venerdì 27 ottobre 2023

STANZE SUL MARE Nicholas Christopher

 


STANZE SUL MARE

Nicholas Christopher

Il racconto è ispirato al quadro di Edward Hopper

Estratto dalla raccolta "Ombre" AAVV. 

Uno degli artisti più amati interpretato da narratori eccezionali: nasce così il volume <Ombre. Racconti ispirati ai dipinti di Edward Hopper> (Einaudi Stile libero), nel quale tredici scrittori interpretano altrettante tele del pittore americano, che meglio di altri ha raccontato la solitudine della classe media statunitense.


Quello che vorrei dipingere

è la luce del sole

sulla parete di una casa

Edward Hopper


Titolo del racconto 

"Stanze sul mare"

Di Nicholas Christopher

Nicholas Christopher è autore di diciassette libri – sei romanzi, nove raccolte di poesie, un saggio e un romanzo per bambini – tradotti e pubblicati all’estero. Vive a New York. Ha scritto: «Dal 1913 al 1967 Edward Hopper ha abitato e lavorato in un monolocale al quarto piano del numero 3 di Washington Square. Vivo a un paio di isolati da lí e ci passo davanti praticamente ogni giorno. Vedo la luce che esce dalle sue finestre, la stessa che illumina molti dei suoi quadri, i mattoni rossi e i sottotetti a cui era cosí affezionato, i palazzi dei dintorni (incluso il mio) che ha dipinto tanto spesso, talvolta rivisitati a beneficio della composizione. La sua pittura ha sempre avuto per me un significato speciale».

1.

C’erano due porte per entrare nella casa. La prima, quella di una stanzetta spoglia, affacciava direttamente sul mare. Ci si poteva entrare soltanto dall’acqua. Quando la lasciavano aperta in una giornata di sole, la luce obliqua illuminava metà di una parete. Man mano che il sole calava, la parete si poteva leggere come una meridiana: la metà illuminata si assottigliava finché tutto il quadrante restava in ombra.

La seconda porta, all’altro capo della casa, si apriva su un sentiero incolto che serpeggiava in mezzo al bosco e sbucava in un parchetto remoto ai margini della città. La fontana del parco, con al centro sirene di pietra che sputavano acqua dalla bocca, era secca da tempo. I palazzi della città erano rossi e marroni. Il sole rosicchiava i mattoni, che esalavano piccoli sbuffi di polvere. Al crepuscolo le finestre azzurre si tingevano d’ambra. Sulle scale antincendio le donne leggevano e fumavano, fissando pigramente il fiume di nuvole livide che correva verso il mare. Una di loro, una rossa, leggeva una breve autobiografia intitolata Stanze sul mare, scritta un centinaio di anni prima. L’autrice, Claudine Rementeria, era sposata con un armatore di origini basche emigrato in America. Anche lei era basca, e poco prima che la morte la cogliesse a soli trent’anni aveva scritto il libro nella loro lingua madre per amore del marito. Tranne che per una piccola tiratura autoprodotta – della quale erano sopravvissuti pochissimi esemplari – il libro era rimasto inedito fino a una recente traduzione inglese. La rossa, Carmen Ronson, bisnipote trentenne di Claudine Rementeria, possedeva sia la traduzione inglese sia una delle copie in basco.

Quel giorno Carmen arrivò alla casa alle nove in punto. Sbucò dal sentiero in mezzo al bosco, una sigaretta tra le dita ed entrambe le edizioni di Stanze sul mare sotto il braccio. Prese una chiave da sotto un mattone in fondo al sentiero, aprí la porta ed entrò. Indossava un vestito verde, una sciarpa di seta stampata a tridenti, scarpe verdi e un cappello di velluto blu con una piuma di pavone infilata nel nastro. Il rossetto era corallo, la stessa sfumatura dello smalto. Nella foto in bianco e nero sul frontespizio del libro, Claudine indossava lo stesso cappello.

Carmen percorse un lungo corridoio con una dozzina di porticine bianche recuperate dalla Sabina, un transatlantico che si era inabissato nel golfo di Biscaglia. Passò la stanza con la porta sul mare e andò a sedersi su un divano rosso in quella accanto, che aveva una finestra con vista sull’acqua ma nessuna porta. Si tolse sciarpa e cappello e sganciò il fermaglio con cui aveva raccolto i capelli mossi. Era alta, con la pelle chiara senza lentiggini, bei tratti delicati, mani forti. I suoi occhi azzurro torbido avevano la stessa sfumatura delle tende che fluttuavano nella brezza.

