Cynthia Swanson
1.
Questa non è la mia camera da letto. Dove mi trovo? Trattengo il fiato e sollevo fino al mento le coperte sconosciute, sforzandomi di raccapezzarmi. Ma non mi viene in mente nessuna spiegazione su come ho fatto ad arrivare qui. L’ultima cosa che ricordo è che era mercoledì sera e stavo dipingendo la mia stanza di un bel giallo carico e luminoso. Frieda, che si era offerta di aiutarmi, stava valutando la scelta del colore. «Troppo solare per una camera da letto», sentenziò, in quel suo tono da saputella. «Come farai a dormire fino a tardi nelle giornate uggiose?» Intinsi il pennello nella latta di vernice, eliminai con cura quella in eccesso e salii sulla scala. «È proprio questo il punto», le dissi. Chinandomi in avanti, cominciai a dipingere il bordo del telaio di una finestra alta e stretta. Non dovrei ricordarmi cos’è successo dopo? Stranamente, non ci riesco. Non ho memoria di avere passato la serata a dipingere, né di avere poi rimirato il nostro lavoro prima di ripulire, né di avere ringraziato Frieda per l’aiuto o averla salutata quando è uscita. Non ho memoria di essere andata a letto nella stanza color del sole, con l’odore di vernice fresca nelle narici. Ma devo avere fatto queste cose, visto che adesso sono qui. E poiché «qui» non è casa mia, evidentemente sto ancora dormendo. In ogni caso per me si tratta di un sogno insolito. Le mie scorrerie notturne tendono al fantastico, mi proiettano al di fuori del tempo e dello spazio convenzionali. Sono arrivata alla conclusione che questo è dovuto al fatto che leggo molto. Conoscete Il popolo dell’autunno? È arrivato sugli scaffali appena lo scorso giugno, ma si prevede che sarà uno dei bestseller del 1962. Ray Bradbury si legge benissimo, e io consiglio caldamente il romanzo a chiunque metta piede nella libreria mia e di Frieda alla ricerca di qualcosa «che prenda davvero». «Vi ossessionerà in sogno», garantisco a ogni cliente. Una profezia che si autoadempie: l’altro ieri notte ho sognato che stavo arrancando dietro Will Halloway e Jim Nightshade, i due giovani protagonisti del romanzo di Bradbury, attirati dall’arrivo, nel bel mezzo della notte, del luna park a Green Town. Io cercavo di convincerli a procedere con calma, ma loro, due ragazzi di tredici anni, mi ignoravano bellamente. Mi ricordo com’era difficile tenergli dietro e quanto faticavo a muovere i piedi. Will e Jim si allontanavano nelle tenebre, mentre le loro sagome diventavano puntini scuri fino a scomparire; invece io riuscivo solo a piagnucolare per la frustrazione. Quindi, vedete, non sono il genere di donna che sogna qualcosa di così banale come svegliarsi nella camera da letto di qualcun altro. La stanza del sogno è più grande e più sciccosa della mia. Le pareti sono verde salvia, niente a che vedere con il giallo intenso che ho scelto a casa. I mobili sono abbinati fra loro, eleganti e moderni. Il copriletto è ben ripiegato ai piedi; morbide lenzuola coordinate mi avvolgono il corpo. È molto piacevole e al tempo stesso un po’troppo preciso. Mi sistemo meglio sotto le coperte e chiudo gli occhi. Di certo, se rimango così, presto mi ritroverò su una baleniera nel Pacifico del Sud, con i vestiti luridi, a tracannare whisky insieme agli altri marinai. Oppure volerò alto sopra Las Vegas, il vento che mi soffia i capelli in faccia, le braccia trasformate in enormi ali. Ma non succede niente del genere. Invece sento una voce maschile. «Katharyn, amore, svegliati.» Sollevo le palpebre e scorgo due occhi dell’azzurro più intenso che io abbia mai visto. Le chiudo. Sento una mano sulla spalla, che è nuda, a parte la bretella sottile della camicia da notte di satin. È passato un bel po’di tempo da quando un uomo mi ha toccato in modo intimo, ma certe sensazioni sono inconfondibili, per quanto raramente si provino. So che dovrei essere terrorizzata.
