"LA STORIA" di Elsa Morante
Recensione
http://www.poliscritture.it/2015/06/07/la-storia-di-elsa-morante-a-trentanni-dalla-sua-morte/
di Luciano Aguzzi
Recensione
http://www.poliscritture.it/2015/06/07/la-storia-di-elsa-morante-a-trentanni-dalla-sua-morte/
di Luciano Aguzzi
1. La Storia Romanzo
Quando, alla fine di giugno del 1974 uscì «La Storia Romanzo» di Elsa Morante, pubblicato da Einaudi direttamente in edizione semieconomica a lire 2.000, con una tiratura di 100mila copie, che in pochi mesi divennero seicentomila, fu subito un caso editoriale e letterario.
L’editore non fece molta propaganda, ma questa si fece da sé, perché si era creata un’attesa del romanzo a cui l’autrice lavorava da almeno tre anni e che era stato più volte annunciato. Dall’ultimo suo romanzo, «L’isola di Arturo», edito nel 1957, erano passati ben 17 anni, e gli altri libri pubblicati nel frattempo (la piccola raccolta di liriche «Alibi» nel 1958, la raccolta di racconti «Lo scialle andaluso» nel 1963 e il volume composito «Il mondo salvato dai ragazzini» nel 1968) avevano il carattere di opere minori o comunque dirette a un pubblico più ristretto, mentre il nuovo romanzo si preannunciava come opera interamente nuova e diretta al grande pubblico.
La mia prima lettura, dell’estate di quel 1974, fu necessariamente parziale e per più aspetti mi indusse a un giudizio negativo, che in sintesi riassumo. Il romanzo è scritto bene, con molte pagine interessanti e un finale commovente e angosciante. Nell’insieme è però prolisso, con infinite digressioni e descrizioni dettagliate di cui si potrebbe fare a meno. Ma il difetto maggiore è che alla fine non si arriva a un senso complessivo e conclusivo del libro, come se la narrazione fosse fine a se stessa, di una storia privata che rimane nel suo privato, senza mai elevarsi a segno o emblema di qualcosa di superiore e di necessario. Le pagine ideologiche, in cui Davide Segre espone le sue idee anarchiche, sono una zeppa che male si integra al resto e che non riesce a diventare il senso del tutto. Anche le querimonie contro la «storia» sparse qua e là non giustificano il racconto e non gli danno un senso «universale».
Non per nulla il finale si raggiunge solo con la morte di tutti i suoi protagonisti. Le velleità ideologiche della Morante, a partire dallo stesso titolo e dal contrapporre nei vari capitoli la cronologia della storia vera al racconto di quella romanzesca, falliscono. Infatti, se la storia vera è una storia di tragedie e di massacri, in quella privata di Ida Ramundo e Useppe e gli altri non solo non vi è salvezza, ma non vi è nemmeno la fuoriuscita dalla storia, né lotta contro la storia. Semplicemente la storia qui non ha protagonisti, ma solo larve umane che la vivono al più basso livello, al livello – quasi – della natura inconsapevole dei suoi drammi.
Non solo, dunque, tutti i protagonisti muoiono, ma tutti sono anche, da viventi, in qualche modo «sfasati», segnati da patologie, o fisiche o esistenziali, che li condannano fin dall’origine a una vita senza storia (e alla morte senza storia).
Dal punto di vista stilistico il romanzo non è affatto realistico. Anzi, il sogno e la fiaba spesso predominano e tutto lo svolgersi del romanzo ha in sé un trasognamento della realtà che lo colloca al di fuori della realtà stessa. È, insomma, il romanzo stesso, un «caso patologico» che ci parla più della psicologia dell’autrice che della «storia» presa a pretesto della narrazione. Forse, come nei romanzi del Marchese De Sade, proprio nella sua «patologia» è da rintracciare il senso della voluminosa fatica della Morante.