Aprí i libri su un tavolino basso, l’uno accanto all’altro, insieme al dizionario inglese-basco che teneva in casa. Sebbene avesse studiato la lingua e trascorso due estati nel Nord della Spagna, leggeva lentamente, scandendo piano le parole e traducendo a fior di labbra. «C’erano due porte per entrare nella casa…» A tratti le arrivavano deboli zaffate dalla cucina, a parecchie stanze da lí. Scalogno fritto, filetti di persico che sfrigolavano sulla griglia, biscotti appena sfornati.


2.

Il cuoco aveva pescato il persico il mattino stesso, gettando la lenza dalla porta sul mare, le gambe penzoloni sulla soglia, le onde che lambivano le suole dei sandali. Si chiamava Solomon Fabius. Per molti anni aveva lavorato per la madre di Carmen, Calleta. E quando alla sua morte Calleta aveva lasciato la casa alla figlia, lui era rimasto, giurando che avrebbe consegnato a Carmen le due copie di Stanze sul mare. Di origini spagnole ma nato in Senegal, oltre alla lingua madre Fabius padroneggiava il francese, il senegalese e il basco. Stava in America da una vita, ma il suo inglese lasciava ancora a desiderare. Diceva che parlava già troppe lingue. Con Calleta conversava quasi sempre in basco, uno dei motivi per cui era stato assunto. Gli altri inquilini della casa, inclusi Carmen e suo padre Klaus, di rado capivano cosa si dicevano. Klaus Ronson era un medico danese che aveva conosciuto Calleta a Venezia e l’aveva sposata due mesi dopo. Era morto quando Carmen aveva sei anni, un anno dopo l’arrivo di Fabius. Da lí in poi Calleta aveva festeggiato il compleanno di Klaus bevendo un bicchiere dello stesso champagne che lui aveva ordinato a Roma la sera che si era dichiarato. Brindava alla sua salute e giurava che era l’unico uomo che aveva e avrebbe mai amato. Dalla morte del marito, lei e Fabius parlavano esclusivamente in basco.


Fabius si era trasferito in Spagna da ragazzo per imparare il mestiere nelle piú rinomate scuole di cucina di Barcellona e Madrid. Aveva fatto lo chef in due alberghi a cinque stelle: il Sultana a Bilbao e l’Atlantis a Siviglia. La sua specialità era la cucina basca. Fu proprio all’Atlantis, al termine di una cena da sei portate, che Juan Azarola, influente avvocato nato in un’antica famiglia basca, gli comunicò quanto fosse rimasto colpito dalla sua arte. Azarola esercitava la professione a Cadice, ottanta chilometri a sud, e frequentava diversi ristoranti baschi, ma neppure in cima ai Pirenei aveva mai gustato piatti cosí audaci e squisiti. Azarola gli spiegò che in America aveva un cugino ricco che cercava uno chef, pronto a quadruplicare qualsiasi compenso Fabius percepisse lí all’Atlantis. Il visto, il permesso di soggiorno, l’alloggio, l’assicurazione medica: era tutto incluso. In piú Fabius avrebbe ricevuto i contributi per la pensione nella valuta che preferiva, depositati in qualsiasi banca del mondo. Gli interessava lavorare a quelle condizioni per un privato? Incredulo, preso alla sprovvista, Fabius disse che doveva pensarci. Azarola disse che avrebbe gradito una risposta entro ventiquattr’ore, prima della sua partenza da Siviglia. Fabius svolse le indagini del caso: chiese al suo capo, al manager dell’albergo e allo studio legale che rappresentava l’Atlantis. Azarola aveva ottime credenziali. L’offerta era solida. Fabius l’accettò, e non tornò mai piú sui propri passi. Negli ultimi venticinque anni era diventato anche lui molto ricco. Non aveva ancora informato Carmen, ma aveva intenzione di andare presto in pensione e tornare in Spagna.


Fabius era un omone largo di spalle e ben piazzato. Anche a sessantotto anni aveva braccia muscolose, grosse mani piatte e un collo lungo che lo faceva sembrare piú alto di quanto non fosse. Portava sempre il grembiule e i pantaloni bianchi da chef, ma non la classica toque. Al suo posto aveva scelto un fez rosso con una nappina dorata, perennemente in bilico sulla zazzera di ricci bianchi. I suoi alloggi, in fondo a un labirinto di corridoi, erano talmente lontani dalla stanza con la porta sul mare che pareva impossibile arrivarci. A lui andava benissimo cosí, perché accettando il lavoro aveva posto una sola condizione: che in camera sua non entrasse mai nessuno, senza eccezioni.


