martedì 10 ottobre 2023

L'ULTIMA COSA BELLA SULLA TERRA Michael Bible



L'ULTIMA COSA BELLA SULLA TERRA

 Michael Bible

Recensione 

Simone Re 

Un esordio che non può passare inosservato quest’anno è quello dell’americano Michael Bible, il cui romanzo, L’ultima cosa bella sulla faccia della terra è in libreria per le edizioni Adelphi con la traduzione di Martina Testa.

Ad Harmony, piccola e tranquilla cittadina nel Sud degli Stati Uniti, non si è mai verificato nulla di eclatante, fino a una domenica d’estate, quando un incendio divampa all’interno della chiesa, durante una celebrazione, causando la morte di venticinque persone.

A provocare l’incendio è un giovane, Iggy, che aveva intenzione di darsi fuoco con un fiammifero senza voler fare del male a nessun altro, come atto di ribellione o resa nei confronti della società, dell’esistenza, e che, per ironia della sorte, sopravvive all’incidente. Sarà comunque destinato a morire, a causa della condanna alla pena capitale, alcuni anni dopo.

Sarebbe già questa una trama coinvolgente, mentre invece si tratta solo dell’antefatto, o meglio della cornice all’interno della quale Bible costruisce sapientemente un dramma polifonico intenso ed equilibrato al tempo stesso, che rinnova, continuandola, la grande tradizione americana.

Fin dalle prime pagine si coglie infatti la volontà dell’autore di restituire mediante il montaggio una molteplicità di prospettive attraverso le quali osservare, raccontare e interpretare la tragedia dell’incendio.

A prendere la voce per primo è un compagno di scuola di Iggy che, ponendo il lettore in medias res, comunica l’angoscia e il disorientamento di chi non avrebbe mai immaginato che una persona vicina potesse tentare il suicidio.

Di sezione in sezione si incontrano individualità differenti la cui esistenza è stata irrimediabilmente sconvolta dal tragico episodio dell’incendio e che arrivano a comporre una coralità forse memore di un testo cardine della letteratura americana come l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.

Ma, in un modo o in un altro, è su di lui, Iggy, involontario artefice del destino di tutti, che si focalizza la narrazione. E lo fa anche in questo caso con una struttura originale in cui la sua storia e la sua giovinezza, trascorsa tra alcol, droghe, amicizie e amori viscerali (sulla scia de Il giovane Holden di J.D. Salinger) viene offerta al lettore solo a posteriori, ovvero nel racconto degli ultimi giorni del protagonista prima di essere giustiziato.

A fare da filtro prospettico e letterario in tutto il libro il senso di sconforto nei confronti di ciò che è imperturbabile, indipendente dalla volontà del singolo, il destino cieco che distribuisce vita e morte, gioia e dolore senza mai permettere all’uomo di toccare la verità.

È proprio questa ricerca di una verità tangibile dell’esistenza a guidare in maniera romantica, ma infine decadente, maledetta, il protagonista, così come le due principali figure cui Iggy si lega, Cleo, sua amante, e Paul, l’amico scomparso. Alcol, droghe, passioni selvagge e relazioni prive di confini e definizioni, tutto viene vissuto dai tre giovani in maniera estrema, nello spirito di ricerca di un sentimento che viene definito da Cleo la “Costante”, un misto di dolore, malinconia e piena percezione delle cose.

Ciò che alla fine resterà a Iggy è un senso di irrisolto, di non raggiunto, e così dalla cella in cui è rinchiuso in attesa della pena capitale solo la vista di un ciliegio vale a ricordargli il senso del tempo e delle stagioni e a spingerlo a immaginare la vita che avrebbe potuto avere, e che non potrà più avere.

Questa peculiare e calibrata costruzione del testo – a metà fra romanzo corale e raccolta di racconti – viene declinata all’interno di uno stile conciso, basato su quella brevitas americana che Bible ha probabilmente imparato da maestri del racconto come William Faulkner, cui forse si ispira anche e soprattutto nella struttura, se si pensa a un libro come Palme selvagge.

Dunque, a partire dalle fondamenta di una ricca tradizione letteraria, sfruttata a favore di una poetica personale ben individuabile, l’autore riesce a esprimersi con una voce matura e a imprimere già nel suo primo libro una vibrante forza lirica, combinando in circa centotrenta pagina ambientazioni suggestive, individualità prismatiche, drammi collettivi ed esistenziali, con una forma al tempo stesso conturbante e delicata, cruda e poetica.


L'ULTIMA COSA BELLA SULLA TERRA

1

Eravamo innocenti. Convinti di essere speciali. Sbronzi tutti i weekend al centro commerciale. Il mondo era nelle nostre mani. Non ci importava del tempo. L’amore era una cosa scontata. La morte aveva paura di noi. Adesso abbiamo il grigio nella barba. Il cielo è un livido viola. Il centro commerciale è morto. Siamo i vecchi che avevamo giurato di non diventare mai. Passiamo le giornate al tavolo d’angolo dello Starlight Diner a discutere i capricci della vita. La nostra Harmony è una cittadina come tante. Tale e quale alla vostra. Piena di santi e peccatori, indistinguibili.

Nei pomeriggi domenicali di fine estate la luce si riversa sulla vecchia torre dell’orologio e proietta sulla piazza un’ombra grossa come una montagna. Il fioraio, Floyd Williams, riempie le vetrine di gladioli arancioni alti come sciabole d’altri tempi. Beve, per questo ha fatto a botte col figlio più piccolo e gli è rimasta una cicatrice. Ben White aiuta Sue Meadows a scendere dalla macchina per andare a comprarsi le pillole per il mal di schiena. Ben va a letto con un tizio di Greensboro all’insaputa della moglie. Sta aprendo il negozio dei violini. Doug Lightfoot aiuta Mary Beth Taylor ad accordare per bene lo strumento. L’anno scorso Doug ha messo incinta Mary Beth, che ha la metà dei suoi anni. L’ha portata a Charlotte per risolvere il problema. Bud Rogers, il coach della squadra di football, ritira la macchina dal carrozziere. Si fa una lunga chiacchierata con Theo Knight sulle possibilità che hanno i Panthers quest’anno. Bud vende un po’ d’erba per arrotondare, soprattutto ai ragazzini della Harmony High School. Theo passa le serate a piangere per la moglie, che dieci anni fa è sparita nel nulla.

Abbiamo trovato una vecchia foto della nostra visita al municipio, in terza media. Iggy sta in disparte dal gruppo. Una giornata luminosa di ottobre. Alle nostre spalle, foglie arancioni che cadono. La professoressa Maple coi capelli rossi raccolti in una crocchia. Tutti portiamo la felpa della scuola tranne Iggy. Ci siamo chiesti come mai indossava un impermeabile giallo in una giornata di sole. Era un segno? Abbiamo studiato la sua faccia in cerca di un indizio, un indizio qualunque, di ciò che sarebbe diventato. Il tema della visita al municipio era la storia di Harmony. Al mattino da scuola prendemmo un autobus per il centro. Per pranzo tramezzini al prosciutto e mele verdi.

Harmony è più antica degli Stati Uniti d’America, ci spiegò il sindaco Presley. Era grasso e calvo, con la barba ben curata. Non si era mai sposato, la sua famiglia abitava a Harmony da più di un secolo. Per hobby allevava cani da pastore. Passando in macchina davanti a casa sua a tarda notte si vedeva la luce azzurrina della TV sempre accesa.

Durante la visita, il sindaco ci raccontò che i tedeschi e gli scozzesi-irlandesi provenienti dalla Pennsylvania avevano cominciato a stanziarsi in questa zona del North Carolina già nel 1753. Coltivavano il terreno fertile con le fresche acque del fiume Bluebird. C’era una capanna di tronchi dove la domenica si celebravano le funzioni e in quel punto un giorno sarebbe sorta la Prima chiesa battista di Harmony. Nel 1850 J.C. Pearl fondò una fabbrica di mattoni, tuttora in attività.

Alla fine della visita ci sedemmo in semicerchio davanti al sindaco, nel suo ufficio, con il gigantesco stemma della città dietro la scrivania. Ai piedi di Presley erano accucciati alcuni dei suoi cani.

Magari potrebbe parlare ai ragazzi della nostra economia, disse la Maple.

Certo, disse lui. Harmony è uno dei principali produttori di tabacco della zona pedemontana degli Appalachi.

La parte successiva ce la ricordiamo bene. Il sindaco infilò la mano nel cassetto, tirò fuori una foglia essiccata di tabacco Carolina e ce la passò; noi la annusammo e la facemmo girare. Era marroncina e fragile. Quando arrivò a Iggy, lui prese dalla tasca uno Zippo e le diede fuoco. La Maple ci soffiò sopra per spegnerla. Afferrò Iggy per un braccio e uscirono nel corridoio. Presley guardò la foglia mezzo bruciata e aprì una finestra.

Allora ragazzi, disse. Adesso uno per uno mi promettete che non fumerete mai.

Promettemmo tutti tranne Amanda Armstrong. Lei scoppiò a piangere.

No, disse. Io non glielo prometto.

Fumare fa malissimo, disse il sindaco.

Il mio papà coltiva tabacco, disse lei. Se tutti smettono di fumare siamo rovinati.

Guardammo Presley per vedere cos’aveva da ribattere. Lui sorrise.

In Cina c’è tanta di quella gente che fuma, disse.

E non gli viene il cancro, ai cinesi, domandò Amanda.

Presley si mise a ridere.

Io mi preoccupo solo dei giovani di Harmony, disse. Non sono il sindaco della Cina.

Proprio in quel momento, la Maple rientrò insieme a Iggy.

Mi dispiace di averle bruciato la foglia, disse lui.

Non ti preoccupare, disse Presley. Ti perdono se mi prometti che non comincerai mai a fumare.

Iggy guardò a terra e annuì.

Ho intenzione di smettere presto, disse.

La signorina Rivers lavora qui allo Starlight come ci lavorava all’epoca, quando fumavamo pacchetti su pacchetti di Camel Lights dopo le partite di football della scuola. Alcuni di noi avevano una cotta per lei, che era più grande di qualche anno. Ma adesso è vecchia come noi. Ancora qui. Inchiodata a questo posto. Mentre ci versa il caffè, il discorso torna su Iggy, come spesso capita nei pomeriggi così. Qualcuno racconta per l’ennesima volta quello che successe quando eravamo ragazzini, negli anni Novanta. L’estate prima di cominciare le superiori. Fino a quel momento, Iggy aveva sempre fatto parte del nostro gruppo. Poi noi eravamo tutti entrati in qualche squadra sportiva o avevamo messo su una band, mentre Iggy giocava ancora a scacchi da solo e prendeva lezioni di pianoforte. Uno di noi, non ricordiamo chi, se ne uscì con il soprannome Pâté. Avevamo deciso che Iggy era patetico e quel nome ci sembrava adatto. Quando passavamo a chiamarlo la madre diceva sempre che non era in casa. Noi eravamo sicuri che se ne stesse nascosto di sopra in camera sua. Verso la fine di quell’estate riuscimmo a mettere le mani sulla collezione di whiskey del padre di qualcuno e a notte fonda andammo in giro per il vicinato a fare goliardate. Prendemmo tutti i mobili dal giardino degli Spencer e li buttammo nella piscina del dottor Johnson. Rubammo certi grossi peperoni dall’orto dei Mumford e li portammo a casa di Iggy. Li lasciammo davanti alla porta con un biglietto. A ripensarci chi si ricorda più che cosa ci trovavamo di tanto divertente, sappiamo solo che eravamo adolescenti e ubriachi. Il biglietto diceva che avevamo rapito Iggy e se non ci avessero dato mille dollari non l’avrebbero più rivisto. L’indomani pomeriggio stavamo ancora smaltendo la sbornia quando alla porta di ognuno di noi bussarono i genitori di Iggy. La madre era senza trucco come se avesse passato la mattinata a piangere e il padre era vestito come per lavorare in giardino. Ci dissero che durante l’estate Iggy aveva messo da parte un gruzzoletto tagliando l’erba dei vicini. Con quei soldi era andato a comprarsi un videogioco, ma lungo il tragitto era stato aggredito. Gli avevano rubato tutto e l’avevano lasciato mezzo morto in un vicolo. Era stato in ospedale per una settimana e a casa in convalescenza per mesi. Quello che non sapevamo, che non potevamo sapere, è che quella mattina Iggy era uscito per la prima volta dopo il pestaggio. I suoi avevano pensato che gli aggressori l’avessero rapito. Alla fine, con loro grande sollievo, Iggy era rientrato a casa qualche ora più tardi. Gli aveva detto che pensava di sapere chi era stato. Seduti di fronte ai suoi genitori nelle nostre cucine e nei nostri salotti, confessammo di essere stati noi. Dicemmo che voleva essere solo uno scherzo. Che non sapevamo nulla dell’aggressione. I nostri genitori ci fecero scrivere lettere di scuse, ma chissà se poi lui le ha lette. Dopodiché provammo un paio di volte a chiamarlo per uscire, in modo da lasciarci tutto alle spalle, ma lui non ci rivolse più la parola. Da allora, praticamente, ce lo togliemmo dalla testa. Diventò un personaggio degli aneddoti della nostra infanzia anche se ogni tanto a scuola ci capitava di vederlo. Sentivamo voci sul suo conto e sui suoi amici Paul e Cleo. Vivevamo separati da lui e credevamo, ingenuamente, che anche lui stesse facendo normali esperienze da studente delle superiori, fiumi di birra e fine settimana al lago. E magari era anche così, ma di fatto non pensammo più a lui fino a quella mattina alla Prima chiesa battista.