In sostanza mi aveva colpito positivamente l’energia narrativa del libro e la sua capacità di coinvolgere il lettore, almeno in molte pagine, ma negativamente la mancanza di orizzonti dei personaggi, l’ideologia anarchica, di carattere esistenziale più che politico, l’inconcludente e velleitaria critica alla storia come «scandalo che dura da diecimila anni», non perché non ci fosse del vero, ma perché non si delineavano alternative di nessun tipo, e infine lo squilibrio nella composizione, con parti molto belle e altre pesanti e artificiose.
Ritrovavo queste mie impressioni, e molti altri spunti, nelle numerose recensioni che il libro ebbe (oltre cento in tre mesi). Credo che nessun giornale e periodico italiano si astenne dal dire la sua. Il dibattito fu molto acceso, pro e contro, e con le motivazioni più diverse.
In sostanza però le motivazioni a favore si riassumevano nell’elogio a Elsa Morante che era tornata alla grande narrativa, alla narrativa dei contenuti, degli intrecci, dei personaggi, delle vicende capaci di emozionare il lettore, dopo dieci anni di avanguardia (Gruppo 63) che aveva privilegiato il linguaggio e lo sperimentalismo, producendo libri di narrativa illeggibili, e di fatto letti da pochi. Così tutta una numerosa serie di firme di grandi critici sottolinearono in positivo l’uno o l’altro aspetto (la delineazione dei personaggi, il risalto dato alla vita dei semplici, il forte messaggio pacifista, di denuncia della guerra, il carattere «pascoliano» dell’attenzione agli animali e alla natura, l’uso del linguaggio popolare e dialettale, l’impronta di straniamento, quasi di realismo magico, come il senso del sacro ecc.), tutto in funzione della leggibilità del libro.
I detrattori invece puntarono su due aspetti, fra di loro complementari. La prima accusa era la mancanza di un messaggio di lotta. Non solo il libro non era marxista-leninista – si disse – e non era rivoluzionario, ma non conteneva nemmeno un qualche impegno di lotta di classe o almeno di lotta civile, limitandosi piuttosto a predicare la rassegnazione e il misticismo. La seconda accusa riguardava il carattere popolare, inteso quasi come romanzo d’appendice ottocentesco in ritardo, con la relativa banalizzazione dei personaggi e del linguaggio.
Non mancarono posizioni intermedie, come quella esposta da Pasolini in un lungo saggio pubblicato in due puntate («Tempo», 26 luglio e 2 agosto 1974), che del romanzo salvava alcune parti, mentre considerava le altre da buttare via. Posizione che a me sembrava allora ragionevole, anche se forse un poco esagerata in alcune minuzie critiche fuori luogo.
Da parte dell’estrema sinistra, allora molto influente, dopo qualche iniziale tentennamento, l’affondo critico venne da «il manifesto» (18 luglio 1974) che pubblicò una lettera di quattro intellettuali di peso, in quell’area: Nanni Balestrini, Elisabetta Rasy, Letizia Paolozzi, Umberto Silva.
Così, fra l’altro, i quattro scrivevano: «Di grandi scrittori reazionari corre voce che ce ne siano ancora, certo però non pensavamo ci fosse ancora spazio per bamboleggianti nipotini di De Amicis. Se la storia è veramente storia della lotta di classe, come certo pensano quelli che non sono uomini tristi o compagni illusi, la Morante proprio non vuole che ce ne si accorga. Nel suo arcipelago di miserabilini (nazistini, bambini, uccellini, fottutini, gattini, anarchicini…) i poveri sono talmente poveri che neppure hanno più il bene dell’intelletto […]. A noi “La Storia” non sembra altro che una scontata elegia della rassegnazione, un nuovo discorso delle beatitudini, che l’ideologia della classe sfruttatrice trova del tutto funzionale al proprio attuale progetto economico. […] In questo romanzo anche tutti gli altri meccanismi, linguistici e stilistici, ci sembrano perfettamente adeguati, nella loro gratificante falsità e maniera, al contenuto consolatorio e all’ostentata mistica della regressione che lo pervade. La Morante è oltre tutto una mediocre scrittrice, e la sua scrittura non riscatta per niente, anzi conferma pesantemente la sua ideologia».