Quindi, vedete, non sono il genere di donna che sogna qualcosa di così banale come svegliarsi nella camera da letto di qualcun altro. La stanza del sogno è più grande e più sciccosa della mia. Le pareti sono verde salvia, niente a che vedere con il giallo intenso che ho scelto a casa. I mobili sono abbinati fra loro, eleganti e moderni. Il copriletto è ben ripiegato ai piedi; morbide lenzuola coordinate mi avvolgono il corpo. È molto piacevole e al tempo stesso un po’troppo preciso. Mi sistemo meglio sotto le coperte e chiudo gli occhi. Di certo, se rimango così, presto mi ritroverò su una baleniera nel Pacifico del Sud, con i vestiti luridi, a tracannare whisky insieme agli altri marinai. Oppure volerò alto sopra Las Vegas, il vento che mi soffia i capelli in faccia, le braccia trasformate in enormi ali. Ma non succede niente del genere. Invece sento una voce maschile. «Katharyn, amore, svegliati.» Sollevo le palpebre e scorgo due occhi dell’azzurro più intenso che io abbia mai visto. Le chiudo. Sento una mano sulla spalla, che è nuda, a parte la bretella sottile della camicia da notte di satin. È passato un bel po’di tempo da quando un uomo mi ha toccato in modo intimo, ma certe sensazioni sono inconfondibili, per quanto raramente si provino. So che dovrei essere terrorizzata. Sarebbe la reazione appropriata, no? Anche se stai dormendo, sarebbe normale inorridire sentendo la mano di un estraneo che si posa sulla tua pelle nuda. Eppure, stranamente, trovo il tocco di questo tizio immaginario alquanto piacevole: la stretta delicata ma decisa, le dita avvolte intorno al braccio, il pollice che mi accarezza con gentilezza la pelle. Tengo gli occhi chiusi, godendomi la sensazione. «Katharyn, mi dispiace svegliarti, ma mi sembra che Missy abbia la fronte calda... Vuole te. Per favore, amore, devi alzarti.» Sempre a occhi chiusi rifletto su questa informazione. Mi domando chi sia Missy e perché la sua fronte calda dovrebbe riguardarmi. Nel modo sconclusionato in cui avvengono le cose nei sogni, i miei pensieri sono rimpiazzati dalle parole di una canzone che era popolare alla radio qualche anno fa. Sento la melodia, anche se sono sicura di non ricordare bene le parole: era Rosemary Clooney che la cantava, e diceva qualcosa a proposito di avere le stelle negli occhi e di non lasciare che l’amore ti rimbambisca. L’idea mi fa sorridere; è evidente che non potrei essere più rimbambita di come sono adesso. Mi metto a sedere sul letto, pentendomi all’istante perché non appena cambio posizione l’uomo dagli occhi azzurri toglie la sua mano calda dalla mia spalla. «Chi sei?» gli chiedo. «Dove mi trovo?» Lui ricambia il mio sguardo interrogativo. «Katharyn, ti senti bene?» Per la cronaca, il mio nome non è Katharyn. È Kitty. D’accordo... in realtà è Katharyn, ma non mi è mai piaciuto. Mi è sempre sembrato troppo formale. Non scivola sulla lingua come Kitty. E poi, dal momento che i miei genitori hanno pensato bene di scegliere una grafia insolita di un nome altrimenti comune, trovo snervante dover sempre chiarire com’è scritto a chi me lo chiede. «Credo di stare bene», dico a Occhi Blu. «Solo che, davvero, non ho la minima idea di chi tu sia o di dove mi trovi. Mi dispiace.» Lui sorride e quei begli occhioni luccicano. Per il resto ha un aspetto piuttosto normale: altezza e corporatura medie, maniglie dell’amore appena accennate, capelli rossicci che si stanno diradando e cominciano a ingrigire. Gli darei circa quarant’anni, qualcuno più di me. Inspiro e noto che odora di un sapone dalle note boschive, come se si fosse appena fatto la doccia e la barba. Profuma di buono, e