3.

La casa aveva altre qualità che Carmen trovava inquietanti. Per esempio il fatto che ogni anno, senza l’intervento di nessuno, guadagnasse una stanza. Se n’erano accorti lo stesso anno che era arrivato Fabius, qualche mese prima che Klaus Ronson si ammalasse di cancro ai polmoni. Calleta non aveva dato peso alla coincidenza. E aveva sempre trovato normale che le stanze comparissero all’improvviso, come sorte dal mare. Il mondo è pieno di fenomeni che sfidano le leggi della fisica, ripeteva, solo che in genere passano inosservati. Carmen, che all’epoca aveva sei anni, le chiese esempi di cose che invece si potevano osservare.


– Esistono salamandre con due teste e un cuore solo, – rispose Calleta. – E sugli altopiani del Brasile cascate che scorrono all’insú.


– Tu le hai viste queste cose?


– Certo. Altrimenti come farei a saperle? Sono prodigi, segni di buon auspicio. Forse addirittura benedizioni divine.


Carmen capiva che per sua madre piú una cosa era inspiegabile piú era potente e reale. Crescendo imparò ad abituarsi alla logica sconclusionata di Calleta e alla sua fervida fantasia.


Ma perfino Calleta si allarmò scoprendo che il fenomeno era inarrestabile; che nessuno poteva prevedere quante stanze si sarebbero sommate nel corso del tempo. Dopo sette anni contattò gli architetti ai quali il marito aveva affidato il progetto e spiegò loro la situazione. Non le credettero. Fecero un sopralluogo con le planimetrie alla mano e rimasero di stucco nel trovare sette stanze in piú, rifinite e imbiancate di fresco. All’inizio pensarono che la signora li stesse prendendo per il naso, che avesse commissionato le stanze a una vera impresa di costruzioni in tempi ragionevoli. Poi capirono che faceva sul serio. Specie perché le toccava sborsare quattrocento dollari a consulto. Tornarono senza preavviso due anni dopo sperando di coglierla in flagrante, invece trovarono altre due stanze. Uno degli architetti si smarrí nei meandri della casa, inciampò in una camera buia e si ruppe un braccio. L’altro, uno spagnolo torvo con il padre franchista, s’imbestialí e disse che fare affari con i baschi era sempre una fregatura. Poi bruciò il progetto sul prato di fronte come se fosse infestato. Congedandosi, consigliò a Calleta di cercarsi un esorcista, anziché un architetto. Il giorno dopo fu colpito da un violento attacco di cuore.


4.

Un mese prima, in un pomeriggio afoso, Carmen aveva avuto un incidente in mare con la piccola barca a vela che aveva ereditato dalla madre. Aveva imparato a navigare da bambina senza mai incappare in brutte avventure. Quel giorno, però, un cavallone si era alzato all’improvviso dalla superficie piatta e si era infranto sul ponte. Carmen non era caduta, non si era ferita né aveva perso coscienza. La barca non si era rovesciata. Ma per un lungo istante, sospesa dentro l’onda come fuori dal tempo, aveva temuto di cadere in acqua. Poi l’onda si era ritirata nella foschia, il mare si era placato e lei era tornata a riva.


Quel giorno si era accorta che le stanze della casa avevano cominciato a moltiplicarsi piú in fretta: non una volta all’anno ma una al mese. Se cercava di contarle il numero cambiava. All’esterno la casa era identica a trent’anni prima, ma dentro le pareva piú ampia ogni volta che trovava il coraggio di esplorarla. Alla fine capí che era destinata a perdercisi. Nella sua testa era aberrante, tentacolare. Le stanze e i corridoi non si limitavano a moltiplicarsi, ma si ingrandivano o rimpicciolivano, si scambiavano di posto. La planimetria era mutevole. Se percorreva lo stesso corridoio in due giorni successivi, il primo scopriva che sbucava su quattro camere, quello dopo su due. E la terza volta si trasformava in un vicolo cieco murato da un armadio chiuso a chiave.


Le stanze erano una sequela di camere da letto e salotti. Le pareti erano tinteggiate di bianco, i soffitti di azzurro. Tutte avevano un letto, una scrivania e un comodino. Nei salotti c’erano una scrivania con una lampada di vetro verde e una poltroncina. Sulla scrivania un quaderno dalla copertina azzurra e una penna stilografica. I letti erano rifatti con cura e i quaderni vuoti.