Il dibattito fu lungo e contro la Morante si espressero pure Rossana Rossanda e Alberto Asor Rosa e vide posizioni diverse e trasversali in ogni settore, anche fra i critici letterari del Pci. Dal romanzo il dibattito passò al caso letterario, al concetto di «nazional-popolare», a quelli di «lettore popolare», in positivo, e «lettore di massa», in negativo, e al significato culturale e sociologico del successo così vasto del libro.
Nessuno, in quei primi mesi di lettura, sembrò accorgersi – salvo Pasolini, per alcuni rilievi su cui però non insistette – di ciò che invece mi aveva colpito in modo così forte: cioè il carattere di una scrittura come drogata, ossessiva, nevrotica, con una radice psicologica certamente autobiografica.
Mi sembrava che la Morante, pur controllando la scrittura con una indubbia sapienza letteraria e con molti strumenti del mestiere, sostanzialmente, però, non padroneggiasse il corso della scrittura, non era lei a pilotarne il carattere, ma era la scrittura a impossessarsi di lei. In sostanza, l’urgenza psicologica della scrittura e il suo carattere di coinvolgimento totale, con il suo significato autobiografico, mi sembravano prevalere su ogni altra ragione e aspetto del libro.
Il libro, dunque, rimandava con una forte spinta all’autrice. Nei precedenti libri di Elsa Morante e in quello che allora era noto della sua biografia si aveva – almeno per me – la conferma della mia impressione. La scrittura di Elsa Morante, in «Menzogna e sortilegio», in «L’isola di Arturo», e tanto più nei racconti, nelle poesie e in quello strano e difficile libro che è «Il mondo salvato dai ragazzini», ha la radice nelle vicende esistenziali dell’autrice. I suoi libri sono ora apertamente ora mascheratamente autobiografici, non solo in tanti passaggi, nella costruzione di personaggi e nella descrizione di ambienti e di usi, ma soprattutto in quello strano e suo particolare straniamento, fra il sogno e la favola, fra l’allucinazione e l’invenzione teatrale, che rende la sua prosa così particolare e carica di un’energia psicologica che assume l’andamento dell’ossessione, governata da una patologia, da una sindrome nevrotica, da un narcisismo stregato.
Non per nulla mi venne da pensare subito alla prosa del Marchese De Sade perché, pur nelle tante differenze, vi ritrovavo la stessa urgenza nevrotica della scrittura. Ma dicendo «nevrotica» non intendo diminuirne il pregio, ma piuttosto sottolinearne la radice profonda, il carattere di necessità che, per Elsa Morante, la scrittura assume. Per lei, in definitiva, la scrittura non nasce dalla volontà di raccontare una storia, ma dalla necessità catartica di parlare di se stessa, il che le richiede un impegno totale, esclusivo, di anima e corpo.
Le storie immaginate e narrate nei suoi romanzi, anche quando sembrano allontanarsi dall’istanza autobiografica, in realtà nascono lì, lì hanno la loro radici, lì sta la molla che anima il linguaggio e che detta il lento movimento a spirale della sua prosa, la duplicità continua (che si riflette anche nella costruzione delle frasi e nell’aggettivazione), l’iterazione, la descrizione minuziosa fin nei più marginali dettagli, il passaggio attraverso più registri, dal popolare al colto al fantastico, il tenere i personaggi e le cose come in sospeso fra un realismo quasi naturalistico e il trasognamento onirico e magico che li strappa dalla realtà per immetterli in un mondo di finzione proprio dell’autrice.
È questa capacità di «stregare» che ha catturato milioni di lettori e che ha fatto della Morante, pur con i suoi limiti e squilibri innegabili, uno degli scrittori più letti del Novecento italiano. Dico uno dei più letti, perché al di là dei giudizi critici, sono soprattutto i lettori «disinteressati» che hanno determinato il successo della scrittrice e che continuano ad alimentarlo.