io sento un tuffo al cuore. Santo cielo, questo sogno potrebbe mai diventare ancora più assurdo? «Dovevi essere proprio in un sonno profondo, tesoro», dice. «Sai bene chi sono. Sono tuo marito. Sei nella nostra camera da letto, a casa nostra.» Indica la stanza con un braccio, come per dare un fondamento alle proprie parole. «E in questo preciso istante nostra figlia, che a proposito si chiama Missy, nel caso te lo fossi dimenticata, probabilmente ha la febbre e chiede di sua madre.» Mi porge una mano. Con un gesto istintivo, vi faccio scivolare dentro la mia. «Okay?» mi supplica. «Per favore, Katharyn.» Aggrotto la fronte. «Scusa, chi hai detto che sei...?» Lui sospira. «Tuo marito, Katharyn. Sono Lars.» Lars? Che strano nome. Non conosco nessuno che si chiami così. Mi scappa un sorrisino al pensiero di avere un cervello tanto fantasioso. Non potevo limitarmi a evocare un Harry o un Ed o un Bill? No, signora, la mia mente ha fabbricato un marito di nome Lars. «D’accordo», dico. «Dammi solo un momento.» Mi stringe la mano e la lascia andare, poi si china su di me per baciarmi sulla guancia. «Le misuro la febbre intanto che ti aspettiamo.» Si alza ed esce dalla stanza. Chiudo di nuovo gli occhi. Adesso il sogno sicuramente svanirà. Ma quando li riapro sono sempre lì. Ancora nella camera da letto verde. Non vedo alternative, perciò mi alzo e attraverso la stanza. Dalle finestre a lucernario sopra il letto, dalla porta scorrevole in vetro che sembra dare su una specie di patio e dal grande bagno adiacente, deduco che deve trattarsi di una casa piuttosto moderna. Più moderna –e presumibilmente più grande –della villetta bifamiliare con una sola camera da letto che ho preso in affitto nel quartiere di Platt Park a Denver. Sbircio nel bagno. I sanitari sono di un verde chiaro, lucidi e con la rubinetteria cromata. Il lungo piano della toeletta ha due lavandini e un top di formica bianca con pagliuzze dorate, con sotto armadietti di legno chiaro la cui profondità si riduce leggermente in basso. Le piastrelle del pavimento sono un fresco mosaico verde menta, rosa e bianco. Non so se mi trovo a Denver, ma in tal caso questo non è certo il vecchio quartiere di Platt Park, dove non si è più costruito niente da prima della guerra. Esaminandomi allo specchio sopra la toeletta mi aspetto quasi di vedere una persona completamente diversa da me: chissà chi è questa Katharyn. Invece sono proprio io. Bassa, formosa, con esasperanti capelli biondo tiziano che formano un ciuffo ribelle sulla fronte e si arricciano crespi altrove, a prescindere da quanto spesso io vada a fare la messa in piega dal parrucchiere. Vi passo le dita e intanto noto all’anulare della mano sinistra un diamante luccicante e una spessa fede nuziale d’oro. “Be’, naturale”, penso. Il mio cervello è molto previdente a inventarsi un marito che si possa permettere una grossa pietra preziosa. Rovistando nell’armadio, trovo una vestaglia a nido d’ape blu marino che mi va a pennello. Mentre allaccio la cintura in vita, esco nel corridoio per cercare l’uomo che risponde allo strano nome di Lars e sua figlia inferma Missy. Sulla parete di fronte a me, posizionata in modo che sia visibile dalla camera da letto, c’è una grande fotografia a colori che rappresenta un paesaggio di montagna: il sole che tramonta all’orizzonte, le cime illuminate in controluce in toni rosa e dorati. Sulla sinistra si ergono dei pini gialli che occupano tutta l’altezza della foto. Sono sempre vissuta in Colorado ma non ho idea di dove si trovi questo posto e nemmeno se sia nelle Montagne Rocciose. Sto cercando di decifrare questo mistero