccupassero i serpenti. E naturalmente non ne aveva idea nemmeno Kino.
– Però sono animali furbi, – disse la zia. – Nella mitologia antica, spesso fanno da guida agli esseri umani. Stranamente, è una cosa che si ritrova in miti e leggende di tutto il mondo. Ma per capire se portano in una direzione buona o cattiva, è necessario seguirli. Cioè in molti casi può essere al tempo stesso sia l’una che l’altra cosa.
– Sono ambigui, insomma, – fece Kino.
– Appunto. I serpenti sono per natura animali ambigui. E il piú grande e furbo di tutti, per non venire ucciso nasconde il cuore da un’altra parte. Cosí, se lo vuoi ammazzare, devi entrare nella sua tana quando lui non c’è, trovare il suo cuore che batte e tagliarlo in due. Va da sé che non è una cosa facile.
Kino era impressionato da quanto estese fossero le conoscenze della zia.
– Lo diceva qualche giorno fa alla televisione un professore di non so piú quale università. Sul canale nazionale c’era un programma in cui paragonavano i miti del mondo. Ti insegnano un sacco di cose utili, alla televisione. La gente sbaglia a parlarne male. Dovresti guardarla di piú anche tu, quando hai tempo.
Da quella conversazione con sua zia, Kino aveva capito almeno una cosa: che vedere tre serpenti diversi in una settimana non era normale.
A mezzanotte chiuse il locale e salí al primo piano. Fece il bagno, lesse un po’… erano quasi le due quando spense la luce. In quel momento ebbe l’impressione di essere circondato da serpenti. Avevano accerchiato la casa in numero incalcolabile. Riusciva a percepirli acquattati nel giardino. A notte fonda tutto taceva nel quartiere, l’unico rumore che si sentisse ogni tanto era la sirena di qualche ambulanza. I serpenti si avvicinavano strisciando, gli sembrava di sentirli. Per impedire loro di entrare in casa, chiuse la gattaiola inchiodandoci sopra un’asse.
Almeno per il momento, non sembravano voler fare nulla di male a Kino. Si accontentavano di circondare silenziosamente, ambiguamente, quella villetta. Ecco forse il motivo per cui il gatto grigio non era piú venuto! Anche la donna con i segni delle bruciature sembrava sparita. Nelle sere di pioggia Kino temeva di vederla entrare da sola, e al tempo stesso, nel segreto del suo cuore, lo sperava. Anche questa era una cosa ambigua.
Una sera, poco prima delle dieci, ricomparve Kamita. Ordinò una birra, bevve un doppio White Label, e mangiò persino degli involtini di verza. Non era mai successo che venisse cosí tardi, e che si fermasse tanto a lungo. A tratti alzava gli occhi dal libro che stava leggendo e si metteva a fissare il muro di fronte a sé. Sembrava assorto in qualche pensiero. Comunque attese l’ora di chiusura, quando l’unico cliente rimasto nel bar era lui.
– Signor Kino, – disse con voce diversa, come se avesse fatto le dovute considerazioni, – sono davvero desolato che sia successa una cosa del genere.
– Una cosa del genere? – ripeté Kino sorpreso.
– Che lei debba chiudere questo locale. Anche solo temporaneamente.
Kino lo guardò a bocca aperta. Chiudere il locale?
Kamita diede un’occhiata attorno, per assicurarsi che non ci fosse piú nessuno. Poi guardò Kino in faccia.
– Sbaglio, o il significato delle mie parole non le è ancora chiaro?
– Infatti. Non capisco di cosa lei stia parlando.
– A me piaceva, questo posto, – riprese Kamita col tono di chi dà una spiegazione. – Potevo leggere indisturbato, e anche la musica era di mio gradimento. Ero molto contento quando lei l’ha aperto in questa strada. Ma purtroppo pare che siano venute a mancare molte cose.
– Molte cose? – Che significato avevano, concretamente, quelle parole? Kino non capiva. L’unica cosa che gli veniva in mente era una ciotola col bordo un po’ sbeccato.