Il significato de «La Storia Romanzo», per molti aspetti ancora oggi non decifrato e forse indecifrabile, con la sua complessità, si è svelato a poco a poco, rivelando ricchezze inaspettate e impreviste nelle letture frettolose e approssimative dei primi mesi dalla sua uscita. Quell’enorme massa di pagine stampate che raccolgono le recensioni della prima ora dimostrano, spesso, l’intelligenza dei lettori di professione, e sono ancora oggi utili, tuttavia, anche quando colgono il segno, lo fanno, sia nella critica sia nell’elogio, con una – oggi inaccettabile – parzialità, come se avessero letto il libro solo da un qualche punto di vista particolare e non nella sua interezza.
Il tempo passato – e quarant’anni di letteratura critica sulla Morante – ci permettono oggi di leggere «La Storia Romanzo» da un punto di vista più allargato e profondo e cogliere così aspetti e significati allora rimasti incompresi.
2. La radice autobiografica.
Le vicende personali di Elsa Morante, sia quelle esterne e relative agli avvenimenti della sua vita, sia quelle caratteriali, si ritrovano nei suoi racconti e nel suo primo romanzo, «Menzogna e sortilegio», che a livello di narrazione catartica racconta la saga della sua famiglia – o, per meglio dire, di una famiglia in cui lei nasconde in modo mimetico tratti della propria storia -, superando così nella e con la scrittura quella fase della sua vita. Nel secondo romanzo, «L’isola di Arturo», la spinta autobiografica risiede nel desiderio antico di Elsa di essere un ragazzo rivestito del mito del «fanciullo divino», oltre che, di nuovo, come nel primo romanzo e come sarà ancora nel terzo e nell’ultimo, il rapporto irrisolto con la madre e la complessa dinamica di odio e amore fra madri e figli, nell’assenza o irrilevanza o comunque presenza devirilizzata dei padri. Da qui nasce il carattere magico e utopico, pur calato in una cornice quasi da neorealismo, del personaggio di Arturo e della sua formazione nell’isola di Procida.
Questo viene ribadito nelle poesie di «Alibi» (Longanesi, 1958), scritte in stretta relazione con la stesura dei due romanzi, dove l’autobiografismo psicologico è più direttamente rivelato dall’autrice che parla in prima persona.
Alla fine degli anni Cinquanta i grumi psicologici autobiografici più urgenti si possono dire superati ed esauriti, pur restandone, come temi permanenti, alcuni aspetti. Altri però di nuovi, innervati nei vecchi, si addensano. Il complesso e difficile rapporto di Elsa con l’età (la bellezza, la vecchiaia), con l’amore (si innamora di uomini sbagliati, si sente sempre poco amata, si innamora in modo eccessivo e ossessivo ecc.), con l’impegno letterario (che per lei è quasi sacro, è impegno con la verità e l’autenticità, con ciò che di più profondo vi è nei valori vitali) e con l’impegno civile (altro aspetto dell’impegno per la verità e la bellezza, per la poesia, per l’integrità intellettuale), trovano un loro momento di tragica svolta con la morte del suo giovanissimo amante Bill Morrow (suicidatosi il 30 aprile 1962).
Nel frattempo aveva viaggiato in diversi Paesi, fra cui negli Usa, conosciuto poeti come Allen Ginsberg, letto libri di filosofia e di misticismo orientale, provato l’uso della mescalina e dell’Lsd come allucinatori e stimolanti per la scrittura. Tutto questo, negli anni dell’insanabile dolore per la morte di Bill Morrow, confluirà nel composito libro, misto di parti in versi e parti in prosa, «Il mondo salvato dai ragazzini» (Einaudi, 1968), il più autobiografico – e a dirlo è la stessa Elsa Morante -, dove il dolore personale e privato si fa dolore universale, angoscia e senso di morte per l’intero universo.
Le sembra sempre più che solo nel mito dell’innocenza giovanile si trovi la salvezza. Non solo perché la giovinezza possiede l’innocenza e la carica vitale e naturale che ne fanno il soggetto della rivoluzione (l’influenza dell’avvicinarsi del ’68 si fa sentire), ma soprattutto perché i giovani, come i «folli idioti», sono in qualche modo collocati fuori della storia, ancora estranei alla «coscienza storica», ancora capaci di vivere senza e contro i condizionamenti del potere. Le convinzioni anarchiche della Morante, sentimentalmente profonde per quanto dottrinariamente confuse e approssimative, si fanno qui sentire con forza.