quando vengo placcata al fianco destro. Mi sforzo di non perdere l’equilibrio e di non cadere all’indietro. «Ahi!» dico voltandomi. «Basta. Devi imparare a stare in piedi da solo. Ormai sei troppo grande per appoggiarti agli altri e pretendere che ti sostengano.» Ma che succede? Chi è la donna che ha pronunciato queste parole? Non posso essere io. Non sembra qualcosa che potrei dire, e nemmeno pensare. A guardarmi dal basso in alto è un bambino. Ha gli occhi azzurri e penetranti di Lars e un bel taglio di capelli corto che però non riesce a nascondere un ciuffo ribelle biondo tiziano sulla fronte. La faccia bianca e rosea è pulita. Potrebbe essere uscito da una pubblicità del latte o dei ghiaccioli. Sì, è proprio carino, e a guardarlo mi sciolgo un po’. Lui mi lascia andare e si scusa. «È solo che mi mancavi, mamma. È da ieri che non ti vedo.» Sono senza parole. Poi, ricordandomi che in fondo sono addormentata, gli sorrido. Mi chino e gli stringo le spalle. Ormai mi sono decisa ad assecondare questo sogno. Perché no? Finora è un luogo piacevole dove stare. «Portami da tuo padre e da Missy», gli dico prendendogli la mano morbida e paffuta. Camminiamo lungo il corridoio e saliamo una mezza rampa di scale. In cima c’è la cameretta di una bambina, con pareti rosa garofano, un lettino di legno laccato di bianco e una libreria bassa piena di volumi illustrati e peluche. Seduta sul letto c’è una bimba altrettanto angelica, la versione femminile del ragazzino che tengo per mano. Ha un’espressione sconsolata e le guance arrossate. È grande più o meno come il maschio. Sono una frana a dare un’età ai bambini, ma ipotizzo che abbiano cinque o sei anni. Gemelli? «Ecco la mamma!» dice il Cherubino arrampicandosi sul letto. «Missy, adesso che è arrivata la mamma guarirai.» Missy piagnucola. Mi siedo vicino a lei e le tocco la fronte, che è tremendamente calda sotto la mano. «Cosa ti fa male?» le chiedo con dolcezza. Lei si china verso di me. «Tutto, mamma», risponde. «Soprattutto la testa.» «Il papà ti ha misurato la febbre?» Non riesco a credere come mi vengano facili queste parole, questi gesti. Mi sento una madre navigata. «Sì, sta lavando il termonetro.» «Termometro», la corregge il Cherubino. Lei lo guarda storto. «Pensa agli affari tuoi, Mitch.» Sulla soglia appare Lars. «Trentotto e sei», riferisce. Non sono sicura di cosa significhi. Cioè, capisco che ha trentotto e sei di febbre, ma non so cosa questo comporti in termini di medicine, riposo a letto, stare a casa da scuola. Perché io non ho figli. Io non sono una madre. Non voglio insinuare che io non abbia mai voluto figli. Anzi, proprio il contrario. Da ragazzina amavo i bambolotti. Li nutrivo con biberon finti, cambiavo loro pannolini finti e li portavo a passeggio dentro un minuscolo passeggino giocattolo. Figlia unica, supplicavo i miei genitori di darmi un fratellino o una sorellina... non perché volessi essere una sorella maggiore ma perché desideravo fare la mamma. Per molto tempo ho pensato che avrei sposato Kevin, il mio fidanzato dell’università. Nel ’43 partì per la guerra del Pacifico, insieme a quasi tutti gli altri giovani che non erano già andati. Io gli rimasi fedele... all’epoca le ragazze lo facevano. Ci scrivemmo lettere. Io gli mandavo pacchi con biscotti, calze, sapone da barba. Nella residenza studentesca femminile infilavamo puntine da disegno in una cartina del Sud Pacifico per segnare l’avanzata dei nostri ragazzi soldati. «È dura aspettare, ma ne sarà valsa la pena quando saranno di nuovo a casa», ci dicevamo a vicenda. Singhiozzavamo nei fazzoletti ogni volta che arrivava la notizia che