venerdì 25 ottobre 2019


NEL BAGNO
Estratto da "Novelle"
Anton Čechov 

  1.  1.
- Ehi, tu, uomo! - gridò il grosso signore dalla pelle bianca, scorgendo fra i vapori un uomo alto e scarno dalla barbetta rada e con una gran croce di rame sul petto. - Da' qua del vapore!
- Io, signoria, non sono il bagnino, sono il barbiere. Non è cosa mia dare il vapore. Non ordinereste di metter le coppette?
Il grosso signore si lisciò i fianchi paonazzi, pensò un poco e disse: - Le coppette? Va bene, mettile. Non ho fretta.
Il barbiere corse nella sala d'aspetto a prender gli arnesi, e di lì a un cinque minuti sul petto e sul dorso del grosso signore già nereggiavano dieci ventose.
- Io mi rammento di voi, signoria, - cominciò il barbiere, applicando l'undecima coppetta. - Da noi sabato scorso faceste il bagno e allora vi tagliai anche i calli. Sono il barbiere Michailo... Rammentate?
Giusto allora voi mi faceste delle domande circa le ragazze da marito.
- A-ah... Ebbene?
- Nulla... Io mi preparo ora alla comunione e faccio peccato a criticare, signoria, ma non posso non esprimervelo in coscienza. Che Dio mi perdoni le mie critiche, ma la ragazza da marito oggi si è fatta poco seria, sventata... La ragazza d'una volta voleva per marito un uomo che fosse posato, austero, con un capitale, che potesse trattar di tutto, si rammentasse della religione; quella d'oggidì invece si lascia lusingare dall'istruzione. Dàlle un uomo istruito; ma un signor funzionario, o qualcuno del ceto mercantile, non farglielo neppur vedere - lo prenderebbe in giro! C'è istruzione e istruzione... La tal persona istruita, certo, in servizio raggiungerà un alto grado ma un altro rimarrà tutta la vita scribacchino, non lascerà di che fargli il funerale. Ce n'è forse pochi oggi di costoro?
Qui da noi viene uno... uno istruito: Un telegrafista... Ha superato tutte le prove, sa comporre dispacci... e si lava senza sapone. Una pena a guardare!
- Povero, ma onesto! - si sentì dal ripiano di sopra una rauca voce di basso. - Di siffatta gente bisogna essere orgogliosi.
L'istruzione, congiunta alla povertà, attesta le alte qualità dell'anima. Zotico!
Michailo guardò di sbieco verso il palchetto di sopra... Stava lassù, e si batteva il ventre con uno scopetto, un individuo scarno con protuberanze ossute su tutto il corpo e composto, come pareva, unicamente di pelle e costole. Il suo viso non si vedeva, perché tutto coperto dai lunghi capelli penzolanti. Eran visibili solo due occhi pieni di malignità e di sprezzo, fissi su Michailo.
- E' uno di costoro... di quegli zazzeruti! - strizzò l'occhio Michailo. - Con delle idee... Fa spavento, quanta ne pullula oggi di tal gente! Non potresti acchiapparli tutti... Ve', ha sciolto le ciocche, lo scheletro! Ogni discorso da cristiano l'ha in uggia, proprio come il diavolo l'acqua santa. Ha preso le parti dell'istruzione! Costoro, ecco, piacciono alla ragazza d'oggi.
Proprio, ecco, costoro, signoria! Non è forse nauseante? In autunno mi chiama a casa sua la figlia d'un sacerdote. -Trovami , dice, -Miscèl , per le case mi chiamano Miscèl, perché arriccio le signore, -trovami , dice, -Miscèl, un fidanzato, ma che sia uno scrittore . E io, per sua fortuna, ci avevo un certo... Veniva alla trattoria di Porfiri Jemelianic' e minacciava sempre di stampar qualcosa sui giornali. Gli si accosta il cameriere a chiedergli i soldi della vodka, e lui subito uno sgrugno.... -Come? Da me i soldi? Ma sai chi sono io? Ma sai che posso stampare sui giornali che hai assassinato uno? . Un meschinello di tal fatta, un pezzente. Io lo incantai coi quattrini del "pop", gli mostrai il ritratto della signorina e li feci incontrare. Gli procurai un vestituccio a nolo... Non piacque alla signorina! -Malinconia , dice, -in viso ce n'ha poca . E non sa lei stessa che diavolo le ci voglia!
- E' una calunnia contro la stampa! - si sentì la rauca voce di basso da quello stesso palchetto. - Gaglioffo!
-Sarei io il gaglioffo? Uhm!... Buon per voi, signore, che questa settimana mi preparo alla comunione, se no vi direi io una parola per il "gaglioffo"... Siete dunque anche voi uno scrittore?
- Anche se non sono scrittore, guàrdati dal parlare di ciò che non capisci. Gli scrittori in Russia sono stati molti e hanno fatto del bene. Hanno incivilito il paese, e per ciò stesso dobbiamo far loro non ingiuria, ma onore. Parlo degli scrittori laici come di quelli ecclesiastici.
- Gli ecclesiastici non staranno a occuparsi di tali faccende.
- Tu, zotico, non puoi capire. Dimitri Rostovski, Innokenti Chersonski, Filarèt Moskovski e tutti gli altri prelati della Chiesa con le loro opere han contribuito bastantemente alla civiltà.
Michailo sbirciò di traverso il suo avversario, storse la testa e fece un raschio.
- Be' dite ora qualcosa, signor mio... - borbottò, grattandosi la nuca. - Qualcosa d'intellettuale... Non per nulla anche i capelli li avete così. Non per nulla! Noi tutto ciò lo capiamo benissimo, e vi mostreremo subito che uomo siete. Lasciamovi stare, signoria, le coppette addosso, e io subito... Vado e torno.
Michailo, tirandosi su per via le brache bagnate, e guazzando rumorosamente a piedi scalzi, uscì nella sala d'aspetto.
- Ora verrà fuori dal bagno un tale dai capelli lunghi - si rivolse al giovane che stava al banco e vendeva il sapone, - ebbene, tu... tienilo d'occhio. Sobilla la gente... Con certe idee... Bisognerebbe far un salto a chiamare Nasàr Zacharic'...
- Tu dillo ai ragazzi.
- Ora uscirà per di qui uno dai capelli lunghi, - bisbigliò Michailo, rivolgendosi ai ragazzi in piedi presso il vestiario. - Sobilla la gente. Tenetelo d'occhio, e correte dalla padrona, che mandi per Nasàr Zacharic', per far verbale. Ne sta dicendo d'ogni sorta... Con certe idee...
- Ma quale dai capelli lunghi? - s'impaurirono i ragazzi - Qui non s'è spogliato nessuno così. In tutto se ne sono svestiti sei. Qua ecco due tartari, qui il signore che s'è svestito, lì i due mercanti, lì il diacono... e nessuno più... Hai dunque preso il padre diacono per l'uomo dai capelli lunghi?
- State inventando, diavoli! So quel che dico!
Michailo guardò i panni del diacono, toccò con la mano la sottana e alzò le spalle... Sul suo viso si diffuse la massima perplessità.
- Ma com'è di persona?
- Magrolino, di un biondo chiaro... Barbetta appena appena... Tossisce sempre.
- Uhm!... - bofonchiò Michailo. - Uhm!... Sicché ho inveito contro un religioso... Un affaraccio! Ecco un peccato, sì! Ecco un peccato. E dire che mi preparo alla comunione, fratelli! Come mi confesserò adesso, se ho offeso un ecclesiastico? Signore, perdona me, peccatore!
Andrò a domandar perdono...
Michailo si grattò la nuca e, fatto un viso afflitto, si avviò al bagno. Padre diacono sul palchetto di sopra non c'era più. Stava giù presso i rubinetti e, allargate ampiamente le gambe, si versava dell'acqua nel secchio.
- Padre diacono! - gli si rivolse Michailo con voce di pianto. Perdonate, per amor di Cristo, a quell'empio che sono!
- Per che cosa?
Michailo sospirò profondamente e si prosternò ai piedi del diacono.
- Per aver pensato che aveste in testa delle idee!
2.
- Mi meraviglio come vostra figlia, con tutta la sua bellezza e la sua buona condotta, non si sia finora sposata! - disse Nikodìm Jegoric' Potic'kin, arrampicandosi sul palchetto di sopra.
Nikodìm Jegoric' era nudo come ogni uomo nudo, ma sulla testa calva aveva il berretto. Temendo l'afflusso di sangue al capo e un colpo apoplettico, egli faceva sempre il bagno di vapore col berretto. Il suo interlocutore Makàr Tarassic' Pieskin, un vecchietto piccino, dalle sottili gambette azzurrine, in risposta alla sua domanda si strinse nelle spalle e disse: - Non s'è sposata, perché Dio m'ha fatto torto nel carattere. Io sono quieto e mite assai, Nikodim Jegoric', e oggidì con la mitezza non si combina nulla. Vn pretendente oggi è una bestia feroce; e bisogna trattarlo in conformità.
- Cioè, come feroce? Da che punto volete dire?