Ora dentro la casa dormivano soltanto Fabius, chiuso nei suoi alloggi misteriosi, e Carmen. La sua camera da letto e lo studio erano le uniche stanze del primo piano, che di fatto costituiva una specie di torretta autonoma. Ci si arrivava tramite una scala a chiocciola e dalla cima si godeva di una visuale a trecentosessanta gradi del paesaggio circostante. Tre finestre davano sul mare, la quarta affacciava sul bosco.


Carmen non capiva perché Fabius conoscesse la casa meglio di chiunque altro. Faceva di continuo su e giú tra i suoi alloggi e le altre stanze, con una rapidità sovrannaturale. Quando Carmen gli aveva chiesto spiegazioni, sulle prime aveva finto di non capire la domanda. Lei l’aveva riformulata in un francese stentato, e lui aveva commentato sibillino che quella era una casa fortunata, «proprio come diceva sempre tua madre». Carmen si era resa conto che non gli avrebbe cavato altro.


5.

Nonostante lo conoscesse da sempre, Carmen non sapeva quasi nulla di Fabius. L’infanzia, l’istruzione, la vita in Senegal – era tutto avvolto nel mistero. Della sua storia lui non parlava mai, in nessuna delle tante lingue che conosceva. Carmen era certa che la madre sapesse di piú, ma Calleta le aveva accennato alle origini di Fabius una volta soltanto.


Il padre era un missionario spagnolo che si era sposato con una francese, la vedova di un ingegnere, dopo averla salvata dal suicidio. La donna aveva fatto irruzione nella piazza di un villaggio nella giungla – cani rognosi appisolati all’ombra, polli che razzolavano nella polvere – e si era puntata una pistola al cuore. La canna era gelida contro la pelle. Tra le scapole le scorrevano rivoli di sudore. Il padre del cuoco aveva gettato via gli opuscoli – La vita eterna è la tua bussola, Molla gli ormeggi in un mare di luce – che stava cercando di rifilare agli indigeni. Aveva giunto le mani ed era crollato in ginocchio davanti alla vedova. Colta alla sprovvista, senza proferire parola, la donna aveva abbassato la pistola. Aveva fissato il missionario mentre si alzava, le sfilava la pistola di mano e metteva la sicura. Poi lui l’aveva portata all’ombra, su una panchina muffita sotto un albero di acacia, e lei era scoppiata a piangere. Erano rimasti seduti in silenzio per ore, finché lei gli aveva raccontato che la sua bambina, la sua unica figlia, se l’era portata via una piena durante la stagione delle piogge. Una settimana dopo si era sposata con il missionario, e nove mesi piú tardi aveva dato alla luce un bambino che da grande sarebbe diventato cuoco in casa di Calleta. L’aveva chiamato Solomon, e stringendolo al petto aveva detto al padre che sarebbe campato almeno cent’anni.


Gli unici parenti stretti di Fabius erano due sorelle gemelle di settant’anni. Una abitava a Marsiglia ed era un’insegnante di Scienze in pensione, l’altra era proprietaria di un night club a Dakar. Su uno scaffale della cucina Fabius teneva una fotografia delle sorelle scattata quando avevano vent’anni. Indossavano due abiti bianchi e si stringevano sotto un ombrellino per ripararsi dal sole cocente. Calleta diceva che Fabius non si era mai sposato, e a Carmen non risultava che avesse amici. Era un domestico, ma anche un abitante della casa a tutti gli effetti, e in qualche modo il guardiano. A parte le due settimane all’anno in cui andava a trovare una delle sorelle, non se ne allontanava mai. Usciva spesso con il suo kayak, vogando a diversi chilometri dalla costa, e in ogni stagione, con la pioggia o col sole, faceva due lunghe nuotate al giorno. Si faceva consegnare la spesa a domicilio due volte alla settimana da un’azienda idrica. Teneva sempre una scacchiera sul bancone della cucina. Cucinando, giocava partite famose documentate nei manuali di scacchi. Alekhine, Capablanca, Morphy.


