UNA PANTERA IN CANTINA
Amos Oz
BOMPIANI MAGGIO 2001
NOTA
I film citati nel testo sono immaginari. Titoli, trame e protagonisti sono stati inventati dall'autore ispirandosi ai film hollywoodiani proiettati a Gerusalemme alla fine degli anni '40, i film che l'autore ha visto da bambino al cinema.
**********
"Ogni Paese dovrebbe avere scrittori che siano voci della coscienza: pochi Paesi ne hanno. Israele ha Oz."
Washington Post
"Non è solo la storia di un'infanzia, ma un poema in prosa sul tema
della fiducia che oltrepassa ogni frontiera."
The Times
Profi è un vile traditore. Queste parole, dipinte a grosse lettere nere sul muro della casa del protagonista, sono l'inizio di una storia in cui fiducia e slealtà, guerra e pace, indipendenza e ribellione s'intrecciano in una trama inestricabile, complicata come la vita. Gli amici di Profi lo processano per il suo legame con il sergente Duniop, un roseo poliziotto inglese di stanza nella Gerusalemme del 1947, alla vigilia della nascita dello stato di Israele. Gli inglesi sono il nemico. Profi è amico del nemico. Ma chi è davvero il nemico? E chi è un traditore? Che cosa nasconde nel profondo del cuore quella pantera che si agita in cantina?
Amos Oz, nato a Gerusalemme nel 1939, è dal 1977 il leader del movimento Peace, a favore della questione palestinese. Vive ad Arad, in Israele, dove insegna letteratura ebraica all'Università di Bee'r Sheva.
**********
IN ATTESA..
Un ragazzo, poco più che dodicenne, vive un intenso, vibrante periodo della sua vita mentre sta per nascere lo Stato di Israele. Sono mesi che scorrono come travolti dagli eventi: l'esercito inglese occupa Gerusalemme, non si sa ancora se gli Ebrei potranno finalmente avere, o riavere, una loro patria, c'è un movimento clandestino che lotta per il diritto alla sopravvivenza non solo degli Ebrei che vivono lì ma anche dei profughi scampati al massacro dell'Olocausto. E' uno dei momenti più complessi e commoventi del secolo che sta finendo. C'è una domanda, a Gerusalemme, a Tel Aviv, in molti altri luoghi, la si sente risuonare anche quando non è neppure sussurrata: hanno diritto a sopravvivere, gli Ebrei, dopo i forni, dopo l'Olocausto, dopo tanti secoli di persecuzioni, dopo stragi, soprusi, torture, dopo la «soluzione finale» hitleriana? Questo diritto sarà fatto solo di parole, oppure si fonderà su luoghi, armi, bandiere, riconoscimenti internazionali, trattati? Il ragazzo viene chiamato Profi, perché si comporta come un «professore», è molto intelligente, cerca continuamente di decifrare il significato di ogni parola, scruta nei libri, nei dizionari, nei vocabolari, i suoi genitori devono perfino proibirgli di leggere troppo a lungo. Però Profi non è certo la caricatura dello sgobbone, è un ragazzo simpatico, pieno di interessi, compreso quello per una bella ragazza ventenne, sorella di un suo amico. Con gli occhi di Profi noi guardiamo entro la Storia, viviamo momento per momento una fase delicatissima, non solo nella vita di una città speciale e unica come Gerusalemme, ma di tutto il mondo e di tutto il secolo. Profi è un testimone straordinario, parla pochissimo di date, raramente cita nomi illustri, non allude quasi mai a episodi fondamentali, però ci offre, fortissimo, il senso profondo di un'atmosfera, il sapore degli eventi, il mistero delle piccole cose che stanno dietro alle grandi cose. Di solito, sono proprio questi momenti che la Storia non ci regala, e noi restiamo con la nostra curiosità inappagata. Da quando nacque lo Stato di Israele, e fu immediatamente attaccato da tutti gli stati arabi confinanti, che volevano soffocarlo prima che potesse davvero esistere, televisioni e giornali ci dicono molto spesso notizie su quei luoghi, ci mostrano scene, protagonisti, episodi. Ma Profi ci da ben altro. Come raramente accade, noi qui siamo messi in grado di capire. Poteva non avere una patria, questa famiglia, con il padre, uno storico, sapiente e buono ma pieno dei ricordi di terribili umiliazioni, subite perché era ebreo? Ma il diritto alla sua patria Profi ce lo fa intendere bene soprattutto quando ci parla di sapori, di cibi, di albe, di tramonti, e lo fa con grande bravura, ma sempre attirandoci affettuosamente ben dentro la sua narrazione. E' questo che conta davvero, è il fatto che noi condividiamo i suoi sogni, le sue speranze, le sue emozioni. Lontanissimo da un trattato di Storia, piacevole in ogni sua riga, questo libro che si legge con ansia divorante, come se fosse un giallo, è anche intimo, dolce, lieve come il diario autentico di un ragazzo intelligente e sensibile. I lettori italiani ritroveranno le emozioni delle memorie risorgimentali, quando cospiravamo noi per far nascere un nostro stato e si doveva lottare perché l'idea non piaceva a molte potenze di allora.
E si sente che le migliori cause, il buon diritto fatto valere dopo secoli di sofferenza, non potrebbero
contare molto se non ci fossero ragazzi come Profi. Si è nel giusto quando si può contare su dodicenni sapienti e pieni di senso dell'umorismo, si è nel giusto quando la speranza è fondata su adolescenti gran lettori ma presi interamente anche dal fascino di una bella ventenne. Cresciuto in mezzo ai libri, Profi li ama davvero, sa parlarci di copertine rare, di rilegature preziose, di edizioni molto ricercate. Ma è vivo, pieno di passioni, incontenibile, i libri sono un momento essenziale nell'esistenza di un giovanissimo che sa decifrare e capire, pur conservando tutta la freschezza della sua età. A un certo punto, immerso nei ricordi, nelle descrizioni, nei meravigliosi sapori di questa incomparabile città, Profi si lascia andare a prometterci una nuova storia, basata su personaggi a cui ha appena accennato. Siamo anche indotti a immaginarcela un poco, quella storia: è fatta di intrighi, di peripezie, di avventure, di intrecci. E speriamo di leggerla davvero, un giorno, quella storia. Profi non è un saputello, è un professore vero, uno di quei professori che tutti vorremmo avere avuto, nella vita.
ANTONIO FAETI.
A Dean, Nadav, Alon e Ya'el
CAPITOLO 1.
Quante volte in vita mia mi hanno chiamato traditore. La prima fu quando avevo dodici anni e un quarto, e abitavo in un quartiere al fondo di Gerusalemme. Durante le vacanze estive, meno di un anno prima della partenza del governo mandatario inglese e della nascita dello stato d'Israele, in mezzo alla guerra. Una bella mattina trovammo scritto con uno spesso tratto nero, sul muro di casa nostra, proprio sotto la finestra della cucina: "Profi vile traditore!". La parola "vile" suscitò allora in me una domanda che mi tormenta tuttora, mentre sto seduto a scrivere questo libro: come fa a non esserlo, vile, un traditore? E allora per quale ragione Chita Reznik (avevo riconosciuto la sua scrittura) si era preso il disturbo di mettere anche quell'aggettivo? Stando così le cose, in quali casi il tradimento non è da considerarsi vile?
Il soprannome Profi lo porto sin da quando ero alto così. E' un'abbreviazione di Professore, per via della mia mania di studiare le parole (ancora adesso adoro collezionarle, metterle in ordine, mischiarle, volgerle, comporle. Più o meno come fanno con monete e banconote gli appassionati di soldi, o con le carte i giocatori accaniti).
Papà uscì quel giorno alle sei e mezza del mattino per andare a prendere il giornale e vide per primo la scritta sotto la finestra della cucina. Poi, durante la colazione, mentre spalmava della marmellata di lamponi su una fetta di pane nero, ficcò bruscamente il coltello dentro il barattolo di confettura quasi con tutto il manico e disse con la sua voce misurata:
«Magnifico. Che bella sorpresa. A che cosa dobbiamo questo grande onore?» Mamma disse:
«Non tormentarlo così di prima mattina. Ci sono già gli altri bambini che provvedono a farlo.»
Papà era vestito color kaki, come quasi tutti gli uomini del quartiere a quell'epoca. I gesti e la voce erano quelli di un uomo inequivocabilmente dalla parte della ragione. Tirò fuori dal fondo del barattolo in punta di coltello un grumo denso di confettura, lo spalmò equamente sulle due metà della sua fetta di pane, e proseguì: «La verità è che di questi tempi la parola traditore si usa troppo, e con troppa leggerezza. Che cosa significa, in fondo, "traditore"? Ovvio. Una persona senza onore. Una persona che di nascosto, dietro le spalle, per qualche discutibile profitto, aiuta il nemico a danno del suo popolo. Quando non nuoce alla propria famiglia o agli amici. Più spregevole persino dell'omicida. Ora finisci di mangiare il tuo uovo. In
Asia la gente muore di fame, dice il giornale.» Mamma tirò verso di sé il mio piatto e finì lei il mio uovo e l'avanzo di pane e marmellata, non certo per appetito ma per amor di pace. Poi commentò: «Chi ama non tradisce.»
Quella frase non era rivolta né a me né a mio padre, ma alla cucina, e precisamente al chiodo piantato sopra al frigorifero, chissà per che cosa, poi.
CAPITOLO 2.
Dopo colazione i miei genitori corsero alla fermata dell'autobus per andare al lavoro. Ero libero, in casa, con un oceano di tempo davanti prima che giungesse la sera. Le vacanze estive. Per prima cosa sparecchiai la tavola, misi ogni cosa al suo posto, vuoi in frigo, vuoi nell'armadio, vuoi nel lavandino, perché preferivo sbrigare prima tutti i doveri. Lavai le stoviglie e le misi capovolte ad asciugare. Poi passai da una stanza all'altra a chiudere le persiane e le finestre, così che la casa restasse come un antro buio sino a sera: il sole e la polvere del deserto avrebbero infatti danneggiato i moltissimi libri di papà, fra i quali c'erano anche dei volumi assai rari. Lessi il giornale e lo posai ripiegato in un angolo del tavolo in cucina, rimisi nel cassetto la spilla di mia madre. Tutto questo lo feci non in veste di traditore pentito della sua viltà, quanto per amore dell'ordine. Ancora oggi sono abituato, ogni mattina e ogni sera, a fare un giro per le camere a rimettere ogni cosa a posto. Cinque minuti fa, mentre scrivevo delle persiane, mi sono interrotto e non ho potuto fare a meno di alzarmi per andare a chiudere la porta del bagno, che probabilmente avrebbe anche preferito restare aperta, a giudicare dal lamento che ha emesso mentre la chiudevo. Per tutta quell'estate papà e mamma uscirono alle otto del mattino e tornarono alle sei di sera. Il pranzo mi aspettava dentro il frigo, e le mie giornate erano libere a perdita d'occhio. Avrei potuto, ad esempio, cominciare a giocare con una piccola truppa di cinque o dieci soldatini per terra sulla stuoia, mettere degli esploratori, qualche unità di ricognizione, una pattuglia di genieri e un'altra di pontieri, pian piano lottare con le forze della natura e sbaragliare nemici, conquistare ampi spazi, costruire città e villaggi, con tanto di strade.
Papà faceva il correttore di bozze nonché l'assistente di redazione in una piccola casa editrice. Circondato dalle ombre dei suoi scaffali zeppi di libri, con le spalle curve e la testa grigia immersa nel cerchio di luce della piccola lampada, pareva quasi stesse faticosamente arrancando in cerca di un varco fra le pile di volumi ammucchiati sulla scrivania; era capace di lavorare fino alle due o alle tre del mattino riempiendo schede e foglietti, materiali insomma per la monumentale storia degli ebrei in Polonia che stava scrivendo. Era tenace e scrupoloso, eternamente fedele al suo principio di giustizia. A mamma invece piaceva alzare ogni tanto la sua tazza di tè mezza vuota, e guardare attraverso il vetro la luce celeste alla finestra. A volte avvicinava la tazza alla guancia, come per attingerne calore. Faceva l'insegnante e l'istitutrice in un istituto per profughi orfani: bambini scampati ai nazisti e tenuti nascosti nei conventi o in paesini sperduti, che alla fine della guerra erano arrivati in terra d'Israele, «direttamente dalle tenebre degli inferi», diceva la mamma, ma poi si correggeva subito: «Arrivati insomma da luoghi in cui, come si dice, homo homini lupus. E anche i profughi non erano da meno. Anche i bambini.» Così io collegavo quei villaggi sperduti con terrificanti immagini di lupi mannari e con le tenebre degli inferi. Mi piacevano quelle espressioni, del resto, che davano subito l'idea di un luogo terribilmente scuro, costellato di monasteri e cantine. "Inferi" poi mi piaceva ancora di più perché non la capivo proprio. Pronunciando "tenebre degli inferi", ma sottovoce, riuscivo quasi a sentire una specie di suono, vago e profondo, simile a quello che si produceva con l'ultimo tasto del piano, il più scuro, e che si portava dietro uno strascico di echi sordi, che sembravano annunciare una tragedia irreparabile. Tornai in cucina. Avevo letto sul giornale che vivevamo in un'epoca cruciale che esigeva la mobilitazione del massimo impegno morale. Si diceva inoltre che l'operato del governo britannico gettava "un'ombra pesante" e che il popolo ebraico doveva "resistere e superare la prova". Sulla porta di casa mi guardai bene intorno, quasi fossi un membro della resistenza clandestina. Volevo accertarmi che nessuno mi aspettasse al varco: uno sconosciuto con gli occhiali da sole, ad esempio, nascosto dietro il giornale, nell'ingresso ombreggiato di una casa di fronte. Il quartiere sembrava invece normale come sempre: il verduriere che montava la sua muraglia di cassette vuote; l'aiutante nella drogheria dei fratelli Sinopsky che trascinava un carretto cigolante; la vecchia e sola Pani Ostrovska che continuava a ramazzare il pezzo di marciapiede davanti a casa sua, probabilmente già per la terza volta da questa mattina; la signorina dottoressa Grophius seduta in balcone che compilava le sue schede, papà le dava una mano a raccogliere materiale per un libro memoriale sulla storia ebraica della sua città natale, Rosenheim; poi il fornitore di nafta che passava adagio adagio sul carretto con le redini abbandonate sulle gambe e un campanello che tintinnava in mano, mentre cantava una nenia triste in yiddish per il suo cavallo. Dunque mi fermai e studiai di nuovo a fondo la scritta nera che campeggiava sul muro: "Profi vile traditore", casomai un qualche minimo dettaglio potesse illuminarmi. Chissà se per la fretta o per la paura, l'ultima lettera della parola "traditore" poteva essere confusa, trasformandomi da "vile boghed" (traditore, appunto) in "vile bogher", cioè "vile adulto". Quella mattina avrei dato qualunque cosa pur di essere un adulto. Dunque Chita Reznik aveva proprio fatto come Balaam. Il signor Zerubabel Ghion, il nostro insegnante di religione e Bibbia, ci aveva spiegato così a scuola: «Fare come Balaam, che voleva gettare una maledizione e ne è risultata una benedizione. Come ha fatto ad esempio il ministro inglese Ernest Bevi, dicendo al parlamento a Londra che gli ebrei sono un popolo testardo. E poi è andata come è andata.»
Il signor Ghion aveva l'abitudine di condire le sue lezioni con battute che non facevano ridere nessuno. Spesso usava sua moglie come bersaglio. Quando ad esempio dovette spiegarci un capitolo dei libri dei Re, disse: «Frustate e scorpioni. Gli scorpioni sono cento volte peggio. Io vi torturo con le frustate, mia moglie mi tortura con gli scorpioni.» O anche: «C'è un passo che dice: come il rumore degli sterpi sotto la pentola. Capitolo sette del libro del Qohelet. Come quando la signora Ghion canta!» Un giorno a cena mi capitò di dire:
«Il professor Ghion non passa quasi giorno che non tradisca sua moglie in classe.»
Papà guardò mamma e disse:
«Tuo figlio è decisamente ammattito» (papà adorava la parola "decisamente", così come "lampante", "evidentemente" e "fuor di dubbio"). Mamma replicò:
«Invece di insultarlo perché non provi a chiedergli che cosa intende dire? Non lo ascolti mai veramente. Né ve né nessun altro, del resto, che ascolti. Forse soltanto i notiziari alla radio.»
«Ogni cosa» disse allora papà con perfetta calma, rifiutandosi come al solito di rispondere alle provocazioni, «ogni cosa ha sempre almeno due facce. Il che è risaputo a tutti tranne che alle persone smaniose.» Non sapevo che cosa significasse "smaniose", ma sapevo, e anche bene, che non era il momento per fare domande del genere. Perciò lasciai tacere i due faccia a faccia per quasi un minuto intero, ogni tanto avevano di quei silenzi lì che sembravano piuttosto una partita a braccio di ferro, e alla fine dissi:
«Eccetto l'ombra.»
Papà mi scrutò con aria sospettosa, con gli occhiali quasi sulla punta del naso, muovendo la testa su e giù, con uno sguardo che esprimeva proprio quello che avevamo letto sulla Bibbia, "aspettava che facesse uve, non fece invece che lambrusche": oltre le lenti, i suoi occhi azzurri mi puntavano nudi e delusi, delusi da me e dalla gioventù in generale, nonché dal fallimento del sistema scolastico a cui lui aveva affidato una farfalla per vedersi poi restituire un bozzolo. «Che cosa intenderesti per ombra?»
Mamma:
«Invece di zittirlo, su, perché non provi a capire che cosa sta cercando di dirti? Vuole pur dire qualcosa.»
Papà:
«Magnifico. Dunque, prego, sua eccellenza dove vuole arrivare stasera?
Su quale ombra misteriosa sta cercando di illuminarci questa volta? Sull'ombra delle colline? O l'ombra che adombra un viso?» Mi alzai per andare a dormire. Non gli dovevo alcuna spiegazione.
Comunque, prima di andare, dissi:
«Eccetto l'ombra, papà. L'hai detto tu un attimo fa che ogni cosa ha almeno due facce. Hai quasi ragione. Però ti sei dimenticato che l'ombra, ad esempio, ha sempre e soltanto una faccia. Controlla, se non ti fidi di me. Fai una prova o due. Me l'hai insegnato tu che non esiste regola senza eccezione e che non bisogna mai generalizzare. Hai dimenticato quello che mi hai insegnato.»
Così dissi, poi mi alzai, misi le stoviglie nel lavandino e andai in camera mia.
CAPITOLO TRE.
Mi sedetti al posto di papà, alla sua scrivania, presi dallo scaffale il voluminoso dizionario e l'enciclopedia, e come mi aveva insegnato lui, mi diedi a compilare un elenco di parole su un foglietto bianco:
Traditore. Voltagabbana. Informatore. Spia. Sabotatore. Rinnegato.
Quintocolonnista. Collaborazionista. Agente straniero. Apostata. Doppiogiochista. Fedifrago. Provocatore. Disertore. Bruto (vedi alla voce: Roma). Quisling (vedi alla voce: Norvegia). Nell'ambito coniugale: colui che intrattiene rapporti con un terzo. Infedele. Adultero. Locuzioni: venir meno alla parola. Vendere la patria, l'anima al diavolo. Giuda Iscariota (solo nell'ambito cristiano). "La fiducia dello sleale nel giorno dell'avversità" (Proverbi» 25, 19). Chiusi il dizionario: mi faceva girare la testa. La lista che avevo appena copiato sul foglietto di papà mi sembrava ora come un bosco intricato, fitto di sentieri che a loro volta si ramificavano per poi perdersi nel buio della vegetazione, girando e rigirando e incrociandosi chissà dove, riunificandosi per un attimo per poi tornare a complicarsi e condurre infine a luoghi segreti pieni di caverne, antri, buche, fosse, anfratti di roccia, gole sperdute, stupore e sbigottimento: dove stava il nesso fra fedifrago e sabotatore, fra adultero e voltagabbana? Che cosa diavolo avevano fatto Bruto e Quisling? E poi: doppiogiochista, fuochista, macchinista (ancor oggi non posso rischiare di aprire un'enciclopedia o un dizionario mentre sono al lavoro: significa almeno mezza giornata persa). Così non m'importava più quello che ero io, un traditore, un bambino un po' matto: per tutta la mattina navigai nell'enciclopedia, facendo tappa presso una tribù selvaggia in Papuasia con i colori della guerra spalmati sulla faccia, ma anche vicino a strani crateri sulla superficie di stelle incandescenti in un inferno di fuoco e magma quando non intirizzite e congelate da una tenebra perenne (come saranno stati gli inferi, da quelle parti?), approdando su isole, e vagando per paludi eterne, incontrando cannibali e asceti, ebrei dalla pelle nera dell'epoca della regina di Saba, incappando in continenti 'che si allontanavano l'uno dall'altro almeno mezzo millimetro all'anno (quanto potrà continuare questa cosa? Ancora miliardi di anni, certo, ma per via che la terra è rotonda prima o poi cominceranno ad avvicinarsi, dalla parte opposta!).
Poi cercai, e trovai anche, Bruto e Quisling, avrei cercato anche Giuda Iscariota se non mi fossi fermato agli anni luce con il loro incontrastato fascino. A mezzogiorno la fame mi strappò alle origini dell'universo conducendomi verso la cucina. Mangiai in piedi quello che mamma mi aveva lasciato in frigorifero: cereali. Una polpetta di carne. Minestra. Non dimenticare di scaldare il tutto per qualche minuto sul fornellino e poi ricordati di spegnerlo, il fornellino. E invece non scaldai un bel niente, per non perdere tempo. Finii tutto in quattro e quattr'otto e tornai alle galassie estinte. Quand'ecco che sotto la porta scoprii un biglietto ripiegato, su cui stava scritto con la grafia di Ben Hur:
"Comunicazione per il vile traditore. Questa sera alle sei e mezza devi presentarti senza indugio al luogo che conosci a Tel Arza, dove sarai processato davanti alla corte parziale per alto tradimento, per esibizionismo con il persecutore inglese. Firmato: Organizzazione LOM alti comandi, dipartimento per la sicurezza interna e le indagini. NB: armati di un maglione, una borraccia e delle scarpe adatte, può essere che l'interrogatorio vada avanti tutta la notte". Per prima cosa corressi "parziale" con "marziale", "esibizionismo" con
"collaborazionismo". Poi imparai a memoria il testo del messaggio, così come mi era stato insegnato, e bruciai il biglietto in cucina. Le ceneri le gettai nel gabinetto, tirando anche lo sciacquone, per non lasciare alcuna prova nel caso gli inglesi decidessero di fare un'indagine a tappeto, porta a porta. Poi tornai alla scrivania e tentai di riprendere le galassie e le distanze in anni luce. Se non che le prime erano quanto mai nebulose e i secondi definitivamente spenti. Così presi un altro foglietto dal mucchio che mio padre teneva sulla scrivania, e ci scrissi sopra: la situazione è grave e preoccupante. E poi: ma la nostra testa non si piegherà. Poi distrussi anche quel messaggio e rimisi dizionario ed enciclopedia a posto. C'era paura.
Dovevo vincerla subito. Ma come?
Decisi di dedicarmi un po' ai francobolli: Barbados e Nuova Caledonia nella mia collezione erano rappresentate ognuna da un solo esemplare. Riuscii a localizzarle entrambe nel grande atlante tedesco. Andai invano in cerca di cioccolato. Alla fine tornai in cucina e leccai due belle cucchiaiate della marmellata di papà. Non servì a nulla. Che brutto.
CAPITOLO 4.
Così ricordo Gerusalemme nell'ultima estate del mandato britannico: una città di pietra disseminata per i pendii delle colline. Nemmeno una città vera e propria, piuttosto grappoli di case sparute interrotti da campi di sterpaglie e rocce. Agli incroci delle strade passavano ogni tanto dei mezzi corazzati inglesi con i finestrini quasi del tutto
oscurati, come degli occhi abbagliati dalla luce, e le canne delle mitragliatrici puntate in avanti come delle dita minacciose: Altolà! All'alba alcuni giovani andavano ad appendere ai muri e sui pali della luce i comunicati della resistenza. Il sabato pomeriggio nel nostro giardino avevano puntualmente luogo delle discussioni fra gli ospiti, accompagnate da una processione di tazze di tè bollente e biscotti fatti da mia mamma (io l'aiutavo a dare forma di stelle e di fiori alla sfoglia morbida e piatta). Nel corso di queste discussioni tanto gli ospiti quanto i miei genitori usavano parole come "persecuzioni", "sterminio", "Salvezza", "Eredità", "immigrazione clandestina",
"assedio", "dimostrazioni", "Haj Amin", "estremisti", "kibbutz", "Libro Bianco", "esercito di liberazione", "astensione", "insediamenti", "gruppi", "coscienza civile", "disordini", "immigrazione", "protesta". Ogni tanto qualcuno saltava su, uno in particolare, un tipo taciturno, esile e pallido, con una sigaretta tremolante sempre in mano e una camicia abbottonata stretta sul collo e le tasche piene di fogli e foglietti, saltava su e sbraitava con rabbia ma cortese, usando locuzioni come "pecore al macello", "ebrei protetti", poi aggiungeva subito, come per correggere quella cattiva impressione, «comunque non possiamo permetterci di avere delle divergenze, siamo tutti sulla stessa barca.»
Nella lavanderia in disuso che c'era sul tetto del nostro caseggiato avevano messo un lavabo e collegato la corrente: poi era venuto ad abitarci il signor Lazarus, originario di Berlino, un sarto da uomo, una personcina bassa che faceva di sì con la testa e strizzava gli occhi. Malgrado la calura estiva portava una giacca grigia e sotto un panciotto attillato e abbottonato, senza maniche. Aveva un metro perennemente appeso al collo, quasi fosse stato una collana. Hitler, dicevano, gli ha ucciso moglie e figlie. Ma lui, il signor Lazarus, come s'era salvato? ci si domandava. Giravano diverse voci. Supposizioni. Io m'ero fatto un'opinione in proposito: come facevano a saperlo, loro, gli altri? Il signor Lazarus, per parte sua, non aveva mai nemmeno accennato a quel che era avvenuto laggiù. Appese nell'entrata un cartello di cartone, scritto metà in un tedesco per me indecifrabile e metà in ebraico, da mamma, su sua richiesta: "Sarto esperto originario di Berlino. Si fanno abiti su ordinazione d'ogni tipo, riparazioni e ammodernamenti all'ultimo grido. Prezzi modici.
Anche a credito".
Dopo un giorno o due qualcuno strappò la parte in tedesco del cartello perché non si poteva sopportare qui da noi che qualcuno usasse la lingua degli assassini.
Poi papà trovò in fondo all'armadio una vecchia maglia invernale e mi spedì sul tetto per chiedere al signor Lazarus se poteva gentilmente cambiare i bottoni e riprendere le cuciture interne. Insomma, è praticamente uno straccio ormai inutilizzabile, disse papà, ma lassù sul tetto quel signore ha fame e l'elemosina è offensiva. Così gli mandava quel lavoretto: cambiare i bottoni. Per fargli guadagnare qualche spicciolo. Per non farlo sentire inutile. Mamma osservò: «Perfetto. Dei bottoni nuovi. Ma perché devi mandarci il bambino? Sali tu, parlagli un po', invitalo a prendere una tazza di tè da noi.» «Certamente» rispose papà con un certo imbarazzo, e dopo un attimo aggiunse: «Senza dubbio. Certo che lo invitiamo.»
Il signor Lazarus chiuse con delle doghe di un letto fuori uso l'angolo estremo del tetto, rinforzò la barriera con dei fili di ferro per formare una specie di aia o gabbia, cosparse il pavimento con la paglia di un vecchio materasso e ci mise sei galline. Poi pregò mamma di aggiungere in ebraico sulla metà rimasta del cartello: "Si vendono anche uova fresche". L'idea di vendere le galline da mangiare, magari per le feste, non lo sfiorò mai nemmeno una volta. Anzi, la gente diceva che il signor Lazarus avesse dato un nome ad ognuna e che di notte andasse sul tetto a vedere se dormivano tranquille.
Un giorno io e Chita Reznik ci intrufolammo fra i serbatoi d'acqua per sentire di nascosto il signor Lazarus che discuteva con i polli. In tedesco. Eh sì:
argomentava, protestava, spiegava, canticchiava persino una canzoncina, alle galline. Ogni tanto salivo a portargli un po' di pane secco o un piattino con delle lenticchie di scarto. Mentre davo da mangiare alle galline, capitò qualche volta che il signor Lazarus mi toccasse la spalla, sfiorandola appena con la punta delle dita, per poi ritirare subito la mano come se si fosse bruciato. Da noi un sacco di gente parlava all'aria. O a qualcuno che non c'era. Sul tetto, dietro il pollaio del signor Lazarus, avevo il mio punto di osservazione da cui godevo di una magnifica vista sui tetti e persino della possibilità di sbirciare nel campo militare inglese. Stavo lì, nascosto fra i serbatoi d'acqua, e spiavo la loro adunata serale, prendendo appunti su un taccuino; poi puntavo il mio fucile e li sterminavo tutti con una mira perfetta, a salve. Dalla mia postazione sul tetto arrivavo anche in lontananza, ai villaggi arabi disseminati sui versanti delle montagne, al monte degli Ulivi e al monte Scopus, oltre il quale comincia bruscamente il deserto, mentre verso sud est s'intravedeva il Monte del Cattivo Consiglio in cima al quale campeggiava il palazzo del comando supremo inglese. Quell'estate lavorai agli ultimi dettagli del mio piano di occupazione del palazzo da tre direzioni, avevo persino preparato un breve sunto scritto delle cose che avrei detto sul momento al governatore, dopo averlo fatto prigioniero e averlo portato qui sul tetto per interrogarlo.
Un giorno dalla mia postazione osservai la finestra della stanza di Ben Hur, perché sospettavo che lo stessero pedinando: solo che non trovai lui, ma sua sorella maggiore Yardena, in mezzo alla stanza. Che fece due specie di piroette in punta di piedi, come una ballerina, poi d'un tratto si slacciò la vestaglia, si spogliò e si mise un vestito. In quella frazione di tempo che stava fra la vestaglia e il vestito spiccarono come delle isole scure sulla sua pelle bianca, prima nell'ombra delle braccia e poi un'altra più sotto, sotto la pancia, che sparì subito quando il vestito cadde come un sipario giù dal collo fino alle gambe, senza darmi il tempo di vedere quello che avevo visto né di lasciare il mio punto di osservazione o almeno chiudere gli occhi: perché li avrei chiusi, sì, se tutto non fosse successo e finito troppo in fretta. Lì per lì pensai: adesso muoio. Per questo mi merito di morire. Yardena aveva un fidanzato e anche un ex fidanzato e, si diceva, anche un cacciatore di Gallica e anche un poeta del monte Scopus, nonché un timido ammiratore che si limitava a guardarla tristemente senza mai osare rivolgerle la parola per più di "buon giorno" o "che splendida giornata". Quell'inverno avevo dato da leggere a 'Yardena due mie poesie e qualche giorno dopo lei aveva detto: «Vedrai che scriverai dell'altro.» Quelle parole mi erano sembrate meravigliose, più lusinghiere di tutto quello che ebbi a sentire in seguito, quando ero già diventato scrittore. Quella sera decisi di andare da lei, coraggiosamente, o almeno scriverle coraggiosamente una lettera per chiederle scusa e spiegarle che non intendevo vederla e dirle che in fin dei conti non avevo visto niente.