– Anche quel gatto grigio non tornerà piú, vero? – chiese Kamita senza dare una risposta. – Almeno per un bel po’.
– Non torna perché qui mancano delle cose?
Di nuovo Kamita non rispose alla domanda.
Kino a sua volta si guardò intorno attentamente, ma non notò nulla di anormale. Semplicemente il locale sembrava avere meno energia vitale e colore del solito, anche dopo l’orario di chiusura.
– Lei non è il genere di persona che fa intenzionalmente qualcosa di scorretto. Questo lo so bene. Ma a questo mondo astenersi dal far male non sempre basta. Ci sono persone che credono di cavarsela evitando di agire. Mi capisce?
No, Kino non ci capiva niente. Lo disse.
– Ci pensi bene, – fece Kamita guardandolo dritto negli occhi. – È un problema grave che ha bisogno di una riflessione profonda. Un problema cui non è facile trovare una risposta.
– Cioè, sta dicendo che il problema si è verificato non perché io abbia fatto qualcosa di scorretto, ma perché non ho fatto la cosa giusta. Un problema che riguarda questo locale, oppure la mia persona…
Kamita annuí.
– Le cose stanno proprio cosí. Ma non ho intenzione di dare la colpa solo a lei. Anche io avrei dovuto rendermi conto della situazione molto prima. C’è stata negligenza anche da parte mia. Non sono soltanto io a sentirmi a mio agio in questo posto, sono sicuro che tutti ci si trovano bene.
– Ma io adesso cosa dovrei fare? – chiese Kino.
Kamita taceva, le mani infilate nelle tasche dell’impermeabile.
– Chiuda il locale per un certo periodo, vada lontano, – disse poi. – Per il momento, pare che non ci sia molto altro che lei possa fare. Se conosce qualche bonzo insigne, si faccia recitare dei sutra e gli chieda degli amuleti da affiggere tutt’intorno alla casa. Di questi tempi però non se ne trovano facilmente, di persone cosí. Quindi è meglio che lei se ne vada da qui prima delle prossime piogge. Scusi l’indiscrezione, ma ha soldi a sufficienza per intraprendere un lungo viaggio?
– Be’, dipende dalla durata, ma per qualche tempo dovrei farcela, – disse Kino.
– Tanto meglio. A quello che succederà dopo, ci penserà quando sarà il momento.
– Sí, ma scusi… lei chi è?
– Io sono soltanto Kamita. Si scrive con gli ideogrammi di «divinità» e «risaia», ma non si legge Kanda. Abito nel quartiere da molti anni.
– Signor Kamita, c’è una cosa che vorrei chiederle, – disse Kino d’impulso. – Lei per caso ha visto dei serpenti da queste parti, negli ultimi tempi?
A quella domanda Kamita non rispose.
– Mi ha capito bene, vero? – disse invece. – Vada lontano e si sposti di frequente, mi raccomando. Un’altra cosa: ogni lunedí e ogni giovedí mi mandi una cartolina illustrata. Cosí saprò che lei è sano e salvo.
– Una cartolina illustrata?
– Sí, una qualunque, basta che sia del posto dove si trova.
– Ma a chi devo indirizzarla?
– A sua zia a Izu. Ma non scriva il nome del mittente, e niente messaggi, nemmeno un rigo. Scriva solo il nome e l’indirizzo del destinatario. Non lo dimentichi, è molto importante.
– Lei è amico di mia zia? – chiese Kino al colmo dello stupore, guardando l’uomo.
– Sí, la conosco bene. A dire la verità, è lei che si è rivolta a me a titolo precauzionale. Mi ha chiesto di tenerla d’occhio, in modo che non le succedesse nulla di brutto. Ma pare che io non sia stato all’altezza delle sue aspettative.
Insomma, chi diavolo era quell’uomo, cosa voleva? Ma se non era lui a spiegarglielo di sua iniziativa, Kino non aveva modo di saperlo.