Con «Il mondo salvato dai ragazzini» (e con altri scritti, come la conferenza del 1965 «Pro o contro la bomba atomica»), secondo diversi studiosi Elsa si apre a un più attivo impegno sociale, prepara i temi del suo prossimo romanzo, trasforma il dolore per il suo caso privato in dolore per il mondo. Ciò è vero, purché però si rovesci il rapporto fra dolore per la morte di Bill Morrow e dolore per la «morte» del mondo (ossia per la situazione tragica in cui si trova l’umanità, sottoposta al potere feroce e arbitrario dei potenti ecc.).
Non è – a mio parere – il dolore privato di Elsa a essere ricompreso e riletto alla luce del dolore universale, ma, viceversa, è il dolore universale a essere ricompreso e riletto alla luce di quello privato. La filosofia della storia che Elsa matura e che farà poi da trama ideologica a «La Storia Romanzo» non nasce dal superamento del dolore personale e privato, ma da una sua universalizzazione. Il dolore del mondo si identifica pertanto, in qualche modo, con il dolore privato della scrittrice.
A questo nesso autobiografico è da riportare il carattere contraddittorio e irrisolto della filosofia della storia della scrittrice e il poco spazio, per dire nulla, che nel romanzo «La Storia» ha la speranza, la lotta e una qualunque prospettiva di uscita dal «dolore universale». Persino il mito del «fanciullo divino» e quello della regressione allo stato animale, visto in positivo come stato di innocenza e di naturalità, non rappresentano una via di uscita, ma solo momenti e situazioni che la Morante tratta con maestria letteraria ma con incertezza ideologica, perché, evidentemente, non sa bene quale ruolo assegnargli in rapporto al tema, sottinteso ma sempre presente, della «salvezza».
Da qui trova una qualche giustificazione parziale la critica di chi ha visto nel libro un certo misticismo che, in definitiva, riporta all’aldilà cattolico. Ma più esatto sarebbe dire che vi è sottinteso, anche se mai esplicitato, se non per lacerti di senso sparsi qua e là, un misticismo di tipo orientale che tende a una riunione totale (ma qui vi è anche l’appassionata lettura della Morante della filosofia di Spinoza) del tutto, in un’armonia completa che ricorda il concetto di nirvana. In sostanza sembra che la salvezza passi attraverso la liberazione da ogni desiderio e attraverso la morte.
La Storia, per Elsa Morante, è dunque sempre e solo il contrario dell’innocenza e della salvezza: è lo spazio e il tempo della lotta e del desiderio, dell’egoismo e della sopraffazione ecc. Ciò nasce perché l’uomo, al suo nascere nell’Eden, ha scelto la coscienza anziché l’innocenza. È pertanto necessario passare dalla coscienza all’innocenza (in ciò sta la vera rivoluzione predicata dal personaggio dell’anarchico Davide Segre), annullarsi come essere immerso nella storia e ritrovare la sintonia con il tutto. Riscoprire che tutto è Dio e che Dio è tutto.
Naturalmente Elsa Morante non crede fino in fondo a questa versione della «salvezza», o almeno non lo dimostra. Infatti cala questa visione della storia nel romanzo, ora come sottinteso, ora come mito, ora come dottrina anarchica volutamente presentata in modo verboso e poco credibile, dandone quasi la parodia. Mantiene, insomma, una certa distanza, in ciò conservando quello stile di duplicità psicologica che è proprio di tutta la sua narrativa. Tuttavia si avverte che il suo cuore batte in quella direzione, che è lì il suo totale coinvolgimento. E il lettore lo sente, si appassiona e ama l’autrice, anche se poi non sempre è consapevole delle implicazioni qui messe in luce.