L’incendio era già spento quando arrivarono i furgoni dei telegiornali. Poco dopo spuntò il governatore. Seguito dai senatori, dai membri del Congresso e infine anche dal presidente. Fecero discorsi. Fecero promesse. Raccolsero soldi per ricostruire. Poi il presidente se ne andò, il governatore se ne andò e i membri del Congresso pure, e quelli dei telegiornali presero armi e bagagli e si spostarono verso un’altra tragedia. Per giorni la città restò immersa in un silenzio irreale. Nessuno sapeva esattamente cosa fare. Alcuni di noi compagni di Iggy si riunirono per parlarne a un tavolo dello Starlight Diner. Questo succedeva diciotto anni fa.

C’è chi gli ha dato del mostro, del terrorista, dello psicopatico, ma era anche solo un ragazzino. Per noi è stato impossibile conciliare le due cose. Negli anni a seguire ci siamo chiesti perché Iggy disprezzasse a tal punto la vita. Ciascuno di noi ha perso qualcosa quel giorno ed è un lutto che ancora ci portiamo dentro. Ma la cosa che più ci ha fatto male è stata la nostra ignoranza, la nostra incapacità di concepire un gesto così brutale. Un’esistenza privilegiata che ci proteggeva dal vedere la vera natura delle cose. Abbiamo provato a rimettere insieme i pezzi del tempo, a trovare un modo per tornare indietro.

Le tragedie tendono a seguire traiettorie simili. Uno schema con cui ormai abbiamo fin troppa dimestichezza. L’orrore del fatto. Brevi ore di confusione e lutto, seguite da giornate di rabbia. Settimane di indignazione. C’è chi dà la colpa alla violenza dei film e dei videogiochi. Chi dà la colpa alla malattia mentale. Fiori e preghiere, fiori e preghiere, fiori e preghiere. Raccolte di fondi. È ora di cambiare. Cortei, petizioni e discorsi. Poi niente. E ancora niente.

Potremmo parlare tutta la notte, ma la signorina Rivers ci sta cacciando.

Se volete tirar tardi ci sono i bar, lo sapete.

Non ci piacciono i bar, diciamo noi. Sono pieni di giovani.


Le lasciamo una bella mancia e mentre usciamo ecco un ultimo ricordo di quella gita in terza media. Lo stesso giorno facemmo visita al carcere della contea insieme allo sceriffo. La Maple disse scherzando che, se in classe non stavamo zitti, lui sarebbe venuto ad arrestarci tutti quanti.

Chi è che fa più chiasso, domandò lo sceriffo.

La Maple ci guardò e sorrise. Indicò Amanda Armstrong. Portava i codini legati coi fiocchi.


Non posso arrestare una signorina così bella, disse lo sceriffo. E questo malandrino invece?

Prese Iggy, lo mise faccia al muro e lo ammanettò. Noi scoppiammo a ridere. Anche Iggy sulle prime abbozzò un sorrisetto. Era solo un gioco. Poi lo sceriffo lo chiuse a chiave in una cella. A noi sembrò ancora più divertente e ridemmo più forte. Lo sceriffo ci accompagnò fuori e lasciò Iggy da solo lì dentro per un minuto. Lo sguardo che aveva quando ritornammo. E chi se lo scorda più.

 2

Un’altra serata allo Starlight Diner con la signorina Rivers che prende le ordinazioni. L’orizzonte è una scheggia nera contro il sole. Tutti i nostri antichi misteri si uniscono. I caffè si raffreddano. Chiamiamo le mogli per dire di non aspettarci in piedi. Presentiamo al gruppo i risultati delle ultime ricerche. Harmony ha un passato molto più oscuro di quanto ci hanno raccontato. Durante quella gita in terza media il sindaco Presley sorvolò sul Massacro della melassa. Abbiamo scoperto tante altre storie che i notabili volevano lasciare nel dimenticatoio.


Nel 1843 i fratelli Jones (mezzo neri, mezzo Cherokee) rovesciarono per sbaglio un barile di melassa addosso a Don Sherill, un noto avvocato. Anche se sul momento Sherill li perdonò, in seguito raccontò l’episodio nella bottega di un barbiere cittadino. I clienti ubriachi si radunarono e andarono a prendere a casa i fratelli Jones. I due rimasero feriti nella zuffa ma sopravvissero. Minacciarono di portare Sherill e gli altri in tribunale. All’epoca le persone di colore non potevano portare in tribunale un bianco, ma già la sola idea fece infuriare la popolazione. La folla inferocita impiccò i due fratelli alla stessa quercia davanti alla quale facemmo la foto fuori dal municipio. Il sindaco Presley non ci disse che, una volta liberi dalla schiavitù, gli abitanti neri di Harmony avevano dato vita a un quartiere chiamato Yellow Hill a sud della città. Nel 1867 un fabbro di nome M. Horice Warner fu sorpreso a fare un picnic sul fianco della collina con una bambina di sei anni e venne accusato di averla molestata. Una folla di centinaia di persone lo strappò da casa e lo fece trascinare dai cavalli per le strade di Yellow Hill. Poi ci fu chi sostenne che era amico del padre della bambina e che il loro rapporto era innocente.


La serata va avanti. La signorina Rivers ci lascia stare un altro po’ mentre pulisce. Al tavolo qualcuno nomina un amico di Iggy, Johnny Belladonna. Sua madre, Trudy, era stata radiata dalla scuola pubblica per aver pregato in classe.


C’è una sentenza che lo vieta espressamente, aveva detto il nuovo preside, Doug Shepard.


E allora, aveva detto Trudy.


È della Corte Suprema, aveva detto lui.


Il preside Shepard era un ometto con il papillon e a chiunque gli capitava a tiro raccontava che si era laureato a pieni voti alla Duke University.


La Corte Suprema non è l’Ente Supremo, aveva detto Trudy.


Si era inginocchiata, così dicono, nell’ufficio del preside e aveva pregato ad alta voce affinché i peccatori delle scuole pubbliche di Harmony non dovessero soffrire a lungo tra le fiamme dell’inferno – e poi se ne era andata. Quella domenica il pastore Green aveva riferito l’accaduto nel suo sermone alla Prima chiesa battista. In autunno la signora Gregory, la moglie del gioielliere, aveva tirato fuori i soldi per costruire un istituto cristiano in centro. Trudy era stata la prima insegnante che aveva assunto.


Per chi non vuole crescere i figli in un’empia fabbrica di indottrinamento marxista, aveva detto Trudy.


Nonostante l’indole polemica, i suoi corsi all’Accademia cristiana di Harmony in genere risultavano graditi. Sapeva essere un’insegnante gentile e sensibile, e quando era dell’umore giusto aveva una pazienza infinita con gli alunni. Era nota per recitare a memoria lunghe poesie e monologhi durante le lezioni. Era così brava che il primo giorno di scuola, quando si lanciava in un brano di Shakespeare, gli alunni si giravano a controllare se stesse leggendo le parole sulla parete alle loro spalle. Aveva insegnato i classici a molti dei nostri genitori. Alcuni dei nostri fratelli minori ricordano ancora le sue lezioni degli ultimi anni, quando cominciava a perdere colpi. Mescolava la storia della propria vita a quella dei personaggi dei romanzi famosi. Era come se il tempo su di lei avesse avuto un effetto che noi non potevamo capire. Come se i libri che aveva letto fossero una serie di avventure vissute in prima persona e ricordate in modo approssimativo.


Era violentemente omofoba, cosa non rara nel Sud all’epoca, ma Trudy era esagerata anche per quei tempi. Alcuni di noi sospettavano che il marito avesse una tresca con il sindaco Presley. Cantavano nel coro della chiesa e andavano in crociera. Negli ultimi anni di insegnamento, quando a Harmony il pensiero progressista era leggermente più diffuso, gli alunni le chiedevano di Truman Capote, Walt Whitman o Oscar Wilde. Lei attaccava subito con il sermone Peccatori nelle mani di un Dio adirato.


Dopo la morte del marito, quando era ormai in pensione, veniva in città in sella alla moto di lui, con un piccolo Jack Russell nel sidecar. Voci non confermate dicevano che da ragazzina aveva lavorato con un pilota acrobatico in Arkansas. Seminuda, si reggeva in piedi sull’ala di un aereo che faceva giri della morte e picchiate. Si vociferava di foto.


Più di ogni altra cosa, per tutta la vita, aveva amato il figlio. Aveva solo Johnny e i nostri genitori ci raccontavano che lui era sempre stato così, anche quando erano ragazzi. Si faceva chiamare Johnny Belladonna già allora. Portava lo stesso baschetto e la mosca sul mento. Andava sempre in giro col sassofono. Dicevano che alle medie aveva provato a non parlare per un’intera settimana. Si esprimeva solo con il sax. All’inizio faceva ridere, ma dopo un po’ era diventato ultrafastidioso. Starnazzava tutto il giorno per i corridoi come un’oca.


In quanto madre di un ragazzo prodigio, diceva spesso Trudy senz’ombra di ironia.


Quando Johnny era stato respinto agli esami di ammissione di tutti i principali conservatori, lei aveva dato la colpa alle commissioni esaminatrici.


Lo hanno penalizzato per via del suo amore per Gesù, aveva detto una sera alla signorina Rivers allo Starlight Diner. È meglio che sia rimasto qui con me.


E poi ci fu la questione di Johnny e Iggy che suonavano insieme. Ovviamente la gente mormorava. Un uomo dell’età di Johnny pappa e ciccia con un ragazzo dell’età di Iggy. Al processo contro Iggy, Trudy fu chiamata a testimoniare sul loro rapporto:


Nel corso degli anni Johnny si era fatto amici di ogni tipo. Era molto benvoluto. E Iggy era un ragazzo, be’, un po’ smarrito. Il mio Johnny gli ha dato una ragione di vita e il dono della musica. Iggy parlava piano, questo me lo ricordo. Facevo fatica a sentirlo. Quasi sussurrava. Una sera Johnny lo portò a casa e io dissi che aveva bisogno di tirar fuori la voce. Che gli avrebbe fatto bene il teatro.


Quando Iggy se ne era andato in quella scuola in mezzo al nulla, Trudy gli scriveva e gli mandava pacchi di generi di conforto. E quando era tornato a Harmony, aveva dato una cena in suo onore allo Starlight Diner. Prima del fatto, lo aveva visto praticamente ogni settimana in chiesa. Johnny stava rimodernando il repertorio musicale della comunità e le prove andavano avanti fino a tardi.


Al processo chiesero a bruciapelo a Trudy se Johnny fosse omosessuale. Lei disse che non riteneva la domanda degna di risposta.


Sono devota alla Prima chiesa battista, disse. Le donne cristiane non parlano di certe cose.


I membri della congregazione dicevano che era la prima ad arrivare in chiesa la domenica e l’ultima ad andare via. Portava sempre fiori freschi dal giardino. Durante la Grande Depressione sua nonna aveva aperto in città un negozio di fiori che vendeva solo gladioli, perché aveva trovato un catalogo per ordinare i bulbi a buon mercato. Quando un parrocchiano si ammalava lei era la prima ad andare a trovarlo e a portargli da mangiare. Idem quando un membro della congregazione passava a miglior vita. Trudy non diceva mai «morire», solo «passare a miglior vita».