- E' un pretendente viziato... Come fare con lui? Severità ci vuole, Nikodìm Jegoric'. Non s'ha da aver soggezione con lui, Nikodìm Jegoric'. Andar dal giudice conciliatore, dargliele sul grugno, mandar per una guardia; ecco come bisogna! Gente da poco. Gente da nulla.
Gli amici si stesero sul palchetto di sopra e si diedero a lavorar di scopetto.
- Da nulla... - continuò Makàr Tarassic'. - Ne ho passate io con loro, canaglie. Se di carattere fossi stato un po' più fermo, la mia Dascia da un pezzo avrebbe preso marito e fatto dei figli.
Sissignore... Di vecchie zitelle adesso fra le donne, signor mio, in tutta coscienza, ce n'è la metà del totale, il cinquanta per cento. E notate, Nikodim Jegoric', ciascuna di queste stesse ragazze negli anni giovanili ebbe dei fidanzati. E perché, si domanda, non andò a marito?
Per quale ragione? Ma perché di tenerlo a freno, il fidanzato, i genitori non furono in grado, gli permisero di sviarsi.
- E' vero.
- L'uomo oggigiorno è viziato, sciocco, libero pensatore. Gli garba aver tutto a ufo, e con profitto. Gratis non ti farà nemmeno un passo.
Tu gli fai un piacere, ma lui da te vuole quattrini. Be', e si sposa anche con secondi fini. -Mi sposo , dice, -e farò dei soldi . Questo non sarebbe ancora nulla, passi: mangia, sbafa, prenditi il mio denaro, solo sposa la mia figliuola, fammi questa grazia; ma càpita che, anche coi soldi, piangi tutte le tue lacrime, patisci tutte le pene. Qualcuno si fidanza e come arriva proprio al punto, all'altare, fa marcia indietro, va a chiederne un'altra. Bello è essere fidanzato, un piacere unico. Gli si dà da mangiare, da bere, e quattrini in prestito; o che non è una vita? Be', lui fa il promesso sposo fino alla vecchiaia, fino alla morte, e non ha bisogno di sposarsi. Ormai ha la calvizie in tutto il capo, è tutto bianco, e i ginocchi gli si piegano, e lui è sempre fidanzato. Oppure ce n'è che non si sposano per stupidità... Lo sciocco non sa neppure lui quello che gli ci vuole, e così fa lo schizzinoso: quello per lui non è buono, quest'altro non va. Non finisce di venire, di fidanzarsi, e poi d'un tratto, di punto in bianco: -Non posso , dice, -e non voglio . Ma ecco, prendiamo solo, per esempio, il signor Katavassov, il primo fidanzato di Dascia. Insegnante di ginnasio, pure consigliere onorario... Ha appreso tutte le scienze, il francese, il tedesco... un matematico, e alla prova è risultato un babbeo, uno stupido, e nulla più. Voi dormite, Nikodim Jegoric'?
- No, perché poi? Ho chiuso gli occhi dal piacere...
- Be', ecco... Cominciò a girare attorno alla mia Dascia. E, dovete notare, Dascia non aveva allora neppure vent'anni. Una fanciulla che, semplicemente, era la meraviglia di tutti. Un dattero! Pienotta, ben formata nel corpo, e il resto. Il consigliere di stato TsitseronovGravianski (presta servizio nel dicastero ecclesiastico) strisciava ginocchioni perché andasse istitutrice in casa sua: non volle!
Cominciò Katavassov a venire da noi. Viene ogni giorno, e rimane fino a mezzanotte, sempre discorre con lei di varie scienze, e di fisica...
Le porta dei libriccini, ascolta la sua musica... Soprattutto insiste sui libriccini. La mia Dascia poi è lei stessa una letterata, i libri non le servono affatto, non son che trastulli, e lui: -Leggi questo, leggi quest'altro : l'annoiò a morte. Se n'è innamorato, lo vedo. E lei, visibilmente, nulla. -Non mi piace , dice, -per il fatto che, babbo, non è un militare . Non è un militare, ma tuttavia non importa.
Ha un grado è nobile, agiato, sobrio; che ci vuole ancora? La chiese.
Demmo la nostra benedizione... Della dote non domandò neppure. Acqua in bocca... Come se non fosse un uomo, ma uno spirito incorporeo, e potesse fare a meno di dote. Fissarono anche il giorno, che avrebbero sposato. E che credete? Eh? Tre giorni prima delle nozze viene da me in bottega questo stesso Katavassov. Occhi rossi, cera pallida, come per uno spavento, trema tutto. Che volete? -Scusate , dice, -Makàr Tarassic', ma sposare Daria Makàrovna non posso. Io , dice, -mi sono ingannato. Io , dice, -guardando la sua fiorente giovinezza e il suo candore, pensavo di trovar in lei un terreno, per così dire, la freschezza dell'anima , dice, -ma lei ha già fatto in tempo ad acquistare delle tendenze , dice. -Lei è propensa , dice, -all'orpello, non conosce il lavoro, ha succhiato col latte della madre ... E non rammento che cosa avesse succhiato... Parla, e lui stesso piange. E io? Io, signor mio, solo gliene dissi quattro, e lo lasciai andare. E dal conciliatore non andai, e ai suoi superiori non feci reclamo, per la città non lo svergognai. Se fossi andato dal conciliatore, allora, credo, si sarebbe spaventato dello scorno, l'avrebbe sposata. I superiori, penso, non sarebbero stati a badare a ciò che lei aveva succhiato. Hai impicciato una ragazza, ebbene sposala. Un mercante, ecco, Kliakin, ne avete inteso parlare? Anche s'è un contadino, senti un po' qui che tiro... Anche con lui il fidanzato prese a incaponirsi, sulla dote trovò a ridire qualcosa, sicché lui, Kliakin, lo condusse in dispensa, chiuse a chiave, cavò di tasca, sapete, una grossa rivoltella, con le pallottole, caricata come si conviene, e disse: -Giura , dice, -davanti alla immagine che la sposerai, se no , dice, -ti ammazzo sull'istante, vigliacco che sei.
Sull'istante! . Giurò, e si sposò, il giovanotto. Ecco, vedete. Ma io così non sarei capace. E perfino di picchiare non mi va... Vide la mia Dascia un funzionario del concistoro, il ciuffo Briùsdenko. Anche lui del dicastero ecclesiastico. La vide e se ne innamorò. Le va dietro rosso come un gambero, mormora parole diverse e dalla bocca sprizza ardore. Il giorno se ne sta da noi, e la notte passeggia sotto le finestre. Anche Dascia gli si affezionò. I suoi occhi di ciuffo le erano piaciuti. In essi, dice, c'è fuoco e nera notte. Passeggia che ti passeggia, il ciuffo la chiede in moglie. Dascia, si può dire, in ebbrezza e in estasi, dette il suo consenso. -Io , dice, -babbo, capisco, non è militare, ma è pur sempre del dicastero ecclesiastico, ed è tutt'uno con l'intendenza, e perciò gli voglio molto bene . E' una ragazza, e lei pure, guarda un po', oggidì sottilizza: intendenza!
Il ciuffo esaminò la dote, mercanteggiò con me e solo storse un po' il naso: è d'accordo in tutto, purché le nozze si facciano al più presto; ma quello stesso giorno, al momento di fidanzarsi, diede un'occhiata agli invitati, e si agguantò la testa. -Padri miei , dice, -quanti parenti hanno! Non ci sto! Non posso! Non voglio! . E continuò, continuò... E io, così e così... -Ma tu , dico, -signoria, sei ammattito, che? E' più onore, se i parenti sono molti! . Non ne conviene! Prese il cappello, e chi s'è visto s'è visto.
-Ci fu anche un caso siffatto. Chiese la mis Dascia l'ufficiale forestale Alialiajev. Se ne invaghì per l'intelligenza e la condotta... Ebbene, anche Dascia prese a volergli bene. Il carattere positivo di lui le piaceva. Egli è infatti un brav'uomo, nobile.
Chiese la sua mano, e fece tutto punto per punto. Esaminò la dote, tutta fino alle minuzie, frugò in tutti i bauli, se la prese con Matriona, perché la sudiciona non era stata attenta alle tarme. E mi fece tenere la listerella dei suoi beni. Un galantuomo, è peccato dirne male. Mi piaceva, devo confessarlo, a un punto straordinario.
Mercanteggiò con me due mesi. Io gliene dò ottomila, e lui ne chiede otto e mezzo. Mercanteggiammo a tutt'andare; accadeva che sedessimo a bere il tè, ne bevevamo quindici bicchieri ciascuno, e sempre a mercanteggiare. Gliene schiaffo duecento; non vuole! E così ci separammo a cagione di trecento rubli. Se n'andava, il poverino, e piangeva... Voleva un gran bene a Dascia! Me la prendo ora con me, peccatore che sono, lo dico in verità. Avrei dovuto consegnargli i trecento rubli, oppure fargli paura, svergognarlo per tutta la città, o condurlo in uno stanzino buio, e giù sgrugnoni. Feci male i conti, lo vedo ora che li feci male, mi comportai da sciocco. Non c'è che fare, Nikodim Jegoric': ci ho un carattere mite!