Ma non scrissi nulla perché non ero sicuro che Yardena mi avesse riconosciuto, lì sul tetto di fronte.
Può darsi che non si fosse accorta di nulla: pregai e sperai che fosse davvero così. I quartieri, i villaggi, le montagne e le torri visibili dal mio punto di osservazione ormai li conoscevo tutti a memoria: vicino alla drogheria dei fratelli Sinopsky, nella fila dell'ambulatorio della mutua, sulla terrazza dei Dorzion, di fronte, davanti al chiosco dei giornali "Shibbolet", la gente parlava dei confini dello stato ebraico che sarebbe sorto dopo la vittoria: con o senza Gerusalemme? Con o senza la base navale inglese di Haifa? Con o senza la Galilea? E il deserto? Alcuni speravano che gli eserciti del mondo civile venissero al posto degli inglesi e ci garantissero protezione dagli arabi assetati di sangue. (Ogni nazione aveva da noi un appellativo fisso, come un cognome accanto al nome: perfida Albione - stava per Inghilterra -, Germania immonda, remota Cina, Russia sovietica, ricca America. Giù sulla costa Tel Aviv era in fermento. Lontano lontano da noi, in Galilea, nelle valli, si dispiegava la terra d'Israele al lavoro. Gli arabi erano immancabilmente assetati di sangue. Il mondo stesso aveva i suoi nomi cangianti, a seconda dell'aria e della situazione: era, di volta in volta: illuminato. Libero. Grande. Ipocrita. Spesso da noi si diceva così: il mondo che sa e tace. A volte anche: su questo il mondo non potrà tacere.) Nell'attesa che gli inglesi sloggiassero e sorgesse finalmente lo stato ebraico, la drogheria e la bottega di frutta e verdura aprivano ogni mattina alle sette e chiudevano alle sei di sera, subito prima del coprifuoco. I vicini, la famiglia Dorzion, la dottoressa Grophius, noi, Ben Hur e i suoi genitori - ci trovavamo dal dottor Buster, che aveva una radio: zitti e mogi ascoltavamo il notiziario de "la voce di Gerusalemme". Qualche volta, quando era già buio, e a volume molto basso, ci sintonizzavamo sul canale clandestino, la "voce dei combattenti di Sion". Qualcuno si fermava anche dopo il notiziario per sentire il programma di ricerca delle persone scomparse, chissà mai che non saltasse fuori il nome di un parente che si credeva trucidato in Europa insieme a milioni di altri, e che invece era vivo, era riuscito ad arrivare in terra d'Israele per vie traverse oppure era bloccato in uno dei campi profughi allestiti dagli inglesi a Cipro per i sopravvissuti. Durante le trasmissioni radio nella stanza calava il silenzio, e quel silenzio sembrava una tenda accarezzata dal vento, al buio. Ma appena la radio veniva spenta tutti cominciavano a parlare. E parlavano continuamente. Su quel che era stato, su quel che aveva ancora da essere, su quel che si poteva fare, su quel che era lecito e opportuno
fare, su quel che ci restava, parlavano come per paura che qualcosa di terribile potesse capitare se solo avessero lasciato un istante di silenzio. E quando, alle spalle di quelle animate conversazioni, provava soltanto a far capolino un timido, grigio e freddo silenzio, tutti lo zittivano immediatamente. Tutti leggevano i giornali, e finito di leggere se li scambiavano: "Davar", "Ha-Mashqif", "Ha-Tzofeh", e "HaAretz" passavano regolarmente di mano in mano. E visto che a quell'epoca le giornate erano molto ma molto più lunghe di quanto non siano adesso, mentre i giornali avevano soltanto quattro pagine, la sera si finiva immancabilmente per rileggere quello che si era già scorso la mattina, nel capannello sul marciapiede davanti al negozio dei fratelli Sinopsky, confrontando la versione del "Davar" in merito alla "nostra forza morale" con quel che diceva "HaAretz" a proposito dell'importanza della pazienza: chissà che non si celasse ancora qualcosa fra le righe, un dettaglio fondamentale che era sfuggito durante la prima ma anche la seconda lettura. Oltre al signor Lazarus nel quartiere vivevano anche altri sopravvissuti, giunti profughi da noi dalla Polonia, dalla Romania, dalla Germania, dall'Ungheria, dalla Russia. Ma quasi nessuno era chiamato "profugo", e nemmeno s'usavano definizioni come "pionieri" o "cittadini", bensì più comunemente "cittadinanza organizzata", il che era una specie di compromesso che includeva pionieri e profughi, opposti agli inglesi e agli arabi, ma anche ai combattenti. Del resto, come ci si faceva a distinguere? Quasi tutti erano al tempo stesso pionieri, profughi e combattenti, parlavano l'ebraico con inflessione europea, non come i sefarditi che accentuavano le gutturali. I nostri genitori speravano che crescessimo come ebrei completamente nuovi, migliori, con le spalle larghe, il coraggio di lottare e la forza per lavorare la terra. Per questo ci ingozzavano di fegatini di pollo e frutta, perché un giorno diventassimo degli uomini robusti e dal colorito che sprizzasse salute, per non lasciarci più condurre al macello come delle pecore. A volte però loro tradivano un'immensa nostalgia per i luoghi da cui erano giunti qui a Gerusalemme, cantavano canzoni in lingue a noi sconosciute, traducendole alla bell'e meglio, perché sapessimo anche noi che c'erano una volta un fiume e un ruscello, boschi e campi, tetti di paglia spioventi e suoni di campane nella nebbia. Qui a Gerusalemme, infatti, i campi di sterpi inaridivano sotto lo spietato sole d'estate, le case erano di pietra e di latta e il sole bruciava tutto come se la guerra fosse già arrivata. Da mattina fino a sera la luce imperversava. Ogni tanto qualcuno domandava: "Che succederà?", e qualcun altro rispondeva: "Dobbiamo sperare nel bene", o "Bisogna andare avanti". Mamma passava ogni tanto qualche minuto su una scatola piena di fotografie e piccoli oggetti, e io sapevo che dovevo far finta di non esistere, in quei momenti. I genitori di mia mamma e sua sorella Tanya li aveva ammazzati Hitler in Ucraina insieme a tutti gli ebrei che non avevano fatto in tempo a venire qui. Papà disse una volta:
«Tutto questo va al di là della possibilità di comprensione. Il cuore si rifiuta di crederci. E tutto il mondo tace.»
Anche lui ogni tanto piangeva i suoi genitori e le sue sorelle, non con le lacrime, così: stava per circa mezz'ora in piedi, in quella tipica posa cupa e un po' curva, che esprimeva tutta la sua fermezza, a studiare le carte appese sui muri del corridoio. Come un alto ufficiale al quartier generale: osservava e taceva. Lui era dell'opinione che dovessimo cacciare via il dominatore inglese e fondare uno stato ebraico aperto a tutti gli ebrei respinti dal mondo. E questo stato, diceva, avrebbe dovuto rappresentare per il mondo intero un esempio di giustizia: sì, anche per gli arabi, quelli che avrebbero deciso di restare a vivere qui con noi. «Sì, malgrado tutto quello che gli arabi ci stanno facendo per colpa di alcuni che li istigano e li incitano, noi ci comporteremo con esemplare generosità verso di loro, ma non per debolezza, no: quando finalmente nascerà lo stato ebraico libero, nessuna carogna al mondo oserà più trucidare o umiliare gli ebrei. E se qualcuno ci proverà, risponderemo, perché un giorno avremo un braccio molto lungo anche noi.»
All'epoca in cui facevo la quarta, forse la quinta, un giorno copiai a matita, con molta attenzione, la carta dell'atlante di papà, usando della carta velina quasi trasparente, e sulla copia marcai lo stato ebraico che papà aveva promesso: una macchia verde stretta fra il deserto e il mare. Da quella macchia tirai un lungo braccio, lungo mari e continenti, e in fondo al braccio disegnai un pugno che poteva arrivare ovunque. Fino in Alaska. Oltre la Nuova Zelanda. «Cos'abbiamo
fatto» domandai una sera a tavola «che tutti ci odiano?» Mamma rispose:
«E' perché siamo sempre stati dalla parte giusta. Nessuno ci perdona il fatto che dai tempi più remoti non abbiamo mai fatto male a una mosca.» Pensai, senza dirlo: ciò significa che non conviene affatto stare dalla parte della ragione. Ma anche: ora capisco il comportamento di Ben Hur.
Anch'io sono dalla parte giusta, e anch'io non faccio male a una mosca.
Ma d'ora in avanti sarà l'era della pantera. Papà disse: «E' una questione tanto tragica quanto oscura. In Polonia, ad esempio, ci odiavano perché eravamo diversi, strani e stranieri, parlavamo e ci vestivamo e mangiavamo in modo totalmente diverso dagli altri. Mentre a venti chilometri di distanza, oltre il confine, in Germania, ci odiavano per la ragione esattamente opposta: in Germania parlavamo, mangiavamo, ci vestivamo e ci comportavamo esattamente come tutti gli altri. I nostri nemici dicevano: guardate come si mescolano a noi, al punto che non si riesce più a distinguere chi è ebreo da chi non lo è. Questo è il nostro destino: le scuse per l'odio cambiano, ma l'odio, quello resta sempre uguale. Quale conclusione se ne può trarre?» «Provare a non odiare» rispose la mamma. E papà, con quei suoi occhi celesti che sbattevano dietro le lenti, replicò: «Non possiamo permetterci di essere deboli. La debolezza è un peccato.» «Ma che cosa abbiamo fatto» domandai «perché ce l'hanno con noi?» «Questa domanda» rispose papà «dovresti farla non a noi, ma ai nostri persecutori. E ora, sua eccellenza ci faccia l'onore di prendere le sue scarpe da sotto la sedia e metterle al loro posto. Non qui, e nemmeno qui. Al loro posto.»
La notte udivamo degli spari lontani, e scoppi. I partigiani sbucavano dalle loro basi segrete e attaccavano i centri del potere inglese. Già alle sette di sera dovevamo chiudere le persiane e la porta, e restare chiusi in casa fino al mattino. Era il coprifuoco. Il vento d'estate passava vuoto e trasparente per le strade deserte, nei vicoli, lungo le tortuose scalinate di pietra. Di tanto in tanto un bidone di spazzatura capovolto da un gatto, la notte, ci faceva sussultare.
Gerusalemme aspettava. Anche dentro casa la serata passava per lo più in silenzio. Papà si sedeva voltandoci la schiena, avulso da noi e rinchiuso entro il cerchio di luce della sua scrivania, sommerso da libri e fogli, con la sua penna stilografica che strideva nel silenzio, si fermava un momento per pensare, e poco dopo riprendeva a scrivere, come se stesse scavando una galleria nel buio. Papà controllava, confrontava, precisava una nota approssimativa fra i materiali che stava preparando per il suo monumentale libro sulla storia degli ebrei in Polonia. Mamma si trovava all'estremo opposto della stanza, nella sua sedia a dondolo, e leggeva, quando non posava il libro capovolto sulle gambe per ascoltare con grande attenzione qualche suono che io non potevo afferrare. Ai suoi piedi, sulla stuoia, terminavo la lettura del giornale e mi davo ad abbozzare su un foglio i piani per l'imminente incursione della resistenza nei gangli del potere, a Gerusalemme. Persino nei sogni sbaragliavo i nemici, e i miei sogni bellicosi continuarono per molti anni ancora dopo quell'estate. La nostra organizzazione combattente LOM quell'estate era formata da soli tre membri: Ben Hur, comandante in capo nonché responsabile del dipartimento per la sicurezza interna e le indagini. Io ero il suo vice. Chita Reznik era soldato semplice ma prossimo alle stellette non appena la milizia si fosse allargata. Oltre che vice ufficialmente, io ero di fatto il cervello dell'organizzazione: io l'avevo fondata all'inizio delle vacanze estive e io le avevo dato il nome, LOM ("Libertà O Morte"). Mia era stata l'idea di raccogliere chiodi e spargerli sulla strada che portava alla caserma, per bucare le gomme degli inglesi. Io avevo coniato gli slogan che
Chita Reznik doveva scrivere con la vernice nera, e spesso, sui muri delle case del quartiere: "Inglesi, siete come Amalec - andatevene dalla nostra terra!", "Con il sangue e con il fuoco cacceremo l'oppressore!", e anche:
"Perfida Albione - vattene dalla terra d'Israele!" (l'espressione "perfida Albione" l'avevo imparata da papà). Per quell'estate intendevamo portare a termine la costruzione del nostro missile segreto: in una baracca abbandonata sul bordo del uadi, dietro il cortile di Chita, avevamo già accantonato il motore di un vecchio frigorifero elettrico, alcune componenti di una motoretta e qualche decina di metri di filo elettrico, oltre a fusibili, pile e lampadine, nonché sei boccette di smalto per unghie, da cui avevamo in mente di estrarre l'acetone per fabbricare l'esplosivo. Per la fine dell'estate il missile sarebbe stato pronto e puntato proprio contro la facciata di Buckingham Palace, dimora di Giorgio re d'Inghilterra, cui avremmo fatto pervenire una missiva di questo perentorio tenore: "Dovrete uscire dalla nostra terra entro la vigilia del prossimo giorno del Kippur - altrimenti il nostro giorno del giudizio finirà per essere il vostro, di giorno del giudizio". Chissà che cosa ci avrebbero risposto gli inglesi se solo avessimo avuto ancora due, tre settimane di tempo per arrivare a finire il nostro ordigno. Magari si sarebbero rassegnati e convinti a lasciare il paese, risparmiando così a se stessi ma anche
a noi un bagno di sangue e sofferenze. Difficile da sapere. Fatto sta che nel pieno di quell'estate venne alla luce il legame segreto che mi univa al sergente Duniop, malgrado mi augurassi tanto sia che restasse segreto sia che non finisse mai.
A questo dovevo la scritta sul muro, nonché l'ordine di presentarmi quella sera stessa in fondo al boschetto di Tel Arza, di fronte alla corte marziale, per rispondere dell'accusa di tradimento. In verità sapevo a priori che il processo non avrebbe cambiato nulla di nulla. Nessuna motivazione e nessuna giustificazione mi sarebbero servite. Come in ogni movimento clandestino d'ogni dove d'ogni tempo, colui che è chiamato traditore una volta, resta traditore per sempre. Ogni mio tentativo di difesa sarebbe stato vano.
CAPITOLO 5.
Ben Hur era un bambino volpino, spigoloso, giallo e magro, con gli occhi quasi ocra. Non mi piaceva. In fondo non eravamo nemmeno amici. Era qualche cosa d'altro che ci legava, qualcosa di molto più stretto di un'amicizia: se Ben Hur mi avesse ordinato, mettiamo, di versare a secchiate tutto il Mar Morto nella Galilea Superiore, avrei ubbidito per non negarmi, alla fine, l'eventualità di sentirlo pronunciare pigramente a mezza bocca il fatidico:
«Te la sei cavata, Profi.» Ben Hur usava le parole come una fionda contro i lampioni. Parlava praticamente a denti stretti, con l'aria di chi non vuole disturbarsi più del minimo. A volte la P di Profi la condiva con una specie di disprezzo, di sputacchio: Profi. La sorella di Ben Hur, Yardena, suonava il clarinetto. Un giorno mi disinfettò e mi mise un cerotto su un graffio che m'ero fatto sulla gamba e a me dispiacque di non averne un altro sull'altra gamba. Quando le dissi grazie scoppiò in una risata squillante, e rivolta a un inesistente pubblico presente in camera disse: guardate, un bambino-conchiglia. Io non sapevo che cosa intendesse Yardena con questa espressione, ma sapevo che un giorno o l'altro l'avrei capito, e allora mi sarei reso conto che l'avevo sempre saputo. E' complicato da spiegare, cercherò la via più semplice. Diciamo allora così: avevo come un presentimento, cioè quella vaga coscienza che a volte precede, e di molto, la certezza. E proprio in virtù di quel presentimento, quella sera sul tetto, quando per sbaglio ero riuscito a vederla fra la vestaglia e il vestito, sì che mi ero sentito uno spregevole, vile traditore; e poi, quello che quasi non avevo visto mi era tornato davanti agli occhi varie volte: quante e quante volte, quasi non rividi, insomma. Per la vergogna sentivo ogni volta un brivido, come quando il gesso stride sulla lavagna o il sapone capita per sbaglio fra i denti, che poi è il gusto che si ritrova in bocca il traditore mentre tradisce, o poco dopo. Avrei voluto scriverle una lettera, spiegarle che non avevo la minima intenzione di spiarla, chiederle scusa. Ma come potevo? Senza contare che da allora, ogni volta che tornavo alla postazione sul tetto, non ero capace di non pensare che la finestra era lì, proprio davanti, e che non dovevo guardare in quella direzione, nemmeno per caso, nemmeno contro la mia volontà, nemmeno di passaggio mentre spostavo lo sguardo dal monte Nebi Samwil verso il monte Scopus. Poi era arrivato Chita Reznik, un bambino con due padri (il primo sempre in viaggio e il secondo che spariva di casa qualche ora prima del ritorno del primo. Tutti prendevano in giro Chita, lo chiamavano porta girevole e facevano varie battute, ma Chita stava al gioco, scherzava pesantemente su sua madre e i suoi due padri, faceva lo scemo, faceva la scimmia con le smorfie e dei versi da scimpanzè che sembravano più che altro un piagnucolio).
Chita Reznik era un bambino schiavo:
correva sempre a prendere la palla finita nel uadi, oltre lo steccato. Portava lui il carico di rifornimenti quando si partiva per la spedizione in cerca dello 'Yeti. Tirava fuori dalle tasche fiammiferi, elastici, lacci da scarpe, un cavatappi, un temperino, all'occorrenza e su richiesta. Alla fine delle battaglie di mezzi corazzati sulla stuoia, era sempre Chita che restava a raccogliere le tessere del domino e le pedine della dama e le rimetteva al loro posto. Quasi ogni mattina, dopo che i miei erano andati al lavoro, si svolgevano da noi le battaglie di corazzati. Facevamo delle ampie manovre in previsione del giorno in cui gli inglesi avrebbero lasciato il paese e noi avremmo dovuto coordinare la difesa sui diversi fronti arabi. Mio padre aveva un intero scaffale riservato ai libri sulle guerre mondiali. Seguendo quei volumi, e con l'aiuto delle grandi carte che tappezzavano i muri del corridoio, ricostruimmo sulla stuoia gli schieramenti di Dunkerque, Stalingrado, El-Alamein, Kursk e delle Ardenne, traendone ottime lezioni in previsione della guerra che ci aspettava. Alle otto del mattino, quando la porta si chiudeva dietro papà e mamma, riordinavo lesto la cucina, chiudevo le finestre e le persiane per mantenere la frescura, ma anche per creare un'atmosfera di segretezza, e disponevo i pezzi sulla stuoia secondo le formazioni di partenza di battaglie memorabili. Usavo bottoni, fiammiferi, le tessere del domino e le pedine di scacchi e dama, degli spilli con le bandierine e dei fili colorati per indicare fronti e confini. Disponevo gli eserciti nelle posizioni di partenza, poco prima delle nove Ben Hur e Chita bussavano alla porta, due colpi fulminei e decisi e uno più morbido. Io li identificavo usando lo spioncino, poi ci scambiavamo la parola d'ordine. Chita domandava da fuori: «Libertà?», e io da dentro:
«O morte.»
Ogni tanto, durante la battaglia, Ben Hur decretava una tregua e indiceva un'irruzione in cucina. Adoravo quelle mattinate, soprattutto nei rari momenti in cui Ben Hur sibilava fra le labbra il fatidico: «Te la sei cavata, Profi.»
Non sapevo ancora che quella frase conta solo quando uno la dice a se stesso. E con sincerità. A più o meno un quarto delle vacanze estive avevamo già più o meno capito in che cosa avevano sbagliato Rommel e Zhikhov, Montgomery e George Patton, nonché imparato come evitare l'errore quando fosse toccato a noi. Tiravamo giù dalla parete del corridoio la grande carta della terra d'Israele e dintorni, la stendevamo sulla stuoia, e ci esercitavamo a mandar via gli inglesi e a respingere gli eserciti arabi. Ben Hur era il comandante in capo e io il cervello dell'operazione. E pensare che adesso che scrivo questa
storia, tengo ancora in casa una parete tappezzata di carte geografiche. A volte mi fermo a guardarle, inforco gli occhiali (non come quelli, rotondi, di mio padre) e seguendo le notizie alla radio e sui giornali, accompagno sulla carta i diversi movimenti di truppe nelle guerre, in Bosnia ad esempio, o in Armenia o in Azerbaijan. Da qualche parte del mondo c'è immancabilmente una guerra in corso. Di tanto in tanto, guardando la carta mi par di capire che qualcuno sta sbagliando: ignorando ad esempio la possibilità che gli si offre di prendere il nemico alla sprovvista. Verso metà dell'estate stavo già preparando la nascita di una flotta navale ebraica, con tanto di truppe di guastatori, di sottomarini, fregate e portaerei. Stavo anche valutando la possibilità di un attacco simultaneo alle basi navali inglesi del Mediterraneo: Port Said. Famagosta. Malta. Mersha Matruh. Gibilterra. Qui no, però, qui ad Haifa no perché qui di certo loro si aspettavano qualcosa ed erano pronti a reagire. C'erano altre basi inglesi nel Mediterraneo? Questa domanda decisi di porre al sergente Duniop nel nostro prossimo incontro al caffè dell'Orient Palace. Avrei potuto ostentare l'ingenua curiosità del bambino appassionato di geografia, certo. Ma ripensandoci decisi che c'era il rischio di suscitare sospetti - e dunque compromettere l'elemento fondamentale, quello della sorpresa. Meglio chiedere a papà. In fondo non c'era nemmeno bisogno di chiedere a lui. Ci sarei potuto arrivare da solo. Collegando le informazioni tratte dall'enciclopedia con altre, non meno accessibili, sulle carte dell'atlante. La connessione di notizie offre a volte informazioni segrete di grande valore. (Ci credo ancora adesso. Ogni tanto mi trovo a fare delle domande del tutto neutrali, come ad esempio: quali paesaggi preferisci? E nel corso della conversazione, non subito ma dopo un quarto d'ora, una mezz'oretta, e come per inciso, domando alla stessa persona che cosa voleva fare da grande quando era piccola. Poi connetto le due risposte e ne traggo le debite informazioni.)
Quelle battaglie navali non ebbero mai luogo, e ormai comunque non capiteranno più. Invece, mi trovai a confrontarmi con un tribunale militare, accusato di vile tradimento e passaggio di informazioni al nemico. Pensai: in fondo anche Robin Hood lo si può accusare di tradimento, anche se solo i più meschini sarebbero capaci di accusarlo di una cosa del genere. Comunque, le cose stavano così. Innegabilmente.
Del resto, che cos'è veramente il tradimento?
Mi sedetti al posto di papà. Accesi la luce sulla scrivania. Presi un foglietto dalla pila di quelli nuovi. Vi scrissi più o meno così:
verificare se c'è un legame fra la parola boghed, "traditore", e beghed, "vestito". Abito, che in fondo copre, nasconde, così come colui che tradisce. O forse perché i vestiti si strappano sempre quando meno te l'aspetti. O anche: ci si veste di lana, con il maglione, e si può star sicuri che viene un caldo tremendo. Oppure il contrario: ci si veste leggeri e viene un freddo cane (se non che in questi casi non è il vestito, il traditore, bensì il clima). Durante le lezioni di Bibbia del signor Zerubabel Ghion, avevamo studiato un capitolo del libro di Giobbe in cui sta scritto: "I miei fratelli mi hanno tradito come un torrente". No, non i placidi torrenti dell'Ucraina di cui mi raccontava mia madre con aria sognante, no, quelli di qui, torrenti infidi, che nel pieno dell'estate, quando hai sete, ti tradiscono e invece di acqua portano ghiaia incandescente. Mentre d'inverno ti capita di camminare lungo il letto del fiume e venire improvvisamente sommerso da un'inondazione traditrice. Il profeta Geremia si lamenta: "La casa d'Israele mi ha tradito". Del resto anche lui fu tacciato di tradimento, anche lui fu giudicato, accusato e gettato in un pozzo. Mentre "vile", scrissi su un altro foglio, "vile" significa basso. E in senso traslato: meschino. Misero. Che si guarda dall'alto in basso. Il contrario di vile era dunque "alto", "altezzoso"? Ma Ben Hur Tychocinsky era sia altezzoso sia vile. (E io? Io che non avevo il coraggio di scrivere una lettera a "Yardena e chiederle scusa di averla spiata?) Dovevo chiedere al sergente Duniop come si dice vile traditore in inglese, e se anche nella loro lingua c'era un nesso fra "vestito" e "tradimento" così come fra "viltà" e "bassezza". Ma l'avrei poi rivisto?
Mentre me lo chiedevo sentii già la nostalgia. Ovviamente non avevo mai dimenticato, nemmeno per un istante, che lui era dalla parte del nemico, ma non un nemico personale, benché personale lo fosse sì. Mio. Non potevo più rimandare. Avrei parlato del sergente Duniop e del legame che ci aveva uniti. Benché fosse molto difficile per me.
CAPITOLO 6.
Tre o quattro volte alla settimana io e lui ci vedevamo di nascosto nella stanza sul retro del caffè Orient Palace, cioè "Palazzo d'Oriente". Che era in fondo nient'altro che una catapecchia immersa in una giungla di passiflora rampicante, in un vicolo ad ovest della caserma. Il locale davanti era occupato da un biliardo rivestito di panno verde perennemente circondato da un manipolo di soldati e poliziotti inglesi sudaticci, insieme a qualche ragazzo di Gerusalemme in camicia e cravatta, ebrei, arabi, greci e armeni pieni di anelli d'oro e di brillantina nei capelli, e due o tre fanciulle avvolte in una nuvola di profumo. Non mi sono mai soffermato nella sala del biliardo, cosciente com'ero della mia missione di lavoro. Non ho mai nemmeno lanciato, mai, un'occhiata alla cameriera, né alla gente che le parlava tentando di farla ridere, riuscendoci quasi sempre. Aveva l'abitudine di piegarsi per spingere il boccale di birra spumeggiante lungo il banco, e quando lo faceva s'apriva una specie di grosso squarcio sulla parte superiore del vestito, perciò per molti doveva essere difficile non guardare. Io non lo feci mai, nemmeno di striscio...
Attraversavo di gran carriera la sala del biliardo, dunque, piena di risate e di fumo, e proseguivo verso la stanza sul retro, molto più tranquilla, con i suoi quattro, cinque tavoli coperti con della tela cerata a motivi floreali o decorata di rovine greche. Qui qualcuno ogni tanto giocava a Backgammon, e qualche coppia tubava, ma diversamente dall'altra stanza tutti parlavano sottovoce. Io del resto non guardavo nemmeno verso quelle coppiette. Il sergente Duniop e io stavamo insieme un'ora, un'ora e mezza, al tavolo d'angolo, con davanti un libro della Bibbia aperto, un vocabolario tascabile, un sillabario di inglese. Sono passati più di quarantacinque anni, l'Inghilterra non è più un nemico,
lo stato ebraico è una realtà, Ben Hur Tychocinski si chiama ormai signor Benny Takin ed è il padrone di una catena di alberghi, mentre Chita Reznik di mestiere ripara pannelli solari e io continuo imperterrito a inseguire parole e metterle al loro posto, ebbene, qui lo dico e lo scrivo: a Steven Duniop non ho mai svelato alcuno segreto. Nemmeno piccolo. Nemmeno il mio nome, gli ho detto. Fino alla fine. In fondo mi limitavo a leggere insieme a lui la Bibbia in ebraico e insegnargli le parole nuove di questa lingua che nella Bibbia non ci sono, mentre lui in cambio mi dava alcuni rudimenti d'inglese. Era una persona timida e, stando a quel che diceva, anche sola (ramingo, diceva, nel suo ebraico antiquato). Era grande e grosso, rosa in faccia, spugnoso, un po' pettegolo, arrossiva molto spesso. Anche le gambe, dentro i pantaloni corti, erano cicciottelle e senza peli, con delle pieghine come quelle sulle cosce dei bambini che non hanno ancora imparato a camminare.
Il sergente Duniop era arrivato dalla sua città, Canterbury, insieme a uno strano ebraico che gli aveva insegnato suo zio, che era prete. (Anche suo fratello, Jeremy Duniop, faceva il prete in una missione in Malaya.) Era, il suo, un ebraico dolce, flessuoso, senza osso. Amici, diceva, non ne aveva. («Ma nemmeno nemici e avversari», aggiungeva senza che gliel'avessi chiesto). Era di servizio nel corpo di polizia inglese a Gerusalemme, reparto amministrativo. A volte, nei momenti di emergenza, lo spedivano a fare un turno di guardia notturna in qualche ufficio del governo quando non a controllare i documenti ai posti di blocco, Ho ben fissi nella memoria tutti questi particolari, e anche il momento in cui me li raccontava. La sera, a casa, annotavo tutto su un taccuino per rimpolpare l'archivio informazioni del LOM. Il sergente Duniop si divertiva ogni tanto a fare qualche piccolo pettegolezzo sui colleghi o sugli ufficiali, uno era tirchio, l'altro un damerino, quello uno sbruffone, quell'altro aveva da poco cambiato il dopobarba, mentre il tale pezzo grosso usava uno shampoo speciale contro la forfora. Questi commenti gli ispiravano risatine di cui si vergognava anche, eppure non riusciva a trattenersi; il maggiore Bentley ha comprato un braccialetto d'argento per la segretaria del colonnello Parker. Lady Nolan ha cambiato cuoco. Mrs Sherwood se ne va disgustata ogni volta che arriva il capitano Bolder. Io annuivo educatamente e m'incidevo tutto nella mente. E la mia immaginazione vagava scalza in punta di piedi come un mendicante fra duchesse e conti, sgranando gli occhi di fronte a stanze dai soffitti alti con le pareti rivestite di mogano, dove passava il capitano Bolder con aria disinvolta, e la bella Mrs Sherwood sfuggiva immancabilmente. Oltre alla lingua della Bibbia il sergente Duniop conosceva anche il latino e un po' di greco, e nel tempo libero studiava da solo l'arabo classico («così da avere dentro di me tutti insieme i figli di Noè: Sem, Cam e Jafet, come era prima del diluvio»; Cam lo pronunciò con l'acca, non con la ci, e vedendo che ridevo si scusò con una espressione non meno buffa). A quel punto non potei fare a meno di dirgli che anche mio papà sapeva il greco e il latino, oltre ad altre lingue. Me ne pentii subito, del resto: dovevo a tutti i costi evitare di dargli informazioni, anche le più innocue. Non si poteva mai sapere che uso ne avrebbero fatto, gli
inglesi. Combinando un'informazione con l'altra, erano capaci di dedurne una notizia segreta da usare a nostro svantaggio. Ma ora devo raccontare come ci siamo conosciuti, io e il sergente Duniop. Come due nemici, ecco. Uno inseguiva e l'altro era inseguito. Poliziotto e combattente della resistenza.