Non stupisce – alla luce di quanto ho fin qui detto – il fatto che tutti i personaggi «innocenti» del romanzo muoiano. Questa non è una mania sadica, come è pur stato detto, ma piuttosto – seconda altri e con più ragione -, un atto di pietà materna che tende a preservare quegli innocenti dalle brutture della Storia e quindi a salvarli.
Non a caso risale alla metà degli anni Sessanta un significativo cambiamento esistenziale nella vita di Elsa Morante. La sua civetteria per la bellezza e la giovinezza ora si muta in civetteria per la vecchiaia; prende a vestirsi in modo goffo, da vecchia popolana; rompe quasi completamente i ponti con gli ambienti letterari e ricerca i giovani, anche analfabeti, con un atteggiamento che non è più quello dell’amante, come ai tempi del rapporto con Bill Morrow, ma piuttosto della madre, dell’amica, della sostenitrice anche finanziaria e del «maestro spirituale», direi quasi del «guru». Ci sono molteplici segni di una tenace volontà che le detta particolari comportamenti che sono leggibili in molti modi, fra cui anche in quello, forse prevalente, del senso di una sublimazione e riscatto del dolore ancora vivo per il ricordo di Bill Morrow.
Nel quarto e ultimo romanzo, il tenebroso «Aracoeli» (Einaudi, 1982), Elsa Morante, che ormai sente sempre più acuto, doloroso e insopportabile il disfacimento del proprio corpo e della propria esistenza, ritorna, in forme letterarie più incerte e meno leggibili, alla densità e intensità autobiografica dell’irrisolto rapporto fra madre e figlio, dove il figlio è un omosessuale fallito in tutto, con un padre assente o addirittura odiato, il cui unico periodo di felicità è stato quello dell’infanzia, quando viveva in stretto rapporto simbiotico con la madre. Il mito dell’infanzia lo spinge a un viaggio verso il paese natale della madre, che diventa il simbolo della ricerca della madre e dell’originaria felicità. Ma il paese natale non ha niente di mitico, è solo un aggregato di poche case e di pietraie dove vivono pochi paesani ignoranti e le loro capre. Così il viaggio è l’ennesimo e definitivo fallimento dell’esistenza di Manuele, figlio di Aracoeli.
Non vi è più il senso della salvezza, nemmeno nelle esili forme in cui si mostrava ancora nel romanzo «La Storia». Elsa Morante, l’anno dopo, nel 1983, tenterà il suicidio. Salvata, vive ancora due anni, che sono per lei di lenta e dolorosa agonia, e muore il 25 novembre 1985.
3. La «Storia» ne La Storia.
Il romanzo di Elsa Morante non è un «romanzo storico», pur avendo anche un contenuto narrativo di vicende storiche, ma piuttosto un romanzo «contro la storia», e in questo senso non è del tutto errata la definizione di «romanzo a tesi». La tesi, infatti, c’è, ed è riassunta lapidariamente dal sottotitolo di copertina che si legge nella prima edizione, poi espunto dall’editore: «Uno scandalo che dura da diecimila anni».
La storia è uno scandalo perché altro non è che la manifestazione dell’uomo che ha perduto la sua innocenza, quindi è un tessuto di violenze, di sopraffazioni, di sterminii, di lotte, di egoismo e di negazione di tutto ciò che l’umanità dovrebbe essere. All’interno della storia, pertanto, non vi è salvezza.
La Morante esprime sicuramente una posizione pacifista e una decisa empatia per i più deboli e i più semplici, per gli umili e per le vittime, ma non incita alla lotta e non osserva le vicende dal punto di vista di una parte contro l’altra. Su tutte le parti, sui giusti come sui carnefici, sui vincitori come sui vinti, rivolge piuttosto uno sguardo pietoso, perché tutti sono travolti dalle nefandezze della storia e in definitiva sono vittime.