- Molto placido. Questo è vero. Be', io vado, è ora... La testa mi si è fatta pesante...
Nikodìm Jegoric' si colpì un'ultima volta con lo scopetto e scese giù.
Makàr Tarassic' sospirò, e con più impegno ancora si mise a dar di scopetto.
LA SIRENA.
Dopo una seduta del collegio dei giudici conciliatori di N., i giudici si riunirono in camera di consiglio, per togliersi le divise, riposarsi un momentino e recarsi a casa a pranzare. Il presidente del collegio, un gran bell'uomo dalle fedine lanuginose, rimasto, in una delle cause prima esaminate, -di opinione particolare , stava seduto davanti alla tavola e si affrettava ad annotare la sua opinione. Il conciliatore mandamentale Milkin, un giovane dal languido viso malinconico, che passava per un filosofo, insoddisfatto dell'ambiente, che andasse cercando lo scopo della vita, stava a una finestra e guardava tristemente nel cortile. Un altro mandamentale e uno degli onorari se n'erano già andati. Il giudice onorario rimasto, un grassone floscio che respirava a stento, e il sostituto procuratore, un giovane tedesco dal viso catarrale, sedevano su un divanetto e aspettavano che il presidente finisse di scrivere, per andarsene insieme a pranzare. Davanti a loro stava il segretario del collegio Zilin, un ometto piccino dalle fedine attorno agli orecchi e con un'espressione di dolcezza in viso. Sorridendo mellifluo e guardando il grassone, egli diceva sottovoce: - Noi tutti ora vogliamo mangiare, perché ci siamo stancati e sono le tre passate; ma questo, anima mia, Grigori Savvic', non è vero appetito. La vera fame, la fame da lupo, quando sembra che ti mangeresti il tuo proprio padre, si ha solo dopo il moto fisico, per esempio dopo una caccia coi cani da corsa, o quando ti fai con cavalli presi a nolo da privati un centinaio di verste senza riprender fiato.
Molto pure vuol dire l'immaginazione. Se, mettiamo, tornate a casa dalla caccia e desiderate pranzare con appetito, non bisogna mai pensare a cose intellettuali; le cose intellettuali e dotte scacciano sempre l'appetito. Lo saprete voi stesso, filosofi e dotti in fatto di mangiare sono gli ultimi degli uomini, e peggio di loro, scusate, non mangiano nemmeno i porci. Rincasando bisogna sforzarsi a che la testa pensi solo al caraffino e allo spuntino. Io una volta, strada facendo, chiusi gli occhi e m'immaginai un porcellino col rafano, tanto che, dall'appetito, mi venne una crisi di nervi. Be', e quando entrate nel cortile di casa vostra, bisogna che intanto la cucina odori di un certo che, sapete...
- Le oche arrosto sono maestre in odori, - disse il conciliatore onorario, respirando a fatica.
- Non parlate, anima mia, Grigori Savvic', l'anatra o la beccaccia possono dare dieci punti all'oca. Nel profumo dell'oca non c'è soavità e delicatezza. La fragranza più inebriante è quella della cipollina giovane, quando, sapete, comincia a rosolare e, capite, sfrigola, la canaglia, per tutta la casa. Be', quando entrate in casa, la tavola già dev'essere apparecchiata, e quando vi mettete a sedere, subito il tovagliolo al collo, e senza fretta stendete la mano al caraffino della vodka. Ma lei, la piccola nutrice nostra, la versate non in un bicchierino, ma in qualche antidiluviano boccalino d'argento del nonno, o in uno panciutello così, con la scritta: -Lo bevon pure i monaci , e bevete non tutto d'un fiato, ma prima farete un sospiro, vi stropiccerete le mani, darete un'occhiata indifferente al soffitto, poi, così, senza affrettarvi, la porterete, la vodkuccia dico, alle labbra e... subito in voi, dallo stomaco per tutto il corpo, faville...
Il segretario espresse sul suo dolce viso la beatitudine.
- Faville... - ripeté, strizzando gli occhi. - Appena bevuto, subito bisogna far lo spuntino.
- Sentite, - disse il presidente alzando gli occhi sul segretario, parlate più piano! E' il secondo foglio che sciupo per causa vostra.
- Ah, domando scusa, Piotr Nikolaic'! Parlerò piano, - disse il segretario e continuò in un bisbiglio: - Già, e lo spuntino, anima mia, Grigori Savvic', bisogna pure saperlo fare. Occorre sapere che cosa mangiare. Il miglior antipasto, se volete saperlo, è l'aringa.
Quando ne avete mangiato un pezzetto con cipollina e mostarda, là per là, benefattore mio, mentre ancora sentite nel ventre le scintille, mangiate del caviale da solo, oppure, se volete, col limoncino, poi semplici ravanelli con sale, poi di nuovo aringa, ma meglio di tutto, benefattore mio, agarici salati, se sminuzzati, come il caviale, e, capite, con cipolla e olio d'oliva... una ghiottoneria! Ma i fegatini di lasca, quelli, sono un poema!
- M... si... - convenne il conciliatore onorario, socchiudendo gli occhi. - Per antipasto son buoni lo stesso... i funghi bianchi marinati.
- Si, si, si, con la cipolla, sapete, con una foglia di lauro e ogni sorta di spezie. Scoperchi la casseruola, e ne viene fuori un vapore, un odor di funghi... perfino una lacrima ci scappa, qualche volta!
Ebbene, appena dalla cucina han portato il pasticcio di pesce, subito, senza indugio, s'ha da bere il secondo.
- Ivàn Guric'! - disse con voce di pianto il presidente. - Per causa vostra ho sciupato il terzo foglio!
- Lo sa il diavolo, non pensa che al mangiare! - borbottò il filosofo Milkin, facendo una smorfia sprezzante. - Possibile che, fuori dei funghi e del pasticcio di pesce, non vi siano altri interessi nella vita?
- Già, bere prima del pasticcio di pesce, - continuò il segretario piano piano; egli era ormai così trascinato che, come l'usignolo che canta, non udiva nulla, tranne la propria voce. Il pasticcio di pesce dev'essere appetitoso, lo svergognato, in tutta la sua nudità, perché sia una tentazione. Ci strizzerai su un occhio, ne taglierai un pezzettone così, e ci muoverei sopra le dita, ecco, a questo modo, per la piena dei sentimenti. Ti metterai a mangiarlo, e ne colerà burro, come lacrime, il ripieno grasso, succolento, con uova, con frattaglie, con cipolla...
Il segretario stralunò gli occhi e storse la bocca fin proprio all'orecchio. Il conciliatore onorario fece un raschio e, figurandosi probabilmente il pasticcio di pesce, mosse le dita.
- Lo sa il diavolo quel ch'è... - brontolò il conciliatore mandamentale, scostandosi verso un'altra finestra.
- Due bocconi li hai mangiati, e il terzo l'hai serbato per le "s'ci", - continuò il segretario con ispirazione. - Appena avrete finito col pasticcio di pesce, là per là, per non spezzare l'appetito, fate portare le "s'ci"... Le "s'ci" devono esser calde, bollenti. Ma meglio di tutto, benefattore mio, un bel "borsc'" di barbabietole alla maniera dei ciuffi,, con prosciutto e salsicce. In aggiunta si servono panna acida e prezzemolino fresco con finocchio. Magnifica parimenti la minestra di cetrioli salati, trippa e rognoni teneri; ma se vi piace la zuppa, delle zuppe la meglio è quella di radici e verdura: carotine, asparagi, cavolfiore e ogni consimile giurisprudenza.
- Sì, è una cosa magnifica... - sospirò il presidente staccando gli occhi dalla carta; ma subito si riprese e gemé: - Abbiate timor di Dio! In tal modo prima di sera non avrò scritto l'opinione particolare! E' il quarto foglio che sciupo!
- Non lo farò più, non lo farò! Ho torto! - si scusò il segretario, e proseguì in un bisbiglio: - Appena avrete mangiato il "borsc'" o la zuppa, subito fate servire il pesce, benefattore mio. Dei pesci mutoli il migliore è il coracino arrosto in panna acida; soltanto, perché non sappia di limo e abbia finezza, bisogna tenerlo vivo nel latte ventiquattr'ore sane.
- Buono pure lo storioncino acciambellato, - disse il conciliatore onorario chiudendo gli occhi; ma subito dopo, in modo inatteso per tutti, balzò via dal posto, fece un viso feroce e ruggì dalla parte del presidente: - Piotr Nikolaic', finirete presto? Non posso aspettare oltre! Non posso!
- Lasciatemi finire!
- Be', allora me ne vado io! Che il diavolo vi porti!
Il grassone agitò la mano, afferrò il cappello e, senza salutare, corse fuori della stanza. Il segretario sospirò e, chinatosi all'orecchio del sostituto procuratore, continuò a bassa voce: - Buona anche la lucioperca o la carpa con sugo di pomodori e funghetti. Ma col pesce non ci si sazia, Stepàn Frantsic', non è un mangiare sostanziale; l'importante in un pranzo non è il pesce, non le salse, ma l'arrosto. Voi che volatile amate maggiormente?