– Quando riterrò che potrà tornare, glielo farò sapere. Nel frattempo, si tenga lontano da qui. Sono stato chiaro?
Quella notte, Kino fece i bagagli in vista del viaggio. «È meglio che lei se ne vada da qui prima delle prossime piogge». Un avviso troppo brusco, senza una spiegazione. E nessuna logica nel susseguirsi degli eventi. Kino però credeva fermamente alle parole di Kamita. Era una storia assurda, ma per qualche motivo non dubitava che fosse vera. Il discorso di Kamita aveva una strana, irrazionale forza di persuasione. Infilò dei vestiti di ricambio e alcuni effetti personali in una sacca di medie dimensioni. La stessa che portava con sé quando si spostava per lavoro, all’epoca in cui era impiegato nella ditta di articoli sportivi. Sapeva bene cosa fosse necessario e cosa no, per un lungo viaggio.
Sul far dell’alba affisse con una puntina da disegno un foglio di carta sulla porta del bar: Chiedo scusa per non aver avvisato prima, ma il locale al momento è chiuso. «Vada lontano», aveva detto Kamita. Ma in pratica non gli veniva in mente nessun posto. Doveva dirigersi a nord? A sud? Non sapeva nemmeno quello, di conseguenza decise di seguire lo stesso percorso che faceva spesso quando vendeva scarpe da corsa. Prese un autobus delle linee interregionali e andò a Takamatsu. Aveva intenzione di fare un giro per lo Shikoku, poi passare nel Kyūshū.
A Takamatsu si fermò in un modesto hotel vicino alla stazione e vi passò tre giorni. Girovagò per la città, vide diversi film. I cinema durante la giornata erano quasi vuoti, e proiettavano pellicole mediocri. Al calar della sera tornava in albergo e accendeva la televisione. Guardava soprattutto il programma educativo che gli aveva consigliato sua zia, ma non ottenne nessuna informazione che avrebbe potuto essergli utile. Il secondo giorno – un giovedí –, comprò una cartolina illustrata in un minimarket, l’affrancò e la spedí alla zia. Ci scrisse sopra soltanto il nome e l’indirizzo, come gli aveva detto Kamita.
La sera del terzo giorno pagò i servizi di una prostituta. Il numero di telefono glielo diede un tassista. Era una ragazza giovane, sui vent’anni, e aveva un bel corpo liscio e snello. Ma fare sesso con lei fu insipido dall’inizio alla fine. Era soltanto un mezzo per placare la libido, ma a dire la verità non placò un bel niente. Al contrario, a cose fatte Kino aveva piú sete di prima.
«Ci pensi bene, – aveva detto Kamita. – È un problema grave che ha bisogno di una riflessione profonda». Ma per quanto si scervellasse, Kino non riusciva a capire in cosa consistesse il problema.
Quella notte pioveva. Non molto forte, era la tipica pioggia autunnale che sembra non dover smettere mai. Senza pause e senza variazioni d’intensità, come una monotona confessione ripetuta piú volte. Kino non ricordava nemmeno quando era iniziata, quella pioggia che portava con sé soltanto una fredda apatia. Non aveva nessuna voglia di uscire con l’ombrello per cercare un ristorante. In realtà poteva anche fare a meno di cenare. Il vetro della finestra accanto al letto era coperto di goccioline d’acqua che si rinnovavano di continuo. Kino non riusciva a staccare gli occhi dai minimi mutamenti che avvenivano su quel vetro, perso in pensieri sconclusionati. Al di là si estendeva la città con le sue strade buie. Da una bottiglietta si versò del whisky in un bicchiere, vi aggiunse la stessa quantità d’acqua minerale e bevve. Senza ghiaccio. Non se la sentiva nemmeno di trascinare i piedi fino al distributore di ghiaccio in corridoio. La sensazione tiepida del liquido era in perfetta sintonia con la fiacchezza che aveva in corpo.