CAPITOLO 7.
Nel tardo pomeriggio di un giorno all'inizio delle vacanze estive, uscii da solo a cercare possibili nascondigli segreti nelle grotte dietro il quartiere di Sanhedrya. Nel corso di quell'operazione mi accorsi che in un anfratto si trovava una piccola nicchia quasi del tutto sigillata da pietre e terriccio. Un primo scavo superficiale mi diede modo di scoprire quattro bossoli di fucile. Decisi allora che dovevo continuare a scavare. Al sopraggiungere dell'oscurità, dal profondo della grotta iniziò a soffiare un alito freddo come il contatto con le dita di un morto: uscii. Era già notte. Le strade deserte per il coprifuoco. Il mio cuore rimbombava nella cassa toracica come se stesse scavandosi dentro uno spazietto in cui rintanarsi, nascondersi. Decisi di tornare a casa di soppiatto, passando per i cortili delle case. Sin dall'inizio della primavera la LOM aveva organizzato una rete di passaggi interni nella città. Stando alle istruzioni ricevute da Ben Hur, che avevo a mia volta perfezionato e trasmesso come un ordine a Chita Reznik, quest'ultimo aveva piazzato della segnaletica in forma di pezzi di legno, sassi, cassette e corde per consentire i passaggi fra i vari punti strategici. In questo modo potevamo oltrepassare muretti e steccati e fare incursioni o fuggire orientandoci fra giardini e cortili sconosciuti. Non lontano s'udì un colpo di pistola isolato. Vero. Acuto. Spaventoso. Terrificante. Un sudore freddo mi incollò la camicia alla pelle. Il sangue mi pulsava in testa e sulla nuca come un tamburo a raffica. Nel panico più totale presi a correre come una scimmia, un po' curvo, attraversando siepi e steccati, graffiandomi le gambe e battendo la spalla contro un muro di pietra, finendo per impigliarmi coi pantaloni nel filo spinato, e tuttavia senza fermarmi: feci come una lucertola che se ne va lasciando la coda, che nel mio caso era un pezzo di stoffa e un altro di pelle. Proprio nel momento in cui sbucai dalle scale sul retro dell'ufficio postale con le finestre scure protette dalle inferriate, pronto ad attraversare in diagonale via Zefaniah, un fascio di luce mi abbagliò e in quel preciso momento sentii una cosa molle e umida, fredda, come una rana, che mi toccava la schiena e passava sulla camicia e arrivava sino ai capelli. Ero pietrificato. Come un coniglio nella frazione di secondo in cui le fauci del predatore si chiudono su di lui. La mano che mi aveva agguantato per i capelli non era pesante, ma larga e morbida, una mano di medusa. E così anche la voce dietro il fascio di luce abbagliante: non l'ululato del solito lupo inglese, bensì un'unica sillaba un po' liquida, pastosa: «Alt!» e subito, in un ebraico scolastico dal rotondo accento inglese: «Dove corri?». Era un corpacciuto poliziotto inglese, un po' gobbo. Sulle spalle luccicava
una targhetta di metallo con i suoi numeri d'ordinanza. Il cappello cascava di fianco. Ansimavamo tutti e due così tanto che i nostri respiri sembravano dei piccoli strilli.
Eravamo tutti e due fradici di sudore. Lui portava dei pantaloncini corti kaki che gli arrivavano alle ginocchia e delle calze dello stesso colore che arrivavano anch'esse al ginocchio, ma dal basso. Fra gli uni e le altre c'era una striscia bianca di pelle, dall'aspetto grassoccio e soffice. «Please, Sir» dissi nella lingua del nemico, «let me go home.» (Cioè: per favore, la prego, signore, mi lasci andare a casa.) Questi mi rispose di nuovo in ebraico. Cioè, in un ebraico bizzarro.
Disse più o meno:
«Non si perda al buio fanciullo.»
Poi aggiunse che mi avrebbe accompagnato fino alla porta di casa, se gli indicavo la strada. Non potevo assolutamente fare una cosa del genere, la nostra strategia era infatti quella di ignorare tutti i loro ordini, per boicottare il governo repressivo. Ma che scelta avevo? Mi teneva la mano sulla spalla. Fino a quella sera non avevo mai toccato un inglese in vita mia e nessun inglese mi aveva mai toccato. Leggevo spesso sul giornale della "mano inglese", come ad esempio: "giù le mani dai profughi", "è ora di levare le mani dalle nostre ultime speranze" o anche "maledetta sia la mano che stringe amichevolmente quella dei tiranni". Ed ora invece la mano del nemico stava posata sulla mia spalla, ma non pareva tirannica né aggressiva, piuttosto il contrario, di cotone, quasi. Ero pieno di vergogna, come se a toccarmi fosse stata una ragazza (a quell'epoca ero dell'avviso che una femmina che toccava un maschio lo disonorava. Il contrario invece lo consideravo un atto eroico, di fatto irreale, roba da film o da sogni. In quest'ultimo caso, comunque, era meglio passarlo sotto silenzio). Avrei voluto dire all'inglese di togliermi le mani di dosso ma non sapevo come. Poi a dire il vero non era proprio che volessi, dato che la strada era deserta e inquietante, e le case buie con le persiane abbassate sembravano quasi delle navi sul punto di affondare. L'aria, nera anche quella, era impregnata di una cosa densa e minacciosa. Il grasso poliziotto inglese illuminò la strada con la sua torcia e a me sembrò che quel fascio di luce che solcava il marciapiede sotto di noi ci proteggesse un poco dalla città deserta. Disse: «Piacere, Steven Duniop. Sono un tizio inglese che darebbe tutto quello che possiede per conoscere la lingua dei profeti e che va matto per il popolo eletto.»
«Thank you kindly Sir», dissi come avevo imparato nell'ora di inglese, poi me ne vergognai, consolandomi col fatto che nessuno ne avrebbe mai saputo niente. Mi vergognavo anche perché mi ero dimenticato di accentare la prima sillaba di "thank you", e anche di tenere la lingua Stretta fra i denti, per produrre quel suono inglese tutto speciale che sta a mezza strada fra una ti e una esse. Più che "thank" sembrava un "tank". «Dimoro a Canterbury, ma il mio cuore è nella santa
Gerusalemme, ben presto finiranno i miei giorni a Gerusalemme e tornerò là donde sono venuto.»
Contro la mia coscienza, i miei principi, il mio buon senso, provai sul momento simpatia per quell'uomo (già,
un poliziotto inglese che si fidava così di noi malgrado ciò andasse
contro gli ordini impartiti dal loro re in persona, una persona così, come si poteva considerare un traditore?). Nelle tre poesie che avevo scritto su degli eroi dell'epoca di re Davide e che avevo fatto leggere solo a Yardena, avevo anch'io scelto un linguaggio altisonante. Dunque era andata bene, al sergente Duniop, di aver beccato per strada di notte me e non Ben Hur o Chita: che avrebbero riso come matti sentendo quel suo ebraico forbito. E tuttavia, una voce dentro di me diceva: ehi, faresti meglio a stare attento. Non essere così credulone. E avevamo studiato con il signor Zerubabel Ghion: "Quando fa la voce pietosa non credergli, perché sette abomini sono nel suo cuore", ma anche "pieno di inganno e frode" e "le loro mani sono piene di sangue". E poi c'era l'espressione che usava sempre papà, uno degli slogan che egli stesso aveva coniato in inglese per la resistenza clandestina: perfida Albione. Mi vergogno ancora, anche soltanto a scriverlo, ma lo scrivo lo stesso: avrei potuto fuggire facilmente. Avrei potuto liberarmi dalla presa e nascondermi in un cortile. Il poliziotto era goffo, spaesato, mi ricordava un po' il professor Ghion: timido, ma buono. La salita di via Zefaniah era bastata per togliergli il fiato (in seguito sarei venuto a sapere che soffriva di asma). Avrei potuto non soltanto fuggire: se fossi stato davvero una pantera in cantina, avrei agguantato la pistola che non pendeva al posto giusto, sul fianco, e invece era scivolata giù fino al sedere e lì ciondolava battendogli addosso ad ogni passo, come una porta chiusa male. Sì, teoricamente avrei dovuto rubargli la pistola e darmela a gambe.
Oppure prenderla e puntargliela contro, proprio in mezzo agli occhi (mi pareva fosse anche un po' miope), e sbraitare in inglese: "Hands Up!", o meglio ancora: "Don't move!" (Gary Cooper. Clark Gable. Humphrey Bogart. Ognuno di loro se la sarebbe egregiamente cavata con cinquanta nemici della storia morbida del mio sergente). Ma invece di sopraffarlo e procurare alla causa una preziosissima pistola, confessai a me stesso che mi dispiaceva che la strada di casa fosse così breve. E intanto mi resi conto che era un guaio pensarla così, che anzi dovevo vergognarmi. In effetti mi vergognai. Il sergente disse con il suo accento spugnoso:
«Nel libro del profeta Samuele sta scritto: era solo un ragazzo. Dunque non devi aver paura. Sono uno straniero che ama il popolo d'Israele.» Soppesai a lungo quelle parole. Capii che dovevo dirgli la pura verità, a nome mio e di tutto il mio popolo. E così replicai:
«Don't angry on me please, sir. We are inimies until you give back our land» (in altre parole: noi siamo nemici soltanto finché tu non te ne vai dalla nostra terra). E se mi avesse arrestato, per una dichiarazione come quella che avevo appena pronunciato? Non importa, pensai. Le loro prigioni, i loro patiboli, le loro forche non mi spaventavano. Ripetei a mente le regole imparate da Ben Hur Tychocinski durante la riunione al quartier generale: erano quattro metodi per affrontare interrogatori e torture senza cedere. Malgrado il buio notai il sorriso sulla faccia del sergente Duniop, ricordava la lingua di un cagnone bonario:
«Presto avranno pace tutti gli abitanti di Gerusalemme. Pace entro le sue mura, pace nei suoi palazzi. E nessun nemico verrà più a funestare le porte della città. Nella nostra lingua inglese, giovane uomo, diciamo "ennemies" e non "inimies". Gradirebbe se ci vedessimo ancora e imparassimo insieme ognuno la lingua dell'altro? Come vi chiamate, giovane uomo?»
Con la prontezza di un fulmine, con la mente lucida e fredda, valutai la situazione sotto ogni profilo. Papà mi aveva insegnato che nei momenti di emergenza la persona intelligente deve collocare tutti i dati a disposizione in un quadro generale, e distinguere razionalmente ciò che è possibile da ciò che è inevitabile, soppesando con equilibrio le alternative che gli si offrono. Solo allora potrà scegliere il male minore. (Papà usava spesso, come ho detto, espressioni del tipo "fuor di dubbio", "decisamente", ma anche "sinceramente".) In quel momento mi tornò in mente una notte in cui erano approdati i profughi clandestini, e gli eroi della resistenza che li portavano a spalle dalla nave incagliata nell'acqua bassa sino alla spiaggia. Poi un'intera brigata inglese li aveva circondati sulla riva. Allora gli eroi avevano distrutto i documenti d'identità dei profughi e si erano mescolati a quella gente per confondere gli inglesi, impedendo loro di distinguere chi era già residente in terra d'Israele da chi andava cacciato perché arrivato illegalmente. Allora gli inglesi li avevano rinchiusi tutti entro del filo spinato e li avevano interrogati tutti, uno per uno, domandando nome, indirizzo, professione. Al che tutti, profughi e partigiani, avevano indistintamente risposto con cinque fiere parole: sono ebreo della terra d'Israele. Lì per lì decisi di non rivelargli il mio nome. Nemmeno sotto tortura. Dunque, per ragioni tattiche, in quella fase optai per far finta di non aver capito la domanda. Il sergente ripetè con gentilezza:
«Allora, vi dispiacerebbe se ci vedessimo di tanto in tanto al caffè Orient Palace? Le ore libere le trascorro lì. Voi mi insegnerete l'ebraico e io vi ripagherò con un po' di inglese. Mi chiamo signor Steven Duniop. E tu, giovanotto?». «Io Profi» cui aggiunsi subito con fermezza, «sono ebreo della terra d'Israele.»
Che me ne importava? Profi era solo un soprannome. Nel film "Colpo di fulmine" con Olivia de Havilland e Humphrey Bogart, lui veniva catturato dal nemico. Ferito, malconcio e non rasato, con un rivolo di sangue che colava dall'angolo della bocca, sfoderava ai suoi torturatori un sorrisetto, affabile eppure ironico. I suoi modi freddi esprimevano fra le righe un disprezzo che i suoi ignoranti nemici naturalmente non colsero. Nemmeno il sergente Duniop, forse, colse la ragione della mia fiera dichiarazione, invece delle mie generalità. Ma non stetti lì a discutere. La sua mano morbida passò per un istante dalla mia schiena fin sulla nuca, mi impresse due pacche leggere, e poi tornò a posarsi sulla mia spalla. Ogni tanto lo faceva anche papà. Lui lo faceva per dirmi più o meno così: pensaci ancora, rifletti logicamente, e di conseguenza vedi di cambiare opinione. Mentre la mano del sergente mi diceva, più o meno, che in una notte buia come quella era comunque meglio essere in due, anche eventualmente nemici. Papà diceva degli inglesi: «Banditi pieni di boria, si comportano come se fossero i padroni del mondo.» Mamma disse una volta:
«In fondo sono soltanto dei ragazzi gonfi di birra e nostalgia.
Affamati di donne e licenze.» (Sapevo più o meno che cosa significasse
aver fame di una donna. Non mi sembrava un motivo per aver pietà di loro né perdonarli. Né loro né in fondo le donne. Anzi.)
Sotto il lampione all'angolo fra via Zefaniah e via Amos ci fermammo perché lui doveva riprendere fiato. Si passò il berretto sulla faccia per asciugarsi il sudore. Poi di colpo lo mise in testa a me, ridacchiò e me lo tolse. Non sembrava ' affatto un pallone gonfiato, eppure non dovevo dimenticare che lo era, eccome. Disse:
«Ho raccorciato il fiato.»
Colsi al volo l'occasione per rendergli pan per focaccia della correzione di prima. Dissi in ebraico:
«Ha il fiato corto, signore. Non si dice "ho raccorciato il fiato"». Tolse la mano dalla mia spalla e tirò fuori un fazzoletto a scacchi con cui si asciugò il sudore della fronte. Sarebbe stato il momento giusto per scappare. O prendergli la pistola. Perché invece restai lì imbambolato, in quella notte deserta e desolata, via Zefaniah angolo via Amos, e lo aspettai, come fosse uno zio un po' rimbambito che dovevo accompagnare perché altrimenti si perdeva? Perché in quel momento, mentre il sergente "raccorciava un po' il suo fiato", mi venne voglia di correre a prendergli un bicchiere d'acqua? Se il segno del tradimento è una specie di sensazione di acidità e di denti allegati come quando si mangia della buccia di limone o del sapone, come quando il gesso stride sulla lavagna - allora in quel momento forse ero già, un po', traditore. Ma non posso negare che provavo anche una specie di inconfessabile dolcezza. Pensate che mentre scrivo questa storia, e son passati ormai quarantacinque anni, lo stato ebraico è una realtà e i nemici sono stati sconfitti più d'una volta, mi viene ancora voglia di sorvolare su quel lontano momento. D'altra parte - che nostalgia. Ho già scritto qui e anche altrove che ogni cosa ha almeno due facce (eccetto l'ombra). Ricordo con rinnovato stupore che in quello strano momento c'era un buio profondo tutto intorno a noi e una piccola isola di luce fioca che tremolava sotto la torcia del poliziotto, e c'era un deserto spaventoso, ma c'erano anche molte ombre inquiete. Il sergente Duniop e io, invece, non eravamo ombre. E anche la mia mancata fuga non era un'ombra, era una mia mancata fuga vera. Lo stesso dicasi per il mancato furto della pistola. In quel momento maturai la decisione, come se un campanello avesse suonato dentro di me:
Certo. Ovviamente. Decisamente. Accetterò la sua proposta. E avrei rivisto all'Orient Palace e così, sfruttando quelle lezioni private di ebraico e inglese, gli avrei estorto con l'astuzia informazioni essenziali in merito ai movimenti di truppe nemiche e alle strategie del regime tirannico. In questo modo avrei reso un grande servigio alla resistenza clandestina, assai più grande della fuga e persino del furto di una misera pistola. D'ora in poi sarei stato una spia. Una talpa. Un agente segreto travestito da bambino appassionato della lingua inglese. Una strategia da scacchista provetto.
CAPITOLO 8.
Davanti alla porta papà disse nel suo inglese lento, con una erre dalla cadenza russa che sembrava un rumore di pattini sul marciapiede: «Grazie signor poliziotto per aver riportato all'ovile l'agnellino.
Eravamo in ansia. Soprattutto la signora. Siamo riconoscenti.» «Papà» sussurrai, «è bravo. Simpatizza con noi. Offrigli un bicchiere
d'acqua e bada che capisce l'ebraico.»
Ma lui non sentì. O fece finta di non aver sentito. Disse:
«Quanto al bricconcello, signore, può star sicuro che con, lui faremo i conti. Grazie ancora. And good bye, o Shalom, "Pace", come usiamo dire noi ebrei da duemila anni ormai, e ancora diciamo, malgrado tutto quello che abbiamo già passato.»
Il sergente Duniop rispose in inglese, poi passò di colpo all'ebraico: «Il ragazzo e io abbiamo fatto quattro chiacchiere per strada. E' un fanciullo intelligente e cordiale. Non siate troppo severi con lui. Con il vostro permesso, anch'io vorrei usare il saluto ebraico. Shalom. Pace a chi è vicino e a chi è lontano.»
Poi si chinò verso di me e mi porse la mano cicciottella cui la mia spalla si era ormai abituata, ne aveva quasi ancora voglia.
Ammiccando, disse:
«Orient Palace. Domani alle sei.»
Dissi "Shalom" anch'io. Grazie. Dentro di me mi dicevo: vergognati, quinta colonna, servo, codardo, leccapiedi, perché diamine gli dici anche grazie? E mi sentii travolgere da un impulso di amor proprio, che sembrava un po' la sensazione che mi aveva dato il cognac di papà quell'unica volta in cui me l'aveva fatto assaggiare per togliermi definitivamente la voglia. Tutto quello che mi era stato insegnato a proposito di una storia ebraica fatta di umiliazioni, insieme all'immagine del fiero Humphrey Bogart, formò una specie di groppo in gola. Strinsi forte a pugno la mano dentro la tasca, lasciando penzolare smarrita per aria quella del nemico, finché egli non si trovò costretto a ritirarla rinunciando a quella stretta, sfoderando al suo posto un blando gesto. Chinò il capo e se ne andò. Il mio onore era salvo. Ma allora perché sentii di nuovo il gusto del tradimento, in guisa di sapone fra i denti?
CAPITOLO 9.
Papà chiuse la porta. Ancora fermo in corridoio, disse a mamma: «E tu non intrometterti per favore.» A me chiese sottovoce:
«Che cosa hai da dire?»
«Ho fatto tardi. Mi dispiace. E' cominciato il coprifuoco. Quel poliziotto mi ha preso mentre ero già per strada.»
«Hai fatto tardi. E perché avresti fatto tardi?»
«Ho fatto tardi. Mi dispiace.»
«Anche a me» commentò lui tristemente, poi aggiunse: «Certamente. Dispiace anche a me.» Mamma disse:
«A Haifa è successo. Un bambino della tua età non è tornato a casa per il coprifuoco. Gli inglesi l'hanno preso, l'hanno accusato di affiggere manifesti della propaganda clandestina, e condannato a quindici frustate. Già. Due giorni dopo i suoi l'hanno trovato in un ospedale arabo, e non sto a dirti in che stato era la sua schiena...» Papà commentò:
«Mi lasci ancora un momento finire, per favore.» E a me:
«Dunque. Prenditi nota per favore: per tutta la settimana non esci dalla tua stanza se non per lavarti e andare in bagno. Pasti compresi - in camera. Così avrai tutto il tempo per pensare schiettamente a quel che è successo e anche a quello che sarebbe potuto succedere. Inoltre, sua eccellenza dovrà affrontare anche la crisi economica, poiché la paghetta resterà congelata fino al primo di settembre. Inoltre, l'acquario e la gita a Talpiot sono rimandate a data da destinarsi. Aspetta. Non abbiamo ancora finito. Per questa settimana il coprifuoco di lettura è in vigore dalle nove invece delle dieci e un quarto. Sua eccellenza capirà senza dubbio il nesso: così potrà riflettere su se stesso al buio. E' assodato infatti che al buio chi è dotato di senso logico fa i conti con se stesso molto meglio che sotto la luce. E' tutto. Sua eccellenza faccia il piacere di sparire immediatamente in camera sua. Certo. Senza cena. Per favore, tu non immischiarti: è una faccenda fra me e lui.»
CAPITOLO 10.
Scontati gli arresti domiciliari, chiesi a Ben Hur di convocare una riunione del direttivo del LOM nel quartier generale segreto presso il bosco di Tel Arza. Senza entrare nei particolari, riferii di avere scoperto una fonte di informazioni primaria, e chiesi l'autorizzazione per avviare una missione di spionaggio. Chita Reznik disse:
«Ohoo!»
Ben Hur invece fulminò Chita con un'occhiata giallognola e volpina delle sue, e non disse né sì né no e nemmeno mi guardò. Alla fine, rivolto alle proprie unghie, decretò:
«Il comandante in capo deve essere costantemente aggiornato.» Interpretai quella frase come l'autorizzazione ad avviare la missione.
Commentai:
«Ovviamente. Sempre che ci sia di che aggiornarsi.» E ricordai che anche nella "Pantera in cantina" a Tyrone Power era stata data piena libertà di farsi inghiottire dalla nebbia e assumere l'identità che gli pareva.
Chita disse la sua:
«E' vero. Infatti si è travestito da contrabbandiere di diamanti e poi da padrone di un circo.»
«Circo» disse Ben Hur. «Sarebbe adatto a Profi. Una pantera in cantina invece, mica tanto.»
Non avrei mai immaginato di essere sorvegliato. Mai immaginato che i servizi di sicurezza interna sarebbero entrati in azione quel giorno stesso: a Ben Hur non piaceva l'idea di non sapere. Aveva una specie di sete implacabile. Ce l'aveva scritta in faccia, nei gesti, nella voce,
quella sete. Ad esempio, durante le pause delle partite di calcio (lui era ala sinistra, io il cronista), restavamo a bocca aperta vedendolo scolarsi uno dietro l'altro sei e anche sette bicchieri di gazzosa e poi andare ancora al rubinetto e dopo di ciò avere ancora sete. Sempre. Non so spiegarmelo, davvero. Non tanto tempo fa l'ho incontrato mentre aspettavo di prendere l'aereo: portava un abito scuro, scarpe di coccodrillo, un impermeabile elegantissimo sulle spalle, una ventiquattr'ore con le cifre in argento, non si chiama più Ben Hur Tychocinski ma signor Benny Takin e possiede una catena di alberghi, ma ha ancora una sete tremenda. Di che cosa? Va' a sapere. Le persone come lui sono condannate a vagare per tutta la vita in una specie di deserto interiore, fra dune di sabbia arida, mobile, desolante. Non c'è acqua che possa placarla, quella sete, né fiumi di pioggia che possano inondarla. Come quando ero bambino, quel tipo di persone continua ad incantarmi. Ma col passar del tempo ho imparato a provare, provare se non altro, a stare in guardia. Non da loro, in effetti, piuttosto dal fascino che esercitano su di me.
CAPITOLO 11.
Quel venerdì pomeriggio mi recai quatto quatto ìll'Orient Palace. Ho già detto che quel palazzo non aveva nulla di fastoso, anzi, era piuttosto una baracca pericolante, nascosta nel folto della vegetazione rampicante. Non aveva nemmeno nulla di orientale, e anzi si trovava nella parte occidentale di Gerusalemme, in un vicolo su cui s'affacciavano delle vecchie casette tedesche sbilenche dietro la caserma, in direzione di Romema. Erano pacifiche casette di pietra con i muri spessi e finestre ad arco, tetti di tegole, cantine, soffitte, cisterne dell'acqua, giardini chiusi da muri di pietra e ombreggiati da spesse fronde che lasciavano passare una luce morbida, un po' straniera, come se si fosse approdati ai confini di una terra promessa placida e silenziosa. Che si poteva soltanto guardare da fuori, da rispettabile distanza. Andando verso il caffè Orient Palace feci varie deviazioni, passando per cortili e campi di sterpi; per maggior sicurezza feci anche il giro sul lato sud del liceo Takhmoni. Ogni tanto lanciavo un'occhiata fulminea alle mie spalle per essere sicuro di aver depistato ogni possibile inseguimento.
Avevo in mente di allungare la strada anche perché non ero mai stato del tutto convinto che la via più breve fra due punti fosse la retta. Linea retta: e allora? pensavo. Durante gli arresti domiciliari, in camera mia, al buio, avevo in infatti fatto ricorso alla logica, come aveva detto papà. Soppesando più volte ogni passo, falso o meno che fosse, fra tutti quelli intrapresi la sera in cui ero caduto nelle mani del poliziotto inglese. Giungendo ad alcune conclusioni: primo, non c'era dubbio sul fatto che papà e mamma avessero ragione a proposito del mio ritardo. Avevo corso un rischio inutile. Un combattente della resistenza che sapesse il fatto suo non avrebbe mai incontrato il nemico se non di sua iniziativa e in previsione di un qualche vantaggio. Ogni contatto con il nemico che non avesse questo scopo andava immancabilmente a vantaggio del nemico stesso. Mentre io avevo rischiato inutilmente, fermandomi nella caverna di Sanhedrya oltre l'entrata in vigore del coprifuoco, preso com'ero nei miei sogni. Un vero combattente della libertà doveva mobilitare anche i suoi sogni per la causa e la vittoria. In un'epoca così cruciale, in cui si decidevano le sorti del nostro popolo, i sogni erano un lusso che potevano permettersi, e ancora, forse soltanto le ragazze. I combattenti, invece, dovevano stare in guardia, soprattutto dal sognare Yardena, che pur essendo già quasi ventenne aveva ancora modi infantili, come quando si sistemava la gonna dopo che si era seduta, quasi che il suo grembo fosse un bambino bisognoso di essere coperto per bene, abbastanza per non aver freddo ma non troppo per non soffocare.
E poi come suonava il clarinetto: come se la musica uscisse non dallo strumento ma direttamente da dentro di lei, e passasse soltanto attraverso il clarinetto per prendere una nota dolce e una triste, prima di i portarti in un luogo vero, silenzioso, un luogo senza nemici e senza battaglie, dove non esistevano né vergogna né tradimento, e nemmeno pensieri sul tradimento. Basta, scemo. Animato da questi pensieri giunsi all'Orient Palace con una voce che mi diceva dentro: vattene, torna a casa prima che sia troppo tardi, e un'altra che scherzava più o meno così: codardo che non sei altro, e una terza che non era nemmeno una voce, piuttosto un pizzicotto, che mi spingeva dentro. Fu così che m'intrufolai nel locale, cercando di passare inosservato fra i giocatori di biliardo della stanza davanti e reprimendo la voglia che avevo in punta di dita di sfiorare il panno verde dei tavoli. (Ancor oggi fatico a guardare il panno senza che mi prenda una voglia tremenda di toccarlo e sentire quanto è morbido.) Due militari inglesi con dei berretti rossi soprannominati "anemoni", con le mitragliette modello Tommgun appese alle spalle, stavano parlottando con la ragazza del banco che puntualmente scoppiò a ridere e si piegò per porgere i boccali di birra spumeggiante nonché la sua generosa scollatura, ma io non la degnai di uno sguardo. Solcai la muraglia di fumo e di odore di sudore e di birra e arrivai sano e salvo alla stanza dietro. In fondo, dietro un tavolo rotondo coperto di tela cerata a motivi floreali, trovai il mio uomo. Sembrava leggermente diverso da come me lo ricordavo. Più straniero. Più serio. Più anglosassone. Era chino su un libro, con le gambe accavallate e la divisa un po' trasandata: i pantaloni corti e larghi e la camicia stropicciata (kaki verdolino, diverso da quello giallo di fabbricazione locale che usava mio papà). Sulle spalle le mostrine con il numero d'ordinanza, che avevo tenuto a mente da quel giorno, la prima notte: quattro quattro sette nove. Facile, un bel numero. La pistola cascava ancora sul sedere, schiacciata fra la sedia e la mole del sergente. Sul tavolo c'erano una Bibbia aperta, un dizionario, un bicchiere di gassosa gialla ormai sgassata, due altri libri, un quaderno, un fazzoletto spiegazzato e un pacchetto di caramelle già aperto. Alzò il capo e s'illuminò in viso, anche se a dire il vero quel viso era rosa pallido e cascante come se avesse un eccesso di pelle, e quella pelle aveva un colorito per nulla fresco, sembrava un gelato alla vaniglia quasi
sciolto. Il berretto che la famosa sera aveva posato per un attimo sulla mia testa stava ora a un angolo del tavolo e sembrava decisamente più ufficiale e autorevole del sergente Duniop in persona. Aveva i capelli castani, lui, e fini, con la scriminatura in mezzo, sembrava lo spartiacque disegnato nel libro di geografia. Il suo sorriso un po' goffo mi diceva che era contento di vedermi. «Shalom, sergente Duniop» dissi in ebraico. Lui continuò a sorridere e prese ad ammiccare leggermente. «Sono io. Quello del coprifuoco. Mi ha beccato per strada e accompagnato a casa, lasciandomi libero. Lei aveva proposto, signore, di
scambiarci lezioni di ebraico e inglese. E così eccomi qui.» Il sergente Duniop arrossì e disse:
«Oh. Ah.»
Evidentemente non ricordava ancora un bel nulla. Ci pensai io: «Non si perda al buio fanciullo. Si ricorda, signore? Più o meno una settimana fa? Inimies invece di ennemies?»
«Oh. Ah. Allora sei tu. Prego, accomodati. Che cosa desideri, ora?»
«Lei aveva proposto che studiassimo insieme. Ebraico e inglese. Eccomi.»