il fidanzato di qualche ragazza non sarebbe tornato. Ma in silenzio recitavamo anche una preghiera per ringraziare il cielo che non fosse capitato al nostro, non quella volta. Con mio grande sollievo Kevin tornò dalla guerra sano e salvo. Apparentemente non era cambiato e desiderava riprendere i suoi studi universitari per diventare medico. Continuammo a uscire insieme, ma lui non si decideva mai a farmi la proposta. Fummo invitati a un matrimonio dopo l’altro, dove tutti ci chiedevano quando sarebbe arrivato il nostro turno. «Oh, sai, prima o poi!» rispondevo in tono eccessivamente allegro, ostentando indifferenza. Kevin si limitava a cambiare argomento ogni volta che vi si accennava. Passarono gli anni. Kevin si laureò in medicina e cominciò l’internato; io lavoravo come maestra elementare. Ma la nostra relazione continuava a stagnare. Alla fine capii che non potevo rimandare ulteriormente un ultimatum. Dissi a Kevin che, se non voleva ufficializzare il nostro rapporto, per me era finita.
Lui fece un gran sospiro. «Probabilmente è meglio così», replicò. Mi diede un bacio d’addio breve e frettoloso. Nemmeno un anno dopo venni a sapere che aveva sposato un’infermiera dell’ospedale dove lavorava. Be’, è evidente che in questo mondo onirico niente di tutto ciò –quegli anni sprecati, il rifiuto insensibile di Kevin –ha importanza. Qui a un certo punto devo aver fatto un colpaccio vincente. “Buon per te, Kitty.”Mi sembra quasi di sentire le mie compagne della Delta Zeta che si congratulano con me. “Buon per te.”È un pensiero assurdo e soffoco una risata. Poi metto una mano davanti alla bocca, mortificata. Questo è un sogno, sì, ma c’è comunque una bambina malata. Dovrei comportarmi in modo appropriato. Dovrei essere opportunamente preoccupata, come una madre. Alzo gli occhi dal letto di Missy e incontro lo sguardo di Lars. Mi sta fissando con ammirazione e –se lo interpreto in modo corretto –desiderio. Davvero due persone sposate si guardano in questo modo? Persino nel bel mezzo di una crisi febbrile di un bambino? «Cosa dici?» mi chiede Lars. «Tu sai sempre cosa fare in situazioni del genere, Katharyn.» Davvero? È proprio interessante questo sogno. Do un’occhiata fuori dalla finestra a quella che sembra una mattina invernale, con i vetri ghiacciati e la neve che cade leggera. E poi, all’improvviso, anche se non riesco a spiegarmelo, so esattamente cosa fare. Mi alzo e attraverso il corridoio per andare in bagno. Con mano sicura pesco dall’armadietto dei medicinali il flaconcino di plastica che contiene l’aspirina per bambini. Prendo un bicchiere di carta dal dispenser a muro e vi faccio scorrere un po’d’acqua fredda. Apro il pensile che contiene la biancheria da bagno e tiro fuori un asciugamano, lo tengo sotto l’acqua fredda e poi lo strizzo. Mi dirigo con passo deciso verso la cameretta di Missy con il flacone delle medicine, l’asciugamano e il bicchiere. Le appoggio il panno bagnato sulla fronte, premendolo leggermente contro la sua pelle calda. Le porgo due aspirine, che lei ingoia diligentemente, bevendo un sorso d’acqua per mandarle giù. Mi sorride riconoscente e torna ad appoggiarsi indietro sul cuscino. «Lasciamola riposare adesso.» Sistemo le coperte e le prendo dei libri illustrati dallo scaffale. Lei comincia a sfogliarne uno della bellissima serie di Madeline scritta da Ludwig Bemelmans, che racconta la storia di una studentessa di un collegio parigino di nome Madeline e delle sue undici compagne di classe. In una figura ci sono la casa rivestita di rampicanti e le ragazze in due file dritte. Le dita di Missy tracciano le parole su ciascuna pagina