C’è una stanza che ci aspetta su in cielo, diceva. Se siamo pronti ad accogliere l’amore di Gesù nei nostri cuori.


Quella domenica Trudy stava quasi per non andare in chiesa. Combatteva con un brutto raffreddore, ma il giorno prima al supermercato aveva incontrato Christy McCloud con il figlio di quattro anni, Joe. Di punto in bianco il bimbo le aveva chiesto di sedersi vicino a lui in chiesa. Trudy era andata a letto presto per rimettersi in forze e accontentarlo. Si sedette in seconda fila con la famiglia McCloud e ascoltò la funzione del pastore Green. Quella mattina c’era poca gente. La Prima chiesa battista perdeva fedeli ed è anche per questo che Johnny stava studiando un nuovo repertorio musicale. Canzoni più allegre e musica contemporanea. Inni accompagnati dalla chitarra acustica al posto dei vecchi pezzi per organo. C’era chi diceva che Johnny aveva proposto a Iggy di suonare la batteria. A Trudy tutto questo sembrava ridicolo. Per lei Dio andava lodato con gli accordi e le melodie dei vecchi tempi, se no non avrebbe funzionato. Però era orgogliosa di Johnny per il lavoro che faceva e considerava la presenza in chiesa di Iggy tutte le domeniche come un segno del fatto che i giovani non erano cattivi come li dipingevano.


Gli avvenimenti di quel mattino sono stati raccontati tante volte sui media, negli atti del processo e durante le indagini che abbiamo fatto in proprio. Il particolare che colpisce di più è sempre la rapidità con cui successe tutto. La funzione andò come ogni settimana. Un canto del coro e la lettura, la preghiera dei fedeli, l’offertorio, un altro canto, il sermone e la benedizione.


Dall’ultima fila, Iggy si avviò calmo al centro della chiesa mentre tutti si alzavano e chiudevano gli occhi in preghiera. Nessuno notò che aveva con sé la benzina.


Al rallentatore, il terrore di quel giorno è difficile da capire. Immaginiamo i fedeli in profondo raccoglimento. Forse intenti a pregare un creatore invisibile perché rendesse il loro futuro migliore del passato. Più soldi, meno malattie, più tempo. Per cosa pregò Trudy quel giorno lo sappiamo. Lo riferì in tribunale.


Pregai per il piccolo Joe McCloud, seduto accanto a me, testimoniò. Pregai affinché crescesse e camminasse al fianco di Cristo.


Iggy tremava nel tentativo di versare la benzina, rovesciandola dappertutto. Mise giù la tanica. Un rivoletto corse lungo le assi del pavimento fino all’altare. Poi lui tirò fuori i fiammiferi. Armeggiò con la scatola. La fece cadere per terra. La raccolse e ci riprovò. Un fiammifero si accese. Lo avvicinò alla camicia, ma quello si spense. Johnny sedeva in mezzo al coro. Si rese conto di quanto stava succedendo e corse verso Iggy. Tutti urlavano. Iggy provò con un altro fiammifero e riuscì ad accenderlo. Ma appena vide Johnny che correva verso di lui, fu preso dal panico e il fiammifero acceso gli cadde di mano. Non ci volle molto perché il pavimento di pino, vecchio di duecento anni, cominciasse a bruciare.


In meno di un minuto tutto si riempì di un denso fumo nero, testimoniò Trudy. Non vedevi a un palmo dal naso.


Scoppiò a piangere al banco dei testimoni.


Sento quelle urla di notte mentre provo a dormire, disse. Torno continuamente col pensiero a quella mattina, cercando di capire come salvare Johnny e gli altri. Mi odio per non essermi impegnata di più.


L’avvocato le porse un fazzoletto di carta.


Dal corso antincendio mi ricordavo che bisognava stare bassi. Ho strisciato sotto i banchi fino a una finestra e l’ho rotta con un innario. Ho sentito l’aria fresca in faccia e sono andata da quella parte. Ho fatto un salto, da un metro scarso di altezza. E mi sono ritrovata fuori sull’erba, supina. Solo allora mi sono resa conto di avere in braccio il piccolo Joe McCloud. Non ricordo proprio di averlo preso.


Corsero dall’altra parte della strada e guardarono le fiamme farsi sempre più alte. Lei notò una persona ferma a osservare il rogo. Era Iggy. Stava lì come se niente fosse, come se stesse sognando.


Quando arrivarono i pompieri, il tetto della chiesa crollò. Accorsero le ambulanze, ma non c’era nessuno da salvare. Tutti e venticinque i fedeli erano morti. Poi arrivò la polizia. Senza che glielo chiedessero, Iggy raccontò cosa aveva fatto. Quasi increduli, lo arrestarono.


Oggi che è seduta in quest’aula, chiese a Trudy l’avvocato, quando guarda Iggy che cosa vede?


Vedo un ragazzo che aveva un gran potenziale, disse lei. Lo stesso ragazzo smarrito che ho conosciuto la prima volta che Johnny lo portò a casa. Ho incontrato tanti giovani nella mia vita di educatrice. Ce li ho ben presenti quelli come lui. Iggy non aveva una comunità. Certi giovani cercano conforto nel sesso o nella droga. Iggy l’ha cercato nella violenza perché non riusciva a capire un mondo che non lo metteva al centro. Io gliel’ho già raccomandato in passato e approfitterò di quest’occasione per ripeterglielo: Pentiti. Dona la tua vita a Gesù. Aiuta gli altri a fare lo stesso. Non lasciare che la tua vita vada sprecata.


Dopo l’incendio Trudy non sapeva dove andare. La portarono alla stazione di polizia. Molte ore dopo, quando arrivarono i nonni, Joe McCloud era troppo spaventato per staccarsi da lei. Appena glielo strapparono dalle braccia, Trudy crollò. Il peso di quello che era successo le piombò addosso tutto insieme. Il detective che era con lei nella stanza la sorresse per impedirle di cadere a terra. Era stato suo alunno.


Si appoggi a me, disse. La tengo io.


La portarono in ospedale e la imbottirono di sedativi. Per tutto il tempo continuò a chiedere di Joe. Il giorno dopo, ogni dieci minuti passava a trovarla qualcuno dei suoi vecchi alunni. Ex colleghi e amici le portavano da mangiare. Erano così tanti che i medici dovettero limitare il numero delle visite. Tutti dicevano che aveva salvato la vita a Joe. Il giornale la ribattezzò «l’eroica nonnina».

Dall’Alabama erano arrivati certi parenti, un cugino con la moglie, che si stavano prendendo cura di lei. Leggevano in rete le notizie su Iggy. Dissero a Trudy che quel pomeriggio sarebbe stato al tribunale della contea per l’udienza di convalida.

Voglio andarci, disse lei. Voglio vederlo.

Non so se è una buona idea, disse il cugino. Hai bisogno di riposarti.

Trudy andò in tribunale con il sidecar e il cugino insistette per accompagnarla. Dopo una lunga attesa, nell’aula minuscola portarono Iggy in manette. Il giudice lesse alcune considerazioni e gli avvocati risposero ad alcune domande. Poi il giudice chiese se qualcuno dei presenti avesse qualcosa da dichiarare. Si fece avanti Trudy. Portava un vestito a fiori. I suoi modi da insegnante erano scomparsi. La gente indietreggiava per farla passare. Iggy non si mosse e continuò a fissare il muro davanti a sé. Trudy si avvicinò a un piccolo microfono accanto al giudice.

Guardò Iggy.

Voglio dirti che ti ho voluto bene, disse. Nel mio cuore ho lottato per te e ho pregato ogni giorno che il Signore ti indicasse la via. Ma a quanto pare Gesù non ha vinto.

Fece un respiro profondo.

Hai ucciso le persone migliori, disse. Dentro quel luogo sacro c’era tutto il mio mondo e tu me l’hai portato via. E perché? Per quale possibile ragione?

IGGY

2006

1

Non mi rimane molto tempo. Sogno ancora il futuro anche se non ne avrò mai uno. Fra sei giorni sarò senza peso. Assassinato dallo Stato. Come un cane insegue i conigli nel sonno, io smanio per la mancanza di Cleo e Paul. Sogno di sballarmi e sparare fuochi d’artificio con loro dal tetto di un treno merci lanciato a tutta velocità nella notte. Sogno di fomentare rivoluzioni nelle strade, di morire felice e solo in un paesino minuscolo in capo al mondo. Sogno gladioli alti come spade nelle vetrine dei negozi. Soprattutto però sogno di camminare sotto il sole. Nell’aria luminosa e tersa. In una strada tranquilla. Giro l’angolo. C’è qualcuno che mi chiama.


Col tempo il dolore perde di senso. Non mi resta che morire e spero sorrideranno quando mi faranno l’iniezione.


Vedo la mia vita scorrere al contrario. Ricordo pomeriggi in North Carolina che sembravano quasi preistorici. Giravo per i boschi immaginando un giorno di poter costruire una piccola città segreta tutta per me. Arrivavo in bicicletta fino all’ospedale abbandonato e spaccavo i vetri piombati delle finestre con mezzi mattoni. O la prima volta che mi sono sbronzato di vino alla frutta a dodici anni e ho preso in mano un pitone giallo in quel negozio di animali un po’ losco. Ricordo la seconda media. La prof disse che aveva conosciuto Ronald Reagan e nessuno batté ciglio. Ci spostarono a far lezione in un prefabbricato dove tutto puzzava di salsa ranch. Ricordo il rumore delle pistole giocattolo al chiaro di luna e di aver ascoltato il mio primo migliore amico masturbarsi al buio mentre secondo lui io dormivo. Non so neanche più come si chiamava. Suo papà faceva il chirurgo. In casa avevano un tavolo da biliardo, un angolo bar e uno schermo cinematografico che scendeva dal soffitto premendo un bottone su un telecomando. Ricordo i capelli arancioni di Cleo. Le sue gambe lisce la prima sera che scopammo nella jeep dietro la cisterna dell’acqua. Mi si addormentò sul petto. Gli occhi scuri di Paul e il suo accento marcato. Partivamo in macchina per la campagna selvaggia e infinita, e facevamo lunghe conversazioni sull’apocalisse e su come ogni persona al mondo possa in realtà essere Dio.


L’unica cosa che mi ha dato la forza di andare avanti per tutti questi anni è guardare le foglie che cadono. Dalla minuscola finestra della mia cella vedo un solo albero. Direi un acero, ma potrebbe anche essere un ciliegio o un gelso, forse un pioppo. Comunque, per me è un corniolo. Capisco che ore sono dalla luce che si sposta da un lato all’altro della stanza. Di notte studio le stelle nel mio spicchietto di cielo e creo costellazioni tutte mie. C’è il Passero addormentato accanto al Pugile, che è appena oltre il Direttore d’orchestra e l’Autostoppista. La mia preferita è il Nuotatore a dorso, che vedo solo d’estate. Sono qui da quasi sei anni. L’isolamento diventa così profondo che la mente ti tradisce. Ti si riempie di voci. Non c’è modo di distinguere una stagione dall’altra se non dal freddo boia o dal caldo tremendo. E dall’albero. È su una collinetta oltre il filo spinato, l’autostrada e il comprensorio.


Ricordo il giorno che mi portarono qui. Le guardie scherzavano sulla poliziotta che mi accompagnava.


Bella fighetta, eh, disse un agente all’altro.


Sembra un po’ Winona Ryder, dissi io. O quella della Famiglia Addams.


Christina Ricci, disse il capitano. Cazzo sì, hai ragione.


Il capitano si chiama Tom. È il capo delle guardie. Il comandante. È sempre stato buono con me perché sono un ragazzetto scemo e magro come un chiodo. Tom odia i duri e i nazi. Sa che non faccio parte di una gang e non rompo i coglioni. Qui dentro ci sono gli autori dell’attentato di Cleveland e il saudita che ha provato a darsi fuoco alle mutande. E pure un paio di serial killer colti in flagrante. Gli sbirri mi trattano bene, più che altro perché mi faccio i fatti miei. Il giorno dell’arresto, un agente mi portò un milkshake al cioccolato, delle patatine e un Whopper di Burger King da mangiare mentre mi interrogavano. Mi chiesero dell’incendio. Evidentemente sono interessati alla natura delle cose. L’agente dell’FBI era un omone. Con un paio di baffoni comici. Mi ricordava il mio coach di baseball di quando ero bambino, che fu beccato a sbirciare nelle docce dopo gli allenamenti.