«Ah già. Come avevi promesso. Benedetto colui che aspetta e viene.» Fu così che cominciarono le nostre lezioni. Nel secondo incontro acconsentii a che mi ordinasse una gassosa, anche se in via di principio non avrei dovuto prendere nulla da lui, nemmeno un laccio da scarpe. Ma dopo aver a lungo riflettuto giunsi alla conclusione che era mio dovere conquistare la sua fiducia e fugare ogni suo possibile sospetto, per riuscire a estorcergli le informazioni più significative. Solo per questo dunque, mi forzai a bere qualche sorso di gassosa nonché a servirmi di due biscotti. Leggevamo quindi insieme alcuni capitoli dei libri di Samuele e dei Re. Ne discorrevamo poi in ebraico moderno, di cui il sergente Duniop era praticamente digiuno. Parole come gru, matita, camicia, suscitavano in lui il massimo stupore, perché in fondo avevano origine dalla lingua antica, ma erano anche nuove. Mentre io imparavo da lui che in inglese esiste un tempo che l'ebraico non conosce, il present continuous, che significa più o meno "presente perenne", ed è il tempo in cui ogni verbo termina con un suono che assomiglia al contatto di due cristalli: ing.: Questa immagine mi serviva a distinguere quel presente continuo inglese: mi figuravo infatti un lieve tintinnio di bicchieri, accompagnato da uno scampanellio sempre più flebile di quel tempo lì, sempre più lieve e distante eppure ancora delizioso all'orecchio, che finché non è finito del tutto non si fa nient'altro e si aspetta che scompaia, sparisca nel silenzio. Mi sembra insomma un ottimo modo per chiamare il presente continuo, quell'ing. Quando parlai al sergente Duniop del suono di vetro che mi serviva a capire il presente continuo, provò a farmi i complimenti, ma produsse un tale intruglio di parole inglesi che non capii del tutto. Capii però che proprio come tutti noi, anche lui aveva molta più facilità a esprimere idee piuttosto che sentimenti. Anch'io in quel momento ebbi una sensazione (o meglio un miscuglio di simpatia e timidezza), ma la soffocai perché il nemico restava pur sempre un nemico e anche perché non sono una femmina. (E allora? Che cos'hanno le femmine che ci chiama tanto? Non come cristallo contro cristallo, piuttosto come un raggio di luce contro il cristallo? E fino a quando sarà proibito, poi? Finché non saremo adulti? Finché non resterà più
nessun nemico?) Dopo il terzo incontro, o forse era il quarto, ci stringevamo già le mani, perché è cosa lecita alle spie e anche perché ero riuscito a insegnare al sergente Duniop la differenza fra vocale e semivocale in ebraico. Non avevo mai fatto il maestro prima di allora, eppure il sergente Duniop mi chiamava "insegnante brillante", il che mi lusingava. Tuttavia gli dissi: lei esagera, signore, e con l'occasione gli spiegai la parola "esagerare", che nella Bibbia non esiste. (Benché esista un tipo di cavalletta o locusta con un nome simile. Chissà se c'è un nesso.)
Il sergente Duniop per parte sua era un insegnante paziente, un po' distratto, che al momento di invertire i ruoli diventava un allievo attento e scrupoloso. Quando scriveva in ebraico, per lo sforzo teneva la lingua stretta fra i denti, come un bambino piccolo. Una volta farfugliò «Christ», ma si riprese subito e disse in ebraico «Santo Dio.» Alla fine del quarto incontro avevo una ragione in più per stringergli la mano, e con calore anche: ero riuscito a ricavare da lui un'informazione a dir poco preziosa:
«Prima che cessi l'estate» disse, «tornerò alla mia terra, perché i giorni della nostra unità a Gerusalemme volgono al termine.» Malcelando il mio entusiasmo di fronte a questa notizia sotto una maschera di cortesia, domandai:
«Che cos'è la sua unità?»
«Polizia di Gerusalemme. Dipartimento Nord. Sezione nove. Gli inglesi stanno per lasciare questo paese. Sono stanchi. E quasi ora di andare, ormai.»
«Quando?»
«Fra una stagione di vita.»
Che colpo di fortuna, pensai, che fortuna che tocca a me e non a Chita o a Ben Hur, i quali di certo non avrebbero capito il significato di quell'espressione biblica, che sta per un anno esatto. A loro un segreto militare di quella portata sarebbe sicuramente sfuggito. Dovevo assolutamente e precipitosamente trasmettere quella notizia al comando, ma anche al vero movimento clandestino (come, però? Tramite papà? O Yardena?). Il mio cuore smaniava dentro la cassa toracica come una pantera in cantina: in vita mia non avevo mai né avrei mai più probabilmente fatto una cosa così smaccatamente utile. Tuttavia, in quel momento stesso, tastai fra i denti il disgustoso, acidulo sapore del più vile tradimento: il brivido del gesso che stride. «E che cosa avverrà, sergente Duniop, dopo che gli inglesi se ne saranno andati?»
«Sta scritto nel buon libro. Dice il Signore: io difenderò questa città per salvarla. Nessun nemico verrà a infestare le porte della città. I vecchi siederanno per le strade e i bambini giocheranno all'aria aperta.»
Come avrei potuto immaginare che quegli incontri erano già fonte di sospetti? Che i servizi di sicurezza interna dell'organizzazione erano già all'opera? Non mi sfiorava il minimo sospetto. Ero convinto che Ben Hur e Chita fossero felici della mia missione. Finché, quel mattino, Chita, su ordine di Ben Hur, venne a imbrattare con uno spesso tratto nero di vernice il muro di casa nostra, con le parole scritte all'inizio di questa storia, e che mi duole persino ripetere. Insomma, a mezzogiorno trovai il foglietto sotto la porta di casa: dovevo presentarmi al boschetto di Tel Arza per un interrogatorio, ero accusato di tradimento. Mi consideravano un disertore, altro che una pantera in cantina.
CAPITOLO 12.
La sera tardi, spenta la lampada accanto al letto, restavo ad ascoltare. Al di là del muro, cioè fuori, iniziava un mondo vuoto, inquietante. Anche il nostro familiare giardino con l'albero di melograno e il paese di scatole di fiammiferi che ci avevo costruito sotto non era più lui, di notte, diventava preda del coprifuoco e del maligno. Truppe di combattenti passavano alla chetichella di casa in casa, diretti a missioni disperate. Pattuglie inglesi armate di riflettori e di cani poliziotto setacciavano le strade abbandonate. Spie, agenti e traditori conducevano una guerra di logoramento, senza quartiere. Tendevano le loro trappole. Tramavano i loro astuti intrighi. Avvolti dalla fitta condensa estiva, i lampioni gettavano una luce spettrale sui marciapiedi deserti. Oltre la nostra strada, oltre l'isolato, era un susseguirsi di strade deserte, vicoli, passaggi, scale, volte, tutto invaso da una tenebra piena di occhi, squarciata dall'ululato dei cani. In quelle notti di coprifuoco persino la fila di edifici più vicini, proprio di fronte a casa nostra, mi sembrava inaccessibile, separata da un fiume di tenebra profonda. Già, come se la famiglia Dorzion, la signora Ostrovska, la dottoressa Grophius, Ben Hur e sua sorella tardona si trovassero ora tutti sull'altro versante dei monti del Buio. E lo stesso poteva dirsi per il chiosco dei giornali "Shibbolet" e per la drogheria dei fratelli Sinopsky, protetta da serrande di ferro e chiusa con due lucchetti. Quell'espressione, "oltre i monti del Buio", mi sembrava di toccarla con la punta delle dita, quasi fosse stata un tessuto denso di panno nero. Sopra le nostre teste, il tetto del signor Lazarus era immerso nell'oscurità e le gallinelle si stringevano l'una all'altra. Tutte le montagne intorno a Gerusalemme erano "monti del Buio", in quelle notti. E oltre? Oltre c'erano villaggi fatti di pietra, abbarbicati ai loro minareti. Vallate deserte in balia di volpi e sciacalli, di tanto in tanto anche qualche iena. Bande assetate di sangue. E anche fantasmi furiosi, morti in un tempo che fu. Questo genere di cose mi incuteva un terror panico. Stavo sveglio, tutto teso, finché il silenzio diventava insopportabilmente pesante, ed era quello il momento in cui i primi spari arrivavano a romperlo. A volte era uno scoppio lontano e isolato, proveniente da Wadi Joz o Isawija. A volte invece una raffica acuminata come lama di coltello, forse da Sheikh Jarrah, o una mitragliata incerta da Sanhedrya. Saranno i nostri? I partigiani, davvero loro? Ragazzi intrepidi che si lanciavano segnali dai tetti con delle torce smorzate? Capitava anche che dopo mezzanotte s'udisse una serie di esplosioni sorde dalla zona sud della città, verso la colonia tedesca o anche più lontano, dalla valle di Ben Hinnom o dal quartiere di Abu Tor, se non dal Campo Allenby e dalle colline di Mar Ilias, sulla strada per Betlemme.
Una specie di fremito scorreva allora nel suolo, sotto l'asfalto delle strade e le fondamenta degli edifici, e faceva digrignare i denti ai vetri, finché dal pavimento della stanza il tremito dell'esplosione saliva fin sul mio letto con un brivido freddo. L'unico apparecchio telefonico del quartiere era quello della farmacia. Ogni tanto di notte mi pareva di sentirlo, a tre isolati di distanza, squillare a lungo, implorando un'anima viva. Mentre la radio più a portata era a casa del dottor Buster, sei case verso est: non avremmo saputo niente sino all'alba. Poteva persino darsi che gli inglesi se la fossero data a gambe, lasciandoci circondati da frotte di arabi. Poteva persino darsi che bande di predoni armati fossero penetrate in città. Poteva persino darsi che i partigiani avessero occupato il palazzo, sede del governo mandatario. Oltre la parete, dalla camera dei miei genitori, captavo soltanto silenzio. Mamma forse stava leggendo, imbacuccata nella vestaglia, o magari stava preparando la lista delle provviste da fare per l'istituto per l'infanzia in cui lavorava. Papà invece se ne stava seduto fino all'una, a volte le due, curvo sulle sue schede contenenti le informazioni che gli servivano per portare a termine il suo libro sulla storia degli ebrei in Polonia, la testa in mezzo al cerchio di luce gettato dalla lampada della scrivania. Ogni tanto in margine a un libro marcava a matita una nota di questo tenore: "contraddittorio", oppure: "qui si potrebbe dare anche un'altra interpretazione", o ancora: "qui l'autore sbaglia di grosso." A volte chinava il suo capo stanco, puntiglioso, e sussurrava a un tomo qualunque dello scaffale: «Passerà anche questa estate.
Arriverà l'inverno. E non sarà facile.» La mamma a sua volta replicava: «Ti prego, non dirmelo» e allora papà: «Che ne diresti di una bella tazza di tè? Poi vai a dormire, sei talmente stanca.» Aveva nella voce un che di timido, quella dolcezza tipica di quando è piena notte. Mentre di giorno parlava perlopiù con un tono da giudice severo. Un giorno avvenne un piccolo miracolo: una delle ovaiole del signor Lazarus depose le uova e le covò finché ne sbucarono cinque pulcini pigolanti. Nessuno di noi aveva mai visto circolare nessun gallo. Mamma fece qualche battuta, papà la rimbrottò:
«Smettila. Il bambino sente.»
Il signor Lazarus non volle sentir parlare di vendere quei pulcini. Diede un nome a ciascuno. Passava la giornata a girare sulla terrazza del tetto assolato, con dipinta in faccia un'espressione di mite stupore, addosso una giacchetta attillata scamiciata che da noi si chiamava panciotto, e un metro verde penzoloni intorno al collo. Cuciva e tagliava solo raramente, assai più spesso discuteva in tedesco con le sue galline, sgridava e poi perdonava i pulcini, spargeva semini, cantava ninnenanne, cambiava le lettiere di segatura, si chinava per prendere in braccio il frugolino prediletto e lo cullava come si fa con i neonati per addormentarli. Papà diceva: «Se ci resta per caso un po'
di pane, o un piatto di minestra...»
E mamma:
«Gliene ho già mandata. L'ha portata su il bambino, e anche un po' di briciole di ieri, per non offenderlo continuiamo a dirgli che è per le sue galline. Ma che cosa ne sarà, nel prossimo futuro?»
Papà rispondeva così:
«Dobbiamo fare quel che possiamo, e sperare.» Mamma allora:
«Parli di nuovo come la radio. E smettila. Il bambino ci sente.» La sera dopo mangiato, quando giungeva l'ora del coprifuoco, noi tre giocavamo a Monopoli. Mamma teneva sempre stretta fra le mani una tazza di tè, per assorbirne il calore malgrado fosse già estate. Altre volte mettevamo a posto i francobolli e il incollavamo nell'album. A papà piaceva raccontare varie cose dei paesi in cui c'imbattevamo con i francobolli. Mamma immergeva i pezzi di buste in acqua per sciogliere la colla e separare il francobollo dalla carta. Dopo venti minuti io pescavo nella scodella i francobolli ormai scollati dalla busta e li posavo con la faccia in giù ad asciugare su un foglio di carta assorbente. I francobolli se ne stavano così in fila a testa in giù come in quella foto dei prigionieri di guerra italiani caduti in mano al feldmaresciallo Montgomery, dopo una delle battaglie nel deserto occidentale: anche loro stavano in fila, accasciati per terra sulla sabbia bollente, le mani legate dietro la schiena e la faccia affondata fra le gambe. Poi, una volta asciutti, papà catalogava i francobolli con l'aiuto dello spesso catalogo inglese che aveva in copertina un disegno ingrandito del francobollo con il cigno nero, il francobollo più prezioso del mondo benché il suo valore effettivo fosse soltanto un penny. Allora porgevo a papà nel palmo della mano le linguette trasparenti, con lo sguardo che pendeva dalle sue labbra. Di alcuni paesi papà parlava con moderato disgusto, mentre ad altri riservava grande rispetto. Mi raccontava della popolazione, dell'economia, delle città più importanti, delle risorse naturali, dei cimeli antichi, dei regimi politici, dei tesori d'arte. Ma parlava soprattutto dei pittori, dei musicisti e dei grandi poeti che a sua detta erano quasi tutti e pressoché ovunque ebrei o di ascendenza ebraica, o quanto meno mezzi ebrei. A volte mi sfiorava il capo o la schiena, cercando un impulso di quell'affetto che si teneva tutto dentro, e tutt'a un tratto diceva:
«Domani io e te andiamo al chiosco. Ti compro un astuccio per le penne. O magari ti scegli tu quello che vuoi. Ti faccio un regalo, insomma. Non sei abbastanza felice, sai.» Un giorno disse:
«Ti voglio rivelare una cosa, un segreto che non ho mai detto a nessuno.
Sai, sono un po' daltonico. Capita, a volte, è un difetto di nascita. Insomma, ci sono cose che tu dovrai vedere per tutti e due. In fondo la fantasia e l'intelligenza non ti mancano.» C'erano parole che papà usava senza rendersi conto che intristivano mamma: monti Carpazi, ad esempio. O campanile. E anche Opera, carrozza, Balletto, piazza dell'Orologio. (Già, che cosa volevano poi dire carrozza, e frontone, e banderuola, e portico? Com'era fatto un palafreniere, per non dire un cancelliere, un gendarme e un campanaro?)
Secondo un preciso accordo, o mamma o papà venivano in camera mia alle
dieci e un quarto precise per controllare che avessi spento la luce accanto al letto. A volte mamma restava con me ancora cinque, dieci minuti, e sul bordo del letto mi raccontava qualcosa di quando era giovane. Ad esempio di quando, a otto anni, una mattina d'estate era seduta sulla riva di un fiumiciattolo, in Ucraina, vicino al mulino per la farina. Le anatre punteggiavano l'acqua. Mi descrisse l'ansa del fiume, là dove poi scompariva nel bosco, e insieme ad esso scompariva sempre tutto quel che la corrente portava via: pezzi di corteccia e foglie secche. Quel giorno lei aveva trovato nel cortile del mulino una persiana rotta pitturata di blu pallido, e l'aveva buttata nel fiume. Era convinta che quel corso d'acqua che usciva dal bosco e al bosco tornava facesse nel folto fra gli alberi una serie di curve che chiudevano il cerchio. Per questo era rimasta seduta lì anche due, tre ore, ad aspettare di veder ricomparire la sua persiana dopo che aveva fatto il giro completo. Ma solo le anatre tornavano, la persiana no. A scuola le avevano insegnato che l'acqua scorre sempre verso giù perché quella era la legge di natura. Ma in fondo nei tempi antichi la gente credeva in tutt'altre leggi di natura, credeva ad esempio che la terra fosse piatta e che il sole le girasse intorno e le stelle fossero infisse nel firmamento per vegliare su di noi. Chissà che anche le leggi di natura dei nostri tempi non fossero soltanto provvisorie, e che ben presto sarebbero state sostituite con delle nuove, no?
L'indomani mia madre scese nuovamente al fiume, ma invano: la persiana blu non tornò. Nei giorni che seguirono restò ad aspettare per una mezz'ora o più sulla riva. Certo, lo sapeva anche lei che il mancato ritorno del suo oggetto non dimostrava ancora nulla, perché poteva essere comunque rimasto impigliato sulla riva, da qualche parte. O affondato nell'acqua bassa.
E poteva anche darsi che fosse passato proprio lì davanti al mulino, una, due volte e forse più, ma di notte. O mentre lei era a mangiare. O anche mentre era lì ad aspettarlo e proprio in quel momento per puro caso stava guardando in su, verso uno stormo di uccelli che passava, e così se l'era perso. D'autunno infatti, ma anche in primavera e d'estate, senza affatto badare alle stagioni migratorie, da quelle parti passavano immensi stormi di uccelli; e in fondo chissà quanto era grande il cerchio che il fiume disegnava prima di tornare al mulino. Una settimana? Un anno? O più ancora? Chissà che, mentre lei stava lì sul bordo del letto a raccontare della sua persiana in una notte gerosolimitana di coprifuoco dell'anno millenovecentoquarantasette, la persiana blu dei tempi della sua infanzia non stesse ancora viaggiando sulla corrente, laggiù in Ucraina, o nelle valli dei monti Carpazi, passando lavandaie, fontane, frontoni e campanili... Sempre più lontana da quel mulino. E chissà quando sarebbe giunta a quel remoto punto di svolta in cui riprendeva la via del ritorno... Fra dieci anni, ancora? O settanta, perché no? O centosette, magari? Dove sarà stata la persiana blu nel momento in cui mia madre mi raccontò la sua storia, vent'anni e più dopo che l'aveva buttata nel fiume? Dove saranno stati, esattamente in quel momento, i suoi miseri resti? Per non dire pezzi? Briciole? Pochi, marci rimasugli? Qualcosa doveva pur esserne rimasto... E qualcosa deve esserne rimasto persino ora che sto scrivendo, a settant'anni più o meno di distanza da quella mattina d'estate in cui mia madre la calò nel fiume, non è così?
Il giorno in cui, finalmente, la persiana tornerà al punto in cui mia madre l'aveva data al fiume, vicino al mulino per la farina, nessuno di noi di certo la vedrà perché non ci saremo più. Altri occhi la vedranno, occhi di un uomo o una donna che non potranno nemmeno lontanamente immaginare che quella cosa trasportata dalla corrente è tornata da dove è venuta. Peccato, diceva mia madre, peccato che chi sarà lì a vedere il mio segno ripassare davanti al mulino, se mai lo noterà, di certo non potrà sapere che è un segno! La prova che tutto ritorna! Ma in fondo non è escluso che chi per caso sarà lì quel giorno e in quel momento in cui la persiana tornerà, la scelga anche lui come segno per capire se il fiume gira in tondo o meno. Se non che, comunque, prima che il cerchio si chiuda anche quella persona nuova non ci sarà più. E ci sarà invece di nuovo un altro estraneo, anche lui all'oscuro di tutto. Ecco perché aveva voluto raccontarmela, quella storia.
CAPITOLO 13.
Il processo per il mio tradimento, vicino al bosco di Tel Arza, durò persino meno di un quarto d'ora, per la paura di essere colti dal coprifuoco. Nessun interrogatorio sotto tortura, nessuna mortificazione, nessuna cascata di insulti. Fu un processo freddo e piuttosto composto.
Iniziò Chita Reznik:
«L'imputato si alzi in piedi.» (Al cinema Edison avevano dato "Lo sceriffo bandito del Montana" con Gary Cooper. Il nostro processo si conformò alla stessa procedura lampo usata per il protagonista.) Ben Hur Tychocinski, presidente del tribunale, pubblico ministero, istruttore, testimone unico nonché legiferatore, parlò senza muovere le labbra:
«Profi. Membro del comitato direttivo. Vice comandante in capo e responsabile delle operazioni. Un uomo chiave. Dotato. Degno di menzione.» Mormorai:
«Grazie, Ben Hur.» (Ero talmente fiero che sentii un groppo in gola.) Chita Reznik disse:
«L'imputato parli solo se interrogato. Ora l'imputato taccia.» Ben Hur replicò:
«Taci anche tu, Chita.»
Dopo una paura Ben Hur formulò un verdetto doloroso, composto da due parole soltanto: «Che peccato.»
Silenzio. Poi, con aria meditabonda, quasi compassionevole, la sua voce mielosa aggiunse:
«Abbiamo tre domande. Secondo la sincerità delle risposte questo tribunale deciderà il castigo per l'imputato. Gli conviene rispondere con molta precisione: qual è il motivo? Che cosa è venuto a sapere il nemico? Qual è stato il prezzo del tradimento? Il tribunale esige risposte brevi.» Risposi:
«Va bene. E' così. Primo: non ho tradito. Anzi. Ho ricavato dal nemico importanti informazioni, con la scusa di lezioni di ebraico e inglese.
Questo è... il punto primo.»
Chita Reznik m'interruppe:
«E' un imbroglione. Vile traditore e imbroglione.» Ben Hur:
«Chita. E l'ultimo avvertimento. Imputato. Continui. Essendo ancora più succinto, per favore.» Proseguii:
«Va bene. Due: non ho dato nessuna informazione. Nemmeno il mio nome gli ho detto. E ovviamente nemmeno un accenno all'esistenza del movimento clandestino. Devo continuare?»
«Se non sei stanco.»
Chita sfoderò un sorriso infingardo, servile, e disse:
«Lascialo a me, Profi, che gli do una ripassatina. Cinque minuti, non di
più. Dopo vedrai che canta come un canarino.» Ben Hur disse:
«Fai schifo, Chita. Parli come un piccolo nazista. Allora, nazistuccio, prendi quel sasso, non quello, quell'altro lì, e ficcatelo in bocca. Ecco, così. Chiudi la bocca adesso. Il tribunale ha bisogno di silenzio assoluto fino alla fine del processo. L'imputato finisca di parlare, prego, se non ha ancora finito.»
«Terzo» continuai, cercando di non guardare verso Chita mezzo soffocato con la pietra in bocca. Ero deciso invece a fissare dritto negli occhi volpini, immobili, di Ben Hur. «Terzo: non ho preso nulla dal nemico. Nemmeno un laccio da scarpe. Per principio. E con ciò ho finito. Non sono un traditore, ma una spia, in conformità agli ordini ricevuti.» «Un po' retorico» commentò Ben Hur malinconicamente, «tu e la tua storia dei lacci per le scarpe. Ma ormai ci siamo abituati. Hai parlato molto bene, Profi.» «Innocente? Libero?»
«L'imputato ha finito. Ora taccia, l'imputato.»
Silenzio. Ben Hur Tychocinski si concentrò su tre rametti. Per quattro, cinque volte, tentò di farli stare in piedi a mo' di torretta triangolare, ma cadevano sempre. Allora sfoderò e aprì un temperino, ne accorciò uno, ne pareggiò un altro, finché riuscì ad appoggiarli uno all'altro componendo una forma geometrica perfetta. Ma il temperino non lo chiuse né lo rimise in tasca, continuando invece a soppesarlo sul palmo della mano, la lama puntata verso di me, con il suo minuscolo lampo di luce. Poi disse:
«Questa corte crede al traditore quando dice di aver estorto al nemico alcune informazioni. Questa corte crede al traditore anche quando dice di non essersi lasciato sfuggire nulla di noi. Questa corte respinge sdegnata la menzogna secondo cui il traditore non avrebbe ricevuto alcun compenso: egli ha avuto invece dal nemico biscotti, gazzosa, un panino con la salsiccia, lezioni d'inglese, e un libro della Bibbia compreso il
Nuovo Testamento, che è contro il nostro popolo.»
«Il panino con la salsiccia no» dissi quasi sottovoce. «Il traditore è anche meschino. Sta facendo perdere tempo alla corte con storie di salsicce e minuzie irrilevanti.»
«Ben Hur!» esplose d'un tratto una voce disperata da dentro di me, che era un grido di rivolta contro la giustizia calpestata: «Cosa vi ho fatto? Non gli ho detto nulla! Non una parola! Ricordati poi che sono stato io a fondare questa organizzazione e io a nominarti comandante, ma ora chiudiamo la faccenda. Sciolgo il LOM. Il gioco è finito. Hai mai sentito parlare di Dreyfus? E dello scrittore Zola? Certo che no. Comunque non me ne importa più un fico. Dichiaro smobilitata l'organizzazione, me ne vado a casa.»
«Va' pure, Profi.»
«E non solo me ne vado a casa. Vi disprezzo, tutti e due.»
«Va' pure.»
«Non ho tradito. Non ho spifferato niente. E' una calunnia. E tu. Ben Hur, sei soltanto un bambino con il complesso di persecuzione.
Ho del materiale sull'enciclopedia in proposito.»
«E allora? Perché non te ne vai? Continui a dire me ne vado me ne vado, e invece resti piantato qui. E tu, Chita, senti, ma sei diventato matto?
Piantala di mangiare pietre. Sì. Puoi tirarla fuori. Ma non buttarla.
Tienila lì, può servirti ancora.»
«Che cosa mi farete?»
«Vedrai, Profi. Non sta scritto sull'enciclopedia.» Quasi senza voce, dissi ancora: «Ma non gli ho rivelato nulla.»
«E' vero.»
«Non ho preso niente da lui.»
«Anche questo è vero. Quasi vero.»
«E allora perché?»
«Perché, perché. Il traditore ha già letto cinque enciclopedie e ancora non capisce quel che ha fatto. Dobbiamo spiegarglielo noi? Che cosa ne pensi, Chita? Aprirgli un pochino gli occhi? Sì? Va bene. Non siamo mica nazisti, noi. Questa corte non ha problemi a giustificarsi. Allora. E perché tu, Profi, vuoi bene al nemico. E voler bene al nemico, Profi, è peggio che passargli delle informazioni. Peggio che tradire i partigiani. Peggio che spifferare. Peggio che vendergli armi. Persino peggio che passare a combattere dall'altra parte. Voler bene al nemico, Profi, è il massimo del tradimento. Vieni, Chita. Andiamo. E' quasi ora del coprifuoco. E poi non è per niente sano respirare la stessa aria dei traditori. Da questo momento sei tu, Chita, il vice comandante in capo.
Basta solo che stai zitto.»
(Io? Steven Duniop? Sentivo dentro sprofondarmi lo stomaco, e tutto il resto sempre più in basso, come in fondo a un pozzo. Come se dentro la pancia si nascondesse un'altra pancia, un abisso, e tutto stesse finendo laggiù. Volergli un po' bene? A quello lì? Che bugia. Il massimo del tradimento? Allora come faceva la mamma a dire che chi ama non tradisce?)
Ben Hur e Chita si erano allontanati. Da dentro di me si sprigionò un ruggito. ; «Pazzi! Malati di mente! Io lo odio, quel Duniop, quella faccia da medusa! Lo detesto! Mi fa schifo! Lo disprezzo!»
(Traditore. Bugiardo. Vile.)
Comunque, il boschetto era deserto. Gli alti comandi non esistevano più. Stava per calare il buio, e anche il coprifuoco. Non sarei tornato a casa. Sarei salito sulle montagne, avrei fatto il bambino eremita. Solo. Per sempre. Senza appartenere a nessuno, e dunque senza tradire nessuno. Perché se si appartiene inevitabilmente si tradisce. I pini stormivano e i cipressi invece frusciavano: taci, vile.
CAPITOLO 10.
Stando al metodo logico che mi aveva insegnato mio padre per affrontare le crisi, mi si prospettavano varie possibilità. Le misi per iscritto su uno dei biglietti posati all'angolo della scrivania: primo, far passare Chita dalla mia parte (con dei francobolli? O monete? O con un thriller a puntate?), e poi sospendere Ben Hur dall'incarico di comandante in capo. Secondo, uno scisma. Fondando un nuovo movimento clandestino e arruolando nuovi membri. Terzo, rifugiarmi nella grotta di Sanhedryah e vivere lì in attesa del trionfo della giustizia. Oppure raccontare tutto al sergente Duniop, ora che comunque non avevo più niente da perdere: così Ben Hur e Chita sarebbero finiti in prigione e io sarei stato portato in Inghilterra per cominciare una nuova vita, sotto una nuova identità. Laggiù, in Inghilterra, avrei intrecciato dei legami, sarei entrato in confidenza con le autorità e con il re, e al momento buono avrei potuto convincere il governo ad andarsene dalla nostra terra. Io, da solo. Poi avrei concesso a Ben Hur e Chita un'amnistia intrisa di profondo disprezzo. Oppure no.
Meglio aspettare. Armarsi di pazienza e soppesare la situazione con la massima lucidità. (Ancora oggi mi capita di darmi consigli come questi.
Non sempre li seguo, del resto.)
Aspettare a bocce ferme. Se Ben Hur avesse tramato alle mie spalle, sarei stato pronto ad affrontarlo. Ma non avrei mai fatto nulla che potesse nuocere al movimento o scioglierlo. Dopo la vendetta, dopo il castigo (che cosa potevano farmi ancora, del resto?). Quasi certamente mi avrebbero chiesto di tornare: senza di me, infatti, non contavano niente. Erano un fantoccio senza cervello. Marmaglia. Un pollo senza testa. Io comunque non avrei detto di sì con troppa fretta. Mi sarei fatto pregare. Implorare. Chiedessero scusa, prima. Ammettessero di avermi fatto un torto. «Papà» domandai quella sera, «che cosa faremmo se gli inglesi, diciamo il comandante supremo o magari anche il re in persona, venissero da noi e ammettessero di averci fatto un torto? E ci chiedessero di perdonarli?» Mamma rispose:
«Certo che li perdoneremmo. Perché no? Che bel sogno che hai fatto.» «Albione» replicò papà. «Prima di tutto bisognerebbe verificare attentamente se sono sinceri. Con loro tutto è possibile.» «E se venissero i tedeschi, a chiederci scusa?»
«E' difficile» disse la mamma. «In questo caso bisognerebbe aspettare. Magari anche molti anni. Questo, forse, potrai farlo tu un giorno. Io no.»
Papà si immerse nei suoi pensieri. Alla fine mi sfiorò la spalla e disse:
«Finché in questa terra rimaniamo gli sparuti, inermi ebrei, tanto Albione quanto le altre genti continueranno a corteggiare gli arabi. Ma se diventassimo forti, molti e capaci di difenderci, allora sì, forse sarebbe la volta buona che ci tratterebbero con i guanti. Inglesi, tedeschi, russi, tutte le nazioni giù a cantarci la serenata. Quel giorno futuro, li accoglieremo tutti con cortesia. Senza respingere la mano che ci verrà porta, ma senza nemmeno saltare al collo in un impeto di affetto troppo espansivo: ehi, siamo tutti fratelli! Anzi. Rispetto e sospetto. Fra l'altro, per noi sarebbe molto meglio allearci non con l'Europa, ma piuttosto con i nostri vicini arabi. Dopotutto Ismaele è l'unico parente che abbiamo. Ma tutto questo è, ovviamente, ancora remoto, e molto anche. Te la ricordi, la storia della guerra di Troia?