Il rapporto tra Carmen e Fabius era semplice solo all’apparenza. Sotto la superficie era denso di stranezze. Conversavano in francese, la lingua che avevano in comune. Discettavano del menu del giorno e, poiché entrambi amavano la barca a vela, della scienza dei venti e delle correnti. Fabius non raccontava mai di sé. E il rapporto tra lui e la madre di Carmen era l’ennesimo mistero. Calleta aveva sempre avuto un debole per il cuoco, fin dall’istante in cui un taxi d’acqua l’aveva depositato alla porta sul mare e lui l’aveva salutata in basco. Per un po’ Carmen aveva sospettato che fossero amanti. Ma dopo la morte del padre aveva capito che la madre non l’avrebbe mai tradito. Non era mai uscita a cena con un altro uomo, né si era mai concessa un flirt passeggero. Pur rispettando le convenzioni (Fabius cucinava e serviva tutti i pasti senza mai sedere a tavola con la famiglia), trattava il cuoco come una specie di artista ospite piú che come un domestico. Giocavano a scacchi e zappettavano insieme nell’orto. E comunque a essere strana era la stessa presenza di Fabius nella casa. Il suo predecessore era un custode che ai fornelli se la cavava piuttosto bene. Calleta sapeva apprezzare un pasto a regola d’arte, ma era capace di sopravvivere giorni interi con un po’ di formaggio, mele e tè. Era stato durante la luna di miele nel Nord della Spagna che aveva sviluppato una passione (sia culturale sia culinaria) per la complessità dei piatti baschi, per le zuppe e gli stufati che sobbollivano giorni interi nei tegami di terracotta e nei forni a legna. Forni identici a quello che aveva fatto costruire apposta per Fabius.


Quando Carmen aveva chiesto alla madre perché dopo tanti anni sapesse di Fabius poco e niente, Calleta aveva risposto: – So di lui quanto basta. Preferisco le persone che sanno custodire i loro segreti. Che non tradiscono la propria natura. All’inizio mi aspettavo che si aprisse, che parlasse di sé. Poi ho capito che non l’avrebbe fatto. E che in fondo non era necessario. Ho imparato a rispettarlo. Se insisterai, Carmen, lui si chiuderà nel suo bozzolo. Scomparirà.


6.

Carmen aveva visto Fabius in preda a una forte emozione soltanto una volta: al funerale di sua madre. A Carmen aveva raccontato solo come era morta. Due giorni prima, mentre Calleta faceva la sua nuotata quotidiana, era stato Fabius ad accorgersi, ben prima di lei, che era in grave pericolo. A un centinaio di metri dalla spiaggia Calleta aveva scambiato un crampo per quello che invece era un piccolo infarto. D’un tratto non era piú in grado di muovere la parte destra del corpo. Il dolore era lancinante. A terra sarebbe potuta sopravvivere quanto bastava per ricevere i primi soccorsi, ma non lí in alto mare. Aveva cercato di raddrizzarsi con il braccio sinistro, di tenere la testa sopra il pelo dell’acqua. Fabius si era precipitato alla porta sul mare, aveva calciato via le scarpe e si era tuffato. Era un nuotatore provetto, ma controcorrente non era riuscito a raggiungerla prima che Calleta andasse sotto. L’aveva portata in salvo con un braccio solo, depositandola sulla soglia della porta aperta. Poi si era issato sulla scaletta. Le aveva praticato la respirazione bocca a bocca, premuto le mani sul petto per fare uscire l’acqua dai polmoni e rimettere in moto il cuore, ma era già troppo tardi. Aveva pianto sul corpo privo di vita di Calleta, aveva pianto al funerale e con Carmen, che era tornata in tempo per disperdere le ceneri della madre in mare. Per una settimana era stato attento, pieno di premure. Poi aveva smesso di parlare. Già taciturno, si era chiuso in un silenzio impenetrabile. Aveva chiesto a Carmen se per qualche tempo potesse mettergli per iscritto tutte le richieste a cui doveva obbedire. Lei aveva acconsentito senza rancore, nonostante fosse ancora in lutto. Solo per lealtà nei confronti di Calleta, aveva pensato, Fabius era rimasto lí a cucinare per lei.


Un giorno Carmen si arrese alla curiosità e infranse l’unica regola della casa. Dopo cena provò a seguire Fabius fino ai suoi alloggi. Superò in silenzio due brevi corridoi, poi smise di sentire il rumore dei suoi passi e si ritrovò in una grossa stanza buia con fredde pareti di pietra. Camminò a tentoni lungo tre pareti prima di trovare una porta che si apriva su un corridoio ignoto, largo quanto bastava per passarci in mezzo. Dopo una serie di svolte, arrivò nella dispensa accanto alla cucina.

Non provò mai piú a seguirlo.