So che voi mi considerate uno psicopatico o qualcosa del genere. Volete sapere della mia famiglia, della mia infanzia. Dev’essere successo qualcosa che mi ha mandato fuori strada. Un padre violento, una madre assente. O forse sono un innamorato respinto che cerca vendetta. Magari direte che è colpa della società. Di tutta quella codeina che mi bevevo o dei film violenti. O delle mie idee politiche. Ma non è niente di tutto questo. O tutte queste cose insieme. Volete sapere perché ho fatto quel che ho fatto? Sarebbe come prendere un po’ d’acqua fra le mani e chiedersi se è fiume o pioggia.

Amavo due persone allo stesso tempo. Ero ricco e povero, lucido e pazzo. C’erano persone, posti e cose che odiavo e temevo. Mia madre era un’alcolizzata tirannica e mio padre un mostro lunatico. La mia vita era un uragano, cazzo, e una giornata limpida e luminosa. Io sono l’eroe e il cattivo. Sono l’uomo che ha provato a salvarvi.

In un’altra vita ero un guerrigliero chiamato Nabucodonosor. Ho combattuto contro i miei concittadini, ma non necessariamente per l’Unione. Ero dalla parte dei derelitti. Mi sono lanciato addosso ai generali sul mio cavallo rubato e ho spezzato le loro sciabole sul ginocchio.

Dalla finestra guardo il corniolo solitario. Si piega al vento. La cella si riempie di ombre corte e presto sarà ora di dormire. Il primo giorno della mia ultima settimana sta finendo. Sono pronto. Sapevo che sarebbe arrivato il momento. Rimpiango il futuro che non conoscerò mai. Sogno un giorno di vedere il mondo dall’alto. Sogno di gridare il mio nome nella valle.

2

Quando mi sono svegliato stamattina, avevo il lato destro del corpo addormentato. Ho pensato che fosse una cosa permanente, invece poco dopo mi sono ripreso. I mal di testa mi tengono a letto quasi tutti i giorni e da sei mesi ho un fischio persistente nelle orecchie. La settimana scorsa è venuto a visitarmi il dottore. Non so perché. Sarà per vedere se sono abbastanza sano per morire.


A colazione hanno aggiunto una mela. Una grossa mela verde. Granny Smith, mi pare. Si vede che comincio a fargli pena, perché il capitano Tom mi ha addirittura portato un caffè appena fatto.


Come va, mi ha chiesto.


Bene, grazie. Ora meglio.


Il caffè caldo che avevo in mano mi ricordava il decaffeinato che bevevo la domenica mattina presto prima del catechismo, con le ciambelle ricoperte di zucchero a velo. Il capitano guardava a terra, a differenza del solito. In presenza di un condannato così vicino alla fine la gente si comporta in modo strano. Come se avesse una forma di soggezione verso la morte.


A un certo punto dovremo parlare di certe cose, ha detto lui.


Ok, ho detto io.


Cosa vuoi mangiare. Dovresti farmelo sapere a breve, così abbiamo il tempo.


Ho annuito.


Se non hai pensato a qualcosa da dire, magari è il caso che cominci, ha detto. Non ti conviene improvvisare all’ultimo momento.


Ho scritto delle cose, ho detto. Per quel giorno dovrei avere qualcosa di pronto.


Bene, ha detto lui.


Sembrava che stesse per aggiungere qualcosa, ma non l’ha fatto. Poi se n’è andato. Nella cella è tornato il silenzio. Ho guardato fuori dalla finestra e ho visto che i fiori del corniolo erano caduti quasi tutti. Le giornate calde dell’estate stavano per finire e faceva ogni mattina più freddo. Volevo veder cadere quell’ultima fioritura. Sentivo uno strano legame. Come se fosse l’ultima cosa bella sulla faccia della terra.


Stanotte ho sognato Cleo e Harmony. I negozi, la vecchia cisterna azzurra e quell’inutile scuola superiore. Era un posto spaventosamente normale per crescere. Tutti i pomeriggi andavo alla biblioteca pubblica, sceglievo un libro a caso dallo scaffale e mi mettevo a leggere. È così che ho scoperto Faulkner, Gertrude Stein e Emily Dickinson. Leggevo di tutto. Libri su vecchi treni notturni che portavano da Venezia a Londra e su certe formiche assurde che in Texas mangiano i televisori. Leggevo di Che Guevara, di san Francesco d’Assisi e dei film di Pasolini. Leggevo di mulini a vento, di cani Catahoula e delle Guerre dell’oppio.


Pensavo alla biblioteca stamattina mentre mangiavo la mela e finivo il caffè. Sono tornato sul sogno di stanotte. È un sogno ricorrente in cui c’è Cleo. Giriamo in Vespa per un parco cittadino e ci fermiamo a dar da mangiare alle giraffe. È stupido, lo so, ma non ho nient’altro. Un quadro surrealista che prende vita.


Ci siamo conosciuti quando ero in seconda superiore, nel 1997. I suoi genitori biologici erano morti quando era piccola (ghiaccio nero, strada di campagna) ed era venuta ad abitare giù in Mulberry Street con il padrino e la madrina. Il nuovo papà aveva una malattia del midollo spinale e l’ho visto sempre e solo in sedia a rotelle, mentre la nuova mamma lavorava nel reparto contabilità della fabbrica di mattoni. Io andavo da lei in bici e ci mettevamo a guardare gli aeroplani diretti a sud. Harmony dev’essere su qualche rotta degli aerei privati che portano a Charlotte i piloti della NASCAR. La casa di Cleo aveva uno di quei tetti piatti. Era un edificio moderno, con le pareti di vetro. L’aveva costruita il papà quando riusciva ancora a muoversi. Guardavamo passare gli aerei, immaginavamo da dove venivano e parlavamo di tutti i posti dove volevamo andare.


Quegli anni sono così malinconici e bizzarri. Per effetto del vento sembrava che le azalee levitassero a una spanna da terra. I cani dei vicini, Sale e Pepe, abbaiavano come due innamorati durante un litigio. Batto le palpebre e sono di nuovo a Harmony, la notte è limpida e le cicale elettriche. Posso alzarmi in volo sopra le montagne e seguire il corso di un fiume scuro fino al mare. Cleo è un angelo gentile e serio che veglia su di me. Ho passato mesi interi a chiedermi cosa sta facendo là fuori. Con chi è, dove va. Mi pare di vederli, i peletti biondi che le ricoprono l’incavo della schiena. La sento fischiare facendo il verso dell’uccello beccaio.


Aveva un anno meno di me ma sembrava vecchissima. Fisico minuto, occhi tristi. Mi ricordava la ragazza del circo della Strada. Il giorno che la conobbi aveva i capelli verdi. A mensa era seduta da sola. Portava un collarino di pelle rosa e una maglietta con la foto di una ragazza insanguinata. Mi avvicinai con la sicurezza di un idiota.


Chi è quella sulla maglietta, chiesi.


Lei mi squadrò. Per prendere una qualche decisione, immagino. Cosa pensò di me lo sa Dio. Stavo attraversando una fase da cowboy psichedelico.


Siediti se vuoi, disse.


Mi sedetti di fronte a lei.


Sei in prima, chiesi.


Non alzò lo sguardo dal piatto.


È Carrie, disse.


Chi, chiesi.


Quella sulla maglietta. Del film Carrie.


Ah, dissi io. Mai visto.


Lei alzò gli occhi al cielo.


Be’, dovresti, disse, e si rimise a mangiare.


Per il resto del pranzo non seppi che altro dire e quindi restammo in silenzio. Non c’era imbarazzo, anzi in un certo senso era un sollievo. Ci eravamo trovati ed era quello l’importante. Qualche giorno dopo la vidi che fumava dietro la palestra e le chiesi una sigaretta.


Non sai fumare, disse. Fai così.


Espirò dalla bocca e inspirò dal naso.


Alla francese, chiesi.


Alla francese, disse.


Sorrise.


Non sono un totale coglione, dissi io. Da coglione mi ci vesto soltanto.


Al che lei rise. Poche cose a questo mondo sono più belle di una risata profonda e pura come la sua. È come sentire qualcuno che canta il gospel o grida aiuto. Da quella volta ogni giorno tentai di strapparle una risata. Nella nostra scuola non c’era nessuno come lei. Certo, c’erano i dark e i punk, gli alternativi e i teppistelli, ma Cleo era diversa. Nessuno la prendeva mai in giro per come si vestiva. Aveva un suo modo di levarsi di torno le persone che riteneva superflue. Ho visto giocatori di football grandi e grossi passare sull’altro lato del corridoio per evitarla.


Un giorno mi invitò a casa ad ascoltare un disco di Lou Reed. Camera sua era piena di candele. Un poster di Courtney Love alla parete e un acquario senza acqua dentro. Cera colata sul pavimento a formare un otto.


Mi disse che provava una sensazione strana ma familiare.


È una cosa a metà fra uno struggimento continuo e un terrore improvviso, disse. Come un pomeriggio di pioggia con il sole che splende o il ronzio misterioso di una strada deserta di notte.


La Costante, lo chiamava.


Sembra terrificante, dissi.


Hai paura, chiese.


Mi toccò il ginocchio.


La mamma è al lavoro, disse. Il papà a fisioterapia.


Annuii.


Perché mi stai toccando il ginocchio, chiesi.


Non rispose.


Poi mi raccontò un aneddoto lungo e sconnesso su una volta che era scappata di casa e in un self-service cinese aveva incontrato un tizio che le aveva offerto cinquanta dollari per toccarle i piedi.


E tu che hai fatto, chiesi.


Mi sono tolta le scarpe, disse. Mentre mi baciava i piedi gli ho fregato il portafoglio. Ma dentro c’erano solo venticinque dollari.


Davvero, chiesi.


Cleo cambiò il disco da Lou Reed a Bach. Una delle sue cose tristi per violoncello.


Sappi che non sono il tipo da rapporti esclusivi, disse. E non mi piacciono i giochetti.


Ok, dissi io.


Si stava spogliando, molto lentamente, quasi impercettibilmente.


Tu hai una cotta per me, disse. Lo sanno tutti.


Forse, dissi io.


No, io ho sentito dire un’altra cosa. Che è una grossa cotta, roba seria.


Quando le sfilai le mutandine vidi le piccole cicatrici sull’interno cosce, dove si era fatta i tagli. Ma sapevo che non era il caso di fare domande. Doveva esserci di mezzo la Costante.


I due anni successivi li passammo a marinare la scuola in cerca di avventure balorde. Perlopiù giravamo sulla mia vecchia Volkswagen scassata e ci sballavamo con erba di pessima qualità. Non mi è mai sembrata una storiella da liceo. Era qualcosa di selvaggio, cosmico e strano. Stavo cominciando la mia lunga discesa verso un luogo oscuro che diventava sempre più oscuro. Era Cleo a tenermi lontano dall’orlo del baratro. Il sesso era un’arma che usavamo contro la Costante. Una barricata contro l’eterna paura.


Anch’io sentivo la Costante. Sapevo che la situazione non sarebbe mai migliorata. Gli adulti ci dicevano sempre che eravamo troppo giovani per capire. Dicevano che avremmo dovuto essere felici. Io non ho mai capito la felicità. L’idea stessa sembrava oscena. A Harmony nessuno sapeva lontanamente cosa fosse. La gente non faceva altro che lavorare e andare in chiesa. Io restavo sveglio in piena notte a pregare che scoppiasse la guerra nucleare. Poi mi resi conto che nessuno avrebbe mai sganciato una bomba su Harmony.


Non succedeva mai niente. Non cambiava mai niente.


Quello che all’epoca ritenevo un problema era semplicemente la vita. Non era né un bene né un male. Era e basta. Darei qualunque cosa per un’altra notte con Cleo. Un altro ricordo di lei. Ormai quelli che avevo li ho consumati tutti. La volta che vedemmo un Amish rubare un forno a microonde. O la volta che passammo la notte a bere vino alla frutta e ci ritrovammo faccia a faccia con una zebra. Con Cleo chissà perché mi è sempre sembrato che i sogni fossero reali e che la vita reale fosse una specie di incubo.