L'abbiamo letta insieme quest'inverno. E la celebre frase:
Timeo Danaos et dona ferentes? Questa volta, al posto dei greci mettici gli inglesi. Quanto ai tedeschi, se loro avranno il buon gusto di non perdonarsi da soli, forse un giorno, prima o poi, noi potremo perdonarli. Ma se prima di quel giorno si perdoneranno loro da soli, allora noi non lo faremo più di certo.» Non mollai:
«Ma alla fin fine, i nemici li perdoneremo o no?» (In quel momento mi venne in mente un'immagine assai precisa, per non dire concreta: papà, mamma e il sergente Duniop seduti qui da noi in quella stanza, un sabato mattina. A bere il tè e chiacchierare in ebraico di Bibbia e siti archeologici di Gerusalemme, condendo di latino o greco una fine disquisizione intorno ai munifici greci e ai loro doni. In un angolo di quel quadretto, anche io e Yardena: lei a suonare il suo clarinetto e io allungato sulla stuoia vicino ai suoi piedi, una beata pantera in cantina.)
Mamma disse:
«Sì. Vanno perdonati. Il perdono non concesso è come un veleno che intossica.»
Allora avrei dovuto alzarmi e andare a chiedere scusa a Yardena per quel che quasi non le avevo visto, comunque senza farlo apposta. Per i pensieri che mi erano venuti di lì. Ma come? Sì, per chiedere scusa avrei dovuto raccontarle quel che era successo, e in fondo la storia sarebbe stata una specie di tradimento. Allora, chiedere scusa a Yardena in fondo era una specie di tradimento del tradimento? Boh. E tradire il tradimento era un modo per neutralizzarlo, per annullarlo? O al contrario, per moltiplicarlo? Mi domando.
CAPITOLO 15.
Mai portare all'ospedale un partigiano ferito, perché gli ospedali sono i primi posti in cui gli uomini del reparto investigativo vanno a cercare, dopo ogni operazione. Per questa ragione il movimento clandestino era dotato di alcune postazioni segrete per la cura dei feriti, una delle quali si trovava in casa nostra perché mia mamma aveva fatto un corso da infermiera. (In realtà aveva studiato solo due anni. Durante il secondo si era sposata, e l'anno dopo ero nato io, che avevo così concluso la sua carriera.)
Nell'armadio del bagno c'era un cassetto chiuso a chiave sul quale era proibito fare domande, proibito persino notare che restava sempre chiuso a chiave. Ma un giorno, mentre i miei erano al lavoro, lo violai con estrema prudenza e con l'aiuto di un filo di ferro piegato, scoprendo
che era pieno di fasce, bende, siringhe, pacchetti di pillole diverse, barattolini, boccette chiuse, unguenti con scritte in lingua straniera. Sapevo che qualora nel cuore della notte avessi udito una specie di graffio sommesso contro la porta, seguito da voci soffocate e bisbigli e poi dal fruscio di un fiammifero acceso e dal fischio del bollitore per l'acqua, il mio compito era quello di non uscire dalla camera. Per non vedere il materasso di scorta steso per terra in corridoio ai piedi delle grandi carte geografiche, destinato a scomparire la mattina dopo come se nulla fosse stato. Come se avessi sognato. Perché fra i doveri del combattente clandestino quello di non sapere, all'occorrenza, occupa un posto assai importante. Mio papà era praticamente cieco al buio, per questo non gli avevano mai affidato missioni notturne come operazioni o incursioni contro la polizia. Aveva del resto un ruolo speciale:
preparare gli slogan in inglese contro la perfida Albione, che prima si era pubblicamente impegnata a sostenere la creazione di un focolare nazionale per il nostro popolo, poi con un cinico voltafaccia ci aveva tradito e ora stava aiutando gli arabi nel loro intento di distruggerci. Chiesi a papà di spiegarmi che cosa significasse "cinico voltafaccia." (Quando mi spiegava un concetto nuovo, papà assumeva un'aria impegnata e grave, come uno scienziato intento a travasare un liquido prezioso da una provetta all'altra.) In quell'occasione rispose:
«Cinico voltafaccia. Vale a dire, freddo e calcolato. Utilitaristico.
Cinismo viene dalla parola kynos, che in greco antico vuol dire "cane". Quando verrà il momento ti spiegherò il nesso fra cinismo e cane, anche se questo animale simboleggia perlopiù l'esatto opposto, cioè la fedeltà. Ma è una storia un po' lunga, che in fondo testimonia l'ingratitudine dell'umanità verso gli animali più devoti, come il cane, il mulo, il cavallo, l'asino, che adottiamo a mo' di simboli offensivi, mentre le bestie feroci, nemiche quelle sì, come il leone, la tigre, il lupo e persino l'aquila saprofaga, in gran parte delle lingue vengono usate per lusinghiere metafore. Comunque, per tornare alla tua domanda, il cinico voltafaccia è quel tradimento perpetrato a sangue freddo. Immorale e insensibile.»
Domandai (non a papà ma a me stesso): ma quale tradimento non è cinico,
allora? Non è utilitaristico, o calcolato? E poi, esiste forse un tradimento che non sia vile? (Oggi ho l'impressione di sì.)
Negli slogan della resistenza che papà componeva in inglese, la perfida Albione era accusata di perseverare nei crimini nazisti, di svendere le ultime speranze di un popolo decimato per un po' di petrolio arabo e qualche base militare in Oriente:
«Sappia dunque la genia di Milton e di Lord Byron che il petrolio che la riscalda d'inverno è intriso del sangue dei sopravvissuti di un popolo già decimato.» Oppure: «II governo laburista inglese adula i corrotti regimi arabi che si lamentano in continuazione perché hanno troppo poco spazio fra l'Oceano Atlantico, il Golfo Persico, fra il Monte Ararat a nord e il Bab el Mandeb a sud (verifica! sulla carta: non era affatto poco, quello spazio. La nostra terra, invece, quella sì era solo un minuscolo puntino nelle immensità del mondo arabo. Una capocchia di spillo nell'impero britannico).» Terminata la costruzione del nostro missile, l'avremmo puntato contro il palazzo del re nel cuore
di Londra, costringendoli di fatto a lasciare la nostra terra. (E che ne sarebbe stato, però, del sergente Duniop? Che amava la Bibbia e noi? Avrebbe avuto il permesso di restare qui, lui, in veste di rispettabile ospite del governo nazionale ebraico? Me ne sarei occupato io personalmente. Gli avrei scritto una lettera di referenze.)
La notte, durante le sue ricerche intorno alla storia degli ebrei in Polonia, la notte papà scriveva questi slogan, che infarciva di citazioni poetiche inglesi perché fossero più d'effetto. La mattina andando al lavoro consegnava il foglio, nascosto fra le pagine del giornale, alla sua staffetta (il garzone dall'aria da fenicottero nella drogheria dei fratelli Sinopsky). Di lì gli slogan erano portati alla tipografia clandestina (nella cantina della famiglia Kolodny). Dopo un giorno o due comparivano sui muri delle case, sui pali della luce, a volte persino sulla stazione di polizia del sergente Duniop. Se gli uomini del dipartimento investigativo avessero scoperto il cassetto di mamma o le bozze degli slogan di papà, i due sarebbero di certo finiti in cella d'isolamento nella prigione del campo dei Russi, e io sarei rimasto solo. Sarei andato sulle montagne. Un bambino selvatico, ecco. All'Edison avevano dato un film su una banda di falsari: una famiglia intera, fratelli, zii, cognati eccetera. Tornando a casa dal cinema avevo domandato a mamma:
siamo anche noi una famiglia di fuorilegge? E lei mi aveva risposto così:
«E che cosa avremmo fatto? Rubato? Frodato? Ucciso, forse?» E papà:
«Assolutamente no. Anzi: la legge inglese è di fatto illegale. Il governo mandatario inglese sulla nostra terra si fonda sulla repressione e sulla falsità perché era stato affidato a suo tempo dalle nazioni del mondo allo scopo di preparare qui il focolare nazionale del popolo ebraico. Invece ora gli inglesi stanno invitando gli arabi a distruggere questo focolare, e li aiutano persino.» Mentre parlava, gli occhi celesti amplificati dalle lenti sprizzavano rabbia. .Fra me e la mamma passò in quell'istante un sorriso di complicità: la rabbia di papà era tutto sommato mite, letteraria. Per cacciar via gli inglesi e respingere gli eserciti arabi ne occorreva invece un'altra, selvaggia, lontana mille miglia dalle parole, una rabbia che in casa nostra e in tutto il quartiere era ignota. Forse magari in Galilea, nelle valli, nei kibbutz in fondo al Neghev, il deserto meridionale, fra i monti dove ogni notte i combattenti della resistenza vera si esercitavano, laggiù e lassù forse si forgiava la rabbia di cui c'era bisogno. Certo, non la conoscevamo, noi, ma sapevamo che senza di essa eravamo tutti perduti. Lontano, nei deserti, nelle steppe, nella pianura del Carmelo, nell'ardente valle di Bet Shean, nascevano ebrei nuovi, non più pallidi e occhialuti come noi, e invece robusti e abbronzati pionieri: da loro sarebbe scaturita quella rabbia tenace. Mentre il furore di giustizia che ogni tanto si rifletteva nelle lenti degli occhiali di papà insinuava fra me e la mamma un'ombra di sorriso. Meno di una strizzata d'occhi. Una parvenza di cospirazione, una clandestinità dentro la clandestinità, come se per una frazione di secondo lei avesse aperto davanti a me un cassetto proibito, come se mi avesse voluto lasciare intendere che in quella stanza in quel momento c'erano due adulti e un bambino, e comunque per lei il bambino non ero necessariamente io. Comunque, non sempre.
Andai ad abbracciarla stretta, intanto papà accese la lampada sulla scrivania e tornò a raccogliere dati sulla storia degli ebrei in Polonia. Perché allora anche la dolcezza di quel momento fu cancellata dal solito gesso sulla lavagna, dal solito amaro sapore del tradimento?
Fu allora che decisi di raccontare:
«Ho chiuso con Ben Hur e Chita. Non siamo più amici.» Papà, che ci dava la schiena, sempre rivolto alla montagna di libri aperti sulla scrivania, domandò:
«Che cosa hai combinato di nuovo? Quand'è che imparerai ad essere leale con i tuoi amici?» Risposi:
«C'è stata una scissione.»
Papà si voltò questa volta e interrogò con la sua voce ferma:
«Una scissione. Per caso fra i Figli della Luce e i Figli della
Tenebra?» Mamma:
«Sparano di nuovo. E vicino, anche.»
CAPITOLO 16.
Ho già scritto prima di quanto mi attraggano le persone come Ben Hur, sempre assetate, che in tutto il mondo non hanno modo di appagare la loro inappagabile sete, cui devono una natura selvaggia letargica come quella del gatto, una specie di gelo negli occhi socchiusi. Come gli eroi dell'epoca di re Davide che avevamo studiato durante l'ora di Bibbia, io sentivo immancabilmente l'inspiegabile impulso di rischiare per quel tipo di persone tutto quel che possedevo. Di mettere a repentaglio la mia vita per andare a prendere un po' d'acqua al pozzo del nemico. Tutto nella vaga speranza che, compiuto quell'atto eroico, mi sarei meritato una specie di smorfia leopardesca a mezza bocca: «Te la sei cavata, Profi.»
Oltre ai leopardi assetati, c'è un'altra categoria di persone che mi attrae, quelle che apparentemente sono l'esatto opposto delle prime, cui tuttavia le collega qualcosa di indefinibile ma comunque facilmente riconoscibile. Mi riferisco alle persone perennemente sprovvedute. Come ad esempio il sergente Duniop. Sia allora sia adesso che sto scrivendo questo libro, riscontro sempre un certo fascino toccante nelle persone smarrite, quelle che vagano per il mondo come se questo fosse una anonima fermata dell'autobus di una città straniera, dove si è scesi per sbaglio senza avere la minima idea del perché e del come venirne a capo. Era insomma un uomo corpacciuto, grande e grosso, ma tenero. Un po' smidollato, ecco. Malgrado la divisa e la pistola, le mostrine in bella vista, malgrado la targa argentata con il numero d'ordinanza e il berretto nero, malgrado tutto questo sembrava sempre uno appena passato dalla luce al buio o viceversa, uno appena messo sotto un potente fascio di luce. Uno che aveva appena perso qualcosa che gli stava sommamente a cuore e di cui non ricordava più nulla, né dove potesse essere, né come fosse fatta e che cosa se ne sarebbe fatto lui qualora l'avesse ritrovata. E così non faceva che vagare dentro se stesso, per stanze e corridoi, in cantina, nelle dispense, ma quand'anche gli fosse capitata, quella cosa persa, come avrebbe fatto a riconoscerla? Ci sarebbe passato davanti con la solita aria stanca, e avrebbe ' continuato a cercare. Sempre più lontano e sempre più perso. Non dimenticavo che lui impersonava il nemico, e tuttavia avevo una gran voglia di porgergli la mano. Non per stringere la sua, ma per condurlo, come un bambino, o un cieco. Quasi ogni pomeriggio m'intrufolavo nel caffè Orient Palace, con sottobraccio il libro «Inglese per studenti d'Oltremare» e i fascicoli «Lingua per immigranti e pionieri.» Non me ne importava più se il leopardo e il suo schiavo continuavano a pedinarmi per i vicoli. Forse sì e forse no.
Del resto, che cosa avevo ancora da perdere? Attraversavo a passo lesto la prima stanza tagliando il fumo delle sigarette e il tanfo di birra, senza ascoltare le risate volgari e reprimendo quella voglia in punta di dita di sfiorare per un istante il panno verde del biliardo. Non guardavo nemmeno il varco nella scollatura della ragazza china sul banco. Sfrecciavo invece verso la stanza sul retro e approdavo al nostro tavolo. Più d'una volta arrivai per niente: lui non c'era, malgrado avessimo fissato l'incontro in anticipo. Qualche volta se ne dimenticava. Qualche volta faceva confusione. Qualche volta, finito il normale lavoro all'amministrazione, veniva 'convocato sul momento per qualche pattugliamento, per 'qualche ronda all'ufficio postale o un posto di blocco. E, come mi fece intendere, capitava anche che gli fosse negata la libera uscita per aver tardato a mettersi sull'attenti all'adunata o perché uno stivale non era ben allacciato. Qualcuno di voi ha mai visto, nella vita vera o in un film, un nemico distratto? Timido? Ebbene, il sergente Duniop era proprio così:
distratto e soprattutto timido. Un giorno gli domandai se laggiù, nella sua città, a Canterbury, avesse una moglie e dei figli che aspettavano il suo ritorno. (Intendevo fra l'altro ricordargli, senza offesa, che in fondo era giunta l'ora che se ne andassero dalla nostra terra, per il bene nostro ma anche loro, no?) Il sergente Duniop parve sconvolto da quella domanda, insaccò il testone nelle spalle come una tartaruga spaventata, le mani vagarono spaesate fra le gambe e il tavolo, su e giù, divenne anche rosso come un peperone, dalle guance fino alla punta delle orecchie, come una chiazza di vino che si propaga sulla tovaglia bianca.
Cominciò a scusarsi profusamente nel suo ebraico barocco: sino ad allora era infatti «andato ramingo per il suo cammino», malgrado il buon Dio avesse esplicitamente detto che «non è bene per l'uomo star solo.» Qualche volta trovai il sergente Duniop seduto che mi aspettava al solito tavolo, con un pezzo di camicia fuori dai pantaloni e la pancia che traboccava nascondendo la cintura, grasso e flaccido. In attesa che arrivassi giocava a dama da solo: al mio arrivo aveva un attimo di smarrimento, si scusava, rimetteva in tutta fretta le pedine nella scatola. E diceva più o meno così:
«Comunque, stavo per essere perduto.» E sorrideva timidamente come per
dire scusa, come per dire, fate come se non ci fossi, e intanto arrossiva anche, e più arrossiva più s'intimidiva. «Anzi» lo correggevo, «comunque avrebbe vinto.»
Allora ci pensava un po' su, capiva, sorrideva con una grazia commovente, quasi avessi detto una cosa troppo intelligente perché potesse mai venire in mente a lui. E poi rispondeva:
«Non proprio. Vincendo mi darei un brutto colpo.»
E invece, quando gli proposi una partita insieme, vinse lui, e pieno di imbarazzo e rimorso cominciò a scusarsi come se quella vittoria fosse un ulteriore crimine del repressivo governo mandatario inglese. Durante le lezioni di inglese ogni tanto mi chiedeva scusa per le complicazioni dei tempi dei verbi nella loro lingua e per l'abbondanza di eccezioni alle regole. Come se la colpa fosse tutta e soltanto sua; si scusava anche dell'ambiguità dell'inglese, che non consente di distinguere, ad esempio, vetro da bicchiere, orso da sopportare, caldo da piccante, data da dattero.
Mentre durante le lezioni di ebraico, ogni volta che mi porgeva il quaderno con i compiti a casa che gli avevo dato da fare, domandava cautamente in tono biblico:
«Allora? L'ignorante ha capito qualche cosa?»
Quando gli facevo i complimenti, i suoi occhi infantili si illuminavano, e un sorriso imbarazzato, commovente, s'insinuava malcerto fra le labbra e fin sulle guance, poi pareva diffondersi sotto la divisa, in tutta quella corpulenza. Allora mormorava:
«Non sono degno di tanta lode.»
Ma ogni tanto, nel bel mezzo di una lezione, accantonando il lavoro ci mettevamo a chiacchierare. Talvolta lui si lasciava andare e raccontava i pettegolezzi della vita in caserma, sogghignando come per l'imbarazzo nel sentirsi dire quel genere di cose: il tale stava facendo le scarpe al talaltro, Tizio faceva incetta di caramelle e sigarette, Caio non si lavava mai, Sempronio era stato visto al bar che ingollava birra a tutto spiano in compagnia di una sedicente sorella. Quando si parlava di politica, io mi tramutavo in un rabbioso profeta e lui annuiva col capo dicendo soltanto «certo», «che guaio.» Una volta commentò: «Un popolo di profeti. Il popolo del libro. Purché possano avere ciò che
gli spetta senza spargere sangue innocente.»
Ma si parlava anche di Bibbia, allora io ascoltavo a bocca aperta, e lui mi sconcertava con interpretazioni che il professor
Zerubabel Ghion non si sarebbe mai nemmeno lontanamente immaginato.
Venne fuori, ad esempio, che al sergente Duniop non piaceva per nulla re Davide, benché gli facesse un po' pena. Secondo lui Davide era infatti un ragazzo di campagna destinato a fare il poeta e l'innamorato, se non che il buon Dio l'aveva fatto diventare un re - cosa per la quale non era affatto tagliato - e costretto a una vita di guerre e intrighi di corte. Nulla di che stupirsi, dunque, se alla fine dei suoi giorni il povero Davide era stato preso dallo stesso spirito maligno che aveva visitato il suo predecessore, Saul, che del resto valeva più di lui. Dopotutto i due, cioè il pastore di pecore e quello di asini, avevano subito lo stesso destino. Il sergente Duniop parlava di Saul e Davide e di Micol e Gionata e Assalonne e loab con un tono di lieve esclamazione, come fossero anche loro dei giovani combattenti della resistenza ebraica, e come se anche con loro si fosse incontrato al caffè Orient Palace per imparare l'ebraico e insegnare loro in cambio un po' di
filisteo. Per Saul e Gionata provava affetto e pietà, ma era affezionato soprattutto a Micol, la figlia di Saul, che non aveva mai avuto figli, e anche a Paltiel figlio di Lais, che aveva invano chiesto e pianto di lei che non era più sua moglie, finché Avner non l'aveva scacciato via cancellandolo definitivamente dallo scenario della storia biblica. Però, a parte Paltiel, in quella storia quasi tutti prima o poi avevano tradito: Gionata e Micol avevano tradito il padre Saul. loab e gli altri figli di Zeruia, e il bell'Assalonne, e Amnon e Adonia figli di Agit, tutti avevano tradito, ma più di tutti aveva tradito Davide, re d'Israele, quello di cui cantiamo sempre che è vivo, e vive con noi. Nella versione del sergente Duniop uscivano tutti piuttosto ridicoli, con le loro smanie e le loro disgrazie, non dissimili dagli ufficiali di cui sparlava: quello lì è pieno di invidia, quell'altro trasuda boria, quell'altro è diffidente. Nei suoi racconti parevano tutti intrappolati in una rete improbabile di amori e passioni, gelosie e cattivi pensieri, istinti di dominazione e vendetta. (Eccoli di nuovo, gli assetati, gli eterni assetati, i leopardi dalla sete inestinguibile. Persecutori e perseguitati. Ciechi. Si scavano la fossa da soli.)
E io cercavo invano dentro di me una risposta per salvare l'onore di re Davide e dell'insegnante di Bibbia - l'onore del nostro popolo. Sapevo che in quelle conversazioni era mio dovere difendere qualcosa dall'operato del sergente Duniop. Ma che cosa, poi, dovevo difendere? Allora non lo sapevo (e a tutt'oggi non è proprio che lo sappia con certezza). Tuttavia mi sentivo solidale con tutti loro, con Saul, abbandonato e ingannato, accusato da Samuele di tradimento e condannato a pagare con la corona e con la vita il fatto di non avere un cuore di pietra. Con Micol e Gionata, che per amore del nemico della famiglia non avevano esitato a tradire il loro padre e il suo regno e a seguire il leopardo. Persino Davide mi faceva pena, Davide il re traditore che aveva tradito quasi tutte le persone che amava e che da quasi tutte era stato a sua volta tradito. Perché non si poteva, un bel giorno, radunare tutti nella sala sul retro del caffè Orient Palace, il sergente Duniop e mamma e papà e Ben Gurion e Ben Hur e Yardena e il gran Muftì Haj Amin e il professor Ghion e i capi della resistenza e il signor Lazarus e l'alto commissario del mandato britannico, tutti, anche Chita e sua mamma e i suoi due padri intercambiabili, a chiacchierare per due, tre ore, per intendersi, capirsi finalmente l'uno con l'altro, rinunciare ognuno a qualcosa, far la pace e perdonare? Andare tutti insieme sulla riva del fiume a vedere se la corrente aveva riportato al punto di partenza la persiana color blu pallido?
«Basta per oggi» decretava il sergente Duniop spezzando il mio sogno. «Riprendiamo domani, col sudore della fronte saremo più sapienti, o forse soltanto più dolenti.»
Così ci salutavamo senza stretta di mano perché ormai l'aveva capito da solo che io non potevo stringere la mano dell'oppressore. No, lo facevamo con un cenno del capo, sia quando si arrivava sia alla fine dei nostri incontri. E le notizie segrete che riuscii a estorcere al nemico grazie a quei contatti?
Mica tante. Una briciola qui e una là. Qualcosa sulle camerate della caserma fortificata. Qualcosa (non male questa) sui turni di guardia notturna. Rapporti personali fra gli ufficiali. Donne degli ufficiali. Qualche dettaglio sulla vita militare. E in più una cosa che forse non si può considerare come il risultato della mia attività spionistica, ma che comunque mi par degna d'essere citata. Un giorno il sergente Duniop mi disse che secondo lui alla fine del mandato britannico sarebbe sorto qui uno stato ebraico e le parole dei profeti si sarebbero concretizzate proprio come stava scritto nella Bibbia. Però gli dispiaceva per le genti di Canaan, così chiamava gli arabi, e soprattutto quelli di campagna. Secondo lui, alla partenza dell'esercito inglese gli ebrei avrebbero vinto i nemici, e i vecchi villaggi di pietra sarebbero stati distrutti, i campi coltivati e i frutteti sarebbero diventati preda di sciacalli e volpi, i pozzi si sarebbero prosciugati, contadini e villici, raccoglitori di olive e potatori di sicomori, pastori e conducenti di asini sarebbero finiti alle propaggini del deserto. Forse era volontà del buon Dio far diventare loro il popolo perseguitato, al posto degli ebrei tornati finalmente alla loro terra. «Mirabili sono le vie del Signore» disse malinconicamente il sergente Duniop e con un'ombra di sbigottimento, come fosse giunto improvvisamente a una conclusione a lungo inseguita: «Colui che ama, Egli punisce, e chi adora estirpa...»
CAPITOLO 17.
Girava voce nel quartiere che gli inglesi stessero per ordinare un coprifuoco totale, giorno e notte, e perquisire casa per casa in cerca di covi di partigiani e di armi. Quel pomeriggio, di ritorno dal lavoro, papà indisse una breve riunione generale di noi tre in cucina: è una cosa importante, dichiarò, che dobbiamo valutare con serietà e franchezza. Chiuse quindi la porta e la finestra, si sedette, lui e il suo completo kaki con i tasconi stirato alla perfezione, e mise sul tavolo un pacco di modeste dimensioni, avvolto in carta marrone. «In questo pacco» comunicò «c'è una cosa o forse, per meglio dire, alcune cose che ci è stato chiesto di tenere nascoste qui finché non sarà passata la bufera. Per quanto infatti non ci sia motivo per cui le perquisizioni si debbano fermare prima della soglia di casa nostra, è anche vero che in questa casa, come pensano alcuni, è più facile trovare un nascondiglio per questa cosa, diciamo queste cose. E noi siamo certamente pronti ad affrontare la prova che ci aspetta.» Pensai: fa bene a non dirci che cosa contiene il pacco, per non spaventare la mamma. (E se poi non lo sapeva nemmeno lui? Impossibile: papà doveva saperlo.) Io, per parte mia, immaginai subito che il pacco fosse pieno di dinamite o TNT o nitroglicerina o molto di più, un esplosivo di nuova invenzione, rivoluzionario, mai visto prima: un plastico potentissimo studiato qui da noi nei laboratori segreti della resistenza clandestina, di cui bastava un cucchiaio per radere al suolo mezza città. E io?
A me sarebbe bastato anche solo mezzo cucchiaino da caffè per il nostro missile pronto a minacciare il palazzo del re a Londra. O quasi. Ecco giungere finalmente il momento che tanto aspettavo. Dovevo assolutamente tirar fuori da quel pacco la dose di cui avevo bisogno. Se ci fossi riuscito, il movimento clandestino LOM mi avrebbe pregato in ginocchio di perdonarlo e tornare da loro. Io, per parte mia, li avrei perdonati. Con disprezzo. Però. E sarei anche tornato. Ma a certe precise condizioni: riorganizzare gli alti comandi, far stare Ben Hur al suo posto, abolire il dipartimento per la sicurezza interna e le indagini, e sviluppare una strategia che escludesse gli abusi di potere e proteggesse gli attivisti dai rischi di lotte intestine. Papà continuò:
«In previsione di una non improbabile perquisizione da queste parti, bisogna assolutamente che voi due sappiate di cosa si tratta, per due ragioni: primo perché qui lo spazio scarseggia e non è detto che qualcuno non provochi involontariamente un incidente. Secondo perché se troveranno il nascondiglio può anche darsi che voi due siate interrogati separatamente, e allora dovremo offrire tutti e tre la stessa versione. Senza contraddirci a vicenda.» (La spiegazione che papà ci chiese di studiare a memoria aveva a che fare col professor Schlossberg, che viveva solo al piano sopra di noi ed era morto l'inverno scorso. Nel suo testamento il professore aveva lasciato a papà cinquanta, sessanta libri. A domanda, avremmo dovuto unanimemente rispondere che il pacco avvolto in carta marrone era giunto in casa nostra a seguito del defunto professore.)
«Sarà una bugia innocua» disse papà guardandomi negli occhi attraverso le sue lenti da miope, con un raro guizzo malizioso, dono di pochi momenti, come quando ad esempio raccontava di quella volta che aveva risposto per le rime al tale o talaltro emerito studioso o scrittore, rimasto in quell'occasione "a bocca aperta, inebetito". «Un'innocua bugia giustificata dalla circostanza d'emergenza e dal pericolo, e tuttavia con non poco dispiacere, perché sempre bugia resta. Sempre. Anche se innocua. Prendi nota, mi raccomando.» Mamma disse:
«Invece di fargli la predica ad ogni pie sospinto, perché una volta tanto non trovi il tempo di giocare un po' con lui? O anche solo fare quattro chiacchiere? Conversazione, sai cosa intendo dire? Quando due si siedono insieme, uno parla e l'altro ascolta? E si cerca di stare attenti?»
Papà prese il pacco stringendoselo al petto come fosse un poppante che piange, e dalla cucina lo trasferì in quella che fungeva da camera da letto dei miei, studio per papà e salotto comune. Le pareti erano tutte coperte di scaffali di libri, dal pavimento al soffitto. Non c'era posto per una foto o un soprammobile soltanto. Le schiere libresche di papà erano disposte in un ordine ferreo, ordinate per sezioni e sotto-sezioni e in ordine alfabetico secondo l'autore. Le colonne portanti della biblioteca erano marescialli e generali, in altre parole gli altezzosi tomi che mi ispiravano immancabilmente un fremito di timore reverenziale: libri preziosi, voluminosi, avvolti in sontuose copertine di pelle. Su quelle superfici vellutate le mie dita passavano ansiose in cerca delle impressioni dorate delle lettere: come il petto di qualche feldmaresciallo durante i cinegiornali della Fox Movietone, una teoria di decorazioni e medaglie. Quando la luce sulla scrivania di papà cadeva sopra uno di quei dorsi decorati in oro, si sprigionava una scintilla che arrivava ai miei occhi e mi invitava a loro. Quei libri erano il fior fiore della mia aristocrazia. Sopra di essi, sullo scaffale contro il soffitto, campeggiava la cavalleria leggera: fascicoli dalle copertine variopinte, ordinati per argomento, data e paese d'origine. In perfetta opposizione alla serietà austera degli alti ufficiali, quei cavalieri indossavano divise leggere e sgargianti. Attorno a feldmarescialli e generali c'erano le schiere di ufficiali di brigate e reggimenti: libri rigidi e composti, rilegati in stoffa spessa, impolverata e un po' sbiadita, come le vecchie bandiere da campo, che ne hanno viste tante. Alcuni volumi presentavano, fra la copertina di stoffa e il corpo interno, uno stretto spazio simile allo scollo della fanciulla al banco dell'Orient Palace. Sbirciando dentro trovavo solo un buio odoroso, e un sentore del libro stesso, vago e proibito. I ranghi inferiori erano occupati da centinaia di volumi normali, con le copertine di cartone e un odore affatto dozzinale: i grigi e bruni tenenti. Sotto di loro collocavo l'insieme di milizie irregolari, raccogliticce: volumi senza più copertina, con le pagine tenute insieme da pezzi di cartone ed elastici, quando non strisce di nastro adesivo. C'erano anche libri aleatori, con le copertine praticamente disintegrate, oltre che ingiallite. Alla fine, sotto questi ultimi, si trovava schierato il grado infimo: libri che difficilmente potevano dirsi libri, accozzaglie, rimasugli, fondi di biblioteca, raccolti negli scaffali più bassi, in attesa che papà li trasferisse in' qualche ricovero per stampe superflue, ma che intanto si trovavano assiepati temporaneamente qui, per pietà e non di diritto, tanto domani o dopodomani il vento del deserto se li sarebbe portati via, domani o dopodomani al più tardi l'inverno avrebbe indotto papà a mettere alla porta quei mangiaspazio a sbafo (che chiamava sprezzantemente brochures, gazzette, fascicoli, giornali, pamphlet), per lasciare il posto ad altri accattoni, per i quali non sarebbe comunque tardato il momento. (Se non che a papà facevano pena. Si riprometteva sempre di far piazza pulita, mettere ordine, selezionare, ma per quel che ricordo non una sola pagina a stampa fu mai respinta da casa nostra.)