mentre le pronuncia in un sussurro rauco. Lars si avvicina e mi prende per mano. Sorridiamo insieme a nostra figlia e, accompagnati dal nostro adorabile bambino, usciamo dalla stanza. Ma a questo punto, così bruscamente com’è cominciato, il sogno finisce. La sveglia sul mio comodino sta suonando in modo insistente. A occhi chiusi allungo una mano e premo forte il pulsante per spegnerla. Quando li apro, la stanza è gialla. Sono a casa. 2. «Santo cielo», mi dico. «Questo sì che era un sogno.» Con movimenti rigidi mi metto a sedere sul letto. Aslan, il mio gatto tigrato giallo, è raggomitolato vicino a me e fa le fusa piano con gli occhi mezzo chiusi. L’ho chiamato così dal nome del leone del romanzo di C.S. Lewis Il leone, la strega e l’armadio, un libro straordinario, soprattutto per chi ama le storie fantasy per bambini. Ho letto ogni romanzo di Narnia appena usciva, e ho riletto l’intera serie almeno dieci volte. Mi guardo intorno nella mia camera da letto. Le finestre sono spoglie, senza tende né veneziane. Il nastro adesivo incornicia ancora lo stipite di legno. Il letto e il comodino sono gli unici mobili della stanza; ieri, prima di cominciare a pitturare, io e Frieda abbiamo spostato in soggiorno il comò e la cassapanca, per fare spazio ed evitare che si sporcassero di schizzi. Nella stanza c’è odore di vernice, ma la tinta è stupenda: il colore esatto del sole in una giornata luminosa. È proprio quello che volevo. Con un sorriso soddisfatto mi alzo e mi infilo la vestaglia, camminando sul pavimento coperto di fogli di giornale. Mentre vado in cucina a preparare il caffè, mi fermo per accendere la radio appoggiata sullo scaffale di una delle tante librerie di seconda mano che rivestono le pareti del soggiorno, traboccanti di libri e riviste. Giro la manopola per alzare il volume e sintonizzo la radio su KIMN. Stanno trasmettendo Sherry dei Four Seasons, che questa settimana ho continuato a sentire alla radio: ci scommetto che nel weekend sarà prima in classifica. Metto la caffettiera a filtro sotto il rubinetto della cucina e la riempio d’acqua, poi prendo il barattolo di caffè Eight O’Clock da un pensile e comincio a versare qualche misurino nel bicchiere in acciaio inossidabile. «... Out tonight...» canto sottovoce mentre il brano alla radio viene sfumato. «E ora un vecchio successo sempre bello», annuncia il disc jockey. «Qualcuno se lo ricorda?» Mentre parte la canzone successiva, mi si bloccano le mani e le dita che reggono il misurino rimangono sospese a mezz’aria sulla caffettiera. La voce di Rosemary Clooney riempie la casa. «Questo è davvero inquietante», dico ad Aslan, che è venuto a controllare se la sua ciotola di latte per la colazione è già stata messa per terra. Finisco di versare il caffè e accendo l’interruttore della caffettiera. La canzone –mi viene in mente adesso che si intitola Hey There –risale almeno a sette o otto anni fa. Non ricordo l’anno esatto in cui era popolarissima, ma so di averla canticchiata spesso all’epoca. Era da un sacco che non ci ripensavo, finché questa notte l’ho risentita in sogno. Rivedo gli occhi di Lars, penetranti e azzurri come l’acqua nelle cartoline di qualche località esotica. Rammento di avere pensato che avrei dovuto essere spaventata, ma non lo ero. Mentre lo guardavo, avevo le stelle negli occhi? Immagino che si potrebbe dire di sì. Be’, come avrei potuto fare diversamente? Il modo in cui mi fissava, come se io fossi tutto per lui... Come se fossi il suo mondo intero. Per me, questo era senza dubbio insolito. Nessuno, nemmeno Kevin, mi ha mai guardata così. E il modo in cui