7.

Dopo l’incidente, Carmen fu sopraffatta dalla stanchezza, poi dalla paura. La notte non riusciva a dormire. Si rivolse a due dottori diversi per sentirsi dire che era sana come un pesce. Le prescrissero dei sonniferi e le raccomandarono di smettere di fumare. Lei valutò l’idea di trasferirsi all’estero. Aveva studiato disegno e pittura in Austria e in Italia, era stata felice in entrambi i luoghi. Fino alla morte di sua madre, mai avrebbe pensato di tornare a vivere nella casa della sua infanzia. Ma ora vi era legata, e nei pochi giorni che era stata lí aveva dipinto la cosiddetta «serie dell’oceano» che l’avrebbe resa famosa. E poi voleva disegnare una grossa casa che ancora non sapeva fissare sulla tela. Ce l’aveva chiara solo in testa, sentiva che era il nodo centrale del suo prossimo dipinto. Continuava a disegnare e a cancellare (cambiava la pendenza del tetto, il numero delle finestre, la dimensione dei portici e delle stanze), ad aggiustare proporzioni e limare dettagli.


Le pillole non facevano effetto, e lei non ne poteva piú di notti insonni passate a guardare il buio, cosí prese in affitto un appartamento in città. Una casetta di arenaria in una via tranquilla con alberi secolari. Dormiva lí ogni notte e andava alla casa solo per dipingere. Pranzava nella stanza sul mare, ma al tramonto chiedeva a Fabius di impacchettarle la cena e tornava in città. Evitò le spiegazioni e non restò sorpresa quando lui non indagò.


Continuava a leggere Stanze sul mare di Claudine Rementeria. Aveva quasi finito l’edizione inglese, ma arrancava sul basco. Non riusciva a concentrarsi abbastanza. Claudine raccontava del suo matrimonio, dei libri e della musica che condivideva con il marito, della nascita del figlio – il bambino che sarebbe diventato il padre di Calleta. Ogni tanto accennava alla sontuosa villa vittoriana in cui viveva. Carmen capí che la casa attuale era stata costruita nello stesso punto, ma la magione vittoriana era cinque volte piú grande. Una villa su tre piani di una bella pietra calcarea fatta arrivare direttamente dall’Indiana. Infissi di quercia, tetto a due spioventi. I particolari erano sparsi tra le pagine, facevano da sfondo alla vita familiare. Le persone nascevano, morivano, si ammalavano, s’innamoravano, mangiavano e bevevano, guardavano le stelle dai grossi lucernari e la notte, dai loro letti, ascoltavano il rumore ipnotico della risacca. Tutta la famiglia – uomini, donne e bambini – trascorreva un’enorme quantità di tempo a nuotare, a pescare e a fare lunghe passeggiate sulla spiaggia. Era una casa relativamente nuova, ben costruita, piena di luce e aria. E in costante espansione, apprese Carmen con un brivido. Secondo il libro gli abitanti vi mettevano mano di continuo: aggiungevano nuove ali, abbattevano pareti, riprogettavano l’arredamento.


Una volta Calleta aveva detto che della casa non esistevano fotografie, dipinti, disegni né altre prove tangibili. Un incendio dentro la biblioteca aveva distrutto gli album di famiglia, i registri e l’armadietto con le planimetrie. Calleta aveva cercato invano un duplicato negli archivi della contea.


Un pomeriggio Carmen trovò una fotografia sbiadita infilata tra le pagine 178 e 179 dell’edizione basca. Ritraeva la casa in un nevoso mattino di Natale, con la famiglia Rementeria in posa davanti alla facciata. Tra i fiocchi di neve e i colori slavati si distinguevano a stento i visi. Della costruzione risaltavano le torrette rivestite di vetrate lungo tutto il perimetro, l’ampio terrazzo sul tetto e le due balene bianche incise nella pietra ai lati del portone.


A parte le descrizioni frammentarie disseminate in Stanze sul mare, la fotografia era l’unica immagine superstite della villa.


Poi c’erano gli schizzi sul quaderno di Carmen, perché era proprio quella, la casa che stava cercando di disegnare.


8.