Oggi il capitano Tom mi ha portato il pranzo, ma io non ho mangiato. Sono rimasto a letto per buona parte del pomeriggio. È tornato all’ora di cena e mi ha chiesto se domenica volevo vedere un prete. Il mio avvocato voleva parlarmi e c’erano una cinquantina di richieste di intervista. Gli ho detto che non avevo voglia di vedere nessuno.

Lui ha annuito e si è guardato le scarpe. Tom mi è sempre stato simpatico e mi mancherà, mi mancherà davvero. Vorrei soltanto che con me non fosse così scazzato e moscio. È difficile rispettare un uomo con quell’aria da cane bastonato.

Ci hai pensato a quello che ci siamo detti stamattina, mi ha domandato.

Magari un panino col pulled pork, gli ho detto. E una Dr Pepper in bottiglia.

D’accordo.

Fra me e Cleo le cose cambiarono l’estate dopo la terza. Quando trovai lavoro in una ditta di giardinaggio. Fu allora che conobbi Paul. Fu l’inizio di una cosa. La fine di un’altra.

Appena mi sono addormentato ho cominciato a sognare che fuori dalla finestra cadevano gli ultimi fiori del corniolo e io mi trasformavo in loro. Diventavano miriadi e riempivano i fiumi, riempivano i mari, coprivano ogni centimetro del mondo.

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3

Quando leggerete queste parole io mi sarò liberato dalla terra. Che importa se vi ho raccontato la verità? Ammetto che forse non sono stato del tutto sincero. Tanto se vi raccontassi la verità non ci credereste. Con la verità succede spesso. Niente è mai reale quanto la Costante che circola nel profondo. Per me l’oscurità genera oscurità e l’amore mi ha solo messo nei guai.

L’estate dopo la terza fu il punto più basso. Ogni giorno sniffavo antidolorifici e ascoltavo la musica della notte. Treni merci che partivano dalla fabbrica di mattoni. Macchine della polizia dirette a Yellow Hill. Compravo Vicodin e Xanax da un tipo di nome Memphis giù a Park Drive. Schiacciavo le pasticche riducendole a una polverina bianca, mi ci rollavo una sigaretta e fumavo fuori dalla finestra. La bella vita che mi era stata promessa sembrava ogni sera più corta, verso il tramonto. Le possibilità si riducevano sempre di più. La tragedia passò dall’essere un’eventualità all’essere una probabilità, poi una cosa inevitabile.

Il primo giorno delle vacanze estive feci domanda per lavorare in una ditta di giardinaggio. Avrei voluto che anche Cleo trovasse lavoro lì, ma lei disse che preferiva stare col papà, che non se la passava tanto bene. Per tutta l’estate seguì un corso professionale di cinema. Guardavamo film a casa mia. Hitchcock, Taxi DriverToro scatenato, roba così. Ma anche StalkerIl settimo sigillo e vari film di un giapponese di nome Ozu. I suoi ultimi erano i miei preferiti. Ti sembrava di essere dentro i sogni di un vecchio. All’inizio di quell’estate trascorsi intere giornate a rasare prati e a sognare il Giappone seduto da solo nel parcheggio di Hardee’s.

Il giorno che Paul venne a lavorare per la prima volta nella ditta di giardinaggio pioveva ed eravamo tutti da Hardee’s. Gli altri lo accusarono di portare sfiga, di aver fatto venire il brutto tempo, ma io gli dissi di lasciarli perdere. Aveva diciott’anni, uno più di me. Alto e abbronzato. Occhi stanchi. Si era appena trasferito in città, il padre era il nuovo pastore della Prima chiesa battista.

Finimmo per parlare della Russia. Non so perché, il giorno prima in biblioteca avevo letto qualcosa al riguardo e tirai fuori l’argomento senza una vera ragione. Lui mi chiese se avessi mai sentito nominare il Bol’šoj. Accennai ai dipinti di Degas e Paul drizzò le orecchie. Chi eravamo, se non due ragazzetti di provincia che parlavano di danza classica dentro un fast food in un giorno di pioggia?

Io voglio fare il coreografo, sussurrò.

Lo disse come se fosse una specie di idea perversa.

E quindi, dissi io.

Mio padre, disse lui.

Fammi indovinare, dissi. Vorrebbe che tu fossi un quarterback della NFL che il fine settimana pilota gli aerei.

Qualcosa del genere.

Paul mi guardò a lungo. Era diverso, come Cleo, ma più cosmopolita. Portava una bandana rossa annodata al collo, alla francese, e beveva brandy da una fiaschetta d’argento. Leggeva sempre grossi libri di storia europea che non avevo mai sentito nominare e biografie di ballerini famosi. La mattina veniva al lavoro a piedi con un grande cappello di paglia e una borsa di tela.

Lavoravamo sempre fianco a fianco e passavamo la pausa pranzo insieme. Quei lunghi pomeriggi disperati a potare le siepi nelle case dei ricchi. A piantare le rose. Paul rendeva sopportabili le giornate. Guardavo dentro quelle case e mi immaginavo lì, con i piedi sul tavolino e una birra ghiacciata in mano.

Il caposquadra era Bob, un tizio non molto più grande di me. Il padre era il proprietario della ditta. Se ne stava seduto nel furgone ad ascoltare le stazioni sportive alla radio. A volte masticava tabacco appoggiato al cofano, con gli occhiali da sole avvolgenti, fischiando alle donne. Il resto della squadra era formato soprattutto da gente del Centro e del Sudamerica. C’erano Eddy, Angel e Luis. Erano tutti molto più grandi di me e gli piaceva fare scherzi. Angel era il più anziano. Sulla cinquantina, direi. Metteva sempre la salsa piccante nell’acqua di Eddy o chiudeva Luis nel bagno di Hardee’s bloccando la porta con un coltello di plastica. Bob li odiava, e quando era con me e Paul li copriva di epiteti razzisti. Come se noi due stessimo dalla sua parte in quanto bianchi. Io non dicevo mai niente, ma Paul lo rimbeccava sempre. Avevo troppa paura di perdere il lavoro. A Paul non gliene fregava un cazzo.

L’estate proseguì senza particolari sorprese. Le giornate di tosaerba e fiori si trasformavano in serate di film stranieri tristi con Cleo. Poi un fine settimana la chiamai e non poteva venire da me, così telefonai a Paul. Mi disse che i suoi erano fuori città a un ritiro di preghiera e la loro casa al lago era libera.

Era uno di quei fantastici pomeriggi azzurri. Paul venne a prendermi con la Mustang gialla del padre. Attraversammo la campagna a centocinquanta all’ora ascoltando Howlin’ Wolf. Paul portava una camicia hawaiana sbottonata e il suo cappello di paglia. Io una salopette senza maglietta e un paio di occhiali da sole a goccia. Ci fermammo sul ciglio della strada a guardare una cavalla che accarezzava col muso il suo puledrino appena nato. Bevemmo brandy sotto una quercia secolare e sniffammo antidolorifici in un drive-through. Dividemmo una coppetta di gelato mentre aspettavamo che passasse un treno lunghissimo. Eravamo così fatti che comprammo cinque cocomeri in un mercato contadino. Quando arrivammo al lago cominciava a far buio. La casa era enorme, con centomila stanze e una doccia nel giardino. Bevemmo del vino costoso e ci fumammo una canna sulla veranda.

Poi Paul mi portò nello scantinato, dove il padre teneva le pistole. C’era una cassaforte con armi e roba porno di ogni genere. Mi diede un fucile d’assalto e delle munizioni. Piazzammo i cocomeri sul pontile e sparammo guardando nel mirino. Era una bella sensazione, quella dell’arma in mano. Il potere puro mi spaventava e mi piaceva da morire. Finché ci fu luce bevemmo, ridemmo e sparammo a cose a caso sugli alberi. Paul cucinò bistecche alla griglia e le mangiammo davanti al lago. Io ero sballato come una merda e anche Paul mi sembrava sulla buona strada. Poi mi chiese se mi andava di fare un giro in barca.

Ci cambiammo e prendemmo il largo. Mi portò in una spiaggetta isolata e saltammo in acqua. Stendemmo i teli sulla sabbia e ci scaldammo sotto la luna appena sorta.

Hai la ragazza, disse lui.

Cleo, dici, domandai.

Lui annuì e si avvicinò.

Posso chiederti una cosa, disse.

Cosa.

Guardò in lontananza verso il lago.

Niente, lascia stare, disse tornando a sdraiarsi.

Per un bel po’ nessuno parlò. Il vento gonfiava gli alberi e si fermava. Mi batteva forte il cuore. Paul aveva gli occhi chiusi. Io mi feci pian piano più vicino, senza sapere cosa volevo. Lui si alzò e si avviò verso la barca. Io gli presi la mano e lo tirai verso di me.

Chiedimi quello che volevi chiedermi, dissi.

Lui invece mi baciò. Con Paul fu una cosa lenta e rilassata. Fu paziente con me. Passammo la notte nella casa al lago a fare l’amore. La mattina dopo tornammo in città e il lunedì andammo al lavoro. Non riuscivo più a guardarlo allo stesso modo.

Quando arrivo a questa parte della storia, mi chiedono sempre se Cleo era gelosa di Paul o Paul geloso di Cleo. Ma io non l’ho mai capito. Noi tre avevamo qualcosa in comune. Ci avevano detto che non eravamo come gli altri. Che dentro di noi mancava qualcosa. Diventammo l’uno per l’altro un rimedio contro la noia mortale.

Un sabato pomeriggio decidemmo di andare tutti e tre alla casa al lago di Paul. Era stata una settimana lunga e caldissima e non vedevo l’ora che finisse. Il venerdì stavamo lavorando nel giardino del sindaco Presley. Angel era col tagliaerba in cima a un pendio, Bob parlava al telefono dentro il furgone. Mentre potavo una siepe, alzai lo sguardo e vidi Angel steso a terra, supino. Mi voltai verso Paul.

Guarda Angel, dissi. È caduto.

Gli altri si misero a ridere. Pensavano fosse uno dei suoi soliti scherzi. Risi anch’io e tornai al lavoro. Poi però rialzai lo sguardo e vidi che Angel non si era mosso.

Mi sa che non sta scherzando, dissi a Paul.

Paul lo raggiunse e si fermò accanto a lui. Chiamò aiuto. Mollammo gli attrezzi e corremmo verso di loro. Bob sporse la testa dal furgone.

Ehi, disse. Che state facendo?

Angel è caduto, dissi.

E chi se ne frega, disse lui. Tornate al lavoro.

Paul si precipitò in casa del sindaco e chiamò un’ambulanza. Io corsi da Angel e cominciai a praticargli un massaggio cardiaco. Non sapevo bene come fare. E intanto Bob continuava a ordinarci di tornare al lavoro. Quando arrivarono i soccorsi, Angel era già andato. Lo caricarono e ripartirono. Senza tante cerimonie. Nessuno in lacrime che si strappava i capelli. Era semplicemente morto da solo su una collinetta.

Era la prima volta che vedevo un morto così da vicino. Un attimo c’eri e l’attimo dopo non c’eri più. Cercai di scoprire dove sarebbero stati i funerali ma Luis disse che avrebbero rispedito le ceneri in Honduras. Fine.

Il giorno dopo passai a prendere Paul e Cleo per andare alla casa al lago di Paul. Lungo il tragitto Cleo e Paul non si rivolsero la parola.

Parcheggiammo davanti alla casa.

Niente male, disse Cleo. Che fa tuo padre, lavora per la mafia?

È un sacerdote, dissi io.

Stessa cosa, disse Cleo.

Prendemmo la barca. Cleo ci rollò le sigarette per tutto il pomeriggio. Paul preparava il bourbon col ginger ale. Poi tornammo in quella caletta e guardammo spuntare un arcobaleno sopra la spiaggia. Cleo scattò foto con la sua Polaroid. Un sogno di fine estate.

Al ritorno, trovammo i genitori di Paul che ci aspettavano sul pontile. Il padre portava un cappello con la scritta PESCATORE DI GESÙ e un grosso orologio da polso di metallo, la madre era in pantaloni da yoga. Erano incazzati neri perché Paul gli aveva detto che avrebbe dormito da me. Avevano organizzato una fuga romantica e avevano pensato che qualcuno fosse entrato in casa e avesse rubato la barca.

La cassaforte delle armi è aperta, disse il padre di Paul. Siete stati sempre voi?