Un odore sottile, un odore di grigio e di polvere, aleggiava perennemente fra gli scaffali, una specie di sedimento di aria straniera, turbata, e tuttavia attraente. Ancor oggi, a portarmi in una stanza piena di libri, ad occhi chiusi e magari anche con le orecchie tappate, riesco subito a capire che è popolata di libri. Non con le narici, la riconosco, ma con la pelle capto gli odori di una vecchia libreria, dove l'aria è composta e pensierosa, impregnata di quella polvere finissima dei libri e del vapore di vecchiaia che emana la carta, insieme al sentore delle colle vecchie e nuove, odori pungenti, amari, densi, al latte di mandorla, aciduli ma leggerissimamente, insieme a quelli intossicanti dell'alcool, con un alito di azoto e iodio, un cenno del piombo degli inchiostri, nonché di carta ammuffita e quasi marcita, e di carta da poco che finisce per sbriciolarsi, e tanto contrasta con le ricche, inequivocabili esalazioni della carta di qualità, quella dei libri preziosi, esteri. Su tutto aleggiava l'aria buia e immobile degli anni trascorsi, trattenuta entro lo spazio occulto fra le file di libri e le pareti. Alla sinistra della scrivania di papà si trovavano i pesanti sussidi, come l'artiglieria pesante di supporto alle truppe: volumi di enciclopedie in varie lingue, dizionari, smisurate concordanze del testo biblico, l'atlante, lessici, strumenti (anche uno che si chiamava "indice degli indici" in cui speravo di trovare segreti prodigiosi, e invece conteneva soltanto liste di migliaia di libri con nomi strani). Enciclopedie, dizionari e lessici erano quasi tutti marescialli e generali, cioè piuttosto eleganti con le copertine di pelle spessa incisa in oro, che mi incantavano non solo per il gusto di toccarne la vellutata superficie, ma anche per la sconfinata conoscenza che promettevano e che mi era negata perché in lingua straniera, negata a me ch'ero soltanto un misero combattente clandestino che dedicava la vita a scacciare l'oppressore ma che pure a quell'oppressore si era anche un po' affezionato, perché veniva anche lui da quei posti di cui parlavano le enciclopedie. Intorno ai caratteri in oro erano impresse sulle copertine di pelle delle decorazioni floreali, simboli della casa editrice e della collana, che io mi figuravo come blasoni di nobiltà: c'erano infatti anche dragoni e leoni minacciosi, che reggevano un rotolo chiuso o aperto, quando non l'immagine di un castello, o croci sinuose. A volte papà mi posava una mano sulla spalla e mi invitava a una visita guidata: «Questa è la rara stampa di Amsterdam. Ecco qui l'edizione del Talmud della vedova e dei fratelli Romm. Questo è lo stemma del regno di Boemia che ormai non esiste più. Questa copertina è fatta di pelle di cervo, perciò ha questo colore rossastro che ricorda un po' la carne. Questo volume datato 5493 secondo l'anno ebraico (1733) non ha prezzo, può anche darsi che sia la copia appartenuta al grande Moshe Haiim Luzzatto. Non ce l'ha nemmeno la biblioteca nazionale al monte Scopus, questa edizione, ne esisteranno altre dieci copie a dir tanto in tutto il mondo, sette o anche meno, forse.» (Quando raccontava queste cose mio padre sembrava il patriarca Abramo, mentre discute con Dio sui giusti da salvare a Sodoma.) Di lì a qui, greco. E al piano di sopra latino, la lingua dell'antica Roma. E là, lungo tutta la parete settentrionale, il mondo slavo di cui non riuscivo nemmeno a decifrare l'alfabeto. Poi il settore francese e spagnolo e là, su quell'altro scaffale, cupi e malmostosi, i rappresentanti del mondo germanico, sempre sulle loro (lettere gotiche, definiva senza ulteriori precisazioni mio padre quel sinistro labirinto di caratteri arzigogolati). Mentre nella vetrina riposavano i testi dei nostri avi
(ave, quelle mai. Solo maschi. Spettri): la Mishnah e i due Talmud, il babilonese e il gerosolimitano, codici, commentari, inni religiosi, esegesi, mistica, responsi rabbinici, grammatiche, etica, storie, favole, strano ma anche mogio ritratto di un fitto grappolo di casette illuminate da una fioca luce, e tuttavia a me non così estraneo malgrado i titoli, perché se non altro l'alfabeto era il mio, e non faticavo a immaginare che cosa, più o meno, stesse scritto in quei tomi. Poi la sezione di storia: quattro scaffali zeppi, in uno dei
quali erano stati accolti anche dei profughi, giunti troppo tardi per aver diritto a un posto vero e costretti a reclinarsi sulle spalle dei veterani. Due degli scaffali erano dedicati alla storia generale e altrettanti a quella del popolo ebraico. Nei primi due trovai a quello inferiore l'alba dell'umanità, gli albori della civiltà (con illustrazioni che facevano rabbrividire), e sopra l'antichità e sopra ancora il Medioevo (illustrazioni spaventose, spettri in tuniche scure e con maschere demoniache in faccia, chini su malati agonizzanti all'epoca della Peste Nera). Sopra ancora, inondati di sole, il Rinascimento e la Rivoluzione Francese, e oltre, cioè quasi a toccare il soffitto, la Rivoluzione d'Ottobre e le guerre mondiali, sui quali avevo sudato per imparare le tattiche militari. Tutto quello che non avevo potuto leggere perché in lingua straniera l'avevo comunque indefessamente sfogliato in cerca di disegni e cartine. Che ho ancora, per la maggior parte, incise nella mente: l'esodo dall'Egitto, la caduta di Gerico, la battaglia delle Termopili, foreste di giavellotti, lance e proiettili, elmetti luccicanti sotto il sole. La carta delle imprese di Alessandro Magno, con le frecce che espandevano i confini del suo impero fino alla Persia, persino all'India. E un'immagine degli eretici al rogo in piazza, con le fiamme che lambivano le gambe, ma gli occhi chiusi nell'estasi del martirio, come se in fondo in fondo stessero ascoltando un concerto celestiale. La cacciata degli ebrei dalla Spagna: frotte di profughi carichi di fagotti e bastoni, assiepati su poco più che zattere in un mare in tempesta brulicante di mostri che parevano assai contenti della tragedia ebraica. Una mappa dettagliata della diaspora ebraica in Oriente, con un cerchio spesso intorno a Salonicco, Smirne e Alessandria. Una figura colorata, così bella, dell'antica sinagoga di Aleppo. E sperdute comunità ebraiche nei luoghi più impensati: Jemen, Cina, Etiopia (che all'epoca si chiamava Abissinia). Napoleone a Mosca, sempre Napoleone al Cairo sullo sfondo delle piramidi: un ometto paffuto con in testa un cappello triangolare che pareva un biscotto di quelli che si fanno a Purim, una mano che indica con gesto ampio l'orizzonte sconfinato, e l'altra più timidamente infilata nella piega della giacca. Le guerre fra seguaci del chasidismo e suoi oppositori. Ritratti di rabbini furiosi. Una cartina della diffusione del movimento chasidico e dei suoi oppositori in progressiva ritirata. Le scoperte geografiche, flotte di navi che salpano dirette ad arcipelaghi sconosciuti, continenti inaccessibili, imperi, la grande muraglia, templi giapponesi dove nessuno straniero ha mai avuto accesso, selvaggi vestiti di piume con ossa umane ficcate di traverso nel naso. Mappe della caccia alla balena, l'Oceano Artico e il mare di Bering, l'Alaska e il golfo di Murmansk. Ma ecco già il nostro Herzl appoggiato a una balaustra di ferro che guarda con aria fiera e sognante il lago sottostante. Subito dopo Herzl arrivavano i primi pionieri, approdati alle spiagge del nostro paese, miseri e pochi, ma stretti insieme come pecore sperdute in una distesa di sabbie e un unico albero d'ulivo, un po' in disparte. I primi insediamenti ebraici in terra d'Israele: un ettaro qui e uno là. Pochi, ma sempre di più da una cartina all'altra, da una statistica all'altra. Ecco il compagno Lenin con il berretto in testa, che incita le folle j in visibilio stringendo il pugno. Lenin, secondo me,
assomigliava un po' al nostro dottor Weizmann, che invece di' scacciare gli inglesi, non faceva che supplicarli. (E il sergente Duniop? Scacciare anche lui?) Ecco la carta dei campi di sterminio nazisti e le foto di ebrei scheletrici. Mappe di grandi battaglie: Tobruk, Stalingrado, Sicilia, ecco finalmente le brigate ebraiche, soldati ebrei con la stella di Davide sulle maniche, in Africa, Italia, e le foto dei kibbutz con la torretta e la sentinella nel deserto, nelle valli, pionieri a cavallo o sul trattore, con il fucile a tracolla e le facce calme e coraggiose. Chiudevo il libro, lo rimettevo bene al suo posto, ne ' prendevo un altro e di nuovo giù a sfogliare e cercare, soprattutto disegni, illustrazioni, carte. Dopo un'ora o due ero già un po' brillo, una pantera agitata in cantina, un vulcano di giuramenti e voti, conscio fino allo spasimo di quello che dovevo fare, cui dovevo consacrare la mia vita e all'occorrenza sacrificarla. All'inizio del grande atlante in tedesco, prima ancora della carta dell'Europa, ce n'era una, incredibile, di tutto il cosmo: nebulose remote oltre ogni dire e abissi di stelle lontane. La libreria di papà era più o meno così: conteneva pianeti familiari e galassie misteriose, lituane e latine, ucraine e slave, lingue arcaiche come il sanscrito, l'aramaico e lo yiddish che era una specie di satellite dell'ebraico, come una luna pallida che flottava sulle nostre teste aprendosi rari squarci fra le nuvole. E ancora, anni luce dallo yiddish, altri firmamenti in cui brillavano, fra gli altri, l'epica di Gilgamesh, Enuma Elish, Omero e Siddartha, oltre a meravigliosi poemi dai nomi strani come, ad esempio, Nibelunghi, Hiawatha, Kalevala. Nomi musicali che deliziavano sulla punta della lingua e contro il palato quando li pronunciavo tutti per me, sottovoce, insieme a Dante Alighieri, Montesquieu, Chaucer, Shchedrin, Aristofane, Till Eulenspiegel. Li riconoscevo tutti dalla copertina e dal colore e dalla posizione nella sua galassia, ne conoscevo anche i vicini. E tu? Tu chi sei in questo universo? Una pantera cieca. Un selvaggio ignorante. Un marmocchio che passa la giornata nel boschetto di Tel Arza. Squallido gingillo nelle mani di uno squallido Ben Hur. Invece di chiudermi qui da mattina a sera, fra questi libri. Dieci anni?
Trenta?
Respirare profondo e immergersi e cominciare a sciogliere un enigma dopo l'altro?
Che lunga strada e quanti misteri stavano riposti fra quei libri dei quali decifravo a malapena i titoli. Ma se non riesci nemmeno a immaginare dove possa essere il primo anello della catena che porta le chiavi fra le quali c'è quella per aprire la scatola in cui c'è la chiave della cassetta dentro la quale, forse, ti aspetta la chiave dell'ingresso che accede alla prima stanza... Per prima cosa, dovevo superare la barriera dell'alfabeto latino. Mamma diceva che in meno di mezz'ora poteva insegnarmelo. Poi, se l'avessi aiutata a lavare i piatti la sera, mi promise di insegnarmi anche quello cirillico. Secondo lei, ce la si poteva fare in un'ora, un'ora e mezzo. Papà dal canto suo dichiarò che il greco era molto simile al cirillico. Poi avrei imparato anche il sanscrito. E anche quell'idioma che papà chiamava Hochdeutsch, cioè "alto tedesco". Che sapeva di tempi andati, città entro le mura con i ponti levatoi e le sentinelle alle porte, nelle guardiole in cima a torrette con la punta conica. Lì vivevano austeri studiosi con le tonache nere e la testa rasata, che passavano la notte a leggere, compulsare, scrivere al fioco lume di lampade a olio entro anguste celle con una finestrella con le inferriate. Ecco, sarei stato uno così: una cella, un lume, un tavolo, una pila di libri e silenzio. Gli scaffali dei libri riducevano di molto lo spazio della stanza, che già non era grande. Lì, ai piedi dei libri, c'era anche il letto dei miei genitori: la sera lo aprivano per dormire e la mattina lo chiudevano come fosse stato un libro, con dentro il materasso, e lo trasformavano nel sofà verde.
Su quel sofà c'erano cinque cuscini ricamati che usavo come cinque colline di Roma quando guidavo le milizie di Bar Kokba sino alle pendici dell'Urbe per mettere in ginocchio l'impero. In altri casi quei cuscini diventavano le postazioni sulle colline verso il Neghev, quando con le balene bianche inseguite per sette giorni sino alle rive dell'Antartico. Fra il sofà letto e la scrivania di papà, e fra la scrivania e il tavolino e i due sgabelli di vimini, fra questi e la sedia a dondolo di mamma, c'erano canali o bracci di mare che confluivano tutti alla piccola stuoia ai piedi della sedia a dondolo. Questo arredamento mi offriva dunque possibilità strabilianti di rappresentare flotte e milizie terrestri, battaglie campali, attacchi, imboscate, assedii, difese all'ultimo sangue in aree ad alta densità. Papà mise il pacco segreto in un angolo scelto con molta cura, in una lunga e uniforme fila di tesori della letteratura universale tradotti in polacco. Il colore di questa collana era marrone chiaro, così che il pacco si mimetizzava alla perfezione fra i libri: come uno di quei rettili dentro la giungla, in cui non si capisce dove finisce la vegetazione e comincia il rettile. Poi ripetè a me e a mamma le istruzioni: non toccare. Non avvicinarsi. Da quel momento in poi la libreria era terreno minato. Chi voleva un libro doveva prima per favore chiedere il permesso a lui. (Mi sentii umiliato: mamma sì, avrebbe potuto commettere un errore di distrazione spolverando i libri e i mobili. Ma io? Che sapevo a memoria tutta la libreria? Che anche ad occhi bendati mi sarei orientato alla perfezione in ogni suo angolo? Io che ci passavo quasi lo stesso tempo di papà! Una giovane pantera nella giungla in cui è nata e cresciuta.) Decisi di non fare obiezioni: la mattina dopo, prima delle otto, loro due sarebbero usciti per andare al lavoro, io invece sarei rimasto, l'alto commissario di questo dominio. Territorio proibito incluso.
CAPITOLO 18.
L'indomani, appena la porta si chiuse dietro di loro, sgusciai allo scaffale in questione e mi fermai alla distanza di un respiro, senza nulla toccare. Tentai di arrivarci da solo, a capire, sulla base, magari, di un vago sentore di prodotto chimico, un'ombra di odore. E invece fiutai intorno a me soltanto i soliti odori della libreria, odori civili di colla e di tempi antichi e polvere. Tornai in cucina per riordinare i resti della colazione, mettendoli o in frigorifero o nell'acquaio. Lavai i piatti e li misi capovolti ad asciugare. Passai da una stanza all'altra a chiudere finestre e persiane per combattere la calura. Poi mi diedi a perlustrare avanti e indietro fra la porta d'ingresso e il nascondiglio: una pantera in gabbia. Non riuscivo più assolutamente a tornare alla bozza di progetto per l'attacco alla sede dell'alto commissario, che avevo fino al giorno prima studiato alacremente: quel pacco scuro travestito da tesori della letteratura in polacco, che sonnecchiava placidamente sullo scaffale, mi attraeva in modo irresistibile. La tentazione era sulle prime timida, debole, discreta, tanto che quasi non osava suggerirmi di che cosa avevo voglia.
Ma a poco a poco crebbe e si fece più sfrontata, più esigente, si mise a leccarmi la punta dei sandali, a solleticarmi il palmo della mano, a chiamare, ammiccare, a tirarmi spudoratamente per la manica. Le tentazioni sono come gli starnuti, che cominciano anche loro come un niente, come un leggero prurito all'attaccatura del naso, e poi gonfiano e scoppiano e non li si ferma più. Così, anche le tentazioni cominciano sempre come una timida avanscoperta, per farsi un'idea della situazione, impulsi modesti e incerti, e ancor prima di rendersi conto di quello che l'impulso vuole da noi, si incomincia a sentire dentro un calore che cresce come quando si accende una piastra elettrica e la resistenza è dapprima grigia e poi a poco a poco, accompagnata da piccoli scoppiettii, diventa rossa e incandescente, e allora si viene presi da una, come dire, disinvoltura, che cosa vuoi che sia, che te ne importa, perché no, che cosa vuoi che succeda, come se dentro di noi si producesse un suono molto vago eppure imperioso, insistente: e dai. Su.
Che male c'è. A infilare la punta del dito lì, vicino al pacco segreto. Sentire, senza toccare. Con i pori della pelle vicino all'unghia, quello che emana da dentro...? Se è caldo. Freddo. Se vibra un po', come la corrente elettrica. Che c'è di male, in fondo, perché no, che cosa vuoi che succeda toccando così di sfuggita, una volta sola. In fretta. In fondo è solo un involucro esterno, indifferente, comune carta da pacchi, rigida (o morbida), liscia (o ruvida, come il panno verde del biliardo... chissà?), piatta (o forse non del tutto? Forse con qualche gonfiore che non si vede da fuori, grazie al quale il dito potrà capire che cosa c'è dentro...). Che male può fare toccare? Piano piano, sfiorando appena. Come quando sta scritto: "maneggiare con cura.
Fragile."
Magari, perché no, qualcosina di più che toccare: una timida presa. Delicatamente. Come un medico che palpa con prudenza una pancia per capire dove fa più male e se è rilassata o tesa. O come quando si tasta una pera, ma delicatamente, per capire se è matura o ancora acerba. Che c'era di male, in fondo, a prenderlo per un momento dallo scaffale, il pacco? Dieci secondi, diciamo, anche meno, per soppesarlo con le mani. Per capire se era leggero o pesante. Denso. Compresso. Rigido. Come un dizionario. O invece come un fascicolo, con la copertina morbida. O se invece assomigliava a un oggetto di vetro o qualcosa di fragile che si imballa con la paglia o altro, un po' di ovatta perché non si rompa, e
così magari toccando il pacco si sentiva il morbido del rivestimento e anche un po' l'oggetto che stava sotto, avvolto e protetto. O magari era pesante come un macigno, come un piombo. O invece era peloso, soffice e morbido sotto la carta marrone, come un guanciale? Come un orsetto di peluche? Un gatto? Chissà che cosa c'era, lì dentro. Un'ombra di toccata, ecco, così, battere solo con un dito, come un bacio ma con le dita, una carezza leggera, così, sì, e poi magari una timida pressione, rapida, e magari per un momento tirarlo fuori dallo scaffale, così, per passare la mano sui due lati del pacco e sentire il nastro adesivo, che cosa vuoi che sia, tiralo fuori un momento e tienilo in braccio, come farebbe un combattente con il compagno ferito in battaglia, sta solo attento per carità a non urtare i mobili, per non fargli prendere un colpo, e a non fartelo scappare di mano.
E poi, per carità, tieni bene a mente com'era messo. E ricordati di usare un fazzoletto per non lasciare impronte digitali, poi il fazzoletto cambialo perché chissà mai che non abbia assorbito qualcosa. Dunque: il pacco era freddo e piuttosto rigido, bislungo, esattamente come sarebbe stato un libro impacchettato, liscio ma non perfettamente uniforme. Anche il peso, del pacco, ricordava quello di uno spesso volume: meno delle concordanze e un po' di più del repertorio geografico. A quel punto speravo che fosse finita lì. Basta. Ero libero dall'incombenza, ora. La tentazione era stata soddisfatta e adesso, con il suo boccone in bocca, avrebbe tagliato la corda. Così sarei potuto finalmente tornare al mio lavoro. Mi sbagliavo. Proprio l'opposto. Come un branco di cani feroci che ha fiutato della carne sanguinolenta: gliene dai un boccone da assaggiare, e si tramutano in lupi. Più o meno dieci minuti dopo aver rimesso il pacco al suo posto, la tentazione tornò da me, digrignando i denti. Chiamare Ben Hur. Dirgli di venire qui. Svelargli il segreto di quel che nascondevamo noi in casa. E se non ci avesse creduto - mostrargli il pacco e lasciarlo di stucco e vedere finalmente una volta per tutte, con i miei occhi, l'indifferenza del leopardo trasformarsi in muto stupore. Quelle labbra tiranniche sempre chiuse, ma per pigrizia, spalancarsi per ridurlo a bocca aperta. E poi, Come la nebbia dell'alba che si dissolve appena sorge il sole, veder sfumare così la faccenda dell'Orient Palace. L'avrei costretto a giurare di non dire a nessuno quello che gli avevo mostrato. Nemmeno a Chita. Comunque, gli avrei lasciato dare solo uno sguardo, e poi ingiunto di dimenticare quello che aveva visto. Dimenticare. Ma figuriamoci. Mai. E così, con la spada di Damocle di una condanna alla prigione per tutti e due, avremmo rinsaldato la nostra sincera amicizia. Come fra Davide e Gionata. Insieme avremmo spiato e raccolto informazioni segrete. Avremmo imparato insieme l'inglese con il sergente Duniop, perché è solo conoscendo la lingua del nemico che si può entrare nella sua testa. Una strana, quasi insopportabile sensazione, mi disse improvvisamente che, completamente solo com'ero in quella casa dalla mattina sino al tardo pomeriggio, avevo in mio potere una devastante calamità per ora sonnecchiante nel neutrale pacchetto, così ben camuffato da tesoro della letteratura. No. Nemmeno a parlarne, di chiamare Ben Hur. Da solo. Ne avrei fatto a meno. Verso mezzogiorno la tentazione si risvegliò: un po' folle, questa volta, come una tempesta di lampi nel petto e nella pancia: è a tua disposizione. Ora,
se davvero lo vuoi, tutto è possibile. Dipende tutto da te. Prendi il pacco. Al suo posto puoi metterci un altro pacco con dei libri dentro, nessuno se ne accorgerà. Nemmeno papà. Su, muoviti, prendi l'ordigno,
ficcalo in cartella e va' dritto al quartier generale dell'alto commissario. Legalo con del filo di ferro sotto la macchina del commissario, al parcheggio.
Oppure mettiti all'ingresso e aspettalo con pazienza, poi quando esce gettaglielo addosso. Oppure: un ragazzo ebreo di Gerusalemme si fa saltare per aria per risvegliare la coscienza del mondo e protestare contro il furto della sua patria. Oppure: chiedere ingenuamente al sergente Duniop di consegnare il presente all'ufficio del comandante dei servizi di sicurezza. No: chissà mai che non ci rimetta le penne anche lui, o finisca nei guai. Oppure: caricarlo in punta al nostro missile e minacciare di radere al suolo Londra se non liberavano Gerusalemme. Oppure: far fuori Ben Hur e Chita. A mo' di lezione. Avanti così fino all'una, quando sbucò con prepotenza una nuova, spaventosa e tossica tentazione. Cominciò come un morso, un martello cieco dentro di me, una talpa che scava, una tentazione davvero peccaminosa che m'irretiva, si dice così. Questo impulso non mollava, era tenace, soffiava sul cuore e sul diaframma fra le costole, penetrava dentro la pancia, insisteva, blandiva e allettava, prometteva con blandizie impazienti, plagiava con un sapore dolce che nemmeno nei sogni avevo mai sentito, spezzava ogni freno. Sì, lasciare il pacco lì dov'è fra i libri. Senza nemmeno sfiorarlo. Uscire. Chiudere a chiave la porta di casa. Andare dritto all'Orient Palace. Se lui non c'era, allora niente. Sarebbe stato un segno. Ma se lui c'era, era segno che si doveva fare. Segno che era giusto così.
Riferirgli di quel che stava nascosto in casa nostra. Chiedergli che cosa si doveva farne. Fare quel che mi diceva lui. Poco prima delle quattro ci fu un momento che quasi. Ma riuscii a resistere. Pugno di ferro. Invece di andare all'Orient Palace mangiai dei piselli e una polpetta fredda, e anche due patate, tutto freddo, non avevo voglia di aspettare che si riscaldassero. Poi chiusi da fuori la porta di camera dei miei e da dentro quella di camera mia. Mi buttai non sul letto, ma decisamente sul pavimento freddo, nell'angolo fra il letto e l'armadio, e lì, alla luce dei lampioni che disegnava come una scala di ombre fra le fessure delle persiane, lessi per un'ora e mezzo un libro che conoscevo già, sui viaggi di Magellano e De Gama. Parlava di isole e insenature e vulcani e di lussureggianti foreste tropicali.
CAPITOLO 19.
Non dimenticherò mai la morsa della paura: come un anello di freddo metallo che si stringe intorno al cuore in subbuglio. Molto presto, dopo il ragazzo dei giornali ma prima del lattaio, fra il canto dei primi uccelli, passò lungo la nostra strada un convoglio inglese con l'altoparlante, che ci svegliò tutti. In inglese ed ebraico, diceva che il coprifuoco cominciava alle sei e mezzo e restava in vigore sino a nuovo avviso. Chi usciva lo faceva a suo rischio e pericolo. Mi diressi scalzo e con gli occhi impastati di sonno al letto dei miei. Sentivo un gelo, però non per il freddo, ma per il sibilo venefico del brutto presagio: lo troveranno. E facilmente. Che ridicolo nascondiglio, ma quale nascondiglio, un pacco marrone chiaro ficcato in mezzo a una fila di libri più chiari. Che spiccava anche perché era più spesso, più largo e più alto, come un ladrone convinto di passare inosservato in mezzo a una processione di suore. Papà e mamma sarebbero finiti in cella d'isolamento alla prigione del campo dei Russi, oppure addirittura ad Acri. E magari deportati, con tanto di manette, a Cipro, alle Mauritius, in Eritrea, alle Seychelles, chissà.
"Deportazione": questa parola mi aveva trafitto il petto.
E io, che cosa avrei fatto da solo in questa casa?
Nessuno meglio di me sapeva come riusciva a trasformarsi di colpo, questa casa, da nido accogliente e ordinato in tana sinistra e minacciosa, e tale sarebbe diventata nelle notti, settimane e anni a venire. Da solo in questa casa, da solo a Gerusalemme, da solo perché i nonni (da entrambe le parti), gli zii e le zie, li aveva tutti ammazzati Hitler, e anche me avrebbero ammazzato prima o poi, qui sul pavimento della cucina, dopo aver fatto irruzione e avermi scoperto nel mio misero nascondiglio, l'armadio delle scope. Soldati inglesi sbronzi e antisemiti, o orde di arabi assetati di sangue. Perché siamo pochi e dalla parte giusta: siamo sempre stati così, dalla parte giusta ma anche in pochi, circondati da ogni lato e senza nessun amico al mondo. (Eccetto il sergente Duniop? E tu che vai a spiarlo e a rubargli informazioni. Bella riconoscenza. Tradire così. Sei finito.)
Restammo a letto tutti e tre insieme per qualche minuto. Senza parlare. Finché la voce pacata di papà sembrò tracciare nell'oscurità un cerchio di ragionevolezza:
«Il giornale. Mancano ancora trentadue minuti. Ce la faccio ancora ad andare a prendere il giornale.» Mamma disse:
«Per favore, non andare. Resta qui.»
E io l'appoggiai, cercando di rendere la mia voce il più possibile simile a quella di mamma:
«Non andare, papà. Non è assolutamente ragionevole correre rischi per il giornale.»
Tornò qualche minuto dopo, ancora con indosso il pigiama celeste e i sandali neri, con un sorriso schivo, come se fosse tornato da una caccia al leone per far piacere a noi. Offrì il giornale a mamma. Li aiutai a ripiegare il letto, che appena chiuso s'atteggiò a sofà senza dare adito ad alcun sospetto nei suoi confronti, senza adombrare il fatto che avesse anche un'altra faccia, intima e segreta, fatta di cuscini, lenzuola e camicie da notte: ma figuriamoci. Disposi io sul sofà i cinque cuscini, a precisa distanza l'uno dall'altro. Feci anche il mio letto. Riuscimmo ancora a lavarci e vestirci mettendo ogni cosa a posto, a disporre la tovaglia sul tavolo e persino a mettere sotto il sofà le pantofole di mamma, badando bene, secondo un tacito accordo, a non guardare mai in direzione del pacco. Che chissà per quale ragione durante la notte aveva deciso di diventare più vistoso, e ora campeggiava fra i libri polacchi come un goffo soldato capitato per qualche ragione durante l'appello alla prima ora di scuola. Proprio mentre mamma s'accingeva a sistemare i fiori nel vaso e papà a cambiare la carta assorbente nel tampone sulla scrivania, mentre io stavo andando in cucina a preparare la tavola, si sentì bussare alla porta. Una voce inglese domandò se per favore c'era qualcuno in casa. Papà rispose subito, anche lui in inglese, e anche lui educatamente. «Un momento, prego.»
E aprì. Erano stranamente solo in tre: due soldati semplici (uno con una cicatrice da ustione che gli arrossava mezza faccia, come un taglio di macellaio), insieme a un giovane ufficiale piuttosto mingherlino, con la faccia lunga e magra. Indossavano dei pantaloncini al ginocchio e delle calze kaki che finivano praticamente dove iniziavano i pantaloni. I due soldati portavano delle mitragliette puntate verso il pavimento, come se si vergognassero, e non a torto, del resto. L'ufficiale aveva in mano una pistola, rivolta anch'essa verso terra, simile a quella del sergente Duniop. (Forse li conosceva? Erano suoi amici? E se avessi detto subito che io ero amico del sergente? Avrebbero fatto a meno di perquisire casa nostra? E magari avrebbero fatto volentieri colazione insieme a noi, così da poter intavolare anche un po' di conversazione e fargli capire che stavano sbagliando con il nostro popolo?)
«Prego, accomodatevi», papà lo disse con una cortesia quasi enfatica. L'ufficiale rimase incerto per un momento, come se le buone maniere di papà avessero reso la perquisizione di casa nostra una parentesi volgare e importuna. Chiese scusa per il disturbo a quell'ora del mattino, spiegò che purtroppo era suo dovere fare una rapida indagine e controllare che fosse tutto a posto, e rimise distrattamente la pistola nella fodera, abbottonandola anche. Ci fu poi un attimo di esitazione, da parte loro ma anche nostra: non sapevano bene come continuare. Qualcosa era forse rimasta in sospeso, da parte nostra o da parte loro, prima di iniziare?