Claudine cominciava l’ultimo capitolo con la leggenda che vorrebbe i baschi diretti discendenti del regno sommerso di Atlantide. Atlantide era un’isola che venne distrutta da un misterioso cataclisma (un terremoto o un’eruzione vulcanica) e si inabissò in fondo all’oceano. Il suo ultimo re era stato Gades, che aveva fondato e dato il nome all’attuale Cadice, sulla costa meridionale della Spagna. I pochi sopravvissuti alla catastrofe cercarono rifugio proprio lí. Poi si spostarono a nord per stabilirsi nella regione dei Pirenei, il piú lontano possibile dal mare. Claudine aggiungeva alla storia un tocco personale: i superstiti che si erano salvati per un pelo dal naufragio furono trasformati in anfibi e abbandonati dagli altri. Per sopravvivere dovevano restare vicino al mare, cosí diventarono pescatori e costruirono palafitte lungo la costa. Gli toccava trascorrere almeno otto ore al giorno a stretto contatto con l’acqua, a mollo lungo la spiaggia o a pesca in mare aperto.


Il marito di Claudine, come suo padre e suo nonno, aveva ereditato la grossa flottiglia di pescherecci – due dozzine di barche, all’epoca in cui era lui a gestirle – del bisnonno. A metterla insieme erano state generazioni di marinai che a loro volta discendevano da umili pescatori, gli stessi superstiti di Atlantide condannati a vivere sulla battigia.


9.

Qualche settimana dopo che Carmen aveva tentato di pedinarlo, Fabius le serví il pranzo al lungo tavolo della sala. Aveva preparato un pasto particolarmente elaborato, a base di pesce: zuppa di rane, insalata di alghe, ceviche di polpo, calamari ripieni di granchi e capesante. Carmen accompagnava il pranzo con un bicchiere di vino e leggeva Stanze sul mare. Mettendo a confronto le due edizioni, si era accorta che nella traduzione inglese mancavano almeno tre pagine dell’ultimo capitolo.


Era cosí intenta a rimbalzare da un libro all’altro e a sfogliare il dizionario da non notare che Fabius era rientrato con un piatto di albicocche farcite di formaggio di capra, un altro calice e la bottiglia di vino. Era fermo al capo opposto del tavolo e la osservava. Carmen alzò gli occhi e quasi trasalí: invece della solita divisa Fabius indossava un abito a doppio petto blu, una camicia blu e una cravatta azzurra.


– Grazie, – disse. – Era tutto squisito.


– Posso sedermi?


L’aveva sorpresa di nuovo. E non perché cercasse la sua compagnia per la prima volta, ma perché aveva formulato il desiderio in inglese.


– Certo, – rispose.


Lui posò calice e bottiglia e prese una sedia. – Questo è il vino piú vecchio della nostra cantina. Un Faustino Rioja –. Le rabboccò il bicchiere e riempí il proprio.


– Parli inglese, – osservò Carmen. Sulle labbra di lui aveva un suono bizzarro.


– Non ho mai affermato il contrario. Ho detto solo che parlavo già fin troppe lingue. E ora ho bisogno di parlare con te –. Intrecciò le mani sul tavolo. – Vedo che hai quasi finito il libro.


– Sí.


– Hai notato che il numero di pagine delle due edizioni è lo stesso tranne che nell’ultimo capitolo? Sei curiosa di sapere perché?


– Stavo appunto cercando di scoprirlo.


– Se vuoi posso risparmiarti la fatica. E aggiungere un paio di cose che dovresti conoscere. Immagino che tu abbia letto la parte sulle origini dei baschi.


– Tu ci credi?


– Certo. È proprio quello il punto che la traduttrice, anche lei di origini basche, ha tagliato. E l’ha fatto per un motivo sacrosanto: per non rivelare un segreto custodito da tanto tempo.


– Quindi anche tu sei basco.


– Non lo sapevo quando sono arrivato qui. Ma guardando la storia della mia famiglia avrei dovuto capirlo. Mio padre non parlava basco. Era cresciuto a Malaga, lontano dal Nord della Spagna, ma era basco. Non l’ha mai saputo perché era un orfano, adottato da una coppia andalusa quando era molto piccolo. Sono stato io a scoprire che i suoi veri genitori erano morti in un incendio a Donostia, il nome basco di San Sebastián.


– Cosa ha tagliato di preciso la traduttrice?


– Il punto in cui si dice che certi baschi muoiono due volte.


– Cosa vorresti dire?


– I discendenti dei baschi che si sono stabiliti sulla costa sono anfibi, come scrive Claudine. Al termine della loro vita sulla Terra si trasformano in creature marine per un anno. Poi muoiono per sempre. Quando arriva il momento del passaggio, lo sentono e si preparano. Si godono un altro anno di vita durante il quale trascorrono in acqua tutto il tempo, anziché solo otto ore al giorno.