Decise di perquisirci in cerca di droga e ne trovò. Poi frugò nella borsa di Cleo e trovò le foto di me e Paul che ci baciavamo. Ripenso spesso a quel giorno. Forse, se avessimo fatto un altro giro del lago, le cose sarebbero andate diversamente. O se al lago non ci fossimo proprio andati.

Mentre scrivo, nella mia cella fa un freddo polare. Comincio a stufarmi di pensare al passato. Vorrei avere più cose da dire. Qualcosa di profondo da lasciarvi e invece c’è solo questo gelo che avanza. Il capitano Tom mi ha portato la cena.

Sabato ti spostiamo in una cella più piccola, ha detto. È la procedura.

Dalla finestra vedrò sempre il corniolo, ho domandato.

Lui mi ha guardato per un attimo e ha scosso la testa.

Finestre non ce ne sono, ha detto.


4

Immagino che vorrete sapere di Johnny Belladonna. Il giorno che ci siamo conosciuti mi ha picchiato col sassofono. Ero nel parcheggio della biblioteca, a piangere. Faceva un gran caldo. Mancava poco al Quattro Luglio. Johnny Belladonna non era il suo vero nome, ovviamente, ma tutti lo chiamavano così. Era un musicista del posto che ogni sera suonava jazz per strada, in centro. A cinquant’anni e passa, era l’unico musicista di strada della città. Reliquia di un mondo bohémien che a Harmony non era mai veramente arrivato. Un forestiero venuto da un altro tempo e un altro luogo, basco e mosca sul mento in una città piena di maglie da football e capelli tagliati alla triglia. Era a suo modo benvoluto per via di una strana regoletta dell’evangelicalismo in base alla quale bisogna essere amici di chiunque suoni in chiesa, a prescindere da quanto sembri scemo. E Johnny con quel sassofono dava la merda a tutti, su questo non ci piove. Col sassofono con cui mi picchiò, cioè.


Ma sto correndo troppo. Dopo quella volta al lago, il padre di Paul lo spedì a disintossicarsi e lì le cose non fecero che peggiorare. Si ritrovò con gente che gli fece provare roba più pesante di quella che ci facevamo noi. Io ero disoccupato. Dopo la morte di Angel, Bob aveva licenziato tutti. Avevo mollato la scuola e passavo giornate intere davanti al computer a bere gin e succo d’arancia perché era l’unica cosa che non vomitavo. Guardavo video fino a orari improbabili. Cose a caso, all’inizio, che però si fecero sempre più morbose. Incidenti aerei, sparatorie della polizia, suicidi, decapitazioni. La Costante resa manifesta. Forse ero così insensibile che volevo provare qualcosa, anche solo il dolore altrui.


Dal centro di disintossicazione Paul mi mandava lettere sconclusionate per raccontarmi delle lunghe nuotate che faceva nel lago e della sua idea di trasferirsi in Europa. Credeva che l’America fosse ormai spacciata e che stessimo praticamente vivendo la fine della civiltà. Leggeva molti libri sugli anarco-rivoluzionari. Cleo andava ancora a scuola. Una mattina ci vedemmo allo Starlight Diner per mangiare pancake ai mirtilli. Mi disse che voleva girare un documentario sulle cose invisibili che controllano il mondo. Si era tinta i capelli di biondo e aveva il piercing al naso. Mangiammo seduti a un tavolo vicino alla vetrata.


Non ti viene mai voglia di fare qualcosa, le chiesi.


Tipo cosa, disse lei.


Non lo so, dissi io. Dare fuoco a tutto quanto.


Lei alzò gli occhi al cielo.


Che ribelle che sei, disse.


No, dico sul serio.


Ok, fece lei. Intanto li finisci quei pancake?


Le passai il mio piatto.


A volte nel fine settimana andavamo in macchina sulle montagne e quando riuscivamo a mettere insieme i soldi facevamo passeggiate a cavallo. Piantavamo la tenda in riva al Bluebird e facevamo l’amore vicino a un pino palustre. Ma per me le giornate erano diventate impossibili da affrontare. Il tedio insopportabile. A colazione mi ritrovavo sconsolato e ancora sbronzo dopo una notte davanti al computer. Poi, credo dopo un litigio con mia mamma, cominciai a cercare in rete metodi per ammazzarmi. Trovai un forum dove se ne parlava. All’inizio fu quasi per scherzo. Vediamo di cosa sproloquiano questi deficienti, ma poi cominciai a capirli. Volevano tutti morire ma non volevano morire invano. Sembrava non esserci più nulla di magnifico al mondo. Un morbo aveva infettato tutto.


Un giorno mi arrivò una lettera da Paul. Stava tornando a Harmony. Voleva far festa. Gli diedi appuntamento alla vecchia cisterna a mezzanotte. Cleo passò a prendermi in macchina dopo la scuola e ci avviammo sotto grandi stelle. Sopra di noi la luna, giusto un’unghia. Fumammo e ascoltammo un audiolibro di Dostoevskij. Scommettemmo sulle probabilità che Paul si presentasse davvero. Alla fine arrivò su un minivan insieme a un gruppetto di compagni del centro di disintossicazione. Non ci volle molto a capire che erano scappati. Passammo tre giorni sotto la cisterna arrugginita ad ascoltare Neil Young, mangiando tacos fatti da noi e sparandoci eroina in vena. Era la mia prima volta e non fu come mi aspettavo. Fu come se Dio mi facesse correre un dito lungo la schiena, ecco come fu. Tutto il mio dolore trasformato in una stella. Avrei potuto vivere così per anni ma dopo tre giorni la nostra buona sorte finì. Il padre di Paul lo trovò e chiamò la polizia. Lo arrestarono, e quando lo fecero salire in macchina in qualche modo capii. Capii che era l’ultima volta che lo vedevo. Me lo ricordo ancora fermo lì, in manette. Fermo lì in piedi ad aspettare. Con le guardie c’è sempre da aspettare. Mai che facciano una cosa al momento giusto. Paul mi lanciò un’occhiata.


Scoppiò a ridere e tentò di farmi ciao.


Ti amo, gli dissi.


Ti chiamo quando esco, disse lui.


Fine. Le ultime parole che mi ha detto. Due giorni dopo lo rilasciarono. Telefonai a casa sua, il padre mi diede del frocio e mi disse di non chiamare mai più. Paul disse a tutti che aveva deciso di entrare nella marina mercantile. Invece il giorno dopo parcheggiò dietro RadioShack e si fece un’overdose.


Ero in biblioteca e mi arrivò una telefonata di Cleo.


Sei solo, disse.


Sì.


Paul, disse.


Che è successo, chiesi. Dov’è?


Dal suo silenzio capii che era morto. Non c’era altro da dire.


Credo che nell’universo esista una strana forma di magnetismo. Che avvicina fra loro le persone e poi le porta via da questa terra. Paul era arrivato e andato via come un temporale che passa sopra la campagna e si dilegua in un batter d’occhio. Uscii nel parcheggio della biblioteca, sotto il sole. Il caldo cuoceva l’asfalto e i profili degli alberi erano sfocati. Volevo morire. Mi sedetti in macchina con l’aria condizionata al massimo e piansi per ore come un bambino.


A un certo punto sentii una melodia jazz. Abbassai il finestrino.


Piantala, dissi a Johnny Belladonna.


Per tutta risposta, lui si mise a suonare più forte. Glielo ripetei. Continuò a suonare. A ogni cosa che dicevo, lui rispondeva con il sax. Come a farmi il verso. Non lo sopportavo. Persi il controllo. In un impeto di rabbia cieca saltai fuori dalla macchina e mi avventai su di lui. Nella mia testa era stata quella musica a uccidere Paul e io dovevo solo farla smettere. Poi ricordo di essermi ritrovato per terra pancia all’aria, con la campana in ottone di un sassofono che mi si abbatteva sulla faccia. Mi spaccò due denti e mi provocò una commozione cerebrale.


Mi risvegliai in ospedale. C’era Cleo con del gelato. Sentivo una canzone d’amore alla radio. Era una vecchia hit e mi ricordava l’estate. D’un tratto, forse per colpa dei farmaci, forse per reazione al lutto, ebbi una specie di visione: ero a Raleigh con la banda della scuola, in terza media, e seduta in un caffè c’era la donna più bella che avessi mai visto. La guardavo dalla finestra dell’albergo. Quando si alzava per andarsene mi accorgevo che era incinta. Mentre pensavo a lei, nella mia stanza d’ospedale entrò Johnny. Con il sassofono al sicuro nella custodia.


E tu che ci fai qui, chiese Cleo.


Sono venuto a scusarmi, disse lui. Ho sentito del tuo amico Paul.


Avevo la mente annebbiata e non capivo cos’era reale e cosa no. E poi, sembrerà strano, ma a quanto ricordo era la prima volta che qualcuno mi chiedeva scusa. Pareva sincero. Il basco tra le mani.


Fa niente, dissi.


Sono disposto a tutto, disse lui. Pur di farmi perdonare.


Tanto per cominciare puoi lasciarlo in pace, disse Cleo.


Lui le lanciò uno sguardo strano. Quello del postino davanti a un cane feroce. Poi si girò verso di me. Ero stufo di essere arrabbiato. Nauseato dal dolore. Esausto. E soprattutto mi mancava Paul.


Ti perdono, dissi.


Da quel giorno, io e Johnny diventammo amici. Giocavamo a scacchi in centro. Parlavamo della vita. Lui mi raccontava di quando negli anni Settanta era un professionista dell’autostop e io gli raccontavo le cose che scoprivo in biblioteca. Di certi uccelli che riescono a dormire in volo e del terremoto del 1881 a Lake Springs, in Arkansas, che fece scorrere il Mississippi al contrario e suonare le campane a Boston. Johnny mi presentò a sua madre, Trudy. Lei aveva passato la settantina e vivevano insieme in una vecchia fattoria fatiscente appena fuori città. Il padre era morto qualche anno prima.


Johnny vedeva quanto soffrivo. Capiva il dolore di quando si perde qualcuno. Era come se la morte di Paul avesse cambiato qualcosa nell’ordine dell’universo. Aveva fatto spazio per Johnny nella mia vita. Lui mi disse che riversava nella musica la disperazione per la perdita del padre. Un pomeriggio stavamo giocando a scacchi in centro.


A volte non riesco a scrollarmi di dosso il senso di vuoto, dissi.


Lui annuì, sembrava sapere benissimo cosa intendevo.


Quando ero nell’aeronautica pilotavo grossi aerei, disse. Non c’era il tempo di aver paura, ero troppo preso a volare.


In che senso, domandai.


Ecco perché mi sono messo a suonare il sax. Sono troppo concentrato a trovare le note per preoccuparmi della mia vita.


Io non ho niente del genere, dissi.


Quel pomeriggio mi portò al banco dei pegni di Hubert e mi comprò una batteria usata. Gli dissi che non potevo accettare ma lui insistette. La montammo nel suo vecchio fienile, accanto a una stufa a cherosene. Suonavamo Charlie Parker e improvvisavamo su Coltrane e Brubeck.


Poi arrivò quel weekend. Dopo una jam session nel fienile, Johnny disse che era riuscito a farsi dare una serata in un caffè di High Point. Facemmo il viaggio in macchina sotto una pioggia torrenziale e vennero a sentirci cinque persone. Quando tornammo a casa, mi disse che mi conveniva restare a dormire da lui. Mi preparò una stanza al piano di sopra e la madre fece il tè. Una volta tanto mi sentivo a mio agio. Come se non fossi così sganciato dal pianeta terra.


Mi addormentai, ma qualcosa mi svegliò nel cuore della notte. Aprii gli occhi. Sulla porta c’era Johnny in mutande.


Tutto bene, chiese.


Tutto a posto, dissi.


Non ci pensai più di tanto e mi rimisi a dormire. Poi qualche ora dopo mi svegliai e Johnny ce l’avevo nel letto. Con una mano infilata nei miei boxer.


Che stai facendo, gridai.


Saltai giù dal letto.


Ho pensato che magari avevi freddo. A volte è bello dormire vicini.


Vattene, dissi.


Mi dispiace, disse lui. Pensavo che...


Fuori, dissi.


Il giorno dopo non dissi una parola. Facemmo finta di niente. Io non parlai con nessuno. Lui mi riaccompagnò a casa e basta. Era troppo imbarazzante. Johnny continuava a chiamarmi, ma io non rispondevo. Ricominciai a passare la notte al computer a guardare video di morte, bevendo fino a crollare.