Il sostituto procuratore fece un viso agro e disse con un sospiro: - Purtroppo non posso simpatizzare con voi: ho il catarro di stomaco.
- Via via, signore! Il catarro di stomaco l'hanno inventato i dottori!
Questa malattia proviene soprattutto dal libero pensiero e dall'orgoglio. Voi non badateci. Non avete voglia di mangiare, poniamo, o avete nausea, e voi non fateci caso e mangiate lo stesso.
Se, mettiamo, serviranno insieme coll'arrosto un paio di beccaccini, e se vi si aggiungerà un perniciotto, o una coppia di quagliette grassottelle, allora dimenticherete qualsiasi catarro, parola d'onore di galantuomo. E il tacchino arrosto? Bianco, grasso, così sugoso, sapete, qualcosa come una ninfa...
- Sì, probabilmente è una cosa saporita, - ammise il procuratore, sorridendo tristemente. - Il tacchino, magari, lo mangerei.
- Signore Iddio, e l'anatra? Se si piglia un'anatra giovane, che giusto giusto ai primi geli abbia beccato un po' di ghiaccio, e la si arrostisce in una leccarda con patate, ma che le patate siano tagliate fine, e abbian preso colore, e che si siano imbevute del grasso d'anatra, e che...
Il filosofo Milkin fece un viso feroce e parve voler dire qualcosa, ma d'un tratto schioccò le labbra, probabilmente raffigurandosi l'anatra arrosto, e, senza dire neanche una parola, attratto da una forza ignota, afferrò il cappello e corse via.
- Sì, mangerei magari anche dell'anatra, - sospirò il sostituto procuratore.
Il presidente si alzò, fece alcuni passi e tornò a sedere.
- Dopo l'arrosto l'uomo è sazio e cade in un dolce offuscamento,continuò il segretario. - In questo mentre, e il corpo si sente bene, e l'anima s'intenerisce. Per addolcimento potete bere un tre bicchierini di acquavite aromatica.
Il presidente raschiò in gola e cancellò con un sol tratto il foglio.
- E' il sesto foglio che sciupo, - esclamò stizzito. - E' mancanza di coscienza, questa!
- Scrivete, scrivete, benefattore! - bisbigliò il segretario. Non lo farò più! Parlerò piano. Ve lo dico in coscienza, Stepàn Frantsic', continuò con un sussurro appena percettibile; l'acquavite aromatica fatta in casa è meglio di ogni sciampagna. Già dopo il primo bicchierino l'olfatto si prende tutta l'anima vostra, è un miraggio siffatto, e vi sembra di essere non già in poltrona a casa vostra, ma da qualche parte in Australia, su qualche morbidissimo struzzo...
- Ah, ma andiamocene, Piotr Nikolaic'! - disse il procuratore, muovendo impaziente un piede.
- Sissignore, - proseguì il segretario. - Al momento dell'acquavite aromatica è buona cosa fumare un sigaruccio e mandare in aria dei cerchietti, e nel frattempo vi vengono in testa certi pensieri fantastici, come di essere generalissimo, o sposato con la primissima beltà del mondo, e che questa beltà nuoti tutto il giorno davanti alle vostre finestre in una di quelle vasche coi pesciolini dorati. Ella nuota, e voi a lei: -Cuoricino, vieni a darmi un bacio! .
- Piotr Nikolaic'! - gemette il sostituto procuratore.
- Sissignore, - continuò il segretario. - Dopo aver fumato, raccogliete le falde della veste da camera, e via verso il lettuccio!
E così vi mettete a giacere sul dorso, con la pancetta in su, e prendete il giornaluccio in mano. Quando gli occhi si chiudono e tutto il corpo è pieno di sopore, fa piacere legger di politica: là, guardi, l'Austria ha fatto un passo falso, laggiù la Francia non è andata a genio a qualcuno, là il papa di Roma è corso ai ripari: leggi, e fa piacere.
Il presidente si alzò di scatto, sbatté la penna da una parte e con tutt'e due le mani agguantò il cappello. Il sostituto procuratore, scordato il suo catarro e struggendosi d'impazienza, balzò su egli pure.
- Andiamo! - gridò.
- Piotr Nikolaic', e l'opinione particolare? - si sgomentò il segretario. - Quando poi, benefattore, la scriverete? Alle sei dovete pur recarvi in città!
Il presidente scosse la mano e si precipitò alla porta. Il sostituto procuratore agitò la mano anche lui e, afferrata la sua busta, scomparve col presidente. Il segretario sospirò, guardò loro dietro con aria di riprovazione e si mise a ordinare le carte.
IL GROSSO E LO SMILZO.
A una stazione della ferrovia di Nikolaievsk s'incontrarono due amici: uno grosso, l'altro smilzo. Il grosso aveva giusto allora pranzato in stazione, e le sue labbra, velate di burro, luccicavano come ciliege mature. Mandava odore di xeres e di fior d'arancio. Lo smilzo invece era appena uscito dal carrozzone, ed era carico di valige, fagotti e scatole di cartone. Odorava di prosciutto e fondi di caffè. Da dietro il suo dorso spuntavano una donna magrolina dal mento lungo: sua moglie, e un alto studente ginnasiale con un occhio socchiuso: suo figlio.
- Porfiri! - esclamò il grosso, scorgendo lo smilzo . - Sei tu?
Colombello mio! Da quanto e quanto tempo!
- Padri miei! - stupì lo smilzo. - Miscia! Amico mio d'infanzia! Di dove sbuchi?
Gli amici si abbracciarono tre volte e si piantarono addosso a vicenda gli occhi pieni di lacrime. Erano tutt'e due piacevolmente sbalorditi.
- Carissimo! - cominciò lo smilzo dopo gli abbracci. - Proprio non me l'aspettavo! Ecco una sorpresa! Su, guardami per benino! Lo stesso bel giovane che eri! Lo stesso simpaticone e damerino! Ah, Signore Iddio! Orsù, che mi dici? Sei ricco? Sposato? Io son già sposato, come vedi... Ecco qui mia moglie, Luisa, nata Vantsenbach... luterana... E quest'è il figlio mio, Nafanail, allievo della terza classe. Questo, Nafania, è un mio amico d'infanzia! Studiammo insieme al ginnasio!
Nafanail pensò un poco, e si tolse il berretto.
- Studiammo insieme al ginnasio! - continuò lo smilzo. Rammenti, come ti stuzzicavano? A te davano dell'Erostrato, perché avevi bruciato con la sigaretta un libro della scuola, a me dell'Efialte, perché mi piaceva far la spia. Oh, oh... eravamo ragazzini! Non temere, Nafania! Vienigli più vicino... E questa è mia moglie, nata Vantsenbach... luterana.
Nafanail pensò un poco, e si nascose dietro il dorso del padre.
- Orsù, come te la passi, amico? - domandò il grosso, guardando estasiato l'amico. - Dove fai servizio? Hai fatto carriera?
- Sono in servizio, carissimo! E' già il second'anno che sono assessore collegiale e ho la croce di Stanislao. Stipendio gramo... già, ma Dio l'accompagni! La moglie dà lezioni di musica, e io in privato faccio portasigari di legno. Eccellenti portasigari! Li vendo a un rublo l'uno. Se qualcuno ne piglia dieci e più, gli faccio, capisci, uno sconto. Si vivacchia alla meglio. Servivo, sai, alla divisione, e ora sono stato trasferito qui come capufficio nella stessa amministrazione... Servirò qui. Be', e tu ? Già consigliere di Stato, credo? Eh?
- No, carissimo, sali un poco più su, - disse il grasso. Sono ormai al grado di consigliere segreto... Ho due croci.
Lo smilzo di colpo impallidì, impietrì, ma ben presto il suo viso si storse da tutte le parti in un amplissimo sorriso; sembrava che volto e occhi spargessero scintille. Egli stesso si fece piccino, s'incurvò, si restrinse... Le sue valige, i fagotti e le scatole si restrinsero, si raggrinzirono... La bazza della moglie si fece ancor più lunga; Nafanail s'irrigidì sull'attenti e abbottonò tutti i bottoni della divisa...
- Io, eccellenza... Molto piacere! Amico, si può dire, d'infanzia e d'un tratto diventato un così gran signore! Ih-ih!
- Be', basta! - si accigliò il grasso. - Perché codesto tono? Io e tu siamo amici d'infanzia -; e a che allora quest'ossequio?
- Per carità... Che dite... - ridacchiò lo smilzo facendosi ancor più piccino. - La graziosa attenzione di vostra eccellenza... è come dire vivificante rugiada... Ecco, eccellenza, il figlio mio Nafanail... la moglie Luisa, luterana, in certo qual modo...
Il grosso voleva già ribatter qualcosa, ma sul viso del mingherlino era dipinta tanta venerazione, dolcezza e deferente acidità, che il consigliere segreto fu nauseato. Egli si scostò dallo smilzo e gli porse in segno di commiato la mano.