Una volta si fermò in un business hotel2 vicino alla stazione di Kumamoto. Il soffitto era basso, il letto stretto, e tutto nella stanza – televisore, vasca da bagno, frigorifero – era molto piccolo. Lí dentro aveva l’impressione di essere diventato un gigante. Ma quella mancanza di spazio non l’opprimeva. Rimase chiuso in camera tutta la giornata. Anche a causa della pioggia, non mise mai il naso fuori, se non per andare al minimarket piú vicino, dove comprò una bottiglietta di whisky, acqua minerale e dei cracker. Steso sul letto leggeva, quando si stufava guardava la televisione, poi riprendeva a leggere…
A Kumamoto rimase tre giorni. In banca gli restava ancora denaro a sufficienza, e volendo avrebbe potuto fermarsi in alberghi migliori. Ma nella situazione in cui si trovava, sentiva che quel genere di posto era piú adatto a lui. Standosene tranquillo in una piccola stanza, non aveva bisogno di preoccuparsi di niente e gli bastava stendere la mano per raggiungere la maggior parte delle cose. Era una situazione che apprezzava. Se avesse anche potuto ascoltare la musica, non gli sarebbe mancato piú nulla. Teddy Wilson, Vic Dickenson, Buck Clayton… a volte gli veniva un desiderio indolente di ascoltare quei musicisti jazz d’altri tempi. Una tecnica sicura, accordi semplici, la gioia genuina di suonare, l’ottimismo addirittura prodigioso… Ciò che Kino desiderava in quei momenti era proprio quella musica, una musica che ormai non esisteva piú. Ma la sua collezione di dischi era lontana, era rimasta in un posto lontano. Gli venne in mente il suo bar ormai chiuso, buio e silenzioso. Il grande salice in fondo alla stradina. Immaginò i clienti che arrivavano, leggevano il foglio attaccato alla porta, e se ne andavano rassegnati. E il gatto, dov’era finito? Anche se fosse tornato, vedendo che non c’era piú possibilità di entrare e uscire, sarebbe andato via deluso. E chissà se quei misteriosi serpenti accerchiavano ancora zitti zitti la casa…
Di fronte a quella stanza all’ottavo piano c’era un palazzo di uffici. Era un edificio alto e stretto costruito con materiali scadenti, attraverso le cui finestre, al piano corrispondente al suo, Kino poteva vedere diverse persone lavorare dal mattino alla sera. Qua e là le veneziane erano tirate giú, quindi la visuale era frammentaria e non permetteva di capire in quale settore operasse quella ditta. C’erano uomini in giacca e cravatta che entravano e uscivano, donne che battevano sulla tastiera dei computer, rispondevano al telefono, mettevano in ordine dei documenti. Non era uno spettacolo che lo attraesse particolarmente. Anche le facce e il modo di vestire di quelle persone erano del tutto banali. Se Kino le guardava per ore senza stancarsi, era solo perché non aveva nient’altro da fare. Ma la cosa che trovava strana, anzi, che lo riempiva di stupore, era che quella gente a volte sembrava veramente divertirsi. C’era anche chi ogni tanto si faceva una bella risata. Assurdo! Cosa c’era di tanto piacevole nel lavorare per tutto il giorno in quello squallido ufficio, svolgendo mansioni che Kino non riusciva a immaginare interessanti? Quel posto era depositario di un importante segreto a lui incomprensibile? A quel pensiero Kino si sentiva un po’ inquieto.
Ma era tempo di pensare alla località successiva. «Si sposti di frequente, mi raccomando», gli aveva detto Kamita. Per qualche ragione misteriosa, però, Kino era riluttante a staccarsi da quell’angusto business hotel di Kumamoto. C’erano posti dove gli sarebbe piaciuto andare? Paesaggi che gli sarebbe piaciuto vedere? Non gli veniva in mente nulla. Il mondo era un immenso oceano privo di punti di riferimento, e Kino una barchetta che aveva perso carta nautica e ancora. Quando apriva la cartina del Kyūshū per cercare di capire dove avrebbe potuto dirigere i suoi passi, veniva preso da una leggera nausea, come se avesse il mal di mare. Sdraiato sul letto leggeva, ogni tanto alzava il capo e osservava la gente al lavoro nell’ufficio di fronte. Man mano che il tempo passava perdeva peso e sentiva la pelle diventare quasi trasparente.