Una mattina aprii gli occhi e mi ritrovai nella stanza i miei.


Vieni di sotto, disse mio padre.


In salotto c’erano Johnny e una tizia.


Cos’è questa storia, chiesi.


Mi chiamo Debra, disse la donna. Faccio parte di un gruppo chiamato Recupero cristiano, che cerca di aiutare i giovani in difficoltà.


Noi ti vogliamo bene, disse Johnny. Vogliamo il meglio per te.


Si può sapere di che parlate, chiesi.


L’alcol, disse Debra. L’omosessualità. Le droghe. Le ricerche sul computer di casa.


Ha l’aria di una trappola, dissi io. Devo andare.


Johnny mi mise una mano sul ginocchio.


Adesso ci pensiamo noi, disse. Di noi ti puoi fidare.

5

Mi chiamo Nabucodonosor e attraverso la vita cavalcando a pelo pony selvatici. Il vento pronuncia il mio nome nei mattini in cui la nebbia fa sembrare la campagna un luogo unico e paradisiaco. Il fiume è l’ultimo migliore amico che mi è rimasto e la guerra è la mia nemica. Aspetto mezzanotte per sopraffare i filistei nel sonno. Per razziare i villaggi e bruciare vivi i patriarchi nel loro letto. Il mio cavallo è immortale, pezzato e veloce, nato il Quattro Luglio.


Mio padre l’ha ucciso la puntura di un’ape, mia madre è morta per il dolore. E così io mi sono fatto strada per questo pazzo mondo racimolando il sapere qua e là. Ho imparato da solo a leggere. Ho studiato la matematica delle stelle. Ho dichiarato il falso per iscrivermi al college a sedici anni e mi sono laureato con il massimo dei voti. Mi sono trasferito a Harmony e ho vissuto fra gli altolocati di giorno e fra i malviventi di notte. Sganciato dalla società perbene, ho fatto festa con tutti. Signore e signori, braccianti e lattaie. Poi un bel mattino ho visto passare il grande treno Cardinal nei dintorni di Greensboro e ho scroccato un passaggio per l’Ovest. Lì ho vissuto in mezzo a gauchos tristi e imparato a conoscere i cavalli. Era in corso una guerra di confine e io mi mettevo al servizio sia dei soldati che tornavano arrapati in licenza sia delle mogli lasciate sole nei ranch. Dopo il conflitto ho ripreso il treno verso est, ma come frenatore, e man mano sono salito di ruolo. Sono tornato in Carolina con un bel gruzzoletto e un lavoro che amavo.


Facevo il capotreno sui notturni per Asheville, tutti acciaio e velocità. Ogni notte sventolavo il cappello al vento come un forsennato sotto strane costellazioni. Tornavo a casa stanco con il carbone in faccia. A quel tempo credevo alla sacrosanta parola di Gesù. La Madonna era mia madre. Lo Spirito Santo mio amico. Questo finché non è arrivata la guerra e mi ha rubato tutto. Una distesa di rovine fumanti da qui fino al mare, coi ricchi ancora ricchi e i poveri ancora lì a morire. I sudisti erano milionari smidollati che costringevano i ragazzi di campagna a uccidere al posto loro. Io sono stato trascinato nel conflitto dopo che i sudisti mi hanno requisito la fattoria per usarla come caserma e i nordisti me l’hanno incendiata. Adesso combatto contro gli uni e gli altri. Di notte suono il banjo attorno a un grande falò.


Lo champagne scarseggia, ma lo bevo ogni volta che posso. Per esempio, mettiamo che ammazzo uno, prendo possesso della sua villa e do una grande festa. A quel punto tiro fuori le magnum dalla cantina e brindo alla fine del mondo. Sogno per tutto il genere umano un’utopia in cui l’amore è legale e piove champagne.


Voglio raccontarvi come ho perso la fede. Era inverno quando ho visto le due fazioni lasciar morire di freddo i propri soldati. Ogni notte dal mirino vedevo le sentinelle irrigidirsi come statue. Al mattino seppellivano i poveri stronzi e al loro posto mettevano altri ragazzini. Nel frattempo i generali e i colonnelli dormivano al calduccio nelle loro tende, mentre altri poveretti tenevano acceso il fuoco tutta la notte. Ho pensato che davanti a una sofferenza simile nessun uomo devoto a Gesù starebbe a guardare. Nab, mi direte ora, sui campi di battaglia avrai senz’altro visto di peggio. Gente sbudellata e occhi schizzati fuori dalle orbite. È vero, ho visto queste scene e molte altre. Ma lì la mia stupida fede l’ho conservata perché pensavo che quella violenza fosse al servizio di una causa più grande. Quando ho visto come gli ufficiali trattavano i loro soldati ho capito che era tutto parte della Grande Menzogna.


Adesso sono quasi sempre di pessimo umore e non mi lavo i denti da un pezzo. Tengo la barba incolta e lascio che la testa si riempia di ronzii. Al crepuscolo progetto un attacco e di notte suono i miei motivetti. Felice come un uccellino nel nido.


Poi una sera mentre ero in giro a fare saccheggi mi accorsi che c’era una festa da ballo in una grande casa. La studiai dall’alto attraverso il mirino. Studiai modi per bruciarli vivi tutti quanti. Dove appiccare l’incendio, come chiudere dentro a chiave quei bastardi. Scesi dalla collina per guardare più da vicino. Mentre preparavo i fiammiferi e il cherosene, mi cadde l’occhio su una coppia che ballava. Erano di una bellezza tenera, disperati e felici al chiaro di luna, e mi rendevo conto che erano immersi in un altro mondo. Disprezzavano il denaro e il peccato. Avrebbero potuto essere in qualunque posto in qualunque momento e sarebbe stato lo stesso. Li conoscevo come conoscevo me stesso perché loro erano me. Il loro dolore era il mio perché a loro mancava la stessa cosa che mancava a me. Capii cosa dovevo fare. Tornai alla grotta, mi infilai lo smoking e mi spuntai i favoriti cespugliosi. Sotto il pastrano allacciai due rivoltelle e un cinturone di cartucce.


Dentro c’era un quartetto d’archi che suonava brani del periodo romantico e una lunga tavolata di stuzzichini. Mi servii e mi avviai sulla pista da ballo. La sala era affollata di ragazzi ricchi che non osavano alzare un dito per la guerra se non per finanziarla. In un angolo c’era il padrone di casa. Lo conoscevo solo col nome di Fizgerald. Venne da me e mi chiese come mi chiamavo.


Sono di Harmony, dissi. Un gentiluomo come lei.


Chi è la sua famiglia. La conosco?


Per poco non gli sparai a bruciapelo, ma sapevo che non era il caso.


Sono il terzogenito dei McMillan, mentii.


Con il vecchio Pierce McMillan abbiamo fatto le scuole insieme. Pensavo che il suo terzogenito fosse morto a Chattooga.


Pensava male, dissi. Sono sopravvissuto.


Benvenuto a Shady Oaks, disse lui. Voglio presentarle mio figlio e la sua nuova moglie.


Mi portò dalla coppia che avevo visto dalla finestra. La luce li avvolgeva in un’aureola. Da vicino capii che erano loro. Anche se avevano nomi diversi, capii che li avrei rivisti in un’altra vita.


Presi le loro mani e me le portai al viso.


Lui è il terzogenito di Pierce McMillan, disse Fizgerald.


Non mi parlare della guerra, disse Paul. Non sopporto di pensarci.


Vorrei che fosse già tutto finito e avessimo perso, disse Cleo.


Mi misi le loro braccia attorno al corpo e cominciammo una danza lasciva. Nel bel mezzo della canzone avvicinai i loro visi al mio e li baciai entrambi. I presenti ci guardarono disgustati. Una vecchia vomitò dentro una ciotola di punch. Più d’uno si mosse per venire a separarci. Mormorii e gesti per tutta la sala. Riconobbi un tale come un vecchio cliente. Andò da Fizgerald e mi indicò.


Sussurrai a Cleo e Paul: Quando le cose si mettono male, voi statemi vicini. Non avremo molto tempo.


Fu allora che Fizgerald mi si avvicinò e mi prese per il bavero.


Tu non sei il terzogenito di McMillan, disse. Sei il criminale e anarchico chiamato Nabucodonosor.


Figuriamoci, dissi io.


Gli tolsi di mano lo champagne e interruppi la musica.


Lunga vita a tutto quanto, brindai.


Quindi sparai in mezzo agli occhi a un tizio a caso. Dopodiché mirai al petto di Fizgerald, ma lui schivò la pallottola, che lo colpì solo di striscio. Fece per prendere il fucile. Io gridai a Cleo e Paul di correre fuori, dove c’era il mio cavallo. Chiusi a chiave le porte. Accesi la miccia e partimmo al galoppo nella notte.


Passammo sei mesi in fuga. Fizgerald sopravvisse all’esplosione e mandò una squadraccia sulle montagne a farmi fuori. Per settimane vivemmo beati, io, Paul e Cleo. Facendo l’amore in tre sotto una pioggia di fiori di corniolo. Bevendo acqua fresca del fiume. Cacciando cervi e cinghiali per cena. Ci divertimmo da matti e quei giorni li ricordo con tenerezza.


Verso la fine dell’ultimo mese Paul si ammalò, gli venne la febbre e non feci in tempo a trovare un dottore. Lo seppellimmo vicino a un meleto e per poco non morimmo di tristezza. Eravamo io, il mio pony e Cleo, soli nella foresta.


Voglio scappare, disse lei. Ma non ho più una casa dove tornare. Non ho parenti in vita.


Ci sono già passato, dissi io. Dovrò uccidere di nuovo.


No, disse lei. Basta morte.


Mi posò la testa sulla spalla mentre guardavamo addensarsi una tempesta.


Perché continui a chiamarmi Cleo, domandò. Non è il mio nome.


Un giorno lo sarà, replicai.


Poi un proiettile le trapassò un occhio e lei si accasciò, morta. Avevano scoperto il nostro accampamento. Ci fu una sparatoria di cinque ore e ammazzai nove dei loro, ma alla fine mi presero. Aspettai l’impiccagione in galera, solo con i miei dolori e i miei sogni. Mi misero in cella insieme ai disertori e dormii per quattro giorni e quattro notti.


Poi arrivò la tempesta. Di punto in bianco sentii il rumore familiare di una locomotiva a vapore ma nelle vicinanze non c’erano binari. Un tornado puntava dritto sul campo di prigionia. Le guardie fuggirono spaventate e abbandonarono le postazioni. Il vento buttò giù le porte e spezzò le catene, e tutti noi corremmo fuori nella tempesta, alcuni vennero risucchiati in cielo. Anche se ero debole, assetato e denutrito, riuscii ad arrivare alla strada. Corsi fino a un ruscello e lì passai la notte. Feci l’occhiolino a Gesù e vidi una stella cadente. Da allora in poi vissi felice e contento.


È questo che sogno l’ultima notte della mia vita. Il capitano Tom mi ha spostato nella cella senza finestre. Mi sorvegliano per paura che mi suicidi. Non vogliono che mi ammazzi da solo prima che abbia modo di farlo il governo. Negli ultimi tempi ho pensato alla mia fine e a quali parole dovrei dire. Non riesco a immaginare come sarà il buio. Spero solo che ci siano Paul e Cleo. Spero che mi abbiano perdonato.


6

Vorrei mettere in chiaro alcune cose. Dopo l’intervento di Johnny e Debra del Recupero cristiano i miei mi spedirono allo stesso centro di disintossicazione dov’era andato Paul. Era un posto autorizzato dalla Chiesa. Di una crudeltà abissale. Ci chiudevano a chiave nei bungalow per giorni. Gli insegnanti usavano le maniere forti. Se provavamo ad andarcene, ci facevano dormire all’addiaccio con mascelle rotte e spalle lussate. Se qualcuno veniva beccato a bere o a fumare lo chiudevano in una stanza buia per ventiquattr’ore. In mancanza di stimoli la mente inizia a frantumarsi. Partono le allucinazioni. È allora che ho cominciato a vedere le mie vite passate.