Lo smilzo strinse tre dita, s'inchinò con tutto il corpo e ridacchiò, come un cinese: -Hi-hi-hi . La moglie sorrise. Nafanail strisciò una riverenza e lasciò cadere il berretto. Tutti e tre erano piacevolmente sbalorditi.
LA FORTUNA D'ESSER DONNA.
Si seppelliva il tenente generale Zapupirin. Verso la casa del defunto, dove echeggiava la musica funebre e risuonavano voci di comando, da tutte le parti accorrevano folle desiderose di vedere il trasporto. In uno dei gruppi che si affrettavano alle esequie c'erano i funzionari Probkin e Svistkòv. Tutti e due erano con le mogli.
- Non si può! - li fermò un vicecommissario di polizia, dal viso buono, simpatico, quand'essi si accostarono al cordone. Non si può-ò!
Pre-ego, un po' indietro! Signori, non dipende mica da noi! Prego, indietro! Del resto, sia pure, le signore possono passare... favorite, "mesdames", ma... voi, signori, per amor di Dio...
Le mogli di Probkin e di Svistkòv arrossirono per l'inattesa gentilezza del vicecommissario e sgusciarono attraverso il cordone, e i loro mariti rimasero da questa parte della muraglia vivente e si occuparono a contemplare i dorsi dei vigili a piedi e a cavallo.
- Si sono infilate! - disse Probkin, guardando con invidia, e quasi con astio, le signore allontanarsi. - Han fortuna, in fede mia, questi "chignons"! Il sesso maschile non avrà mai privilegi tali come i loro, quelli delle signore. Su, via!, che c'è in loro di speciale?
Sono, si può dire, le donne più comuni, cariche di pregiudizi, e le han lasciate passare; e noi due, fossimo anche consiglieri di Stato, per nulla al mondo ci lasciano andare avanti.
- Ragionate in modo strano, signori! - osservò il vicecommissario, guardando con riprovazione Probkin. - Se vi si lascia passare, voi subito cominciate a spingere e a comportarvi male; una signora, invece, per la sua finezza, non si permetterà mai nulla di simile!
- Smettete, di grazia! - si stizzì Probkin. - Una signora nella folla è sempre la prima a spingere. L'uomo sta fermo e guarda in un sol punto, ma una signora allarga le braccia e spinge perché non le sciupino l'acconciatura. Non c'è proprio che dire! Il sesso femminile ha fortuna in tutto. Le donne neppure a fare il soldato le prendono, e alle serate da ballo entrano gratis, e le esentano dalle punizioni corporali... E per quali meriti, si domanda? Una ragazza ha lasciato cadere il fazzoletto: tu lo raccatti; lei entra: tu ti alzi e le dài la tua sedia; se ne esce: tu l'accompagni... E prendete i gradi! Per giungere, mettiamo, a consigliere di Stato, io o tu s'ha tutta la vita da suonar la tromba, e una ragazza in qualche mezz'ora s'è sposata con un consigliere di Stato; ed eccola ormai un personaggio. A me, per diventar principe o conte, occorre soggiogare tutto il mondo, prendere Scipkal, esser ministro; e una qualunque (perdonami, o Signore)
Vàrenka o Kàtenka, col latte ancora sulle labbra, roterà lo strascico davanti a un conte, strizzerà gli occhietti... ed eccola vostra eccellenza... Tu ora sei segretario provinciale... Codesto grado tu, si può dire, te lo sei procacciato con sangue e sudore; e la tua Maria Fomisna? Per che cosa è segretaria provinciale? Da figlia di pop, dritto dritto funzionaria! Bella funzionaria! Affidale il nostro lavoro, e ti protocollerà i fogli in arrivo fra quelli in partenza.
- In cambio lei genera bambini nelle doglie, - osservò Svistkòv.
- Gran fatto! Se stesse un poco davanti a un superiore, quando ti fa sudar freddo, questi stessi bambini le parrebbero un gusto. In tutto e per tutto hanno privilegi! Una qualunque signorina o signora della nostra cerchia può spifferare a bruciapelo a un generale tal cosa che tu neppure in presenza d'un usciere oseresti dire. Sì... La tua Maria Fomisna può bravamente andarsene a braccetto con un consigliere di Stato, ma prendi un po' tu sotto braccio un consigliere di Stato! Ma piglialo, dunque, pròvati! Nel nostro stabile, proprio sotto di noi, fratello, abita un professore con la moglie... Un generale, capisci, ha la croce di Sant'Anna di prima classe, e non fai che sentire come sua moglie lo striglia: -Stupido! stupido! stupido! . Ed è una donna ordinaria, d'origine borghese. Del resto, lì è la moglie legittima, e così pur sia... dal principio dei secoli così è stabilito, che le mogli legittime inveiscano; ma tu prendi le illegittime! Che cosa queste non si permettono! In eterno non potrò dimenticare un caso. Per poco non mi rovinai, ma infine si vede, per le preghiere dei genitori ne uscii franco. L'anno scorso, rammenti, il nostro generale, quando si recò in ferie a casa sua, in campagna, mi prese con sé, per sbrigare la corrispondenza... Una cosa da nulla, un'ora di lavoro.
Finivo il mio da fare, e via a vagare per il bosco, o in anticamera ad ascoltar romanze. Il nostro generale è scapolo. La casa è una tazza colma, servi ce n'è come cani, e niente moglie, a dirigere non c'è nessuno. Gente sempre rilassata, indocile... e su tutti comanda una donna, l'economa Vera Nikìtisna. Lei e mesce il tè, e ordina il pranzo, e sgrida i domestici... Una donna, fratellino mio, brutta, velenosa, ha l'aria di un satanasso. Grossa, rossa, brontolona...
Appena comincia a gridare contro qualcuno, appena leva gli strilli, c'è da turarsi gli orecchi. Non era tanto il rabbuffo a far effetto quanto quegli strilli. Oh, Signore! Non dava requie a nessuno. Non solo con la servitù, ma anche con me attaccava briga, la birbona...
Be', penso, aspetta: coglierò il momento e spiffererò tutto sul conto tuo al generale. Egli è sprofondato, penso, nel servizio, e non vede come tu gli rubi e come sbrani la gente; aspetta dunque, gli aprirò io gli occhi. E gli aprii, fratello, gli occhi, e siffattamente li aprii che per poco gli occhi non gli si chiusero per sempre, che perfino adesso, quando me ne rammento, ne ho paura. Un giorno percorro il corridoio, e d'un tratto sento delle strida. Dapprima pensai che sgozzassero un maiale, ma poi stetti in ascolto, e sento che è Vera Nikìtisna che ce l'ha con qualcuno: -Carogna! Gaglioffo che sei!
Demonio!  Ma chi è?, penso. E di botto, fratellino mio, vedo che si apre un uscio, e ne scappa fuori il nostro generale, tutto rosso, con gli occhi sbarrati, i capelli come se ci avesse soffiato su il diavolo. E lei a gridargli dietro: -Gaglioffo! Demonio! .
- Frottole!
- Parola mia d'onore. Io, sai, mi sentii avvampare. Il nostro è fuggito in camera sua, e io me ne sto in corridoio e, come uno sciocco, non capisco nulla. Una donna ordinaria, ignorante, una cuoca, una serva, e d'un tratto si permette parole e atti simili! Vorrà dire, penso, che ll generale voleva licenziarla, e lei ha approfittato che non c'eran testimoni, e glien'ha cantate d'ogni sorta. Tanto, avrà detto, me ne devo andare! Uscii fuori dei gangheri... Andai in camera da lei e le dissi: -Come hai osato, briccona, dir tali parole a una persona altolocata? Pensi tu che, s'egli è un debole vecchio, non ci sia nessuno per prenderne le difese? . Mi ci misi, sai, e le ripassai le guance grasse, un paio di volte. Che strida levò, Fratellino mio, come si mise a strillare, che tu sia stramaledetta, porta via tu il mio dolore! Mi tappai gli orecchi e me n'andai nel bosco. Dopo un paio di orette, mi corre incontro un ragazzino. -Favorite dal padrone . Ci vado. Entro. Se ne sta tutto arcigno, come un tacchino, e non mi guarda. -Voi , dice, -che mi state combinando in casa? . -Cioè, come sarebbe? , dico. -Se , dico, -parlate a proposito della Nikìtisna, eccellenza, è di voi che ho preso le difese . -Non è affar vostro , dice, -mischiarvi nelle altrui faccende di famiglia! . Capisci? Di famiglia! E come cominciò, fratello, a dirmene, come cominciò a cucinarmi; per poco non ci morii! Parla, parla, brontola, brontola, poi d'un tratto, fratello, che è che non è, sbotta in una risata. -E come , dice, -avete potuto?!... Come ve n'è bastato l'animo?