parlava! «Katharyn, amore, svegliati... Dovevi essere proprio in un sonno profondo, tesoro... Tu sai sempre cosa fare, Katharyn.» Nessuno, qui nel mondo reale, mi dice cose del genere. E di certo nessuno mi si rivolge chiamandomi Katharyn. C’è stato un breve periodo, qualche anno fa, in cui mi divertivo a farmi chiamare così, più o meno all’epoca in cui io e Frieda aprimmo la nostra libreria. Con una nuova carriera e un nuovo decennio davanti –avevo compiuto trent’anni pochi mesi prima –sentivo che era il momento di dare una svolta radicale alla mia vita. Malgrado la mia naturale avversione nei confronti dell’ingombrante Katharyn, non mi venne in mente nessun modo migliore per apportare un grande cambiamento che sbarazzarmi di Kitty. Forse, riflettevo, dovevo solo farci l’abitudine. E così mi lanciai nei preparativi. Feci stampare della carta da lettere intestata con il nome Katharyn Miller. Dissi a Frieda e alle mie altre amiche di chiamarmi Katharyn. Mi presentavo come Katharyn ai clienti e agli altri commercianti con cui cominciammo a fare conoscenza nel nostro piccolo isolato di negozi in Pearl Street. Chiesi persino ai miei genitori di usare il nome che mi avevano dato... cosa che loro, con un po’di riluttanza, fecero. Sono sempre stati fin troppo accondiscendenti con me. Frieda non fu così arrendevole. «Kitty ti sta bene», diceva. «Perché cambiare?» Io alzavo le spalle e rispondevo che forse era semplicemente ora di diventare adulta. Usavo quel nome persino quando incontravo potenziali corteggiatori. Mi faceva stare bene. Rappresentava un nuovo inizio, l’opportunità di essere una persona diversa. Un po’più sofisticata, con un po’più di esperienza. Sul fronte degli uomini non successe niente: qualche primo appuntamento, senza seguito. A quanto pareva cambiare nome non avrebbe cambiato automaticamente la mia personalità come mi ero augurata. Qualche mese dopo gettai la carta da lettere Katharyn Miller che era avanzata nella spazzatura e, zitta zitta, tornai a farmi chiamare Kitty. Nessuno commentò. Porto il caffè alla scrivania, di fronte alle due finestre del soggiorno. Apro le tende. Lì seduta, guardo fuori in Washington Street. È una giornata di settembre calda e soleggiata. Il postino sta avanzando lungo la strada; lo saluto con la mano mentre riempie la mia cassetta delle lettere e quella degli Hansen, i proprietari della villetta bifamiliare in cui vivo, di cui occupano l’altra metà. Dopo che il postino si è allontanato, esco a ritirare la posta e il giornale del mattino, il «Rocky Mountain News». “Lars, Lars, Lars...”continuo a ripetermi nella mente. Lars chi? E dove ho già sentito quel nome? Torno in casa dando un’occhiata ai titoli del giornale. Ieri il presidente Kennedy ha tenuto un discorso alla Rice University promettendo che l’uomo andrà sulla Luna entro la fine di questo decennio. Ci crederò quando lo vedrò. Lancio il giornale sul tavolo da pranzo, ripromettendomi di leggerlo a colazione. Ho ricevuto solo qualche lettera. Oltre a diverse fatture, ci sono una pubblicità con un coupon per un lavaggio d’auto gratuito –non che me ne faccia qualcosa: non possiedo nemmeno la macchina –e una cartolina da mia madre. Buongiorno, tesoro, spero che lì il tempo sia buono. Qui ci sono trenta gradi e molta umidità, ma naturalmente fa bello. Non c’è posto più incantevole sulla terra, te lo assicuro! Voglio rammentarti la data del nostro ritorno. Prenderemo il volo notturno il 31 ottobre. Faremo scalo a Los Angeles e arriveremo a Denver giovedì 1o novembre. Ci stiamo divertendo molto, ma siamo impazienti di essere a casa per vedere i colori dell’autunno! E te, naturalmente.