Il giorno prima, lunedí, aveva comprato al negozio dell’albergo una cartolina raffigurante il castello di Kumamoto, vi aveva scritto il nome e l’indirizzo di sua zia, e incollato un francobollo. Poi con la cartolina in mano era rimasto a lungo a osservare, sovrappensiero, la fotografia del castello. Il genere di veduta perfetto per una cartolina. Una fortezza che si stagliava maestosa contro il cielo azzurro e nuvole bianche sullo sfondo. Anche detto Ginnan-jō. Uno dei tre piú importanti castelli in Giappone, diceva la didascalia. Per quanto lo guardasse, Kino non riusciva a trovare un punto di contatto fra quel castello e se stesso. Allora voltò la cartolina, e nello spazio bianco scrisse d’impulso due righe per la zia: Come stai? Come va la tua schiena? Io sto ancora girovagando da solo. A volte ho l’impressione di essere diventato per metà trasparente. Come se si potessero vedere le mie viscere, come se fossi una seppia appena pescata. Ma a parte questo, sto bene. Prima o poi penso di passare da Izu. Kino.
Non sapeva quale moto dell’animo l’avesse spinto in quel momento a scrivere quel messaggio. Kamita gliel’aveva severamente proibito. «Solo il nome e l’indirizzo del destinatario, nient’altro! Non lo dimentichi», gli aveva detto. Ma Kino non era riuscito a trattenersi. Doveva ricollegarsi in qualche modo alla realtà. Altrimenti non sarebbe piú stato se stesso. La sua mano, quasi automaticamente, aveva riempito di ideogrammi minuscoli e precisi il piccolo spazio bianco. Prima di cambiare idea, era subito andato a infilare la cartolina nella buca per le lettere vicino all’albergo.
Quando aprí gli occhi, la sveglia digitale sul comodino segnava le 2 e 15 del mattino. Qualcuno bussava alla porta della stanza. Non erano colpi forti, erano brevi, duri e concisi come quelli che dà un bravo carpentiere dalle braccia robuste quando conficca un chiodo nel legno. Inoltre la persona che bussava sembrava sapere bene che quei colpi arrivavano alle orecchie di Kino. Sapeva che lo tiravano fuori dal sonno profondo delle prime ore del mattino, da una breve, compassionevole pausa di riposo, per riportare, instancabili e crudeli, la sua coscienza alla piena lucidità.
Kino sapeva chi era, chi gli chiedeva con tanta ostinazione di uscire dal letto e aprire la porta. E sapeva che non poteva aprire la porta dall’esterno. Solo lui, Kino, poteva farlo, dall’interno.
Ancora una volta, quella visita era la cosa che piú desiderava, e al tempo stesso piú temeva. Proprio in questo consiste l’ambiguità, nell’occupare lo spazio fra due estremi. «Perché sei rimasto ferito, no? Almeno un po’…», gli aveva chiesto sua moglie. Le aveva risposto che anche lui era un essere umano, quindi vulnerabile, come tutti. Ma non era vero. O perlomeno era una mezza bugia. Non era rimasto ferito abbastanza, non quanto avrebbe dovuto, ammise Kino. Invece di soffrire veramente, aveva represso le sensazioni essenziali. Aveva evitato di affrontare di petto la realtà per risparmiarsi un grave dolore, col risultato che si era svuotato di ogni capacità di provare sentimenti. Cosí i serpenti si erano impossessati di quella cavità e avevano cercato di nascondere lí il loro gelido cuore.
«Non sono soltanto io a sentirmi a mio agio in questo posto, sono sicuro che tutti ci si trovano bene», erano state le parole di Kamita. Finalmente Kino capiva cosa aveva voluto dirgli.