Meraviglioso! Ma spero, amico mio, che tutto ciò rimarrà tra noi... Il vostro ardore lo posso comprendere, ma convenite che un'ulteriore vostra permanenza in casa mia è impossibile... . Ecco, fratello! Gli faceva perfin meraviglia com'io avessi potuto picchiare una sì importante pavonessa. Lo aveva abbagliato, la donnetta! Consigliere segreto, ha la croce dell'Aquila Bianca, non conosce superiori al disopra di sé, e si è assoggettato a una donnetta... Gra-andi, fratello, sono i privilegi del sesso femminile! Ma... leva il cappello! Portano il generale... Quante decorazioni, padri cari! Orsù, perché, in fede mia, han lasciato andare avanti le signore, capiscono forse qualcosa di decorazioni? La musica prese a suonare.
L'ALBO.
Il consigliere onorario Kraterov, magro e sottile come la guglia dell'Ammiragliato, si fece avanti e, rivolgendosi a Zmichov, disse: - Eccellenza! Mossi e t¢cchi nel profondo dell'anima dai vostri lunghi anni di comando e dalle paterne premure...
- Nel corso di oltre dieci buoni anni, - suggerì Zakussin.
- Nel corso di oltre dieci buoni anni, noi, vostri dipendenti, in questo giorno... sì... per noi significativo, rechiamo a vostra eccellenza, in segno del nostro rispetto e della nostra profonda gratitudine, quest'albo coi nostri ritratti, e auguriamo, per la durata della vostra significativa vita, che ancora a lungo a lungo, fino alla morte stessa, non ci lasciate privi...
- Dei vostri paterni insegnamenti sulla via della verità e del progresso... - aggiunse Zakussin, tergendo dalla fronte il sudore spuntatogli in un batter d'occhio; evidentemente egli aveva una gran voglia di parlare e, con tutta probabilità, teneva pronto il discorso.
- E sventoli, - terminò, - il vostro vessillo ancor bene a lungo nel campo del genio, del lavoro e della pubblica coscienza di sé!
Sulla rugosa guancia sinistra di Zmichov serpeggiò una lacrima.
- Signori ! - egli disse con voce tremula. - Io non m'aspettavo, non pensavo punto che avreste festeggiato il mio modesto giubileo... Sono commosso... addirittura... moltissimo... Questo minuto non lo scorderò fino alla tomba, e credete... credete, amici, che nessuno vi vuol del bene come me... E se qualcosa vi fu, fu per il vostro stesso vantaggio...
Zmichov, consigliere di Stato effettivo, scambiò un abbraccio col consigliere onorario Kraterov, che non s'aspettava tale onore e impallidì dall'estasi. Dopo di ciò il superiore fece con la mano un gesto, indicante ch'egli dalla commozione non poteva parlare, e si mise a piangere, come se non gli donassero un costoso albo, ma, al contrario, glielo togliessero... Poi, calmatosi un po', e dopo aver detto ancora qualche sentita parola e permesso a tutti di stringergli la mano, egli, tra sonore grida di giubilo, scese giù, sedette in carrozza e, accompagnato dalle benedizioni, partì. Stando in carrozza, sentì in petto un fiotto di gaudiosi sentimenti fin allora ignoti, e pianse ancora una volta.
A casa lo aspettavano nuove gioie. Ivi la sua famiglia, gli amici e i conoscenti gli fecero un'ovazione tale che gli sembrò di aver davvero recato alla patria moltissima utilità e che, se non ci fosse stato lui al mondo, magari la patria se la sarebbe passata ben male. Il pranzo del giubileo consisté tutto in brindisi, discorsi, abbracci e lacrime.
In una parola, Zmichov non si aspettava affatto che i suoi meriti fossero presi così strettamente a cuore.
- Signori! - diss'egli alla frutta. - Due ore fa sono stato ripagato di tutte le pene che toccano ad un uomo che serva, per così dire, non la forma, non la lettera, ma il dovere. Io, per tutto il tempo del mio servizio, mi sono attenuto costantemente al principio: -Non il pubblico per noi, ma noi per il pubblico . E oggi ho ricevuto un'altissima ricompensa! I miei dipendenti mi hanno offerto un albo...
Ecco! Sono commosso.
Festose fisionomie si chinarono sull'albo e presero ad esaminarlo.
- Ma è un albo grazioso! - disse la figlia di Zmichov, Olia. Costerà un cinquanta rubli, penso. Oh, che incanto! Tu, babbino, dammelo quest'albo. Senti? Io lo riporrò... E' così bellino.
Dopo pranzo Olec'ka si portò via l'albo e lo chiuse nella scrivania.
Il giorno dopo ne tirò fuori i funzionari e li gettò per terra, e al loro posto mise le sue compagne d'istituto. Le divise regolamentari cedettero il posto alle bianche mantellette. Kolia, il figlioletto di sua eccellenza, raccattò i funzionari e colorò i loro vestiti di rosso. A quelli senza baffi disegnò dei baffi verdi, e a quelli senza barba delle barbe brune. Quando non ci fu più da colorare, ritagliò dai cartoncini gli ometti, bucò loro con uno spillo gli occhi, e si mise a giocare ai soldatini. Dopo aver ritagliato il consigliere onorario Kraterov, lo fissò su una scatola di fiammiferi vuota, e in tal forma lo portò nello studio del padre.
- Babbo, un monumento! Guarda!
Zmichov diede in una risata, si chinò e, intenerito, posò un bacione sulla guancia di Kolia.
- Su, monello, va' a mostrarlo alla mamma. Che lo veda anche la mamma.
IL CASO DELLO STUDENTE DI SCUOLA CLASSICA.
Vania Ottepelev, preparandosi ad andare all'esame di greco, baciò tutte le icone. Aveva le viscere in tumulto, un soffio freddo sotto il cuore, il cuore stesso gli batteva e languiva di terrore davanti all'ignoto. Che gli sarebbe toccato oggi? Il tre o un due? Si era accostato un sei volte alla mamma per la benedizione e, uscendo, domandò alla zia di dire una preghiera per lui. Recandosi al ginnasio, diede due copeche a un povero, col calcolo che queste due copeche avrebbero riscattato la sua ignoranza e che, Dio volendo, non gli sarebbero capitati i numerali con quei "tessarakonta" e "oktokaidcka".
Tornò dal ginnasio tardi, dopo le quattro. Subito si coricò senza far rumore. Il suo viso scarno era pallido. Intorno agli occhi arrossati aveva cerchi scuri.
- Ebbene, che c'è? Come? Quanto hai avuto? - domandò la mamma, accostandosi al letto.
Vania sbatté le palpebre, torse la bocca di lato e si diede a piangere. La mamma impallidì, aprì la bocca e batté le palme. I calzoncini che stava rammendando le caddero di mano.
- Ma perché piangi? Non sei passato, allora? - domandò.
- Sono ca... caduto... Ho preso due...
- Lo sapevo! Tale era il mio presentimento! - prese a dire la mamma.
- Oh, signore! Com'è che non sei passato? Perché? In quale materia?
- In greco... Io, mammina... Mi domandarono com'è il futuro di "fero", e io... io, invece di dire "òisomai", dissi "òpsomai". E poi... poi... l'accento circonflesso non si mette, se l'ultima sillaba è lunga, e io... io mi smarrii... avevo dimenticato che l'alfa lì è lunga... e ci misi il circonflesso. Poi Artaksersov mi fece enumerare le particelle enclitiche... Io le enumerai e per caso ci mischiai un pronome... Feci uno sbaglio... E lui mi mise un due... Sono un uomo... sfortunato...
Tutta la notte avevo studiato... Tutta questa settimana mi ero alzato alle quattro...
- No, non tu, ma io appresso a te son la disgraziata, infame ragazzaccio! Io son la disgraziata! Un truciolo ne hai fatto di me, mostro, aguzzino, sei la mia mala sorte! Pago per te, per un simile svergognato buono a nulla, piego la schiena, mi arrabatto, e, si può dire, ci patisco, e che riguardo ci ho da te? Come studi tu?
- Io... io mi applico. Tutta la notte... Avete visto voi stessa...
- Ho pregato Dio che mi mandasse la morte, non me la manda, a me peccatrice... Il mio aguzzino sei! Gli altri han figli che son figli, e io un unico e solo; e da lui non si cava nulla, non il minimo pro.
Picchiarti? Ti picchierei, ma dove ho da prender le forze? Dove, Madre di Dio, prender le forze?
La mamma si coprì il viso col lembo della camicetta e ruppe in singhiozzi. Vania si rigirò dall'angoscia e premé la fronte contro la parete. Entrò la zia.
- Già, ecco... il mio presentimento... - ella si mise a dire, indovinando di colpo di che si trattava, facendosi pallida e battendo le mani. - Tutta la mattina un affanno... Be', penso, deve capitare un guaio... E così, ecco, è stato...
- Brigante, mio aguzzino! - disse la mamma.
- Ma perché lo insulti? - le si scagliò contro la zia, tirando nervosamente giù dalla testa il fazzoletto di color caffè. Forse ci ha colpa lui? Tu ci hai colpa! Tu! Già, per che ragione l'hai messo in quel ginnasio? Che sorta di nobile sei? Nei nobili volete intrufolarvi? A-a-a-ah!... E come no, senza fallo, ecco che ora vi faranno nobili! Fosse stato invece come dicevo io, in commercio... in un ufficio, come il mio Kusià... Kusià, lui, ecco, cinquecento all'anno riceve. Cinquecento: ti par poco? Ti sei tormentata tu, e hai tormentato il ragazzo con codesta istruzione, che vada all'inferno! E' magruccio, tossisce... guarda: ha tredici anni, e ha l'aria proprio d'uno di dieci.