Alcuni di noi furono scelti per lavorare negli alloggi dei docenti. Se uno voleva un trattamento di favore doveva farsi amico il preside, il dottor Rex. Non era un vero dottore. Aveva preso un dottorato in teologia in una qualche università battista. Avevano messo su quel centro in un ex campo estivo. All’inizio ci svegliavano alle cinque di mattina e prima di colazione ci obbligavano a correre per chilometri in mezzo al bosco. Lavoravamo per ore in un call center per vendere pacchetti vacanze in Terrasanta. Ma dopo il primo mese mi spostarono nel personale domestico del preside. Gli facevamo il bucato e le pulizie. Poi un giorno lui mi chiese di dargli una mano per il mal di schiena. I primi tempi non era niente di che. Gli massaggiavo un certo punto della schiena e lui mi ringraziava. Ma per giorni non parlava d’altro. Dell’effetto miracoloso che gli facevo.


Una domenica sera dopo lo studio della Bibbia mi chiese di andare in camera sua. Quando entrai si tolse la camicia. Mi disse di usare l’olio. Mi rendevo conto che non era normale, ma era sempre meglio della ginnastica notturna. Quando finii mi disse di aspettarlo al piano di sotto mentre si faceva la doccia.


Strano che non ti sei già servito da solo, disse.


Tirò fuori una Dr Pepper dal frigo, la aprì e versò un bicchiere per sé e uno per me. Mi lasciò guardare la TV per un’ora e ordinò la pizza per entrambi. Spense la TV e restammo seduti in salotto in preda all’imbarazzo.


Devo tornare al dormitorio, dissi.


Come preferisci.


Mentre me ne andavo mi ringraziò di nuovo. Mi disse che non si era mai sentito meglio. Mi diede una pacca sulla spalla.


È stata una bellissima serata, disse. Ma secondo me è meglio se ce la teniamo per noi. Non vorrei che gli altri si ingelosissero.


Certo, dissi.


Le cose tornarono alla normalità. Turni di lavoro. Ginnastica. Studio della Bibbia. Ma dopo qualche giorno il preside mi richiamò da lui. Ordinò di nuovo la pizza. Seduti sul divano guardammo Law & Order. Un vecchio episodio in cui trovano il cadavere di una cameriera sotto il letto di uno squallido motel. Quando finì mi alzai per andarmene.


Perché non mi racconti qualcosa di te, disse il dottor Rex.


Meglio che vado, dissi io. Altrimenti mi metto nei guai.


Ma sei con me, disse lui. Non ti preoccupare.


Mi risedetti sul divano.


Sentivo la Costante nel profondo e cercavo di muovermi al suo interno. Le settimane si confondevano. Il mondo esterno sbiadiva e il centro di disintossicazione diventava la mia esistenza. Avevo una febbre perenne che non passava mai. Non capivo cosa voleva da me il dottor Rex. Avevo l’impressione di muovermi anche se ero seduto immobile.


Il preside andò in cucina e tornò con un regalo.


Lo so che è brutto passare il compleanno lontano da casa, disse. Buon diciottesimo.


Aprii il regalo. Un paio di bacchette da batteria.


Qui una batteria non ce l’abbiamo, disse lui. Ma se non altro puoi esercitarti sul letto.


Mi sentii di nuovo travolgere da un’ondata di febbre. Non avevo mai sentito tanto caldo. Avrei voluto chiamare Cleo. Sentire la sua voce. Mi tornò in mente Harmony. Tutte le lunghe notti di un tempo.


Raccontami di Paul, disse il dottor Rex. Non ne abbiamo mai parlato.


Cosa vuole sapere, chiesi.


Mi riempì di nuovo il bicchiere.


Il padre di Paul è un mio caro amico, disse.


Ah, dissi io.


Il pastore Green mi ha raccontato tutto, disse.


Guardai fuori dalla finestra e vidi splendere la luna sopra un campo vuoto. Sul margine c’era uno spaventapasseri che sembrava crocifisso. Non sapevo cosa dire.


Lo so che sei stato tu a dargli la droga, disse.


No, dissi io. Si sbaglia.


Il dottor Rex mi mise un braccio attorno alle spalle.


Devi soltanto chiedere perdono, disse.


Io guardai di nuovo fuori dalla finestra ma lo spaventapasseri non c’era più. O forse era soltanto svanito fra le ombre. La febbre, già alta, stava salendo. Non avevo mai percepito in modo così netto la Costante. Avrei voluto raccontare ogni cosa al dottor Rex. Che era stato il padre di Paul la causa di tutto. Avrei voluto dirgli che Johnny aveva provato a toccarmi. Ma sapevo che non mi avrebbe creduto. Mi ero ricordato di un libro che avevo letto per caso in biblioteca anni prima, sui monaci che si davano fuoco per protesta. E dei versi di un’antica poesia zen sulla cremazione. Ho provato grande gioia nel mio corpo. Spargete le ceneri.


In quel momento formulai un piano. Abbracciai il dottor Rex e scoppiai a piangere.


Chiedo misericordia, dissi. Chiedo la grazia di Gesù.


Lui si staccò da me.


Bruci di febbre, disse. Adesso ti porto in infermeria.


Quella notte mi addormentai su una brandina dell’infermeria e sognai un milione di versioni di me crocifisse. Sognai fiammate al fosforo bianco. Dentro di me la terra tremava e mi ritrovavo in mezzo alle macerie. Il cielo diventava nero di fumo e la cenere cadeva come neve. Poi mi svegliai. Pensavo fosse l’indomani mattina, ma l’infermiera mi disse che avevo dormito quasi un giorno intero.


Oggi arriva qualcuno da una chiesa di Harmony, disse.


Io sono di Harmony, dissi.


Ah. Allora li conoscerai.


Quando vennero il pastore Green e Johnny, li accompagnai a fare il giro del campo. Raccontai che avevo visto la luce. Avevo smesso di drogarmi e non provavo più gli stessi desideri impuri. Il pastore Green rimase colpito. Quella sera studiai la Bibbia insieme a loro e gli dissi che mi dispiaceva per quello che avevo fatto. Lui mi mise una mano sulla spalla e sorrise.


Mi ricordi Paul, disse.


Alla fine di quel weekend avevo convinto il pastore Green e Johnny a farmi tornare a Harmony. Gli dissi che volevo lavorare per la chiesa.


Lavorai alla Prima chiesa battista facendo tutto quello che mi chiedevano. Andai a ogni funzione e ogni incontro di preghiera. E intanto architettavo il mio piano. Sognavo il monaco in fiamme. La sera prima che attuassi il piano, Cleo venne da me. Guardammo un film noir in TV. Si era tinta di rosso i capelli e aveva trovato lavoro in biblioteca. Fumammo un pochino e iniziammo a limonare. Lei si mise a cavalcioni sopra di me e mi tamburellò con le dita sul petto.


Devo dirti una cosa, dissi.


Cosa, disse lei. La tua svolta cristiana è tutta una messinscena. Questo già lo so.


No. Cioè, sì. Ma c’è dell’altro. Ho un piano.


Quale.


Voglio darmi fuoco, dissi. Dire al mondo della Costante.


Cleo scoppiò a ridere.


Chiamami domani, disse.


Mi salutò con un lungo bacio. Fu l’ultima volta che la vidi.


La mattina dopo mi vestii, presi la tanica di benzina dal garage e la misi in un borsone, salii in macchina e andai in chiesa per la funzione della domenica. Il pastore Green tenne un sermone sul prezzo del peccato e Johnny Belladonna suonò le sue canzoni. Tutti chiusero gli occhi per la preghiera finale.


Avanzai fino al centro della chiesa e mi versai addosso la benzina. Non volevo morire in pace. Volevo ruggire tra le fiamme. A posteriori sembra stupido, ma pensavo che se mi fossi dato fuoco avrebbero dovuto ascoltarmi. Ma nessuno lo fece. La benzina mi era schizzata negli occhi. Per un attimo rimasi accecato. Frugai in tasca in cerca dei fiammiferi. Provai a dire qualcosa di definitivo e profondo. Ad annunciare il mio dolore. A proclamare qualcosa di significativo sulla Costante, ma non mi venne in mente nulla. Ricordo Johnny che correva verso di me. Mi cadde di mano il fiammifero e il pavimento si incendiò. Pensavo che il fuoco mi avrebbe distrutto e invece mi ricordò soltanto quant’erano belle in realtà le cose. Quant’erano semplici e buone. Non volevo più morire. Successe talmente in fretta. Mandai tutto a puttane. Ero dentro la chiesa a soffocare per il fumo e un attimo dopo ero fuori a respirare l’aria fresca di agosto.


Ogni sera prima di dormire recito i nomi dei morti. Imploro la misericordia che non merito. In ginocchio sul pavimento duro, prego un universo senza dio.


La mia vita non finirà davvero a mezzanotte perché è già finita un milione di volte. Non so bene perché ma in un certo senso è finita il giorno in cui è morto Angel. È finita quando il padre di Paul ha trovato le foto. È finita quando sono entrato in quella chiesa. È finita il giorno in cui sono venuto al mondo. Ed è finita diecimila anni fa.


I miei avvocati hanno tentato di buttarla sull’infermità mentale. E al momento della sentenza volevano farmi dichiarare che non intendevo bruciare la chiesa. Dicevano che forse avrei mosso a compassione qualche membro della giuria. Che era stato un brutto incidente. Magari non mi avrebbero dato la pena di morte. Ma io certe cose non volevo farle sapere a nessuno.


Alla base di tutto c’era la Costante. Il tempo e la migliore amica del tempo, la transitorietà. La bellezza e la tragicità di un fiore di corniolo che cade, c’era di mezzo qualcosa del genere. Ho deciso che le mie ultime parole saranno più o meno su questa falsariga. Su come alla fine la vita ci tradisce tutti.


Perfino adesso sto ancora pensando al futuro. Mi manca Cleo. Mi manca Paul. Ho fatto male anche a loro, non dimentichiamolo. Ho fatto cose orribili. Una volta ho picchiato mia madre, ho distrutto la macchina di uno sconosciuto e ho rubato tremila dollari a mio padre per strafarmi. A quattordici anni ho saltato il funerale di mio nonno perché non volevo smettere di giocare ai videogiochi. Ho ucciso e sarò ucciso.


Non è andata sempre bene, non è andata sempre male.


Alla fine le cose diventano più chiare. La vita è stata ciò che ho fatto fra l’alba e il tramonto. È strano esistere così. Come quando da bambino mi piaceva tanto prendere il treno per Asheville. Mi mettevo sempre nell’ultima carrozza. Guardavo le rotaie dietro di me e il paesaggio che man mano compariva. Comparivano cittadine solitarie che poi svanivano in lontananza. Sognavo di abitare in quelle cittadine. Probabilmente non sarebbero state meglio di Harmony.


Non mi restano più sogni. Tutta la mia paura è passata. Quello che ho in testa però non è il momento della morte. Sono quei viaggi in treno fatti da bambino. Mi ricordano il mio primo amico e la sua mamma, che poi è morta. Lei correva la maratona e portava bandane blu fra i capelli. Aveva una station-wagon con il sedile posteriore al contrario, rivolto verso il vetro. È a questo che sto pensando. Alla sensazione di andare avanti ma di poter guardare soltanto indietro.


Questa sarà la mia ultima mezzanotte. Le costellazioni. Me le immagino ciascuna al suo posto. Così come l’albero di corniolo. Non vedrò cadere gli ultimi fiori. Il capitano Tom è entrato a dirmi che sono arrivati il mio avvocato e un prete e gli ho detto di mandarli via. Non mi servono più né la legge né la religione. Stasera ho mangiato il mio panino col pulled pork prima della solita ora. All’ultimo momento ho chiesto una birra ghiacciata e il capitano Tom è riuscito a procurarmi di straforo una Miller High Life. Fra un sorso e l’altro ho pensato alle migliaia di birre come quella che ho bevuto e alle migliaia che non berrò mai. Ho letto e riletto la parola life finché non ha perso ogni significato. Che cosa stupida morire.


Non so chi leggerà queste pagine. Forse le distruggeranno insieme a tutte le altre mie cose o forse finiranno nelle mani di qualche sconosciuto, poveretto. I deliri di un assassino. Possono dire quello che vogliono, mi sta bene. Tanto la realtà è sempre più complicata. Mancano due minuti a mezzanotte. È arrivato il capitano Tom. È ora di andare. Per concludere voglio dire solo questo. Se c’è qualcosa che amate, tenetevelo stretto perché non si può mai sapere quando verranno a portarvelo via.


FARBER

2005