Si tirò il piumone sulla testa, chiuse gli occhi e si tappò le orecchie con le mani, per rifugiarsi nel suo piccolo mondo angusto. Non vedo nulla e non sento nulla, disse a se stesso. Ma era tutto inutile. Poteva anche fuggire in capo al mondo e sigillarsi le orecchie con l’argilla: finché fosse stato in vita, finché avesse conservato un barlume di coscienza, il rumore di quei colpi lo avrebbe perseguitato. Non venivano dati alla porta di una camera d’albergo, ma a quella del suo cuore. Era un suono cui nessuno poteva sfuggire. E fino all’alba – ammesso che arrivasse ancora un’alba – dovevano passare lunghe ore.
Dopo un tempo che non riuscí a calcolare, a un certo punto si accorse che i colpi erano cessati. La stanza era di nuovo silenziosa come la faccia in ombra della luna. Kino però, sempre nascosto sotto il piumone, non si mosse. Non doveva essere imprudente. Soffocando ogni segno della sua presenza, tese le orecchie e nel silenzio cercò di percepire qualche indizio funesto. Quel «qualcuno» dall’altra parte della porta non era tipo da arrendersi cosí facilmente. Tanto piú che non aveva fretta. In cielo non c’era la luna, solo l’ombra nera di costellazioni estinte. Ancora per qualche tempo il mondo apparteneva a «quelli lí». «Quelli lí» avevano tante modalità diverse. Le loro richieste potevano prendere molte forme. Potevano estendere le loro radici scure fino a raggiungere il centro della terra. Con pazienza, mettendoci tutto il tempo che ci voleva, erano in grado di trovare il punto debole che permetteva di spezzare anche la roccia piú dura.
Come Kino aveva immaginato, i colpi ripresero. Questa volta però provenivano da un’altra parte. Anche la vibrazione del suono era differente. Ed erano molto piú vicini di prima, li sentiva letteralmente accanto al suo orecchio. Sembrava che quel «qualcuno» si trovasse fuori dalla finestra di fianco al letto. Era probabilmente aggrappato al muro di quel palazzo di otto piani, con la faccia schiacciata contro il vetro bagnato dalla pioggia, e continuava a picchiare ostinatamente. Non c’era altra spiegazione.
Il ritmo però era sempre lo stesso. Due volte di seguito, una piccola pausa, e altre due volte. E questa sequenza si ripeteva senza sosta. Il suono si alzava, poi di nuovo si abbassava. Come il battito del cuore quando si ha paura.
Le tende erano rimaste aperte. Prima di addormentarsi, Kino aveva osservato a lungo le gocce di pioggia sul vetro. Se ora avesse sporto la testa dal piumone, immaginava cos’avrebbe visto nel buio fuori dalla finestra. Anzi no, non lo immaginava. Doveva cancellare quel moto della mente che era l’immaginazione. In ogni caso, non doveva vedere «quelli lí». Perché, per quanto vuoto, il suo cuore in quel momento gli apparteneva ancora. Conservava ancora un po’ di calore umano, sebbene fievole. Alcuni ricordi personali, come alghe avvinghiate a un palo sulla spiaggia, attendevano in silenzio che arrivasse l’alta marea. Alcuni pensieri, se recisi, avrebbero versato fiotti di sangue rosso. Non era ancora tempo di mandare il suo cuore a vagare in qualche posto assurdo.
«Si scrive con gli ideogrammi che significano “divinità” e “risaia”, ma non si legge Kanda, si legge Kamita. Abito qui vicino», aveva detto Kamita.
«Lo terrò a mente», aveva risposto l’uomo grosso.
«Buona idea. I ricordi in qualche modo danno forza».
Era possibile che Kamita, in qualche forma, fosse legato al vecchio salice in giardino, pensò tutt’a un tratto Kino. Quell’albero aveva protetto lui e la piccola casa. Anche se non ne comprendeva la logica, appena quell’idea gli attraversò il cervello, subito tutta la storia gli parve trovare un senso.