- No, Nàstenka, no, cara! L'ho picchiato poco, il mio aguzzino!
Picchiare sarebbe bisognato, ecco che cosa! U-u-uh... gesuita, maometto, carnefice mio! - e alzò la mano sul figlio. Frustarti bisognerebbe, ma non ci ho forza. Mi dicevano prima, quand'era ancor piccolo: -Picchia, picchia! .... Non diedi retta, peccatrice che sono.
Ed ecco, tribolo adesso. Ma aspetta! Ti concerò io! Aspetta...
La mamma minacciò col pugno umido e, piangendo, entrò nella camera dell'inquilino. Il suo locatario, Jevtichi Kuzmìc' Kuporossov, se ne stava seduto a tavola e leggeva il "Manuale di danza". Jevtichi Kuzmìc' è un uomo intelligente e istruito. Parla nel naso, si lava con un sapone che olezza di qualcosa per cui starnutiscono tutti in casa, mangia di grasso nei giorni di magro e va cercando una fidanzata istruita, e perciò è considerato come il più assennato degli inquilini. Canta con voce tenorile.
- "Bàtiuska"! - gli si rivolse la mamma, sciogliendosi in lacrime. Siate così nobile, frustate il mio... Fatemi il favore! E' stato bocciato, il mio malanno! Lo credereste, è stato bocciato! Non posso castigarlo io, per la debolezza della mia mala salute... Frustatelo in vece mia, siate così nobile e delicato, Jevtichi Kuzmìc'! Esaudite una donna malata!
Kuporossov aggrottò le ciglia e mandò per le narici un profondissimo sospiro. Rifletté, picchiò le dita sulla tavola e, sospirato ancora una volta, entrò da Vania.
- Voi, per così dire, vi si fa studiare! - cominciò. - Vi s'istruisce, vi si manda avanti, rivoltante giovanotto! Perché fate così?
Egli parlò a lungo, fece tutt'un discorso. Menzionò la scienza, la luce e le tenebre.
- Ma già, giovanotto!
Finito il discorso, si levò la cinghia e tirò Vania per un braccio.
- Con voi non si può altrimenti! - disse.
Vania docilmente si piegò e ficcò la testa fra i ginocchi di lui. I suoi rosei orecchi sporgenti si mossero sui nuovi calzoni di maglia con le bande brune...
Vania non emise neppure un suono. La sera, in un consiglio di famiglia, fu stabilito di avviarlo al commercio.
UNA NOTTE TERRIBILE.
Ivàn Petrovic' Panichidin (1) impallidì, abbassò la fiamma della lampada e cominciò con voce turbata: - Una cupa caligine opaca gravava sulla terra, quando io, la notte di Natale del 1883, me ne tornavo a casa dopo aver lasciato un amico, ora morto, dal quale noi tutti ci eravamo allora trattenuti in seduta spiritica. Le viuzze che percorrevo, chi sa perché, non erano illuminate, e mi toccava dirigermi quasi a tentoni. Vivevo a Mosca, presso Uspénie-na-Moghiltsach (2), nella casa del funzionario Trupov (3), quindi in uno dei siti più morti dell'Arbàt. I miei pensieri, cammin facendo, erano penosi, opprimenti...
-- La tua vita si appressa al tramonto... Pèntiti...
-Tale era la frase dettami nella seduta da Spinoza, il cui spirito ci era riuscito di evocare. Avevo pregato di ripetere, e il piattino non solo aveva ripetuto, ma ancora soggiunto: -- Questa notte.
-Io non credo allo spiritismo, ma il pensiero della morte, perfino un accenno a lei, mi piomba nello scoramento. La morte, signori, è inevitabile, è cosa d'ogni giorno, ma nondimeno l'idea di lei è contraria alla natura dell'uomo... Ora poi, che mi avvolgeva un buio freddo, impenetrabile, e davanti ai miei occhi turbinavano furiose le gocce di pioggia, e sopra la testa lamentosamente gemeva il vento, che a me d'intorno non vedevo anima viva, non sentivo suono umano, un terrore vago e inesplicabile riempì l'anima mia. Io, uomo libero da pregiudizi, mi affrettavo, paventando di guardarmi indietro, di guardare ai lati. Mi pareva che, se mi fossi voltato, infallibilmente avrei scorto la morte in forma di apparizione.
Panichidin respirò a sbalzi, bevve dell'acqua e continuo: - Questo terrore indefinito, ma per voi comprensibile, non mi lasciò neppur quando, salito al quarto piano della casa di Trupov, aprii la porta ed entrai in camera mia. Nella mia modesta abitazione era buio.
Nella stufa piangeva il vento e, come invocando calore, picchiettava allo sportello dello sfogatoio.
-- Se si deve credere a Spinoza, - sorrisi, - al suono di questo pianto stanotte mi toccherà morire. Mi sento oppresso però!
-Accesi un fiammifero... Una furiosa folata percorse il tetto della casa. Il pianto sommesso si mutò in rabbioso ruggito. Da qualche parte in basso sbatté un'imposta staccatasi a metà, e lo sportello del mio sfogatoio gridò lamentosamente al soccorso...
-"La va male in una notte così ai senzatetto", pensai.
-Ma non era il momento di abbandonarsi a simili riflessioni. Quando sul mio fiammifero con azzurra fiammella prese fuoco lo zolfo, e io feci con gli occhi il giro della mia stanza, mi si presentò uno spettacolo inaspettato e spaventoso... Peccato che l'impeto del vento non avesse raggiunto lo zolfanello! Forse allora non avrei visto nulla, e non mi si sarebbero rizzati i capelli. Mandai un grido, feci un passo verso la porta e, pieno d'orrore, di desolazione, di sbalordimento, chiusi gli occhi...
-In mezzo alla stanza c'era una bara.
-La fiammella azzurra non arse a lungo, ma io pervenni a discernere i contorni della bara... Vidi il broccato rosa sfavillante, vidi la croce di gallone dorato sul coperchio. Vi son cose, signori, che s'imprimono nella vostra memoria, nonostante che le abbiate viste anche solo per un attimo. Così, quella bara. Io la vidi un sol secondo, ma la rammento in tutti i menomi tratti. Era una cassa per una persona di media statura e, a giudicare dal rosa, per una giovinetta. Il broccato di prezzo, i piedini, le maniglie di bronzo... tutto diceva che il defunto era ricco.
-A precipizio corsi fuori della camera e, senza ragionare, senza pensare, ma sentendo solo un inesprimibile terrore, mi slanciai giù per la scala. In corridoio e sulla scala era buio, i piedi mi s'impigliavano nelle falde della pelliccia, e come non ruzzolassi giù e non mi rompessi il collo è cosa che fa meraviglia. Riavutomi nella via, mi addossai alla colonnina bagnata di un lampione e cominciai a calmarmi. Il cuore mi batteva tremendamente, il respiro mi mancava...
Una delle ascoltatrici alzò la fiamma nella lampada, si fece più presso al narratore, e quest'ultimo continuò: - Non mi sarei meravigliato, se avessi trovato in camera mia l'incendio, un ladro, un cane arrabbiato... Non mi sarei meravigliato, se fosse crollato il soffitto, sprofondato il pavimento, se fossero caduti i muri... Tutto ciò è naturale e comprensibile. Ma come poteva esser capitata nella mia stanza una bara? Da dove era venuta? Costosa, da donna, fatta evidentemente per una giovane aristocratica, come poteva esser finita nella misera stanza di un piccolo funzionario? Era vuota, o dentro c'era un cadavere? Chi era costei, questa riccona che l'aveva finita intempestivamente con la vita, che mi aveva fatto una così strana e terribile visita? Torturante mistero!
-"Se qui non v'è prodigio, v'è delitto", balenò nella mia testa.
-Mi perdevo in congetture. La porta durante la mia assenza era rimasta chiusa, e il posto dove si trovava la chiave era noto solo ai miei amici molto intimi. E non certo gli amici mi avevano messo lì il feretro. Si poteva pure supporre che il feretro fosse stato portato in camera mia dai fabbricanti di bare per errore. Potevano essersi ingannati, aver sbagliato piano o uscio e aver portato la cassa ove non si doveva. Ma a chi non è noto che i nostri fabbricanti di bare non se ne vanno da una stanza prima di aver ricevuto il prezzo del loro lavoro, o almeno la mancia?
-"Gli spiriti mi hanno predetto la morte", pensavo. "Non si saran già dati da fare per fornirmi a tempo e luogo anche la bara?".
-Io, signori, non credo e non credevo allo spiritismo, ma una siffatta coincidenza può gettare in una disposizione mistica anche un filosofo.