Quando la giovane dottoressa Grophius mi visitava all'ambulatorio in via Ovadia, prima di cominciare faceva sempre una certa fatica a dirmi di togliermi tutto fuorché le mutande.
Io me ne stavo lì ad aspettare con pazienza, e aspettava anche mamma, che la dottoressa trovasse il coraggio di dire, nel suo ebraico con cadenza tedesca: «Per favore, togliere i vestiti tranne mutante.» Si capiva benissimo che la parola "mutante" la disturbava. Come se fosse dell'avviso che ci volesse in ebraico un'altra parola per indicare "mutante"; che fosse un po' meno brutta, meno esplicita (mi trova d'accordo, in questo). Qualche tempo dopo la fondazione dello stato d'Israele, la dottoressa Grophius si innamorò di un poeta armeno cieco, che seguì a Cipro, ma tre anni dopo ricomparve, sola, al solito ambulatorio, con un tratto nuovo, amaro e sottile, nei lineamenti. Non che si potesse dire dimagrita, ma si era, per così dire, ridotta. Raggrinzita. Però, come ho già detto, non riesco ad andare a dormire, e nemmeno a vivere, senza prima fare ordine. Pertanto il dottor Magda Grophius, il suo poeta armeno cieco, il flauto che portò da Famagosta e i suoni strani che ne venivano fuori alle due, alle tre del mattino, e anche il suo secondo marito, importatore di dolciumi nonché inventore di una pozione contro le amnesie, ma anche la questione delle parole più o meno adatte a definire le parti del corpo e l'abbigliamento intimo,
tutto ciò dovrà per forza di cose aspettare un'altra storia. L'ufficiale si rivolse rispettosamente a papà, quasi fosse un discepolo davanti al suo maestro:
«Col vostro permesso. Cercheremo di essere il più rapidi possibile, ma intanto debbo, con mio rincrescimento, chiedervi di restare in questo punto.»
Mamma domandò:
«Posso offrirvi un tè?»
L'ufficiale si scusò: «Grazie, no. Mi dispiace, ma sono in servizio.» E papà, in ebraico, con la sua voce pacata e ragionevole, alla mamma:
«Esageri. Mi sembra un po' troppo.»
Da un punto di vista professionale, la perquisizione mi parve scadente. (Ero avanzato di soppiatto ancora un metro e mezzo circa, sino all'angolo del corridoio, conquistando un punto d'osservazione valido per gran parte dell'appartamento.)
I soldati sbirciarono sotto il mio letto, aprirono l'armadio in camera mia, spostarono un po' gli appendiabiti, frugarono negli scaffali con la biancheria, diedero una rapida occhiata in cucina e nei servizi, degnarono chissà perché di più attenzione il frigorifero, controllando il piano superiore, e poi sotto, dietro, battendo in due punti sul muro, mentre l'ufficiale stava studiando le cartine appese al muro. Quello con la faccia ustionata scoprì un gancio appendiabiti che penzolava dal muro, controllò di quanto cedeva, finché l'ufficiale gli disse di lasciar perdere perché così l'avrebbe rotto. Quello ubbidì. Tutti entrarono in camera dei miei, noi li seguimmo. L'ufficiale s'era evidentemente dimenticato dell'ordine che ci aveva dato poco prima. Rimase a bocca aperta di fronte a quella quantità di libri, e chiese timidamente a papà: «Mi scusi, ma è una scuola? O una specie di posto religioso?»
Papà offrì subito la sua spiegazione, nonché una visita guidata alla libreria. Mamma gli bisbigliò invano uno "stai calmo". Lui era già tutto preso dal suo fervore didattico, e si diede a spiegare in inglese:
«E' una biblioteca assolutamente privata. Ad uso delle mie ricerche, signore.»
L'ufficiale pareva non aver capito. Chiese educatamente a papà se non era per caso un commerciante di libri, o un rilegatore. «Studioso, signore» scandì papà la risposta nel suo inglese con cadenza slava, aggiungendo subito: «Storico.»
«Interessante» osservò il militare diventando rosso, come se qualcuno l'avesse sgridato. Dopo un momento, ripresosi dall'imbarazzo e riconquistata la sicurezza del proprio ruolo, aggiunse con un tono deciso:
«Molto interessante.»
In seguito domandò se c'erano anche dei libri in inglese. Questa domanda offese papà ma gli diede anche slancio, come quando si buttano nel fuoco delle cartucce cariche. Con un colpo solo, infatti, il tronfio ufficiale aveva ferito il suo orgoglio di studioso e collezionista di libri, ma anche il nostro ruolo storico di popolo fra i più colti della terra. Cosa si credeva, quel baldo soldato, di trovarsi fra i selvaggi delle foreste amazzoniche? Fra le tribù dell'Uganda?
In preda a un incontenibile entusiasmo, come se fosse stato chiamato a fare le ragioni del sionismo, papà prese a tirar giù dagli scaffali un libro inglese dopo l'altro, declamando di volta in volta titolo, data di pubblicazione e casa editrice, e porgendolo poi all'ufficiale, come presentando cerimoniosamente a dei vecchi ospiti il nuovo arrivato alla festa. «Lord Byron, edizione di Edimburgo. Milton. Shelley e Keats. Ecco Chaucer con commento. Robert Browning, un'edizione assai datata, oltre che limitata. Shakespeare completo, secondo il testo Johnson, Steevens e Reed. Qui, invece, in questo scaffale, ci sono i filosofi: Bacone, Mill, Adam Smith, John Locke, Bishop Berkeley, e l'inimitabile David Hume.
Qui, un'edizione per bibliofili...»
L'ufficiale sembrava rassicurato, conciliato, ogni tanto osava allungare prudentemente una mano e tastare l'abito dei suoi connazionali. Ma papà, completamente travolto dalla passione, passava trionfante dallo scaffale all'ospite, tirava fuori e porgeva sempre più libri. Dalla sua posizione presso il sofà, la mamma tentava disperatamente di fargli un cenno, di segnalargli con delle smorfie che stava per provocare un memorabile guaio. Invano. Già, papà aveva dimenticato tutto, dimenticato il pacco e la resistenza, i tormenti del nostro popolo e i nostri persecutori in ogni epoca, aveva dimenticato mia mamma e me, ed era partito verso gli spazi sconfinati della missione morale: riuscire finalmente a dimostrare a questi inglesi, un popolo illuminato e morale, quanto noi, sudditi oppressi in quest'angolo sperduto dell'impero, eravamo colti, civili, bibliofili, amanti della poesia e della filosofia, così da far cambiare loro opinione e rimuovere ogni equivoco, per parlarsi finalmente a viso aperto. Una volta o due l'ufficiale tentò di dire qualche parola anche lui, di porre una domanda o forse soltanto togliersi d'impiccio e riprendere a fare il suo lavoro, ma nulla al mondo avrebbe potuto in quel momento arrestare papà: cieco e sordo, ansioso di continuare a sfoderare i tesori del suo sacrario. All'esile inglese non restò altra scelta che mormorare a tratti un "Indeed" o un "Very interesting", come fosse un ostaggio. I due soldati in corridoio cominciarono a parlottare fra loro. Quello con l'ustione guardò la mamma con un'aria ebete. Il suo collega sogghignò e si grattò. Mamma, per parte sua, teneva in mano una piega della tenda e la stropicciava, stringeva, tirava. E io?
Io dovevo trovare un modo segreto per mettere in guardia papà e fermare l'inesorabile cammino dell'ufficiale verso lo scaffale proibito. Ma come? Il poco che potevo fare era non guardare nella direzione in cui era meglio, appunto, non guardare. Ma d'un tratto l'involucro marrone sembrò deciso a tradire e si fece più vistoso, sempre più evidente nella fila di libri, come il canino che spunta un bel giorno fra i
denti da latte, diverso per dimensione e colore, altezza e spessore. Di nuovo quell'impulso di tentazione. Come mi capitava a volte durante le ore di Bibbia a scuola, quando il professor Ghion tuonava con le sue lezioni, e a me veniva prima un lieve prurito al petto, un raschio in gola, un nonnulla, che sembrava passare e poi tornava e aumentava e io invano tentavo di tenere duro ancora un minuto o due, stringevo le labbra e i denti, ma la risata precipitava come una valanga e in un momento mi ritrovavo espulso dall'aula. E così capitò anche quella mattina, ma quella mattina non era il prurito della risata,
no, era il prurito del tradimento.
Come lo starnuto che comincia nel cervello e poi pizzica l'attaccatura del naso, e fa lacrimare, e anche se tenti di soffocarlo sai subito che la partita è persa. Che deve succedere. Che è così. E così cominciai a indirizzare il nemico verso il pacco che il movimento clandestino ci aveva chiesto di tenere nascosto. Il pacco che con tutta probabilità conteneva l'ordigno atomico ebraico che ci avrebbe definitivamente liberato dal ruolo di pecore al macello, popolo inerme e indifeso, preda dei lupi. «Fuochino» dissi (come in quel gioco). E poi:
«Fuoco. Fuochetto. Freddo. Freddissimo.» E poi. «Fuochino. Fuoco. Fuoco.
Quasi fuochissimo.»
Non so spiegarmelo. Nemmeno oggi. Forse era una specie di voglia che capitasse finalmente quel che doveva capitare prima o poi. Che la piantasse di farci da spada di Damocle e cascasse giù una volta per tutte. Così chiudevamo la faccenda. Basta. Quanto si poteva andare ancora avanti. Poi il mio senso di responsabilità ebbe la meglio. Quei fuoco e fuochino li dissi solo dentro di me, fra le labbra cucite. L'ufficiale inglese lasciò educatamente sul tavolino la pila di libri che aveva tenuto in braccio sino a quel momento e che ormai gli arrivava fin quasi al mento. Ringraziò due volte papà, si scusò di nuovo con mamma per il disturbo arrecato, e rimproverò sottovoce uno dei due soldati che aveva appena sfiorato una carta. Mentre uscivano, già sulla soglia ma con la porta ancora aperta, mi guardò e lì per lì mi fece l'occhiolino, come per dire, ma che restasse fra noi:
Che vuoi farci?
E se ne andarono. Due giorni dopo il coprifuoco totale fu revocato e restò in vigore solo per la notte. Correva voce nel quartiere che presso la famiglia Vitkin, il signor Vitkin quello della banca Barclay's, avessero trovato un caricatore di pistola pieno di proiettili. Correva voce che l'avessero portato in manette al campo dei Russi. Poi non se ne parlò più. Nessuno spazio libero più fra i libri. Come se fosse stato solo un sogno.
CAPITOLO 20.
Ho già parlato del cassetto con le medicine, e del ruolo di mamma nel movimento clandestino. Nelle notti di coprifuoco, se venivo svegliato dagli spari o da un'esplosione, tentavo anche di non riaddormentarmi, quando calava di nuovo il silenzio. Restavo ad aspettare un rumore di passi sul marciapiede sotto la mia finestra, e poi il graffio sulla porta, i bisbigli in corridoio, i gemiti di dolore soffocati a denti stretti. Era mio dovere non sapere chi fosse il ferito. Né guardare né sentire nulla né immaginare il materasso di scorta steso in cucina la notte e sparito ancor prima che facesse giorno. Aspettai per tutta l'estate. Non arrivò nessun partigiano ferito. Quattro giorni prima della fine delle vacanze, prima di iniziare la settima classe, mamma e papà andarono a Tel Aviv per partecipare a una veglia in memoria della loro città natale. Mamma disse:
«Ascoltami bene. Yardena si è gentilmente offerta di venire a dormire qui questa notte per badare a te, perché noi dormiamo a Tel Aviv. Tu comportati bene. Non darle fastidio. E aiutala. Mangia quello che ti trovi nel piatto, ricordati che al mondo ci sono bambini che muoiono di fame, e vivrebbero una settimana in più con quello che tu avanzi nel piatto.»
In fondo alla pancia c'è un pozzo che gli scienziati non hanno ancora scoperto, dentro il quale confluì in quel momento tutto il sangue venuto via dalla testa, dal cuore, dalle gambe, e lì, in fondo a quel pozzo, il sangue si trasformò in un abisso che rimbombava come un oceano. Raggranellando quel poco di voce che mi restava, risposi piegando intanto in due, quattro e otto il giornale posato sul tavolo:
«Va bene. Andate pure.»
Tentai invano di piegarlo ancora una volta. La domanda che feci a me stesso durante quella operazione era se la scienza avesse già inventato, e in caso contrario se potevo inventarlo io nel giro di un'ora o due, il modo per scomparire temporaneamente dalla faccia della terra, senza lasciare traccia, per l'arco di una giornata, circa. Trasformarsi in nulla. Non esistere. Non proprio nel senso di vuoto, come lo spazio interstellare; scomparire cioè e continuare ad esistere, a vedere e sentire tutto. Essere me stesso, ma anche un'ombra. Presente e assente. Che cosa avrei fatto con Yardena qui? Dove sarei andato a nascondermi? Qui, per di più, in casa nostra? Chiederle scusa? Prima o dopo aver accertato (ma come, scemo) che lei aveva notato, allora, oppure no, che qualcuno la stava spiando dal tetto di fronte? E se se n'era accorta, aveva capito anche che ero io? Dovevo proprio confessare? E se sì, come sarei riuscito a convincerla che non l'avevo fatto apposta? Che davvero in fondo non avevo visto nulla? Che non ero affatto io il famigerato spione dei tetti avvistato nel quartiere, di cui si parlava sottovoce e che da qualche mese si tentava invano di cogliere in fallo? Che anche quando avevo spiato (una volta sola, poi! E solo per dieci secondi, circa!), non miravo a lei, ma ai posti di comando del governo inglese? E che solo per caso ero arrivato lì? (Arrivato, ma dove? Che cosa avevo visto, poi? Niente di niente. Una Striscia scura, un'altra chiara, un'altra scura.) O forse inventare qualche trottola? Ma quale? E come? E come la mettevo con i pensieri che mi erano venuti dopo?
Meglio tenere la bocca chiusa. Meglio se tutti e due, cioè lei e io, ci fossimo comportati come se non fosse accaduto nulla. Come avevano fatto mamma e papà per il pacco che avevamo tenuto nascosto in quei giorni, e anche a proposito di varie altre cose: silenzi che erano come morsi. I miei genitori partirono alle tre, non prima di avermi estorto una sfilza di promesse: ricordare, fare attenzione, non dimenticare, badare a, assolutamente no, e soprattutto, per carità che non. Uscendo aggiunsero:
«Il frigorifero è pieno di cose buone da mangiare e non dimenticare di farle vedere dove si trova tutto quello di cui ha bisogno e di essere gentile con lei e di aiutarla e non infastidirla. E soprattutto non dimenticare di dirle che il divano in camera nostra è già aperto e il letto fatto, dille anche che c'è un biglietto in cucina e che il frigorifero è pieno di cose da mangiare, tu va' a dormire prima
delle dieci e ricordati di chiudere con le due chiavi e di spegnere le luci.»
Solo. In attesa. Cento volte passai da una camera all'altra a controllare che fosse tutto in ordine, tutto perfetto. Avevo paura ma un po' anche speravo che lei si fosse dimenticata di quell'impegno. O che non facesse in tempo ad arrivare prima del coprifuoco, lasciandomi qui solo tutta la notte. Poi tirai fuori dall'armadio la cesta da cucito della mamma e mi aggiustai un bottone della camicia che non era proprio caduto ma era solo un po' allentato, non volevo che si scucisse mentre Yardena era qui. Poi presi i fiammiferi usati che tenevamo in una scatola apposita vicina a quelli nuovi e riutilizzavamo per fare economia, per accendere il fornello con il fuoco del forno o viceversa. Quelli usati li nascosi bene dietro le spezie di cucina, perché non volevo che Yardena pensasse che eravamo poveri o pitocchi o magari anche non troppo puliti. Poi mi soffermai qualche tempo davanti al grande specchio all'interno della porta del guardaroba, aspirando il vago sentore di naftalina che vi stagnava sempre e non mancava mai di ricordarmi l'inverno. Mi guardai allo specchio fermamente deciso a decidere una volta per tutte che aspetto avevo, a che cosa assomigliavo. Una specie di bambino pallido, angoloso, con una faccia che cambiava continuamente e degli occhi molto poco quieti. Una faccia da traditore?
O invece no, da pantera in cantina?
Faceva persino male sapere che Yardena, lei, era già quasi adulta. Se solo avesse avuto l'opportunità di conoscermi veramente, avrebbe scoperto che in realtà ero imprigionato dentro questa gabbia di bambino troppo loquace, mentre dentro stava in agguato... No. Meglio piantarla. Meglio lasciar perdere. Altro che agguati. Mi meritavo uno schiaffo. E se quella sera Yardena avesse avuto voglia di darmelo, di approfittare del momento per ripagarmi con un schiaffo, forse mi sarei sentito persino meglio. Speravo che si fosse dimenticata, e che non venisse più, pensavo, correvo a sbirciare, non sbirciare, diciamo osservare da dietro la finestra del bagno, da dove si vedeva fin quasi all'angolo della drogheria dei fratelli Sinopsky. E visto che comunque ero già arrivato fin lì, decisi di cogliere l'occasione per lavarmi faccia e collo non con il comune sapone che usavamo io e papà, ma con quello profumato di mamma. Bagnai un poco i capelli e li pettinai facendo bene
la riga da una parte, poi feci un po' di vento sulla testa con il giornale perché si asciugassero più in fretta, ci mancava solo che Yardena arrivasse proprio in quel momento e si accorgesse che mi ero bagnato i capelli in onore suo. Mi spuntai le unghie, anche se me le ero tagliate appena il venerdì, ma era una semplice misura di sicurezza di cui mi pentii ben presto perché ora sembrava che me le fossi mangiate, le unghie. Aspettai così fino alle sette meno nove, quando ormai il coprifuoco stava per cominciare. Da allora mi è capitato varie volte di aspettare una donna e domandarmi se sarebbe venuta oppure no, e in caso affermativo che cosa avremmo fatto, e che impressione avrei dato, e che cosa era opportuno dire. Ma mai nessuna attesa fu crudele e spasmodica come quel giorno in cui a momenti Yardena non arrivava. Ho appena scritto le parole "aspettare una donna", perché all'epoca Yardena aveva già quasi vent'anni mentre io solo dodici e un quarto, il che faceva appena il sessantadue per cento della sua età,
vale a dire che fra me e lei s'apriva un abisso pari al trentotto per cento, calcolai per iscritto a matita su uno dei soliti biglietti della scrivania di papà, mentre l'ora si faceva sempre più prossima alle sette, cioè al coprifuoco, e io mi ero ormai convinto che basta, ero perduto, che Yardena se n'era dimenticata, e con ragione. Feci questo calcolo: dieci anni esatti dopo io ne avrei avuti ventidue e un quarto, Yardena trenta, il che significava che io avrei avuto il settantaquattro per cento della sua età, sicuramente più incoraggiante dell'attuale sessantadue per cento. Ma comunque ancora irrisorio. Col passare degli anni, comunque, la distanza fra noi due si sarebbe ridotta (in termini percentuali), ma l'aspetto deprimente era che il divario si riduceva sempre più lentamente. Come un maratoneta sfiancato dai chilometri. Tre volte rifeci il calcolo e tre volte il divario si ridusse sempre più lentamente. In definitiva, mi sembrò ingiusto e anche illogico il fatto che negli anni immediatamente successivi mi sarei avvicinato a lei, sempre più vicino a falcate del dieci per cento, mentre in seguito - con la maturità e la vecchiaia - la distanza in percentuale fra me e lei avrebbe continuato a ridursi, sì, ma con la lentezza di una tartaruga. Perché? E perché poi non si arrivava mai a una parità, alla scomparsa della differenza fra di noi? (Legge di natura. D'accordo. Lo so anch'io. Ma raccontandomi la storia della persiana nel fiume, mamma aveva anche detto che nell'antichità le leggi di natura erano diverse, e che c'era stata un'epoca in cui il mondo era ancora piatto, il sole e le stelle giravano intorno a noi. Mentre ora ci restava solo la nostra luna che continuava a orbitarci intorno, e chissà mai che un giorno non la smettesse anche lei. Comunque, i cambiamenti erano sempre in peggio e non in meglio.)
Quando Yardena avesse avuto cent'anni, feci il conto, io ne avrei avuti novantadue e un quarto, con una distanza percentuale minore di otto (mica male, in confronto al trentotto di quella sera). Ma che cosa se ne sarebbe fatta, una coppia così decrepita, di questa irrisoria distanza percentuale?
Spensi questo pensiero e anche la luce sulla scrivania, feci a pezzi i foglietti con i calcoli, li gettai nel gabinetto e tirai l'acqua, e visto che ero già in bagno, decisi di lavarmi i denti. Intanto decisi anche di cambiare. Di diventare, da quel momento in poi, una persona pacata, coerente, logica e soprattutto coraggiosa. In altre parole: se fosse capitato il miracolo dell'ultimo momento e Yardena fosse arrivata malgrado l'imminente coprifuoco, io le avrei detto subito, con laconica sincerità, che ero pentito e che non sarebbe più successo. Mai. Ma come avrei potuto?
Arrivò alle sette meno cinque. Con dei panini caldi appena usciti dal forno della panetteria industriale dove lavorava come impiegata. Portava un abito estivo chiaro e leggero, senza maniche, con dei ciclamini stampati e una fila di grossi bottoni su tutto il davanti, che sembravano ciottoli disposti da un bambino. Disse:
«Ben Hur non è voluto venire. Non mi ha voluto raccontare che cosa è successo. Che è successo fra voi, Profi? Avete di nuovo litigato?» Tutto il sangue che s'era inabissato nei fondali della pancia tornò impetuosamente ad allagarmi la faccia e le orecchie. Persino il sangue mi tradiva, davanti a Yardena, e mi svergognava. E come si fa se non ci si può fidare nemmeno più del proprio sangue? «Non è stato un litigio personale, ma uno scisma.» Yardena disse:
«Ah. Uno scisma. Ti vengono sempre fuori parole come quelle della Radio dei combattenti. Ma le tue, dove sono? Non ne hai di parole tue? Non hai mai niente da dire di tuo?»
«Guarda» dissi molto seriamente. E dopo un momento ripetei:
«Guarda.»
«Non mi sembra ci sia molto da vedere.»
«Ecco, volevo dirti che non è che riguarda tuo fratello ma è una questione di principio...»
«D'accordo. Una questione di principio. Se vuoi poi possiamo affrontare la questione dello scisma nel movimento clandestino e anche la questione di principio. Ma non adesso, Profi. (Movimento clandestino? Cosa sapeva di noi? Chi aveva avuto l'ardire di parlargliene? Oppure aveva tirato a indovinare?) Poi. Perché sto morendo di fame. Dai, prepariamoci una cena mostruosa. Altroché insalata e formaggio. Qualcosa di molto più sfrenato.» Squadrò attentamente la cucina, diede un'occhiata negli armadi e nei cassetti, studiò le pentole e le padelle, nonché il frigorifero, esaminò l'angolo delle spezie, i due fornelli, meditò per qualche istante bofonchiando qualcosa fra sé e sé, tipo mmm offe ahhh, e con l'aria del generale che prepara la strategia di una battaglia decisiva mi ordinò di mondare sul piano, non qui, qui, alcune verdure: pomodori, peperoni verdi, cipolle, un mucchio più o meno così. Lei adagiò il tagliere sul piano e tirò fuori dal cassetto il coltello assassino, poi, scoperta la pentola con il brodo di pollo che mamma ci aveva lasciato in frigorifero, ne prelevò una tazza. In seguito tagliò a pezzi il pollo, mise una padella sul fuoco con un po' d'olio per friggere, tagliuzzò le verdure che avevo preparato sullo scolatoio. Quando l'olio cominciò a scoppiettare vi buttò due spicchi d'aglio e anche i pezzi di pollo, che poi rigirò perché si cuocessero bene, finché diventarono scuri, e finché il profumo della carne insieme a quello dell'aglio e dell'olio mi riempì la bocca di saliva e mise in subbuglio la gola, il palato e la pancia. Yardena disse:
«Come mai non tenete olive in casa? Non dico quelle in barattolo, scemo, non dico quelle per vegetariani, intendo quelle da debosciati, che fanno un po' ubriacare? Quando le trovi, fammi un fischio, vengo subito. Puoi anche svegliarmi in piena notte, per quel tipo di olive lì.» (Le trovai.
Anni dopo. Ma non osai portargliele nel cuore della notte.) Quando decise che il pollo era cotto al punto giusto, lo tirò fuori dalla padella e lo versò in un piatto, poi lavò e asciugò la padella, e disse:
«Aspetta, Profi. Un po' di pazienza. Questo è solo il preludio. Intanto tu prepara la tavola.»
Rimise la padella sul fuoco, ci versò dell'altro olio e poi non il pollo (che aspettava profumato e aglioso), bensì la cipolla tagliata finissima, e intanto che questa s'imbiondiva a vista d'occhio (i miei, poi, erano smaniosi), sparse sulla padella i cubetti di pomodoro e di peperone, aggiunse prezzemolo tritato, soffriggendo e mescolando e soffriggendo. Io non stavo più nella pelle, e pensavo che non sarei riuscito ad aspettare un minuto, due di più, ma Yardena rise e mi disse di non toccare il pane né niente per non guastarmi l'appetito, che fretta hai, dai, poi rimise i pezzi di pollo in padella e li rigirò per bene nell'olio perché si ammorbidissero fino alle ossa, e solo allora versò su tutto la tazza di brodo. Aspettò che bollisse. Settantasette anni di agonia passarono sulla mia pelle, lenti come una tortura, un deliquio insopportabile e disperante, in attesa che l'olio e il brodo riprendessero a sobbollire, a sprizzare e schizzare. Yardena abbassò il fuoco, aggiunse una presa di sale e un odore di pepe nero. Poi coprì la padella, lasciando una fessura per far uscire gli inebrianti vapori. Mentre il brodo si asciugava "Yardena aggiunse qualche dadino di patata e qualche altro, ancora più piccolo, di peperoncino piccante. Aspettando spietatamente che il brodo si asciugasse tutto, lasciando un fondo di sugo denso, paradisiaco, in cui sguazzavano i pezzi di pollo fritto, quasi alato, una specie di canto, di miraggio. La casa era tutta impregnata di quegli aromi penetranti fuoriusciti dalla cucina, mai sentiti prima. In preda a un'ansia spasmodica, fremente di appetito e con una perenne acquolina in bocca, preparai intanto la tavola per due, uno di fronte all'altro, come mamma e papà. Decisi di lasciare vuoto il mio solito posto. Mentre disponevo coltelli e forchette, vidi con la coda dell'occhio che Yardena stava facendo saltare i pezzi di pollo nella padella che teneva in mano, perché non dimenticassero che cos'erano, poi assaggiava, condiva di nuovo, ancora un cucchiaino o due sulla pietanza tinteggiata ora di rame caldo o argento vecchio, mentre le braccia, le spalle, i fianchi e tutto il resto partecipavano alla lieve danza dentro il vestito senza maniche protetto dal grembiule di mamma, come se il moto del pollo in padella imprimesse in lei il medesimo ritmo. Finito di mangiare, restammo seduti a tavola a spiluccare dei chicchi d'uva dolcissima, poi ci dedicammo a divorare un quarto d'anguria, per finire con un caffè, anche se io avevo sinceramente - e coraggiosamente detto a Yardena che non mi lasciavano bere il caffè e comunque assolutamente non di sera, prima di andare a dormire. Ma Yardena disse; «Ma non ci sono.» E poi:
«Adesso una sigaretta. Solo io. Tu no. Prendimi un portacenere.» Solo che in casa non ce n'era nemmeno uno, perché da noi era vietato fumare. Sempre. Il divieto valeva per tutti. Anche per gli ospiti. Papà era contrario al fumo per una questione di principio. Ed era anche del fermo avviso che l'ospite fosse tenuto a rispettare le regole vigenti in casa, come farebbe un turista in un paese straniero. Questa convinzione papà la formulava con un adagio che ripeteva spesso, incentrato su come ci si comporta a Roma. (Molti anni dopo, quando mi trovai a Roma per la prima volta in vita mia, constatai stupefatto che la città era piena di fumatori. Ma con Roma papà intendeva in realtà l'antica Roma, e non quella di oggigiorno.)
Yardena fumò due sigarette e bevve due tazze di caffè (io una sola). Mentre fumava allungò le gambe e le posò sulla mia sedia, quella sera rimasta libera. Decisi che dovevo alzarmi subito, sgomberare il tavolo, lavare i piatti, mettere gli avanzi in frigorifero. La spazzatura non potei portarla fuori, però, per via del coprifuoco. Chi ha mai trascorso una notte intera con una ragazza in una casa, soli loro due, mentre fuori c'è il coprifuoco e le strade sono deserte? Sapendo che nessuno, proprio nessuno, può venire a disturbare? Con un silenzio di tomba che avvolge tutto come una nebbia spessa?
Chino sul lavello a strofinare con la paglietta il fondo della padella, con la schiena rivolta a Yardena e la mente non da meno, d'un tratto dissi, stringendo gli occhi come quando si ingolla una medicina: «Inoltre scusa per quello che è successo allora. Sul tetto. Non capiterà mai più.»
Yardena disse alla mia schiena:
«Certo che capiterà. Eccome. Cerca almeno di essere un po' meno scemo di quanto sei stato allora.»
Una mosca si accomodò sul bordo di una tazza. Sarei entrato volentieri nei suoi panni. In seguito, ancora in cucina (Yardena usava il fondo della tazza del caffè come portacenere), mi chiese di spiegarle, in quattro parole, su che cosa verteva la lite fra me e suo fratello. Scusa, non lite. Scisma. Ero tenuto a tacere. A preservare la cortina di silenzio, anche sotto tortura. Al cinema avevo già visto un sacco di volte delle donne strappare segreti a uomini molto forti - come Gary Cooper ad esempio, o persino Douglas Fairbanks. E durante le lezioni di Bibbia il professor Ghion diceva a spese di sua moglie: Sansone finì male per colpa di una donna cattiva. C'era dunque da sperare che dopo aver visto tanti film ed essermela presa da morire per quegli uomini che dopo aver fatto gli occhi dolci alle donne di turno finivano sempre per guastare tutto, c'era da sperare che a me non sarebbe mai successa una cosa del genere. Ma quella notte nemmeno io fui capace di resistere: come se fosse schiodato fuori da me un altro Profi, vulcanico, disinvolto e spensierato, esplosivo. Quel Profi lì, insomma, cominciò a raccontare e io non riuscii a tenerlo zitto, benché tentassi con tutte le mie forze e lo implorassi di piantarla, ma lui si limitava ad alzare le spalle e prendermi in giro, dai, tanto comunque Yardena lo sapeva già, l'aveva già detto lei prima, "movimento clandestino", dunque il traditore era Ben Hur, non io. Quel Profi lì non nascose nulla a Yardena: il movimento clandestino. Lo scisma. Il missile. Il cassetto delle medicine di mamma e gli slogan di papà. Il pacchetto. La tentazione. Persino la storia del sergente Duniop. Forse ero un po' ubriaco per via di qualche essenza o droga che Yardena aveva messo nel pollo.