Rivide il salice dalla fronda lussureggiante che arrivava quasi a toccare terra. In estate proiettava sul piccolo giardino un’ombra fresca. Nei giorni di pioggia innumerevoli goccioline argentate brillavano sui rami flessibili. Quando l’aria era immobile restava in silenzio, assorto in profonda meditazione, mentre nelle giornate ventose agitava senza speranza il cuore irrequieto. Piccoli uccelli venivano a posarsi su di lui, si parlavano con le loro voci acute tenendosi abilmente in equilibrio, poi riprendevano il volo. Dopo che gli uccellini se n’erano andati, i rami oscillavano a destra e a sinistra con aria contenta.
Rannicchiato sotto le coperte come un insetto, a occhi chiusi, Kino semplicemente pensava al salice. Rievocava il suo colore, la sua forma, il suo ondeggiare. E intanto aspettava l’arrivo dell’alba. Non poteva far altro che resistere in questo modo, in attesa che a poco a poco il cielo schiarisse, che i corvi e i passeri iniziassero la loro giornata. Non poteva far altro che aver fede in tutti gli uccelli del mondo. Tutti quelli che avevano ali e becco. Nel frattempo non doveva svuotare il suo cuore nemmeno per un attimo. Perché il vuoto, quel vuoto assoluto che si generava, attirava «quelli lí».
Quando il salice non bastava, Kino pensava al gatto randagio, magro e grigio. Ricordava che gli piacevano le alghe scottate sulla fiamma, le mangiava sempre. Pensava a Kamita che leggeva tutto concentrato, seduto al bancone, ai giovani atleti che allo stadio si allenavano intensamente nella corsa di media lunghezza, a My Romance suonato magnificamente al sassofono da Ben Webster (a metà del disco c’erano due graffi che facevano saltare la puntina). «I ricordi in qualche modo danno forza». Poi rivide la sua ex moglie, con i capelli corti e il vestito nuovo azzurro. Kino sperava che lei conducesse in un altro luogo una vita sana e felice. Che non dovesse mai portarsi addosso delle ferite. Gli aveva chiesto scusa guardandolo in faccia, e lui aveva accolto le sue scuse. Ma non doveva solo dimenticare, doveva anche perdonare.
Tuttavia il tempo non sembrava scorrere in modo regolare. Il suo fluire era intralciato dal peso della libido che aveva l’odore del sangue, e dall’ancora arrugginita del rimorso. Lí il tempo non era una freccia che volava in linea retta. Continuava a piovere, le lancette dell’orologio erano disorientate, gli uccelli erano ancora profondamente addormentati, impiegati delle poste senza volto selezionavano in silenzio le cartoline illustrate, sua moglie faceva oscillare i bei seni nel vuoto, qualcuno bussava ostinatamente al vetro della finestra. Con infinita regolarità, come se volesse attrarlo in un labirinto dalle insinuazioni profonde. Toc toc, toc toc. E ancora toc toc. «Non distogliere gli occhi, guarda me», gli mormorava all’orecchio qualcuno. Questa è l’immagine del tuo cuore.
I rami del salice continuavano a oscillare alla brezza della prima estate. In una piccola stanza situata in fondo all’anima di Kino, qualcuno tendeva una mano verso la sua e cercava di posarvela sopra. Sempre a occhi chiusi, lui la sentiva calda e morbida… Era qualcosa che aveva a lungo dimenticato. Per tanto tempo ne era stato separato. Sí, sono stato ferito, e molto profondamente, disse Kino rivolto a se stesso. E cosí le lacrime arrivarono. In quella piccola stanza buia.
Nel frattempo la pioggia continuava a bagnare il mondo senza fermarsi.
1 Rispettivamente kami e ta [N.d.T.].
2 Albergo modesto, in stile occidentale, la cui clientela è costituita principalmente da viaggiatori di commercio e impiegati che si spostano per lavoro [N.d.T.].