Con affetto, mamma
PS Ho anche voglia di tornare in ospedale; mi mancano terribilmente i bambini.
Chissà quanti ne sono nati da quando siamo partiti!!! Mentre leggo, sorrido. I miei genitori sono a Honolulu da tre settimane e ci resteranno per altre cinque. È un viaggio incredibile per loro, che non si sono mai allontanati per così tanto da Denver. Lo scorso giugno hanno festeggiato il quarantesimo anniversario di matrimonio e questo è il regalo che si sono fatti. Mio zio Stanley è un sottufficiale di marina alla base navale di Pearl Harbor, e lui e la zia May ospitano i miei genitori nell’appartamento di Honolulu, fuori dalla base. Questo viaggio è un avvenimento straordinario, l’esperienza di una vita, ma capisco perché loro –specialmente mia madre –non vogliano stare lontano da casa per più di due mesi. Lei è attaccata al suo lavoro nel reparto di Patologia neonatale al General Hospital di Denver; fa volontariato lì da quando riesco a ricordare. (« La volontaria con maggiore anzianità del pianeta», si definisce scherzosamente.) Mio padre ha lavorato per anni alla Public Service Company del Colorado, dove assemblava contatori elettrici domestici; è andato in prepensionamento l’anno scorso, a sessant’anni. Lui passa il tempo in casa, a leggere, e due volte alla settimana va a giocare a golf con i suoi amici, persino in inverno, a patto che non ci sia neve per terra. Ripenso al sogno e ai fiocchi che vedevo cadere fuori dalla finestra della cameretta della bambina. Missy? Si chiamava così? Sì, nevicava fuori da quella stanza. Mi stupisco di rammentare un simile dettaglio di un sogno, e che mentre dormo la mia mente sappia creare interi paesaggi innevati per allietarmi la vista. Sorrido anche al ricordo dell’interno della camera: quei due bei bambini e l’uomo dagli occhi stupendi. Mentre finisco il caffè, archivio l’ultima cartolina della mamma in un raccoglitore di cartone, assieme alle altre che ho ricevuto: almeno tre o quattro alla settimana. Tengo la cartellina sulla scrivania vicino a una fotografia incorniciata dei miei genitori. Mi alzo e vado a riempire la vasca per farmi un bagno. Per quanto fosse bella quella vita da sogno, devo andare avanti con la mia giornata molto reale. Raggiungo a piedi la libreria in Pearl Street, che dista solo pochi isolati da casa. Anche Frieda viene a piedi, e qualche volta ci incontriamo per strada. Oggi, però, sono sola quando svolto l’angolo della via. Per un attimo mi blocco e osservo la quiete, la desolazione. Non c’è anima viva in giro. Non mi passa accanto nessuna auto. Il drugstore è aperto –vedo l’insegna al neon accesa nella vetrina di sinistra –e anche il negozio dei panini. So per esperienza che nel corso della mattinata una manciata di clienti si fermerà lì per un caffè o un panino di segale al salame. Ma solo una manciata. Non è stato sempre così.