Chissà. Che il sugo fosse stregato? O forse il caffè, dal gusto aspro e forte? Nel film "Una pantera in cantina" drogavano l'investigatore zoppo. (Ma era poco più che una comparsa. Con il protagonista tentavano, ma ovviamente senza riuscirci.)
E se lei faceva il doppio gioco? E se l'aveva mandata Ben Hur come unità speciale del servizio di sicurezza interna? (A questo mi rispose subito con una vena d'ironia l'altro Profi: e allora? Che segreti vuoi che restino ancora in sospeso fra un traditore e una traditrice?) Yardena disse:
«Carino.» E poi:
«Quello che hai di speciale, tu, è che quando descrivi qualcosa, uno è
come se ce l'avesse davanti.»
Poi mi toccò la spalla sinistra, piuttosto vicino all'attaccatura del braccio, e disse:
«Non devi essere triste. Hai solo da aspettare e non corrergli dietro. Ben Hur dovrà tornare da te, e anche presto, perché senza di te, pensaci bene, chi gli resta più da dominare? E lui ha bisogno di dominare. Non riesce a dormire la notte, se prima non esercita un po' il suo dominio. E un guaio, non credere: quando si comincia a dominare, non si riesce più a smettere. Non preoccuparti, Profi, perché non penso che ti capiterà mai. Anche se è piuttosto contagioso. E poi.» E poi tacque. Si accese un'altra sigaretta e sorrise non a me ma forse a se stessa, come se dentro di sé si stesse divertendo, un sorriso involontario, insomma. «E poi cosa?» osai. «Niente. Il movimento clandestino e tutto il resto. Non stavamo parlando di quello?»
La risposta giusta era, a rigore: no. Poiché prima che si accendesse quella sigaretta stavamo parlando dell'istinto del dominio. Tuttavia dissi:
«Certo. Del movimento clandestino.» Yardena allora:
«Movimento clandestino. Lascia perdere. Ti conviene di più continuare a spiare, solo in un modo un po' più furbo. La cosa migliore, Profi, sarebbe che invece di spiare imparassi a chiedere. Chi sa chiedere non ha bisogno di spiare. Il guaio è che fuori dai film non c'è quasi nessuno che sa chiedere. Comunque, le cose stanno così. Invece di chiedere, o cascano in ginocchio e t'implorano, oppure insistono, o tentano di fregare. Per non parlare di quelli che allungano le mani, praticamente la maggioranza. Tu magari imparerai. Un giorno, forse. Già, a volte la gente va matta per questa faccenda fra uomini, donne e amori, ma comunque sempre meno che quando si parla di movimento clandestino e liberazione nazionale. Senti, non credere ai film. Nella vita la gente chiede ogni tipo di cose, ma lo chiede male. Poi a un certo punto smette di chiedere e si offende, e offende. Poi ci si abitua anche a questo, ma una volta fatta l'abitudine manca il tempo. La vita finisce.»
«Vuoi un cuscino?» domandai. «A mamma piace stare in cucina, la sera, con un cuscino contro lo schienale della sedia.»
Quasi vent'anni e ancora dei modi infantili, aveva, ad esempio quello di sistemarsi l'orlo del vestito come se la gamba fosse un bambino da coprire in continuazione, bene, per non fargli prendere freddo, ma non troppo perché non soffochi. «Mio fratello» continuò, «il tuo amico, di amici non ne avrà mai. Di ragazze nemmeno a parlarne. Solo sudditi. E donne - sì. Donne a palate, avrà, perché il mondo brulica di creature disgraziate pronte a buttarsi nelle fauci dei potenti. Ma ragazze, però, non ne avrà mai. Dammi un bicchier d'acqua, Profi. Non di rubinetto. Di frigo. In fondo non è che abbia sete. Tu invece ne avrai di ragazze, e ora ti dico anche perché. Perché tu, quello che ti si da, anche solo un panino, un tovagliolo, un cucchiaino, lo tratti come fosse un regalo. Come se ti fosse capitato un miracolo.» Non ero d'accordo su tutto, ma decisi di non mettermi a discutere. Fuorché su una cosa, un punto precedente della conversazione, che non posso assolutamente passare sotto silenzio:
«Ma Yardena, quello che hai detto prima sul movimento clandestino, senti, senza di esso gli inglesi non ci daranno mai questa terra. Noi siamo la generazione della lotta.»
Lei scoppiò in una risata squillante, fragorosa, di quel tipo che hanno soltanto le ragazze contente di essere delle ragazze. Poi cercò di mandare via il fumo della sigaretta con la mano, come fosse una mosca, e disse:
«Ti ci volevo! Ecco che parli di nuovo come la radio ufficiale del movimento. Non sei mica tu la resistenza, né tu né Ben Hur né quell'altro come si chiama, la scimmietta. Il movimento clandestino è tutta un'altra cosa. E' una cosa terrificante.
Perniciosa. Quand'anche non ci fosse davvero altra scelta, resterebbe una cosa perniciosa. Inoltre quegli inglesi probabilmente farebbero comunque i bagagli e si toglierebbero di torno nel giro di poco tempo. Spero solo che non dovremo pentircene, e amaramente, di essere rimasti qui senza di loro.»
Quelle parole mi parvero rischiose e irresponsabili. In un certo senso analoghe a quando il sergente Duniop diceva che gli arabi erano la parte debole e che sarebbero presto diventati i nuovi ebrei. Che nesso c'era fra le parole di "Yardena e quello che pensava lui sugli arabi? Nessuno. E tuttavia sì. Me la presi con me stesso perché non riuscivo ad afferrare quel legame, e con Yardena perché diceva cose da non dire.
Avrei dovuto riferire le sue opinioni a un adulto responsabile? Papà? Avvertire, far sapere a chi di dovere che Yardena era un po' sconsiderata?
Comunque, non dovevo suscitare il minimo sospetto. Dissi:
«Io la penso diversamente. Gli inglesi dobbiamo mandarli via di qui con la forza.»
«Lo faremo» disse lei. «Ma non stasera. Guarda che ore sono: quasi un
quarto alle undici, e dimmi un po', tu dormi sodo?» Strana domanda, quasi sospetta. La mia risposta fu cauta:
«Sì. No. Dipende.»
«Allora per questa notte ti conviene dormire sodo. E se per caso ti svegli, puoi anche accendere la luce e leggere,
per quel che mi riguarda, fino al mattino. Ma non osare uscire dalla tua camera perché allo scoccare della mezzanotte se c'è la luna piena io mi trasformo in una lupa mannara o per meglio dire in una vampiressa, ne ho già mangiati un centinaio, di bambini come te. Per nessuna ragione devi aprire la porta, stanotte. Prometti.»
Promisi. Parola d'onore. Ma il mio sospetto cresceva. Decisi di provare a non addormentarmi. Pensavo che non avrei fatto fatica, per via del caffè e dell'odore di fumo in tutta la casa, e anche per via di quello che Yardena aveva detto sul mio lato forte e varie altre cose strane. In corridoio, dopo che mi ero lavato e prima della buona notte, allungò la mano e mi toccò la testa. La sua mano non era né morbida né rigida, tutta diversa da quella di mamma. Mi scompigliò i capelli e disse: «Ascoltami bene, Profi. Quel sergente di cui mi hai parlato. Mi sembra simpatico, si vede che gli piacciono i bambini, non penso che tu corra dei rischi, mi sembra un tipo che sa stare al suo posto. Almeno così viene fuori dalla tua descrizione. Fra l'altro, visto che già ti chiamano Profi, che sarebbe poi professore, perché non prendi in considerazione di diventare professore, e smettere di fare la spia o il generale? Il mondo è già pieno di generali. Lascia perdere. Sei un bambino da parole, tu. Buona notte. E senti che cosa mi è piaciuto: hai lavato i piatti senza fartelo dire. Ben Hur lo fa solo a pagamento.»
CAPITOLO 21.
Perché chiusi a chiave la porta di camera mia, quella notte? Sono passati più di quarant'anni, ma ancora non so spiegarmelo. Lo so ancora meno di quella notte. (Ci sono vari modi e gradi di non sapere: come una finestra, che può essere non solo chiusa o aperta, ma anche mezza aperta, o aperta solo per un battente, o di una fessura, ma può essere anche chiusa con le persiane abbassate e con un tendone, o anche assicurata con delle spranghe.)
Chiusi a chiave la porta e mi spogliai fermamente deciso a non adombrare nemmeno il pensiero che dall'altra parte del muro Yardena stesse facendo lo stesso, magari in quel preciso momento, sbottonando i bottoni uno dopo l'altro, e decisi dunque di non pensare a quei bottoni, né a quelli alti sul collo né a quelli più giù, sulle gambe. Accesi la luce sul comodino e mi diedi a sfogliare un libro, ma facevo un po' di fatica a concentrarmi. ("Invece di spiare, faresti meglio a chiedere": che cosa aveva voluto dirmi? E "sei un bambino da parole, tu"! Come aveva fatto a non riconoscere in me, invece, la pantera in cantina?)
Posai il libro e spensi la luce perché era già quasi mezzanotte, ma invece del sonno arrivarono dei pensieri, per metterli a tacere accesi di nuovo la luce e presi di nuovo il libro. Niente. Era una notte profonda, larga. Nulla che turbasse il silenzio del coprifuoco. Né il frinire di un grillo né il rumore di uno sparo. A poco a poco i sottomarini del libro si trasformarono in sottomarini di nebbia che flottavano lentamente fra squarci di nebbia. Il mare era morbido e caldo. Poi divenni un bambino di montagna che si costruiva una capanna fatta di grumi di nebbia d'alta montagna, e poi c'era qualcosa che rosicchiava, che mordeva in fondo alla capanna, come una balena rimasta incagliata nell'acqua bassa che strusciava contro il fondale di sabbia. Tentai di mettere a tacere quella frizione e mi svegliai al suono di un shhh, spalancai gli occhi e scoprii che mi ero addormentato senza spegnere la luce e che il fruscio del sogno continuava. Anche da sveglio. Mi alzai di soprassalto mettendomi seduto sul letto, vigile e sospettoso come un ladro: non era né un tremito né una balena, bensì quel gramo notturno sulla porta che avevo aspettato per tutta l'estate. Lievissimo ma insistente. E chiaramente dall'entrata. Dalla porta. Nostra. Eccolo, il combattente ferito in un mare di sangue. Da fasciare e lasciar riposare sul materasso di scorta, per vederlo sparire di nuovo prima dell'alba. E papà? Mamma? Dormono? Non sentono il graffio insistente sulla porta? Devo svegliarli? O andare io ad aprire? Per niente. Sono partiti, loro. C'è Yardena, a cui ho dato la mia parola d'onore che non sarei uscito dalla stanza. Mi ricordavo che una volta, quando avevo quasi dieci anni, mi aveva disinfettato e messo un cerotto, quanto mi era dispiaciuto di non essermi fatto male anche sull'altra gamba. Passi scalzi di corsa, furtivi, in corridoio. Il colpo del chiavistello e la chiave che gira. Un bisbiglio. Passi. Parole basse, concitate, dalla cucina. Il fruscio di un fiammifero contro la scatola. Acqua dal rubinetto. Altri suoni difficili da decifrare da qui, dal mio letto. Poi silenzio totale, felpato. Sarà solo un sogno? O invece dovevo alzarmi, tradire la promessa, andare a vedere che cosa stava succedendo?
Silenzio. Passi sommessi. E poi lo scroscio dell'acqua nel gabinetto. E poi il flusso dentro i tubi nel muro. Voci soffuse e passi scalzi davanti a camera mia, ecco Yardena che dice al ferito, aspetta un momento, silenzio, aspetta. Poi un cigolio dalla camera dei miei, al di là del muro: un mobile spostato? Un cassetto? E d'un tratto una risata zittita, o forse un gemito, come sott'acqua. Anch'io, da militante della resistenza braccato e ferito, avrei trovato il coraggio per ridere in quei momenti, come questo qui, mentre gli disinfetta la ferita con un liquido che brucia tremendamente e lo fascia stretto? Avevo paura di no. Intanto la risata oltre il muro divenne un sospiro e poi un altro e poco dopo anche Yardena sospirò. Poi altri fruscii e bisbigli e poi silenzio. Dopo molto buio cominciarono i primi spari in lontananza, isolati, sperduti, come stanchi. Mi addormentai.
CAPITOLO 22.
Il tradimento non sta tanto nel fatto che il traditore un bel momento s'alza ed esce dal circolo chiuso della fedeltà. Solo un traditore superficiale fa così. Il traditore profondo, quello che tradisce da dentro, è colui che sta nel mezzo, nel cuore del cuore: che più assomiglia e più si mischia e più appartiene a ciò che tradisce. Che è più che mai come tutti gli altri e persino di più. Che ama davvero quelli che tradisce, perché se non li amasse come potrebbe tradirli? (Devo ammettere che è una questione intricata, e anche fuori luogo qui. Una persona veramente metodica e ordinata ora cancellerebbe le righe qui sopra o le trasferirebbe in un contesto più adatto. E invece non lo faccio. Se volete, saltate pure.)
Quell'estate finì. Con settembre iniziò anche la classe settima. E iniziò anche l'epoca dei fustini vuoti con i quali tentammo di costruire un sottomarino subcontinentale con il quale muoversi agevolmente fra oceani di lava incandescente sotto la crosta terrestre, e di lì assaltare di sorpresa e distruggere città partendo da sotto, dalle fondamenta. Ben Hur fu eletto comandante del sottomarino e io di nuovo suo vice, nonché inventore e progettista, e anche responsabile della navigazione. Chita Reznik, commissario per l'armamento, raccolse decine
di metri di filo elettrico usato, nonché bobine, batterie, interruttori, nastro isolante. Il nostro progetto prevedeva di raggiungere con il sottomarino un punto sotto la residenza reale a Londra, capitale dell'Inghilterra. Chita aveva anche un suo personale programma: prendere i suoi due padri che si davano il turno a casa di sua madre ogni due, tre settimane, via uno avanti l'altro, e portarli tutti e due con il sottomarino in un'isola deserta. La mamma l'amava e la rispettava, per questo voleva che stesse finalmente tranquilla, visto che da giovane era stata una famosa cantante d'opera a Budapest, e ora soffriva di attacchi di malinconia. (Sul muro di casa qualcuno aveva scritto in rosso: "Chita fa la bella vita: un papà di qua e uno di là". Chita aveva invano tentato di grattare via la scritta, di lavarla con il sapone, di passarla con dell'altra tinta.) Durante le lezioni di Bibbia il professor Ghion ci raccontò che le belve babilonesi avevano conquistato e distrutto Gerusalemme e il Tempio. Anche in quest'occasione tradì sua moglie, scherzando alle sue spalle:
se la signora Ghion fosse vissuta a quell'epoca, i Babilonesi se la sarebbero dati a gambe. Mamma disse:
«C'è un'orfanella da noi. Henrietta. Avrà cinque o sei anni. Piena di lentiggini. D'un tratto ha cominciato a chiamarmi mamma, non in ebraico, in yiddish, mame, e dice a tutti che sono davvero la sua mamma, e non so cosa fare: dirle che non sono la sua mamma, che la sua mamma non c'è più? Ma come posso ucciderle la mamma un'altra volta? O non reagire? Aspettare che passi? Anche se gli altri bambini sono gelosi?» Papà disse:
«Non è facile. Sul profilo morale. Comunque sarà una sofferenza. E il mio libro, chi lo leggerà? Sono tutti morti, ormai.»
Non trovai più il sergente Duniop all'Orient Palace. Dopo le feste del Capodanno ebraico, in settembre, tornai tre volte a cercarlo, ma niente. E nemmeno con il sopraggiungere dell'autunno e di una cortina di nuvole che incombevano basse su Gerusalemme per rammentarci che al mondo non c'erano solo estate, sottomarini e movimento clandestino. Pensai: forse una fitta trama di informazioni e agenti doppiogiochisti gli ha svelato che io lo tradivo. Che ho parlato di lui a Yardena e lei è andata a raccontarlo al ferito di quella notte, che l'ha subito comunicato alla resistenza, che forse l'ha già anche rapito. O al contrario: i servizi segreti inglesi avevano spiato i nostri incontri e per questo il sergente Duniop era finito in carcere con l'accusa di tradimento, e forse per colpa mia era stato bandito per sempre dall'amata Gerusalemme e assegnato chissà dove ai confini dell'impero, Nuova Caledonia, Nuova Guinea, Uganda o Tanganika, chissà. Che cosa mi restava? Solo una piccola Bibbia in ebraico e inglese, che mi aveva regalato lui e che ho ancora con me: una Bibbia che non potevo assolutamente portare a scuola, perché conteneva anche il Nuovo Testamento che il professor Ghion diceva essere contro il nostro popolo. (L'ho poi letto e vi ho trovato, fra il resto, anche la storia del traditore Giuda.)
Perché non ho mai scritto una lettera al sergente Duniop? Primo, perché non mi ha lasciato il suo indirizzo. Secondo, temevo che una mia lettera avrebbe complicato non poco la sua situazione, finendo per procurargli un aggravamento della pena. Terzo, che cosa avrei potuto scrivergli? E lui? Perché non mi ha mai scritto? Perché non poteva. In fondo non sapeva nemmeno come mi chiamavo. ("Sono Profi" dissi, "un ebreo della terra d'Israele". Che come indirizzo alla posta non bastava di sicuro.) Dove sei, Steven Duniop, nemico timido? Hai trovato sì o no, a Singapore o Zanzibar, un altro amico come me? Non amico, diciamo insegnante e allievo. Ma anche così non è preciso. Cosa, allora? Che cosa c'è stato fra noi? Ancora oggi non saprei definirlo. E che cosa ricordi dei compiti a casa che ti davo da fare?
Proverò a spiegarmi. Ho degli amici che stanno in Inghilterra, a Canterbury. Una decina d'anni fa scrissi loro pregandoli di provare a rintracciarlo. Invano. Un giorno o l'altro prendo e vado io fino a Canterbury. Cerco sulle vecchie guide del telefono. Vado nelle chiese. Consulto l'anagrafe. Poliziotto numero quattro quattro sette nove. Steven Duniop, soffre d'asma, pettegolo, un gigante di ovatta rosa. Un nemico solo, gentile. Che crede nei profeti. Nei presagi e nei miracoli. Se per qualche miracolo, Steven, questo libro arriva fino a te, allora scrivimi qualche riga.
Mandami almeno una cartolina. Qualche parola, in ebraico o in inglese, come preferisci.
CAPITOLO 23.
Nel mese di settembre ripresero le perquisizioni. I fermi e il coprifuoco totale. A casa di Chita trovarono la manovella di una bomba a mano e uno dei suoi due padri fu prelevato per un interrogatorio (il secondo comparve quella sera stessa.) Il professor Ghion denunciò di nuovo in classe i Babilonesi, ed espresse qualche dubbio sull'opportunità delle parole del profeta Geremia all'epoca di quella guerra e quell'assedio: secondo lui, quando il nemico è alle porte, i profeti dovrebbero alzare il morale del popolo, tenerlo unito e prendersela con gli aggressori fuori dalle mura, non con la povera gente assediata. Un profeta degno di tale nome, poi, dovrebbe astenersi dall'offendere la casa regnante e gli eroi. Ma Geremia era un uomo amareggiato e noi dobbiamo capirlo e perdonarlo. Per qualche settimana mamma ospitò in casa nostra due orfani profughi. Si chiamavano Hirsch e Oleg, ma papà dichiarò che da allora si sarebbero chiamati Tzvi e Eyal, nomi ebraici. Stendemmo per terra in camera mia il materasso di scorta. Avevano otto e nove anni, anche se non sapevano la loro età esatta, per sbaglio erano stati considerati come fratelli per via che si chiamavano tutti e due Brinn di cognome (papà ebraizzò anche quello in Bar-On). Dopo un certo tempo fu chiaro che non erano né fratelli né parenti, anzi nemici. Ma il loro reciproco odio era passivo, senza violenza e quasi senza parole: l'ebraico non lo conoscevano e a quanto pareva non sapevano parlare praticamente in nessuna lingua. Malgrado l'odio che li univa, la sera si addormentavano sul materasso rannicchiati uno contro l'altro, come due cuccioli. Provai ad insegnare loro l'ebraico e a imparare da loro qualcosa che non sapevo definire, e che anche oggi non riesco a spiegare, ma sapevo che si trattava di quella cosa che gli orfani conoscono mille volte meglio di me e di gran parte degli adulti. Dopo le feste del Capodanno ebraico li presero e con un camion li portarono in un villaggio agricolo per la gioventù. Papà diede loro la nostra vecchia valigia e mamma ci mise dentro i vestiti che a me erano diventati piccoli, chiedendo loro di spartirseli senza litigare, poi li accarezzò sulla testa che era stata rapata per paura dei pidocchi. Dopo che si furono seduti vicini vicini in un angolo del camion, papà disse loro: «Incomincia una pagina nuova della vostra vita.»
E mamma:
«Tornate. Il materasso è qui per voi.»
Ebbene sì: raccontai ai miei genitori di Yardena. Dovevo. Cioè, di quella notte in cui loro erano andati a Tel Aviv e lei aveva dormito nella loro stanza e dopo mezzanotte era arrivato il militante ferito che Yardena aveva fasciato e che poi era sgusciato via prima dell'alba.
Avevo sentito tutto, ma non avevo visto niente. Papà disse: «Accidenti, ma c'eri o sognavi?» E io, oltremodo risentito:
«Ma quale sogno. E' andata proprio così. E' venuto un ferito. E ora mi dispiace di avervelo detto perché mi prendete in giro e non vi fidate.» Mamma disse:
«Il bambino dice la verità.» E papà:
«Stando così le cose, non sarebbe il caso di dire quattro paroline alla signorina?» Mamma disse: «Non è affar nostro.» Papà:
«Ma si è trattato indubbiamente di un abuso di fiducia da parte sua.» Mamma: «Yardena non è più una bambina.» Papà:
«Ma il bambino sì che lo è, ancora. E per di più nel nostro letto e con chissà chi. Comunque io e te ne parliamo poi, a quattrocchi. Quanto a voi, sua eccellenza» continuò, «vi invito a ritirarvi quanto prima in camera vostra a finire i compiti.» (E si sbagliava, perché lo sapeva benissimo anche lui che io i compiti li finivo subito, appena tornato da scuola, come prima cosa in assoluto, a volte persino prima di mangiare il pranzo di frigorifero che mi lasciavano.) Ma me lo meritavo perché probabilmente anch'io avevo fatto un torto a Yardena e al suo ferito, raccontando tutto. D'altra parte, come potevo farne a meno? Era mio dovere, no? E d'altra parte dell'altra parte: me lo meritavo per tutto quello che avevo detto e non avrei dovuto dire e tutto quello che avrei dovuto dire e non avevo detto. Per questo andai in camera mia e anche questa volta chiusi a chiave la porta da dentro e non aprii e quasi non rivolsi più la parola a nessuno fino all'indomani mattina. Nemmeno quando mi chiamarono. Quando minacciarono un castigo. Quando si spaventarono sul serio (e mi facevano anche un po' pena, ma tenni duro). Nemmeno quando papà disse dietro la porta, apposta a voce alta:
«Non importa. Niente di grave. Non gli guasterà riflettere un po' su se stesso al buio.» (In questo senso aveva ragione.)
Quella sera, solo in camera mia, affamato ma anche deluso e punto sul vivo, pensai più o meno così: ci saranno di sicuro altri segreti al mondo oltre alla liberazione della patria dall'oppressore inglese. Hirsch e Oleg, ad esempio, che sono venuti a prendere con il camion per portarli a cominciare una nuova vita da pionieri, magari erano fratelli davvero che per qualche ragione facevano finta di ignorarsi, anzi di essere nemici. O al contrario, erano due estranei che facevano finta di essere fratelli, ogni tanto? Guardare e tacere. Ogni cosa ha un'ombra. Forse anche l'ombra ce l'ha, un'ombra.
CAPITOLO 24.
Meno di un anno dopo quell'estate gli inglesi lasciarono il nostro paese. Nacque lo stato ebraico, e la notte stessa della sua fondazione gli eserciti arabi lo attaccarono su tutti i fronti, ma Israele combattè e vinse e da allora ha vinto tante altre volte. Mamma, che un tempo aveva studiato da infermiera, bendava i feriti presso la stazione di emergenza allestita presso il chiosco "Shibbolet". La notte la mandavano a dare notizia dei morti alle famiglie, insieme alla dottoressa Magda Grophius. Quando non aveva a che fare con feriti e morti, mamma passava il suo tempo all'istituto, a prendersi cura dei suoi orfani. Dormiva due, tre ore per notte, su una branda nel magazzino. A casa non veniva quasi. Nei mesi della guerra mamma cominciò a fumare, e da allora non smise più, lo faceva con un'aria quasi disgustata, come se le sigarette le provocassero una nausea profonda. Papà continuò a formulare i suoi slogan, ma anche ordini del giorno, e seguì un corso accelerato per imparare a usare il mortaio: inclinava leggermente gli occhiali, alzava un po' le stanghette e abbassava di conseguenza le lenti, e con precisione e puntiglio smontava e montava di nuovo un mortaio casalingo che avvitava stretto, come quando aggiungeva una significativa nota a margine alla sua ricerca. Io e Ben Hur e Chita riempivamo centinaia di sacchi di sabbia, aiutavamo a scavare trincee, trasmettevamo di corsa messaggi da una postazione all'altra durante l'assedio di Gerusalemme, sotto le raffiche dell'esercito di Transgiordania. Una delle quali tranciò un ulivo e decapitò il più giovane dei fratelli Sinopsky mentre i due erano seduti sotto l'albero a mangiare sardine. Dopo la guerra il maggiore andò a stare ad Afula, e la drogheria fu rilevata in società dai due padri di Chita. Ricordo la notte di fine novembre in cui la radio annunciò che le Nazioni Unite in America, in un posto chiamato Lake Success, avevano deciso di lasciarci fondare uno stato ebraico, piccolissimo in effetti e composto da tre pezzi separati. All'una di notte papà tornò da casa del dottor Buster, dove si erano riuniti tutti per sentire che cosa avrebbe detto la radio dei risultati del voto per la mozione ONU, si chinò, mi accarezzò con la mano calda il viso e disse:
«Sveglia. Sveglia. Non dormire.»
Poi mi alzò la coperta e si distese accanto a me vestito com'era (lui che insisteva sempre che non bisognava mai andare a letto vestiti da giorno, per nessuna ragione). Rimase in silenzio per qualche istante e continuò a carezzarmi la testa, e io non osavo quasi respirare; poi d'un tratto cominciò a parlare di cose di cui in casa mia nessuno aveva mai parlato, perché era proibito parlarne, cose di cui avevo sempre saputo che non bisognava fare domande e basta. Non si domandava né a lui né alla mamma e in generale, da noi c'erano molti argomenti dei quali meno si chiedeva meglio era per tutti. Mi raccontò con una voce da tenebra com'era quando lui e mamma erano due bambini vicini di casa in una cittadina polacca. Della marmaglia che li tormentava in cortile, che li picchiava brutalmente perché gli ebrei, dicevano, sono tutti ricchi, truffatori e affaristi. E di quella volta che in classe, al ginnasio, l'avevano spogliato di forza, davanti alle ragazze, c'era anche mamma, per prenderlo in giro perché era circonciso. E di suo papà, cioè il nonno, uno dei tanti nonni che un giorno Hitler mi avrebbe ucciso, che con la cravatta di seta e la giacca era andato a lamentarsi dal preside ma uscendo dal suo ufficio quelli l'avevano preso e spogliato anche lui di forza, in classe, davanti alle ragazze. E sempre con quella voce di tenebra, mi disse così, papà:
«Ma d'ora in poi avremo uno stato ebraico.» E improvvisamente mi abbracciò, non con tenerezza ma quasi selvaggiamente. E quando nel buio la mia mano capitò sulla sua faccia, invece degli occhiali trovò delle lacrime. Fu quella l'unica volta in vita mia in cui vidi mio padre che piangeva. In realtà neanche allora lo vidi: lo vide la mia mano sinistra.
CAPITOLO 25.
Così è la nostra storia: viene dal buio, vaga un po', passa e torna al buio. Lasciando uno strascico di memoria che mescola insieme dolore e una dose di riso, rimorso, stupore. Il carretto del fornitore di nafta passava da noi la mattina, con l'ometto seduto a cassetta e le redini tenute molli in mano, il campanello che suonava e il solito motivetto in yiddish cantato apposta per il vecchio ronzino. Il garzone della drogheria dei fratelli Sinopsky aveva un gatto strano che lo seguiva ovunque, non lo lasciava mai. Il signor Lazarus, il sarto di Berlino, che faceva sempre di sì con la testa e ammiccava, questa volta scosse il capo come per dire no, non ci credo, chi ha mai visto un gatto fedele, e disse: forse è uno spirito. La dottoressa Magda Grophius, nubile, che si innamorò di un poeta armeno e fuggì con lui a Cipro, nella città di Famagosta, ma dopo qualche anno tornò portando con sé un flauto, a volte la notte mi svegliavo e lo sentivo e una specie di bisbiglio interiore mi diceva non dimenticarlo mai, è questo che conta, tutto il resto è solo ombra. Qual era, allora, l'altra faccia di quel che è successo veramente?
Mia mamma diceva: l'altra faccia di quel che è successo è quel che non è successo. E papà: l'altra faccia di quel che è successo è quel che deve ancora succedere. Lo chiesi a Yardena, il giorno in cui c'incontrammo per caso in un ristorantino di pesce sulla riva del lago di Tiberiade, più o meno quattordici anni dopo di allora. E invece di rispondermi, lei sfoderò la sua risata argentina, la risata che hanno solo le donne cui piace essere donne e che sanno distinguere ciò che è possibile da ciò che ormai è perduto, si accese una sigaretta e disse: il contrario di quel che è successo è quel che sarebbe potuto succedere senza le bugie e la paura. Le sue parole mi riconducono alla fine di quell'estate, alle note del suo clarinetto, ai due padri di Chita che continuarono ad abitare lì tutti e due anche dopo la morte di sua
madre, al signor Lazarus che allevava galline sul tetto e qualche anno dopo decise di risposarsi e si cucì da solo un completo in tre pezzi color blu scuro e invitò tutti al banchetto vegetariano, ma la sera, dopo la cerimonia e la festa, si alzò e saltò giù dal tetto, al poliziotto quattro quattro sette nove, e alla pantera in cantina, a Ben Hur e al missile che non mandammo mai a Londra, e anche alla persiana che forse, chissà, continua a navigare nella corrente, avanti e indietro sulla ruota del mulino. Qual è il nesso? Difficile spiegarlo. E la storia? Avrò tradito di nuovo tutti, raccontandola? O al contrario, li avrei traditi se non l'avessi fatto?