-"Ma tutto ciò è stupido e io son pauroso come uno scolaretto", conclusi. "E' stata un'illusione ottica, e nulla più! Rincasando ero così tetramente predisposto che non è difficile che i miei nervi malati abbiano scorto una bara... Certo, un'illusione ottica! Che altro mai?".
-La pioggia mi sferzava in viso, e il vento irosamente strapazzava le mie falde, il mio berretto... Ero intirizzito e tremendamente bagnato.
Bisognava andare, ma... dove? Rientrare in casa avrebbe significato esporsi al rischio di veder la bara ancora una volta, e questo spettacolo era al disopra delle mie forze. Io, non vedendomi intorno anima viva, non udendo voce umana, rimasto solo, a faccia a faccia con una bara in cui, forse, giaceva un cadavere, avrei potuto perder la ragione. Ma restare nella via e sotto la pioggia a dirotto era impossibile.
-Risolsi di recarmi a pernottare dal mio amico Upokoiev (4), che in appresso, come vi è noto, si sparò un colpo. Abitava in camera mobiliata dal mercante Cerepòv (5), che sta nel vicolo Miortvi (6).
Panichidin terse il sudor freddo comparso sul suo pallido volto e, dopo aver respirato faticosamente, continuò: - Non trovai in casa il mio amico. Dopo aver bussato alla sua porta ed essermi convinto che non era in casa, trovai a tentoni sull'architrave la chiave, aprii la porta ed entrai. Gettai via da me sul pavimento la pelliccia inzuppata e, cercato al tasto nell'oscurità il divano, sedetti a riposare. Era buio... Nella ventilazione delle finestre il vento ronzava ansioso. Nella stufa trillava monotono la sua uniforme canzone un grillo. Nel Cremlino suonarono al mattutino del Natale. Mi affrettai ad accendere un fiammifero. Ma la luce non mi sbarazzò del tetro stato d'animo, al contrario. Un tremendo, inesprimibile terrore s'impadronì di me nuovamente... Mandai un grido, vacillai e, senza coscienza di me, corsi fuori dalla camera...
-Nella stanza del collega avevo scorto la stessa cosa che da me: una bara!
-La bara del collega era grossa quasi il doppio della mia, e la rivestitura bruna le dava un certo colorito particolarmente tetro.
Com'era capitata lì? Che fosse un'illusione ottica non era ormai possibile dubitare... Non poteva già in ogni stanza esservi un feretro! Evidentemente, era una malattia dei miei nervi, era allucinazione. Dovunque fossi andato ora, avrei scorto davanti a me il pauroso spettacolo della morte. Stavo dunque impazzendo, ammalandomi di qualcosa come una "feretromania", e non v'era da cercare a lungo la causa dell'alienazione mentale: bastava rammentarsi la seduta spiritica e le parole di Spinoza...
-"Io impazzisco!", pensai con sgomento, afferrandomi la testa. "Dio mio! Che fare mai?".
-La testa mi scoppiava, le gambe mi mancavano... La pioggia veniva giù come a secchie, il vento passava da parte a parte, e non avevo indosso né pelliccia né berretto. Tornare a prenderli nella camera era impossibile, era al disopra delle mie forze... Il terrore mi stringeva fortemente nei suoi freddi amplessi. I capelli mi si rizzarono dal viso grondava un sudore freddo, sebbene credessi ch'era stata un'allucinazione.
- Che si poteva fare? - proseguì Panichidin. - Stavo impazzendo e rischiavo di raffreddarmi tremendamente. Per fortuna, rammentai che non lungi dal vicolo Miortvi abitava un mio buon conoscente, il medico Pogostov (7) ora mancato da poco, e ch'era stato con me quella notte alla seduta spiritica. Mi affrettai da lui... Allora egli non aveva ancora sposato una ricca mercantessa, e abitava al quinto piano della casa del consigliere di Stato Kladbis'censki (8).
-Era scritto che da Pogostov i miei nervi avrebbero patito ancora una nuova tortura. Salendo al quinto piano intesi un chiasso terribile. In alto qualcuno correva, battendo forte i piedi e sbatacchiando le porte..
-- A me! - udii un grido che lacerava l'anima. - A me! Portiere!
-E in un attimo di volo giù per la scala mi venne incontro una cupa figura in pelliccia e cilindro ammaccato...
-- Pogostov! - esclamai, riconoscendo il mio amico Pogostov. Siete voi? Che avete?
-Giuntomi di pari, Pogostov si fermò e convulso mi afferrò per un braccio. Era pallido, respirava a fatica, tremava. I suoi occhi erravano in disordine, il petto si sollevava.
-- Siete voi, Panichidin? - domandò con voce sorda. - Ma siete proprio voi? Siete pallido come chi esca da una tomba... Ma basta, non sarete un'allucinazione?... Dio mio... fate paura...
-- Ma voi che avete? Siete tutto stralunato!
-- Oh, colombello, lasciatemi prender fiato... Son lieto d'avervi veduto, se davvero siete voi, e non un'illusione ottica. Maledetta seduta spiritica... Mi ha talmente sconvolto i nervi che, figuratevi, rincasato ora, ho scorto da me in camera... una bara!
-Io non credevo ai miei orecchi e pregai di ripetere.
-- Una bara, un'autentica bara! - disse il dottore, sedendo spossato su uno scalino. - Io non sono un vigliacco, ma, capirete, anche il diavolo si spaventerebbe, se dopo una seduta spiritica s'imbattesse al buio in un feretro!
-Imbrogliandomi e balbettando, raccontai al dottore delle bare viste da me...
-Per un minuto ci guardammo l'un l'altro, sgranando gli occhi e a bocca spalancata dallo stupore. E poi, per convincerci che non eravamo allucinati, ci demmo a pizzicarci a vicenda.
-- Ci fa male a tutt'e due, - disse il dottore, - dunque ora non dormiamo e ci vediamo l'un l'altro non in sogno. Dunque le bare, la mia e le due vostre, non sono un'illusione ottica, ma qualcosa di sussistente. Che fare adesso, padre mio?
-Dopo aver sostato un'ora buona sulla scala fredda, perdendoci in congetture e supposizioni, ci eravamo tremendamente gelati, e risolvemmo di metter da parte il pusillanime terrore e, dopo aver destato il cameriere di corridoio, recarci con lui nella stanza del dottore. E così facemmo. Entrati nella camera, accendemmo una candela, e infatti vedemmo la bara, rivestita di broccato bianco, con frangia dorata e fiocchi. Il cameriere si segnò devotamente.
--Ora si potrà sapere, - disse smorto il dottore, tremando in tutto il corpo. - E' vuoto questo feretro, oppure... abitato?
-Dopo lunga, comprensibile esitazione, il dottore si chinò e, stretti i denti dalla paura e dall'aspettazione, tolse via dalla bara il coperchio. Gettammo uno sguardo nel feretro e... . Il feretro era vuoto...
-Il morto non c'era, ma in cambio vi trovammo dentro uno scritto di questo tenore: -"Caro Pogostov! Tu sai che gli affari di mio suocero sono andati paurosamente a rotoli. Egli s'è impelagato nei debiti fino alla gola.
Domani, o dopodomani, si presenteranno a sequestrare i suoi beni, e ciò rovinerà definitivamente la sua famiglia, e la mia, rovinerà il nostro onore, che per me è più caro di tutto. Nel consiglio di famiglia di ieri risolvemmo di nascondere tutto quel che è prezioso e caro. Poiché tutta la proprietà di mio suocero consiste in bare (egli, come ti è noto, è fabbricante di articoli funebri, il migliore della città), abbiamo stabilito di nascondere i feretri migliori. Mi rivolgo a te, come ad amico: aiutami, salva le nostre sostanze e il nostro onore! Nella speranza che ci aiuterai a conservare il nostro patrimonio, ti mando, colombello, una bara che ti prego di celare presso di te e di custodire da ora in poi fino a richiesta. Senza l'aiuto di conoscenti e amici saremo perduti. Spero che non mi dirai di no, tanto più che la bara rimarrà da te non oltre una settimana. A tutti quelli che ho in conto di veri amici nostri ho inviato una bara e spero nella loro generosità e nobiltà d'animo. Tuo affezionatissimo Ivàn Céliustin (9)".
-Dopo di ciò mi curai per circa tre mesi d'uno sconcerto di nervi, mentre l'amico nostro, il genero del fabbricante di bare, salvò e l'onor suo, e i beni, e ormai esercisce un'impresa di pompe funebri e traffica in monumenti e lapidi. I suoi affari vanno maluccio, e ogni sera adesso, entrando in casa, temo sempre di scorgere accanto al mio letto un bianco monumento di marmo o un catafalco.
NOTE.
1. In questa novella tutti i cognomi delle persone e i nomi delle vie e dei luoghi richiamano pensieri macabri, intonati al carattere del racconto. Così, Panichidin viene da "panichida", messa funebre.
2. Assunzione-sulle-Tombe.
3. Da "trup", cadavere.
4. Da "upokoi", riposo dell'anima.
5. Da "cerep", cranio.
6. Morto.
7. Da "pogòst", cimitero.
8. Da "klàddbis'ce", che vale pure cimitero.
9. Da "celiust", mandibola.