Questo non vuol dire che sia indifferente all’etica della giustizia, ma che guarda le cose da un punto di vista più elevato, da un concetto di giustizia più universale, al di sopra delle parti in lotta. In ciò sembra ispirarsi a un saggio di Simone Weil, dove la scrittrice francese parla di una «terza lettura». Ad esempio, fra due parti in lotta, siano esse Achille e Ettore o altri, una prima lettura è quella di chi interpreta le vicende dal punto di vista del vincitore, una seconda è quella di chi le interpreta dal punto di vista del vinto. Fra queste due letture non c’è possibilità di conciliazione, perché entrambe sono espressione della stessa logica e della stessa etica che le muove alla lotta. Però nell’«Iliade» se ne dà una terza lettura, in cui ci si distacca dal tempo e dallo spazio e soprattutto dalle ragioni e dall’etica della lotta, adottando una visione che stende un velo di pietà su tutti i protagonisti, vinti e vincitori, e di tutti sa valutare i meriti e i difetti, l’innocenza e la colpa, le illusioni e gli errori.
Questa «terza lettura» non è quella dello storico, che pur cercando di non stare in mezzo alla mischia dei combattenti, sta pur sempre all’interno della storia e la studia usando le sue stesse categorie. La «terza lettura» è piuttosto quella del poeta, quella del religioso, quella di chi si muove a pietà sia verso la sofferenza dell’innocente vinto sia verso l’errore e la colpa del vincitore, che a sua volta è vinto dalla sua colpa e quindi dal male di cui si fa portatore.
Per questo il racconto di Morante, nella sua parte storica, è in qualche modo al di fuori della storia, perché l’oggetto vero del racconto non sta nelle vicende storiche narrate, ma nel senso più generale in cui esse sono immerse. Ciò non vuol dire che Elsa Morante non esprima giudizi sulla «Storia» e sui suoi protagonisti, perché anzi ne esprime di duri e taglienti e carichi dell’etica pacifista e anarchica di cui a suo modo, più esistenziale e sentimentale che politico, si fa portavoce. Vuol dire però che li raccoglie e confina nelle premesse cronologiche ai vari capitoli, cioè nella «Storia» propriamente detta, mentre nel «Romanzo» applica la sua «terza lettura» e nutre di materna pietà anche i tedeschi autori delle inaudite violenze di cui parla.
Nella narrazione de «La Storia» si possono evidenziare diversi strati, i quali, pur intersecandosi, conservano una loro propria fisionomia, sia di costruzione narrativa, sia di linguaggio, di stile e registro, sia di approccio più o meno realistico.
Si possono classificare in questo modo:
1) Innanzitutto abbiamo la «Storia» con la maiuscola, confinata nelle premesse ai capitoli, che costituiscono una vera e propria cronologia che, se non fosse per certe movenze e sferzate d’autore, si potrebbe quasi considerare come pagine di un manuale scolastico.
2) Vi è poi la parte in cui si raccontano le vicende di più stretto significato storico, in cui Elsa uso uno stile realistico e quasi da narrazione di cronaca, più che da romanzo.
3) Collegata a questa cronaca vi sono i brani di carattere ideologico, con esposizione quasi saggistica. In particolare questo è il caso delle circa 40 pagine del lungo discorso di professione anarchica di Davide Segre.
4) Un altro strato, predominante nella costruzione del significato del romanzo e in cui Elsa Morante esprime più profondamente la sua empatia per i protagonisti, è il racconto delle vicende di Ida e del figlio Useppe e di altri personaggi. Qui il discorso si fa trasognato, spesso quasi onirico, e il lettore avverte sempre una certa sfasatura fra il sentire di questi personaggi e il loro modo di vedere la realtà, e la realtà stessa. È il livello della vita dei semplici, degli umili, dei quasi idioti, inadatti alla vita della «Storia» nella quale non hanno nessun ruolo, né quello dei vincitori né quello dei perdenti, perché appartengono a una terza categoria: a quella che è estranea a ogni lotta e sempre e comunque vittima.
5) Infine vi è il livello dell’interazione fra Useppe e gli animali e la natura, che è il livello della fiaba e del mito, il livello del senso riposto, del sacro. Useppe, alla luce del logos della «Storia», è un ragazzino semi-idiota, disadattato, ma alla luce del mito è il «fanciullo divino» che è fuori del tempo, che è tutto sentire e immediatezza, che è ricco di doti interiori che gli donano capacità particolari di intuizione, di presentimento, di comprensione del linguaggio degli animali, di sofferenza, di poesia, di empatia, di spontanea felicità e di desiderio di vivere.