Carmen lo fissò.


– Non ci credi? – le chiese Fabius.


– Non so.


– La tua bisnonna descrive la metamorfosi nei dettagli perché l’aveva vissuta in prima persona –. Fece una pausa. – E anche tua madre.


– Cosa vorresti dire?


– Tua madre non è annegata. Non è stata cremata.


– Mi hai mentito?


– È stata lei a chiedermi di farlo.


– Quindi è stata lei a mentire.


– Prima che tu arrivassi per il funerale è partita. Si è tuffata in mare ed è scomparsa al largo.


Carmen spinse via i libri e si piegò verso di lui. – È passato piú di un anno.


– Sí. Ora abbiamo la certezza che è morta davvero. Mi dispiace sconvolgerti in questo modo. Avrei voluto dirtelo in un momento piú propizio.


– E come?


– Fuori, per mare, sulla barca, – rispose lui in tono pacato. – Ma ora non ho altra scelta. È arrivato il mio momento, devo prepararmi. Partirò oggi stesso.


– Cosí, all’improvviso?


– Di rado ci viene concesso di piú. In genere lo capiamo senza preavviso. Sono campato cent’anni. Me ne resta da vivere un altro ancora.


– Hai sessantotto anni.


Fabius sorrise. – Sono a questo mondo da molto piú tempo, credimi. La tua famiglia è stata generosa con me. Ora devo tornare al mio luogo d’origine.


– Il Nord della Spagna?


– No. Ancora prima della Spagna. Prima di Cadice –. Lui fece una pausa. – Hai capito?


– Capisco le parole, ma non il senso della frase.


– È la verità.


Carmen bevve un po’ di vino. – Un giorno succederà anche a me. È questo che stai cercando di dirmi?


Lui annuí. – Ma solo al termine di una lunga vita.


10.

Cosí Fabius le disse addio. Carmen non lo rivide mai piú.


Qualche ora dopo si accorse che il kayak era scomparso. Fabius aveva lasciato le chiavi sul bancone della cucina. Quelle della casa e una grossa chiave d’ottone con il fregio di un tridente. La cucina era immacolata, i grembiuli appesi ai rispettivi ganci. Ma la fotografia delle sorelle era scomparsa.


Con le chiavi in mano, Carmen uscí dalla porta che aveva sempre visto usare a Fabius. Percorse i due brevi corridoi che già conosceva ma questa volta non si smarrí. Si ritrovò in un terzo corridoio, largo e ben illuminato. Un corridoio normale. Pareti bianche con dei candelabri azzurri, soffitto azzurro. Oltrepassò altre stanze corredate dalle porticine bianche della Sabina. In fondo al corridoio c’era una porta azzurra con una serratura d’ottone. Arrivarci era stato semplicissimo.


Bussò due volte, pur sapendo che Fabius se n’era andato. Aprí la porta con la chiave ed entrò in un’ampia stanza azzurra e rotonda che sapeva di mare. Le finestre circolari erano come gli oblò di una nave, ma piú grandi. Davano tutte sul mare. Il materasso era nudo, la stanza priva di effetti personali. La scrivania sgombra, gli armadi e i comodini completamente vuoti. Anche il bagno era enorme, rivestito di piastrelle bianche e azzurre, con le rubinetterie d’ottone. Il lavandino, il water e la cabina doccia erano immacolati. Ma fu la vasca rotonda ad attirare Carmen all’interno. Era stata svuotata da poco. Le piastrelle azzurro cielo erano ancora umide. Le sue dimensioni – due metri di profondità e quattro di diametro – la rendevano piú simile a una piscina. Un uomo poteva andarci in apnea e sguazzarci comodamente per parecchie ore – nei giorni in cui la pioggia o il lavoro gli impedivano di uscire per mare, pensò Carmen.


Aveva già portato quasi tutte le sue cose nell’appartamento in città. Quella sera radunò le poche rimaste: le tele intonse, i dipinti, i libri. Passando nella stanza sul mare, notò che la porta era chiusa. Spense tutte le luci, chiuse il portone a chiave e s’incamminò sul vialetto di pietra.

Quando trovò il coraggio di guardarsi alle spalle, non vide la casa che aveva appena lasciato, ma la villa della fotografia e dei suoi disegni, le finestre illuminate e il mare di un azzurro cangiante. La fissò a lungo prima di entrare nel bosco. Non si guardò indietro, e lí non ci tornò mai piú.