Per quanto ho sopra detto, «La Storia Romanzo» non è un libro della Resistenza e nemmeno sulla Resistenza, però in esso si tratta della vita di alcuni personaggi fra il 1941 e il 1947, a Roma, e si incontrano gli avvenimenti della storia del tempo.
Mi limito qui a qualche esemplificazione, ma l’elenco non è certo esaustivo: 1) l’antifascismo anarchico e comunista nel periodo fascista; 2) le leggi razziali e la paura degli ebrei nei confronti delle conseguenze, paura aumentata con l’arrivo dei nazisti nel settembre 1943; 3) la vita e il clima del ghetto romano; 4) la deportazione degli ebrei il 16 ottobre 1943 e la loro morte; l’eco della guerra attraverso i rapporti, anche epistolari, fra familiari dei combattenti sui diversi fronti, fra cui quello russo; 5) i bombardamenti di Roma degli Alleati, la distruzione di interi quartieri, il problema dei rimasti senza casa, lo sfollamento e i rifugi di fortuna, la solidarietà fra il popolo; 6) l’occupazione tedesca, i rastrellamenti, la repressione, l’affissione dei bandi punitivi, le condanne a morte, l’eco della strage delle Ardeatine (24 marzo 1944) ecc.; 7) l’inizio e il proseguimento della lotta partigiana nella zona dei Castelli Romani, gli scontri con i tedeschi, la discussione sulla violenza, sull’anarchia o disciplina partigiana, su cosa vuol dire fare la rivoluzione ecc.; 8) la conclusione della guerra e la delusione di chi sperava in un rapido e profondo cambiamento; 9) cenni a Stalin e Togliatti e alla politica del dopoguerra.
Il lettore trova molte belle pagine da antologia, scritte in stile cronachistico o memorialistico, ma il significato ultimo del libro lo trova altrove, nel rifiuto totale della «Storia» e del potere e nel desiderio di identificarsi piuttosto con la natura che con la specie umana.
A un certo punto, il personaggio Davide Segre proclama: «Industria dello sterminio, questo è il vero nome odierno del sistema! E bisognerebbe mettercelo per insegna sui cancelli delle fabbriche… e sui portoni delle scuole, e delle chiese, e dei ministeri, e degli uffici, e sui grattacieli al neon… e sulle testate dei giornali… e sui frontispizi dei libri… anche dei testi COSIDDETTI rivoluzionari… Qieren carne de hombres!!» (pp. 565-566 dell’edizione Einaudi). E più avanti riprende: «La sola rivoluzione autentica è l’ANARCHIA! ANAR-CHIA, che significa: NESSUN potere, di NESSUN tipo, a NESSUNO, su NESSUNO! Chiunque parla di rivoluzione e, insieme, di Potere, è un baro! è un falsario! E chiunque desidera il Potere, per sé o per chiunque altro, è un reazionario; e, pure se nasce proletario, è un borghese! […]» (p. 571).
Verso la fine del libro, dopo la morte di tutti i giovani del gruppo partigiano, fra cui anche Nino, il figlio maggiore di Ida, muore pure il ragazzino Useppe, di un attacco di epilessia, il «grande male», chiara metafora del male che uccide il mondo. La madre impazzisce e in lei vi è come un ritorno alla vita animale, cioè a una vita più virtuosa e autentica di quella della «Storia» umana. Nel suo stravolgimento Ida percepisce «come le spire multiple di un assassinio interminabile. E oggi l’ultimo assassinio era il suo bastarduccio Useppe. Tutta la storia e le nazioni della terra s’erano concordate a questo fine: la strage del bambinello Useppe Ramundo». E allora «Ida prese a lagnarsi con una voce bassissima, bestiale: non voleva più appartenere alla specie umana» (p. 647).